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Il nostro mondo è popolato da numerose creature che risultano essere invisibili ad occhio nudo, definite
microrganismi o microbi, che rappresentano le prime forme di vita comparse sul pianeta. Queste appaiono
come forme di vita unicellulari, autonome e, quindi, in grado di metabolizzare ed assumere dei prodotti
dall’esterno, trasformarli e ricavarne dei nutrienti, energia ed eliminare prodotti di scarto. Inoltre, sono in
grado di riprodursi, differenziarsi (molte volte lo fanno nei momenti di difficoltà, come, ad esempio, quando
una cellula metabolicamente attiva si trasforma in spora, la quale risulta essere quiescente e vitale anche in
condizioni ambientali avverse), evolvere, quindi trasformarsi, mantenere le trasformazioni e trasmetterle
anche alla progenie, dotata di piccole dimensioni.
La microbiologia perciò studia tutti gli organismi invisibili ad occhio nudo e che possono essere
visualizzati solo al microscopio, anche se alcuni batteri risultano avere delle dimensioni molto grandi. In
altre parole, la microbiologia studia la diversità e l’evoluzione delle cellule microbiche, il come ed il perché
siano comparsi differenti tipi di microrganismi. Di conseguenza, appare come una scienza che ruota attorno a
due temi fondamentali:
Comprendere la natura e i fenomeni del mondo microbico;
Applicare la conoscenza del mondo microbico a beneficio delle necessità dell’uomo e del nostro
pianeta.
Questi microrganismi di dimensioni piccolissime – di cui la microbiologia si occupa – comprendono virus,
batteri, protozoi e funghi. La microbiologia studia tutte le cellule, il loro funzionamento (in particolar modo
dei batteri, i quali rappresentano un elevato numero di microrganismi) ed il ruolo dei microrganismi nella
società umana.
Risulta avere anche un enorme impatto in numerosi campi: in quello medico ed alimentare, in immunologia,
in agricoltura, in genetica e via discorrendo.
Sin dall’inizio del XX secolo, la principale causa di mortalità era rappresentata dalle malattie infettive,
causate da patogeni. Tuttavia, la maggior parte dei microrganismi non rappresentano un danno per l’uomo,
bensì risultano essere innocui, pertanto aiutano e possiedono benefici, come nell’agricoltura, che dipende in
gran parte dall’attività microbica di molti microrganismi.
Uno dei maggiori rapporti è rappresentato dalle Leguminose, piante che vivono in stretta associazione con
delle specie batteriche, che formano nelle loro radici delle strutture chiamate noduli. Qui l’azoto
atmosferico N2 viene convertito in azoto fissato NH3, che può essere utilizzabile direttamente dalle piante
per il proprio sviluppo. In questo modo, l’attività che si esplica permette alle piante di poter utilizzare
direttamente l’NH3 – indispensabile per il loro sviluppo – e questo fa sì che si abbia la necessità di utilizzare
il minor numero di fertilizzanti azotati, potenzialmente dannosi e nocivi.
Un altro esempio di microrganismi benevoli sono quelli che intervengono nel processo digestivo degli
animali ruminanti. Questi hanno al loro interno un organo digestivo, il rumine, all’interno del quale i
microrganismi compiono un processo di trasformazione nei confronti della cellulosa, grazie al quale essa
viene digerita.
Un ulteriore esempio, nell’industria alimentare, è costituito dall’utilizzo di molti microrganismi per la
lavorazione di prodotti caseari.
Per quanto riguarda l’energia, i microrganismi svolgono un ruolo primario: gran parte del gas naturale
(metano CH4) è prodotto dall’attività microbica di batteri metanogeni.
Molti microrganismi vengono anche utilizzati in un processo noto come bioremediation o biorisanamento,
nel quale questi non fanno altro che trattare dei composti inquinanti derivanti dall’attività umana. Sono stati
isolati moltissimi microrganismi in grado di degradare numerosi composti inquinanti, come petrolio,
pesticidi e altri composti tossici sia per l’uomo che per l’ambiente.
Vengono utilizzate anche biotecnologie di microrganismi in numerosi processi industriali, come nel caso
dell’insulina, un ormone generalmente sintetizzato a bassissimo livello nei soggetti diabetici, la quale può
essere riprodotta microbiologicamente inserendo il gene umano dell’insulina ingegnerizzato in un
microrganismo.
Benché si sospettasse la presenza di creature invisibili ad occhio nudo, la loro scoperta avvenne grazie al
naturalista olandese Antoni van Leeuwenhoek, il quale riuscì ad osservare i batteri per la prima volta.
Inizialmente, ai tempi di Aristotele, si pensava che la vita si originasse dalla materia non animata, ma, tra la
metà e la fine del XIX secolo, si è assistito ad uno sviluppo in cui crollò la teoria della generazione
spontanea, anche grazie al chimico francese Louis Pasteur, uno dei maggiori oppositori a questa teoria. Egli
predisse e scoprì che nell’aria erano costantemente presenti delle strutture molto simili ai microrganismi,
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trovati nel materiale che veniva lasciato all’aria che, dopo un certo periodo di tempo, andava in putrefazione.
Pertanto, concluse che questi microrganismi derivavano da cellule già presenti o dai microrganismi
presenti nell’aria che si potevano depositare negli oggetti che andavano incontro a contaminazione.
Pasteur si convinse, inoltre, che, trattando l’alimento in modo da distruggere tutti gli organismi viventi
presenti, cioè rendendolo sterile, e proteggendolo da un’ulteriore contaminazione, si sarebbe potuta evitare
la putrefazione. Egli usò il calore per eliminare i microrganismi contaminati e osservò che il forte
riscaldamento di una soluzione nutritiva – seguito dalla sigillatura – ne evitava la putrefazione.
In particolare, per dimostrare questo, impiegò una fiasca a collo di cigno, quindi inserì all’interno di essa del
liquido non sterile, stirò alla fiamma il collo della fiasca in modo tale da creare un imbuto poi, ponendo il
liquido a riscaldare (per poterlo sterilizzare), lo fece andare in ebollizione; l’aria fuoriusciva successivamente
ed il materiale non sterile veniva così sterilizzato. Inoltre, grazie al collo di cigno, tutti i microrganismi
presenti nell’aria restavano intrappolati nella parte curva e non potevano venire a contatto con il liquido
sterilizzato, talvolta per un elevato periodo di tempo. Dimostrò così che nell’aria erano presenti dei
microrganismi e che, ruotando ed inclinando la fiasca, in modo tale da mettere a contatto il liquido sterile
con la parte curva in cui erano presenti i microrganismi, in brevissimo tempo si sviluppavano nel liquido dei
microrganismi. Pasteur concluse che i microrganismi non si generano spontaneamente dalla materia
inanimata o in decomposizione, ma si generano attraverso la replicazione di altri microrganismi. Se il cibo o
altro materiale deperibile veniva lasciato riposare per qualche tempo, andava in putrefazione. Osservandolo
al microscopio, questo materiale presentava una grande quantità di microrganismi.
Per quanto riguarda il luogo di provenienza di questi ultimi, alcuni sostenevano che si sviluppassero
spontaneamente da materiale non vivente, considerazione dalla quale è nata la teoria della generazione
spontanea dei microrganismi. Alcuni invece sostenevano che si generassero da germi o semi provenienti
dall’aria.
Esperimento di Pasteur: nel punto C il liquido va in putrefazione poiché i microrganismi entrano insieme
alla polvere. La curvatura della fiasca permette all’aria di entrare ma impedisce l’ingresso dei microrganismi,
come dimostrato nel punto B.
La dimostrazione che questi microrganismi fossero responsabili di malattie diede un grandissimo impulso a
studi microbiologici successivi.
I primi studi furono eseguiti dal microbiologo tedesco Robert Koch, che studiò il carbonchio (o antrace),
ovvero una malattia dei bovini causata dal bacillo sporigeno di Bacillus anthracis, il quale può
occasionalmente trasmettersi all’uomo. Koch stabilì che, prelevando una quantità di sangue da un topo
infettato e iniettando il sangue in un altro topo, questo contraeva la malattia e moriva. Dopo accurati studi di
microscopia, dimostrò, quindi, che il batterio era sempre presente nel sangue degli animali morti di questa
patologia. Sulla base di numerosi esperimenti, Koch formulò i seguenti criteri, denominati postulati di
Koch, necessari per provare che un microrganismo è responsabile di una specifica malattia.
I postulati di Koch asseriscono che:
Il microrganismo dev’essere costantemente presente negli animali che manifestano la malattia e non
dev’essere presente negli animali sani;
Il microrganismo deve poter essere prelevato dall’animale malato e coltivato in coltura pure al
difuori dell’organismo ospite;
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Le cellule provenienti da una coltura pura vanno poi inoculate in animali sani e suscettibili, per
indurre poi tutti i sintomi caratteristici della malattia;
Il microrganismo deve poter essere nuovamente isolato e ricoltivato in laboratorio, in modo tale da
dimostrare che i microrganismi prelevati dal primo animale infetto ed inoculati nuovamente in un
organismo suscettibile risultino essere gli stessi.
Dagli anni della Seconda guerra mondiale sono stati scoperti e classificati numerosi microrganismi,
contribuendo perciò a migliorare la sistematica microbica e alla costruzione degli alberi filogenetici di
organismi viventi.
Dalla comparazione dell’rRNA sono state identificate 3 linee evolutive: due costituite da procarioti
(Bacteria ed Archaea), mentre la terza dagli eucarioti (Eukarya). I microrganismi procarioti
dell’area Archaea sono maggiormente correlati agli eucarioti di quanto non lo siano ai batteri, dal momento
che somigliano maggiormente ai primi piuttosto che ai secondi. Le cellule procariotiche hanno una struttura
molto semplice, mancante di organelli racchiusi da una membrana.
Una caratteristica, invece, che distingue gli eucarioti è la presenza di organelli circondati da membrana, tra
cui nucleo, mitocondri e cloroplasti, che risultano essere molto importanti nelle cellule fotosintetiche. Il
nucleo è depositario dell’informazione genetica delle cellule, quindi racchiude il DNA, ed è il luogo dove
avviene la trascrizione delle cellule eucariotiche. Mitocondri e cloroplasti, invece, svolgono un ruolo
specifico: i primi sono produttori di energia e responsabili della respirazione; i secondi sono i responsabili
della fotosintesi.
Procarioti
Ai procarioti appartengono i batteri e gli Archaea. Il dominio dei batteri contiene un’enorme varietà di
procarioti e proprio questi rappresentano un phylum molto più grande del regno. Al suo interno si possono
trovare microrganismi chemio-organotrofi, come Escherichia coli.
In relazione agli Archaea, esistono due gruppi fondamentali: gli Euryarchaeota e i Crenarchaeota.
Molti Archaea appartengono al genere Thermoproteus, i quali si sono adattati a vivere a temperature molto
basse e a pH estremi; non tutti fanno parte di questo genere: alcuni vivono nel suolo, nei laghi e negli oceani,
però poco studiati giacché sono molto difficili da coltivare .
Eucarioti
Le cellule eucariotiche sono generalmente di dimensioni maggiori rispetto ai procarioti e possiedono gli
organelli circondati da membrana. Proprio per questo risultano avere una struttura molto più complessa
rispetto a quella dei procarioti.
Agli eucarioti appartengono alghe, funghi, protozoi e tutti quegli organismi cellulari quali piante ed
animali.
Virus
I virus sono un’altra numerosa classe di microrganismi (non sono cellule!), pur non essendo dei sistemi
dinamici e aperti, non essendo cioè in grado di assumere nutrienti, trasformarli, metabolizzarli e ricavarne
energia. Oltre a ciò, non sono capaci neanche di espellere prodotti di scarto.
Il virus è una figura statica, stabile ed incapace di cambiare e costruire i propri componenti. Sono in grado
di riprodursi solo quando si trovano all’interno di una cellula, infettandola.
A differenza delle cellule, i virus non possiedono attività metaboliche proprie perché mancano di ribosomi,
di conseguenza dipendono totalmente dal macchinario biosintetico cellulare per la sintesi proteica. Sono in
grado di infettare qualsiasi tipo di cellule, anche quelle microbiche, e molti possono causare malattie.
Tuttavia, queste reazioni virali possono determinare alterazioni genetiche in grado anche di migliorare le
varie funzioni cellulari.
I virus possiedono delle dimensioni molto più piccole rispetto alle cellule, perfino di quelle procariotiche,
tanto che il virus più piccolo ha addirittura un diametro di 10 nm (può essere visto solo al microscopio
elettronico). Infatti, mentre le cellule si possono osservare al microscopio ottico, è possibile visualizzare i
virus soltanto mediante microscopio elettronico. Ciò che si può notare al microscopio ottico è la cellula
infettata, evento che determina la distruzione della cellula (infettata dal virus e morta in seguito) e la
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formazione di bolle trasparenti nella parte periferica delle colture cellulari oppure la formazione di placche,
vale a dire delle zone di lisi (nelle colture cellulari i buchi sono derivati dalla distruzione delle cellule).
Tutti gli organismi cellulari sono altamente organizzati in strutture che mostrano una sorta di metabolismo.
Le cellule attingono nutrienti dall’ambiente, li trasformano, conservano parte dell’energia ivi presente – in
modo da poterla poi utilizzare – ed eliminano prodotti di scarto.
In seguito, tutte si riproducono, nel senso che sono in grado di dirigere una serie di processi biochimici legati
alla crescita ed alla divisione, per dare origine poi a due cellule figlie mediante scissione binaria. Molte
cellule si differenziano mediante un processo durante il quale trasformano delle nuove sostanze e strutture
(ad esempio le spore, coinvolte nella riproduzione, nella disseminazione e nella sopravvivenza).
Inoltre, le cellule rispondono a segnali esterni per via di fenomeni di chemiotassi: sono in grado di orientarsi,
venendo calamitate da sostanze attraenti ed allontanate da sostanze repellenti (nocive) e, benché non si tratti
di un fenomeno universale, spesso sono in grado di muoversi ed orientarsi grazie ad un’estroflessione che
prende il nome di flagello.
Infine, le cellule possono anche evolvere, cioè possono cambiare in modo permanente e definitivo le proprie
caratteristiche, che vengono poi trasmesse alla progenie.
IL MICROSCOPIO
La visualizzazione dei microrganismi richiede l’utilizzo del microscopio ottico o elettronico. In generale, il
microscopio ottico si utilizza per osservare cellule intatte a basso ingrandimento, mentre per studi più
dettagliati della struttura interna e della superficie della cellula si ricorre all’utilizzo del microscopio
elettronico. Tutti i microscopi impiegano delle lenti per ingrandire l’immagine; è anche molto importante il
potere di risoluzione, ossia la capacità di vedere ben distinti e separati due punti adiacenti. Il microscopio
ottico ha un potere di risoluzione di circa 0,2 μm, quello elettronico una risoluzione 1000 volte superiore (0,2
nm). L’ingrandimento di un preparato è dato dal prodotto di ingrandimenti degli obiettivi e degli oculari. Il
massimo ingrandimento di un oggetto al microscopio ottico risulta essere di 1500 volte. Il microscopio
ottico, che sfrutta la luce visibile, si può suddividere in diverse categorie comuni:
in campo chiaro, che permette la visualizzazione dei campioni grazie alla differenza di contrasto
(densità), presente tra i campioni ed il mezzo circostante. Ne consegue che maggiore è la densità
(differenza di contrasto) tra il campione da analizzare ed il mezzo di contrasto, maggiore sarà la
visualizzazione del campione in esame. Uno dei limiti della microscopia in campo chiaro risulta
essere il contrasto, pertanto, per deviare questo problema, si utilizzano dei coloranti per cellule in
modo tale da migliorarne il punto di contrasto;
a contrasto di fase;
in campo oscuro;
a fluorescenza.
I COLORANTI
I coloranti derivano da composti organici; alcuni risultano essere caricati positivamente, infatti, per questo,
vengono chiamati coloranti basici e reagiscono con elementi cellulari a carica negativa (come, ad esempio,
polisaccaridi ed acidi nucleici). È un esempio il blu di metilene, che colora le cellule di blu.
Le colorazioni semplici si effettuano su preparazioni di sospensioni cellulari prima essiccate al calore poi
ricoperte per qualche minuto con una soluzione colorante, dopodiché viene risciacquato il colorante per varie
volte e vengono asciugati alla fine.
Subito dopo si osservano i preparati con obiettivi a grande ingrandimento. Talvolta, per utilizzare quello
massimo, il 100x, bisogna mettere una goccia di olio da immersione in modo tale da poter visualizzare il
preparato correttamente.
Le colorazioni differenziali sono così chiamate perché colorano in modo diverso le cellule: ne è un esempio
la colorazione Gram. In base alla reazione a questo tipo di colorazione, i batteri si possono dividere
in Gram-positivi e Gram-negativi. In seguito alla colorazione, i Gram-positivi avranno una colorazione
porpora-violetto, mentre i Gram-negativi una colorazione rosa. La differente colorazione è dovuta alle
diverse strutture della parete cellulare dei batteri. L’etanolo è in grado di decolorare i batteri Gram-negativi,
ma non è in grado di decolorare quelli Gram-positivi.
Dunque, inizialmente si hanno dei batteri che, per essere visualizzati al microscopio, devono essere colorati:
in questo modo si può definire anche se si tratta di Gram-positivi o Gram-negativi.
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Successivamente si prende il campione e si pone in un vetrino, si fissa con il calore, si colora il campione
con del cristal-violetto e, infine, si può decolorare velocemente con l’etanolo. A questo punto si possono
osservare le cellule e classificare in Gram-positive (se non si decolorano) oppure in Gram-negative (se si
decolorano), le quali, perdendo il colore primario, risulteranno incolori.
L’ultima fase è la contro-colorazione con un colorante di contrasto, in genere la safranina. Come risultato,
in questa colorazione i Gram-positivi, essendo già colorati sul violaceo, resteranno tali, mentre i Gram-
negativi, che inizialmente erano incolori, risulteranno colorati di un colore rosso-rosa.
LA MORFOLOGIA E LE DIMENSIONI
In microbiologia il termine morfologia fa riferimento alla forma di un organismo , caratteristica che rimane
fissa, geneticamente determinata e conferita dalla parete cellulare. Infatti, se le cellule Gram-positive
risultano avere una forma tondeggiante, quelle Gram-negative possiedono una forma a bastoncello-tubulare.
Inoltre, le cellule si possono trovare in forma singola oppure in agglomerati.
La cellula batterica è una cellula procariotica di piccole dimensioni, la cui forma può essere generalmente
ricondotta a due solidi regolari, quali la sfera ed il cilindro. I batteri di forma sferica o rotondeggiante
prendono il nome di cocchi, i quali possono presentarsi come singole cellule o come forme riunite in
aggregati di forme caratteristiche. I batteri di forma cilindrica sono definiti bastoncelli o bacilli, molti dei
quali si presentano come delle singole cellule mentre altri si uniscono – divisione dopo divisione – a formare
delle coppie o catene. Molti batteri simili a bastoncelli si avvolgono a spirale e sono detti spirilli, i quali
risultano essere rigidi. Altri ancora sono chiamati spirochete ed appaiono più flessibili e caratterizzati da una
disposizione molto particolare dei flagelli.
La disposizione dei batteri indica il modo con cui le cellule, una volta che si riproducono, si dispongono
nello spazio, mantenendo tra loro un rapporto di continuità. In molti procarioti, dopo la divisione cellulare, le
cellule rimangono associate a formare dei gruppi, la cui forma è spesso caratteristica per ogni microrganismo
(per esempio, i cocchi e i bastoncelli possono formare delle lunghe catene, alcuni cocchi formano sottili
strati di cellule, mentre altri costituiscono delle strutture tridimensionali irregolari, dette “a grappolo”,
tipiche di Staphylococcus).
Le dimensioni delle cellule procariotiche variano da un diametro di 0,2 μm a diametri superiori a 50 μm.
Alcuni procarioti molto grandi, come Epulopiscium fishelsoni (un simbionte del pesce chirurgo), possono
avere un diametro di 80 μm ed una lunghezza di oltre 0,6 mm. In termine di volume cellulare complessivo, il
procariote dalle dimensioni maggiori è il chemiolitotrofo sulfureo Thiomargarita namibiensis, il cui
diametro può raggiungere 750 μm ed è quindi visibile ad occhio nudo. Di norma, le cellule procariotiche
sono piccole e, a differenza di questi due esemplari, le dimensioni medie risultano essere di 3 μm, perciò una
dimensione molto inferiore di quella di una cellula eucariote; per questo sono visibili solo al microscopio
ottico.
Le dimensioni molto ridotte dei procarioti possiedono numerosi vantaggi rispetto a quelle maggiori delle
cellule eucariotiche, giacché le sostanze nutritive e i prodotti di scarto riescono rispettivamente ad entrare e
uscire più velocemente in una cellula piccola rispetto ad una cellula di grandi dimensioni, accelerando in
questo modo sia i processi metabolici che la crescita e lo sviluppo della cellula. La ragione consiste nel fatto
che la velocità di trasporto è parte e funzione della superficie della membrana cellulare che risulta essere
disponibile.
Relativamente al volume, le cellule piccole hanno una superficie disponibile maggiore rispetto alle cellule
grandi.
LA MEMBRANA PLASMATICA
La membrana cellulare è collocata tra la parete cellulare ed il citoplasma e risulta essere molto simile a
quella delle cellule eucariotiche. Essa rappresenta il principale punto di contatto con l’ambiente cellulare ed
è, pertanto, responsabile della maggior parte delle interazioni della cellula con l’ambiente esterno.
Oltre a contenere ed avvolgere il citoplasma, la membrana plasmatica rappresenta una barriera di
permeabilità selettiva che permette il transito, dall’esterno verso l’interno e viceversa, di numerosi ioni e
molecole, impedendo il transito di altre sostanze.
La struttura generale delle membrane biologiche viene denominata a doppio strato fosfolipidico. I
fosfolipidi contengono sia una componente idrofobica, costituita dagli acidi grassi, sia una componente
idrofilica, costituita dal glicerolo fosfato. Dal momento in cui i fosfolipidi in soluzione acquosa si
aggregano, tenderanno a formare spontaneamente un doppio strato con la porzione idrofobica degli acidi
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grassi rivolta verso l’interno, dando origine ad un ambiente idrofobico, mentre le porzioni idrofiliche
rimarranno esposte verso l’esterno acquoso, appunto costituito da glicerolo fosfato.
Il modello più conosciuto della struttura delle membrane è noto come modello a mosaico fluido e
rappresenta le membrane come doppi strati lipidici all’interno dei quali sono presenti delle molecole
proteiche.
Molte proteine di membrana sono localizzate all’interno e sono note come proteine integrali di membrana,
altre sono a localizzazione periplasmatica e citoplasmatica e sono strettamente associate alla membrana
citoplasmatica (di fatto funzionano come proteine legate alla membrana). Benché non possano essere
considerate delle proteine integrali di membrana, interagiscono con quest’ultime in vari processi metabolici.
Una delle principali differenze nella composizione chimica delle membrane tra le cellule eucariotiche e
procariotiche è che le cellule eucariotiche contengono nelle loro membrane degli steroli (ad esempio il
colesterolo). A seconda del tipo di cellula, gli steroli possono rappresentare dal 5% al 25% dei lipidi totali
della membrana eucariotica. Si tratta, inoltre, di molecole planari rigide, mentre gli acidi grassi molecole
flessibili. Molecole simili al colesterolo e agli steroli sono gli opanoidi (come il diploptene, un opanoide a
30 atomi di carbonio presente in numerosi batteri che svolge probabilmente una funzione stabilizzatrice della
membrana).
Uno degli aspetti più distintivi degli Archaea è rappresentato dalla composizione dei lipidi di membrana,
che differiscono da quelli osservati nei batteri e negli eucarioti: diversamente da questi due, in cui i legami
estere uniscono gli acidi grassi al glicerolo, gli Archaea possiedono dei legami etere tra il glicerolo e le
catene laterali idrofobiche. Inoltre, anziché contenere acidi grassi, possiedono delle catene laterali costituite
da unità ripetute di isoprene, un idrocarburo a catena ramificata.
La membrana citoplasmatica ha un ruolo fondamentale in molte funzioni:
funge da barriera di permeabilità, cioè separa l’interno della cellula dall’esterno ed impedisce il
passaggio passivo del contenuto citoplasmatico dall’interno della cellula verso l’esterno e viceversa;
funge da sede di ancoraggio di numerose proteine integrali, periplasmatiche e citoplasmatiche;
funge da sede di numerosi enzimi coinvolti nei processi di trasporto delle sostanze.
Infatti, molte sostanze piccole possono attraversare la membrana, mentre altre hanno bisogno di un sistema
di trasporto costituito proprio dalle proteine che fungono da carriers, cioè da trasportatori di sostanze.
Alcuni trasporti possono avvenire in assenza di energia, altri, invece, la richiedono.
La membrana è anche una delle sedi della conservazione dell’energia cellulare: può esistere in una forma
energeticamente carica, chiamata PMF (forza proton-motrice), nella superficie della quale si viene a creare
una separazione di cariche, in cui si hanno i protoni rivolti verso l’esterno e gli ioni ossidrili, quindi le
cariche negative, verso l’interno.
Il citoplasma è costituito da una soluzione acquosa contenente sali, zuccheri, amminoacidi ed una grande
varietà di enzimi e coenzimi.
La natura idrofobica della membrana citoplasmatica consente a quest’ultima di funzionare come una fitta
barriera, benché alcune piccole molecole idrofobiche possano attraversarla per diffusione; molte sostanze
polari e idrofiliche non sono in grado di attraversarla e richiedono per questo un sistema di trasporto
specifico. Ad esempio, gli ioni idrogeno non riescono ad attraversare la membrana perché risultano essere
carichi.
Le molecole d’acqua sono sufficientemente piccole, perciò riescono a passare tra le molecole fosfolipidiche
della membrana. Il trasporto dell’acqua può essere però accelerato da delle proteine, le acquaporine, che
sono dei sistemi di trasporto (ad esempio, l’acquaporina AqpZ, presente in Escherichia coli, importa o
esporta acqua dal citoplasma a seconda delle condizioni osmotiche della cellula).
