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I temi dei media

Sociologia della Comunicazione 50.2015


Sociologia della Comunicazione 50.2015
GLI STUDI SULL’INDUSTRIA CULTURALE IN ITALIA
di Fausto Colombo

1. Premessa

Questo intervento intende ricostruire per sommi capi la vicenda del dibat-
tito italiano sull’industria culturale, dalle sue origini ad oggi. Proveremo a
seguire insieme il passaggio dall’ingresso del concetto nel dibattito nazionale
alla sua declinazione storica, fino alla sua lunga messa in discussione e ride-
finizione.
L’articolo si sviluppa in quattro parti: nella prima ci si sofferma sull’ere-
dità teorica di Adorno e Horkheimer (e più in generale dei francofortesi) e di
Morin; nella seconda e nella terza si studiano i filoni di ricerca (rispettiva-
mente storico-sociale e culturologico) che si sono confrontati con il concetto;
nella quarta si prefigurano alcune questioni relative all’utilità che il concetto
può avere – o non avere – nell’attuale assetto dei media e della produzione
culturale.

2. Le origini del concetto di industria culturale

In Italia il concetto di industria culturale arriva, con una certa forza, solo
negli anni Sessanta del Novecento. Ne sono veicolo alcune importanti tradu-
zioni. Logicamente, dovremmo ricordare prima quelle dei francofortesi, per-
ché la Dialettica dell’illuminismo (Adorno, Horkheimer 1947) e L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Benjamin 1936-1939)
escono entrambe (e entrambe per i tipi di Einaudi) nel 1966. Cronologica-
mente, invece, la definizione compare per la prima volta in modo importante
e con il suffragio di un’autorialità sociologica nel 1963, con la traduzione del
libro di Edgar Morin L’esprit du temps (1962), intitolato dalla casa editrice
italiana, appunto, L’industria culturale.
Ma insomma, a parte le considerazioni interessanti che potremmo trarne,
possiamo limitarci a notare che nel giro di pochi anni la definizione diventa

Sociologia della Comunicazione 50.2015


94 Colombo, Gli studi sull’industria culturale in Italia

di pubblico dominio fra i sociologi della cultura, dei media e della comuni-
cazione italiani, e lo diventa già carica di profili interpretativi pesanti e cari-
chi di significato.
Com’è noto Horkheimer e Adorno utilizzano la nozione per mettere a
fuoco l’ambigua complessità dell’ideologia capitalista, che sopprime la dia-
lettica fra cultura e società, assimilando la sfera culturale alla fatalità sociale.
Secondo i due autori, è grazie alla grande macchina dell’industria culturale
che la coscienza delle masse si svende all’adattamento, e l’industria holly-
woodiana svolge nei fatti lo stesso ruolo che la critica kantiana assegnava
alle forme pure: diventa, in altre parole l’unico quadro di pensiero possibile.
Industria della cultura significa dunque un’organizzazione produttiva che
trasferisce per sé stessa ideologia nei propri contenuti, e che rende questi
ultimi capaci di divenire veicoli atti a influire sulle coscienze e la percezione
del reale nei pubblici-massa.
In effetti, la prospettiva benjaminiana – pur provenendo dalla medesima
matrice di discussione – è piuttosto eccentrica rispetto a questa linea di pen-
siero critico. Potremmo dire che Benjamin sottolinea le trasformazioni della
cultura, quando osserva i Passages parigini o la tecnica fotografica non tanto
per ravvisare una decadenza, quanto piuttosto, mettendo a fuoco la fascina-
zione del nuovo, per rilevare una trasformazione, con meno nostalgia e più
descrittività filosofica di quanto non scegliessero di fare Horkheimer e
Adorno.
Del tutto diverso è, invece, il punto di vista di Morin. L’industria culturale
non è, per l’autore francese, solo uno strumento ideologico, ma anche una
gigantesca officina di elaborazione dei desideri e delle attese collettive. I pro-
dotti dell’industria culturale – in particolare quelli dell’industria cinemato-
grafica – sono per lui formazioni di compromesso tra le forze emergenti del
rimosso sociale e le potenze di censura o di sublimazione provenienti dagli
apparati economici e di potere.

