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Capitolo 3

Due sono i principi generali che governano l’apprendimento del parlato: il primo è che esso si
sviluppa per stadi comuni a tutti gli apprendenti; il secondo è che manifesta al tempo stesso
notevole variabilità. Nei percorsi comuni verso la L2, dopo una prima fase pragmatica,
distinguiamo tra apprendimento del lessico e apprendimento della grammatica.

In contesto comunicativo naturale, la prima produzione del parlato spontaneo, dunque, l’interlingua
iniziale degli apprendenti, è costituita di solito da formule fisse e da alcune parole, organizzate
secondo criteri semantici e pragmatici piuttosto che sintattici.

Le FORMULE sono pezzi di lingua memorizzati tali e quali senza che vengano scomposti nelle parti
che li compongono. Senza l’analisi, il carico dell’apprendimento è ridotto a memorizzazione.
Questo permette di utilizzare strutture complesse ancor prima di capirne il funzionamento,
massimalizzando così il rendimento comunicativo. Infatti, comunicativamente, le formule sono
molto importanti, dal momento che espletano alcune funzioni vitali, come quella di salutare, di
attirare l’attenzione, di farsi ascoltare, di chiedere. Al negativo, non contenendo errori e
manifestando morfemi flessivi e sequenze sintattiche anche complesse, possono dare la falsa
impressione di una certa fluenza e provocare in risposta un torrente di input indecifrabile.

La scelta iniziale tra queste formule dipende dal contesto dell’apprendimento e dagli interessi
urgenti della comunicazione. All’inizio possono essere molto utili formule come ad esempio:

“S’il vous plait.” per oliare gli ingranaggi sociali con qualsiasi interlocutore francese

“How much is it?” per fare la spesa in qualsiasi paese si parli la lingua inglese

“Auf wiedersehen” per congedarsi da un tedesco

“Ciao, come stai?” per iniziare una conversazione con un interlocutore italiano

Nella loro formulazione più rigida, le formule non sono produttive, poiché nessuna delle singole
parole che le compongono viene ancora usata in altre combinazioni. Può esserci però
un’evoluzione, e un’analisi graduale può fornire informazioni utili alla costruzione dell’interlingua.
Ellis ne riporta un esempio preso da un suo lavoro precedente. Da una prima formula come “I don’t
know”, si passa alla combinazione di due formule e quindi “That one I don’t know” e “I don’t know
what’s this”. Poi si passa all’uso parzialmente produttivo con lo scambio di un lessema e quindi a
frasi come “I don’t like” “I don’t understand”, infine allo sganciamento del verbo dalla particella
negativa che può essere eliminata e dal soggetto di prima persona, ottenendo le frasi “I know this”
e “You don’t know where it is”.

Come abbiamo già detto l’apprendimento o per meglio dirle la memorizzazione di questi schemi
fissi e la loro successiva adozione è un fenomeno comune a tutti gli apprendenti; ovviamente
alcuni apprendenti ne fanno ricorso in maniera più frequente di altri, così come alcune lingue si
prestano maggiormente al loro uso rispetto ad altre.
Oltre che dalle formule, la produzione iniziale è caratterizzata da brevi pezzi analizzati. L’analisi
però non ha ancora raggiunto il pieno livello grammaticale. Questo vuol dire sostanzialmente
quattro cose, tutte interconnesse e cioè che le parole

1. Non sono sempre facilmente assegnabili a una classe morfologica;


2. Presentano minima o nulla flessione morfologica
3. Sono prevalentemente di contenuto, piuttosto che di funzione
4. Seguono un ordine pragmatico-discorsivo più che sintattico.

Date queste caratteristiche, piuttosto che parole, le chiamiamo lessemi.

Per quanto riguarda l’incerta assegnabilità dei lessemi ad una classe morfologica vediamo alcuni
esempi tratti dalla lingua inglese e da quella italiana. Nel caso di enunciati come clean floor o me
no blue, sarebbe complicatissimo assegnare tanto il lessema clean quanto il lessema blue ad una
specifica classe lessicale in quanto nel primo caso potrebbe trattarsi tanto di un verbo quanto di
un sostantivo mentre nel secondo potrebbe trattarsi sia di un aggettivo che di un sostantivo. O
ancora nel caso di enunciati come non hai lavora non possiamo sapere con certezza se il lessema
lavora è un sostantivo dal momento che non sappiamo se l’apprendente con il suo enunciato vuole
intendere “io non ho lavoro” oppure “io non lavoro”. Come parlanti nativi, allo stesso modo degli
autori dei lavori da cui provengono questi frammenti, possiamo fornire solo ed esclusivamente
delle interpretazioni riguardo a ciò.

Per quanto riguarda la riduzione della morfologia nel primo caso citato sia clean che floor non
hanno marca morfologica, mentre a causa della ridottissima morfologia inglese blue è
indeclinabile. Nell’interlingua italiana il caso della flessione ridotta è un po' diverso. All’apparenza
una marca c’è sempre, nel senso che l’apprendente impara subito che le parole italiane finiscono in
vocale e che queste, insieme a volte con un pezzettino più lungo, di una o due sillabe, variano
parecchio anche per uno stesso lessema. Tuttavia, nella frase “non hai lavora” non possiamo
stabilire che tipo di desinenza sia la -a di lavora in quanto come abbiamo precedentemente detto
non siamo neanche in grado di stabilire a quale classe morfologica la parola appartiene. Ancora
nella frase “bicicletta su montagne” la -a di bicicletta e la -e di montagne non ci assicurano affatto
di marcare il femminile singolare e plurale dei rispettivi sostantivi. Ne possiamo essere sicuri solo
se nel sistema dell’interlingua di chi le usa stanno in relazione con l’intero paradigma del nome.
Cioè la -a di bicicletta è effettivamente il morfema nominale singolare femminile solo se troviamo
altrove nella produzione linguistica dell’apprendente la controparte -e del plurale. Se così non è,
anche quando le desinenze sembrano coincidere con quelle della lingua di arrivo, le due parole
sono usate nella loro forma basica.

Tra le diverse forme flesse di un lessema, la forma basica è quella scelta dall’apprendente come
neutra o meglio come rappresentate di tutte le altre. Nella sua scelta operano vari criteri tra cui:

1. La frequenza con cui la forma ricorre nell’input


2. La facilità articolatoria
3. La lunghezza
4. La specificità

Per esempio, nel caso dell’italiano L2, per la forma basica di un lessema come chilometro/i, la
desinenza -i è migliore candidata di -o, poiché è quella che nell’input ricorre più spesso. La forma
basica dell’articolo italiano invece sarà difficilmente gli, non solo perché ricorre meno
frequentemente nell’input, ma anche per la sua minore facilità articolatoria rispetto ad altre forme
come lo, il quale però ricorre raramente, e la che infatti è la forma privilegiata. Per quanto riguarda i
verbi, l’apprendente difficilmente selezionerà forme come “mangiavate” e questo non solo perché
tale forma è poco frequente, ma anche perché è abbastanza lunga. Per i verbi della prima
coniugazione la forma basica più probabile, piuttosto che l’infinito, è quella in -a e questo per tre
motivi principali. Prima di tutto perché ricorre frequentemente non solo da sola nell’effettiva forma
mangia della terza persona singolare dell’indicativo e della seconda persona singolare
dell’imperativo, ma anche in altre forme come mangiano, mangiato, mangiavo ecc. La seconda
motivazione è che è facile da pronunciare e la terza è il fatto che è molto corta.

Non è invece specificatamente verbale, poiché troviamo la -a finale anche nei nomi, negli aggettivi,
negli articoli e nei pronomi. In realtà è molto raro che una forma soddisfi tutti i criteri. In inglese, ad
esempio, un’effettiva forma basica del verbo è quella in -ing. Anche questa desinenza, come la -a
precedentemente citata, soddisfa tre dei quattro criteri in quanto è quella che ricorre più
frequentemente nell’input, è specifica del verbo, è facile da pronunciare, ma non è corta.

