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Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304 da Elettra Canigiani e ser Petro detto
Petracco o Petraccolo: dal patronimico Petracchi Francesco derivò il cognome Petrarca. La
famiglia era originaria della Valdarno; il padre fu notaio bandito da Firenze insieme ai guelfi
bianchi nel 1302.
Tra signorie italiane ed Avignone. Da Roma Petrarca si trasferì a Parma, ospite di Azzo
da Correggio. Soggiornò a Selvapiana, dove ritrovò come a Valchiusa quell’ambiente
naturale che rendeva possibile l’ideale isolamento per riprendere a comporre. Nel 1342
tuttavia fu costretto a tornare ad Avignone, dove giunse presto anche Cola di Rienzo,
sostenuto da Petrarca per l’ammirazione entusiasta della Roma antica e dell’ansia sia per il
degrado del presente sia per l’aspirazione a vederne restaurato il primato in campo politico e
religioso. Strinse con lui una solida amicizia che lo avrebbe portato, anni più tardi, a
sostenere apertamente il suo tentativo di irruzione.
La crisi spirituale. Nel 1342 morì Dionigi da Borgo San Sepolcro, frate agostiniano e sua
guida spirituale, al quale egli doveva la conoscenza delle Confessioni di Sant’Agostino. Nel
1343 il fratello Gherardo inaspettatamente si fece monaco: Petrarca precipitò così in una
profonda crisi spirituale, sentendo il peso e la vergogna per il proprio attaccamento alle
passioni umane; segno inequivocabile fu la nascita della seconda figlia Francesca (dopo il
primogenito Giovanni). Tra il 1343 ed il 1347 i movimenti di Petrarca sono numerosi:
dapprima a Napoli, poi a Selvapiana (dove fuggì dalla lite tra i Correggio da una parte ed i
Visconti/Gonzaga dall’altra), a Verona ed infine in Provenza a Valchiusa.
Cola di Rienzo. Nel 1347, richiamato dalle speranza accese in lui da Cola di Rienzo, rientrò
in Italia, rompendo definitivamente l’amicizia con i Colonna, apertamente nemici dei Cola.
Una volta saputo del fallimento dell’operazione ripiegò su Parma, dove gli raggiunse la
notizia della morte, causata dalla peste, di alcuni degli amici più cari ma soprattutto di Laura
(1348). Prese poi a spostarsi tra Padova, Verona, Parma e Mantova. Nel 1350 si fermò a
Firenze presso Boccaccio, suo grande ammiratore, per poi dirigersi a Roma per il giubileo.
Successivamente a Padova Petrarca fu raggiunto da Boccaccio che gli offriva per conto del
comune di Firenze l’offerta di una cattedra presso l’Università. Petrarca declinò l’offerta e
scelse di abbandonare definitivamente la Francia per l’Italia.
Dai Visconti ad Arquà. Si stabilì a Milano presso la corte dei Visconti provocando lo
scontento degli amici fiorentini, che lo accusarono di aver tradito i propri ideali di democrazia
e di libertà asservendosi ai Visconti, tacciati di tirannia per le loro mire espansionistiche.
Petrarca fu felicemente accolto dal mecenatismo dei Visconti che gli offrivano onori e
protezione in cambio del suo lustro culturale alla corte. Fu costretto ad allontanarsi dalla città
solo per ragioni contingenti (lo scoppio della peste negli anni Sessanta). Da quel momento
Petrarca visse prevalentemente tra Padova, Venezia e Arquà (Veneto), dove confinatosi
nella sua casetta cercò di ricreare attorno a sè l’ambiente raccolto di Valchiusa e
Selvapiana. Ad Arquà lo raggiunse la figlia Francesca, che si prese cura di lui fino alla morte
nel 1374.
Il rapporto con la religione. Fin dalla gioventù Petrarca aveva indirizzato le proprie scelte
di vita in funzione del lavoro letterario, sottratto alla carriera giuridica per rivolgersi così agli
ordini ecclesiastici minori, che garantivano una rendita modesta ma costante, che gli
assicuravano una piena mobilità, limitandolo solamente al celibato ed alla lettura dell’uffizio.
