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DAL LABIRINTO AL VOLO DELLE GRU VERSO LE ESPERIDI

Nelle iniziazioni del mondo antico la via solare prevedeva una discesa nelle
tenebre dell’Oltretomba e l’incontro con una entità pericolosa e tenebrosa che
l’adepto doveva affrontare vittoriosamente. Questa discesa veniva rappresentata
ritualmente nell’antica Grecia con la danza del labirinto (cfr. K. Kerenyi, “Nel
labirinto”). I danzatori percorrevano una spirale concentrica che conduceva al
centro del labirinto tenendo in mano una corda che rappresentava un raggio di
sole. Le volute del labirinto, i cerchi concentrici della spirale, non erano altro che
una rappresentazione simbolica degli archi descritti dal sole nell’avvicendarsi dei
giorni, sempre più piccoli man mano che si procede dal solstizio estivo a quello
invernale. Al centro del labirinto c’era il Minotauro ad attendere i danzatori ed
aveva luogo una lotta rituale che terminava con la sconfitta dell’essere teriomorfo.
Uno psicanalista junghiano oggi direbbe che la lotta terminava con l’integrazione
del principio ombroso e ctonio della personalità, incarnato dal Minotauro. Poi i
danzatori cambiavano senso di rotazione, la spirale si svolgeva e si allargava e,
alla fine, si trasformavano in gru (la danza prendeva, appunto, il nome di “Danza
delle Gru”) e volavano verso il giardino delle Esperidi dove si cibavano delle mele
dell’immortalità. Chiunque abbia visitato il museo di Atene sa che sui vasi
funerari appaiono labirinti, doppie spirali, uccelli palustri e svastike. Questi
simboli alludono alla Danza delle Gru, che riguardava sia gli iniziati ai Misteri che
coloro che varcano i cancelli dell’Ade e affrontano l’Oltretomba. Le svastike sono
solo una variante del simbolismo di cui abbiamo parlato, perché, a seconda del
senso di rotazione, rappresentano l’avvolgersi della spirale e l’incontro col
princìpio oscuro, ossia il cammino del Sole dopo il solstizio estivo, oppure il suo
svolgersi, che ha termine col volo delle gru verso le Esperidi.

L’autrice, Elisabetta Polatti, nata a Sondrio nel marzo del 1955, laureata in
Pedagogia e docente di lettere, perviene alla necessità della comunicazione quando,
stanca dell’isolamento culturale della provincia, e disincantata dalle numerose
Esperidi – Polatti Elisabetta
esperienze di animazione culturali spentesi come fuochi di paglia nel deserto del
vivere quotidiano, si apre al web. L’incontro con il virtuale è come un sasso che,
lanciato dentro uno specchio d’acqua irradia onde concentriche sempre più ampie.
La frequentazione con personaggi e maestri del libero pensiero fanno riaffiorare dal
profondo dell’io dell’autrice, energie sopite che chiedono con prepotenza di salire e
liberarsi in pensiero e canto. Il mito, gli archetipi, l’Eros, il fluire del tempo sono il
centro da cui si dipanano vissuti interiori che, annullando nell’istante evocativo, il
concetto di un tempo e di uno spazio separati, lo cristallizzano in un’esperienza
personale intima che filtra il divenire spesso conflittuale della vita. Essa si dilata e si
insinua a ritroso dentro radici che abbracciano il sentire comune dell’uomo che sa
guardare alle stelle. Un’intuizione che svela, ricucendo la materia con lo spirito, la
consapevolezza che ogni essere è un frammento divino nel moto perpetuo delle forme
mutevoli. Una poesia dunque, quella dell’autrice, evocativo-esoterica che si riallaccia
al filone narrativo poetico del simbolismo e dell’ermetismo.

A RITROSO

Nel tempo

a ritroso
Esperidi – Polatti Elisabetta
scrivo il futuro

Orutuf li

ovoircs osortir a

opmet len.

LODERO’

Nella terra ho posto il seme

Con trepidazione seguirò il suo corso

Esperidi – Polatti Elisabetta


E quando con lacrime di gioia

coglierò il primo germoglio

loderò per il suo dono.

RISVEGLIO

Dilata il tempo
fammi assaporare l'attesa
poi

Esperidi – Polatti Elisabetta


restringi lo spazio...
cristallizza l'attimo.
Fammi giungere dentro la tua anima
erotizza la mia mente.

Brividi sotto la pelle fammi scendere


dalle spalle per il plesso solare
e raggrumali al centro
dove origina il tutto.
Scegli un incipit...

RITROVARSI

Ritorno a casa
e ti ritrovo.
Ordine nei miei pensieri.

Esperidi – Polatti Elisabetta


L'azzurro lascia lo spazio
a una luce soffusa.
Un verde più tenero affiora
e il cielo di nembi
si profila di bianco.
L'aria fresca
annuncia promesse di un tempo
dischiuso.
E il profilo del colle
invade il mio cuore che anela
oltre la linea tracciata.

TI HO LASCIATO ANDARE

Ritorno a casa e lei


mi aspetta radiosa
Mamma

Esperidi – Polatti Elisabetta


I sui occhi brillano
di vita ripresa
Ho un regalo per te.
Sono stanca
il viaggio, una cavalcata nel tempo
ma il porto è calmo.
Luce nuova, dentro occhi di mare
la polvere rosa
riaffiora più nuova
Ha grattato, il mio amore,
la patina del dolore
le fughe sono bianche.
Non lo ricordavo!
Come pietra arenaria all'aurora
tu mi regali un frammento di cielo.

Pavimenti nuovi hai costruito


per noi.
Il tempo si ferma, contempla l’Opera
e riprende l’ antico cammino-

METAMORFOSI

Nell’alba rosata
ignori la forza del volo
La trama del cielo si apre
al raggio di sole che colora
Esperidi – Polatti Elisabetta
novello, lo sbadiglio dell’alba.
Cade l’involucro.
E’ d’azzurro e di verde il tuo primo vagito
Funambola sul ramo del pruno
attendi il momento.
Una brezza leggera dondola il ramo.
e trasporta del grano il colore
Di nettari segreti l’afrore t’avvolge.
Ancestrali ricordi di voli già fatti
spiegano ora
ali di volo
leggere.

BALAUSTRE D’ IRLANDA

In sottofondo, una costante di sistri segna lento,


il passo del paesaggio irlandese.
Nuvole corrono, a tratti si addensano,
l'acqua dei rivi più calmi gorgoglia.

Esperidi – Polatti Elisabetta


L’arpa avvia la musica, dolcemente s’intona il cello
corrono i suoni
e poi si tacciono nello specchio fermo dei laghi.
Avanzano profili di rocce,
le scogliere si protendono nere
fra onde mutevoli
cielo e terra non hanno confine.
Connemara lunare
di rocce e fiori d'erica rasenti i verdi pendii,
profili strapiombano il mare
greggi , belanti, dentro recinti di sassi e rovine
evochi riti di madri provate
che nutrono a stento la prole chiassosa,
di canti radenti le spalle di chi attende alla vita paziente.
S’innalzano mute le croci a ricordo di eroi
dai lunghi capelli
voci possenti e passo sonante.
Ombre silenti dentro celle scavate,
tetti di fango, odoroso di torba
simulacri viventi che l'erba avvince
e il cielo conforta .
Cattedrali di vento e di pioggia sottile,
balaustre sul mare che il vento
sferzante di voci fra crepe di sasso
e cortecce di pino, proietta lontano
lontano…..
Senza pareti, gli echi si levano liberi

Esperidi – Polatti Elisabetta


di foglia in foglia, trascorrono
di stelo in stelo, di pietra in pietra,
di cuore in cuore
e si distendono,
quale carezza benevola sulle greggi assonnate
che la notte sorprende all’addiaccio.
Il cielo capovolto danza dentro il creato.

LEVIA

S’appunta la luna nascente

nel silenzio del cielo

a bucare pensieri di morte

con diamanti di stelle.

Esperidi – Polatti Elisabetta


GRAZIE

Amore
per la meraviglia che ogni mattina si spalanca
io ti ringrazio
per il battito d’ali che smuove il mio cuore

io Ti ringrazio

Esperidi – Polatti Elisabetta


per la luce che mi abbaglia
per il buio che mi stringe
per l’Amore che germoglia

io vi ringrazio.

OLTRE LA RETE

Con parole non dette ordisco trame leggere


Con fili di nulla scrivo parole
E voli radenti specchiano
occhi sorpresi
e onde salate levigano forme
e viole d’amore

Esperidi – Polatti Elisabetta


pizzicano note
Questa mattina oltre la rete dell’ orto
dalla giovane pianta
di antico ricordo
ho raccolto prugne di vino
asprigne.
Quando ritroverò del cancello la chiave?

L’ATTESA

Già nell’aria più scura lo senti venire

Sommessi segnali di tuono leggeri

ovattano, ai confini dei monti laggiù

le ombre più dense.

Silenzi d’attesa.

Rotolano sassi da rupi celesti

Esperidi – Polatti Elisabetta


e frantumano l’aria.

Un velo di pioggia imprigiona colori.

Piange, nel prato, un cane che chiede rifugio

tacciono i sambuchi chiassosi.

S’attende...

Sulle strade rari passanti affrettano il passo

guardandosi attorno.

S’attende....

E gocce più fitte esalano del verde gli odori nascosti.

Una donna s’affretta sul balcone vicino

a raccogliere i panni distesi.

Galoppi vicino

ma sorprendi l’attesa

bizzarro,

e inverti il cammino, volgendo lontano.

L’aria schiarisce.

Fra occhiate di sole e nembi ammassati

a tratti compare l’azzurro.

Rapidi sfumano i vapori leggeri .

l’attesa è finita.

Il cane s’acquieta

A frotte sui mazzi di bacche nerastre

più lieti

zampettano i queruli passeri.

Esperidi – Polatti Elisabetta


CLIZIE -

La notte amica
scioglie i nodi del cuore
Aurora appena ti sveglia
da sogni ancor vivi
fra lenzuola scomposte.
Con dita di fiore ti porta
e nell’arco del cielo
sorpresa, fra colori pastello
Esperidi – Polatti Elisabetta
cammini ,prima che il sole ti abbagli.
Ti addentri nell’oro ai tuoi fianchi
e la mano, nel campo
accarezza corolle
Cento,…. mille,
un mondo di occhi dentro la luce
che nasce.

VERTIGO

Come erica che spacca


l’architrave del tempo
attendo a pensieri celesti
Come incenso di sandalo e cedri
odorosa
colmo volute.
E forbici d’argento
ritagliano
spazi di luce nell ’ombra furtiva

Esperidi – Polatti Elisabetta


Silenzi assordanti.
Fiammelle danzanti
dentro notti di selve ammantate
Offerte votive su altari di pietra.
Cattedrali di vento
pensieri non detti
preghiere negate
….
Labbra si schiudono
umide
balbettano parole.
Un ologramma a comprendere.

QUEEN

Suggestioni dalla Norma

A te
che affondi radici nel tempo
e profumi d’erica
tovaglie di lino
una canzone compongo
Con fili di sole disegno il tuo volto
di rughe fanciullo

Esperidi – Polatti Elisabetta


Con vesti di fiori
drappeggio il tuo corpo
E danze aprono
tamburi dal timbro profondo
e arpe catturano venti
e fuochi nel sacro recinto
agitano vesti
nell’ombra raccolta
e canti di barbare voci salgono
e cuori s’uniscono.
Ardono stelle nella notte rapite
dal Fato tracciato.

NOTTURNO

S’ immerge la luna
e le Pleiadi intorno
Splendida
di perla vestita .
Argentea.
Sul profilo del mondo
sospesa
ricami solitudini.
Esperidi – Polatti Elisabetta
LUNGO IL SENTIERO

Sale una voce narrante


di un tempo sepolto
e addita simulacri parlanti
agli incroci di strade remote
E cavalieri al galoppo su strade battute
sollevano polvere
ed eremi fra boschi di faggio
segnano il passo del lento ritorno

Esperidi – Polatti Elisabetta


Suoni di voci,
pianti di bimbo
lungo il sentiero tracciato
un fiume invasato
e una mano dall’alto conduce
Un vecchio con gli occhi di bimbo
addita la meta su meridiane nascoste
e cadenza l’andare
con parole suadenti
Rapiti pensieri
annullano e polvere
e fame dei pellegrini in cammino.
Da fogli tracciati che un lume rischiara
suoni scomposti trascorrono lievi
sull’ali del vento
Di fremiti e palpiti
sono ancor colme
le fronde dei faggi sui cigli romiti.

Esperidi – Polatti Elisabetta


NE’ MAI PIU’

Né mai più di te
toccherò se non il ricordo
di piombo rappreso.

Dall’oblio del loto


di unica pianta, germogli fioriti
pianterò
in terra assolata
fra sassi e dirupi da salsedine morsi

Ginestre selvagge di giallo fiorite


da lontano
solo,
vedrai.