3. La prospettiva storico-sociale

È abbastanza naturale che queste traduzioni abbiano avviato una profonda


riflessione nella sociologia italiana, riflessione che da un certo punto di vista
ha stimolato la prima generazione di sociologi della cultura, dei media e della
comunicazione. In fondo, negli anni Sessanta, la spinta di molti intellettuali
verso una sinistra non organica e un marxismo meno dogmatico di quello
ortodosso era manifesta, e si esprimeva pienamente nel dibattito intellettuale.
Colombo, Gli studi sull’industria culturale in Italia 95

L’approccio era ovviamente prevalentemente teorico, la prospettiva mani-


festamente critica, e le difficoltà nella costruzione di una scuola italiana di que-
sto tipo di pensiero non da sottovalutare. Tanto per intenderci, in quegli anni
le discipline della comunicazione si andavano fondando, sia per la continuità
di alcuni protagonisti degli studi sulla comunicazione del periodo fra le due
guerre (come Francesco Fattorello, antesignano degli studi sul giornalismo in
piena epoca fascista, poi animatore di scuole universitarie a Roma), sia per
l’affacciarsi di interessi nuovi, come nel caso di Gilbert Cohen-Séat o di Mario
Apollonio. L’influsso di questi ultimi (con la fondazione rispettivamente
dell’Istituto Gemelli di Milano e della Scuola di giornalismo e mezzi audiovi-
sivi, prima a Brescia poi a Milano) fu straordinario nel dare impulso agli studi
sulla comunicazione a 360 gradi. In questo contesto, anche le lezioni dei Fran-
cofortesi e di Morin trovarono un importante terreno di sviluppo.
D’altronde, nel 1964 usciva Apocalittici e integrati di Umberto Eco, dove,
pur con leggerezza e senso della misura, la prospettiva anti-industriale e an-
ticapitalistica faceva capolino con una certa ricorsività, anche se poi, nel
cuore di certe analisi, il divertimento e la passione per la cultura popolare-di
massa sembravano prendere il sopravvento.
Coerentemente con il clima degli anni Settanta, l’approccio critico all’in-
dustria culturale fu dominante anche da noi, con qualche meritevole ecce-
zione. In particolare, vale la pena di ricordare un libro come La grande scim-
mia. Mostri, vampiri, automi, mutanti di Alberto Abruzzese (1979), che da
un lato riprendeva il discorso già avviato dall’autore in Forme estetiche e
società di massa (Abruzzese 1973), dall’altro lo calava nell’analisi dei testi
e dei prodotti dell’industria, mostrandone i legami con inconsci collettivi e
immaginari, e aprendo la strada a una lunga, complessa e disseminata scuola
di pensiero saldamente radicata nel nostro Paese.
Bisogna aspettare gli anni Novanta perché l’industria culturale ridiventi
di moda negli studi su cultura, media e comunicazione in Italia. Stavolta l’ap-
proccio è di tipo meno evidentemente teorico-critico (potrei citare come ec-
cezione il volume di Alberto Abruzzese e Davide Borrelli, L’industria cul-
turale. Tracce e immagini di un privilegio, 2000) e più radicalmente socio-
storico. Si compiono su quest’asse due operazioni: da un lato si cerca di ri-
conoscere la via propriamente italiana all’industria culturale, dall’altro si co-
mincia ad essere più attenti alla necessità di una ricognizione prospettica,
mettendo così sempre più in luce i legami assai forti fra le forme di industria-
lizzazione ottocentesca e quelle novecentesche. L’ispiratore di questo filone
di studi è a mio parere David Forgacs, con il suo L’industrializzazione della
cultura italiana (1993 e poi 2000). Si succedono poi, nell’arco di meno di un
96 Colombo, Gli studi sull’industria culturale in Italia

