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HISTOIRE GÉNÉRAL DE LA

MUSIQUE : 1500-1650
Prof. Luca Zoppelli, SP 2021
Lezione I, 22 febbraio
Storiografia : attorno al 1500 avviene una frattura evidente, fondata su cause multiple, che sotto diversi punti di vista marcano
un cambiamento profondo della situazione, nel continente europeo e non solo (aspetto fondamentale di questa nuova fase
e la moltiplicazione delle condizioni di rapporto tra continenti), fatto che permette agli storici di parlare di fine del Medioevo.
Entrando in un periodo definito dell’età moderna o della prima età moderna.
Quali sono le rotture multiple suddette? Verso la fine del 15esimo secolo, l’invenzione della stampa, che permette la
circolazione delle idee e un ampliamento dello spazio pubblico impossibile prima; le grandi scoperte geografiche, modificano
il nostro paradigma del mondo, iniziano il colonialismo che avrà impatto fondamentale sulla storia europea; alla fine degli
anni 10’, l’inizio della riforma protestante, che poi marcherà la fine della grande unità religiosa europea che era stato elemento
profondo e fondatore del pensiero europeo lungo i secoli. Secondo la storia intellettuale (con cui ciò che si è detto ha grandi
rapporti) le correnti dell’Umanesimo o del Rinascimento, che vogliono designare una cultura in cui si ritrovi alcuni elementi
dell’antichità, attenuando la priorità della teologia, del discorso religioso nel mondo intellettuale, recuperando la dimensione
letteraria concentrata sull’uomo (antichità classica). D’altronde, per la musica, il concetto di Rinascimento è problematico:
l’antichità classica, non ha lasciato un vero corpus d’opere musicale, come nel caso della tragedia greca, la commedia antica, le
sculture e l’architettura, ma si possono ritrovare concetti, idee, teorie, nella fascinazione che avrà un grande ruolo da giocare
nel contesto della musica dell’epoca; non modelli dell’antichità da imitare (come può essere invece nel caso della letteratura
umanistica) ma piuttosto orientare certi elementi della musica (6° e 7° secolo) verso idee forti che si erano ritrovate nella
cultura dell’antichità.
Novità nel mondo musicale (intorno al 1500): l’invenzione della stampa musicale; la musica arriva sempre in ritardo, poiché
la messa a punto della stampa, il suo carattere mobile, è già negli anni 1452-54 (prima edizione della Bibbia stampata da
Johannes Gutenberg). Per la musica è più complicato, il sistema grafico della musica è più complesso, non è solo fatto di
note di differenti tipi, bisogna stampare anche il pentagramma (portée), aggiungere il testo se si tratta di musica vocale.
Sappiamo che nel tardo 15esimo secolo, certi libri stampati, nel caso in cui si trattava di aggiungere della musica (testo teorico,
liturgico), la musica era impressa, trattata come un impressione illustrata inserita nel libro. La novità consiste dunque nel
mettere a punto il sistema di stampa a caratteri mobili. Dove? A Venezia, centro mondiale della stampa ai suoi inizi e nel
secolo successivo; appassionato di questa tecnica è Ottaviano Petrucci, colui che produce all’inizio del nuovo secolo le prime
edizioni musicali.
Cfr. Script (Illustrazione numero I), p. 1, Ottaviano Petrucci, Venezia, 1501: corrispondenza quasi perfetta con l’inizio della
storia dell’edizione musicale e il nuovo secolo, primo libro a stampa di musica polifonica. Frontespizio: titolo ‘harmonice
musices odhecaton’, una sorta di greco latinizzato, significa ‘odè (canzone) + ècaton (‘100’)’, ovvero ‘100 opere di musica
polifonica (tipo di scrittura musicale che prevede l’insieme simultaneo di più voci (umane e/o strumentali) su diverse altezze sonore, che procedono
in direzioni parallele o opposte per intonare inni, preghiere, canzoni, ma anche per suonare concerti e sinfonie. In senso lato la p. può indicare
qualsiasi aggregazione verticale di suoni, come per es., nel linguaggio dell’armonia, un accordo. Al concetto di p. si oppone quello di monodia)’. In
realtà sono 96, non esattamente 100. La maggioranza sono ‘Canzoni Francesi’, che dimostra la grande diffusione della musica
profana francese dell’epoca; il mercato del libro, Venezia in quanto grande centro di produzione europeo, è ben legato alla
scelta petrucciana di stampare una raccolta di ‘Canzoni Francesi’, essendo ben in voga in quel periodo.
Tecnica di Petrucci: molto raffinata, il livello della tecnologia necessario è eccezionale per l’epoca, poiché di fatto si tratta di
fare 3 stampe, di stampare in 3 tempi: I)il pentagramma; II)le note; III)le parole. Significa potere gestire/avere padronanza
al millimetro della corrispondenza tra le 3 differenti stampe per evitare che le note cadano nel punto sbagliato rispetto al
pentagramma. Il risultato è molto bello esteticamente, le sue edizioni hanno una qualità ineguagliata nella storia dell’edizione
musicale per secoli. Ciononostante: il prodotto non è a buon mercato, a causa della sua complessità di procedimento in 3
tempi; le sue edizioni erano carissime, il che spiega anche in parte il fatto che non ci sono trasmessi moltissimi esemplari (già
in partenza erano forse pochi), a noi resta soltanto 1 esemplare di questa prima edizione stampata della storia della musica.
Musica profana (maniera di Petrucci): di norma, cerca di stampare la musica con le 4 voci (soprano, tenore, contralto, basso)
distribuite su 2 pagine, l’una in faccia all’altra. Cfr. Script (Illustrazione numero I), Canzone di Josquìn, compositore più
rappresentato in questa prima edizione di Petrucci. Nella pagina a sinistra, inizio del testo (À Dieu mes amours), e la parte del
superius (soprano) e del tenor (tenore); nella pagina sulla destra, la parte dell’Altus (alto) e del Bassus (basso). In principio, si
metteva il libro aperto sul tavolo e le 4 persone che cantavano si disponevano in maniera dà poter ciascuno leggere la propria
parte, o al limite suonare uno strumento (per questi repertori ci sono delle forme molto variate di realizzazione, per quanto
concerna la distribuzione alla voce o allo strumento). Il testo poetico non è stampato per interno ma solo nel suo incipit,
poiché la maggioranza di queste opere erano già conosciute, circolavano già in molti manoscritti che le attestano, dunque

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l’idea di Petrucci non è stampare qualcosa di nuovo, ma a mettere a disposizione degli appassionati di musica dei testi precisi,
qualcosa che già avrebbero conosciuto ‘per via orale’.
Anno seguente, 1502, Petrucci pubblica un’altra raccolta di questo tipo, che corrisponde alla prima edizione di musica sacra
e la prima edizione musicale di un’opera scritta da un solo compositore (cfr. Script Illustrazione numero II, Ottaviano
Petrucci, Venezia, 1502): senza soprese, il compositore in questione è Josquìn Desprez (la fama di Josquin fu tale che in molti vollero
pubblicare musiche firmate col suo nome per favorirne il successo. Va quindi considerato che una composizione a lui attribuita da una fonte del
XVI secolo può non essere sua).

Frontespizio: ‘Misse (messa, composizione di musica sacra secondo l’ordinario della messa, la messa è una composizione sacra che
comprende un insieme coerente di parti, suscettibile di servire come accompagnamento alla liturgia eucaristica o Celebrazione eucaristica,
prevalentemente quella della Chiesa cattolica, ma anche della chiesa anglicana o luterana) Josquìn | (tavola delle materie) l’ [hom]me arm[è],
sup[er] voces musicales | la sol fa re mi |[Misse] Gaudeamus| [Misse] Fortuna Desperata | [Misse] à l’ [hom]me arm[è], sexti toni.
Mise en page: impaginazione differente rispetto a (ILL. I): 1 quaderno per ogni voce, 2 pagine del quaderno del superius, a
sinistra si vede la notazione del Kyrie eleison (Signore pietà), a destra il Gloria (in excelsis Deo) che inizia con ‘et in terra pax
hominibus bonae voluntatis’.
Potrebbe significare che in certe cappelle ci fossero più che un solo cantore o musicista che suonasse ogni voce, dunque non
potevano mettere più esecutori attorno ad un solo libro, come nel caso precedente (ILL. I); si preferiva stampare quaderni
separati per ogni voce.

Petrucci è anche il primo a pubblicare edizioni di musica strumentale, specificatamente per ‘liuto’ (cfr. ILL. III), prima di
due raccolte d’opere intabulate (trascritte per la notazione del liuto), infatti non v’è un pentagramma musicale ma bensì una
notazione che rappresenta le corde del liuto; la maniera in cui deve essere eseguita. È una trascrizione ‘per liuto’ della canzone
di Josquìn già incontrata in (ILL. I), À Dieu mes amours, c’è grande precisione e bellezza grafica nella sua edizione. Tuttavia,
come già detto, a causa della natura di prodotto di lusso, non ha avuto grande successo; già presto è obbligato a chiudere. In
seguito, creerà una stamperia musicale in un piccolo villaggio italiano, dove forse i costi di produzione erano minori, e la
qualità della produzione sicuramente meno buona. Questo primo momento della storia della stampa musicale a caratteri
mobili non ha attecchito a livello commerciale.

La fiaccola o testimone dell’editoria musicale sarà preso dagli editori francesi, partendo dagli anni 20’ del 1500. Il Petrucci
Francese è Pierre Attaignant, stabilitosi a Parigi a partire dal 1528, il suo segreto è mettere a punto un sistema di stampa a
caratteri mobili che evita il procedimento lungo, costoso, di stampe successive (pentagramma e note). La sua idea è costruire un
‘set’ di caratteri mobili in cui ogni nota porta la sua ‘porzione’ di pentagramma con sé. Il risultato è meno bello esteticamente o
graficamente rispetto a Petrucci (cfr. ILL. IV, 1529); ogni linea del pentagramma è realizzata attraverso un grande numero
di frammenti di linea messa una dopo l’altra (si vedono bene spazi bianchi, punti dove il pentagramma è ondulato (…) sono
difetti che non si gestiscono ancora bene). Anche in esempi più tardivi (cfr. ILL. V, 1638, opera di Monteverdi), della stampa
musicale a caratteri mobili dal punto di vista grafico troviamo grandi errori. È questo un periodo in cui per una serie di
ragioni le case editoriali hanno pochi mezzi tecnici: la discontinuità del pentagramma è talmente pronunciata che la lettura è
poco gradevole. In ogni caso, questo sistema è molto più economico, sono alla portata d’un pubblico relativamente più
esposto; ciò permette a molti appassionati, anche nella borghesia/mondo dei mercanti (una classe media in grande sviluppo)
di poter acquistare delle opere musicali per il loro utilizzo domestico.

Pierre Attaignant e i suoi concorrenti (si sviluppano subito, segno della riuscita commerciale: Jacques Moderne, d’origini
veneziane a Lione, approfitta del grande successo della Chanson française dell’epoca, e anche del successo della musica
strumentale per la Hausmusik). Esplosione commerciale dunque intorno al 1530, grazie alla quale la stamperia musicale
diventa per la prima volta in Francia un fenomeno sociale (con dunque grandi effetti nel rapporto musica-pubblico;
caratteristiche della musica rispetto al pubblico).
16esimo secolo: sarà in gran parte periodo di musica stampata, anche se la pratica del manoscritto non scomparirà (nel secolo
seguente invece, ci sarà un passo indietro soprattutto per certi generi; e poi un ritorno della presenza sociale della musica
stampata nel 18 secolo; sempre per ragioni sociali e tecniche).
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Penetrazione nel mondo della musica d’una sensibilità umanista, collegata al fenomeno tipico del Rinascimento del recupero
di certi aspetti della tradizione dell’antichità classica. Sintomo fondamentale del nuovo approccio: ritorno alla teoria dei sistemi
e dei modi (già trovati all’epoca carolingia: probabilmente origine bizantina, che i teorici del Medioevo usano per ottenere una
classificazione delle melodie appartenenti al repertorio gregoriano e tra l’altro per facilitare il compito dei cantanti che devono

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gestire il rapporto tra ad esempio il rapporto antifona (sorte de verset que le prêtre ou le chantre dit, en tout ou en partie, dans l’office de
l’église avant un psaume ou une hymne, et qui se répète après tout entier) e salmi (…).
Conformemente al pensiero del Medioevo, questa teoria dei modi era essenzialmente costruzione simmetrica che puntava a
strutturare, mettere ordine, nel canto e nelle differenti gamme utilizzabili.
Per i teorici all’ epoca dello sviluppo della musica contrappuntistica (la presenza, in una composizione o in una sua parte, di linee melodiche
indipendenti che si combinano secondo regole tramandate dalla tradizione musicale occidentale; arte di combinare con una data melodia (canto
dato) una o più altre melodie contemporanee più o meno indipendenti, che si dicono contrappunti al canto dato. Nella scrittura contrappuntistica
lo scopo principale che si vuole ottenere è l'indipendenza melodica delle varie parti della composizione che, ad esempio, possono essere in relazione
tra loro anche attraverso procedimenti imitativi. Nel contrappunto l'effetto di accordo dato dal sovrapporsi delle diverse voci è in un certo senso
incidentale. In primo luogo, infatti, il contrappunto si concentra sull'aspetto melodico piuttosto che sull'effetto armonico; dal lat. punctum ‘nota’),
il grande problema era quello della notazione del ritmo, della maniera di regolare il rapporto ritmico; e il problema di definire
dei concetti come la consonanza, la dissonanza (dato che si stava sviluppando una dimensione verticale).
Al 16esimo secolo, i teorici ricominciano ad occuparsi della teoria dei modi, con coscienza del suo fondamento nel contesto
della tradizione gregoriana; ma è chiaro che questo ritorno all’interesse è dovuto al fatto di ricominciare a leggere i trattati
musicali dell’antichità classica (parliamo di modi, in realtà loro parlano di harmoniae).
Grecia classica: Platone (…), riguardo alla teoria musicale presentano un’idea dei modi differenti legati a stati d’animo
differente (eteà). Elemento fondamentale della classificazione dei modi era di tipo psicologico o espressivo.

I teorici del Rinascimento non sono consci del fatto (non sempre) che i nomi attribuiti ai modi nella tradizione europea
(dorica, frigia, …) derivano dall’antichità classica ma non corrispondono alla struttura musicale classica (dei Greci). Il risultato
è che mentre i teorici attribuiscono all’uno o all’altro modo un tipo di effetto espressivo, spesso essi non sono d’accordo, si
contraddicono: resta un tentativo caotico di mettere ordine nel concetto della ‘potenzialità’ della musica sull’anima umana,
un sistema coerente che identifichi ogni modo con uno stato d’anima preciso. (Cfr. Script, TAB I, p. 5

Altro problema: gli 8 modi (dorico, frigio, …) ereditati dalla teoria gregoriana, in cui la nota finale è rispettivamente (RE per i
primi due, MI per 3° e 4°, FA per 5° e 6°, SOL per 7° e 8°); nella pratica musicale ci sono altre gamme utilizzate: fondate su
LA e DO, che sono assolutamente importanti poiché diventeranno poi i nostri modi minore e maggiore. Certi teorici, infrangono
o oltrepassano questa teoria allargando il sistema dei modi così da includere anche queste gamme.

Trattato di grande influenza dove questo avviene: Dodechacordon (1547), Heinrich Glareanus (Cfr. Script, TAB II, p. 5): umanista-
filologo-poeta-matematico teorico svizzero (originario del cantone di Glarona), il quale aggiunge i modi nuovi (9, 10, 11, 12):
modo eolio o eolico, modo ipoeolio, modo ionio o ionico, modo ipoionico e riorganizza questi 12 modi in maniera sistematica, modificando
l’ordine, si parla ora d’ordine di LA (poiché A è la prima lettera dell’alfabeto) finendo con il modo di SOL.
Sulla base di questo trattato e seguenti, possiamo analizzare la musica rinascimentale, mostrando che ogni opera o varie sezioni dell’opera
appartengono a uno o l’altro modo, sulla forma originale o trasposta (con ovviamente l’aggiunta d’un bemolle). Ciò che è
importante, è che nei suoi successori i modi hanno tendenza a essere letti come funzioni espressive, recuperando l’idea greca
che differenti strutturi di intervalli  generano, comandano, dei differenti heteà (stati d’animo).

Si compie una trasformazione fondamentale, è uno snodo fondamentale nella storia della musica occidentale; per il Medioevo
la musica è numero, incarnazione sonora di relazioni numeriche che ci piacciono perché in questo sistema di rapporti
numerici noi ritroviamo realizzati, in forma sonora, l’ordine e l’armonia dell’universo, del tutto, di cui la musica è forma
udibile. Nel sistema medievale delle arti liberali, la musica si trova nel quadrivium (discipline matematizzabili, con aritmetica,
geometria, astronomia) opposta al trivium (grammatica, dialettica, retorica). Si ha sempre più oggi tendenza a trattare la musica
alle arti del trivio, come una forma di retorica sonora: qualcosa che è parente del linguaggio, che ha in comune al linguaggio
delle tecniche, l’obiettivo di esprimere, di convincere d’avere un certo tipo d’effetto sull’uditore; nel caso della musica vocale,
nasce un rapporto con il testo, dunque inizia a svilupparsi il concetto di musica come realizzazione, illustrazione, traduzione
sonora del testo verbale (dimensione umanista): in un senso, al posto di trattare i testi come base e musica come sviluppo
astratto superiore, ora la musica non è solo trasmissione del testo (renderlo udibile), ma anche di strutturarsi in maniera a
corrispondere e realizzare. Nei secoli successivi, grande parte della musica vocale si fonda sull’idea di questa corrispondenza
tra testo e musica (ma proprio qui si fonda). Periodo 1500: apparizione di certe tecniche che sono legate a questa nuova
concezione.

Compositore che incarna (tra altri) questa trasformazione è Josquìn Deprez (1450). Durante la sua vita la sua maniera di scrivere
evolve, mettendo in avanti certi elementi emblematici della nuova sensibilità di cui parliamo; percorso tipico per un musicista
franco-fiammingo della sua generazione: probabilmente originario della Francia del Nord, viaggia in Italia, 1490 presente alla

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cappella del Papa a Roma (qui compone la Messa che conosciamo); la sua reputazione aumenta a dismisura, lo troviamo
all’inizio del nuovo secolo alla Corte di Ferrara (duca Ercole), alla fine del decennio rientra nella regione natale (Condé-sur-
l’Escaut), dove morirà (Agosto 1521). Reputazione straordinaria rispetto agli altri musicisti precedenti; episodio significativo:
richiesta del Duca di Ferrara al suo segretario a Roma di consigliare quale sarebbe il musicista più adatto come maestro di
cappella per la sua corte: la sua risposta ci è tramandata ‘senza dubbio, dobbiamo prendere Josquin Deprez’, ma bisogna fare
attenzione perché richiede più soldi (200 ducati) rispetto ad altri musicisti altrettanto rinomati; inoltre, egli non è un
compositore su domanda, ma scrive solo quando ne ha voglia (descrizione d’un artista non soltanto di grande reputazione,
ma che ha anche grande autonomia). Il Duca sarà d’accordo per ingaggiarlo, sulla somma da lui domandata. La sua fama
internazionale è testimoniata da Martin Lutero, lo considera il principe dei musici; riflessioni di auditori che lo considerano
il Michelangelo della musica (prima volta che si fa tale comparazione tra arti), riferendosi alla sua forza, impatto, espressività
della sua opera (nella sua musica c’è qualcosa di nuovo). La sua musica è largamente presente nelle prime edizioni di Petrucci,
e la prima edizione di musica d’un compositore è la sua (delle sue messe) dimostra la sua enorme reputazione: la musica del
16 secolo è sull’ombra di Josquin, aggiornamento graduale che si ritrova nella polifonia di Josquin stesso.

Cfr. due esempi, tra le due composizioni più ammirate (più imitate e copiate) di Josquin des Prez (Script, pp. 6-17) e della musica
del periodo: sono due mottetti (Autonomia ritmico-melodica delle parti. Ciascuna voce (generalmente tre) procede con un'identità musicale
propria. Il tenor, spesso di derivazione gregoriana nei mottetti liturgici, è a valori larghi: il duplum appare più agile e mosso e il triplum propone
un andamento fiorito e melismatico. Ciò conduce tra l'altro a ideare la "notazione a libro di coro": al fine di evitare lo spreco di pergamena
allineando in verticale le voci, si scrivono separatamente le linee melodiche. Questa notazione è adottata fino al XVI secolo. Politestualità. I testi
delle voci sono spesso differenti e talvolta utilizzano lingue differenti. Il mottetto privilegia il gioco sonoro polifonico, adottando la politestualità,
rinuncia a rendere comprensibile il messaggio linguistico. Utilizzo della musica ficta (note con alterazioni). Sviluppo delle tecniche contrappuntistiche.
Nella produzione mottettistica si individuano alcuni procedimenti di scrittura polifonica che, costituiscono il fondamento della tecnica
contrappuntistica. Talvolta il tenor ripete, per tutta la durata della composizione, un breve frammento ritmico-melodico, caratterizzandosi come
ostinato che accompagna e sostiene lo svolgimento del brano. Non è raro trovare dei brevi episodi di carattere imitativo tra le parti), oltre
all’evoluzione stilistica di cui si è parlato è evidente anche, nel dominio dei mottetti (il testo non è fisso come quello della
messa) dove Josquin vuole approfondire la dimensione retorico-espressiva della musica.

I) Ave Maria (preghiera alla Vergine che deriva dalle parole dell’angelo dell’Annunciazione, ma il testo è arricchito: è un tropo
(dal lat. tropus, adoperare con altro uso, cfr. traduzione francese del testo utilizzato da Josquin).

Esempio di commento ad un componimento: pièce a 4 voci, inizia con una tecnica fondamentale per la polifonia del 16esimo secolo: si
utilizza una serie di punti di imitazione, si parte con un soggetto, lo si sviluppa facendo entrare le differenti voci a imitazione sullo
stesso soggetto, e una volta che ogni voce ha il suo turno si passa ad un nuovo soggetto che subisce lo stesso procedimento
(cfr. https://www.youtube.com/watch?v=FNbIyFlvxlk, esecuzione di questo primo esempio). Qui, il primo punto
d’imitazione sulle parole ‘Ave Maria’ (soggetto molto corto), poi a partire dalla fine del primo pentagramma il secondo punto
d’imitazione su ‘gratia plena’, poi nel terzo pentagramma nuovo punto d’imitazione (su dominus tecum), alla fine della pagina
prima che le altri voci terminano il punto l’altus aggiunge già l’ultimo soggetto d’imitazione sul testo ‘virgo serena’, dopo il quale
questa parte arriva ad una prima cadenza (nella teoria musicale, è una formula armonico-melodica che conclude un discorso musicale, sia
questo una frase o una composizione. Consiste solitamente nella successione di due o più accordi. Nel linguaggio musicale le cadenze hanno un
ruolo per certi versi paragonabile a quello della punteggiatura nell'espressione verbale), alla misura (o battuta, insieme di valori compresi tra
le stanghette poste sul pentagramma) 30-31. Al di là dell’aspetto formale, due o tre osservazioni sulla maniera di scrivere: gli atti
(sezione di un componimento di musica vocale) melodici sono relativamente corti, che tendono alla semplicità e alla bellezza,
trattati in maniera sillabica, cosicché il testo sia facile da comprendere; l’idea è di evitare in principio una polifonia troppo
densa; i punti di imitazioni sono trattati così da non avere troppe voci che cantano allo stesso tempo: normalmente si danno
il turno, ce ne sono piuttosto 2/3, quasi mai 4 che operano simultaneamente, sebbene ovviamente alla fine, per terminare il
paragrafo in maniera più sonora. I modi d’ordine sono: I) grande semplicità, II) rapporto profondo con la parola, III)
trasparenza dell’insieme, IV)attitudine espressiva di grande intimità, come ci si attende da una composizione che si basa sul
testo di preghiera alla Vergine.

II parte, dopo la misura 31 (o per alcune voci alla misura 31): verso la fine della sezione abbiamo le 4 voci simultanee ma
anche una attività ritmica più importanti, con note di passaggio che riempiono la struttura di queste misure alla fine della sezione.
Ora, dove il testo allude all’idea della concezione (al mistero dell’Immacolata Concezione), Josquin cambia strategia: ora compare un
bicinium (musica per due parti), canto di due voci superiori, e a partire dalla misura 35 invece piuttosto delle due voci inferiori,
poi di tre. Questa sezione è differente, infatti non è imitativa: le coppie di voci soprattutto all’inizio hanno la tendenza a
svilupparsi in maniera omoritmica. Elemento fondamentale della nuova estetica, dell’estetica all’arrivo della modernità: l’idea
del contrasto, che un componimento musicale non è uno sviluppo continuativo, eternale, d’un armonia onnipresente ma
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piuttosto qualcosa che si compone di sezioni, di frase caratterizzate da differenze, da progressioni uno stile all’altro; ogni
frase (ogni cambiamento di scritture) assume così la funzione d’attirare l’attenzione sul testo specifico che sta al di sotto. Si
entra così nel concetto linguistico, di considerare la musica come un discorso, come serie di elementi che vogliono trasmettere
idee, stati d’animo, immagini d’un certo tipo (alla base della musica dei secoli successivi).

Misura 40: la frase culmina in una serie di accordi pieni, con tutte le voci, omoritmici, solenni, poiché il concetto della
solennità è evocato dal testo (si parla d’una concezione carica di gioia solenne che riempie il cielo e la terra): cambiamento
di scrittura illustra il testo.

Misura 43: troviamo qualcosa che conosciamo molto bene nella musica futura, ma qui nuovo: ovvero una progressione (se
osserviamo, vi è lo stesso motivo di quattro note ascendenti, ripetuto a partire da SOL, poi LA, poi SI, poi termina con la
cadenza. L’idea della progressione, d’uno stesso elemento ripetuto più volte in maniera sempre più efficace (grazie all’ascesa
della struttura), deriva dalla retorica: tecnica del linguaggio, per donare in vista della persuasione, un’efficacia maggiore.

In seguito (dalla misura 55 credo): ancora un doppio bicinium, prima le voci superiori poi quelle inferiori, assolutamente tipico
della maniera di scrivere di Josquin.

A partire dalla misura 64 (ut lucifer lux): altro punto d’imitazione su (ut lucifer) ma molto corto, poi un altro più irregolare
molto corto con una cadenza a 3 alla misura 77.

Poi una serie di passaggi ancora in bicinium molto spogli, semplici, senza ornamenti, molto omoritmici, il che corrisponde al
concetto dell’umiltà presentato dal testo. Dalla misura 94 vi è invece la celebrazione, il saluto alla verginità: di nuovo solennità
della scrittura a 4 voci ma praticamente omoritmici (precede per accordi), termina verso la misura 110. Questa sezione è
composta da frasi parallele (ripetizioni di blocchi: ave veram virginitas (ripetizione della stessa musica) immaculata castitas /(nuovo
blocco), cuius purificatio (ripetizione), nostra fuit purgatio. La sintassi della musica si sforza a corrispondere alla sintassi del testo
verbale (misura 109).

Nuova sezione (misura 110): punto di doppia imitazione, poiché le due voci superiori iniziano con due soggetti differenti,
ripresi rispettivamente da 3° e 4° voce, dunque sezione di imitazione crociata; con un'altra piccola progressione (due ultimi
sistemi della pagina); infine la preghiera finale, momento molto intimo, in cui il soggetto si indirizza alla vergine: O mater Dei,
memento mei; il che corrisponde in musica ad una scrittura rigorosamente accordale, omoritmica, molto ristretta e spoglia. Estetica di
contrasto: la penultima sezione (misure 130-141) è la più complessa e densa nella trattazione polifonica, e ciò permette di
avanzare per opposizione la semplicità e intimità dell’ultima parte (dalla misura 142).

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II) Salmo 50, Miserere mei Deus. Colui grazie al quale Josquin merita il nome di Michelangelo della musica (energia espressiva,
carattere sobrio): messa a musica del Miserere (salmo 50), il più celebre dei salmi penitenziali (afflizione dell’uomo per il suo
peccato e domanda di perdono); cfr. p. 9 traduzione del testo da leggere con attenzione.

Testo molto lungo, la soluzione di Josquin è di trattarlo come un mottetto di grande scala/portata, diviso in 3 parti successive.
Josquin lo ha composto durante il suo soggiorno molto corto alla Corte di Ferrara (1503-1504), a causa d’una epidemia di
peste che colpisce la regione, tanto che il suo successore, altro compositore celebre, Jacob Obrecht (compositore fiammingo)
morirà di peste. È possibile che l’atmosfera e l’ambiente particolarmente drammatico determinato dall’epidemia possa aver
contribuito alla scelta e trattamento che Josquin fa di questo testo drammatico.

Pezzo a 5 voci ma ciononostante il linguaggio è molto austero e spoglio, con una grande insistenza sulla scrittura omoritmica
e sillabica (il rapporto con il testo è estremamente forte), a volte pare declamazione drammatica del testo. Soprattutto per
l’aspetto più sorprendente del componimento: Josquin decide di trattare il grido d’afflizione del peccatore ‘miserere mei deus’
come una sorta di motto, o refrain, che ritorna tra una sezione o l’altra più o meno con la stessa materia musicale, anche se
traposto ogni volta: dà grande unità espressiva al componimento (il grido si ripresenta tutto il tempo), dando continuità alla
struttura e coerenza. Forma di pratica retorica in un certo senso, serve a dare unità e coerenza all’insieme della struttura che
è molto vasta.

Inizio: dal punto di vista tecnico, è un punto di imitazione (il tenore II entra, poi il basso, poi il cantus), ma in realtà si farebbe
fatica a definirlo soggetto in senso tradizionale, poiché è estremamente sobrio: la voce insiste su una sola nota, mi-se-re-re

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me-i, e poi il nome di Dio, invocazione, semitono de-us, e infine c’è un salto dell’intervallo, poi una discesa come se la
conquista della melodia ‘fatichi’ assieme all’invocazione iniziale (modo molto espressivo e inabituale); Poi entrano tutte le
altre voci creando una dimensione collettiva di questa invocazione di pietà.

Misura 24: passaggio a due; Misura 40: per siglare il primo blocco sintattico, c’è una prima ripresa del materiale legato
all’invocazione Miserere.

Misura 45: inizia il secondo versetto (amplius lava me…), e alla fine del versetto Josquin inserisce di nuovo un richiamo al
Miserere iniziale. Poi terzo versetto, e a Misura 74 ancora il grido Miserere meus.

Per il resto, tendenzialmente (ma la cosa non è rigida, dipende dal testo) Josquin tende ad utilizzare una struttura più larga,
con due o 3 voci per i versetti, e recuperare l’insieme delle voci per i differenti ritorni del motto miserere mei deus.

Utilizzo della ripetizione ostinata, nel versetto successivo, dello stesso insieme melodico con la voce superiore che continua
a girare attorno SOL-LA-SI, SOL-LA-SI, tecniche di valore espressivo molto forte (intorno a misura 120, ecce enim…).

Secunda pars (p. 15), attorno alla misura 170: all’inizio, il peccatore implora Dio di ascoltarlo, e Josquin storta un po’ il testo,
cominciando per questo imperativo audi me, solo poi continua con il testo in sé; è sbalorditivo vedere questo inizio assieme
soltanto queste voci isolati che si fanno sentire, dimensione quasi di teatralità in questo appello all’ascolto che fanno le voci
libere dall’insieme polifonico; poi c’è un bicinium, poi primo ritorno del testo Miserere (con contenuto musicale diverso in
confronto ai ritorni precedenti), poi ancora all’inverso, poi alla misura 198 ritorna il motivo Miserere nella sua forma abituale
(il componimento è tagliato nello Script alla misura 238, a metà del componimento, ma è da ascoltare fino alla fine per il
nostro ‘repertorio’, Ex. I).

Idea d’un Josquin-Michelangelo della musica si giustifica in un pezzo come tale, in quanto la sua scrittura accede ad una
dimensione espressiva nuova che la musica prima non era stata capace di raggiungere.

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Lezione II, 1° marzo

Ultima folta, colpo d’occhio su due fenomeni con ricadute sul mondo musicale del 16esimo secolo: I) l’invenzione della
stampa; II) presenza dello spirito umanista che spinge verso una estetica della musica fondata sul primato dell’espressione,
della trasmissione. Cfr. Josquin de Prez, come compositore che è percepito dai contemporanei, rappresentata al meglio
questa nuova dimensione.
Aggiunta riguardo all’immagine nella cultura del 16esimo secolo di Josquin (legato ai valori di recupero umanisti): prestigio
sociale di cui godeva l’artista all’epoca; pittori architetti, letterati sono ricercati non più solo come eccellenti professionisti
ma anche facendone oggetto di culto, ammirazione, simile al culto del genio all’epoca del Romanticismo. In alcuna epoca
precedente, in Occidente, l’artista era talmente ammirato. Secoli successivi: regressione degli artisti a statuto d’impiegato, di
prestatori d’opera (ritrovato in parte nel Romanticismo ma meno fortemente, diversamente).
Esempi di idolatria verso gli artisti al tempo: I) Re Francesco I: follie per avere alla sua corte Leonardo da Vinci, installato in
un palazzo stupendo accanto al castello di Amboise (la storia di Leonardo da Vinci e dei suoi capolavori, tra cui La Gioconda, durante
il suo periodo in Francia inizia allo Château du Clos Lucé. Invitato da Re Francesco I di Francia, Leonardo da Vinci lasciò l'Italia e si stabilì
allo Château du Clos Lucé nell'autunno del 1516. Nominato 'primo pittore, ingegnere e architetto del re', da Vinci servì il monarca con i suoi
talenti, lavorando instancabilmente su numerosi progetti ed immaginando piani per il castello "ideale"); corre al suo letto di morte per
confortarlo (…); II) Imperatore Carlo V, aneddoto (non si sa se vero): pittore di corte, Tiziano, ad un certo punto molto già
molto vecchio, ‘durante una seduta per un ritratto dell’imperatore, a Tiziano cade il suo pennello, l’imperatore si leva, coglie
il pennello, e lo rende al pittore; tutta la corte resta interdetta dal gesto, e l’imperatore dice: “voi vi inginocchiate di fronte a
me che sono l’imperatore, perché non dovrei io inginocchiarmi di fronte all’imperatore degli artisti?”’. III) Orlando di Lasso
(Roland de Lassus, compositore fiammingo, 1532-1594), seconda parte del 16esimo secolo, maestro di cappella alla Corte di
Monaco, amico personale del Duca di Baviera: amicizia testimoniata da uno scambio epistolare magnifico, battute,
confidenze, testimonianza d’amicizia profonda. Qualcosa di inconcepibile in una società fortemente gerarchizzata in cui
l’artista torna, nei secoli seguenti, ad essere inferiore.
Momento nel Rinascimento: statuto sociale dell’artista più elevato, e riguarda sia la musica (la posizione di figura come quella
di Josquin dimostra l’attitudine di tale sensibilità) e altre arti.
Altro grande fenomeno che colpisce la musica nel 16esimo secolo, ovvero III) la rottura dell’unità europea, lo sviluppo della
Riforma: Martin Lutero, 95 tesi 1517, scomunicato 1521 dal papa, imperatore Carlo V vieta il luteranismo ma non evita
ch’essa si diffonda (molti principi e autorità laiche la sostengono, la trovano interessante per motivi anche economici); 1523
Zurigo passa alla riforma, grazie a Zwingli, 1531 chiesa d’Inghilterra indipendente, Enrico VIII si autoproclama capo
supremo, 1530-35 pubblicazione traduzione della Bibbia in tedesco (fondazione religiosa, punto di vista della diffusione della
cultura nei paesi germanici); Calvino si installa a Ginevra, 1540 fondazione repubblica calvinista. La chiesa cattolica romana
risponde con l’Inquisizione, 1545 apertura del Consiglio dei Trenta (tentativo di conciliazione), 1563 si interrompe: decisioni
che vanno contro la Riforma e accettano d’altra parte alcuni principi che erano stati ritenuti necessari.
Fenomeno molto complesso, di ragioni multiple: economiche, geopolitiche; allo stesso tempo, l’aggiornamento di certe
preoccupazioni che di tempo in tempo già erano arrivate in superficie nella storia della Chiesa, con aspetti e cambiamenti
diretti sulla liturgia e la partecipazione della musica alla liturgia: la Chiesa, le Chiese, ritornano ad una pratica comunitaria, in
cui non è il Clero che ha il ruolo di mediatore tra divinità e fedele ma vi è un rapporto diretto, tra tutti i membri
dell’Assemblea, tramite la preghiera, con la divinità.
Dunque, ne consegue la necessità d’una partecipazione attiva alla liturgia, al canto, alla preghiera: necessità di rapporto diretto
entro fedele e testo sacro, da cui deriva il fatto di passare alla lingua nazionale, poiché il latino non era compreso che da una
piccola minorità, il clero; democratizzazione della pratica religiosa. Allo stesso modo, grande diffidenza verso le forme
simboliche del culto, le immagini sacre: la presenza nelle Chiese secondo i protestanti è superstizione, c’è ripresa dell’utopia
di una Chiesa povera, che non si esprima tramite ricchezza e bellezze dell’Arte della chiesa, ma solo nella preghiera intima e
personale del fedele a Dio.
Trasformazioni forti: dimensioni visuali nella Chiesa (spogliate); utilizzo della musica. Vecchio problema di St’Agostino, a
quale punto una musica autonoma ricca e complessa è compatibile con la preghiera, la concentrazione del fedele nel suo
rapporto a Dio? – Che senso ha, che durante la funzione il testo liturgico sia cantato da un gruppo di professionisti, in una
polifonia complicata, in una lingua che nessuno capisce? Perché usare strumenti che non dicono nulla? Utilità della variazione
ornamentale complessa nel canto liturgico? Domande della prima comunità protestante.
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Risposta: bisogna lasciare tutto questo, la ricchezza ornamentale del linguaggio musicale nella Chiesa, e tornare ad una forma
semplice di canto comunitario, che possa essere cantato da tutti nella lingua locale, vernacolare. Tuttavia, è una risposta solo
in principio: in realtà, le diverse chiese anche locali sono indipendenti, la Riforma non ha centralizzazione come la Chiesa
Cattolica Romana; le ‘ricette’ saranno molto differenti: I) I riformati svizzeri (Zwingli o Calvino) sono tra i più rigidi, ad
esempio dunque gli Organi sono distrutti, canto polifonico bandito, si torna al canto comune semplice. D’altronde le cose
sono più complesse: Lutero, per esempio, era grande amatore di musica (fan di Josquin), non esclude il fatto che a seconda
del momento, anche la musica più complessa può essere usata nella liturgia accanto al canto comunitario: inizia ad organizzare
dunque un repertorio di canto, che tutti possano seguire per cantare insieme in certe occasioni. Germania luterana, grande
combinazione di risposte musicali, non si getta la polifonia, non si getta nemmeno le composizioni in latino, che possono
essere talvolta utilizzate; presso agli Ugonotti francesi (nome dato ai protestanti francesi in genere di confessione calvinista, a partire dalla
seconda metà del secolo 500’ la Francia fu lacerata da violentissimi scontri religiosi tra maggioranza cattolica e minoranza calvinista), che
saranno presi in guerre religiose terribili per buona parte del secolo, si osserva la tendenza a fare della polifonia semplice ma
sempre polifonia, piuttosto in francese (il principio della traduzione è importante):
Cfr. ‘Repertorio’, ex. II, C. Goudimel, messa in musica di ‘salmi’ in francese, ispirazione e utilizzo della versione ‘monodica’
dei Calvinisti di Ginevra, ma che ne fa delle opere polifoniche; sarà assassinato alla Saint Barthélemy, 1572, con molti altri
Ugonotti francesi.
Inghilterra: situazione complicata, la Riforma era stata fatta per ragioni piuttosto politiche; la Chiesa ufficialmente non cambia
molto per quanto concerne la liturgia cattolica precedente; ma al suo interno vi sono molte correnti radicali, che spingono
verso un tipo di liturgia estremamente semplificato, con situazioni curiose: secondo il fatto che tale o altra tendenza
predomina, si hanno cambiamenti/rotture improvvisi di tradizione musicale. Ad esempio, guardando la Storia di certe
istituzioni (college universitari, 16emo-17esimo secolo): talvolta gli organi sono smontati, 20 anni dopo allora ritornano gli
organi e sono rimontati, ci sono situazioni di questo tipo estremamente complesse, che rendono impossibile definire una
musica protestante o di riforma come categoria generale.
Inoltre, l’opposizione delle caratteristiche della musica cattolica rispetto alla musica protestante saranno relativamente forti
all’inizio ma poi diminuiranno, soprattutto nell’Europa Settentrionale ma anche in Svizzera: le due confessioni si mischiano,
si finisce per avere scambi che fanno sì che: Zurigo, élite protestanti comunque, a partire dalla fine del 17esimo secolo,
amavano ritrovarsi per concerti spirituali dove suonavano musica sacra cattolica, grazie alla sua maggiore complessità e fonte
maggiore d’interesse.
Ciò detto, pensando all’ideale della musica protestante per eccellenza: canto comunitario nella lingua vernacolare che si
sviluppa per essere cantato dall’insieme dell’Assemblea: canto semplice, alla portata di tutte le voci, facile da ricordare
(problema di memorizzazione) la maggiore parte dei fedeli non hanno nozione di lettura della musica, al massimo
riutilizzando memorie preesistenti (che possono essere anche profane, basta che tutti la conoscano e la possano cantare
insieme). Canto liturgico monodico della chiesa luterana, fatto per essere cantato da tutti, è normalmente designato dal termine
corale. Lutero in persona ha preparato, adattato, arrangiato, trascritto, forse in parte composto, un primo corpus corale, che
era stato nel secolo la base della liturgia luterana per quanto riguarda il canto.
Cfr. Script, I esempio, testo e melodia d’uno dei più importanti ‘corali’ di Lutero; apparentemente egli era anche autore della
melodia, o comunque lui l’ha trovata e adattata: 1530. A destra, riproduzione d’un piccolo foglio stampato: l’importanza della
stampa, anche come veicolo per la circolazione delle idee e la pratica della Riforma (fondamentale, necessaria alla Riforma).
Melodia molto semplice, lambitus limitato, ritmo estremamente semplice, caratteristica del corale luterano è spesso questa
grande uniformità di ritmo.
Testo: grande numero di strofe, implica che i membri dell’Assemblea per cantarlo, spesso cantino su forme miste. Cfr.
ascolto (26:30-29:15): proposizione di realizzazione (tentativo di esecuzione con una vera assemblea), come la ritroviamo
secondo le indicazioni d’un compositore e teorico di inizio 17esimo secolo, Pretorius (autore d’un trattato molto importante
sui strumenti di musica dell’epoca): suggerisce una esecuzione alternata, alcune strofe cantate dai solisti (celebram), forse
musicisti effettivi, realizzazione un po’ più complessa eventualmente riguardo al movimento delle voci; in alternanza l’insieme
dell’assemblea che canta all’unisono le altre strofe (esempio di esecuzione dell’esempio I, Von Himmel hoch, da komm ich her
(…).
Ascolto solo fino alla strofa (VII su XV): evidentemente, cantando tutte le strofe dura molto tempo. In questa tradizione
luterana, l’organo gioca un ruolo importante, come sostegno al canto comunitario, diversamente dai riformisti svizzeri (non
rinunciano all’organo anzi sviluppano una tradizione forte, anche per ciò che concerne la taglia e qualità degli strumenti,
tradizione che culmina nella complessità e ricchezza della scrittura con le opere di J.S. Bach ad inizio 16esimo secolo).
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Questa esigenza di associare l’assieme dell’Assemblea al canto comunitario implica una permeabilità molto importante tra
repertorio profano e liturgico; infatti, tutte le melodie celebri sono buone per essere recuperate ed essere utilizzate in un
contesto liturgico. Esempio parlante: melodia conosciuta, Cfr. Script, esempio II, composizione profana, una Lied, canzone,
di Hans Leo Hassler, compositore tedesco della seconda metà del 16secolo e anche più oltre, nato a Nürenberg, studi musicali
a Venezia, lavorato soprattutto in Baviera: protestante, ma la sua carriera si svolge in una regione cattolica. È conosciuto
soprattutto per la sua musica profana, si diceva che all’epoca questa Canzone fosse talmente celebre che tutti la cantavano:
Mein Gmüth ist mir verwirret (se sono confuso è a causa di una dolce dama…): testo strofico, in ogni strofa ci sono 8 versi,
sono dunque delle ‘ottave’, vi è isostrofismo (stesso metro, parallelismo metrico): versi 1-2 e versi 3-4, dunque stessa musica
cantata sopra; musica diversa vv. 5-6, musica diversa vv. 7-8, quest’ultimi poi ripetuti (ascolto: 32:45-34:40). Poi ci sono altre
strofe con lo stesso andamento.
Commento: talmente celebre che evidentemente non può esimersi dal procedimento d’essere trasformata in componimento
liturgico, e dunque corale. Procedimento che conosciamo, vi è un termine latino ‘contrafacta/contrafactum’ che designa questa
idea di prendere un componimento e trasformalo da profano a sacro (anche viceversa, ma più raro), cambiando il testo. Sulla
destra, esempio II, nuovo testo arrangiato da Johann Krüger (1656), piuttosto arrangiato, nel senso che c’è semplificazione
ritmica, per rendere tutto ancora più omogeno, risultato: corale ben conosciuto, celebre, che si rifà alla Passione di Cristo
(Haupt von Blut und Hunden), (ascolto: 35:55-37:45). Dunque, la piccola canzone d’amore di Hassler è divenuta un corale, si
eradica nel repertorio liturgico, e per questo lo ritroviamo certamente citato diverse volte e rielaborato nella Passione secondo
San Matteo di Bach, tre quarti di secolo più tardi (38:25-39:30). Evidente che all’epoca di Bach, due secoli dopo Lutero, la
musica sacra protestante ha trovato nuovamente raffinamento tecnico, Bach non si accontentava assolutamente d’un
raffinamento tecnico, molto di più; ma il repertorio corale sviluppato nei primi decenni della Riforma, grazie anche a Lutero,
resta come base anche per le nuove composizioni, aspetto che definisce il repertorio della tradizione liturgica nel mondo
protestante.
Tornando alla musica sacra cattolica: 1° fenomeno da osservare, sorta di globalizzazione europea della musica sacra, a partire
dai modelli più aggiornati della grande polifonia franco-fiamminga. Ci sono ancora, ci saranno, fino a fine secolo, il fenomeno
di compositori originari della Francia del Nord, Fiandre, che si installano nelle corti dell’Europa intera; ma anche a questo
inizio di 16esimo secolo, nei differenti paesi, compositori che iniziano a praticare la musica polifonica a livello eccellente,
sulla base dei modelli franco-fiamminghi: Cristobal de Morales (Spagna), Costanzo Festa (Roma), Ludwig Senfl (basilese,
attivo in Germania del Sud). Alcuni considerano che questa generazione possa essere descritta come generazione post-
Josquin, certe caratteristiche sono quelle ritrovate nell’autore fiammingo, con meno inventività, tipo di scrittura più
semplificato e alleggerito rispetto ai secoli precedenti; intenzione forte alla trasmissione della parola, che diventerà punto
importante nelle discussioni sulla caratteristica della corretta musica liturgica.
Allo stesso modo ci sono trasformazioni nel punto di vista della tecnica utilizzata per l’unificazione del componimento,
qualcosa che in fondo abbiamo già visto in Josquin, cfr. Messa all’uomo armato di Josquin (semestre passato): cantus firmus
che ritornava in tutte le parti della messa; il motivo principale, la ‘testa’ della melodia, tendenza a ritrovarsi in altre voci, con
funzione differente (tematica, elaborazione tematica).
Si osserva ora la tendenza a prendere come punto di partenza una Canzone, o Mottetto, spesso un’altra opera religiosa, e si
utilizza non molto un Tenore, ma prendendo differenti frammenti di diverse voci per costruire una messa: procedimento
della parodia (nel senso di fare qualcosa partendo da un punto di riferimento).
Cfr. Script, Esempio III: inizio d’un Mottetto, Assunta est Maria (Mottetto per l’Assunzione della Vergine), composto da
Giovanni Pierluigi da Palestrina (Palestrina rappresentante fondamentale della musica sacra nella seconda metà del secolo):
parti colorate, mostrano alcuni elementi tematici che saranno in seguito ripresi, non sempre nello stesso ordine e in blocco,
ma in maniera sparpagliata, nelle parti d’una Messa-Parodia che sarà fondata sulla musica di questo Mottetto (46:15-47:00),
Mottetto di Palestrina).
Gli altri tre esempi sulla stessa pagina sono, rispettivamente: Kyrie Eleison (in alto sulla destra), Gloria in excelsis Deo (in basso
a sinistra), Credo in unum Deum patrem onnipotentem (in basso sulla destra), della Messa che prende il nome dal Mottetto, la
Messa Assunta est Maria: allo stesso modo del cantus firmus del secolo precedente, la Messa prende il nome della composizione
da cui deriva. Negli esempi, di questi 3 inizi, si ritrovano come segnalato dalle parti colorate una corrispondenza al frammento
che deriva dal Mottetto, ora utilizzate nella Messa (in maniera differente), per fornire il materiale tematico principale delle
parti della Messa. Il concetto è totalmente differente, le parti della Messa devono essere unificate dal punto di vista musicale:
fatta meno tramite il cantus firmus comune che per dei motivi comuni, differentemente organizzati ma che ritornano.

