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I VALTELLINESI DI PONTE SISTO

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Il San Sisto vecchio e quello nuovo
Per tutto il Seicento i Valtellinesi ebbero modo di usufruire di una par-
ticolare e lodevole istituzione assistenziale dell’Urbe: quella di Ponte
Sisto, che antiche e imprescindibili motivazioni ne avevano determinato
la sua creazione.
Alla fine del XV secolo le guerre e i saccheggi, le lotte di religione e
gli scismi, unitamente alle periodiche epidemie che imperversarono in
gran parte d’Europa, con le loro molteplici ripercussioni, si erano riversa-
ti anche sullo Stato Pontificio e, in particolare, su Roma. Nelle comples-
sive condizioni economiche disagiate della sua popolazione, un fenome-
no di proporzioni sempre più inquietanti turbava l’intera vita cittadina: la
mendicità. Torme di accattoni infestavano le strade e si riversavano su
fedeli e pellegrini, assillandoli all’esasperazione e molestandoli per
costringerli a far loro la carità. Una situazione che si faceva sempre più
insostenibile. Oltretutto c’era chi, come zingari, vagabondi e gente igno-
bile, ricorreva all’accattonaggio come vero e proprio mestiere.
Per poter dare un aiuto effettivo ai bisognosi, Papi ed autorità
Capitoline cercarono costantemente di sgomberare il campo del pauperi-
smo da questi balordi, per lo più forestieri, che fastidiosi e prepotenti
bivaccavano alle porte delle chiese e talvolta anche dentro. Già nel 1492,
anno della scoperta dell’America, Paolo III con un suo Breve cercava di
reprimere l’accattonaggio nell’Urbe, autorizzando se necessario il ricorso
alla frusta e addirittura all’esilio o alla galera. Nel 1557, un bando del 17
agosto del Governatore di Roma ordinava a coloro che non possedessero
stabili o altri beni dentro la città, né esercitassero professione o mestiere,
di abbandonare l’Urbe sotto pena di tre tratti di corda, della galera e della
fustigazione. Il 21 dicembre di quello stesso anno, il Prefetto dell’Annona
ingiungeva agli zingari di uscire da Roma e dal suo territorio nel termine
di due giorni, come sempre sotto pena della galera per gli uomini e della
frusta per le donne. Nel 1656, Pio IV prescriveva con una sua Bolla ai
Capitoli ed ai parroci, sotto pena di multe pecuniarie, di scacciare dalle
chiese gli importuni e irriverenti questuanti. Nel 1569, con un altro bando
del 15 luglio, il Governatore intimava ai vagabondi di abbandonare la città
nel termine di 5 giorni. Insomma una sfilza di provvedimenti, per quasi
cent’anni, che non ottennero mai l’effetto desiderato.
Naturalmente, accanto alle misure restrittive, ce n’erano altre a favore

