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Passeggiare in equilibrio:

ho scelto di essere felice adesso

Per ogni notizia triste fai così: crea qualcosa di bello per bilanciare.

Quando non sai dove aggrapparti, vai a farti i boccoli.


Dai una festa e addobba casa. Cucina per chi ami. Comprati un paio di pantofole rosa pelose. Potrei
usarlo come motto. Di fatto sembra banale, frivolo, femmineo, invece racchiude per me l'unico
modo di intendere la vita. La lotta quotidiana è dura; la vita è fatta anche di sofferenza, per
definizione. Su questo non abbiamo nessun controllo. Dell'accanirsi per evitarla o del chiedersi a
lungo perché tocchi anche a noi, al contrario, abbiamo le redini. Fare di ciò che possiamo
controllare una bellezza, una bontà, una parola dolce, una celebrazione, un abbraccio, questa è la
vera rivoluzione.
Non è scontato, non è per forza naturale: a me sgorga dalla pancia, da qualche parte tra il cuore e le
corde vocali, spesso non sa dove andarsi ad accumulare ed esce tutto insieme. Credo di aver sempre
avuto troppo amore ma anche di averlo saputo diffondere con equilibrio.
La cosa positiva è che la rivoluzione è contagiosa, la determinazione alla gioia si attacca, si
appiccica, rimane addosso anche se inizialmente la si guarda con sospetto.
Così, oggi che compio cinquant'anni, spero che il mio esuberante attaccamento alla vita si sparga
ancora di più, arrivi un po' più in là, aiuti le persone ad aiutare.
Questo è il mio diario, quello che accoglie tutto, lo incassa, lo mastica e lo restituisce alla vita in
forma di amore, di colori, di passeggiate in riva al mare, di cene rumorose, di vacanze salmastre, di
fenicotteri disegnati, di doni che si incastrano sui bisogni di chi li riceve.

Caro diario,

sono nata per ultima in una famiglia di cinque figli, in un circolo di affetto dilatato nel tempo. Mia
sorella più grande, Marisa, aveva vent'anni quando ho emesso il primo vagito. Più che una sorella
una zia, una mamma. Gianni era poco più giovane, poi c'erano Antonella e Patrizia, che comunque
avevano diciassette e undici anni più di me. Ero il pulcino della casa, con un papà che aveva
cinquantatré anni quando sono nata e che non guidava la macchina, dolce della stessa dolcezza dei
nonni, e una mamma chioccia, avara di baci e abbracci ma generosa di premure e attenzioni.
Qualcosa, nel mio essere capitata in una famiglia di tanti figli così distanti l'uno dall'altro, aveva già
scritto nel mio DNA che i legami vanno oltre i tempi e le convenzioni, che l'affetto si espande e mai
si restringe. Che le radici sono testarde e crescono come vogliono, si intrecciano, spuntano anche in
uno spiraglio del cemento più duro.
Mio padre era un uomo buono di istinto, la vita lo aveva portato a fare il vigile urbano e lui al posto
di fare multe, le toglieva. Da anziano infilava nelle tasche del cappotto una manciata di merendine
per andarle a distribuire a chi ne aveva bisogno. Forse non lo sapeva, ma mi stava già insegnando
che la bontà è quotidiana e semplice. Mi rivedo molto nella sensibilità di mio padre, quella che non
chiede nulla in cambio. Mia madre è una donna fortissima, una mamma che passerebbe qualsiasi
tagliando di attenzioni materne. Il suo tocco stava nelle coperte rimboccate in ogni sera, nel caffè
che mi portava a letto, in tutti i bicchieri che non ho mai dovuto lavare finché ho vissuto a casa.
Sino a diciannove anni sono stata trattata come una regina: non sapevo nemmeno fare il letto. Ero
analfabeta di abbracci e baci materni ma conoscevo bene il significato delle azioni. Le coccole,
invece, le sopperiva mio padre. Parlo dei miei genitori e mi rendo conto con tenerezza e orgoglio di
aver preso da entrambi: la concretezza delle azioni di mia madre e la sensibilità d'animo di mio
padre. Così crescevo, sorretta da un mondo tanto più grande di me che però non aveva la minima
intenzione di lasciarmi indietro, anzi.
Marisa si è sposata quando io mi accorgevo di avere le mani, a pochi mesi dalla mia nascita. La sua
prima figlia è arrivata quando compivo tre anni, così più che zia e nipote siamo cresciute come
sorelle di anima. A distanza di poco sono nate le altre due figlie di mia sorella, e da lì sono io ad
aver allargato il concetto di sorellanza. Valentina, Enrica e Ilaria sono mie nipoti sulla carta e
compagne di crescita nel quotidiano. Per Marisa io ero come una prima, tenera, figlia. Da bambina,
forte dell'amore di due genitori vicini ma anziani, chi mi portava al mare era proprio mia sorella:
dove andava lei con le bambine andavo io. Dice che quando ho partorito Federico si è sentita un po'
nonna. Che buffa, la vita. Esce un attimo dalla convenzioni a cui siamo abituati eppure è proprio lì,
che sprigiona ancora più amore.
Quando invece è nato Alberto, mio nipote e figlio di Antonella, io avevo tredici anni. Avevo il
primato di zia giovanissima, gli cantavo le canzoni di Kiss Me Licia e godevo della mia posizione
intermedia tra sorella e zia, circondata di giochi e monellerie.

