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Sesso amore e gerarchia

Book · April 1998

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Sesso, amore e gerarchia

“Sesso, amore e gerarchia” di Valeria Fieramonte e Giovanna Gabetta


Pag.244, Lire 20.000 - Edizioni Greco & Greco ISBN 88-7980-172-4

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Sesso, amore e gerarchia

SESSO, AMORE E GERARCHIA


Pensieri liberi su differenze di genere e gerarchie

Valeria Fieramonte e Giovanna Gabetta

A Dario, che ora sa tutti i perché


che noi non conosciamo
e alla sua amicizia con la Paoletta
premessa per la nascita di questo libro

PREMESSA. PER UN APOSTROFO IN PIU’

Un apostrofo, nella nostra lingua può essere sufficiente a volte per indicare una differenza
abbastanza grande. Per esempio, agire in modo distinto è ben diverso che agire d’istinto. Per
esempio, un ingegnere è diverso da un’ingegnere: qualcuno potrebbe pensare ad un errore di
ortografia - che la maestra di terza elementare già colpirebbe con due o tre fregacci blu, anche nella
attuale scuola permissiva! -. In realtà, pensandoci bene, la forma con l’apostrofo indica che
l’articolo è al femminile, e può essere un modo per mettere in evidenza che l’ingegnere in questione
è donna.
Mi sembra una buona metafora: chiamare un’ingegnere donna “l’ingegnere con l’apostrofo”. Evoca
immagini romantiche: non diceva forse una frase famosa (di Teofilo Gauthier, pubblicizzata dalla
Perugina) “il bacio è l’apostrofo rosa tra le parole <t’amo>”? E l’apostrofo è una piccola cosa, ma
la differenza di significato che produce può essere molto grande. Un po’ come succede per
l’appunto con le differenze di genere, di cui volevamo parlare, o meglio su cui abbiamo divagato, in
questi scritti.
Una storiellina che mi hanno raccontato di recente dice che quando l’uomo fu creato, si sentiva
solo. Dio, che tutto vede e sa, pensò di dargli compagnia. Voleva fare le cose per bene; “Sarà una
cosa bellissima, una persona che ti capirà, vivrà per te, ti sarà vicina” disse entusiasticamente
all’uomo. “Una persona che non ti dimenticherà mai e penserà solo a te. Certo, anche tu devi
collaborare. Ti chiedo un sacrificio... ma piccolo, sai, una roba da nulla in confronto a quello che
farò per te. Devi solo darmi un braccio e una gamba”.
L’uomo restò un po’perplesso: “Ma Signore... come potrò fare senza un braccio e una gamba... Non
ti sembra di chiedermi un po’ troppo? No, no, non posso proprio farlo! Ascolta: e se ti dessi una
costola?” Ecco spiegato perché la donna è come è: non proprio l’ideale sognato dagli uomini. E
perché come ricordo di una costola perduta è diventata il loro chiodo fisso.
Oggi però si possono produrre, anzi riprodurre, costole semiartificiali di biomateriali tratti dalla
polvere d’ossa di cavalli a cui vengono aggiunte le osteogenine (sono fattori di crescita della ossa).
Quando una costola è irrimediabilmente fratturata, la si può sostituire con una analoga, preparata
da un robot in cui vengono inseriti i biomateriali e i dati anatomici della persona interessata. Le
osteogenine fanno il resto: si mangiano la polvere di osso di cavallo e riproducono la costola
normale. Magari si potesse fare lo stesso anche con le donne! Che si tratti del primo passo verso la
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Sesso, amore e gerarchia

creazione di una “donna artificiale”? No, probabilmente, la donna è un po’ artificiale da sempre,
almeno nella mente degli uomini, proprio perché è nata da una costola.
La battuta è scherzosa, anche se gli uomini hanno una spiccata tendenza, di fronte alla realtà di
partner sempre ohimè inadeguate, a crearsi modelli “mitici” di donna. Durano un anno, una
stagione, qualche lustro, poi finiscono nel dimenticatoio, come tutti i miti. Questa ostinazione
caratteristica dell’altro sesso, a voler sempre modellare le donne secondo le proprie esigenze o ad
immaginarsi una super donna con tanto di tutto crea alle femmine della specie umana non poche
difficoltà. Perché devono sempre adeguarsi a modelli che non sono i loro, costantemente
irraggiungibili. Così si sentono in gabbia, come uccelli che vorrebbero volare e non possono.
Però questa dote dell’immaginazione maschile, che le donne non hanno o hanno in minore misura,
è un privilegio. E’ indice di una potenza immaginativa che non si ferma al reale, ma vuole
costantemente superarlo e migliorarlo. E’ una caratteristica importantissima dell’uomo faber,
conquistatore di tutti i mondi. Come fare a conciliare il bisogno di volare delle donne, limitato
dall’immaginazione maschile, con il bisogno di sognare degli uomini?
Forse gli uomini hanno bisogno di sognare, ma non sembra che ne abbiamo così bisogno gli
ingegneri. Che però sostengono di essere “maschili” per definizione. Allora, ci è venuto un
sospetto: che tutte queste definizioni di qualità maschili e femminili, di differenze dovute al genere,
siano alla fine un po’ troppo schematiche? Non sarà che le differenze tra individuo e individuo
possono già spiegare molte cose, e che il sesso è solo una delle caratteristiche di una persona,
importante, sicuramente, ma non universale? In fondo, il sesso è determinato dalla differenza di un
solo cromosoma. Anzi, ancora meno. La differenza tra un X e un Y è qualcosa come un segnetto, un
piccolissimo apostrofo. E’ possibile quindi, che porti con sè tante diversità e tanti caratteri fissi?
Cosa ci stanno a fare tutti gli altri cromosomi e le centinaia di migliaia di geni comuni a entrambi i
sessi? Esiste un DNA della tecnica, e uno che favorisce la nascita di un ingegnere oppure di un
giornalista? Per ora la risposta a tutte queste domande non c’è, anche se i professionisti della
genetica ci assicurano che prima o poi si riuscirà ad averla. Abbiamo perciò cercato qualche
possibile risposta nelle nostre esperienze, nella vita delle persone che conosciamo, negli scritti che
qualcun’altra ci ha lasciato. E vogliamo sottolineare: qualche risposta. Non tutte, e neppure una
sola. Con le contraddizioni che ne derivano. E delle risposte possibili: non assolute, non
necessariamente del tutto vere. Ma, almeno per qualcuno, strettamente legate al vissuto.
E’ un inizio, nel senso del verbo inglese “to start”, che significa partire, ma anche “ muoversi di
botto, trasalire”. Partire con un balzo. Quindi indica anche il senso di stupore che ci prende
davanti a una cosa nuova che ci sembra importante. Il restare interdetti davanti a un concetto
nuovo che ci colpisce. In questo scritto, abbiamo cercato di far vedere alcune cose da punti di vista
nuovi, impensati o non ancora entrati nella mentalità corrente.
Questi sono i risultati della nostra ricerca. Dedicati all’amicizia e alla collaborazione tra uomini e
donne.

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Sesso, amore e gerarchia

CAP.1 Le donne non ce l’hanno. E allora?


Ricordi?
C’era intesa ma non parlavi
non c’era tempo
non c’era luogo
in una vita fatta di paura e di affanno.
Non c’era spazio
per tumulto di passione
per impeto di torrente
originario e vitale.
Parola, rivolta a nessuno
si fa strada tra rocce
Luciana Molteni

L’idea di scrivere questo libro è venuta dopo tanti anni durante i quali ho studiato in classi a
maggioranza maschile, e ho lavorato in aziende dove le donne che ricoprivano ruoli tecnici, come
me, erano una minoranza.
Quando ancora oggi, nel mio lavoro mi trovo ad essere presente ad una riunione in cui su otto o
dieci partecipanti sono l’unica rappresentante dell’altra metà del cielo, mi sorprendo ad osservare i
miei colleghi tutti seri intorno al tavolo, con le loro giacche più o meno scure ed impeccabili, le loro
camicie bianche o azzurrine, con le loro cravatte - alcune serie ed altre più vivaci, forse indossate
come unica concessione ad una personalità un po’ trasgressiva - e mi domando come fanno a non
avere voglia di ridere e di andare a farsi una passeggiata; a non divagare con la mente e a
considerare che quello che stanno facendo sia una cosa così maledettamente importante. Io ho
sempre un sacco di dubbi, non riesco a prendermi sul serio. Invece loro sembrano sicuri di sè,
discutono, prendono decisioni, o forse come succede spesso fingono di prenderle, lasciando a casa e
alla cura di altri i problemi, la moglie, con le figlie e i figli che crescono, i romanzi da leggere e i
letti da fare e i pasti da preparare.
Li osservo e mi distraggo. Osservo le loro mani, i loro gesti, la mimica del viso e ogni tanto mi
accorgo che sto fissando uno di loro in modo eccessivo, quasi maleducato. In realtà, mi piacciono
tantissimo, almeno molti di loro; e da quando ho cominciato a partecipare, sia pure ai livelli più
bassi, alle loro decisioni, ho cominciato ad avere l’opportunità di studiarli nei loro ruoli gerarchici e
ad avere voglia di capire di più i meccanismi per cui riescono ad essere così terribilmente seri.
Ho voglia di capire perché, per esempio, io ho spesso nei confronti di molti di loro un sentimento di
tenerezza e di affetto, e non mi vergogno di dimostrarlo, mentre loro, li sento più facilmente
distaccati, diffidenti, a volte quasi impauriti dai miei tentativi di pormi al loro stesso livello,
restando però una donna; capire perché non apprezzano certi contributi diversi da quelli che più
tradizionalmente fanno parte del loro gioco, senza rendersi conto di quanto invece potrebbero essere
utili; scoprire come mai ci sono regole di comportamento, spesso non scritte ma tramandate quasi
per via telepatica, che nessuno osa infrangere e che piano piano diventano dominanti e paralizzano
le nostre facoltà più umane, ci bloccano nei nostri rapporti con gli altri, si gonfiano e avviluppano
tutti, senza che ci rendiamo conto che basterebbe un buffetto di vento, un soffio, per farle crollare.
Circa due anni fa ho partecipato ad un corso, tenuto presso la CISL, sulle pari opportunità. (Forse è
stata la prima occasione in cui mi sono trovata a far parte di un gruppo di lavoro composto quasi
solo di donne: c’era il vigile Dante, giovane ma saggio e armato di due bei baffoni biondi, a
rappresentare il sesso forte. E mi sarebbe piaciuto molto poter parlare a lungo con lui, per capire se i
suoi sentimenti, nel vedersi solo in mezzo a tante donne, sono stati dello stesso tipo dei miei, di
quando sono io in minoranza. So però che quasi certamente non è stato così, perché lui non era
comunque lì per chiedere a noi donne qualcosa. Non aveva una posizione di inferiorità non detta ma
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Sesso, amore e gerarchia

palpabile da ribaltare in qualche modo). Il corso sulle pari opportunità mi ha suscitato molte
considerazioni e interrogativi, e mi ha dato una spinta a scrivere, anche se non è il mio mestiere. Io
normalmente scrivo solo articoli tecnici, mentre questi argomenti interessano molto la sfera della
relazione, del sentimento, forse anche della politica. Non so bene se sto scrivendo per me stessa o
per gli altri, per fare ordine nei miei pensieri e chiedere il parere di altre donne, o per cercare di
diffondere una mia idea e farla capire. In realtà, alcune tesi sostenute dalle insegnanti di questo
corso mi hanno un po’ preoccupato. Come mi preoccupano quei giovani uomini e quelle giovani
donne che incontro sul lavoro - lavorando nelle ricerca si è in contatto con persone mediamente
piuttosto intelligenti, preparate ed ambiziose - che affermano che ormai la discriminazione non
esiste, che loro sono al di sopra di tutto questo e che non vedono nessuna differenza di trattamento
tra uomini e donne.
Allo stesso modo, forse paradossalmente, mi è sembrato preoccupante quando al corso sono state
sottolineate con una certa enfasi le differenze di genere: alcune sociologhe sostengono che le donne
sarebbero adatte più a certi lavori che ad altri, per loro natura. Se per esempio non ci sono più del
10% di donne che scelgono di fare l’ingegnere, è stato detto, potrebbe anche non importarci nulla: a
noi donne non interessa fare l’ingegnere! Forse è proprio perché io ho voluto fortemente fare
l’ingegnere, ma non per questo mi sento meno donna, questo atteggiamento non mi è piaciuto.
Come non mi piace l’atteggiamento di chi è convinto che tutte le difficoltà e le ingiustizie siano
state superate: mi sembra invece che si cerchi di negare l’esistenza di un problema per non dover
penare nel risolverlo.
Eppure, dopo tutti i progressi che sono stati fatti, dopo che è stato effettivamente raggiunto un alto
livello di scolarità, molte statistiche parlano chiaro: mancanza di donne nelle posizioni decisionali,
segregazione orizzontale e verticale nei posti di lavoro1, aumento della disoccupazione femminile...
e nello stesso tempo mancanza di “femminile” nei valori tipici del mondo del lavoro, soprattutto
nelle posizioni decisionali e nelle grandi aziende: il fatto che in queste strutture le donne si adattino,
nonostante le tanto decantate differenze di genere, a modelli di rigidità, di autoritarismo che non
sono tradizionalmente i loro. Le differenze di genere, se e dove esistono, devono essere utilizzate
per un contributo fattivo alla società, che deve rispecchiare la presenza di entrambi i sessi, e non
una scusa per ghettizzare qualcuno. Esistono certamente caratteristiche “femminili” e “maschili”,
ma non sono necessariamente distribuite in modo rigido agli uomini e alle donne. Sono il risultato,
oltre che della biologia, della cultura dei popoli. Se le caratteristiche “femminili”, che secondo me
sono presenti in misura maggiore o minore sia negli uomini che nelle donne, sono adatte a gestire
una famiglia, ad accudire i più deboli (bambini, vecchi, malati), a maggior ragione devono essere
utili nella vita di tutti i giorni.
Quando ho iniziato a lavorare, c’erano nelle ditta in cui sono entrata (un centro di ricerca) alcune
dirigenti. Non saprei dire se il loro numero era proporzionato al numero e al titolo di studio delle
donne impiegate nell’azienda: so che allora le donne laureate erano percentualmente molto meno di
adesso (non per niente avevo avuto problemi ad essere assunta, essendo per di più sposata). Quelle
donne dirigenti avevano un ruolo tecnico e professionale di buon livello; almeno una di loro aveva
quattro figli. Quando dopo 16 anni ho lasciato quel posto di lavoro, avevo appena fatto alcune
statistiche (su dati del 1992): su un 20% di donne laureate impiegate nella ricerca, c’erano 3
dirigenti, tutte e tre in età pensionabile (sopra i 55 anni). Nessuna di loro aveva un effettivo ruolo
decisionale. Si potrebbe dire che si trattava di ciò che restava del gruppo di dirigenti già presente ai
tempi del mio ingresso in ditta: uno sparuto manipolo che si cercava di tenere al di fuori dalle
decisioni. Nessuna donna nella fascia di età più giovane era nella posizione di quadro ad alto livello,
cioè tra gli impiegati che possono aspirare in tempi brevi alla dirigenza.
Si tratta solo del caso di una azienda, ma penso che possa far riflettere. Come mai, in un centro di
ricerca dove si producono soprattutto idee (non occorre una particolare forza fisica), dove gli orari
sono comodi e flessibili, adatti alle mamme, dopo che è aumentata la percentuale di donne

1.Ada Grecchi "Pari opportunità: il diritto e la cultura", Franco Angeli, 1995


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Sesso, amore e gerarchia

impiegate con titolo di studio adeguato, non è stato osservato un aumento corrispondente di donne
in posizioni decisionali, anzi, addirittura siamo state “espulse” dalle stanze dei bottoni? Mi
interesserebbe soprattutto analizzare come mai non c’è stato bisogno di noi, delle nostre capacità,
della nostra diversità, nella ricerca tecnico-scientifica come nelle grandi aziende industriali italiane
durante gli ultimi 10-15 anni.
Credo che questo sia solo un aspetto, l’aspetto che per ovvie ragioni mi ha colpito di più, del
problema più ampio che riguarda il significato del potere e della gerarchia nel mondo del lavoro;
problema che a sua volta si intreccia e si sovrappone a quello delle differenze di genere e più in
generale dei pregiudizi di ogni tipo e del modo in cui gli esseri umani li affrontano.
Ho cercato perciò di mettere ordine e di provare a manifestare le mie sensazioni, a volte confuse, in
questo campo. Perché? per esempio, per cercare di dare una risposta a quel capo del personale che
tutte le volte che discorre con me - sarà un caso? - si chiede e mi chiede come mai nella nostra ditta
non ci sono donne dirigenti. (Eppure, anche qui, si favoleggia che ce ne sono state!); ma anche e
soprattutto per aprire un dibattito, per cercare di far capire agli altri, a chi è ben disposto e a chi no,
cosa potrebbe essere nascosto dietro a certi comportamenti, cosa si perde a chiudere la porta a chi è
in qualsiasi modo diverso da noi.
Per essere aiutata a vedere i problemi da diversi punti di vista, ho pensato di scrivere un libro a
quattro mani, insieme alla mia amica Valeria che fa la giornalista e ha una storia sotto molti aspetti
diversa dalla mia. Tutte e due abbiamo spesso fatto riferimento a nostre vicende personali, private,
quando il corso dei pensieri e della discussione ci portava a ricordarle. Il risultato è una scorribanda
tra pensieri, aneddoti, libri letti e vicende molto simili a un dialogo a distanza. Valeria ed io ci
siamo conosciute davanti alla scuola elementare di Via delle Foppette, dove andavamo per
accompagnare i nostri figli Dario e Paola. Tra i due bambini era nata un’amicizia un po’ speciale.
Speciale anche perché Dario era gravemente handicappato, e Paola ha una sorella gemella, oltre ad
un fratellino più piccolo. Così, per permettere a Dario di giocare con Paola, ci siamo viste anche
qualche volta al di là delle occasioni scolastiche. Ma abbiamo deciso di lavorare insieme solo dopo
la tragica scomparsa di Dario, anche perché adesso Valeria ha molto tempo per scrivere un libro.
Per la verità, l’amicizia un po’ speciale che Dario nutriva per la Paoletta era qualcosa di più. Era
amore: un amore che è durato per tutto il tempo che è stato a scuola insieme a lei.
E che Dario si vietava, a suo modo consapevolmente, tanto è vero che non era geloso dei suoi
numerosi spasimanti (la Paola è anche molto carina). Sapeva che per lui poteva esserci solo un
angolino, e lo accettava. Ricordo che alle medie - gli insegnanti hanno avuto l’intelligenza di non
separarli, anche per l’effetto positivo che Paola aveva su Dario - un giorno un compagno di banco
le aveva fatto un dispetto e detto una parolaccia. Dario si è voltato e gli ha mollato uno
sganassone, così, senza dire niente, anche perché non sapeva cercare le parole.
Ho trovato straordinario che nella sua situazione di estrema difficoltà ed emarginazione, in una
classe di bambini normali e di fronte a compiti che non era in grado di svolgere, che non capiva, e
che lo annoiavano e angosciavano assieme, Dario conservasse dentro di sè quel patrimonio di
energia che a suo modo gli permetteva di proteggere qualcuno che amava: mi sono sentita molto
orgogliosa per lui. Purtroppo mi hanno raccontato l’episodio solo in seguito. Altrimenti, quando è
tornato da scuola, gli avrei organizzato dei festeggiamenti speciali. I motivi per fare festa sono
sempre stati così pochi, mi dispiace averne sprecato qualcuno.
Fuori dai ricordi, con questi scritti vorremmo anche far vedere che, pur essendo due donne e due
amiche, siamo molto diverse, abbiamo opinioni diverse e esprimiamo in modo differente i nostri
pensieri sugli stessi temi. E che le idee diverse possono convivere senza paura. Abbiamo pensato
perciò di fare questo libro come un collage, attaccando senza complimenti, senza preoccuparci
troppo della continuità, quelle pagine o quelle righe che ognuna di noi ha scritto di getto,
combattendo con i computer che mangiavano frasi e parole, dopo lunghe serate di discussione e
lettura di libri e chiacchiere.

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Sesso, amore e gerarchia

Per ricordare almeno a noi stesse chi aveva scritto una parte e chi un’altra, abbiamo usato caratteri
di stampa diversi. Ma senza mantenere sempre lo stesso carattere per ognuna di noi. Così, in un
capitolo la parte in corsivo può essere stata scritta da Valeria, mentre in un altro da Giovanna. Starà
al lettore capire quali brani sono stati scritti da un ingegnere, e quali da una giornalista; su quali
argomenti siamo state via via distaccate, o coinvolte a livello personale e emotivo. Noi crediamo
che anche questo esercizio possa aiutare a capire che prima di essere donne siamo persone; che le
differenze di genere, che pure esistono e ci condizionano, non sono insormontabili, spesso non sono
innate, e sono comunque piccola cosa rispetto alle differenze dovute a personalità, stati d’animo,
coinvolgimento. Qua e là, abbiamo inserito anche il parere di altre persone, a volte facendo loro
delle interviste che poi abbiamo commentato. In questi casi, abbiamo usato tre caratteri diversi! E’
stata un’esperienza affascinante e anche un po’ ... nevrotizzante quella di lavorare insieme, ma
separatamente, su due computer diversi, con diversi Word Processor che non erano in grado di
comunicare direttamente tra di loro. Può darsi che sia vero che le donne con la tecnologia hanno
una questione privata in più. Qualche volta la tentazione di prendersela con la macchina, come un
tempo facevano i Luddisti, è stata forte. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta, anche grazie alle magie
del taglia-e-cuci e al riottoso aiuto di Luciano, terrorizzato - e a ragione - dai virus informatici di
ogni specie.
Come giornalista mi sono resa conto che la cronaca, nella sua necessaria superficialità, nella
scarsa aderenza alla vita concreta degli uomini, nella sua facile generalizzazione, è difficilmente
capace di rendere i drammi della realtà, se non banalizzandoli. Per evitarlo, ci vuole un giornalista
che sia anche scrittore, e tanto tempo: quel tempo per fare inchieste approfondite che in un
giornale non c’è mai, perché l’attualità urge, e travolge le riflessioni del giorno prima. Perché ha
una logica un po’ infantile del tutto e subito.
Questo vale per qualsiasi tipo di argomento, e tanto più quando si parla delle vite private. Le vite
private hanno una storia: spezzettate, raccontate attraverso il filtro dei pregiudizi personali, della
non conoscenza, spesso del sentito dire, sono ridotte solo ad una pallida ombra di sè stesse. Una
pallida luna.
E’ come se la stampa fosse soggetta in blocco alla dittatura dello slogan: “Il privato è politico”:
questo slogan, gridato spesso un tempo nelle manifestazioni femministe, non mi è mai piaciuto. Il
privato, specie se il dramma e il dolore lo hanno pervaso a lungo, è infinitamente superiore al
politico. Ridurlo al politico, a mediazione o scontro realistici tra interessi diversi, significa
immiserirlo, svilirlo, offenderlo, appiattirlo. E’ un tentativo di accorciarne le dimensioni per
renderlo comprensibile a tutti: ma in realtà, nella sua dimensione più profonda, il privato è il luogo
dell’arte, della letteratura, del teatro, del cinema, non certo della politica. E’ dal privato e nel
privato che ha origine tutto il resto: è nel buio e nella segretezza, la segretezza del pudore, che si
concepiscono i figli. E’ nel raccoglimento e nel silenzio che si amano gli altri, non nel chiasso della
quotidianità. E’ nel chiuso di una stanza che si fanno le più grandi scoperte.
Una delle regole fondamentali del giornalismo è, data o comparsa da qualche parte una notizia che
si vuole riprendere, di risalire alle fonti (Chi, cosa, come, quando, dove e perché).
Ma non sempre lo si fa. Allora può capitare che il giornalismo diventi per un po’ solo un
gigantesco gioco del parlarsi addosso e del parlare addosso. Senza riguardi e spesso senza
neppure il rispetto per la dignità umana, una cosa che, se uno non ce l’ha, non se la può dare.
La rinuncia al metodo di base è sempre una trappola: il considerare la notizia come qualcosa di
onnipotente, di avulso dalla realtà, di reale per il fatto stesso di essere pubblicato. In questa logica,
ciò che non viene pubblicato non esiste, ciò che viene pubblicato, esiste comunque. Questo crea e
può creare ingorghi giganteschi. Infatti se la notizia alla fonte è sbagliata, o inesatta o
approssimativa o addirittura falsa, su di essa si possono creare polveroni di giorni, che lasciano il
tempo che trovano, quando non danneggiano qualcuno, come quasi sempre avviene. All’idea
prinitiva che la notizia è onnipotente, segue come corollario che è onnipotente chi la eroga. Una
categoria di onnipotenti, dunque, o di intouchable che pensano di stare sempre dall’altra parte del

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Sesso, amore e gerarchia

tavolo. Quella di chi ha diritto di giudicare tutto e tutti, per caso per forza o per necessità: anche
quando dimentica per strada la verifica incrociata delle fonti, magari per la fretta di dimostrare
una sua tesi precostituita. L’inevitabile conseguenza di questo modo di vivere l’informazione è la
subalternità: il sentimento di onnipotenza non impedisce ma anzi favorisce la possibilità di bersi
qualsiasi panzana venga messa in giro ad arte da questa o quella fonte di informazione interessata
o peggio di manipolarla per fini di parte o peggio ancora di costruirla ad arte. Da questo rischio
implicito nel mestiere purtroppo non si salva nessuno. Non i commentatori, anche eccellenti, non i
cronisti. Perché i quotidiani si fanno nella fretta e non sempre e non tutto si può verificare.
In una società civile normale tale rischio è di solito contenuto: la correttezza di base delle
istituzioni da cui provengono alcune informazioni impedisce il tralignare della malapianta: si fa
qualche errore, si chiede scusa agli interessati e la cosa finisce lì. Ma cosa succede in una società
dove le istituzioni in virtù di un loro processo degenerativo interno non hanno più credibilità e
rappresentatività e tuttavia agiscono o continuano ad agire in parti separate, per difendere se
stesse ai danni degli altri? Succede che iniziano a spargersi dentro il tessuto sociale tutta una serie
di veleni che piano piano ammorbano l’aria fino a raggiungere i livelli di guardia.
La realtà positiva, che vive e cresce al di fuori dell’informazione, finisce con l’esserne gravemente
ostacolata. Invece di aiutarla a crescere, gli stessi giornali si pongono, loro malgrado, come suoi
nemici. Basta poco perché ciò avvenga, purtroppo. E’ sufficiente che sia sbagliato un solo anello
della catena per causare errate trasmissioni a tutti gli altri. Perché nessuna catena è più forte del
suo anello più debole.
Gli anelli sani fanno del loro meglio per arginare l’infezione e quasi sempre ci riescono. Ma in
alcuni casi l’infezione non è più contenibile e dilaga dappertutto: è la caccia alle streghe
tecnologica. Una guerra di tutti contro tutti, che richiede le sue vittime sacrificali per tentare di
arginare l’ansia. La fine della caccia alle streghe, nel medio evo, è avvenuta quando le persone si
sono accorte che bruciarle non serviva a niente: i problemi restavano gli stessi con in più l’amaro
in bocca di aver compiuto un atto criminale. Oggi roghi veri non ce ne sono più: ma i roghi
simbolici possono rinascere e riavere la stessa funzione. Segnalano un’impotenza, un’incapacità ad
uscire dalla palude e il tentativo di surrogarla con forme di isterismo collettivo. Il quadro si
complica ancora se a fare informazione sono delle donne. Abbiamo, professionalmente parlando,
gli stessi difetti degli uomini, con un sovrappiù di ingenuità. Per le donne fare questo mestiere è
ancora più difficile: anche e soprattutto quando sono intelligenti. Perché da qualche parte del loro
animo si cela una diversità che vorrebbero nascondere (senza riuscirci) quando oscuramente
sentono che è troppa, o perché cercano di farla emergere ma spesso in forme e modi che
rimandano solo la fotografia della loro subalternità. L’intelligenza femminile può venire vissuta
come una minaccia: invece di essere considerata un contributo in più, viene vista come una
sottrazione (di potere e di autorità). Forse l’inettitudine nell’aiutare chi è bravo ed ha delle cose da
dire, perché sia utile a tutti gli altri, parte da qui. Forse è inestricabilmente legata all’oscura paura
di perdere il potere. Chi ha delle capacità può venir visto come un nemico ed emarginato. Se è una
donna con l’aggravante del sesso e il corollario di accuse che a questo si possono accompagnare:
di essere di facili costumi, una strega, una madre cattiva.
Non c’è la valutazione professionale in base al merito, e neppure quella legata alla funzione, c’è
solo e sempre un giudizio globale e molto più severo che schiaccia le donne sotto un peso doppio.
Non è solo l’intelligenza a fare paura, ma il modo di utilizzarla al femminile. Forse queste
considerazioni valgono un po’ per tutte le donne, e ancora di più per quelle che lavorano in
professioni tradizionalmente maschili, o comunque con connotati di potere. La gentilezza, la
capacità di immedesimarsi nelle esigenze altrui, che sono a volte caratteristiche di alcune di loro,
sono sostanzialmente viste come debolezze. E se al di fuori della lotta per il potere chi è debole
potrebbe aspettarsi di essere protetto, in un’azienda non c’è speranza. Anche se si è utili sotto tanti
aspetti, nessuno ti tende la mano. Anzi, più ci faranno del male (e noi lasceremo capire che ci
sentiamo ferite), più sarà difficile che riescano a perdonarcelo. L’azienda anzichè un luogo di lavoro

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Sesso, amore e gerarchia

in comune, di solidarietà, tende a diventare il luogo di chi non ha, o finge di non avere, bisogno di
nessuno.
Invece di liberarne le donne, il vezzo di pretendere tutto ormai si sta applicando anche agli uomini.
Perciò si troverà che anche un grande scrittore, o grande scienziato, era un cattivo padre, e questo
sarà visto come qualcosa che lo sminuisce, anche se uno scrittore interessa come tale e cosa fa
nella vita privata non ne diminuisce affatto il valore professionale. Il valore della paternità e della
maternità, per esempio, è incommensurabile: dipende da troppe variabili perché si possa esprimere
un giudizio sereno e soprattutto completo, e in ogni caso lo si può fare solo dopo un’analisi
minuziosa di tutta la vita. Più che un giudizio è quasi sempre soltanto (salvo casi giudiziari) una
descrizione e un approfondimento. Un grande scrittore è tale indipendentemente dalla sua vita
privata: può essere un felice o infelicissimo padre di famiglia, un libertino, un debosciato, un
emarginato, un disperato, un ubriacone, un uomo di successo. Ciò che conta è la sua scrittura e
quello che riesce a comunicarci. La stessa cosa, lo stesso metro, dovrebbero valere per le donne, in
una società adulta che non sia alla perenne ricerca di una mamma da incolpare di tutte le colpe del
creato.
Siccome tutti hanno una madre cui rimproverano sempre qualcosa, non c’è nulla di più facile che
indurre se si vuole o anche per passi successivi e impercettibili, l’idea che una donna sia La
Colpevole (di che non si sa, lo si trova strada facendo). Specie se non si difende perché non vede da
cosa dovrebbe difendersi, non avendo fatto nulla di male. “Cherchez la femme” è del resto una
delle battute preferite e di maggior successo ancor oggi, qualsiasi cosa succeda. Per di più le
donne non hanno potere o ne hanno poco, perciò sono un bersaglio comodo e privo di rischi. Mi
sono trovata a fare i conti con questo tipo di mentalità personalmente: l’avere un figlio
handicappato suscita in chi non conosce direttamente le persone, ogni genere di illazioni e di
ipotesi su presunte colpevolezze materne, anche quando dovrebbe essere evidente che non è così.
Nel medio evo si bruciavano sul rogo le madri di figli schizofrenici o gravemente epilettici. I figli si
consideravano stregati e posseduti dal demonio: oggi non è più così, per fortuna, ma il sospetto
aleggia e trova facile sbocco nella psicologia pret-à-porter di cui sono spesso infarciti i giornali.
Non si brucia più, ma si eccepisce, si obietta, si sospetta, si incolpa e si accusa, si deduce sulla
base di pregiudizi personali o di scritti psicanalitici astratti o di interessi evidenti di categoria.
E’ comunque il trionfo di preconcetti, ideologie e superstizioni che accompagnano la patetica
fragilità dello spirito umano più spesso di quanto siamo disposti ad ammettere con noi stessi. Tutti
sappiamo che non si devono avere pregiudizi, ma tutti ne abbiamo moltissimi. Ogni griglia
ideologica usata per interpretare il mondo finisce in pratica con l’essere un pregiudizio che impone
di incasellare i dati della realtà dentro uno schema precostituito. Qualsiasi dato entri in conflitto
con lo schema viene espulso, o ignorato o eliminato. Tanto più rigido è lo schema, maggiori sono i
dati destinati alla spazzatura.
E’ in questo modo che si creano i tunnel ideologici: così chi appartiene a un partito difenderà del
suo schieramento anche ciò che è palesemente ingiusto. I giornalisti non sfuggono al rischio
perché, anche se non hanno una tessera in tasca, hanno comunque le loro brave tessere mentali a
guidarli verso la difesa aprioristica di certi interessi piuttosto che di altri.
Certo, viene prima il potere economico di influenzare le scelte che il pregiudizio personale: ma
spesso si sposano assieme in un orrendo connubio che impedisce di accettare il valore di un lavoro,
o di una proposta se l’ideatore ha un sistema di tessere diverso dal proprio.
E’ la radice di ogni intolleranza e purtroppo anche della frequente incapacità di selezionare i
migliori: le persone creative infatti rompono di frequente gli schemi precostituiti, ma questo le
rende scomode e pericolose, più facilmente emarginabili. E però anche in campo giornalistico è
sempre per merito degli scocciatori che il sapere progredisce. Perché nessuno è immune da
pregiudizi, anche coloro che se ne credono esenti: basta del resto ancora una veste sdrucita per far
apparire la persona che la indossa come un emarginato e basta porre una domanda non stupida,

9
Sesso, amore e gerarchia

ma solo inaspettata a un felice consesso di dotti ed esperti per cogliere il disorientamento e la


costernazione, al di sotto della disponibilità a rispondere.
Massimo Piattelli Palmarini in un bel libro dal titolo “L’arte di persuadere” spiega molto bene
quali sono le trappole del ragionamento in cui cadiamo tutti, giornalisti compresi, e derubrica
forse troppo velocemente l’ideologia nel campo del “pregiudizio” (pag.131). Se non è un
pregiudizio, l’ideologia è comunque sempre un “partito preso”: e con i “partiti presi” non si
ragiona, rossi, azzurri, bianchi, verdi, rosa e neri che siano. E’ come invitare a pranzo i Capuleti e
i Montecchi: la cosa non può che finire nel disastro. Il disgraziato o la disgraziata che voglia fare il
cronista “scollato” e senza tessere mentali è destinato ad essere stritolato dai rissosi partitanti di
ogni colore che occupano etere e carta stampata. Non si trova a combattere un pregiudizio ma un
sistema e nessuno si fida di lui paradossalmente proprio perché si sforza di essere obiettivo.
Eppure un giornale dovrebbe ospitare persone “libere”, cronisti non tesserati ma attenti a tutte le
realtà e onesti nel riportare i fatti: capaci di documentarsi e di autonomia, orgogliosi del loro
lavoro. Solo così l’informazione può avere un ruolo reale e non l’effetto polverone. Invece, specie
in politica, l’effetto polverone prevale quasi sempre.
I bravi, intesi come persone capaci, dotate di fantasia, lungimiranza, acutezza, precisione e
autonomia, neppure loro sfuggono alle trappole della rete informativa: schivate tutte le altre
restano infatti in azione le “trappole” del pensiero. Proprio così. Nel formulare giudizi si usa la
logica. Ma la sola combinazione di osservazioni e letture con la logica “pura” può portare a esiti
assurdi. La Logica, spiega Palmarini, è potentissima perché calcola solo le forme e le relazioni tra
le forme. Ma quando la differenza sta nei contenuti si rivela del tutto impotente, da sola, a
sciogliere problemi e misteri. Secondo gli esperti, ci sono circa una sessantina di “forme di
argomentazione” persuasive e rispondono a regole così costanti e generali da far intuire una
“architettura” mentale comune a tutti gli esseri umani, ma fidarsi ciecamente di esse sarebbe un
grave errore.
Come è un errore lasciarsi sopraffare dalle regole della burocrazia, eppure succede spesso nelle
aziende. Un giorno alcune giovani donne, per la maggior parte - ma non tutte - ingegneri, piene di
iniziativa e di energia e alle prese con un lavoro scientifico in un centro di ricerca, si accorsero che
le relazioni e i rapporti venivano scritti su moduli prestampati che prevedevano soltanto la presenza
di : Autore, Collaboratore, Revisore ed altri esseri rigorosamente maschili. Le ragazze (che
chiamerò le bionde perché accomunate da una fluente capigliatura di colore chiaro) decisero di fare
una richiesta all’ufficio competente per poter scrivere (solo nel caso legittimamente giustificato dal
sesso): Autrice, Collaboratrice, Revis... qui la loro verve era un po’ in ribasso. Comunque non si
lasciarono spaventare e prepararono un modulo alternativo, con tutte le possibili combinazioni, in
modo da non creare troppi problemi. E fecero partecipi le colleghe della richiesta che intendevano
fare.
Alcune delle colleghe (il caso - o una particolarità genetica? - vuole che fossero brune o castane)
dissero a chiare lettere che a loro non interessava; avevano il loro da fare a lavorare, e quando
scrivevano un documento sapevano comunque di essere state loro a farlo. L’ufficio del personale
non prese in considerazione la richiesta, perché era troppo complicata: pensate un po’ se tutti i sessi
(terzo sesso, preti, omosessuali maschi e femmine, e magari anche qualcun’altro) pretendessero di
avere una loro pagina prestampata.
Devo confessare con mia vergogna che non sapevo da che parte schierarmi. La Repubblica Italiana,
sempre attenta ai problemi piccoli per non affrontare quelli grandi, ha pubblicato nel 1985 sotto la
guida dell’allora presidente del consiglio Bettino Craxi delle “Raccomandazioni per un uso non
sessista della lingua italiana”2, che suggeriscono (non obbligano!) di non utilizzare mai il termine
maschile nel caso in cui la lingua preveda la parola femminile; questo dà ragione alle nostre bionde,

2
Alma Sabatini “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” per la scuola e per l’editoria scolastica.
Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Libreria dello Stato.
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Sesso, amore e gerarchia

tranne che nel caso di revisore. (Forse la parola non esiste perché non si prevede che una donna
possa fare una revisione, soprattutto - orrore! - se il lavoro fosse scritto da un uomo).
C’è chi si è interrogato anche sui cognomi: per alcuni (saranno bruni o biondi?) l’articolo al
femminile, davanti ad un cognome di donna, è considerato offensivamente riduttivo. Meglio, si è
detto, non mettere alcun articolo determinativo. Tutto questo però all’atto pratico risulta
imbarazzante. Come si fa a capire da un semplice cognome, mentre si legge, se la persona in
questione è un uomo o una donna? I cognomi sono neutri, almeno nella lingua italiana, gli articoli
no. E’ giusto, è sbagliato? Io penso sia giusto: la distinzione in questo caso segnala una diversità
reale, mentre nel caso della “funzione” o lavoro svolti prevale il contenuto del lavoro sulla natura,
o sul genere di chi lo svolge. Cosa che avrebbe senso solo se la presenza dei due sessi in quel
determinato lavoro fosse equilibrata, o quasi. Nessuno si interroga più sul sesso degli scolari della
scuola dell’obbligo: sono tutti lì, maschi e femmine.
Forse sarebbe meglio dire che la funzione prevarrebbe se a un riconoscimento di uguale capacità
corrispondesse un uguale riconoscimento di merito. purtroppo oggi non è così, o non è ancora così
o lo è solo in alcuni casi. Che la lingua sia - almeno in questo - più avanzata dei comportamenti
reali?
Sia pure con una certa vergogna, io non posso negare che l’essere chiamata “ingegnere”, tout court,
mi piace: mi sento parte di un mondo più importante, come se avessi conquistato uno “status” più
elevato. Più di tutti, mi piace l’uso francese di dire “madame l’engenieur”. Ma ecco che la signora
Gisèle Halimi3 mi smentisce, perché sostiene che occorre comunque usare la parola al femminile, e,
se non esiste, inventarla. La signora è molto dura in questo, e non molla; sostiene che sia
fondamentale. Come ritiene, in disaccordo con alcune posizioni del movimento femminista, che sia
fondamentale che alle donne venga riconosciuta una quota nelle elezioni politiche e nelle varie
attribuzioni di responsabilità. Tutto questo como spinta iniziale per cambiare le cose, per poter
instaurare una nuova democrazia, perché da sole è un’illusione pensare di riuscirci. Però Gisèle
racconta anche che, come ambasciatrice, dopo aver combattuto - e vinto - una battaglia senza
quartiere per avere la sua carta da lettere intestata al femminile, è stata sostituita da una collega che
le ha comunicato seccamente che non sapeva che farsene - della carta intestata (scommetto che era
bruna!).
Tanto per fare un esempio personale, io sono stata presidente dei corrosionisti italiani per il 1995-
96. In inglese si dice Chairman (e man significa uomo, al maschile): gli americani, sempre vigili
sulle pari opportunità, hanno pensato bene di darmi il titolo di Chairperson. Però lo danno solo alle
donne, gli uomini rimangono “Chairman”. Sarà un modo per riconoscere che, nonostante le
apparenze, anche le donne sono persone?
I risultati buffi del politically correct: “e se il presidente è una donna, si potrà ancora dire
chairman?” Giammai, meglio la finzione ridicolizzata di una fittizia parità. Si dirà chairperson,
tanto per chiarire che le donne ce l’hanno (l’anima?). Perché non chairwoman? Troppo audace: la
lingua inglese ancora non accetta che una donna sia presidente, anche se lo è, forse solo per le due
ore di un dibattito. Così si ricorre ad un pleonastico escamotage, siamo tutti persone, no? Si
potrebbe dire: il risultato di una sinistra ridicola. Non è un passo avanti. Non ha neppure il valore
di un bollo messo sulla carta per farla pagare diecimila lire. O forse è proprio questo: la
sostituzione di una logica burocratica, tignosa e fiscale alla realtà dei fatti. Non va bene
chairwoman?
E allora beccatevi la carta da bollo, che dice che siamo persone anche noi. Magnifico. Un vero
passo sulla strada della emancipazione femminile. Quando le donne non hanno neppure il coraggio
delle parole che usano. La lingua italiana in questo caso se la cava meglio: può dire infatti il
presidente, la presidente. Un modo comunque elegante per risolvere il problema. La lingua è in
fondo solo uno strumento per comunicare.

3
Gisèle Halimi - Droits des hommes et droits des femmes - Une autre démocratie. Editions Fides, Montréal, 1995
11
Sesso, amore e gerarchia

Per tornare alla vicenda delle bionde, mi resta un dubbio soltanto: che male ci sarebbe a fare ognuno
come vuole? Consentire l’uso della parola Autore e/o della parola Autrice, secondo la sensibilità di
ciascuno. Oppure scrivere il nome proprio per intero. Oppure non fare nulla. Il pretesto è
effettivamente poco importante, ma ancora una volta mi ricorda il potere enorme della gerarchia. La
gerarchia dovrebbe essere un mezzo per lavorare bene, e non un fine. La legge dovrebbe essere al
servizio degli uomini, mentre gli uomini non devono necessariamente essere al servizio della legge.
Che differenza fa se la prima pagina di una relazione è scritta in modo leggermente differente da
un’altra? L’importante è il contenuto della relazione, ciò che possiamo imparare o comunicare
attraverso di essa. Il discorso si farebbe lungo, perciò mi fermo qui per ora. Ma non lo lasceremo
finire qui. Salterà fuori un po’ dappertutto, perché è qui la radice del problema che intendiamo
dibattere - che tentiamo di dibattere - in questo libro, confrontando i nostri pensieri e le nostre
esperienze con quelle di altre persone.
Può darsi che sia l’eccesso di ottimismo, o di idealismo, a farci pensare che non sia per forza vero
che “ Chi cerca giustizia dagli uomini nega la verità del conflitto tra i sessi e che la forza delle
donne viene dalle donne... ma anche dalla debolezza degli uomini.”4
Per millenni gli uomini hanno creduto che sottomettere le donne sia per loro vantaggioso. E qualche
vantaggio in effetti lo hanno avuto. Salvo doversi ricredere dopo aver trasformato in inferno le mura
domestiche e talvolta anche la società.
Qualsiasi forza ottenuta tramite una debolezza altrui è come finta, un simulacro, un fantasma
produttore di sensi di colpa più che di vera evoluzione. In un rapporto di coppia, la debolezza
dell’uno diventa debolezza dell’altro, per ragioni di necessità. E’ talmente ovvio ed evidente che
stupisce non si siano ancora trovate forme di contrattazione tra i sessi capaci di produrre un
potenziamento reciproco, sebbene le coppie più fortunate ci riescano già.
Perché è pur vero che il rapporto tra i sessi non è regolato da un criterio di giustizia ma da un
criterio di forza. Il potere è strettamente legato al sesso e si esprime tramite le metafore del
comportamento sessuale. Ma è anche vero che non si tratta per fortuna di una contraddizione
risolvibile con logiche militaresche e che gli interessi in comune dovrebbero superare le ragioni di
conflitto, non solo sotto le lenzuola. Purtroppo capita spesso che, se una donna è in condizioni di
vantaggio, il partner inizi una guerra senza quartiere per ridurre le distanze, distruttiva e
strumentale. Che nega le possibilità di mediazione esistenti e cancella i vantaggi reciproci dovuti al
maggiore guadagno femminile. E’ un metodo che tradotto in comportamenti collettivi porta alla
paralisi e all’impossibilità di agire.
Ma ormai tutti dovrebbero capire che l’umiliazione della donna non porta affatto con sè un
rafforzamento dell’uomo. Spesso è proprio il sentimento di inadeguatezza, di scacco e di sconfitta
che porta gli uomini a proiettare al di fuori la scarsa e scadente visione di se stessi e ad umiliare le
donne. Questo genera un circolo vizioso di rinvio al mittente delle umiliazioni. Ci sono mille modi
tra le mura domestiche, per vendicarsi e trasformare l’uomo in un tappetino. Le donne hanno
elaborato col tempo tecniche raffinatissime al riguardo: le tecniche dell’impotenza. Alcune anche
ritorcendo le umiliazioni sulle figlie femmine, con beneplacito maschile. Ma entrambi i figli ci
rimettono se all’interno delle case si creano dinamiche perverse. Un figlio maschio troppo
prepotente troverà sempre qualcuno capace di dargli una lezione e di ridimensionarlo, mettendo in
evidenza la debolezza nascosta. Se riesce a mascherarla e ha capacità di direzione, prenderà
facilmente decisioni nocive per la collettività, perché privo del necessario equilibrio nel
ponderarle. D’altra parte, non pensiamo neppure che le donne ce l’hanno più grosso o che
saprebbero fare meglio e di più. Non è vero neppure questo. Le donne più semplicemente non ce
l’hanno, e allora? Non è forse un po’ offensivo, per sancire una superiorità, richiamarsi alle parti
basse del corpo o alla sola maggiore aggressività? E non è forse vero che ormai le responsabilità
del genere umano stanno diventando così enormi, anche a causa dello sviluppo tecnologico, da
essere un fardello troppo pesante per un solo sesso?
4
Alessandra Bocchetti, “Cosa vuole una donna”. La Tartaruga edizioni.
12
Sesso, amore e gerarchia

L’unico modo sensato per portare un fardello troppo pesante senza provocarsi danni fisici
irreparabili, è dividerlo con qualcuno. Per aiutare gli uomini in questa epoca di cambiamenti anche
radicali, è importante, forse fondamentale che le donne possano partecipare alle decisioni. Ma loro,
lo vogliono veramente? Secondo due psicologhe americane5, le donne diventano più facilmente dei
leaders se hanno studiato in scuole femminili almeno per un certo periodo della loro vita. Questo
perché in una scuola femminile la più brava sarà sicuramente una ragazza, mentre in una classe
mista le ragazze partono svantaggiate rispetto ai maschi, sia per i pregiudizi degli insegnanti che per
il loro stesso desiderio di conquistarli aderendo agli stereotipi femminili.
Invece in una scuola femminile le ragazze hanno figure di riferimento del proprio sesso, forti e
determinate (ad esempio, secondo le autrici, le suore) e l’occasione di allenarsi in una competizione
tra pari che le prepara a quella vera, anche con gli uomini, che dovranno affrontare nella vita. Mi
sembra una teoria interessante, anche se la mia esperienza personale è molto diversa, almeno per
quanto riguarda le scuole medie. Io ho studiato dalle suore fino alla terza media, e sono stata
enormemente felice di passare nella scuola pubblica quando sono andata al liceo, anche perché nella
classe mista non sentivo più quella rivalità tipica delle donne tra loro che mi aveva reso un po’
infelice negli anni precedenti. E’ vero che io ero comunque la prima della classe, ma il mio ricordo
delle scuole medie è molto scialbo e triste: forse perché era una scuola ai confini con un quartiere
molto popolare, dove la metà circa delle ragazze a tredici-quattordici anni erano già grandi e non si
preoccupavano tanto di studiare o di questioni intellettuali, quanto di imparare a difendersi da un
mondo che le trattava già come donne. Io invece ero molto bambina, sia fisicamente che nel
pensiero. Ho un ricordo chiaro e doloroso di una serie di pregiudizi. Una mia cara amica, Cristina,
era considerata ’non tanto brava’: se facevamo i compiti insieme, la professoressa l’accusava subito
di avere copiato da me.
Cristina era la figlia maggiore del regista Damiano Damiani. Ricordo come mi piaceva andare a
casa sua a fare i compiti. Aveva una mamma che mi sembrava bellissima, e due fratellini terribili
che si rincorrevano urlando intorno alla scrivania dove noi scrivevamo. Ma la cosa più bella ed
emozionante era quando potevamo entrare, di nascosto, nella stanza dove suo papà dipingeva. Era
una stanza proibita, dove potevamo andare solo con estrema cautela e senza toccare nulla, piena di
tele e di ritratti di tutta la famiglia. Cristina non era affatto ’non tanto brava’. E’ diventata
ginecologa, ha lavorato in Africa e recentemente l’ho sentita parlare in una trasmissione radiofonica
con la stessa aria calma di sorella maggiore che ho sempre ricordato in lei. Però non l’ho più
incontrata, finite le medie. Era diventata grande più in fretta di me, ma ho a volte anche il dubbio
che il pregiudizio degli adulti abbia contribuito a separarci. Certamente vorrei che leggesse questo
libro.
Io invece ho un ricordo abbastanza vago delle scuole medie. Amavo segretamente la mia
insegnante di lettere, una signorina quarantenne che viveva sola in un pensionato, accanita
fumatrice e profuga da Trieste. Mi considerava simpatica e ogni tanto mi affidava qualche
compagna in crisi. Ne ricordo una, in particolare che, in prossimità delle interrogazioni, aveva
l’abitudine di farsi la pipì addosso, ma si era tra ragazze e non era molto imbarazzante. In questi
delicati frangenti non credo però di essere stata per lei una grande consolazione. Per il resto ero
un tipo senza infamia e senza lode. Mi sfangavo i miei sei e andavo a nuotare (allora mi allenavo in
modo agonistico). Le gare, le medaglie e i viaggi mi interessavano molto di più della scuola. C’era
però qualcuno che proprio mi odiava: l’insegnante di economia domestica. Non ricordo perché.
Forse non sapevo fare bene il punto croce. Per me il lavoro manuale era un’impresa difficile: già
allora mi tremavano un po’ le mani. Ma almeno ho imparato ad attaccare i bottoni. Quando con la
riforma della scuola media questa materia è stata abolita a me un po’ è dispiaciuto. Ho pensato
che sarebbe stato meglio introdurre un corso accelerato anche per i ragazzi. Ho un ricordo
divertito di mia madre infuriata, appena tornata da un colloquio in sala professori con lei. -
Signora, sua figlia è un caprone! - le aveva detto sottolinenando il punto esclamativo. Mah, forse
5
Dorothy Cantor e Tony Bernay, “Women in power”, Hougton Mifflin Company, USA, 1992
13
Sesso, amore e gerarchia

non avevo alcuna sensibilità nel capire le dinamiche di gruppo. Allacciavo sempre e solo relazioni
personali con le compagne che mi erano più simpatiche, in forma semiclandestina perché
chiacchierare era vietato, e i gruppi numerosi mi hanno sempre messo un po’ paura.
Al termine delle medie fecero fare dei test attitudinali. Risultai abbastanza intelligente da poter
andare al liceo, e forte di un film appena visto, che mi era piaciuto moltissimo e parlava dei primi
amori e delle prime difficoltà di un gruppo di liceali, mi decisi al ’grande’ passo.
Ma la quarta ginnasio fu uno choc: le classi erano miste e i ragazzi mi mettevano in un imbarazzo
terribile. Ero molto a disagio. Per di più fioccavano i tre e i quattro, e l’umiliazione dei primi
insuccessi era più cocente, di fronte a loro. L’insegnante di inglese entrava in classe a passo di
marcia, avvolta in un mantello nero. Ero così terrorizzata che non mi accorgevo di essere in buona
compagnia. Alla fine dell’anno però mi promosse, e ci fece anche leggere Shakespeare in lingua
originale. Ricordo ancora la terribile lady Macbeth e quelle mani che non si lavavano mai.
Insomma, all’inizio non fui affatto contenta di stare in una classe mista, ma poi mi abituai.
Il liceo fu invece un periodo divertente. I professori, specie gli uomini, erano piuttosto bravi, le
materie più interessanti e i compagni di classe non mi impaurivano più. Erano in due a contendersi
la palma di più bello del reame: Vittorio Domenichelli e Paolo Setti, fratello della bella ma
sfortunata Emanuela Setti Carraro che morì poi col marito, il generale Dalla Chiesa, in un
attentato mafioso. Ora Paolo è diventato un bravo chirurgo. Ho ancora una sua dedica, su una foto
di gruppo dell’anno ’67/68, che dice così: “Al più bel concetto geometrico che mai una cellula
abbia concepito, da uno spiritualista che odia la violenza politica!” e sotto, “ Stand up for our boys
in Vietnam” firmato Herr Paolone. Forse, nonostante il suo amore per la geometria, aveva ancora
le idee un po’ confuse. E per di più, accidenti, non mi ero neppure accorta di piacergli.
Di Paolo Setti ce ne erano però due: c’era stato un po’ di trambusto al primo appello di classe,
momento alquanto solenne. Si erano alzati in piedi assieme, confusi e anche un po’ costernati
perché non avevano nessuna voglia di scherzare. Poi la cosa fu risolta alla garibaldina: li
chiamammo Paolino e Paolone (il futuro chirurgo). Ma in realtà erano entrambi piuttosto
ingombranti. Paolino era più magro, però. Poi è diventato avvocato.
Avevamo un insegnante di greco, di nome Dino De Castro, o Divus Casterius come lo
soprannominammo subito, in omaggio al fatto che era il migliore, che al termine del ciclo ci lesse
come commiato e con una certa reticente timidezza alcune sue novelle. Poi ci benedisse tutti e
dichiarò che finalmente se ne andava via dalla pazza Milano, città ormai così piena di traffico e di
maleducati. Si ritirava in un luogo più tranquillo e civile, nei dintorni di Verona. Morì investito da
un’auto due anni dopo. Stava probabilmente pensando alla trama di qualche suo altro racconto.
Per tutta la durata del liceo feci gruppo con altre due compagne, Laura e Papia, bionde, eleganti e
un pochino, non tanto, più scafate di me. Ci chiamavano “ Le tre grazie” e il professor De Castro,
sempre lui, ci aveva soprannominato il suo frappè, alla “panna, vaniglia e cioccolato.” Io ero la
vaniglia e la cosa mi seccava un po’. Ma era il professore che amavo di più. Proveniva da Pola, ed
era un profugo istriano, proprio come la mia insegnante di lettere alle medie, che però cercava di
mimetizzarsi. I compagni avevano anche scritto una canzonetta, che recitava così: “ Il De Castro
venuto da Pola, con gli occhiali, il cappello e il pastrano, è arrivato al Manzoni a Milano, già
deciso a sfoltire la scuola. Ambulando tra i banchi e le sedie, declamando parole sconnesse,
rimpolpava l’italico sermo, e gridava, vi rimanderò”.
Intanto era cominciato il ’68: ho un ricordo vivido del preside, Carmelo Fierro, che si aggirava,
piccolo, grasso, sudatissimo e sperduto nella scuola alle prese con i primi scioperi. Sembrava una
palla bagnata. Era, si vociferava, anche a rischio d’infarto, ma per fortuna non è successo niente.
Un giorno i neonati leader del movimento studentesco decidettero di occupare la scuola, con ferma
determinazione a restare la notte. Gli obiettivi della protesta non li ricordo più. Deve esserci stata
una grande mobiltazione di famiglie preoccupate delle notti promiscue. Io mi sentii quasi un’eroina
da romanzo russo quando i carabinieri ci trasportarono fuori di peso. Avevo diciassette anni ed ero
molto stupida. Ci portarono in questura e fui schedata come “figlia dei fiori”. Lo decisero loro, i

14
Sesso, amore e gerarchia

carabinieri, e sembravano molto seri nello svolgimento delle loro funzioni, ma confesso che non
capivo cosa volessero dire. Solo in seguito appresi che si trattava di un movimento “beat”. Perché,
contestazione a parte, ero una di quelle secchione che vedevano solo i libri e della vita non sapevo
proprio niente. Però, avendo dei genitori di sinistra, mi dichiaravo senza esitazioni comunista, o
almeno così avrei risposto alla pubblica autorità, se me lo avessero chiesto. Ma qualsiasi
significato attribuissi alla parola, dovevo essere anche un po’ fanatica, perché un’altra dedica
delle foto di gruppo recita: “Saran belli gli occhi scuri, saran belli i fiorellini, ma tu certo non hai
dubbi, i colcoz son più carini”. E’ firmata Walter di Tullio, che era un ragazzone alto, biondo,
intraprendente e focoso, con doti da vero leader naturale, ma ha perso troppo presto la sua
giovane vita, morendo di un tumore al cervello pochi anni dopo, all’università.
E ancora, in un’altra foto di gruppo, una dedica: “Alla ’bbona’ del Pci, affamato, elevo una
preghiera: sfamaci.” E’ firmata Paul, ma quale dei due fosse proprio non lo ricordo. Doveva
essere un’epoca di tempeste ormonali, almeno per i ragazzi, ma io ero molto fredda (c’è un’altra
dedica che si lamenta per questo) e passavo attraverso le cose quasi senza accorgermene.
Qualcuno, più prudente, ha scritto: “Con la speranza che, quando verrà il comunismo, dirai per me
una parola buona”. Mentre Franco, che era bravissimo in matematica e fisica, “W la reazione, la
polizia, il nazismo e i capitalisti”. Come si vede, le opinioni erano disparate, gli animi bollenti, ma
in realtà studiavamo tutti come pazzi, e ci divertivamo anche parecchio, in barba alle ideologie,
che nella nostra classe non sono mai state un grande ostacolo a far bisboccia insieme. Forse
eravamo consapevoli che si trattava solo di parole, di modi fittizi di schierarsi, perché il futuro non
era prevedibile.
Sono finita anche a faccia in giù nella neve, durante una gita studentesca in montagna. Un ragazzo
di qualche altra sezione mi aveva gettato a terra, e preso a menarmi di brutto, al grido di ’sporca
comunista’. Intervenne indignato in mia difesa il capo comitiva, ora giornalista e direttore del
mensile Reset, conquistandosi i sensi della mia gratitudine più imperitura. Chissà cosa avevo detto,
è facile provocare animi surriscaldati, e per di più allora le donne erano abituate a stare al loro
posto, già parlare di politica poteva sembrare disdicevole a molti. Ma in realtà, se ripenso a quei
tempi, mi sembra di essere stata soprattutto un concentrato di ingenuità, al punto tale che se si
fosse potuta vendere in scatola, mettendo su un’impresa, ora sarei di sicuro miliardaria.
I miei ricordi del ’68 invece sono appena accennati: gli universitari venivano qualche volta a
impedirci di entrare a scuola, ma il preside Dell’Oglio, un omone cui il tic di sollevare le
sopracciglia conferiva un’aria molto severa, e il bidello Romoletto Stizza, armato di scopa, li
cacciavano via regolarmente. Ma anche per me gli anni passati al liceo Virgilio di Roma sono stati
molto belli. Il fatto che fossi brava a scuola mi aveva procurato una certa ostilità da parte di alcuni
compagni maschi: ma solo all’inizio. La mia aria da bambina e la mia disponibilità ad aiutare tutti
alla fine li aveva abbastanza ammansiti. Nelle foto di classe di quegli anni, ho sempre l’aria di
volermi nascondere.
Ora che ci penso, Giovanna, da noi il primo della classe era un ragazzo, Marco Beck. Non gli ero
ostile, ma la sua sicurezza di sè me lo rendeva estraneo. Ora lavora in Mondadori. Ho conservato
una notevole recensione di Giovanni Raboni, sul ’Corriere della Sera’, 10 gennaio 1994, in cui si
parla anche di lui, a proposito di un’antologia di poesia latina, diretta da Luca Canali per ’I
meridiani’. Marco è stato tra i traduttori di Orazio. Sebbene io preferisca Ovidio, che però ho letto
all’università, sia la traduzione che i commenti mi sono sembrati notevoli. Forse è solo banale tifo
per un vecchio compagno di scuola, che aveva una casa molto più bella della mia e sapeva anche
suonare la chitarra. Ma allora Marco non mi interessava, sembrava troppo rigido e compreso del
suo ruolo: vuoi mettere, lui così serio e sicuro, sempre primo, con quelli un po’ più confusi, un po’
più come me? Era uno che non si sbilanciava. Le sue dediche, sulle mie foto di gruppo, dicevano
sempre e solo: “Con simpatia”. Ma sto naturalmente scherzando, sono cose che leggo adesso,
dopo tanto tempo. Però è vero che i primi della classe non godono di naturali... simpatie, appunto.
E cercano di dare agli altri ciò che a loro manca di più. Anche lui faceva qualche sforzo, per essere

15
Sesso, amore e gerarchia

accettato. Ma non so se ha passato qualche compito. Era circondato da un gruppo di bravi


secchioni, tutti maschi, che lo proteggevano dalle intemperie. Invece la femmina numero uno, che a
scuola era la Matuonto, e di nome faceva Giuseppina, è sparita nella nebbia. Non l’ho mai più
rivista, nè, mi pare, è venuta alla cena organizzata per i nostri primi quaranta anni. Non era per
niente antipatica, sorrideva spesso con bonarietà, quasi per farsi perdonare, e aveva anche qualche
amica del cuore. Ma non ricordo chi fosse. Chissà perché mi ricordava, essendo un po’ cicciottella,
la vecchia compagna delle medie che si faceva pipì addosso. Non avevo soggezione di lei, mentre di
Marco Beck un poco sì. Il fatto che Giovanna fosse una ’prima della classe’ donna deve averle
provocato quache problema in più di quanti non ne avesse lui. Non ci avevo mai fatto caso, me ne
rendo conto solo adesso.
Il mio professore di francese, un simpaticissimo signore di origine corsa che sapeva anche l’arabo,
aveva per me un’enorme simpatia - diceva a mia mamma, nei colloqui, “vorrei proprio avere una
figlia come la sua”- ma in classe, teorizzava spesso che le ragazze sono le più brave soltanto alle
medie. “Poi i maschi maturano”, ci diceva,”e diventano più bravi loro”. Nel dire così - era un
argomento favorito e ripetuto spesso - mi lanciava delle occhiatacce, come se temesse che io saltassi
su a contestarlo: ero una smentita vivente alle sue teorie.
In ogni modo non ero certo io il leader della classe, e neppure ci tenevo. Ero piccola, magra, con le
treccine e un’aria da bambina un po’ denutrita. Ricordo Antonio Garrani, un mio compagno, che
sembrava già un uomo a 15-16 anni: aveva anche la barba! Tornavamo spesso a casa insieme in
autobus, e lui mi diceva: “Giovanna, tu non sei matura”. Lui si interessava di filosofia e di religione
e discuteva animatamente e con competenza insieme agli insegnanti. Adesso Tony Garrani fa il
comico in TV. E’ molto bravo e intelligente, e ha un’aria giovanile e allegra, pur avendo perso molti
capelli. A volte penso che mentre io sul lavoro sono costretta a far vedere che sono adulta e seria e
matura, lui ha capito che la vera serietà sta nel non prendere le cose e se stessi troppo sul serio.
Come ai tempi della scuola, è sempre più avanti di me.
Gli attori, e soprattutto i comici, sono abituati a ridere di sé, a travestirsi da donna e forse hanno
meno paura del femminile che è in loro. Come dice una psicologa americana: “Il femminile
appartiene a tutti noi, agli uomini come alle donne, come un modo di essere...E’ stato molto
trascurato e soprattutto nel nostro secolo. La sua assenza si traduce nella discriminazione contro le
donne, non solo nei modi più ovvi - nel salario, nelle promozioni, nei privilegi - ma in tutti i livelli
della società. ...Possiamo sentire la sua assenza nel senso di inferiorità, e nella rabbia
compensatoria, che le donne soffrono riguardo il loro fisico, la loro incapacità di affermarsi
effettivamente, il senso di impotenza e disperazione per quanto riguarda la possibilità di essere
capite a fondo dai loro partners maschi come persone che hanno un’anima loro propria. Possiamo
anche sentire la sua assenza nell’attitudine degli uomini verso le presenza del femminile in loro
stessi. In molti uomini, quando sono costretti a confrontarsi con l’immaginario del femminile sorge
lo scherno, l’impazienza, la rabbia e spesso anche il terrore. Si sentono imprigionati, spaventati,
incerti, sottoposti a richieste eccessive, e quasi invariabilmente hanno una reazione di resistenza
impaurita”6.
Queste poche righe, a pensarci bene, non sono una novità. Descrivono dei comportamenti che sono
dentro di noi. Occorre soltanto essere capaci di vederli, di riconoscerli in noi stessi prima ancora
che negli altri, e lavorare per superare i pregiudizi. Perché spesso le donne incarnano proprio
quell’immaginario femminile che gli uomini sentono dentro di sè e che rifiutano come debolezza.
Perciò cercano di liberarsene, almeno nelle otto ore di vita lavorativa, e di non farsene ’toccare’
troppo. D’altro canto, noi donne ci ritroviamo imprigionate dallo stereotipo, e da un sistema che
rifiuta il nostro modo di essere, come se fosse di serie B, e che ci giudica prima come donne che
come persone. E allora diventiamo insicure, e spesso aggressive. O cerchiamo di comportarci come
loro (gli uomini), spesso con risultati deludenti. E se provassimo a parlarne insieme?

