Sei sulla pagina 1di 12

Una introduzione alla “Dottrina del Risveglio”

Massimiliano A. Polichetti

«E ogni albero, grande, piccolo o medio che sia, assorbe l'acqua secondo la sua peculiarità,
secondo la sua capacità, e cresce in accordo alla sua inclinazione naturale.
E attraverso il tronco, lo stelo, la corteccia, i rami e le foglie, crescono
le grandi piante bagnate dalla nuvola e producono fiori e frutti. […]
Allo stesso modo, Kashyapa, anche il Buddha appare nel mondo come una nuvola
e, una volta nato, la Guida del mondo parla e mostra agli esseri la giusta condotta.»
(Saddharmapundarikasutra, V - 13-14, 16; ed. it. Sutra del Loto, Milano 2001, pp. 147-148).

Nel corso della sua lunga storia, il buddhadharma (termine sanscrito dai molteplici significati tra cui
la ‘dottrina del risveglio’, da preferirsi al più recente lemma “Buddhismo”) è andato differenziandosi
al suo interno in una scuola detta in passato, dalla critica occidentale, “del sud” (in quanto ancora
oggi presente in prevalenza nello Sri Lanka e nell’Asia sudorientale) e una scuola detta “del nord”
(diffusa maggiormente nelle zone himalayane, in Tibet, Cina, Corea, Giappone, nonché in altre parti
dell’Asia).

Shakyamuni; legno policromo e dorato, h. cm. 12.5, Tibet, sec. XVII,


MuCiv ex inv. MNAO 30443 (dono Francesca Bonardi)
I termini propri spettanti a queste due tradizioni, per usare la terminologia della scuola del nord, sono
mahayana e hinayana, ovvero il ‘grande veicolo’ e il ‘piccolo veicolo’. La parola veicolo ben si adatta
a esprimere l’idea del ‘mezzo’ che diverrà superfluo una volta raggiunta la meta della buddhità, ma
fino a quel momento da ritenersi strumento indispensabile per trascendere il mondo delle rinascite o
samsara.

La scuola definita, in senso riduttivo, dal mahayana come hinayana si autodefinisce usando altri
termini, tra cui theravada (in lingua pali: la ‘scuola degli anziani’). Il mahayana elegge quale
parametro di santità la figura del bodhisattva (l’‘essere del risveglio’) che, motivato dall’ideale
altruistico del bodhicitta (il ‘pensiero altruistico del risveglio’), continua a reincarnarsi finché tutti gli
esseri non siano stati salvati. La Scuola theravada propone alla devozione ed emulazione dei fedeli
l’arhat (il ‘distruttore dell’avversario’). Questi si sforza di raggiungere la bodhi tramite il progressivo
annullamento delle ‘emozioni dissonanti avventizie’ (klesha) che costringono gli esseri a rinascere,
senza possibilità di scelta, negli ambiti esistenziali che costituiscono il samsara: inferni, spiriti
famelici, animali, esseri umani, semidei e divinità mondane. Si tratta di sei contesti percettivi posti in
essere non dalla libera volontà, ma dal karma, l’implacabile ‘legge di causa-effetto’ alla quale il
dharma è contrapposto quale unico antidoto efficace.

Pur non essendo qui il caso di approfondire la difficile questione del rapporto tra la terminologia
filosofica occidentale e quella orientale, va perlomeno osservato che pur avendo la filosofia
buddhistica, per l’Oriente, e quella cristiana, per l’Occidente, quale punto fermo e principale delle
rispettive metodologie gnoseologiche la dottrina che tenta di definire le cause, mentre per la cristiana
si approda alla necessità di una “causa di tutte le cause” (concepita già dai pensatori greci e
formalizzata definitivamente nel tomismo aristotelico), all’interno della speculazione buddhistica non
si giunge alla definizione di un inizio, di un principio della infinita serie di cause. Le cause sono
pertanto considerate come a loro volta prodotte da altre cause sin da un tempo senza inizio. Gli stessi
effetti, determinati da cause ad essi precedenti, divengono poi a loro volta le cause per successivi
effetti. Se fosse lecito inquadrare il pensiero buddhistico nelle categorie della storia della filosofia
occidentale, in accordo agli schemi suggeriti dalla metafisica ad essa afferente, si tratterebbe dunque
di una delle soluzioni immanentistiche dell’istanza gnoseologica. Nella concezione cosmologica tutto
questo trova applicazione nella considerazione che ogni fenomeno, così come anche ogni
accadimento dell’ordine esistenziale, lungi dall'essere ab-solutum, indipendente ed autoprodotto
(avente cioè in se stesso le ragioni del proprio essere), sia in realtà composto e prodotto, ovvero
dipendente da cause, parti e condizioni, in una parola “interdipendente” e, nella maggior parte dei
casi (fatte salve poche eccezioni, tra le quali lo spazio), soggetto al divenire ovvero “impermanente”.

