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volume 15, numero 2

giugno 2017

© Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Tutti i diritti riservati


Rivista ufficiale dell’Associazione Efrén Martinez Ortiz (Bogotà)

RICERCA di Logoterapia e Analisi Esistenziale


Frankliana, fondata da Eugenio
Raffaele Mastromarino (Roma)
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DI SENSO Fizzotti. Carlo Nanni (Roma)
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l’anno.
Oscar Ricardo Oro (Buenos Aires)
Domenico Bellantoni
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Tribunale di Trento n. 1153 del
19/12/02.
ISSN: 1722-6155
Dir. resp. Alessandro Scarpelli © 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
Via del Pioppeto 24 – 38121 Gardolo (Trento)

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RICERCA DI SENSO
Analisi esistenziale e logoterapia frankliana – Vol. 15, n. 2, giugno 2017

Editoriale

a Approfondimenti
Le radici dell’autodirezionalità nel DSM-5®
Aureliano Pacciolla 103
Terapie centrate sul significato: Logoterapia e Approccio narrativo.
L’attualità del pensiero di Viktor Frankl nel confronto con l’approccio
narrativo di Fabio Veglia
Isabella Deambrosis e Cristina Civilotti 125
Aggressività e violenza senza senso. Una lettura analitico-esistenziale
della violenza sulle donne (e non solo)
Domenico Bellantoni 149

r Recensioni 167

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Index Vol. 15, Issue 2, June 2017

Editorial

i In-depth studies
The origins of self-directedness in DSM-5®
Aureliano Pacciolla 103
Meaning centred therapies: Logotherapy and the Narrative approach.
The modernity of Viktor Frankl’s thinking compared to the narrative
approach of Fabio Veglia
Isabella Deambrosis and Cristina Civilotti 125
Senseless aggression and violence. An analytical-existential
interpretation of violence against women (and not only women)
Domenico Bellantoni 149

r Reviews 167

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EDITORIALE Per i soci di ALAEF e per tutti coloro che a vario titolo sono vicini all’attività
associativa e, ancor più, al pensiero e all’opera di Viktor Emil Frankl, non è
certamente sorprendente la continua scoperta dell’attualità del contributo
logoterapeutico e analitico-esistenziale, non solo nel ristretto ambito della
psicologia e della psicoterapia, che pure ne rappresenta il contesto elettivo
di applicazione, ma più diffusamente per la ricaduta che esso mantiene
tanto nell’ambito delle scienze umane quanto in quello della medicina,
soprattutto nella sua dimensione di klinike, di arte relativa a chi giace a
letto (klíne), da cui klineín che significa piegarsi, chinarsi verso colui che
è adagiato in un letto e, dunque, per trasposizione, colui che, in qualche
modo, è segnato dalla malattia e dalla sofferenza. In realtà, ci si «piega»
verso il malato e non verso la malattia, come ben evidenziato dallo stesso
Frankl che, nell’esposizione del suo credo psichiatrico e psicoterapeutico,
ricorda che al di là dell’affezione, biologica o psicologica, c’è sempre la
persona spirituale.
In tal senso, Frankl ha avuto il merito di avere sempre evidenziato ciò che
oggi viene ampiamente sottolineato dal riferimento a due diversi verbi
inglesi — to cure, curare, e to care, prendersi cura — che evidenziano che
accanto al «curare» e anche laddove non ci sia più spazio per la «cura»,
sempre s’imporrà l’esigenza del «prendersi cura» dell’altro, azione dettata
da significati (valori) quali l’amore, la trascendenza, la dignità dell’altro, ecc.
In altre parole, possiamo dire che va ribadita l’esigenza di non ridurre
il benessere a una semplicistica condizione di assenza di malattia e/o
sintomatologia, bensì nella fedeltà a una visione olistica della persona — in
termini frankliani, potremmo dire all’ontologia dimensionale della persona
—, che va anche oltre il concetto di «benessere psicologico», affermandosi
piuttosto come «benessere esistenziale».
A questo punto, la domanda è se la psicologia, e quale psicologia, possa
offrire un suo contributo specifico a questa concezione di «benessere» o
se piuttosto non debba ridursi a definire e offrire strategie e percorsi verso
concezioni di benessere individuate e pensate in altre sedi disciplinari. In
tal senso, ad esempio, rimando all’editoriale del terzo volume del 2015 di
«Ricerca di senso», in cui si metteva in guardia dagli effetti di una contrap-
posizione tra la ricerca scientifica e il «politicamente corretto».
Proprio a questo riguardo, in questo numero della rivista, il mio articolo
sul tema della violenza — Aggressività e violenza senza senso. Una lettura
analitico-esistenziale della violenza sulle donne (e non solo) — , cerca di
evidenziare se la sua eziologia possa essere in qualche modo fatta risalire
al «sesso» o al «genere», o se, piuttosto, ancora una volta non si debba
individuare le cause della prevaricazione e della soppressione dell’altro e
dei suoi diritti, in una perdita del senso, del dia-logos, nonché delle capa-

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cità conseguenti di autodistanziamento e autotrascendenza. E ciò senza
EDITORIALE
dover operare alcuna forma di discriminazione di tipo sessuale, razziale,
generazionale, ecc.
Il senso, in questa luce, è capace di creare convergenza piuttosto che
contrapposizione, individuando mete comuni, capaci di sostenere sinergie
e alleanze. Il senso richiama l’esigenza di focalizzarsi su ciò che è comune,
piuttosto che su ciò che differenzia. In quest’ottica, il senso, la direzione
da tenere, come società e comunità degli uomini, ha a che fare con ciò che
caratterizza trasversalmente l’umano, vero antidoto a ogni individualismo.
Ecco che allora, il contributo di Viktor E. Frankl e dell’approccio da lui fondato
assume un significato universale, che supera gli angusti ambiti disciplinari,
per indicare una via comune, nel rispetto certo delle differenze, ma nella
maggior enfasi su ciò che ci accomuna e ci unisce.
Il tema del senso ricorre anche negli altri due articoli proposti in questo
numero della rivista.
Nel primo, Pacciolla mette in evidenza le attenzioni che emergono nell’ul-
tima edizione del DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali, relativamente al costrutto di autodirezionalità che richiama, molto
da vicino, il concetto di intenzionalità, di perseguimento di un senso e dei
significati dei diversi eventi, che caratterizza l’individuo umano. In tal senso,
l’autore presenta uno studio in corso sulla correlazione tra «autodireziona-
lità» e «scopo della vita», entrambi indicatori importanti nella definizione
dell’effettivo livello di funzionamento della persona.
Nel secondo contributo, invece, la ricerca di senso rappresenta il filo
conduttore che, secondo Deambrosis e Civilotti, accomuna il metodo
frankliano e quello narrativo proposto da Fabio Veglia. Le autrici, in questo
confronto che evidenzia similitudini e differenze tra i due approcci, in vista
di possibili applicazioni nella ricerca e nella pratica clinica, testimoniano
ulteriormente, nella sottolineatura del senso come elemento capace di dare
coerenza e continuità di significati alla storia biografica della persona, della
fecondità e dell’attualità dell’Analisi esistenziale di Viktor E. Frankl e delle
sue intuizioni di fondo.

Domenico Bellantoni

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a pprofondimenti

LE RADICI
DELL’AUTODIREZIONALITÀ
NEL DSM-5®
Aureliano Pacciolla Sommario
(Psicologo e psicoterapeuta, Scuola di
Questo articolo vuole rispondere a un recente
Psicoterapia Humanitas, Roma)
quesito: quali sono le origini del recente costrutto
dell’autodirezionalità nel DSM-5®? Questa doman-
da è stata articolata in tre punti: (1) Le ricerche
più recenti sui quattro costrutti del LPFS-BF (Level
of Personality Functioning Scale) di cui l’autodi-
rezionalità fa parte; (2) Gli strumenti e i metodi
specifici che hanno portato a isolare il costrutto
dell’autodirezionalità; (3) L’importanza clinica della
identificazione del livello di funzionamento della
personalità. Questo articolo vuole anche essere una
premessa epistemologica a una ricerca già in corso
sulle correlazioni fra l’autodirezionalità e lo scopo
nella vita (epicentro dell’Analisi esistenziale di V.
Frankl) valutato dal PIL Test. Nella conclusione si
danno delle anticipazioni su una possibile conti-
nuazione di questa ricerca pilota.

Parole chiave
DSM-5®, autodirezionalità, PIL Test, Frankl, livello
di funzionamento della personalità.

Edizioni Erickson – Trento RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017 (pp. 103-123) 103

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a Premessa
In questo articolo, intendiamo individuare quali siano le
origini del costrutto dell’autodirezionalità che il DSM-5® indica
come una delle quattro dimensioni — insieme alla identità,
all’empatia e all’intimità — per valutare il livello di funziona-
mento della personalità.1 Il costrutto dell’autodirezionalità è
in linea a un’antropologia umanistico-esistenziale che intenda
la persona — in misura variabile — come libera e responsa-
bile di prefiggersi degli scopi che possano dare un senso alla
propria vita. In particolare, l’Analisi esistenziale di V. Frankl
pone alla base delle sue applicazioni cliniche la possibilità di
dirigere la propria vita verso significati personali e al di là dei
condizionamenti bio-socio-culturali.
Le intuizioni che Frankl ha avuto fin dagli anni Trenta, a pro-
posito del ruolo dell’autodirezionalità e la valanga di ricerche che
hanno confermato tali ipotesi, hanno finalmente avuto una con-
ferma nel DSM-5®. Tuttavia dovremmo chiederci attraverso quale
strada i ricercatori dell’APA siano arrivati all’autodirezionalità.
Questo articolo vuole rispondere a questa domanda, partendo
dalle ricerche più recenti che si sono occupate specificamente dei
quattro costrutti implicati dalla valutazione del funzionamento ge-
nerale della personalità (Hutsebaut, Feenstra e Kamphuis, 2016).

1. Le ricerche più recenti che hanno portato al


Level of Personality Functioning Scale–Brief Form
(LPFS-BF)
Vogliamo prendere in considerazione il Level of Personality
Functioning Scale-Brief Form (LPFS-BF) che è uno strumento

1
Autorizzazione richiesta il 3 maggio 2016 al dsm5@psych.org. «Dear Sir or Ma-
dam: I am an American psychologist and researcher who is collaborating with Dr.
Aureliano Pacciolla, a psychologist/researcher in Rome, Italy on an article about
self-directedness in DSM-5®. Unfortunately, it has been difficult for us to find
information on the research studies that were used by the DSM-5® task force on
personality disorders to support the inclusion of self-directedness in DSM-5®.
Would you be so kind as to give us the contact information of someone on the
personality disorders task force, who could speak to this? Thank you, Sincerely,
Anna (Anna Pecoraro, Psy.D., M.Ed., M.A. Director, Online MS Program in
Psychology Associate Professor, Institute for the Psychological Sciences. 2001
Jefferson Davis Highway, Suite 511. Arlington, VA 22202)».

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A. PACCIOLLA – Le radici dell’autodirezionalità nel DSM-5®

breve, che permette di ottenere una prima idea sulla gravità


della patologia di personalità, così come intesa dal DSM-5® in a
termini di funzionamento. Il nucleo essenziale della compro-
missione del funzionamento personale è dato da una duplice
dimensione: funzionamento intra-personale (integrazione
dell’identità e autodirezionalità) dal funzionamento inter-
personale (le capacità di intimità e di empatia).

Valutare il funzionamento e lo stile di personalità se-


condo il DSM-5®
Innanzitutto, si tratta di individuare quanto prima quale
dimensione di funzionamento sia compromessa e a quale li-
vello: ciò è molto utile in funzione dell’orientamento da dare
alla psicoterapia (si veda la tabella 1).
In un altro studio (Berghuis, Kamphuis e Verheul, 2014),
l’autodirezionalità — insieme al coping e alla cooperazione
— è identificato come il nucleo dei disturbi di personalità
(Cloninger, 2000). L’autocontrollo, inteso come anche il
controllo dei propri scopi necessari all’autodirezionalità, è fra
i cinque indici di gravità delle disfunzioni insieme a: l’integra-
zione dell’identità, la capacità relazionale e alla responsabilità
(Verheul et al., 2008).2
Vi sono altre ricerche che, in modo più o meno diretto,
fanno riferimento e confermano come la gravità dei disturbi
di personalità — ma anche l’equilibrio di personalità — possa
essere rilevato dalla strutturazione sé (autocontrollo e autodire-
zionalità) e dalle relazioni interpersonali (empatia e intimità),
come poi descritto nel DSM-5® (Bornstein e Huprich, 2011).
Alla Sezione III del DSM-5®, in riferimento al processo
diagnostico di personalità, si distingue il criterio A — il li-
vello di gravità di un disturbo di personalità (DP) in termini
di compromissione del funzionamento di personalità3 — dal
criterio B — lo stile di personalità caratterizzato da uno o più

2
In questo studio Verheul ha usato il SIPP–118 che consiste in 118 item organiz-
zati in Scala Likert a 4 punti, considerando gli ultimi 3 mesi e raggruppando le
risposte in 16 aspetti del funzionamento della personalità per cinque cluster di
ordini di domini più alti.
3
Il criterio A si valuta attraverso il funzionamento intrapersonale (identità e
autodirezionalità) e interpersonale (empatia e intimità). Questo modello è, per
ora, applicabile solo a disturbi di personalità schizotipico, antisociale, borderline,
narcisistico, evitante e ossessivo-compulsivo.

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a TABELLA 1
Prima ipotesi schematica sul funzionamento della personalità
basato sulla relazione con sé stessi e con gli altri (Bender, Morey
e Skodol, 2011)
Funzionamento di Personalità
1. Spesso non so chi sono.
2. Spesso penso
Identità negativamente di me.
3. Le mie emozioni cambiano
senza il mio controllo.
Sé 4. Nella mia vita ho scopi ben
chiari e riesco a raggiungerli.
5. Spesso non comprendo i
Autodirezionalità miei stessi pensieri e le mie
La emozioni.
Personalità 6. Spesso sono molto rigido
come con me stesso.
relazione 7. Spesso ho difficoltà a
con comprendere i pensieri e i
sentimenti degli altri.
8. Spesso mi è difficile
tollerare quando gli altri
Altri Empatia hanno un’opinione diversa
dalla mia.
9. Spesso non comprendo
pienamente perché il mio
comportamento ha certi
effetti sugli altri.
10. Le mie relazioni e le mie
amicizie sono spesso di breve
durata.
11. Non c’è nessuno che mi
Intimità
sta veramente vicino.
12. Spesso non riesco
a lavorare in modo
collaborativo con gli altri.

tra i 5 domini di personalità previsti e da uno o più dei 25


tratti di personalità.4
4
Il criterio B valuta lo stile di personalità attraverso uno o più dei seguenti cinque
domini: (1) affettività negativa vs. stabilità emotiva; (2) distacco vs. estroversione;
(3) antagonismo vs. disponibilità; (4) disinibizione vs. coscienziosità; (5) psicoti-

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A. PACCIOLLA – Le radici dell’autodirezionalità nel DSM-5®

Questo modello diagnostico di personalità — caratterizzato


dal criterio A, per la valutazione della gravità, e dal criterio B, a
per l’identificazione dello stile di personalità — è supportato
anche da altre ricerche (Carlson, Vazire e Oltmanns, 2013).
In particolare, per la valutazione della gravità di un disturbo
di personalità (criterio A) si parte dal livello di funzionamento
generale della personalità attraverso un’apposita Scala per il
Funzionamento della Personalità che — come già accenna-
to — valuta il livello di compromissione del funzionamento
personale sia nella dimensione intra-personale (identità e auto-
direzionalità) e sia nella dimensione inter-personale (intimità
ed empatia).
Il criterio B, che valuta lo stile di personalità in cinque
domini di personalità e 25 tratti di personalità, è stato valida-
to (dopo molti tentativi) anche sulla base di
alcune recenti ricerche: il Revised NEO Perso-
nality Inventory (NEO PI-R), somministrato
con il PID-5 e i self-report form combinati col Misurare
Big Five, individuando le caratteristiche di il livello di
personalità maladattive clinicamente salienti, funzionamento
incluse quelle correlate con i criteri dei DP nel personale, sia in
DSM-IV-TR.
Ritornando al criterio A, argomento centra- relazione a se
le in questa sede, la valutazione della gravità di stessi che alle
un DP si presuppone che venga diagnosticata relazioni sociali
attraverso il livello di compromissione del
funzionamento generale della personalità.
Ora la domanda è: quali sono le ricerche che
hanno portato alla strutturazione e formulazione della Scala
del Funzionamento della Personalità? Quali strumenti sono stati
usati e quale metodo è stato applicato? Quali le origini, le radici
del criterio A sul funzionamento della personalità e sui suoi
possibili livelli di compromissione? A quali ricerche risalgono?
In effetti, abbiamo ricerche che confermano l’ipotesi secon-
do cui la nuova Scala per il Funzionamento della Personalità

cismo vs. lucidità. Oppure, uno o più dei seguenti tratti di personalità: Affettività
Ridotta, Anedonia, Angoscia di Separazione, Ansia, Convinzioni/Esperienze
Inusuali, Depressività, Disregolazione Percettiva, Distraibilità, Eccentricità,
Evitamento della Intimità, Grandiosità, Impulsività, Inganno, Insensibilità,
Irresponsabilità, Labilità Emotiva, Manipolatorietà, Ostilità, Perfezionismo Ri-
gido, Perseverazione, Ricerca di Attenzione, Ritiro, Sospettosità, Sottomissione,
Tendenza a correre rischi.

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a del DSM-5® — la LPFS-BF — prevede, meglio di quanto


facessero le categorie del DSM-IV, il funzionamento psicoso-
ciale, le indicazioni sulla patologia di personalità, le valutazioni
prognostiche, il rischio di recidiva e l’intensità del trattamento
(Few et al., 2013).
Vi sono altri due studi molto interessanti per comprendere
le radici dell’autodirezionalità e della LPFS-BF.
Il primo di questi studi (Bender, Morey e Skodol, 2011) in-
daga sui disturbi di personalità come associati a disfunzionalità
nella relazione con sé stessi e/o con gli altri. Sembra che quanto
maggiore sia il grado di compromissione del funzionamento
intra e interpersonale tanto più sia probabile un disturbo della
personalità e quindi — in questa misura — è più probabile
poter prevedere: la psicopatologia, la pianificazione di un trat-
tamento, la costruzione di un’alleanza terapeutica, la prognosi
circa il decorso e l’esito terapeutico.
Le ricerche che hanno confermato la valenza predittiva della
relazione sé-altri hanno usato strumenti di valutazione con le
seguenti caratteristiche: (1) dimensioni di un funzionamento
mentale piuttosto che categorie; (2) avere il doppio focus sé-
altri; (3) strumenti già validati in studi con campioni di po-
polazione generale, campioni di disturbi della personalità e di
entrambi; (4) caratteristiche centrali utili a una vasta gamma di
clinici; (5) applicabilità a interviste cliniche valutative (esclusi i
self-report); (6) dati psicometrici pubblicati sui domini rilevanti
del funzionamento.

2. Strumenti e metodi specifici


I principali strumenti usati in queste ricerche sono stati:
1. Il Quality of Object Relations Scale (QORS) (Azim et al.,
1991);
2. Il Personality Organization Diagnostic Form (PODF 1 e il
PODF 2) (Diguer et al., 2004);
3. L’Object Relations Inventory (ORI) (Bers et al., 1993);
4. Lo Social Cognition and Object Relations Scale (SCORS)
(Stein et al., 2004);
5. Il Thematic Apperception Test (TAT);5
5
Nelle analisi del TAT sono state prese in considerazione 8 dimensioni con una
scala a 7 punti: (1) Complessità; (2) Qualità affettiva; (3) Investimento emotivo

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A. PACCIOLLA – Le radici dell’autodirezionalità nel DSM-5®

6. Il Reflective Functioning Scale (RFS) (Fonagy et al., 1998);


7. Il Temperament and Character Inventory (TCI) (Cloninger, a
2000).
Quest’ultimo è lo strumento e il metodo che, con riferi-
mento a una teoria bio-psico-sociale della personalità, ha mag-
giormente determinato la presenza dell’autodirezionalità nel
DSM-5® (si veda la tabella 2).6 Infatti, nel TCI, la dimensione
dell’autodirezionalità è presente con 44 item (su 240 a rispo-
sta vero-falso). Tuttavia sarà importante considerare come R.
Cloninger articoli gli item dell’autodirezionalità per verificare
il passaggio allo stesso costrutto così come inteso dal DSM-5®.
Nel cluster «Ricchezza di Risorse» si possono cogliere degli
item con contenuti simili al PIL. Questi contenuti sono stati
oggetto di ricerche e, di certo, continueranno a essere oggetto
di massimo interesse.
Le ricerche effettuate con questi strumenti hanno eviden-
ziato l’utilità clinica della dimensione «sé/altri» per capire i
processi mentali associati alla fenomenologia psicopatologica
della personalità, sia per una diagnosi in vista di un trattamento
e sia per misurare il cambiamento in vista di una prognosi. Per
questo, il gruppo di lavoro del DSM-5® (Skodol et al., 2011)
preposto allo studio di questa nuova scala per la valutazione
dimensionale del funzionamento della personalità ha ipotizzato
due domini: sé e interpersonale.
Il dominio del sé includeva:
1. L’integrazione dell’identità: regolazione degli stati dell’Io;
coerenza del senso del tempo e della storia personale; capa-
cità di sperimentare la propria unicità e di identificare chiari
confini tra sé e gli altri; capacità di riflettere su di sé.
2. L’integrità del concetto di sé: regolazione dell’autostima e del
rispetto di sé stesso; senso dell’agire in modo autonomo;
accuratezza nella auto-valutazione; qualità dell’auto-rappre-

nelle relazioni; (4) Investimento emotivo nella morale; (5) Causalità sociale; (6)
Esperienza e gestione dell’aggressione; (7) Autostima; (8) Identità.
6
IL TCI è stato ideato da Robert Cloninger nel 1987. Oltre alle prime tre dimen-
sioni di personalità, per valutare i tratti temperamentali (Novelty Seeking, Harm
Avoidance e Reward Dependence), l’autore ha successivamente inserito una quarta
dimensione: la Persistence (la perseveranza nonostante la fatica e la frustrazione).
A queste, sono state aggiunte altre tre dimensioni correlate allo sviluppo del
concetto di sé per valutare i tratti caratteriali: Self-Directedness, Cooperativeness,
e Self-Trascendence.