La prevalenza delle parole di contenuto rispetto a quelle di funzione nella produzione inziale non
dovrebbe sorprendere. L’inevitabile semplificazione formale elimina gli elementi
comunicativamente meno importanti tra cui gli articoli, le copule, gli ausiliari i pronomi atoni e le
preposizioni. La semplificazione delle interlingue basilari, tuttavia, non è solo strutturale, ma anche
semantica e può dunque interessare anche l’omissione di parole di contenuto.
Il lessico
Nell’apprendimento della L2, l’importanza del lessico è enorme. Infatti, i primi tentativi di produrre il
parlato sono costituiti generalmente da formule fisse e da parole. Inoltre, è un dato di fatto che chi
va in un paese di cui non conosce la lingua, se vuole tentare di sopravvivere linguisticamente, si
procura un vocabolarietto di quella lingua e non una grammatica. Anche a livelli più avanzati, gli
errori lessicali, rispetto a quelli grammaticali, sono di gran lunga i più comuni, quelli che i parlanti
nativi notano di più e quelli che recano più danno ai fini comunicativi. Per esempio, nella frase
“Pierino scrive con la sinistra mano” vi è un evidente errore sintattico, ma non c’è inciampo alla
comunicazione. Lo stesso vale per la frase “il zio di mia moglia è francese” in cui sono presenti ben
due errori morfologici. Il discorso cambia in una frase come “ci troviamo in libreria alle sei” in cui
l’apprendente anglofono traduce erroneamente l’inglese library con l’italiano libreria e non con il
corretto corrispondente biblioteca. Sono proprio errori di questo tipo che causano gravi danni alla
comunicazione. Inoltre, mentre una serie di parole non grammaticalizzata può essere comunque
comunicativamente efficace, una struttura sintattica senza parole è praticamente inutile. Quanto
abbiamo appena affermato è in completa contraddizione con quanto avviene nell’ambito
dell’apprendimento guidato. Durante una lezione scolastica è infatti noto come gli insegnanti diano
all’inizio tantissima importanza alla forma delle parole e alla grammatica, e mettano da parte
quello che riguarda l’ambito lessicale.

L’importanza del lessico viene oggi giorno riconosciuta sempre di più dalla linguistica generale e
dalla psicolinguistica, tanto che gradualmente esso viene spostato verso il centro della
discussione sia nei modelli di produzione del parlato, sia nei modelli di altri approcci, come per
esempio quello generativista. Insomma, per vari motivi si può essere d’accordo con Lewis che
vede la lingua come lessico grammaticalizzato e non come grammatica lessicalizzata. Nonostante
ciò, finora gli studi sul lessico sono relativamente pochi e questo per un motivo fondamentale, che
ne spiega essenzialmente l’emarginazione tanto in linguista generale quanto nel campo
dell’apprendimento della L2: il lessico è un sistema molto più aperto rispetto a quello della
grammatica o della fonologia e le sue numerosissime unità di base, le parole, si prestano più
difficilmente alla regolarizzazione. Ne consegue che gli studi sull’apprendimento del lessico della
L2 sono non solo più scarsi, ma anche più descrittivi che teorici e più disparati, tanto da non offrire
ancora una massa critica di risultati coerenti secondo linee teoriche chiaramente definite. Tuttavia,
è chiaro che anche il lessico è soggetto alle sue regolarità intrinseche e alle sue regolarità di
apprendimento. Quest’ultimo può essere analizzato sia dal punto di vista quantitativo che dal
punto di vita qualitativo.
Per cercare di capire di quante parole è composta una lingua, analizzando quindi il lessico dal
punto di vista quantitativo, basta semplicemente andare a guardare al numero di parole elencate in
un vocabolario. Nel conteggio, ovviamente, sorgono subito alcuni problemi dati principalmente dal
fatto che la maggior parte delle parole sono polisemiche, hanno cioè più di un significato. C’è poi il
problema delle forme flesse, dei nomi propri, delle abbreviazioni, dei composti e così via. Ciò
nonostante, se nel conteggio si stabiliscono dei criteri, questi problemi non sono insormontabili.
Diversi studiosi che hanno superato brillantemente questa tipologia di problemi sono riusciti a, ad
esempio, a stimare che Webster’s Third International Dictionary, il più ampio dizionario non storico
della lingua inglese al tempo della sua pubblicazione nel 1963, contiene circa 450.000 parole.
Queste sono raggruppate in circa 54.000 famiglie di parole, ognuna delle quali costituite dalla
parola di base, ad esempio fiore, le sue forme flesse, come in relazione a fiore, fiori, e quelle
derivate, come fiorellino. Rimangono invece escluse le parole composte, le abbreviazioni, gli
arcaismi, i nomi propri, le forme ortografiche alternative e le varianti dialettali.

Cerchiamo invece ora di capire quante parole conosce un parlante nativo. La variazione tra
parlante e parlante è certamente ampia, ma una stima conservativa suggerisce che il vocabolario
di una persona adulta colta si aggiri intorno alle 20.000 famiglie di parole. Di queste, il bambino
che inizia la scuola ne conosce da 4.000 a 5.000 e ne aggiunge poi circa 1.000 all’anno durante il
periodo scolastico. È però importante ricordare che l’arricchimento lessicale di un parlante nativo è
un processo continuo che non si arresta nel tempo e che non si limita strettamente all’ambiente
scolastico. Nel corso della nostra vita siamo costantemente esposti a degli stimoli linguistici,
quindi ad input, i quali, proprio come avviene nel caso degli apprendenti di una nuova lingua, ci
consentono di arricchire il nostro vocabolario di base, per esempio, con vocaboli relativi ad una
determinata disciplina come la medicina o ad un determinato sport.

Il numero di parole necessarie dipende invece da quello che si deve fare con queste ultime. La
necessità o l’utilità di una parola può essere misurata nel modo più semplice possibile in base alla
frequenza con cui la parola ricorre nell’uso generale.

Tullio De Mauro, considerato uno dei più grandi linguisti della lingua italiana, ci invita a immaginare
la lingua come una grande torta. Di questa torta, noi ne consumiamo soltanto una fetta, infatti
circa il 98% dei nostri discorsi attinge a quello che viene definito vocabolario di base, il quale
consta di circa 7000 parole che si suppone siano conosciute da chiunque abbia completato la
scuola media inferiore dell’obbligo. Questo è diviso in tre categorie. La prima categoria definita
vocabolario fondamentale comprende le 2.000 parole più frequenti del Lessico di frequenza della
lingua italiana. Le parole di questa categoria, che sono parole come frutta, movimento, ricco,
dottore e così via, sono presenti nel 86% dei discorsi che facciamo e dei testi che leggiamo. La
seconda categoria è definita vocabolario di alto uso e comprende circa 3000 termini meno
frequenti di quelli precedenti, ma sufficientemente comuni perché si presentano nel 6% dei
discorsi, dunque parole come barzelletta, concepire, quintale, talvolta.... Infine, la terza categoria
comprende le parole di alta disponibilità, quelle che può accaderci di non dire né tantomeno di
scrivere mai, ma legate a oggetti, fatti, esperienza ben noti a tutte le persone adulte nella vita
quotidiana, quindi parole come fiducioso, lontananza, padroneggiare, viaggiatrice e così via.
Difficilmente l’apprendente si interfaccerà con l’apprendimento di questo tipo di parole, dal
momento che il loro uso è come abbiamo detto estremamente raro anche da parte dei parlanti
nativi. Alcuni studi condotti da Iacobini e Thomson hanno mostrato che di queste circa il 60.6%
sono nomi, il 19.6% verbi, il 14.9% aggettivi, per poi scendere drasticamente al 2% di avverbi e sotto
l’1% per tutte le altre classi. La classe del nome è quindi quella di gran lunga più rappresentata in
questo vocabolario. Insieme quest’ultima, la classe del verbo e quella dell’aggettivo corrispondono
al 97,6% dei lemmi del vocabolario di base.