Se vogliamo parlare di bizzarrie e dolcezze, caro diario, posso dirti che sino a otto anni io non
sapevo cosa fosse la morte. Sono vissuta in una comoda, tiepida e ovattata campana di vetro, senza
aver perso persone care da piccolina. Ero poi venuta a conoscenza della mortalità umana per caso, o
meglio per schiettezza fanciullesca, un po' come per tutte le grandi scoperte della vita. Una bambina
con cui giocavo me lo aveva detto serafica e convinta, un po' come se mi avesse comunicato che a
nascondino si conta sino a cento. Insindacabilmente. Ero disperata, ho il flash di un pianto disperato
mentre correvo da mia madre a chiederle conferma del nostro destino infausto. Ed è stato così che
ho scoperto come tutti saremmo stati di passaggio, perlomeno sotto questa forma, sul pianeta. Ero
una bambina impressionabile, avevo paura di tutto, del fuoco in particolare. Non so bene da dove
arrivasse quel timore viscerale, ma non avrei mai potuto accendere un fiammifero o, per carità, un
fornello. La mia insegnante delle medie mi prendeva in giro, a dodici anni suonati scappavo ancora
come un fulmine se qualcuno a distanza ravvicinata stava accendendo una candela.
Ero molto attaccata a mia madre e mi ero creata rassicuranti e scaramantiche abitudini: quando
tornavo a casa dal cortile, dopo aver giocato, ad aprirmi la porta doveva essere sempre lei,
altrimenti non entravo. I miei fratelli ovviamente non avevano grande pazienza per le mie fisime,
devo aver preso manciate di scapaccioni. Potrei aver tramandato questa cosa, inconsciamente, a
Giulia, che all'asilo si faceva venire a prendere solo da me. Se trovava Luca davanti al cancello
strepitava perché non ero io.

A questi ricordi se ne accavallano altri, meno traumatici, più rituali e pragmatici: la merenda che
mia madre infilava in un secchiello dal terzo piano, per esempio. Me la calava nel cortile mentre
giocavo, così da permettermi di prendere quel premio dal canestro in un gesto opposto a quello dei
giocatori di basket. Giocavo molto e noi bambini inventavamo di tutto, con la creatività e la follia
dei piccoli umani in periodo di fermento. Non avevo niente eppure avevo tutto. La mia testa era un
ottimo posto in cui trovare nuovi giochi. La noia stimola la creatività: quando non avevo una cosa io
dovevo costruirmela, cascasse il mondo. Che fosse di carta, di stoffa o di legno. Con i miei mezzi e
le mie capacità, ma dovevo averla. E questa cosa mi accompagna ancora oggi. Godevo di ciò che
avevo e di ciò che riuscivo a creare. Hai presente la soddisfazione, diario? Decenni dopo avrei
parlato a mio figlio la stessa lingua di quella gioia, portandolo al mare con dietro i pennarelli, e lui
avrebbe disegnato sulle pietre ammirando le sue creazioni. Cercare il bello nel piccolo e nel
semplice scorre nelle vene di noi tutti.

