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La teoria gnoseologica di Bernardino Telesio

Analisi dei libri VII, VIII e IX del


«De rerum natura juxta propria principia»
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«Qui ante nos mundi hujus constructionem rerumque in eo contentarum naturam perscrutati sunt,
diuturnis quidem vigiliis magisque illam indagasse laboribus, at nequaquam inspexisse videntur. Quid
enim iis illa innotuisse videri queat, quorum sermones omnes et rebus et sibi etiam ipsis dissentiant
adversique sint? Id vero propterea iis evenisse existimare licet, quod, nimis forte sibi ipsis confisi,
nequaquam, quod oportebat, res ipsas earumque vires intuiti, eam rebus magnitudinem ingeniumque et
facultates, quibus donatae videntur, indidere. Sed veluti, cum Deo de sapientia contendentes
decertantesque, mundi ipsius principia et caussas ratione inquirere ausi, et, quae non invenerant, inventa
ea sibi esse existimantes volontesque, veluti suo arbitratu mundum effinxere».

Vale a dire:

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«Chi prima di noi ha esaminato la struttura del mondo e la natura delle cose pare che abbia
faticosamente ed incessantemente indagato senza tuttavia giungere a fare chiarezza su tali questioni. Che
cosa, d'altra parte, potrebbe far pensare che tali problemi siano stati chiariti proprio da quegli uomini i cui
discorsi contrastano fortemente con la regalità e persino con sé medesimi? È lecito supporre che tutto ciò
sia accaduto perché quegli uomini, troppo fiduciosi in se stessi, non sufficientemente attenti – come era
invece necessario – alle cose e alla loro forza, non riconoscendo quella grandezza, quella intelligenza e
quelle capacità di cui le cose stesse sono dotate, gareggiando superbamente in sapienza con Dio,
osarono indagare con la ragione le cause e i principi del mondo e, credendo e pretendendo di aver
ritrovato cose che trovato non avevano, dipinsero il mondo secondo la loro arbitraria immaginazione».

Erano oramai trascorsi dieci anni di intenso studio e di meticolose ricerche dal conferimento del dottorato,
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avvenuto nella città di Padova nel 1535, quando «il giudiciosissimo Telesio cosentino» cominciava a
mettere mano alla sua opera maggiore: dopo un decennio di riflessioni e di indagini egli non poteva
scrivere nel suo Prooemium al «De rerum natura juxta propria principia» parole più pacate e, nel
contempo, più polemiche. Fin dalle prime battute dell'opera traspare evidente il carattere dell'uomo:
attento, scrupoloso, dubbioso dell'altrui e delle proprie forze, teso alla conoscenza e alla continua verifica
dei fenomeni naturali, disposto a discutere se stesso e le proprie scoperte, propugnatore di una sapienza
che non ha in sé nulla di mirabile o divino, ma che nasce e si sviluppa unicamente dalla concretezza della
esperienza e della natura.

Sono qualità morali ed intellettuali che, da sole, lo fanno uomo dell'era moderna.

Ascoltiamolo:

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«Nos non adeo nobis confisi, et tardiore ingenio et animo donati remissiore, et humanae omnino
sapientiae amatores culturesque (quae quidem vel ad summum pervenisse videri debet, si, quae sensus
patefecerit et quae e rerum sensu/perce' tarum similitudine haberi possunt, inspexerit), mundum ipsum et
sing as ejus partes, et partium rerumque in eo contentarum passiones, ctiones, operationes et species
intueri proposuimus. Illae enim, recte perspectae, propriam singulae magnitudinem, hae vero ingenium
viresque et naturam manifestabunt. Ut si nihil divinum, nihil admiratione dignum, nihil etiam valde acutum
nostris inesse visum fuerit, et nihil ea tamen vel rebus vel sibi ipsi repugnent umquam; sensum videlicet
nos et naturam, aliud praeterea nihil, secuti sumus, quae, perpetuo sibi ipsi concors, idem semper et
eodem agit modo atque idem semper operatur».

«Noi, non confidando così smisuratamente in noi stessi, dotati di ingegno più umile e d'animo meno
superbo, cultori amorevoli di una sapienza affatto umana (sapienza che deve considerarsi massima se
sarà riuscita a ben esaminare le cose che il senso manifesta e quelle che si possono ricavare in virtù della
similitudine delle cose percepite con il senso) ci siamo prefissi di scrutare il mondo e le sue parti, le
passioni, ie azioni, le operazioni e le specie delle parti e delle cose in esso contenute; quelle infatti, se
attentamente osservate, sveleranno la grandezza che le è propria, queste l'intelligenza, la forza e la natura
loro. E così, se potrà sembrare che nelle nostre riflessioni non vi sia nulla di divino, nulla di mirabile e
persino nulla di molto penetrante, tuttavia le nostre analisi non cozzeranno mai con le cose né, tanto
meno, con sé medesime: abbiamo pertanto seguito esclusivamente il senso e la natura che, eternamente
coerente con se stessa, fa sempre nel medesimo modo le stesse cose e sempre agisce egualmente».