Per quanto riguarda il numero di parole che l’apprendente deve imparare, secondo Nation e
Waring, un primo inevitabile obiettivo per l’apprendimento della L2 è costituito dalle 3.000 parole
circa più frequenti della L2 d’arrivo.

Spostando il focus attenzionale dall’aspetto quantitativo, all’aspetto qualitativo, viene spontaneo


chiedersi cosa voglia dire conoscere effettivamente una parola, dunque interrogarsi su quale sia la
natura del lessico. La risposta a questa domanda dipende dalla definizione del termine, che però
può variare secondo i diversi punti di vista teorici. Generalmente però c’è consenso nel ritenere che
ogni parola abbia una serie di proprietà ovvero una forma, una struttura morfologica, un significato,
un pattern sintattico, delle relazioni lessicali e infine delle combinazioni privilegiate. Vediamo
queste proprietà nello specifico. La forma riguarda la pronuncia se ci riferiamo ad un contesto
comunicativo orale e l’ortografia se ci riferiamo alla scrittura. Quando parliamo di struttura
morfologica ci riferiamo invece al fatto che generalmente una parola è costituita da un morfema di
base più eventuali morfi flessivi e derivazionali. Ad esempio la parola bellissima è formata dal
morfema di base bell-,quello derivazionale -issim- e infine dal morfo flessivo -a. Il significato invece
può essere sia referenziale, anche multiplo e metaforico, sia affettivo o ancora pragmatico.
Conoscere il pattern sintattico di una parola significa invece sapere che ad esempio spostare è un
verbo che richiede tre argomenti ovvero qualcuno che sposti, qualcosa e da un posto all’altro, o
che dormire è diverso da piovere in quanto io posso dire “lui dorme”, ma non “lui piove”. Essendo
zeroargomentale infatti il verbo piovere, così come la maggior parte dei verbi che esprimono
condizioni metereologiche, non richiedere il soggetto. Abbiamo poi le relazioni lessicali che una
parola instaura con altre della stessa classe. Le parole infatti non sono mondi a sé stanti, ma
stanno generalmente in una rete di rapporti. Tra queste relazioni ricordiamo quelle di antinomia e
di sinonimia, quelle di iperonimia e di iponimia o ancora quelle di meronimia e così via. Per fare un
rapido esempio consideriamo le due parole “edificio” e “villa”. La parola “edificio” è un iperonimo
della parola “villa”, dal momento che il suo significato è più generico ed esteso. Infine, abbiamo le
collocazioni privilegiate. Queste sono combinazioni specifiche che determinate parole richiedono.
Ad esempio, torrenziale si combina spesso o quasi esclusivamente con pioggia per indicare una
particolare precipitazione

Conoscere una parola implica conoscere tutte queste proprietà. Naturalmente l’apprendente non le
può imparare tutte insieme e più queste sono complesse, più è probabile che egli, a un dato stadio
della sua interlingua, non le conosca tutte, conoscendo di conseguenza la parola solo
parzialmente.

Vediamo alcuni degli ostacoli a cui l’apprendente va incontro durante l’acquisizione di queste
proprietà limitandoci alla considerazione della forma e della struttura morfologica. Pronunciare
una parola significa pronunciare adeguatamente la sequenza di suoni di cui questa è composta. La
così detta forma fonica rappresenta spesso un grosso problema per l’apprendente soprattutto se
la L1 di partenza è caratterizzata da elementi fonici, come gli accenti o i toni, completamente
diversi da quelli della L2. In cinese, ad esempio, toni diversi significano cose diverse, di
conseguenza, è molto facile per un apprendente italofono confondere parole come “cavallo” e
“madre” dal momento che hanno la stessa pronuncia, ma un’intonazione diversa che ne differenzia
i significati. Nella lingua italiana i toni sono accessori, poiché non sono funzionali alla lingua.
Quindi può accadere che l’orecchio di un italofono, non essendo abituato, non riesca a captare le
differenze. A questo problema potrebbe poi contribuire l’interlocutore nativo, che con l’aumento
della velocità, potrebbe non riuscire ad articolare bene tutti i suoni. Tutto ciò non riguarda solo le
parole molto lunghe, ma anche quelle più brevi. La scrittura rende invece tutto più chiaro. Chi è
abituato ad analizzare la lingua dal punto di vista della scrittura infatti avrà meno problemi, in
quanto solitamente caratteri diversi aiutano a distinguere parole diverse.

Per quanto riguarda la struttura morfologica generalmente l’apprendente che si trova all’inizio del
suo processo di apprendimento, ha la tendenza ad imparare le parole della nuova lingua a
memoria, lasciando da parte tutto ciò che riguarda la loro struttura morfologica. Ad esempio,
sentendo dire molto spesso la parola “ragazzi”, imparerà questa forma e tenderà ad estenderla
anche quando intende riferirsi ad un solo ragazzo. Solo in un secondo momento acquisirà
conoscenze sulla struttura.

Chiaramente conoscere una parola implica anche poterla usare sia nell’ascoltare sia nel parlare. A
questo punto è interessante fare tre distinzioni. La prima riguarda la conoscenza potenziale e la
conoscenza reale del lessico. Il vocabolario potenziale consiste nelle parole che l’apprendente
riconoscerà anche senza averle mai sentite o viste prima nella L2. Un esempio di conoscenza
potenziale sono i termini scientifici e tecnici comuni del mondo di oggi come ad esempio
computer e quantum. Il vocabolario reale invece è costituito da parole che l’apprendente conosce
solo dopo che le ha incontrate nell’input. La seconda distinzione, duramente criticata in quanto
ritenuta troppo semplicistica, riguarda invece il lessico attivo e il lessico passivo. Il lessico attivo è
quello che l’apprendente può produrre, quello che sa usare; quello passivo è quello che riconosce
soltanto e che non usa volentieri in quanto non ne ha una conoscenza sicura. A questa viene
preferita una terza distinzione, che riguarda da un lato la conoscenza, dall’altro il controllo.
Secondo Bialystock e Smith la conoscenza è la rappresentazione del lessico nella mente, cioè
nella memoria a lungo termine, mentre il controllo è la capacità di elaborarlo durante l’effettiva
esecuzione. Sulla base di quanto abbiamo affermato fin ora è ambizione legittima da parte
dell’apprendente pensare di imparare almeno le 2.000/3.000 parole più frequenti della sua L2,
fornite almeno delle loro fondamentali proprietà formali, sintattiche e semantiche e, sia
immagazzinandole permanentemente, sia potendole usare effettivamente ascoltando e parlando.

Per quanto riguarda la scelta delle parole della L2 che l’apprendente impara per prime, non è
ovviamente possibile stilarne un elenco, poiché questa è troppo ampia e quindi la variabilità
individuale risulta enorme. Tuttavia, è possibile identificare alcuni criteri che guidano tale scelta,
almeno nell’apprendimento iniziale e in quello spontaneo. Tra questi distinguiamo criteri esterni,
dunque non linguistici, e criteri interni al lessico. Tra i criteri esterni vi è in primo luogo l’utilità. Per
quanto complicata possa essere una parola l’apprendente si sforzerà ad impararla subito perché
utilissima. Proprio per la loro utilità in tutte le interlingue iniziali compaiono quasi da subito nomi di
persona e di luogo, forme di saluto e di commiato, di ringraziamento, forme della negazione e altre
espressioni comunicativamente rilevanti. Compaiono presto anche parole relative a oggetti e
attività che riflettono il tipo di contatto con la L2.

Un secondo criterio nella scelta delle parole da imparare è la loro disponibilità. Questo in realtà è
un criterio che guida non tanto la riproduzione delle parole nel parlato quanto la loro precedente
percezione nell’input. La disponibilità dipende a sua volta da altri fattori tra i quali figurano la
frequenza con cui una parola ricorre nell’input, la variabilità dei contesti in cui ricorre, l’aiuto fornito
dal contesto situazionale e dal co-testo linguistico per la sua comprensione, l’importanza della
parola stessa per la comprensione del co-testo che le sta attorno e la densità di parole
sconosciute nel co-testo, poiché una proporzione troppo alta di parole sconosciute può annullare
l’efficacia di altri fattori. Altri criteri riguardano invece non tanto le parole, quanto gli apprendenti.
Tra questi abbiamo la preferenza personale. Per esempio, Miki, il bambino giapponese studiato da
Yoshida per qualche mese dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, come conseguenza delle sue
preferenze personali ha imparato presto numerose parole per alcuni tipi di veicolo, animali selvatici
e vari oggetti che stanno all’aperto, ma ha trascurato molte parole per oggetti comuni come
“lampada”, “gonna” e “anello”.

