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ALCUNE PIANTE VELENOSE USATE DALL’UOMO

Si definisce veleno una sostanza che, per la sua particolare composizione chimica, in
alcune condizioni e in determinate quantità e forme, può modificare la struttura e le
funzioni di uno o di diversi organi del corpo umano o di altri animali, in modo da
danneggiare temporaneamente o permanentemente la salute e, in casi estremi, provocare
il decesso.
In natura, le sostanze velenose non caratterizzano solo il regno vegetale ma anche
quello minerale e quello animale. Costituiscono esempi in tal senso alcuni minerali
contenenti metalli pesanti, i quali sono noti per la loro particolare pericolosità. Ad
esempio, gravi intossicazioni sono state provocate a minatori e fonditori da piombo,
zinco, mercurio, bismuto, arsenico, fosforo e loro composti.
Letali per gli organismi viventi possono dimostrarsi anche alcune sostanze gassose
che si formano in seguito a reazioni chimiche prodottesi per fenomeni naturali; a questa
categoria di sostanze appartengono il monossido ed il biossido di carbonio, il solfuro di
idrogeno, il disolfuro di carbonio e l’acido cianidrico.
Il regno animale annovera numerose specie che producono sostanze tossiche, le
quali possono essere usate a scopo difensivo oppure offensivo, ossia per catturare le
prede. Le più note sostanze velenose nel regno animale sono indubbiamente quelle
prodotte dai serpenti; è da sottolineare che delle oltre 1500 specie di Ofidi attualmente
conosciute, circa 900 producono sostanze tossiche. Queste ultime sono formate anche
da specie di pesci e di anfibi, così come da entità appartenenti a Molluschi, Celenterati,
Echinodermi e in special modo Artropodi.
Nell’ambito del regno vegetale, è stato calcolato che circa un terzo delle specie
produce sostanze velenose, anche se non sempre queste costituiscono un reale pericolo
per l’uomo e per gli animali. Un esempio in tal senso è rappresentato dall’acido
ossalico, che costituisce un veleno relativamente pericoloso per l’essere umano, giacchè
5 g possono rappresentare una dose letale; eppure numerose piante, come ad esempio le
specie appartenenti ai generi Rumex e Chenopodium, pur contenendo dosi piuttosto
elevate di acido ossalico, non sono considerate pericolose per l’uomo.
Un altro esempio è rappresentato dai frutti di numerose piante non considerate
tossiche, come ad esempio fragole, pesche e albicocche, che consumati in quantità
eccessive possono provocare reazioni allergiche accompagnate da chiazze sulla pelle di
tipo orticarioide e da disturbi dell’apparato digerente; tali manifestazioni sono causate
dalla presenza nei frutti su menzionati di particolari acidi organici e di sostanze
aromatiche.
È da notare che numerose sostanze di origine vegetale si dimostrano tossiche per
l’uomo ma non per gli altri animali e viceversa. Un esempio significativo è costituito
dagli alcaloidi tossici, principalmente atropina, contenuti nella belladonna (Atropa
belladonna); tali sostanze sono letali per l’uomo ma non per le larve della dorifora, che
riescono a crescere normalmente nutrendosi delle foglie di tale pianta. È da sottolineare
che l’atropina è presente addirittura nel corpo delle larve e, pertanto, non influisce in
alcun modo sulle fasi di sviluppo del coleottero, tanto che in condizioni ambientali
idonee su tale pianta possono succedersi anche tre generazioni di dorifora all’anno.
Un esempio simile a quello precedentemente citato è fornito da una particolare
specie di baco da seta, l’Attacus ricini, allevata nell’Assam, la quale si nutre
esclusivamente delle foglie di ricino (Ricinus communis), contenenti sostanze
particolarmente tossiche per l’uomo.
Le capre possono brucare le foglie di Atropa belladonna senza subire alcun
avvelenamento se la quantità ingerita non è eccessiva; ad ogni modo, il latte da esse
prodotto e la loro carne consumata immediatamente dopo il pascolo possono risultare
tossici per l’uomo.
Contrariamente alle sostanze su citate, le piretrine si sono dimostrate assai tossiche
nei confronti di tutte le specie di insetti, mentre risultano relativamente innocue per le
specie animali a sangue caldo. Per questa ragione, tali sostanze organiche contenute nel
piretro (Chrysanthemum cinerariaefolium) sono utilizzate con successo nella difesa
delle coltivazioni e nella disinfestazione di magazzini e abitazioni, nonché in alcuni casi
per la disinfestazione di animali domestici.