Esperidi – Polatti Elisabetta


OLTRE IL CANCELLO
Verrà la morte con dita leggere
e avrà di te mani callose
verrà la morte e avrà i tuoi occhi
di dolcezza ricolmi
L’aurora del giorno apre
i cancelli lucenti
e odore di terra
e profumo di muschio bagnato
scalda l’ addiaccio dell’alba.
A mazzi s’apriranno corolle e troveremo
di genziane il pervinca
del cielo d’agosto al limitar del bosco.
Mangeremo carni arrostite fra scoppi di risa
Esperidi – Polatti Elisabetta
e calici alzati nel giorno festivo fra canti di uccelli
e profumo di braci.
Trascorre il sentire che ancora ci lega
e intorno il silenzio.
In solchi profondi, al limitare del bosco
s’innalzano larici
e abeti e betulle leggiadre.

E SONO

Se fossi il mare
ti avvolgerei sui fianchi
se fossi terra rinfrancherei radici
se fossi linfa risveglierei le fronde

E sono una donna

che la vita ha provato

che la gioia ha vissuto

che il dolore ha temprato

che la mente ha salvato

Ma il sorriso

solo Lui me l’ha dato.

Esperidi – Polatti Elisabetta


DONNA

Contesa e cercata
donna adorata
donna abusata
strega di madre bastarda
puttana dai fianchi procaci
gemiti di sogni proibiti
musa dai folti capelli
chimera di notti ormai vuote
angelo con ali di sole
occhi di cervo
sguardo dannato
volto scavato
lacrime nel pianto di Dio
ventre accogliente di umori e di terra
mani arrossate e unghie rapaci
respiro del mondo
rugiada del cielo.

Tu sola
avvampi col fuoco
tu sola
con la terra ti fondi
Esperidi – Polatti Elisabetta
tu unica
col pianto disseti
tu sola, angelo
col mondo ti sposi.

DANZARE

Con piedi alati


mi inviti a danzare
in dimore sottili

E mi baci la bocca.
Da ultimo
il cielo basito
dardeggi

non sazio.

Esperidi – Polatti Elisabetta


SELVAE

Tra gli alberi


fra giochi di ombre e di luce
i simboli antichi
parlano la lingua più vera

Tra foglie, rami e radici


l’Antico Pensiero si specchia
negli occhi del verde.
Nel legno dell’albero
l’arcano si svela

Fra ombre furtive di volpi guardinghe


e battiti d'ali di cince curiose,
spiano occhietti basiti di gnomi
e trols dal volto rugoso.

Esperidi – Polatti Elisabetta


Conserva la quercia più antica
nel cavo nodoso
lo scrigno
del senso che cerchi.

E intanto ride
e ammicca lo spiritello
fra i rami della rossa avellana.

AMORE

L’amore
è schiaffo alla tua presunzione
è piuma che solletica il dolore
L’Amore è docile e mansueto
L’amore si dà
oltre la sua comprensione
L’Amore è la forza che solleva la schiena gravata
L’amore vede lontano
L’Amore scava con forza caparbia
L’Amore leviga la pietra.
A fatica l’Amore ci porge
la perla del senso
che quasi ci sfugge.

Esperidi – Polatti Elisabetta


IL SILENZIO DEI MORTI

Galleggi nel bianco velario


umida anima
che cerchi domande
a sensi sopiti
e pensieri sospesi…

Attendi segnali

Fra gocce di pianto raccolte


accogli brusii di cuori lontani.

Avvolta in pause sospese


tace la voce.

Esperidi – Polatti Elisabetta


E ANCORA

Ti ho cercato smarrita
dentro forre perdute.

Nel vocio assordante, spiavo sussurri


Nel buio dei pozzi stringevo riflessi
Nella pioggia che dilava i colori
bevevo rugiada di acque salate.

Ti ho cercato
nella curva del tempo
nei sogni non nati, nei sorrisi promessi,

nei baci negati.

Ti ho cullato in notti d’incendi.


Chiusa fra muri di freddo cercavo ripari di sole.

Ti ho pregato

alle soglie dell’alba


sognando di stelle lucenti che urlavano al cielo.

E ancora, la voce
compagna al mio andare nei giorni più saggi
buca l’istante
all’abbraccio del cuore.

Esperidi – Polatti Elisabetta


MADRE

Madre
se anche non lo fossi
dentro ogni fosso cercherei di te
dentro ogni lacrima vedrei un tuo bacio
dentro la tua mano metterei la mia .

Orfani di noi, vaghiamo.


Ritagliati dal buio
fra luci allettanti in strade deserte
sgraniamo rosari blasfemi

In case servite da maggiordomi ossequiosi


consumiamo soli, pasti
ormai freddi

Ma pure ci manchi
e più dentro
è l’assenza in questo gelido giorno.

Sfavillano le stelle
a coprire il rumore di noi.

Esperidi – Polatti Elisabetta


SPIRALE

Emergi
dall’onda remota.
Spirale racchiusa nel tempo
t’avvolge nel prisma di luce
prezioso.
Fra pesci e fiori volanti, fra stelle e comete rotanti
tra nubi e uccelli leggiadri
fra fiere sovrane, tu stai
bambino
e dipani da sempre il tuo filo di luce
sospeso.

Esperidi – Polatti Elisabetta


LUZ

Tu, ritaglio perfetto


nell'ombra votiva
componi segni cifrati
in incavi d'ombra.
Materica forma
tu esalti l'avorio
che natura il tuo corpo.
S'inebria la luce in sussurri velati.

Stele vivente sull' asse del Tempio


Tu appunti, protesa
i bagliori di Sirio.

Esperidi – Polatti Elisabetta


FIOCCA

Fiocca,

Bianca nel bianco

fiocca

Dentro le mani solo


Neve.

Esperidi – Polatti Elisabetta


CIECHI

Vermi tra vermi


pavoni chioccianti in gabbie dorate
rovistiamo la melma e becchiamo
caparbi
diamanti indigesti.
Dentro la ruota impazzita giriamo
e giriamo
vuoti nel buio.

Dimentichi del sapore dell’uva


assembliamo involucri di vita scipita.

E sempre parliamo e sempre violiamo .


E sempre rumore
a ghermire il colore dell’aria.

E mani curate s’adornano


con fasci di spine
e gocce di sangue bucano tovaglie di lino .

S’innalzano, muti, gli spettri a danzare


sugli altari imbiancati.

Esperidi – Polatti Elisabetta


FRIDA

Ho fasciato di reticoli freddi


il calore del giorno.

Dolore.

Urla una rosa


scolpita dal vento.

Morsa nel cuore


anelo il fluire del pianto.

Esperidi – Polatti Elisabetta


TU SOLO, INFINITO

Siamo soli.
Il cuore non regge
il vuoto che scava gli affetti, e arresta il respiro
Le parole diventano mute
e l’affanno si tinge nel rosso
Da dentro ferite, Amore si tende
da legno incrociato
Tu, il solo Infinito
Amore nel mondo.

Esperidi – Polatti Elisabetta


FRATELLO

Fratello
riecheggi nel cuore
desiderio di sempre,
ferito.

Nella notte trapunta di sogni


fanciulli,
rischiari il calice amaro
che porgi
a labbra brucianti di sete.

Fatica di essere uomini.

Esperidi – Polatti Elisabetta


AGHI

Il vento trapassa il respiro del bosco


bagliori di ghiaccio fra verdi impazienti
Sotto la pelle aghi di pino.

GAIA

Esperidi – Polatti Elisabetta


In una coppa di riso
assemblo i bisbigli dei verdi
Nelle erbe fruscianti
s’avanza una volpe, superba.

Guardinga, annusa una timida stella.


Un pettirosso panciuto mi chiama
Lo tocco, è caldo sul ventre, di piume leggere

S’appresta la sera.

Un colibrì amoreggia, grazioso


fra il verde e l'azzurro
Che dolce toccare, che silenzio vedere.

Mi disfo in gocciole d’ aria.

Fra una nuvola scura e un sole d'acacia


bevo la sera.
....Non capisco parole.

Che dire, fratelli?


Offriamo alla tenebra oscura
la Coppa del gaio sorriso.

FAVONIO

Esperidi – Polatti Elisabetta


Mi percorri con fiati già caldi

Da marine imperlate di sale


accordi note di canti,
suadente

S'allacciano erbe alla vita più strette


più cupe, più verdi.

S'addentra in coralli d'arancio


E la goccia scintilla cobalto.

Nei campi distesi


s'arruffano steli
al Favonio che spira.

MAGIA

Esperidi – Polatti Elisabetta


Attratti da antico richiamo
scendiamo sentieri scoscesi
fra i mirti già scuri di ombra azzurrina.
Lasciamo felici le mura di sasso protese sul mare
e nel cerchio di sabbia
eletta dimora di fate e di eroi
incrociamo gli sguardi.

Raccolti nel cerchio del fuoco


spargiamo con gesti perfetti, l'azzurro e l'argento
dei nostri pensieri nel rosso aranciato.
Guizzante nel buio, s'accende un bagliore d'elettrico verde
cobalto...

Magia s'insinua
nel ritmo battente che sale
e travolge e confonde
S'accordano voci a legni percossi da palme incalzanti..
s'accende una nota che fonde, che mischia
di angeli e demoni, i visi, i colori, le forme, gli amori.
Con labbra bruciate beviamo in coppe tornite
brezze salmastre di ninfe e tritoni
mischiate a fili argentati di fate e folletti.
Tracciamo sui corpi impastati di rena
i segni bizzarri di una mappa trasmessa.

Ed ecco dal mare il Suono ci giunge fra l’onde


puledri impazienti ci chiamano a voce
montiamo veloci le schiene brunite
È ora di andare incontro all’Ignoto

E pian piano voliamo nel vento, nel mare


Fra pirati dal volto scolpito, avventurieri fatali e cacciatori di squali
dividiamo la notte su piste diverse.
In alcove nascoste nel fitto più verde, in tende fantasma fra le dune lontane
ci inebriamo di infusi divini.
Nudi, su tappeti smaltati d’indaco e verde
avvolgiamo l’Amore in seriche stoffe.
Mai sazi di baci e carezze profonde, succhiamo dei fiori l’aroma più raro
E ci amiamo da dentro la carne
che abbraccia ogni spazio, ogni luce

Ogni piccola voce si tace nel silenzio del tutto

Esperidi – Polatti Elisabetta


E il Sonno sovrano ci conduce a ritroso
sui passi perduti, sui passi trovati
nel centro del cerchio tracciato.

Sul fuoco ormai spento, fumano ancora ceneri calde.


E sulla tela del mare
gabbiani chiassosi salutano il giorno.

ESSERE

Esperidi – Polatti Elisabetta


la trasparenza esalta l'essenza,
il contenitore si esalta col vuoto,
il vuoto non parla che dentro una forma.

FORESTIERO

A me non dispiace di vivere a Bovino

Esperidi – Polatti Elisabetta


Il mio piccolo paesino
Son nato e cresciuto tra boschi di querce e di pini
Ho amato il colore del cielo
ho giocato sui sassi del vecchio torrente
ormai muto di risi argentini.
Nei campi ho toccato la fatica degli avi.
Ma io sono andato, lontano….
Tu, paesino natio, arroccato al campanile ingombrante
tu temi di guardare lontano
Siamo legati ad un solo destino
con bagagli diversi percorriamo lo stesso cammino
Tu fatichi i tuoi occhi nell’ombra e temi di incontrare lo sguardo.
La brezza di cieli più ampi, la senti straniera
E pure se solo alzassi lo sguardo, troveresti il tuo stesso profilo
riflesso nel campanile lontano.
Stranieri
eleviamo barriere di ombre,
temiamo di aprire i cancelli.
Arroccati nei nostri cortili
ci affanniamo a gestire lo spiazzo con l'occhio invidioso
di quello lì accanto.
Temiamo rapine, temiamo il confronto
fuggiamo il contatto con alzata di spalle e riso già stolto.
Per me forestiero che pure conosci, di padri e madri la stirpe
c’è forse il rispetto per l'essere strano,
l'alieno che ha troppo vissuto, che è andato lontano.
Eppure non sai, paesano natio

Esperidi – Polatti Elisabetta


quanta ricchezza si beve, se
con piedi di terra, guardi lontano.
La madre ha un'unica voce
siamo figli che hanno perso la strada
Non sai, amico straniero, il segreto che celo
Sull'unico cielo potremmo attaccare i comuni progetti
e dissetare la sete dei figli a venire.
Ma sono straniero e parlo un po’ strano
Eppure ti amo
mio paese vicino, mio amico lontano
d'un rimpianto che sta chiuso nel rimpianto del paese natio.

AD-VENTUS

Come carta assorbente


mi distendo sul nero.

M' imbevo

Esperidi – Polatti Elisabetta


mi tingo,
mi sfumo.

M' arrotolo
in cenere d' azzurri lapilli.

Scoloro la mente
per tingere il cuore.

COLLEGIO SANTA CROCE

Ti affacciavi allora alla vita


e negli occhi tenevi lo smeraldo dei giorni
Nel cuore i primi sospiri
dentro la valigia rinchiusi
Esperidi – Polatti Elisabetta
ma il tempo aveva deciso per te
l'odore di incenso costretto
fra muri e cemento
che chiudevano il cielo.

Le sentinelle di Dio
strappavano i cuori.
In gabbie e steccati procedevano i giorni
e nel freddo cortile
guardavi il ritaglio d’azzurro
e odiasti
la Croce che a forza
dovevi accettare.

