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Luana Carcano
Antonio Catalani
Paola Varacca Capello
IL GIOIELLO ITALIANO
AD UNA SVOLTA
Dalla crisi alla costruzione
di nuove opportunità
FrancoAngeli
Si ringrazia per il supporto offerto il Servizio Studi e Ricerche di Banca Intesa.
Ristampa Anno
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Ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita ed è severamente punita.
Chiunque fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per farlo, chi comunque favorisce
questa pratica commette un reato e opera ai danni della cultura.
Stampa: Tipomonza, via Merano 18, Milano.
Indice
Prefazione pag. 9
di Giacomo Bozzi
Introduzione » 13
5
2.3.5. Talento e mestiere pag. 46
2.4. Riflessioni conclusive » 47
3. I rapporti industria-distribuzione » 51
di Luana Carcano
3.1. I criteri di selezione e le aspettative » 51
3.1.1. Il punto di vista del distributore » 52
3.1.2. Il punto di vista del produttore » 58
3.1.3. La rete di vendita » 61
3.2. Il punto vendita oggi » 62
3.3. Il punto vendita ideale » 64
3.4. Riflessioni conclusive » 66
6
5.3.1. Alcuni indicatori sintetici della validità della strate-
gia aziendale pag. 101
5.4. Le imprese nei diversi segmenti: performance di mercato
e finanziarie » 104
5.4.1. Caratteristiche strutturali delle imprese che perse-
guono una politica di marca » 106
5.5. Strategia, competitività e successo economico » 108
5.5.1 Alcuni percorsi evolutivi » 112
5.6. Riflessioni conclusive » 118
7
9. Questioni di fondo pag. 169
di Antonio Catalani »
9.1. Il cambiamento nei consumi e la gestione del cambiamen-
to » 170
9.2. Il gioiello oggi » 173
9.3. Le strategie competitive » 176
9.4. La creazione del valore e la marca » 182
9.5. La distribuzione » 184
Bibliografia » 189
8
Prefazione
di Giacomo Bozzi∗
Dopo l’euforia degli anni ’90 il nostro Paese sta prendendo coscienza che
il modello italiano è in affanno e che una forte crisi di competitività ha inve-
stito alcuni importanti settori produttivi. Settori che hanno rappresentato nel
passato un elemento di forza finanziaria e di immagine per il Paese e nei quali
l’Italia ha espresso eccellenza nel mondo. Ora questi settori soffrono, talora
violentemente, i colpi di una concorrenza internazionale e segnatamente asia-
tica che sta mettendo in ginocchio aziende e distretti economici impreparati al
duro confronto competitivo.
Uno dei settori del Made in Italy che più ha sofferto un cambiamento del
quadro competitivo è il settore orafo.
Settore nel quale l’Italia ha espresso nel tempo una riconosciuta eccellenza
creativa e qualitativa sul prodotto, dominando per decenni i mercati esteri con
una apparentemente inespugnabile quota del 30% del commercio mondiale,
che in soli 3 anni si è quasi dimezzata a favore di paesi asiatici a basso costo
del lavoro.
Pur essendo evidenti i fenomeni congiunturali più recenti che hanno ridot-
to la competitività del sistema orafo italiano, in particolare la violenta rivalu-
tazione dell’euro nei confronti del dollaro e la generalizzata flessione dei con-
sumi interni, credo che il vero problema sia la presenza di fenomeni critici
strutturali che, pur affondando le loro radici nel passato, sono stati coperti o
addirittura alimentati da una congiuntura di mercato per molto tempo favore-
vole.
Il nanismo delle imprese orafe italiane e la loro polverizzazione eccessiva
(più di 10.000 aziende di produzione con meno di 5 addetti medi per azien-
da!), la conseguente bassa efficienza gestionale e produttiva, la incapacità e la
lentezza nel percorrere le strade della identità del prodotto e della marca (a
vantaggio invece della perversa spirale del copiare quanto già copiato piutto-
∗
Presidente e Amministratore Delegato Richemont Italia S.p.A.
Past-President Club degli Orafi.
9
sto che innovare con coraggio), l’incapacità di aggregarsi per percorrere in-
sieme strade che le singole aziende non possono permettersi da sole, la pro-
pensione delle aziende ad esportare avvalendosi di canali precari piuttosto che
a internazionalizzarsi investendo su strutture forti, la quasi assenza di un ma-
nagement forte e professionale, sono alcune delle ragioni che hanno portato il
settore a perdere competitività ed a ritrovarsi, dopo anni grassi che non ave-
vano favorito il cambiamento di un modello allora vincente, in una situazione
critica in cui il settore perde fatturati, profitti e posizioni nel quadro competi-
tivo mondiale.
Questo libro, che ha il pregio di coniugare il respiro della visione strategica
dei problemi di alcuni docenti Bocconi con il pragmatismo e le competenze di
managers, imprenditori ed operatori del settore che nel Club degli Orafi hanno
trovato un punto qualificato di incontro, affronta la situazione delicata del set-
tore orafo e le linee di potenziale rilancio.
Vorrei con l’occasione sottolineare l’importante ruolo che il Club degli
Orafi svolge nello sviluppare cultura tra i soci, ma ancor più all’esterno, a fa-
vore dell’intero mondo orafo, attraverso incontri pubblici (il Forum del
Gioiello), ricerche e pubblicazioni. La partnership con l’Università Bocconi,
che ha portato alla pubblicazione di questo libro, è uno degli esempi più forti
dell’impegno culturale del Club e dei suoi soci a favore del settore.
L’analisi svolta nel libro, che ha il pregio di individuare le criticità del set-
tore nei vari ambiti, trova nel sistema di offerta del prodotto uno dei suoi capi-
toli fondamentali.
Un sistema di offerta del prodotto che è stato per molto tempo focalizzato
sul prodotto fisico e sulla sua eccellenza qualitativa ed estetica e che non ha
saputo al momento opportuno spostare l’asse su quei valori immateriali, por-
tatori del vero valore aggiunto, che il consumatore sempre di più chiedeva.
E così la marca, che rappresenta il veicolo più forte per creare immagine,
emozione e identità, e veicolare contenuti simbolici, non è stata utilizzata in
modo vincente, salvo poche eccezioni, per rispondere alla esigenza di nuovi
valori.
È chiaro l’errore strategico di un sistema che si è quasi esclusivamente mi-
surato sulla eccellenza produttiva, in un mondo in veloce cambiamento: da
una parte la crescita delle competenze produttive (e l’imitazione sleale!) dei
paesi a bassi costi di manodopera portava ad una inevitabile perdita di compe-
titività sul prodotto, dall’altra il consumatore di gioielli cambiava alla ricerca
di più articolati valori immateriali, che le aziende italiane stentavano a soddi-
sfare.
In sintesi, sul prodotto il sistema ha perso competitività, iniziando un peri-
coloso declino, e sulla creazione di valore aggiunto immateriale, limitato dalla
10
debolezza della cultura manageriale, ha dato risposte episodiche ed insuffi-
cienti.
È evidente come il vantaggio competitivo dovrà essere ritrovato su quella
gestione dell’immateriale che è propria di un paese che deve tradurre in rigo-
rose e manageriali scelte strategiche la propria cultura umanistica ed artistica e
la propria creatività, così frequentemente espresse nella sua storia.
Possiamo constatare come il negativo andamento del comparto orafo, così
come quello di altri settori, sembra aver innescato una sorta di depressione
collettiva, di schiacciamento dello spirito imprenditoriale, di convinzione ge-
neralizzata che “non ce la si può fare”.
Credo che questo sia un grande errore.
Se da un lato le difficoltà strutturali del settore esistono e non possono es-
sere certo rimosse nel breve termine, credo esistano ampi spazi per le singole
aziende per individuare percorsi diversi e vincenti.
Già ora d’altronde abbiamo evidenza di come, pur nell’ambito di questa
globale situazione di difficoltà, molti siano i fenomeni importanti di successo:
quello dei produttori che hanno saputo mettere la propria competenza al servi-
zio delle grandi marche internazionali divenendone spesso partners e condivi-
dendone i successi; quello delle marche che hanno saputo costruire nel medio
e alto di gamma una identità e riconoscibilità apprezzata dal consumatore,
creando in Italia e all’estero fenomeni forti; quello di chi con brillanti opera-
zioni di marketing ha saputo valorizzare un prodotto povero, talora neppure
contraddistinto da materiali nobili, creando un forte valore aggiunto di marca
nel quale segmenti di consumatori si identificano; quello di chi ha saputo
sfruttare i fenomeni distributivi ad alto potenziale di crescita in competizione
con la distribuzione tradizionale.
Se quelli sopra citati sono stati percorsi vincenti credo che altri percorsi
possano essere individuati e perseguiti con identico successo.
Ma un elemento che lega i percorsi del passato e che credo condizionerà il
successo di quelli futuri è la strategia di differenziazione che le aziende sa-
pranno perseguire per la creazione di fenomeni portatori di una precisa forte
identità, percepita ed apprezzata da parte del consumatore.
I fenomeni di successo credo passeranno cioè attraverso il raggiungimento
di una identità, sia essa di marca, di tecnologia, di comunicazione o distributi-
va, capace di differenziare rispetto a quanto il mercato già offre e solo così di
convincere nuovi segmenti di consumatori.
Ed è questo il contrario di quanto avvenuto fino ad ora, dove il mercato fa-
cile ha alimentato la pigrizia di chi ha preferito seguire tendenze e luoghi co-
muni, spesso anche copiando, piuttosto che innovare con coraggio e costruire
vere opportunità per il futuro.
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Questo libro ha il merito di identificare alcuni elementi di fondo, che costi-
tuiscono gli ingredienti concettuali di riferimento nella ricerca di nuovi per-
corsi vincenti.
Starà poi a ciascuno, nel rispetto di canoni concettuali rigorosi, attraverso
un management capace di delineare e rendere vincente sul piano operativo un
progetto, con la grande forza imprenditoriale che sa trasformare una idea in un
successo, trovare una strada capace di raccogliere il consenso di un consuma-
tore oggi meno disponibile a spendere, ma sempre aperto a nuove reali e iden-
tificate proposte.
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Introduzione
A partire dalla seconda metà degli anni ’90, il settore orafo, che è certa-
mente uno dei comparti di rilievo del Made in Italy, è stato attraversato da si-
gnificativi fenomeni di cambiamento: la scelta da parte di molte aziende del
settore di portare avanti politiche di marca; la nascita di nuove formule distri-
butive; l’ingresso di competitori provenienti da altri settori; la costante ed ine-
sorabile evoluzione del consumatore. Contemporaneamente abbiamo assistito
a due importanti fenomeni: la crisi della domanda nel mercato interno e la
perdita di competitività nei principali mercati di sbocco delle esportazioni.
Le caratteristiche strutturali e i principali processi gestionali del settore o-
rafo sono stati descritti nella pubblicazione: Il settore orafo tra tradizione e
innovazione, ETAS, 2002, di Luana Carcano, Erica Corbellini, Gabriella Lo-
jacono, Paola Varacca Capello.
Questa prima opera è il frutto di una proficua collaborazione tra l’Area
Strategia della SDA Bocconi1 e il Club degli Orafi Italia, associazione leader
nel settore orafo, da anni impegnata nella promozione e nello scambio di cul-
tura imprenditoriale negli ambiti più qualificati.
Il lavoro svolto con il Club, occasione di integrazione di saperi e di cono-
scenze tra mondo accademico e mondo imprenditoriale, ha portato alla realiz-
zazione, da parte delle due istituzioni, del III Forum del Gioiello, svoltosi il
23 ottobre del 2002. Il successo delle iniziative ha indotto il gruppo di lavoro
a continuare la strada intrapresa insieme, per dar vita ad una seconda pubbli-
cazione, con il proposito di far emergere i problemi del settore e di individua-
re percorsi competitivi di consolidamento e di sviluppo per le aziende che ne
fanno parte.
Il volume è strutturato in tre parti e rappresenta, dal punto di vista dei con-
tenuti, il naturale proseguimento dell’analisi svolta nel volume precedente, a
cui in alcuni casi si farà esplicito riferimento.
1
Di cui gli autori fanno parte e che da molti anni è coinvolta nello studio delle problematiche
imprenditoriali e manageriali nei settori in cui la componente estetica, creativa e artigianale
svolge un ruolo di primo piano.
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La prima parte è basata su una serie di focus group realizzati con operatori
ed esperti del settore, ed è divisa in tre capitoli. Nel primo si analizzano il ruo-
lo del gioiello oggi, le diverse funzioni d’uso ed il processo d’acquisto. Nel
secondo si considerano i processi ritenuti più critici dalle aziende orafe, in
particolare approfondendo la gestione dello sviluppo del prodotto e i ruoli ad
esso correlati. Il terzo capitolo è dedicato all’analisi dei rapporti industria-
distribuzione, considerando sia il punto di vista del dettagliante che quello del
produttore; in particolare vengono approfondite le politiche di selezione dei
clienti e dei fornitori e le aspettative di entrambi gli attori considerati.
La seconda parte, divisa in tre capitoli, consiste in una analisi quantitativa
e qualitativa; il quarto capitolo aggiorna infatti i dati sulla struttura del settore
(sfruttando anche i risultati dell’ultimo Censimento), ne illustra la dimensione
operativa e inquadra il settore orafo italiano nel contesto internazionale dei
flussi di esportazione e importazione. Nel quinto capitolo si analizzano le re-
lazioni esistenti tra scelte di strategia e risultati aziendali conseguiti e nel se-
sto, si definiscono i criteri di segmentazione che consentono di ottenere rag-
gruppamenti omogenei di aziende, grazie ai quali si possono valutare le scelte
di strategia.
In particolare il quarto capitolo è frutto di una collaborazione con il Servi-
zio Studi e Ricerche di Banca Intesa, nella persona di Stefania Trenti, che rin-
graziamo sentitamente per il significativo contributo e per l’opportunità di ar-
ricchimento reciproco.
La terza parte propone alcune questioni di fondo relative in particolare
all’internazionalizzazione, al Sistema Paese ed al Made in Italy (gli autori rin-
graziano la collega Erica Corbellini che si è prestata ad approfondire tale te-
matica) e fa il punto sulle criticità emerse nel lavoro. Vengono poi sviluppate
alcune riflessioni sulle leve strategiche utilizzabili dalle aziende per migliora-
re la propria capacità competitiva, approfondendo in particolare le strategie di
differenziazione basate sul prodotto e sulla marca e le problematiche della di-
stribuzione.
Le fonti e i materiali su cui è basata la pubblicazione sono di varia natura.
Le singole tematiche sono state approfondite attraverso incontri con mem-
bri del Club degli Orafi; sono state svolte interviste presso aziende, distributo-
ri, punti vendita, associazioni, istituzioni varie e esperti del settore; sono state
analizzate le scarse fonti bibliografiche specialistiche; sono stati consultati
rapporti di ricerca, documenti aziendali, tesi, siti e articoli.
La prima parte è stata costruita utilizzando la metodologia dei focus group:
una tecnica nata nell’ambito delle ricerche qualitative, orientata a valutare bi-
sogni e modi di sentire delle persone in un contesto relazionale. Tipicamente
un focus group consiste in una riunione alla quale partecipano da 8 a 12 sog-
getti omogenei per una qualche caratteristica funzionale alla ricerca, coordina-
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ti da un moderatore o facilitatore il cui compito è quello di assicurare la foca-
lizzazione sugli obiettivi prefissati.
Dati i buoni risultati ottenuti e la relativa facilità di impiego, la tecnica si è
molto diffusa e ha conosciuto numerose varianti. In ambito aziendale il focus
group si è spesso saldato al brainstorming per generare idee creative e per cer-
care soluzioni a problemi complessi.
Abbiamo scelto di leggere i fenomeni caratteristici del settore dal punto di
vista degli operatori (produzione e distribuzione) introducendo a volte nei fo-
cus group esperti in altri ambiti per arricchire le dinamiche. Gli autori ringra-
ziano Antonio Martelli (docente di Strategia e Politica Aziendale presso
l’Università Bocconi) che ha supportato la realizzazione dei focus.
Il volume si indirizza ad un vasto pubblico, con un taglio che abbina un
approccio di tipo accademico (nell’inquadramento dei contenuti, nell’utilizzo
di modelli e strumenti) con un linguaggio semplice e con numerosi riferimenti
a realtà del settore.
Il libro è quindi dedicato a tutti coloro che, con motivazioni varie, voglio-
no comprendere i problemi che il settore sta affrontando, contestualizzandoli
rispetto al sistema paese: a studenti, accademici, operatori orafi, professionisti
e uomini d’azienda, curiosi di interpretare alcune sfide imprenditoriali e ma-
nageriali che comunque accomunano, almeno in parte, questo settore ad altri
del Made in Italy.
Gli autori ringraziano i Soci del Club degli Orafi Italia per le diverse oppor-
tunità scaturite da questo rapporto di collaborazione, ormai consolidato. Un rin-
graziamento speciale va ad Andrea Broggian, Presidente del Club degli Orafi ed
a Giacomo Bozzi, che è stato il referente per questa pubblicazione, che hanno
creduto fortemente in queste iniziative, contribuendovi con passione e grande
dedizione. Si ringraziano in particolar modo i Soci del Club che hanno parteci-
pato alle riunioni di coordinamento e di lavoro sui contenuti del volume: Ales-
sandro Fabrini, Ilaria Furlotti, Françoise Izaute, Augusto Ungarelli.
Un ringraziamento speciale va a Louisa Diana Brunner del Club degli Ora-
fi Italia, per il suo prezioso lavoro di coordinamento, ed alle persone che han-
no partecipato ai focus groups, rendendo possibile il dibattito su una serie di
aspetti critici per le aziende del settore.
Tra i Soci del Club:
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DEL DIAMANTE - DTC, Valentina Masu; CHIAMPESAN FRATELLI, A-
lessandro Chiampesan; CHIMENTO GIOIELLIERI, Maurizio Bertoncello;
COMM. GIUSEPPE FIORENTINO, Emanuele Fiorentino; CROVA, Pier
Carlo Crova; DINO CECCUZZI, Paola e Bruno Ceccuzzi; FARO, Vittorio
Boni; GIANNI CARITÀ & FIGLI, Vincenzo Carità; G. ROBERT, Vincenzo
Giannotti; GUCCI, Marco Falezza; INCOM-INGRASSIA GIOIELLI, Pietro
Ingrassia; MONILE, Aldo Arata; MOSSA, Ada Mossa; PIANEGONDA, Ste-
fano D. M. Borghini; PLATINUM GUILD INTERNATIONAL, Françoise
Izaute; POMELLATO, Elena Cerri, Michelangelo Condò, Paola Marletta,
Sergio Silvestris; SEBASTIANO RAPISARDA GIOIELLI, Antonino e Ma-
rina Rapisarda; SILMAR, Marilisa Cerato; UNOAERRE, Ranieri Minutelli,
David Stettler, Gianluca Zucchi; VALENTINI, Paolo Valentini; VANTINI
DEL GUARDA, Ilaria Furlotti; VENDORAFA, Daniela Lombardi e Augusto
Ungarelli; Gian Carlo De Paulis; Claudio Pagani.
In SDA, sono numerose le persone alle quali siamo grati per l’aiuto ricevu-
to, primi fra tutti, il Professor Andrea Sironi, Direttore della Divisione Ricer-
che ed il Professor Federico Visconti, Direttore dell’Area Strategia. Al Profes-
sor Guido Corbetta, Direttore del Master in Fashion, Experience and Design
Management della SDA Bocconi va il nostro più sincero ringraziamento per
aver guidato il gruppo nello sviluppo della partnership con il Club degli Orafi.
Infine ricordiamo il Professor Claudio Dematté, prematuramente scomparso,
per gli insegnamenti e l’entusiasmo che hanno contraddistinto il suo lavoro e
per l’interesse e il coinvolgimento diretto nella ricerca su questo settore, te-
stimoniato dalla sua partecipazione al Forum del 2002 in veste di relatore.
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Parte prima – I focus group
Premessa metodologica
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1. L’offerta ed il processo d’acquisto
di Antonio Catalani
Questa prima coppia di focus group, partendo dalla ricerca di una defini-
zione del gioiello da parte dei partecipanti, ha indagato il processo d’acquisto
approfondendo due macro aree:
• le motivazioni d’acquisto, distinguendo tra uomo e donna e tra regalo e au-
toacquisto;
• i principali fattori che influenzano l’acquisto: tipologia di gioiello, brand,
prezzo, stile, materiali, punto vendita, servizio del punto vendita, etc.
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successo) collezioni che hanno proposto il gioiello puntando sul suo carattere
di ornamento e sulla sua funzione di comunicazione all’interno del gruppo so-
ciale cui l’individuo appartiene. In alcuni casi le collezioni sono nate dal
mondo della moda, che ha a priori la capacità di proporre il gioiello come ac-
cessorio grazie alla forza della marca ed alla specifica cultura del settore. In
altri casi le nuove marche hanno rinunciato alla preziosità dei materiali per il
design del prodotto. Sembra insomma che i consumatori, particolarmente i più
giovani, stiano disaggregando il legame che sembrava indissolubile tra prezio-
sità, manifattura, portato simbolico e contenuto di comunicazione, privile-
giando questi ultimi a discapito dei primi.
Creativi, produttori, dettaglianti e consumatori sembra insomma che attri-
buiscano oggi al gioiello significati differenti, a volte anche contraddittori.
La capacità di differenziarsi attraverso il prodotto, che è nei mercati maturi
una delle fondamentali strategie di successo, deriva anche dalla definizione
che ogni azienda dà del gioiello, dallo specifico punto di vista e dal modo di
interpretarlo. Dai focus group è emerso che ogni azienda ha un proprio con-
cetto di gioiello, di conseguenza questo viene creato e comunicato con un lin-
guaggio che è per una grande parte patrimonio del settore, ma è anche signifi-
cativamente proprio della singola azienda.
Come si vede tutti gli elementi che fanno parte della definizione tradizio-
nalmente riconosciuta, dalla fattura in materiali preziosi al valore simbolico,
sono presenti, pure se con accentuazioni differenti. Un filo conduttore di mol-
te definizioni sembra però essere la ricerca dell’emozione attraverso il gioiel-
lo.
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tipo di emozione non è necessariamente specifica del gioiello, ma può proba-
bilmente essere associata anche ad altri beni come ad esempio le borse o altri
accessori. Per gli operatori del settore che hanno partecipato agli incontri
l’emozione legata al gioiello è unica e sembra essere fortemente connessa alla
materia preziosa di cui è fatto.
Il gioiello ha insito in concetto di gioia, già presente nel nome stesso sia per chi
acquista sia per chi lo regala. È qualcosa che comunica gioia e felicità in modo più
inteso rispetto ad altri beni. Non è solo istinto o emozione. Il gioiello è emozione e
materia.
Lo specifico è la materia, l’inedito è applicare alle materie preziose l’emozione.
Il gioiello deve essere di materiale nobile. C’è tanta bellezza nell’oro, nel platino,
nelle pietre, nei diamanti da rappresentare la vera distinzione. Un oggetto, se pur bel-
lissimo, è design; il gioiello deve essere di materiale nobile sennò mancherebbe di
quella preziosità che ne fa un gioiello.
Si possono chiamare gioielli anche quelli di Armani o di Breil ma di fatto non lo
sono e non funzionano come tali nel vissuto del consumatore, mentre un grammo
d’oro di DoDo fa la differenza, non per la marca o il design ma per la materia.
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L’accessorio è qualcosa che completa, ma non ha una valenza di per sé, ha biso-
gno di essere sostenuto; invece un gioiello con un diamante sta in piedi da solo.
L’accessorio funziona solo se inserito in un contesto. La cintura, la collana di bi-
giotteria servono solo per sottolineare la cosa primaria: il vestito.
Le linee “entry price” e gli pseudo gioielli-accessori esistono non solo perché il
mercato le richiede ma perché ci si può sbizzarrire maggiormente, fare lanci più velo-
ci, perché la gente è più disposta ad acquistare d’impulso.
La linea di maggior successo è quella che piace di più al creativo, che nasce
dall’immaginare il gioiello su di me (una stilista).
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Il gioiello è sintesi delle sensazioni provate nel momento creativo, che sono natu-
ralmente associate al mio vissuto sull’architettura, la natura...
Quando si crea un gioiello bisogna entrare in un mondo molto ricco dove le de-
terminanti per la creazione sono complesse e dove vengono coinvolti fattori che van-
no al di là della creazione pura.
Il gioiello una volta era un investimento. Da me veniva gente del paese che com-
perava un gioiello per darlo in dote alla figlia, adesso invece le cose stanno cambian-
do (rivenditore).
Il gioiello (quello per eccellenza) non perde il suo valore nel tempo. Il gioiello de-
ve essere creato per essere tramandato tra generazioni. In questa prospettiva, tutti gli
oggetti che non rientrano nella definizione sono accessori legati al mercato, fanno
moda, tendenza e poi scompaiono.
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• potere economico, per il valore intrinseco dell’oggetto;
• appartenenza culturale, per la sua dimensione estetica;
• lusso, perché è “un oggetto superfluo ma con il potere del piacere: deve
dar piacere a chi lo regala e a chi lo riceve”.
Lo stesso vale anche per gli orologi: si passa dallo Swatch al modello più costoso
fino ad arrivare agli orologi di lusso.
Questi giovani che comprano oggetti in materiali non nobili, voluminosi e appari-
scenti, non riusciranno ad apprezzare un gioiello di valore, che, per sua natura, non
potrà avere le stesse caratteristiche.
24
dell’acquirente e della tipologia di prodotto: è il primo se il cliente ha bisogno
di un suggerimento per un acquisto impegnativo, l’ultimo se ha già in mente
una determinata marca. In ogni caso, data la non elevata diffusione delle mar-
che nel settore, il punto vendita ha spesso quella funzione di rassicurazione e
di garanzia di qualità che in altri ambiti viene attribuita alla marca; quindi in
alcuni casi parleremo di marca-punto vendita per indicare l’indifferenza
dell’uno o dell’altro fattore e il prevalere del bisogno di rassicurazione.
Nel caso di un uomo che vuole fare un regalo, il primo elemento che in-
fluenza la scelta è il rapporto con la persona cui il regalo è destinato (moglie,
sorella, amante…) e l’influenza e la pressione che questa ha già esercitato
sull’uomo per orientarlo. Nella scelta intervengono poi le altre variabili legate
all’oggetto che si vuol regalare, quali per esempio la tipologia del gioiello
(collana, orecchini, anello…), la marca, lo stile, i materiali, il prezzo ed il
punto vendita.
Gli uomini tendono a vivere questa esperienza con una insicurezza di fon-
do che cercano di superare grazie al punto vendita (il gioielliere di fiducia, la
conoscenza personale, l’esperienza di altri acquisti nello stesso punto vendita)
o grazie alla marca.
I fattori che sono emersi certamente hanno un peso diverso anche in fun-
zione della fascia d’età degli acquirenti: per i giovani la prima variabile è il
prezzo seguito dal materiale e dalla marca, per l’uomo maturo invece prima
c’è il punto vendita, seguito da marca e stile.
Per una donna che deve fare un regalo i fattori che interagiscono condizio-
nando la scelta sembrano essere la tipologia di prodotto, il prezzo e la marca-
punto vendita, seguono poi lo stile ed il consiglio dell’esperto. In pratica os-
servando le vetrine, la pubblicità e visitando alcune gioiellerie, la donna si o-
rienta ed assume gli elementi necessari per procedere nella scelta sia per ac-
quistare il regalo, sia per orientare l’uomo.
Se invece si tratta di un acquisto d’impulso gli elementi che condizionano
la scelta sembrano essere lo stile e l’estetica del prodotto (perché un oggetto
deve colpire e suscitare l’attenzione), il prezzo in relazione al budget di spesa
e la marca.
Di solito chi compera il prodotto di una specifica marca ha già individuato
tipologia di prodotto, prezzo e punto di vendita; rimangono quindi da definire
solo il modello ed il materiale. Quindi un'azienda che ha una chiara identità
stilistica e un vissuto di marca semplifica notevolmente il processo di acquisto
ai propri potenziali consumatori.
1.2.1. La marca
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È opportuno premettere che le vere marche in gioielleria sono poche. Solo
negli ultimi anni, infatti, un certo numero di aziende di produzione ha concen-
trato la propria attenzione verso politiche finalizzate alla creazione della mar-
ca. Questo processo, come è ben noto, è lungo, complesso ed oneroso: non
basta infatti avere un marchio, una confezione e fare qualche pagina di pub-
blicità. La marca è un elemento determinante nel processo di creazione del va-
lore e rappresenta il fattore di scelta fondamentale: è garanzia di qualità del
prodotto, rassicura il consumatore, rappresenta e veicola un complesso siste-
ma di valori sociali ed estetici. Perché questi raggiungano il consumatore in
maniera efficace è sempre necessario che l’identità venga confermata dalle
caratteristiche del punto vendita, che così diviene il luogo ideale nel quale si
entra in relazione con la marca e con il prodotto, anche attraverso il supporto
del gioielliere competente ed aggiornato.
La difficoltà nel creare la marca per i produttori del settore deriva da una
parte dalle ridotte dimensioni degli investimenti in comunicazione, dall’altra
dalla presunta complessità di questo processo nell’ambito del gioiello rispetto
ad altri ambiti.
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re che oggi si possa essere attratti da una vetrina anonima, a meno che la
gioielleria non sia nota e qualificata.
È difficile che qualcuno si fermi a guardare vetrine con solo prodotti unbranded.
Il punto vendita sembra essere il primo fattore che influenza l’acquisto, sia
nel caso dei monobrand “il luogo per eccellenza dove trovare la marca” sia
nei multibrand, dove il consumatore può trovare una selezione più ampia di
prodotti. Il punto vendita, attraverso la creazione del proprio assortimento,
mette a punto il più importante servizio al consumatore. La creazione
dell’assortimento in un punto vendita moderno è prima di tutto la creazione
attenta e personale di un sistema di marche, ciascuna adeguatamente rappre-
sentata in termini di prodotti, per dare vita ad una relazione virtuosa tra la
marca prescelta e l’insegna del punto vendita. Entrambe svolgono così una
funzione sinergica di rassicurazione e di servizio al consumatore, si pongono
reciprocamente in relazione lasciando al consumatore finale libertà di scelta
dell’oggetto.
Se si tratta di un regalo pianificato, il punto vendita ha un ruolo fondamen-
tale: il gioielliere di fiducia per il consumatore è chi ha esperienza, reputazio-
ne e a volte anche tradizione, è quindi colui che rassicura circa il valore e la
qualità del prodotto acquistato, indirizza il cliente nel processo d’acquisto con
i suoi consigli e le informazioni. Nel caso di acquisto d’impulso l’attenzione
del consumatore è concentrata invece sull’oggetto ed in questo caso sono lo
stile e la valenza estetica del prodotto ad assumere una rilevanza fondamenta-
le.
