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DIRE, FARE, ASC OLTARE

MATERIALI E CONTRIBUTI PER


C ONTINUARE AD IMPARARE

Anno 2 nr. 23 23 giugno 2021

La curiosità non è dire la nostra


ma capire quella degli altri

Rivista aperiodica autoprodotta e distribuita gratuitamente per posta elettronica agli iscritti della
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Università per Tutte le Età “Dino Pilotti” di Lainate ad integrazione delle attività didattiche della stessa.



In questo numero:

Editoriale ........................................................................................................3

Prendila con loso a Evelina Raimondi .........................................................7

Dialogo breve sulla poesia tra Maurizio Fedeli e Giuseppe Carlo Airaghi....11

Una parola, mille storie: Tarantella dal sito web “Una parola al giorno” ...19

COLLEGAMENTI ............................................................................................24

DICIAMOLO PURE .........................................................................................25

PASSATO & FUTURO .....................................................................................26

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EDITORIALE

COMPITI PER LE VACANZE

Ne avremo non pochi, di compiti per le vacanze, da svolgere nei prossimi mesi, in UTE.
Come ogni anno, ma con qualche esperienza in più e molti più fattori da dover considerare,
occorrerà metter mano alla programmazione del prossimo Anno Accademico, contando
come sempre sulla generosa disponibilità dei nostri docenti, sperando nell’inserimento di
qualche nuova voce, trovando alternative dove, per vari motivi, non fosse più possibile
riproporre dei corsi.
Cercheremo anche di introdurre, come detto, qualche novità e di disporre di sedi che
consentano di ospitare senza problemi le nostre attività.
In attesa di potervi ragguagliare sugli sviluppi di tutto questo, vorremmo tuttavia tenere
aperta anche durante l’estate una linea di comunicazione con voi: quanto meno attraverso
questa rivista.
Non potremo disturbare ulteriormente i nostri docenti, che hanno tutto il diritto, come tutti
noi, a godersi un’estate tranquilla dopo tanto tribolare per il COVID, ma proveremo ad
o rirvi ugualmente qualche contenuto interessante.

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A volte, credeteci, basta ritornare a considerare con mente aperta e curiosità rinnovata
quanto abbiamo letto, studiato, sentito tempo fa, alla luce di quanto abbiamo aggiunto ai
nostri ascolti, alle nostre letture, ai nostri studi da allora a adesso, per riuscire a trovare una
miriade di spunti di collegamento, di ri essione ulteriore, di miglior comprensione.
In realtà è proprio questo ripasso non solo mnemonico, ma integrativo e di nuova sintesi e
arricchimento, quello che distingue l’apprendimento degli adulti da quello dei ragazzi.
Questi sono spettatori, a volte forzati e controvoglia, all’esposizione di montagne di nuove
nozioni, non sempre davvero informative, cioè capaci di trovare una collocazione
permanente e coerente tra le altre ricevute, così da trovare un senso compiuto.
Quelli hanno modo ci confrontare ogni nuova acquisizione con il repertorio più o meno
grande e articolato, ma certo più consistente, di tutto ciò che hanno già immagazzinato nella
loro memoria, costituendo la loro personale “cultura”: il raccolto ottenuto dalle loro
precedenti ricerche.
Ne discende una ben maggiore capacità di “legare insieme” le informazioni vecchie e nuove,
anche di discipline tra loro apparentemente distanti, che però indagano gli stessi fenomeni,
o oggetti che, pur a loro volta di diversa natura, si scoprono allora avere sorprendenti e
meravigliose connessioni, somiglianze od origini.
È stato da coraggiosi confronti tra innumerevoli varietà di specie viventi che è stato possibile
arrivare a scoprire l’evoluzione della vita sulla terra come un processo unico.
È stato collegando le osservazioni sulla natura dei luoghi e sui loro abitanti che si potè
cogliere il nesso tra l’gli uni e gli altri, fondando nuove discipline come l’igiene e la
tossicologia ambientale, l’ecologia e per no, successivamente e con un salto inaspettato,
alcune regole fondamentali dell’economia e della sociologia.
Gli esempi sarebbero in niti e ormai sappiamo che quasi tutti i
settori della ricerca scienti ca ormai non si fondano più sul lavoro
di un solo genio eccezionale, inevitabilmente rarissimo, ma sulla
collaborazione di equipes spesso interdisciplinari, capaci di
ottenere risultati di grande portata grazie al lavoro sinergico di più
intelligenze e saperi.
Sul numero 14 di DFA (come ormai familiarmente, per brevità,
chiamiamo quesa rivista), il Prof. Chierichetti aveva
parlato dei neuroni specchio e del modo in cui le
neuroscienze stanno scoprendo che il nostro cervello
“legge” i gesti, le espressioni degli altri utilizzando le
informazioni che ne ricava per prepararsi a compiere
l’azione di risposta più appropriata, per valutare se
deve assumere un atteggiamento accogliente o
difensivo, se quel che ha di fronte lo emoziona e in
che modo.