Eppure, anche in tempi relativamente recenti, si è parlato di Telesio come di un filosofo che solamente
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«accenni alla età moderna... e resta un uomo del Rinascimento» ;sono queste parole di Giovanni Gentile
la cui interpretazione del naturalismo telesiano meriterebbe una più lunga e dettagliata analisi; noi qui,
limitandoci a trattare esclusivamente il problema della dottrina gnoseologica del filosofo cosentino, faremo
solo alcune osservazioni generali tendenti a mostrare i limiti e le contraddizioni della teoria dell'attualismo
sia rispetto all'interpretazione complessiva del pensiero filosofico rinascimentale italiano sia, più in
particolare, rispetto all'interpretazione del naturalismo di Bernardino Telesio.

È noto come il fondamento teorico di tutta la visione attualistica della realtà risieda nel principio della
distinzione tra «pensiero pensante» e «pensiero pensato»: il primo, che avrebbe le caratteristiche della
concretezza e della razionalità, è l'universale che comprende in sé sia tutti i pensieri dei singoli individui
sia tutti i pensieri individuali determinati, applicati ad un qualsiasi contenuto: è pensiero concreto, unità che
pone tutto il molteplice; il secondo invece è pensiero astratto, molteplicità, attività intellettuale esercitata su
dati empirici.

La natura viene ad essere esaminata nell'ambito del pensiero applicato ad un contenuto – non
considerando invece che si tratta propriamente e semplicemente del contenuto del pensare – e per questa
via respinta fuori dal pensiero «attuale» proprio in virtù del fatto che il filosofare neoidealistico, totalmente
privato dell'esperienza, ne stabilisce astrattamente l'indipendenza e l'esteriorità. La natura intesa come
pensiero che sulla natura medesima si applica, e le scienze naturali non sarebbero così conformi ai
principi della concretezza e della razionalità poiché prescindono dal «pensiero pensante», dall'universale,
dall'unità che pone tutti i dati del molteplice; ed in questo modo ogni aspetto del reale – sia che appartenga
alla sfera della natura o della scienza sia che attenga alla problematica della religione, dell'etica, della
storia civile ecc. – esisterebbe solo in forza dell'Atto che pensa, l'unico considerato – in strettissima
osservanza idealistica – reale e razionale. I risultati di questo schema preconcetto applicato a quel
grandioso, per molti versi radicalménte innovatore, movimento filosofico del Cinquecento italiano si
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possono enunciare con le parole stesse del Gentile: «Il problema filosofico concerne, da una parte, la
posizione dell'uomo di fronte a Dio inteso come principio trascendente della realtà; e riceve nel
Rinascimento una soluzione naturalistica, poiché si assegna alla vita umana un fine immanente. Ma,
dall'altra, riguarda la posizione dell'uomo di fronte alla natura, con la quale egli era dalla filosofia antica
mescolato e confuso; e riceve per questo rispetto una soluzione opposta alla prima; una soluzione, che
rivendica l'autonomia dell'uomo di fronte alla natura inferiore, ricollegandolo alla divinità trascendente.
Onde per un verso si nega, ma per l'altro si è condotti a riaffermare l'immortalità». Viene così oscurato uno
dei fondamentali punti d'arrivo di tutta la speculazione filosofica del naturalismo rinascimentale che, sia
pure attraverso un lungo, travagliato e contraddittorio cammino, aveva tuttavia portato a compimento quel
processo di progressiva contrazione ed abolizione di ogni teoria volta alla rappresentazione trascendente,
dualistica e metafisica della realtà.

Più in particolare l'interpretazione gentiliana si mostra incapace di intendere correttamente il nucleo


centrale del naturalismo di Telesio affermando che proprio questa «spiegazione naturale non è senza
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residuo» (e si tratta di un «residuo» del peso e dell'ingombro della metafisica) e di conseguenza non sa
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dar conto della realtà «se non meccanicamente» , per poi concludere, come è ovvio, che «il puro
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meccanismo non è intellegibile» . Ora, se è vero che una sorta di impostazione meccanicistica è
effettivamente presente nell'indagine telesiana soprattutto, come vedremo, nella descrizione dello scontro
delle due principali forze che agiscono nella natura – il caldo e il freddo –, tuttavia è certamente fuorviante
far apparire l'intero sistema della filosofia naturale come non autonomo, dipendente da una superiore
concezione metafisica. È vero l'opposto: la natura viene considerata come un mondo a sé, a se stesso
sufficiente, autonomo, retto da propri principi, spiegato in base a cause interne che sono sempre di ordine
naturale e che escludono ogni forza trascendente, ogni causa soprasensibile. È vero che si parla, in un
contesto dove si dispiega larga e nel contempo penetrante e minuta la polemica contro Aristotele, del
termine supremo della dualità metafisica: Dio; ma, respinta decisamente la posizione peripatetica del
motore immobile, il concetto della divinità sembra assumere la sola funzione strumentale di un principio
posto a garantire l'ordine e l'autonomia dell'universo attraverso l'autoconservazione di tutti i viventi, di tutte
le energie naturali, che altrimenti tenderebbero alla distruzione reciproca, alla rottura definitiva ed
irreparabile dell'armonia cosmica.