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di chi versava in un reale stato di necessità. Un’iniziativa, che lasciò un
solco notevole in questo campo e che divenne un punto di riferimento
seguito fino ai nostri giorni, fu quella attuata da Gregorio XIII, il Padre
dei Poveri, e di viscere tenerissime verso i medesimi, come lo definisce
l’abate Bartolomeo Piazza nel suo Eusevologio Romano del 1648. “Il
futuro riformatore del calendario,” ci fa sapere Giulio Pisano (103),
“pensò, dunque, che la sola misura efficace per combattere il male fosse
il ricovero obbligatorio in apposito istituto dei poveri invalidi e vecchi,
privi di risorse. Col breve Dum pietatis et charitatis studium del 1° feb-
braio 1581, diede mano a quest’opera, affidandone l’incarico, con amplis-
simi poteri, anche di polizia, all’Arciconfraternita della SS. Trinità de’
Pellegrini, fondata da S. Filippo Neri, che tanta larga assistenza aveva data
agli innumerevoli pellegrini convenuti a Roma per il giubileo del 1575 ed
in altre memorabili ricorrenze religiose. Furono concessi a sede dell’isti-
tuto il monastero e la chiesa di S. Sisto sulla via di Porta S. Sebastiano,
che nel 1570 erano stati lasciati dalle monache domenicane, allorchè, a
causa della località malsana, furono trasferite da Pio V nel nuovo mona-
stero dei SS. Domenico e Sisto, a Magnanapoli.”
“Per meglio attuare gli intendimenti del pontefice, fu subito emanato
un Editto, col quale s’ingiungeva ai poveri di fornire, entro il termine di
sei giorni, tutte le indicazioni relative al loro stato di famiglia, alle infer-
mità od alle altre cause che li spingevano all’accattonaggio. Mentre si
rivolgevano calde esortazioni ai fedeli perché dessero largamente denaro,
cibarie ed oggetti di qualsiasi genere all’ospizio, si disponeva che, in un
giorno da stabilirsi, i poveri stessi fossero condotti processionalmente ad
occupare i locali di S. Sisto vecchio. Con altro Editto, poi, vennero com-
minate pene gravissime ad arbitrio degli Officiali dell’Arciconfraternita a
chi in avvenire fosse sorpreso a mendicare per Roma.”
“Il 27 febbraio 1581 ebbe luogo la solenne processione penitenziale
per l’apertura del nuovo ospizio, e dovette costituire un avvenimento ben
memorabile, se così larga traccia troviamo nelle cronache del tempo.
Reputiamo non privo d’interesse riportare la descrizione che di questa sin-
golare processione ci lasciò il Fanucci, il quale assistette alla caratteristi-
ca ed insieme pietosa manifestazione. Si formò il sacro corteo nell’orato-
rio della medesima Arciconfraternita della SS. Trinità, che sorgeva dove è
ora la chiesa omonima, alla Regola, ed era preceduto da molti prelati e
signori vestiti di sacco rosso con mazze rosse in mano, e da diversi cori

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cantando inni e salmi di buona musica e canto fermo. Seguivano i poveri
mendicanti con accomodamento e destinazioni necessarie, e si vedevano
andare quelli che erano liberi accoppiati, i ciechi guidati e quelli che
erano stroppiati tirati in carrozza dai medesimi mendicanti. Seguivano
quattordici carrozze cariche di molti talmente storpiati ed infermi che non
si potevano condurre altrimenti. Spettacolo veramente pietoso, maravi-
glioso e forse non mai più visto il simile. Ultimamente erano il primice-
rio, guardiani ed altri ufficiali di detta confraternita con infinita quantità
di gente accorsa non solo alla maraviglia del fatto, ma alla indulgenza la
quale aveva concessa N. S. a quelli che l’accompagnassero… Erano i
medesimi poveri 850, tra maschi e femmine, piccoli e grandi, e quali
salendo, e calando dal Campidoglio, con maggior trionfo, che non fece-
ro giammai gli antichi Romani, giunsero al desiato porto di San Sisto, ove
furono ricevuti con gran Carità e Pietà…”.
A ben considerare, questi 850 derelitti non ci sembrano un numero
eccessivo per una città che allora contava circa 90.000 abitanti. Il fatto è
che, purtroppo, un’impresa così innovativa e – sia pure in maniera discu-
tibile – massimamente “pubblicizzata” non ebbe affatto il successo che si
meritava. “La mancanza di adeguati mezzi finanziari,” analizza così quel
“flop” dell’epoca il Pisano, non forniti in misura sufficiente dalla carità
cittadina, e che in poco meno di un anno aveva determinato passività di
parecchie migliaia di scudi, nonché la considerazione che ogni attività
svolta a favore del nuovo ospizio veniva sottratta alle cure non lievi, né
poche, che la confraternita doveva dedicare alle proprie istituzioni assi-
stenziali, furono causa di una momentanea decadenza di questa pietosa ed
accorta iniziativa di Gregorio XIII, della quale approfittarono gran nume-
ro di ricoverati – si disse che fossero parecchie centinaia – per ridarsi libe-
ramente all’accattonaggio. D’altro canto, l’ubicazione dell’ospizio di San
Sisto era giudicata da molti non del tutto adatta allo scopo, perché in loca-
lità malsana ed allora molto distante dalla città: si ricordava che San
Domenico stesso si era dovuto trasferire coi suoi frati a Santa Sabina,
sull’Aventino, e che San Pio V, sempre per lo stesso motivo, ne aveva
allontanato, come già si è visto, le monache dello stesso ordine.”
Il problema dei questuanti si ripresentò in tutta la sua gravità subito
dopo l’avvento al soglio pontificio di Sisto V. Questi, con la sua eccezio-
nale energia e saggezza, l’affrontò immediatamente. In proposito, il
Pisano prosegue a farci sapere che Papa Peretti “emanata nel 1587 la bolla