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a TABELLA 2
Valutazione della autodirezionalità prima del DSM-5®
L’Autodirezionalità nel TCI
Item positivi Item negativi
Responsabilità / Autocolpevolizzazione
Potrei probabilmente rea-
Di solito sono così deciso che
lizzare più di quanto faccio,
continuo a darmi da fare a
37 11 ma non vedo perché dovrei
lungo dopo che gli altri hanno
sforzarmi più di quanto è
lasciato perdere.
necessario per tirare avanti
Sono soddisfatto di quello
Lavoro di più della maggior che ho realizzato e non ho un
62 128
parte della gente. gran desiderio di fare meglio
di così.
Di solito mi impegno più a
fondo di quanto facciano gli
103
altri perché voglio fare le cose
meglio che posso. Spesso interrompo un lavoro
Sono più perfezionista della 166 se richiede più tempo di quan-
205
maggior parte delle persone. to avessi pensato.
Spesso mi impegno fino allo
218 stremo o cerco di fare di più
di quanto sia in grado di fare.
Intenzionalità / Mancanza di Scopo
Spesso mi sento vittima delle
4
circostanze.
Raramente mi capita di sen-
24 tirmi libero di scegliere quello
che voglio fare.
I miei atteggiamenti sono in
larga misura determinati da
58
influenze al di fuori del mio
controllo.
Di solito sono libero di sce-
151 86 Gli altri mi controllano troppo.
gliere quello che voglio fare.
Le circostanze spesso mi ob-
121 bligano a fare cose contro il
mio volere.
Le mie azioni sono determina-
169 te in larga misure da influenze
al di fuori del mio controllo.
Spesso la colpa dei miei pro-
198 blemi sono le altre persone e
le situazioni.

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A. PACCIOLLA – Le radici dell’autodirezionalità nel DSM-5®

Ricchezza di Risorse / Apatia


Ogni giorno penso di fare un
a
Spesso sento che la mia vita
59 altro passo per raggiungere i 9
ha poco scopo o significato.
miei scopi.
Il mio comportamento è Di solito non sono in grado di
fortemente guidato da certi fare le cose secondo la priorità
177 30
scopi che mi sono imposto dettata dalla loro importanza
nella vita. perché mi manca il tempo.
Ho troppo poco tempo per
105 cercare soluzioni a lungo
Di solito considero una situa- termine per i miei problemi.
233 zione difficile come una sfida
o un’opportunità. Non penso di avere una vera
126 idea di quello che è il fine della
mia vita.
Passo la maggior parte del
mio tempo a fare cose che
159 sembrano necessarie, ma che
per me non sono veramente
importanti.
Auto-Accettazione / Auto-Rifiuto
Spesso aspetto che qualcun
Non vorrei essere più ricco di
94 40 altro fornisca la soluzione ai
qualsiasi altra persona.
miei problemi.
Spesso non sono in grado di
cavarmela con i miei problemi
106
Non mi importa del fatto che perché non so proprio come
136 gli altri, spesso, sappiano più devo fare.
cose di me. Preferisco aspettare che qual-
171 cun altro prenda l’iniziativa
per portare a termine le cose.
La maggior parte delle per-
197 sone sembra avere più risorse
Non voglio essere ammirato di me.
214
più di qualunque altro.
Mi piacerebbe avere un aspet-
229
to migliore di chiunque altro.
Congruente secondo Natura
Nella maggior parte delle
Ho molte brutte abitudini
situazioni le mie reazioni na-
17 39 che mi auguro di poter inter-
turali sono basate sulle buone
rompere.
abitudini che ho acquisito.

111

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a La disciplina ad applicarmi
mi ha dato buone abitudini
che prevalgono rispetto alla Ho così tanti difetti che non
36 104
maggior parte degli impulsi mi piaccio molto.
momentanei o delle insisten-
ze altrui.
La disciplina ad applicarmi mi
Ho bisogno di molto aiuto
ha permesso di diventare bra-
90 115 degli altri per acquisire delle
vo in molte cose aiutandomi
buone abitudini.
ad avere successo.
Le buone abitudini sono di-
ventate una seconda natura Molte delle mie abitudini mi
135 per me. Sono quasi sempre 162 rendono difficile portare a
azioni automatiche e spon- termine obiettivi importanti.
tanee.
Ho bisogno di molta più ap-
Le buone abitudini mi rendo- plicazione per acquisire buone
196 no più facile fare le cose nel 184 abitudini, prima di potermi fi-
modo che voglio io. dare di me stesso in situazioni
allettanti.
Penso che le mie reazioni La mia volontà è troppo de-
naturali siano solitamente bole per vincere tentazioni
207 221
coerenti con i miei principi e molto forti anche se so che
con i miei fini ultimi. soffrirò per le conseguenze.

sentazione (grado della complessità, della differenziazione e


della integrazione).
3. Autodirezionalità: capacità di avere standard di comporta-
menti personali; coerenza e significatività degli scopi della
vita a breve e a lungo termine.7
Il dominio interpersonale includeva:
1. Empatia: capacità di mentalizzare (creare un modello ac-
curato dei pensieri e delle emozioni degli altri); capacità di
apprezzare le esperienze degli altri; attenzione alle prospet-
tive degli altri; comprendere la causalità sociale.

7
L’autodirezionalità è stata osservata in particolare dal S-SD (Self-Description Scale)
e dallo SCORS (Social Cognition and Object Relations Scale); la capacità di proporsi
degli standard ragionevoli dalla S-DS (Self-Description Scale), la direttività verso
gli scopi dal D-RS (Differentiation-Relatedness Scale), dal S-DS (Self-Description
Scale) e dallo SCORS (Social Cognition and Object Relations Scale).

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A. PACCIOLLA – Le radici dell’autodirezionalità nel DSM-5®

2. Intimità: profondità e durata delle relazioni con gli altri;


tolleranza e desiderio di vicinanza; reciprocità di riguardo e a
di sostegno dei comportamenti socio-relazionali e capacità
di riflettere su questa reciprocità.
3. Complessità e integrazione delle rappresentazioni degli altri:
coesione, complessità e integrazione delle rappresentazioni
mentali degli altri; usare le rappresentazioni degli altri per
regolare il proprio sé.
Allo scopo di validare l’approccio dimensionale ai livelli di
funzionamento della personalità e per rendere il continuum più
fruibile dai clinici delle varie discipline sono stati necessari altri
tre steps: (1) un’analisi secondaria dei dati; (2) una riduzione
degli elementi, mantenendo soltanto gli aspetti psicometrica-
mente più forti per la misurabilità dei livelli; (3) una sintesi
di a e di b per la proposta finale dei livelli del funzionamento
della personalità.
In sintesi, le rappresentazioni del sé e delle relazioni inter-
personali sono la base osservabile della psicopatologia della
personalità che permette di: (a) identificare la presenza e la
consistenza di una psicopatologia di personalità; (b) pianifi-
care un trattamento; (c) costruire un’alleanza terapeutica; (d)
studiare il trattamento e l’esito terapeutico.8

Valutare la psicopatologia di personalità secondo il


DSM-5®
Dall’insieme di tutte queste ricerche, si può ipotizzare che
la psicopatologia di personalità è associata: (a) alle caratteri-
stiche generali previste per i disturbi di personalità dall’Asse II
del DSM-IV o ai criteri per uno o più disturbi di personalità
previsti dall’Asse II del DSM-IV; (b) alle funzioni intraperso-
nali (integrazione dell’identità e integrità del concetto di sé) e
le funzioni interpersonali (capacità di empatia e di intimità).
Questo ci permette di proporre una prima Scala di Gravità dei
8
Il funzionamento intra e interpersonale è stato accettato come parametro di base
per poter cogliere un’eventuale compromissione del funzionamento di personalità
dai rappresentanti di vari approcci: cognitivo-comportamentale, interpersonale,
psicodinamico, dell’attaccamento, evolutivo, socio-evolutivo. Gli studi fattoriali
analitici hanno evidenziato che la self-mastery e «le relazioni socio-interpersonali»
sono due dei quattro fattori maggiormente misurati. Inoltre, questo approccio
del DSM-5® è in linea con la National Institute for Mental Health Reseach Domain
Criterion (RDoC).

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a DP cogliendo un livello più preciso all’interno di un continuum


(si veda tabella 3).

TABELLA 3
Correlazioni fra la GAPD (General Assessment of Personality
Disorders) e il SIPP (Severity Indices of Personality Problems)
(Morey et al., 2011a e b)
Esempio di Scala per la Valutazione del Livello
di Patologia della Personalità
Marcate oscillazioni nell’identità e negli scopi. Senso di sé
Livello 1 frammentario e deficitario. Confini deboli fra sé e gli altri. Poca
o nessuna capacità di rapporti collaborativi.
Alienazione dagli altri e dai propri sentimenti. Aspetti della
Livello 2
personalità debolmente integrati o contraddittori.
Scarso senso di direzione e di significato nella vita. Marcata
Livello 3
instabilità nella percezione e nella valutazione degli altri.
Sentimenti di vuoto, insincerità e di mancanza di autenticità
Livello 4 nell’identità. Bassa tolleranza alla frustrazione. Forti sentimenti
di disvalore.
Alcune incertezze e indecisioni sui valori e sugli scopi. Occasio-
Livello 5
nali incertezze sulla autodirezionalità. Periodici dubbi su di sé.

Vale la pena indicare come i problemi nell’identità, nella


relazionalità, nell’autostima e nella autodirezionalità sono fra
le variabili maggiormente importanti nel determinare un DP.
Sembra che una variazione quantitativa sia più predittiva di
un DP che non una variazione qualitativa. Così come una va-
riazione nell’identità sembra che sia più direttamente correlata
con le caratteristiche interpersonali.
Su questa base il DSM-5® è più adatto, rispetto al DSM-IV,
a indicare, con una migliore approssimazione in un individuo,
il limite del DP, oppure i suoi tratti più a rischio. Tuttavia è
necessario comprare le future ricerche attraverso il parame-
tro della cultura. È possibile che il livello di patologia di un
disturbo abbia un impatto diverso a seconda della società. È
ipotizzabile, per esempio, che una compromissione moderata
della struttura narcisistica (con una particolare amplificazione
dell’autostima) sia considerata socio-sintonica in un contesto
culturale e non in un altro. Idem per la capacità di correre dei
rischi in una struttura borderline; uno stesso livello di funzio-

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namento può essere apprezzato e ricercato in un contesto, ma


patologizzato in un altro.

3. I Livelli di Funzionamento della Personalità

I livelli di funzionamento generale della personalità posso-


no essere specificati meglio attraverso l’identificazione di un
continuum che misuri la compromissione del funzionamento
intrapersonale e interpersonale.
Uno dei limiti più rilevanti nella considerazione dei di-
sturbi di personalità nel DSM-IV era la comorbidità; infatti,
i criteri generali per un DP implicavano: (a) manifestazioni
in almeno due aree di funzionamento; (b) rigidità persistente;
(c) una compromissione o una grave sofferenza clinicamente
significativa; (d) stabilità temporale e rilevanza diagnostica di
tipo psichiatrico o per le condizioni mediche. Questi criteri
erano difficilmente operativi e non specificavano la natura
delle disfunzioni di personalità. In tal senso, è necessario ri-
cercare i criteri di convergenza fra le speculazioni teoriche e
le ricerche empiriche per identificare il nucleo della patologia
di personalità.
Bornstein (1998) ha ipotizzato come miglior predittore
dell’esito terapeutico la gravità (e non il tipo) di patologia
della personalità. Questa ipotesi è stata confermata da altre
ricerche (ad esempio, Hopwood et al., 2011) e il continuum
di gravità di una compromissione è stato indicato nell’iden-
tità, nell’auto-direzione, nell’empatia e nell’intimità (Bender,
Morey e Skodol, 2011) In questa ricerca, l’approccio psi-
codinamico ha dato il suo contributo attraverso l’ipotesi di
un continuum dell’«organizzazione di personalità», in cui le
strutture più gravi si possono riscontrare in quella schizoide
e in quella borderline e quelle meno gravi nelle strutture
ossessivo-compulsiva, evitante e dipendente (Kernberg e
Caligor, 2005)

Qualità e livello di compromissione della personalità


La gravità (e non il tipo) di patologia della personalità è
stata individuata in un nucleo composto dai seguenti 10 item
riportati nella tabella 4 (Morey et al., 2011 a e b):

115

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a TABELLA 4
Sintomi più gravi nella relazione intra / inter-personale 9
1. Credo che non mi sia di alcun aiuto lavorare con gli altri.
2. Posso ricordarmi a fatica che tipo di persona ero alcuni mesi fa.
3. Non riesco a stringere legami con gli altri.
4. Ciò che avverto per gli altri cambia molto da un giorno all’altro.
5. A volte penso che io sia una copia falsa di me.
6. Sono preoccupato perché perderò il senso di chi veramente sono.
7. Ciò che sento per gli altri è veramente qualcosa di molto confuso.
8. Sento di andare alla deriva, senza una direzione.
9. Ho delle sensazioni molto contraddittorie verso di me.
10. Ho la sensazione che il mio vero sé sia nascosto.

Queste ricerche ci portano a ipotizzare che è possibile iden-


tificare una dimensione globale della patologia di personalità
associabile a una o più diagnosi di DP secondo il DSM-IV
con un riferimento al funzionamento intrapersonale (identità e
autodirezionalità) e al funzionamento interpersonale (empatia
e intimità). Il funzionamento (o il grado di compromissione)
del rapporto intra e interpersonale è un ottimo predittore
della struttura di personalità. L’intensità e la frequenza dei 10
possibili sintomi indicati in tabella 4 possono essere meglio
identificati con lo stesso continuum proposto in tabella 3. In
questo modo, gli item autosomministrati (tabella 4) si potranno
accordare con la Clinical Rating Scale (tabella 3), cogliendo
correlazioni come: la bassa autostima con un basso livello di
autodirezionalità; oppure, un’evoluzione patologica con mode-
rati livelli di compromissione nella relazione intrapersonale, i
quali se non trattati produrranno alti livelli di compromissione
interpersonale.
Vari aspetti, come i problemi d’identità, le relazioni inter-
personali deficitarie, la bassa autostima e una bassa autodire-
zionalità sembrano poter differenziare i livelli di patologia di
personalità. In molti casi, questi indicatori tendono a variare
quantitativamente piuttosto che qualitativamente nei diversi
livelli di gravità.

9
Gli item 1, 3, 4 e 7 riguardano il rapporto interpersonale, mentre gli item 2, 5,
6, 8, 9 e 10 riguardano il rapporto intrapersonale.

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In altre parole, il funzionamento della personalità prende


le mosse dall’analisi dell’esperienza interna e dalle funzioni a
psicologiche che permettono di comprendere gli stati mentali,
dare senso agli stessi e utilizzarli per guidare la propria azione
e regolare le relazioni sociali.
In pratica l’autodirezionalità consiste nelle seguenti capacità:
1. avere obiettivi a breve, medio e a lungo termine, percepiti
come propri e perseguiti con persistenza;
2. comprendere il punto di vista degli altri (comprese le priorità
e i valori), accettando che sia diverso dal proprio (in termini
metacognitivi: decentrare), ed essere empatici;
3. stabilire e mantenere relazioni interpersonali profonde e
intime con obiettivi pro-sociali.
Non è facile trasformare i criteri dell’autodirezionalità in
item ma con una sufficiente elasticità si può restare fedeli ai
contenuti epistemologici del DSM-5® e adattarli alla compren-
sione generale, conservando così l’utilità clinica della scala.
In relazione a quanto sopra, si evidenziano, a titolo esem-
plificativo, due tipi di difficoltà:
1. La versione italiana del DSM-5®, nella scala dell’autodire-
zionalità, mantiene il termine standard (stesso termine della
versione inglese). Questo termine potrebbe essere di difficile
comprensione ad alcuni italiani e potrebbe essere sostituito
da «norme», proprio come fatto nelle versioni spagnole e
portoghesi dello stesso DSM-5®.
2. Nella versione originale in inglese sembra che vi sia un er-
rore (o poca chiarezza) che indicherebbe il contrario di ciò
che intende. Si afferma: «La capacità di riflettere sui miei
processi mentali e di non comprenderli è compromessa in
modo significativo». Dovrebbe essere cancellato il «non» e
leggere: «La capacità di riflettere sui miei processi mentali
e di comprenderli è compromessa in modo significativo».10
A parte questi adattamenti, sono pochi e di poco rilievo gli
altri refusi restanti; tuttavia possiamo dire che, tutto sommato,
si possa procedere a una prima indagine pilota riguardo il tema
in oggetto, operando su di un campione limitato, in modo

10
Donna Bender, la prima autrice della Scala del livello di funzionamento della
personalità sta procedendo estesamente con la ricerca in vari Paesi per garantire
supporto empirico.

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a da formulare successive e più precise ipotesi da validare con


ulteriori ricerche in varie parti del mondo.

Conclusione

Dopo aver considerato le maggiori ricerche che hanno


portato ai nuovi parametri per valutare il funzionamento della
personalità, possiamo sinteticamente ribadire che le vere radici
dell’autodirezionalità non stanno nelle più recenti ricerche che
hanno portato al LPFS-BF (Level of Personality Functioning
Scale–Brief Form) (si veda il pragrafo 1) e neanche nei sette
strumenti e metodi specifici per isolare il costrutto dell’auto-
direzionalità (si veda il pragrafo 2).
Infatti, le vere radici dei quattro costrutti (in particolare
dell’autodirezionalità) che più determinano il funzionamento
e lo stile di personalità rimandano a ciò che aveva intuito V.
Frankl, fin dagli anni Trenta) e che moltissime ricerche hanno
successivamente confermato e cioè alla valenza degli scopi che
danno un senso alla vita, al sacrificio e alla morte.
In tal senso, le relazioni intrapersonali (identità e autodi-
rezionalità) ed extra-personali (empatie e intimità) risultano
correlabili con lo scopo e il senso della vita. Per il DSM-5®,
l’insieme di questi quattro costrutti esprimono, con buona
approssimazione, il funzionamento della personalità e possono
aiutare e ipotizzare (e/o diagnosticare) il livello di gravità del
disturbo riportato dal soggetto. Per Frankl, lo scopo e il senso
della vita è la vera radice profonda dei quattro costrutti per la
valutazione del funzionamento della personalità, in partico-
lare dell’autodirezionalità. A questo riguardo, questo articolo
intende appunto costituire una premessa a una ricerca sulla
correlazione fra la percezione di uno scopo e di un senso della
vita e l’autodirezionalità.
In particolare, il PIL (Purpose In Life Test) è lo strumento
col quale — in queste ultime decadi — sono state condotte
moltissime ricerche in tutto il mondo nel contesto della Lo-
goterapia e Analisi esistenziale.
Oggi, nel DSM-5®, finalmente si accenna al senso della
vita proprio nella Scala dell’autodirezionalità. Tuttavia, appare
sorprendente come, negli studi che hanno poi portato all’au-
todirezionalità, non si faccia menzione agli studi di Frankl e

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A. PACCIOLLA – Le radici dell’autodirezionalità nel DSM-5®

alle numerosissime ricerche in ambito analitico-esistenziale.


Per questo, abbiamo messo a punto un programma di ricerca a
che prevede la verifica di una correlazione statisticamente
significativa fra autodirezionalità e PIL. In seguito, si potrà
verificare se esista una correlazione tra il PIL e tutte le quattro
variabili per il funzionamento della personalità.
La nostra ipotesi è che la percezione di uno scopo, capace
di dare senso (direzionalità, appunto) alla vita, sia un elemento
unificatore di tutto il funzionamento della personalità.
Nell’estate del 2016 è partita questa ricerca pilota con la
distribuzione dei questionari (PIL e Autodirezionalità) in varie
parti dell’Italia.11 I primi dati circa la correlazione fra autodi-
rezionalità e PIL sono in fase di elaborazione e ci aspettiamo
che nel prossimo anno accademico possano essere raccolti
ulteriori dati. Il passo successivo sarà costituito dalla possibilità
di verificare le correlazioni fra il PILS (la short form del PIL, a
cura di Robbins e Francis, 2000) e tutte e quattro le variabili
sul funzionamento della personalità: identità, autodirezionalità,
empatia e intimità. L’ipotesi da validare consiste nel confermare
una correlazione significativa fra la percezione di uno scopo
nella vita e i criteri di funzionamento dell’identità, autodire-
zionalità, empatia e intimità, come formulati nel DSM-5®.
L’ipotesi nulla sarà quella di non riscontare alcuna correlazione
significativa fra la percezione di uno scopo nella vita e ciascuno
dei quattro criteri di funzionamento della personalità.
Il senso di queste ricerche sta nella possibilità di verificare
il ruolo del senso della vita sia nella costruzione del proprio
benessere, in termini di crescita, sia in funzione di una più
accurata diagnosi differenziale in vista di una psicoterapia mag-
giormente mirata ai problemi correlati a una eventuale nevrosi
noogena, legata alla percezione della vita come priva di senso e
quindi non degna di essere vissuta. È nostra convinzione che
la mancanza di senso possa rappresentare la base eziologica e/o
un fattore precipitante di molti disturbi mentali.
11
I colleghi collaboratori che hanno più attivamente partecipato alla prima ricerca
(ancora in corso) per la correlazione solo fra autodirezionalità e PIL sono: Uberta
Ganucci Cancellieri (Università Reggio Calabria); 13 allievi del terzo e quarto
anno della Scuola di Psicoterapia «Humanitas-LUMSA» (Roma): Anna Maria
Giorgetti, Francesca Ziccardi, Desirè Buonavolonta, Simona Corvino, Angela
Fortugno, Serena Ciucani, Sara Annecchini, Marida Angotti, Erika Maria Paddeu,
Rosa Di Geronimo, Mariangela Amicarelli, Anna Perrino, Assunta Romaniello
Rocchino, Silvia Leonoro, Carmela Matarazzo, Angela Cannito, Selenia De
Pasquale, Marianna Trojano.

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a A nostro parere, il senso della vita ha un ruolo rilevante


anche per valutare il funzionamento della personalità e per
indicare lo stile di personalità. Il senso della vita potrebbe
essere indicato come il rapporto fra il timone e il faro. Senza
un timone e senza un faro remeremo a vuoto e senza un senso.
Un’altra metafora per indicare uno scopo o un progetto che
aiuti a percepire la vita con un senso è quella della donna in-
cinta: dover/voler vivere per sé ma anche per un altro essere,
può rappresentare allo stesso tempo due scopi: può dare senso
alla vita e sostenere la personalità dell’individuo, dando dire-
zionalità in senso pro-sociale e autotrascendente.
Infatti, lo scopo della vita è ciò che maggiormente determina
la direzione delle nostre scelte e quindi l’orientamento e il senso
della vita di ciascuno. Lo scopo è così strettamente correlato
al senso che spesso, nella percezione soggettiva, vengono usati
come sinonimi. A volte, infatti, sembra che sia lo scopo a
determinare e indicare il senso della vita. Anche la capacità
di darsi un compito (o un progetto) o delle mete sembra che
abbiano una stretta correlazione con la missione della propria
vita, cioè che aiutino a percepirla come significativa, per cui
vale la pena non solo vivere ma anche soffrire e, se è necessario,
anche morire. Chi non ha un «perché» vivere non ha neanche
un «perché» soffrire e sacrificarsi e, quindi, in qualche modo
sta già morendo.