27
Per tipologia di prodotto intendiamo il genere cui questo appartiene: colla-
na, anello, orecchino o altro. Questo fattore orienta e condiziona in maniera
rilevante l’acquisto. Spesso il cliente ha le idee chiare sul tipo di prodotto che
intende regalare: vi è infatti nella tradizione una relazione tra le diverse occa-
sioni e le tipologie di prodotto. Esiste un codice non formalizzato per cui ad
esempio l’anello è un regalo che impegna, che manifesta un certo tipo di rela-
zione, non è quindi adatto per un regalo tra due amiche. Grazie a tale codice,
che è ben definito nel caso degli acquisti “obbligati” (matrimonio, fidanza-
mento…) si acquista ciò che meglio veicola il messaggio che si vuole trasmet-
tere, negli altri casi invece la tipologia di prodotto non è mai così critica per la
scelta.
1.2.4. Il prezzo
Il prezzo è un fattore che interviene nella scelta in modo sempre più rile-
vante. In genere chi dispone di un budget limitato tende a concentrarsi su pro-
dotti classici che durano nel tempo, o su gioielli-accessori.
In ogni caso l’acquirente ha una idea ben precisa dell’importo che è dispo-
sto a spendere prima ancora di entrare nel punto vendita e questo rappresenta
il punto di partenza nel processo d’acquisto.
L’abilità di chi vende è poi quella di spostare la scelta su altri valori, tutta-
via il prezzo determina i volumi di vendita.
L’uomo acquista per consacrare un momento della vita, per vedere un sorriso.
La donna acquista per dimostrare che ce l’ha fatta a comprare senza bisogno
dell’uomo oppure perché un oggetto la emoziona.
Nessuno finora ha proposto un gioiello per i 18 anni o per festeggiare il primo la-
voro.
Le feste che nascono da scelte di marketing, legate quindi più agli interessi
commerciali che al sentire delle persone, hanno perso di importanza, fatta for-
se eccezione per San Valentino per i più giovani. Le occasioni legate invece a
momenti importanti della vita conservano il loro valore e potrebbero consenti-
re politiche di promozione del gioiello, se legate a prodotti che non fanno più
parte di una generica collezione, ma sono studiati e promossi per quella speci-
fica occasione.
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Soprattutto fra i giovani si stanno creando nuove occasioni di celebrazione
al di fuori dei momenti tradizionali, come ad esempio il regalo per la laurea da
parte di un gruppo di amici; il gioiello in questi casi potrebbe competere con
successo con altre tipologie di prodotti. Possiamo immaginare che, grazie alla
nuova dimensione sociale, esistano momenti potenziali di acquisto allargati,
meno legati alla coppia ed alla sfera degli affetti familiari, più connessi invece
all’amicizia. Il network di relazioni e di occasioni di regalo sta cambiando e in
questo rinnovato contesto gioielli con un elevato contenuto di moda, o più o-
rientati alla funzione di accessorio potrebbero rappresentare il regalo ideale.
Gli uomini italiani amano molto il gioiello, probabilmente anche per il suo
elevato valore simbolico. In Italia l’uomo maturo ha cultura di gioielli, tende
ad entrare in gioielleria con le idee chiare coerenti con il proprio gusto perso-
nale.
Chi ama alla follia i gioielli, anche se li regala, li sente sempre un po’ suoi, anche
se derivano da indicazioni precise.
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inglese sull’esperienza di acquisto maschile è emerso che gli uomini non a-
mano particolarmente il momento dell’acquisto, e vivono l’ingresso in nego-
zio come un’immersione in un mondo sconosciuto. Vivono invece in modo
positivo sia le fasi che precedono l’acquisto, quando la coppia decide il rega-
lo, sia il momento del dono. Inoltre per gli uomini sembra assumere una rile-
vanza particolare la cura della confezione e la situazione in cui il regalo viene
consegnato.
In sintesi, in genere è l’uomo l’acquirente mentre la donna ne influenza la
scelta, talvolta selezionando il gioiello in maniera precisa ed è per questo che
le aziende rivolgono in prevalenza la comunicazione alle donne.
Il ruolo cui è relegato l’uomo è quindi quello di chi dona il gioiello e gli è
lasciato in genere poco spazio all’immaginazione. Il mese di gennaio si carat-
terizza per i cambi merce, conseguenza del fatto, dicono gli addetti ai lavori,
che nel periodo natalizio si ha la maggiore concentrazione di clienti uomini
che comperano i regali. Le donne, pur avendo indirizzato le scelte dell’uomo
su uno specifico brand/prodotto, non sempre accettano la libera interpretazio-
ne dell’uomo.
Sono questi gli elementi portanti e rassicuranti di cui ha bisogno un uomo, come
una guida per l’acquisto che impegna.
L’atmosfera che si vive nel momento dell’acquisto è fondamentale, se non è un
piacere non ha ragione d’essere.
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budget
marca
punto vendita
occasione idea
prodotto
tipo di relazione
budget
marca
punto vendita
funzione idea
prodotto
Nel caso dell’auto acquisto, che riguarda tipicamente la donna, si parte in-
vece dalla funzione che il gioiello può avere, se è legata ad esempio ad un abi-
to, ad una occasione particolare o se è invece un vero e proprio momento di
32
autogratificazione. Si arriva così all’idea di acquistare un gioiello e si deter-
mina il budget che si intende investire. A questo punto la scelta avviene sulla
base dei fattori marca-punto vendita e tipologia di prodotto.
Nel corso dei primi due focus group sono emersi alcuni fatti peculiari che
ci sembra siano propri della visione degli operatori del settore. Essenziale ap-
pare la contrapposizione che si è delineata tra una concezione del gioiello le-
gata alla tradizione del mondo orafo, che vede nella preziosità del materiale e
nella qualità della sua fattura l’elemento discriminante tra ciò che è gioiello e
ciò che appartiene al mondo della bigiotteria. In sostanza, in particolare nelle
generazioni più giovani, ma probabilmente in tutto il tessuto sociale, sono in
atto vettori legati ai valori emergenti che stanno accentuando il bisogno di
raccontarsi e di comunicare attraverso l’insieme dell’abbigliamento. In questa
ottica il gioiello sviluppa il suo contenuto potenziale di ornamento che gli è
proprio, a discapito magari di altri valori quali la qualità dei materiali e la fat-
tura. Il successo presso i giovani delle linee realizzate da alcuni marchi della
moda o dei gioielli in acciaio, non necessariamente nega l’uso dei materiali
preziosi, ma sposta l’attenzione da una lettura del prodotto che valorizza il
dettaglio al design complessivo del gioiello.
Siamo di fronte ad una domanda che privilegia alcuni aspetti, senza che ciò
implichi necessariamente che vengano rinnegati quelli propri della tradizione.
Il punto è che per accentuare la sua capacità di accompagnare, anche da pro-
tagonista, l’abbigliamento quotidiano, il gioiello deve cercare nuovi linguaggi.
Il consumatore probabilmente non rinnega i materiali preziosi e le pietre, ma
chiede di evolvere l’estetica del gioiello. Pensiamo quindi che vi possa essere
sempre spazio per aziende che vogliano conservare i contenuti tipici del setto-
re, adattandoli però ad un consumatore che sta modificando profondamente il
suo gusto.
La valenza simbolica “tradizionale” si sta trasformando di pari passo con
l’evoluzione della società che tende ad attribuire sempre maggiore importanza
ai valori intangibili e all’immediato. In questo senso il gioiello non dovrebbe
più solo coincidere con qualcosa realizzato con materie preziose secondo ca-
noni tradizionali (il cosiddetto valore materiale). Poiché i valori immateriali
associati al gioiello (emozione e contenuto simbolico) stanno acquisendo
sempre maggiore importanza e stanno assumendo nuove forme, il gioiello de-
ve modificarsi, esprimendo un mondo di riferimento, tendendo più alla moda,
al piacere, al benessere, alla capacità di comunicare il senso di appartenenza
ad un gruppo.
33
Un altro aspetto che emerge è una certa cultura autoreferenziale, dimostra-
ta peraltro in numerosi interventi. L’idea che il progettista creativo sia il giu-
dice del proprio lavoro fa pensare infatti ad un sistema sostanzialmente chiuso
nei suoi codici. Evidentemente chi ha il talento per fare innovazione stilistica
deve avere questo approccio, poiché la ricerca di una nuova estetica si fonda
sulla capacità di progettare una proposta che ha pochi riferimenti in ciò che
già esiste, ma generalmente lo sforzo della maggioranza dei creativi consiste
nella capacità di mescolare con perizia contenuti innovativi e tradizione con le
tendenze in atto nel settore e negli altri ambiti, esercitando sempre una parti-
colare attenzione all’evoluzione del consumatore. Il gioiello oggi è un prodot-
to e come tale non può appartenere al mondo dell’arte, ma a quello della pro-
duzione industriale di design.
In questa ottica l’attenzione alle fasce di prezzo, che riteniamo sia deter-
minante per sviluppare volumi, non ci sembra sia emersa con la necessaria e-
videnza. L’esperienza della maggior parte dei settori dimostra invece quanto
questo fattore influisca sul successo delle aziende.
Per quanto riguarda invece il processo di acquisto ci sembra che stato sia
ben descritto, in particolare sono emersi due aspetti: da una parte l’im-
portanza crescente della marca, anche se ci sembra che sia vista più come la
conseguenza di investimenti pubblicitari che di una coerente politica azien-
dale. Dall’altra l’importanza delle occasioni e delle ricorrenze per il settore.
Riteniamo che la relazione tra prodotto e sviluppo del mercato attraverso le
occasioni tradizionali meriterebbe un approfondimento. Dal punto di vista
della comunicazione, ad esempio, la scelta prevalente sembra oggi quella di
investire in campagne di taglio eminentemente istituzionale, orientate a
promuovere la marca, sviluppate attorno a prodotti che rappresentano o
l’eccellenza creativa e produttiva o proposte vicine al mercato in termini di
gusto e di prezzo. In questo modo però il processo di costruzione della mar-
ca è in qualche misura estraneo alle relazioni prodotto-consumatore ed alla
logica strutturale che pone in relazione l’acquisto con una griglia di occa-
sioni. Ripensare alla propria offerta attraverso linee che sviluppino temi e-
splicitamente legati alle occasioni e promuovere i prodotti secondo tale logi-
ca porterebbe ugualmente alla costruzione della marca, ma avvicinerebbe di
più l’offerta al consumatore.
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2. Il processo produttivo e lo sviluppo dei nuovi
prodotti
di Paola Varacca Capello
35
Se si vuol cominciare a sviluppare il proprio nome, bisogna avere un prodotto da
proporre ma contemporaneamente dei mezzi per comunicarlo e successivamente ave-
re dei punti vendita che accettino di distribuirlo. La notorietà e le vendite sono ugual-
mente importanti, se non si raggiungono in modo armonico e contestuale, il fine ulti-
mo, che è il risultato economico, non si raggiunge.
Per le aziende a carattere industriale i volumi sono fortemente legati alla redditivi-
tà. Non è così per le aziende di tipo artigianale.
Nella mia gamma c’è tutto, potrei avere un grande successo di vendita (in termini
di volumi), con un prodotto tipico del marchio, tra i meno costosi, e poi vendere un
prodotto “meno commerciale” della gamma, che però mi genera un margine in valore
assoluto molto consistente.
I processi che sono alla base del successo sono gli stessi in Italia o nelle al-
tre nazioni: la notorietà presso il trade fa da supporto e sostiene il pubblico
che si avvicina per la prima volta al prodotto e all’azienda. La tendenza è
quella di costruire un successo in Italia e poi esportarlo all’estero.
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2.2. I processi critici
Pure se consci della criticità dello sviluppo dei prodotti, gli operatori del
settore ritengono di avere gli strumenti per affrontare questo tema in maniera
adeguata. La distribuzione invece rimane uno snodo critico, soprattutto per le
aziende per le quali i volumi e i fatturati hanno un peso notevole. General-
mente il problema è vissuto come inefficienza dei distributori e quasi mai si
pone la questione della capacità e della efficienza della gestione delle reti di
distribuzione, che è invece un problema interno alle aziende.
Nel passato il ruolo del distributore era meno cruciale, sostengono i nostri
interlocutori, ma oggi la competizione è più difficile e quindi la distribuzione,
che gestisce il contatto con il consumatore finale, svolge un ruolo determinan-
te, al punto che può rendere vani gli investimenti in comunicazione.
Tra gli sforzi aziendali e il cliente, dicono i nostri interlocutori, c’è questo
filtro: la casta dei gioiellieri. Si può sopperire con la comunicazione, ma il
venditore può orientare il cliente come vuole.
Io farei una distinzione. Metterei ai due estremi: una marca già affermata, che ha i
suoi punti di distribuzione, quindi non si interessa al trade ma si interessa solo del
consumatore finale a cui si rivolge con affascinanti pubblicità. Dall’altro lato c’è il
piccolo marchio che vuole venire fuori, non ha i mezzi per rivolgersi al mercato, deve
dipendere dal trade ed assiste a comportamenti schizofrenici: negozi che assolutamen-
te ti vogliono e altri che sono completamente disinteressati. È una contraddizione gra-
ve per i piccoli, che devono dividere le risorse, che già sono limitate, tra trade e con-
sumatore finale.
Per noi il target finale è il consumatore ma non abbiamo né le dimensioni né la
forza per andarci direttamente e quindi dobbiamo utilizzare una struttura intermedia
che da una parte minimizza il rischio e gli investimenti ma dall’altra media anche il
messaggio e può ridurne la forza. È quindi sempre un discorso di mediazione fra ri-
schi, risorse e possibilità di ottenere risultato.
37
Tutti concordano sul fatto che il successo nasca nel processo di sviluppo
del prodotto, e si fondi nell’integrazione di attività e attori, tra il marketing, il
commerciale, i tecnici di produzione e i designer.
Bisogna far correre il metallo, meno rimane in produzione e meno costa, e poi la
produzione è articolata e complessa; quando arriva un ordine (e si lavora su commes-
sa) e bisogna consegnare al cliente più prodotti con cicli diversi (1 settimana di pro-
duzione contro 4 di tempo di evasione degli ordini), la programmazione diventa il ful-
cro dell’attività.
2.3.1. I ruoli
In molte aziende orafe è l’imprenditore stesso che si prende cura del pro-
cesso; in molto casi è l’anima originaria dell’azienda ed ha un background di
prodotto. Una conseguenza immediata di questa situazione è che non è facile
trovare sul mercato persone formate a queste competenze.
In merito al responsabile di prodotto, ovvero se sia opportuna una specifica
formazione, tutti sostengono che non è facile trovare chi gestisca in maniera
manageriale queste problematiche, anche perché ritengono di ottenere risultati
analoghi attraverso l’integrazione delle competenze che si può realizzare tra
persone che lavorano in logica di squadra.
Quello che si cerca non è tanto il genio in grado di far tutto, ma piuttosto delle
persone che abbiano la flessibilità mentale in grado di mettersi a confronto con gli al-
tri nel momento in cui si prendono delle decisioni, che siano quindi in grado di capire
chi è di fronte e le esigenze espresse, che poi in fondo sono quelle dell’azienda.
39
Il ruolo di responsabile di gamma (che ovviamente non è proponibile lad-
dove si lavori per conto terzi, ma che è determinante per chi si propone al
mercato in logica di marca) è sentito da molti come una esigenza recente, le-
gata soprattutto alle difficoltà di mercato; poche aziende coprono questa atti-
vità in modo strutturato. Nei casi in cui è presente il responsabile ha una for-
mazione di marketing, mancando lo specialista in design management. In al-
cune situazioni questa responsabilità è coperta da chi si occupa di prodotto,
ma spesso i risultati non sono pienamente soddisfacenti.
La gestione della gamma è parte del ruolo del responsabile sviluppo prodotto. Non
era sentito come aspetto primario. La cultura artigiana portava alla proposta di enormi
quantità di prodotto, facilmente realizzabili. Una volta, tutto ciò che era producibile
veniva prodotto ed assorbito dal mercato, non ci si preoccupava di come il prodotto
venisse collocato. Poi pian piano è nata la necessità di vedere come il prodotto viene
collocato. Tuttavia, al momento, questo ruolo non funziona ancora bene, forse perché
è troppo legato allo sviluppo prodotto.
La razionalizzazione dell’offerta è ormai un’esigenza. Oggi ci sono più persone a
coprire questo ruolo e provengono dallo sviluppo prodotto e dal commerciale. C’è il
tentativo di pianificare la gamma in modo da avere i prodotti giusti al momento giu-
sto. Razionalizzare l’offerta significa sapere su quali prodotti puntare, anche in termi-
ni poi di programmazione della produzione.
In una grande realtà di tipo industriale sia lo sviluppo prodotto che la re-
sponsabilità della gamma sono affidate alla direzione marketing e vendite.
Quest’ultima rimanda alle indicazioni della direzione generale per quanto ri-
guarda l’ampiezza del portafoglio, e coordina persone dedicate alla ricerca e
allo sviluppo. Le decisioni sui prodotti vengono condivise con la produzione,
e l’ultima parola spetta sempre alla direzione generale.
In una realtà di dimensioni minori, che sta tentando di affermare il proprio
marchio è l’imprenditore che decide sull’ampiezza del portafoglio, mentre le
decisioni sui prodotti da inserire/mantenere/togliere dal portafoglio sono prese
comunque del comitato prodotti (che rappresenta più competenze e che è pre-
sieduto dallo stesso imprenditore).
40
Le aziende di gioielli che provengono dalla moda generalmente distribui-
scono meglio le diverse responsabilità. Vi è un direttore creativo che non ha
competenze specifiche per la gioielleria, ma dà un input stilistico. La realizza-
zione del prodotto avviene all’interno di strutture dedicate alla gioielleria; la
direzione operativa coordina anche lo sviluppo del prodotto attraverso un re-
sponsabile di prodotto, che realizza operativamente le indicazioni stilistiche
del direttore creativo. La direzione operativa supervisiona lo sviluppo prodot-
to per arrivare ad un editing finale, in cui il prodotto viene approvato; segue
poi il processo di prototipazione, industrializzazione del prodotto e poi produ-
zione. La direzione operativa ha a disposizione un budget per sviluppare un
determinato numero di prototipi, che mediamente hanno un certo costo; il bu-
dget viene assegnato annualmente. È il marketing che decide l’introduzione e
l’estromissione dei prodotti. Per far posto ad un nuovo prodotto o si amplia il
portafoglio o si elimina il prodotto con minore vendita.
1
Si intendono le case di moda, le cosiddette maison.
41
Per noi, dovendo presidiare tanti mercati con un prodotto di fascia media, è più
importante la prototipazione e la riproducibilità seriale. Per quanto riguarda lo stile,
non avendo una linea stilistica unica perché i mercati che serviamo hanno anche carat-
teristiche diverse, abbiamo una struttura di progettazione interna, ma molto spesso
riceviamo stimoli dall’esterno in maniera strutturata, cioè conferendo incarichi a desi-
gner. A volte veniamo stimolati da esterni che ci portano delle idee. La proposta è
molto frequente, ma l’accettazione da parte dell’azienda è molto più selettiva.
Con riferimento alle griffe della moda è evidente che lo stile è da sempre
in primo piano. Vivendo però il mercato anche queste aziende avvertono la
necessità di capire, investire e acquisire il know how necessario per creare i
prototipi.
42
L’individuazione del bisogno può derivare dall’analisi dei dati di vendita,
da ricerche di mercato, dalla scoperta di spazi nella propria offerta, dalla sco-
perta di nuove tendenze. L’idea si concretizza nella formulazione di un brief
ai creativi. La prototipazione consente di dare forma fisica al progetto per
procedere ad una valutazione che non solo è estetica, ma è anche di fattibilità
produttiva e commerciale, che si conclude con l’industrializzazione, che defi-
nisce lo standard di produzione. L’ultima attività è il lancio commerciale del
prodotto.
Per quanto riguarda il processo nel suo complesso tutte le aziende seguono
questa struttura, anche se difficilmente questo assume una forma sistematica-
mente definita, che invece è l’unica che consenta una gestione manageriale.
Scadenze e ritmi sono imposti dalle manifestazioni fieristiche che determina-
no così i cicli di innovazione dei prodotti. Per quanto riguarda le singole fasi,
la maggiore criticità è proprio nella definizione dei bisogni e quindi nel brie-
fing ai creativi.
Cosa vuol dire individuazione nel bisogno? Noi partiamo dalle richieste del cliente
(distributore). Vi sono cicli, per orecchini, collane... c’è tutta una gamma di materiali,
prezzi, pietre... che sono delle sottospecie di bisogni. A un certo punto è importante
sapere cosa produrre in volumi maggiori tra i prodotti in collezione.
Sul problema del bisogno, forse bisogna andare ancora più a monte, ovvero capire
il cliente, non solo il reddito, ma anche il gusto… non bisogna solo soddisfare i clien-
ti, ma capire e soddisfare i non-clienti.
Nella maggior parte dei casi la definizione dei bisogni ed il briefing sono
subordinati allo slancio creativo, soprattutto se la creatività è al vertice del-
l’azienda, come spesso accade nelle aziende familiari orientate al prodotto.
43
Una fase sempre delicata, soprattutto per le produzioni più tipiche della nostra
manifattura, che coniuga il mestiere artigianale con le competenze industriali, consiste
proprio nel passaggio dal prototipo alla produzione in serie, più o meno limitate.
Vi è un problema al nostro interno: arrivati alla fase tre, il progetto è meccanico e
l’idea è artigianale. C’è una vera e propria frattura, che allontana i reparti, non sempre
è facile ridurla. Il lancio ne subisce i danni, nel prezzo o nei tempi.
È un momento delicato per noi quello dell’interruzione del processo creativo per
trasferire il prodotto all’industria, quindi alla produzione. È un problema di tempi, se
lo si consegna troppo presto, il know how diffuso non viene utilizzato in pieno.
Noi ci siamo sempre basati moltissimo sul discorso di essere marchio, quindi ga-
ranzia del prodotto, del contenuto di metalli preziosi, del processo; è quasi un discorso
etico. Noi quindi dobbiamo continuare non tanto nell’inventarci cose completamente
nuove, nel voler andare a fare concorrenza a oggetti di forte tendenza, ma continuare
in uno sviluppo che rafforzi la percezione che il consumatore finale e il trade hanno
della nostra azienda.
Produrre con personalità italiana è proprio quello che io vedo come possibile in-
novazione. Cioè, è la tradizione che continua, perché la nostra cultura si fonda
sull’integrazione tra mestiere artigianale e produzione industriale, è la personalità ita-
liana (la tradizione) che fa distinguere il prodotto e non va stravolta.
Non ci si può allontanare più di tanto dalla propria immagine e dalla propria cultu-
ra di prodotto. Alcune volte si è tentato di radicalizzare alcune innovazioni, ma è stato
molto difficile, perché il prodotto che il cliente richiedeva era diverso dalla percezione
del posizionamento e dell’immagine che aveva. Le cose più brutte che si sono fatte, a
volte, sono state proprio quelle suggerite dal cliente e quando venivano realizzate la
risposta del cliente era "non è quello che volevo io". Molto spesso quindi scegliere la
gamma giusta significa scegliere il proprio posizionamento, non ascoltando ciò che
dice il direttore commerciale.
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Per qualcuno è suggestiva l’idea di pensare a materiali diversi, altri sosten-
gono l’inutilità di questo tentativo, soprattutto per coloro che hanno una storia
nei materiali nobili.
Per materiali nuovi molti intendono materiali non preziosi come l’acciaio;
questo fenomeno sembra essere dirompente nella velocità di diffusione ed è
molto difficile prevederne lo sviluppo.
Ciò che più conta comunque per tutti è il cambiamento della distribuzione
che da molti è ritenuta obsoleta, antiquata e confusa. Bisogna distinguere però
il cambiamento nelle scelte distributive, che parte dall’azienda (per esempio
con la decisione che alcuni stanno prendendo di passare dal canale grossista
agli agenti diretti) e l’evoluzione auspicata nella distribuzione, cioè nella cul-
tura e nel modo di fare impresa dei punti vendita.
Qualcuno sostiene che i cambiamenti nella distribuzione e nella commer-
cializzazione saranno radicali perché la globalizzazione avrà impatto anche
nella settore della gioielleria. Si assisterà ad un’omogeneizzazione che porterà
anche in Europa, come già avviene negli USA, le grandi vendite televisive, le
vendite su cataloghi e attraverso Internet, o le grandi catene di negozi. Questa
evoluzione potrebbe anche essere veloce.
La crescita dei marchi è molto più forte della crescita del mercato (che non cre-
sce); anche l’ingresso delle aziende della moda indurrà cambiamenti nella distribu-
zione.
45
2.3.5. Talento e mestiere
Nell’industria orafa ci sono delle regole di produzione come nelle statue dell’arte
classica: si ricerca un equilibrio formale in termini di proporzioni e prospettive, e for-
se anche un gusto comune. Il talento consente contemporaneamente di rispettare que-
sti canoni andando oltre.
Il mestiere al contrario si impara, non porta all’innovazione ma porta alla possibi-
lità di realizzare progetti di talento ed essere sul mercato. Il talento senza il mestiere
che è poi la capacità artigianale del fare non realizza nulla.
Chi non ha il mestiere e il talento – che sono parte della vera arte orafa – cerca di
creare uno stile, portando avanti concetti più legati alla moda. Si può per esempio
giocare col colore, si può ispirarsi allo stile dominante, ma si evadono così le regole
del mondo del gioiello.
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Oggi i risultati di un’azienda non sono solo legati alla capacità creativa, alla
competenza nello sviluppo del prodotto. È necessario disporre di una strategia
vincente, di una struttura organizzativa e produttiva di altissimo livello; di una
capacità distributiva adeguata. Queste, a detta dei partecipanti ai nostri focus,
non sono competenze critiche quanto il talento necessario per creare il prodotto,
se si ha l’ambizione di dire una parola nuova in questo settore.
Può capitare di avere una fase fortemente creativa e poi una fase in cui si ripropo-
ne sul mercato qualcosa di meno creativo. Se si ha un nome, se si è costruita la marca,
si regge sul mercato, così come si può operare con soddisfazione proponendo prodotti
corretti, di gusto medio senza raggiungere l’eccellenza. Se l’ambizione è quella di co-
struire una parola nuova, per farlo sono necessari il talento ed il mestiere.
Partendo quindi dal presupposto che oggi senza tutti gli ingredienti indi-
spensabili per un completo sistema di impresa diventa difficile anche solo far
emergere il talento, la questione diventa se un eccellente sistema di impresa
può compensare minori contenuti di talento e di mestiere.
Nel caso delle produzioni a più elevato contenuto industriale, il mestiere crea uno
standard che viene gelosamente custodito, e che consente di conferire ad un prodotto
riproducibile in serie l’impressione di autentica artigianalità.
Chi realizza il prodotto è il prototipista che deve far parte della struttura produtti-
va, spesso sono insostituibili e sono le persone in grado di trasformare le idee del de-
signer in un prodotto di successo sul mercato.
Nel nostro caso il direttore marketing, che ha il compito di strutturare il portafo-
glio prodotti in una collezione, deve avere talento, non tanto nella capacità di fare
quanto interpretando poiché deve “saper leggere il mercato”. Di fatto lavora su un
concetto di collezione al cui interno vengono inseriti un numero limitato di prodotti
creativi e un portafoglio di oggetti “portabili”.
Anche nel corso di questo secondo set di focus group sono emersi alcuni
aspetti particolarmente significativi della cultura del settore che ci sembra in-
teressante evidenziare.
Il primo punto, di carattere generale, è la distinzione tra identità ed imma-
gine. Quando si parla di successo sul mercato e di marca viene attribuita gran-
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de importanza alla immagine, ma nessuno mai la collega sul piano razionale
alla identità, cioè al sistema di scelte e di punti di vista che ogni azienda deve
avere e che è la base di molte strategie di differenziazione. È dall’identità in-
vece, che, basata su una visione stilistica, su un sistema di valori o su una vi-
sione, prendono vita la politica di prodotto, la comunicazione, le scelte di
prezzo e di distribuzione. Questa incomprensione porta ad immaginare il pro-
cesso di creazione della marca come frutto degli investimenti in pubblicità,
che forse possono essere condizione necessaria, ma non sono certo sufficienti
a garantire una differenziazione efficace sul mercato.
Dal punto di vista dei processi viene considerato particolarmente critico
quello distributivo, attribuendo le difficoltà alla inefficienza dei punti vendita.
Ci sembra che non sia sufficiente l’attenzione posta invece alla funzione del
responsabile vendite, cui spetta il presidio della rete di agenti o di venditori,
l’impostazione delle politiche di selezione ed il controllo dei dettaglianti.
Per quanto riguarda il tema dello sviluppo prodotti, pur condividendo tut-
ti gli interlocutori la struttura concettuale da noi proposta, che prende il via
dall’individuazione dei bisogni ed arriva fino al lancio, nei fatti la maggior
parte delle aziende non ha di questo processo una visione razionale, e di
conseguenza il processo non è gestito in chiave manageriale. Pensiamo che
ciò evidenzi una palese incongruenza: tutti affermano che il processo di svi-
luppo prodotti è critico per il successo dell’azienda, e che certamente è un
sistema di attività complesso ed oneroso, ma in buona sostanza questo appa-
re gestito in maniera frammentata ed è spesso delegato ai creativi. La so-
vrapposizione dei ruoli tra chi inventa e chi gestisce altre funzioni porta ad
una palese mancanza di dialettica tra chi deve proporre e chi ha invece il
compito di razionalizzare. Manca inoltre la necessaria unitarietà nella visio-
ne che consente l’ottimizzazione sia dal punto di vista strategico che eco-
nomico. Lo scotto spesso si paga nel passaggio tra la fase artigianale e quel-
la industriale, come emerge dalle considerazione di alcuni tra gli interlocu-
tori, che, sottolineando questa frattura, evidenziano le conseguenze in termi-
ni di mancanza di coerenza con i target price desiderati e difficoltà a gestire
i tempi rispetto alle esigenze del mercato.
Nell’ambito dello sviluppo prodotti rileviamo ancora due aspetti che ci
sembrano particolarmente critici. Da una parte la mancanza del design ma-
nager, o almeno di qualcuno che, indipendente dalla creatività e dal proces-
so di sviluppo del prodotto, si assuma la responsabilità di pianificare la
gamma in maniera coerente al posizionamento di mercato che si vuol conse-
guire. Ciò porta facilmente a cannibalizzazioni tra prodotti, alla presentazio-
ne di campionari troppo vasti e poco razionalizzati, con la conseguenza di
un sensibile spreco di risorse e di una scarsa chiarezza verso la distribuzione
e verso il mercato in merito al ruolo dell’azienda. Dall’altra ci sembra ci sia
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poca attenzione alla analisi dei bisogni sia in termini relativi alla struttura
del sistema di prodotto (campionari molto ampi, cioè con numerose soluzio-
ni, e poco profondi) sia per quanto riguarda gli aspetti esterni al sistema a-
ziendale, cioè al mercato ed al consumatore. Si riconferma in sostanza
l’approccio autoreferenziale emerso già nelle riflessioni conclusive sull’of-
ferta e sul processo d’acquisto.