La visione sopra enunciata anticipa di millenni la definizione di “campo” propria alla fisica
contemporanea. Tutta la realtà viene in essa, infatti, intuita come un’immensa configurazione di
particelle che si propagano comunicandosi alle più prossime per mezzo di continui mutamenti di
stato. Tutto ciò, applicato al dover essere dell’uomo, sancisce la gravità estrema del comportamento.
Ogni atto, ogni pensiero, è destinato a durare eternamente per la legge di causa-effetto o karma,
riproducendosi su scala esponenziale. Il karma viene incrementato dalla frequenza e dalla regolarità
con le quali viene compiuta una determinata azione, nonché dall’intensità della motivazione ad essa
relativa.

Chi abbia seriamente intrapreso la ricerca del cammino che conduce verso la liberazione del nirvana,
potrebbe sin dai primi passi accorgersi che nessuno potrà percorrere in sua vece quest’impegnativo
sentiero. Tutto l'insegnamento del Buddha è basato su questa premessa che riporta sistematicamente
l’accento sulla centralità della responsabilità individuale. Il Buddha è, infatti, innanzi tutto il Maestro
che espone il complesso dei mezzi teorici e pratici che porterà al conseguimento della liberazione.
Egli non afferma di potersi fare carico delle azioni negative degli esseri, non addossa su sé stesso il
peso dell’imperfezione del mondo. Il Buddha si limita ad indicare la strada che verrà
responsabilmente percorsa dagli individui in grado di recepire la portata di una tale
responsabilizzazione. La salvezza (sempre intesa come emancipazione dal samsara) si esprime e si
attua nel buddhadharma principalmente attraverso l’insegnamento e l’applicazione pratica di questo.

I contenuti della prima predicazione, avvenuta nel Parco delle Gazzelle a Sarnath, presso Varanasi, e
rivolta ai suoi primi cinque discepoli, sono espressi dal Buddha attraverso le “quattro nobili verità”
(chatvari arya satya). Duhkha (la sofferenza), samudaya (l’origine della sofferenza, ovvero
l’attaccamento compulsivo), nirodha (la cessazione della sofferenza) e marga (il nobile ottuplice
sentiero), costituiscono di fatto il vero e proprio inizio della predicazione formale. Queste verità sono
definite “nobili” (arya) sia in quanto sono state insegnate dal Buddha, nobile e superiore rispetto agli
esseri ordinari, sia in quanto esse sono in grado di rendere nobili e superiori gli stessi esseri
attualmente sottoposti alle contingenze dell’esistenza condizionata.

Rappresentazione metastorica del ‘primo sermone’ del Buddha; frammento di pittura murale, h. cm. 36,
Luk (Tibet occidentale), sec. XVI, MuCiv ex inv. MNAO 389.

Si farà cenno ora solo alla quarta di queste verità, costituita dai “veri sentieri”, ovvero i mezzi
attraverso i quali è possibile conseguire la cessazione della sofferenza. Tali mezzi si esprimono nella
pratica della virtù attraverso una condotta di vita intelligente e coraggiosa, che è bene attenta ad
evitare di danneggiare gli altri esseri e che sa intuire come utilmente cogliere l’importanza del
momento presente. Merita qui attenzione il primo punto d’una quadruplice ripartizione a proposito di
questa quarta nobile verità, in quanto consente l’enunciazione dell’effetto pratico dell’impalcatura
speculativa buddhistica applicata al “dover essere” dell’uomo, alla morale.

