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H.L. Bergson
H.L. Bergson
1 – Vita e opere
Henri Bergson nasce a Parigi nel 1859 da famiglia ebrea di origine polacca.
Dopo gli studi liceali, durante i quali dimostra già uno spiccato interesse per
gli studi scientifici, si iscrive alla Scuola Normale di Parigi, dove segue i corsi
del filosofo spiritualista Émile Boutroux, laureandosi sia in filosofia che in
matematica. Dopo la laurea approfondisce la sua preparazione filosofica sui
testi del filosofo evoluzionista Herbert Spencer.
Per il conseguimento del dottorato in filosofia nel 1889 presenta due tesi, una
complementare su Aristotele e quella principale intitolata: Saggio sui dati
immediati della coscienza, che rappresenta anche il suo primo importante
lavoro filosofico.
In questo saggio discute criticamente i concetti di spazio e tempo,
prendendo le distanze dalla tradizionale impostazione meccanicistica e
inaugurando una nuova attenzione alla dimensione qualitativa, tipica della
concreta esperienza vissuta.
Una nuova teoria dell’esperienza viene infatti elaborata nell’opera del 1896,
Materia e memoria, in cui il filosofo affronta l’analisi della vita della
coscienza a partire dal presupposto (tipico dello spiritualismo francese)
dell’autonomia della coscienza rispetto alla materia.
La teoria è “nuova” soprattutto rispetto al paradigma positivistico fino ad allora imperante che, a partire proprio dal
fondatore Auguste Comte, aveva escluso la possibilità di una trattazione “scientifica” della vita interiore in quanto
oggettivamente “non osservabile”.
Dopo la pubblicazione di Materia e memoria (che tra l’altro suscitò l’interesse di Marcel Proust, di cui Bergson
sposò una cugina), nel 1897 diventa “Maître de conferences” all’École normale e in seguito, nel 1899, viene
chiamato al College de France, dove il suo insegnamento ottiene un grande successo di pubblico.
Nel 1900 pubblica, sempre con successo, il saggio Il riso, in cui espone le sue teorie sull’arte.
Nell’Introduzione alla Metafisica, del 1903, Bergson mette a punto e rende esplicito il metodo dell’”intuizione”,
ovvero il metodo della filosofia che, diversamente dal metodo “analitico” delle scienze, ci permette di accedere ai
contenuti interiori della coscienza.
Dal 1907, con la pubblicazione de L’evoluzione creatrice, Bergson inaugura una seconda fase della sua riflessione
filosofica. Mentre prima il nucleo del suo pensiero era la vita della coscienza, ora è la vita dell’intero universo,
concepita come lo slancio di una forza spirituale, libera e creatrice, che si manifesta in tutte le forme dell’esistente.
Questa reinterpretazione dell’evoluzionismo (si pensi agli studi su Spencer) è accomunata alla prima fase della sua
ricerca (gli studi sul “tempo della coscienza”) dal comun denominatore vitalistico, dall’idea cioè che la realtà è
flusso, durata, slancio creatore che si articola in discontinuità qualitative.
Successivamente a L’evoluzione creatrice Bergson si dedica ad una sintesi del suo pensiero filosofico con
L’energia spirituale (1919) e ad un serrato confronto critico con la teoria della relatività ristretta di Einstein in Durata
e simultaneità (1922). A questo proposito bisogna ricordare che il 6 aprile del 1922 Bergson si confrontò
pubblicamente con Einstein alla Socièté française de Philosophie, dove ebbe modo di ribadire il suo punto di vista
critico nei confronti dell’approccio matematizzante del grande scienziato tedesco.
Nel 1928 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura.
Nel 1932 pubblica quella che si può considerare la sua ultima grande opera: Le due fonti della morale e della
religione, in cui Bergson, contrapponendosi al clima di intolleranza diffusosi in Europa con l’avvento dei totalitarismi,
difende teoreticamente e appassionatamente una società aperta e una religione dinamica, contro le società chiuse
e le religioni statiche.