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THE ORIGINS OF SELF-DIRECTEDNESS


IN DSM-5®
a
Abstract
This article intends to answer a recent question on the origins of
the construct of self-directedness in DSM-5®. The answer has
been articulated in three parts: (1) The most recent research on
the four constructs of LPFS-BF (Level of Personality Functioning
Scale), of which self-directedness is a part; (2) The specific tools
and methods applied to identify the construct of self-directedness;
(3) The clinical importance for identifying the level of personality
functioning. This article is also intended as an epistemological
premise for research on the correlations between self-directed-
ness and purpose in life (the epicentre of Existential Analysis by
V. Frankl) measured by the PIL test. In the conclusion a preview of
this pilot research is given.

Keywords
DSM-5®, self-directedness, PIL Test, Frankl, level of personality
functioning.

CORRISPONDENZA
Aureliano Pacciolla
Scuola di Psicoterapia Humanitas
Via della Conciliazione, 22
00193 Roma
E-mail: aureliano.pacciolla@gmail.com

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

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Indices of Personality Problems (SIPP–118): Development, factor
structure, reliability and validity, «Psychological Assessment», vol.
20, n. 1, pp. 23-34.

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a pprofondimenti

TERAPIE CENTRATE
SUL SIGNIFICATO:
LOGOTERAPIA E
APPROCCIO NARRATIVO
L’attualità del pensiero di Viktor Frankl nel
confronto con l’approccio narrativo di Fabio Veglia
Isabella Deambrosis Sommario
(Psicologa, Alessandria)
Questo lavoro si sofferma sul confronto tra due
Cristina Civilotti
(Psicologa e psicoterapeuta, Università
sistemi psicoterapeutici finora mai analizzati in
degli Studi di Torino) parallelo, mettendo in luce aspetti di intercon-
nessione, di continuità e discontinuità. Le due
prospettive presentate sono accomunate dalla
centralità della dimensione semantica, costitutiva
della persona e fondante la realtà psicoterapeutica.
Intuirne le similitudini di fondo ha consentito di
avviare un dialogo tra due teorizzazioni che nella
loro reciproca conoscenza potrebbero trovare nuovi
spunti applicativi.
Dopo aver ripercorso le radici dell’approccio nar-
rativo di Fabio Veglia, tramite una breve disamina
del pensiero di J. Bruner, G.A. Kelly e P.D. MacLean,
la logoterapia di Viktor Emil Frankl e l’approccio
narrativo vengono messi a confronto, risaltan-
done similitudini e differenze e lasciando aperto
lo spazio a riflessioni. Una nuova trama sembra
stagliarsi all’orizzonte e questo lavoro di ricogni-

Edizioni Erickson – Trento RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017 (pp. 125-148) 125

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a zione bibliografica-teorica si propone come punto


di partenza di questo cammino.

Parole chiave
Significato, approccio narrativo, logoterapia, nar-
razione, temi di vita, valori frankliani, dimensione
spirituale.

Premessa
Un confronto tra due sistemi psicoterapeutici fino a ora mai
analizzati in parallelo: l’approccio narrativo di Fabio Veglia e
la logoterapia di Viktor Emil Frankl. Il punto di contatto di
queste terapie è il ruolo di centralità che entrambe riservano
alla dimensione semantica, costitutiva della persona e fondante
la realtà psicoterapeutica. Intuire questa similitudine di fondo
ha consentito di avviare un «dialogo» tra due teorizzazioni
che, nella loro reciproca conoscenza, fatta di continuità e
discontinuità, potrebbe aprire lo spazio a riflessioni e spunti
applicativi. Una nuova «trama» sembra stagliarsi all’orizzonte e
questo lavoro di ricognizione bibliografico-teorico si propone
come punto di partenza di questo cammino.

1. Le origini dell’approccio narrativo


La dimensione narrativa è parte indissolubile dell’essere
umano. Nella narrazione, la realtà viene plasmata dando vita a
significati unici e irripetibili. Il linguaggio rappresenta uno dei
più alti traguardi evolutivi conquistati dalla specie «Sapiens» e
grazie ad esso, prende vita la narrazione con la sua costruzione
di significato, frutto del processo di rielaborazione e interpre-
tazione della realtà che solo l’uomo può vantare.
Uno dei pionieri di questo filone di pensiero fu Jerome
Bruner, il quale riconobbe la centralità di questa peculiarità
umana e se ne fece portavoce. Nell’azione narrativa, l’uomo
rielabora la realtà, organizzando la conoscenza di sé e l’e-
sperienza di sé nel mondo, utilizzando il linguaggio come

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I. DEAMBROSIS E C. CIVILOTTI – Terapie centrate sul significato: logoterapia e approccio narrativo

strumento elettivo e imponendo un’analisi interpretativa


dei contenuti e della forma, affinché si possa giungere a a
comprenderne il significato. Jerome Bruner (1986) parlava
di psicologia culturale, riferendosi all’inscindibile relazione
esistente tra individuo e cultura, nella loro reciproca influenza
e co-costruzione (Bruner, 1990, p. 116). L’autore, nella sua
teorizzazione, si rifà dunque in parte alle teorie del costrut-
tivismo, secondo le quali siamo noi a costruire la realtà, essa
non ci viene data oggettivamente ma prende forma grazie
a nostri atti mentali, i quali seguono regole implicitamente
espresse dalla cultura di riferimento.
Secondo George Alexander Kelly (1955), fondatore della
psicologia dei costrutti personali, il soggetto non agirebbe
unicamente in risposta all’ambiente, ma rappresenterebbe
l’ambiente adattandolo in modo attivo a sé, avendo come
fine ultimo l’attribuzione di significato agli eventi. Così come
Bruner, anche Kelly concorda nel riconoscere all’essere umano
la necessità di dotare la propria esistenza di significatività.
La narrazione veicola significato e la ricerca di quest’ultimo
assume rilievo nella teorizzazione di Bruner. Il pensiero dell’au-
tore americano riorganizza l’approccio cognitivista evidenzian-
do la criticità di una presunta oggettività ottenuta a scapito di
una riduzione nel campo d’indagine dell’esperienza umana; la
psicologia è intrisa di significato e la comprensione scientifica
si raggiunge nella più ampia integrazione delle dimensioni
caratterizzanti la persona (Bruner, 1990, p. 2).

2. L’approccio narrativo

Autori quali Bruner, Kelly, MacLean sono stati fonte


d’ispirazione per alcuni degli attuali orientamenti cognitivo-
costruttivisti ed evoluzionisti. All’interno di questo filone di
pensiero rientra l’approccio narrativo di Fabio Veglia, ovvero
un’impostazione clinica centrata sul significato che pone la
narrazione della propria storia di vita in posizione prioritaria,
legittimando la stessa del proprio potere trasformativo, ricono-
scendola come bisogno umano. L’approccio narrativo affonda
le sue radici nel costruttivismo, nell’evoluzionismo, nella psico-
logia culturale nonché nella teoria dell’attaccamento sviluppata
da John Bowlby e nella teoria dei Sistemi Motivazionali.

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a 2.1. La narrazione del significato


Riconoscere alla narrazione un’importanza fondamentale
nel processo terapeutico significa riconoscere all’essere umano
la sua unicità, il frutto della sua evoluzione, i traguardi rag-
giunti grazie alla neocorteccia. L’individuo diventa un soggetto
attivo nel processo di costruzione del proprio sé e nel processo
di interpretazione della realtà. Egli identifica l’esistenza di si-
stemi comportamentali biologicamente iscritti quali garanzia
di sopravvivenza. La ricerca di significato diventa dunque
determinante nel comprendere l’essere umano.
Solo l’uomo può vivere alla ricerca di senso trovando nelle
narrazioni la propria coerenza interna, solo l’uomo vanta quel
margine di libertà che gli permette di svincolarsi dai mandati
biologici più ancestrali, che gli permette di attuare una scelta,
di vivere o morire per un ideale, solo l’uomo può costruire la
propria cultura e poi rivoluzionarla. Le trame narrative rivelano
l’unicità di ogni singolo individuo, passato presente e futuro,
costituendo l’irripetibile storia personale. L’attribuzione di
significato è dunque un mandato biologico basilare che àncora
il soggetto alla propria biologia ma, al tempo stesso, lo rende
libero nelle proprie scelte. La psicoterapia assume quindi una
dimensione di storicizzazione in cui la stessa può raggiungere
il proprio significato. La significatività della nostra storia non
è data dagli eventi che la compongono ma dal modo in cui
noi ricostruiamo gli stessi. Il processo di conoscenza si inseri-
sce in un continuum temporale senza il quale l’attribuzione di
significato non potrebbe esistere. Quest’ultimo ha carattere di
essenzialità e irripetibilità. Privare l’essere umano della propria
storia equivale a privarlo di un mandato biologico basilare.
La narrazione è, pertanto, il risultato di un processo di
costruzione della realtà che contempla due aspetti: quello
valutativo e quello operativo. Grazie a pensieri ed emozioni,
l’individuo attua quel processo valutativo di previsione su di sé
e sul mondo in grado di aumentare le probabilità di sopravvi-
venza; un’elevata capacità predittiva è senza dubbio vantaggiosa
a livello evolutivo. I pensieri sono filogeneticamente più recenti
rispetto alle emozioni e trovano espressione nel linguaggio.
Le emozioni, invece, sono evolutivamente più arcaiche, non
sono individualizzate come i pensieri ma la loro influenza sul
comportamento è innegabile. «Epitteto, un filosofo greco,
diceva: “Non sono le cose a farci stare bene o male, ma l’idea

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che ci facciamo di esse”» (Fenelli e Lorenzini, 2012, p. 93). Il


processo di pensiero con cui valutiamo la realtà innesca deter- a
minate emozioni, le quali a loro volta rinforzeranno il pensiero
traducendosi in azione.
Il secondo aspetto del processo conoscitivo, quello operati-
vo, riguarda le azioni intraprese dall’individuo ai fini di rendere
l’ambiente circostante a sé più favorevole, attraverso compor-
tamenti e relazioni interpersonali. Aspetto valutativo e aspetto
operativo si influenzano vicendevolmente nella costruzione
della personale storia di vita che, con la sua moltitudine di
sfumature, prende forma nella mente e nel corpo del soggetto
attraverso il processo di narrazione.

2.2. Il potere della narrazione


La nostra evoluzione ci ha portato a essere con quasi totale
certezza, l’unica specie capace «[...] di morire per un’idea»
(Veglia, 1999a, p. 20). Questa frase permette di comprendere
in profondità l’importanza del nostro processo evolutivo. La
formazione della neocorteccia ci spinge a ricercare il senso nella
vita, a costruire la nostra realtà, a essere artefici delle nostre
narrazioni.
La realtà narrata non sarà mai una verità ma la manipola-
zione che ogni essere umano compie sui dati di realtà affinché
in essi possa trovare coerenza e senso di continuità. I sistemi
di valori e le credenze sono bussole che orientano il cammino
nel mondo e che permettono di rintracciare un significato
unico e personale. Il terapeuta, nel suo operato, deve agire
consapevole della parzialità della storia riportata dal paziente;
infatti, quest’ultimo tenderà a narrare solo gli eventi per lui
significativi.
Nel comprendere meglio l’importanza della narrazione e il
suo stretto legame con la ricerca di significato, è necessario con-
siderare tali tematiche nell’ottica costruttiva-evoluzionistica.
L’evoluzione, con i suoi mandati biologici specifici e i sistemi
motivazionali interpersonali, ha geneticamente iscritto la nostra
specie in un cammino il cui tragitto è già stato avviato ma i
cui passi saranno frutto dell’unicità di ogni singolo individuo.
La narrazione di sé, in un ambiente protetto e condiviso,
permette al paziente la scoperta di nuovi significati fino a quel
momento non ipotizzati, lo autorizza a raccontare ufficialmen-
te storie di sé precedentemente non dichiarate. Il racconto

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a in terapia apre all’individuo orizzonti non ancora esplorati,


talvolta dolorosi, divenendo in ogni caso possibile fonte di
cambiamento. Accedere a quelle storie intraducibili, benché
assolutamente vive nel paziente, o peggio ancora inenarrabili
perché custodi di un dolore congelato, rimane il traguardo più
critico del lavoro clinico. Il linguaggio diventerà strumento di
elezione in questo delicato processo di co-costruzione condi-
visa di significato. Mente, corpo ed emozioni del terapeuta
dovranno essere orientate al massimo rispetto, alla piena con-
sapevolezza e responsabilità.

2.3. Tracce significative


In terapia si intrecciano due storie, quella del paziente su
di sé e quella del terapeuta sul paziente, da questo intreccio
deve sorgere una trama coerente e unitaria. Il sapere clinico
è maggiormente espresso in forma tacita e procedurale ma
proprio per questo motivo è necessaria una riflessione sul
metodo, affinché non ci si abbandoni a un atteggiamento del
tutto arbitrario. Come si possono dunque rintracciare nella
storia individuale del paziente quelle trame necessarie a un
intervento terapeutico? L’approccio narrativo ha individuato
le seguenti tracce significative (Veglia, 1999b, p. 56):
– storie di attaccamento con la madre, con il padre e con le
figure di riferimento sostitutive e/o collaterali;
– storie dei legami tra pari, di tipo ludico, amicale e coopera-
tivo;
– storie di appartenenza a gruppi;
– storie dei conflitti, delle competizioni, delle leadership, delle
acquisizioni di rango;
– storie degli amori, delle relazioni sessuali, dei legami di
coppia;
– storie di accudimento, di tutoring tra pari e di accudimento
invertito.
Lavorare con queste tracce pone il terapeuta a gestire una
molteplicità di significati possibili, poiché la complessità del
paziente prende forma nelle sequenze mentali della sua narra-
zione. Perseguire il cambiamento in terapia implica realizzare
una diversa prospettiva assieme al paziente, co-costruire una
versione di sé aperta a nuovi possibili significati, negoziare
una rete semantica che fuoriesce dagli schemi dell’ordinarietà

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I. DEAMBROSIS E C. CIVILOTTI – Terapie centrate sul significato: logoterapia e approccio narrativo

soggettivamente vissuta dal soggetto e che può manifestarsi in


forma di credenze patogene sul Sé, come foriera di sofferenza a
(Weiss, 1999, pp. 26-27).

2.4. Temi di vita


I temi di vita sono gli argomenti delle nostre narrazioni,
sono i vincoli e le occasioni che consentono di conoscere noi
stessi e il mondo che ci circonda. L’essere umano condivide
temi evolutivamente riconosciuti come significativi e fondanti,
che rendono ognuno di noi uguale a tutti gli altri ma, al tempo
stesso, diverso nel modo singolare di interpretare e incarnare
suddetti temi. L’approccio narrativo rilegge il mandato neo-
corticale della ricerca di significato alla luce dei temi di vita.
Facendo riferimento all’osservazione clinica e agli studi sui
Life Themes (Csíkszentmihályi e Beattie, 1979), si possono
individuare sei macro-temi ricorrenti (Di Fini et al., 2013):
– amore (triplice dimensione di amante, amato, amabile, in
stretta continuità con la capacità di accudimento);
– valore personale (sistema di caratteristiche personali distinte
tra loro in base alle modalità di assegnazione e attribuzione
del valore stesso all’interno delle relazioni interpersonali);
– potere (si riferisce alla dimensione agonistica, alla capacità di
controllo su di sé, sugli altri e sugli eventi, alla consapevolezza
di concepirsi come individuo attivo, attore e autore di un
progetto);
– libertà (in relazione a quei limiti e confini necessari ad argi-
nare i vissuti di angoscia, confusione e disorientamento che
deriverebbero da una sua estensione infinita);
– verità (costruzione di senso all’interno delle storie personali
e relazionali in cui l’individuo è protagonista);
– morte (evento limite entro cui ripensare la propria storia).
I temi di vita racchiudono le principali linee esistenziali
che attraversano l’individuo nel corso degli anni, mettono in
gioco emozioni e pensieri e sono mediati, nelle relazioni in-
terpersonali, dalla condivisione simbolica dei loro significati.
I temi di vita, intrinsechi e discrezionali, si racchiudono in
due principali aree, quali fautrici della trama narrativa di ogni
individuo: Io/Tu e Io/Essi. Sono queste dunque le due aree
che costituiscono le formulazioni che ogni individuo compie
su di sé, sugli altri e sul mondo e che nel loro interfacciarsi

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a permettono lo sviluppo epistemologico della persona (Veglia,


1999b, pp. 68-69).

2.5. Coscienza e senso della vita


Il lavoro psicoterapeutico è un incontro di significati, due
singolarità che insieme costruiscono una storia nuova la cui
significatività viene data dalla dimensione interpersonale in-
trinseca al rapporto terapeutico. La coscienza conferisce alla
nostra specie gradi di libertà comportamentali che permettono
di discriminare, di scegliere, di non sottostare rigidamente ai
mandati biologici. Essa è interpersonale, così come l’espe-
rienza umana, e diventa coscienza storica nel simbolismo del
linguaggio, per merito del quale eventi significativi vengono
collocati in una sequenza temporale. Dimensione temporale e
dimensione interpersonale favoriscono continui traguardi evo-
lutivi. L’Io e il Tu di una relazione significativa rappresentano
la migliore garanzia di continuità della coscienza.
La madre di tutti gli interrogativi umani, il senso della vita,
a oggi non ha trovato ancora una risposta definitiva. L’uomo
pone domande circa la propria natura, ricerca obiettivi da per-
seguire, investe di valore le proprie esperienze. Egli è orientato
alla sopravvivenza e l’evoluzione lo ha dotato di strumenti
mirabili in questo cammino: mandati biologici, sistemi moti-
vazionali, neocorteccia.

3. Logoterapia e approccio narrativo: influenze e


confronto
La logoterapia così come l’approccio narrativo si configu-
rano come due sistemi complessi di ri-lettura dell’esperienza
in psicoterapia. Entrambi riservano al significato un ruolo di
assoluta centralità, un bisogno umano irrinunciabile.

3.1. Impostazioni top-down e bottom-up


Il significato, nell’ottica logoterapeutica, assume una conno-
tazione sovraordinata che trascende l’individuo e la coscienza
diventa organo di significato. Nell’approccio narrativo ci si
esprime in termini di coscienza storica, in virtù della quale gli

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I. DEAMBROSIS E C. CIVILOTTI – Terapie centrate sul significato: logoterapia e approccio narrativo

eventi di vita vengono reinterpretati e investiti di significato. In


entrambe le impostazioni teoriche si fa riferimento alla dualità a
Io/Tu ma con sfumature differenti: nella logoterapia il Tu di-
venta mezzo per trascendere il proprio Io e raggiungere così il
significato ultimo, il sovrasignificato. Nell’approccio narrativo
si enfatizza maggiormente la dimensione interpersonale e di
condivisione quale chiave d’accesso al significato delle nostre
trame di vita. Nel corso della seduta la dimensione interper-
sonale permette il realizzarsi del processo di co-costruzione
condivisa, a tal proposito la tecnica della moviola di Vittorio
F. Guidano, uno dei fondatori del cognitivismo post-raziona-
lista, diviene un efficace metodo per poter variare prospettive
all’interno della narrazione (Dodet, 1998). Il pensiero post-
razionalista, di cui questa tecnica è espressione, si fonda su
un’epistemologia evolutiva, interrogandosi sul
perché l’individuo percepisca la realtà in un
determinato modo e perché la percezione di
questa realtà debba orientarsi a un senso di sé Il pensiero post-
coerente e unitario. La posizione di Guidano razionalista
muta il concetto di cambiamento terapeutico, è interessato
la sfera emotiva assume pari importanza della ai significati
sfera cognitiva e, dunque, non si può concepire
cambiamento senza l’inclusione di queste due individuali
parti del tutto. Il processo di conoscenza attra-
versa le emozioni e si nutre di intersoggettività,
di processi neocorticali, di linguaggio, di contesto storico e
sociale, di ricerca e costruzione di significato. La consapevo-
lezza è un processo di costruzione e ri-organizzazione della
realtà che plasma l’esperienza personale (Guidano, 1991, p.
5) e il livello e la qualità di tale consapevolezza caratterizzano
il cambiamento in terapia. L’approccio narrativo conferma il
pensiero cognitivista post-razionalista e la tecnica della moviola
come capisaldi della propria teorizzazione.
La semantica di Frankl, invece, esprime in maniera più
netta il primato della razionalità, rientrando nelle impostazioni
cliniche di tipo top-down. In particolare, la tecnica dell’inten-
zione paradossa (Frankl, 1946a) si fonda sulla capacità umana
di autodistanziamento. Essa richiama la forza di reazione dello
spirito e aiuta il soggetto ad attingere alla propria volontà di
significato. La volontà di significato è la predisposizione umana
a orientare l’esistenza verso un significato. L’umorismo, parte
integrante della tecnica e manifestazione di una capacità unica

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a della nostra specie, permette il distanziamento tra sé e l’evento


temuto. Nell’impalcatura della logoterapia la suddetta capa-
cità assume un ruolo essenziale, veicolando un cambiamento.
L’intenzione paradossa deve considerarsi una tecnica integra-
tiva e non sostitutiva della psicoterapia, manifestazione di un
pensiero clinico indirizzato alla sfera spirituale, quella noetica,
dell’individuo (Frankl, 2000, pp. 201-232).

3.2. Il ruolo dell’esperienza


Nella logoterapia, la dimensione esperienziale diventa
condizione necessaria e fondamentale per conseguire il cam-
biamento. Nella pratica narrativa, invece, l’esperienza assume
un ruolo importante ma non sufficiente al cambiamento, in
altri termini non sempre si è in grado di elaborare i vissuti
dolorosi dall’esperienza. Francine Shapiro parla di esperienze
traumatiche congelate (2012, p. 245). Il concetto di esperienza
pone le teorizzazioni in due punti di osservazioni dissimili: la
logoterapia centra la propria azione terapeutica nella sfera spi-
rituale dell’uomo, l’approccio narrativo considera il significato
un traguardo umano raggiungibile attraverso il dialogo tra le
formazioni cerebrali: neocorteccia, sistema limbico, sistema
rettiliano. Secondo l’orientamento logoterapeutico, dunque,
l’esperienza si configura come concreta opportunità con la
quale accedere alla consapevolezza dei propri specifici compiti
di vita, un tramite per opporsi al vuoto esistenziale conseguenza
della perdita di valori (Frankl, 2000, p. 145). L’esperienza,
nel filone narrativo, è al contrario intesa nella sua concreta
espressione di sofferenza entro la quale bisogna agire in primo
luogo tenendo conto del sistema affettivo-emozionale che,
se dolorante, non permette il funzionamento delle strutture
cerebrali gerarchicamente superiori.