Il primo sentiero è dunque costituito dalla “retta comprensione”, che si traduce nella valutazione
realistica della sofferenza, della sua origine, e del sentiero che porta all’estinzione della sofferenza;
la comprensione di ciò che va perseguito e di ciò che va abbandonato; la comprensione della
mancanza di un sé grossolano nella persona; la comprensione dei meccanismi che inducono alla
rinascita.

Segue il “retto pensiero”: il sapere dirigere la mente verso contenuti positivi quali la benevolenza e
la gentilezza ed al contempo liberarla dall'attaccamento, dai preconcetti e dalle opinioni errate.

Quindi la “retta parola”: astenersi dal mentire, calunniare, parlare duramente o senza senso.

La “retta azione”: astenersi dal togliere la vita, rubare e dal comportamento sessuale scorretto.

I “retti mezzi di sussistenza”: garantire a sé stessi ed ai propri cari il giusto tenore di vita senza
danneggiare gli altri, direttamente od indirettamente.

Il “retto sforzo”: impegnarsi nella risoluzione di rimanere consapevoli e distaccati in tutte le


circostanze.

La “retta consapevolezza”: ricordarsi di essere consapevoli di tutto quanto si compia con il pensiero,
con la parola o con l’azione.

La “retta concentrazione”: liberarsi da tutte le condizioni che interferiscono con lo stato naturalmente
chiaro della mente, penetrando i vari assorbimenti meditativi e così conseguire conoscenze d’ordine
superiore.

L’aggiogamento delle preconcezioni personali alla osservanza logico-simbolica di un sentiero


sapienziale tradizionale aperto all’altro, al diverso da sé, è l’avvio al progressivo smantellamento
delle identificazioni totalizzanti con i contenuti parziali della propria consapevolezza tramite
l’abbandono dei propri abiti negativi e il raffinamento dell’autoanalisi, nella determinazione sempre
meno imprecisa del modo d’essere reale, ovvero non allucinato da errate concezioni dell’io. Si sta qui
accennando alla definitiva estinzione del tranello solipsistico che ci fa ancora aggrappare alla
mortificante enstasi del “null’altro che sé”. D’altro canto, affermare che nel buddhadharma l’io si
risolve in una vacuità, nell’assenza di sé, e finisce per non esserci, non è corretto, se si vuole rispettare
lo sfondo metafisico pertinente. Da una tale affermazione si potrebbe infatti inferire un’erronea
identità formale tra l’io e quella che, più esattamente, si limita ad essere la vacuità di questo fenomeno
che resta comunque convenzionalmente esistente. Una vacuità può, infatti, porsi solo in relazione ad
un qualunque fenomeno convenzionalmente imputabile che, pur privo di esistenza inerente (o
sostanziale, ovvero avente in sé e per sé le cause della propria ipotetica auto-esistenza) continua
ciononostante a mantenere un’esistenza validata dalla possibilità di produrre determinate cause
(naturalmente alla presenza delle appropriate condizioni sussidiarie o concause). L’alternativa che un
fenomeno sia semplicemente non-esistente (come il “figlio di una donna sterile” o le “corna di una
lepre”, o un “fiore che nasce dal cielo”) è contemplata, ma in quel caso, non esistendo neppure
convenzionalmente, quell’inesistente fenomeno sarà anche corrispondentemente privo della sua
vacuità, ovvero non potrà porsi come fenomeno cui potersi imputare il modo ultimo d’esistenza.
Limitarsi ad affermare che l’io è vacuità senza ulteriormente specificare che si vuole intendere che
l’io ha la vacuità (d’esistenza inerente) è una semplificazione pericolosa.
Manjushri (il bodhisattva della sapienza); Tibet, sec. XVIII, lega metallica dorata, h. cm 21,
MuCiv ex inv. MNAO 15855 (dono Francesca Bonardi).