Non accettò mai incarichi religiosi più remunerativi, desideroso di mantenere una certa
autonomia sociale ed economica.
La missione civile. L’esercizio del ruolo dell’intellettuale di corte non gli sembrò mai in
contraddizione con le sue convinzioni, anzi rappresentando il riconoscimento ufficiale della
sua attività lo spinse ad innalzare la professione letteraria alla dimensione di alto magistero.
Petrarca può essere considerato dunque il prototipo dell’intellettuale cortigiano, attaccato al
proprio cosmopolitismo, che lui definiva uno stato di peregrinus ubique, “pellegrino
ovunque”. Fare della propria condizione un esilio si connetteva alle circostanze della propria
nascita ed alla condizione della propria famiglia come una costante esistenziale. Il reputarsi
senza patria gli consentì di guardare agli eventi della vita pubblica con gli occhi distaccati ed
imparziali del saggio che si erge a difesa della moralità dei costumi politici, con un’ottica mai
municipalistica.
La perfezione formale. Una costante della poetica petrarchesca è quella che lo porterà
sempre a cercare la perfezione formale, nelle opere sia latine sia volgari, nei diversi
momenti della propria esistenza. Per questo motivo le sue opere hanno spesso subìto
rimaneggiamenti anche sostanziali effettuati nell’arco di diversi anni, dettati dal bisogno mai
soddisfatto delle perfezione formale. Ogni opera deriva da una serie di stratificazioni
successive e porta anche il segno della sperimentazione contemporanea di diverse soluzioni
letterarie e stilistiche.
Tra le opere di Petrarca, l’unica scritta in volgare oltre al Canzoniere, sono i Trionfi. Si tratta
di un poema allegorico in quattro libri in terzine. Avviati intorno al 1351-52, i Trionfi sono
ispirati alla Commedia dantesca, e rappresentano un’esperienza minore e poco riuscita
artisticamente. Il lungo testo è articolato in sei successive visioni, in ognuna delle quali i
termini sentimentali del poeta si presentano sotto forma di perenne conflitto interiore e
prendono corpo in altrettante personificazioni allegoriche, cioè Amore, Pudicizia, Morte,
Fama, Tempo ed Eternità. Queste si oppongono dialetticamente l’una all’altra secondo uno
schema di contesa: una delle due celebra alla maniera dei condottieri romani il proprio
trionfo.
1. Nel Trionfo d’Amore al poeta dormiente appare in sogno il dio Amore su un carro
trionfale seguìto da un corteo di personaggi nel suo giogo, da cui viene imprigionato
anche Petrarca. Il poeta è conquistato dall’altra bellezza di Laura, che compare
improvvisamente.
2. Nel Trionfo della Pudicizia, è Laura a vincere Amore, e lo incatena nel Tempio della
Pudicizia.
3. Nel Trionfo della Morte, la vittoria di Laura è turbata dall’incontro con la Morte, che
trionfa su di lei sottraendola alla terra.
4. Nel Trionfo della Fama arriva la Fama a sconfiggere la Morte, in quanto il nome di
memorabili personaggi non può essere sconfitto dalla morte.
5. Nel Trionfo del Tempo, quest’ultimo trascina verso il nulla gli esseri umani e il ricordo
delle loro gesta. Dunque il poeta può solo che riporre le proprie speranze in Dio.
6. Nel Trionfo dell’Eternità il poeta viene proiettato verso la beatitudine celeste dove
per l’eternità potrà gioire della presenza divina e della vista di Laura.
I temi del poema portano alle stesse riflessioni che troveremo nel Canzoniere = il conflitto tra
amore terreno per Laura e amore per Dio, il desiderio di gloria e la volontà di mortificazione.
Tuttavia le intenzioni originarie di Petrarca sembrano sopraffatte dal proposito
intellettualistico e moralistico insieme di comporre un’autobiografia unitaria dal punto di
vista strutturale e stilistico: la vicenda personale, astratta dalla sua dimensione soggettiva, si
può configurare come paradigmatica della condizione universale dell’uomo, riuscendo così a
simboleggiare un ideale itinerario dal peccato alla redenzione.