Da bambina, infatti, mi godevo una gonna bellissima, vermiglia a pois bianchi, che mia madre
aveva confezionato a mano. Impazzivo dietro a quelle balze, a farle aprire e chiudere mentre
sbizzarrivo le mie gambette di bambina.
Nelle sere frenetiche in cui mia madre cucinava per un reggimento e rassettava il suo regno, io ero
raccolta e coccolata da mio padre. Mi portava a letto, alle sette e mezza, e mi leggeva storielle da un
librone già vecchio allora. Chissà se sapeva che quarant'anni dopo avrei rivisto la stessa scena con
una nitidezza spaventosa. Quando non riuscivo a dormire, avevo fatto un incubo o ero in preda
all'otite mi metteva la sua manona calda sull'orecchio e mi passava tutto. Il mio gigante buono.
Quando ero bambina aveva quasi sessant'anni ed era come se ne avesse ottanta, in quegli anni. Lui
mi chiamava stellina ed era il mio meraviglioso miscuglio tra papà e nonno. Il suo odore amaro e
pastoso di tabacco del sigaro mi è rimasto nelle narici, forse perché ne erano intrise le pareti di casa,
e lo sono rimaste anche molto tempo dopo la sua morte. A mia madre, invece, associo l'odore della
frittura. Della cucina in fermento, delle fettine impanate e delle polpette della domenica. In questo
gioco di aromi Marisa sa di lavanda, ha il profumo di bucato e di panni puliti in cui affondare il
naso. Lei è la calma, la dolcezza, la cura delle cose. Antonella, precisa e severa, amante dei viaggi,
delle cartoline e della geografia, mi ricorda l'odore di broccoli, la vedo sempre dietro ai fornelli a
preparare il sugo per le orecchiette. Gianni è legato senza dubbio all'odore dei funghi, quello
penetrante e forte della terra e della natura. Professore di storia dell'arte, riusciva a stabilire un
rapporto anche con i ragazzi più difficili. Patrizia e tutto il suo essere, invece, portano l'odore della
cura. Quello dell'acqua di rose, che diffondeva in una scia consistente ma delicata. La mente mi
suggerisce anche l'odore dello smalto cambiato almeno una volta alla settimana e portato via con
intense passate di acetone, che rimaneva nella stanza ben oltre il momento in cui se ne andava.
Quando ero adolescente non voleva prestarmi i suoi vestiti, che io bramavo tanto. Era un po'
pignola e aveva paura che glieli stropicciassi. La mia Chiara è così, precisa e sistematica, ma la sto
ammorbidendo. Insieme impariamo il mondo delle sfumature, e ogni passo è bellissimo.

Caro diario,

se dovessimo allegare un'immagine alla definizione di mamma chioccia potremmo tranquillamente


usare una foto di mia madre, Francesca, per tutti nonna Chicca. Quando ero bambina rispondeva al
posto mio alle domande: mi chiedevano come mi chiamavo e parlava lei. Protettiva e rassicurante,
era per me una comoda poltrona in cui rannicchiarmi e poter fare la figlia. Una presenza forte su cui
contare, fatta di panini già pronti e impacchettati prima di andare a scuola e di accortezze
giornaliere mai mancate. Ho ricevuto la mole extra di coccole che si riserva ai figli minori, anche se
le attenzioni concrete erano a uso e consumo di tutta la famiglia. Il suo senso di protezione non
aveva confini. Il pranzo della domenica era la sua personale partita a scacchi, di cui era unica
giocatrice attiva: non si sedeva, in una danza perpetua di pietanze che andavano e venivano dalla
tavola, al ritmo cadenzato dei fornelli e dei nostri stomaci. Una volta terminato il pranzo ci faceva
sgombrare dalla cucina, gentile ma decisa, con un gesto simile a quello che si fa per far svolazzare
altrove dei piccioni. Non voleva che nessuno mettesse becco nella sua complessa organizzazione di
pulizie post-prandiali, le repliche non erano ammesse. Era il suo modo di dimostrare amore e di
sollevarci dalle fatiche quotidiane.