La vacuità pertanto non deve assolutamente intendersi come una mera negazione dell’essere (di tutto
l’essere), ma solo di quelle modalità che all’analisi appaiono logicamente insostenibili, quali l’auto-
sussistenza, l’auto-produzione, l’indipendenza da cause/parti/condizioni. La vacuità buddhistica è
dunque sintatticamente e funzionalmente ben altra cosa dal vuoto empirico od ontologico-nichilistico.
Anche la più lieve comprensione della ‘vacuità d’esistenza inerente’ o shunyata sarà causa dello
sviluppo della ‘compassione simpatetica’ (karuna), rendendo possibile la comprensione che gli altri
esseri senzienti trasmigrano attraverso i reami samsarici sperimentando sofferenza proprio in quanto
non riconoscono la modalità ultima d’esistenza dei fenomeni. Essi soffrono perché fraintendono ciò
che è impermanente come permanente, ciò che non è reale come reale, ciò che non è vero come la
verità. Come non provare una premurosa compassione per esseri in preda ad una tale mortificante
confusione mentale? Come conseguenza ci si sforza di sviluppare i due elementi su cui si incardina
la pratica spirituale: l’aspetto di vacuità che è la saggezza, l’aspetto di compassione che è il metodo.
Utilizzando questi due elementi come ali, si può allora spiccare il volo verso il ‘perfetto e definitivo
risveglio’ (samyaksambodhi). Questo punto d’arrivo è descritto nel vajrayana, il ‘veicolo della
folgore adamantina’ che costituisce – internamente al mahayana – l’aspetto esoterico del
buddhadharma, in termini estremamente puntuali come l’inseparabilità della beatitudine e
dell’onniscienza. Essendo nella teoria tantrica (che provvede lo sfondo del vajrayana) presupposto
che una sensazione abbia la capacità di comprendere, l’oggetto amato, dunque conosciuto, diviene il
modo ultimo d’esistenza dei fenomeni, e la mente soggettiva che ama diviene la grande beatitudine.
Questo soggetto conosce allora perfettamente tutto sé stesso: interpenetrandosi in questo atto noetico
di reciproca comprensione, di mutuo riconoscimento, la mente e la shunyata – già definita come
mancanza d’esistenza inerente – si fondono come acqua versata nell’acqua, annullando ogni
dualismo. Questa ‘unione’ (yuganaddha) è ritenuta essere il vero e definitivo bodhicitta – come pure
si è detto: il ‘pensiero altruistico del risveglio’ – verso la cui maturazione è protesa nella sua interezza
la dottrina del grande veicolo.

Non occorre nel vajrayana aver necessariamente abbracciato la vita monastica perché sia
consigliabile, quando non addirittura prescritto, compiere quotidianamente alcuni riti. Si assiste
pertanto all’insegnamento esplicito di metodi pratici che permetteranno ai neofiti di rendere il più
possibile adatta la propria persona a ricevere i permessi formali per successive – via via più
impegnative – pratiche di trasformazione del contesto quotidiano. Tali rituali vengono oggi insegnati
anche in Occidente negli istituti di studi buddhistici tibetani o “centri di dharma”. La diffusione della
pratica del vajrayana in Occidente è infatti concretamente rilevabile dal sempre crescente numero di
tali centri per i quali è possibile stabilire una semplice tipologia distinguendoli in centri situati in
campagna, o in piccoli paesi, e centri collocati in pieno contesto urbano. I primi sono per lo più delle
volte resi adatti ad ospitare esperienze di pratica religiosa intensiva ad ampio respiro ovvero a
carattere residenziale, i secondi possiamo definirli delle vere e proprie trincee spirituali nelle quali si
sta ancora cercando di definire lo standard ottimale di una pratica religiosa più congeniale ai tempi
ed alle modalità della vita nelle metropoli. Spesso sospesi tra razionalismo, esoterismo e
romanticismo, gli occidentali hanno purtuttavia già dimostrato d’aver compiuto sforzi di
comprensione nei riguardi della dottrina del Buddha.