3.3. Neutralità terapeutica


Il concetto di neutralità terapeutica si esplica, nella teoriz-
zazione frankliana, come un aspetto imprescindibile, per cui
la visione del mondo del paziente non deve essere influenzata
in alcun modo e il terapeuta deve fare appello alla propria
responsabilità per poter raggiungere questo obiettivo. Il senso
deve risplendere di luce propria (Fabry, 1968, p. 44). In tal

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senso, il terapeuta deve aiutare il paziente nel trovare la per-


sonale Weltanschauung, evitando di incorrere nel gravissimo a
errore di influenzarlo con la propria scala valoriale. Il paziente
dovrà fare luce nel buio dei propri problemi, il terapeuta dovrà
incoraggiarlo nel cammino verso la dimensione noetica. L’in-
contro esistenziale che verrà a crearsi nella relazione logotera-
peutica porterà inevitabilmente il terapeuta a varcare la sfera
spirituale del paziente; il rischio di privare quest’ultimo della
riscoperta della propria responsabilità nei confronti della vita
è scongiurato dalla responsabilità etica a cui il terapeuta deve
rimettersi. La neutralità terapeutica è dunque assoluta e la re-
sponsabilità assume un valore neutro, non ci sono suggerimenti
di contenuto perché la Weltanschauung in quanto espressione
della dimensione noetica dell’individuo sarà sempre esente da
patologizzazioni (ibidem, p. 31). La visione
del mondo è considerata unica e irripetibile,
appare dunque irragionevole e sconveniente
per il logoterapeuta formulare alcun giudizio. Relazione
Modificare la scoperta della personale scala logoterapeutica
valoriale sarebbe il più grosso fallimento della come incontro
terapia stessa. Sono ammesse eccezioni nei casi esistenziale
di imminente ed effettivo pericolo, quando ad
esempio è presente la minaccia suicidaria, in
talune occasioni il terapeuta potrà orientare
con maggiore decisione il paziente nella scelta valoriale.
L’approccio narrativo si esprime con maggiore riserva nei
confronti della neutralità terapeutica (Veglia e Pellegrini, 2000,
p.119; Veglia, 2004, p. 15; Veglia e Pellegrini, 2003, p. 24). È
impossibile astenersi dal giudicare, anche il terapeuta è vittima
del giudizio e non si può essere neutri di fronte alle situazioni.
Si deve essere però consapevoli di questa predisposizione umana
al giudizio e quindi approcciarsi al paziente con una consapevole
neutralità. La consapevolezza acquisita da parte del terapeuta
delle proprie emozioni e pensieri preserva l’intervento clinico
dal giudizio personale e permette un maggior coinvolgimento
del clinico nel suo processo di co-costruzione di nuovi signi-
ficati insieme al paziente. Viene avvalorata la metafora del
viaggiatore e della guida dove il terapeuta conduce (l’etimo-
logia latina con-ducere richiama alla mente l’idea di assistere
camminando la persona che è insieme a noi) il paziente alla
meta del suo viaggio ovvero la conoscenza di sé, non con lo
scopo di arrivare ma di imparare a viaggiare (Veglia, 2006, p.

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a 244). Conoscere il proprio giudizio sugli eventi aiuta a evitare


il pregiudizio.

3.4. Improvvisazione terapeutica


Il logoterapeuta deve saper improvvisare, l’equazione s
= x + y (Frankl, 1950, p. 32; Frankl, 1956, p. 15) racchiude
l’essenza di questa concezione in cui l’incognita x rappresenta
l’individualità del paziente e la y la personalità del terapeuta.
La x e la y sono i due momenti sconosciuti, quelli incalcolabili
di ogni trattamento nel susseguirsi delle varie situazioni, sono
gli elementi che rendono impossibile ogni schematizzazione.
Frankl sostiene una sorta di ecclettismo terapeutico (stando
attenti a evitare il sincretismo), ogni terapeuta dovrebbe posse-
dere una conoscenza psicoterapeutica molteplice che permetta
di raggiungere nella pratica clinica una complementarietà di
punti di vista. Non è il terapeuta a dover appartenere a una
scuola, ma tutte le scuole gli dovrebbero appartenere.
Ogni narrazione è nuova, fonte e risultato di improvvisazio-
ne. L’entusiasmo deve governare ogni terapia, reinventandola
continuamente in base al paziente. E così, anche nell’approccio
narrativo, risulta difficile parlare del come si fa terapia, perché
il fare terapia si riferisce a una conoscenza procedurale in cui
la tecnica va sperimentata nel fare (Bara, 1999, p. 83).

3.5. Essere umano: unità tripartita


L’essere umano viene concepito in entrambe le teorizzazioni
come un’unità tripartita. La logoterapia parla di una totalità
psico-fisico-spirituale (Frankl, 2005, p. 39), una tripartizione
che rappresenta una malgama indivisibile. La tripartizione
dell’approccio narrativo si rifà invece al cervello trino di MacLe-
an (1973; 1975): la dimensione fisica è espressione del cervello
rettiliano, quella psichica del sistema limbico, quella spirituale è
custodita nella neocorteccia. Similitudini investite di significati
dalle sfumature differenti. La dimensione psico-fisica viene
analizzata con minor perizia nell’approccio logoterapeutico
rispetto all’approccio narrativo ma tale posizione rientra nel-
le impostazioni teoriche finora esposte. La logoterapia non
esclude l’essere fisico e psichico dell’individuo ma il profondo
desiderio del suo fondatore fu quello di introdurre una nuova

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concezione dell’essere umano, nella quale quest’ultimo non


venisse privato della sua specificità. L’enfasi posta nella sfera a
spirituale ne è dunque la spiegazione. La logoterapia diventa
espressione compiuta di questo intento. Il noos logoterapeutico
è ciò che contraddistingue l’uomo dall’animale, è ciò che rende
libero l’essere umano, è la dimensione spirituale, è unicità.
L’introduzione della dimensione spirituale operata da Frankl,
fu per l’epoca una vera e propria «rivoluzione copernicana»
(Bruzzone, 2012, p. 80). Quando Frankl venne richiuso nei
campi di concentramento poté sperimentare sulla sua pelle
la potenza dello spirito e tale esperienza fu la più efficace e
crudele prova della validità del suo credo. Ciò che lo ha sal-
vato da due anni e sette mesi di prigionia e quattro campi di
concentramento è stata la sua capacità di mantenere sempre
libero il suo spirito da qualsiasi condiziona-
mento psicofisico, il corpo cedeva ma lo spirito
lo sollevava. La dimensione noetica è libera,
non si ammala, è intimamente e unicamente La dimensione
umana, è potenzialità, è autodeterminazione, noetica resta
è autotrascendenza. Di questa sua convinzione sempre libera,
Frankl volle farsi divulgatore, sostenitore acca- non si ammala
nito e per destino anche prova vivente dell’ef-
ficacia. Egli, nel concepire la sua logoterapia,
non ha mai negato le forze biologiche, sociali
e psicologiche, non ha mai negato i vari condizionamenti ma
ha rifiutato il pandeterminismo (Fabry, 1968, p. 29), non ha
mai appoggiato lo spiritualismo così come l’intellettualismo
quanto invece ha sempre ricordato l’importanza della sfera
emozionale ed esistenziale, considerando l’individuo una tota-
lità che trova espressione dall’unione di corpo, psiche e spirito
(Frankl, 1987, p. 71).
Le due teorizzazioni non sono dunque così dissimili nelle
concezioni da cui partono ma si differenziano maggiormente
nella trasposizione clinica di tali credenze. Nell’approccio
narrativo, infatti, viene concepita una sorta di gerarchia nel
funzionamento complessivo dell’essere umano, ragione per
cui una sofferenza riportata a livello rettiliano difficilmente
permetterà all’individuo l’accesso funzionale alla dimensione
neocorticale. Troviamo qui, dunque, una sorta di capovolgi-
mento nel trasportare in campo pratico la concezione teorica;
se nella logoterapia la dimensione spirituale è libera da ogni
costrizione psico-fisica, nell’approccio narrativo il funziona-

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a mento del sistema neocorticale potrebbe bloccarsi in caso di


sofferenza rilevata nei due sistemi gerarchicamente precedenti.
L’approccio narrativo cerca un’integrazione tra la strategia
top-down e quella bottom-up, pur mantenendo la top-down
come via d’intervento principale, non esclude in alcuni casi il
suo completamento con una strategia che parta dal corpo per
raggiungere un riprocessamento a livello emotivo e cognitivo.
Il cervello strutturato secondo la tripartizione di MacLean im-
plica un’influenza sul comportamento umano che interessa vari
livelli: la neocorteccia rappresenta la capacità umana di creare
significati ma la libertà comportamentale viene riequilibrata
dalle influenze dei mandati biologici più antichi. L’individuo
è attraversato da tre finalità di base che ricalcano la suddetta
tripartizione cerebrale (Veglia, 2013, p. 44):
1. Sicurezza personale, ovvero il più antico dei mandati biolo-
gici, appreso con l’esperienza e grazie all’imitazione.
2. Relazioni sociali, strettamente legate alla comparsa delle emo-
zioni e dunque al sistema limbico. Le conoscenze esperite
possono divenire esperienze incorporate. I sistemi motiva-
zionali interpersonali orientano le relazioni tra conspeci-
fici e il processo evolutivo porta l’individuo da un’iniziale
condizione di dipendenza (SMI dell’attaccamento) a una
successiva condizione di interdipendenza (SMI agonistico,
sessuale di coppia, cooperativo paritetico, di accudimento).
3. Ricerca di senso, l’inequivocabile conquista evolutiva umana.
Il senso della vita, intrinseco bisogno dell’essere umano. Il
linguaggio diventa strumento elettivo di narrazione dei pro-
pri significati, una narrazione che nella condivisione assume
una valenza intersoggettiva. Temi narrativi che stimolano gli
interrogativi di ogni essere umano (amore, valore personale,
potere, libertà, verità, morte).
E come disse Frankl: «Il “romanzo” che ognuno di noi ha
vissuto è sempre un’opera creativa incomparabilmente più
grande di qualsiasi romanzo che sia mai stato scritto» (Frankl,
1946a, p. 70).

3.6. La terapia crede nel senso della vita


La logoterapia si fonda su tre pilastri portanti (Frankl, 1969,
pp. 15 e 31; Bruzzone, 2012, p. 101):
– La libertà della volontà (Willensfreiheit);

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– La volontà di significato (Wille zum Sinn);


– Il significato della vita (Sinn des Lebens). a
La libertà della volontà si oppone al determinismo, l’uomo
non può essere libero dai condizionamenti ma può sempre
essere libero nell’atteggiamento con cui si pone nei confronti
degli stessi. L’uomo ha sempre la possibilità di innalzare il
proprio atteggiamento al di sopra di ogni immaginabile con-
dizionamento. Non si escludono limiti fisici, psichici o sociali
ma si sottolinea l’esistenza della libertà spirituale. L’approccio
narrativo considera la libertà di atteggiamento un traguardo
possibile a patto che l’individuo sperimenti un vissuto di sicu-
rezza. Senza il soddisfacimento del primo dei mandati umani
non è possibile avviare in terapia un cammino di cambiamento
personale.
Nell’ottica logoterapeutica, la libertà della volontà si collega
alla volontà di significato, ovvero la motivazione alla ricerca
di senso e significato nella vita. Frankl correlava la volontà
di significato alla sopravvivenza; in altri termini, un uomo
orientato verso un senso, che viva con responsabilità questo suo
compito, ridurrà il rischio di incorrere nel vuoto esistenziale e
aumenterà le probabilità di sopravvivenza (Frankl e Kreuzer,
1982, p. 44). Questa teoria motivazionale a cui fa riferimento
il padre della logoterapia è la stessa che si ritrova nel mandato
neocorticale sostenuto dall’approccio narrativo. Entrambe le
teorizzazioni si trovano concordi su questo punto ed entrambe
riconoscono all’individuo la sua specificità e unicità nel cercare
un senso personale per la propria esistenza.
Da quanto finora detto ne consegue che la vita conserva un
significato, il fatto che l’essere umano sia spinto dalla volontà
di significato diventa prova fenomenologica dell’esistenza dello
stesso (Frankl, 1969). Questa fede nel significato della vita è
inafferrabile ai nostri sistemi di ragionamento, è espressione
ultima del sovrasenso. «Con la ragione ci è dato l’accesso al ve-
rosimile, con l’intera nostra persona (in senso olistico) al come
se fosse vero, con la fede (nella scienza, nel pensiero, nell’uomo,
nell’evoluzione, in Dio, secondo le personali inclinazioni a
credere) alla speranza nella Verità» (Veglia, 1999a, p. 25). L’atto
di fede si palesa, dunque, come tramite per il raggiungimento
del significato ultimo, la presenza di un significato esistenziale
prende forma nelle nostre vite e il lavoro psicoterapeutico con-
ferma la fede in questo significato e legittima la sofferenza per

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a la sua mancanza. Addentrarsi nelle afflizioni altrui, nelle trame


di vita dolorose di un essere umano, presuppone la fiducia nel
senso della vita (Bruzzone, 2012, p. 113). La valenza epistemo-
logica e semantica delle storie narrate, di cui parla l’approccio
narrativo, si allinea con il suddetto filone di pensiero e trova
concordanza nel concetto di «atto prototerapeutico» espresso
da Elisabeth Lukas (ibidem, p. 113).

3.7. Valori e temi di vita


I valori frankliani sono significati universali che contraddi-
stinguono l’essere umano (Frankl, 1946a, 1969). Essi vengono
trasmessi dalle tradizioni e come tali sono soggetti allo scorrere
del tempo e ai suoi mutamenti, orientano dunque l’individuo
nel suo cammino ma una società fluida come quella attuale può
rendere difficile affidarsi a significati universali solidi e stabili.
I significati personali al contrario non temono il declino dei
valori perché sempre perseguibili in quanto individuali della
persona (Frankl, 1978, p. 39). Valori universali e significati
personali possono entrare in contrasto creando talune volte
dissidi di coscienza.
Nell’approccio logoterapeutico vengono definite tre cate-
gorie di valori che rappresentano significati universalmente
condivisi (Bruzzone, 2012, pp. 134-137):
– valori di creazione;
– valori di esperienza;
– valori di atteggiamento.
«Quest’ordine riflette le tre principali direzioni lungo le
quali l’uomo può trovare un significato nella vita» (Frankl,
1969, p. 83).
Nell’agire umano, nella produzione creativa individuale,
nel perseguire obiettivi e realizzare mete, l’uomo concretizza
valori di creazione, essi si riferiscono a ciò che egli dà, al credere
e combattere per i propri ideali. I valori di esperienza invece
si potrebbero identificare con la contemplazione del creato, il
saper riconoscere la bellezza che ci circonda rendendo ricco di
significatività ogni momento della nostra vita. La natura, l’arte,
l’amore sono espressione di questi valori. Di fronte al dolore,
alla colpa e alla morte, la tragica triade frankliana, l’uomo può
in ogni caso sperimentare la propria libertà di atteggiamento.
I valori di atteggiamento sono valori innegabili, ci permettono

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di trovare significato anche nelle sofferenze più estreme. Saper


trasformare una situazione negativa in una prestazione a cui a
adempiere è la miglior garanzia di realizzazione di senso, è fonte
di crescita interiore non altrimenti raggiungibile.
I valori frankliani trovano così riscontro nei temi di vita
narrativi, quest’ultimi hanno valenza transculturale, sono or-
ganizzatori di significato e canovaccio di narrazione (Di Fini et
al., 2013, p. 58; Veglia, 1999b, p. 65). I temi di vita, altrimenti
detti «attrattori di significato» (Liotti, 1995), identificati dal
terapeuta Fabio Veglia sono sei:
– amore: (amante, amato, amabile) in continuità con la capa-
cità di accudimento.
– valore personale: sistema di caratteristiche personali conse-
guente al criterio valoriale dato alle relazioni interpersonali.
– potere: in continuità con l’agonismo ritualizzato.
– libertà: la sua espressione è in relazione ai limiti.
– verità: costruzione di una continuità di senso personale.
– morte: limite ultimo con cui confrontarsi.
Valori e temi vengono condivisi in una dimensione inter-
personale e prendono forma nella relazione. I temi muovono
gli interrogativi esistenziali di ogni essere umano e rientrano
nella cornice logoterapeutica della ricerca di senso personale.
Fili strutturali sorreggono i valori e i temi di vita, rendendoli
simili nella sostanza.
Il tema della morte riconosce il limite per eccellenza entro
il quale doversi confrontare. L’approccio logoterapeutico lo
colloca all’interno dei valori d’atteggiamento. La morte è senza
dubbio la condizione limite per eccellenza, approcciarsi a essa
con atteggiamento libero garantisce la gioia del significato
anche nel dolore.
L’amore, intenso nell’ottica narrativa come dimensione
tripartita in amante, amato e amabile, è in stretta relazione con
la capacità di accudimento e, nella concezione logoterapeutica
diventa un dono da saper cogliere quale valore di esperienza,
una dimensione pervasiva dell’esistenza umana.
Il potere quale consapevolezza dell’individuo di «[…] essere
attivo, attore e autore di un progetto» (Di Fini et al., 2013, p.
46) ricorda le caratteristiche della «via regia activa» dei valori
di creazione (Bruzzone, 2012, p. 135).
La libertà diventa tale solo all’interno dei limiti. Frankl
direbbe una «libertà per» diversa da una «libertà da».

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a Verità e valore personale, infine, richiamano alla più ampia


costruzione di sé e alla continuità della propria immagine, alla
pienezza della ricerca di senso.
«Siamo tutti molto simili (e ci conforta saperci in buona
compagnia) e al tempo stesso tutti parecchio diversi (ed è ciò
di cui vorremmo poter parlare) anche rispetto ai modi, ai con-
tenuti e ai significati della sofferenza» (Veglia, 1999b, p. 74).

3.8. Incontro di un Io e di un Tu
L’amore è un punto cardine nella concezione teorica e di
vita del padre della logoterapia. Il sentimento d’amore da lui
provato per la moglie è stato uno dei fattori incisivi per la sua
sopravvivenza nei campi di concentramento (Frankl, 1946b,
pp. 73-77).
L’amore viene concepito come un Io e un Tu in intima
comunione, una dualità che esprime tutta la pienezza umana
(ibidem, 1946a, p. 159). Questo sentimento si trasforma in
una delle più belle opportunità di compimento dei valori di
esperienza. Philìa, agàpe, charitas, eros, amicizia dipingono
l’amore come «[…] attribuzione condivisa e incarnata di
significati […]» (Veglia, 1999b, p. 70). Il Tu della persona
amata assume per l’amante unicità inimitabile e dal loro in-
contro nascerà la dimensione semantica della sessualità espressa
dall’approccio narrativo. Grazie all’amore, dice la logoterapia,
si può conoscere la singolare e unica umanità di un altro essere
(Frankl, 1946a, p. 159).
L’atteggiamento amoroso di tipo fisico, psichico e spirituale,
secondo la teoria logoterapeutica, ricalca la concezione di essere
umano quale unità tripartita e riporta alla memoria la visione
del «cervello uno e trino» di MacLean (1973; 1975).
L’approccio alla sessualità proposto da Veglia (Veglia e
Pellegrini, 2003) prende in considerazione l’aspetto evolu-
zionistico della specie umana, ricordando i codici genetici e
la struttura cerebrale di cui siamo fatti. I mandati rettiliani,
limbici e neocorticali si impongono con forza nella sessualità,
dotandola di molteplici sfumature e di diverse modalità di
espressione.
Quando l’unione di un Io e di un Tu è predominante di
fisicità si avrà un atteggiamento amoroso di tipo fisico, lo
stesso che nell’approccio narrativo viene considerato in una
posizione intermedia tra la dimensione riproduttiva della ses-

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sualità, rispondente al più antico dei mandati biologici, e la


dimensione prettamente ludica nella quale si affaccia un velo a
di consapevolezza e condivisione. L’atteggiamento amoroso
di tipo psichico contempla una maggiore inclusione del Tu,
l’individuo non risponde unicamente a una pulsione sessuale
ma si pone a un livello superiore riconoscendo la struttura
psichica del partner, entrano in gioco le emozioni e si origina
il fenomeno dell’innamoramento.
La sessualità si arricchisce del sistema limbico diventando
dimensione sociale orientata al piacere dello
stare insieme e al mantenere questo legame.
Dall’innamoramento si può giungere all’a- Chi ama
more e la sessualità può dischiudersi alla sua davvero vede
completezza colma di significato che apre la nel rapporto
vista a nuovi orizzonti.«Chi veramente ama,
vede nell’attività sessuale l’espressione fisica sessuale
di un legame psichico e spirituale» (Frankl, l’espressione
1946a, p. 179). La singolarità del Tu amato si di un legame
raggiungere con l’atteggiamento amoroso di psico-spirituale
tipo spirituale, due umanità che esprimono
un atto esistenziale.
L’amore contempla la totalità dell’indivi-
duo e la sua unicità, il Tu amato non teme paragoni perché
insostituibile. La dimensione semantica della sessualità
risponde al mandato neocorticale e trasforma l’incontro
tra due persone in un incontro di significati. Nasce il de-
siderio di scrivere un racconto insieme rendendo narrativa
la dimensione sessuale, co-costruendo una narrazione della
storia d’amore condivisa.
Il tempo dell’amore per Frankl è l’infinito, non teme cadu-
cità nel suo valore. L’impulso sessuale si esaurisce con la sua
realizzazione, l’innamoramento è temporalmente circoscritto.
L’amore no. Ma la sessualità può essere ancora qualcosa di più,
può diventare procreativa.
Da una storia duale condivisa nasce una nuova vita con una
sua personale storia tutta da scrivere. Un racconto di un amore
che diventa un racconto genitoriale e che include un nuovo
protagonista nella sua trama. «Mediante l’amore si compie ciò
che in un certo senso trascende la nostra comprensibilità: sia
pure attraverso meccanismi biologici, grazie a esso compare un
nuovo essere, anch’egli singolare e differente da tutti gli altri,
unico: un figlio» (ibidem, p. 160).