Certo, io un po' mi vergognavo di andare in giro con una mamma dai capelli bianchi, oltre al fatto
che il suo carattere esuberante e a tratti amorevolmente invadente cozzava di netto con il mio essere
timida, chiusa e vergognosa. Di lei ha sempre fatto parte quell'allargarsi nelle situazioni sociali
condivise, come il chiedere uno sconto in un negozio o il domandare le buste gratis. Io, da bambina
in giro con lei, in quei casi rimanevo atterrita e mi facevo minuscola. Avessi potuto mi sarei
mimetizzata con il muro, già allora era una cosa che detestavo. Intanto prendevo nota nel mio
taccuino dei progetti futuri: non avrei fatto subire ai miei figli ciò che avevo subito io in termini di
invadenza. Mamma Francesca è stata una mamma ingombrante ma profondamente madre, la sua
missione è sempre stata alleggerirci la vita. Quando ero malata dava il meglio: faceva la spesa, mi
controllava spesso, cucinava gli spinaci 'che hanno tanto ferro per stare meglio'. Mi curava con le
medicine antiche, quando il mal di testa mi legava intorno al cranio un fazzoletto imbevuto
nell'aceto, stretto stretto, e mi passava. Per il mal di pancia arrivavano la borsa dell'acqua calda e la
camomilla, di medicine se ne prendevano poche. Oggi io i farmaci li prendo, ma vado ancora a
cercare olii balsamici e rimedi complementari.
Quando a vent'anni le ho comunicato di essere rimasta incinta eravamo in cucina. Mi ha guardata, si
è avvicinata e mi ha dato una sonora pacca sulla spalla. Siediti, che ora devi mangiare per due. In
quella frase c'era tutto, anche il suggellare la sua eterna protezione nei miei confronti e in quelli
della vita che avrei dato alla luce.
Tutt'ora, nella bellezza dei suoi 95 anni, è il perno della famiglia. Mi chiama tutti giorni, mi intima
di non uscire se fa freddo e di non rientrare troppo tardi. Con i nipoti è una chioccia ammorbidita
come solo l'affetto di una vita sa domare. Quando è rimasta sola, perché prima viveva con mia
sorella, ha passato un po' di tempo a casa mia, poi è ritornata a casa sua. Da lì, si sono susseguite
diverse badanti, nessuna si era incastrata come si deve nella vita di mia madre. Ogni volta che ne
arrivava un'altra, io piangevo. Era come lasciare un neonato a mani estranee e non essere lì per
poter controllare cosa stesse succedendo. Per parecchio tempo mia madre è rimasta agitata, inquieta,
spaventata. Mi chiamava di notte, voleva che fossi lì con lei. Vivevamo nella stessa città ma la
distanza era quasi incolmabile. Le cose si sono poi mosse nella direzione più sensata, come spesso
accade. Avevamo un appartamento in affitto sopra il nostro locale e la vita di mia madre si è
trasferita a due rampe di scale dal mio lavoro. Le basta scendere i gradini per trovarmi nel
laboratorio, con le mani immerse in creme o impasti vari. Adesso insieme a lei c'è Gioia, la sua
badante da quasi due anni. È russa e risoluta, prego tutti i giorni che abbia la pazienza di rimanere
con mia madre. A 95 anni non è donna da mettere a letto con un paio di goccine: è un carabiniere.
Controlla tutto, anche come fai il letto e lavi la tazzina del caffè. Per ora Gioia ha molta pazienza, si
isola diverse ore della giornata in camera sua e mia madre questo fa fatica a tollerarlo, ma secondo
me fa bene. Ha imparato ad avere la sua personale stanza di decompressione e il loro ritmo bizzarro
ma tenace prosegue. Mamma Francesca mi chiama alle undici di sera, quando sto già quasi
dormendo, per consigliarmi un programma tv molto interessante, e ritaglia articoli di giornale su
svariati argomenti che potrebbero essermi utili. È una donna che non perde tempo a pensare a cosa
faceva prima ma lo impiega nel fare adesso, e la sua volontà prende bonariamente in giro il crescere
dei suoi anni. Inizia e finisce le giornate con la ginnastica, si è creata un programma specifico di
esercizi che la tengono in forma. Si china e si tocca le punte dei piedi con le mani, fa le flessioni. 95
anni di benessere fisico e mentale, una buona stoffa che arriva dal cuore di Nuoro.