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Quamvis infirma, nella quale sono messi in evidenza i danni che sotto
ogni riguardo arrecano gli oziosi questuanti, per prima cosa provvide ai
mezzi con cui venire efficacemente in aiuto ai poveri che fossero vera-
mente tali, partendo dal principio che la prosperità delle istituzioni ad essi
necessarie non può essere assicurata, se non si fa larga e stabile parte
all’intervento finanziario dei pubblici poteri”. Dopo di che, “acquistate
alcune case nei pressi immediati di Ponte Sisto, sulla riva sinistra del
Tevere, commise al suo architetto Domenico Fontana di restaurarle di
sana pianta, adattandole ad Ospizio capace di ricoverare 400 vecchi ed
invalidi, con dormitori, officine, ospedale interno, farmacia… La nuova
chiesa che sorse annessa all’ospizio la dedicò a S. Francesco d’Assisi, ad
esaltazione della povertà evangelica e per appartenere egli stesso ad un
ordine francescano…”. Diede quindi “facoltà ai nuovi amministratori del-
l’ospizio, che erano quattro, due dei quali eletti ogni anno dal Popolo
Romano in Pubblico Consiglio, di punire con ogni sorta di castigo corpo-
rale, fuori che di pena capitale, tutti quei poveri che per malizia e perché
oziosi andassero mendicando per la città. E poiché i 9000 scudi assegna-
ti all’Ospizio con l’accennata costituzione si mostrarono ben presto insuf-
ficienti, il Pontefice, l’anno successivo (1588), con la bolla Postulat ratio,
assicurò all’Ospizio-spedale, che continuò a chiamarsi di S. Sisto, altri
notevoli cespiti, tra i quali 4000 scudi sulla gabella di nuova imposizione
sulle carte da giuoco e 250 scudi sul posteggio di piazza Giudia, al ghet-
to.”

Vendere inchiostro a Roma per tutta la vita


Alla struttura del San Sisto “nuovo” si trovarono, nel Seicento, a dover-
si rivolgere anche alcuni nostri convalligiani. Lo fecero in alternativa
all’autorizzazione che avrebbero potuto ottenere sottoponendosi ai quat-
tro Deputati ecclesiastici e laici di turno, sopra citati, investiti di quella
specie di magistratura permanente per la repressione della mendicità.
Ogni questuante veniva infatti condotto da loro ed esaminato. Se auto-
rizzato ad accattare per la città, egli avrebbe dovuto rispettare l’obbligo
di farlo con un distintivo cucito sugli indumenti alla spalla sinistra. Questa
licenza di mendicare, ufficiale a tutti gli effeti di legge mediante un bollo
stampato sul distintivo, era concessa esclusivamente – come attesta il
Fanucci – a quelli poveri et miserabili vecchi o ciechi, o stroppiati o debo-

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li et inhabili a sostentarse in altro modo. Quanto ai vagabondi, dopo aver-
ne annotato le generalità, venivano rispediti con foglio di via obbligatorio
ai loro luoghi d’origine e sotto pena di essere puniti conforme alli bandi.
Il che, ormai risaputo da tutti, aveva un solo significato: fustigazione e
galera per gli uomini, sola ma inesorabile fustigazione per le donne (104).
Dal libro che riporta gli Esami de’ Poveri dell’Ospedale di S. Sisto dal
1647 al 1663, il primo Valtellinese lo troviamo alla metà del secolo. Il
documento che lo riguarda (95d) è di un interesse unico. Eccezionale. Lo
presentiamo:

Adì 4 settembre 1647

SIMONE di TIGNOLO dalla Voltolina


di anni 85 incirca

venditore d’inchiostro
habitava a i Molari

e portò indosso un paro di calzoni di tela bianca, un gippone di rovercio bian-


co, calzette di tela bianca, camisa, e cappello nero senza fodera, ogni cosa di
nessun valore.

Et dimandandoli se haveva altri beni mobili o stabili, disse:


Jo ho la metà di un letto e non altro.