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Questi argomenti li riprendemmo come spunto per il seminario “L’insostenibile pensiero del
bello” tenuto il 6 maggio scorso con i contributi, oltre che di Silvio Chierichetti, di Mara
Barbieri e Lorena Ranzani, per cominciare a capire meglio come il messaggio artistico, nelle
sue varie forme e attraverso i nostri sensi ad esse ricettivi, impatta sulla nostra mente, no a
modi carla e stimolarla.
Due anni fa avevamo avuto modo, nel corso
“Sicuri di essere sicuri? Lui la pensa così” del
2019-2020, di utilizzare gli studi di psicologia
comportamentale e di neurologia, per vedere
sotto una nuova luce le nostre reazioni
comportamentali e le nostre interpretazioni di
situazioni particolari e dei loro protagonisti sulla
scorta appunto dei neuroni specchio, della
lettura della “comunicazione non verbale” che il
nostro viso, le nostre mani e il nostro stesso
corpo produce, soprattutto involontariamente.
Il Prof. Amedeo Dibitonto ha spesso esposto, nelle sue lezioni di psicologia, quanto l’Io, l’Es
e il Superio interagiscano, tra loro e con i contesti con cui vengono a misurarsi, nel
determinare lo iato, la distonia più o meno ampia tra la nostra vera personalità e la
“maschera sociale” di cui la paludiamo quando la esponiamo (o la celiamo) agli altri.
Potremmo continuare ancora a citare richiami di questo aspetto del nostro essere umani, ma
qui ci preme di più notare come, nel contributo della Prof.ssa Evelina Raimondi che
troverete in questo numero di DFA, esso torni di nuovo in primo piano, questa volta
rivisitato e studiato sul piano loso co.
La lettera della nostra amica e docente si conclude con il suo abituale invito a ri ettere
sull’argomento propostoci e volentieri facciamo nostro tale invito, aggiungendovi quello di
provare a ricordare quanto in merito emerso negli altri momenti dell’attività dell’UTE sopra
richiamati: ne trarrete una visione ancora più chiara e sfaccettata della questione che, ne
siamo certi, non potrà che stuzzicare la voglia di andare ad approfondire ancora di più
questo argomento di studio. A noi è successo così.
Esistono però altri due strumenti che usiamo per trovare connessioni tra le nozioni che
abbiamo immagazzinato nella nostra memoria e per tesserne storie di senso sempre più
ricco e compiuto.
Uno è quello solo apparentemente “leggero” della poesia che, più ancora della prosa, riesce a
volte a darci immagini immediate e folgoranti di vicende, stati s’animo e situazioni usando
poche parole, poche frasi che sembrano sgorgare con una sorprendente naturalezza dal
profondo dell’animo del loro arte ce e con altrettanta facilità penetrano n nel profondo del
nostro sentire.
Raramente si intuisce quanto quei brevi versi in realtà solo di rado sono davvero frutto di
una ispirazione improvvisa tradotta immediatamente in quel risultato. Molto più spesso di
quanto si potrebbe credere e di quanto vorrebbe lo stesso poeta, c’è un faticoso lavoro di

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costruzione, di limatura e di ripensamento, dietro le sonorità e l’incisività di quelle righe.
Il vero poeta è probabilmente quello che sa compiere tutto questo sforzo senza distruggere,
ma anzi rinvigorendo e rendendo ancor più esplicita la freschezza dello slancio originario
che avevano fatto annotare la prima stesura della poesia.
Il risultato, però, riesce a far volare in alto come nuvole i messaggi più carichi di signi cato e
ad incidere a fondo nei nostri cuori con immagini delicate come piume.
È l’arte sartoria del poeta e per la prima volta, in attesa di parlarne più di usamente in altra
occasione, qui ne accenneremo con il contributo di alcune voci nuove per la nostra
Università.
Ma - ed è questo l’altro strumento da non dimenticare per comunicare tra noi - a produrre i
migliori risultati nel nostro parlarci, come nel nostro scriverci, è anche l’appropriazione
consapevole e il buon uso del linguaggio e dei valori, dei contenuti che sanno assumere e
dunque trasmettere i termini che lo compongono, quando vengano legati tra loro senza
spogliarli delle loro storie, dei mille richiami che possono far rimbalzare tra loro, quando
usate tenendo conto del loro suono, della loro metrica, dei loro signi cati attuali e
ancestrali, concreti e gurati.
Ne daremo in questo numero un piccolo esempio, che vuol essere il primo, se la cosa piacerà
e susciterà qualche interesse.

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Prendila con loso a
Evelina Raimondi

VOLTI E SGUARDI

Carissimi,
vi raggiungo all’inizio ormai dell’estate con – spero – l’ultimo contributo a
distanza: con do che presto sarà possibile tornare a incontrarci anche nelle nostre aule. Lo
abbiamo sperimentato tutti: per quanto la nostra tecnologia abbia enormemente aiutato in
questo tempo di distanziamento sico, sentiamo il bisogno dell’incontro vero, con tutti i
cinque sensi. Forse non (più) di incontri indiscriminati, ma di incontri veri.
L’incontro con l’altro è un essenziale bisogno dell’umano.
Fra i tanti riferimenti loso ci che sarebbe possibile citare su questo tema, torno a
Emmanuel Lévinas, che vi avevo già brevemente introdotto nello scorso contributo.

Nel semplice incontro di un uomo con l’altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione,
nell’«epifania» del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere

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con l’altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un
gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di ri uto.

Lévinas è il “ losofo del volto”: l’Altro si manifesta nel “faccia a faccia”, nel palesarsi in
particolare del volto, primo strumento di comunicazione, che interpella l’umanità. Scrive
Lévinas:

Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come
un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altro distrugge ad ogni istante e
oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia. [...] La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove:
nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia.

Nudo, esposto e vulnerabile, il volto coinvolge in una relazione etica: nell’incontro con il
volto, l’altro mi interpella e mi chiede di ricevere cura, di essere oggetto di considerazione.
L’altro ci interpella, ci chiede di “esserci”, di assumerci delle responsabilità.

L’Altro uomo non mi è indi erente, l’Altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola
“riguardare”. In francese si dice che “mi riguarda” qualcosa di cui mi occupo, ma “regarder” signi ca
anche “guardare in faccia” qualcosa, per prenderla in considerazione.