E sarà proprio questa nuova concezione della natura vista nella sua mera oggettività ed indipendenza che,
eliminati gli aspetti magici ed animistici che saranno ancora presenti in Giordano Bruno e Tommaso
Campanella, costituirà il fondamento teorico di tutta la ricerca scientifica moderna da Leonardo a
Copernico, da Keplero fino al Galilei.

L'uomo, per conoscere ed interpretare i fenomeni naturali, deve quindi lasciarsi giuidare dalla natura
medesima affidandosi ai sensi che non possono condurre in errore poiché ciò che essi testimoniano non è
cosa diversa da ciò che la natura rivela. Non si tratta di una anticipazione delle dottrine sensiste del
Berkeley, anche se corpose analogie esteriori sono agevolmente rintracciabili; diverso è però il
presupposto teorico: il sensismo filosofico si preoccupa di pervenire alla conoscenza delle cose partendo
dalle sensazioni passate al vaglio dell'analisi psicologica; è appunto la psicologia l'istanza suprema che
conduce alla comprensione e alla spiegazione dei fenomeni fisici. La teoria gnoseologica telesiana si
muove in un contesto affatto diverso: il processo conoscitivo si definisce essenzialmente come passaggio
da cosa a cosa: ciò che si afferma è la inscindibile unità del cosmo, l'indifferenziata uguaglianza tra ente e
senso, tra natura e umana capacità di sentire, di conoscere. Siamo, come è facile intendere, agli albori
delle teorie materialiste della conoscenza scientifica della realtà: errori, ingenuità, contraddizioni sono
innegabili ed evidenti ma non può essere sottaciuto il grande valore filosofico e scientifico che le
investigazioni di Telesio costituiscono per lo sviluppo successivo del pensiero e della civiltà occidentali. È
bene quindi vedere da vicino come vengono posti i capisaldi di questa nuova teoria gnoseologica.

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«Spiritus modo passiones operationesque aperiendae essent, modus scilicet quo rerum, quae universae
externa nimirum specie internisque viribus in spiritum agunt, speciem naturamque et motus percipit, quod
sentire dicitur: tum et quo earum quae vel externa modo specie vel internis modo viribus spiritui innotuere,
quod ignotum est percipit, quod intelligere dicitur; postremo et modus quo ab iis, quae sentit et quae
intelligit, cupiditatibus odiisve et aliis hujusmodi afficitur passionibus, et juxta eas ad operationes
commovetur quae et ipsae bonae pravaeque et virtutum vitiorumve, et prout has vel illas operatur, bonus
et ipse pravusve et virtutibus donatus vitiosusve dicitur, et mensura insuper qua, recte ut operetur
probusque ut sit vel fiat, afficiendus est commovendusque spiritus: summe omnia inquiri dignissima, et
quibus si liceat explicatis, labori huic finis imponi possit».

«Ci resterebbe unicamente il compito di spiegare le passioni e le operazioni dello spirito; vale a dire il
modo con il quale il senso percepisce la forma, la natura e il moto delle cose che tutte insieme agiscono
sullo spirito attraverso, come è ovvio, l'aspetto esteriore, ma anche attraverso forze interne: tutto ciò noi
chiamiamo sentire; in seguito il modo con il quale il senso percepisce ciò che ci è ignoto di quelle cose
che, o attraverso l'aspetto esteriore o attraverso forze interne, sono già note allo spirito: tutto ciò noi
chiamiamo intendere; infine il modo con il quale esso può venire contagiato dalla cupidità e dall'odio o da
altre passioni di tal natura che sente e che intende. Lo spirito, secondo le sollecitazioni ricevute può
essere mosso ad operazioni buone o cattive e quindi definito, in rapporto alle operazioni svolte, virtuoso o
malvagio; pertanto è bene, indagare in che misura occorre condizionarlo e disporlo affinché operi
rettamente e sia o diventi virtuoso. Son tutti problemi degni della massima attenzione e tali che, se
riusciremo, come è possibile, a risolverli, potremmo considerare conclusa questa nostra fatica».

Ciò che guida l'analisi telesiana è la convinzione profondissima che vi sia un'unica fonte dalla quale
derivano tutte le nostre diverse sensazioni e di conseguenza tutte le molteplici possibilità di sentire e di
conoscere. Dal punto di vista ontologico all'uomo non è riservato alcun posto di privilegio nel cosmo: lo
sforzo massimo della filosofia naturale sta nel porre sullo stesso piano tutti gli esseri viventi. L'ardente,
implacabile polemica contro la concezione aristotelica, più tardi sostenuta dal medico-filosofo Galeno, che
affermava la tripartizione delle anime – razionale, irascibile e appetitiva –, sta ad indicare, al di là dello
specifico valore filosofico della controversia, come ormai stia cambiando radicalmente il clima culturale,
l'impostazione generale dei problemi scientifici.