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Commento: cosa distingue per l’uditore questa pratica da quella del secolo precedente? È più udibile: nelle messe su cantus
firmus, spesso piazzato al Tenore ha valore molto lungo, assolutamente non facilmente riconoscibile dall’orecchio, resta
riconoscibile solo attraverso mezzi tecnici per fare delle analisi. Invece, i ritorni del motivo che si fanno tra le diverse parti
della Messa col nuovo sistema, un uditore con sensibilità musicale può riconoscere i diversi motivi: orientato dunque verso
l’ascolto, elemento fondamentale del secolo 16esimo rispetto al 15esimo: volere comunicare, non una cosa riservata a gruppo
di conoscitori; vuole avere impatto su chi ascolta, si spiega nel panorama culturale e sociale modificato: la musica è elemento,
arma, come le arti visive, di cui il gioco politico e delle confessioni può usare come linguaggio per convincere di fronte ad
uno spazio pubblico, che deve essere catturato dalla musica: dimensione retorica, che resta comunque qualcosa di veramente
raffinato, non è musica per le masse, ma già musica che si fonda su una dimensione di appello all’orecchio.
(Ascolto Kyrie 51:30-52:20); (Ascolto Gloria, la prima frase è cantata in ‘canto pieno’ e la parte polifonica inizia con le parole
della seconda frase, et in terra pax hominibus, 52:40-53:25); (Ascolto Credo 53:40-54:30, ancora prima frase cantata in ‘canto
gregoriano’ e la polifonia che interviene in seguito). Si vede dunque la volontà di trovare un mezzo di unificare le diverse
parti della Messa, un elemento di continuità nei confronti della grande polifonia franco-fiamminga del 15esimo secolo,
sebbene ivi l’uniformità fosse piuttosto a livello della struttura, e di certi elementi che in fondo sono nascosti (idea molto
medievale, secondo la quale gli elementi che danno la coerenza sono elementi d’ordine numerico-strutturale, dei rapporti tra
velocità di presentazione del cantus firmus, non fortemente visibili o udibili in maniera diretta); mentre la nuova visione
umanista si fonda sul principio che deve essere udibile, reperibile.
Chiesa Cattolica, sconvolgimento in seguito alla sconfitta subita dalla Riforma: in realtà, non bisogna immaginare la Chiesa
Cattolica come monolitica: vi erano diversi gruppi d’opinioni, correnti e tendenze da cui le idee non erano così differenti da
quelle poi sviluppate dai protestanti. Per una ventina d’anni, c’è la speranza d’arrivare ad un compromesso, per salvare l’unità
della Chiesa Europea; ciò che non funziona, tra le altre cose (dogmi, materia liturgica, ragioni politiche), crea discussioni
profonde: contesto del Consiglio convocato a Trento, scelta poiché a metà cammino tra Roma e il mondo Germanico,
Consiglio che dura 20 anni, dove le discussioni riguardano anche il fatto che certi aspetti messi avanti dalla Riforma potessero,
dovessero, essere accettati dalla Chiesa: il fatto di preoccuparsi prima di tutto della comunità dei fedeli, di smettere la pratica
autosufficiente di Clero-Massa di imbecilli che non capiscono nulla e seguono le funzioni come una cerimonia magica,
necessità d’una parte di meglio utilizzare l’assemblea, senza però volere rinunciare al Latino, e il fatto che per la Chiesa
cattolica è il Clero che ha la funzione liturgica, l’Assemblea non è partecipe attivamente nella celebrazione, sebbene più
importante; bisogna formare meglio il Clero, così che possa sistematicamente attivare una opera pedagogica migliore, deve
prendere sul serio la sua funzione d’insegnamento per l’insieme della società; controllare meglio le forme locali che possano
avere aria di superstizione (come nel culto dei Santi): il consiglio dei 30 farà un enorme pulizia dal punto di vista liturgico,
facendo sparire tutta questa serie di testi e anche in parte di melodie, accumulatisi in diverse varianti locali per meglio
esprimere i bisogni specifici delle piccole comunità; questo finisce, bisogna tornare alle origini, al momento in cui, con la
liturgia, il canto detto di San Gregorio (in realtà no), dove c’era unità e controllo dell’insieme della liturgia. Dunque, tutti i
tropi e sequenze tranne 5 che restano nella liturgia sono espulsi. Infine, si discute anche della funzione della musica:
St’Agostino (preoccupazioni già viste), Papa Giovanni XXII: la musica polifonica è troppo complicata; finisce per rendere
impossibile la comprensione delle parole, inoltre data la sua ricchezza distrae gli auditori, che cessano di seguire la funzione
e ascoltano la musica in quanto musica. Grandi discussioni nel consiglio dei 30, 1563, durante le quali certi cardinali hanno
tendenza radicale e propongono di vietare la musica polifonica, tornando al canto gregoriano puro e semplice. Alla fine,
compromesso: musica polifonica resta ma con raccomandazioni (polifonica ma semplice, testo che sia comprensibile,
dunque polifonia omoritmica, le sillabe cadono nello stesso punto in tutte le voci), in generale un tipo di scrittura che non
permetta alla bellezza e alla complessità del discorso musicale di cancellare la dimensione della concentrazione, della pietà,
durante la funzione.
La musica della Controriforma, oppure della Riforma Cattolica, non seguirà totalmente queste raccomandazioni. Ci sono
alcuni punti da sottolineare: se prendiamo come punto di riferimento la musica del 15secolo franco-fiamminga polifonica,
già la generazione di Josquin aveva dimostrato una tendenza evidente a semplificare, a rendere la complessità di voci meno
forte, meno complicato: cosicché il testo sia meglio divulgato, tendenza umanista verso il testo e verso le tendenze che poi l
Controriforma sostiene. Secondariamente, una cosa sono le raccomandazioni una cosa le pratiche reali nelle differenti
cattedrali, chiese, cappelle: spesso i luoghi dove si fanno polifonia sono cappelle, chiese, legate a dei poteri laici, oppure delle
Corti, dunque la ricchezza della musica che ivi si fa è proiezione, simbolo, d’uno statuto autoritario, dunque la Chiesa non
può farci molto.
Punto centrale di differenza: la Controriforma resta attaccata all’uso del latino nella liturgia; inoltre, non è l’Assemblea a
cantare ma i chierici o i membri della Cappella: gruppi professionisti in ogni caso. Alla fine del 20 secolo soltanto, nel
Consiglio Vaticano II, la Chiesa accetterà l’idea della partecipazione collettiva dell’Assemblea al Canto. Ciononostante, i
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concepitori della Controriforma, non degli imbecilli, avevano compreso che se si volesse ottenere una solidarietà profonda,
implicare la società, bisogna implicarla in una situazione collettiva: dunque se non si può farlo nella liturgia vera e propria, lo
si può fare nel contesto della Devozione. Cfr. Laude o Cantigas nel Medioevo, cantate da Assemblee di fedeli non durante la
liturgia, ma in contesto non ufficialmente liturgico nelle lingue ufficiali. Una delle strategie della Controriforma sarà quella
di sviluppare in modo sistematico questa forma di Canto Comunitario all’esterno della Chiesa ma nel contesto di istituzioni
concepite per l’implicazione d’un pubblico più largo nella Celebrazione Musicale del sentimento religioso.
Giovanni Pierluigi da Palestrina (compositore dei 3 inizi ascoltati prima): nato a Palestrina, presso Roma, compositore che
realizza gli ideali della musica sacra della Controriforma. Passa la sua carriera a Roma, maestro di cappella nelle grandi
Basiliche e a San Pietro. La sua musica sacra è subito diffusa tramite le edizioni musicali, fine 16esimo secolo e tutto il 17
secolo ne sono inondate, diventa il compositore ufficiale della Controriforma: mitizzazione del suo personaggio, cfr.
aneddoto falso/mitico: il Concilio di Trento, deciso di bandire la polifonia dalle celebrazioni, Palestrina che seguiva il suo
Papa al consiglio dei 30, ispirato dagli angeli, riscrive una messa ‘messa del Papa Marcello’, e avendola fatta ascoltare ai Papi
del Consiglio, decisero che se questa era la musica sacra polifonica allora essa andava mantenuta. Salvatore insomma del
salvatore della musica polifonica. Produzione abbondante, copre tutta la seconda metà del secolo, muore nel 1594, il mondo
cattolico è inondato da questa musica: nei secoli successivi, mentre il linguaggio musicale cambia, la scrittura di Palestrina
resta il modello per lo ‘stile antico’, il buon vecchio contrappunto del Rinascimento (polifonia antica, è soprattutto la versione
di Palestrina).
Polifonia relativamente semplificata, per noi oggi, se la compariamo alla musica di altri grandi compositori a lui
contemporanei (cfr. ‘Repertorio’, fare un confronto tra Palestrina e autori a lui contemporanei come Thomas Luis De
Victoria, Roland de la Suse, William Bird : musica più ricca, interessante, per quanto riguarda il linguaggio musicale). Il
contrappunto di Palestrina è molto semplificato, ma si presta molto bene a creare delle atmosfere della Musica di Chiesa:
polifonia trasparente, le voci spesso omoritmiche senza incroci complicati, controllo della dissonanza molto forte (rarissime),
senso forte della melodia, di ascese e discese (archi), che generano una idea di polifonia piacevole, a volte anche con
dimensione espressiva molto spinta. Palestrina: uno dei più grandi sovrastimati della storia della musica; inutilmente si
cercherebbe soluzioni di grande inventività, ma ha avuto il merito di corrispondere perfettamente alla funzione domandata
della polifonia adattata alla creazione di certi tipi di sentimenti religiosi nella Chiesa Cattolica.
Cfr. Script, Esempio V, Mottetto tra i più famosi e ammirati, Super flumina Babilonis, inizio del testo del Salmo 135, parla della
cattività degli Ebrei in Babilonia, con una immagine molto bella delle Arpe che sono lasciate, appoggiate al suolo poiché in
cattività non si può più cantare (suspendimus organa nostra, cfr. testo p. 5).
Inizio del componimento: alle nostre orecchie sembra iniziare in Laminore (dunque modo eolico, per dirla all’antica), anche
se l’ultima cadenza, quella che definisce il modo, è in Mi (dunque modo frigio), il fatto espressivo all’inizio è molto forte
comunque, per questa referenza quasi tonale.
Primo punto d’imitazione, voci che entrano alla 5° e all’8°, testo presentato come molto sillabico se non per qualche
passaggio melismatico in forma di frammenti di gamma, che servono a rendere più collante il discorso, soprattutto verso la
fine della frase, dopo che la dimensione semantica è stata già ben mostrata (1.16.55).
Fase successiva: quasi accordale, grande solennità, i movimenti interni sono relativamente secondari, corrispondendo al testo
che descrive il fatto di sedersi e piangere (misura 15, 1.18.04). (Misura 25): di nuovo un punto d’imitazione, non presentato
in maniera rigida, le voci non entrano a distanze regolari ma piuttosto con un gioco libero d’imitazione o di assonanza tra le
voci (1.19.04). (Misura 40) Su ‘in salicibus’ altro punto di imitazione, ci sono imitazioni molto vicine ma utilizzando piuttosto
movimento parallelo (discesa di voci) e più tardi, ancora dell’imitazione invece separata; più tardi altro punto di imitazione
per la frase finale (suspendimus organa nostra, immagine su cui Palestrina insiste con ripetizione e la formula di cadenza alla fine,
1.21.00-1.23.00).
Musica non spoglia di dimensione espressiva, c’è malinconia dell’esiliato forte, ma tutto è canalizzato in senso di una bellezza
e armonia estetica generale che porti l’espressione musicale nel contesto di trascendenza musicale che si considera adatto pe
la musica all’interno della liturgia (Controriforma).
Conclusione: osservazione sullo sviluppo d’un altro tipo scrittura che si osserva nella Musica Sacra dell’epoca (1550, epoca
della Controriforma), la Scrittura a ‘doppio-coro’, limitata alle istituzioni con molti fondi, consiste nel presentare due gruppi
(Normalmente 4 voci ciascuno, due cori) posizionati in posti diversi, così da ottenere una spazializzazione nel
posizionamento delle fonti sonore, che si diffonde condividendo un eco sullo stesso materiale sonoro. Frasi corte, così da
permettere lo scambio entro i due cori, che alla fine si sovrappongono. Soprattutto, questa composizione implica una
polifonia estremamente semplice, ridotta ad una omoritmia quasi perfetta, soprattutto a inizio frase (accordi), verso la fine
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qualche movimento nelle voci interne, ma la struttura generalmente rimane omoritmica. Ciò valorizza la ripresa di stessi
elementi da un coro all’altro, e facilita molto la comprensione e declamazione del testo: pratica importante, incoraggiata nel
contesto delle esigenze liturgiche della Controriforma, un tipo di musica non troppo elaborata nella scrittura e che si fondi
nella declamazione chiara del testo liturgico, ma comunque una declamazione organizzata in modo affascinante grazie alla
dimensione della disposizione o spazializzazione, la differente provenienza del suono in rapporto agli ascoltatori. A Venezia
questo principio pluri-corale sarà poi ripreso e realizzato in maniera più complessa. È comunque un esempio di realizzare
certi elementi dell’agenda della Controriforma per la musica religiosa (chiarezza e semplicità, impatto sull’ascoltatore).
Cfr. Script, Esempio VI, Palestrina, Stabat Mater (rare sequenze che il consiglio dei 30 ha mantenuto nella liturgia, descrive
la sofferenza di Maria durante la crocifissione di Gesù Cristo, testo con moltissime messe a musica; qui troviamo ancora un
grande restringimento espressivo che conviene all’idea della musica religiosa, 1.29.20). Ritmo dell’alternanza, più ampio e
rapido, la sovrapposizione, rapporto alla posizione delle cadenze: modi stilistici che non fanno appello alla finezza del
Contrappunto ma piuttosto ad una dimensione d’organizzazione di blocchi sonori e dello spazio.

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Lezione III
La settimana scorsa: musica sacra 1500-1600, quale il contesto in cui si sviluppa e le conseguenze stilistiche: prestigio e
posizione sociale (sempre il genere all’interno del quale la grande polifonia si sviluppa su forme più complesse). Tuttavia, il
16esimo secolo è (forse) soprattutto il momento in cui la musica vocale profana si sviluppa ad un livello inimmaginabile nelle
epoche precedente; non significa che nel 15esimo secolo non ci fosse molta consumazione di musica profana, e spesso di
alto livello (tradizione della Chanson franco-fiamminga), ma come storici, è un fenomeno ancora difficile a carpire, in quanto
il suo ruolo istituzionale è meno presente ed evidente. 16esimo secolo invece: quantità enorme di musica profana,
abbondante e variata (nel genere e nelle proposizioni di tradizione nazionale), grande circolazione (Chanson francese, madrigale
italiano, …).
Esplosione della consumazione, della pratica musicale a livello domestico soprattutto (musica profana), ha più ragioni:
ragione d’ordine sociale (16esimo secolo sviluppo importante della presenza della ricchezza della borghesia alta e media,
presenza tradizionale della piccola aristocrazia; clientela ricca ed importante per la consumazione musicale); consumazione
privata di musica: segno importante dello sviluppo economico. Inoltre: dimensione intellettuale, legata allo sviluppo
dell’ideale umanista: il fatto che, sul modello dell’antichità classica (ideale aristotelico: un uomo di buone condizioni sociali
deve essere capace di praticare la musica, non come professionista ma appassionato, per meglio comprenderla e approfittare
del suo arricchimento spirituale), lo si ritrova nell’ideale dell’uomo del Rinascimento, come lo si trova in una serie di trattati
celebri (il Cortigiano di Baldassarre Castiglione: testo che descrive come dovrebbe essere il comportamento, l’attitudine,
competenze d’un uomo di corte di buone condizioni sociali; idea fondamentale -caratterizza il 16esimo secolo, mentre in
seguito indietreggerà- un certo grado di competenze nelle arti, una partecipazione diretta, è qualcosa che tutti i membri delle
classi sociali elevate devono sapere fare: non come professionisti, ma d’un certo livello e con legame diretto con i
professionisti. Anche il livello più elevato, nelle Corti, il maestro di cappella o il musicista di corte non è il solo a fare musica
per il piacere dei suoi capi, ma la fa con loro: dimensione di condivisione della pratica. Un uomo di certa posizione sociale,
compresa le più elevate, non è rispettato se non sa almeno descrivere un ‘sonetto’ (elementi fondamentali della poesia),
cantare e accompagnarsi al liuto (…), fenomeno della diffusione della musica come pratica sociale.
Evidentemente, questa diffusione trova un mezzo fondamentale nello sviluppo dell’edizione di musica stampata, fatta nel
corso del 16esimo secolo con delle raccolte di Chanson e Madrigali che circolano, e ci lasciano dedurre l’importanza di questa
pratica, la diffusione, è il fatto che a differenti livelli stilistici c’era una quantità importante di persone che hanno l’accesso, i
mezzi per accedere a questi oggetti di mercato, le competenze per avere e praticare questa musica. Inoltre, dove ci sono i
mezzi (corte principesche), c’è grande movimento per l’attività teatrale: prima affare esclusivo della Chiesa, rappresentazioni
di drammi liturgici (…) sul modello dell’antichità si inizia soprattutto a tradurre e a scrivere delle Commedie, Tragedie, Opere
che seguono forme drammatiche miste; sempre nel contesto della rappresentazione teatrale la musica ha un ruolo più o
meno importante: musiche cantate, intermezzi di musica che vogliono legare una unità drammatica e l’altra (…). Questo
aspetto che diventerà decisivo verso fine secolo, l’aspetto di concepire il teatro come qualcosa dove la musica non può
esimersi, si lega alla frequentazione delle fonti antiche, anche se non restituiscono la musica in sé, indica che la musica era
una componente fondamentale del teatro. La recuperazione di certi modelli del teatro dell’antichità classica indica l’utilizzo
della musica all’interno della rappresentazione.
Abbiamo sottolineato l’importanza della stampa musicale, come mezzo di diffusione della musica profana. Ci ricordiamo
che mentre Petrucci inizia a lavorare a Venezia, 1501, il suo repertorio è soprattutto orientato sulla Chanson franco-bourguignonne,
repertorio che era molto diffuso in tutta Europa, che forma la maggior parte dei componimenti all’interno della prima
pubblicazione del Petrucci, Odhecaton. Negli anni seguenti, tuttavia, Petrucci produce soprattutto una serie di raccolte in un
genere nuovo profano italiano, la Frottola. Nel secolo precedente, la musica polifonica in Italia era stata praticata soprattutto
dai grandi maestri franco-fiamminghi invitati nelle corti, e si trattava di musica sacra. La musica profana era piuttosto
trascurata, probabilmente perché nelle Corti si praticavano formi di canto monodiche accompagnate, di cui i testimoni scritti sono
rari.
Frottola: termine piuttosto generico, poiché si riferisce a delle forme fisse strofiche, che possono seguire dei modelli differenti;
designa dei componimenti vocali polifonici di lingua italiana, è un genere che copre circa mezzo secolo tra la fine del 15esimo
secolo e circa inizio 16esimo secolo (1470-80; 1520-30), e concerne soprattutto un’area geografica limitata: le corti della
pianura del Po e il Nord-Est d’Italia (corti di Mantova e Ferrara); tra i personaggi che comandano e incoraggiano la
produzione di frottole, ci sono la celebre Lucrezia Borgia (duchessa di Ferrara), Isabella d’Este (duchessa di Mantova).
All’origine genere di corte, ma una delle intuizioni interessanti di Petrucci era stata, con un ritardo di qualche decennio, di
iniziare a procurarsi dei componimenti appartenenti a questo repertorio e pubblicarli come raccolta stampata, in cui il titolo

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esprime il fatto che questi componimenti appartengono a modelli, a forme differenti: frottola propriamente detta (con un
refrain), strambotti, barzellette (…).
Tutti questi termini che designano delle forme un poco differenti sul piano metrico, per un italofono di oggi evocano un
contesto semantico leggero (strambo, bizzarro, frottola è menzogna, barzelletta); significa che sono dei testi poetici di tipo
leggero, per la maggior parte testi anonimi, di carattere popolare; anche la lingua non è del buon toscano ufficiale, ma un
dialetto del nord-est italico, dunque con origini meno elevate, legate alla pratica del canto accompagnato che ad un certo
punto trova una sorta di definizione scritta, in forma di 4 voci, ma che mantiene l’impronta d’origine meno sofisticato.
Compositori: italiani, piuttosto cantori/liutisti, attivi quasi esclusivamente nel dominio della musica profana, statuto
professionale molto differente rispetto ai membri delle grande cappelle ufficiali (franco-fiamminghi soprattutto), due nomi
presenti: Marco Cara, Bartolomeo Tromboncino. Ci sono diversi manoscritti che trasmettono parte di questo repertorio di
frottole; tuttavia la fonte più importante sono le 11 raccolte di frottole pubblicate da Petrucci nei primi anni del 1500. Inoltre,
ci permettono di avere informazioni precise riguardo alla variabilità della pratica di esecuzione di questa musica, e in generale
della maniera in cui si faceva tale musica all’epoca.
Cfr. Script, ex. I, Frottola, Marco Cara (1465c - 1525) : Non è tempo d’aspettare, Petrucci, Frottole, Libro I
Compositore attivo alla corte di Mantova. Frottola pubblicata a 4 voci (superius, tenor, altus, bassus; ricordare che si legge tutta la
carta a sinistra poi si passa a quella a destra), cantata, anche se il testo nella prima strofa è messo all’intero soltanto alla voce di
soprano; il formato è quello già visto, soprano e tenore a sinistra, alto-basso sulla destra. Composizione strofica, si cantano
più strofe sulla stessa musica, il testo delle strofe successive Petrucci lo mette in basso a sinistra. Questa forma di
presentazione lascia immaginare che l’esecuzione domandi 4 cantori, ma in realtà andando alla pagina successiva, Cfr. Script,
pagine successive trascrizione moderna della frottola: si nota che la polifonia non corrisponde ad alcuno standard della
polifonia dell’epoca, non c’è equilibrio tra voci. Il superius ha una curva melodica evidente, la vera voce melodica è quella
della voce superiore; l’altus fa piuttosto diminuzioni quasi di tipo strumentale (dà l’impressione di variazione rispetto alla
voce superiore, non indipendente); bassus è proprio basso armonico, semplice, mette i fondamenti dell’armonia permettendo
di eseguire una serie di cadenze, e in realtà non dispone d’una vera autonomia melodica, deve essere dunque pure abbastanza
brutto da cantare.
Per la sua natura, origine, la frottola è un genere per voce accompagnata da 1 strumento (liuto, clavicembalo) o più strumenti
che possono prendere una parte: costruzione musicale gerarchizzata, non egalitaria come quella del Contrappunto dei franco-
fiamminghi per esempio. Petrucci decide di pubblicarla in questo modo, significa dunque che ci sono pratiche di esecuzione
molto varie, secondo le possibilità d’ognuno, secondo gli amici con cui ci si trovava e dunque le possibilità di suonare insieme
e con quali strumenti, per realizzarlo con 4 voci, 1 voce e 3 strumenti, misto di voci e strumenti secondo necessità: legge
fondamentale per 3 secoli nella storia della musica della Hausmusik (fatta per la consumazione domestica), c’è una flessibilità
nella realizzazione. Altra possibilità: un musicista in questo caso particolarmente con esperienza o dotato poteva sintetizzare
le 3 parti inferiori per rapportarle su un solo strumento polifonico come un liuto o un clavicembalo; per questa possibilità,
la più vicina alla forma originaria, vi è una forma alternativa di pubblicazione che Petrucci pratica, Cfr. Script, ex. II, Marco
Cara: Non è tempo d’aspettare (F. Bossinensis: Tenori e contrabassi intabulati col soprano in canto figurato Ed. Petrucci
1509), stesso componimento, pubblicato sempre dalla casa di Petrucci, in forma d’un componimento per canto e liuto; la
raccolta pubblicata sempre nel 1509 è la raccolta d’un liutista, Francescus Bossinensis, contiene dei componimenti
strumentali, ad esempio dei recercari per solo liuto (Un ricercar è un tipo di tardo rinascimento e soprattutto composizione strumentale barocca
precoce. Il termine significa cercare, e molti ricercari servono una funzione preludiale per "cercare" la chiave o la modalità di un pezzo successivo.
Un ricercatore può esplorare le permutazioni di un determinato motivo e a questo riguardo può seguire il pezzo utilizzato come illustrazione), altri
componimenti invece tabulati, messi in scritto per tablatura. Nell’esempio: parte vocale del superius cantata e scritta in
notazione tradizionale per il canto; sotto: tablatura per liuto, dunque pubblicazione mista in cui due differenti forme di
notazione sono utilizzate. Di nuovo, in basso, il testo: molto probabile che questa forma fosse la più frequentemente
utilizzata da chi faceva della musica per uso domestico.
Iconografia: rappresentazioni numerose che esistono di attività musicali private, si vede spesso gente che canta con
accompagnamento di liuto; molto spesso dei complessi misti (1 o 2 cantori poi 1 liuto, 1 flauto, 1 clavicembalo…) possibilità
di variabilità e di flessibilità nella distribuzione reale degli esecutori.
Cfr. Script, pagina seguente, altra trascrizione moderna (della versione intabulata), Non è tempo d’aspettare, Marco Cara, Petrucci,
Libro I, Carta XXXII v., Recercari 23: voce e parte strumentale su due pentagrammi (come se fosse della musica per clavicembalo).
Si nota bene che quasi ovunque, in questo modo, il componimento è ridotto a 3 voci: 1 voce e due linee strumentali, non 3
linee vocali d’accompagnamento come nella prima versione pubblicata, interamente vocale.
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Comparazione delle due trascrizioni: il basso è lo stesso, fondamento della composizione (quasi); le due voci centrali sono
fuse, in particolare la voce del tenore è spesso sacrificata per ottenere questa versione diciamo semplificata. Esistono oggi
molte versioni per liuto, non se ne trovano con 4 voci (29:05-30:31, ascolto voce e liuto): ricorda la forma della ballata,
poiché caratterizzata da un refrain, dove la musica è la stessa della prima parte della strofa (x), stesso principio.
Problema della doppia destinazione: interamente o soprattutto vocale oppure vocale/strumentale, si presenta ora un piccolo
componimento dove la forma non è esattamente una frottola, ma che Petrucci pubblico all’interno della sua raccolta di
frottole, senza dubbio per approfittare della notorietà dell’autore, Josquin. Abbiamo detto che le frottole erano praticate tra
le altre alla corte di Ferrara, e ci ricordiamo che in effetti Josquin è stato per un anno alla corte di Ferrara, dove può essere
che abbia contribuito con questo componimento a questo repertorio (discussione aperta, ma in effetti il suo nome è presente
nella pubblicazione di Petrucci, Cfr. Script, ex. III, p. 5, terzo libro di Frottole: il nome è qui Josquin d’Ascanio, una delle forme
sotto le quali era conosciuto in Italia all’epoca, poiché era stato al servizio del cardinale Ascanio Sforza per un momento).
Versione interamente vocale, con la presentazione abituale su due pagine continuate. Testo enigmatico, probabilmente vi
era implicita una battuta che non possiamo più interamente rintracciare; la musica (cfr. trascrizione moderna alla pagina
seguente) è essenzialmente omoritmica, accordale, con qualche effetto di dialogo o di eco; in fondo potrebbe perorare per
l’attribuzione effettiva a Josquin, musica leggera ma con egualità delle voci tipica della tradizione contrappuntistica nordica;
messa a musica simpatica. Per apprezzare la differenza, confronto con una versione per voce-liuto meno efficace, soprattutto
dove ci sono scambi rapidi tra le voci, ma che corrisponde senza dubbio a una forma possibile di esecuzione (36:08).
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Per la frottola, l’elemento della diffusione grazie alla stampa, in particolare l’opera di Petrucci, è stato molto importante.
Ancora più importante sarà il ruolo giocato dallo sviluppo della stampa musicale francese, a partire dal 1530, per la diffusione
del repertorio della Chanson francese.
Qui non si tratta propriamente d’un genere nuovo nel senso proprio del termine, poiché c’era una lunga e magnifica
tradizione di musica profana in francese, composta dai compositori di origine e formazione franco-fiamminga che
conosciamo. Ma con questo nuovo repertorio che si diffonde in Francia e ovunque a partire dal 1525 circa, si deduce che
c’è qualcosa di nuovo: i compositori sono inizialmente attaccati alla corte di Francesco (François) I, si parla di Chanson
parisiennes, per questa fase, e vi è semplificazione evidente del linguaggio musicale: anche se, come già visto, nel contesto della
Chanson il linguaggio è più semplice rispetto a quello della musica sacra, l’amore della tradizione franco-fiamminga per una
certa complessità di contrappunto, cede il passo ad una forma di scrittura soprattutto accordale, essenzialmente fondata sul
primato melodico della voce superiore armonizzata dalle voci inferiori. La Chanson parisienne del secondo quarto di secolo
(1515-1530) presenta qualche analogia comunque con la frottola: il fatto che si tratta d’un repertorio che ha origini in un
contesto di corte (corte di Francia o della Lorrain), dove lavorano i compositori i più conosciuti, ma che in seguito è utilizzata
per una diffusione commerciale molto importante. Allo stesso modo, il termine Chanson, è utilizzato anche per indicare una
grande varietà di modelli, di forme, si riconosce nei testi utilizzati spesso forme della ballata, rondò, ma non solamente; in
generale tuttavia delle forme strofiche. I testi sono molto variati, ma in generale di tipo relativamente leggero, anche se in più
casi si conosce i nomi degli autori di testi poetici.
Cfr. Script, ex. 4, Chanson molto conosciuta anche oggi, autori due associati alla corte di Francia: il poeta Clément Marot,
personaggio particolare, la cui poesia è spesso leggera, ma che è allo stesso tempo un addetto della Riforma, che lavora anche
alla traduzione dei Salmi; e il musicista Claudin de Sermisy, legato alla corte di Francesco I, ha scritto anche musica sacra,
maestro alla cappella santa di Parigi. Qui testo amoroso ma molto elegante che Sermisy mette in musica in maniera
omoritmica, come si vede, la parte superiore ha il primato melodico; tra l’altro è chiaramente ciò che noi diremmo una
tonalità di Famaggiore, con le altre voci essenzialmente trattate per formare degli accordi, tranne per qualche piccolo
movimento indipendente verso la fine, per dare della vitalità. Il tutto con un talento melodico e una eleganza un poco
melancolico che rende questo componimento molto riuscito. Forma tradizionale della Chanson: 2 strofe, ogni strofa una
organizzazione interna (AAB) con una prima parte che si ripete ed una seconda parte differente (44:20-46:34). L’esempio 5
è invece molto differente, sebbene il testo sia sempre di Clément Marot, ci ricorda che egli era il principale poeta alla corte di
Francesco I, conosciuto per la libertà che regnava, libertà descritta 3 secoli più tardi da Victoire Hugo nel suo Le Roi s’amuse.
Ciò che rende il testo che abbiamo di fronte piuttosto licenzioso, sporco, forse sorprendete per noi, ma era l’epoca di Rabelais
insomma, con mentalità e attitudini molto differenti dalle nostre. Ci ricorda anche, riguardo alla diffusione di componimenti
come questi, che grazie alla stampa il target è molto vasto, per il quale la dimensione del divertissement per questo pubblico è
importante, e possono trasmettersi più dei testi di livello di livello letterario alto.

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Compositore: condivide più che Sermisy il ruolo di protagonista della Chanson parisienne dei primi decenni che segue questa
diffusione, Clement Janequin: tipo di scrittura differente, un poco più movimentato per quanto riguarda gli scambi tra voci,
ma scambi di natura soprattutto ritmica piuttosto che melodica. La maggior parte delle sue canzoni ha questo carattere di
chiarità e di energia ritmica, che ne fanno la popolarità. Nonostante la vivacità degli scambi, il principio di composizione è
soprattutto quello di una composizione verticale, per accordo. Inizio che dà l’impressione di essere imitativo ma in realtà
sono elementi ritmici molto corti, che si succedono con grande velocità, con una quantità di testo sillabica (50:00-52:07),
ascolto di Ung jour Robin.
Attraverso i componimenti più celebri di Janequin, già all’epoca ma ancora oggi, vi è un piccolo numero di Chanson di tipo
descrittivo-narrativo, ovvero Canzoni che cercano di evocare scene grazie ad un gioco dialogico interno, all’utilizzo di
differenti forme di onomatopee. Il canto degli ‘uccelli’ (…) riprende quello che si era visto con la caccia del XIV secolo, con
complessità molto più elevata. La più celebre delle sue Chanson, forse la più conosciuta del 16esimo secolo poiché è stata
ripresa, tradotta, parafrasata in tutte le forme possibili e immaginabili per diversi decenni e anche più, e questa Canzone è ‘la
battaglia di Marignano’, ovvero una battaglia del 1515, porto di Milano, nella quale il Re Francesco I ha battuto gli svizzeri,
tagliando di netto il tentativo di espansione dei Confederati verso il Sud. Alla base: evidente volontà di celebrazione del Re
Francesco I, giovane vittorioso, ma dal punto di vista musicale è impressionante qui la maniera in cui si utilizzano differenti
onomatopee per evocare alcuni aspetti della battaglia: da una parte onomatopee che rinviano ad aspetti musicali puri (canti
delle truppe, suoni di trombe) dall’altra rumori (colpi,….). Struttura molto densa, rinvii ritmici (aspetto il più virtuoso della
sua scrittura). Cfr. Script, ex. VI, inizia con l’invitazione al lettore ad ascoltare il recito della vittoria del Re (55:35 Escoutez
(…)), fino alla battuta 40. Poi, un primo punto/gioco d’imitazione di piccole cellule ritmiche, profilo melodico molto
semplice, evocando i colpi della battaglia, suoni dei tamburi (cfr. dalla battuta 58 fino alla battuta 85). Poi, cambiamento di
metro, con una citazione delle grida, incoraggiamenti, canti, che si sentono durante la battaglia. Battuta 180, qui comincia la
seconda parte secondo la partizione, con tutto un episodio di imitazione di sonorità di trombe, ricorda da un punto all’altro
i campi di battaglia. Alla battuta 77, della seconda parte, nuovo cambiamento di metro, poi una lunga onomatopea con il
rumore dei colpi e proiettili che cadono (questo dalla battuta 105). Verso la battuta 255, finalmente la vittoria è cosa fatta, si
vede una sovrapposizione di testo, da una parte il francese ‘victoire’ che rende onore al vittorioso re francese François, dall’altra
si sentono gli svizzeri in una sorta di pseudo-germanofono ‘escampe toute frelore bigot!, tout est perdu par Dieu, tocco di realismo
nello sentire la voce dei perdenti (1.03.15).
Evidentemente questo tipo di composizione incarna molto bene la logica di popolarità, quella del genere e delle forme della
sua diffusione.
In ultimo, aggiunta di una piccola coda a questo orizzonte sulla Canzone parigina del secondo quarto di secolo per sottolineare
la dimensione di grande circolazione continentale di questa musica. Abbiamo già visto che la Chanson franco-bourguignonne era
propagatasi in tutta Europa, e si osserva che secondo il cambiamento del modello stilistico che abbiamo visto nella Chanson
parisienne i repertori europei hanno anche allo stesso modo la tendenza a seguire la stessa direzione. A partire dagli anni 1540,
sempre sulla base d’una diffusione importante della pratica dell’industria della stampa musicale, si ha in Germania la
diffusione d’una traduzione di Liede (tenor-lied), in principio sarebbe fatta a partire dal tenor ma non è propriamente vero.
Dimostra secondo più punti di vista il modello della Chanson parisienne nel tipo di trattamenti di voci: primato della voce
superiore, allineamento verticale se non qualche piccolo ritardo/divario per le altre voci.
Più importante compositore delle Lied polifoniche nella Germania della prima metà del secolo è Ludwig Senfl, stabilitosi a
Basilea, attivo in parte alla corte imperiale dell’Imperatore Massimiliano a Vienna, e poi presso il Duca di Baviera a Monaco.
Il componimento presente nell’ex. VII, Script, Lied, Celebrazione del ritorno della primavera, Im Maien, scrittura molto simile a ciò
che abbiamo osservato nella Chanson di Sermisy, ovvero una struttura accordale dominata dalle parti melodiche che tuttavia
in alcuni momenti (nelle repliche, ritardi nella seconda parte) diviene più movimentata; forma strofica con refrain (altra
analogia), 1.07.48.