Attualmente, si ritiene che le sostanze tossiche presenti negli organismi vegetali


svolgano importanti funzioni biologiche, giacchè di rado rappresentano sostanze inutili
o semplici prodotti di rifiuto del metabolismo vegetale e spesso presiedono a importanti
funzioni metaboliche. È necessario sottolineare, inoltre, anche il significato difensivo di
tali sostanze, che si esplica in un’azione parassiticida e in una seconda azione dissuasiva
nei confronti degli erbivori o dei roditori. È assai probabile che le sostanze tossiche
presenti nelle piante svolgano anche altre funzioni che però, allo stato attuale delle
conoscenze, non sono ancora note.
Nel mondo delle piante esistono svariate sostanze tossiche, le più importanti delle
quali vanno ascritte ai gruppi degli alcaloidi, dei glicosidi e degli oli essenziali.
Gli alcaloidi costituiscono un gruppo eterogeneo di composti organici che
contengono azoto nei loro anelli. Essi hanno composizione chimica ed effetti fisiologici
diversi. Tali sostanze sono accomunate dall’origine vegetale e dalla facoltà di dare
precise e potenti risposte fisiologiche anche in piccolissime concentrazioni; alcune si
presentano come liquidi amorfi, ma per lo più sono cristallizzabili.
I primi alcaloidi furono isolati in laboratorio agli inizi del XIX secolo. Infatti, nel
1803 fu estratta dal papavero da oppio (Papaver somniferum) una sostanza a reazione
basica con effetti farmacologici molto intensi; due anni dopo, da tale pianta fu isolata
con certezza la morfina da F.W.A. Seturner, farmacista tedesco.
Gli alcaloidi non si trovano generalmente liberi, ma legati sotto forma di sali ad
acidi o a tannini. Essi non sono distribuiti uniformemente in tutti i tessuti della pianta,
ma spesso sono prodotti da un organo in particolare: rappresentano esempi in tal senso
le radici della belladonna, le foglie dello stramonio (Datura stramonium) e del tabacco
(Nicotiana tabacum), i frutti del papavero, i semi del cacao (Theobroma cacao), del
caffè (Coffea arabica e Coffea robusta) e della noce vomica (Strychnos nux-vomica).
Per quanto riguarda il ruolo di tali sostanze negli organismi vegetali, attualmente si
suppone che gli alcaloidi siano coinvolti nei meccanismi di segregazione di ammidi e
amminoacidi tossici, nonché di altre sostanze di rifiuto ed avrebbero quindi un ruolo
come detossicanti; un’altra ipotesi, invece, attribuisce a tali sostanze una funzione di
riserva da utilizzare nei momenti di maggior fabbisogno energetico.
Gli alcaloidi esercitano un’azione di grande importanza da un punto di vista
farmacologico; ad ogni modo, per l’elevata tossicità, il loro uso può causare
intossicazioni giacchè non sempre è facile non oltrepassare il limite soglia tra dose
terapeutica e dose velenosa.
I glicosidi sono composti risultanti dall’unione di uno zucchero e di una molecola
non zuccherina chiamata aglicone, tramite l’eliminazione di una molecola d’acqua. Le
molecole di aglicone possono essere rappresentate da alcoli, fenoli, lattoni, aldeidi, ecc.
e caratterizzano i glicosidi da un punto di vista funzionale e biochimico.
Tra i numerosi tipi di glicosidi presenti nel mondo vegetale, quelli che rivestono
maggiore importanza da un punto di vista tossicologico sono i cardiotonici, i
cianogenetici e le saponine.
I glicosidi cardiotonici costituiscono i più importanti farmaci cardioattivi di origine
naturale. È da sottolineare che per tali composti la dose terapeutica è pericolosamente
vicina a quella tossica e non pochi casi di avvelenamento si sono verificati per
sovradosaggio farmacologico.
I glicosidi cianogenetici sono presenti soprattutto nelle Rosaceae; i semi di alcune
entità appartenenti a tale famiglia rilasciano, a contatto con l’acqua, acido cianidrico.
Le saponine sono glicosidi complessi, comunissimi nelle piante, che mescolati ad
acqua formano sostanze schiumose.
Il significato della presenza dei glicosidi nelle piante non è ancora ben chiaro. Tali
composti potrebbero rappresentare sostanze di riserva da utilizzare nei momenti di
maggior fabbisogno energetico; tale ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che la loro
concentrazione aumenta nel periodo che precede la fioritura.
Gli oli essenziali sono miscugli di sostanze organiche diverse come fenoli, alcoli,
aldeidi, chetoni e acidi. Ove presenti, sono localizzati in vari tessuti, come ad esempio
in piccole ghiandole dislocate sui petali, nel parenchima delle foglie, nei frutti o in
canali secretori. La loro concentrazione nei tessuti varia in relazione ai fattori ambientali
e allo stato fisiologico della pianta. Tali composti sono responsabili di forme allergiche
e dermatiti da contatto a volte molto gravi; alcuni di essi sono usati come antiparassitari,
erbicidi, disinfettanti e sono molto tossici.

