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Tenere presente questa definizione di R Fabietti: Il colonialismo dei secoli precedenti aveva avuto caratteri molto
diversi da quello della seconda metà del secolo XIX: colonizzatori e governanti muovevano allora alla ricerca di
metalli preziosi oppure di territori aperti allo spirito di avventura, all’affermazione di libertà civili o religiose; il
colonialismo dell’età industriale, all’opposto, ha perso ogni patina romantica ed è alimentato da uno spregiudicato
spirito affaristico che non cerca neanche più di mascherarsi dietro giustificazioni ideali. Jules Ferry, uno dei massimi
esponenti del colonialismo francese, esprimeva il suo pensiero in questi termini: “[il colonialismo] è per gli stati
moderni una necessità come il mercato stesso (...); l’esportazione è un fattore essenziale della prosperità pubblica (...);
il consumo in Europa è saturo; bisogna perciò che in altre parti del globo compaiano nuovi consumatori”.
Il nuovo colonialismo è pertanto conquista di mercati dove nuove masse umane possano diventare consumatrici in
modo da assorbire le eccedenze della produzione che la popolazione europea non è più in grado di smaltire. Gli
ingenti capitali finanziari accumulati in Europa rischiano di rimanere sterili e inoperosi e di dare interessi sempre più
esigui; perciò i gruppi finanziari mirano ad impiegarli nelle colonie, prestarli a grandi imprese, impegnarli nella
costruzione di ponti, ferrovie, strade e opere pubbliche di ogni tipo, anche nei paesi più lontani.
Paragrafo introduttivo, in cui riassume un po’ tutto il discorso del capitolo (libro pag. 171, pdf pag. 229)
L’epoca dell’imperialismo risente ancora dell’influenza del pensiero ottocentesco, equilibrato e rassicurante; non ci si
immagina che questi decenni saranno quelli che porteranno allo stravolgimento totale della civiltà occidentale e di tutte
le sue tradizioni, operato dalla prima guerra mondiele, nella quale si compiono atrocità e orrori che nessuno avrebbe
potuto neanche immaginare.
La borghesia durante tutto il suo consolidamento economico aveva sempre evitato di dedicarsi alla politica, concependo
lo stato come un’entità in grado di governare e di equilibrare le varie parti della società, senza intervenire nella vita
economica se non come facilitatore.
Quando l’economia capitalista si scontrò con i limiti dello stato-nazione, che risultava inadatto a permetterle di
espandere il capitale accumulato (rendendolo così superfluo e improduttivo), la borghesia si mise in contrapposizione
con esso,e, nonostante questo scontro venisse in parte arginato dalle strutture statali, ne uscì vittoriosa trascinando la
nazione nell’imperialismo.
Espansione concetto economico, non politico. In effetti l’espansione economica grazie al denaro e ai capitali può essere,
come già aveva detto Locke, virtualmente illimitata, mentre per quanto riguarda le strutture statali e la stessa vita
dell’uomo si cozza inevitabilmente contro dei limiti: la Terra, la morte.
Come ha già detto prima, Arendt ribadisce che l’espansione degli affari della borghesia cozzò contro i limiti nazionali, e
quindi pretese dallo stato che essi fossero superati con un’espansione aggressiva.
Sulle prime ottimisticamente si pensò che la libera concorrenza fra popoli e la competizione economica avrebbe
mantenuto un certo equilibrio, quell’ottimistica “mano invisibile” di cui parla Adam Smith... ma attenzione, essa non
degenerò in guerra aperta finché le istituzioni dei vari stati hanno sorvegliato e impedito l’uso aperto della forza (in
effetti se pensiamo a cosa è successo nella prima guerra mondiale vediamo proprio questo, lo spezzarsi di ogni limite e
barriera moderatrice e il gettarsi di tutti gli stati gli uni contro gli altri, fra l’altro nella assurda pretesa di avere TUTTI
ragione).
Il potere politico è quello che riesce a GESTIRE I CONTRASTI, a regolare la vita comune. Tolto questo freno (ed è
quello che successe nell’imperialismo) l’espansione territoriale si basa sulla forza più brutale e non ha alcun limite.