6
Ann Belford Ulanov, “The female ancestors of Christ”, Shambala publications, USA, 1993.
16
Sesso, amore e gerarchia

Cap. 2. L’ORLANDO DI VIRGINIA


Ognuno è uomo e donna. Virginia Woolf
Deh fosser molte al mondo come voi
donne che agli scrittor mettesser freno
ch’a tutta briglia vergan contra noi
scritti crudeli e colmi di veleno:
ché forse andrebbe insino ai liti Eoi
il nome nostro e ‘l grido d’onor pieno.
Ma perché contra a lor nulla si mostra,
però tengono vil la fama nostra
Laura Bacio Terracina (1519-1577)7

Mi sarebbe piaciuto conoscere Virginia Woolf. Camminare con lei lungo le rive del fiume, vicino ai
cespugli lucenti dei colori autunnali, per seguire la corrente dei pensieri che si snodano così lucidi e
acuti nella sua mente. Per farle tutte le domande che si possono fare in un’intervista, e magari
qualcuna in più. Le risposte però lei ce le ha già date: sono tutte nei suoi scritti e nella sua vita, e
possono essere filtrate dalla nostra lettura in tanti modi diversi.
Nel 1929, Virginia ha scritto un piccolo saggio intitolato “A room of one’s own (Una camera da
sola)”8, che è il testo di una conferenza per le ragazze di una università femminile inglese. La
conferenza parla delle donne scrittrici, e analizza le ragioni per cui il loro numero era, a quei tempi,
ancora così esiguo. Si riferisce naturalmente soprattutto alla situazione in Inghilterra. Anche se oggi
le donne scrittici sono tante, molte più di allora, l’analisi fatta da Virginia Woolf è ancora talmente
attuale che potrebbe essere scritta e pubblicata anche oggi.
E’ vero che per poter diventare un poeta occorre avere un piccolo patrimonio che ci permetta di
vivere indipendenti; e una stanza tutta per noi, dove potersi raccogliere a seguire i pensieri, le idee
che guizzano via, come i pesci che un pescatore cerca di catturare con la sua lenza. Senza questi
beni materiali, che le donne ormai hanno quasi sempre nei paesi della società del benessere, ma che
per la maggioranza sono ancora un miraggio, non è possibile uscire dalle necessità del quotidiano.
Non è possibile uscire da una vita in cui tutti i piatti devono essere lavati, le cene cucinate, le
camicie stirate giorno dopo giorno. E Virginia dice anche che le donne dovrebbero fare due o tre
figli, e non dieci e più, perché la loro vita non sia limitata alle maternità. Tutte queste cose sono
state dette, con parole molto simili, da Benazir Buttho e dalle altre delegate alla conferenza del
Cairo e a quella di Pechino: perché le donne del terzo mondo, che sono la maggioranza, devono
ancora lottare per quello che oggi a noi sembra ovvio. Ma anche nei paesi più ricchi non è
altrettanto ovvia la nostra partecipazione alle decisioni, soprattutto nei campi che sono sempre stati
di dominio maschile. La segregazione, orizzontale e verticale, nell’ambito del lavoro è una realtà e
forse è una conseguenza della segregazione più estesa, a livello sociale, che era tipica della cultura
ottocentesca e che Virginia conosce bene, perché soprattutto in Inghilterra è stata presente.
Anche se non è possibile intervistare Virginia direttamente, leggendo i suoi libri sappiamo come la
pensa: c’è un’analisi molto lucida e interessante della mente umana e si conclude sostenendo una
visione un po’ particolare delle differenze di genere: secondo la Woolf, chi è veramente creativo
non ha paura di mostrare di possedere alcune caratteristiche dell’altro sesso, oltre che del proprio.
Le differenze di genere, che pure esistono, sono distribuite in modo diverso tra i diversi individui:
ma la vera forzatura è quando qualcuno rifiuta la propria parte “di sesso diverso”. E’ importante per
noi italiani notare che in questo piccolo saggio viene citato, come esempio di una forma di governo
solo “maschile”, e quindi sbilanciata, il fascismo di Mussolini. Mentre, aggiungerei io, una vera

7
"Alla eccellente signora Veronica da Gambara"
8
Virginia Woolf, "A room of one's own", 1929
17
Sesso, amore e gerarchia

democrazia è portatrice di valori propri dell’intera persona umana, e quindi maschili e femminili,
paterni e materni.
Nella finzione del romanzo, questa intuizione è descritta poeticamente in “Orlando”, che è stato
scritto nello stesso anno del saggio sulle donne di cui ho parlato. Orlando è un personaggio che vive
per diversi secoli, a partire dall’Inghilterra della regina Elisabetta I, e nel corso di questa sua lunga
vita, dopo essere stato uomo per due o trecento anni, si sveglia un mattino trasformato in una donna.
Non c’è soluzione di continuità nè bruschi cambiamenti nel passaggio da uomo a donna; e la donna
Orlando, pur accettando le limitazioni che il suo tempo le impone, non dimentica di essere stata
uomo e mantiene un atteggiamento distaccato, scanzonato, un pensiero libero al di là delle
convenzioni che tutti noi (uomini e donne) dovremmo saper imitare.
Il pensiero libero al di là delle convenzioni è frutto di grande sofferenza ed implica dei costi molto
elevati, primo tra tutti l’emarginazione. Questo in minor misura vale anche per gli uomini, ma per
le donne come sempre vale due volte. L’unico campo in cui, forse, c’è la possibilità di mantenere
uno sguardo lucido e anticonvenzionale senza eccessivi costi è il campo scientifico. Qualsiasi
scoperta nuova, anche piccola, non viene capita subito, ma affascina, fa discutere: se davvero offre
prospettive nuove col tempo si afferma.
Provate però, come donne, a inserirvi in un ambiente tecnico: quello degli ingegneri! Qui sono tutti
uomini, e la vostra capacità a livello scientifico non sarà così facilmente apprezzata: spesso e
volentieri ve la faranno pagare, e senza neppure volerlo veramente: loro sono così cari, un po’
bambini, vi vedono sempre come vedevano, da piccoli, la loro mamma, e quindi vi amano e vi
temono allo stesso tempo. E’ una questione di cultura, ma non solo per loro. Lo si vede anche
nell’atteggiamento di noi donne - almeno noi quarantenni - che abbiamo una paura matta di far
vedere che siamo brave quanto loro. Preferiamo mantenere una forma di potere più indiretto, non
affrontarli a viso aperto se ci sono dei contrasti. L’equivalente dell’atteggiamento materno del
viziare, del prenderli per la gola con i nostri manicaretti, del preoccuparci per loro: “Mi
raccomando, metti la maglia di lana!”.
Quando Virginia Woolf scrive “A room of one’s own”, nel 1929, in Inghilterra esiste una sola
università femminile. Le donne non hanno accesso alle università maschili. Non mi risulta che fosse
così in Italia. Forse l’Italia è troppo disorganizzata intrinsecamente per organizzare una rigida
divisione di sesso, anche solo per l’Università. Probabilmente da noi le università erano aperte alle
donne, solo che lo volessero e avessero i mezzi. Al Politecnico di Milano ad esempio, la prima
donna ingegnere si è laureata nel 1908. Vent’anni prima di quando in Inghilterra a Virginia era
impedito di camminare sull’erba del campus e di entrare in certe biblioteche. Quando un’università
separata, probabilmente con programmi diversi, speciali per le donne, era già considerata una
grossa conquista. Un trionfo per le differenze di genere. In Italia invece, dice Madame de Stael
quasi un secolo prima che Virginia nasca, le donne possono studiare9. C’è forse qualche affinità con
la situazione attuale in certi paesi dell’Asia, soprattutto in India, dove le famiglie ricche ed
illuminate amano dare tutte le opportunità alle loro figlie. Che, come Indira Gandhi, Benazir Buttho
e altre, diventano anche capi di Stato.
Ricordo che quando nel novembre 1970 mi sono iscritta al Politecnico, negli edifici “vecchi”, dove
si tenevano le lezioni dei primi anni - grandi aule ad anfiteatro con i banchi di legno, che tenevano
quattro/cinquecento persone -, non esistevano gabinetti per le donne. Ricordo di averlo scoperto
quando, per la prima ed unica volta, ho avuto un bisogno urgente. Stavo per dare un esame: scherzi
dell’emozione? Dopo aver fatto due o tre giri dell’edificio a passo di carica, mi sono dovuta
rassegnare ad entrare in “quello” dei maschi. Per fortuna era vuoto. E’ stata la mia prima unica
esperienza del genere: uno stanzone con in fila, attaccati al muro, decine di orinatoi. E, per fortuna,
da una parte alcuni sgabuzzini con delle turche, in uno dei quali ho potuto nascondermi.
Ho così constatato personalmente che spesso gli uomini fanno pipì tutti insieme, come si vede in
certi film che parlano dell’adolescenza. Chissà se è una pratica gratificante, se è imposta da una
9
Mona Ozouf, “Les mot des femmes”, L’esprit de la Cité, Cayard, 1996
18
Sesso, amore e gerarchia

certa mentalità “virile”. Chissà se si vergognano. Cosa rappresenta questo negli ambienti maschili,
nei collegi, nelle caserme? Cosa provoca? Ricordo un vecchio e caro amico gesuita, specializzato e
docente in teologia del sesso, che mi diceva: “Gli uomini sono più pudichi delle donne, meno
esibizionisti. Avete mai visto un uomo scollato in modo provocante?” Per quanto sembri buffo, il
padre Mario aveva sostanzialmente ragione, secondo me. Nella nostra società, nella nostra specie
animale, i maschi non devono esibirsi nei confronti delle femmine, come invece accade, per
esempio, negli uccelli. Sono le donne che devono sedurre, nel senso più scopertamente sessuale.
Basta osservare i costumi di un qualsiasi corpo di ballo durante un varietà televisivo, o confrontare
gli abiti dei presentatori con quelli delle presentatrici, per non parlare delle vallette. L’esibizione
sembra invece importante per gli uomini tra di loro, ci sono dei riti di virilità, più o meno scoperti,
che preludono alle posizioni gerarchiche. Quale sarà il loro significato profondo? Forse non è così
profondo, ma solo un po’ volgare, un po’ da uomo delle caverne. Con il diffondersi della cultura, le
cose cambiano. Ormai anche al Poli ci sono bagni per le donne in tutti gli edifici. Probabilmente si
comincia ad avere più rispetto per l’intimità e il pudore di tanti esseri umani, che sono prima di tutto
persone, oltre ad avere un sesso. Probabilmente si comincia a capire anche che il potere deriva
dall’autorevolezza, che si deve ottenere con le capacità, e non con l’ostentazione di una dominanza
di tipo sessuale. Che la gerarchia è organizzazione, è un mezzo per lavorare bene, e non una scusa
per sopraffare chi è più debole di noi.
La possibilità di scoperte scientifiche o la partecipazione a ruoli tecnici da parte delle donne non
viene neppure considerata da Virginia Woolf, che è un’intellettuale “letterata”; le sue osservazioni
sulla mente umana anticipano alcune recenti acquisizioni delle moderne neuroscienze. Ad esempio,
la descrizione che Virginia ci dà del suo io, una delle più belle nella storia della letteratura. Un io
“che mutava con la rapidità stessa della sua corsa, ce n’era uno nuovo ad ogni curva, come accade
quando, per qualche ragione inesplicabile, l’io cosciente, che si trova più in alto, e ha il potere di
desiderare, non desidera essere che se stesso: il capitano di tutti gli io, che li amalgama e li
controlla”10.
Sembra di leggere Daniel Dennett: “Più grande è il campo, più ricchi i dettagli, più sottilmente
discriminativi i desideri, e peggio si sta quando quei desideri vengono frustrati”. Un io, o meglio un
sè, come centro di gravità narrativa, tessuto dai suoi stessi racconti e nient’altro. Virginia, vittima
dei suoi tempi, si consola invocando un capitano che non c’è. O meglio, non c’è come capitano, ma
solo come centro di gravità, e punto di convergenza, di qualcosa che preme in lei sotto forma di reti
di parole, così mirabilmente tese, da pescare vasti orizzonti di profondità.
Nella nostra mente corrono assieme tempi e sensazioni diverse: sono molte le persone che
alloggiano assieme nello spirito umano, anche se alcune, più amate e decisive, possono abitarlo con
le caratteristiche dell’ossessione. E’ la memoria il filo d’argento che tiene insieme quel precario
guazzabuglio che chiamiamo “io”, il capitano che non c’è. Una componente fondamentale
dell’amore è il gioco11. “Per una diecina di minuti recitarono la parte dell’uomo e della donna con
molto impegno, poi passarono ad una conversazione normale”. L’arciduchessa e Orlando si
scambiano i ruoli. Lei diventa Harry, l’arciduca, si traveste da donna, lo insegue per mezzo mondo
per mettersi al suo servizio. “Perché lei, Orlando, per lui sarebbe sempre stata il Prodigio, la Perla,
la Perfezione del suo sesso in persona”. C’è però un ma: quelle tre P sarebbero state più
convincenti se non fossero state accompagnate dalle risatine e dagli sghignazzi più incredibili.
“Se questo è amore, disse Orlando tra sè, questa volta da un punto di vista femminile, mi pare una
faccenda assolutamente ridicola.” Questo amore infatti è per Virginia come il gioco del fly-loo, una
scommessa dove si possono perdere grandi somme di denaro, con pochissimo dispendio
d’intelligenza, se si hanno in mano tre zollette di zucchero e un po’ di mosche.
Il gioco consiste nello scommettere qualsiasi somma su quale delle tre zollette si poserà la
mosca.

10
Daniel C. Dennet, "Coscienza", Rizzoli 1993
11
Virginia Woolf, "Orlando", 1929
19
Sesso, amore e gerarchia

L’arciduca avrebbe voluto giocare all’infinito, ma presto Orlando si stancò. “A che serve essere una
bella donna, giovane, nel fiore degli anni, si chiese, “se devo trascorrere il tempo a guardare delle
mosche blu bottiglia?”
Cominciò a odiare la sola vista dello zucchero; le mosche le facevano girare la testa. Fu così che,
cercando una via d’uscita, decise di barare. Acchiappò una mosca, la schiacciò delicatamente e con
una goccia di gomma la incollò ad una zolletta. Che sostituiva abilmente alle altre, mentre
l’arciduca era intento a guardare il soffitto. La sua speranza era che l’arciduca se ne accorgesse. E
siccome barare a loo è il più odioso dei delitti - barare in amore è il più odioso dei delitti? - lei
contava che l’arciduca sarebbe stato abbastanza virile da rifiutare di aver mai più a che fare con lei.
“Ma non aveva tenuto conto della semplicità del gentiluomo. Lui non era un buon giudice di
mosche. Per lui una mosca morta non era gran che diversa da una viva”.
Orlando, dopo aver vinto somme ingenti al gioco fu costretto a barare così smaccatamente che
persino lui non ci potè più cascare. “Amare una donna che barava al gioco era impossibile, disse
piangendo, era impossibile.” Lei rise e infine lui se ne andò sbattendo la porta. “Sia lodato il cielo!
esclamò Orlando ancora ridendo”. Udì una carrozza rotolare per il cortile all’impazzata e fu, infine
il silenzio.
Allora anche Orlando si accorse di sentirsi sola. Anzi, ancora meglio: sentiva allontanarsi da lei un
arciduca (non gliene importava), un titolo (non gliene importava), la sicurezza e la vita coniugale
(non gliene importava ed era tuttavia sposatissima, non dimentichiamolo, non è un particolare
irrilevante) ma udiva allontanarsi da lei la vita, e un amante. La vita e un amante, mormorò, nella
desolazione totale.
La creatività stessa può essere un’ossessione: la vita e un amante, di cui non si può parlare senza
arrossire e che sono tuttavia inscindibili. E la Woolf, che pure ha dedicato il suo romanzo a Vita, di
Vita, in fondo, non parla mai, se non per vagheggiare in se stessa la ricerca di una mitica oca
selvaggia, sullo sfondo di una controllatissima razionalità. Perché gli amanti non distruggono le
illusioni e permettono di dare alla vita quel tanto di sogno senza il quale svaniscono i colori, l’aria si
offusca e diventa irrespirabile, il sole si spegne e le piantine non crescono più. Perché, se la vita è in
parte anche sogno, dalla verità si può essere annientati. E’ per questo che nessuno perdona chi
toglie le illusioni, specie quando questo non è necessario. “Chi ci deruba dei nostri sogni ci deruba
della vita”: perciò la vita stessa è una costante fuga dai derubatori di sogni. In questa fuga i pericoli
sono grandi: chi rimane troppo impigliato nei sogni non ne è più artefice ed autore, ma vittima. La
maturità è forse anche la capacità di governare i sogni senza farsene dominare. Chi vi rinuncia,
muore. Chi vi si sottomentte, soccombe. E’ nel difficile equilibrio tra le necessità del sogno e
l’aderenza alla realtà che si possono trovare sbocchi fecondi. Forse solo i poeti e gli scienziati
possono coltivare i nascosti segreti della gioia senza timore di esserne troppo scottati. Gli altri,
purtroppo e spesso vi si perdono dentro: e diventano abitatori di coppie-gabbie. Sfortunati quegli
uomini e quelle donne che hanno compagni incapaci di sognare, unicamente dediti a rivendicare
una norma che non c’è, se non come mancanza di fantasia e di amore.
E invece gli uomini, tutti gli esseri umani, troppo spesso hanno dimenticato come si fa a sognare12.
E intendo soprattutto il sogno ad occhi aperti, che è pilotato dalla nostra fantasia, non i sogni
notturni che rispecchiano un inconscio non sempre in sintonia con i nostri pensieri segreti. In certe
culture, in certi momenti storici, si ritiene che essere adulti significhi essere “seri”. Come i dirigenti
d’azienda alle riunioni. Non prendersi in giro, non sorridere, non lasciare posto agli affetti.
Considerare utile solo un’intelligenza razionale che rifiuta emozioni e sentimenti. Specialmente
nelle aziende, spesso è così: ecco ricomparire il dominio della legge sull’uomo, la gerarchia che
invece di esserci d’aiuto ci impedisce di vivere, ci rende incapaci di lavorare insieme per uno scopo
comune senza cercare di sopraffarci l’un l’altro. Una legge che è tanto amata e insieme temuta. Che

12
"Gli uomini che lavorano troppo non hanno tempo per sognare. E solo chi ha tempo per sognare, trova la saggezza"
Proverbio degli indiani Smohalla
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Sesso, amore e gerarchia

ci rinchiude nelle sue categorie e ci giudica continuamente, come se fosse scritta su tavole di pietra,
immutabili e pesanti tanto da schiacciare ogni nostra creatività ed iniziativa.
Virgina Woolf sostiene invece che non si può prescindere dalla vita affettiva, che si prova affetto
anche per il guidatore dell’autobus su cui si sale per caso132.. Lei non ama le misurazioni. Prende in
giro tutti coloro che sostengono con argomenti più o meno scientifici l’inferiorità delle donne, ma
non sarebbe disposta - e con ragione - neppure a rivendicarne la superiorità. Lei che non ha mai
avuto la necessità di lavorare in una azienda o in un’altra organizzazione di tipo gerarchico, può
permettersi di giudicare assolutamente insignificanti tutte le gerarchie di cui è a conoscenza, pure
così care alla società inglese dei primi del novecento: l’ordine di precedenza che le signore devono
seguire quando si va a pranzo, le regole di ammissione ai clubs esclusivi, le onorificenze attribuite
dalle varie associazioni e anche dallo stato. Il problema della responsabilità non la tocca. Anche
Orlando è così ricco (prima) e così ricca (poi) che non ha bisogno di lavorare, e men che meno di
conquistarsi un posto decisionale in una qualsivoglia organizzazione maschile.
Diventato donna, Orlando si rende conto però che essere sola non le si addice: meglio sposarsi.
Già, ma con chi? Marmaduke Bonthrop Shermeldine: già dal nome si capisce che si tratta di un
cavaliere che non c’è. Il suo castello, nelle isole Ebridi, in Scozia, era da tempo in rovina. Soldato e
marinaio valoroso, Marmaduke (più familiarmente Shel, ma solo quando Orlando era di buon
umore) spendeva la vita nella più disperata e splendida delle avventure: doppiare Capo Horn
sfidando la tempesta. “E’ l’unica cosa che resti da fare di questi tempi” diceva succhiando
caramelle di menta.
E si capisce che la vista di un cavaliere, assorto, succhiando caramelle di menta, a gettar fuori
bordo gli oggetti divelti in seguito alla rottura di schianto dell’albero maestro non poteva non
commuovere il così femminile Orlando.
A questo si aggiunse lo stupore di entrambi: che una donna potesse essere altrettanto tollerante e
aperta di un uomo, e che un uomo fosse bizzarro e sottile come una donna.
Al matrimonio, tra uno sbattere innumerevole di porte e un fracasso di pentole di ottone, l’organo
suonò, e si udirono distintamente solo due frasi: “ubbidire”, e, forse, “le fauci della morte”,
pronunciate, nella confusione più totale, da Mr. Dupper, l’officiante del rito.
Questo, almeno, è il punto di vista di Orlando, un punto di vista invero parecchio inquietante. La
coppia esce dalla chiesa in un diluvio di pioggia, mentre Lady Orlando, finalmente con un anello al
dito, aiuta Marmaduke a montare a cavallo. Da questo momento in poi, le parole che i coniugi
tentano di rivolgersi nella tempesta turbinano sempre più in alto e più lontano, per infrangersi
infine sulla terra in una pioggia di frammenti.
Non sembra che quello di Virginia Woolf sia stato un matrimonio di convenienza, ma certo,
basandosi su quel che scrive, tutto sarebbe lì a dimostrarlo. Nella solitudine della sua casa
(Marmaduke è sempre a Capo Horn) Orlando si interrogava su come conciliare se stessa, il suo
comportamento, e lo spirito del tempo. Temeva infatti che se lo spirito avesse esaminato a fondo il
contenuto della sua mente, vi avrebbe scoperto qualcosa di illecito, per cui le avrebbe fatto pagare
una grossa multa.
Cercò di mettere le cose in modo tale da trovarsi in una posizione estremamente favorevole: non
aveva bisogno nè di opporsi al suo tempo, nè di sottomettersi; ne faceva parte, pur rimanendo se
stessa. Rimanere se stessa, però, voleva dire non amare nè uccidere, ma pensare e immaginare
soltanto. Essere dunque un cadavere?
Ah, Vita, Vita, Vita! Ma che cos’è poi la vita? La vita è fatica. E dopo aver interrogato tutti quanti,
senza esser diventata più saggia ma solo più vecchia e fredda, Orlando dice al lettore in attesa che
francamente, ahimè, non lo sappiamo la vita che cos’è.

13
Virginia Woolf, "Indiscretions", articolo comparso su Vogue, Novembre 1924, in "Virginia Woolf on Women and
writing", The Women's Press, 1979
21
Sesso, amore e gerarchia

Con la vita, l’unica cosa che si può realmente fare, è viverla. Virginia - Orlando ci ha provato, e,
come sappiamo dalla storia di poi, vi ha alla fine volontariamente rinunciato. Ma non è stato
perché le sue aspettative erano troppo elevate: e allora, perché?
Il perché non va chiesto; quando una persona non riesce più a vivere, una persona ricca di qualità
come Virginia Woolf, si spera sempre che sia stato colpa della malattia, di un momento difficile. E
ci vuole tanto rispetto. Per la sua fatica, per la sua stanchezza. Per tutto quello che ci ha lasciato.
Un’analisi lucida e presente come quella che fa Virginia partendo dallo studio delle donne scrittrici
non può essere raggiunta se non a prezzo di una grande sofferenza. Uscire da quello che è ed è stato
per tanto tempo un ruolo prefissato e accettato da tutti, porta a dover fare violenza prima di tutto e
sè stesse, poi anche ad altri a cui si vuole bene. Ed è una grande fatica.
Un po’ di anni fa, forse dieci (non avevo più di trentacinque anni) sono stata contattata da una
giovane giornalista della rivista Capital, che voleva intervistare donne ingegneri (o ingegnere?)
avanti negli anni, e attive nel mondo del lavoro. - Io ero giovane,credo, ma siccome sono stata la
prima a ingegneria nucleare, la giornalista aveva avuto il mio nome da Politecnico di Milano.
Era una ragazza carina e simpatica e mi ero molto divertita a farmi intervistare. Ero anche lusingata
all’idea di comparire su una rivista prestigiosa! La giornalista mi aveva prenotato per farmi una
foto, magari in laboratorio, se la mia azienda lo avesse permesso. “Mi avverta prima, che vado dal
parrucchiere” le avevo detto io, consapevole che la pettinatura è spesso il mio punto debole, anche
se non il solo. Ma l’inchiesta non è mai stata completata. Le donne laureate in ingegneria, di
quarant’anni o più, esistevano. Non erano molte; ma quelle di loro che lavoravano ancora erano così
poche da non essere sufficienti per un’inchiesta. Quando anche io ho compiuto i quarant’anni ho
capito il perché: la fatica diventa sempre più grande. Il dover provare agli altri e a se stessa ogni
giorno il proprio valore, il sentirsi giudicata in modo se non ostile almeno diffidente, la mancanza di
fiducia che ci viene mostrata ogni giorno e il confronto continuo con i nostri colleghi e compagni di
scuola che invece sono bravi per definizione, minano lentamente la nostra sicurezza, che pure era
grande. Ci convincono alla fine che siamo veramente in qualche modo diverse, inadeguate, e ci
tolgono la voglia di lottare. Proprio quando i figli cominciano ad essere grandi, l’impegno verso la
famiglia sopportabile, e l’esperienza accumulata ci permetterebbe di dare tanto. Le aziende
dovrebbero sapere tutto quello che perdono se non ci danno una mano a superare questi problemi, e
come sarebbe utile ed importante se si decidessero ad apprezzare il nostro impegno e a stimolarci
per farci dare ancora di più, invece di considerarci un peso e di rallegrarsi se ce ne ritorniamo a
casa. E’ ancora un problema di gerarchia. Nelle aziende, riesce ad imporsi solo chi è aiutato dal
proprio superiore diretto, e troppo pochi capi se la sentono di puntare su di una donna, una donna
che vuole fare un mestiere da uomo.
Anche le donne scrittrici hanno cominciato dai romanzi, anzichè dalla critica letteraria. Non per
niente gli articoli di critica scritti dalla Woolf sulle donne scrittrici sono poco noti14. Non hanno
avuto fortuna come i romanzi, perché erano troppo difficili e dicevano cose troppo dure. Non per
niente, con il suo stile così piacevole e umoristico, Virginia racconta che per poter riuscire a
scrivere ha dovuto uccidere l’angelo del focolare, che era nella sua camera e cercava di impedirle di
lavorare. Non dice semplicemente “mandare via”, ma “uccidere” (kill). Virginia Woolf, che sa
usare la sua lingua con una maestria incredibile, sostiene in uno dei suoi saggi che basta leggere
poche righe di un romanzo per capire se è stato scritto da un uomo o da una donna. Soprattutto, dice
Virginia, e si riferisce alle scrittrici inglesi dell’Ottocento e dei primi del Novecento, quando una
donna scrive tende ad osservare e descrivere le cose minute di tutti i giorni, e a mettere in evidenza
le donne in relazione emotiva (emotionally) l’una con l’altra.
Può darsi che sia anche questo uno stereotipo: non tutte le donne hanno senso pratico o sono
interessate in prevalenza agli aspetti più materiali della vita o capaci di mettere in evidenza gli
aspetti emozionali dei rapporti reciproci. Può darsi che il maggior interesse alla comunicazione
con l’altro sia dovuto, in noi donne, alla relazione di subalternità che rende importante tessere fili
14
"Virginia Woolf on women and writing", a cura di Michèle Barrett, The Women Press, 1979
22
Sesso, amore e gerarchia

in direzione di qualcuno che si percepisce ed è più potente nelle sue relazioni con la realtà, come
può darsi che la maggiore disponibilità all’ascolto sia dovuta all’attenzione verso i neonati i
bambini e i più deboli di cui sono le donne a prendersi cura. In ogni caso è vero che, rispetto agli
uomini il lavoro domestico costringe conunque le donne, anche quando, fanno le “intellettuali” a
restare un po’ più ancorate alla realtà quotidiana. E’ sicuramente un vantaggio che contribuisce
ad evitare astrazioni inutili. Come è anche vero che la cura dei più deboli sviluppa nella donna una
maggiore sensibilità affettiva. Ma in futuro, dice sempre Virginia, e anticipa i nostri tempi, la vita
delle donne si aprirà verso altri orizzonti e diventerà più impersonale, e potrà così nascere (di
nuovo, perché anche Saffo era una donna oltre che e uno dei più grandi poeti che la storia ricordi)
una poesia femminile, che si occuperà, come deve fare la poesia, “del nostro destino e del
significato della vita”.
Mi viene in mente, a questo proposito, il grande successo del romanzo “Va’ dove ti porta il cuore”
di Susanna Tamaro. Che mi sembra un libro femminile, proprio secondo la definizione di Virginia
Woolf. Perché è un libro che descrive una relazione tra donne, e anche una relazione difficile, triste.
Ha avuto tanto successo perché ci riconosciamo in questo tipo di relazioni?
Perché vogliamo mettere in evidenza le differenze di genere, separarci dagli uomini che non ci
danno quello di cui avremmo bisogno? Non sembra questo il problema della Tamaro. Le ragioni
del suo successo sono altre. Dietro l’apparente, estrema semplicità del libro c’è un modo poetico di
raccontare contraddizioni molto complesse. E’ proprio questa schizofrenia a catturare il lettore.
L’io narrante è una donna anziana, molto intelligente e razionale. Nelle condizioni date del suo
tempo, allora le donne della borghesia non lavoravano, ha trovato l’unico piccolo margine di
libertà in un rapporto d’amore adulterino da cui ha avuto una figlia. Eppure rivela, nelle cose che
dice, un forte senso morale. E questa è la prima cosa che sconcerta il lettore: come mai una
persona così sensibile e di così alto sentire era anche, non solo un’adultera ma una madre
menzognera? Il racconto spiega le cose attraverso la poesia del quotidiano, le rende facili,
comprensibili, ovvie, logiche e conclude con un ‘va dove ti porta il cuore’ che è solo una frase,
scelta come titolo a effetto del libro, ma che significa qualcosa di molto più complesso. L’io
narrante non è infatti andato ‘dove la portava il cuore’, ma solo dove ha potuto seguire le ragioni
del cuore nei limiti imposti dall’intelligenza della realtà. Che è qualcosa di molto di più della facile
rima baciata cuore e amore. Come madre, l’io narrante ha verso la figlia, mediocre inetta ed
incapace, una lucidità spietata: quella lucidità che solo le madri sanno avere fino in fondo, e che è
anch’essa un paradossale frutto dell’amore profondo che si nutre verso i figli. Perché questa figlia
è stata molto amata, e lo si capisce dall’attenzione e dalla cura e dal rimpianto nascosti tra le
righe del racconto. Cosa che non le ha impedito di essere com’era: appunto mediocre ed inetta. E
questa è un’altra contraddizione che può intrigare i lettori stile Liala, che hanno un atteggiamento
magico verso la vita e pensano che l’amore può risolvere qualsiasi problema.
Alcuni critici, tutti uomini, hanno liquidato il romanzo con fastidio come una prova di serie B
proprio perché, non capendo le donne, non hanno visto la complessità nascosta dietro l’apparente
semplicità della trama. Perché hanno vissuto con fastidio una protagonista femminile così
antiretorica, lontana dai tranquillizanti stereotipi della letteratura corrente, misurata e tanto poco
onnipotente da impedire per sempre qualsiasi facile strumentalizzazione. Come pure quelle
illusioni infantili sulle donne che gli uomini coltivano con tenacia, perché se li privi della mamma
immaginaria e onnipotente vanno in crisi.
Se si legge bene, la protagonista del romanzo come madre ha tentato di fare ciò che ha potuto.
Come nonna, ha cercato di difendere, per la nipote, ancora troppo giovane per capire, il poco che
le restava e le ha fatto il regalo più grande: la preziosa indicazione di seguire sempre, nei limiti del
possibile, le vie di una ragione illuminata dal sentimento e di una libertà interiore refrattaria ai
condizionamenti. E’ una delle poche figure femminili della letteratura affascinante e completa, vera
anche se perdente nonostante l’indubbia ricchezza interiore. E fastidiosa e sconcertante proprio
per la quantità di contraddizioni sollevate dal suo agire.

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Sesso, amore e gerarchia

Il pubblico, credo soprattutto il pubblico femminile, più evoluto e maturo dei critici letterari, che
nei posti importanti sono quasi tutti uomini, ha capito immediatamente l’assoluta novità della
trama e ha giustamente premiato il libro. Anche se raccontava di un rapporto madre figlia triste,
come ce ne sono tanti, e concluso drammaticamante da una disgrazia.
Come dice Simone Weil, “nella vita intellettuale a sollecitare il pensiero è ciò che presenta
contraddizioni”. In altre parole è il rapporto. “Tutte le volte che una contraddizione si impone
all’intelligenza, questa è costretta a concepire un rapporto che trasformi la contraddizione in
correlazione , e di conseguenza l’anima è trascinata verso l’alto.”15 Perché tutto ciò che è
desiderato (come il tentare di capire di più della vita) appartiene all’energia e l’energia appartiene
allo stesso livello del desiderio, ma non tutte le energie sono desiderabili e non sempre seguire fino
in fondo i desideri è giusto e legittimo.
Può darsi allora che i critici uomini vedano nei molti aspetti sconcertanti del libro della Tamaro
qualcosa di costruito ad arte. Anch’io devo dire che lo vedo così: un’astuta operazione
commerciale. Secondo me, dietro questo libro c’è un messaggio di incapacità di amare, di
disperazione. E non una disperazione forte, ma quella debole e piagnucolosa di chi, pur fingendo
distacco e razionalità, dà sempre la colpa a qualcun altro. I genitori di nonna Olga sono così
allucinanti da apparire irreali, potrebbero esistere solo nei sogni di uno psicanalista perverso. E in
effetti solo da persone così può nascere qualcuno che non sa creare nessun vero legame affettivo,
nemmeno con le persone vicine, figli, nipoti, marito e amante.
D’altra parte, che avrebbe dovuto fare nonna Olga? Lasciare il marito e allevare sua figlia senza
casa nè lavoro? Confessare l’adulterio a un uomo che, non potendo avere figli, aveva tacitamente
accettato la situazione senza fare domande, per metterlo in imbarazzo e aggiungere dolore a
dolore? Accettare che uno psicanalista senza scrupoli, come ce ne sono molti, approfittasse della
condizione di sudditanza psicologica in cui aveva ridotto la figlia per rubarle la casa?
E’ anche vero che nonna Olga con sua figlia aveva un rapporto strano, quasi fosse la forma di un
amore sospeso sul vuoto. Quasi che, non sapendo come rapportarsi a lei, avesse scelto il distacco
emotivo per evitare di soffrire troppo. E’ evidente che non ha saputo aiutarla davvero e che non
analizza a sufficienza, pur facendo uno sforzo grande, questo aspetto della sua vita.
L’unico accenno all’educazione della figlia del resto lo troviamo nel punto del romanzo dove Olga
ricorda che, quando la figlia aveva quattro anni, dopo aver fortunosamente ricevuto notizia della
morte del suo amante, per alcuni mesi fu così sconvolta e disorientata da non essere più capace di
dedicarsi a lei. Ma non è un elemento sufficiente per attribuirle un giudizio di madre cattiva, infatti
il libro non lo fa. Tutti quelli che subiscono dei lutti vanno incontro a uno stato di deprivazione che
li rende inetti per poco o molto tempo.
Nel libro della Tamaro il sesso sembra a portata di tutte; anche nonna Olga, pur essendo vissuta in
un’epoca molto meno liberale della nostra, ha fatto le sue scelte almeno fino a un certo punto.
Invece ecco come Virginia Woolf fa riferimento ad un altro problema che si presenta alle donne che
vogliono scrivere:
<.. voglio che vi immaginiate una ragazza che siede con una penna in mano, che non intinge nel
calamaio per minuti, forse anche per ore. L’immagine che si presenta alla mia mente quando penso
a questa ragazza è l’immagine di un pescatore che sta fermo, immerso nei suoi sogni, al bordo di un
lago profondo, con una canna sospesa sull’acqua. La ragazza lasciava andare la sua immaginazione
senza freni intorno ad ogni roccia e ad ogni fessura del mondo che giace sommerso nelle profondità
del nostro inconscio. E ora arriva l’esperienza, l’esperienza che credo sia molto più comune per le
donne scrittrici che per gli uomini. La lenza sfugge tra le dita della ragazza. La sua immaginazione
è corsa via. Ha visto le pozze, le profondità, i posti oscuri dove i pesci più grandi si nascondono. E
allora c’è stato un urto. C’è stata un’esplosione. C’era schiuma e confusione. L’immaginazione si
era scontrata contro qualcolsa di duro. La ragazza è stata risvegliata dal suo sogno. Era in una
situazione di acuta difficoltà. Per parlare senza metafore, ha pensato a qualcosa, qualcosa che
15
Simone Weil
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Sesso, amore e gerarchia

riguarda il corpo, riguarda le passioni che come donna non poteva nominare. Gli uomini, diceva la
sua ragione, ne sarebbero scioccati. La consapevolezza di quello che gli uomini direbbero di una
donna che dice la verità sulle sue passioni l’ha risvegliata dallo stato di incoscienza dell’artista>16.
Spesso le donne che hanno creatività e passione hanno anche una vita un po’ al di fuori della morale
corrente. Hanno il coraggio di fare scelte trasgressive e di sopportarne fino in fondo le conseguenze.
Sono le più forti e sanno andare avanti da sole, contro il parere di tutto il mondo, senza curarsi della
gerarchia.
Il mondo inglese e domestico di Virginia, il mondo delle figlie degli uomini colti e ricchi, può fare a
meno della gerarchia. Per questo lei ne parla così poco. E noi? Qualcuno sostiene che un
cambiamento di mentalità nelle aziende potrebbe favorire le donne: strutture più piatte, minore
importanza alle posizioni gerarchiche, decentramento delle responsabilità... probabilmente il nodo
sta tutto qui, nelle responsabilità. Una gerarchia fine a sè stessa, come quelle che spesso si vedono
nell’esercito, e non solo, non dovrebbe essere in grado di sostenersi: da sola, la gerarchia crea
posizioni arroccate nella loro arroganza, e provoca nelle persone reazioni poco razionali dovute alla
necessità di difendere dei privilegi, e alla paura di perderli. Per essere responsabili, occorre invece
essere adulti fino in fondo, essere coerenti e umili pur nella consapevolezza delle proprie capacità,
prendere decisioni e affrontarne tutte le conseguenze.
Molte donne lo fanno e lo hanno sempre fatto nel privato; anche se spesso hanno subito le decisioni
di altri, hanno sempre portato fino in fondo il peso di scelte anche più grandi di loro. Basti pensare
al fardello di responsabilità che comporta la nascita di un figlio (per fare un uomo ci voglion
vent’anni, per fare un bimbo un’ora d’amore..17). Per questo non dovrebbero tirarsi indietro, come
invece spesso fanno, davanti alle responsabilità, infinitamente meno gravose, di una scelta fatta per
motivi tecnici, in un ambito lavorativo. Se lo fanno, è perché le posizioni gerarchiche sono ancora
troppo adeguate alla mentalità “maschile” e alle categorie “maschili” di misura: proprio quelle di
cui Virginia si prende gioco così acutamente!
Immaginiamo invece che inserire nel mondo aziendale, maschile, la capacità di assumersi
responsabilità (quelle vere) che hanno da sempre le donne potrebbe essere sì il primo passo per una
gerarchia diversa.
In altre parole, non occorre modificare la gerarchia, magari in modo fittizio, perché diventi più
consona alle donne; e sarebbe perdente, anche se oggi avviene spesso, modificare le donne, o
meglio sceglere solo quelle che sanno adattare i loro comportamenti alla gerarchia “maschile”
esistente. Ma è importante, soprattutto in questi tempi di transizione e di difficoltà, favorire
l’inserimento delle donne all’interno delle strutture esistenti, per avere il loro contributo e per
cambiare, pian piano, un sistema ormai invecchiato. Il contributo delle donne, come del resto quello
degli uomini, se è basato su lucidità, serietà, coerenza può soltanto essere utile per migliorare la vita
di tutti.
Perché però l’inserimento delle donne nella gerarchia abbia un effetto positivo, è necessaria quella
che per ora è spesso una chimera: una loro reale autonomia di pensiero ed esigenze, radicata
nell’io capitano, la coscienza. Che, decantata dalle idee personali, diventa senso morale, capacità
di vedere l’interesse collettivo anche a discapito del proprio particolare. Un’impresa quasi
disperata, una dote di pochissimi. Potrebbe essere che le donne abbiano questa dote più degli
uomini, o viceversa? Noi non lo crediamo. Crediamo che ci siano individui, maschi o femmine non
importa, che sanno assumersi precise responsabilità perché giustamente maturi ed equilibrati.
Perché sanno, direbbe la psicanalisi, adattarsi al principio di realtà, che è maschio e femmina, senza
rifugiarsi nei sogni che vagheggiano il ritorno al grembo materno: sogni che spiegano come mai gli
esseri umani cedono così spesso alle lusinghe di chi prende decisioni al loro posto e li libera
dall’angoscia delle responsabilità: come i regimi totalitari18

16
Virginia Woolf, "Women and leisure", 16 November 1929, Nation and Athenaeum
17
Se non sbaglio, è un verso di una canzone dei Nomadi
18
Janine Chasseguet-Smirgel "I due alberi del giardino", Feltrinelli 1991
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Sesso, amore e gerarchia

E nel piccolo tran-tran quotidiano, ecco che pur di restare bambini ci adattiamo ad avere un “capo”
che decide per noi. Il lavoro, non dimentichiamolo, ci serve a portare a casa uno stipendio,
garantisce la sopravvivenza nostra e dei nostri cari, ma non è detto che sia la passione della nostra
vita. Anzi, spesso lo manteniamo separato così rigorosamente che ci permettiamo, in ufficio,
comportamenti del tutto diversi da quelli che teniamo in famiglia. E allora, la gerarchia può
prendere facilmente il sopravvento sulla libertà.
Della gerarchia, Virginia Woolf salva soltanto il genio; come essere senza retorica, e senza vera
identità (il genio collettivo). Ecco come infatti lo descrive: “Non si deve credere che il genio sia
costantemente illuminato; altrimenti vedremmo tutto chiaro e intanto correremmo il rischio di venir
bruciati vivi. Esso somiglia piuttosto ad un faro, che getta un raggio di luce e più nulla per un certo
tempo, e magari ne lancia sei o sette in rapida successione per poi immergersi nell’ombra per un
anno e per sempre”.
Alla fine, dichiara persino di preferire spesso, alla compagnia degli uomini di genio, quella delle
prostitute che Orlando frequenta la notte, quando, pur donna, si traveste da uomo per tendere
tranelli alle ombre e per non perdere la familiarità con quell’atteggiamento da uomo che le rimane
dalla vita precedente e che tanto le serve per essere completamente se stessa.
Un genio salvato, dunque, in virtù dei suoi limiti. Un genio condannato quando sembra svettare
troppo lontano dalla vita materiale degli altri, o sembra essere troppo concentrato su se stesso,
come un ombelico del sole.
La poesia, la letteratura, l’arte, come anche il desiderio di armare le vele verso l’ignoto, sono un
patrimonio di tutti i popoli. Degli Italiani, per esempio, si dice che sono un popolo di navigatori e
di poeti (di santi un po’ meno): i santi, proprio come gli scienziati di altissimo livello, sono la
famosa eccezione che conferma la regola, qualcosa di indispensabile, ma di non omologabile.
Qualcosa che, se non ci fosse, bisognerebbe inventarla. Ma ci ha pensato prima la natura, o la
lotteria genetica che li produce.
Da una parte, e dall’altra, danno un profondo contributo al miglioramento della qualità della vita
(nel caso degli scienziati) o delle relazioni umane (nel caso dei santi). Personalmente preferisco gli
scienziati, perché i loro risultati, legati alla parzialità e alla ricerca, sono più stabili nel tempo.
Mentre migliorare le relazioni umane è un’impresa molto più difficile.
Prima o poi capiremo che il cervello non è un’entità metafisica, o magica. E’ un prodotto della
natura e della sua evoluzione casuale. Che miliardi di cellule grigie e bianche funzionano secondo
leggi precise, come una macchina, la più stupefacente del creato, dato che contiene il pensiero. Che
queste cellule, organizzate in reti, sono o possono essere anche fortemente specializzate, che
possono ledersi, indifferentemente, in parti che comprendono la corteccia cerebrale, e dunque
anche la coscienza, o in parti più antiche, legate agli istinti. Quando succede, si determina uno
scompenso contro cui i singoli, o le singole vittime, sono del tutto impotenti, o cercano di porvi
rimedio con soluzioni e recuperi parziali.
Tutto questo viene prima delle differenze di genere. Le malattie cerebrali sono abbastanza
egualitarie e colpiscono entrambi i sessi (gli uomini un po’ di più, per via del codice genetico un
po’ più limitato). Colpiscono anche i bambini, ed è la cosa più terribile di tutte. Il nodo vero delle
politiche nazionali è ormai diventato la sanità. Perché la medicina riesce a curare, e dunque a
tenere in vita più a lungo le persone malate. Ma non riesce ancora a guarirle. Tutto ciò, unito
all’aumento del numero degli anziani, alla crescita delle spese per la ricerca, alla nascita di nuove
malattie dovute all’alterazione delle difese immunitarie e al miglioramento delle strategie di
riproduzione dei virus, pone e porrà problemi sempre più impellenti di assistenza e di ricerca.
Il contributo femminile in queste aree potrebbe essere particolarmente importante. Sappiamo che
Virginia Woolf si suicidò quando si accorse, o le sembrò di accorgersi che le sue forze mentali così
profonde e creative si erano esaurite e non riuscivano più a fare argine alla malattia. E ora
sappiamo anche che la depressione maniacale ha un andamento ciclico, progressivo nel tempo, e
che, nel suo svolgersi, danneggia ulteriormente le cellule nervose.

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Sesso, amore e gerarchia

Non è una buona ragione per non tentare di impedire un suicidio, ma per capirlo sì. Che cosa si
“rompe” nel cervello quando non siamo più capaci di percepire il tempo? O quando il tempo per
noi non ha più significato?

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Sesso, amore e gerarchia

Cap.3. LA VOLPE E L’AVIATORE.


La relazione interpersonale. Antoine De Saint Exupéry
Un bambino
seduto alla scrivania
coi suoi occhi
che brillano di fantasia,
cominciò a pensare,
se nel mondo l’amore
scompare,
che ne sarà di noi
Alice Sturiale

Il comportamento e il carattere delle persone dipendono non soltanto dal patrimonio genetico e
dall’ambiente in cui si vive, ma anche e soprattutto dall’interazione con gli altri. I gemelli
monoovulari ad esempio, dice il professore francese René Zazzo19 - e io ho potuto vederlo nelle mie
figlie -, pur essendo identici geneticamente e vivendo nello stesso ambiente, sviluppano
comportamenti molto diversi perché si “dividono i compiti all’interno della coppia. I gemelli sono
coppie “eccessive” ma proprio per queste loro caratteristiche così speciali vengono usati
moltissimo dagli studiosi per capire alcuni aspetti particolari del comportamento umano. I rapporti
di coppia, intesi come i rapporti tra due persone che vivono a stretto contatto, sono quelli che
modificano di più il nostro comportamento e creano le differenze più grandi tra le persone. Si
comincia ad avere un rapporto di coppia con la madre, poi con i componenti della famiglia, poi via
via con il gruppo degli amici e dei colleghi a scuola e sul lavoro.
Il rapporto e il confronto con gli altri ci spingono ad impegnarci, a cercare di vincere: come mia
figlia Emma quando aveva 14 mesi. La neurologa che seguiva le gemelle mi aveva detto, vedendo
camminare Paola:”Guardi che Emma (nata più piccola e immatura) non è ancora in grado di
camminare come sua sorella. Non si preoccupi se non lo farà”. Due giorno dopo, Emma
camminava, da sola. Si vedeva che per lei era uno sforzo, che il movimento era strano. Ma lei
voleva fare come sua sorella. E ci è riuscita. Per imitazione, e per amore, direbbe un poeta.
Antoine de Saint-Exupéry è stato un poeta e un aviatore. Un uomo molto maschile, “macho” si
direbbe oggi, e con ben poca considerazione per le donne. Basta leggere qualche sua opera20 per
accorgersi che le donne per lui sono solo contenitori per i figli, oppure (quando va bene) figure
dignitose e discrete che attendono pazienti il ritorno dell’eroe. Eppure la relazione interpersonale
descritta nel “Piccolo Principe” utilizzando la volpe è un piccolo capolavoro. Una descrizione
dell’innamoramento che non tiene in nessun conto il sesso e non vede l’altro in nessun momento
come oggetto da utilizzare.
Le ricerche sociologiche, gli studi scientifici sulle differenze di genere concludono che la donna
vede l’amore come sentimento, dedizione, scambio emotivo. L’uomo invece - dicono - ha nella
testa solo “quella cosa lì” e vuole usare la sua partner, cambiandola quando è stufo, magari con una
più giovane.
Sarà proprio vero? E chi è allora Antoine di Saint-Exupéry? E’ diverso dagli altri uomini? Cosa
rappresentano il piccolo principe e la volpe? Forse è importante far presente che volpe, in francese,
è una parola di genere maschile. Forse il nostro pilota-guerriero ci sta descrivendo un mondo ideale
di amicizie solo maschili, da cui le donne sono escluse. Molti uomini affermano che l’amicizia tra
di loro è più importante del rapporto con le donne, trascurano la moglie o la compagna per
frequentare la banda degli amici. Ma la banda degli amici ha spesso una connotazione
adolescenziale (ritorniamo a quelli che fanno pipì insieme, o anche soltanto fanno riunioni in
19
Renè Zazzo, "Il paradosso dei gemelli"
20
Vedi ad esempio: Antoine di Saint Exupéry, "Citadelle", Editions Gallimard, 1948.
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Sesso, amore e gerarchia

azienda o al bar e dicono parolacce e battute a doppio senso). Oppure può avere aspetti omosessuali,
più o meno consci: come per gli antichi greci, che consideravano con molto più rispetto l’amore tra
uomini di quello coniugale.
Eppure secondo me non è così semplice: avete provato ad innamorarvi? Sono sicura che, uomini o
donne, tutti abbiamo qualche volta provato ad accorgerci di mille particolari di cui prima non
sapevamo l’esistenza. Non ci importava nulla del colore del grano, ma adesso che abbiamo
conosciuto il piccolo principe, i campi di grano sono una gioia perché ci ricordano il colore dei suoi
capelli. E non sempre questi sentimenti sono legati solo ad una attrazione di tipo sessuale: ci
innamoriamo in questo modo dei nostri maestri, delle persone che stimiamo, di tutti coloro che
hanno un’influenza sulla nostra vita. A volte succede subito, al primo incontro. A volte occorrono
tempi lunghi e dei riti. Qualcuno che ci era sembrato odioso, dopo un po’ di lavoro insieme ci
conquista.
E ancora, quando siamo innamorati ci capita spesso di piangere: magari senza farci vedere da
nessuno, perché ci vergogniamo, e abbiamo il pudore dei sentimenti. Nel nostro mondo è forse
troppo importante essere sempre felici, o meglio sempre di buon umore; questo ci impedisce di
innamorarci, di lasciarci andare. Ci costringe ad ergere barriere difensive nei confronti degli altri, e
a trattare male quelli che non sanno o non vogliono a loro volta nascondersi. Ci sono ricette di tanti
tipi per non farci coinvolgere emotivamente: riconoscere le differenze, farsi rispettare, mantenere la
propria indipendenza, non voler suscitare pettegolezzi o gelosie... Costruire piano piano tra noi e gli
altri quella barriera di indifferenza e di cortesia che ci permette di non lasciarci coinvolgere. Perché
non vogliamo soffrire, perché abbiamo paura. Invece, tutte le passioni umane, siano per un partner,
per dei figli, per un lavoro, per l’arte o anche per un oggetto, una pianta (la rosa del piccolo
principe) se sono vere ci fanno soffrire. Ma anche ci migliorano. La vita è spesso una lotta contro
queste sofferenze, ma non conviene eliminarle sempre, perché, quando non ci sopraffanno, sono
utili, ci fanno diventare più maturi, ci portano ad una maggiore consapevolezza di noi e degli altri e
ci rendono responsabili.
Forse anche per questo la felicità non ci sembra mai così grande come lo è il dolore, mentre la
stessa neurobiologia ci dice che il processo di apprendimento e quello di reazione al dolore sono
simili per molti aspetti. La responsabilità si impara crescendo. E’ saper creare dei legami. Qualcosa
che ha a che fare con l’addomesticamento, e ancora di più con l’amicizia. O con una forma di amore
che non chiede promesse agli sguardi, non vuole ex-voto appesi sugli altari, testimoni di una
speranza realizzata per finta. Che non regala nessun filo di Arianna, ma solo la sensibilità di mettere
in comune anche le differenze. Che vuole essere capacità di sognare, assieme, e di fare cose capaci
di spostare in avanti le lancette del tempo. Forse gli uomini hanno una capacità di sognare maggiore
delle donne. Costruiscono interi mondi, li conquistano, li distruggono, si ingarbugliano nelle loro
trame e ne restano prigionieri per aver preteso troppo, da se stessi e dagli altri.
Per mettere in evidenza le differenze di genere, uno degli esempi più spesso citati è l’uso del
linguaggio (ma il linguaggio si impara!). Luce Irigaray, per esempio, sostiene che le persone di
sesso diverso utilizzano diversamente le parole, ad esempio i pronomi o i verbi. Sono i risultati di
una ricerca che non voglio discutere qui, ma che avrebbe dimostrato l’interesse delle donne per la
comunicazione con l’altro, mentre fa vedere che i maschi di solito usano le parole in modo
autoritario e si preoccupano soprattutto di testimoniare il possesso delle cose materiali21.
Le ricerche di Luce Irigaray sull’uso del linguaggio dicono anche che gli uomini non comunicano
molto, nè tra loro nè con le donne. La comunicazione è femminile per eccellenza. Però io non ci
credo molto. Mi domando e vi domando: avete mai letto una poesia, uno scritto di un poeta?
Queste persone comunicano in modo meraviglioso. Riescono a usare le parole con una maestria e
una magia che non hanno niente a che vedere, ad esempio, con questo mio povero tentativo di
mettere sulla carta quello che penso. Sono capaci di far capire il loro stato d’animo con due righe
di puro estratto del loro sentimento. E almeno fino al secolo scorso erano quasi esclusivamente
21
Luce Irigaray, "Amo a te", Bollati Boringhieri, 1993
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uomini. Anche se al giorno d’oggi ci sono tante donne scrittrici, gli uomini continuano a essere
bravissimi in questa arte, spesso indipendentemente da quello che è la loro grandezza morale, la
loro etica, le loro idee politiche. L’incapacità di comunicare tra i due sessi, forse anche tra esseri
umani in genere, è probabilmente in molti casi reale, visto che nei rapporti tra uomini e donne, tra
genitori e figli, è così facile riuscire a farsi del male. Però secondo me non è indispensabile e non
deve succedere a tutti. E nemmeno è colpa di un solo sesso: occorre invece ricordare che ognuno di
noi, maschio o femmina, è prima di tutto un individuo, con una storia e una sensibilità tutte sue.
Invece, il mondo ci spinge ad uniformarci. Chi esce dagli stereotipi è costretto a pagare, e
qualcuno direbbe: una donna più di un uomo, ma forse solo perché gli stereotipi femminili sono più
limitanti, più palesi. Quelli maschili però sono più subdoli, condizionano senza farsi notare. Anche
perché in una società maschile, lo stereotipo maschile è vincente per definizione, e nessuno
ricaverà un vantaggio dal contrastarlo. Ma non è detto che ogni maschio si possa identificare con
certi stereotipi, che andare contro corrente non sia difficile anche per alcuni di loro, come lo è per
le donne. Soltanto, per loro di solito il successo viene se si uniformano. Noi, invece, anche se ci
uniformiamo, abbiamo modelli perdenti e siamo sempre come loro.
Del resto, se gli uomini non sapessero comunicare come potremmo spiegarci il fatto che
l’informazione nel suo complesso è prevalentemente maschile?
Tanto che l’immagine femminile trasmessa dai media ci ingabbia costantemente in ruoli fissi, e
quasi sempre negativi: la divoratrice di uomini, l’attricetta in cerca d’autore, la mater dolorosa, la
suora, la prostituta, l’amante o favorita, la brava moglie (quale?), la rovina famiglie e carriere, la
psicolabile, la bambola, la svampita, la donna di ghiaccio (per quelle in carriera), la fanciulla in
fiore e la vamp sul viale del tramonto, la donna fatale, per fortuna in ribasso sul mercato dei media
per il troppo palese ridicolo della questione, tutto, fuorchè le donne normali, che evidentemente non
esistono, in un gioco continuo di specchi il cui obiettivo finale è cercare definizioni per l’indefinito,
rafforzare il controllo e indurre soggezione e senso di colpa. Per evitare quel che si teme di più: un
confronto reale che rivelerebbe le molte, troppe code di paglia di chi tiene le fila dell’informazione.
L’uso strumentale del potere, la manipolazione delle informazioni quando è eccessiva si ritorce però
come un boomerang contro chi li ha prodotti.
Non riusciremo, uomini e donne, a fondare nessuna nuova realtà se non sapremo rompere il gioco di
specchi in cui siamo imprigionati. E per farlo le donne per prime si stanno sforzando di imparare a
non essere lo specchio dell’uomo: soprattutto quando si usano le parole, un’arma tra le più
manipolabili. Perché, a dispetto delle molte intelligenti teorizzazioni sulla diversità, siamo quasi
sempre il loro specchio. Anche quando parliamo di ‘liberazione’ contrapponendo il concetto alla
‘banale’ emancipazione delle nonne22. In realtà nessuno può essere libero perché nessuno sfugge ai
condizionamenti della vita. E dire che siamo radicalmente altro dall’uomo è solo un alibi, un voler
stare appunto in un altrove che non c’è. Che possiamo creare solo con la fantasia. Anche
contrapporsi frontalmente agli uomini può voler dire incorrere nella stessa deformazione
manipolatoria della realtà in cui loro sono così abili.
I poeti, per fortuna, sono fuori dalle statistiche e da tutti gli stereotipi. Per questo a volte sono
rifiutati e vivono una grande angoscia, al limite del suicidio. A volte però raggiungono una
meravigliosa serenità ed un enorme equilibrio. Naturalmente, vale per uomini e donne. Mi
domando se, magari con un po’ di presunzione, si possono applicare queste considerazioni anche
ad altri tipi di “persone che escono dallo stereotipo”: per esempio, le donne che si avventurano nel
mondo maschile della gerarchia.
“Troppo donna per essere un buon ingegnere, e troppo ingegnere per essere una buona donna”.
Un collega ingegnere senza apostrofo ha dato tempo fa di me questa definizione, che - al di là di
una sua piacevolezza a livello di battuta di spirito - suggerisce ancora una volta come la cultura
imperante, almeno quella del mondo del lavoro, segnala continuamente un predominio del ruolo
sulla persona. Il fatto che esiste una categoria predeterminata - l’ingegnere - a cui io, essere
22
Alessandra Bocchetti, "Cosa vuole una donna", La Tartaruga, 1995.
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umano, devo uniformarmi, e non una persona - io - che tra le altre caratteristiche fisiche e
caratteriali ha quella di avere seguito un certo corso di studi. Questa mentalità è imperante oggi
nel mondo del lavoro organizzato, sicuramente anche per questo oggi c’è una crisi di creatività, è
difficile che tra i dirigenti di azienda si trovino dei poeti. Durante il Rinascimento invece i tecnici e
gli artisti erano due categorie che si sfumavano una nell’altra - l’esempio più ovvio e più eclatante
è Leonardo da Vinci. Allora sì che la creatività poteva esplodere senza remore! Oggi manca
proprio la sensazione che ci sia ancora qualcosa da scoprire, e il crollo delle falsità su cui si
basava il sistema della lottizzazione ci lascia indifesi davanti alla necessità di cambiare, pieni di
paura dell’ignoto, incapaci di fare scelte e di assumercene la responsabilità.
La responsabilità è molto importante nelle relazioni umane. Anche quelle di lavoro. Solo se siamo
forti e maturi possiamo permetterci di rischiare nel rapporto con gli altri, di scoprirci, di creare dei
legami, di insegnare anche agli altri questa disponibilità, di sbagliare e ammetterlo senza sentirci
perduti.
Invece, il potere ha il suo prezzo. Ci costringe a non innamorarci, a scegliere tra gli affetti e la
posizione gerarchica. Un vero capo non si commuove se fa soffrire qualcuno, non ha sentimenti
personali o affetto verso i suoi collaboratori. Addirittura, chi ha delle debolezze sentimentali e
affettive (ad esempio, ma non solo, le donne!) non è adatto a ricoprire ruoli in vista nel sistema. Si
può magari avere una relazione con la segretaria, ma solo per portarsela a letto, vantarsene e
sentirsi forte ed ammirato. Sapendo d’altra parte che è un passo pericoloso e può crearci dei
problemi.
Come succede in politica, come successe a Citizen Kane, un esempio di genio moderno portato
sullo schermo da Orson Welles, l’autore di beffe indimenticabili e di indimenticabili films. E’ la
storia, un po’ vera, un po’ romanzata, di un grande editore di giornali, William Hearst, e di un
grande americano. Geniale, generoso, onesto e democratico nella vita pubblica, dittatoriale e tradito
dai disonesti e dalle mogli nella vita privata, il cittadino Kane non potè diventare presidente degli
Stati Uniti perché soggetto ad un sordido ricatto: nel culmine della campagna elettorale,
l’avversario, un imbroglione disonesto ma di apparente irreprensibilità domestica lo costrinse a
desistere minacciando di rivelare una sua relazione segreta.
In verità, la relazione non esisteva, o era appena agli inizi; egli si limitava a proteggere una giovane
donna sola, da cui era attratto, ma tanto bastò a rischiare di farlo finire su di un rogo simbolico. La
moglie - informata dall’avversario - chiese la separazione (allora il divorzio non esisteva). Lui
accettò perché si sentì tradito. Andò a vivere con la giovane, nel frattempo divenuta sua amante.
Costrinse la seconda compagna a fare la cantante lirica. Per risarcirsi della perdita (perché per colpa
di lei non era riuscito a diventare presidente) volle farne una grande cantante. Ma tale lei non era e
costretta in un ruolo non suo, umiliata da tutti, esasperata, dopo aver tentato il suicidio, lo piantò.
Dal castello dove abitavano insieme non portò via nulla, se non lo stretto necessario. Visse da
spostata per il resto dei suoi giorni.
Anche lui non si risposò. Morì solo, alcuni anni dopo, vagheggiando la piccola Rosebud, lo slittino
di legno della sua infanzia, doloroso segnale della definitiva separazione dalla madre. E il film parte
appunto da un cronista, che si mette a fare l’investigatore sulle tracce della misteriosa parola:
Rosebud, per finire sullo slittino che brucia, nel fuoco dove erano stati gettati gli oggetti inutili e
non vendibili all’asta, dell’immenso castello di questo moderno cavaliere. Anche in questo caso, i
simboli dimostrano ancora una volta che per gli esseri umani è spesso difficile e problematico
riuscire a crescere, staccarsi dalla madre, liberarsi dalla dipendenza da questa figura onnipotente
che può essere allo stesso tempo buona e cattiva. Forse - anche se non esistono regole fisse - per le
donne il passaggio all’età adulta avviene comunque quando diventiamo madri a nostra volta, come
per un rito di iniziazione; per gli uomini, o in generale per chi vive nel mondo del lavoro, è più
probabile che la crescita - ma sarà vera crescita? - passi attraverso una qualche conquista di
potere.