La riprova di questo atteggiamento spirituale e politico la troviamo nelle vicissitudini relative all’ultimo periodo della
sua vita. Infatti Bergson, di origini ebraiche, negli ultimi anni si era avvicinato al cristianesimo (cattolico), ritenuto più
coerente con le sue posizioni filosofiche, ma rinuncia ad una vera e propria conversione proprio di fronte all’avvento
del nazismo, alle leggi razziali e alla conseguente ondata di antisemitismo, preferendo “restare tra quelli che
domani saranno perseguitati”, come dichiarò nel testamento redatto in data 8 febbraio 1937. Durante l’invasione
tedesca di Parigi, nel 1939, Bergson rifiuta qualsiasi trattamento di favore, che pure gli era stato offerto in virtù della
sua fama, per condividere il destino della restante comunità ebraica.
Muore, infatti, il 4 gennaio 1941 nel settore ebraico di un ospedale di Parigi occupata dai nazisti.
Nel frattempo, nel 1934, aveva pubblicato una raccolta di saggi e conferenze, dal titolo Il pensiero e il movimento,
contenente l’Introduzione alla Metafisica del 1903.
2 – Tra “spiritualismo” e “positivismo”
2
La dimostrazione empirica di questa ipotesi bergsoniana si trova nelle ricerche di Psicologia genetica di Jean Piaget
del 1946 (Lo sviluppo della nozione di tempo nel bambino, La Nuova Italia, FI, 1979). Nei bambini di età prescolare la
nozione del tempo è intuitiva e si fonda da un lato sulla percezione dell’ordine di successione degli eventi, dall’altro
sulla valutazione soggettiva delle durate basandosi, per esempio, sullo sforzo compiuto o sulla stanchezza. In seguito,
però, vivendo immersi nella civiltà tecnologica occidentale (che è lo sfondo culturale degli studi piagetiani), i bambini
imparano ad astrarre dal vissuto soggettivo e a considerare solo i dati cronometrici, ovvero il tempo spazializzato.
spazio, esprimiamo la durata attraverso l’estensione, e la successione assume per noi la forma di una linea continua o di
una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi>> 3.
La concezione “spazializzata” del tempo viene anche paragonata da Bergson ad una collana di perle i cui
grani (tutti uguali tra di loro) sono meccanicamente accostati gli uni agli altri, senza compenetrarsi
reciprocamente, mentre il fluire della “durata reale” viene paragonato all’arrotolarsi di un filo su un gomitolo
“poiché il nostro passato ci segue, e s’ingrossa, senza sosta, del presente che raccoglie sul suo cammino”.
Per questo motivo ogni momento della coscienza è irripetibile perché è il risultato di tutti i momenti
precedenti e, quindi, assolutamente nuovo rispetto ad essi. Tali momenti sono quindi differenti
qualitativamente, anche se in realtà non possono essere distinti l’uno dall’altro se non quando sono già
trascorsi: “coscienza significa memoria”. L’io vive il presente con la memoria del passato e l’anticipazione
del futuro; passato e futuro possono vivere soltanto in una coscienza che li salda nel presente.
Così l’intero svolgersi di un’esperienza (la “durata reale”) è anche irreversibile. Mentre tutti i procedimenti
scientifici, in quanto fondati sui rapporti spazio-temporali tra i fenomeni, devono essere ripetibili e reversibili,
nel tempo vissuto non è mai possibile tornare indietro poiché la durata è una sequenza continua che si
accresce, sia per accumulazione successiva, sia per mutua compenetrazione dei fatti di coscienza.