Un numero ridotto di sostanze, tra cui il glicerolo, è in grado di attraversare la membrana per semplice
diffusione passiva. La diffusione passiva, o semplicemente diffusione, è un processo in cui delle molecole si
spostano da una regione ad alta concentrazione verso una zona a concentrazione minore.
Il tasso di tale diffusione dipende dal gradiente di concentrazione, cioè maggiore è la concentrazione
all’esterno della cellula e maggiore sarà la velocità con cui le molecole si sposteranno verso l’interno; se la
concentrazione della sostanza si mostra bassa, allora la velocità di diffusione risulta essere lenta. Quindi,
affinché si abbia un’adeguata assunzione di nutrienti per un processo di semplice diffusione passiva, è
necessario che il gradiente di concentrazione della sostanza tra l’esterno della cellula e l’interno sia alto.
La velocità di diffusione nelle membrane dotate di permeabilità selettiva aumenta quando intervengono
le proteine di membrana, note anche come proteine trasportatrici o carriers. In questo caso, la diffusione
che comporta l’utilizzo di tali proteine non viene più detta passiva ma diffusione facilitata. Nella diffusione
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facilitata, pertanto, il passaggio delle molecole è accelerato dalla presenza di molecole trasportatrici, le quali
trasportano il soluto dall’esterno verso l’interno della cellula. I carriers sono molto efficienti nel trasportare i
soluti più concentrati all’esterno: ciò significa che il gradiente di concentrazione c’è sempre, tuttavia, a
differenza della diffusione passiva, in cui la velocità del passaggio dall’esterno verso l’interno è bassa, le
proteine in questione non fanno altro che aumentare la velocità di diffusione anche quando la
concentrazione del soluto è bassa. Ciononostante, i carriers della diffusione facilitata non sono in grado di
trasportare i soluti quando la concentrazione appare maggiore all’interno della cellula. Siccome i
microrganismi vivono in ambienti in cui le fonti di nutrienti risultano essere molto basse e diluite, i
meccanismi di diffusione facilitata non sempre si dimostrano idonei e diventa necessario l’intervento di altri
sistemi di trasporto.
In queste condizioni i principali meccanismi di trasporto consistono in:
trasporto semplice;
traslocazione di gruppo;
sistema di trasporto ABC.
Tutti questi meccanismi di trasporto consistono in processi energia dipendenti.
IL TRASPORTO SEMPLICE
Il trasporto semplice è il meccanismo che permette il trasporto di soluti contro un gradiente di
concentrazione tramite energia. Per certi versi, questo tipo di trasporto è simile alla diffusione facilitata,
nella quale son presenti dei carriers che agiscono secondo gradiente di concentrazione. Anche qui esistono
tre diversi tipi di proteine che svolgono le seguenti funzioni:
uniporter, che trasportano una sostanza in una sola direzione attraverso la membrana;
symporter, che trasportano nella stessa direzione una molecola insieme ad un’altra sostanza,
solitamente un protone;
antiporter, che trasportano una sostanza in una direzione e simultaneamente ne trasportano un’altra
nella direzione opposta.
Un esempio è rappresentato dal batterio Escherichia coli, in grado di crescere in presenza del disaccaride
lattosio. Il lattosio viene captato dalle cellule mediante un meccanismo symporter, quindi viene trasportato il
lattosio insieme ad un’altra sostanza nella stessa direzione. Questo tipo di trasporto è
chiamato lac permeasi ed è un trasporto semplice, perché la permeasi richiede energia e, man mano che lega
una molecola di lattosio, la forza proton-motrice si riduce a causa del trasporto simultaneo del lattosio
assieme ad un protone all’interno della cellula. La forza proton-motrice è poi ristabilita nelle cellule
attraverso tutte le reazioni che liberano energia.
Il risultato finale di un semplice trasportatore – come la lac permeasi – è che si ha l’accumulo di un soluto, in
questo caso del lattosio, ad una concentrazione sufficiente per essere utilizzato dalla cellula e la produzione
di energia che servirà dopo alla cellula per il trasporto dello stesso lattosio e di altre sostanze. Col passare del
tempo, l’energia diminuisce in maniera graduale, giacché si ha costantemente e simultaneamente il trasporto
di un protone.
LA TRASLOCAZIONE DI GRUPPO
La traslocazione di gruppo è un processo di trasporto di attraversamento della membrana, nel corso del
quale una sostanza viene modificata chimicamente.
I sistemi maggiormente studiati riguardano il trasposto di zuccheri, come il glucosio ed il fruttosio, sempre
in Escherichia coli.
Questi composti vengono fosforilati durante il trasporto grazie ad un sistema, chiamato fosfotransferasi.
Questo sistema consiste in una famiglia di proteine, delle quali almeno 5 sono necessarie per trasportare uno
zucchero. Prima che quest’ultimo venga trasportato all’interno della cellula, le proteine del
sistema fosfotransferasi vengono anch’esse alternativamente fosforilate e defosforilate con un meccanismo
“a cascata”, finché la proteina di membrana, chiamata Enzima IIc, riceve un gruppo fosfato e fosforila, a sua
volta, lo zucchero nel processo di trasporto all’interno della membrana. Una piccola proteina fosfocarrier
chiamata HPr, l’enzima che la fosforila (Enzima I) e l’Enzima IIa sono proteine citoplasmatiche;
l’Enzima IIb si trova sulla superficie interna della membrana, mentre l’Enzima IIc è una proteina integrale di
membrana. La proteina HPr e l’Enzima I sono componenti non specifici del sistema fosfotransferasico,
pertanto possono trasportare ed intervenire nel processo di trasporto di numerosi zuccheri. L’Enzima II (a, b
e c) è anch’esso specifico, perciò ne esiste uno per ogni zucchero che viene trasportato.
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IL SISTEMA ABC
Il sistema ABC (ATP-Binding Cassette) è un sistema presente nei batteri, negli Archaea e anche negli
eucarioti. I trasportatori ABC utilizzano delle proteine di legame a localizzazione periplasmatica in
aggiunta ai componenti cellulari. Questo sistema coinvolge una proteina di legame che si lega al substrato,
un trasportatore di membrana ed una proteina che serve per l’idrolisi dell’ATP.
LE COLTURE CELLULARI
Le colture cellulari vengono utilizzate nei nostri sistemi soprattutto per definire la cosiddetta
“drug discovery”, ossia la scoperta di farmaci.
Le colture cellulari derivano da tessuti od organi animali e umani.
Esistono vari tipi di colture cellulari, i quali possono essere utilizzati tal quali, quindi come colture cellulari
sane che servono per osservare come certi composti risultano essere relativamente tossici nei confronti del
nostro organismo (per esempio, i fibroblasti della cute).
Le colture cellulari rappresentano anche un utilissimo supporto per la crescita e la riproduzione di virus.
Infatti, essendo strutture statiche non dinamiche, non possono – come i virus – assumere del materiale
dall’esterno, metabolizzarlo e riprodursi, ma necessitano di materiale biosintetico naturale per la propria
riproduzione.
Le colture madri derivano da tessuti od organi animali e umani e, mediante dei trattamenti proteolitici,
utilizzando un enzima come la tripsina collagenasi e l’EDTA, si possono disgregare i tessuti delle cellule
isolate.
Di conseguenza, da un organismo animale si possono ottenere le colture primarie, appunto quelle che
derivano direttamente da esso, che hanno una determinata morfologia e che possono essere molto utili negli
studi antitumorali ed antivirali, in cui inibiscono la crescita di una determinata cellula. Il loro compito è,
infatti, fungere come linea guida per notare come un determinato composto reagisce. Molto spesso si
sfruttano le colture primarie poiché il risultato che si ottiene è più simile a quello che succederebbe nel
nostro organismo.
Se si utilizzassero delle cellule trasformate, ovviamente l’esito non sarebbe particolarmente riconducibile a
ciò che avverrebbe all’interno di un organismo. Inoltre, possono essere cresciute per poche coltivazioni,
generalmente fino alla prima o alla seconda.
Attraverso delle trasformazioni spontanee od indotte, da quelle primarie si ottengono cellule trasformate o
colture secondarie. In questo caso circa il 75% delle cellule mantengono le caratteristiche della coltura
primaria (50-100 divisioni) e solo un restante 25% modifica il formato.
Al contrario, quando le cellule trasformate superano il numero di quelle primarie (se, ad esempio, si
moltiplicano con una velocità superiore delle cellule primarie) e si modificano totalmente, si hanno colture
continue o stabilizzate. In questa situazione si assiste a dei risultati ben diversi da ciò che accade
nell’organismo, dato che tali cellule risultano capaci di crescita illimitata, differiscono totalmente dalle
colture primarie per morfologia e comportamento e derivano da mutazioni spontanee o indotte.
Utilizzare le colture cellulari presenta dei grandi vantaggi:
larga disponibilità e numero di tipi di cellule, dal momento che ogni virus cresce in colture
differenti e specifiche, in cui può svilupparsi e riprodursi. Inoltre, normali cellule possono
servire come base di studio per l’attività proliferativa o per la risposta dell’organismo e
cellule tumorali (epiteliali o sanguigni) possono servire per la stessa attività;
grande disponibilità commerciale di media (terreni di coltura) e di fattori di crescita, quali il
siero e la tripsina;
possibilità di replicare gli esperimenti ottenendo potenzialmente sempre gli stessi risultati,
perché, agendo in modo corretto, in condizioni di sterilità ed eseguendo passi sperimentali
corretti, si ottiene semplicemente sempre lo stesso risultato accurato;
possibilità di produrre sostanze, ad esempio l’insulina, molto importanti commercialmente;
documentazione sull’isolamento e sulla conservazione (ad esempio sotto basse temperature
con dei crioconservanti);
controllo delle variabili ambientali (temperatura a 37°C circa e pH con una percentuale di
anidride carbonica al 5%);
evitare l’utilizzo di cavie e ridurre perfino la morte di animali durante gli esperimenti;
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possibilità di dimensionare gli esperimenti con finalità biotecnologiche.
Allo stesso tempo, queste colture cellulari presentano anche numerosi svantaggi:
metodi utilizzati in laboratorio molto specifici e laboriosi;
costo dei materiali richiesti (ad esempio cellule, siero, fattori di crescita, antibiotici per
inibire la crescita di microrganismi che potrebbero contaminare il terreno di crescita e
l’intera coltura cellulare ecc.);
sistemi semplificati rispetto ad un organismo integrato;
difficoltà nel correlare quali siano le concentrazioni potenzialmente attive in vitro (nel
sistema cellulare) con quelle che lo saranno effettivamente in vivo (nel sistema dinamico).
Le colture cellulari sono piuttosto importanti perché costituiscono il punto di partenza per studi di
attività antivirale, antiproliferativa od antitumorale. Infatti, le cellule rappresentano un utile
supporto per la ricerca di base, fungendo da modello sperimentale per la valutazione della
citotossicità (o attività antiproliferativa) e dell’attività antivirale, entrambi di composti di sintesi ed
estratti naturali.
Derivano da tessuti animali dai quali, mediante l’azione di agenti come la tripsina (agente
proteolitico), si riescono a distaccare e disgregare le cellule, in modo tale da poterle utilizzare per
studi futuri. Le cellule isolate provenienti dal tessuto animale si ricavano principalmente attraverso
il ruolo di tripsina, collagenasi ed EDTA.
Non tutte le cellule crescono con uno stesso andamento, il quale può essere più o meno
esponenziale in base alla velocità di crescita. Graficamente, la crescita delle cellule si può
rappresentare mediante una curva di crescita esponenziale, in cui le cellule crescono e si
moltiplicano in un terreno ottimale di crescita, raddoppiando di numero, fino a raggiungere la fase
stazionaria, nella quale il numero di cellule che si moltiplicano equivale a quello di cellule che
decedono. Se non si intervenisse durante questa fase, trasportando una data quantità di cellule in un
nuovo terreno di coltura per permetterne la sopravvivenza, le linee cellulari in questione andrebbero
incontro a senescenza e morte, aumentando il numero di cellule morte rispetto a quello di cellule
vive e determinando l’inevitabile totalità di cellule morte.
Tra la semina e la ripresa della crescita c’è un intervallo. Nella coltura primaria il tempo di
duplicazione è lento ed aumenta nei successivi passaggi in coltura, caratterizzando la linea cellulare
primaria.
Nella terza fase si nota la senescenza, con tempi di duplicazione progressivamente più lunghi – sino
alla morte – a meno che non intervenga una trasformazione che produce una linea cellulare
immortalizzata in grado di replicarsi indefinitamente.
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Al fine di mantenere la sterilità per la coltura cellulare, il laboratorio di biologia cellulare
dev’essere esclusivo; è necessario lavorare sotto cappa a flusso laminare, alla quale vanno
sostituiti periodicamente i filtri.
Per la sterilizzazione dei materiali vengono impiegati:
stufa a secco a 150°C per 3 ore, sfruttata per la vetreria non monouso (cilindri, becher,
bottiglie, ecc.);
autoclave (calore umido) ad 1 atm e 121°C, sfruttata per filtri o soluzioni saline, ossia
prodotti che devono essere buttati, neutralizzando qualsiasi tipo di microrganismo;
filtrazione a vuoto con pompa avente filtri da 0,33 μm, sfruttati per terreni di coltura o
soluzioni organiche, per far sì che vengano trattenute tutte le impurità ed eliminate in
seguito;
raggi γ, sfruttati per materiali di plastica.
LE LINEE CELLULARI
I sistemi di crescita sono differenti a seconda del tipo di cellule da far crescere. Esistono cellule
che crescono in:
adesione, ovvero quelle che crescono adese ad un lato della piastra, rimanendo aderenti.
Solitamente si tratta di cellule di origine nervosa, epiteliale o mesenchimale; insomma,
quelle che in vivo fanno parte di tessuti solidi. Inoltre, l’adesione consiste in un fenomeno
che richiede l’interazione di recettori di membrana con proteine adesive, adsorbite sulla
superficie della piastra di coltura;
sospensione, ovvero quelle che crescono liberamente nel terreno di coltura senza rimanere
attaccate. Solitamente si tratta di cellule di origine ematopoietica, le quali normalmente
vivono in un mezzo fluido.
Le cellule che crescono in adesione vengono definite linee in monostrato, quelle che crescono in
sospensione sono colture cellulari liquide.
Più in particolare, le cellule aderenti della prima tipologia crescono fino ad occupare l’intera
superficie disponibile e, per questo, il tipo di coltura è definito confluente, in quanto le cellule
occupano completamente lo spazio presente, andando a costituire un tappeto cellulare senza alcuni
spazi per la crescita. A confluenza, la crescita si arresta e le cellule devono essere trasferite in una
nuova fiasca, altrimenti andrebbero incontro a morte certa. Ad ogni duplicazione il numero di
cellule raddoppia, pertanto la popolazione cresce in maniera esponenziale.
Le cellule subconfluenti presentano piccoli spazi che loro stesse devono occupare.
Generalmente le linee tumorali umane derivano da cellule tumorali solide in monostrato, quali
tumori derivati dal melanoma della pelle, adenocarcinoma della mammella, carcinoma squamoso
polmonare, carcinoma epatocellulare, carcinoma della prostata, sarcoma di Ewing e carcinoma
nasofaringeo umano, tutti quanti utilizzati nel corso di studi di attività antiproliferativa.
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Per poter trasferire le cellule confluenti da un contenitore madre ad alcuni più piccoli in cui è
contenuto il terreno di coltura fresco, prima di tutto bisogna controllare che quelle cellule abbiano
raggiunto il proprio stato di confluenza in modo ottimale. La corretta avvenuta di questo processo
si piò controllare al microscopio ottico.
Una volta osservata la fiasca al microscopio e stabilito che le cellule sono cresciute in maniera
ottimale, si può eliminare tranquillamente il terreno dalla fiasca (e le eventuali cellule morte che si
sono staccate), dato che le cellule resterebbero adese ad un lato di essa. In seguito, per eliminare
qualsiasi residuo di terreno acidificato che potrebbe interagire con l’azione della tripsina (enzima
proteolitico che serve per il distacco cellulare), si effettuano due lavaggi con soluzione fisiologica
PBS, altrimenti la tripsina non potrebbe agire. A questo punto, si aggiunge tripsina-EDTA, si
attende, lasciando agire le sostanze, il distacco delle cellule, eventualmente aiutandosi con dei
leggeri colpetti alla fiasca. Avvenuto il distacco, lo si può controllare per sicurezza al microscopio.
Fatto ciò, le cellule possono essere sospese nuovamente in un nuovo terreno fresco.
Tuttavia, avendo costituito un tappeto cellulare, anche se si sono staccate, le cellule in monostrato
risultano essere in ammassi e non singole. Dovendo trasferirle nella maniera migliore possibile, le
cellule devono essere disgregate, fenomeno che aiuta notevolmente anche la loro conta. Per ovviare
a questo problema, in un angolo della fiasca bisogna spipettarle in modo da risospenderle
uniformemente. Successivamente, vengono contate le cellule per stabilire la densità e vengono
preparate le nuove fiasche con il volume adeguato di terreno di crescita. Il passaggio finale consiste
nel distribuire il volume della sospensione stabilito in ogni fiasca e nell’incubare in coltura a 37°C
ed a 5% di CO2, affinché possano crescere nel giro di qualche giorno.
Per quanto riguarda le linee in sospensione, la procedura è diversa perché più semplice. Tra le tante
differenze non vi è l’eliminazione del terreno (si eliminerebbero perfino le cellule), il lavaggio con
soluzione fisiologica (le cellule sono sospese nel terreno) e l’aggiunta di tripsina (non è necessario
staccarle perché lo sono già). A questo punto, le cellule risultano pronte, come nel caso di cellule
monostrato appena tripsinizzate.
Le linee cellulari di origine emopoietica crescono in sospensione, fornendo grandi quantità di
cellule (densità massima). Queste possono crescere come:
cellule singole, per le quali non è fondamentale spipettarle ma basta trasferire un certo
quantitativo di cellule dalla fiasca madre a quelle figlie nel nuovo terreno di coltura;
piccoli clumps, quindi piccoli ammassi;
grandi clumps, caso in cui è importante spipettarle più volte per poterle disgregare e far sì
che le cellule possano diventare singole.
Le cellule emopoietiche utilizzate sperimentalmente per lo studio di tumori generalmente derivano
da leucemie T-linfoblastiche o B-linfoblastiche.
Le metodiche per il passaggio di queste colture sono decisamente più semplici, sebbene come primo
passaggio ci sia sempre il controllo preliminare della fiasca al microscopio, affinché si possano
eventualmente notare cellule cresciute in modo ottimale e controllare se c’è stata acidificazione del
terreno (il pH perfetto è neutro ma, se rimane basico, significa che le cellule non sono cresciute o
sono morte anche prima di essersi riprodotte). Il passo successivo è spipettare per rompere gli
aggregati ed ottenere una sospensione monocellulare, si contano le cellule per stabilire la densità
raggiunta e si diluiscono, in modo tale da raggiungere una densità ottimale di crescita, le cellule
nelle nuove fiasche col terreno fresco. Infine, si può incubare a 37°C al 5% di CO2.
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costituenti la griglia di conta, è posizionato un supporto di montaggio del vetrino. Alla base di tutte
queste componenti è collocato un vetro spesso.
Più dettagliatamente, la griglia costituisce il quadrato dove si devono contare le cellule. I quadrati
sono quattro e contengono a loro volta altri sedici quadratini, all’interno dei quali sono presenti le
cellule da contare attraverso una modalità “a serpentina”.
In seguito, si effettua una media del numero di cellule, poi moltiplicata per un fattore di diluizione e
per 10000, in modo tale da determinare il numero di cellule per 1 mL.
Le cellule fatte crescere vengono utilizzate per l’attività antiproliferativa o per quella antivirale ma,
nonostante tutto, lo scopo di entrambe è la scoperta e lo studio di nuovi farmaci, in cui sono presenti
numerosi composti sintetizzati da chimici farmaceutici.
Dopo la sintesi segue il processo degli studi SAR (relazione struttura-attività) per notare l’attività di
quei composti nei confronti del sistema biologico da analizzare. A questo punto, si effettuano studi
di analoghi strutturali in modo tale da determinare tramite screening il livello di citotossicità e di
attività antivirale. Una volta fatto ciò ed identificati composti potenzialmente attivi (quali antivirali
ed antitumorali), il passo successivo è l’identificazione del possibile bersaglio molecolare dei
composti appena scoperti.
LA SOLUBILIZZAZIONE DI UN COMPOSTO
Per analizzare l’attività di un determinato campione sia a livello citotossico che a livello antivirale,
il composto – sotto forma di polvere – non dev’essere messo a contatto così con sistemi cellulari,
bensì dev’essere solubilizzato. Generalmente la solubilizzazione avviene per mezzo del
dimetilsolfossido (DMSO) per ottenere uno stock alla concentrazione ottimale di 100 mM.
La quantità di solvente da aggiungere ad una determinata pesata per portarla alla concentrazione
stock di 100 mM è data dalla proporzione tra il peso del composto con il peso molecolare e la
molarità richiesta, oltre ad altre variabili indicate.
Le pesate ottimali di composto iniziale a cui aggiungere il solvente si aggirano attorno a 5 o 10 mg.
Una volta solubilizzato il composto, è necessario valutare la citotossicità di determinate linee in
sospensione, ad esempio.
Per fare questo, il composto, partendo da uno stock di 100 mM, dev’essere diluito, dal momento che
si tratta di una concentrazione troppo elevata per poter essere messa a contatto con le cellule.
Proprio per questo motivo viene diluito secondo diluizioni seriali, in quanto sono diluizioni
continue che terminano col raggiungimento di una concentrazione ottimale da valutare nel sistema
cellulare analizzato. Comunemente si tratta di 8 diluizioni e la diluizione più elevata è quella di 100
mM e quella più bassa corrisponde a 0,001 mM. Il fine ultimo della diluizione è mettere a contatto
il sistema cellulare considerato con varie concentrazioni e considerare quale eventualmente può
essere la più attiva.
Avvenute le diluizioni e scoperta quella ottimale, oltre al plaque reduction neutralization test
(PRNT), esiste il saggio MTT, il quale permette di valutare la vitalità cellulare. L’MTT è un sale
tetrazolio che viene metabolizzato dall’enzima mitocondriale succinato deidrogenasi in un prodotto
di colore blu, il formazano. La quantità prodotta di questo composto è direttamente proporzionale
al numero di cellule viventi. Ne consegue che più cellule vive sono presenti e più formazano viene
prodotto. L’MTT viene fatto agire per circa 4 ore. Dopo le 4 ore di incubazione, il formazano
prodotto viene solubilizzato mediante l’aggiunta di una miscela costituita da:
NP-40 (nonyphenil-polietilene-glicol), detergente che lisa le cellule, dato che, per poter
liberare formazano, che non attraversa la membrana plasmatica, le cellule devono essere
lisate;
isopropanolo, alcol che rompe i granuli di formazano;
HCl, neutralizzante l’indicatore di pH, il cui colore potrebbe interferire nella lettura della
densità ottica del formazano allo spettrofotometro a 570 nm.
I TERRENI DI COLTURA
I terreni di coltura sfruttati per le colture cellulari sono differenti per il fatto che cellule che
derivano da esseri umani, animali e batteri possiedono necessità nutrizionali differenti. I terreni
base disponibili in commercio contengono tutti i componenti nutritivi necessari alla crescita delle
cellule. Proprio per questo tutti i terreni di coltura possiedono una determinata concentrazione di
amminoacidi, sali e glucosio (alcune volte già pronti, altre volte da preparare da zero), motivo per
cui i terreni differiscono tra loro proprio per queste componenti.
I più comuni terreni base di coltura sono:
MEM (Minimum Essential Medium);
DMEM (Dulbecco’s modification of MEM);
RPMI (Roswell Park Memorial Institute).
Il sistema tampone utilizzato nei terreni è bicarbonato/acido carbonico.
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Per l’indicazione visiva di pH i terreni contengono rosso fenolo, il quale vira a seconda del pH:
inizialmente, quando il terreno è fresco e contiene tutti i nutrienti, il pH è basico ed assume una
colorazione rosso-viola; man mano che le cellule utilizzano i nutrienti e danno luogo a prodotti di
scarto, si ottiene un pH neutro dalla colorazione rosso-arancio, fino a virare totalmente ad un pH
acido che conferisce una tipica colorazione gialla. A questo punto, le cellule devono essere
obbligatoriamente trasferite in un nuovo terreno fresco, altrimenti andranno incontro a morte.
I terreni di coltura sono importanti per la coltivazione di batteri in laboratorio, fenomeno che
richiede l’impiego di “mezzi di coltura”, con i quali si cerca di riprodurre artificialmente un
ambiente in grado di soddisfare le esigenze metaboliche del batterio che si desidera coltivare.
I terreni di coltura contengono tutte quelle sostanze organiche ed inorganiche necessarie per la
crescita del microrganismo. La composizione chimica dei diversi terreni di coltura è naturalmente
differente in relazione alle necessità nutrizionali del batterio che si desidera coltivare. In generale,
essi sono composti da carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo, zolfo ed oligoelementi (ferro,
calcio, cobalto, rame, manganese, ecc.).
I terreni di coltura possono essere di tre tipologie, vale a dire liquido, solido e semisolido.
Il terreno liquido, detto anche brodo nutritivo, è costituito da elementi nutritivi, in genere un
carboidrato (destrosio) o una fonte di carbonio organico sotto forma di digerito peptico di tessuto
animale (peptone) o digerito pancreatico di caseina o gelatina, disciolti in acqua distillata alle
concentrazioni richieste.
Il terreno solido è costituito da componenti del brodo a cui si aggiunge agar (1,5-2%), polisaccaride
formato da più molecole di galattosio estratto da alcune alghe rosse marine e non utilizzato dai
batteri come elemento nutritivo, utile solo per rendere solido il terreno liquido.
L'agar, un agente solidificante, passa allo stato liquido alla temperatura di circa 100°C, rimane
liquido fino a circa 45°C e solidifica a temperatura ambiente.
Il terreno semisolido è generalmente utilizzato per individuare la motilità microbica, vale a dire
notare se alcuni batteri possiedono estroflessioni tubulari (i flagelli) che permettono il movimento; è
costituito da una percentuale di agar (0,3-0,5%) inferiore a quella che si utilizza in un terreno
solidificabile. L’LB liquido appare limpido e sterile, mentre quello con agar opaco per la presenza
di un agente solidificante.