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a Conclusioni

Per quanto lontani, nello spazio e nel tempo, la logoterapia


di Viktor Emil Frankl e l’approccio narrativo di Fabio Veglia
sono due sistemi terapeutici che hanno indiscutibili punti di
contatto e le due tradizioni possono essere accomunate dalla
centralità posta in entrambi gli autori sull’ampio costrutto di
«significato» all’interno del contesto della psicoterapia. Frankl,
nella sua teorizzazione, segue principalmente la via top-down:
parte «dall’alto» per determinare cambiamenti ai livelli inferiori
(emotivo e corporeo). Veglia, invece, cerca un’integrazione tra la
strategia top-down e quella bottom-up; pur mantenendo la top-
down come via d’intervento principale, non esclude in alcuni casi
il suo completamento con una strategia che parta dal corpo per
raggiungere un riprocessamento a livello emotivo e cognitivo.
Confrontando questi due sistemi terapeutici se ne possono
rilevare le somiglianze di fondo e le differenze applicative che
hanno assunto nella pratica. Pare plausibile considerare le
discordanze collocando le due teorizzazioni e i loro relativi
fondatori nel contesto da cui presero avvio.
La logoterapia è nata per colmare il vuoto dello psicologi-
smo all’interno del quale la dimensione spirituale non veniva
considerata. Il desiderio del suo fondatore fu proprio quello
di reintrodurre questa dimensione umana e tale obiettivo fu
perseguito con forza e determinazione. Frankl non perse di
vista la globalità dell’essere umano ma volle porre l’accento
sulla dimensione noetica, così da rivalutarla e donarle quel
ruolo di centralità che aveva perso negli approcci terapeutici
precedenti. Il suo è stato un incitamento all’umanità, una spinta
ottimistica, una speranza che egli stesso provò sulla sua pelle
e che volle infondere all’essere umano.
Questo uomo attraversò tutto un secolo, il Novecento di
una Vienna che vide il suo declino a partire dal primo con-
flitto mondiale. La seconda capitale culturale europea iniziò a
perdere le sue sicurezze e il periodo di formazione del giovane
Frankl subì tutta l’incertezza e la miseria degli anni tra le due
guerre. Nato nelle certezze, ben presto Viktor si affacciò alle
insicurezze. La vita gli riservò poi gli orrori della seconda guerra
mondiale alla quale egli sopravvisse, ma con lui nessun caro fece
ritorno a casa. Anche in quell’occasione Viktor E. Frankl riuscì
a «trovare un senso», la devastazione che si trovò ad affrontare

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I. DEAMBROSIS E C. CIVILOTTI – Terapie centrate sul significato: logoterapia e approccio narrativo

non lo fermò e la sua vita così come il suo lavoro diventarono


espressione di ciò che egli stesso disse: «Ho trovato il significato a
della mia vita nell’aiutare gli altri a trovare nella loro vita un
significato» (Frankl, 1995, p. 93).
L’approccio narrativo di Veglia, invece, si evolve in un pe-
riodo storico e in un contesto differente. Fabio Veglia nasce
quando il secondo conflitto mondiale era ormai concluso da
una decina d’anni, l’Italia stava vivendo il cosiddetto boom eco-
nomico e la psicologia aveva finalmente dimenticato il periodo
nero del fascismo. Il cammino di affermazione di questa scienza
fu però caratterizzato da una sorta di diffidenza da parte dello
Stato, il quale si dovette confrontare nel decennio Settanta-
Ottanta con un incremento di tale disciplina a livello sociale.
Veglia si formò in questi anni di «turbolenza» istituzionale, che
non impedirono tuttavia il prosperare del mondo psicologico.
La psicologia infatti si affermò, diversificandosi ampiamente.
L’approccio narrativo rispecchia il desiderio di nuovi tra-
guardi conoscitivi, interpretando una clinica dell’essere umano
comprensiva della sua totalità, cercando di mantenere una
visione d’insieme che permetta diverse vie d’accesso alla cura
della sofferenza.

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a MEANING CENTRED THERAPIES:


LOGOTHERAPY AND THE NARRATIVE
APPROACH
The modernity of Viktor Frankl’s thinking compared to the
narrative approach of Fabio Veglia

Abstract
This work focuses on the comparison between two psychother-
apeutic perspectives which have never been analysed in parallel
before, highlighting interconnection aspects of continuity and
discontinuity. The two approaches presented here both share the
centrality of the semantic dimension, which is simultaneously
constitutive of the person and is the basis of psychotherapeutic
reality. Recognising these similarities allowed us to open a dialogue
between the two theories, which, in their mutual understanding,
may find new application ideas.
After tracing the roots of Fabio Veglia’s narrative approach,
through a brief analysis of the thinking of J. Bruner, G. A. Kelly
and P. D. MacLean, Viktor Emil Frankl’s logotherapy and the
narrative approach are compared, highlighting their similarities
and differences. A new plot stands out on the horizon and this
bibliographical and theoretical review is proposed as a starting
point for clinical and methodological suggestions.

Keywords
Meaning, narrative approach, logotherapy, narrative, life themes,
Franklian values, spiritual dimension.

CORRISPONDENZA
Cristina Civilotti
Università degli Studi di Torino
Via Po, 14
10144 Torino
E-mail: cristina.civilotti@unito.it

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a pprofondimenti

AGGRESSIVITÀ E
VIOLENZA SENZA SENSO
Una lettura analitico-esistenziale della violenza
sulle donne (e non solo)
Domenico Bellantoni Sommario
(Psicologo e psicoterapeuta, Università
Il presente contributo intende presentare un’ipotesi
Salesiana Roma)
interpretativa del drammatico fenomeno della vio-
lenza sulle donne che — piuttosto che ricondurla a
una «violenza di genere» e, quindi, paradossalmente
alla discriminazione sessuale per la quale i maschi
(o gli uomini, culturalmente intesi) sarebbero più
violenti e/o omicidi delle donne —, alla luce del
pensiero di Viktor E. Frankl, rimanda alla dinamica
secondo la quale l’individuo umano che perda il ri-
ferimento alla dimensione noetica che gli è propria,
finisca con l’aprirsi a condotte sub-umane, tipiche
delle specie animali, tra le quali vige, ad esempio,
le legge del più forte. In questo senso, l’atto vio-
lento/omicida sarebbe correlato non tanto al sesso
dell’aggressore, quanto alla sua posizione di forza
e dominanza: uomo vs. donna, uomo/donna vs.
bambino, uomo/donna vs. anziano, ecc.

Parole chiave
Violenza di genere, figlicidio, Frankl, analisi esisten-
ziale, dimensione noetica.

Edizioni Erickson – Trento RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017 (pp. 149-166) 149

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a Introduzione
Va detto che non sempre è facile fare ricerca scientifica,
offrendo riflessioni che cerchino semplicemente di compren-
dere i fatti, le esperienze, con un approccio, da una parte
fenomenologico e induttivo, dall’altra deduttivo, senza risul-
tare condizionati, a volte addirittura ostacolati dal contesto
socio-culturale, con le sue ideologie dominanti e con le sue
pressioni, assicurate da logiche mass mediali e dai criteri del
«politicamente corretto», quando non più subdolamente legate
a visioni parziali o, addirittura, a logiche di mercato.
In tale contesto, non è semplice provare a offrire una let-
tura interpretativa più ampia e comprensiva di ciò che oggi
viene diffusamente e rigidamente ricondotto all’etichetta della
violenza di genere.
Confesso che legare il tema della «violenza» semplicisti-
camente al genere non mi piace perché, paradossalmente, lo
trovo vagamente «razzista» o se volete «sessista». Richiama,
insomma, una discriminazione sessuale, in quanto legherebbe
la violenza ai maschi in quanto maschi. Sarebbe come abbinare,
ad esempio, la violenza al colore della pelle, parlando di una
violenza «bianca», «nera» o «gialla», legata cioè al colore della
pelle e alla razza. Così come quando si parla di violenza di
genere, la si lega al sesso.
La mia posizione è che preferisco ricondurre la «violenza»
alla perdita di un senso eminentemente umano della condotta.
Viktor Frankl, in virtù della considerazione del livello spirituale
nella specie umana differenzia quest’ultima da qualsiasi altra
specie animale. L’uomo ha la possibilità — e non l’ineluttabilità
— di comportarsi, di agire in quanto essere umano, guidato
dal riferimento a valori morali e significati etici. La mia ipotesi,
proprio a partire dalla riflessione del grande psichiatra viennese,
è che la violenza, quale re-azione e ab-reazione, si manifesti
proprio allorquando l’essere umano, maschio o femmina che
sia, smette di agire a livello umano e, dimentico della sua spe-
cifica natura e del suo livello di coscienza, mette in atto agiti
di livello sub-umano (Frankl, 2001, pp. 202-203).
In tal senso, un uomo, ma anche una donna, che perdano
il riferimento alla propria dimensione spirituale finiranno
con l’agire sotto la spinta di istinti (dimensione biologica) o,
al limite, di impulsi e condizionamenti (dimensione psico-
sociologica), ad esempio, manifestando quella condotta così

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D. BELLANTONI – Aggressività e violenza senza senso

diffusa tra gli animali e per la quale «pesce grande mangia


pesce piccolo», secondo la cosiddetta «legge del più forte» o a
«legge della jungla».
Ebbene, cosa accadrà nel momento in cui le relazioni inter-
personali dovessero improntarsi a tale dinamica? Niente di più
o di meno di ciò che accade tra gli animali, per cui il fine arriva
a giustificare i mezzi, compresi quelli violenti e prevaricanti.
Alla luce di ciò, purtroppo, è facile aspettarsi che nella
relazione uomo-donna, la perdita di riferimento alla dimen-
sione spirituale e di coscienza porti il primo a prevaricare e a
usare violenza sulla seconda; ma basta spostarsi alla relazione
donna-bambino, con un cambiamento dei rapporti di forza,
per verificare come molto spesso la prima assuma il ruolo di
carnefice e il secondo quello di vittima (Mastronardi e Villa-
nova, 2007).1

1. Quando a essere violenta è la madre: la storia


di Rosaria
In questo paragrafo, si evidenzia, facendo riferimento a una
storia clinica, come il percorso di vita personale possa contri-
buire all’instaurarsi, a livello di predisposizione personale, alla
dinamica vittima/aggressore tipica degli episodi di violenza
inter-personale.
Rosaria è una ragazza di 17 anni e frequenta il quarto anno
del liceo scientifico. I genitori le propongono di rivolgersi a me
in quanto preoccupati dal fatto che la figlia non dimostri par-
ticolare impegno per lo studio e negli ultimi tempi stia anche
mostrando «una certa confusione: sembra stia frequentando
una ragazza più grande di lei», almeno così ci racconta il padre.
1
A questo riguardo, va evidenziato il fenomeno della «Sindrome da Alienazione
Parentale», che — ampiamente accettata in ambito giuridico — ha sollevato
un ampio dibattito tra gli psicologi. In relazione a tale sindrome, si evidenzia
l’ampia casistica che vede, soprattutto nel corso delle dinamiche di separazione
tra i coniugi, l’alienazione di un genitore, in genere il padre, da parte dell’altro,
in genere la madre. Ebbene anche tale fenomeno andrebbe fatto rientrare in una
forma di violenza tra coniugi (Gardner, 1998; Bernet, 2008; Camerini et al.,
2014). Anche il DSM-5®, indica, nella sezione relativa ad «Altre condizioni che
possono essere oggetto di attenzione clinica» e in riferimento alla condizione
V61.20 (Z62.820), intitolata come «Problema relazionale genitore-bambino», tra
le esemplificazioni contemplate quella che implica problemi cognitivi connessi
con «sentimenti non giustificati di alienazione» (Biondi, 2014, p. 832).

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a Alla fine, Rosaria accetta di avere un colloquio e di parlare di


ciò che le sta a cuore e di ciò che la preoccupa.
Dice di sentirsi molto sola. In effetti, la sua vita sociale si
esaurisce nella virtualità di alcune chat di vario genere. Non
esce quasi mai di casa, se non per andare a scuola. Non brilla
come profitto, sebbene tenga a precisare che è sempre stata
promossa. Manifesta una scarsa autostima e poca sicurezza
in se stessa. Il rapporto con i genitori presenta due facce: col
padre, tutto sommato, c’è un discreto dialogo e la disponibilità
ad ascoltarsi, mentre con la madre la situazione è decisamente
conflittuale: «non le sta mai bene nulla di ciò che dico o faccio».
Dopo il primo colloquio, Rosaria accetta di buon grado di
iniziare un percorso di consulenza, almeno per cominciare,
rimandando alle sedute successive la valutazione circa l’oppor-
tunità o meno di iniziare un vero e proprio
rapporto terapeutico.
In effetti, la ragazza manifesta da subito
A volte, la molta disponibilità: ha voglia di parlare — lo
violenza è il si capisce subito, sebbene abbia dei tratti di
«segreto» che diffidenza — e di conoscersi e comprendersi
si nasconde in meglio. Dopo qualche incontro, di comune
accordo, decidiamo di coinvolgere anche i
una famiglia genitori, in modo da individuare un «cam-
disfunzionale mino» comune in cui tutti si possa «tirare
dalla stessa parte» e convergere verso obiettivi
condivisi.
Il papà e la mamma di Rosaria sono
molto critici con la figlia, soprattutto la madre, che mostra
anche maggiore reticenza all’interno dell’incontro. Provo a
raccontare ai genitori quello che ho capito della figlia fino a
quel momento, cercando di tanto in tanto l’assenso di Ro-
saria verso ciò che vado evidenziando, avendole chiarito che
poteva interrompere e precisare ciò che le sembrava non le
corrispondesse a pieno.
A un certo punto, i genitori di Rosaria lamentano il fatto
che la figlia viva ai margini della famiglia, sempre chiusa in
camera e, riferendosi alle chat, con la «testa nel computer».
Su queste basi, proviamo a darci come obiettivo intermedio
quello di aumentare il senso di reciproca appartenenza, a
partire da reciproche richieste che inneschino un percorso di
convergenza o, almeno, evidenzino con maggiore chiarezza
gli ostacoli che impediscono o rendono difficoltoso un reale

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D. BELLANTONI – Aggressività e violenza senza senso

venirsi incontro, nel perseguimento di un maggior senso di


appartenenza familiare. a
In tal senso, i genitori chiedono a Rosaria che il pomeriggio
eviti di stare al PC e si dedichi maggiormente allo studio. Rac-
colgo tale richiesta evidenziando come si tratti, per una ragazza
di 17 anni, di una rinuncia importante nell’attuale contesto.
Ciò nonostante, mediando la richiesta verso Rosaria, le chiedo
se lei accetti e si impegni a non mettere mano al computer e
alla navigazione in internet, se non per motivi di studio, dalle
ore 15 alle 19. Confesso che è con sorpresa che raccolgo la
pronta adesione di Rosaria a tale richiesta.
A questo punto, mi rivolgo alla ragazza per chiederle cosa
lei desiderasse da parte dei genitori per completare questo
primo passo di reciproco avvicinamento. Ebbene, Rosaria,
mantenendo lo sguardo e il tono di voce molto bassi, disse:
«Come partenza, mi accontenterei che non mi mettessero le
mani addosso». L’esplicitazione di tale richiesta evidenziò come
spessissimo, quando Rosaria non obbediva alle richieste di sua
madre — che andavano dal mettersi a studiare al tenere in
ordine la propria camera, dal fare le pulizie in casa all’abbas-
sare il volume dello stereo, ecc. — questa avesse l’abitudine di
«menare» la figlia per ridurla a più miti consigli.
Dopo un momento di iniziale imbarazzo, il padre esordì
dicendo che lui non aveva mai alzato una mano su sua figlia,
mentre la madre restava impassibile e con una espressione
molto dura, come a dire: «E cosa ci sarebbe di male nel fare
questo a mia figlia».
Da parte mia, evidenziai semplicemente se c’erano problemi
da parte loro ad accogliere le richieste della figlia, evitando di
«metterle le mani addosso». La madre, a questo punto, sbottò
che lei, da ragazza, le aveva sempre prese da suo padre e che
non capiva cosa ci fosse di male a usare lo stesso sistema con sua
figlia. Io, semplicemente, le chiesi se riteneva che quel sistema
del padre avesse ottenuto buoni risultati, a livello educativo e
di relazione, su di lei e le sue sorelle e fratelli. A quel punto, il
marito, percependo la moglie in difficoltà, disse che si sentivano
messi sotto accusa.
Io risposi che nessuno li stava accusando di nulla, che sem-
plicemente si stava valutando la richiesta della figlia, così come
era stato fatto per la loro richiesta e che, certo, averli coinvolti
nel percorso significava anche invitarli, come tutti, a mettersi
in discussione.

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a In particolare, mi soffermai su come la violenza fisica, in


particolare su di una ragazza di quell’età, potesse avere delle
ricadute sulla sua autostima, sulla relazione con la madre, in
special modo; inoltre, in futuro, tale esperienza avrebbe po-
tuto far tendere Rosaria ad accettare che l’amore può anche
presentarsi in una paradossale quanto illegittima commistione
con la violenza, sostenuta dalla sensazione di meritarsi ciò
perché «cattiva», inadeguata o, comunque, da educare: se lo
aveva fatto la madre, in futuro, avrebbe potuto farlo anche un
eventuale partner.
Infine, è interessante notare come, lontano da ogni visione
ideologica circa una «violenza di genere», in questo caso — e,
ribadiamo, limitatamente a questo caso, non isolato ma nem-
meno generalizzabile — l’autore della violenza, intra-familiare
quanto gratuita, è la madre e non il padre che, d’altra parte
pure assume quel ruolo di «spettatore» complice e connivente,
tante altre volte vissuto dalla donna, a ruoli invertiti.

2. «Mazz’ e panella fann e figl’ bell». Ma sarà vero?

Molto spesso, nella mia attività di formatore, soprattutto


laddove mi rivolgo ai genitori, sento ripetermi dai partecipanti,
a volte sotto forma di domanda che richiede una risposta, un
parere, altre volte a mo’ di giustificazione, quasi un vademecum
per la buona educazione, un noto proverbio napoletano: «Mazz’
e panella fann e figl’ bell… panella senza mazz’ fann’ e figl’
pazz’...» che, tradotto, suona così: «Bastone e pagnotta rendono
i figli belli... pagnotta senza bastone rende i figli pazzi...» Cioè
bastonate e pane farebbero crescere un figlio più «sano» rispetto
a chi non ha mai preso bastonate.
Altre volte mi sono trovato a scrivere sul tema della puni-
zione fisica in educazione (si veda Bellantoni, 2011a, p. 829),
ma qui si tratta di riflettere sulle conseguenze che tale prassi
può avere in età adulta, arrivando a generare una reiterazione
verso il più debole, sia che si tratti di bambini, sia che riguardi
donne o persone anziani, con l’aggravante che spesso la violenza
viene esercitata su chi si dovrebbe invece amare e/o a cui si
dovrebbe comunque assicurare cura e protezione.
Certo, laddove al proverbio sopra citato si assegni un’inter-
pretazione minimalista, che si limiti a evidenziare la valenza

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D. BELLANTONI – Aggressività e violenza senza senso

positiva di un funzionale ricorso alla sanzione, intesa anche e


soprattutto come sottrazione di «premi», oppure l’importanza di a
non evitare che il figlio non prenda le normali «bastonate» dalla
vita stessa, come conseguenze naturali dei suoi comportamenti
e delle sue scelte, ebbene ciò non potrebbe che trovarmi d’ac-
cordo nel ritenere questo detto una vera «pillola di saggezza».
Purtroppo, invece, il proverbio viene più spesso inteso come
giustificazione e come invito a considerare le classiche «sber-
le» come un’efficace «medicina» educativa, come ad esempio
mostrava di considerarla la madre della sventurata Rosaria,
protagonista della storia clinica presentata al punto precedente.
In realtà, come già visto e come è facilmente intuibile,
molte volte il ricorso alla violenza in educazione non ha altra
conseguenza che innescare circoli viziosi, e pericolosi, che
ruoteranno attorno a ulteriori violenze, subite
— laddove si assuma nel tempo un ruolo di
vittima nei confronti di un più forte di sé, o
agite, — nel caso in cui l’esperienza trascorsa Il ricorso alla
«spinga» all’assunzione di un ruolo di perse- violenza innesca
cutore o carnefice. circoli viziosi
D’altra parte, va anche detto che la punizio- e pericolosi,
ne fisica, oltre a ledere nel profondo la stima
che il/la ragazzo/a ha di sé stesso/a, non può es- verso ulteriori
sere considerata una reale opzione educativa in violenze
quanto può essere esercitata solo sul momento,
sull’evidente e non sempre giustificata spinta
della rabbia. Infatti, se è possibile differire e
confermare nel tempo sanzioni quali il divieto a uscire nel fine
settimana, guardare quel tal programma o usare il computer o il
telefono cellulare, ciò risulterà più difficile, se non impossibile,
nel caso di uno schiaffo. In tal senso, immaginate di rivolgervi
a vostro figlio nel modo seguente: «Non ti permettere mai
più di rivolgerti a me in questo modo. Inoltre, domani sera,
ti mollerò un ceffone!». In genere, a questo punto e davanti
a quest’esempio, i genitori che partecipano ai miei incontri
formativi reagiscono con una risata, a sottolineare l’incongruità
della scena ipotizzata.
A questo riguardo, ricordo l’esperienza fatta in un contesto
di consulenza con una madre di 32 anni che mi era stata inviata
da una scuola, a causa del comportamento «ingestibile», a detta
delle insegnanti, della figlia di 5 anni. Ecco un significativo
stralcio di una delle sedute avute in quell’occasione.

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a Madre: «Dottore, so che lei non sarà d’accordo, ma mia figlia


capisce solo le “botte”!».
Terapeuta: «Capisco. Per il momento lasciamo perdere il fatto
circa il se io sia d’accordo o meno con questa metodologia. Volevo
chiederle, stando a quello che mi ha appena detto, se ha comunicato
alle insegnanti che sua figlia “capisce solo le botte”, in modo che
anche loro possano ricorrervi».
Madre: «Cosa? Dottore, se le insegnanti si permettono di toccare
mia figlia, le denuncio».
Terapeuta: «Quindi, ricapitolando: sua figlia, a casa, ha imparato
a fermarsi solo davanti alle “botte”, ma queste non possono essere
utilizzate dalle insegnanti, perché lei le denuncerebbe. Pertanto, a
scuola come si fa a “fermare” sua figlia?».
Madre: (pensierosa) «E allora? Cosa devo fare?».
Terapeuta: «Se vuole che sua figlia sia gestibile a scuola, dovrebbe
cominciare a ricorrere a un tipo di “sanzioni” che possano essere
utilizzate anche a scuola. Senza contare che il sistema “botte” non
funzionerà a lungo e che prima o poi sua figlia crescerà e potrebbe
essere lei a doversi difendere da sua figlia».

Chiaramente, come nel caso precedente, la corrispondenza


a tale ricorso alla punizione fisica in educazione può condurre
a due diversi esiti: da una parte potrò arrivare a picchiare in
futuro così come sono stato picchiato in passato, dall’altra
potrei accettare di essere picchiato da chi mi «ama» così come
accaduto in passato. Alla luce di ciò, nel prossimo paragrafo,
andrò proprio a presentare la dinamica psicologica per cui la
violenza, in un modo o nell’altro, genera violenza.

