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Nelle iniziazioni del mondo antico la via solare prevedeva una discesa nelle
tenebre dell’Oltretomba e l’incontro con una entità pericolosa e tenebrosa che
l’adepto doveva affrontare vittoriosamente. Questa discesa veniva rappresentata
ritualmente nell’antica Grecia con la danza del labirinto (cfr. K. Kerenyi, “Nel
labirinto”). I danzatori percorrevano una spirale concentrica che conduceva al
centro del labirinto tenendo in mano una corda che rappresentava un raggio di
sole. Le volute del labirinto, i cerchi concentrici della spirale, non erano altro che
una rappresentazione simbolica degli archi descritti dal sole nell’avvicendarsi dei
giorni, sempre più piccoli man mano che si procede dal solstizio estivo a quello
invernale. Al centro del labirinto c’era il Minotauro ad attendere i danzatori ed
aveva luogo una lotta rituale che terminava con la sconfitta dell’essere teriomorfo.
Uno psicanalista junghiano oggi direbbe che la lotta terminava con l’integrazione
del principio ombroso e ctonio della personalità, incarnato dal Minotauro. Poi i
danzatori cambiavano senso di rotazione, la spirale si svolgeva e si allargava e,
alla fine, si trasformavano in gru (la danza prendeva, appunto, il nome di “Danza
delle Gru”) e volavano verso il giardino delle Esperidi dove si cibavano delle mele
dell’immortalità. Chiunque abbia visitato il museo di Atene sa che sui vasi
funerari appaiono labirinti, doppie spirali, uccelli palustri e svastike. Questi
simboli alludono alla Danza delle Gru, che riguardava sia gli iniziati ai Misteri che
coloro che varcano i cancelli dell’Ade e affrontano l’Oltretomba. Le svastike sono
solo una variante del simbolismo di cui abbiamo parlato, perché, a seconda del
senso di rotazione, rappresentano l’avvolgersi della spirale e l’incontro col
princìpio oscuro, ossia il cammino del Sole dopo il solstizio estivo, oppure il suo
svolgersi, che ha termine col volo delle gru verso le Esperidi.
L’autrice, Elisabetta Polatti, nata a Sondrio nel marzo del 1955, laureata in
Pedagogia e docente di lettere, perviene alla necessità della comunicazione quando,
stanca dell’isolamento culturale della provincia, e disincantata dalle numerose
Esperidi – Polatti Elisabetta
esperienze di animazione culturali spentesi come fuochi di paglia nel deserto del
vivere quotidiano, si apre al web. L’incontro con il virtuale è come un sasso che,
lanciato dentro uno specchio d’acqua irradia onde concentriche sempre più ampie.
La frequentazione con personaggi e maestri del libero pensiero fanno riaffiorare dal
profondo dell’io dell’autrice, energie sopite che chiedono con prepotenza di salire e
liberarsi in pensiero e canto. Il mito, gli archetipi, l’Eros, il fluire del tempo sono il
centro da cui si dipanano vissuti interiori che, annullando nell’istante evocativo, il
concetto di un tempo e di uno spazio separati, lo cristallizzano in un’esperienza
personale intima che filtra il divenire spesso conflittuale della vita. Essa si dilata e si
insinua a ritroso dentro radici che abbracciano il sentire comune dell’uomo che sa
guardare alle stelle. Un’intuizione che svela, ricucendo la materia con lo spirito, la
consapevolezza che ogni essere è un frammento divino nel moto perpetuo delle forme
mutevoli. Una poesia dunque, quella dell’autrice, evocativo-esoterica che si riallaccia
al filone narrativo poetico del simbolismo e dell’ermetismo.
A RITROSO
Nel tempo
a ritroso
Esperidi – Polatti Elisabetta
scrivo il futuro
Orutuf li
ovoircs osortir a
opmet len.
LODERO’
RISVEGLIO
Dilata il tempo
fammi assaporare l'attesa
poi
RITROVARSI
Ritorno a casa
e ti ritrovo.
Ordine nei miei pensieri.
TI HO LASCIATO ANDARE
METAMORFOSI
Nell’alba rosata
ignori la forza del volo
La trama del cielo si apre
al raggio di sole che colora
Esperidi – Polatti Elisabetta
novello, lo sbadiglio dell’alba.
Cade l’involucro.
E’ d’azzurro e di verde il tuo primo vagito
Funambola sul ramo del pruno
attendi il momento.
Una brezza leggera dondola il ramo.
e trasporta del grano il colore
Di nettari segreti l’afrore t’avvolge.
Ancestrali ricordi di voli già fatti
spiegano ora
ali di volo
leggere.
BALAUSTRE D’ IRLANDA
LEVIA
Amore
per la meraviglia che ogni mattina si spalanca
io ti ringrazio
per il battito d’ali che smuove il mio cuore
io Ti ringrazio
io vi ringrazio.
OLTRE LA RETE
L’ATTESA
Silenzi d’attesa.
S’attende...
guardandosi attorno.
S’attende....
Galoppi vicino
ma sorprendi l’attesa
bizzarro,
L’aria schiarisce.
l’attesa è finita.
Il cane s’acquieta
più lieti
La notte amica
scioglie i nodi del cuore
Aurora appena ti sveglia
da sogni ancor vivi
fra lenzuola scomposte.
Con dita di fiore ti porta
e nell’arco del cielo
sorpresa, fra colori pastello
Esperidi – Polatti Elisabetta
cammini ,prima che il sole ti abbagli.
Ti addentri nell’oro ai tuoi fianchi
e la mano, nel campo
accarezza corolle
Cento,…. mille,
un mondo di occhi dentro la luce
che nasce.
VERTIGO
QUEEN
A te
che affondi radici nel tempo
e profumi d’erica
tovaglie di lino
una canzone compongo
Con fili di sole disegno il tuo volto
di rughe fanciullo
NOTTURNO
S’ immerge la luna
e le Pleiadi intorno
Splendida
di perla vestita .
Argentea.
Sul profilo del mondo
sospesa
ricami solitudini.
Esperidi – Polatti Elisabetta
LUNGO IL SENTIERO
Né mai più di te
toccherò se non il ricordo
di piombo rappreso.
E SONO
Se fossi il mare
ti avvolgerei sui fianchi
se fossi terra rinfrancherei radici
se fossi linfa risveglierei le fronde
Ma il sorriso
Contesa e cercata
donna adorata
donna abusata
strega di madre bastarda
puttana dai fianchi procaci
gemiti di sogni proibiti
musa dai folti capelli
chimera di notti ormai vuote
angelo con ali di sole
occhi di cervo
sguardo dannato
volto scavato
lacrime nel pianto di Dio
ventre accogliente di umori e di terra
mani arrossate e unghie rapaci
respiro del mondo
rugiada del cielo.
Tu sola
avvampi col fuoco
tu sola
con la terra ti fondi
Esperidi – Polatti Elisabetta
tu unica
col pianto disseti
tu sola, angelo
col mondo ti sposi.
DANZARE
E mi baci la bocca.
Da ultimo
il cielo basito
dardeggi
non sazio.
E intanto ride
e ammicca lo spiritello
fra i rami della rossa avellana.