Il suo compleanno cade il 17 agosto, vicino al mio. La sua festa, ovviamente, è il mio regno.
Coinvolge tutti e nonostante lei ogni anno faccia la vergognosa con un sonoro ma dai, non fatemi
feste né regali!, in realtà al grande evento non se ne vuole mai andare. È l'ultima ad avere sonno e
andrebbe avanti sino al mattino. Suona l'armonica a bocca in modo eccezionale e durante le feste le
sue esibizioni sono un must. Se le chiedi dove ha imparato ti risponde con nonchalance al
conservatorio! Lei, che è arrivata alla terza elementare ma sa leggere e scrivere perfettamente.
Nella sua tasca non manca mai l'armonica, che tira fuori nelle migliori occasioni per suonare antichi
balli sardi, riempiendo sale e locali di suoni ancestrali, aria di festa e gioioso senso di appartenenza.
Se siamo in un locale tutti si girano a guardarla, filmarla, farle i complimenti, e lei ne va matta. È
egocentrismo allo stato puro, ha sempre la battuta pronta e non ha paura di lanciarsi in un
commento un po' più spinto: l'esatto opposto di me. Nonostante l'età incarna la modernità meglio di
tutti noi, accetta separazioni e famiglie allargate senza battere ciglio, da cattolica per tradizione che
difficilmente andava in chiesa ma che ha sempre praticato la tolleranza.

Quando i nipoti erano piccoli la loro specialità era fare insieme la pasta: ravioli e seadas a non
finire. Si girava la macchinetta e si tirava la sfoglia in un turbinio di farina, uova, manine di bambini
ed entusiasmo. Ancora oggi, se le preparo io la pasta, modella gli gnocchetti sardi uno per uno.
Quando poi li si guarda tutti insieme il colpo d'occhio è impressionante, sono identici. La sua
memoria muscolare va di pari passo con quella del cuore, ogni gnocchetto è una minuscola
perfezione.
Oggi ama anche farsi coccolare, finalmente, dalle nipoti: adora quando la imbellettano, le tolgono le
sopracciglia, le mettono lo smalto. Per una donna che non hai buchi alle orecchie, non si è mai
truccata e non ho mai visto comprarsi un vestito è un bel passo avanti. Adesso adora i profumi,
vuole sempre avere i capelli a posto e diventa matta per manicure e pedicure, vanitosa che non è
altro. Non le deve mancare la crema antirughe, si osserva con minuzia le guance e mi fa notare che
se da un lato la pelle è più compatta è sicuramente merito della nuova crema. A quest'età,
finalmente, si prende cura di lei anche in quegli aspetti più frivoli, leggeri, che fanno bene al cuore.
Forte della sua ginnastica e della sua tempra, vede tutti gli altri più brutti, vecchi e più rugosi di lei:
credo si senta ancora molto giovane. Quando le capita di guardare qualche conoscente in foto il
commento non manca mai ma com'è vecchio, che brutto! Le vuole stare con gente giovane perché il
suo spirito non è sicuramente invecchiato. Quando la accompagno a fare qualche visita si
impossessa della sala d'aspetto per il suo personale show: racconta a tutti di me, di come sono
stressata nel mio lavoro così faticoso, dà il mio indirizzo, fa pubblicità alla mia pizzeria in cui
facciamo pizze così buone. Io vorrei farmi minuscola e scappare, lei si gode il suo momento di
gloria. È un personaggio e la amiamo, è la migliore compagnona che si possa avere a fianco. Non
credo di averla mai vista malata o addormentata dopo pranzo, sempre forte e stoica. Siamo tutti in
attesa di vederla protagonista della sua prossima festa.