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Lezione IV
Ultima lezione: sviluppo dei primi generi di musica profana, polifonia profana nel 16secolo, spinti su una diffusione più
importante dovuta alla presenza della stampa musicale, nuovo fenomeno. La portata o ampiezza è ancora relativa per quanto
concerne la ‘frottola’ italiana, ad inizio secolo; la Canzone parigina, dagli anni 20-30’ ha invece sviluppo considerevole, anche
in termini di mercato.
Italia: dopo qualche decennio d’incertezza, si assiste negli anni 30-40’ (del 500’) a sviluppo d’un nuovo genere, questa volta
profondamente sostenuto dalla stampa musicale, e che non soltanto si diffonderà ovunque in Europa, ma che soprattutto
rappresenta un vero crocevia per quanto riguarda lo stile, la logica, l’approccio della musica vocale profana, in rapporto al
testo: il madrigale.
Madrigale: genere essenzialmente di forma fissa, praticato dai compositori di polifonia già nel 14esimo secolo, il 300.
Composizione dimenticata durante il 15esimo secolo, anche perché la polifonia in Italia era stata rappresentata
essenzialmente dai franco-fiamminghi, con importazione di musica fiamminga molto importante. Ora, si ritrova questo
termine, ma in una accezione differente: utilizzato per designare composizioni profane in lingua italiana, scritte, come
vedremo, in stile piuttosto elevato, metà tra la più semplice Canzone Francese e quello più complesso della musica sacra;
soprattutto, un genere musicale che si fonda sulla ‘messa a musica’ di testi di grande livello letterario, e attinge da generi
poetici molto vari.
Significa che un madrigale, al 16esimo secolo, può essere composto mettendo in musica un sonetto, o semplicemente le due
quartine d’un sonetto; strofa di canzone; ottava di poemi epici, altre combinazioni, senza riguardo per la natura metrica
originale del testo. Fatto importante, che spiega perché il testo poetico di partenza non deve avere forma fissa: il madrigale
è, essenzialmente, forma musicale Durchkomponiert, composta da un punto all’altro senza ripetizioni musicali corrispondenti
a sezioni poetiche parallele. Detto altrimenti: primo genere importante nella storia della musica profana a rinunciare al
principio, che restava valido fino a questo momento nella musica profana, della struttura metrica d’un testo, che detta la
trasposizione musicale, e i parallelismi della struttura metrica che generano una serie di ripetizioni a differenti livelli della
gerarchia strutturale.
Nel Madrigale, il parametro decisivo non è più la struttura metrica del testo, ma il suo contenuto letterario. La ragione della
trasformazione: il tipo di testo letterario ora messo in musica non è un testo relativamente semplice, leggero, in cui la funzione
principale è di essere messo a musica, ma si ricorre a testi considerati come testi d’alto livello letterario e poetico, dunque
immaginare maniera di metterlo a musica che esponga, attraverso diverse tecniche, questa qualità tecnica, poetica. Il genere inizia ad avere
buona diffusione inizialmente soprattutto a livello di manoscritti, contesto elitario, tra Firenze e Roma, anni 30 e 40; poi si
diffonde un poco ovunque, e in particolare gli editori di musica di Venezia, partendo dal 1550 si appropriano del genere;
notare che questi editori sono, per la maggiore, dei francesi, che hanno reimportato in Italia la nuova tecnica di stampa, meno
costosa, elaborata da Pierre Attaignant, che si installano a Venezia poiché resta centro principale della produzione e
commercio di libri del Rinascimento. A partire da questo momento e per tutta la seconda metà del secolo (anche poco oltre),
Venezia assiste alla produzione, messa a commercio, di migliaia di raccolte di madrigali, che girano in tutta Italia e fuori,
divenendo un punto centrale per le trasformazioni che si fanno nella tradizione della musica profana in Europa del
Rinascimento.
Perché questa novità, questo nuovo approccio con il testo, perché questo successo del genere così caratterizzato? Il madrigale
è stato sostenuto da un altro fenomeno culturale, di costume: grande ascesa del consumo di poesia di alto livello, fenomeno
del Petrarchismo.
Francesco Petrarca (1304 Arezzo – 1374 Arquà): uomo politico, erudito, poeta, vissuto nel 14esimo secolo, italiano, con
rapporti estesi con la Francia (lungo periodo attivo alla corte papale di Avignone al periodo), conosciuto soprattutto
inizialmente per le sue opere erudite, in latino (1341 incoronazione poetica per le sue opere in latino, non in volgare),
fondatore dell’umanesimo in questo senso; in realtà, un secolo e mezzo dopo la morte, 1500, si riscopre e si mette in avanti
soprattutto il Canzoniere, 366 poesie, Rerum Vulgarium Fragmenta, di cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4
madrigali. Petrarca imporrà il sonetto come principale forma poetica europea.
Raccolta, ciclo ben strutturato, il cui filo rosso è l’amore platonico (ma non solo) per Laura, donna avignonese, l’insieme del
Canzoniere è un anno ciclico, complessa confessione poetica, nella quale il gioco poetico analizza con grande ricchezza
d’introspezione le fasi, contraddizioni, sviluppi, dell’amore (bipartizione a partire dalla seconda forma dell’opera, poi infine:
1-263: 264-366) che provoca nella psicologica del soggetto, agostininiamente in conflitto tra mondano e divino, con un tono
sempre più riflessivo, filosofico, religioso; la seconda parte è scritta ‘dopo’ la morte della donna amata, morta per peste nel
1348.
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Probabilmente: Canzoniere come invenzione poetica, testo in versi avente propositi riflessivi e di analisi della soggettività,
solitamente di piccola taglia (definizione moderna), risultato e impatto immenso, fortuna di Petrarca nei primi decenni in
Italia, ma poi tramite traduzioni nelle lingue principali europee, in Francia (petrarchismo importante: les poètes de la pléiade),
Spagna, Inghilterra (Sonets di Shakespeare).
Italia: si aggiunge elemento di tipo linguistico; a causa del policentrismo politico, la lingua parlata nelle differenti regioni della
Penisola mostrano grandi differenze. Gli eruditi dell’epoca discutevano su quale lingua utilizzare come lingua letteraria
nazionale, grazie alla qualità e depurazione, e successo sociale del Petrarchismo, sarà l’italiano base per l’italiano letterario
fino ai nostri giorni.
Petrarchismo: al di là dell’aspetto letterario, è fenomeno di costume: sostenuto ancora una volta dall’importanza del nuovo
media del libro stampato (Italia poi Europa), una persona mediamente alfabetizzata doveva avere ogni giorno letto il
Canzoniere. Case di produzione: tantissime forme, compresi i Petrarchini (forme in ottavo), moda sempre più dell’epoca,
edizioni ‘tascabili’, diffusione sociale mostruosa. Madrigale: prodotto musicale dell’attitudine sociale e culturale del
petrarchismo, dunque capiamo che la sua diffusione ben approfitta della grande importanza dell’opera. Vi è anche fuggita
dalla poesia fatta sul modello di Petrarca, a volte a buon livello a volte no, ma in ogni caso ispirata dal precedente e
dall’attitudine del poeta aretino.
Testi di Petrarca soprattutto messi a musica, verso la fine del secolo messa in musica anche di poeti contemporanei,
egualmente ben conosciuti e apprezzati, anche se il repertorio si allarga un poco il concetto della relazione testo poetico-
messa a musica resta valido fino all’inizio del secolo successivo e la nuova trasformazione stilistica di cui presto parleremo.
Rapporto con il testo poetico: I)poiché la poesia è considerata come poesia sublime, elevata, la messa in musica deve avere
certa dignità e qualità, dunque: polifonia relativamente raffinata, non troppo differente dalle forme moderne di musica sacrata
(la generazione successiva a Josquin), dunque alternanza di momenti dove il contrappunto è più complesso e differito,
momenti dove invece le voci sono allineate. Si vuole che il testo resti comprensibile, dunque anche nelle parti
contrappuntistiche dove le voci sono differite non si deve mai impedire la riconoscenza del testo (si parte dal prestigio del
testo); ma, come nei Mottetti di Josquin, la messa in valore del testo passa attraverso soprattutto una segmentazione del
testo, differenti frasi e immagini del testo sono sottolineate utilizzando forme di scrittura un poco differente, che separa le
frasi e fornisce alla messa in musica un parallelismo di costruzione della sintassi in rapporto alla poesia. II)in misura crescente
nel secolo: attraverso la musica si vuole rappresentare il senso del testo, fare che la musica sia dimensione espressiva,
semantica, che permetta di amplificare sul piano della semanticità sonora ciò che si trova nei differenti momenti del testo.
1° generazione di compositori di Madrigali, 1530-50, Italia: ancora franco-fiamminghi per la maggior parte, attivi nelle Corti
e Cappelle della Penisola (Philippe Verdelot: maestro di cappella al battistero di San Giovanni in Firenze, Chiesa di Santa
Maria del Fiore, collaborò con Machiavelli per la messa in scena della Mandragola; Jacquard Cadel), e soprattutto:
Cyprien de Rore, attivo alla corte di Ferrara e Parma, Bruxelles, probabilmente fiammingo, Rore pubblica una decina di libri
di madrigali, di cui certi avranno rinomanza incredibile, fino ad essere ancora celebri cinquant’anni dopo, cosa straordinaria
per il consumo (e la sua velocità) di musica dell’epoca.
1547, all’interno di una pubblicazione di antologia di madrigali a Venezia, uno dei più conosciuti, Cfr. Script, Ex. I, Cyprien
de Rore: Ancor che col partire (Texte: Alfonso d’Avalos), testo di tipo petrarchesco, autore minore dell’epoca, cerca di analizzare
il piacere dell’assenza ripensando al fatto che avrà presto occasione di riunirsi con l’amata (può essere anche inteso con spunti
erotici); 8 versi soltanto, rime regolari AABBCCDD, versi che irregolarmente alternano 7 e 11 sillabe, strutture che
effettivamente son chiamate madrigali (16esimo secolo) in italianistica, si ottengono gruppi irregolari di versi, che già nella
sua forma non permettono di immaginare una strutturazione con ripetizione, e parallelismi metrici.
1° unità concettuale: vv. 1-2 (inizio della tristezza, disperazione), trattata con scrittura elevata in senso contrappuntistico, ma
senza troppa complessità come struttura (2 corti bicinia delle due voci superiori e le due voci inferiori); poi le 4 voci insieme
differite di certo ma con una certa chiarezza di declamazione (24:50). Dalla 7ima battuta: v. 3, punta del concetto, ‘partire
vorrei’ sempre, omoritmica piuttosto, più sostenuta, poiché c’è un piacere (v. 4), che genera accelerazione ritmica e poi un
numero di imitazioni dello stesso motivo, generando eccitazione (25:40). Dalla 14esima battuta: piacere di cosa? Della vita,
acquistata nel ritorno (ancora un momento omoritmico poi diventa invece un poco più scorrevole, 26:10). Battuta 19: e così
vorrei partire mille volte: moltiplicazione delle risposte, ritmo più rapido, giocoso (26:43), fino a Battuta 25. ‘Tanto son dolci
gli ritorni’: dolcezza nella sovrapposizione di voci a due a due piuttosto consonanti e allineate, poi infine la cadenza (battuta
29); poi di fatto tutto il blocco a partire da 19 è ripetuto: ripetizione retorica, testo e musica contemporaneamente, la logica
della messa in musica Durchkomponiert non accetta che si utilizza la stessa musica per due testi differenti, poiché essi anche se

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hanno parallelismo metrico domandano una messa in musica differente dal punto di vista semantico: ripetizione, ma con lo
stesso testo (29:00), cadenza su MI con la terza detta ‘piccarda’ (sol diesis, terza maggiore al di sopra della nota finalis).

Cfr. Script, Ex. II, Cyprien de Rore, 1544, si vede già quello che Monteverdi riconoscerà: la tendenza molto importante nei
decenni successivi a giocare con l’armonia: per trasmettere in particolare concetti, sentimenti, di tipo negativo. Qui il testo è
di Petrarca, Canzone molto sobria in morte di Laura; qui Cyprien prende differenti strofe e costruisce un madrigale separato
su ciascuna strofa, qui la 2°, probabilmente la più celebre: dolore tale che non riesce più a fare della bella poesia, stile vinto
dalla potenza della sofferenza. In qualche modo, il compositore qui cerca di rendere questa durezza, carattere disagevole,
tipo di scrittura che corrisponda alla sofferenza del testo.
Grande intervallo inizialmente: intervallo di 6° maggiore, sul nome ‘crudele’, caduta di ottava su ‘inesorabile’ qualche battuta
più tardi (re-re). Gioco che si fa, all’inizio del 3° sistema, battuta 50, con sonorità che non fanno parte dei modi, dunque
giustapposizione di accordi incompatibili in questo senso: misura di distanza (accordo di la bemolle maggiore e re maggiore,
due accordi della quale la fondamentale è a distanza di 3 toni, per corrispondere al testo che parla di impossibilità di essere
felice per sempre), ‘cagion mi dai di’.
Battuta 78: qui vi è ancora la strategia di ripetizione dell’ultimo verso, testo e musica, ripetizione che conferma retoricamente
cosa era già stato detto (battuta 80-85).

Madrigale italiano: strategia che consiste nel fare una sorta di musica che sia il riflesso, non della struttura metrica, ma del
senso del testo, della sua dimensione semantica. Come? Tecniche differenti: ricorso all’armonia, sostanza sonora, oppure
certo tipo di movimento di motivi che possono legarsi all’impressione d’un movimento dell’anima; oppure figure, molto
presenti soprattutto nella seconda metà del secolo, ‘madrigalismi’, ‘iconismo musicale’: il fatto che la musica, attraverso il suo
movimento sembra evocare una immagine visuale, oppure un movimento, un immagine d’un movimento, presente nel
tempo e nello spazio. Virtuosità in questa capacità nella seconda metà, per imitare elementi della realtà attraverso questo tipo
di analogia visuale; differente, dall’utilizzo onomatopeico di Janequin nelle sue Canzoni Parigine.

Cfr. Script, Ex. III, Rivi, fontane e fiumi a l’aura al cielo, Madrigale di Luca Maurenzio, seconda metà del secolo, compositore
italiano, i compositori locali hanno preso in buona parte rilievo rispetto ai franco-fiamminghi, almeno in questo repertorio,
molto interessato ai madrigalismi.
Testo alla fine del testo musicale: testo anonimo, dove la cosa principale è il fatto che evochi certi elementi della natura:
ruscelli, fiume, bosco, e la musica fa ciò che può per dimostrare in forma iconica ‘madrigalismo’ questo immaginario evocato
dal testo poetico.
Inizio: evocazioni di questi ruscelli e fiumi che scorrono, corrisponde ai frammenti di gamma ascendente/discendente,
scorrono musicalmente. Elementi della natura sono cari, piacevoli al poeta, per cui il cambiamento e l’accordo differito nel
secondo sistema; il poeta domanda poi alla natura di rallentare, ed ecco il rallentamento del ritmo generale alla pagina
seguente. Poi scrittura omoritmica più viva, ricordo piacevole evocato; alla fine, dalla 3° pagina (battuta 20), concetto di
giorno felice, incontro dell’amata, ritmo più attivo e motivo ascendente (allure); preghiera che richiede di essere più gentile
(misure 23-24), poi serie di passaggi scorrevoli e imitativi per l’espressione della sua gioia, serie di madrigalismi giustapposti
secondo il senso di ciascun verso.

Evidentemente c’è un pericolo in questo tipo di organizzazione del discorso musicale: si rimprovera presto a questi
compositori di madrigali polifonici di questi decenni di concentrarsi talmente sui dettagli che si perde il senso della sintassi,
del senso del discorso in generale, per concentrarsi sulle illustrazioni di ciascuna immagine o momento; ci sarà effettivamente
delle interrogazioni per quanto concerne questa vera passione per l’illustrazione del dettaglio del testo.
Nei casi più riusciti, risultati impressionanti per potenza espressiva:

Cfr. Script, Ex. IV, coppia di madrigali, composti rispettivamente sulle due quartine e sulle due terzine del sonetto
petrarchesco ‘Solo et pensoso’ (XXII), composto da Giaches de Wert, compositore franco-fiammingo, installatosi alla corte
di Mantova, e tra l’altro il modello per il giovane Monteverdi. Arriva a mettere un sonetto in musica, confrontandosi con le
sue divisioni bipartita (2 blocchi, 1 madrigale per fronte e 1 madrigale per la sirma: classicamente il sonetto è sintatticamente
(anche se assolutamente non necessariamente, nello stesso Petrarca) e metricamente bipartito, infatti). Quartine e terzine:
metrica simile, si potrebbe trattarle in modo strofico, ma ciò sarebbe strano all’idea del madrigale all’epoca che si appoggia
alla semantica del testo, e dunque non considera il parallelismo metrico. Uno dei sonetti più celebri, rappresentazione della
solitudine, melanconia, solitudine amorosa.

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Evocare il sentimento di solitudine, di meditazione, la prima sezione è trattata in forma imitativa, su di un soggetto che è
rimarcabile nella sua struttura, poiché (cfr. basso) si fonda su due discese consecutive di 5°, do-fa-fa-sib, dunque una nona
in tutto, qualcosa di molto duro all’ascolto dal punto di vista melodica; poiché il soggetto è ripreso per imitazione dalle altre
voci tutta questa prima pagina trasmette veramente un sentimento di alienazione, che è molto impressionante (46:20).

Sezione successiva: stile o portamento (allure) lenta, monotona, comune alla maggior parte delle voci, che sonorizza questo
‘passo lungo e pesante’ del testo poetico (battuta 55); terzo verso è immagine della fuga, il testo sottolinea la distanza dai
posti frequentati dall’uomo (dimensione ritmica viva), allo stesso modo si vede la declamazione su frammenti di note ripetute,
che fanno che anche in un contesto contrappuntistico con differimento di voci ci sia presentazione molto diretta della
dimensione sonora del verso di Petrarca; mentre poi l’immagine della ‘stampa’ delle vestigia umane suggerisce nuovamente
uno stile simile a quello del v.2, l’idea del ‘passo nella sabbia’.

Battuta 85: inizio della seconda quartina, ma niente è fatto per sottolinearlo o almeno per mostrare un parallelismo metrico,
c’è continuità del testo. Le voci sono ingarbugliate/impigliate da segmenti di tipo sillabico, normalmente su una altezza fissa,
per esaltare la parola del testo di Petrarca (battuta 105).
I due versi seguenti, ultima parte della 2° quartina, fanno stato d’una condizione psicologica depressiva, sofferenza amorosa,
si vede come Wert riprende la strategia già vista in Rore, ovvero utilizzare l’armonia giustapponendo accordi che si rifanno
a modi differenti per creare dei cambiamenti di sonorità e ambiente armonico improvvisi, che esprimano questa sofferenza
interiore, finisce con cadenza su Fa, cadenza interna poiché quella finale (dell’intero) sarà su Sib, finale dell’insieme del
componimento.

Battuta 125, seconda parte, terzine:


Prima terzina fa riferimento alla natura, al fiume, permette a Wert di usare un poco gli stessi madrigalismi visti nel madrigale
di Marenzio visti prima.

Battuta 150: ultima terzina, immagine del cammino selvaggio, per cercare di dimenticare l’amore ma invano, poiché Amore
lo segue sempre; idea del percorso difficile espressa dal profilo del soggetto: festival di intervalli di grande ampiezza, spesso
difficile: di nuovo Mi-Sol-Do-Si-Regrave (una nona tra Mi e Re, come all’inizio); poi di nuovo si rimonta Si-Fa-Re-poi ottava
in alto; vi è una vera sfida alla capacità dei cantori in questi intervalli poco abituali; per la conclusione: politestualità: una parte
di voci passa all’ultimo verso con l’immagine di Amore che accompagna sempre il soggetto, di nuovo con la declamazione
su note ripetute, ma una voce che continua a cantare il primo verso della terzina con questo intervallo ripido, dunque di
nuovo si ha l’impressione che il soggetto e Amore, siano l’uno accanto all’altro, con il soggetto che cerca luoghi assurdi e
Amore sempre con lui (57:00).

Culminazione del madrigale polifonico italiano, verso la fine del secolo, si fa precisamente grazie allo studio delle possibilità
espressiva dell’armonia, in particolare aumentando le libertà per quanto concerne la dissonanza. Questo soprattutto fa
l’interesse, suscitando molta discussione, dei madrigali che si ritrova nella prima fase creatrice di Claudio Monteverdi.

Claudio Monteverdi: personalità che ci accompagnerà per un poco, poiché è uno dei rari casi di artista che ha una lunga
carriera creatrice, la sua più di mezzo secolo, che evolve lungo la carriera, che riesce ad essere avanguardista in condizioni
stilistiche e istituzionali molto differenti. Nato a Cremona, arriva come strumentista e poi come maestro di cappella alla
Corte di Mantova, entrando poi in contatto con Jacques Devert, che ivi lavorava. A partire dagli anni 90’, comincia a
pubblicare una serie di libri di madrigali, i primi 4 e ½ appartengono alla tradizione del madrigale polifonico, senza basso
continuato; e arriverà a creare scompiglio a causa dei suoi comportamenti audace nel punto di vista del trattamento del
contrappunto

I due esempi che seguono, Cfr. Ex. V, VI, due madrigali che aprono rispettivamente il 4° e il 5° libro di Monteverdi; presi
dalla stessa fonte letteraria, il Pastor Fido (Giovanni Battista Guarini), una pastorale, testo che inventa il genere e la tradizione
del dramma pastorale in Europa, con grande diffusione, letto ovunque, illustrato: Castello Barocco in Borgogna, proprietario
si fa dipingere affreschi che riprendono la storia; qualità patetica di situazioni che fanno sì che diversi passaggi del testo siano
presi, estratti dal contesto drammatico e presi come testi per madrigali. I 2 libri: 1603, 1605, Venezia, tuttavia sappiamo che
questi madrigali circolassero già alla fine degli anni 90’, date le reazioni che suscita (in modo negativo).

Testo poetico alla fine della partizione: variazione sul tema della separazione, che tuttavia nella sua tristezza ha anche qualcosa
di dolce, tema già incontrato.

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Continuità evidente con le cose già viste nel Madrigale di Wert: Monteverdi ama questa sorta di politestualità che si crea,
mentre una parte di voci resta su un verso e un’altra voce passa già al verso successivo, e come evidentemente i due versi
sono trattati diversamente nella illustrazioni del testo, allora si hanno due strati differenti dal punto di vista del trattamento
musicale. Tuttavia, l’aspetto più notevole è il trattamento della dissonanza: all’inizio, le due voci superiori iniziano all’inizio,
su Mi, poi ad un certo punto il Cantus sale al Fa, fatto che implica che l’altra dovrebbe scendere a Re, ma c’è un ritardo, il
Quinto discende solo dopo, nel frattempo si forma una dissonanza di 2° minore, molto duro all’ascolto. Poi: Cantus
ridiscende su Mi, il Quinto a sua volta tarda a scendere sul Do, etc. Soprattutto all’inizio: sorta di madrigalismo, data la
separazione del testo che corrisponde al fatto che le due voci all’unisono si separi, ma anche forza espressiva della dissonanza
che rende il sentimento di tristezza. Poi immagine della morte, rappresentata da un nuovo motivo, frammenti di gamma
discendente, e in seguito Monteverdi fa sì che i differenti versi, dunque motivi, siano sovrapposti in maniera estremamente
virtuosa.

Battuta 56: ‘e sento nel partire un vivace morire’: nuovo soggetto, nuovo trattamento, poiché è accordale, omoritmico, e allo
stesso modo più vitale dal punto di vista ritmico.
Progressione discendente che faceva il materiale della fine era fondato su catena di ritardi, o sincope, che prolunga
egualmente il sentimento di sospensione e attesa prima dell’arrivo della cadenza finale.

Cfr. VI, primo madrigale del V libro, di nuovo preso dal Pastor Fido di Guarini, uno dei testi più spesso citati e discussi nella
storia della teoria musicale, poiché è soprattutto Cruda Amarilli che ha suscitato una reazione dura dalla parte dei teorici
dell’epoca, cfr. Artusi (musica ecclesiastica): rimprovera a Monteverdi di non rispettare le regole della contrappuntistica, in
particolare il trattamento della dissonanza.

Apertura: due grandi apostrofe alla donna amata, nella quale le voci sono allineate, poi per il resto del verso con movimento
molto omoritmico, che tuttavia si disintegrano alla fine, con una serie di melismi (nel canto liturgico monodico occidentale, e in partic.
nel canto gregoriano, fioritura melodica che utilizza più note su un’unica vocale del testo) su gamme che discendono. Qui, alla misura 13,
si trova uno dei passaggi che hanno suscitato il furore del Padre Artusi, ‘ahi lasso’, si vede come la voce superiore entra con
un La (dissonante in confronto al Sol del Basso), poi concatenato ad un Fa, sempre dissonante rispetto al Basso. Artusi
rimprovera il fatto di non rispettare le regole del trattamento della dissonanza: I)la prima dissonanza, La su Sol, non è
preparata, poiché prima vi è un silenzio; nel contrappunto tradizionale ogni dissonanza deve essere preparata; ovvero prima
una consonanza, poi una delle voci si allontana realizzando una dissonanza; II)ogni dissonanza deve risolversi in una
consonanza, qui invece si ha una seconda dissonanza dopo la prima. All’ascolto: non è così grave, dura poco all’ascolto, ma
sulla carta ferisce il rispetto delle regole stabilite dal Contrappunto.

Battuta 20: salita con sincope che genera dei ritardi, dunque dissonanze; poi una altra apostrofe alla amata, che procede in
maniera quasi sempre omofonica (descrizione: più bella del fiore bianco…) ma in realtà è vipera poiché è crudele, e scappa:
altri elementi, il motivo molto contorto e slegato che rappresenta il madrigalismo del serpente, alla fine della 3° pagina, poi
dalla misura 35; accelerazione ritmica da battuta 42 invece madrigalismo della natura sfuggente del serpente. Qui, nel seguito
di accordi: molte dissonanze successive, non legittime nel senso tradizionale, poiché in qualche modo usa qui già un pensiero
armonico secondo qui è importante che le consonanze siano situate sui tempi forti della misura: per arrivarci ci sono come
delle figurazioni, passaggi di preparazione, nelle differenti voci, che nel corso possono generare ovviamente una serie di
dissonanze consecutive.

Battuta 44: per i due ultimi versi, Monteverdi ritorna a polifonia più contrappuntista, ma eguale alla tecnica vista di
sovrapporre testi dei due ultimi versi con due motivi differenti dal punto di vista musicale, generando la complessità più
importante della struttura, con più ripetizioni che fanno parte del finale del Madrigale. Messa a musica del penultimo verso:
motivo crea dissonanza forte, sulla parola ‘offendo’, creando un parallelismo tra dissonanza e concetto negativo testuale.
Monteverdi risponderà alla Critica di Artusi, fa rispondere, testo firmato dal fratello, in una prefazione d’una pubblicazione
d’un testo ulteriore, nella quale avanza una teoria molto precisa, che evidentemente ci aiuta a capire la nuova situazione della
estetica musicale. In questa prefazione, uno dei testi più citati della storia della musica occidentale, dice che ci sono due
maniere di pratica, di gestire il rapporto tra ‘armonia’ (composizione a più voci) e l’ ‘orazione’ (il testo poetico); nella prima
pratica, tradizionale, la polifonia o armonia e gestione del discorso, padronanza: regole del contrappunto che hanno il
primato, determinano il tutto; nella seconda pratica, l’armonia o contrappunto è il servo dell’orazione, del testo: si può
contorcere le regole del contrappunto in funzione della espressività del testo poetico. Non sono io che lo invento, esista da
più decenni, cfr. Cyprien de Rore (lo cita), come all’origine di questa logica del primato dell’espressione sul rispetto delle
regole del Contrappunto. Inoltre, dice: nel suo trattato il Padre Artusi non aveva il testo poetico, cosa senza senso, poiché il

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trattamento era fatto in funzione del testo poetico, ‘ahi lasso’, esclamazione di dolore, dunque la doppia dissonanza così si
spiega: esigenza data dal testo poetico.

In prospettiva, l’importanza di questa presa di posizione teorica, Monteverdi ci dice qualcosa che sarà elemento fondamentale
nei secoli successivi: diritto di usare dissonanze anche molto aspre, se si tratta di trasmettere un certo tipo di concetto o di
emozione negativa, legata al testo, alla situazione.

Sentimento del testo giustificatore di libertà, è molto forte negli ultimi decenni della storia del madrigale italiano, attorno al
1600, e genera una serie di ricerche in cui il risultato talvolta è strabiliante, e attraverso queste attitudini troviamo in particolare
l’opera d’un compositore marginale in confronto alla tradizione del madrigale, ma nella musica sarà segnato già all’epoca e
anche tardi: Mastro don Gesualdo da Venosa. Carlo Gesualdo, principe di Venosa, grande aristocratico napoletano, pratica
la composizione come amatore, pubblica 6 raccolte di madrigali e anche di musica religiosa, mottetti per la Settimana Santa;
il fatto di non essere professionista gli dà grande libertà di comporre come vuole e senza dipendere dal successo, o dal
mercato musicale. Vita molto movimentata, assassinato la donna e l’amante, poi si trova a Ferrara dove prende contatto con
i numerosi musicisti ivi di valore, e la sua musica profana e sacra è molto sobria, caratterizzata da un sentimento di dolore
estremo, ma evidentemente esso rappresenta anche una base testuale che gli permette soluzioni estremamente audaci nel
trattamento della polifonia. Oltre alle dissonanze, la musica si caratterizza da uso estremo del cromatismo: fatto che
attraverso alterazioni cromatiche su una o più voci, egli arriva a giustapporre degli accordi che appartengono a dei modi o
ragioni armoniche estremamente distanziate le une dalle altre, con degli effetti che non si troveranno più fino al 20esimo
secolo nella musica occidentale.

Ex. VII, madrigale 5° libro, testo anonimo all’inizio, sui concetti chiave del testo si hanno dei slittamenti armonici
assolutamente strabilianti, come ad esempio: alla misura 2, su ‘grido’, grazie allo slittamento cromatico da Dodiesis a
Dobequadro, Misura 7: ahi lasso, entrata in gioco del Sibemolle, spazio tonale completamente differente; misura 14, misura
17 stesso passaggio in trasposizione con Fabequadro e Sibemolle che entrano in gioco per illustrare questo concetto della
morte silenziosa (che avevamo già incontrato da altre parti); invece, misura 10: dissonanza molto forte, ma che non è ottenuta
in maniera cromatica.

Misura 18: si indirizza all’amata, come tesoro dolce del cuore, vi è passaggio non soltanto più vivo ritmicamente ma anche
più eufonico, più gradevole all’ascolto; ultimi versi: evocazione della morte, di nuovo serie notevole di slittamenti cromatici,
a volte anche paralleli a due voci, permettendo distanziamento e giustapposizioni di sonorità distanti completamente
inimmaginabili in una polifonia tradizionale. Si ripete una volta 18-30, poi si ripete solo l’ultima battuta.

1960: Stravinskij, monumentum pro Gesualdo da Venosa, adattamento di 3 madrigali di Gesualdo, omaggio a qualcuno che
aveva fatto dell’avanguardia prima di lui.

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Lezione V
Ultima volta: abbiamo fatto un giro d’orizzonte lungo, ma il fenomeno era sia importante, complesso e di lunga durata: sul
madrigale polifonico italiano. Genere che copre più decenni, al suo interno produce più trasformazioni, per quanto concerne
il rapporto tra testo e messa in musica.
Lezione d’oggi: mettere in evidenza qualche aspetto che si lega ad un momento importante della musica profana del
Rinascimento, che in una maniera o nell’altra è (può essere) legata al ‘mainstream’ del madrigale.
(Abbiamo parlato, prima del madrigale, della Chanson parisienne, che si sviluppa a partire dagli anni 20’, e in seguito del
Madrigale (sviluppo un poco più tardivo, e apre il cammino a sviluppi più progettati verso l’avvenire); ma non si vuole dare
l’impressione che la Canzone francese fosse marginalizzata nel mercato europeo dell’epoca: bensì, i due generi coesistono,
forse in due nicchie di mercato differente (il madrigale più elevato, letterario; più popolare, diretto, la Canzone). Tuttavia,
bisogna anche dire che la Canzone francese (Chanson Française) grazie d’una parte alla circolazione di madrigali, dall’altra
grazie al fatto che ci sono dei compositori attivi nei differenti paesi e diversi generi, a partire d’un certo punto si vede anche
nella Canzone Francese l’adozione di certi principi (riguardo al rapporto testo-musica) che furono inizialmente sviluppati nel
contesto dei madrigali (attorno alla metà del secolo).
Cfr. Script. Ex. I, Roland de Lassus (1571), Canzone, composta e pubblicata 1571, compositore tra i più emblematici del
Rinascimento, Orlando di Lasso, compositore di origine fiamminga, attivo un po’ ovunque in Europa non solo in Italia,
rapporti stretti con la Francia; infine si installa alla Corte di Baviera a Monaco, dove è stato mastro di cappella; abbiamo già
fatto allusione alla amicizia molto intima che lo lega al Duca di Baviera, testimoniata da lettere piene di riflessioni,
battute…Dimostra meglio che altri fenomeni la posizione sociale e il prestigio dell’arista in questa fase storica.
Roland de Lassus è compositore estremamente prolifico, compone molta musica in tutti i generi: sacro, profano. Le opere
saranno stampate e ristampate in maniera molto sistematica, si può dire che nell’Europa di fine 16esimo secolo, e anche
all’inizio del 17esimo secolo, è, con Palestrina, il compositore stampato più di frequente, discusso dai teorici, ristampato.
Cfr. Ex. I: Testo a fine partizione, sonetto di Pierre de Ronsard (1533): Amour, amour, donne-moi paix ou trêve, pieno
petrarchismo francese, legato al contesto del gruppo della Pleiade, petrarchista nel tipo di visione dell’esperienza amorosa,
ci ricorda l’importanza e influenza della cultura del madrigale; Partizione: testo messo a musica in due parti, che
corrispondono rispettivamente alle due quartine e due terzine del sonetto (fronte e sirma), soluzione già vista nella lezione
scorsa nella messa a musica del madrigale italiano. Scrittura simile a quella del madrigale: equilibrio tra momenti imitativi e
momenti dove le voci sono piuttosto allineate, in ogni caso con dimensione sillabica che garantisce la comprensione del
testo, e comunque la presenza d’un certo numero di madrigalismo, di iconismo: misura (5): silenzio di tutte le voci,
corrisponde al termine ‘trêve’, evocato subito dopo; sentimento di tranche, tranche ma vie (v. 3 del sonetto): voce che interviene
in avanzo sulle altre (misura 10); madrigalismi dell’ascesa e discesa, misura 19 e ss., voce superiore intervallo discendente (le
jour se couche); le jour se leve intervallo ascendente, dunque un altro madrigalismo evidente. Misura 29: accelerazione dei
frammenti di gamma scorrevoli, madrigalismo per il concetto di ‘correre’; ultima parte, misura 33, entrata in gioco del Sib è
dunque la trasposizione modale per incupire l’atmosfera, evocando l’angoscia amorosa che prende il sopravvento e il poeta.
I parte: cadenza su Mi, cadenza interna (fine soltanto della prima parte), poiché la seconda invece cadrà su La (finale
dell’insieme).
2 quartine di questa prima parte sono parallele dal punto di vista metrico (sonetto), ma la musica non è la stessa, come già
visto negli esempi della settimana scorsa: nel contesto di questa estetica, il compito della musica è piuttosto quello di
sottolineare la semantica differente, dei differenti versi.
2° parte: (due terzine, terzetti): sforzi di oscuramento armonico laddove si evoca la morte; qualcosa già trovato nei madrigali,
ultimo verso ripetuto con anche (in questo caso) la ripetizione della musica.
__
Ex. II, niente in comune con il madrigale di tipo italiano, ma si tratta d’un testimone d’un tentativo particolare fatto in
Francia, seconda metà del secolo 1500, per imitare certe caratteristiche della poesia dell’antichità; messa a punto d’un
procedimento di ricreazione umanista dell’antichità, elemento fondamentale del pensiero, dell’estetica del Rinascimento. Si
vede, pur senza possedere la musica dell’antichità, com’essa progetti la sua ombra su numerosissime cose in quest’epoca,
nelle varie Arti.
Poeta Jean-Antoine de Baïf, nato a Venezia, 1532, formazione petrarchista, diviene membro della Pleiade (la Pleiade è stata
la prima scuola letteraria francese, formata da un gruppo di sette poeti nel XVI secolo. Questi si ispirarono all'omonimo
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gruppo di sette tragici alessandrini del III sec. a.C.. Il nome fu stabilito da Pierre de Ronsard, con l'obiettivo di valorizzare la
lingua francese, soprattutto contro il primato della lingua latina), e si lancia in una impresa molto particolare ed interessante;
nel 1570, con il sostegno del Re Carlo IX, fonda una Accademia di Poesia e Musica, il cui obiettivo era associare poesia e
musica secondo procedimenti ispirati all’antichità classica: principio, che si conosceva come essente fondamentale
nell’antichità: poesia-musica legati in maniera strettissima, grazie alla somiglianza dei principi metrici e ritmici. Poesia
dell’antichità: poesia fondata su metri quantitativi, ogni verso, aveva di conseguenza una serie di sillabe brevi o lunghe (cfr.
giambico -+-+-+-+-+-; cfr. anapestico --+--+--+--+; …), organizzate per schemi di ripetizione (piedi). La lunghezza delle
sillabe era determinata dal metro, dunque la musica sopra composta aveva il ritmo già determinato dallo schema metrico
presente nella poesia.
La poesia moderna non è quantitativa ma piuttosto accentuativa, ma ciò non impedisce che a più riprese nella storia della
poesia delle lingue moderne occidentali si sia coltivata l’utopia, l’idea di fare rivivere il sistema dell’antichità che consiste a
costruire un segmento di poesia, su serie di versi dello stesso tipo, e ogni verso è formato al suo interno da una seriazione di
sillabe lunghe o brevi, da un insieme di piedi (unità sillabe lunghe-brevi) che si ripete per ciascun verso. Ottenendo così una
perfetta omogeneità, isoritmia metrica che circola nei differenti versi, e per questo stesso aspetto, facilitare la regolarità della
messa a musica, poiché se tutti i versi hanno esattamente lo stesso metro e ritmo implicito, il compositore che mette in
musica potrà trattarli in maniera regolare.
Così Jean-Antoine de Baïf inizia a scrivere e pubblicare i suoi Versi misurati all’antica, pratica soprattutto di Claude le jeune,
presto associato al lavoro dell’accademia, e scrive musica associata a questo principio negli anni del 1580.
Ex. II: guardando il testo, si ha un refrain di due versi, che ritorna in seguito tra le strofe; poi, strofe che non sono delle vere
strofe poiché hanno lunghezza diversa, non ci sono rime poiché è una invenzione della poesia moderna europea; invece, c’è
un ritmo fisso, che determina il metro di ciascun verso tranne qualche irregolarità: (cfr. 20:20, esempio di come leggere il
ritmo per la prima misura, resta valido per l’insieme del componimento). Il ritmo musicale deve duplicarsi, seguire il metro
poetico, significa che praticamente tutti i versi sono cantati sullo stesso schema ritmico.
Di fatto Claude Le Jeune cerca, nella messa a musica, di attenuare un poco questa regolarità, prima giocando con il numero
di voci (il refrain è a 5 voci, perfettamente omoritmico); le strofe hanno numero crescente di voci, e qui ci possono essere
varianti, differenze tra le voci, poiché alcune possono fare delle diminuzioni, ma senza che questo contraccambi il luogo
dove cade l’accento e la struttura ritmica generale del componimento; musica molto viva, leggera, piacevole, non ha il tipo
di profondità semantica del Madrigale, o della Canzone influenzata dal Madrigale; il primato della ripetizione ritmica, della
periodicità ritmica, genera sempre una musica facile, piacevole all’ascolto; dietro questo: idea di recupero di certi elementi di
musica e poesia dell’antichità (ascolto fino a 25:20).
Carattere molto ritmato, allineato di questa musica permette, ora, di ritornare al Sud delle Alpi, introducendo ora un’altra
digressione in rapporto al mainstream del Madrigale, ovvero il fatto che nel mercato della musica italiana, a parte del Madrigale,
con caratteristiche di genere piuttosto elevato, per ciò che concerne testo e stile, si assiste allo sviluppo parallelo d’un
repertorio più semplice, immediato, che conserva un carattere piuttosto popolare, già a partire dai testi poetici, e di cui la
messa a musica ha caratteristiche di immediatezza, regolarità ritmica, cose molto diverse da ciò che troviamo nel Madrigale.
In un certo senso, si può dire che questa tradizione ritorna, rinnova, in modo più semplice quello della Frottola, ma anche
con alcune caratteristiche della Chanson parisienne, soprattutto dell’inizio.
Non c’è un termine esatto che inglobi l’insieme di questo genere, forse si può applicare quello di Canzonetta, diminutivo di
Canzone, poiché hanno carattere leggero, avendo una forma strofica molto spesso, scritta in maniera da essere molto ritmata,
essenzialmente omoritmica, mentre abbiamo visto che il Madrigale applica una scrittura più complessa; i testi sono spesso
in lingua vernacolare, quasi nel senso di dialetto, e al di là di questo presentano in maniera comica il linguaggio, il gergo,
tipico di alcuni gruppi sociali o geografici: ci sono delle ‘villanelle’ (campagnole), ‘napolitane’, ‘grechesche’, …. Il
componimento seguente, EX. III, Roland de Lassus, compositore che ormai conosciamo, scritto in Italia, ma pubblicato in
Francia (ne dice della circolazione di questo repertorio): è una ‘todesca’, prende in giro il linguaggio misto dei tedeschi, in
particolare dei Lanzichenecchi, mercenari tedeschi e svizzeri, numerosi in Italia: qualche decennio di guerre aveva fatto sì
che tutti gli uomini armati finissero per affrontarsi in Italia, in gran numero mercenari tedeschi. Si tratta di una serenata,
cantata da un lanze (lanzknecht), soldato mercenario, sotto la finestra d’una dama, in lingua bastarda, italiano germanizzato,
che doveva fare ridere gli ascoltatori. Tono popolare, anche volgare alla fine, ma così, lo stesso mercenario lo riconosce, ‘io
non conosco Petrarca’, ‘la lingua poetica elevata’, ma ho altre qualità. Referenza a Petrarca in modo ironico rispetto al
Madrigale. Altro aspetto comico: onomatopea, ci si immagini che sia accompagnato da un mandolino o un liuto, e si trova
l’onomatopea (don don – diri diri – don don), in riferimento allo strumento a corde.