49
3. I rapporti industria-distribuzione
di Luana Carcano
Nel panorama italiano del settore orafo si ritrovano realtà aziendali diverse
e variegate, solo in parte rappresentate dai partecipanti ai focus che apparten-
gono certamente al segmento più evoluto del mercato; tuttavia anche in questo
ambito, relativamente omogeneo, si possono ritrovare posizioni antitetiche.
Nella gioielleria e nell’oreficeria il numero di aziende con un brand conso-
lidato o che sta cercando di emergere è aumentato negli ultimi anni: i nuovi
entranti si trovano di fronte a difficoltà legate alla varietà di prodotti presente
sul mercato ed alla lunga e consolidata relazione che gli attori storici di norma
hanno con i distributori. Ciò costituisce per un nuovo brand una forte barriera
all’entrata, in particolare nei punti vendita che fanno tendenza ed accreditano
al mercato. Per riuscire a superarla è necessaria un’offerta di prodotti e servizi
tale da indurre alla sostituzione di altri brand più conosciuti oppure si deve
saper approfittare di un momento di difficoltà di un brand esistente.
Non bisogna però dimenticare che intorno alle diverse realtà distributive,
accanto alle marche consolidate, ruota un mondo di riferimento, quello del-
l’indotto, delle numerose aziende presenti nei distretti e dei laboratori specia-
51
lizzati che producono oggetti unbranded e che di fatto riforniscono in maniera
significativa la distribuzione. Le vendite di prodotti di marca, se pure in cre-
scita, rappresentano infatti una quota piuttosto limitata del mercato. Il settore
si sostiene sulla produzione senza marchio, di buona qualità e manifattura, che
viene offerta sul mercato attraverso il canale lungo, passando cioè attraverso il
grossista.
Partendo da questo criterio, viene poi selezionata, tra tutte le aziende che
offrono una tipologia di prodotto che potrebbe completare l’assortimento,
quella che sembra offrire migliori opportunità di sell-out, ovvero che si ritiene
consenta un buon livello di vendite sulla base della propria clientela. Questa
stima rappresenta la difficoltà maggiore, soprattutto in un momento di consu-
mi stagnanti come quello attuale.
Oggi non esce molto prodotto dai negozi, né vecchio né nuovo, soprattutto perché
la gente non viene più a cercare qualcosa. Non so da quanto tempo non entra un clien-
te a dirmi “la tal marca di orologi ha proposto una novità, che mi piacerebbe avere”. Il
collezionismo, il piacere dell’oggetto, è molto rarefatto.
I nuovi fornitori vengono anche selezionati sulla base di una sorta di affini-
tà culturale nella visione del business.
52
L’affinità è importante ma senza sintonia d’intenti, ovvero senza la condi-
visione di un progetto, non sembra instaurarsi un rapporto di collaborazione.
Con altre aziende che offrono un prodotto più o meno simile – stessa fascia prez-
zo, stesso materiale – ma senza sintonia, comunione di visione, empatia sarebbe stato
diverso. Il prodotto è andato poi anche a riempire un vuoto che si era creato.
Sono io che scelgo quella veretta, quella montatura; sono io che ti propongo
l’accostamento cromatico di gemme, di colori e attribuisco identità a quel gioiello. In
molti casi cerchiamo di farlo punzonare con il brand della nostra società e lo comuni-
chiamo come gioiello nostro. Lo trovi da noi perché abbiamo fatto noi le montature, il
design. Ti proponiamo oggetti nostri per rafforzare la nostra identità, altrimenti non
esisteremmo.
Compravo i prodotti di quell’azienda quando non era marca, faceva un bel prodot-
to, vendibile, con un prezzo giusto. Quando ha deciso di diventare marca, aumentando
i servizi offerti ma anche il prezzo di vendita al pubblico, ho deciso di non acquistarla
più (non essendo più adeguata al mio target di clientela). Sono considerato un negozio
che ha prodotti economici e allora il mio cliente pretende un certo di livello di prezzo
e di sconto.
In questo caso quindi i fornitori vengono selezionati per la qualità del pro-
dotto, il livello di prezzo e la continua capacità di presentare cose nuove. Se i
punti vendita che perseguono queste politiche scegliessero di trattare marche
si troverebbero probabilmente in difficoltà con la propria clientela anche da
un punto di vista gestionale, nel rispettare, ad esempio, la politica dei prezzi
raccomandata dal produttore.
Spesso queste gioiellerie propongono una propria collezione, realizzata an-
che con l’acquisto della montatura più di moda o il cui design richiama mo-
delli noti al pubblico, su cui successivamente viene incastonata la pietra desi-
derata dal cliente.
54
La collaborazione, che è il primo elemento citato da tutti i dettaglianti in-
dipendentemente dal posizionamento e dalla collocazione geografica, è anche
il fattore che implica tutti gli altri. La collaborazione viene intesa infatti in tut-
ti i possibili aspetti: nel servizio al cliente, nella gestione dello stock – valuta-
zione dello stock esistente e degli ordini, sell-in e sell-out – nella comunica-
zione, nell’agevolazione nei pagamenti e infine nelle esclusive.
Secondo i dettaglianti, la collaborazione non dovrebbe portare ad una “co-
strizione nell’ordine” – intesa non tanto con riferimento alla quantità, quanto
alla tipologia dei pezzi ordinati – considerando che la funzione primaria di
una gioielleria dovrebbe essere quella di vendere e non di creare stock.
Noi sappiamo che cosa, come e a chi possiamo vendere per cui una volta che ab-
biamo uno stock di base, l’agente non ci può costringere a comperare di più del pro-
grammato. Noi sappiamo, in un dato momento, quanti articoli di un certo tipo pos-
siamo comperare, perché sappiamo già chi sono i nostri clienti.
Noi stiamo finanziando i nostri stock con gli utili, per cui i nostri guadagni vanno
a finire nella merce e non in cassa fino ad arrivare ad un punto di rottura. Alcune a-
ziende ci stanno venendo incontro, hanno capito. Certo gli stock sono elevati anche
per colpa nostra, pochi analizzano i dati.
Tutte quelle azioni che le aziende più aggiornate hanno posto in essere (raccolta
dati, interazione con il punto vendita…) vanno realizzate in modo più diffuso.
55
realtà lo pago. È più importante un servizio tempestivo, fatto bene e soprattutto gratui-
to piuttosto che venti pagine sul quotidiano locale.
Posso portare come esempio il caso di un fabbricante con cui siamo in contatto e
con il quale si è instaurato un rapporto di collaborazione privilegiato (pietre ad hoc,
suggerimenti sul prodotto). La collaborazione è in linea con la visione reciproca. In
questo caso, il rapporto di partnership coinvolge anche lo sviluppo del prodotto in
termini di tendenze di mercato come colori, dimensioni e qualità.
Per quanto riguarda il tema delle esclusive, queste costituiscono una prassi
per tutte le aziende caratterizzate da una politica di marca consolidata e ven-
gono gestite con molta attenzione sul territorio.
Noi facciamo dei contratti di concessione distinti per i due brand e all’interno di
questi contratti ci sono delle clausole classiche di distribuzione. La più importante è
quella per cui la concessione viene data esclusivamente al punto vendita a cui si rife-
risce il contratto, quindi viene esclusa ogni attività di wholesale (cioè di rivendita)
piuttosto che la presenza del prodotto, a cui si riferisce l’esclusiva, in altri punti ven-
dita, qualora un’azienda avesse più di punto vendita. Nel contratto, a questa clausola,
vengono poi aggiunte anche altre norme di comportamento nell’ambito dell’im-
magine, del servizio ecc.
56
lumi che consentono un flusso di cassa rapido e un tasso di rotazione più alto
rispetto a quello medio del mercato.
Il mercato parallelo può anche essere praticato da un concessionario scor-
retto o che ha accettato un budget che poi non riesce a rispettare.
In ogni caso fare parallelo su un prodotto significa non investire in stock, poter
concedere sconti più elevati e possibilità di far nero.
Una scelta distributiva di questo genere potrebbe avere effetti positivi sul
mercato, sia perché garantirebbe adeguatamente i distributori, sia perché
l’incremento ragionato della numerica della distribuzione è una determinante
significativa della quota di mercato dell’azienda, secondo la logica per cui «il
prodotto più è visto, più è comprato».
Tutto ciò non risolverebbe però il problema del parallelo se questo è indot-
to da una sovrapproduzione che porta ad innalzare artificialmente i budget dei
distributori e non da una maggiore richiesta del mercato.
Un altro punto connesso alle esclusive è quello del rispetto dei listini di
vendita al pubblico che fa parte della politica di vendita che in genere una
marca chiede al concessionario di rispettare. I dettaglianti si aspettano un
maggior controllo in questo ambito dicendosi anche propensi ad accettare un
inasprimento nelle regole.
57
I concessionari Cartier vendono orologi e accessori mentre la boutique vende la
gioielleria. Il monomarca vende il sogno, l’emozione. Non vengono fatti sconti. Di-
venta importante il servizio e quindi la formazione del personale di vendita.
Dal punto di vista del produttore, i criteri di selezione dei propri distributo-
ri vanno dalla location all’assortimento di prodotto presente, dalla superficie
di vendita alla competenza e motivazione del personale, dando sempre per
scontata la solvibilità.
Considerando i criteri di scelta, da un punto di vista metodologico, il punto
di partenza per un’azienda dovrebbe essere il piano di distribuzione (dove
dobbiamo essere presenti, dove non siamo, dove ci siamo ma potremmo mi-
gliorare…). Il piano, che prende in considerazione solo distributori coerenti
con la politica dell’azienda, dovrebbe contenere un’analisi quantitativa (nu-
mero di punti vendita), qualitativa (qualità del punto vendita) e del giro
d’affari potenziale sia per i bacini storici sia per quelli nuovi. L’obiettivo del
piano è quello di verificare l’incisività della propria distribuzione e valutare il
potenziale di crescita.
Partendo dal piano di distribuzione, il primo fattore di scelta è quindi rap-
presentato dal bacino d’utenza del potenziale distributore, sia dal punto di vi-
sta geografico che demografico, tenendo anche conto dei flussi dinamici legati
alle abitudini di acquisto. Infatti in una stessa città le aree di gravitazione pos-
sono variare nel tempo ed aree caratterizzate da un certo segmento di consu-
matori possono modificare la loro natura.
I bacini di utenza di una città come Milano e come Roma vent’anni fa non sono i
medesimi di oggi, né dal punto di vista della dislocazione né della numerica.
58
portante la condivisione, da parte del punto vendita, della strategia dell’a-
zienda produttrice.
Potendo scegliere tra due location, una top ma con un interlocutore non coerente
con la politica dell’azienda o che non è in grado (perché le sue scelte, la sua storia, i
suoi credi non collimano) di supportare la politica di marca (“dammi il tuo prodotto
perché così la porta si apre venti volte piuttosto che quattro”) ed un’altra location in-
vece ragionevole con un interlocutore che però ha voglia di impegnarsi su questa stra-
da perché ci crede, scelgo il secondo (almeno oggi).
Noi coltiviamo la stessa filosofia, con una serie di clienti chiave abbiamo la rile-
vazione del sell out mensile, non solo per i riassortimenti, ma anche per anticipare i
passi successivi in termini di prodotto. Bisogna davvero assumere l’ottica del consu-
matore e sviluppare i prodotti un po’ più rapidamente. Poi bisogna anche lavorare sul-
la comunicazione, sull’immagine, sul servizio, investendo con i propri partner.
Io richiedo sulle nuove situazioni come must assoluto che ci sia la volontà e la
possibilità (che poi è frutto della volontà, perché ogni negozio è difficile, ognuno vor-
rebbe poter esporre tutto ma lo spazio è limitato) di rappresentare verso l’esterno il
mondo della mia marca.
59
Il mix di prodotti con cui il potenziale distributore lavora è importante ma
non fondamentale, anche perché il parco fornitori con brand riconosciuti è li-
mitato nella gioielleria. A seconda di come i punti vendita decidono di rappre-
sentarle, in uno emergono certe marche, in un altro, con lo stesso parco forni-
tori, altre.
La competenza e la motivazione del personale rappresentano un altro si-
gnificativo criterio di scelta.
Nelle gioiellerie esiste ancora il preconcetto del look della persona, per cui se en-
tra una persona che sembra avere un buon reddito o è una conoscente, interviene il
titolare, mentre per le altre persone ci sono le commesse. La relazione tra il proprieta-
rio-titolare e le commesse, mi permetto di dirlo, è ancora del tipo anni ’50: “Maria per
favore segui la signora piuttosto che signora Rossi, vengono io da lei.” Questa cosa
secondo me è controproducente perché crea delle situazioni di cliente di serie a e serie
b e non aiuta a creare motivazione nel gruppo di lavoro.
Per esempio, se comunico con una campagna pubblicitaria, un certo mondo tra-
sversale, un certo modo di vivere i sentimenti e l’allegria, piuttosto che l’emozione
del brand e in negozio questo discorso è riportato o con la logica del cash and carry,
oppure con la logica che “è un prodotto pur sempre di ..., è una garanzia, anche se è
un po’ più caro” …noi come azienda abbiamo buttato via soldi e il distributore ha
perso un’occasione.
Bisogna pensare a cosa succede dopo che il prodotto è entrato nel punto vendita;
bisogna pensare alla distribuzione come partner.
60
3.1.3. La rete di vendita
Ognuno deve far bene la sua parte di lavoro, ma la cosa fondamentale è che si
condivida il progetto sul serio, altrimenti rimane retorica pura. Quando diciamo non
forziamo il sell-in, tutti applaudono però poi in pratica continuano a impegnarsi nello
sviluppo solo i soliti (distributori), gli altri ne approfittano per estendere i loro assor-
timenti verso il basso, magari ci utilizzano come generatori di traffico. Questa traspa-
renza vale anche per noi perché l’azienda poi non deve dire “… ma mi manca il 10%
chi è che compera di più? C’è il signor x che tutto sommato è innamorato di noi…”
Questo dobbiamo fare in modo di evitarlo.
Se l’azienda ci crede ripone molta attenzione nella formazione dei venditori anche
se poi il risultato finale dipende dall’agente stesso.
61
Lo strumento fondamentale per sviluppare la collaborazione è la capacità
dell’azienda di trasmettere anche all’agente che tutto il mondo di riferimento, insieme
agli strumenti di comunicazione, rappresenta un’ulteriore possibilità/opportunità di
vendita.
Non abbiamo agenti ma dipendenti che chiamiamo trader perché devono con-
frontarsi con le problematiche del trade. Il loro tipo di professionalità nasce dal-
l’analisi del punto vendita per arrivare al prodotto e non viceversa. Analizzano la
potenzialità del sell-out mese per mese, della redditività economica e della riparti-
zione del valore sul pacchetto dei brand. Costruiamo con il dettagliante un percorso
tenendo in considerazione: previsione di sell-out mensile, stock di partenza, obietti-
vo di stock finale e previsione di vendita mensile. La tabella di marcia così costruita
prevede inoltre vari interventi come la formazione del personale, la comunicazione
pubblicitaria, un momento di vetrine particolari, l’analisi del passato per cogliere
opportunità non sfruttate.
Oltre alla marca, offro un insieme di altre cose che prescindono dalla marca, ma
sono connaturate nella mia filosofia, in quel quid in più che offro al cliente (il servi-
zio, l’assistenza, la comunicazione, la cultura del mio personale, il nostro aggiorna-
mento). Alcuni clienti mi chiedono di avere il pacchetto Swatch con il mio nome per-
ché fare un regalo con il mio pacchetto ha un’altra valenza che comperarlo alla Rina-
scente. Nella misura in cui si lavora in questo senso, si possono avere in assortimento
le marche che hanno gli altri ed anche dei prodotti unbranded che connotano di più il
negozio, ma il successo è legato al fatto che si è riusciti ad avere una storia,
un’immagine e una marca. Con il servizio, si riesce anche a vendere lo stesso prodotto
con minor sconto.
62
La cannibalizzazione può esserci, ma se alle spalle hai una storia (come quella che
ha ognuno dei nostri negozi), una professionalità acclarata, una solidità fatta da tante
cose, può essere evitata. Dobbiamo però sfruttare questi marchi diversi dai nostri co-
me delle opportunità.
Il punto vendita è lui stesso una marca. Si serve dei prodotti di marca per far entra-
re un nuovo cliente che poi cerca di fidelizzare. Il nostro cliente storico (quello che
compera prodotti unbranded) difficilmente compererà le marche. I prodotti di marca
ci servono per far entrare nuove persone in negozio che poi tornano con amici e pa-
renti.
Se aumento il numero di brand oltre la soglia della loro utilità, non faccio altro che
ripartire il fatturato su più fornitori e aumentare il magazzino, se invece non faccio
questo tipo di processo, posso investire su altre competenze.
Diventa quindi importante governare questo processo che è critico sia per
la produzione sia per la distribuzione.
Per la distribuzione al dettaglio, la situazione attuale è il risultato di un
mercato che ha avuto lunghi anni di sviluppo e sul quale hanno continuato a
contare tutti, anche quando cominciavano i primi segni di frenata. Facilitati
dalla grande polverizzazione produttiva, i distributori hanno cercato di rispon-
dere ai primi segnali negativi aggiungendo prodotti e marche al loro sistema
di offerta; la produzione, per suo canto, ha potuto compensare le prime fles-
sioni incrementando la numerica di distribuzione, non sempre con un adegua-
to progetto di sell-out.
A questo punto, dopo aver compreso che non si può più parlare di situa-
zioni contingenti, ma che siamo di fronte ad un cambiamento strutturale, i di-
stributori hanno cominciato a razionalizzare il parco fornitori.
Se ci sono linee di prodotto simili, il dettagliante deve fare delle scelte, il conflitto
può esserci, sta al venditore scegliere e quindi non fare entrare un fornitore.
La produzione, dal canto suo, mette in evidenza come il tema sia legato al-
la capacità di portare avanti scelte che derivano dalla consapevolezza di “chi
si vuol essere” sulla cui base vengono scelti i propri interlocutori. Questa scel-
63
ta avrà poi un impatto sia in termini di opportunità di crescita, di consolida-
mento della strategia attuata, di valutazioni economico-finanziarie che per
quanto riguarda la segmentazione del proprio sistema di offerta, i servizi, la
distribuzione.
Il dettagliante deve fare scelte mirate su analisi precise. Attualmente bisogna sot-
tolineare la mancanza di capacità dei punti vendita di analizzare con strumenti un po’
precisi cosa avviene in negozio: se perdo dove perdo, se guadagno dove guadagno, il
brand mi fa perdere o guadagnare. La gioielleria deve avere la sua identità, bisogna
sapere quanta gente entra, cosa compra, quanti tornano ecc.
Dire “diventeremo supermercati dei brand” significa non aver fatto una scelta.
Oggi la scelta viene fatta anche dai supermercati (chi decide di proporre Mulino Bian-
co alleggerisce il proprio brand, chi invece vuol sviluppare il proprio brand espone
solo i prodotti clone del Mulino Bianco). Bisognerebbe guardare agli aspetti distribu-
tivi in una logica un po’ diversa, io ho incoraggiato i miei collaboratori a guardare tut-
to per le strade “andate a vedere la libreria Feltrinelli, come mai espone i libri di fac-
ciata, quando i libri storicamente vanno messi di costa perché uno legge il titolo, ne
contiene di più…”. Le gioiellerie propongono articoli belli e ricchi, che offrono sta-
tus... ma in realtà lo status, l’investimento non ci sono più. Sono cose che non pos-
siamo decidere noi ma che sono decise dal mercato; le emozioni cambiano nel mo-
mento culturale, nell’età, nelle difficoltà. Ognuno di noi, in un dato momento, ha le
sue emozioni: per me oggi un’emozione può essere il piacere di sentirmi un concerto
insieme a cari amici, mentre lo scorso anno poteva essere il piacere di un viaggio in
luoghi esotici. Non ci sono dei canoni definiti e quindi ci vuole una duttilità sul mer-
cato dell’azienda insieme alla distribuzione; perché il rivenditore di una città coglie
delle sfumature quotidiane che l’azienda non può cogliere, però contemporaneamente
il negozio può avere una visione limitata perché vive solo quella realtà. Bisogna un
po’ infrangere questa barriera individualistica, per cui, se sotto braccio, insieme lavo-
riamo sul consumatore forse qualcosa, un panino, tutti i giorni riusciamo a mangiarlo
e forse ogni tanto un pezzo di torta.
64
principali fattori che condizionano la scelta di una gioielleria da parte dei po-
tenziali clienti.
È convinzione diffusa che il primo servizio che un negozio indipendente
debba fornire al proprio cliente sia la competenza e la professionalità, ma in
realtà la ragione stessa dell’esistenza di un esercizio commerciale è l’as-
sortimento che si legge già nelle vetrine. Questo infatti è il primo elemento
che spinge un cliente ad entrare in un negozio indipendente.
Per la distribuzione al dettaglio i tre principali fattori di scelta da parte del
consumatore sono: assortimento (espresso nelle vetrine anche attraverso il
mix di marche rappresentate o la scelta di prodotti unbranded con un buon
rapporto qualità-prezzo); la storia e la tradizione (intesa come fiducia verso il
punto vendita in termini di serietà e garanzia) ed il servizio offerto.
Io sono un negozio atipico, non vendo marche e non lavoro sulle vetrine; il mio
cliente entra nel negozio, senza guardare le vetrine, ma all’interno vuole poter vedere
tutto l’assortimento, soprattutto di novità. L’assortimento quindi per me rappresenta
l’elemento fondamentale.
Fiducia, marca e servizio. Per fiducia intendo l’immagine offerta dal mio negozio
di serietà, di garanzia. Quindi il cliente che viene da me perché sa chi sono, arriva
perché ha fiducia. Le marche presenti nel negozio (sia gioielleria sia orologeria) sono
un’attrattiva importante, perché il cliente sa che nel mio negozio ci sono marche di
tutti i tipi possibili, per cui se questa marca non gli da quello che vuole, prova con
quell’altra e così via. E poi il servizio a cui credo sommamente. Ritengo sia importan-
tissimo, il mio personale frequenta corsi di formazione continuamente perché lo riten-
go basilare.
Per me la location è una cosa fondamentale così come l’impatto visivo delle vetri-
ne che ti da già una forza, il prodotto presentato bene, pulito, e vetrine sempre belle
brillanti, il personale all’interno del negozio con una certa preparazione, disponibile e
cordiale.
Il consumatore è sempre più attento, ecco perché ho messo per primo il rapporto
qualità/prezzo, sia per la marca che per l’unbranded, poi voglio evidenziare il proble-
ma della certificazione, per le pietre questa è davvero una esigenza, poi l’assistenza.
65
Secondo la produzione i tre principali fattori di scelta per il consumatore
sono: l’immagine del punto vendita (intesa non solo come quella che emerge
dalle vetrine ma quella complessiva del negozio, compreso il personale ed an-
che il rapporto di fiducia che il punto vendita ha saputo sviluppare con il con-
sumatore); l’assortimento e il servizio post vendita (includendo anche la rea-
lizzazione di eventi per avvicinare il cliente alla gioielleria).
67
Parte seconda – Sfide competitive e dinamiche
strutturali
69
70
4. Il settore orafo in Italia: situazione attuale e tra-
sformazioni strutturali∗
di Stefania Trenti∗*
∗
Le opinioni contenute in questo lavoro sono quelle dell'autore e non rispecchiano necessaria-
mente quelle di Banca Intesa.
∗*
Stefania Trenti è Responsabile dell’Industry Research del Servizio Studi e Ricerche di Banca
Intesa. Autore di diverse pubblicazioni, svolge attività di ricerca nell’ambito dell’economia in-
dustriale, in particolare sui temi della competitività e dell’innovazione tecnologica. È responsa-
bile del Rapporto “Analisi dei Settori Industriali”, trimestrale di previsione sui settori manifat-
turieri italiani, in collaborazione con Prometeia.
1
Con il termine Sistema Moda, il Servizio Studi e Ricerche di Banca Intesa individua tutta la
filiera del tessile/abbigliamento, della concia/calzature, dell’occhialeria includendo anche
l’oreficeria stessa.
71
Tab. 1 – Il peso dell’oreficeria italiana in Europa (2001)
Paese N. imprese Valore della Indice di specializzazio-
produzione ne (val. produzione)(*)
Italia 35% 42% 278
Germania 10% 10% 41
Spagna 10% 7% 92
Francia 10% 12% 73
Regno Unito 5% 11% 86
Portogallo 4% 2% 174
Altri 26% 16%
Unione Europea 25 100% 100% 100
Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati Eurostat.
(*) l’indice di specializzazione descrive l’importanza dell’industria produttiva orafa nei singoli
Paesi europei, ovvero quanto i diversi Paesi sono specializzati nella produzione di oggetti orafi.
Il termine di confronto è rappresentato dal valore associato all’importanza dell’oreficeria in Eu-
ropa rispetto al totale della produzione manifatturiera.
Dopo aver registrato una espansione significativa nel corso degli anni ’90,
nel biennio 2002-’03 il settore ha subito una battuta d’arresto significativa
(fig. 1).
Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati ISTAT e di bilancio. (*) sc.sin individua
scala sinistra; sc.ds, si riferisce alla scala destra.
72
I dati dell’ISTAT relativi al commercio con l’estero e l’evoluzione del fat-
turato delle imprese del settore concordano nell’indicare un andamento forte-
mente negativo della dinamica settoriale, soprattutto nel 2003 (tab. 2).
Tab. 2 – Sintesi delle principali variabili economiche del settore orafo italiano
(valori in milioni di Euro, prezzi correnti)
Voci 1991 1996 2001 2002 2003
Fatturato* 4739.5 6299.3 8700.4 7785.2 6233.6
Esportazioni 2302.7 3768.4 5347.4 4987.3 3854.8
Importazioni 273.1 481.3 931.3 804.3 787.8
Consumo apparen- 2709.9 3012.2 4284.3 3602.3 3166.5
te**
Export/fatturato (%) 49% 60% 61% 64% 62%
Import/consumo 10% 16% 22% 22% 25%
apparente (%)
Tasso di crescita 1996/1991 2001/1996 2002/2001 2003/2002
(var. %)
Fatturato 6.6 7.6 -10.5 -19.9
Esportazioni 12.7 8.4 -6.7 -22.7
Importazioni 15.3 18.7 -13.6 -2.1
Consumo apparente 2.2 8.4 -15.9 -12.1
Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati ISTAT e di bilancio.
* Stima relativa al fatturato ex fabbrica. ** Calcolato come somma tra fatturato non esportato
ed importazioni.
73
Tab. 3 – Le esportazioni nei principali paesi di sbocco (valori in Euro, prezzi e
tassi di cambio a valori correnti)
Nazione 2001 2002 2003 Peso% Var.% 03
2003
Stati Uniti 1,775,054,720 1,715,833,826 1,116,995,861 29% -34.9
Svizzera 367,309,815 266,565,114 293,927,266 8% 10.3
Regno 330,912,672 330,594,872 261,378,544 7% -20.9
Unito
Emirati 362,891,345 336,619,047 260,546,686 7% -22.6
Arabi Uni-
ti
Francia 286,295,464 274,456,729 231,811,120 6% -15.5
Hong 224,895,681 252,207,206 176,961,724 5% -29.8
Kong
Spagna 178,861,606 170,602,615 135,401,052 4% - 20.6
Germania 197,456,278 183,470,023 125,394,119 3% - 31.7
Giappone 125,659,377 120,778,298 108,041,548 3% -10.5
Cina 97,983,145 80,366,095 96,970,272 3% 20.7
Messico 78,919,485 95,553,858 84,428,639 2% -11.6
Panama 149,884,092 103,876,924 60,189,025 2% - 42.1
Turchia 37,675,380 56,873,411 55,771,431 1% -1.9
Canada 47,464,604 59,388,874 54,306,944 1% 8.6
Australia 53,732,747 59,197,803 53,697,692 1% 9.3
Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati ISTAT.
74
Fig. 2 – Andamento delle esportazioni di gioielli verso gli USA, delle vendite al
dettaglio e del cambio €/$
75
4.1.3. Domanda interna ed importazioni
76
peso crescente delle spese per servizi e prodotti innovativi, a scapito delle vo-
ci tradizionali come alimentare e vestiario (tab. 5).
77
Fig. 3 – Evoluzione dell’import penetration (valore delle importazioni sul consu-
mo apparente di oreficeria)
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
1991-95 1996-00 2003
2002-2003
78
le filiere produttive, un tempo interamente contenute nel territorio distrettuale,
anche a livello internazionale.
Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da ISTAT. (*) il codice di nomenclatura combina-
ta 71131900 si riferisce a minuterie ed oggetti di gioielleria e loro parti, di metalli preziosi di-
versi dall'argento, anche rivestiti, placcati o ricoperti di altri metalli preziosi (esclusi. quelli >
100 anni di età). (**) il codice ATECO 362 si riferisce alla voce “gioielleria ed oreficeria” che
include le seguenti voci: lavorazione pietre preziose e semipreziose per gioielleria ed uso indu-
striale, fabbricazione di oggetti di gioielleria ed articoli annessi; gioielleria ed oreficeria di me-
talli preziosi o rivestiti di metalli preziosi e coniazione monete e medaglie.
79
Tab. 8 – Il peso delle province sul totale delle importazioni italiane da alcuni Pa-
esi
Totale (%) Hong Kong (%) Cina(%) Tailandia (%) India (%)
Ales- 26 Vicenza 36 Milano 17 Vicenza 30 Milano 45
sandria
Milano 23 Milano 25 Vicenza 15 Roma 18 Ales- 20
sandria
Vicenza 13 Ales- 9 Arezzo 14 Ales- 14 Roma 8
sandria sandria
Roma 11 Padova 6 Roma 13 Milano 13 Vicenza 6
Arezzo 5 Arezzo 3 Ales- 10 Arezzo 5 Verona 3
sandria
Firenze 5 Napoli 3 Firenze 5 Padova 5 Padova 2
Altri 17 Altri 18 Altri 26 Altri 15 Altri 16
Totale 100 Totale 100 Totale 100 Totale 100 Totale 100
Nel corso della seconda metà degli anni ’90 sono emersi con forza, nel
commercio internazionale di prodotti dell’oreficeria, nuovi attori. La loro cre-
scita ha intaccato, ma non ancora rimesso in discussione, la posizione di lea-
dership detenuta dagli esportatori italiani.
