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1. Premessa
Questo intervento intende ricostruire per sommi capi la vicenda del dibat-
tito italiano sull’industria culturale, dalle sue origini ad oggi. Proveremo a
seguire insieme il passaggio dall’ingresso del concetto nel dibattito nazionale
alla sua declinazione storica, fino alla sua lunga messa in discussione e ride-
finizione.
L’articolo si sviluppa in quattro parti: nella prima ci si sofferma sull’ere-
dità teorica di Adorno e Horkheimer (e più in generale dei francofortesi) e di
Morin; nella seconda e nella terza si studiano i filoni di ricerca (rispettiva-
mente storico-sociale e culturologico) che si sono confrontati con il concetto;
nella quarta si prefigurano alcune questioni relative all’utilità che il concetto
può avere – o non avere – nell’attuale assetto dei media e della produzione
culturale.
In Italia il concetto di industria culturale arriva, con una certa forza, solo
negli anni Sessanta del Novecento. Ne sono veicolo alcune importanti tradu-
zioni. Logicamente, dovremmo ricordare prima quelle dei francofortesi, per-
ché la Dialettica dell’illuminismo (Adorno, Horkheimer 1947) e L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Benjamin 1936-1939)
escono entrambe (e entrambe per i tipi di Einaudi) nel 1966. Cronologica-
mente, invece, la definizione compare per la prima volta in modo importante
e con il suffragio di un’autorialità sociologica nel 1963, con la traduzione del
libro di Edgar Morin L’esprit du temps (1962), intitolato dalla casa editrice
italiana, appunto, L’industria culturale.
Ma insomma, a parte le considerazioni interessanti che potremmo trarne,
possiamo limitarci a notare che nel giro di pochi anni la definizione diventa
di pubblico dominio fra i sociologi della cultura, dei media e della comuni-
cazione italiani, e lo diventa già carica di profili interpretativi pesanti e cari-
chi di significato.
Com’è noto Horkheimer e Adorno utilizzano la nozione per mettere a
fuoco l’ambigua complessità dell’ideologia capitalista, che sopprime la dia-
lettica fra cultura e società, assimilando la sfera culturale alla fatalità sociale.
Secondo i due autori, è grazie alla grande macchina dell’industria culturale
che la coscienza delle masse si svende all’adattamento, e l’industria holly-
woodiana svolge nei fatti lo stesso ruolo che la critica kantiana assegnava
alle forme pure: diventa, in altre parole l’unico quadro di pensiero possibile.
Industria della cultura significa dunque un’organizzazione produttiva che
trasferisce per sé stessa ideologia nei propri contenuti, e che rende questi
ultimi capaci di divenire veicoli atti a influire sulle coscienze e la percezione
del reale nei pubblici-massa.
In effetti, la prospettiva benjaminiana – pur provenendo dalla medesima
matrice di discussione – è piuttosto eccentrica rispetto a questa linea di pen-
siero critico. Potremmo dire che Benjamin sottolinea le trasformazioni della
cultura, quando osserva i Passages parigini o la tecnica fotografica non tanto
per ravvisare una decadenza, quanto piuttosto, mettendo a fuoco la fascina-
zione del nuovo, per rilevare una trasformazione, con meno nostalgia e più
descrittività filosofica di quanto non scegliessero di fare Horkheimer e
Adorno.
Del tutto diverso è, invece, il punto di vista di Morin. L’industria culturale
non è, per l’autore francese, solo uno strumento ideologico, ma anche una
gigantesca officina di elaborazione dei desideri e delle attese collettive. I pro-
dotti dell’industria culturale – in particolare quelli dell’industria cinemato-
grafica – sono per lui formazioni di compromesso tra le forze emergenti del
rimosso sociale e le potenze di censura o di sublimazione provenienti dagli
apparati economici e di potere.
3. La prospettiva storico-sociale
dati statistici sui consumi culturali quella delle analisi dei prodotti letterari,
televisivi, cinematografici e quant’altro, e indaga attraverso questa duplice
linea i mutamenti altrimenti difficilmente percepibili nel costume nazionale.
Un altro elemento di interesse è la natura intergenerazionale di questi studi,
che per molti versi riduce il pericolo di eccessivo soggettivismo nostalgico
nella ricostruzione storica. Chi ha letto un libro capitale come L’orda d’oro,
(Moroni e Balestrini 1988), nella sua complessa e ricchissima analisi dei mo-
vimenti anticapitalistici italiani, ha perfettamente presente quanto questi ele-
menti di soggettivismo da un lato abilitassero preziose testimonianze dall’in-
terno, dall’altro tuttavia bloccassero le interpretazioni in una prospettiva ma-
gari non scontata ma comunque parziale e limitante.
4. La prospettiva culturologica
digitale collaborino a dare vita a nuovi stili produttivi che siano in grado di
uscire dall’amatorialità hobbistica e di fare sistema.
e) Ideologia dominante vs resistenza culturale. Infine, occorre riflettere
sul legame fra mainstream e grassroots nell’epoca della rete e della produ-
zione digitale. Occorre farlo perché sempre più si rende chiaro che una de-
mocratizzazione dell’accesso e della produzione probabilmente senza prece-
denti abilita, insieme all’esplosione di talenti, anche una crescita di repertori
standard, di luoghi comuni e di stili bassi. Il che evidentemente non ha sol-
tanto a che vedere con la capacità ideologizzante delle grandi industrie, ma
anche con tendenze alla convergenza sui consumi che dipende da variabili
quali la cultura di base, la formazione del gusto, l’appartenenza o la non ap-
partenenza a vecchie e nuove forme di élites. E questo mi pare, in chiusura,
il punto essenziale da affrontare per domandarsi se l’industria culturale ita-
liana si andrà trasformando nei prossimi anni, e in quale direzione.
Bibliografia