Sono mesi che i nostri volti sono costretti a nascondersi dietro mascherine, proprio quando
desideriamo o siamo costretti a ridurre il distanziamento sociale che le misure di
contenimento pandemico ci impongono: per incontrarci più da vicino, dobbiamo coprire una
parte del volto. Qualcuno ha scritto che “la scomparsa del viso dietro la mascherina dà vita a
un volto diverso che coincide con la maschera stessa”. Quanti di noi l’hanno forse pensato,
sperimentando di non riuscire più a riconoscerci facilmente.

La storia ha conosciuto altre situazioni in cui c’era bisogno di


coprirsi il volto (si pensi ad esempio alle maschere antigas nella
prima guerra mondiale), ma per tanti di noi è la prima volta
nella propria storia personale. Furio Jesi (germanista, storico,
traduttore, critico, militante, 1941-1980) connette la scomparsa
del volto nel Novecento con la guerra e la violenza: nel
Novecento mascherare il volto, no al presente, potrà signi care
l'assunzione programmatica di identità diverse, anche plurime e
anonime, anche per motivi di sicurezza.

Nel caso attuale, il volto è coperto nella sua metà inferiore


(“coprire bene naso e mento”): rimangono gli occhi. Senza più poter guardare il volto nella
sua integrità, nella nostra comunicazione ci siamo concentrati più sullo sguardo: abbiamo
imparato a “parlare con gli occhi”. Per comunicare, siamo tornati a guardarci negli occhi.
Eravamo abituati a sguardi distratti, super ciali se non astiosi, distratti nella frenesia delle
nostre vite urbane; ora ci a diamo all’incontro degli sguardi, come unico canale
comunicativo profondo rimasto nel momento in cui i corpi non si possono toccare e i volti

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sono nascosti a metà. Abbiamo sperimentato che “uno sguardo umano cambia la vita – e
persino la morte”.

Già Georg Simmel, uno dei pensatori sociali più lucidi


del Novecento (1858 – 1918), in diversi scritti tra il
1901 e il 1908 ha chiaramente espresso come il volto
nella storia culturale europea esprima l'individualità, a
sua volta identi cabile con gli occhi. “La vista o re nella
distanza la «prestazione sociologica» che connette gli
individui e presiede all'azione reciproca del «guardarsi
l’un l’altro». Lo sguardo instaura una relazione di
reciprocità: percepire l'altro è al tempo stesso esprimere
sé; il proprio manifestarsi coincide con la possibilità
della ricezione: «non si può prendere con l'occhio senza
dare contemporaneamente».

Lo scorso luglio, Enrico Manera, docente di storia e loso a e ricercatore presso l’Istituto
piemontese per la storia della Resistenza e della
società contemporanea di Torino, scrisse su
www.doppiozero.com un interessante articolo sul
tema, nella cui parte nale ricorda come in questo
nostro tempo, di distanziamento sico e di
avvicinamento virtuale, lo sguardo è un “reciproco
accesso all'interiorità, che può farsi violazione e
invasione da parte dello sguardo altrui (...) Negarsi
alla vista e negare il proprio sguardo è un
messaggio chiaro di distanziamento, può essere
una reazione a un percepito eccesso di visibilità e
vulnerabilità, una sovraesposizione per chi ha
vissuto con maggior intensità il proprio rifugio
domestico. Nulla di strano se in tempi di cili e di emergenza come questi qualcuno possa
sentirsi protetto e confortato dalle mascherine,
aumentando la difesa del sé sociale con una
copertura aggiuntiva del volto. La mascherina è
infatti addizionale rispetto alle varie 'maschere
sociali' che sempre portiamo o che ci siamo
lasciati imporre nei diversi ruoli che
interpretiamo nelle nostre vite. Il punto è (...)
che, per chi sappia leggere queste dinamiche vale
comunque l'assunto per cui ‘al primo sguardo
che rivolgiamo a qualcuno, noi sappiamo con chi
abbiamo a che fare’.

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Personalmente io ho colto in queste considerazioni alcuni interessanti spunti di ri essione
personale. Le ripropongo quindi anche a voi, sperando che potremo presto confrontarci
insieme.

Proposta di approfondimento personale

Dal volto allo sguardo:

• Cosa ha signi cato per me “proteggersi” coprendo il volto?

• Cosa comporta per me guardarsi più intensamente negli occhi?

Con tutta la ducia di poterci tornare ad incontrare per parlarne insieme di persona, con
tutti i nostri sensi, vi auguro una estate serena in cui sperimentare tutti i sensi della
comunicazione umana.

A presto!

14 giugno 2021 Evelina Raimondi

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Dialogo breve sulla poesia


tra Maurizio Fedeli e Giuseppe Carlo Airaghi

Ho rubato da Facebook questo breve scambio di idee “en passant” sulla poesia tra due amici che spero di
avere un giorno tra i docenti della nostra UTE: uno grande a abulatore come forse dalla nascita lo sono
molti toscani, estimatore di poesie e poeti come forse da Dante in poi lo sono volentieri i toscani, nonché
instancabile provocatore di discussioni appassionate e mai banali come i toscani lo sono da che esiste la
Toscana; l’altro Legnanese scopertosi e ormai fattosi scoprire poeta sotto le mentite spoglie di un impiegato
con troppo da dire per limitarsi a passar carte altrui.
Amando le loro storie e le poesie che l’uno cita spesso nei suoi post e l’altro ripropone dal repertorio della
sua produzione, mi sono imbattuto in questo breve scambio di idee sulla poesia e, a mia volta cultore del
genere e dei libri che ne parlano, nonché ostinato poetastro per gioco, ho chiesto loro il permesso di
riproporvi qui le loro parole, per invitarvi a ritornare su quanto abbiamo detto di recente sull’arte e su
come sappia stimolare la nostra mente.
Chi non ha scritto o non avrebbe voluto avere il coraggio di scrivere una poesia, almeno una volta, magari
da adolescente? Riuscirci ancora da adulto è davvero così bizzarro, infantile o riservato a pochi strani
personaggi in bilico tra la follia e la grazia ispirata?
A voi l’ardua sentenza.