Tale fenomeno appare meno pubblicizzato rispetto a quanto avvenuto in altri
comparti del Made in Italy e del Sistema Moda in particolare. Se nel settore del-
le calzature, dell’abbigliamento o delle piastrelle il processo di crescita degli
emergenti, e della Cina in particolare, ha portato alla perdita di leadership dei
produttori italiani, nel settore dell’oreficeria la loro presenza appare più recente,
ma non per questo meno rilevante. I tassi di crescita sulle esportazioni mondiali
appaiono, infatti, molto elevati e contribuiscono a spiegare l’erosione delle po-
sizioni delle esportazioni italiane subita negli anni più recenti.
I dati delle Nazioni Unite sul commercio internazionale consentono di
quantificare tale fenomeno ad un buon livello di dettaglio. Abbiamo pertanto
considerato i flussi di interscambio sia dei prodotti in oro (codice 71 13 19 00)
sia, per comparazione, quelli in argento (codice 71 13 11 00). È bene precisare
che tali dati sono espressi in valore del venduto in dollari e che, pertanto, ri-
sultano influenzati in modo rilevante dall’andamento relativo dei cambi.
Tab. 9 – Quote di esportazioni sul commercio mondiale per i gioielli in oro e altri
metalli preziosi (non argento)
Nazioni 1995 2000 2003
Italia 30% 29% 18%
USA 3% 7% 10%
Svizzera 12% 8% 9%
India 3% 6% 9%
Hong Kong 6% 9% 9%
Regno Unito 8% 5% 8%
Cina 6% 9% 6%
Corea 0% 2% 4%
Tailandia 5% 4% 4%
Turchia 0% 2% 3%
Francia 3% 4% 3%
Germania 4% 3% 3%
Malaysia 3% 3% 2%
Singapore 4% 1% 2%
Israele 3% 2% 2%
Altri 10% 6% 8%
Totale 100 100 100
Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa su dati UNCTAD – Comtrade.
81
Come si nota dalla tab. 9, che riporta i dati sulle quote di esportazioni dei
gioielli di oro (e loro parti), gli ultimi anni la quota dell’Italia è notevolmente
diminuita, mentre sono in costante crescita le posizioni di alcuni paesi a basso
costo del lavoro, innanzitutto l’India e l’Estremo Oriente (Cina, Corea, Hong
Kong). Gli Stati Uniti nel periodo in esame hanno saputo aumentare la quota
delle loro esportazioni, passato dal 3% del 1995 al 10% del 2003. Anche la
Turchia, paese praticamente assente fino a pochi anni fa nei flussi di esporta-
zioni mondiali, è stata in grado di conquistare rapidamente una posizione di
rilievo.
Tale fenomeno è evidente anche nel caso dei gioielli in argento (tab. 10),
dove la forte crescita di Hong Kong, Cina e India ha eroso le posizioni non
solo di un paese ad alto reddito come l’Italia ma anche, sia pure in misura me-
no netta, della Tailandia, tradizionale fornitore di gioielli in argento. Nel pe-
riodo in esame, gli scambi di prodotti in argento si sono progressivamente
concentrati. Nel 2003, le esportazioni dei quindici paesi analizzati hanno rap-
presentato il 92% del totale degli scambi mondiali di prodotti di argento. Nel
1995 invece la quota degli stessi paesi era stata pari all’86%.
82
L’analisi dei flussi di commercio internazionale non consente, purtroppo,
di disaggregare i prodotti finiti dalle semplici parti, impedendo di monitorare
gli effetti della apertura internazionale delle filiere produttive. Non è dunque
possibile verificare quanto la crescita di peso delle esportazioni dei paesi e-
mergenti sia legata alla terziarizzazione delle lavorazioni più labour intensive
e quanto, invece, riguardi prodotti concepiti e finiti in questi paesi.
Il confronto tra Italia, India e Cina – considerata congiuntamente con
Hong Kong come un’unica realtà economica dopo aver depurato la somma
delle esportazioni dai flussi interni ai due paesi – evidenzia come tali paesi
abbiano saputo molto rapidamente inserirsi (o come subfornitori o come
produttori di beni finiti) nei flussi internazionali di commercio internaziona-
le. Soprattutto dopo il 2000, anno di picco dell’export italiano di gioielli in
oro, l’accelerazione dell’export dall’Estremo Oriente e la costante crescita di
quello indiano hanno portato ad un forte avvicinamento delle posizioni delle
tre aree.
83
È interessante notare anche il ruolo assunto dagli Stati Uniti, primo paese
di destinazione dei flussi mondiali di oro da indosso e, al tempo stesso, in for-
te crescita anche dal lato delle esportazioni. Gli Stati Uniti, oltre ad essere uno
dei principali consumatori di gioielli in oro, svolgono anche un ruolo di tra-
der. Basti pensare che nel 2003 un terzo circa delle esportazioni di gioielli in
oro (e loro parti) dagli Stati Uniti sono classificate come riesportazioni di pro-
dotti precedentemente importati da altri paesi e come di queste riesportazioni
la maggior parte venga diretta verso paesi considerabili, a loro volta, come
centri di smistamento (Svizzera, Regno Unito, Hong Kong).
Come abbiamo già sottolineato, nel corso degli anni ’90 le imprese italiane
del settore orafo sono state in grado di incrementare in modo significativo le
proprie vendite sui mercati esteri. Il tasso annuo di crescita nominale delle e-
sportazioni è stato, nella media del periodo 1991-2001, di poco inferiore al
10%.
Tab. 11 – L’evoluzione dei primi dieci mercati di sbocco delle esportazioni italia-
ne (peso percentuale sul totale delle esportazioni del settore italiane)
1994 1997 2000 2003
1 Stati Uniti 33% Stati Uniti 27% Stati Uniti 33% Stati Uniti 29%
2 Germania 8% Panama 8% Emirati 8% Svizzera 8%
Arabi Uniti
3 Hong Kong 6% Svizzera 7% Regno 6% Emirati 8%
Unito Arabi Uniti
4 Emirati 6% Emirati 6% Svizzera 6% Regno 7%
Arabi Uniti Arabi Uniti Unito
5 Panama 6% Germania 5% Francia 5% Francia 6%
6 Svizzera 5% Regno Unito 5% Hong Kong 4% Hong 5%
Kong
7 Giappone 4% Hong Kong 5% Germania 4% Spagna 3%
8 Francia 4% Francia 5% Panama 3% Cina 3%
9 Regno 4% Spagna 3% Spagna 3% Giappone 3%
Unito
10 Spagna 3% Giappone 3% Antille 3% Germania 3%
Olandesi
Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da ISTAT.
84
peso della Germania: nel 1994 il mercato tedesco pesava circa l’8% sul totale
delle esportazioni di oreficeria italiana mentre nel 2003 tale peso era ridotto a
circa il 3%.
La diversificazione geografica dei mercati di sbocco del settore orafo ita-
liano è decisamente inferiore rispetto a quella dell’industria manifatturiera nel
suo complesso (fig. 5). In parte questo fenomeno è legato alla natura di beni
oggetto di scambio che potrebbe limitare gli spazi di vendita nei paesi a mag-
giore reddito pro-capite. Anche altri beni di consumo appartenenti alla filiera
della Moda (che nel caso italiano sono molto spesso concepiti come prodotti
di alta gamma) mostrano, infatti, una concentrazione delle vendite più alta ri-
spetto a quella media dell’industria.
54
52
50
48
46
44
42
40
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002
85
Due elementi ci aiutano a capire le specificità del settore dell’oreficeria per
quanto riguarda la possibilità di nuovi mercati di sbocco.
È, infatti, da sottolineare, in primo luogo, come il fenomeno di crescente
concentrazione dei flussi di commercio internazionale sia riscontrabile non
solo per quanto riguarda le esportazioni italiane, ma sia un fenomeno comu-
ne al complesso dell’interscambio mondiale. Nel periodo dal 1995 al 2003
la concentrazione delle importazioni dei primi cinque paesi di sbocco è cre-
sciuta di tre punti percentuali, in seguito soprattutto al ruolo di pivot degli
Stati Uniti. La diversificazione di un paese nostro concorrente come l’India
è ancora più bassa di quella italiana ed in costante diminuzione, anche in
questo caso per il crescente peso degli USA tra i mercati di sbocco dell’oro
da indosso indiano.
È, in secondo luogo, da considerare che, a differenza di altri comparti, il
settore orafo presenta un’elevata importanza di paesi considerabili come “cen-
tri di smistamento” verso altre destinazioni. Se si considera la tab. 11, si nota
che nell’elenco dei primi 10 paesi di sbocco il peso di alcuni paesi (Svizzera,
Emirati Arabi, Panama, Antille Olandesi e, in misura minore, Hong Kong)
non corrisponde con le dimensioni del potenziale del mercato interno. Questo
fenomeno porta a sottostimare il grado di diversificazione delle esportazioni
italiane di oreficeria, poiché risulta impossibile, sulla base delle statistiche esi-
stenti, ricostruire quanta parte del venduto in tali paesi sia poi riesportato ver-
so altre destinazioni2. Tale ricostruzione per gli Stati Uniti, come già visto nel
paragrafo precedente, mostra come anche questo paese possa essere in parte
considerato come centro di smistamento poiché il 30% dell’export di orefice-
ria Usa, nel tempo diventato il secondo esportatore mondiale, è costituito da
prodotti provenienti da altri paesi e poi riesportati.
Questi elementi portano a considerare con maggiore attenzione la possibi-
lità che i legami con il mercato e con i buyer americani dei produttori italiani
– a lungo uno dei fattori propulsivi dell’export settoriale – si stiano rivelando
nel tempo anche un limite, vista la crescente preferenza dimostrata verso i
prodotti di altri paesi, in primis quelli indiani, che hanno conquistato oramai
la leadership sulle importazioni verso gli USA (si veda la fig. 6).
2
La banca dati Comtrade delle Nazioni Unite non riporta il dato sulle riesportazioni per i
prodotti orafi di tali paesi, ma solo le esportazioni. A solo titolo di esempio si può notare che
le esportazioni di tali prodotti da Panama sono quasi interamente destinate al mercato USA.
86
Fig. 6 – Quote sulle importazioni statunitensi di oro da indosso 1995 e 2003 (dol-
lari correnti)
87
4.3. Il settore orafo nel censimento 2001
A fronte di queste dinamiche sui mercati esteri, il settore non sembra aver
reagito attraverso modificazioni di tipo strutturale. I dati del Censimento I-
STAT3., relativi al 2001 e resi disponibili nel marzo 2004, consentono di met-
tere in luce il permanere all’interno del settore di una struttura prevalentemen-
te basata su piccole e piccolissime imprese. Nel decennio coperto dalle rileva-
zioni censuarie (1991-2001) il settore è stato in grado, a differenza di altri set-
tori tradizionali del Made in Italy, di accrescere l’occupazione, anche grazie al
fatto che fino al 2001 l’andamento della produzione orafa è stato positivo.
Il settore orafo italiano ha registrato dal 1996 al 2001 una crescita nel nu-
mero di addetti pari a circa il 12%. Tale crescita appare considerevole soprat-
tutto se confrontata con l’andamento, nello stesso periodo, degli addetti occu-
pati in altri comparti del Made i n Italy (come mostrato dalla fig. 7).
Nella seconda metà degli anni ’90 alcuni settori, come la maglieria o le
calzature, sottoposti prima dell’oreficeria alle pressioni competitive prove-
nienti dai paesi emergenti hanno visto sensibilmente ridotta l’occupazione4.
3
Il codice ATECO utilizzato nella maggior parte delle tabelle è il 3622 definito come “Fabbri-
cazione di gioielleria e oreficeria” che comprende sia la lavorazione di oggetti di gioielleria ed
oreficeria sia la lavorazione delle pietre preziose, escludendo la fabbricazione di monete (codi-
ce 3621) che invece sono state considerate nella stima del fatturato presentata nella tabella 1.
Questo discosta di poche centinaia di addetti rispetto al dato complessivo relativo al codice 362.
4
Il risultato di questi processi ha portato il settore dell’oreficeria a raggiungere, in termini di
addetti occupati, altri settori in precedenza assai più rilevanti come ad esempio la maglieria e
superarne altri come la pelletteria.
88
Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da Censimento ISTAT 1996 e 2001.
89
Classi 1991 1996 2001
UL (*) Addetti Dim. UL Addetti Dim. UL Addetti Dim.
medie medie medie
1-49 9.573 37.386 3.9 10191 38832 3.8 10703 42655 4.0
50-249 52 4.431 85.2 57 4654 81.6 72 5906 82.0
250 e più 1 723 723.0 1 636 636.0 2 775 387.5
TOTALE 9626 42540 4.4 10249 44122 4.3 10777 49336 4.6
Classi Var.% 1991-1996 Var.% 1996-2001 Var.% 1991-2001
UL Addetti Dim. UL Addetti Dim. UL Addetti Dim.
medie medie medie
1-49 6.5 3.9 -2.4 5.0 9.8 4.6 11.8 14.1 2.0
50-249 9.6 5.0 -4.2 26.3 26.9 0.5 38.5 33.3 -3.7
250 e più 0.0 -12.0 -12.0 100.0 21.9 -39.1 100.0 7.2 -46.4
TOTALE 6.5 3.7 -2.6 5.2 11.8 6.3 12.0 16.0 3.6
Composizione % addetti
1991 1996 2001
1-49 88% 88% 86%
50-249 10% 11% 12%
250 e più 2% 1% 2%
TOTALE 100% 100% 100%
Fonte: Servizio studi e ricerche Banca Intesa da Censimento ISTAT 1996 e 2001. (*) UL, unità
locali.
90
Nei dieci anni intercorsi tra una rilevazione censuaria e l’altra il settore è
stato, infatti, interessato da un fenomeno di concentrazione territoriale. Le
prime tre province specializzate nel settore orafo (Arezzo, Vicenza ed Ales-
sandria) sono state protagoniste di una crescita occupazionale che le ha porta-
te a incrementare la propria quota sul totale degli addetti del settore dal 58%
del 1991 al 65% del 2001.
91
addetti) mentre emerge chiaramente la presenza delle imprese leader di Arez-
zo e di Alessandria (UnoAErre e Damiani).
A livello provinciale, inoltre, sono visibili alcuni, sia pure ancora lievi, e-
lementi di rafforzamento delle classi di addetti più grandi (da 50 addetti in su)
che, invece, a livello nazionale non emergono. Dai dati della tab. 14, si nota
ad esempio la diminuzione della quota di addetti occupati in soggetti molto
piccoli nel caso di Vicenza e di Alessandria, anche se in quest’ultimo caso il
dato del 2001 risulta ancora superiore a quello nazionale.
92
5. Le imprese orafe italiane: strategie e risultati
di Luana Carcano
93
• il grado di diversificazione1; operano nel settore sia aziende specializzate
nella produzione di determinati prodotti (oreficeria/gioielleria) o semilavo-
rati orafi, sia aziende diversificate che hanno esteso il proprio campo
d’azione ad altri business, come per esempio orologeria, pelletteria ed ac-
cessori;
• le strutture proprietarie e i modelli manageriali; la maggior parte delle im-
prese orafe in realtà tende ad essere a conduzione familiare. Sono meno
numerose le strutture manageriali composte da professionisti esterni alla
famiglia di controllo.
1
Un’impresa viene definita diversificata quando opera in settori diversi (per esempio gioielleria
e pelletteria). Un’azienda può diversificare in un settore similare (per esempio gioielleria ed
orologeria) ed in questo caso si parla di diversificazione correlata; oppure può decidere di ope-
rare in un settore più lontano da quello originario (gioielleria ed arredamento) ed in questo caso
si parla di diversificazione non correlata. La diversificazione può avvenire per crescita interna
oppure esterna, attraverso acquisizioni.
94
alla prassi di una non completa rilevazione in esso degli accadimenti aziendali
avvenuti nel periodo in esame.
5.2. Gli effetti della crisi di mercato sulle imprese orafe ita-
liane
2
I dati sono stati forniti dal Servizio Studi e Ricerche di Banca Intesa.
95
secondo quartile corrisponde alla mediana, il terzo al 75% del campione, su
un campione di 11 osservazioni, il primo quartile corrisponde al valore asso-
ciato alla 3a osservazione, il terzo quartile al valore associato alla 9a osserva-
zione. Questa tecnica consente di attenuare l’impatto dei valori delle aziende
più grandi e di maggiori dimensioni inserite nel campione, sempre al fine di
ottenere dati di sintesi per la pluralità di aziende e di comportamenti rappre-
sentati nel campione stesso.
Come si nota, il campione di imprese è composto da imprese relativamente
piccole (la mediana riporta un fatturato di 3,6 milioni di euro e di 31 addetti),
anche se di dimensioni superiori rispetto alla media che emerge dai dati di
censimento, illustrati nel capitolo precedente.
Il fatturato realizzato all’estero (dato purtroppo disponibile solamente per
37 imprese, ovvero il 10% del campione) è elevato, arrivando per l’ultimo
quartile della distribuzione (ovvero per nove aziende) ad un valore superiore
al 90%. Il costo unitario del lavoro varia dai ventiduemila euro del primo
quartile ai trentamila del terzo.
96
Tab. 2 – Composizione del campione per località
Campione Alessandria Arezzo Vicenza Altre località Totale
Numerosità 72 132 117 108 429
% 17% 31% 27% 25% 100%
Fonte: SDA Bocconi.
La tab. 3 mostra le performance delle imprese sia con riferimento alla cre-
scita (del fatturato e dell’attivo) sia ad una serie di indicatori finanziari3. Per
quanto riguarda il fatturato, coerentemente con gli andamenti generali, il dato
mediano registra una diminuzione del 12%, che tuttavia è inferiore a quella
del comparto nel suo insieme. Il dato relativo all’attivo invece è positivo, in-
dicando, come a fronte delle difficoltà incontrate sui mercati si sia messo in
atto un processo di rafforzamento dal punto di vista patrimoniale che, pur non
riguardando tutte le imprese (il primo quartile della distribuzione evidenzia,
infatti, una diminuzione dell’attivo) sta comunque interessando un numero
ampio di operatori.
3
Il dato riporta la crescita cumulata di fatturato e attivo tra il 2001 ed il 2003 mentre per gli
indicatori finanziari le statistiche si riferiscono al dato medio dei tre anni (2001, 2002 e 2003).
97
tuale dell’attivo. Si evidenzia, invece, una vera e propria divaricazione per
quanto riguarda l’indicatore della redditività degli investimenti netti (ROI). A
fronte di un quarto delle imprese in esame che risulta avere una redditività
complessiva, al netto delle imposte, inferiore o uguale a –6%, vi è un numero
significativo di soggetti (rappresentato dal terzo quartile) che ottengono risul-
tati decisamente positivi (con un ROI netto superiore o uguale al 9%).
Le performance appaiono diverse se si tiene conto della localizzazione ter-
ritoriale delle aziende del campione. Questo risultato sembra essere legato non
solo alla specializzazione produttiva prevalente, ma anche ad altri fattori. Coe-
rentemente con un andamento delle esportazioni in lieve calo (si veda capitolo
4) ed una minore esposizione verso il mercato statunitense, le imprese localiz-
zate nel distretto alessandrino di Valenza risultano avere sia un andamento del
fatturato lievemente meno penalizzante sia, soprattutto, una redditività com-
plessiva superiore. È da mettere in evidenza, comunque, che le imprese non
appartenenti a distretti, registrano le performance migliori, ovvero un anda-
mento negativo più contenuto, rispetto a quello delle imprese localizzate nei
distretti storici di Alessandria, Arezzo e Vicenza.
Tab. 4 – Le performance delle imprese del campione per aree territoriali (valori
mediani)
Indicatori economico/finanziari Alessandria Arezzo Vicenza Imprese non
distrettuali
Crescita totale attivo 10.2% 5.8% 6.0% 6.1%
Crescita fatturato -11.1% -14.4% -13.1% -8.8%
MOL/fatturato 9.0% 5.1% 5.1% 7.3%
MOL/totale attivo 8.0% 10.6% 8.6% 7.5%
Redditività degli investimenti netti 6.1% 1.3% -0.3% 2.4%
Fonte: Sda Bocconi.
98
Dall’analisi del conto economico si possono evidenziare, indipendente-
mente dagli andamenti della congiuntura, le caratteristiche strutturali (sinte-
tizzate in tab. 5) delle aziende orafe:
Fonte: SDA Bocconi. (*) Valore differenziale tra i ricavi ed i costi sostenuti per beni e servizi
necessari alla produzione. (**) Rappresenta la quota di profitto destinata a remunerare il capito-
lo investito.
99
Immobilizzazioni immateriali 1% 1% 1%
Immobilizzazioni materiali 11% 11% 11%
Attivo finanziario immobilizzato 0% 0% 0%
Totale attivo immobilizzato 16% 16% 15%
Rimanenze 28% 29% 29%
Crediti 43% 43% 41%
Disponibilità liquide 0% 1% 0%
Liquidità 3% 3% 2%
Totale corrente 84% 84% 85%
Totale attivo 100,0% 100,0% 100,0%
Passivo 2001 2002 2003
Capitale versato 7% 6% 6%
Riserve 7% 7% 8%
Utile (perdita) di esercizio 1% 0% 0%
Patrimonio netto 20% 20% 20%
Fondi per rischi e TFR 5% 5% 6%
Debiti consolidati 4% 5% 7%
Totale capitale permanenti 39% 40% 41%
Debito entro esercizio successivo 60% 59% 57%
Altre passività 1% 1% 0%
Totale passivo corrente 61% 60% 59%
Totale passivo 100% 100% 100%
Fonte: SDA Bocconi.
Dall’analisi degli stati patrimoniali (tab. 6), emerge che le imprese orafe
sono caratterizzate da un livello di immobilizzazioni relativamente basso (con
l’eccezione delle aziende che producono catene); gran parte dell’attivo è com-
posto da attività liquide e magazzino che evidenziano un andamento parallelo
al ciclo di fatturato. Il passivo è per lo più corrente e l’indebitamento a lungo
termine rappresenta una percentuale ridotta sul totale delle fonti. La patrimo-
nializzazione delle aziende sembrerebbe una conferma del prevalere del mo-
dello “impresa povera famiglia ricca”4.
4
L’espressione è tratta da Demattè C., Corbetta G., I processi di transizione delle imprese fa-
miliari, Mediocredito lombardo, 1993, § 2.5.2.: “La famiglia proprietaria preferisce aumentare
la consistenza del patrimonio extra aziendale, magari da reimpiegare nell’impresa in tempi suc-
cessivi sotto varie forme”.
100
5.3.1. Alcuni indicatori sintetici della validità della strategia
aziendale
101
di capitale. Infine il ROE (return on equity) indica la capacità di remunerazio-
ne del capitale di rischio.
Infine con il termine sviluppo si intende solitamente la capacità di cresci-
ta dimensionale dell’impresa. Gli indicatori di sviluppo (o della dinamica
delle dimensioni aziendali) sono quindi indici del successo competitivo re-
gistrato da un’impresa e consentono di apprezzarne lo sviluppo della dimen-
sione strutturale (tasso di variazione dell’attivo) e della dimensione operati-
va (fatturato).
Tab. 7 – Alcuni indici delle imprese orafe italiane (valori mediani dell’intero cam-
pione d’imprese)
Indicatori economico-finanziari 2001 2002 2003
Indici di liquidità
Indice di liquidità (1) 4,5% 4,1% 4,2%
Indice di disponibilità (2) 1,30 1,29 1,36
Capitale circolante netto (000 €) (3) 401 419 488
102
Coerentemente con l’andamento generale del settore, le aziende del cam-
pione evidenziano indici di sviluppo in diminuzione nel periodo in esame (per
esempio, il tasso di crescita dell’attivo totale è sceso in un anno dal 3,7%
all’1,6% e il tasso di crescita del patrimonio netto dall’1,7% allo 0,9%). Que-
sto dato inoltre è da porsi in connessione con la riduzione della redditività e-
videnziata dagli indicatori di redditività che mostrano un peggioramento del
rendimento sull’investimento e sul capitale investito (il valore medio del ROI
è sceso dall’11% al 6% nel periodo in esame e quello del ROE dal 4%
all’08%).
Il settore sembra aver perso la sua attrattività, almeno per gli attori tradizio-
nali, considerando invece che altri operatori di settori affini, come la moda e il
design, hanno cominciato ad investire nel settore orafo proprio negli anni di
maggiore difficoltà strutturale dello stesso, ottenendo soddisfacenti risultati.
Inoltre il tasso di crescita dei mezzi propri più basso del tasso di crescita
dell’attivo evidenzierebbe una diminuzione della solidità e quindi della capa-
cità di sviluppo; mentre gli indici di solidità, in apparente contraddizione, mo-
strano invece valori sostanzialmente stabili nel periodo in esame, evidenzian-
do un grado di dipendenza da terzi non particolarmente elevato. Sembrerebbe
che le imprese abbiamo mantenuto, nel periodo in esame, la propria capacità
di investimento nel lungo periodo, oltre che la capacità di far fronte agli im-
pegni a breve.
Le aziende sembrano quindi aver conservato la solidità dal punto di vista
finanziario, come evidenziano le performance finanziarie sintetizzate negli in-
dicatori di liquidità e solidità, mentre invece hanno conosciuto un progressivo
peggioramento dei propri risultati economici, come sottolineato dalle perfor-
mance negative degli indicatori di sviluppo e di redditività.
Le aziende orafe sembrano aver perso la tensione alla crescita.
Quest’analisi sugli indici andrebbe completata con una declinazione a li-
vello di singola impresa, mettendo i diversi indici in relazione tra loro e con la
strategia aziendale attuata. Le scelte strategiche, a livello competitivo, hanno
un impatto sulle decisioni di investimento e quindi incidono sul tasso di varia-
zione del capitale investito, che a sua volta, incide sul grado di indebitamento
e sul tasso di variazione dei mezzi propri. Eventuali decisioni di finanziamen-
to possono incidere sia sul grado di indebitamento sia sul tasso di variazione
dei mezzi propri. Prendendo per esempio le scelte di diversificazione, queste
hanno un impatto sulle scelte di investimento e quindi sugli indici di sviluppo,
di solidità e di redditività diverso in funzione della modalità di ingresso nel
nuovo business prescelta, crescita interna o crescita esterna. Solo un’analisi
quantitativa e qualitativa sulla singola realtà aziendale può consentire di met-
tere in evidenza le relazioni tra gli indicatori e gli aspetti più qualitativi
dell’analisi della strategia.
103
5.4. Le imprese nei diversi segmenti: performance di merca-
to e finanziarie
104
re i propri ricavi. Bisogna però tenere in considerazione che le aziende che
perseguono una strategia di marca tendono a realizzare la maggior parte del
proprio fatturato in Italia e, come visto in precedenza, il miglior risultato po-
trebbe essere messo in relazione anche a questo aspetto. Il calo di fatturato e-
videnziato dal comparto orafo italiano sembra infatti da attribuirsi in modo
particolare alla riduzione delle vendite registrate sui mercati esteri.
Per quanto riguarda invece i produttori di catene non vi è la controprova
dell’efficacia della marca, non essendo state rilevate aziende che perseguono
tale strategia.
5
Per quanto riguarda la redditività si è preferito utilizzare il dato mediano per la presenza di
alcuni valori anomali ed eccezionali che rendono il dato medio di più difficile interpretazione.
105
esempio, il segmento delle aziende unbranded risulta avere una redditività su-
periore ai produttori branded (sia di gioielleria che di oreficeria).
Data l’enfasi che in questi ultimi anni l’attuazione di una politica di mar-
ca ha avuto nel settore, in questo capitolo si analizzano le performance eco-
nomiche e finanziarie delle imprese di marca incluse nel campione in esame,
evidenziandone, laddove possibile, le differenze rispetto alle imprese un-
branded.
Le imprese che perseguono una politica di marca tendono ad avere una
maggiore intensità di immobilizzazioni immateriali e una minore intensità di
immobilizzazioni materiali, coerentemente con la struttura produttiva flessibi-
le di cui mediamente sono dotate. In genere, infatti, le aziende branded tendo-
no a fare ampio ricorso a politiche di esternalizzazione di fasi di lavorazione a
minor valor aggiunto.
Queste imprese hanno un costo del lavoro unitario maggiore (assunto co-
me indicatore approssimativo del capitale umano) che indica, con buona ap-
prossimazione, la maggiore strutturazione/managerializzazione in media pre-
sente nelle aziende che perseguono una politica di marca.
Il maggiore costo del lavoro potrebbe però essere correlato anche alla pre-
valente specializzazione produttiva nel segmento della gioielleria, caratteriz-
zato da una maggiore incidenza di manodopera artigianale specializzata.
106
Le aziende branded sembrano avere dimensioni maggiori e presentano
un’incidenza dell’export sensibilmente inferiore. Tali aziende infatti tendono
a concentrare maggiormente i propri investimenti sul mercato italiano;
l’espansione internazionale viene perseguita solo dopo aver ottenuto l’affer-
mazione del proprio marchio in Italia. Queste imprese inoltre tendono ad esse-
re integrate verticalmente a valle con negozi monomarca e sono un po’ più in-
debitate delle altre, conseguenza anche degli investimenti necessari per svi-
luppare la politica di marca.
Dall’analisi di alcune voci di conto economico (tab. 12), emerge con chia-
rezza la differenza di struttura adottata dalle aziende in funzione della strate-
gia realizzata.
107
Tab. 13 – Alcune voci di conto economico distinte per tipologia produttiva
(valore mediano 2001-2003)
Incidenza percentuale sui ricavi netti Campione Gioielleria Oreficeria Catene
Presenza o assenza politica di marca B U B U
Acquisti di materie prime e semilavorati 72% 54% 67% 81% 73% 80%
Lavorazioni di terzi/servizi 16% 28% 17% 10% 17% 5%
Costo del personale 7% 8% 8% 7% 6% 6%
Fonte: SDA Bocconi.
II I
IV III
Strategia realizzata Successo economico ga-
mediocre rantito da condizioni e-
sterne favorevoli o dallo
sfruttamento del patri-
Bassi monio aziendale
Bassi Alti
Risultati reddituali
109
(quadrante III). Condizioni esterne favorevoli (come una posizione di vantag-
gio nel canale distributivo, barriere legislative favorevoli, ecc.) tendono a faci-
litarne la strategia aziendale.
Invece le imprese che hanno successo competitivo ma non economico
(quadrante II), presentano una strategia definita, anche complessa, in termini
di segmenti di mercato serviti, sistema di prodotto offerto e struttura aziendale
che consente di ottenere il successo di mercato. La mancanza di risultati eco-
nomici però evidenzia, nella realizzazione della strategia, incoerenze interne,
come per esempio un differenziale di qualità dei prodotti non adeguatamente
valorizzato in termini di prezzo di vendita dei prodotti stessi o ancora uno
squilibrio tra il segmento di mercato a cui l’azienda vuole rivolgersi e la capa-
cità produttiva dell’azienda stessa.
Infine le aziende che non hanno successo né sul piano competitivo né su
quello economico (quadrante IV) evidenziano come il mercato di riferimento
non gli riconosca una “ragion d’essere”6. Manca validità nell’idea strategica
alla base dell’impresa.