I terreni possono avere una funzione di mantenimento o di trasporto.
Nel primo caso permettono il mantenimento per un periodo di tempo più lungo dei microrganismi
isolati; nel secondo caso sono semisolidi e non posseggono alcun carattere nutrizionale ma
permettono la vitalità del microrganismo.
Inoltre, possono essere suddivisi in chimicamente definiti, dei quali si conosce l'esatta
composizione, e complessi, dei quali non si conosce l'esatta composizione, come il caso dei
composti biologici quali sangue, latte, lievito, estratti di carne, ecc.
Infine, i terreni di coltura si possono suddividere in elettivi, selettivi e differenziali.
I primi sono quelli sui quali, pur sviluppandosi molte specie microbiche, la specie di elezione cresce
in un tempo più breve (come il terreno di Löffler per i batteri della difterite); i secondi sono quelli
che contengono sostanze batteriostatiche che inibiscono o rallentano lo sviluppo di molte specie
microbiche (come il terreno di Lowenstein-Jensen per i batteri della tubercolosi); i terzi sono tutti
quei terreni che contengono sostanze indicatrici di particolari reazioni biochimiche che avvengono
nel terreno stesso, talvolta causandone cambiamenti di colore (come l’MSA per lo Staphylococcus
aureus).
Protocollo sperimentale
Il protocollo sperimentale generalmente comprende due fasi:
fase 1, in cui avviene la preparazione dei terreni di coltura Luria-Bertani liquido (LB) e
Luria-Bertani solido (LB agar);
fase 2, in cui avviene l’isolamento su terreno solido.
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Il passo successivo è l'isolamento di microrganismi su terreno solido, avente due finalità, ovvero
ottenere una:
coltura microbica pura (un solo tipo di microrganismo e non una miscela) a partire da una
coltura mista;
colonia singola (cellule derivanti dalla stessa cellula madre) omogenea per caratteristiche
fisiologiche e biochimiche.
Le colonie singole si ottengono diluendo progressivamente una semina di microrganismi sulla
superficie del terreno solido.
Alla fine, si potranno notare delle cellule figlie singole da isolare e trasferire per poter farle crescere
correttamente.
Batteri
LA PARETE CELLULARE
Una caratteristica della parete cellulare corrisponde all’essere la struttura più importante dei
batteri. Delimita esternamente la cellula batterica al di fuori della membrana citoplasmatica, è una
struttura estremamente fondamentale per garantire l’integrità cellulare ed è posseduta
universalmente da tutti i batteri, sia Gram + che Gram -. È assente nei micoplasmi e nel genere
Clamidia, perché la loro parete ha una composizione differente.
Non ha corrispondenza negli eucarioti.
L’aspetto delle pareti cellulari dei Gram + risulta essere molto differente rispetto a quella dei Gram
-: in questi ultimi appare multistratificata e piuttosto complessa, mentre nei primi costituita da un
singolo tipo di molecola ed è piuttosto spessa.
LE FUNZIONI E LE PROPRIETÀ
Ha la proprietà di assicurare protezione alla cellula nei confronti di agenti esterni e dalla lisi
osmotica, definisce la differente forma di batteri con una struttura rigida e piuttosto compatta e,
inoltre, fornisce un bersaglio all’azione selettiva tossica di alcuni antibiotici che interferiscono a
livello molecolare con il processo di biosintesi del principale componente della parete.
Trattasi di un polimero, il peptidoglicano, formato da due amminozuccheri alternati tra loro e uniti
dal legame b-glicosidico. I principali elementi sono l’N-acetilglucosammina e l’N-acetilmuramico,
oltre che un piccolo gruppo di amminoacidi rappresentato da L-alanina, D-alanina, acido D-
glutammico ed L-lisina o alternativamente si può avere l’acido amminopimelico, detto anche DAP.
Questi costituenti sono assemblati in modo tale da formare un’unità di ripetizione chiamata
glicantetrapeptide.
Nel polimero peptidoglicanico l’acido muramico di un’unità strutturale risulta legato all’N-
acetilglucosammina dell’unità strutturale successiva mediante un legame b-1à4, portando alla
formazione di macromolecole lineari.
I diversi polimeri lineari sono poi collegati in modo trasversale tra loro in corrispondenza di catene
amminoacidiche mediante i legami peptidici che si stabiliscono generalmente tra la D-alanina
terminale di un tetrapeptide e l’acido meso-diamminopimelico in posizione 3 del polipeptide
adiacente.
Nei batteri Gram + questo avviene più frequentemente attraverso un ulteriore corto peptide
omopolimerico che viene costituito generalmente da 5 o 6 molecole di uno stesso amminoacido
mediante legami peptidici che si stabiliscono tra il gruppo carbossilico della D-alanina terminale di
un tetrapeptide e l’amminogruppo della L-lisina in posizione 3 del tetrapeptide adiacente.
L’insieme di polimeri lineari, collegati trasversalmente tra di loro a livello dei tetrapeptidi, forma
così una struttura piuttosto rigida che avvolge internamente la cellula batterica. Nei batteri Gram +
il peptidoglicano più rappresentativo si ritrova circa nel 90% della parete cellulare, mentre nei Gram
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- soltanto il 10% della parete è costituito da peptidoglicani. La parte restante della parete è costituita
dalla membrana esterna.
Molti batteri Gram + possiedono poi all’interno della parete cellulare alcuni polisaccaridi di acidi
chiamati acidi teicoici: sono polimeri di glicerolo e ribitolo congiunti da gruppi fosfato. A questi
gruppi sono adesi degli amminoacidi, come D-alanina, e zuccheri, come il glucosio. Probabilmente
acidi teicoici si prolungano per tutta la superficie del peptidoglicano, conferendo alla parete una
carica negativa, di cui sono caratterizzati.
Il ruolo svolto da queste molecole si presume contribuisca a stabilizzare la struttura della parete
stessa. I batteri Gram - non possiedono acidi teicoici.
Il peptidoglicano può essere distrutto dall’azione di numerosi agenti chimici: uno di questi è
rappresentato dal lisozima, una proteina che rompe i legami b-1à4 tra l’N-acetilglucosammina e
l’acido acetilmuramico, indebolendone fortemente la struttura.
L’acqua, a questo punto, può entrare all’interno della cellula, facendola rigonfiare e scoppiare in un
fenomeno chiamato lisi cellulare.
Il lisozima viene isolato dalle secrezioni animali come la saliva e le lacrime; probabilmente svolge
la funzione di prima linea di difesa nei confronti delle infezioni batteriche.
Se ad una sospensione cellulare viene aggiunta una concentrazione adeguata di un soluto come il
saccarosio, non in grado di penetrare la cellula, allora la pressione del soluto all’esterno non fa altro
che bilanciare quella presente all’interno della cellula. In questo caso allora si hanno delle
cosiddette condizioni isotoniche, in cui il lisozima può digerire il peptidoglicano ma l’acqua non
penetra all’interno della cellula, quindi non avviene la lisi, ma si forma una struttura detta
protoplasto, vale a dire un batterio che ha perso la parete cellulare.
Se poi i protoplasti stabilizzati in una soluzione isotonica vengono trasferiti in acqua, allora vanno
immediatamente incontro a lisi.
La struttura e la composizione chimica della parete cellulare degli Archaea differisce da quella dei
batteri: le loro pareti sono prive di peptidoglicani ma sono caratterizzate da una composizione
abbastanza eterogenea. Alcune specie possiedono all’interno della parete un costituente
polisaccaridico molto simile al peptidoglicano, che prende il nome di pseudopeptidoglicano; la
struttura non è altro che formata da unità ripetute di N-acetilglucosammina ed acido N-
acetilalosammiluronico, che sostituisce quello muramico. Tale struttura si differenzia perché il
legame glicosidico non è più b-1à4 bensì b-1à3.
Le pareti cellulari di altre specie di Archaea possono essere prive sia di peptidoglicani che di
pseudopeptidoglicani e composte da polisaccaridi, glicoproteine e proteine.
Oltre al peptidoglicano, i batteri Gram - possiedono una membrana esterna: è costituita soltanto da
fosfolipidi e proteine, come la membrana citoplasmatica (il doppio strato fosfolipidico), ma
contiene anche polisaccaridi.
I lipidi e i polisaccaridi sono strettamente connessi in modo tale da formare un complesso
lipopolisaccaridico; a causa della sua presenza, la membrana esterna viene chiamata anche LPS o
strato lipopolisaccaridico.
La molecola di LPS è costituita da tre porzioni:
una porzione lipidica (lipide A), che rappresenta l’endotossina vera e propria, ossia tossine
contenute all’interno del batterio che vengono rilasciate solo quando questo va incontro a
lisi. Il lipide A è composto da un glicolipide, formato da un disaccaride (solitamente una
glucosammina fosforilata) che esterifica con una serie di acidi grassi saturi, dai 12 ai 16
atomi di C, formanti lo strato lipidico interagente con il suo ambiente interno. Al lipide A è
legata una porzione polisaccaridica, proiettata all'esterno della membrana e composta a sua
volta da due parti:
una catena di zuccheri (parte centrale o core) con struttura costante in tutti i Gram -
appartenenti alla stessa specie;
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una lunga catena polisaccaridica (antigene O) di composizione differente nei batteri
appartenenti alla stessa specie con spiccate proprietà antigeniche.
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mentre un secondo anello, l’anello P, è ancorato al peptidoglicano della parete cellulare. Un
altro gruppo di anelli, detti MSC, sono localizzati all’interno della membrana
citoplasmatica, in cui l’anello C si trova direttamente nel citoplasma.
Le proteine MOT, ancorate alla membrana citoplasmatica, controllano il motore, ovvero una
porzione che permette il movimento.
Il movimento dei flagelli avviene attraverso la loro rotazione in corrispondenza del corpo basale e
del gancio. I flagelli batterici non presentano, a differenza delle ciglia degli organismi eucarioti,
movimento ondulatorio, bensì hanno un movimento rotatorio. Quest’ultimo può avvenire sia in
senso orario che in senso antiorario.
Il senso della rotazione (oraria od antioraria) viene condizionato da alcuni chemiorecettori di
superficie che corrispondono a degli stimoli ambientali. L’energia che determina il movimento
rotatorio è generata dal potenziale di membrana durante il trasporto degli elettroni, pertanto nel
corso della fosforilazione ossidativa. Il movimento di microrganismi con una disposizione dei
flagelli polari o lofotrica si dimostra molto diversa da quella peritrica.
Nei microrganismi flagellari peritrichi il movimento avviene in linea retta ma in modo lento e
uniforme. Il movimento in avanti è dato dalla rotazione di tutti i flagelli che vanno a costituire, una
volta che ruotano, un unico fascio in senso antiorario. La rotazione in senso orario induce la cellula
a capovolgersi ma successivamente, ritornando alla rotazione antioraria, la cellula viene guidata in
una nuova direzione.
I microrganismi con distribuzione dei flagelli polari possiedono un andamento molto più rapido,
sebbene si muovano a scatti. Le cellule cambiano direzione invertendo la rotazione flagellare. Nel
caso di microrganismi che hanno flagelli unidirezionali, le cellule cambiano direzione fermandosi
periodicamente e riorientando i flagelli, andando poi avanti in un’altra direzione.
I batteri non si muovono sempre in maniera casuale, ma sono attratti da nutrienti – zuccheri o
amminoacidi – oppure vengono respinti da sostanze nocive e da prodotti di scarto.
Il fenomeno della chemiotassi corrisponde al movimento di avvicinamento o allontanamento da
sostanze attrattive o repellenti.
Molte delle conoscenze sulla chemiotassi derivano da studi di batteri di Escherichia coli, che
possiede flagelli peritrichi.
In assenza di una sostanza attraente generalmente la cellula si muove in modo casuale.
Se fosse presente un gradiente chimico di una sostanza attraente, i movimenti sarebbero molto più
lineari ed orientati.
Il fenomeno della chemiotassi può essere, quindi, dimostrato sperimentalmente osservando il
comportamento dei batteri nel gradiente chimico prodotto dall’inserimento di un sottile tubo
capillare pieno di una sostanza attrattiva in presenza di una sospensione cellulare. Man mano che la
sostanza attrattiva diffonde dal capillare, i batteri si muoveranno verso di essa e risaliranno
all’interno del tubo capillare. Il numero di batteri presenti all’interno del capillare dopo un breve
periodo di tempo riflette qual è la forza di attrazione della sostanza attraente ed il rispettivo grado
di chemiotassi.
LE ENDOSPORE
Molti batteri Gram + sono in grado di generare al proprio interno una struttura che risulta essere
quiescente e particolarmente resistente chiamata endospora.
Sono strutture molto resistenti agli stress ambientali, quali:
il calore;
le radiazioni UV;
tutti i tipi di radiazioni g;
gli agenti chimici tossici;
la disidratazione (essicamento).
20
Appaiono al microscopio come strutture fortemente rifrangenti, quindi si evidenziano come
strutture incolori in batteri trattati con blu di metilene o altri coloranti semplici.
I batteri che formano endospore abitano comunemente il suolo; i generi come Bacillus e
Clostridium sono i più studiati.
Studi di microscopia elettronica hanno rilevato che la spora risulta avere una struttura molto
complessa: spesso risulta essere circondata da un sottile strato, chiamato esosporio, molto delicato,
sotto il quale è presente una tunica sporale, composta da vari strati proteici e che può raggiungere
uno spessore notevole.
Essendo impermeabile a molte molecole tossiche, la tunica è responsabile della resistenza delle
spore all’attacco degli agenti chimici.
Inoltre, si pensa che sia la sede degli enzimi coinvolti nel processo di germinazione, ossia il
processo inverso alla formazione della spora (sporulazione): in condizioni avverse si trasformano in
cellule quiescenti, poiché le spore fanno sì che il batterio non muoia e possa resistere in quelle
situazioni; tuttavia, in quei momenti non sarà metabolicamente attivo.
Nel momento in cui le condizioni ambientali dovessero tornare ad essere favorevoli, si assisterà al
processo di germinazione, portando il batterio da essere totalmente inerte a metabolicamente
attivo.
Al di sotto della tunica vi è un altro strato, il cortex, che può arrivare a rappresentare circa la metà
del volume della spora; è costituito da peptidoglicani con un numero di legami crociati inferiore
rispetto a quello delle cellule vegetative.
La parete sporale è all’interno della corteccia e circonda il protoplasto o core, il quale contiene le
normali strutture cellulari, ma risulta essere metabolicamente inattivo.
Una sostanza chimica caratteristica delle endospore ma assente nelle cellule vegetative è l’acido
dipicolinico, che si trova all’interno del core.
Le spore presentano anche un’alta concentrazione di ioni calcio, i quali formano dei complessi con
l’acido dipicolinico. Questo complesso rappresenta circa il 10% del peso dell’endospora e ha la
funzione di ridurre la presenza di acqua all’interno di essa, facilitando la disidratazione. Inoltre, si
intercala nel DNA conferendo stabilità alla spora in seguito alla denaturazione che si può avere per
riscaldamento.
Il processo di formazione delle spore di norma ha inizio quando la crescita cellulare cessa per via
della carenza di nutrienti.
In Bacillus subtilis l’intero processo di sporulazione avviene in circa 8 ore e richiede che cessi la
produzione di proteine coinvolte nelle funzioni vegetative della cellula e che vengano prodotte delle
proteine specifiche e fondamentali per la spora.
Queste ultime catalizzano tutta una serie di processi che determinano la trasformazione di una
cellula vegetativa metabolizzante in un’endospora disidratata metabolicamente inattiva ma molto
resistente, facendo sì che il batterio non muoia.
L’evento iniziale della sporulazione è la formazione di un filamento assiale di materiale nucleare:
in questo stadio il cromosoma si rilassa a formare un filamento assiale disposto secondo l’asse
maggiore della cellula.
In seguito, si ha l’invaginazione della membrana cellulare fino a racchiudere una parte del DNA
con la formazione di un setto trasversale, che divide il protoplasto in due comparti diseguali
contenenti ciascuno un cromosoma completo.
La membrana poi continua a crescere fino ad inglobare la spora immatura dentro una seconda
membrana.
Di conseguenza, ha inizio la sintesi della corteccia che si forma nello spazio tra le due membrane e
si associa con un accumulo di calcio e acido dipicolinico.
Successivamente si formano le tuniche proteiche intorno alla corteccia, per poi avere la
maturazione della spora.
Infine, gli enzimi litici distruggono lo sporangio e la spora viene liberata nell’ambiente circostante.
21
Il processo che trasforma le cellule quiescenti in metabolicamente attive è la germinazione,
composta da 3 fasi:
1. Attivazione à un’endospora non riesce a germinare nemmeno in condizioni favorevoli se
non viene attivata. L’attivazione perciò è un processo che prepara le spore alla germinazione
ed avviene attraverso vari fattori, tra cui l’esposizione al calore;
2. Germinazione à fase vera e propria della fuoriuscita da parte della spora dallo stato di
quiescenza. È caratterizzata da una serie di eventi, ossia:
- Rigonfiamento della spora;
- Rottura o riassorbimento della tunica sporale;
- Perdita della resistenza al calore e agli stress ambientali;
- Scomparsa della rifrangenza;
- Rilascio di tutti i componenti della spora;
- Aumento dell’attività metabolica.
Molti dei normali metaboliti e nutrienti possono innescare il processo di germinazione in
seguito al processo di attivazione;
3. Esocrescita à il protoplasto della spora sintetizza nuovi componenti, riemerge dai resti della
tunica e si sviluppa nuovamente un batterio che risulta essere metabolicamente attivo.
LA CRESCITA MICROBICA
Per ottenere energia e costruire dei nuovi componenti cellulari, gli organismi devono avere a
disposizione numerosi nutrienti, definendo così tutte le sostanze che vengono utilizzate per i
processi di sintesi e produzione di energia necessari per far vivere, crescere e riprodurre la cellula
microbica.
Circa il 95% del suo peso secco è costituito da numerosi elementi, tra i quali C, H, N, P, S, K e così
via; vengono definiti macronutrienti perché sono necessari alla cellula in grandi quantità. Alcuni
di questi sono presenti nella cellula sotto forma di cationi e sono d’aiuto in vari processi.
Tutti gli organismi hanno bisogno anche di quelli che vengono definiti micronutrienti, il cui
fabbisogno risulta essere minimo, in piccole tracce. Questi elementi – come Mn, Zn, Co e Cu –
sono necessari a tutte le cellule.
In natura i micronutrienti risultano essere ubiquitari e sono generalmente componenti di enzimi e
cofattori.
I TERRENI DI COLTURA
I terreni di coltura sono costituiti da una miscela di composti biologici o sintetici, organici o
minerali, capaci di creare un ambiente ottimale affinché i microrganismi possano crescere nelle
migliori condizioni. La coltivazione di batteri in laboratorio richiede l'utilizzo di mezzi di coltura,
con i quali si cerca di riprodurre in maniera artificiale un ambiente in grado di soddisfare tutte le
esigenze nutrizionali di cui i microrganismi hanno necessità per poter crescere. Devono avere
determinati nutrienti, che sono differenti a seconda del microrganismo che si vuole far crescere,
deve avere un opportuno grado di umidità, un opportuno valore di pH ed ovviamente dev’essere
sterile. I terreni possono essere definiti:
sintetici, se si conosce l'esatta composizione chimica;
complessi, se non si conosce la composizione chimica;
selettivi, se necessari per far crescere determinate popolazioni microbiche ed inibirne altre;
differenziali, se generalmente è presente un indicatore, il quale permette di distinguere
specie batteriche che crescono in uno stesso ambiente.
I terreni vengono ulteriormente divisi in liquidi e solidi. I liquidi sono i brodi, mentre i solidi
contengono l'agar, un agente solidificante che serve per far crescere i microrganismi in un ambiente
solido.
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LA SCISSIONE BINARIA
La sequenza completa di eventi compresi tra la formazione di una nuova cellula e la successiva
divisione cellulare costituisce il cosiddetto ciclo cellulare. La riproduzione degli organismi
procarioti avviene in genere attraverso un processo che viene detto scissione binaria, in cui una
cellula si allunga, subisce la replicazione del proprio cromosoma e le molecole di DNA
neosintetizzate si separano e si distribuiscono in modo tale che ciascuna metà della cellula riceva un
singolo cromosoma. Nella regione mediana della cellula si ha poi la formazione di quello che viene
definito setto divisorio, che divide la cellula parentale in due cellule figlie identiche alla cellula
madre, ognuna provvista di un proprio cromosoma.
I cromosomi della maggior parte degli organismi procarioti sono circolari. Ogni cromosoma
circolare reca un sito in corrispondenza del quale prende avvio la replicazione, definito origine
della replicazione o semplicemente origine. La replicazione si arresta in corrispondenza del sito
terminale situato esattamente nella regione opposta a quella di origine. Numerose proteine sono
essenziali per la divisione cellulare, ovvero le proteine Fts (proteine filamentose sensibili alla
temperatura), all'interno delle quali sono presenti le FtsZ, proteine filamentose studiate in
Escherichia coli.
Con il termine di sepimentazione viene indicato il processo di formazione di una parete trasversale
tra 2 cellule figlie. Il processo viene suddiviso in diverse fasi:
1. selezione del sito in corrispondenza del quale viene costruito il setto;
2. assemblaggio di una struttura specializzata, detta anello Z, che suddivide la cellula in due
unità identiche;
3. congiunzione dell’anello Z alla membrana plasmatica e componenti della parete cellulare;
4. assemblaggio di tutto l'apparato di sintesi della parete;
5. costruzione dell'anello Z;
6. formazione del setto divisorio.
Prima che possa avvenire la divisione cellulare, è necessario che del nuovo materiale parietale
venga aggiunto a quello preesistente, in modo tale che non si abbia la perdita dell'integrità
strutturale. Ci sono degli enzimi, chiamati autolisine, che hanno una funzione molto simile al
lisozima, presente nelle secrezioni come lacrime e saliva, che rompe i legami crociati
peptidoglicano, il legame β-1à4. Le autolisine sono presenti nel divisoma e provocano delle piccole
fessure nella parete a partire dell'anello formato dalle proteine FtsZ; in questo caso, tramite queste
piccole fessure, nuovo materiale parietale può essere aggiunto alla parete. Durante la crescita
cellulare, la sintesi di nuovo peptidoglicano richiede la rottura controllata da parte delle autolisine,
quindi del materiale preesistente, e la contemporanea inserzione di nuovo peptidoglicano attraverso
queste piccole fessure.
Un ruolo fondamentale in questo processo è svolto dal bactoprenolo, che ha una funzione di
trasporto. Esso è un alcol a 55 atomi di carbonio, dunque fortemente idrofobico, che porta legato un
precursore peptidoglicano costituito da N-acetilglucosammina, acido N-acetilmuramico ed un
pentapeptide. Il bactoprenolo trasporta i precursori del peptidoglicano attraverso la membrana,
rendendoli sufficientemente idrofobici da poter passare attraverso la parte interna della membrana
citoplasmatica; una volta raggiunto il periplasma, il bactoprenolo interagisce con gli enzimi che
intervengono nell'inserzione di precursori nel punto di crescita della parete cellulare e nella catalisi
dei legami glicosidici.
La tappa finale della sintesi della parete cellulare è la reazione di transpeptidazione, caratterizzata
dalla formazione di legami peptidici crociati tra residui di acido muramico di catene adiacenti di
peptidoglicano.
Temperatura: è uno dei fattori ambientali più importanti, se non il più importante, essendo in
grado di influenzare la crescita e la sopravvivenza di un determinato microrganismo in due modi
che risultano essere opposti. All'aumentare della temperatura, le reazioni chimiche ed enzimatiche
della cellula procedono ad una velocità maggiore e la crescita risulta essere sempre più rapida;
24
tuttavia, oltre certi valori di temperatura alcune proteine possono denaturarsi in modo irreversibile,
dunque esiste un intervallo di temperatura in cui le funzioni metaboliche e la crescita aumentano,
mentre si ha un punto in cui iniziano le reazioni di inattivazione.
Per ogni microrganismo esistono: una temperatura minima, al di sotto della quale non si ha
crescita, una temperatura ottimale, alla quale si ha la massima velocità di crescita cellulare, e una
temperatura massima, al di sopra della quale non si ha crescita. La temperatura ottimale risulta
essere molto più prossima alla temperatura massima che non alla minima, quindi la temperatura
ottimale generalmente appare una temperatura elevata, non una temperatura bassa.
Queste tre temperature vengono chiamate temperature cardinali, caratteristiche di ogni singolo
microrganismo, e non possiedono un valore assoluto, dato che possono essere modificate da
numerosi fattori ambientali, in particolare dalla composizione del terreno di coltura.
In base all' intervallo della temperatura di crescita, i microrganismi vengono suddivisi in 5 gruppi
principali:
psicrofili, con temperatura ottimale minore o uguale a 15 °C;
mesofili, con temperatura ottimale di crescita compresa tra 30°C e 37 °C;
termofili, con temperatura ottimale molto elevata, compresa tra 45°C e 50°C;
ipertermofili, con temperature ottimali molto alte;
termodurici, quando resistono a temperature anche superiori a 60°C, anche se non è la loro
ottimale.
Gli psicrofili vengono facilmente isolati in habitat molto freddi, come quelli artici ed antartici, e
sono spesso presenti nella superficie dei nevai e nei ghiacciai, ai quali impartiscono una
caratteristica colorazione rossa o verde.
I mesofili probabilmente corrispondono quasi alla maggior parte dei microrganismi, anche perché
quasi tutti i patogeni umani risultano essere mesofili, dato che, infettando il nostro organismo,
hanno un optimum di temperatura intorno a 37°C, quindi trovano nel nostro corpo un ambiente
ottimale di crescita.
I termofili sono nella maggior parte procarioti, ma anche alcuni funghi e alghe appartengono a
questa categoria; si trovano generalmente in habitat come concimi organici, cataste di fieno,
tubature dell'acqua calda e sorgenti termali.
pH: misura l'acidità e l'alcalinità di una soluzione e si tratta di una funzione logaritmica della
concentrazione di ioni idrogeno. Come per la temperatura, ogni microrganismo cresce ad un
determinato intervallo di pH in cui si individua un valore ottimale:
acidofili, tra 0 e 5,5;
neutrofili, tra 5,5 e 8;
alcalofili, tra 8,5 e 11,5;
alcalofili estremi, che possono avere anche valori di pH ottimali uguali o superiori a 10.