31
Sesso, amore e gerarchia

Il caso di Citizen Kane è forse il più noto, certo il più affascinante e conosciuto in cui l’onestà e la
generosità pubbliche, la lungimiranza dei progetti e delle volontà sono stati fermati da incidenti
privati, dovuti ad una vita che correva troppo veloce per stare nei cardini tradizionali. Il caso più
semplice, ma inverso, è quello di Totò Riina. Un assassino mafioso tra i peggiori nella vita
pubblica, vera iattura per qualsiasi possibile sviluppo e progresso economico della società, ma
irreprensibile ed anche amorevole padre di famiglia.
Gli opposti possono insegnare solo una cosa: indagare sulla vita privata di una persona a fini
“politici” può essere inevitabile. Ma è mostruoso se viene usato per fini di lotta politica: ed è inutile
per capire il valore politico di un leader. Non c’è alcuna relazione tra il numero delle mogli e le
capacità di governo. Si può essere geniali e anche onesti e disinteressati nella vita pubblica e
incapaci di avere una vita privata serena; si può essere dei banditi pronti a tutto per i pulcini del
proprio focolare o inetti per la vita pubblica e dei mediocri ma irreprensibili padri in privato.
Lo stesso si applica alla vita privata e a quella all’interno del posto di lavoro. Ci sono tantissimi
Mister Hyde, tenerissimi padri di famiglia, che schiavizzano le segretarie e terrorizzano i
dipendenti umiliandoli con mezzucci degni della tradizione dell’esercito, magari nazista. E forse
non se ne rendono del tutto conto, si giustificano pensando: “In fondo questo non è altro che il mio
lavoro, devo svolgerlo bene. Non è la mia vera vita”. Come Eichmann, ufficiale delle SS, che
svolgeva il suo compito di persecutore degli ebrei come un impiegato modello.
Quando si tratta di dare il proprio voto, il cittadino dovrebbe poter scegliere senza tener conto di
variabili prive di importanza come quelle che riguardano la vita privata, usate purtroppo solo per
inquinare il gioco, non per dare, come sarebbe più accettabile, elementi di maggiore conoscenza. I
giornalisti, proprio loro, in genere si avventano sulla vita privata degli individui come una muta di
cani del villaggio di Pus. Alla fine il malcapitato oggetto delle loro attenzioni viene sbranato. Se è
una donna, sbranato due volte. Basta pensare al caso di Diana d’Inghilterra. Esempio tipico del fatto
che più si parla di una persona più si suscita interesse attorno a lei. Un interesse “drogato”
indipendente dalle cose che ha da dire.
Diana si è sposata giovane (e non è una colpa), credeva nelle favole (come la maggior parte di
coloro che han seguito il suo matrimonio pensando a chi sa che, solo perché era blasonato), non ha
saputo conciliare i suoi interessi di donna giovane ed ingenua con quelli dinastici, ha amato in modo
infantile ed egoista, è stata poi venduta per un po’ di comodi milioni da amanti incapaci di tacere.
Ha segnalato però anche, con un comportamento spontaneo e sincero l’incapacità delle monarchia
inglese di saper andare al passo coi tempi.
E anche questa non è una colpa. Se non avesse i figli, che le danno potere, ma soprattutto anche la
continuità dell’amore, sarebbe probabilmente ora una donna distrutta. Dai suoi errori e da quelli
degli altri, ma più ancora dall’amplificazione interessata che ne è stata fatta. E neppure si può
dimenticare che la monarchia inglese ha avuto re come Enrico VIII, 23un uomo che non esitava a
tagliare la testa ai consiglieri e alle mogli quando le riteneva, a torto o a ragione, infedeli alle sue
prerogative e soprattutto, quando doveva dare in pasto al pubblico un capro espiatorio per i suoi
errori24. Un re, dunque, capriccioso e assassino, che per l’Inghilterra, di buono, ha fatto una cosa
sola: la figlia Elisabetta prima.
E’ cambiata davvero l’Inghilterra? Sì, se Diana può ora andare in giro per il mondo come
ambasciatrice, sia pure informale, senza che questo crei scandalo. E’ cambiata la monarchia
inglese? Non pare, invece. A creare scandalo è l’enorme ricchezza, ormai non più giustificata dalla
storia. Quanto sembrano migliori ai nostri occhi, ora, le fredde monarchie del Nord Europa,
governate da re e da regine che non si vergognano di andare in bicicletta a fare la spesa. Ma che si
sanno assumere fino in fondo le loro responsabilità, per il bene della loro gente. Come il re di
Danimarca che, durante l’occupazione nazista, pur sapendo di non poter far fronte con le armi ad

23
Margaret George. “ Il re e il suo giullare.” Tea edizioni,1995
24
Enrico VIII...
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Sesso, amore e gerarchia

un avversario troppo più potente di lui e del suo piccolo popolo, rifiutò di consegnare i suoi sudditi
ebrei e di promulgare leggi razziali.
Ancora una volta, è la sostanza che conta, nel mondo reale. Mentre in molti ambienti di lavoro
siamo fuori dal mondo reale. Penso soprattutto alle grosse aziende italiane più o meno statali, dove
nessuno ha mai dovuto veramente, negli ultimi dieci o quindici anni, guadagnarsi il pane, mostrare
ciò che valeva. Per vivere tranquilli e fare carriera occorreva solo adattarsi all’ambiente, seguire
gli ingranaggi di sempre, le leggi non scritte della lealtà al proprio superiore. A queste persone
occorre far meditare una frase di Bernard Shaw: “L’uomo ragionevole si adatta al mondo; l’uomo
irragionevole persiste nell’adattare il mondo a sè. Perciò, tutto il progresso dipende dall’uomo
irragionevole”.
Sebbene come battuta brillante non sia inattaccabile, è anche vero che non è molto diffusa
l’abitudine di usare, al posto della ragione, l’intelletto: cioè una facoltà più completa che tiene
conto anche del sentimento, delle voci dell’anima, delle relazioni interpersonali, della vicinanza.
Della possibilità di addomesticare e di essere addomesticati, di tutto quell’armamentario
dell’emotività che nella nostra civiltà siamo addestrati a nascondere o a disprezzare (cose da
donnicciole!), e non a padroneggiare e apprezzare fino in fondo.
Di solito, percepiamo l’emozione come una facoltà mentale eccessiva, che può portarci fuori pista
rispetto al pensiero razionale, mentre invece emozione e razionalità sono importanti allo stesso
modo, e la menomazione di uno dei due poli vanifica spesso anche il valore dell’altro, come
dimostrano recenti ricerche scientifiche, dalle quali si vede che una riduzione dell’emozione può
costituire una fonte egualmente significativa di comportamento irrazionale25.
Sulle relazioni interpersonali e l’innamoramento ci sarebbe ancora moltissimo da ricordare. Ad
esempio una favola classica: la favola di Amore (Eros) e Psiche, raccontata da Apuleio nelle
“Metamorfosi”. Una giovane donna, sposa inconsapevole di Amore, infrange il divieto di guardarlo,
mentre giace addormentato vicino a lei. La sua curiosità sarà punita con dure prove, prima tra tutte
la perdita dell’oggetto amato, ma infine, perdonata dagli Dei, sarà accolta nel loro cielo e ritroverà il
suo Dio.
Come tutti i miti, la favola di Amore e Psiche ha un significato radicato nella psicologia umana26.
Significa, per esempio, che per una sessualità completa e adulta l’erotismo è un’espressione di
bellezza e la manifestazione di una completa sintonia del corpo con i sentimenti e con l’anima (Eros
e Psiche sono marito e moglie). A volte noi non siamo maturi abbastanza per accettare una visione
di questo tipo, anche perché siamo alle prese con la sensibilità nostra e dei nostri partner e con le
convenzioni del sociale. E allora possiamo rifugiarci nella tenerezza, che è una caratteristica
dell’uomo e di poche altre specie animali. Possiamo inventarci dei rapporti di amicizia, anche fra
uomini e donne, che somigliano a quello tra il piccolo principe e la volpe. Ma, soprattutto sul
lavoro, dove l’equivoco e il pettegolezzo sono sempre in agguato. Quante volte una donna ha fatto
carriera perché era l’amante - vera o presunta - del capo? E d’altro canto, perché non dovremmo
comunque concedere a tutti e due la possibilità di essere veramente innamorati? E’ anche vero che
esiste una forma di dignità che ci consiglia di stare lontani da questi equivoci. Proprio come è
importante non nasconderci davanti agli altri, se siamo veramente adulti, è anche importante non
dimenticare i nostri ruoli reciproci. Ma allora, che ne è della libertà dei figli di Dio? E limitarsi a
rapporti “di addomesticamento”, senza fare del sesso vero e proprio, è ipocrisia, o rispetto?
Una interessante reinterpretazione, grottesca e disperata, della favola di Amore e Psiche, è in un
racconto di Alberto Savinio, dal titolo “La nostra anima”. Qui Psiche è una fanciulla rachitica che
con mano distratta gioca coi suoi escrementi in un fetore insopportabile. Descrive il suo matrimonio
con Amore come una orribile delusione e la fuga del marito come una liberazione. Profetizza che il
vero amore nascerà solo alla fine di ciò che gli uomini chiamano amore. Solo a questo punto si può
parlare degli altri due inediti protagonisti del racconto: Perdita e Sayas, un medico.

25
Antonio R. Damasio, “L’errore di cartesio”, Adelphi,1994.
26
Bruno Bettelheim, "Freud and man's soul", 1982
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Sesso, amore e gerarchia

Molto simili a manichini di carne, o definiti tali dall’autore, forse con sadismo eccessivo. Prima che
Psiche possa rispondere all’ultima, definitiva domanda: “Ma allora, l’amore che cos’è?”, Perdita si
mette a urlare: “Dottore, la faccia tacere.” E Sayas, obbediente brucia Psiche, pestando con la sua
grossa scarpa un grosso filo di corrente elettrica. Psiche brilla di un brillio luminoso per un po’, e
infine si spegne. Non può dunque dire che cos’è l’amore per lei. Ma in un racconto meno cinico di
questo parlerebbe senza difficoltà. Risponderebbe, restituendo a se stessa non più un’immagine
infantile, ma la propria figura di donna ormai adulta: “L’amore è libertà e rispetto”. La sua tragedia
è che chi non ce l’ha, o non ce l’ha in questa forma, non se lo può dare. E’ per questo che quando
parla Psiche la povera Perdita o sviene o fugge o le grida di tacere. Si meriterebbe ben di peggio,
perché uccidere l’anima è un delitto ben più terribile che barare a fly-loo. Per fortuna è anche un
delitto molto difficile da compiere.
C’è poi un’altra figura, che sta sullo sfondo del racconto: si chiama Nivasio Dolcemare e mantiene
il distacco. Rappresenta l’egoismo, ma anche l’intelligenza libera da pregiudizi.
E in questo c’è un’insanabile contraddizione, non colta dall’autore. E’ l’uomo che ama se stesso, e
pone questo amore come fondamento di ogni rapporto. Ma l’amore di sè è così sconfinato, ed
assoluto, da impedirgli di osservare gli altri se non come oggetto di curiosità. Siamo sicuri che non
li userebbe come strumento di puro piacere? Nivasio Dolcemare forse non lo sa, preferisce non
parlare di sè. Ma chiunque lo osservi dall’esterno in cuor suo intuisce che proprio questo è il suo
comportamento di vita.
C’è un altro mito a proposito della nascita dell’amore ripreso da Platone nel “Convivio”. Per
Platone l’amore è la guida dell’anima verso Dio. A differenza che nel “Fedro”, dove amore aveva
due guide: Dioniso, il Dio dei misteri e della follia mistica e Prometeo, nel “Convivio” l’amore non
ha guide: è egli stesso un semidio che media tra il mortale e l’immortale27. Cercando di colmare lo
spazio intermedio tra l’umanità e la divinità, si presenta così come il mediatore per eccellenza. Di
chi è figlio questo tipo di amore? Di Poros, abbondanza (ma in lingua greca antica questa parola
significa anche via, cammino, espediente, risorsa). Mentre Poros si addormenta ebbro di nettare,
dopo un festino, la Miseria (la Miseria è una donna, forse perché gli uomini sono misogini?) va a
mendicare alla sua porta. Lei è povera, miserabile e sola, lui ricco e felice. Allora la Miseria
concepisce il disegno di avere un figlio da lui. Approfittando della notte e del suo stato di
dormiveglia gli si stende accanto e concepisce Amore. Dunque Amore è contemporaneamente figlio
dell’abbondanza e della miseria. Misoginia a parte (perché la miseria deve essere per forza donna?)
a rifletterci bene è vero che è così. L’amore infatti “è sempre miserabile, secco e magro, in
brandelli, coi piedi nudi, senza riparo: si stende a terra, senza un letto, dorme davanti alle porte e per
le strade, all’aria aperta perché la natura di sua madre (oggi però potremmo aggiungere anche di suo
padre) ha sempre la privazione per compagna.” Allo stesso tempo amore è però anche abbondanza:
“ Colui che ama cerca di rendere l’essere amato il più possibile simile a quel Dio di cui ha ritrovato
il ricordo e, quando l’essere amato risponde a questo amore, tra essi si forma un’amicizia basata su
una comune partecipazione alle cose divine”28
La sua duplice natura di abbondanza e privazione, però lo rende imperfetto: all’uomo non è
possibile di partecipare della divinità se non parzialmente. Alla fine vince sempre la realtà: e la
realtà ci schiaccia sotto il peso della necessità. “Tutta la vita umana, appena la si analizzi, è fatta di
un tessuto di misteri assolutamente impenetrabili per l’intelligenza, che sono le immagini dei
misteri soprannaturali e che non si possono spiegare se non mediante questa somiglianza”.29 Lo
sforzo di penetrare sempre di più dentro questi misteri non impedisce alla realtà della vita di
sembrare spesso surreale, quasi fosse qualcosa di eccessivo ed insostenibile.
Come è surreale il piccolo principe e tutto il mondo di asteroidi che ci descrive. Il re che dà solo
ordini ragionevoli, ma comunque non smette di darne, è una personificazione della gerarchia

27
Platone, Il convivio, 202e-203a
28
Simone Weil , "La Grecia e le intuizioni precristiane. Rusconi editore. P 101.
29
Simone Weil, ivi. p.287
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Sesso, amore e gerarchia

inutile; è gentile però, non è arrogante, non umilia nessuno. Cerca solo di farsi perdonare il suo
status di re. Anche questo è un rischio per chi assume posizioni gerarchiche. Come successe nel
caso di due alti dirigenti d’azienda di mia conoscenza, che ottennero le loro cariche in seguito ad
una operazione di divisione del potere tra i partiti, in piena atmosfera di consociativismo e di
partitocrazia. Uno era del PCI, e l’altro dell’ala più tradizionalista della DC. Nell’azienda, la loro
nomina venne vista come un segnale di speranza e di democrazia: allora credevamo nelle ideologie
politiche.
I cattolici organizzavano spesso delle riunioni di preghiera; il nuovo direttore (quello della DC)
partecipava, e dopo la sua nomina, si dibattè il seguente problema: “Può un cattolico avere una
posizione di potere?” La risposta, ovviamente, è stata: “Certamente, perché il potere è servizio”.
Basta leggere il vangelo di Giovanni per chiarirsi le idee. Basta essere un minimo familiari con la
vita di Gesù Cristo, per sapere che questo strano personaggio, un po’ surreale (forse un po’
piccolo principe) e un po’ controcorrente, non faceva certo sfoggio di umiltà fuori posto nè
pretendeva di nascondere la sua posizione gerarchica, di quello che è secondo solo al Padre. Però,
quando si è trattato di essere messo in croce, non ha detto “Prendete loro che io ho una riunione
ad alto livello”. Questo significa il potere, nel senso più umano e vero: assumersi le proprie
responsabilità nei confronti di chi ci è stato affidato. Con il dovuto senso della misura di fronte a
questo paragone un po’ eccessivo: a gente come noi, in una azienda, nessuno chiederà di
sacrificare la vita, e probabilmente neppure una parte dello stipendio.
Comunque non occorre essere Gesù Cristo per rischiare la vita per le persone di cui si è
responsabili. Tanti, tantissimi essere umani nella storia lo hanno fatto: è una caratteristica
dell’amore, dell’amore materno ad esempio (che si vede a volte anche negli animali, anche se in
questo caso noi parliamo di istinto di conservazione della specie), e delle ideologie che si curano
del bene degli altri. Persino del comunismo, almeno sotto certi aspetti. Infatti, il nostro amico
direttore comunista, dopo la nomina, fu festeggiato dai componenti della cellula aziendale del PCI.
Durante la riunione, si dibattè il seguente argomento:
“Può un comunista avere una posizione di potere?” La risposta, ovviamente, è stata: “Certamente,
basta che ricordi che il potere è servizio”. Dopo otto anni, dopo la caduta del muro di Berlino e
delle lottizzazioni, ci domandiamo ancora se per queste persone il potere è servizio? O si saranno
adattate come tutti noi? Rispetto ai tempi del muro, alle riunioni come quelle che ho descritto,
rimpiango oggi la capacità di dire parole grosse. Di prenderci in giro, forse, nascondendo la realtà
mediocre - la lottizzazione in quel caso - dietro una serie di affermazioni di principio che, dopo
Tangentopoli, dopo la caduta di tanti idoli, nessuno sarebbe più in grado di sostenere. Ma che
d’altra parte ci permetterebbero di andare avanti. Oggi ci sentiamo orfani di tanti ideali, e li
abbiamo trascinati nella polvere insieme a tutti coloro che, in nome degli ideali, hanno fatto solo i
loro propri interessi e le loro faccende più o meno sporche. Senza pensare che gli ideali non
devono mai mancare agli esseri umani. Che la cosa più importante da lasciare ai nostri figli è
qualcosa in cui credere, qualcosa per cui valga la pena di vivere e - perché no? - di rischiare la
stessa vita. Anche se è soltanto una volpe o una rosa presuntuosa e superba. Oppure un lavoro che
si fa volentieri, un patrimonio che troppo pochi ancora possiedono.
Le rose si possono coltivare, e le volpi addomesticare. E, “ciò che fa amare tanto questo piccolo
principe addormentato è la sua fedeltà a un fiore, è l’immagine di una rosa che vive in lui come la
fiamma di una luce anche quando è addormentato”. E dunque ancora più fragile. Bisogna ben
proteggere le luci: un colpo di vento le può spegnere. E proteggere i bambini addormentati, che
sorridono alle loro rose.
E che sanno parlare con le volpi...
Solo i piccoli principi sanno come addomesticare le volpi. “Se vuoi che io giochi con te mi devi
addomesticare” dice la volpe “perché non si conosce che ciò che si è addomesticato, gli uomini non
hanno più tempo di conoscere nulla, comprano tutto nei supermercati. Ma siccome non esistono i
mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se vuoi un amico, dunque, addomesticami”.

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Sesso, amore e gerarchia

E come? attraverso dei riti. Ti siederai ogni giorno un po’ più vicino a me, verrai a trovarmi solo ad
una certa ora, perché solo così il mio cuore può prepararsi ad accoglierti...
“Ma io ho poco tempo, quando me ne andrò piangerai”, dice il piccolo principe. “Piangerò ma tu
non mi dimenticherai, perché hai dedicato del tempo per me. Gli uomini hanno dimenticato questa
verità, ma tu non la dimenticherai. Si diventa sempre responsabili di ciò che si addomestica. Più
tempo gli si dedica, più si diventa responsabili”. E se essere il capo significa essere responsabili,
come si può riuscirci senza addomesticare ed essere addomesticati? Senza dedicare un po’ del
nostro tempo a chi abbiamo vicino. Si passa tanto tempo sul posto di lavoro, eppure oggi non
abbiamo tempo per nessuno. Le mamme corrono tutto il giorno per ricoprire bene i loro duplici
ruoli ma forse pretendono troppo da loro stesse, dovrebbero chiedere un maggiore aiuto. Quando i
miei figli avevano pochi anni, mi accorgevo ogni tanto che da quando li svegliavo al mattino a
quando li lasciavo davanti al portone della scuola o alle maestre dell’asilo, non facevo che
ripetere: “Fate presto, siamo in ritardo”. E allora mi concedevo di uscire con più calma, e magari
anche di fermarmi a bere un caffè con altre mamme un po’ meno indaffarate di me perché
lavoravano più vicino o a metà tempo. Il mio lavoro non ne ha mai risentito, anche se a volte nello
stipendio compariva la voce: “Mancata prestazione”. “Preferisco non sapere di che prestazione di
tratta!” commentava mio marito, che ha molto senso dell’umorismo. E’ molto importante
concedersi qualche piccola cosa. Che non è poi così piccola, direbbe il piccolo principe. Quando il
mercante di pillole che fanno passare la sete incontrò il piccolo principe, cercò di convincerlo a
comperare le sue pillole. “E’stato calcolato, disse, che con queste pillole potresti risparmiare
cinquantatrè minuti alla settimana”. “Se avessi cinquantatrè minuti da spendere, rispose il piccolo
principe, camminerei adagio adagio verso una fontana...”. Il tempo perso nella vita, a differenza
che in economia, è utilissimo, aiuta a riflettere, ha un po’ la funzione di certi geni; sono geni
silenziosi che nessuno sa a cosa servono perché probabilmente sono delle specie di jolly, o di
riserve. Entrano in funzione quando gli altri sono danneggiati, quando vengono bruciate le altre
carte. Se non ci fossero però, la vita sarebbe quasi impossibile.
Il segreto è molto semplice, non si vede bene che col cuore, le parole non servono, l’essenziale è
invisibile agli occhi e sfugge al ragionamento.
Ma i piccoli principi a volte fanno finta di morire perché questo è il prezzo per diventare adulti,
oppure muoiono davvero perché un serpente velenoso li morde e cadono sulla sabbia senza fare
rumore. E il serpente velenoso può essere anche una malattia, che lede irrimediabilmente le cellule
nervose. Come nel caso di mio figlio, piccola rosa con neppure quattro spine per proteggersi. Che le
sue spine se le portava dentro, nascondendole nello stelo. La metafora della piccola rosa può servire
ad avvicinare chi è molto lontano. Ma per le madri i figli non sono piccole rose. Sono la necessità e
l’amore. Un amore speciale, diverso da tutti gli altri. Talvolta, anche per i padri. Non dirò dunque
che per me mio figlio è stato una “piccola rosa”. E’ stato un tesoro nascosto, il maestro, un maestro
bambino e inconsapevole. Un maestro impotente, tanto più amato per questo. Amato per se stesso,
ma ancora come riflesso di una mente pensante che non era la sua. Amato in modo egoistico, perché
tutti gli amori sono egoisti. Tranne l’amore mistico, che a me non è dato di provare. Insisterò
dunque con una metafora non vera, o meglio che non ha le parole per esprimersi qui, anche se spero
che, prima o poi, quando il dolore sempre pronto ad azzannare sarà sopito, e mi darà il distacco
sufficiente per parlare, sempre che pensi sia possibile, cercherò di trovarle. Qualche donna ci ha già
provato: come Isabel Allende, che in “Paula” ha parlato del suo profondo amore per una figlia
scomparsa. Ma io non sono una scrittrice, che trae soddisfazione dalla scrittura. Per me la scrittura è
solo fatica. Dunque non credetemi quando gioco troppo con le metafore. Uso quelle che trovo: per
caso, sulla mia strada, ho trovato questa. Dirò dunque: a differenza di mio figlio, piccola rosa senza
pelle, scorticata dalle tempeste che han fatto volar via con un semplice soffio le fragili campane di
vetro usate per proteggerlo, luminoso piccolo uomo incapace di orientarsi tra gli infiniti bivi e
direzioni delle strade, i piccoli principi sanno in genere naturalmente come difendersi.

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Sesso, amore e gerarchia

Non rispondono alle domande, quando non seguono il filo dei loro pensieri, ma sanno porre tutte
quelle essenziali e non rinunciano a farle finchè non hanno capito. Anche se il prezzo della
comprensione è capire che gli adulti hanno costruito un mondo ben strano e che sono vittime della
natura e di se stessi.
Poi il tempo passa su di loro come un turbine di fuoco e diventano vecchi senza più chiedersi nè
come nè perché. Diventano vecchi senza ancora saper distinguere tra dolore, infelicità e
depressione. Il dolore di chi vede soccombere, sotto il peso della malattia, un figlio che ama
disperatamente. Piccolo Dario disperso in montagna, le belle montagne del triangolo lariano, senza
volerlo e senza saperlo. Avrei tanto preferito restare schiacciata io, ma non è stato possibile: perché
io ero una donna, adulta e normale e lui solo un bambino, handicappato grave. Non potendolo
curare normalmente, perché la cura non c’era, avrei fatto patti col diavolo, o con Dio (Scegliete voi)
per farlo tornare sano. Il mio patto era così semplice: - Signore, salva lui, per favore, ti dò la mia
vita in cambio -.
Ma viviamo nell’ ”Al di qua”, e dobbiamo arrangiarci da soli. E, nell’ “Al di qua”, sono possibili
solo soluzioni parziali e temporanee. Chi cerca soluzioni assolute non le troverà che nella fede.
Qualcosa di molto grande, che ci sovrasta, di fronte alla quale non possiamo che inchinarci. Se la
fede viene vista nel suo significato originario, di legame d’amore tra gli uomini.
L’infelicità e la depressione sono invece condizioni soggettive: sono dovute ai casi della vita e
anche a come siamo fatti. Si può essere depressi anche per un nonnulla. Ma non si può essere
infelici, se non ci sono ragioni che superano la storia. Anche le storie.
Ho visto Dario per l’ultima volta verso la fine di gennaio; aveva voluto invitare Paola per una
merenda, dato che da molto tempo ormai non si vedevano. E’ stato un bel pomeriggio; Dario era
contento e camminava in punta di piedi, attraversando il salotto da una porta all’altra. “Dò un
bacio alla Paoletta”; ma poi baciava la sua mamma, oppure la Lella. Era diventato grande, alto
per i suoi quindici anni, e sempre bello, con i capelli neri e le guance rosse, come la ragazza di
Nygord de “la saga di Gosta Berling”: “E’ bella, ma Iddio l’ha privata della ragione”.
Anche la bella ragazza di Nygord si è persa nel bosco, e tutto il paese la cerca, anche gli storpi,
anche le mamme con i bambini in braccio. La cercano, pur sapendo che non la troveranno in vita;
e quando la trovano, la riportano indietro tutti insieme, con un lungo corteo.
Dario ha sempre camminato tanto, e Valeria lo seguiva. Anche quel pomeriggio di gennaio,
camminava avanti e indietro per casa. Si è fermato soltanto verso sera, per guardare Paola che
giocava col Lego. E’ stata la prima volta che l’ho visto fermo, e attento a guardare qualcosa fuori
di lui, un gioco: non quelle immagini più vaghe e lontane e paurose che sembravano continuamente
inseguirlo.
Nel primo quaderno della prima elementare di mia figlia Paola c’è disegnata una rosa, e sotto c’è
scritto, in stampatello: “LA ROSA DI DARIO”. Non so per quale motivo, mi è rimasto impresso il
ricordo di questo disegno. Allora non conoscevo Dario, e soltanto dopo ho capito cosa significava.
Dario aveva voluto portare, come tutti, un fiore alle sue maestre - c’era un giovanotto che veniva
alla mattina davanti alla scuola, con un secchio di plastica pieno di fiori, quasi sempre di rose: tutti
i bambini, a turno, chiedevano di portarne alle maestre. E le mamme li accontentavano, e il
bambino saliva le scale tutto fiero con il suo fiore, o due o tre se la classe era di tempo pieno -. La
maestra di Paola aveva utilizzato quel fiore per mettere Dario al centro dell’attenzione, per farlo
partecipare. Come il piccolo principe, anche lui aveva avuto la sua rosa.
Dario era un bambino speciale e la sua morte è stata una grande tragedia. La morte del piccolo
principe è invece una finzione poetica, perché è solo un modo di ritornare nel suo pianeta, senza
essere appesantito dal corpo. Anche noi speriamo, aggrappandoci alla filosofia e alla religione,
che la morte, soprattutto la morte dei bambini, sia solo un passaggio verso un mondo più bello, più
facile.

37
Sesso, amore e gerarchia

Anche Saint Exupéry lo sperava, lui che pure era un uomo di guerra, un aviatore, che vedeva nel
mestiere dell’aviatore (e a quel tempo era vero più che mai), un’espressione della capacità
dell’uomo di vincere la natura, di dimostrare la propria forza sfidando le leggi della fisica.
Saint Exupéry si è inabissato in mare col suo aereo. Lo stesso destino di Fabien, il protagonista del
suo libro “Vol de nuit”, pilota di un postale che perde l’orientamento durante un tifone e rimane
senza benzina lontano dalla terraferma. Ma invece di raccontare l’ istante della morte, il libro ci fa
vedere una bellissima immagine di chiaro di luna, nella quale si immerge il piccolo aereoplano,
mentre il pilota sa già di essere perduto e si tuffa per l’ultima volta nella luce della luna, puntando
l’aereo verso l’alto prima dell’inevitabile caduta.
Ho visto un chiaro di luna come quello, durante un volo notturno da Stoccolma a Tampere, in
Finlandia. L’areoplanino ad elica su cui volavo ha superato lo strato di nuvole, e al di sopra c’era
una luce irreale, una luna piena folgorante che si rifletteva su un mare di bianco. L’opportunità di
vedere cose nuove, gli spettacoli della natura, e di esplorare il mondo è stata fino a poco tempo fa
offerta soltanto agli uomini. Le donne, chiuse in casa ad aspettare, non conoscevano altro che la
cura dei loro cari e dei loro sentimenti. Abbiamo tanto tempo da recuperare, e dobbiamo sfruttare
le opportunità che ci sono offerte, la nostra capacità di stupore ancora bambina. E dobbiamo
ricordarci tutti, uomini e donne, che anche se adesso gli aerei volano con sofisticati strumenti e non
si perdono più, davanti al mistero della morte e della vita siamo sempre come quei due aviatori,
Fabien e il radiotelegrafista, che uscendo fuori dalle nuvole si immergono nella luce della luna “...
simili a quei ladri delle città favolose, murati nella stanza dei tesori da cui non potranno più uscire.
In mezzo a tesori ghiacciati essi errano, infinitamente ricchi, ma condannati.30”

30
A.De Saint Exupéry, "Vol de Nuit", Gallimard, 1931
38
Sesso, amore e gerarchia

Cap 4. Il calabrone e l’elicottero senza ali.


Ricordi e esperienze di lavoro
Comunque l’Avvocato,
abbrutito e disfatto
dal tentativo inutile
di procurarsi la prova
che ricamar merletti
era un misfatto,
s’addormentò
e nel sonno gli apparve
quel dannato Snark
che da sempre lo aveva ossessionato.
Lewis Carroll “La caccia allo Snark”.

Le aziende rispecchiano in piccolo tante caratteristiche del mondo circostante. Mi sono spesso
ritrovata a pensare che il comportamento delle gerarchie rispecchiasse gli stessi giochi che si
vedono amplificati nella politica. Non solo perché negli ultimi anni, in Italia, la lottizzazione era
arrivata anche a livelli molto bassi, ma soprattutto perché, specie nelle grandi aziende, non serviva
produrre risultati: c’era come una innaturale abbondanza di fondi senza bisogno di doverseli
guadagnare. Come conseguenza, in una situazione nebulosa come questa, la cosa più importante era
potersi fidare dei propri collaboratori. Ecco una ragione in più per sostenere che l’organizzazione
del lavoro (soprattutto in aziende di ingegneri dove sono quasi tutti uomini) ha molti aspetti della
“banda”. Ed è necessario escludere chi è indipendente e creativo, ma anche, per una specie di
meccanismo ancestrale, le donne. Sembra quasi che ci sia un circolo vizioso dovuto a questo
atteggiamento da banda adolescenziale, proprio del potere se è solo di uomini, un atteggiamento che
si autosostiene: chi entra in questo circolo fa parte del club e non ci vuole gli altri, o per lo meno
vuole solo quelli di cui si può fidare. Così le donne non entrano nel giro. E’ anche giusto da una
parte volere come collaboratori quelli di cui ci si può fidare, ma ci si deve fidare solo di chi dice
sempre di sì? Un pizzico differenza, di anarchia, un pizzico di discussione è possibile che faccia
così male? E chissà se succede anche nei giornali?
Secondo Luigi Bazzoli che è stato mio direttore al Corriere, oggi si vede che nelle redazioni dei
giornali le donne stanno aumentando di peso e di importanza. “Ci si può chiedere perché la
comunicazione si femminilizza: forse perché è un mestiere dove la donna sicuramente eccelle
rispetto all’uomo. Ha una sveltezza, una capacità di intuizione diversa, e spesso sa anche far
parlare la gente, far raccontare. Se ho delle notizie lei - come giornalista - se le deve far dare, mi
deve convincere a raccontarle, e la donna è molto predisposta a questo. Prima c’era una certa
difficoltà per le donne a entrare nei giornali, adesso invece è una professione in cui sono entrate in
massa, e in cui eccellono31”.
Per me invece trovare un lavoro nel mondo degli ingegneri è stato difficile, anche perché, fidando in
una borsa di studio che avevo avuto per la tesi e mi aveva dato un piccolo stipendio anche per sei
mesi dopo la laurea, mi ero sposata. E’ difficile trovare qualcuno disposto a rischiare assumendo
una ragazza, quando ci sono tanti giovanotti a disposizione. Io sono stata la prima a laurearmi, tra i
miei compagni di corso, nell’epoca di maggior fortuna in Italia per l’ingegneria nucleare. Però sono
stata l’ultima a trovare un lavoro, e solo grazie all’intervento di un mio professore. Ho passato circa
tre anni in cerca di lavoro, spesso non riuscendo neppure a farmi intervistare dalle aziende.
L’episodio più bello in assoluto, è stato un colloquio con un ingegnere che stava organizzando un
31
Vi ricordate di Luce Irigaray e la sua tesi sul liguaggio delle donne? E di come a me sembrava che invece chi
veramente comunica, sono i poeti e gli artisti? A questo punto mi domando se sia vero. O magari cosa significa
veramente comunicare, se è un'emozione o un mestiere, una tecnica. Forse un po' tutt'e due.
39
Sesso, amore e gerarchia

centro di documentazione scientifica: “Ho qui un lavoro noioso, mi disse, lei mi capisce che non
posso offrirlo ad un uomo. Perciò ho pensato a lei”. Era un personaggio molto strano, seduto su di
una poltrona che si poteva inclinare da tutte le parti - ho imparato poi che queste poltrone spettano
solo ai dirigenti, e nemmeno a a tutti, solo quelli più importanti - ma io, per quanto perplessa, avevo
subito accettato. Non potevo certo guardare tanto per il sottile, e poi la sede di lavoro era proprio
sotto casa, a Genova. Ma lui ci ha ripensato, non mi ha assunto. Il lavoro prevedeva anche di
viaggiare, per andare a raccogliere documentazione seguendo i congressi, e secondo lui “Una donna
sposata, il marito non la lascia andare”.
Forse la differenza tra una redazione di giornale e un’azienda, per quanto riguarda le donne è anche
una questione di numero: in una azienda, nei ruoli tecnici le donne sono poche, si combatte in una
situazione che è molto più difficile, mi possono dire: “Sei tu che sei tonta”. Se siamo in quattro,
quattro tonte ci possono essere, mentre se cominciassimo ad essere anche solo la metà dei
dipendenti sarebbe più difficile sostenerlo. D’altra parte, anche le donne non sono abituate ad essere
responsabili nel modo richiesto in un’azienda e quindi si tirano indietro. Succede anche a me di
avere paura. Scrivere questo libro per esempio mi è servito proprio per capire che certe volte devo
anche arrabbiarmi, smettere di avere l’atteggiamento da “brava bambina” che probabilmente mi è
stato insegnato.
E’ quando sono le donne a mostrare una spregiudicatezza che non è per questo, mi si passi il
termine, puttanaggine,che subito si crea scandalo. E poi fare il capo vuol dire non accontentare
tutti, vuol dire anche pestare i piedi a qualcuno. Non sempre si ha il coraggio di farlo guardando
negli occhi il collega malcapitato. Altre volte, magari se siamo di sinistra, cerchiamo noi di pestare i
piedi al capo, ne parliamo male e ci diciamo - peggio per lui, ha uno stipendio così buono, può
sopportare anche questo -. E lui ce la fa pagare. Ma non sempre, perché - forse non ci crederete - i
capi sono persone come noi, hanno gli stessi dubbi e le stesse paure. Così io non ho voluto
raccontare la storia del mio lavoro solo dal mio punto di vista. Per darne un’idea, invece di
raccontare altri episodi, ho preferito riportare un parere esterno e ho interpellato un collega, con
un’intervista.
Per le interviste eravamo d’accordo sulla questione di fondo: non sempre le persone famose hanno
più cose da dire degli altri. Spesso sono abbastanza insulse, come se lo sforzo per stare a galla
nella mondanità le privasse della capacità di approfondire i problemi. E le persone dovrebbero
interessare per le cose che hanno da dire, e non per la fama che hanno o per il fatto che siano più o
meno conosciute attraverso la TV. Tuttavia intervistare persone famose, suscita in genere un
interesse maggiore nel pubblico che non è di solito incuriosito dagli sconosciuti. Alla fine, siamo
arrivate a un compromesso : il nostro libro è basato quasi tutto sull’analisi di opere scritte di
persone famose perché lo meritano davvero e che hanno superato il filtro degli anni. Il che toglie
sicuramente immediatezza, ma aiuta a riflettere. E in fondo, era proprio questo che volevamo fare
insieme. Qualche intervista, però, siamo riuscite a farla. Per esempio, in questo caso abbiamo
pensato di cercare l’opinione di un ingegnere “vero”: senza apostrofo, brillante, con una posizione
gerarchica importante anche se non troppo (ancora abbastanza poco importante per avere a che
fare con le colleghe donne, che, come sappiamo, restano ai livelli più bassi). Ma non una persona
famosa, (non è detto che le persone famose siano migliori degli altri, sono, appunto, soltanto
famose) un tecnico, che chiaccherando con noi è partito dalla sua esperienza personale, dunque
umana in senso generale. Non ci sembrava giusto che Giovanna, avendo lavorato a lungo con lui,
lo intervistasse personalmente. Così abbiamo usato un piccolo stratagemma: Valeria ha fatto da
sola l’intervista a uno degli ex colleghi di lavoro (o meglio, un ex capo) di Giovanna. Del resto, è
lei la giornalista: fare interviste è il suo mestiere. Giovanna ha poi aggiunto alcuni commenti agli
appunti presi durante il colloquio. Questa parte, perciò, è scritta a tre mani, come tutti quelle che
contengono interviste. Fedeli al nostro stile, abbiamo usato questa volta tre caratteri diversi. Le
risposte dell’intervistato sono in grassetto.

40
Sesso, amore e gerarchia

Il risultato è stato, come pensavo, molto interessante. Da una parte perché Carlo, l’intervistato, ha
capito subito che si parlava anche di me, ed è stato al gioco con una sensibilità che molti non si
aspetterebbero da un ingegnere del Varesotto, dirigente d’azienda per di più. Dall’altra, perché
dall’intervista sono emersi anche tanti luoghi comuni, proprio quelli dello stereotipo femminile,
accettati senza spirito critico, perché è più comodo così. Ed un disagio nel trattare con qualcuno, la
donna ingegnere, o forse solo una particolare donna ingegnere, che si comporta in modo diverso da
quello che ci aspetteremmo. Come il calabrone, che vola anche se le leggi della fisica non glielo
permetterebbero. E’ proprio in virtù di questa immagine così poetica che vorrei però porre in
evidenza, più che i contrasti, il fatto che anche chi non è disposto ad accettare del tutto l’altro nella
sua diversità, è poi capace comunque di offrirgli una scappatoia; e che i rapporti tra gli esseri umani
sono complicati, ambivalenti e pieni di contraddizioni, ma sono un grande arricchimento e
andrebbero sempre salvati. Anche sul lavoro, nonostante lasciarsi coinvolgere sia spesso faticoso e
frustrante. Occorre la semplicità di saper addomesticare e lasciarsi addomesticare, senza secondi
fini e senza ergere troppe barriere difensive.
Carlo è un ingegnere nucleare che ha qualche anno più di me, si è laureato brillantemente al
Politecnico di Milano e ha lavorato sempre nella stessa azienda, fin dai tempi della tesi di laurea,
occupandosi di ricerca nel campo dei materiali metallici, prima come ricercatore e poi come
manager. Io ho iniziato a lavorare dividendo l’ufficio con lui.
“Troppo donna per essere un buon ingegnere, e troppo ingegnere per essere una buona donna”, è
una definizione - si riferiva a me - coniata proprio da Carlo. E Valeria, forse per provocare un po’,
ha iniziato la sua intervista citandola.
E’ una battuta di spirito sua, una bella battuta di spirito, ma non le pare che riveli un circolo
vizioso? Vuole spiegarsi meglio, tentiamo di uscire dal circolo?
Mi rendo conto che nel dire questa frase sono stato un po’ maschilista. Forse occorre tornare
a quando eravamo più giovani, quasi trenta anni fa, all’Università. Allora le donne che
sceglievano ingegneria erano pochissime, non più di tre o quattro (in realtà eravamo circa
l’uno per cento, cioè tre o quattro per ogni gruppo di quattrocento che si trovava, per le
lezioni, in una delle grandi aule ad anfiteatro del Politecnico vecchio) perciò si notavano
molto. Si dividevano in due categorie: quelle che andavano a fare ingegneria perché gli
piaceva davvero, e quelle che dopo due o tre anni si sposavano e mollavano.
E in quante categorie si dividevano gli uomini che facevano ingegneria? E io, a quale categoria
appartenevo - o appartengo? Perché - mi è sempre piaciuto raccontarlo - quando mi sono iscritta a
ingegneria, le mie sorelle mi hanno detto: “Cara Giovanna, o trovi un uomo lì, o non ne sei proprio
capace”. Infatti, mio marito è un mio compagno di corso. Però, io non ho mollato. Mi sono fatta
prestare da lui un bel po’ di libri, ho preparato insieme a lui tanti esami, e dopo la laurea l’ho
sposato.
Appena entravano nelle aule dove si faceva lezione le ragazze vestite da donna, partiva il coro:
-Nuda! Nuda!-. La tortura durava per un po’, poi ci si abituava.
Per me però non era una tortura, era una cosa abbastanza divertente. Quello che non ho mai
mandato giù, è stato quella volta in cui, in mezzo al coro, si è sentito un buontempone che ha
gridato: “Vestita!” In fondo, credevo di essere abbastanza carina, anche se come fisico ammetto di
ricordare un po’ Olive Oil!.
Del resto, si immagini un po’: quattrocento uomini e quattro donne. Era il minimo che potesse
succedere. Perciò, quelle che volevano fare ingegneria davvero diventavano mezzi maschiacci.
Non si scandalizzavano, o fingevano di non scandalizzarsi, se partiva una battuta un po’ forte,
stavano allo scherzo, anzi rilanciavano, con garbo però. La Giovanna era una di loro. Ha
sempre detto di non saper fare i conti, se li faceva controllare dagli altri, per paura di
sbagliare.
Questo è verissimo. E si potrebbe disquisire a lungo sulla mancanza di fiducia in se stesse che
spesso hanno le donne. Ma mi sembra più carino ricordare un episodio avvenuto tanti anni dopo:

41
Sesso, amore e gerarchia

Carlo ed io eravamo insieme, in ascensore. Improvvisamente, l’ascensore si è fermato tra due piani.
“Carlo, ho subito detto io, guarda cos’è successo! E’ un’occasione: siamo soli, chiusi in ascensore
insieme.” Il povero Carlo, preoccupatissimo, ha subito cominciato a schiacciare tutti i bottoni finchè
l’ascensore non è ripartito. Questo comportamento è in linea con la sua dichiarazione. Le donne che
rilanciano, o addirittura fanno per prime battute non proprio ortodosse, sono proprio dei maschiacci.
Meglio non assecondarle. Per gli americani, potrebbero essere denunciate per molestie (in effetti,
devo ringraziare Carlo e la nostra mentalità un po’ meno puritana di quella U.S.A., altrimenti a
quest’ora potrei essere in prigione). Ma è proprio vero che fare battute un po’ osè è una
caratteristica solo maschile? O magari le donne pensano le stesse cose, ma non osano dirle?
Comunque, ancora una volta si dimostra che gli uomini sono più pudichi di noi. O almeno, di
alcune di noi. Non sono abituati ad esibirsi in un certo modo. Secondo me, è anche per questo che
spesso non fanno battute se non quando sono in presenza solo dei loro pari, della loro banda.
Mentre la presenza di una donna li mette in imbarazzo.
Ingegneria era una facoltà dura, maschile. La donna che cedeva era notata: se se ne andava
un uomo, perché non ce la faceva, non se ne accorgeva nessuno. Ma le donne erano così poche
che se ne sparivano due lo si notava subito. Si sa, le battute che diciamo sono spesso legate a
stereotipi. Anche l’ingegnere ha i suoi, di stereotipi: un ingegnere è un uomo pratico,
squadrato, ingegneria è una facoltà che squadra il cervello. L’ingegnere è squadrato per il
tipo di lavoro che fa, in qualche modo plagiato. Studia materie che sono comuni ai fisici e ai
matematici, ma le vede da un punto di vista applicativo, cioè in maniera totalmente diversa.
Ecco che emerge - e in modo cosciente - lo stereotipo dell’ingegnere. Per qualche strana ragione,
l’ingegnere dovrebbe essere particolarmente “maschio”, rude e cattivo. Un po’ come il dirigente
d’azienda, che non piange, non dice quello che pensa, non si affeziona a nessuno. Infatti la maggior
parte dei dirigenti, nel ramo tecnico, sono ingegneri. Però, sono tutti così? Mio padre è un vecchio
dirigente, anzi l’ex direttore commerciale di una grossa ditta d’ingegneria. Ha ottantuno anni, e una
forma abbastanza avanzata di morbo di Parkinson. Recentemente, durante un pranzo con amici e
famigliari, gli ho sbucciato un’arancia. Il fatto in sè è banale, ma per mio papà è difficile accettare
che una figlia si prenda cura di lui; per lui, sono solo e sempre i genitori quelli che devono dare ai
figli. Ho dovuto fargli notare che certamente nella vita lui ha sbucciato per me una quantità molto
grande di arance, e anche di mele e altra frutta. Mentre “lavoravo” per lui, allora, mi ha recitato una
poesia:
“Se muoio, lasciate il balcone aperto
un bambino mangia un’arancia
io lo guardo
Se muoio, lasciate il balcone aperto
i contadini tagliano il grano
io li guardo”

E’ una poesia di Garcia Lorca, e il papà la recitava in spagnolo: ha sempre avuto la passione per le
lingue. Ma io ho pensato che gli ingegneri possono anche essere un po’ dei poeti. O almeno, amare
la poesia e non vergognarsi di farlo vedere. Non occorre, nella vita, per avere successo, rinunciare al
sentimento, all’amore, ad addomesticare qualcuno. E invece, mi sembra proprio che i miei colleghi
di oggi siano, più o meno volontariamente, costretti ad entrare nel ruolo dell’”ingegnere stereotipo”.
Come quello descritto da Carlo. Che indubbiamente è stato vincente soprattutto negli ultimi dieci o
quindici anni, non a caso nel periodo in cui anche le donne sono state del tutto “cacciate” dai ruoli
di potere. Ma andiamo avanti a sentire il parere di Carlo sugli ingegneri.
Può farmi un esempio?
Prendiamo un fenomeno fisico, come la trasmissione del calore. Una sorgente di calore passa
attraverso una parete. Se la studia un fisico, misurerà la quantità di calore che arriva
dall’altra parte, userà formule precise e, dopo molti giorni, perché è un calcolo difficile,

42
Sesso, amore e gerarchia

arriverà a un risultato preciso fino alla seconda cifra decimale. E’ il suo mestiere, quello di
arrivare a conclusioni precise.
L’ingegnere invece costruisce case, ponti, aerei, navi, automobili, conosce il fenomeno della
diffusione del calore, ne conosce la teoria ma sa che nella sua applicazione pratica le variabili
coinvolte non sono tutte controllabili in forma di calcolo decimale. Può porsi il problema così:
data una parete, devo costruire un isolante che aiuti a non consumare calore in eccesso, e
energia per il riscaldamento, dato che l’energia costa. Allora fa il suo progetto: Questo viene
realizzato dal muratore, che costruisce la parete secondo le regole, ma anche a suo modo. Su
quella parete l’inquilino può mettere un mobile, o niente. Per l’ingegnere è inutile andare a
cercare le precisioni spinte ed è anche impossibile. Il bravo ingegnere è quello che riesce ad
utilizzare formule approssimative, modelli schematici semplici ma rappresentativi e riesce ad
arrivare al risultato in poco tempo, con la precisione necessaria, non di più. Una precisione
che dipende dall’accuratezza con cui è registrata l’opera. L’ingegnere deve essere
tecnicamente fantasioso, altrimenti non costruisce niente.
Mi scusi se divago, ma vorrei tornare ad un argomento che abbiamo già toccato prima. A me la
Giovanna non sembra affatto un maschiaccio, mi sembra una donna molto femminile, e anche
abbastanza geniale. Anch’io mi sento molto femminile, sebbene non sia anche un po’ geniale. Il
guaio è che tutte e due ci sentiamo anche un po’ donne e un po’ uomini, come dice Virginia Woolf.
Crede che ci sia qualcosa di sbagliato?
Non credo, i geni sono tanti, molti più dei cromosomi. Può essere un po’ come la storia del
calabrone che non può volare ma vola lo stesso. Se si fa riferimento alle leggi
dell’aerodinamica, il calabrone non potrebbe volare, perché le sue ali non riescono ad avere
portanza. Però il calabrone vola.
Come mai?
Perché i calabroni fanno un movimento stranissimo delle ali e alla fine ce la fanno. Ecco, il
calabrone potrebbe, dico, potrebbe, essere stato pensato da un ingegnere, ma non da un fisico.
Tutto ciò è paradossale, naturalmente, perché, di norma, un ingegnere, sapendo che il
calabrone, sulla base delle leggi date non poteva volare, avrebbe finito con l’escluderlo a
priori e avrebbe pensato ad altre soluzioni.
L’immagine del calabrone mi fa pensare alla donna che fa l’ingegnere. Forse sono un po’ fissata.
Però si adatta anche forse a tutte queste donne moderne, che lavorano e hanno una doppia vita. Che
non potrebbero farcela, secondo le leggi della fisica, ma invece riescono a tutto: a conciliare la
famiglia con i figli e il marito, a correre da un appuntamento d’affari alla visita del pediatra, a
pensare alla cena e alla telefonata importante... queste donne da una parte devono imparare a farsi
aiutare, a non credersi onnipotenti. Ma dall’altra, gli uomini devono imparare non solo ad accettarle,
ma a dare loro una mano. La loro presenza nel mondo del lavoro è un arricchimento, per tutti.
Anche per insegnare che non occorre fare tardi in ufficio la sera, che la qualità del tempo che si
concede a qualsiasi attività è molto più importante della quantità. E invece le donne ambiziose
fanno paura, e si sentono dire tutti i giorni, in tanti modi diversi: “Ricordati che tu non puoi volare”.
E’ vero, la logica vuole che l’ingegnere pensi ad altre soluzioni, se una non funziona secondo le
leggi della fisica. Ma molte scoperte sono avvenute per caso, e per un errore (felice) iniziale.
“Già; uhm. In molti casi l’uomo progetta, e scopre solo poi il meccanismo, la legge fisica che
gli fa funzionare il dispositivo. Basta pensare a Leonardo. Ha avuto intuizioni come la
macchina per volare, ma non è riuscito a farla funzionare. L’elicottero di Leonardo non
funziona per un motivo in fondo banale che abbiamo scoperto solo dopo: gli manca la coda”
Scusi? di che coda si tratta, di paglia o di ferro?
“Di ferro, naturalmente. Vede, l’elica ideata da Leonardo gira solo su se stessa: è per questo
che non può sollevarsi. Gli elicotteri invece di eliche ne hanno due: una sulla coda e una sulla
testa, per così dire. Quella sulla testa la tiene su, ma lo farebbe girare come una trottola se non
ci fosse l’altra sulla coda che lo tiene “fermo” e non lo fa girare a vuoto.”

43
Sesso, amore e gerarchia

Fermo? ma se vola!
“Appunto, ci vuole l’interazione tra i due movimenti. Ma mi lasci fare un altro esempio.
Guglielmo Marconi si è sentito dare dell’imbecille da tutto il mondo scientifico. Che aveva
ragione, formalmente, perché le onde elettromagnetiche viaggiano solo in linea retta, ma in
linea retta, sulla terra trovano l’ostacolo della curvatura terrestre e delle montagne. Ma lui
era un creativo, ed ha insistito. Nessuno sapeva, allora, che la ionosfera riflette le onde
elettromagnetiche, lo abbiamo scoperto dopo. Lui cosa ha fatto? Ha lanciato il segnale radio
in tutte le direzioni quello che ’sbatteva’ sulla ionosfera tornava indietro. Così sono nate le
trasmissioni radio. Il suo è stato un approccio da ingegnere, da uomo pratico.
Ora io penso, per tornare al suo tema, che le donne siano meno portate al tecnicismo. Lei ha
mai visto una bambina smontare una bambola? Un bambino invece un giocattolo lo smonta
subito, per vedere come è fatto dentro e poi magari ricostruirlo. Purtroppo con i nuovi giochi
elettronici questo non è più possible, però”.
Lo stesso argomento era venuto fuori, ma da un altro punto di vista, durante i lavori di una recente
conferenza tenutasi al politecnico di Milano, sulla presenza delle donne nella facoltà di ingegneria.
Si sosteneva, infatti, che le donne non scelgono ingegneria perché nessuno, e in particolare si
parlava dei papà, le spinge da bambine ad interessarsi alle piccole riparazioni di casa, a giocare con
i modellini o con le costruzioni. Io ho sempre smontato prese elettriche e sifoni del lavandino con il
mio papà, ho giocato tantissimo con le costruzioni e con il meccano. E i bambini di oggi lo fanno
ancora di più, senza distinzioni di sesso. Sarà per questo che le ragazze che fanno ingegneria
aumentano? Oppure c’è un “gene” della bambola che alberga solo nelle bambine?
Beh, io mi ricordo che non avevo bambole, solo orsacchiotti. Li picchiavo e li sgridavo quando
facevano i capricci, perciò alla fine erano conciati un po’ male, ma li amavo moltissimo, e quando
mia madre ha buttato nel fuoco della stufa il mio orsacchiotto più amato, perché, appunto, era
alquanto malconcio, ho avuto uno choc che ricordo ancora adesso. Invece, non ricordo di aver mai
smontato bambole, ma sa che non mi sentirei neppure di escluderlo? Insomma, lei crede proprio
che ci siano differenze tra un ingegnere con l’apostrofo e uno senza?
No, non mi faccia dire questo
E’ strano. Dopo aver passato il tempo finora a dare definizioni, sia dell’ingegnere che delle donne-
ingegnere, ecco che salta fuori una certa paura a dire che c’è differenza. Questo non è un dibattito
banale, è uno dei punti focali del femminismo degli ultimi anni: accentuare le differenze di genere,
o negarle? Farne un problema di competenza? In questo caso ad esempio, mi sento di dire che non
amo mettere troppo l’accento sulle differenze, ma neppure è il “neutro”32 quello che cerco e che ci
vorrebbe. Il “neutro” è davvero una mostruosità, che non rappresenta nessun essere umano. Ci
vuole invece una completezza, che fa sì che le qualità di maschio o di femmina si armonizzino con
le altre caratteristiche di ogni individuo. Che fa sì che un ingegnere non debba necessariamente
essere maschio o femmina, ma possa essere in entrambi i casi una persona creativa, utile, che sa fare
il suo mestiere, senza bisogno di essere incasellato in uno stereotipo.
Però mediamente una donna ha una sensibilità da donna. E’ un problema che esula dalla
competenza. In questo sono bravi entrambi. E, da un punto di vista cinico aziendale, le donne
fanno più assenze, perché hanno il problema dei figli e di allevarli. Hanno l’onere della
famiglia. Specie se sono brave e hanno posti di responsabilità, è un guaio quando li lasciano
scoperti. Perciò, a parità di merito, scelgo sempre un uomo. Altrimenti scelgo il migliore.
Mi auguro che sia così. E cosa succede se volano coltelli e colpi proibiti?
Che la donna risulta più stupida, perché è meno aggressiva. Di lei arriva un’immagine
distorta. D’altra parte eravamo noi ad andare in giro con la clava, non voi. Eravamo noi ad
ammazzare gli animali per mangiarli. Eravamo noi che ammazzavamo anche altri uomini, se
questo serviva a procurarci il cibo. Perciò, di cosa vi lamentate? Pensate che sia un ruolo
comodo?
32
Alessandra Bocchetti, “Cosa Vuole una donna”, La Tartaruga, 1995
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Sesso, amore e gerarchia

No, non è questo che mi stupisce. Mi stupisce che sia così ovvio pensare che in un’azienda si vada
in giro con la clava. Che una persona meno aggressiva sia giudicata stupida, in una situazione in cui
non si deve produrre aggressività, ma un qualche bene con un valore economico ben preciso. In una
azienda, i conflitti non sono utili. Perciò occorre cercare di risolverli, di renderli meno laceranti. Di
proteggere chi è più debole, se è utile alla produzione. Questo al di là di tutte le considerazioni
sull’aggressività delle donne, che comunque esiste, anche se con scopi e modalità forse diverse da
quella degli uomini.
Perché, al fondo dell’aggressività femminile, c’è spesso solo una forma di autodifesa. Dalla volontà
di dominio maschile. Quando è eccessiva. Un po’ di aggressività alle donne piace. Ma gli uomini
esagerano sempre. Negli uomini, a differenza che nelle donne, la volontà di vincere è così forte che
spesso non esitano a imbrogliare le carte pur di ottenere ciò che vogliono. Con le donne poi vincere
è un punto d’onore, perciò trovano persino naturale imbrogliare. Le donne glielo permettono, e
glielo permetteranno sempre, finchè il prevalere sarà una questione quasi di “vita o di morte”. Ma
non è così che si risolvono i problemi. Così si sottomette qualcuno, e basta. E dalla sottomissione,
che non è persuasione, non si ottengono mai buoni risultati.
Alle donne non credo interessi vincere a questi prezzi. Certo anche loro desiderano contare di più,
ma secondo logiche così diverse da quelle maschili da sembrare quasi inconciliabili. Credo che
tutti si rendano conto che andare in giro con la clava non è affattto un ruolo comodo. Però non mi
sembra che oggi ci siano molte clave, in giro. Ci sono le armi elettroniche, che fanno male in un
modo diverso. Sono armi a doppio taglio. Da una parte privano di umanità, perché, solo
schiacciando un bottone, si possono ammazzare migliaia di persone senza neppure vederle, e
dunque senza provare nulla, dall’altra permettono anche di simulare battaglie senza farle davvero.
Così si vede virtualmente che cosa succede e forse lo si può evitare nella realtà.
Cioè se si desse ai dirigenti - e agli altri dipendenti - di un’azienda una specie di gioco dell’oca,
magari elettronico, per sfogare la loro aggressività rivolta ai colleghi, si potrebbero evitare i
problemi? Certo è un pensiero affascinante. Ma qui si passa a discutere di informazione. Lasciamo
parlare Valeria e Carlo, che divagando e discutendo, sono passati a Internet e alle reti informatiche.
E’ come se fossimo tutti impigliati in una rete molto affascinante, stimolante (anche troppo) sul
piano intellettuale, ma disumana sul piano pratico. Penso a Internet: lì dentro, se si hanno delle
griglie di interesse, si possono trovare tutte le informazioni possibili in tempo reale. Però servono
solo da stimolo. Se poi, con le realtà che interessano, e hanno prodotto un determinato tipo di idee,
non si creano anche dei legami di pertinenza, non si risale alla fonte, insomma, c’è il rischio
gravissimo di partire per la tangente.
“Mah, forse è quello che sta succedendo ai mercati finanziari: un tempo per avere una notizia
ci voleva qualche giorno, si faceva in tempo a pensarci su. Ora è tutto così veloce che anche le
oscillazioni delle monete diventano molto maggiori solo per la velocità dell’informazione.
Abbiamo una responsabilità mostruosa. Creiamo le notizie anche quando non ci sono. Anche i
giornali sono spesso in malafede. Io, per esempio, sono laureato in ingegneria nucleare e sono
convinto che il nucleare possa essere la soluzione a molti problemi, pur con tutte le sue
controindicazioni. Quando è accaduto il disastro di Chernobil ci siamo spaventati troppo. I
giornali hanno soffiato su questa paura. Ricordo un articolo a sei colonne sul “Corriere”, dal
titolo: “Grave incidente nucleare in Francia”. Poi si trattava di un camion che trasportava
Cobalto 60 per il trattamento dei tumori in ospedale. Si era rovesciato e parte del contenuto
era finito su un prato.
E’ chiaro che occorreva bonificare il prato, ma non basta come conferma che il nucleare è
inutile e dannoso. Porta a dei sillogismi sbagliati, un tipo di informazione come questa. Le
faccio una altro esempio: al 90 % la prostituzione è femminile. Non è però lecito dedurre che
tutte le donne sono prostitute. E’ evidente che le donne si arrabbierebbero. E hanno ragione.
Un giornalista non deve usare i riflessi condizionati dell’uomo medio per fare uno scoop:

45
Sesso, amore e gerarchia

questo, per me, è circuire la buona fede del lettore. E’ comportarsi come quelli che vendono
caramelle drogate ai bambini all’ uscita della scuola. Una cosa ignobile.”
Del resto è normale, se succede un fatto collegato ad un altro che in quel momento suscita molta
attenzione, metterlo in rilievo. Non è circuire la buona fede: i giornali fanno così, altrimenti non
vendono. Poi, certo, a questo metodo inevitabile si possono aggiungere manipolazioni ideologiche,
logiche di schieramento, e pregiudizi di parte da cui non è immune nessuno. Per di più per entrare
in un giornale, di solito, bisogna esser figli di giornalisti, o di uomini politici, o avere una tessera
in tasca. E’ molto difficile, forse quasi impossibile, riuscirci sulla base di semplici criteri di
selezione dei migliori. Qualche volta capita, ma sembra piuttosto l’eccezione che la regola. Anche
perché questo metodo si può adottare solo nelle scuole. E invece la vita forma di più. Spesso, un
fatto importante, viene trasformato in un fatto eclatante: non è giusto, ma è così. Ma se si esagera
in modo strumentale una notizia, si danneggia sempre qualcuno. Mi dispiace se sembra un galateo
dell’ informazione, ma meglio questo che niente.
Comunque c’è una cosa in cui i vertici dell’informazione hanno raggiunto livelli molto elevati di
capacità: la manipolazione delle informazioni. Una manipolazione strumentale che le rende
un’arma a doppio taglio. L’intenzione e l’obiettivo sarebbero quelli di consolidare il potere, e in
questo non c’è in sè nulla di male. Ma il risultato, purtroppo, si rivolge contro quegli stessi che
tanto fiduciosamente hanno creduto e scambiato la loro verità per la realtà. Perché una
manipolazione generalizzata delle informazioni crea una sorta di bolla autoriproducentesi dentro
cui ci si crede al sicuro. E impedisce di vedere la realtà a quegli stessi che credono di governarla e
dominarla dall’alto. Assorti nell’interpretazione della bolla, cui sono gli unici a credere
fedelmente, non vedono che la realtà manipolata semplicemente gli sfugge. E finisce col ritorcersi
contro tutti quanti, in una vera lotteria del caso. In qualche modo, si rendono impotenti da soli, per
eccesso di compiacimento in loro stessi. Lo sforzo di attenersi ai dati produrrebbe invece un
risultato molto più utile: una visione chiara dei problemi, che è poi anche l’unica possibilità di
trovare le soluzioni per risolverli. Che cosa ostacola questo sforzo e la sua onestà? Gli interessi
particolari dei gruppi di potere. I quali creano una forma perversa di cecità destinata alla fine a
ritorcersi proprio contro coloro che, attraverso la manipolazione, credono di proteggersi. Il
risultato è una deriva costellata di sbocchi e di fortune contingenti, misere, prive di ogni
lungimiranza. E in definitiva perdenti.
Nella manipolazione in sè non c’è nulla di male: il cervello umano si è sviluppato anche
manipolando oggetti. Forse non lo sapete, ma la parola ’manager’ ha la stessa radice etimologica di
manipolazione: fare qualcosa con le mani (dal latino manus agere). Non per niente, in questa
intervista abbiamo parlato insieme di dirigenti d’azienda e di manipolazione delle notizie. Tutto
questo è spesso utile: diventa sbagliato quando è eccessivo: la manipolazione slegata da percorsi
concreti perché troppo legata solo a percorsi logici. In questo caso è come se il cervello trasferisse
alcune sue doti reali su percorsi, o su reti, che da sole non possono nulla. E pretendesse, con
desiderio faustiano, dunque in ogni caso creatore, di arrogarsi un potere di modificazione della
realtà che per ora non ha. Non tutte le forme di conoscenza passano attraverso la ragione e il
linguaggio. Si può facilmente ipotizzare che esistano conoscenze indicibili33 allo stesso modo che
esistono ragioni illogiche, o antieconomiche.
Ricordo la prima volta che entrai al Corriere, fu per intervistare il direttore di allora, Alberto
Cavallari. Non so se sapevo fare le interviste, ed ero molto timorosa. Mi era sembrato di varcare
una porta magica, e l’idea di vedere la stanza che fu di Albertini mi faceva un po’ girare la testa.
Tra tutti i direttori di giornale che intervistai in quel periodo (collaboravo ad una rivistina di
settore, e il programma me l’ero scelto io), mi sembrò il più colto. Fu senz’altro il più
squisitamente gentile. Alla pubblicazione dell’intervista, mi mandò persino un bigliettino di
rigraziamento. Lo conservo ancora: non per vanità, ma perché mi era sembrato straordinario che,
con tutti gli impegni e problemi che sicuramente aveva, si fosse scomodato a ringraziare una
33
Roger Penrose, “La mente nuova dell’Imperatore”, Rizzoli 1992
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Sesso, amore e gerarchia

sconosciuta giovane signora che scriveva i suoi pezzi su una testata del tutto irrilevante. Per
ottenere l’intervista avevo faticato un po’, ma allora ero dotata di una faccia tosta che in seguito ho
purtroppo completamente perso.
Pensai naturalmente che è proprio dai piccoli particolari che si intuiscono i grandi signori. Giurai
a me stessa che avrei tentato di collaborare al giornale, se fosse capitata l’occasione, prima o poi.
Perciò se a qualcuno venisse in mente di pensare “che errore”, beh, devo ammettere che la colpa è
stata anche un po’ sua.
Invece l’occasione arrivò quando conobbi Luigi Bazzoli. Un bell’uomo, dall’aria intelligente e
decisa, che allora dirigeva un mensile, “Astra”, e ne inventava di tutti i colori per rendere
interessanti argomenti fin troppo auscultati. Lo faceva da vero professionista, con lo stile - voglio
vendere il meglio anche in questo campo - che può suscitare in alcuni molte schizzinosaggini (che
poi sarebbero state anche le mie, ma allora non lo pensavo affatto. E, del resto, all’occorrenza, so
fare anche gli oroscopi, che male c’è? Basta sapere che si tratta di un gioco di società, da non
prendersi troppo sul serio). In fondo, che diritto abbiamo di sputare su cose in cui molti credono?
C’è sempre una verità, che magari non conosciamo, anche nelle superstizioni, specialmente quando
sono radicate nei millenni34.
Luigi Bazzoli stava per tornare al Corriere, e sondava l’eventualità di procacciarsi qualche nuovo
collaboratore, lanciando ami in varie direzioni. Io, nel frattempo mi ero messa a studiare le
neuroscienze. Mio figlio si era ammalato e siccome sono una persona molto ansiosa, e non capivo,
nè mi bastava, quello che mi dicevano i medici, non avevo trovato altra soluzione che questa.
Quando si prospettò l’eventualità di un nuovo settimanale di medicina, allegato al Corriere, ricordo
che toccai il cielo con un dito: finalmente avrei potuto (forse) lavorare in un campo che mi
interessava, imparare sempre di più, fare qualcosa che comunque non mi impediva di continuare a
seguire mio figlio, e da un centro di osservazione molto privilegiato.
Qualcuno potrebbe ora obiettare: però, non è servito. E’ vero, è servito solo a me. E questo è uno
dei principali motivi della scadentissima voglia di lavorare che ho adesso.
E’ cominciato così. Credo che uno dei motivi per cui tante donne collaborano a testate di medicina
sia proprio questo: di solito sono loro che curano i malati, perciò è inevitabile che si pongano
qualche interrogativo in più, anche se non hanno titoli accademici. Ma la medicina oggi non è più
solo un’arte improbabile, in cui la donne, sempre loro, tentavano di arrangiarsi con intrugli,
impacchi domestici e piccole sperimentazioni culinarie. In cui facevano magari pasticci, ma non più
degli uomini, in quasi sempre buona, ma talvolta anche cattiva fede, e fallivano spesso, meritandosi
così, solo loro, l’appellativo di streghe. La medicina è diventata un grande centro di potere,
investimenti e tecnologia. Dunque una cosa “da uomini”. Del resto le tecnologie le hanno inventate
loro. E anche la medicina moderna, perciò, da questo punto di vista, non c’è proprio niente da dire.
I giornalisti scientifici corrono il rischio di essere giornalisti come tutti gli altri, e di trattare le
notizie scientifiche senza una vera competenza. Durante la loro carriera, affrontano argomenti molto
diversi: devono passare da un delitto a un’intervista a un ministro, a un’inchiesta sul banditismo
piuttosto che sulle brigate rosse, a un’intervista al chirurgo che ha fatto il primo trapianto cardiaco.
Perciò coloro che nella scienza ci lavorano, e che sono molto specializzati, spesso non sono ben
disposti verso di loro. Hanno l’impressione di non essere capiti, o peggio di essere fraintesi. Lo
diceva anche Missiroli, uno dei mitici direttori del Corriere: il giornalista di per sè è “uno che non
sa di niente e scrive di tutto”. Negli argomenti di medicina e scienze il discorso diventa delicato,
perché gli articoli giornalistici in questo caso possono avere dei riflessi sulla vita e sulle scelte o sui
comportamenti della gente che legge. E in Italia non c’è una grande tradizione di giornalismo
scientifico.