Tra quelli che abbiamo definito criteri interni, distinguiamo in primis quelli formali da quelli
semantici, poi consideriamo le diverse parti del discorso e infine l’influenza della L1.

Tra i criteri formali troviamo in primo luogo la pronunciabilità in base alla quale più un termine è
difficile da pronunciare più l’apprendente tenderà ad evitarlo e viceversa. Quest’ultimo, ad esempio,
impara più facilmente le parole di una lingua che ha accento fisso, come ad esempio l’ungherese le
cui parole presentano l’accento sempre sulla prima sillaba o il polacco le cui parole presentano
l’accento sempre sull’ultima rispetto alle parole di una lingua come l’italiano o l’inglese che invece
hanno l’accento mobile.

Affine al criterio di pronunciabilità, è quello della similarità sonora con altre parole, nel senso che
parole troppo simili tra loro sono più difficili da elaborare. Ad esempio, un apprendente anglofono,
avrà difficoltà a distinguere le parole italiane carne-cane-canne.

Tra apprendenti altamente alfabetizzati che nell’apprendimento del lessico fanno grande
affidamento sulla qualità visiva della scrittura, entra poi in gioco anche il criterio della
corrispondenza tra suono e grafia, secondo la quale una parola si scrive allo stesso modo in cui si
pronuncia. Se la corrispondenza è chiara, ovviamente l’apprendimento è facilitato. Un diverso
sistema di scrittura può causare problemi. Secondo Ryan e Meara, per esempio, gli apprendenti
con L1 semitiche, che nell’ortografia danno grande importanza alle consonanti e trascurano le
vocali, tendono a confondere le parole che hanno le stesse consonanti. Un apprendente arabo, ad
esempio, confonderà le parole italiane collare-collirio-cullare.

Un criterio invece che intuitivamente dovrebbe essere rilevante, ma che alla prova dei fatti risulta di
incerto effetto è la lunghezza delle parole. Alcuni studi indicano che le parole più corte siano più
facili da imparare rispetto a quelle più lunghe; altri invece sostengono l’esatto contrario. Secondo
Laufer le ragioni principali di questa incertezza sono due: in primo luogo le parole più lunghe
possono essere morfologicamente più trasparenti. Si prendano, per esempio, le due parole inglesi
thin e interdisciplinary. Negli esperimenti psicolinguistici, la seconda può richiedere tempi di
reazione più lunghi, ma non per questo risulta necessariamente più insidiosa nella vita reale. In
secondo luogo, gli studi riportano soprattutto risultati che riguardano l’inglese, dove le parole più
corte sono spesso di origine anglosassone e più frequenti nell’input, mentre quelle più lunghe sono
spesso di origine neolatina e più rare. In questo caso il criterio cruciale non è tanto la lunghezza
quanto la frequenza. Inoltre, può entrare in gioco anche la L1 di partenza; se l’apprendente è
italiana, per esempio, le parole latine più lunghe e rare possono avere la precedenza su quelle
monosillabiche e più frequenti.

Tra gli aspetti semantici delle parole, due fattori fondamentali in gioco sono la polisemia e
l’omonimia. C’è polisemia quando un’unica parola ha più significati che hanno tra loro una qualche
affinità e relazione, mentre c’è omonimia quando i vari significati di una parola sono
completamente diversi e non correlati tra di loro. La parola ideale da imparare è quella in cui la
corrispondenza tra forma e significato è univoca: a una forma corrisponde un significato e a un
significato corrisponde una forma. Parole che hanno più di un significato confondono ovviamente
l’apprendente poiché è ovvio che se una parola è conosciuta con un significato si fa fatica ad
accettarla in un altro parecchio diverso.

Inoltre, la parola ideale ha un significato chiaro. La chiarezza semantica viene talvolta confusa con
la concretezza, nel senso spesso e volentieri sembrano più chiare le parole concrete di quelle
astratte. Se questo è indubbiamente vero per i bambini, che imparano la L1 parallelamente allo
sviluppo cognitivo, per un adulto che ha già sviluppato i concetti astratti nella L1 questa differenza
è marginale. Infatti, è difficile pensare che, per esempio, la parola amore sia più difficile della parola
bicchiere. Comunque, in generale, un significato opaco, concreto o astratto che sia, rende la parola
più difficile. L’opacità è a sua volta un fattore complesso. Se, per esempio, prendiamo la parola
libro è evidente che sia più chiara rispetto alla parola volume, in quanto quest’ultima è polisemica,
rara ma soprattutto più specifica. A tal proposito Blum e Leveston sostengono che gli apprendenti,
rispetto ai parlanti nativi, preferiscano gli iperonimi e in genere le parole che possono usare in una
più larga gamma di contesti. Di conseguenza possiamo affermare che un altro criterio nella scelta
delle parole è quello della specificità del significato.

Un ulteriore criterio è quello dell’idiomaticità. È infatti noto che nell’apprendimento le espressioni


idiomatiche costituiscono spesso uno scoglio sia per la comprensione sia per la produzione.

Per esempio, la parola “gatta”, femminile singolare della parola gatto, è una parola abbastanza
chiara quindi semplice da imparare. Il discorso cambia nel caso di espressioni come “fare la gatta
morta”, che sicuramente non è la prima cosa che si impara in relazione al termine gatto. Questa
espressione verrà insegnata molto più avanti, in quanto al suo interno la parola gatta svolge una
funzione particolare e ha un significato particolare che non ha nulla a che fare con l’animale di
partenza.

La questione che riguarda quali classi lessicali si imparano prima non è invece ancora chiara. In
genere si sostiene che prima si imparano i nomi, poi gli aggettivi e verbi e alla fine gli avverbi. In
realtà sarebbe più corretto affermare che l’apprendimento degli avverbi implica precedente
acquisizione degli aggettivi e dei verbi, così come l’apprendimento di questi ultimi implica la
precedente conoscenza dei nomi. L’ordine non è quindi casuale ma implicazionale. Un esempio di
effettiva gradualità riscontrata a questo proposito ci viene da Yoshida che segue Miki, il quale
dopo sette mesi di esposizione all’input inglese, conosce circa 260 lessemi. Tra questi, circa il 61%
può essere ricondotto a nomi che si riferiscono ad oggetti concreti, il 13% a verbi di azione, e il 10%
ad aggettivi. Il rimanente 16% dei lessemi si suddivide tra varie altre categorie.

Tuttavia, quando si parla di classi di parole, le osservazioni sul loro effettivo uso nella produzione
dell’apprendente vanno rapportate anche ad altri criteri. Tra questi abbiamo la frequenza relativa,
sia nel lessico totale sia come occorrenze testuali, poiché i nomi sono la classe più numerosa nel
vocabolario ma nei testi ricorrono proporzionalmente meno di altre classi; l’utilità, poiché in genere
i nomi sono più importanti degli aggettivi, che spesso rappresentano un arricchimento
dell’enunciato piuttosto che una sostanza; la complessità morfologica, poiché nelle lingue flessive
i verbi, per esempio, pongono maggiori problemi di flessione rispetto agli avverbi; la polisemia, e la
conseguente indeterminatezza del significato, poiché nelle preposizioni, ad esempio, il principio
ideale della corrispondenza univoca tra forma e funzione cade e così via.