Il vajrayana, se da una parte presuppone la conoscenza e in certo qual modo un’acquisizione di grado
superiore del bodhicitta, ovvero la motivazione altruistica alla base del ‘veicolo delle perfezioni’
(paramitayana) o mahayana non tantrico, dall’altra impone dunque una disciplina che si esprime
nella progressiva assimilazione di pratiche liturgico/meditative, rendendo così il devoto dapprima un
neofita e poi un adepto. L’impiego di termini quali neofita e adepto richiama la necessità di una
cerimonia (abhisheka) nella quale il proficiente richieda e riceva i permessi formali (samaya) che lo
introdurranno in un sentiero appunto iniziatico. Lungi dal possedere identità di significato con
l’interpretazione occidentale elaborata a partire dal XIX secolo da certo esoterismo d’accatto, il
termine iniziazione (da initium) esprime in ambito vajrayana prevalentemente il permesso di accedere
alle liturgie evolutive, definendo in concreto appunto l’inizio della pratica tantrica. Con il vajrayana
la tendenza monistica della filosofia indiana raggiunge il suo apice, e la natura d’ogni attività umana
conseguentemente interpretata come divina, identica all’essenza stessa dell’universo. Per inverare la
propria theosis, ovvero la trasmutazione da essere ordinario, sottoposto alla miseria del mondo
transeunte divorato dall’oblio, in nume beato e onnisciente che ha permeato d’estasi la natura degli
elementi del proprio corpo e della propria mente volta irresistibilmente alla verità, nonché la
corrispondente trasformazione paradisiaca del contesto ambientale in un mandala – definito
“psicocosmogramma” dal grande Giuseppe Tucci –, devono poter sussistere alcune condizioni
circostanziali, prime tra tutte le istruzioni sulla progressiva familiarizzazione della mente con i
contenuti della ‘contemplazione formale’ (sadhana, tib. sGrub.Thabs o ‘mezzi di compimento’) come
suggeriti da un Maestro. È difatti lo ierofante che valutando le inclinazioni del neofita può così
efficacemente iniziarlo alla reale natura della mente. Nella tradizione vajrayana del Buddhismo
mahayana la buddhità, ma per meglio dire il cammino verso di essa, può venire descritta tramite la
formalizzazione geometrica di un impianto architettonico; il mandala viene proposto quale
rappresentazione ideale in forma grafica dei rapporti esistenti tra l’universo e la mente dell’uomo.
Chakrasamvara mandala, secoli XVI - XVII, Tibet: Ü Tsang (Tibet centrale), lignaggio spirituale: Sakyapa, pigmenti
applicati con leganti miscibili in acqua su tessuto, MuCiv ex inv. MNAO 958/791

Il mandala può anche definirsi il mondo dell’essere, presieduto dalla verità; il bhavachakra (la
pittografia pure ad andamento circolare rappresentante la ‘ruota del divenire’) è di contro il mondo
delle rinascite, divorato dall’oblio cui presta la sua immagine Yama, il dio dei morti nella cosmologia
buddhistica, primo essere a sperimentare la morte in un evo cosmico.

Bhavachakra, la “Ruota del divenire”, Thangkha raffigurante la psico-cosmografia che illustra il ciclo delle rinascite
inconsapevoli (samsara) determinate dalla ‘legge di causa-effetto’ (karma),
dipinto su stoffa, cm 127x98, Nepal, sec. XIX, MuCiv ex inv. MNAO 18910
Il sentiero tantrico propone una varietà di metodologie per abbreviare il tempo necessario ad inverare
la condizione di un buddha. Tali metodi possono implicare l’adozione temporanea delle
contaminazioni mentali, quali l’ira o la concupiscenza. Ma per eseguire ciò, è sommamente
necessario avere rettificato l'atteggiamento egotistico teso all’esclusiva auto-gratificazione del
piccolo io. In Tibet, la più parte dei ‘lignaggi di trasmissione ininterrotta della dottrina’ (parampara
o sampradaya) pone di fatto l’accento sul gradualismo informante una ascesi che, iniziando
dall'ineliminabile confidente rifugio nel “triplice gioiello” (buddha, dharma e sangha), aderisce ai
“quattro sigilli” (tutti i fenomeni composti, impermanenti, sono causa di effetti; tutti i fenomeni
contaminati sono causa di sofferenze; tutti i fenomeni sono privi di un sé indipendente da cause parti
e condizioni; il nirvana è la pace.), si addestra nei “tre supremi addestramenti” (morale,
concentrazione, saggezza), per approdare al pieno esercizio dei “tre sentieri principali”: il disincantato
disgusto nei confronti del ciclo delle rinascite (nicharana), il pensiero altruistico del risveglio
(bodhicitta) e la saggezza (prajnaparamita) volta all’apprendimento del modo ultimo d’esistenza dei
fenomeni.