34
E del resto come attività collaterale, anche il sanguigno Galileo, e quel signore gracile, nevrotico, miope, per di più
figlio di una strega, che ha il nome di Keplero facevano gli oroscopi. Qualcuno ha forse da obiettare sull'attività di
questi grandi geni del pensiero? E' già tanto riuscire a capire l'essenziale di quello che dicono. Per quanto mi riguarda,
qualche volta mi sembra di aver capito, qualche volta no.
47
Sesso, amore e gerarchia

Sempre secondo il mio direttore “ il giornalismo medico scientifico è migliorato in Italia perché sta
nascendo, non ha vecchie remore, non ha vecchi vizi da togliersi, è talmente nuovo che diventa
facile inventarsi un modo nuovo di farlo”. E’ vero che si tratta di argomenti in cui sarebbe meglio
avere una preparazione di base, ma è anche vero che, dopo qualche anno che si fa questo lavoro la
preparazione si acquisisce sul campo, e poi come sempre dipende dalle passioni e dalla
motivazione: è chiaro che chi ha passioni più forti rende di più. Certe volte diventa anche scomodo,
perché vede strade nuove che possono far paura, dare fastidio. Il vero problema sta nel fatto che
quando le cose sono difficili da capire, di solito si rinuncia prima. Forse è anche per questo che nei
giornali c’è troppo poca divulgazione scientifica. Forse è anche per questo che, se non sai chi è
Manzoni fai delle figuracce, mentre se non sai chi è Tyco Brahe nessuno se ne accorge.
Anche se sono convinta che c’è un sacco di gente che se ne interesserebbe, se solo gliene fosse
offerta l’occasione. E che se a scuola, nelle ore di storia, specie negli istitui tecnici, si insegnasse
un po’ di storia della scienza, invece di relegarla a qualche specialista universitario, il problema si
ridurrebbe, e con questo anche il gap che l’informazione scientifica soffre sui giornali.
Ho sempre pensato che non spetta ai giornalisti giudicare il mondo. Sarebbe già molto, anzi
moltissimo, se si cercasse, semplicemente, di fotografare, con il massimo di obiettività, la realtà.
Non sempre è facile, come sappiamo tutti.
E i giornalisti che fanno semplicemente i giornalisti - ed è meglio così, troppe cose in una volta è
difficile farle bene - sono davvero molto importanti. Perché hanno un potere molto grande, che non
sempre è facile spendere bene, e talora è persino sproporzionato, come avviene per la TV.
Tempo fa ho letto un libro che parlava di storie di bambini malati. Lo avevo comprato in America,
era scritto da una giornalista. Erano storie vere di bambini ricoverati in ospedale, e poco prima
anche una delle mie figlie gemelle lo era stata. C’era la storia di un ragazzino ammalato di fibrosi
cistica: mi ha fatto ricordare che in ospedale avevo conosciuto delle bambine -la Roberta, la
Tiziana, la Maria Cristina - che si curavano appunto per la fibrosi cistica, ma allora io non sapevo
che cosa fosse. Leggendo quel libro ho imparato cos’era e sono rimasta molto colpita. Erano
bambine che sembrava non avessero nessun problema, erano allegre e capricciose come tutti i
bimbi, e invece erano destinate a morire giovani, soffocate dal muco. Quel libro mi è servito: era
proprio un libro ben scritto, divulgativo, commovente, che si leggeva volentieri e raccontava delle
storie vere. Forse questo è un tipo di giornalismo scientifico più facile, o più professionale, che
funziona ed è molto utile.
Forse funziona anche perché la tradizione anglosassone è la migliore, per il giornalismo
scientifico. Che gli americani siano bravi è vero in generale, d’altra parte non possiamo competere
con un paese grande come l’America, però bisogna stare attenti a non farlo diventare uno
stereotipo. Qualche anno fa per esempio è capitata una notizia sulla memoria, titolata da alcuni
giornali e TV: “Fotografati nel cervello i circuiti della memoria”, data per scoperta americana
mentre non solo Corriere salute l’aveva anticipata mesi prima, come scoperta italiana, ma bastava
andare a pochi chilometri dal centro di Milano, all’ospedale S.Raffaele, per trovare chi aveva
organizzato la ricerca.
E’ chiaro che prima di poterle spiegare, le cose bisogna capirle. Però, se è vero che dagli
americani spesso abbiamo soprattutto da imparare, è anche vero che bisogna stare attenti a non
dare per scontato che è sempre così: può capitare che ci siano anche da noi ottimi ricercatori,
magari i primi nel loro campo nel mondo. In questo caso mi sembra che il minimo che la stampa
possa fare è aiutarli, senza prendere acriticamente la prima velina che viene dall’America, e
siccome viene dall’America, decidere subito che è oro colato.
E’ anche vero che per gli americani sempre a caccia di finanziatori per le loro ricerche, andare sul
giornale con qualche scoperta era più importante che da noi: questo può spiegare la loro voglia di
arrivare sempre primi anche quando non lo sono. Una fretta che in Italia ci si poteva permettere il
lusso di non avere. Ma ora le cose stanno cambiando anche da noi, dunque anche i nostri
ricercatori dovranno imparare a valorizzare ciò che scoprono e a saperlo spiegare.

48
Sesso, amore e gerarchia

Loro spesso non faciltano il compito: è come se ti dicessero, - che vuoi tu, quando finiscono sul
giornale le cose sono sempre mistificate, voi siete sempre alla ricerca del titolo facile, non mi fido.
Ma la fiducia è una cosa che col tempo si può conquistare dando appunto informazioni corrette: ci
vuole tempo e fatica. Ci vuole, anche da parte dei giornalisti modestia e attenzione, senza
quell’arroganza o quella sottile comodità che consiste nel pensare - tanto l’informazione la scrivo
io, ho io il coltello dalla parte del manico. Soprattutto, ci vuole passione.
In fondo il sistema usato dagli americani è un modo per fare dell’informazione a livello facile e
divulgativo, ma hanno anche loro una tendenza spiccata allo scoop, anche peggiore della nostra. Il
giornalismo divulgativo dovrebbe saper spiegare le cose difficili in modo comprensibile. Invece se
uno di noi, anche non come giornalista ma, ad esempio, come paziente, va a parlare con un barone
delle medicina italiana, quello userà una terminologia difficilissima, che non permette di capire
niente. Ricordo il tono del libro di patologia che mio fratello recitava ad alta voce preparando
l’esame ...”Sul tavolo autoptico noteremo... splenomegalia” ovvero l’ingrossamento della milza,
tipico dei malati di certe forme di anemia. Tutti capirebbero “ingrossamento della milza”, mentre
“splenomegalia” ricorda proprio il modo di fare dell’Azzeccagarbugli. Oggi in quasi tutti i casi, chi
è in possesso di conoscenza cerca di farsi capire dalla gente. Solo quelli che credono di essere, e
vogliono sembrare superiori, magari un po’ stregoni non ci tengono.
L’uso di un linguaggio astruso, ma anche più in generale gestire le informazioni in modo
strumentale, serve per tenere stretto il proprio potere. Ma è solo uno dei metodi che si usano per
escludere gli altri. Nelle aziende, tra persone con lo stesso linguaggio, c’è invece la tendenza a non
voler discutere le cose, dire - questa è una mia posizione, io sono il capo e non voglio renderne
conto a te. E’ difficile essere disposti a condividere il proprio potere con persone in qualunque
modo diverse. Per quanto mi riguarda, lo riconosco spesso nei sistemi di potere delle aziende,
perché li ho conosciuti un po’. E forse c’è qualcosa di simile anche nelle redazioni, che viste dal di
fuori dovrebbero essere organizzate in modo un po’ più democratico, soprattutto se lo scopo
principale è davvero solo quello di fare un bel giornale e di dare notizie.
Beh, magari proprio spartire il potere si può capire che è una cosa niente affatto gradita, ma essere
chiari nelle spiegazioni, mettere le carte sul tavolo senza barare, e senza costringerti a tripla fatica
per capire le cose, quello almeno si potrebbe fare, no? In fondo, io penso sempre che chi non si
spiega bene è lui per primo che non sa bene cosa vuol dire. A meno che non ci siano degli interessi
nascosti che provocano appunto questo tipo di comportamento35. Si potrebbe quasi considerare una
forma di malcostume dovuta all’eterno vezzo di pensare che tanto ’le notizie importanti sono quelle
che non si dicono a nessuno’. Mentre le notizie importanti si dovrebbero dire con la massima
chiarezza che riesce possibile: e secondo me, le notizie di tipo medico scientifico sono di questo
tipo. Fare un errore nel descrivere il colore delle mutande di questa o quella attrice è una cosa del
tutto irrilevante, lì basta che l’articolo sia divertente e l’errore passa del tutto in secondo piano.
Ma fare un titolo che dice ’è stata trovata la cura del cancro’ quando non è vero, e difficilmente lo
sarà, perché ci sono tanti tipi di tumori, significa fare un danno grave alle persone che leggono.
Significa, in poche parole, ingannarle. E allora a me capita di essere un po’ integralista su queste
cose, anche se naturalmente gli errori sono umani e come diciamo altrove non bisogna avere
troppa paura di farli. Mi capita di avere non solo in uggia ma in odio un tipo di giornalismo troppo
gridato, superficiale e manipolatore. Ma quanto è difficile anche evitarlo.
Lavorare al Corriere - anche se in un supplemento - per me è stato un po’ come fare l’università
del giornalismo. Anche osservando le cose dal buco della serratura, cioè da esterna, come è
capitato a me, sono tante le cose che si possono imparare. Il Corriere è in fondo un po’ un’Italia in
35
Però, non sempre è vero. Non è vero, per esempio, per alcune forme del linguaggio matematico, fisico e scientifico.
Non sempre la verbalizzazione è necessaria per il pensiero. Einstein diceva che le parole e il liguaggio, scritti o parlati,
non svolgevano un ruolo importante nel suo meccanismo ideativo. Anche in grande genetista Francis Galton trovava
che per lui scrivere era un grande inconveniente. “Io penso più facilmente in altri modi che a parole” era solito
sostenere. Nel campo delle neuroscienze, il dibattito è più che aperto. (cfr. Roger Penrose, “La mente nuova
dell’Imperatore”, Rizzoli 1992, pp.535 e segg.)
49
Sesso, amore e gerarchia

miniatura, ed è come tale, nei difetti e nei pregi, una antenna sensibilissima nel descrivere l’aria
che tira. Ricordo che agli inizi la cosa che mi aveva stupito, e che avevo ammirato di più, è stato di
vedere l’abitudine dei capiservizio - dei pochissimi capi servizio che ho conosciuto - al controllo
incrociato delle notizie. Era un metodo cui non avevo mai pensato. In seguito ho capito che era
inevitabile, per chi usa le notizie come materiale grezzo di lavorazione, diciamo così, diventare una
specie di antenna ambulante. Però forse qualche volta i gioralisti esagerano, in questo loro captare
come un’antenna quel che c’è in giro rischiano di esagerare la realtà proprio come fanno nei titoli
di alcuni loro prodotti.
Per quanto riguarda le donne, il Corriere è proprio il giornale in cui recentemente è stato dibattuto
un caso di molestie sessuali. Bisogna fare una certa attenzione quando si diffondono queste notizie
sulle molestie nell’ambiente di lavoro. Da una parte sono cose che esistono, è vero, ma dall’altra si
può facilmente cadere nel pettegolezzo. E’ tipico, per esempio, se una fa carriera, accusarla di
essere l’amante di qualcuno. Senza valutare, semplicemente, se è brava o no. E senza rispetto per i
sentimenti veri.
Queste vicende di molestie sono un po’ un segno dei tempi. Prima le donne stavano a casa, e se
lavoravano erano abituate a subire, ora si difendono. Però mi sembra anche sempre che si
amplifichino troppo i fatti, in modo strumentale. E sempre con un metodo che poi alla fine,
sgonfiata la grancassa informativa, ci rimette la donna. Questi argomenti vengono spesso usati
dalla controparte maschile per i soliti stereotipi del tipo ’Chi dice donna dice danno’ a conferma
dell’ostracismo in certi tipi di professioni, o meglio a certi livelli, verso il gentil sesso.
Perché ho l’impressione che, sotto sotto, le cose stiano proprio così. Si sa che gli uomini poi alla
fine ne conoscono una più del diavolo quando si tratta difendere il loro potere.
Del resto io non ho mai subito molestie sul posto di lavoro: a meno che per molestie non si intenda
qualche avance. Comunque non sono mai riuscita a prenderli molto sul serio. Le avance, di solito,
mi hanno fatto piacere. In cuor mio sono convinta che gli uomini considerano più “scandalosa”
una donna che non si scandalizza per un’avance di una che si mette subito a gridare all’abuso. Lì
vanno quasi sempre sul tranquillo, si sa che, sempre ricorrendo al noto stereotipo, gli uomini sono
tutti un po’ mascalzoni, perciò mal comune mezzo gaudio.
Da giovane ho subito due tentativi di violenza per fortuna non portati fino in fondo, nel primo caso
perché mi sono messa a gridare, nel secondo perché ho ceduto, e questo semplice fatto è bastato a
disarmare l’avversario. Me la sono cavata con dei lividi, i vestiti strappati, le gambe che tremavano
e una grande paura. Non c’era, in entrambi i casi, la deliberata volontà di umiliarmi o di ferirmi.
Era piuttosto un raptus è alla fine sembravano quasi più umiliati di me. Perciò mentirei se dicessi
che la cosa ha influenzato la mia vita sessuale successiva, - il trauma è stato grave eccetera
eccetera - che è stata sempre felicissima. Forse per questo mi risulta difficile ’visualizzare’ le
molestie. Penso che ci sono delle violenze intellettuali o verbali che possono essere molto peggio di
una molestia, ma di questo nessuno mai si scandalizza, chissà perché. Penso che ciò che fa più
male sia la violenza sotterranea del pettegolezzo organizzato ad arte - in questo gli uomini sono dei
veri maestri, e molte donne li seguono a ruota, forse solo per questioni di subalternità e di piccole
rivalità professionali - piuttosto di qualche carezza magari non voluta.
Io ho sempre avuto il vantaggio di avere questo fisico un po’ da Olivia (quella di Braccio di Ferro),
difficilmente mi fanno delle molestie. Ho alcuni “innamorati fedeli” tra i colleghi di lavoro, in
genere stranieri, e sapere che ci sono è per me un enorme aiuto nelle difficoltà, quando mi sembra
che nessuno mi apprezzi. Ma sono pochi, io non sono quella a cui fischiano dietro per strada.
Poi ho subito anch’io, un paio di volte, qualche comportamento non proprio corretto di colleghi di
lavoro: si trattava di persone un po’ fuori di testa. E no, non non erano ingegneri. Nel senso che per
quanto mi riguarda posso sfatare la leggenda secondo cui chi molesta è un capo che ti offre
qualcosa in cambio. Non è il mio caso e non l’ho mai sentito dire. Erano solo persone un po’ strane.
Ci sono rimasta male per un momento poi ci ho riso su, sono cose che capitano. Invece non mi è
mai assolutamente capitato il capo che mi molestasse, anzi piuttosto sono stata io a molestare,

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Sesso, amore e gerarchia

perché io rispondo quasi sempre alle battute e vedo i doppi sensi. Con gli ingegneri soprattutto ho
un’impressione di un imbarazzo eccessivo, non capiscono il mio atteggiamento e non lo riescono a
collegare con il fatto che - purtroppo (o per fortuna?) si capisce subito - sono una superfedele che ha
avuto un uomo solo nella vita. Restano perplessi quando prendo l’iniziativa, anche solo di fare una
battuta. Forse proprio perché poi non sono disponibile, questo atteggiamento non li convince, non
risponde alla loro immagine di donna.
Invece io credo che se si rimane entro certi limiti, dettati dal rispetto, è una questione di linguaggio:
c’è chi fa solo delle battute e chi va fino in fondo e fa delle scelte diverse, ma il rapporto tra i sessi è
bello proprio perché c’è sotto questo. Perché ci si piace. A me piace lavorare con gli uomini e non
mi riesco a capacitare del fatto che a loro non piaccia altrettanto lavorare con me, e abbiano così
paura. Forse perché io cerco di mettermi in mezzo nei loro giochini di banda.
Anch’io preferisco lavorare con gli uomini. Può sembrare strano, ma mi sono sempre sembrati più
democratici e più aperti delle donne. Meno subalterni. C’è anche il vecchio difetto o pregiudizio
che anch’io ho sotto sotto verso il mio sesso di pretendere sempre qualcosa di più, di essere più
severa nel giudicare, che so, uno sgarbo o una dimenticanza, poi c’è il fatto che nelle piccole
meschinerie le donne sono abilissime e questa è una cosa che mi ha sempre esasperato. Perciò mi
dispiace in modo particolare se sono gli uomini a rifiutarmi, mentre se lo fa una donna, mi trova
ancora più indifesa, chissà perché.
Eppure tutto si potrebbe risolvere con un po’ di intelligenza. Oggi secondo me nelle aziende - e non
solo lì - c’è proprio bisogno di intelligenza perché dobbiamo riinventarci tutto. Non possiamo
permetterci il lusso di perdere tempo con giochi di potere. Qualcuno mi ha detto che le donne non
vengono accettate quando sono intelligenti, perché fanno paura agli uomini. A volte credo che sia
una diagnosi troppo facile, magari consolatoria, ma che non aiuta nessuno. Esistono molti altri
motivi di diffidenza tra i sessi. E escono fuori quasi sempre sul lavoro. Forse dovremmo invece
imparare ad essere più rilassati, semplicemente, e a volerci bene. In fondo, è un po’ una delle tesi di
questo libro. Ma anche dobbiamo imparare ad accettare le nostre emozioni, e a raccontarcele. Gli
uomini burberi per esempio, prima si arrabbiano poi si sentono in colpa e sempre in dovere di
giustificarsi, come facevano certi miei capi. A me piacciono molto, anche se mi mettono paura,
qualche volta! O meglio, mi fanno sentire trattata come una bambina, e questo non aiuta, soprattutto
quando si ha bisogno invece di essere incoraggiati ad essere adulti, ad assumere le proprie
responsabilità. Ma essere intelligenti vuole dire capire i propri limiti e quelli degli altri, e, forse,
usare un po’ di indulgenza. Non condivido affatto la tesi secondo cui chi è intelligente non è mai
meschino o maleducato. Forse qualche volta è vero, sarebbe bello se fosse vero. Ma succede solo
per certi tipi di intelligenza, quella più emozionale, capace di immedesimarsi negli altri. Certi
ricercatori o artisti, che magari nel loro campo eccellono, come certi manager, sono impacciati nei
rapporti con gli altri, come se spendessero tutta la loro riserva di amore nell’amore per la ricerca o
un’opera d’arte. E invece certi bambini handicappati sono capaci di livelli di comprensione e di
tenerezza che le persone efficienti e di successo non sanno neppure immaginare.

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Sesso, amore e gerarchia

Cap.5. LA DONNA DEL BOSCO


Non siamo onnipotenti - Selma Lagerloef

Una voce sottile fende la parete


e mi dice che il sogno paralizza
le stelle del mattino
Tahar Ben Jelloun, L’enfant de sable

Nel 1909 - più o meno quando in Italia si laureava la prima donna ingegnere al Politecnico di
Milano, e vent’anni prima che Virginia Wolf pubblicasse il suo saggio “Una camera da sola” - la
svedese Selma Lagerlof ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Questo dimostra, tra l’altro,
che nel Nord Europa la cultura, intesa anche come capacità di inserire tutte le categorie di persone
nella vita sociale a tutti i livelli, da tempo cammina più in fretta che nel resto del continente, come
abbiamo constatato anche analizzando alcuni atteggiamenti delle loro monarchie. E in Italia?
L’Italia è come al solito un paese di contraddizioni. Perché non voglio neppure pensare quale fosse
il tasso di analfabetismo a quell’epoca, ma devo anche ricordare che Grazia Deledda (che ha vinto
il Nobel nel 1926) e Matilde Serao sono donne meridionali e scrittrici nello stesso periodo.
Selma è una maestrina schiva e solitaria; non viaggia, non cerca la vita brillante neanche quando è
al culmine della notorietà. Ma sparge sulla vita a piene mani la “polvere d’oro” delle favole e
della follia.
Gosta Berling, il prete spretato, è protagonista del suo libro, che oggi è quasi impossibile trovare
nelle librerie36. Sicuramente è un libro fuori moda, a volte così romantico da essere ridicolo e
puerile. Perché allora lo abbiamo scelto? Per almeno due ragioni: per il suo linguaggio allegro e
scanzonato che copre una tristezza di fondo, come le lunghe limpide giornate estive del nord che
sono il preludio dei lunghi crepuscoli e delle lente notti invernali; ma anche per il suo
numerosissimo contenuto di simboli e di metafore, così tante da non sapere quali scegliere e di
quali parlare. E anche per la storia della ragazza di Nygord, che come Dario si è perduta nel
bosco.
Si tratta di una saga, cioè una tipica forma di letteratura scandinava, già comune ai primordi della
lingua scritta nei paesi nordici, che raccoglie la tradizione orale tramandata attraverso leggende
popolari. Secondo me, come romanzo non ha una trama molto definita; segue tante singole storie,
la vita di moltissimi personaggi diversi, racconti legati da un filo conduttore che si piega e si
intreccia in modo apparentemente slegato, per poi svelare nuovi particolari e concludere in tempi
diversi ogni vicenda.
Gosta partecipa a tutte, o quasi, le storie. E’ un personaggio solare, anche se tormentato. Si
definisce un uomo perduto, in un certo senso “cattivo”. Ama tante donne, e ognuna per lui è la sola
e la migliore. Per ognuna è pronto a fare follie, a cavalcare nella notte e a giurare che non la
dimenticherà mai. E loro lo ricambiano, durante i balli aristocratici e nelle passeggiate in
giardino, davanti agli occhi dei loro stessi mariti, perché tutto è un gioco e tutto può alleviare il
grigiore della vita, se si mantiene quella drittura morale che anche in Gosta non viene mai
dimenticata e solo raramente messa in secondo piano. Nell’unica storia che continua per tutto il
romanzo, la storia dell’amore trasgressivo tra Gosta e la giovane contessa, lo spirito del
protestantesimo, rigido ed inflessibile, è sempre presente, come se fosse il vero protagonista, e
condanna i due innamorati, che non sono mai andati più in là di qualche sguardo conplice, ad una
vita di espiazione. E loro sono felici, alla fine delle loro innumerevoli avventure, di ritirarsi a
pregare e lavorare in una capanna perduta nel bosco.
Ho sempre avuto molta simpatia per i colleghi che provengono dai paesi del Nord Europa: hanno
una cultura più avanzata di noi per quanto riguarda la libertà e il rispetto. Il loro atteggiamento
36
Selma Laegerlof, "La Saga di Gosta Berling", B.U.R., 1979
52
Sesso, amore e gerarchia

verso le donne è sicuramente più maturo rispetto a quello che hanno mediamente gli altri uomini.
Spesso però ho notato in loro questa tristezza di fondo, questo essere troppo esigenti con se stessi.
E ho spesso pensato a come ci aiuta, a volte, il nostro spirito cattolico: che con la confessione e il
pentimento ci consente di ricominciare da capo. Per la tradizione protestante, il peccato è qualcosa
di incancellabile. Per noi, eredi dei disinvolti cardinali del Rinascimento e della Controriforma,
nulla è perduto anche se pecchiamo. Questo ci rende meno affidabili, ma ci permette di vivere
meglio.
Selma Lagerlof, come Virginia Woolf, non dà molta importanza alle gerarchie. Ma soprattutto,
secondo lei non esistono gerarchie o poteri umani che possano superare il potere della natura, o di
Dio, al di sopra di noi. Il vescovo che viene ad esaminare Gosta quando è ancora un pastore, il
ricco e potente Melchiorre Sinclaire, il malvagio Sintram che ha un’amicizia addirittura con il
diavolo, la contessa Marta, vengono sconfitti da piccole grandi cose su cui non hanno potere: la
malattia, gli uccelli, un vecchio ubriacone, la fede semplice della signorina Ulrica.
Quando la ragazza di Nygord, dagli occhi azzurri e i lunghi capelli neri, si perde nel bosco per
morirvi, tutta la gente del paese la cerca. Lasciano il lavoro a metà, la cena scodellata sulla tavola.
Vanno gli uomini con il grembiule da lavoro, le donne con i bimbi in collo, i vecchi e gli invalidi.
“Cercatela tutti, non fermatevi, perché il bosco è grande, e Dio l’ha privata della ragione”. Penso
alla nostra mentalità moderna, a come siamo incapaci di accettare che esistono forze, magari della
natura, che ci superano, contro le quali non possiamo nulla, nonostante la scienza, nonostante la
buona volontà.

Nessuno aveva mai fatto del male alla ragazza di Nygord. Né lei aveva mai fatto male ad alcuno. Si
era messa in cammino fiduciosa come un bimbo. “E chi può andare più sicuro di colui che Iddio
stesso sorveglia? Fino ad ora è sempre ritornata”. La folla di uomini che si era messa in cammino
suscitava meraviglia al suo passaggio, sollevando vortici di domande: “Che cosa volete, che cosa
cercate?” “Cerchiamo la ragazza dagli occhi azzurri e dai capelli neri che si è persa nel bosco” “Che
cosa cercava la ragazza nel bosco?” Cercava la vita, la ragione e l’amore perduto, incurante dei rovi
che le tagliavano le mani, della neve che la faceva scivolare, delle brume lattiginose alle pendici dei
monti, del gorgoglio insensato e crudele dell’acqua del ruscello che scendeva a valle. Li cercava nel
buio della notte, scesa troppo in fretta ad oscurare il sole.
Ma il bosco è pericoloso di notte, vi si trovano paludi senza fondo e precipizi e il ghiaccio
dell’inverno e pietre che feriscono i passi e i mormorii strani e spaventosi degli spiriti che lo
abitano. La ragione della giovane è nelle mani di Dio e il bosco e’ immenso, di una vastità scura e
terribile, troppo grande per forze solo umane. E nessuno ci si inoltra di notte perché troppi sono i
rischi di non ritornare. Chi e perché non l’aveva fermata mentre a passi lunghi e veloci, intimorita
dal freddo, disorientata e sola, si inerpicava nel buio?
Ma cercate, non smettete di cercare perché è fragile, indifesa, incapace di ritrovare la strada come
quegli uccellini che la malattia priva della capacità di captare i messaggi e le onde inviate dagli
stormi in volo compatto. Cercate senza stancarvi, con tutte le forze, con ogni mezzo, anche dove
piede d’uomo non passa da anni, è molto bella la pazza di Nygord dagli occhi puri e molto amata e
aspettata e il bosco la nasconde perché vuol tenerla con sè. E il corteo si mette in cammino, si
divide in gruppi più piccoli, a chi mai non saliranno le lacrime agli occhi tra tutti coloro che li
vedono passare? E’ uno spettacolo grandioso vedere gli uomini riuniti per un nobile scopo. Come si
potrebbe non amare quella gente?
Anche mio figlio si è perso nel bosco. Anche la sua ragione era da tempo nelle mani di Dio. Anche
lui era bellissimo, sebbene l’esplosione della sua giovinezza non portasse da nessuna parte. Le
ricerche sono state imponenti. Elicotteri, esercito, uomini del Cai e del soccorso alpino sembravano
aver battuto palmo a palmo le montagne, incuranti della neve che nel frattempo era caduta, per uno
di quei capricci del clima che a febbraio, in poche ore mutano il sole e l’annuncio di primavera
negli ultimi geli dell’inverno. Era stato un inverno mite, uno dei più caldi del secolo secondo le

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Sesso, amore e gerarchia

statistiche, e partendo da casa, a Milano, nessuno aveva pensato né al clima né alla possibilità di
perdersi: un giaccone pesante e scarpe da città era tutto quello che mio figlio indossava mentre si
perdeva nella notte lungo le strade male illuminate della montagna.
Nessuno in realtà, neppure io che pure conoscevo l’imprevedibilità e irragionevolezza dei suoi
movimenti, aveva veramente creduto all’ipotesi del bosco. Sembrava troppo irragionevole persino
per un ragazzino come lui. E tante erano le voci e le segnalazioni che affermavano di averlo visto
nei luoghi più impensati. Tu, Dario, avevi imparato a scrivere le lettere in stampatello, ma mai in
corsivo. Forse non capivi che si trattava delle stesse lettere in forma diversa. Così pregavo che i
cartelli fossero scritti in stampatello, anche se non li hai mai guardati lo stesso. E’ inutile fare fatica
quando non si può. Quando le crisi, tante, sempre più forti, di ogni tipo, ti squassano ogni giorno e
interrompono i sogni e i ricordi dei sentimenti impedendo al pensiero di organizzarsi. Quando tutto
dipende da raggi di sole nascosti dalle nuvole. Presto, hai dimenticato anche lo stampatello. Nella
culla del vallone di montagna dove ti sei rannicchiato, il braccio sotto la testa a formare un
improvvisato cuscino, i raggi di sole filtrano solo, per poco, nel tardo pomeriggio, mentre le scie
degli aerei tagliano come ferite l’azzurro del cielo. Tu non sapevi, Dario, quando si vuole cercare
qualcuno, o qualcosa, di quante siano le strade dove perdersi. Nel bosco cercavo la vita e la luce dei
tuoi sguardi attenti e disorientati. Ma la fatica e il dolore mi rimandavano come in uno specchio solo
le mie illusioni e gli alberi a foglie caduche, olmi, betulle e ontani, sembravano solo ragnatele
disordinate sulla coltre di nevi. Perché crescevano i rami, se le radici non potevano espandersi?
A volte la tecnica, e la massa di informazioni servono solo a creare confusione. Per quanto
continuassi a insistere di cercare vicino, nel raggio che poteva percorrere a piedi, chi poteva
assicurare che non fosse stato caricato da qualche automobile di passaggio? Ma il sentimento più
pesante per me, durante le ricerche, è stato la sensazione di estromissione che mi ha colpito subito:
come madre, potevo spiegare dettagli di vita e di comportamento utili alle ricerche, ma non
partecipare, questo era un compito degli uomini. In parte, la cosa mi ha fatto piacere: mi sentivo
“accudita”, ma in parte mi disperava e allora, alla chetichella, quasi con senso di colpa, portavo
avanti mie ricerche personali in un muto dialogo con l’ombra di Dario, che di sicuro mi avrebbe
guidato nella giusta direzione. Ma camminavo a caso, evitando i luoghi che sapevo già battuti dagli
altri, sempre più disperata e più sola. Sempre più consapevole che non c’era speranza: le bufere di
neve e il gelo improvviso (il clima non è feroce, in genere, sulle montagne circondate dai laghi, ma
quella notte il termometro è sceso a otto gradi sotto lo zero) non erano realmente sconfiggibili. A
meno che qualcuno non lo avesse caricato in macchina, ma allora, perché non me lo riportava? Si
diventa infantili e ci si sente molto piccoli, quando la realtà ci cammina addosso incurante dei
sentimenti privati. Col peso dei sensi di colpa per non essere stata abbastanza attenta. Camminavo,
sulle spalle un fardello di pietre, ma non ero io. Non era vero quello che stava capitando. Non era
vero che Dario era solo, probabilmente rannicchiato, morto di freddo e di stanchezza, in qualche
anfratto della montagna, dove non ci sono strade che è impossibile seguire di notte, ma solo alberi
che dormono, foglie soffici, rovi intirizziti, buche precipizi pericoli e geli assassini. Dove non ci
sono strade, ma solo tentativi di cercarle. Mai prima di allora avevo pensato a quanto fosse grande
la montagna. Sotto i piedi la terra, di fronte agli occhi chilometri di freddo, in tutte le direzioni, nel
silenzio indifferente, minaccioso e crudele degli abeti e dei larici.
E le ricerche, il conflitto di competenza tra esercito e carabinieri, la presenza distraente dei
giornalisti, che molto utili, generosi, veloci e precisi nel momento di dare l’allarme, si andavano
trasformando via via in un elemento di disturbo: specie verso i carabinieri, lusingati ma anche
preoccupati da tanta attenzione. E infine un po’ irritati dal dover rispondere sempre le stesse cose.
Ma soprattutto sconfitti per non essere riusciti a trovare Dario. I giornalisti sono alla ricerca di
risposte immediate, da bruciare in un giorno, e di storie che finiscono bene. Se non è così, e molto
spesso nella realtà non è così, ti fanno pagare la loro delusione partendo alla caccia, non della verità,
ma dell’eccesso, della notizia a tutti i costi. E questa è proprio l’ultima cosa di cui abbiano bisogno
genitori stremati e persone impegnate nelle ricerche. Il senso del sacro non corre sui binari

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Sesso, amore e gerarchia

dell’informazione quotidiana, avvolge solo le persone vicine, gli amici, i parenti. Chi ha ricordi da
dividere, vite da ricordare, episodi da raccontarsi per lenire il dolore. Gli altri diventano un
ingombrante “troppo”. Degli estranei curiosi e nient’altro. Sempre, anche dopo che il primo choc è
passato.
Via via, il desiderio di trovare Dario cresceva e faceva nascere leggende da bar: qualcuno lo aveva
visto, stava bene e sorrideva, ma poi si era di nuovo allontanato. “Bel bagai”, commentavano
guardando le foto sul giornale. Qualcuno, un po’ ubriaco, ha avvicinato mio marito: “Ma lei cosa
dice? Come mai sua moglie non è stata attenta?”. Lui non rispondeva, irritato. Sapeva fin troppo
bene quanto fosse difficile. E non aveva voglia di parlare. Ci sono parole che non servono.
Ecco, l’impotenza. Su di me ha avuto effetti strani: nei primi anni della sua malattia il sentimento
dominante era la rabbia, era la continua, disperata ricerca di possibili soluzioni. Poi, man mano che
il tempo passava e le risposte erano sempre più negative, è prevalsa una coltre di stanchezza, una
vigile rassegnazione. Ogni tanto, di fronte a qualche notizia nuova di possibili cure, la speranza
tornava, mi mettevo in viaggio e tornavo ogni volta più stanca di prima. Ma non rinunciavo a
cercare. Mi sarebbe piaciuto avere tanti soldi, e fondare un centro per la ricerca di ipotesi nuove. Ma
non era possibile, o almeno, io non ho trovato le strade. Aspettavo: che qualche nuova ricerca, o
scoperta, mi potesse mettere su una pista giusta. Per questo tenevo tanto al mio lavoro di giornalista
scientifica: mi permetteva di imparare e di essere nel posto giusto, se fosse arrivata la notizia che
speravo. Ancora adesso, quando leggo di casi risolti quasi miracolosamente sento addosso la voglia
di partire: ma so che i giornali gonfiano le notizie e difficilmente le danno con la precisione che
sarebbe necessaria nei casi difficili.
Ogni tanto, mi scopro anche a vagheggiare di unità di ricerca femminili (nel corpo della polizia e
dei carabinieri) sui casi di persone scomparse, specie di bambini. Sono convinta che potrebbero dare
un contributo importante. Ma si tratta di fantasie: che altro potrei fare, del resto?
Quando le ricerche si interruppero, ai primi di marzo, avvenne un fatto strano. Su Asso e nei paesi
vicini cadde una grandinata eccezionale: chicchi di grandine grossi come pietre ruppero i vetri delle
auto in sosta e qualche vetro di abbaino. Piovvero pietre di ghiaccio che qualche amico conservò nel
freezer di casa, come ricordo.
Quel giorno non eravamo in montagna, ma a Milano, nella casa dei miei genitori, dove ci eravamo
recati per organizzare, assieme a loro amici, un ultimo tentativo di ricerca. Prima che la natura
rifiorisse, e diventasse ancora più difficile ritrovare il corpo di Dario, se erano le montagne a
nasconderlo. Per me è stata una grande fortuna non essere sul posto. Oscuramente sentivo nel clima
un’offesa ulteriore, nella pioggia una minaccia, nelle pietre di ghiaccio uno scempio, rivolto anche
contro mio figlio. La pioggia, le pietre, il vento mi sembrava non cadessero sulla terra, ma su un
corpo indifeso. Dalla porta di casa osservavo le montagne. Come taglienti lastre di ghiaccio nero,
erano fredde cupe estranee e nemiche. Non osavo più pormi domande. Non sono stata capace di
sopportare l’arrivo della primavera. Le gemme ormai nitide sui rami degli alberi facevano capolino
solo per prendermi in giro. Se avessi potuto farlo, ne avrei bloccato la crescita. Mi era
insopportabile il pensiero che, a tre settimane di distanza dal gelo, le forsizie stessero già fiorendo, e
un sole tiepido e ristoratore brillasse tra i rami e sui tetti delle case. Mi era insopportabile il profumo
dei primi fiori e delle zolle di terra fresca. Mi chiudevo in casa, per non vedere. Quella primavera
non è esistita, per me.

Le persone che cercano la ragazza di Nygord sanno bene che non riusciranno a trovarla viva. E
sanno anche che non serve trovare dei colpevoli: “Dio l’ha privata della ragione”. Non è
un’accusa verso Dio, è un riconoscere che ci sono dei perché che la nostra mente non può sondare.
Noi uomini moderni, invece, non riusciamo a renderci conto che non siamo onnipotenti. “Tutti
studiano da Dio”, mi ha detto una volta un amico teologo. Salvo poi rendersi conto che non
riusciamo a superare gli esami. Sotto certi aspetti, in particolare, le donne, da sempre, sono portate
a credere di essere onnipotenti. La nascita di un figlio è da una parte una affermazione di potere,

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Sesso, amore e gerarchia

dall’altra è una terribile prova, perché ci sentiamo comunque responsabili di tutto quello che gli
accade. Ricordo che, dopo la nascita della mie figlie gemelle, la prima volta che le ho viste - erano
dentro l’incubatrice, nude, sdraiate con gambe e braccia aperte come due insetti mostruosi, con
l’ago della flebo infilato sulla testa, un faccino dolce che non sembrava soffrire - ricordo il primo
pensiero che mi è balenato come un lampo nella testa: “Cosa ho fatto!”. Come se tutto fosse dipeso
unicamente da me, l’apparente fallimento di allora forse ancor più del successo di oggi, che mi
vede vicino due meravigliose ragazzine piene di vita.
Questa sensazione di onnipotenza viene alimentata dal mondo che abbiamo intorno. E, dato che
quasi sempre paradossalmente vale per ogni situazione anche il suo contrario, è anche una delle
ragioni che vengono utilizzate per escluderci, perché questa onnipotenza, che è solo nella natura
dentro di noi, fa paura. Veniamo giudicate, ancora oggi, prima di tutto come madri: le donne che
non riescono ad avere figli sono piene di sensi di colpa, di una sensazione di vuoto. Ma quelle che
ne hanno, sono costrette a confrontarsi ogni giorno con chi le giudica. A maggior ragione se sono
donne che lavorano. Quante volte mi sono sentita dire: “Ma come fai a lavorare con tre figli?”
proprio da qualche collega - per esempio un professore universitario tedesco - che ne ha altrettanti.
Quante volte ho capito che mi si rifiutava un avanzamento, una promozione, perché tanto ero “il
secondo stipendio in casa”, senza pensare che per lavorare, soprattutto a una donna, occorrono
aiuti, energia, in ultima analisi spese che solo avendo una posizione più elevata si possono
affrontare.
Anch’io ho sempre pensato che avere un figlio non può e non deve essere di ostacolo al lavoro. Che
occorre conciliare le cose e avere gli strumenti per poterlo fare. Quando un figlio si ammala diventa
tutto più difficile, però, e può capitare di desiderare che sia sufficiente un solo stipendio. Ma nel
mio caso non era così. E comunque sono riuscita ad arrangiarmi.
Ma ricordare è strano. Per me il parto è stato un match di boxe. Mi avevano rotto le acque troppo
presto, ero dilatata ma spinte non ne sentivo. L’ostetrica, una donna giovane, truccatissima e rossa
di capelli, aveva fretta, si era alla vigilia di Capodanno, e mi incitava in forme e modi che a me
sembravano ostili. Mi diceva che se non spingevo sarei stata responsabile delle difficoltà future ed
eventualmente della morte, di mio figlio.
Io che facevo sforzi sovrumani per collaborare, ma sentivo solo un fortissimo dolore, a un certo
punto ho persino tentato di strapparle la cuffietta. Urlavo molto, - per me era inevitabile, ma per chi
mi assisteva era disturbante, - e mi sentivo preda di un terremoto interno incontrollabile.
Quando Dario è uscito il dolore è cessato di colpo. Il personale ha commentato: - che bello che è
questo bambino! - forse, dato che ne vedono tanti, hanno dei criteri estetici anche per i neonati, - e
poi un’anziana ostetrica che era sopraggiunta nell’ultima mezz’ora e che mi aveva davvero aiutato e
rasserenato, ha concluso: - Che placenta ’giovane’. - Come se questo le confermasse qualche suo
ragionamento interiore che non capivo.
Luciano, che era vicino a me mi ha detto con tenerezza e trattenuta commozione, - E’ un
maschio.
Me lo hanno messo per pochi minuti sulla pancia. Ero felice e stremata. Ho controllato che avesse
tutte le dita e notato che era senza sopracciglia. Avrei voluto tenermelo, scoprirlo, giocare con lui,
parlargli, ma me lo hanno subito portato via. All’uscita dalla sala parto, mia madre, in attesa, ha
commentato: - Ma chi ci avevi ad assisterti, una Kapò?- le avrei dato un bacio. Avevo davvero
odiato la prima ostetrica. Durante il parto, ero regredita anch’io all’infanzia.
Una volta in camera, l’infermiera, con un certo disprezzo, o almeno così mi era sembrato, mi aveva
lanciato le mutande sul letto. Ho pensato che non mi davano il bambino perché volevano punirmi
per gli urli terribili che avevo lanciato. Ma non l’avevo fatto apposta. Il mio corpo e le mie reazioni
erano al di fuori del mio controllo.
La prima notte per l’eccitazione non ho dormito. Volevo Dario, che intanto se ne stava altrove.
Pensavo che anche lui doveva soffrire per la separazione. Gli avevano trovato un po’ di ’birilubina’,
insomma, era un po’ giallino per la fatica della grande avventura, e messo sotto una lampada dove

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Sesso, amore e gerarchia

se la dormiva in pace col mondo. Il giorno dopo, quando ho provato a scendere dal letto, non ci
sono riuscita. Ero così stanca che per mettere le pantofole mi era necessario un esercizio di
concentrazione di mezz’ora. Non riuscivo neppure a sollevare il braccio per spegnere la luce sopra
la tastiera del letto. Poi mi sono ammalata di febbre pueperale. Mi avevano messo nel letto di
un’altra donna che l’aveva avuta prima di me. Probabilmente, nel mio stato di debilitazione, è
bastato qualche germe del materasso.
Mi hanno dato degli antibiotici ed è cominciato il ’dramma’ del latte. Ne avevo poco, e Dario
sembrava preferire la tettarella ai miei capezzoli troppo piccoli. Non ciucciava con molta energia. Io
cercavo di stimolare il latte con un aggeggio meccanico, una specie di piccola mungitrice, con
risultati scadenti.
Telefonavo in lacrime a mia madre, che per consolarmi sosteneva: - In fondo, tu sei venuta su col
latte artificiale e sei sempre stata bene. Da piccola, mi faceva orrendi racconti di ragadi e diceva che
le facevano così male che quando succhiavo le ero persino diventata antipatica. Per fortuna c’era il
latte artificiale!
Comunque, per i primi tre mesi, sono riuscita a dare a Dario qualche ettogrammmo del mio latte.
Sempre col metodo mungitrice. Lui ciucciava beato, ma dalla tettarella. E’ stato uno dei pochi casi
della mia vita in cui mi sono sentita gelosa di qualcosa.
In ogni caso non ho mai pensato, neppure per un attimo, - che cosa ho fatto! Ero molto orgogliosa
di lui, che era stato dimesso dall’ospedale con una pagellina piena di dieci.
Ero io che mi sentivo un disastro e piangevo anche solo quando qualcuno mi guardava in tralice. Pe
fortuna Dario era il ritratto della tranquillità. Non dava nessun problema, proprio come se stare al
mondo per lui fosse una cosa del tutto scontata. Del resto, quando si è ammalato, aveva quattro anni
e due mesi. Ma questa è un’altra storia.

Gli uomini cantati da Selma Lagerlof - perché si tratta più di una canzone che di un romanzo - sono
spesso poco responsabili. I cavalieri di Ekebù vivono una vita dissoluta - ma quanto poi? Si tratta
di buoni pranzi, balli, scherzi goliardici... niente di veramente perverso (almeno secondo la
maestrina del Vermland37) - e non vogliono legami. Come Lillecrona, il violinista, che torna a casa
ogni tanto, al mattino presto, e suona una serenata davanti alla finestra della camera da letto della
moglie che dorme ancora. Lillecrona ha due vite: una, con la moglie e i bambini, è una vita
all’insegna dell’ordine, della poesia, delle piccole cose. Una casa con il tetto di torba, un giardino
pieno di piante, un visciolo in fiore, l’orto con tutti i suoi germogli allineati e tanti bambini. L’altra
vita è quella di Ekebù, insieme ai cavalieri, piena di creatività ma senza responsabilità domestiche,
con la musica, le canzoni, la gioia tumultuosa della trasgressione.
Tanti, uomini e donne, vivono così, con il piede in due scarpe, senza saper scegliere tra l’amante e
lo sposo, ma spesso vivono male: con rimorsi, con angoscia, senza sapere cosa in realtà vogliono.
Il bello di Lillecrona, e di Selma Lagerlof che ce lo descrive, è invece la sua capacità di immergersi
ogni volta completamente nella vita che sta vivendo in quel preciso momento, e di poter contare
sull’amore di sua moglie, che lo aspetta e lo accoglie circondata di bambini, come una Penelope
felice e solare.
L’evasione è un’ancora di salvezza, sembra dire questo personaggio, un modo per rendere sempre
nuova la vita. Ancora più degli uomini, tante donne di oggi potrebbero essere un po’ Lillecrona: il
lavoro dà loro una dimensione nuova, mai sognata prima, di libertà e di indipendenza. La casa,
fornisce un rifugio e la sicurezza di un porto riparato. Una volta, tutto questo era possibile soltanto
agli uomini. E forse ancora oggi, per loro è così ovvio che non si accorgono neppure della bellezza
delle possibilità che vengono offerte a chi si può permettere ogni tanto, uno stacco, una vita
diversa.
Per me ad esempio, andare ad un congresso per una settimana, in un paese lontano, lasciando a
casa i bambini piccoli e i pasti da preparare, è stata spesso una specie di vacanza in un mondo del
37
Regione della Svezia dove è nata Selma Lagerloef
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Sesso, amore e gerarchia

tutto nuovo. Come cambiare pelle, diventare un’altra persona. E non occorre nessun altro tipo di
trasgressione: basta una serata danzante sul ferry-boat che va da Stoccolma ad Helsinky, con una
cena insieme ai colleghi e buona parte della notte passata a discorrere con l’uno e con l’altro - di
lavoro, di rapporti con i capi e i dipendenti, della famiglia e della vita - bevendo succo d’arancia
nei baretti sparsi ai vari piani della nave.
So che la descrizione di queste mie relazioni con uomini, nelle quali il sesso fisico non compare
apertamente, può sembrare “sospetta”. Ma credo siano sempre state il mio modo di risolvere
questi problemi. Le donne non sono abituate ad avere una vita libera da questo punto di vista. O
almeno non tutte. Nè gli uomini sono abituati a considerare la vita delle donne con lo stesso metro
con cui si muovono nella loro. Una della premesse più importanti per l’emancipazione, secondo
Virgìnia Woolf38, è che le donne imparino a considerarsi dal punto di vista fisico, e non più come
angeli del focolare o come esseri puri e privi di entità corporea. Per questo, secondo me, non è
indispensabile fare del sesso. E’ una questione di liguaggio, non solo per le donne ma anche per
molti uomini, anche se loro non ci tengono a farlo sapere. Ma allora, se si è timidi ed inibiti, se si
ama il proprio partner e non si vuole perderlo, perché perdere d’altra parte tutto il bello che ci può
essere nella comunicazione tra due persone di sesso diverso? Perché tormentarci filosoficamente
per sapere se l’amicizia tra uomo e donna è possibile, e non accettare tutto quello che si può trarre
da un rapporto magari un po’ ambiguo, ma proprio per questo pieno di emozione? Non me la sono
mai sentita di rinunciare ad addomesticare e a farmi addomesticare, soprattutto dai colleghi. E
probabilmente ho rischiato di essere giudicata male, perché per gli uomini la libertà delle donne è
un segno di dissolutezza.
Molti dei miei colleghi, soprattutto quelli incontrati periodicamente ai congressi, non hanno
pregiudizi verso di me, anche se magari li hanno verso le donne che lavorano con loro. Sono in
qualche modo abbastanza poeti, non hanno grandi difese. Non saprei dire se è perché quasi tutti
sono stranieri o perché con persone che si conoscono poco, e che presto torneranno a casa loro,
lontano, ci si apre più facilmente. Non credo che accada perché sono quasi tutti scienziati; per
essere impiegati nel campo della ricerca scientifica non è sempre necessario essere capaci di
inventare qualcosa, ma solo essere precisi, o un po’ creativi, avere studiato e aver voglia di
continuare a farlo, essere appassionati di certi argomenti. La genialità è solo uno degli aspetti
della personalità umana, ed è spesso abbastanza marginale. Non tutti hanno le stesse capacità
affettive, o un carattere forte. Non tutti trovano, nel corso della vita, la persona giusta, che sappia
aiutarli, o, se la trovano, se la lasciano sfuggire per distrazione. Non tutti, infine, sono capaci di farsi
aiutare. Tutti non sanno tutto: si può avere delle doti spiccate in un campo, ed essere inetti e
incapaci in un altro. Solo la capacità di riconoscerlo, e di saper coordinare sforzi e capacità, può
supplire alla complessità dei compiti che si pongono a una società moderna, e fortemente
differenziata. Solo la capacità, appunto, di ragionare per aggiunta, e non per esclusione: escludere è
la cosa più facile del mondo, tutti amiamo sentirci unici, nel nostro gruppo di amici o di colleghi.
Pochi sono disposti a riconoscere che questa unicità, vera per le esigenze di base della personalità, è
invece una finzione se applicata a organizzazioni complesse. Quando lo riconoscono, o si
spaventano e si legano in modo acritico a dei protettori, oppure ne approfittano per imporre le loro
condizioni. Ma questo secondo caso è molto più raro del primo, perché chi ha doti particolari deve
sempre fare i conti con l’invidia di chi non ne possiede. Eppure, spesso, ciascuno ha doti specifiche,
che possono essere messe a frutto solo se vengono riconosciute come tali dentro un modello
mentale che, nel rispetto delle differenze, anche di valore, sappia vedere la fondamentale
eguaglianza degli esseri umani tra di loro. Spesso però, chi ha doti particolari o una creatività che lo
fa andare alla ricerca di soluzioni nuove è condannato a non essere capito, e viene emarginato. Ciò
avviene più di frequente quando l’insicurezza sociale collettiva produce un’eccessiva paura di
sbagliare. Perché allora chi sbaglia sarà colpito senza pietà. E non gli verrà riconosciuto il merito di
avere per lo meno tentato di vedere altre vie. Per infantilismo e per ingenerosità. Aumenteranno
38
Virginia Woolf, "Le tre guinee"
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Sesso, amore e gerarchia

allora le carte da bollo, e la fantasia sarà messa in catene, come una pericolosa nemica. I capi
decideranno cosa si deve pensare e cosa no, e le persone creative scapperanno per non soffocare
dentro le gabbie mentali di ciò che è “politicamente corretto”.
Le persone veramente creative e geniali sono poche, perché la vera intelligenza è qualcosa di
estremamente complesso, e non copre tutti gli aspetti della personalità. Spesso i geni non sanno
sfruttare i loro doni, come Kevenhuller, un uomo sapiente e geniale, un inventore. Con un sacco in
spalla e un bastone tra le mani girovagava di contrada in contrada per conoscere tutto quanto ancora
vi fosse da conoscere attorno a rulli e ruote. Gli sarebbe piaciuto trasformare la sala dei cavalieri in
officina, o il salotto delle dame in un laboratorio di orologeria. Un giorno, al mercato di Karlstad
fece uno strano incontro: una donna dagli occhi verdi e scintillanti, capelli biondi lunghi fino a terra,
una veste di seta verde. Benchè strega e pagana era certo più bella di tutte le cristiane che
Kevenhuller avesse mai veduto. Denti acuminati luccicavano tra le sue labbra rosse ma
sfortunatamente, benchè si fosse gettata un mantello sulle spalle, affinchè nessuno potesse
riconoscerla, aveva dimenticato di nascondere la coda, che ora le strisciava sul selciato. Kevenhuller
si avvide della coda e dispiaciuto che sì nobile dama potesse diventare oggetto di scherno per i
cittadini le disse con ossequio: “Vostra grazia non vorrebbe rialzarsi un po’ lo strascico?”.
Ecco una prima caratteristica di chi è geniale: non meravigliarsi di nulla. Non avere pregiudizi.
Perché si dovrebbe fare caso ad una coda? La donna era bellissima. Però Kevenhuller, anche se è
un uomo di genio, non saprà capire il dono della donna del bosco.
Commossa da tanta benevolenza la donna del bosco si fermò. - Ascolta Kevenhuller - disse - d’ora
in poi tu sarai in grado di fabbricare con le tue mani ogni opera d’arte che vorrai, ma soltanto una
per ogni specie. - Kevenhuller prese in affitto un’officina e tosto fabbricò una carrozza che andava
da sè. Ma, quando il Re gliela chiese in dono, non sopportò l’idea che un altro possedesse
l’invenzione di cui era tanto orgoglioso, e la distrusse, facendola dirigere a tale velocità contro il
muro del castello che essa si sfasciò. Tentò di ricostruirne una nuova, ma non vi riuscì. Allora ebbe
paura del dono concessogli dalla donna del bosco. La genialità fa paura. Non solo a chi la vede
negli altri, e si sente inferiore, o in difetto: ma anche, spesso, a chi la possiede. Perché ci fa
pensare che siamo diversi, soli. Che non possiamo essere capiti dagli altri. E invece dobbiamo
sforzarci di capire, prima ancora di pretendere di essere capiti. Il resto verrà da sè. Chi più ha, più
deve dare: esattamente il contrario di quello che siamo abituati a credere. Soltanto così si avrà la
possibilità di ricevere molto di più, e di impensato.
Quell’uomo dotto e geniale sentì un improvviso bisogno di tranquillità e si mise a costruire una
bellissima torre, munita di ali, perché intendeva farne un mulino. Ma un giorno, mentre osservava la
sua opera, fu colto dal vecchio male. Gli sembrava che la verdevestita lo fissasse di nuovo e gli
incendiasse il cervello. Allora si chiuse nella sua officina e in otto giorni fabbricò un’altra
meraviglia. Delle ali per volare lui stesso, alto sopra la terra. Mentre aspirava a pieni polmoni l’aria
del cielo, scorse una forma che, pure volando, si avvicinava a lui. Vide un paio di grandi ali
identiche alle sue battere l’aria e in mezzo un corpo umano, con una grande massa di capelli biondi.
Era lei! Kevenhuller non ci pensò un istante: rapido si avventò contro la maga, per costringerla a
liberarlo della sua magia. Ma nell’urto le sue ali si spezzarono e quando riprese i sensi giaceva sul
tetto della propria torre, con i frantumi delle ali al fianco. E così il gioco era finito. Disperato,
Kevenhuller non osava più inventare magie. Se avesse costruito un’altra macchina portentosa solo
per vederla distrutta, il dolore gli avrebbe spezzato il cuore. Si mise allora alla ricerca dell’orrenda
strega, affinchè lo liberasse definitivamente dall’incantesino. La invocava, ma ella non veniva.
Quando la donna del bosco, derelitta e malata giunse ad Ekebù, trattata come una figlia dagli altri
cavalieri, solo lui la riconobbe, e li mise in guardia dai suoi denti aguzzi e dalla malvagia fiamma
che brillava nei suoi occhi. Ma non appena l’ebbe vista e riconosciuta, la voglia di lavorare lo
riprese. Questa volta, Kevenhuller costruì una ruota che girava senza posa e ruotando i suoi raggi
luccicavano come il fuoco, irradiando calore oltre che luce. Kevenhuller aveva creato un sole! La
terra, grazie a lui, sarebbe stata un’altra. La sua ruota di fuoco avrebbe fatto da pelliccia ai poveri,