Maurizio Fedeli (6 maggio 2021)

Vi è solo un unico
contrappeso
contro l’infelicità:
bisogna cercarlo
e trovarlo
e questa è felicità

Es gibt nur
ein einziges
Gegengewicht
Gegen Unglueck:
das muss man
suchen
und nden
und das ist Glueck

Così scriveva Erich Fried, poeta austriaco infelice e fuggiasco, ebreo esule dopo l’Anschluss
hitleriano della sua patria ormai perduta nel buio profondo del Terzo Reich.

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Per chi conosce il tedesco ben comprenderà che la versione originale di questi versi è più
cupa e le parole risultano come scolpite nella durezza sillabica della lingua tedesca:
C'è un motivo perché stasera propongo questo poeta: perché oggi è un secolo esatto dalla
sua nascita (6 maggio 1921, Vienna).
Lui, ebreo, fu costretto a fuggire in Gran Bretagna nel 1938 assieme a tanti altri suoi
compatrioti di fede israelita (ad esempio, alla malinconica e lunga tradotta verso l’esilio
partecipò anche Sigmund Freud) ed è stato riscoperto solo di recente, in patria e altrove, per
la carica di rabbiosa ira, il desiderio di risarcimento morale e l’avversione a ogni
compromesso etico che vibrano nei suoi versi, in cui ribellione e coraggio civile si fondono
in un’unica voce di denuncia.
Che ne dici Giuseppe Carlo Airaghi, i poeti salveranno davvero il mondo?

Giuseppe Carlo Airaghi

Ah allora insisti!
Visto che siamo in vena di citazioni ne prenderò in prestito due.
La prima è questa:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno
che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non so rirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte no al punto di non
vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
(Calvino, Le città invisibili)”.
Questo dovrebbero fare gli esseri umani e questo dovrebbe fare chi scrive poesie che non
siano ricerca di consolazione ma di ori in mezzo al fango.
La seconda citazione è un classicissimo:
Dostoevski “La bellezza salverà il mondo”.
Beh per me la poesia non è bellezza, ma ricerca di verità.
La verità salverà il mondo?

Oggi sulle pagine de L'EstroVerso alcuni miei testi e le mie indecise risposte a Grazia
Calanna sul linguaggio della poesia.

[segue il link per l’intervista https://www.lestroverso.it/giuseppe-carlo-airaghi-la-poesia-e-uno-sguardo-


non-addomesticato/, che qui riproduciamo per intero, NdR]

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Da: L’Estroverso 19 giugno 2021

Giuseppe Carlo Airaghi “La poesia è uno sguardo non addomesticato”

Intervista di Grazia Calanna a Giuseppe Carlo Airaghi

Giuseppe Carlo Airaghi è nato e vive in provincia di Milano. Ha pubblicato le raccolte di poesia “I
quaderni dell’aspettativa” (Italicpequod, 2019), “Quello che ancora restava da dire” (Fara Editore,
2020) e il romanzo “I sorrisi fraintesi dei ballerini” (Fara Editore 2021). Suoi componimenti sono inclusi
in “iPoet Lunario in Versi 2019” (Lietocolle, 2019) e sulle pagine web delle riviste letterarie “Versante
Ripido”, “Il Punto Almanacco di poesia”, “Il raccoglitore”, “LiberoLibro”, “Suite Italiana”, “Il
Visionario”, “Kult Underground”, “Poesia Ultracontemporanea”, “Centro Culturale Tina Modotti” e
“Poeti Oggi”.

Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia; la forma quanto incide
sull’essenzialità della parola poetica e in che modo la vita diventa linguaggio?

Oggi non sono in grado di de nire quale debba o possa essere la lingua ideale della poesia. A
malapena sono in grado di abbozzare un’ipotesi a riguardo della lingua della mia poesia, di
quella che scrivo attualmente. Se fossi pienamente coerente con questa introduzione dovrei
passare direttamente alla prossima domanda; azzarderò invece un tentativo di risposta
perché ci sono già troppe domande inevase al mondo e soprattutto perché non si possono
trovare risposte se non si a rontano le domande. Sono consapevole che il particolare utilizzo
della lingua sia ciò che distingue la poesia dalle altre manifestazioni letterarie ma nel mio
modo di intendere la scrittura non è la lingua ma è l’occhio l’organo primario. La poesia è,
per me, uno sguardo non addomesticato, un modo particolare di guardare le cose del
mondo, di cogliere realtà e speculazione da prospettive e punti di vista inusuali ed
eccentrici. Una peculiare visione che in campo artistico può esprimersi attraverso medium
di erenti (pittura, cinema, letteratura, musica…) e che come risultato spalanca orizzonti
inaspettati, produce e restituisce idee e immagini stupite, non conformi, marginali e
conseguentemente emarginabili. La poesia, intesa come componimento letterario, è un
oggetto molto elementare, composto esclusivamente da parole e nelle mie parole vorrei
convergessero le immagini frutto della mia visione e la voce addestrata dal mio personale
vocabolario, dal luogo e dal tempo in cui vivo. La lingua è, per me, la conseguenza della
visione e il veicolo necessario per esprimerla. Se la poesia si limitasse ad un lavoro sulla
lingua non sarebbe che un gioco di prestigio, un esercizio di stile, uno sfoggio di cultura e di
abilità enigmistica. Nella scrittura tendo a evitare le eccentricità forzate e cerco di mantenere
un lessico condiviso e una costruzione sintattica semplice, anche a rischio di s orare il
prosastico. Ritengo che questa scelta estetica sia contemporaneamente una scelta etica.