Nel corso della storia, molte sostanze tossiche presenti negli organismi vegetali sono
state adoperate dall’uomo per scopi vari. In particolare, l’essere umano ha imparato a
sfruttare le caratteristiche dei diversi veleni di origine vegetale e, adoperandoli in dosi
assai ridotte, ne ha fatto farmaci talvolta di rilevante importanza nella cura di diverse
malattie.
Attualmente, si può affermare che le scienze mediche hanno confermato che i
principi contenuti in numerose piante velenose possono essere utilizzati a scopo
medicamentoso. Costituiscono esempi in tal senso alcuni glicosidi cardioattivi contenuti
in specie appartenenti a diverse famiglie di piante a fiore, alcuni alcaloidi presenti in
membri delle Solanaceae e aventi essenzialmente proprietà antispasmodiche e sostanze,
come ad esempio il taxolo contenuto in Taxus baccata, che potrebbero esercitare
un’azione antitumorale. Il fatto che non di rado l’uomo sottovaluti, anche in epoche
moderne, la grande importanza pratica delle sostanze tossiche contenute nelle piante
dipende unicamente da ignoranza o incompetenza, non certo dal valore intrinseco di
questi composti.
Alcuni alcaloidi tossici esercitano anche una positiva azione stimolante; esempi
sono costituiti dalla caffeina, contenuta in bevande molto popolari come ad esempio
quelle ottenute dal caffè, dal te (Camellia sinensis), dalla cola (Cola nitida) e dal matè
(Ilex paraguayensis), e dalla teobromina, contenuta nel cacao, che ha effetti rinfrescanti,
rinvigorenti e nello stesso tempo stimolanti.
Sostanze tossiche dotate di proprietà ipnotiche sono tuttora utilizzate per
tranquillizzare o addormentare, o meglio anestetizzare, grandi animali potenzialmente
pericolosi onde poterli trasportare o curare agevolmente.
Alcuni composti tossici presenti nelle piante hanno inoltre un’indubbia importanza
per l’ulteriore sviluppo delle scienze biologiche, giacchè si rivelano indispensabili nello
studio dei processi vitali e sono addirittura in grado di influenzarli in maniera notevole.
Un tipico esempio in tal senso è costituito dall’alcaloide colchicina, presente in
Colchicum autumnale, sostanza assai tossica per l’uomo ma innocua per le piante; per
mezzo di tale composto, è possibile modificare il corredo genetico delle cellule vegetali
e produrre organismi poliploidi. Le piante così ottenute sono di solito notevolmente più
grandi e risultano spesso provviste di nuove e importanti caratteristiche commerciali. La
colchicina facilita, per il medesimo meccanismo, l’ibridazione tra specie diverse,
consentendo la realizzazione di nuovi tipi di piante foraggere, di cereali e di piante di
interesse orticolo.
È da ricordare, infine, che un’utilizzazione assai diffusa di numerose piante tossiche
è quella ornamentale. Numerose specie, come ad esempio il ricino (Ricinus communis),
l’oleandro (Nerium oleander), il glicine (Wisteria sinensis), l’amarillide (Amaryllis
belladonna) e le entità appartenenti tra gli altri ai generi Datura, Croton e
Dieffenbachia, sono più famose per le loro caratteristiche ornamentali che non per il
loro aspetto tossicologico.