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Tipo di scrittura di tale repertorio: allineamento verticale delle voci, omoritmia, trattamento essenzialmente sillabico del testo,
molto vivo, qui c’è soltanto qualche spostamento/divario nelle cadenze alla fine delle onomatopee, o con tocco
d’illustrazione nei testi a momenti (quando parla della caccia); ma è più che altro una musica molto ritmata in modo lineare,
con allineamenti delle voci verticali. Componimento molto piacevole, con entrata spesso nei concerti di gruppi amatori,
piccoli cori.
Si è sentito, forse ancora più nel componimento di Claude le Jeune (non molto diverso da questo quanto alla scrittura
musicale), che fino a che la scrittura è omoritmica, dunque tutte le voci possono sovrapporsi e seguire lo stesso schema, è
più facile per il compositore, e diviene una tentazione, obbligazione, costruire il discorso musicale secondo una sintassi
regolare, periodica; non c’è una o l’altra voce che si stacca dalle altre e continua mentre le altre hanno terminato, oppure è
già in avanti rispetto alle altre. Qui, tutto è ben allineato, la tendenza è ad andare verso una certa regolarità periodica delle
frasi, qualcosa che farà sempre più fondamentalmente parte della tradizione della Canzonetta, tanto quanto la musica
polifonica che presto nella nuova ‘monodia accompagnata’.
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La strutturazione regolare delle frasi è qualcosa che si trova, normalmente, nella ‘musica di danza’, poiché in quel contesto è
necessaria una simmetria dei movimenti nelle differenti direzioni; questo tipo di repertorio ha qualcosa in comune con lo
stile, la maniera di scrivere, della musica fatta per la danza.
Analogia: con l’aiuto d’un componimento di musica dell’epoca, forse meno noto di altri, Giovanni Giacomo Gastoldi,
essenzialmente compositore di musica sacra, maestro di cappella per la Basilica di Santa Barbara di Mantova, ha composto,
tra le altre cose, dei Madrigali, ma anche dei componimenti che chiama ‘Balletti’, designa dunque della musica per la danza
ma che di fatto non lo sono, sono delle Canzonette diciamo, ma fondate sulla simmetria: frasi sempre di 2 o 4 misure,
omoritmia evidente, con piccoli momenti di divario, per sottolineare l’allineamento e la vivacità ritmica del tutto. Bisogna
immaginarlo come una ‘colonna sonora musicale’ d’un carro musicale di carnevale, dove il soggetto, Amore, si presenta
attorniato dai suoi seguitori. Cfr. Ex. IV, G. G. Gastoldi, Balletti, Venezia 1591, IX. – Amor vittorioso
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3° digressione, repertorio che ha molti rapporti con quello che abbiamo detto finora, concerne un piccolo repertorio, che
però ha suscitato grande attenzione non soltanto da parte dei musicologi, ma anche cose che ancora oggi si sentono cantare
spesso; sviluppo intorno al 1600, e qualche anno più tardi: ‘Commedie Armoniche’, Commedie a musica, ma non si tratta di
teatro propriamente rappresentato, non in questo senso Commedie, ma piuttosto un ciclo di componimenti, per la maggior
parte nello stile della Canzonetta, su testi dialogati che si riferiscono a differenti situazioni di una Commedia. Non è concepito
per essere rappresentato, tra le altre cose perché resta musica polifonica, per la quale non c’è corrispondenza tra voce e
personaggio, ma tutte le voci cantano le diverse repliche dei diversi personaggi; d’altronde, nella prefazione della più celebre,
L’Amfiparnaso di Orazio Vecchi, 1597, si insiste diverse volte sul fatto che sia qualche cosa immaginato per l’ascolto, per
l’udito, che la vista non ha ruolo, e dunque anche per questo, tra le altre cose, non si mette in musica un testo completo della
Commedia, ma piuttosto una serie di estratti che corrispondono a situazioni tipiche; di per sé non è qualcosa che vada
rappresentato, sebbene oggi ci sia qualcuno che tenta di rappresentarlo, ad esempio con attori/mimi sulla scena, cantanti
nella fossa; il concetto è però di musica per canto, in un contesto molto stretto (gruppo di amici intorno ad un tavolo), e
cantando evoca certe situazioni d’una rappresentazione di tipi comico.
Repertorio totalmente differente dall’essenza del teatro musicale propriamente detto, che effettivamente si situa nello stesso
momento ma in contesto diverso, ed è immaginato come forma di rappresentazione.
EX. V, Orazio Vecchi: attivo come maestro di cappella in più istituzione ecclesiastiche nell’Italia del Nord, e infine stabilitosi
alla Cattedrale di Modena come maestro di cappella, che era la sua città; ha praticato molti generi della musica sacra in
particolare, oggi citato soprattutto per l’Amfiparnaso. ‘Le due cime del Monte Parnaso’, per fare allusione al fatto che nella
Poesia la dimensione Tragica e la dimensione Comica, ovviamente qui soprattutto comica. Il testo consiste in una serie di
estratti, di cosa potrebbe essere una sorta di forma molto semplice di una tipica Commedia dell’Arte, rappresentazioni teatrali
con personaggi fissi, fatte da troupe di attori professionali che in parte improvvisavano. La Commedia dell’Arte è un
fenomeno molto importante dell’Italia del 16esimo secolo, poi Parigi, e con vicissitudini varie per molti decenni a venire,
ancora Molière ne sarà molto influenzato un secolo più tardi.
Personaggi fissi, Pantalone (vecchio borghese Veneziano ricco e avaro); il Dottore (origine di Bologna, università; ma in
realtà assolutamente ignorante e stupido); i personaggi tipici dei Servi, talvolta furbi e talvolta imbecilli, i Giovani amorosi,
per cui si usa un linguaggio più elevato (satira della lingua della poesia amorosa, del Petrarchismo dell’epoca).
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I astratto: testo in parte dialettale, secondo la situazione tipica della Commedia, il Vecchio Pantalone ha deciso di sposare
sua figlia al Dottore; all’inizio del dialogo Pantalone chiama il suo servitore, e gli dice: visto che ho deciso che bisogna fare
le nozze, bisogna invitare i parenti; Il valletto: certo d’accordo, rimarcando la lingua dialettale delle campagne, ma i miei
parenti? Pantalone: chi sono queste genti? Valletto: risponde con serie di nomi, catalogo, di nomi comici per i suoi parenti;
Pantalone lo tace, e lì arriva il Dottore; Pantalone, verso la fine, gli parla con affetto, chiedendo di cantare un piccolo
madrigale; il Dottore, Graziano, risponde in dialetto di bologna, rispondendo positivamente con il suo madrigale favorito;
Pantalone fa avvisare la figlia dal valletto di prepararsi alla finestra, poiché il Dottore eseguirà una serenata per lei. Ascoltando
il componimento, si nota subito differenti repliche, cantate dall’insieme del gruppo vocale, nello stile della Canzonetta della
Villanella, stile vivo, trattamento essenzialmente omoritmico, con allineamento verticale delle voci, chiarità ritmica molto
importante; da notare il passaggio dove c’è la lista di parenti di Francatrippa, con ripetizione ostinata su armonia fissa; l’arrivo
del dottore che giunge suonando uno strumento simile a un Sitar/Zimbalone (lambaiù) o forse solo un liuto; e qualcosa già
ritrovato in Orlando di Lasso, ovvero l’onomatopea che evoca il suono dello strumento a corde (Atto Terzo, Scena prima).
(Atto Terzo, Scena seconda, Graziano, Pantalone, Francatrippa): il Dottore canta un Madrigale, quello favorito, lo
conosciamo già poiché si tratta di Ancor che col partire…(cfr. Madrigale trattato a pagina 18 degli appunti), Cyprien de Rore;
tranne che, essendo idiota, non comprende il testo che canta, dunque lo trasforma in un testo assurdo, testo surreale, nel
quale il vocabolario è essenzialmente di tipo gastronomico. Dice che ama l’acquavite, le mele, e soprattutto dove il testo del
madrigale parla dei ‘ritorni’, diventano degli ‘storni’, che ama mangiare grigliati. Tuttavia, la musica resta quella del madrigale
di Cipriano de Rore, che tra l’altro era già vecchio d’un mezzo secolo, rimarcabile durata di questo componimento; alla fine,
il senso della parodia/comico si sviluppa soprattutto grazie al contrasto esistente tra testo divenuto strambo e la musica che
mantiene il livello elevato di scrittura ch’era quello del Madrigale Petrarchista.
(58:18, arresto alla Misura 41): interessante notare la flessibilità, ricchezza delle pratiche; si tratta all’origine d’un madrigale
polifonico a quattro voci; probabilmente nella sua pratica, il componimento era cantato a più adattamenti, in parti vocali e
strumentali, e probabilmente anche come componimento per una voce melodica e le altre parti trasferite ad uno strumento
come il liuto. Nella Commedia virtuale che è suonata, il Dottore dovrebbe cantarlo come Serenata, alla finestra della figlia di
Pantalone, ad una voce con l’accompagnamento del liuto. Tuttavia, essendo l’Amfiparnaso una Commedia Armonica
Polifonica, ridiventa polifonica ma a 5 voci, poiché è a 5 voci; dunque effettivamente Orazio Vecchi riprende il testo di
Cipriano ma ne fa arrangiamento leggero, trasformandolo e arricchendolo per farne una composizione a 5 voci. Inutile dire
che Pantalone non si rende conto delle assurdità cantate dal Dottore, dunque commenta entusiasta la sua voce e la sua musica
(a partire da Misura 42).
(Atto Terzo, scena terza, Francatrippa e Hebrei di dentro): abbiamo detto che nel repertorio della Canzonetta, e differenti
varianti, spesso c’è rappresentazione ironica, comica, di certi gruppi sociali, tra gli altri stranieri che vivono nell’Italia
dell’epoca; abbiamo visto la parodia del linguaggio dei lanzichenecchi (cfr. Rolando di Lasso); ora c’è una scena che si presta
bene a questo tipo di parodia: il valletto di Pantalone, Francatrippa, ha bisogno di denaro, dunque va a farsene prestare
dall’Ebreo, principale funzione degli Ebrei, soprattutto a Venezia (più grande comunità del primo ghetto europeo, quartiere
che ha dato il nome a tutti i quartieri Ebrei dell’Europa). Francatrippa bussa alla porta (cfr. onomatopea), e chiama l’Ebreo,
oppure Ebreorum gentibus, nessuno apre, dall’interno arriva il suono d’una cerimonia religiosa, la parodia d’un canto di
sinagoga, in una lingua che si vuole pasticcio di sonorità ebraiche; Francatrippa si affaccia, bussa di nuova, il canto continua,
ad un certo punto uno degli ebrei si chiede chi bussa? Francatrippa si presenta, chiede il prestito, gli Ebrei rifiutano poiché
oggi è sabato, giorno di riposo. Come tutte le parodie che riguardano gruppi sociali marginalizzati, spesso perseguiti, anche
se a Venezia stavano meglio che da altre parti, si può vedere antisemitismo e allo stesso tempo un interesse per noi come
testimonianza della complessità delle relazioni sociali in una società della Prima modernità, e allo stesso tempo come
testimonianza di cosa poteva essere il canto della sinagoga al tempo, il modo in cui veniva percepito, notevole l’aspetto di
melismo come elemento fondamentale del canto di sinagoga, sorprendente alle orecchie cristiane, durerà molto, ancora fino
alla rappresentazione di Wagner di Beckmesser nel Mastro Cantore (si riferisce molto probabilmente alle caratteristiche del
canto liturgico ebraico).
4° digressione: preparazione di cosa parleremo nelle prossime settimane, ovvero cercare di identificare le basi d’una
trasformazione tecnica e stilistica molto importante, che si situa attorno al 1600, ovvero quella dell’abbandono graduale della
polifonia a voci d’importanza uguale, e sviluppando un tipo di scrittura fondato sulla polarità tra una o più voci melodiche e
un ‘basso’ armonizzato strumentale. In realtà, prima si deve ricordare alcune condizioni di base del consumo del repertorio
della musica profana in Italia: Madrigali, Canzoni, Villanelle, Canzonette, … tutto questo repertorio era stato essenzialmente,
lungo il secolo, un repertorio concepito per gli amatori; ecco perché lo sviluppo della stampa musicale era fondamentale,
poiché si trattava di fare arrivare queste composizioni a prezzo ragionevole nelle case degli amatori. Dunque in principio il
Madrigale o la Canzonetta era qualcosa che si cantava a casa, 4-5 attorno un tavolo, con forse qualche auditore nel gruppo
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ma non per forza; non è una esecuzione per il pubblico, qualcosa che si faceva per sé stesso. Abbiamo visto che, in principio,
questi componimenti sono concepiti come componimenti polifonici in cui le differenti voci partecipano in una idea
contrappuntistica secondo la quale ciascuna voce ha la sua importanza e indipendenza; soprattutto per il Madrigale che le
Canzonette, dove il Bassus ha ogni tanto la funzione armonica; in ogni caso, sono concepiti per essere cantati ha più voci.
La consumazione reale era più differenziata: cfr. iconografia di musicisti: quasi mai gruppi con più cantori (come avremmo
immagino per il modo di cantare un Madrigale) ma piuttosto dei gruppi misti, con 1 o 2 cantori e gli strumenti che leggono
in parte gli stessi quaderni, o ciascuno il suo; comunque sempre, nella pratica, quello che era esplicito all’epoca, cfr. Petrucci
trascrizioni di Frottole per voce e liuto, ovvero una parte della musica polifonica era sempre confidata all’essere o suonata
come tale o all’essere affidata agli strumenti.
Cfr. Dottore che canta un Madrigale nell’Amfiparnaso, prende per se la parte superiore e il liuto riassume le altre, era una
pratica assolutamente normale. Questo tipo di esecuzione era un affare della pratica corrente, non passava per delle
trascrizioni messe sui fogli. Anche se spesso si mettevano su fogli trascrizioni completamente strumentali, dunque
idiomatiche, di pezzi celebri.
Novità di fine secolo: nella musica profana, si inizia a vedere la nascita d’un repertorio concepito e immediatamente notato
su carta, per un numero ridotto di voci e degli accompagnamenti strumentali; questo, per il motivo che non si tratta più solo
d’una pratica di realizzazione mista d’un componimento polifonico, ma bensì, poiché ormai le voci, il canto, e
l’accompagnamento strumentale hanno caratteristiche e funzioni molto differenti: il canto è sempre più virtuoso, complesso,
le parti strumentali si concentrano sempre più sulla funzione di fondamento armonico, ‘di accompagnamento’. Ciò che era
soltanto una pratica ‘sonora’ diventa sempre più una forma pratica di scrittura, fondata sulla polarizzazione tra due funzioni
differenti: il canto a 1 o piccolo numero di linee di canto sempre più virtuose + accompagnamento strumentale.
Cfr. Script, ex. VI, Luzzasco Luzzaschi, musicista attivo alla corte di Ferrara, su un testo di Guarini, l’autore di Berget fidèle,
anche se il testo deriva piuttosto qui da uno dei suoi poemi amorosi: testo che sarà anche messo in musica da Monteverdi.
Si nota come il componimento è composto per 3 voci femminili acute, e un accompagnamento su due pentagrammi,
destinato dunque al clavicembalo. Stampato in una raccolta che si intitola ‘Madrigali per una, due o tre voci’ pubblicata nel
1601, ogni volta con accompagnamento strumentale. Pubblicazione è postuma, poiché la corte di Ferrara non esiste più; i
componimenti erano stati composti negli anni 1580-1590 per delle interpreti precisi, un gruppo di 3 dame che erano cantanti
professionali alla Corte; di reputazione immensa. Contesto particolare, non musica fatta per amatori, ma piuttosto musica
immaginata, composta, per professionisti, che si esibisce davanti ad un pubblico, prestigioso, sebbene ristretto. Mentre
questo tipo di consumo era in vigore, questa musica non era stampata, poiché era immaginata in funzione di questa attività
alla corte; alla fine, Luzzasco non le fece stampare che a posteriori come testimonianza postuma di ciò che si faceva alla
Corte di Ferrara vent’anni prima. Sono ancora con nome di madrigali, ma non portano con sé la funzione sociale del
Madrigale di cui abbiamo parlato: si lega a trasformazioni profonde nella società dell’epoca: re-feudalizzazione della società,
tentativo da parte della aristocrazia e corti di riprendere in mano il controllo, implicando una trasformazione anche nei
riguardi della presenza e funzione della musica, delle arti. La pratica per tutti, garantita dalla stampa musicale, perde velocità,
e sono piuttosto le pratiche professionali di prestigio, legate alla necessità delle corti, delle élite, di mostrare il loro potere e
la loro ricchezza, che fanno evolvere la musica; le trasformazioni nella struttura musicale (polarizzazione), sono legate a
questo cambiamento di funzione della musica.
Madrigale in cui le voci mostrano tentativo di ornamento, dunque un certo livello di virtuosità. L’utilizzo della diminuzione,
dell’ornamento, della coloratura (tecnica vocale elaborata) è segno del fatto che questa musica è concepita per dei virtuosi,
agenti a livello prestigioso.
Cfr. Script, Ex. VII, Firenze, 1589, intermedi composti per la festa d’un matrimonio, ascolto e guardarne un estratto soltanto,
per ora, frammento d’una rappresentazione scenica: il personaggio che canta è allegoria dell’Armonia, o della Musica, che
discende grazie ad una macchina scenica elaborata dalle Alte Sfere (Armonia – Sfere), e si presenta al pubblico, al grande
pubblico in questo caso (celebrazione d’una festa principesca) attraverso un linguaggio estremamente elaborato; interprete è
Vittoria Archilei, la più grande virtuosa di canto dell’epoca.
Struttura della partizione: 1 voce estremamente elaborata, 4 parti strumentali probabilmente confinate a 4 strumenti a corde
che la sostengono. Polarizzazione tra canto virtuoso e accompagnamento è qui chiaramente compiuta. Contesto sociale e
funzionale differente, esige un tipo di musica differente, e questo tipo di musica a sua volta determina una trasformazione
nella maniera di scrivere, nella struttura stessa del discorso musicale: abbandono della polifonia a più voci autonoma e eguale
e adozione di scrittura polarizzata, che sarà presto fissata nella pratica del ‘basso continuato’.

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Lezione VI
Cominciamo completando le osservazioni dell’ultima volta, a fine lezione: tendenza non solo a realizzare nella pratica di
esecuzione, ma di mettere per iscritto d’una parte dei componimenti vocali con struttura per voci melodiche e dall’altra una
sintesi dell’accompagnamento, per strumento armonico (polarizzazione). Fenomeno che si osserva nella stampa musicale
italiana, presto poi in Europa: Francia (air de cour: repertorio di musica vocale in cui la voce accompagnata da liuto); Inghilterra
(repertorio delle canzoni accompagnate dal liuto).

Cfr. Script, Ex I: compositore celebre, canzoni che circolano ovunque, ancora oggi ben rappresentato nel repertorio odierno,
J. Dowland, canzoni strumentali e componimenti per voce e liuto in accompagnamento. Canzone qui ha due voci (acuta e
basso) con accompagnamento di liuto (tablatura per liuto di Dowland), composizione Flow my tears, storia del componimento
particolare: all’origine vi sta una pavane, ovvero una danza lenta a carattere piuttosto melancolico, poi chiamata ‘lacrime’, a
partire dal titolo della versione vocale. Le due versioni, vocale e strumentale, hanno una circolazione enorme. Versione per
voce e liuto: conosciutissima all’epoca.
Maniera: rapporto tra le due voci è ancora pienamente mondo del madrigale italiano (successo immenso in Inghilterra a
partire dal 1580): le altre voci sono sintetizzate però sulla forma di accompagnamento del liuto.
Testo: sobrio, lamento dell’esiliato a 5 strofe; forma musicale particolare: strofe 1-2 cantate sulla stessa musica, strofe 3-4
cantate sulla stessa musica. 5° strofa, con il suo testo, cantata due volte. Oggi: fenomeno mediatico, di solito 1 voce con
qualche sorta di accompagnamento. La si sente cantare in concerti di musica antica, ma anche ripresa da cantanti moderni
(cfr. Sting e E. Karamazov).

Osserviamo, per questo ultimo decennio, fenomeno prima di pratica di esecuzione, che consiste nel concentrare la
dimensione melodica su 1 o poche voci, aventi funzione melodica, e a sintetizzare le altre ev. voci in una forma di
accompagnamento strumentale. In Italia, paese al momento fondamentale e decisivo per tutte le innovazioni musicali,
tendenza che si accelera in maniera drammatica attorno al 1600, genera nuove pratiche di scritture e approcci estetici che
ridefiniscono l’aspetto della musica europea. Ciò va a coincidere precisamente con il cambiamento di secolo, e aumenta
dunque l’impressione d’essere di fronte ad una trasformazione radicale e violenta.

1° sintomo della trasformazione, poi fondamentale per permettere tecnicamente tutto ciò che presto andremo ad esporre:
cambiamento, ritorno, nel punto di vista della presentazione fisica delle voci sul foglio; all’epoca di Notre-Dame, le voci
erano disposte verticalmente, in forma di partizione; in seguito, assieme alla precisione dell’indicazione del ritmo che diviene
più importante, si adotta nella polifonia occidentale il principio della scrittura musicale per parti separare, può essere sullo
stesso foglio o come spesso nei casi di manoscritti di musica religiose o frottole di Petrucci (recto e verso, 2 e 2) oppure dei
quaderni separati, set di piccoli quaderni per voce.
Alla fine del 16esimo secolo, si assiste al grande ritorno della partizione: pagina sulla quale tutte le voci o strumenti sono
disposti l’uno sopra l’altro, così da avere visione simultanea, verticale, dell’insieme della costruzione sonora.

Cfr. Script, Ex. II: pagina di madrigale a 1 2 o 3 soprani di Luzzasco Luzzaschi, le 3 voci sono disposte l’una a di sopra
dell’altra, alla fine con il sistema per il clavicembalo in basso; ill. II: inizio dell’Orfeo di Monteverdi, la ‘toccata’, piccola
apertura che precede l’opera: tutti gli strumenti sono disposti secondo il principio del più acuto (pentagramma superiore) al
più grave (pentagramma inferiore).
Componimento polifonico del 16esimo secolo era normalmente presentato in parti separate, dunque il ricercatore odierno
per analizzare oggi il madrigale deve trascriverlo e metterlo in partizione; attorno al 1600, si impone la pratica di pubblicare
edizioni musicali in forma di partizioni oppure di scrivere manoscritti alla stessa maniera.
Vantaggi della scrittura musicale in partizioni: I)anche se i diversi cantanti delle diverse voci potrebbero semplicemente avere
il loro quaderno individuale, ci deve essere un musicista, normalmente uno che suona organo, clavicembalo, liuto, che vede
l’insieme della partizione, poiché questo gli permette eventualmente di sintetizzare un certo numero di voci sul suo proprio
strumento. Abbiamo detto che la professionalizzazione crescente è tipica di questa fase; dunque il musicista, è in grado,
leggendo partizione, di trasferire sul suo strumento le voci che ev. non sono cantate da un cantante o suonate da un musicista:
gli permette di avere versione sintetica dell’insieme delle armonie del componimento; II)aumenta questa fase l’accento sulla
flessibilità ed espressività del canto solista, della monodia, e da questo punto di vista ciò genera oscillazioni di tempo, difficili
da gestire se lo strumento armonico che accompagna la voce non possiede a sua volta sotto gli occhi le parti della voce;
qualcuno deve poter controllare l’insieme della struttura musicale, così da poter seguire tutte le oscillazioni che possono
essere fatte a livello della voce. Principio ancora oggi fondamentale, nel caso in cui ad esempio ci sia un piano che
accompagna un cantante in una Lied o in una riduzione per piano e canto di altre opere.
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Il ricorso alle partizioni si sviluppa assieme ad un’altra tecnica che guarda allo stesso obiettivo, ovvero la facilitazione
dell’esecuzione d’un fondamento strumentale in rapporto ad una esecuzione che prevede un numero variabile di voci
melodiche. Certi manoscritti ed edizioni di questi ultimi decenni, prevedono una parte chiamata ‘basso seguente’, che segue
l’insieme della composizione: linea di basso dedotta dalla parte più grave della polifonia, che è fornita separatamente, da chi
deve suonare l’organo, clavicembalo, o liuto (strumento polifonico) cosicché possa farne il fondamento armonico del tutto
(importante soprattutto nelle piccole chiese, dove non si ha abbastanza voci per cantare ad es. Palestrina con tutte le voci
previste; fornendo la base dell’armonia).
Tale pratica si precisa attorno al 1600, con la nascita della tecnica fondamentale della composizione e presentazione grafica
della musica per due secoli, ovvero ‘il basso continuato’. In alcuni vecchi manuali, viene addirittura detto che si possono
considerare 17esimo e 18 secolo come l’epoca del ‘basso continuato’, come se fosse elemento fondamentale; in realtà è
piuttosto tecnica che permette di ben annotare il tipo di accompagnamento di base strumentale che diviene importante una
volta che la polarizzazione di cui abbiamo parlato si produce: piuttosto che polifonia, abbiamo una monodia, o ‘stile
concertato con basso continuato’: linea di basso, che si trova alla base della partizione o su quaderno separato, a partire dal
quale il musicista che accompagna (clavicembalo, liuto…) dovrebbe produrre le armonie nel componimento; si chiama così
poiché è sempre in funzione, dall’inizio alla fine, indipendentemente dal numero di voci o strumenti che sono utilizzati in
vari momenti del componimento.
Non si tratta che di una linea: il musicista deve trarne degli accordi, che armonizzano tale linea. Come fanno a fare quali
accordi? Ci sono due possibilità: I)avere a disposizione una partizione: il musicista suona la linea di basso e decide quali sono
le armonie sovrapposte guardando l’insieme delle altre voci; II)c’è una forma di annotazione che gli comunica quali sono gli
accordi da fare, a mo’ di cifre, che indicano il tipo di intervallo, dunque il tipo di accordo sopra costruito.
Cfr. Ill. III: inizio di un componimento che vedremo in seguito, Amarilli mia bella di Giulio Caccini, vediamo che c’è in cima
la voce, in basso la linea di basso, sulla quale ci sono talvolta le cifre. In principio: se non c’è niente immaginiamo accordo
normale di 3° e 5°, altrimenti abbiamo delle cifre: 6° (accordo di 3° e 6°); 4° e 6° (accordo di 4° e 6°); 7° (accordo di 7°);
diesis o bemolle possono segnalare che la terza che sarebbe naturalmente minore diventa maggiore o viceversa. La
realizzazione del basso continuato era una questione di pratica di esecuzione, inizialmente l’idea è di fare un accordo per
ciascuna nota della linea di basso. Cfr. Ill. IV: Amarilli mia bella, armonizzazione fatta dal figlio di Dowland, all’origine
tablatura per liuto; tranne qualche nota di passaggio, in principio si limita a mettere un accordo su ciascuna nota del ‘basso’.
Essendo la pratica durata per quasi 2 secoli, resta aperta la possibilità di farne cose più complesse: ci sono trattamenti,
pubblicazioni pedagogiche, studiate oggi per comprendere cosa se ne può fare. La scrittura per ‘basso continuato’ solitamente
non porta con sé l’indicazione dello strumento per la quale è concepita. Spesso è implicito: musica sacra per le chiese è
organo, musica profana nei saloni è clavicembalo o liuto (o piuttosto arciliuto, anche detto ‘liutone’, considerato come molto
adattato alla pratica del basso continuato). Possiamo immaginare, come spesso veniva fatto, che più strumenti prendono
parte al basso continuato, allo stesso tempo o condividendo momenti diversi per motivi di sonorità; 18esimo secolo:
Germania, pratica di realizzare il b.c. con strumento melodico grave (violoncello) e strumento armonico (clavicembalo o
liuto), tipico della musica barocca; ma la pratica era molto variata, talvolta anche sorprendente, cfr. Corelli, 1700: basso
continuato con clavicembalo o violoncello (trattato come armonico, con arpeggi). Realizzazione aperta, mostra che la
trasformazione è legata alla evoluzione del savoir faire professionale di cui abbiamo parlato nella storia musicale; inoltre, l’idea
e potersi adattare secondo le esigenze reali, pratiche, i mezzi che si hanno a disposizione.

Pubblicazioni a stampa: prime edizioni di musica con basso continuato cifrato è attorno al 1600-1602, momento di passaggio.
Spesso, quando si è in un b.c., e il continuista legge da partizione, si può non usare le cifre poiché il buon continuista è capace
di decifrare l’armonia che doveva fare partendo dalla lettura della partizione, cfr. Ill. V, frammento d’un manoscritto di
Vivaldi, che non amava le cifre, il continuista doveva saperlo fare senza cifre, qui le mette però, progressione con ritardo di
settima sulla sesta, e comunque precisa che le cifre siano: ‘per li coglioni’ (chi non sa decifrare la struttura armonica della
partizione).

Per riassumere, d’una parte l’uso sempre più importante del formato della partizione come modo per avere sotto gli occhi
l’insieme, dunque anche per accompagnare in modo corretto; e la pratica del ‘basso continuato’, del basso continuato cifrato,
come modo per avere sempre armonia completa indipendentemente dal numero di voci soprastanti. 2 elementi che
caratterizzano ciò che descriviamo come ‘monodia accompagnata’, nuova epoca della monodia con ‘basso continuato’. Tutti
i manuali utilizzano il termine di ‘monodia’, termine impreciso: I)monodia significa canto solista, per 1 sola voce, deriva
dall’antichità classica, ma ora è monodia accompagnata, risultata dalla polarizzazione di una polifonia; dunque sottolinea
piuttosto la superficie che la struttura profonda; II)la monodia in realtà può implicare anche due o tre voci melodiche,
opposte all’accompagnamento strumentale; dunque, di nuovo, si tratta d’una definizione imprecisa. In ogni caso, si afferma.

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Inoltre, attenzione: tendenza talvolta a mischiare le cose, mettere in rapporto l’idea della monodia accompagnata con quella
della ‘seconda pratica’, di Monteverdi, primo decennio del 1600: sono due cose differenti; Monteverdi designa così l’abitudine
tecnica che consiste a fare dissonanze, così da mettere avanti l’espressività del testo: e in polifonia e in monodia
accompagnata. Cfr. Cyprian de Rore, primo a fare la seconda pratica (attivo mezzo secolo prima).
L’affermazione della monodia accompagnata attorno al 1600 rimonta alla radicalizzazione del processo di polarizzazione già
in corso, ma lo si può spiegare per 2 fenomeni paralleli tra loro differenti, che infine si fondono: I)virtuosismo, qualità di
bellezza ed estensione della voce, oscillazioni le più ricche, ‘coloratura’, ornamenti filigranati e precisi, tecniche che fanno la
delizia degli auditori (sviluppo d’una generazione di grandi cantanti, cfr. Vittoria Archilei): per la messa a valore della voce
d’un virtuoso, il canto solista diviene base composizionale fondamentale; II)culminazione delle tendenze musicali che si
legano all’idea di Rinascimento, rinnovare le teorie e concezioni musicali dell’antichità classica: attorno agli anni 80’,
soprattutto a Firenze, si inizia a porsi la questione: come fare rivivere la musica dell’antichità classica, soprattutto ottenere
effetti mirabolanti che secondo la mitologia e secondo anche dei filosofi, come Platone, la musica aveva la possibilità di fare
scaturire. Risposta: la musica della antichità classica era monodica. In realtà, la ragione per cui era così potente era che una
sola linea melodica ha il compito di corrispondere alla dimensione affettiva della ‘prosodia della parola’. Concetto di base: ci
deve essere analogia di fondo tra parola e musica; mentre parliamo, mentre parliamo con investimento emotivo, alla fine,
pronunciamo le sillabe secondo differenti ritmi, velocità, altezze, dunque la prosodia rappresenta già una musica della lingua
che è strettamente collegata alle emozioni percepite e che si possono trasmettere; sorta di prosodia affettiva, già presente
nella parola, nel linguaggio, che la musica, il canto, ha il compito di fissare e amplificare, dotare di altezza e ritmo più preciso,
ma che deve derivare da questa espressività naturale della parola.

Gli addetti di questa teorica, consigliavano di ascoltare prima la musica che esiste già nella comunicazione umana: ascoltare
come la mamma parla al figlio, come due persone si parlano litigando…. Costruzione di una idea di identità, analogia forte,
tra musica e la parola: la messa a musica d’un testo non è altra cosa che amplificazione di cosa già la parola ha in sé in quanto
parola emozionale. Origine d’una utopia, d’un topos che ritorna di tanto in tanto nella musica occidentale, cfr. J. J. Rousseau
‘teorizza origine comune della musica e del linguaggio un secolo dopo’; adepti della Scuola Nazionale Musosvkj e Janacek
(1854, Moravia, Cechia) più tardi, che costruiscono una musica specifica del loro paese a partire dalle caratteristiche sonore
e prosodiche della lingua (in realtà, G. Mei, 1519, lo aveva già detto mezzo millennio prima).

Nella riflessione di questi intellettuali del Rinascimento, questo principio ha conseguenze importanti: rifiuto della polifonia.
Se la musica è sviluppo di caratteristiche prosodiche del discorso, un testo (x) non può avere che una sola forma adattata di
prosodia emozionale, dunque non può che avere 1 maniera di metterlo in musica. La polifonia, errore imperdonabile, di
mischiare differenti profili prosodici emozionali, dunque distruggere l’effetto ch’un solo profilo, ben adattato, può realizzare.
Queste persone speravano di fare rivivere gli effetti della musica dell’antichità sulla base di questa omologia tra prosodia
affettiva e canto monodico.

Opposizione fondamentale nel contesto della polifonia sviluppata dalla seconda pratica: l’espressività della musica passa dalla
manipolazione delle regole musicali (consonanza e dissonanza); invece, questi teorici pensano che l’espressività consista solo
nella somiglianza con l’espressività della parola enfatica, recitata. Polemica che oppone Rameau a Rousseau attorno a 1750.
Chi sono questi intellettuali? Essenzialmente c’è un posto dove se ne discute, il Salone a Firenze del Conte de’ Bardi,
frequentata da Aristocratici, dove spesso hanno relazione con la musica molto indiretta; ma anche musicisti di certo livello,
ad esempio Vincenzo Galilei, eccellente teorico e liutista (padre del celebre sapiente Galileo Galilei). Tra loro, un aristocratico
e grande organizzatore musicale Emilio Cavalieri, anche compositore, prima opera a soggetto sacro della storia; altri musicisti,
tra cui celebre cantore e pedagogo del canto, Giulio Caccini, che qualche anno più tardi, quando la camerata propriamente
detta non esiste più, rinnoverà con le sue discussioni una pubblicazione d’una raccolta con funzione fondamentale nella
diffusione di questa nuova concezione del canto.

Raccolta 1601, Le nuove musiche, titolo parlante: raccolta preceduta da una lunga prefazione molto interessante, poiché vi
si vede i due aspetti di cui abbiamo parlato: importanza della virtuosità e della nuova estetica d’una monodia che deriva dalla
prosodia affettiva. Virtuosità: più pagine consacrate a spiegare il funzionamento di certe ornamentazioni, di note rapide
ripetute, di oscillazioni…; ricorda inoltre le discussioni che ci furono nella Camerata de’ Bardi, a proposito del nuovo
concetto di monodia ‘umanista’.

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Prefazione:

Caccini non definisce esattamente un nome a questo stile, anche se dice che è un ‘favellare in armonia’; ma, in altre prefazioni
dello stesso Caccini e colleghi che lavoravano alla questione, abbiamo serie di termini che si sono imposti come termini per
definire questo tipo di canto: nella Prefazione ad un opera di E. De Cavalieri, si parla di ‘recitar cantando’. Caccini parlerà
poi di ‘rappresentare cantando’; ‘stile rappresentativo’, utilizzato nella Prefazione all’Opera ‘Euridice’. Possiamo accettare la
designazione di ‘recitare cantando’ o ‘stile recitativo’ che si trova in altri trattati di questa fase. Tuttavia, nelle Nuove musiche
non c’è solo ‘stile recitativo’; vi sono due categorie di canto, che Caccini chiama rispettivamente ‘madrigali’ e ‘arie’: i madrigali
sono in stile recitativo; le arie sono imparentate alle canzonette (pezzi strofici, con metrica regolare e ripetitiva, dove la messa
a musica segue strutture periodiche regolari); il fatto che le arie siano strofiche, significa che non si può applicare il principio
secondo cui ogni testo deve avere la sua propria musica: le arie, sono dei componimenti a carattere più leggero, obiettivo più
di divertire che di toccare gli affetti dell’auditore. Ciò non impedisce il fatto che le due sotto-categorie rientrino nella categoria
generale della monodia, poiché sono componimenti per 1 voce con basso continuo. Attenzione: monodia e stile recitativo non
sono la stessa cosa. Monodia include le due possibilità stilistiche: stile recitativo (segue l’idea di imitazione della musica della
antichità); forma leggera della Canzonetta o Aria, della musica isometrica strofica periodica.

Possiamo ora vedere un esempio per ogni tipo: Cfr. Script, Ex. 2.a, Amarilli mia bella, Madrigale (testo dopo la partizione:
testo non strofico, formato da versi di lunghezze differenti; il soggetto è amoroso, di tipo lirico). Il canto è piuttosto sillabico
tranne qualche ornamentazione verso la fine; frasi vocali di lunghezza differente poiché il ritmo accelera o decresce secondo
il senso affettivo delle parole: insiste con note lunghe sui nomi più carichi di dimensione affettiva, come il profilo della
melodia. Cfr. misura 20, serie di ripetizioni del nome della donna amata = aumento del profilo della melodia graduale; volontà
in generale di dare alla melodia una flessibilità, caratteristica naturale che è propria del linguaggio; non impedisce ciò di
costruire il discorso musicale secondo frasi regolari, periodiche, in una struttura memorizzabile e organizzata.

Esempio ottimo dello stile recitativo, pezzo a voce unica ma con basso continuo, fondato su una prossimità amplificazione
rispetto alla prosodia affettiva del linguaggio; dunque organizzato in modo irregolare, flessibile, poiché le frasi non hanno
organizzazione secondo griglia periodica di tipo musicale ma dipende dalla declamazione naturale del discorso. Tuttavia,
questa nuova tecnica della monodia con basso continuo non si limita allo stile recitativo, ma include anche dei componimenti

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strutturate in maniera più periodica: nelle raccolte di Caccini, sono le ‘arie’: termine di cui non conosciamo bene l’origine,
ma avrà molta fortuna nella terminologia musicale; qui designa il canto che ha griglia periodica precisa (in contrapposizione
allo stile recitativo). Nozione fondamentale: la distinzione tra s.r. e ‘canzonetta, poi più tardi nominati recitativo e ‘aria’, è
fondata su una distinzione di tipo metrico nel testo poetico (prima di tutto).

Cfr. il testo di Amarilli mia bella, Giovanni Battista Guarini, Madrigale: testo che mischia senza regolarità verbi endecasillabi
e settenari, e questi due versi nella metrica italiana hanno la particolarità d’essere accentati in maniera piuttosto irregolare:
non sempre hanno gli accenti nelle stesse posizioni; un ritmo costruito su endecasillabo: molto lungo, irregolare, difficile da
dividere in blocchi isometrici; anche se si trova un motivo ritmato per endecasillabo, non è detto che esso possa essere
applicato all’endecasillabo seguente per la differente posizione degli accenti. Versificazione a versi sciolti, commistione di
endecasillabi e settenari senza schema preciso e spesso senza rima: base poetica per lo stile recitativo lungo i secoli (si ritrova
ancora all’epoca di Verdi).

Cfr. il testo Belle rose porporine (Gabriello Chiabrera, Scherzi), Canzonetta anacreontica: commistione di ottonari e quaternari
(quadrisillabi), versi molto ritmici, accentuati in maniera molto regolare: tutte le sillabe impari sono accentuate, quelle pari
non lo sono (ritmo trocaico, +; -). Versi particolarmente adattati alla musica. Il poeta autore di questo componimento,
Chiabrera, è specialista proprio per questi piccoli testi poetici, strofici, e concepiti per essere messi a musica: versi corti,
struttura metrica regolare, ben ritmata. Le chiama ‘Canzonette’, o ‘Anacreontiche’, cfr. Anacreonte, poeta dell’antichità noto
per la sua musica leggera e d’amore. Inoltre, Chiabrera ha dedotto questo schema ritmico da un poeta francese che
conosciamo, cfr. il testo Pierre de Ronsard, Chanson VI (Nouvelles poèsies, 1564): a sua volta aveva riflettuto sulla costruzione
di componimenti per la musica, che chiamava ‘Chanson’. Testo del Chiabrera: celebrazione delle labbra dell’amata, trattate
come delle rose, che custodiscono il tesoro dei bei denti; 2 strofe, isometriche, modello ottonario-quadrisillabo-ottonario-
ottonario-quadrisillabo-ottonario è dedotto da Ronsard, che aveva già tentato (cfr. ritmo del testo). Risultato: tipo di messa
a musica molto differente rispetto al componimento ascoltato prima: regolarità di accenti, ritmo molto regolare, alternanza
regolare di lunghi e brevi; frasi alcune più lunghe o corte, ma tendenza a fare gruppi di frasi con stessa lunghezza, stessa
struttura ritmica, stessa (in parte) struttura melodica: raggruppamenti periodici molto più regolari. Inoltre, cosa
inimmaginabile nello s.r., contesto strofico, si può usare la stessa musica per due parti differenti di testo; non è la semantica
e l’affezione che conta ma piuttosto la dimensione metrica, come la tradizione che noi conosciamo fin dall’inizio. Qui, due
sezioni musicali, che corrispondono alla 1° e alla 2° strofa, poi questi due blocchi sono utilizzati anche per le strofe 3, 4, 5,
6. Avendo 8 strofe, alla fine della partizione dovremmo avere 4 presentazioni complete della musica, ma in questa
registrazione hanno tagliato le strofe 3 e 4, poi cantano 5 e 6 e di nuovo le strofe 7 e 8.

Tutto questo insieme di novità tecniche, la monodia, il basso continuo, lo s.r. e l’aria molto ritmata, sono percepiti
immediatamente dall’ insieme dell’Europa musicale come una rivoluzione immensa. In una ventina di anni, l’Europa intera
tenta di imitare queste novità italiane, e afferra cantanti e compositori italiani per la messa in opera di questa nuova
concezione stilistica nei differenti domini della musica profana e anche sacra praticata nelle differenti regioni europee.
Successo folle, che prima è dovuto alla grande novità tecnica ed estetica ma non soltanto: un secolo e mezzo di sviluppo del
Rinascimento, in generale, presto chiamati ovunque, hanno fatto in modo che l’Italia a fine del 16esimo secolo è visto come
il paese delle Arti per eccellenza; prestigio in musica, pittura, scultura, letteratura (Tasso, Guarini): opere più conosciute e
ammirate.

Fase di primato ed egemonia artistica italiana nell’Europa del tempo è destinata a durare, almeno in parte, grazie al fatto che
durante un secolo l’Italia era stata il teatro di tentativi di conquista, di guerra, le grandi potenze europee condividevano buona
parte delle regioni italiane, e dunque le Corti e le Potenze dell’epoca erano venute in contatto con questa cultura italiana:
Filippo II, re di Spagna, prima di divenire Re succedendo al padre Carlo V, era stato inviato come Duca di Milano, e rientrato
poi, aveva preso con sé artisti, pittori, conosceva bene la lingua e la letteratura; in Francia il Re François I era fanatico della
cultura italiana, era tornato con moltissimi artisti, anche Leonardo da Vinci; il suo successore, François II, sposa una
principessa della famiglia de’ Medici, Caterina de Medici, che sarà Regina di Francia e una personalità fondamentale della
storia francese per buona parte del secolo; poi, Maria de Medici, 1600, sposa di Enrico IV, assassinato nel 1610, sarà la
reggente del Regno francese. Queste regine di origine fiorentina si installano nel loro nuovo paese con tutto un seguito di
corte, dunque artisti e uomini di lettere, che determinano in maniera importante la natura della produzione culturale nel
regno di Francia per molto tempo.

Dunque, nel nostro dominio, il passaggio tra i secoli significa anche un cambiamento importante per quanto riguarda il flusso
di personale artistico e la gerarchia della musica europea: per due secoli circa, i franco-fiamminghi davano il passo per

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l’avanguardia musicale ed erano chiamati per installarsi in tutte le grandi cappelle di corti e cattedrale; da ora, incoraggiati tra
l’altro dal fatto che poi tutte le vicissitudini e guerre, l’Italia inizia a impoverirsi, meno propositiva e ricca riguardo alle
istituzioni culturali, ci sarà un 100 di musicisti italiani, soprattutto cantori ma anche musicisti, che emigrano in tutta Europa,
facendo per due secoli dell’Europa musicale una sorta di isola italiana. In questo periodo vi è l’italianizzazione della
terminologia musicale, che perdura ancora oggi (soprano, mezzo, allegro, andante, adagio, largo, allegretto, …). Tra i
rappresentanti – stili che marcano questa tappa della nuova musica italiana nel continente, ve ne è uno di particolare successo,
anche se all’inizio il suo significato è vago, è lo stile concertato: all’epoca la nozione di concerto evoca qualcosa come ‘mettere
insieme, d’accordo, delle cose relativamente disparate’, dunque il termine o insieme di termini, concerto, concertare, stile
concertato, è utilizzato per una musica che mischia le voci e gli strumenti.
Abbiamo visto che nella pratica, già la polifonia del 16esimo secolo era probabilmente suonata secondo le forze a
disposizione, con strumenti che potevano rimpiazzare voci, ma ora nelle nuove condizioni stilistiche nel 1600, la pratica di
mettere insieme voci e strumenti diventa forma di pensiero composizionale specifica. Già la musica per 1 o più voci e basso
continuo poteva definirsi concertata, poiché il basso continuo è formato da 1 o più strumenti; e certi compositori, come
Monteverdi, usa già il termine concertato.
Più precisamente, parliamo di s.c. quando ci sono voci e strumenti melodici al di sopra del basso continuo; in qualche
maniera, l’elaborazione musicale si fa giocando su un certo tipo di rapporto tra cosa cantano le voci e cosa suonano gli
strumenti.
Dal 1600, e per i due secoli successivi, ci sono due forme di approccio musicale alla composizione: I)non si getta alle ortiche
il vecchio contrappunto per sole voci, sul modello del Palestrina, poiché in qualche modo si considera che questo tipo di
scrittura è fondamentale dal punto di vista pedagogico; dunque, i musicisti non smettono di apprendere la composizione
sulle regole del Contrappunto e la tradizione della musica per sola voce, e inoltre, soprattutto nel contesto della Chiesa, vi è
grande durata della polifonia, eventualmente più semplice per due sole voci; II)d’altra parte, vi è una nuova forma italiana,
con musica a 1 o più soliste,1 o più strumenti e basso continuo, che il termine musica concertata indica in maniera molto
generale.
Il passaggio alla tradizione della musica concertata con basso continuo non distrugge interamente certe pratiche e usi di lunga
durata della musica polifonica per voce sola, concepita secondo il vecchio modello del 16esimo secolo. Inutile dire che dove
le istituzioni considerate dispongono dei mezzi necessari, lo s.c., con molte voci e strumenti può toccare a sommità di
complessità e di varietà e ricchezza sonora che la musica precedente non conosceva.
Combinazione specifica, che gode di immenso prestigio nella Europa musicale del 17esimo secolo: musica poli-corale veneziana.
Abbiamo già parlato di musica-corale, cfr. stabat mater di Palestrina, due mezzi-cori di 4 voci ciascuna si rispondevano,
alternandosi a volte sovrapponendosi, generando opposizioni di colore, di volume, ma anche di spazializzazione poiché in
principio i differenti gruppi sono anche posti in luoghi differenti, più o meno secondo possibilità e pratiche. Pratica molto
forte a Venezia, dove la si usava già verso la fine della prima metà del 16esimo secolo, a San Marco, rilanciata a fine secolo
ma con aggiunta di strumenti: musica policorale in stile concertato.
Tipo di scrittura praticato nella cappella di San Marco a Venezia, che all’epoca non era la cattedrale ma la chiesa privata del
Doge, riservata per le grandi cerimonie, si suonava solo la musica più prestigiosa e grandiosa della cristianità. Parte di una
strategia di grandezza attraverso le arti, messe in atto da Venezia per sostenere la sua posizione diplomatica internazionale.
Cappella di San Marco: migliore d’Europa all’epoca, serie di maestri di cappella noti come grandi compositori e poi teorici,
altri membri della cappella (organisti) erano compositori di grande qualità, specializzati nella composizione di musica
policorale utilizzata in questa istituzione.
Andrea Gabrieli (Zio) e Giovanni Gabrieli (nipote), organisti titolari della cappella, non maestri, ma le loro composizioni
hanno avuto un impatto notevole su più generi della musica dell’epoca, ma soprattutto nel caso di Giovanni per quanto
riguarda la musica policorale.
Prestigio: soprattutto due grandi raccolte di musica sacra, immaginate per San Marco, pubblicate in 1597 e 1615 (postuma),
già morto nel 1612, intitolato ‘sinfonia sacra’, sinfonia nel senso qui di componimento concertato, dove si fanno suonare
insieme voci e strumenti.

Cfr. Script, Ex. III, Giovanni Gabrieli, sinfonie sacre, II, 1615: la disposizione policorale implica 3 cori, il termine ‘coro’ nel
contesto della policoralità non significa per forza solo un gruppo di voci, ma anche gruppo di strumenti o misto; qui abbiamo
un primo coro formato da 4 solisti; un secondo coro formato da 4 voci della cappella (coro propriamente detto, con più
cantori per ogni voci); terzo coro formato da strumenti (cornetto, trombone, violino (strumento di nuova concezione));
sotto tutto, basso continuato per organo (permette di avere una armonia completa, indipendentemente dal numero di voci
o strumenti implicati a ciascun istante). Tipo di scrittura: essenzialmente su gioco di contrasti, passaggi per 1 o più solisti che
possono essere anche molto virtuosi, opposti a blocchi piuttosto di accordi, confidati al coro di voci o al coro di strumenti,
e i 3 gruppi interagiscono in maniere molto differenti: talvolta si alternano, altre si sovrappongono: idea di generare questa

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grande varietà di sonorità e di spazializzazione. La registrazione non dà mai giustizia della dimensione disposizione differente
delle fonti sonore all’interno della chiesa.
Analisi: Inizio del solista voce più acuta, risposta del coro delle voci (per accordi poi cadenza molto complessa); poi un altro
solista prende la parola, frase più complessa, implica imitazioni con il basso continuo che non si limita solo alla base armonica
ma entra in gioco con un dialogo; poi risposta del coro di voci (come la prima volta); sull’ultimo accordo del coro di voci, il
3° coro entra in gioco (ecco il termine sinfonia, compare per iscritto nella partitura: si suona insieme).
(Misura 35): Passaggio polifonico molto complesso, implica sia le voci soliste che gli strumenti: polifonia di 16emo secolo, il
gioco di rapporti tra voci e strumento è incluso; tuttavia, verso la fine (soprattutto), le voci prendono anche una qualità più
virtuosa, dunque c’è anche la possibilità di usare un tipo di scrittura vocale che mostra il prestigio della virtuosità e
dell’ornamentazione. Forza retorica della progressione, per motivi virtuosi ingrovigliati tra le voci e strumenti, che alla fine
sfociano in una grande cadenza dove per la prima volta tutti i 3 cori sono implicati simultaneamente; poi, si ricomincia con
un solista per un altro tragitto simile.
Questa musica ha stupito l’Europa intera, diversi re e sovrani davano delle borse al più giovane e più dotato, tramite musicisti
delle capelle, perché vadino a studiare a Venezia con Gabrieli poi Monteverdi. Cfr. repertorio, eccellente compositore
tedesco, Heinrich Schütz, più grande compositore tedesco in particolare per la musica vocale e sacra prima di Bach, al
servizio del Re di Sachs, va a studiare a Venezia con Gabrieli, mentre a sua volta ha pubblicato composizioni policorali di
questo tipo intitolate Sinfonie Sacre esattamente come le raccolte di Gabrieli; tuttavia, questa musica implica dei grandi
mezzi, sempre nel Repertorio troveremo delle cose che ha scritto per dei piccoli gruppi di musicisti (raccolta Kleine Geistliche
Konzerte): durante la guerra dei 30 anni e la peste 1630-31 la Germania perde metà popolazione, le cappelle erano deserte, i
musicisti non avevano mezzi, ci si doveva arrangiare con i mezzi disponibili. Resta il fatto che il principio del stile concertato
all’italiana, che sia 1 voce con basso continuo o in grande distribuzioni come quella di Gabrieli a Venezia, a presto riempito
le cappelle della Europa intera, che si tratti di musica profana o sacra.