3
Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere, 1889-1896, Mondadori, MI, 1986, pp. 59-60
Che il tempo della vita sia irripetibile e irreversibile lo sa bene il protagonista della Recherche4 di
Marcel Proust. Infatti, anche se l’ultima parte della monumentale opera si intitola Il tempo ritrovato (titolo che
si giustifica solo per la funzione salvifica attribuita da Proust all’arte che, cogliendo e fissando l’essenza delle
cose, riesce a sottrarle “poeticamente” al flusso deformante del tempo) essa rappresenta una strenua ed
impari lotta contro il divenire temporale che travolge e disintegra tutte le sensazioni e le cose. In particolare,
l’impossibilità per il protagonista di possedere interamente l’amata Albertine non dipende tanto dalla sua
fuggevolezza o infedeltà, ma per una ragione più profonda: perché l’azione del tempo ha già contribuito a
formare in quel determinato modo la persona di Albertine e al suo innamorato non sarà più possibile
recuperare quel passato che non ha vissuto con lei, dal quale è stato escluso per sempre, e trasformarlo in
esperienze condivise.
Così la coscienza di Albertine (che, dal punto di vista di Bergson, altro non è che memoria) rimane
inaccessibile per il suo innamorato che, anche tenendo prigioniera presso di sé la giovane donna, è costretto
a constatare con struggimento che può solo sfiorare il chiuso involucro dell’essere amato, la cui vita interiore
profonda gli rimane preclusa.
Il presente di Alberatine, come di ogni altro essere umano, non è solo un fotogramma che si aggiunge a tutti i
fotogrammi del passato, bensì il risultato di una compenetrazione tra tutti i ricordi passati e il presente a
formare la continuità della coscienza in perenne ristrutturazione di se stessa.
Sul concetto di durata come continuità, rispetto al tempo concepito come somma di intervalli omogenei, si
possono confrontare le due seguenti opere futuriste:
Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912) di Forme uniche della continuità nello spazio (1913);
Giacomo Balla – Buffalo, New York (collezione privata) bronzo di Umberto Boccioni – Milano, Galleria d’Arte Cont.
4
Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino, 2008, XXIX-2340 pp.
Se la vita interiore si caratterizza per la compenetrazione e la reciproca integrazione di tutti gli elementi che
la compongono, vuol dire che la simultaneità, e non la successione, è l’essenza dei fenomeni della
coscienza. Il carattere essenziale dello spazio (il mondo degli oggetti in cui la coscienza opera) è l’esteriorità
reciproca dei suoi elementi, per cui la determinazione di un evento da parte di quelli che lo precedono
(successione causale) è l’unica spiegazione possibile. “Ma l’essere profondo della coscienza è un flusso
indivisibile, in cui nessun istante si lascia isolare dall’altro e dunque non ha senso dire che l’uno determini
l’altro. Per esempio, non ha senso dire che un motivo x determina l’atto di volere y, perché x e y sono una
realtà sola che si determina da sé: nella durata, dunque, noi siamo liberi” 5.
Libertà che, oltre a manifestarsi nell’identità del passato col presente, constatiamo con l’irruzione, nel
presente, del futuro (nelle forme della progettualità) non prevedibile con le leggi del determinismo causale.
Quindi, quando scorgiamo che alcuni nostri atti scaturiscono dalla totalità della nostra personalità, allora noi
siamo liberi. Ma non sempre, se non raramente, i nostri atti scaturiscono da questo nucleo profondo della
coscienza (io profondo o fondamentale), spesso sono dettati dal nostro io superficiale (o parassitario)
che, stando a contatto con il mondo spazializzato, subisce gli automatismi dell’abitudine, tra i quali hanno
particolare incidenza le pressioni sociali.
I rapporti tra l’io superficiale, che ostacola la libertà assoluta della coscienza (teorizzata dallo Spiritualismo
classico), e l’io profondo non vengono affrontati nel Saggio, ma costituiscono il tema centrale di Materia e
memoria, del 1896.