I batteri e i protozoi sono la maggior parte neutrofili; la maggior parte dei funghi preferisce, invece,
ambienti debolmente acidi con un range di pH che va da 4 a 6; anche le alghe sembrano preferire un
ambiente acido.
Disponibilita dell’acqua: essendo separati dall'ambiente da una membrana plasmatica
selettivamente permeabile, i microrganismi possono essere influenzati dai cambiamenti di
concentrazione osmotica dell'ambiente in cui vivono. Se un microrganismo viene posto in una
soluzione ipotonica, l'acqua continuerà ad entrare nella cellula fino a provocarne la rottura, a meno
che non intervengano dei fattori che inibiscono e bloccano questo flusso d'acqua verso l'interno. Per
fare ciò, molti microrganismi concentrano delle concentrazioni osmotiche nel proprio protoplasma a
valori leggermente superiori a quelli dell'habitat; questo lo fanno mediante delle sostanze chiamate
soluti compatibili, in quanto compatibili con il metabolismo e la crescita cellulare. La maggior
parte dei procarioti non fa altro che aumentare la concentrazione osmotica interna mediante la
sintesi o l'assunzione di sostanze come l'acido glutammico, prolina ed altri amminoacidi.
La disponibilità dell'acqua viene espressa come attività dell'acqua (aw)
25
pressione di vapore della sostanza o soluzione
a w=
pressione di vapore dell ' acqua pura
L'attività dell'acqua appare inversamente correlata alla pressione osmotica: se la pressione osmotica
di una soluzione risulta essere elevata, l'attività dell'acqua sarà bassa. I valori ottimali dell'attività
dell'acqua sono compresi tra 0 e 1.
I microrganismi differiscono notevolmente rispetto alla capacità di adattarsi ad habitat con bassa
attività dell'acqua, infatti un microrganismo deve compiere uno sforzo molto elevato per crescere in
habitat con valori di attività dell'acqua molto bassi, dato che deve mantenere una concentrazione
interna di soluti elevata al fine di trattenere l'acqua. Alcuni microrganismi sono in grado di farlo,
perciò sono detti osmotolleranti od alotolleranti, come Staphylococcus aureus, il quale può essere
coltivato in terreni con elevate concentrazioni di fluoruro di sodio sino a valori di 3 M, per esempio.
Nonostante alcuni microrganismi risultino essere osmotolleranti, la maggior parte predilige valori di
attività dell'acqua di circa 0,98 o superiori (prossimi a 1). Alcuni microrganismi sopravvivono in
condizioni ambientali ipertoniche estreme.
I microrganismi alofili crescono in condizioni ottimali in presenza di cloruro di sodio o altri
composti salini a concentrazioni superiori a 0,2 M.
Presenza di ossigeno: l'importanza dell'ossigeno per la crescita di un organismo risulta legata al
proprio metabolismo.
Viene definito aerobio un microrganismo che cresce solo in presenza dell'ossigeno atmosferico,
mentre è anerobio un microrganismo che cresce solo in assenza di ossigeno. Quasi tutti gli
organismi pluricellulari risultano essere dipendenti dall'ossigeno atmosferico, perciò sono detti
aerobi obbligati.
Gli anaerobi facoltativi non necessitano di ossigeno per crescere, ma in presenza di esso la loro
crescita risulta essere più efficiente. Gli anaerobi aerotolleranti, come Enterococcus faecalis,
semplicemente ignorano l'ossigeno e crescono ugualmente bene sia in presenza che in assenza di
esso. Al contrario, gli anaerobi obbligati o stretti non tollerano l'ossigeno, quindi muoiono in
presenza di esso. Infine, i microaerofili vengono danneggiati dal normale livello dell'ossigeno
atmosferico (20%) e, per poter crescere in modo ottimale, necessitano di una quantità di ossigeno
inferiore o pari al 2,10%.
Si possono distinguere i microrganismi anaerobi facoltativi ed aerotolleranti, aerobi e microaerofili
in base a come si distribuiscono all'interno di provette che contengono brodo tioglicolato, un
agente riducente comunemente utilizzato nel terreno di coltura per verificare qual è la richiesta di
ossigeno del microrganismo che è stato inserito all'interno della provetta, in quanto riduce
l'ossigeno ad acqua.
I microrganismi aerobi obbligati possono crescere solo nel tratto superficiale della provetta, in cui è
presente l'ossigeno atmosferico pari al 20%. I microrganismi anaerobi obbligati crescono invece in
fondo alla provetta, perché sono lontani dalla superficie, quindi lontani dall'ossigeno. I
microrganismi anaerobi facoltativi possono crescere sia in presenza che in assenza di ossigeno,
pertanto si distribuiscono in tutta la superficie, ma in presenza di ossigeno crescono un po' meglio,
risultando un po’ più concentrati. I microaerofili crescono a distanza dalla zona maggiormente
ossigenata, quindi crescono in prossimità della superficie ma leggermente distanziati. Gli anaerobi
aerotolleranti crescono, invece, uniformemente in tutta la provetta; tuttavia, la crescita non è
migliore vicino alla superficie, poiché tali microrganismi sono capaci anche di un metabolismo di
tipo fermentativo.
Per eliminare ogni traccia di ossigeno dai terreni di coltura utilizzati per gli anaerobi stretti, è
possibile incubare le piastre o le provette in cui sono seminati i microrganismi nelle giare contenenti
sistemi che consumano l'ossigeno presente. La più semplice viene chiamata giara per anaerobiosi
ed è costituita da un contenitore con delle pareti molto spesse ed un coperchio con tenuta ermetica,
in cui viene posto tutto il materiale da incubare all'interno. Oltre a ciò, è presente un sistema che
serve per far esaurire l'ossigeno presente all'interno della giara ed un indicatore dell'avvenuta
deplezione dell'ossigeno, ossia un indicatore colorato che in presenza di ossigeno possiede una
26
colorazione celeste, mentre quando l'ossigeno viene consumato assume una colorazione rosata.
L'aria presente nella giara è costituita da una miscela di idrogeno ed anidride carbonica; in presenza
di un catalizzatore chimico, le piccole quantità di ossigeno che permangono nel recipiente vengono
consumate dall'anidride carbonica, ottenendo delle condizioni anaerobiche. L'atmosfera finale
contiene azoto, anidride carbonica e H2.
Metabolismo
Il metabolismo è l’insieme di tutte le reazioni chimiche e biochimiche che avvengono nella stessa
cellula, rese possibili dall’apporto di energia e dall’intervento degli enzimi (proteine con funzione
di catalizzatori, che accelerano la velocità delle reazioni a basse temperature).
Il metabolismo consta di due tipologie di reazioni:
sintesi, chiamata anabolismo (richiede energia);
degradazione, chiamata catabolismo (produce energia).
Tra i fattori che possono influenzare il metabolismo, quindi la riproduzione e la crescita microbica,
vi sono:
sostanze nutritive, quali carbonio, azoto, fosforo e zolfo;
ioni metallici;
temperatura ottimale;
pH ottimale;
pressione atmosferica;
concentrazione salina;
pressione osmotica.
I fattori intrinseci sono correlati alle specifiche caratteristiche delle sostanze nutritive, mentre quelli
estrinseci sono legati all’ambiente (temperatura, pH, concentrazione salina, pressione atmosferica
ed osmotica).
Gli organismi viventi richiedono un continuo apporto di energia e di materiali. L’energia permette
lo sviluppo di tutte le attività endoergoniche, come il movimento, la biosintesi ed il trasporto attivo.
I macronutrienti sono sostanze indispensabili per la produzione di energia e per fornire materiale
per la crescita e rigenerazione cellulare; i micronutrienti sono sostanze da assumere
necessariamente e sono presenti in piccole quantità, se non in tracce.
Nel metabolismo esistono processi comuni a gran parte delle forme viventi, tra cui la replicazione
del DNA, la trascrizione, la traduzione e la sintesi di ATP, che vanno a costituire il cosiddetto
metabolismo primario. L’insieme delle reazioni finalizzate alla produzione di sostanze presenti
solo in alcune specie e non fondamentali per l’economia cellulare, tra cui la produzione di
antibiotici e di tossine, costituisce il cosiddetto metabolismo secondario.
Come tutte le reazioni chimiche, quelle metaboliche sono conseguenti ad interazioni molecolari, le
quali comportano la rottura di alcuni legami preesistenti e la formazione di nuove combinazioni,
determinando la generazione di nuove sostanze differenti da quelle che hanno reagito inizialmente.
La differenza tra il contenuto energetico dei reagenti e dei prodotti, definito ΔG, la variazione di
energia libera di Gibbs, indica se una reazione può avvenire in modo spontaneo o meno, dunque
l’andamento delle reazioni.
GLI ENZIMI
I catalizzatori riducono l’energia di attivazione necessaria al raggiungimento dello stato di
transizione.
Le elevate necessità energetiche degli organismi richiedono lo sviluppo di attività metaboliche
rapide e coordinate, ottenibili soltanto impiegando i catalizzatori organici, vale a dire gli enzimi, i
quali garantiscono una cinetica di reazione celere. Essi interagiscono con specifici substrati,
velocizzando le reazioni, che in alcuni casi altrimenti sarebbero inesistenti o decisamente più lente.
27
In questo modo le reazioni enzimatiche permettono lo sviluppo di tutti i processi biologici nelle
diverse condizioni ambientali in cui i microrganismi si sono adattati.
Gli enzimi sono molecole di natura proteica, la cui azione richiede molto spesso la presenza di
componenti inorganici (magnesio, zinco, ferro e così via) od organici (NAD, FAD, coenzima A e
così via).
Schematicamente una reazione enzimatica può essere rappresentata nel modo seguente:
E+ S ⇄ ES ⇄ EP⇄ E + P
L’enzima E si lega al substrato S e ne modifica le caratteristiche, rendendolo ES, che raggiungono
quelle tipiche del prodotto EP; al termine della reazione, la molecola enzimatica E viene liberata in
maniera isolata assieme al prodotto P.
LA CINETICA
La cinetica enzimatica studia la velocità con cui avvengono le reazioni catalizzate dagli enzimi.
Diversi fattori fisico-chimici (concentrazione del substrato, pH, temperatura ed inibitori
competitivi) condizionano significativamente la velocità delle reazioni.
La cinetica può essere definita in base alla velocità con cui si consumano i reagenti e si formano i
prodotti.
LA BIOENERGETICA
La bioenergetica studia i fenomeni termodinamici applicati alle reazioni biochimiche ed è in grado
di quantificare le variazioni energetiche connesse.
L’applicazione delle leggi della termodinamica ai sistemi biologici consente di prevedere se una
reazione può avvenire in modo spontaneo oppure no.
Le trasformazioni energetiche seguono le leggi della termodinamica:
prima legge à in qualsiasi conversione chimica, fisica o biologica l’energia contenuta in un
sistema isolato resta costante, anche se le forme in cui si presenta cambiano;
seconda legge à di questa legge ne esistono diverse formulazioni ma la più recente prende
in considerazione l’entropia, vale a dire il disordine che va ad aumentare in un sistema
isolato.
Nei sistemi biologici le condizioni standard previste per il calcolo di ΔG risultano essere:
pH = 7;
concentrazione dell’acqua = 55,5 M;
temperatura = 298 K (25 °C);
pressione = 101,3 kPa (1 atm).
Le variazioni di energia libera sono correlabili alle costanti di equilibrio delle singole reazioni.
Un sistema che sta reagendo tende a modificarsi fino a raggiungere una condizione di stabilità. In
tale situazione le velocità delle reazioni opposte risultano essere esattamente uguali e non vi sono
cambiamenti nel sistema.
Ad esempio, considerando la reazione
aA +bB ⇄ cC+dD
la costante di equilibrio è data dal rapporto delle concentrazioni tra i prodotti ed i reagenti
[C] c ∙[ D]d
K eq =
[ A ]a ∙[B] b
Ogni sistema tende a spostarsi in una fase d’equilibrio con una forza, la cui entità è espressa dalla
variazione di energia libera standard ΔG°. Nei sistemi biologici le condizioni standard e la
variazione di energia libera sono indicate come
ΔG ° ' =−RTlnK '
28
J
con R che indica la costante dei gas e vale 8,135 , T la temperatura, ln la funzione
V ∙ mol
logaritmica che vale 2,303 log x e K’ la costante di equilibrio specifica di ogni reazione biochimica
in condizioni standard.
È possibile distinguere i microrganismi in base al fabbisogno energetico, pertanto esistono
organismi:
fotoautotrofi, che utilizzano sostanze inorganiche come base per la sintesi di molecole
organiche e la luce come fonte di energia (ad esempio le piante, le alghe ed alcuni batteri);
chemioautotrofi, che utilizzano sostanze inorganiche sia come base per la sintesi di
molecole organiche sia come fonte di energia (ad esempio nitrobatteri, ferrobatteri e
nitrosobatteri);
fotoeterotrofi, che utilizzano sostanze organiche come base per la sintesi di altre molecole
organiche e la luce come fonte di energia (ad esempio alcuni batteri);
chemioeterotrofi, che utilizzano sostanze organiche ed inorganiche sia come materiali di
sintesi sia per ricavare energia (ad esempio animali, protozoi, funghi e batteri).
Nel mondo biologico non si verifica una reazione per volta ed è per questo che si parla di additività
delle variazioni di energia libera, data dalla somma delle rispettive variazioni di energia libera delle
diverse reazioni:
ΔG ° =ΔG°1' + ΔG °2'
Normalmente una reazione endoergonica è accoppiata ad una reazione esoergonica.
Dopo aver definito il principio fondamentale che regola le variazioni di energia, nei sistemi
biologici devono essere prese in considerazione le caratteristiche ed il ruolo delle molecole ad alto
contenuto energetico, come le molecole fosforilate (ATP ed altre), impiegate sia nei processi
anabolici sia in quelli catabolici. Durante la demolizione delle sostanze organiche, le cellule
eterotrofe liberano energia che viene parzialmente utilizzata nella produzione di ATP.
Vi sono altri metaboliti con energia libera di idrolisi. Per esempio, il fosfoenolpiruvato contiene un
gruppo fosforico legato ad un legame estere, il quale, se va incontro ad idrolisi libera, la forma
enolica del piruvato si trasforma nella forma più stabile.
In una cellula vivente, una riduzione consiste in un guadagno di elettroni, mentre un’ossidazione è
una perdita di elettroni. Le reazioni redox rivestono ruoli importanti in svariati processi biochimici.
Le ossidoriduttasi sono una classe di enzimi che catalizzano le reazioni di ossidoriduzione, ovvero
quelle reazioni in cui una specie, detta riducente, cede elettroni ad un’altra specie, detta ossidante.
Pertanto, le ossidoriduttasi catalizzano reazioni del tipo:
−¿¿
A−¿+ B → A + B ¿
dove A- è il riducente e B è l’ossidante.
A seconda del tipo di reazione che viene catalizzata, le ossidoriduttasi si distinguono in sottoclassi:
ossidasi, enzimi che catalizzano una reazione in cui è presente O 2 che funge da accettore di
elettroni, ovvero da ossidante, con formazione in molti casi di H2O o di H2O2;
deidrogenasi, enzimi che catalizzano il trasferimento di due atomi di idrogeno, uno dei
quali sotto forma di H+ mentre l'altro sotto forma di H-, da un substrato donatore ad un
substrato accettore;
ossigenasi, enzimi in grado di ossidare un substrato trasferendo su di esso ossigeno;
perossidasi, enzimi che catalizzano la trasformazione di perossidi organici che fungono da
accettori di elettroni.
Le ossidoriduttasi svolgono un ruolo importante nel metabolismo sia aerobico che anaerobico ed
intervengono in molti processi tra cui la glicolisi, il ciclo di Krebs, la fosforilazione ossidativa ed il
metabolismo degli amminoacidi.
Un ruolo fondamentale dei sistemi biochimici che avvengono all’interno della cellula batterica lo
hanno molecole come l’ATP. L’adenosina trifosfato può essere definita come la valuta energetica
della cellula, vale a dire lo strumento attraverso cui la cellula stessa realizza tutti i processi che
29
necessitano energia (endoergonici) ed è prodotta da reazioni che la liberano (esoergonici). È una
molecola intermedia tra i composti donatori/accettori di gruppi fosfato. La reazione da ADP ad ATP
(endoergonica) e quella opposta da ATP ad ADP (esoergonica) avvengono continuamente nei
diversi ambienti cellulari.
Tutti i processi metabolici cooperano tra di loro affinché si producano dalle 36 alle 38 molecole di
ATP finali.
LA GLICOLISI
La prima fase della demolizione del glucosio risulta essere la glicolisi o via di Embden-Meyerhof-
Parnas (i nomi dei principali scopritori), un processo citoplasmatico in cui una molecola di glucosio
(6 C) viene parzialmente ossidata e degradata a due molecole di acido piruvico o piruvato (3 C)
attraverso reazioni sequenziali rese possibili dall’intervento di enzimi.
Nel corso della glicolisi si ha il trasferimento di una modesta quantità di energia chimica da
glucosio ad ATP ed una parziale ossidazione di glucosio mediante la riduzione di due molecole di
NAD+ ad NADH.
In sintesi, si assiste ad una produzione di ATP mediante fosforilazione a livello del substrato, una
produzione di quattro molecole di ATP e due di NADH, l'utilizzo di due molecole di ATP nelle fasi
iniziali, la dissipazione dell'energia associata all’NADH sotto forma di calore e ad una resa
energetica netta pari a due molecole di ATP ed altrettante di NADH.
La fosforilazione a livello del substrato è una reazione chimica in cui si produce una molecola di
ATP, trasferendo direttamente un gruppo fosfato da una molecola ad alta energia – come il
fosfoenolpiruvato – ad una molecola di ADP. Questa quantità di ADP risulta essere fondamentale e
sufficiente per la crescita microbica.
Relativamente alla respirazione batterica ed al loro fabbisogno, i microrganismi in questione si
dividono in:
aerobi obbligati, che utilizzano solo l'ossigeno;
anaerobi obbligati, che non possono utilizzare l'ossigeno (dannoso e nocivo per la crescita);
anaerobi facoltativi, che utilizzano l'azoto oppure, in presenza di ossigeno, utilizzano
quest’ultimo come accettore della catena respiratoria.
La respirazione aerobia che avviene negli aerobi obbligati e negli anaerobi facoltativi è un
meccanismo che accoppia l’ossidazione di un composto organico o inorganico, che funge da
donatore di protoni ed elettroni, alla riduzione dell’ossigeno molecolare, che rappresenta l’accettore
finale di protoni ed elettroni.
Anche se meno efficiente di quella aerobia da un punto di vista energetico, la respirazione
anaerobia permette ai batteri di effettuare tale processo in assenza di ossigeno.
I composti inorganici nell’azoto sono tra i più comuni accettori di elettroni nella respirazione
anaerobia.
IL CICLO DI KREBS
Una delle vie principali in cui il piruvato viene completamente ossidato è il ciclo di Krebs,
denominato anche ciclo dell’acido citrico o ciclo degli acidi tricarbossilici. Esso viene sfruttato da
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tutti gli organismi aerobi per generare energia attraverso l’ossidazione di molecole di acetil-
coenzima A, proveniente dallo smaltimento di carboidrati, grassi e proteine, per liberare anidride
carbonica.
Il ciclo avviene nel citoplasma delle cellule batteriche. Inizia con la decarbossilazione del piruvato,
con formazione di una molecola di NADH e di acetil-coenzima A (composto a due atomi di
carbonio).
L'acetil-coenzima A si condensa con l'ossalacetato (composto a quattro atomi di carbonio) con
formazione di acido citrico (acido organico a sei atomi di carbonio).
Attraverso una serie di ossidazioni e trasformazioni, il citrato viene riconvertito in ossalacetato, che
può funzionare nuovamente come accettore di acetile, completando così il ciclo.
LA RESPIRAZIONE
Il processo per cui un composto è ossidato usando O2 come accettore di elettroni esterno è chiamato
respirazione aerobia. Perfino questo si tratta di un processo di ossidoriduzione, nel quale l’ossigeno
è proprio l’accettore finale. A causa dell’alto potenziale di riduzione dell’ossigeno, quando questo
risulta impiegato come accettore di elettroni, viene rilasciata un’elevata quantità di energia
disponibile.
La respirazione aerobia è un processo che coinvolge sistemi di trasporto, composti da trasportatori
associati alla membrana che hanno due principali funzioni:
ricevere gli elettroni da un donatore e trasferirli ad un accettore;
conservare una certa quantità di energia, rilasciata durante il trasferimento degli elettroni per
la sintesi di ATP.
Nel trasporto sono coinvolti vari tipi di enzimi di ossidoriduzione, disposti secondo un gradiente di
potenziale redox da negativo a positivo, a costituire la catena di trasporto di elettroni:
NADH deidrogenasi;
trasportatori di elettroni contenenti riboflavina, ossia le flavoproteine;
proteine ferro-zolfo;
citocromi, ossia proteine che contengono un anello di ferro-porfirina, chiamato eme;
trasportatori di elettroni non proteici, ossia i chinoni liposolubili (ad esempio l'ubichinone).
LA CHEMIOSMOSI
La chemiosmosi è il movimento di ioni attraverso una membrana semipermeabile, spinto dal
gradiente elettrochimico. Un esempio può essere rappresentato dalla generazione di adenosina
trifosfato (ATP) a partire dal movimento di ioni idrogeno H+ attraverso una membrana durante la
respirazione cellulare o fotosintesi.
La generazione di ATP da chemiosmosi avviene nei mitocondri e cloroplasti, così come nella
maggior parte dei batteri ed archeobatteri.
Questo processo è legato all’osmosi – il passaggio dell’acqua attraverso la membrana – e, per
questo, viene chiamato chemiosmosi.
Il gradiente elettrochimico costituisce una fonte di energia potenziale, detta forza proton-motrice,
la quale tende a spingere i protoni verso la matrice mitocondriale per equilibrare le differenze nella
concentrazione e nella distribuzione delle cariche elettriche. Nei vari microrganismi sono state
identificate numerose catene di trasporto che condividono numerosi aspetti caratteristici:
presenza di una serie di trasportatori di elettroni associati alla membrana;
alternanza nella catena tra trasportatori di soli elettroni e di soli atomi di idrogeno;
generazione di una forza proton-motrice come risultato della separazione di cariche
attraverso la membrana, acida esternamente ed alcalina internamente.
LA FORZA PROTON-MOTRICE
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I trasportatori di elettroni sono orientati nella membrana in modo che, durante il processo di
trasporto, attraverso essa avvenga la separazione dei protoni dagli elettroni. Gli elettroni vengono
trasportati attraverso la catena da specifici trasportatori ed i protoni pompati fuori dalla cellula con
debole acidificazione della superficie esterna della membrana.
A proposito della generazione della forza proton-motrice nel corso della respirazione aerobica, il
trasporto di elettroni all’O2 porta alla produzione dei componenti dell’acqua – H+ ed OH- – che si
accumulano sulle superfici opposte della membrana.
Il risultato finale è la generazione di un gradiente di pH ed un potenziale elettrochimico
attraverso la membrana, perciò l’interno del citoplasma appare elettricamente negativo ed alcalino,
mentre l’esterno della membrana rimane elettricamente positivo ed acido.
Il gradiente di pH ed il potenziale elettrochimico causano l’energizzazione della membrana, ora
carica; parte di quest’energia elettrica può essere conservata dalla cellula. Lo stato energizzato della
membrana viene espresso in termini di forza proton-motrice. Essa può essere direttamente
impiegata per eseguire un lavoro utile come il trasporto di ioni, la rotazione flagellare oppure
utilizzata per la formazione di legami fosfato ad alta energia nell’ATP. Di conseguenza, può essere
sfruttata per le reazioni che richiedono energia e che non sono, pertanto, spontanee.
LA FERMENTAZIONE
La fermentazione è una via metabolica che permette agli esseri viventi di ricavare energia da
particolari molecole organiche in assenza di ossigeno.
Il genere di meccanismo in questione può essere classificato in base ai prodotti finali:
alcolica, che produce alcol etilico ed anidride carbonica nei lieviti;
lattica, che produce acido lattico nei batteri lattici;
acido-mista, che produce acido lattico, acetico, succinico, formico, alcol etilico, anidride
carbonica ed idrogeno negli enterobatteri;
propionica, che produce acido propionico, acetico ed anidride carbonica in
Propionobacterium;
butandiolica, che produce 2,3-butandiolo, acetoina, anidride carbonica e così via negli
enterobatteri;
butirrica ed isopropilica, che produce acido acetico, butirrico, isopropilico, acetone, alcol
butilico, anidride carbonica ed idrogeno molecolare in Clostridium.
I PROFAGI
Il profago è il genoma di un batteriofago lisogeno integrato nel cromosoma di un batterio ospite in
forma latente, essendo integrato nel DNA dell'ospite e duplicato esattamente come i geni batterici.
In seguito, tramite un processo chiamato induzione, il profago può venire escisso dal genoma
batterico e dare origine ad un DNA fagico libero, il quale intraprende un ciclo litico, dove si ha la
rottura e distruzione della cellula batterica.
Una volta libero, il DNA virale stravolge le funzioni della cellula ospite convertendole alla
produzione di un gran numero di particelle fagiche. Per effetto di questa infezione litica, il batterio
muore.
La riattivazione del ciclo litico è spesso innescata da segnali molecolari di danneggiamento o stress
dell'ospite.
LA REGOLAZIONE NEGATIVA
I meccanismi a regolazione negativa coinvolgono il legame di una proteina repressore
all'operatore per impedire la trascrizione.
La regolazione negativa si distingue, a seconda del tipo di feedback degli operoni, in:
regolazione negativa negli operoni inducibili, dove il repressore blocca stabilmente
l’operatore e viene rimosso esclusivamente quando giunge dall’esterno una molecola
specifica, chiamata induttore, che disattiva il repressore;
regolazione negativa negli operoni reprimibili, dove il repressore entra in azione soltanto
in presenza di un corepressore, molecola che lo rende capace di legarsi all’operatore e che
attiva il repressore stesso.
In entrambi i casi, la presenza dell’induttore o del corepressore determina un cambiamento della
forma del repressore e ne modifica la capacità di legarsi all’operatore.