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Lezione VII
Focalizzazione sul percorso di musica profana (madrigali, canzonette, …), in particolare nel suo personaggio più
rappresentativo a livello europeo: Claudio Monteverdi (già ne abbiamo parlato in qualche occasione: compositore di
madrigali polifonici, nella ultima fase del madrigale del XVI secolo): carriera lunghissima, lungo due epoche della storia
musicale e culturale, essendo sempre uno dei protagonisti e voci più avanzate.
Inoltre, ciò ci permetterà di verificare alcune tecniche di cui abbiamo parlato la scorsa volta, e di ricordare alcune nozioni e
concetti, punti di terminologia, che sono vitali.
Madrigale polifonico: già abbiamo visto dei madrigali del 4° e 5° libro, in cui la maggior parte delle opere sono composte da
testi di Guarini; abbiamo detto che anche se queste due raccolte sono state edite nel 1603 e 1605, a Venezia ovviamente,
centro della stampa musicale dell’epoca, in realtà più madrigali poi presenti in queste raccolte erano già stati scritti
precedentemente, a metà degli anni 90’ del 400’, e lo possiamo dire poiché vi era stata la polemica con Artusi di cui abbiamo
parlato, precedente alla versione a stampa degli stessi madrigali. Mentre pubblica il 5° libro nel 1605, lo dispone d’un ‘basso
continuo’, novità dell’epoca: le primissime edizioni musicali che lo presentano risalgono precisamente al 1600-1601, nelle
raccolte di Caccini, ‘le nuove musiche’. Nella prefazione, Monteverdi dice: ha aggiunto il basso continuo, da suonare con
clavicembalo o ‘chitarrone’ (grosso modo un arciliuto), ma dice che sia ‘opzionale’, tranne che per il gruppo ultimo di 6
madrigali, concepiti per e con ‘basso continuo’; ad esempio ‘cruda amarilli’ etc. sono componimenti iniziali fatti con la tecnica
del madrigale polifonico già visto, mentre gli ultimi componimenti sono composti secondo la nuova formula con basso
continuo, e dunque il suo utilizzo è obbligatorio.
Cfr. Script, Ex. I, Claudio Monteverdi, T’amo mia vita (libro V), testo G. B. Guarini (madrigali, LXVI): testo che già
conosciamo, trovato nei componimenti di Luzzasco Luzzaschi, ma lo ripropone (qui nello script) perché è interessante vedere
fino a che punto Monteverdi faccia riflessioni sulla natura del testo, ed usi i mezzi tecnici a sua disposizione per darli una
resa d’una certa maniera.
Nel componimento di Guarini, l’io lirico e entusiasmato dal fatto che la sua beneamata gli abbia formulato questa frase
‘t’amo mia vita’; e infine, la frase riempie completamente la sua immaginazione, fino a divenire la sua vita. La cosa che lo
riempie per intero. Differentemente da ciò che credevano gli aristocratici classicisti della Camerata de’ Bardi, visti la scorsa
lezione, e di ciò che Caccini ci raccontava nella prefazione, Monteverdi non è convinto dal fatto che solo la monodia possa
avere un effetto espressivo importante; da questo punto di vista, egli non ha affatto una posizione ideologica, è un immenso
compositore che ha questa capacità, tipica dei grandi, di sintetizzare tutti i mezzi tecnici a disposizione mettendoli in funzione
di cosa vuole esprimere. Spesso lo vediamo utilizzare la monodia, o lo stile recitativo, ma è in realtà qualcuno che ha già
composto molta musica polifonica e che in fondo, anche in seguito non cessa di pensare che la polifonia possa avere la sua
importanza.
Qui, l’idea è di opporre i due mezzi tecnici, dunque dei passaggi solisti di monodia con passaggi polifonici, sulla base
dell’origine del frammento di testo che è presentato: sorta di analisi del testo, vede che vi è soprattutto la parte pronunciata
dall’ io lirico, ma che allo stesso tempo vi è, in particolare all’inizio, una citazione, la frase dell’amata pronunciata all’io.
Monteverdi, utilizza il blocco di 4 voci inferiori in polifonia per la voce del poeta, dell’io; la voce superiore, sola, come
citazione della frase dell’amata, che si trova all’inizio come nel testo; ma nella messa a musica non si limita all’inizio, poiché
a voce superiore riprende sempre con profili melodici differenti e sempre in maniera più intensa la frase, centro del
componimento. Monteverdi dunque distrugge diciamo la struttura sintattica del testo, dato che la frase, come un’ossessione,
è continuamente ripetuta, come se entrassimo nella testa dell’innamorato che non smette mai di sentire questa citazione, di
pensarla.
Verso la fine, dalla misura 41, tutte le voci si appropriano di questa frase e del ‘motivo musicale’ ad essa collegato, poiché,
come dice il testo, la frase diventa: ‘tutta la sua vita’, come nel testo, dunque non è più elemento esterno ricordato ma fonte
della natura stessa dell’uomo innamorato.
Musica: capacità di descrizione dello stato psichico, della finezza e sottigliezza nell’analisi del testo che non esisteva
antecedentemente; tecnicamente: passaggi dove non c’è che una sola voce che canta, la voce ‘superiore’, che rappresenta e
ripete questa frase ‘t’amo, mia vita’; vediamo l’utilità, la necessità qui del basso continuo, poiché se non ci fosse ci sarebbero
delle parti dove l’armonia della composizione sarebbe incompleta, mentre la sua presenza permette, laddove le 4 altre voci
si tacciono, non solo di fornire la base armonica fondamentale, soprattutto all’inizio (non si hanno le referenze date da cosa
era cantato prima); c’è anche forma di gioco imitativo tra basso e la voce: il basso parte, alla prima misura, con lo stesso
motivo discendente ripreso subito dopo: l’idea è di un rapporto ‘concertato’ con il basso continuo, che permette di trattare
certi passaggi del testo, secondo la logica vista prima, come dei passaggi solisti senza perdere l’intensità della dimensione
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musicale. Siamo ancora in fondo nell’estetica del madrigale polifonico, ma Monteverdi ha bisogno di qualche passaggio
solista per rendere davvero a livello della presenza acustica questa idea della frase pronunciata dalla beneamata, dunque la
presenza del basso continuo gli permette di dare una base solida a tutti i passaggi, e solisti e di gruppo.
Nei primi anni del nuovo secolo, Monteverdi, sempre stabilito a Mantova, allarga la sua paletta dei generi, in quanto produce
nel 1607 la sua prima ‘opera’, Orfeo, reagisce a qualche anno di distanza alla nascita di questo genere, a Firenze, nel 1600. La
sua seconda opera, Arianna, di cui non ci resta l’intera opera, e una composizione importante di Musica Sacra, Il vespro della
Beata Vergine (1610), composizione di cui non si sa se è esattamente immaginata per la cappella del Duca di Mantova, se
abbia a che fare con il progetto di andare a Roma, poiché porta una dedica al papa; ma il modello stilistico è chiaramente
quello della musica sacra concertata di tipo veneziano (tradizione di Gabrieli); in qualche modo, questa opera gli aprirà la
prospettiva d’arrivare effettivamente a Venezia, dove si trasferisce nel 1613, diventando maestro di cappella di San Marco,
dunque il posto più prestigioso in tutto il mondo musicale. Come maestro, lavora nel contesto della musica sacra, ma anche
allo stesso tempo non smette la musica profana, pubblicando ancora 3 libri di madrigali, 6° - 7° - 8°, che sono ormai
interamente immaginati nel contesto delle nuove tecniche musicali, ovvero con ‘basso continuo’ e ev. anche strumenti in
stile concertato.
Ormai, il termine di madrigali, per gli ultimi 3 libri o raccolte, deve essere compreso in maniera molto generale: ci sono
all’interno componimenti d’orientazione stilistica, di livello letterale ed estetico molto differente; non si può più parlare di
‘madrigale’ nel senso stretto visto di ‘genere’ visto precedentemente, come nei 5 primi libri, si tratta piuttosto di termine per
le composizioni profane immaginate per un consumo di contesto privato, aristocratico, di palazzi e saloni. Buona parte di
tali componimenti dovrebbe essere piuttosto catalogato come delle ‘cantate’, termine poi utilizzato più tardi, per musica non
teatrale ma in stile moderno; altri componimenti hanno una dimensione invece scenica, immaginati per essere rappresentati
o semi-rappresentati, su forma quasi teatrale; si aggiunge poi invece delle opere propriamente dette, in parte smarrite, ma in
particolare le opere che riempiono gli ultimi anni della sua vita, lo vedremo, poi, dopo l’arrivo a Venezia, porteranno a
spettacoli pubblici.
Cfr. Script, Ex. II, Chiome d’oro, anonimo, Canzonetta, Monteverdi: si tratta d’una canzonetta, indicazione data in testa alla
partizione, testo anonimo, senza grandi pretese poetiche, si descrive la bellezza della beneamata; 5 strofe, ogni strofa di 3
versi (terzine), rime ABB, i versi sono di 8 sillabe (ottonari), dunque regolari, accento ogni due sillabe (1°, 3°, 5°, 7°).
Tipicamente, testo fatto per messa a musica strofica, e con metrica che richiede, incoraggia, una grande periodicità e regolarità
della sintassi. Ritornando all’indicazione in testa, ‘canzonetta a due voci’, ‘concertata’ (due violoni), e basso continuo
(chitarrone/arciliuto o spinetta, variante del clavicembalo di dimensioni più contenute); dà delle indicazioni riguardo al
ritornello: ‘prima di cominciare a cantare, si presentano 3 segmenti di musica strumentale, che sono intitolati ritornello I, II,
III’. Ci sono dunque nuove logiche del rapporto tra strumento e voci, poiché questo componimento è chiaramente
strutturato secondo un piano, organizzazione della forma che si basa, tra le altre cose, su di un certo tipo di alternanza dei
rapporti di collaborazioni tra strumenti e voci. Dettaglio importante: la natura del basso continuo, della linea confidata al
basso continuo: basso ostinato (L'ostinato è un breve disegno musicale ripetuta ad oltranza senza modificarne altezza e ritmo. Il più delle
volte si colloca al basso, definito appunto basso ostinato. L'ostinato crea un effetto di staticità e insieme di stacco rispetto alle altre parti, in
particolare alla melodia), figurazione relativamente semplice, fondata sui gradi fondamentali della tonalità scelta, che si ripete
indefinitamente, spesso in continuazione (in loop), l’ultima nota della figurazione si sovrappone alla prima della figurazione
seguente, e, evidentemente, si tratta d’una pratica, d’una tecnica che rinforza di maniera importante il sentimento di stabilità
dal punto di vista della tonalità, che genera una sorta di continuità e fissità, con effetti sul piano espressivo; l’idea
fondamentale, nel caso del basso ostinato, è che se resta sempre la stessa, le altre parti sovrapposte debbano invece presentarsi
ogni volta su forma variata: tensione tra la ripetizione del basso e capacità delle altre parti di rinnovarsi sempre comunque
mantenendo il loro schema armonico, comandato dal basso sempre uguale (e nella musica vocale e strumentale). Il 17esimo
secolo è la grande epoca del basso ostinato nella musica occidentale.
Componimento che somiglia molto al Domaggiore moderno, il basso è in basso rispetto al primo sistema, di 4 misure, la
simmetria e regolarità dell’unità di 4 misure è legata alla struttura della Canzonetta (lo ritroveremo poi all’entrata della voce),
si vede che il basso sale due volte rispetto alla tonica (primo grado di una scala diatonica (le note si susseguono secondo una
precisa successione di 7 intervalli, cinque toni e due semitoni; tale successione caratteristica non è univoca, ma può essere
specificata in sette diverse combinazioni definite modi) ; la tonica dà il nome alla scala corrispondente e anche all’accordo
derivatone; è una nota statica, perché è il suono verso cui la creazione musicale tende naturalmente) al 5° grado (sol;
semplicemente, nella scala diatonica di Domaggiore, la quinta nota che si incontra è effettivamente Sol), poi scende al Fa, e
infine in cadenza per entrare sul Do, allo stesso tempo all’inizio della presentazione successiva (il Do) dello stesso basso.
Abbiamo dunque, se contiamo le ripetizioni, lo stesso basso ripetuto 6 volte; al di sotto, abbiamo i differenti ritornelli, e vi
possiamo notare un principio che sarà fondamentale per lo sviluppo della musica strumentale moderna: la variazione.
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Abbiamo qui due violini, nella trascrizione piuttosto un violino e un alto, poiché le chiavi danno l’impressione che si agiscano
di due strumenti di tessitura differente (il termine violino poteva indicare anche genericamente la ‘famiglia dei violini’); nel
primo ritornello i due strumenti sono piuttosto in imitazione; nel secondo ritornello v’è piuttosto gioco di sincope (gioco di
ritardo attraverso la sincope; nel terzo ritornello, diciamo, piuttosto una variante del primo ritornello, grosso modo il primo
ritornello ma ritoccato per quanto riguarda le figurazioni ornamentali.
(Misura 17) entrata delle voci: la prima strofa prende esattamente 4 misure, abbiamo detto che data la struttura molto ritmata
e regolare degli ottonari, vi è una isometria che si mette in moto anche nella musica: ogni verso prende una misura; tuttavia,
Monteverdi necessita 4 misure, poiché essa è la durata standard d’un periodo, e in questo caso è la durata del ‘basso ostinato’
soprattutto, che ha preso come base. Dunque, essendo 3 i versi e le misure devono essere 4, aggiunge una misura attraverso
un melismo (Nella musica vocale viene detto melisma quel tipo di ornamentazione melodica che consiste nel caricare su una sola sillaba testuale
un gruppo di note ad altezze diverse), che riempie praticamente per intero la 3° misura. Inoltre, vi è un dettaglio, molto sottile: il
basso non è esattamente lo stesso che nelle esposizioni della pagina precedente: prima, all’inizio della seconda misura il basso
cadeva su Do, ora ad inizio della seconda misura, sale a Sol (piccola sfumatura armonica che distingue la versione che sostiene
le parti strumentali dalla versione che sostiene le parti vocali), difatti, dopo la prima strofa, sentiamo di nuovo un ritornello,
il I, e il basso ritorna alla sua forma originale come nella pagina precedente. Nella Canzonetta con strumenti, come nelle
prime Opere, è normale che tra le differenti strofe d’un testo strofico vi sia un ritornello strumentale che ritorna, di solito
senza cambiamenti o come qui con piccole varianti (i 3 ritornelli possono essere visti come varianti che in ogni modo
condividono lo stesso basso).
Alla misura 25: Monteverdi presenta la 2° strofa del testo, su 4 misure, basso in versione variata (cfr. 1° strofa), e misura 29
ritornello, il III, rispetto a quelli presentati all’inizio; tuttavia, anche la stroficità delle strofe del testo, quelle cantate dunque,
è variata, poiché anche se la struttura ritmica è la stessa, l’armonia è la stessa, il basso è lo stesso, la disposizione delle due
voci non è esattamente uguale nella prima e nella seconda strofa: messa a musica strofica variata anche per la voce.
Rottura importante alla 3° strofa: in principio tutto come nelle due strofe vocali precedenti, almeno fino alla misura 37: le
voci, qui, piuttosto che fermarsi, continuano, e aggiungono ancora prima una piccola cadenza adagio melismatica e poi
un’altra frase che arriva a totalizzare in tutto 6 misure supplementari per terminare alla misura 42. In questa sorta di
appendice, il basso smette di ripetere la sua formula ostinata, si sposta piuttosto per valori più lunghi che sottolineano la
sospensione della continuità del discorso; questa rottura si completa alla misura 42, con il ritorno del basso ostinato e d’un
ritornello, del II in questo caso.
In conclusione, la quarta strofa è regolare in 4 misure, come la prima e la seconda, tranne che, guardando la disposizione
delle voci, essa è ancora differente: dunque nessuna strofa è esattamente la stessa nel dettaglio del movimento delle voci. In
seguito, di nuovo I ritornello e poi l’ultima strofa, che invece è allungata, come era stato per la 3° strofa; questo per preparare
ovviamente la fine del componimento.
Abbiamo veramente la conquista, qui, in modo complesso, d’una idea di forma musicale, forma che gioca a diversi livelli sul
rapporto tra identità e differenza; e sull’effetto che ciò può avere sulla percezione dell’auditore. Il componimento si basa sul
basso ostinato, in principio sempre uguale, tuttavia non è esattamente sempre lo stesso poiché ci sono due varianti: una per
le strofe vocali, l’altra per i periodi affidati agli strumenti. I ritornelli, i periodi dedicati agli strumenti, condividono lo stesso
basso ostinato ma sono variati per quanto riguarda la superficie melodica; a loro volta, le strofe cantate, in particolare le 3
che hanno la stessa durata di 4 misure, condividono lo stesso basso ostinato ma mostrano ogni volta una disposizione un
poco differente dal punto di vista della disposizione delle voci; infine, ci sono due strofe (3° e 5°) che fanno dei punti di
rottura grazie al prolungamento (come una cadenza quasi), con gusto di improvvisazione, che interrompono il flusso del
basso ostinato e delle variazioni fattevi sopra (molto complesso, allo stesso tempo qualcosa che funziona molto bene).
In altre occasioni, Monteverdi sceglie di seguire uno schema strofico molto più regolare: cfr. Script, Ex. III, Si dolce è il tormento,
Monteverdi: sorta di ‘aria’ o ‘canzonetta’, ma piuttosto ‘aria’ poiché il componimento è pubblicato non all’interno delle
raccolte di madrigali monteverdiane ma all’interno d’una miscellanea, a Venezia, negli anni 20’: testo strofico, di tipo
canzonetta, ogni strofa possiede 10 versi, dei senari, con accenti regolari di 2° e 5° (-+;--+), 6 sillabe; segue in maniera
regolare: ogni verso genera due misure, l’insieme dell’organizzazione è dunque estremamente simmetrico; grande bellezza
melodica, tutto il primo periodo è una sorta di lenta discesa dalla tonica al basso, componimento gioioso nella melanconia
lirica, annuncia un tipo di componimento lirico, come si ritrova spesso nella musica italiana vocale del 17esimo secolo, e
anche nell’Opera: dolcezza un po’ estenuata tra melancolia ed estasi (talvolta erotica).
Ha insisto molto sul fatto che la struttura metrica del testo poetico determini normalmente la natura del componimento
musicale che vi si scrive sopra; ci possono avere delle eccezioni: il pezzo più celebre, più spesso suonato di Monteverdi, è
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cfr. Script, Ex. IV, Monteverdi, Lamento della ninfa, Ottavio Rinuccini, sorta di grande lamento su basso ostinato
profondamente patetico, alla frontiera del tragico; tuttavia, Monteverdi lo scrive a partire d’un testo che, in fondo, è testo
strofico di canzonetta, dunque da cui decide di prendere la dimensione semantica del testo molto più seriamente rispetto
all’autore stesso; d’altronde poeta importante, Rinuccini. Ritroviamo qui la tendenza di Monteverdi ad utilizzare dei mezzi
differenti, secondo la natura o statuto dell’enunciazione poetica:
Il testo: le 3 prime strofe sono di tipo narrativo, introducono la situazione descrivendo l’aspetto, movimento, di questa donna
abbandonata dal suo amato (riquadro in blu); questa sezione, a narratore neutro, è trattata da Monteverdi confidandola a un
gruppo di 3 voci maschili, con basso continuo; in seguito, dalla 4° strofa, si passa al discorso diretto, voce della ninfa disperata,
con qualche intervento del narratore che esprime la sua commiserazione per la disperazione (trattata come canto solista, con
le 3 voci maschili che mettono qualche accordo solamente per momenti); in conclusione il narratore riprende la parola per
l’ultima strofa, si torna alla messa a musica per 3 voci maschili; cfr. notizia in testa della partizione: Monteverdi dice di avere
utilizzato due soluzioni grafiche differenti, la sezione polifonica all’inizio è pubblicata in parti separate poiché deve essere
cantata seguendo la misura ‘al tempo della mano’, seguendo un movimento regolare della mano che dà lo stesso tempo per
tutti; mentre la grande parte solista invece, il lamento, è stata messa in partizione perché deve essere cantata seguendo
piuttosto il tempo dettato dalle affezioni dell’animo, dunque non ci si può basare a misure meccaniche, rigide, bisogna
prendere conto della flessibilità, per la quale si ha la partizione per permettere al basso continuato di coordinarsi con la
cantante, e ciò mostra: sul rapporto tra messa in partizione e novità stilistiche: si richiede alla monodia di farsi l’espressione
d’una dimensione emozionale, dunque seguire la flessibilità prosodica ad essa legata, è necessaria la partizione per permettere
al cantante e all’accompagnamento del basso continuato d’essere meglio coordinati.
Da notare: dissonanze forti tra le voci all’evocazione del dolore, del tormento della ninfa (fine prima pagina); la parte
introduttiva dura fino alla (misura 27): rappresenta una sorta di lunga durata dell’estetica e dei mezzi espressivi della tradizione
del madrigale polifonico, come li conoscevamo alla fine del 16esimo secolo; poi il lamento, la parte in discorso diretto,
fondata su basso ostinato (semplice, forma standard, forma prima), tetracordo: gruppo di 4 note che discende dal primo
grado (La) al 5° (Mi) e poi ritorna in circolo. Tipo di basso ostinato, lo rivedremo nella musica strumentale, grosso modo
basso di passacaglia, nel dominio della musica vocale, è normalmente utilizzato per due tipi di situazione psicologica: il
tormento come in questo caso, l’afflizione, personaggio è catturato in un circolo di dolore, depressione, da cui non riesce ad
uscire (dimensione ossessiva); oppure per momenti di estasi erotica, poiché il basso ostinato muovendosi in circolo può
arrivare a creare un blocco di tempo, finisce per dare sentimento di temporalità che non passa, momento di stasi, di gioia al
di là del senso della realtà, particolarmente forte per esprimere la magia d’una situazione di estasi amorosa totale.
Al di sotto del basso ostinato, la voce si sviluppa con grande flessibilità: la voce non fa variazioni propriamente detta sul
basso ostinato, non si limita a frasi di 4 misure, ma sono di diversa lunghezza, e c’è una sorta di arco melodico di lunga durata
che diventa sempre più disperato, cresce, con ripetizioni, intercessioni (accesi di gelosia della ninfa, si domanda se mai potrà
avere le stesse cose…grande emozionalità): elemento di funzionalità del componimento è la disgiunzione che si opera tra
carattere ripetitivo e meccanico del basso ostinato e la disperazione da parte della povera donna abbandonata: potenza
emozionale che il linguaggio musicale non era ancora stato capace di raggiungere fino a questo momento (fino a misura 137).
___
Ottavo libro di Monteverdi, contiene una composizione di grande respiro, ampiezza, portata, che è precedente di qualche
anno (il libro ottavo è pubblicato nel 1638), ma è composta (cfr. prefazione) verso 1625 per rappresentazione privata in un
grande salone d’un aristocratico veneziano; in questa occasione aveva profondamente commosso il pubblico.
Cfr. Script, Ex. V, Il combattimento di Tancredi e di Clorinda (cfr. Gerusalemme liberata, T. Tasso, 1581 1° edizione e 1593
Gerusalemme conquistata, canto XII di XX) Monteverdi, libro 8°: messa a musica d’un estratto del Tasso, poema che tra fine
del 16esimo secolo e fine del 18esimo secolo era l’opera letteraria più ammirata dal canone europeo, e quella che ha suscitato
grande quantità di adattamenti e riduzioni, tra altre cose per il teatro a musica. Fortuna della Gerusalemme passa attraverso
moltissimi esempi di Händel, Rossini, Brahms.
Contesto della prima crociata, poema epica, ritorna in maniera patetica, spesso, su di un tema che ritroviamo presentato nei
riguardi a più personaggi, essenzialmente: conflitto tra dimensione individuale, personale, amorosa e le obbligazioni sociali,
religiose: conflitto che finisce per generare situazioni estremamente toccanti. Clorinda è eroina-guerriera che si batte dalla
parte dei musulmani; Tancredi è grande eroe del campo cristiano. Si sono già incontrati in un contesto non di combattimento,
e il secondo si era innamorato della prima. Qui, in questo estratto, episodio tra i più conosciuti, i due si battono senza
conoscere ciascuno l’identità dell’altro (sulla sera): in una delle prime strofe il poeta chiede il permesso alla Notte di fare
conoscere qualcosa che ha avuto luogo nell’oscurità, poiché normalmente parla di qualcosa che nessuno avrebbe potuto
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vedere; grazie alla oscurità e al fatto che entrambi portino armi, elmo…alla fine Tancredi senza saperlo finisce per ferire a
morte l’amata, e lo scopre solo quando la libera del suo elmo; in oltre, nel momento della morte assistiamo ad una conversione
poiché Clorinda chiede di essere battezzata, come cristiana.
Messa a musica: all’incrocio dei generi: poema epico è narrativo, e nella sezione scelta il testo è piuttosto espressa dal narratore
(interpretata da un cantante che ha ruolo predominante); tuttavia, ogni volta che il testo dona la parola tramite discorso
diretto all’uno o all’altro, allora ci saranno due altri cantanti, molto meno occupati, che prendano la parola e cantino qualche
frase che gli sia stata assegnata; guardando la notizia sopra la partizione: tuttavia è possibile offrire questa messa a musica nel
genere rappresentativo, dunque uno spettacolo semi-staged, anche quando il recitante canta, i due personaggi avranno dei
costumi, Tancredi arriverà addirittura su un cavallo di legno, e faranno passi e gesti che esprimeranno il discorso: parlando,
cantando. Monteverdi ci dice inoltre che gli strumenti (4 strumenti della famiglia dei violini soprano-alto-tenore-basso) e
contrabasso di viola che terrà il continuo con clavicembalo (basso continuato con clavicembalo e strumento melodico grave),
gli strumenti dovranno essere suonati imitando le passioni del discorso; il recitante dovrà avere voce chiara, sicura, e di buona
pronuncia e starà lontano dagli strumenti così che il testo possa essere ben compreso; non si dovrà abbandonare a trilli e
cose simili, deve essere sillabico (principio del ‘recitar cantando’, s.r.), tranne che nella strofa che comincia con ‘notte’, ovvero
la strofa nella quale il poeta si indirizza alla Notte come divinità demandando il permesso del racconto (Monteverdi dunque
considera che questa parte del testo ha statuo differente: non è narrazione ma evocazione magica, allora il cantante può
eseguire ornamenti secondo la sua virtuosità).
Nel testo, sono marcate le parti che corrispondono all’estratto della partizione: il narratore inizia ex abrupto, e poi sono gli
strumenti soprattutto ad essere utilizzati per descrivere in maniera iconica certi elementi di cui parla il testo; Clorinda che
gira intorno alla villa, il cavallo di Tancredi che s’avvicina, e i primi scambi e repliche tra i due nemici in s.r. che si vuole
molto prossimo alla parola.
Qui gli strumenti giocano piuttosto la pantomima: la musica suggerisce i movimenti, lenti e minacciosi, che si avvicinano
l’uno all’altro; tuttavia, il combattimento non inizia subito; è il momento in cui il Tasso inserisce, come parentesi poetica,
l’allocuzione alla Notte, in cui domanda permesso di raccontare ciò che nessuno può avere visto nella oscurità(Misura 58-
Misura 88). Invocazione meno realista e più lirica: sorta di preghiera su due strofe, variata nella voce ma su basso strofico,
preceduta da ritornello in cui una parte ritorna tra le due strofe, dunque parte molto strutturata. Per la stessa ragione, infatti
il linguaggio qui piuttosto che drammatico vuole essere astratto, elevato, è il solo punto dove Monteverdi permette il cantante
di eseguire delle ornamentazioni, anche molto complesse, cosa che gli interpreti ovviamente non si privano di fare.
(Misura 133): ecco che riprende la descrizione del combattimento: per la resa, elabora soprattutto una tecnica che consiste
nel moltiplicare motivi aventi grande intensità ritmica, valori brevi ripetuti, spesso tremuli o figurazioni ritmiche che insistono
su arpeggi; ci sono anche tentativi di teorizzazione di questo nella prefazione, libro VIII, riferendosi all’antichità classica:

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In altre parole, Monteverdi rivendica prima di tutto il fatto che obiettivo della musica sia emozione, e poi cosa non
sufficientemente sviluppata: come rappresentare in musica questa dimensione drammatica delle affezioni furiosi, e dice di
averlo ritrovato nel trattamento ritmico. La descrizione della battaglia si fa interessante e senza precedenti notabili.
(fino a misura 353): sincopi, accenti spostati, ritmi ostinati, ripetizioni isteriche, e anche difetti sonori: la partizione chiede di
fare ‘strappato’, ovvero pizzicato violento per ottenere sonorità particolarmente aspre; fasi del combattimento differenti, e
finalmente Clorinda e mortalmente ferita, e nell’ultima parte dell’opera riconosce la sua sconfitta e chiede il battesimo.
Tancredi prenderà dell’acqua presso una fonte vicina, e per farlo è obbligato a levarle il casco, la riconosce, e c’è momento
di disperazione; poi trova la forza di compiere il gesto che deve fare. (Misura 365): Questa ultima parte è caratterizzata dalla
grande dolcezza, in uno spirito di s.r., in cui Monteverdi tratta le parole di Clorinda (studio della maniera d’esprimersi d’un
morente, con frasi corte, ogni volta interrotte da un accordo di corde, come se Clorinda tentasse di riprendere respiro tra
una frase e l’altra); poi, il narratore, utilizzando s.r. molto flessibile, vicino alla parola, per raccontare tutto ciò che segue
compreso il momento drammatico della scoperta della identità (la voce diventa più tesa, ritmo più secco); grande varietà e
flessibilità dell’uso di queste differenti tecniche di messa a musica del testo.
Trasfigurazione di Clorinda in queste ultime parole, e incredibile distorsione alle leggi del contrappunto: penultima misura, la
voce fa un ritardo di quarta sul basso, Re alla voce su La al basso, secondo le leggi del contrappunto il Re dovrebbero per
forza risolversi discendendo su Dodiesis e poi risalire a Re, invece Monteverdi invece di scendere fa salire la voce di Clorinda
a Re Mi Fadiesis Re: scelta simbolica, poiché in qualche maniera è la sua anima che sale al cielo, e la musica ci descrive questo
momento di trasfigurazione, quasi irreale, espresso da una irregolarità in rapporto alla regola (padre Artusi si strapperebbe i
capelli).

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Lezione VIII
Colpo d’occhio su un fenomeno tra i più importanti in questo periodo, attorno il 1600, di cambiamenti fondamentali (plaque-
tournante) per la musica e la cultura occidentale: 1590-1610, sviluppo dello spettacolo musicale e del teatro musicale; lascerà
in eredità, a lungo termine, il genere che definiamo come ‘opera’, ma che è in realtà fenomeno ben più complesso, e che si
declina in forme differenti, di cui alcune avranno posterità più fortuna di altre.
Perché questa esplosione dello spettacolo musicale? È un po’ come per la trasformazione dello stile dalla polifonia alla
monodia, dal canto polifonico alla virtuosità e dimensione solista: ragioni d’ordine culturale, ragioni legate alla evoluzione
della politica delle istituzione (gruppi di classe che promuovono questa attività).
Culminazione di ciò che in musica definiamo Rinascimento (volontà di fare rivivere certi aspetti della tradizione classica,
anche se poco conosciuta): gli eruditi dell’epoca, tra gli altri i gruppi di cui abbiamo già parlato, cfr. camerata de’ Bardi (conte
dei Bardi), trovavano nelle fonti dell’antichità l’indicazione di ‘teatro’, dunque la tragedia della Grecia classica, la forma di
teatro più prestigiosa della storia della cultura occidentale: il quale era almeno in buona parte cantato (canti solisti d’una certa
complessità all’interno delle scene; il Coro (aveva funzione e natura ambigua: formato da personaggi che appartenevano
all’azione, come dei guerrieri…ma allo stesso tempo quando prendeva la parola aveva piuttosto funzione di commentario
morale, religioso, in rapporto alle azioni che avevano avuto luogo; funzione anche di strutturare la forma, poiché gli interventi
del Coro erano collocati in modo da articolare i differenti episodi (quello che sarà infine i differenti Atti, nella versione
moderna della struttura teatrale di tipo classicista). Sviluppo d’un tipo di spettacolo che si vuole ispirare alla antichità classica
per quanto riguarda l’immaginario: storie, miti, personaggi utilizzati e il fatto d’essere cantati;
Politicamente: già da diversi decenni, nelle Corti del Rinascimento italiano si era sviluppato un sistema di recupero
dell’immaginario di personaggi e miti dell’antichità classica; enormi metafore per celebrare, descrivere in maniera pomposa
le persone, i fatti, azioni delle persone di grandi dinastia; i palazzi si riempiono di affreschi grandiosi, di dipinti, di statue, che
rappresentando personaggi della mitologia classica alludono alle dinastie regnanti, ad avvenimenti dell’attualità, costruendo
una sorta di rappresentazione parallela del mondo politico attraverso la bellezza e la dimensione elevata della metafora
classica. Strategia ripresa ed imitata da tutte le corti europee, modello classicista italiano che sarà formula ufficiale di
trasmissione del messaggio assolutista per i secoli che seguono, fino alla epoca della Rivoluzione francese e parzialmente
anche più tardi.
1° genere spettacolare con musica che caratterizza il 16esimo secolo italiano è quello dell’ ‘intermedio’, rappresentazione avente
carattere di mascherata, senza veri scambi drammatici: sono rappresentati essenzialmente episodi della mitologica classica,
personaggi dell’immaginario classico, e come dice il nome intermedio dovrebbe essere rappresentato fra atti di altre
rappresentazioni teatrali, normalmente commedia; sono solitamente gruppo di 5 o 6, da posizionarsi prima dopo e tra i 5
atti, regolarmente, di principio non c’è rapporto diretto tra soggetto della pièce, della commedia, con scena fissa, e le scene
classiche, mitologiche, presentate all’interno degli intermedi, nei quali la dimensione della ricchezza visuale è sempre molto
importante: creare un contesto visivo grazie a costumi splendidi, macchinari ed effetti speciali, che danno una dimensione
spettacolare.
Dimensione quasi propagandistica, si tratta di impressionare gli spettatori grazie a questa ostentazione di fasto, potere tecnico
e ricchezza visuale; i personaggi, le scene mitologiche, sono scelte di maniera a fare allusione al sovrano e alla sua famiglia, a
rendergli omaggio; spesso, i personaggi stessi, le divinità, le figure-allegoriche che cantano, si indirizzano direttamente alla
corte e ai suoi personaggi per omaggiarli (serie formalizzata di elogi che poi diventano dei veri e propri topoi nelle loro
modalità). La dimensione di fasto della ricchezza, passa anche per la dimensione sonora: spesso, sono convocati numerosi
cantanti, strumentisti, il tutto deve sorprendere sul piano sonoro e non solo visivo, con grande ricchezza e virtuosità, e varietà
di approccio musicale. Costavano moltissimo questi spettacoli, costumi e macchine teatrali concepite dai migliori architetti
e ingegneri militari, presenza di dozzine di musicisti spesso esterni, spettacoli che non avevano luogo regolarmente ma
soltanto all’occasione di grandi feste: soprattutto matrimonio che riuniva due famiglie regali, occasione per grandi feste con
anche, in sottofondo, significato politico. Intermedi sorta di culminazione spettacolare degli spettacoli.
Ciclo di intermedi più noto, interessante per noi poiché è presente tutta la paletta stilistica di ciò che si poteva fare nella
musica italiana alla fine del 16esimo secolo: ciclo presentato in 1589, matrimonio tra Granduca Ferdinando de’ Medici,
principessa Cristine de Lorraine (ducato indipendente dalla corona di Francia al tempo). Tradizione importante del rapporto
tra granducato di toscana e spazio culturale francese: i Medici, granduchi, solo al di sotto del re, nel loro passato di grande
casa di banchieri, erano resi molto ambiti per matrimonio (grande disponibilità finanziarie). Per una parte importante del
16esimo secolo, una donna della famiglia de’ Medici, Caterina, era figura decisiva della politica francese (sposa e poi vedova
di Re Enrico II, sarà reggente e poi regina-madre dei 3 figli che diventeranno re di Francia e moriranno l’uno dopo l’altro),

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per poi lasciare il regno a Enrico IV di Navarra, che sposa una figlia di Caterina de’Medici, Margherita, poi una volta ripudiata
sposerà un’altra Medici, Maria, 1601. Con queste regine di origine fiorentina la Francia importerà delle pratiche, genere di
spettacoli, artisti, e si appoggerà su questa tradizione per sviluppare una cultura delle rappresentazioni di spettacoli di corte,
al culmine con Luigi XIV, figlio di Maria de Medici, essenzialmente nella continuità con ciò che era stato messo a punto alla
corte fiorentina nella seconda metà del XVI secolo.
Gli intermedi del 1589, si distribuiscono attorno ad una commedia ‘La pellegrina’, ma la commedia non c’entra con gli
intermedi, scene distaccate, non ci può essere continuità narrativa tra gli intermedi; ciononostante, sono tutti accomunati da
un tema: il trionfo dell’armonia. Armonia: senso della nozione filosofica e cosmologica medievale, principio che assicura la
coesistenza, la collaborazione, dell’organizzazione di elementi differenti (delle sfere, a livello cosmico) (a livello della vita
umana: nozione di armonia in senso politico); a livello musicale, realizzazione sonora udibile del concetto di armonia.
Termine che ha enorme potenziale di sfruttamento politico, poiché l’idea è che uno stato ben governato è uno stato dove si
ha realizzato una forma di armonia, metafora utilizzata ancora oggi; allo stesso tempo, molto adatta per feste di matrimonio,
ovvero armonia degli sposi, o delle due dinastie; musicalmente, permette di giustificare e rendere importante la presenza
d’una grande complessa distribuzione musicale su formi differenti ma coordinate.
6 Intermedi: hanno come soggetto dei personaggi, scene, dell’immaginario mitologico o allegorico, che hanno al centro l’idea
del potere della musica, ma questa celebrazione della sua armonia è in senso metaforico, come omaggio alla dinastia che
regna e agli sposi che si uniranno in matrimonio. Spettacolo grandioso, opera collettiva (messa in atto da una équipe), a
disposizione del granduca di Toscana, si distingue il nome del conte de’ Bardi, colui che organizzava questa riunione di
eruditi nel suo palazzo, e qui ha avuto funzione di coordinamento, e inoltre l’aristocratico, che ritroveremo, Emilio de’
Cavalieri, una dozzina d’anni più tardi protagonista dell’inizio del teatro musicale; cantante e compositore Caccini, Jacopo
Peri, personale chiamato dall’esterno: Luca Marenzio (compositore di madrigali celebre), uomini di lettere che ritroveremo
di nuovo, in particolare Rinuccini, librettista delle prime Opere; data la natura dello spettacolo totale, anche chi ha aperto ai
costumi la scena, alle macchine teatrali: Bernardo Buontalenti, architetto fondamentale del Rinascimento tardo al servizio
del duca.
Sulle fonti: come per gli intermedi del 1589, come ritroveremo più tardi, le musiche sono state stampate; cosa non facile data
la complessità della distribuzione. Queste pubblicazioni rispondono ad una logica molto differente rispetto a quella delle
pubblicazioni musicali normali all’epoca: componimenti non stampati perché qualcuno li possa riprodurre per sé, come i
madrigali o le villanelle, ma nessuno in Italia o in Europa avrebbe avuto i mezzi; piuttosto, sono edizioni che vogliono dare
testimonianza di cosa era stato fatto, dunque fare conoscere, soprattutto a chi non ha avuto la fortuna di assistere, a quale
punto si era potuto organizzare, installare, eseguire, un progetto d’una tale portata. Sorta di prolungazione della funzione di
propaganda e di prestigio che lo spettacolo portava con sé. Logica che ci aiuta a spiegare la caratteristica di queste edizioni
musicali: pratica di testimonianza che ci permette di non perderle, come sarà il caso per molte Opere nella prima fase soltanto
manoscritte. Spettacolo di corte: merito d’avere presentato, imposto, un nuovo genere, pluralità di nuovi generi e avere
favorito questa trasmissione con mezzi che hanno potuto arrivare fino a noi.
Normalmente, come in questo caso, si stampava anche una sorta di descrizione, un programma di sala, in parte per aiutare
chi assisteva allo spettacolo, a identificare ogni figura mitologica che partecipava allo spettacolo; e permettere a chi non ha
assistito di farsi una idea del suo sviluppo e della sua grandiosità.
Cfr. Script, Ex. I, Firenze, 1589, Primo Intermedio, Dalle più alte sfere, prima del I atto, apre lo spettacolo, entra subito nel cuore
del soggetto, è precisamente consacrato alla armonia delle sfere; il personaggio che discende all’inizio, componimento già
sentito qualche settimana fa, scende su una nuvola (macchina teatrale) è la Armonia, scendo dalle sfere celesti, con le sirene,
e vengo a voi mortali poiché dal sole non abbiamo mai visto una coppia tanto nobile che la vostra, voi novella Minerva
(Atena: dea della lealtà in lotta, virtù eroiche, guerra giusta, saggezza, strategie) ed Ercole (cfr. Libro VIII Eneide, imprese)
(Sposi Ferdinando e Cristina, identificati con le divinità classiche); musica: composta da A. Archilei, a suffragio di sua moglie
V. Archilei, una delle grandi virtuose dell’epoca: da cui il linguaggio estremamente colorato, ricco, virtuoso.
Dietro l’armonia, vengono le sirene: creature mitologiche reputate per l’irresistibile bellezza del loro canto, secondo certe
fonti anche pericolose (cfr. Odissea, Ulisse e le sirene ma si fa legare al tronco della nave per resistere al canto che fa perdere
la ragione); qui piuttosto sirene benevole, cui l’utilizzo è fare girare le sfere celesti. Questo componimento è composto a
doppio-coro, dunque le sirene sono organizzate in due cori di 4 voci, senza contare l’eventuale doppio strumentale. Il doppio-
coro, che abbiamo già incontrato in particolare, in questa epoca, nelle grandi composizione di s.c. a Venezia, prestigioso,
fornisce arie di grandezza, il compositore Cristoforo Malvezzi accetta il fatto che per il doppio-coro ci voglia scrittura
relativamente omoritmica, ma non rinuncia a qualche passaggio ornamentale, legato al sentimento di bellezza e virtuosità;
gioco di alternanze tra cori, cambiamento di metro alla 2° pagina, riunione, poi coro separato, riunione con scrittura più
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densa dal punto di vista ornamentale verso la fine. Le sirene non hanno dimenticato ovviamente di rendere omaggio anche
alla festa e alla bellezza della sposa.
Cfr. Script, Ex. II, componimento strumentale, Sinfonia : termine dal senso di componimento a giocare con più strumenti,
usato normalmente nel teatro musicale a partire da questo periodo e per qualche decennio in un senso preciso:
componimento strumentale che va suonato mentre qualcosa si sposta sulla scena, per permettere a personaggi di presentarsi,
ma non a piedi, personaggi mitologici spostati da macchinari, sia che scendano o salgano (lasciare il tempo per i personaggi
d’un movimento scenico, effetto speciale grazie alla macchina teatrale): componimento polifonico a 6 voci, dovrebbe
permettere l’arrivo in scena delle Parche, che canteranno il componimento successivo.
2 annotazioni: la partizione non specifica gli strumenti da utilizzare, ma possiamo ricostruirlo poiché le descrizioni ci dicono
quali strumenti sono stati utilizzati in momenti precisi; in seguito, per la registrazione si sono aggiunte un certo numero di
ripetizione, fa parte della funzione di questi componimenti: allungabili o raccorciabili secondo il tempo reale che i personaggi
impiegavano per presentarsi sulla scena.
Cfr. Script, Ex. III, Le Parche (corrispettivo delle Moire greche): divinità legate al destino (Cloto, Lachesi, Atropo: filare il
filo, disporlo per ognuno, tagliarlo al momento giusto), qui portano il loro voto, domandano che tutti i gruppi si uniscano
per cantare all’onore della coppia di nuovi sposi; componimento: a 6, caratterizzato da una scrittura quasi tutta omoritmica,
tranne qualche momento ornamentale. Differenti gruppi di divinità si uniscono per tracciare delle ghirlande offerte a
Ferdinando e a Cristina, tutti gli dèi dell’Olimpo rendono loro onore (cfr. Illustrazione, pagina seguente, schizzo di
Buontalenti per la struttura visuale: i gruppi di cantanti sono disposti alla verticale, per dare elevazione all’immagine della
scena).
Cfr. Script, Ex. IV, A voi reali amanti: policorale, qui a 3 cori, particolarmente grandiosa. Primo Intermedio: grazie, tra altro, ha
la sua funzione di introduzione ed elogio, non succede molto; l’intermedio II e III mostrano, almeno, dei momenti
semplificati in un doppio conflitto: il concorso tra le muse e le Pieridi (trasformate dalle Muse in piche dopo una battaglia di
canto persa), e la lotta tra Apollo e il serpente Pitone (il primo uccise il Pitone, e la sua caverna divenne la caverna dell’Oracolo
di Delfi), episodi della mitologia classica; nei due casi i vincitori, le Muse e il Dio Apollo sono simbolo delle Arti della Bellezze
e Armonia: metafora d’un arrivo d’un epoca di armonia grazie al matrimonio che si sta tessendo.
La cosa è spiegata in modo evidente nell’Intermedio IV, Cfr. Script, Ex. V, Sinfonia a 6: intermedio infernale, topos che s’afferma
in queste prime fasi dello spettacolo musicale italiano nel tardo Rinascimento: in ogni opera deve esserci una parte, più tardi
atto, situato tra demoni, furie, dannati (parte mostruosa dell’universo), evocati per dimostrare che è tenuto a distanza, escluso
grazie all’ordine delle forze dell’armonia (cfr. Opere corte del primo periodo; in seguito, Balli di corte, Tragedie musica
francese di Luigi XIV e anche più tardi); sorta di controcanto, memento di fronte all’affermazione dell’armonia. Qui, come
nelle tradizioni teatrali evocate, l’episodio infernale è anche l’occasione d’un cambiamento molto forte di decoro, c’è anche
cambiamento visuale (cfr. pagina 16 script, disegno di Buontalenti: in alto, divinità di regioni superiori; in mezzo un mago su
carro tirato da dragoni (rappresentazione tipica della magia, solitamente di Armide, strega della Gerusalemme liberata), in
basso antro dei demoni con dannati che bruciano fra le fiamme; rappresentazione atroce che diventerà poi praticamente
ineluttabile nella tradizione teatrale).
Ad iniziare a cantare è la maga, che evoca le divinità in alto, per domandare loro a che momento apparirà la bontà sulla terra;
abbiamo un’altra sinfonia che accompagna la discesa delle nuvole con i personaggi in alto (pp. 17-18 Script); la risposta delle
divinità dall’alto è formale, dicono che ora che queste due grandi anime si uniscono a matrimonio, è l’età dell’oro, della bontà
che discende sulla terra: specie di madrigale a 6 voci (Cfr. Script, p. 18).
La prospettiva d’un età dell’oro dove tutto sarà bontà e ognuno farà solo il bene non piace a demoni e dannati, poiché
nessuno discenderebbe all’inferno; il componimento che segue è dunque un lamento di delusione dalla parte del gruppo che
popola l’Inferno. Tanto quanto il Madrigale precedente era molto animato nella struttura polifonica interna per evocare
l’entusiasmo dell’età dell’oro, la risposta nella delusione dei dannati e divinità dell’inferno si fa sotto forma quasi interamente
omoritmica (Cfr. Script, pp. 21-22).
5° Intermedio: evoca uno dei miti più celebri concernenti la musica dell’antichità classica: mito di Arione (di Metimna, citarista),
cantore che dopo essere stato catturato da alcuni pirati nel mare, che volevano gettarlo ivi, provoca la compassione con il
suo canto degli animali del mare: gettato, dei delfini lo salveranno portandolo sano e salvo sulla terraferma; con il mito di
Orfeo, Timoteo, ed altri, è uno dei punti forti della visione magica del potere della musica, che la mentalità della Grecia
classica aveva ereditato dalla sua fase arcaica.