3. La condotta violenta quale esito di un fallimento


delle relazioni genitoriali precoci

Fin qui, si è considerata l’ipotesi, essenzialmente compor-


tamentista, che il ricorso alla violenza possa affondare le sue
radici nei modelli ricevuti nel corso della propria storia di
vita. D’altra parte la riflessione psicologica si è anche sempre
occupata dell’eziologia delle condotte violente alla luce di un
approccio psicodinamico, arrivando a considerare a questo
riguardo il fallimento delle relazioni intra-familiari precoci.
In tal senso, il famoso psicoanalista Ronald Fairbairn
(1889-1964), proprio a partire da uno studio condotto negli
anni Quaranta sulle conseguenze nei bambini degli abusi e dei
maltrattamenti da parte dei genitori, elabora una teoria per la

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D. BELLANTONI – Aggressività e violenza senza senso

quale il senso di colpa sarebbe una sorta di meccanismo di «di-


fesa morale» (1970b, p. 95), che rimanderebbe alla paradossale a
esperienza resa da Oscar Wilde nella Ballata della prigione di
Reading con l’espressione «ogni uomo uccide la cosa che ama»
(Fairbairn, 1970a, p. 49).
La Nussbaum (2004), proprio riprendendo tale teoria e,
più in generale, rifacendosi alla corrente psicoanalitica delle
relazioni oggettuali, afferma che:
il bambino, nel riconoscere il proprio desiderio di distruggere
il genitore che ama, si sente minacciato da un senso illimitato di
oscurità, sente di avere qualcosa di cattivo dentro sé e, forse, sente
di essere completamente cattivo (p. 224).

In seguito a ciò, si verificherebbe nel bambino una distorsione


nella percezione della realtà, portando a ribaltare la consapevolez-
za delle responsabilità e arrivando a convincersi di essersi meritati
gli abusi ricevuti. Tale dinamica, apparentemente paradossale,
trova la sua spiegazione nel fatto che per il bambino, comple-
tamente dipendente dal genitore, risulterebbe inaccettabile e
terrorizzante riconoscere di doversi difendere da colui/coloro
che, al contrario, dovrebbero prendersi cura di lui e proteggerlo.
In tal senso, i genitori sarebbero idealizzati come «buoni»,
negando e rimuovendo le componenti indesiderate e minaccio-
se, che saranno introiettate e riferite al proprio sé, producendo
un dialogo interno di questo tipo: «Mamma (papà) è buona,
sono io a essere cattivo e meritevole delle punizioni che mi
vengono date. Se diventerò buono, mamma (papà) smetterà
di punirmi e arriverò a meritarmi il suo amore».
Proprio questo dialogo interno, d’altra parte, in età adulta,
sarò alla base tanto dell’atteggiamento di chi accetta di essere
abusato dal partner violento, percepito come giusto e sempli-
cemente castigante la propria inadeguatezza, quanto di chi,
identificandosi col genitore abusante, agisce violenza verso la
persona amata, in una ri-edizione patologica, a ruoli invertiti,
del dramma infantile.
Tali dinamiche sono spesso tanto profonde da richiedere
necessariamente un percorso psicoterapeutico che favorisca una
positiva e funzionale rielaborazione dell’esperienza vissuta nell’in-
fanzia, onde impedirne una costringente «coazione a ripetere».
In questa dinamica, non necessariamente la prevaricazio-
ne del genitore nei confronti del figlio si manifesterà in una
esplicita violenza. Infatti, Fairbairn parla di:

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a un fenomeno regressivo determinato da insoddisfacenti rapporti


affettivi coi genitori, e specialmente con la madre, in uno stadio
infantile successivo alla fase orale precoce in cui ha origine questo
orientamento. Il tipo di madre che è particolarmente incline a
provocare tale regressione è quella che non riesce a persuadere il
figlio, mediante espressioni spontanee e genuine di affetto, che lo
ama come persona. Rientrano in questa categoria tanto le madri
possessive quanto quelle indifferenti. Peggiore di tutte è forse la
madre che trasmette l’impressione sia di possessività che di indiffe-
renza, ad esempio la madre devota che è decisa a tutti i costi a non
viziare il suo unico figlio (1970a, p. 36).

L’influenza delle relazioni precoci, indipendentemente dal


meccanismo d’azione, sembra essere un fattore decisivo nello
sviluppo delle condotte violente, in quanto:
i piccoli dell’uomo […] sono pre-programmati per svilupparsi in
modo socialmente cooperativo, che poi lo facciano o meno dipende
in grande misura da come vengono trattati (Bowlby, 1989, p. 8).

In questa linea interpretativa, Malacrea (2006), una delle au-


trici più significative nell’ambito della ricerca contemporanea,
in Italia e non solo, sul maltrattamento all’infanzia, evidenzia
le conseguenze di questo fenomeno in età adulta, tra le quali
va «tenuto conto che quegli adulti, diventati genitori, corrono
un alto rischio di trasmissione intergenerazionale delle condotte
maltrattanti/abusanti» (p. 6).
Proprio alla luce della teoria dell’attaccamento di Bowlby,
Peter Fonagy (1999) riconduce a uno stile «disorganizzato»,
e quindi psicopatologico, il caso di uomini che compiono
violenza contro le donne.
In tal senso, sembra potersi confermare, in relazione allo
sviluppo di condotte prevaricanti e violente, un’influenza da
parte di relazioni genitore-figlio caratterizzate da inadeguatezza,
carenze e fino a veri e propri maltrattamenti, e questo tanto
alla luce delle relazioni oggettuali (Fairbairn) quanto a partire
dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby.
D’altra parte, come evidenziato anche da Fairbairn, tali
esperienze intra-familiari precoci possono avere, a seconda dei
casi, un duplice esito: da una parte prevaricante-aggressivo,
dall’altra quello di una quasi vittima predestinata:
La «cattiva stella» delle vittime di esperienze traumatiche com-
porta dunque che la distorsione dei modelli operativi interiorizzati
le renda candidate ideali al ripetersi senza fine di altre, e congruen-
ti, esperienze traumatiche (abbandono, tradimento, espulsione,

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D. BELLANTONI – Aggressività e violenza senza senso

aggressione e quant’altro) che perpetuano un quadro di «deserto


affettivo», se non di «giungla affettiva», rinforzando a spirale per il
soggetto la credibilità e l’impermeabilità dei MOI distorti e funesti
a
(Malacrea, 2006, p. 13).

Nel prossimo paragrafo evidenzierò quale contributo po-


trebbe derivare da una lettura analitico-esistenziale frankliana,
tanto per quel che riguarda l’interpretazione della violenza
interpersonale e all’interno delle relazioni affettive, quanto per
ciò che concerne le ipotesi d’intervento clinico e preventivo
verso il fenomeno.

4. Ricerca di senso e affinamento della coscienza


come antidoto alla condotta violenta
A questo punto della mia riflessione, ritengo importante
introdurre alcune considerazioni personali, a partire anche dal
contributo che al tema in esame, quello del ricorso alla violen-
za, può venire dalle proposte avanzata da Viktor E. Frankl e
dall’approccio da lui fondato, l’Analisi esistenziale.
Innanzitutto credo siano necessarie una serie di premesse.
1. Sebbene, dal punto di vista psicologico, si siano potute evi-
denziare alcune radici eziologiche della condotta violenta,
individuandole nel modellamento e nel fallimento delle
relazioni precoci genitore-figlio/a, queste non sembrano, in
alcun modo, alimentare l’ipotesi di una violenza legata al
sesso del perpetratore (o, secondo la terminologia attuale,
al suo genere).
2. Resta da chiedersi quanto possano essere considerati de-
terministici tali fattori patogenici, quanto cioè colui che
agisce violenza sia da intendersi, pur condizionato, «in
grado di intendere e volere» o, invece, sia invincibilmente
determinato dal suo passato, al punto da poter accettare che
si sia «spinti» e che non si decida di commettere un atto di
violenza, a volte inaudita.
3. Infine, consideriamo che, in questo contributo, pur par-
tendo dall’esecrato fenomeno della cosiddetta «violenza di
genere», si voglia altresì offrire comprensione e risposta ad
altre forme di violenza, altrettanto diffuse e progressivamen-
te in dilagante diffusione, quali la violenza intrafamiliare
sui figli — fino al figlicidio, agito più spesso dalle madri

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a che dai padri —, nonché su bambini e anziani in contesti


istituzionali.2
Lo stesso Viktor Frankl si è ampiamente occupato — an-
che alla luce della personale, drammatica esperienza quale
deportato nei lager nazisti — della condotta umana violenta,
considerandola un’espressione, assieme alla depressione e alla
condotta dipendente, del vuoto esistenziale e della perdita della
ricerca di un senso della vita (Frankl, 2005a, p. 119).
Chi sa di avere uno scopo nella vita, un compito, ha in mano
un valore ineguagliabile, sia dal punto di vista psicoterapico che
dell’igiene mentale. Additare un compito a un uomo è quanto di
più adatto ci possa essere per fargli vincere ogni difficoltà interiore
e ogni disgusto. Tanto meglio se questo compito è stato scelto dalla
persona stessa che è in causa, tanto meglio se si tratta di una missione
(Frankl, 2005b, p. 92).

In effetti, nell’approccio analitico-esistenziale, tale dinamica


sembra poter rispondere più accuratamente alle questioni indi-
cate nelle tre premesse. Senza negare l’influenza della storia di
vita del soggetto, questi resta sempre fondamentalmente libero
e responsabile in riferimento al suo agire, almeno a livello di
possibilità. Infatti, Frankl stesso evidenzia tre livelli di azione
umana: il re-agire, l’ab-reagire e l’agire propriamente umano:
nel primo caso, l’azione umana andrà considerata semplice-
mente come risposta a uno stimolo che quasi la determina; nel
secondo, essa andrà interpretata una sorta di scarica pulsio-
nale; mentre, solo nel terzo caso, avremo l’individuo umano,
indipendentemente da ogni sorta di ulteriore qualificazione
circa sesso, razza o cultura, che sarà in grado di «decidere» e
«decidersi», in libertà e responsabilità (Frankl, 1998, p. 78;
2005a, p. 117; Bellantoni, 2011b, p. 139).3
Oggi l’aggressività è diventata un argomento di attualità (non
diciamo alla moda), viene trattato in conferenze e congressi […].
Naturalmente gli impulsi aggressivi esistono nell’uomo, considerati
sia come una specie di patrimonio ereditario trasmessoci dai nostri

2
Riguardo alla relazione tra violenza e sesso/genere va anche sottolineato la dif-
fusione del fenomeno bullismo e, soprattutto, del cyberbullismo tra le ragazze,
coinvolte sia in qualità di vittime sia come «carnefici» e «spalleggiatrici» (Barone,
2016, pp. 28-35).
3
In tal senso, Frankl dice senza mezzi termini che «esistono soltanto due razze, e
solo queste due: la “razza degli uomini per bene”, e quella dei “poco di buono”.
Queste due “razze” sono diffuse ovunque, penetrano e s’infilano in tutti i gruppi»
(2009, p. 144).

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D. BELLANTONI – Aggressività e violenza senza senso

antenati subumani, sia come il prodotto di certe reazioni secondo


i dettami delle teorie psicodinamiche. A livello umano, tuttavia, gli
impulsi aggressivi non esistono per sé in una persona, ma sempre
a
come qualcosa verso cui ella deve prendere posizione, scegliendo di
identificarsi con essi o da essa staccandosi. Ciò che importa in un
dato frangente è l’atteggiamento personale verso gli impulsi aggres-
sivi impersonali, non già gli impulsi stessi (Frankl, 2005a, p. 84).

In tal senso, l’uomo ha sempre la possibilità di decidere chi


intende essere — potremmo dire che sempre decide se essere
aggressivo o meno, violento o meno —, alla luce del proprio
quadro di riferimento, dei propri valori, religiosi o laici, in
ultima analisi, della propria coscienza.
Il secolo passato ed i primi decenni del presente hanno fornito
dell’uomo una immagine del tutto sfigurata; hanno visto l’uomo
costretto da molteplici legami ed hanno in particolare sottolineato la
sua impotenza a sottrarsi ad essi, in una parola la sua determinazione
biologica, psicologica e sociologica. Ma la libertà umana, vera e
propria, la capacità dell’uomo di porsi liberamente di fronte a tutte
queste determinazioni, quella libertà che appunto fonda l’essenza
umana, è stata completamente ignorata (Frankl, 2005b, p. 57).4

D’altra parte, tale capacità di decidersi dinanzi agli appelli


posti dalle diverse situazioni esistenziali, in coerenza con un
senso, un quadro di riferimento liberamente scelto come buono
per sé, non è qualcosa né di automatico, né di dato una volta
per tutte. L’uomo, nelle innumerevoli decisioni assunte nella
propria esistenza fin dalla prima infanzia, progressivamente
e dinamicamente si autoconfigura come capace di «agire»,
piuttosto che «re-agire» o «ab-reagire», in relazione a valori
trascendenti verso un vero e proprio affinamento della co-
scienza, finalità di ogni autentica educazione e reale antidoto
al cristallizzarsi di tendenze verso comportamenti sub-umani,
che resta, purtroppo, un esito dello sviluppo di un individuo
umano (Frankl, 2012, p. 57).
In realtà, l’attuale contesto socio-culturale, nella sua enfatiz-
zazione di natura edonistica (si veda il primato della freudiana
volontà di piacere) o individualistica (si veda il primato della
adleriana volontà di potenza), sembra muovere più che verso
la promozione di quella positiva «volontà di significato» —

4
Frankl muore nel 1997, probabilmente con l’auspicio che il secolo attuale avrebbe
visto il superamento e la ricomposizione di questa «immagine sfigurata dell’uo-
mo»; purtroppo, la piena affermazione del valore dell’umano e della sua dignità
sembra essere ancora, in tante situazioni, di là da venire.

161

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a indicata da Frankl come uno dei tre pilastri della sua Analisi
esistenziale, assieme alla «libertà della volontà» e al «senso della
vita» — nella direzione di una iper-erotizzazione della realtà
e di una esclusiva affermazione individuale, ciò che sembra
«liberare» e legittimare le istanze più animali (sub-umane)
dell’essere umano.5 Ciò sembra poter avere la conseguenza di
slatentizzare quella «legge della jungla», quel «diritto del più
forte» che può essere tenuta a bada e disarmata solo dall’affer-
marsi della dimensione spirituale e delle sue capacità eminen-
temente umane: la capacità di autodistaziamento dai propri
modelli interni; la capacità di autotrascendenza, nell’orientarsi
verso il vero, il buono e il bello; l’agire secondo coscienza, nel
saper discernere cosa ha significato e cosa non ne ha, cosa è
moralmente/eticamente giusto da ciò che non lo è.

5. Conclusione
La scienza deve essere libera tanto dalle catene dei dogma-
tismi religiosi quanto da quelle ideologiche del «politicamente
corretto», guardando al fenomeno e individuando la teoria in-
terpretativa che sia in grado di spiegarlo al meglio. In tal senso,
la posizione di questo contributo è che la condotta violenta
non possa in alcun modo essere riportata semplicisticamente,
come evidenziato da Frankl, a fattori né meramente biologici,
qual è il sesso, pena il cadere in un riduzionismo biologistico,
né unicamente contestuali o culturali (genere), che impliche-
rebbe, invece, assumere un riduzionismo psico-biologistico.
La violenza pertanto andrà sempre considerata, piuttosto
che «di genere», come l’affermazione di una condotta sub-
umana, che pur condizionata, come visto, da contesti familiari
5
Recentemente, la senatrice Monica Cirinnà, sostenitrice di tutta una serie di
iniziative inerenti il tema della famiglia e dei costumi sessuali, ha definito come
una normale forma di socializzazione la messa in atto di incontri di natura
sessuale tra sconosciuti, che si tenevano all’interno di alcuni circoli dell’Associa-
zione ANDDOS (si veda la trasmissione Matrix del 21 febbraio 2017. Pur nel
rispetto dell’opinione e delle posizioni altrui riguardo la visione della persona
e della condotta umana, ho avuto modo di considerare il significato e il senso
della sessualità umana e dell’esercizio della genitalità che, a mio avviso, non può
essere ridotto semplicemente in riferimento a un riduzionistico valore ricreativo,
trascurandone la valenza procreatrice e, soprattutto, unitiva. In tal senso, fare sesso
non può essere considerata una forma di socializzazione alla stregua del ballare o
del giocare alle carte o a tennis (Bellantoni, 2015, p. 100; 2017, pp. 373-375).

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D. BELLANTONI – Aggressività e violenza senza senso

precoci disfunzionali o da modelli culturali sessisti, trova la sua


ragione nel fallimento riguardo alla dinamica eminentemente a
umana di orientarsi a un senso che comprenda valori altruistici
quali la solidarietà umana, l’accoglienza di ogni diversità, la
non violenza e, per usare una terminologia frankliana, l’amore
e l’autotrascendenza.
Ciò implica un impegno sociale a un’azione preventiva
rivolta a un’adeguata formazione alla genitorialità, nonché
a un’educazione che si identifichi come affinamento della
coscienza orientato a «scoprire» in ogni evento significati di
profondo rispetto per l’altro.
Ciò, lungi da ogni discriminazione, non potrà non com-
portare che ogni uomo e ogni donna camminino fianco a
fianco, nel superamento delle divisioni, nell’affermazione di
un «incontro umano» che si lasci illuminare dal senso, dal
logos. In tal senso, l’esigenza di cambiamento impegnerà tutti
gli uomini di buona volontà… di significato!

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

a SENSELESS AGGRESSION AND VIOLENCE


An analytical-existential interpretation of violence against
women (and not only women)

Abstract
This paper intends to present a possible interpretation of the
dramatic phenomenon of violence against women that — rather
than attributes it to «gender violence» and thus, paradoxically
to sex discrimination, in which males (or men, as is culturally
understood) are more violent and / or murder women —, in the
light of the thinking of Viktor E. Frankl, refers to the dynamics by
which the human individuals who lose reference to their own
noetic dimension, end up succumbing to sub-human behaviour,
typical of animal species, such as, for example, the reigning law
of the strongest. In this sense, the violent / homicidal act is not
so much related to the sex of the aggressor, as to their strength
and dominance: man vs. woman, man / woman vs. child, man /
woman vs. the elderly, ecc.

Keywords
Gender violence, filicide, Frankl, existential analysis, noetic di-
mension.

CORRISPONDENZA
Domenico Bellantoni
Università Salesiana Roma
Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1
00139 Roma
E-mail: bellantonid@unisal.it

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D. BELLANTONI – Aggressività e violenza senza senso.

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

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166

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r
RECENSIONI

Enzo Romeo
Francesco e le donne
Milano, Edizioni Paoline, 2016, pp. 192

Quest’ultimo libro di Enzo Romeo sembra continuare il percorso di un


giornalista vaticanista che, dopo aver pubblicato Quando la Chiesa ha un volto
di donna, continua con questo Francesco e le donne col quale, egli afferma,
«stiamo sulla notizia e spero che contribuisca a dare un quadro d’insieme sulla
questione femminile nella Chiesa» (p. 8).
Questo testo sicuramente darà un contributo alla commissione voluta dallo
stesso Pontefice Francesco per lo studio sulla possibilità del diaconato femminile.
L’autore fa una precisazione: «ho cercato di mantenermi nei canoni dell’o-
biettività: quella di essere troppo ad intra e vedere le cose in un’ottica di “corte”;
e quella di guardare gli avvenimenti solo ad extra, cedendo alla supponenza di
chi si sente distaccato e poco coinvolto nel racconto che va facendo. Al lettore
spetterà il giudizio» (pp. 8-9).
Dopo due presentazioni, di Paloma Garcia Ovejero e di Francesca Ambrogetti,
e dopo una panoramica su Il Papa e la dimensione femminile, l’autore segue l’ordine
del ciclo vitale e considera: la nonna, la madre, la sorella minore e le fidanzatine.
La scelta fra matrimonio e celibato porta il Papa a incontrare altre donne: la
prof. marxista, la magistrata e le amiche suore. Questa è la parte maggiormente
aneddotica che è molto interessante per conoscere la quotidianità nascosta e
semi-privata del passato del pontefice.
Un’altra parte, forse ancor più interessante per i ricercatori, è quella che
tratta il pensiero di Jorge Bergoglio sulla questione femminile da un punto di
vista socio-antropologico e da un punto di vista teologico. Infatti, in questa
seconda parte si discute sulla possibilità del ritorno delle diaconesse, arrivando a
concludere col consiglio di prendere esempio dal monachesimo «che riconosce
alla donna possibilità di governo, di predicazione, di insegnamento dottrinale,
di guida spirituale» (p. 107). Non c’è mai stata nessuna differenza nel servizio
fra abate e abadessa, tra priore e priora, e se ci sono padri spirituali ci possono
essere ugualmente madri spirituali.