I modelli di riferimento. Petrarca si ispirò ai testi della tradizione allegorico-didattica, del cui
capostipite è il Roman de la Rose. Segue il modello dantesco della Commedia mediato
dall’opera boccacciana della Amorosa visione. La sua adesione ai modelli è più letteraria
che congeniale alla sua personalità: l’architettura del poema oltre che fittizia risulta
incompatibile con le qualità di una poesia che generalmente asseconda il moto degli stati
d’animo. Lo svolgimento appare piuttosto rigido, monotono ed impacciato, appesantito dal
rinnovarsi della scena trionfale con interminabili rassegne di personaggi nelle quali la
passione petrarchesca per la cultura classica degenera spesso in erudizione. Petrarca
ricorre ad una serie di artifici retorici che rendono ancora più denso il testo poetico, arricchito
da figure allegoriche artificiose e prive di vigore espressivo. Tuttavia gli ambienti umanistici a
lui contemporanei preferirono ampiamente i Trionfi al Canzoniere, rappresentato da un
numero nettamente minore di codici nei secoli successivi.
La riscoperta della classicità latina
Petrarca assegnò al latino una netta priorità. Lo usava quotidianamente, con una scioltezza
naturale: questa è l’esplicita manifestazione del peso che la cultura classica ebbe
nell’orientare i suoi progetti letterari: Petrarca è considerato il diretto precursore degli
umanisti ed egli stesso si vantò di aver avviato la riscoperta della classicità. Per Petrarca la
classicità era solo quella latina, perché i testi greci erano esclusi dallo studio in quanto non si
conosceva la lingua. Egli aveva ricevuto alcune lezioni dal monaco Barlaam, grecista.
Per il suo fervido entusiasmo per la riscoperta della memoria di Roma, elevata a mito, tentò
dapprima di imitare i prodotti più alti della letteratura latina. Le prime due opere sono il De
viris illustribus, una rassegna compilatoria di biografie di uomini illustri nel mondo antico, e
l’Africa.
Africa
L’Africa è un poema epico in esametri latini, composto sull’esempio dell’Eneide virgiliana e
volto a celebrare la vittoria di Roma su Cartagine nella seconda guerra punica ed a fornirne
insieme un rapido compendio di storia romana.
In questo ambizioso progetto poetico, rimasto incompiuto, le vicende della seconda guerra
punica sono il pretesto per una rievocazione della gloria di Roma, sia precedente sia
successiva al trionfo di Scipione. L’idea di comporre un poema epico su Scipione l’Africano
lo colpì per la prima volta nel 1338-39, e fu abbandonata quattro anni più tardi dopo la morte
del re di Napoli Roberto d’Angiò, al quale aveva dedicato, dietro richiesta, l’opera.
L’incompiutezza è segnata da alcune lacune, da imperfezioni metriche e linguistiche. Il
numero dei libri, nove, sarebbe dovuto salire a dodici, tipico dei poemi latini.
L’Africa narra principalmente le azioni di cui fu protagonista Scipione l’Africano, ma questo è
solo un pretesto per una rievocazione generale della storia romana. L’opera inizia con il
“sogno di Scipione”, in cui il padre Publio gli predice la gloria a Roma. Segue una
comparazione tra romani, forti e valorosi, e cartaginesi, mancanti nelle virtù civili e militari.
Petrarca effettua una notevole digressione, descrivendo la storia d’amore tra Massinissa, re
di Numidia e alleato di Scipione, e Sofonisba, moglie di Siface, rivale politico di Massinissa
ed alleato dei cartaginesi. Il filo della narrazione riprende con il ritorno a Cartagine di
Annibale e del fratello Magone: il libro si conclude con la battaglia di Zama ed il rientro a
Roma di Scipione trionfatore.
Petrarca ostenta fortemente l’intento celebrativo dei fasti della romanità. La forma del poema
è ispirata dall’Eneide virgiliana, mentre il contenuto è estratto soprattutto dall’Ab urbe condita
di Tito Livio e dagli Annales di Ennio.