AMORE
L’amore
è schiaffo alla tua presunzione
è piuma che solletica il dolore
L’Amore è docile e mansueto
L’amore si dà
oltre la sua comprensione
L’Amore è la forza che solleva la schiena gravata
L’amore vede lontano
L’Amore scava con forza caparbia
L’Amore leviga la pietra.
A fatica l’Amore ci porge
la perla del senso
che quasi ci sfugge.
Attendi segnali
Ti ho cercato smarrita
dentro forre perdute.
Ti ho cercato
nella curva del tempo
nei sogni non nati, nei sorrisi promessi,
Ti ho pregato
E ancora, la voce
compagna al mio andare nei giorni più saggi
buca l’istante
all’abbraccio del cuore.
Madre
se anche non lo fossi
dentro ogni fosso cercherei di te
dentro ogni lacrima vedrei un tuo bacio
dentro la tua mano metterei la mia .
Ma pure ci manchi
e più dentro
è l’assenza in questo gelido giorno.
Sfavillano le stelle
a coprire il rumore di noi.
Emergi
dall’onda remota.
Spirale racchiusa nel tempo
t’avvolge nel prisma di luce
prezioso.
Fra pesci e fiori volanti, fra stelle e comete rotanti
tra nubi e uccelli leggiadri
fra fiere sovrane, tu stai
bambino
e dipani da sempre il tuo filo di luce
sospeso.
Fiocca,
fiocca
Dolore.
Siamo soli.
Il cuore non regge
il vuoto che scava gli affetti, e arresta il respiro
Le parole diventano mute
e l’affanno si tinge nel rosso
Da dentro ferite, Amore si tende
da legno incrociato
Tu, il solo Infinito
Amore nel mondo.
Fratello
riecheggi nel cuore
desiderio di sempre,
ferito.
GAIA
S’appresta la sera.
FAVONIO
MAGIA
Magia s'insinua
nel ritmo battente che sale
e travolge e confonde
S'accordano voci a legni percossi da palme incalzanti..
s'accende una nota che fonde, che mischia
di angeli e demoni, i visi, i colori, le forme, gli amori.
Con labbra bruciate beviamo in coppe tornite
brezze salmastre di ninfe e tritoni
mischiate a fili argentati di fate e folletti.
Tracciamo sui corpi impastati di rena
i segni bizzarri di una mappa trasmessa.
ESSERE
FORESTIERO
AD-VENTUS
M' imbevo
M' arrotolo
in cenere d' azzurri lapilli.
Scoloro la mente
per tingere il cuore.
Le sentinelle di Dio
strappavano i cuori.
In gabbie e steccati procedevano i giorni
e nel freddo cortile
guardavi il ritaglio d’azzurro
e odiasti
la Croce che a forza
dovevi accettare.
Credevi in un Padre
trovasti un tiranno
Credevi nel vento
nel sapore del pane
Trovasti paura
e sogni repressi
Mai
potei amarti così.
EX -ISTO
Dentro i respiri
dentro l' oceano
dentro i granelli di sabbia dorata
dentro faville di foco
ho riconosciuto la Tua voce
leggera
come ala di gabbiano
E fu
Incontro.
VIVIMI
Sfiorami.
Con dita leggere
sfiorami
Con suoni dolcissimi
amami
Con labbra bagnate
Esperidi – Polatti Elisabetta
baciami
Con sistri stranissimi
sollevami
Nel vuoto incredibile
stringimi
Fra stelle nel buio
guardami
Fra onde bianchissime
svegliami
In spiagge dorate
scioglimi
In cristalli di rocca
bevimi
Nel vento frusciante
sorridimi
Fra selve incantate
cercami.
solidarietà, fiducia,
e infine noi
SUL MINCIO
Il verde profondo
fra la linea dell'acqua e la cortina
dei salici e dei pioppi radenti
trafora di brezza azzurrina
l’andare lontano.
Mi specchia di te la dolce presenza
quando dal Mincio più folto
s’invola il pensiero.
SOFFIONI
S'apriva il sorriso
di verde cangiante
E nel giallo di ranuncoli in fiore
la tua mano.
Curiosa afferravi gli steli.
IO CANTERO’ CON TE
BRICIOLE D'ETERNO
IO T'AMO
T'amo
e la goccia di sangue bevuta
fascia di spine la notte.
CILIEGI
Tu
spalanchi finestre
all' effimera Notte.
Pulsa la notte
l'intermittenza di galassie lontane
e sentii il richiamo, il sidereo spasmo
Un nero ancestrale
risucchia l'andare
nel cammino stellato.
DESERTO
Abbacinata
proietto miraggi.
Nel seppia dilato lo spazio.
Lontana da casa
ti ritrovo
da sempre sorella
nei travagli di donna
Amica ti sento
e mi chino a bere con te
il silenzio del Tempo.
Tu mi guardi
e canti per me
Armonie di sabbia e di vento.
Terrestre
sto dentro l'assenza.
Immota radice riarsa
di rosa corrosa
nel letto di sabbia.
E pretendo
dai nembi nubiani
scuri di ombra e diluvi
battenti i miei fianchi
d’argilla spaccata.
Randagia
vanto l'olfatto migliore
e all'alba
buttate nei sacchi
rigonfi
lasciati a marcire
più in là.
Nel giorno
avanzo guardinga
Sonnecchio la noia
Sinuosa
mi struscio nei canti di ombra
Satin
per pelo ribelle!
Infine
gli Umani
Tutto mi è chiaro
Lampante
lassù
Che s'imbeva
E ricordi nel giorno
chi ero mai stata
e stracci di chiaro la nebbia di me.
Tempo sognato
tempo respirato
forse vissuto.
Tempo in ombra d'eterno
Pensiero fluttua
istantanee
nei varchi tra l'ombra e la luce.
Rapidamente
artigliami
da terre bruciate
strappami
in orizzonti infiniti
librami
portami
sollevami
rilasciami
ritrovami.
S’affollano intorno
uomini soli.
S’afferrano forti a cocci vaganti
Ansimando
corrono e vanno in corsi e ricorsi
e più in là deviano il corso
Costretta
delimitato
E incontrarti
Lìberati.
NEVICAVA
Barcellona, Gaudì, una teiera di rame riverberava la luce, terra, fuoco, acqua, erano lì
con lei, in quella calda penombra. Nell’isba il tempo non aveva l’ invito. Tavole
sotto a coprire la terra, di pino più chiaro, tronchi per tetto, travi a vista, pareti di
sasso nella vecchia cucina, intonaci chiari nella stanza del the, cuscini azeri su stuoie
di lana tessuta da antichi telai, attorno al camino. Nell'ombra, fra la pietra che squadra
la soglia, una pipa e vecchi vinili. Non aspettava nessuno da tempo, non amava
mischiarsi. Si sedeva ogni tanto, scriveva una nota sospesa e il pensiero correva,
accarezzava i volti più amati, indugiava lo sguardo sulle ombre di casa, porgeva
l’orecchio ad ogni bisbiglio, gettava una frasca poi un ciocco di bianca betulla e
ravvivava le braci.
Portato dal vento lui arrivò durante la notte. -Chi sei?- Gli chiese per niente stupita,
guardandolo dritto negli occhi, mentre apriva piano la porta. Rispose il Silenzio con
ombre danzanti sui muri. Poi, riscuotendosi, come da un sogno, lei abbozzò un
sorriso, ora ricordo.- La pipa è la tua. Chissà se il tabacco sta ancora in quel canto.