Il campione preso in esame è costituito dalle prime cento imprese (appar-
tenenti al macrocampione di 429 aziende analizzate in precedenza), con un
fatturato 2003 superiore ai 7 milioni di euro.
Nel caso specifico, i risultati reddituali sono stati apprezzati attraverso il
rapporto tra la redditività del capitale investito netto (ROI) dell’azienda e la
redditività media del campione nei tre anni in esame (2001-2003). I risultati
competitivi vengono analizzati attraverso la variazione della quota di mercato
relativa, misurata come la variazione del fatturato della singola azienda rispet-
to ai ricavi totali delle imprese del campione, considerati nell’analisi come
approssimazione del mercato di riferimento. Un’azienda che, nel periodo in
esame, evidenzia un aumento di fatturato superiore rispetto alle altre aziende
del campione, registrerà una variazione positiva della quota di mercato relati-
va. Data l’elevata frammentazione del settore, si è scelto di non utilizzare co-
me indicatore la quota di mercato media del campione. Tale dato infatti non
avrebbe consentito di evidenziare strategie di successo focalizzate su nicchie
di mercato.
In ottica dinamica (ovvero nei diversi anni considerati), uno spostamento
nella matrice verso destra deriva da una crescita (o diminuzione) annua del
ROI della singola impresa superiore (o inferiore) a quella dell’intero campio-
ne; uno spostamento verso l’alto si registra quando il tasso di crescita (o ridu-
zione) del fatturato annuo di una singola impresa è superiore (o inferiore) al
tasso di crescita (o riduzione) del fatturato dell’intero campione.
6
Vittorio Coda “ La valutazione della formula imprenditoriale”, Sviluppo e Organizzazione, n.
82, 1984.
110
La fig. 2 illustra il posizionamento delle aziende orafe del campione rispet-
to ai tre anni oggetto di analisi. L’inserimento all’interno della matrice dia-
gnostica ci consente di identificare le diverse classi di aziende e di proporre
alcune prime ipotesi in merito alle scelte competitive attuate dalle stesse.
Le aziende presenti nel quadrante in alto a destra (il 37% delle aziende del
campione) sono caratterizzate da risultati reddituali superiori alla media del
campione e da risultati competitivi elevati (quadrante I). Si tratta, in prima ana-
lisi, di aziende che operano in contesti di mercato sufficientemente ampi
all’interno dei quali hanno generato un vantaggio competitivo valido e ricono-
sciuto come tale dal mercato, oppure che operano in ambiti ristretti ma con una
strategia di focalizzazione riconosciuta dal mercato e remunerata. Con riferi-
mento alla dimensione, le imprese più grandi di questo quadrante sono realtà
strutturate, che stanno perseguendo una politica di marca, mentre le imprese di
dimensioni più contenute, hanno saputo costruirsi una politica di focalizzazione
sostenibile nel tempo che ha assicurato loro buoni risultati. Con riferimento alla
segmentazione precedentemente introdotta, si ritrovano in questo quadrante sia
aziende della gioielleria sia dell’oreficeria. Sono imprese che in genere hanno
saputo delimitare il proprio ambito competitivo, si sono organizzate e strutturate
per competere con successo nel segmento individuato offrendo il sistema di
prodotto richiesto dalla clientela a cui prevalentemente si rivolgono.
Un buon numero di aziende (pari al 26% del campione) presenta risultati
competitivi soddisfacenti, ma risultati reddituali inferiori alla media del cam-
pione (quadrante II). In questo caso si tratta di aziende che finora non sono
state in grado di esprimere un vantaggio competitivo tale da poter essere pre-
miato dal mercato oppure sono aziende che perseguono vantaggi di costo con
una struttura non adeguata ed eccessivamente costosa o ancora aziende che
stanno perseguendo una politica di marca e di sviluppo (prevalentemente di
gioielleria) e per questo risultano penalizzate rispetto ai risultati reddituali.
Sinteticamente, si è in presenza di imprese la cui strategia evidenzia delle in-
coerenze interne o non è ancora stata pienamente realizzata.
Nel terzo quadrante, in basso a destra, si ritrovano le imprese (pari al 17%
delle aziende del campione) che evidenziano risultati reddituali superiori alle
media, pur in presenza di risultati competitivi inferiori. Il successo in questo
caso sembra essere garantito dallo sfruttamento del patrimonio aziendale e
delle posizioni acquisite. A questo quadrante appartengono però anche produt-
tori in conto terzi, di medie dimensioni, che propongono una propria collezio-
ne sul mercato. In questo caso, il risultato sconta la prevalente competenza
produttiva e la dispersione di risorse su due business diversi.
Infine relativamente numerose (pari al 20% del campione esaminato) sono
anche le imprese collocate nel quarto quadrante, che evidenziano sia risultati
reddituali che competitivi inferiori alla media del campione. Si tratta di azien-
111
de orafe che hanno attuato una strategia di imitazione di altre aziende, oppure
che non hanno saputo costruirsi una strategia di differenziazione. Tenden-
zialmente di medie dimensioni, offrono prevalentemente un prodotto di orefi-
ceria, di livello medio, indifferenziato.
Quadrante II Quadrante I
0,8%
Variazione quota di mercato 2003-2001
0,6%
0,4%
0,2%
Altro
Catename
0,0%
Oreficieria
-30,0% -20,0% -10,0% 0,0% 10,0% 20,0% 30,0% 40,0%
Gioielleria
-0,2%
-0,6%
-0,8%
-1,0%
ROI Medio 2001-2003
Fonte: SDA Bocconi.
112
emblematici che possono essere utili per la riflessione strategica degli im-
prenditori del settore.
La fig. 3 esprime un percorso tipico di una “strategia di focalizzazione”di
nicchia: l’ambito dell’attività è focalizzato su un determinato segmento di
prodotto, pur operando in un ambito geografico ampio. L’azienda, fondata
negli anni ’70 e localizzata nel distretto arentino, è di medie dimensioni (50
dipendenti nel 2003). Ha saputo crescere in termini di fatturato (quasi raddop-
piato nel periodo in esame), conseguendo risultati reddituali superiori alla
media (anche se in calo) pur rimanendo focalizzata nel proprio ambito di atti-
vità – produzione di accessori (chiusure per collane, bracciali ed orecchini)
per il settore orafo – anche in un momento in cui tale segmento è messo sotto
pressione dalla concorrenza dei paesi a più basso costo del lavoro, grazie al
valore aggiunto apportato alle proprie produzioni.
2003
25000
2002
Fatturato
20000
15000 2001
1998
2000
1999
10000
20% 25% 30% 35% 40% 45% 50%
ROI
113
L’azienda infatti evidenzia, nel periodo in esame, un ROI medio elevato
considerando che il dato mediano del campione è stato pari a circa il 6% nel
2003.
Le figg. 4 e 5 invece rappresentano due percorsi di crescita di differente in-
terpretazione.
La fig. 4 mostra un percorso di crescita sostenuto sia dal punto di vista del
fatturato che dei risultati reddituali. Si tratta di un’azienda di grandi dimensio-
ni per il settore (circa 250 dipendenti), non localizzata in un’area distrettuale.
L’impresa – specializzata in oreficeria artigianale – ha negli anni in analisi
consolidato la propria strategia di marca, introducendo nel settore il concetto
della “collezione” mutuato dalla moda. La costruzione dell’identità di marca è
stata sostenuta dall’apertura di negozi monomarca e corner e da una coerente
strategia di comunicazione. Lo sviluppo, strutturale e manageriale, del-
l’azienda è stato accompagnato anche dall’introduzione di logiche di business
e sviluppo prodotto proprie di altri settori ad alta intensità simbolica.
L’azienda è rimasta focalizzata sul proprio core business, ovvero oreficeria,
con limitate diversificazioni, in segmenti correlati (orologeria).
2003
75000
70000
Fatturato
2002
65000
60000
2001
55000
1998
2000
1999
50000
5% 10% 15% 20% 25% 30% 35%
ROI
114
Il secondo percorso di crescita invece rappresenta una differente strategia
che ha consentito di ottenere buoni risultati competitivi e reddituali, anche se
quest’ultimi inferiori ai primi. È un’azienda, fondata negli anni’60, di medio-
piccole dimensioni (circa 25 dipendenti), a carattere familiare, specializzata
nella produzione di gioielleria di fascia alta, collocata in uno dei distretti pro-
duttivi. L’azienda fa della qualità delle pietre preziose selezionate e dei pro-
cessi di finitura manuale i propri punti di forza.
Nel periodo in esame, ha iniziato a sostenere il proprio prodotto con una
politica di marca, supportata da forti investimenti in comunicazione, con la
presenza sulle principali riviste italiane femminili, che parzialmente potrebbe-
ro giustificare i risultati reddituali in decrescita. Inoltre di recente, l’azienda
ha introdotto una seconda linea di prodotti “più accessibili” (con prezzi infe-
riori ai mille euro), destinati ad un segmento di mercato più giovane, pur nel
rispetto della filosofia aziendale: si tratta di prodotti di mini gioielleria, carat-
terizzati dalla presenza di pietre preziose di dimensioni più contenute, ma di
alto livello qualitativo. L’azienda, non ha attualmente negozi di proprietà, ma
i propri prodotti sono presenti in circa un migliaio di punti vendita, anche a
livello internazionale.
2003
24000
22000
20000 2002
Fatturato
18000
16000
2000
2001
14000
1998 1999
12000
10000
1,0% 2,0% 3,0% 4,0% 5,0% 6,0% 7,0% 8,0%
ROI
115
Le figg. 6 e 7 invece rappresentano due percorsi di crisi. Il primo si riferi-
sce ad un’azienda, sul mercato dagli anni’80, di medie dimensioni (60 dipen-
denti circa), operante in uno dei distretti industriali e specializzata nella pro-
duzione di oreficeria industriale. Da una produzione artigianale specializzata,
è passata negli anni ad una lavorazione prevalentemente meccanizzata, per-
dendo così probabilmente uno dei suoi punti di forza, ovvero il legame con la
competenza chiave dell’azienda. Nel periodo in esame, la perdita di fatturato
(quasi dimezzato) si collega anche a risultati reddituali inferiori alla media.
2000
2001
60000 1998
2002
Fatturato
1999
50000
40000 2003
30000
9% 11% 13% 15% 17% 19% 21%
ROI
116
tale politica, e la focalizzazione su un mercato di sbocco dove la concorrenza
dei produttori a più basso costo del lavoro si fa maggiormente sentire, comple-
tano il quadro del percorso involutivo presentato.
Il secondo percorso mostra invece un’azienda della gioielleria di fascia al-
ta, di medie-grandi dimensioni (circa un centinaio di dipendenti) con una pro-
pria politica di marca, che sta conoscendo un momento di difficoltà, con ritor-
no del fatturato ai valori del 1998 e con risultati reddituali negativi. L’azienda
ha saputo costruirsi nel tempo un’immagine di marca consolidata attraverso
l’offerta di collezioni con una chiara identificazione stilistica e supportate da
un’efficace comunicazione pubblicitaria. I prodotti e la comunicazione stessa
sono fortemente identificati con la figura dell’imprenditore che è anche il cre-
atore delle collezioni.
L’azienda ha di recente aperto negozi monomarca in Italia e nel mondo,
per sostenere la propria immagine anche presso il consumatore finale.
Le relativamente contenute dimensioni strutturali sembrerebbero essere
state un freno alla crescita generando un loop negativo sia in termini di merca-
to sia reddituali. La sola strategia di marca di per sè non è garanzia di succes-
so, se non è supportata da una serie di elementi, tra cui anche l’evoluzione
della struttura aziendale.
2000
25000
23000
Fatturato
1999
21000
2002
19000
1998
2003
17000
15000
-3% 2% 7% 12% 17% 22% 27% 32%
ROI
117
Questi esempi sintetici dimostrano che le singole imprese possono adottare
strategie molto differenti, pur se parte di uno stesso settore, da cui derivano
risultati competitivi ed economici molto diversi pur nello stesso periodo stori-
co. In un momento di settore favorevole, è relativamente facile per un’azienda
aver successo anche solo con una strategia imitativa o talvolta anche senza
una strategia. In un settore maturo, come quello orafo, tali politiche non sono
più sufficienti per sopravvivere. Diventa necessario dotarsi di una strategia
definita (di differenziazione ampia o focalizzazione) per assicurarsi quel van-
taggio che rappresenta la maggior garanzia di continuità aziendale.
Un’azienda di successo è tale se è in grado di essere redditizia e remunerativa
per un lungo periodo di tempo.
118
del settore, protezioni legislative ecc.), che possono si facilitarlo ma non so-
stenerlo nel tempo.
Risultati economici superiori rispetto ai concorrenti scaturiscono dalla ca-
pacità dell’azienda di differenziare il proprio sistema di prodotto, ma anche
dalla modalità di svolgimento delle attività aziendali7, rispetto ai propri con-
correnti di riferimento. Le manifestazioni dei risultati aziendali tendono ad
emergere lentamente, condizionate anche dall’andamento del settore, ma una
volta che si evidenziano, soprattutto se negative, hanno un impatto importante
e non solo sulla singola azienda. L’analisi delle relazioni tra strategia e risulta-
ti conseguiti diventa quindi un’importante strumento di analisi e diagnosi an-
che in chiave prospettica.
7
P. Russo, Posizionamento strategico e risultati aziendali, Egea, 2004.
119
6. La segmentazione del settore
di Antonio Catalani e Paola Varacca Capello
Premessa
6.1. La segmentazione
121
Segmentare la domanda significa individuare gruppi di consumatori omo-
genei1 secondo criteri ritenuti rilevanti per le scelte e i comportamenti di ac-
quisto. In prima approssimazione le modalità di segmentazione della domanda
si rifanno a criteri descrittivi o comportamentali.
Anche per quanto riguarda le aziende operanti in un settore è necessario,
nel caso in cui esse presentino profili competitivi differenti (dal punto di vista
della dimensione, del livello di integrazione, dell’ampiezza del portafoglio,
dei vantaggi competitivi perseguiti, ecc…), tentare di individuare dei rag-
gruppamenti strategici (Porter, 1982), ovvero insiemi di aziende che perse-
guono strategie simili2.
Diverso è il concetto di posizionamento: ”il processo di posizionamento
riguarda la collocazione del sistema di prodotto, o meglio della marca,
all’interno di un sistema definito di percezioni del target selezionato, con
l’obiettivo ultimo di generare una differenziazione, possibilmente sostenibile
e duratura, tra l’attività dell’azienda e quella dei concorrenti” (Saviolo e Te-
sta, 2000).
Con l’espressione mappa di posizionamento si intende quindi una rappre-
sentazione che mostri come sono collocati i sistemi di offerta o le marche pre-
senti in un settore/segmento, secondo le valutazioni di un target di consumato-
ri, ricorrendo a variabili di differenziazione percepibili dal mercato.
La finalità del capitolo è quella di proporre una matrice di segmentazione
del settore con riferimento ai sistemi di prodotto delle aziende in esso operan-
ti. Questa scelta scaturisce dal fatto che l’individuazione di segmenti rende più
semplice un’eventuale analisi del posizionamento poiché stabilisce dei criteri
di base per collocare il prodotto e la marca, consente quindi in maniera più
mirata di suggerire raccomandazioni in merito alle scelte strategiche praticabi-
li partendo dal posizionamento attuale.
D’altra parte ricordiamo che nello sviluppo di questo libro abbiamo assun-
to, attraverso i focus group, il punto di vista degli operatori del settore per
analizzare la cultura, i modelli organizzativi ed i comportamenti, le dinamiche
ed i fenomeni che stanno caratterizzando il settore orafo italiano, alla luce di
una serie di dati che lo descrivono e consentono una interpretazione di tipo
quantitativo. Non disponiamo quindi di analisi sui comportamenti dei consu-
matori, ma possiamo ipotizzare di interpretarne dinamiche e bisogni conside-
randone i comportamenti d’acquisto.
1
La letteratura sulla segmentazione è molto vasta. Citiamo Kotler P., Armstrong G., Saunders
J., Wong V., (2001), I principi di marketing, Isedi, Torino. In bibliografia sono indicati altri
testi di riferimento.
2
Per un’analisi dei raggruppamenti strategici nel settore si veda il capitolo 1 del libro: L. Car-
cano, E. Corbellini, G. Lojacono, P. Varacca Capello, (2002), Il settore orafo tra tradizione e
innovazione, Etas, Milano.
122
6.2. Le variabili per la segmentazione
123
Abbiamo preferito utilizzare descrizioni quali: accessibile, medio, alto (an-
che lusso/prestigio) per una serie di motivi. In primo luogo il prezzo (ad e-
sempio 200 euro) o gli intervalli di prezzo (da 150 a 250 euro) non sono effi-
caci perché portano a collocare nello stesso segmento prodotti per loro natura
diversi, non si può prescindere infatti dalla distinzione tra anelli, orecchini,
ciondoli, bracciali e girocolli, con o senza pietre preziose. Inoltre la valutazio-
ne di un prezzo (in termini puntuali o come fascia) è relativa all’acquirente, al
suo livello di reddito e all’occasione di acquisto. Il prezzo riveste certamente
un ruolo fondamentale, soprattutto per i consumatori a più basso reddito.
Dobbiamo poi sottolineare che vi sono aziende che offrono collezioni ab-
bastanza omogenee dal punto di vista del livello di prezzo e altre che hanno
un’offerta molto ampia, che spazia da articoli “accessibili” a gioielli molto co-
stosi (ad esempio Tiffany). Una corretta segmentazione delle aziende sulla ba-
se del prezzo dovrebbe partire dai prezzi delle collezioni/articoli più venduti
in termini di sell-out, che costituiscono cioè il core commerciale dell’azienda,
e utilizzarli come riferimento per la segmentazione. Molte marche infatti pro-
pongono gioielli di immagine, ma costruiscono fatturati e margini con altri
prodotti (alcuni con margini unitari rilevanti rispetto al prezzo di vendita, altri
che generano volumi consistenti). Un’ultima considerazione: spesso è proprio
la fascia prezzo che dovrebbe indirizzare le scelte di sviluppo di prodotto, o
perché si rileva inadeguatezza della propria offerta in una fascia prezzo ritenu-
ta potenzialmente interessante, o per carenza di gioielli appartenenti ad una
certa tipologia nel proprio portafoglio prodotti.
124
Lo stile moderno/contemporaneo si fonda su elementi contemporanei
all’interno di una visione classica del gioiello: Pomellato ne è l’emblema.
Lo stile innovativo si distingue per la ricerca di nuove soluzioni nelle for-
me: Pianegonda è, tra le marche conosciute al grande pubblico, quella che ben
rappresenta questa impostazione.
A proposito di stile è necessario anche definire i cosiddetti “brand identi-
fier”, ovvero gli elementi formali “invarianti” che nel tempo divengono i co-
dici di riconoscimento della marca: ad esempio la C di Cartier, così come le
forme rotondeggianti e smussate, le pietre colorate e i tagli speciali che carat-
terizzano Pomellato3.
Il gioiello consente di individuare alcune mode specifiche (per esempio in
termini di colore dell’oro, grandezza e tipo di pietre, dimensioni dei monili
ecc…), ma il ritmo del cambiamento nel settore è sicuramente più lento di
quello della moda, proprio perché per loro natura i gioielli sono durevoli. I
prodotti classici e di tradizione occupano uno spazio molto importante
all’interno del settore. Dal punto di vista della offerta, le aziende tendono si-
stematicamente ad aggiungere ad una collezione che ha preso forma nel tem-
po prodotti nuovi che sostituiscono altri. Pochi, tra cui Pomellato, perseguono
una strategia di offerta moderna, basata sulla proposta di mini collezioni nuo-
ve e di tendenza, presentate con cadenze definite, avvicinandosi, in questo
modo, alle logiche più propositive della moda.
3
Sul concetto di identità stilistica si vedano anche Saviolo S., Testa S. (2000), Le imprese del
sistema moda – il management al servizio della creatività, Etas, Milano (cap. 7) e G. Comboni,
F. Molteni, Prodotto moda e isola stilistica, Economia & Management, n. 2, 1994.
4
Si vedano gli “Atti” del Forum del Gioiello, svoltosi presso l’Università Bocconi il 23 ottobre
2002, in collaborazione tra SDA Bocconi e Club degli Orafi Italia, L’Orafo Italiano Editore.
125
La tipologia di prodotto e le funzioni d’uso. Possiamo distinguere tra
anelli, bracciali, collane, collier, spille, catene, pendenti, orecchini e così via.
Ciascuno di questi oggetti ha visto nel corso degli anni momenti di grande
successo nella domanda del consumatore oppure fasi di declino. Questi anda-
menti spesso sono legati alle valenze simboliche che vengono di volta in volta
attribuite, e possono quindi essere ben connesse alle ricorrenze. Le valenze
simboliche si riferiscono a quegli attributi del prodotto che vanno al di là delle
prestazioni funzionali quali il messaggio che si intende trasmettere, il mondo
di riferimento che la marca rappresenta, gli elementi estetici in cui
l’acquirente si riconosce e la funzione d’uso (di investimento, ornamento, o-
stentazione). Questi elementi si fondono nel processo d’acquisto, creando un
unicum che contiene, forse meglio di altri, la dimensione del target di consu-
matori.
Le scelte di canale e i tipi di punti vendita. Nel settore orafo, a causa del-
la frammentazione della produzione e della numerosità dei punti vendita, è
ancora molto diffuso il canale lungo. Lo sforzo di molte aziende di perseguire
una politica di marca sta sviluppando il ricorso al canale breve attraverso reti
di agenti plurimandatari. Rari ma in crescita sono invece i punti vendita mo-
nomarca. Per quanto riguarda i punti vendita ci sono numerosi criteri per la
loro classificazione, dalla superficie al numero di addetti, quelli più comune-
mente utilizzati nel settore sono la location e l’assortimento5.
L’assenza di marche e la natura prevalentemente artigianale della produ-
zione hanno portato nel tempo alla nascita di punti vendita-marca, collocati in
posizioni centrali delle nostre città, gestiti spesso dalla stessa famiglia per
molto tempo, che si sono conquistati una reputazione eccellente e che, grazie
alle forti competenze detenute, da sempre garantiscono e rassicurano sul valo-
re intrinseco dei loro prodotti. Questo fenomeno è molto diffuso nel settore ed
oggi spesso coincide con gioiellerie caratterizzate da location ed assortimenti
di grande impatto. Nel tempo, accanto a questi, si è strutturata la distribuzione
ed oggi possiamo quindi distinguere tra punti vendita-marca, (che propongono
di norma un ristretto numero di marche, e che vengono ricercati proprio in
un’ottica di affermazione dalle “aspiranti marche”), monobrand, negozi ade-
renti a catene di distribuzione, tipicamente orientati al mercato più economico,
distributori mediamente qualificati con assortimenti vari di prodotti branded e
unbranded e i punti vendita convenience (che si distinguono per qualche a-
spetto di convenienza e di vicinanza).
5
Per un’analisi della distribuzione si veda il capitolo 4 del libro: L. Carcano, E. Corbellini, G.
Lojacono, P. Varacca Capello, (2002), op. cit.
126
6.3. Il processo di acquisto e le variabili di segmentazione
tipologie
budget
soggettivo/relativo
marca
occasione
tradizione
funzione
mode prodotto
tipo di
stile materiali
relazione
127
visite in alcuni punti vendita (selezionati in funzione degli assortimenti e della
localizzazione), si effettuerà una scelta del punto vendita e del prodotto (ri-
spetto al budget previsto, anche se ci potranno essere aggiustamenti legati alle
motivazioni precedenti). Ancora, se si vuol fare un regalo a qualcuno che ama
una marca in particolare, o un punto vendita in particolare, si parte dalla mar-
ca o dal punto vendita e, a seconda del tipo di relazione e del budget si proce-
de con la selezione del prodotto.
In sintesi nel regalo si propone la sequenza: occasione, tipologia di prodot-
to (determinata da tipo di relazione e budget di spesa), cui seguono, marca,
prodotto, punto vendita, ciascuna delle quali assume una posizione precisa
nella sequenza a seconda delle situazioni contingenti o del gusto individuale.
Nell’autoacquisto, fenomeno in espansione soprattutto per quanto riguarda
le donne, il punto cruciale è la motivazione d’acquisto, legata alla funzione
che il prodotto assolverà. Anche in questo caso si parte dall’idea, che può
consistere in un tipo di prodotto, un gioielliere che ha una vetrina interessante,
una marca vista in pubblicità. Poi interviene il costo rispetto al budget che si è
ipotizzato, che è evidentemente influenzato dal reddito e da altri aspetti di tipo
culturale e simbolico.
Nell’auto-acquisto quindi si propone la sequenza: motivazione/funzione,
tipologia di prodotto (determinata dal budget di spesa), cui seguono marca,
prodotto e punto vendita, ciascuna delle quali assume una posizione precisa
nella sequenza a seconda delle situazioni contingenti o del gusto individuale.
L’analisi del processo di acquisto ci consente di dedurre che i criteri rile-
vanti per la segmentazione possono essere: la tipologia di prodotto, il prezzo,
la marca, il punto vendita ed i caratteri specifici del prodotto intesi come stile,
materiali e, per quanto valutabile dal consumatore, la fattura.
128
di distribuzione sono influenzate dal tipo di marca, dalla fascia prezzo e dallo
stile delle singole aziende.
La matrice consente di identificare comparti del settore all’interno dei qua-
li operano aziende che, pur potendosi distinguere per altri caratteri quali la
dimensione, l’integrazione verticale, le politiche di internazionalizzazione,
ecc., condividono alcune criticità strategiche. In altre parole, in ciascun busi-
ness ritenuto rilevante è possibile individuare problematiche strategiche speci-
fiche e fattori critici di successo, rispetto ad archetipi di aziende.
Le variabili considerate sono quattro: il prodotto, se è di oreficeria o di
gioielleria, lo stile, l’essere marca per il consumatore e la fascia prezzo.
La distinzione tra oreficeria e gioielleria è rilevante in termini di tipo di
prodotto, processi produttivi e struttura economica delle aziende (si veda il
capitolo 5); gli operatori del settore sono sovente specializzati nell’una o
nell’altra produzione, anche se talvolta le collezioni sono miste. Marca e fa-
scia prezzo ci sembrano le variabili più critiche da utilizzare sia per l’impatto
che questo genere di variabili ha nella maggior parte dei mercati, sia per le
implicazioni che queste hanno sulla gestione dell’impresa e sulla sua capacità
di competere.
Abbiamo considerato inoltre lo stile, perché l’evoluzione del consumatore,
l’ingresso delle marche della moda e lo sviluppo del segmento dei clienti più
giovani hanno sicuramente creato spazi per prodotti caratterizzati da innova-
zione stilistica, rimettendo in discussione i canoni del settore.
129
Esso è presente e rilevante in ogni fascia prezzo, propone oggetti realizzati
con ispirazioni stilistiche varie. Esiste, e forse è destinato a crescere, un un-
branded di fascia alta e altissima (la pietra di valore fatta montare su disegno
del cliente o del gioielliere), anche se generalmente i prodotti anonimi più dif-
fusi appartengono alla fascia di prezzo medio (dove il prodotto di imitazione è
protagonista…) o l’unbranded più accessibile, caratterizzato di solito da un
gusto decisamente tradizionale. Nelle fasce più basse il prodotto è anonimo ed
è venduto a peso. Grande parte della produzione di catene rientra in questo
segmento. Qui sono presenti operatori di dimensioni significative. Le compe-
tenze che caratterizzano questo segmento sono tipicamente relative alla ge-
stione della produzione e al controllo dei costi.
Per quanto riguarda la distribuzione, tanto più il prodotto è unbranded, tan-
to più il ruolo del gioielliere è fondamentale: egli infatti in questo caso è
l’unico garante del valore del prodotto.
6
Nella moda il PAP è il segmento che viene immediatamente dopo l’Haute Couture, in termini
di prezzo e di esclusività.
130
Certamente questo segmento ha un potenziale di crescita in termini di do-
manda, anche se il consumatore può essere attratto da competitori forti rap-
presentati da marche provenienti dal mondo della moda. Le aziende che com-
pongono questo segmento generalmente si affidano ad una distribuzione selet-
tiva, con la presenza di qualche negozio monomarca, che contribuisce al-
l’immagine presso il consumatore.
Il prodotto di marca di prezzo medio e medio basso appartiene invece a tre
segmenti differenti dal punto di vista delle stile, dei materiali e della distribu-
zione.
I produttori della cosiddetta mini gioielleria, sono generalmente caratteriz-
zati da un stile classico-tradizionale e da una distribuzione ampia e non parti-
colarmente qualificata.
Vi sono le marche specializzate nei materiali non preziosi, nell’acciaio ad
esempio, che non sempre provengono dal settore. Il loro target di riferimento
sono i giovani, che vivono il gioiello come ornamento ed accessorio. Questo è
un segmento che appare in forte in espansione (Breil, Morellato, Nomination,
Rebecca…). Le aziende che fanno parte di questo gruppo propongono assor-
timenti differenziati soprattutto in termini di ampiezza delle collezioni e scelte
stilistiche, mentre sono notevolmente focalizzate in termini di prezzo.
Ed infine le catene di punti vendita, non ancora così diffuse nel nostro pae-
se, che propongono assortimenti molto ampi, appartenenti alla fascia di prezzo
più bassa (ad esempio Vendoro, Splendori).
131
Armani, che propone monili di argento e pietre dure, è un esempio di que-
sta impostazione.
I gioielli sono sempre stati tra le passioni di Gabrielle Chanel7 (si dice che
la stilista si facesse riprodurre, in oro e platino e pietre preziose, le più belle
creazioni della sua bigiotteria). Nel 1932, Gabrielle Chanel è scelta per in-
terpretare la ricchezza dei diamanti dall’Associazione dei Produttori Dia-
mantiferi: una mostra con le sue creazioni viene inaugurata a Parigi il 7 no-
vembre di quell’anno. I gioielli creati per quell’occasione rispecchiano tre
temi molto cari alla stilista: il nodo, la stella e la piuma. Ancora oggi, alcuni
di quei pezzi riprodotti sono proposti al pubblico. Inoltre, i gioielli creati per
la mostra presentano delle caratteristiche tecniche particolari: a parte l’uso
del platino (metallo per eccellenza raro, puro e prezioso), le chiusure non so-
no visibili, i colliers si trasformano in spille e bracciali, i girocolli diventano
diademi e i ciondoli si trasformano in clips.