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LA REGOLAZIONE POSITIVA
Nei meccanismi a regolazione positiva una proteina attivatore si lega al DNA (normalmente ad un
sito diverso dall'operatore), stimolando la trascrizione.
La regolazione positiva, così come quella negativa, si divide in:
regolazione positiva negli operoni inducibili, in cui una proteina attivatrice, dopo essere
stata attivata da alcune molecole (coattivatori), si lega in un sito del DNA ad una certa
distanza dal promotore e favorisce la trascrizione dei geni strutturali che in condizioni
normali non sono espressi;
regolazione positiva negli operoni reprimibili, nella quale i geni strutturali sono espressi
in condizioni normali, mentre alcune molecole, legandosi all’attivatore, ne modificano la
forma, rendendolo inattivo e bloccando così la trascrizione.
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mutageni alteranti le basi del DNA, che comprendono l’acido nitroso, in grado di
deamminare le basi azotate;
fagi, nella cui replicazione possono integrare il loro DNA con quello della cellula infettata.
Le cellule di un genotipo alterato rispetto a quello originale sono denominate mutanti; quelle
originali vengono dette ceppo selvaggio o wild type.
Nei batteri una mutazione genetica può determinare diversi cambiamenti, tra cui:
favorire la sopravvivenza, come la resistenza ad un antibiotico;
comportare l’acquisizione di caratteristiche senza alcun vantaggio, come il cambiamento
del colore della colonia;
produrre effetti negativi, come la riduzione della capacità metabolica;
essere letale, come nel caso della produzione di una proteina essenziale non funzionante.
Le mutazioni possono essere conseguenti a sostituzione, inserzione, duplicazione o delezione di
basi.
Si possono individuare mutazioni che interessano una sola base o poche basi, come quelle per
sostituzione o per trasversione. Nel primo caso interessano un unico nucleotide ed in particolare si
tratta di transizioni se lo scambio interessa due purine o due pirimidine. Nel secondo caso si ha la
sostituzione di una purina con una pirimidina.
Fanno parte delle mutazioni per sostituzione quelle silenti, dissenso e non senso. Le prime
interessano la sostituzione di un’unica base azotata con un’altra, cambiamento che non determina
variazioni della sequenza amminoacidica della proteina, pertanto si parla di mutazioni neutre. Le
seconde interessano la sostituzione di una base azotata che comporta una variazione della sequenza
amminoacidica e, di conseguenza, della funzione proteica. Le terze interessano la sostituzione di
una tripletta codificante con una di stop.
Le mutazioni per inserzione e delezione comportano l’aggiunta o la perdita di una sequenza
nucleotidica di lunghezza variabile.
Le delezioni ed inserzioni in frame producono l’eliminazione o aggiunta di una tripletta o di un
numero di nucleotidi divisibili per 3. Le mutazioni di tipo frame shift sono prodotte da delezioni o
inserzioni di un numero di nucleotidi non divisibile per 3. Entrambe determinano mutazioni di
diversa gravità, alterando fortemente la sequenza amminoacidica.
LA RICOMBINAZIONE
Con ricombinazione si intende la ridistribuzione dei geni tra due molecole di DNA.
Nei procarioti la modalità di riproduzione risulta essere tipicamente asessuata e vengono utilizzati
numerosi meccanismi ricombinativi.
Essendo il patrimonio genetico aploide, è necessario l’intervento di due cellule:
donatrice, la cellula che fornisce il materiale genetico;
ricevente, la cellula in grado di acquisirlo.
I batteri dispongono di varie modalità di ricombinazione genica estremamente utili dal punto di
vista evolutivo, dato che introducono nelle popolazioni batteriche una data percentuale di variabilità
genetica che permette loro di sopravvivere ad eventuali cambiamenti ambientali.
I modi per ricombinare i geni procariotici sono i seguenti:
trasformazione;
coniugazione;
trasduzione.
Nella trasformazione molecole di DNA provenienti da cellule lisate vengono acquisite dai batteri
direttamente dall’ambiente extracellulare. Pertanto, si tratta della ricombinazione che avviene
quando un batterio acquisisce DNA libero dall’ambiente.
Questo fenomeno si manifesta in natura in alcune specie di batteri, quando le cellule muoiono ed il
loro DNA fuoriesce.
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Una volta che il DNA trasformante viene trovato nella cellula ospite, il cromosoma di quest’ultima
può incorporare geni con un processo molto simile alla ricombinazione eucariotica.
Il primo esempio sperimentale di trasformazione venne scoperto nel 1928 dal biologo inglese
Frederick Griffith, il quale utilizzò due sierotipi (livello di classificazione di batteri e virus inferiore
a quello specie, della quale costituisce l'equivalente di una sottospecie) di batterio di Streptococcus
pneumoniae. Era presente un ceppo virulento, indicato con S (smooth, ossia liscio), che produce
colonie liscie e lucenti grazie alla presenza di una capsula batterica polisaccaridica che avvolge
ogni cellula, ed un ceppo non virulento, indicato con R (rugged, ossia rugoso), che produce
colonie rugose all’aspetto a causa dell’assenza della capsula batterica.
Griffith notò che iniettando i ceppi R, privi di capsula, nei topi, questi non contraevano la malattia,
mentre fornendo i ceppi S, provvisti di capsula, veniva provocata la polmonite negli animali.
Qualora i batteri S venissero inattivati dal calore, non sarebbero in grado di indurre alcuna
patologia, a meno che non fossero iniettati assieme ai batteri R vivi.
Dunque, Griffith isolò i batteri dal sangue dell’animale infettato con entrambi i sierotipi e scoprì che
i microrganismi rugosi avevano acquisito la capsula dai microrganismi inattivati lisci ed erano in
grado di mantenerla per parecchie generazioni.
Di conseguenza, venne ipotizzata la presenza di un principio trasformante capace di trasferire dalla
linea S (sempre inattivata dal calore) a quella R. Il trasferimento inteso era relativo ad un
frammento di DNA.
Dopo la scoperta della trasformazione, vennero approfonditi gli studi e nel 1946 il microbiologo
statunitense Joshua Lederberg ed il genetista statunitense Edward Lawrie Tatum osservarono in
Escherichia coli una modalità ricombinativa che richiedeva un contatto fisico tra due cellule
ricombinanti.
Essi concentrarono i loro studi su due ceppi mutanti nutrizionali del suddetto batterio per tre
metaboliti ciascuno. Coltivando i due ceppi separatamente in un terreno povero di nutrienti, i batteri
non riuscivano a svilupparsi. Mentre facendoli crescere nello stesso terreno, si ottenevano mutanti
in grado di sintetizzare tutti e sei i metaboliti.
Si ipotizzò che questi batteri, venendo in contatto tra loro fisicamente, fossero in grado di
scambiarsi le informazioni genetiche, ma la teoria poté essere confermata solo dopo la scoperta dei
plasmidi, segmenti di materiale genico trasferibile, che si trovano liberi nel citoplasma del batterio.
I plasmidi sono di forma circolare e capaci di replicarsi in modo indipendente dal cromosoma
batterico.
Tra i principali si hanno il plasmide F ed il plasmide R. Il primo tipo corrisponde ad un DNA
extracromosomico che contiene geni che codificano per un fattore di fertilità; il secondo tipo
corrisponde ad un DNA extracromosomico che contiene geni che codificano per la resistenza agli
antibiotici.
Le cellule che possiedono il plasmide F (indicate con F+) sono donatrici, quindi in grado di
trasferire il proprio plasmide alle cellule riceventi (indicate con F-).
Il fattore F viene trasmesso grazie alla sintesi, a partire da geni contenuti sullo stesso plasmide, di
piccole estroflessioni, dette pili, che prendono contatto con una cellula ricevente, avvicinandola e
rendendo possibile il passaggio del materiale genico, che non avviene attraverso il pilo, ma grazie
alla formazione di un ponte di coniugazione; viene trasferito un solo filamento del DNA. Un
filamento del DNA circolare del plasmide viene tagliato e un filamento parentale viene trasferito
nella cellula ricevente. Si attiva, quindi, nel donatore la replicazione del DNA mediante il
meccanismo a cerchio rotante, che porterà al rimpiazzamento del filamento che è stato trasferito.
Nello stesso tempo, un filamento complementare al filamento donato viene sintetizzato nel
ricevente a completare la molecola di acido nucleico nel ricevente.
Il fattore può comportarsi da episoma, essendo in grado di integrarsi nel cromosoma. In questo caso
la cellula batterica viene indicata come cellula HFR (high frequency of recombination). Tutto il
cromosoma della cellula HFR, inizialmente circolare, si apre e viene trasferito alla cellula F -
secondo una modalità detta lineare. L'apertura ed il trasferimento hanno inizio da un punto
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particolare situato ad un'estremità del fattore F integrato, chiamato oriT. Quanto più un gene è
lontano dall'origine, tanto più tardivo sarà il momento in cui passa all'interno di F−.
Vi sono alte probabilità che il processo si interrompa prima che tutto il cromosoma sia trasferito in
F-, comportando il non trasferimento del fattore F che si trova alla fine del cromosoma.
In sintesi, i due studiosi scoprirono la coniugazione batterica, vale a dire un processo con il quale
una cellula batterica trasferisce porzioni di DNA ad un’altra tramite un contatto cellula-cellula. Il
fenomeno può, inoltre, portare al verificarsi di ricombinazione genetica nei batteri.
La trasduzione batterica consiste nel passaggio del DNA di un batterio ad un altro tramite un fago,
ossia un virus di batteri o batteriofagi. Questo processo permette il passaggio di materiale genetico
da una cellula ad un’altra ed è stato scoperto dal biologo statunitense Norton Zinder e da Lederberg
nel 1952.
La trasduzione avviene perché, durante il ciclo litico, vi è un errore nel meccanismo replicativo del
batteriofago, che porta all'inglobamento, nelle particelle virali, di porzioni di genoma batterico. In
seguito a questo errore, si verranno a produrre particelle virali in grado di infettare altre cellule
(mantengono la loro capacità batteriofaga), le quali possederanno al proprio interno sia genoma
virale che genoma batterico oppure parte di DNA batterico e virale.
Esistono due tipi di meccanismi:
trasduzione generalizzata, in cui si può trasferire in modo casuale un frammento
qualunque di DNA da un batterio ad un altro;
trasduzione specializzata, che coinvolge il profago ed in particolare, quando questo si
stacca dal cromosoma che lo ospita, porta con sé un frammento contiguo del DNA batterico
in cui era inserito. In questo caso il frammento trasportato non è casuale, giacché
generalmente il profago si inserisce in corrispondenza di un locus specifico.
La trasduzione abortiva è quel processo in cui lo stesso tipo di fago responsabile della trasduzione
generalizzata inietta il frammento di DNA cellulare e può accadere che non si integri ma rimanga
allo stato libero. Dunque, non verrà propagato alla genesi e non verrà replicato.
Protocollo sperimentale
L’esperienza prevede l’utilizzo di terreni selettivi e differenziali contenenti agar su piastre Petri.
In seguito, si effettua la semina dei microrganismi su questi terreni mediante il metodo dello
“striscio”, quello con i 4 quadranti.
Col procedere dell’esperienza, si deve effettuare il test della fermentazione, in questo caso
utilizzando un terreno liquido, il Phenol Red Dextrose Broth, contenente un indicatore di pH per
lo studio di fermentazione di carboidrati.
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È fondamentale impiegare i tubi di Durham, piccoli tubi invertiti, che evidenziano la produzione di
anidride carbonica e gas, semplicemente con la formazione al loro interno di una bolla più o meno
estesa.
I terreni selettivi includono sostanze in grado di favorire la crescita microbica di alcune specie,
inibendo invece lo sviluppo di altre.
Il terreno Mac Conkey agar viene impiegato per l’isolamento e la differenziazione di enterobatteri
Gram-negativi da campioni clinici, alimenti ed acque. Essendo presenti il cristalvioletto ed i sali
biliari, in grado di inibire la crescita dei batteri Gram-positivi e quella dei Gram-negativi più
esigenti dal punto di vista nutrizionale, è giustificata la selettività per i batteri Gram-negativi.
L’agar Mac Conkey contiene, inoltre, il lattosio – unica fonte di carboidrati – ed il rosso neutro
(un colorante che vira al rosso allorché il pH del mezzo scenda al di sotto di 6,8).
Così facendo, lo stesso terreno permette di differenziare gli enterobatteri che fermentano il lattosio,
come Escherichia coli che si colora di rosa, da quelli che non lo fermentano, quindi non lo
metabolizzano, come Pseudomonas aeruginosa che non si colora.
I batteri che fermentano il lattosio si presentano sotto forma di colonie con varie sfumature di rosso
poiché producono acidi misti che fanno diminuire il pH. Infatti, la fermentazione del lattosio nel
mezzo provoca l’acidificazione del terreno, causando la precipitazione dei sali biliari ed il viraggio
del colore del terreno da rosso neutro a porpora. I batteri che non fermentano il lattosio danno luogo
a colori trasparenti o risultano incolori.
A seconda dell’intensità della fermentazione, si possono distinguere vari gruppi di batteri.
Il terreno EMB agar viene ugualmente impiegato per evidenziare o meno la presenza di
Escherichia coli dagli altri enterobatteri correlati in acque ed altri campioni.
Contiene eosina e blu di metilene, coloranti tossici per i batteri Gram-positivi, i quali inibiscono
parzialmente la crescita dei batteri appena citati, colorando selettivamente i batteri Gram-negativi.
Inoltre, differenziano all’interno degli enterobatteri quelli capaci di fermentare il lattosio, come
Escherichia coli, e quelli non capaci di fermentarlo, come Pseudomonas aeruginosa e Salmonella.
La fermentazione del lattosio induce la precipitazione dei coloranti con la formazione di
caratteristiche colonie blu-nere.
EMB è il mezzo selettivo e differenziale per i coliformi, un gruppo di batteri Gram-negativi dalla
tipica forma bastoncellare, che fermentano il lattosio con produzione di gas ed acidi ed appartenenti
alla famiglia delle Enterobacteriaceae. Un esempio è rappresentato proprio da Escherichia coli.
Il terreno Mannitol Salt agar viene sfruttato per l’isolamento di stafilococchi Gram-positivi da
campioni clinici e non. Il mezzo è selettivo, in quanto contiene percentuali di cloruro di sodio
g
molto elevate (75-100 ), finendo per inibire la maggior parte dei batteri.
L
Il terreno permette, inoltre, di far sviluppare gli stafilococchi – batteri alofili (particolarmente
adattati a livelli di salinità molto superiori a quelli normalmente tollerati dai normali organismi) – e
di differenziare lo Staphylococcus aureus, in grado di fermentare il mannitolo, dagli altri
stafilococchi non fermentanti, come Staphylococcus epidermidis.
La produzione di acidi, dovuta alla fermentazione del mannitolo, provoca una modificazione del pH
del mezzo (acidificazione), con conseguente viraggio dell’indicatore rosso-fenolo, presente nel
terreno, a giallo. Le colonie non fermentanti il mannitolo appaiono rosse.
Riassumendo, mentre i primi due terreni sono selettivi per i Gram-negativi, il terzo lo è per i Gram-
positivi.
LA FERMENTAZIONE
Le fermentazioni sono reazioni biochimiche deputate alla produzione di energia, in cui molecole
organiche fungono sia da accettori che da donatori di elettroni. La capacità dei microrganismi di
fermentare carboidrati e la tipologia dei prodotti finali formati (alcol, acidi, gas o altre molecole
organiche) possono essere usati come elementi identificativi.
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Quando, ad esempio, batteri fermentanti glucosio, come Escherichia coli, crescono in un terreno
liquido, producono acidi organici e gas.
Da un altro punto di vista, la fermentazione è un processo metabolico anaerobico in cui il glucosio
viene degradato in altri composti organici, producendo energia. Avviene tipicamente nei batteri e
nei lieviti (funghi unicellulari).
Prima di tutto è necessario eseguire i calcoli necessari per le pesate ed i volumi.
Relativamente alla preparazione dei terreni, tra il punto 3 e 4 nota bene che, terminato il ciclo
dell’autoclave, si deve attende qualche minuto, affinché i terreni raggiungano una temperatura
attorno ai 50°C; dopodiché si possono dispensare nelle rispettive piastre Petri.
Virologia
I virus costituiscono un gruppo di agenti infettivi che presentano le seguenti caratteristiche:
dimensioni estremamente piccole;
parassitismo intracellulare obbligato;
organizzazione strutturale semplice non cellulare;
presenza di un solo tipo di acido nucleico (DNA o RNA) che può essere singolo o a doppio
filamento;
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si moltiplicano solo in particolari cellule ospiti. Per questo motivo, vengono suddivisi in 3
classi principali:
virus batterici (batteriofagi);
virus animali;
virus vegetali.
Le particelle virali complete, dette virioni, sono costituite da una o più molecole di DNA/RNA
avvolte in un involucro proteico chiamato capside. Talvolta sono presenti anche altri strati protettivi
dotati – in alcuni casi – di notevole complessità contenenti carboidrati, lipidi e proteine.
L’insieme dell’acido nucleico e delle proteine, impacchettati nel virione, viene chiamato
nucleocapside.
All’interno del virione sono presenti uno o più enzimi viriospecifici, molto importanti sia nel
processo di infezione che di replicazione.
Sebbene la struttura del virus appena descritto rappresenti spesso un virione completo, questi
vengono chiamati “virus nudi”, perché gli altri presentano delle strutture molto più complesse
(come il caso dei virus rivestiti).
In quest’ultimo caso il nucleocapside è racchiuso in un’ulteriore membrana che prende il nome di
involucro pericapsidico o envelope.
Le strutture dei virioni risultano essere molto complesse per dimensioni, forma e composizione
chimica. L’acido nucleico è sempre localizzato all’interno della particella ed il capside risulta essere
composto da un certo numero di molecole proteiche, note con il nome di subunità strutturali o
protomeri.
La maggior parte dei virus contiene vari tipi di subunità strutturali chimicamente differenti che
formano a loro volta dei complessi molto più grandi denominati capsomeri.
Ogni singolo virione contiene un numero elevato di capsomeri.
Data la loro incapacità di riprodursi fuori da cellule viventi, i virus possono essere coltivati
impiegando solo delle colture cellulari: per molti anni la coltura dei virus è stata eseguita
impiegando organismi suscettibili o uova embrionate.
Ad oggi, invece, i virus vengono coltivati in colture tissutali o cellulari che crescono in monostrati.
Questa tecnica prevede l’utilizzo di terreni di coltura idonei per la crescita di cellule animali, ossia
terreni che presentano degli antibiotici per contrastare la crescita batterica e fungina.
Di conseguenza, un monostrato di cellule animali presente in una piastra o fiasca viene ricoperto da
una certa quantità di virus (dipende dal tipo), la quale viene posta a contatto e lasciata per un tempo
sufficiente per far sì che il virus possa agire sulle cellule. Queste vengono poi coperte da uno strato
di agar per evitare una dispersione totale di virioni e che possano trasmettere solo alle cellule vicine
tra loro, in modo tale che compaiano delle aree circoscritte di lisi cellulare, definite placche, spesso
evidenziate con numerosi coloranti capaci di discriminare le cellule vive da quelle morte.
I virus batterici, o batteriofagi, sono coltivati in colture costituite da cellule batteriche in fase attiva
di crescita in brodo, quindi su terreno liquido, o in agar, quindi su terreno solido.
L’azione distruttiva esercitata dai fagi sulle cellule ospiti è così intensa che le colture batteriche in
terreno liquido inizialmente torbide divengono limpide proprio perché tutte le cellule batteriche
vengono distrutte in un tempo brevissimo mediante l’infezione del virus, che determina la lisi
cellulare.
LA PURIFICAZIONE VIRALE
I metodi di purificazione dei virus si basano su diverse proprietà. I virioni sono dotati di
dimensioni molto maggiori rispetto alle proteine, sono spesso più stabili dei componenti cellulari
normali e sono privi di proteine di superficie.
In virtù di queste caratteristiche, si possono utilizzare dei metodi impiegati nella separazione di
proteine ed organi cellulari per l’isolamento dei virus:
centrifugazione differenziale e in gradiente di densità à il materiale utilizzato è
rappresentato da cellule ospiti che sono state infettate e che, quindi, contengono dei virioni
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maturi. Le cellule infettate vengono prima lisate con un tampone, da questo viene ricavata
una sospensione (o un omogenato) costituita da componenti cellulari e dai virus, i quali
vengono successivamente isolati per centrifugazione differenziale, ossia a differenti
velocità.
Questa tecnica consiste, infatti, nella centrifugazione di una sospensione cellulare infettata a
varie velocità, in modo tale da separare in tempi diversi particelle con dimensioni differenti.
In genere l’omogenato viene prima centrifugato ad alte velocità, in modo che il virus e le
particelle cellulari di grandi dimensioni possano sedimentare sul fondo della provetta,
mentre il surnatante, contenente delle molecole solubili presenti nell’omogenato, viene
eliminato.
Il pellet viene poi risospeso e centrifugato a bassa velocità, affinché si rimuovano tutte le
sostanze più pesanti dei virus. In seguito, sottoponendo il pellet ad un’altra centrifugazione
ad alta velocità, si ha la sedimentazione dei virus, spesso fatta più volte per avere una
purificazione sempre più efficiente;
precipitazione dei virus;
denaturazione dei contaminanti;
digestione enzimatica dei costituenti cellulari.
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Il tempo complessivo del ciclo replicativo può essere anch'esso variabile: esistono virus che
replicano come i virus batterici in 20-60 minuti, benché la maggior parte dei virus animali viene
replicato con un tempo di infezione molto maggiore (generalmente tra le 8 e le 40 ore).
LE PROTEINE VIRALI
Una volta sintetizzate le molecole di mRNA, si verifica la sintesi delle proteine.
Queste vengono suddivise in due grandi categorie:
precoci, sintetizzate subito dopo l’infezione, necessarie per la replicazione del virus;
tardive, sintetizzate dopo l’inizio della replicazione, che comprendono generalmente le
proteine di rivestimento.
La maggior parte dei virus batterici studiati nel dettaglio infetta batteri del gruppo enterico, quali
Escherichia coli e Salmonella typhimurium.
Sono comunque noti anche altri tipi di fagi con genoma a DNA a singolo filamento o a doppio
filamento.
Alcuni virus presentano un rivestimento ma la maggior parte dei batteriofagi risultano esserne privi
e sono detti virus nudi.
I BATTERIOFAGI
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Molti esempi di batteriofagi con genoma a DNA a doppio filamento possiedono una coda: le code
dei fagi T2 e T4 appaiono contrattili e sono coinvolte nell’iniezione dell’acido nucleico all’interno
della cellula ospite; al contrario, la coda del fago λ risulta essere flessibile.
Esistono due tipi differenti di ciclo replicativo:
virulento, i cui virus non fanno altro che lisare o uccidere i loro ospiti dopo l’infezione;
temperato, i cui virus sono in grado di raggiungere uno stato, detto di lisogenia, in cui il
proprio genoma si replica in sintonia con il genoma della cellula ospite senza determinarne
la morte e la lisi cellulare.
IL BATTERIOFAGO T4
Il virione del fago T4 consiste in una testa icosaedrica alla quale è attaccata una coda complessa
costituita da una struttura tubolare elicoidale, mentre alla guaina sono connessi un collo ed una
piastra basale con delle annesse lunghe fibre caudali.
Il genoma è costituito da una molecola di DNA lineare a doppio filamento e codifica più di 250
proteine diverse.
Sebbene sia stato stabilito che il genoma del T4 abbia una sequenza lineare unica, il genoma
contenuto in un dato virione differisce da un altro in base alla sequenza che si può trovare. Questo
succede perché il DNA risulta essere permutato circolarmente: le molecole che mostrano
permutazione circolare sembrano arrivare da molecole circolari che sono state tagliate di volta in
volta in posizioni differenti.
In aggiunta, il DNA del T4 presenta ad ogni estremità sequenze ripetute, denominate ripetizioni
terminali.
Il DNA del T4 provvisto di queste terminazioni ridondanti viene replicato all’interno della cellula
ospite prima come unità unica, poi le diverse unità genomiche vengono legate tra loro coda a coda
per formare una lunga molecola di DNA chiusa, chiamata concatenamero.
Il meccanismo di impacchettamento del DNA del T4 prevede la scissione di un segmento di DNA
dal concatenamero, tale da riempire in modo sufficiente le teste delle nuove progenie.
Il DNA del T4 contiene una base insolita, la 5-idrossimetilcitosina, anziché la classica citosina.
I gruppi ossidrilici sono ulteriormente modificati dall’aggiunta di residui di glucosio che non fanno
altro che proteggere il DNA del T4 dall’azione di alcune endonucleasi di Escherichia coli, dette
anche enzimi di restrizione, le quali altrimenti distruggerebbero il DNA virale, effettuando dei
tagli specifici in siti particolari: questo meccanismo di difesa viene chiamato restrizione.
IL BATTERIOFAGO λ
I virus temperati possono entrare in un una fase, detta di lisogenia, nella quale viene espressa la
maggior parte dei geni fasici ed il genoma virale, noto come profago, che si replica in sintonia con
il cromosoma dell’ospite.
Tuttavia, una volta che questo controllo viene a mancare, il virus entra in una fase successiva di
ciclo litico in cui si producono dei nuovi virioni, i quali vengono eliminati nell’ambiente
extracellulare mediante la lisi cellulare.
Uno dei fagi temperati più studiati risulta essere il fago λ, che infetta Escherichia coli.
Il genoma è costituito da DNA a doppio filamento, mentre il virus è provvisto di una testa
icosaedrica ed una lunga coda non contrattile con una fibra caudale sottile all’estremità.
Il suo DNA è una molecola lineare dotata di estremità coesive, frammenti di DNA a singolo
filamento costituite da 12 nucleotidi con sequenze che risultano essere complementari, le quali
consentono l’appaiamento reciproco delle basi. Data la presenza di queste estremità coesive, subito
dopo l’infezione il genoma lineare del fago assume una forma circolare.
Il fago λ può riprodursi secondo il ciclo litico normale immediatamente dopo la penetrazione; il
DNA del fago viene convertito in una forma circolare e trascritto dall’RNA polimerasi dell’ospite.
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La polimerasi si lega ad un promotore che dirige la trascrizione verso destra, chiamato PR, il quale
ha un promotore della trascrizione verso sinistra, chiamato PL, e dà inizio alla trascrizione in
entrambe le direzioni, copiando i differenti filamenti di DNA.
