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Ugo Libardo

della Natura
e
delle emozioni
Una naturale lettura del mondo
tratta dai romanzi:
• Amante perfetta
• Anime allo specchio
• La stagione dell’estro
• Antonio ’o pazz’
• Svegliami nel cuore della notte

e dal volume di racconti:


• 6 favole

Stupor Mundi
info@stupormundi.net
Questo racconto è un gioco di invenzione letterario.
Qualsiasi riferimento a luoghi o eventi o persone
realmente esistenti, oltre che casuale, è da considerarsi
un espediente utilizzato per offrire un maggiore
senso di realtà e autenticità.

Copyright © 2006 by Ugo Libardo


Tutti i diritti riservati. Questo libro, o parti di esso, non
possono essere riprodotti in alcun modo senza autorizzazione.

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2006 Editrice Stupor Mundi®


e-mail: info@stupormundi.net
Note biografiche sull’autore

UGO LIBARDO è lingui-


sta e docente di inglese,
esperto in psicopedago-
gia e antropologia
moderna.
Ha conseguito il dottorato di ricerca in pedagogia e di-
dattica delle lingue moderne presso l’Università di Lund, in
Svezia. Qui ha vissuto per molti anni, insegnando inglese
nella Scuola di Stato svedese, ed esercitando come forma-
tore e docente di italiano presso l’Università di Goteborg.
Ha lavorato per brevi periodi al Sixth Form College di York,
in Inghilterra, e in Francia al Lycée de Prèsle di Vichy. Da
questa sua ottica extra-nazionale scaturiscono molte sue
osservazioni e le riflessioni che animano la sua produzio-
ne letteraria.
A Milano ha collaborato come educatore nella Comunità
Exodus di Don Antonio Mazzi.
Ugo Libardo insegna attualmente all’I.T.C. “C.L. Flacco”, di
Brindisi, ed è docente a contratto presso l’Università di Bari.
La sua produzione letteraria è molto varia e spazia dalla sag-
gistica alla narrativa, dai manuali di linguistica alle favole.
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Indice delle letture


da Amante perfetta
La jacca ......................................................................... 13
MLU.............................................................................. 23
Seno di ponente .......................................................... 29
Abissi............................................................................. 41

da Anime allo specchio


Nord.............................................................................. 47
Sentinelle ...................................................................... 57
Incontri ......................................................................... 61
Tiro con l’arco ............................................................. 67
Il cantico delle creature.............................................. 75
La notte dei desideri ................................................... 79
Oasi ............................................................................... 85
Luna Rossa................................................................... 95
Aurora boreale............................................................. 101

da La stagione dell’estro
Amazzonia ................................................................... 105
Quiete nella tempesta................................................. 111
Contatto........................................................................ 117
Il volo............................................................................ 123
Libertà........................................................................... 137
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da Antonio ’o pazz’
’A tromba d’aria .......................................................... 139
’A motovedetta............................................................ 145
Primm’ammore............................................................ 155
Tonno assassino .......................................................... 161

da Svegliami nel cuore della notte


Studenti e animali........................................................ 175
Mymesis........................................................................ 181

da 6 favole
Prefazione alle favole.................................................. 187
La soriana Tiziana....................................................... 191
Marilyn e Dolphin Blue ............................................. 197
Un viandante ricercatore ........................................... 203
Fuoco di notte ............................................................. 207
Chi, Come, Quando e Perché ................................... 213
I quattro elementi ....................................................... 219
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Introduzione dell’autore

L’azione di organizzazioni ambientaliste quali Green Peace, WWF,


Legambiente, e lo stesso movimento politico dei Verdi in Europa e nel
mondo, hanno sensibilizzato con crescente efficacia l’opinione pub-
blica sull’emergenza ambiente. Un sentito grazie a quanti subito
hanno percepito un pericolo e si sono impegnati in una battaglia così
difficile. I politici sentono – adesso come mai in passato – , la pres-
sione di occhi e giudizi attenti alla preservazione della natura e sono
divenuti più cauti nel deliberare interventi invasivi del territorio.
I rapporti scientifici sulla rarefazione dell’ozono nell’atmosfera, la
denuncia della distruzione sistematica della foresta amazzonica, il
surriscaldamento del pianeta e le conseguenti mutazioni climatiche
hanno persuaso i governi di molti paesi ad aderire al protocollo di
Kyoto, un impegno ufficiale a limitare lo sfruttamento ambientale
e l’inquinamento. Sempre maggiore attenzione viene prestata a
forme di energia alternative.
A livello governativo, si stanno facendo timidi e tuttavia visibili
passi in avanti, ma portiamo questo problema universale – alquan-
to inavvicinabile –, su un piano più accessibile, e domandiamoci:
cosa può fare il singolo individuo nel suo quotidiano e pur limitato
ambito d’azione?
Ha un senso parlare di ambiente e natura, di rapporti e indagini
sul deterioramento territoriale, senza provare il coinvolgimento
che deriva dall’esperienza personale con gli elementi della natura?
Quando si parla di natura e ambiente, oggi, mi pare lo si faccia
in termini tecnici, legali, nostalgici, trascurando, però, l’aspetto
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più significativo, quello che scatena azione propositiva e migliorie


concrete.
È possibile preservare un patrimonio – di qualsiasi tipo – senza
conoscerlo, senza amarlo? Ad esempio, quanti sono gli abitanti di
una città che sono in grado di riconoscere la flora e la fauna del
proprio territorio? Quanto spesso fanno escursioni, scampagnate o
semplici passeggiate nel tempo libero?
Purtroppo, diventa sempre più difficile trovare tempi e luoghi
adatti ad un contatto autentico e personale con l’ambiente. La con-
centrazione della popolazione mondiale in dilaganti aree urbane e i
ritmi imposti dall’ottimizzazione dei processi produttivi hanno
creato un vuoto d’essere sempre più netto fra l’essere umano e la
sua terra. L’abitudine a cercare un accostamento con la natura, così
tipico della famiglia italiana fino a trenta, quaranta anni fa, sta
scomparendo. Dilaga la consuetudine a chiudersi in casa, a preferi-
re le seduzioni tecnologiche all’interno delle mura domestiche al
contatto all’aperto con altre persone, con parenti e amici. Una certa
‘pigrizia sociale’, figlia del benessere e dell’autosufficienza, sta trasfor-
mando un numero crescente di persone in isole malinconiche, cia-
scuna tesa a sigillare il proprio universo privato, ad evitare il con-
fronto con altri universi, nuove aperture e possibilità.
Eppure sono moltissime le persone di mezza età – ora genitori –,
che ricordano la magia delle tavolate improvvisate in una pineta o
in riva al mare, le fughe in bicicletta con gli amici lungo i tratturi di
campagna, che univano le persone e vedevano nascere e consolidar-
si relazioni di amicizia. Nessuno fra loro potrebbe negare l’influen-
za benefica di momenti così strutturanti della personalità.
Allora, perché privare le future generazioni dello stesso elemen-
tare privilegio?
Veniamo alla tesi principale di questa pubblicazione: le persone
che crescono a stretto contatto con la natura sono più predisposte
ad ascoltare e ad osservare, più avvezze alla concentrazione, più
consapevoli di se stesse e del posto che occupano nel mondo – sia
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inteso come ambiente naturale, sia come contesto di relazioni cor-


responsabili e coordinate con i propri simili. Chiunque esperisca la
natura in modo personale e regolare, sviluppa abilità motorie e psi-
chiche che lo rendono più armonico anche emozionalmente, come
se l’ambiente lo inducesse naturalmente a emulare certe caratteristi-
che proprie della Natura.
È sufficiente una lieve riorganizzazione delle attività quotidiane
per colmare l’innaturale distanza che si è venuta a creare fra uomo
e ambiente, e molto può essere fatto nelle scuole per educare usan-
do come sfondo la natura e le sue meraviglie.
Con questa antologia monografica, Stupor Mundi invita giovani e
meno giovani, ad avvicinarsi alla natura con curiosità. Organizza
incontri in classe ed escursioni nel territorio per avviare i giovani
alla scoperta delle sue bellezze – ma anche delle sue aberrazioni, sti-
molando un dialogo localizzato su ciò che è migliorabile.
Alle letture di narrativa, tratte da esperienze vissute, ho voluto
accostare la magia di una raccolta di favole che hanno per tema la
vita animale, le suggestioni degli elementi della natura e di certi
istinti primordiali che quotidianamente accompagnano le nostre
esperienze di esseri pensanti –, coscienti del proprio stato di coscienza,
dunque capaci di impegno propositivo.

Mi consenta, il lettore, di augurargli una buona lettura anticipan-


do un pensiero tratto da “La stagione dell’estro”, che ritroverà più tardi
fra queste pagine:
Su un palcoscenico di fascino impareggiabile il paesag-
gio collinare precipitava velocemente verso un oceano
color cobalto. Una remota cappa di cumuli veniva dal-
l’orizzonte e avanzava lenta nel cielo arancio e fuoco
del tramonto.
Una tempesta di pensieri misti e indefinibili mise a sub-
buglio la mente di Ross…
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E tuttavia, il cielo annunciava il tramonto. Il candore


della natura in cui era calato riduceva la sua inquietudi-
ne ad una goccia turbolenta costretta a disperdersi in
un mare di tranquillità. Come se quella imperturbabile
bellezza avesse su di lui l’effetto di un benigno conta-
gio che, del tutto inconsapevolmente, assumeva ed
emulava.
“Chissà quanta gente vorrebbe recuperare almeno un
poco della vita ‘vera’, quella che inizia appena usciti
dalla città”, pensò Ross. “Un incanto di cui ogni perso-
na dovrebbe godere ogni giorno. Solo un’ora di quel
contatto migliorerebbe la vita di chiunque. Noi non
rispecchiamo solo gli atteggiamenti delle persone che
ci circondano. Copiamo e riflettiamo anche l’ambiente.
Se permettiamo alla natura di avvicinarci, la sua sereni-
tà e la sua fede nella vita entrano si impossessano di
noi. È un fatto inevitabile, in fatale osservanza della
legge dell’imitazione.”

Ugo Libardo
La jacca 13

La jacca
da Amante perfetta

Il protagonista e voce narrante dell’episodio, un ragazzo di dodici


anni, è impegnato in un’azione che sta per trasformarsi, ai suoi occhi,
in un’avventura emozionante ma anche pericolosa.

La notte di marzo era senza luna. Il vento teso di sciroc-


co soffiava costante, ma non forte abbastanza da coprire
il frusciare degli scarponi fra l’erbaccia. Procedevamo al
buio come due ombre senza un corpo, rese appena indo-
vinabili dalla fioca luce delle stelle.
L’unico indizio sicuro da seguire, la mia vera salvezza,
era la brace ardente di una sigaretta che ondeggiava nel
buio. Sisino la teneva accesa costantemente.
I latrati che provenivano dalle masserie vicine e lontane
mi mettevano i brividi.
“Cosa facciamo se i cani ci attaccano?”, chiesi a Sisino.
La sua risposta, in verità, non fu del tutto rassicurante:
“Non è mai accaduto. Forse hanno più paura di noi. I cani
diventano pericolosi solo quando sono in branco e hanno
fame.”
14 Amante perfetta

La torcia illuminò un tratto del percorso da seguire, ma


solo per un secondo, poi tornò a spegnersi. Non riuscivo
a vedere dove mettevo i piedi, e ogni tanto inciampavo in
una zolla troppo alta.
“Alza i ginocchi bene in alto quando cammini. Se trasci-
ni i piedi, inciampi”, suggerì il mio eroe personale.
Il suo consiglio funzionava. Sisino era infallibile.
“Siamo arrivati all’uliveto”, sussurrò l’uccellaio dopo
qualche minuto. “Il vento è il peggiore nemico degli
uccelli… Quando tira scirocco vengono a ripararsi a cen-
tinaia sui rami più bassi, al riparo della collina. Qui non c’è
la minima turbolenza… Non possiamo tenere la torcia
accesa, altrimenti scappano appresso al raggio di luce.”
Il faro illuminò per due secondi le fronde di un ulivo cen-
tenario e due occhietti tondi e sperduti luccicarono fra le
foglioline fitte e verdognole.
“È un bel maschione. Hai visto il becco blu metallico?”
Dissi di sì, ma non ne ero convinto.
“Il fringuellino è già in amore. Ha messo su la livrea esti-
va e si prepara a corteggiare.”
Il fascio di luce balenò ancora per un secondo, il tempo
necessario a Sisino per individuare con precisione la posi-
zione dell’uccelletto. Poi la luce si spense di colpo
e…“Trii- triii- triiiiiii”… il trillo di terrore del volatile
mandò in frantumi il silenzio della notte.
“… E uno!”, esultò Sisino con l’eccitazione di un bam-
bino. “Questo è il fortunato prescelto per la canarina
bronzata di tuo padre.”
La jacca 15

Il faro illuminò la manona dell’uomo, serrata intorno


all’uccellino, il quale smise di trillare per guardarsi intor-
no, alla ricerca di un’impossibile via di fuga dalla presa
esperta dell’uccellaio.
Un brivido di eccitazione attraversò ogni mio nervo. Era
una nuova, bizzarra sensazione, di euforia mista a racca-
priccio. Provai ad immaginare come mi sarei sentito se,
mentre dormivo nel mio letto, un gigante mi avesse affer-
rato e mi avesse infilato in una tasca con decine di altri
bambini terrorizzati.
Scacciai l’idea dalla mente e domandai: “Ne prendi tanti?”
“Trenta, quaranta… Più è forte il vento, più si posano
bassi.”
“Prendi solo i maschi?”
“Anche qualche femmina, ma le tengo solo per far can-
tare i maschietti.”
“Ti interessano solo i fringuelli?”
“Porto a casa tutto ciò che si fa prendere. Tengo quelli
che m’interessano e libero gli altri. Dipende dalle richie-
ste. Qualche estimatore vuole solo insettivori da canto:
capinere, usignoli, passeri solitari. Ma tenerli in cattività
richiede arte. Bisogna allevare anche gli insetti e le tarme
di cui si nutrono.”
“Non mangiano i semi, come i canarini?”
“Solo d’inverno, se sono disperati. Il problema è che gli
insettivori più preziosi, come gli usignoli, arrivato il tempo
di migrare, in autunno, diventano pazzi … li prende una tale
frenesia… Sbattono contro le sbarre della gabbia rivolte a
16 Amante perfetta

Sud-Est, fino a morirne. Bisogna tenerli in gabbie speciali


con sbarre flessibili in legno.”
“Ne muoiono tanti?”
“Qualcuno muore, purtroppo, ma non per mano mia.
Io non ne faccio morire nessuno… Se non si adattano alla
gabbia, li lascio volare via, prima che si ammalino di
malinconia. Quelli che si abituano subito alla nuova situa-
zione, li vendo a pochi intimi, come tuo padre.
Tanti anni fa questo tipo di caccia si chiamava la jacca.
C’era stata la guerra e si pativa la fame. Gli uccellini, anche
i più piccoli, li mangiavamo. Era una vera strage. Appena
catturate, le creature venivano sbattute a terra e vendute
al mercato come selvaggina.”
La fiamma dell’accendino illuminò il ghigno di soddisfa-
zione dell’esperto cacciatore, e i suoi denti cariati, gialli di
nicotina, luccicarono come avorio antico. Le ombre pro-
iettate dai lineamenti marcati gli disegnavano sul volto un
riso maligno.
La caccia riprese.
Sisino si spostava con l’efficienza di un felino, sicuro di
ogni movimento. Ancora un lampo della torcia, e le fron-
de più basse subito rivelarono le penne arruffate e l’aria
stralunata di uccellini appena svegliati. Un presentimento
suggeriva ad alcuni di volare via, abbandonandosi contro-
voglia al buio della notte. Tuttavia, ogni albero offriva una
o due prede. Gli uccelli venivano raccolti come frutti
maturi da alberi e cespugli, e le tascone dell’uomo già tra-
boccavano di creature in preda al più nero terrore.
La jacca 17

Nell’espressione dei suoi occhi luccicanti notai una sorta


di folle avidità. Gli uccelletti avevano per lui un valore
finale, non funzionale. Amava catturarli al di là dal guada-
gno che avrebbero fruttato. Aveva appreso l’arte della cat-
tura dal padre e dal nonno, e vi si dedicava con tutta l’ani-
ma, nonostante le nuove leggi e il divieto sull’uccellagio-
ne stessero per mettere fine a secoli di costume.
Improvvisamente, l’uccellaio si fermò e, trattenendomi
per le spalle, mi intimò: “Sta fermo e muto.”
Distinsi allora delle voci portate dal vento e un rumore
di passi che si precipitavano nella nostra direzione.
“I guardacaccia”, sussurrò Sisino, tutto trafelato. “I soli-
ti impiccioni. Vengono verso di noi. Se ci vedono, siamo
fregati. Speriamo che non abbiano portato i cani. Adesso
dovremo correre al buio e fare meno rumore possibile.”
Fra paura ed eccitazione stavo per farmela addosso,
quando Sisino mi afferrò per una mano e mi trascinò via
di corsa. Inciampai quattro, cinque volte, ma mi sentivo
subito risollevare dalla mano potente dell’uccellaio come
un bambolotto, finché raggiungemmo un ulivo centena-
rio, cavo all’interno.
Sisino spezzò alcune frasche e disse: “Entra nell’incavo
dell’albero”. Quindi vi si introdusse anche lui e occultò
l’apertura con le fronde che aveva strappato. Non ci
avrebbero visti neanche alla luce di mezzogiorno.
“Adesso dobbiamo solo aspettare che passino oltre.”
Le voci si avvicinarono tanto che riuscii a sentire i
discorsi dei nostri inseguitori. Erano tre o quattro.
18 Amante perfetta

“Allarghiamoci a ventaglio e stiamo a cinquanta metri


l’uno dall’altro”, diceva uno. “Non può aver fatto molta
strada. La luce della sua torcia era proprio qua. Questa
volta non ci scappa.”
E, invece, i segugi passarono di corsa, oltre il nostro
nascondiglio, senza sospettare che eravamo a pochissimi
metri da loro.
Un altro disse inviperito: “Quel bastardo… prima di
consegnarlo ai carabinieri, lo pestiamo come si deve.”
“Li abbiamo fregati”, disse Sisino, “Benedetti i nostri
ulivi. Ci sfamano da secoli. Con la loro legna ci riscaldia-
mo e arrediamo le case… Questi alberi ci proteggono
dagli uomini malvagi e dalle leggi stupide. Pensa…
ammazzano milioni di creature con i pesticidi e i diserban-
ti: insetti… uccelli che mangiano gli insetti… rettili che si
nutrono di uccelli… I falchi sono spariti dalla circolazio-
ne. Una strage di massa… e hanno il fegato di affermare
che quelli come me rovinano la natura. Ipocriti! Io porto
la natura a casa di tante persone, spiego loro come si alle-
vano gli animali, come si rispettano veramente, non a
parole… Questo uliveto è stato piantato prima della sco-
perta dell’America. Ora vogliono sradicare questi alberi da
qua, dove sono stati per secoli, per mutilarli e piantarli
nelle ville di qualche politico o di qualche riccone. …
Quelli riescono sempre a farsi le leggi su misura. Sono in
gamba, sono. Certo. Conoscono perfettamente il galateo,
l’etichetta… Sanno sempre cosa dire e come comportar-
si. Sono riusciti a farsi una posizione rispettabile… ma
La jacca 19

non rispettano nessuno. Solo perché hanno di più e sanno


più cose di noialtri credono di essere superiori. Solo per
questo… sono maleducati. Non hanno nessun rispetto
per noialtri, gente semplice. Ma sai una cosa?…
Confondono il galateo con l’educazione.
Ah, l’educazione… L’educazione è un’altra cosa. Quella,
sì, è vera democrazia.”
I potenti fasci di luce delle torce nemiche si allontanaro-
no, cercandoci nel buio, senza la minima speranza di cen-
trarci. Quando furono a circa trecento metri da noi,
uscimmo dall’albero e ci avviammo a passi veloci nella
direzione opposta.
In quel momento un bagliore, come di una stella ascen-
dente, rischiarò il cielo e tutto l’uliveto. Gli inseguitori
avevano sparato in aria un razzo illuminante ed erano riu-
sciti ad individuarci, sebbene a distanza. Nel silenzio della
notte sentimmo le loro urla concitate: “Eccoli, eccoli, tor-
niamo indietro!”
Avevamo un discreto vantaggio, ma io ero un po’ lento a
correre e gli uomini stavano guadagnando terreno.
Correndo fra le sterpaglie e i cespugli selvatici raggiun-
gemmo finalmente il tratturo dove avevamo lasciato la
vespa. Sulla terra battuta riuscimmo a correre più spediti e
riguadagnammo metri e secondi preziosi.
Finalmente arrivammo al vespone. Sisino mise in moto
a spinta e fummo in un baleno sulla strada asfaltata.
Viaggiando a cento all’ora verso casa, in preda ad un’iste-
rica eccitazione, Sisino urlò: “Fregati, fregati… Tiéhhh”,
20 Amante perfetta

e così dicendo, alzò significativamente il dito medio verso


il cielo. Poi, mentre guidava, voltandosi leggermente
indietro, gridò: “Non andremo alla mia bottega.
Potremmo trovarli là ad aspettarci. Sono anni che cerca-
no di pizzicarmi. Andiamo dritti a casa tua e sistemiamo
gli uccelli nella voliera che avete in garage. Dovrete tener-
li voi per qualche giorno.”
Arrivammo a casa a mezzanotte con una trentina di uccel-
lini. Mio padre ci aspettava affacciato al balcone, con la soli-
ta sigaretta appiccicata ad un lato della bocca, incurante del
fumo che gli si infilava nelle nari e gli arrossava le palpebre.
Teneva un occhio socchiuso sotto il sopracciglio inarcato,
in una gioconda smorfia di superiorità. La stessa che avevo
già visto in volto a Humphrey Bogart in Casablanca.
Chiusi in garage, alla fioca luce della lampadina da venti
watt penzolante dal muro, Sisino raccontò l’accaduto a
mio padre, il quale mi chiese: “Hai avuto paura?”
Al mio cenno di assenso, mi mise una mano sulla spalla e
disse solo: “Ne è valsa la pena, almeno?… Vediamo cosa
avete portato.”
Dalle tasche di Sisino uscirono a due o tre alla volta
manciate di uccellini che agitavano testoline, zampette e
alucce attraverso le dita solide e sicure di Sisino. L’indice
e il medio della mano sinistra avevano assunto un color
senape per effetto della sigaretta che teneva costantemen-
te accesa.
La grande voliera era alta due metri e occupava quasi
tutta la parete. Era triste e vuota come una piazza deser-
La jacca 21

ta, ma d’improvviso si animò. Gli uccelli svolazzavano nel


gabbione come farfalle impazzite, alla ricerca di un ango-
lo sicuro, al riparo dai nostri sguardi.
Mi resi conto che le creature erano straordinariamente
sensibili agli occhi puntati su di loro. Una capinera, non
appena spostavo la testa per osservarla, si spostava anche
lei, nascondendosi dietro un ramo secco di mandorlo.
“Gli insettivori mettiamoli qua”, disse mio padre, indi-
cando il gabbione posto sopra la scarpiera, fatto di ramo-
scelli di legno.
C’era grande eccitazione, l’aria di festa che accompagna
la realizzazione di un sogno, una vincita inaspettata.
MLU 23

MLU
da Amante perfetta

Il protagonista e voce narrante dell’episodio, un ragazzo di quattor-


dici anni, è impegnato in un’avventura carica di suspense.

Con Gigi, Amedeo e Donato fondammo l’MLU, il


Movimento di Liberazione Uccellina. Claudio non ne volle
sapere di entrarci. Troppo pericoloso. “Se ci scoprono? E
se anche riusciamo a scappare, ci fregano lo stesso. Qua
intorno ci conoscono tutti… e vengono per direttissima a
cercarci a casa. Voi state a pensare agli uccelli… io penso
a Sonia. Ha detto che vuole provare a fumare.”
“Cominciamo dagli uccelli di Sant’Angelo e dei
Cappuccini. Là non ci conosce nessuno”, disse Enrico,
che aveva accettato di unirsi al Movimento.
“Cominciamo dal cardellino di Vito”, disse Gigi. “La
palazzina popolare ha due ingressi e due uscite sul terraz-
zo. Se salgono su per prenderci, scappiamo dall’altra scala.”
Vito era un ragazzone due o tre anni più vecchio di noi,
forte, peloso, malvagio e velenoso. Lo odiavamo perché ci
rubava le biglie di vetro e le figurine dei calciatori.
24 Amante perfetta

Una volta, mentre stavamo giocando a calcetto in cor-


tile, arrivò con il fratello, e intuii subito che stavano com-
plottando qualcosa.
Senza neanche cercare un pretesto, Vito si avvicinò a
noi e diede uno spintone a Donato, che stava per calciare
un rigore, prese da terra il pallone di gomma superflex, di
quelli economici, e lo bucò senza pietà con un lungo chio-
do di carpentiere.
Poi, spavaldo, disse “Prima di giocare a pallone mi dove-
te chiedere il permesso a mme. Qua le persone si lamenta-
no perché fate troppo casino quando giocate.”
Il secondo pallone in due giorni. Trecentocinquanta lire
per due faceva settecento lire. Una fortuna. Ma era venu-
to il momento di fargliela pagare.
Vito era orgoglioso del suo cardellino. Cantava che era
una meraviglia e non la smetteva neanche se infilavi il
naso nella gabbia. Di giorno lo tenevano appeso al muro
esterno sul balcone della cucina, e, arrivata l’umidità
della sera, lo riportavano dentro e lo mettevano sul fri-
gorifero.
Bisognava agire in fretta, appena prima dell’imbrunire,
quando la mamma di Vito era sola in casa. Avevamo tutto
l’occorrente: scarpe di gomma per salire le scale in silenzio,
filo di nailon, gancio a tre ami per prendere i cefali a strappo.
“Tu hai gli zoccoli di legno e fai da palo in strada”, disse
Amedeo a Donato.
“Il palo lo fai tu. Voglio venire pure io”, rispose Donato.
E salì in terrazza anche lui, ma scalzo, con gli zoccoli in
MLU 25

mano. Salimmo in cinque, tre da una scala, due dall’altra,


per non dare nell’occhio e per controllare che entrambe le
porte di accesso al terrazzo fossero aperte.
Sul pianerottolo al secondo piano una porta di casa era
aperta. Dall’interno dell’abitazione sentivamo un indaffa-
rato tintinnio di piatti e bicchieri. Qualcuno in cucina
stava apparecchiando per la cena.
Sbirciai con cautela e, in fondo al corridoio dell’abitazione
popolare, vidi una vecchina piccola piccola, seduta su una
grande seggiola a braccioli, che era addormentata e russava.
La sua bocca spalancata, senza denti, era un voragine
buia. Gli occhi, semi aperti, lasciavano intravedere i bulbi
oculari giallastri, ma non le pupille della donna, trattenu-
te sotto le palpebre dall’estasi del sonno.