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Cfr. Script, pp. 22-24): disegno di Buontalenti (illustrazione) per il costume del personaggio di Arione, con la sua lira,
personaggio interpretato da un cantore e compositore di Renan, Jacopo Peri (circolo camerata de’ Bardi), poi compositore
delle prime Opere. Musica: trattamento musicale che vuole sottolineare il fatto che il canto di Arione, la musica, è ascoltata
e adottata dall’insieme della natura attorno a lui (utilizzo dell’eco): il canto del protagonista presenta a momenti delle ‘capriole’
virtuose, che sono riprese dall’eco, da risposte ugualmente spazializzate; diventa gioco interessante e complesso, che sarà poi
topos della musica vocale del secolo successivo (uso dell’eco per dare impressione della solidarietà tra musica e natura,
rapporto che esiste tra il suono e l’insieme del mondo). Possiamo definire questi intermedi come dei grandi divertimenti
celebrativi, che non hanno una vera natura o struttura drammatica, ma comunque, che lasceranno più tecniche in eredità alle
forme successive di teatro in musica o spettacolo di corte; alla base d’una tradizione molto importante di componimenti
legati alla celebrazione o divertimento principesco.
Per qualcosa che si avvicina all’utopia classicista in un vero teatro drammatico cantato, nel decennio successivo ci sarà a
Firenze una serie di esperienze che portano a qualcosa di questo tipo; si trattava piuttosto di tentativi fatti in contesto privato,
accademico-sperimentale, di cui le produzioni non sono state necessariamente stampate (difficile per noi commentarli); a
Firenze, anni 90’ (1590-1600), Emilio de Cavalieri e Jacopo Peri hanno probabilmente lavorato su testi drammatici che non
erano veramente tragedie ma piuttosto pastorali, testi drammatici in cui i personaggi sono soprattutto pastori di Arcadia, non
re e imperatori (tragedia); messa a musica (non sappiamo esattamente quale fosse utilizzata); 1598, Dafne, composta da Peri
su testo di Ottavio Riuccini, ma la musica di chi avrebbe potuto essere considerata come prima opera è perduto; infine,
prima d’avere qualcosa di concreto, si arriva al 1600.
1600: Marca passaggio di secolo, e per i primi esempi arrivati fino a noi di componimenti, ha grosso modo le caratteristiche
di Opere. E. De Cavalieri, sovrintendente nei casi degli Intermedi del 1589; si stabilisce a Roma, a febbraio, spettacolo
proposto: La rappresentazione di anima e di corpo (cfr. Script, pp. 25-26): rappresentazione, gioco dell’anima e del corpo.
Componimento avene natura teatrale, drammatica e soggetto sacro, devoto, quasi ricordando la tradizione drammaturgica
che conosciamo dal Medioevo; contesto d’una piena monodia con basso continuo, soggetto di tipo allegorico,
rappresentazione spirituale in cui i personaggi sono allegorie (anima, corpo, intelletto…) tutto si articola come un dibattito,
con una serie di dimostrazioni, per convincere l’anima che bisogna seguire il precetto d’una vita cristiana per assicurarsi
l’eternità dopo la morte. Nel secolo successivo ci saranno numerosi esempi di oratorio, con personaggi di questo tipo (cfr.
trionfo tempo e disinganno di Händel, ….), l’Oratorio, per definizione, sarà genere presentato in forma non scenica, senza
costumi, senza decoro, senza azione; mentre invece, la rappresentazione di Cavalieri è stata fatta per una vera
rappresentazione scenica; cfr. frontespizio: forma di ‘recitar cantando’, con recitazione ma in musica.
In fondo, non possiamo classificarlo come opera, poiché il fenomeno e tradizione delle prime opere si fonda su soggetto di
tipo mitologico, prese dalla antichità classica, qui è soggetto spirituale; e inoltre dal punto di vista stilistico, mentre Cavalieri
parla di ‘recitar cantando’, si riferisce al fatto che ogni personaggio del testo è incarnato su scena, canta in monodia con
accompagnamento di basso continuo, che canta recitando; tuttavia, Cavalieri non utilizza spesso ciò che abbiamo visto
definito da Caccini e altri, come stile recitativo: questo tipo di monodia, che cerca di legare piuttosto alla libertà della parola,
alla prosodia della parola, generando frasi non periodiche di lunghezza variabile, fondata sulla amplificazione della sonorità
del parlato; in realtà, la Rappresentazione si organizza in più corti repliche, risposte, che spesso hanno carattere di minuscole
ariette, che al limite non possono durare che qualche secondo, ma di cui la caratteristica e di essere strutturare regolarmente
secondo ritmo e periodo. Stile recitativo: forma di parola cantata a metà tra parola e canto, sarà, invece, elemento
fondamentale per l’inizio del genere Opera; da questo punto di vista, è un po’ difficile comprendere la Rappresentazione
attraverso le Opere delle origini; composizione interessante, che mostra bene a quale punto l’idea della R. cantate era
diventata polo importante per la riflessione dell’epoca.
Qui è presentato un estratto, del 3° atto, grosso modo si ha serie di allegorie (Intelletto, Consiglio) che vogliono mostrare ad
anima e corpo cosa ci sia nell’eternità, cosa si vede e di cosa si possa gioire montando in cielo; e cosa si troverà se ci si trova
all’inferno. I personaggi individuali si alternano, dialogano, con corti risposte, il coro, coro di tipo classico (commentario
esterno, morale) interviene di tempo in tempo per aggiungere una riflessione di tipo devozionale. Nelle risposte che
descrivono le beatitudini del paradiso, la musica prende un’apparenza d’una sorta di Canzonetta, per dare dimensione di
gioia; interventi del coro: sorta di refrain, stessa musica che ritorna (strutturare dunque la scena).
Nella scena successiva, si convoca direttamente le anime dannate all’inferno e quelle liete al cielo, poiché raccontino
direttamente cosa provino; implica una dimensione visuale: paradiso e inferno che si aprono, contrasto tra le due visioni
differenti; in generale, fatto che anche nella R. si osservi tendenza a molteplicità e gioco di contrasti tra ‘decoro’ (contesto
scenico) e Opera delle origini in generale, che accetta la tradizione di spettacoli di Corte, come gli intermedi che abbiamo
visto.

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Osservando la partizione (Cfr. Repertorio): relativamente semplice, per quanto riguarda il trattamento strumentale; ci sono
comunque una prefazione dove l’autore dona qualche consiglio, per quanto concerne la realizzazione sonora, soprattutto del
basso continuo (siamo confrontati a qualche punto di domanda per quanto riguarda la realizzazione sonora). Il solo di questa
anima beneamata, molto ricco, ornamentato, anche se evidentemente non toccava lo stesso livello di virtuosità ricorda un
poco l’Armonia, nell’Intermedio del 1589, con linguaggio musicale che fa allusione alla nobiltà della trasfigurazione superiore.
Commento del Coro: si domanda come sia possibile che di fronte a queste prospettive totalmente differenti l’uomo ancora
esisti a conformarsi al precetto della religione; lo fa in una sorta di piccola Canzonetta, poi ripresa più tardi; funzione di refrain
appunto, tipica del Coro.
Scena Quarta: si ripete a due riprese il gioco della doppia evocazione: anime dannate, anime liete, con altre questioni che
ottengono le stesse risposte; tendenza a riutilizzare gli stessi elementi musicale: costruzione ben strutturata e facile da
riconoscere.
3° sequenza simile alle due precedenti; poi, l’insieme delle scene, si acquista, culmina nella morale, replica in fondo alla pagina,
si tratta d’una Canzonetta (simile), anche dal punto di vista stilistico e metrico, settenari, in cui si invita l’auditore a ben agire
ed amare Dio così da meritare l’eternità in Paradiso.
Esempio molto chiaro di cosa è ormai la strategia della Controriforma, in questo fine di XVI secolo, strategia che consiste a
appropriarsi, in fondo, di mezzi stilistici i più efficaci, della musica profana, della sua epoca, per dare soprattutto penetrazione
nel compito di convincere nel suo messaggio religioso.

Lezione IX
Arriviamo ad una tappa importante: la tappa che fissa le caratteristiche d’un genere teatrale, ossia la ‘favola per musica’, ciò
che presto si chiamerà ‘opera’; si installa in maniera regolare, sebbene legato a situazioni a particolari sempre (feste,
matrimoni…) nelle corti principesche dell’Italia settentrionale e centrale. Periodo nel quale l’Opera di Corte avrà
caratteristiche precise, legate al contesto istituzionale che la produce, caratteristiche che cambieranno 40 anni dopo, quando
lo spettacolo a Venezia diventerà pubblico, con funzione differente.
La tappa a cui si allude: autunno 1605, Firenze: ci sono delle feste per il matrimonio di Maria de’ Medici con il Re di Francia
Enrico IV. Feste che implicano più spettacoli, alcuni molto ricchi e grandiosi; tra di essi ve n’è uno particolare:
rappresentazione teatrale Euridice, può essere designata come la prima vera Opera, poiché vi si ritrova già una serie di
caratteristiche poi presto riprese, imitate, sviluppate, da altri spettacoli, in altri posti.
Euridice: prodotto del cerchio già detto, che fa parte delle discussioni del palazzo del conte Bardi; il librettista lo abbiamo già
incontrato, trattasi di Ottavio Riuccini; compositore Jacopo Peri (già ritrovato come compositore e come cantante, Arione,
negli Intermedi del 1589), ma sembra che anche altri membri abbiano partecipato, compreso Caccini; ci sarà una polemica,
poiché dopo le rappresentazioni Peri pubblica la partizione del suo Euridice, mentre più tardi, Caccini ne pubblicherà un’altra
parallela, sullo stesso testo, dicendo che ha sviluppato certe parti che facevano già parte dello spettacolo dell’Autunno 1605,
e di cui sarebbe stato l’autore. Rivalità sul primato. Non è il primo prodotto di questo tipo: Riuccini e Peri avevano già
compostò una Dafne qualche anno prima, ma la musica non è arrivata fino ai nostri giorni; mentre per Euridice c’era stata una
pubblicazione della partizione, sempre secondo la logica già incontrata la volta scorsa della ‘testimonianza’ di ciò che era
stato fatto, per il prestigio dell’occasione; la presenza della partizione e il fatto che molte persone, compresi musici, erano a
Firenze per le feste e dunque vi abbiano potuto assistere, fanno sì che Euridice sia il punto di partenza del nuovo genere
dell’Opera.
I membri della Camerata del conte Bardi avevano lungamente discusso sulla possibilità d’un teatro interamente in musica,
appoggiandosi sul fatto che la tragedia dell’antichità classica utilizzava la musica; ma in realtà, questi primi tentativi di Opera,
non sono tragedie nel senso proprio del termine, poiché prima la tragedia è genere che si distingue per certo tipo di personaggi
(rango sociale elevato, agiscono in una corte, contesto urbano, azioni con influenze collettive, politiche), secondo perché
nella tradizione classica ha scena fissa, sorta di luogo all’entrata del palazzo reale, terzo perché in principio non include quasi
mai personaggi di natura fantastica-mitologica, ma piuttosto umani; mentre invece, negli intrighi di questa prima Opera di
corte, si vede che: si tratta d’uno sviluppo piuttosto del genere pastorale-teatrale.
Pastorale: genere poetico che deriva dall’antichità, fissato come genere teatrale però soltanto durante il Rinascimento italiano.
Vi sono due grandi modelli, alla base di tutto ciò che diventerà pastorale nell’Europa dei secoli successivi: dramma di T.
Tasso, Aminta; Guarini, Il pastor fido (testo che già conosciamo, per la sua funzione di serbatoio di testi per i madrigali). In
una pastorale, i personaggi sono dei pastori, situati in contesto idilliaco, mitico, che corrisponde normalmente alla regione
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della Grecia Classica, Arcadia; contesto concepito per non avere delle radici storiche precise per attenuare gli aspetti di
gerarchia sociale che esistono nella tragedia e commedia; per accentuare i rapporti di tipo personale, sentimentali soprattutto,
tra i personaggi. I pastori d’abitudine rappresentano una sorta di età dell’oro, di innocenza felice dell’umanità, anche se alla
fine si esprimono in linguaggio elevato, raffinato; le storie sono quasi sempre sentimentali, ma ci sono anche elementi
fortemente patetici, ragione per cui Guarini aveva chiamato tragicommedia il suo Pastor fido, anche se il rango non è quello
della vera tragedia, l’intensità delle scene può avere a che fare con la tragedia. Ci sono 2 o 3 punti nella drammaturgia della
pastorale che spiegano perché sia questo, non la tragedia, che fornisce i punti di partenza per l’Opera: prima di tutto, il fatto
che ci fossero già una certa dimensione musicale: canti…e anche i Cori che terminano ogni Atto sul modello della antichità
classica; molta musica: la tradizione poetica e iconografica vuole che i pastori dell’Arcadia facciano molta musica. Inoltre, se
il Coro della tragedia è urbano, semplice, neutro quello della pastorale sono Cori campestri, che possono cambiare, dunque
c’è dimensione visuale più importante, cosa molto apprezzata, tramite lo spettacolo musicale di questa epoca; infine, la teoria
della tragedia classicista, dalla riscoperta nel 16esimo secolo, poi fino al grande secolo di ad es. Racine, cerca di evitare la
presenza di personaggi divini, aventi natura fantastica, non umana, sulla scena; mentre la pastorale, dato il contesto irreale e
già profondamente legato all’immaginario mitologico, si accomoda bene alla presenza di personaggi mitologici, come dei o
semi-dei: importante poiché gli autori delle prime Opere, nonostante tutti gli studi fatti sulla dimensione musicale della
tragedia dell’antichità, erano imbarazzati da un punto estetico fondamentale: legittimità o verosimiglianza d’uno spettacolo
nel quale tutto è cantato da una parola all’altra. Il principio della verosimiglianza, che ha ugualmente origine nella antichità
classica, adattato dall’estetica europea nel Rinascimento: elaborazione a partire da Aristotele, principio con cui l’arte imita al
realtà; anche se presenta cose che non sono vere, deve almeno che le cose siano verosimili, o convenienti, altro termine
imparentato: si esige che le cose rappresentate abbiano almeno parvenza di realtà, e che la maniera in cui le si presenta, si fa
agire uno o l’altro personaggio, sia credibile in rapporto a quanto il personaggio avrebbe dovuto essere o all’idea che noi ci
facciamo del personaggio.
Opera: imbarazzo, poiché nella realtà come noi la conosciamo, evidentemente non si canta tutto il tempo; dunque, all’inizio,
si fa di tutto per evitate di presentare su scena un cantante, a meno che si tratti di canzoni reali cantate da personaggi che
fanno effettivamente della musica, che nella realtà invece parlerebbe senza cantare; le cose si evolveranno, il codice specifico
dell’opera si imporrà, e si accetterà che l’Opera è uno spettacolo dove al posto di parlare si canta, cosa artificiale come altri
codici della rappresentazione artistica, anche nella tragedia parlata le persone si esprimono in versi alessandrini, cosa che non
avviene nella realtà.
Soluzione: moltiplicare le situazioni di musica intradiegetica: le situazioni in cui si fa musica, canto, poiché sono situazioni in
cui personaggi effettivamente cantano: ecco il vantaggio dei pastori dell’Arcadia, che già tradizionalmente, nell’immaginario
relativo al genere, cantano e suonano tutto il tempo. Quanto all’uso di personaggi mitologici: è la stessa cosa, la
verosimiglianza si fa in rapporto alla nostra conoscenza e rappresentazione mentale, di ciò che è adattato per un certo tipo
di personaggio. Ad esempio per noi sarebbe impossibile immaginare un impiegato postale che canta; ma non abbiamo
problemi a considerare come verosimile che Minerva canti, poiché nessuno di noi l’ha mai incontrata; anzi, poiché il canto
è espressione alta, grazie alla prossimità con l’armonia delle sfere, per noi è verosimile immaginare che una divinità si esprimi
cantando in maniera naturale, come sua operazione naturale; spiega perché l’opera agli inizi, con il problema della legittimità
forte, ha preferito i soggetti mitologici, con presenza di divinità, e soggetti dove la presenza della musica possa essere
giustificata dalla natura dei personaggi.
Prime Opere: dimensione, già vista negli Intermedi del 1589, di scegliere soggetti che rappresentino una glorificazione della
musica, della sua potenza, tale come la descriviamo nella mitologia della antichità. Ad esempio cfr. Dio Apollo, cantore alla
lira, Arione e i delfini, personaggi che rappresentano la celebrazione della musica, e dell’armonia in senso più ampio, elevato,
come chiave simbolo della coerenza e bellezza dell’Universo.
La prima Opera di cui la musica non è stata tràdita fino ad oggi: Dafne, avente come soggetto la ninfa, che ad un certo punto
ottiene di trasformarsi in Lauro per scappare alla corte (‘violenta’) fattale da Apollo (cfr. RVF, Petrarca), e Euridice, sposa di
Orfeo, il cantore, colui che nella bellezza del canto poteva influenzare anche animali e sassi, avendola persa a causa del morso
d’un serpente, scende nel Regno dell’Oltretomba, grazie alla bellezza del suo canto, convince gli dei infernali; anche se poi
la perde di nuovo per non avere rispettato l’ingiunzione di non voltarsi per guardarla, fino a quando i due sarebbero usciti
dai regni infernali.
Cfr. Georgiche di Virgilio, Metamorfosi di Ovidio: La sua fama è legata però soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide
unito alla Driade Euridice, che era sua moglie: come Virgilio narra nelle Georgiche, Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo,
amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a
che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo, lacerato dal dolore, scese

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allora negli inferi con la sua inseparabile lira per riportarla in vita. Raggiunto lo Stige, fu dapprima fermato da Caronte: Orfeo,
per oltrepassare il fiume, incantò il traghettatore con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano
dell'Ade. Raggiunse poi la prigione di Issione, che, per aver desiderato Era, era stato condannato da Zeus a essere legato a
una ruota che avrebbe girato all'infinito: Orfeo, cedendo alle suppliche dell'uomo, decise di usare la lira per fermare
momentaneamente la ruota, che, una volta che il musico smetteva di suonare, cominciava di nuovo a girare. L'ultimo ostacolo
che si presentò fu la prigione del crudele semidio Tantalo, che aveva ucciso il figlio Pelope (antenato di Agamennone per
dare la sua carne agli dèi e aveva rubato l'Ambrosia per darla agli uomini. Qui, Tantalo è condannato a un terribile supplizio:
è legato a un albero ed è immerso fino al mento nell'acqua mentre dei frutti crescono proprio su un albero che gli è sopra.
Ogni volta che prova a bere, l'acqua si abbassa, mentre ogni volta che cerca di prendere i frutti con la bocca, i rami si alzano.
Tantalo chiede quindi a Orfeo di suonare la lira per far fermare l'acqua e i frutti. Suonando però, anche il suppliziato rimane
immobilizzato e quindi, non potendo sfamarsi, continua il suo tormento. A questo punto l'eroe scese una scalinata di 1000
gradini: si trovò così al centro del mondo oscuro, e i demoni si sorpresero nel vederlo. Una volta raggiunta la sala del trono
degli Inferi, Orfeo incontrò Ade e Persefone: il primo dormiva profondamente, la seconda lo guardava con occhi fissi.
Ovidio racconta nel decimo libro delle Metamorfosi[15] come Orfeo, per addolcirli, diede voce alla lira e al canto, facendo
riaffiorare in Persefone i ricordi della vita prima che Ade la rapisse e la costringesse a sposarlo. Il discorso di Orfeo fece leva
sulla commozione; in questo senso funzionarono perfettamente il richiamo alla gioventù perduta di Euridice e l'enfasi sulla
forza di un amore impossibile da dimenticare e sullo straziante dolore che la morte dell'amata ha provocato. Orfeo fece
ricorso anche a considerazioni più razionali, nel timore che svanendo l'effetto del canto la sua richiesta non dovesse più
essere esaudita; disse così che la chiedeva solo in prestito, che quando fosse venuta la sua ora anche Euridice sarebbe tornata
nell'Ade. A questo punto Orfeo rimase immobile, pronto a non muoversi finché non fosse stato accontentato. La regina
degli inferi, ormai commossa, approfittò del fatto che Ade stesse dormendo per lasciare che Euridice tornasse sulla terra; o
forse come Ovidio fa intendere, anche l'impassibile Ade (Plutone) per la prima volte si commosse e acconsentì al desiderio
di Persefone (Proserpina).
Mito conosciutissimo nell’antichità, ma la fonte sintetica e poetica conosciutissima nel Medioevo sono le Metamorfosi di
Ovidio (all’epoca di Augusto): principale fonte per soggetti di opera per molto tempo, nella prima fase dell’Opera italiana
ma anche dopo, in particolare dal momento in cui si espande in Europa, con gli stessi problemi di verosimiglianza in Francia,
e lì di nuovo il testo di O. sarà spesso il principale punto serbatoio.
Euridice: comincia con un prologo all’interno del quale l’allegoria della Tragedia si presenta, ella stessa su scena, praticamente
tutte le Opere di corte successive avranno prologo dello stesso tipo, con personaggio allegorico, che viene a rendere omaggio
agli spettatori illustri e per mettere qualche parola di valore poetico, poiché qui la Tragedia dice: poiché siamo in contesto
festivo, non mostrerò scene terribili a cui sono più consona, ma qualche cosa di più piacevole, che si adattato alle nozze; resa
di omaggio agli sposi, a Maria de’ Medici. Nell’opera si ha omesso la parte finale del mito di Orfeo, la seconda perdita della
amata, e dunque si tratta d’una storia di grande amore soltanto, che permette la riunione felice di due sposi.
Messaggio poetico: si tratta di definire lo spettacolo, e il nuovo genere, come spettacolo che si vuole più piacevole, meno
atroce rispetto alla tragedia rigorosamente organizzata su modello classico.
Cfr. Script, Ex. I, prologo, p. 1: strofico, musica per la prima strofa poi le altre; il concetto di strofico non corrisponde
interamente alla idea di stile recitativo, che dovrebbe cambiare secondo testo; qui si vuole tenere struttura organizzata, elevata,
che conviene al personaggio della tragedia; numero chiuso avente carattere nobile. Tuttavia, la caratteristica principale, è la
grande quantità di s.r. In questa opera, si ha raramente ricorso a musica intra-diegetica che possa alleggerire con canzonette,
con componimento più leggeri e piacevoli; come prima Opera, si sottolinea l’importanza dello s.r. come dispositivo che
essendo intermediario tra parlato e cantato, ciò che J. Peri dice nella prefazione, permette di mettere a musica una storia nella
quale, come in una vera pièce teatrale, ci sono molti dialoghi o discorsi ordinari, non musiche intra-diegetiche, che una volta
trasposte su piano musicale diventano recitativo.
Rischioso: lo s.r., quello che poi è r., certo ha la flessibilità che gli permette di dare dimensione musicale a ogni forma di
discorso, dialogo, dunque fondamentale per trasformare l’opera in teatro cantato; ma, la sua efficacità estetica è limitata,
poiché la melodia non arriva mai a organizzarsi secondo forme periodiche, strutturate, come quelle in numero chiuso.
Espressione di entusiasmo, di idealismo erudito, dalla parte dei musicisti intellettuali che credevano di potere ottenere livello
di impatto emozionale grazie alla fusione parlato-cantato sul modello dell’antichità. Di fatto, resta piuttosto al livello d’una
utopia classicista: presto, nel dominio dell’opera, ambito, si arriverà alla conclusione che il r. può avere impatto emotivo
come maniera di sottolineare parola e affetti, ma non è sufficiente per permettere l’efficacia estetica d’un organismo lungo e
complesso come una Opera. Già pochi anni dopo, in una versione dello stesso mito, Monteverdi, ricorrerà a diversi numeri
chiusi di Canzonette e altre forme per dare varietà e presenza maggiore all’Opera; e anche, in seguito, già nel 1620-30,
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contesto di Opere di corte, si parlerà della notte del r., e che si bisogni sintetizzare, mischiare, il r. con altre forme
maggiormente periodiche e regolari.
Cfr. Script: estratti della scena più importante, la discesa di Orfeo all’inferno: ha tagliato per noi le sezioni sottolineate in
colore, e abbiamo anche la partizione di Peri, sebbene egli abbia soltanto notato voce e basso continuo (nella partizione si
propone una realizzazione del basso continuo). Orfeo, cantore mitico, giunge alle porte infernali scortato da Venere, e si
indirizza alle divinità infernali (p. 2, ‘Funeste piaggie…’); si vede che il lungo discorso è già, guardando solo il testo, di versi
di 11 e 7 sillabe, mischiati in maniera irregolare, ovvero ‘versi sciolti’, e sarà questa la base metrica per il r. per secoli, ed è
ancora il caso all’epoca di Verdi, quasi 3 secoli dopo. S. r. molto intenso, emotivo, che a momenti ricorre a cromatismi e
dissonanze importanti; il tutto, senza struttura generale tranne che per un piccolo refrain, ovvero un verso che si presenta 3
volte, è un invito alle ombre dell’Inferno a piangere con lui: solo segno di una volontà di strutturare in maniera udibile;
altrimenti lungo discorso in puro stile recitativo.
Ecco Plutone, re dell’Inferno in persona, che gli risponde. Ciò che segue è lungo dialogo, di tipo teatrale, fondato sul tentativo
dalla parte di Orfeo a convincere il Re dell’Inferno a farne eccezione e rendergli grazia per Euridice; Proserpina interviene,
commossa dal canto di Orfeo, fino a che Plutone cede rendendogli Euridice.
Il recitativo, che permette dialoghi, che assicurano la comprensione del testo, è lo strumento che permette di passare dal
teatro musicale statico con qualche mascherata più o meno interessanti su piano musicale (cfr. Intermedi, cfr. 1548) a un vero
dramma interamente cantato, in musica; dramma caratterizzato dagli scambi, da dialoghi, dopo i quali si può oppure no
fermarsi, a momenti , su strutture musicale più organizzati dal punto di vista interno per evidenziare aspetti di ordine affettivo
o diegetico.
Taglio forte, per arrivare alla fine della scena, al Coro che chiude la scena, Coro in senso classico, personaggi la cui funzione
non è di partecipare ma fare un commento, di fare la morale in questo caso; il Coro è scritto in maniera polifonica
evidentemente, molto omoritmico, dunque assicura un cambiamento di scrittura e di stile per la fine della scena. Si nota che
il metro utilizzato nel testo poetico è regolare, solo versi di 7 sillabe, raggruppati in maniera simmetrica, il che permette
regolarità anche nelle frasi musicali: il Coro è la musica, della vera musica, non dialogo cantato come quello del recitativo;
vero canto effettivo.
Gli scambi tra le corti principesche dell’epoca, di élite aristocratiche e personale musicale, fanno sì che in qualche anno altre
corti cercano di montare spettacoli sul modello fiorentino, delle Opere. Una delle prime, è sorta di remake che riprende lo
stesso soggetto, ma trattandolo in maniera molto diversa, Mantova, 1607, febbraio, riprendendo lo stesso soggetto di
Euridice, a titolo Orfeo, con compositore Monteverdi. Più lungo, complesso, strutturato in prologo e 5 atti, differisce tra le
altre cose poiché riprende ad intero il mito, con anche la seconda perdita dell’amata, e vi è in seguito incertezza per quanto
riguarda lo sviluppo, poiché abbiamo d’una parte un esito, un edizione in cui Orfeo sarà ucciso dalle baccanti, e un'altra
versione, che invece abbiamo con musica e che sarà stampato e che abbiamo, in cui Orfeo si dispera e alla fine Apollo, il
padre, discende per prenderlo con sé e per issarlo a sorta di trasfigurazione poetica.
La partizione: pubblicata poco dopo a Venezia, cfr. Script, Ex. II, frontespizio; carattere di grande ricchezza nelle indicazioni
dell’orchestrazione; esibito a Mantova senza economizzare nella colorizzazione strumentale. Cfr. lista dei personaggi, lista
degli strumenti: 2 clavicembali, 2 contrabassi, 2 viole da braccio, 2 arpe doppie, 2 viole piccole, 2 arciliuti, 2 organi in legno,
3 viole da gamba, 4 tromboni, 1 corno, 1 piccolo flauto, 1 piccola tromba con 3 con sordina. Non sono tutti disposti in
partizione, ma se guardiamo alla pagina successiva, ci sono indicazioni che ci dicono quali strumenti sono stati aggiunti, o
voci utilizzati per ogni parte (cfr. p. 13): coro, questo balletto (pezzo vocale con carattere di danza) cantato con…. Questo
ritornello….Coro de spiriti….tutto al passato, poiché queste partizioni hanno l’obiettivo di dare indicazioni di testimonianza,
come era stato fatto, non per riprodurlo; indicazioni comunque da cui si può ricostruire l’orchestrazione molto ricca.
Compositore molto pragmatico, non addotta posizioni estetiche a priori, cerca di ottenere il meglio con tutte le forme di
scrittura e risorse disponibili all’epoca; questo nella grande diversità tra Orfeo e Euridice di Peri; Orfeo: momenti di s.r., a volte
per scambi, anche avendo valore emotivo molto forte, ma anche Canzonette (piccoli numeri chiusi solisti, o Cori, non solo
quelli che commentano ma anche intra-diegetici, cantati dai pastori che popolano il contesto arcadico del tutto), forme
differenti: in parte, la variazione su basso che si ripete, e il tutto organizzato in forme molto ricche, grazie all’uso della scrittura
concertata, dunque strumenti che prendono parte in una maniera o l’altra allo sviluppo di idee musicali. Opera in cui il
linguaggio musicale è molto ricco, vario, molto meno omogeneo, ma più piacevole e accattivante del predecessore fiorentino.
Orfeo inizia con un componimento strumentale, una toccata, termine che fa allusione al fatto che sia idiomatico, per gli
strumenti prima della fanfara del duca, ma la didascalia dice che tutti gli strumenti erano messi in gioco, anche le sordine.

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L’allegoria o divinità che viene a cantare nel Prologo è la Musica; rende omaggio e descrive i suoi poteri, la capacità di
comandare le emozioni, topos della potenza della musica e anche la estetica di Monteverdi, musica come mezzo per realizzare
la dimensione emozionale, richiedendo l’attenzione per ciò che segue.
In seguito alla toccata, il testo del prologo è strofico, 5 strofe, 4 versi ciascuna, 11 sillabe, endecasillabi, traduzione elevata,
personaggio di livello divino, la realizzazione musicale, alla differenza di Peri (strofico semplice) Monteverdi fa dello
strofismo variato: stesso basso, ma la realizzazione del canto è ogni volta differente, adattata alle caratteristiche del testo; la
capacità di rendere questa sfumatura semantica è impressionante. Prima, dopo, e tra le strofe, vi è un ritornello strumentale.
Si noterà come la realizzazione sonora può differire da cosa suggerisce l’edizione, poiché la maniera degli strumenti indicati
dava indicazioni generali, non in dettaglio l’orchestrazione. (cfr. Prologo, p. 15).
Gli atti I e II presentano un topos dell’opera che sarà immensamente ripreso nella storia del genere: quello della festa che
infine è interrotta da avvenimento traumatico: la festa è il matrimonio di Orfeo e l’amata, e l’avvenimento drammatico la
notizia che E. è appena morta, morsa dal serpente; contesto pastorale, si immagina l’esterno di un tempio dove ha luogo la
cerimonia, e Monteverdi approfitta dell’aspetto della festa per inserire ogni sorta di musica intro-diegetica, o musica basata
sul topos della pratica della musica da parte dei pastori.
Cfr. musica della prima parte dell’atto: ninfa che in s.r., su versi sciolti, invita tutti a cantare su strumenti ben accordati, anche
le muse ad unirsi al canto delle ninfe e pastori; Poi il canto si concretizza in un componimento polifonico, grosso modo in
stile di canzonetta, su testo strofico, 3 strofe, 6 versi, 7 7 11 7 7 11 sillabe, rime aaBccB (Cfr. p. 17).
Dopo questo canto, in canzonetta, strofico, anche se non mette in musica le 3 strofe ma solo 2, un pastore chiede ad Orfeo
di cantare. Sezione in recitativo sottolineata, poiché è omessa. Orfeo risponde in canto, ma in stile recitativo, dunque più
elevato, poiché si tratta di indirizzarsi al padre, Apollo-Sole. Si vede qui tutta la capacità retorica di Monteverdi di sviluppare,
anche all’interno di s.r., delle strutture musicali che hanno un senso in rapporto non solamente al nome, ma anche alla sintassi
del testo: cfr. testo: 4 versi, indirizzo al Sole, poiché questi 4 non fanno che un solo concetto, l’armonia resta immobile lungo
di essi, la voce sale e discende sull’accordo, poi cambia quando il testo dice ‘dimmi’, cambio di funzione grammaticale e
cadenza ‘hai tu mai visto…’; poi, si indirizza ad Euridice in 4 versi ‘fu ben…’ il parallelismo tra le due frasi fa sì che ci sia la
stessa musica ma variata per i primi due versi e il 3 e 4 verso. Tipo di canto con grande flessibilità dello s.r. ma che è
organizzata da ricorrenze, strutture che gli danno carattere di resa musicale elevata del testo poetico (cfr. p. 19).
Poi ripresa del Coro dei pastori. Monteverdi ha una vera passione per le forme simmetriche, per i ritorni che danno una
unità scenica.
Abbiamo già sentito Orfeo in s.r., ma difatti è all’agio anche nello stile più leggero, nella Canzonetta, cfr. estratto dell’inizio
del Atto II, strofa di canzonetta, 8 sillabe, il più regolare, molto vivo sul piano ritmico grazie alla sincope, poi è una sorte di
competizione di canto; dice già che sarà in forma di canzonetta e ritornello; ci sono pastori che iniziano la loro canzonetta
strofica, articolata, chiunque si unisca per chiedere di nuovo a cantare, e Orfeo che canta una lunga canzonetta sempre in
ottonari e sempre con ritornello: trionfo della canzonetta, dello stile leggero, nella nuova forma o genere della favola per
musica (cfr. p. 21).
Dopo questo, una giovane ninfa, messaggera, porta la novella terribile della morte di Euridice. Resto dell’atto: lungo piano
di Orfeo, molto intenso, s.r., poi sorta di lungo compianto funebre confidato ai pastori, strutturato con ritornello corale e
delle sezioni interne confidate a gruppi di solisti, che dimostrano tutta la grande capacità delle varie opzioni stilistiche di
Monteverdi, che rispetto ai fiorentini non aveva solitamente preclusioni a priori contro la polifonia; non aveva accettato
l’idea secondo la quale solo la monodica classica possa avere efficacia di tipo emozionale. Qui si presenta solo l’ultima parte,
l’ultimo coro che corrisponde alla presenza del coro commentatore alla fine di ogni atto secondo modello classico: sezione
a 5 che addotta in tutto il linguaggio utilizzato da Monteverdi nei madrigali del secolo precedente, come ad esempio la già
vista Cruda Amarilli, mentre la sezione centrale è per due voci, un poco differente ma sempre basata sull’utilizzo di tutti i tipi
di possibilità di scrittura possibile (cfr. p. 27).
Estratti dell’atto dell’inferno, atto III: dimensione di colore strumentale che cambia; l’epoca di Monteverdi, associa certi
timbri a certi contesti simbolici: strumenti a corde, arpe = adattati per proporre sonorità di tipo elevato, celeste; gli strumenti
come i flauti per contesto pastorale; le regioni sotterranee dell’inferno = ottoni, gravi soprattutto come tromboni e il regale
(Il regale è uno strumento musicale aerofono a tastiera dotato di ancia battente e di due mantici. Il suono è prodotto dalle ance fissate su fessure
realizzate sulla tabula summa. L'estensione più comune per la tastiera del regale è di quattro ottave, in genere con la prima ottava corta. Il regale,
grazie alle sue piccole dimensioni, era facilmente trasportabile, e il suo uso maggiore era nelle chiese), sorta di organo, con sonorità molto
aggressive.

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Orfeo raggiunge le porte dell’Inferno, scortato dalla Speranza, ma alla fine essa deve partire, poiché sotto la porta è scritto:
lasciate ogni speranza voi ch’entrate, cfr. Inf. III, Dante, mostra una curiosa contaminazione delle fonti della antichità classica
e medievale, e dimostra il prestigio di Dante sebbene di base per l’oltretomba si pensi all’antichità. Orfeo si compiange: s.r.,
per la perdita della speranza ma comunque procede, e si fa fermare da Caronte traghettatore (Eneide, VI), voce di basso, che
canta accompagnata con basso continuo dal regale.
Orfeo approccia la sinfonia strumentale dovrebbe seguire i suoi movimenti; poi si indirizza a Caronte, e si vede bene la
differenza con l’opera di Peri, in momento simile: non è s.r., ma bensì un grande numero chiuso, su forma strofica variata:
la stessa forma elevata ma regolare, strutturata, trovata nell’indirizzo della musica iniziale: né senza struttura come s.r., ne
leggero come lo strofico puro. Testo: possente spirto e formidabil nume (endecasillabo) e terzine, strofe di 3 versi con rime
ABA, in seguito BCB…rima incatenata; il metro dantesco. Referenza elevatissima anche dal punto di visto poetica; vario:
basso simile ma la voce è molto differente nelle differenti strofe, dunque regolarità strutturale ma il cambiamento è molto
importante a livello della superficie. Partizione: 2 linee vocali alternative per il ruolo di Orfeo; le 2 linee sono nella partizione,
vi è una semplice non ornamentata è una molto ricca, che corrisponde a quella che il primo interprete F. Rasi ha
effettivamente cantato. La versione molto ricca ci mostra la maniera in cui probabilmente i grandi virtuosi dell’epoca
eseguivano i componimenti vocali, le parti. Abbiamo già detto con gli Intermedi, che questa ricchezza di ornamento,
virtuosità estrema, era maniera di sottolineare la nobiltà, la maestria di Orfeo, cantore mitico per eccellenza. Altro elemento
che assicura il prestigio e la ricchezza di questo contesto sonoro: l’aspetto dello s. concertato, la partecipazione degli
strumenti: ci sono prima dei violini, poi corni, poi arpe, che fanno dei ritornelli ma variati, ciascuno a sua maniera, che
partecipano anche all’interno della strofa, facendo degli eco o commentari, contro-canti, in rapporto alla voce di Orfeo: sono
chiamati a partecipare alla mostra delle possibilità enormi di fascinazione della musica.
Vinto, oppure addormentato, Caronte fa passare Orfeo; Atto IV, inferno, Orfeo arriva di fronte a P. e Plutone, e l’ultimo
accetta di renderle Euridice ma alla condizione di non guardarla prima di aver lasciato il Regno; Orfeo dubita della presenza
reale di E., allora si gira, e la perde nuovamente. Ha trionfato sull’Inferno ma non sulle sue passioni (Coro); Atto V, ritorno
sulla terra, pianto di Orfeo, arriva Apollo da una nuvola, e lo invita in cielo dove potrà contemplare Euridice trasformata in
stella, o ninfa.
Opera: trionfo della molteplicità, di differenti stili, situazioni, stili di scrittura, anche sotto questo aspetto Orfeo alla base della
dimensione eclettica che sarà sempre grande risorsa del genere operistico in futuro.