Vengono, perciò, prodotti dei piccoli mRNA, che successivamente vengono tradotti nelle proteine
Cro ed N, entrambe coinvolte nei processi di regolazione. La prima sceglie se continuare la via
litica o la via lisogenica e la seconda è un antiterminatore che permette all’RNA polimerasi di
continuare le trascrizione oltrepassando i terminatori specifici, allungando così ulteriormente i
trascritti a partire dai promotori PR e PL.
Questi trascritti più lunghi possono essere tradotti in più proteine, che includono i prodotti dei geni
C2 e C3.
Anche la proteina N non è completamente efficiente a livello del sito di terminazione a monte dei
geni Q.
Perfino la proteina Q risulta essere un antiterminatore: se la sua concentrazione è elevata,
promuove la trascrizione a partire da un promotore prossimale per generare il trascritto, indicato
come R2.
Quest’ultimo produce dalle proteine tardive, che comprendono tutte le proteine strutturali
necessarie all’assemblaggio della particella virionica, poi coinvolte nella lisi cellulare, che
determina la liberazione nelle nuove particelle virali.
Tuttavia, l’aumento della proteina Q corrisponde ad un aumento della proteina Cro tale da bloccare
la trascrizione guidata dai promotori PR e PL; gli operatori si legano ad entrambi i promotori, L od
R, quindi la proteina Cro non fa altro che fungere da repressore.
Il meccanismo di azione della proteina Cro su R mostra come ci siano tre siti a livello dell’operatore
ai quali la proteina Cro si può legare: prima si lega al sito 3, al sito 2 e 3 ed entrambi, quando questi
sono saturi, si legano al sito 1.
Cro non fa altro che bloccare PR quando si lega al sito 1.
Una volta che PL e PR risultano essere inibiti, vengono sintetizzati i prodotti dei geni C2 e C3 che
risultano essere necessari per la via lisogenica.
C3 lega C2, proteggendola dall'attacco delle proteasi. La stabilità di C2 determina quale ciclo verrà
intrapreso dal fago. Cellule non sofferenti, con attività abbondante di proteasi, renderanno C2
instabile, avviando il ciclo litico. Cellule sofferenti avranno un'attività proteasica minore, rendendo
C2 stabile, preludio al ciclo lisogeno.
Quando Cro viene prodotto in grande quantità, il fago è indirizzato in maniera irreversibile verso
una via litica.
L’inibizione dei promotori PL e PR porta ad un cambiamento conformazionale nella replicazione
del DNA: inizialmente la replicazione del DNA è bidirezionale a partire da una singola origine di
replicazione e compaiono gli intermedi, chiamati di forma q.
Il DNA è sintetizzato prevalentemente con un meccanismo a cerchio rotante per formare dei
lunghi concatenameri, i quali vengono poi scissi in tanti piccoli segmenti per fornire e completare il
genoma virale.
Le molecole a DNA lineare sono poi impacchettate nelle teste dei fagi, alle quali vengono aggiunte
successivamente delle code e delle proteine strutturali: in questo caso la cellula va incontro a lisi ed
il ciclo litico, con la liberazione della progenie virale, risulta essere completato.
I VIRUS ANIMALI
Ci sono molti più tipi di virus animali con envelope, che non virus batterici con envelope.
A differenza dei procarioti, le cellule animali sono sprovviste di parete cellulare; per questa ragione,
il rilascio delle nuove particelle virali risulta essere facilitato: molti virus finiscono per rimuovere
parte del doppio strato fosfolipidico passando attraverso la membrana e, facendo così, vengono
rilasciati attraverso un processo di gemmazione.
I virus animali vengono classificati con gli stessi criteri con cui vengono classificati i virus batterici.
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I virus possono avere numerosi effetti e diversi nei confronti delle cellule animali: l'infezione litica
ha come risultato la distruzione della cellula ospite, tuttavia, nel caso di virus con envelope, il
rilascio dei virioni, che avviene con un processo di gemmazione, può essere lento e la cellula ospite
può non essere lisata e produrre virus per un tempo molto lungo; tali infezioni sono dette infezioni
persistenti. I virus possono anche causare nell'ospite un’infezione definita latente quando c'è un
ritardo tra il momento di infezione da parte del virus e gli eventi di lisi. Infine, alcuni virus animali
sono in grado di interferire con tutta una serie di circuiti di regolazione cellulare a tal punto da
causare il passaggio di una cellula normale verso una cellula che ha un fenotipo trasformato,
mediante un processo noto con il nome di trasformazione.
IL POLIOVIRUS
Il poliovirus è la causa del raffreddore comune.
La particella virale ha una struttura icosaedrica con 60 unità morfologiche per virione, costituite da
4 proteine distinte. Il genoma è costituito da una molecola lineare di RNA a singolo filamento
lunga circa 7500 basi. All'estremità 5' dell'RNA virale si trova una proteina chiamata proteina VPg,
unita covalentemente all'RNA, mentre all'estremità 3' è presente una coda di poli-A.
L'RNA del virus agisce direttamente come mRNA, nonostante non sia dotato di cap, un elemento
fondamentale per il processo di traduzione.
L'estremità 5' dell'RNA contiene una lunga sequenza che può ripiegarsi a formare diverse strutture
intracatena ad ansa e bastone; la proteina VPg, in associazione con queste strutture, mima il
complesso che lega il cap, permettendo in questo modo il legame dell'mRNA al ribosoma.
L'RNA virale è monocistronico, ma codifica tutte le proteine del virus tramite la traduzione di
un'unica poliproteina che successivamente viene tagliata nelle varie proteine finali.
L'intero processo di replicazione avviene a livello del citoplasma. Per iniziare l'infezione, la
particella virale si deve legare a degli specifici recettori cellulari sensibili a questo virus, perciò
riesce a penetrare all'interno della cellula; una volta all'interno, la particella virale perde il
rivestimento capsidico, l'RNA viene liberato e si può così associare ai ribosomi. L'RNA virale viene
allora tradotto nella grande poliproteina, successivamente tagliata in 20 proteine più piccole, tra le
quali vi sono:
4 diverse proteine strutturali del virione;
la proteina VPg legata all'RNA;
una RNA polimerasi (RNA replicasi), responsabile della sintesi del filamento
complementare negativo e del filamento positivo di RNA;
una proteasi codificata dal virus, responsabile del processo di maturazione della
poliproteina.
GLI ORTHOMYXOVIRUS
Gli Orthomixovirus sono una famiglia di virus ad RNA che comprende tre generi di virus che
infettano i vertebrati. Alla famiglia Orthomyxoviridae sono compresi tre generi, vale a dire:
influenzavirus A;
influenzavirus B;
influenzavirus C.
L'influenza di tipo A determina delle infezioni negli animali e nell'uomo e può causare sia epidemie
che pandemie; quella di tipo B infetta solo l’uomo e determina piccole epidemie, principalmente nei
bambini; quella di tipo C infetta solo l'uomo, non provoca epidemie ed i casi risultano essere delle
forme cliniche molto lievi. L'agente eziologico nell'influenza è un virus ad RNA a singolo
filamento a polarità negativa circondato da un involucro pericapsidico costituito da proteine, un
doppio strato fosfolipidico e da glicoproteine esterne. L'RNA virale è presente nel virione in
numerosi segmenti, pertanto viene definito segmentato.
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Il nucleocapside del virus dell'influenza è a simmetria elicoidale ed è inserito in un involucro che
presenta un certo numero di proteine virus-specifiche ed una componente lipidica che deriva dalla
cellula ospite.
Sulla faccia esterna dell'involucro sono presenti delle proteine che non fanno altro che interagire
con la superficie della cellula ospite:
emoagglutinina, chiamata così perché causa agglutinazione negli eritrociti;
neuraminidasi, che scinde l'acido sialico della membrana citoplasmatica. Essa sembra
funzionare principalmente nel processo di assemblaggio del virus, distruggendo l'acido
sialico della membrana della cellula ospite, che altrimenti determinerebbe un blocco
dell'assemblaggio.
Il virus possiede, inoltre, altri due enzimi chiave:
RNA polimerasi RNA-dipendente, un’RNA replicasi coinvolta nella conversione del
filamento negativo a filamento positivo;
RNA endonucleasi, che taglia dai precursori degli mRNA cellulari un frammento
contenente il cap, necessario per l'innesco della sintesi degli mRNA virali.
La particella virale entra nella cellula e, una volta entrata nel citoplasma, il nucleocapside si separa
dall'involucro e migra nel nucleo, dove avviene la replicazione dell'acido nucleico. La
decapsidazione determina l'attivazione dell'RNA polimerasi virale; le molecole di mRNA vengono
allora trascritte nel nucleo sullo stampo dell'RNA del virus e successivamente vengono tradotte.
Alla base dell'epidemia di influenza vi è la marcata tendenza di tutti i virus (soprattutto del virus
influenzale) a variare, cioè ad acquisire cambiamenti nelle proteine di superficie, che gli
permettono di aggirare la barriera immunitaria presente nella popolazione che ha contratto
l'infezione.
I cambiamenti possono avvenire con due meccanismi differenti:
deriva antigenica o antigenic-drift, una modifica minore delle proteine di superficie del
virus. Questo fenomeno riguarda sia i virus di tipo A che quelli di tipo B ed è responsabile
delle epidemie stagionali. Infatti, le nuove varianti non vengono più riconosciute dal
sistema immunitario della maggior parte della popolazione, cosicché un ampio numero di
individui si dimostra suscettibile al nuovo ceppo modificato.
In questo meccanismo la struttura degli enzimi neuraminidasi ed emoagglutinina sulla
superficie si modifica attraverso delle mutazioni puntiformi dei geni corrispondenti, che
portano alla sostituzione di uno o più amminoacidi di codesti enzimi; queste modificazioni
delle proprietà di superficie del virus non fanno altro che ridurre od annullare l'efficacia
degli anticorpi, che riconoscevano in precedenza, quindi, per ottenere un'immunità efficace,
devono essere prodotti dei nuovi anticorpi nei confronti di queste mutazioni. Questo è il
motivo per cui il vaccino influenzale conferisce la protezione solo per un anno ed ogni anno
dev’essere ripetuto;
spostamento antigenico o antigenic-shift, fenomeno che riguarda solo i virus influenzali di
tipo A e consiste nella comparsa nell'uomo di un nuovo ceppo virale completamente
differente da quello precedente.
Gli shift antigenici sono dovuti a riassortimenti tra segmenti genomici di RNA che
appartengono a due ceppi geneticamente distinti, che hanno infettato, però, la stessa
cellula. Poiché, quindi, la popolazione non ha mai incontrato prima questi antigeni, in
determinate circostanze questi cambiamenti di maggiore entità possono provocare
un'infezione improvvisa ed invasiva che può anche determinare una pandemia su scala
mondiale. Tale evento ha come risultato la produzione di virioni che esprimono una serie di
proteine di superficie, significativamente differenti da quelle da cui derivano, cioè dai due
ceppi originari.
Di conseguenza, le epidemie si verificano quando avviene l'antigenic-drift, cioè quando si hanno
delle ripetute mutazioni in zone del genoma, quindi solo dei cambiamenti della sequenza
amminoacidica; le pandemie si hanno con l'antigenic-shift se si assiste ad un cambiamento totale di
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una od entrambe le glicoproteine dell'involucro virale, dunque proprio la formazione di ceppi virali
totalmente differenti.
GLI HERPESVIRUS
Gli Herpesvirus sono un gran numero di virus a DNA a doppio filamento, che causano una varietà
di malattie negli uomini e negli animali, quali l'herpes orale e genitale, la mononucleosi, la varicella
e l'herpes Zoster.
La particella virale risulta essere complessa, in quanto consiste di quattro unità distinte.
L'infezione avviene sempre mediante l'adsorbimento della particella virale a specifici recettori
cellulari ed in seguito alla fusione della membrana citoplasmatica con l'involucro del virus. Il
nucleocapside viene, pertanto, rilasciato all'interno della cellula, poi trasportato nel nucleo dove il
DNA virale si dissocia dal capside.
In seguito all'infezione vengono prodotti tre classi di mRNA:
mRNA precoci immediati, che codificano 5 proteine regolatrici;
mRNA precoci ritardati, che codificano le proteine necessarie per la replicazione del
DNA;
mRNA tardivi, che codificano le proteine strutturali della particella virale.
La sintesi del DNA ha luogo nel nucleo; dopo l'infezione, il genoma degli Herpesvirus circolarizza
e si replica con meccanismo a cerchio rotante. I lunghi concatenameri che si formano vengono
processati durante l'assemblaggio, in modo da produrre i DNA del genoma virale. I nucleocapsidi
virali sono assemblati nel nucleo e l'acquisizione dell'involucro virale avviene mediante un processo
di gemmazione attraverso la membrana interna del nucleo. Infine, i virioni maturi sono rilasciati
attraverso il reticolo endoplasmatico verso l'esterno della cellula.
L’HIV
L'AIDS è una delle malattie che attualmente costituiscono una temibile minaccia per la salute
dell'uomo. Secondo stime dell'WHO, dal 1982 circa 42000 persone risultano essere decedute a
causa dell'AIDS, mentre quelle che convivono col virus sono circa 65000. Il 90% dei soggetti
infettati dall'HIV vive nei paesi del terzo mondo e circa il 55% risultano essere donne. L'epidemia
colpisce tutto il mondo, ma le aree più colpite si dimostrano l'America Latina, il Sud-Est Asiatico e
l'Africa Subsahariana.
Il perdurare dell'assenza dei vaccini, l'impossibilità di accesso in molte parti del mondo alle efficaci
terapie antiretrovirali, l'aumento della trasmissione eterosessuale e perfino l'elevata quantità di
virus nelle secrezioni endocervicali e nel liquido seminale hanno determinato la crescente richiesta
di misure atte a controllare la diffusione del virus. Di conseguenza, in aggiunta alla necessità di
sviluppare nuovi farmaci meno citotossici ma attivi soprattutto nei confronti dei mutanti
farmacoresistenti selezionati dalle attuali terapie o comunque indirizzati verso nuovi bersagli del
ciclo cellulare, è diventato molto urgente anche trovare delle soluzioni che possano bloccare le
tappe iniziali dell'infezione a livello del tratto genitale.
Il virus HIV viene classificato in due tipi:
tipo 1;
tipo 2.
Il tipo 1 è quello maggiormente rappresentato e comprende i gruppi: M (Major, perché il più
rappresentato), N ed O, meno rappresentati. Il gruppo M poi viene suddiviso in sottotipi da A fino a
K ed in forme ricombinanti circolari. I sottotipi A e B (soprattutto il B) sono presenti in Europa
ed in America, mentre il sottotipo C prevalentemente in Africa.
Morfologicamente, il virione di HIV ha un diametro di circa 100 nm, presenta un capside di forma
icosaedrica ed un envelope che ospita le proteine di membrana virali, che sono la Gp120 e la
Gp41.
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Il materiale genetico del virione è costituito da due copie di RNA a polarità positiva, a loro volta
legate a proteine basiche denominate p7 e p9. Tale complesso – insieme alla trascrittasi inversa,
alla proteasi ed all'integrasi – è contenuto in una sezione centrale chiamata core, dalla struttura
cilindro-conica e costituita completamente da una sola proteina, la p24. Tra il core e l'involucro
lipoproteico si trova uno strato di materiale elettrondenso costituito completamente dalla proteina
virale p17 miristilata, che media la gemmazione delle cellule infette dopo la replicazione e la
formazione di nuovi virioni.
I geni che costituiscono il genoma del virus sono suddivisi in base alle proteine che vengono da loro
sintetizzate, come i geni che codificano per proteine strutturali, che rappresentano i geni
fondamentali, ed i geni che codificano le proteine ad azione regolatrice.
I tre geni fondamentali per la replicazione del virus sono:
gag, che codifica per le proteine del core del virione, che sono p24, p17, p9;
pol, dal quale derivano la trascrittasi inversa, la proteasi e l'integrasi;
env, che codifica per le proteine dell'involucro esterno.
L'HIV ha inoltre dei geni accessori che sono:
tat (sta per transattivante), che, in collaborazione con un fattore cellulare, è in grado di
intensificare l'espressione di geni virali;
rev, che regola l'espressione dei trascritti virali ed è essenziale per la trascrizione dei geni
gag, pol ed env;
vif, un fattore di infezione, importante per l'infettività del virione.
I FLAVIVIRIDAE
La famiglia dei Flaviviridae è costituita da tre generi, che sono:
Flavivirus;
Pestivirus;
Hepacivirus.
Trattasi di virus forniti di peplos (pericapside), il cui genoma è rappresentato da una molecola di
RNA a singolo filamento con polarità positiva. Dopo l'interazione con la membrana della cellula
ospite, il nucleocapside viene liberato nel citoplasma e la regione 5' UTR (regione che non viene
tradotta) dirige l'RNA verso i ribosomi per la sintesi di una poliproteina, che viene processata in
seguito da proteasi virali e cellulari per formare tutte le proteine virali. Queste ultime
comprendono sia le proteine strutturali, indispensabili per l'assemblaggio di nuove particelle virali,
che proteine ad attività enzimatica, essenziali per la replicazione del virus.
L'RNA polimerasi RNA-dipendente (RdRP) produce un singolo filamento di RNA negativo che
servirà poi da stampo per la sintesi dei filamenti progenie con RNA a polarità positiva.
Nei Flavivirus questa attività è svolta dalla proteina non strutturale 5 (NS5), mentre negli
Hepacivirus e nei Pestivirus è svolta dalla proteina non strutturale 5B (NS5B). La proteina NS3 è
presente negli Hepacivirus e nei Flavivirus ed è una proteasi serina-dipendente che svolge attività
ATPasi e ligasi; il compito di questo enzima risulta essere quello di separare i filamenti di RNA
positivo da quello negativo.
Dopo la replicazione, il genoma virale interagisce con le proteine nucleocapsidiche e si dirige verso
il reticolo endoplasmatico dove le proteine dell'envelope vengono successivamente glicosilate.
Infine, i virus vengono rilasciati nello spazio extracellulare.
I Pestivirus sono causa di numerose infezioni in animali d'allevamento e determinano in tutto il
mondo notevoli perdite economiche. Recentemente questi virus hanno causato epidemie in Olanda,
Germania, Canada e Stati Uniti.
Sono stati identificati diversi biotipi e genotipi di questo virus: la classificazione in genotipi è basata
sulla diversità della sequenza del genoma virale che viene rivelata da analisi filogenetiche.
Nell'ambito dei ruminanti il virus della diarrea virale bovina è unanimemente ritenuto uno dei più
importanti patogeni della specie bovina.
LA FEBBRE GIALLA
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Appartenente ai Flavivirus, la febbre gialla è una malattia tropicale (è stata trovata sia in Africa che
in Sud America), trasmessa all'uomo tramite la puntura di un insetto.
La febbre gialla costituisce un serio problema di sanità pubblica in molti paesi dell'Africa centrale
ed occidentale ed è presente allo stato endemico anche in alcune regioni equatoriali e tropicali
dell'America centrale e meridionale. La letalità per febbre gialla nelle regioni endemiche si aggira
intorno al 5%, mentre nelle manifestazioni epidemiche può addirittura arrivare al 50%.
Esiste comunque un vaccino nei confronti della febbre gialla a base di virus vivi attenuati, la cui
efficacia protettiva risulta essere intorno al 90/95%.
IL DENGUE
Un altro virus appartenente ai Flavivirus è il virus dengue, considerato dall'Organizzazione
Mondiale della Sanità un problema sanitario di priorità assoluta, dato che rappresenta una delle più
importanti malattie trasmesse all'uomo sempre da insetti vettori.
È costituito da 4 sierotipi.
Ogni anno sono soggetti a ricovero più di 100 milioni di casi dengue; di questi, un'elevata
percentuale è rappresentata da bambini, il cui tasso di mortalità può raggiungere il 5%.
Per le infezioni causate da virus dengue non esiste alcun trattamento antivirale specifico: si ricorre
ad una terapia di supporto in grado di prevenire disidratazione ed ipotensione. La ribavirina, pur
risultando attiva nell'inibire la moltiplicazione di alcuni RNA virus, risulta essere poco attiva nei
confronti dei Flavivirus.
L’HCV
Il virus HCV è responsabile di un’infezione del fegato, l’epatite C, definita “epatite non A non B”
fino all'identificazione del suo agente eziologico nel 1989.
Ogni anno nel mondo si registrano da 3 a 4 milioni di nuovi casi di epatite C, le cui principali cause
di infezione risultano essere rappresentate da trasfusioni di sangue infetto dall'utilizzo di aghi e
siringhe non sterili. Un'importante caratteristica del virus HCV è rappresentata dall'elevato grado di
mutabilità del suo genoma; a tale evento è probabilmente correlata la sua tendenza a determinare
delle infezioni croniche in circa l'80% dei pazienti. Oltre all’80% non in grado di guarire, circa il
30% di questi soggetti sviluppa cirrosi in un arco di tempo di circa 20-30 anni e l'1,5% dei pazienti
sviluppa, invece, carcinoma epatico.
Per quanto concerne il trattamento, nei confronti del virus HCV la terapia più frequentemente
utilizzata prevede la combinazione dell'interferone della ribavirina. Tuttavia, questi farmaci non
sono molto attivi e comunque risultano essere particolarmente efficaci solo nei confronti dei
sierotipi più frequenti che sono stati isolati in Europa, ovvero quelli 1A ed 1B.
Protocollo sperimentale
L’esperienza comprende 3 tecniche di identificazione microbica.
Uno di questi è costituito dalla preparazione del terreno per il test della gelatinasi. Esso può
contenere direttamente la gelatina, altrimenti la si deve aggiungere, la cui quantità corrisponde in
questo caso al 12%. Una volta preparati 50 mL di terreno, devono essere dispensati 10 mL
contenente la gelatina in due tubi, poi autoclavati a 27/28°C e, in seguito a solidificazione, vengono
seminati con dei microrganismi attraverso una tecnica, denominata per infissione.
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Un’altra tecnica è l’osservazione di preparati a fresco a goccia pendente, metodica sfruttata per
mettere in evidenza la motilità del ceppo studiato.
Infine, l’ultima tecnica è l’osservazione al microscopio ottico di preparati colorati, la cui
colorazione deve avvenire ad opera di colorazione semplice, definita semplice per l’utilizzo di un
unico colorante, vale a dire il cristal-violetto, che aumenti il contrasto esistente tra i batteri ed il
mezzo, in quanto mette in evidenza e fornisce informazioni relative su forma, dimensioni ed
eventuale motilità dei batteri.
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La densità dei batteri appare leggermente più alta di quella dell’acqua, per cui osservarli al
microscopio senza alcun conservante risulta essere un po’ difficile. Pertanto, affinché si riescano a
vedere meglio i batteri, si utilizzano coloranti che consentono di aumentare il contrasto tra i
microrganismi ed il mezzo circostante.
I coloranti sono generalmente sali in cui uno dei due ioni è colorato, come, ad esempio, il blu di
metilene, il quale, dissociandosi in acqua, si dimostra formato dallo ione blu di metilene carico
positivamente e dallo ione cloruro incolore carico negativamente.
I coloranti si possono suddividere in:
basici, se lo ione colorato è positivo e dà colorazione diretta, in quanto il citoplasma è
carico negativamente, come il blu di metilene, il cristal violetto o la safranina;
acidi, se lo ione colorato è negativo e dà colorazione indiretta, in quanto il colorante viene
respinto dalla cellula e si deposita attorno alla cellula lasciandola incolore, come la nigrosina
o il rosso congo.
Qualora si utilizzasse un unico colorante, esso presenterebbe affinità con le strutture acide della
cellula (nel caso fosse basico), come il citoplasma. Il microrganismo si colora direttamente.
Per preparare i batteri alla colorazione, sul vetrino si realizza un sottile film cellulare, che viene poi
fissato al calore in modo tale da evitare che nel corso della procedura della colorazione le colonie
vengano lavate via.
Le colorazioni semplici richiedono l’uso di un solo colorante per valutare forma, dimensione e
disposizione dei batteri; le colorazioni differenziali o complesse ne richiedono di più.
Il fissaggio viene effettuato passando il vetrino sulla fiamma a becco Bunsen: in questo modo i
batteri risultano aderire al vetrino stesso. Vengono uccisi, ma questo evento è indispensabile per
permettere al colorante di penetrare all’interno delle cellule.
Le ultime letture da eseguire corrispondono all’MR-VP Test ed all’antibiogramma.
L’MR-VP Test associa, mediante l’utilizzo di un unico terreno di coltura, due test biochimici (del
rosso metile e di Voges-Proskauer) che rientrano nei IMViC tests (un gruppo di test individuali
utilizzati nei laboratori di test microbiologici per identificare un organismo in un gruppo di
coliformi, ovvero batteri appartenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae), utilizzati per
l’identificazione degli enterobatteri o famiglia delle Enterobacteriaceae, che includono un numero
ampio di batteri Gram-, tra cui i generi Klebsiella, Enterobacter ed Escherichia. Il terreno di coltura
MR-VP contiene glucosio e peptone; tutti gli enterobatteri utilizzano glucosio ma i prodotti finali
sono diversi. Escherichia coli produce, per esempio, acidi come lattato o acetato, i quali abbassano
il pH del mezzo: un indicatore di pH quale il rosso metile diventa così rosso a pH acido. Klebsiella
pneumoniae, invece, produce composti neutri, come acetoina, che non causano l’acidificazione del
mezzo, il quale rimane giallo. Aggiungendo, però, reagenti quali α-naftolo (reattivo di Barritt A)
ed idrossido di potassio (reattivo di Barritt B) in un terreno dov’è presente acetoina, riesce a
svilupparsi una colorazione rossastra dovuta alla produzione di diacetile e creatina.
L’antibiogramma è sfruttato per osservare gli aloni di inibizione originatisi sulle piastre incubate
con Escherichia coli e Staphylococcus aureus.
L’analisi degli aloni di inibizione formatisi nelle piastre incubate con i diversi batteri risulta
imprescindibile per scoprire se, in corrispondenza degli antibiotici utilizzati, quegli stessi
antibiotici appaiono attivi nell’inibire la moltiplicazione dei ceppi studiati.