Feci segno a Enrico e Donato di passare in fretta, ma


quando anche loro videro quello che avevo visto io, rima-
sero impietriti sul pianerottolo con le bocche spalancate.
Proseguimmo la scalata della palazzina popolare con lo
stomaco stretto fra la paura e il batticuore, e fu un sollie-
vo uscire in terrazza all’aria aperta della prima serata di
primavera. Le lenzuola stese ad asciugare sui fili di ferro
zincato svolazzavano come angeli al passare della leggera
tramontana.
Amedeo e Gigi erano saliti dall’altra scala senza intoppi
e ci avevano preceduti. Ci sporgemmo dal parapetto del
26 Amante perfetta

terrazzo per valutare la posizione della gabbia appesa al


muro, ma ci ritraemmo di colpo. Due metri sotto di noi,
c’era un omaccione in mutande e canottiera che fumava
affacciato al balcone dell’ultimo piano.
Quella sembrò la goccia. Troppe emozioni. Mentre noi
tremavamo con le vesciche pronte ad evacuare, l’uomo
fumava lentamente, assaporando ogni boccata come
fosse la prima e l’ultima della sua vita.
Aspettammo per un minuto più interminabile dello
sgocciolare di un rubinetto, la notte… ma la sigaretta del-
l’uomo non accennava ad accorciarsi.
Donato andò all’angolo di scolo dell’acqua piovana e
orinò nella grondaia, lasciando una traccia pericolosa
della nostra presenza sul marciapiede sottostante.
Dall’alto del terrazzo, vedendo il rivoletto che sbucava dal
canale di scolo, Enrico montò su tutte le furie. “Ma tu sei
proprio nato scemo”, disse a Donato, che nel frattempo
si era già ricomposto.
Scoppiammo a ridere, ma solo perché non sapevamo
cos’altro fare. Stavamo per desistere dal nostro intento e
ritirarci precipitosamente, quando il beato fumatore rien-
trò in casa, chiudendo la porta finestra dietro di sé. Ci
guardammo in silenzio cercando negli altri un segnale
qualsiasi, qualunque decisione, purché liberatoria da quel-
la tensione.
“Passami la lenza”, dissi a Enrico, facendomi coraggio
da solo. “Il cardellino, ce lo portiamo a casa con noi. Lo
dobbiamo liberare dalle grinfie di Vito.”
MLU 27

Oscillando come un pendolo, la lenza con all’estremità


il gancio a tre uncini scese sopra la gabbia. Quando gli
artigli dell’amo si agganciarono fermamente alle sbarre
della prigione in miniatura, con uno strattone la sollevai
dal chiodo a cui era appesa, e un attimo dopo l’uccello,
più sbalordito che mai, si trovò a dondolare nel vuoto con
ampie oscillazioni.
Mentre tiravo precipitosamente il filo di nylon, la gabbia
strusciava e sbatteva contro il muro, i semi e l’acqua delle
vaschette si rovesciarono e caddero nel vuoto. In pochi
secondi, tuttavia, la gabbia fu nelle nostre mani. Donato,
eccitatissimo, vi infilò la mano per afferrare il cardellino.
“Piano. Così lo stritoli”, gridai io.
“Dài, scappa, scappa!”, urlò Amedeo.
La fuga di cinque ragazzi terrorizzati giù per le scale di
una palazzina di case popolari rimbombò come la galop-
pata di una mandria di cavalli selvaggi.
Tutti gli abitanti uscirono sul pianerottolo per capire cosa
stesse accadendo, ma solo dopo che noi eravamo già passa-
ti, troppo tardi e troppo sbigottiti per cercare di fermarci.
Una signora al piano rialzato ci precedette sul pianerot-
tolo e si parò davanti a noi, gridando “Il terremoto, il ter-
remoto!”. La travolgemmo e la donna finì per terra, men-
tre noi uscivamo dal palazzo spintonandoci attraverso lo
strettissimo portone.
Riuniti a casa mia ci sentimmo al sicuro. “Da dove veni-
te, così sudati?”, ci domandò mia madre. Ma non si aspet-
tava una risposta. Era abituata alle invasioni di casa dopo
28 Amante perfetta

una partita di pallone. “Vi faccio una spremuta d’arancia.


Poi, però, pomodoro pomodoro.. ognuno a casa loro, cari
i miei signorini. Non avete compiti da fare per doma-
ni?…”
“Niente. Neanche uno”, rispose pronto Enrico.
Poi, ad un esame più approfondito, mia madre vide il
cardellino. “Cosa tieni in mano?… Ah, no! Un altro uccel-
lo?… Ma perché non le lasciate libere di volare, quelle
creature?”
Detto, fatto. Aprii la porta finestra della mia cameretta e
l’uccellino sparì terrorizzato nel crepuscolo della prima
serata.
“No!...”, urlò Enrico, cercando invano di fermarmi.
“… Avremmo potuto venderlo a mia zia.”
Seno di ponente 29

Seno di ponente
da Amante perfetta

Il narratore, un ragazzo di 15 anni, è alle prese con le prime paga-


iate in canoa, nelle acque di un porto dalle acque inquinate e tutta-
via piene di fascino.

I liquami del macello comunale rovesciavano il sangue e


gli scarti delle bestie macellate nel seno di ponente del
porto, a pochi metri dal Centro Remiero della Marina
Militare, aggiungendosi agli scarichi fognari di mezza
città. La percentuale di acqua di mare era al minimo nel
bacino naturale e aveva da anni lasciato spazio ad una
massa liquida maleodorante, densa come il petrolio.
A peggiorare la situazione contribuiva la nafta sparsa
dalle navi militari, dai rimorchiatori, dagli innumerevoli
traghetti e dagli scafi da diporto. Le chiazze di pellicola
oleosa sulla superficie del mare restituivano bagliori cro-
matici blu e verde metallico, che mi ricordavano il piu-
maggio delle gazze e dei martin pescatori.
I cefali boccheggiavano a fior d’acqua nell’eterno dilem-
ma: trovare cibo facile presso gli scarichi, rischiando il
30 Amante perfetta

soffocamento, oppure guizzare al largo nelle acque cri-


stalline e ossigenate, dragando pazientemente scogliere e
fondali di sabbia?
Bande di giovani cefali e banchi di sardine provenienti da
fuori facevano normalmente dietro front non appena fiuta-
vano la trappola letale. I vecchi cefali solitari, tuttavia, esem-
plari da un chilo e più, erano ormai immunizzati e guazza-
vano alla cieca nelle acque nere e lippose dei pontili. Le crea-
ture sfidavano anche la fiocina esperta del sig. Amaro, il fale-
gname che riparava canoe, skiff e yole danneggiati.
Imparai presto a vogare. Mi piaceva troppo, mi piaceva
tutto: il vento di tramontana contro il viso, il sale sulla
pelle, il sole, la luce, il caldo, il freddo.
Oh, quel mare! Più mi avvicinavo al passaggio della diga,
vogando sotto il ponticello, in mezzo agli scogli affioran-
ti, più l’avventura mi elettrizzava. Sbucare nelle acque
aperte e azzurre del mare di Brindisi metteva le palpita-
zioni. Un mare grande, trasparente, infinito. Sapere di
averlo a mia disposizione mi faceva sentire ricco. Cercai di
immaginare come sarebbe stato vivere lontano da quel
mare… Impensabile!
E … su un lago o lungo un fiume? Sicuramente ridutti-
vo, in un modo o nell’altro.
Quell’infinita massa d’acqua, sempre in movimento
anche quando c’è bonaccia, riesce a tenerti costantemen-
te sugli spilli. Il suo temperamento imprevedibile, il suo
tremendo vigore, la sua cangiante bellezza, mai uguale
neanche a se stessa, hanno da sempre evocato emozioni e
Seno di ponente 31

suggestioni contrapposte. Ha ispirato amore e odio, fidu-


cia e paura, desiderio di conoscere e… dolore.
I paesi che non possono godere della sua avvolgente
presenza, ne soffrono, percepiscono un vuoto d’essere
che desidererebbero colmare, risentono quella differenza
che è impossibile pareggiare.
Io, il mare, lo avevo. Era là per me, e me ne rendevo for-
temente conto, felicemente consapevole.
Il mare, come l’amore, chi può vantare di averlo, lo ha
ottenuto gratuitamente, senza produrre alcuno sforzo
particolare. Ma, come tutti i massimi doni ricevuti fin
dalla nascita, come la stessa vita, persino l’immensità del
mare può passare inosservata ed essere data per scontata.
Non amavo la calma piatta – per fortuna, una rarità nel
basso Adriatico. Controvento davo il meglio di me.
Tecnica quasi perfetta: niente beccheggi, niente rollii,
muscoli tesi, totale concentrazione. Filavo dritto come
una freccia, in gara solo con me stesso. Vogavo lungo il
molo e attraverso il Canale dell’avamporto come per
andare incontro ad una gioia impareggiabile, verso una
luce calda e accogliente, impossibile da raggiungere, se
non facendo mulinare spalle e braccia ad un ritmo altissi-
mo, e tuttavia naturale e leggero.
Il gabbiano volava silenzioso, alto sopra di me. Ma riu-
scivo a vederne gli occhi, ai quali nessun particolare può
sfuggire.
Il martin pescatore lasciava il suo nido negli anfratti
delle rocce e mi sfrecciava accanto… e presto la mia
32 Amante perfetta

canoa filava liscia e imperturbata, nell’acqua piatta un olio,


come fra le onde più insidiose. Anche la pagaia ruotava
regolare, indifferentemente nell’aria immobile, come nelle
sferzate di vento a cinque nodi. Le folate più improvvise
non riuscivano a strapparmela dalle mani, come può acca-
dere quando si è distratti da altri pensieri.
Senza alcuno sforzo mi sentivo trascinare in avanti da
una forza leggiadra che non poteva essere solo mia, ma
che doveva provenire da qualche remoto angolo dell’uni-
verso, apposta per me. Dopo mesi di allenamenti este-
nuanti, l’acido lattico cantava nei muscoli ed era diventa-
to una droga che mi procurava un senso di benessere, un
piacere sottile ed esclusivo. La fatica fisica era una dolce
tortura, un rifugio ed una purificazione dalle cose compli-
cate e incomprensibili del mondo.
Quello stato portava con sé quella sublime illuminazio-
ne in cui ogni cosa diveniva più tersa, incorrotta. Le acque
putride del porto divenivano cristalline. I pontili impre-
gnati di nafta tornavano ad odorare di legno fresco di
segheria. Ero una crisalide in un bozzolo, immersa nel
presente di una concentrazione totale.
Rientrando al tramonto, con il sole color arancio che
incendiava il cielo e ogni oggetto toccato dai suoi raggi,
ero pervaso da una sensazione di controllo che mi estasia-
va e mi faceva sentire la fatica come un vuoto totale. Con
quella calma interiore governavo ogni neurone del mio
cervello, ogni angolo della mia mente.
Sfinito e felice.
Seno di ponente 33

Tirata la canoa in secco sul pontile di legno, giacevo per


alcuni minuti accanto a lei, privo di muscoli e di pensieri.
Con gli occhi chiusi riuscivo a vedere le fronde ondeggian-
ti degli eucalipti e a scrutare il cielo del cielo più profondo.

***

La forza della fede mi fece promettere cose piuttosto


impegnative al mio allenatore, Capo Buscicchio: “Vedrà
capo che andremo fortissimo.”
Ma Italo era ancora più scettico di Buscicchio. Avevamo
fatto troppo poche uscite in K2, una barca difficilissima,
più del K4, che è molto pesante e stabile. Infinitamente
più complessa del K1, in cui, da solo, stabilisci tu le forze
e gli equilibri in gioco.
Nel K2 la sincronizzazione è tutto. Non basta avere la
stessa pagaiata. Bisogna arrivare a respirare all’unisono,
altrimenti la canoa si pianta.
“È come nella vita…”, diceva Buscicchio, “È importan-
te imparare a lavorare bene con tutti, ma con qualcuno è
necessario fondersi, fino a diventare uno.”
I giorni volavano e non importa quanto ci allenassimo,
il tempo per migliorare sembrava non bastare mai. Il gior-
no della regata, che avevamo aspettato e programmato
per mesi, arrivò comunque all’improvviso.

***
34 Amante perfetta

EQUIPAGGIO ALL’ACQUA SEI… QUESTO È L’ULTIMO


AVVERTIMENTO!INDIETRO DI UNA PUNTA, HO DETTO…
VOGATE CONTRO, RAGAZZI, O VI SQUALIFICO!

Il giudice di gara era stato fin troppo chiaro, ma noi spe-


ravamo che, date le condizioni di forte vento a raffiche e
di onda laterale accentuata, avrebbe chiuso un occhio.
Invece No. Dovevamo proprio arretrare, rischiando di
trovarci a vogare contro proprio mentre veniva dato il via.
Italo temeva soprattutto gli equipaggi di MARIREMO
Sabaudia all’acqua due e della Bissolati di Cremona, all’ac-
qua nove. Guardava nervosamente a destra e a sinistra gli
avversari più temuti, per studiare la loro posizione rispet-
to alla linea di partenza. Lui era a capovoga ed io, seduto
dietro di lui, dovevo solo riprodurre a specchio ogni suo
movimento.
Era mio compito riuscire a prevedere ogni suo gesto,
all’istante, sincronicamente, senza anticipi né ritardi.
Filavamo lisci, ma avevamo già potuto osservare che i
nostri avversari non erano da meno.
Nella settimana in cui mi ero allenato a Sabaudia avevo
visto il K2 di Chiostri e Zanin all’opera durante gli scatti.
Erano bellissimi a vedersi. Sembravano invincibili. Due
macchine perfette che davano vita ad un’unica creatura
superiore, potente e invincibile.
“No, no, no! Porco Giuda…”, mi disse Capo Buscicchio
quando glielo raccontai, “… MAI guardare cosa fanno gli
avversari, e MAI pensare neanche di striscio che sono più
Seno di ponente 35

forti di voi. Non è possibile pensare e vincere allo stesso


tempo. Chi vince non pensa. Vince e basta. Dovete monta-
re in canoa con i paraocchi, partire con i paraocchi ed arri-
vare con i paraocchi. Altrimenti vi acceco e buonanotte.
Esistete solo voi e la vostra barca. Dovete battere solo
una persona: voi stessi… e tutte le vostre seghe mentali.
Non ci sono tattiche nella cinquecento metri. È troppo
breve. Si arriva al traguardo prima di accorgersi che è fini-
ta. E tutto finisce in un minuto e mezzo. Avete un minuto
e mezzo per scappare dall’inferno.”
Una corrente favorevole di vento lambiva il centro del
campo di regata. Se non calava, avremmo potuto fruire di
quella folata a circa metà percorso, per almeno un centi-
naio di metri, proprio quando subentra la prima crisi di
affaticamento.
Ma non potevamo arrivare là in ritardo rispetto alle altre
imbarcazioni, poiché le turbolenze dell’acqua smossa
dalla loro scia avrebbero annullato quel leggero vantaggio.
Chi rimane troppo indietro dopo la partenza, più che di
arrivare al traguardo, deve preoccuparsi di restare a galla.
Specialmente io, mi sentivo il più inesperto di tutti. Ero il
più giovane, ma la perizia di Italo mi rassicurava. Ero alla
mia prima gara veramente importante.
Buscicchio aveva annunciato: “Ci saranno i tecnici fede-
rali e quelli riconoscono subito chi vale veramente. Non
farete brutta figura… non sareste qui, del resto.”
“EQUIPAGGI, SIETE PRONTI?…”, la voce dal mega-
fono ci colpì come una sberla, che avevamo appena finito
36 Amante perfetta

di arretrare, proprio mentre stavamo per fermare il moto


a ritroso del nostro K2. E, come avevo temuto, ci trovam-
mo a compiere un doppio sforzo, prima per fermare la
canoa, poi per farla ripartire.
“… VIAAAAAAA!…”
L’ordine di partenza giunse come un ululato inconsulto
emesso da un condottiero che manda allo sbaraglio i suoi
fanti contro nemici inumani. Gli avversari da sconfiggere
erano il tempo e le nostre insicurezze.
Nello sforzo immane di avviare la canoa, sia Italo che io
emettemmo un rantolo di sofferenza. La bagarre dell’avvio
fu un turbinio di pagaie, urla e schizzi che si levarono
dalla fascia di partenza, come in una festa di fontanelle e
spruzzi. Viaggiavamo come treni a vapore avvolti da una
nuvola acquea.
Trafiggendo la bruma fine, i raggi di sole si trasforma-
vano in un soffuso arcobaleno, che sciolse ogni tensione
dai muscoli, tesi fino allo spasimo nell’impazienza dell’at-
tesa. La partenza era stata pessima. Tutte le altre barche
erano come balzate in avanti, con la canoa già avviata e, ai
cinquanta metri, eravamo una barca dietro a tutti gli altri.
“Via, via, viaaa…”, gridò Italo, come era solito urlare ad
ogni partenza.
E, in un attimo, fummo immersi nella competizione.
Non sentivo né vedevo null’altro che le spalle e le braccia
del mio capovoga che mulinavano pagaiate all’impazzata.
Gli stavo dietro perfettamente sincrono, altrettanto velo-
ce, assolutamente concentrato. Ottanta colpi al minuto,
Seno di ponente 37

novanta colpi, centodieci, centotrenta. Eravamo al culmi-


ne della velocità. Ai cento metri, recuperata una posizio-
ne, Italo gridò in trionfo: “Via, via, viaaa! Abbiamo preso
il primo.”
“Troppo facile”, pensai per un attimo. Dovevano essere
novellini di un club sconosciuto, arrivati in finale per qual-
che miracolo.
Italo scese a centoventi colpi al minuto, velocità di cro-
ciera. Ai 250 metri avevamo recuperato tre posizioni e
non incrociavamo la controscia di disturbo delle cinque
canoe che ci precedevano.
Chiostri e Zanin, purtroppo, erano avanti di almeno tre
barche e sembravano irraggiungibili. L’attimo in cui li
avevo guardati per stabilirne la posizione era bastato per
notare la loro potenza, e ciò mi provocò una sorta di sco-
ramento.
Finalmente sentii la folata che avevo osservato. Ce l’ave-
vamo alle spalle e dovevamo solo sfruttarla al massimo.
Ai trecento metri la prendemmo in pieno e sembrava sof-
fiare soprattutto per noi. Così recuperammo un’altra posi-
zione, e poi un’altra ancora.
A cento metri dall’arrivo eravamo quarti, con soltanto
una barca e mezzo di ritardo sui primi. Tuttavia, ebbi l’im-
pressione che il nostro ritmo stesse impercettibilmente
calando. Sentii i primi spasmi della fatica e l’acido lattico
che stava operando una trasformazione in tutto il corpo.
La vista mi si stava appannando, le braccia stavano diven-
tando di legno. Ma reagii con un’impennata sorprendente,
38 Amante perfetta

improvvisamente memore della promessa contenuta nella


Parola di Saggezza della Chiesa: “… e correranno e non
saranno stanchi… e non verranno meno.”
“Via, via, viaaa…”. Questa volta fui io a gridare a Italo.
Il mio capovoga reagì con l’orgoglio del più anziano che
non accetta un incoraggiamento dall’ultimo arrivato, e
aumentò all’istante il ritmo fino all’inverosimile, come per
sfidarmi a stargli dietro. Centotrenta, centoquaranta colpi
al minuto. Lo sprint finale fu un crescendo esaltante.
Riacchiappammo, uno ad uno, lentamente ed inesorabil-
mente, i nostri avversari, persino l’equipaggio della
Canottieri Firenze, detentore del titolo Juniores.
Superammo la Bissolati di Cremona, data per favorita.
A cinquanta metri dall’arrivo c’era davanti a noi solo il K2
di MARIREMO Sabaudia, con appena una punta di van-
taggio, ma stavamo rosicchiando un centimetro ad ogni
pagaiata. Dalle tribune distinsi l’inconfondibile urlo di
Capo Buscicchio e gli strepitii dei nostri amici sulle tribune.
La tromba sfiatata, che con il suo ridicolo lamento
segnava l’arrivo delle barche, risuonò nell’aria tersa della
mattina per salutare il vincitore.
Avevano vinto Chiostri e Zanin di Sabaudia.
“Cazzo, cazzo, cazzo!”, soffiò fra i denti Capo
Buscicchio, mentre il suo collega, Capo Masotto, gongo-
lava di soddisfazione, sbuffando il fumo impenetrabile del
suo sigaro, che gli schermava il viso.
“Se mai avete vinto, è stato per uno sporco capello”,
proseguì Buscicchio. “Voglio vedere il photo-finish.”
Seno di ponente 39

Masotto replicò incurante: “Per vincere basta chiudere


con un solo millimetro di vantaggio…”, poi, dando una
pacca sulla spalla di Buscicchio, concluse compiaciuto:
“… E anche questa volta abbiamo vinto noi.”
Nella diecimila metri andai forte e, anche in quella gara,
arrivai secondo. Ero felice.
“Ancora una sconfitta”, disse l’allenatore. “Eccone un
altro che ha imparato a perdere prima ancora di iniziare!”
In effetti…
Perdere a cuor leggero, con quella sensazione di aver già
vinto tutto.
Avevo il mio mare.
Abissi 41

Abissi
da Amante perfetta

Il protagonista e narratore condivide le suggestioni e le immagini di


una battuta di pesca subacquea.

La secca era una vera e propria montagna sottomarina


che emanava un fascino soggiogante. Dagli abissi più bui
il suo altopiano frastagliato si protendeva verso la luce fin
quasi ad emergere. La fauna marina si muoveva al rallen-
tatore, quindi produceva guizzi improvvisi ed inspiegabi-
li, per poi tornare a vagare con indifferenza, come sospe-
sa nel vuoto.
Quell’incanto, allegro e leggero, contrastava violente-
mente con le raffiche di maestrale e i selvaggi spruzzi
d’acqua che mi sferzavano il viso. Mi trovavo fra due
mondi opposti, ma perfettamente complementari. Stupii
nel prendere atto che il prodotto di tanta contrapposizio-
ne fosse, in ogni caso, l’armonia. Solo un velo divideva la
quiete totale dalla burrasca.
Immergersi, quella mattina, equivaleva ad attraversare
un confine impalpabile, per entrare in un paese dominato
42 Amante perfetta

da un incantesimo, dove tutto diventava possibile. E le


mie emozioni mutavano di conseguenza, asservite al
gioco della natura.
Uno sciame di pesci angelo, nerissimi, penduli a mez-
z’acqua, erano intenti a degustare i bocconcini di plancton
portati dalla corrente. Davano un senso di prospettiva e
di profondità surreale e, arrivando a nuotare in mezzo a
loro, sentii di avere riconquistato il controllo del volume
e del tempo. Era una percezione speciale in quel mondo
ovattato ed infinito, simile a quella che si prova nel volo a
vela. … Pensare che, da ragazzo, era una gioia quotidiana.
Mi domando come abbia potuto rinunciarvi così a lungo.
Non provavo quella sensazione da un tempo immemora-
bile e sentii un tuffo di commozione davanti a tanta
immota bellezza – ma anche di rammarico per le mille
grazie della natura di cui non ci accorgiamo.
Mino e Filippo erano intenti a perlustrare sistematica-
mente ogni tana, qualsiasi fenditura nella roccia, alla ricer-
ca di un sarago o di un dentice. Erano a pochi metri l’uno
dall’altro, ma pareva che fra loro vi fossero ventimila
leghe di distanza, tanto erano concentrati, ognuno con la
propria area da scandagliare. Io li seguivo tenendomi arre-
trato e riaffiorando ogni trenta o quaranta secondi.
Mi resi subito conto che l’efficienza dei miei polmoni si
era ridotta ad un quarto rispetto a venti anni fa, quando
riuscivo a stare appostato dietro a uno scoglio, a venti
metri di profondità, per due minuti e più. Quel che era
peggio, mi resi conto che dovevo riemergere sempre più
Abissi 43

frequentemente, e che mi intrattenevo in superficie sem-


pre più a lungo per ventilare i polmoni e riossigenare il
sangue.
Stavo per immergermi, quando vidi Mino risalire preci-
pitosamente, come se fosse inseguito da un pescecane.
Appena giunto in superficie, si tolse il boccaglio e prese
aria.
“… È enorme… proprio qua sotto… a tre metri!”,
disse ansimando. “Speriamo che non si sia rintanata.”
Enfiati i polmoni al massimo, Mino si rimise il boccaglio
e mi fece segno di aspettare in superficie e di osservare da
lontano. Temeva che troppo movimento avrebbe spaven-
tato il pesce.
“Va bene”, pensai. “Sarò anche fuori forma, ma la tecni-
ca di avvicinamento ad una preda, me la ricordo ancora.”
Forte di quel residuo di autostima, mi immersi dietro di
lui, mantenendomi a tre o quattro metri di distanza. Mino
puntava dritto verso quella che, vista di sbieco, sembrava
appena un’incrinatura nella roccia. Avvicinandomi, però,
mi resi conto che si trattava di una spaccatura larga un
metro che tagliava la secca in due, come una torta divisa
a metà.
Mino non si affacciò subito al bordo della fenditura e si
tenne a ridosso dello scoglio, quasi strisciando sulla roccia
per non allarmare la creatura. A giudicare dalla sua eccita-
zione, doveva essere gigantesca. Pensai ad un grande
scorfano. Cos’altro poteva essere, di grosso, a soli tre
metri di profondità?
44 Amante perfetta

Quando vidi che Mino stava per sporgersi per valutare


la situazione, mi avvicinai e m’affacciai anch’io, con lo
scarto di un secondo. L’anfratto si apriva a spiovente, tal-
ché non se ne vedeva il fondo, e sembrava provenire dal
centro della terra. L’ombra gigantesca di un pesce si sta-
gliava contro il retroscena cupo cobalto dell’acqua. La
bestia era rivolta con il testone enorme verso la superfi-
cie, immobile, sventagliando le pinne ventrali e laterali.
Era a bocca aperta, a candela, come fosse in preghiera.
Pareva incuriosita dall’incanto di luce celeste proveniente
dalla superficie. Forse aveva lasciato temporaneamente il
buio dei cinquanta metri proprio per concedersi un diver-
sivo, per vivere un’altra vita.
Mino aveva fatto bene i suoi conti e si era portato a
poco più di un metro sotto il pesce, e alle sue spalle, cosic-
ché quello non poteva vederlo.
A quel punto, mi accorsi che i miei polmoni stavano per
esplodere. Mentre risalivo sentii guizzare l’asta sottile del
Ministen con il suo tridente di zinco, del tutto inadeguato
per un pesce di quella mole. Voltatomi a guardare, vidi le
pinne di Mino sporgere dalla spaccatura e dimenarsi in
modo frenetico. Ma dovevo riguadagnare la superficie.
Non appena ebbi ripreso aria, vidi il mio amico risalire
precipitosamente… a mani vuote: “L’ho presa! Una cer-
nia… L’ho centrata alla testa!”, ansimò.
Quindi, nuotò verso il gommone e ne estrasse il fucile
di riserva, dotato di un arpione ad elastico, lungo e molto
potente.
Abissi 45

“Ho assicurato l’arpione alla roccia”, gridò Mino conci-


tato. “Se la cernia non si è portata via tutto in profondità,
adesso la finisco con l’arpione.”
Ci aveva già pensato Filippo. Il pesce, con due aste d’ac-
ciaio conficcate una in testa, l’altra proprio sotto la bran-
chia, si dimenava furiosamente, mostrando un guizzo ed
una forza insospettabili. Ma non faceva che squarciare e
lacerare ancor più le paurose ferite, accrescendo la sua
agonia. La creatura si ribellava, non era pronta a morire, e
i suoi occhi grandi e sbarrati rivelavano una consapevo-
lezza dell’irreparabile che frustò tutti i miei sensi e mi fece
sentire un ladro che si è impossessato di un bene troppo
grande – tanto grande che è impossibile spenderlo. Il
massimo che si poteva ottenere da quel ratto di violenza
inaudita, in fondo, non era che una cena in allegra com-
pagnia condita con una infinità di elogi sull’abilità dei
pescatori. Se qualche attimo prima avessi saputo che la
creatura sarebbe stata così cosciente e contrariata a mori-
re, forse avrei potuto fare qualcosa per salvarla… potevo
spaventarla… indurla a rintanarsi.
La foto che scattammo in spiaggia immortalò un
momento leggendario. Mino e Filippo tenevano la cernia
per le branchie come due vittoriose divinità marine che
avevano riscattato l’oceano. Il pesce pesava quasi quindi-
ci chili, sebbene in acqua sembrasse grosso quanto noi,
per effetto della rifrazione.
Non mi consolò il fatto di aver avuto una parte poco
attiva nella battuta di pesca, e pensai che avrei continuato
46 Amante perfetta

con le immersioni, magari senza tenere un arpione nelle


mani.
I sensi di colpa, tuttavia, devono essermi passati abba-
stanza presto. Presi parte alla cena e la carne del pesce era
squisita. Con abilità chirurgica la mia mente aveva già
rimosso le terribili immagini del sacrificio della vita.
Nord 47

Nord
da Anime allo specchio

Una battuta di caccia all’alce in Svezia.