Edizioni Erickson – Trento RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017 (pp. 167-185) 167

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

r Il femminile plurale di Bergoglio è un capitolo dal quale si


evince la sua personale concezione delle donne. Per esempio,
supporre che le direttrici delle carceri siano più brave dei loro
colleghi direttori, grazie al loro senso della maternità e per
una loro «maggiore sensibilità ai progetti di reinserimento»
(p. 108). Il femminile in Bergoglio si può anche intravedere
quando percepisce la propria diocesi come la propria moglie
(p. 112).
Nel capitolo Madre Chiesa e madre natura è confermata la
visione di Jorge Bergoglio sulla femminilità della Chiesa che
si espande al creato (p. 124), mentre nel capitolo Le donne
nella Chiesa è confermata la percezione delle donne come più
immediate degli uomini, anche nella fede (p. 128). In questo
capitolo, in particolare, abbiamo una delle massime espressio-
ni sulla questione femminile di Jorge Bergoglio: «Il fatto che
la donna non possa esercitare il sacerdozio non significa che
rivesta un ruolo meno importante dell’uomo […] secondo
un monaco del secolo II, sono tre le dimensioni femminili
all’interno del cristianesimo: Maria, quale madre del Signore,
la Chiesa e l’anima. La presenza femminile nella Chiesa non
è emersa più di tanto perché la tentazione del maschilismo
non ha lasciato spazio per rendere visibile il ruolo che spetta
alle donne» (p. 132).
Gli ultimi due capitoli, Lacrime e fecondità e Papa Francesco
e Maria, completano questa interessantissima riflessione sulla
questione femminile di un personaggio ormai storico. Tut-
tavia, la conclusione è lasciata a Vania De Luca, che accenna
all’invito a sognare e alla definizione di donna come «colei che
costruisce la vita nel grembo […] non abbiamo capito il bene
che una donna può dare alla vita del prete e della Chiesa, in
un senso di consiglio, di aiuto e di sana amicizia» (p. 165).
Questa potremmo considerarla una conclusione provviso-
ria perché, leggendo questo libro, quasi ogni lettore potrebbe
collegare alcune di queste riflessioni ad altre che l’autore non
ha potuto fare. Il riferimento è alla tenerezza di Papa Bergoglio
per quelle donne che sono state abusate da sacerdoti. In uno
di questi casi, la vittima in questione dopo molte e dram-
matiche esperienze giudiziarie che l’hanno ritraumatizzata,
è stata ancora ri-abusata ripetutamente da almeno altri due
vescovi che hanno ignorate le sue lettere di semplice richie-
sta di colloquio. Dopo decine di anni la vittima ha tentato
di avere lo stesso colloquio con il dicastero preposto presso
il Vaticano ma, alla fine, ha dovuto scrivere direttamente a
Papa Francesco. Dal libro veniamo anche a conoscenza della
telefonata di Papa Francesco a Emma Bonino su questo tema
(p. 109), mentre non si dà notizia della telefonata che Papa

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RECENSIONI

Francesco ha fatto proprio a questa vittima il giorno stesso


in cui ha ricevuto la sua lettera. r
L’autore di Francesco e le donne non poteva sapere di questa
perla di tenerezza, nota invece a chi si occupa di perizie e sa
che questo non è un caso isolato. In tal senso, ora possiamo
dire che ne sappiamo abbastanza di Francesco e le donne ma
cosa dire «degli altri sacerdoti e le donne»?
A. Pacciolla

Eliana Cevallos
La didàctica del amor en pareja. Una vision desde la logote-
rapia de Viktor Frankl
Alicante (Spagna), Editorial Club Universitario Acacia, 2016, pp. 322

Questo non è un testo generico sull’amore o sul pensiero di


V. Frankl, bensì un vero approfondimento del vissuto di cop-
pia nella prospettiva della psicologia umanistico-esistenziale
e, in particolare, di quella della Logoterapia di Frankl.
La prefazione di Gerònimo Acevedo — detto anche il
«nonno» della Logoterapia in America Latina — evidenzia
il paradigma, inclusivo e non escludente, dell’unità umana,
che permette di scoprire sempre qualcosa in più o una nuova
prospettiva. In questo contesto, la reciprocità o è esistenziale
oppure non è reciprocità umana. Questo è uno dei modi
migliori per cogliere la specificità dell’empatia in ottica esi-
stenziale.
L’autrice, in qualità di psicoterapeuta, si propone tre
obiettivi: aiutare ad apprendere, a provocare e a promuovere.
«Quest’opera ha la sola pretesa di essere provocatoria nono-
stante una conoscenza incompleta» (p. 10), col desiderio di
condividere le chiavi che la Logoterapia offre per suggerire
l’inclusione, la dinamica e la riconciliazione in riferimento
all’amore e alla multidimensionalità della persona umana.
Il titolo di quest’opera La didàctica del amor en pareja,
originale nel suo approccio, indica l’apprendimento reciproco
come necessario a una vera coppia umana.
L’opera si presenta divisa in due parti. Nella prima, si
espone la proposta di Viktor Frankl circa il modo di inten-
dere il vincolo della coppia. Nella seconda parte, vi sono
delle riflessioni sulla vita di coppia dal punto di vista della
didattica dell’amore.
Il centro di quest’opera è da collocarsi nel capitolo quattro
che colloca nella relazione con l’altro la migliore possibilità
di arrivare a percepire il senso della vita: «la didattica allude

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

r all’arte di insegnare e all’arte di apprendere […] qui due


persone apprendono e insegnano reciprocamente non solo
ciò che è significativo per ognuno di loro ma anche ciò che
col tempo diventa significativo. La somiglianza, la differenza,
l’inclusione, la capacità di sostenere l’alterità, lo sforzo della
reciprocità e anche il migliore apprendimento che avviene
nell’amore: la gratuità» (p. 267).
Per l’autrice, l’antropologia frankliana è come una lampa-
da che permette di definire i tre principi alla base di questa
didattica dell’amore: (1) La rottura dell’egocentrismo; (2)
L’esistenza nella differenza e l’ex-sistenza nella somiglianza;
(3) Il vissuto della gratitudine. Il fulcro di questa didattica è
l’amore come fondamento di tutto l’apprendimento e dell’in-
segnamento (p. 286).
Il libro si conclude con una riflessione che forse, per le
aspettative del lettore, è la più importante: il senso della cop-
pia. Il senso soggettivo della coppia è quello che i due partner
danno alle motivazioni per stare insieme e ai progetti comuni
per restare insieme. Questo è il punto del libro più adeguato
per inserire le riflessioni personali e, fra queste, quelle relative
alla simbologia di coppia.
Si potrebbe affermare che il senso oggettivo della coppia
rimandi al simbolo di una donna incinta, in quanto non è
una sola persona ma due in una. In questa metafora abbiamo
non il destino di un solo individuo ma almeno di due indi-
vidui. La donna incinta, in tal senso, rappresenta il passato,
il presente e il futuro. La gravidanza potrebbe rappresentare
il senso oggettivo della coppia quando non è solo la donna a
essere incinta, bensì la coppia che sta realizzando un progetto
ed è in attesa di portare a termine un progetto già iniziato.
La donna e la coppia gravida sono anche simbolo del «già
e non ancora», come pure della trascendenza generale della
natura e della auto-trascendenza della persona. In tal senso,
la coppia in attesa è anche simbolo di una spiritualità che
apre a nuovi significati nella vita: così come ogni gravidanza
dà nuovi significati alla vita di ognuno dei due partner e alla
coppia, così la spiritualità rappresenta la dimensione umana
in cui si scoprono nuovi significati. Infatti, ogni figlio per la
sua unicità e originalità, conferma i vecchi significati e ne dà
di nuovi alla coppia e alla famiglia. Forse si potrebbe affer-
mare che le donne, più degli uomini, sono maggiormente
predisposte a questa didattica dell’amore per il loro vissuto
di gravidanza, anche se forse la vera maestra della didattica
dell’amore rimane la natura.
A. Pacciolla

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RECENSIONI

Olga Lhemann Oliveros e Paulo Kroeff (a cura di)


Finitude e Sentido da Vita. A Logoterapia no embate com a r
tríade trágica.
Porto Alegre (Brasile), Evangraf, 2014, pp. 264

Il volume presenta una serie di contributi di vari esperti


internazionali in logoterapia che si interrogano sulle questioni
tra le più profonde dell’essere: il dolore, la sofferenza, la morte
e il lutto. Si scopre come l’uomo, a partire dalla tragedia,
possa trovare un senso di fronte all’inevitabile difficoltà, arri-
vando alla riconciliazione tra la sua persona spirituale e la sua
libertà, fino a trascendersi grazie alle diverse manifestazioni
dell’amore. Nel sottofondo, si percepisce, più o meno espli-
citamente, l’ottimismo tragico di Frankl (premessa di Olga
Lhemann Oliveros).
La proposta psicologica di Frankl è orientata a riumaniz-
zare tutto l’umano, compresi i momenti più tragici dell’espe-
rienza. In tal senso, i momenti di disperazione, per quanto
siano dolorosi, non sono necessariamente un motivo per
perdere il senso della vita, bensì un’occasione per scoprirlo
o riscoprirlo. I cambiamenti esistenziali radicali ci pongono
delle domande su ciò che conta veramente nella vita. Dal
punto di vista della logoterapia, affrontare la triade tragica
(sofferenza, colpa e morte) significa, in realtà, affrontare il
tema della ricerca di senso nella vita durante un’esperienza
limite (premessa di Paulo Kroeff).
Nel primo capitolo, di Yaqui Martínez (Messico), si riper-
corrono i principali contributi della filosofia e della terapia
esistenziale, fondamentali dinanzi al fenomeno della morte:
angoscia esistenziale, esperienze di pre-morte, aspetti salutari
della morte, dimensioni antropologiche della morte.
Il secondo capitolo, di Rachel Bolaji Asagba (Nigeria), esal-
ta il contributo che la logoterapia può dare alla promozione
della salute e della cura integrale della persona riconosciuta
come spirituale.
Nel terzo capitolo, di Paulo Kroeff (Brasile), si parla del
potere trasformante della coscienza della morte, a partire da
un’esperienza dell’autore con i malati di tumore.
Nel quarto capitolo, Daniele Buzzone (Italia) riconosce
come una risorsa essenziale la concezione della vita che pone
al centro la persona umana spirituale, e questo sempre ma so-
prattutto nel contatto interpersonale della relazione terapeuti-
ca (p. 45): riumanizzare la medicina superando l’anaffettività.
Nel quinto capitolo, di Olga Lehmann (Colombia), si
riflette sulle cure terminali a partire da un approccio bioetico

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

r impostato sulla logoterapia e sull’analisi esistenziale che possa


ridare valore al dolore e alla sofferenza (non chiedendosi il
por qué ma il para que: passando dal dolore e dalla sofferenza
al senso del soffrire).
Nei capitoli sei e sette vengono presentate alcune ricerche.
Maribel Rodriguéz Fernández (Spagna) documenta come si
manifestano il senso e la trascendenza della sofferenza nei
malati di cancro, con particolare riferimento agli studi ela-
borati su religiosità e senso: quando il dolore rende migliori
attraverso l’auto-trascendenza. Alla luce di ciò vengono anche
offerte alcune proposte in chiave psicoterapeutica, a partire
dall’antropologia frankliana.
Nel settimo capitolo, di Teresa Kraus, Maria dos Anjos
Dice e Manuel Rodrigues (Portugal), vengono presentate le
Competenze per la Cura Incondizionata Proattiva dell’Altro
(CoCIPO): una serie di strategie per trattare e curare il dolore
nella pratica clinica, alla luce della ricerca di senso e secon-
do i principi di Frankl, per vivere nella speranza (come?) e
non nella disperazione (perché?), fino al decentrarsi del sé e
all’auto-trascendersi nell’altro (come «uomo religioso»).
Nell’ottavo capitolo, di Claudio García Pintos (Argentina),
partendo dai contributi della logoterapia e in riferimento
all’ambito della geriatria, si fa emergere l’importanza di crede-
re nella capacità creativa della persona negli stadi più avanzati
del suo ciclo vitale. Privare di senso una persona significa
spingerla verso la prospettiva del suicidio. Invece, è possibile
aprire nuove prospettive ai nostri anziani attraverso: l’appar-
tenenza; la partecipazione; il contatto intergenerazionale e il
credere creativo.
In questo libro, il tema della colpa non è trattato tanto
approfonditamente come quelli della sofferenza e della mor-
te, tuttavia gli spunti per approfondimenti teorici e pratici
sono veramente notevoli. In termini di originalità, possono
essere apprezzate le ricerche oppure i riferimenti alle ricerche
che, in effetti, sono quelli che, assieme agli esiti terapeutici,
validano le teorie.
A. Pacciolla

Paulo Kroeff
Logoterapia e Existência. A importância do Sentido da Vida.
Porto Alegre (Brasile), Evangraf, 2014, pp. 206

L’autore, annoverato tra i maggiori analisti esistenziali


del Brasile e non solo, presenta una serie di suoi precedenti

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RECENSIONI

articoli, in cui i concetti frankliani sono applicati alle diverse


situazioni dell’esistenza umana. Inizia con la presentazione r
della Logoterapia e del suo ideatore Viktor Frankl. Seguono
dei testi legati alla psicoterapia come i relativi alla «triade tra-
gica», in particolare il dolore e la morte, lo sviluppo personale
e sociale e il tema dell’invecchiamento. Il tutto è articolato
in cinque parti.
La prima parte del libro tratta di Viktor E. Frank e la
Logoterapia: La ricerca del pieno senso della vita. È una presen-
tazione breve e sintetica della vita dello psicologo viennese e
della terza scuola di psicoterapia.
La seconda parte ha, invece, una focalizzazione più clinica:
la Logoterapia. Una visione della psicoterapia. Qui si presentano
alcuni dei principi centrali della Logoterapia, tra i quali l’urgen-
za di dare un senso alla vita e della realizzazione dei valori. Si
fanno dei confronti fra la Logoterapia e gli altri sistemi, come:
la psicoanalisi, la psicologia individuale e l’esistenzialismo. Si
esamina l’evoluzione della Logoterapia come una psicoterapia
aspecifica ma anche con la possibilità che possa essere una
terapia specifica, laddove orientata alla nevrosi noogena, ad
esempio. La Logoterapia può anche essere un supporto alle altre
scuole di psicoterapia. Infine, l’autore discute anche gli obiettivi
e le forme per gestire una seduta di Logoterapia.
In questa stessa parte, si affronta anche la questione della
Logoterapia come superamento degli eventi traumatici in un
bambino: qui si presentano alcuni enunciati centrali della
Logoterapia, come la preoccupazione per il senso della vita e
la sua realizzazione attraverso i valori, oltre a un discorso sulle
caratteristiche umane come l’auto-distanziamento, l’auto-
trascendenza e il loro utilizzo nella cura psicoterapeutica
di un bambino ai fini di superare un evento traumatico. Si
tratta di una sintesi di sedute di Logoterapia e dei risultati
raggiunti in esse.
La terza parte — Logoterapia, il senso della vita e la triade
tragica: sofferenza, colpa e morte — studia la «triade tragica»,
che in Frankl implica necessariamente il tema della ricerca
di senso. Infatti, si può dare un senso alla vita tramite i valori
d’atteggiamento quando si tratta di confrontarci con le tre di-
mensioni esperienziali inevitabili dell’esistenza umana: corpo,
mente e spirito. Il dolore può trasformarsi in conoscenza e
superamento di sé, la colpa può portare al cambiamento di vita
e la morte può aprire all’auto-trascendenza. La triade tragica
può portarci a diventare persone migliori, più autentiche, più
sensibili e alla realizzazione del senso della nostra vita.
Questa parte è anche sull’essere malato. Se i tre presupposti
dell’essere umano e dell’esercizio della sua responsabilità sono

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

r morte, libertà e solidarietà esistenziale, essi possono essere


rivisitati tramite la condizione di essere malato. Il dolore, nella
ricerca di senso, è sempre presente e rimanda alla capacità di
realizzarsi attraverso i valori di atteggiamento, per cui i malati
meritano sempre attenzione, cura e rispetto.
Una sofferenza particolare è costituita dalle reazioni al
cancro e dall’esigenza di mantenere un senso della vita. Se-
guendo la teoria e la pratica clinica di Viktor Frankl, l’autore
studia (in un gruppo di ammalati con tumore e senza tumore)
come la persona possa sempre cercare e trovare un senso alla
sua vita, anche nelle situazioni più estreme, attraverso i valori
d’atteggiamento, realizzabili perfino nell’essere malato, nel do-
lore o nei casi terminali, aprendosi all’auto-distanziamento e
all’auto-trascendenza. La conclusione raggiunta è che i malati
terminali, già molto stressati, vanno curati con misure che
aiutino a mantenere la ricerca del senso della vita e questo può
contribuire anche al recupero della dimensione psicologica.
Altro punto cruciale di questo testo è quello dedicato alle
Considerazioni sui valori di atteggiamento in Logoterapia. In
certi scritti di Frankl i tre tipi di valori (creativi, esperienziali
e di atteggiamento) hanno la stessa importanza; invece, in
altri scritti i valori di atteggiamento sono i valori supremi.
L’autore ipotizza che questa superiorità sia dovuta al fatto
che questo tipo di valori, per definizione, rende possibile il
fronteggiamento anche di ciò che non possiamo cambiare
(malattia, colpa e morte). Dall’esperienza documentata con
malati terminali, si evince che alcuni aprono il loro presente
a un futuro, giorno dopo giorno e questo li rende migliori.
Pertanto, l’altra faccia della malattia e della morte è una
ricerca sugli effetti positivi della sofferenza (malattia termi-
nale). Seguendo l’intuizione della corrente esistenzialista, l’e-
sperienza limite può trasformare una persona e la Logoterapia
di Viktor Frankl consente di trarre significato dalle tragedie
inevitabili della vita della persona umana, mai ricercate per
sé stesse: dolore, malattia e morte… fino a trasformare la
tragedia in un trionfo umano.
La terza parte si conclude con l’attenzione psicologica
ai parenti dei pazienti affetti da tumore. Nel contesto della
cura integrale dei malati oncologici e partendo dall’esperienza
dell’autore, si mostra come sia possibile curare i pazienti fino
a migliorare la loro qualità di vita anche attraverso il supporto
ai familiari. L’autore consiglia, ad esempio, un clima di verità
riguardo alle notizie sullo stato reale di salute del paziente,
parlare della morte, esercitare la solidarietà esistenziale nella
comunicazione (anche non verbale), aiutare a gestire le emo-
zioni, l’ambiguità e i sensi di colpa o d’impotenza.

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RECENSIONI

Nella quarta parte si approccia il tema dello sviluppo


personale e sociale: Auto-conoscenza e sviluppo personale: r
Contributo della Logoterapia. Per Frankl c’è una psicoterapia
per ogni epoca e a fondamento di ogni psicoterapia c’è un’an-
tropologia e quella esistenziale è alla base della Logoterapia
adattata ai tempi contemporanei mantenendo la fedeltà alla
ricerca di senso nelle scelte responsabili: angoscia, libertà e
morte. L’antropologia della Logoterapia si può sintetizzare in
tre elementi espressi da Frankl stesso: la libertà della volontà,
la volontà di senso e il senso della vita. In tal senso, per Frankl,
l’uomo non è determinato ma auto-trascendente.
Uno dei capitoli più originali è quello sulla Logoterapia e
senso: un’intervista. La Logoterapia precede il lager. La Logo-
terapia è innanzitutto una forma di psicoterapia: è un rimedio
al nichilismo in quanto sostiene che in ogni circostanza della
vita sia possibile trovare un senso. La Logoterapia si ispira all’e-
sistenzialismo e nega ogni determinismo per la sua costante
apertura al senso e ai valori di atteggiamento che consentono
di affrontare la triade tragica. L’arte può essere il senso di
una vita come valore esperienziale, così come la religione
può essere il senso ultimo della vita di un individuo, perché
la Logoterapia non ha preconcetti innanzi al fatto religioso.
L’autore finisce evidenziando che Frankl non da sensi generali
o definitivi validi per tutti: la questione del senso della vita è
sempre possibile, eppure sempre personale.
La quinta e ultima parte è dedicata all’invecchiamento che,
in quanto processo di una vita volta alla ricerca di senso, si
apre all’auto-trascendenza tramite i valori di atteggiamento.
In sostanza, questo libro può essere considerato tra quelli
maggiormente significativi sulla Logoterapia in Brasile. Gli
psicoterapeuti qui possono trovare molte ispirazioni alla
loro pratica clinica per il trattamento della sofferenza e per
la difficile ricerca di dare un senso alla sofferenza inevitabile
e ingiusta e quindi apparentemente senza una ragione logica.
A. Pacciolla

Nanci Stancki da Luz, Marilla Gomes de Carvalho e Linda Salete


Casagrande (a cura di)
Construindo a igualdade na diversidade. Gênero e sexuali-
dade na escola.
Curitiba (Paranà, Brasile), Editora UTFPR, 2009, pp. 285

Il volume raccoglie una serie d’articoli e riflessioni sul


tema dell’educazione sessuale e di genere, in ambito scola-

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

r stico, col proposito di offrire un contributo alla costruzione


di un mondo senza preconcetti e discriminazioni di genere
a partire dalla scuola.
Secondo le curatrici, i temi sono di grande rilevanza per
la formazione continua dei professionisti dell’insegnamento.
Il lavoro presenta il genere e la sessualità da diversi punti di
vista con la finalità di abbattere gli stereotipi sessuali, elimi-
nare la violenza di genere e i pregiudizi in ambito scolastico
Lo scopo ultimo è dare un contributo all’elaborazione di un
sistema educativo con parità di genere e con rispetto per le
diversità come forma di rendere concreta la giustizia sociale.
Questa pbblicazione riprende i contenuti del corso spe-
cialistico «Construindo a igualdade na escola: repensando
conceitos e preconceitos de gênero», tenuto nel 2008 all’U-
niversidade Tecnológica Federal do Paraná (UTFPR), grazie
all’iniziativa del Grupo de Estudos de Relações de Gênero e
Tecnologia (GeTec), del Programa de Pós-graduaçao em Tecno-
logia (PPGTE), e col patrocinio della Secretaria de Educaçao
Continuada, Alfabetizaçăo e Diversidade do Ministério da
Educaçăo (Secad/MEC).
Inizialmente, la proposta prevedeva una proposta di for-
mazione continua in materia di genere e sessualità (60 ore) per
160 professori ma, in considerazione dell’altissima richiesta di
partecipazione, fu estesa a 381 professionisti dell’educazione,
di cui 313 donne e 68 uomini (dato questo in sé già molto
significativo).
I principali temi trattati nel corso e nelle discussioni furo-
no: discriminazione di genere, sessismo, omofobia, violenza
di genere e diritti sessuali e riproduttivi dei giovani.
Purtroppo questa materia è oggetto di dibattito in tutto il
mondo e ancora per tutti è difficile unire il rigore scientifico
con la semplicità divulgativa. Tuttavia vale la pena incorag-
giare queste iniziative per un confronto interculturale.
A. Pacciolla

Gouveia Valdiney Veloso


Teoria funcionalista dos valores humanos. Fondamentos,
aplicaçôes e perspectivas.
Miramar «João Pessoa» (Paraiba, Brasile), Editora Casa do Psicólogo, 2013,
pp. 240

L’autore, fondatore in Brasile della Scuola di Teoria fun-


zionalista dei valori umani, in questo volume, espone siste-
maticamente e secondo un modello scientifico, la teoria alla