Arendt poi riprende il tema del limite, che caratterizza le strutture politiche ed è invece totalmente assente dalla vita
economica. Ribadisce una cosa che già avevamo visto con l’occupazione napoleonica: i popoli conquistati sviluppano la
loro coscienza nazionale e la volontà di indipendenza. Quindi la tirannide (che è la forma in cui l’imperialismo si
impone ai popoli conquistati) deve distruggere anche le istituzioni nazionali del PROPRIO popolo, in base alle quali
questo governo sanguinoso ed efferato verrebbe condannato dall’opinione pubblica. In effetti come vedremo il concetto
di nazione degenera e viene semplificato nell’orribile concetto di “razza” che ci oppone agli “inferiori” e ci dà il diritto
di governarli; basta pensare a Hitler.
(Non concentriamoci sulle parti in cui si parla dettagliatamente della politica dei vari stati.)
Imperialismo non è fondazione di un impero, espansione non è conquista: qui si vede molto bene come l’imperialòismo
non sia un fatto politico che mira all’annessione e alla sistemazione di nuovi territori, ma solo alla loro invasione e
predazione.
Infatti gli amministratori (i governatori) del’India NON EMANANO LEGGI (cioè non danno strutture fisse e
permanenti), poiché queste, come già detto, sarebbero state di impiccio alla libera circolazione dei capitali.
Parlando del ministro Gladstone, che commette una scorrettezza non restituendo la libertà all’egitto, anche se in
campagna elettorale lo aveva promesso, Arendt dice che la cosa non è stata fatta perché si percepiva che l’espansione
imperialistica avrebbe deviato l’interesse del popolo dalla lotta di classe e dai problemi economici: un finto patriottismo
che trovava l’unità nazionale nella repressione di popoli “inferiori” (Arendt dirà anche che in questo modo il piccolo
borghese europeo, impoverito e timoroso per la grande avanzata del proletariato, trova di nuovo il posto rispettato e
distinto che gli “competeva” prima della crisi sentendosi superiore ai “neri” o ai “gialli”; e anche il popolo trova una
fittizia unità nel riconoscere un nemico comune e “inferiore”) (vedasi anche la strategia dei sovranisti di casa nostra,
uniti sempre “contro” qualcuno o qualcosa).
Altra cosa importantissima che troveremo anche nel concetto di totalitarismo è la dimensione ILLIMITATA
dell’imperialismo, che non può mai fermarsi, così come non può fermarsi l’accumulazione capitalista.Ma gli
imperialisti parlano di concetti economici che sembrano solidi ed inoppugnabili, non usano slogan come invece poi farà
ad esempio Hitler.
Contrasto fra i principi di nazionalismo e imperialismo: il nazionalismo vuole rafforzare lo stato e ne vuole consolidare
l’identità CULTURALE in tutti i sensi, quindi è per definizione sciovinista, non accetta gli stranieri; a contatto con
l’imperialismo diventa NAZIONALISMO TRIBALE, cioè nel riporre la propria identità non in una storia, una lingua,
una cultura comune, ma nel “sangue”, nella “razza”, nella “totale duperiorità” rispetto ai popoli assoggettati, cui non si
riconosce alcuna dignità.
Ovviamente gli imperialisti (così come poi il nazismo) si definirono “fuori dai partiti”, rifiutando il gioco politico che li
avrebbe costretti ad imbarcarsi nelle questioni reali dello stato. Anche in Parlamento si parla di “front bench system”,
alludendo all’importanza data solo alla prima fila dei rappresentanti (quindi i leader di maggioranza e opposizione),
tralasciando i banche dietro dove si trovano deputati che spesso non sono d’accordo al 100% con i loro capi, e
vorrebbero intervenire ma non possono. Una specie di “primi della classe” che si accordano fra loro.