La poesia è tale se diventa portatrice di una visione che non è individuale (bensì
sovraindividuale), qual è la tua opinione in merito?

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Nella mia esperienza di lettore di poesia quando mi imbatto in immagini e caci le riconosco
come portatrici di signi cato ancora prima di comprenderle razionalmente. Questo avviene
quando esiste un collegamento tra la mia esperienza e l’immagine metaforica, personale e
soggettiva che il poeta manifesta, quando la soggettività dell’artista esprime un valore
simbolico che è universalmente condivisibile e riconoscibile. Il simbolo “è una proiezione
della soggettività verso il mondo” e il valore dell’operazione artistica sta in questa
soggettività che si fa condivisibile e riconoscibile tanto da permettere al lettore di farla
propria. Quando questa generosità o questa capacità non si concretizza si innesca un
cortocircuito che esclude il lettore. Per il mio gusto di lettore questo avviene quando mi
scontro con testi così solipsistici e ombelicali da rasentare il masturbatorio, tesi verso una
arti ciosa complicazione del lessico dove la parola si sgancia dalla vita per dire soltanto se
stessa e nisce per escludere il lettore e allontanarlo dalla poesia. Da parte mia tento di
confrontarmi con temi quotidiani e universali: il senso di colpa, di inadeguatezza, le ipocrisie
che ipocritamente perdoniamo solo a noi stessi, insomma le crepe che ci segnano e tento di
farlo usando dettagli visivi chiari, contestualizzati e comprensibili, e quando possibile
simbolici. Per lo meno questa è l’ambizione, riuscirci è un’altra cosa.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dai tuoi
libri “I quaderni dell’aspettativa” e “Quello che ancora restava da dire”; di queste
scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della
prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere
(e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Ho scelto “L’amante dei gatti” non perché sia un testo particolarmente riuscito e neppure
perché ci sia particolarmente a ezionato. L’ho scelto perché è un sopravvissuto. Da poco
tempo ho trovato il coraggio e la presunzione di condividere le mie poesie ma è da quando
ero ragazzino che scrivo. La maggior parte di quello che ho scritto negli anni è nito
giustamente nel cestino della carta straccia, non questa poesia che ha resistito caparbia a
decine di modi che e ritocchi. Fa parte di una sezione intitolata “Le voci dall’altra parte del
muro”. Tutta la sezione è un furto all’antologia di Spoon River, là parlavano i morti qui
parlano i malati mentali. In un caso e nell’altro la voce narrante non ha più necessità di
mentire.

Sul bordo delle cose

Si nisce così a guardare il mare


nei vuoti pomeriggi di inverno,
a cercare la linea dove diventa cielo
si capovolge e ci confonde.

Si nisce così a scrivere parole


sui bordi bianchi dei giornali,

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a vederle bruciare
e confondersi con la nebbia.

Di padre in glio, ancora

In un sogno sgradito,
che avremmo tentato di dimenticare
una volta spalancate le persiane,
un glio (restiamo sul generico)
colpiva in pieno volto il padre con un pugno,
rompendogli gli occhiali comprati da poco,
un patto considerato implicito
e i progetti per le vacanze future.
Ma al di là dello strepito incluso
e dei rimorsi che verranno velocemente elusi,
a quella drammatica scena mancò
una reazione conseguente
e una colonna sonora adeguata
(se si esclude il sottofondo singhiozzante
del pianto, responsabile, della madre)
Si compiono gesti che appaiono enormi
eppure non sortiscono conseguenza alcuna.
Non solo non producono reazioni proporzionali
all’enormità del gesto compiuto
ma rischiano addirittura di passare in cavalleria).
Il glio uscirà comunque
incontro alla sera che lo aspettava
uguale a mille altre che l’hanno preceduta
conservando nelle tasche dei calzoni
lo sconforto di qualcosa di perduto
a cui non si potrà più chiedere “per favore”.
Il padre, inabissato nel divano,
comprenderà di avere sprecato un dono
per il quale non era giusto pretendere riconoscenza.
Capirà che tutti avevano ragione tranne lui.
Seguiterà a seguire in televisione
(gli occhiali tenuti insieme dal nastro adesivo)
la seconda parte di un documentario
su di un pittore morto suicida.
Terrà a bada l’anima sotto una coperta con le frange
rimpiangendo i tempi in cui aveva una bella voce

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e amava cantare
illudendosi di essere un contemporaneo.

L’amante dei gatti

A di erenza mia
il mio gatto,
che ducioso mi si acciambella al anco,
non sa
che ancora dovrà ripararsi dalla pioggia,
assistere impotente al volo delle rondini
dal cornicione dirimpetto,
dovrà fuggire l’insidia del cane,
l’indi erenza letale delle auto,
dovrà gra are per gioco
la mano che lo stuzzica,
dovrà ammalarsi, invecchiare, trascinarsi nell’angolo
che sceglierà per morire.
A di erenza mia il mio gatto,
che sonnecchia ore sul divano,
non conosce l’oppressione del domani,
non lo teme, non si a retta.
Non conosce il tempo,
le sue unghie implacabili
che gli scavano i tendini.
Sarà per questo che mi guarda superbo,
perché possiede il dono prezioso e improduttivo
di non comprendere nient’altro
che l’attimo che sta vivendo.