L'unità del mondo non può più essere assicurata dalle vecchie concezioni trascendenti, occorre che una
nuova filosofia sappia trarre dalla natura medesima i codici e le norme per la sua corretta interpretazione,
che sappia porre l'uomo in una posizione di effettiva possibilità di conoscenza reale. Il brano che abbiamo
riportato è, relativamente a queste tematiche, davvero illuminante; tutta l'attività dello spirito si definisce
fondamentalmente come attività del senso e ciò può avvenire perché è stata superata una visione
dualistica della realtà, perché l'uomo cessa di essere considerato come l'esclusivo depositario di un
superiore disegno trascendente. La teoria della conoscenza umana non può più essere conforme a un
progetto teleologico, essa si configura piuttosto come possibilità naturale di scambio di esperienze, come
passaggio analogico da ente ad ente. I presupposti filosofici sono la inscindibile unità della natura,
l'identificazione totale tra spirito e materia e infine la collocazione dell'uomo nell'ambito degli esseri naturali
senza che vi sia alcun principio spirituale o divino che lo strutturi o lo fondi. Conoscere l'attività del senso
significa conoscere l'attività dello spirito, compresi i suoi vizi e le sue virtù.

Gnoseologia ed etica si fondono in un'unica formulazione teorica: è questo senza dubbio un esempio del
filosofare ingenuo di Telesio che non può tuttavia indurre a misconoscere il grande valore innovativo che il
dispiegarsi delle concezioni della immananenza hanno in sé e pongono per il successivo sviluppo del
pensiero filosofico e dell'indagine scientifica.

In questo contesto assume valore determinante la questione di «come lo spirito sente e di che cosa sia il
senso» affrontata nel secondo capitolo del settimo libro.

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«Rerum porro quae in spiritum agunt, et non quidem in aliud ipsum agunt ens sed ejus naturam
oppugnant et dispositionem immutant, et quae novos agunt ad motus, cum sit sensus; ibi omnino is cum
fiat, ubi externarum rerum actiones impulsionesque spiritum attingunt immutantque et commovent; utique
vel illarum actio impulsioque, vel spiritus passio commotioque, vel illarum harumque perceptio sensus sit
oportet. At actio impulsioque videri non potest, quae scilicet non spiritus est sed naturarum quae eum
impellunt commoventque. Minus etiam passio ipsa ipsaque immutatio, nec motus ipse: manifeste enim
aliud a sensu passio est immutatioque et motus etiam ipse, et non perpetuo simul sed ab illo seorsum et
immutatio interdum fit et motus. Nam quae dubio procul assidue in spiritu fit immutatio et a qua ad
corruptionem tandem agitur, et aliae multae, et bene eae magnae et a quibus statim exitio spiritus detur,
nullo interdum fiunt cum sensu: nec motus, quibus assidue in cerebri ventriculis tunicisque et in arteriis
vasisque omnibus, multis omnino in corporis partibus assidue movetur, moveri iis se sentit spiritus.
Superest itaque ut rerum actionum aèrisque impulsionum, et propriarum passionum propriarumque
immutationum, et propriorum motuum perceptio sensus sit; et horum magis. Propterea enim illas percipit,
quod ab illis pati se immutarique et commoveri percipit. Et sensus quidem omnis hujusmodi esse et dicto
modo fieri videtur omnis».

«Vi è dunque senso delle cose che agiscono sullo spirito e, sebbene non lo inducano a divenire un altro
ente, tuttavia ne contrastano la natura, ne mutano la disposizione e lo sospingono a nuovi moti; e poiché
ciò accade quando le azioni e gli impulsi delle cose esterne toccano, mutano e muovono lo spirito,
necessariamente ne consegue che il senso sia esso stesso o l'azione e l'impulso delle cose o la sensibilità
e i moti dello spirito o la percezione di questi e di quelli. Ma evidentemente il senso non può essere
l'azione o l'impulso che non sono dello spirito ma di quelle cose che, avendolo colpito, lo contrastano o,
avendolo eccitato, lo muovono. Meno ancora il senso può essere il moto, il cambiamento o la stessa
sensibilità dello spirito: manifestamente infatti tutte queste son cose diverse dal senso tanto che il moto e il
cambiamento non si verificano sempre contemporaneamente ma anche in tempi separati e in modi distinti.
Infatti quella mutazione che senza dubbio avviene di continuo nello spirito e che alla fine porta al suo
disfacimento, ed anche molte altre azioni che per la loro grande intensità ne possono determinare la
morte, talora si verificano senza alcun intervento del senso; né lo spirito sente di essere continuamente
agitato da quei moti che lo scuotono nei ventricoli e nelle membrane o nelle arterie e nei vasi del cervello o
in molte altre parti del corpo. Pertanto non rimane che affermare che il senso sia la percezione delle azioni
delle cose e delle vibrazioni dell'aria, la percezione della propria sensibilità e dei propri mutamenti, la
percezione soprattutto dei propri moti. Infatti il senso percepisce le cose perché avverte – percepisce,
appunto – di essere turbato e modificato e di ricevere marcati segni dalle cose medesime: non pare che vi
siano altri tipi di senso né altri modi che questo per definirlo».