Non ricordo. Forse nell'ampio cassetto o sul ripiano del tavolo, fra le carte e i libri di
fiabe e racconti. Ma no, l'ho ritrovato, scivolato per caso dal bracciolo dell'ampia
poltrona. Ricordi? Un tempo, la sera indugiavi lo sguardo più in là fissando parole
sui muri. Ricordi? Stavi li, seduto, scrivevi ed io ti ero accanto. -Sì, fece lui,
varcando deciso la soglia, mentre toglieva il mantello ancora innevato. Ora
Esperidi – Polatti Elisabetta
rammento. -Avevo lasciato la pipa e il tabacco in pegno, come la moneta lanciata alle
spalle nella fontana o nel pozzo, rituali di eterno ritorno.
Ci aveva trovati un antico sortilegio, un pentagramma d’ arpe, e ora…- Ascolta, lei
disse, risuonano ancora quei suoni di vento, non odi le voci, ti stanno parlando- Ci
stringemmo le mani e leggemmo stupiti, di segni passati incisi sui palmi, di un
passato, presente, futuro rimbalzato lì dentro, nell’’isba, ritagliata nel tempo.
Ora udiva le voci salire. -Ripercorri i sentieri, ricalca le tracce. Ti aspettano in tanti,
sono quelli di ieri, s’affollano intorno e pretendono, Vivici ancora, fallo per noi, per
loro. Non saremo mai morti-
Nel bosco regnava il silenzio, un cappotto di bianco smagliante piegava più in basso
i rami degli abeti e dei pini silvestri come vecchi imbiancati dal troppo cammino.
Aurore si era i svegliata in quell’alba rosata particolarmente frizzante. Era scesa in
cucina e, con calma, aveva svitato la moka per riempirla fino all’orlo di nero caffè .
Poi, acceso il fornello, in attesa che il gorgoglio spandesse nell’aria il suo aroma
tostato, aveva predisposto in un piatto, su una piccola stuoia di vimini intrecciata, le
due metà della rondella di pane di segale, una coppetta di vetro ricolma della sua
confettura preferita, mirtillo nero, e quel tanto di burro che le bastava. “Manca solo il
latte” pensò. Si avvicinò alla rastrelliera sul muro, staccò dal gancio una casseruola di
rame , versò una tazza di latte e lo mise a scaldare sul fuoco. Una buona colazione era
essenziale, doveva immagazzinare calore per uscire là fuori a camminare. Le piaceva
la domenica, indugiare nel far colazione, ma quel giorno si diede una mossa, raccolse
veloce guanti e berretto, si infilò i pantavento, poi la giacca di caldo piumino ed
eccola fuori a sfidare l’inverno.
Sfavillava la neve in quel terso mattino mentre lei sull'uscio di sasso agganciava ai
sui piedi le nuove racchette da neve anticipo di Babbo Natale. Che tiro birbone le
aveva fatto il vecchio burlone!
Sapeva del suo dolce poltrire e quanto amasse impigrirsi acciambellata nel caldo
tepore davanti al camino e sognare di lunghe discese solitarie sui pendii innevati
mentre allungava i suoi piedi più vicini alla fiamma.
Una sferzata di freddo sulle gote la riscosse da ogni pensiero e quell’aria pungente di
ghiaccio le risvegliò ogni senso sopito. Amantine, si curvò, agganciò le cinghie alle
caviglie con cura, poi rimise i guanti sulle mani già intorpidite, impugnò i sottili
bastoni e si avviò decisa.
Il primo tratto di strada era quasi un sentiero semi nascosto nel bosco. Lei si apriva il
cammino su uno strato di neve fresca che scintillava diamanti, le racchette si
immergevano fin quasi alla caviglie poi, col peso, si fissava l’impronta. Un passo
dietro l’altro procedeva in silenzio, solo si udiva quel rumore particolare che le
scendeva ogni volta giù per la schiena come corposità bianca e fredda. “Percepire
quello “scrascc” significa compenetrarsi dell’essenza di quel suono vergine, che solo
si dà quando la si comprime la prima volta.” Ogni tanto urtava col braccio i rami
Esperidi – Polatti Elisabetta
appesantiti dal bianco e allora era un pioverle addosso una doccia sottile di trine
preziose.
Che cosa pensava Aurore? Nulla, solo rideva di quella spolverata di bianco.
Camminare in montagna svuota la mente. Aurore sentiva il suo corpo, le gambe e le
braccia, ritmare l’andare, il suo fiato, più caldo, condensarsi in gocciole intorno alla
sciarpa, respirava profondo, camminava e sentiva il suo passo dentro la neve fondersi
nel bianco mentre lei diventava un ricamo di neve.
Ogni tanto si fermava a guardare una cima, un crinale stagliarsi più bianco
nell’azzurro perfetto del cielo. Le brillavano gli occhi e una gioia calma le scendeva
di dentro. Il passo in montagna ha un procedere lento, si va senza una meta precisa,
gettando lo sguardo qua e là ed è facile perdere il senso del tempo. Cammina e
cammina, Aurore si ritrovò in una radura a metà della torbiera innevata. Si fermò, il
sole era ormai alto e lei ora era nel punto più elevato della piana, di fronte, oltre la
linea mediana del dosso, solo una corona di cime innevate, alle spalle il grande bosco
di pini silvestri, abeti e betulle argentate.
Era tempo di ritornare, si accese la prima sigaretta quasi a ricordare a se stessa che
non era perfetta, aspirò a lungo con gli occhi socchiusi guardando nel sole, un attimo
solo di luce ed eccola in pista a riprendere, a ritroso, il percorso di casa.
LA SCALA
Una scala di legno sbiadito, uno scivolo lucido e, sul fondo, a fermare la corsa,
pomelli d'ottone zigrinato d'antico ricamo. Quanti anni sono passati, forse secoli,
Socchiude gli occhi mentre l'imbrunire s'appresta e rivede ancora il suo quadro
sulla parete di destra, fra il letto e la piccola finestra che gettava lo sguardo sulla
strada interna alle case. Il pensiero corre a Baudelaire. Amava i Maledetti francesi,
amava il richiamo degli albatros in volo, sfiorava il salmastro dell'onda. Con
l'azzurro del cielo aveva dipinto lo sfondo. Sdraiata sul letto, in antica penombra,
d'estate, tratteggiava sentieri, inalava gli odori, decifrava i suoni di luoghi mai letti.
Ascoltavano attenti gli oggetti: la vecchia specchiera con foglie di quercia intagliate
nel legno, la tinozza smaltata di bianco, un poco sbreccata dall'ingiuria del tempo.
Amava le cose che avevano storia, sentiva le mani dell'uomo, eppure il suo sguardo
era spesso lontano.. Fissava da sempre, quel quadro, appena abbozzato di tempera
azzurra e smeraldo con schizzi di bianco: un movimento, un uscire dal bordo, uno
spazio per albatros librati nel volo.
Più in basso, tre piani più giù, si udivano appena schiamazzi dentro boccali di
birra.