Excusatio non petita…

Nato in un paese di modesti temporali,


in un tempo rassegnato alla brina,
non mi resta che ambire
ad una mediocrità accettabile,
guardare scivolare le nuvole
oltre la linea a lata dei tetti
mentre con il coltello da cucina

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tolgo le punte ai fagiolini
e canto canzoni a bocca chiusa.

La foglia verde

Qui, dove tutto ci dimostra


che è solamente febbraio
(quale altra de nizione potremmo azzardare?),
sediamo, dando le spalle al senso di marcia,
sedotti dall’illusione che si tratti di un gioco
che potremo interrompere
al richiamo per la cena,
una sorta di autoconsolazione,
un lieto ne scontato in dissolvenza.
Ci arrendiamo al sollievo
della rassegnazione della sera,
mettendo a tacere l’impressione sgradita
di non aver compreso appieno i segni
che avrebbero potuto rivelarci i motivi.
Il tra co è un alone trascurabile
sulla condensa umida dei vetri,
le donne che attraversano la strada
sono donne bellissime
nei loro cappotti di luce,
nei loro volti di erba nuova,
nelle promesse dei loro silenzi.
Persino il conducente del tram,
a quest’ora di sera, nel tepore che stordisce
accarezza i propri desideri muti
nel silenzio di uno sguardo dritto sulla strada
e abbozza un sorriso di foglia verde
malgrado il buio
di questo febbraio.

La visione del mondo dal mio letto

Lo specchio sulla cassettiera


mostra il vuoto della parete bianca.
Se mi sposto, anche di poco,
svela una macchia di ciclamino

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sopra il muro cieco del cortile,
spalanca il ri esso
di un cielo ino ensivo, bianco
come il palmo della mano incisa
dai solchi della luce ltrata
tra le aste delle persiane.

Lo specchio spalanca assenze, le colma,


accoglie prospettive insospettate:
il viso di un uomo mi guarda
dal margine di una foto di gruppo,
non sorride come gli altri compagni
ai giorni che dovranno venire,
ne agli sguardi che giudicheranno le pose,
al caso in procinto di mutarsi in destino,
alle asserzioni sconfessate
da un breve ri esso di luce.

Maurizio Fedeli

Giuseppe Carlo Airaghi  l'uomo nasce poeta … era un poeta componendo nel linguaggio le
proprie espressioni di meraviglia dolore di fronte alla durezza della vita … evolvendosi ha
pensato, avendo preso piena capacità di esprimersi, di relegare la capacità di esprimere
sentimenti a solo un fatto elitario ... perdendo la capacità di comprendere quello che gli
accade intorno … non essendo più un poeta non comprende più la poesia del mondo, della
natura della umanità e così la distrugge … per questo occorrono i poeti … e la poesia salverà
il mondo.

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Una parola, mille storie:
Tarantella
d a l S i t o We b “ u n a Pa r o l a a l G i o r n o ”
1

ta-ran-tèl-la

SIGNIFICATO  Danza popolare e relativa musica, d’andamento vivace o vivacissimo,


peculiare dell’Italia meridionale

ETIMOLOGIA  secondo la maggior parte degli studiosi, diminutivo di derivazione


toponomastica, dal nome della città di Taranto.
Generalmente i dizionari etimologici assegnano l’origine dei nomi ‘tarantola’ e ‘tarantella’
alla città di Taranto.  Tuttavia, alcuni sostengono che l’appellativo del temutissimo ragno
provenga dal latino tĕrĕre: ‘sfregare, battere, estenuare’. Forse questi signi cati potrebbero
essere collegati anche al ballo, che ha nel tamburello lo strumento caratteristico, o allo
s nimento sico prodotto dai movimenti… Inoltre, l’animale e la danza sembrano avere
legami di lunga data, sebbene non siano scienti camente validati.
La tarantella rappresenta l’espressione più  famosa  nel mondo della coreutica musicale
popolare italiana e la sua di usione si estende dal sud del Lazio a tutta la Sicilia.
È considerata un ballo che mima il corteggiamento; una coppia attorniata da altre in cerchio
è accompagnata da castagnette e tamburelli, suonati dagli stessi danzatori. Musicalmente è
in tempo ternario: provate a pronunciare più volte di seguito «Nà-po-li, Nà-po-li… » e la
tarantella è già nell’aria! Talvolta il ritmo accelera gradualmente, no a un vortice
parossistico. Ma c’è altro.
L’allegria  che sprizza dalla tarantella ha radici nel Medioevo, quando in Europa la paura
della morte niva con l’esternarsi in balli furiosi; le persone danzavano, saltavano, giravano

1 https://unaparolaalgiorno.it/ e, per questa parola: https://unaparolaalgiorno.it/signi cato/


tarantella?rm=_

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freneticamente, anche per ore o per giorni, sino a s nirsi. Questi rituali avvenivano spesso
in una chiesa o davanti a un sagrato e prendevano varie denominazioni. L’Italia meridionale
conobbe una follia ballerina simile. Dal XV al XVII secolo correva una malattia nota come
tarantismo, supposta conseguenza del morso della tarantola. Nel 1541 Francesco Berni
parodiava l’Orlando innamorato del Boiardo:

Come in Puglia si fa contra al veleno


Di quelle bestie che mordon coloro
Che fanno poi pazzie da spiritati,
e chiamansi in vulgar Tarantolati.
Et bisogna trovare un che sonando
Un pezzo, trovi un son ch’al morso piaccia,
Sul qual ballando, & nel ballar sudando,
Colui da sé la era peste caccia.
(Francesco Berni, Orlando innamorato nuovamente composto… II, xvii, 6)

La  credenza  popolare voleva infatti che il veleno della tarantola, grazie alla danza, venisse
eliminato col sudore.