Omogeneo Eterogeneo
Discontinuo Continuo
Ripetibile Irripetibile
Reversibile Irreversibile
Tour Eiffel (1910) di Robert Delaunay Nel dipingere questa Tour Eiffel (come
– New York, Guggenheim Museum tante altre dello stesso autore) l’artista
esprime l’identità di percezione e
immaginazione. Partendo da un’immagine
spaziale che gli è nota e familiare fin
dall’infanzia, l’autore la caratterizza con
una molteplicità di rapporti sincronici e
diacronici depositati nell’inconscio della
sua memoria. La città in cui è cresciuto
Delaunay, la città inconscia che si porta
dentro, è Parigi; il suo simbolo visibile,
l’accento del suo spazio urbano, è la Torre
Eiffel. Ecco allora che sulla tela prende
corpo l’immagine interiore di quel simbolo
così radicato nell’humus urbano di Parigi:
“ed ecco la vediamo abbarbicata alle case
vicine; incombe sulla città; ed ecco la
vediamo inclinarsi sui tetti delle case; balza
verso il cielo ed ecco è in mezzo alle
nuvole, che le scoppiano intorno come
granate antiaeree; dà alla città una spinta
ascensionale, ed ecco le case borghesi
proiettate nel cielo…percezione e fantasia,
lanciate sulla stessa traiettoria, fanno lo
stesso cammino” (8).
8
9
Per quanto riguarda la letteratura, invece, nel primo volume della Ricerca di Proust il narratore-protagonista
descrive come, in una fredda giornata invernale, il sapore di un pezzetto di madeleine inzuppata nel tè
7
Bergson, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp.127-129
8
G. C. Argan, L’arte moderna, 1770-1970, Sansoni, Firenze, 1977, p. 522
9
Proust, Alla ricerca del tempo perduto, cit.
(casualmente preparatagli dalla madre) abbia provocato in lui un complesso rapporto di sensazioni e
analogie, che andavano ben al di là del piacere fisiologico.
Il piacere che lo invadeva, tutt’a un tratto lo rendeva indifferente alle vicissitudini della vita, alle sue calamità,
alla sua brevità illusoria, come accade agli innamorati; tutt’a un tratto cessava di sentirsi mediocre,
contingente, mortale. Si rendeva conto che l’origine di quel piacere non stava nella madeleine, ma in lui,
essa lo aveva solo risvegliato. Quel sapore era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina, a
Combray, la zia Léonie gli offriva quando andava a salutarla nella sua camera, dopo averlo intinto nel suo
infuso di tè o di tiglio. Da qui la marea dei ricordi, sepolti nella memoria della sua infanzia, si affollavano
davanti alla sua coscienza: la vecchia casa grigia sulla strada, la città, la piazza dove lo mandavano prima di
colazione, le vie dove andava in escursione dalla mattina alla sera, tutti i fiori del giardino e del parco di
Swann, le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio, e le loro casette, e la chiesa, e tutta Combray
e i suoi dintorni; tutto quello che veniva prendendo forma e solidità, tutto sorgeva dalla sua tazza di tè.
La città
che
sale
(1910)
di
Umberto
Boccioni
Milano
Pinacoteca
di Brera
Se invece di “contemplare” la città come spettatori, ci immergiamo in essa come attori, riusciamo a
cogliere intuitivamente la vita che pulsa intorno a noi come un flusso inarrestabile. Nel quadro scorgiamo
il moto vorticoso della moderna città industriale, accentuato dal dinamismo dei cavalli, simboli del lavoro,
con vivide linee di forza pluridirezionali e le verticali dei pali, nel cantiere edile sullo sfondo, che danno
l’idea dello sviluppo ascensionale della città. In questa visione non è possibile focalizzare un oggetto,
poiché, simultaneamente, con la “coda dell’occhio” percepiamo tutto il complesso e tumultuoso ambiente
circostante di cui esso fa parte; percepiamo, per analogia con noi stessi, la “durata” della città.
Bergson, nell’Introduzione alla metafisica, aveva affermato che i concetti scientifici stanno alla
conoscenza intuitiva della vita come un servizio fotografico relativo a una città sta alla sua conoscenza
case che si prolungano a destra e a sinistra, balconi fioriti ecc. Il che significa simultaneità d’ambiente, e quindi
dislocazione e smembramento degli oggetti, sparpagliamento e fusione dei dettagli, liberati dalla logica comune e
indipendenti gli uni dagli altri”.