Credevi in un Padre
trovasti un tiranno
Credevi nel vento
nel sapore del pane
Trovasti paura
e sogni repressi

Sentivi la mano ghiacciare


le membra pulsanti
e la rabbia salire

Mai
potei amarti così.

EX -ISTO

Solo in Te è la radice del mio esserci


nel mondo
per il mondo
dentro il mondo
fuori dal mondo.
Esperidi – Polatti Elisabetta
Existo
perchè ti ho incontrato
ed è stato Amore
dentro l'amore.

Dentro i respiri
dentro l' oceano
dentro i granelli di sabbia dorata
dentro faville di foco
ho riconosciuto la Tua voce
leggera
come ala di gabbiano

E fu
Incontro.

VIVIMI

Sfiorami.
Con dita leggere
sfiorami
Con suoni dolcissimi
amami
Con labbra bagnate
Esperidi – Polatti Elisabetta
baciami
Con sistri stranissimi
sollevami
Nel vuoto incredibile
stringimi
Fra stelle nel buio
guardami
Fra onde bianchissime
svegliami
In spiagge dorate
scioglimi
In cristalli di rocca
bevimi
Nel vento frusciante
sorridimi
Fra selve incantate
cercami.

Danza con me pianissimo


Nel cerchio fatato
tienimi
Con perle di fiume cingimi
Con labbra di rose
sfogliami
Con fili di luce
legami
Al tuo cuore pulsante
agganciami
Ai ricordi perduti
rimandami
Nel vuoto di noi
inabissami
nell’aria celeste
conducimi

Sempre nel cuore


Vivimi.

Esperidi – Polatti Elisabetta


LA VERITA’

La verità è la ricerca di noi stessi nelle pieghe della vita

dolore, gioia, sconfitta, odio, tenerezza,

solidarietà, fiducia,

Esperidi – Polatti Elisabetta


sconforto, passione …

e infine noi

sempre mutevoli, sempre in divenire,

ma con dentro una luce interiore che brilla

e che conduce i nostri passi nel mondo.

SUL MINCIO

Il verde profondo
fra la linea dell'acqua e la cortina
dei salici e dei pioppi radenti
trafora di brezza azzurrina
l’andare lontano.
Mi specchia di te la dolce presenza
quando dal Mincio più folto
s’invola il pensiero.

Esperidi – Polatti Elisabetta


E m’inebria
l’ airone nel volo.
Cinerino
delinei di perfetto equilibrio
l’azzurro del cielo.

SOFFIONI

S'apriva il sorriso
di verde cangiante
E nel giallo di ranuncoli in fiore
la tua mano.
Curiosa afferravi gli steli.

Soffiavi ridendo l'aerea palla.


Leggeri sul naso
s'adagiavano i semi
Esperidi – Polatti Elisabetta
fiocchetti d' ovattati pensieri.
Ridevi
e la mano giocava a disperderne il volo
più in là, correndo.

Danzanti sugli occhi socchiusi


s'alzano a nugoli i giochi

di allora nel sole.

IO CANTERO’ CON TE

Come carezza calda che indugia


dentro malinconica assenza, mi accompagni alla notte
portandomi in braccio-

Con una nota di amaro, speziato d'arancia


che sa di ricordi, di continuo cercare
Esperidi – Polatti Elisabetta
mi posi nell’ ombra di un pianto già dolce

Nella notte bisogna cantare parole lontane


che sanno di coccole e miele
a dissipare il buio che invade.
Io canterò con te.

BRICIOLE D'ETERNO

Dentro bozzoli angusti


scuotiamo frementi diaframmi di ombra
E tendiamo le braccia
a toccare orizzonti lontani.
Puntiamo le palme ad allargare lo spazio
dannati
e ogni notte buchiamo invasati
il buio stellato
Delusi dal sempre beviamo impazienti rugiade celesti
Con bocche vogliose di pane

Esperidi – Polatti Elisabetta


vogliamo librare i pensieri
saziando la carne
Col respiro del fuoco
da dentro
incendiamo la notte
per brillare nel lampo del Genio
che sconfina la morte.
E bramiamo superbi pensieri
sospesi nel vuoto cosciente
dell'essere eterni.
Novelli figli di Adamo
dannati
vaghiamo a ritroso
raspando nel tempo
il giorno crudele del pianto.
Discesi dal cielo a fecondare le ore
mendichiamo nascosti
briciole d'eterno
nei quattro angoli in cui stiamo.

IO T'AMO

T'amo come il sole che ingoia la notte


come sussurro celato nel pianto
T'amo come una mano che fruga i pensieri
T'amo d'un moto che oscilla
perpetuo.

T'amo
e la goccia di sangue bevuta
fascia di spine la notte.

Fra i gigli odorosi del maggio

Esperidi – Polatti Elisabetta


ho piantato nel verde
una rosa di carne
vermiglia.

CILIEGI

Musica  sale argentina


per noi
a  propagare carezze
nei cristalli d'azzurro
che tingono il mare.

Sul ciglio  del viale


esplodono rosa
gli appartati ciliegi del maggio.

Esperidi – Polatti Elisabetta


NEL SOLE
Tu, conforto all'andare
Tu, energia da sempre
immutabile

Tu, luce e ombra degli occhi

Tu
spalanchi finestre
all' effimera Notte.

Nel mondo soffriamo


la voglia di fraterne carezze
nel sole.

Esperidi – Polatti Elisabetta


TRANSITO

A volte un transito di stelle


rapisce…

Pulsa la notte
l'intermittenza di galassie lontane
e sentii il richiamo, il sidereo spasmo
Un nero ancestrale
risucchia l'andare
nel cammino stellato.

Dove non vige la ratio


anneghi, ti sciogli

Esperidi – Polatti Elisabetta


E ti esalti in quel punto di luce
che pulsa più forte.

DESERTO

Abbacinata
proietto miraggi.
Nel seppia dilato lo spazio.

Corpo liquefatto nel sole


solidifico il respiro in sabbia
e sgrano fra dita porose
l'ocra tagliente.

Rosario di pietre spaccate.


Fissità nel vuoto.

Scivola fine il silenzio


nel palmo disteso
quando accarezzo le ore.

Esperidi – Polatti Elisabetta


SORELLA

Lontana da casa
ti ritrovo
da sempre sorella
nei travagli di donna

Veli col chadòr l'antico pudore


ma il sorriso traspare...

Amica ti sento
e mi chino a bere con te
il silenzio del Tempo.

Tu mi guardi
e canti per me
Armonie di sabbia e di vento.

Esperidi – Polatti Elisabetta


SETE

Contorte radici trasudano


salini ricami
a ricordo di antichi coralli.

Terrestre
sto dentro l'assenza.
Immota radice riarsa
di rosa corrosa
nel letto di sabbia.

E pretendo
dai nembi nubiani
scuri di ombra e diluvi
battenti i miei fianchi

d’argilla spaccata.

Esperidi – Polatti Elisabetta


RANDAGIA

Randagia
vanto l'olfatto migliore

Affinata agli odori del molteplice umano

rivolto pensieri e scarto emozioni

Mi cibo delle notti vergate sui fogli bislacchi


Consunte

e all'alba
buttate nei sacchi

rigonfi
lasciati a marcire
più in là.

Nel giorno
avanzo guardinga

Sonnecchio la noia

di voci fumose in velleitari caffè

Sinuosa
mi struscio nei canti di ombra

Esperidi – Polatti Elisabetta


Assaporo pressioni
E lecco
l'aroma oleoso del loto

con lingua raspante

Satin
per pelo ribelle!

Infine

sollevo la coda al vociare


del giorno.

Già non ricordo di loro

gli Umani

che volti inespressi.


Solo
permane
l' istinto
di andare annusando di notte
l'odore del fango
nei passi lasciati.

Esperidi – Polatti Elisabetta


RISTARE

Fra l'alba e il levarsi


mi piace ristare
sospesa, non so
e andare ascoltando
immagini vive sepolte chissà
parlarmi di un'altra
volata di là
Fra volti di pietra e chiari discorsi
si aprono libri mai letti fin'ora.

Tutto mi è chiaro
Lampante
lassù

Ma già temo l'oblio


del giorno incipiente
e forte m'afferro la mente.

Che s'imbeva
E ricordi nel giorno
chi ero mai stata
e stracci di chiaro la nebbia di me.

Esperidi – Polatti Elisabetta


VARCHI

Tempo sognato
tempo respirato
forse vissuto.
Tempo in ombra d'eterno

Pensiero fluttua
istantanee
nei varchi tra l'ombra e la luce.

Esperidi – Polatti Elisabetta


FALCO

Rapidamente

artigliami

da terre bruciate

strappami

in orizzonti infiniti

librami

sulle tue  ali sfrangiate

portami

a volare più in alto

sollevami

fra rocce ghiacciate

rilasciami

nel turbine accecante

ritrovami.

Esperidi – Polatti Elisabetta


RISCATTO

S’affollano intorno
uomini soli.
S’afferrano forti a cocci vaganti
Ansimando
corrono e vanno in corsi e ricorsi
e più in là deviano il corso

Schiavi di una mela rubata


si gravano i fianchi di macigni crescenti
Espiano colpe uccidendo colpevoli
non ancora scoperti.
Sfidano il tempo, si stracciano il volto
imprecano il cielo che hanno oscurato.

E nel vuoto che sale


nella sera che depone il dolore
odo il silenzio che invoca parola
Che dica chi siamo
che gridi
che siamo caduti
ma ancora possiamo volare.
E dilegui di nuovo quel freddo che gela
la fiamma nel cuore.

Esperidi – Polatti Elisabetta


OLTRE

Non voglio oscillare

chiusa fra  bracci di forze

Costretta

nel cono dell’ ombra.

Odio le necessità gravitazionali.

Voglio uscire dal piano perfetto

del tempo necessitato

delimitato

E incontrarti

nella progressione infinita dei punti.

Lìberati.

Esperidi – Polatti Elisabetta


CLESSIDRA

Scorre la sabbia nella clessidra dei giorni


E il granello che passa
continua a tornare
Immutabile, eterno ti può sovrastare.

Ma tu solo lo puoi dilatare, immortalare


e in eterno conservare.

Se dal gorgo non ti farai risucchiare


l'istante avrà per te una valenza speciale.

Esperidi – Polatti Elisabetta


RACCONTI DALL’ISBA

NEVICAVA

Esperidi – Polatti Elisabetta


Nevicava da giorni lassù, si usciva di rado, solo i bambini, rossi di vita, sfidavano
allegri dopo la scuola, quel freddo. C'era la neve lassù sulle Alpi, un invito per pochi
a giochi di neve. Nella casa discosta da dietro la tenda, una donna osservava,
annuiva. Quei giochi infantili la portavano indietro mentre fissava quei fiocchi
perfetti e sentiva il suo tempo scendere lento. Fioccava leggero, danzava nel bianco,
si posavano istanti sulla punta del naso rivolta a guardare, a mangiare quel brulicare
di bianco nel nero. Un sorriso aleggiava nell'aria, un’intesa. Nel camino crepitavano
braci. In cucina dalla mica argentata bagliori di rosso. Sulle pareti, nel bianco, ombre
e guizzi prendevano vita. Amava d’inverno appoggiare le mani alla stufa dal cuore di
ghisa. Le scaglie di grigia maiolica azzurrata, i trafori avevano le forme ondulate dei
suoi pensieri.

Barcellona, Gaudì, una teiera di rame riverberava la luce, terra, fuoco, acqua, erano lì
con lei, in quella calda penombra. Nell’isba il tempo non aveva l’ invito. Tavole
sotto a coprire la terra, di pino più chiaro, tronchi per tetto, travi a vista, pareti di
sasso nella vecchia cucina, intonaci chiari nella stanza del the, cuscini azeri su stuoie
di lana tessuta da antichi telai, attorno al camino. Nell'ombra, fra la pietra che squadra
la soglia, una pipa e vecchi vinili. Non aspettava nessuno da tempo, non amava
mischiarsi. Si sedeva ogni tanto, scriveva una nota sospesa e il pensiero correva,
accarezzava i volti più amati, indugiava lo sguardo sulle ombre di casa, porgeva
l’orecchio ad ogni bisbiglio, gettava una frasca poi un ciocco di bianca betulla e
ravvivava le braci.

La sera scendeva, la neve scendeva, e scendeva a confondere il tempo a seppellire le


ore. Intorno la taiga e il fischiare del vento. Solo sentiva lì accanto, un calore, una
schiena in simbiosi perfetta. Nascosto nel plaid arancione profilato di greche sul
giallo, sempre gettato a casaccio, il suo piccolo cane dal mantello tiziano dorato,
rincorreva sogni fra il verde in giornate di sole, un brontolio, un sussulto, forse era
un gatto. Poi, si allungava tendendo la schiena, roteava quegli occhietti mai fermi,
controllava. Leccata di mani e sbadiglio d’intesa.