Caro diario,

sono certa che queste pagine non si stiano formando per caso. Mentre riordino gli intrecci della mia
vita e ripenso alla giovinezza mi basta chiudere gli occhi e tante immagini si stampano sul nero
della palpebra, come quando guardi intensamente qualcosa e il suo fotogramma rimane impresso da
qualche parte tra l'iride e le ciglia. Che buffo, scorro le fasi di questi cinquant'anni e ripenso subito
ai disegni che facevo nemmeno ventenne, quelli che ritraevano me e Luca appena sposati, freschi di
abbracci in riva al mare a guardare verso l'orizzonte rosso al tramonto, con una grossa scritta dal
tratto fermo e determinato che recitava 'per sempre insieme'.
Caro diario, tornerò su questi disegni perché ancora li conservo e devo aver usato una bella carta e
dei pastelli favolosi, ai tempi, perché dopo trent'anni nessun dettaglio è ingiallito o sbiadito. Ma ora
ascolta bene: mentre io sono qui a sfogliare con la mente i disegni di una me diciannovenne neo-
sposina, mia figlia Giulia ha trovato da qualche parte quei fogli, si è emozionata, ha letto le mie
promesse di vita di quando avevo pressapoco la sua età, solo un po' più giovane, e ne ha parlato su
Instagram con tenerezza e lucidità. Ho ritrovato una foto di quei fogli, il disegno del tramonto in
cima alla pila, campeggiare nelle sue Stories. Dimmi, diario, non è questa una delle infinite prove
che tutta la vita è collegata? Che esistono vibrazioni che ne sanno molto più di noi, semplicemente
perché guardano alla totalità della vita?

Tornando a quella Alessandra posso dire cha sempre voluto fare la mamma. Lo sentiva già, nelle
viscere, mentre cresceva si faceva strada in lei quell'istinto di generare vita così naturale e così
determinato. Ho passato l'infanzia guardando al mio obiettivo: io volevo diventare mamma giovane,
pensavo già a quindici anni, che per me era un'età in cui si sarebbe dovuti essere molto grandi.
Essere nata da genitori di almeno trent'anni più avanti in quella tabella di marcia può aver influito,
inconsciamente. Quando sono arrivata io mia madre aveva quarantasei anni e mio padre
cinquantatré, non proprio dei ragazzini. Probabilmente quando sono arrivata a diciannove anni
quell'istinto emanava a sua volta richiami e vibrazioni forti e chiari, perché ho incontrato un ragazzo
che come me sognava una famiglia. Ero fresca di diploma, dovevo festeggiarlo insieme al mio
compleanno. Eravamo il contrario di abbienti, eppure i miei genitori mi avevano regalato un
gruzzoletto di soldi. Io, stupida e generosa, avevo organizzato una pizza spargendo la voce agli
amici. Ora se si va a mangiare fuori per i compleanni si fa alla romana, allora chi invitava offriva
per tutti. Mi ero fregata da sola. Ma non solo: qualcuno mi aveva addirittura chiesto posso portare
un mio amico? Io non lo conoscevo ma ricordo di aver acconsentito senza pensarci due volte. Di
Luca già allora colpiva il modo di parlare, emanava intelligenza anche a una pizzata con persone
che non aveva mai visto. Detto ciò, a me mica piaceva. Aveva fatto colpo, però, su una mia amica.
Ci muovevamo in questo quadretto serale, quando all'uscita dalla pizzeria Luca si è fermato, mi ha
preso la mano e con una serietà disarmante mi ha detto sono uno zingaro, ti leggo il futuro dalla
mano.
E cosa fai, non premi tutta quella creatività di approccio? Così Luca ha passato svariati minuti ad
accarezzarmi la mano e a leggere con attenzione tra le pieghe del mio palmo, raccontandomi la
linea dell'amore. Inutile dirlo: tra una linea e l'altra sono stata stregata. Una dichiarazione giocosa
ma delicata, non invadente ma dolcissima. La mia amica non l'ha presa benissimo: ma avevi detto
che non ti piaceva! Aveva protestato prima di non esserlo più, mia amica.