Nel corso della storia, le piante velenose non sono state usate esclusivamente per gli
scopi su menzionati. Sovente, la loro utilizzazione da parte dell’uomo ha avuto come
scopo il suicidio o l’omicidio premeditato, oppure la ricerca di uno stato particolare di
concentrazione, di maggiore rilassatezza o di euforia. È inoltre da sottolineare che le
sostanze velenose sono state e sono talvolta ancora utilizzate durante particolari
funzioni o cerimonie, spesso a carattere religioso, allo scopo di ottenere uno stato di
estasi oppure di provocare visioni o allucinazioni.
Nei secoli passati, pur se usati anche presso la gente comune, i veleni costituirono
importanti strumenti utilizzati nella lotta per il potere. In particolare, presso le antiche
civiltà greca e romana numerosi sono gli esempi di potenti che usarono sostanze
tossiche per eliminare i loro nemici; i veleni adoperati per tale scopo erano molto spesso
di origine vegetale.
Nell’antichità, le stesse condanne a morte potevano essere eseguite mediante suicidi
forzati, come nel caso di Socrate, il grande filosofo greco (469-399 a.C.) condannato a
bere una mortale pozione contenente cicuta (Conium maculatum).
Inoltre, nel corso della storia le sostanze tossiche vegetali sono state adoperate per
indurre, in particolari e ben definite dosi, stati di alterazione psichica. Un esempio è
rappresentato dalla scopolamina, considerata uno dei cosiddetti “sieri della verità”, che
è stata talvolta impiegata per estorcere informazioni. Ad ogni modo, è da evidenziare
che attualmente non tutti concordano nell’affermare l’efficacia di tale sostanza; infatti,
le informazioni ottenute in seguito alla somministrazione di scopolamina o di sostanze
simili possono rivelarsi non del tutto esatte, giacchè sotto l’influenza di una droga
l’individuo può esternare le sue preoccupazioni e i suoi desideri, descrivendoli come
fatti accaduti anche se in realtà non lo sono.
In epoca medievale, piante come la belladonna e il giusquiamo (Hyoscyamus niger)
venivano usate per ottenere allucinazioni e per provocare “viaggi” nel mondo degli
spiriti e dei “demoni”. Tale uso era esercitato in particolar modo da alcune donne,
considerate streghe, che a tal scopo adoperavano estratti delle specie su citate,
applicandoli sotto forma di unguenti concentrati sulle mucose dei genitali. L’uso di tali
estratti, caratterizzati dalla presenza di alcaloidi, poteva produrre allucinazioni che
sovente sembravano mettersi in movimento: da qui deriva la convinzione che le streghe
avessero la capacità di volare sui manici di scopa.
ALCUNE TRA LE PIÙ COMUNI SPECIE TOSSICHE

Tasso o albero della morte (Taxus baccata)

Albero alto fino a 10 m o più raramente arbusto, è provvisto di un tronco ricoperto