Portato dal vento lui arrivò durante la notte. -Chi sei?- Gli chiese per niente stupita,
guardandolo dritto negli occhi, mentre apriva piano la porta. Rispose il Silenzio con
ombre danzanti sui muri. Poi, riscuotendosi, come da un sogno, lei abbozzò un
sorriso, ora ricordo.- La pipa è la tua. Chissà se il tabacco sta ancora in quel canto.
Non ricordo. Forse nell'ampio cassetto o sul ripiano del tavolo, fra le carte e i libri di
fiabe e racconti. Ma no, l'ho ritrovato, scivolato per caso dal bracciolo dell'ampia
poltrona. Ricordi? Un tempo, la sera indugiavi lo sguardo più in là fissando parole
sui muri. Ricordi? Stavi li, seduto, scrivevi ed io ti ero accanto. -Sì, fece lui,
varcando deciso la soglia, mentre toglieva il mantello ancora innevato. Ora
Esperidi – Polatti Elisabetta
rammento. -Avevo lasciato la pipa e il tabacco in pegno, come la moneta lanciata alle
spalle nella fontana o nel pozzo, rituali di eterno ritorno.
Ci aveva trovati un antico sortilegio, un pentagramma d’ arpe, e ora…- Ascolta, lei
disse, risuonano ancora quei suoni di vento, non odi le voci, ti stanno parlando- Ci
stringemmo le mani e leggemmo stupiti, di segni passati incisi sui palmi, di un
passato, presente, futuro rimbalzato lì dentro, nell’’isba, ritagliata nel tempo.

Ora udiva le voci salire. -Ripercorri i sentieri, ricalca le tracce. Ti aspettano in tanti,
sono quelli di ieri, s’affollano intorno e pretendono, Vivici ancora, fallo per noi, per
loro. Non saremo mai morti-

TRACCE NEL BIANCO

Esperidi – Polatti Elisabetta


Durante la notte era scesa tantissima neve e l' isba era quasi sommersa. Sul tetto solo,
spuntavano i fianchi del grande camino di sasso che inalberava un grande cappello di
cuoco. Una fiaba per bambini e leprotti che sgranano gli occhi sognando di troll e
slitte volanti agganciate a due coppie di renne muschiate.

Nel bosco regnava il silenzio, un cappotto di bianco smagliante piegava più in basso
i rami degli abeti e dei pini silvestri come vecchi imbiancati dal troppo cammino.
Aurore si era i svegliata in quell’alba rosata particolarmente frizzante. Era scesa in
cucina e, con calma, aveva svitato la moka per riempirla fino all’orlo di nero caffè .
Poi, acceso il fornello, in attesa che il gorgoglio spandesse nell’aria il suo aroma
tostato, aveva predisposto in un piatto, su una piccola stuoia di vimini intrecciata, le
due metà della rondella di pane di segale, una coppetta di vetro ricolma della sua
confettura preferita, mirtillo nero, e quel tanto di burro che le bastava. “Manca solo il
latte” pensò. Si avvicinò alla rastrelliera sul muro, staccò dal gancio una casseruola di
rame , versò una tazza di latte e lo mise a scaldare sul fuoco. Una buona colazione era
essenziale, doveva immagazzinare calore per uscire là fuori a camminare. Le piaceva
la domenica, indugiare nel far colazione, ma quel giorno si diede una mossa, raccolse
veloce guanti e berretto, si infilò i pantavento, poi la giacca di caldo piumino ed
eccola fuori a sfidare l’inverno.

Sfavillava la neve in quel terso mattino mentre lei sull'uscio di sasso agganciava ai
sui piedi le nuove racchette da neve anticipo di Babbo Natale. Che tiro birbone le
aveva fatto il vecchio burlone!

Sapeva del suo dolce poltrire e quanto amasse impigrirsi acciambellata nel caldo
tepore davanti al camino e sognare di lunghe discese solitarie sui pendii innevati
mentre allungava i suoi piedi più vicini alla fiamma.

Una sferzata di freddo sulle gote la riscosse da ogni pensiero e quell’aria pungente di
ghiaccio le risvegliò ogni senso sopito. Amantine, si curvò, agganciò le cinghie alle
caviglie con cura, poi rimise i guanti sulle mani già intorpidite, impugnò i sottili
bastoni e si avviò decisa.

Il primo tratto di strada era quasi un sentiero semi nascosto nel bosco. Lei si apriva il
cammino su uno strato di neve fresca che scintillava diamanti, le racchette si
immergevano fin quasi alla caviglie poi, col peso, si fissava l’impronta. Un passo
dietro l’altro procedeva in silenzio, solo si udiva quel rumore particolare che le
scendeva ogni volta giù per la schiena come corposità bianca e fredda. “Percepire
quello “scrascc” significa compenetrarsi dell’essenza di quel suono vergine, che solo
si dà quando la si comprime la prima volta.” Ogni tanto urtava col braccio i rami
Esperidi – Polatti Elisabetta
appesantiti dal bianco e allora era un pioverle addosso una doccia sottile di trine
preziose.

Che cosa pensava Aurore? Nulla, solo rideva di quella spolverata di bianco.
Camminare in montagna svuota la mente. Aurore sentiva il suo corpo, le gambe e le
braccia, ritmare l’andare, il suo fiato, più caldo, condensarsi in gocciole intorno alla
sciarpa, respirava profondo, camminava e sentiva il suo passo dentro la neve fondersi
nel bianco mentre lei diventava un ricamo di neve.

Ogni tanto si fermava a guardare una cima, un crinale stagliarsi più bianco
nell’azzurro perfetto del cielo. Le brillavano gli occhi e una gioia calma le scendeva
di dentro. Il passo in montagna ha un procedere lento, si va senza una meta precisa,
gettando lo sguardo qua e là ed è facile perdere il senso del tempo. Cammina e
cammina, Aurore si ritrovò in una radura a metà della torbiera innevata. Si fermò, il
sole era ormai alto e lei ora era nel punto più elevato della piana, di fronte, oltre la
linea mediana del dosso, solo una corona di cime innevate, alle spalle il grande bosco
di pini silvestri, abeti e betulle argentate.

Era tempo di ritornare, si accese la prima sigaretta quasi a ricordare a se stessa che
non era perfetta, aspirò a lungo con gli occhi socchiusi guardando nel sole, un attimo
solo di luce ed eccola in pista a riprendere, a ritroso, il percorso di casa.

LA SCALA

Una scala di legno sbiadito, uno scivolo lucido e, sul fondo, a fermare la corsa,
pomelli d'ottone zigrinato d'antico ricamo. Quanti anni sono passati, forse secoli,

Esperidi – Polatti Elisabetta


eppure lei ha netta la sensazione di stringerli ancora, le riempiono tutta la mano,
come allora, che strano. Quante volte li aveva stretti , volteggiando veloce mentre
saliva correndo i tre piani di scale, impaziente del gioco. Adorava scivolare, a
cavalcioni, aggrappandosi stretta allo scorri mano, lisciato dal lungo struscio.
Adorava sentire quella piccola ebbrezza, precipitare giù, in fondo alla rampa, più
volte, ancora, ed ancora, un rituale di festa. Ora, fatta più grande, di nuovo la rampa.
Impaziente si vede salire e come saliva! Uno, due, se non tre, gradini per volta,
assaporando l'incontro. Lo scricchiolio delle vecchie assi di legno biancastro, era
melodia di suono. Li contava: 5, 7, 9, … 40 gradini e ancora, fino a raggiungere il
13 dipinto nel piccolo ovale di una porta di ciliegio invecchiato. Stringeva la chiave,
di antica fattura, che apriva il suo regno. Odiava il falso moderno, odiava gli intonaci
bianchi di casa, la porta sempre socchiusa di quella sua stanza, vuota, fatta di niente
e pensava -Una stanza per cosa?- E così, quando si era d'estate, lei aggirava il
consenso e finalmente migrava, ma dove, se non in cima alla scala! Di corsa
divorava gradini, un giro di chiave, ecco, ora era a casa. Si fa per dire: uno spazio
modesto, sotto tetto, nella vecchia casa ormai vuota, dei nonni paterni, eppure per
lei, conteneva l'immenso, conteneva se stessa e per lei era tanto.

Socchiude gli occhi mentre l'imbrunire s'appresta e rivede ancora il suo quadro
sulla parete di destra, fra il letto e la piccola finestra che gettava lo sguardo sulla
strada interna alle case. Il pensiero corre a Baudelaire. Amava i Maledetti francesi,
amava il richiamo degli albatros in volo, sfiorava il salmastro dell'onda. Con
l'azzurro del cielo aveva dipinto lo sfondo. Sdraiata sul letto, in antica penombra,
d'estate, tratteggiava sentieri, inalava gli odori, decifrava i suoni di luoghi mai letti.
Ascoltavano attenti gli oggetti: la vecchia specchiera con foglie di quercia intagliate
nel legno, la tinozza smaltata di bianco, un poco sbreccata dall'ingiuria del tempo.
Amava le cose che avevano storia, sentiva le mani dell'uomo, eppure il suo sguardo
era spesso lontano.. Fissava da sempre, quel quadro, appena abbozzato di tempera
azzurra e smeraldo con schizzi di bianco: un movimento, un uscire dal bordo, uno
spazio per albatros librati nel volo.

Più in basso, tre piani più giù, si udivano appena schiamazzi dentro boccali di
birra.

OLTRE LE MONTAGNE

Esperidi – Polatti Elisabetta


Amantine fin da piccina sognava di scavalcare montagne e per questo di solito
calzava grandi stivali, morbidi sui polpacci. Forse era Gulliver ibridato col Gatto
degli stivali!.. Ogni passo era una valle, un pianoro, un campo di grano, poi una
pineta con un fiordo invaso dal fiume e ancora agrumeti e ulivi contorti fin dove la
costa strapiombava nel mare. Tutto passava sotto quella falcata come arco che si
curva dal cielo. Di chi sono le valli, gli orti, le selve? Si chiedeva, parafrasando un
amato scrittore, e nelle orecchie le sembrava di udire l’eco del viandante che nella
calura di un luglio riarso, passava in carrozza nella la piana fra Catania e Siracusa.
Forse il Verga le voleva mostrare quel giorno, un certo compare ... Ma che c'entrava?
Lei non viveva in quei tempi, solo si divertiva a scavalcare montagne, non amava i
giganti che, con il corpo ingombrante, ingoiavano tutta la piana. Che importava ad
Amantine di tutti gli armenti, di tutta la roba, lei non voleva occupare la terra, se mai
scavalcarla, guardando dall'alto quelle piccole case gravate di alacre fatica, quei
granai stracolmi, stipati a forza da poveri oppressi, sudati, ammorbati da una terra per
loro matrigna. Pochi tarì per loro, da spendere forse in un giorno di festa. Lei se ne
infischiava di accumulare la roba. Per cosa, diceva, pigliarsela tanto, rodersi il cuore,
se poi nella terra l’avrebbero messa ignuda. No, per fortuna la lezione verista le era
servita, non a caso si era regalata quegli splendidi stivali di gatto!. Non poté indugiare
lo sguardo più a lungo, la intristiva quel gigante steso per terra, ogni sua piega del
corpo nascondeva lacrime e pianti di donna. Distolse lo sguardo, Il suo regno era
sospeso, a volte, dove le nubi sfiorano a volo l’azzurro, le sue strade non avevano
senso di marcia, nessun divieto la impediva: virava, impennava, planava: solo la
corrente le faceva timone.
E così capitava che Aurore mutasse al bisogno, gli stivali con penne sfrangiate,
cambiando a piacere il campo d’azione. Ma quando quel giorno percepì in
quell’ombra venuta dal cielo, la presenza possente di un essere alato, sapeva che
qualcuno le aveva letto il pensiero. Solo un’aquila, una specie assai rara, poteva
arrivare là dove solo i pensieri riescono ad andare. Paura? No. Aurore non temeva
quei grandi rapaci, ne aveva rispetto: è un privilegio poterli vedere, parlargli è raro,
volare un sogno! Come poteva lei scalare quel crinale infido ed erto, troppi i crepacci
e saracchi di neve e poi gli stivali fatati non erano collaudati per la distesa di neve, lì
occorreva una diversa magia. E le gambe non erano adatte, era già tanto se avevano
retto la lunga corsa sul fondo, non erano avvezze a tanto salire, l’alta quota poi le
procurava ronzii labirintici che l’avrebbero fatta di certo precipitare nel vuoto. Ma
salire agganciata a quelle ali sfrangiate, ascendere nell’alto, era il mito, il sogno
sognato di un tempo. Chiuse gli occhi e si concentrò nel volo. Solo li aprì in un
abbaglio di luce quando planarono nel nido.
Cosa si dissero un umano e un rapace? Mah, di certo è un codice strano, un enigma il
cui senso si scioglie quando le specchi dentro le linee pulite di un cristallo di
ghiaccio. Scendere fu come sfrecciare su un nastro lanciato a capofitto nel bianco,
una follia se non fosse stato per quelle tracce sfrangiate che rastremavano d’ ombra
tutto quel bianco!