L’ultima breve nevicata aveva depositato sul lago ghiac-


ciato un mantello di scaglie di cristallo che amplificavano
la fioca luce del mattino e aggiungevano vigore al crepu-
scolo del Norrland. Il manto di neve penetrava fin dentro
alla parte più cupa della foresta, là dove gli alci trovano
rifugio nelle notti gelide e l’unico nutrimento disponibile
lo offrono le cortecce di betulle e di giovani abeti.
A quelle latitudini il sole di marzo è un disco rosso che
appare dopo mezzogiorno e non si separa volentieri dalla
linea dell’orizzonte. Si affaccia pigramente per poche ore,
solo per controllare che tutto sia in ordine nel suo domi-
nio innevato, prima di tornare a nascondersi.
Il vecchio alce era irrequieto. Aveva imparato che il
lezzo del gasolio bruciato non portava mai nulla di buono
e annusava l’aria con il collo proteso verso la cima degli
alberi per individuare la provenienza della minaccia. Il suo
castello di corna seguiva i movimenti del capo come la
cima degli alberi asseconda il vento.
48 Anime allo specchio

L’animale non aveva paura della morte, ma sentiva l’obbli-


go di preservare la vita. La cosa più insopportabile era il
tonfo assordante della fucilata che, squarciando l’aria, pro-
curava quel dolore lancinante ai timpani, abituati alla quiete
più totale. Bisognava evitare quel fragore a qualsiasi costo.
Le quattro femmine e i due puledri del branco avvertiro-
no il suo nervosismo e smisero di scorticare gli alberi della
macchia, gli si avvicinarono e attesero una sua decisione.
Per molti anni lo avevano seguito fiduciosi ed il suo istin-
to li aveva tenuti distanti dalle temibili esplosioni e dal-
l’odore acre della polvere da sparo.
La calma della radura fu turbata dal ronzio delle quattro
ruote motrici della Land Rover. Il fuoristrada avanzava
lentissimo fra gli alberi, trainando un carrello a rimorchio
che sobbalzava vuoto come un tamburo sopra ogni irre-
golarità del terreno. I battitori avevano già raggiunto il
versante opposto della collina su un’altra jeep, e si appre-
stavano a dare il via alla caccia. Ulf avrebbe dovuto esse-
re fra loro, insieme a Johan, un ragazzone soprappeso,
sempre allegro, che aspettava l’amico come si aspetta la
primavera dopo un inverno glaciale.
I due si incontravano una volta all’anno, per pochi gior-
ni, quando Ulf arrivava a asele per il compleanno di nonna
Barbro. I ragazzi passavano insieme tutto il tempo a pesca-
re e discorrere, e Johan si era deciso a lasciare il desolato
nord della Svezia per andare a lavorare a sud, nella cartie-
ra di Lilla Edet. Ulf gli aveva promesso che lo avrebbe
ospitato finché non avesse trovato una sistemazione.
Nord 49

Il giovane, sempre intento a masticare merendine al


cioccolato, aveva preso parte alla battuta per non separar-
si dal suo amico. Siccome uno dei tiratori era venuto
meno all’appuntamento a causa di un’influenza, Markus,
lo zio materno di Ulf, gli aveva proposto di sostituirlo,
offrendogli un privilegio riservato solo agli uomini più sti-
mati. Nell’abitacolo del fuoristrada la voce tuonante del
fratello di sua madre impartiva suggerimenti agli altri due
componenti della squadra.
“Solo un colpo in canna”, aveva già ripetuto più volte.
“Soltanto un tiro.”
Ulf si rese conto che quelle raccomandazioni erano
rivolte a lui, in quanto Olof, l’altro cacciatore, sembrava
un veterano.
Il giovane trovava la gente del Norrland autentica, sem-
plicemente ammirevole. Non vi erano chiacchiere fra
loro, né preamboli o spiegazioni in qualsiasi discussione.
Nessuno degli interlocutori doveva scervellarsi, o mano-
vrare per ricavarne un vantaggio. Si poteva parlare con
totale sincerità, senza il minimo timore che qualcuno si
sarebbe risentito, come se ognuno partisse da una posi-
zione rispettabile. Le dichiarazioni di chiunque venivano
accolte con la tolleranza riservata ad un fratello amato.
L’amore degli abitanti del Norrland per la natura era
fuori discussione, un fatto proverbiale. La loro conoscen-
za di ogni albero, di ogni cespuglio, della vita e del com-
portamento di ogni singola creatura che abitava quella
foresta incommensurabile avrebbe fatto sentire ignorante
50 Anime allo specchio

un insegnante di scienze naturali. Eppure, quelle stesse


persone erano là, quella mattina, per braccare e uccidere.
Ulf, per quanto si sforzasse, non riusciva a spiegarsi una
tale contraddizione. Lo zio Markus gli aveva detto al pro-
posito: “Ti assicuro che un motivo per cacciare c’è… un
motivo profondo che gli abitanti della città non potrebbe-
ro mai comprendere. Sono certo che anche loro cacciano
come noi, sebbene non usino il fucile.”
Ulf, da genuino amante della natura, aveva seguito il
corso di caccia a Uddevalla e aveva anche superato age-
volmente le prove di tiro, sebbene tenere fra le mani un
fucile lo infastidisse e considerasse la sua macchina foto-
grafica reflex uno strumento più adeguato per catturare
animali. Il corso si era rivelato un’occasione unica per stu-
diare le abitudini della selvaggina scandinava.
Fino al momento della partenza, il giovane era stato
incerto se accompagnare Markus, oppure andare a pesca
con Johan. Alla fine aveva prevalso la sua curiosità, e
aveva deciso di vivere una nuova esperienza.
Stava per arrampicarsi sull’impalcatura posta su un abete,
quando Markus cercò di prevenire in lui il senso di colpa:
“Solo un colpo in canna, Ulf. Se l’animale viene ferito, libe-
riamo i cani e lo bracchiamo. Se lo manchiamo, torniamo a
asele col traino vuoto. Mi sembra sportivo, dopotutto.”
“Sarebbe sportivo se anche l’alce avesse un fucile e ci
potesse sparare addosso”, replicò Ulf.
“Ma sono diventati troppi e vanno abbattuti.
Distruggono le foreste, e i primi alberi a morire sono i più
Nord 51

giovani, quelli con la corteccia più tenera. Quest’anno


dobbiamo rimboschire sei ettari di foresta della nonna.
Dovremo lavorare tutta la primavera.”
Ulf non volle commentare e si arrampicò sulla sua
postazione, mentre Markus e l’altro tiratore presero posto
ciascuno fra i rami di due splendidi abeti di settanta anni,
diritti come due colonne e pronti per la segheria. Dal suo
punto di osservazione Ulf poteva controllare quasi tutta
la radura.
La seconda squadra, quella dei battitori, si teneva sopra-
vento, a cinque o sei chilometri di distanza da loro. Gli
uomini stavano facendo un buon lavoro, nonostante
Johan tendesse ad andare un po’ più veloce e si tenesse
troppo spostato sull’estrema ala destra della linea di avan-
zamento. Disposti a ventaglio in un ampio semicerchio, gli
uomini sospingevano la famiglia di alci battendo il terreno
con rami secchi, aiutati dal latrare dei cani. L’usta muschia-
ta delle feci, ancora fumanti sul terreno gelato, rendeva i
segugi letteralmente folli. Le bestie avrebbero voluto libe-
rarsi dai robusti guinzagli di cuoio che le trattenevano.
Dalla sua pedana sopraelevata, Ulf caricò il fucile con un
proiettile che gli sembrò esageratamente grande e pesante,
tolse la sicura e attese. Pensava che la possibilità di spara-
re fosse remotissima. Markus era rientrato a mani vuote
innumerevoli volte e, anche quando la caccia era andata a
buon fine, spesso era stato qualche altro cacciatore a met-
tere a segno il colpo. Lo zio aveva abbattuto solo una deci-
na di alci in molti anni di caccia e aveva sempre fatto
52 Anime allo specchio

pervenire alla sorella Elin un quarto posteriore della bestia


perché ne facesse degli squisiti stufati con crema di funghi
gallinacci. Markus aveva confessato a Ulf che non aveva
mai trovato piacevole abbattere quegli animali così miti.
“Ho sempre avuto l’impressione di sparare a delle muc-
che indifese. Il lavoro terribile inizia dopo l’abbattimento
delle bestie: sono troppo grosse e pesanti per caricarle di
peso sul traino, e occorre macellarle sul posto. Si lavora
per ore con asce e stiletti, e si abbandonano le interiora
nel bosco, fino a scivolare e a sguazzarci dentro. Il fetore
dei liquami è insopportabile e fa passare la voglia di man-
giare quella carne.”
Il vecchio alce stava guidando il suo harem al trotto velo-
ce, sfuggendo dai battitori. In passato, era sempre riuscito
a tenersi fuori dalla vista e dal tiro dei fucili, allontanando-
si dai cani in un percorso trasversale, che gli aveva permes-
so di evitare l’accerchiamento. Quella mattina non fece
altrettanto, e decise di lasciarsi dietro i cacciatori puntando
diritto nella direzione opposta.
Ulf si rese conto che i guaiti dei segugi erano divenuti
tanto vicini che nessuna preda poteva essere rimasta
intrappolata fra loro e la squadra dei battitori. Stava per
abbandonare la sua postazione quando, a soli trenta metri
da lui, qualcosa cominciò a frusciare nella macchia.
Incredibilmente, più maestoso di un re, gli si parò davanti
il maschio, una bestia imponente che superava i mille chili,
con corna così ampie e alte da confondersi con i rami degli
alberi. Un cavallo sarebbe sembrato un puledro al con-
Nord 53

fronto. Poco dietro di lui, le ombre degli altri membri del


branco, più piccoli e privi di corna, si agitavano inquiete
fra le frasche.
Il capo branco si fermò sul ciglio della radura per annu-
sare l’aria. Gli sbuffi di vapore che soffiava creavano
intorno alla sua testa una candida nebbiolina. L’animale
era incerto se attraversare la radura allo scoperto o sgu-
sciare per un’altra via di fuga, al riparo della selva.
Istintivamente, Ulf puntò il fucile e lo inquadrò nel
mirino. La distanza era ideale per piazzare il proiettile sul
fianco dell’animale, dieci centimetri sopra l’articolazione
della zampa anteriore, per centrare in pieno il suo cuore
pulsante.
La creatura, tanto immensa quanto sconcertata, sostò nel
mirino di Ulf per cinque, sei, sette interminabili secondi,
poi il ragazzo puntò il fucile verso il cielo e fece tuonare la
canna in modo inoffensivo, sparando in alto. L’animale,
atterrito dal boato, trascinò i suoi protetti al galoppo, attra-
versando la radura e dirigendosi proprio verso Markus e
Olof, fino a sfilare a pochi passi da loro.
“No!”, soffiò Ulf fra i denti. “Non in quella direzione.”
Seguirono altri tre spari e solo un proiettile mancò il suo
bersaglio per andare a vagare nella foresta. Ulf ne fu irri-
tato. Gli spari avrebbero dovuto essere solo due, uno per
cacciatore, secondo i patti. Qualcuno aveva barato.
Il gigantesco maschio stramazzò al suolo colpito in
pieno sterno, mentre una delle femmine, lasciata sul ter-
reno una zampa anteriore, claudicava miserevolmente
54 Anime allo specchio

verso il punto della macchia dove si erano messi in salvo


i membri più fortunati del branco. Il suo puledro non
osava allontanarsi da lei e la seguiva sgomento, belando e
mugghiando. Madre e figlio erano a pochi metri dalla
selva, quando alle loro spalle, apparvero i battitori, che
sguinzagliarono i cani, divenuti incontenibili. Le prede
vennero presto raggiunte e aggredite dalle fauci implaca-
bili di quattro segugi.
La madre scalciava con i tre arti rimasti, e crollò impo-
tente a ventre in giù, in balia delle zanne canine che con
furia cieca le laceravano il collo, il muso e le zampe.
Il colpo di grazia di Markus pose fine alle sue sofferen-
ze, mentre Olof, in preda ad uno scatto di pura animalità,
piazzò un proiettile a bruciapelo nella nuca del puledro, il
quale stramazzò al suolo, floscio come un peluche di
pezza. Come nell’epilogo di un rito sacrificale, una volta
versato il sangue dovuto, sulla radura calò un silenzio mor-
tale, e nessuno gioiva di quel pieno successo venatorio.
Ma dal folto della foresta, in quella quiete fatale, si
distinse un soffiare ed un frignare soffocato, accompa-
gnato da grida imploranti che avevano ben poco di
umano. Ulf era ancora sull’albero e vide tiratori e battito-
ri correre concitati verso quel tratto di macchia.
Gli uomini si trovarono davanti ad una scena impietosa.
Un ragazzo giaceva per terra raggomitolato su se stesso e
strillava come un maialino sgozzato. Era stato colpito da
un proiettile vagante e cercava di arginare con le mani il
fiotto di sangue che sprizzava dall’inguine.
Nord 55

Quando Ulf li raggiunse, rimase per un attimo incredu-


lo davanti a quella scena inumana. Poi si precipitò sull’uo-
mo ferito e si rese conto che era Johan.
Mentre il ragazzo annaspava per il dolore, Markus gli
sfilò i pantaloni per constatare l’entità della ferita e cerca-
re di chiuderla. Johan si dimenava come un neonato
capriccioso e vomitava. La cioccolata liquefatta che spu-
tava gli imbrattava il viso, privandolo di ogni residuo di
dignità umana.
Il proiettile era penetrato all’altezza del rene, gli aveva
frantumato il bacino ed era fuoriuscito dal sottocoscia,
recidendo di netto l’arteria iliaca. Il sangue sgorgava a
fontana ad una pressione tale da sembrare un idrante.
Non fu possibile tamponare la violenta emorragia e Johan
spirò dopo pochi minuti con il cuore che pompava a
vuoto, privato di ogni goccia del suo sangue. Senza chiu-
dersi, i suoi occhi si appannarono nell’ultimo soffio di
vita. Sbarrati in una smorfia di incredulità, due pupille
lucide salutarono per l’ultima volta Ulf, un amico che
veniva da lontano, ogni anno in primavera.
La polizia archiviò l’accaduto come un deplorevole inci-
dente di caccia, senza essere in grado di individuare un
colpevole. L’ispettore capo aveva scritto nel rapporto che
Johan si era fatalmente trovato nel luogo sbagliato al
momento sbagliato. Ulf invece era convinto che un
responsabile vi fosse, eccome. Dopo aver sparato in aria
il suo colpo, aveva distinto altri tre spari in successione e
i tiratori erano solo Markus e Olof. Uno dei due aveva
56 Anime allo specchio

esploso due proiettili invece di uno, e Ulf sapeva che non


poteva essere stato Markus. Un uomo aveva cercato di
barare con la Natura, e quella aveva ristabilito l’equilibrio
richiedendo una vita umana.
Dopo l’angosciosa cerimonia funebre, il giovane rientrò
a Lilla Edet, spento ed esausto. Non vi sarebbe stato più
nulla da festeggiare in quel luogo, mai più, dopo quell’in-
cidente.
La scomparsa di Johan lo fece piombare in un periodo
di desiderata solitudine. Gli capitava di piangere senza
lacrime agli occhi ma, nonostante il suo dolore, non si
sentì tradito dalla vita, e non cercò impossibili spiegazio-
ni a quella violenta dipartita. Al contrario, provò ancora
più forte il desiderio di contrastare la morte… vivendo
intensamente ogni sua giornata, come se fosse l’ultima del
mondo.
Il miglior tributo da offrire al suo amico Johan era pro-
prio quello: vivere per amore, solo per amore.
Sentinelle 57

Sentinelle
da Anime allo specchio

Storia di un bacio.

Sul volto del ragazzo sbocciò un’espressione felina. Con


il riflesso rapace del gatto che afferra un topolino sbuca-
to dal nulla, la avvicinò a sé e la baciò sulla bocca.
Finirono immersi in una profondità sconosciuta ad
entrambi. Il tempo si fermò e tutto il mondo fisico si
manteneva in subacqueo sottofondo, dando l’impressione
di girare al rallentatore, rispettoso della forza universale
che si era appena messa in moto. Pareva che le energie
della natura si fossero date appuntamento in quell’angolo
remoto di Svezia.
Rimasero attaccati per un minuto che non voleva finire,
in un abbraccio potente, carico di istintiva passione. Il
nuovo sapore dell’amore arrivò come un sussulto mai
provato.
Il profumo di Ulf, il caldo morbido delle sue labbra, la
pressione del suo abbraccio esprimevano una forza
mascolina e selvaggia che ad Aster parve di riconoscere.
58 Anime allo specchio

Era un’essenza dolce e antica, incisa nelle sue narici al


momento della nascita, o ancora prima. La ragazza sentiva
pulsare il cuore di lui sotto la camicia di cotone bianca e sen-
tiva la sua eccitazione formicolare impazzita. Sentì che lui
era consapevole di ogni minimo movimento di lei, di ogni
nuova percezione. Mentre la baciava, lui la guardava negli
occhi, come per cercare l’immagine riflessa di se stesso, in
una sorta di vigile abbandono.
Aster intuì la disputa che aveva luogo nella mente di lui.
Ragione chiedeva al ragazzo di prendere le distanze.
Passione, sicuramente più forte, lo teneva incollato al
frutto dolcissimo, dal denso sapore di eccitazione, che lei
gli offriva.
Poi, la maschera di quotidiana normalità scivolò via dal
suo viso, il sipario verde dei suoi occhi si abbassò, rivelan-
do lo spettacolo nascosto della sua anima in tutto il suo
totale abbandono. L’emozione d’amore trascinò Ulf
come il torrente in piena, in cui ogni tentativo di control-
lo da parte del nuotatore viene reso vano, e lo fa dispera-
re di essere preso in una risacca per una improbabile
distrazione dei flutti.
Anche Aster sentiva addosso l’arrendevolezza, che ren-
deva così irresistibile la sua indole femminea. Era final-
mente nelle braccia del suo uomo ed un maremoto di
scosse la consegnò al trasporto dei ribollimenti di lui.
Come se la dolcezza del ragazzo – tutta cerebrale – si
fosse trasformata di colpo in una foga inesplorata, asso-
lutamente animale.
Sentinelle 59

All’improvviso gli occhi di Ulf si riaprirono, riacquistan-


do un residuo infinitesimale di consapevolezza. Il giovane
era stravolto per l’accaduto e con un senso di debolezza
nelle ginocchia, riuscì a dirle in un filo di voce:
“Aster … non è possibile. Come è potuto accadere?”
“Ma che domande fai?”, rispose irritata la giovanissima
donna.
Aster dovette ricorrere a tutta la sua pazienza, e tacque,
scotendo la testa in segno di rimprovero.
Una domanda così sciocca non meritava una risposta.
Lei sapeva perché era accaduto. La vita stessa lo aveva scol-
pito nella loro volontà. Era un sapere automatico, che
veniva loro dai cromosomi.
Con sentimenti di trionfo, pensò: “Non immaginava che
sarebbe accaduto? Ma come fanno i ragazzi ad essere così
tonti?”
Poco prima di lasciare la festa, gli porse il suo regalo.
Aveva riflettuto a lungo sul dono da fargli e non poteva
essere un qualsiasi oggetto inerte, avrebbe dovuto ricor-
dargli di lei. Se avesse potuto, gli si sarebbe donata perso-
nalmente, per sempre sua.
Quando Ulf allungò le mani sul grosso pacco incartato,
lei lo mise in guardia: “Attento! È fragile. Lascialo poggiare sul
tavolo mentre lo apri.”
“È pesantissimo! Cosa può essere… No! … Un pesce
rosso?”
Rientrando a casa, la mente di Aster era rivolta ad Ulf, il
suo grande amore.
60 Anime allo specchio

Come descrivere un grande amore? È possibile? Come


tradurre in parole quei momenti, i pensieri, l’eccitazione
di un cuore in sommovimento? È necessario? Lui le aveva
saputo procurare tanta gioia, tanta sofferenza, tanta sor-
prendente commozione.
E, in ogni modo, al di là delle loro passioni, la Natura
continuava a svolgere il suo compito distrattamente,
senza mostrare il minimo interesse per le loro pene, o per
le loro gioie.
La sera si era già liberata dall’orizzonte e correva veloce
sul paesaggio, inseguendo le ombre sempre più lunghe
degli alberi.
Le betulle nel prato facevano da sentinelle e l’aria si
mosse, finalmente, annunciando l’estate con un soffio di
vento.
Vento di mare.
Incontri 61

Incontri
da Anime allo specchio

Ulf Norlin, protagonista dell’episodio insieme al suo giovane amico


Esmus, fa un incontro davvero imprevedibile mentre è fuori nei
boschi del Sud di Svezia. Un imprevisto appuntamento con l’amore.

Il ragazzo sognava l’America e le sue fantasie sugli Stati


Uniti si stavano trasformando in progetti. Accarezzava la
possibilità di suonare in una prestigiosa band o di intra-
prendere una carriera come compositore. I suoi arrangia-
menti erano movimentati, a volte geniali. Un evento inat-
teso però – e soprattutto le decisioni che prese – sconvol-
sero i suoi piani.
Ulf era un patito del trekking ed Esmus lo seguiva nelle
sue escursioni ogni volta che poteva. Il loro percorso
favorito era una pista che correva non distante dalla costa,
attraverso colline dalle curve dolci, di granito rosa antico,
levigate da antiche glaciazioni. Queste si allungavano fino
alla linea costiera e costituivano una muraglia naturale
contro l’irruenza del mare.
62 Anime allo specchio

Quel fine settimana si presentava particolarmente adat-


to per una fuga vertiginosa nei boschi. I Lundell, infatti,
avevano deciso di concedersi due giorni di shopping a
Kiel e avevano prenotato i posti sul traghetto che fa la
spola fra Göteborg e la cittadina tedesca. In loro assenza
i ragazzi avrebbero potuto star fuori due giorni interi.
Quel venerdì notte di mezza estate era invitante, il can-
dore morbido del crepuscolo nordico promettente.
Quando Ulf passò a prenderlo, Esmus era già pronto con
il sacco a pelo e le razioni liofilizzate, eccitato come un
bambino davanti ad un pacco regalo. Avrebbero final-
mente collaudato il nuovo arco che il Dr Lundell aveva
regalato a Ulf, uno strumento preciso di squisita fattura.
Il bosco era il luogo ideale per annotare la traiettoria delle
frecce.
Anche la macchina fotografica faceva parte dell’equi-
paggiamento. Forse avrebbero incontrato una famiglia di
alci o un capriolo. Il pensiero di poterli fotografare, appo-
stati fra le frasche, li elettrizzava. La foto di una famiglia
di ciuffolotti ritratti in un cespuglio innevato di rosa cani-
na era stata esposta ad una mostra fotografica. La targhet-
ta appiccicata al suo capolavoro spiegava:

Famiglia di ciuffolotti, fringillidi stanziali,


fotografati da Ulf Norlin, Lilla Edet, inverno 1980

Mentre i due si preparavano per uscire, Aster assunse


un’espressione sconsolata. Non era solo dispiaciuta, era
Incontri 63

preoccupata e insolitamente taciturna, come se avesse


percepito un sinistro avvertimento. Li guardò uscire di
casa e li seguì con lo sguardo finché si dileguarono nella
penombra. Si annunciava una gloriosa giornata di sole, ma
lei provò un inspiegabile brivido di freddo.
Esmus e Ulf raggiunsero il limitare del bosco in pochi
minuti, percorrendo il sentiero che per un tratto segue un
ruscello di acqua frizzante. Il percorso di terra battuta si
chiudeva cingendo ad anello il laghetto di Bjursjön e, sic-
come era ancora troppo buio per addentrarsi nel bosco,
prepararono un caffè. Lo consumarono seduti su una tra-
versina di granito ricavata dalla roccia, con mazza e scal-
pello, dagli operai delle ferrovie. Forse l’aveva tagliata pro-
prio il nonno di Esmus. Tanti anni prima il buon uomo si
era spaccato la schiena nella costruzione del tronco ferro-
viario Göteborg – Oslo. Un lavoro massacrante, parago-
nabile a quello degli schiavi egizi. Nonno Kurt era stato
una grande persona, un benefattore per tutti. Fra stenti e
sacrifici era riuscito a mandare il figlio all’università di
Uppsala e a farlo laureare in medicina.
Prima di tuffarsi nella selva i ragazzi sentirono il profu-
mo dell’aria muschiata che veniva loro incontro dal bosco.
Per l’eccitazione Esmus provò l’impulso di compiere un
piccolo rituale fisiologico. – “Aspetta. Ho un bisogno urgente”,
disse, con un timido sorriso che domandava indulgenza.
Ulf pensò che avrebbe potuto fargli compagnia, e stette-
ro in piedi un minuto con le facce rivolte verso punti car-
dinali diversi. Istintivamente marcarono l’habitat del quale
64 Anime allo specchio

erano gelosi guardiani, un bisogno–dovere per farsi rico-


noscere dalle creature che lo popolavano come due mem-
bri di una specie amica. Il preliminare li fece sentire solle-
vati, pronti per l’avventura.
Scivolavano fra gli alberi in silenzio, con una cautela che
aveva del religioso. Avevano imparato a non turbare l’ar-
monia degli spiriti silvestri, e si sentivano creature selvati-
che fra i tanti animali. I loro piedi non smuovevano il tap-
peto di foglie umide, né calpestavano i cespugli. Non un
suono usciva dalla loro bocca. I loro sguardi si incontra-
vano silenziosi, perfettamente complici sul sentiero da
imboccare. Ulf indicava un punto sulla mappa. Esmus
annuiva, strizzando un occhio.
Nella tarda mattinata furono messi in allarme da rumo-
ri inconsueti. L’interferenza divenne più distinta allorché
superarono lo sbarramento di una chiusa, lasciandosi alle
spalle lo scroscio dell’acqua limpida e gelida. Percepirono
un vociare inarticolato in avvicinamento in una lingua
indistinguibile, musicale ed esplosiva. Il binocolo di Ulf
rivelò un gruppo di sei persone che vagavano in branco in
modo scoordinato. Erano amici o nemici? Non visti, li
studiarono.
L’avvenimento era davvero insolito e la situazione trop-
po intrigante per procedere come se niente fosse, e li
seguirono a distanza per circa un quarto d’ora. Il loro
aspetto, leggermente buffo, rivelava che dovevano essere
innocui. Così, decisero di andar loro incontro, evitando di
sorprenderli alle spalle. Indovinando la loro direzione, li
Incontri 65

anticiparono in cima ad una collina semispoglia e si rese-


ro visibili a distanza. Li salutarono da lontano a viso aper-
to alzando una mano e tenendola puntata verso il cielo,
come fanno gli indiani.
Era un gruppo di escursionisti italiani. Ulf ed Esmus
furono colpiti dall’equipaggiamento all’Indiana Jones e
dall’eleganza casual che i forestieri riuscivano a sfoggiare
nel mezzo di una macchia solitaria ed anonima. Sarebbero
stati attori perfetti in uno spot della Paris-Dakar.
Sembravano provenire da un altro tempo. Ciascun mem-
bro della compagnia era così caratterizzato da dare l’im-
pressione di appartenere ad una specie diversa dagli altri.
Sembravano disegnati da una Mano superiore apposta per
stare insieme così assortiti. Uno sbuffava esausto, un altro
taceva inespressivo, uno era sbigottito, l’altro impaurito.
Tiro con l’arco 67

Tiro con l’arco


da Anime allo specchio

L’innamoramento coglie di sorpresa i due giovani. Lui svedese, lei


italiana.

La persona che Ulf intravedeva in Elisa, la più alta delle


due ragazze che avevano preparato la cena, gli ispirava
soggezione. I suoi modi raffinati erano in aperto contra-
sto con l’impressione ciarliera che gli aveva fatto il resto
della compagnia.
Matteo, il fratello di Ezio, chiese - “Se ci perdessimo nel
bosco, quanto tempo riusciremmo a resistere senza cibo?”.
Ezio rispose con una battuta: - “Mesi e mesi… ma pochi
giorni senza la nostra pasta. Non so cosa darei per un piatto di
penne all’arrabbiata.”
“Adesso, però, facciamo una scorpacciata di pesce.
Appena a casa racconterò a Lidia che ho pescato una
trota di cinque chili.”
“Ma trote così grosse non esistono. Non crederà mai ad
una balla del genere.”
“Mi crederà, mi crederà. … Mi vuole bene.”
68 Anime allo specchio

I pesci di quei laghi sono notoriamente sprovveduti, del


tutto impreparati ad essere braccati. Di conseguenza, ave-
vano a disposizione molto più pesce di quanto avrebbero
potuto mangiare.
Ulf si rese conto che tutti gli italiani avevano fatto a gara
per presentarsi, tranne Elisa. La ragazza era stata l’unica a
non farsi avanti e faceva di tutto per tenersi in disparte.
Ulf le era piaciuto subito e temeva di non essere capace
di sostenere la cordialità di facciata come se niente fosse.
Fu proprio la sua esagerata indifferenza ad incuriosire
Ulf, cosicché fu lui ad andarle incontro.
Si erano ispezionati a distanza, e i lampi degli occhi ave-
vano già centrato il bersaglio. Fra loro iniziò quella dispu-
ta fra sguardi sfuggenti che lasciavano a entrambi il dub-
bio eccitante di una reciproca attrazione. Ulf si sentiva
osservato da lei, ma non appena volgeva lo sguardo per
accertarsene, gli occhi di Elisa si dileguavano come per
inseguire una saetta di passaggio.
“Occhi di scoiattolo”, pensò lui. Quando l’incertezza divenne
insostenibile, decise di mettersi in agguato, come la lince
aspetta il capriolo. Avrebbe aspettato il riflesso dei suoi
occhi al varco. Il ragazzo pensò fra sé e sé - “Se entro dieci
secondi quel luccichio mi colpisce ancora, … vuol dire che è vero. …
Ma … è vero cosa?”.
Proprio mentre faceva quei pensieri lei si volse verso di lui,
lo guardò e … incontrò i suoi occhi accesi. Elisa si rese
conto di essere stata colta in flagrante e arrossì. Ma questa
volta non si eclissò. Sostenne il suo sguardo e … gli sorrise.
Tiro con l’arco 69

“Presa al volo!”, pensò Ulf, “E’ vero!”