Il lignaggio spirituale Sakya Lamdre, XVI – XVII secolo, Tibet: Tsang (Tibet centro-meridionale), pigmenti applicati
con leganti miscibili in acqua su tessuto, MuCiv ex inv. MNAO 882/715
Addolora assistere ai molti equivoci per i quali in epoca moderna le varie tradizioni tantriche
(buddhistiche, hindu e jainiche) sono state di volta in volta interpretate alla stregua di magismi,
quando non di mere tecniche di igiene sessuale. L’argomento del rapporto fra tradizioni esoteriche
orientali e immaginario occidentale meriterebbe – come ha già altrove meritato con maggiore o
minore obbiettività – uno studio che esula da queste righe. Per lasciare intravedere il potenziale di
quest’ambito critico con uno spunto per la riflessione, ci si limita qui a dubitare se nell’ansia palese
del consumismo contemporaneo – contesto non alieno da dogmi e ritualità più o meno occulti – non
possa celarsi un afflato sacro, ulteriore sintomo dell’ineliminabile, sostanzialmente inquieta natura
d’esseri finalizzati al soddisfacimento di un infinito desiderio di beatitudine. Si tratta, per chi abbia il
bene di credervi, di uno status ontologico che rimanda ad un grado di dignità irriducibile rispetto alle
mere contingenze materiali: l’uomo non sarebbe strutturato per essere soddisfatto da nulla che sia
anche solo di un grado inferiore all’infinito, che duri anche un solo secondo meno dell’eternità.
Pertanto il diritto a usare liberamente di sé stessi si dovrebbe compiere al termine di un positivo
percorso di maturazione. Prima di questa meta l’uso spontaneo, non disciplinato, di sé stessi espone
all’abuso. Nella cronaca sociale, il diffondersi di prassi pseudo-religiose distruttive va considerato un
segnale di crisi dell’attuale considerazione attribuita alla dignità sostanziale della persona.

Il buddha Shri Heruka Sahaja Chakrasamvara in ierogamia con la consorte Vajravarahi; lega di rame, h. cm 19,5, Tibet
o Nepal, sec. XVIII MuCiv - MAO inv. 22728
(Esercizio del diritto di acquisto presso l’Ufficio esportazione di Milano, 1995)

Quando le religioni invecchiano la fede diviene dogma, l’esperienza è rimpiazzata dal sapere libresco,
la virtù dalla mera adesione a regole precostituite, la devozione dal ritualismo, la meditazione dalla
speculazione ideologica. È proprio allora che i tempi si rendono maturi per riscoprire verità
fondamentali del sentimento religioso ed al contempo rivalutare capacità dell’intelletto che si rivolge
al sacro con nuovo stupore.