L’atmosfera caotica della vita cittadina irrompe nella silenziosa intimità dell’abitazione privata; il cantiere operoso, la
strada, le case, la stanza si compenetrano reciprocamente. Persino scalpitanti cavallini rossi, sbalzati dalla strada,
prorompono al di qua del balcone attraverso la ringhiera da cui si affaccia la madre del pittore. D’altra parte, anche chi
osserva il quadro è catapultato nella stessa sensazione di immersione totale del soggetto nelle forze vive della città,
nelle infinite relazioni tra gli oggetti. Il compenetrarsi, sovrapporsi e intersecarsi delle cose è reso dalle verticali che
diventano oblique in relazione alle varie posizioni assunte dall’osservatore nel giro di pochi attimi.
Mentre i personaggi di un Manet si limitavano a “contemplare” serenamente la vita cittadina dalle loro finestre, lo
sguardo “attivo” della donna di Boccioni sembra “assorbire” nel suo stato d’animo la vita che la circonda.
La distinzione tra intuizione metafisica e analisi scientifica non deve far credere che lo scopo di Bergson
sia quello di svalutare la scienza. Come già osservato nel Par. 2, il procedimento scientifico “risponde ad un
interesse pratico dell’uomo, in quanto applicare un concetto alla realtà, leggere il nuovo in funzione del noto,
significa chiedersi che cosa si possa fare della realtà, o che cosa possa fare la realtà per noi uomini. E poiché
gli interessi dell’uomo sono spesso complessi, anche le prospettive conoscitive variano” 11
Allora l’errore non sta nell’uso scientifico dell’intelligenza, ma nella sua indebita applicazione ad ambiti che le
sono estranei, come accade con la filosofia che, per sua natura, pretende di costituirsi come un sapere
disinteressato.
Se l’intuizione diventa l’organo della filosofia, non va però intesa romanticamente come una forma irrazionale
di conoscenza, sentimento o confusa empatia, poiché essa ha un metodo. Si tratta di un metodo dicotomico
(di ispirazione Platonica) volto a individuare i concetti puri, che consiste nello “scomporre i misti”, cioè le
nozioni che contengono più concetti confusi tra loro, distinguendo in esse differenze di grado (puramente
quantitative, quindi “spaziali”) e differenze di natura (qualitative), come aveva già fatto Bergson negli studi
11
Adriano Pessina, Introduzione a Bergson, cit., p. 36
sul tempo, la percezione e la memoria: vi sono, per esempio, differenze di grado tra i tempi dell’orologio, ma
differenze di natura tra tempo misurato e tempo vissuto; differenze di grado tra percezioni, ma differenze di
natura tra percezione e memoria.
Inorganico Organico
Vegetale Animale
<<La vita tutta, sia animale che vegetale, in quel che ha di essenziale, appare, pertanto, come uno sforzo per accumulare
energia e per sprigionarla poi in canali flessibili, deformabili, all’estremità dei quali essa effettuerà lavori infinitamente
vari. Tale risultato, lo slancio vitale, che attraversa la materia, tende a conseguirlo tutto in un colpo; e ci riuscirebbe
certamente, se la sua potenza fosse illimitata o se potesse ricevere qualche aiuto dall’esterno. Invece, esso è finito, ed è
stato dato una volta per tutte: non può superare tutti gli ostacoli. Il movimento a cui esso dà l’impulso ora è deviato, ora
diviso, sempre contrariato, e l’evoluzione del mondo organico è lo svolgimento di questa lotta. La prima grande scissione
che dovette effettuarsi fu quella tra i due regni vegetale e animale, che si son trovati così ad essere complementari l’uno
dell’altro, pur senza che vi sia stata tra di essi un’intesa. … A tale sdoppiamento ne seguirono molti altri: di qui le linee
divergenti di evoluzione, almeno in quel che hanno di essenziale. Ma bisogna tener conto dei regressi, degli arresti, degli
accidenti di ogni genere; e, soprattutto, non dimenticare che ogni specie si comporta come se il movimento generale della
vita si arrestasse a essa, invece di attraversarla: ciascuna pensa solo a se stessa, vive solo per sé. Di qui le lotte senza
numero di cui è teatro la natura; di qui una disarmonia che colpisce e offende, ma di cui non bisogna rendere
responsabile il principio della vita.