OLTRE LE MONTAGNE
OLTRE IL CONFINE
EMMANUEL
Era ottobre inoltrato quei giorni in Salento e mi rivedo ragazza, fresca di fede nuziale,
nella terra del mare più azzurro che avessi incontrato, degli ulivi d'argento contorti,
delle voci straniere, delle sedie sull'uscio, affacciate alle strade, di terrazzi sui tetti, di
ozze brunite, di limoni che portavano il sole dentro le case, di forni per cuocere il
pane, di mandorle nel cuore dei fichi tostati...quando rimasi incinta. Che dire… Il
Salento, una notte, il mugghiare del vento, la burrasca su mare, ti avevano portato,
dentro un sussulto d'amore. Dopo lungo cammino e tempeste di sabbia, pensò il
vento, rispondendo all'urlo del mare, la terra brucia di sete, è tempo di pioggia
autunnale. E fu cosi che in questa lingua di costa abbracciata dal mare, fra fichi
d'india protesi, venne il tempo di essere tua madre, figlio mio. Dopo tanto vagare,
tanto cercare, tu venivi e ancoravi alla terra radici profonde. Allacciandomi al tuo
tempo, mi aprivi al progetto e fosti da subito Emanuele.
IL MEDAGLIONE GITANO
... Ricordi? Mi disse la vecchia gitana toccandomi piano una spalla - Ci siamo
incontrate ... rammenti il campo, il fuoco a scaldare la cena, la roulotte poco distante?
Era una sera d'agosto e tu arrivasti in un soffio di vento, nulla sapevi, volevi
vedere, frugavi il presente.- Trasalì un poco, Amantine per l'inaspettata presenza. Non
aspettava nessuno con quella bufera. L'isba era un luogo lontano, protetto fra gole di
monti, impervia era la strada, - Non era possibile, non poteva essere vero, ma, come
era giunta fin qua, lei che amava la terra argillosa, i carrubi, gli stagni salini, i neri
cavalli scalpitanti d’ardore, i fenicotteri rosa? Ma no, non era di certo lei, forse era
quell’altra, la sua gemella che viveva in quel ritaglio di terra scampata alle auto
invadenti, ai caseggiati fatiscenti, di quella Milano nascosta, rifugio di immigrati,
spacciatori e nulla facenti. Forse era la vecchia di allora.- Si disse. Qualcosa infatti la
richiamava, un filo sottile, un vago ricordo. Amantine si ritrasse, un brivido strano le
percorse la schiena, un pensiero insistente, un bagliore le apparve, un oggetto
Lei, sorridendole strano, le tese la mano aperta e le parlò - Sono venuta fin qua da un
luogo lontano, lo so che mi hai più volte cercato, ti mancava qualcosa che ora ti
porto, quello che mi avevi, da tempo, lasciato in custodia di ritorno dal tuo viaggio in
Spagna. Era d’estate, alla fine di luglio e tu mi chiedesti un posto per passare la
notte. Era la festa gitana di Saint Marie la Mere e tu e la tua famiglia bussaste al mio
casale moresco per chiedere una stanza. Non c’era più posto negli hotels e tu volevi
restare, non volevi mancare quell’appuntamento sul mare.
Di colpo l’isba scomparve ai suoi occhi e Amantine si trovò nella stessa piazzetta sul
retro della chiesa della Madonna Nera, era il 1996 e non era sola, con lei le figlie
Marie, Sofie e suo marito Giovanni. Nella piazza la gente aspettava, in piedi,
ritmando la musica gitana dei Gypsy King, l’arrivo dei due capi clan per dare inizio
alla festa.
Comparvero alfine dall’ombra come leggenda, imponenti, regali nel loro costume di
festa, montavano a pelo, due purosangue impazienti che a stento trattenevano al
morso, uno nero e l’altro pezzato di bianco. Una strana frenesia prese un po’ tutti e
Marie che allora era piccina, eccitata, ruppe il silenzio e con voce squillante,
indicando seriosa, col dito puntato al sesso possente del baio, apostrofò così il
cavaliere -Mah… che gli è successo al cavallo … a quella cosa là sotto?- Tutti
scoppiarono in riso, e lei catturò la festa per molto. Ci congedammo a notte inoltrata
con Marie al settimo cielo per la dedica avuta dal chitarrista della band insieme al
CD a lei regalato.
Dormirono, si fa per dire, quasi vestiti in una roulotte sulle rive del Rodano
ascoltando il frusciare del vento fra i salici che lambivano l’ acqua ormai prossima
ad immergersi in mare.
INCIPIT
Un incipit, ecco cosa le mancava, un’ energia calda che spingesse la ruota ma questo
Aurore ancora non lo sapeva. Le amiche, si sa, non sempre danno saggi consigli,
ma ,a volte, l’eccezione conferma la regola, e quasi per gioco, quel giorno di aprile,
Amantine la prese in parola e aprì la famosa finestra sul mondo. Dall’etere venne
qualcosa di strano, un colpo di mano, chissà, ma Platone comparve a dirigere il corso.
Poteva essere tutto banale, una curiosità, tanto per fare qualcosa, saggiare il terreno
insidioso dell’altro, dell’uomo senza alcun volto. Poteva essere, tutto è possibile, tutto
si dà.
Solo più tardi lei capì che ogni cosa segue il suo corso. Sedeva in poltrona, dopo la
cena, in disparte pensando a quel giorno. Lo trovò per caso, un nome vergato con
intento preciso, uno pseudonimo letterario che lei lesse come un invito criptato ad
osare, a mischiare le carte. Non esitò. - Come è vero che l’indole si imbriglia ma non
si annienta!.- Voleva azzardare, aveva bisogno di riprendersi in mano, voleva bucare
quel manto di grigio che l’avvolgeva pian piano e decise che lei poteva giocare.
L’affascinava l’incognito, il poter svelare pian piano la natura di un uomo. La sorte
giocò a favore, poche battute le bastarono a capire chi aveva di fronte e iniziarono a
La notte fu molto agitata, Amore le apparve col volto intristito e i panni dismessi di
una donna negata. Si vide allo specchio e prese paura.
L’indomani usci, si tagliò i capelli, scelse con cura un intimo nuovo e uscì sul corso
affollato guardando in viso la gente che incontrava.
LE CASE
-Le case - pensava Amantine, mentre vedeva scorrere i tanti suoi porti, -Ti fermi
quanto basta, ci lasci un'impronta, uno spezzone di vita e mai ti calzano tutta. Come
un abito le tieni addosso, ti affezioni finché qualcosa comincia stonare, hai fretta di
mutare vestito e scegliere un abito nuovo scordando i vecchi indumenti nell’armadio
all’ingresso di turno. Viaggi con pochi bagagli, quel tanto che basta per non patire
l’inverno, un cappello per giornate di sole, una lampada ad olio per addolcire, di
notte, i libri con cui parli nel giorno, gli oggetti più strani raccolti in passeggiate
notturne, frequentazioni d’assurdo.
Lo sguardo di Aurore cadde in quel preciso momento su scritta vergata a biro sulla
prima pagina ormai ingiallita dal tempo. Rita 1972. Trasalì a quella visione. Che
strano trovarla ora, alle13.20 proprio sul libro di Sartre che un altro ricordo aveva
riscosso dagli scaffali polverosi di legno solo una manciata di ore appena trascorse.
Nell’isba si celava di certo un mistero e lei lo percepiva ogni giorno di più. A
conclusione del viaggio, quando aveva scelto di vivere là, vi aveva ammassato i
ricordi, i libri, gli oggetti, i visi del tempo passato. Non riusciva a separarsene anche
se giacevano muti, da anni, ai suoi occhi distratti, occupati dagli impegni del giorno.