59
Sesso, amore e gerarchia

impedito il gelo, messo in moto le fabbriche. Donato all’umanità un’esistenza più ricca e felice. Ma
dentro di sè sapeva fin troppo bene che si trattava solo di un sogno e che mai la donna del bosco gli
avrebbe permesso di moltiplicare la sua ruota di fuoco. Assetato di vendetta, decise di bruciare la
donna. Celò la ruota infuocata sotto le scale, per dar fuoco alla casa affinchè la strega vi morisse
bruciata. E la casa bruciò. Ma in quell’istante si aperse la porta sprangata del laboratorio dove egli
si era rifugiato e la donna del bosco apparve sulla soglia. “Adesso Ekebù brucia”- disse ella e
scoppiò in una risata. Kevenhuller aveva brandito il maglio e stava per calarglielo sul capo, quando
s’avvide che ella teneva in mano la sua ruota di fuoco. “Guarda, l’ho salvata per te” disse la donna.
Kevenhuller le si gettò ai piedi. “Ti conosco, tu sei il genio. Ma lasciami libero! Ritoglimi il tuo
dono! Perché mi perseguiti?”. “Allora per prima cosa devi distruggere questa”, ella rispose, e gli
gettò ai piedi la sua ruota di fuoco. Egli non esitò. Scagliò il maglio contro quel piccolo sole
splendente, che era solo un inganno infame e così anche la sua ultima meraviglia fu distrutta.
“Pazzo!” Concluse ella. “Ti ho forse vietato di lasciar imitare agli altri le tue opere? Sei stato tu a
non volere”. E con queste parole se ne andò. Kevenhuller per due giorni rimase come fuori di
senno. Poi tornò ad essere un uomo comune. Ma nella sua pazzia aveva dato fuoco ad Ekebù. Non
aveva voluto dividere con alcuno la sua scoperta, né insegnarla ad altri affinchè tutti potessero
usufruirne. Perché aveva preteso troppo - non esistono scoperte che risolvono in modo definitivo i
problemi - Aveva perso il sentimento appassionato del possibile. Alla prova dei fatti - imprigionato
in un’ira infantile - aveva usato il suo dono solo per fini distruttivi. E aveva incolpato una strega per
responsabilità che erano sue, o dei limiti umani. Non è stato capace di vedere le soluzioni per
vincere: non ha accettato le ali degli altri. Peggio, ha visto in esse un pericolo, invece che ciò che
erano, un arricchimento. Le ha volute distruggere, e così si è condannato da solo.
Il genio da solo non serve. E ancora una volta, Selma Lagerlof ci fa capire che non siamo
onnipotenti. Anche quando possediamo doti di creatività, non ci servono a niente senza l’aiuto degli
altri. E non è tanto una questione di modestia fittizia, di finta umiltà: la vera umiltà è
consapevolezza di quello che si può dare e capacità di darlo. E anche saper lavorare così bene, da
fare in modo che il nostro lavoro possa essere finito da altri. Da non essere indispensabili. Questo
comporta anche che tanto più si è capaci di creatività, tanto più si dovrebbe capire di avere dei
limiti, di tanti tipi. Tra le tante cose che Rita Levi Montalcini ha scoperto e capito, ce n’è una molto
affascinante. Nel suo “Elogio dell’imperfezione”,39 un libro utile e bello, sostiene tra l’altro che gli
uomini sono andati così in avanti, nelle loro scoperte, da essersi dimenticati che hanno anche
un’emotività. E che questa, purtroppo, è molto più arretrata delle armi di tutti i tipi che hanno
saputo costruirsi. Il conflitto può diventare devastante. La schizofrenia può però anche essere molto
produttiva: sarà il futuro a dircelo. Inutile tentare di rispondere prima, si possono fare ipotesi ma
non previsioni, inutile fingersi Dio. Lasciamolo là dove sta: nel cuore di molti, e nelle chiese. E se
proprio vogliamo chiamarlo in causa, cerchiamo di avere un sentimento anche religioso della vita:
una religiosità laica che sappia vedere Dio non tanto nell’onnipotenza e nell’onniscienza, quanto nel
dolore e nella debolezza. Un Dio debole, umano, misero ma non miserabile, un Dio che sta di qua,
in attesa di andare nell’al di là dove tutto è possibile all’infinito. Un Dio essere umano, come Cristo.
Le croci sono più leggere se c’è qualcuno che ti aiuta a trasportarle.
Potrebbe sembrare una religione del dolore ma non lo è: solo riconoscendo di avere dei limiti si può
accedere ai segreti della gioia. Quando anche la semplice offerta di un fiore di campo basta a
rischiarare, almeno per un po’, la vita di chi arranca zoppicando verso una meta dalle tappe
sconosciute. Anche se viviamo in una società così congegnata che spesso ad offrire il fiore sono
proprio coloro cui andrebbe donato. Chi, al posto del fiore, offre la vita compie un atto di vero
eroismo. Ma, come direbbe Brecht, sfortunato il paese che ha bisogno di eroi. Vuol dire che il limite
è stato già superato e dall’insuperabile non si torna indietro. Per l’insuperabile ci si affida a Dio, al

39
Rita Levi Moltancini, "L'elogio della imperfezione",
60
Sesso, amore e gerarchia

principio ultimo che restituisce umanità e dignità ad ogni cosa, anche contro l’evidenza dei fatti e le
corone di spine. Magari un Dio essere umano, come il naufrago sopravvissuto di Garcia Marquez40.
Un esempio di giornalismo che si avvicina al modello del rispetto umano con fantasiosa grazia è
proprio quello di Gabriel Garcia Marquez. I suoi racconti, tratti dalla cronaca, sembrano a volte
surreali, ma spesso solo perché sono più reali della realtà. Marquez ha fondato una scuola di
giornalismo nel suo paese, la Colombia. E’ una fortuna per coloro che la potranno frequentare,
anche se dovranno pagare prezzi alti, in termini personali. Perché il buon giornalismo guarda in
faccia ma non accondiscende troppo agli interessi privati, quando sono contrari agli interessi
collettivi. E i portatori di interessi singoli si sentono offesi e danneggiati: non capiscono che un
giornalismo veramente libero va anche a loro vantaggio, perché fa capire più cose e inseguendo il
mito di una società migliore fa l’interesse dei loro figli. Può darsi sia un discorso utopico: troppe
bandiere, ideologie, interessi, pregiudizi e bandierine si frappongono tra la realtà e la sua analisi
spassionata. Ma non è un caso che tenti di farlo un premio Nobel, e uno scrittore grande.
Marquez è l’esempio di un uomo che è un vero elogio dell’imperfezione: che qualche volta
vorrebbe che sua moglie lo piazzasse col sedere su una stufa rovente, data la sua spiccata tendenza
all’infedeltà, e tuttavia creativo, positivo, capace di andare oltre e di guardare avanti. Quando non
era ricco e famoso, alcune sue cronache giornalistiche lo costrinsero all’esilio. Ma è proprio
nell’esilio che si sono rafforzate le sue naturali doti di scrittore. E’ un uomo che ammette
sinceramente di cercare nella donna una madre - cameriera, che riconosce di essere capace solo di
amori superficiali e opportunisti, e che tuttavia dell’amore, e dei suoi demoni sa parlare da grande
poeta.
Approdato a terra, sfinito, dopo aver combattuto il sole il tempo e la sete e sconfitto gli squali, il
naufrago descritto da Marquez non è molto diverso da qualunque altro naufrago. E’ comprensibile
che Marquez, con il suo aiuto, abbia voluto tornare sui fatti anni dopo, da scrittore. Che cosa aveva
scoperto quando faceva il giornalista, di tanto grave da essere costretto ad andare in esilio? Nulla di
veramente nuovo, in realtà: solo che il potere aveva paura della verità. Che sul battello del naufragio
era imbarcata troppa merce di contrabbando, che il peso squilibrato della merce aveva fatto
imbarcare acqua, che il contrabbando era appoggiato dal governo e che le ricerche erano state fatte
mediamente male, come avviene quasi sempre. Una catena di fatti abbastanza grave da far cadere
un governo debole, non nella forma ma nella sostanza. A cui sarebbe tuttavia succeduto un altro
governo debole, che si sarebbe limitato a usare strumentalmente lo scandalo per lasciare tutto come
prima. Scoop o non scoop, nulla sarebbe davvero cambiato. E nel libro scritto anni dopo, che è un
accurato racconto poetico della vita del naufrago, Marquez sfuma via via la denuncia, abbagliato
dalla nuda realtà dei fatti, che hanno trasformato la sua minuziosa raccolta di dati in una metafora
della vita.
Gli è stato possibile andare in esilio perché il caso di corruzione, o di illegalità, si presentava
isolato? Che cosa sarebbe successo se tutto assieme si fosse scoperchiato il vaso di Pandora della
pubblica e privata corruzione a tutti i livelli? Forse non avrebbe più avuto il tempo per scrivere
romanzi d’amore. Forse, più facilmente, sarebbe stato ucciso da qualche sicario, pronto a impedirgli
per sempre la prosecuzione di scomode inchieste. Non lo sappiamo, e per lui è meglio così.
La Colombia è un paese che in fatto di corruzione non ha nulla da imparare dagli altri. E l’Italia?
L’esperienza degli ultimi anni, per quanto confusa e irrisolta, è sotto gli occhi di tutti. Perché in
Italia è avvenuto che il vaso di Pandora si è scoperchiato (era così pieno da aver superato ogni
limite, facendo inevitabilmente saltare il coperchio), anche grazie a un pool di giudici
particolarmente capace ed agguerrito. Si è innescato un grande processo di riflessione collettiva che,
nel bene e nel male può portare ovunque. Si spera non in forme di riflusso fintamente moralistico -

40
Gabriel Garcìa Màrquez, "Racconto di un naufrago", Oscar Mondadori
61
Sesso, amore e gerarchia

il moralismo, si sa, è l’unica cosa di cui persone non in grado di elaborare una vera morale sono
capaci - che servirebbero solo da alibi a chi vuole che tutto finga di cambiare perché nulla cambi41.
Che cosa si è capito, o almeno ci sforziamo di avere capito? Che a poteri grandi corrispondono
responsabilità grandi. Se chi sta al vertice di una nazione, colto in castagna, come si suol dire, o con
le mani nel sacco, invece di ammettere colpe e responsabilità inizia un gioco di scaricabarile che si
riverbera sulla realtà sottostante di quanti non hanno potere, o hanno poteri limitati, se non accetta
le conseguenze delle sue azioni, se mischia le carte in modo mistificatorio, se crea cortine fumogene
dentro le quali tutti i gatti appaiono bigi, il risultato non può che essere, da una parte, la ricerca di
capri espiatori, dall’altra il riflusso, la guerra di tutti contro tutti, l’arrembaggio all’osso della
ricchezza collettiva per finire di spolparlo all’insegna del “si salvi chi può”. Come se la cosa
pubblica invece di essere di tutti, fosse una terra di nessuno destinata a diventare terra bruciata. Non
sappiamo se la soluzione all’italiana sia stata questa. Se lo fosse, come simbolo nazionale si
potrebbe eleggere un grande struzzo. Che non piace a nessuno, ma non sempre i simboli collettivi si
possono scegliere liberamente.
Il grande struzzo non può far altro che accendere un po’ di roghi simbolici, sui quali vengono
sempre bruciati i più deboli e gli indifesi. I problemi non si risolvono, o per meglio dire, non si
affrontano neppure, ma in compenso chi sta al vertice se la cava senza eleganza, evita siano davvero
messe in discussione le sue responsabilità e crede di essersi protetto a discapito degli altri, che
continua a imbrogliare. Non è un difetto italiano: le cose sono così ovunque. Si trova qualcuno che
paga per tutti, non limitatamente alle sue responsabilità, ma più in generale, fino alla occasione
successiva, o fino a che il gioco non mostra la corda. A questo punto il leader in disgrazia fugge
all’estero, nei paradisi fiscali costruiti coi soldi rubati, e di lì si lamenta, accusando tutto e tutti di
errori che sono in prevalenza, data la misura del potere, suoi. Che paghino gli altri: i figli, la società,
il futuro possibile. A meno che non succedano drammi storici epocali, come una guerra o una
distruzione generale, tali da indurre le vittime alla giustizia sommaria. Ma è una cosa che accade,
per fortuna, di rado. Solo quando il volto criminale del potere diventa intollerabile, e solo quando
viene sconfitto.
Di solito, dittatori e criminali muoiono nel loro letto, riservandosi la soddisfazione di fare un ultimo
sberleffo a chi resta. I giornalisti, solo allora, non prima, perché prima sarebbero cacciati, proprio
come è capitato a Garcia Marquez, possono finalmente accedere ai loro armadi. Dove non
troveranno più carte compromettenti. Troveranno migliaia di oggetti inutili (penso agli armadi di
scarpe di Imelda Marcos, tanto per fare un esempio). Carabattole e cianfrusaglie in gran quantità, a
grottesco simbolo della pateticità e della voracità del potere.
I fotografi al seguito prendono atto, le foto vengono pubblicate, tutti possono osservare le paia di
scarpe e le ville, e la storia continua. Fino al grande ladro successivo. Perché il denaro fa comodo e
qualcuno pronto a fare favori ben remunerati lo si trova sempre.
Gli unici che non vengono mai ringraziati sono quelli che pagano di persona, che in genere non
hanno commesso reati gravi, che non danno il via all’inutile gioco dei rinfacci, che vuotano gli
armadi (sanno che vi si troveranno poche cose, se paragonate a quelle degli struzzi, ma qualcosa si
troverà, l’onestà assoluta non esiste, è una formula non praticabile nella realtà) e che cercano di
ripartire, pagato un debito che spesso si confonde con un credito, da zero, o dal molto che hanno
saputo costruire.
Sono i migliori, ma questo li rende antipatici. Soprattutto a coloro che, avendo più potere hanno
maggiori responsabilità. Perché accettando il principio di responsabilità li costringono a prendere
atto che esiste. Ma siccome questo crea ansia e dolore e genera sentimenti di impotenza sgradevoli,
41
In Giappone, prima del 700, uomini e donne usavano i "kanzashi", grossi spilloni da infilare tra i capelli per ornare le
chiome. Uno Shogun, Tokogawa, legiferatore alquanto severo, li vietò dopo averli definiti troppo frivoli. Gli uomini si
adeguarono, le donne disobbedirono sistematicamente, vanificando la legge. Non era la sola disobbedienza sistematica
di cui, con stupore degli uomini, si rendessero responsabili. In un manuale di un filosofo del tempo, Kaibara Ekiken, si
denuncia, sulla base di "statistiche" d'epoca che sette donne su dieci avevano una grave malattia del cuore. Non solo non
obbedivano con mitezza, ma litigavano anche con risentimento.
62
Sesso, amore e gerarchia

chi accetta di pagare finirà col vedersi attribuite anche colpe che non ha. In un gioco a scaricabarile
generalizzato che invece di indicare la strada per risolvere i problemi li fa marcire complicandoli.
La singola onestà non paga, se gli altri preferiscono nascondersi dietro a un dito, e trovano la
comoda scorciatoia di qualcuno che paga per tutti. Poi si proverà un fittizio senso di colpa, e si
daranno gli ultimi calci alla vittima, pur di liberarsene. Fare di tutte le erbe un fascio è più comodo
che distinguere il grano dal loglio, anche se serve solo ad accumulare legna per le pire.
Che possono fare in situazioni come questa le persone più creative, i cercatori di soluzioni nuove e
positive divenute però ingombranti, gli scocciatori intelligenti? Molto poco, per non dire niente.
Non resta che aspettare il prossimo giro, se hanno i soldi, il tempo, la determinazione e la volontà
per farlo. Al limite, possono emigrare anche loro come fanno spesso i ricercatori scientifici. O
possono provare a iniziare da un’altra parte. E spesso non avendo denaro né protezioni
consumeranno fino alla consunzione le ultime suole.
E pensare che, ragionando in astratto, nel comodo esilio privato permesso dalla scrittura, una
soluzione ci sarebbe. Saltati i tappi del vertice e rimboccate le maniche, nel campo delle soluzioni
logiche ma forse non pertinenti, basterebbe cercare di equilibrare la bilancia. Che tutti fossero
disposti ad assumersi una briciola di responsabilità in più, capaci di rinunciare a qualcosa, che
sapessero essere leali, con se stessi e con gli altri.
Non si eviterebbero le tragedie, i poteri degli uomini sono limitati, ma almeno si eviterebbe di
trasformarle in una tortura supplementare. Si aprirebbe una via di fuga da quei comportamenti da
topo in trappola così ben descritti dai neurobiologi.
E’ noto che se dei topi vengono messi in una gabbia, da cui non possono scappare, e dal di fuori si
provocano situazioni di forte stress, le povere bestiole finiscono col non trovare altra soluzione che
non sia il mordersi tra loro. Quanto assomigliamo ai topi, molte volte. Quanto potremmo evitare la
loro fine, fare a meno di morderci, se nient’altro è possibile e cercare di usare ragione e solidarietà
per bucare la trappola. Cercare di toccare terra, non la terra promessa, una terra qualsiasi, cercare
soluzioni nuove fino all’esaurimento delle forze, come il naufrago sopravvissuto.
Ancora una volta, la soluzione sarebbe collaborare, volersi bene, perseguire un fine comune, non
aver paura gli uni degli altri. Ricordarsi che siamo un paese piccolo. Mi sono sempre domandata
perché nelle aziende c’è così spesso un’atmosfera di rivalità, eccessiva per la posta in gioco
soprattutto negli ultimi anni, quando il posto di lavoro era intoccabile e lo stipendio abbastanza
scontato. Forse è perché ci sentiamo come topi in trappola. Siamo prigionieri di ruoli, quelli
gerarchici per esempio, che ci chiudono in una serie di stereotipi che hanno qualcosa di inumano:
rappresentano la trappola della legge che diventa più importante di noi.
Così diventiamo incapaci di aiutarci gli uni con gli altri e ci scateniamo in una guerra tra poveri
che non tiene conto delle caratteristiche di ciascuno, che non usa nè la ragione nè tantomeno
l’intelletto e che non ha nessun rispetto per la personalità, le capacità, i problemi, i punti di forza e
le debolezze, il sesso.
Mi sono anche spesso chiesta perché io ho una predilezione per gli uomini (credo sia normale,
quasi biologico), e perciò se dovessi scegliere con chi collaborare, nella maggioranza dei casi
sceglierei un maschio. Loro invece, non sanno che farsene di me: anzi, sembra quasi che si
vergognino di dimostrare un po’ di simpatia e di interesse, di comportarsi in modo da rendere un
po’ meno arduo il vivere insieme tante ore della giornata.
Gosta Berling dimostra il suo amore per tutte le donne in modo plateale, eccessivo. Soprattutto
quando si tratta della contessa Elisabetta. Al gran ballo dato dai cavalieri, la contessa Elisabetta
rifiuta di ballare con Gosta, perché ha visto che i cavalieri tengono rinchiusa la vecchia signora.
La contessa è indignata da questo comportamento, e usa il solo sistema che ha a disposizione per
dimostrare la sua disapprovazione e il suo sdegno. Le donne dei tempi andati avevano solo il loro
fascino e la loro bellezza come arma. Anche oggi è spesso così. Ma sapevano utilizzarli al meglio e
far capire bene i loro sentimenti. Così, Gosta la rapisce sulla sua slitta alla fine della festa e la
trasporta di volata al castello, inseguito dal marito di lei.

63
Sesso, amore e gerarchia

La contessa è convinta che il conte le darà ragione e punirà Gosta, colpevole di aver maltrattato la
vecchia signora che un tempo lo aveva beneficato, e di aver spaventato lei, Elisabetta, con il finto
rapimento. Ma il conte Enrico è sciocco e vanesio, e capisce solo le vuote convenzioni sociali:
perciò, ingiunge alla moglie di scusarsi e baciare la mano a Gosta, perché lo ha offeso rifiutando
di ballare con lui. Solo a questo punto Gosta capisce le ragioni della giovane donna, e per evitarle
un’umiliazione brucia la sua mano sul fuoco del camino. Questa scena è l’inizio dell’amore tra
Gosta e la contessa, e mi ha molto colpito, probabilmente per una ragione personale: forse perché
ho l’abitudine di osservare le mani delle persone con cui parlo, e ho spesso l’impulso di baciarle.
Soprattutto le mani di coloro che mi sembrano irragionevoli, e che non si accorgono di dire
stupidaggini o di farmi del male. Da bambina, andando a scuola dalle suore, quando dovevo
baciare la mano della madre generale o di un vescovo mi sentivo a disagio, mi sembrava un gesto
umiliante e stupido42. Da grande, per qualche strana ragione probabilmente nevrotica, mi è capitato
spesso di provare il desiderio di farlo, soprattutto con certi colleghi di lavoro. Che spesso hanno le
unghie mangiate, si tormentano le dita, e mi fanno tenerezza. Ho capito che ho dei sensi di colpa,
perché mi accorgo di non riuscire ad entrare nel loro sistema di ragionamento. Per questo forse
vorrei essere come la giovane contessa, avere uno sciocco marito (o, in ufficio, uno sciocco capo)
che decida per me, ma soprattutto essere capace di lasciarlo decidere, essere buona ma non capire
nulla di argomenti scientifici e tecnici. A volte vorrei non essere mai uscita dai ruoli
tradizionalmente femminili, e non sentirmi un’intrusa. Ma quando ragiono in modo più sano vorrei
anche - e credo di meritarlo - che loro facessero uno sforzo per aiutarmi, perché sono loro che mi
trattano da intrusa, che non mi vogliono. Così insieme alla tenerezza e ai sensi di colpa mi accorgo
di essere piena di rabbia. E che in qualche caso la rabbia è il sentimento migliore, il più utile e sano.
Che mi salva dalla nevrosi e mi dà la forza di combattere e andare avanti, per me e per loro. Il
sentimento più simile all’amore cantato da Gosta Berling e dai suoi amici, che non pretendono di
cambiare il mondo o di andare contro la volontà di Dio - o del Fato? - ma solo di volersi bene e di
danzare e di godere le cose belle del mondo, mantenendo il rispetto per la diversità di ognuno.

42
E lo è: basta pensare che è anche un'usanza mafiosa

64
Sesso, amore e gerarchia

CAP.6 Le gonne di Ulisse.


Ulisse come Orlando, una metafora che resiste nel tempo
Affrettati! Che un suono spettrale, denso di oscuri presagi, mia cara
non richiami ad un letto tombale la bimba triste dalla voce amara!
Siamo vecchi fanciulli che temon di dire
che ancora non vogliono andare a dormire.
E benchè l’ombra nera del rimpianto
si insinui nei meandri della storia
finita è l’estate, si lamenta il vento,
del sole resta solo la memoria
la minaccia futura non potrà mai intaccare
il piacere innocente del nostro narrare.
Lewis Carroll “Alice nel paese delle meraviglie”.

Non ho mai creduto agli archetipi maschili e femminili della dialettica dell’illuminismo43. Nella
scelta tra Ulisse, Penelope, Circe e le numerose ninfe e semidei del capolavoro omerico mi sono
sempre identificata con Ulisse, come credo la maggior parte delle lettrici donne. Non perché questo
eroe mi piacesse in modo particolare, ma perché era l’alfiere di una libertà ancora preclusa. Come
mai? La spiegazione di questa contraddizione solo apparente giace forse tra le pieghe di
quell’intelligenza e curiosità femminili non sempre accettate dal sesso forte. Non credo si potrà dire
che siamo davvero usciti dal medio evo finchè non risolveremo questa contraddizione.
Forse però non è solo una contraddizione: è ancora una volta la prova che negli esseri umani
convive il maschile e il femminile. E’ anche vero che capita più spesso che siano le donne ad
identificarsi con gli eroi maschi, e non viceversa: questo dipende dalla poca considerazione che di
solito hanno le figure femminili, dal fatto che spesso sono perdenti. Da piccoli, tutti noi crediamo
che saremo vincenti, e abbiamo dentro di noi un “sentiero dei sogni” che ci fa immaginare un
futuro importante. Per le ragazze però, al sopraggiungere dell’adolescenza se non prima,
l’immaginario del futuro prende un aspetto diverso: la via verso la crescita si divide, e lo stereotipo
della madre e della moglie cancella i sogni di grandezza, che invece per i ragazzi diventano sempre
più forti e rimangono anche nella vita adulta44.
Anche le donne e le bambine dentro di loro amano pensare di essere eroi, di essere vincenti, o
magari perdenti con onore, al di fuori di un mondo reale che le costringe in ruoli stereotipati.
Leggere è sempre stata una forma di evasione, di rifugio nel sogno. E i sogni sono simili per uomini
e donne. Cambiano solo le trame. Per ora, nel mondo delle idee, tra evo di mezzo, illuminismo e
romanticismo, è solo la vernice superficiale ad essere cambiata. A rifletterci bene, l’illuminismo e il
romanticismo sono come vernici leggere dipinte sui comportamenti istintivi e primordiali degli
uomini intesi come “branco”: vernici ideali anche importanti, in grado di offrire moltissimi spunti,
ma incapaci di costruire un metodo. Il resto, tutto il resto profondo, sono solo i vecchi istinti di
sempre. Il pensiero moderno è nato con Leonardo Da Vinci e con Galileo, che ci hanno per la prima
volta insegnato in modo organico un metodo basato sulla sperimentazione e sulla verifica dei dati.
Ci hanno insegnato a non aver paura dell’errore, perché fa parte della sperimentazione, purché si sia
capaci di riconoscerlo e di tentare di correggerlo. Non solo nella sperimentazione, ma anche nella
vita di tutti i giorni, gli errori ci insegnano sempre qualcosa; ci rendono capaci di crescere, e sicuri
di sè: solo chi è davvero forte e sicuro è capace di sbagliare senza sentirsi perduto, e di ammettere
e discutere i propri errori.
Un certo tipo di gerarchia, invece, che mi è capitato spesso di incontrare, nelle aziende in cui ho
lavorato, a scuola, in chiesa, anche nella vita di tutti i giorni, difficilmente ammette la discussione,

43
Adorno Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo.
44
Dorothy Cantor e Toni Bernay, "Women in Power, the secrets of leadership", Houghton and Mifflin, 1992

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Sesso, amore e gerarchia

proprio perché non è matura, non sopporta la sconfitta o anche solo di confrontarsi con chi la
pensa in modo diverso. Questa gerarchia è sopravvissuta più del necessario ed è diventata troppo
importante nelle aziende italiane di una certa dimensione, negli ultimi dieci anni, come specchio di
una classe politica corrotta, arrogante e inefficiente. E’ successo che la gerarchia aziendale è
rimasta, pur in una nominale democrazia, l’ultimo baluardo dei sistemi totalitari. Anche nel lavoro
scientifico.
A distanza di 400 anni da Galileo e dalla sua scoperta delle leggi del moto, non si può dire che la
sua forma di pensiero si sia davvero affermata. Prevale, nei più, la tendenza a fare libere
associazioni logiche, o anche illogiche, senza minimamente verificarne la fondatezza. Prevale cieco
e bendato l’interesse personale più vicino nel tempo, e la democrazia è spesso sostituita
dall’arroganza del potere. Così si può dire tutto o il contrario di tutto a distanza di pochi giorni,
come si può leggere nei commenti dei giornali.
Contemporaneamente, si privilegia spesso un rapporto con la realtà che usa la ragione in modo
unilaterale, riducendo i sentimenti a suo semplice strumento. Ci si dimentica che la parte emotiva
dell’uomo conta spesso di più, nonostante le apparenze, del ragionamento dall’apparenza fredda e
distaccata. Ci si dimentica che l’uso unilaterale della ragione nella vita quotidiana ci serve ad
evitare i problemi, o a complicarli ad arte, in modo strumentale, per fini di parte, più che a
risolverli. E che la spinta principale che guida le nostre azioni è spesso solo il tentativo, a volte
maldestro, di evitare di soffrire. Mentre la sofferenza è parte della vita, e, paradossalmente, almeno
quando è causata dalla nostra ricerca di qualcosa che si desidera e in cui si crede, può essere uno
degli aspetti della felicità.
Ho sempre pensato che l’Ulisse moderno assomiglia di più a quello descritto da Joyce che a quello
di Omero: un uomo disorientato, con una figlia malata, ridotto a contemplare la moglie con un
atteggiamento a metà tra l’amore totale e il disgusto. Un uomo capace di farsi sedurre perché non
crede più nelle streghe. Che è fedele anche nell’infedeltà e che ama la vita nonostante tutto. Che
non avoca a sè tutta l’intelligenza, e che della moglie adora in silenzio la logica e l’intelligenza
grezza naturale, in un rapporto, se non di parità, comunque già antipatriarcale45.
E allora, perché non ammettere che anche nella donna c’è una parte di Ulisse e che sarebbe ben
miserevole ridurre la diversità delle intelligenze a un semplice imbroglio, o peggio ancora a un
pericolo?
Nel mito omerico Ulisse-Nessuno vince solo in virtù di un imbroglio: il cavallo di Troia. Solo mille
anni più tardi, con Dante, si perderà dietro le colonne d’Ercole, almeno finchè non nascerà un altro
Ulisse, l’Ulisse-Ognuno delle borghesie imprenditoriali capace di vedere che al di là ci sono altri
mondi. Che la nostra principale ricchezza è l’ignoto. Ed ora che la terra è diventata stretta e non ci
sono più colonne d’Ercole geografiche a delimitarla, i confini sono divenuti più complessi e si sono
spostati più avanti. Nel molto piccolo dei geni e degli atomi della materia, nel molto grande degli
spazi siderali, nella soluzione dei problemi creati dalle nuove conquiste della scienza. Le tanto
temute mele della conoscenza sono ricche di polpa ma amare proprio perché spostano più in là i
confini dell’ignoto. Proprio perché, ad ogni nuova scoperta, ci fanno crescere, ma anche
rimpicciolire un po’. Ci insegnano che risolto un problema ne nasce un altro, spostano in avanti i
limiti offrendo alla vista altri baratri cui affacciarsi. Chi teme i baratri è meglio fugga lontano dal
vecchio Ulisse disposto a riarmare le navi. Cosciente che però, così facendo, uccide di se stesso la
parte migliore.
La nostra parte migliore è quella disposta a rischiare, a credere in qualcosa anche a scapito della
propria carriera o della propria tranquillità. Invece, negli ultimi dieci o quindici anni il sistema
economico ha spinto troppi di noi ad accettare quello che succedeva senza guardare troppo per il
sottile, senza porci domande. In Italia, e non solo nelle aziende, negli ultimi tempi c’è stato bisogno
di una classe dirigente capace di dire solo di sì. Queste persone non possono adesso

45
V. Woolf aborriva Joice,per i suoi “vortici di oscenità”. L’oscenità in genere disturba le donne. Era forse ingiusta
quando lo accusava di essere “un manovale autodidatta che si schiaccia i brufoli”, ma stranamente lo collocava poi tra
gli “scrittori spirituali, che si sforzano di arrivare più vicino alla vita”.

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Sesso, amore e gerarchia

improvvisamente diventare capaci di inventare qualcosa di nuovo, di superare le colonne d’Ercole


e portarci al di là dell’oceano. Occorrerà tempo e fatica, e la voglia di cambiare. Ci aiuterà
soprattutto la necessità, anche economica, il bisogno di sopravvivere e non solo, di diventare forti.
Tra l’Ulisse di Omero e quello di Joyce sono passati migliaia di anni, ma non molto è cambiato: il
problema resta aperto. I nostri antenati, ad esempio, vedevano divinità dappertutto: è perché erano
più grandi o più piccoli di noi? Noi spesso non riusciamo a vedere divinità da nessuna parte, è una
crescita, ma anche un’amputazione. Tanti dicono che il nostro Dio è il denaro: in fondo è banale, è
sempre successo (da quando il denaro è stato inventato), anche il Vangelo ne parlava. Io però non
credo che sia solo quello. Nel mondo di oggi (parlo dei nostri paesi occidentali), in cui in fondo è
facile avere quanto basta per vivere bene, la nostra divinità è soprattutto il quieto vivere, la
tranquillità.
Mi dicono che i giovani d’oggi non hanno aspirazioni, non credono in nulla. Credono forse a
qualcosa i quarantenni e i cinquantenni con il doppiopetto blu, che magari hanno “fatto il
sessantotto” e adesso che sono diventati dirigenti non sanno far altro che evitare accuratamente
ogni occasione di conflitto, soprattutto con chi è in una posizione più forte? I giovani sono spesso i
loro figli. E i ragazzi di oggi che non vedono mai un po’ di entusiasmo brillare negli occhi dei loro
genitori, come e da chi potranno ricevere un’eredità di passioni, qualcosa per cui impegnarsi a
lottare?
I nostri non sono più tempi di forti parole, dice Natalia Ginzburg46. Sono tempi in cui abbiamo
imparato ad abbassare la voce, a non credere più ai miti di una volta. E abbiamo lasciato che altri
miti si insinuassero nelle nostre vite. Eppure, come è triste educare i nostri ragazzi alle piccole virtù,
anzichè a quelle eroiche!
La mia maestra era una suorina giovanissima, piccola e magra come uno di noi bambini, ed è stata
una figura fondamentale nella mia vita. Uno dei più bei ricordi che mi ha lasciato, è un brano
dell’Apocalisse che ci aveva fatto meditare una volta (avevamo dieci, undici anni) perché non
eravamo stati capaci di prendere una posizione decisa, non ricordo su che.
“Conosco le tue opere: tu non sei nè freddo nè caldo. Magari tu fossi freddo o caldo. Ma poichè sei
tiepido, cioè nè freddo nè caldo, io sto per vomitarti dalla mia bocca (Ap. Cap.3, 14)”. Quando cito
questo brano a qualche collega, in ufficio, pensa che io sia matta. O fa un salto sulla sedia perché ha
l’impressione di avere di fronte una pericolosa rivoluzionaria. Sono persone che non vogliono
ammettere che i conflitti non possono essere negati, ci sono, e sono importanti per crescere. Ma
devono essere conflitti aperti, leali, e si deve cercare di risolverli con umiltà e buona volontà. Non
tentare di far vedere che andiamo d’accordo per non avere svantaggi, e neppure approfittare della
propria posizione gerarchica per sopraffare chi è più debole.
Gli eroi omerici non avevano mezze misure: si uccidevano con la spada, anche per ragioni banali o
dimenticate nel tempo. Era l’epoca di una umanità bambina che si tirava i capelli e si dava la paletta
sulla testa. Che aveva ancora tutto da scoprire.
Qualche volta è ancora così: basta pensare al livello di alcune tenzoni politiche a base di “ è mio, no
è mio”, o di “ mi hai copiato tu, non è vero tu”.
Comunque nel medio evo con Dante c’è stato il primo grande salto nella figura di Ulisse47. Il
secondo è avvenuto nel Rinascimento, con la nascita della prospettiva, che ha rivoluzionato pittura e
architettura. E di lì tutto il resto. Questa nuova acquisizione dello spirito umano ha fatto fare un
salto all’intelligenza ed è avvenuta all’improvviso. All’improvviso, come per superamento di un
ulteriore gradino evolutivo, il cervello si è arricchito di una carta in più, che prima non aveva in
dotazione, ed è cresciuta la sua capacità di osservare le cose da diversi punti di vista. La differenza
dei punti di vista non elimina di solito, ma arricchisce la simmetria delle prospettive, capaci di
funzionare solo con lo schema dello specchio, o del capovolgimento meccanico di ciò che si vede

46
Natalia Ginzburg,"Le piccole virtù"
47
“Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Nei bei versi di Dante parla un Ulisse che ha
ormai mille anni di più. L’Ulisse di Omero non si poneva problemi di virtù, e, quanto alla conoscenza, si limitava a
farne pratica.

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Sesso, amore e gerarchia

secondo un codice di destra sinistra, dritto e rovescio. Ma se l’architetto è creativo e dipende dai
capricci di un padrone dispotico può arrivare anche a concepire un felice mescolamento di
prospettive asimmetriche o di colonne portanti poggiate su vuoti solo apparenti. Un esempio
intrigante di questo lo si può osservare a Ca’ Romei di Ferrara.
Il pensiero della simmetria è tra i più radicati nella mente umana. E può essere una creazione
spontanea della natura. Molte volte i gemelli monoovulari (come le mie figlie) sono simmetrici: uno
è destro e l’altro mancino, uno ha la rosa dei capelli a destra, l’altro a sinistra. Da bambine,
salivano le scale tenendosi per mano, ognuna con un piedino diverso.
Quando le bambine avevano un paio d’anni, ho rivisto la mia maestra: era gravemente malata. E’
rimasta delusa. Mi ha detto: “Sono belle, ma non hanno i tuoi occhi”. Per fortuna, prima di morire
ha fatto a tempo a vedere anche il mio terzo figlio; le è piaciuto. Aveva gli occhi “giusti”.
Forse le suore preferiscono i maschietti, anche se passano la vita ad educare bambine. Anche se ad
un primo esame potrebbero sembrarci deboli, perché rinunciano ad una parte della loro vita, sotto
certi aspetti sono invece donne molto forti: dato che non devono pensare alla famiglia, hanno la
possibilità di sviluppare, se vogliono, una parte di sè più determinata, più maschile.
Da piccola, avevo alla fine deciso che non mi interessava farmi suora, perché sarebbe stato molto
meglio essere un prete. Le suore mi sembravano troppo subalterne. Ma a pensarci bene, all’epoca
in cui le donne non avevano molte alternative migliori, il convento offriva una via di scampo, e la
possibilità di studiare. Con buona pace di Manzoni che fa della monaca di Monza una persona
ossessionata dal sesso, che invidiava la vita delle donne sposate come se non si rendesse conto che
era anche più limitata della sua. Qualunque aspetto della vita può sembrarci molto diverso, a
seconda dalla prospettiva da cui lo vediamo, dal modo in cui siamo disposti a viverlo.
Uno dei sintomi evidenti di una malattia mentale grave è, tra gli altri, non ricordare più, nè essere
più capaci di rispettare le simmetrie tra gli oggetti: in questa situazione, un bicchiere, invece che al
centro del tavolo, al lato superiore del piatto, lo si appoggerà a caso, magari sul bordo del tavolo, in
equilibrio instabile e rischioso. Può darsi però che, per essere creativi, si debba essere capaci,
quando occorre, di andare oltre e superare le simmetrie, in forme e modi che invece di essere
rischiosi e controproducenti, sono invece rivoluzionari ed innovativi.
Anche la realtà virtuale può offrire un immaginario arricchimento della prospettiva. La possibilità di
visitare ’per finta’ i più grandi monumenti, come per esempio la basilica di S. Pietro in Roma,
provoca effetti mentali molto suggestivi. Tramite una leva si possono cambiare i punti di vista
offerti dallo schermo spostandosi nello spazio senza il limite del corpo e nel tempo attraverso
modifiche dello spazio. La prima basilica di S. Pietro, costruita nel ’500, ha tratti architettonici
molto più semplici di quella ricostruita nel Rinascimento (in coincidenza, appunto, con la nascita
della prospettiva). Che sono infinitamente più complessi, quasi che gli uomini fossero inebriati dalle
nuove capacità acquisite, espresse ai massimi livelli del tempo da Michelangelo e dal Bernini. Forse
è per questo che la basilica di S. Pietro è una delle poche chiese dove non campeggia la figura del
Cristo, ma la colomba dello spirito santo. Qualcosa di più della ragione ’illuminata’, qualcosa di
così profondo che possiamo, per ora, usare solo ’metafore’ per esprimerla. L’essenza di ciò che il
messaggio di Cristo ci ha lasciato. E che esiste indipendentemente dalla nostra limitatezza di esseri
umani. Premendo un leva, ora si può passare visivamente da una costruzione alla successiva nel
giro di pochi secondi. In pochi secondi si può osservare il mutamento delle architetture nel corso dei
secoli: quasi che il tempo si restringesse proprio mentre offre la possibilità di rendere più chiara la
visione del suo trascorrere.
E anche da una prospettiva in fondo banale, come quella dei rapporti tra gli uomini e le donne,
possiamo dire che i punti di vista si sono mescolati e arricchiti (sebbene siano ancora incapaci di
adottare, quando serve, logiche asimmetriche, in grado di andare oltre gli specchi, senza romperli
per capriccio). Che ogni donna ha il suo Ulisse e i suoi proci, ogni Ulisse la sua Penelope e la sua
Circe. Ma i proci sono a loro volta Ulisse, Ulisse è a sua volta Circe e le Penelopi sono a loro volta
Ulisse e Circe, in una giostra che forse è un po’ più faticosa, ma che aiuta a crescere e a dare un po’
di zucchero pepato alla vita. Che ci aiuta a dotarci di quelle illusioni senza le quali la vita non vale

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Sesso, amore e gerarchia

la pena di essere vissuta. Del resto, la comprensione dei miti ci sarebbe preclusa, se dentro di noi
non albergassero, assieme, le diverse figure che li caratterizzano.
E allora, che ne è delle differenze di genere? Non esistono? Dentro di noi, non esistono di sicuro se
non in modo discreto, quel tanto che basta per completare ed arricchire la nostra personalità. Ma
fuori, nel rapporto con il mondo, Penelope può solo fare e disfare la sua tela. E’ Ulisse che
veleggia per i mari, scopre nuovi mondi, ascolta il canto delle sirene. Nella mitologia greca, solo le
dee - e non tutte - possono permettersi di essere guerriere o cacciatrici. Per farlo, devono
rinunciare all’amore, cedendo così all’eterno dilemma che forse solo oggi le donne cominciano a
risolvere. A prezzo di una enorme fatica, di un continuo essere messe alla prova che non sempre è
riconosciuto e apprezzato per quello che costa e che vale, ma ricavandone nel contempo tutta la
soddisfazione di chi esplora un territorio sconosciuto e assapora una libertà mai provata prima.
C’è un sentimento che può trasformare questa giostra, in sè inesorabile e naturale, in un inutile e
fosco dramma: la gelosia. Nella sua essenza, un sentimento di possesso cieco dell’altro, che esclude
ogni rispetto nei suoi confronti. Un sentimento circolare, ossessivo, ripetitivo, senza vie d’uscita.
Che genera paura e prelude all’incapacità di confronto. Che vuole la morte, non la vita dell’altro,
incapace di capire i limiti, ma anche i diritti, della sua libertà. Chi ama brucia, e dunque è anche
geloso. Ma sa aspettare, sa fare le sue verifiche. Non butta via tutto solo perché sente calpestato il
suo orgoglio. Fino a poco tempo fa, la gelosia aveva una ragione ’vera’: all’uomo poteva sfuggire il
controllo genetico della prole. La donna poteva imbrogliarlo (diciamo che era questo il suo cavallo
di Troia) imponendogli un figlio non suo, e tenerlo in pugno con l’insicurezza, o ricattarlo. Anche
se fondata sulla costrizione, e dunque perdente, la volontà di controllo aveva motivi oggettivi.
Oggi però non è più così: i test genetici rendono certo, con ragionevole sicurezza, anche il padre. E
il problema si sposta sulla responsabilità, sul controllo delle nascite: in questo caso un eventuale
imbroglio femminile, la tradizionale astuzia di farsi mettere incinta, non giustifica più i padri che
rifiutano di riconoscere i figli naturali. Se trovano faticosa persino assumersi la facile responsabilità
del controllo delle nascite un po’ se lo meritano. Forse anche, inconsciamente, lo vogliono, salvo
ripensamenti successivi.
Fare un figlio è sempre un atto d’amore, per quanto unilaterale, e come tale violento, e l’imbroglio
passa necessariamente in secondo piano, dato che comunque è la donna poi ad assumersi l’onere di
allevare il bambino, con i rischi connessi alle reazioni paterne e al discredito sociale. E’ lontana da
me l’idea che sia giusto comportarsi così: ma capita, e lo trovo meno spregevole del “gratta e fuggi”
di molti uomini. Non è un caso che il vero “cavallo di Troia” sia stato inventato da Ulisse, non da
una donna. Gli imbrogli veri sono finalizzati alla sconfitta dell’altro, non a un suo arricchimento,
(per quanto coatto), come è sempre la nascita di un figlio. Ricordo che un giorno, all’uscita
dell’ospedale San Raffaele, dove mi ero recata per fare delle analisi, ho incontrato una ragazza
madre che chiedeva l’elemosina. Avevo già speso molto, per le mie tasche, e gliela ho rifiutata. “Lei
ha qualcosa contro le ragazze madri?” mi ha chiesto in tono di sfida. “Assolutamente no”, ho
risposto, ed era vero. Ma dentro al mio cuore non potevo fare a meno di pensare che io non avrei
fatto un figlio, se non avessi saputo come mantenerlo, così, solo per il piacere di una gravidanza. E
che comunque mio figlio era morto, dunque lei era in ogni caso più fortunata di me. E’ stato un
peccato non averglielo detto.
Nel mito, la città di Troia finisce in un rogo. La società più civile, forse meno bellicosa, era stanca e
si è lasciata accecare. Dobbiamo ringraziare un uomo, Heinrich Schliemann, se, scavando
testardamente, ce ne ha restituito i resti. I greci hanno vinto perché possedevano tecnologie più
evolute e poco importa che, dati i tempi, il simbolo sia stato un enorme cavallo di legno su ruote
improvvisate, quasi un grosso giocattolo, tanto grande da sembrare magico. Così grande che per
farlo entrare nella città è stato necessario allargare le porte. L’equivalente di uno stupro simbolico,
tragico preludio di una distruzione reale proprio perché non capito per tempo. Ma hanno vinto
anche perché la solitudine li aveva abbrutiti e volevano tornare dalle mogli e dai figli per recuperare
la loro umanità.

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Sesso, amore e gerarchia

Che ne è stato della bella Elena, fedifraga per forza e non priva di ottime ragioni? Incolpata per
dinamiche di cui è stata soprattutto vittima, non era lei la vera ragione della contesa. Se non fosse
stata un oggetto a disposizione del vincitore, e avesse potuto decidere da sè, è probabile che se ne
sarebbe andata, stanca di una guerra non voluta da lei. Anche se i Greci avrebbero sicuramente
inventato un’Elena fittizia, un fantasma immaginario per continuare a giustificarla. Di nuovo
prigioniera dell’antico coniuge Menelao, smemorata e dimentica di sè, si è adattata a vivere come
un’ombra invisibile, nella casa del vincitore un tempo rinnegato. Una sorte comunque migliore di
altre più atroci: Elena è l’amato simbolo della capacità di adattamento femminile a qualsiasi
situazione, anche la più difficile. Non cerca vendette, è cosciente delle sue responsabilità, che
comunque non sono mai ignobili, non accetta di assumersi responsabilità di altri, vive finchè può
amare. Dopo, cancella se stessa. E’ il simbolo dell’equilibrio femminile. Accetta le condizioni date.
Cerca di non privarsi delle ali, ma non si fa illusioni. C’è sempre qualcuno che ha ali più potenti
delle tue, e non è escluso che le usi proprio per farti cadere.
Elena è un pretesto e insieme un capro espiatorio. Tutti i pregiudizi hanno bisogno, per
perpetuarsi, di capri espiatori, che di solito sono deboli, appartengono ad una classe di persone
sottovalutate. E vengono scelti da chi ha il potere in modo tale da perseguire i propri scopi. Il
bisogno di trovare un capro espiatorio, qualcuno o un gruppo da biasimare, è un segno di
insicurezza caratteristico del pregiudizio e della violenza che spesso ne segue48. Come è successo
sempre nella storia, innumerevoli volte, da duemila anni fa per i primi cristiani, incolpati da Nerone
dell’incendio di Roma da lui stesso appiccato, a cinquanta anni fa per gli ebrei, utilizzati e
sterminati da Hitler, che sapeva bene per sua stessa ammissione che il pregiudizio sulla razza è
scientificamente infondato49 e tuttavia lo aveva giudicato utile per le sue mire di potere.
Che ne è stato a Troia del prode, generoso Achille incapace di inganno? E’ morto, come quasi tutti
gli altri. Ma a perderlo non è stata la sua incapacità di inganno. E’ stato l’eccessivo amore per un
amico, Patroclo, il guerriero che “seppe esser dolce con tutti”, a renderlo furioso e a fargli
dimenticare ogni pietà. Achille muore davvero nel momento in cui rifiuta la grazia ad Ettore. E
dopo aver ucciso, quasi senza accorgersene e senza volerlo davvero, la sua omologa femminile:
Pentesilea, la regina delle Amazzoni. Non e’ irrilevante che ad uccidere lui sia stato poi il più
pavido di tutti gli eroi omerici, Paride, il bel principe che aveva sedotto Elena. Paride ci ricorda che
l’amore per una donna, se la si ama davvero, conta di più, per la propria vita, dell’amore per un
amico.
I Greci, che non avevano nessuna considerazione per le donne, erano invece cultori dell’amore per
gli amici. Qualcuno dice che non fosse vera omosessualità,- e non lo era, se per omosessualità si
intende una condizione radicata nella fisiologia - ma è comunque innegabile che gli eserciti greci
avevano vantaggio dall’impiegare queste coppie di uomini che si volevano bene, e sapevano
vendicare con grandissima energia e coraggio l’eventuale morte degli amici.
I maschi di solito si prendono gioco della omosessualità, proprio perché si sentono in imbarazzo ad
ammettere l’esistenza di quella parte di sè che, soprattutto se disprezzano le donne, ne è invece
attratta. Come succede ad ognuno di noi, che proviamo a volte attrazione e affetto anche per
persone dello stesso sesso. Per le donne questo sembra più accettabile. Nessuno farebbe commenti
nel vedere due ragazze che si baciano per strada, o che camminano sottobraccio, ma che effetto ci
farebbero due giovani uomini che facessero la stessa cosa? Dipende dalle tradizioni. Ad esempio,
nei paesi dell’Est Europa, è sempre stato normale che gli uomini si baciassero o che ballassero a
coppie nelle feste paesane. In altre nazioni, tra cui l’Italia, la cultura dominante costringe i maschi
a nascondere l’affetto che provano l’uno per l’altro, e a sostituirlo con i riti, a volte disumani, delle
bande adolescenziali e del gruppo dei pari, che non può essere tradito.

48
Daniela Giosetti, “On Prejudice”
49
"So perfettamente bene, come questi intellettuali terribilmente intelligenti, che in senso scientifico non esiste la razza.
Ma ... con la creazione e l'uso del concetto di razza, il nostro nazionalismo tedesco sarà capace di portare molto lontano
la sua rivoluzione e di plasmare il mondo!" Da una conversazione di Hitler riportata da Hermann Rauschning in "la
voce della distruzione" e citata nel libro indicato nella nota precedente.

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Sesso, amore e gerarchia

Una delle poche ricerche sul sesso condotte coi metodi della vera inchiesta scientifica è opera di un
omosessuale americano, Simon Le Vay, (nel 1991 affermato neurobiologo del Salk Institute di La
Jolla, California) e giustamente ha fatto molto scalpore, anche se la stampa ne ha molto alterato il
significato, perché non sempre ha saputo presentare con chiarezza i dati.
Simon Le Vay, giustamente spaventato dalle strumentalizzazioni della sua ricerca e dal chiasso
inutile e controproducente, si è ritirato a far altro, a scrivere libri, salvaguardando la grande
ricchezza emotiva che la vita gli ha donato.
Simon Le Vay è stato un ricercatore coraggioso, forte, importante. Il suo ritiro è stata una perdita
per la comunità scientifica internazionale. Non ha resistito alle pressioni degli eterni schierati sulla
base del pregiudizio di parte. Gli sono saltati addosso tutti. Gli omosessuali che non gradivano
sapere di avere, in una piccolissima area cerebrale, delle diversità di struttura rispetto agli altri
uomini, le femministe del “politically correct”, che hanno sempre preferito vedere
nell’omosessualità maschile una conferma dell’omosessualità più generale del sesso forte, i cattolici
integralisti, che preferiscono vedere nell’omosessualità una colpa da espiare (e un castigo di Dio)
piuttosto che quello che è, una semplice diversità della natura.
L’umanamente ricco e amorevole Simon, che aveva intrapreso la ricerca in ricordo dell’amato
compagno morto di Aids, si è visto sbattuto in prima pagina, vituperato e maltrattato per motivi che
non erano i suoi e se ne è andato senza poter passare il testimone a nessuno.
Che cosa aveva scoperto di tanto importante Simon Le Vay, comparando ed eseguendo autopsie su
cervelli di omosessuali, di eterosessuali uomini e di donne? Che gli omosessuali avevano nelle aree
cerebrali preposte al sesso, un piccolo grappolo di neuroni, circa trecentomila, simili per dimensione
e numero a quelli che, nella stessa area, hanno le donne. Mentre negli eterosessuali maschi questa
area è molto più estesa, circa il doppio. E che forse è proprio questa anomala dimensione dell’area
neurale a determinare, in uomini per altri versi del tutto maschili, una spiccata preferenza per il loro
sesso. Per dare un’idea della piccolezza di questa area cerebrale, definita per comodità di ricerca
INAH3, si può dire che nel suo massimo di ampiezza costituisce lo 0,000009% dell’intera massa
del cervello. Qualcosa che non si può vedere neppure con le tecniche di “imaging” neurologico più
raffinate. E’ strano pensare che una massa così piccola possa determinare un destino, nella forma di
un orientamento del desiderio diverso dalla norma consolidata.
Che c’è di male in questa scoperta e perché è stata tirata per la giacca da tutte le parti tranne che
nella direzione giusta? (Ovvero la continuazione della ricerca?) Nulla, se non il fatto di essere
nuova e di andare contro consolidati pregiudizi. Giacchè è evidente che, se i risultati saranno
confermati, contribuiranno ad eliminare quegli atteggiamenti magici e ideologici che complicano
inutilmente la vita delle persone.
Finirà finalmente la primitiva paura che basti un semplice contatto con un omosessuale per divenire
irrimediabilmente simili a lui. Finiranno le inutili colpevolizzazioni, le speculazioni pseudo
filosofiche e religiose, le congetture, le illazioni, i processi alle intenzioni, la caccia alle madri che
magari, vestendo a carnevale da bambina il maschio di casa lo hanno diretto sulla ’cattiva strada’, e
tutto l’armamentario degli sragionamenti che si presenta a inevitabile corredo delle cose che non si
capiscono e che perciò fanno un po’ paura. Gli esperti potranno sempre discutere all’infinito, ma
almeno lo faranno su basi realistiche e con qualche dato in più.
Perché questa digressione? Per dimostrare che la libertà dai giudizi precostituiti offre sempre carte
in più ai comportamenti umani e possibilità inedite di uscire dai circoli viziosi che non si vuole
vedere solo per pigrizia mentale.
Nel mito omerico, chi ha tradito, Ulisse o Paride? Ulisse: e poco conta che abbia tradito dei nemici.
Paride è stato solo infedele a un potere che non riconosceva, un potere nemico che si esprimeva
soprattutto in forma di abuso. In questa veste, è la figura più moderna di tutta l’Iliade. A tal punto
moderna che la civiltà greca non ha potuto dedicargli alcun poema ’in fieri’. Per il suo mito non
c’era alcuna possibile continuazione. Solo l’Ulisse di Joyce ci indica tra le righe, migliaia di anni
dopo, che la prospettiva si è arricchita al punto da mescolare i caratteri dei protagonisti: non c’è
dubbio infatti che Molly Bloom è stata una moglie - amante - maga - strega, amata e persino tradita

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Sesso, amore e gerarchia

come tale: per quanto non sia avvenuto alcun rapimento, anzi, l’iniziativa esplicita al rapporto sia
stata presa da lei, Joyce non lascia alcun possibile dubbio sul fatto che Leopold Bloom, l’apparente
passivo prescelto, (complice di un gioco di incitamento in cui i ruoli si rovesciavano solo
all’apparenza), veda in lei una femminilità che mescola e va oltre i tradizionali stereotipi femminili.
(Non ancora tutti gli stereotipi, ma senza dubbio quelli più tradizionalmente femminili). Leopold è
un Ulisse disincantato, che nel riflettere sulla paternità si fa venire il dubbio essa sia solo una
finzione legale, che ironizza sull’Amleto come commedia degli equivoci, che pensa che l’amore
della madre (come anche amore per la madre) è forse l’unica cosa vera della vita, che si permette
battute pesanti sull’ermafrodito, l’uomo Dio come moglie di se stesso, (l’ognuno come moglie di se
stesso ?) e vede nel superomismo una forma di infantilità piuttosto che di riscatto. Che insiste
ancora nel considerare la donna una Dea (’Parla, femmina, sacra datrice di vita!’) salvo ricredersi
poi, almeno in parte, di fronte al suo lungo e sincero monologo interiore. Non risulta invece che
Ulisse amasse sua moglie. Per i greci le donne erano oikunema, oggetti domestici. Per fortuna sua,
Penelope era un oggetto domestico tanto intelligente da giostrare con abilità tra decine di
pretendenti.
Oggi sappiamo anche, però, che l’infedeltà è qualcosa di diverso dal tradimento: ha a che fare con
se stessi, con una volontà di conoscenza e di piacere che non sono condannabili di per sè. Diventa
tradimento quando è tradimento di sè: quando si tradisce ciò che per se stessi ha valore in relazione
all’altro. In questo caso ’barare’ è una colpa che prelude ad altri inganni, come il ’tradimento’
sociale: il tradimento di amicizie, affetti e gratitudini per puro fine di utile personale.
In genere, chi non tradisce se stesso non è portato a questo tipo di delitto dell’anima. Lo è, invece,
chi scambia per amore semplici ragioni di convenienza. Chi scambia l’amore con il possesso cieco,
inutile e dannoso alla vita dell’altro. In un mondo di adulti, le responsabilità sono sempre
individuali: una moglie o un marito che ’perdono’ il partner non hanno che se stessi da guardare
allo specchio. Anche quando l’altro sembra fuggire solo perché è più debole, o più vigliacco. O
perché si sente soverchiato, e ha bisogno di cercarsi altrove.
Per questo le crisi postume di gelosia ci paiono così ridicole: come può piacere una moglie che
aggredisce una rivale accusandola di ’furto di marito’? Già il modo come lo considera (una
proprietà un po’ scema) giustifica la fuga, anche se le donne hanno così poca fiducia in se stesse da
essere più spesso perdonabili (perché vedono prima di tutto in se stesse una scema proprietà). Allo
stesso modo ci sembra ignobile l’amante che ’vende’ le memorie di un’avventura, e non chi tace, o
subisce, subito accusato di ipocrisia dai venditori pret-a-porter di psicologia un tanto al chilo.
Chi ha un forte sentimento di sè difficilmente giace a lungo sulla graticola della gelosia: ha troppo
forte il rispetto della libertà altrui per cadere nella rete. Anche se gli piacerebbe legare il fuggitivo, o
la fuggitiva, o il fedifrago della domenica, e dirgli ’fermati, parliamo un po’’, sa benissimo che è
impossibile e inutile. Sa che alla fine ognuno deve cercare la propria strada, e che non si possono
imporre le proprie tessere mentali o i propri istinti agli altri. Per questa ragione, e per paradosso,
difficilmente viene abbandonato. Si abbandona più facilmente l’aridità che la ricchezza. L’aridità
non è assenza di gelosia. E’ indifferenza, è un’incapacità di entrare in relazione che rimanda al
proprio universo privato. E’ assenza di una dimensione forte dell’io. Si tratta, come è ovvio, di un
ragionamento solo generale: nella materialità dei singoli rapporti le sfaccettature sono molto più
complesse, come le ragioni e i torti. Ma in ogni caso, la rottura di una relazione segnala che la sua
delicata bilancia interiore si è spezzata. Le costrizioni della realtà, in questo caso, servono solo ad
allargare una piaga, non a sanarla.
Nei meccanismi della gelosia non si può fare a meno di inserire anche l’effetto del nuovo ruolo
femminile; proprio quel modo di vivere il proprio corpo di cui aveva intuito l’importanza Virginia
Woolf, e le scrittrici del suo tempo, come George Sand e George Eliot, che avevano voluto
sottolineare la propria libertà (almeno nello scrivere) assumendo nomi maschili. La libertà di
muoversi, di vivere negli ambienti spesso maschili del lavoro, dà oggi alle donne la possibilità di
mettersi sullo stesso piano dei loro compagni e dei loro colleghi. Comporta una prospettiva di
parità molto più globale della semplice indipendenza economica: la parità di ruolo, di intelligenza,

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Sesso, amore e gerarchia

di comportamento. La libertà di essere anche più della metà, come diceva lo slogan preparato dai
sindacati per la festa della donna del’otto marzo 1995 a Milano. Di essere complete da sole, prima
di tutto. Per gli uomini, una prospettiva che spesso suscita gelosie, anche senza un tradimento
scopertamente sul piano sessuale.
Omero non è stato affatto tenero con il suo eroe Ulisse. Ecco come ce lo presenta: uno spergiuro, un
sacrilego (ruba la statua di Minerva dal tempio), un fomentatore di capri espiatori, se gli servono per
il suo potere (è lui ad istigare Agamennone quando si tratta di sacrificare la figlia Ifigenia per
propiziare il successo dei greci), non esita ad abbandonare un malato di epilessia su un’isola
deserta, salvo tornare poi, dieci anni dopo, ma solo per derubarlo del poco che gli resta, le armi che
gli hanno permesso di sopravvivere. E’ un uomo molto intelligente e molto astuto, freddo, capace
però, in ultima analisi, solo di usare la sua intelligenza per imbrogliare gli altri. E che crede che
tutte le intelligenze siano eguali alla sua. Quello che di Circe non potrà mai accettare, è la logica
diversa del potere. E’ la spontanea accettazione della superiorità altrui, quando è vera e reale. E’ il
rispetto della libertà, e in definitiva la sua evidente parità. Circe lascia Ulisse libero di andarsene,
anche se le dispiace, ed è così generosa da dargli persino consigli utili alla sua sopravvivenza:
sovrana a casa propria, rifiuta di usare il potere come tirannia, ma non è neppure disposta a cederlo
per uniformarsi in modo meccanico e ipocrita alla volontà altrui. E’, in fondo, la prima figura
democratica e libera della storia.
E’ perciò stupefacente che nella “Dialettica dell’illuminismo”, un libro che per altri versi analizza in
modo sottile e intelligente le logiche del potere, questa figura femminile sia in fondo disprezzata. La
si definisce come ’il primo carattere femminile della storia’, una specie di Eva (colpevole dunque di
vedere la nudità propria e altrui? Colpevole di voler mangiare le mele della conoscenza? E come si
concilia tutto ciò col suo presunto potere di trasformare gli uomini in porci?) che “Per concedere il
piacere pone come condizione che esso sia stato disdegnato” dando un contributo decisivo alla
freddezza borghese. Ma Circe il piacere non lo disdegna affatto, nè tanto meno accetterebbe un
uomo in fuga da lei. Non pone affatto, come condizione che il ’piacere sia stato disdegnato’ se non
all’interno di una visione magica che attribuisce infantilmente alle donne troppo potere. Pone come
condizione soltanto la capacità di autocontrollo, il non lasciarsi andare al piacere in modo
irrazionale e indiscriminato, la capacità di saper frenare i cavalli prima che imbizzarriscano invece
di correre liberi nelle praterie. La capacità di evitare gli abusi e di non approfittare del più debole.
Ulisse fugge solo perché sa di non essere capace di rispondere a questo modello: fugge per non
deludere, prima ancora che per tornare a casa sua. Sa che gli abusi sono inevitabili, o comunque non
è capace di prefigurasi una società dove essi non siano possibili, o siano ridotti al minimo. Forse
pensa che siano connaturati al suo modo di essere e al suo desiderio. E’ una vittima della forza ma
non esita a usarla quando sa di poter vincere lui. Del resto persino Penelope, la moglie in fondo
amata, la sempre diffidente, ha troppo potere, per lui. La sua intelligenza ’diversa’, proprio come
quella di Circe, capace di usare l’astuzia per aggiungere, e non per sottrarre, gli fa comodo, ma lo
sconcerta. Non la capisce, e in fondo non può capirla perché troppo diversa dalla sua, che è la vera
misura della realtà. L’unica cosa che può fare è rubare l’intelligenza di Minerva, non dialogare con
lei. Ma, per fortuna, stiamo parlando di un Ulisse di migliaia di anni fa.
Il potere è visto da Omero e dalla mitologia greca (ma anche dalla nostra contemporanea, la
Dialettica dell’Illuminismo) prevalentemente nelle sue caratteristiche maschili, senza volerne
vedere e valorizzare gli aspetti femminili di attenzione all’altro, di cura. Circe e Penelope
potrebbero non essere figure secondarie ma, come simboli del potere di tipo femminile potrebbero
contribuire a bilanciare le figure maschili. Non a caso, in Penelope esiste il simbolo della tessitura,
con il suo movimento di avanti e indietro che anche nella Bibbia è spesso utilizzato per
rappresentare il mondo femminile della pazienza, dell’astuzia e della mediazione. Un mondo
femminile solo nel simbolo, perché anche per gli uomini queste arti sono sicuramente utili efficaci.
E’ servito a Penelope tessere la lunga tela? Le è servito per salvare il figlio, Telemaco, ai suoi occhi
più importante del padre. Ha giocato il suo personale terno al lotto. A permetterle di vincere è stata
la fortuna, superiore persino al favore degli Dei. Femminilmente astuta, ha salvato il salvabile.