Che scossa, che emozione d’amore! Cosa stava accaden-
do? Risposta semplice. Era uno di quegli incontri che
hanno del miracoloso, che scatenano quell’immediata,
intensa emozione di affinità, inspiegabilmente, contro ogni
logica. Elisa e Ulf si scelsero prima ancora di presentarsi.
Dopo aver scoperto quegli occhi, il resto del clan perse
ogni significato. Elisa diventò là, e in quel momento, il
Nord magnetico verso cui l’ago della sua bussola interio-
re puntava deciso.
Ulf era in piedi, vicino ad Elisa, che non lo perdeva un
attimo dalla sua portata, mentre Laura cercava ogni prete-
sto possibile per attaccare discorso con lui. Il ragazzo
trovò naturale porgere il suo bicchiere ad Elisa, con la
gentilezza che un cavaliere deve alla sua castellana.
Laura non seppe reprimere un moto di invidia ed escla-
mò: “Ma che quadretto romantico!”
Elisa arrossì e volse lo sguardo altrove, sperando che Ulf
non avesse colto il messaggio. Vana speranza. Pur senza
conoscere una sola parola di italiano, Ulf afferrò il senso
del commento, ma diradò la tensione, rincarando la dose.
Porse ad Elisa anche la ciotola piena di frutti di bosco.
La giovane donna allungò la mano sul recipiente di allu-
minio, indugiando. Le sue dita lunghe e delicate sembra-
vano di porcellana. Le tenne sospese per un attimo, poi,
con uno scatto, colse una fragolina selvatica, color rosso
porpora. Mentre la lambiva con la lingua, le scappò sopra-
pensiero di guardare Ulf negli occhi e il giovane volle
70 Anime allo specchio

cogliere un’intensità nel suo sguardo che lo mise in imba-


razzo.
In quel momento si avvicinò Esmus: “Ho promesso a
Laura che le insegnerò a tirare con l’arco.”
“Non sbagli mai. Tu monta l’arco. Io prendo le frecce e
i bersagli che abbiamo preparato.”
Esmus dispose tutto il necessario in pochi minuti e fece
da istruttore per gli italiani.
“Prima di tutto osservate come tiriamo io e Ulf. Il segre-
to è stare eretti, ma rilassati. Questa è la posizione delle
gambe. Bisogna respirare a fondo, con l’addome, e soste-
nere il respiro prima di scoccare la freccia. Braccia e
corpo non devono essere in tensione. Il lavoro devono
farlo le mani.”
A venti passi dal bersaglio fu vicino a fare centro e Ulf
si complimentò con lui.
“Quando si inizia così, vuol dire che si è in sintonia con
il proprio corpo… Dico bene Ulf ?”
Ulf rispose al suo più giovane amico con un sorriso di
approvazione. Il ragazzo ripeteva per filo e per segno tutte
le cose che gli aveva insegnato. Dava istruzioni usando le
stesse parole di Ulf.
Le nuove frecce di alluminio viaggiavano invisibili,
erano leggerissime, ma precise e micidiali. Ad un certo
punto, scambiando un’occhiata di intesa con l’amico, Ulf
lo rilevò come istruttore quando venne il turno di Elisa.
Esmus lo assecondò, orgoglioso di aver afferrato il senso
della richiesta.
Tiro con l’arco 71

Il ragazzo si avvicinò alla seducente italiana con le pal-


pitazioni al cuore. Ancora quelle palpitazioni! Gli provo-
cavano al volto un rossore selvaggio. Le diede alcuni sem-
plici suggerimenti e accompagnò ogni movimento ed
ogni respiro della giovane donna, ponendosi alle sue spal-
le e impugnando con lei corda e arco. Il pretesto era per-
fetto per abbracciarla, un dolcissimo obbligo. Dovevano
tirare con l’arco … o cosa esattamente?
Incoccarono la freccia. Inspirarono ed espirarono lenta-
mente.
Il collo accaldato di Elisa emanava un profumo intenso
e dolciastro che lo inebriava. Solo la presenza di un pub-
blico gli impedì di darle il bacio, che anche lei si aspettava,
e che immaginò fervidamente, mentre lui le soffiava sulla
guancia il suo desiderio.
Sollevarono l’arco lentissimamente, mentre inspirarono
ed espirarono ancora. Le due coppie di mani erano a
stretto contatto. Le loro braccia, per tutta la lunghezza,
aderivano come attratte fra loro, tese e rilassate insieme,
come due forze opposte, ma amiche e complementari.
Tesero la corda dell’arco, sospendendo per un secondo
il respiro, e poi liberandolo piano.
Il filo vibrante era ansioso di tagliare di netto l’aria e svin-
colarsi dai loro pollici che lo trattenevano. Fra i due giova-
ni corpi non sarebbe passato un filo di vento. Erano uno.
Mirarono, inspirando lentamente. Anche i loro polmoni
erano sincronizzati, e fu naturale trovare la concentrazione
per il tiro. Il bersaglio non pareva avere alcuna importanza.
72 Anime allo specchio

Era lì e la sua presenza era un fatto automatico. Stavano


mirando al cuore, l’uno dell’altro. Il centro si era sovrappo-
sto alla loro stessa identità. Non tardarono a trovare il con-
tatto spirituale con il cuore del bersaglio. Erano in un raro
stato di imperturbabile raccoglimento, come staccati da
ogni intenzione. Un abbandono incosciente reso percetti-
bile dalla profondità del loro respiro. I loro spiriti esprime-
vano una forza inspiegabile. L’estremità superiore dell’arco
affondava nell’azzurro profondo del cielo.
Al cenno telepatico di Ulf, Elisa lasciò la presa e liberò
la corda. Che scossa! Il colpo partì per propria decisione,
staccandosi dall’arco prima ancora che loro pensassero di
farlo. Provarono un senso di leggerezza, una potente
forma di sollievo. La freccia, scoccando, produsse quel
rumore inconfondibile che dava un’idea perfetta della
forza micidiale che si era liberata. Era un colpo secco,
quasi un tonfo, un ronzio penetrante che i corpi assorbi-
rono, concedendo loro una sensazione speciale, come di
onnipotenza. Un tiro per una vita insieme.
Fu la freccia stessa ad aiutarli, come se volesse trovare il
suo punto vitale, come se il centro fosse la sua stessa ori-
gine, invece che la destinazione. Lo strale viaggiava di
volontà indipendente da quella dei ragazzi. E, per volere
di una Forza amica, il tiro fu un centro perfetto. Persino
un Maestro Zen avrebbe approvato. Sapevano che non
avrebbero potuto ripetere una cosa simile e lo presero per
quello che era: un messaggio dall’Universo che non pote-
vano ignorare.
Tiro con l’arco 73

Un avviso che parlava di unione. Solo allora espirarono


e lo fecero come con un solo paio di polmoni.
Agli applausi che esplosero dal gruppo seguì un grido
incontenibile che si svincolò dalla gola di Laura. La ragaz-
za tremava di gelosia. - “Così non vale! … Per forza dovevate
centrarlo. … Esmus non mi ha aiutata nello stesso modo.”
E come avrebbe potuto? Non la amava. La Forza uni-
versale non era autorizzata a intervenire.
Il Cantico delle creature 75

Il Cantico delle creature


da Anime allo specchio

La seduzione si nasconde in campeggio.

Dalla sua sobria famiglia Ulf aveva ereditato la sacralità


dell’unione. D’altro canto, una vita esplorativa costituiva
per lui un valore altrettanto vitale. Ma come conciliare il
focolare domestico con la voglia di avventura, due ele-
menti per lui essenziali sebbene opposti? Di regola, due
valori importanti che si fanno guerra portano confusione,
insoddisfazione.
Ulf provava spesso la frustrazione di soffocare certi
istinti. Molte volte i sensi gli avevano presentato il conto,
ma era stato incapace di prendere l’iniziativa. C’era in cir-
colazione qualche musetto proprio carino ma … come
iniziare? Come avvicinarsi a quegli strani animali? Erano
inquietanti, troppo diversi da lui. Non comprendeva il
comportamento, né le reazioni di quelle creature così
diverse e bizzarre.
Perché tanti vezzi? Dove prendevano quel modo di
ammiccare, di guardare, di voltarsi di scatto nel mezzo di
76 Anime allo specchio

una conversazione e andar via sculettando? Le guardava


allontanarsi e si interrogava incredulo. Ma erano proprio
fatte così o recitavano qualche ruolo visto in TV? Lo face-
vano per natura o lo avevano appreso dall’ambiente?
Probabilmente, di tutto un po’. Certo, erano un rebus.
Una certa Muriel aveva fatto di tutto per appartarsi con
lui e ci era riuscita. Fu un’esperienza memorabile per lui,
da annotare nel diario della vita.
Era accaduto una mattina di fine maggio durante il
corso di sopravvivenza nei boschi dello Skåne, organizza-
to per le matricole del conservatorio. Ulf era di guardia
all’accampamento e doveva occuparsi della cambusa per
un gruppo di trenta matricole. Faceva freddo e il tempo
era incerto, ma chi avrebbe potuto fermare quelle creatu-
re dal tuffarsi nella foresta? Sembravano scoiattoli nella
stagione degli amori, con addosso l’eccitazione che solo la
primavera può provocare.
Era una di quelle giornate che pare voglia piovere ma
non piove. L’aria era immobile, ma sembrava pronta a
sconvolgersi. L’equilibrio instabile di quell’atmosfera
faceva fermare il cuore e la mente, quasi a ricordare la bel-
lezza incontenibile e il mistero della vita. Una bellezza che
incanta, un mistero capace di gonfiare il petto di gratitu-
dine, che ti fa sentire una particella irrilevante
dell’Universo, ma, allo stesso tempo, infinita ed immorta-
le quanto Lui.
Ulf si sentiva felice di essere in mezzo a tanta bellezza,
era anche lui in fermento e aveva voglia di correre, libero
Il Cantico delle creature 77

come il torrente in piena. Uno strano formicolio eccitava


ogni cellula del suo corpo.
Il ragazzo si rammentò del Cantico delle creature di
Francesco d’Assisi che lo aveva affascinato per la forza
della sua semplicità.
“… Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
Et per aere nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sostentamento.”
Quei versi erano trasparenti come il cristallo, puri come
l’acqua sorgiva. C’era una forza musicale in quelle strofe
che Ulf non aveva mancato di cogliere. Gli pareva che
contenessero, da sole, il senso della vita, come se fossero
la chiave che rivelava la composizione misteriosa ed invi-
sibile di cui sono fatte tutte le cose: la materia, il pensiero,
i fiori, la coscienza stessa. Più volte aveva pensato di
musicarle e ne aveva imparato le parole a memoria. Certo,
non avrebbe potuto immaginare che in mezzo a tanta
contemplazione stesse per verificarsi un evento così sen-
suale e terreno.
Muriel quella mattina non era andata in escursione col
resto del gruppo. Si era data ammalata ed era rimasta nel
suo sacco a pelo. Non era uscita dalla tenda neanche per
prendere il caffè. Approntato il necessario per il pranzo,
Ulf trovò il tempo di occuparsi di lei.
Erano rimasti soli al campo e, giunto davanti alla sua
tenda, le diede voce per sapere se fosse sveglia. La ragaz-
za gli disse che poteva entrare e che lo stava aspettando.
78 Anime allo specchio


“Ti ho portato il caffè.”
“Fammi sentire se è buono.”
Muriel intinse appena le labbra nel nero liquido dalla
tazzona fumante, e diede un sorso più simbolico che
reale. Poi, il suo viso mutò ed assunse uno sguardo che
non vede, vago e inespressivo, quasi animale. Le sue
pupille erano assenti, ma, allo stesso tempo, vigili. Posò la
tazza ancora colma nell’angolo più remoto della tenda e si
sciolse i capelli.
Ulf intuì che stava per accadere qualcosa di sconvolgen-
te, a cui non era preparato. Per darsi un attimo di tregua
interrogò la ragazza sul caffè: - “Non ti piace?”
Lei, puntando uno sguardo vitreo sul ciuffo ribelle che
Ulf aveva sulla fronte, fece una strana confessione: ”La mia
malattia era programmata. Ieri sera, appena ho saputo che eri di
turno al campo, ho deciso di ammalarmi…Non immagini perché?”
Così dicendo, lo cinse delicatamente al collo e lo baciò.
Fu la prima volta di Ulf. Quell’esperienza fortissima,
vissuta in un delirio di sudore, lo colpì alle viscere e gli
fece girare la testa. Il tocco dell’amore gli dette le palpita-
zioni, il cuore voleva scappare dal petto, il cuore o qual-
cosa del genere che si era nascosto dentro di lui a sua
insaputa, di cui all’improvviso percepì la potenza. Era una
forza spaventosa, un moto irresistibile capace di annulla-
re ogni ragione … ed era bastata una ragazza minuta e
carina per scatenarla. Era disorientato. Da dove scaturiva
una tale forza, da lei, da lui stesso, dallo spazio, o dal
cuore incandescente della terra?
La notte dei desideri 79

La notte dei desideri


da Anime allo specchio

Un innamoramento fulmineo a prima vista vuole diventare un


amore annunciato.

Si fece sera. L’insolita compagnia di persone era immersa


nella quiete che solo le distese boschive scandinave sanno
offrire, e agli italiani fece uno strano effetto. Non avevano
mai toccato la profondità di un silenzio così assoluto. Il
momento era carico di aspettative, e tutti si sentivano per-
sonaggi di una saga scandinava.
Quelle persone venute dal sud sembravano fare sfoggio
di emozioni. Avevano un modo quasi melodrammatico di
esternare i loro pensieri e i loro sentimenti. Esmus e Ulf
ne furono colpiti. Fra i loro connazionali, gli svedesi, certe
manifestazioni erano un tabù. Forse per timidezza, per
discrezione, o per una forma evoluta di pudore.
I due ragazzi non avevano il cuore di lasciare i loro
nuovi amici. Erano ancora in tempo per raggiungere la
costa ed accamparsi in cima alle scogliere di Lysekyl.
80 Anime allo specchio

Eppure… entrambi aspettavano che accadesse qualcosa


che poteva trattenerli.
Fu Ezio a procurare loro un pretesto per fermarsi al
campo e pernottare là: “Ragazzi! Raccontateci un po’ di voi”,
disse. “Cosa fate di bello in questo paese da fiaba?”
“Ci sono anche le spine”, Ulf replicò. “Vero Esmus?”
Esmus annuì.
Nell’estivo crepuscolo nordico, in quell’azzurro di zuc-
chero, quando neanche a notte fonda fa buio, vi era una
luce soave che non concedeva nulla alle tenebre.
Provavano tutti una inconsueta pace nel cuore, sebbene le
menti di Elisa e Ulf fossero in tempesta. Fra i due svede-
si e il gruppo di italiani era nata una genuina amicizia.
Era una di quelle situazioni in cui ognuno è incline a far
emergere il meglio di sé, della sua vita, dei suoi sentimenti.
Là e allora, non poteva esservi spazio per maldicenze o
brutture, né personali né universali, come se fosse in pieno
svolgimento un concorso di bellezza spirituale. Il maligno
era escluso, fuori luogo. Armonia e comprensione impera-
vano. Ulf si rammentò delle mie parole, che si riempivano
di significati per lui solo dopo qualche tempo, ma arrivava-
no sempre a segno. Coprivo quel che dicevo con un velo
trasparente, per lasciargli la possibilità di elaborare da sé
certe riflessioni e giungere alle conclusioni. Gli avevo detto,
una volta: “Qualsiasi cosa tu faccia nella vita … segui la Luce.”
“Quale luce, Maestro?”
“Quella che apre gli occhi e fa vedere lontano, più
dello sguardo.”
La notte dei desideri 81

“Mi sforzo sempre di guardare lontano.”


“Lo so, e vedo anche che procedi veloce. Ma, se segui la
Luce, arriverai prima, ovunque tu voglia arrivare. Se non
la segui, quando giungerai alla tua meta, la troverai là ad
aspettarti per chiederti perché non hai viaggiato con lei.”
Quella sera Ulf comprese che mi riferivo all’amore, alla
solidarietà fra gli uomini. La maestosità della natura mil-
lenaria che li ospitava riduceva ogni problema quotidiano
ai minimi termini: inezie che non meritavano neanche un
secondo della preziosa vita che sentivano pulsare, in quel
luogo, più che in qualsiasi altro del pianeta a loro cono-
sciuto. Si sentivano tutti in uno stato di grazia che esalta-
va le loro qualità umane, come può accadere in occasioni
speciali, fra persone amate, quando ogni tribolazione
viene scavalcata o accettata; quando la coscienza desidera
che nel cuore si agiti libera solo una cosa: la gioia.
Ulf si rivolse ad Elisa, divenuta la sua ombra: “Peccato che
domani non ci sarai più.”
“A chi lo dici …”, lei replicò di getto. E, in un sospiro,
aggiunse: “Peccato che abitiamo così distanti… più lontano non
si può.”
Matteo ed Ezio erano intenti ad alimentare il fuoco, che
iniziò a proiettare ombre lunghe e veloci sulla radura.
Riscaldava e confortava anche a distanza. Coco, con la
chitarra in mano, propose: “Cantiamo qualcosa?”
Con l’innamoramento nel cuore, Ulf lanciò un’idea:
“Conosco un’antica nenia svedese che vi vorrei cantare. È un po’
triste; allo stesso tempo, però, è dolce e ammorbidisce l’atmosfera.”
82 Anime allo specchio

Chiese a Coco di accompagnarlo con la chitarra, mentre


lui cantava a cappella. Le parole in svedese, piene di sono-
rità sconosciute, aggiunsero una suggestione di mistero
alla melodia, che scorreva lenta come una ninna nanna.
L’effetto musicale fu toccante. La semplicità degli accordi
aiutò Coco a disegnare nell’atmosfera la giusta cornice
per tanta dolcezza.

Vem kan segla förutan vind Chi può navigare senza vento
Vem kan ro utan oror Chi può vogare senza remi
Vem kan skjlias fran vännen sin Chi può separarsi da un amico
Utan att fälla tårar? Senza versare lacrime?
Jag kan segla förutan vind Io riesco a navigare senza vento
Jag kan ro utan oror Riesco a vogare senza remi
ene j skjlias fran vännen min Ma non a lasciare un mio amico
Utan att fälla tårar Senza versare lacrime

Il momento era spirituale. Quando Ulf tradusse l’antica


ballata svedese, seguì un’interminabile pausa di silenzio.
Erano tutti visibilmente toccati. L’addome di Elisa si con-
trasse per una fitta improvvisa. La ragazza non riuscì a
sostenere il peso delle sue emozioni, e, come un soldatino
meccanico che fa dietrofront, si voltò e raggiunse la sua
tenda a passetti veloci. Le era venuta voglia di piangere.
“Dio, che ragazza dolce!“, pensò Ulf, e, d’impulso, la inseguì
fin dentro alla sua tenda. Lasciarono entrambi la compa-
gnia senza dare spiegazioni, ma tutti compresero la loro
evasione. Elisa gli aderì addosso con tutto il corpo. Ulf
sentì affiorare un’energia che aggredì ogni suo nervo e
La notte dei desideri 83

comprese che, qualsiasi rapporto avesse stabilito con quel-


la ragazza, non avrebbe mai potuto essere indolore. Era
troppo intimamente vissuto, innescato e pronto ad implo-
dere. I segni di quell’incontro si erano già rivelati a tutti.
Lei gli chiese: “Mi scriveresti le parole di quella canzone sul
diario?”
Ulf le fece segno di tacere e la baciò sulla bocca.
Era proprio la risposta che lei si aspettava e fu lei a scri-
vere qualcosa sulle sue labbra. Cose mai sentite, né lette.
Ulf si sentì marchiato a fuoco. Erano in sintonia perfetta,
pronti per un grande amore, ciascuno perfettamente con-
sapevole dei pensieri e delle emozioni dell’altro. Non
importava cosa esprimessero a parole, i loro canali di
comunicazione non avevano nulla a che fare con il lin-
guaggio, erano vibrazioni musicali che venivano dal bosco.
Oasi 85

Oasi
da Anime allo specchio

Un’escursione solitaria in trekking lungo la linea costiera di un’oa-


si protetta diviene un’esperienza spirituale e un bacino naturale per
l’amicizia.

Si mosse che era appena sbocciata l’alba, con addosso


scarponi e calzoncini, e decise che avrebbe esplorato pro-
prio la fascia di terra che si tuffava in quel mare chiaro,
così diverso da quello di casa sua. Pensò di arrivare fino a
Torre Guaceto, un’oasi protetta famosa per la sua selvati-
ca bellezza, e seguì la costa camminando verso nord. Il
percorso si rivelò più imprevedibile di quanto avesse potu-
to pensare. Sull’ampio arco della baia si apriva una spiag-
gia a tratti sabbiosa, a tratti ricoperta da un tappeto di
alghe secche macerate dal caldo e dal sale. Lo strato era
spesso un metro e vi si affondava, ma le sue scarpe da
trekking avevano visto di peggio, incluse le sabbie mobili.
Comprese perché il posto fosse poco frequentato dai brin-
disini: troppo comodi, troppo chic per imbrattarsi le scar-
pette da ginnastica all’ultimo grido. A sinistra si stendeva il
86 Anime allo specchio

mare sconfinato di canne color giallo-verde; a destra il


mare immenso di acqua tinto di verde e azzurro, così per-
fetto da sembrare un cristallo di Murano. In mezzo a quei
due mari fu naturale soffermarsi in contemplazione. Si
sentì sopraffatto dallo splendore del Creato. Mai visti
colori del genere. Uno stormo di cormorani si involò,
spaventato dalla sua presenza. Ulf si accorse di essere il
più straniero fra i rari ospiti della baia. Gli uccelli riprese-
ro terra più avanti, riconoscendolo innocuo e, quando
ripassò davanti a loro, rimasero dignitosamente impertur-
bati.
In cima alla rocca di Torre Guaceto un fotografo
immortalava scenari da mostrare a chissà chi. Il
Mediterraneo aveva colori e odori del tutto diversi da
quelli del Mare del Nord. L’indaco di quel cielo sbalordi-
va. Le vanitose isole del Kattegat, in Svezia, erano sempre
in primo piano, ostacolando la vista sul grigio orizzonte,
mentre il mare di Brindisi era così infinito e disponibile.
Ulf non aveva mai apprezzato tanto la generosità del
mare. Bagnarsi in quelle acque era diverso, ma non solo
per la temperatura gradevole dell’acqua. Il mare era sala-
tissimo e trovava più agevole nuotarvi.
Pensò ad Elisa. Avrebbe voluto fare quella scoperta
insieme a lei, abbracciandola in quell’acqua densa e tra-
sparente. Si ripropose di farlo al più presto, per meglio
conoscere la sua donna nel suo ambiente elettivo. Sapere
che lei vi si era bagnata per una vita lo rassicurava e si
tuffò pieno di aspettativa.
Oasi 87

Si immerse vestito, per la necessità di esprimere un


gesto totale, liberatorio. Voleva che fosse di buon auspi-
cio per la sua nuova terra e per il suo futuro. Riemerse un
uomo nuovo, battezzato a nuova vita da un incanto ope-
rato dalla natura e da un semplice pensiero d’amore.
Non volle rientrare subito. Mentre mangiava il frutto
dolcissimo colto da un albero di fico si sovvenne del
Cantico delle creature di Francesco d’Assisi. Ripercorse i versi
mandati a memoria, carichi di estasi e gratitudine per i
semplici, straordinari doni che spesso si ritengono dovuti.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,


la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi frutti con coloriti fiori et herba.

Ulf era da sempre stato innamorato della Natura ma da


quel giorno imparò a non darla mai per scontata, e spe-
cialmente il mare. Le acque, come ogni creatura vivente,
erano provviste di volontà propria, creata dalla stessa
Mano che ha modellato l’uomo. Non era possibile per lui
rimanere indifferente davanti a quell’azzurro cobalto che
mutava in smeraldo cupo.
Al largo, un motoscafo off-shore aveva molta fretta,
sembrava telecomandato e puntava dritto verso la costa.
Viaggiava inesorabile come una freccia, come se avesse
un compito vitale da svolgere. Ulf lo trovò strano. Non
doveva essere una zona protetta, vietata alla navigazione?
Cominciò a rendersi conto che l’Italia era, in verità, un
88 Anime allo specchio

paese enigmatico, dove le eccezioni superano le regole in


numero e in importanza. Le stesse leggi sembrano vissu-
te da tutti come una sorta di orientamento generale, nulla
di cui preoccuparsi eccessivamente: un segno di grande
saggezza o di totale irresponsabilità?
Il ragazzo decise di scavalcare Torre Guaceto per sco-
prire di prima mano cosa si celasse dietro la rocca miste-
riosa, che aveva assistito a chissà quanti sbarchi – amici e
nemici. La notizia di un’invasione dei turchi percorreva
mille chilometri e giungeva da Brindisi a Venezia in due
ore grazie ai segnali che correvano fra una torre e l’altra
lungo la costa mediterranea.
Percorrendo confusi sentieri fra i pini cespugliosi piega-
ti irreversibilmente dal vento, Ulf scoprì che era emozio-
nato, al punto di provare l’affanno dell’eccitazione. Non
sapeva dove stesse andando, né cosa lo aspettasse dietro
a ogni duna. Tutti i sentieri conducevano a cale marine
che si aprivano sulle barriere merlate di scogli. Nelle
insenature più nascoste, fra le rocce affioranti come alli-
gatori in agguato, gruppi di bagnanti si facevano stordi-
re dal sole, sdraiati sulla sabbia rovente: sopraffini esti-
matori delle marine selvagge, giunti a bordo di esclusivi
fuoristrada. Alcuni si concedevano una totale nudità, del
tutto incuranti gli uni degli altri. Ignorarono il passaggio
del singolare esploratore, che sfilò davanti a loro come
in passerella ostentando uno sguardo assente, perduto
dietro all’orizzonte. Non volle incontrare gli occhi di
nessuno.
Oasi 89

La potente imbarcazione che aveva notato solo un


minuto prima, era quasi sulla spiaggia ormai, ma non
accennava a rallentare la sua corsa impazzita. All’improv-
viso, con un allarmante frusciare di cespugli, spuntarono
dal fitto canneto due fuoristrada enormi, simili a mezzi
corazzati, pronti per un’incursione militare. Sgommando
frenetici alzarono un polverone, quindi si fermarono nel-
l’acqua cristallina della caletta davanti al gruppo di
bagnanti, del tutto indifferenti alla scena: erano contrab-
bandieri di sigarette… e di chissà cos’altro. Dal motosca-
fo un vociare frenetico impartiva direttive agli uomini
degli automezzi, che si muovevano come formichine
fuori di senno. Cinquanta, forse cento grossi cartoni ven-
nero scaricati dal natante con la precisione e l’efficienza di
truppe speciali da sbarco. In due minuti fu tutto finito e
le jeep si dileguarono.
Ritornò la calma come se non fosse accaduto nulla.
Nessuno del gruppo di nudisti si era mosso dal suo posto
al sole.
Ulf ne rimase impressionato. Proseguì per la sua strada
e rivide l’incredibile filmato con gli occhi della mente. Se
non fosse stato per i solchi profondi lasciati dalle gomme,
nessuno avrebbe potuto sospettare ciò che era successo
in quel luogo solo un minuto prima.
Percorrendo un tratto di macchia, bevve a canna mezzo
litro d’acqua. Era al culmine dell’avventura. Il vento era
una benedizione. Gli accarezzava il volto e giocava nei
capelli. Il sibilo dell’aria incorniciava i segnali di uccelli e
90 Anime allo specchio

cicale invisibili, perfettamente mimetizzati con l’ambiente.