Chanel, nel 1987, decide di avviare la produzione di orologi. Si tratta di o-
rologi gioiello, con brillanti, che rispettano la tradizione Chanel (caratterizzata
dall’assenza di licenze e di strategie di brand extention verso segmenti di mer-
cato “più accessibili”): qualità elevata, creatività, prezzo elevato. Gli orologi
vengono venduti ovunque. Nel 1993 Chanel lancia la gioielleria (nella boutique
di Place Vendôme al numero 7, dove già si vendeva l’orologeria) e nel 1997 si
apre la grande boutique al numero 18, dopo l’acquisizione da parte di Chanel
dell’intero palazzo. Oggi le collezioni sono basate appunto su modelli storici
(al limite rivisitati) e su nuove proposte più moderne, che richiamano diversi
stili, sempre legati alla storia di Mademoiselle. Vi è una laboriosa e attenta ri-
cerca per pietre e perle, volta a utilizzare varietà preziose e rare. Le collezioni
sono studiate da un team di designer di alto livello, legati a laboratori francesi
specializzati in creazioni di grande manifattura. La divisione orologeria e
gioielleria ha il suo quartier generale a Place Vendôme, mentre la direzione
della moda, degli accessori e dei bijoux (supervisionate da Karl Lagerfeld)
hanno una sede diversa, in Rue Cambon.
Ogni anno si aggiungono nuove creazioni, che vanno ad ampliare le colle-
zioni esistenti, che ruotano comunque intorno a temi e soggetti legati alla tradi-
zione Chanel. Le collezioni sono: Cometes, Matelassèe (ispirata alla “trapun-
tatura” delle borse Chanel), Camelia (il fiore preferito da Coco Chanel), Ma-
demoiselle (che racchiude i simboli più cari di Coco Chanel), Coco (composta
principalmente da gioielli di ispirazione barocca-bizantina), Engagement Bri-
dal, Elements, Divers.
7
Si veda: F. Baudot, Chanel Joaillerie, Editions Assouline, Parigi, 1998.
132
L’orologeria e la gioielleria sono vendute esclusivamente nelle gioiellerie
Chanel (o presso concessionari, solo per quanto riguarda gli orologi) in tutto
il mondo (ad oggi si contano 30 monomarca, di cui 5 flagship a Parigi, Mila-
no, New Jork, Londra e Tokio). La strategia è chiaramente definita: si sono
conquistate una legittimazione e uno spazio nell’alta gioielleria, dove i con-
correnti di riferimento sono le grandi marche storiche (Cartier, in primis)8.
Dior Joaillerie viene lanciata nel 1998. I gioielli delle collezioni sono ven-
duti esclusivamente nelle boutique monomarca (insieme alla altre collezioni
Dior), che ad oggi sono 41 (tra Europa, Usa, Giappone e Far East) e in spe-
ciali corner (come ad esempio da Harrod’s). A Parigi vi sono anche due
gioiellerie Dior. Vengono presentati in spazi ad hoc, in modo da richiamare
l’ambiente di un castello, per rispecchiare così il sogno, la fiaba, l’essenza
romantica che la marca vuole rappresentare.
La creatrice di Dior Joaillerie, Victoire de Castellane, ha lavorato per 14
anni da Chanel, disegnando la custome jewellery con Karl Lagerfeld. Le col-
lezioni proposte sono variegate, sia per quanto riguarda le fasce prezzo che
per lo stile e i motivi ispiratori, che riprendono comunque i soggetti e i temi
sviluppati a suo tempo da Christian Dior. Vi sono anche piccole serie limita-
te, che non vengono riprodotte, mentre i “pezzi unici” in collezione possono
essere acquistati su ordinazione dei clienti. La produzione è realizzata in
Francia, presso laboratori specializzati, gestiti dalla casa madre.
Le dodici linee in cui è declinata la proposta Dior Joaillerie esprimono in
modo immediato i motivi ispiratori della gioielleria: Les Ludiques, Les E-
xcentriques, Les Codes Dior, Les Gri Gri, Le Bestiaire Fantastique, La Cou-
ture, Milly la Foret, La Fiancèe du Vampire, Le Harem, Le Coffret de Victoi-
re, les Petites Séries Limitèes, les Suivez-Moi. Vi sono parure classiche, ele-
ganti e semplici, altre con forme più moderne, altre volutamente “spiri-tose”,
eccentriche o stravaganti, altre ancora estremamente ricercate nella forma,
nei colori, nei soggetti, nelle pietre colorate di grandi dimensioni attorno alle
quali prende forma la fantasia della designer. Ogni anno si aggiungono dei
nuovi gioielli.
L’offerta è strutturata in quattro fasce prezzo: small (da 400 a 2000 euro),
middle (fino ai 13.000-14.000 euro), high e special orders (a salire). Tutte le
linee riscuotono un notevole successo: tra il 2002 e il 2004 la crescita del fat-
turato è stata pari al 50%9.
Louis Vuitton è presente nel mondo del gioiello dal 2002, quando, per le
vendite natalizie, si realizza un braccialetto con una maglia particolare, con
8
Si ringrazia Raffaella Milione per le informazioni fornite.
9
Si ringrazia Susanna Barbuio per le informazioni fornite.
133
una serie di ciondoli legati al mondo LV e a Parigi. L’idea è quella di pro-
porre collezioni di alta gioielleria, a sé stanti rispetto al mondo della moda,
ma supervisionate da Marc Jacob, art director della griffe. La gamma si ar-
ricchisce di alcune proposte, essenziali e moderne e, a settembre 2004, viene
presentata la nuova collezione Emprise, che si articola su tre temi: Clou
(chiodo), Mini Malle (baule), Fleur (fiore), combinando, con l’oro e i dia-
manti, pietre colorate, ottone, cuoio, legno. La collezione è composta da
gioielli particolari, nuovi, d’impatto (nel tema Fleur vi sono orecchini asim-
metrici e anelli “smisurati”): si parte da articoli sotto ai 1.000 euro, per rag-
giungere cifre notevoli, superiori ai 100.000 euro.
La distribuzione avviene esclusivamente nelle boutiques LV (come del re-
sto per tutte le altre collezioni LV), ma non in tutte le boutiques è possibile
acquistare i gioielli, mentre la presenza della custome jewellery, più legata
alla moda, è più ampia. La strategia, ad oggi, è quella di una crescita nel
tempo, legata ad una legittimazione progressiva nel mondo della gioielleria10.
Le due strategie descritte esprimono due alternative (estreme) di posizio-
namento, che non necessariamente si precludono nel tempo, come dimostra il
caso Gucci.
La presenza di Gucci in gioielleria inizia intorno al 1998, con prodotti e-
sclusivamente in argento a prezzi decisamente accessibili.
Nel 2001 Gucci implementa un piano per l’ingresso nel mercato della
gioielleria con la progressiva introduzione di prodotti in oro e oro e pietre
preziose.
Oggi questi rappresentano oltre il 70% dell’offerta con una etichetta me-
dia intorno a 750-1.500 euro. Il restante 30% è invece costituito da argento
con pietre dure e semipreziose.
Il design di questi prodotti è di Frida Giannini (Direttore Creativo degli
accessori Gucci) ed è evoluto da uno stile molto lineare, semplice e pulito
verso qualcosa di più sensuale, femminile e fortemente caratterizzato da quel-
li che sono i segni iconici del design Gucci quali ad esempio l’Horsebit ed il
Bambolo. La produzione è affidata ad aziende italiane presenti nell’area di
Valenza, Firenze ed Arezzo. La distribuzione dei gioielli è quasi esclusiva-
mente attuata nelle boutique monomarca e in un ristrettissimo network di
gioiellerie indipendenti. Il futuro vedrà Gucci sempre più presente nel settore
gioielleria con un conseguente aumento dell’offerta di prodotti preziosi, un
innalzamento dell’etichetta media ed un maggiore focus distributivo nei pro-
pri punti vendita con l’apertura di veri e propri negozi di gioielleria11.
10
Si ringrazia Jean Battiste Debains per le informazioni fornite.
11
Si ringrazia Alessandro Fabrini per le informazioni fornite.
134
Le marche che hanno origine da settori diversi (dall’orologio all’ogget-
tistica) hanno perseguito strategie di brand extension mantenendo una forte
coerenza con il vissuto originario della marca e le specifiche competenze: i
cristalli per Swarowski; il vetro per Lalique; il colore, la fantasia, l’allegria
per gli accessori Swatch; l’aggressività e la modernità per gli accessori Breil;
la qualità, la tradizione, la classicità per i gioielli Piaget e Chaumet. Queste
marche sono presenti quindi nelle diverse fasce e con proposte stilistiche for-
temente differenziate.
Rispetto ad un target di giovani e teenagers, alcune di queste sono in com-
petizione con i brand di oreficeria/gioielleria del segmento accessibile per il
portato simbolico simile.
Il prezzo è una variabile fondamentale nel processo di acquisto; la concor-
renza si svolge infatti all’interno di una determinata fascia prezzo, dove poi la
marca, il prodotto e la distribuzione giocano ruoli diversi. Per tutti i segmenti
individuati all’interno della matrice la gestione del pricing sta diventando
sempre più indispensabile. È necessario definire in maniera univoca la linea
prezzi, il prezzo massimo ed il core price della collezione, cioè il prezzo al
quale corrisponderà il maggior numero di gioielli. Questa decisione è un ele-
mento determinante all’interno del brief sui prodotti poiché segmenta i con-
sumatori ai quali l’azienda intende rivolgersi e le occasioni d’acquisto che in-
tende soddisfare. In termini di pricing le strategie perseguibili sono sostan-
zialmente due: la costruzione della collezione all’interno di una linea di prezzi
corta, cioè tutti i prodotti della collezione che appartengono alla stessa tipolo-
gia (anelli, bracciali, collane) sono compresi in un ambito di prezzi ristretto e
ben definito, oppure una linea di prezzi lunga, cioè con una differenza sensibi-
le tra il prezzo più alto e quello più basso.
Nel primo caso la segmentazione è molto precisa, l’abilità dei creativi e di
chi gestisce l’industrializzazione è determinante per riuscire a creare il mag-
gior valore percepito nell’ambito della fascia di prezzo ed il risultato è certa-
mente una maggiore chiarezza nelle argomentazioni di vendita nei confronti
della distribuzione. La seconda soluzione è particolarmente indicata per a-
ziende che hanno un posizionamento sul mercato ben individuato e che inten-
dono estendere il loro target di consumatori verso gruppi più giovani o, più in
generale, vogliono utilizzare la marca per conquistare nuovi segmenti. Per le
marche di grande tradizione orafa questo è uno dei temi strategici più attuali:
la possibilità di proporre oggetti di lusso “accessibile”, anche se tale visione
non è condivisa e perseguita da tutti. Nel caso di linee prezzo lunghe, la posi-
zione del core price è determinante per i volumi: infatti, se questo è vicino al
prezzo più basso, vi è la possibilità di sviluppare le quantità; nello stesso tem-
po è possibile accrescere l’immagine della marca con prodotti di grande im-
patto creativo, corrispondenti al prezzo più alto.
135
Lo stile e le scelte relative al prodotto nel suo complesso (stile, materiali,
tipologie, ecc.) sono l’ambito immediatamente complementare alla gestione
delle politiche di prezzo. Questo fattore è critico per l’identità dell’azienda
perché attraverso la continuità stilistica (o costanti innovazioni incrementali
dello stile) si può rafforzare l’identità di marca; inoltre la scelta di aderire a
trend estetici che si trovano in una fase di sviluppo ha immediate implicazioni
sui volumi di vendita. L’innovazione stilistica consente, se incontra il favore
del consumatore, un premium price che deve essere sempre in grado di pagare
i costi della differenziazione attraverso una politica basata sui margini unitari
o sui volumi di vendita. Per quanto riguarda un approfondimento in merito al
tema delle scelte estetiche si rimanda al capitolo 9.
Per le aziende della moda e per quelle che provengono da altri ambiti, che
non hanno una tradizione e una storia nel settore (pur disponendo di altre risorse
e competenze critiche), il processo creativo e l’industrializzazione del prodotto
sono determinanti. La brand extension non è un processo che porta automati-
camente al successo, come l’esperienza dimostra, ed il gioiello, come avviene
nella maggior parte dei casi, ha i suoi canoni e le sue regole per cui non è facile
ottenere la legittimazione dal mercato, pur possedendo una marca forte.
Combinando la variabile marca e la fascia prezzo, si individuano una serie
di segmenti, per alcuni dei quali si possono elaborare alcune riflessioni speci-
fiche rispetto al comportamento delle aziende del settore.
Per quanto riguarda le marche di gioielleria, a nostro avviso poche azien-
de italiane hanno percorso la strada della presenza su fasce prezzo diverse, o
articolando la loro offerta in linee, ciascuna con un nome specifico, o svilup-
pando la collezione. Crediamo che ciò sia principalmente dovuto al fatto che
le nostre aziende si sono caratterizzate sempre per l’uso di determinati mate-
riali e di specifiche tecniche di manifattura; il prezzo nasceva come conse-
guenza di tali scelte.
Nell’ambito del gruppo delle aziende unbranded, soprattutto quelle di fa-
scia media e bassa, le opzioni strategiche perseguibili sono legate da una parte
alla delocalizzazione produttiva, che è una scelta onerosa e certamente com-
plessa, ma che può consentire una maggiore aggressività in termini di prezzi.
Dall’altra c’è la possibilità di produrre per conto terzi o di porsi al servizio di
una o più organizzazioni distributive. Anche in questo caso è necessario pun-
tare sulle proprie competenze distintive, concentrandosi su ciò che si sa fare
meglio, dopo aver individuato ciò che è importante per il mercato. La scelta di
eccellere in un fattore critico, che sia una specializzazione di prodotto o un
certo tipo di servizio può consentire di creare valore per il cliente intermedio e
di far nascere una presenza più definita e puntuale nel panorama dell’offerta.
La aziende invece che hanno intrapreso il percorso della creazione della
marca o che hanno intenzione di farlo, a qualunque segmento di prezzo deci-
136
dano di appartenere, devono innanzi tutto individuare le proprie competenze
distintive impegnandosi costantemente per raggiungere in questo ambito livel-
li di eccellenza. È necessario inoltre che il management formuli un progetto
chiaro, perfettamente definito in termini di segmenti di clienti, tipologie di
prodotto, prezzi, servizi, modelli organizzativi e così via. L’esperienza inse-
gna che un business plan adeguatamente preparato è un indispensabile stru-
mento che consente di tenere la rotta o di individuare per tempo gli inevitabili
errori. Si tratta di un percorso che richiede archi temporali adeguati e che ge-
neralmente produce risultati apprezzabili nel medio periodo, quindi deve esse-
re posta molta attenzione alle risorse umane ed economiche disponibili, per
evitare di dover rallentare o fermare il processo o per non essere indotti a cer-
care scorciatoie, che inevitabilmente rischiano di vanificare l’azione. La com-
petizione si svolge su diversi fronti: il prodotto in primis, bisogna perciò defi-
nire chiaramente la propria identità e le modalità con cui si intende trasferirla
al mercato, considerando con attenzione le tendenze in termini di valori socia-
li e di stili. È necessario evitare la tentazione di produrre di tutto pur di vende-
re, poiché ciò va a discapito della chiarezza del progetto, ed investire in com-
petenze di marketing per conoscere meglio le tendenze e segmentare il cliente.
Grande attenzione deve essere posta alla gestione della rete distributiva: il
punto vendita ha bisogno di progetti, anche se non sempre ne è cosciente, per
ricoprire meglio il proprio ruolo imprenditoriale. A fronte di un programma
chiaro e perseguito con costanza è sempre possibile trovare partner che condi-
vidano i nostri interessi.
Dal punto di vista delle problematiche di carattere generale uno degli a-
spetti fondamentali per tutte le aziende del settore è l’internazionalizzazione
commerciale e produttiva. Non è più sufficiente avere clienti nelle diverse na-
zioni, bisogna costruire un sistema di relazioni più articolato e diretto, basato
su un approccio manageriale con la distribuzione.
È necessario conoscere e segmentare la potenziale clientela e la distribu-
zione, investire nella comunicazione della propria identità, continuare a punta-
re sul prodotto e sull’innovazione. Non esistono segmenti di mercato che sia-
no più promettenti in assoluto: il successo della singola azienda si basa sulla
coerenza degli elementi che caratterizzano la sua strategia.
Le questioni di fondo, del capitolo 9 propongono spunti di riflessione utili
per tutte le aziende, soprattutto per quelle che sono impegnate a realizzare una
puntuale strategia di differenziazione.
137
Parte terza – Questioni di fondo
Premessa
139
140
7. Il gioiello italiano nel mondo
di Luana Carcano
142
Tale flessibilità produttiva, collegata alle ridotte dimensioni aziendali e al
ricorso all’esternalizzazione, potrebbe non rappresentare più in futuro un ele-
mento di forza su cui costruire un vantaggio ma un freno, per esempio, alla
possibilità di acquisire nuovi clienti di grandi dimensioni e di incrementare i
volumi produttivi, passando da una produzione artigianale ad una industrializ-
zata, pur nel rispetto della tradizione manifatturiera italiana.
Nel confronto comparativo europeo, l’Italia occupa posizioni di rilievo an-
che con riferimento agli indicatori di produttività mentre il valore aggiunto
per addetto italiano risulta più basso rispetto alla media europea e al valore
francese, appunto perché le nostre aziende fanno maggior ricorso al decen-
tramento e alla subfornitura. Tale valore aggiunto comprende la remunerazio-
ne del capitale – dell’imprenditore e dei suoi coadiuvanti familiari – ed il co-
sto del lavoro, ovvero la quota associata ai dipendenti comprensiva anche dei
contributi sociali a carico dell’impresa.
L’incidenza percentuale del costo del personale (pur in presenza di un peso
dei contributi sociali sostanzialmente similare) sul valore della produzione ri-
sulta inferiore non solo al dato francese ma anche alla complessiva media eu-
ropea, così come il costo del lavoro per addetto.
Con riferimento al margine lordo sui beni rivenduti, il valore italiano, pur
se nettamente superiore agli altri concorrenti europei, risulta circa la metà di
quello francese. Le aziende francesi hanno saputo storicamente supportare la
propria politica di marca con l’apertura di negozi monomarca che di fatto con-
sentono alla produzione di appropriarsi anche dei margini della distribuzione.
D’altro canto però la redditività del punto vendita rappresenta poi un altro e-
lemento da tenere in giusta considerazione.
Le imprese italiane invece, utilizzando il canale distributivo lungo, ricor-
rono in prevalenza ad intermediari commerciali per distribuire i propri prodot-
ti; questo di fatto limita il mark-up a disposizione delle aziende di produzione,
però nel contempo consente di avere una distribuzione più ampia.
Le aziende orafe nazionali infine sono quelle che, in Europa, presentano un
tasso di investimento relativamente più alto, sia rispetto a paesi storici come
Germania e Francia sia a quelli emergenti ed in crescita come la Spagna.
Come ben emerge dalla tabella precedente, parlare di orafo in Europa, in
termini di produzione e di fatturato, significa parlare di Italia. Le aziende ita-
liane dovrebbero inoltre considerare la comunità europea come un unico
grande mercato, per riuscire ad affermare la leadership finora riconosciuta
prevalentemente a livello produttivo, anche sui mercati di consumo.
143
Tab. 2 – L’Europa nel commercio mondiale di oro (quota)
Macro aree 1995 2003
Europa 57% 44%
di cui Italia 30% 18%
Asia 27% 36%
di cui India 3% 9%
America 3% 10%
Altre 13% 10%
Fonte: SDA Bocconi su dati Comtrade.
Analizzando le quote sul commercio mondiale di oro per macro aree geo-
grafiche, si nota come nel periodo in esame l’Europa, nel suo complesso, ab-
bia perso circa il 15% di quota a favore dell’Asia e del Nord America.
Il calo europeo è da attribuirsi in prevalenza a quello italiano e svizzero,
mentre Francia, Germania e Gran Bretagna hanno mantenuto invariata la loro
quota, accrescendo, in proporzione, la propria importanza.
L’incremento nord americano è legato principalmente agli Stati Uniti (che
hanno triplicato la quota propria nel periodo in esame) mentre quello asiatico
all’incremento di quota della Corea e dell’India. La Tailandia e la Cina invece
hanno conservato invariate le proprie quote, anzi la Cina dal 2000 al 2003 ha
registrato un calo. È bene precisare che il dato si riferisce sia ai prodotti finiti
sia alle parti e quindi non consente di distinguere l’incidenza dei semilavorati.
Se da un lato le condizioni ambientali sono state negli ultimi dieci anni po-
co favorevoli, sia per il declino registrato dalla domanda interna europea sia
per il lieve peggioramento dei flussi commerciali con l’estero, dall’altro le a-
ziende italiane sembrano non aver saputo cogliere le opportunità di crescita in
altri mercati a maggior sviluppo, attraverso strutturate strategie di internazio-
nalizzazione.
Partendo dai risultati emersi dall’analisi sul settore e dal confronto europe-
o, le riflessioni successive si concentreranno su due macro aree che appaiono
di rilevante importanza per lo sviluppo del settore: l’importanza del sistema
paese e la sfida dell’internazionalizzazione.
144
pende invece dall’estero sia per la fornitura di metalli preziosi sia per la lavo-
razione ed il taglio delle pietre.
Come emerso dalle analisi precedenti, l’Italia conserva la quota maggiore
di scambi nel commercio internazionale, sia di oro sia di argento, seguita dagli
USA. È importante notare che finora il “Sistema Paese” Italia ha beneficiato
di un vantaggio competitivo a livello di nazione, legato alla combinazione fa-
vorevole di diversi elementi: la dinamica della domanda interna, la presenza
di forti settori correlati, la competizione interna (fig. 1).
Strategia, struttura e
rivalità delle imprese
1
M. Porter, Il vantaggio competitivo delle Nazioni, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 1991.
145
litare il successo internazionale di un’impresa. È poi la singola impresa che
deve ricercare il proprio vantaggio, attraverso soluzioni innovative e nuovi
modi di fare le cose, per esempio rinnovando i modelli o migliorando il pro-
cesso produttivo. Prima o poi sorgono nuovi concorrenti in grado di fare più o
meno le stesse cose; diventa quindi importante, per la singola azienda, conti-
nuare a migliorare, in un processo di cambiamento continuo.
Il vantaggio nazionale può aiutare le aziende a mantenere questa tensione
competitiva ed innovativa. È il contesto nazionale, per esempio, che può ren-
dere disponibili risorse e capacità specializzate rapidamente, fornire informa-
zioni e idee sui prodotti e sui processi. Se i clienti nazionali sono esigenti, so-
fisticati, competenti, le imprese sono stimolate ad innovare nei prodotti e nei
servizi, a migliorare continuamente, arrivando magari anche ad anticipare bi-
sogni futuri dei consumatori di altri paesi.
Ogni punto del diamante è collegato ad un altro con un effetto sistema che
può creare sia circoli virtuosi che viziosi. Per esempio, avere una clientela so-
fisticata non si traduce necessariamente nella realizzazione di prodotti com-
plessi, sempre nuovi, se poi le aziende non riescono ad interpretare le necessi-
tà della clientela stessa e a realizzare i prodotti richiesti dal mercato. In parti-
colare, la concorrenza interna è l’elemento del diamante che da sola tende a
promuovere il miglioramento anche degli altri fattori. Di fatto promuove la
formazione di industrie collegate e di supporto e spinge le aziende a creare e
lanciare nuovi prodotti sul mercato con rapidità per differenziarsi dai concor-
renti nazionali.
Applicando il diamante al settore orafo, si evidenzia come l’assenza di ma-
terie prime abbia rappresentato finora uno stimolo all’innovazione, supportata
anche dagli altri elementi del diamante. Le imprese orafe hanno potuto conta-
re inoltre sulla possibilità di reperire manodopera specializzata, su un mercato
interno sofisticato, su forti industrie collegate e di supporto, e sono favorite
anche dalla localizzazione in aree distrettuali specializzate.
Dei quattro elementi individuati, sia la presenza di settori correlati di alto
valore sia la forte concorrenza interna sembrano al momento aver perso la
propria forza propulsiva per il settore orafo italiano.
Una modalità utilizzata per contenere le tensioni competitive a livello
nazionale è stata la diversificazione geografica dei mercati di sbocco. Le
imprese italiane di oreficeria tendono a realizzare all’estero oltre il 25% del
loro fatturato in mercati minori2. Questa strategia però potrebbe aver portato
anche a una dispersione delle risorse su mercati non rilevanti per l’af-
fermazione di un posizionamento internazionale; ciò giustificherebbe la re-
lativamente ridotta notorietà dei brand italiani all’estero, che appare in forte
2
Prometea Srl, Oreficeria e gioielleria, Rapporto Prometea 2003.
146
contrasto se confrontata con l’importanza nel commercio internazionale as-
sunta dall’Italia.
Le aziende orafe italiane sono sempre riuscite a crescere all’interno del
trend positivo del mercato, ma sembrano non essere riuscite a consolidarsi in
posizioni competitive forti, tranne poche eccezioni. I mercati più evoluti ri-
chiedono alle aziende italiane prodotti in grado di attrarre i consumatori per-
ché “raccontano qualcosa di interessante e diverso dai prodotti locali”. Tutto
questo però comporta idee chiare, dimensioni ed investimenti.
Inoltre, la relativamente migliore redditività registrata dalle aziende non
presenti in distretti, potrebbe evidenziare il progressivo ridursi dell’im-
portanza delle realtà distrettuali che spingono in genere le aziende ad attuare
comportamenti simili. Le aziende non presenti in un distretto invece, meno
ancorate alla tradizione del territorio, agli usi e alle abitudini, sembrano più
propense ad implementare una strategia competitiva innovativa. La concen-
trazione territoriale che dovrebbe esaltare la concorrenza tra le imprese, sem-
bra invece, in questo periodo, essersi spostata maggiormente verso la coopeti-
zione, un misto di cooperazione e competizione.
Con riferimento ai settori di supporto, se le aziende più innovative tendono
ad essere localizzate in altri paesi, le imprese italiane fornitrici di macchinari
si rivolgono all’esterno. Diminuisce così il vantaggio collegato allo scambio
di informazioni, alla relazione continua di collaborazione con i fornitori, che
spesso crea innovazioni incrementali e soluzioni personalizzate, difficilmente
imitabili. Quanto pesa la tecnologia e quanto il know-how in questo mix? È
sufficiente esportare tecnologia per creare concorrenza potenziale?
Considerando invece le condizioni dei fattori, emerge invece come il set-
tore presenti processi produttivi consolidati; il successo di mercato è più
spesso legato ad un concetto di prodotto innovativo più che ad una nuova
tecnologia. Il prodotto deriva dalla capacità del saper fare, ovvero dal me-
stiere. È il mestiere, il saper fare, la capacità che maggiormente va difesa,
perché è più difficile da imitare da parte dei concorrenti. Cosa succederà
quando i “vecchi” maestri artigiani andranno in pensione?
Disporre di manodopera specializzata non è di per sé sufficiente a garantire
il successo anche in futuro, se questo valore non viene impiegato e potenziato
in funzione delle mutate esigenze. È il trasferimento di conoscenze, l’appren-
dimento basato sulle persone e non sulle macchine, la sfida da cogliere.
Un fattore rilevante sembrano essere le piccole dimensioni degli attori
(produzione e distribuzione) oltre che la scarsa propensione all’associazio-
nismo. In parte sembrerebbe quindi un problema di frammentazione. Un’al-
ternativa percorribile in questi casi è l’aggregazione, in teoria attuabile nel set-
tore attraverso i tre principali distretti. In pratica però i tre distretti non hanno
finora messo in atto sinergie strutturali; ognuno è rimasto focalizzato sulla
147
propria realtà, dando vita ad iniziative d’aggregazione a livello prevalente-
mente locale. La frammentazione sembra essere quindi non solo un problema
di tipo aziendale ma anche strutturale del sistema Paese.
Per concludere, la competitività dell’industria orafa nazionale deve essere
preservata anche sul mercato nazionale perché è il contesto interno che deve
mantenere il ruolo di propulsore dinamico verso il futuro. Le differenze na-
zionali fra culture, valori, strutture economiche possono contribuire al succes-
so di una singola impresa, ma la competitività della nostra industria orafa nel
suo insieme dipende fortemente dalla capacità delle singole imprese di inno-
vare e migliorare continuamente in una prospettiva internazionale.
148
La preziosità del platino deriva anche dal ridotto numero di miniere nel
mondo: ogni anno, in media, vengono trasformate in gioielli 2.700 tonnellate
di oro e 90 tonnellate di platino. Il platino può quindi essere considerato trenta
volte più raro dell’oro. Inoltre, per ottenere un’oncia, pari a 31,1 grammi, di
platino, occorrono 10 tonnellate di roccia; per ottenere la stessa quantità di oro
vengono estratte invece la metà delle tonnellate. Il platino si trova in pochis-
simi giacimenti al mondo (il rapporto con le miniere di oro è di 10 a 1), so-
prattutto in Sud Africa e Russia ed, in misura minore, in Canada e Sud Ame-
rica.
Inoltre la colorazione bianca del platino è naturale e le caratteristiche fisi-
che del metallo lo rendono la sede privilegiata per l’incassatura dei diamanti e
delle pietre preziose3. Tutti i gioielli antichi per eccellenza sono stati montati
in platino, come per esempio le uova di Fabergè, i pezzi in stile “ghirlanda” di
Cartier degli inizi del XX secolo. Anche alcune delle gemme più preziose,
come il diamante Koh-i-noor che fa parte dei gioielli della Corona inglese,
sono incastonate in platino.
Queste caratteristiche, di per sé, sono sufficienti per considerare il platino
il metallo per i gioielli di fascia alta e medio-alta.
Ci si aspetterebbe di trovare l’Italia nelle prime posizioni, ma dall’analisi
delle statistiche sull’uso di platino nella produzione della gioielleria, emerge,
invece, come la leadership sia detenuta dal Giappone, seguito dagli USA. Il
platino è il metallo più ricercato proprio nei mercati più avanzati (Giappone,
Nord America ed Europa) e sta crescendo l’interesse anche in Cina.
Da un punto di vista storico, l’uso della gioielleria in platino è diminuito
negli anni 30 quando il metallo fu calmierato. La richiesta riprese negli anni
60 proprio in Giappone che ben presto ne è diventato il mercato di riferimen-
to. In Europa, i consumi di gioielli in platino si affermarono successivamente,
negli anni 70, prima in Germania – dove le imprese nazionali riuscirono anche
a dare ai prodotti una maggiore connotazione stilistica, con l’introduzione del-
la finitura satinata – e poi in Italia e Svizzera. Negli anni 90 si è aperto il mer-
cato americano, soprattutto nel segmento fedi nuziali, e, a metà anni 90 anche
la Cina, dove il platino viene associato alla modernità.
Con riferimento ai dati sulla domanda di platino per la produzione di gioiel-
leria evidenziati in tab. 3, si può notare, nel decennio in esame, una progressiva
riduzione d’importanza del Giappone, una sostanziale stabilità dell’Europa ed
un incremento sia degli Stati Uniti (passato da 2 a 9 tonnellate) sia del resto del
mondo, tra cui in primis la Cina (passata da 4,5 tonnellate a 33,1).