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Sesso, amore e gerarchia

Proprio come Circe. Il suo vero alter-ego. Il suo vero specchio. Quanto ha giocato, in lei, la
considerazione (non paura), di Ulisse, il marito potente? Qualcosa. Ma senza farsi nessuna illusione.
Quando Ulisse è tornato ad Itaca, era un uomo solo, che aveva perso tutto, un vecchio mendicante
alla ricerca di riscatto. Il suo unico, vero, strumento, è stata la fredda e calcolata fedeltà della
moglie. Che però non è bastata a trattenerlo. Tanto da ripartire, non appena ha potuto, questa volta
per sempre, questa volta per sè. Non più alla ricerca del potere personale, ma della risoluzione di un
enigma: se stesso, la vita. L’enigma degli enigmi, che solo la morte può risolvere.
Ulisse è stato debitore, verso Penelope, della sua ultima possibilità. Ma deve qualcosa anche a
Circe, alle sirene, alle ninfe. Non deve invece nulla agli alleati, gli achei, vincitori travolti, assieme
a lui, dall’urto frontale con la realtà.
Che ne è stato di Agamennone, re che non ha esitato a sacrificare la figlia per perseguire i suoi fini
di potere? E’ stato ucciso dalla moglie, Clitennestra. Una Penelope senza vie d’uscita. La sua
personale alleanza è stata con i proci. Perché aspettare per decenni un marito assassino? Quando
Agamennone torna, Clitennestra ordina di stendere drappi rossi sulla strada. Come si fa con i re
stranieri, offrendo un omaggio che è anche un invito ad andarsene.
Agamennone ed Ulisse erano entrambi grandi re, grandi uomini, entrambi vincitori, figli di una
diversità dovuta al caso. Come ha sacrificato Ifigenia, Ulisse avrebbe sacrificato anche Telemaco,
se la vita lo avesse messo nelle condizioni di farlo.
Deve in ultima analisi al caso il privilegio di fare vela verso l’ignoto. E Penelope, in fondo al suo
cuore, lo sa. Possiamo immaginare, anche se l’Iliade non lo dice, che per l’ultimo viaggio del marito
non spargerà neppure una lacrima. Anche se lo ama. Come le donne amano gli uomini e non
vicerversa. Un amore per carenza di modelli inventati. Tutti sappiamo che se Penelope avesse
trovato qualcuno più convincente di Ulisse, non avrebbe esitato a spezzare la tela. Ma viveva su
un’isola, e quel qualcuno non c’era. Perciò la sua condanna è stata la solitudine eterna. Una
solitudine feconda di tele, condannate ad essere disfatte per mancanza di interlocutori. Oggi
trasformate in un patetico tentativo, da parte delle donne, di bastare a se stesse. Un tentativo che ha
un’unico sbocco. Le stesse colonne d’Ercole che hanno perduto, mille anni dopo ma con onore,
Ulisse. La ricerca dell’ignoto.
Sullo sfondo, a piangere per tutti, la dolente e sgradevole figura di Cassandra. La due volte vittima:
degli uomini e delle donne. La non assassina, assassinata per caso e per scelta. Per caso preda di
Agamennone, per caso sua schiava, per caso uccisa assieme a lui. O è stato l’oscuro senso di colpa a
far sì che Agamennone scegliesse come preda proprio Cassandra? Agamennone era un re che
conosceva ormai troppo bene se stesso per avere bisogno di cercarsi in mezzo a mari sconosciuti.
Un uomo privo di alibi, e perciò di speranze. La sua ultima speranza, una lucida schiava, nulla
avrebbe potuto, e giustamente, contro l’ira della moglie. Dalla vita non si può mai tornare indietro, e
gli errori si pagano, sempre.
E’ proprio vero? Tanti casi della storia, e in particolare la storia italiana degli ultimi dieci o
quindici anni farebbe pensare di no. Dipende da cosa è un errore, e da chi paga. Forse è vero che
c’è sempre qualcuno che paga, ma non è affatto detto che sia colui che ha commesso l’errore. Le
leggi della natura, dell’economia, di solito non perdonano. Ma chi non le conosce o non ne tiene
conto, di solito riesce, o riusciva, a farla franca e magari a fare carriera: bastava la tessera di un
partito, o la capacità di dire sempre di sì a qualcuno che conta. Oggi per questi errori paga
un’intera comunità nazionale, più nei tribunali qualcuno troppo ingenuo o privo di abilità e di
astuzia o scelto come capro espiatorio, che si è lasciato invischiare ad un livello tale da non avere
più vie di scampo. Infatti, di più e peggio si pagano gli errori degli altri, ancora di più se si ha la
sventura di vederli senza poterli evitare. La scrittrice tedesca Christa Wolf attribuisce a Cassandra
un credito che forse è meglio non abbia50. Ma le sue riflessioni sul personaggio femminile più
tragico, e lucido, dell’occidente, toccano un nervo scoperto che per ora non è medicabile. Cassandra
è stata una donna priva di autonomia. Il suo tentativo di raggiungerla le si è paradossalmente rivolto
contro, trasformandola in un oggetto assoluto. Non ha potuto ritirarsi dentro la sua femminilità
50
Christa Wolf, “Premesse a Cassandra” Edizioni e/o.

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Sesso, amore e gerarchia

come manovra diversiva alle molte sfide della realtà. Forse non lo ha neppure voluto. Era andata
troppo oltre per pensare che esistano ancora cerchi magici a difenderci dalla vita. Come indovina,
svolgeva una della poche professioni concesse alle donne nell’antichità. E, più ancora che indovina,
era una donna che amava osservare le nuvole, chiusa dentro se stessa per impossibilità di dialogare,
capace di vedere oltre l’accecamento ma non di prevedere davvero, e tantomeno di evitare.
Cassandra è il simbolo di un’intelligenza femminile acutissima, ma costretta a girare a vuoto,
bloccata sul nascere e invisa perciò, oltre agli uomini, anche alle donne. E’ il simbolo di una duplice
impotenza. E troppo grave è stata la sua colpa, nel denunciare che la sua gente era priva di
alternative, nell’accettare il ruolo improprio e stregonesco di profetessa, per non essere a buon
diritto punita. Se la sua intelligenza non avesse girato a vuoto, non avrebbe comunque inventato il
cavallo di Troia. Ma qualche altro inghippo o diavoleria tecnologica, di sicuro sì. Uno specchio
concavo, magari, capace di riflettere i raggi del sole e di bruciare le navi dei greci. Ma forse le
sarebbe mancata l’aggressività necessaria. E in ogni caso non è avvenuto. E però è vero che a volte
le alternative non ci sono solo per incapacità di immaginarle o perché non ci sono le persone giuste
al posto giusto. Perché un mutamento piccolissimo nei dati iniziali può provocare un mutamento a
catena enorme. Sappiamo però che è stato un profugo, Enea, a fondare una nuova città e una nuova
civiltà, almeno nell’illusione letteraria. E le illusioni, quando non resta niente altro, vanno coltivate.
Nessuno potrebbe sopravvivere senza. Nella sua atroce lucidità Cassandra è stata un’involontaria
annunciatrice di morte. Ma non è con lei che gli Dei hanno infierito. La sorte più atroce, la sventura
più orribile ha colpito Laocoonte, l’indovino uomo, il vero indovino, divorato assieme ai figli
dall’ira divina. Per Cassandra è bastata l’ira di una donna. Che non amava la lucidità, dunque
peggiore di lei.
Sopra ognuno dei protagonisti dell’ Iliade sta del resto quella forza che ha il potere di uccidere gli
uomini o di trasformarli in cose e che ne è il vero motore, come giustamente nota Simone Weil.
E siccome l’anima degli uomini “non è fatta per abitare una cosa, quando vi sia costretta non vi è
più nulla in essa che non patisca violenza.”51. L’amarezza per la miseria dell’uomo, incapace
perfino di sentirla, vi è espressa con una potenza che nessun altro poema epico ha in seguito saputo
raggiungere.
I guerrieri, che ignorano sempre che la forza ha dei limiti, sono infine abbandonati al caso e le cose
non gli obbediscono più. I greci avrebbero potuto benissimo ottenere l’ oggetto dei loro sforzi, la
ricca Elena, ma ciò che volevano in realtà era nientemeno che tutto. Lo ottennero, ma il prezzo fu
così alto che si ritorse anche contro di loro. Giacchè “Il potere che la forza possiede, di trasformare
gli uomini in cose, è duplice e si esercita da entrambe le parti: essa pietrifica diversamente, ma
ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano52. Gli unici rari momenti in
cui gli uomini ritrovano se stessi sono quelli in cui amano. Un amore in cui prevale comunque e
sempre l’amarezza della sconfitta e la necessità di subordinare l’anima alla dittatura della materia.
Ecco un’amarezza in cui non mi riconosco. Se nell’amore prevale la sconfitta, che fine fa il piccolo
principe e la volpe? La comprensione tra gli esseri umani? Le persone eccessivamente severe con
se stesse e con il mondo, come Simone Weil, hanno molte ragioni per pensarla come la pensano, ma
dimenticano l’indulgenza, non sanno apprezzare i piccoli segni di buona volontà. Un libro di
racconti a me cari da bambina diceva che la vita è una landa desolata, dove a volte spunta un fiore
di lavanda dal soave profumo. Le persone severe vogliono, e giustamente, migliorare il mondo.
Però finisce che anche loro non riescono a vedere una pecora dentro una cassetta di legno, o a
riconoscere un pitone che ha mangiato un elefante. E neppure a camminare adagio adagio verso
una fontana53. Tutti presi dalla nostra ansia di ottenere il mondo ideale, dimentichiamo di
apprezzare le margherite che sbocciano sotto i nostri piedi e il cielo terso di un mattino di
primavera. Dimentichiamo che, per camminare insieme ai nostri compagni di viaggio, occorre tanta
comprensione. Almeno quanta ne occorre a loro per sopportarci ogni giorno. Sapremo trovare

51
Simone Weil, "L’Iliade poema della forza", p. 19
52
Ivi p. 33
53
Antoine di Saint Exupèry, "Il piccolo principe"

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Sesso, amore e gerarchia

questa attenzione verso il mondo, soltanto se prima la sapremo esprimere verso noi stessi,
superando lo spirito di onnipotenza che ci impedisce di accettare i nostri limiti e le nostre sconfitte.
Per gli antichi, come per i bambini, forse questo atteggiamento era più facile: non c’è, nell’Iliade,
alcun disprezzo per i vinti: tutti, vinti e vincitori sono accomunati dalla necessità di piegarsi a una
forza che li soverchia e che qualcuno chiama destino. La Moira, a cui Giove serve come sgabello
per i piedi. Ancora un nome femminile, per indicare la neutralità del caso.
Più tardi, la prima civiltà ’imperiale’ della storia, la Roma del Cesari, cercherà di risolvere
l’insanabile contraddizione eliminando la pietà per il vinto. “Vae victis” divenne così il vero motto
delle insegne dei legionari. Ma l’impero romano fu sconfitto dall’interno proprio dal cristianesimo
(e dell’esterno dalle invasioni barbariche), segno che, a distanza di secoli, ancora una volta, anche i
vincitori si sono piegati alla forza della necessità. La lezione non è servita e nei secoli successivi il
motto “Vae victis”- detto da Brenno ai romani sconfitti - è stato fatto proprio da tutti i vincitori.
Siamo ancora in questa fase storica. Quando il nostro presidente della repubblica, Oscar Luigi
Scalfaro, è andato in Messico, in visita ufficiale, tra i vari discorsi imbalsamati tipici di queste
contingenze, mi ha colpito solo un particolare: il fatto che il parlamento messicano di chiamasse
“Azteca”. Ho pensato che era l’ultimo sfregio fatto ai vinti dai vincitori. Dopo averne cancellato
l’identità, si sono appropriati del nome. Anche in questo caso si potrebbe aggiungere “Padre
perdona loro perché non sanno quello che fanno”. La perfezione non è di questo mondo. E’
l’imperfezione il motore della storia. Dunque non c’è alcun connotato di condanna morale in questa
affermazione. C’è solo una presa d’atto. Camminiamo piano, come dei ciechi che hanno bisogno
del bastone. A tentoni, attraversiamo la vita, e questo dà a tutti la grandezza dei vinti. Come una
forma di privilegio postumo. E’ giusto non rinunciare a questo tipo di privilegi. Per gli altri, che si
chiamino carriera, ricchezza, abbondanza, distratta considerazione di limiti, oneri ed onori, può
esserci solo il sorriso. E la ribellione. La legittima difesa. Il rifiuto di un’oblatività così totale da
permettere scempi. L’accettazione condizionata. “Padre, perché mi hai abbandonato?”Vita, perché
mi hai condannato a morte? La gran parte dell’umanità muore nel suo letto, di vecchiaia. I più
sfortunati, o fortunati, chissà, muoiono altrove, muoiono prima. E’ un sacrilegio negare, a chiunque,
la dignità della vita e della morte. Un sacrilegio che gli antichi, forse, capivano più di noi. Cosa che
non gli ha impedito di crocifiggere Cristo come un comune malfattore. E’ difficile accettare la
sofferenza. Insopportabile vedere quella dei figli. Fa urlare di impotenza, ma l’urlo è silenzioso. Mi
chiedo quanto pesasse la croce di Cristo. Il suo nobile Calvario è stato di breve durata. E neppure lui
si è fatto carico di tutto il dolore del mondo, anche se ha perdonato chi glielo infliggeva. Come
scrive sempre Simone Weil “Quando si è dovuta distruggere ogni aspirazione di vita in se stessi, per
rispettare in altri la vita è necessario uno sforzo di generosità da spezzare il cuore”. Il cuore di chi
guarda, però, non il proprio. Ci sono dei casi in cui, per salvare la vita degli altri, si distrugge la
propria. Come negli atti di eroismo. Ma non è invece eroismo, è solo rispetto di un istinto
elementare, sacrificare la propria vita se i figli sono in pericolo, per salvare la loro. Non sono
necessarie medaglie per questo, fa parte del bagaglio degli istinti. Quando non ci si riesce, si è
condannati a convivere con il senso di colpa. Mi sono chiesta perché Simone Weil non sia stata
proclamata beata dalla chiesa cattolica. Si definiva un’ebrea cristana e lo era. Giovanna, esperta più
di me in riti e liturgia, mi ha risposto che la chiesa non poteva ammetterla tra i beati perché non era
battezzata. La Weil aveva rifiutato il battesimo per solidarietà con tutti i bambini morti da piccoli
senza essere stati battezzati, a cui la chiesa rifiutava l’ingresso in Paradiso. In certo qual modo
questo ne fa un’eretica, tanto più grande proprio perché non accetta logiche di certificazione. L’ho
ammirata moltissimo, per questo.
Ma mi sono ricordata che io, per esempio, sono stata battezzata a sette anni, con la complicità di
mia nonna. Mi hanno cresimato, battezzato e comunicato in un colpo solo, non si sa mai, i miei
genitori erano atei e potevo cambiare idea. Nella parrocchia di Arenzano, il mio paese natale. Una
chiesa splendida, la cui cupola a volta riproduce al contrario la carena di una nave (Arenzano è un
paese di antichi marinai), che conferisce all’ambiente interno un’impressione di ampiezza e di

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Sesso, amore e gerarchia

libertà abbastanza rare da trovare nelle chiese. Ne fui felice: a sette anni ritenevo di poter fare le mie
scelte, e la complicità della nonna mi è stata di aiuto.
Mio figlio, invece, non era stato battezzato, perché in seguito io sono tornata ad essere agnostica.
Ma non dimenticherò mai. Da pochi giorni era stato ritrovato il suo corpo, o meglio quello che ne
restava, sopra Rezzago, una zona battuta decine di volte nel tentativo di ritrovarlo. Per caso, da un
cacciatore del posto che era andato a controllare un sito abbandonato e a raccogliere ciclamini. Don
Francantonio, il parroco di Asso, paese dove abbiamo la casa di vacanza, è due volte monsignore (la
parrocchia di Asso è considerata particolarmente importante e chi ne assume la responsabilità ha
ben “due palle” sul cappello da prelato, come mi fu detto scherzosamente dall’allora assessore
all’assistenza sociale che aveva seguito il mio caso), nell’officiare il rito di addio nella chiesa piena
di margherite gialle e bianche, aveva aperto a un certo punto, il fonte battesimale. I tre sacerdoti
chiamati a celebrare la messa con lui piangevano tutti, nel sollevare il calice del vino,
proteggendolo con le palme distese, in modo insistito e ripetuto, in segno di ossequio. Come
piangevano le maestre di Dario, gli amici e i parenti, i parrocchiani. Io non piangevo, non ne ero
capace. Due ali di folla, emozionata, composta e ordinata aspettavano in fila il momento della
distribuzione delle ostie. Dalla parte dei miei amici e della famiglia, si staccarono in pochi, essendo
quasi tutti atei, ma capii che stavano piangendo anche loro, anche se lo stato confusionale in cui mi
trovavo mi faceva vivere in una strana sensazione di irrealtà. Era come se mi trovassi lì e nello
stesso tempo altrove, lontano, nelle anonime e spoglie stanze della morgue, davanti a un grosso
scatolone di cartone dove erano stati raccolti i teneri resti di mio figlio. Prima di entrare, mi ero data
una ravviata ai capelli, avevo esitato davanti a quella porta, qualcuno mi aveva invitato a stare fuori,
voleva far entrare solo Luciano, mio marito, ma io volevo a tutti i costi vederlo.
Tenerezza e amore gioia e dolore, come dopo un ritrovamento tanto atteso, si mescolavano nel caos
assieme a un sollievo finto. Come era strano il contrasto tra la solennità e la reticenza, com’era
strano il luogo, come sembravano automatici i gesti, quando portarono la grande e leggera scatola di
cartone. - Ma mio figlio dov’è? - Avevo chiesto agli infermieri, senza ottenere risposta.
Ho riconosciuto i suoi abiti e le scarpe, dopo non ho più guardato.
Con infinita cura, (non mi hanno fatto partecipare, sebbene l’avessi chiesto e avevo portato delle
fotografie - ora lo vedete così, ma guardate com’era bello, - avevo detto), ne hanno ricomposto le
ossa e finalmente l’ho potuto baciare sulla fronte.
Qualche giorno dopo chiesi a don Francantonio perché aveva aperto la fonte battesimale, custodita
dentro una teca di legno meravigliosamente decorata e cesellata. Mi ha risposto qualcosa che non ho
capito, non avevo la forza di approfondire niente. Ma fui molto grata, e lo sarò per sempre, a don
Francantonio per il suo gesto. Perché per me era l’equivalente di un gesto di amore. Non mi
interessa approfondire, anche se prima o poi so che lo farò, non si possono scacciare i demoni del
pensiero, è l’unica cosa che ci resta, quando le possibilità di futuro sembrano annullate. Purtroppo,
le parole sono così distanti. Quando il pensiero le produce, allora c’è il primo distacco dalla realtà.
Da quel momento camminano da sole e per questo sono spesso fraintese. Hanno una loro verità
indipendente dai fatti e una forza di neutralità che può renderle astratte. E’ una sensazione che
provo spesso, quando mi capita di andare in chiesa. Dove la trama di passione,la morte, la
resurrezione e la salvezza dell’ascensione di Cristo sono state ripetute infinite volte, per infiniti
secoli, senza per questo essere meno vere. Ma le sento lontane e come impolverate dal tempo,
inamidate da strati successivi di riti e abitudini. Non riesco ad accettare il sacrificio del figlio sulla
croce come simbolo dell’amore infinito di Dio per gli uomini. Non mi sento “redenta” dal
sacrificio, soltanto soverchiata da una colpa in più. Così, almeno, è il mio modo di sentire. Non
posso fare a meno di provare un senso di colpa verso chiunque sia maltrattato dalla vita oltre al
limite dell'accettabile.

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Sesso, amore e gerarchia

Elettra: una figlia troppo presto orfana


Intervista a Elettra Marconi
Per concludere, penso...
che vi sia una sola via d’accesso alla scienza o alla filosofia:
imbattervi in un problema, vederne la bellezza e innamorarvene,
sposarlo e convivere felicemnte con esso,
finchè morte non vi separi.
A meno che non incontriate un altro e ancor più affascinante problema,
o a meno che, in verità, non ne otteniate la soluzione.
Ma anche se riuscite a trovare una soluzione,
potreste poi scoprire, con vostra delizia,
l’esistenza di una intera famiglia di incantevoli,
anche se forse difficili, problemi,
per il cui benessere potreste lavorare, con uno scopo,
fino alla fine dei vostri giorni.
Karl Popper

Comunicare vuol dire molte cose. Cercare di capire e di capirsi sempre di più, tra esseri umani, tra
uomini e donne è una delle strade che ci sono state concesse per migliorare la vita. Dal tempo in cui
ci rapivano prendendoci per i capelli senza troppi complimenti - la clava in mano a prevenire
contestazioni - ad oggi, non si può negare che qualche passo avanti è stato fatto.
Viviamo in un secolo che è stato segnato, infinitamente più di ogni altro, dall’avanzare del pensiero
scientifico. Rischiamo di piegarci sotto il peso di tutte le nuove scoperte. Non ci siamo ancora
abituati e siamo spesso disorientati.
In qualche modo, restiamo indietro rispetto a noi stessi. Ci domandiamo ancora se è nato prima
l’uovo o la gallina, quando è evidente da un pezzo che è nato prima l’uovo, o meglio che i
microorganismi e le cellule elementari hanno addosso un carico di millenni che noi neppure ci
sogniamo. Anche per questo ne studiamo con tanto accanimento i segreti. Solo dopo gli anni ‘50
abbiamo davvero potuto capire quanto sia infinitamente complessa ogni singola invisibile cellula
dei nostri tessuti. Quanta informazione vi sia contenuta, e con quale meravigliosa precisione ed
architettura. Molti, per la verità, non lo hanno capito neppure adesso. Dimenticano che può bastare
un livido, una contusione, per scatenare alterazioni cellulari a catena con conseguenze anche gravi.
Dimenticano quanto siamo fragili, più fragili del vetro, quanto siamo alla mercé del caso e degli
spifferi del vento. Quanto ancora reagiamo in modo primitivo a un mondo che diventa sempre più
complesso e proprio per questo ci spaventa di più.
C’è, e ormai lo intuiamo, una spaventosa carenza nella capacità di applicare metodi di ragionamento
più vicini al pensiero scientifico, e un sorta di impossibilità, dovuta all’ignoranza, nel sintetizzare in
pillole ciò che è stato scoperto per non restare indietro e dotarci di maggiori vie d’uscita dagli
impasse in cui ci ficchiamo o ci troviamo ogni momento. Lo stesso insegnamento scolastico è
spesso carente e ignora la storia della scienza come se fosse secondaria. L’uomo che più di ogni
altro, con le sue invenzioni, ha favorito la nascita di mezzi di comunicazione che possono fare da
contenitore adeguato all’esplosione delle conoscenze (anche se il contenuto per ora non lo avrebbe
certo soddisfatto) è stato Guglielmo Marconi. Per questo abbiamo deciso di parlare anche di lui, per
riconoscere la sua importanza e fargli un doveroso omaggio.
Marconi è morto nel ‘37, ma è ancora viva la figlia. Di cui, anche perchè è una donna, ci
interessavano oltre al parere personale, le esperienze di vita. E’ a lei dunque che si siamo rivolte
per riallacciare il filo del discorso. Usando le antenne dei sensi, in fondo un po’ simili alle antenne
per captare segnali dallo spazio che ormai ci sovrastano per ogni dove.
Non pensiamo neppure sia un caso che le prime antenne, classiche nella loro semplicità, fossero un
insieme di fili disposti a telaio, come l’arcolaio delle nonne. Che tessevano e poi disfacevano tutto,

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Sesso, amore e gerarchia

quando non trovavano la strada di una efficace comunicazione. Così abbiamo letto il libro “Mio
marito Guglielmo”, scritto da Maria Cristina, la moglie di Marconi. Così Valeria è andata a Roma,
gentilmente ricevuta dalla principessa per un colloquio che è stato molto piacevole.
Si assomigliano moltissimo. Stesso naso aquilino, occhi azzurri, capelli biondi come la nonna
paterna. Elettra Marconi sembra vivere ancora, a distanza di 50 anni dalla morte, nel ricordo
dell’illustre genitore. Abita in Via Condotti, a Roma, in una grande casa dove nulla sembra essere
stato toccato da allora, nell’atrio un modello in legno del panfilo Elettra, la nave laboratorio dove il
padre faceva i suoi esperimenti e dove lei ha vissuto nei primi anni di vita. Sui tavoli e i ripiani dei
mobili, a decine, quasi ad occupare completamente lo spazio, foto ricordo del padre, della madre e
degli incontri con personaggi importanti avuti nel corso del tempo.
Mia madre si è decisa a scrivere questo libro biografico per me, - dice - dopo avere letto tutte
le bugie che hanno scritto negli altri libri. Voleva lasciare di sé e della sua vita col marito un
ricordo vero, non inquinato dalle gelosie inevitabili di altre voci interessate
“Mio marito Guglielmo” (Rizzoli editore) è il racconto dei tredici anni trascorsi assieme ad uno dei
più grandi inventori del XX secolo, scritto in modo semplice da una donna che, a distanza di molti
anni, si percepisce ancora innamoratissima del marito. Tanto da vivere nel suo ricordo gli oltre
cinquanta anni della vedovanza, senza mai più risposarsi, quasi che quell’esperienza avesse bruciato
tutte le altre. Lasciandola poi, completamente disorientata, alle prese con una realtà quotidiana cui
non è più riuscita ad abituarsi.
“Mio marito Guglielmo” è un libro scritto da una donna. Vissuta poco tempo dopo Virginia Woolf
e che ha frequentato una società ancora più “per bene” ed agiata di quella frequentata da
Virginia. Le sue descrizioni sono per noi fuori del tempo, un misto tra una favola e un romanzo di
Liala. Virginia Woolf - lo dice nei suoi articoli di critica letteraria, meno noti dei suoi romanzi54, si
accorgerebbe subito che si tratta di un’autrice, perchè si limita a raccontare le piccole cose di ogni
giorno, e sempre vedendole attraverso gli occhi del marito. Secondo Virginia, ai tempi della regina
Vittoria si diceva che ogni casa aveva il suo angelo. L’angelo della casa era comprensivo,
affascinante, assolutamente non egoista. Si sacrificava per gli altri. E soprattutto era assolutamente
puro. Per poter scrivere liberamente - dice Virginia - ho dovuto ucciderlo. L’immagine non è troppo
forte. Spesso le donne hanno dovuto fare violenza a se stesse, per uscire da un ruolo stereotipato.
Che è (sempre secondo Virginia) a maggior ragione tipico delle figlie di uomini colti (e ricchi).
Doversi guadagnare da vivere è stata la molla principale che ha spinto le donne a emanciparsi: le
prime lavoratrici sono state le vedove, le donne sole. Chi invece poteva avere una vita comoda e
agiata non era spinta a uscirne. Ancora oggi, sono le donne stesse che spesso si adagiano nei ruoli
tradizionali, subalterni, privi di forza contrattuale. Perchè la responsabilità, l’emancipazione è
spesso difficile, faticosa: una strada in salita. La vita di Maria Cristina Marconi è stata come una
bella favola. Dentro cui è stata felice, senza chiedere niente di più. Le sue condizioni economiche,
oltre alla sua volontà e al suo ricordo, hanno permesso che rimanesse tale anche dopo la morte del
marito.
Una volta, le persone geniali si potevano permettere di avere una Musa ispiratrice. Di solito, l’uomo
era geniale e la Musa era la sua donna: sul ponte di Brooklyn, a New York, c’è una lapide che
ricorda la moglie dell’ingegnere che lo progettò. Ma la maggioranza sono muse silenziose e
dimenticate. Il Muso, viceversa, non risulta essere mai esistito, neppure sul piano del linguaggio:
dobbiamo dedurne che non è possibile le donne siano ispirate dagli uomini? Che il loro ruolo
gregario di semplice e importante sostegno affettivo, è eterno nei secoli e nei secoli fedele, un po’
come l’arma dei carabinieri? Che gli uomini rifuggono l’idea di fare il Muso, inteso come Musa? E
se è così, perchè mai, di grazia? O potremo osservare con divertimento Musi in disperata fuga dalle
arpie che vogliono renderli oggetti, allo stesso modo di un bel quadro o di un’opera d’arte riuscita?
Oggi che l’angelo del focolare non esiste quasi più, forse le persone geniali, uomini o donne che
siano, sentono la mancanza di un sostegno, di una parola buona ogni tanto. Chi potrà dirgliela? Le
54
Virginia Woolf, “ Women and Fiction”, The Forum, 1929. Pubblicato in “ Virginia Woolf on women and writing, a
cura di Michèle Barret, The women Press Limited, 1992.

79
Sesso, amore e gerarchia

persone molto intelligenti sono spesso fragili, insicure nelle necessità spicciole della vita. Le donne
non meno degli uomini. Il futuro vedrà i ruoli di sostenitore e di genio distribuiti tra uomini e donne
più o meno equamente, o vedrà la sparizione dei geni, non più sostenuti dalle loro Muse? La
genialità e la creatività, per fortuna, non sono condizionati dalle donne. Sono in grande parte una
dote naturale, indipendente da qualsiasi Musa. La cosa più probabile è che anche gli uomini
dovranno arrangiarsi a fare da soli o ad imparare rapporti di maggiore parità. Nella realtà anche le
donne sanno trarre ispirazione dagli uomini. Solo che non li trasformano in ’oggetti’ della loro
ispirazione, - se non in modo momentaneo - nè pretendono di farlo. E’ certo comunque che, qualora
la cosa avvenisse, essi molto saggiamente scapperebbero. Nessuno ama essere imbalsamato. Gli
uomini potrebbero sempre consolarsi con le ’Muse inquietanti’ descritte da De Chirico. Muse
stanche di esserlo, anche se non hanno ancora il coraggio di dirlo. Ma sempre disponibili a un
rapporto di vera reciprocità. Forse gli uomini si sentiranno per un po’ meno forti e sicuri, forse
sapranno, assieme alle donne, creare rapporti fecondi anche sul piano intellettuale e non solo
affettivo. E’ già successo, succederà sempre più spesso. Saranno rapporti meno amputati di quelli di
oggi. Di recente ho visto in TV una scena gustosa: un giovane poeta regalava versi ai passanti, uno
sdrucito cappello di feltro posto per terra a raccogliere le offerte. Vicino, una ragazza bionda,
robusta, col viso intelligente. - Scusi lei chi è? - chiedeva il cronista, come sempre curioso. - Sono la
musa - rispondeva seria. - Scusi, ma i suoi genitori cosa dicono? - continuava implacabile il
giornalista. - Beh, all’inizio erano un po’ perplessi, ma ora hanno visto che riusciamo a campare... -
Suo padre era un genio creativo fuori da ogni schema, come Leonardo e Galileo. Aveva solo 21
anni, non era neppure laureato, quando ha scoperto che si poteva trasmettere il suono a distanza,
senza fili, attraverso le onde elettromagnetiche.
Mio padre ha studiato da solo, matematica fisica, chimica, a quei tempi nessuno in Italia gli
aveva creduto. Se si fosse laureato avrebbe solo perso tempo, sarebbe stato costretto a inutili
polemiche con gli ambienti scientifici di allora, era troppo avanti per essere capito. Aveva
anche un po’ di paura che gli portassero via le sue scoperte.
Ma in Italia non correva questo rischio, dato che nessuno le aveva capite.
Sì, quando offrì l’esclusiva del suo brevetto al governo italiano si sentì rispondere con un
rifiuto. Mia nonna, Annie Jameson però era inglese ed è stata anche l’unica, nella famiglia ad
avere fiducia in lui. Partirono dunque per l’Inghilterra, dove trovò i mezzi e la volontà per
sviluppare la sua scoperta. Seppe anche creare una compagnia finanziaria che porta il suo
nome, ma i posti di lavoro furono creati altrove, e non mi sembra cambiato molto da allora.
Quando è andato in Inghilterra, siccome era molto giovane e doveva sempre discutere con
persone più anziane di lui, si era persino fatto crescere i baffi per darsi un contegno più
autorevole e aumentarsi l’età. Poi, però, una volta brevettata la sua invenzione, è tornato
subito in Italia per offrirla al governo, perchè non voleva che il suo paese restasse indietro. A
questo punto hanno accettato, ma gli Italiani prendono sempre tutto come cosa dovuta,
accettano i vantaggi e non sono disposti a condividere i rischi, né a dare nulla in cambio. E’
una spiccata caratteristica nazionale. Eppure mio padre ha amato molto l’Italia. Gli hanno
offerto la cittadinanza inglese e americana ma le ha sempre rifiutate. Gli hanno tributato
onori in tutto il mondo, lui pensava davvero che rendendo più veloci le comunicazioni sarebbe
aumentata la comprensione tra i popoli, e il motivo di fondo che lo ha portato a creare la
radio è stata la volontà di salvare i naviganti (un tempo, in caso di naufragio non si potevano
mandare segnali di aiuto a terra) e di permettere loro di ricevere notizie dei propri cari anche
durante lunghi periodi di navigazione. Uno dei paesi dove ha ricevuto più festeggiamenti, del
resto, è stato l’Australia. Isolati com’erano dagli altri continenti hanno apprezzato in modo
particolare le scoperte di mio padre. Era un modo per riavvicinarsi alle vecchie radici. Per
non sentirsi troppo lontano dalla madrepatria.
Cosa c’è di vero nella strana diceria che suo padre avrebbe studiato per Mussolini, prima della
guerra, un raggio della morte per colpire gli avversari?

80
Sesso, amore e gerarchia

E’ una bugia orribile e falsa. Dopo morto è stato strumentalizzato, forse faceva comodo alla
propaganda fascista del tempo. Mio padre era contro la guerra e aveva fortemente
sconsigliato a Mussolini qualsiasi intervento a fianco di Hitler. Conosceva troppo bene, e
rispettava, la potenza e le capacità scientifiche americane e inglesi. Se Mussolini avesse seguito
i suoi consigli forse non sarebbe finito in quel modo così triste. Hanno distrutto e fatto a pezzi
tutte le lettere che in quegli anni (dal ‘30 al ‘37) aveva inviato al governo. Non è la sola cosa
che è stata fatta a pezzi, del resto...
Già, che fine ha fatto la sua bella casa galleggiante, il laboratorio scientifico di suo padre, il panfilo
Elettra?
Non mi faccia parlare, non ho voglia di inimicarmi nessuno. Mia madre ha sofferto
moltissimo, e anch’io, per questa vicenda.
Dopo la morte di mio padre, il 20 luglio del ‘37, mia madre non aveva più i soldi per
mantenerlo. Sa, era una nave-laboratorio da ottocento tonnellate. Per un po’ lo ha mantenuto
la Compagnia Marconi di Londra. Ma i rapporti con gli inglesi si sono deteriorati e mia
madre lo ha donato al governo italiano, al Ministero delle Poste e Telecomunicazioni di allora.
Poi è scoppiata la guerra, e i tedeschi lo hanno usato, contro la nostra volontà, come nave da
guerra. E’stato bombardato quasi subito, nelle acque di Zara e catturato dai partigiani di
Tito. Non era molto danneggiato, però, la bomba a prua non aveva fatto molti danni.
Dopo la guerra, Tito, che rispettava mio padre e il valore storico della nave, lo ha restituito
all’Italia. Mia madre si è battuta come ha potuto per ristrutturarla e farne un Museo
galleggiante, ma nessuno l’ha ascoltata. Alcuni ingegneri elettronici, forse gelosi, hanno
sostenuto che era troppo malconcia, mentre gli ingegneri navali (mio padre era molto legato
alla marina militare) sostenevano, con ampio corredo di prove, che si poteva restaurare. La
polemica è andata avanti per anni, come tutte le cose italiane. Intanto la nave, dal ‘45, era in
un cantiere navale a Muggia (Monfalcone). La Marina Militare, per spendere di meno, aveva
proposto di portarla nei suoi cantieri di La Spezia. Alla fine, dopo trent’anni di polemiche e
tiramolla, nel ‘78 il governo si decise a mettere a disposizione una somma per restaurare la
nave. Ma i soldi sono stati in buona parte imboscati. E siccome costa molto di meno demolire
che restaurare, la nave è stata demolita. Tagliata a pezzi. Ora la prua è a Trieste, la poppa sta
alla stazione del telespazio di Fucino, in Umbria, una parte della chiglia è a Bologna, a
Sassomarconi, nella villa paterna (Villa Grifone), e un’altra è a Villa Durazzo, a Rapallo,
come ornamento del giardino.
Non mi faccia ricordare perchè ancora sto male, vedere la nostra nave, la nostra vita, i nostri
ricordi ridotti così. I giornalisti allora si erano comportati molto bene, sono usciti un sacco di
articoli di critica ma non sono serviti a niente.
Tra i ricordi di sua madre, uno in particolare mi ha colpito. La descrizione dell’ultima scoperta di
suo padre. Un metodo per estrarre l’oro dall’acqua del mare, scoperto a bordo dell’Elettra nel ’36.
Solo voi avete potuto assistere. Purtroppo sua madre teneva compagnia a sua padre, ma non era in
grado di penetrare nei suoi metodi di ricerca. Non ci ha provato neppure come allieva, per capire
quel comprensibile che anche una persona non geniale, posta di fronte all’evidenza dei fatti, è in
grado di afferrare. Ma spiega in modo chiaro come è avvenuta l’estrazione dell’oro, e come suo
padre era riuscito tramite l’uso di formule chimiche a estrarre oro di diversi colori, rosso, giallo e
verde, ponendolo poi in tre vasetti. Come mai nessuno ha ripreso la ricerca?
Purtroppo mia madre non è riuscita a convincerlo. Gli aveva proposto di mettere il materiale
di ricerca e le attrezzature in una cassa sigillata, ma mio padre ha smontato tutto, preferendo
rinviare le ricerche all’anno successivo (d’inverno lo yacht rimaneva in assetto invernale a
Genova). “Ho tutto qui” diceva indicando la fronte. Non poteva sapere di avere ancora pochi
mesi di vita. Posso assicurare che è tutto vero. Anch’io ho assistito, e anche se ero piccola mi
ricordo. Purtroppo sono nata quando è morto mio padre.
Non dica così, principessa. Lei è nata nel giorno in cui, per caso, anni dopo, suo padre è morto. Non
può sentirlo ancora come una colpa. La vita è fatta di queste coincidenze strane e non volute, cui

81
Sesso, amore e gerarchia

diamo un significato postumo per cercare di spiegare e di consolarci delle perdite. Per raccontarci
delle favole tristi, e lenire il dispiacere.
Sì, certo, questa è stata una cosa che ho accettato, ma è occorso molto tempo. La festa dei
primi anni poi nel ricordo ha coinciso con il dolore.
Mi rendo conto che abbiamo toccato un tasto riservato. Mi permetta allora di divagare ancora un
po’. Pensa che suo padre avrebbe accettato, da giovane, di avere un capo e lavorare in un’azienda?
Non credo. Fin da giovanissimo si era abituato a far tutto da solo. Era talmente superiore agli
altri che tutti ne accettavano il comando, anche quando era molto giovane. Però era un uomo
che si adattava a tutto, e aveva un rispetto naturale per la gerarchia. Perciò penso che se fosse
stato necessario, si sarebbe adattato a qualunque situazione. Le racconterò un aneddoto: nei
primi anni del ‘900 il Re Vittorio Emanuele III che stimava molto mio padre, tutte le volte che
lo vedeva gli chiedeva, e chiedeva in giro - ma quando compie quaranta anni Marconi? Poi il
25 aprile del ‘14, quando mio padre ha finalmente compiuto 40 anni, lo ha subito nominato
senatore del Regno. Anche Mussolini gli riconobbe i suoi meriti e lo nominò presidente del
CNR. Del resto ormai non era difficile riconoscerne la grandezza e non si può negare che
erano cariche ottenute sulla base del merito e non di altre cose. Pensa che mio padre avrebbe
dovuto rifiutare?
Certo che no. Ma immagino che con il clima che si era creato nell’immediato dopo guerra questo gli
abbia nuociuto agli occhi della parte più schierata di opinione pubblica, e non tutti fossero disposti a
perdonargli la non opposizione politica al governo del ventennio e anche il fatto di avere sposato
una donna della antica nobiltà romana legata ai Papi. In Italia gli schieramenti ideologici sono
spesso così netti e partigiani, una specie di guerra perpetua tra Capuleti e Montecchi, che per ragioni
di parte si può arrivare a sottovalutare e a non valorizzare abbastanza come patrimonio nazionale,
persino uomini della grandezza di suo padre.
La prima grande intuizione di suo padre è stato il sistema antenna terra. Un circuito (trasmettitore,
antenna, ricevitore) che permetteva di sintonizzarsi su una frequenza specifica, selezionando la
frequenza di onda radio inviata e ricevuta. I primi ricevitori da lui ideati captavano tutti i segnali che
arrivavano all’antenna senza la possibilità di distinguere quelli provenienti da uno o dall’altro dei
trasmettitori. I segnali finivano così col sovrapporsi, rendendo difficile la comprensione del
messaggio. Un problema sempre più grave man mano che aumentavano il numero di stazioni
trasmittenti e di messaggi trasmessi. In questo, ci sono analogie impressionanti col funzionamento
del sistema nervoso umano. Quando sono danneggiate delle aree cerebrali e i terminali, o dendriti,
sono “fusi”, per esempio nelle aree del linguaggio, non si riescono più a capire le parole, che
diventano un rumore indistinto, qualcosa che si accavalla nella mente. Tanto più quante più parole
vengono usate e quanto più astratti sono i concetti. E’ un po’ la stessa cosa delle frequenze: se il
ricevitore non è adatto a distinguerle una dall’altra si confondono tutte assieme. In fondo suo padre
ha inventato degli strumenti tecnici e un utilizzo delle onde elettromagnetiche che ha analogie
affascinanti con il funzionamento del cervello umano.
E’ una cosa a cui non avevo mai pensato, ma mi sembra suggestiva.
Allo stesso modo, i primi messaggi telegrafici non sono stati reti di parole o brani musicali, ma serie
ritmate di punti e di linee. Non le sembra anche questa una analogia con le aste i puntini che un
tempo si insegnavano ai bambini dell’asilo, prima di imparare a scrivere? Un po’ come se un
piccolo e rudimentale cervello meccanico cercasse di ripetere, nei cieli della terra, operazioni che
senza accorgercene abbiamo succhiato col latte, e come se per imparare avesse avuto anche lui
bisogno di partire dall’ABC.
Può darsi. Le aste e i puntini mi ricordano però anche la reazione primitiva di alcuni
contadini dei dintorni di Roma: mentre mio padre faceva i suoi esperimenti dalla casa del
suocero, ci fu un’epidemia in alcune greggi di pecore di cui finirono con l’incolparlo.
Le onde elettromagnetiche non si vedono, forse era una forma di ragionamento magico. Oggi
sappiamo che ci sono i virus, ma allora non era facile spiegare le epidemie. Sarebbe però ingiusto
pensare che queste forme primitive di ragionamento affliggono solo i pastori. In realtà tutti ne siamo

82
Sesso, amore e gerarchia

preda. Non sopportiamo il caso. Cerchiamo sempre di dare un significato agli eventi (dare un
significato non è ancora dare un senso, come Lei sa benissimo, ma è comunque il primo passo). Del
resto il pensiero umano non sarebbe progredito se non avessimo nella mente l’arma a doppio taglio
della fantasia e non ci fosse dentro di noi l’impulso irresistibile di creare collegamenti tra i fatti,
anche quando è evidente che sono del tutto arbitrari. In fondo anche lei, quando le è sfuggito “Sono
nata quando è morto mio padre” senza accorgersene stava attivando forme di pensiero magico per
far fronte a una casualità che le ha creato dolore. Attribuiva al caso un senso emotivo che in realtà
non aveva.
Se fosse vissuto più a lungo, suo padre avrebbe fatto probabilmente di lei una ricercatrice. Le
avrebbe comunicato il suo amore per la sperimentazione e la scienza, almeno a giudicare
dall’attenzione con cui cercava di spiegarle le cose che andava facendo. Allora non erano molte le
donne che osavano avventurarsi in questo campo. Anche sua madre avrebbe potuto cercare di
collaborare con il marito in modo più intenso e creativo di quanto non le sia stato possibile. Ma non
ha osato. Ha preferito un ruolo più tradizionale, di sostegno affettivo pienamente ricambiato. Poteva
fornirgli le lenzuola e le tovaglie per coprire i vetri della cabina di pilotaggio nel momento delle
ricerche sul radar, ma non ha mai osato chiedergli: “Insegnami a seguirti anche nelle tue avventure
di pensiero”. Le sarebbe sembrato di fargli perdere tempo, di dargli fastidio, di ostacolarne il lavoro.
Anche se gli stava vicino tutto il giorno e lui era felice della sua presenza. Anche se il metodo di
lavoro di suo padre, così creativo, artigianale e solitario sembrava fatto apposta per favorire le
spiegazioni. Erano altri tempi: i ruoli erano ancora più rigidi di adesso. Fossero vissuti adesso, forse
lei si sarebbe messa a studiare elettronica, fisica, chimica, per tenergli dietro e forse di questa
misteriosa ricerca dell’oro del mare che suo padre non ha avuto tempo di concludere si potrebbe
sapere un po’ di più. La sua avventura d’amore, già bellissima così, sarebbe stata più completa.
Invece, mentre le energie affettive di sua madre hanno potuto dispiegarsi pienamente non si può
dire altrettanto delle sue energie intellettive. In merito a queste, non ha osato permettersi neppure un
ruolo di gregario.
Oggi sappiamo che non è più così, anche se non è chiaro se gli uomini lo gradiscano davvero.
Talora sembra di no. E questo sotterraneo conflitto, quando c’è, appanna e svilisce il gioco
reciproco delle intelligenze. Quante intelligenze femminili naturalmente portate per la ricerca si
sono perse per strada a causa di ruoli troppo rigidi e codificati? A causa di una rinuncia a priori alla
scelta di strade considerate ancor oggi tradizionalmente maschili?
La differenza dei criteri di valore nel valutare gli uomini e le donne ha indubbiamente anche una
base nella loro diversa conformazione fisica e mentale, ma purtroppo è viziata, per così dire, in
partenza dal reticolo di pregiudizi radicati nei secoli. Non c’è mai un vero equilibrio nel valutare le
donne e questo rende difficile anche autovalutarsi con serenità per quello che si è. E’ come se la
dismisura iniziale impedisse una misura reale, non mistificata anche di capacità e curiosità comuni a
entrambi i sessi. E’ come se questa incapacità di attribuire un valore alle donne si ritorcesse
malignamente anche sugli uomini, in qualche modo sminuendoli. Naturalmente, suo padre era un
genio, sua madre no. Così come a volte nascono donne geniali, penso per esempio tra le molte a
Rita Levi Montalcini.. In questi casi, il loro valore viene riconosciuto da entrambi i sessi. Le
difficoltà nascono per tutte quelle situazioni intermedie in cui capacità specifiche, superiori al
normale, non sono però così evidenti e assolute da soverchiare qualsiasi polemica. E’ una specie di
piccolo Titanic delle risorse umane: sprecate anche quando servirebbero per incapacità a utilizzarle.
Non credo che di questo si possa pensare di incolpare mio padre. Fuor di metafora, i 720
naufraghi del Titanic che si sono salvati lo devono a lui. A bordo c’era uno dei primi
radiotelegrafi esistenti. La sciagura servì anche a far capire che le navi dovevano essere dotate
di trasmettitori abbastanza potenti da inviare messaggi a terra (allora non erano in grado).
Mia madre racconta con quanto entusiasmo i familiari dei naufraghi han festeggiato mio
padre, al suo arrivo a New York. Quanto al resto, io ero troppo piccola quando mio padre è
morto e non possiamo escludere che fosse in tutto e per tutto un uomo del suo tempo. Forse
non gli interessava che mia madre lo seguisse nella sua avventura scientifica. Anche se

83
Sesso, amore e gerarchia

l’insistenza con cui la voleva sempre vicino lo farebbe pensare. Forse ci aveva rinunciato o
non si era neppure posto il problema. Gli bastava averla sempre vicina quando lavorava.
Ricordo però che a me cercava di spiegare tutto quello che poteva. Quasi che in fondo per la
figlia sperasse in un futuro diverso. Ma sono solo ipotesi. E’ trascorso troppo tempo. In ogni
caso con mia madre non ha avuto un rapporto convenzionale. Ha cercato di realizzare, e c’è
riuscito, l’ideale di coppia dei suoi tempi. Forse l’ha voluta sempre con sè perchè il divorzio
dalla moglie precedente lo aveva ferito e gli aveva fatto capire di dover dividere le sue
scoperte con mia madre, per evitare un eccesso di soggezione e di estraneità. Forse ha
rinunciato a spiegarle di più perchè ha visto che lei non lo seguiva. Ma mia madre non amava
parlare di questo. La precedente moglie era un argomento tabù. Le interessava solo
sottolineare di essere stata la più amata. Mi sembra comprensibile, non le pare?
Il rapporto particolare tra Elettra Marconi e suo padre è probabilmente molto vero. Gli uomini,
specie se un po’ anziani per essere padri, magari preferirebbero un figlio maschio, ma poi
scoprono anche nelle figlie un tesoro di capacità e di intelligenza che magari non hanno visto nelle
loro mogli. E’ sicuramente un’altra delle ragioni che hanno aiutato le donne nel cammino in salita
verso l’emancipazione: l’aiuto di certi padri che sono stati capaci di valorizzare anche le figlie.
Penso per esempio, per uscire dall’Italia, a Ali Bhutto, che pure aveva anche due figli maschi, o a
Nerhu, padre di Indira Gandhi, che hanno saputo trasmettere alle figlie quella sicurezza di sè che
deriva soprattutto dal sentirsi amate e considerate, e che le hanno aiutate attraverso una
identificazione con il genitore forte, vincente, anzichè con la figura - tradizionalmente più debole -
della madre.
Dicono che il maschilismo è come l’emofilia: si manifesta nei maschi, ma è trasmesso per via
femminile. La società italiana ne è probabilmente un esempio. Ma se la scarsa partecipazione dei
figli maschi alle necessità spicciole della vita familiare può essere attribuita al comportamento
delle madri, così la valorizzazione delle donne passa spesso attraverso il rapporto col padre.
Quello stesso padre che nei confronti della madre è protettivo in un modo che potrebbe quasi
essere un’offesa - proteggere troppo è in qualche modo una mancanza di fiducia, un segno di poca
stima - si specchia a volte negli occhi di una figlia bambina al di là degli stereotipi del sesso. Salvo
poi fare marcia indietro quando la bambina diventa una donna. Elettra Marconi non ha avuto il
tempo di mettere alla prova suo padre. Non ha potuto diventare una ricercatrice, o magari un
ingegnere. Ha seguito le orme di sua madre. Se suo padre fosse stato vivo, come avrebbe reagito
alla pubertà della figlia?

84
Sesso, amore e gerarchia

Un’artista fuori dagli stereotipi


Intervista a Maria Monti
Piccola Gert ravvolta in un costume adatto agli usi di un ragazzo,
è lei che brandisce fremente la palettina,
ma poi il riposo non disdegna affatto sopra ginocchia amiche,
e resta ad ascoltare attentamente la storia che anche lui ama narrare.
Oh voi di spirito rude per la frenetica lotta esteriore,
sempre incapaci di intendere lo spirito folletto semplice e puro di lei,
che state a giudicare queste ore uno spreco di vita,private di ogni diletto!
Dolce fanciulla, continua a cicalare,
e dalla noia salva i cuori che sfuggono l’inganno truffaldini dei discorsi più saggi.
Lewis Carroll, “ La caccia allo Snark”.

Per me Maria Monti è anche la zia Maria, perchè è la “sorellina piccola” di mia suocera, a cui
somiglia molto anche fisicamente. Per questo forse è stato facile pensare a lei per un’intervista, e
ottenerla. Però Maria Monti è anche una figura importante per la nostra ricerca, perchè “può essere
considerata, storicamente, una delle prime autentiche figure femminili dalle caratteristiche
marcatamente cantautoriali, di cui il mondo discografico non ha saputo accorgersi in tempo”55.
Una donna come quelle di cui abbiamo soprattutto parlato finora, insomma: non si riconosce negli
stereotipi, non vuole seguirli, anzi li supera d’un solo balzo con la sua creatività che non si lascia
inquadrare in nessuno schema precostituito. Però è costretta per questo a pagare con una grande
fatica, con la rinuncia, sia pure parziale, ad un successo che meriterebbe maggiore, con sofferenza a
livello personale ed emotivo. Vivendo in un mondo, quello dello spettacolo, che non rifiuta in
partenza le donne, anzi ne ha bisogno e le corteggia e le blandisce, è comunque rischioso voler
essere diversi. E allora essere bravi non basta più, diventa quasi una provocazione, proprio come per
noi ingegneri.
In questa intervista,le considerazioni sui nostri temi, sulle caratteristiche del femminile, i rapporti
con l’altro sesso, le gerarchie, vengono da sè, attraverso quella che è forse una breve storia della
vita di questo personaggio così speciale, così diverso ad esempio da Elettra Marconi.
Cantante e attrice, non famosissima ma apprezzata, bella, alta, longilinea, i tratti del viso decisi,
Maria Monti è un’artista atipica nel panorama italiano.
Fortemente indipendente ha sempre preferito ad ogni altra cosa seguire la sua ispirazione del
momento, e come ha fatto di recente allestire spettacoli tutti suoi in cui poter esprimere ciò che
sente nei riguardi della vita.
E’ in qualche modo un’outsider, una donna che è andata avanti da sola, in un mondo di
competizioni feroci come quello dello spettacolo, e che, senza protezioni, isolata, ha preferito la
propria autenticità ai ruoli imposti.
I ruoli femminili sono secondari nella maggior parte delle produzioni artistiche: è difficile trovare,
specie se si ha autonomia di sentimenti e di pensiero, un ruolo che piaccia davvero, che si senta
veramente autentico. Forse è per questo che, diretta da altri, Maria Monti si sente spesso in gabbia
e preferisce dirigersi da sè.
“Mio padre - dice - era dirigente della Texaco. Avevo sei anni e mezzo quando è morto. In più
si era in tempo di guerra. Era un uomo bello, che amava la musica e sapeva suonare. Ero
innamorata di lui. La sua morte è stata sconvolgente. Le mie due sorelle sono più anziane di
me di tredici e dieci anni.
Alla morte di mio padre siamo diventate povere. Mia madre ha venduto tutto per permetterci
di studiare. Ho dovuto imparare presto ad arrangiarmi. Sono andata alla scuola pubblica e

55
Enciclopedia degli artisti (?)

85
Sesso, amore e gerarchia

non alle Orsoline, come le altre mie sorelle, ma in qualche modo penso che sia stata una
fortuna, perchè ho potuto crescere con maggiore libertà.
Molti mi definiscono un bastian contrario: io non credo sia vero. Più semplicemente, si tutti
vanno in una direzione, la mia tendenza spontanea è andare altrove. Non perchè voglia
contrappormi, cerco semplicemente le strade che mi sono più congeniali. Non ho mai messo al
primo posto la carriera e forse questa è una delle ragioni per cui ne ho fatta poca, almeno nei
termini tradizionali. Sono un po’ ai margini, e lo sono sempre stata. Ogni tanto qualcuno mi
chiede: -Lavori?- E io magari sto facendo una tournèe.
Sono nel giro ma fuori dal giro. Non vado in TV, per alcuni non andare in TV è come non
esistere. Per me non è così. Non ho alcuna ambizione di mostrarmi in quella scatola, anche se
so che quei passaggi servono perchè dopo ti pagano di più. Ho sempre messo al primo posto
me stessa. A ventitrè anni, per esempio, ero già abbastanza conosciuta, però come persona
strana, un po’ fuori dalle righe, un po’ selvatica. Sono una specie di eterna emarginata. In
compenso non sono una nevrotica fregata dal superlavoro. Chi fa carriera diventa un po’ un
mostro. Deve chiacciare molte cose che lo riguardano, anche profonde. Nella vita sociale
bisogna sottostare a delle regole che sono anche una coazione a ripetere. Non fa per me. Gli
uomini sono felici se fanno carriera, altrimenti si sentono un po’ dei falliti. Io ho sempre
pensato che viene prima la fedeltà a me stessa. E’ un privilegio che ho potuto concedermi
perchè in fondo ho sempre lavorato lo stesso. Devo dire che sette anni di analisi mi sono serviti
a mettere a fuoco meglio i miei desideri. Mi hanno anche fatto capire che avevo, dentro di me,
una specie di coazione a fare la vittima. Nella vita chi è vittima sembra un grande coraggioso,
invece è solo un grande timido che si trucca e si mette la corazza. Ma io avevo proprio la
psicologia della vittima. Ho capito alla fine che era inutile me la prendessi cogli altri. Diciamo
che, attraverso l’analisi mi sono assunta in modo ufficiale la responsabilità di me stessa.
Avremmo più rispetto degli altri se prestassimo più ascolto a noi stessi. Non si possono amare,
gli altri, se prima non ci si ama. Nè rispettare, se prima non ci si rispetta.
Può darsi che in famiglia ci fossero dinamiche che in qualche modo facevano di lei il capro
espiatorio, non crede?
Forse sì. I tempi erano difficili, per delle donne sole, com’era il mio nucleo famigliare. Era
inevitabile che un carattere come il mio, un po’ troppo indipendente e autonomo, creasse dei
problemi. Ho sempre avuto una sorta di resistenza passiva per le bassezze di questo mondo di
merda. Ho sempre cercato delle vie di fuga.
E sul lavoro?
Dipende. Recitare in una compagnia, sotto le dipendenze di un capocomico, per me è difficile.
Mi sento come schiacciata da una macchina schiacciasassi. Devi diventare come un’asfalto, ed
io non ne sono capace. Magari, nei momenti buoni, il capocomico ti dice - sei brava, ma ti devo
schiacciare un po’ perchè esci fuori dalle righe. Non ti adatti ai miei progetti. Non sei
plasmabile per quello che ho in testa io.- La verità per me è un’altra. Usiamo i tuoi colori,
questo va bene, ma scoloriamoli un po’, altrimenti prevarichi. Ti si vede più di me.
A me sembra normale. E’ evidente che in una compagnia non si possono prevaricare gli altri.
A me no. Un vero capocomico, almeno come lo sogno io, dovrebbe sapere far risaltare i suoi
colori, non ritagliarti addosso un ruolo più ridotto.
Forse è vero.Penso a Luchino Visconti, il grande regista.Tutti gli attori che sono passati per le
sue mani ne sono usciti “con lo smalto”. Sapeva valorizzare tutti al massimo delle loro
potenzialità. Li segnava con un marchio indelebile. Come Helmut Berger, un attore grande,
grandissimo,che dopo la sua morte non ha più trovato nessuno capace di valorizzarne a quel
modo le capacità.
Visconti muoveva i suoi burattini esaltandoli. Ma in fondo erano sempre burattini nelle sue
mani. Lui non li riduceva: sapeva tirar fuori il meglio, dall’idea di burattino. Un capocomico
mediocre invece ha paura di essere messo in ombra lui, e allora schiaccia te.

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Sesso, amore e gerarchia

Nessuno, credo, potrà mai dimenticare la Callas nella Traviata, nel ruolo di Violetta.
Purtroppo se lo possono ricordare solo coloro che l’hanno vista alla Scala, perchè non erano
state fatte riprese cinematografiche.
Quando lanciava la sua ciabatta lungo tutto il palcoscenico. Illuminato da luci potenti. Era un
po’ come dire - liberiamo i freni, tanto tra poco morirò. - Un gesto assoluto. Fece epoca.
L’impressione fu indimenticabile.
Comunque, se non trovo un capocomico che secondo i miei canoni sia all’altezza, mi consolo
facendo i miei spettacolini. Devo ammettere che non sono neppure loro dei capolavori, ma
almeno sono me stessa. Non faccio l’impiegata teatrale.
Di recente ho allestito due spettacoli. Uno “Maria d’amore” è stato in scena due anni. L’altro,
intitolato “Oltre, oltre”( oltre la cima del palo, non è che facessi voli pindarici), un anno. Il
centro di “Maria d’amore” era una poesia molto bella di Borges, di amore verso il Cristo.
Tratta da “Cielo e inferno”.
L’ultimo mio spettacolo era intitolato “La monade di Monza”, parla di una donna sola, da
dieci anni, che pensa di aver raggiunto ormai la pace dei sensi ma è viva e vitale e quando le
capita il tipo giusto le si risvegliano improvvisamente.
Come mai non ha avuto figli? E’ stata una scelta?
No, non è stata una scelta. Abortivo sempre spontaneamente, sono finita all’ospedale un po’ di
volte. Ma non ho sofferto molto, se devo essere sincera, perchè non ho un grande istinto
materno. Lavorare in teatro è molto stancante. La tensione mi faceva abortire.
Lei è stata anche fidanzata di Gaber, per un po’ di tempo.
Sono sempre caduta dentro le passioni a corpo morto. Poi però mi sentivo in trappola, perchè
non ero capace di gestirle. Avevo la tendenza, sbagliata, a considerarmi sempre una ’mezza
mela’. E nel partner cercavo l’altra metà perciò beccavo sempre e solo fregature. Perchè non
avevo capito che anche l’altra mezza mela stava dentro di me, non dovevo cercarla nei
partnrs, loro non erano lì per risolvere i miei problemi. Era un atteggiamento infantile, ma
devo ammettere che essere un po’ bambini agli artisti serve. Dentro di me abita un ragazzo di
sedici anni. Questa è la mia vera età anagrafica. E’ una figura invisibile che mi dà energia. La
passione, almeno come la vivo io, è cannibalica. Divorante e divoratrice.
Francamente, per me non è così. Fuggirei da una persona che ha in programma di divorarmi. E la
sola idea di divorare qualcuno mi fa orrore. Può darsi che io non sia abbastanza appassionata,
chissà. O forse ci sono modi diversi di amare. Per me, anche nella passione può esserci rispetto,
attenzione, capacità di non divorare l’altro nè farsene divorare. Di crescere insieme.
Non credo sia possibile. La passione è una caratteristica degli amanti. Gli uomini fanno un
grande torto alle amanti quando le confondono con le prostitute.
Io da ragazza pensavo: le vere prostitute sono le mogli. Invece, l’accusa che dovrebbero
rivolgere alle mogli la rivolgono a te. Hanno mogli che sono la sicurezza, la realtà, una specie
di codice fiscale a vita. Le amanti sono la fantasia, ma poi non sono abbastanza generosi da
riconoscerlo. Può darsi che non mi sia mai costruita una vita affettiva stabile perchè in fondo
somigliavo agli uomini. Loro devono sempre trovare la moglie mamma. Io invece, forse
perchè sono orfana, cercavo un marito papà. Per fortuna il destino non me lo ha mai fatto
incontrare. Sembra un paradosso, ma è così. Qualche volta ho dovuto fare io da padre e da
madre, con partners più giovani. Gli ho dato quello che non ho mai avuto e ho sempre
disperatamente desiderato per me. Le mie storie più felici sono state tutte con loro. Un
giovane vuole imparare tutto.
E Gaber?
Gaber è stata la mia prima grande storia d’amore. E’ finita perchè io ero una marziana,
rispetto al suo ambiente. I suoi genitori non mi amavano e mi hanno sempre fatto una guerra
spietata. Però eravamo molto innamorati. Abbiamo anche inventato un genere nuov, per
l’epoca di rottura. Dove cuore non faceva più rima con amore. L’ho lasciato io, perchè ho
capito che non stava più bene con me. Tre mesi dopo ha incontrato Ombretta Colli, la donna

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Sesso, amore e gerarchia

della sua vita. Sono stata male cinque anni. Un giorno, molto tempo dopo, eravamo a tavola
assieme a degli amici, mi ha chiesto, con galanteria: - Perchè mi hai lasciato? - Ti ho lasciato
perchè ti amavo, - ho risposto, - e se non capisci da solo, tanto peggio per te.
Ma lui ha capito benissimo. I Gaber e i Fo sono due coppie che non si lasceranno mai. Perchè
sono un’industria e hanno sempre qualcosa di cui parlare a tavola, anche se hanno o hanno
avuto dei fidanzati fissi, che tollerano a vicenda.Comunque insieme abbiamo fatto una delle
canzoni più di successo di quegli anni: “Non arrossire quando ti guardo.” Ricevo ancora
adesso i diritti d’autore. Il teso della canzone è mio, la musica di Gaber. Era la più banale
delle conzoni che abbiamo fatto assieme e anche la più di successo. Poi ha usato qualche altro
mio, testo di canzoni un po’ modificato facendolo passare come suo. Ho un po’ protestato ma
il mio gusto estetico mi impedisce di andare oltre.
La mamma della zia Maria, che si chiamava come lei, è stata una donna con una personalità molto
forte. E’ vissuta fino a novantasette anni, ed era la nonna di mio marito; ho fatto amicizia con lei
soprattutto negli ultimi dieci anni della sua vita, quando abitavo a Milano e potevo andare qualche
volta da lei. Tre mesi prima di morire mi ha ancora invitato a cena, e mi ha preparato un pranzetto
squisito. Se andavo solo io a trovarla, metteva tavola senza cerimonie - tra donne si può - usando i
suoi amati piatti di latta un po’ sbeccati e le posate di tutti i giorni; ma se veniva anche suo nipote, si
sentiva in obbligo di tirare fuori l’argenteria e di cambiare piatto ad ogni portata, tanto che le ultime
volte sono andata a trovarla da sola, per non farle fare troppa fatica.
Anche mia nonna era così: faceva quello che voleva, era probabilmente un po’ egoista, ma anche
sempre pronta a dare: naturalmente, dava quello che voleva lei. Anche mia nonna, come la nonna
Maria, aveva avuto una vedovanza piuttosto lunga e vissuta come una parte buona della vita. La mia
nonna non aveva problemi economici, e aveva un buon ricordo di suo marito, mentre la nonna
Maria aveva pian piano speso tutto e dipendeva dalle figlie e da una piccola pensione di vedova di
guerra. Era sempre in difficoltà, e il suo diario, che ho letto, negli ultimi tempi conteneva quasi
soltanto resoconti economici.
Però, nonostante le difficoltà, la nonna Maria mi diceva spesso, dopo 50 anni di vita da sola: “Mi
ricordo quando è morto mio marito. Come sono stata meglio, dopo!”.
Alcune delle nostre nonne hanno cominciato a percorrere la strada verso l’emancipazione: la nonna
Maria aveva studiato oltre le elementari, e prima di sposarsi aveva lavorato come impiegata. Però
non aveva neppure pensato di continuare a lavorare dopo sposata. Aveva avuto quattro bambine (la
prima era morta a sei mesi), anche se non le aveva desiderate molto. Mi ha fatto vedere il suo diario
di quando sono nate le gemelle; c’era scritto: “Povera Giovanna! ha avuto due femmine. Adesso la
costringeranno ad avere un altro bambino, per cercare il maschio”. Per le donne come lei, la
vecchiaia e la menopausa - o la morte del marito - devono essere state una liberazione.
Eppure, nonostante questa comprensione istintiva, vissuta sulla propria pelle, dei problemi che ci
derivano dall’essere donna e dall’uso che altri fanno del nostro corpo, i rapporti di queste donne con
le proprie figlie sono spesso difficili e ambivalenti. Sicuramente la zia Maria è stata segnata dalla
morte del padre, ma anche dal rapporto con la madre e le sorelle, che non è mai stato facilissimo.
Credo che molte donne della nostra generazione possano parlarne, e non intendo dilungarmi, perchè
sono già stati scritti molti libri su questo argomento. E’ come se le nostre mamme ci volessero
spingere fuori dal nido, ma nello stesso tempo provassero invidia per la libertà che abbiamo
raggiunto, e paura perchè vedono la fatica che dobbiamo fare. Così, anzichè aiutarci, ci rendono la
vita più difficile e ci spingono in un circolo vizioso di sofferenze reciproche.
Non è un caso, secondo me, che Maria Monti si sia alla fine dilungata, sia pure con molto pudore e
riservatezza, sulle sue vicende sentimentali. Qualcuno direbbe che è perchè le donne vivono
l’amore come qualcosa di fondamentalmente importante, che non sanno dividere l’amore
dall’avventura. Io credo che sia anche perchè - e ho già avuto occasione di trattare questo tema, ad
esempio quando parlavo di Virginia Woolf - la liberazione delle donne passa attraverso la libertà di
relazione e una diversa consapevolezza del proprio corpo. Però non è così facile. La vera libertà di
relazione, secondo me, è quella del piccolo principe e della volpe, quella dell’addomesticamento,

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Sesso, amore e gerarchia

dell’essere responsabili gli uni degli altri, di quando non servono difese. Il resto, tutto il resto, è solo
una questione di linguaggio. Si può essere liberi vivendo in un convento di clausura, e incapaci di
comunicare con l’altro pur avendo decine di relazioni di coppia, o viceversa. Tutti devono imparare,
soprattutto nell’adolescenza e spesso a proprie spese, cosa significa comunicare. Gli uomini e le
donne della nostra generazione in modo particolare hanno vissuto un’accelerazione dei tempi della
vita sociale, e si sono trovati spesso nella necessità di lottare, come racconta Maria, per raggiungere
la consapevolezza di sè e del proprio corpo, il rispetto dell’altro e del corpo dell’altro. Se per le
donne il compito era difficile, perchè si partiva da una situazione di tabù e di costrizione che doveva
in un certo senso scoppiare per liberare la creatività, per gli uomini si trattava di conquistare il
rispetto verso le donne. E la presenza inquietante degli abusi ci fa capire che ne siamo spesso ancora
lontani, con buona pace di quelli che sostengono che ormai non serve più combattere, o che è
inutile.Invece occorre non abbassare la guardia, perchè la meta tende a sfuggirci, anche perchè
molte volte è più comodo fermarsi, accettare la situazione presente, e non dover pagare nessun
prezzo.
Basta pensare a quanti sostengono, - e sono ancora molti, - che se una donna subisce violenza la
colpa è sua che “ se l’è andata a cercare”, e non di chi la ha commessa.
Come invece canta un sensibile cantautore, Edoardo Bennato, - “ C’è chi ti dice che sei bella, che
sei una fata, sei una stella, poi ti fa schiava, però no, chiamarlo amore non si può.
Insegui sogni da bambina, e chiedi amore e sei sincera, non fai magie nè trucchi ma, nessuno mai ci
crederà.
E forse è per vendetta, e forse è per paura, o solo per follia, ma da sempre tu sei quella che paga di
più, se vuoi volare ti tirano giù e se comincia la caccia alle streghe la strega sei tu.”
Pure non si deve dimenticare la fatica che tante donne hanno fatto, come Maria Monti, affrontando
lunghi anni di analisi e percorsi dentro se stesse, per raggiungere quella sicurezza e consapevolezza
di sè che un rapporto positivo con la famiglia e con il mondo dovrebbe poter dare a tutti i bambini e
le bambine che nascono, per farli diventare sul serio grandi.