Le creature lo sfidavano a individuarle nel groviglio di
arbusti di ginepro.
All’improvviso, dalle impenetrabili fronde di un cipres-
so, sentì un frullar d’ali e un cinguettare di allarme e
disperazione. Una gazza stava saccheggiando un nido di
verdoni. La rabbia degli uccellini nulla poteva contro la
furia dell’uccello di rapina. Ulf si fermò a riflettere. In
Svezia non aveva mai osservato tanta famelica aggressivi-
tà nelle gazze. Possibile che gli fosse sfuggito un partico-
lare così importante? Concluse che doveva trattarsi di
un’abitudine stanziale, caratteristica delle gazze del posto.
Cercò invano di dare man forte alla coppia di verdoni
disperati. Si arrampicò sul cipresso ma il nido era già stato
devastato. I brandelli dei verdoncini erano una vista racca-
pricciante. Una volta a terra, notò che il silenzio e l’abban-
dono si erano impadroniti di tutta la campagna circostante.
Persino la coppia di verdoni, appollaiata sui fili dell’alta
tensione, era ammutolita. Gli uccellini erano smarriti, ma
non sembravano più disperati. Forse percepivano già il
richiamo di una forza invisibile e stavano progettando
un’altra nidiata. L’estate era ancora lunga e avrebbero
avuto tutto il tempo di compiere un altro tentativo per
perpetuare la loro specie. Allontanandosi dal posto si
domandò se avesse fatto bene a intervenire, se avesse
avuto il diritto di interferire con il corso naturale delle
cose. L’imperturbabile Natura lo rasserenò e proseguì
l’esplorazione.
Oasi 91

Giunse ad uno stabilimento balneare abbandonato da


anni. Era mezzogiorno. Fra cabine e capannoni scalcinati
si ritrovò su una rotonda di cemento che si affacciava sul
mare. Cascava a terrazza con un salto di tre metri su una
spiaggia stupenda dalla sabbia fine e bianca. Anche l’areni-
le aveva un aspetto selvaggio: Ulf non riusciva a seguire il
bagnasciuga con lo sguardo, tanto era sinuosa e serpeg-
giante. La vista dal parapetto pericolante avrebbe sospeso
il respiro di chiunque, l’atmosfera era appesa nel tempo e
nello spazio. Il ragazzo provò un senso di quieta instabili-
tà, come se l’equilibrio del posto dipendesse da un filo.
Percepiva la presenza di esseri invisibili che gli intimavano
di ascoltare ciò che lo Spirito del sito incantato aveva da
raccontare.
Quanta forza esprimevano gli alberi e gli arbusti piegati
irreversibilmente dal vento. Quanta perfezione c’era in
tutto quello che vedeva. La vita era dappertutto.
Decise di seguire la battigia. La spiaggia scompariva a
tratti e il mare si frangeva libero da ostacoli su un costo-
ne di terra rossa e creta. Si ritrovò più volte con le scarpe
a mollo, stretto fra i frangenti e la parete rossa di argilla.
La schiuma fresca nelle scarpe gli mise allegria.
La sua scorta d’acqua era agli sgoccioli – oltre che alla
temperatura giusta per farci il tè. Comunque preziosa.
Bevve avidamente fino all’ultima goccia. Imboccò un sen-
tiero tutto da indovinare che a tratti scompariva tra i
cespugli. Lo perdeva e ritrovava. Seguendolo, esso lo
portò dritto – non riusciva a credere ai suoi occhi – a una
92 Anime allo specchio

recinzione di filo spinato. Nel mezzo di una natura invio-


lata qualcuno aveva eretto una barriera che spariva a vista
d’occhio e spaccava il Creato in due. Era giunto al limite
sud della stupenda spiaggia di Penna Grossa e l’unico
ostacolo che si frapponeva fra lui e il mare era una insul-
sa recinzione. Fu irritato da tanto cattivo gusto. Gli parve
strano che Natura stessa, di propria iniziativa, non avesse
rigettato i paletti di legno conficcati sotto la sua pelle che
tesavano il filo spinato. Cercò di scavalcarlo ma una voce
stridula lo inchiodò mentre era a cavalcioni della barriera.
Gesticolando, una donnona gli ringhiò contro parole
incomprensibili che lo fecero trasalire. Ma … era proprio
paura? Prima di allora non aveva mai provato quel senso
di repentaglio. Le parole minacciose della donna erano
incuranti della bellezza circostante. Il cuore gli batteva in
gola. Non sapeva con chi avesse a che fare ma non provò
nessuna voglia di indagare. La donna era trasandata nel-
l’aspetto, grassa e alquanto orrenda. I lunghi capelli bian-
chi, radi e unti, le coprivano la spalla a mantello.
Indossava un grembiulaccio nero, sgualcito, che lasciava
scoperti solo i piedi. Sotto il cipiglio aquilino del naso
ricurvo … potevano veramente essere baffi? Lo erano.
Ebbe l’impressione di trovarsi di fronte ad una creatura
preistorica. Oppure il barbaro era lui, che non capiva i
segni e l’origine di quel disarticolato sproloquio? Senza
sapere cosa avesse potuto rubare, si sentì un ladro colto
in flagrante. Non volle affrontarla. Cosa dirle? In che lin-
gua? La donna non parlava l’italiano, figurarsi l’inglese.
Oasi 93

Non volle turbare oltremodo la sua stupenda giornata e


abbandonò la megera alle sue imprecazioni. Ritornò sui
suoi passi e aggirò la barriera.
Il sole era un disco di fuoco che lo inseguiva ovunque.
Quante volte aveva desiderato il calore e la luce di quel
corpo celeste nelle buie giornate nordiche. Ora lo aveva lì,
e capì che poteva essere implacabile. Aveva dato fondo alla
riserva di acqua e aveva la bocca e la gola arse dalla calura.
Finalmente, superata un’ultima duna sabbiosa, giunse a
Penna Grossa, il lido preferito del suo amore. Dopo tanto
deserto in solitudine la vista improvvisa di migliaia di
bagnanti lo confuse in modo rassicurante. Ma le sorprese
non erano finite quella mattina. In mezzo al brusio smor-
zato dalla lieve tramontana, sentì urlare il suo nome da
voci lontane.
“Uuulf! Cosa ci fai qui?… Ma da dove salti fuori?”
Gli amici di Elisa riuscivano a essere dappertutto.
“Ciao. Ho fatto due passi.”
“Due passi? Vuoi dire che sei venuto fin qui … a piedi?
Sono venti chilometri! Elisa si è messa con un pazzo sca-
tenato. Vieni. Fai un bagno con noi? Gianni ha portato la
tavola da surf.”
“Mi piacerebbe imparare. … Avete da bere?”
Fu tutta una festa. Lo fecero bere e ridere. Si bagnò con
loro e furono tuffi e spruzzi fino al tramonto. Era già a
casa sua, la sua nuova casa.
Luna Rossa 95

Luna Rossa
da Anime allo specchio

L’arcipelago del Kattegat nel Mare del Nord di Scandinavia è la


perfetta cornice per un incontro d’amore.

Il cielo del Kattegat era fragile come il cristallo, incor-


ruttibile e intoccabile. I tenui colori del tramonto sembra-
vano appartenere ad un’altra terra ed Elisa fu soggiogata
dalla bellezza che l’isoletta di Ängön era capace di offrire.
Qualsiasi parola per descriverla sarebbe stata inadeguata,
indegna di quel fascino.
L’isola appartiene ad un arcipelago composto da una
miriade di isole e scogli affioranti che smorzano l’effetto
delle onde e preservano un’impressione di quiete anche
quando il vento sferza in tempesta.
Ulf propose alla sua ospite di fare una passeggiata intor-
no all’isola. Poi aggiunse: “Potremmo anche fare una
sauna…”
Poco importava cosa Ulf avesse proposto. Con lui, la
ragazza si sentiva serena come una bimba nella culla. Si
metteva completamente nelle sue mani, e lui provò un
96 Anime allo specchio

pieno senso di appagamento. L’amore della ragazza era


divenuto l’unica cosa che desse un senso a qualsiasi cosa
facesse. Presero gli asciugamani e si diressero verso il pon-
tile, fatto con solide traversine di legno scuro, che aveva
retto anni e anni di mareggiate. Le sue tavole, poste ad inca-
stro, seguivano le increspature e le rientranze della scoglie-
ra, cingendola a gonnellino, con precisione sartoriale.
Per i villeggianti, la capannina della sauna aveva la sacra-
lità di un tempio. Era di color ruggine, con le tegole in ter-
racotta bruna, e si sposava perfettamente con l’ambiente
circostante. L’ampia vetrata consentiva una vista aperta a
180 gradi sul mare. Il rifugio si apriva con un delizioso
salotto in vimini, essenziale e raccolto, da cui si accede ad
un vano doccia aperto. A cosa sarebbe servito un separé
in un luogo così demistificato? La costruzione era stata
realizzata in un tempo in cui le ordinanze edilizie erano
più tolleranti. In tutto il Regno di Svezia è diventato
impossibile erigere qualsiasi tipo di costruzione che risul-
ti visibile dal mare.
Dalle acque, proprio di fronte alla finestra, spuntava un
isolotto, sdraiato come un gigante addormentato che
teneva in grembo un nastro di spiaggia vergine, cinta da
una macchia di conifere a prova di burrasca.
La vista era immobile come un acquerello su cartoncino.
Mentre regolava le manopole della centralina, Ulf inter-
pellò Elisa.
“Ho acceso la caldaia. La sauna vuoi farla secca o
umida?”
Luna Rossa 97

“Non so… mi fido di te.”


“Per avere la temperatura giusta dobbiamo aspettare
venti minuti. Nel frattempo ti mostro la spiaggetta qui
accanto. Bisogna arrampicarsi su questo costone di roc-
cia. Te la senti?”
Elisa pensò che quel “Te la senti?” mettesse in discus-
sione le sue capacità e fece balenare sulla sua bocca una
piega di sfida che Ulf non immaginava possibile.
“Sono un’atleta, abituata alla competizione. Non dimen-
ticarlo. Facciamo a gara?”
“A chi sta più appiccicato all’altro vuoi dire?”
“Che dolce sei, Ulf… Con te, non c’è gusto a com-
petere.”
Si arrampicarono sulle rocce con passi sicuri e saltelli
irregolari. La brezza alle spalle soffiava per loro e sembra-
va sorreggerli come un invisibile angelo custode. Arrivati
in cima al costone erano appena affannati. Ulf prese Elisa
per mano, mentre osservavano la costellazione di isole.
Lo sguardo di Elisa non finiva di spaziare in quell’oriz-
zonte tenue che le offriva la miriade di isolette verde cupo
sul vassoio grigio argento del mare, e provò sensazione di
dominio.
Natura era con loro, c’era del magico nell’aria. Elisa si
avvinghiò a Ulf e lo abbracciò forte. Il giovane si rese
conto di quanto fosse fisicamente potente la sua donna. Le
prese il volto con la delicatezza con cui si coglie un ogget-
to di cristallo e cercò il suo bacio. Lei glielo concesse – e se
lo concesse – con un abbandono carico di trepidazione.
98 Anime allo specchio

Discesero il pendio del costone e furono sull’altro ver-


sante in pochi minuti. La spiaggia era deserta e ricoperta
di alghe portate dal mare. Elisa esclamò con sorpresa:
“Sono cozze quelle là a fior d’acqua?… Dio quante! Sono
enormi.”
“Se vuoi, domattina possiamo tornare in spiaggia e
prenderne un po’.”
“Sì. Dai! So io come cucinarle. Possiamo?”
“Sei la mia padrona.”
Si faceva sera. C’era luna piena. Una luna piccola picco-
la, timida, color arancione.
I sassi porosi della caldaia emanavano vapori che si fon-
devano con il profumo silvestre della resina, un’essenza
acre ma gradevole, balsamica come l’eucalipto.

Seduti sulle poltrone in vimini della sauna di fronte alla
vetrata, erano soggetti dello stesso acquerello che immor-
talava un paesaggio marino di rara bellezza. Da un bocca-
le bevvero il succo denso di bacche di rosa canina, dolce
come il suo colore pallido arancia. Si dissetarono con avi-
dità. Il miele della bevanda restituì il tono ai loro muscoli
rilasciati. Mentre si rivestivano Ulf le disse: “Appena
siamo a casa, ti preparo una bistecca con una montagna
di patatine novelle.”
“Adoro la carne … e deve essere bruciata fuori e rosa
dentro.”
“La mia regina sarà servita. … Aglio al burro o pepe
verde?”
Luna Rossa 99

Elisa fece scricchiolare ancora una volta le sue costole


con un abbraccio che quasi lo sollevò da terra. Quel gesto
conteneva il presagio di una promessa. Senza parlare, Elisa
gli stava giurando la sua devota compagnia per la vita.
Lo slancio della giovane donna gonfiò il cuore di Ulf
come un vento amico gonfia la vela. La costa era chiara e
alla luna non mancava nessun pezzo. Furono minuti presi
in prestito dal Paradiso Celeste.
Aurora boreale 101

Aurora boreale
da Anime allo specchio

La storia di un amore che vuole nascere fra i paesaggi innevati di


un gelido Inverno.

Quando i familiari di Ulf si furono dileguati uno ad uno


rimasero soli a parlare, seduti composti intorno al calore
del fuoco. Fuori, gli abeti sparsi per le colline erano albe-
ri di natale innevati. Si sentivano sentinelle importanti,
fiere del loro compito di pace. Ulf la invitò a uscire sul
patio per qualche minuto. Voleva sentire la presenza della
neve. A Brindisi gli mancava e si rese conto che da quan-
do era arrivato non l’aveva toccata.
Fuori era freddo. Meno quindici. Silenzio governava con
austera indulgenza il paesaggio immobile immerso nel
suo letargo invernale. Le orme di topolini, volpi e altre
creature di campagna erano dappertutto intorno alla casa,
allegre e leggere. C’era vita in fermento sotto la coltre di
neve. Loro due lo sapevano e tutta quella vita premiava e
si manifestava ai loro occhi attenti che riuscivano a pene-
trare l’immacolata immobilità.
102 Anime allo specchio

Un gufo bianco con il suo volo silenzioso era rispettoso


della notte. Si staccò da un ramo per tuffarsi nel bosco.
Non volava quieto allo scopo di sorprendere la preda…
semplicemente, amava volare in silenzio. Era la sua natu-
ra, e questa lo ricompensava con il necessario alimento.
Estasi e incanto placavano e rinvigorivano i loro spiriti
innamorati. Stavano per rientrare in casa quando all’im-
provviso qualcosa sconvolse l’atmosfera, fino a pochi
minuti prima così immobile. Esplosero nella notte come
fiamme nel ghiaccio i fuochi sacri dell’Aurora Boreale.
Che spettacolo! Che fortuna rivedere i bagliori! Ulf non li
aveva ammirati per anni e li aveva quasi dimenticati. I pin-
nacoli delle cattedrali di fuoco che si incendiavano nel
cielo nero, si scioglievano e si ricomponevano in forme e
colori che solo gli occhi possono descrivere – e solo al
fortunato spettatore. La luce pulsava trionfante cambian-
do dall’ambra al più puro dei bianchi e poi all’opale, al
verde e all’azzurro del mare tropicale, ai verdi cupi delle
macchie nordiche e al morbido oro delle dune del deser-
to. Non rimaneva spicchio di buio in quel cielo del Nord.
Le guglie infuocate riempivano tutta la volta visibile con
ritorni di fiamma imprevedibili, carichi di elettricità, in un
galoppo di colori che si fondevano e implodevano, per
poi riesplodere.
Aster commentò come sapeva fare lei.
“Ancora un temporale sopra di noi. Il temporale del
cuore.”
“Stai alludendo a qualche segno?”
Aurora boreale 103

“Ti pare impossibile?”


“… Non lo so”, disse Ulf, quindi la prese per mano e
rientrarono in casa con le guance gelate e i cuori caldi,
gonfi di emozione. C’era il fuoco nelle loro labbra infred-
dolite, spaccate dal gelo; labbra che si vollero incontrare,
e quella notte, mentre tutti dormivano, accadde l’inevita-
bile: Aster trovò Ulf, e Ulf trovò Aster.

E quella volta fu ancor più doloroso separarsi. Ulf diede
appuntamento a lei, da sola, per salutarla. Si incontrarono
alla chiusa di legno. Sotto i loro piedi intravedevano foglie
cadute rosse e gialle, intrappolate sotto la sottile pellicola
di acqua gelata come anime nel limbo. L’acqua filtrava
attraverso le assi di rovere, rese opalescenti dalla lastra di
ghiaccio lucida a specchio, dura come l’acciaio. Con un
salto di tre metri il torrente continuava a scorrere sotto le
stalattiti celesti insinuandosi fra i neri ingranaggi di legno
che sembravano disegni di Leonardo da Vinci. Le loro
anime si riconobbero in quei marchingegni e, come loro,
si erano misurate e si erano sorprese di combaciare così
perfettamente a incastro, l’una nell’altra.
Davanti alla gelida cascata si diedero un lungo caldissi-
mo bacio, senza inutili parole, mentre i loro cuori piange-
vano in quieta disperazione. Tutto intorno gli abeti seco-
lari benedissero quell’amore clandestino e promisero di
custodire il segreto. Almeno Natura capiva la loro impos-
sibile condizione – non giudicava e non si schierava.
Erano vicinissimi, stretti l’uno all’altro in un abbraccio
104 Anime allo specchio

che metteva fra loro distanze oceaniche. Sapevano di


essere soli, ma non avrebbero mai immaginato quanto se
non fosse stato per quella tempesta, giunta come un ura-
gano e svanita ancora più velocemente.
Da allora Aster ha sempre aspettato i temporali. Li
aspetta in aperta campagna nel tepore della sua auto.
Aveva iniziato a cercarli e, lasciandosi affascinare da loro,
li faceva sentire benvenuti e amici. Se solo Ulf fosse stato
là con lei, in quei momenti!
Eppure lo sentiva presente.
Amazzonia 105

Amazzonia
da La stagione dell’estro

Il protagonista di questa serie di episodi è Ross Andersson, un


naturalista ornitologo che si trova nella foresta amazzonica per fil-
mare la vita segreta di rari uccelli tropicali. Avventure molto singo-
lari lo aspettano.

Era la stagione dell’estro per gli uccelli della foresta tro-


picale. Faceva già caldo. La gelida bruma inglese che
ancora avvolgeva la sua casa nella campagna dello
Yorkshire era una realtà remota e inconcepibile.
Ross era un naturalista ornitologo e stava preparando
un documentario sulle paradisee, una famiglia di uccelli
rari, molto difficili da osservare. Il loro habitat era rag-
giungibile solo dopo giorni di trekking nella foresta tropi-
cale sudamericana, oppure via aria, in elicottero.
Ross preferiva arrivarci a piedi poiché le pale e il rumo-
re dell’uccello meccanico risultavano traumatici per i timi-
dissimi volatili. Ne influenzavano il comportamento per
ore, e persino per giornate intere, costringendoli a
106 La stagione dell’estro

nascondersi negli anfratti più introvabili, dove rimaneva-


no immobili per tutta la giornata.
Qualche volta arrivava sul luogo di osservazione in del-
taplano, se il terreno circostante era raggiungibile con il
fuoristrada e consentiva il recupero dell’ala. Si lanciava
dalla cima del monte Toka e, con il favore delle correnti
ascensionali raggiungeva qualsiasi luogo nel raggio di
cento chilometri.
La stagione dell’estro amoroso era la più adatta per i fil-
mati. Gli uccelli divenivano più intraprendenti, dovendo,
per ordine della Natura, rendersi attraenti agli occhi selet-
tivi dei loro possibili partner. Diveniva allora più agevole
osservarli in tutta la loro insospettata bellezza. Le danze e
le piroette dei maschi rivelavano a Ross la potenza crea-
trice della natura, il suo silenzioso operare e la millenaria
saggezza di un ordine universale trasmesso da Dio attra-
verso un miscuglio ineffabile di spirito e geni.
Che senso potevano avere le sue frivole passioni, il suo
dolore?
Dopo una giornata di osservazioni, trascorsa in assoluta
immobilità in un capanno di fronde, Ross era esausto, le
sue membra indolenzite. Poco prima del tramonto raggiun-
geva un altro rifugio che approntava per la notte. Dormiva
lontano dal luogo di osservazione, in modo da poter cor-
rere all’alba e fare esercizio fisico senza turbare l’habitat
degli schivi volatili. Nell’umile silenzio della foresta Ross
rinfrancava i muscoli intorpiditi e li teneva allenati per le
corse in collina e le arrampicate sui dirupi più impervi.
Amazzonia 107

Bagaglio e attrezzature, per quanto essenziali e studiati,


raggiungevano i trenta chili. Nella foresta vergine, dove è
necessario usare il macete per farsi strada fra arbusti e
felci, non vi è equipaggiamento che non risulti ingom-
brante, ma Ross aveva sviluppato negli ultimi dieci anni
una tale dimestichezza con il terreno da riuscire a muo-
versi leggero e silenzioso come un puma.
I suoi occhi coglievano ogni spostamento fra i rami che
non fosse causato dal vento e subito dopo quella imper-
cettibile incoerenza di moto gli rivelava una creatura alata.
Nella maggior parte dei casi, l’occhio acuto dell’uccello lo
aveva già individuato e l’animale doveva solo decidere se
classificare quella presenza umana innocua, e quindi igno-
rarla, oppure rischiosa, e volare via.
La riverente ammirazione di Ross per quegli esseri capa-
ci di vincere la forza di gravità lo ricompensava quasi
sempre. Il suo stupore era inesauribile di fronte alla natu-
ralezza con cui si libravano in volo.
“Angeli!”, pensava, guardandoli estasiato. “Il Creatore ha
voluto darci un’idea di come sono fatte le creature celesti.”
Una passione innata guidava la sua telecamera e il natura-
lista riusciva a catturare le sequenze di vita animale più
occulte e imprevedibili, tanto originali da entusiasmare
qualsiasi produttore.
Ross era affascinato dai particolari di vita degli animali e
li ritraeva nei momenti di maggiore familiarità: intanto
che sceglievano la pagliuzza più adatta per foderare l’in-
terno del nido… quando bisticciavano per il territorio…
108 La stagione dell’estro

durante le minuziose operazioni di toilette, intenti a petti-


nare con il becco penne e piume per tenerle in perfetto
stato di efficienza… o nell’estasi dell’accoppiamento. In
tali pratiche quotidiane l’etologo distingueva l’autentica
natura e le disposizioni più tipiche di una specie animale,
quegli atti di pura origine genetica non inquinati dall’inter-
ferenza dell’ambiente.
Occhio e obiettivo, divenuti una cosa sola, catturavano
l’effetto che il muoversi e l’agire di un essere vivente aveva
sugli altri membri della specie. Nel caos a prima vista ine-
splicabile della Natura, l’appassionato etologo ne scorge-
va, rivelandola, la sua estrema semplicità, il suo logico
operare.
Il risultato del suo lavoro svelava complesse dinamiche
di vita selvatica, e i documentari, da lui stesso montati e
commentati, raggiungevano le camerette e i salotti cittadi-
ni, per lo stupore dei grandi e dei bambini.
La National Geographic e la BBC non discutevano i
salati emolumenti che richiedeva. Tuttavia, i soldi che gua-
dagnava – e che, vivendo prevalentemente nella jungla,
non riusciva a spendere – gli stavano costando molto cari:
le prolungate assenze da casa avevano ridotto ai minimi
termini il contatto con Meryl, sua moglie. La coesione
familiare era già compromessa da tempo, e lo stesso lega-
me di matrimonio era in pericolo di disfarsi, così come si
sciolgono nelle piogge dei tropici le coppie degli uccelli
alla fine della stagione dell’estro, dopo aver abbellito il
mondo con la loro progenie.
Amazzonia 109

“L’unione e la separazione fra le coppie animali avviene


in modo indolore, con la piena benedizione di Madre
Natura, e nella sua apparente indifferenza”, pensò Ross.
“Solo la bellezza della creazione salverà il mondo. Se mai
vi è una speranza per l’umanità, bisogna cercarla nella sag-
gezza del creato.”
Quiete nella tempesta 111

Quiete nella tempesta


da La stagione dell’estro

Non vi erano dubbi sulle origini dell’amore di Ross per


la natura. Fin da ragazzo aveva studiato con la mente e
custodito nel cuore tutti gli insegnamenti del padre sulle
creature della terra, sulla vita degli alberi e sui cicli dei loro
abitanti alati.
I suoi maestri durante l’infanzia erano stati Fedro e La
Fontaine, dei quali Ross conservava con grande cura
due volumi di favole che gli erano stati regalati dal
padre, il sovrintendente forestale e guardaboschi dello
Yorkshire.
Nei lunghi spostamenti in aereo fra un continente e l’al-
tro anche lui componeva delle favole. Erano invariabil-
mente racconti sulla natura o sul mondo animale. Ma i
suoi distacchi erano troppo prolungati perché i bambini
assimilassero quelle storie ad una piacevole abitudine.
Ascoltando la voce di sua moglie da un capo all’altro del
pianeta, Ross aveva spesso la sensazione di parlare con
una donna differente da quella che aveva amato e sposa-
to. Meryl cambiava e si evolveva vertiginosamente.
112 La stagione dell’estro

Lui, al confronto, si sentiva immobile. Poteva essere


stato l’effetto del lento procedere dei ritmi della foresta ad
averlo influenzato?
Interminabili appostamenti, attese non sempre fruttuo-
se, cercando di catturare una sequenza o una semplice
immagine, lo avevano per anni obbligato a sottomettersi
al naturale corso della vita. La staticità era divenuta il fine
stesso del suo essere.
Meryl, invece, si trasformava ad una velocità incontrol-
labile, ed erano i frenetici ritmi cittadini, la ricerca impla-
cabile dell’eccellenza, dei risultati obbligatoriamente tan-
gibili a pilotare il suo modo di essere.
Sì! Il problema sembrava proprio collegato all’esaspera-
ta ottimizzazione del tempo. Meryl lo misurava, lo pesa-
va, lo calcolava. Regolava il suo spirito, i suoi comporta-
menti e persino le emozioni in base all’ora della giornata,
al giorno della settimana, alle stagioni.
Vivendo a stretto contatto con la natura, Ross aveva svi-
luppato un concetto poco convenzionale di tempo. Il
tempo assumeva una identità infinita come lo spazio, e il
naturalista lo concepiva come l’espressione diversa, in
un’altra dimensione, dello spazio stesso. Uno spazio nello
spazio. Lo stato in cui più facilmente è possibile liberare
il proprio spirito, il proprio amore, elementi che non
hanno inizio e non possono avere fine. Come l’amore, il
tempo era per Ross invisibile, trasparente, assolutamente
bastante a se stesso, dotato di moto circolare. Quindi,
incommensurabile ed eterno.
Quiete nella tempesta 113

Nelle brevi parentesi di vita domestica Ross si rendeva


conto di essere impacciato nel pianificare la giornata. In
effetti, non si poneva neanche il problema. Le inesauribi-
li proposte di Meryl lo coglievano sempre di sorpresa: un
film al cinema, il saggio di danza, una cena fra amici,
oppure il teatro, un giro dei pub, la mostra straordinaria
su Matisse e Chagall…
Trovava piacevole incontrare gli amici, sebbene in quel-
le occasioni tutti si aspettavano che raccontasse le sue
avventure, le peculiarità in cui si era imbattuto durante le
sue esplorazioni. Immaginavano che fosse esposto a stra-
ordinari eventi, situazioni bizzarre, pericolose, inusitate.
Oppure braccato da aborigeni insidiosi, serpenti e anima-
li feroci.
“Nulla di tutto ciò”, diceva lui, deludendoli enorme-
mente. “Quello che faccio si svolge in silenzio, nel più
totale anonimato. Il novanta per cento del mio lavoro
consiste nello stare assolutamente immobile.”
“Non sei mai stato assalito da coccodrilli, pantere?…”
“No. Ma sul Rio delle Amazzoni ho filmato una lotta
appassionante fra le lontre giganti e un caimano.”
Parlare, parlare, parlare… I suoi amici volevano sempre
parlare. Come se fosse obbligatorio farlo. Ross intuiva
nella loro loquacità l’espressione della paura di restare soli.
Come se il silenzio fosse il nemico da sconfiggere, un pau-
roso elemento che rivelava certe fragilità, la loro nudità di
fronte ai loro stessi pensieri. Nel frattempo, il pensiero, lo
spirito della vita, annegavano in un fiume di parole.
114 La stagione dell’estro

Erano mille paure a muovere freneticamente labbra e


lingue. E quei suoni coordinati, quelle parole sapiente-
mente articolate divenivano una gabbia per l’amicizia. La
gioia di stare insieme, privata delle sue ali, non poteva più
volare, né esprimersi.
Ross si rendeva conto di essere lui quello che doveva
essere cambiato in modo più drammatico negli ultimi
anni. E il cambiamento consisteva nel non essere cambia-
to affatto. Era quella la vera anomalia.
“Sei diventato noioso. Un vero orso”, gli diceva Meryl.
“Non sai più stare in compagnia.”
Il suo lavoro contemplativo e solitario lo stava allonta-
nando irreversibilmente dalla moglie. Migliaia di chilome-
tri interposti in modo così continuato non favorivano una
felice vita coniugale e famigliare, e qualche volta Ross
covava dei dubbi sulla lealtà coniugale di Meryl, una
donna bellissima, estremamente esposta alle attenzioni
dell’universo maschile.
Sì. Ross sospettava che sua moglie coltivasse una rela-
zione con un altro uomo. Il suo istinto ne era certo, nono-
stante la sua ragione si ribellasse alla semplice idea. Vi
erano molti indizi che glielo facevano pensare, rivelati dal
complesso universo dei segni e del linguaggio del corpo,
ma non poteva averne alcuna sicura conferma.
Tuttavia, un certo fatalismo che gli derivava dallo stret-
to contatto con il mondo animale, rendeva quella doloro-
sa eventualità un fatto comprensibile che, però, lo faceva
piombare in momenti di cupa frustrazione.
Quiete nella tempesta 115

“Ancora qualche anno”, le aveva promesso tante volte,


mentendo anche a se stesso. “Quattro o cinque anni
ancora, poi staremo insieme tutto il tempo che vorrai.”
Nel frattempo, Ross e Meryl erano diventati familiari
distratti, l’uno quasi dimentico dell’altro, avendo le loro
scelte così disposto il corso della loro vita… e Meryl
aveva proprio parlato di divorzio.
Quell’idea non lo aveva mai neanche sfiorato, eppure, a
trentacinque anni, Ross correva il rischio imminente di
perdere la sua famiglia. Sentiva insinuarsi nelle viscere un
malinconico senso di impotenza, soprattutto la sera, nel-
l’infinita solitudine di un camera d’albergo o raggomitola-
to in una tenda, nel buio della foresta.
Aveva commesso un errore a sposare Meryl. Era stato
un errore sposarsi. Lui era già sposato con se stesso –
testimone di nozze l’incanto della natura, quella più intoc-
cata e inarrivabile, che non si può descrivere per il bene-
ficio di altri, ma solo contemplare in prima persona con
occhi predisposti per l’infinito.
Il suono, la luce e gli odori muschiati della creazione
erano un balsamo per l’anima ferita di Ross. La Natura era
la ragion sufficiente della sua gioia personale e, allo stes-
so tempo, della sua infelicità coniugale.
… Pensare, ascoltare i messaggi sempre affermativi
delle piante e dei più schivi abitanti della foresta, guarda-
re la natura, l’unica certezza e, finalmente, farsi restituire
uno sguardo da lei.
Bellissima!
116 La stagione dell’estro

Ordine. Ordine e sangue freddo. Grazie al più profon-


do degli eremi l’uomo aveva scoperto che, nonostante
tutto, non si è mai soli, che la stessa solitudine è una dama
di compagnia che vuole sentirsi benvenuta quando decide
di farti visita.
Ross aveva imparato a percepire lo spirito e la logica
della Natura, il suo pensiero e il suo silenzioso operare,
che mette a segno colpo dopo colpo, sebbene l’uomo fac-
cia di tutto per farla arretrare e scomparire dietro la spin-
ta dell’asfalto, dei tralicci e del cemento.
E, calato in quelle selvatiche essenze, nel momento in
cui l’imminente dramma familiare cercava di strangolare
la sua fede nella vita, quando non si aspettava più di poter
tornare a sorridere, accadeva il miracolo.
Rieccolo, il sorriso, timido, affacciarsi di nuovo, facen-
dosi largo fra i muscoli del viso, divenuti un groviglio di
tensione. Rieccola! Ritornava, la gioia di vivere, mentre
correva sul tappeto di foglie, umido e morbido, scavalcan-
do savane e acquitrini. I raggi del primo sole saettavano
filtrati dalle foglie aghiformi dei pini di alta collina… e
subito una inspiegabile esultanza lo coglieva di sorpresa,
come una rivelazione celeste. Il bello esisteva ancora e lo
avrebbe salvato.
Unici compagni… il suono del suo affanno e il battere
del suo cuore.
Anche loro vibravano di un’armonia amica. Parlavano e
lo consolavano.
Contatto 117

Contatto
da La stagione dell’estro

Ross viene avvicinato da una donna misteriosa. Percepisce un tur-


bamento… non è solo attrazione per una bella donna.