3
Il platino presenta una densità ed un peso specifico che lo rendono più duraturo di altri metal-
li. È resistente agli acidi e al calore. Per questo il platino non si consuma e offre garanzie supe-
riori di sicurezza per l’incastonatura delle pietre.
149
È importante inoltre evidenziare come nel 2003 per la prima volta, dopo
oltre vent’anni, il prezzo del platino abbia superato la soglia dei 700 dollari
per oncia. Tale prezzo è determinato dalla domanda del metallo, dall’attività
speculativa e dall’acquisto delle società di investimento, oltre che dalle notizie
di vario genere provenienti dall’industria stessa.
Fonte: elaborazioni SDA Bocconi su dati Johnson Matthey (*) dato derivato dalle stime delle
vendite delle principali miniere di platino. (**) Il platino viene usato anche nel settore automo-
bilistico (fabbricazione marmitte catalitiche) e in medicina per le sue qualità anallergiche (pa-
cemakers).
150
ha reso difficile l’affermazione delle nostre aziende in questo segmento, men-
tre nuovi concorrenti stanno emergendo, tra cui la Cina.
Nonostante l’uso del platino nella gioielleria di altissimo livello sia storico,
è recente la diffusione del platino anche in prodotti più accessibili (come le
fedi o gli anelli di fidanzamento). Il platino rappresenta attualmente il metallo
di moda e giovane (insieme all’oro bianco). Non proporre nel proprio assorti-
mento o nella propria collezione oggetti in platino significa non aver colto il
trend e le richieste del mercato, ovvero essere rimasti ancorati alla tradizione
del metallo aureo.
151
opportunamente il più basso costo della manodopera e che propongono colle-
zioni con modesti contenuti di innovazione stilistica.
Negli ultimi anni, infatti, il mercato internazionale è diventato sempre più
competitivo. Si sta assistendo ad un progressivo aumento della concorrenza da
parte dei paesi asiatici (in particolare Thailandia e Vietnam per la gioielleria e
Turchia ed India per l’oreficeria) che possono contare sia su un minore costo
del lavoro, sia sulla vicinanza dei mercati di estrazione e lavorazione delle
materie prime, sia anche su agevolazioni doganali. La produzione di questi
paesi è per ora concentrata sulle fasce medio-basse, anche se la qualità dei
manufatti evidenzia un miglioramento progressivo.
La produzione cinese di oro è stata pari, nel 2003, a 24,1 miliardi di dollari ameri-
cani in valore ed il settore conta più di 5 milioni di addetti. Nonostante questi numeri,
4
L. Carcano, E. Corbellini, G. Lojacono, P. Varacca Capello, Il mondo orafo tra tradizione ed
innovazione, Etas, 2002.
152
però, il mercato cinese è ancora di difficile accesso per le imprese non cinesi. Le ven-
dite di prodotti orafi sono in aumento, ma gli oggetti contraffatti sono molto diffusi. Il
consumatore cinese deve essere educato, solo così il mercato locale potrà evolversi.
I consumatori statunitensi nel 2004 hanno speso circa 57,4 miliardi di dollari in
acquisti di gioielleria ed orologi. Le vendite di questi prodotti hanno conosciuto un
tasso di incremento superiore a quello di altri beni durevoli. Il pubblico di riferi-
mento si conferma prevalentemente femminile, tra i 20 ed i 50 anni, con un alto
reddito; però il retailer con il fatturato maggiore è risultato essere Wal-Mart. I seg-
menti a maggiore sviluppo sono stati, da un lato, l’alta gioielleria per il pubblico
femminile e l’orologeria per quello maschile e dall’altro il segmento della bigiotte-
ria e degli orologi fashion.
153
definendo nel contempo una strategia per i mercati emergenti. La sfida aperta
è proprio quella di riuscire a crescere in Europa e negli Stati Uniti.
La concorrenza internazionale comincia però anche a sentirsi sul mercato
nazionale. Dai dati sulle importazioni di prodotto finito, emerge come i seg-
menti più bassi, sia della gioielleria sia dell’oreficeria, tendano ad essere co-
perti da concorrenti provenienti da paesi a più basso costo della manodopera
ma a grande tradizione locale come l’India e la Tailandia.
In un decennio, le importazioni di prodotti finiti in Italia sono passate dal
10% al 25% del totale dei consumi nazionali. Per quasi la metà provengono
dall’Europa (di cui circa il 34% dalla Svizzera ed il 9% dalla Francia); seguo-
no l’Asia con un 15% e la Turchia da sola con un 13% in valore ed un 22% in
volume.
A differenza di quanto avviene in altri settori, il ricorso alla delocalizza-
zione produttiva è ancora scarso con l’unica eccezione delle fasi altamente
standardizzate. L’artigianalità che caratterizza la maggior parte delle fasi di
lavorazione, le serie di piccole dimensioni e la struttura familiare di per sé
rappresentano un vincolo allo spostamento di fasi di produzione fuori dai con-
fini nazionali.
L’investimento in delocalizzazione può trasformarsi in una modalità per
creare valore sia per il consumatore finale sia per l’azienda stessa. La riduzio-
ne dei costi di produzione, infatti, non deve necessariamente tradursi in una
riduzione di prezzo per il consumatore finale; l’azienda può sfruttare il diffe-
renziale con i costi produttivi, mantenendo invariati i propri prezzi, per inve-
stire in politiche di crescita. Il consumatore tende sempre di più ad acquistare i
prodotti che vengono comunicati – sia attraverso la pubblicità, sia dal gioiel-
liere di fiducia – ed esposti nelle vetrine. Raggiungere certe economie di sca-
la, diventa importante per assicurarsi le risorse da investire in creazione del
valore per il punto vendita e per il consumatore. Essere piccoli può trasfor-
marsi in un vincolo forte.
Se il gioiello è di buona fattura e livello qualitativo – come può avvenire
quando, per esempio, il prodotto viene realizzato fuori dai confini nazionali
ma su disegno del committente e con il controllo qualitativo effettuato in Italia
– al consumatore non interessa dove viene prodotto il gioiello.
Nell’immaginario collettivo, il gioiello è “Made in Italy”, ma quanti sono i
clienti che controllano la punzonatura (ovvero l’identificativo di fabbrica)
prima dell’acquisto? La marca del produttore, l’insegna del punto vendita o la
competenza del gioielliere rappresentano la garanzia principale per l’ac-
quirente.
La delocalizzazione inoltre non deve essere pensata solo in termini di ridu-
zione di costi aziendali e di differenziali nei costi di manodopera. Nel proces-
so decisionale entrano altri aspetti, come per esempio, la gestione ed il costo
154
della logistica, per prodotti a basso volume, e la necessità di polizze assicura-
tive ad hoc. Le opportunità che un’area geografica potrebbe offrire, la tipolo-
gia di prodotto che si pensa di realizzare, le caratteristiche della distribuzione
locale sono altri elementi che devono essere considerati e valutati.
Il centro decisionale, le funzioni vitali, devono essere mantenute in Italia,
così come tutte le competenze (tecniche, di design, di ricerca) chiave per
l’azienda, ma le fasi a minor valore aggiunto possono essere spostate in altri
mercati, senza per questo minare, agli occhi dei consumatori, la credibilità del
prodotto che viene offerto e la competitività del territorio stesso.
La sfida da cogliere è quella di riuscire a capitalizzare l’intuizione geniale
dell’imprenditore all’interno di strutture manageriali, pur se di proprietà fami-
liare. Il salto che la competizione internazionale richiede alle aziende italiane
è quello di riuscire ad associare alla creatività e alla spontaneità – tipicamente
artigianali, che finora hanno caratterizzato le iniziative nazionali – la dimen-
sione e la cultura da industria.
155
8. Il valore del gioiello Made in Italy
di Erica Corbellini∗
∗
Erica Corbellini è docente dell’Area Strategia presso la SDA Bocconi, dove insegna manage-
ment della moda. Si occupa del processo di comunicazione con particolare riferimento alle im-
prese che producono beni ad elevata intensità simbolica (moda, gioielleria, cosmetica).
1
Per un’analisi più dettagliata si rimanda al capitolo: “Il settore orafo in Italia: situazione attua-
le e trasformazioni strutturali”.
2
Fonte: Confindustria 2004.
157
problema di dimensioni3, che ne sottintende un altro di assenza di manage-
ment e risorse finanziarie. La creazione di marche rappresenta una soluzione
per alcune aziende ma non può essere la risposta per l’intero comparto mani-
fatturiero (anche perché la marca tende ad essere apolide: nel Made in Gucci,
per esempio, c’è in parte l’Italia ma c’è, anzitutto, il potere della marca). Di-
fendere il prodotto orafo Made in Italy dovrebbe significare, infatti, difendere
anche la maggioranza di volumi di oro trasformato legati alla produzione di
catename unbranded e di fascia media. Con un problema di fondo: diversa-
mente da quanto avviene nella moda (abbigliamento e accessori) il marchio
Made in Italy non sembra essere un elemento qualificante per il consumatore
finale.
Non solo l’assenza di marche priva il prezioso italiano di quegli elementi
simbolici ed emozionali che sono oggi il vero cardine del premium price, ma
il Made in Italy nel gioiello non viene utilizzato neppure come certificatore di
qualità in un ruolo informativo. L’identità del prodotto orafo italiano, univer-
salmente riconosciuta dalla distribuzione (per anni Made in Italy è stato sino-
nimo di eccellenza indiscussa nella produzione), è scarsamente o per nulla
percepita dal consumatore finale.
L’Italia del gioiello non è riuscita a controllare la distribuzione, vista al più
come un cliente da finanziare (e il risultato è che oggi il mercato penalizza i
produttori italiani, sostituendoli nella fornitura, senza peraltro saldare gli e-
normi debiti accumulati nei loro confronti) e non, invece, come un partner da
fidelizzare investendo per crescere insieme. Ciò anche perché non è mai stato
comunicato istituzionalmente il concetto del gioiello Made in Italy. Così le
sorti del settore orafo sembrano essere un tema solo per gli addetti ai lavori:
operatori, associazioni e stampa specializzata. Non interessano ai consumatori
finali che, diversamente da quanto avviene per la moda non sono consapevoli
dell’importanza del settore per l’economia del paese. E, storicamente, poco
hanno contato anche per la politica, basti pensare che l’Italia, il principale
produttore orafo europeo, non è nemmeno riuscito a far accettare a livello in-
ternazionale i propri standard sulla punzonatura4 (si veda, a tal proposito,
l’allegato “Tutelare il Made in Italy: la lunga battaglia del settore orafo”).
Siamo un paese con la vocazione a produrre per terzi? Forse... finché ce lo
lasceranno fare.
3
Per approfondimenti si veda il capitolo 4.
4
Il termine punzonatura indica il marchio impresso sul prodotto finito che riporta il contenuto
di metallo prezioso presente nell’oggetto e il numero identificativo del produttore attribuito dal-
lo Stato. Il punzone viene applicato dall’azienda sotto la propria responsabilità, ovvero non esi-
stono forme di controllo obbligatorio da parte di enti terzi per la validazione dei contenuti dei
titoli dei metalli preziosi.
158
8.2. I tratti distintivi del prodotto orafo Made in Italy: una
creatività che deriva dal saper fare
5
S. Saviolo, “Made in Italy e innovazione”, Economia & management, 5/2004.
159
che necessita di un’educazione alla grande varietà e alla preziosità intrinseca e
non ostentativa6.
Alla luce di quanto esposto, esiste un gioiello Made in Italy? E quali sono i
suoi tratti distintivi?
Così come nella moda il Made in Italy trova tante espressioni quanti sono i
modi di interpretare il bello (e lo spirito dei luoghi che ne costituiscono
l’ispirazione) – dalla Magna Grecia di Versace, all’eleganza sofisticata mila-
nese di Prada e Giorgio Armani, dall’esuberanza fiorentina di Roberto Caval-
li, al barocco siciliano di Dolce & Gabbana – anche il gioiello italiano non si
identifica con nessuno stile preciso, pur avendo un tratto comune nella con-
temporaneità. Il Made in Italy nell’orafo è, soprattutto, eccellenza manifattu-
riera: prima ancora della maestria artigiana di Gianmaria Buccellati o del lus-
so audace di Bulgari, l’oreficeria italiana si identifica con realtà come Crova o
Vendorafa che producono per i marchi più prestigiosi a livello mondiale. Un
primato manifatturiero nato dall’aver saputo interpretare con fantasia dei vin-
coli (la possibilità di passare dal prototipo all’industrializzazione) estrema-
mente rigorosi. È, pertanto, un’intelligenza che deriva dal saper fare: non solo
creatività ma anche capacità di industrializzare tale creatività (che è pure un
atto creativo).
Quello tra un indotto fatto di artigiani e un prodotto prevalentemente indu-
striale è un equilibro difficile. Da una parte l’impossibilità di generare volumi
del laboratorio artigiano, dall’altra il rischio di standardizzazione produttiva
della catena industriale. E proprio la capacità di conciliare gli opposti – ren-
dendo applicata la creatività e combinando i volumi con la qualità – è la ra-
gione di successo del sistema Italia. Quella italiana è una produzione concet-
tualmente artigiana che ha saputo poi industrializzarsi: più che un prodotto in-
dustriale è un prodotto realizzato. L’imprenditore orafo non è uno stilista ma
un artigiano che conosce sia l’oro sia la meccanica e che, proprio in virtù della
conoscenza tecnica, è in grado di inventare dei prodotti creativi. È una creati-
vità sistemica, dove le invenzioni (dalle leghe per vendere titoli diversi dai 18
carati al girocollo che pesa due grammi) sono sempre state il risultato tanto
della competenza sulle caratteristiche del metallo degli orafi quanto delle co-
noscenze tecniche di chi produceva i macchinari. È una capacità di innovazio-
ne incrementale, di continuo affinamento della tecnologia, di ridisegno dei
processi, con il fine di aumentare la qualità della lavorazione, trovare nuove
combinazioni dei materiali ed effetti estetici, ottenere diversi pesi, migliorare
il rapporto qualità/prezzo. È anche un’innovazione che, non essendo quasi mai
6
Per una disanima più articolata del concetto di Made in Italy, si rimanda a: E. Corbellini, S.
Saviolo, La scommessa del Made in Italy, Etas, 2004.
160
brevettabile, ha permesso agli altri di entrare in corsa e raccogliere senza so-
stenere i costi di sviluppo.
Creatività applicata, innovazione, dinamismo, contemporaneità: questi i
tratti distintivi del prodotto orafo italiano. Peccato che, con l’eccezione di al-
cuni singoli, il sistema non sia stato in grado di “griffarli”. Il risultato è che
nel gioiello la denominazione di origine assume scarsa o nulla rilevanza sim-
bolica per il consumatore finale. Anche nella moda il Made in Italy è un con-
cetto che è stato codificato anzitutto dagli stranieri (i grandi department store
americani). Nel settore orafo, però, diversamente dall’abbigliamento e dai
suoi accessori derivati, è mancato il volano di immagine degli stilisti. Il terzi-
smo, una fase fortemente correlata al brand del Made in Italy (e non solo
nell’orafo), non ha un’identità. Sostituita nelle vetrine della distribuzione in-
ternazionale, l’Italia della gioielleria ha perso la capacità di fare tendenza.
Uno dei motivi più importanti della mancata comunicazione del gioiello
Made in Italy è da ascriversi all’assenza di marche. Il marchio ombrello può,
infatti, certificare la qualità ma sono poi i marchi che veicolano, anche a bene-
7
Francesco Minoli, in un’intervista all’autrice in data 02/11/2004.
161
ficio dell’intero sistema, quegli elementi simbolici ed emozionali su cui si
fondano gli immaginari. La scarsità di marchi è un problema che riguarda non
solo l’Italia ma la gioielleria in generale: i nomi di reale prestigio e diffusione
internazionale si contano sulle dita di una mano (Bulgari, Cartier, Tiffany e
pochissimi altri).
Degno di nota è, poi, il fatto che i pochi grandi marchi della gioielleria fos-
sero all’origine dei retailer che commissionavano i loro prodotti ad artigiani, e
non dei produttori. Un modello di business lontano da quello tipico del siste-
ma Italia ma condiviso da tutti i grandi nomi francesi: Boucheron, Chaumet,
Van Cleef & Arpels, Cartier sono tutti gioiellieri che hanno creato la marca
sul punto vendita.
Cartier è, anzitutto, Cartier Paris; poi Rue de la Paix 1847 la prima bouti-
que; infine i grandi clienti: dalle corti (le imperatrici austriache, le regine in-
glesi, i granduchi russi, i principi persiani, i maragià indiani), a “les nouveaux
riches” (i banchieri, gli industriali, le ereditiere americane), fino allo star sy-
stem hollywoodiano (il diamante Taylor-Burton). È l’esaltazione dell’imma-
ginario francese: gioielleria (e non oreficeria come in Italia, è la pietra
l’elemento cardine); Parigi e, in particolare, due luoghi, Rue de la Paix e Place
Vendôme; il sogno e il superlusso.
L’immaginario di riferimento francese, anche nei gioielli, è quello della
haute couture, della creazione su misura per l’occasione speciale rivolta a po-
chissime privilegiate dove lo sfarzo e l’esteriorità sono ai massimi livelli. In
realtà è più un percepito che una reale fotografia: così come la couture assurge
oggi al ruolo di mero evento comunicativo, una provocazione creativa che o-
gni stagione, tramite la stravaganza delle sue proposte stilistiche, deve accen-
dere i riflettori sul marchi al fine di giustificare la vendita di profumi, alcolici
e borse griffate, ugualmente nel gioiello il marchio blasonato aiuta a costruire
la leva aspirazionale ma poi la maggior parte del business viene realizzata con
etichette medie molto più accessibili.
Anche Bulgari è all’origine un retailer che è diventato marca nel periodo
della dolce vita quando tutto lo star system ruotava intorno a Roma. Analogo
è il percorso seguito dalle marche svizzere: Chopard serviva dalla piazza di
Ginevra i clienti arabi.
Orfane dei principi di Place Vendôme e delle star Hollywoodiane di Bul-
gari e dei marchi americani, la maggior parte delle imprese orafe italiane – per
natura produttori e quindi non visibili – non ha trovato nessun concetto, nes-
suna eredità del Made in Italy alla quale ancorare la propria immagine.
Milano Collezioni e il Salone del Mobile hanno un’eco fortissima sui con-
sumatori finali; Vicenza è una fiera specialistica per addetti ai lavori. Il gioiel-
lo lo indossano i consumatori ma è come se le imprese vedessero il mercato
solo come un business to business.
162
8.4. Rimettere l’azienda di produzione Italia al centro dell’at-
tenzione
8
Federorafi (la Federazione Nazionale Orafi Gioiellieri Fabbricanti) è attivamente impegnata
nella salvaguardia degli interessi del settore manifatturiero e nella promozione della ricerca e
dell’internazionalizzazione del settore. Tra le iniziative più recenti si ricorda l’istituzione della
Federazione dell’accessorio insieme alle associazioni di categoria della pelletteria, delle calza-
ture e degli occhiali con l’obiettivo di portare avanti operazioni congiunte di promozione. Si
ringraziano Alessandro Biffi e Stefano De Pascale per le informazioni fornite con riguardo
all’allegato 1.
163
affari) per il gioiello, nella consapevolezza che un’immensa opportunità nei
mercati mondiali è quella di rappresentare la città Italia.
Infine, difendere, promuovere e rilanciare il settore orafo significa ribadire
che il successo del Made in Italy è nato dal connubio tra il saper leggere e il
saper fare: il gioiello Made in Italy deve essere pensiero, ma anche manifattu-
ra. Oggi, strangolate dalla competizione internazionale, parte di un sistema
poco attrattivo per i giovani, senza management e risorse finanziarie, le im-
prese orafe rischiano di non sapere più fare. Pensiero e manifattura: riuscire-
mo ancora a generare delle idee quando non sapremo più fare?
9
Art. 517 cod. penale che prevede la pena della reclusione fino ad un anno per false dichiara-
zioni.
10
Disposizioni sulle false indicazioni di origine contenute nell’Accordo di Madrid.
164
legati all’Unione Europea da accordi tariffari particolari) è necessario che
venga realizzato in Italia almeno il 40% del valore del prodotto (ad esclusione
della materia prima).
Allo stato attuale, quindi, due sono le marcature del gioiello richieste dalla
legge italiana: la responsabilità del produttore (marchio di identificazione) e il
titolo che definisce il contenuto aureo (che varia a seconda dei mercati: dai 9
carati inglesi pari a 375 millesimi di oro, fino ai 14 carati americani o ai 24 di
alcuni mercati arabi pari a 1000 millesimi di oro). Il marchio di origine è un
elemento solo facoltativo, un’informazione in più data al consumatore.
Quella per l’introduzione obbligatoria della denominazione di origine è
una lunga lotta: in Europa i paesi che hanno interesse a salvaguardare la
manifattura sono pochi, prevalentemente quelli dell’area mediterranea e, an-
che al loro interno, vi sono imprese che si avvantaggiano dell’attuale buio
legislativo.
Gli ultimi orientamenti della commissione europea sembrerebbero favorire
un approccio settoriale (introduzione dell’obbligatorietà dell’indicazione di
origine sulle merci importate solo per alcuni comparti). Il settore orafo-ar-
gentiero, inizialmente escluso, è stato successivamente inserito nella lista dei
settori che beneficerebbero dell’obbligatorietà del marchio (tessile/abbiglia-
mento, calzatura, pelle, gomma, ceramica, arredo/legno, occhialeria e, appun-
to, oreficeria) anche grazie all'intervento delle autorità competenti11, che han-
no debitamente sollevato la questione in sede europea.
Con l’obiettivo di tutelare l’arte orafa nazionale – impedendo l’esporta-
zione o l’importazione di prodotti impropriamente muniti della marchiatura
peculiare degli oggetti fabbricati in Italia ma che in realtà risultano realizzati,
in imitazione, in paesi extra Spazio Economico Europeo – è attualmente in at-
to un progetto di revisione normativa in materia di titoli e marchi di identifi-
cazione dei metalli preziosi (legge n. 251 del 22/5/99: “Disciplina dei Titoli e
dei Marchi di Identificazione dei metalli preziosi” e relativo Regolamento).
Le proposte sono tese da un lato a migliorare l’applicazione della legge e
dall’altro a semplificare le procedure per le imprese (registrazione marchi
commerciali, marchiatura laser etc.). In particolare, le richieste vertono su:
• una differenziazione della conformazione dei marchi tra i produttori pro-
priamente detti e gli altri soggetti che operano nel settore (venditori di ma-
terie prime, importatori, commercianti); tale modifica è volta a fronteggia-
re i diffusi casi di oggetti fabbricati all’estero, introdotti in Italia per la sola
11
Dal 1996 Federorafi ha creato e finanzia la struttura di rappresentanza dell’industria orafa
europea con sede a Bruxelles, E-Jag (European Jewellers Associations’ Group), impegnata nel-
la difesa degli interessi dell’industria orafa europea con particolare riferimento alla problemati-
ca dei dazi doganali e delle barriere tecnico-commerciali.
165
punzonatura e successivamente esportati all’estero come prodotto Made in
Italy;
• una nuova disciplina delle importazioni che preveda l'obbligo di evidenzia-
re sugli oggetti provenienti fuori dallo Spazio Economico Europeo lo stato
dove gli stessi sono stati prodotti e imponga precisi doveri per gli importa-
tori;
• una più ampia articolazione della disciplina sanzionatoria, fondata su nuo-
ve fattispecie di illeciti e su un generalizzato aumento degli importi delle
sanzioni (con la proposta di destinare il 50% dei proventi al finanziamento
dell'attività di sorveglianza e il rimanente 50 ad iniziative di promozione e
sviluppo della qualità nel comparto orafo-argentiero).
Vi sono poi una serie di misure atte a semplificare le procedure che gli as-
segnatari dei marchi di identificazione sono attualmente tenuti a svolgere:
• la possibilità di procedere ad una marchiatura degli oggetti, diversa dalla
punzonatura, realizzata mediante l’utilizzo di apparecchi laser, ove questi
permettano la riproduzione di impronte che definiscano in maniera univoca
il soggetto che le ha apposte;
• una riduzione dei tempi di riproduzione dei punzoni relativi al marchio di
identificazione, mediante la messa a disposizione delle matrici, da parte
delle camere di commercio, nel termine massimo di trenta giorni;
• la facilitazione degli adempimenti correlati all'apposizione dei marchi tra-
dizionali di fabbrica sugli oggetti prodotti.
167
9. Questioni di fondo
di Antonio Catalani
La ricerca effettuata e le riflessioni che sono emerse nel corso dei focus
group ci hanno portato ad individuare alcune questioni di fondo legate alla
cultura, alla tradizione e alla natura specifica del settore orafo italiano. Si trat-
ta in sostanza di alcuni aspetti che spesso, se rimessi in discussione, possono
dare vita a nuovi punti di vista e quindi a nuovi approcci al settore.
Il cambiamento di prospettiva è un fatto che avviene naturalmente in ma-
niera evolutiva, cioè è graduale e continuo. In alcuni momenti, e questo ci pa-
re tra quelli, è indispensabile accelerarlo, proprio perché il contesto subisce
mutazioni sostanziali, che sono difficilmente comprensibili senza rimettere in
discussione quelle convinzioni che rischiano di essere diventate solo degli ste-
rili e dannosi a priori.
Abbiamo pertanto ritenuto necessarie alcune riflessioni di carattere genera-
le che attengono al tema del cambiamento, cioè all’insieme di modifiche più o
meno radicali che si verifica in un arco temporale piuttosto breve e che in più
ambiti sta interessando la società. Tali cambiamenti possono di volta in volta
essere letti come risultanti di un ciclo economico meno prospero, di una ridu-
zione delle somme disponibili per l’acquisto di certe categorie di prodotti a
favore di altre, piuttosto che essere attribuiti alla erosione del valore simbolico
che si attribuisce ad alcune tipologie di prodotti. Pensiamo tuttavia che solo
tenendo in considerazione questi fattori nel complesso si possa interpretare
meglio il cambiamento radicale che ha coinvolto negli ultimi anni i modelli di
consumo e che difficilmente è spiegabile utilizzando uno solo di questi. La
nostra lettura del settore orafo deve pertanto tener conto del contesto.
I settori possono essere visti come insiemi di aziende, che presentano ana-
logie non solo merceologiche ma anche strategiche, ovvero propongono ana-
loghi sistemi di offerta. Quando un settore attraversa un periodo di espansione
generalmente tutte le aziende che adottano un comportamento similare, che in
genere è quello richiesto in quel momento dal mercato, tendono ad avere ri-
sultati positivi, pure se con diversi gradienti. Durante i momenti negativi di un
settore invece la situazione cambia: ci possono essere aziende che ottengono
169
risultati negativi, e sono la maggioranza, altre invece crescono e si affermano.
Ciò avviene perché il consumatore tende a orientare la propria attenzione e le
proprie risorse verso quei sistemi di offerta che meglio soddisfano i suoi biso-
gni. Quando un settore entra in una fase di contrazione, le aziende devono
quindi ripensare alla propria sintonia con il consumatore, e nulla è più perico-
loso che il nascondersi dietro all’alibi della “situazione del settore”. Quello
che chiamiamo “Made in Italy” può aggiungere valore al sistema d’offerta
dell’azienda solo se l’azienda è efficace ed efficiente; da solo non rappresenta
certo un adeguato strumento competitivo. Pensiamo quindi che sia utile af-
frontare in questo capitolo alcuni dei temi principali che sono emersi nel corso
dei nostri incontri con gli operatori del settore, per suggerire una visione più
organica ed attuale.
170
legato alla qualità della relazione prodotto-marca-punto vendita-consumatore,
ad uno scambio di valori che non è meramente monetario.
“Pretendere il massimo, spendendo il meno possibile” non è solo frutto di
un crescente stato di incertezza per il futuro che sembra caratterizzare sempre
più la società contemporanea a causa del ridimensionamento dello stato socia-
le. Né basta a giustificarlo la competizione tra le diverse categorie di beni per
accaparrarsi fette crescenti di un reddito disponibile che rimane sostanzial-
mente stazionario; in tale competizione certamente il gioiello non esce da vin-
citore. Questo comportamento è anche frutto di un cambiamento culturale: se
prima era importante far sapere che era stata spesa una somma importante per
acquistare un prodotto, poiché questo denotava successo e ricchezza, oggi in-
vece il possesso di molti beni e la capacità di essere riusciti ad ottenere uno
sconto denotano intelligenza.
Un altro importante fattore di cambiamento nei consumi deriva da una frat-
tura profonda che si è verificata nel tessuto sociale: il passaggio da una società
piramidale, dove i modelli di acquisto tendevano ad essere verticali e stabili,
ad un modello a rete, dove le tendenze possono nascere ovunque, in qualsiasi
momento.
G. Simmel e T. Veblen alla fine dell’800 affermano che, essendo la società
strutturata in forma piramidale, l’acquisto di certi beni, in particolare di quelli
ad elevato contenuto simbolico, è un potente forma di affermazione sociale,
propria delle classi economicamente più agiate. Le classi inferiori si adeguano
a tali modelli di consumo per accreditarsi nel contesto sociale; le classi agiate
devono di conseguenza modificare i loro consumi per continuare a manifesta-
re la loro superiorità.
A partire dagli anni ’80 si è sviluppato un modello di consumo orizzontale,
più individuale, che deriva prima di tutto dalla frammentazione della società
in più nuclei, dall’emergere di sottoculture, oggi pienamente legittimate
(Hebdige 1979), per cui i comportamenti di consumo e gli stili vengono scelti
in quanto manifestano l’adesione estetica e valoriale ad un modello che non è
più universale. Tale cambiamento ha avuto anche impatto sulla definizione di
oggetti di lusso1; si è passati infatti da una accezione per così dire oggettiva,
legata a valori misurabili quali la rarità, la qualità di fattura, il costo, ad un
portato decisamente soggettivo, legato al piacere che deriva dalla relazione tra
l’acquirente e l’oggetto acquistato.
Un prodotto non si diffonde più quando se ne appropriano le classi sociali
superiori, ma quando entra nel mondo degli innumerevoli segmenti che costi-
tuiscono la società contemporanea. Queste “tribù” sono dinamiche, volubili;
1
Oggi più che mai diviene importante distinguere tra beni di lusso e beni che potremmo defini-
re di prestigio, che si caratterizzano rispetto a quelli cosiddetti di lusso perché, oltre ad un por-
tato di rarità, incorporano anche valori culturali o di sensibilità sociale.
171
ciascuno di noi appartiene contemporaneamente a più gruppi, ed in ogni grup-
po ha una diversa funzione: qui puoi essere leader, ma in quell’altra tribù sei
gregario; oggi proponi tu una tendenza, domani la copierai. Per riuscire dav-
vero innovare, non dal punto di vista tecnologico, ma dal punto di vista esteti-
co, non basta accettare questa situazione sul piano teorico, ma bisogna farla
veramente propria, al punto da ridisegnare le proprie strategie verso il merca-
to: bisogna gettare via definitivamente la vecchia visione.