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Cap.7. Il SESSO DI ANGELA E ALICE.


La paura del diverso. Angela Davis, Alice Walker
I am the woman: dark
repaired, healed
listening to you
I would give
to the human race
only hope56

Alice Walker

Secondo Cristina Bartolomei57 la frase ebraica della Genesi (il famoso racconto della creazione,
quello della costola!) che definisce la donna rispetto all’uomo come “un aiuto simile a te”, andrebbe
più precisamente tradotta con “un aiuto di fronte a te”. Che sottintende: un aiuto con cui ti
confronti. Per aiutarci a vicenda, dobbiamo essere su un piano di parità. E la parità significa
appunto anche confronto, accettazione delle diversità. Leggendo la Bibbia, penso anche per chi lo fa
solo come studioso e non come credente, è veramente interessante notare che tante tradizioni, tanti
miti della nostra cultura, indipendentemente dalla loro origine, contengono un fondo di verità che in
qualche modo testimonia il nostro essere più profondo. Testimonia per esempio qualcosa a cui
aspiriamo, magari senza saperlo o volerlo ammettere: un mondo libero da tutti i tipi di pregiudizio.
E’ molto vero infatti, che un aiuto è qualcosa che ci sta di fronte. Qualcuno che si confronta con noi,
standoci davanti e guardandoci negli occhi. Un vero aiuto si può ottenere solo con la fiducia e con
l’apertura verso l’altro. Anche e soprattutto quando l’altro è diverso.
“Sei un altro, senza forte difesa58” : è un verso di una bella preghiera degli anni ‘70, che si rivolge
così a Dio. Ma potrebbe parlare a chiunque ed esprimere un modo di porsi nella preghiera. La
preghiera è un modo per comunicare. Un modo autentico, che richiede di abolire le nostre difese,
perchè ci fidiamo dell’altro. Si può pregare come un servo prega il suo padrone: ma per pregare in
modo non servile, occorre abbattere gli steccati, non aver paura, non sentirsi in inferiorità, non aver
bisogno di aggredire.
Noi preghiamo spesso. Magari non preghiamo Dio, ma i nostri simili, i nostri superiori, i nostri
familiari. Il più delle volte è la preghiera di chi si sente inferiore, subalterno, vuole blandire la
persona che ha di fronte perchè ne ha paura. Il più delle volte il nostro pregare contiene un
atteggiamento sottilmente ricattatorio. Invece la preghiera non dovrebbe avere nulla a che vedere
con la paura.
E’ interessante l’esempio riportato nel Vangelo, quello dell’amico che vuole in prestito un pezzo di
pane nel cuore della notte, perchè ha degli ospiti improvvisi: la preghiera di uno che ha bisogno di
qualcosa, e lo cerca, senza preoccuparsi di chi ha di fronte, del fatto che può disturbare. Chiede,
anzi pretende: sono amici. Con gli amici non si hanno difese, non ci si nasconde, non si ha paura di
mostrare le nostre debolezze, non si ha paura di chiedere.
Come fanno i bambini. Come il piccolo principe, che quando faceva una domanda non smetteva di
porla, tante e tante volte, finchè non otteneva una risposta che lo soddisfacesse. Crescendo, invece,
in genere ci costruiamo intorno degli steccati che ci nascondono e ci proteggono. A volte li
facciamo passare per convenzioni sociali, buona educazione. Ma sono soltanto e soprattutto difese:
chi si difende non sa comunicare, ha troppa paura di mettersi a nudo, di rivelare le sue debolezze.
Quante volte ho sentito dire che le donne sono emotive, che piangono, e che sul lavoro questo è
controproducente, non si può fare. Però molto più spesso ho visto uomini che sono emotivi, dicono

56
"Io sono la donna: scura, aggiustata, guarita. Che ti ascolta. Io darò alla razza umana solo speranza". Da "Horses make
a landscape looks more beatyful"
57
Cristina Bartolomei, "Essere donna oggi all'interno di futuri scenari culturali e teologici", presso la parrocchia di
S.Maria del rosario, Milano, 9 Novembre 1995
58
Huub Oosterhuis, "Tu sei un difficile amico", Cittadella

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parolacce, si arrabbiano e la fanno pagare a chi li ha offesi, in modo anche irrazionale e infantile.
Questo tipo di emotività non è considerato perdente, perchè risponde allo stereotipo maschile.
Invece tutti i modi di manifestare le emozioni sono equivalenti, non solo, ma hanno dei lati positivi
che vanno apprezzati. Perchè non è giusto nascondersi troppo, avere troppa paura di lasciarsi
andare. La capacità di scoprirsi è un segno di maturità, di sicurezza di sè. Pregare significa avere
fiducia. Un uomo prega un altro uomo: non umiliandosi, ma credendo in lui, chiedendo aiuto,
offrendo la propria disponibilità senza paura e senza pregiudizi.
Tutte le forme di razzismo invece sono caratteristiche di chi ha paura. E si nasconde dietro alla
propria - presunta - superiorità, senza pensare che l’altro può sempre essere un’occasione di
arricchimento. L’accettare la presenza dell’altro, il vivere la sua diversità come un aiuto, è un modo
per superare la sensazione di onnipotenza che è caratteristica di una fase infantile della nostra
personalità. E’ un po’ come se gli estremi si toccassero: chi è sempre superiore agli altri, chi non
sbaglia mai, in realtà è molto poco sicuro di sè; e ha bisogno di confrontarsi con qualcuno che sia
dichiaratamente inferiore a lui.
Quando nel ‘79 ho passato sei mesi a Washington, negli Stati Uniti, sono entrata per la prima volta
in contatto con una società multirazziale. A quell’epoca, in Italia non era facile incontrare per strada
persone di diverso colore, tranne forse a Roma dove ci sono sempre state le ambasciate degli altri
paesi. Personalmente, da bambina avevo conosciuto solo un ragazzo con la pelle scura: un
brasiliano che aveva un paio d’anni più di me, adottatto da una famiglia di conoscenti.
Nel laboratorio in cui lavoravo a Washington, c’era un tecnico afro-americano più o meno della mia
età, Ed, con è subito scattata una grandissima simpatia. Ed mi capiva: capiva al volo tutti gli
atteggiamenti delle persone con cui lavoravo, le frasi che mi ferivano. Perchè era una persona molto
sensibile, ma anche perchè io ero diversa come lui: ero una donna che faceva il tecnico, l’ingegnere.
Anche lì, le uniche donne erano segretarie. O avevano mansioni chiaramente subalterne. E, a
complicare la situazione, c’era la mia nostalgia per la mia casa e mio marito (mi ero sposata da
poco), e la mentalità puritana degli americani, che tenevano a distanza, con diffidenza, quella strana
italiana (alta e magra, per di più: gli americani vedono gli italiani solo bassi e grassi, con occhi neri
e capelli ricci!) che, pur essendo sposata, aveva deciso di passare sei mesi da sola, in un paese
straniero, per lavoro.
Quando ho rivisto Ed nell’86 aveva quasi del tutto smesso di lottare. Forse beveva, forse si drogava,
aveva accettato un lavoro di livello molto più basso di quello che faceva sette anni prima. Dopo
allora, non so più niente di lui. E probabilmente è meglio così: meglio avere di lui qualche foto,
dove sorride, e il ricordo di quella capacità di capire che nasceva dall’esperienza comune dell’essere
diverso.
Credo che il dolore di un’esperienza di esclusione viene anche dal fatto che all’inizio, da bambini, e
dentro di sè, ci si sente “esseri umani” in assoluto. Poi - a volte molto precocemente, appena
iniziano i contatti con il mondo esterno, fuori dalla famiglia, - ci si rende conto di essere donne,
negri, cinesi, o chissà che altro. E non si capisce, almeno all’inizio, perchè tutto ciò ci causi tanta
sofferenza. Poi si comincia a capire, e magari si lotta, si prova rabbia. Ma purtroppo,
contemporaneamente qualcosa in noi ci fa accettare come ineluttabile la nostra diversità, e spesso la
nostra inferiorità. Il pregiudizio degli altri diventa nostro, anche quando è palesemente sbagliato e
contro di noi e ci trasforma in un capro espiatorio.
A volte mi domando come mai gli uomini, anche quelli che a parole apprezzano le donne,
pretendono da noi così tanto. La via verso la ricerca anche solo del rispetto è così difficile, la perdita
di autostima che deriva dallo stillicidio di giudizi negativi è lenta ma inesorabile. Io credo che
abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti, non solo di sentirci dire “Hai voluto la bicicletta,
pedala!”. Almeno dopo una certa età, quando il fisico non è più quello di una volta. Perchè
potrebbe essere anche comodo dire “Arrangiati!”. Tutti sanno che, anche se si pedala da soli, le
gare si vincono in gruppo. Quando poi a dirtelo sono persone che non esitano a sistemare i
famigliari fino all’ultima generazione, purchè questo gli convenga, non puoi fare a meno di pensare
che forse si tratta di un ragionamento soltanto strumentale.

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Sesso, amore e gerarchia

Dietro questo modo di pensare, come in un sistema di scatole cinesi, ne emerge con evidenza un
altro. E’ un po’ come se gli uomini sottintendessero: `Se vuoi competere, allora accetti le mie
regole del gioco’. Come per qualsiasi forma di colonialismo, è il popolo sottomesso che deve
imparare la lingua dei dominatori. E’ proprio questo il punto. Non mi sento molto bene, quando le
regole del gioco le fissano gli altri. Perchè non sono quasi mai leali.
Non ho paura di mangiare la polvere. Ma trovo perversi i giochetti psicologici che mirano a
sminuire strumentalmente l’avversario, a indebolirne le difese psicologiche, a creargli delle
insicurezze attraverso argomentazioni pretestuose e capziose.
Trovo perverso un sistema basato ancora sulla legge del più forte, come spesso è tra uomini e
donne. In cui il più forte ha sempre ragione e manipola i fatti e le idee come gli pare.
In questo caso, le regole del gioco non mi piacciono. Nella realtà gli uomini, con le donne, spesso
non amano giocare lealmente. C’è in alcuni casi un po’ troppa manipolazione. Per questo forse le
donne spesso rinunciano a `giocare’ con loro. Perchè sanno di venire subito ferite e eliminate.
Oppure adottano logiche speculari del tipo: se manipoli tu manipolo anch’io. Nello sport la
competizione è leale. Ci sono delle regole da rispettare, e, se non lo si fa, si è penalizzati. Forse per
questo lo sport è nella sua essenza una forma di competizione molto civile. Quando non viene
inquinata da dinamiche che non hanno a che fare con lo sport in sè, ma con altri tipi di problemi.
Ma nella vita non succede così. E non si può giocare separati per categorie e per sessi a meno di
non voler introdurre logiche speculari molto pericolose. Perchè la vita non tollera schematismi. Ma
non c’è dubbio che gli uomini preferiscono giocare da soli, quando vogliono fare `sul serio’. E te lo
fanno subito capire. Ti fanno subito sentire un’intrusa. Ora, questo è sicuramente vero nei giochi
muscolari, dove la superiorità maschile è del tutto fuori discussione. Ma in quelli intellettivi può
non essere così. Ci sono forme di intelligenza diverse, che all’occorrenza possono anche essere
complementari, come più felicemente possono introdurre elementi di arricchimento e di
imprevedibile fantasia. Può darsi che sia solo una questione di abitudine. E’ da poco tempo che le
donne hanno avuto accesso in massa alla cultura. Ma può anche darsi che gli uomini abbiano un
modo di strutturare il loro desiderio - attraverso il dominio - talmente forte e radicato che se non si
esprime così si sentono amputati di qualcosa.
Forse l’appellativo che si dava alle streghe nel Medio Evo, le si definiva anche `Le signore del
gioco’, diabolico, s’intende, proviene da qui. Ma si potrebbe giocare anche senza mettere il diavolo
di mezzo, no? Cioè senza farsi troppo male. Prendersi sul serio non vuol dire per forza essere
seriosi. E’ in fondo solo un problema di rispetto dei limiti.
D’altra parte, se ti comporti con loro in modo seducente, perchè ti piacciono davvero e sei sincera,
ti accusano subito di avere dei secondi fini e di volerli imbrogliare. E’ lo strascico di una molto
lunga coda di paglia: maestri negli inganni, rovesciano sulle vittime i loro propri modi di sentire.
Naturalmente qui non si vuole sostenere un’onestà assoluta delle donne, che non c’è. Ma le loro
sono più spesso menzogne per autodifesa, e quasi mai vere menzogne volte a mettere al tappeto
l’avversario. Salvo nel caso di reiterate provocazioni. Anzi, già il tipo di linguaggio usato, `mettere
al tappeto’, denota una logica da pugilato che non viene mai adottata spontaneamente dalle donne.
Che anche tra di loro, nelle contese, usano perfidie magari sottili, ma raramente manesche.
Qualcuno potrebbe obiettare che ormai ci sono anche le pugilesse. Sarà, non mi va di criticare una
libertà altrui, penso solo che a me non vorrebbe proprio in mente di mettere i guantoni, dato che mi
basta un livido per andare in paranoia. E che la maggior parte delle donne è come me.
Forse per evitare qualsiasi forma di pugilato, ma più spesso per il piacere delle vecchie schiavitù,
taluni uomini sembrano preferire le prostitute alle donne che si permettono di desiderare
liberamente, e dunque anche di scegliere di evitare di mentire. In fondo, una prostituta non dà
problemi: la paghi per un `servizio’, fai finta di pavoneggiarti un po’ mostrando il portafogli e si
può risolvere tutto in fretta e senza complicazioni, salvo quando ci mettono lo zampino i giornalisti
perchè si tratta di personaggi famosi che fanno aumentare le vendite per la curiosità che li
circonda.

92
Sesso, amore e gerarchia

Tra i personaggi famosi, ve ne sono alcuni che sembra indossino in permanenza un bavaglino con
sopra scritto: `Non baciatemi’. Sarà la paura, appunto, di essere chiacchierati da questo punto di
vista. Un tempo erano le donne che si dovevano preoccupare, se non della virtù, almeno della
reputazione, ora a quanto pare anche gli uomini si debbono proteggere dalle maldicenze. Che sia
anche questo un segno dei tempi?
Che il prossimo secolo abbia in serbo una società insopportabile, ipocritamente puritana, dove,
come in “1984” di Orwell, il grande fratello attraverso il ministero dell’amore cercherà di
trasformare tutti in automi per poterli meglio controllare nell’ansia furbesca di difendere un potere
sempre fine a se stesso?
Perchè non c’è dubbio che il potere odi il sesso come elemento di disordine e del resto qualche
volta lo è davvero. Come sempre dipende tutto dal rispetto reciproco e dall’onestà con se stessi.
D’altra parte perchè un’amante non dovrebbe ribellarsi, se è stata imbrogliata e maltrattata?
Eppure ancora oggi, se un’amante protesta, viene di solito massacrata, prima dai media e poi dal
potere. Mentre l’uomo viene quasi sempre recuperato, come del resto è giusto che avvenga, dato
che avere un’amante non è, almeno fino a prova contraria, l’equivalente di un delitto a sfondo
sessuale. C’è una specie di tabù attorno a questo tipo di problema. E, sotto, sotto, anche una
grande paura: se anche le amanti si mettessero a rivendicare dei diritti? E pensare che nel medio
evo era così facile liberarsene accusandole di stregoneria.
Nel libro `Il martello delle streghe’, tra i molti processi, è descritto quello all’amante di un
cardinale, da lui accusata di avergli trasmesso una terribile influenza. La poverina, naturalmente,
fu bruciata, e lui si riprese i gioielli che le aveva regalato nel corso della relazione. Allora essere
uomini era davvero molto comodo, da questo punto di vista.
Le streghe in realtà non erano affatto le signore del gioco, ne erano le vittime. L’inquisitore, che
poteva fare di loro ciò che voleva, perchè erano nude e senza potere, nè potevano fare ritorsioni,
era autorizzato anche ad imbrogliarle, al fine di estorcere loro quelle che ora siamo certi fossero
false confessioni di colpa.
In altri termini, poteva, con il beneplacito della chiesa, abusare del più debole, tradirlo e
imbrogliarlo al fine di dare in pasto allo scontento popolare qualche vittima sacrificale, per
stornare l’attenzione da se stesso e dalla sua incapacità a risolvere i problemi.
Un atteggiamento, come si può notare, radicalmente anticristiano. Ed è forse per questo che la
chiesa non ha fatto i conti fino in fondo con questa parte del suo passato. La caccia alle streghe,
che, non dimentichiamo, ha fatto sei milioni di morti59, in prevalenza donne e minoranze etniche e
religiose, come gli ebrei e gli zingari, oltre che oppositori politici, ed eretici, è stata una forma
strisciante di guerra civile durata alcuni secoli. Prima si costruiva la strega, (talora, molto più
raramente però, lo stregone) poi l’inquisitore completava l’opera incamerando i beni della vittima o
della sua famiglia. Dunque aveva un preciso interesse economico anche se lo nascondeva
accuratamente.
In un bel libro, `La chimera’ di Sebastiano Vassalli, (Einaudi tascabili ) è stata ricostruita
accuratamente la storia di una di queste streghe. Si chiamava Antonia, aveva venti anni, era molto
bella, ed era una trovatella adottata, a dieci anni d’età, da una famiglia di contadini piccoli
proprietari terrieri.
Antonia aveva suscitato gli appetiti di tutti gli uomini del suo villaggio, Zardino, una frazione ora
scomparsa della provincia di Novara. Li aveva rifiutati e aveva loro preferito un `camminante’, cioè
un vagabondo dai mille mestieri, con cui si incontrava la notte, di nascosto, dietro un castagno
secolare. Gli uomini del villaggio si erano molto risentiti, in qualche modo lei non aveva accettato
tatuaggi da parte del `branco’. Inoltre Antonia aveva fatto amicizia con Biagio lo scemo, così
soprannominato perchè era lo stupido del villaggio, un ragazzo epilettico e menomato di età vicina
alla sua, che però all’occorrenza sapeva lavorare come un mulo ed era accudito, o meglio
alloggiato, dalle zie.

59
Controllare e citare una fonte (Serena Foglia?)

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Sesso, amore e gerarchia

Biagio, turbato dalla gentilezza di Antonia e abituato ad essere trattato con scherno e come un
semplice strumento di lavoro, cominciò a ribellarsi e a scappare, facendo disperare le povere zie,
che finirono col vedere in Antonia una specie di angelo del male, un elemento di turbativa per la
comunità. E a mettere in giro la voce, assieme ad altre comari, che lei era una strega. Tutto si
sarebbe risolto in una bega da cortile se la voce che Antonia era una strega non fosse giunta alle
orecchi dell’Inquisizione in città. Dal momento in cui Antonia parte per Novara, per presentarsi al
tribunale la sua sorte è già segnata. Inizierà da allora un processo di lenta spogliazione, e infine di
aperto saccheggio della sua identità e dignità femminile. Torturata a lungo, sottoposta e minuziose
ispezioni vaginali e corporali, chiusa in una cantina senza finestre nè pavimento infestata dai topi, si
rifiutò fino alla fine di fare il nome del suo spasimante (salvo poi pensare che era un diavolo anche
lui, dato che si guardava bene dal presentarsi a difenderla), accusò gli inquisitori, non senza qualche
ragione, di essere loro i diavoli, disse che i preti erano inutili, e negò l’unicità di Gesù Cristo
sostenendo che “c’erano tanti gesus cristi e di gesus criste ce n’erano anco più assai”. Prima di
salire sul rogo, la voce popolare aveva aggiunto un’altra accusa, non reperibile negli atti del
processo: che Antonia aveva ucciso molti bambini, maschi per giunta. Era un’evidente proiezione,
su di lei innocente, dei sensi di colpa per i numerosi infanticidi operati in quell’epoca un po’ da tutti
gli strati sociali, e specie dai contadini nelle campagne, che usavano affogare le neonate femmine,
quando le bocche da sfamare erano troppe.
Antonia bruciò, nel rogo acceso con la legna dell’albero di castagno abbattuto, senza neppure poter
gridare. Il boia, pietoso, le aveva dato una sostanza per intontirla. Allora si credeva che servisse a
lenire il dolore (era curaro, si usava ai primi del nostro secolo anche per immobilizzare i bambini da
operare), in realtà serviva solo a impedire di urlare, perchè paralizzava i muscoli e le corde vocali.
Prima di essere portata al rogo, Antonia fu ripetutamente violentata, per un’intera notte, dai suoi
carcerieri, che le avevano messo, per impedirle ancora una volta di urlare, una specie di mordacchia
come quella che si mette ai cavalli. Ora la caccia alle streghe non avviene più così. Tuttavia, in tutti
i momenti in cui le società attraversano crisi profonde, in cui il senso di colpa si accumula al
rancore e al sentimenti di impotenza, in cui sembrano non restare o non vedersi vie d’uscita, inizia
un gioco di proiezioni collettive che cerca delle vittime designate su cui scaricarsi, elette, spesso in
virtù delle loro manifesta innocenza, a pattumiere della collettività, ancora disabituata alla raccolta
differenziata dei rifiuti. E’ stato così con il maccartismo, ma anche con i processi di Stalin e le
camere a gas dei nazisti. La differenza con il medioevo non è tanto nelle dinamiche psicologiche,
quanto nella quantità. Ora le cose avvengono su scala industriale, in compenso di solito durano
meno a lungo. Non sembrano importanti, nell’adozione di questi comportamenti, tanto sono
generalizzati, nè le differenze religiose nè quelle razziali. Quegli stessi che sono stati `capri
espiatori’ in alcuni secoli, o periodi, possono a loro volta trasformarsi in aguzzini se cambiano le
condizioni e i rapporti di forza. E’ ora un po’ il caso degli abitanti di Israele in rapporto alla
minoranza palestinese.
Nella riflessione sui meccanismi di riproduzione delle logiche da capro espiatorio la chiesa è in
drammatico ritardo quando i `capri espiatori’ sono di sesso femminile. Sembra ancora pensare si
tratti di una categoria di esseri umani di serie B, nonostante l’apparente omaggio fatto alle donne
attraverso la figura di Maria Vergine. O comunque, se non di serie B, di esseri umani strani,
sconosciuti e scarsamente maneggevoli.
Tuttavia nei vangeli il meccanismo del capro espiatorio è illuminato da una luce potente, come
l’odio senza causa dei persecutori60. I vangeli danno scacco alla rappresentazione persecutoria
rivelandone per sempre l’arbitrarietà. Il dramma vi è infatti rappresentato dal punto di vista di una
vittima fermamente decisa a respingere le illusioni persecutorie. Lo ha potuto fare perchè non ha

60
Renè Girard,"Il capro espiatorio", Adelphi, 1987. "I vangeli non si servono certo dell'espressione " capro espiatorio",
ma ne usano un'altra anche migliore: agnello di Dio. Essa esprime, come " capro espiatorio", la sostituzione di una
vittima a tutte le altre. Ma sostituendo ai connotati sgradevoli del capro quelli interamente positivi dell'agnello, indica
con efficacia maggiore l'innocenza di questa vittima, l'ingiustizia della sua condanna, il senza causa dell'odio di cui è
oggetto.

94
Sesso, amore e gerarchia

avuto alcun atteggiamento mimetico coi persecutori. In questo consiste la vera rivelazione. L’idea
che la passione di Cristo sia invece un evento “unico nella sua dimensione malefica” è errata e la
possiamo notare nelle molte forme di finto cattolicesimo oggi imperanti.
Angela Davis, una donna appassionata ma molto razionale e ricca di autocontrollo, non ha mai
smesso di lottare e di credere che i pregiudizi possano essere superati. La sua autobiografia è stata
scritta nel 1972, quando aveva solo 28 anni, dopo un periodo passato in prigione per una falsa
accusa di omicidio. E per quanto lei stessa si dica perplessa di fronte all’opportunità di scrivere
un’autobiografia ad un’età così giovane, già allora le sue esperienze di vita sono tali da riempire un
libro che si legge d’un fiato61. E che contiene, vissuti in prima persona, i miti e gli ideali degli anni
65-70, che io ho conosciuto e che mi hanno dato un’impronta comune a tanti della mia generazione,
ma che non ho vissuto in prima fila come Angela. Certo è interessante, e in un certo senso fa
tenerezza, leggere questi racconti entusiasti che vedono il socialismo come il rimedio sovrano
contro tutti i mali dell’umanità, contro tutti i pregiudizi. Leggere oggi, dopo che la storia ci ha
portato alla caduta della maggior parte dei regimi socialisti, la descrizione del suo viaggio a Cuba,
vista da lei come la patria dell’uguaglianza, ci fa un po’ sorridere. Quello che mi interessa qui però,
è come Angela sente i problemi del razzismo e della discriminazione, sia quella dovuta al colore
della pelle che quella dovuta al sesso.
Oggi alla radio hanno detto che le mine antiuomo uccidono una persona ogni 15 minuti, nel
mondo62. Quattro persone all’ora, 96 al giorno, 35.000 all’anno. Molti di più dei morti previsti, con
stime pessimistiche, come conseguenza del disastro di Chernobil. Più o meno quanti i morti del
disastro di Bhopal. Posare una mina antiuomo costa 3 dollari, bonificarne una costa 1000 dollari
circa. Così, ogni anno vengono bonificate circa 100.000 mine antiuomo, ma ne vengono posate più
di un milione. Chissà se nel numero di quelle bonificate sono comprese anche quelle che scoppiano,
uccidendo o storpiando tante persone?
Da bambina, negli anni ‘50, Angela Davis viveva in un posto chiamato Dinamite Hill, a
Birmimgham, in Alabama. Era una collina attraversata da una strada: da una parte vivevano i
bianchi, dall’altra i neri. Quando una famiglia di neri, per salire nella scala sociale, comperava una
casa dalla parte “sbagliata” della strada, qualcuno metteva un candelotto di dinamite sotto quella
casa. Magari, sotto il letto del padrone di casa. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi sembra
che gli scoppi si risolvessero senza vittime. Ma non nel caso di una bomba scoppiata all’interno
della chiesa battista di Birmimgham, che ha ucciso tre ragazzine, tutte amiche o conoscenti di
Angela. Angela, più o meno ventenne, viene a sapere della notizia leggendo un giornale, mentre è
per ragioni di studio in Francia, con un gruppo di altri studenti. Anche nel racconto si sente tutta la
rabbia impotente della nostra amica nel leggere la notizia, e ancora di più alle parole di
partecipazione vuota e convenzionale che gli altri pronunciano davanti al suo dolore. D’altra parte,
cosa si può fare in un caso del genere? Forse tacere. Forse, solo chi ha provato il dolore della
perdita assurda di una persona cara può avere il coraggio di dire qualcosa.
Daniela Gay era una mia compagna di scuola, nel 1965-66 al Liceo Virgilio di Roma. Abitava nel
mio stesso palazzo, due piani più in basso. Era una ragazza piccolina e taciturna, carina e molto
curata nel vestire, che non si curava gran chè invece di essere brava a scuola o di fare amicizia con
gli altri. Aveva una vita familiare molto unita e schiva, la sua sorellina andava alla scuola
elementare ebraica sul lungotevere, e quando l’hanno successivo non è più venuta a scuola con me
abbiamo praticamente perso anche quelle rare e saltuarie occasioni per frequentarci. Stavo già a
Milano, molti anni dopo, quando ho letto il suo nome su tutti i giornali: suo figlio, a due anni, era
stato ucciso nello scoppio di una bomba alla sinagoga di Roma. Lei stessa e l’altro bambino erano
rimasti feriti. Ma io, pur avendoci pensato, non ho osato mandarle una lettera. Avevo troppo
vergogna per dire qualunque cosa. Chissà se, come tanti mi dicono, è sbagliato e forse segno di
squilibrio mentale sentirsi parte di tutto il male che avviene nel mondo? Io credo che invece sia una
delle cose che dovremmo imparare a fare. Non tanto a macerarci nei rimorsi per quello che accade
61
Angela Yvonne Davis, "Angela Davis, an autobiography", International Publishers, New York, 1974-1988.
62
Riferimento al Corriere

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Sesso, amore e gerarchia

come se lo avessimo fatto noi, ma a sapere che ogni volta che cediamo ad un pregiudizio liberiamo
un pezzetto di strada perchè qualcuno, più debole o più pazzo o con meno freni inibitori, faccia un
gesto inconsulto contro qualche innocente. O anche contro qualche colpevole, forse i colpevoli sono
meno esseri umani?
E allora tutti ci indignamo e i giornalisti scrivono pezzi commoventi, ma quasi nessuno pensa a
quando - magari il giorno prima, magari quello stesso giorno - non siamo stati capaci di dire a
qualcuno quello che pensavamo, oppure abbiamo detto o pensato “quello lì me la pagherà”, oppure
abbiamo insegnato ai nostri figli che solo chi è furbo o ha successo è importante per noi.
Mi sono sempre domandata come potremo cambiare il mondo se non sappiamo impegnarsi nelle
piccole cose, se, per tornare al tema di questo libro, non sappiamo per esempio nel nostro lavoro
perseguire un fine concreto, cercare di produrre qualcosa, invece di avere solo lo scopo di essere
approvati dalle persone “importanti”, impegnarci per far contento il nostro capo, che ci darà un
aumento o un passaggio di categoria. Questo atteggiamento è quello che perpetua un certo tipo di
gerarchia, e la mancanza di responsabilità e democrazia che ormai è dilagata nelle aziende e in gran
parte delle posizioni che contano in tutta la nostra società.
Grazie anche al fatto che non è stato necessario per anni produrre risultati, perchè una serie di
provvidenze erano pronte a intervenire in aiuto della nostra pochezza, la gerarchia delle grandi
aziende ha potuto continuare ad essere una specie di meccanismo mostruoso che perpetua se stesso;
o forse soltanto una istituzione totalitaria, dove non è mai accettata la discussione, la polemica, la
messa in forse di un giudizio. Anzi, più è chiaro che il giudizio è sbagliato, più è difficile uscirne.
Non per niente, ad esempio nel caso delle donne, la legge italiana sulle pari opportunità, che è molto
buona e ben fatta, non viene applicata.
Una ricerca americana63 ha evidenziato che le donne manager sono di solito figlie uniche, che i
padri hanno prediletto come rivalsa al loro desiderio di un maschio, e che sono state perciò educate
a comportarsi secondo modelli maschili. Spesso non hanno figli, e se li hanno soltanto tardi, dopo
aver impostato la loro vita lavorativa.
Al contrario, le donne che hanno potere in politica vengono spesso da famiglie numerose, sono
sposate e hanno fatto la moglie e la madre per la prima parte della loro vita. Il loro impegno in
politica viene come conseguenza di un impegno negli organismi di quartiere o della scuola, ed ha
caratteristiche “femminili”, di servizio, attenzione agli altri e disponibilità. Come si spiega questa
differenza? Con le caratteristiche dell’ambiente di lavoro. Perchè non soltanto le persone adattano a
sè il lavoro che compiono, ma anche si adattano a quello che viene loro richiesto64.
Così, in politica anche se la lotta tra le persone e i partiti non è cosa da poco, e non conosce
esclusione di colpi, è spesso richiesto un impegno sociale che viene verificato dagli elettori65.
Questo impegno valorizza le qualità femminili, anche se le donne in posizioni di potere sono
comunque poche. La democrazia, per quanto imperfetta, permette le verifiche, attraverso un salutare
esercizio di dialettica e di critica. Nelle aziende invece vige un regime totalitario. Si tarda a capire
che le qualità femminili possono essere utili, soprattutto oggi in Italia, nel momento in cui il
modello vecchio è in crisi. Gli uomini, i dirigenti che sono abituati a seguire questo vecchio
modello, non vogliono o non possono liberarsene, e non si rendono conto di quanto sia invece
urgente il cambiamento. Per ora se ne parla: ci sono tanti corsi di formazione che teorizzano la
nuova gerarchia. Ma nella realtà di tutti i giorni, l’atteggiamento dei più è rimasto quello di sempre.
E la donna manager, quando c’è, può essere solo quella della canzone di Vecchioni, “stronza come
un uomo”.
Invece la storia delle donne negli ultimi cento anni è stata molto ricca di novità e di entusiasmo. E’
stata una lotta contro i pregiudizi, ma nello stesso tempo ha dimostrato come i pregiudizi siano

63
Libro citato in Women in Power
64
Il maschile e il femminile in azienda
65
Qualcuno direbbe che in Italia non è propriamente così; ma tutto fa pensare che anche noi dovremo per forza adattarci
a regole più corrette. E' evidente che a molti non fa comodo!

96
Sesso, amore e gerarchia

dentro a tutti noi, che anche quando siamo vittime di discriminazione non riusciamo a fare a meno
di discriminare a nostra volta.
Angela Davis ha raccontato in un suo libro66 la storia della emancipazione femminile (soprattutto la
lotta per il voto) e di quella dei neri dalla schiavitù, che sono avvenute più o meno
contemporaneamente. I due movimenti hanno avuto una storia comune, o almeno si sono incontrati
in molte occasioni, ma non altrettanto spesso emerge tra donne di razza diversa quella comunanza
di sensazioni che era nata così facilmente tra Ed e me, forse anche per una simpatia istintiva dovuta
al nostro essere un uomo e una donna.
Le donne che lottavano per il diritto di voto erano spesso bianche e benestanti; in certi casi, si aveva
l’impressione che la lotta per il voto fosse in realtà una finta, che in qualche modo venisse usata
dagli uomini come un diversivo, un sistema per tenere occupate tutte quelle “signore per bene” che
altrimenti si sarebbero annoiate. Per i neri, invece, era spesso in gioco la sopravvivenza stessa: per
ottenere la libertà, ma anche, in seguito, per potersi sedere sugli autobus come per rivolgere la
parola agli altri per strada. I linciaggi hanno caratterizzato un lungo periodo della storia degli Stati
Uniti.
Nel libro di Angela, che racconta la storia di quegli anni, sono descritte alcune splendide figure di
donne nere, che hanno saputo lottare sia come donne che come nere. Senza rinnegare le loro
caratteristiche. Forse due ragioni di diversità sono meglio di una: certamente ancora oggi, nella
società americana, la comunità nera è forse meglio rappresentata dalle sue donne, che sono
emancipate, forti, capaci di mantenere da sole famiglie numerose e di guadagnarsi posti di
responsabilità sul lavoro. Le donne nere sono però nello stesso tempo prigioniere di una immagine
di onnipotenza che le pone in antagonismo con i loro uomini, a loro volta prigionieri dello
stereotipo della pigrizia e della incapacità. E poi si parla anche di donne bianche, come la
sindacalista Mother Jones, una donna per molti versi eccezionale vissuta negli Stati Uniti d’America
tra il 1830 e il 1924, che iniziò ad occuparsi dei problemi dei minatori nel 1871, dopo aver lavorato
come maestra e come sarta (“Preferivo cucire che comandare a dei bambini”), e dopo avere perduto
il marito e quattro figli in una epidemia di febbre gialla, nel 1867.
E’ strano che oggi non si parli quasi mai, come se non avesse lasciato traccia nella storia, di un
personaggio così singolare e così importante. Io ne ho sentito parlare per la prima volta da Angela
Davis, e recentemente ho avuto la fortuna di trovare su una bancarella una copia della sua
autobiografia67. Mother Jones è in un certo senso un esempio delle contraddizioni e della forza degli
Stati Uniti d’America: dove i sindacati sono quasi inesistenti ancora oggi, e i lavoratori sono meno
tutelati che in Europa, ma dove il movimento sindacale degli inizi del Novecento era fortissimo e in
grado di organizzare scioperi di grande rilevanza. E’ appunto straordinario che una donna così
anziana e sola potesse quasi un secolo fa lavorare come un uomo e forse anche meglio,
combattendo contro la corruzione che dilagava tra i sindacalisti e contro le condizioni disumane in
cui lavoravano i minatori.
Mother Jones è pragmatica: non sa che farsene del diritto di voto, e giudica la campagna delle
suffragette come il capriccio delle donne viziate della borghesia. Addirittura, pensa che che i mariti
di queste donne usino il diritto di voto come un mezzo per distrarre le loro compagne da ciò che è
veramente importante, e cioè il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. In un certo
senso, Mother Jones è l’antesignana di certe donne di oggi, che si comportano come uomini. Forse
per questo ha avuto la possibilità di lavorare, forse per questo nessuno si ricorda di lei come donna.
Oppure nessuno si ricorda di lei perchè non si vuole riconoscere tutta la sua forza radicale e
profonda, di una persona che dimentica se stessa per una missione a favore dei più poveri. In questo
senso, Mother Jones era invece una donna da tutti i punti di vista. Una donna che avendo perso il
marito e i figli, sceglie una professione che le dà la possibilità di avere molti più figli e molti più
mariti, scelti tra coloro che avevano più bisogno di lei. Comportandosi come un uomo, riusciva a
svolgere un lavoro difficile e faticoso, ma con le sue caratteristiche femminili riusciva ad
66
Angela Y.Davis, "Bianche e nere", Editori Riuniti
67
Autobiografia di Mother Jones, Einaudi, 1977

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immedesimarsi nei più poveri. Perciò Mother Jones riusciva a farsi accettare da molti, e soprattutto
da coloro che le stavano a cuore.
Le donne però sono spesso condannate ad essere rifiutate come tali, in partenza. Proprio perchè
per l’inconscio sono onnipotenti, la debolezza e l’imperfezione nelle donne sono viste come colpe:
la donna è l’unica Dea che rimane in tempi di insicurezza maschile e questo destino le pesa. Per
evitarlo, occorrerebbe accettare che anche lei è un essere finito e debole. Gli uomini hanno rispetto
alle donne una ‘fortuna’ paradossale, derivata dal loro sesso. Che è insieme molto potente e molto
fragile: la possibilità di fare i conti, e l’esperienza, dell’impotenza fisica e sessuale, che tra le varie
forme di impotenza non è certo la più grave, per quanto dolorosa, li mette in condizione di essere
più realisti e di capire più in fretta i loro limiti. Si sa che l’impotenza fisica è quasi sempre dovuta a
cause contingenti, di tipo meccanico o vascolare, a malformazioni, danni cellulari o a casualità
evitabili (come una donna sgradita o inesperta, disattenta e paurosa - ebbene sì, abbiamo paura
anche noi, e con qualche motivo di più - o come l’aver bevuto troppo). Mentre se si parla di
impotenza vera, lo siamo tutti, impotenti. Le donne non meno degli uomini. Che però assegnano
alle donne il regno diabolico della creazione dell’impotenza simbolica. In questo caso, le eventuali
manchevolezze della moglie o dell’amante diventano invece `colpe’ e cioè niente altro che patetici
alibi inventati per negare la propria impotenza e la propria inettitudine e incapacità di avere, sul
mondo e sulle cose, la presa infantile sognata. Un altro circolo vizioso che appunto non porta da
nessuna parte, se non alla distruzione di uno dei poli dell’energia, con l’inevitabile menomazione
anche del polo che crede di salvarsi.
Gli alibi si ritorcono sempre contro chi li mette in atto. E possono essere usati (di fatto lo sono)
strumentalmente anche dall’altro sesso.
Uscire dal circolo vizioso, uscire dalle mistiche contrapposte della femminilità e della mascolinità,
dal mito della donna fattrice e dal mito dell’uomo-maschio, che usa il sesso come strumento di
dominio e non di avvicinamento all’altro, sono l’unico vero importante passo da compiere per
recuperare la piena umanità e capacità di dedizione ed amore che entrambi i sessi hanno, sia pure
in modi diversi. Per quanto mi riguarda, io credo fermamente che la forza maschile sia superiore
alla nostra, quando e se è cosciente dei suoi limiti. O almeno così la vivo e l’ho vissuta e non me ne
dispiace affatto. Mentre per le donne è più facile trovare alibi e compensazioni nella mistica della
maternità e del corpo creatore.
Nella famiglia nucleare di oggi, piccola e chiusa nel suo nucleo ridotto, spesso formato per la
maggior parte di adulti, quando arriva un sospirato e programmato rampollo la mamma non può
essere una mamma normale. E’ la Mamma, con la emme Maiuscola, che pensa a tutto e non divide
con nessuno le sue prerogative e i suoi poteri.
Ho spesso incontrato ai giardinetti o alle riunioni di classe queste Mamme perfette che avevano
bambini intelligentissimi e pieni di qualità, ma “così vivaci”. “Mi dà così tanto da fare, non riesco
più ad avere tempo per me!”. Queste frasi, ripetute davanti agli amati figlioletti, hanno forse lo
scopo di fare loro capire come sono fortunati. E di farlo loro pesare. Non sono come i bambini di
una volta.
La signora Fausta, che veniva da me a fare le pulizie, era una donna simpaticissima, sempre allegra
e piena di buon senso. Un giorno le ho chiesto come facessero secondo lei le donne di una volta
(mica tanto una volta, bastava ritornare a quando lei era bambina) che non avevano lavatrice nè
frigorifero, per non parlare della lavapiatti. E magari avevano cinque o sei figli, uno di fila all’altro,
e nessuno che le aiutasse. “Non c’era problema, mi ha detto la signora Fausta: i figli non si
guardavano. La mia mamma ci mandava fuori al mattino, e noi tornavamo a casa la sera per
mangiare una scodella di minestra. Giocavamo per i campi, e se trovavamo un micino lo
annegavamo nel fiume”.
I bambini di oggi hanno giochi intelligenti e sono super eleganti. Una mia vicina di casa che aveva
due gemelle poco più grandi delle mie, le teneva vestite di rosa e di bianco, rigorosamente uguali.
Se una si sporcava, ne cambiava due. Tutte le sere, stava alzata a stirare fino alle due di notte, e la
mattina si svegliava alle sette. Non ho mai saputo se ammirarla, o pensare che avevo ragione io,

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Sesso, amore e gerarchia

quando invece di comprare vestitini eleganti pagavo una baby sitter per andare a lavorare, e la sera
me ne andavo a letto presto. Certo che spesso i miei bambini avevano dei vestiti un po’ brutti, tute
di felpa comprate al mercato. E ho sempre permesso loro di vestirsi come volevano, fin da quando
hanno cominciato a esprimere delle preferenze. Certo, probabilmente sono stata una mamma con la
m minuscola, ma ho avuto la pretesa di non insegnare loro “piccole virtù68”.
Chissà se i bambini possono accontentarsi di una mamma con la m minuscola? Che non è una
Madonna, che può separarsi dal marito o avere degli ammiratori oppure un amante, senza per
questo essere una prostituta, o una cattiva madre, e magari neppure una cattiva moglie. Ricordo
uno slogan gridato nelle manifestazioni femministe degli anni `70, “non più puttane, non più
madonne, finalmente siamo donne”. Ecco, questo è uno dei pochi slogan di allora che credo ancora
fondamentalmente vero. Era un tentativo di abbattere gli stereotipi, talora divenuti idoli. Eidolon,
in greco antico, significa figura fittizia, su cui chi immagina scarica le proprie proiezioni. E’ la
stessa radice usata nella lingua inglese per il termine “doll”, bambola, un tempo appunto idolo,
simbolo della Dea creatrice, ma anche oggetto di piacere.
Questa trasformazione della donna in `idolo’, cioè in pura immagine, ha però, nella sua indubbia
comodità, un vizio di fondo: in qualche modo la pietrifica, la strappa a se stessa, ne `reifica’ lo
spirito. Anche la paura della donna `castratrice’, lo scudo di Medusa, proviene in parte da una
proiezione squisitamente maschile: i `pietrificatori’ accusano la vittima, le prioettano addosso
alcuni loro comportamenti di fondo, e così facendo chiudono il cerchio dell’abuso.
Però le donne che lavorano hanno tanti contatti con il mondo esterno, non possono farsi tarpare le
ali dalla gelosia dei loro partner, frequentano uomini diversi, magari stranieri, da cui a volte si
lasciano addomesticare, immergendosi in quell’atmosfera un po’ magica di contatto con qualcuno
che è vicino e insieme lontano, che spinge ad aprirsi in modo insolito: come quel giovane collega
indiano che mi aveva confidato, lui così schivo e proveniente da una cultura lontana dalla mia, la
sua intenzione di tornare in India - viveva in America - perchè temeva per i suoi bambini i problemi
legati al colore della pelle e all’appartenza ad una razza diversa. Il giorno dopo, scendendo dalla
nave a Stoccolma, in mezzo ad una folla di scandinavi, eravamo stati fermati al controllo passaporto
(e non eravamo scesi insieme) proprio noi due: entrambi un po’ diversi da tutti gli altri.
Probabilmente un caso, ma ricordo che per lui era stato un segnale negativo, come una conferma
della realtà delle sue preoccupazioni. Una conferma del pregiudizio di cui si sentiva prigioniero e da
cui voleva difendersi, senza rendersi conto, come invece fa Angela Davis, che non siamo mai solo
vittime ma spesso trasmettiamo gli stessi pregiudizi da cui vorremmo difenderci.
Un articolo del 198569 descrive un viaggio fatto da Angela in Egitto, per incontrarsi con
rappresentanti di associazioni per la promozione delle donne, attive in quel paese. Le americane, di
colore e non, che partecipano al movimento femminista sono molto sensibili al problema della
circoncisione femminile, praticata in Africa da tempo immemorabile e ancora diffusa non solo nel
terzo mondo, ma anche da noi presso alcuni immigrati. Anche per me si tratta di un argomento
difficile: il solo pensarci mi fa venire la pelle d’oca. Ho però letto alcune cose su questo argomento,
e mi rendo conto, come Angela, che è difficile astenersi dal giudicare in un caso come questo. Che
rappresenta la cultura di un popolo, per quanto barbara, di fronte alla quale la nostra indignazione
può anche essere vista come un sopruso. E così, d’altro canto, per rispetto forse eccessivo verso le
usanze altrui può avvenire che negli ospedali europei ed americani si pratichi l’infibulazione delle
bambine, su richiesta dei genitori che provengono da paesi dove una donna sarebbe giudicata “poco
seria” e derisa da tutti se integra.
Alice Walker70 ha scritto alcuni romanzi su questo tema e sostiene, attraverso le parole di un
antropologo inesistente ma molto verosimile, che la circoncisione è l’asportazione simbolica della
parte maschile della donna, e un modo per tenerla sottomessa. Ecco che il nostro percorso ancora
una volta si chiude: da Virginia Woolf, che sostiene che solo chi usa in pieno sia la sua parte

68
Natalia Ginzburg, "Le piccole virtù"
69
Angela Davis "Women in Egypt: A personal view". In Women, Culture & Politics, 1990
70
Alice Walker, "Possedere il segreto della gioia", 1993

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Sesso, amore e gerarchia

maschile che quella femminile sia veramente creativo, e che si rende conto con sofferenza che per
uscire dalle mura domestiche la donna deve avere una consapevolezza fisica del proprio corpo che
gli uomini non riescono ad accettare, al significato violento ed immediato, ma sostanzialmente
simile, della pratica della circoncisione e dell’imposizione del velo alle donne: tutti tentativi di
impedire loro l’accesso al potere, che è comunque legato al sesso in modo quasi perverso. E dove la
cultura impedisce o almeno disapprova l’attacco fisico, comunque l’accesso al potere da parte delle
donne è visto come un pericolo e osteggiato in tutti i modi, anche se spesso non pienamente
consapevoli. Il confinare ogni essere umano nelle regioni delimitate dal sesso è togliergli qualcosa
di fondamentale, il cui pieno riconoscimento potrebbe essere la sfida per procedere verso un mondo
più completo, più umano e più vero.
Una differenza fondamentale tra le società primitive e la nostra è proprio nella sopravvivenza dei
riti di iniziazione, che sono un modo simbolico e improvviso di raggiungere l’età adulta. Nella
società primitiva, chi è sottoposto a questi riti spesso crudeli e cruenti è poi adulto a tutti gli effetti e
non può sottrarsi alle responsabilità. Da noi invece, si tende sempre più a restare in una situazione
di eterna adolescenza. Complici la mancanza di case e di lavoro, i giovani restano in famiglia senza
essere spinti ad assumersi responsabilità. Anche la fuga dal matrimonio, la paura di dire davanti a
tutti che si vuole bene a qualcuno, secondo me può essere letta in questo modo: è vero che si può
sbagliare nella scelta del partner, e allora forse è meglio fare “una prova” prima di sposarsi. Però è
anche vero che solo chi si sposa può divorziare! E divorziare significa assumersi la responsabilità
del fallimento dell’unione, provvedendo comunque ai figli e accordandosi con l’ex-coniuge.
Spesso il matrimonio, più ancora che l’andare a vivere da soli, è il simbolo del passaggio all’età
adulta. Non per niente nelle culture primitive non è ammesso che un giovane non si sposi. Ne “Il
Flauto Magico” di Mozart, rappresentato per la prima volta nel 1791, possiamo riconoscere
moltissimi simboli dei riti di iniziazione: nel primo atto, il giovane può avere la sposa se si impegna
a lasciarla sotto il controllo della madre, che appunto simboleggia la società maternale che ci
impedisce di diventare adulti. Nel secondo atto invece, la sposa viene conquistata e sottratta alla
madre attraverso il superamento di prove, riti di iniziazione. Tutta la mitologia, di tutti i paesi, è
piena di simboli come questi. E anche piena di avvertimenti per le donne, che se vogliono essere
indipendenti devono mantenersi vergini e dimenticare la loro parte femminile. Perchè
l’indipendenza e il potere sono caratteristiche maschili.
Che ruolo hanno le madri in tutto questo? Le madri sono, come tutti, piene di difetti. E si vedono.
Nasconderli non serve. Nascondere i propri difetti, per adeguarsi al ruolo di `mamma perfetta’
richiesto dalla società (e la società cattolica è in questo più sensibile delle altre), significa
imbrogliare i figli e ritardare la loro crescita. Significa riempirli di sensi di colpa, perchè non si
sentiranno mai abbastanza adeguati all’eterno dare, senza chiedere nulla in cambio, all’eterno
rinunciare a tutto, all’eterno sacrificarsi per gli altri usando come alibi l’amore, anche quando non
c’è. Forse, nel caso di figli maschi, questo modo di essere fa invece molto comodo, altrimenti non si
spiegherebbe perchè la società maschile sia ancora così favorevole a questo tipo di stereotipo. Io
però penso sia molto importante essere naturali , non cercare di nascondere i propri bisogni, nè i
propri difetti. Farli vedere. Anche in questo, però, ci sono dei limiti. Andare oltre i quali può
generare angoscia nei figli, che hanno comunque bisogno di figure di affidamento forti, su cui poter
contare.
Sebbene Giovanna cerchi sempre di costringermi a farlo, mi è molto difficile parlare di me.
Quando le esperienze sono ancora troppo vive, riaprono ferite che si preferisce nascondere in
silenzio.
Ma posso dire che, quando non riuscivo a nascondere l’angoscia e il dolore per la malattia di mio
figlio, davanti a lui, mi sono sentita sempre molto in colpa, debole e vile.
Ma devo riconoscere che lui me lo ha sempre perdonato. Una creatura ferita capisce subito le
ferite degli altri. Mi veniva vicino, in silenzio, con gli occhi attenti aperti come laghi sul buio, e mi
baciava con reticenza, oppure, prima che il suo stato confusionale aumentasse, mi portava un

100
Sesso, amore e gerarchia

frutto, una mela o una pera, a volte persino con piattino e coltello. Come un perfetto aiutante. E
allora la tristezza diventava una festa.
Quello che invece non accettava mai era la mia distrazione, l’essere assorta in pensieri che non lo
riguardavano, ma riguardavano il lavoro, gli altri, o semplici stimoli informativi ricevuti dalla
realtà.
Aveva sempre paura di cadere ed era come se ogni volta mi avvisasse di stare attenta. In realtà ero
ormai così pronta e allenata che qualsiasi cosa facessi, in genere riuscivo a evitargli cadute troppo
rovinose. Però lo stesso continuavo a pensare ad altro. A volte, tenevo aperto solo il campanello
d’allarme. E questo lui non lo sopportava. E questo a me invece sembrava l’unica cosa che potevo
fare, un altro tipo di attenzione qualche volta mi sembrava un compito superiore a forze solo
umane. Questa debolezza, questa imperfezione, gli sono costate molto care. Anche a me. E però
continuo a pensare che era normale e giusto avere anche altri interessi, e che certe volte era del
tutto inevitabile doversi occupare d’altro, anche quando ero a casa.
Come figlia, ho sempre pensato che le madri casalinghe siano una pericolosa anomalia, fatta salva
l’epoca in cui i figli sono in tenerissima età.
Non avendo altro, finiscono col riversare sui figli anche i loro sogni irrealizzati, non misurandosi
con la realtà esterna coltivano un’idea smisurata di sè, la loro insoddisfazione di recluse, il loro
rancore di perenni dipendenti, di persone prive di autonomia - e l’autonomia si sa è in primo luogo
economica - il loro sentirsi imbrogliate dalla vita e dagli uomini.
Finiscono con l’avere, per i figli, un’attenzione esclusiva, che li soffoca e impedisce loro di essere
se stessi. Questo, come madre, non è proprio stato il mio caso. Probabilmente, proprio per reazione
a come ero stata educata io, ho esagerato in senso opposto. Ma in realtà il vero problema
irrisolvibile per me è sempre stato il dolore. Come fronteggiarlo, come sfuggirgli. Perchè ci si
abitua a tutto, e col tempo le fitte si attnuano, ma si allargano anche in cerchi concentrici. Se -
come Alice Walker fa dire a Tashi, l’io narrante più indimenticabile del libro qui citato, `nella mia
bocca anche il mango più dolce ha saputo di amaro’ - non è stato perchè sentivo tarpate le mie ali,
ma perchè vedevo tarpate le ali degli altri.
Tashi è una donna nera che per restare fedele alle sue tradizioni, essere accettata dalle altre donne
e stare più vicina ai suoi figli, specie i figli maschi, si è fatta infibulare ormai adulta,
volontariamente. Salvo poi assumersi la colpa di aver ucciso, lei che ne aveva capito fino in fondo
le ragioni, la tsunga, la sacerdotessa custode della tradizioni che le avevva provocato una ferita
all’apparenza così irrimediabile.
Proprio quella sacerdotessa che con lei si era confidata come con nessun altro, e in uno dei rari
momenti di sincerità le aveva detto - che cosa siamo noi se non torturatori di bambine?
Eppure, sebbene la mia esperienza di donna bianca, occidentale, evoluta, benestante e
relativamente libera, sia stata molto diversa da quella di Tashi, il romanzo della sua vita è stato per
me tanto intenso, vicino e chiaro che non ho potuto fare a meno di stupirmi.
Forse è lo stupore che dà a questo libro, tra i tanti letti negli ultimi anni, un posto del tutto
speciale, come qualcosa di cui non posso più fare a meno.
All’inizio, la molla principale è stata che anche Tashi aveva un figlio strano, handicappato, perchè
scatta subito in me una identificazione immediata, e tutte le altre differenze mi sembrano
contingenti e irrilevanti.
Ma poi mi sono resa conto che non si trattava solo di questo. Mi sono resa conto che negli incubi
delle sue ombre mentali e dei suoi sogni c’era qualcosa che apparteneva anche a me. Come la
consapevolezza che anche da noi, nell’occidente evoluto, c’è ancora chi fa delle distinzioni tra
donne “da usare per il piacere” e “brave madri di famiglia” che devono pensare solo ai figli.
Essere magari un po’ sciatte, scialbe e senza grilli per la testa. Una comoda pantofola o poco più.
Brave in cucina ma a letto, per favore, non troppo. Altrimenti non mi fido più.
La versione speculare della donna-pantofola è la donna-soubrette. O la tigre da palcoscenico che
si fa rifare tutta dal chirurgo estetico, un po’ per vanità e molto per compiacere sempre e

101
Sesso, amore e gerarchia

comunque i razziatori delle praterie. Dietro queste schematizzazioni in fondo, c’è ancora la vecchia
logica che porta gli africani a far infibulare le loro donne.
Ma nonostante questo non mi sono mai sentita chiusa dentro una torre buia, come una regina che
ha perso le ali, mentre milioni di termiti operaie le ronzano attorno, per nutrirla a forza,
incessantemente, e incessantemente rimuovono le sue migliaia di uova. E mentre lei sopporta tutto
questo, ma solo per morire ed esser divorata da quelli cui ha dato la vita, in una generazione
impotente e inerte da formica bianca. No, non mi sono mai sentita così. Per me la maternità non è
stata un vuoto passivo, una condanna subita. Pure, nella ricchezza del dono, non potevo fare a
meno di notare che i cuccioli ciechi succhiano l’amore dove lo trovano, senza troppi riguardi, ed è
giusto che sia così. E, abituate come siamo ad allattare gratis, e a piangere se non abbiamo latte,
siamo indifese di fronte alle richieste esose di chi, diventato adulto, ad occhi bene aperti e senza
problemi di salute, pretende ancora tuttavia il nutrimento gratis.