Qualora si avessero aloni di inibizione dal diametro di circa 10 mm, i batteri risulterebbero resistenti
a quell’antibiotico; aloni di inibizione di 15 mm corrispondono ad una resistenza intermedia; aloni
dai 20 ai 29 mm rappresentano batteri suscettibili all’azione di quel determinato antibiotico.
Chemioterapia antitumorale
Il cancro è la seconda causa di morte nel mondo occidentale: all’anno circa 10 milioni di individui
si ammalano e di questi circa 6 milioni muoiono.
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Sfortunatamente, il fatto che si abbia una maggiore incidenza nei paesi occidentali è molto
presumibilmente dovuto all’inquinamento, alla dieta ed al tipo di vita svolto.
Considerando l’Asia, la percentuale di tumori si manifesta prevalentemente negli uomini, mentre in
Europa ed America le percentuali si equivalgono all’incirca.
I FATTORI DI RISCHIO
Ciò che aumenta la probabilità per una persona di sviluppare una determinata patologia viene
chiamato fattore di rischio.
I fattori di rischio tumorali si suddividono in:
generali;
specifici.
Tra i fattori di rischio generali si considerano:
età, il cui aumento causa un ingrandimento del rischio;
razza ed etnia;
sesso, ad opera di ormoni che modulano il metabolismo e l’attività di tessuti ed organi;
geografia;
dieta;
familiarità, un fattore genetico;
ambiente.
Il consumo eccessivo di grassi animali e di carni rosse viene associato a molti tipi di tumori,
specialmente del colon retto. La dieta ricca in grassi e povera di vegetali, tipica dei paesi
occidentali del Nord (contrapposta a quella mediterranea), è associata al cancro. Tra il 40 e il 60%
dei tumori potrebbe essere evitato con una dieta congrua. I lipidi negli Stati Uniti rappresentano il
40-60% delle calorie.
Più precisamente, i principali tumori correlati alla dieta interessano:
colon;
mammella;
pancreas;
fegato;
prostata;
utero;
stomaco.
Gli acidi grassi saturi sono i più rischiosi, a differenza dei monoinsaturi e dei polinsaturi. Tra le
ipotesi patogenetiche più plausibili vi è il fatto di essere veicolo per carcinogeni naturali
liposolubili e l'aumento di estrogeni.
Una dieta ricca di vegetali, quali broccoli, cavoli, carote ed agrumi, riduce il rischio di tumore.
Tra i fattori di rischio specifici si considerano:
virus;
batteri;
radiazioni ionizzanti;
fumo, a causa del tabacco;
alcol;
intossicazioni.
Si stima che il 70% dei tumori potrebbe essere evitato.
Il fumo rappresenta il principale cancerogeno ambientale e la sua patogenicità è riferita al fatto che
sia in grado di potenziare gli effetti cancerogeni di altri agenti, come quelli dell’alcol, la causa
principale del tumore al fegato.
Il tabagismo, infatti, è correlato epidemiologicamente ai seguenti tumori:
polmone, determinando un aumento di insorgenza 10 volte superiore;
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cavità orale, laringe e faringe, determinando un aumento di insorgenza 25 volte superiore;
esofago, determinando un aumento di insorgenza 10 volte superiore;
pancreas;
vescica;
pelvi, uretere e reni;
mammella (non si è completamente certi);
stomaco;
utero;
ano e retto;
leucemia.
Il fumo è responsabile del 40% dei tumori nell'uomo e del 20% nella donna. Il rischio rimane
maggiore fino a 20 anni dopo l'astensione.
Tra le patogenesi dei tumori correlati al fumo vi sono:
flogosi cronica (BPCO, esofagite e così via);
aumento della proliferazione cellulare;
aumento della produzione di radicali liberi;
riduzione di antiossidanti;
presenza di carcinogeni.
Nel tabacco sono presenti più di 3000 composti con potenziale carcinogenetico, tra cui:
arsenico;
benzene;
nitrosammine;
catrame;
idrocarburi aromatici;
aldeidi;
ammine aromatiche.
Spesso associato al fumo con effetto sinergico, esercitando la stessa azione, l'alcol è causa del 3%
di tutti i tumori. È, inoltre, associato in modo prevalente a tumori relativi a:
cavità orale;
esofago;
stomaco;
fegato;
pancreas;
mammella;
colon e retto.
Sono stati individuati perfino i possibili meccanismi patogenetici:
veicolo dei carcinogeni, aumentandone l'assorbimento;
induzione enzimatica, attivando i carcinogeni;
aumento della degradazione di antiossidanti;
aumento della produzione di aldeidi;
aumento dell'assorbimento di ferro;
infiammazione cronica di pancreas, fegato ed esofago.
L’esposizione a raggi ultravioletti è certamente l’origine principale dello sviluppo di melanomi ed
altri tipi di tumori cutanei. Si stima che le radiazioni UV causino 600 mila tumori della pelle
(basaliomi, epiteliomi, melanomi e così via) ogni anno. Inoltre, l’esposizione lavorativa, specie se
si tratta di amianto e benzene, è causa del 5% circa di tutti i tumori; le radiazioni ionizzanti
possono provocare leucemie e linfomi, ma anche tumori alla mammella, al polmone, all'esofago e
all'ovaio.
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Non sono da trascurare le cause genetiche, che molto spesso determinano mutazioni nei geni
oncorepressori.
Purtroppo, anche alcuni batteri possono generare tumori, come nel caso di Helicobacter pylori,
scatenante un tumore allo stomaco.
Ultimo, ma non per importanza, è il ruolo svolto da alcuni virus nella determinazione
dell’insorgenza di tumori. HIV ed HTLV-1 sono spesso coinvolti nella produzione di tumori
maschili.
In particolare, HIV causa l’AIDS, HTLV-1, un retrovirus ad RNA, è implicato nella patogenesi dei
linfomi NH e possiede proteine con capacità di transattivatori,
HPV è un virus a DNA coinvolto nella patogenesi di papillomi e cancro ad esofago, cervice uterina
e cavità orale e, infine, EBV è responsabile del linfoma di Burkitt. HBV, un virus a DNA, provoca
l’epatocarcinoma, ma non solo, in quanto le sue parti possono integrarsi nel nostro DNA; è presente
una proteina X, ossia un transattivatore di numerosi oncogeni, e causa epatite cronica e cirrosi
epatica. HBV, ugualmente responsabile del carcinoma epatico e di linfomi NH, può indurre
infiammazione cronica, angiogenesi, disturbi nel sistema immunitario e presenta le proteine non
strutturali NS3 e NS5, aventi capacità trasformanti.
LA LOTTA AI TUMORI
I gruppi principali di tumori sono:
carcinomi, ovvero provenienti dalle cellule epiteliali;
sarcomi, ovvero provenienti dai tessuti connettivi e tipicamente solidi;
leucemie e linfomi, ovvero provenienti dalle cellule del sangue e del sistema immunitario.
In clinica, le armi più sfruttate nella lotta contro i tumori risultano essere la chirurgia, la
radioterapia e la chemioterapia. Quest’ultima consiste nell’adoperare agenti citotossici – farmaci
antitumorali – che appaiono in grado di indurre la morte cellulare.
L’obiettivo ultimo delle ricerche di chemioterapia antitumorale risulta essere lo sviluppo di farmaci,
i quali, sebbene siano capaci di aggredire le cellule cancerogene, non devono compromettere la
vitalità e la capacità delle normali cellule, fenomeno che, ad oggi, sfortunatamente non è possibile.
Gli antitumorali attualmente disponibili possono essere raggruppati in tre classi principali:
chemioterapici, come agenti alchilanti, antibiotici ed antimetaboliti;
ormoni;
immunoterapici.
Gli agenti alchilanti reagiscono con macromolecole organiche, come il DNA, sostituendo atomi di
idrogeno con gruppi alchilici, come il ciclofosfoamide ed il cisplatino.
Gli agenti intercalanti si interpongono nel DNA, la maggior parte dei quali è di origine naturale,
tra cui la doxorubicina, utilizzata preferenzialmente nella terapia di tumori al polmone, alla
mammella e nel caso di leucemie linfatiche e mielocitiche.
Gli antimetaboliti sono composti che, grazie all’analogia strutturale con molecole fisiologiche,
interferiscono con la formazione e la funzione di metaboliti naturali. Tra questi vi sono:
analoghi dell’acido folico ed analoghi strutturali di purine e di pirimidine;
inibitori della topoisomerasi, composti caratterizzati da attività antiproliferativa che
determina l’inibizione della topoisomerasi I o II, interferendo con il sito attivo dell’enzima,
oppure l’accumulo di frammenti di DNA;
antimitotici, che impediscono la corretta sintesi del fuso mitotico, interferendo col sistema
tubulina-microtubuli, come il taxolo, utilizzato preferenzialmente nel trattamento di tumori
ovarici.
Tra i farmaci più comunemente sfruttati in terapia si può citare la doxorubicina idrocloride, un
antibiotico citotossico isolato dalle colture della variante caesius di Streptomyces peucetius. La
struttura chimica è costituita da un anello tetraciclico con uno zucchero mediante legame
glicosidico.
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La doxorubicina si lega direttamente al DNA tramite l’interazione con le coppie di basi azotate.
Si dimostra perfino un agente chelante del ferro: il complesso doxorubicina-ferro può legarsi al
DNA ed alle membrane cellulari producendo radicali liberi, i quali immediatamente rompono il
DNA e le membrane cellulari stesse. Sebbene sia molto citotossica, nella fase S non corrisponde ad
alcun composto specifico per ciclo cellulare.
L’etoposide è un importante agente chemioterapico, sfruttato per trattare una vasta gamma di
tumori umani. Esso è un derivato semisintetico della podofillotossina (PPT), la quale viene estratta
dalla radice di Podophyllum peltatum (o mandragola americana o mela di maggio). Il suo bersaglio
primario risulta essere la topoisomerasi II, partecipe della replicazione, ricombinazione e
segregazione cromosomica della cellula eucariotica, intervenendo nel processo di srotolamento del
DNA. Per questo motivo, tale enzima risulta essenziale per la sopravvivenza e la proliferazione
delle cellule eucariotiche.
Durante la reazione di srotolamento, la topoisomerasi II non fa altro che determinare la temporanea
rottura della doppia elica nella spina dorsale degli acidi nucleici, mentre l’enzima costituisce un
ponte proteico che si estende sopra la rottura dell’acido nucleico, impedendo così la permanente
separazione delle coppie di DNA. Tale ponte appare ancorato attraverso legami fosfotirosil
covalenti, instauratisi tra i residui del sito attivo dell’enzima monodimerico ed il terminale 59 del
DNA.
L’etoposide accresce la rottura delle eliche di DNA mediata dalla topoisomerasi II per via
dell’inibizione della capacità dell’enzima di legare le molecole di acido nucleico spezzate.
La vincristina è un altro antitumorale molto conosciuto ed utilizzato.
Gli alcaloidi della vinca rosea (Catharanthus roseus) sono diventati clinicamente utili grazie alla
scoperta nel ’59 delle loro proprietà antitumorali. L’alcaloide naturale estratto dalla pianta si lega in
modo irreversibile ai microtubuli degli assi proteici nella fase S del ciclo cellullare, interferendo con
la genesi del fuso mitotico e trattenendo, quindi, la cellula tumorale in metafase.
La chemioterapia ha rappresentato e rappresenta ancor’oggi la principale modalità terapeutica per la
cura dei tumori.
Nei 45 anni trascorsi da quando è stata somministrata la prima dose di chemioterapia citotossica,
centinaia sono stati gli agenti chimici saggiati per la loro potenziale attività antitumorale. Per quanto
riguarda il loro sviluppo clinico, si è osservata una guarigione definitiva per alcuni tipi di tumori
ematologici, ma è anche vero che pochi composti hanno raggiunto lo stadio di sperimentazione
clinica nell'animale ed un numero ancora minore ha mostrato caratteristiche di tollerabilità e di
efficacia tali da giustificarne la sperimentazione clinica nell'uomo.
Affinché una terapia antitumorale risulti efficace, essa deve soddisfare diversi requisiti:
l’esposizione della cellula tumorale al farmaco;
la concentrazione elevata del farmaco all’interno della cellula tumorale;
la persistenza di una certa quantità sufficiente di farmaco e dei suoi metaboliti attivi
all’interno di tali cellule per un determinato periodo di tempo;
la sensibilità della cellula tumorale all’azione del farmaco, prima che insorga una
resistenza al farmaco stesso.
Oltre all’elevata tossicità dei farmaci impiegati, il maggior ostacolo all’efficacia della chemioterapia
è rappresentato dallo sviluppo della resistenza agli agenti antitumorali, definita resistenza acquisita
e multipla (MDR, multi drug resistance). Tale resistenza, oggi ben più frequente, si sviluppa in
seguito a cicli di chemioterapia e pone gravissimi problemi di intervento terapeutico sia nelle
recidive (il ripresentarsi, a distanza di tempo più o meno lungo, del processo patologico
precedentemente debellato, a causa del persistere di condizioni predisponenti o facilitanti il
riproporsi del fattore patogeno) che nelle metastasi (il fenomeno con cui le cellule tumorali si
spostano dalla zona in cui si sono formate ad un'altra parte del corpo).
Il tumore, infatti, in questo modo risulta, con la resistenza acquisita, non più sensibile ai farmaci
impiegati nel protocollo chemioterapico e non responsivo al trattamento con altri farmaci con
attività antineoplastica. Di conseguenza, una volta che i tumori raggiungono tale stadio di
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resistenza, risultano essere muniti di uno “schermo protettivo”, tale per cui qualsiasi agente
antitumorale – specialmente se appartenenti alla stessa classe – non riesce a determinare la morte di
cellule tumorali.
Questa tipologia di resistenza, rendendo inefficace anche i possibili protocolli alternativi, pertanto
rappresenta la causa maggiore di fallimento della chemioterapia antitumorale.
Uno dei meccanismi alla base della resistenza multipla ai farmaci antitumorali è stato individuato
nell’iper-espressione di una glicoproteina transmembrana, la Pgp, codificata dal gene MDR1. Essa
funziona come una pompa di flusso, trasferendo all’esterno della cellula vari farmaci, talvolta non
correlati strutturalmente o funzionalmente tra loro, ed impedendo l’accumulo intracellulare del
farmaco, richiesto per determinare la citotossicità.
Il gene MDR1 prende il nome dal fenomeno della MDR.
Sebbene il gene sia iper-espresso nei tumori che sviluppano la MDR, anche dopo il trattamento
chemioterapico esso è stato trovato altamente espresso in altri tipi di neoplasie non sottoposte a
trattamento chemioterapico precedentemente.
È importante sottolineare che l’iper-espressione di tale gene riguarda quei tipi di tumori che
generalmente si sviluppano dai tessuti, come quelli del colon, fegato, surrene ed altri difficilmente
trattabili sin dall’inizio, momento in cui il gene appare già costitutivamente espresso a livelli
parecchio elevati. Dunque, per quanto riguarda l’effetto dei chemioterapici nei confronti di tumori
MDR, tra cui il cocktail di farmaci costituito da vincristina, doxorubina, taxolo ed etoposide,
laddove, per risultare citotossici ed intervenire sulla cellula tumorale, dovrebbero penetrare
all’interno della cellula stessa e rimanervi per un tempo adeguato, in modo tale da raggiungere le
dosi citotossiche richieste per determinare l’inibizione della proliferazione delle cellule tumorali.
Tuttavia, mediante la pompa di flusso, i farmaci vengono espulsi, rimossi dall’interno della cellula e
si ha come risultato finale la riproduzione della cellula tumorale, ora resistente e non più
responsiva all’azione degli antitumorali, determinando la morte degli individui colpiti.
Protocollo sperimentale
L’esperienza prevede tre tecniche differenti:
colorazione di Gram;
test del KOH;
colorazione negativa.
La prima è una colorazione differenziale molto utilizzata ed importante in batteriologia; la seconda
viene sfruttata per confermare l’esito della colorazione di Gram oppure nel caso in cui quest’ultima
non dia risultati attendibili; la terza, detta anche colorazione indiretta, è indicata quando è
necessario osservare microrganismi che non si colorano facilmente oppure quando la colorazione
può determinare un’alterazione della morfologia cellulare, specialmente nel caso in cui essa non sia
ancora nota, e può essere usata per evidenziare, qualora fosse presente, la capsula batterica.
LA COLORAZIONE DI GRAM
La colorazione di Gram è un esame di laboratorio impiegato per la classificazione dei batteri
Gram-positivi o negativi.
Tale colorazione evidenzia le differenti proprietà riguardanti la parete cellulare di microrganismi.
I batteri si possono dividere in Gram-positivi e Gram-negativi, in base alla differenza della parete
cellulare, specialmente a livello di peptidoglicano. Nei primi lo strato di peptidoglicano rappresenta
circa il 90% della parete cellulare, che risulta molto spessa; nei secondi rappresenta circa il 10%,
più sottile ma pluristratificata.
Nel 1883 il dottor Hans Christian Gram, un fisico danese che lavorava con Koch, scoprì che i
batteri sono divisibili in due categorie, a seconda che si colorino o meno dopo una colorazione con
cristal violetto, seguita da un bagno di una soluzione iodo iodurata ed un trattamento con un
agente decolorante. Un gruppo di cellule resisteva alla rimozione del cristal violetto con il
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decolorante etanolo o acetone, mentre il secondo gruppo si decolorava rapidamente. Per vedere
quest’ultimo gruppo, lo espose brevemente all’azione di un colorante di contrasto, quale la
safranina. Le cellule che conservavano il cristal violetto risultavano blu e sono dette Gram-
positive; quelle che perdevano la colorazione blu e risultavano rosa sono dette Gram-negative.
Al giorno d’oggi i due tipi cellulari si colorano differentemente per la presenza di una diversa
organizzazione della parete: i batteri Gram-negativi, infatti, presentano uno strato più sottile di
peptidoglicano, il quale viene colorato con intensità minore e può essere più facilmente rimosso
dalla decolorazione.
Ovviamente l’acqua non dev’essere spruzzata direttamente sul campione, in quanto si andrebbe a
lavarlo via assieme al colorante.
In conclusione, Escherichia coli (Gram-negativo) si colora di rosa, poiché possiede uno strato più
sottile di peptidoglicano, quindi colorato con intensità minore e facilmente pervaso dal decolorante,
assumendo la colorazione rosa del colorante secondario, mentre Staphylococcus aureus (Gram-
positivo) presenta una parete di peptidoglicano più spessa, perciò il decolorante non riesce a
rimuovere il colorante primario e mantiene fino alla fine la colorazione violacea
LA COLORAZIONE NEGATIVA
La colorazione negativa si basa sull’utilizzo del colorante nigrosina che non viene assorbito dalla
capsula e questo fa sì che le regioni colorate risultino due: l’ambiente in cui si trovano le cellule
batteriche ed il batterio stesso; la regione della capsula rimane chiara.
Ne consegue che, in questo modo, la capsula può essere osservata come un alone chiaro attorno al
batterio.
Se si utilizzasse una metodica di colorazione come quella di Gram, la capsula verrebbe distrutta
senza problemi, in particolare al passaggio al calore sul becco Bunsen.
La capsula è una struttura costituita da polisaccaridi o glicoproteine che circonda la superficie
cellulare di molti batteri, assicurandone protezione dall’attacco di fagociti e virus.
Viene utilizzato un colorante acido, come la nigrosina, in combinazione con un colorante basico.
Grazie a questa combinazione di colorante acido e basico, si può visualizzare al microscopico la
presenza della capsula come un alone chiaro su fondo scuro.
Interazioni uomo-microrganismo
La maggior parte degli animali mostra un primo meccanismo innato di difesa nei confronti degli
agenti patogeni. Queste barriere fisiche e chimiche agiscono in modo tale da ostacolare l'invasione,
dunque l'attacco da parte di patogeni, prevenendo l'insorgenza delle malattie.
La resistenza alla colonizzazione e all'invasione è dovuta alla produzione di sostanze di difesa da
parte dell'ospite e a vari altri meccanismi che interferiscono col processo di colonizzazione da parte
degli agenti patogeni.
La pelle rappresenta una prima barriera efficace contro la penetrazione dei microrganismi. Le
ghiandole sebacee della pelle secernono degli acidi grassi ed acido lattico, che non fanno altro che
determinare una diminuzione del pH della pelle, quindi interferiscono con l'eventuale
colonizzazione da parte di molti batteri patogeni.
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I microrganismi inalati attraverso il naso e la bocca sono eliminati per azione delle cellule epiteliali
ciliate delle mucose delle regioni nasofaringee e tracheali. I potenziali patogeni che eventualmente
raggiungono lo stomaco devono poter sopravvivere all'acidità di quest'ultimo (pH = 2) e vincere la
competizione con la microflora residente.
L’ADESIONE
La patogenesi microbica ha inizio con l'adesione del microrganismo alla pelle e alla mucosa
dell'ospite.
Una volta che il microrganismo aderisce, si ha la successiva invasione attraverso l'epitelio, seguita
poi dalla fase di colonizzazione e proliferazione. Una crescita incontrollata del microrganismo
può determinare ovviamente dei danni all'organismo ospite, di conseguenza la malattia.
Le mucose sono costituite da uno o più strati di cellule epiteliali, cellule strettamente collegate l'una
all'altra e presenti in numerose parti dell'organismo. Le mucose sono spesso rivestite da muco, uno
strato protettivo viscoso costituito essenzialmente da glicoproteine solubili che servono a proteggere
le cellule epiteliali.
Quando i batteri entrano in contatto con i tessuti dell'ospite, a livello delle mucose possono
associarsi alle cellule epiteliali in modo più o meno saldo; quando questo accade, la barriera
costituita dalle mucose viene intaccata, perciò i microrganismi possono penetrare nei tessuti più
profondi.
Le fimbrie e i pili sono strutture proteiche presenti sulla superficie della cellula batterica, coinvolti
nel processo di adesione. Infatti, per esempio, in Neisseria gonorrhoeae i pili hanno un ruolo
fondamentale nell'adesione del microrganismo all'epitelio urogenitale.
I pili sono generalmente più lunghi delle fimbrie e sono presenti in numero ridotto sulla superficie
della cellula. La funzione di entrambe le strutture è quella di legarsi alle glicoproteine presenti nelle
cellule ospiti, iniziando in questo modo il processo di adesione, ovvero l'attacco degli organismi alle
cellule epiteliali.
L’INVASIONE
Per iniziare il processo di patogenicità, la maggior parte dei patogeni deve penetrare nell'epitelio.
Questo processo viene chiamato invasione.
Il punto di ingresso generalmente avviene in corrispondenza di piccole lesioni o fratture della
mucosa e qui inizia così la proliferazione. La crescita, però, può iniziare anche su superfici intatte
della mucosa, nel caso in cui la microflora normale residente risulti essere alterata o totalmente
assente, fenomeno che può avvenire in seguito a terapie antibiotiche. I patogeni, in questo modo,
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possono colonizzare molto più facilmente i tessuti ed iniziare il processo di invasione dei tessuti più
profondi con una velocità maggiore.
LA COLONIZZAZIONE
Se un microrganismo patogeno riesce ad accedere ai tessuti, può moltiplicarsi, dando inizio al
processo di colonizzazione. L'inoculo iniziale raramente provoca dei danni elevati nell'ospite: per
indurre la malattia, il microrganismo si deve riprodurre. Per far questo, deve trovare un ambiente
idoneo e le sostanze nutritive necessarie per la sua riproduzione, oltre ad una temperatura
adeguata, un pH ottimale e la presenza o meno di ossigeno a seconda del microrganismo che sta
colonizzando gli ambienti.
Il fattore predominante che permette al microrganismo di riprodursi nel modo più ottimale e più
rapido è rappresentato dalla presenza o assenza di sostanze nutritive.
La misura quantitativa della patogenicità è indicata col termine di virulenza. La virulenza di un
patogeno può essere stimata valutando la dose letale 50, indicata come LD50, ovvero la dose
necessaria per uccidere il 50% degli animali saggiati. Ceppi patogeni molto virulenti possono avere
poca differenza tra la dose che determina la morte del 100% delle cellule rispetto a quella che
provoca la morte del 50% di cellule.
Ad esempio, a Streptococcus pneumoniae sono necessarie pochissime cellule per determinare
un’infezione letale per tutta la popolazione che viene inoculata, quindi la quantità necessaria per
uccidere il 100% della popolazione è molto simile a quella necessaria per ucciderne il 50%, proprio
perché risulta essere molto virulento.
Al contrario, Salmonella typhimurium risulta essere molto meno virulento, dal momento che la dose
letale 100 è più di 100 volte maggiore rispetto alla dose letale 50.
La virulenza è l'espressione della capacità di un patogeno di provocare un danno all'ospite ed è
determinata da due fattori:
tossicità, la capacità di un organismo di svolgere il suo ruolo patogeno attraverso la
produzione di sostanze tossiche che determinano la morte o l'inibizione della proliferazione
cellulare (per esempio, il tetano è una malattia provocata da una potente esotossina prodotta
da Clostridium tetani);
invasività, la capacità di un microrganismo di penetrare nei tessuti più profondi e di
raggiungere numeri così elevati da inibire e da determinare la malattia nell'ospite.
Un microrganismo, anche se non produce tossine, è in grado di determinare la malattia con le sue
capacità invasive. Per esempio, il maggiore fattore di virulenza per Streptococcus pneumoniae è
rappresentato dalla capsula polisaccaridica che impedisce il processo di fagocitosi dei ceppi
patogeni.
I FATTORI DI VIRULENZA
I patogeni producono delle proteine che favoriscono lo stabilirsi e il mantenimento della malattia,
che prendono il nome di fattori di virulenza, ovvero enzimi che determinano un potenziamento
della colonizzazione e della crescita dei patogeni all'interno dell'organismo ospite.
Per esempio, alcuni streptococchi, stafilococchi ed alcuni clostridi sintetizzano l'enzima
ialuronidasi, il quale promuove la diffusione di microrganismi nei tessuti dell'ospite, poiché in
grado di degradare l'acido ialuronico (polisaccaride che funge da collante tra tessuti). In maniera
analoga, molti clostridi, responsabili della gangrena gassosa, producono la collagenasi o tossina k,
che finisce per degradare la rete di collagene che funge da collante per i tessuti, permettendo in
questo modo ai microrganismi di diffondersi nei tessuti più profondi.