Infine, tra i criteri che influenzano quali parole l’apprendente imparerà per prime, non dobbiamo
dimenticare la contrastività con la L1. Questa interessa tanto la forma quanto il significato.
Ovviamente una parola risulterà più facile da imparare se forma e significato si assomigliano nelle
due lingue

italiano francese inglese

Televisione tèlèvision television

Utilizzando lo schema di Appel è poi possibile distinguere tra il significato di una parola e il
concetto.

Il significato di una parola, insieme con la sua forma, fa parte del lessico mentale, il concetto
invece fa parte dell’enciclopedia mentale. Si hanno infatti molti concetti per i quali manca la parola,
o meglio, che non sono lessicalizzati. Per esempio, nel nostro lessico mentale di italiani non
abbiamo due parole separate per i due concetti di “moglie del fratello” “sorella del marito”, ma
un’unica parola ovvero cognata. Tuttavia, i due concetti esistono separati nella nostra enciclopedia
mentale, e vengono lessicalizzati in due espressioni separate che coincidono con quelle appena
nominate. Molte parole sono dunque polisemiche, come cognata, che ha due significati. Imparare
una nuova parola della L2 vuole dire impararne tutti i significati, anche se questo non implica
necessariamente una nuova concettualizzazione. I concetti possono essere già presenti
nell’enciclopedia mentale dell’apprendente, a volte lessicalizzati e a volte no.

Abituati a confrontare le nostre lingue indoeuropee tra di loro, non ci rendiamo conto dell’enormità
del problema di riconcettualizzazione per chi impara una L2 molto diversa dalla propria L1
Discutendo l’universalità delle categorie semantiche, Hatch e Brown notano come siano
sorprendentemente pochi i termini concettuali che ricorrono lessicalizzati in tutte le lingue.
Swadesh ne propone 100 ritenuti sufficientemente basilari da essere universali. Tra questi
abbiamo termini come “io, tu, due, donna, uomo, cane, bere, mangiare, morire, caldo, freddo” ma
non termini a noi comuni e ovvi come “andare, venire, tavolo, finestra”.

Kroll e de Groot riprendono da Potter e altri, due possibili modelli dell’abbinamento delle parole in
L1 e in L2 ai concetti e poi ne presentano un terzo proprio.

Nel primo Modello dell’associazione lessicale, le parole in L2 accedono ai concetti direttamente


attraverso le parole in L1. Nel secondo Modello della mediazione concettuale, invece esse
accedono direttamente ai concetti, come fanno le parole in L1. Prove alla mano, pare che
l’associazione lessicale che passa attraverso la L1 sia caratteristica dei primi stadi
dell’apprendimento della L2, mentre la mediazione concettuale lo sia degli stadi più avanzati. Con il
progredire della competenza, si avrebbe così un processo di sviluppo dell’elaborazione lessicale
all’elaborazione concettuale.

Questa progressione dell’elaborazione lessicale a quella concettuale può avere come


conseguenza la creazione di un’asimmetria nella forza delle connessioni lessicali-concettuali tra le
due lingue. Dal momento che per accedere al significato della L2 dipende inizialmente dalla L1, le
connessioni a livello lessicale tra L2 e la L1 saranno più forti delle corrispondenti connessioni tra la
L1 e la L2. Inoltre, inizialmente la L1 ha un accesso privilegiato ai concetti rispetto alla L2. Queste
asimmetrie sono rappresentate nel Modello dell’Associazione Lessicale e Mediazione Concettuale.
Secondo questo terzo modello, sono sempre attivi sia i legami lessicali sia quelli concettuali, ma la
loro forza si manifesta diversamente in funzione della competenza linguistica. L’apprendente,
quando impara la L2, possiede già forti connessioni concettuali tra le parole della L1 e i concetti.
All’inizio associa dunque le parole della L2 ai concetti soprattutto per mezzo delle connessioni
lessicali con la L1. Questo, da una parte, semplifica l’apprendimento del lessico, nel senso che lo
riduce a un ri-etichettamento dei concetti già noti in L1; dall’altra lo complica nel senso che tende
ad ignorare le differenze tra L1 e L2 nella classificazione concettuale e nei confini semantici di
parole simili. Con il progredire dell’apprendimento, l’apprendente stabilisce anche connessioni
dirette con la L2.

Questa minore dipendenza dalla L1 sarebbe una funzione, oltre che della maggiore competenza
linguistica, anche di altre variabili. Tra queste figurano l’astrattezza delle parole e l’apprendimento
spontaneo. Infatti, nel primo caso, le parole astratte sono meno esattamente traducibili di quelle
concrete da una lingua all’altra e la loro interpretazione dipende più spesso dal contesto; nel
secondo caso, l’apprendimento spontaneo favorisce meno la traduzione rispetto a quello guidato
in classe.

Vediamo ora come vengono imparate le parole dopo che sono state scelte dall’apprendente,

Per quanto riguarda la fonologia, le parole vengono imparate gradualmente secondo le regole
dell’apprendimento fonologico della L2. A questo livello di analisi, l’interferenza della L1 agisce più
profondamente che ad altri livelli, soprattutto a quelli morfologico e sintattico. L’apprendente
applica largamente strategie di sostituzione, che consistono nell’usare fonemi, combinazioni di
fonemi e strutture sillabiche e accentuali della L1 al posto di quelli rispettivamente simili della L2.
Nell’interferenza della L1 agiscono anche principi di marcatezza. Questi tendono a favorire la
sostituzione di elementi marcati della L2 con elementi non marcati della L1, o quantomeno ad
accelerare o ritardare l’apprendimento di elementi della L2 secondo la minore o maggiore
marcatezza rispetto agli elementi della L2.

Per quanto riguarda la semantica, l’apprendente non impara subito le parole intere, cioè le parole
come sono descritte nel vocabolario, ma ne impara i significati individuali, separati, uno per volta.
In altre parole, impara un’unità lessicale per volta, definita da Cruse come l’unione di una forma
lessicale e un solo significato. Inoltre, per ogni parola, è ipotizzabile una sequenza di
apprendimento che dà precedenza al significato non metaforico su quello metaforico e al
significato di base su quello connotato affettivamente.
Per quanto riguarda l’aspetto pragmatico, all’inizio ogni apprendente corre sempre il rischio di
usare una parola in un contesto situazionale sbagliato. Per esempio, se sente ciao e lo interpreta
come saluto generico, lo userà anche in situazioni che invece richiedono un saluto più formale.
Conoscere completamente una parola vuole dire conoscerne anche gli ambiti di uso appropriati.

La grammatica

Con il tempo, ma soprattutto con più input, dalle prime formule e dalle prime stringhe di parole
sistemate pragmaticamente e semanticamente, il lessico viene grammaticalizzato ed emerge la
grammatica. Per cercare di capire quali strutture emergono prima e quali dopo, se c’è un ordine, se
una struttura emerge in un solo colpo o passo dopo passo e attraverso quali stadi, prendiamo in
esame alcuni casi, prima morfologici poi sintattici, tra i più noti nella letteratura del campo
dell’apprendimento.

Nel 1973 Brown ha mostrato che, quando i bambini imparano a parlare l’inglese come L1, alcuni
morfemi grammaticali compaiono con un ordine fisso. Subito altri ricercatori si sono dati da fare
per scoprire se ci fosse un ordine anche per gli adulti che lo imparano come L2, e se questo ordine
fosse lo stesso di quello dei bambini. I risultati di una notevole attività investigativa, condotta negli
anni Settanta e nei primi anni Ottanta, su dati trasversali e longitudinali, raccolti e analizzati con
varie procedure, tra soggetti di diversa età, con L1 diverse e che imparano l’inglese tanto
spontaneamente quanto in classe, confermano in larga misura che, almeno per quanto riguarda
una decina di morfemi, l’ordine di apprendimento c’è ed è simile a quello dei bambini nativi. Con
Krashen la possiamo riassumere così: prima di tutto abbiamo il morfema -ing della forma
progressiva, poi la -s del plurale, il verbo “to be” prima con valore di copula e poi con valore di
ausiliare. Dopo abbiamo l’articolo, il passato irregolare poi quello regolare e infine il morfema -s,
prima quello della terza persona del verbo e poi quello del possessivo. A questo punto la domanda
che potrebbe sorgere spontanea è: perché l’apprendente acquisisce prima il morfema -s del plurale
e poi quello della III persona singolare e del possessivo nonostante si tratta dello stesso fono?
Questo accade perché per la morfologia è il concetto grammaticale associato al morfema che può
rendere più o meno complessa l’acquisizione di quel morfema. La pluralità è un concetto basico,
semplice; di conseguenza l’apprendente riesce ad acquisirlo molto presto. Al contrario la terza
persona del verbo entra in una rete di organizzazione della comunicazione in cui troviamo diverse
figure: la prima e la seconda, le quali possono a loro volta essere singolari e plurali e così via.