“Lei è una donna sorprendente”, disse Ross. “Ha l’aria


di avere i mezzi e l’arte per realizzare quello che vuole.”
“Lei si sbaglia di grosso, sig. …”
“Anderson, Ross Anderson.”
“Jamil Consalvo, piacere.”
Il nome della donna lo colpì, ma se ne stupì appena. In
una creatura così misteriosa anche il nome doveva conte-
nere la traccia di un presagio, una sorta di avviso.
“Jamil…”, pensò. “Che insolita eco orientale!”
“Le va di prendere una birra?”, le chiese subito Ross,
ridivenuto cosciente della conversazione.
Jamil non si mostrò sorpresa dall’invito e fece ruotare
l’iride alla ricerca di una possibilità. Infine lo guardò per
la prima volta, fissandolo con decisione, e rispose senza
preamboli: “Accetto, grazie. Prima, però, devo sistemare
una faccenda.”
118 La stagione dell’estro

Digitò allora un numero al cellulare e parlò concitatamen-


te con qualcuno. Indubbiamente una donna. Era più facile
distinguere la voce stridula all’altro capo del telefono che
quella bassa e discreta di Jamil, a pochi centimetri da lui.
Riposto il telefono nella borsetta, la donna disse in un
sospiro di complicità: “Siamo liberi di bere la nostra birra.
Non mi pare vero. Ho un’ora a mia disposizione.”
“Ditevi tutto!”, disse loro Marilyn distrattamente,
lasciando entrambi di stucco.
“Nonostante sia mia figlia, non smetterà mai di sorpren-
dermi”, esclamò Jamil, scotendo la testa.
Ross e Jamil si parlarono un poco – riuscendo comun-
que a dirsi moltissimo per essere due perfetti estranei.
Non vi furono convenevoli fra loro. Nella conversazione
vi erano lunghissime pause, ma non imbarazzo: avvezzi
alla silenziosità, avevano entrambi il dono di farla espri-
mere. Jamil, anche tacendo, diceva sempre moltissimo. Le
lunghe pause non interrompevano la conversazione e i
due trovarono amabilissimo ascoltarsi in silenzio.
L’assenza di suono li avvicinava invece di allontanarli.
A Ross sfuggiva completamente lo sguardo di lei, reso
invisibile da due lenti scure impenetrabili, a prova di
sguardi, anche i più appiccicosi e inquirenti. Fu colpito
dalla circospezione con cui la donna si muoveva, sempre
guardandosi intorno, come per tema di essere spiata.
“Mi sono assicurata che la governante si tenesse fuori
dai piedi per un po’. Le ho dato una commissione da sbri-
gare in città e prima di un’ora non sarà di ritorno.”
Contatto 119

“Deve dar conto di quello che fa… alla sua governante?”


“È al soldo di mio marito, e sono sicura che lo tiene
informato di ogni passo che metto.”
“Parlare con lei”, disse l’uomo, “mi ricorda la jungla.”
“Non so cosa pensare. Devo essere contenta, preoccu-
parmi… sentirmi offesa? Me lo dica lei…”
“Volevo farle un complimento… Ho solo detto che mi
ricorda la natura…”
Sul labbro di Jamil i muscoli disegnarono una impercet-
tibile piega di lusinga.
“L’idea non mi dispiace”, disse Jamil, liberando final-
mente un sorriso, il primo da quando si erano incontrati,
che sembrò aggiungere chiarore all’accecante pomeriggio.
“È il suo modo di correre… di staccarsi dal mondo dei
rumori e, allo stesso tempo, di essere vigile come uno spi-
rito della foresta. Usa il corpo per raccontare una passio-
ne. Qualcosa la preoccupa, che le sta a cuore.”
Jamil sorrise ancora, confusamente intrigata dalla capa-
cità di osservazione di Ross. Si sentì scoperta, ma non
provò imbarazzo.
“È proprio lui!”, pensò la donna, poi disse: “Il portiere
mi ha detto che lei è un naturalista. Immagino che solo un
grande amore per la natura possa indurre qualcuno a visi-
tare posti come questo.”
“Anche una grande curiosità per gli esseri umani.
Studiando gli animali mi sono scoperto antropologo.”
Parlando con la donna, Ross ebbe il riscontro a quanto
aveva già intuito: vi era in lei una naturale capacità di
120 La stagione dell’estro

ascoltare e comprendere, l’atteggiamento che subito


distingue le persone che hanno tanto visto o che hanno
molto sofferto.
Senza sapere perché, l’uomo sentiva di potersi rivelare e
parlare a ruota libera delle cose che più amava.
“Anche la Natura è in continuo movimento. Il movi-
mento è passione.”
“Lei è un osservatore sensibile”, disse la donna.
“Se sta attenta…”, lui continuò, “… capisce che, prima
ancora che lei noti la sua presenza, la natura si è già accor-
ta di lei, la osserva e…”
“Lei si sente guardato dalla Natura?… Un osservatore che
viene osservato!…”
Ross sorrise e aggiunse a bassa voce: “È uno sguardo
discreto, mai invasivo. Non giudica. Tu sei là e, a lei, que-
sto basta. È stupenda la sensazione di esserci. In nessun
ambiente cittadino si ha la possibilità di capire che esisti
veramente, mentre nella foresta sei vero – non indispen-
sabile, ma sempre importante.”
“La invidio. Lei parla come un uomo libero.”
Jamil scorse nel sorriso affabile di Ross un velo di affli-
zione, un languore dell’anima che traspariva nonostante le
sue pupille rilucenti, capaci di bagliori inspiegabili.
Ma gli occhi della donna riuscirono ad andare oltre. Le
apparve evidente che l’uomo serbasse per la vita un
rispetto che trascendeva il suo dolore – temporaneo o
permanente che fosse. Ogni suo gesto rivelava una gioia
soggiacente, assolutamente intoccabile dalle circostanze o
Contatto 121

dall’ambiente. Una disposizione congenita, che non si


può apprendere in nessuna scuola, e tuttavia acquisibile
artificialmente solo attraverso un coraggioso viaggio negli
abissi della propria coscienza.
“Mio marito non potrebbe mai credere che sarei capace
di sedermi a bere e conversare con un altro uomo”, disse
lei. “È convinto che io sia una sua creatura, spirito e
corpo. In tutti i sensi. Proprietà immobile… Nonostante
la velocità con cui ho vissuto per quindici anni.”
“Suo marito è molto geloso di lei?”, azzardò lui.
“La gelosia non è un problema, finché si è amati… o si
ama. L’amore affronta e sconfigge anche la barbarie.”
“Nessun uomo gradirebbe vedere la sua donna in inti-
ma conversazione, seduta a bere con un altro…”
“Ma un uomo non ha il diritto di essere geloso della sua
donna, se non la ama… È una beffa.”

Una tempesta di pensieri misti e indefinibili mise a sub-
buglio la mente di Ross… E tuttavia, il cielo annunciava
il tramonto.
Il candore della natura in cui erano calati riduceva la loro
inquietudine a una goccia turbolenta costretta a disper-
dersi in un mare di tranquillità. Come se quella impertur-
babile bellezza avesse su di loro l’effetto di un benigno
contagio che, del tutto inconsapevolmente, assumevano
ed emulavano.
Su un palcoscenico di fascino impareggiabile il paesag-
gio collinare su cui sostavano precipitava velocemente
122 La stagione dell’estro

verso un oceano cupo color cobalto. Una remota cappa di


cumuli avanzava dai confini del mondo nel cielo arancio
e fuoco del tramonto.. Come un mantello sventolato dagli
alisei il nuvolone frastagliava la linea dell’orizzonte, facen-
dola somigliare e coincidere con la Cordillera di monta-
gne a Nord-Est.
“Arriva il temporale”, disse Jamil. “Riportami in città.”
Il volo 123

Il volo
da La stagione dell’estro

Una scoperta sconvolgente viene registrata dalla telecamera dell’eto-


logo naturalista. Sembra impossibile, eppure…

La pioggia arrivò e sembrò purificare, insieme all’aria


tersa dei tropici, anche le più dissennate pratiche dei bas-
sifondi metropolitani e delle favelas. Acqua scrosciò tutta
la notte e si ritirò soddisfatta solo agli albori del mattino.
I puntuali alisei del Mar delle Antille avevano appena ini-
ziato a risalire costoni e colline, dilagando sulla terraferma
come una invisibile marea benigna che metteva in stato di
vibrazione le creature animali e vegetali.
Anche Ross era in fibrillazione. “Ecco che arriva il
sole!”, pensò, pieno di aspettativa, mentre era affacciato al
balcone della sua stanza.
“Tempo perfetto per volare.”
Chiese all’assonnato portiere di far preparare un ther-
mos di caffè e scambiò qualche parola di buongiorno con
una coppia di anziani tedeschi che erano di partenza.
Nessuno voleva svegliarsi quella domenica mattina.
124 La stagione dell’estro

Il turbolento sabato cittadino aveva anestetizzato gli


animi infelici che cercano refrigerio nelle attività della
notte, spesso malinconiche, talvolta violente. Il fine setti-
mana serviva su un vassoio frutti sensuali a buon merca-
to, comunque adeguati a far dimenticare momentanea-
mente una vita quotidiana non amata, sempre più distan-
te dal semplice e dal bello.
Mentre i netturbini ramazzavano i resti lasciati sui mar-
ciapiedi dalla inquieta etnia crepuscolare, Ross era indaf-
farato ad assicurare sulla jeep l’equipaggiamento. In
un’ora avrebbe raggiunto il Monte Toka, che con le sue
antichissime curve offriva uno spettacolo imponente,
visibile da decine di chilometri.
“Chissà quanta gente vorrebbe recuperare almeno un
po’ della vita vera, quella che inizia appena usciti dalla
città”, disse Ross a Miguel, il garzone dell’albergo.
Miguel replicò mestamente: “Capisco ciò che vuol dire
señor Anderson… ma le persone semplici come me pos-
sono solo cercare di sopravvivere. Sono i nostri gover-
nanti che dovrebbero aiutarci a vivere in modo più pulito
e naturale.”
Mentre percorreva la strada solitaria che portava a
Nord-Est, Ross si rese conto di essere meno concentrato
del solito. La sua mente non aveva più un unico obiettivo,
ma tendeva a divagare altrove, e su una persona in parti-
colare, Jamil.
Ne fu leggermente infastidito, allo stesso tempo, quel
pensiero di lei, delle sue labbra che si muovevano veloci
Il volo 125

per parlare, dei suoi occhi timidi ma saettanti, erano un


sogno vellutato e dissetante. E custodiva le immagini della
donna, il suono della sua voce come fossero il segreto
inarrivabile di una visione angelica.
Cosa stava accadendo?
Non volle dare un nome a quelle emozioni e, come
accade in volo, in una violenta cabrata per evitare uno
spuntone di roccia, restituì tutta la sua intelligenza e il suo
cuore allo scopo principale della sua visita in quel luogo
toccato dal dito di Dio.
Per fare il punto della situazione fermò la jeep e con-
trollò ancora una volta che l’equipaggiamento fotografico
e la strumentazione di volo fossero in perfetto ordine. Era
necessario tarare l’altimetro elettronico da polso sul livello
del mare. Lo azzerò e verificò che le batterie fossero cari-
che. Lo erano. Quel controllo straordinario lo fece centra-
re completamente sul suo lavoro. Quindi ripartirono.
Man mano che il suo fuoristrada si arrampicava sulla
serpentina della montagna, si aprivano ai suoi occhi pano-
rami sconfinati.
“Un incanto di cui ogni persona dovrebbe godere ogni
giorno”, pensò il naturalista. “Solo un’ora al giorno di
quel contatto migliorerebbe la vita di chiunque. Noi non
rispecchiamo solo gli atteggiamenti delle persone che ci
circondano. Copiamo anche dall’ambiente. Se permettia-
mo alla natura di avvicinarci, la sua calma e la sua fede
nella vita entrano dentro di noi. È un fatto inevitabile, in
fatale osservanza della legge dell’imitazione.”
126 La stagione dell’estro

Giunti sulla ripida scarpata a trecento metri dalla cima,


i due uomini scaricarono l’equipaggiamento sul terreno
fatto di ciottoli e roccia calcarea.
“Duemilaseicentonovanta metri! Bene. Vento ideale”,
disse Ross, strizzando l’occhio a Miguel.
Il suo assistente gli restituì l’occhiolino. Guardava l’eto-
logo con infinita ammirazione. Avrebbe voluto volare
anche lui. Oh, se lo desiderava!… Ma ogni volta che Ross
lo aveva invitato a librarsi in coppia con lui, il giovane si
era tirato indietro, paralizzato dalla paura.
Miguel aiutò il ricercatore a sfilare il deltaplano dalla
custodia di tela cerata e in pochi minuti montarono la
struttura in lega di carbonio e la vela di nylon.
Indossata l’imbracatura, Ross fece l’ennesima prova di
tenuta dei moschettoni che lo avrebbero agganciato al
baricentro dell’ala, quindi indossò lo zaino e assicurò l’al-
timetro sull’avambraccio destro, la bussola e il termome-
tro su quello sinistro. Assicurò al casco la telecamera per
le riprese aeree, se lo infilò e lo allacciò accuratamente.
“Allora, intesi”, si raccomandò con Miguel. “Vieni a
prendermi…”
“Fra tre giorni e mezzo, señor Anderson! Mercoledì
pomeriggio”, rispose Miguel sicuro di sé. E precisò il
luogo dell’appuntamento: “Alla Cascata delle ninfee.”
Ross gli sorrise e afferrò con decisione il trapezio di
comando.
Guardandosi intorno eccitato, si preparò per il salto nel
vuoto. Sollevò l’ala da terra e valutò l’angolo esatto del
Il volo 127

vento. Lo sentì frusciare irrequieto contro il nylon. Sentì


il cuore palpitare, l’adrenalina precipitarsi nel sangue, il
respiro ventilare irrequieto nell’addome e nella gola.
Godette appieno della consapevolezza di quell’emozione.
“Ciao Miguel!”, gridò forte, quindi prese a correre col
vento in faccia, a lunghi passi, verso l’oceano verde cupo
della foresta amazzonica.
In pochi secondi era sospeso nel cielo, immerso in un
silenzio assoluto, in cui il bip-bip-bip dell’altimetro, che
segnalava l’aumentare e il diminuire della quota, era il
suono più estraneo che potesse immaginare di sentire, a
ricordo di una imbarazzante realtà: non era uccello, bensì
homo technologico.
Le termiche tendevano a farlo salire eccessivamente di
quota, ma, tirando al petto la sbarra del trapezio, ricondu-
ceva l’ala all’altitudine desiderata.
Attivò la telecamera montata sul casco e fece le riprese
panoramiche che avrebbe montato in apertura e in chiu-
sura del filmato. Per un intero minuto fu così perso nel
vento e nelle riprese da non rendersi conto di dirigersi
nella direzione opposta a quella desiderata.
La cascata delle ninfee si trovava esattamente a sessan-
ta chilometri Nord-Nord-Ovest del monte Toka, a circa
due ore di volo in deltaplano.
Spingendo il trapezio in diagonale verso l’esterno, fece
inclinare lievemente l’ala, che descrisse un semicerchio in
un gentile gioco aereo. La macchina volante sembrava
guidata da terra, dal telecomando di un bambino.
128 La stagione dell’estro

Centocinquanta gradi di correzione e il delta alato, fre-


mendo sotto la pressione dell’aria, dopo essersi legger-
mente opposto a quel cambiamento di programma,
puntò il suo vertice nella direzione voluta dal pilota, e si
acchetò nuovamente.
Ross non finiva di meravigliarsi e filosofare mentre era
in volo.
“Quante cose aspettano solo di essere viste”, pensò
quel giorno. “Come le persone, anche gli alberi, i fili d’er-
ba, il vento e il mare aspettano che qualcuno li osservi e li
ami. Senza volerli cambiare. Chiedono solo di essere
rispettati per quello che sono.”
Dopo quasi due ore era giunto a destinazione. La
Cascata delle Ninfee vista dall’alto appariva come una
colata d’argento. Il volo era andato bene. Nessuna peri-
colosa turbolenza lo aveva preoccupato. A circa un chi-
lometro di distanza Ross individuò un volo di avvoltoi
che scendevano a spirale verso un canalone impenetra-
bile di jungla. Vi doveva essere qualche appetitosa car-
cassa.
Fece una digressione dal piano di volo per individuare
il motivo di tanto interesse da parte degli uccelli. Scese di
quota, ma, per quanto si sforzasse di appagare la sua
curiosità, non riuscì a penetrare la pellicola di verde, che
nascondeva completamente il terreno sottostante.
“Devo risalire subito”, pensò. “… o dovrò faticare una
giornata intera per trascinare l’equipaggiamento sul luogo
dell’appuntamento.”
Il volo 129

Il volo planante di un falco fu provvidenziale. L’uccello


gli segnalò con certezza la presenza di un termica ascen-
sionale che lo avrebbe riportato in quota.
Per arrivare alla cascata delle ninfee e scegliere il luogo
più adatto per l’atterraggio doveva risalire di almeno tre-
cento metri. Si portò a soli trenta metri sopra il falco e, in
compagnia del bellissimo rapace, affatto turbato dalla sua
presenza, riprese quota.
“Se questa non è fortuna…”, pensò Ross, emozionato
come un bambino.
Con la telecamera riprese il bellissimo uccello, una
robusta femmina. Fece una zoomata che rivelò le piume
scompigliate dal vento delle penne remiganti, tanto chia-
ramente da poter essere contate ad una ad una.
Il falco cercò gli occhi dell’uomo. L’uomo quelli del
falco. E per alcuni momenti l’uomo fu uccello.
Si guardarono a lungo. Lo fecero con la certezza che lo
sguardo reciproco avrebbe rivelato tutto ciò che era
necessario sapere sulla natura e sulle intenzioni dell’altro.
L’uccello lo guardò con gli occhi dei suoi occhi, e Ross
si immerse in quello sguardo con l’essere del suo essere,
aspettando che l’animale lo aiutasse a rivelarlo a se stesso.
Fra la creatura umana e quella animale si muoveva
un’armonia silenziosa, fatta di vibrazioni non udibili da
orecchio umano, ma riscontrabili con il sesto senso.
Come se ogni essere vivente fosse essenzialmente costi-
tuito da curve armoniche, suoni e note musicali che lo
collegano a tutte le creature organiche e inorganiche per
130 La stagione dell’estro

tramite di un elemento invisibile, una sacra unità a cui


nessuno può sottrarsi, sia esso vivente o inanimato.
Poi, all’improvviso, il rapace distolse da lui ogni cura e
picchiò inspiegabilmente a trecento all’ora verso il ruscel-
lo sottostante. In uno scompiglio di piume, il falco s’in-
franse contro la sua preda, una colomba grigia, che fu
dilaniata dall’impatto con le robuste zampe del rapace. Il
piccione cadde al suolo e il falco gli si poggiò accanto.
Afferrata fermamente la preda esanime con gli artigli, si
alzò pesantemente in volo per andare a raggiungere il suo
nido, dove il maschio la stava aspettando insieme a due
pulcini.
La Cascata delle ninfee era uno dei luoghi più misterio-
si su cui gli occhi di Ross si fossero mai posati. Una foschia
di molecole acquee, eterea come un velo di fata, si spande-
va nel raggio di un chilometro, diradandosi via via e fon-
dendosi con l’ossigeno terso e trasparente della foresta.
Una buona jeep poteva raggiungerla grazie al sentiero
naturale scavato da un antico torrente, che si congiungeva
prima con una mulattiera, quindi con la strada statale.
Ross individuò la radura più conveniente per l’atterrag-
gio, e il deltaplano, digradando dolcemente a spirale, infi-
lò il canalone che conduceva dritto allo spiazzo scelto per
l’atterraggio. Due impennate frenanti al limite dello stallo
furono sufficienti per farlo adagiare sul terreno come una
farfalla addomesticata.
Smontata la struttura volante, Ross la infilò nella custo-
dia e la nascose accuratamente sotto il fogliame di felci
Il volo 131

insieme all’equipaggiamento di volo, in modo che non


risultassero visibili neanche dall’alto.
Mentre osservava gli avvoltoi che volteggiavano a circa
tre chilometri da lui, bevve un caffè. Tiepido, ma ancora
buono.
Pensò subito di riprendere gli avvoltoi nell’atto di ban-
chettare, e valutò la parte che quelle riprese avrebbero
potuto avere nel documentario che aveva concepito.
“Per quanto la scena risulti intrigante…”, pensò. “…
sarebbe fuori luogo nel contesto generale del filmato…
Per adesso filmiamo, poi si vedrà.”
Si era appena addentrato nel denso della foresta, quan-
do Ross scorse con la coda dell’occhio un’ombra chiara in
movimento. Si volse di scatto per intercettarla ma non
vide nulla. Pensò per un attimo a un candido uccello
acquatico, una gru o un fenicottero rosa, ma il suo sape-
re non ammetteva la loro presenza nella penombra della
jungla, bensì nei più aperti spazi acquitrinosi.
Per un attimo sperò di stare per compiere la scoperta
ornitologica del secolo… una specie mai documentata, un
uccello sconosciuto, non classificato.
Attivò la telecamera e si preparò per ciò che aveva
sognato da sempre: poter dare un nome ad una creatura
animale mai vista.
Con le infinite cautele e gli espedienti di silenziosità
richiesti dal suo lavoro, si mosse impercettibilmente verso
il luogo della manifestazione e scandagliò il tratto di
boscaglia con occhi scrutatori. Immobile il resto del
132 La stagione dell’estro

corpo, solo le pupille sondavano come impazzite ogni


cespuglio, ogni ramo o tronco d’albero che potesse
nascondere una creatura di quelle dimensioni.
La sua sistematica ricerca durò quasi un’ora. In tali
situazioni, discrezione e pazienza non possono mai esse-
re eccessive. Quindi, non avendo trovato nulla, imputò
l’avvistamento ad un bizzarro scherzo dei sensi. In ogni
caso, l’evento poneva dei limiti al suo proverbiale equili-
brio. Era la prima volta che i suoi occhi lo inducevano in
errore.
Affatto deluso dal mancato contatto, proseguì la sua
ricerca, e la sua attenzione ritornò al luogo ritenuto così
interessante dagli avvoltoi. Felci e piante del sottobosco in
quel tratto si diradavano e non rendevano necessario l’uso
della roncola per farsi largo fra i cespugli, sicché Ross
procedeva velocemente.

Ed ecco che accadde di nuovo! Ancora una volta il suo
occhio allenato avvertì una presenza in movimento.
Ross si rese conto che la stava aspettando, poiché istin-
tivamente cercò di catturare quel moto di chiarore con la
telecamera. Non fu certo di essere stato abbastanza tem-
pestivo e volle subito verificare sul replay digitale.
Il piccolo schermo a cristalli liquidi rivelò una repentina
luminosità in movimento obliquo discendente. L’immagine
era vaga, indistinta, e non svelava nessuna forma definita.
Alla moviola, tuttavia, solo per una frazione di secondo,
emergeva, rilucendo, una figura semidistinta. Un primato!
Il volo 133

Certamente un mammifero dalla postura straordinaria-


mente eretta. Sì, indubbiamente umanoide.
“Così veloce!”, pensò Ross. “Troppo veloce. È appar-
so all’improvviso e scomparso nel nulla. Nessuna traccia
del suo passaggio, nessun movimento di rami o foglie.
Nessun nascondiglio adeguato. Eppure è svanito. Come
inghiottito da un’altra dimensione.”
Il ricercatore provò una stretta di sbigottimento allo
stomaco, la consapevolezza indefinibile di non essere
solo. Sentì addosso la pressione di occhi - non animali -
che lo osservavano e lo vagliavano.
Analizzò il video più volte. Gli parve di distinguere il
corpo flessuoso di un essere che esprimeva una sconcertan-
te compostezza, una creatura dalla dignità superiore.
Avrebbe giurato di avere intravisto in quel volto lo stesso
sguardo della piccola Marilyn. O, forse, era solo il suo pen-
siero che, in modo del tutto casuale, era corso alla bambina.
“Ragioniamo!”, si impose.
Ma dopo aver riflettuto sull’avvenimento, la sua mente
razionale subì un crollo. Per un momento Ross credé di
essere diventato pazzo. L’uomo non riusciva a smettere di
guardarsi intorno. Trepidazione, sconcerto, smarrimento
riuscivano a sconvolgere la sua logica genuinamente
scientifica.
Non il terrore che si prova quando si percepisce un
pericolo mortale… Era piuttosto l’improvvisa certezza
che tutto il mondo conosciuto fosse divenuto qualcos’al-
tro. Ed era accaduto in un attimo.
134 La stagione dell’estro

La sua concezione delle cose, fino a quel momento


rigorosamente raziocinante e fisica, era stata mutata da un
evento certamente metafisico, che aveva tutte le connota-
zioni di un sogno. Certamente! Quel genere di manifesta-
zioni fanno parte della realtà dei sogni. Ma lui era sveglio,
perfettamente vigile e nel pieno equilibrio mentale.
Quell’apparizione, assurdamente surreale nella sua sicura
realtà, era stata persino documentata da un video.
Un non-senso!
Ross tremò. Si mise seduto ai piedi di un albero, asso-
lutamente immobile, ogni suo muscolo annichilito da
una rivelazione che può solo rendere muti e inespressi-
vi; tuttavia, la sua mente era mobile, più fertile che mai,
in uno stato di attiva contemplazione. Ogni sua cellula
nervosa sembrava navigare in un mare di quieta eccita-
zione. Quello che aveva visto riguardava più il cielo che
la terra.
“A un ricercatore certe cose non possono accadere”,
pensò. “Nessun uomo di scienza ha mai vissuto esperien-
ze simili… o forse sì, ma non ha osato palesarle… In tal
caso, perché non le avrebbe rese pubbliche? Per non gua-
stare la sua reputazione di scienziato? Per non essere bef-
feggiato o etichettato come visionario? O per una estre-
ma forma di riverenza per ciò che l’uomo non è ancora
pronto a recepire?”
Si domandò cosa fare della registrazione digitale.
Valutò la possibilità di cancellarla e distruggere, con essa,
ogni prova di quel formidabile evento. Lo fece.
Il volo 135

Nulla di tutto quanto i suoi occhi avevano visto poteva


essere accaduto. Doveva essersi trattato di un sogno
inspiegabile, inverosimile.
Quindi inesistente.
Quell’esperienza doveva essere bocciata e rigettata per
sempre. Non poteva entrare a far parte del suo mondo,
così meravigliosamente logico e intelligibile.
Libertà 137

Libertà
da La stagione dell’estro

La dimora di Jamil era collocata su un’altura in cima a


un dirupo, e il muro di cinta, alto cinque metri, era posto
sotto assedio da un groviglio di Crategus, sterpaglia spino-
sa e da alberi di alto fusto che costituivano una barriera
difensiva ancor più efficace del cemento armato. Solo gli
uccelli potevano scavalcarla e sbirciare all’interno.
Il perimetro, lungo otto chilometri, racchiudeva, oltre
alla casa a due piani e le annesse dependance per il perso-
nale, un poligono di tiro, un campo da golf a diciotto
buche, una pista di go-kart, un campo da tennis, due pisci-
ne, un eliporto.
Un’immensa voliera con infinite varietà di uccelli tropi-
cali decorava il parco antistante l’abitazione. Uccelli mera-
vigliosi e rarissimi che avevano persino iniziato a ripro-
dursi in cattività ed erano l’orgoglio di Manuel. Ci erano
voluti anni per costituire quel patrimonio di esseri alati.