da una corteccia rossastra e di foglie piatte, più o meno aghiformi e di colore verde
scuro.
I coni femminili di tale pianta sono provvisti di un unico ovulo che a maturità dà
luogo ad un singolo seme avvolto da un arillo carnoso, a forma di coppa e di colore
rosso.
I semi del tasso vengono diffusi dagli uccelli, che mangiano l’arillo, rappresentante
l’unica parte della pianta priva di sostanze tossiche, digeriscono la polpa ed espellono il
seme intatto, favorendo così la disseminazione e la diffusione della specie.
Il tasso si ritrova nelle regioni temperate dell’Europa e dell’Asia fino all’Iran,
nonché in alcuni settori dell’Africa settentrionale. Attualmente la sua presenza nei siti
naturali si è notevolmente rarefatta a causa dell’intervento dell’uomo che, soprattutto
nel periodo medievale, ha sfruttato intensamente il suo legno. Oggi i popolamenti
naturali sopravvissuti sono tutelati per legge in quasi tutti i Paesi.
Come già detto, tutte le parti del tasso, ad eccezione dell’arillo, sono velenose. In
tale pianta, l’alcaloide presente in maggiori quantità è la taxina, estremamente tossica;
inoltre, oltre ad una modesta quantità di alcaloidi ausiliari, si ritrovano anche alcune
varietà di taxolo.
I sintomi dell’intossicazione compaiono quasi subito dopo l’ingestione, poiché la
taxina viene assorbita dall’apparato digerente con notevole rapidità. Questa sostanza si
dimostra tossica soprattutto nei confronti del sistema cardiovascolare.
I sintomi dell’avvelenamento sono costituiti da vomito, dolori addominali, diarrea
dolorosa, dilatazione delle pupille, pallore, collasso, crampi e stato di incoscienza, cui
segue la morte per arresto cardiaco o per insufficienza respiratoria. Il tutto si conclude
spesso entro un’ora dall’ingestione.
In passato, il tasso è stato usato in piccole dosi per il trattamento di problemi
reumatici ed urinari; nella medicina popolare, l’arillo è stimato un modesto risolvente
per le affezioni bronchiali. In seguito a studi sulle sue proprietà antitumorali, il taxolo è
entrato nei protocolli internazionali per la chemioterapia di alcune forme di carcinoma
della mammella e dell’ovaio.
È da sottolineare che nel Medioevo il legno di tasso era utilizzato per fabbricare
archi e bacchette magiche, mentre attualmente è ricercato per lavori di tornio e di
ebanisteria.

Belladonna (Atropa belladonna)

Pianta cespugliosa, fetida e vischiosa, presenta fiori dotati di una corolla bruno-
violacea a forma di campana, internamente giallastra con venature più scure. Il frutto è
una bacca inizialmente di colore verde, a maturità nero-violacea.
La belladonna ha un areale di distribuzione che si estende dall’Europa occidentale e
centrale fino alla Crimea. In Italia, essa cresce nella zona montana e submontana, nelle
radure e nei boschi ombrosi delle Alpi e degli Appennini.
Tutta la pianta è velenosa, ma in special modo presentano notevole pericolosità le
bacche, che possono essere confuse con alcuni appetitosi frutti del sottobosco.
I principi attivi presenti in tale pianta sono rappresentati da alcaloidi quali la
iosciamina, la scopolamina e la belladonnina. Il contenuto in tali sostanze è più elevato
nelle radici (0,85%) e nei semi (0,8%) rispetto alle altri parti della pianta.
L’avvelenamento da belladonna è estremamente pericoloso: sono sufficienti da 0,01
a 0,1 g di alcaloidi per uccidere una persona.
I sintomi dell’avvelenamento sono rappresentati da secchezza della bocca, difficoltà
di parola, aumento della temperatura e dilatazione pupillare; successivamente, si
verifica un forte stato di eccitazione, seguito da un profondo torpore, da un notevole
calo della pressione arteriosa, da difficoltà respiratorie e da uno stato di incoscienza.
Infine, sopraggiunge la morte.
Il nome del genere Atropa esprime chiaramente il concetto relativo alla sua
velenosità. Atropo è infatti il nome di una delle tre Parche, le creature mitologiche che
sovrintendevano alla nascita e alla morte dell’uomo, e precisamente di quella che
recideva il filo della vita. Il nome belladonna deriva dall’uso che ne facevano le dame
del Rinascimento, le quali adoperavano tale pianta per preparare un cosmetico in acqua
distillata che faceva dilatare le pupille e rendeva più brillante il loro sguardo. In effetti,
l’atropina contenuta in Atropa belladonna è usata in oculistica proprio per dilatare le
pupille.
La belladonna, assieme allo giusquiamo e alla mandragora, veniva usata dalle
streghe nella realizzazione degli unguenti che permettevano loro i voli notturni, in realtà
dei veri e propri “viaggi psichici”.
Come la maggior parte delle piane tossiche, Atropa belladonna può essere usata in
minime dosi per curare varie malattie. Essa ha proprietà rilassanti, sedative e
antispasmodiche; agisce, infatti, sulle terminazioni nervose, provocando una
diminuzione del dolore.
Stramonio comune (Datura stramonium)