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L’erudito gesuita Athanasius Kircher nel suo  Magnes sive de Arte Magnetica  (1641)
trascrisse otto brevi formule musicali usate proprio
per curare il tarantismo.  Qui  si può ascoltare
l’interpretazione ‘colta’ di una tarantella napoletana
trasmessaci da Kircher.
Intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso Ernesto
De Martino, Diego Carpitella e altri insigni
etnomusicologi registrarono dal vivo le tarantelle del
nostro Mezzogiorno, realizzando studi pionieristici
che contribuirono a  conferire  al folklore e
all’etnomusicologia italiana la dignità di scienza.2
Le  terapie  coreutico-musicali potrebbero avere
antecedenti storici nella katharsis musicale greca o nel
coribantismo (antica tecnica per curare la possessione
per mezzo della musica). Forse  Tarentum, in
greco  Taras, oggi Taranto, diede i natali alla danza e
l’aracnide si aggiunse dopo.
Il tarantismo non fu ritenuto dagli studiosi un’isteria,
ma una rappresentazione della possessione
conseguente al morso della tarantola.  Uno straordinario servizio RAI  del 1962 documenta
che, similmente alle pratiche esorcistiche, all’invasamento  iniziale seguiva il controllo
della crisi.3
Alcune tarantelle (ecco un esempio  calabrese) sono composte da formule brevi e semplici,
reiterate molte volte.
Gli organici sono vari e ‘rustici’; nel Salento si parte dal modello ‘base’, con una voce sola o
un violino, aggiungendo via via tamburello, chitarra, mandolino, organetto.
Testi e melodie possono avere origini disparate, anche provenendo da àmbiti esterni e
adattati al folklore locale. La pizzica tarantata oggi è estinta4; tra le poche testimonianze
superstiti esiste  un documentario del 1962, commentato nientedimeno che da Salvatore
Quasimodo. Quella che conosciamo dai palcoscenici delle odierne feste di piazza è una
‘pizzica’ reinventata, divenuta un lone di successo della musica popolare.5
Nei secoli XIX e XX la tarantella ha ricevuto nuova vita nella musica cólta, composta
generalmente in tempo 6/8 e con le agogiche (indicazioni relative al carattere e alla velocità
esecutiva) Presto, Prestissimo, o Vivace.

2 https://www.youtube.com/watch?v=PTi_hAdwsR0
3 https://www.youtube.com/watch?v=wmbXOdI1yhE
4 https://ifg.uniurb.it/static/lavori- ne-corso-2002/iovane/salento_quasimodo.htm
5 https://www.youtube.com/watch?v=74lfd3dgshI

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Così è, per esempio, la famosa  Danza  di Rossini,  qui cantata dal compianto Luciano
Pavarotti: https://www.youtube.com/watch?v=5FsKXrLMBt4.

Già la luna è in mezzo al mare, Salta, salta, gira, gira,


mamma mia, si salterà! ogni coppia a cerchiova,
L'ora è bella per danzare, già s'avvanza, si ritira
chi è in amor non mancherà. e all' assalto tornerà.
Già la luna è in mezzo al mare, Salta, salta, gira, gira,
mamma mia, si salterà! ogni coppia a cerchiova,
L'ora è bella per danzare, già s'avvanza, si ritira
chi è in amor non mancherà. e all' assalto tornerà.
Già la luna è in mezzo al mare, Già s'avvanza, si ritira
mamma mia, si salterà! e all' assalto tornerà!
Presto in danza a tondo, a tondo,
donne mie venite quà, Sera, sera, colla bionda,
un garzon bello e giocondo colla bruna và quà e là
a ciascuna toccherà, colla rosa và a seconda,
nchè in ciel brilla una stella colla smorta fermo stà.
e la luna splenderà. Viva il ballo a tondo a tondo,
Il più bel con la più bella sono un Re, sono un Bascià,
tutta notte danzerà. e il più bel piacer del mondo
la più cara voluttà.
Mamma mia, mamma mia,
già la luna è in mezzo al mare, Mamma mia, mamma mia,
mamma mia, mamma mia, già la luna è in mezzo al mare,
mamma mia, si salterà. mamma mia, mamma mia,
Frinche, frinche, frinche, mamma mia, si salterà.
frinche, frinche, frinche, Frinche, frinche, frinche,
mamma mia, se salterà. frinche, frinche, frinche,
Frinche, frinche, frinche, mamma mia, se salterà.
frinche, frinche, frinche, Frinche, frinche, frinche,
mamma mia, se salterà. frinche, frinche, frinche,
La la ra la ra mamma mia, se salterà.
la ra la la ra la La la ra la ra
la la ra la ra la ra la la ra la
la ra la la ra la la la ra la ra
au la ra la ra la ra la la ra la
la ra la la ra la au la ra la ra
la la ra la ra la ra la la ra la
la la la la ra la! la la ra la ra
la la la la ra la!

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Nell’uso gurato ha trovato la sua nicchia ideale in campo politico, dove brulicano i
proclami rumorosi e ossessivi degli esponenti di partito, oppure nello  scaricabarile  delle
responsabilità, o in altri rimandi negativi.
Cionondimeno, la tarantella rimane foriera di salute e di allegria, e riallaccia i nostri legami
con un tempo primigenio profumato di mirto, di lentisco e di mare.