Questa dichiarazione viene resa in presenza del signor Don Giulio Floro
Maestro di Casa e di Alberico Alberici e di Domenico di Santi da Montalto
testimonii.

L’incaricato a redigere il documento conclude:


Jo Luca Arcivolo di ordine del Signor Maestro di Casa
suddetto mano propria.

L’essere venuto, nel secolo XVII, a Roma dalla Valtellina a fare il


VENDITORE D’INCHIOSTRO ha dell’incredibile. Se poi consideriamo
che il nostro si ritrova, a 85 anni, con indosso dei vestiti definiti dallo scri-
vente del documento, con gentile eufemismo e indubbia umanità, ogni
cosa di nessun valore, e che di tutti i beni mobili o stabili che, dopo una
lunga vita di lavoro, avrebbe anche avuto il diritto di arrivare a possedere

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questi dichiara con un candore unico – e forse con intima, riservata, ama-
rezza – che la sua “ricchezza” è costituita da la metà di un letto e non
altro… anche in questo caso si resta col solito groppo in gola.
Probabilmente quel minimo di tranquillità e di benessere che non gli fu
possibile trovare fino a quel momento, il nostro emigrato lo ebbe alfine
nell’istituto di Ponte Sisto.

In una nota dello stesso volume, assieme al documento esaminato, è


riportato il trattamento che si riservava agli ospiti. Una condizione di
indubbio rispetto, la loro, se consideriamo i tempi. Unitamente a un allog-
gio decoroso a ciascun degente spettava:

- una foglietta di vino al giorno


- una pagnotta al giorno
- due uova 2 volte la settimana
- il pesce fresco tutte le vigilie e i sabati
- un pezzo di carne de più de poveri
- quattro testoni di canestri per tutto l’anno
- due paia di scarpe di più per tutto l’anno
- due vestiti, uno da inverno e l’altro da istate di più de poveri, costo
scudi 5.

Valtellinesi al San Sisto


Per tutto il Seicento l’istituto funzionò egregiamente, proprio come l’a-
veva voluto Sisto V. Tanto che il Piazza, nel suo Eusevologio, anche se
con l’enfasi del tempo, dichiara:

La Probatica Piscina dell’Evangelo può chiamarsi questo gran teatro


dell’umane miserie, lo Spedale celebre di San Sisto in cui con pietoso
spettacolo veggonsi d’ogn’intorno Ciechi, Assidrati, Zoppi, Stroppiati,
Vecchi e vecchie cadenti, incurvati dagli anni, Monchi di piedi o di brac-
cia, sfigurati, sordi e malconci, o dalle disgrazie, o dalla natura che sono
impotenti a guadagnarsi il vivere, godendo tutti quasi li pietosi soccorsi
della provvidenza divina che per mezzo della gran carità di Sisto Quinto,
che n’eresse sì gran ricovero, cotidianamente ricevono, con gran credito
dalla Romana pietà.

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Si rinnovavano intanto i vari editti dei Cardinali Vicari, che si susse-
guivano, con gli ordini di far bollare le carte da gioco nuove per impedi-
re di frodare i proventi dell’Ospedale de mendicanti di Roma.

Nel 1648 c’è un altro Valtellinese accettato al S. Sisto. Anch’egli viene


esaminato dal Maestro di Casa, in presenza di testimoni:

Adì 26 gennaro 1648

BONHOMO del q. Domenico FUINO dalla Voltolina di anni 55 incirca


facchino

habitando in strada Fratina


ammesso perché povero

e portò indosso
1 casaccone di panno marinaresco
1 paro di calzette di panno simile
1 paro di calzoni di mezza lana bianca
1 gibbone di mezza lana fratesca
1 camisciola rossa camisa ogni cosa vecchio
1 cappello nero senza fodera.

Richiesto se abbia altri beni mobili o stabili risponde:


Io devo avere dieci scudi da PIETRO GATTO del mio paese habitando in
Roma in S. Maria in Via e fa l’arte bianca et l’orzarolo, come lui confessa
havermeli a dare e non ho altro.

La dichiarazione è resa in presenza del signor Don Giulio Floro Maestro di


Casa e di Cesare Gallucci da Spoleto e di Giovan Antonio d’Oratio da Campi
testimonii.

Segue il nominativo del solito scrivano, che conclude dichiarando di avere


steso il documento su incarico del Maestro di Casa e di sua mano.