Grande è, dunque, nell’evoluzione la parte che spetta alla contingenza. Contingenti sono, nel maggior numero dei casi, le
forme adottate, o, per meglio dire, inventate. Contingente, e relativa agli ostacoli incontrati in un dato luogo, in un dato
momento, la dissociazione della tendenza primordiale in queste o quelle tendenze complementari, che creano linee
divergenti di evoluzione. Contingenti gli arresti e i regressi; contingenti, in larga misura, gli adattamenti. Due cose
soltanto sono necessarie: 1° un’accumulazione graduale di energia; 2° una canalizzazione elastica di essa in direzioni
variabili e indeterminabili, all’estremità delle quali sono gli atti liberi>> 12.
Finora abbiamo parlato di “materia” come se fosse qualcosa di esistente che si contrappone allo sforzo della
coscienza (e lo stesso Bergson ne parla in questi termini); ma se assumiamo (sempre con Bergson) il
divenire come originario, allora, con un atto di intuizione filosofica, la materia, che ci appare immobile e
definitiva, può essere considerata come un arresto di un processo immateriale.
12
Bergson, L’evoluzione creatrice, Mondadori, Milano, 1956, cap. 3, pp. 227-229
Bergson, infatti, paragona lo “slancio vitale” ad un’onda marina che si infrange in tutte le direzioni e in mille
rivoli, ma che, al tempo stesso, con la risacca si oppone all’onda successiva.
La grande onda di
Kanagawa (1832)
di Katsushika
Hokusai, Library of
Congress,
Washington, D.C.
La silografia rappresenta
tempestose onde che
minacciano alcune
imbarcazioni nel mare al
largo della prefettura di
Kanagawa.
Come in altre opere
appartenenti alla stessa
serie, sullo sfondo
compare il Monte Fuji.
Anche se per consuetudine linguistica continuiamo a parlare di materia come un ostacolo esterno che oppone
resistenza allo slancio vitale, essa deve essere invece pensata come un limite interno alla stessa forza di
espansione, ovvero alle diverse ramificazioni in cui lo slancio si divide. Per cui è la vita stessa che si
“materializza” nel momento in cui una determinata direzione dello slancio vitale esaurisce le sue possibilità,
ricadendo su se stessa, proprio come accade alle diverse scintille di un fuoco d’artificio che, arrestandosi a
diverse altezze, ricadono verso il basso e cambiano natura da forza viva in “materia” pesante.
Così la materia, in questa nuova prospettiva bergsoniana, si risolve nell’unica realtà dello slancio vitale
originario, perdendo autonomia e specificità, diventando (rispetto ai precedenti dualismi) una manifestazione
dello spirito.
“La vita è invenzione”, creazione incessante e
Irreversibile di forme e individui sempre diversi, quindi
ciò che riserva il futuro non è meccanicisticamente
deducibile dal passato.
Ma se appare inadeguata un’interpretazione
meccanicistica dell’evoluzione, per Bergson, lo è
altrettanto quella finalistica: essa presupponendo un
programma o un piano prestabilito che gli esseri
dovrebbero realizzare, non spiega la spontaneità del
divenire. Questo non significa che meccanicismo e
finalismo siano invenzioni arbitrarie; esse, come
prodotto della nostra intelligenza, rispondono alle
esigenze pratiche dell’azione umana nel mondo che
necessita di previsioni e calcoli esatti per agire
efficacemente rispetto a uno scopo. L’oeuvre ultime di Hans Hartung,
Per mostrare intuitivamente l’inadeguatezza del esposta con altre sedici tele, realizzate prima della
meccanicismo e del finalismo rispetto al problema del scomparsa dell’artista, alla Caserma Cosenz di Gaeta
divenire, Bergson paragona l’evoluzione al moto di una (dal 26 luglio al 31 ottobre 2009).