Esperidi – Polatti Elisabetta


Raccontano due guardiacaccia del posto, giurando su ciò che avevano di più caro,
che quel giorno videro una donna scendere con gli sci dal crinale, quasi danzare
avvolta alle spalle dalle enormi ali aperte di un’ aquila reale. Sfioravano appena la
distesa di neve, sembrava che la guidassero dolcemente verso la valle. Poi,
continuarono i due, a due passi da un’ isba, si udì uno sbattere d’ali più forte e un
richiamo, forse un saluto. Basiti, la seguirono con gli occhi prendere quota, salire fin
o oltre il crinale e scomparire in un punto lontano. Ancor oggi corre leggenda, a molti
assai cara, di una donna e di un’ aquila congedarsi a due passi da un’ isba lontana.

OLTRE IL CONFINE

Diciott'anni E tanta voglia di tutto e di niente. Impaziente spiavo l'uscita, il piccolo


passo limitava il pensiero. Che c'era più in là delle creste imbiancate, oltre gli abeti
più verdi, oltre i sentieri battuti, com'era la gente, com'era l'amore? E il vento del sud
un poco più caldo, mi sussurrò quella notte suadenti parole. Erano i tempi dei lenti
allacciati più stretti, degli sguardi infuocati, delle tempeste di ormoni, dei piedi
impazienti di danze discinte, di parole gridate, di spaghetti e quattro risate, di mani
strette alle altre ad afferrare il futuro. Ricordo binari e un lungo sfrecciare, stringevo
la gioia quel giorno, violando il confine, aprivo la soglia. Gabbiani sul mare e bianco

Esperidi – Polatti Elisabetta


accecante. Com'era diverso dov'ero. Riarso, spaccato, il terreno mi feriva nel sole, si
perdeva lo sguardo ai confini del mare. Bevevo l'estate bruciandomi al sole e, a sera,
nell’ ombra intrigante dei lecci leggeri sul mare, il mio corpo vibrava, sensuale
all'abbraccio.

EMMANUEL

Era ottobre inoltrato quei giorni in Salento e mi rivedo ragazza, fresca di fede nuziale,
nella terra del mare più azzurro che avessi incontrato, degli ulivi d'argento contorti,
delle voci straniere, delle sedie sull'uscio, affacciate alle strade, di terrazzi sui tetti, di
ozze brunite, di limoni che portavano il sole dentro le case, di forni per cuocere il
pane, di mandorle nel cuore dei fichi tostati...quando rimasi incinta. Che dire… Il
Salento, una notte, il mugghiare del vento, la burrasca su mare, ti avevano portato,
dentro un sussulto d'amore. Dopo lungo cammino e tempeste di sabbia, pensò il
vento, rispondendo all'urlo del mare, la terra brucia di sete, è tempo di pioggia
autunnale. E fu cosi che in questa lingua di costa abbracciata dal mare, fra fichi
d'india protesi, venne il tempo di essere tua madre, figlio mio. Dopo tanto vagare,
tanto cercare, tu venivi e ancoravi alla terra radici profonde. Allacciandomi al tuo
tempo, mi aprivi al progetto e fosti da subito Emanuele.

Esperidi – Polatti Elisabetta


Non so perché, ma lui mi venne a cercare, un nome, un legame sacrale, forse già si
palesava ai miei occhi, ancora velati.

IL MEDAGLIONE GITANO

... Ricordi? Mi disse la vecchia gitana toccandomi piano una spalla - Ci siamo
incontrate ... rammenti il campo, il fuoco a scaldare la cena, la roulotte poco distante?
Era una sera d'agosto e tu arrivasti in un soffio di vento, nulla sapevi, volevi
vedere, frugavi il presente.- Trasalì un poco, Amantine per l'inaspettata presenza. Non
aspettava nessuno con quella bufera. L'isba era un luogo lontano, protetto fra gole di
monti, impervia era la strada, - Non era possibile, non poteva essere vero, ma, come
era giunta fin qua, lei che amava la terra argillosa, i carrubi, gli stagni salini, i neri
cavalli scalpitanti d’ardore, i fenicotteri rosa? Ma no, non era di certo lei, forse era
quell’altra, la sua gemella che viveva in quel ritaglio di terra scampata alle auto
invadenti, ai caseggiati fatiscenti, di quella Milano nascosta, rifugio di immigrati,
spacciatori e nulla facenti. Forse era la vecchia di allora.- Si disse. Qualcosa infatti la
richiamava, un filo sottile, un vago ricordo. Amantine si ritrasse, un brivido strano le
percorse la schiena, un pensiero insistente, un bagliore le apparve, un oggetto

Esperidi – Polatti Elisabetta


mancava da tempo, ma solo da poco quella perdita le inquietava i suoi giorni. -Dov’è
la stella, dove l’avrò mai cacciata? Mah, inutile cercare, in tutto quel caos, chissà
dove si sarà cacciato quel medaglione di oro gitano.- Lo sapeva che era inutile
impegnarsi a cercare, troppo tempo era trascorso, le tracce si erano perse. - Ma
perché questo pensiero insistente, forse vuole che ricordi qualcosa, forse incolparmi
di averlo perduto?- Poi rinunciò a pensare, lasciò correre e semplicemente attese.

Lei, sorridendole strano, le tese la mano aperta e le parlò - Sono venuta fin qua da un
luogo lontano, lo so che mi hai più volte cercato, ti mancava qualcosa che ora ti
porto, quello che mi avevi, da tempo, lasciato in custodia di ritorno dal tuo viaggio in
Spagna. Era d’estate, alla fine di luglio e tu mi chiedesti un posto per passare la
notte. Era la festa gitana di Saint Marie la Mere e tu e la tua famiglia bussaste al mio
casale moresco per chiedere una stanza. Non c’era più posto negli hotels e tu volevi
restare, non volevi mancare quell’appuntamento sul mare.

Amantine la guardò cercando di afferrare i ricordi poi, un dettaglio, due … e di nuovo


la vide. Vestiva una gonna di cotone amaranto, un corpetto nero di tessuto più
grezzo, due piccoli cerchi all’orecchio impreziosivano il lobo, una fila di coralli
amaranto le cingevano il collo grinzoso, e sul volto brunito, scavato da un intrico di
piccoli solchi più scuri, un’espressione assai fiera.

Di colpo l’isba scomparve ai suoi occhi e Amantine si trovò nella stessa piazzetta sul
retro della chiesa della Madonna Nera, era il 1996 e non era sola, con lei le figlie
Marie, Sofie e suo marito Giovanni. Nella piazza la gente aspettava, in piedi,
ritmando la musica gitana dei Gypsy King, l’arrivo dei due capi clan per dare inizio
alla festa.

Comparvero alfine dall’ombra come leggenda, imponenti, regali nel loro costume di
festa, montavano a pelo, due purosangue impazienti che a stento trattenevano al
morso, uno nero e l’altro pezzato di bianco. Una strana frenesia prese un po’ tutti e
Marie che allora era piccina, eccitata, ruppe il silenzio e con voce squillante,
indicando seriosa, col dito puntato al sesso possente del baio, apostrofò così il
cavaliere -Mah… che gli è successo al cavallo … a quella cosa là sotto?- Tutti
scoppiarono in riso, e lei catturò la festa per molto. Ci congedammo a notte inoltrata
con Marie al settimo cielo per la dedica avuta dal chitarrista della band insieme al
CD a lei regalato.

Dormirono, si fa per dire, quasi vestiti in una roulotte sulle rive del Rodano
ascoltando il frusciare del vento fra i salici che lambivano l’ acqua ormai prossima
ad immergersi in mare.

Esperidi – Polatti Elisabetta


Si riscosse Aurore, travolta da antiche emozioni e guardò la vecchia di nuovo. Ora
parlava con voce più grave di quel mattino quando ripresero il viaggio -Tu l’hai
strappato dalle ombre passate, il medaglione non si era mai perso, stava qui in terra
di Francia, pronto a tornare, pronto a riprendere il suo viaggio se solo tu l’avessi
chiamato.

INCIPIT

Un incipit, ecco cosa le mancava, un’ energia calda che spingesse la ruota ma questo
Aurore ancora non lo sapeva. Le amiche, si sa, non sempre danno saggi consigli,
ma ,a volte, l’eccezione conferma la regola, e quasi per gioco, quel giorno di aprile,
Amantine la prese in parola e aprì la famosa finestra sul mondo. Dall’etere venne
qualcosa di strano, un colpo di mano, chissà, ma Platone comparve a dirigere il corso.

Poteva essere tutto banale, una curiosità, tanto per fare qualcosa, saggiare il terreno
insidioso dell’altro, dell’uomo senza alcun volto. Poteva essere, tutto è possibile, tutto
si dà.

Solo più tardi lei capì che ogni cosa segue il suo corso. Sedeva in poltrona, dopo la
cena, in disparte pensando a quel giorno. Lo trovò per caso, un nome vergato con
intento preciso, uno pseudonimo letterario che lei lesse come un invito criptato ad
osare, a mischiare le carte. Non esitò. - Come è vero che l’indole si imbriglia ma non
si annienta!.- Voleva azzardare, aveva bisogno di riprendersi in mano, voleva bucare
quel manto di grigio che l’avvolgeva pian piano e decise che lei poteva giocare.
L’affascinava l’incognito, il poter svelare pian piano la natura di un uomo. La sorte
giocò a favore, poche battute le bastarono a capire chi aveva di fronte e iniziarono a

Esperidi – Polatti Elisabetta


parlare. Presto avvertì un calore avvolgerla piano, fluiva il pensiero con note alterne
mischiando il sacro al profano. -Lo pseudonimo calza perfetto- si disse contenta.
-Una mente acuta, pronta a volare, un tono suadente disincantato, capace di far
sprofondare. Com’era eccitante parlare di Idea e avvertire un richiamo salire pian
piano. S’incendiava la mente poi scendeva nel petto quel fuoco. Bruciava il sospetto
lasciando la scena ad un diavoletto che trafficava con forza a spazzare quell’orribile
freddo.

La notte fu molto agitata, Amore le apparve col volto intristito e i panni dismessi di
una donna negata. Si vide allo specchio e prese paura.

L’indomani usci, si tagliò i capelli, scelse con cura un intimo nuovo e uscì sul corso
affollato guardando in viso la gente che incontrava.

LE CASE

-Le case - pensava Amantine, mentre vedeva scorrere i tanti suoi porti, -Ti fermi
quanto basta, ci lasci un'impronta, uno spezzone di vita e mai ti calzano tutta. Come
un abito le tieni addosso, ti affezioni finché qualcosa comincia stonare, hai fretta di
mutare vestito e scegliere un abito nuovo scordando i vecchi indumenti nell’armadio
all’ingresso di turno. Viaggi con pochi bagagli, quel tanto che basta per non patire
l’inverno, un cappello per giornate di sole, una lampada ad olio per addolcire, di
notte, i libri con cui parli nel giorno, gli oggetti più strani raccolti in passeggiate
notturne, frequentazioni d’assurdo.

Lo sguardo di Aurore cadde in quel preciso momento su scritta vergata a biro sulla
prima pagina ormai ingiallita dal tempo. Rita 1972. Trasalì a quella visione. Che
strano trovarla ora, alle13.20 proprio sul libro di Sartre che un altro ricordo aveva
riscosso dagli scaffali polverosi di legno solo una manciata di ore appena trascorse.
Nell’isba si celava di certo un mistero e lei lo percepiva ogni giorno di più. A
conclusione del viaggio, quando aveva scelto di vivere là, vi aveva ammassato i
ricordi, i libri, gli oggetti, i visi del tempo passato. Non riusciva a separarsene anche
se giacevano muti, da anni, ai suoi occhi distratti, occupati dagli impegni del giorno.
La loro memoria si era offuscata. I loro fantasmi li aveva cacciati nel ripostiglio
più buio in cui evitava di entrare, tanto da non rammentarne ormai più l’esistenza. -Il
passato è passato, chiuso.- Si diceva a conforto. -Il presente è adesso, pensiamo al
futuro!-

Esperidi – Polatti Elisabetta


LA CHIAVE

Che strano decidere quando far iniziare la vita, ma lei aveva tracciato con inchiostro
indelebile una data: 1980. Sì, Aurore era nata quel giorno! Un colpo di spugna
voluto, un chiavistello, un tabù che non poteva violare. Ma che cosa temeva
Amantine per avere stracciato da sé l’antico suo volto? Sapeva forse di aver troppo
osato, di aver scardinato qualcosa, di essere entrata nel buco della serratura del tempo
ed avere viaggiato trasportata in un’onda spaziale? Sapeva che era magia, che non era
normale, aveva ancora un vago ma incessante ricordo, di trovarsi fra i flutti. Un
giorno, persa la presa, il timone si spezzò e lei si trovò in mare. Il panico la prese, si
vedeva morire, affogare, era spettatrice commossa del suo lento morire ma una voce
da dentro, si fece più forte: -Resisti, non ti abbandonare, la spiaggia è vicina, devi
lottare.- E fu cosi che Aurore si ritrovò su rena ospitale. Ricompose le vesti, e il suo
volto disfatto poi, risoluta, ripose la chiave del mondo sommerso in alto, sul
portachiavi all’ ingresso di casa mischiate alle chiavi di serrature in disuso o
cambiate. Si diresse dal fabbro lì accanto e scelse per il mondo terrestre una chiave,
nuova di zecca, d’acciaio lucente. Ma ora, quel nome vergato sul libro la riportano in
dietro e inizia il suo gioco di andare a ritroso, senza un ordine logico, spaziale, solo
nessi, analogie e rimandi. Le immagini scorrono si legano a emozioni vissute, a segni
e simboli lontani.