Il discorso sui funzionarri pubblici vuole dire che essi, per lungo tempo indipendenti e neutrali, furono poi corrotti dalle
classi abbienti e si ritrovarono a fare semplicemente gli esecutori degli ordini del mercato, perdendo completamente la
loro dignità; nelle colonie ritrovavano in modo fittizio la loro condizione originaria di fedeliservitori dello stato.
Il nuovo nazionalismo quindi si manifesta più che mai nelle colonie, anche perché là non esistono conflitti di classe e
problemi sociali, i quali erano rimasti in patria.
Anche questo testimonia della fragiilità intrinseca delle nazioni europee, che erano già disgregate prima di piombare
nella guerra.
Cos’è la plebe? Si parla di scarti da tutte le classi e da tutti gli strati. Cosa significa? Sono il diretto prodotto
dell’economia capitalista, che per avanzare deve distruggere tutto quello che vi è di strutturato socialmente (nelle
società pre industriali ogni segmento è chiaramente strutturato, ognuno ha il suo posto e il suo compito, vi è una rete di
relazioni che tiene insieme la comunità. Nella “plebe”, che è il precursore della “massa”, gli individui sono totalmente
ripiegati su se stessi, egoisti, non si considerano parte di una comunità organizzata e sono perfetti da coinvolgere in
avventure come l’imperialismo ma anche il nazismo, in quanto non avendo radici e convinzioni forti possono essere
guidati dal di fuori da slogan e ideologie, anche le più irrazionali). Per questo l’alta società (genitrice, causa) è attratta
irresistibilmente dei bassifondi, da questa plebe (progenie, effetto) immorale, anzi amorale, nella quale ogni valore è
capovolto e l’unica legge è quella del più forte (o del più furbo); la borghesia getta via con fastidio quelle noiose ed
ipocrite inibizioni che erano il suo tratto distintivo (operosità, costanza, dedizione) e si getta nelle braccia della plebe
affidandole la salvaguardia dei propri interessi tramite l’avventura imperialista. Arendt dice chiaramente che la
borghesia buttò a mere il fardello dell’ipocrisia e si mostrò col suo vero volto cinico e calcolatore non appena si sentì
insicura socialmente de economicamente. Il nichilismo (mancanza totale di valori) esplicito della plebe riflette il
nichilismo implicito della borghesia.
Questo concetto è ben riflesso nelle parole di Marx, acuto critico dell’economia capitalista:
La borghesia ha distrutto i rapporti feudali, patriarcali, idillici dovunque abbia preso il potere. Essa ha spietatamente
stracciato i variopinti lacci feudali che legavano la persona al suo superiore naturale, e non ha salvato nessun altro
legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il crudo "puro rendiconto". Essa ha affogato nelle gelide
acque del calcolo egoistico i sacri fremiti della pia infatuazione, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea.
Essa ha dissolto la dignità personale nel valore di scambio, e al posto delle innumerevoli libertà patentate e ben
meritate ha affermato l'unica libertà, quella di commerciare, una libertà senza scrupoli. In una parola, al posto dello
sfruttamento celato dalle illusioni religiose e politiche ha instaurato lo sfruttamento aperto, senza vergogna, diretto,
secco.
Infine si torna a parlare di cause sproporzionate agli effetti: da una parte il capitale superfluo in cerca di profitto e la
plebe in cerca di arricchimento misero a nudo ciò che da sempre costituisce l’essenza della borghesia: e questo fu
possibile quando la plebe fu così numerosa da non poter essere più gestita dallo stato; la plebe, come già detto, è
riluttante a pensare autonomamente ma si lascia ben volentieri guidare da slogan e da ideologie. Da qui l’illusione che
l’imperialismo fosse la risposta giusta ai problemi sempre più gravi dell’occidente.
Per Arendt questo era già presente nella sostanziale disumenità e amoralità del pensiero politico di Hobbes, per il quale
gli uomini sono assolutamente incapaci di creare legami reciproci e di interesarsi di altro che del proprio tornaconto, ed
hanno quindi bisogno di essere costretti da un uomo più forte che imponga a tutti la propria autoconservazione e i propri
criteri individuali.