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RECENSIONI

base del proprio approccio, sviluppata dall’autore stesso nella


seconda metà degli anni novanta. Questa teoria è utile per r
la comprensione di svariati costrutti, quali, ad esempio: pre-
concetto, altruismo, benessere soggettivo, disturbi antisociali,
uso di droghe, elezione del partner, atteggiamenti innanzi al
mondo gestionale, produttività scolastica, ecc. In tal senso,
essa si propone come uno strumento fondamentale per me-
glio comprendere il comportamento sociale, in riferimento a
diversi contesti, come lo studio o il mondo del lavoro.
Tale teoria intende valorizzare parte delle teorie precedenti
sui valori, riconoscendo ad essi due funzioni principali: di
orientamento e motivazionale.
Queste due funzioni si scompongono, a loro volta, in sei
sotto-funzioni: (1) Esperienziale; (2) Realizzazione; (3) Esi-
stenziale; (4) Sovrapersonale; (5) Interattività e (6) Normati-
vità. Alla luce di queste due funzioni e delle sei sotto-funzioni
sarebbe possibile spiegare costrutti (come attitudini e affetti)
e comportamenti.
L’autore dedica i primi tre capitoli a esplorare: (1) Le
basi biologiche, evolutive e neurogenetiche dei valori; (2)
Il relativismo e universalismo dei valori e (3) I fondamenti
del funzionalismo. A continuazione, dopo queste premesse,
espone La teoria funzionalista dei valori (capitolo 4). L’autore
chiude con due capitoli dedicati alle evidenze empiriche della
teoria (dove riporta i risultati ottenuti dalla ricerca) e ai pro-
gressi, applicazioni e indirizzi futuri (potenzialità della teoria).
Una domanda cruciale alla teoria funzionalista dei valori
umani è: a cosa servono i valori? La risposta dell’autore è che
essi «servono a spiegare gli atteggiamenti e le condotte che
guidano le persone nel concreto contesto quotidiano della
loro vita, riflettendo orientamenti e bisogni» (pp. 114-120).
I valori non vanno confusi con le attitudini, le credenze, le
valenze, le necessità, i tratti di personalità, gli interessi, le ide-
ologie, le norme sociali, i costumi, gli stili di vita, gli assiomi
e le rappresentazioni sociali.
L’autore presenta i cinque presupposti del «nocciolo duro»
della sua teoria, detto anche primo nucleo o nucleo «rigido»:
(1) La natura umana; (2) I principi guida individuali; (3) La
base motivazionale; (4) Il carattere; (5) La condizione peren-
ne. Il secondo nucleo è detto «dinamico» e corrisponde alle
funzioni e sub-funzioni elencate sopra (p. 132).
In una interessante tabella illustrativa si riproducono le
sub-funzioni dei valori, secondo il tipo motivazionale o di
orientamento e con i marcatori dei valori selezionati (p. 145).
Questa teoria consente di calcolare i parametri di con-
gruenza tra le sub-funzioni, per le quali viene anche fornito

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r uno strumento di valutazione (pp. 152ss): il Questionario dei


Valori Basici (QVD).
Il valore di questa pubblicazione è culturalmente alto per le
sue basi scientifiche, per la metodologia e per la disponibilità
alla ricerca. Infatti, in particolare, il Questionario di Valori
Basici (QVD) offre l’opportunità di indagare ulteriormente in
vari Paesi del mondo come i valori possono essere evidenziati
e correlati con i vari fenomeni socio-culturali.
A. Pacciolla

Roberto Almada
O Cansaço Dos Bons. A logoterapia como alternativa ao
desgaste profissional,
San Paolo (Brasile), Editora Cidade Nova, 2013, pp. 184

In questo testo, l’autore si occupa del burn-out, tema del


quale si occupa fin dal 1995, affermando che questo male
(o tipo di stanchezza), da quando è stato introdotto nella
letteratura scientifica nel 1974 da Herbert Freudenberger, rap-
presenta è un rischio per tutti coloro che lavorano nell’ambito
sanitario, l’insegnamento, il sociale, il volontariato, l’assistenza
spiritale ecc. Tuttavia non tutte le istituzioni pubbliche e
private hanno messo in atto strumenti e mezzi adeguati di
prevenzione. Per questo motivo, oggi, si registra una vera e
propria epidemia del fenomeno del burn-out.
Inoltre, lo stesso autore, in qualità di medico, si dichiara
tra le categorie più esposte. Dunque, anche alla luce della
propria esperienza, ha concluso che sono stati trascurati fattori
determinanti nello sviluppo del disagio e non sempre, come
detto, sono state adoperate tutte le risorse possibili tanto nella
prevenzione quanto nella cura.
In tal senso, questo libro cerca di riempire un vuoto nella
letteratura contemporanea, occupandosi degli aspetti relazio-
nali, al di là della concettualizzazione logica e della concezione
individualistica riduttiva del burn-out, per orientarsi all’in-
terazione reciproca presente all’interno dei gruppi di lavoro.
Almada, inoltre, propone una visione integrata e non
riduzionista dell’uomo, in cui riconosce l’aspetto spirituale
del suo essere, oltre quello meramente biologico e psicologico
(passioni, sentimenti, pensieri…). Spirito e carne aprono alla
prospettiva del dono di sé al mondo, in quanto lo specifico
della persona umana, in quanto «carne spiritualizzata» e «spi-
rito incarnato», sta proprio nell’auto-donazione e nell’auto-
trascendenza.

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RECENSIONI

Uno studio sul burn-out che sia carente di tale visione


integrata vedrà nel «bruciato» una «vittima» che, a sua volta, r
non verrà considerato come risorsa terapeutica, fonte d’in-
segnamento e d’energia spirituale. Oppure, trascurando la
dimensione spirituale, si potrà concludere facilmente che
la decisione d’abbracciare una professione umanitaria può
essere il prodotto di una distorsione cognitiva dell’onnipo-
tenza idealista, negando i valori che queste persone hanno
considerato come il meglio di sé fin dalla giovinezza. Inoltre,
anche i migliori studi sul burn-out, se peccano della miopia
riduttiva denunciata, quale negazione di valori e qualità
umane, si renderanno anche inutili dal punto di vista della
cura terapeutica concreta.
Un altro elemento necessario per uno studio completo
del fenomeno del burn-out in vista della cura è rappresentato
dall’analisi critica del contesto culturale (postmoderno, habi-
tat, circostanze, ecc.). In tal senso, l’epidemia del burn-out è
il tributo che si paga all’epoca contemporanea, caratterizzata
dalle sue esigenze esasperate di redditività e produttività.
Come evidenziato, l’autore non trascura il «peso» della
cattiva qualità delle relazioni personali nel contesto lavorativo
che, a dire dei pazienti, sarebbe la causa principale del male.
L’autore riconosce il dilemma tra individualismo e solidarie-
tà, che se non risolto efficacemente, rischia di rinchiudere
le persone in un «individualismo salutare e preventivo», che
finisce col rivelarsi poi un boomerang.
Il titolo di questo libro, La stanchezza dei buoni, richiama
il valore della persona buona al di là del problema psicologico.
Lo scopo della pubblicazione è, infatti, anche quello di dare
un contributo ai «buoni» perché continuino a operare con
uno sguardo profondo e trascendente.
A livello della struttura del libro, in primo luogo si
caratterizza il burn-out, per poi offrire strumenti semplici
e concreti per aiutare chi patisce tale sindrome. Allo stesso
tempo, si cerca di coprire il vuoto della mancata compren-
sione filosofica, esistenziale e culturale del fenomeno, valo-
rizzando la dimensione della spiritualità dell’essere umano.
La spiritualità, avendo come punto di riferimento il pensiero
di Viktor Frankl, è la caratteristica essenziale e specifica che
permette di aprirsi alla trascendenza e si manifesta nella
relazionalità.
Molto utile per i principianti e i profani, la trascrizione
del test MBI e dei consigli mutuati dalla psicologia cognitiva
per uscire dalla situazione del burn-out, come quelli relativi
a «lavorare meglio per lavorare meno»: (1) Stabilire obiettivi
realistici; (2) Adoperare la creatività; (3) Pianificare il tempo

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

r convenientemente; (4) Riflettere su ciò che si fa; (5) Gestire


le cose con distacco.
Il valore essenziale di questo libro sta nella sua apertura
a una dimensione diversa da quelle psico-socio-biologica:
l’auto-trascendenza. Questa apertura è molto importante in
tutti i settori della vita, in particolare nell’area del lavoro e
degli affetti.
A. Pacciolla

Ivo Studart Pereira


A Ètica do Sentido da Vida, Fundamentos Filosoficos Da
Logoterapia,
San Paolo (Brasile), Editora Ideias & Letras, 2013, pp. 160

Il libro, nelle intenzioni dell’autore, si propone un duplice


intento:
1. Contribuire alla conoscenza e divulgazione della Lo-
goterapia di Viktor Frankl attraverso l’esplorazione dei suoi
fondamenti filosofici che tendono a suscitare sospetto, a
volte, nel riduzionistico mondo accademico della scienza e,
in particolare, della psicologia come psicologismo.
Infatti, nel libro la Logoterapia è mostrata come un insie-
me di categorie teorico-sistematiche ben articolate tra di esse:
dimensione spirituale, libertà, responsabilità, senso, valori,
ecc. Questi contenuti, fortemente filosofici, frequentemente
appaiono estranei agli psicologi più impegnati sia in campo
teorico che pratico. Pertanto, vero filo conduttore della
presente opera è il chiarimento del confine tra psicoterapia
e filosofia e, in particolare, riguardo al tema del senso e dei
valori in psicoterapia.
2. Offrire una presentazione sistematica della Logoterapia
servendosi di tre concetti base: «senso», «volontà di senso» e
«coscienza morale». In tal senso, il testo analizza l’etica del
senso della vita in quanto etica della responsabilità e, conse-
guentemente, riconcilia l’etica e l’ontologia, nella proposta,
da parte dell’autore, di una ontologizzazione della morale.
L’esplorazione filosofica porterà ad analizzare diversi temi
fondamentali della tradizione filosofica, quali il problema del
rapporto mente/corpo o il dilemma delle letture psicologiche
della moralità. Lo scopo rimane trovare un fondamento etico
ancorato nella tradizione e nel concetto di persona. In breve,
il libro aiuta a entrare nel vivo degli sviluppi inevitabili tra
etica e psicologia.

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RECENSIONI

La Logoterapia di Frankl, anche definita la Terza Scuola


Viennese di Psicologia, si fonda sulla dimensione «spirituale» r
o noologica dell’uomo in quanto persona spirituale e, dunque,
in ricerca di un senso che si rivela in connessione con idee e
problematiche come libertà e responsabilità, temi che hanno
a che fare con il campo dell’etica. Proprio l’etica si fonda in
ultima analisi nell’esperienza della libertà che appartiene al
campo «spirituale» della persona, in quanto apertura all’altro e
all’auto-trascendenza. In questo senso, la psicologia frankliana
è fortemente articolata tra antropologia e etica e, pertanto,
tra persona e valori, come testimoniato da categorie peculiari
quali: «spiritualità soggettiva» (noologia) o «libertà di» e «spi-
ritualità oggettiva» (valori) o «libertà per».
Per l’autore la novità radicale della Logoterapia consiste
in una visione dell’uomo come inserito in un universo morale
(di valori) relazionato direttamente con il senso della vita che
costituisce la dimensione «spirituale» ontologica (dell’essere)
della persona libera e responsabile, in una prospettiva teleo-
logica che considera l’ambito di una armonizzazione tra logos
ed ethos, tra senso e valori, tra persona e alterità.
Il libro si conclude con la ripresa di una citazione di Frankl
stesso, per cui «ontologizzando la morale» (dato che il valore
prescritto alla coscienza deriva dal senso cercato e trovato alla
vita) si afferma un’etica del senso della vita. (p. 153).
A. Pacciolla

Yaqui Andrés Martínez Robles


Psicoterapia Existencial. Teoría y práctica relacional para un
mundo post-Cartesiano. Vol. 1
Città del Messico, Circulo de Estudios en Psicoterapia Existencial, 2012,
pp. 456

Questo libro presenta la Psicoterapia Esistenziale come uno


stile professionale di psicoterapia secondo il paradigma della
prassi relazionale con fondamento filosofico fenomenologico-
esistenziale, particolarmente adatto al nostro tempo post-
moderno. Il progetto consta di due volumi, di cui il primo
(che è quello recensito) è dedicato ai fondamenti filosofici ed
epistemologici, mentre il secondo si focalizza sulle applica-
zioni pratiche e i casi clinici.
Colpisce fin dall’inizio la definizione dell’approccio filo-
sofico della Psicologia Esistenziale come:
1) Una psicoterapia «senza tecniche» prestabilite, a favore
di un autentico «dialogo esistenziale» (pp. 49-50).

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

r 2) La volontà critica di allontanarsi e negare le categorie


«patologiche» perché classificazioni improprie dell’unicum
singolare e irrepetibile della persona umana, che tendono
impropriamente a oggettivare, normalizzare, fissare, enfatiz-
zare, aggravare, colpevolizzare, deresponsabilizzare, ammalare,
dominare, sottomettere il cliente (pp. 51-61).
Così, per esempio, i «meccanismi di difesa» vengono
considerati e trattati come «ostacoli» o «blocchi» interazionali
all’autentica realtà esistenziale e vissuti come negazione o
evasione della angoscia naturale in determinate circostanze
esistenziali (p. 65). In breve, si tratta di non etichettare ma
comprendere; non di patologie ma di persone; di essere più
che di fare (pp. 68-69).
Dopo un excursus storico-filosofico, l’autore — che ri-
conosce l’influsso della filosofia esistenziale del secolo scorso
sulla Psicoterapia Esistenziale — corre ai ripari, prendendo le
distanze da Cartesio e sostenendo la necessità di un approccio
relazionale, piuttosto che individualista e divisionista (p. 323).
In tal senso, cita Thomas Szasz e definisce il suo metodo come
una «forma specifica di conversazione […] filosofica non
medica». Di fatto, «per essere un buon terapeuta non occorre
una specifica formazione in medicina o psicologia» ma «un
continuo processo di formazione e aggiornamento anche in
gruppi di supervisione» (pp. 358-360).
Meta della terapia non è dunque cambiare, sanare, cu-
rare o insegnare, educare, promuovere felicità o autenticità;
inoltre si deve rinunciare al ruolo di guida, guru, mentore o
maestro; la finalità non è risolvere ma enunciare e accettare
la natura dilemmatica dell’esistenza, oppure appropriarsi con
autenticità (Eigentlichkeit) dell’essere nel mondo, in termini
heideggeriani. La terapia stessa non è considerata come ri-
solutiva di problemi o allenamento d’abilità interpersonali o
emozionali e di condotta ma come un incontro di perspettive,
un’analisi d’insieme dell’esistenza e dei dilemmi quotidiani,
nonché una forma di revisione delle forme e degli stili di
relazione (p. 360).
La Psicoterapia Esistenziale, essendo fondata sulla ricerca
fenomenologico-esistenziale e partendo dal non-sapere socratico,
non ha tecniche né specializzazioni, in quanto non si basa
sullo studio ma sul dialogo con la persona (pp. 364-374).
In definitiva, l’opera può rappresentare una buona guida
alla ricerca della connessione fra la filosofia esistenzialista e
l’approccio unamistico-esistenziale. Per quanto concerne l’ap-
plicazione clinica di questo approccio è necessario precisare
che l’uso di tecniche e di specializzazioni anche nella psicologia
clinica con approccio umanistico-esistenziale è considerata

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RECENSIONI

con una certa elasticità. Un no categorico a qualunque tecnica


e specializzazzione nella psicoteapia sarebbe poco scientifico r
e potrebbe ridurre la stessa efficacia terapeutica.
A. Pacciolla

Yaqui Andrés Martínez Robles


Filosofía Existencial Para Terapeutas. Y uno que otro curioso
Città del Messico, Ediciones LAG, 2009, pp. 343

Il libro si propone di facilitare l’accesso — non sempre


facile — alla riflessione filosofica per poterla applicare alla
propria condizione esistenziale. L’autore è l’iniziatore della
Psicoterapia Esistenziale in Messico, corrente che propone un
approccio al fenomeno umano eminentemente relazionale,
incentrato sulla revisione della propria esistenza, posizione
e prospettive, in vista dell’autentica riappropriazione delle
relazioni inter-personali dell’uomo come essere co-esistente.
L’opera presenta una carrellata dei principali esponenti della
filosofa esistenziale, facendo emergere di volta in volta i con-
tributi o gli aspetti utili per la sua applicazione in psicoterapia
e nell’analisi della propria vita del lettore.
In tal senso, viene proposta una visione generale dei fon-
damenti filosofici-esistenziali della Psicoterapia Esistenziale,
conoscenza necessaria per l’approfondimento della corrente
esposta. In effetti, però, vi sono spunti utili per qualunque
altra scuola terapeutica e per lo stesso coaching esistenziale.
Uno degli autori a cui il testo s’ispira è Spinelli che definisce
la Psicoterapia Esistenziale come una «consulenza filosofica»
in cui, prendendo le distanze da una prospettiva patologica e
secondo l’espressione di Yalom, il terapeuta e il paziente sono
«compagni di viaggio» (pp. 399-401).
L’autore così sintetizza quest’approccio che affronta le
angosce di certe condizioni esistenziali (pp. 401-404):
1. Interrelazione di base: il nostro essere-nel-mondo è un
essere-con gli altri in co-esistenza, ciò implica il superamen-
to del paradigma della soggettività nella inter-soggettività,
per cui la realtà è per se stessa relazionale.
2. Contingenza: relativa alle condizioni stesse dell’esistenza
(nazionalità, genere, ecc.).
3. Incertezza esistenziale di base: non è possibile un controllo
al 100% di sé stessi e tanto meno degli altri o del mondo,
c’è sempre spazio per la meraviglia e lo stupore.
4. Processo di continuo cambio ed evoluzione: impossibile fissare
una realtà che è sempre in co-costruzione.

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RICERCA DI SENSO Vol. 15, n. 2, giugno 2017

r 5. Tragedia umana: come dato presente tout court in una realtà


fatta di contrasti tra felicità e infelicità, che vano accettati.
Più concretamente l’angoscia può essere risvegliata a mo-
tivo de «i cinque attributi esistenziali» (pp. 405-406):
1. La finitudine: il confronto con la morte.
2. La libertà: la scelta di possibilità che escludono altre pos-
sibilità.
3. La responsabilità: assumere le conseguenze delle nostre
scelte con la gestione della colpa.
4. La solitudine: derivata dal fatto che siamo unici e irrepeti-
bili.
5. Il mistero: la domanda sul senso e la ricerca di senso che
segna ogni esistenza umana.
Un altro modello di presentazione del nostro essere-nel-
mondo in co-esistenza si basa su sei aspetti dell’essere come
(pp. 406-407):
1. Essere-incompleti: c’è sempre un cammino da fare e non
siamo mai arrivati.
2. Essere-temporali: il limite del tempo segna ogni nostra
attività.
3. Essere-corporei: siamo coscienze incarnate e l’io non è
separabile dal corpo.
4. Essere-sessuali: perché ogni nostra azione è segnata dalla
nostra sessualità.
5. Essere-affettivi: siamo emotivamente colpiti anche per il
solo fatto d’esistere.
6. Essere-significativi: perché attribuiamo significato e valore
alle esperienze esistenziali.
La Psicoterapia Esistenziale non si basa su una tecnica
speciale ma sulla relazione inter-personale, focalizzandosi sui
«misteri quotidiani d’ogni giorno» (p. 42).
In questo testo, l’autore offre un contributo teorico alla
psicologia clinica con approccio umanistico-esistenziale. La
filosofia esistenziale esclude categoricamente ogni tecnica? È
possibile una integrazione fra approccio clinico umanistico-
esistenziale e la psicologia clinica evidence based? Questi e altri
interrogativi dovranno essere affrontati con l’aiuto di testi
come questo, associati alla pratica clinica.
A. Pacciolla

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Tariq Ramadan, Riccardo Mazzeo

Il musulmano e l’agnostico

Il conflitto tra la civiltà islamica e quella occidentale è davvero


così inevitabile come molti vogliono farci pensare?
La religione è necessariamente un ostacolo alla sopravvivenza
di uno Stato pluralista e democratico?
Si può essere musulmani e, al contempo, europei?

Tariq Ramadan – una delle voci più forti e più controverse


nel dibattito sull’integrazione dell’Islam in occidente – e
Riccardo Mazzeo – intellettuale eclettico e coautore di nu-
merose opere insieme a nomi del calibro di Bauman, Morin,
pp. 160 – € 10,00 Benasayag e Heller.
ISBN 978-88-590-1373-0 Due forti personalità, che in queste pagine si incontrano in un
denso dialogo che dà voce alla possibilità di una «coesistenza
PREZZO SPECIALE positiva» tra musulmani e occidentali.

PER GLI ABBONATI Va da sé che il conflitto è insito nella natura umana: si tratta
ALLE RIVISTE ora di gestirlo virtuosamente affinché non diventi mai guerra
ERICKSON ma occasione di fattivo confronto e arricchimento di tutti

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gli attori. (Dalla Prefazione di Roberto Hamza Piccardo)
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• Prefazione (di Hamza Roberto Piccardo) • Il posto della religione nelle nostre
società • Riallacciarsi alla filosofia • La ricerca di senso • Il pluralismo • Di
fronte alla violenza e al terrore • Migranti e rifugiati • L’ambiente • Ripensare
l’azione politica • Conclusioni (di Riccardo Mazzeo) • Indice dei nomi

Lo sconto del 15% sui libri e sui KIT ri-


servato agli abbonati è esteso al 20%
nel caso di istituzioni scolastiche di
ogni ordine e grado, educative e uni-
versità, centri di formazione legalmen-
te riconosciuti, istituzioni o centri con
finalità scientifiche o di ricerca, biblio-
teche, archivi e musei pubblici.

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Tom W. Shakespeare

Disabilità e società
Diritti, falsi miti, percezioni sociali
Tom Shakespeare è uno dei principali protagonisti del
dibattito scientifico internazionale sulla disabilità, oltre
a essere attivamente impegnato sul fronte dei diritti delle
persone disabili. Il volume presenta al pubblico italiano la
sua elaborazione più recente, che sintetizza due decenni di
pensiero e dialogo sulla disabilità, la bioetica e l’assistenza.
Il volume fornisce un’ampia e aggiornata panoramica delle
diverse concezioni maturate nell’ambito dei disability
studies e presenta, argomentando con rigore metodologico
e allo stesso tempo con un linguaggio chiaro e accessibile,
pp. 250 – € 18,50 la posizione controversa e dibattuta di Shakespeare: una
ISBN 978-88-590-1245-0 visione «relazionale» della disabilità, intesa come il risultato
dell’interazione tra fattori individuali e contestuali, fra cui
rientrano menomazione, personalità, atteggiamenti indivi-
PREZZO SPECIALE duali, ambiente, politica e cultura.
PER GLI ABBONATI Attraverso la «lente» della prospettiva socio-relazionale della
ALLE RIVISTE disabilità, il volume si occupa anche di alcuni aspetti della
ERICKSON vita delle persone disabili solitamente meno frequentati,

-15%
in particolar modo in Italia: l’inizio e il fine vita, il ruolo
dell’assistente personale, le relazioni amicali, la sessualità.
€ 15,73 Disabilità e società si rivela dunque un prezioso strumento
per tutti coloro che si interrogano sulla condizione delle
persone disabili nella società odierna, senza timore di porsi
anche le domande più scomode che riguardano i momenti
cruciali dell’esistenza umana.

L’AUTORE
Tom W. Shakespeare, ha insegnato presso le Università di Sunderland, Leeds
e Newcastle e dal 2008 al 2013 ha lavorato per conto dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità alla realizzazione del Rapporto mondiale sulla disa-
bilità (2011). Attualmente insegna Sociologia medica presso la University
of East Anglia.

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