mano nella limatura di ferro che viene compressa e che Dipinti astratti nati da uno slancio vitale che esprime
una vera e propria euforia spirituale creativa negli
oppone resistenza, fino al punto in cui la mano avrà ultimi giorni di una vita dedicata all’arte.
esaurito il suo sforzo e i grani della limatura si saranno
giustapposti e coordinati in una forma determinata.
Se supponiamo che la mano sia rimasta invisibile (come invisibile è la corrente di coscienza che attraversa la
“materia”) alcuni osservatori del fenomeno, i meccanicisti, interpreteranno la posizione assunta da ogni grano
come l’effetto dell’azione che i grani vicini esercitano su di esso; altri osservatori, i finalisti, vorranno che un
piano d’insieme abbia presieduto ai vari dettagli di quelle azioni elementari. La verità invece è che c’è stato un
unico atto indivisibile, quello della mano che ha attraversato la limatura.
Il confronto di Bergson con la letteratura biologica sull’argomento dell’evoluzione individua un punto debole
anche nella teoria di Darwin. Se è pienamente accettabile l’idea delle variazioni interne agli individui e non
dovute causalmente ai processi di adattamento all’ambiente, appare inadeguato il carattere “accidentale”
attribuito da Darwin alle variazioni, in particolare l’ipotesi del loro sommarsi in modo favorevole alla
sopravvivenza. La vita, per Bergson, non procede per associazione e addizione di elementi, ma per
dissociazione e sdoppiamento.
Come abbiamo già visto, gli estremi divergenti della stessa tendenza vitale di fondo sono l’istinto e
l’intelligenza, soluzioni diverse del medesimo problema della vita. Nel regno animale è come se la coscienza,
latente nella “materia”, operasse una progressiva liberazione:
<<nelle diverse forme di vita animale si accentua, infatti, una certa indeterminazione nell’adattamento
all’ambiente, misurabile dallo “scarto” che intercorre tra le diverse sollecitazioni e le reazioni, sempre meno
automatiche. Secondo Bergson, si attua una biforcazione decisiva tra il processo biologico che termina agli
artropodi, animali privi di cervello, ma dotati di un sistema nervoso gangliare, e quello che conduce ai
vertebrati, in cui compare anche la materia cerebrale. L’stinto degli insetti e l’intelligenza umana… Sia l’istinto,
sia l’intelligenza sono funzionali alla vita: ma, mentre l’istinto pone il vivente in diretto contatto con ciò che gli è
utile, e gli permette di usare la materia come strumento, l’intelligenza porta l’uomo a fabbricarsi i propri
strumenti per poter intervenire sulla materia. La conoscenza, quindi, va innanzitutto riletta in chiave biologica,
nella sua funzione operativa…>>13.
Ma l’intelligenza ha anche in sé la capacità di superare il proprio schematismo funzionale, grazie alla sua
innata propensione a cogliere i rapporti tra le cose. La conoscenza formale, per agevolare l’azione, traccia i
confini tra le cose, pensa in termini geometrici, spezzando la continuità del divenire. Il prezzo pagato
dall’intelligenza per la liberazione della coscienza dal bisogno immediato (garantendosi la possibilità di
riflettere sulla realtà) è la sua separazione dalla vita stessa.
Finalmente con l’intuizione, definita come “l’istinto divenuto disinteressato”, Bergson vede la possibilità di
una convergenza tra i due: tra la capacità dell’istinto di aderire alle cose dall’interno (ma inconsapevolmente)
e l’autocoscienza dell’intelligenza generalizzatrice (ma “esterna” alle cose).