È evidente in questi concetti la preoccupazione di Telesio di colpire fin dalle fondamenta la teoria
aristotelica dell'anima che, pur avendo una stretta relazione con il corpo, tuttavia se ne distingueva
nettamente assumendo le funzioni di un principio indipendente, sostanza e causa di azioni intellettuali; ciò
che preme al filosofo cosentino è di eliminare il primo tassello della costruzione di una possibile metafisica
e di inserire quindi tutto il processo della gnoseologia dentro la problematica scientifica e biologica in una
visione in cui tra la natura, le cose, gli enti da una parte e l'uomo e la sua capacità di intendere dall'altra
non vi siano differenze sostanziali. Il problema della conoscenza si lega così saldamente al problema della
vita universale degli esseri e delle cose, cessa di essere considerato nei termini separati, astratti e
infecondi di soggettività ed oggettività per aprirsi alle ben più vaste problematiche della vita cosmica, del
rapporto fra gli enti e della loro capacità di accogliere in sé e di riprodurre esperienze, sensazioni,
conoscenze: in ultima analisi di rigenerare la vita stessa. E il tema della trasformazione perenne
dell'universo che acquista una valenza determinante anche nella formazione dei processi conoscitivi; la
vita è intesa come uno degli effetti della contrastante attività del caldo e del freddo concepiti come forze
universali che incessantemente agitano e mutano la materia: tutto ciò che può essere percepito dai
sensi viene ricondotto a questo originario ed eterno scontro di forze primordiali che, nella loro purezza e
semplicità, sembrano assumere le caratteristiche degli archetipi del naturalismo presocratico e non
ammettono quindi la possibilità di individuare, nel mondo della natura, differenze reali di qualità, di
funzione, di sostanza. Lo spirito è esso stesso materia, sia pure più leggera e sottile, e sua precipua
proprietà, a differenza della visione aristotelica, è l'unicità che tuttavia non esclude, anzi esige, la
molteplicità e varietà delle funzioni sensitive: l'unicità dell'anima determina l'unicità del senso. Il primo
grado di conoscenza si ha attraverso la percezione tattile e dipende quindi strettamente dalla distanza
spaziale dell'oggetto; si tratta del primo, rudimentale contatto tra gli enti: tutti gli sviluppi successivi della
conoscenza avranno come fondamento pratico e teorico questo primo mutamento, questo primo «segno»
che le cose lasciano sullo spirito; la continuità e l'intreccio tra fisiologia e psicologia, tra le discipline'
biologiche e quelle più propriamente filosofiche non vengono mai messi in discussione, né lo potrebbero
poiché non esistono sostanze realmente diverse ma soltanto infinite modificazioni, dovute, come abbiamo
visto, all'azione contrapposta del caldo e del freddo, dell'unica realtà naturale: la materia. Il senso quindi si
definisce come autocoscienza della natura, come autocoscienza di quella particolarissima modificazione
della materia che va sotto il nome di spirito e che, proprio perché affonda le sue radici nel mondo delle
cose, è in continuo movimento, strutturalmente aperto a molteplici mutazioni e sviluppi.

È nel libro VIII che Telesio affronta più da vicino il problema di queste progressive modificazioni del senso
che determinano la nascita dell'intelligenza umana (Cap. III) e pongono i fondamenti teorici di tutte le
scienze esatte a cominciare dalla geometria (Cap. IV).
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«Itaque intellectionis cujusvis principium similitudo est sensu percepta; intellectio vero ipsa, quae vero
intellectio non est sed, ut inferius dicetur, existimatio vel potius commemoratio quaedam, sensus quidam,
imperfectus nimirum et per similitudinem, non scilicet a re quae intelligitur quae nimirum penitus spiritum
latet longeque interdum abest gentium, sed a sensu factus quem similibus a rebus fieri percepit spiritus, et
cujus cognitio memoriaque bene dum ei inhaeret, ejus nimirum recolitio quaedam. Itaque hujusmodi
intellectio longe est sensu imperfectior. Id vero et quae dicta sunt omnia (si quidem amplius declaranda
videri possunt, ipso, ut videtur, percepta sensu), inde manifestissima fiunt omnia, quod non alia ulla, at ea
modo quae sensu percipi apta sunt et percipi non possunt, seu remota occultave, aut languidissimis
donata viribus et quae, quod nihil nos immutant, nullum sui ipsarum sensum nobis faciunt, intelligere
quaerimus; nec aliti omnino ratione quam eorum, ut dictum est, quae percepimus, ope ac similitudine; et
quod quae sensu percipimus aut percipi possunt, nihil ea ulterius ratione intelligere curamus dignamurve,
ut quae scilicet multo quam ratione ulla intelligi queant, proximius percepta sint praestantiusque».