Pianta erbacea dall’odore assai sgradevole, presenta fiori biancastri o più o meno
purpurei e frutti coperti di aculei e contenenti numerosi semi nerastri.
Lo stramonio comune è originario delle regioni meridionali dell’America
settentrionale e principalmente del Messico; venne introdotta in Europa dagli Spagnoli
nella seconda metà del XVI secolo. Attualmente tale pianta è diffusa in tutto il mondo,
ovunque esistano condizioni ambientali idonee alla sua sopravvivenza.
In Italia, lo stramonio comune cresce qua e là negli ambienti ruderali, nei campi
incolti, dal mare alla zona submontana in tutta la penisola e nelle isole maggiori.
Tutte le parti della pianta contengono alcaloidi, come ad esempio la iosciamina,
l’atropina e la scopolamina. Il contenuto di tali sostanze varia a seconda della parte di
pianta considerata; è stato osservato che, nel materiale vegetale essiccato, le percentuali
più elevate di alcaloidi si ritrovano nei frutti non maturi (0,66%) e nei fiori (0,61%),
mentre quelle più basse si hanno nei fusti (0,16%) e nelle radici (0,23%).
La sintomatologia degli avvelenamenti acuti da stramonio comune è simile a quella
prodotta dalla belladonna. Infatti, nei soggetti intossicati si verificano midriasi e perdita
dell’accomodazione visiva, arresto della secrezione sudorale, tachicardia, ipertensione,
eccitazione psicomotoria, delirio, allucinazioni visive e, nei casi più gravi, depressione
dei centri bulbari con ipotensione, ipotermia, collasso e morte. Nell’avvelenamento da
stramonio comune, il delirio e lo stato allucinatorio sono di notevole intensità; gli
intossicati sono soggetti a visioni stranissime ed è per questo motivo che in Francia tale
pianta è nota anche con i nomi di herbe aux sorciers e herbe aux diables.
La morte è preceduta da sete inestinguibile, dilatazione delle pupille e continui
conati di vomito; la mente si confonde e si avvertono contrazioni e convulsioni nervose.
Datura stramonium era nota agli Indios dalle Ande all’America centrale che la
adoperavano, nei riti religiosi e magici, per i cosiddetti “viaggi” sciamanici. Gli stregoni
usavano tale pianta per diagnosticare malattie, scoprire ladri e prevedere l’andamento
dei raccolti e dei commerci della tribù; dopo uno stato iniziale di violenza furiosa,
cadevano in un sonno profondo, turbato da allucinazioni visive interpretate come visite
degli spiriti. È da sottolineare che gli Indios del Messico centrale e settentrionale fanno
ancora uso di questa pianta.
Lo stramonio comune è stato sfruttato anche a scopo delittuoso da ladri e cortigiane,
avidi di denaro e di potere, allo scopo di far perdere la ragione alle loro vittime.
Attualmente, lo stramonio comune è adoperato a scopo terapeutico. Le foglie sono
utilizzate sia per la realizzazione di sigarette antiasmatiche, sia per l’estrazione degli
alcaloidi specifici contenuti nella pianta, usati principalmente per calmare spasmi a
carico degli apparati gastro-intestinale, bronchiale e urinario. Lo stramonio comune può
essere applicato esternamente per alleviare dolori reumatici e nevralgie.

Digitale (Digitalis purpurea)

Tale pianta erbacea è dotata di fiori penduli, a forma di campana e generalmente di