Rimasta sola in giardino, Jamil volse distrattamente lo
sguardo verso la grande gabbia degli uccelli. La osservò a
138 Antonio ’o pazz

lungo, immobile. All’improvviso apparve sul suo volto


tutto il lucore del sole e si alzò di scatto.
Si avviò con passo di marcia verso la voliera. Aprì le
due porticine della gabbia e, agitando le braccia, sospinse
gli uccelli verso la libertà. Liberò quasi tutti i preziosi vola-
tili. Tuttavia, qualche coppia di uccellini, che aveva già
fatto il nido e iniziato la cova, non accettò l’invito e rima-
se in gabbia. Non giudicò la libertà più importante della
sua progenie.
Tuttavia, appagata dal suo gesto, Jamil disse bisbiglian-
do: “L’ho fatto per te, Ross… O forse soprattutto per
me.”
Si era resa libera anche lei.
’A tromba d’aria 139

’A tromba d’aria
da Antonio ’o pazz’

Questa serie di episodi sono pescati da un mare vero. Antonio esi-


ste ed è uno dei più formidabili pescatori del bacino mediterraneo.

Il vento di Ponente si era svegliato, mare forza tre in


aumento, ma ciò non costituiva una novità per il popolo
del mare di Procida. Quella sera i pescherecci non sareb-
bero usciti a pesca: la storia finiva lì, e capitava spesso l’in-
verno. Eppure, gli uomini di Antonio o’ pazz’ erano già al
molo in attesa del loro capitano, e questo, sì, rappresenta-
va una anomalia.
Ciro, il più giovane dell’equipaggio, già scalpitava e
stava per saltare sul gozzo per raggiungere il Lucia Madre.
“Che fa’, guagliò?” 1, disse Rosario.
“Mett’ ’u café e prepar’ ’e petre pe’ ’e lampar’.” 2, rispo-
se Ciro.
“’O Cumannant’ s’aspett’ a terra” 3, spiegò Rosario.

2
ragazzo
2
Metto a fare il caffè e preparo le pietre per (ancorare le barche con) le lampare
140 Antonio ’o pazz

“Zi’ Antoni a ditt’ che pozz’ salì quann’ voje” 4, disse il


ragazzo.
“’O Cumannant’… s’aspett’… a terra!”
Rosario, questa volta, aveva parlato fra i denti. Lo aveva
fatto volgendo lo sguardo altrove, quasi a volersi trattene-
re da un intervento più amaro, e a Ciro non restò altro da
fare che rinunciare al suo intento.
Di lì a poco Antonio arrivò silenzioso, senza salutare, e
con il passo più deciso del solito.
“Jamm ’o magazzin’!” 5, disse Antonio, sfilando davan-
ti ai suoi uomini e lasciandosi dietro la più totale esitazio-
ne: Antonio non aveva mai dato un ordine del genere.
Con un corteo di dieci uomini al seguito il Capo barca
attraversò la strada che separava il molo dal magazzino.
“Stasera non si pesca”, disse il capo barca. “Pijàt’ ’a
cima ’rossa e ’u fierr’ pisant’. Sta ’arrivà ’o finimunn’.” 6
Quindi, irritato dall’immobile stupore degli uomini,
aggiunse: “Iamm’ guagliù! Sta pirdimm’ tiemp’. Mittimm’
natr’ fierr’ a’ cianciola, e ligamm’ stritte ’e barche de ’e
lampare sinò ’a tromba d’aria se ’e pport’.” 7
Gli uomini guardarono il cielo, annusarono il vento
e scrutarono l’orizzonte tutt’intorno, senza però riu-
scire a scorgere un segnale di quanto Antonio aveva
3
Il comandante si aspetta a terra
4
Zio Antonio ha detto che posso salire quando voglio
5
Andiamo al magazzino
6
Prendete la cima grossa e l’ancora pesante. Sta arrivando il finimondo.
7
Forza ragazzi! Stiamo perdendo tempo. Mettiamo un’altra ancora al pesche-
reccio e leghiamo strette le barche delle lampare sennò la tromba d’aria se le
porta via.
’A tromba d’aria 141

preannunciato. A parte una foschia leggera nel cielo di


Posillipo.
“Quala tromba d’aria…, Zi’ Antò?”, azzardò Ciro.
Antonio afferrò da solo la cima e prese a trascinarla di
peso attraverso la stradina del porto. Il moto di energia
del capitano provocò una istantanea reazione a specchio:
ogni membro dell’equipaggio superò l’inibizione della
sorpresa e iniziò a muoversi con la consueta sicurezza.
Ognuno divenne improvvisamente consapevole del
suo ruolo. Un ruolo mai ben precisato, ma definito di
volta in volta, secondo le circostanze. Tutti facevano
tutto: nessuna divisione di ruoli o compiti.
Come un esercito di formiche che tengono un occhio
attento su ogni attività della formica più vicina, così,
senza ordini specifici, ciascuno muoveva gambe, braccia e
mani, arrampicandosi, sistemando parabordi, sciogliendo
e riannodando in un peculiare sistema auto-organizzato.
L’autorità di Antonio era una presenza nell’aria che quasi
mai si manifestava esplicitamente.
Il risultato era sempre un capolavoro d’orchestra spon-
taneo, affinatosi nei secoli, apparentemente privo di stra-
tegia, comunque capace di raggiungere il suo scopo.
“Allora, stasera no’ imm’ a pisca’…” 8, constatò Ciro
con aria rassegnata, mentre la seconda cima veniva assicu-
rata ad un corpo morto sul fondale.
Antonio lo guardò senza replicare, ma, di lì a mezz’ora,
fu il cielo a farlo: in pochi minuti si fece nero e coprì la
8
Non andiamo a pescare?
142 Antonio ’o pazz

luna come un manto infido steso su mare e terra da un


dio infuriato.
I cuori degli uomini persero un colpo e cambiarono
ritmo, iniziando a pompare sangue un po’ più forte, come
per rispondere alla voce della natura in modo automatico:
erano tutti incantati da quella forza marina che era stata
osservata solo nelle cronache, e che sembrava esclusiva
delle coste tropicali.

***

Il vento continuò a rinforzare e divenne ogni minuto


più torvo. Gozzi, barchette e motoscafi da diporto prese-
ro a tirare e strattonare come cavalli desiderosi di sbaraz-
zarsi di briglie troppo strette. Alcune imbarcazioni furono
dapprima trascinate dal vento, andando a cozzare con
altre. Con l’impennata improvvisa delle turbolenze più
forti, quasi tutti i natanti vennero ammassati contro pon-
tili e banchine in uno scenario surreale, impensabile.
Poi, subito dopo, la natura tutta prese a fremere e sibi-
lare come un fantasma fuori di senno, sfasciando, dilagan-
do e invadendo, disposta ad ingoiare ogni cosa, pur di
ridefinire la sua autorità.
Acque e natanti, come pagliuzze, furono sollevati fin
sulla diga e sulla strada.
Il cataclisma marino imperversò fra le banchine e le
viuzze del porto solo per mezz’ora, ma quando aria e
acqua cominciarono a ritirarsi, la via principale del porto
’A tromba d’aria 143

di Procida sembrava una discarica di fasciami e relitti


scheletrici appartenenti ad una civiltà scomparsa.
Nello specchio d’acqua del porticciolo, pochi minuti
prima pullulante di festose imbarcazioni, restavano a sfi-
dare le folate residue solo due natanti: il grande traghetto
di Ischia e il Lucia Madre.
La tromba d’aria risolse di andare a sedarsi al largo,
verso il canale di Sicilia, lasciandosi dietro una costellazio-
ne di malinconici mulinelli che appena solleticavano cime
e sartie della cianciola.
Antonio uscì dal magazzino e fu il primo ad avventu-
rarsi per strada, mentre i suoi uomini erano ancora inten-
ti a commentare animatamente la furia marina.
L’uomo prese a valutare gli effetti del ciclone; poi volse
uno sguardo fiero al suo peschereccio: tutto in ordine - a
parte le pile di cassette poste sulla cabina di comando, che
erano state spazzate via. Quindi scrutò attentamente il
mare, il cielo e il movimento delle nuvole: osservando un
trio di gabbiani che volavano verso nord-nord-est al largo
di Ischia, fu colto da un moto improvviso di irrequietezza.
Sul suo volto gli occhi si fecero più piccoli, e il suo
aspetto, normalmente mite e misurato fu completamente
mutato da un’insolita espressione rapace. A passo svelto
raggiunse gli uomini nel magazzino e disse: “Jamm’ a
bordo, guagliù. Amm’ a faticà!” 9
“E ’a tromba d’aria, Antò?...”, replicò Mimmo con aria
preoccupata.
9
Andiamo a bordo, ragazzi. Andiamo a lavorare.
144 Antonio ’o pazz

“Quala tromba d’aria?...”, rispose Antonio. “Cra’ a


Pezzuole purtamm ’nu poc’ ’e pesce sule nuje, e ci ’u
facimm’ pagà comm’ dicimm’ nuje.” 10
“Prima ’a ditt’ ca no ssi pisca”, disse Carmine, il fratel-
lo maggiore di Antonio.
“Emmò aggi’ cangiat’ cap’… Facimmece ’na passeg-
giata e ricuperamm’ i’ cascette ca’ si n’ann vulat’.” 11
I membri dell’equipaggio si guardarono muti e ancor
più costernati di prima. Solo Carmine, trovò le parole:
“Tu si’ propia pazz’, Antò!” 12
“Forza, guagliù”, disse del tutto incurante Antonio ’o
pazz’. “ ’O mare è buon’.”
Fu una pescata memorabile: qualcuno degli uomini
comprò un’auto nuova.

10
Quale tromba d’aria. Domani a Pozzuoli il pesce lo portiamo solo noi e ce lo
facciamo pagare come vogliamo noi.
11
E adesso ho cambiato idea. Facciamoci una passeggiata e recuperiamo un po’
di cassette che se ne sono volate via.
12
Tu sei proprio pazzo, Antonio.
’A Motovedetta 145

’A motovedetta
da Antonio ’o pazz’

L’esperienza di un giovane pescatore con un giovane delfino.

Per gli abitanti di Procida i giorni erano una marcia


regolare, scandita dal vento e dalle stagioni, eppure per
Antonio il tempo si fermava quando andava a pescare.
Maestrale o scirocco, estate o inverno, poco contava. Il
mare era là, e Antonio con lui, come un amico o persino
un parente affidabile, nel bello e nel cattivo tempo.
Antonio poteva salire sul peschereccio solo l’estate, a
scuola finita.
“ ’A vita ammare è dura, guagliò”, gli diceva il padre.
“E ’nu guaglione coma te, prima di tutt’ ’a da studia’ e ’a
da impara’ l’italiano.” 13
Arrivava la bella stagione e Antonio già sognava l’esta-
te, per poter uscire a pescare tutti i giorni, non soltanto il
13
La vita a mare è dura, e un ragazzo come te, prima di tutto, deve studiare e
imparare l’italiano.
146 Antonio ’o pazz

sabato e la domenica. A scuola sentiva una stanchezza che


gli cuciva sulle palpebre il piombo della lenza.
Ma doveva tenere duro.
“Si si’ promoss’, stestat’ issi a pesca cu’ nuje” 14, gli pro-
metteva il padre ogni anno, quando arrivava la primavera.
E papà Ciro, normalmente, manteneva le sue promesse.
Antonio già sognava di catturare il suo primo tonno.
Sognava e sognava. Il fratello, Carmine, lo prendeva in
giro: “Ma quann’ maje ’na sardina ’a pijat’ ’nu tunn’?” 15
Studiando le Repubbliche Marinare, Antonio era dive-
nuto un ammiratore dei veneziani. “A Venezia si sposan’
cu ’o mare tutti gli anni”, aveva annunciato a cena, orgo-
glioso di quella briciola di sapere acquisita a scuola.
“ ’O doge butta nella laguna un anello tutto d’oro.
Dovremmo farlo pure noi a Procida.”
“ ’O Sindac’ no’ butta oro, però una corona di fiori, al
mare, gliela regaliamo anche noi”, aveva replicato Ciro.
“Che cosa farebbe un procidano se un giorno il mare non
ci fosse più?”
“Eh… staremmo freschi!”, aveva replicato Carmine.
Poi, apparentemente a sproposito, il padre del fanciul-
lo aveva aggiunto: “Il tonno, però, te lo devi dimenticare.
Il tonno è assassino, e tu sei ancora troppo guaglione per
andare a tonni. Anche i pescatori più bravi devono stare
attenti.”
“È forte assaje?”, domandò Antonio.
14
Se sei promosso, questa estate vieni a pesca con noi.
15
Ma quando mai una sardina ha preso un tonno?
’A Motovedetta 147

“Una forza della natura…”, rispose Ciro. “Quando


sente la puntura dell’amo nella gola, esce cieco e pazzo.
Tira e strappa e poi picchia a fondo. Per il furore si va a
sfracellare il muso contro gli scogli. Se non ci hai una
cima lunga ti tira giù con tutta la barca.”
“Cento metri?”, chiese subito Antonio.
“Pur’ duecento e più… Dipende do’ fundal’”, rispose
Carmine, morsicando un totano ripieno.
“Tu non mangi, Antonio?”, domandò la madre. “C’è
anche il coniglio alla cacciatora, se vuoi.”
Antonio, con lo sguardo trasognato per ciò che aveva
appena imparato sui tonni, esclamò: “Noi siamo pescato-
ri, non cacciatori; e io non sono un coniglio; sono pesce
e mangio solo pesce.”
“Parola di sardina!”, sentenziò Carmine.
Mentre tutti ridevano alla battuta del piccolo Antonio,
mamma Lucia, baciandolo sulla testa, disse: “Macchè sar-
dina! Tu sei il mio Pesce Stella.”
Antonio sembrò non sentire le parole di mamma
Lucia, ma l’alito caldo di quel bacio si sparse fra i capelli
come un unguento benedetto e lo fece sentire forte come
un tonno di trecento chili.
“Domani vieni a pesca con noi”, disse Ciro al figlio.
La proposta del padre, rarissima, riportò Antonio nella
realtà e gli mise addosso un appetito che decretò la fine
delle ultime polpette di acciughe.

***
148 Antonio ’o pazz

La motovedetta della Guardia Costiera di Ventotene


viaggiava a cinquanta nodi e piombò sul peschereccio di
Ciro come un gabbiano affamato su una sardina smarrita.
Si era avvicinata alla cianciola nascosta da uno sperone di
roccia dell’isola, proprio mentre gli uomini avevano quasi
finito di tirare la rete a bordo. Il pescato era ricco di acciu-
ghe e sgombri misti a pesce bianco, di quello che al mer-
cato di Pozzuoli pagavano molto bene.

“BUTTATE IL PESCE A MARE E PREPARATEVI


PER IL CONTROLLO!”

La voce filtrata dal megafono era stridula e ridicola, ma


non lasciava dubbi sulle intenzioni dei militari.
“Ce l’hanno a morte con noi. I pescatori di Ventotene
sono gelosi del loro mare”, disse Carmine ringhiando.
“Cerco di evitare la Guardia Costiera a tutti i costi, ma
stavolta ci hanno fregati”, bisbigliò Ciro. Poi, ad alta voce
disse: “Comandante, il controllo lo potete fare quando
volete, ma noi, prima, tiriamo il pesce a bordo, perché ce
lo siamo fatto accussì!”. E, parlando, allargò indice e polli-
ce di entrambe le mani a mo’ di ciambella.
“Qua non potete pescare”, gridò il comandante.
“Perché Cumandà’? Siamo in regola”, replicò Ciro con
sicurezza. “Stiamo a più di tre miglia da terra, e qua l’ac-
qua è profonda”, aggiunse il pescatore.
“Chi è lu piccirillo a bordo?”, domandò il militare, indi-
cando Antonio.
’A Motovedetta 149

“È mio figlio, Cumandà’! Mia moglie sta partorendo, e


lui non voleva restare a casa da solo. Comunque ha dodi-
ci anni e fa già la seconda media. Di mare se ne intende.”
“Conoscete le leggi. Non sapete che è vietato portare i
minori su una barca da lavoro… E di notte per giunta.”
La conversazione, che già lasciava prevedere una multa
senza sconti per il povero Ciro, fu interrotta improvvisa-
mente da schiocchi striduli e squittii lancinanti provenien-
ti dallo specchio d’acqua a prua del peschereccio.
“I delfini, i delfini!”, gridò uno dei pescatori, i quali
avevano quasi terminato di recuperare la rete e i pesci.
Un gruppo di delfini a testa grossa davanti alla prua si
agitavano e piangevano pietosamente come per lanciare
un allarme ai pescatori.
“ ’O delfino piccirillo nella rete! Là, là!”, gridò Rosario
A circa due metri di profondità, un giovane delfino era
rimasto imbrigliato e, più si dimenava, più le maglie si
avvolgevano intorno a lui, insaccandolo come un salame.
“Si nu sse’ libbera subito, riman’ suffucat’” 16, disse
Antonio. E prima che chiunque riuscisse a pensare o a
fare qualcosa, Antonio si tuffò in acqua, con i vestiti
addosso, proprio nel mezzo della rete.
“Antonio a mare! Antonio a mare!”, gridarono i pesca-
tori.
“Tiragli il salvagente! Prendi il mezzo marinaio!”, urlò
Ciro a Carmine.
16
Se non si libera subito rimane soffocato.
150 Antonio ’o pazz

I potenti motori della motovedetta ruggirono, e il


comandante militare, con un’abile manovra, la accostò
alla murata del peschereccio in cui veniva tirata la rete per
prestare soccorso al ragazzo.
Antonio, immerso nell’acqua illuminata a giorno dai
fari delle imbarcazioni, con le braccia intorno al delfino,
cercava le maglie impigliate nei denti e nelle pinne del
cetaceo e riuscì quasi subito a svolgerlo dalla stretta della
rete. Il ragazzo ritornò a galla per riprendere fiato, ma
trovò anche il modo di dare istruzioni agli uomini della
motovedetta, più vicini al delfino imprigionato: “Tirat’ i
galleggiant’ da ret’ cu ’u mezz’ marinaio… d’ chella parte
là… là… a poppa.”
“Aggrappati tu al mezzo marinaio e lascia perdere il
delfino!”, gli gridò il comandante.
“No, no!... Tirat’ ’o galleggiant’ e si libbera subito”,
strillò Antonio senza fiato, comunque ancora più forte
dell’uomo in divisa.
Il giovane in mare non sembrava essere in difficoltà e
gli uomini della motovedetta pensarono che per evitare
rischi maggiori sarebbe stato bene assecondarlo, seguen-
do le sue indicazioni.
“Sì, sì… accussì 17!”, gridò Antonio agli uomini, men-
tre si immergeva e riemergeva per controllare lo stato del
delfino e impartire ulteriori istruzioni: “Adesso tirate la
rete un metro sotto il galleggiante… Sì! Tirate forte, verso
prua.”
17
così
’A Motovedetta 151

Poi, con ancora un’immersione, Antonio liberò anche


la bocca del delfino, che dopo un momento di immobile
incredulità, balzò da solo fuori dalla rete, richiamato nella
direzione giusta dai genitori e dai compagni di branco.
Il gruppo di delfini nuotò a lungo tutto intorno a
entrambe le imbarcazioni, forse per ringraziare o solo per
gioire, sotto gli sguardi ammutoliti e ammirati degli uomi-
ni di mare.
Un marinaio lanciò un salvagente ad Antonio e lo tirò
di peso sopra la murata della motovedetta come si fa con
le ricciòle di trenta chili, mentre un altro marinaio già lo
copriva con una coperta.
Ciro raggiunse il figlio sul mezzo militare con la lancia
a traino, e fu il comandante stesso a tendergli la mano per
farlo salire a bordo.
“Dategli una galletta di cioccolato, al ragazzino”, ordi-
nò ai suoi uomini. Poi, preso Ciro da parte, gli disse:
“Cosa devo fare adesso? Dimmelo tu.”
“Vuje mi chiedete, ammé, cosa dovete fare, Cumandà’?”,
rispose Ciro.
“Sono tenuto a fare rapporto e a stendere il verbale di
quello che è successo, lo capisci?... Devo portare il ragaz-
zo a terra… farlo visitare in infermeria…”
Il pescatore lo interruppe: “Ma quanta cosa vulit’ fa’,
Cumandà’, tutt’ stanott’… Lo vedete pure voi che ’u gua-
glion’ sta buon’… E, siccome sta bene, mio figlio me lo
riporto a casa io. Responsabilità mia! Voi dategli un’altra
cioccolata, e chill’ torna a casa pur’ a remi.”
152 Antonio ’o pazz

Il militare, con le mani marzialmente strette ai fianchi,


valutò ogni elemento possibile per dare un senso a ciò che
si accingeva a fare: cercò una conferma nei volti dei subal-
terni; poi guardò le facce dei pescatori, scavate dalla fati-
ca e dalla concitazione; infine, come distratto dal prillare
e dallo squittire dei delfini, prendendo Ciro per un brac-
cio e scostandolo impercettibilmente, mormorò:
“Portatevi il ragazzo a bordo del peschereccio e tornate-
vene a casa.”
Ciro stava per fare chiarezza su un ultima questione,
ma il giovane Antonio lo anticipò.
“E… ’o pesce, Cumandà?...”
Buttando un braccio verso il cielo, il miliare sbottò spa-
zientito: “E pigliatevi pure il pesce… ma ricordatevi…
Non vi voglio più vedere.”
“Figuratevi io!”, stava per concludere Ciro, ma si trat-
tenne, e volle lasciare l’ultima parola al comandante, certo
che una semplice onda, una un po’ più grossa, o un
improvviso colpo di vento sarebbero stati sufficienti a far
cambiare idea al militare.
Da quella notte Antonio volle sapere tutto sulle moto-
vedette: “Non è vero che bisogna evitarle a tutti i costi”,
pensò, stringendo un’intera confezione di gallette al cioc-
colato che il sergente gli aveva messo sotto il braccio.
E Ciro non si sentì più di proibire al figlio di uscire a
pesca con il suo equipaggio, almeno il venerdì sera, anche
se ciò comportava qualche giorno di scuola in meno.
’A Motovedetta 153

Ciro si soffermò a osservare il figlio mentre questi,


rientrando a Procida dopo una interminabile notte di
lavoro, divorava uno sfilatino di pane farcito di tonno e
pomodori sulla punta estrema di prua, in piedi, da solo,
con la faccia al vento.
Antonio non era più un ragazzino. Parlava e si muove-
va come un adulto, anzi, con la sicurezza di un vero capo
barca: guardava le persone dritto negli occhi, senza sfida-
re, né temere alcunché.
Le sere di primavera usciva con gli amici, e l’estate
andava al bar con il suo amico Mimmo, per chiacchierare
con lui fino a tardi.
I ragazzi immaginavano pescherecci veloci e reti gravi-
de di pescato pregiato; sognavano cieli stellati, come solo
dal mare si possono ammirare, per lanciarvi i loro cuori
gonfi di passione: dal profondo dell’addome cresceva il
bisogno di teneri sguardi di ragazze innamorate, incapaci
di perdere l’innocenza.
“Chi lo prenderà tutto ‘sto pesce, se non lo prendiamo
noi?”, si dicevano i due amici: nei loro cuori vigorosi la
voglia straripante di conquista, nei polmoni ansimanti la
certezza dell’immortalità in terre di confine ancora ine-
splorate, dove l’incertezza rende tutto più bello; luoghi in
cui la malattia più nociva e contagiosa, l’assenza di sogni,
è un male sconosciuto.
Primm’ammore 155

Primm’ammore
da Antonio ‘o pazz’

L’incontro – anzi lo scontro – con una ragazza fa ribollire il san-


gue del giovane Antonio.

I veri pescatori non vanno spesso in spiaggia per ozia-


re al sole, forse perché abituati a vedere il mare da un
punto di vista un po’ diverso da coloro che lavorano in
città o in campagna. Ciro ci andava di tanto in tanto con
la famiglia, ma solo nei primi giorni d’estate, quando le
spiagge erano quasi deserte.
“Domani è domenica e andiamo al Pozzo Vecchio”,
annunciò Ciro una sera a cena. “Prendiamo il gozzo e ce
ne andiamo piano piano. Ci sediamo sulla sabbia, come
fanno i signori, e facciamo un bel bagno.”
E così fecero.
Nel porticciolo le barche da diporto cominciavano già
a invadere le banchine, e le distinte signore in bikini e
occhiali scuri sembravano muoversi in punta di piedi, con
il naso al cielo e l’aria indifferente.
156 Antonio ’o pazz

“Fanno finta di non guardare e di non vedere niente,


ma guardano e vedono tutto”, sibilò Rosario maliziosa-
mente.
“Chissà come si annoiano su quei motoscafi così gran-
di”, disse papà Ciro. “Si comprano quei barconi per
distinguersi, ma alla fine si distinguono tanto che riman-
gono soli, sul loro miliardo galleggiante, a guardarsi in
faccia e a inventarsi qualcosa da fare.”
“Guarda a chillollà”, disse Rosario a confermare le
parole del padre. “Ma quann’ mai s’è visto uno che lucida
i parabordi?”
“Possono lucidare pure l’ancora… basta che il
Comune non ci toglie lo spazio, a noi, per fare ormeggia-
re gli yacht. Aumentano ogni anno.”
Il gozzo, scoppiettando al minimo, sfilò lentamente in
mezzo a due motoscafi d’alto mare senza lasciare scia,
mentre un gommone con un potente fuoribordo sfrecciò
loro d’avanti a tutta velocità, sballottandoli come fa il
mare aperto a forza quattro.
La barchetta da lavoro di Ciro passò sotto il faro.
Antonio si sdraiò a pancia in giù sopra il portellone del
vano motore. Era sveglio e felice, con addosso ancora un
residuo torpore da dormiveglia e una grande voglia di
immergersi con maschera e tubo per osservare il mondo
sottomarino come un pesce.
Con l’orecchio attaccato al tavolaccio di legno, distin-
gueva il battito di ogni pistone nei cilindri, e ne percepiva
il movimento e la pressione, mentre le vibrazioni lo mas-
Primm’ammore 157

saggiavano, mettendo in vibrazione le sue membra in


modo dolcissimo, specialmente appena sotto la pancia,
nel basso addome. Antonio cominciò a provare un calore
diverso da quello del motore: un bollore che veniva da
dentro, non da fuori, che mise in trazione e fece stirac-
chiare i giovani genitali. La sensazione era così irrinuncia-
bilmente piacevole da procurargli una sorta di immobile
affanno, una tensione tale che non si accorse che la spiag-
gia era già in vista.
“Che fa’, guagliòoo?”, gli urlò il fratello maggiore.
Antonio, ancora perso in un vago sogno proibito, per
un attimo si sentì scoperto e si fece rosso come una tri-
glia.
“Prendi la cima e tira la barca a terra!”, gli disse
Carmine.
… E l’acqua gelida del mare di maggio ci mise poco a
riportare le membra avvampate del ragazzo alla ordinaria
temperatura.
Non c’era molta gente in spiaggia – nessun procidano,
solo certe facce tutte nuove, di quelle che si cominciano a
vedere nei fine settimana di maggio: gente di Napoli che
cerca di anticipare l’estate e fugge dalle strade crepitanti di
motori, di automobili strombazzanti e di sirene che met-
tono ancora più fretta nelle gambe di chi ha già tanta fret-
ta e che, mentre ha tante cose da fare, già pensa a quelle
che farà dopo.
Il mare era silenzioso, piatto un olio, e solo le onde di
risacca provocate dai traghetti di passaggio, avventandosi
158 Antonio ’o pazz

sulla battigia, muovevano l’aria con tonfi improvvisi che,


però, subito si acquietavano.
La ragazza camminava con l’acqua alla vita, alla ricerca
di qualcosa. Scrutava il fondo sabbioso con calma e con
metodo, completamente estraniata dal resto della compa-
gnia.
Antonio, tutto preso dallo studio di un paguro, le finì
fra le gambe e, sputando il boccaglio, le disse: “Scusa, non
ti ho vista.”
“Sono Grazia, ti ricordi? L’anno scorso vendevo le
conchiglie a Chiaiolella.”
Antonio si ricordò di lei, ma era diventata un’altra per-
sona. C’era uno sguardo diverso nel volto della bambina
che aveva preso in giro l’estate precedente. Ora stava par-
lando quasi con una vera signorina. Il costume chiarissi-
mo di Grazia rivelava l’ombra di una certa infiorescenza
pubica, e sul torace, una volta completamente piatto,
erano spuntate due pesche di velluto rosa.
Lei continuò: “Mi dicesti che le conchiglie me le potevi
vendere tu a metà prezzo. Devo esserti sembrata stupida.”
Antonio cercò di deglutire e, non appena lo fece, riuscì
a superare uno stato di soggezione mai provato prima,
trovando anche lo spirito per chiedere: “Vendi ancora le
conchiglie?”
“Le raccolgo solo per me”, lei rispose. “Voglio farmi
collana e braccialetto… Ieri ti ho visto al bar sotto casa
che mangiavi un gelato con Mimmo. Io conosco Archina,
sua sorella…”
Primm’ammore 159

La voce della mamma di Grazia interruppe una conver-


sazione che Antonio non sarebbe stato in grado di soste-
nere, per il potere divino che il ragazzo attribuiva a quella
apparizione. Salutandola frettolosamente, Antonio si rese
conto di non essersi tolto la maschera e di aver parlato alla
dea della bellezza con una ridicola voce nasale. Si immer-
se e si apprestò ad esplorare il fondale roccioso come se
nulla fosse accaduto, ma, sottacqua, sentì il cuore picchia-
re in testa come il motore della cianciola spinto a manetta,
mentre il fiatone che gorgogliava nel boccaglio faceva
fischiare il tubo respiratore come un corno sfiatato.
“Questa sera devo vedere Mimmo e sua sorella
Archina”, decise.
Grazia sentì la gioia ai piedi e corse dalla madre saltel-
lando. Si lasciò cadere in ginocchio sul telo steso sulla sab-
bia e prese a parlare con lei, con fare assente e senza guar-
darla. I suoi occhi fissavano il costone a strapiombo sulla
spiaggia, ma riusciva a seguire con gli occhi dello spirito
ogni movimento di Antonio.
Mentre il ragazzo si allontanava dalla riva, nuotando
lentamente verso il dente di roccia emergente, la piccola
donna mosse le labbra, bisbigliando inavvertitamente a se
stessa: “Gli piaccio, ma non me lo dirà mai. Devo parlare
con Archina. Solo lei mi può aiutare.”
“Che cosa hai detto?”, le chiese la madre.
Grazia non la sentì e non le rispose.
Tonno assassino 161

Tonno assassino
da Antonio ‘o pazz’

Antonio e il tonno.