Da quando aveva riscoperto quell’isba Amantine, la sera, rileggeva se stessa,


riannodava dei fili e, scavando all’indietro, si ritrovava nel centro di lei. Scrisse, un

Esperidi – Polatti Elisabetta


giorno, passando la mano su una lucida conchiglia, “porcellino di mare” mi fece
notare qualcuno che la sapeva già lunga, una frase partendo da destra verso sinistra,
al contrario lei scrisse: -A ritroso nel tempo, leggo il presente e scrivo il futuro.-
Quest’isba è proprio stregata, sembra normale ma, se ti lasci un po’ andare, inizia a
giocare, a disporre dei puzzle e i disegni si vanno ad incastrare. Amantine era una
patita di chiavi, ne aveva a mazzi: appese, nascoste in cassetti, gettate in contenitori
di latta. Ogni volta impazziva a trovare quella giusta che aprisse la porta. Provava,
tentava, insomma perdeva un sacco di tempo, finché -Eureka!- insistendo, la scovava.
Scrisse finanche una poesia sulla chiave perduta. Era di luglio e sul prugno
dell’ortaglia che si estende non lontana dall’isba, eredità del nonno paterno, i grossi
frutti violacei le rammentavano il tempo della raccolta. L’orto era abbandonato da
tempo, non le avevano trasmesso né il padre né la madre l’arte antica dell’orto.
L’albero, tuttavia s’era rinvigorito, quasi che lo stato selvatico circostante gli avesse
convogliato e fatto fluire tutte le energie di quel pezzo di terra e, manco adirlo, aveva,
per la prima volta, fatto maturare abbondanti e invitanti frutti. Ma qual era il
problema? Non c’era verso per Amantine di ritrovare la chiave del lucchetto che
teneva serrata la porta di legno con una pesante catena. Lei già aveva avuto qualche
sospetto. Forse la chiave di volta era dentro di lei? Lei aveva perduto la chiave? –
Certo.- pensava, qualcuno aveva chiuso quell’orto dove lei si sentiva estranea e ora,
che tutto era tornato selvaggio, cos’era quella voce insistente: - Cerca la chiave, la
chiave perduta non è lontana, cerca nei mazzi, tu sai come fare!- Amantine sapeva
che non era razionale, anzi pensava di non essere del tutto normale. Era inutile
rovistare cassetti, ribaltare, svuotare le tasche, lei si sarebbe fatta un giorno trovare,
perciò, al momento, decise di far scavalcare la rete in attesa di entrare.

Passò circa un anno, poi un giorno, ripulendo un vecchio carrello di plastica verde
telata, con disegno scozzese che sua madre usava per trasportare la spesa e soprattutto
gli ortaggi dall’orto fino a casa, nella tasca più esterna, ricomparve la chiave. La
riconobbe, anche se un po’ arrugginita dall’umidità sorbita, dalla medaglia di un Papa
che ornava l’anello. Non poteva che essere quella, conosceva sua madre. –
Finalmente!- si disse -ora posso entrare.- E la ripose di nuovo sul portachiavi di rame
battuto, fra due boccioli di rose e tre foglie di verde smaltato.

I giorni d’estate passarono, venne l’autunno, lei ogni tanto passava dall’orto, gettava
uno sguardo distratto, forse sarebbe entrata, mah, chissà! Certo era che, toccandosi in
tasca ogni volta, con disappunto, si diceva - Uffa… la chiave! Peccato, anche questa
volta, non c’è, l’ho lasciata in casa!

Esperidi – Polatti Elisabetta


RABAT-Marocco

Come è vero che le prospettive mutano… Ciò che fino ad un attimo prima giudicavi
fastidioso, si rivelerà una salvezza e una opportunità. Amantine e George, il suo
compagno di viaggio, erano giunti in un'ora davvero tarda da Tetouan a Rabat con il
classica corriera scassata, reperto archeologico con accessori multiculturali, era il
classico viaggio fai da te, on the road. La piazza era deserta, non un'ombra di vita, di
hotels neppure parlarne. I due si guardarono attorno, si era nella zona del porto,
avrebbero potuto dormire sulla spiaggia, il sacco a pelo era un compagno fedele a
quei tempi, ma George non era convinto, il luogo non lo ispirava, temeva incontri
notturni. Amantine, che già sognava avventure di sonagli e cammelli, lo prese per
mano e si avviò verso le mura della Medina in attesa che capitasse. Non aspettarono a
lungo, due turisti per caso sono occasione per tanti, e non dei migliori. Arrivarono in
due, e iniziarono a parlare -Ciao, amici, italiani, che fate, noi aiutare...- Amantine era
dubbiosa: Che fare? Accettare l'invito? George fiutava l'agguato e per questo cercava
di mantenere la calma, tirava alla lunga e, con largo sorriso, chiacchierava, senza per
questo schiodarsi dal muretto in piena luce sul quale si erano seduti nell'attesa di un
colpo di fortuna, di una soluzione all'empasse. Nel peggiore dei casi, si diceva,
avrebbero trascorso la notte lì all'aperto: l'aria era calda, il cielo stellato, tutto
tranquillo. Poi successe il miracolo. Udimmo due motorette salire la stretta, due
uomini scesero e come uccelli all'arrivo del cacciatore, i nostri compari sciamarono in
un attimo. Si presentarono come due poliziotti. Amantine ebbe un rigurgito di ’68.
-Due sbirri!!!- pensò. Ma dovette presto ricredersi. Mohamed le spiegò in perfetto
francese, il pericolo corso. Se fossimo andati con loro, l'indomani non avremmo più
avuto né bagagli né soldi. - Ormai, ci dissero, non è possibile trovare un alloggio.- E
si offrirono di ospitarci per la notte nella casa di Assad, quello che non aveva
famiglia. Ci dividemmo. Amantine con Mohamed e George con Assad.

Lei fu la prima a raggiungere il luogo. Non era molto tranquilla, gli sbirri, come ho
detto, le davano un po’ di allergia. Aspettarono per quasi mezz'ora, e intanto Saddam,

Esperidi – Polatti Elisabetta


lo scapolo, cercava un approccio. Lei capì la situazione e, con fare gentile, gli disse,
mentendo, che era sposata, che George era suo marito. Finalmente lo vide arrivare.
Mohamed aveva di proposito allungato il percorso per dare il tempo a Saddam di
provarci. Nel tragitto, seppe più tardi come abitudine del tutto normale, che
Mohamed gli aveva proposto un qualche affare: si, uno scambio, un baratto
all'orientale ... e lei era la posta! Chissà se era stato solo un azzardo o facessero
proprio sul serio, mah, sta di fatto che messo in chiaro che il baratto non era da
George accettato, si dimostrarono perfetti, anzi nei giorni a seguire, Mohamed ci
portò nella sua casa nel cuore di Rabat, dalla sua famiglia che ci ospitò per più di una
settimana, un'esperienza unica … ma la racconterò nella prossima storia.

Esperidi – Polatti Elisabetta


TAJINE

Aveva passato anni a nutrirsi di quel che le capitava: cappuccino e cornetto, in quel
di Milano, baghette e confiture a Parigi, miele e yogurt nei piccoli caffè nell’isola di
Ios in mezzo al mare Egeo. Amantine, in verità, apprezzava mangiare, solo che
spesso era troppo distratta per sentire il languore, le bastava una buona colazione sul
tardi e poi qualcosa per cena. Ma, quando era il caso, quando mangiare era gustare,
entrare in contatto, immergersi, allora tutto cambiava. Ricordava sempre il piacere
che animava quel volto di bambino a china che aveva tracciato un giorno, un vero
trionfo di voglia, un bambino paffuto che mordendo una pesca rotonda, se la
spalmava, affondandovi dentro la bocca, il viso e le mani.

Si trovava a Rabat da un giorno lei e il suo compagno di viaggio, da Mohamed,


ospiti nella sua casa, praticamente catturati dalla sua voglia d’Italia. Quella mattina
Aurore, svegliata dall’aroma forte del caffè nero, si diresse seguendo la traccia fin
sulla veranda e attese. La colazione non si fece aspettare. Su un ampio vassoio di
vetro, sorretto da una mano brunita, stavano tre caffè in bicchieri di vetro, grosse
olive nere dentro una ciottola di ceramica bruna, un piccolo paniere con fette di pane
tostato e ancora coppette di yogurt bianco e, nel centro, una coppetta di miele.
Fatima, come ombra, dispose tutto sul tavolo accostato al muro della veranda di casa
e si allontanò -Wow! colazione all’aperto, che delizia!- L’aria marina aveva
svegliato in lei un languorino che chiedeva conforto e la rendeva impaziente, per
fortuna, niente latte, com’era naturale per lì. Questo Amantine l’aveva compreso a
sue spese quando, da buona occidentale, non si era adeguata alle abitudini del
posto. Ricordava con orrore la seconda notte in hotel quando fu colta da terribili
crampi di ventre.

Trascorremmo il mattino sulla veranda di casa. L’aria era dolce e il tempo si era
impigrito con noi nell’ombra accesa dal lilla di una splendida bouganville che
correva dal piano basso fin sulla colonna del portico del primo piano.
Chiacchierammo con il padrone di casa di com’era la vita in Italia, del miraggio di
tanti di loro. -Non sanno che vanno a trovare, rumore di clacson, luci elettriche e
freddi giardini in cemento.- Pensava ascoltando, Amantine, ma non osava parlare,

Esperidi – Polatti Elisabetta


non voleva distruggere un sogno e tacque. Le piaceva ascoltare Mohamed che, con
quell’accento francese, la faceva partecipe di come aveva sistemato la casa, e diceva
orgoglioso del suo lavoro di poliziotto, di come vedeva il futuro.

Parlava e noi godevamo di tutto, come fuori dal mondo. Il sole frattanto si era fatto
più alto nel cielo e si udiva da fuori, attutito dalle spessa mura di casa, il vociare
della gente per strada poi, d’improvviso, si levò sopra ogni cosa, sospeso nell’aria, il
canto del muezzin a ricordare la casa del cielo. Ormai si era fatta l’ora del pranzo e ci
spostammo in un ampio locale all’interno. Unico arredo un tavolo basso che
poggiava sul un grande tappeto che ricopriva quasi tutto il pavimento. Ottagoni e
motivi floreali si alternavano a figure stilizzate di struzzi nel riquadro centrale
profilato da fasce con greche più piccole di stelle e fiori ottagonali, intercalati a
piccoli triangoli, il tutto filato con i colori della terra di Siena bruciata alternata al
bianco. Ad ogni posto corrispondeva un basso cuscino. Ci accomodammo, Amantine
era la sola donna ammessa alla mensa perché era straniera. Le donne in Marocco
mangiavano a parte. Era eccitata, ma anche un poco perplessa, non notava sul tavolo
alcuna posata né tantomeno tovaglioli, ma era pronta a tutto. Arrivò Fatima e la
figlia più piccola Karim per il rito dell’acqua. Una reggeva un bacile di alluminio
smaltato di bianco su cui correva una greca turchese, la madre reggeva una brocca
della stessa fattura e sul braccio teneva appoggiato un asciugamano di lino con
frangia sottile. Quando arrivò il suo turno, porse le mani all’acqua che Fatima
versava sorridendole sempre. Le piaceva quel rito comune, poi, con fare gentile,lei le
porse la stoffa e così asciugò con meticolosa cura, entrambe le mani.

Al termine dell’abluzione comune, arrivo il taijne, in una capiente terrina in ceramica


fonda con uno strano coperchio ad imbuto forato e fu posto nel centro. Era bello
vedere quell’unico piatto in quel tegame di cotto, un stufato: riso sul fondo, pezzetti
di pollo nel centro e piselli e carote tutt’intorno. Seppi più tardi che il piatto, prende il
nome proprio dal particolare tegame in terra cotta che permette una cottura lenta. Era
molto speziato: coriandolo, zenzero ed altro e il profumo era avvolgente. Amantine
si meravigliò quasi di sé per la naturalezza con cui iniziò a prendere il cibo con le
mani partendo dal bordo, prima le verdure e il riso, poi, con calma i pezzetti di carne.
Era stupendo vedere come ognuno si regolava badando al vicino, si parlava piano, più
che altro di cibo, e si sorbiva ogni tanto the verde alla menta. Non era la prima volta
che mangiava usando le mani, l’aveva sperimentato a Parigi in un a mensa per
nordafricani, ma lì era diverso, lì si sentiva integrata, respirava la loro cultura,
mangiava con loro e capiva pian piano, mentre con le mani portava alla bocca un
boccone di cibo, come era speciale quel prendere insieme da un unico piatto centrale,
ciò che la mensa le offriva, non lo sentiva affatto tribale.