La loro memoria si era offuscata. I loro fantasmi li aveva cacciati nel ripostiglio
più buio in cui evitava di entrare, tanto da non rammentarne ormai più l’esistenza. -Il
passato è passato, chiuso.- Si diceva a conforto. -Il presente è adesso, pensiamo al
futuro!-
Che strano decidere quando far iniziare la vita, ma lei aveva tracciato con inchiostro
indelebile una data: 1980. Sì, Aurore era nata quel giorno! Un colpo di spugna
voluto, un chiavistello, un tabù che non poteva violare. Ma che cosa temeva
Amantine per avere stracciato da sé l’antico suo volto? Sapeva forse di aver troppo
osato, di aver scardinato qualcosa, di essere entrata nel buco della serratura del tempo
ed avere viaggiato trasportata in un’onda spaziale? Sapeva che era magia, che non era
normale, aveva ancora un vago ma incessante ricordo, di trovarsi fra i flutti. Un
giorno, persa la presa, il timone si spezzò e lei si trovò in mare. Il panico la prese, si
vedeva morire, affogare, era spettatrice commossa del suo lento morire ma una voce
da dentro, si fece più forte: -Resisti, non ti abbandonare, la spiaggia è vicina, devi
lottare.- E fu cosi che Aurore si ritrovò su rena ospitale. Ricompose le vesti, e il suo
volto disfatto poi, risoluta, ripose la chiave del mondo sommerso in alto, sul
portachiavi all’ ingresso di casa mischiate alle chiavi di serrature in disuso o
cambiate. Si diresse dal fabbro lì accanto e scelse per il mondo terrestre una chiave,
nuova di zecca, d’acciaio lucente. Ma ora, quel nome vergato sul libro la riportano in
dietro e inizia il suo gioco di andare a ritroso, senza un ordine logico, spaziale, solo
nessi, analogie e rimandi. Le immagini scorrono si legano a emozioni vissute, a segni
e simboli lontani.
Passò circa un anno, poi un giorno, ripulendo un vecchio carrello di plastica verde
telata, con disegno scozzese che sua madre usava per trasportare la spesa e soprattutto
gli ortaggi dall’orto fino a casa, nella tasca più esterna, ricomparve la chiave. La
riconobbe, anche se un po’ arrugginita dall’umidità sorbita, dalla medaglia di un Papa
che ornava l’anello. Non poteva che essere quella, conosceva sua madre. –
Finalmente!- si disse -ora posso entrare.- E la ripose di nuovo sul portachiavi di rame
battuto, fra due boccioli di rose e tre foglie di verde smaltato.
I giorni d’estate passarono, venne l’autunno, lei ogni tanto passava dall’orto, gettava
uno sguardo distratto, forse sarebbe entrata, mah, chissà! Certo era che, toccandosi in
tasca ogni volta, con disappunto, si diceva - Uffa… la chiave! Peccato, anche questa
volta, non c’è, l’ho lasciata in casa!
Come è vero che le prospettive mutano… Ciò che fino ad un attimo prima giudicavi
fastidioso, si rivelerà una salvezza e una opportunità. Amantine e George, il suo
compagno di viaggio, erano giunti in un'ora davvero tarda da Tetouan a Rabat con il
classica corriera scassata, reperto archeologico con accessori multiculturali, era il
classico viaggio fai da te, on the road. La piazza era deserta, non un'ombra di vita, di
hotels neppure parlarne. I due si guardarono attorno, si era nella zona del porto,
avrebbero potuto dormire sulla spiaggia, il sacco a pelo era un compagno fedele a
quei tempi, ma George non era convinto, il luogo non lo ispirava, temeva incontri
notturni. Amantine, che già sognava avventure di sonagli e cammelli, lo prese per
mano e si avviò verso le mura della Medina in attesa che capitasse. Non aspettarono a
lungo, due turisti per caso sono occasione per tanti, e non dei migliori. Arrivarono in
due, e iniziarono a parlare -Ciao, amici, italiani, che fate, noi aiutare...- Amantine era
dubbiosa: Che fare? Accettare l'invito? George fiutava l'agguato e per questo cercava
di mantenere la calma, tirava alla lunga e, con largo sorriso, chiacchierava, senza per
questo schiodarsi dal muretto in piena luce sul quale si erano seduti nell'attesa di un
colpo di fortuna, di una soluzione all'empasse. Nel peggiore dei casi, si diceva,
avrebbero trascorso la notte lì all'aperto: l'aria era calda, il cielo stellato, tutto
tranquillo. Poi successe il miracolo. Udimmo due motorette salire la stretta, due
uomini scesero e come uccelli all'arrivo del cacciatore, i nostri compari sciamarono in
un attimo. Si presentarono come due poliziotti. Amantine ebbe un rigurgito di ’68.
-Due sbirri!!!- pensò. Ma dovette presto ricredersi. Mohamed le spiegò in perfetto
francese, il pericolo corso. Se fossimo andati con loro, l'indomani non avremmo più
avuto né bagagli né soldi. - Ormai, ci dissero, non è possibile trovare un alloggio.- E
si offrirono di ospitarci per la notte nella casa di Assad, quello che non aveva
famiglia. Ci dividemmo. Amantine con Mohamed e George con Assad.
Lei fu la prima a raggiungere il luogo. Non era molto tranquilla, gli sbirri, come ho
detto, le davano un po’ di allergia. Aspettarono per quasi mezz'ora, e intanto Saddam,
Aveva passato anni a nutrirsi di quel che le capitava: cappuccino e cornetto, in quel
di Milano, baghette e confiture a Parigi, miele e yogurt nei piccoli caffè nell’isola di
Ios in mezzo al mare Egeo. Amantine, in verità, apprezzava mangiare, solo che
spesso era troppo distratta per sentire il languore, le bastava una buona colazione sul
tardi e poi qualcosa per cena. Ma, quando era il caso, quando mangiare era gustare,
entrare in contatto, immergersi, allora tutto cambiava. Ricordava sempre il piacere
che animava quel volto di bambino a china che aveva tracciato un giorno, un vero
trionfo di voglia, un bambino paffuto che mordendo una pesca rotonda, se la
spalmava, affondandovi dentro la bocca, il viso e le mani.
Trascorremmo il mattino sulla veranda di casa. L’aria era dolce e il tempo si era
impigrito con noi nell’ombra accesa dal lilla di una splendida bouganville che
correva dal piano basso fin sulla colonna del portico del primo piano.