C’è un’aggiunta:
Doppo disse detto Bonhomo:
Io mi ricordo che ho un vestito nella casa dove io habitavo, ma ho da dare un
testone alla patrona della stanza.
E lo scrivano conclude:

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Et non haveva altro.

Anche tutto questo, com’è scritto nel documento, viene asserito in presenza
dei sopra citati testimoni.

Abbiamo anche un seguito:


Adì 27 detto

Si fece portare il suddetto vestito, cioè fu portato il detto vestito in guardaro-


ba:
calzoni e casacca di panno lionata con passa mani
et il signor Maestro di Casa pagò il testone…

Trova veramente una carità evangelica il nostro convalligiano in que-


sto istituto, dove ci si preoccupa di recuperargli il vestito e di pagargli il
debito. Va osservato che il nostro Bonhomo di anni 55 incirca doveva pro-
prio essere mal ridotto perché, scorrendo i documenti degli altri ospiti, ci
si rende conto che l’età media degli ospiti non era quasi mai al di sotto dei
70 anni.

Licenza di accattare
Nonostante la sua efficienza, la struttura di Ponte Sisto non ebbe una
corrispondenza adeguata. I poveri si mostravano restii a ricoverarsi, per
cui anche nel Seicento l’accattonaggio riprese ad imperversare.
Un tentativo di arrivare almeno in parte ad arginarlo fu compiuto da
Paolo V, con un Breve del 1613, autorizzando canonicamente la Con-
fraternita di S. Elisabetta e della Visitazione della Beatissima Vergine,
sorta presso la chiesa dell’Ospizio di San Sisto e con l’aggregazione al
medesimo Venerabile Spedale de Mendicanti. Si trattava infatti di un ben
strano sodalizio, con uomini e donne, un’autentica Corporazione formata
da vecchi cadenti, assiderati, mutilati, malconci, sordi, ciechi, zoppi e
stroppiati, tutti ufficialmente riconosciuti nelle loro reali infermità, i quali
assieme allo scopo di pietà avevano anche, e soprattutto, quello della dife-
sa del legittimo diritto alla questua. Con quel riconoscimento essi erano
autorizzati ad avvalersi dei propri Uffiziali affinchè nessuno, se non appar-
tenente alla loro associazione, potesse esercitare la questua entro Roma.
Ai trasgressori venivano comminate le ben note pene della galera per tre
anni e l’immancabile nutrita dose di frustate. E così, per effetto della

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costante e capillare azione svolta dalla Confraternita dei Mendicanti a sal-
vaguardia della propria categoria, la piaga dell’accattonaggio nell’Urbe,
limitandone il numero degli autorizzati a professarla, venne circoscritta ed
attenuata.
A sostegno proseguivano, comunque, ad essere emanati altri editti nel
1608 e 1609 da Paolo V; negli anni 1623, 1627 e 1628, 1631 da Urbano
VIII; nel 1656 anche da Alessandro VII.

Proprio in quest’ultimo periodo, ci sono un paio di altri Valtellinesi che


entrano nell’istituto (96d):

20 agosto 1652

LORENZO di Pietro BAROZZI dalla Voltulina


di anni 60 in circha

ha ricevuto la confermatione de li Santi Sacramenti. Fu ammesso in S. Sisto


e portò in dosso
un vestito di tela rotto
calzette e cappello simile.

E domandato se haveva cosa,


ad una rispose non haver né possedere niente.

Come al solito l’esame avvenne alla presenza di testimoni.

5 aprile 1662

DONATO del q. Pietro MARIANI de Valle Tellina


in età di 40 anni in circa

interrogato sotto giuramento risponde :

Io so il Padre nostro, l’Ave Maria et il Credo e mai sono stato alla Dottrina
Cristiana, se non adesso che sto in questo loco et mi sono confessato e comu-
nicato in circa otto giorni fa.
Io sono in Roma da 12 anni in qua con occasione di guadagnarmi il pane col
fare il facchino
et non ho mai avuto moglie
et ho abitato alla SS.ma Trinità.

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Io non ho cosa alcuna né Mobili né Stabili né Crediti.

Io non sono stato mai carcerato per cosa alcuna.