Diciamo che in quella linea dell'amore Luca ci aveva visto lungo, dopo trent'anni siamo ancora qui.
A progettare il nostro futuro insieme sono stati i disegni della nostra casa dei sogni tratteggiati su un
fazzoletto, l'elenco puntato di come avremmo voluto le stanze, di quanti figli avremmo avuto – tre –
e di quanti animali ci saremmo presi cura – due gatti e un cane – e adesso torna tutto.
Nel breve periodo in cui siamo stati solo noi due, Luca mi ha fatto conoscere il suo duplice fascino,
quello rustico-intellettuale. Una delle prime gite fuori porta aveva portato dietro, invece del classico
paniere da pic-nic pieno di panini con la mortadella, un pollo. Un pollo crudo, intero e spennato.
Con ventrame, collo e tutto quanto. Full optional. Secondo lui avremmo dovuto arrostirlo in modo
ruspante. Nessuno di noi due, però, fumava né aveva un accendino. Arrivati a destinazione ci
eravamo guardati, avevamo cercato invano una fonte di fuoco. Io, lui e il pollo eravamo tornati a
casa poco dopo; praticamente lo avevamo portato a fare un giro al mare prima di tornare in frigo.
Le nostre avventure gastronomiche pre-matrimoniali non erano però finite. In occasione di una gita
fuori porta in tenda Luca aveva portato da mangiare una peretta sarda, un caciocavallo invitante e
profumatissimo. Lo aveva appeso in modo molto folkloristico nella tenda ed eravamo andati a fare
il bagno. Ore dopo eravamo tornati e lo avevamo trovato in stato semi-liquido, allungato sino a
terra. Una colata formaggiosa scaldata dal clima estivo. Ogni avventura ci faceva ridere – quella del
pollo fa sbellicare la famiglia tutt'ora – ed eravamo pronti a rendere realtà, insieme, innumerevoli
peripezie in potenza.

Certo, in tanti potrebbero dire che siamo stati un po' incoscienti, a voler avere un bambino
praticamente subito. Che posso dire, forse lo siamo stati. Ma abbiamo preso questa decisione con
tanta leggerezza quanto amore, con tanta scelleratezza quanto impegno. Da fidanzati non vedevamo
l'ora di mettere su famiglia. Prima mi vergognavo, a raccontare che dopo otto mesi ero già incinta.
Adesso non ci penso nemmeno: sfido chiunque a vederci così chiaro a quell'età, nelle nostre
condizioni, così sereni nel prendere una scelta senza venir meno di responsabilità. È un pensiero che
mi sento di passare anche ai giovani adesso, lo dico spesso. Non aspettate che sia il momento giusto,
se siete sicuri del vostro amore e del vostro istinto. Anche se la casa non è ancora arredata, anche se
non è tutto perfetto, prendete delle decisioni. Alla fine saranno vostre scelte e non fatti successi
perché in balia del tempo, delle cose, delle situazioni esterne.
Per la mamma di Luca ci è voluto più tempo per abituarsi all'idea, poi ne è stata felice e la
romantica carrozzina azzurra che ha cullato Federico per un bel po' di tempo è arrivata da lei.
Io ero al settimo cielo, per me era la potenza della vita che mi stava attraversando. Insieme ai
disegni conservo ancora le lettere di quel periodo, scrivevo a Luca cose come saremo in tre, ti rendi
conto che su questa terra ci sarà un esserino creato da noi? Eccola lì, la prova tangibile della nostra
gioia di quell'età. Mia madre, come dicevo, è stata da subito eccezionale. Mia sorella Patrizia, che ai
tempi era ancora signorina, scriveva un diario e delle lettere anche lei, era partita un po' preoccupata
per me per poi sciogliere ogni dubbio di fronte alla mia decisione. Ti vedevo così serena, raggiante,
tanto da farmi passare i pensieri che avevo. Ero veramente così. Non ho mai avuto nessun dubbio.
Io sono nata per quello, per essere madre.
Caro diario,