Petrarca sperava di ottenere la gloria poetica grazie a quest’opera: il suo compiacimento
nell’emulare i modelli latini viene espresso in un episodio in cui per bocca di Ennio Petrarca
illustra la propria concezione del poeta, presentandosi come l’erede dell'attività dei suoi
maestri. Omero compare in sogno ad Ennio e gli indica profeticamente Francesco Petrarca,
futuro cantore della grandezza di Roma, destinato ad essere insignito della laurea capitolina:
questo non era ancora avvenuto nella realtà, ed ecco Petrarca riconoscere nell’Africa quel
poema che dignificherà la sua statura di poeta. Anche nell’epistola Posteritati Petrarca
appare come cardine attorno a cui si regge la storia della sua formazione culturale ed
intellettuale. Per il poeta quest’opera ebbe una notevolissima importanza, non sminuita dalla
sua modesta riuscita sul piano stilistico-strutturale. I risultati non eccelsi si spiegano in parte
con il fatto che l’opera si colloca agli esordi della carriera artistica del poeta, ma più ancora e
profondamente dipendono dalla sua scarsa attitudine all’epica, che richiede di sostenere un
impegno costruttivo di ampie dimensioni. La scelta di tale genere letterario in realtà
obbedisce più ad una precisa volontà culturale che ad un’adesione personale intima, e non
si concilia affatto con la naturale vocazione lirica che è il vero talento di Petrarca.
Sono veramente riusciti solo pochi isolati momenti, soprattutto di analisi psicologica, in cui
domina un tono patetico-sentimentale che il poeta delinea con la sua capacità di
penetrazione psicologica. Tra questi si ricorda l’episodio di Magone morente o quello
dell’amore tra Massinissa e Sofonisba, infelice perché destinato a soccombere alla ragione
di stato.
Rerum memorandarum libri. Q ualche anno più tardi rispetto all’Africa Petrarca tentò
nuovamente la compilazione storica in prosa imitando i Factorum et dictorum memorabilium
libri IX di Valerio Massimo in un’opera intitolata Rerum memorandarum libri. Vi raccolse
episodi ed aneddoti celebri, antichi e moderni, che si prestassero a fornire esempi di quattro
virtù cardinali. Sebbene lontana dalla tradizione medievale degli exempla, l’opera rimane
incompiuta e meccanica nella sua classificazione netta tra vizi e virtù. La sua modernità si
rintraccia nella dimensione etica e nelle ragioni psicologiche che motivano le azioni dei
personaggi celebri.
L’umanesimo di Petrarca
La predilezione di Petrarca per il mondo antico non è alimentata dal semplice desiderio di
erudizione, nè si esaurisce nella pura imitazione formale. Il suo “umanesimo” consiste nella
rivalutazione dell’uomo e della sua dignità intellettuale, che il cristianesimo medievale
aveva mortificato subordinando l’umano al trascendente. La sua sincera fede imponeva a
Petrarca di tentare questa rivalutazione conciliando paganesimo e cristianesimo, facendo
leva sulla constatazione che l’animo umano è identico attraverso i secoli: esiste un
patrimonio di sentimenti, aspirazioni, esigenze spirituali comune agli uomini di ogni tempo e
non specificamente pagano o cristiano. Facendo convergere saggezza antica e spiritualità
cristiana nella valorizzazione di questo patrimonio Petrarca operò una sintesi originale tra la
cultura classica e quella cristiana.
Secretum
Al vertice della produzione petrarchesca in prosa latina, insieme con l'epistolario, si colloca il
De secreto conflictu curarum mearum. L’idea dell'opera è contemporanea alla crisi spirituale
del poeta (1342-43), ma databile 1347. Non si tratta dunque di una testimonianza a caldo di
uno sconvolgimento interiore prodottosi in circostanze contingenti, ma come l’esito più
compiuto e ragionato di una presa di coscienza maturata nella riflessione tipica di Petrarca,
sulla sua vita affettiva e sulle sue posizioni di intellettuale in rapporto alla fede. L’intento
dell’autore si riassume proprio nella parola secretum, che sottolinea le ragioni intime e di
meditazione interiore che lo spingono a riflettere sulla spiritualità: non a caso fu pubblicato
solo postumo.