colore rosso-porporino, con macchie biancastre. I frutti contengono numerosi piccoli
semi color ruggine.
Diffusa nelle regioni mediterranee centro-occidentali, in Italia si ritrova allo stato
spontaneo solo in Sardegna, dove è frequente nelle aree montane, ai margini dei boschi
e nelle radure. Popolamenti di questa specie sono presenti anche sulle Alpi, ma
costituiscono il risultato dell’inselvatichimento di tale pianta, che un tempo era coltivata
in tali zone a scopo medicinale.
Ogni parte della pianta risulta velenosa per la presenza di glicosidi estremamente
tossici che agiscono sul muscolo cardiaco. Le concentrazioni più elevate di tali sostanze
si riscontrano nelle foglie del secondo anno (0,2-0,6%). I glicosidi presenti in questa
specie sono circa 30; i soli esaurientemente studiati, che rappresentano anche quelli
maggiormente usati a scopo terapeutico, sono la digitossina e la digitossigenina.
L’avvelenamento colpisce soprattutto i pazienti trattati troppo a lungo con preparati
ottenuti dalla digitale purpurea; in caso di applicazioni prolungate, infatti, i glicosidi
tendono ad accumularsi nell’organismo e possono raggiungere livelli pericolosi.
I sintomi dell’avvelenamento sono rappresentati da nausea, allucinazioni
caratterizzate dalla visione di colori particolarmente vividi, irregolarità del battito
cardiaco, difficoltà di respirazione; nei casi più gravi, sopraggiunge l’arresto cardiaco.
Ad ogni modo, casi di avvelenamento mortale tra gli uomini sono fortunatamente assai
rari, sia a causa del sapore sgradevole di tale pianta, che dissuade chiunque dal
cibarsene, sia perché immediatamente dopo l’ingestione si verifica il vomito, cosicchè è
prevenuto l’assorbimento di quantità significative di glicosidi. Casi di avvelenamento
mortale sono stati segnalati soprattutto tra gli animali domestici.
La digitale purpurea non ha un’antica tradizione terapeutica. Le sue proprietà non
furono menzionate dai più grandi autori dell’antichità, come Dioscoride e Plinio. Solo
nel XVIII secolo un medico inglese, avendo imparato l’uso di questa pianta da una
“vecchia delle erbe”, ne sperimentò e ne divulgò le virtù; subito dopo, tale specie tornò
nel dimenticatoio, da cui uscì solo nel 1842 per essere definitivamente consacrata tra i
cardiotonici.
Attualmente, le specie appartenenti al genere Digitalis, ed in particolare Digitalis
lanata e altre entità di origine balcanica, costituiscono una fonte insostituibile di
sostanze medicinali ad azione cardiotonica, ancora oggi ampiamente utilizzate in casi di
scompenso cardiaco ed aritmie.
Oleandro (Nerium oleander)

Pianta cespugliosa o arborescente, presenta foglie persistenti di colore verde scuro. I


grandi fiori profumati presentano una colorazione molto varia, da rosso al bianco e al
giallo, attraverso tutte le sfumature di rosa. Il frutto, lungo fino a 15 cm, contiene semi
rivestiti da una sorta di feltro sericeo.
Specie originaria della regione mediterranea e del Medio Oriente, l’oleandro cresce
spontaneo sui pendii rocciosi prospicienti il mare e lungo i corsi d’acqua,
particolarmente su terreni calcarei. In Italia, tale pianta si ritrova allo stato spontaneo
nelle regioni meridionali e nelle isole maggiori; altrove è inselvatichita o presente solo
allo stato coltivato.
Tale pianta è velenosa in ogni sua parte, anche se le foglie sono caratterizzate da una
maggiore concentrazione di sostanze tossiche. Essa contiene diversi glicosidi che, se
ingeriti, danneggiano il muscolo cardiaco.
I sintomi dell’avvelenamento sono costituiti da vomito, diarrea, polso irregolare,
dilatazione delle pupille e, nei casi più gravi, crampi cui segue la morte per arresto
cardiaco. Ad ogni modo, le manifestazioni tossiche più comuni sono rappresentate dai
frequenti casi di dermatiti provocati dal contatto con le foglie di questa pianta. Casi di
avvelenamento vero e proprio si riferiscono in massima parte ad animali, in particolare a
pecore e capre che si sono cibate di foglie di oleandro; anche in tali casi, il decesso è
stato determinato da arresto cardiaco.
Attualmente, tale specie è usata soprattutto a scopo ornamentale; essa non è
adoperata frequentemente a scopo terapeutico e, a causa della sua tossicità, non è quasi
mai utilizzata in medicina popolare. Ad ogni modo, l’oleandrina pura entra in
preparazioni che hanno un’importante azione cardiaca. In alcuni paesi, parti di questa
pianta possono entrare nella costituzione di particolari medicamenti; ad esempio, in
Libia si adoperano le foglie di oleandro per realizzare cataplasmi usati nella cura degli
ascessi.

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