prima ti ho raccontato della meraviglia di voler diventare genitori, nella foga ho tralasciato il
momento del nostro matrimonio. Non serve quasi ribadire quanto fossimo senza una lira bucata, io
e l'uomo della mia vita. Abbiamo dovuto organizzare il matrimonio con le nostre forze. I testimoni
di nozze sono stati i miei fratelli, che come regalo ci hanno procurato i soldi necessari per
organizzare il ricevimento. Patrizia mi ha aiutata in tutti i preparativi, operosa e felice.
Ai tempi io avevo iniziato a lavorare nel negozio di articoli da regalo dei genitori di Luca, mi
destreggiavo tra bomboniere e pacchi regalo. Avevo messo da parte 700 mila lire, per poter
comprare la stoffa e portarla da una sarta a farmi cucire il vestito. Luca aveva fatto lo stesso con i
suoi risparmi: eravamo andati insieme alla Rinascente a comprare il suo abito. Il giorno del
matrimonio ero incinta di sei mesi ma nemmeno si vedeva. Tradizione voleva che ci fosse un vestito
su misura per la sposa per il giorno dopo delle nozze, in velluto bordeaux, e io lo avevo indossato
per fare la prima spesa di coppia, trasfigurando così antichi riti per adattarli alla pragmatica che mi
contraddistingue, senza perderci in romanticheria. Ricordo quel giorno con tenerezza e simpatia,
come si ricordano quei momenti che di solito stanno all'ombra dei grandi eventi per prossimità o per
minore importanza. Eppure quel momento, per me, ha segnato tutte le spese della nostra vita
insieme.

Dopo il matrimonio eravamo andati a vivere vicino Cagliari, l'affitto costava 600 mila lire e noi, in
due, guadagnavamo 1 milione. Non ricordo quel periodo con tristezza o mestizia: compravo ciò che
potevo, spendevo in base a ciò che avevo ed ero felice. Antonella, che abitava vicino a noi, mi
portava spesso la spesa e mi dava una mano come poteva.
Quando Federico è nato è continuata la culla di coccole che mi aveva accompagnata sino a quel
momento. Tutti i miei fratelli tranne Patrizia erano già sposati con figli mentre lei, ancora signorina,
viveva con mia madre. Loro due sono state il balsamo della mia maternità, era come avere dei
prolungamenti di me stessa con la missione di alleggerirmi le giornate e volermi bene.
Sei felice? Mi aveva chiesto Patrizia in un momento di riposo. Sì, sono stanca ma sono molto felice.
Le avevo risposto, e dentro quel domanda e risposta c'era tutto un mondo. Di mattina presto Patrizia
entrava di soppiatto in camera mia, al buio, portava fuori la carrozzella e mi lasciava dormire ancora
un po'. Sono stata molto fortunata: hai bisogno di queste attenzioni e di riposo, quando hai appena
partorito. Il primo bagnetto di Federico – e poi anche di Giulia – è stato con lei. Fuori dalla sala
parto, entrambe le volte, c'era lei. Il primo giorno di asilo, sempre lei. Patrizia era la persona con
cui, in assoluto, Federico rideva di più. Anni dopo avrebbero ascoltato insieme Venditti e Gino
Paoli, in balli improvvisati e valzer maldestri e bellissimi.

Le mie prime passeggiate alla guida della carrozzella erano miti e serene, giravo per il paesino con
bonaria realizzazione, non avevo bisogno d'altro.
Di sera andavo da mia madre per stare insieme a lei, Luca lavorava. La mattina facevo scorpacciate
di trasmissioni di cucina, le antenate dei programmi colorati e sfavillanti di oggi. Guardavo
ammaliata una Wilma De Angelis perfettamente pettinata spadellare nella sua cucina, io che non
avevo mai lavato un piatto né fatto altro in casa. Al primo letto da rifare ero rimasta sbigottita: era
questa la fatica che avrei dovuto fare da lì in avanti per trovare un letto rifatto e comodo ogni sera?
Più di crescere un figlio mi preoccupava il rimboccare con cura gli angoli delle lenzuola. Che buffo,
eh? Insomma, io volevo fare la mamma e basta, per quello sentivo di non avere ostacoli.
Passavo il mio tempo a giocare con quel bambino paffutello e sorridente, in adorazione, mentre
rimanevo affascinata dalla donna raggiante e pacata che dallo schermo della tv faceva di pochi
ingredienti un pranzo amorevole, accogliente, da acquolina in bocca. Mi segnavo le sue ricette su un
quaderno e iniziavo a divertirmi con i prodotti che avevo. Con una cipolla e una patata potevo
metter su dei pasti da re. Iniziavo a diventare consapevole del rapporto speciale che avevo con il
cibo, complici anche tutti i ricordi di mia madre in cucina. Tortini di patate, prosciutto, formaggio e

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