Nonostante l’entusiasmo suscitato a suo tempo da questi studi, la replica che avrebbe potuto
scoprire simili sequenze in altre lingue è stata minima. Tra le varie ragioni, le principali sono due. In
primo luogo, mancava una spiegazione convincente per l’ordine scoperto. Nel tentativo di trovarla,
si è controllato se fossero in gioco fattori quali la frequenza con cui i morfemi ricorrono nell’input,
la loro complessità semantica o sintattica, la salienza percettiva, la trasparenza funzionale,
l’influenza della L1 e così via. L’unico fattore che ha retto parzialmente alla prova dei dati è la
frequenza, anche se è dubbio che sia l’unico in gioco. Sembra infatti più probabile che alla
spiegazione possano contribuire tutti questi fattori, magari con un peso diverso l’uno dall’altro. In
secondo luogo, questi morpheme studies misuravano solo l’accuratezza formale del prodotto
finale: nell’interlingua dei soggetti testati, il morfema in questione c’era, non c’era, o c’era ma era
sbagliato. Diventava invece sempre più evidente che in realtà è più interessante capire il processo
con cui si arriva al prodotto corretto. Si passa così dalla ricerca di un ordine di accuratezza formale
tra strutture diverse tutto sommato abbastanza disparate quali sono i morfemi, alla ricerca della
sequenza degli stadi in cui emergono le singole strutture.

Un esempio di come possa articolarsi il processo di apprendimento per stadi di un morfema ci


viene da Ellis la quale prende in considerazione il processo di acquisizione del passato irregolare
del verbo inglese to eat:
stadio forma esempio

1° basica eat

2° irregolare non analizzata ate

3° regolare sovraestesa eated

4° ibrida irregolare e regolare ated

5° irregolare analizzata ate

Sequenze di questo tipo mostrano chiaramente come l’uso di una forma corretta non significa
necessariamente apprendimento completo. Al secondo stadio, la produzione corretta è casuale.
L’apprendente, infatti, non ha ancora la consapevolezza che ate è forma peculiare di un verbo
irregolare dal momento che la prima acquisizione è di solito mnemonica.Tanto che nel momento
in cui al terzo stadio diventa produttiva la regola di formazione del passato regolare, di
conseguenza il morfema -ed, questo viene esteso a tutti i verbi e a tutte le forme inclusa ate. In
realtà, per quanto sbagliata possa essere la forma risultante, questo è un qualcosa di positivo,
poiché indica che l’apprendente ha capito così bene la regola che tende a sovraestenderla. Solo
all’ultimo stadio l’apprendente ha imparato a differenziare analiticamente verbi con il passato
irregolare e verbi con il passato regolare in -ed.

In realtà si possono poi verificare stadi entro gli stadi. Prendendo ancora l’esempio del passato a
Ellis, la marca temporale -ed , ma anche quella irregolare, può non comparire
contemporaneamente con tutti i verbi. Infatti tende a comparire in tempi diversi secondo il valore
semantico del verbo. Verbi che si riferiscono ad eventi per esempio arrive vengono marcati prima
di verbi che si riferiscono ad attività, per esempio sleep e questi a loro volta prima di altri che si
riferiscono a stati, per esempio want.

La gradualità e sistematicità del percorso è chiara anche nel caso dei pronomi personali. Secondo
Felix e Hahn, l’ordine di acquisizione pronominale è il seguente: prima l’apprendente impara a
distinguere la persona, di solito la prima da tutte le altre: quindi abbiamo I oppure me in
opposizione a un altro pronome, di solito you o he. Poi viene distinto il numero, successivamente si
impara a distinguere la terza persona che però è ancora usata senza distinzione di genere, poi
viene imparato il genere e infine il caso.

Un esempio di percorso comune, limitato a un’unica categoria, ma con riflessi sintattici oltre che
morfologici, è quello dell’apprendimento del genere in italiano L2, studiato da Marina Chini (1995).
Alla base dei sistemi del genere delle varie lingue del mondo si trova sempre un nucleo semantico,
quale l’opposizione di sesso (maschile e femminile) o di animatezza (animato e inanimato).
Tuttavia, il fattore che caratterizza il genere è l’accordo (=se so usare la categoria del genere
significa che so accordare bene). In particolare, in italiano il genere è un sistema di classificazione
nominale a livello paradigmatico con risvolti sintattici a livello sintagmatico. A livello
paradigmatico, i nomi sono di necessità o maschili o femminili; a livello sintagmatico, i risvolti
sintattici determinano l’accordo con altri elementi sia interni al sintagma nominale, sia esterni.
L’accordo interno interessa i determinanti, cioè gli articoli e i dimostrativi, i modificatori e i
possessivi, quello esterno interessa i predicativi, talvolta i participi, e i pronomi anaforici.
Per i sostantivi, che sono i controllori dell’accordo, il genere è un fatto lessicale. Per i determinanti,
i modificatori, i predicativi e i participi, che sono target dell’accordo, il genere è un fatto sintattico,
formale, senza valore semantico. Per i pronomi anaforici, oltre che un fatto sintattico, l’accordo è
anche un fatto semantico, soprattutto per gli animati, in quanto risente del sesso del referente.

Si può quindi distinguere l’apprendimento del genere come fenomeno lessicale da quello del suo
accordo.

Per quanto riguarda l’assegnazione ,Chini propone una sequenza relativa alla produttività dei criteri
di assegnazione del genere: in una prima fase sembrano importanti i criteri fonologici, in un
secondo momento entrano anche criteri semantici, infine i criteri morfologici e derivazionali. Le
desinenze nominali non vengono riconosciute come indizi per risalire al genere dei sostantivi, ma
contribuiscono solamente a stabilire la tipica forma fonologica della parola italiana, a finale
vocalica. Per esempio la – a di bicicletta non è ancora il morfema singolare femminile se non
troviamo altrove nella produzione linguistica la controparte -e del plurale. Infatti, nei primi stadi
dell’interlingua l’attenzione è rivolta soprattutto al contenuto, al passaggio dell’informazione e al
proseguimento della comunicazione, e manca ancora una preoccupazione morfologica. Tuttavia,
questa mancanza di analisi grammaticale dei lessemi non preclude affatto che i sostantivi risultino
spesso prodotti con la corretta desinenza.

Successivamente entrano in gioco criteri semantici che fanno capo alla relazione genere-sesso del
referente, e si basano su precise desinenze. Tra queste si può identificare una graduatoria di
affidabilità per cui risultano più perspicue le desinenze in -o per il maschile, in -a per il femminile, e
più incerte quelle in -e. Per esempio, ragazzo e bambino sono facilmente identificati come maschili,
e ragazza e bambina come femminili, mentre possono creare confusione parole come ospite o
interprete. Lo stesso vale per collega uomo e ministro donna.

Infine, l’assegnazione del genere tiene conto anche di criteri morfologici, quando si sviluppano i
suffissi della derivazione, del tipo -tore per il maschile e -trice per il femminile tanto per le persone
quanto per gli oggetti.

Per l’accordo sintattico la sequenza è di tipo implicazionale.