Chiacchierammo con il padrone di casa di com’era la vita in Italia, del miraggio di
tanti di loro. -Non sanno che vanno a trovare, rumore di clacson, luci elettriche e
freddi giardini in cemento.- Pensava ascoltando, Amantine, ma non osava parlare,
Parlava e noi godevamo di tutto, come fuori dal mondo. Il sole frattanto si era fatto
più alto nel cielo e si udiva da fuori, attutito dalle spessa mura di casa, il vociare
della gente per strada poi, d’improvviso, si levò sopra ogni cosa, sospeso nell’aria, il
canto del muezzin a ricordare la casa del cielo. Ormai si era fatta l’ora del pranzo e ci
spostammo in un ampio locale all’interno. Unico arredo un tavolo basso che
poggiava sul un grande tappeto che ricopriva quasi tutto il pavimento. Ottagoni e
motivi floreali si alternavano a figure stilizzate di struzzi nel riquadro centrale
profilato da fasce con greche più piccole di stelle e fiori ottagonali, intercalati a
piccoli triangoli, il tutto filato con i colori della terra di Siena bruciata alternata al
bianco. Ad ogni posto corrispondeva un basso cuscino. Ci accomodammo, Amantine
era la sola donna ammessa alla mensa perché era straniera. Le donne in Marocco
mangiavano a parte. Era eccitata, ma anche un poco perplessa, non notava sul tavolo
alcuna posata né tantomeno tovaglioli, ma era pronta a tutto. Arrivò Fatima e la
figlia più piccola Karim per il rito dell’acqua. Una reggeva un bacile di alluminio
smaltato di bianco su cui correva una greca turchese, la madre reggeva una brocca
della stessa fattura e sul braccio teneva appoggiato un asciugamano di lino con
frangia sottile. Quando arrivò il suo turno, porse le mani all’acqua che Fatima
versava sorridendole sempre. Le piaceva quel rito comune, poi, con fare gentile,lei le
porse la stoffa e così asciugò con meticolosa cura, entrambe le mani.
Un’onda anomala, rossa sabbia offuscò i bagliori del ghiaccio... una nuvola strana
l’aveva raggiunta in quell'alba di neve là nella taiga.. E la vide di nuovo quella grande
distesa di sabbia, immensa sull’ oceano d'Africa. Non aveva uguali, si perdevano i
passi… e si vide di nuovo. Camminava di prima mattina ingoiata dal blu che la
prendeva man mano. I piedi, ancora esitanti, lasciavano orme più scure, dietro, a
distanza, le mura dell'antica fortezza la chiudevano al mondo. Vestiva di tessuto
leggero, una tunica indaco. Quel lilla, fra i verdi, i grigi ed i bianchi del bazar
marocchino, l'aveva sedotta... l'acquistò per pochi dirham, voleva cambiare la pelle,
inventarsi una foggia intonata alla sabbia, ai riverberi d'oro dei ceselli d'ottone, al
turchese folgorante delle teiere alla menta, alle piastrelle smaltate di bianco con
geometrie di verdi intrecciati col nero che foderavano i bazar nascosti dalla ressa dei
volti. Quel brulicar di vesti, quegli occhi ovunque, dentro la Medina di Rabat,
l’avevano assalita di colpo, togliendole il fiato. Troppa umanità, sudore,
un’inquietudine l’aveva presa da dentro, doveva uscire, aveva bisogno di spazio.
Camminava ora in direzione del mare che appariva, al suo avanzare, sempre più in là,
lontano. Sul fondo. Il vento soffiava da dietro scompigliandole i neri capelli sempre
ribelli, giocava, sferzava sollevando a tratti il vestito... Curiosa, iniziò a frugare con
gli occhi quella distesa di seppia in cerca di vita ma, per poco rimase deluso il suo
sguardo. D'incanto, fra la rena, visualizzò delle forme, si chinava e, man mano, con
rapido gesto, toglieva quel velo che celava un bagliore. Riportate alla luce, ora
brillavano al sole madreperle sottili adese a gusci aperti di rena pietrificata, corrosa,
increspata. Si disse -Stupendi, sfogliatine croccanti di carapaci, intere, sfogliate,
scheggiate in frantumi taglienti, ammassati in piccole conche scavate dal vento-
Sorrise. -Che inezia dentro tutto questo grande!- Ne raccolse parecchie, non riusciva
a scartare, ognuna formava un profilo, ognuna riverberava dal cuore un riflesso.
Erano cosi delicate che temeva a riporle. Poi, camminando, giunse sul mare. Una
forza sollevava il suo corpo, mischiava le creste, spumeggiava il bianco, s’immergeva
nel verde cobalto, si alzava, sprofondava, si ergeva ad un ritmo incalzante. Rimase
interdetta, basita, non pensò a nuotare, era troppo, era il gigante del mare. Resistette
per poco a guardare, poi non seppe frenare i suoi piedi già immersi nel mare. La
battigia era ampia, si poteva azzardare. Non scorderò mai ciò che provai . Man
mano procedeva, affondava di un poco, la rena non era più ferma, tutto sotto
cambiava. Non era che a pochi metri dall’onda con l’acqua ai fianchi, quando perse
Esperidi – Polatti Elisabetta
ogni direzione di spazio, non capiva dov’era non sapeva chi era, mentre da sotto, una
forza s’avvolgeva a spirale. Scendeva, ruotava avvolta dal mare. Non ricordava
quando riprese il controllo, ma uscì correndo giurando a se stessa che mai avrebbe
sfidato ancora, il Dio del mare.
CERTOSA
Amava osservare i colori, le forme, sognava di essere una pittrice e di ricreare. Il suo
primo regalo che chiese per i suoi quattordici anni, fu una valigetta di colori ad olio
con cui strapazzare la tela con spatole e pennelli di setola dura. Il mare, i fiori, i visi
di donna la impegnarono un poco. le piaceva impiastrare con tratti un po’ duri, con
colori primari, ma ancora solari. Non era poi male, per una principiante. Un
mercante, capitato per caso a sorbirsi un caffè, li vide esposti senza cornice e li volle
acquistare. Rimpianse quel giorno, ripose i pennelli … ma continuò a guardare.
Le piaceva la terra,voleva impastare e fu così che, fatta più grande, capitò in una
bottega artigiana in terra padana. Quando lo vide chino sul tornio, non resistette,
scese i pochi gradini di sasso che davano al locale e lo incontrò, il suo primo
maestro, René, un anziano davvero singolare.
Abitava a Certosa produceva il “Gra Car “, distillato verde di erbe, antica ricetta dei
frati. La sua famiglia un tempo, viveva all’interno delle mura possenti della Certosa,
poi, per motivi che mi palesò più avanti, in modo assai vago, fu costretta ad uscire e a
costruire, non lontano, un casale tutt’ora esistente, dove trasferire l’impresa. Un corpo
ad elle di un sol piano disposto secondo il tipico schema dei casali padani. Lui
viveva, attorniato dai gatti, nell’ala est e, poco distante, nel cuore dell’edificio,
l’unica, anziana sorella.
-Credo sia stato un militare in pensione- mi disse, ma non ne era più certa. -Un
aristocratico un po’ demodé, viso asciutto, quasi altero, occhi acuti, sagace, una testa
balzana, così diceva di sé, uno da non prendere ad esempio. Amava il fai da te e,
senza fretta, aveva costruito gli arredi della sua dependance. -La ricordo ancora la
grande sala per ricevere gli amici: essenziale con travi di legno scuro, a vista,
rettangolare, con pareti intonacate di bianco e, accostato alla parete sud, un grande
tavolo per dieci. Legno ruvido, un fratino direi, monacale, una cassapanca a destra sul
fondo, sedie austere e una grande finestra con vetri riquadrati di legno, che dava sui
campi. Ma l’arredo che la conquistò, mi confidò Aurore, subito, al suo primo ingesso,
fu un manufatto di terracotta, un grande centrotavola rotondo, un piatto piano,
leggermente incavato. Stava posato al centro sulle assi scure di vecchio spessore.