«Pertanto il principio di ogni intellezione risiede nella similitudine percepita dal senso; e la stessa
intellezione non è in verità una vera e propria intellezione ma, come diremo più avanti, un credere o
piuttosto un ricordare; è, in definitiva, una specie di senso, certamente imperfetto e per similitudine, vale a
dire non ricavato in modo diretto dalla comprensione delle cose – esse infatti rimangono in parte nascoste
allo spirito e talvolta risultano quasi del tutto inconoscibili – ma prodotto dalla conoscenza che lo spirito ha
di cose simili e la cui ferma e tenace memoria si trasforma, per così dire, in una sua ricomposizione. Per
queste ragioni l'intellezione è di gran lunga più imperfetta del senso. Tutte le cose fin qui dette (se pure
possono apparir bisognevoli di ulteriori spiegazioni, soprattutto quelle percepite dal senso) in definitiva
risulteranno tutte estremamente chiare per il semplice fatto che noi non ci sforziamo di intendere altro se
non quelle cose atte ad essere percepite con il senso medesimo e, per quelle che non lo possono essere
in modo diretto causa diverse ragioni quali lo star lontane o nascoste o l'essere scarsamente dotate di
forze per produrre modificazioni su di noi, per queste, come abbiam detto, cerchiamo non altro aiuto se
non la similitudine delle cose che abbiamo percepito. E noi non ci curiamo né ci degniamo di andare più in
profondità nella comprensione razionale di quelle cose che percepiamo o possono essere percepite con il
senso, infatti, data la loro vicinanza, la loro comprensione risulta già sufficientemente efficace, senza che
vi siano ulteriori indagini della ragione».

Una logica ferrea governa questi concetti: tutte le conoscenze si formano attraverso passaggi progressivi
che procedono tutti per analogia e quindi ogni ulteriore acquisizione di conoscenza trova le sua
giustificazione e la sua verificabilità nella conoscenza precedente tanto che l'intelligenza umana non è una
qualità in sé ma un dilatarsi del senso, non una facoltà superiore e autonoma, ma una espansione
progressiva e faticosa delle possibilità insite nella sensazione. Tre sono i nuclei teorici che ora risultano
più chiari e circoscritti: l'intelligenza dell'uomo si definisce come una sorta di memoria del senso; le cose, a
causa della loro continua trasformazione, non sono tutte e interamente conocibili (la conoscenza stessa è
un atto di trasformazione e mutazione) e infine la ragione astratta mostra la sua totale inefficacia nei
processi conoscitivi poiché il senso resta l'unico fondamento reale di ogni conoscenza possibile. Come si
può allora teorizzare la fondazione delle scienze e in particolare della geometria dalla quale notoriamente
si traggono norme e metodi per conocenze più generali? Saranno i procedimenti analogici rigorosamente
svolti e districati a condurci nel vivo dell'elaborazione dei principi generali attraverso i quali le scienze
troveranno la loro piena giustificazione teorica e verificabilità empirica.

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«Et quoniam omnium consensu exquisitissima est geometria, ab ipsa itaque doctrinae ordinem et quasi
modum sumpsisse videtur Aristoteles, num ipsa hoc pacto opus suum conficiat intueamur. Quoniam igitur
magnitudines et quae magnitudinibus insunt acciduntque, puncta, lineas, superficies, angulos figurasque,
res ominno tractat valde a communi hominuin sensu remotas et quarum n;, nomina quidem omnibus
innotuere, et multae singulorum species sunt; his primum nomina indit, et quid singulae sint, solius sensus
simplici opera usa ponit. Neque enim vel circulum vel triangulum ponens vel horum species, aliud agit nisi
quod, quae circulo triangulisque et illorum singulis inesse sentit, ea illis illorumque singulis attribuit.
Quoniam videlicet circuli omnes altero circini latere super centrum fixo, circumducto altero conficiuntur, et
nequaquam proximioribus illis vel remotioribus sibi ipsis factis quid umquam, spatium itaque quod a centro
ad circumferentiam est, non aequale modo, quin unum omnino idemque videtur omne; propterea, quae
illud conficiunt, lineae sibi ipsis aequales ponuntur omnes. Tum quoniam quaedam conficienda sunt quae
confici posse sensus ipse demostrat, et ut confecta supponi nihil impedit, obstat nihil; at fieri posse et
confecta esse pervicaci homini probari non potest (veluti a puncto ab punctum lineam ducere, et centro
quolibet, etiam spatio itidem quantovis, circulum describere), haec fieri posse et ut facta esse postulat».