decennio, i volumi di Mario Morcellini e Paolo De Nardis, Società e indu-


stria culturale in Italia (1998), di Michele Sorice, L’industria culturale in
Italia (1998), e ancora Mario Morcellini, Il Mediaevo. Tv e industria cultu-
rale nell’Italia del XX secolo (2000), e La cultura sottile. Media e industria
culturale in Italia dall’800 agli anni Novanta (Colombo 1998).
Nello stesso periodo – va detto – le discipline dello spettacolo recuperano
anch’esse la dimensione pienamente storiografica. Così, accanto a storie ge-
nerali dell’industria culturale nazionale, abbiamo straordinari contributi nella
storia della radio e della televisione (cfr. per esempio Monteleone 1992 e
2001, Grasso 1992 – con edizioni successive nel 2000, 2004 e 2008 –, Men-
duni 2002) e negli anni 2000 si compiranno anche sforzi molto interessanti
per costruire ampie opere di completa ricostruzione storica (penso per esem-
pio alla grande Storia del cinema italiano in più volumi edito da Marsilio,
ma anche alla Storia della stampa italiana di Castronovo e Tranfaglia
(anch’essa in più volumi) edita da Laterza e alla Storia del giornalismo ita-
liano di Murialdi (2006).
Tra i vantaggi di questo filone, dobbiamo annoverare un incontro sempre
più fecondo con gli storici. Cominciano a moltiplicarsi le occasioni di scam-
bio e collaborazione fra storiografi e studiosi di media e comunicazione,
certo con benefici reciproci, così come si moltiplicano, su un terreno tornato
a essere comune, gli incontri e le collaborazioni fra sociologi dediti alla storia
e storici dei vari media.
Nella fase più recente (diciamo a partire dalla fine del primo decennio del
2000) mi pare di poter segnalare una nuova svolta: lo studio concentrato su
determinati periodi, ritenuti di svolta nella società italiana. Questi studi pos-
sono a volte essere guidati da scadenze editoriali (per esempio le inevitabili
celebrazioni dei decennali del ’68), ma mi pare che oggi vi sia qualcosa di
più. Non è casuale, per esempio, il particolare peso che in queste indagini è
rivestito dagli anni Ottanta e dal loro ruolo, investigato ormai dai sociologi
(Ciofalo 2011; Colombo 2012), da studiosi di cinema o di televisione (Mor-
reale 2009), storici (Gozzini 2011) e da pubblicisti assai attenti (Morando
2011 e 2016). Credo che la svolta si debba al tentativo di cominciare a qua-
lificare e comprendere l’Italia della Seconda Repubblica e le sue profonde
trasformazioni, le cui radici sono ormai quasi unanimemente riconosciute nel
decennio del riflusso, permeato anche in Italia dalla svolta neoliberista di
Thatcher e Reagan, ma declinato in forme di nuovo diverse e peculiari (cfr.
Panarari 2010). Contemporaneamente, però, questo nuovo approccio indica
anche la volontà di sfruttare fino in fondo le potenzialità della sociologia
della cultura, della comunicazione e dei media, perché abbina alla lettura dei
Colombo, Gli studi sull’industria culturale in Italia 97

dati statistici sui consumi culturali quella delle analisi dei prodotti letterari,
televisivi, cinematografici e quant’altro, e indaga attraverso questa duplice
linea i mutamenti altrimenti difficilmente percepibili nel costume nazionale.
Un altro elemento di interesse è la natura intergenerazionale di questi studi,
che per molti versi riduce il pericolo di eccessivo soggettivismo nostalgico
nella ricostruzione storica. Chi ha letto un libro capitale come L’orda d’oro,
(Moroni e Balestrini 1988), nella sua complessa e ricchissima analisi dei mo-
vimenti anticapitalistici italiani, ha perfettamente presente quanto questi ele-
menti di soggettivismo da un lato abilitassero preziose testimonianze dall’in-
terno, dall’altro tuttavia bloccassero le interpretazioni in una prospettiva ma-
gari non scontata ma comunque parziale e limitante.