Qui l’intuizione, rispetto all’Introduzione alla metafisica del 1903, non è più contrapposta all’intelligenza, ma
sembra sorgere dalla stessa radice unitaria. E’ come se la corrente di coscienza che ha attraversato la
“materia”, per liberare se stessa, dopo essersi scissa nell’organizzazione vegetale e animale della vita, abbia
cercato una via d’uscita nella duplice direzione dell’istinto e dell’intelligenza; non l’ha trovata nell’istinto, ma
nell’intelligenza, grazie al brusco salto dall’animale all’uomo che, in questo modo, sembrerebbe (se
dovessimo ragionare finalisticamente) la “ragion d’essere” dell’intera organizzazione della vita sul nostro
pianeta. Ma nell’uomo istinto e intelligenza, anche se in modo inversamente proporzionale, coesistono e
possono trovare una sintesi proprio nell’intuizione, con la quale l’istinto acquista la consapevolezza
dell’intelligenza, mantenendo però al tempo stesso l’immediatezza che essa non ha: allora l’uomo non agisce
più sulla base dell’interesse contingente e diventa capace di cogliere in modo diretto la realtà.
BERGSON
13
Adriano Pessina, Introduzione a Bergson, cit., p. 48
PAROLE CHIAVE
Tempo della scienza: tempo dell’orologio, quantitativo o “spazializzato”, che consente la misura del
movimento e si presenta come discontinuo, ripetibile e reversibile.
Tempo della vita: tempo della coscienza, qualitativo o “durata”, che “scorre” dentro di noi e si
caratterizza per essere continuo, irripetibile e irreversibile.
Io profondo: io fondamentale, ovvero “nucleo profondo” della coscienza che coincide con la memoria.
Io superficiale: io parassitario che, stando a contatto con il mondo spazializzato, subisce gli
automatismi dell’abitudine, tra i quali hanno particolare incidenza le pressioni sociali.
Psicofisica: Psicologia sperimentale che studia i fenomeni fisici come riflessi di mutamenti fisiologici e
viceversa, presupponendo continuità tra il “fisico” e lo “psichico”.
Materialismo: concezione del mondo e dell’uomo che fa dello spirito un effetto della materia, come
nell’ipotesi epifenomenista della fisiologia.
Spiritualismo: concezione del mondo e dell’uomo che riduce la materia ad una produzione dello spirito.
Materia: secondo la gnoseologia di Bergson essa sarebbe un insieme di immagini. A loro volta queste
immagini non sono solo nostre rappresentazioni (come vorrebbe l’Idealismo), ma hanno una loro esistenza
autonoma; al tempo stesso, pur avendo un’esistenza indipendente dal soggetto, non sono l’effetto di “cose”
di natura diversa dalla rappresentazione stessa (come vorrebbe il Realismo), ma sono, appunto, immagini.
Memoria pura: o semplicemente “memoria”, dimensione dello spirito indipendente dalla materia, fatta
di tutti i momenti irripetibili del passato (ricordi puri), che sempre si rinnovano perché sempre si
compenetrano tra loro.
Memoria abitudine: memoria meccanica (costituita da ricordi-immagine) che serve, per esempio, per
imparare una poesia dividendola in parti e ripetendola.
Intuizione: secondo Bergson è la simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da
coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, di inesprimibile. E’ “l’istinto divenuto
disinteressato”, una sintesi tra la capacità dell’istinto di aderire alle cose dall’interno (ma
inconsapevolmente) e l’autocoscienza dell’intelligenza generalizzatrice (ma “esterna” alle cose).
Slancio vitale: élan vital, una sorta di “esplosione” delle potenzialità immanenti alla materia, che sospinge
in avanti la materia, irradiandosi in tutte le direzioni. E’ come se una larga corrente di coscienza fosse
penetrata nella materia, conducendola all’organizzazione, ma al tempo stesso rallentando e dicotomizzandosi.
BERGSON
BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA
Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere, 1889-1896, Mondadori, MI, 1986
Jean Piaget, Lo sviluppo della nozione di tempo nel bambino, La Nuova Italia, FI, 1979
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino, 2008