Esperidi – Polatti Elisabetta


OCEANO

Un’onda anomala, rossa sabbia offuscò i bagliori del ghiaccio... una nuvola strana
l’aveva raggiunta in quell'alba di neve là nella taiga.. E la vide di nuovo quella grande
distesa di sabbia, immensa sull’ oceano d'Africa. Non aveva uguali, si perdevano i
passi… e si vide di nuovo. Camminava di prima mattina ingoiata dal blu che la
prendeva man mano. I piedi, ancora esitanti, lasciavano orme più scure, dietro, a
distanza, le mura dell'antica fortezza la chiudevano al mondo. Vestiva di tessuto
leggero, una tunica indaco. Quel lilla, fra i verdi, i grigi ed i bianchi del bazar
marocchino, l'aveva sedotta... l'acquistò per pochi dirham, voleva cambiare la pelle,
inventarsi una foggia intonata alla sabbia, ai riverberi d'oro dei ceselli d'ottone, al
turchese folgorante delle teiere alla menta, alle piastrelle smaltate di bianco con
geometrie di verdi intrecciati col nero che foderavano i bazar nascosti dalla ressa dei
volti. Quel brulicar di vesti, quegli occhi ovunque, dentro la Medina di Rabat,
l’avevano assalita di colpo, togliendole il fiato. Troppa umanità, sudore,
un’inquietudine l’aveva presa da dentro, doveva uscire, aveva bisogno di spazio.

Camminava ora in direzione del mare che appariva, al suo avanzare, sempre più in là,
lontano. Sul fondo. Il vento soffiava da dietro scompigliandole i neri capelli sempre
ribelli, giocava, sferzava sollevando a tratti il vestito... Curiosa, iniziò a frugare con
gli occhi quella distesa di seppia in cerca di vita ma, per poco rimase deluso il suo
sguardo. D'incanto, fra la rena, visualizzò delle forme, si chinava e, man mano, con
rapido gesto, toglieva quel velo che celava un bagliore. Riportate alla luce, ora
brillavano al sole madreperle sottili adese a gusci aperti di rena pietrificata, corrosa,
increspata. Si disse -Stupendi, sfogliatine croccanti di carapaci, intere, sfogliate,
scheggiate in frantumi taglienti, ammassati in piccole conche scavate dal vento-
Sorrise. -Che inezia dentro tutto questo grande!- Ne raccolse parecchie, non riusciva
a scartare, ognuna formava un profilo, ognuna riverberava dal cuore un riflesso.
Erano cosi delicate che temeva a riporle. Poi, camminando, giunse sul mare. Una
forza sollevava il suo corpo, mischiava le creste, spumeggiava il bianco, s’immergeva
nel verde cobalto, si alzava, sprofondava, si ergeva ad un ritmo incalzante. Rimase
interdetta, basita, non pensò a nuotare, era troppo, era il gigante del mare. Resistette
per poco a guardare, poi non seppe frenare i suoi piedi già immersi nel mare. La
battigia era ampia, si poteva azzardare. Non scorderò mai ciò che provai . Man
mano procedeva, affondava di un poco, la rena non era più ferma, tutto sotto
cambiava. Non era che a pochi metri dall’onda con l’acqua ai fianchi, quando perse
Esperidi – Polatti Elisabetta
ogni direzione di spazio, non capiva dov’era non sapeva chi era, mentre da sotto, una
forza s’avvolgeva a spirale. Scendeva, ruotava avvolta dal mare. Non ricordava
quando riprese il controllo, ma uscì correndo giurando a se stessa che mai avrebbe
sfidato ancora, il Dio del mare.

CERTOSA

Esperidi – Polatti Elisabetta


- E’ straordinario - si disse Amantine, i ricordi dormono a lungo, come sepolti, poi
qualcosa li sveglia: un colore, una frase. Stanchi di stare inespressi, mischiati nella
penombra agli oggetti smarriti, vogliono corpo, tinte e parole. E cosi Aurore, il
secondo nome, tanto caro a suo padre, gran sognatore di albe boreali, riprende a
narrarle di allora. Avrebbe potuto scegliere di restare, essere come stava scritto,
rinunciare, proseguire la strada battuta, quella consueta, ma, fin da piccina, amava il
contrario: dov’era la luce intravvedeva le ombre, il grigio poi lo detestava, era un
tipetto allergico alle tinte già scelte.

Amava osservare i colori, le forme, sognava di essere una pittrice e di ricreare. Il suo
primo regalo che chiese per i suoi quattordici anni, fu una valigetta di colori ad olio
con cui strapazzare la tela con spatole e pennelli di setola dura. Il mare, i fiori, i visi
di donna la impegnarono un poco. le piaceva impiastrare con tratti un po’ duri, con
colori primari, ma ancora solari. Non era poi male, per una principiante. Un
mercante, capitato per caso a sorbirsi un caffè, li vide esposti senza cornice e li volle
acquistare. Rimpianse quel giorno, ripose i pennelli … ma continuò a guardare.
Le piaceva la terra,voleva impastare e fu così che, fatta più grande, capitò in una
bottega artigiana in terra padana. Quando lo vide chino sul tornio, non resistette,
scese i pochi gradini di sasso che davano al locale e lo incontrò, il suo primo
maestro, René, un anziano davvero singolare.

Abitava a Certosa produceva il “Gra Car “, distillato verde di erbe, antica ricetta dei
frati. La sua famiglia un tempo, viveva all’interno delle mura possenti della Certosa,
poi, per motivi che mi palesò più avanti, in modo assai vago, fu costretta ad uscire e a
costruire, non lontano, un casale tutt’ora esistente, dove trasferire l’impresa. Un corpo
ad elle di un sol piano disposto secondo il tipico schema dei casali padani. Lui
viveva, attorniato dai gatti, nell’ala est e, poco distante, nel cuore dell’edificio,
l’unica, anziana sorella.

-Credo sia stato un militare in pensione- mi disse, ma non ne era più certa. -Un
aristocratico un po’ demodé, viso asciutto, quasi altero, occhi acuti, sagace, una testa
balzana, così diceva di sé, uno da non prendere ad esempio. Amava il fai da te e,
senza fretta, aveva costruito gli arredi della sua dependance. -La ricordo ancora la
grande sala per ricevere gli amici: essenziale con travi di legno scuro, a vista,
rettangolare, con pareti intonacate di bianco e, accostato alla parete sud, un grande
tavolo per dieci. Legno ruvido, un fratino direi, monacale, una cassapanca a destra sul
fondo, sedie austere e una grande finestra con vetri riquadrati di legno, che dava sui
campi. Ma l’arredo che la conquistò, mi confidò Aurore, subito, al suo primo ingesso,
fu un manufatto di terracotta, un grande centrotavola rotondo, un piatto piano,
leggermente incavato. Stava posato al centro sulle assi scure di vecchio spessore.
Esperidi – Polatti Elisabetta
La catturò la forma, il colore, la grana della superficie: una terra ingobbiata di bianco,
polverosa, setosa, che adombrava appena il cotto. Non riusciva a staccare gli occhi.
Quell’oggetto le parlava di arte, di mani, di sguardi attenti, era frugalità e distacco,
insomma se ne innamorò.

La cucina era piccola, quasi un ripostiglio con giusto l’essenziale per uno che viveva
di niente. Ma il pezzo forte, la vetrina di vendita, stava all’ingresso. Lì tutto era
perfetto: gli arredi erano di pregio, piastrelle antiche di Deruta impreziosivano i muri
di calce, un grande bancone di legno più chiaro con il pianale rivestito di formelle
decorate, con geometrie e motivi floreali, rigorosamente fatte a mano, serviva ad
appoggiare il vassoio d’argento con i minuscoli calici per la degustazione di quel
verde liquore di erbe. Lui raramente stava in vetrina, spettava alla sorella Maria
intrattenere i clienti.

Renato non amava la gente, lo trovavi sempre alla fine del viale alberato, nel
seminterrato poco distante dalla Certosa, a trafficare, spesso a lavorare l’argilla.
Diventarono amici, lui provò più volte a dissuaderla dicendole -Pazza- infine cedette
e iniziò a insegnarle. Si era commossa Amantine, al ricordo, aveva amato quel tornio
a pedali, che assecondava la mano ancora inesperta sul pezzo d’argilla, in quel luogo
lei modellava la forma, respirava la terra, lei era respiro.

Quel giorno Renato le mostrò con orgoglio, nascosto sul fondo, il cuore di tutto: un
imponente forno in refrattario, poi, con un cenno, le indicò appoggiate alle pareti, le
assi per disporre gli oggetti, il lungo bancale con bacinelle di alluminio per
ingobbiare e infine i sacchi con le terre, gli ingobbi, gli smalti, i tornielli e i diversi
pennelli. - Come scorrevano lunghe le giornate - sussurrò guardandomi in viso. -
Quasi come i ricordi di ora. Lì si era padroni- Non ricordava un solo cliente.

-E ora- mi dice prima di andare, aleggia qui dentro, quasi fantasma, quel contatto
avvolgente di creta bagnata sui palmi aperti mentre la ruota ancora gira e gira nel
silenzio raccolto-.

L’UOMO CHE VESTIVA DI BIANCO

Era un Etiope, giovane, ma non saprei, vestiva di bianco. Sotto la tunica immaginavo
un corpo perfetto dai bagliori di bronzo, con mani lunghe, attente, sensibili, abili a
compiere un rito e noi intorno seduti per terra sulla marina di Hurgada. Era di notte
quando il fresco t’avvolge e ti alletta agli incontri, c’era movimento li intorno. Fuori
Esperidi – Polatti Elisabetta
dai caffè egiziani uomini e donne parlavano basso, godendo quel magico ristoro di
ombra, più in là locali moderni occidentali come specchi ad attirare turisti. Non era
per me, non lo fu per noi. Tre donne si incontrano a caso, una guida ci chiede cosa
vogliamo. Il giro fu lungo, precedenza ai gusti globali, discoteca sul mare, eppure
anche li trovammo l’incontro, tre donne, 90 anni in tutto ma con un salto di trenta, per
me. La musica era alta, sul mare la calma, un poco discosta, sotto le palme sedevo in
attesa. Le ragazze compagne di un giorno, erano vive, muovevano i corpi assetate di
ebbrezza. La guida, Mohamed, un ragazzo attraente non si fece sedurre, era
professionale e rimase a parlare con me. Chiacchierammo del suo paese, di religione
e di donne. Poi le due mi trascinarono a mare, volevano danzare, insistevano, sulla
battigia del mare. Le ricordo, mi ricordavano me ed io ero vecchia e ragazza di nuovo
a condividere la magia del tempo che riunisce, che crea il momento.

Poi ce ne andammo e, senza parlare, fummo là dove le volevo portare. Mohamed ed


io ci eravamo capiti, sapeva cosa cercavo là, in terra d’Egitto. E ci incamminammo,
noi quattro, invitati, affatto stranieri e sedemmo per terra sulla marina del porto di
Hurgada su cuscini di cuoio. Sopra il tappeto eravamo in otto, tre donne, una guida,
tre ragazzi egiziani e lui, quel l’uomo vestito di bianco. Era diverso, s’appoggiava al
pilastro del lungo porticato un poco in penombra. Regale, attizzava le braci sul
braciere di fronte. Piccoli oggetti gli stavano intorno: una casseruola di ferro, una
fiaschietta, a forma di pera, di terracotta, contenitori minuscoli di spezie, bicchierini
di vetro soffiato verdi e blu, impreziositi da piccole foglie in oro, per bere. Il tempo
scorreva come velluto, non si parlava, si ascoltava la notte, si ascoltava la lingua del
vento. In attesa del nostro caffè, fui catturata dal rosseggiare del fuoco fra il nero.
Tizzoni scaldavano il cerchio, catturavano gli occhi e intanto la mente viaggiava
guardando le mani nel fare, tostare, reggere il manico, posare, mischiare. In quelle
splendide mani sentivo l’Egitto profondo e nel Sudan scoprivo il suo cuore più nero
brillare nell’ oro. Scorrevano immagini di templi, ombreggiati di palme, salivo i
gradini del tempio di Phile e poi le guerre, il sangue a distruggere nel nome di un Dio.

Infine un aroma speziato, deciso, avvolgente, di carbone di legno cresciuto sul Nilo,
mi avvolse e bevemmo l’Egitto. Un caffè non è nulla, ma può essere tutto. Quella
notte era rito, magia, la realtà si esaltava e rivelava il mistero.