Esperidi – Polatti Elisabetta
La catturò la forma, il colore, la grana della superficie: una terra ingobbiata di bianco,
polverosa, setosa, che adombrava appena il cotto. Non riusciva a staccare gli occhi.
Quell’oggetto le parlava di arte, di mani, di sguardi attenti, era frugalità e distacco,
insomma se ne innamorò.
La cucina era piccola, quasi un ripostiglio con giusto l’essenziale per uno che viveva
di niente. Ma il pezzo forte, la vetrina di vendita, stava all’ingresso. Lì tutto era
perfetto: gli arredi erano di pregio, piastrelle antiche di Deruta impreziosivano i muri
di calce, un grande bancone di legno più chiaro con il pianale rivestito di formelle
decorate, con geometrie e motivi floreali, rigorosamente fatte a mano, serviva ad
appoggiare il vassoio d’argento con i minuscoli calici per la degustazione di quel
verde liquore di erbe. Lui raramente stava in vetrina, spettava alla sorella Maria
intrattenere i clienti.
Renato non amava la gente, lo trovavi sempre alla fine del viale alberato, nel
seminterrato poco distante dalla Certosa, a trafficare, spesso a lavorare l’argilla.
Diventarono amici, lui provò più volte a dissuaderla dicendole -Pazza- infine cedette
e iniziò a insegnarle. Si era commossa Amantine, al ricordo, aveva amato quel tornio
a pedali, che assecondava la mano ancora inesperta sul pezzo d’argilla, in quel luogo
lei modellava la forma, respirava la terra, lei era respiro.
Quel giorno Renato le mostrò con orgoglio, nascosto sul fondo, il cuore di tutto: un
imponente forno in refrattario, poi, con un cenno, le indicò appoggiate alle pareti, le
assi per disporre gli oggetti, il lungo bancale con bacinelle di alluminio per
ingobbiare e infine i sacchi con le terre, gli ingobbi, gli smalti, i tornielli e i diversi
pennelli. - Come scorrevano lunghe le giornate - sussurrò guardandomi in viso. -
Quasi come i ricordi di ora. Lì si era padroni- Non ricordava un solo cliente.
-E ora- mi dice prima di andare, aleggia qui dentro, quasi fantasma, quel contatto
avvolgente di creta bagnata sui palmi aperti mentre la ruota ancora gira e gira nel
silenzio raccolto-.
Era un Etiope, giovane, ma non saprei, vestiva di bianco. Sotto la tunica immaginavo
un corpo perfetto dai bagliori di bronzo, con mani lunghe, attente, sensibili, abili a
compiere un rito e noi intorno seduti per terra sulla marina di Hurgada. Era di notte
quando il fresco t’avvolge e ti alletta agli incontri, c’era movimento li intorno. Fuori
Esperidi – Polatti Elisabetta
dai caffè egiziani uomini e donne parlavano basso, godendo quel magico ristoro di
ombra, più in là locali moderni occidentali come specchi ad attirare turisti. Non era
per me, non lo fu per noi. Tre donne si incontrano a caso, una guida ci chiede cosa
vogliamo. Il giro fu lungo, precedenza ai gusti globali, discoteca sul mare, eppure
anche li trovammo l’incontro, tre donne, 90 anni in tutto ma con un salto di trenta, per
me. La musica era alta, sul mare la calma, un poco discosta, sotto le palme sedevo in
attesa. Le ragazze compagne di un giorno, erano vive, muovevano i corpi assetate di
ebbrezza. La guida, Mohamed, un ragazzo attraente non si fece sedurre, era
professionale e rimase a parlare con me. Chiacchierammo del suo paese, di religione
e di donne. Poi le due mi trascinarono a mare, volevano danzare, insistevano, sulla
battigia del mare. Le ricordo, mi ricordavano me ed io ero vecchia e ragazza di nuovo
a condividere la magia del tempo che riunisce, che crea il momento.
Infine un aroma speziato, deciso, avvolgente, di carbone di legno cresciuto sul Nilo,
mi avvolse e bevemmo l’Egitto. Un caffè non è nulla, ma può essere tutto. Quella
notte era rito, magia, la realtà si esaltava e rivelava il mistero.
Mio padre era un uomo di poche parole, con radici forti e fronde capaci di sostenere
bufere e terreni franosi. Non amava molto parlare, se mai raccontare dei tempi
passati, della guerra, di quando lui era in Germania a sistemare rotaie e traversine o
nelle paludi pontine ai tempi del Fascio a guadagnarsi un poco di pane. Mi raccontava
di come era la vita qui in montagna quando la gente non conosceva il turismo ed io
mi sedevo in silenzio e ascoltavo come una fiaba verista ed era atmosfera e armonia.
Poi lo rivedo in cucina, io e lui insieme a preparare la torta di mele...
La vita non era stata tenera con la sua famiglia. Secondo di sei fratelli, la Spagnola gli
aveva strappato la madre e le due sorelle nell'arco di una settimana, quando era poco
più che ragazzo. Poi una matrigna e la decisione di andarsene di casa, con due fratelli,
a seguire i campi e i meleti dividendosi tra pascolo, alpeggio e lavoro nei campi.
Esperidi – Polatti Elisabetta
Non era istruito, a quei tempi la scuola elementare, se non entravi in seminario, era
tutto, ma di certo era saggio.
Conservo di lui ancora i due grossi volumi della Bibbia e i Miserabili che si era letto
nei mesi invernali. Quei libri e la vita gli erano bastati a capire chi era e che cosa era
importante sapere per essere felici. Molto discreto aveva pochi amici con cui amava
giocare alle carte scommettendo un caffè o un calice di vino.
Poi giunsero gli anni ‘60 e qui in paese era scoppiato il boom del turismo. Si
respirava un’aria febbrile, dalla città giunsero forestieri e impresari del mattone,
della speculazione selvaggia: costruire era il passaparola, “i danè” anzitutto!!.. E
molti dei locali vendettero, costruirono condomini senza pensare un progetto, senza
capire che stavano svendendo il loro paese. Mio padre non fu fra quelli, non speculò,
costruì la sua casa e due negozi: un bar e un alimentari per mantenere i figli a
studiare, e, diceva sempre:- L’istruzione rende signori, il denaro solo ricchi- E lui,
era un signore, semplice e parco. Amava molto la natura e fin da piccola, mi portava
ogni tanto alla baita, là nella torbiera, quell’isba mai ultimata. Conosceva ogni metro
di terra, gli alberi che facevano da confine me li indicava nominandoli ad uno ad uno.
Di loro mi faceva notare l’età, la famiglia, mi indicava un segno che li distinguesse da
quelli del fondo vicino. Intorno all’isba si estendevano i boschi di abeti ed anche il
prato adiacente si stava pian piano popolando di nuove presenze perché lui, ogni
anno, vi piantava betulle e larici. Ne ricordo uno in particolare: aveva il tronco
arcuato per la troppa neve caduta ed io mi mettevo a cavalcioni e galoppavo, era il
mio cavallo.
Ogni primavera lo accompagnavo sulla torbiera, salivamo a controllare le piante, a
raddrizzare quelle piegate, e lui abbatteva quelle spezzate dalle slavine. In estate era
un rito pulire il sottobosco, raccogliere le pigne, i rametti nodosi dei larici, tagliare i
rovi di lamponi e di more, arieggiare l’interno della baita di sasso. Poi, ogni
Ferragosto, ci si trovava con la famiglia a cucinare all’aperto sul fuoco salamelle e
costine e lui, dentro la baita, rigirava paziente nel paiolo di rame la polenta taragna.