Generalmente, in corrispondenza di determinate ferite, si formano dei coaguli di fibrina, i quali
fanno sì che i patogeni rimangano isolati e che, quindi, l'infezione non possa svilupparsi in altre
parti dell'organismo. Alcuni microrganismi, per contrastare questo fenomeno, determinano la
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produzione di enzimi fibrinolitici, che non fanno altro che dissolvere questi coaguli di fibrina,
favorendo il processo di invasione. Uno di questi, per esempio, è la streptochinasi.
Altri microrganismi, invece, determinano la formazione di coaguli di fibrina, che mantengono
localizzati i microrganismi, pertanto confinati e protetti, come, ad esempio, la coagulasi, prodotta
da Staphylococcus aureus. Esso forma questi coaguli, i quali si depositano sui cocchi, proteggendoli
dall'attacco delle cellule immunitarie dell'ospite.
LE TOSSINE
Alcuni batteri producono delle sostanze tossiche, dette tossine, di due tipi:
esotossine di natura proteica, prodotte durante tutto il ciclo vitale del batterio ed eliminate
nei tessuti dell'ospite;
endotossine di natura glucidica, liberate nell'ambiente solo quando il batterio muore, ovvero
in seguito alla lisi batterica.
Le esotossine sono proteine tossiche rilasciate nell'ambiente circostante da un microrganismo in
fase di crescita e possono diffondersi da dove vengono prodotte, provocando danni perfino in
regioni distanti.
La maggior parte delle esotossine ricadono in queste tre grandi categorie:
1. tossine citolitiche, enzimi che attaccano i componenti cellulari, uccidendo le cellule;
2. tossine A-B, costituite da due subunità (A e B) legate covalentemente. La subunità B si lega
generalmente ad un recettore presente sulla superficie cellulare e permette il trasferimento
della subunità A, che è la parte tossica e permette l'attraversamento della membrana
citoplasmatica, all'interno della quale (nella cellula) esplica la sua azione tossica;
3. tossine superantigene, che simulano un gran numero di cellule deputate alla risposta
immunitaria provocando un'estesa reazione infiammatoria.
Vari patogeni producono proteine capaci di determinare la distruzione delle membrane
citoplasmatiche dei tessuti delle cellule ospiti, provocando la lisi cellulare; anche se agiscono su più
tipi cellulari, l'attività di queste tossine è particolarmente evidente nei confronti degli eritrociti: da
qui il nome di emolisina (tossina citolitica).
La tossina difterica viene prodotta da Corynebacterium diphtheriae. È una tossina A-B secreta
dalle cellule come un singolo polipeptide. Il frammento B promuove il legame specifico ad un
recettore cellulare dell'ospite; dopo il legame, un taglio proteolitico separa il frammento B dal
frammento A, che può penetrare nel citoplasma, la cui azione all'interno della cellula ospite
determina l'inibizione della sintesi proteica, cioè blocca il trasferimento degli amminoacidi dal
tRNA alla catena polipeptidica nascente.
Più in particolare, la tossina determina l’inattivazione del fattore di elongazione EF-2, una
proteina coinvolta nell'allungamento della catena polipeptidica, catalizzando l'addizione dell'ADP al
fattore EF-2.
Il substrato di tale reazione è il NAD+.
L'attività della proteina di elongazione EF-2 così modificata non fa altro che arrestare la sintesi
proteica.
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La tossina botulinica consiste in una serie di 7 proteine (tossine A-B) tra loro correlate, che
rappresentano le sostanze più velenose conosciute. Tale tossina viene distrutta a temperature
elevate, benché 1 mg di tossina botulinica purificata sia sufficiente per uccidere oltre un milione di
cavie. Delle 7 tossine almeno 2 sono sintetizzate a partire dai geni localizzati su batteriofagi
lisogenici specifici di Clostridium botulinum.
La tossicità è determinata dalla tossina che forma rapidamente dei complessi con proteine
botuliniche non tossiche per dare origine ad una tossina bioattiva. Il complesso in questione non fa
altro che legarsi alle membrane presinaptiche a livello delle terminazioni dei motoneuroni
stimolatori in corrispondenza delle giunzioni neuromuscolari, determinando il blocco del rilascio
dell'acetilcolina, fondamentale per la contrazione muscolare, poiché, in questo caso, la trasmissione
dell'impulso nervoso avviene proprio grazie all'interazione dell'acetilcolina con un recettore
muscolare. Quando il muscolo viene avvelenato dalla tossina botulinica, non può più ricevere lo
stimolo del segnale di contrazione, quindi si ha un’inibizione della contrazione dovuta proprio ad
un mancato rilascio dell'acetilcolina: tutto questo porta, quindi, ad una paralisi, definita flaccida, e
ad una morte per soffocamento con un muscolo perennemente rilassato.
Clostridium tetani nell'organismo cresce in ferite profonde che ricreano un ambiente di tipo
anaerobico, sebbene, a partire dal sito iniziale, invada i tessuti più profondi, producendo una tossina
che si può diffondere attraverso le cellule nervose e causando una paralisi, definita spastica, che
porta alla morte.
La tossina tetanica è anch'essa di tipo A-B: appena a contatto col sistema nervoso centrale, essa
viene trasportata a ritroso attraverso i motoneuroni nel midollo spinale, dove si lega in maniera
specifica ai lipidi gangliosidici a livello delle terminazioni degli interneuroni inibitori; la funzione
dei neuroni inibitori è svolta attraverso il rilascio di un neurotrasmettitore inibitorio, generalmente
la glicina, la quale di norma finisce per bloccare la liberazione di acetilcolina.
Quindi, l'acetilcolina viene rilasciata ed il muscolo si contrae; per determinare il rilassamento
muscolare, viene rilasciata glicina. Nel momento in cui la presenza di una tossina tetanica determina
un blocco della liberazione della glicina, si ha un rilascio incontrollato di acetilcolina da parte dei
motoneuroni, quindi il muscolo risulta perennemente contratto.
L'esito di tale evento determina una paralisi spastica con un muscolo costantemente contratto.
LE ENTEROTOSSINE
Le enterotossine sono delle esotossine che colpiscono l'intestino tenue, provocando un'abbondante
secrezione di fluidi nel lume intestinale che determina vomito e diarrea. Vengono prodotte da
numerosi batteri che generalmente contaminano gli alimenti, come Staphylococcus aureus, oppure
patogeni intestinali, come Vibrio cholerae ed Escherichia coli.
La tossina prodotta da Vibrio cholerae è un enterotossina A-B, costituita da 1 subunità A e 5
subunità B. La tossicità è sempre una proprietà intrinseca della subunità A, che attraversa la
membrana cellulare ed attiva l'enzima cellulare adenilato ciclasi, inducendo la conversione
dell'ATP in AMPc; l'aumento dei livelli di AMPc provoca una secrezione attiva di ioni cloro e
bicarbonato da parte delle cellule della mucosa nel lume intestinale. Tale alterazione della
concentrazione ionica porta ad un’immissione di grandi quantità di acqua nel lume.
Nella fase acuta della malattia la velocità con cui l'acqua viene immessa nell'intestino tenue risulta
essere maggiore di quella di riassorbimento nell'intestino crasso, pertanto si ha una massiva
perdita di liquidi, infatti le vittime del colera in genere muoiono a causa di una notevole
disidratazione.
I superantigeni hanno un meccanismo di azione completamente diverso: stimolano un gran numero
di linfociti, provocando delle estese reazioni infiammatorie.
I batteri Gram-negativi producono come componenti dello strato esterno dell'involucro cellulare i
lipopolisaccaridi, che – in molte circostanze – risultano essere tossici. Questi lipopolisaccaridi sono
chiamati endotossine perché risultano essere parte integrante della cellula e vengono rilasciati da
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essa solo quando questa va incontro a lisi, dato che solo con la distruzione della cellula si ha la
liberazione delle endotossine.
Il lipopolisaccaride è costituito da 3 subunità legate in maniera covalente, che sono:
lipide A;
nucleo polisaccaridico (core);
polisaccaride O (antigene O).
Studi di frazionamento hanno dimostrato che la frazione lipidica (lipide A) del lipopolisaccaride
risulta essere responsabile della tossicità, mentre la frazione polisaccaridica rende il complesso più
idrosolubile ed immunogenico.
Le endotossine provocano numerosi effetti fisiologici, come la febbre, un sintomo quasi universale,
diarrea, rapida diminuzione di linfociti, leucociti e piastrine.
Dosi elevate di endotossine possono determinare anche la morte per shock emorragico e necrosi
cellulare, tuttavia la tossicità delle endotossine risulta essere molto più bassa rispetto a quella delle
esotossine.
Immunologia
I vertebrati vengono continuamente esposti all’azione dei microrganismi e dei loro prodotti
metabolici, i quali possono determinare l’insorgenza di malattie, ma dispongono di un sistema
immunitario che agisce proteggendo dalle conseguenze di questa esposizione.
Il sistema immunitario ha lo scopo di individuare ed eliminare le sostanze estranee potenzialmente
dannose, con cui il nostro organismo viene a contatto, quali batteri, virus ed altri microrganismi
patogeni.
La difesa da patogeni avviene mediante due tipi di risposte:
immunità innata o non specifica, la quale non richiede una precedente esposizione ed è
utilizzata prevalentemente dai fagociti. Viene, inoltre, definita come l’intrinseca capacità del
nostro organismo di riconoscere e distruggere i microrganismi patogeni od i loro prodotti;
immunità adattiva o specifica, la quale rappresenta la capacità acquisita di riconoscere e
distruggere uno specifico patogeno od un suo prodotto in seguito alla sua esposizione al
sistema immunitario. Attraverso proteine derivate dalla parziale digestione dei patogeni, i
fagociti attivano i linfociti, deputati al riconoscimento dell’antigene.
L’immunità innata e quella adattiva sono legate all’azione di cellule che circolano nel sangue e
nella linfa.
Tutte le cellule coinvolte nell’immunità derivano da un comune precursore, rappresentato dalle
cellule staminali, localizzate nel midollo osseo.
Il sangue è costituito sia da componenti cellulari che non cellulari ed in esso si trovano molte cellule
coinvolte nei meccanismi di difesa immunitaria. Le cellule del sangue più numerose sono gli
eritrociti, cellule anucleate la cui funzione è quella di trasportare l’ossigeno dai polmoni ai tessuti.
Per circa lo 0,1% il sangue è costituito da globuli bianchi nucleati o leucociti, comprendenti sia
cellule fagocitiche, come i monociti, sia i linfociti, cellule coinvolte nella produzione di anticorpi
in quella che viene definita immunità cellulo-mediata.
La linfa, invece, è un liquido simile al sangue ma privo di globuli rossi.
L’IMMUNITÀ INNATA
L’immunità innata è un’immunità congenita che serve per contrastare le infezioni.
Oltre a ciò, è presente sin dalla nascita, non risulta essere antigene-specifica, non aumenta dopo
una seconda esposizione, non ha memoria, usa componenti cellulari (PMN e monociti/macrofagi)
ed umorali (sistema del complemento) ed è poco efficace in assenza dell’immunità adattiva.
I principali componenti dell’immunità naturale risultano essere:
barriere fisiche, costituite dagli epiteli;
cellule a funzioni fagocitiche, come i neutrofili ed i macrofagi;
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cellule citotossiche, dette anche natural killer;
proteine del sangue, come il complemento;
citochine ed altre sostanze, che hanno la funzione di attivare e coordinare le cellule
dell’immunità naturale ma anche di quella specifica.
I meccanismi dell’attività naturale sono innescati da strutture molecolari complesse normalmente
presenti nella maggior parte degli organismi patogeni, come alcuni lipopolisaccaridi presenti sulle
pareti batteriche.
Il primo punto di partenza dell’immunità innata è costituito dal contatto della sostanza patogena od
un suo prodotto con un fagocita.
Il comune risultato, derivato da quest’interazione, è il manifestarsi di un complesso mediato
dall’ospite, definito infiammazione. I fagociti – generalmente dotati di movimento ameboide e
presenti in vari tessuti – comprendono macrofagi, monociti, neutrofili e cellule dendritiche. Molti
fagociti sono caratterizzati dalla presenza di inclusioni granulari, chiamate lisosomi, i quali
contengono varie sostanze battericide, come H2O2, lisozima, proteasi, nucleasi e lipasi.
Dopo avere intrappolato un patogeno su una superficie, per esempio in una parete di un vaso
sanguigno, i fagociti lo ingeriscono.
La membrana del fagocita, che avvolge la cellula estranea, distaccandosi forma un fagosoma, che
penetra nel citoplasma e si fonde con i lisosomi in una nuova inclusione, nota come fagolisosoma.
Gli enzimi presenti in questa struttura sono in genere in grado di uccidere e digerire il
microrganismo patogeno che è stato inglobato.
I fagociti possiedono un sistema generale per il riconoscimento di un organismo patogeno che
utilizza una serie di profili molecolari di riconoscimento (PRM) localizzati sulla loro membrana,
proteine in grado di interagire con i profili molecolari associati al patogeno (PAMP),
rappresentate da componenti strutturali presenti sulle cellule microbiche o sui virus.
L’interazione di questi profili molecolari – sia cellulari che del patogeno – innesca un segnale
transmembrana capace di avviare degli eventi di trasduzione, i quali determineranno l’attivazione
del fagocita.
Tali segnali indotti dal patogeno incrementano le capacità fagocitiche del fagocita stesso.
L’IMMUNITÀ SPECIFICA
L’immunità adattiva o specifica conferisce un’immunità, definita patogeno-specifica, che viene
amplificata dopo una seconda esposizione, possiede la memoria, utilizza componenti cellulari, come
i linfociti T, ed umorali, come gli anticorpi, ed è poco efficace se non viene supportata
dall’immunità innata.
L’immunità specifica è definita da tre proprietà:
1) Specificità à la risposta immunitaria innata dell’ospite si sviluppa contro ogni
microrganismo invasore, anche quelli che l’ospite non ha mai incontrato prima. Al
contrario, in una risposta immunitaria adattiva, nessuno stato di immunità si può evidenziare
per diversi giorni dopo che è avvenuto il contatto con il microrganismo patogeno.
Nonostante ciò, una volta avuta la risposta immunitaria, questa risulta essere specifica e
diretta contro quel determinato microrganismo che ha indotto la risposta immunitaria,
grazie, appunto, al riconoscimento a livello molecolare di proprietà antigeniche del
patogeno stesso;
2) Memoria à una volta che il sistema immunitario è in grado di produrre uno specifico tipo di
anticorpo o di cellula citotossica attivata, una successiva stimolazione da parte dello stesso
microrganismo comporta la produzione di una grande quantità di immunoglobuline dirette
contro quell’antigene.
Questa capacità di rispondere ad un microrganismo precedentemente incontrato rappresenta
la memoria immunologica. La risposta in seguito all’incontro con uno stesso
microrganismo non comporta solo una maggiore produzione di anticorpi, ma risulta essere
anche più rapida;
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3) Tolleranza à consiste nell’acquisita incapacità dell’ospite di realizzare una risposta nei
confronti dei propri patogeni. Dato che tutte le macromolecole dell’ospite sono potenziali
antigeni, la tolleranza è un meccanismo indispensabile. Per fare questo, il sistema
immunitario deve imparare a riconoscere le macromolecole del proprio ospite, poiché, se
non fossero riconosciute, verrebbero danneggiate dagli anticorpi e dalle cellule citotossiche.
Le macromolecole estranee vengono definite non-self, quindi pericolose, e vengono distinte
dall’organismo rispetto a quelle self, quindi innocue, poiché dell’ospite stesso.
I LINFOCITI B
I linfociti B vengono prodotti in continuazione dal midollo osseo, poi entrano nel circolo
sanguigno e si localizzano principalmente nei linfonodi e negli organi linfatici.
Ogni linfocita presenta recettori di membrana specifici, simili agli anticorpi, in grado di legare un
solo antigene.
Se i linfociti non incontrano un antigene complementare al loro recettore, muoiono nel giro di poche
ore.
La risposta umorale è attivata dai linfociti B, i quali riconoscono l'antigene e si trasformano in
cellule effettrici e cellule della memoria. La risposta consiste nella produzione da parte delle
cellule effettrici, le plasmacellule, di anticorpi specifici, chiamati anche immunoglobuline.
I LINFOCITI T
I linfociti T sono prodotti dal midollo osseo, poi passano nel timo, dove diventano maturi ed
acquisiscono la capacità di riconoscere gli antigeni. Non producono anticorpi come i linfociti B, ma
costituiscono la cosiddetta immunità cellulo-mediata.
Si dividono in due popolazioni distinte:
helper o CD4, che riconoscono peptidi antigenici legati a proteine (MHC) espresse sulla
membrana di altre cellule. Quando legano tali antigeni esposti sulle membrane cellulari, si
moltiplicano e liberano proteine, dette citochine, che aiutano i linfociti B e T ad attivarsi
richiamando i macrofagi ed innescando un processo infiammatorio;
citotossici o CD8, che attaccano direttamente e distruggono le cellule che portano l'antigene.
I linfociti T interagiscono in modo specifico con l'antigene attraverso dei recettori superficiali, noti
come recettori delle cellule T ed indicati come TCR.
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A livello molecolare, i recettori delle cellule T interagiscono con gli antigeni peptidici quando
questi sono ancorati attraverso le proteine del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC)
sulle superfici delle cellule fagocitiche che li presentano su quelli delle cellule infette, le quali
fungono da cellule bersaglio.
I recettori delle cellule T sono costituiti da proteine che dalla superficie della cellula T si estendono
nell'ambiente extracellulare.
Nella superficie di una cellula sono presenti migliaia di recettori identici tra di loro, ognuno dei
quali costituito da due proteine: una catena a ed una catena b. Entrambe contengono un dominio
variabile ed uno costante.
I geni del complesso maggiore di istocompatibilità codificano due tipi di proteine, note come
proteine di classe I e proteine di classe II. Mentre le prime si trovano sulla superficie di tutte le
cellule nucleate, le seconde si trovano soltanto sulla superficie dei linfociti B, che sono tutti in grado
di presentare l'antigene. Le proteine MHC di classe I sono formate da due polipeptidi, una catena a
ed una proteina più piccola, chiamata b2-microglobulina, indicata come b2m; le proteine MHC di
classe II consistono di due polipeptidi legati non covalentemente, chiamati a e b.
Alla loro superficie, tutte le cellule T, oltre ai recettori citotossici, presentano un'unica proteina di
superficie che agisce da co-recettore.
Le cellule T helper esprimono il co-recettore proteico CD4, mentre le cellule T citotossiche sono
caratterizzate dal co-recettore CD8.
Quando il recettore si lega al complesso peptidico del complesso maggiore di istocompatibilità,
anche il co-recettore si lega alla proteina MHC, rafforzando in questo modo l'interazione
molecolare e determinando un aumento dell'attività delle cellule citotossiche. I CD4 si legano solo
alle proteine di classe II, contrariamente ai CD8 che si legano solo a quelle di classe I.
Affinché possa avvenire l'uccisione della cellula, è necessario che si stabilisca un contatto tra le
cellule T citotossiche e la cellula bersaglio. Il contatto inizia con la formazione del complesso
recettore-peptide-MHC.
Una volta avvenuto il contatto con la cellula bersaglio, i granuli delle cellule citotossiche migrano
nel sito di contatto, dove rilasciano il loro contenuto. I granuli rilasciati nel processo di
degranulazione contengono delle perforine, che determinano dei piccoli fori nella membrana
cellulare del bersaglio. Oltre alle perforine, le membrane delle cellule T citotossiche contengono
anche i granzimi, proteine capaci di innescare l’apoptosi, vale a dire la morte cellulare
programmata.
Le cellule Natural Killer, indicate come NK, sono una classe di linfociti distinte quelli T
citotossici, perché, pur assomigliando a questi ultimi per la loro capacità di distruggere le cellule
che presentano l'antigene attraverso la produzione sia di perforine, che determinano la perforazione
della membrana cellulare, sia di granzimi, che determinano l'innesco del processo di apoptosi,
differiscono dalle cellule citotossiche poiché sono capaci di distruggere le cellule anche in assenza
di una specifica stimolazione antigenica.
Le cellule Natural Killer sono capaci di distruggere le cellule maligne e le cellule infettate in vitro
da virus, senza una precedente esposizione o contatto con l'antigene bersaglio. Esse, infatti,
riconoscono le cellule normali e le proteine MHC di classe I attraverso delle specie di recettori: il
legame tra questi recettori permette la disattivazione delle cellule Natural Killer in assenza di
legame, mentre, in assenza del legame tra i recettori MHC, le cellule Natural Killer determinano la
morte della cellula bersaglio, che non riescono a riconoscere.
Le cellule T helper sono di due tipi:
TH1, responsabili dell'attivazione di macrofagi e dell’informazione. I macrofagi legano
l'antigene e lo processano in presenza delle cellule T helper. Tuttavia, essendo le cellule
fagocitiche capaci di inglobare ed uccidere anche cellule estranee, questa capacità viene
stimolata principalmente dalle cellule TH1, quindi i macrofagi attivati da queste ultime
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possono uccidere batteri intracellulari, che in condizioni normali si andrebbero a duplicare
nei macrofagi non attivati;
TH2, che interagiscono con i linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi. Le cellule B
mature sono rivestite da anticorpi che fungono da recettori per l'antigene. Tuttavia, quando
un antigene si lega a questi recettori, la cellula B non produce più subito degli anticorpi ma
si comporta come una cellula che presenta l'antigene ed interagisce con le cellule TH2. In
questo modo, dopo il legame, l'antigene viene fagocitato per endocitosi dalle cellule B. Gli
antigeni peptidici così formatisi sono presentati da proteine NHC di classe II alle cellule
TH2, le quali determinano la produzione di interleuchina 4 e 5 e citochine che determinano
la produzione e la secrezione di anticorpi da parte delle cellule B.
GLI ANTICORPI
Gli anticorpi o immunoglobuline sono molecole proteiche capaci di combinarsi con determinati
antigeni. Si trovano fondamentalmente nella frazione sierica del sangue.
Sono proteine complesse, prodotte dal sistema immunitario e formate da quattro diverse catene
polipeptidiche: due catene pesanti uguali tra loro e due catene leggere uguali tra loro.
Le quattro catene formano due siti di riconoscimento in grado di legare uno specifico antigene.
Ogni catena presenta una regione costante ed una regione variabile, le quali, combinandosi tra
loro, formano siti di riconoscimento sempre diversi. Ogni tipo di anticorpo è in grado di riconoscere
un solo antigene.
Gli anticorpi vengono liberati nel sangue dove legano l'antigene; una volta legato, attivano il
complemento in macrofagi e, più in generale, in componenti dell'immunità naturale che
provvedono ad eliminare i complessi antigene-anticorpo.
Sulla base delle proprietà fisiche, chimiche ed immunologiche, le immunoglobuline possono essere
distinte in 5 classi:
1. IgG, le quali nella maggior parte degli individui costituiscono la maggior quantità di
immunoglobuline presenti nel sangue a frazioni sieriche che costituiscono circa l’80% di
tutte le immunoglobuline. Il peso molecolare è di circa 150000 Da e risultano formate da 4
catene polipeptidiche legate tra loro da ponti disolfuro intercatena. Una singola catena di
immunoglobulina è costituita da catene leggere identiche tra loro che hanno un peso
molecolare di 25000 Da, accoppiate a due catene identiche pesanti con un peso molecolare
di 50000 Da. Risultano essere in grado di legarsi ad un gran numero di cellule, come i
granulociti, i macrofagi e le cellule Natural Killer. Sono, inoltre, in grado di attraversare la
placenta e di attivare il complemento;
2. IgA, le quali sono sotto forma di dimeri e sono gli anticorpi presenti principalmente nelle
secrezioni corporee, come saliva, lacrime, latte materno e nelle secrezioni mucose del tratto
gastrointestinale e delle vie respiratorie. La forma secretoria delle IgA consiste di due
molecole legate covalentemente da una catena peptidica, chiamata catena J, e da un
componente secretorio che guida il trasporto delle IgA attraverso la membrana.
Rappresentano la seconda classe di immunoglobuline circolanti, con circa il 15% delle
immunoglobuline totali, ma si trovano in percentuale molto più alta nelle secrezioni ed al
livello delle mucose del tratto bronchiale digerente, dove svolgono un importante ruolo nei
meccanismi di difesa, in quanto impediscono l'aderenza dei microrganismi dall'epitelio,
impedendone la proliferazione. Nelle membrane si trovano in forma monomerica, mentre
nel siero si trovano in forma dimerica;
3. IgM, le quali si presentano in genere come un aggregato di 5 molecole di immunoglobuline
unite l'una all'altra per mezzo di almeno un corto peptide (catena J). Possono trovarsi in
forma monomerica, presenti sulla membrana del linfocita B maturo, od in forma
pentamerica, circolanti nel siero. Sono le prime immunoglobuline ad essere prodotte, infatti
quando vengono analizzati dei controlli in seguito ad un’infezione e si controllano le
immunoglobuline, se sono presenti le IgM significa che quell’infezione è avvenuta di
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recente. Sono presenti in concentrazioni piuttosto basse, pari circa all’8-10%; inoltre, hanno
un'elevata capacità di attivazione del complemento;
4. IgD, le quali sono abbondanti sulle superfici delle cellule dei linfociti B; in particolare, il
loro numero risulta elevato nelle cellule di memoria, suggerendo che sono molto importanti
nella risposta anticorpale di tipo secondario. Si presentano come monomeri ed hanno un
peso molecolare di circa 150 kDa. Costituiscono circa l'1% delle immunoglobuline
circolanti ma la loro funzione non è ancora stata chiarita: sembra abbiano funzione di
recettore per l'antigene;
5. IgE, le quali si trovano nel siero in piccolissime quantità. Nonostante questo, sono molto
importanti nel processo dell’ipersensibilità di tipo immediato nelle reazioni allergiche. Il
peso molecolare delle IgE è molto alto rispetto a quello delle altre immunoglobuline, perché,
come le IgA, contiene una quarta regione costante; tale regione aggiuntiva serve a legare le
immunoglobuline sulle superfici di mastociti, un requisito molto importante per alcune
reazioni allergiche nel siero. Sono presenti in concentrazioni molto basse, pari allo 0,003%
e negli individui non allergici un'elevata concentrazione di immunoglobuline E manifesta
un'infezione di tipo parassitario.
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