Questo è quanto accadeva nel sesto secolo a.C., quando il Buddha rinvigorì la religiosità indiana
riformulandone gli eterni temi fondamentali. Questo è quanto, almeno in parte, sembra accadere circa
due millenni e mezzo più tardi nella società contemporanea, laddove il ricercatore spirituale rischia
di disperdersi tra le varie suggestioni come in un troppo vasto oceano. Una delle attrattive esercitate
dai grandi riformatori religiosi è l’attitudine d’estrema apertura e tolleranza nei confronti dei membri
di tutti gli strati sociali, ai quali si rivolgevano e ai quali conferivano insegnamenti badando alla
sostanza dell’individuo piuttosto che alla nascita. Capaci di armonizzarsi e di essere in pace con il
prossimo, le cui parole sono rivelazioni di carattere personale adatte ad ogni ascoltatore, il cui
impeccabile autocontrollo è in grado di elevare alle stelle discepoli ed amici per trascinarli nella gran
danza dell’universo, l’essenza psicologica di tali personaggi mantiene a tutt’oggi l’inalterata potenza
di un messaggio di portata universale che come tale trascende le barriere dovute a diversità di cultura,
di religione, di sesso, di etnia. Il loro messaggio insiste inoltre sul primato dell’esperienza rispetto al
sapere fondato esclusivamente sui testi, ribadendo che nessuna verità degna di questo nome può
essere congelata in aride definizioni dottrinali, quasi la si volesse congelare per preservarla intatta,
altezzosamente distaccata rispetto al naturale scorrere organico degli eventi. Nello stesso modo in cui
la salute fisica è connessa ad un corpo, la verità è una condizione inerente alla mente. E come non è
possibile separare la salute astraendo dal corpo, così non è possibile pretendere di separare la verità
dalla mente che ne sperimenta le sublimi qualità. Tra le sfide più formidabili che il Buddha ancora
oggi muove a quella perniciosa inerzia mentale che in tutti i tempi insidia gli uomini suggerendo loro
pigri espedienti per sfuggire all’infinita responsabilità imposta dal mistero di potere essere coscienti
di sé e del mondo, vi è senz’altro la proposta di come non sia la conoscenza concettuale, che si esprime
per mezzo di dogmi religiosi, ma di converso anche da formule scientifiche, a veramente contare,
bensì l’attitudine di metodo ad essa sottesa, lo spirito che la determina.

Stante la avidya, la nescienza sostanziale inscritta quale principale ‘emozione dissonante avventizia’
nel continuum mentale degli esseri, senza una seria preparazione logico-metafisica si potrebbe correre
il rischio dell’autoinganno intellettuale. Il fraintendimento del reale, ovvero il non potere cogliere
direttamente la ‘modalità ultima d’esistenza dei fenomeni’ o shunyata, può essere fortificato da cause
imputabili anche al contesto sociale, prevalentemente esterne all’individuo. Scrive, a questo
proposito, M. Perniola nella sua introduzione a L’Anticristo di Nietzsche: «Poiché sul piano della
realtà […] i preti cristiani avrebbero avuto senz’altro la peggio, essi ne hanno fatto a meno […];
hanno fondato il loro potere su astrazioni […], su deliri […], su fantasie […] che richiedono uno
sforzo continuo, un impegno costante di energie per essere mantenuti […]. Solo mediante uno stato
permanente di allarme, di sovraeccitazione, di isterismo […] era possibile tenere lontane le masse
dalla realtà.» (Roma 1993, p. 11). Il mestiere di tenere gli uomini distanti dalla verità certamente non
è esclusiva prerogativa del sacerdozio cristiano, ma, a parte questo, il brano ora citato ci stimola alla
più pressante vigilanza tanto speculativa che politica da applicare a questa rilettura delle categorie del
sacro da reimpiantare, questa volta auspicabilmente in senso emancipatorio, nella nostra società. In
questa fase storica non possiamo ancora permetterci di rimuovere la percezione consapevole di quelle
gabbie ideologiche politico-religiose nelle quali ha trovato coltura il contesto contemporaneo,
caratterizzato dai rigidi schemi che hanno portato l'uomo a usare violenza verso i suoi simili, verso
gli animali - suoi fratelli minori - e verso le diafane entità che in molte culture esprimono il retto
compiersi delle attività ambientali. Ancora dolorosamente presenti, a queste nocive configurazioni si
deve opporre quantomeno vigilanza.