4. La prospettiva culturologica

Abbiamo visto come, negli studi sociologici italiani, la matrice critica


della prospettiva francofortese (e per altri versi anche la matrice più neutra e
aperta di Morin) sia progressivamente stata declinata come studio concreto
delle forme peculiari dell’industria nazionale e delle loro trasformazioni. I
lavori di cui abbiamo parlato sin qui hanno indagato i modelli produttivi, i
prodotti, i consumi. Sono stati invece piuttosto reticenti su una dimensione
pure importante dell’industria culturale: quella dei suoi “mestieri” come pro-
fessionalità specifiche, che svolgono quel ruolo di intermediazione culturale
da sempre indagato in diversi filoni della sociologia della cultura (per esem-
pio Crane 1992 e Griswold 2004; Bouquillon, Miège, Moeglin 2013).
Nel nostro Paese anche questo campo di studi ha conosciuto uno sviluppo
molto forte, soprattutto a opera di Laura Bovone e della sua scuola (ne sono
esempi Bovone 2000; Bovone, Mora 2003), con risultati significativi a tre
livelli.
Il primo livello è quello del campo di studi: un campo che dai media si è
allargato ad altre forme di industria (o artigianato culturale), e in particolare
alla moda. Quest’ultima è stata oggetto della riflessione sociologica fin dalle
origini, ma appare qui affrontata in modo nuovo, con un approccio partico-
larmente complesso e significativo, in grado di sfidare la prospettiva vaga-
mente riduzionistica che identificava nei media e soltanto in loro il cuore
pulsante dei meccanismi dell’industria culturale. La moda (soprattutto dopo
la rivoluzione del prêt-à-porter) si interfaccia potentemente con i cambia-
menti culturali, attraverso la mediazione del corpo e dell’autorappresenta-
98 Colombo, Gli studi sull’industria culturale in Italia

zione. In questo, la capacità di influenza sul pubblico è certamente parago-


nabile a quella di altri media. Ma le forme della sua produzione differiscono
profondamente da quelle mediatiche, e le professionalità implicate sono di-
versamente definite (cfr. Valli 2003).
Il secondo livello è quello della messa a fuoco della dimensione creativa,
in dialogo anche dialettico e problematico con una certa letteratura (cfr. Flo-
rida) che ha individuato in tale dimensione un tratto saliente della contempo-
raneità. D’altronde, di recente la dizione “industrie culturali e creative” sta
via via sostituendo, almeno nel discorso istituzionale, quello di industria cul-
turale (con risultati piuttosto ambigui, a mio parere: si veda il rapporto 2014
Creating growth Measuring cultural and creative markets in the EU). Af-
frontare il tema delle professionalità, delle loro competenze e capacità, della
loro formazione e delle loro routines ha permesso di rompere la parete di
vetro che spesso la ricerca sull’industria culturale ispirata dai francofortesi
aveva preferito lasciare intatta, guardando i processi di costruzione del senso
come in un acquario.
Il terzo livello è quello dell’opzione metodologica. Bovone ha infatti ap-
plicato ai suoi studi delle industrie culturali le risorse della ricerca qualitativa
e etnometodologica: osservazione partecipante, interviste biografiche e così
via. Questi modelli, utilizzati nella ricerca sui media quasi solo negli studi
sul giornalismo, hanno consentito di guardare ai soggetti professionali in
modo più ravvicinato, riabilitandoli come soggetti e non soltanto come in-
granaggi di una macchina spietata, o di un puro dispositivo.
Nel complesso, mi pare che questo filone di studi, che si è allargato a
molti altri autori e contributi oltre a quelli fin qui citati, possa essere perfet-
tamente integrato nella riflessione sull’industria culturale nel nostro Paese, e
anzi, che proprio dalle integrazioni che esso rende possibili fra mondo dei
media e altre industrie culturali vengano alcune utili indicazioni per gli studi
di qui a venire.