Petrarca intende riassumere i passaggi più significativi del suo quotidiano. Petrarca segue lo
schema della visione allegorica come lo aveva delineato Boezio: immagina di incontrare
una donna bellissima che gli si rivela come la Verità personificata e lo affida alla guida di
Sant’Agostino (che rappresenta la Ragione). I due dialogano con la Verità per tre giorni:
l’opera si suddivide così in tre libri (come composta da tre elementi è la Trinità). Agostino
individua la radice del tormento che affligge Francesco nell’inadeguatezza della sua
volontà nel perseguire la virtù e spiega come solo la profonda meditazione sulla morte
possa rivelare agli uomini la miseria della loro condizione distogliendone l’animo dai beni
terreni. In seguito Petrarca passa in rassegna i sette peccati capitali, riconoscendo le colpe
più gravi di Francesco nella superbia, nella lussuria e soprattutto nell’accidia, l’impotenza
della volontà che procura un senso perenne di insoddisfazione e di scontentezza di sè e del
mondo. Nel lungo interrogatorio Petrarca oppone debole insistenza e ammette le ragioni del
maestro; nell’ultimo libro la condanna dell’amore per Laura e per la gloria vengono
gravemente condannati: Dio è l’unico oggetto durevole dell’amore dell’uomo.
Petrarca si rifà alle Confessioni agostiniane, sia nello spirito autobiografico sia nella forma.
Attraverso la drammatizzazione e proiezione intellettuale del suo conflitto interiore Petrarca
riesce a purificarlo e dominarlo. La sua intima e dibattuta duplicità viene così rappresentata
alla perfezione attraverso la calzante tecnica del dialogo, imitata dai maestri Cicerone e
Seneca. Già nell’epistolario Petrarca era abituato a colloquiare idealmente con gli antichi
maestri, azione che qui compie senza difficoltà, aggirando facilmente l’astrattezza della
speculazione dottrinale e rifuggendo intenti didascalici troppo spiccati.
I trattati morali
Il Secretum trova il suo compimento nei trattati morali, ai quali Petrarca tende a dare
un'impostazione dottrinale ma non sistematica.
De vita solitaria
In questo trattto teorizza la solitudine come condizione necessaria dello spirito per
raggiungere l’affrancamento dal mondo e dalle passioni e riscoprire la propria interiorità,
lodando inoltre, come del resto anche nel Secretum, la virtù consolatoria della letteratura,
dispensatrice di saggezza e quindi strumento di progresso morale. La sua concezione di vita
solitaria è del tutto differente da quella degli asceti cristiani, dal quale egli si sente
parzialmente attratto.
De otio religioso
“La vita tranquilla dei religiosi” è composta dopo la prima visita fatta al fratello Gherardo
dopo la monacazione e sotto la forte impressione ricavata nel constatare quale intima
serenità derivasse ai monaci dall’assoluto distacco dalle cose terrestri. Lo stesso tema
ricorre nella raccolta De remediis utriusque fortunae (“I rimedi per l’una e per l’altra sorte,
cioè la buona e l’avversa).
Le prose polemiche
Sebbene mai espressa in opere organiche, la sua filosofia si manifestò in prose polemiche
d’occasione.
La prima gli fu offerta da un medico della corte pontificia, che lo aveva attaccato per aver
consigliato a papa Clemente VI, gravemente malato, di diffidare dei medici, troppo spesso
inclini a contraddirsi l’un l’altro per ragioni di fama o per sterili questioni accademiche,
mettendo a rischio la vita stessa dei pazienti. La dura replica prende il titolo di Invectivae
contra medicum, in cui espresse la propria ostilità alla categoria che riuniva i peggiori difetti
della speculazione medievale (filosofia naturale, logica e dialettica). Petrarca, in qualità di
letterato, sostiene la superiorità delle arti liberali sopra a quelle meccaniche, entro le quali
rientrava anche la medicina.