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Lezione X
Scorsa lezione: inizio di nuovo genere dell’Opera, inizialmente uno delle numerosi variante delle forme di spettacolo
musicale, che le corti italiani del Rinascimento tardo amano mettere in atto in occasione di feste specifiche e celebrazioni.
Per diversi decenni, vi sarà un certo numero di spettacoli di questo tipo, di cui certi sono pervenuti a noi, grazie alle partizioni
stampate. D’altra parte, tramite le perdite più gravi di quest’epoca, abbiamo la 2° opera di Monteverdi, Arianna, composta
sempre per Mantova un anno dopo L’Orfeo, dunque 1608, non stampato, musica scomparsa, tranne il ‘grande lamento di
Arianna’, in stile recitativo, che invece avrà circolazione indipendente, e diventando punto di riferimento per la potenza
patetica dello s. r. dell’opera delle origini (cfr. Repertorio, terribile dissonanza all’inizio, a dimostrazione della piena forza del
lamento di Arianna abbandonata da Teseo in mezzo al deserto).
Momento importante per il genere Opera che inizia a stabilire radici salde nel panorama musicale: Roma, 1630’, quando la
Famiglia Barberini, grande famiglia aristocratica, tra l’altro famiglia che esprime il papa del tempo, Urbano VIII, inizia a
presentare regolarmente un Opera ogni anno, nel Carnevale, in una grande sala edificata appositamente accanto al loro
palazzo, esistente ancora oggi, Galleria Nazionale: produzioni di grande qualità, alle quali partecipano i migliori architetti
dell’epoca, della prima fase del Barocco Romano; resta Opera di Corte, si tratta sempre di spettacolo offerto da una sorta di
‘Corte famigliare’ a degli invitati, ma la rappresentazione annuale dona una certa continuità, e permette di stabilire un
personale artistico (cantanti, musici, …) che poco a poco sviluppano competenze specifiche per l’Opera.
Tuttavia, il grande momento di svolta, una sorta di seconda invenzione dell’Opera, è l’inizio d’una nuova tradizione d’Opera
pubblica pagante, a Venezia, a partire dal 1637: tappa fondamentale, ciò che era prima spettacolo solo saltuario, presentato
per pubblico ristretto, occasioni specifiche, diventa poi ovunque nei decenni la forma più regolare di Teatro Urbano
prestigioso per le élite urbane. 1637: troupe d’opera, che in parte era già presente a Roma, si installa in un teatro preesistente
a Venezia, una sala usata dai commedianti della Commedia dell’Arte, teatro professionale, Parrocchia di San Cassiano in
Venezia; da questo momento, si avrà l’abitudine di definire, a Venezia e anche altrove, designare i teatri secondo i nomi della
parrocchia in cui si trovano, dunque sempre un santo. Opera mitologica, Andromeda, ad un pubblico pagante il biglietto per
assistere su più serate, sempre in periodo carnevalesco; compositore: liutista romano, Benedetto Ferrari. Successo tale che
due anni più tardi 2° teatro, costruito espressamente per l’opera, poi moltissimi altri; in 6 anni, Venezia si ritrova con più sale
d’Opera, che fanno una produzione intensa, in particolare, e sarà il caso per diversi secoli, durante il periodo del carnevale:
periodo più adatto, anche in rapporto alle censure religiose, per spettacoli di questo tipo. Passando il tempo, si acquisterà
sempre più l’abitudine di fare spettacoli anche in altri periodi, come l’Ascensione, …sempre cercando di evitare periodi come
l’Avvento, ecc. dove gli spettacoli non sono considerati adatti, secondo il calendario liturgico. A Venezia, l’Opera si radica
profondamente nella pratica degli spettacoli, e si precisa la sua funzione sociale: spettacolo a pagamento, non esattamente
per tutti, ma per chi se lo può permettere, aristocrazia e borghesia, i turisti durante il Carnevale (sono moltissimi europei),
centro diplomatico dell’Europa; le sale di teatro diventano luoghi con funzione in cui ogni sera, durante il periodo, si va, per
ascoltare l’Opera ma anche per, alla fine, per frequentare le persone: visite nelle logge, diplomazia non ufficiale (del resto, gli
stessi due o tre spettacoli venivano ripetuti una dozzina di volte).
Invenzione d’un certo tipo di funzione sociale del genere dell’Opera. Inoltre, invenzione d’un sistema: normalmente i teatri
erano di proprietà di famiglie aristocratiche, in modo indiretto, dirette dall’Impresario, il quale si occupa di scegliere il
personale, pagarlo, e prende l’incassi delle logge e dei biglietti. Modello che funzionerà ovunque, a volte in forma mista, nelle
città con le Corti (teatri legati al principe, o al re), ma in generale la tendenza sarà, in Europa, dell’età barocca e a posteriori,
anche per i teatri di corte, di non gestire direttamente ma di avere il sistema imprenditoriale tramite la figura dell’impresario.
Nuova funzione, a partire dal 1640 circa, determina trasformazioni ben durature in altri ambiti, ad esempio l’architettura
teatrale: si inventa il modello della sala italiana, a ferro di cavallo, dove le pareti verticali sono interamente divise in logge
separate, all’origine anche chiuse, cfr. Script, Ill. I, II.
Sala all’italiana con logge, due vantaggi: le logge, proprietà o affittate da grande famiglie, rappresentano dei piccoli saloni
famigliari, al teatro, aperti su sorta di spazio pubblico e che permettono sia di assistere allo spettacolo che interagire con le
logge e le altre famiglie importanti. Forma che permette: di vedere la scena, ma anche, piuttosto, di vedere la sala e le altre
logge, gli altri spettatori a teatro piuttosto che la scena: incarnazione della dimensione sociale, di presenza collettiva delle
classi agiate, all’interno del teatro: spazio sia pubblico, privato nelle logge, di spettacolo.
Cfr. Script, Ill. III, planimetria d’un teatro veneziano dell’epoca: uno dei primi progetti tràditi, a sinistra la sala a ferro di
cavallo, a destra la scena, immaginata perché i personaggi siano vicini agli spettatori per essere ben visti e sentiti, anche dagli
spettatori nelle logge laterali, dietro la scena sempre più stretta, per dare impressione di profondità, e poi lo scenario: realizzate
con tele e tessuti pitturate, fissate a degli sfondi mobili, dove i vari sfondi possono spostarsi per i cambi-scena. A destra,
sinistra, in fondo, parzialmente anche sopra: sfondi visivi. Non va dimenticato che anche l’opera pubblica, eredita dall’opera
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di corte e le sue altre varianti il gusto per la bellezza visiva, la ricchezza e la varietà degli scenari: qualcosa che la distingue
rispetto al ‘teatro parlato’.
Gli sfondi con le tele sono a scorrimento, dunque possono essere fatte scorrere verso l’esterno, rilevando una seconda serie
di scenari che vi si trovano dietro, in qualche secondo e in maniera simultanea: Cfr. Script, Ill. IV, sistema estremamente
ingegnoso, che fa sì che tutti gli scenari scorrevoli sono collegati da un sistema di cavi, manovrato tramite un solo argano
che si trova al di sotto della scena. Dunque, nel momento del cambio di scenario, era sufficiente in 3 secondi attivare l’argano.
Sistema messo a punto da personaggi molto interessanti, sia decoratori, architetti, ma anche ingegneri navali: Giacomo
Torelli, poco dopo invitato alla Corte di Francia (cfr. Script, Ill. V-IX): serie di immagini fatte all’epoca per mostrare dei
scenari tipici dell’epoca, fatte da Torelli attorno al 1650: didascalie in francese, poiché mostrano i lavori di Torelli in Francia.
Prospettiva centrale, organizzazione per elementi laterali (scenari scorrevoli che possono spostarsi verso l’esterno). Entrata
di palazzo, giardino, grotta, scena di Andromeda salvata da Perseo, interno d’un palazzo.
Aspetto visivo, punto centrale che l’Opera ‘pubblica’ riceve in eredità dal Teatro di Corte.
Altri aspetti, tuttavia, il nuovo contesto implica trasformazioni, differenze importanti: in primis, la questione delle fonti; come
detto, riguardo alle Opere di Corte siamo bene informati: spesso stampate le partizioni come testimonianza; non è il caso
per l’Opera pubblica a pagamento, non c’è la volontà di testimonianza; anzi, in regime di concorrenza, con più teatri che si
disputavano il pubblico, meglio non fare circolare materiali che potevano essere usati dalla concorrenza: partizioni solo
manoscritte, oggetti funzionali, in parte poi gettate via o stampate via dopo l’utilizzo; in qualche caso, sono state fatte delle
raccolte (compositori o collezionisti), ma altre ovviamente sono andate perse.
Testimonianza importante: dopo qualche anno abitudine di stampare le livrée del testo poetico dell’Opera, poiché le
rappresentazioni sono numerose, si può sperare anche di venderne un certo numero: si poteva leggere in sala, che erano
sempre ben illuminate (impossibilità di accendere e spegnere a piacere; anche secondo la funzione sociale detta prima).
Influenza importante con ricadute sul piano sonoro: composizione per gruppi di strumenti. Le opera di corte, come visto,
in generale gli spettacoli delle corti dell’epoca, potevano utilizzare numero importante di strumenti, cfr. Orfeo, la corte
metteva a disposizione in queste occasioni gli strumenti che appartenevano alla cappella di corte, o della cattedrale, i musici
e le trombe dell’armata etc.
Ora, gli impresari, non hanno più queste risorse disponibile, devono pagare (e già pagano molto caro i cantanti, che
evidentemente diventano velocemente punto di interesse principale per il pubblico, e certi sono celebri e possono imporre
dei cachet importanti); spendono molto negli aspetti visuali, poiché come visto, ci si attendeva che ci fossero più sfondi, a
volte effetti speciali, e dunque non era possibile essere troppo generosi per quanto riguarda gli strumentisti: infatti, guardando
le partizioni dell’opera dell’epoca, sono molto semplici, il canto, basso continuo, a volte due violini che possono diventare
trombe nel caso (…). Le partizioni erano, per così dire, delle sintesi, che probabilmente, se possibile nella pratica, ci sarebbe
stato qualche strumento in più secondo la situazione; ma grosso modo, si può dire che il gruppo di strumentisti che
partecipava all’opera veneziana dell’epoca era relativamente ristretto, soprattutto basso continuo (arciliuto, …), due violini,
qualche altro ma non sempre.
Problema spesso odierno: per i musicisti che rappresentano opera di quest’epoca: ultimo Monteverdi, Cavalli…hanno
tendenza ad arricchire, integrare altri strumenti all’orchestrazione per ottenere sonorità più ricche e variate, ma sono tentativi
non fedeli a livello storico, secondo le condizioni dell’epoca.
Inoltre, altre trasformazioni hanno luogo nell’ambito della drammaturgia e stile della scrittura musicale. Prima, il soggetto: il
fatto più importante, e inattesa, è il fatto che dopo qualche anno, in cui si ha sempre potuto appoggiarsi alla riserva di soggetti
mitologici (Ovidio, …), di colpo si arriva ad avere personaggi storici, umani, probabilmente la prima opera di questo tipo è
L’incoronazione di Poppea, di Monteverdi: i personaggi, anche se qualcuno è allegorico-mitologico (Prologo), che in parte
partecipa all’azione, è azione all’interno della corte di Nerone, in cui i personaggi sono l’imperatrice Ottavia, l’amante Poppea,
il filosofo Seneca (anziano precettore) e altri personaggi.
Come è possibile che dopo essere stati talmente attenti alla questione della verosimiglianza, di colpo le cose diventano più
flessibili da questo punto di vista? Proprio perché l’Opera era diventato un genere radicato nella pratica, alla fine il pubblico
aveva assimilato il codice, in particolare il codice che fa sì che all’Opera, si canti, al posto di parlare. Si vede molto bene che
la motivazione del canto, poco a poco, diventa più ricca, flessibile, ad esempio nel Ritorno d’Ulisse in patria di Monteverdi: la
maggior parte dei personaggi sono ancora mitologici, dèi, ma ci sono anche uomini, e si osserva dunque il fatto che in
principio, sono soprattutto gli dèi che cantano dei ‘numeri chiusi’, con canti periodici, e gli uomini utilizzano piuttosto lo
stile recitativo, più vicino alla semplice parola; ad un certo momento, ci sono casi in cui personaggi umani presi da grande
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gioia cantano in maniera periodica, a canzonetta, melodica, e in questo caso dunque il canto è forma espressiva adattata per
momenti particolari dal punto di vista emotivo: l’affetto della gioia, giustifica che il personaggio cambi forma di emissione.
Inoltre, la mancanza di verosimiglianza diventerà molto forte anche sotto altri punti di vista: le voci: si prendono sempre più
piacere ad utilizzare voci di registro acuto anche per personaggi mascolini, grazie alla presenza dei castrati, personaggi
programmati per cantare in chiesa (le norme vietavano alle donne di cantare in chiesa), sorta di prolungamento della durata
del registro dei giovani cantori. Presto, grazie alla loro qualità, diventano fondamentali nell’Opera, utilizzati per ruoli maschili:
eroi, imperatori, guerrieri, e non sciocca più nessuno poiché la verosimiglianza non è più punto di riferimento estetico
fondamentale. Infine, ciò che dimostra che siamo molto lontani dal contesto erudito classicista dell’opera di corte:
commistione elementi seri e comici: i soggetti sono sempre derivanti dalla mitologia o storia antica, ma talvolta certi
personaggi sono trattati in maniera quasi ironica, e soprattutto di norma, tra le scene serie, a volte patetiche o tragiche, vi
sono scene comiche confidate a personaggi di livello sociale inferiore, come servitori, che accompagnano i personaggi
principali, e qui si è in contesto totalmente ridicolo, che crea contrasto con le scene serie e patetiche: teatro dell’epoca,
commistione di generi è caratteristica del teatro spagnolo dell’epoca (ciglo de or), influenza culturale spagnola alta in Italia, ma
anche nel teatro inglese, elisabettiano, spesso c’è lo stesso fenomeno (Shakespeare). Questo genera una estetica della
commistione dei livelli, tipica del teatro musicale del 17esimo secolo, terminata solo alla fine del secolo quando il modello
della trageda classicista francese (Racine, …)finirà per influenzare l’opera italiana, e dunque si andrà verso separazione dei
livelli: opera seria – nascita di intermezzi e dell’opera buffa.
Fra i compositori che partecipano a questa esplosione dell’opera commerciale veneziana, troviamo il vecchio Monteverdi:
era a Venezia come maestro di cappella di San Marco, dignità alta non gli impedisce di implicarsi nella composizione di
Opere, poiché 30 anni prima, a Mantova, aveva già composto delle Opere. Tra l’altro, sappiamo che vi fosse stata ripresa o
rimaneggiamento di Arianna (opera perduta di cui abbiamo parlato), ci restano 2 partizioni importanti di questo periodo:
Ritorno di Ulisse in Patria, Incoronazione di Poppea, presentati al Carnevale 1643, poco prima la morte di Monteverdi all’età di 76
anni; ci sono comunque degli indizi importanti ch’egli non abbia veramente avuto tempo di completare la partizione, e che
certi frammenti siano forse stati composti da colleghi giovani (Benedetto Ferrari, Filiberto Laurenzi) che hanno completato
cosa Monteverdi non era riuscito a terminare.
L’incoronazione di Poppea: qualità strabiliante, oggi al cuore del Repertorio, non cessa mai di far ammirare la sua ricchezza:
libretto molto particolare, interessante, che deve essere compreso come sorta di critica alle istituzioni assolutiste e della
monarchia, critica fatta da intellettuali libertini al cuore della Repubblica di Venezia, che incoraggiavano o tolleravano questo
tipo di espressioni anti-assolutiste. Poppea: primo libretto avente personaggi essenzialmente di tipo storico; fonte: tragedia
romana primo secolo d. C., Ottavia, la tradizione attribuiva a Seneca, ma la cosa è poco credibile, poiché nella tragedia si
descrive la morte di Seneca. Il libretto, è una analisi molto amara degli intrighi di corte, della mancanza di morale, l’imperatore
Nerone ripudia la moglie Ottavia, che sarà esiliata e da lui uccisa, per stare con Poppea, cortigiana che mostra tutte le sue
capacità di seduzione; il filosofo Seneca, precettore, cerca di convincerlo a non farlo, ma l’imperatore se ne sbarazzerà
dandogli l’ordine di suicidarsi; l’imperatrice esiliata cerca di ordire l’assassinio di Poppea, fatto da altri personaggi, assassinio
che fallisce, e infine il punto finale è effettivamente il matrimonio e l’incoronazione di Poppea come imperatrice, e la riunione
dei due innamorati, molto scenico anche se gli spettatori dell’epoca sapevano che poco più tardi, Nerone storico, ucciderà
anche Poppea.
Personaggi di tipo mitologico-allegorico: limitati al Prologo, Fortuna, Virtù e Amore disputano su chi vincerà, l’Opera illustra
ovviamente la vittoria di Amore, che interverrà nella diegesi ad un certo punto, per svegliare e salvare Poppea nel momento
in cui sarà colpita e assassinata da Ottone; altrimenti, l’intrigo è interamente limitato tra i personaggi umani.
Personaggi comici: servitori, in particolare tipo di personaggio che diventerà topos, nell’epoca dell’Opera veneziana, la vecchia
nutrice di Poppea, Arnalta, ama molto Poppea, dà consigli pragmatici molto privi di morale, si comprende che secondo topos
comico importante al 17esimo secolo: nonostante l’età ha ancora appetiti di ordine sessuale e politico, sarà gioiosa della
vittoria di Poppea, anche per sé stessa.
Monteverdi vi scrive, sul libretto, musica di freschezza strabiliante, si vede soprattutto l’enorme varietà di possibilità
stilistiche a disposizione, ch’egli utilizza sia per differenziare le situazioni sia il tipo di personaggi, le attitudini psicologiche,
tutto questo con grande flessibilità.
Forma: si vedrà già col successore F. Cavalli, tendenza a semplificare i mezzi a disposizione, e per lo s.r. e per i numeri chiusi;
nel caso di Monteverdi invece, assistiamo ancora a questa capacità di passare in maniera estremamente sottile da un tipo di
scrittura all’altra seguendo la scrittura drammatica, ottenendo musica di qualità estrema.

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Una scena che non avrebbe potuto esistere secondo l’estetica dell’opera di corte, l’estetica classicista di qualche decennio
precedente, poiché si tratta d’un dialogo-conversazione tra un filosofo, Seneca, e l’imperatore Nerone, e attribuire il canto a
due personaggi reali, esistenti, è già affronto alla verosimiglianza, inoltre contrasto importante anche nel fatto che Nerone è
castrato, voce di soprano, mentre Seneca un basso, come un filosofo dev’essere, con la sua barba che sarà minacciata di
venire bruciata: dialogo politico, S. vuole convincere N. a non ripudiare Ottavia, risponde che lui fa ciò che vuole, limiti
dell’arbitrio nell’agire del Re e dei potenti; discussione politica a musica, all’Opera, è qualcosa che non esisterà mai in seguito
fino a Filippo II e Don Carlos; s.r. molto secco, ma che ad un certo punto prende l’aspetto di piccoli elementi tematici, e poi
nella misura in cui il conflitto diventa forte, allora introduce una scrittura di tipo (cfr. combattimento di Tancredi e Clorinda)
concitato, con ripetizione di ostinati ritmici, che esprimono la furia dei personaggi.
Descrizione del carattere isterico del despota, s.r. che utilizza comunque sempre più ripetizioni, formule di cadenza, micro-
momenti melodici di grande forza espressiva; avendo osato opporsi alle fantasie deliranti del suo Re, Seneca riceve l’ordine
di suicidarsi, ciò che farà tagliandosi le vene in un bagno caldo.
Il congedo: Seneca si congeda da famigliari e discepoli, tra le scene più ammirate di quest’opera.
Testo: Seneca si rivolge agli amici, ripetendo punti essenziali della sua filosofia stoica, momento di mettere in pratica la virtù
di cui ha molto parlato, la morte non è che un ritorno all’Olimpo, vera casa dell’anima; s.r., molto melodico, in particolare
con momenti quasi di madrigalismo per l’immagine dell’anima (sospiro, cfr. Dante Oltre la spera che più larga gira, commistione
semantica tra anima e sospiro) che vola verso l’Olimpo, molto forte emotivamente.
Poi amici e discepoli tentano di dissuaderlo, senza riuscirsi, tramite componimento a 3 voci, interessante perché mostra
amore di Monteverdi per le forme simmetriche, in particolare per il palindromo: non morir Seneca no…stile di madrigale
cromatico, nel quale le voci, in imitazione, salgono per gradi cromatici, momento di intensità incredibile anche dal punto di
vista della ricchezza armonica, dissonante. Poi II sezione, sempre contrappuntistica, ma più leggera, nella quale dice: no io
non voglio morire, sia chiaro; giustifica ciò dicendo che la vita è troppo dolce; questo messaggio, più epicureo, è realizzato
attraverso una Canzonetta, in versi di 8 sillabe, con ritornello e 2 strofe, il ritornello tra le strofe; poi, palindromo, dunque si
canta la parte che era la 2, e si finisce con la parte che era 1°, quella con la scrittura cromatica.
III estratto: ci porta nel giardino di Poppea, con la sua nutrice Arnalta; stile di scrittura lirico, seducente, tempo ternario, con
una certa ricchezza melismatica e di ornamentazione; manipolazione erotica, di bellezza nel canto; Arnalta: personaggio
comico, vecchia, voce dunque tenore, il cantore maschile deve incarnare personaggio femminile; inizialmente, la gioia di
Poppea, convinta che dopo la morte di Seneca il cammino per il trono le si aprirà, si esprime in un’aria, estremamente lirica.
Qualità della scrittura lirica ‘fammi sposa…’, melodica: ritorna due volte, ogni volta si ferma sul secondo grado, ritorna, poi
mette in movimento la progressione discendente con delle ghirlande, veramente ben scritta; poi recitativo, dialogo tra Poppea
e Arnalta, che vuole assicurarsi che Poppea diventi imperatrice e che lei le stia vicino, ascendendo socialmente.
Poppea riprende il canto, ma non dell’inizio, dunque irregolarità a formale; poco a poco il canto si ferma, poiché ha voglia
di dormire, poi ancora recitativo tagliato di norma come in questo caso, e alla fine Arnalta si presta a cantarle una ninna-
nanna. Essa, magnifica, è un poco il prototipo d’un modello d’aria, estremamente dolce, tempo ternario, associato al dormire
o all’erotismo, che prende un posto molto importante nella tradizione veneziana, ma lo si ritroverà anche più tardi; cfr. il
basso, inizia come basso ostinato di Passacaglia, ma poi si ferma sulla dominante La, alla misura 90, poi fa una sorta di stallo
tra La, Soldiesis, La, Soldiesis, La, è sempre il basso, con ritmo molto da ninna-nanna, che ritorna a salire, e in generale
struttura il discorso musicale, al di sotto d’una voce prolungata da lunghi valori, messe di voce, e talvolta più sillabico; la
forma di questa ninna-nanna è strofica, testo di 9 versi, 3 strofe di 3 versi, il trattamento musicale è strofico per quanto
riguarda il basso: lo stesso basso dell’inizio ritorna alla misura 102, e terza strofa a partire dalla misura 116; la voce invece è
variata, dunque si ritrova questa tecnica dello strofico al basso e variato alla voce (parte melodica) che Monteverdi usa anche
altrove: grande bellezza poetica, sentimento del tempo che si ferma, momento di grande dolcezza al di là della realtà. Parte
lirica di Arnalta, che è ha anche parte comica, e lo si vede nel suo grande monologo prima della fine.
Cfr. IV estratto: Arnalta si felicita, confida che Poppea sarà imperatrice, e sa che tutte le faranno la corte per ottenere i suoi
buoni uffici presso l’Imperatrice; nata servitrice morirà padrona, e ciò provoca un piccolo pensiero morale: non avrà voglia
di morire, semmai prossima volta preferirebbe nascere padrona e morire serva, poiché chi se ne va come serva muore molto
più volentieri, vede la morte come fine della miseria: riflessione che ha qualcosa di profondo nonostante tutto. Monteverdi
applica ancora s.r. sottile, con piccole soprese, e poi alla fine, come tutte le scene comiche, dimensione di pantomima visuale
dalla parte dell’interprete.
Cfr. V estratto: opera termina con il duo Poppea – Nerone, pur ti miro pur ti godo: prototipo del duo d’amore che esprime un
livello di dimenticanza erotica importante, fondato come si vede, per la parte esterna, forma ABA, su basso di Passacaglia
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ostinato, di due misure, 4 note tetracordi discendenti, Sol Fa Mi Re. Uso del Basso di Passacaglia: cfr. Lamento della ninfa,
in quel caso espressione del dolore che non voleva passare; nella musica vocale del 17esimo secolo in effetti è utilizzato per
i pianti di questo tipo, o per le situazioni di incantamento erotico, il basso di Passacaglia ha la proprietà di fermare il tempo,
dunque farci cadere nel sentimento della gioia erotica, qualcosa che non si vorrebbe mai fermare, in un presente totalizzante
separato dal flusso del tempo.
Le due voci, su questa base, si intrecciano, scambi e imitazioni simboliche, a volta ritardi dissonanti che prolungano il
sentimento del desiderio (cfr. Monteverdi già scoperto il Tristano di Wagner), dimensione erotica dell’attesa della risoluzione.
Da notare: opera del 17 e 18 secolo ne sarà piena: fatto che il personaggio di Nerone sia cantato da una voce di registro
femminile, oggi contro-tenore o femmina travestita, fa sì che le due voci appartengono allo stesso registro, e dunque la
fusione è più armoniosa, sottile; le dissonanze, dove vi sono, le si sente meglio, a causa della prossimità (stessa ottava),
dunque anche se Nerone-soprano può sembrare, o poteva, meno verosimile, era il caso anche nella riscoperta di Monteverdi
nel 20esimo secolo, spesso si usava un tenore, ma dal punto di vista del risultato sonore, e anche nell’evocazione di desiderio
fusionale, avere 2 voci dello stesso registro è molto più efficace.
I parte su basso ostinato; Sezione centrale: repliche serrate, dialogiche, poi ritorno al basso ostinato di Passacaglia per la fine.
Ci Sono dei dubbi sulla paternità di questo componimento, la si trova anche altrove nelle partizioni di un altro compositore,
forse stampata per completare una partizione nel caso in cui Monteverdi non avesse avuto il tempo di completarla;
comunque, in ogni caso, importa che l’opera veneziana ha trovato qui la sua natura, strategia drammatica, la sua posizione e
in qualche maniera dimensione di incantamento: costante nella storia del genere per secoli.

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Lezione XI
Ultima volta: visto trasformazioni che hanno avuto luogo nel genere Opera, arrivando a Venezia nel contesto di questa
nuova fase di spettacolo pubblico a pagamento, sottomesso a concorrenza rude. Dal nostro punto di vista, Poppea opera che
ha conosciuto i primi tentativi di Opera nei primi secoli, da parte di un compositore con enorme esperienza (più di mezzo
secolo di lavora). Grande finezza nel trattamento dei personaggi, forme di scrittura che possono caratterizzare i personaggi,
realizzato con qualcuno soltanto dalla sua qualità ed esperienza.

Resta che, nella misura in cui il genere si impone come spettacolo molto diffuso, prima a Venezia poi a metà secolo in molte
altre città ed europee, si assiste ad una stabilizzazione delle caratteristiche principali, allo stesso tempo inclusione d’una
generazione di compositori che consacra all’Opera, ormai genere fondamentale nel mercato musicale, una parte importante
dei loro sforzi e carriera. Tra loro, troviamo il compositore emblematico di questa fase iniziale, Francesco Cavalli: allievo e
collaboratore di Monteverdi a San Marco, ben noto come cantante ed organista, diventerà alla fine della sua vita maestro di
cappella di San Marco. Molto attivo anche nella musica sacra, lascia la prima grande versione di requiem (la messa dei morti),
in forma di stile concertato; ma in realtà, soprattutto le sue opere (30ina) lo rendono referenza principale a Venezia, con
grande circolazione delle sue partizioni (fama internazionale, sarà invitato a Parigi nel 1660 a scrivere un’opera, Ercole amante,
per il matrimonio di Luigi XIV e Anna d’Austria). Fase durante la quale la corte di Parigi importa opere italiane, in lingua
italiana, giusto prima che Luigi XIV decida di gallicizzare la sua politica culturale, promuovendo uno sviluppo di tradizione
specifica grazie a Jean-Baptiste Lully.

Delle circostanze favorevoli, fanno sì che tutte le opere di Cavalli sono preservate, aveva sempre copie in biblioteca,
collezione fondo ancora oggi a Venezia. Nel repertorio oggi della musica antica, le sue opere sono molto presenti. Sono
Opere molto efficaci, forse meno sottigliezza che in Monteverdi: la divisione tra s. r e canzonetta e più rigido, ma non
sempre; altrimenti incarnano molto bene il bisogno estetico del genere, della varietà, bellezza del canto spesso confidata ai
castrati che espongono o la dimensione sensuale o patetica; molte sono le scene comiche, personaggi che corrispondono a
degli attori comici specializzati in certi ruoli; interesse per la dimensione di ‘spettacolo’, con elementi fantastici più o meno
ricercati e implicati nella rappresentazione.

Opera più celebre, 1649: Giasone, opera che riprende a sua maniera il mito della conquista del vello d’oro grazie all’aiuto di
Medea (spedizione degli Argonauti), poi sua moglie, maga, lo punirà con la morte dato il suo tradimento d’amore con
Creusa/Glauce. Medea-maga, utilizza tutte le arti a sua disposizione perché Giasone compia la sua missione. Mitologia
trattata in modo molto differente rispetto all’opera di Corte: molta ironia, impressione che il repertorio veneziano utilizzi sì
la tradizione letteraria ma decostruendola, utilizzando personaggi mitologici spesso in forma parzialmente satirica o senza
sforzo per preservarne la dimensione elevata o grandiosa. Rappresentata ovunque, per molto tempo, vi sono numerose copie
della partizione in differenti biblioteche: forse la prima opera storica a conoscere tale diffusione, e ad avere fondato un vero
e proprio repertorio con riprese e circolazione.

3 scene, che bene illustrano cosa potersi attendere.

I scena: aria, numero chiuso, con la quale l’eroe si presenta su scena, ma non in modo propriamente eroico, ha passato tutta
la notte a fare l’amore con Medea, dunque il componimento rappresenta chi dopo notte di grandezza erotica si risveglia:
testo dell’aria è celebrazione del piacere sessuale, sotto forma di aria in tempo ternario, tipico dell’epoca, carattere di ninna-
nanna, qualcosa che ci rinvia a Poppea; qui qualità di implicazione, di seduzione erotica molto forte, accentuata dall’uso della
voce del castrato, con tutta la sua ambiguità. Certi moralisti all’epoca di Venezia e altrove, e la Chiesa, hanno avuto molte
riserve rispetto a questo nuovo genere, per questa immoralità esibita e incoraggiata, femminizzazione della morale e della
mentalità. Data la situazione e bellezza della seduzione, attualmente i produttori trovano che sia perfetta per la
rappresentazione scenica.

Giasone, aiutato da altri eroi, dovrebbe compiere la grande missione eroica del vello d’oro, ma qui passa il suo tempo nel
letto della principessa locale; poi scena con Ercole, che lo rimprovera di distrarsi. Drammaturgia bizzarra, le scene comiche
sono importanti, qui si trova ovviamente il servitore, Demo, doppia caratteristica d’essere: gobbo e bizzarro, balbettante,
generando diversi equivoci simpatici.
Cfr. Script, Ex. Ib, il grosso della scena è in s.r., molto vicino al parlato, che sottolinea tutte le difficoltà e la bizzarria del
personaggio. Di colpo, si presenta, verso la fine della pagina, con una piccola aria, totalmente stravagante e inverosimile,

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balbetta e farfuglia, dove si vanta d’essere bello, innamorato, coraggioso, pericoloso se necessario. Tranne che non riesce più
ad avanzare nell’aria balbettando, e il suo interlocutore, Oreste, altro eroe mitologico, è obbligato a dargli una mano.
Il dialogo ricomincia, è dopo l’osservazione perplessa di Oreste, Demo lo minaccia, con gioco di parole, piuttosto volgare, e
Demo risolve la frase poi in maniera inoffensiva (‘saprà spezzarti il ca…’).

III scena, Ex. Ic: ci porta nella camera degli incantamenti, dove Medea evoca demoni e spiriti che vanno in aiuto a Giasone
nella sua impresa, poiché lui da solo non ci arriverebbe. Piccola osservazione che mostra a quale punto questa fase dell’Opera
italiana pone degli elementi che resteranno in vigore per molti secoli successivi: Medea inizia per un’aria, 2 strofe di 6 versi
ciascuna, poi non-recitativo, scambio con il demone, piccola aria finale. La prima aria, i versi utilizzati, sono versi con l’ictus
in 4° posizione e poi due sillabe atone, dunque si tratta di versi sdruccioli con sillabe che restano ‘inutilizzate’; sono dei
quinari sdruccioli: associato ora, nel contesto dell’Opera dell’epoca, a personaggi e situazioni aventi qualche cosa di infernale
e demoniaco; codice metrico che si installa, probabilmente perché permette ritmo martellato. Saltando qualche secolo,
arrivando all’Orfeo di Glück, si ha lo stesso ritmo; ancora avanti, al Macbeth di Verdi, stesso codice ritmico. Momento di
costruzione di una tradizione. Cfr. link.
__________

Torniamo un poco indietro, verso le strategie di diffusione della Chiesa Cattolica dopo la controriforma, o riforma cattolica.
Come già detto, il dibattito portato al consiglio dei 30, aveva escluso la possibilità di fare ciò che fanno i protestanti, ovvero
implicare in maniera più allargata i fedeli nella liturgia, utilizzando lingue nazionali e non il latino, facendo che la
partecipazione, anche nella dimensione musicale, sia più importante. La Chiesa Cattolica non voleva cedere; allo stesso
tempo, era cosciente che era necessario implicarli maggiormente come forza attiva, o come spettatori di differenti attività
che avevano la funzione di meglio far passare il messaggio, nel senso di persuasione, nel senso di creazione di stato d’animo
devozionale, e anche in senso identitario, per fare sì che anche fra i cattolici si costruisse una comunità. Dunque, dovevano
appoggiare le attività di tipo devozionale, non liturgiche, fatte a parte, ovviamente sotto il controllo ecclesiastico, ma secondo
modalità, vocabolario, che permetteva implicazione più importante.

Ne avevamo già parlato nel contesto devozionale nella fine del Medioevo, ovvero repertorio di canto religioso, le laudi, le
cantigas, immaginate per partecipazione collettiva; tornerà molto, soprattutto sotto spinta di alcuni membri della Chiesa, e in
particolare un prete entusiastico, che sarà santo, San Filippo Neri, che fonda a Roma una società, confraternita dell’Oratorio
(luogo di preghiera, dove si riunivano), con l’obiettivo di incoraggiare le attività devozionali. Diventerà una enorme sistema,
un vero pilastro della spiritualità cattolica, quasi tutte le città europee cattoliche avranno una congregazione oratoriale; le
attività che implicano la musica sono fra le più frequentate, che sia canto collettivo o organizzazione di piccoli spettacoli,
esecuzioni musicali, di tipo spirituale.
In particolare, primi anni del 17esimo secolo: dialoghi, Roma, componimenti cantati da personaggi allegorici, un poco come
nel caso della rappresentazione di Anima e Corpo (E. De Cavalieri), personaggi che combattono per trasmettere nozioni e
valori legate alla morale cattolica, e la formazione della cultura religiosa.
Deve essere efficace, dunque non sorprende che questa attività adotta subito gli strumenti della: monodia, s.r., che avevano
mostrato la loro efficacità nell’ambito della musica profana, nella musica delle Corti, nella stessa epoca.

Si ricordi che, a Roma, l’opera o i nuovi generi di rappresentazioni teatrali con musica erano spesso piegati a tematica o
funzione di tipo devoto, appunto si ricordi De Cavalieri (che però non era Oratorio, era rappresentata su scena), grosso
modo una opera; anche nel repertorio degli anni 20-30’, promulgato dai Barberini, spesso Opera in cui i protagonisti erano
santi, dunque opere di tipo angiografico. Tuttavia, la forma definitiva nella quale questi tentativi si cristallizzano nel secondo
quarto di secolo, prima a Roma poi ovunque, è quella dell’Oratorio, genere musicale che prende il nome proprio dal luogo in
cui si prega e dalla confraternita in Roma di Filippo Neri. Luogo e istituzione danno il nome al genere musicale.
Genere con struttura drammatica: personaggi, dialoghi; ma non è rappresentata su scena, con costumi e scenografie come
nell’Opera; dunque il concetto di rappresentazione in concerto o in forma di oratorio significa senza contesto scenico. I
soggetti: religiosi, devoti, 2 categorie: I)personaggi allegorici; II)soggetti, avvenimenti presi dalle Scritture, più raramente dalla
Vita dei Santi.
I)lingua volgare, per la rappresentazione o l’esecuzione di fronte a pubblico più folto; II)latino, funzione pedagogica, a
rappresentare per la formazione interiore dei Collegi gesuiti, che prendono buona parte della funzione della formazione nel
mondo cattolico all’epoca.
Tutto questo a Roma, soprattutto, poi nel secolo ovunque; anche perché permette di utilizzare gli stessi interpreti, personale
musicale, che si utilizza anche per l’Opera, ma nelle stagioni in cui essa non è rappresentata. Il che causa un comprensibile e

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sempre più importante somiglianza, nelle tecniche utilizzate, poiché i compositori sono gli stessi, spesso i cantanti, parentela
evidente tra i due generi.
Elemento invece che permette un distinguo più evidente: il fatto che, in maniera comprensibile, le azioni non sono
rappresentate visivamente, nel testo dell’Oratorio c’è una parte del narratore historicus, che racconta cosa succede e poi lascia
la parola ai vari personaggi. Questo ruolo di narratore resterà per decenni, fino a quando anche nell’O. si adotta il libretto da
distribuire in sala, con le didascalie, ma arriverà solo verso fine secolo, e d’altronde la tradizione di questi componimenti con
oratore si ha anche ancora dopo, anche in altre tradizioni, cfr. canti di passione luterana S. Bach.

Vi è comunque piccola diversità anche strutturale, tra O. latino e volgare: I)spesso, si adotta e adatta direttamente il testo
biblico; delle parti importante del testo, narratore, sono citazioni alla lettera, e dunque, manca una struttura metrica
propriamente diretta, sono estratte dalla vulgata, praticamente della prosa; si possono usare metri più regolari per le inserzioni
che arricchiscono invece il testo biblico; II)dato che non vi erano bibbie a disposizione in lingua volgare (o almeno, io direi,
non vi era ancora una circolazione intensa di esse), la chiesa cattolica non permetteva la traduzione, gli O. volgari devono
ricreare, parafrasare, la situazione del testo biblico, preparando un vero libretto d’Opera, libretto che si organizzerà presto
secondo le stesse caratteristiche di quello d’Opera: sezioni per le arie, sezioni per il recitativo, ….

Cfr. Script, Ex. II, estratto d’un opera del compositore tra i più rispettati e importante di musica vocale a Roma del 17esimos
secolo, Giacomo Carissimi: attivo soprattutto nell’istituzione del Collegio Romano, casa madre della preparazione dei gesuiti
per le loro opere di proselitismo, opera che ha suscitato molto interesse, citata in testi enciclopedici teorici di metà secolo,
cosa che ci permette anche di datarla, non abbiamo testimonianze precise (attorno 1640).
Cfr. Una parte di questo Oratorio, sono delle partizioni in questo periodo di durata relativamente limitata, circa mezz’ora,
spesso, ma non qui, organizzate in due parti, lasciando a metà spazio per sermone, che dovrebbe appoggiarsi sulle situazioni
dell’Oratorio, per permettere una spiegazione degli intrighi e movimenti spirituali, etici, presentati dalla storia.
La storia di Jefte o Iefte: spesso utilizzata nei componimenti d’Oratorio, forse conosciamo quella Händel, ultimo suo grande
Oratorio. Storia che deriva dal Libro dei Giudici biblico (periodo in cui visse il profeta Samuale, post mortem Giosuè), Jepthe è
un condottiero di guerra, scelto per liberare gli israeliti dalla oppressione degli Ammoniti. Prima di partire per la guerra, fa
un voto imprudente di offrire a Dio un olocausto in caso di vittoria, precisamente chi gli si sarebbe immolato incontro per
primo al suo ritorno (a farlo sarà sua figlia unica, danzando al suono di tamburi come dicono le Scritture): è obbligato a
metterla a morte, chiede poi 2 mesi per piangerne la morte, poi deve eseguire la sentenza.
Grande risonanza antropologica nell’antichità mediterranea: è quasi la stessa storia del mito greco di Idomeneo, Re che
ritorna da Troia, è durante una tempesta dirà la stessa promessa: sarà il figlio il primo ad accoglierlo.

Sottolineati i versi che sono presi alla lettera dalla Bibbia, dalla vulgata o tradizione abituale affibbiata a San Girolamo, VI
secolo circa. Il grosso della narrazione è affidata al narratore historicus, poi i diversi personaggi prendono la parola. Il testo
biblico deve essere allargato, soprattutto dove c’è bisogno di passaggio che permetta trattamento musicale più importante: i
passaggi biblici sono soprattutto s.r., le aggiunte invece hanno caratteristica di base per dei numeri musicali più estesi: parti
aggiunte sono in giallo-arancione; primo blocco: battaglia con gli Ammoniti; seconda colonna, ad un certo punto laddove la
bibbia dice che gli Ammoniti sono stati umiliati, l’autore della adattazione aggiunge et ululantes (e piangendo), permette
momento di musica sobria; poi ritorno di Jepthe, la bibbia dà la suggestione dicendo che ritorna a casa e si vede la figlia
uscire, con tamburi e danze, ed ella canta (aggiunta), permette di dare di peso alla scena la gioia per la vittoria e il ritorno.
Anche se non è chiaro nella organizzazione grafica del testo, le parole della figlia Incipite in tympanis et psallite in cymbalis. Hymnum
cantemus Domino et modulemurcanticum.Laudemus regem coelitum, laudemus belli principem, qui filiorum Israelvictorem ducem redidit, sono
versi regolari, 8 sillabe con accento sulla 6° sillaba; ripresa poi dal Coro, il che permette grande numero musicale di gioia
collettiva; fino a che Jepthe si ricorda del voto, si strappa i vestiti, e dice: eu mihi ! filia mea, heu ! decepisti me, filia unigenita, et tu
pariter heu, filia mea decepta es. Occasione per ritorno a s.r., molto espressivo, dissonante, sul modello di cosa abbiamo visto per
situazioni di natura patetica o tragica.
Rispetto all’Evangelista di Bach, il narratore qui non è concepito come sorta di personaggio unico, ma con funzione che può
essere attribuita a diverse voci o anche collettivo, Coro in questo caso; altra differenza importante tra O. e Opera della stessa
epoca, in particolare quella veneziana, che per ragioni anche economiche non ricorre al Coro. Qui, in contesto dove si aveva
a disposizione gli stessi gruppi di coristi usati per la liturgia, l’O. ha spesso una presenza importante di Coro, e farà parte
della sua identità per tutta la sua storia.
In questa musica della battaglia: onomatopea della tromba (cfr. Janequin), poi ripetizioni di passaggi anche molto ornamentati
nella scrittura vocale, dunque tutti gli ingredienti per interessare il pubblico. Poi, ancora corso recitativo biblico, il compianto
patetico dei nemici sconfitti, con cromatismi notevoli. Lamento degli Ammoniti molto bello, al quale secondo logica di

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contrasto, è un blocco di gioia per la vittoria portata dalla figlia di Jepthe che si presenta, come sorta di divertissement di opera
francese.
Poi momento tragico, incontro tra padre e figlia, cfr. partizione a p. 5: dettagli espressivi a livello della armonia, passaggio a
minore alla fine del secondo sistema del primo recitativo, o le appoggiature cromatiche che Jepthe utilizza per il suo lamento
disperato. Con ritorno, alla fine, dello stesso materiale melodico di lamento.
Dunque, si vede come l’idea dell’Oratorio è di assimilare tutto ciò che la musica vocale, è in particolare l’Opera, di quest’epoca
aveva proposto, e di metterlo al servizio della trasmissione d’un messaggio di tipo ‘mozione degli affetti’, di muovere
l’auditore, di metterlo in uno stato emotivo particolarmente intenso.