Anonimo ( tarantella napoletana 1899-1950) - Olio su tela napoletano non Firmato

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COLLEGAMENTI

I numeri di questa rivista, che è ad uso dei soli iscritti e docenti della UTE ed è quindi gratuita, possono essere scaricati in
formato PDF dal sito della UTE, nella pagina riservata agli iscritti e ai docenti e non possono essere posti in vendita.

Abbiamo parlato di poesia e ci pare giusto usare questa rubrica, oggi, per suggerirvi alcuni
link che vi possano permettere di gustare un po’ ancora di quel balsamo.

• https://www.youtube.com/watch?v=cZNw8TU0Z7c
Poesie di Alda Merini recitate da lei stessa,

• https://www.youtube.com/watch?v=iHIRpHXLyjs
Paulo Coelho - sei tu (poesia recitata)

•h t t p s : / / w w w . y o u t u b e . c o m / w a t c h ?
v=MBmSXJJvhLY&list=PLxhv5SkuFGXA7v8uCwo2PURcDGAjbiTSD
•h t t p s : / / w w w . y o u t u b e . c o m / w a t c h ?
v=kckY5j17LPY&list=PLxhv5SkuFGXA7v8uCwo2PURcDGAjbiTSD&index=2
Pablo Neruda: "SE A POCO A POCO CESSI DI AMARMI" e “ABBIAMO PERSO
ANCHE QUESTO CREPUSCOLO”, recitate da Gianni Caputo

• https://www.youtube.com/watch?v=vVXZk4Dwomo
Salvatore Quasimodo: “Alle fronde dei salici”

• https://www.youtube.com/watch?v=-GU_wBB8vDM
Eugenio Montale: “I Limoni” recitata da Nando Gazzolo

• https://www.youtube.com/watch?v=K-F5AOPqRU8
Rudyard Kipling “Se”, recitata da Alberto Lupo

A voi cercarne in nite altre, … o magari a cimentarvi voi nella lettura ad alta voce, per voi
soli, … o a scrivere ciò che vi dettano i pensieri.

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DICIAMOLO PURE

Questa rubrica è destinata ad accogliere le lettere dei lettori e le risposte dei destinatari delle loro eventuali richieste
dirette allo sta dell’UTE o a singoli docenti che ritengano utile condividere con tutti gli iscritti lo scambio epistolare.

Rivolgo io, qui, una richiesta ai nostri lettori, con particolare riferimento agli iscritti alla nostra UTE,
riprendendo quanto detto nell’editoriale di questo numero e, a più riprese, nelle lettere inviate per e-mail
tramite la nostra Segreteria.
Avreste un tema che vi piacerebbe veder approfondito in un seminario tra alcuni dei nostri
docenti, ciascuno vedendo la questione posta dal punto di vista della propria disciplina?
Volentieri potremmo provare ad organizzare un simile evento in teleconferenza.
Mandate le vostre proposte all’indirizzo della nostra Segreteria (segreteria_ute@outlook.it) e se i docenti
che possono dire la loro sull’argomento saranno disponibili, cercheremo di realizzare la cosa.

Se invece avete delle vostre considerazioni da fare sul periodo che stiamo vivendo, inviatecele e le
pubblicheremo qui come “lettere dei lettori”.
Sui prossimi numeri della rivista, oltre ad alcune lezioni dei corsi programmati, a cura dei rispettivi
docenti, troverete alcune osservazioni in tal senso, che cercheranno di fare il punto su alcuni degli
argomenti che in queste settimane si stanno a astellando sulle pagine dei giornali e nei notiziari TV, senza
purtroppo molto ordine e l’attenzione alla chiarezza e alla concretezza dei contenuti che si richiederebbe
per aiutare la gente a capire e non solo ad emozionarsi.

Se avete amici iscritti alla nostra UTE che però non utilizzano apparecchiature che consentano loro di
sfruttare quanto mettiamo a disposizione nell’area riservata del nostro sito, per favore, dite loro che, se
vogliono, possono almeno ottenere le fotocopie dei numeri di Dire, Fare, Ascoltare al costo delle sole
stampe (in bianco e nero o a colori) presso la copisteria Copy94 di Via Manzoni 21, a Lainate, cui
inviamo per questo il le di ogni numero della rivista.
Se non volete fare la coda per aspettare i pochi minuti necessari per la stampa dei numeri che richiedete,
potete telefonare prima al numero 029373961 per conoscere il costo e poterli poi trovare già pronti per
quando vi diranno.

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PASSATO & FUTURO

Una delle proposte che UTE lancerà dal prossimo Anno Accademico sarà la sperimentazione
di alcuni Gruppi di Lettura: gruppi necessariamente limitati di iscritti che insieme a un
docente si daranno appuntamento, on line o in presenza in una sede adeguata, per leggere
insieme e commentare, un poco per volta, un libro scelto da quest’ultimo, classico o
moderno, di prosa o di poesie.
Avremo modo di riparlarne e non è detto che questa estate, tanto per “far pratica” e “vedere
come va”, non si faccia una prima prova con alcune poesie, che hanno il vantaggio di non
richiedere molto tempo per leggerne qualcuna e discuterne un po’ (potremmo restare entro
l’oretta) o di ssare più appuntamenti.
Se qualcuno volesse far sapere il suo interessamento a partecipare all’esperienza alla
Segreteria, al solito indirizzo segreteria_ute@outlook.it, avremo già un‘indicazione della
vostra adesione e sapremo se impegnarci ad organizzare l’incontro e come.
Se ci fossero, diciamo, da 5 a 10 persone interessate, si potrebbe fare e io mi rendo
disponibile n d’ora a far da cavia.
Giovanni Borroni

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