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Sesso, amore e gerarchia

Cap.8. DONNE DELL’EST


La verità velata. Benazir Bhutto.
Dobbiamo fare molto di più che rifiutare il passato.
Dobbiamo cambiare il futuro71
Benazir Bhutto

Le donne giapponesi, per strada, camminano dietro al marito, a un passo o due di distanza. Il
professor Kondo me lo raccontava e, scherzando, diceva: “Lo fanno per sorvegliare meglio i
mariti”. La moglie del professor Kondo, giapponese come lui, lo aveva seguito quando era andata a
completare i suoi studi in America, all’università dell’Ohio. Lì, anche lei si era laureata. Era stata la
prima donna, lei giapponese, a laurearsi in metallurgia in quell’università americana.
Tornata in Giappone dopo essersi laureata, la signora Kondo aveva lavorato. Pur nelle condizioni
non facilissime che affrontano tutti i lavoratori nel suo paese - orari lunghi, ritmi angoscianti,
coinvolgimento personale altissimo72 - aveva resistito a lavorare anche dopo la nascita del secondo
figlio. Purtroppo, con l’arrivo del terzo aveva dovuto desistere, e si era dedicata ai suoi bambini
mentre il marito faceva rapidamente carriera in un centro di ricerca nucleare.
Ho fatto un viaggio in Giappone nel 1985: per errore ero stata assegnata al programma delle mogli.
Ero l’unica donna nel gruppo dei tecnici e perciò avevano equivocato. I giapponesi si scusarono e la
cosa finì lì, ma le donne americane presenti - tutte mogli - ne furono così indignate che
continuarono a commentare per tutto il viaggio. Convinte che i giapponesi fossero retrogradi, e
forse era vero, ma senza rendersi conto che comunque anche loro non uscivano dagli stereotipi, in
particolare dal pregiudizio di credere di essere le uniche, in tutto il mondo, a non essere
discriminate.
Ho conosciuto la signora Kondo durante quel viaggio. Lei e il marito sono una coppia di persone
molto educate, molto minute, tipicamente orientali ma capaci di comunicare molto bene in inglese
grazie al periodo passato in America. Il professor Kondo è giovanile, brillante e loquace, anche se
difficilmente si lascia andare a confidenze, come del resto impone la sua cultura. La moglie,
silenziosissima, aveva un’aria seria e un po’ triste.
In contrasto con la sua abituale riservatezza, il Professor Kondo mi ha raccontato in seguito che la
moglie era reduce da un grave esaurimento nervoso. I figli grandi le lasciavano molto tempo libero
e lei rimpiangeva il suo lavoro, si sentiva inutile, perduta. Durante il periodo difficile della
depressione si era interessata di psicologia e aveva affrontato il problema delle donne come lei, che
dopo aver lasciato il lavoro si sentono inutili quando i figli non hanno più bisogno di loro. Nell’85
lavorava con un gruppo di assistenza alle donne con problemi simili ai suoi.
Ho incontrato la signora Kondo solo un’altra volta, dopo di allora. Ho incontrato invece suo marito
almeno una volta all’anno fino al 1992. Puntualmente alla cena del congresso il Professor Kondo,
cortese e sorridente, mi scattava una fotografia. La solita mania dei giapponesi? Forse. Ma anche,
come mi ha spiegato, una richiesta ben precisa da parte di sua moglie, che vuole ogni volta la prova
che io ci sono ancora. Che lavoro. Che non ho mollato. E ora che la stanchezza si fa sentire, e
spesso ho l’impressione di aver fatto tanto senza risultati e aver combattutto contro i mulini a vento,
mi torna in mente la signora Kondo, come tante altre che devono combattere contro culture più
difficili della nostra, e pensare a lei mi aiuta a superare la voglia di scappare, di nascondermi in casa
a ricamare, preparare crostate e a fare la donna.
Anche le donne arabe camminano dietro al marito, quando sono per strada. Negli anni `70, durante
un viaggio in Usbekistan, nella russia asiatica, notai con quanta cura era rispettata dalle donne
questa convenzione sociale, se erano di origine musulmana. Quasi che camminare davanti fosse
considerato un tabù. Qualcosa che si potevano permettere solo le odiose, per loro, donne `russe’
71
Benazir Buttho, Discorso tenuto alla Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne, Pechino, 15 Settembre 1995,
Manifestolibri 1995
72
"Non c'è vita in Giappone", mi aveva detto una volta un collega professore universitario, che recentemente ha dovuto
rinunciare a un congresso perchè si è ammalato per il superlavoro dopo una promozione

103
Sesso, amore e gerarchia

dell’occidente. Io ero vestita appunto come le russe e molti mi domandavano: - Rusky? - ma non lo
chiedevano con simpatia. In verità però anch’io, che pure non sono musulmana, cammino dietro
mio marito. Perchè dall’alto del suo metro e novanta e delle sue gambe lunghe mi costringe sempre
a correre se voglio tenere il passo, e a me correre non piace. Di solito lo supero solo quando sono
arrabbiata, e allora senza accorgermene accelero l’andatura. Ma lui certo non si scandalizza. Il
cammino degli uomini e delle donne dovrebbe essere un po’ così. Loro sono più veloci e muscolosi,
a volte si spazientiscono perchè devono aspettare. Ma trasformare una condizione naturale in una
regola fissa ha qualcosa di vagamente ridicolo e di inutilmente prevaricatorio. Ognuno dovrebbe
avere il diritto di camminare come gli pare e alla sua velocità, senza essere `spinto’ , quando non
vuole correre, ma neppure costretto a stare indietro a forza quando è in grado di permettersi un
buon passo. Se si ha voglia di parlare e di stare vicini si può sempre procedere assieme, in
condizioni di parità. Ma ho notato che in alcuni paesi arabi un uomo e una donna che si tengono
per mano sono guardati male.
Certo in Giappone le donne sono più libere. Per esempio, possono viaggiare da sole senza che
nessuno si scandalizzi. Si trovano facilmente coppie di giovani donne giapponesi in viaggio da sole
nei paesi arabi.Lo confesso, io questo coraggio non l’avrei avuto. Perchè se sei straniera ti
molestano un po’ tutti, come succedeva anche qui da noi negli anni `50. Non possono fare a meno
di toccarti il sedere, di sfiorarti le braccia, se sono nude, e di tentare di guardarti sotto le gonne
anche quando la faccenda richiede complicati esercizi ginnici. Ci provano anche quando sei con
tuo marito, figuriamoci senza. Per una donna, andare a visitare un paese arabo senza protezioni mi
pare francamente un gioco d’azzardo. Lo si può fare solo se si hanno molti soldi e si viaggia in
auto noleggiate per il periodo di permanenza, fornite di autista guardia del corpo. O se si è in
delegazioni di lavoro, altrimenti mi pare sconsigliabile.Di solito non mi dà fastidio che mio marito
sia sempre duecento metri avanti a me, quando camminiamo. Ma in Turchia e nei paesi arabi mi
viene istintivo aggrapparmi a lui, come a un’ancora di salvezza.
Benazir Bhutto è pakistana, il suo è un paese molto arretrato, dove molte donne sono analfabete e
vivono in condizioni di estrema povertà, però ha ottenuto una posizione di grande potere: è stata il
primo ministro (o la prima ministra?), capo del governo. Ha studiato in Inghilterra e in America, è
una donna moderna con idee avanzate che conosce le lingue ed è abituata fin dalla più tenerea età
ad avere a che fare con i potenti. E’ anche profondamente religiosa e legata alle tradizioni della sua
terra. E’ figlia di Zulfikar Ali Buttho, presidente del Pakistan eletto dal popolo e ucciso dal generale
Zia nel 1979, con l’appoggio degli americani, dopo una vicenda politica per molti aspetti simile a
quella, a noi più nota, del Cile di Salvador Allende.
Benazir, maggiore di quattro figli, due maschi e due femmine, ha seguito le orme del padre fin da
giovanissima, scegliendo a questo fine anche il corso di studi. Simile in questo a un certo numero di
donne del continente asiatico, la più nota delle quali è stata probabilmente Indira Gandhi.
Noi l’abbiamo conosciuta attraverso alcuni sui scritti: soprattutto un’autobiografia, “Figlia
dell’Est”73, pubblicata durante un periodo di forzato abbandono della scena politica attiva - già due
volte è stata eletta presidente, con intervalli durante i quali ha dovuto subire la prigione o l’esilio, e
assistere all’omicidio di suo padre - e due discorsi tenuti alle conferenze mondiali sulla donne, al
Cairo e a Pechino74.
Benazir è forte e determinata, ha sempre detto di voler usare il potere per migliorare le condizioni
del suo popolo, e sa bene che le donne sono una miniera di possibilità in questo campo, perchè
hanno la funzione educativa e di cura all’interno della famiglia. Ha anche ben presente
l’oppressione di cui soffrono donne e bambine nei paesi del terzo mondo: ha spesso denunciato
l’uso dell’infanticidio e dell’aborto selettivo. Per migliorare la condizione delle donne, indica gli
stessi rimedi già segnalati da Virginia Woolf: meno figli, indipendenza economica, più possibilità di
studiare.

73
Benazir Buttho, "Daugther of the East", Mandarin 1988
74
Benazir Buttho, G.H.Brundtland, "Il pianeta a misura di donna", Manifestolibri 1995

104
Sesso, amore e gerarchia

Avremmo voluto intervistare Benazir Bhutto, ma non è stato possibile, anche se l’ambasciata del
Pakistan di Roma ci ha risposto molto gentilmente e ci ha promesso il suo interessamento. In
seguito abbiamo capito che riuscire a comunicare con le donne importanti è ancora più difficile
che con gli uomini importanti, perchè occorre superare un doppio filtro, una forma rafforzata di
controllo e perchè suscitano, essendo meno numerose, molta maggiore curiosità. Anche le crescenti
difficoltà politiche cui la Bhutto è andata incontro possono aver giocato un ruolo nell’impossibilità
di raggiungerla. Da una sua recente foto sul `Corriere’ ci siamo rese conto che anche fisicamente
sta assomigliando sempre di più a una signora matura, a una mamma della sua nazione: un paese
turbolento la cui madre deve essere energica e non avere paura dei compromessi. Diversa dalla
ragazza giovane e sottile, quasi anoressica, che avevamo visto nelle foto di famiglia allegate alla
sua biografia. Quello che di lei ci è piaciuto di più è il suo amore per il suo popolo e per le
tradizioni e la religione dei suoi avi. Ora è stata destituita, in forme e modi che fanno pensare di
più ad un tentativo di difenderla da parte di fedeli alleati che a una vera volontà di estromissione.
Senza dubbio il potere può aver fatto macchie anche su di lei, ma è certo che se la sostituiranno
persone abituate ad abusare di questo potere molto più di quanto non prevedessero i suoi metodi,
in virtù di interpretazioni capziose e di parte dei testi religiosi, che autorizzano il saccheggio
sistematico dei più deboli, e dunque anche delle donne senza difesa sociale, la corruzione non potrà
che aumentare.
Non possiamo però pensare di giudicarla: non abbiamo abbastanza conoscenza dell’ambiente in
cui si muoveva in questi ultimi anni. Le abbiamo fatta un’intervista immaginaria, ma è l’intervista
che avremmo fatto alla Benazir che non aveva ancora raggiunto il potere. Le risposte sono
citazioni dai suoi scritti.
Lei afferma che non è la religione, ma il modo in cui gli uomini la utilizzano, a causare il
trattamento delle donne come “esseri umani di seconda classe” nel mondo musulmano. Può dirci
da dove deriva questa sua convinzione?
Come prima donna mai eletta alla guida di una nazione islamica, sento una speciale
responsabilità verso tutte. E come donna musulmana, sento la speciale responsabilità di
contrastare la propaganda di quanti affermano che l’Islam assegna alle donne uno status di
seconda classe. Non è vero. Oggi il mondo musulmano conta tre donne primo ministro, elette
da uomini e donne per la loro capacità come persone, non come donne. La nostra elezione ha
distrutto il mito, costruito su tabù sociali, che il posto delle donne è la casa, e che lavorare sia
vergognoso o disonorevole o socialmente inaccettabile per una musulmana. La nostra elezione
ha dato alle donne di tutto il mondo musulmano la forza morale per dichiarare che è
socialmente corretto per una donna lavorare e seguire la propria strada di lavoratrice e
madre.
Noi donne musulmane abbiamo una responsabilità particolare nell’aiutare a distinguere tra
l’insegnamento dell’Islam e i tabù sociali prodotti dalla tradizione e dalle società patriarcale.
Questa è una distinzione che gli oscurantisti non vorrebbero veder fatta. Perchè gli
oscurantisti credono nella discriminazione. La discriminazione è il primo passo verso la
dittatura e l’usurpazione del potere.75
Le nostre lavoratrici affermano il principio islamico per cui tutti gli individui sono uguali agli occhi
del Signore. Con l’emancipazione delle nostre donne, noi lavoriamo per promuovere la dignità
umana. L’Islam è una religione dinamica impegnata nel progresso dll’umanità. Esso non pone
richieste ingiuste ai suoi seguaci. Il sacro Corano dice: “Allah vuole liberarvi, e non vuole che
subiate privazioni”76
Nelle mia famiglia non c’era dubbio che mia sorella ed io avremmo avuto nella vita le stesse
opportunità dei miei fratelli. Come non ce n’è nell’Islam. Abbiamo appreso da piccoli che era
l’interpretazione degli uomini che diminuiva le opportunità delle donne nella nostra religione, non
la religione stessa. L’Islam infatti era alquanto progressista nei confronti delle donne a partire dalla
75
Discorso di Pechino, pag.28
76
Discorso di Pechino, pag.23

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Sesso, amore e gerarchia

sua origine: il profeta Maometto aveva proibito di uccidere i neonati femmina (pratica comune tra
gli Arabi ai suoi tempi) e sancito il diritto delle donne allo studio e la loro possibilità di ereditare,
molto tempo prima che questi privilegi venissero loro garantiti nell’Ovest.77
E’ vero che in Europa le donne non ereditavano fino a pochi decenni fa. Mentre il diritto all’eredità
era riconosciuto loro niente meno che nell’antico Egitto!78 E’come se la condizione femminile, nel
corso dei secoli, fosse rimasta ferma, o comunque cambiata in modo molto più irrilevante di quanto
i mutamenti sociali avrebbero potuto permettere. Del resto gli uomini cristiani hanno un
atteggiamento simile, in molti aspetti, a quello dei musulmani, nel rapporto con le donne. Avviene
tutte le volte che ritengono la religione ‘cosa loro’ e fissano l’immagine femminile in stereotipi
molto comodi, da quello della madre vergine a quello della Maddalena, che era una donna libera ma
in seguito è stata confusa con una prostituta. Non lapidano più le adultere, questo è vero, o almeno
non lo fanno con le pietre: si limitano a usare altri metodi,a volte più raffinati. Amano molto fare
classifiche tra donne di serie A e di serie B, una cosa che certo Cristo non era abituato a fare. Le
donne di serie A sono in genere le loro mamme, quando non hanno con loro conti in sospeso, talora
le mogli, molto più raramente. In serie B vengono messe le donne ‘degli altri’ , considerate
comunque ‘terreno di pascolo’, forse in ricordo del comune passato contadino della nostra specie, e
naturalmente, in quanto donne degli altri disprezzate come non appartenenti al proprio clan tribale.
Nelle strutture profonde, infatti, gli uomini sono molto simili, indipendentemente dalla loro
religione d’appartenza. Sotto qualsiasi cielo, non trovano molto sopportabile la libertà femminile,
neppure quando si dichiarano, come è possibile nelle civiltà occidentali, ‘vecchi liberali’.
Anche i ‘vecchi liberali’ in fondo pensano che ciò che è lecito per loro, per una donna non lo è.
Anche quando la donna non lede in alcun modo le libertà altrui, anzi le rispetta, e mette apertamente
le carte in tavola, troverà sempre qualcuno che cambia il mazzo di carte, usandone uno truccato.
Non vogliamo con questo sostenere che tutte le donne sono uguali: anche tra di loro esistono diversi
criteri di diversità e valore, ma purtroppo questi ultimi sono troppo spesso alterati dai criteri di
selezione maschile e dalla subalternità femminile. Per questo ci è parso che Benazir Bhutto, pur
avendo ragione, deve essersi sentita spesso in condizioni di prigionia, e nell’impossibilità di fare ciò
che riteneva giusto perchè le condizioni politiche internazionali e del suo paese non lo
permettevano.
La sua famiglia era una famiglia di importanti proprietari terrieri. Come è cambiata la vita delle
donne nel corso delle ultime generazioni? Come ha potuto la sua vita essere ugualmente legata alla
tradizione?
Quando ho cominciato a occuparmi degli affari di famiglia in campagna, era rimasto poco
spazio nella mia vita per la tradizione. In qualche modo avevo superato il mio genere. Tutti
sapevano quali circostanze mi avevano forzato fuori dalle vie prestabilite delle famiglie di
proprietari terrieri, dove le giovani donne sono tenute d’occhio gelosamente e hanno
raramente, se mai lo hanno, il permesso di lasciare la casa senza la compagnia di un parente
maschio. La nostra tradizione sostiene che le donne sono l’onore della famiglia. Per
salvaguardare il loro onore, e loro stesse, una famiglia tiene le sue donne all’interno del
purdah, dietro le quattro pareti e coperte dal velo.
Le mie quattro zie, figlie del primo matrimonio di mio nonno, erano parte di questa
tradizione. Non essendoci primi o secondi cugini della famiglia Bhutto disponibili per il
matrimonio, erano state consacrate ad una vita di purdah dietro le pareti a mosaico a
Hyderabad. Godevano di grande considerazione all’interno della famiglia perchè tutti
sapevano come mai non si erano sposate. E sembravano sempre molto allegre, non avendo
mai conosciuto altro tipo di vita. “Non hanno rughe di ansietà in viso” diceva spesso mia
madre stupita quando tornava dall’aver fatto loro visita.
A me sembrava una vita di noia, ma le mie zie sembravano abbastanza felici. Avevano
imparato abbastanza l’arabo per leggere il Corano, davano ordini in cucina, preparavano
77
Benazir Bhutto, "Daughter of the East", pag.34
78
Chiedere a Alberto Elli un riferimento su questo punto

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Sesso, amore e gerarchia

deliziose conserve di carote e dolciumi, cucivano e lavoravano a maglia. Per fare movimento
passeggiavano nel giardino interno. Ogni tanto il mercante di stoffe lasciava senza farsi notare
involti di tessuti nuovi perchè loro li prendessero e ne scegliessero qualcuno. Erano la vecchia
generazione. Io ero la generazione nuova.79
Non si capisce perchè, in Pakistan come altrove, le donne debbano essere considerate l’onore della
famiglia. Per un uomo, è forse più onorevole uccidere, o rubare, che essere tradito dalla moglie? E
perchè? Quando poi lui si permette anche questo, dato che considera lecito razziare i pascoli
altrui, e nei paesi arabi può permettersi anche di avere più mogli e concubine senza che nessuno
abbia nulla da eccepire? L’abitudine di considerare le donne l’onore dell’uomo cela al suo fondo il
rifiuto della responsabilità. Io posso fare qualsiasi cosa voglia, - dice l’uomo - tanto il metro di
misura con cui vengo valutato non sono le mie azioni, ma il comportamento di mia moglie. E’
l’eterna, infantile, delega alla mamma delle proprie responsabilità, sotto le false vesti di una
moglie, che dovrebbe pretendere una molto maggiore parità. Se lei se ne sta chiusa in casa, come
una sepolta viva - e si può ben capire che in condizioni di intollerabile schiavitù non appena
potesse uscire cercherebbe quanto meno di scappare - posso, pensano forse alcuni uomini,
aggiungere una piuma di galletto o di pavone, sul mio cappello e tra gli ornamenti dei miei abiti.
Del resto, il trono dello scià di Persia non era anche soprannominato ‘Trono del pavone’? Nella
città di Istambul, a Topkapi, in Turchia, si può vedere di quali meravigliosi ornamenti si
fregiassero i sultani nei secoli scorsi. Le piume di pavone erano molto ben rappresentate. Di solito,
le mettevano sui copricapi, ma anche sulle cinture e sui simboli del potere e dell’autorità. Meglio le
piume dei mitra, si potrà facilmente obiettare. Purtroppo però gli uomini passano facilmente da
una cosa all’altra, e non solo nella fantasia. Ma sfido chiunque a mettere una piuma su un mitra,
invece che su una scimitarra. Il salto indietro nei secoli sarebbe subito troppo stridente.
I cari fratelli arabi sono un po’ più bellicosi degli altri, - non dimentichiamo che hanno una
religione guerriera - ma per fortuna hanno trovato sulla loro strada donne che possono fargli
capire che i secoli passano anche sui loro spesso desertici territori. Da qualche parte, come nei
pressi di Ankara, i turchi, che sono un avamposto evoluto e civile di questo mondo che a noi può
sembrare lontano, hanno persino dato il via a dei tentativi di rimboschimento: se li porteranno
avanti con coerenza le loro terre forse torneranno ad essere quelle fertili terre ricche di frutti di cui
si parla nelle Mille e una notte. Ma nessuno può dire che cosa ci riserverà il futuro. Il vecchio detto
di Tacito: - hanno fatto un deserto e lo hannno chiamato pace - riferito nel suo caso ai romani,
potrebbe non essere del tutto inattuale, e non solo per loro.
Le donne musulmane sono spesso velate. Quale è la sua esperienza per quanto riguarda il vestito,
visto che lei è stata in America da giovane e si è abituata ad usare i blue jeans come noi
occidentali?
Quando ero bambina, le donne della mia famiglia estesa si coprivano con il burqa, il velo che
copre dalla testa ai piedi, quando si facevano visita in occasione di matrimoni o funerali - le
sole due occasioni in cui potevano uscire di casa80
Quando mia madre mi coprì con il burqa la prima volta, eravamo sul treno che andava da
Karachi a Larkana81. “Non sei più una bambina” mi disse con una punta di rimpianto.
Mentre compiva questo antico rito di passaggio tipico per le figlie delle vecchie famiglie di
proprietari terrieri, io passavo dall’infanzia al mondo degli adulti. Ma che mondo deludente
sembrava. Il colore del cielo, l’erba, i fiori erano scomparsi, cambiati e grigi. Tutto era reso
confuso dal tessuto davanti ai miei occhi. Mentre scendevo dal treno, il tessuto che mi copriva
dalla testa ai piedi mi rendeva difficili i movimenti. Non essendo possibile il passaggio di un
alito di brezza, il sudore cominciò a scorrermi sulla faccia.
“Pinkie ha indossato il Burqa per la prima volta oggi” disse mia madre a mio padre quando
arrivammo a Al-Murtaza. Ci fu un lungo silenzio. “Non occorre cho lo indossi” disse mio

79
"Daughter of the east", pag.161
80
Discorso di Pechino, pag.34-35
81
La casa di campagna della famiglia Buttho

107
Sesso, amore e gerarchia

padre. “il Profeta ha detto che il velo migliore è il velo che sta dietro agli occhi. Lasciamo che
sia giudicata per il suo carattere e la sua mente, non per il suo vestito. Così sono diventata la
prima donna della famiglia Bhutto ad essere liberata da una vita immersa nel crepuscolo82.
Ancora una volta mi preme far notare l’importanza dell’aiuto del padre. Se Benazir non avesse
avuto il suo appoggio, non avrebbe certo osato da sola ribellarsi alla madre, che amava, e alle
usanze di una cultura e di una religione in cui credeva profondamente. Occorre che qualcuno creda
in noi, occorre non essere lasciate sole ad affrontare i cambiamenti, anche quelli ovvi, anche quelli
in cui crediamo. Da qui, l’importanza della comprensione, ma anche delle leggi, della solidarietà fra
donne e dell’aiuto di chi è più grande di noi.
Cristina Bartolomei, nella sua conferenza che ho già citato, ha detto che il velo ha anche un
significato simbolico: in greco, la verità si chiama a-leteia, mancanza di velo. La donna viene velata
per tenere nascosta la sua verità. Perciò il ritorno dell’attenzione anche eccessiva all’uso del velo da
parte di alcune culture. Perciò è anche importante non considerarlo solo un fatto secondario.
Dipende. Il burqa è davvero qualcosa di molto simile a un sudario. Lì dentro le donne sembrano
delle sepolte vive. Invece il velo che copre solo la testa, o che copre il viso lasciando liberi gli
occhi, ma all’occorrenza si può abbassare per poter parlare con comodo, probabilmente in origine
aveva una funzione pratica importante, un po’ come i copricapi arabi degli uomini. In posti dove il
caldo è torrido proteggere bene il viso è un modo pratico per ripararsi con efficacia da un sole
implacabile. Ho imparato a metterlo e devo dire che quando picchiano i raggi è un riparo molto
comodo. Il significato di imposizione credo sia venuto dopo. Qando la Tv ha diffuso la conoscenza
dei costumi occidentali anche in medio oriente, nel modo deformato che in genere avviene con
questo mezzo, può darsi che gli arabi, spaventati dalla maggiore libertà femminile legata al
benessere occidentale abbiano fatto pressioni sulle donne collegando l’assenza del velo con quello
che a loro sembrava un grado di libertà intollerabile, perchè preclusa persino a loro stessi. Ma in
genere il modo di abbigliarsi è legato più a motivi di comodità e di tradizione e a fattori climatici e
ambientali che ad altro. Ciò che conta per le donne, lì come altrove, è di poter studiare e lavorare,
di poter avere gli stessi diritti (di doveri si sa alle donne ne sono sempre stati attribuiti di più). Il
velo diventa allora una specie di sistema segnaletico, un modo per tranquillizzare gli uomini e per
indicare che si è delle ‘brave musulmane’. Non vale la pena impuntarsi sulle forme quando ci sono
cose più importanti da conquistare. Credo che molte donne musulmane la pensino così, anche se la
violenza esercitata su di loro dagli uomini è più forte che nelle nostre società.
Però l’abito non è solo il velo delle donne. Abbiamo già parlato del fatto che gli esseri umani, e in
questo senso forse gli uomini più che le donne, amano le divise. Virginia Woolf, ne “Le tre ghinee”,
ne fa una descrizione spassosissima e molto veritiera. A volte mi chiedo se la necessità, per i
dirigenti d’azienda, di indossare giacca e cravatta in ufficio non sia alla fine una specie di simbolo,
di divisa (al di là della banale definizione della cravatta come simbolo fallico). In questo senso le
donne possono trasgredire di più, anche se forse una divisa potrebbe aiutarle. Una volta, ad una
riunione che ritenevo importante, mi ero messa una gonna invece dei soliti jeans e mi ero
lievemente truccata gli occhi. Per tutto il tempo, il mio collega seduto di fronte a me mi aveva
fissato insistentemente. Mi ero convinta che dovevo avere una macchia sulla camicetta, e mi ero
sentita a disagio. Alla fine della riunione, il collega era venuto da me e mi aveva detto: “Stai bene,
così vestita”. Ecco la ragione per cui mi fissava. E forse, era stato un errore da parte mia cambiare
look. Non tanto perchè non sia lecito e anche una buona cosa, ma perchè per alcuni uomini è un
problema, li distrae.
Può darsi che sia solo un problema di distrazione, ma ti assicuro che, nei paesi arabi, blindarsi nei
vestiti può essere un modo di difendersi dall’aggressività maschile, un modo per passare il più
possibile inosservate, nella speranza di non essere infastidite. Il velo può essere anche l’unica
forma di civetteria che le donne si concedono, ce ne sono di molto belli in seta colorata. Dove
sembra diventare una tortura o una forma di abuso interiorizzata è nei casi estremi: come appunto
il burqa o l’abito nero che copre tutto il corpo e il viso dando un’aria lugubre e un po’ iettatoria
82
"Daugther of the east", pag.36-37

108
Sesso, amore e gerarchia

alle donne che lo indossano. Tanto più che il nero è un colore che attira il caldo e anche i raggi
ultravioletti, , e dunque in posti dove si raggiungono i quaranta e cinquanta gradi è davvero
qualcosa di antiigienico e antifunzionale, prova ne sia che gli uomini si vestono di bianco.
Nel caso della veste nera, la drammatica segnalazione che si riceve è che le donne sono così prive
della possibilità di possedere il proprio stesso corpo, sono a tal punto ‘corpo degli uomini’ da
essere costrette in un’usanza che le rende handicappate, e che sicuramente è anche nociva per la
salute. In genere sono le donne degli strati più poveri della società ad usarlo, e anche questo è
indicativo. E’ come una divisa, che segnala l’adesione al fondamentalismo.83
Però una `divisa’ di qualche tipo esiste anche da noi, sebbene per fortuna non la si usi per segnalare
schieramenti politico - religiosi. Ad esempio, il famoso tailleurino blu delle impiegate Fininvest, o
quelli color pastello di Irene Pivetti. Non è che mi piacciano, ma forse sono funzionali. Può darsi
anche che nei periodi storici in cui l’insicurezza aumenta, si cerchino sicurezze anche nel modo di
vestire. E’ un modo per sancire la propria appartenenza a un gruppo o a uno schieramento. Invece,
le donne indiane hanno il sari, che oltre ad essere un abito bellissimo e seducente non sembra in
alcun modo una forma di negazione della loro bellezza. Anzi la valorizza, sebbene a scapito della
comodità. Ricordano tutte la bella Sheherazade, impareggiabile nei suoi racconti incantati, dai
quali soli dipendeva la sua vita. Se avesse smesso, infatti, il despota suo marito le avrebbe tagliato
la testa. Anche il termine parabola, del resto, deriva da paraballum, ovvero racconto da dare in
pasto alle folle inferocite per placarle.
Sentiamo però cosa ne pensa Benazir, che descrive le sue sensazioni durante un importante incontro
tra suo padre e Indira Gandhi, il 28 giugno 1972:
Ero molto nervosa anche perchè indossavo un sari che mia madre mi aveva prestato. Anche se
mi aveva insegnato come avvolgere in modo sicuro i metri di stoffa intorno al mio corpo, ero
nervosa pensando che si potesse svolgere all’improvviso. Mi tornava in mente continuamente
la storia del sari di mia zia Mumtaz in un supermercato in Germania. L’estremità della stoffa
era rimasto impigliato in una scala mobile e il suo sari si era svolto finchè qualcuno non aveva
alla fine fermato la scala. Questo ricordo non mi era d’aiuto. E la Signora Gandhi continuava
a guardarmi.84
Eppure anche nel Pakistan rurale, dove le donne sono trattate dagli uomini come proprietà, lei è
riuscita a guadagnarsi la fiducia di molti. Forse perchè gli uomini della sua famiglia erano lontani,
suo padre era morto. Quali episodi ricorda, come reagiva la sua educazione occidentale a contatto
con un mondo così diverso?
Mi sono trovata inserita in tradizioni orientali che non mi erano familiari. Dato che ero la sola
rappresentante della famiglia Buttho, venni improvvisamente considerata l’”anziana” dai
contadini locali che cominciarono a riunirsi nel cortile di una fattoria per chiedermi di
risolvere i loro problemi85. Nonostante io non fossi affatto il capo della famiglia Buttho, la
gente insisteva comunque a venire... Una mattina, un vecchietto senza denti si rivolse a me che
sedevo su un letto di corda nella mia funzione di giudice: “Suo cugino ha ucciso mio figlio
quaranta anni fa. Il giudizio del tuo prozio è stato che avrei avuto in moglie la prima figlia
nata nella sua famiglia, se ce ne fosse stata una. Ed eccola qua. Guardala! Ma lui non vuole
darmela”. Io guardai la ragazzina di otto anni che si nascondeva dietro suo padre. Il padre
ribattè: “Non ha detto una parola quando è nata mia figlia. Ho pensato che avesse perdonato
il delitto commesso tanti anni fa. Se avessi saputo che l’avrebbe pretesa, avrei cresciuto mia
figlia insegnandole che non era nostra e un giorno avrei dovuto dargliela. Adesso noi stiamo
combinando un matrimonio con un’altra famiglia che la desidera. Abbiamo dato la nostra
parola. Come potremmo rompere la promessa?”

83
Tutto questo mi ricorda anche i vestiti rigorosamente neri di certe donne del sud. Proprio nelle zone più calde d'Italia,
usava e forse usa ancora questotipo di abbigliamento. Cosa vi fa pensare?
84
"Daughter of the east", pag. 63
85
C’era una tradizione per cui i proprietari terrieri agivano come giudici di pace

109
Sesso, amore e gerarchia

Rabbrividii pensando alla povera ragazzina contesa. Il destino delle donne nelle aree rurali
non era felice. Poche di loro avevano la possibilità di una scelta in tutta la loro vita, nè veniva
loro mai chiesto cosa volessero. “Non avrai la bambina, dissi al vecchio, ma una mucca e
duemila rupie in cambio. Questo è il mio giudizio. Avresti dovuto chiederla prima che fosse
promessa ad un altro.” Una mucca al posto di una bambina. Non era certo un’equazione da
discutere con il movimento femminista all’Università di Radcliffe862.. Ma eravamo in
Pakistan. E il vecchietto era furioso, e se ne andò brontolando a gran voce.
Il giorno dopo, il mio giudizio si rivelò un disastro. “Mia moglie è stata rapita!” mi gridò un
uomo. Il suocero aggiunse: “Il cielo ci è caduto sulla testa. I miei nipoti non fanno che
piangere cercando la loro mamma. Devi aiutarci a riaverla”
“Di chi sospettate?, chiesi, preoccupata per la donna. Quando me lo dissero, inviai un mio
emissario a negoziare con gli anziani di quel villaggio. La giovane donna fu restituita. Ed era
furiosa. “Non voglio vivere con mio marito. Amo un altro.” mi fece sapere. “E’ la terza volta
che scappo e vengo riportata indietro. Pensavo che essendo una donna almeno tu mi avresti
capito e saresti stata solidale”.
Ero sconvolta. Solo io non sapevo che il solo modo che aveva una donna di lasciare il marito
nelle zone sottoposte ai duri codici tribali di comportamento, era quello di “essere rapita?”.
Una moglie infelice non aveva altre possibilità. Più tardi ho saputo che la povera giovane
moglie non è mai più riuscita a fuggire87.
Da questi suoi racconti emergono molte informazioni sulla condizione della donna, ma anche sul
matrimonio. Ci sono ancora molti matrimoni combinati, in Pakistan? E quale è la sua esperienza
personale?
Per molti abitanti dell’Est un matrimonio combinato è la norma e non un’eccezione88 Un
matrimonio di questo tipo era stato combinato tra mio padre e sua cugina Amir quando lui aveva
dodici anni e lei otto o nove di più. Lui si era rifiutato, fino a quando mio nonno l’aveva convinto
offrendogli un completo da cricket comprato in Inghilterra. Dopo il matrimonio, lui era tornato a
scuola, e lei a vivere con la sua famiglia. Da allora, mio padre rimase con l’impressione che i
matrimoni combinati fossero ingiusti, soprattutto nei riguardi delle donne. Una generazione più
tardi, mia sorella Sanam è stata la prima donna della famiglia Buttho che ha deciso seguendo le sue
inclinazioni.89
I miei genitori si sposarono per amore, (nel 1951) e io sono cresciuta con la convinzione che un
giorno mi sarei innamorata e avrei sposato un uomo scelto da me. Comunque, già da quando ero in
college erano pervenute ai miei richieste riguardanti i miei piani per il matrimonio e la mia
disponibilità.90
Dopo il colpo di stato e la morte di suo padre, per lungo tempo lei non ha pensato al matrimonio. Ma ha
continuato a ricevere proposte, e sua madre e sua zia hanno trovato un pretendente di loro gusto, Asif
Zardari.
Nel passato, la mia tattica con altre proposte era stata quella di far durare il processo così a lungo
che il pretendente o perdeva interesse o pensava che non fossi interessata io. Ma gli Zardari non si
arresero91
...Mi sentivo incapace di decidere. Sapevo che i miei amici dell’Ovest avrebbero difficilmente capito
le particolari circostanze culturali e politiche che mi spingevano a un matrimonio combinato. Il
movimento femminista nell’Ovest era comunque molto differente che da noi all’Est, dove gli
obblighi familiari e religiosi restavano centrali. E poi c’era l’aspetto personale della questione. Nella
mia posizione di leader del più grande partito dell’opposizione in Pakistan, non potevo rischiare lo

86
Dove Benazir ha studiato negli anni settanta
87
"Daughter of the East, pp.161-163
88
"Daughter of the East", pag.350
89
"Daughter of the East", pag. 31
90
"Daughter of the east", pag. 350
91
"Daughter of the East", pag.354

110
Sesso, amore e gerarchia

scandalo di rompere un fidanzamento o anche di divorziare, tranne che in circostanze estreme. Mi


si stava chiedendo di decidere se passare il resto della mia vita con un uomo che avevo incontrato
tre volte, e sempre in presenza di qualcuno della mia o della sua famiglia... Ma il destino si presentò
sotto forma di un’ape. Il quarto giorno della visita degli Zardari (a Londra) portai la mia nipotina
Fathi al parco di Windsor mentre Asif andava ad una partita di polo. Un’ape mi punse su una
mano. All’ora di cena, la mia mano era molto gonfia. “Ti porto all’ospedale” mi disse Asif appena
arrivato a casa nostra. Ignorò le mie protesta, chiamò una macchina, si occupò del dottore, comprò
la medicina una volta prescritta. “Per una volta non tocca a me provvedere” pensavo,”Per una volta
sono quella di cui qualcuno si prende cura”. Era una sensazione a cui non ero abituata, e molto
piacevole92. Sette giorni dopo il mio primo incontro con Asif, eravamo fidanzati93.
Quali sono stati secondo lei i vantaggi del suo matrimonio iniziato in questo modo?
Non ci amavamo ancora, anche se mia madre mi assicurava che l’amore sarebbe venuto più tardi.
Però al posto dell’amore c’era un reciproco affidarsi sul piano intellettuale, la consapevolezza che ci
accettavamo l’un l’altro come marito e moglie totalmente e per sempre. In un certo modo,
realizzavo che il nostro legame era più forte dell’amore. Benchè io non fossi - e non sono - una
fautrice dei matrimoni combinati, realizzavo che c’era qualcosa di particolare in una relazione
basata sull’accettazione. Ci avvicinavamo al matrimonio senza preconcetti, senza aspettative l’uno
verso l’altro se non la buona volontà e il rispetto. Nei matrimoni d’amore, mi immagino, le
aspettative sono così elevate che sono destinate ad essere in qualche modo deluse. ci deve essere
anche la paura che l’amore possa finire, e che il matrimonio muoia con lui. Il nostro amore poteva
solo crescere.
Benazir Bhutto è sotto molti aspetti una donna eccezionale, e ha avuto molti mezzi per realizzare le sue
aspirazioni. Appartenendo ad una famiglia molto ricca, in un paese povero, ha potuto permettersi una
libertà che neppure molte donne occidentali hanno. Non è libera, tuttavia, nelle sue scelte politiche. Si
può capire dall’intervista cosa in cuor suo pensasse dei talebani e dei costumi che tentano di introdurre
in Afganistan. Eppure non ha potuto fare niente, niente di importante, dato che il suo paese li appoggia.
Come non ha potuto fare nulla per evitare l’assassinio di entrambi i fratelli, nè ha potuto evitare il
carcere al marito, accusato di corruzione. E’ la donna più affascinante del mondo, sotto certi aspetti,
proprio per il cumulo di contraddizioni che conserva su di sè e per l’equilibrio, l’abilità e l’innato senso
di grande umanità che ha mostrato nell’affrontare molti problemi. Ma le altre donne, quelle che non
hanno altra ricchezza che i propri figli, non possono certo comportarsi come lei .Nè avrebbe senso che lo
facessero. Fanno bene a ribellarsi, quando subiscono delle ingiustizie. Anche se la loro ribellione verrà
fatta pagare carissima dallo strapotere del dominio maschile.
Ho visto di recente a Locarno un bel film, di una regista magrebina che vive a Parigi, Nadia Fares. E’
intitolato ‘Miele e cenere’ E’ la storia di una giovane donna, Leila, costretta a fuggire dal suo paese
perchè ha dato scandalo frequentando liberamente un giovane di cui si era invaghita, promesso dalla sua
famiglia ad un’altra.
La ritroveremo all’università, intenta a studiare nascosta dai consueti abiti della tradizione locale. Qui
Leila ha la sfortuna di suscitare l’interesse di un compagno di studi. Gli amici lo mettono sull’avviso: la
sua amata Leila, così seria e studiosa, per mantenersi agli studi fa la prostituta, sotto altro nome. Offeso,
il giovane si recherà a trovarla, e cercherà di violentarla. Lei lo ucciderà. La storia di Leila si intreccia
con quella di altre due donne, Naima ed Amina. Naima ha sposato un docente universitario, ha già una
figlia con lui, ma vuole seguire la carriera universitaria e abortisce. Il marito, che pure era stato
consenziente, a questo punto la picchia a sangue, perchè, le dice, - se tu mi avessi amato avresti accettato
anche l’altro figlio. -
Chissà se amava davvero la moglie o se la voleva solo sottomettere. Amina invece è una donna di
quarantacinque anni, fa il medico, ha una figlia che alleva da sola ed è la figura più realizzata e positiva
del gruppo.

92
"Daughter of the East", pag.357
93
"Daughter of the east", pag.358

111
Sesso, amore e gerarchia

Che le donne arabe non siano quelle oasi di pace e mansuetudine immaginate talora dagli uomini
occidentali in cerca di fantasmi di arretratezza, lo dimostra anche il libro di Tehmina Durrani, “Schiava
di mio marito”. Un importante uomo politico pakistano a sua volta schiavo di logiche un po’ troppo
tribali. Mustafa Khar, questo è il suo nome, è un uomo violento, possessivo e patologicamente geloso. La
picchia, la umilia, la segrega, cerca di distruggerne la forza, fino a quando, esasperata, lei non si
ribellerà. Il suo libro autobiografico ha suscitato uno scandalo esplosivo. Il marito, quando seppe che
sarebbe stato pubblicato in tutto il mondo, la fece chiamare. Le chiese, finalmente un po’ sulle difensive :
- Cos’è questa scemata del libro? - Lei gli ricordò di una volta in cui la aveva invitata a pranzo e le aveva
detto: - Come mia ex moglie, ora non sei più nessuno. Rispose: - bene, Mustafa, tra poco il mondo ti
conoscerà solo come l’ex marito di Tehmina Durrani.
Eppure, nonostante tutto, e a dispetto della legittima vendicatività della moglie, il leone del Punjab, come
il marito era chiamato, emerge egualmente come una figura affascinante, più vittima che carnefice,
perchè prigioniero di una tradizione e di una educazione primitive e selvatiche.
Le lacrime della moglie, che gli ha ricordato i versi del poeta Ghalib: - i tuoi scherni divorano la mia
identità, nessuno parla di me con tanta insolenza, - gli sono cadute addosso, e non gli hanno fatto poi così
male.
Tuttavia io non posso fare a meno di paragonare il libro di Tehmina Durrani all’autobiografia di Benazir
Bhutto, e di pensare che il primo è una raccolta di pettegolezzi - ancora una volta, un libro scritto da una
donna, - mentre il secondo mi sembra molto più reale, più vero, e poco influenzato dalle volontà di
vendetta e dai risentimento. Forse è perchè Benazir ha studiato in Inghilterra e in America, che mi sembra
una donna moderna, una di noi?
In tutto il mondo, più ancora dei costumi, conta la ricchezza. Dove essa è maggiore, in genere le donne
sono più libere. Ma si tratta comunque di una libertà vigilata, e in questo l’occidente non differisce poi
così tanto dall’oriente. Nè si può affermare che è colpa delle religioni monoteiste. In Cina, Indonesia e
dove ci sono civiltà buddiste e induiste, la condizione femminile non è migliore che altrove.
Conta molto, forse troppo, anche l’aiuto degli uomini, i padri prima di tutto, i mariti, gli insegnanti e i
maestri. Una delle persone che più ammiro tra coloro che hanno scelto il mestiere di insegnare è
Monsignor Pierangelo Sequeri, professore alla facoltà di teologia dell’Italia settentrionale. Ricordo una
sua conferenza in cui parlò della `società maternale’. E anche un suo libro, dal titolo “ Divertimenti per
Dio”, a proposito di Mozart, perchè Don Sequeri è anche un raffinato musicologo e compositore di
musiche sacre.
Nel “Flauto magico” di Mozart è descritta una società, più che maternale, matriarcale. Ci sono riti di
iniziazione e un conflitto con la società patriarcale. Nel primo atto Sarastro, con il suo seguito di maghi,
schiavi e stregoni, rappresenta l’universo maschile. La regina della Notte è al centro di una struttura di
donne perfettamente simmetrica, con le sue guerriere, schiave e streghe. Sono due società in cui
predomina l’elemento maschile, che è organizzazione, regolamenti, ma anche conflitti. In un caso
applicato agli uomini, nell’altro alle donne. Ma la simmetria è sempre rispettata, nessuno si sogna di
alterarla. O di pensare che possano esistere anche logiche `asimmetriche’.
Al centro della contesa sta la figlia della Regina della Notte, Pamina: Tamino può averla solo superando
una serie di prove. La regina archittetta un inganno: promette che se Sarastro, che ha rapito Pamina,
gliela restituirà, lei le concederà di sposare lamato Tamino. Ma è chiaro che invece vuole tenersela.
L’elemento femminile rappresenta in questo caso la coazione a ripetere, a tenere a casa, mentre
l’elemento maschile strappa le femmine in modo predatorio. Nel conflitto le parti si scambiano a
chiasma: all’inizio la regina è dichiaratamente buona mentre Sarastro è cattivo. Nella seconda parte la
regina della notte si trasforma e diventa una presenza inquietante. Il carattere esplicito di questa
dialettica non è in Mozart così evidente: l’autore del libretto non lo ha scritto certo con questo intento.
Siamo noi a dare una lettura più esplicita ai simboli.
Invece nella società maternale, secondo Don Sequeri, le caratteristiche femminili sono esasperate e
alterate in funzione maschile. Non ci si pongono interrogativi come quali rischi assumersi, che cosa
esplorare, perchè è una società che comprime dentro il grembo materno qualsiasi processo di iniziazione.
Non si diventa adulti, o meglio non esistono riti di passaggio all’età adulta. Nella società paternale invece,

112
Sesso, amore e gerarchia

che esaspera le qualità maschili, c’è la volontà di iniziare a passaggi difficili, che producono una certa
ferita. In quella maternale c’è la protezione, il tentativo di ritardare il passaggio. Il tempo non si svolge,
non ci sono gravi ferite perchè non si corrono rischi. E’ la società dell’eterna poppata, del nutrimento
gratis per tutti, dove la distribuzione comanda sulla produzione e dove il grembo comanda e allontana ciò
che introduce iniziativa. Le qualità maschili nell’essere umano consentono di portare il dolore, di
innovare, di resistere in virtù di qualcuno che si ama, e la capacità di gestire i conflitti. Se invece c’è una
mamma, una comunità, un’azienda che pensano a tutto si diventa incapaci di sopportare la sconfitta, la
malattia e il dolore e si diventa per converso al minimo intoppo dei prevaricatori senza limiti. Nella
società maternale ognuno fa i suoi comodi, tanto c’è la mamma che pensa a tutto. Mentre invece
occorrerebbe combattere contro l’accudimento e il pacifismo a oltranza, contro il solidarismo a buon
mercato (non contro la vera solidarietà). Bisognerebbe dire di no alle poppate gratis, oltre un certo limite,
oltre il limite fisiologico dell’infanzia, le poppate si dovrebbero pagare.94
La società italiana di oggi, secondo la lettura originale che ne fa Don Sequeri, è più maternale che
paternale. Ma non per questo è adatta alle donne: le donne non dovrebbero crederlo, non dovrebbero
cadere nella trappola degli stereotipi che impongno loro i maschi. Dovrebbero accettare i conflitti, tirare
fuori le loro ragioni e usare l’archibugio, se necessario. La spcietà maternale è un prodotto maschile, dove
le donne contano sempre di meno, anche se si dà loro la fittizia illusione di contare di più. Per questo è
voluta e apprezzata dagli uomini. E’ il maschio quello che per tutta la vita desidera il ritorno al grembo
materno. E nella società maternale la donna può fare solo la squaw nel tepee, essere un grembo che
accoglie e che nutre, una mamma appunto con la M maiuscola.
La società maternale ha qualcosa a che vedere con le società totalitarie, ma non solo, secondo me ha
qualcosa in comune anche con la gestione delle aziende, soprattutto nelle grandi aziende in Italia dove il
lavoro è protetto, garantito. Le aziende sono gestite in modo totalitario, ma in compenso consentono di
vivere in un universo protetto.
Le società autoritarie, come certe società integraliste, come il Pakistan di Tehmina Durrani, sono forse
più paternali che maternali? Forse sono paternali, nel senso che hanno moltissime regole rigide e
prestabilite, ma nello stesso tempo sono maternali perchè è proprio la minuziosità delle regole a impedire
l’assumersi di responsabilità. In entrambi i casi, rispondono a esigenze soprattutto maschili, e quindi
hanno bisogno che la donna resti a casa a offrire nutrimento, mentre l’uomo va a caccia o in guerra e
esplora il mondo. Quando è ferito, può sempre tornare a casa a farsi consolare, ma chi consolerà le
donne della loro totale perdita di libertà?
Tanto più è forte l’oppressione femminile, la limitazione dentro un ruolo rigido ed eternamente prefissato,
tanto più chiaro è l’abuso e più evidente lo squilibrio. Le donne hanno una naturale tendenza a donare di
più, della quale non è tuttavia giusto approfittare: perchè è comunque anche una tendenza legata al
bisogno di soggettività, al desiderio di autonomia, di scoperta e di lavoro. Oggi si fanno meno figli, ed è
un bene che sia così, dunque alla reclusione non ci sono più scuse.
Invece, dall’abuso alla corruzione, il passo è breve. Non è difficile osservare che le società dove si
commettono maggiori abusi sono anche le più corrotte. Perciò potrebbe non esserci tanta differenza tra il
mondo occidentale e quello degli integralisti; si può pensare che la situazione delle donne nella nostra
società è ancora paritaria in modo fittizio, e che le donne non dovrebbero adattarsi e non dovrebbero
accettare certi ruoli che vengono loro imposti. In molti casi, questo vale anche per le grandi aziende:
quando va bene, noi donne lavoriamo il doppio senza chiedere nulla in cambio. E se siamo brave, e
chiediamo di essere rispettate, suscitiano reazioni di panico e di diffidenza. Che sia anche colpa di un
atteggiamento troppo protettivo e materno, che non educa i maschi ad assumersi le loro responsabilità?
Le società troppo rigide, troppo legate a una visione delle caratteristiche femminili ormai desueta, sono
anche squilibrate e violente. Come tutte le società fondate sull’abuso sistematico del più debole, e sulla
mistificazione delle sue esigenze, sia esso donna o bambino o minoranza etnica e sociale o handicappato.
Come tutte le società basate sulla colonizzazione degli altri da parte del più forte. Le donne come sesso,

94
Mi viene in mente una conzonetta di un film felliniano, mi pare "La dolce vita": bevete più latte, il latte fa bene. La
cantava Anita Ekberg, ed era molto convincente. Ma anche lei è diventata prigioniera del mito che Fellini le aveva
cucito addosso. In molti devono aver creduto che il latte era gratis e devono aver esagerato nelle pretese.

113
Sesso, amore e gerarchia

naturalmente, non sono più deboli degli uomini. Ma lo diventano sul piano sociale, perchè la rete del
potere della ricchezza e delle decisioni è ancora e saldamente troppo unilaterale. E le donne sono ridotte
a chiedere di essere prese in considerazione spesso con la desolata sensazione di non essere neppure
ascoltate, di parlare da sole.
D’altra parte, non si può dire che valori come la forza d’animo o la capacità di accettare le prove siano
appannaggio maschile: spesso, anzi, le donne sono da questo punto di vista più solide e pazienti degli
uomini. Nè, ancora, si può affermare che il desiderio di trattenere ‘nel grembo’ sia una caratteristica
emotiva solo feminile. Quanti padri sono gelosi delle figlie e non le vogliono ‘lasciare andare’? Tamino a
Pamina sono, in questo senso, una coppia moderna, che rivendica la possibilità di affrontare prove e di
sbagliare da sola, perchè solo così si può crescere e assumere le proprie responsabilità.
Può darsi dunque che Don Sequeri sia ancora molto influenzato da logiche esclusivamente maschili.
Quando sostiene che le donne, piuttosto che accettare una eccessiva manipolazione dovrebbero usare
l’archibugio, rivela forse una mentalità ancora legata a schemi d’azione maschile. Ma oggi c’è anche un
forte pensiero teologico femminile. Sebbene io pensi che la psicoanalisi sia una specie di preistoria delle
neuroscienze, qualcosa di un po’ superato perchè troppo legata a forme di ragionamento magico che si
prestano a ogni tipo di mistificazione, condivido le tesi della teologa e psicanalista Junghiana Ann
Belford Ulanov quando riflette sulle quattro donne ‘antenate’ di Cristo. Nel suo libro95, sostiene che
Tamar, Ruth, Rahab e Betsabea, le donne della Bibbia, sono figure molto forti, non sempre fedeli alla
legge, e proprio per questo dotate in massimo grado di qualità femminili come l’ingegnosità, l’audacia, la
determinazione, la compassione la seduzione e la devozione. Ognuna di loro ha avuto percorsi di vita per
molti aspetti scandalosi e devianti e tuttavia hanno saputo costringere gli uomini a considerare anche il
loro punto di vista. Sono un esempio di come la differenza sessuale, e l’uso della nostra personalità
completa, maschile e femminile, può arricchire anche la nostra visione religiosa. “Se ignoriamo le radici
sessuali della più alta unione contemplativa con Dio, la nostra religione diventerà diluita, esangue, senza
passione o durata. Noi non possiamo costruire in massime etiche o esortazioni politiche quello che
abbiamo perso in esperienza primitiva dell’anima.”
Ma gli uomini, anche i religiosi, hanno paura del femminile. Lo si vede bene nella tradizione religiosa, e
c’è una differenza tra la cultura di matrice cattolica e quella protestante: “Le donne della Bibbia, che già
non sono donne allo stato puro -perchè interpretate, filtrate ricordate dimenticate da uomini - sono state
dalla tradizione progressivamente svestite della loro personalità originale e rese simboli, oppure modelli
edificanti, in positivo o in negativo, funzionali all’immagine di donna che si intendeva inculcare”96
L’immagine di Maria Maddalena, ad esempio, che nel Vangelo è una discepola, probabilmente la più
vicina e più amata da Gesù, la persona che per prima annuncia la resurrezione, è stata tramandata come
quella di una prostituta pentita, con dei connotati che tendono a farne un simbolo delle donne, adattandola
alla tradizione misogina comune. Questo simbolo, riconosciuto almeno in seguito come errato dalla
dottrina protestante, è ancora abbastanza presente nella nostra tradizione di stampo cattolico. Dimostrando
che la donna che esce di casa, che lavora in un ambito intellettuale (Maria Maddalena come gli altri
discepoli ha predicato il vangelo di Dio), seguendo uno stile di vita normalmente considerato appannaggio
esclusivo degli uomini, facilmente viene considerata una poco di buono: ancora una volta, gli uomini
hanno paura. Di lei e del suo modo di porsi alla pari. Maria Maddalena è una figura forte e indipendente,
con una spiritualità diversa dagli altri discepoli. Era, semplicemente, una donna. Che aveva capito delle
cose. Che cosa sappiamo veramente della Maddalena, al di là delle proeizioni frutto delle fantasie
maschili, riversatesi sulla sua immagine nel corso dei secoli?
Le notizie su di lei sono poche. Eppure è la donna più importante presente nei Vangeli, un’idea che può
suonare molto sorprendente, anche urtante, per chi è abituato a vedere in questo ruolo la madre di Gesù.
Nei Vangeli, Maria di Magdala è nominata esplicitamente dodici volte (più spesso di Maria Vergine), e
sempre al primo posto. Si sa che proveniva dalla Galilea, come Gesù, forse da una cittadina sul lago di

95
Ann Belford Ulanov, " The female ancestors of Christ", Shambala Publications, USA, 1993
96
Lilia Sebastiani, "Tra/Sfigurazione" Il personaggio evangelico di Maria di Magdala e il mito della peccatrice redenta
nella tradizione occidentale, Queriniana, 1992

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Sesso, amore e gerarchia

Tiberiade che oggi si chiama Migdal e che, come tutte le cittadine moderne, è splendente di luci e di
insegne pubblicitarie.
Si sa che è stata con Gesù fin dagli inizi del suo ministero e che era a tutti gli effetti una sua apostola.
Che prima di incontrarlo aveva sofferto di una malattia nervosa (probabilmente l’epilessia: si dice che
era stata liberata da sette demoni), che non aveva una situazione familiare regolare, nel senso che non
apparteneva ad alcun uomo, nè aveva figli, e che era di famiglia agiata, cosa che potrebbe meglio
spiegare la sua relativa libertà di pensiero, movimento e azione.
Dopo la conclusione della vicenda terrena di Gesù di lei non si sa più nulla. L’ultima cosa che si sa è che
è stata la prima a vedere Gesù risorto. Sebbene apostola, dopo la morte terrena di Cristo non c’è più
stato posto per lei nella storia. Un velo le è caduto addosso, coprendola dalla testa ai piedi. Talmente
fitto, e solo squarciato qua e là da fantasie e e manipolazioni maschili, da far felici persino i seguaci di
Maometto.

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Sesso, amore e gerarchia

Conclusioni.
Dove nuotano le sirene?

“ Noi abbiamo bisogno di pensare in modo diverso


se vogliamo che l’umanità si salvi.
Noi rivolgiamo un appello come esseri umani a esseri umani:
ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto.”
Albert Einstein

A questo punto, Valeria ed io saremmo andate avanti all’infinito, perchè per ogni argomento trattato
ci venivano in mente moltissimi esempi e situazioni da citare, persone da interpellare, episodi da
ricordare. E tutti i libri che leggevamo negli ultimi tempi ci sembravano contenere qualche
messaggio per noi e per la nostra ricerca. L’ultimo in ordine di lettura per me è stato un volume
scritto da Gherardo Colombo97, dove si parla delle grandi inchieste giudiziarie degli anni ottanta e
novanta. Nelle ultime pagine, abbiamo trovato uno degli interrogativi che anche noi ci siamo spesso
poste: perchè questa ricerca del potere con tutti i mezzi, spesso fine a se stesso, perchè questo
ossequio verso chi ricopre posizioni gerarchiche, come se si volesse compiacere il potere sempre e
comunque, anche quando i suoi risultati sono dannosi per tutti.
La risposta che dà Gherardo Colombo non è quella di uno psicologo o di un filosofo: è quella di una
persona colta, ma esperta di argomenti diversi, che si pone domande esistenziali sul significato dei
comportamenti umani con cui viene a contatto. Gherardo Colombo è stato cresciuto nel rispetto di
ideali che noi condividiamo e ragiona basandosi sulla sua esperienza di vita piuttosto che sui libri.
Le sue risposte ci sono sembrate molto adeguate e condivisibili, anche se può sembrare una fuga in
avanti. Dunque difficile, forse pericolosa e tutavia necessaria. Colombo dice che c’è un legame tra il
potere e la morte. Chi non vuole ammettere di essere come gli altri, di essere mortale, cerca di
dimostrarlo facendo vedere che può condizionare le persone che gli sono vicine, e anche quelle
meno vicine, perchè è più potente di loro. Tutto ciò è umano, molto umano direbbe qualcuno, se
non portasse alla perversa conclusione che le regole, che dovrebbero valere per tutti, non valgono
mai per chi ha il potere. E sono sostituite dal loro arbitrio. Spesso con l’aiuto di sistemi di governo
macchinosi e giugulatori, di leggi e leggine così confuse e contraddittorie, difficili da applicare e
anche da seguire, da rendere i singoli cittadini che vi sono alle prese vittime di continui abusi,
quando non trovano il mezzo per evaderle.
E senza, - soprattutto in Italia, dove questo sistema ha portato a una pericolosa decadenza delle
strutture portanti dello stato, - che le vittime protestino, senza discussioni. O con proteste
velleitarie e contraddittorie, che approfondiscono i mali senza risolverli.
Nei nostri racconti, certo con un po’ di ingenuità, ma speriamo senza presunzione, abbiamo cercato
di suggerire uno dei possibili rimedi a questo male che si è diffuso così tanto nella società italiana, e
non solo in quella. Il rimedio che noi suggeriamo è il recupero dei valori del femminile, che
esistono negli uomini come nelle donne, anche se si esprimono in modi diversi. Può sembrare poco,
e invece sarebbe moltissimo. Perchè il modello della nostra società, quello creato dall’uomo bianco
di sesso maschile, sano, ha dato molto per quanto riguarda il progresso tecnologico, ma ha prodotto
anche violenza, armamenti, dolore e morte. Che, anche con l’aiuto del progresso tecnologico,
occorre sconfiggere. Cambiando le regole del gioco e recuperando altri valori importanti.
Un’altra possibile conclusione che mi viene in mente per questo scritto è contenuta in un vecchio
libro a me caro, ricevuto in regalo da un prozio anziano quando ancora facevo l’università. Alberto
Cavaliere era uno studente... non proprio modello, che dopo essere stato bocciato agli esami di
chimica, si divertì a metterne in rima tutte le regole principali. Congedandosi così:

“A che tentai la chimica snervante


le formule accordando con la cetra?
97
Gherardo Colombo, " Il vizio della memoria", Feltrinelli, 1996

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Sesso, amore e gerarchia

....
O via provette ed acidi! Via, via
arida scienza! E lasciami soltanto
un bel crogiuolo, che vi fonda in canto
il piombo della mia malinconia”.

Sia che si voglia cercare di fare le persone serie, sia che si tenti di buttarla in ridere, l’impressione
alla fine di un lavoro come il nostro è la tristezza di avere terminato, ma anche la consapevolezza di
avere sollevato tantissimi interrogativi, ai quali in fondo abbiamo dato una sola risposta: che
occorre cambiare le regole del gioco.
Sono le regole del gioco ad aver preso il sopravvento sul gioco stesso, ma forse lo hanno sempre
avuto, e non ci permettono di partecipare con impegno e di ricavarne quel tanto di divertimento, di
scambio con gli altri, di amicizia che ci renderebbero più sopportabile “l’inevitabil vita” (ancora
Alberto Cavaliere). Sono i meccanismi di paura e di potere a renderci difficile cambiare le regole?
Ad esempio, in molti campi, è difficile raggiungere posizioni importanti se non si è legati a
formazioni politiche. In genere i politici non sopportano chi è privo di appartenenza, perchè non
riescono a controllarlo. Lo vedono come un elemento di disordine. Una specie di cavallo pazzo da
mettere in riga o da eliminare. O di mucca pazza, se donna. In questo caso non manca mai di solito
l’insulto sessuale. I metodi sono molteplici e vanno dal pettegolezzo sulla vita privata, all’attribuire
motivi falsi a circostanze reali o più semplicemente, all’emarginazione.
E siccome chi fa bene il proprio lavoro finisce prima o poi col dare fastidio, viene eliminato con
tanta più frequenza quanto maggiori sono le cose che il potere desidera nascondere. Alla lunga il
sistema è devastante e blocca in modo perverso qualsiasi possibilità di sviluppo reale. Può darsi
che tutto ciò sia in qualche modo radicato nella costituzione fisica degli uomini: tutto allora si
trasforma solo in un vuoto gioco di superficie, dove predominano le illazioni strumentali al posto di
una attenta ricerca delle cause, e delle fonti e origini dei problemi.
Lo si nota soprattutto nel modo di fare informazione: quando importa lo scandalo, ma non le
ragioni o il risultato del suo accadere, nè i meccanismi che gli sono sottesi. Al chiasso delle
denuncia segue allora il silenzio. E più che alla comprensione si arriva alla confusione dei fatti. Si
scelgono persone da usare come simbolo e come parafulmine su cui si scaricano gli umori confusi
della collettività. Tutto ciò non può che condurre dentro un circolo vizioso di caccia alle streghe: al
mettere in libertà vigiliata un intero paese, che sente e che sa di meritarsi di meglio.
Nel mondo di oggi le parole divorano spesso le cose e la realtà virtuale invade perversamente la
vita reale. Siamo assordati dal rumore. Non riusciamo più ad ascoltare il canto delle sirene che
sono dentro di noi. Nè a capire che anche nel silenzio può esserci una musica segreta. Le parole
sono facili da travisare. Più facili ancora da manipolare. La stessa memoria, che permette loro di
andarsene libere per il mondo, a volte diventa un deposito traditore. Eppure, nulla è più
temerariamente bello della volontà di ricordare, e, ricordando, di sapere.

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A volte sono le stesse parole a diventare virtuali: come per la nota affermazione che la legge deve
essere eguale per tutti e possibilmente anche equa e al di sopra delle parti. Da gran tempo nessuno
ha più il coraggio di contestarla nei contenuti, ma nei simboli e nei fatti sì.
Nella realtà vale ancora infatti, ed è sotto gli occhi di tutti che il potere si comporta come nella
favola di Pinocchio raccontata da Collodi. Narra dunque Collodi che il povero Pinocchio,
derubato delle sue monete d’oro per colpa di una volpe (che non assomigliava per nulla a quella di
cui abbiamo parlato in un altro capitolo, ma è noto che non tutte le volpi sono uguali), e di un gatto
suo amico, ma di sesso inequivocabilmente maschile, andò da un vecchio giudice rispettabile, uno
scimmione della razza dei gorilla. Gli raccontò dell’iniqua frode di cui era stato vittima. E fu subito
messo in prigione per suo ordine, perchè era andato a denunciare il furto. Quando poi il giovane
imperatore che regnava sulla città di Acchiappa Citrulli decise di proclamare un indulto generale,
e di fare uscire tutti i malandrini, il povero Pinocchio ebbe non poche difficoltà. - Se escono di
prigione gli altri voglio uscire anch’io, - aveva protestato col carceriere. - Voi no, - gli aveva
risposto egli seccato. - Perchè voi non siete un malandrino...
Non ci sembra che da allora sia cambiato poi molto. A voi sì?
Simbolo da sempre del fascino e dei rischi della seduzione intellettuale sono state le sirene. Ai
tempi di Ulisse erano uccelli rapaci dal volto di donna, non più alte di un metro e mezzo e orribili a
vedersi, ma in seguito si sono trasformate in esseri marini, a metà donne e a metà provviste di
lunghe code di pesce. Un ibrido comunque minaccioso, tale da far perdere il sonno -se non proprio
la vita - agli inquieti naviganti che avessero la ventura di incontrarle.
Imprendibili, questo forse significa la coda, niente affatto disposte ad abdicare al proprio potere, e
questo è forse il significato della sua eccessiva lunghezza, nè buone nè cattive, è noto però che
hanno l’impertinente abitudine di giocare con i naviganti come gatte col topo, e di sollecitarli a
ricordare un particolare che essi vogliono sempre dimenticare: la loro natura di esseri mortali e
l’intuizione che la cosa più preziosa della vita è proprio la sua labilità.
Non c’è proprio niente da fare: sono sempre i migliori a subirne l’incanto, quelli che cercano
qualcosa che vale la pena di cercare, come sostiene Maria Corti nel suo libro “ Il canto delle
sirene” (Einaudi, 1989).
Sono poi sempre i migliori a subire la condanna della delusione, quando arrivano a quei confini
insuperabili che la mente non può valicare e scoprono che oltre il confine c’è soltanto il buio del
mare nelle notti senza luna.
In epoche più recenti, dotate di maggiore ottimismo e più ampia complessità, le sirene sono state
anche rappresentate come provviste di ben due code di pesce. Riunite ad arco sopra la loro testa,
esse formano un cerchio, figura geometrica che simboleggia l’eternità.
A questo tipo di effigie si accompagnano anche motti di tenore invero sorprendente, come questo,
firmato da un anonimo veneziano: “Non colpisce ma risveglia coloro che navigano.” E c’è stato
persino chi, già nel lontano `600, raffigurò una sirena con sopra il motto “ non sempre nuoce”.
Occorrerà forse molto altro tempo per scoprire che spesso le sirene, pur essendo esseri immortali,
sono invece molto abili nel nuocere soprattutto a se stesse. Non hanno mai imparato ad evitarlo,

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forse perchè troppo distratte e incapaci di vedere i mille particolari della vita quotidiana. O forse,
più semplicemente, perchè non sono interessate ad evitare i pericoli. Troppo attratte dai molti
perchè delle cose non sono capaci di tirarsi indietro. In qualità di esseri curiosi al di là di ogni
decenza, e persino del suon senso, fanno correre pericoli reali, ma appunto, non sempre è un male.
Quanto a noi, le autrici del libro, ognuno può vedere dalle fotografie che siamo del tutto sprovviste
di code: a parte, s’intende, la normale codina, nel nostro caso rosa per necessità, propria
comunque di tutta la specie umana.
Si chiama osso sacro, sta in fondo alla spina dorsale ed è un residuo evolutivo della vecchia coda
di altre specie animali. E con questo ci congediamo augurando a tutti buona fortuna.

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