Superato il livello d’interlingua basica formule + lessemi e iniziata la combinazione di parole in


sintagmi, i primi accordi compaiono in due tipi di contesti: quelli semanticamente rilevanti, cioè
con i pronomi tonici di terza persona singolare, e quelli più frequenti, cioè con gli articoli. E lo fanno
quando i sostantivi controllori del genere ne hanno uno inequivocabile, soprattutto dal punto di
vista formale, e cioè con desinenza -o per il maschile e -a per il femminile. Poi gli accordi si
diffondono man mano agli altri contesti. In questa sequenza di diffusione dell’accordo è chiaro il
criterio di distanza sintattica del target dal sostantivo controllore: più l’elemento da accordare è
lontano dall’elemento che ne controlla l’accordo, più tardi verrà accordato nell’interlingua.

Come in morfologia, anche in sintassi, le sequenze con cui emergono singole strutture sono uno
dei risultati più vistosi degli anni Settanta e Ottanta.

Iniziamo analizzando le sequenze di sviluppo della negazione inglese.

Comunicativamente importantissime, le funzioni della negazione sono varie: negare, segnalare,


esprimere disaccordo, rifiutare e così via. La negazione emerge presto nell’interlingua, ma ci mette
del tempo per diventare formalmente corretta. Riassumendo vari lavori sull’apprendimento della
negazione inglese da parte di apprendenti con varie L1 alcuni stadi risultano comuni. Al primo
stadio, breve per un apprendente adulto, la negazione è esterna, precede un nucleo dichiarativo, ed
è costituita soprattutto da no ma anche da not. È invece più prolifico ed esteso nel tempo il
secondo stadio. Qui la negazione si sposta all’interno dell’enunciato e, quando c’è il verbo, lo
precede. Oltre al no e al not del primo stadio, si trova alternato anche il don’t , che però non è
analizzato, per cui rimane un semplice allomorfo delle altre due cellule negative senza marca di
persona o di tempo. Al terzo stadio il don’t persiste formulaico, ma compaiono i primi modali
seguiti dalla forma contratta -n’t, specialmente can’t, isn’t e wasn’t, che sono quello che ricorrono
più frequentemente nell’input. Al quarto stadio, la gamma degli ausiliari si allarga e il don’t viene
analizzato e quindi differenziato per persona e per tempo. Può succedere tuttavia che
temporaneamente il tempo venga marcato due volte, sull’ausiliare e sul verbo principale (didn’t
slept).

La relativizzazione è un fenomeno sintattico molto interessante e molto studiato in linguistica,


perché si presenta in tutte le lingue, ma assumendo caratteristiche alquanto diversificate. Le
relative sono proposizioni subordinate che modificano i nomi dei sintagmi nominali delle
proposizioni principali. Queste possono variare secondo diversi parametri.

In primo luogo, le relative possono variare secondo la funzione del sintagma nominale che nella
principale costituisce il punto di attacco della relativa. Per esempio nella frase:

In secondo luogo, le relative variano secondo l’elemento che viene relativizzato. Per esempio in:

In inglese, i casi del soggetto e dell’oggetto diretto sono identici all’italiano, ma poi viene fatta
un’ulteriore distinzione tra l’oggetto indiretto, il caso obbliquo con preposizione e il genitivo; inoltre,
per quanto raro esiste anche l’oggetto della comparazione.

Le relative finora illustrate costituiscono una gerarchia implicazionale universale. Questo vuol dire
che tutte in tutte le lingue del mondo è possibile relativizzare il soggetto della proposizione relativa;
nella maggior parte delle lingue è possibile la relativizzazione anche dell’oggetto; molte
permettono quella dell’oggetto indiretto, alcune quella dell’oggetto di preposizione, solo poche
permettono quella di forme genitive e infine sono rarissime le lingue che permettono anche la
relativizzazione dell’oggetto della comparazione. Se una lingua permette la relativizzazione del
soggetto può o non può permettere quella dell’oggetto diretto; se permette quelle del soggetto e
dell’oggetto diretto può o non può permettere quella dell’oggetto indiretto e così via. Nessuna
lingua salta un tipo di relativizzazione, nel senso che se una lingua permette quella dell’oggetto
della comparazione, che occupa l’ultimo posto nella scaletta implicazionale , permetterà
necessariamente anche tutte le altre.

Scala implicazionale:

SOGG.>OGG.DIR>OGG.IND>OGG.PREP>GEN>OGG.COMP.

Abbinando i due parametri del punto di attacco e dell’elemento relativizzato, possiamo avere
congruenza tra i due oppure no. Per esempio, in “Il gatto che miagola non è mio” c’è congruenza,
poiché il punto di attacco e l’elemento relativizzato sono tutti e due nel primo caso soggetti. Invece
nella frase “Non vedo il gatto che miagola” non c’è congruenza poiché il punto di attacco è oggetto,
l’elemento relativizzato invece soggetto.

In terzo luogo, in lingue diverse le relative possono o non possono richiedere la ripresa del
pronome dell’elemento relativizzato. L’italiano ad esempio non richiede la ripresa pronominale. Nel
caso in cui si verificasse avremmo frasi del tipo “Il gatto che lo vedo” “Il gatto che gioco con lui”.
Nonostante queste frasi siano scorrette dal punto di vista dell’italiano standard, sono molto
frequenti nella lingua popolare. Questo perché il pronome di ripresa rende il tutto più chiaro,
ravvicinando sintatticamente gli elementi che semanticamente hanno uno stretto rapporto l’uno
con l’altro. In altre lingue, come l’ebraico o il giapponese è obbligatoria.

In quarto luogo le lingue variano secondo la profondità dell’incasso. In teoria non c’è un limite alla
profondità permessa .In pratica però una profondità eccessiva non funziona.

Passiamo ora ad analizzare l’apprendimento della relativizzazione.

Facendo riferimento alla lingua inglese Schumann ha dimostrato che per quanto riguarda il punto
di attacco, le relative che modificano l’oggetto diretto con il punto di attacco dopo il verbo
emergono prima di quelle che modificano il soggetto con il punto di attacco prima del verbo. Per
quanto riguarda l’elemento relativizzato, pare accertato che la sequenza di apprendimento sia
quella della Gerarchia di Accesibilità; dunque, prima si impara a relativizzare il soggetto, poi
l’oggetto diretto, poi ancora l’oggetto indiretto e l’oggetto di una preposizione e infine l’oggetto del
genitivo e della comparazione.

Per quanto riguarda il pronome relativo che l’inglese richiede quasi sempre, e il pronome di
ripresa, che l’inglese non richiede, Schumann mostra come all’inizio con la relativizzazione del
soggetto, che in inglese richiede sempre il pronome relativo, gli apprendenti incomincino senza
alcun pronome, poi usino il pronome soggetto di ripresa, senza o con quello relativo e poi infine
correttamente solo quello relativo.

Inoltre, indipendentemente dal fatto che gli apprendenti abbiano o meno la ripresa pronominale
nella propria L1, tutti la usano almeno in parte. Questo avviene più frequentemente agli ultimi livelli
della gerarchia, che sono i più difficili, gli ultimi che si imparano. Infatti il pronome di ripresa facilita
le cose rendendo formalmente più trasparente la relazione semantica, nel senso che riempie il
buco lasciato dall’elemento relativizzato.

Per quanto riguarda la congruenza tra il punto di attacco e l’elemento relativizzato, invece, non
viene confermata l’ipotesi che, nell’apprendimento della L2 come in quello della L1, risultino più
facili le frasi in cui il sintagma nominale della principale ha la stessa funzione dell’elemento
relativizzato nella subordinata, sia nel caso che tutti e due siano soggetto, sia in quello che tutti e
due siano oggetto. Infatti, Gass e Ard confermano che nei dati dell’apprendimento della L2 i
risultati sono compatibili con la direzione della Gerarchia di Accessibilità, mentre in quelli
dell’apprendimento della L1 i risultati riflettono prevalentemente un principio di maturazione
cognitiva.
Infine, per quanto riguarda il livello di incasso delle relative, è ovvio che la difficoltà procede di pari
passo con la profondità dell’incasso.