Arrischiarsi lungo questi indirizzi appare tanto giusto e opportuno quanto il porre la propria piena
fiducia nelle risorse dell’umanità sia un atteggiamento ben più solido di qualsiasi ristretta visione
piattamente utilitaristica dell’esistenza. La generazione contemporanea, generazione che, secondo
l’analisi compiuta ancora in tempi recenti da gran parte degli studiosi della storia e della filosofia
della religione, doveva rivelarsi la più refrattaria alle istanze irrazionalistiche, potrebbe oggi rischiare,
vuoi per impreparazione esistenziale vuoi per incapacità speculativa, addirittura il fondamentalismo
religioso. È tuttavia legittimo almeno auspicare che l’apparente anomalia sociologica costituita dalla
riemersione della religiosità nella civiltà postindustriale consenta nel prossimo futuro, se non già da
ora, una migliore individuazione delle politiche globali per perseguire il bene individuale e collettivo.

Alla novità della progressiva accettazione dell’idea di più sentieri spirituali in Occidente, si aggiunga
un’ulteriore considerazione. Le tecniche di preghiera non sono più un lusso riservato a pochissimi: al
contrario, le si va sempre più ritenendo vere necessità antropologiche. Aspetto importante del vivere
quotidiano, questa “fame di contemplazione” attende una risposta oramai ineludibile. Infatti: «Il
mondo spirituale invisibile non è in un qualche luogo lontano, ma ci circonda; e noi siamo come sul
fondo dell’oceano, siamo sommersi nell’oceano di luce, eppure per la scarsa abitudine, per
l’immaturità dell’occhio spirituale, non notiamo questo regno di luce, nemmeno ne sospettiamo la
presenza e soltanto col cuore indistintamente percepiamo il carattere generale delle correnti spirituali
che si muovono intorno a noi.» (P. Florenskij, Le Porte Regali, Milano, 1981, p. 59).

Il buddhadharma riserva da venticinque secoli un ruolo privilegiato allo sviluppo della mente, ovvero,
per riprendere il brano ora citato, alla maturazione dell’“occhio spirituale”. La ‘concentrazione
quiescente’ (sanscrito shamatha, tibetano shine) viene descritta essere lo stato pienamente allenato
della mente meditativa. Essa è la base per coltivare la saggezza (prajna, tib. sherab), l’antidoto
definitivo alle illusioni. Quando si è ottenuta la pacificazione del mentale, questo diviene chiaro,
calmo e stabile. In questo stato si può analizzare e penetrare facilmente qualsiasi oggetto della
meditazione, ottenendo così la pura realizzazione della sua vera natura.

La mente penetrante che ne risulta è chiamata ‘visione profonda’ (vipashyana, tib. lamthong) o
saggezza: i due termini sono sinonimi. La differenza tra la concentrazione mentale quiescente e la
saggezza è che la prima ha la capacità di pacificare la mente così che ci si possa concentrare
sull’oggetto della meditazione, la seconda ha la capacità di analizzare e penetrare la natura sottile
dell’oggetto. Se si ricerca sinceramente la realizzazione della verità, è necessario innanzitutto
sviluppare la chiarezza e la forza della propria mente.

«“Se io do, di cosa godrò?”.


Diabolica è una tale preoccupazione
per il proprio benessere.
“Se io godo, cosa darò?”.
Divina è una tale preoccupazione
per il benessere degli altri. […]
Perché parlare ancora? Osserva questa distinzione:
tra lo sciocco che agogna il proprio vantaggio
e il saggio che agisce a vantaggio degli altri.»
(Shantideva, Bodhicharyavatara, VIII - 125,130)
Il buddha Shakyamuni, XV secolo circa, Tibet: Ngari (Tibet occidentale),
pigmenti applicati con leganti miscibili in acqua su tessuto, MuCiv ex inv. MNAO 963/796

Nota sulla grafia di alcuni termini

Per la grafia dei termini sanscriti si è optato per il criterio fonetico, limitandosi ad adattare i diversi lemmi alla pronuncia
il meno approssimata possibile dell'italiano, rispettando al meglio gli equivalenti segni alfabetici indiani originali e
utilizzando una delle convenzioni internazionali vigenti che vuole la lettura delle vocali secondo la pronuncia dell'italiano
e la lettura delle consonanti secondo la pronuncia dell'inglese; es.: g sempre gutturale anche di fronte alla e e alla i, ch
sempre palatale, sh per il suono “sc”, ecc.

Potrebbero piacerti anche