«Poiché la geometria, per unanime consenso, è la più eccelsa tra tutte le scienze, tanto che da essa
Aristotele trasse l'ordine e il metodo del proprio sapere, vediamo se davvero questa disciplina,
mantenendo le promesse, adempia al suo compito. Essa tratta delle grandezze e di ciò che ad esse si
riferisce come i punti, le linee, le superfici, gli angoli, le figure, tutte cose assai lontane dal senso comune
degli uomini e di cui persino i nomi sono talvolta sconosciuti; molte sono le specie trattate singolarmente e
di tutte la geometria ci dice che cosa esse siano, cioè ci dà le loro definizioni servendosi unicamente della
semplice opera del senso. Infatti nel porre il cerchio o il triangolo o le loro specie altro non fa se non
attribuire ad essi e a ciascun loro elemento ciò che di essi singolarmente sente. Tutti i cerchi, ad esempio,
si costruiscono fissando al centro un lato del compasso e facendo girare l'altro tutt'intorno, senza mai
avvicinare né allontanare un lato dall'altro: in questo modo lo spazio compreso tra il centro e la
circonferenza risulta non solo uguale ma anche uno e identico e le linee che lo circoscrivono si pongono
tutte come uguali a se stesse. Così il senso stesso dimostra che vi sono alcune cose che debbono e
possono essere costruite e nulla impedisce o vieta di poterle persino supporre come costruite; se il senso
non può dimostrare a un uomo particolarmente ostinato la possibilità o la realtà di questioni geometriche
come ad esempio il fatto che da un punto ad un altro si può condurre una sola linea o che è possibile
tracciare un cerchio da un qualsiasi centro in un qualsiasi spazio, le può tuttavia a buon ragione porre
come postulati».

Questa pagina telesiana e quelle che seguono, al di là della loro struttura linguistica apparentemente
prolissa e ripetitiva, sono in realtà di grande interesse speculativo, poiché ci mostrano, forse in modo fin
troppo scrupoloso, come ogni conquista della scienza sia, come abbiamo già detto, estensione e sviluppo
delle conoscenze precedenti, tutte fondate sulla sensazione: gli stessi postulati della geometria che
sembrerebbero opera della ragione astratta trovano in realtà la loro legittimazione teorica nel senso o,
meglio, nel fatto che non contraddicono le sensazioni. Tutto il linguaggio della geometria si pone quindi
allo spirito come il linguaggio di verità poiché si fonda o su esperienze sensitive dirette, o su analogie
rigorose o, infine, sull'accertata impossibilità del senso di affermare principi opposti o contrari. La
superiorità delle scienze più strettamente naturali come la biologia o la fisica su quelle matematiche e
geometriche trova la sua ragione pratica e teorica proprio nel fatto che le prime hanno un rapporto più
immediato e diretto sia con il mondo delle cose e degli animali sia con quello delle esperienze del senso.
La vecchia distinzione metafisica tra il «quod esh> e il «quid est» cioè tra la reale struttura e l'intima
essenza delle cose non ha più motivo di essere; ed era attraverso questa distinzione che i peripatetici
mettevano in moto il processo di costruzione della trascendenza. Tutta la filosofia scolastica era stata
filosofia degli universali, vale a dire pensiero sostanzialmente dualistico che distingueva gli enti nelle loro
manifestazioni naturali (quod est), e nelle loro essenze con i caratteri metafisici dell'assoluta necessità e
universalità (quid est): era compito dell'intelletto lo studio di queste strutture generali, degli universali. La
filosofia naturale telesiana, con una coerenza inoppugnabile, mostra la pretestuosità di quella distinzione
riconducendo tutta la teoria della conoscenza nell'alveo della naturalità, dell'esperienza, della scienza
empiricamente e modernamente intesa.

Abbiamo già visto come in Telesio non vi sia una reale e netta distinzione tra problema gnoseologico e
problema etico: tutto viene ricondotto all'attività sensitiva dello spirito, ai movimenti e mutazioni reciproche
del senso e delle cose; tuttavia l'incessante attività può produrre affaticamento il quale a sua volta può
determinare errori, inesattezze, dimenticanze.

Si pone ora la questione, più metodologica che filosofica, di come far operare bene lo spirito, di stabilire
preventivamente i limiti delle sue ricerche e delle sue indagini. È questo il tema affrontato nel IX libro da un
angolo visuale e con un linguaggio che sembra più appartenere all'etica che alla gnoseologia ma che ha
indubbiamente una valenza generale nel sistema della filosofia della natura.