ZISA

La sequenza con cui si sviluppa la SINTASSI TEDESCA è stata individuata da un gruppo di


ricercatori nell’ambito del progetto Zisa sulla base di dati longitudinali e trasversali. Questi furono
raccolti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, anni in cui la Germania si trova a
fronteggiare un enorme flusso migratorio. Non a caso tali dati riguardano proprio lavoratori
immigrati italiani e spagnoli scarsamente scolarizzati. Lo scopo del progetto era quello di capire
cosa guida i loro meccanismi di auto-apprendimento della lingua.

Il progetto, come abbiamo già anticipato, si focalizza sulla sintassi tedesca, una sintassi questa
che implica un notevole sforzo cognitivo da parte di chi l’affronta in quanto estremamente
complessa, articolata e caratterizzata da tutta una serie di elementi e strutture particolari, strutture
che richiedono spostamenti, inversioni e via dicendo. Attraverso la sua analisi pervengono alcune
regolarità riguardanti il suo ordine di apprendimento, dunque la sua sequenza acquisizionale, la
quale si articola in cinque stadi evolutivi e risulta essere comune a tutti gli apprendenti presi in
esame

Al primo stadio, l’apprendente che ha come L1 una lingua romanza, inizia a mettere le parole una
dopo l’altra ipotizzando anche per il tedesco l’ordine canonico SVO. Ne risulta una frase non
corretta dal punto di vista morfologico, ma corretta dal punto di vista dell’ordine delle parole che è
l’unica cosa che interessa. Se comparisse un avverbio, questo verrebbe messo in fondo alla frase,
esternamente. Al secondo stadio, l’apprendente impara a mettere l’avverbio all’inizio, senza però
fare l’inversione del soggetto con il verbo, come invece richiede il tedesco. Ne risulta che tutte le
frasi che iniziano con un avverbio sono devianti rispetto alla L2, e tali rimarranno fino al quarto
stadio. Al terzo stadio, l’apprendente impara a separare la parte verbale non coniugata da quella
coniugata e a metterla in fondo, come richiede il tedesco. Al quarto stadio, impara a fare
l’inversione del soggetto rispetto agli elementi verbali coniugati che è richiesta dall’anteposizione
dell’avverbio. Al quinto stadio, l’apprendente impara che nelle proposizioni subordinate il verbo
coniugato va in fondo.

Le cinque regole imparate in questa successione si dispongono in ordine implicazionale :

SVO>AVV>SEP>INV>V-FON si legge da destra verso sinistra nel seguente modo: verbo in fondo implica l’inversione;
l’inversione implica la separazione; la separazione implica l’avverbio in prima posizione; l’avverbio in prima posizione
implica l’ordine basico.

La presenza di una regola in uno stadio dell’interlingua necessariamente implica che ci siano
anche quelle di tutti gli stadi precedenti.
Altre due considerazioni da fare sul progetto ZISA sono le seguenti: prima di tutto questo è un
modello multidimensionale in quanto non guarda solo alla dimensione evolutiva e, quindi, a cosa
succede nel tempo, ma guarda anche alla variabilità.

• La dimensione evolutiva è determinata da fattori cognitivi universali e, cioè, da qualcosa


che riguarda il modo in cui noi ci poniamo di fronte alla rappresentazione e conoscenza della
realtà, il modo in cui memorizziamo, elaboriamo e sistematizziamo le informazioni.

• La dimensione della variabilità è frutto di fattori sociopsicologici legati al contesto sociale e


culturale in cui l’individuo si trova; dunque, al rapporto che l’apprendente ha con la comunità che lo
ospita e in parte anche alle caratteristiche personali dell’apprendente stesso. Questi fattori
influiscono principalmente sulla velocità di apprendimento della lingua. Ciò spiega perché il fatto
che l’interlingua di un individuo è, per esempio, più lenta di quella di un altro.

Dopo la descrizione empirica di questi cinque stadi, un notevole passo avanti nello studio
dell’apprendimento della L2 è costituito dall’interpretazione psicolinguistica dei dati. Secondo
Clahsen la sequenza di sviluppo è tale perché a ogni stadio operano, in varie combinazione, tre
strategie di elaborazione del parlato. Queste sono:

 la strategia dell’ordine canonico (SOC) che blocca qualsiasi movimento tra gli elementi
della stringa SVO;
 la strategia di inizializzazione e finalizzazione (SIF) che,data una stringa XYZ, blocca lo
spostamento id X tra Y e Z, o quello di Z tra X e Y;
 la strategia delle proposizioni subordinate (SPS), che blocca qualsiasi movimento
all’interno di una proposizione subordinata
 Nei cinque stadi queste strategie operano o non operano nelle seguenti combinazioni:

Ai primi due stadi operano tutte e tre le strategie (o meglio quelle pertinenti ad un livello di
competenza linguistica ancora elementare); queste bloccano qualsiasi movimento che scompagini
l’ordine SVO. In realtà, questi due primi stadi sono ancora pre-sintattici, nel senso che per
l’apprendente con L1 romanza l’ordine canonico risulta il modo più semplice per rappresentare le
relazioni semantiche attore-azione-paziente.

Difatti, l’apprendente dispone le parole più semanticamente secondo il significato e


pragmaticamente secondo il focus dell’informazione, anziché sintatticamente secondo la funzione
dei tre costituenti. A ogni stadio successivo subentra un cambiamento qualitativo nella difficoltà di
elaborazione delle strutture.

Al secondo stadio, rispetto al primo, opera la strategia di inizializzazione e finalizzazione (SIF).


Questa lascia intatto l’ordine canonico, ma permette lo spostamento di un elemento finale in prima
posizione e di un elemento iniziale in ultima posizione. E la prima e l’ultima posizione sono quelle
cognitivamente più salienti e dunque più facili da percepire e ricordare. Lo stadio è ancora
pre-sintattico perché per queste permutazioni basta che l’apprendente riconosca gli elementi ma
non occorre che riconosca la categoria grammaticale.

Dal terzo stadio in poi, non opera più la strategia dell’ordine canonico, per cui l’ordine SVO, quando
occorre, può essere scompaginato. Anche questo però avviene gradualmente. Al terzo stadio
l’unico scompaginamento permesso è quello della separazione di due elementi strettamente
associati (ausiliare e verbo) entro una stringa (-SOC), che avviene con lo spostamento di uno di
loro in una posizione saliente, iniziale o finale (+SIF). Infatti la strategia di inizializzazione e
finalizzazione opera ancora.

Il terzo, il quarto e il quinto stadio sono ormai sintattici, poiché la conoscenza grammaticale è
necessaria per identificare gli elementi da separare, e tra questi quello da spostare.

Al quarto ,la separazione di due elementi strettamente associati entro una stringa (-SOC) può
avvenire anche con lo spostamento di uno di loro all’interno della stringa (-SIF). Infatti, la strategia
di inizializzazione e finalizzazione non opera più.

Qui la difficoltà aumenta perché, mentre al terzo stadio l’apprendente può ancora sfruttare la
nozione di salienza, che è genericamente psicologica, al quarto deve percepire linguisticamente la
diversa categoria grammaticale degli elementi della stringa.

Al quinto stadio, non solo è necessario riconoscere grammaticalmente gli elementi di una stringa,
ma è anche necessario riconoscere una stringa all’interno di una stringa più lunga.

Solo così l’apprendente può non applicare all’interno della proposizione subordinata (-SPS) i
movimenti della proposizione principale ormai imparati agli stadi precedenti (-SOC,-SIF).

A queste strategie è dunque associato il concetto di complessità psicologica di una struttura, che
dipende dal grado di ri-ordino e di ri-sistemazione richiesto dal materiale linguistico nel processo di
proiezione del significato sottostante in forme superficiali. In questo senso, il processo di
apprendimento è visto come un processo di superamento di restrizioni. Le strategie sono
universali perché cognitive. Ne consegue che dovrebbero controllare le sequenze dello sviluppo
interlinguistico non solo dell’ordine delle parole, ma di tutte le strutture grammaticali,
morfologiche, sintattiche, e non solo del tedesco ma di tutte le lingue.

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