Io in Casa mi batto l’animo di fare ogni cosa…

Anche per questo convalligiano l’essere ammesso nell’ospizio a soli 40


anni è più che indicativo di come, dopo 12 anni di lavoro da facchino, in
quale stato ci si potesse ridurre.

Per una trentina d’anni, dal maggio 1662 al maggio 1694, nei tre libri
degli Esami de Poveri dell’Ospedale di S. Sisto che riguardano questo
periodo non ci sono tracce di nostri emigrati (97d), (98d), (99d).

I convalligiani dell’Ospizio Apostolico


Il secolare problema della mendicità nell’Urbe venne alfine affrontato
in maniera organica da Innocenzo XII. Da poco assunto alla tiara, dopo
aver emanato la famosa Bolla contro il nepotismo papale facendola fir-
mare anche da tutti i cardinali, con la Bolla Ad exercitium pietatis del 23
maggio 1693 decretò in materia di elemosineria importanti disposizioni,
che s’impegnò a far rigorosamente rispettare. Lotta dichiarata innanzitut-
to ai mendicanti di comodo, che stazionavano davanti ai conventi per
rimediare la minestra quotidiana e che molestavano i passanti, preferibil-
mente i pellegrini. Obbligo poi incondizionato per i benestanti di soste-
nere i congiunti impossibilitati al lavoro o comunque al proprio manteni-
mento. Il provvedimento più rilevante fu però la creazione di un apposito
ente per la mendicità: l’Ospizio Apostolico dei Poveri Invalidi, che accen-
trava sotto la stessa giurisdizione tutti gli istituti dell’Urbe per i ricovera-
ti. Vennero così riunite sotto un’unica direzione le tre maggiori strutture
cittadine, pur proseguendo ciascuna a mantenere la propria sede ospita-
liera: quella per gli uomini e le donne dell’Ospizio-Ospedale di Ponte
Sisto; quella del Ricovero delle fanciulle, o zitelle, orfane e abbandonate
nel palazzo del Laterano; quella dei ragazzi orfani dell’Ospizio di S.
Michele a Ripa Grande, una grandiosa costruzione edificata alcuni anni
prima dal generoso Tommaso Odescalchi nei pressi dell’omonimo porto
sul Tevere.

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Pur restando fino al termine del secolo presso le loro strutture, sotto-
poste a consistenti migliorìe, questi tre istituti grazie alla stessa ammini-
strazione operante presso il S. Michele a Ripa si ritrovarono ad usufruire,
oltre che delle rendite annuali già assegnate, della sovvenzione pontificia
straordinaria di ben 125.000 scudi. E, in più, col diritto di ricevere ogni
anno dall’Arcispedale di S. Spirito 100 rubbia di grano e 50 di legumi
(105).

Nell’ultimo decennio del secolo, altri Valtellinesi furono ammessi al


San Sisto. Per i primi due, ancora una volta, risalta la “giovane” età. Ecco,
limitatamente al Seicento, quel che risulta (100d) dal libro degli Esami de
Poveri dell’Ospizio Apostolico dal 1694 al 1702:

14 giugno 1694

ANDREA RICCI del q. Pietro di Valle Tellina


di circa 50 anni
che giura di dire la verità.

Interrogato risponde:
Io so il Pater Noster, l’Ave Maria, il Credo ed altre orazioni che devono sape-
re i cristiani, e questa Pasqua di resurrezione mi sono comunicato
nell’Ospedale di S. Giovanni, dove stavo male.

Interrogato risponde:
Saranno 12 o 13 anni almeno che sto in Roma, e in questo tempo ho fatto il
facchino, et hoggi sono pouero, et miserabile.

Interrogato risponde:
Io ho avuto una moglie, quale è morta, e ho una figlia che sta al paese, e si
chiama Margherita, et un fratello carnale, quale si chiama Antonio, che pari-
mente fa l’arte del facchino, e due nipoti che si chiamano uno Andrea, e l’al-
tro Pietro, e molti altri parenti alla lontana in detta mia Patria.