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«Et manifeste qui a malis, quae immoderate vel vel segnius operantes excepere, affectus
operationesque intendendas remittendasve esse admoniti, eo usque eas intendunt remittantve quo usque
proposituni consequantur bonum nulloque ab iis malo afficiantur; qua oportet tandem mensura natura
afficiuntur commoventurque et operantur. Quoniam vero qua spiritus afficiendi et qua juxta affectus
operandum iis est, mensura haberi non potest, nisi quae ii appetunt bona, suine ipsorum gratia singula an
ut ipsorum opera aliud consequantur bonum, appetenda sint omnia, itaque reliqua quae bona apparent
appetunturque, eatenus bona expetendaque sint quatenus quod vere bonum vereque est expetendum
procurant, notum fiat; utique illud in primis et bonum omnino, cujus consequendi gratia tot spiritui appetitus
inditi sunt, inquirendum. Quod nimirum manifestum si fiat, mensura etiam, qua affectus et quae cos
insequuntur operationes extendendae sint coèrcendaeve, conspicua etiam sit: tantos nimirum affectus
tantasque operationes oporteat esse quantis propositum comparetur bonum».

«Coloro i quali sanno trarre insegnamento dai mali subiti per la loro intemperanza o lentezza rispetto ad
operazioni che erano invece da intensificare o attenuare e quindi, correggendo le loro azioni, si
comportano nel modo più conforme al conseguimento del bene proposto e sfuggono ogni inconveniente,
costoro sentono, si muovono e operano rispettosi della giusta e naturale misura. Ma, poiché non è
possibile stabilire la misura di quanto e di come gli spiriti devono sentire e di conseguenza operare (se non
in termini generali per cui tutti i beni sono desiderati o per se stessi o perché permettono di conseguire un
altro bene), risulta tuttavia evidente che quelle cose che si presentano come dei beni da desiderare sono
eflettivamente tali nella misura in cui procurano realmente ciò che promettono; pertanto occorre in primo
luogo ricercare quel bene per conseguire il quale maggiori e più numerosi sono i desideri che agitano lo
spirito. Se davvero questo bene sarà conseguito diventerà manifesta anche la misura del l'intensi1icazione
o riduzione delle azioni e dei sentimenti relativi: azioni e sentimenti che dovranno essere di tanto numero e
di tanta intensità quanta se ne richiede per il conseguimento (lei bene proposto».

Questa concezione della «misura» si innesta perfettamente nel complesso della filosofia del naturalismo:
essa costituisce la chiave per capire non solo l'etica rinascimentale (dove risuonano non pochi
insegnamenti stoici) ma anche e soprattutto lo spirito scientifico del filosofare cinquecentesco. La
«misura» telesiarra non è un concetto astratto, universale, dato una volta e valido per sempre, essa, sia
che venga usata per il perfezionamerito morale dello spirito sia che divenga strumento di conoscenza
scientifica, si pone sempre come risultato non preventivamente conosciuto e neppure utilizzabile, nelle
ulteriori ricerche, senza che ve ne sia una continua e costante verifica. La «misura» diviene così il simbolo
della relatività del sapere umano e della perennità della ricerca scientifica.

La modernità della filosofia naturale di Bernardino Telesio trova i suoi fondamenti proprio in questa vittoria
ottenuta sul pensiero dogmatico; l'attenzione al mondo delle cose, concreto e materiale e in perenne
divenire, ha perplesso la nascita di questa nuova e moderna visione della realtà.

Note

1
Tutte le citazioni del «De rerum natura» sono state prese dall'edizione in tre volumi a cura di Vincenzo
Spampanato, Bernardini Telesii, De rerum natura, Voi. 1, Modena 1910; Vol. II, Genova 1913; Vol. III,
Roma 1923; Editore A.F. Formiggini. Il passo citato sta nel Vol. I, p. 5.

2
Le traduzioni di tutti i passi citati sono state da me condotte senza troppo badare ad una letterale
aderenza al testo latino, allontanando anche ogni tentazione letteraria, ma con l'intento esclusivo di
esplicitare in lingua italiana i concetti filosofici.

3
L'espressione è di Giordano Bruno il quale nel terzo dialogo del «De la causa, principio e uno»
confutando il fittizio e pedante antiaristotelismo del francese Pierre De La Ramée (1515-1572) e
dell'italiano Francesco Patrizi (1529-1597) osserva sottilmente che «per far onorata guerra» contro l'antico
filosofo di Stagira occorre comportarsi come Telesio: studiare lungamente Aristotele e comprenderlo.

4
Op. cit., vol. I, p. 6.

5
GIOVANNI GENTILE, Il pensiero italiano del Rinascimento, Sansoni, Firenze 1940, p. 224.

6
GIOVANNI GENTILE, Op. cit., p. 49.

7
GIOVANNI GENTILE, Op. cit., p. 229.

8
GIOVANNI GENTILE, Op. Cit., p. 230.

9 GIOVANNI GENTILE, Op. Cit., p. 230.

10
Op. cit., Libro VII, Voi. III, pp. 1 e 2.

11 Op, cit., Libro VII, Voi. III, pp. 3-4.

12 Op. ci!., Libro VIII, Voi. III, p. 94.

13
Op. e-il., Libro VIII, Vol. III, pp. 95 e 96.

14
Op. cit., Libro IX, Voi. III, pp. 191 e 192.

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