172
Nel comportamento del settore orafo italiano possiamo identificare tre
momenti. Il primo, agli inizi degli anni ’90, si può sintetizzare nella frase “a-
spetto la ripresa”. Memori delle precedenti fasi cicliche del settore, gli im-
prenditori erano convinti che fosse solo uno dei momenti congiunturali nega-
tivi. L’atteggiamento diffuso è stato proprio quello di attesa della ripresa. Nel-
la maggior parte dei casi è mancata una adeguata riflessione sulla situazione
reale del mercato. Non ci si è accorti che il settore era entrato in una fase di
maturità, dopo anni di espansione, e che nuovi attori stavano entrando nel
mercato, dalle nazioni che tradizionalmente avevano prodotti di bassa qualità
(che stavano innalzando il livello delle loro produzioni, forti anche di un bas-
so costo della manodopera), ad aziende che provenivano da altri settori come
la moda, o che già erano presenti nel canale distributivo, che avrebbero potuto
realizzare brand extension o lanci di nuove linee. Intorno alla metà degli anni
’90, il settore si è trovato diviso tra aziende che continuavano ad avere buone
performance competitive (poche) ed aziende in difficoltà. L’at-teggiamento
più diffuso è stato quello di “imitare le strategie ed i comportamenti” perse-
guiti delle aziende di maggior successo economico e di mercato, senza riusci-
re a farli realmente propri e senza rendersi conto che i nuovi segmenti aperti
da quelle aziende erano di fatto già occupati.
Solo agli inizi di questo decennio i fattori di crisi sono comparsi in tutta la
loro evidenza ed il settore si è reso conto di essere entrato in una fase di cam-
biamento strutturale. Ciò ha colto impreparate la maggior parte delle aziende
che non sono per ora riuscite a cogliere appieno il potenziale di questo cam-
biamento.
Gli operatori del settore che abbiamo incontrato danno del gioiello una de-
finizione che è sostanzialmente convergente: un oggetto di elevata qualità e-
stetica, grazie alla manifattura ed all’uso di materiali preziosi, destinato
all’ornamento.
Il gioiello è il risultato di un processo di design, che è possibile descrivere
utilizzando tutte le categorie della fenomenologia del design, dalla progetta-
zione, alla produzione, alla distribuzione ed al consumo. Tale processo ha per
fine la bellezza del prodotto, che infatti viene acquistato quando, per la sua
piacevolezza, per il suo valore e per il suo contenuto simbolico si ritiene costi-
tuisca un dono gradito dalla persona che poi lo indosserà; rientra quindi nella
categoria degli oggetti estetici e non artistici. Ciascuno di questi attributi ha da
sempre partecipato alla definizione di ciò che si intende per gioiello, ma il si-
gnificato ed il valore di questi è evidentemente un portato della cultura del
173
consumatore, di fenomeni sociali complessi che non possono essere sfuggiti al
cambiamento strutturale che caratterizza il nostro modello di consumo. Pos-
siamo infatti affermare che da una parte il gioiello deve possedere delle quali-
tà che lo rendano tale, dall’altra siamo noi stessi che gliele conferiamo attra-
verso la nostra cultura. Come per la maggior parte delle categorie di beni pos-
siamo considerare una convenzione la definizione di ciò che è un gioiello. A
causa della frammentazione che caratterizza la società contemporanea, questa
non è più una convenzione universalmente accettata e condivisa, ma diviene
specifica per ciascun gruppo di consumatori, in funzione della sottocultura cui
appartengono2.
174
una lieve infrazione alla tradizione che porta ad una squisita eccezione, costi-
tuiscono certamente motivo di apprezzamento. Ma vi è anche un cliente che
non conosce il settore, che certamente trova la bellezza del prodotto nella sua
fattura, ma soprattutto nel suo portato simbolico e di comunicazione, che rap-
presentano i suoi veri bisogni: in questo caso la marca, il linguaggio, gli aspet-
ti immateriali determinano il gradimento per il consumatore.
Per quanto riguarda gli altri aspetti che caratterizzano la tradizionale defi-
nizione, il gioiello è sempre stato considerato un bene rifugio facile da portare
con sé, sempre disponibile. Tradizionalmente ha sempre rappresentato un va-
lore economico tramandato all’interno della famiglia per il suo contenuto pa-
trimoniale, oltre che di memoria; impegnato o venduto nei momenti difficili,
capace di difendere l’investimento quando il prezzo delle materie prime cre-
sceva o quando la valuta perdeva di valore. Il gioiello stava anche a simboleg-
giare il potere economico, la ricchezza della famiglia, la sua appartenenza ad
una classe sociale.
La società contemporanea è più portata al gusto edonistico ed all’effimero,
privilegia più l’abbigliamento nel suo complesso e l’immagine che il valore
dei singoli elementi che entrano a costituire l’immagine stessa. Ecco perché si
afferma sempre più il vissuto del gioiello come accessorio da coordinare, piut-
tosto che come oggetto in sé. È una società nella quale prevale l’in-certezza,
poiché oggi è impossibile garantire quello stato sociale cui eravamo abituati,
che ha dato vita, accanto alle forme tradizionali di patrimonio (prima tra tutte
la casa), a innumerevoli modalità di investimento, magari non così permanen-
ti, ma certamente declinabili meglio a seconda delle necessità individuali. Il
nostro costume come consumatori è cambiato: siamo orientati alla possibilità
di disporre di tante cose, quindi all’accesso ai beni e non al loro possesso; si
diffonde l’“usa e getta”.
A questo punto è necessario chiedersi chi decide cosa è un gioiello, o me-
glio, chi decide cosa è un bel gioiello. Se un anello o una collana corrispondo-
no per il consumatore ad un’emozione, ad un linguaggio, ad una associazione
di significati, ebbene questi oggi sono profondamente diversi da quelli tradi-
zionali; non è più possibile definire queste emozioni in un modo universal-
mente accettato. Nella nostra società mutevole ed articolata possono essere
individuati solo guardando fuori dal proprio ambito, attingendo a concetti che
provengono da altri settori per poi declinarli seguendo la tradizione.
Bisogna quindi imparare a segmentare prodotti e consumatori utilizzando
più criteri: il gusto, il prezzo, la fascia d’età, la funzione, l’occasione d’uso e
l’evento, seguendo il consumatore poiché questi, attraverso l’acquisto, decide
cosa è un bel gioiello. Solo così potremo valorizzare ancora una volta su tutti i
mercati, la nostra leadership. La nostra posizione a livello internazionale di-
scende dalla qualità dei nostri prodotti, dall’eccellenza nella capacità di fare,
175
dall’aver offerto al mercato i prodotti che desiderava, ma non ci spetta di dirit-
to: oggi dobbiamo assumerci la responsabilità, per difendere il nostro ruolo, di
continuare ad innovare, prima di tutto nella politica di prodotto per soddisfare
ancora i bisogni del consumatore. Certo è un problema di dimensioni, di costi,
di regolamenti internazionali, ma non sarà solo attraverso regolamenti relativi
al commercio internazionale, pure indispensabili, che difenderemo il nostro
ruolo sul mercato. Dovremo ancora una volta attingere alla principale risorsa
del nostro paese: la voglia e la capacità imprenditoriale di rimettersi in gioco.
176
al raggiungimento di una maggiore dimensione e strutture manageriali avreb-
bero certamente consentito una risposta migliore nel momento in cui non è
solo necessario saper produrre, ma diviene indispensabile saper vendere e sa-
per gestire in un modo più complesso e raffinato l’azienda.
La competizione nei mercati si basa essenzialmente su costi e differenzia-
zione. Il perseguire strategie di differenziazione non esime dalla ricerca del
prezzo più competitivo, poiché abbiamo visto che l’attenzione del cliente ver-
so il prezzo è crescente. Sia per le aziende di produzione che per quelle di di-
stribuzione questa strategia si basa sulla capacità di essere percepiti dagli atto-
ri della filiera e dal cliente finale come differenti. Le aziende devono riuscire a
costruire un vantaggio competitivo percepito e percepibile, valorizzando le
proprie competenze a cui il mercato è disposto ad associare un premium price.
Perché tale strategia abbia successo è però necessario che il premium price sia
superiore rispetto ai costi complessivi sostenuti per implementare la strategia
di differenziazione. Questa strategia si basa sulla costruzione di un plus che
può essere importante per la distribuzione, in termini di servizi offerti per e-
sempio, di identità, di traffico generato o di tasso di riordino, oppure che sia
percepibile e rilevante per il cliente finale in termini di benefici materiali o
immateriali associati al prodotto.
Realizzare un’efficace strategia di differenziazione quindi vuol dire fare
delle scelte capaci di risolvere in maniera sensibile i bisogni del cliente inter-
medio o del consumatore. Data una fascia di prezzo ed un insieme di beni che
considera equivalenti, il consumatore acquisterà il prodotto il cui valore per-
cepito, che è influenzato dal bisogno, gli sembra più elevato rispetto al prezzo
richiesto.
Alla fine degli anni ’90 in numerosi settori, in particolare nella moda, le
aziende della cosiddetta fascia alta, vale a dire quelle caratterizzate da mar-
che molto note, qualità e costi elevati, sono cresciute, forti della loro imma-
gine, perché il consumatore accettava tutto ciò che queste gli proponevano
in termini di prodotto, servizio, prezzo e la loro crescita ha coperto tante i-
nefficienze.
Il contesto generale nel quale le aziende competono sta subendo profonde
modifiche. Negli anni ’80 la struttura complessiva dell’offerta era descrivibile
attraverso una forma piramidale. In alto i prodotti di lusso destinati a pochi, a
mano a mano che si scende verso il basso il mercato si allarga proporzional-
mente fino a raggiungere la fascia bassa, che è la più ampia e numerosa. In
questa piramide ideale la qualità dei prodotti decresce procedendo verso il
basso, ed in parallelo diminuisce il prezzo degli stessi.
Oggi invece la struttura dell’offerta, a causa del cambiamento economico e
sociale, tende ad assumere una forma diversa: in alto i consumi legati al mon-
do del lusso crescono, pure se in misura relativa alla dimensione di questo
177
segmento; la fascia medio alta ed alta dei consumi si ridimensiona sensibil-
mente, mentre crescono in maniera notevole l’area media e medio bassa, an-
che per il maggiore valore che le aziende che appartengono a questi segmenti
hanno saputo far percepire ai consumatori (si pensi ad esempio a H&M o Zara
nell’abbigliamento). Il segmento più basso invece si comprime grazie alla
tendenza di fondo del consumatore ad un acquisto più evoluto.
Un elemento che sembra caratterizzare questo andamento è che se il prez-
zo decresce procedendo verso il basso, la qualità media e soprattutto il valore
percepito non decrescono nella stessa maniera, oggi infatti è possibile, in tutti
i settori, trovare prodotti che appartengono alla fascia media di prezzo con un
eccellente contenuto estetico e buona qualità.
lusso
alta
medio-alta
media
medio-bassa
bassa
178
necessarie competenze manageriali e supportato da adeguate risorse, un pre-
supposto per un sostanziale riposizionamento.
Partendo da questo quadro di riferimento che è valido sia per le imprese di
produzione che di distribuzione, diventa importante perseguire una strategia di
differenziazione che le porti alla creazione di un’identità aziendale precisa.
L’identità di un’azienda è un elemento della percezione del consumatore o
del cliente intermedio, ed è una sintesi, frutto di un articolato sistema di scelte,
che ci porta a far corrispondere al nome di quell’azienda un sistema d’offerta
fatto di prodotti, comportamenti, servizi e così via. In pratica un’azienda ha
identità, quando una individuo in target le attribuisce alcune caratteristiche
che a suo giudizio la rendono diversa dalle altre.
Queste caratteristiche, se riferite al consumatore, possono riguardare il
prodotto e/o la marca.
Dal punto di vista del prodotto l’identità può essere costruita attraverso
l’uso di una particolare tecnologia o di un determinato materiale, che consen-
tono di ottenere un prodotto identificabile dal consumatore; piuttosto che pri-
vilegiando la funzionalità, cioè l’attenzione ad aspetti di ergonomia, affidabi-
lità o prestazioni. Il fattore che più si presta nei settori nei quali il valore si co-
struisce attraverso il gusto e la percezione estetica come l’oreficeria è lo stile:
l’insieme di scelte progettuali che sono riassumibili in alcuni attributi del pro-
dotto, il cui mix rende identificabile il prodotto stesso. Leggero, colorato,
morbido, tattile, o i loro contrari, assieme ad innumerevoli altri aggettivi, pos-
sono entrare a costituire la cifra stilistica che sostiene l’identità del prodotto.
Lo stile può derivare solamente dal gusto, ma più comunemente trova origine
in alcuni presupposti legati alla visione del designer, alla sua idea di eleganza
in un determinato contesto o per un certo tipo di donna, a come intende valori
quali l’amore, l’amicizia, la felicità che i suoi gioielli devono celebrare. Il gu-
sto estetico diviene così il modo in cui l’idea è interpretata fondendo assieme
forme ed emozioni.
L’identità creata attraverso le scelte progettuali diviene utile quando è col-
legabile ad un nome: la marca. Così come una persona ha una sua identità
rappresentata dal nome, dall'aspetto fisico e dall’insieme delle sue idee e dei
suoi valori, anche i prodotti assumono un’identità attraverso elementi materia-
li ed immateriali. L’identità di marca è portata sul prodotto attraverso un si-
stema di segni che tende ad essere costante nel tempo e che costituisce i co-
siddetti identificatori, che spesso si integrano nel prodotto anche attraverso il
packaging, che assume, oltre alla funzione di proteggere, una fondamentale
valenza comunicativa per identificare il prodotto attraverso il marchio, la for-
ma, i colori e tutti gli altri elementi che fanno parte dell’immagine coordinata.
Per oggetti che sono spesso destinati al regalo, la confezione assume un eleva-
tissimo portato simbolico.
179
L’identità dal prodotto migra alla marca che infine diviene un elemento
simbolico-estetico che ha successo quando è associata all’uso di nuovi sistemi
di segni, di nuovi linguaggi e di nuovi valori, che trovano il consenso di un
numero adeguato di consumatori.
L’identità percepita, com’è evidente, è un problema di comunicazione; il
suo fine è quello di dare forma ad una delle possibili strategie di differenzia-
zione. In alcuni casi la marca può essere il risultato di un’attività di comunica-
zione slegata dalle scelte stilistiche, fondandosi sull’associazione ad un siste-
ma di valori che si ritiene proprio delle sottoculture in cui il consumatore si
identifica, come l’orgoglio di possesso, l’appartenenza ad un gruppo, lo status
sociale. Evidentemente uno forte relazione tra stile e marca è certamente più
appropriata quando è lo stile stesso il primo beneficio per il consumatore, co-
me è oggi nell’oreficeria.
È anche possibile costruire un’identità forte per la distribuzione, in questo
caso divengono indispensabili i servizi che sono forniti, tuttavia noi crediamo
che il migliore servizio che un’azienda possa rendere al mercato è quello di
creare un’adeguata vendibilità che premia la distribuzione ed il consumatore,
che così trovano, entrambi, soddisfazione ai propri bisogni.
Solo dopo aver definito in modo chiaro e coerente l’identità aziendale, è
possibile declinare le strategie di comunicazione e di distribuzione che con-
sentono di gestire il proprio posizionamento.
È importante distinguere tra identità ed immagine. L’identità, come detto,
si riferisce a tutto ciò che crea, a diversi livelli, una differenza percepibile ri-
spetto ad altri prodotti/aziende (per esempio pubblicità, distribuzione, packa-
ging). L’immagine invece è il risultato di un sistema di messaggi, finalizzato
porre delle aggettivazioni accanto alla identità ed alla marca. Nel caso
dell’auto, ad esempio, l’identità di una marca è costruita attraverso lo stile u-
nico delle sue automobili, gli identificatori (fanalerie, griglie di raffreddamen-
to, simboli, e così via), l’architettura delle concessionarie, i materiali grafici di
supporto. Ma tutto ciò ha a che fare con la sua immagine di affidabilità solo
parzialmente: ciò che distingue una Mercedes da una BMW non è
l’immagine, ma è l’identità. Dal punto di vista dell’immagine diremo poi che
la prima si associa a valori quali l’affidabilità, la seconda invece all’ag-
gressività ed alla tecnologia.
Ikea e Cassina hanno due diverse identità ed è anche diversa l’immagine,
poiché la prima evoca un mondo nord europeo fatto di semplice buon gusto e
di convenienza; la seconda invece richiama i classici internazionali del-
l’arredamento, il design italiano, la qualità dei prodotti. In questo caso è evi-
dente che non vi è relazione tra immagine, identità e fascia di prezzo. Non è
che siccome i prodotti Ikea sono poco costosi l’identità e l’immagine di questa
marca siano inferiori a quelli di Cassina.
180
Identità ed immagine sono possibili e indispensabili per qualsiasi azienda
che voglia realizzare una strategia di differenziazione basata sulla marca.
La pubblicità è uno strumento per incrementare la conoscenza di marca.
Veicola, ma non crea da sola identità. Soprattutto oggi il successo di alcuni
prodotti è dovuto al passaparola, all’opinione di consumatori che raccoman-
dano ad altri i prodotti che essi conoscono. Non sono rari in tutto il mondo i
casi di libri o di film realizzati con grandi mezzi, supportati da costose cam-
pagne di lancio e dalla critica specializzata, che non riescono ad affermarsi sul
mercato, mentre altri diventano successi grazie alla comunicazione interper-
sonale.
Un’immagine di successo non garantisce il successo nel mercato, anche se
ne può rappresentare un prerequisito, e non assicura neanche il successo eco-
nomico.
Possiamo quindi concludere affermando che nel settore orafo italiano, che
già possiede elevate competenze di prodotto e di produzione, è necessario svi-
luppare competenze di gestione del processo che porta i prodotti verso il mer-
cato, in particolare la capacità di dotarsi di una adeguata identità, correlata con
l’offerta. Tali competenze possono anche essere mutuate dall’esperienza di
altri settori affini in termini di approccio estetico-simbolico.
Per quanto riguarda la presumibile evoluzione del mercato, pur senza voler
ipotecare il futuro, è presumibile che il segmento del lusso, o meglio dei beni
di alto pregio, vale a dire prodotti costosi, di elevato livello qualitativo per i
materiali e per la fattura, spesso realizzati su commessa o legati a brand carat-
terizzati da forti valenze culturali, troverà nuovi spazi nei mercati emergenti,
mentre rimarrà sostanzialmente stabile nelle altre nazioni.
La fascia alta e medio alta, spesso legata alle marche più famose, dovrà
competere rendendo più efficiente e razionale il proprio sistema azienda,
segmentando meglio i bisogni dei consumatori, proponendo prodotti con
prezzi più aggressivi, articolando la propria offerta su proposte continue e mi-
ni collezioni estremamente focalizzate. Il mercato premierà quelle aziende che
sapranno dotarsi di una identità fortemente distintiva a prezzi competitivi.
Il segmento medio subirà un’ulteriore contrazione, caratterizzato da azien-
de che non hanno saputo sviluppare un efficace politica di differenziazione,
aggredito dalla fascia medio bassa che migliorerà sostanzialmente la propria
qualità percepita ed il proprio valore grazie alle forti identità ed alle politiche
d’immagine. Spesso si tratterà di catene di negozi capaci di abbinare gusto del
prodotto e velocità di reazione ai bisogni del consumatore.
L’imprenditore deve essere capace di rimettere in discussione contempo-
raneamente tutta la struttura del proprio sistema di offerta rompendo le abitu-
dini cristallizzate, ma deve anche saper manifestare in maniera persuasiva la
propria visione a tutti gli attori della filiera per raggiungere in maniera più ef-
181
ficace il consumatore. Gli investimenti in innovazione e ricerca di un’azienda
manifatturiera, di fatto, sono inutili se i vantaggi che ne derivano non sono
trasferiti al consumatore finale.
La distribuzione, grazie al cambiamento in atto, non riesce più da sola a
costruire valore se non può contare su una filiera a monte efficace. La crea-
zione di valore è a due vie: da un lato il flusso di prodotto verso il basso e
dall’altro in senso inverso i flussi informativi di ritorno. Diventa quindi im-
portante che tutti gli attori (dal fornitore di materie prime fino al rivenditore)
condividano un progetto complessivo, investendo ognuno le proprie risorse
nella stessa direzione. È necessario instaurare un rapporto dialettico e non
conflittuale con gli altri attori. Nella fase di cambiamento spesso le mediazio-
ni sono dannose; per riuscire ad implementare un progetto innovativo è neces-
sario generare un consenso forte: il rischio è la diluizione delle idee. È
l’azienda produttrice che deve riuscire ad assumere il ruolo di facilitatore di
questo processo, incanalando le energie sia dei designer sia degli agenti e dei
rivenditori nella stessa direzione.
182
gli oggetti. Non esistono marche tanto potenti da poter imporre un prezzo che
non ha relazione con il contenuto del sistema di offerta.
Diventa quindi importante lavorare sulle percezioni al fine di creare valore
per i consumatori. È possibile influenzare queste percezioni con informazioni,
per esempio legate alla qualità, alla attualità del prodotto, alla convenienza, al
punto anche da far cambiare opinione al consumatore. Questo avviene per e-
sempio nel punto vendita, quando il cliente chiede un certo prodotto e alla fi-
ne, grazie alle informazioni fornitegli dal venditore, finisce per acquistare un
altro prodotto.
Nel concetto originale di lusso la rarità, l’unicità, l’estrema sofisticazione
della fattura, rappresentano un elemento caratterizzante e distintivo. Oggi do-
vremmo parlare di mass luxury poiché un abito o una borsa, spesso realizzati
industrialmente in migliaia di pezzi, tolgono il contenuto di rarità: il concetto
di lusso è sempre più legato in maniera soggettiva al rapporto tra desiderio di
possesso e di uso, oppure unicamente al prezzo.
Una marca per essere efficace deve essere basata su un sistema di valori
forti e condivisi che, per essere percepiti, devono essere adeguatamente co-
municati; deve fondarsi sulla promessa di benefici significativi per il target di
riferimento ed infine deve trovare coerente espressione in tutte le manifesta-
zioni aziendali. In sintesi, dar vita ad una marca oggi significa creare un mix
di messaggi che genera un’unicità fondata sui valori del consumo.
Il consumatore è sempre più esperto ed informato, non sempre dal punto di
vista della qualità merceologica, ma ha pratica del processo di acquisto ed ha
già direttamente o indirettamente informazioni sull’uso dei prodotti. La marca
svolge in questo contesto una funzione di sintesi, collocando quel tipo di pro-
dotto in certo segmento, facilitandone l’identificazione per creare il valore
percepito più alto possibile.
Spesso la marca è conseguenza del successo di un prodotto ed in questo si
identifica: dare concretezza e forma fisica ad una filosofia produttiva attraver-
so un bene, agevola fortemente la diffusione ed il successo e può costituire
una piattaforma per la vendita di altri prodotti. Di contro ciò crea un vincolo
poiché questo prodotto entra a costituire l’identità dell’azienda, quindi il con-
sumatore riconoscerà a quella marca solo una categoria di prodotti. Durante la
fase di costruzione della marca uno degli errori più diffusi è proprio quello di
proporre al mercato collezioni ampie aggiungendo prodotti comuni o non coe-
renti ai prodotti innovativi o continuativi, che invece sono allineati alla identi-
tà dell’azienda, contando sul fatto che, assieme gli uni, il distributore acquiste-
rà anche gli altri. Di qui la cattiva abitudine di “srotolare” campionari troppo
ampi che non danno identità, che distraggono gli agenti dalla loro attività
principale: realizzare vendite costruendo la marca. Altro è la brand extension,
che è possibile solo per marche molto note e chiaramente posizionate, relati-
183
vamente a merceologie coerenti con l’identità conquistata. La marca obbliga
tutti gli attori della filiera ad adeguarsi ad uno standard, che non significa ec-
cellenza, ma costanza nei prodotti, nelle fasce prezzo, nel servizio.
9.5. La distribuzione
184
ogni bene un valore che è legato alla sua percezione, questo stato di cose non
facilita certo la competizione all’interno del settore orafo e quella rispetto agli
altri settori meglio organizzati e più attraenti per il consumatore.
In termini generali, le funzioni principali che un punto vendita svolge sono
tre:
• la funzione logistica, cioè la predisposizione di un assortimento adeguato
al segmento di consumatori che si è deciso di servire, attraverso la selezio-
ne dei produttori e dei prodotti. Questa funzione, che è l’origine stessa di
qualsiasi attività commerciale, è anche il principale servizio offerto al mer-
cato e costituisce la base per una efficace politica di differenziazione dai
competitori. Infatti è sulla base della comunicazione dell’assortimento che
avviene attraverso la vetrina che il consumatore decide di visitare un punto
vendita, mentre l’acquisto si realizza solo se il cliente trova il prodotto che
soddisfa i suoi bisogni;
• la funzione informativa, cioè l’attitudine e le competenze che consentono
di fornire indicazioni, suggerimenti, o fatti capaci di aiutare il cliente a
soddisfare adeguatamente i propri bisogni;
• la funzione di rappresentazione, cioè la capacità di far vivere nel punto
vendita una relazione ricca o almeno soddisfacente tra il consumatore e la
marca o il prodotto, creando il contesto adeguato ad una esperienza di ac-
quisto che valorizzi l’offerta. In questa ottica si stanno modificando sia la
realtà fisica, cioè le strutture stesse come gli arredi, l’illuminazione, il
merchandising, che quella relazionale del punto vendita.
Dal punto di vista della gestione invece gli aspetti critici del punto vendita
sono sempre più legati alla analisi del contesto competitivo. Assieme alla let-
tura dei risultati economici è necessario utilizzare adeguati strumenti di moni-
toraggio per avere una sistematica lettura della situazione competitiva e quindi
una migliore possibilità di pianificazione strategica. La costante verifica del
proprio posizionamento in termini di sistema di offerta, il monitoraggio
dell’evoluzione dei competitori e delle aziende per riuscire ad individuare
prontamente quelle che stanno avviandosi verso strategie con migliori capaci-
tà di successo. Insomma una valutazione che non si fermi alle sole analisi e-
conomiche, ma che tenga nel dovuto conto anche il numero di visitatori e di
clienti, la loro fedeltà, l’evoluzione dei loro bisogni, sono alcune tra le attività
indispensabili ad una impresa commerciale efficiente.
In realtà, in questo come in altri settori, dominano le abitudini: si ricevono
sempre gli stessi rappresentanti, si trattano sempre le stesse aziende, troppo
spesso chiusi in una visione legata al passato, ad assortimenti che non perde-
vano valore nel tempo, a prodotti con scarso contenuto di innovazione. Il nuo-
vo fatica ad entrare nel mercato proprio oggi che il consumatore ha bisogno di
185
idee nuove. Difficilmente le aziende vengono valutate dal distributore sulla
base della loro visione strategica, del portafoglio prodotti, della loro capacità
di fornire servizi. I gioielli sono scelti per la loro presunta vendibilità sulla ba-
se del prezzo e della qualità apparente, contando sulla propria capacità rela-
zionale per “convincere” il consumatore. In realtà il mercato oggi richiede for-
te cooperazione tra produzione e distribuzione per riuscire a creare valore per
il cliente e tale cooperazione non consiste nel saturare la distribuzione di pro-
dotti scarsamente differenziati, senza alcun supporto di marketing, ma nem-
meno nell’utilizzare gli investimenti della produzione destinati a creare marca
solo per generare traffico.
Un tema particolarmente rilevante nelle relazioni industria distribuzione è
quello della gestione dell’invenduto. I distributori mettono in evidenza che nel
corso degli ultimi anni le giacenze dei punti vendita sono mediamente aumen-
tate e chiedono alle aziende di intervenire attraverso la sostituzione dei pro-
dotti o il finanziamento. Questo fenomeno deriva da tre fattori principali:
• la riduzione dei consumi che ha interessato il settore;
• il proliferare delle aziende che hanno tentato di costruire una propria marca
senza un adeguato approccio e quindi con scarsi risultati di vendita;
• l’esigenza delle aziende di marca di offrire al consumatore il loro assorti-
mento che le porta a richiedere la presenza di una gamma adeguata nel
punto vendita.
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punto vendita esistente, aumentare il numero di punti vendita di proprietà, di-
ventando in certo senso “catena”, oppure di aggregarsi ad altri operatori ana-
loghi per creare sinergie. Il passaggio generazionale che sta interessando mol-
te aziende italiane, se ben governato, può rappresentare una grande opportuni-
tà per innovare il proprio progetto imprenditoriale.
Se le scelte strategiche ed i modelli gestionali sono simili per tutti, se i
punti vendita tendono a comportarsi in modo uguale, il risultato sarà sempre
più quello di avere molti punti vendita che si assomigliano. Per riuscire a di-
stinguersi bisogna uscire dagli stereotipi del settore e provare a guardare il
proprio punto vendita con gli occhi del consumatore, una volta definito il pro-
prio target di riferimento.
Una differenziazione per essere efficace deve essere percepita dal consu-
matore. La sua costruzione passa attraverso quattro elementi fondamentali:
assortimento, format commerciale, identità ed immagine, sistema di servizi
offerto.
L’assortimento assume grande importanza sia perché assorbe risorse fi-
nanziarie, sia perché, come abbiamo già detto, è il principale servizio al clien-
te. La sua pianificazione può essere realizzata attraverso griglie di segmenta-
zione per marca o azienda fornitrice, attribuendo a ciascuna un preciso ruolo:
creazione del traffico, differenziazione rispetto ai competitori, penetrazione in
determinati segmenti di clientela, creazione di un extra margine e così via,
nella logica moderna di assortimento come sistema di marche. Queste griglie
sono strumenti semplici ma efficaci, adatti non solo per valutare gli investi-
menti, ma anche la qualità dell’assortimento. Tale approccio consente anche il
monitoraggio dei risultati di modo che il punto vendita, attraverso analisi det-
tagliate, può capire come utilizzare meglio i diversi prodotti/marche per creare
la propria strategia di differenziazione. Attraverso modelli analoghi si possono
definire ampiezza e profondità dell’offerta per tipologia di prodotto, per evita-
re sovrapposizioni tra i prodotti.
Nei prossimi anni, a prescindere dall’andamento dell’economia in genera-
le, in ogni caso ci saranno opportunità per chi ha intenzione di crescere: il
mercato è grande e frazionato, lo sviluppo può avvenire, a condizione di sot-
trarre ogni giorno un po’ di spazio ai competitori che non hanno scelto accura-
tamente il proprio consumatore, a chi non ha definito un progetto chiaro per
differenziare la propria offerta. La distribuzione è uno spazio competitivo de-
terminante, il concetto stesso di punto vendita deve essere continuamente ri-
messo in discussione poiché per avere successo un negozio non deve essere
solo bello, ma deve essere una macchina pensata per la vendita.
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