Esperidi – Polatti Elisabetta


L’UOMO CHE PARLAVA AGLI ALBERI

Mio padre era un uomo di poche parole, con radici forti e fronde capaci di sostenere
bufere e terreni franosi. Non amava molto parlare, se mai raccontare dei tempi
passati, della guerra, di quando lui era in Germania a sistemare rotaie e traversine o
nelle paludi pontine ai tempi del Fascio a guadagnarsi un poco di pane. Mi raccontava
di come era la vita qui in montagna quando la gente non conosceva il turismo ed io
mi sedevo in silenzio e ascoltavo come una fiaba verista ed era atmosfera e armonia.
Poi lo rivedo in cucina, io e lui insieme a preparare la torta di mele...
La vita non era stata tenera con la sua famiglia. Secondo di sei fratelli, la Spagnola gli
aveva strappato la madre e le due sorelle nell'arco di una settimana, quando era poco
più che ragazzo. Poi una matrigna e la decisione di andarsene di casa, con due fratelli,
a seguire i campi e i meleti dividendosi tra pascolo, alpeggio e lavoro nei campi.
Esperidi – Polatti Elisabetta
Non era istruito, a quei tempi la scuola elementare, se non entravi in seminario, era
tutto, ma di certo era saggio.
Conservo di lui ancora i due grossi volumi della Bibbia e i Miserabili che si era letto
nei mesi invernali. Quei libri e la vita gli erano bastati a capire chi era e che cosa era
importante sapere per essere felici. Molto discreto aveva pochi amici con cui amava
giocare alle carte scommettendo un caffè o un calice di vino.
Poi giunsero gli anni ‘60 e qui in paese era scoppiato il boom del turismo. Si
respirava un’aria febbrile, dalla città giunsero forestieri e impresari del mattone,
della speculazione selvaggia: costruire era il passaparola, “i danè” anzitutto!!.. E
molti dei locali vendettero, costruirono condomini senza pensare un progetto, senza
capire che stavano svendendo il loro paese. Mio padre non fu fra quelli, non speculò,
costruì la sua casa e due negozi: un bar e un alimentari per mantenere i figli a
studiare, e, diceva sempre:- L’istruzione rende signori, il denaro solo ricchi- E lui,
era un signore, semplice e parco. Amava molto la natura e fin da piccola, mi portava
ogni tanto alla baita, là nella torbiera, quell’isba mai ultimata. Conosceva ogni metro
di terra, gli alberi che facevano da confine me li indicava nominandoli ad uno ad uno.
Di loro mi faceva notare l’età, la famiglia, mi indicava un segno che li distinguesse da
quelli del fondo vicino. Intorno all’isba si estendevano i boschi di abeti ed anche il
prato adiacente si stava pian piano popolando di nuove presenze perché lui, ogni
anno, vi piantava betulle e larici. Ne ricordo uno in particolare: aveva il tronco
arcuato per la troppa neve caduta ed io mi mettevo a cavalcioni e galoppavo, era il
mio cavallo.
Ogni primavera lo accompagnavo sulla torbiera, salivamo a controllare le piante, a
raddrizzare quelle piegate, e lui abbatteva quelle spezzate dalle slavine. In estate era
un rito pulire il sottobosco, raccogliere le pigne, i rametti nodosi dei larici, tagliare i
rovi di lamponi e di more, arieggiare l’interno della baita di sasso. Poi, ogni
Ferragosto, ci si trovava con la famiglia a cucinare all’aperto sul fuoco salamelle e
costine e lui, dentro la baita, rigirava paziente nel paiolo di rame la polenta taragna.
Ogni volta che penso a mio padre lo vedo chino che sfiora la corteccia argentea di
una betulla come si fa con un’ innamorata che l’inverno, a forza, ha separato dall’
abbraccio.
Anche ora che non ci sei più, ogni albero mi parla di te e dentro di me, dentro i miei
figli sei linfa verde e per noi sempre sarai l’uomo che parlava agli alberi.

Esperidi – Polatti Elisabetta


SOGNO DI UNA NOTTE D’ESTATE

Un temporale estivo sorprese Cloè mentre passeggiava nel bosco, fra i mirti
azzurrini. Era fresca la pioggia sottile che le impregnava la veste di lino facendola
aderire alle rotondità del suo corpo perfetto, lasciandolo nudo. Sentiva un sottile
piacere pervaderla tutta e spingerla oltre. Camminava, s’ inoltrava sospesa nel folto,
sospinta da un senso di ignoto, finché giunse là nel punto che lei ben conosceva.
Alzò lo sguardo cercando qualcosa e scorse fra il verde, il profilo di un uomo. Lo
vide fermo, appoggiato ad una colonna di marmo dell’ antico tempietto di Pan ormai
semi celato dalla verzura cupa delle edere che si erano prese quasi ogni spazio.
Modulava, con un flauto silvestre, un’armonia di fragranze muschiate di sandalo e
incenso. Non l’aveva mai incontrato là nella selva, ma non ebbe paura, qualcosa
l’attrasse, gli andò vicino e, dopo averlo guardato a lungo in viso, si sedette sul
gradino di sasso e rimase a guardare.

Rapita dal suono, bevve le note dentro le gocce di pioggia che le bagnavano il volto,
quindi si alzò. Ora gli era vicino e fu allora che sentì più chiaro il richiamo del
suono. Incantata porse l’orecchio e udì un sussurro di lingua lontana salire come da
Esperidi – Polatti Elisabetta
un pozzo e attirarla suadente più giù, nel nero del fondo. Perse il contorno, sfumò il
verde lì intorno e iniziò a cadere lenta, sempre più in basso, come dentro un imbuto.

Si trovò distesa su un’erba cobalto iridata di luna. La pelle splendeva, negli occhi
aveva le stelle dell’Orsa. Non c’era rumore, solo il silenzio e un pulsare del cuore.
Dov’era finita non volle saperlo, le bastava sentirsi fluttuare nel cielo.

D’improvviso una scintilla s’accese nel nero più nero, lui era lì sulla soglia del
Tempio, la guardava parlandole piano, avvolgendola tutta con quel suo sguardo di
mago. Lei, rapita, gli tese la mano, lui la prese e, senza parlare, la condusse oltre le
mura, oltre il silenzio.

Cloè si sentì evaporare dentro un tracciato di stelle, in un punto lontano dove i


suoni diventano luce. Si incontrarono lì mutando la pelle in granelli di polvere astrale
rotante nel vuoto. Era indicibile quel luogo, di certo era un mito, un quasar pulsante
dentro un cielo infinito!

LINEE

-Magia di linee- si diceva Amantine, ricordando quel sogno. Le venivano incontro,


belle, aperte ondulate, le richiamavano l'onda, i profili dei fiori, i margini carnosi
delle magnolie nel parco, erano fuga ondulata di pensieri, arcobaleni fra i monti,
diapason di suoni, erano le facciate sfuggenti di Gaudi, i motivi moreschi, i labirinti
di pietra, era un profilo che pensava dentro anelli di fumo, capriole di pensieri
nell'ombra. -Un Natale raccolto-, sembra ripetere una voce, un canto già noto,
-Lasciatemi solo, anch'io, come lui, non voglio tuffarmi nel gomitolo stretto di strade
affollate, sto bene qui, voglio scivolare in silenzio dalla radica calda e disperdermi in
alto fra gli anelli che perdono ogni contorno.

L'aveva acquistato in un posto di mare, un anello speciale, rotondo, un carapace


bianco con una spirale, l'affascinava partire dal punto e seguire la linea scura di quel
ricciolo aperto, le pareva di ritornare nel mare. E ancora, in piedi sulla riva del
fiume, si vede osservare due ragazzi lanciare di piatto dei sassi nell'acqua e restare
in silenzio a seguire quei cerchi allargarsi, smuovere lo specchio fermo dell'acqua
intorno a quel perno e infine tuffarsi sul fondo e giacere nell’immobilità del
profondo.

Esperidi – Polatti Elisabetta


Amantine sentiva che i cerchi concentrici erano energia lanciata a produrre uno stato,
lo avvertiva anche ora mentre, con gli occhi alzati, seguiva quelle linee concentriche
che si stringevano piano sul colmo della cupola a San Galgano.

Quei cerchi dipinti con l'ocra la richiamavano in alto, in un centro d’incontro. E che
dire del labirinto? Ci aveva perso le notti. Tutto era sfumato, era lei o Teseo? Mah
forse Teseo vestiva gli abiti di Arianna o lei aveva scambiato i suoi abiti con quelli di
lui. Di una cosa era ormai certa. Di esserci entrata dalla porta a nord dopo aver
salutato a sant’Anna. A lungo aveva percorso le strette, le volte, poi, ormai stanca di
non vederne l’uscita, aveva alzato gli occhi catturata da giochi di luce del sole ormai
tardo, sui vetri colorati del rosone che si apriva nel centro della parete di fronte.
Qualcosa di stupefacente dovette sentire perché risoluta, invertì il cammino, aveva
trovato l’uscita, lo sapeva per certo. Ora poteva uscire e lasciare Aracne nel centro a
tessere ancora per altri, perenni fili di sole. Ora lei è di profilo fra l’ombra e la luce e,
mentre si appresta ad uscire, ecco che nel centro, sulle linee brune del labirinto, vede
danzare uomini bianchi. Volteggiano a lungo poi si librano in volo, son pronti a
spiccare quel volo.

E’ l’alba e il ritmo del sonno muta registro, il labirinto si sfuma, si tramuta in


specchio di lago, poi s' alza un vento leggero e le tuniche in volo e diventano
bianche ali di gru pronte a migrare.

Esperidi – Polatti Elisabetta


ROSA DAT MEL APIBUS

“Rosa dat mel apibus” –Mah… Di solito sono le api che ci danno il miele - si disse
Aurore riflettendo. Ma certo, aveva tirato le somme in modo affrettato e
antropocentrico, insomma era ancora tutta centrata su sé, sul termine finale. Le
sfuggiva il processo, ma poi, annusando la rosa, entrando dentro i suoi petali setosi e
screziati, colse il profumo del nettare e sentì un profondo legame. - Le api sono
davvero industriose e amabili.- pensò e, d'improvviso, una rete sottile di fragranze
l'avvolse. Dalla corolla scese dentro ogni foglia, ovunque fin dentro i rami di verde
tenero poi più in basso, dentro il fusto nodoso e antico abbarbicato alla terra sabbiosa.
E lì bevve il ristoro dell'acqua mischiata ai sali disciolti, mangiò quell' humus terroso
e sentì il calore del grembo materno. Senz'altro le api avevano colto nel giusto, una
legge antica le guidava nel volo, si posavano con le piccole antenne che catturano i
suoni a suggere il nettare a sporcarsi le zampette per disperdere il seme. Che maestria
le api, ma non basta, che organizzazione perfetta: un laboratorio alchemico il loro.!

Sorrise Amantine, pensandole all'opera nell'arnia. Già vedeva gli orsi con fare
pacifico, annusare nel cavo dell'albero, là nella foresta, quel biondo e divino alimento
e immaginava Esiodo, Catone e gli antichi precetti lasciati per un'agricoltura
migliore. Infine ecco, intravede i discepoli di cotanti Maestri venire festosi a spartire
il regalo e addolcire la mensa col profumo dei fiori, curare i miasmi e rinforzare gli
abulici con pappa reale. Ora Aurore volteggia, i piedi nell'erba fra fiori e ghirlande. -

Esperidi – Polatti Elisabetta


Forse è una festa, una mensa stupenda per quelli che ogni giorno cavano dall'arnia,
con mani protette, quel cuore profumato di sole!-

BAGLIORI SINISTRI

Fintanto che l'immagine sarà scissa dal concetto e il concetto dall'immagine


vivremo in mondi incomunicabili dove il significante manca del significato: una
dimensione in cui il bello non corrisponde al buono e tanto meno al vero che è
opinabile e non trova più collocazione.....

Un tempo, agli albori della Storia, l'immagine era parlante, rivelava ciò che non era
direttamente esperibile e difficilmente concettualizzabile.

Come creatura, essa creava da sé una realtà e un comune sentire. Nei graffiti sulle
rocce, nei segni tracciati nelle caverne, nei  geroglifici, nei miti, nelle fiabe 
l'immagine prendeva vita e l'immaginario diventava verità.

La forma veniva evocata, poi  fissata, codificata  rendendo perfetto e sacro il gesto
compiuto.

Dentro il  sacro recinto, con gesti, parole immutabili,  l'immagine faceva irruzione
bucando il tempo normale, facendo vibrare ogni entità  partecipante. Il  rito era
magia, immersione, introiezione omnicomprensiva, era duplicazione e unificazione.

Poi venne l'età della  ratio che tutto deve spiegare; si impose  la linea che doveva
tracciare, l'analisi che doveva sezionare e la parola pian piano perse spessore,
elasticità e amore  divenendo concetto, definizione.

L'immagine intanto vagava, Orfana, senza spessore, veniva agguantata, distorta,


gonfiata, esagerata, forse comprata, di certo snaturata. Il mondo avanzava
Esperidi – Polatti Elisabetta
claudicando, sospeso fra il pazzo veggente e il benemerito saccente. A volte capitava
che i due si incontrassero, quasi sempre in occasioni di lutto.

Si guardavano a vista facendosi un cenno, vestivano il cordoglio di scenari comuni,


ma ognuno piangeva, separato, i suoi lutti, chinando entrambi il capo sgomenti.

Sul fondo i figli gemelli procedevano confusi verso  l'ultimo  volo.

Discosto, quasi in penombra, stava appoggiato uno specchio.

La scena era divisa, e, fra l'ombra e la luce, sfuggiva ogni contorno. Solo, appoggiati
al muro del mondo, la Mente smagrita dai troppi quesiti e una Ninfa quasi
incolore per difetto  d'amore, lo  reggevano a lato per la scena dell'ultimo giorno.

Il quadro era nitido, iper-reale, solo  uno scintillio solfureo gettava  bagliori sinistri
sul sentiero che si inoltrava nel folto del bosco.

Esperidi – Polatti Elisabetta

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