Lezione XII
Musica strumentale, periodo 1500-1600-1650’
Periodo che vede diffusione importante di questa pratica vede l’aumento importante di testimoni di fonti scritte, di partizioni,
che riguardano la musica strumentale; allo stesso modo, assistiamo, in particolare attorno 1600, sviluppo di certi generi,
forme, strategie di strutturazione della m. s. che avranno fortuna. Tuttavia, ancora per questo lungo periodo, osserviamo che
la m. s. è dipendente dalle logiche e forme della scrittura della musica vocale, per molti aspetti, e la sua natura, in particolare
di attività professionale, resta ancora profondamente legata alla dimensione della trasmissione orale; ci sono molti testimoni
scritti, ma si ha ancora l’impressione che questo abbia ruolo marginale rispetto alla vera forma di virtuosismo e pratica della
musica strumentale dalla parte dei professionisti, la cui formazione è essenzialmente non-scritta.
Inoltre, per potersi immaginare di strutturare un componimento di musica strumentale, senza testo, lungo e complesso,
bisogna aspettare la capacità di organizzazione gerarchica della tonalità armonica: si afferma nella seconda metà del XVII
secolo. Primi decenni del XVI secolo, la musica condivide la scoperta della stampa musicale, come mezzo di diffusione. Vero
che c’è pratica che si diffonde, di musica in contesto privato: canto, ma anche suonare il liuto, gli strumenti come pianoforte,
strumenti a corde come le viole…per questo tipo di consumazione, c’è, una produzione di musica stampata che si diffonde
con forme differenti rispetto alla m. vocale: per questa si avevano raccolte di frottole, poi canzoni francese, madrigali,
canzonette; qui, all’inizio, si nota cosa particolare: la pratica della musica s., anche presso gli amatori, era fondata sulla
esecuzione strumentale di componimenti, più o meno celebri, della musica vocale.
Le persone che suonavano uno strumento, si ottenevano alla esecuzione idiomatica ornamentale delle parti di canzoni,
melodie conosciute; la produzione nel mondo della stampa per la musica strumentale non consiste ancora veramente in
proprie partizioni, ma soprattutto in trattati, manuali, metodi, che permettono da una parte di imparare a suonare uno
strumento, ma soprattutto di imparare come si trasformi un componimento vocale in uno strumentale, grazie all’uso della
diminuzione: ornamentazioni specifiche e particolari; tecnica particolare, diffusione musica stampata ciò si ‘democratizza’.
Cfr. Script, Ex. 0, frontespizio di uno di questi trattati, di S. Ganassi dal Fontego, membro della Cappella di San Marco a
Venezia, pubblica serie di trattati: questo insegna a suonare il flauto ‘a becco’; anche spiega la maniera di fare diminuzioni,
utile per qualsiasi strumento, a fiato e a corde; più tardi, pubblicherà un trattato simile per gli strumenti a corde, appunto.
Qualcuno che ben conosce questa tecnica e approfitta della attività della stampa musicale veneziana per vendere questo tipo
di produzioni. L’accento cade sulla pratica della diminuzione; si vede in basso: primo pentagramma dimostra una gamma,
per valori lunghi; la seconda una proposizione di figurazione alternativa che fonda la diminuzione, riempie i valori lunghi
della melodia originale; il terzo pentagramma (riduzione alla metà, a un terzo, a un quarto, o meno, della durata delle note di un passo
musicale, specialmente di un soggetto o di un tema, a fini contrappuntistici. Tale artificio era impiegato in molte forme polifoniche, specie nel canone
e nella fuga. Nei sec. 16° e 17° il termine indicava anche la sostituzione, in un passo musicale, delle note date con note di durata inferiore, in
vario numero, a scopo ornamentale) è ancora a valori lunghi, così come il quinto; le possibilità di diverse figurazioni in seguito, a
partire da ogni nota lunga dell’originale vocale.
Idea di insegnare all’amatore che suona uno strumento, la maniera in cui qualsiasi frammento di melodia può essere
trasformato grazie all’imitazione, in componimento idiomatico per gli strumenti: tramite simile trattato, poi si impara a farlo
da soli, oppure continuare ad acquistare manuali che propongono versione ornamentale di pezzi celebri. Quali sono questi
componimenti? Le canzoni e madrigali più famosi dell’epoca.
Ascolteremo qualche esempio di versione ornamentale, dal madrigale celebre che già conosciamo: Ancor che col partire di
Cyprian de Rore, famosissimo al tempo. Cfr. Repertorio, ne troveremo delle registrazioni, sia per consorzio di strumenti a
corde, e nel caso di questa trascrizione non ci sono enormi differenze rispetto al profilo melodico della polifonia

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dell’originale; altrimenti, per strumenti solisti più diffusi tra gli amatori dell’epoca: liuto, clavicembalo. In questo caso, avendo
gli occhi sulla sua partizione, si può ascoltare qualche passaggio dalla trascrizione per liuto eseguita da Francesco Galilei, che
conosciamo già come membro della Camerata de’ Bardi e padre di G. Galilei (Cfr. Script, Ex I): Ornamentazione ancora
relativamente sobria, diventa solo poco più importante all’approccio della cadenza, a fine della frase; non va dimenticato che
il liuto fosse considerato lo strumento polifonico per eccellenza, strumento che i musicisti dell’epoca utilizzavano per
comporre la musica vocale (Palestrina, compone in liuto poi traspone su carta la musica vocale, le sue messe, i suoi mottetti)
grazie alla chiarezza, della struttura delle voci confidate dal liuto.
Ora, trascrizione dello stesso componimento ma per clavicembalo, dalla parte di A. Gabrieli, organista di San Marco, zio di
Giovanni Gabrieli, che conosciamo (ascolto 16:00): ornamentazione un poco più ricca in questo caso. Qui a metà secolo, se
avanziamo alla fine, possiamo osservare un altro esempio interessante, sempre pezzo celeberrimo, ‘Le lacrime’ di J. Dowland,
cfr. Script Ex. II, trascrizione per strumenti come pianoforte, fatta da W. Byrd, grande compositore britannico della fine del
secolo e inizio secolo seguente.
La fonte: fa parte questo componimento d’ una grande raccolta di componimenti per strumenti a tastiera, come designa il
nome di F. William. Book: il virginale è nome dato in Inghilterra a cosa oggi definiremo ‘spinetta’, nome deriva dal fatto che
fosse strumento di ragazze della aristocrazia che suonavano. Nel mondo britannico, il termino ‘virginal’ finisce per definire
qualsiasi strumento a tastiera. Raccolta importante perché è la fonte più importante manoscritta di musica strumentale
attorno al 1600, tradizione che la vede scritta da amatore, appassionato, messo in prigione a causa della sua fede cattolica, e
gli ha passati copiando musica e musica, e ora si trova nel Museo F. di Cambridge.
Musica per strumenti a tastiera: molto importante e praticata con risultati molto interessanti in Inghilterra fine XVI secolo e
inizio XVII, avrà influenze importanti sulla musica strumentale del continente. Qui, trascrizione per piano d’un
componimento preesistente, Dowland aveva fatto circolare due versione: I)già ascoltata, per due voci e liuto; II)versione per
consorzio, gruppo omogeneo di strumenti a corde. Facendo questa trascrizione per piano, Byrd apporta dei ritocchi: prima,
il componimento è trasposto, poi ci sono delle ornamentazioni; soprattutto: logica di organizzazione nella quale
riconosciamo il principio, alla base di strategie formali future, secondo il quale la stessa melodia o originale, può essere
sottomessa a differenti ornamentazioni, che si succedono. Il componimento di Dowland, ‘flow my tears’, è diviso in 3 sezioni;
qui, Byrd, presenta la I sezione ornamentata, e poi una variante della I; poi sezione II ornamentata e variante della stessa; poi
la III e ancora variante della stessa.
Inizio, poi di nuovo la I parte ma con ornamentazione differente (cfr. ascolto); II parte e ripetizione variata (ascolto); II parte
e ripetizione variata (ascolto).
L’esempio mostra secondo quale logica il 16esimo secolo sia arrivato a immaginare il principio di funzionamento della forma,
tra le più utilizzate in tutta la storia musicale europea, fino ai nostri giorni, la forma della variazione: grosso modo, si prende
un componimento vocale, meglio se celebre, poiché così l’uditore ha già l’originale nella sua memoria, e la si sottomette a
differenti variazioni, ornamentazioni: si applicano, alla stessa melodia, con la stessa struttura e profilo melodico, differenti
set di diminuzione. L’idea estetica è mostrare tramite quale inventività si arriva sempre a fare qualcosa di sempre diverso e
interessante su una base sempre uguale; dalle variazioni più semplici a quelle più virtuose, percorso che permette all’esecutore
di scaldarsi progressivamente giungendo ad una certa altezza; uditore: tensione interessante tra il riconoscere la melodia che
sta alla base e la novità di ciò che vi si aggiunge.
I ciclo di variazione: metà secolo, in particolare in Spagna, dove in questa epoca le variazioni sono chiamate diferencias,
differenze appunto.
Cfr. Script, Ex. III, serie di differenze, Antonio de Cabezòn, compositore di musica strumentale molto importante per la
Spagna dell’epoca, differenze sopra ‘ guardame las vacas’ canzone estremamente celebre, da cui si fanno diversi cicli di
variazione, per diversi strumenti, come il liuto. Tema di variazione funziona bene se è semplice, se la sua struttura è tale a
lasciarsi sempre riconoscere al di sotto della ricchezza eventuale delle ornamentazioni. Qui, la cosa è evidente, si ha una
melodia che, prima volta, discende dal terzo grado Fa alla sensibile Dodiesis; seconda volta, di nuovo lo stesso percorso ma
stavolta si ferma alla tonica Re, con terza maggiore piccarda (la tierce picarde ou cadence picarde désigne dans un morceau en mode
mineur un accord sur la tonique, où la tierce majeure est utilisée à la place de la tierce mineure utilisée dans le reste de la pièce. La tierce picarde
est généralement utilisée dans l'accord conclusif); in seguito, i due moduli sono ripresi senza pausa, non sempre in alternanza esatta,
cambiando le figurazioni contrappuntistiche, l’ornamentazione, aggiungendo melodie parallele alla terza, etc. Puoi anche
esserci cambiamento di metro (p. 6 sulla destra).
Altra categoria, destinata ad avvenire radioso, è quella dei componimenti strumentali basati sul principio di contrappunto
‘imitativo’. Si può collocare questo componimento nella grande categoria di componimenti strumentali che deduce il suo
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principio di strutturazione dalla musica vocale, poiché nel contrappunto, in particolare della m. ecclesiastica, il principio della
imitazione è una delle tecniche più importanti e diffuse; questi componimenti hanno nomi diversi, ma una cosa particolare
che potrebbe deviare l’interpretazione è che all’inizio, i termini che vanno a designare i componimenti imitativi fanno
riferimento ad una idea di musica libera, quasi improvvisata: quando in realtà è esattamente il contrario; dovuto al fatto che
la loro funzione iniziale era simile alla tradizione della toccata, ovvero componimenti strumentali tramite i quali ci si può
scaldare le dita prima di passare ad altro; termini come: fantasia, ricercare, tiento, appellazioni che sembrano rinviare a qualche
cosa di libero, in realtà componimenti imitativi più o meno rigorosi: inizio di ciò che diventerà qualche anno più tardi la fuga.
Cfr. Script Ex. IV, ‘fantasia’, per liuto, F. Da Milano, più celebre liutista del secolo: originale è tablatura, si tratta grosso modo
di imitazione a due voci, è un bicinium, come lo si avrebbe chiamato parlando d’un passaggio di Josquin, con la pratica dello
strumento; altre voci di riempimento, d’accordo, che si aggiungono poi a questa struttura.
Il termine ‘ricercare’, è utilizzato normalmente per la forma la più densa e rigorosa di scrittura imitativa, si avvicina al
contrappunto imitativo della musica sacra. Una delle prime pubblicazione importanti: Adrian Willaert, franco-fiammingo,
maestro di cappella a San Marco, Venezia, immensa reputazione; Ex. V, ricercare, 3 voci, sempre trattate secondo principio
del contrappunto più stretto; l’organizzazione è un po’ quella trovata nella musica religiosa dell’epoca, nelle messe e nei
mottetti dell’epoca, ossia serie di punti di imitazione: all’inizio, il cantus propone soggetto, poi seguito prima da canto più
basso, poi ottava inferiore dalle altre voci; in seguito, idea di nuovo soggetto presentato dal ‘basso’ alla misura 7, che il cantus
imita subito dopo; poi soggetto che propone sempre il basso, verso misura 13, imitazione molto vicina, poi altro soggetto a
metà del terzo sistema, qui l’imitazione comprende anche l’idea della inversione, ossia intervallo di seconda
discendente/ascendente diventa ascendente/discendente in certe imitazioni; catena di punti di imitazione organizzati in
maniera che ogni p. di imitazione cominci prima che quello antecedente è iniziato, per avere flusso continuo nel discorso,
cosa tipica della musica sacra dell’epoca, tranne che qui non c’è testo, dunque tutto interesse verso sviluppo di questo discorso
imitativo puramente musicale.
Si hanno nuovi concetti di musica strumentale, che vengono ad aggiungersi a quelli che già conoscevamo della fine del
Medioevo: le danze, sempre fondamentali, e i componimenti liberi fondati sull’improvvisazione, come preludio, toccata,
preamboli (15esimo secolo), altra categoria importante.
______________
Riguardando la situazione fine secolo, attorno 1600, osserviamo ormai un panorama molto chiaro, ben definito, con una
serie di categorie fondamentali che fondano il repertorio della m. s.
Cfr. Script, tabella p. 9: cerca di fornire una idea di insieme delle composizioni per gli strumenti, come si trovano attorno al
1600; le differenti categorie, generi, che appartengono a ciascuno di queste categorie: non sono numerose, musica fondata
sul contrappunto imitativo, sulla idea di improvvisazione, musica delle danze, variazioni che tuttavia possono distinguersi
secondo il tipo di modello melodico, di idea, alla base, utilizzato per costruirvi sopra cicli di variazioni.
Questa visione d’insieme, resta valido per buona parte del XVII secolo; solo negli ultimi decenni, si assiste d’una parte a
trasformazioni interne dei generi (la sonata, ad esempio diventa all’epoca di Corelli; la creazione di nuovi generi come il
concerto). Ma grosso modo, 1580-1660 il panorama della m. s. è questo sintetizzato nella tabella.
Ora, con il suo aiuto, si getta l’occhio a esempi per ogni categoria e genere.
I) Musiche strumentali concepite secondo uso del contrappunto imitativo: normalmente si distingue tra due grandi categorie,
secondo che il principio della scrittura contrappuntistica imitativa sia considerata in maniera rigorosa e sistematica
nell’insieme del componimento o solamente per momenti, in maniera più leggera. Si comincia soprattutto con la seconda
categoria, poiché alla fine del 16secolo, si trova un nuovo genere, importante soprattutto nell’Italia del Nord, che prende il
nome ‘canzona’, o ‘canzone’, ed è la trasposizione nel dominio della m. s. della Chanson française, ossia della musica a più voci,
che fa un certo uso del contrappunto imitativo ma non in maniera molto sistematica; d’abitudine, in una Canzona, si ha
inizio imitativo, ma non dura molto, poi il contrappunto è molto più libero, poi si ha normalmente sezioni chiaramente
distinte, il cui carattere non è sempre contrappuntistico e imitativo; queste stesse sezioni possono giocare sul contrasto tra
le differenti tipi di scrittura utilizzati. In Italia, soprattutto a Venezia, la quale resta punto centrale di questa produzione
strumentale, prima perché ci sono musicisti di grande qualità alla cappella di San Marco e poi perché Venezia è all’epoca
principale centro europeo della stampa, in particolare della stampa musicale; per distinguere questa Canzona della m. s. dalla
canzone cantata, si prende l’abitudine di nominarla ‘Canzona da sonar’, presto abbreviata in ‘sonata’, dunque componimento
suonato, è la nascita d’un nome, designazione che arriverà fino ai nostri giorni.

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Ad un certo momento, a Venezia, si è piuttosto preso l’abitudine di parlare di ‘sonate’ se si tratta di componimenti per
insieme di strumenti e ‘canzoni’ se si tratta di componimenti per clavicembalo, organo, strumento polivocale; ma soprattutto
nei primi decenni, gli usi linguistici sono un poco fragili; attenzione all’insieme delle denominazioni di questa epoca, spesso
la terminologia è scorrevole, per diversi compositori di diverse scuole, hanno tendenza ad usare lo stesso termine con
accezioni che non sono esattamente sinonimiche, dunque non bisogna aspettarsi che un componimento s. con un certo
nome sia subito qualificabile secondo la strutturazione della tabella che abbiamo.
Ex. VI, composizione di autore che conosciamo, G. Gabrieli, vediamo la ricchezza di questi componimenti strumentali,
concepiti per San Marco, ricchezza che trasferisce sul piano puramente strumentale quello che già era s. concertato grandioso
visto per la musica sacra. Qui, in questa canzone ‘primi toni’, dunque che utilizza il primo ‘modo’, dunque ‘sol minore’
ritrasposto, vediamo: 10 parti strumentali e basso per organo; all’inizio, elemento ritmico, motivo ritmico che è quasi un
segno di identità, essenziale, della Canzone veneziana dell’epoca, lo si ritrova ovunque. Malgrado la ricchezza delle voci, di
fatto, non si ha l’impressione all’ascolto di componimento troppo complicato sul piano contrappuntistico; le imitazioni,
concernono per volta diverse voci, a volta infatti si tratta più di eco che di imitazione propriamente detta; le altre voci fanno
sostegno che spesso è sostegno omoritmico, accordale, e in più posti, cfr. seconda pagina esempio, sembra che il tutto sia
già concepito su base armonica, ad esempio progressioni che discendono per gradi; in alto, le voci più acute, si scambiano
di imitazioni di natura piuttosto ritmica, ma il tutto, l’insieme della scrittura è già molto verticale, centrato. Si ritrovano altre
tecniche che avevamo già osservato nello stile concertato: raggruppamento di sonorità che creano gruppi di strumenti, dei
cori, diciamo, che dialogano in maniera antifonale, contrasti di densità e volume, momenti dove tutti suonano insieme,
momenti dove la sonorità più ridotta, d’altronde, non qui ma in altre, Gabrieli è accreditato ad essere il primo ad aver dato
le indicazioni di ‘piano’ e ‘forte’, per la m. s., e anche passaggi con cambio di metro, come trovato già nei grandi
componimenti in stile concertato.
Una generazione più tardi, sempre a Venezia, come detto, la Canzona strumentale, ‘da sonar’, è chiamata sonata se si tratta
di musica scritta per più strumenti; la scrittura contrappuntistica imitativa è una degli ingredienti ma non il solo, c’è anche
chiara divisione in sezioni avente carattere differente: queste evolveranno in corso di secolo fino a generare struttura in più
movimenti che troviamo a partire dalla generazione di Corelli a fine secolo.
Ex. VII, sonata, a 3, 3 strumenti melodici (2 di registro acuto, 1 di registro basso), più il basso continuo, dunque in realtà a
3 non è per 3 musicisti, ma almeno 4. Opera di Biagio Marini, musicista interessante poiché tra i primi virtuosi del violino; il
violino, come violoncello, famiglia che arriva tardi nell’uso generale, e che arriva ora a rimpiazzare la famiglia delle viole, un
poco differenti tecnicamente; si prestano ad uso amatore, così come il violino a vantaggio di virtuosità, e si afferma in Italia,
Venezia, nello s.c. e nella musica strumentale; gli strumenti della famiglia delle viole resteranno in uso soprattutto in ambito
privato, in Francia, Germania, Inghilterra (consorzi di viole), ma poco a poco saranno marginalizzati dalla diffusione degli
strumenti di questa nuova famiglia, maggiormente ‘professionali’.
Biagio Marini: appartiene alla cappella di San Marco, poi sarà al servizio di diverse corti, anche in terra straniera, in Germania,
è considerato tra quelli che mettono a punto, anche dal punto di vista tecnico, le caratteristiche della scrittura del violino, in
questa prima metà del XVII secolo.
1° raccolta stampata: Affetti musicali, segno che la m. s. qui dovrebbe avere dimensione espressiva comparabile a quella della
musica vocale; componimenti con titoli che si rifanno probabilmente all’occasione originale per cui erano stati scritti: la
Foscarina, fa riferimento alla famiglia dei Foscarina, grande famiglia aristocratica veneziana, vediamo come pubblicando
questa raccolta, vi è sorta di indeterminazione per gli strumenti: a 3, con tremolo di violini o corni, e (per il basso) trombone
oppure fagotto: indicazione molto diffusa, normale, nelle edizioni di m. s. all’epoca, poiché così gli editori volevano
assicurarsi una clientela più ampia, non troppo selezionata.
Sonata inizia effettivamente con sezione con polifonia imitativa, voci una dopo l’altra che riprendono lo stesso soggetto, ma
abbastanza presto, la struttura imitativa è meno densa, e si ha piuttosto l’impressione d’una serie di ‘soli’ confidati ai differenti
strumenti.
Ultima pagina: prima sezione con carattere di danza, molto ritmato, piuttosto omoritmico, poi questa sorta di ‘cadenza’ su
armonia bloccata, sorta di ‘mini toccata’ per più strumenti, con dimensione virtuosa; ora, come l’annuncia il titolo d’altronde,
sezione lenta, con uso di tremolo (p. 18).
E infine, ritorno del soggetto della prima sezione, per chiudere/risolvere il componimento. Precisamente all’interno di questo
genere della sonata si compongono in giustapposizione momenti aventi carattere differente, si esercita ciò che sarà poi il
grande problema della musica s., trovare logica per dare forma, svolgimento coerente, ad un componimento così è chiaro
che nella musica vocale il testo assicura la base, maniera per svolgere il tutto; evidentemente, se si tratta di componimento
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contrappuntistico rigoroso la soluzione sarà il seguito di punti di imitazione; se si tratta di variazioni, si ha il sentimento di
unità dato dal fatto che c’è sempre alla base la stessa melodia o lo stesso basso variato; qui, si tratta di immaginare un discorso
messo nell’ambito più astratto della musica strumentale.
Inizio di percorso che porterà fino alla grande idea formale del 18 secolo, che arriverà fino a noi.
Ex. VIII: ritorniamo in indietro di una ventina di anni, componimento che è sempre dedotto dal F. V. Book, composto da
J. Bull, compositore anglo-fiammingo, molto conosciuto soprattutto per le sue opere per strumenti a tastiera. Prima,
rimarcare il fatto che attorno al 1600, dato il ruolo pilota della musica italiana in tutta Europa, i termini italiani, per ciò che
riguarda il genere, poi le indicazioni di esecuzione, inizieranno ad essere utilizzate ovunque, dunque qui si trova termine
come ‘fantasia’, in raccolta di musica inglese. Il componimento è interessante poiché anche se in principio una fantasia
dovrebbe essere, offrirci, trattamento rigoroso dal punto di vista contrappuntistico, in realtà non lo è affatto: all’inizio,
soggetto lungo, che effettivamente è ripreso ad imitazione dalla mano sinistra, ma già al 3° sistema, si ha piuttosto
contrappunto libero, e poi di nuovo delle imitazioni, ma piuttosto sulla forma di bicinium a due voci con serie molto ricca di
piccoli motivi, sempre proposti da una mano e imitati dall’altra; poi altra parte libera all’ultimo sistema della pagina; poi di
nuovo quasi degli eco, imitativi, all’ottava, la densità resta limitata; dunque in queste pagine si vede alternanza tra passaggi ad
imitazione stretta e momenti liberi. Poi, rottura importante, inizio 3° pagina della partizione, di colpo la mano sinistra inizia
a suonare il basso ostinato, La Sib La La Soldiesis La; poi si ripete, si ripete, continua fino a quasi metà, 2° sistema dell’ultima
pagina; qui si ha staticismo armonico molto forte, sempre centrato sul La, sensibile superiore e inferiore, il movimento della
mano destra diventa piuttosto movimento di ornamentazione; si entra quasi in una logica di piccolo ciclo di variazioni su
basso ostinato all’interno di una fantasia, che ridiventa imitativa a partire dal 3° sistema dell’ultima pagina; tipo di scrittura
assolutamente mista in questo componimento.
Ora, Ex. IX, esempio parlante di ‘ricercare’, che pratica scrittura contrappuntistica molto rigorosa; in un certo senso, il
ricercare e poi la fuga, diventeranno, un poco i rifugi e campi di applicazione più importanti per tutte tecniche complesse di
scrittura canonica che avevano caratterizzato la musica vocale religiosa alla fine del Medioevo, poi un poco espulse dalla
musica vocale nella misura in cui aumentava la domanda di espressività, di impatto. Dunque, vi è un dominio della
composizione musicale un poco esoterico, riservato, qualcosa che i musicisti fanno tra loro, diciamo, per essere compresi e
apprezzati in circolo piuttosto professionale, che ha anche dimensione pedagogica importante, poiché l’utilizzo di queste
pratiche complicate serviva anche ovviamente ad impadronirsi dei fondamenti del mestiere del movimento delle voci, della
composizione del contrappunto; sono soprattutto i generi della m. s. contrappuntistica rigorosa che prendono il rilievo,
dell’uso della ricerca delle forme di scrittura più complessa; tradizione che arriva fino a epoche più recenti, cfr. ultime opere
di Bach, ‘l’arte della fuga’, stessa tradizione di pensiero e stesso genere tra teorico-riflessivo e il pedagogico.
Facciamo qui la conoscenza di Girolamo Frescobaldi, originario di Ferrara, si sviluppa negli ultimi anni del 16esimo secolo
in contesto musicale con gente come Luzzasco Luzzaschi e anche Gesualdo da Venosa, ma si specializza nella musica per
tastiera, essendo eccellente organista; alla fine si reca a Roma, dove diventa organista della Basilica di San Pietro; in questa
posizione prestigiosa la sua musica circola ovunque, F. è vero fenomeno globale nella diffusione della m. s. ad inizio XVII
secolo, e il suo prestigio dura a lungo: un secolo dopo, Bach, nella sua biblioteca, ha ancora delle sue musiche, e ne copia, di
questo scrittore ormai di epoca precedente.
Ex. IX, prende il titolo dalle note che compongono il soggetto, Mi Re Fa Mi, Ricercare quarto, ma le prime note sono La
Sol Sibemolle La? È lo stesso, nel senso che F. usa ancora il principio del Medioevo, quello della solmisazione (in musica,
teoria diffusa dal’11° a tutto il 16° sec. e oltre, nella quale si limitava l’ambito tonale in una serie di 5 toni e di un semitono, detta esacordo),
Guido d’Arezzo; le sillabe di solmisazione (Mi Re Fa Mi) possono essere utilizzate secondo i diversi esacordi per definire i
diversi toni, quindi significano sia Mi Re Fa Mi che La Sol Sib Fa (esacordo naturale oppure no), cfr. risposta mano sinistra
alla 5° misura. La complessità è aumentata dal fatto che c’è con soggetto un contro-soggetto, mano destra, dalla 3° misura,
La Sib, La sol Fa, sono entrambi sottomessi a trattamento imitativo, dunque questo componimento è imparentato a quello
che si definirà una doppia fuga, qualche decennio più tardi. Come vuole una scrittura rigorosa, i primi 4° sistemi sono
interamente composti apportando delle combinazioni, varianti, dei due elementi tematici, il soggetto e il contro-soggetto.
Ora, ci sono due cose interessanti che accadono (43:25): il soggetto principale è presentato a partire dalla 2° misura del 5°
sistema, per augmentationem, ossia con valori più lunghi, sempre procedimento che conosciamo dal cantus firmi del Medioevo
tardo; e la mano sinistra, inserisce un secondo contro-soggetto La Do Dodiesis Re, etc…al quale segue subito l’inversione
dello stesso La Fadiesis Fabequadro Mi, dunque la versione normale e la versione inversa del contro-soggetto sono presentate
facendo della imitazione stretta, poiché l’una parte subito dopo l’altra, sulla base del soggetto principale a valore lungo.

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(46:10) Qui un’altra trasformazione, il soggetto La Sol Sibemolle La diventa ancora più lungo, di due volte rispetto all’ultima
volta; altro contro-soggetto aggiunto Do La Si Do, che a sua volta sarà utilizzato su questa forma ma anche in inversione,
ad esempio poco sotto, inizio del sistema seguente, e le differenti combinazioni di questo contro-soggetto portano il
componimento alla sua conclusione.
Se in questo momento di repertorio che spesso si trovano le cose più sperimentali, particolari, dal punto di vista tecnico della
composizione.
Ex. X, componimento incredibile, grande compositore olandese J. P. Sweelinck, lo ritroveremo ancora; componimento
‘fantasia cromatica’, poiché il soggetto principale è appunto una discesa ‘cromatica’ di Re a La; soggetto è oggetto di
trattamento imitativo, ma di fatto subito sottomesso a serie di altre funzioni: prima, ritorna spesso a velocità differenti (misura
119 ad esempio, 2 volte più lento; 149 2 volte più veloce, 184 molto rapido); presentato a diverse altezze anche Re, Mi, La;
rende che queste 3 forme combinate diano tutte le note della gamma cromatica; molto spesso fa una sorta di cantus firmus o
basso ostinato, sul quale le altre ‘voci’ fanno delle diminuzioni o ornamentazione che prendono spesso carattere di progressione
discendente; impressione d’essere più veloci ad una scrittura di tipo ‘ciclo di variazioni’ che ‘ricercare’ o ‘fantasia’
propriamente detto; il tutto è presentato con varietà, ricchezza d’invenzione assolutamente travolgente.

Lezione XIII
Ultima lezione, corso di storia della Musica II; secondo incontro riguardo all’orizzonte sulla musica strumentale, categorie di
musiche strumentale nella pratica musicale attorno al 1600, primi decenni e del secolo. Alla fine del semestre passato, si era
già vista, nella musica per organo, la nascita del genere ‘preludio’, o se vogliamo insieme di generi che prendono il nome di
preludio, o toccata, che hanno essenzialmente carattere di allusione, imitazione, di ciò che sarebbe l’improvvisazione libera
è molto idiomatica, fondata sulla tecnica, da un musicista che si mette al suo strumento ed inizia liberamente a suonare
accordi, arpeggi, gamme, senza vera struttura melodica e formale, per scaldarsi le dita.
La scrittura libera, pseudo-improvvisata, è qualcosa che ritroviamo per molto tempo, altra costante della tradizione per la
musica di strumenti a tastiera, e in generale la funzione della ‘toccata’ o ‘preludio’, conserverà memoria del suo carattere di
componimento che si suona all’inizio per scaldarsi le dita, dunque sarà normalmente componimento, che eventualmente in
insieme di c., avrà posizione di introduzione. Tuttavia, non c’è un solo tipo di stile, scrittura, appropriato per le toccate. Il
tipo di scrittura che si fa attraverso momenti di virtuosità idiomatica è qualcosa che si ritrova spesso, ma lo si ritrova anche
mischiato ad altri frammenti, poiché questa idea di libertà di costruzione, fa sì che talvolta si è piuttosto in una sorta di
giustapposizione di elementi frammentari di diverso tipo. Il concetto della improvvisazione non implica soltanto l’idea di
scaldarsi le dita con tratti di agilità, ma anche elemento di improvvisazione nel percorso armonico, direzione che prende,
dunque ad esempio l’idea di connettere accordo dopo accordo, modulazione dopo modulazione, senza direzione tonale
precisa, senza mai vera stabilizzazione della tonalità, e vero motivo che si sviluppa nell’una o l’altra delle tappe tonali; toccata
come sorta di erranza dal percorso tonale.
Dipende questo da questione di funzione, ovvero in quale contesto un tale tipo di componimento viene suonato: bisogna
ammettere qui che la nostra conoscenza è meno precisa di cosa vorremmo, m. s. spesso in contesto privato ma si ha molte
meno informazioni al riguardo, per ovvi motivi; talvolta utilizzata in chiesa per accompagnare, riempire, certi momenti della
liturgia, vuoti, o di preghiera; i ricercatori hanno molti dubbi ancora quanto all’uso effettivo di questi componimenti in
contesto liturgico.
Presentazione di una toccata, Ex. I, compositore importante, Johann Jacob Froberger, compositore con vera prospettiva
europea, legato alla Corte imperiale di Vienna, inviato a studiare a Roma con Frescobaldi; da più punti di vista ne deduce gli
insegnamenti più importanti. Ma anche, allo stesso modo, rapporti con la Francia e Inghilterra (soggiorni molto lunghi in
Francia), anche a Londra, Froberger attivo periodo centrale del secolo, rappresenta sintesi delle tendenza della m. s.
dell’epoca. Toccata: interessante come giustapposizione, qui, di tipi di scrittura differente; inizia, effettivamente, con il
modello della libera improvvisazione idiomatica, fondata su catene di figurazione fatta per scaldarsi le dita; ma, a partire dal
penultimo sistema 1° pagina, si passa a scrittura moderatamente imitativa, dunque avendo carattere di rigore più importante;
qualche misura di accordo modulare, con dissonanze e ritardi, modello di Frescobaldi che vedremo dopo; poi momento
ancora libero idiomatico, poi dalla fine 3° sistema abbiamo più una scrittura che sembra adattata a delle variazioni, con cantus
firmus alternato tra le due mani, e poi delle figurazioni che sembrano appunto diminuzioni; poi, fondo pagina, diventa ancora
abbastanza libero, e poi due misure prima della fine della seconda pagina, inizio di nuovo momento imitativo, ben identificato

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all’inizio: il ritmo puntato di questa ultima parte prosegue ma con meno imitazione, più libero; poi verso la fine si dissolve
ancora in serie di figurazioni idiomatiche con dei frammenti di gamma.
Froberger era stato allievo di Frescobaldi a Roma, e questo ultimo era uno dei grandi maestri della ‘toccata’; pubblicato
raccolte che ne contengono molte, e anche scritto, allo stesso modo, prefazione molto interessante, nella quale tenta di
promuovere l’idea che la m. s. moderna, e queste toccate dovrebbero corrispondervi, devono in qualche modo imitare ciò
che era successo nella musica vocale, ovvero raggiungere livello più alto di espressività, grazie all’uso di dissonanze, e al fatto
che questi c. dovevano essere suonati con ritmo flessibile che corrisponde a quello dello s. r. Fra le toccate, alcune sembrano
essere state immaginate per essere suonate durante l’elevazione del Santo Sacramento alla Messa, e dunque concepite per
dare sorta di atmosfera di elevazione, trascendenza, al momento liturgico, che sono caratterizzate da questa libertà, apertura
armonica, che fa sì che le si possa descrivere come suite di accordi che, grazie all’uso di dissonanze, appoggiature, ritardi,
cambiano senza fermarsi di tonalità, senza mai fermarsi con cadenza compiuta. Questa toccata, Ex. II, II libro, definita nella
pubblicazione come di ‘durezze e legature’, dissonanze dunque e ‘archi di congiunzione’, i ritardi (note della armonia
precedente che continuano ad essere sentite sulla armonia successiva). Inizio: scrittura di serie di accordi, sempre legati da
ritardi, dunque si passa da accordo dissonante a dissonante senza riposo, ‘Tristano e Isolde’ ante-litteram; prima di trovare
cadenza chiara, su sonorità consonante evidente, si attende la misura 20, dove si trova accordo di Domaggiore ben chiaro;
poi, dalla misura 21, Frescobaldi gioca la carta della ‘cadenza evitata’: abbiamo una cadenza preparata, con la formula tipica
che implica la sensibile Fadiesis Sol Fadiesis Sol, ma al momento in cui la parte superiore arriva sul Sol c’è un Mibemolle che
entra in una altra voce, e impedisce l’accordo di tonica; nelle misure successive, fino a metà della pagina seguente, si trovano
ovunque lo stesso procedimento, con differenti obiettivi di tonalità e sempre con lo stesso risultato di cadenza evitata; a volta
entra in gioco il sesto grado, a volte è un ritardo di nota che appartiene all’accordo precedente di dominante, e continua ad
essere presente sull’accordo successivo. Si tratta di creare una atmosfera mistica, per questa sorta di ‘levitazione’ tonale, che
non sembrai mai ricadere su terra, ricadere per gravità sulla terra.
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Arriviamo alla categoria delle ‘danze’ (cfr. sempre la tabella lezione precedente): la più antica delle forme di m. s., vero tuttavia
che all’epoca che ci interessa, si assiste a trasformazione o inizio di t. molto interessante: sempre più l’impressione che questa
musica anche se conservi certe caratteristiche di base della musica di ‘danza’, il fatto d’essere ben ritmata, avere frasi di
lunghezza regolare, periodica, simmetrica, tuttavia si hanno delle irregolarità, degli aspetti che sembrano intervenire nella
chiarezza e nella regolarità della musica fatta per accompagnare dei movimenti fisici, e si ha sempre più l’impressione che
nonostante tutto si fondi su modelli di danza, essa sia fatta per l’ascolto; non vi è dimensione funzionale che si riferisce
direttamente alla musica che accompagna la danza. Sarà lungo sviluppo, ma certe forme fondamentali della m. s. di secoli
successivi derivano appunto dalla progressiva astrazione della musica di danza, pur conservando certi aspetti e modelli che
rendono il punto di partenza riconoscibile, ma alla fine con altra funzione. Altro aspetto: tendenza a raggruppare delle ‘danze’
aventi carattere differente, per ottenere dei cicli che normalmente seguono dei modelli fissati; ad esempio fine XVI secolo,
tendenza a mettere assieme una pavane con una gaillarde, in particolare nel repertorio di F. V. Book, una pavane è danza lenta,
una gaillarde una rapida; le due insieme formano un mini-ciclo che normalmente segue questa successione.
Ex. III, dimostra bene queste due tendenze; prima, idea di trattamento della danza che diventa assimilabile a quella delle
elaborazioni fatte partendo dalla musica vocale, si vede, in questa pavane, componimento, danza di carattere moderato,
solenne, a volte anche triste, e qui, la pavane si compone di tre grandi sezioni, ma ogni volta vi è una variazione, che segue la
sezione rispettiva, con ornamentazioni e diminuzioni. L’idea della variazione fa sorta che la regolarità ritmica della danza sia
meno percettibile, anche se c’è di base, e che il componimento sia fatto per apprezzamento d’ascolto, nella sua scrittura
musicale, piuttosto che per accompagnare movimenti fisici. I movimento e la sua variazione (doppio); II parte con la sua
variazione; III parte con la sua variazione.
Come si diceva, si aggiunge normalmente per completare il ciclo una gaillarde, ossia danza che presenta un contrasto, perché
rapida e perché è solitamente iscritta in un composto, come XVIII o cose di questo genere (p. 5).
Ex. IV, Biagio Marini, ancora, componimento sintomatico dell’evoluzione della musica delle ‘danze’ verso una funzione
piuttosto legata all’ascolto. Si vede che la chiama ‘balletto’ riferimento alle danze, ma usato piuttosto per una canzonetta ben
regolare, si compone di giustapposizione di piccole sezioni come nella sonata a III che abbiamo visto la scorsa lezione.
Evidente che, non si può immaginare di ballare un c. in cui ci sono più alternanze rapide di tempo. Resta che, la natura della
musica di danza e preservata nel fatto che tutte le frasi sono molto regolari: strutturazione per frasi simmetriche, su modello
di 4 misure o 6, si tratta di costruzione più astratta, fatta a partire da materiale che deriva dalla natura della musica delle
danze.

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Ex. V, Froberger, appartiene alla generazione successiva, 1650 ca., accreditato per aver messo in circolazione, probabilmente
con dei contemporanei francesi che lavoravano sulla musica per liuto, un modello di cicli di danze che comprendono in
principio sempre le stesse danze. Sempre a questa epoca, si impone, per definire questo tipo di composizione, il nome di
suite: definito come insieme di componimenti aventi carattere di certe danze predeterminato, normalmente tutte nella stessa
tonalità, aspetto importante nella definizione.
Normalmente, le 4 danze che compongono una suite di Froberger sono una allemande, courante, sarabande, gige; la logica è in
generale quella di alternare danze lente con rapide, terminando con danza rapida. Modello, con 4 danze, sarà il più diffuso
nell’Europa dei decenni seguenti, ancora uguale, ev. con qualche integrazione di altre danze, nelle maggiori suite di S. Bach,
quelle per violoncello Sol ad esempio; non è la sola possibilità obbligatoria ma sarà senza dubbio il modello più rispettato.
Un altro elemento fondamentale, che diventa quasi primordiale nella designazione della forma della danza in epoca barocca,
e che avrà anche ricadute importanti poiché diviene modello seguito anche da altre forme, è la struttura bipartita, ogni sezione
ripetuta, AABB, e organizzata in modo che la prima sezione partendo dalla tonica arrivi o sulla dominante o sulla tonalità
relativa se la tonica è minore, e la parte B che ritorna per concludersi verso la tonica. Normalmente, A e B condividono lo
stesso materiale, soprattutto all’inizio, dunque parallelismo tematico ma differenza dal punto di vista di percorso tonale.
Allemande: danza in tempo moderato, binario, si ha prima una parte A che parte dalla tonica Solminore e che si arresta sulla
dominante Remaggiore; poi la parte A viene ripetuta. Parte B sulla relativa Sibemolle maggiore e ritorna verso Solminore, poi
viene ripetuta.
Courante: danza di tempo ternario, piuttosto vivo; la forma è quella già vista, una parte A con Solminore, che arriva su
Remaggiore dominante; parte B che inizia su Sibemolle maggiore, relativa della tonica, e poi ritorna a Solminore. La parte A
e poi B, sono ripetute, molto chiaramente vi è parallelismo di motivo tra le due parti; è la stessa cosa che fa andata e ritorno,
diciamo.
Sarabande: danza lenta, in 3 tempi, normalmente molto solenne, anche maestoso, talvolta con risonanze un poco funebri, qui
Froberger porta la sezione A, dalla tonica Solminore a Reminore (variante minore della dominante), la ripete, e dopo la barra
centrale si ritorna alla vera dominante Remaggiore, e si ritorna verso Solminore, tranne passando in maggiore per l’ultimo
accordo, con terza di piccarda in vecchio stile, con poi ovviamente ripetizione.
Gigue: danza rapida, ben ritmata; ne esistono due varianti, binarie, ancora a quest’epoca, e ternarie, 16/8 o 12/8 che diventerà
la forma più diffusa in seguito; qui ancora binaria. Percorso tonale dalla tonica Solminore alla relativa Sibemolle maggiore,
poi a ritroso; sempre con ripetizioni della parte A e B.
Ultima grande categoria, molto importante: i componimenti in forma di variazione. Di fatto, categoria che include delle
forme anche ben differenziate, che noi abborderemo. Prima, qualcosa che già conosciamo: idea di fare delle variazioni su
melodia, canzone celebre, su motivo articolato e di cui l’origine, la natura, era quella di componimento vocale o comunque
melodico.
Ex. VI, W. Byrd, sempre F. V. Book, punto di partenza: canzone popolare John come kiss me now, si vede che le tecniche
utilizzate per la variazione sono molto numerose, c’è grande sottigliezza nel trattamento. Ia presentazione: variazione,
originale, presenta il tema alla mano destra e stabilisce la base dello sviluppo dell’armonia: tema di 4 misure, molto strutturato,
con la prima misura che corrisponde alla seconda, e le prime due che si legano e nella 3° e nella 4°. Nella maggior parte delle
variazioni, il tema reste riconoscibile, presente, sono piuttosto le altre voci che fanno delle varianti, a partire dalla numero 2,
dei movimenti ornativi di contrappunto. Tuttavia, ci sono anche altre forme di trasformazione: numero 4, il tema resta lo
stesso, ma armonizzato differentemente: il basso forma delle armonie differenti, numero 6 tema alla mano sinistra, la destra
fa piuttosto delle figurazioni ornative; numero 7, la melodia è leggermente differente; numero 10 alla mano sinistra, con
figurazioni virtuose alla destra; a partire da 12 le varianti sono anche legate al passaggio 12-8 virtuale, delle volte si riconosce
meno il tema di origine, e in generale c’è sorta di accelerazione virtuosa, che arriva fino al numero 14, per finalmente calmarsi
al numero 15. Quasi ritorno alla forma iniziale; numero 16 trasformazione invece importante del tema dell’inizio; gioco con
il quale si ha da una parte un cammino melodico che si ripete, dall’altra parte una paletta intera di tecniche che possono fare
sorta che ci si allontani dal tema.
Ex. VII, Sweelinck, forma particolare di tema con variazioni, che avrà grande importanza nello sviluppo della m. s. nei paesi
protestanti. Forma di variazione su corale figurato; corale: canto liturgico praticato in particolare nell’Europa luterana; ci
sono situazioni liturgiche o para-liturgiche nelle quali si sviluppa una tradizione di suonare la melodia corale, presentandola
in maniera riconoscibile ogni volta come sorta di cantus firmus, con valori relativamente lunghi, e arricchirla tramite le altre
voci, evidentemente genere soprattutto per organo, arricchimento con contrappunto, ornamentazioni, che cambiano ad ogni
variazione. Composizione molto importante, arriva fino a Bach, autore di grande quantità di corali figurati. L’esempio è di
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nuovo del compositore olandese, già detto che è molto importante nella musica per organo, attivo ad Amsterdam,
considerato come il punto di svolta tra tradizione della musica per tastiera inglese (che ben conosceva) e gli sviluppi successivi
che avranno luogo soprattutto in Germania, periodo centrale del XVII secolo. In realtà, questo corale figurato, variazione
su corale non aveva per lui funzione strettamente liturgica; nei Paesi Bassi calvinisti dell’epoca, si riduceva al massimo la
presenza della musica nella liturgia, dunque piuttosto c. per essere suonato in sorta di concerto di musica per organo, che
tuttavia manteneva rapporto con il contesto liturgico, grazie al fatto che le melodie utilizzate erano effettivamente delle
melodie di corale.
Nell’esempio, si vede la referenza della melodia, la preghiera è ‘Nostro Padre nel regno dei cieli’ e poi delle variazioni, nelle
quali la melodia è sempre presente come sorta di c. firmus e le altre voci fanno delle ornamentazioni contrappuntistiche con
tutta la ricchezza e fantasia che abbiamo già osservato nelle opere di Sweelinck: da notare che la seconda variazione (secunda
variatio), la melodia del corale è trasposta (inizia su Mi piuttosto che La).
Infine, la forma di variazione più importante in questa fase della m. s. europea, ma anche della m. vocale, variazione su basso
ostinato: basso ostinato, infine cammino armonico, o discesa di basso, molto corta, che si ripete all’infinito, nel senso che la
fine di ogni segmento coincide con l’inizio del segmento successivo; vi è certo numero di moduli, di patterns di basso ostinato
che sono presenti e utilizzati, nella musica s. di quest’epoca, ma i due più importanti sono quelli corrispondenti ai nomi di
Ciaccona e Passacaglia. Abbiamo già sentito il b. di Passacaglia, poiché i c. vocali su b. ostinato di Monteverdi, come Lamento
della ninfa, o finale dell’incoronazione di Poppea, era di Passacaglia, fondato su b. tetracordo discendente, che scende dalla
tonica al 5° grado per ricominciare, con la tonica al segmento successivo; Ciaccona e P. si distinguono per il fatto che
normalmente la C. è modo maggiore, la P. minore, e P. normalmente si fonda su discesa di tetracordo, che tuttavia può
essere variata utilizzando note di passaggio cromatico tra le note fondamentali, o facendo piccola formula di cadenza tra la
dominante e ritorno alla tonica; C. catena di discesa di quarta, primo grado quinto, sesto terzo, poi risale con cadenza 4°, 5°,
tonica. Va detto che, in maniera sempre più importante, le caratteristiche della C. e della P. hanno tendenza a mischiarsi,
anche sovrapporsi, dunque non è raro trovare c. chiamati C. o P. ma che non corrispondono esattamente alla descrizione
appena fornita; l’essenziale è che la struttura è quella di un c. su basso ostinato che si ripete.
Un basso ostinato di questo tipo allinea più dozzine o meno di presentazioni del disegno del basso, molto corto, dunque la
qualità, ricchezza di invenzione consiste nella capacità di trovare dozzine di varianti al di sotto del basso ostinato. Curiosità:
secondo alcune indicazioni, all’origine questi moduli di basso ostinato sarebbe di formule di danza, importate dal nuovo
mondo, e arrivate in Spagna durante XVI secolo con l’argento del nuovo mondo: importazione interculturale dalle regioni
non europee. Tuttavia, molto probabile che la natura e tempo, caratteristiche di queste formule, fossero molto evolute dal
primo esempio di modello importato dall’America meridionale. Resta che in certi testimoni, poemi, dell’inizio XVII secolo,
si fa ancora riferimento a questo tipo di struttura musicale come essente d’origine sudamericana.
Ex. VIII, Ciaccona, Tarquinio Merula, compositore abbastanza conosciuto nell’Italia del Nord primo secolo, probabilmente
nato nello stesso paese di G. Verdi, vediamo: basso ostinato consiste in due misure, e alla fine si ripete in modo regolare; ci
sono momenti dove non è udibile in quanto tale, ma c’è in maniera implicita, poiché le armonie sono ‘determinate’ dalla sua
presenza (qualcosa che spesso vedremo in questi c. su basso ostinato). C. e P. sono molto numerose nella m. s. del XVII
secolo, moda che arriva fino a inizio XVIII per poi fermarsi in seguito, lasciando spazio alla variazione su melodia avente
carattere più esteso.
Ex. IX, ultimo componimento, ritorniamo a G. Frescobaldi, una delle sue composizioni più celebri, Cento partite ‘sopra’
Passacaglia, partite sinonimo di variazione; in realtà molto complesso, non ci sono 100 variazioni solo sulla P., ma all’interno
si trovano sezioni in scrittura di stile C. (indicate) e vi sono anche cambiamenti di tonalità. Talvolta la discesa del basso è
chiaramente udibile, come lo si vede all’inizio, a volte è implicito: vi si costruisce l’armonia senza che sia chiaramente
presentato. Vi è anche variante cromatica, cfr. secondo sistema prima pagina discesa Re Dodiesis Dobequadro Si Sibemolle
La, che ritroveremo anche in altri momenti durante la composizione.
(1:25:03) Qui, Frescobaldi inserisce sezione intitolata ‘corrente’, con ripresa, come si deve per una danza. Di fatto il basso di
P., l’armonia della P. è ancora presente, ma il ritmo è quello della danza che conosciamo come chiamarsi corrente (p. 18,
verso il fondo).
(1:26:13) e ora ritorno alla Passacaglia (fondo pagina); (1:27:43) si osserva come i numerosi cambiamento di metro, ora c’è
modulazione ‘altro tono’ come scritto, la tonica è ora Fa; si osserva oscillazione tra maggiore e minore (talvolta si aggiungono
dei Labemolle), ma alla fine è la maggiore che importa, poiché, lo si vede, ultimo sistema della pagina, si passa a basso di
Ciaccona (p. 20 in fondo), sono evidenziate in rosa le note che fanno la struttura del basso di Ciaccona che già conosciamo,
C. in principio è modo maggiore.
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A metà della 81, altra sezione di P., con altra modulazione, Do, e inizio pagina seguente ancora sezione di Ciaccona sempre
in Do.
(1:31:10) Ora, penultimo sistema della 82, di nuovo Passacaglia, modulazione su Laminore; ha inserito piccoli segni per
marcare il fatto che finalmente il basso è variante cromatica ascendente del basso discendente di Passacaglia; più tardi, metà
pagina seguente (p. 23) si ritorna verso Re, marcato ‘altro tono’, ovvero si ritorna alla tonalità dell’inizio, per poi terminare
con essa.
Il secolo, senza dubbio di Passacaglia, del basso ostinato.

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