La già citata De sui ipsius et multorum ignorantia venne stesa per controbattere
l’offensiva affermazione fatta da quattro giovani averroisti padovani, secondo la quale egli
sarebbe stato un “uomo buono, anzi ottimo, ma… illetterato e ignorante”. L’opuscolo fu il
tentativo più organico di mettere a fuoco tutti i motivi del suo dissenso nei confronti della
scienza scolastico-aristotelica, richiamandosi all’ideale agostiniano di un sapere concreto
illuminato dalla luce della fede.
Le epistole
La prosa latina delle epistole risponde al suo temperamento “desiderosissimo di amicizie”,
che non contraddice la sua altrettanto naturale propensione alla vita solitaria. Il peregrinare
di corte in corte incentivò la passione per l'epistolografia, che gli consentiva di non
interrompere i legami affettivi. La fama di poeta laureato lo portò ad intrecciare una fitta rete
di relazioni epistolari con personaggi che si sentivano in una sorta di sodalizio tra
ammiratore e maestro (primo tra tutti Boccaccio). Fu attraverso la corrispondenza che si
trovò a gestire la sua funzione pubblica di letterato. Da ogni occasione biografica Petrarca
traeva il pretesto per riflessioni di ordine generale, con un occhio attento a costruire un
epistolario degno di un letterato. Ogni epistola, diretta ad amici o protettori, era rivolta
indirettamente al pubblico di intellettuali che condividevano il suo interesse per la classicità e
che lo ritenevano un maestro.
Inoltre, scoprendo nella Biblioteca Capitolare di Verona le epistole di Cicerone ad Attico, al
fratello Quinto e a Marco Bruto egli, attentissimo ai suoi maestri del mondo antico, concepì
l’idea di riunire e sistemare ordinatamente le proprie lettere in un’opera da destinare alla
pubblicazione. Sono due le maggiori raccolte: le Familiari che comprendono 350 lettere e
le Senili, che ne comprendono 125. Le due raccolte di distinguono non per i contenuti, bensì
per l’atmosfera più pacata e meditativa, dettata dall’età avanzata e dalla tristezza per la
scomparsa di molti cari amici. Il poeta escluse da queste raccolte le lettere contro la politica
papale (raggruppate nella silloge Sine nomine). Seguono poi le raccolte Varie e Epistolae
metricae, composte in esametri, risalenti quasi unicamente alla gioventù: in alcuni casi il
lettore risente di quell’eleganza un po’ fredda e ricercata e dell’artificiosità entro cui lo
schema metrico lo costringe.
Tuttavia, sappiamo che ancora prima di scoprire la raccolta ciceroniana Petrarca avesse già
pensato di rendere le proprie lettere materiale letterario: non si spiegherebbe la tendenza a
conservare sempre una copia della “trascrizione in pulito” delle lettere che scriveva e
spediva. Inoltre, ancora una volta con uno sguardo alla posterità, Petrarca tendeva ad
eliminare ogni riferimento a fatti e luoghi troppo concreti e circostanziati, potendo così
sollevare a dimensione d’arte gli eventi della vita reale.
L’epistolario, pur non rinunciando al filo conduttore della biografia in senso stretto, rivela
molto più di cultura che non di vita vissuta. Propone infatti un autoritratto letterario
tracciato secondo i canoni dell’etica antica e insieme cristiana, un profilo esemplare di
maestro. In questo Petrarca colloca se stesso tra i dotti accomunati dalla passione per gli
studia humanitatis, creando un ideale cenacolo a cui chiama partecipi ance altri gli autori
antichi, con cui ama immaginare di colloquiare come se fossero amici e contemporanei.
Spesso alcuni amici reali vengono indicati com nomi come Socrate o Simonide, innalzandoli
a interlocutori pari agli antichi maestri. È grazie a lui se le generazioni successive di letterati
fondarono l’ideale res publica litterarum, cui gli umanisti si glorieranno di appartenere.
Le lettere sono composte in un latino solenne ed oratorio, affinché a livello stilistico
potessero essere “esemplari” come già lo erano a livello contenutistico. Il registro alto è
impreziosito da citazioni dotte e riferimenti ai Padri della Chiesa.