5. Industria culturale e web 2.0: questioni aperte

Un ultimo punto che vorrei sviluppare in questo breve intervento riguarda


le prospettive che la digitalizzazione porta con sé rispetto agli studi sull’in-
dustria culturale. È noto che il complesso e contraddittorio sviluppo della
rete ha dato nuova linfa a molti nodi del dibattito sul nostro tema. Uno su
tutti è il conflitto tra grande/dominante e piccolo/resistente, tipico dell’indu-
stria culturale classica: grandi editori vs piccoli soggetti; cinema blockbuster
Colombo, Gli studi sull’industria culturale in Italia 99

vs cinema indipendente, musica pop vs musica indy e così via. La rete ha


certamente mescolato le carte attraverso la rimessa in discussione di alcune
opposizioni prima scontate. Ne ricordo qui alcune.
a) Dimensione nazionale vs dimensione transnazionale. Da un certo punto
di vista, l’industria culturale italiana può avvantaggiarsi di una sua esposi-
zione al mercato mondiale globale, come accade per certi versi ad alcuni set-
tori industriali “hard”. E tuttavia, i prodotti culturali nazionali (penso ad
esempio alla produzione di video per Youtube) potrebbero progressivamente
assimilarsi alle tendenze globali tipiche delle grandi piattaforme. Da questo
punto di vista la tendenza di alcuni studi a riconoscere un’identità o almeno
una peculiarità italiana in alcuni settori (penso alla commedia all’italiana per
il cinema, o a certe forme di serialità per la Tv, senza contare i contributi
specifici al fumetto o alla letteratura popolare, per esempio) potrebbe non
applicarsi tout-court agli studi sulla produzione culturale in rete.
b) Concentrazione vs decentramento. Se la produzione industrial-cultu-
rale si è sempre articolata attorno ad alcune grandi capitali (Torino, Milano,
Roma), il discorso è o sarà ancora ripetibile nell’era del web 2.0? Natural-
mente la struttura dell’industria culturale tradizionale rimane – sotto questo
profilo – ancora immutata, ed è probabile che questo influenzi anche altre
nuove forme produttive. E tuttavia le trasformazioni nei servizi (per esempio
la banda larga) e la possibilità crescente di lavoro culturale da remoto po-
trebbero a medio termine rendere possibili cambiamenti importanti sotto
questo profilo.
c) Intermediazione vs disintermediazione. Senza entrare nel dibattito as-
sai complesso sulle tendenze del web alla disintermediazione (o meglio a un
processo di disintermediazione e re-intermediazione) possiamo immaginare
probabilmente nuovi soggetti che svolgano il tradizionale ruolo “editoriale”
in modo finora impensato. È vero che per ora le novità più rilevanti riguar-
dano la distribuzione, e che le proposte più interessanti in questo campo (da
Netflix a Amazon) non partono certo dal nostro Paese, e tuttavia non è ancora
detta l’ultima parola, per esempio per quanto concerne un migliore sfrutta-
mento dei beni e delle risorse culturali italiane in una chiave che possa ren-
derli appetibili (e disponibili) a livello del mercato mondiale.
d) Flusso top-down vs flusso bottom-up. È presto per dire se la nuova
offerta di strumenti produttivi e distributivi (caratterizzati dal basso costo e
da una certa facilità d’uso), la nuova offerta formativa nel campo delle pro-
fessioni industrial-culturali, i nuovi consumi del web genereranno anche in
Italia una vera democratizzazione produttiva. Ma possiamo immaginare (e
forse sperare) che le nuove generazioni di consumatori di cultura in versione
100 Colombo, Gli studi sull’industria culturale in Italia

digitale collaborino a dare vita a nuovi stili produttivi che siano in grado di
uscire dall’amatorialità hobbistica e di fare sistema.
e) Ideologia dominante vs resistenza culturale. Infine, occorre riflettere
sul legame fra mainstream e grassroots nell’epoca della rete e della produ-
zione digitale. Occorre farlo perché sempre più si rende chiaro che una de-
mocratizzazione dell’accesso e della produzione probabilmente senza prece-
denti abilita, insieme all’esplosione di talenti, anche una crescita di repertori
standard, di luoghi comuni e di stili bassi. Il che evidentemente non ha sol-
tanto a che vedere con la capacità ideologizzante delle grandi industrie, ma
anche con tendenze alla convergenza sui consumi che dipende da variabili
quali la cultura di base, la formazione del gusto, l’appartenenza o la non ap-
partenenza a vecchie e nuove forme di élites. E questo mi pare, in chiusura,
il punto essenziale da affrontare per domandarsi se l’industria culturale ita-
liana si andrà trasformando nei prossimi anni, e in quale direzione.

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