Ogni volta che penso a mio padre lo vedo chino che sfiora la corteccia argentea di
una betulla come si fa con un’ innamorata che l’inverno, a forza, ha separato dall’
abbraccio.
Anche ora che non ci sei più, ogni albero mi parla di te e dentro di me, dentro i miei
figli sei linfa verde e per noi sempre sarai l’uomo che parlava agli alberi.
Un temporale estivo sorprese Cloè mentre passeggiava nel bosco, fra i mirti
azzurrini. Era fresca la pioggia sottile che le impregnava la veste di lino facendola
aderire alle rotondità del suo corpo perfetto, lasciandolo nudo. Sentiva un sottile
piacere pervaderla tutta e spingerla oltre. Camminava, s’ inoltrava sospesa nel folto,
sospinta da un senso di ignoto, finché giunse là nel punto che lei ben conosceva.
Alzò lo sguardo cercando qualcosa e scorse fra il verde, il profilo di un uomo. Lo
vide fermo, appoggiato ad una colonna di marmo dell’ antico tempietto di Pan ormai
semi celato dalla verzura cupa delle edere che si erano prese quasi ogni spazio.
Modulava, con un flauto silvestre, un’armonia di fragranze muschiate di sandalo e
incenso. Non l’aveva mai incontrato là nella selva, ma non ebbe paura, qualcosa
l’attrasse, gli andò vicino e, dopo averlo guardato a lungo in viso, si sedette sul
gradino di sasso e rimase a guardare.
Rapita dal suono, bevve le note dentro le gocce di pioggia che le bagnavano il volto,
quindi si alzò. Ora gli era vicino e fu allora che sentì più chiaro il richiamo del
suono. Incantata porse l’orecchio e udì un sussurro di lingua lontana salire come da
Esperidi – Polatti Elisabetta
un pozzo e attirarla suadente più giù, nel nero del fondo. Perse il contorno, sfumò il
verde lì intorno e iniziò a cadere lenta, sempre più in basso, come dentro un imbuto.
Si trovò distesa su un’erba cobalto iridata di luna. La pelle splendeva, negli occhi
aveva le stelle dell’Orsa. Non c’era rumore, solo il silenzio e un pulsare del cuore.
Dov’era finita non volle saperlo, le bastava sentirsi fluttuare nel cielo.
D’improvviso una scintilla s’accese nel nero più nero, lui era lì sulla soglia del
Tempio, la guardava parlandole piano, avvolgendola tutta con quel suo sguardo di
mago. Lei, rapita, gli tese la mano, lui la prese e, senza parlare, la condusse oltre le
mura, oltre il silenzio.
LINEE
Quei cerchi dipinti con l'ocra la richiamavano in alto, in un centro d’incontro. E che
dire del labirinto? Ci aveva perso le notti. Tutto era sfumato, era lei o Teseo? Mah
forse Teseo vestiva gli abiti di Arianna o lei aveva scambiato i suoi abiti con quelli di
lui. Di una cosa era ormai certa. Di esserci entrata dalla porta a nord dopo aver
salutato a sant’Anna. A lungo aveva percorso le strette, le volte, poi, ormai stanca di
non vederne l’uscita, aveva alzato gli occhi catturata da giochi di luce del sole ormai
tardo, sui vetri colorati del rosone che si apriva nel centro della parete di fronte.
Qualcosa di stupefacente dovette sentire perché risoluta, invertì il cammino, aveva
trovato l’uscita, lo sapeva per certo. Ora poteva uscire e lasciare Aracne nel centro a
tessere ancora per altri, perenni fili di sole. Ora lei è di profilo fra l’ombra e la luce e,
mentre si appresta ad uscire, ecco che nel centro, sulle linee brune del labirinto, vede
danzare uomini bianchi. Volteggiano a lungo poi si librano in volo, son pronti a
spiccare quel volo.
“Rosa dat mel apibus” –Mah… Di solito sono le api che ci danno il miele - si disse
Aurore riflettendo. Ma certo, aveva tirato le somme in modo affrettato e
antropocentrico, insomma era ancora tutta centrata su sé, sul termine finale. Le
sfuggiva il processo, ma poi, annusando la rosa, entrando dentro i suoi petali setosi e
screziati, colse il profumo del nettare e sentì un profondo legame. - Le api sono
davvero industriose e amabili.- pensò e, d'improvviso, una rete sottile di fragranze
l'avvolse. Dalla corolla scese dentro ogni foglia, ovunque fin dentro i rami di verde
tenero poi più in basso, dentro il fusto nodoso e antico abbarbicato alla terra sabbiosa.
E lì bevve il ristoro dell'acqua mischiata ai sali disciolti, mangiò quell' humus terroso
e sentì il calore del grembo materno. Senz'altro le api avevano colto nel giusto, una
legge antica le guidava nel volo, si posavano con le piccole antenne che catturano i
suoni a suggere il nettare a sporcarsi le zampette per disperdere il seme. Che maestria
le api, ma non basta, che organizzazione perfetta: un laboratorio alchemico il loro.!
Sorrise Amantine, pensandole all'opera nell'arnia. Già vedeva gli orsi con fare
pacifico, annusare nel cavo dell'albero, là nella foresta, quel biondo e divino alimento
e immaginava Esiodo, Catone e gli antichi precetti lasciati per un'agricoltura
migliore. Infine ecco, intravede i discepoli di cotanti Maestri venire festosi a spartire
il regalo e addolcire la mensa col profumo dei fiori, curare i miasmi e rinforzare gli
abulici con pappa reale. Ora Aurore volteggia, i piedi nell'erba fra fiori e ghirlande. -
BAGLIORI SINISTRI
Un tempo, agli albori della Storia, l'immagine era parlante, rivelava ciò che non era
direttamente esperibile e difficilmente concettualizzabile.
Come creatura, essa creava da sé una realtà e un comune sentire. Nei graffiti sulle
rocce, nei segni tracciati nelle caverne, nei geroglifici, nei miti, nelle fiabe
l'immagine prendeva vita e l'immaginario diventava verità.
La forma veniva evocata, poi fissata, codificata rendendo perfetto e sacro il gesto
compiuto.
Dentro il sacro recinto, con gesti, parole immutabili, l'immagine faceva irruzione
bucando il tempo normale, facendo vibrare ogni entità partecipante. Il rito era
magia, immersione, introiezione omnicomprensiva, era duplicazione e unificazione.
Poi venne l'età della ratio che tutto deve spiegare; si impose la linea che doveva
tracciare, l'analisi che doveva sezionare e la parola pian piano perse spessore,
elasticità e amore divenendo concetto, definizione.
La scena era divisa, e, fra l'ombra e la luce, sfuggiva ogni contorno. Solo, appoggiati
al muro del mondo, la Mente smagrita dai troppi quesiti e una Ninfa quasi
incolore per difetto d'amore, lo reggevano a lato per la scena dell'ultimo giorno.
Il quadro era nitido, iper-reale, solo uno scintillio solfureo gettava bagliori sinistri
sul sentiero che si inoltrava nel folto del bosco.