Interrogato se possiede qualcosa in questo mondo risponde:


Io possiedo per mia parte diversi pezzetti di terreno, parte arativi e parte
seminativi, come ho parte di tre case divise con i miei fratelli, e diverse robbe
e mobili di casa di poco valore, così come possiedo per mia parte nove capre
tra grandi e piccole et una vaccina, e non possiedo altro, che se possedessi
altro lo direi e deporrei per verità in causa di giuramento…

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L’onestà, il candore e la purezza d’animo di questo nostro emigrato,
anche dopo tre secoli, è commovente. Uscito da poco dall’ospedale e in
condizioni tali che a 50 anni è costretto all’umiliazione di finire in un
ospizio per ciechi e storpi, dopo aver lavorato dodici o tredici anni con
l’angustiante risultato di dover dire ho fatto il facchino, et hoggi sono
pouero, et miserabile, è comunque tale il rispetto che ha per quel lavoro
da definirlo senza la minima recriminazione, ma con indubbia signorilità,
l’arte del facchino. Quanto al luogo d’origine ed alla Valtellina è talmen-
te grande l’amore che ha dentro da farlo esprimersi con una parola sem-
plice e nello stesso tempo piena di significati: in detta mia Patria. Nel
dichiarare poi di possedere nove capre tra grandi e piccole et una vacci-
na è così “candido” che non lo sfiora nemmeno la considerazione che,
dopo tredici anni, le capre non sono più piccole e, assieme alla mucca,
chissà che fine avranno fatto.

Tre anni dopo abbiamo l’ammissione di un secondo convalligiano:

20 aprile 1697

GIOVANNI BURATTI del q. Domenico di Valle Tellina


di circa 55 anni
che giura di dire la verità.

Interrogato risponde:
Io so il Pater noster, l’Ave Maria, il credo e le altre orazioni che sanno i cri-
stiani e per Pasqua mi comunicai nell’Ospedale di S. Giovanni, dove stavo
infermo.

Interrogato risponde:
Io in questo mondo non ho parenti di sorta alcuna né fratelli né sorelle né
moglie né figli.

Interrogato risponde:
Io sino hora ho fatto il facchino, sono campato con mie fatiche, e sono più di
28 anni.

Interrogato se possiede qualcosa in questo mondo:


Io non ho né possiedo in questo mondo né stabili né scudi né ragioni né altro,
che se li avessi lo direi, e deporrei per verità…

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Trascorso un altro anno, questo è l’ultimo Valtellinese che nel Seicento
entra al San Sisto:

22 marzo 1698

DOMENICO SCIETTI del q. Giacomo di Valle Tellina


di anni 77
che giura di dire la verità.

Interrogato risponde:
So il Padre nostro e l’Ave maria e tutte le orazioni che devono sapere i veri
cristiani, e a Pasqua mi son comunicato in S. Lorenzo in Lucina mia parroc-
chia.

Interogato risponde:
In questo mondo non ho altro che un fratello carnale di nome Giovanni, che
se avessi altri parenti lo direi e deporrei a S.V. Illustrissima.

Interrogato risponde:
Possiedo una casa con un orto alla mia Patria, che sono gravati di debiti, e
non possiedo alcuni vacabili né certificati né ragioni, che se li possedessi lo
direi e lo deporrei per verità…

A fine secolo nell’istituto di Ponte Sisto, oltre a tanti romani, si trova-


vano uomini e donne di ogni parte della penisola: specialmente romagno-
li di Rimini, bergamaschi, padovani, mantovani, tanti fiorentini, perugini,
milanesi ed anche napoletani e palermitani. C’era anche gente provenien-
te da Bellinzona e da Lugano, da Nizza, dal ducato di Luxemburgh,
dall’Austria, qualche tedesco da Friburgo ed un croato. Le attività erano
le più disparate: numerose quelle di scalpellini, intagliatori, sarti, cristal-
lari, facchini – soprattutto con provenienza da Amatrice e da Rimini -,
barbieri, cicoriari (raccoglitori e venditori di cicoria), carrettieri, servito-
ri, copisti, pittori, fruttaroli e di chi aveva sempre fatto l’Arte di campa-
gna. L’età dei ricoverati andava prevalentemente dai 60 ai 70 anni, antici-
pata a 55 per i facchini. Le donne erano per lo più vedove anziane, pove-
re, serve, madri le cui figlie si erano sposate o ritirate in convento.
Insomma tutto un campionario di derelitti e sofferenti, che l’Ospizio
Apostolico accoglieva con tanta umanità.

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