Gli esami di licenza media erano stati duri, e Antonio


non era riuscito a mostrare ai professori tutto quello
che sapeva - in verità, abbastanza poco. Male in italiano,
maluccio in matematica… per non parlare dell’ingle-
se… Ma come si possono imparare tante parole in una
lingua straniera quando non si conoscono bene nean-
che in italiano?
E perché imparare un’altra lingua, del resto? Il procida-
no era per Antonio un canto dolce e variopinto con cui
riusciva a dire e a capire tutto ciò che gli serviva – era, in
ogni caso, la lingua più adeguata per imparare a pescare.
Durante gli esami, tuttavia, si era dimostrato bravissimo
in scienze naturali, e tanto gli bastò, evidentemente, per
essere promosso e venire licenziato.
“È l’unico licenziamento che non diventa una tragedia,
anzi!”, disse papà Ciro, fiero di avere un figliolo studioso.
162 Antonio ’o pazz

“Domani mattina usciamo presto e buttiamo le lenze per


il tonno e poi andiamo pure ad acciughe.”
“Il tonno non si può prendere anche di giorno?”, chie-
se Antonio.
“Solo la mattina presto e verso il tramonto. Quando il
sole si alza va in profondità, dove si sente più sicuro e la
luce arriva lo stesso. Dobbiamo fare miglia e miglia per
arrivare nei posti giusti. Il tonno non lo trovi mai nelle
acque vicino alla costa. Non sopporta la minima macchia
di nafta, e neanche gli odori e le schifezze che gli uomini
buttano a mare.”
Carmine aveva preparato le penne di gallina da legare
intorno all’amo, le quali avrebbero fatto da esca.
“Vieni qua. Prepariamo qualche altro amo”, disse
Carmine al fratello. “Hai visto come ho fatto io?”
Un minuto dopo Antonio era già all’opera.
“Le penne, astringile più forte intorno all’amo, sennò si
staccano quando le tiriamo a traina”, lo istruì il fratello.
“Lo sai perché l’amo non si attacca direttamente alla
corda?”, continuò Carmine.
“Perché è troppo grossa. Il tonno la vede e non si avvi-
cina”, rispose pronto Antonio.
“Bravo! E, perciò, aggiungiamo un cavo d’acciaio sot-
tile con l’amo. Bastano dieci metri di cavo.”
Antonio gli chiese: “Tu lo sai dove andiamo a pescare?”
“Il tonno è abitudinario. Fa lo stesso percorso e si
ricorda tutte le secche buone, ricche di sardine e di alici.
Ha il senso dell’orientamento.”
Tonno assassino 163

“E tu li conosci i percorsi del tonno?”, domandò


Antonio.
“Qualcuno, ma papà li conosce tutti. Domani andiamo
a quaranta miglia, verso il canale di Sicilia. Poi, tornando,
facciamo qualche altra buttata, prima di andare ad acciu-
ghe. Tu cerca di dare una mano a bordo, perché
Raimondo è malato e non può venire.”
Sapere di dover sostituire un uomo come Raimondo
fece sentire Antonio importante, uno dell’equipaggio, non
solo un passeggero occasionale al seguito del suo papà.
“Sarà una giornata sana sana di lavoro. Tu, quando sei
stanco, ti vai a coricare in cuccetta”, gli consigliò il fratello.
L’idea di star fuori ventiquattrore mise l’estasi negli
occhi di Antonio. Il ragazzo scartò in partenza l’idea di
andare a dormire, ma non disse niente al fratello: sapeva
che ne sarebbe nata una discussione assolutamente
infruttuosa.
Il pesce, il pesce! Bisognava concentrarsi sul pesce,
possibilmente entrando nella sua testa, e cercando di capi-
re come ragiona, cosa cerca, cosa teme, e perché si com-
porta come si comporta.
Tutto il resto erano parole, parole… solo chiacchiere.

***

“Troppo piatto per il tonno”, disse Ciro ad Antonio


con disappunto, mentre dirigeva a manetta verso sud-est.
“Il tonno è un pesce del mal tempo. Gli piace l’onda,
164 Antonio ’o pazz

l’acqua fresca e il vento delle secche in mezzo al mare,


dove aringhe e sardine trovano plancton in abbondanza.”
“Perché non hai comprato la rete per i tonni che ti
voleva vendere Geppino?”, chiese Antonio.
“Non ce la possiamo permettere. E poi, la cianciola è
piccola. Teniamo già la rete per le acciughe che copre
tutta la prua…”
“Non la possiamo usare pure per i tonni?, domandò
ancora il figlio.
“Ci vuole la rete piccola, con la pancia resistente, sennò
i tonni la squarciano. Sarebbe un danno enorme. Mesi di
lavoro.”
“L’ideale è tenere una cianciola grande, dove c’è posto
per due reti, così sei preparato per qualsiasi mare e per
qualsiasi pesce”, concluse Antonio.
Ciro guardò il figlio con sorpresa, mista a orgoglio. Il
discorso del ragazzo non faceva una piega - sebbene
l’esperto capo barca non avesse mai visto un peschereccio
armato con due reti, tanto meno ne aveva sentito parlare.
Mettendogli una mano sulla spalla, l’uomo chiese al
figlio di preparare il caffé, ma solo per concedersi una
pausa: amava la compagnia di Antonio, ma due ore di
navigazione passate ad argomentare con un ragazzo avido
di sapere potevano essere probanti come un’intera gior-
nata di pesca. L’uomo era cosciente delle dure ore di lavo-
ro che li aspettavano e sapeva che, una volta rientrati a
casa, avrebbero solo avuto l’energia per pranzare e cori-
carsi.
Tonno assassino 165

Gli uomini sul ponte erano impegnati a parlare di donne.


Qualcuno azzannava un panino gigantesco.
’U Russu18, in equilibrio sulla murata, usava il Tirreno
come toilette personale.
Mentre Rapisecca, sdraiato sulla rete con le mani dietro
la nuca, sembrava turbato, anzi, chiaramente sofferente:
accadeva da mesi che l’uomo, normalmente gioviale e
allegro, tendesse ad appartarsi.
“Ha la moglie troppo bella”, bisbigliò Vincenzo mali-
ziosamente.
“Che c’entra la bellezza?”, dissentì Salvatore. “È la
testa montata il problema. Come fa uno a lavorare tran-
quillo, se la moglie non ci ha la testa a posto? È la rovina!
Quando lavori dodici, quindici ore al giorno, non hai più
il tempo per fare nient’altro. Solo dormire e mangiare. Se
non ci hai una donna che ti aiuta, sei finito.”
“È più facile andare in paradiso se hai una moglie brut-
ta, senza grilli per la testa”, insistette Vincenzo. “Se Eva
era brutta, non se la mangiava quella mela… Con tutta la
frutta che ci stava… proprio con la mela si è fissata”
“Eeh… quanto casino per una mela! Figurati se la
povera guagliona rompeva un’anguria…”, replicò
Carmine, ridendo.
“Pure Raimondo c’ha problemi in famiglia. Altro che
malattia!”, disse Salvatore.
“Sì, ma non soffre come Rapisecca. Raimondo è stres-
sato e basta”, osservò Carmine.
18
Il Rosso (dai capelli rossi)
166 Antonio ’o pazz

“Eppure non ci ha la moglie bella…”, ammise


Vincenzo, che fra mogli belle e brutte, e rispettivi com-
portamenti causa-effetto cominciava a fare confusione.
Antonio servì il caffé al padre, poi, con il bricco di allu-
minio in una mano e alcune tazzine nell’altra, si aggirò per
il ponte. Gli uomini gli prendevano le tazzine dalle mani e,
al solito, tutti si lamentavano. Troppo dolce, per qualcuno.
Troppo amaro per qualcun altro. Non si era mai trovato
nessuno a bordo capace di fare il caffé giusto per tutti.
Per Ciro, dolce o amaro, era sempre perfetto.
Mentre gustava la scura bevanda, il capo barca scruta-
va con attenzione l’orizzonte che circondava il piccolo
peschereccio: mare e acqua dappertutto. L’aliscafo per
Palermo li aveva superati a distanza un’ora prima e, da
allora, non si era vista nessuna altra imbarcazione.
“Là, papà! Hai visto?”, esclamò Antonio, puntando il
dito a ore tre.
Ciro aguzzò lo sguardo e impallidì e, solo un attimo
dopo, diede un brusco giro di timone per virare a dritta.
“Porca miseria! Per poco non ce li perdiamo”, esclamò
l’uomo. “A destra, guardate a destra, guagliù!”, gridò poi
agli uomini.
Uno stormo di gabbiani, a circa tre miglia di distanza,
come un nugolo di moscerini, oscurava un pezzo di cielo
su uno specchio d’acqua, picchiando sulla superficie e
involandosi con una frenesia che mise in agitazione tutto
l’equipaggio: significava tonno, tonno in abbondanza
all’attacco di un banco di sardine, che, per sfuggire alla
Tonno assassino 167

caccia, salivano in superficie e saltavano disperatamente


fuori dall’acqua, attirando l’attenzione dei gabbiani.
“Tutti ciechi, siete guagliù!”, gridò Ciro. “Tutti a dor-
mire state… o a pensare alle femmine… Ma quelle stan-
no a casa, ‘o pesce sta accà!”
“Non ci ho più gli occhi buoni come una volta”,
aggiunse poi Ciro, rimproverando anche se stesso - ma
sottovoce, senza farsi sentire.
“Adesso ci vorrebbe la rete di Don Geppino”, disse
Antonio con gli occhi luccicanti per l’eccitazione.
“Adesso, sì, che ci vorrebbe”, confermò Ciro. “Fra un
anno o due cercheremo di prenderla pure noi una bella
rete… se i giapponesi ce ne lasciano qualcuno, di tonno.
Per adesso li prendiamo uno alla volta… e se ne andrà
tutta la giornata. Preparate le lenze, guagliù!”
Carmine aveva già preparato tutto e si accingeva a but-
tare due cime in mare, una dalla murata di destra e una da
quella di sinistra.
Antonio lo raggiunse e gli disse che voleva buttarne
una terza anche lui, dalla murata di poppa.
“No!”, sentenziò Carmine. “È già rischioso con due
lenze perché, quando lo prendi, il pesce, prima di precipi-
tarsi a fondo, nuota all’impazzata a destra e a sinistra e va
a incocciare l’altra lenza.”
“Le cime si ingarbugliano e finisce che perdiamo lenza
e pesce”, confermò Vincenzo.
A mezzo miglio dal luogo di pesca il peschereccio ral-
lentò e prese una velocità di cinque nodi. “Da questo
168 Antonio ’o pazz

momento dobbiamo andare piano, a velocità costante,


anche se il pesce abbocca”, spiegò Ciro. “Quando arrivia-
mo sul posto, ci teniamo larghi e giriamo intorno intorno
a tutto il perimetro del banco di pesce.”
L’acqua, sotto i gabbiani, spumava e s’increspava, agi-
tata dai guizzi delle sardine terrorizzate. Seguendo una
tattica di branco affinata nel corso di millenni, i tonni ave-
vano accerchiato le loro prede e le attaccavano con meto-
do da sotto, a ondate regolari.
I pesciolini trovavano la via di fuga sbarrata dalla super-
ficie dell’acqua, e là si ammassavano e si accalcavano. Le
prime a scappare venivano sospinte dalle compagne dritte
nei becchi dei gabbiani, che, radunati a centinaia, non con-
cedevano loro quartiere e sembravano insaziabili.
Strette fra due nemici, le sardine potevano solo aspet-
tare che i predatori si saziassero, e solo un terzo di loro
sarebbe sopravvissuto ad un attacco coordinato di quella
natura, in cui tonni e gabbiani erano divenuti involontari
alleati.
Le piroette spettacolari dei tonni, che balzavano fuori
dall’acqua con la gola piena di sardine, erano musicate
dagli stridii dei gabbiani, che danzavano nell’aria, descri-
vendo precipitose parabole discendenti seguite da lente
risalite in cui il pesciolino veniva abilmente rigirato nel
becco per essere poi ingoiato dalla testa.
Le esche trainate dal peschereccio mulinavano a fior
d’acqua, lasciando una scia di bollicine che ricordava al vec-
chio tonno una sardina agonizzante o un’aringa stordita.
Tonno assassino 169

Il longevo esemplare proveniva dall’atlantico ed era


abituato a vagare da solo nell’infinito acqueo. Si univa
occasionalmente a gruppi di giovani tonni, attirato dalla
quantità ribollente di gustose sardine: una celebrazione a
cui l’istinto imponeva di partecipare.
Finita la festa, tuttavia, l’anziano pesce si affrettava a
lasciare quella compagnia troppo burlona e rissosa, che
talvolta lo infastidiva. Quante volte aveva dovuto dare una
lezione a giovanotti pinnati troppo intraprendenti e pre-
suntuosi.
I grossi tonni suoi coetanei del mediterraneo, più schi-
vi e sospettosi di lui, molto più raramente nuotavano in
superficie. Avevano imparato che il rumore di certi tipi di
motori, i diesel scoppiettanti montati sulle barche da
pesca, portavano guai e, perciò, se ne tenevano alla larga.
Ma quell’esemplare non era mai stato minacciato da un
peschereccio.
L’occhio del gigante marino fece un rapido calcolo:
l’esca piumata filava regolare, a velocità costante e preve-
dibile: un boccone facile.
Sebbene nel movimento di quella preda vi fosse qualco-
sa di anomalo, l’animale non la collegò ad alcun pericolo e,
più per abitudine che per istinto, lasciò per un momento i
compagni più giovani che cacciavano in squadra per tor-
nare a prodursi in un eccitante inseguimento solitario.
Poche, potentissime sferzate di coda lo proiettarono
più veloce di un siluro verso quell’obiettivo irresistibile,
che fu raggiunto e ingoiato appena un istante dopo.
170 Antonio ’o pazz

Solo virando, allo scopo di riunirsi al gruppo, il pesce per-


cepì una resistenza, quindi una strattonata, e poi una puntu-
ra lancinante nell’esofago che lo sorprese e lo fece tremare
di dolore. Più si opponeva a quella forza oscura che lo trat-
teneva e lo trascinava lontano dal branco, più il dolore e lo
squarcio prodotti dall’amo divenivano irreparabili.
L’annullamento della sua volontà di decidere, ancor più
che la fitta atroce, rese il tonno folle di paura: solo nel-
l’abisso poteva trovare rifugio da quel nemico invisibile e
sconosciuto che lo attaccava dall’interno del suo stesso
corpo, non dall’esterno.
“L’ho pigliato, l’ho pigliato”, urlò Carmine in un’esul-
tanza maniacale. L’uomo cercò di rallentare la corsa della
cima che, srotolandosi dalla matassa buttata sul ponte, si
gettava in mare.
“È grosso… enorme!”, urlò ancora Carmine, lasciando
andare la cima, che gli aveva bruciato e consumato la pelle
delle mani. “Non lo possiamo tirare subito. Quello ci tra-
scina tutti a mare.”
“Dagli corda e lascialo tirare”, gridò Rapisecca. “Si
sfracella a fondo da solo e lo tiriamo mezzo morto.”
Antonio si era affacciato alla murata per seguire la cattu-
ra e non si era accorto che la cima, svolgendosi con quella
rapidità, sussultava e trabalzava come un serpente in fuga.
Una spira scavalcò un suo piede e velocemente risalì il
corpo del giovane, avvolgendolo all’altezza dell’inguine, per
poi salire ancora un poco, fino ad avvilupparsi fermamen-
te all’addome, e impedendo ai polmoni di ventilare.
Tonno assassino 171

In un baleno Antonio si ritrovò senza fiato, schiaccia-


to e immobilizzato contro la murata. Nonostante tre
uomini cercassero di limitare la pressione della corda di
canapa, la forza del tonno presto avrebbe segato il ragaz-
zo in due.
Le grida disperate di allarme costrinsero Ciro a bloccare il
timone e a precipitarsi sul ponte. L’esperto pescatore valutò
subito la pericolosità della situazione: gli uomini non sareb-
bero riusciti a contrastare la trazione disperata del tonno.
Nelle vene di Ciro il sangue smise di circolare ed una
freddezza inumana si impadronì di lui. L’uomo sentì una
forza nuova impadronirsi dei suoi muscoli, mentre una
determinata lucidità pervase ogni suo neurone.
In un attimo estrasse dalla tasca il suo coltello da pesca
e, afferrata la cima, che strisciava e strideva contro la
murata, riuscì a sollevarla quanto basta per insinuare la
lama d’acciaio arrugginita e tagliente.
La potenza inaudita del pesce stava per troncargli di
netto le dita di entrambe le mani, quando il filo della lama
ebbe un guizzo e uno strattone disperato che riuscirono
ad incidere la cima e quindi a reciderla di netto, liberando
in un sol colpo il tonno e Antonio.
“Il tonno è assassino… Il tonno è assassino”, prese a
ripetere l’uomo sottovoce, come in preda ad una trance
liberatoria.
Ritornato improvvisamente ad essere vulnerabile, il
pescatore fu sopraffatto da una emozione incontenibile:
con le mani insanguinate Ciro accarezzò il viso, e poi le
172 Antonio ’o pazz

spalle e le braccia del figlio; quindi prese nelle sue mani la


giovane coscia nervosa, che era stata sbucciata dalla cima
come un’arancia, e scoprì il torace di Antonio per valuta-
re l’entità della ferita.
Il dolore e la gioia si assomigliano. Le stesse lacrime
che tutti gli uomini pochi istanti prima versavano per l’im-
minente tragedia e per la disperazione, continuarono a
fluire per la gioia dell’insperata liberazione da un evento
sicuramente mortale.
Ed è in tali frangenti – e più frequentemente fra certi
uomini – che si manifesta la forza vitale dell’umanità,
come se fede, istinto di sopravvivenza e intelligenza
all’improvviso diventassero alleati per dare vita ad un
miracolo.
“Quant’era grosso ’o tonno, papà?”, chiese Antonio.
“Non lo so figlio mio. Non m’interessa, né lo voglio
sapere… Vaff… al tonno!”, rispose Ciro. Poi, abbraccian-
do il figlio, disse: “Ma è questo il momento di fare certe
domande?”
Per quel giorno la pesca si concluse. Là ed in quel
momento, Ciro decise di riportare tutti a casa. Avevano
qualcosa di molto importante da festeggiare: una vita sal-
vata. Ci voleva una cena nel cortile di casa, con spaghetti
alle cozze, carne e pesce e un fiume di vino.
Sulla via del ritorno, tuttavia, Antonio, era ombroso e
turbato, ma non a causa degli ematomi e dei lividi
impressionanti che lo avevano segnato. Il ragazzo era
intento a rimuginare fra sé e sé: “Visto che tutto è finito
Tonno assassino 173

bene, qualche tonno, potevamo fermarci a pescarlo… la


festa sarebbe stata ancora più bella.”
Il padre Ciro gli lesse il pensiero in volto e, in tono di
rimprovero poco convincente, disse: “Tu si ’nnu poco
pazzariell’, guagliò. Nun t’arrendi mai.”
Studenti e animali 175

Studenti e animali
da Svegliami nel cuore della notte

Un episodio di naturale simpatia fra un prof e i suoi studenti di


una classe prima delle superiori.

“È una questione di stile”, dissi ai ragazzi quel primo


giorno di lezione. “Non importa cosa dite e cosa pensate.
Quello che conta è come lo dite… come lo fate.”
“Anche le parolacce prof ? Possiamo dirle, le parolac-
ce?”, chiese Wang, il cinese.
“Le parolacce sono fondamentali. Un ‘Vaff…’ è sacro-
santo, se qualcuno offende noi o i nostri valori più impor-
tanti… Se la lingua serve a esprimere quello che abbiamo
dentro… sono inevitabili e fanno bene, dette nel contesto
giusto. Ma devono rappresentare un sentimento vero, altri-
menti sono sciocche. Se non hanno uno scopo serio, sono
parole vuote. Chi le usa a raffica in una frase sì e una no,
per stupire o fare effetto su un pubblico, manca di stile e
di carattere, appunto. È una persona vuota e sciocca.”
Giulia ascoltava e annotava con gli occhi. Tutti i suoi
organi di senso registravano e incidevano tutto su una
traccia magnetica invisibile.
176 Svegliami nel cuore della notte

E, come capita normalmente quando ci si trova davan-


ti un preciso interlocutore, il suo feed-back era presto dive-
nuto fondamentale per procedere, e capitava che mi ritro-
vassi spesso a parlare soprattutto con lei e per lei.
La ragazza minuta aveva una tigre ruggente che riusci-
vo a vedere proprio là, di fronte a me, con una tale chia-
rezza da provare una sorta di inspiegabile soggezione.
“Ma cosa starà pensando…”, mi intrigavo. “Approva, dis-
sente, giudica, critica…”
Il rosso bordeaux che le infiammava il viso rivelava
comunque ammirazione – per i miei modi, appunto, non
necessariamente per i contenuti, sempre discutibili.
Tutte le classi sono uguali… idem dicasi per gli alunni,
che vanno trattati allo stesso modo. Certo, chi mettereb-
be in discussione un postulato così ovvio, così rispettoso
di principi democratici oramai consolidati – presa in giro
elevata a sistema…
Pur sapendo perfettamente che ogni classe è diversa
dall’altra – per non parlare dei ragazzi, schegge di
coscienza impazzite alla ricerca, ciascuno, della sua stra-
da, proiettati ognuno in direzioni, verso e intensità pro-
pri e irripetibili.
Dunque, la classe Ic, fra le diversità concepibili, era più
diversa. La più amata.
Giulia, Sarah e Wang i più influenti. Wang si beccava
una pacca alla spalla allorché un’occasione adeguata me lo
permetteva. E le occasioni non mancavano in quel grup-
po di giovani menti autentiche, cariche di discernimento e
Studenti e animali 177

pensieri propri. Una volta lo abbracciai per qualcosa che


disse, che mi piacque in particolar modo.
Con Giulia, femmina, non mi azzardavo. Avrei abbrac-
ciato volentieri anche lei, ma bastavano i suoi occhi. Il suo
sguardo era un richiamo, una voce silenziosa che mi dava
il buon mattino, e lo faceva teneramente. La sua intensità
personale mi rapiva in qualche modo.
“Vivete e sbagliate a piacere”, dissi ai ragazzi nelle
prime due ore di lezione. Più vi preparate a non sbaglia-
re… meno vivete… più sbagliate.”
“E copiate, copiate sempre dai compagni più bravi. Un
bravo compagno che vi vuole bene può insegnare di più
di qualsiasi prof.”
“Anche i compiti in classe dobbiamo copiare?”
Lo sapevo che Wang avrebbe cercato di spiazzarmi.
“Certo! Anche i compiti in classe dovete copiare”,
affermai senza compromessi, sollevando in classe una
specie di tumulto.
“Le verifiche sono un modo come l’altro per esercitar-
si, per capire. Lo stress che sentite durante il compito in
classe è uno stress sano, che acuisce i sensi e l’ingegno,
che crea concentrazione e il desiderio di risolvere un pro-
blema. Fantastico! La condizione ideale per imparare e
fare ancora un passo avanti. Però…”
Feci una lunga pausa, teatrale ed efficace. I ragazzi fis-
sarono lo sguardo già fisso, mi guardarono e fremettero in
uno stato di trepida aspettativa.
“Però… Prof ?”, gridò Wang, stanco della pausa.
178 Svegliami nel cuore della notte

“Però… non riesco ad avere rispetto per chi copia e


scopiazza senza capire cosa sta copiando. Non accetto
facilmente la stupidità e la superficialità. Arriva sempre il
momento in cui una persona deve dimostrare cosa sa e
cosa ha imparato a fare, da sé, senza l’aiuto di nessuno.
Quello che valete veramente viene sempre fuori nel corso
dell’anno scolastico.”
“E cos’altro non sopporta, prof ?”, mi chiese Wang.
I ragazzi mi mandavano segnali di simpatia e percepi-
vo il loro desiderio di conoscere ciò che avrebbe potuto
infastidirmi, per evitare di offendermi o deludermi.
“Sapete perché mi piacciono gli animali?…”, dissi alla
classe, guardando Giulia.
“… perché non fingono, non recitano ruoli e, ovvia-
mente, non mentono. Sono e basta. Il rapporto che posso-
no instaurare con altri animali e con l’uomo può solo
essere autentico. Sempre. L’animale più feroce e cattivo è
affascinante. Il più puzzolente è degno di rispetto. Il più
stupido riesce ad incantarci.
Non riesco ad essere amico di persone superficiali.
Non che le giudichi… Semplicemente non m’interessano.
Raramente sanno ascoltare quello che hai da dire. Magari
vorrebbero, non so, certo non ci riescono.
Abbiamo così poco tempo per guardarci, per parlarci,
per darci reciprocamente gioia. La gente è affamata
d’amore, ma siamo tutti un poco stranieri in questo
mondo, sempre troppo indaffarati, distratti dalle cose che
contano veramente. Viviamo un tempo in cui anche le
Studenti e animali 179

sorgenti hanno sete. E allora, perché offrire tempo pre-


zioso a chi si comporta come un vaso vuoto?… Dov’è
che ho letto questa bellissima metafora?… I vasi vuoti, a
toccarli, fanno un gran rumore e rimbombano… ma sono vuoti,
appunto…
Come professionista devo trovare il tempo per tutti a
scuola. Ci provo. Certe menti, come i vasi, aspettano solo
di essere riempite. Ci provo sempre, ma solo a scuola.
Nella vita privata abbiamo tutti il dovere di protegger-
ci da chi non ci rispetta e mette in pericolo la nostra eco-
logia mentale.”
Conclusi con un complimento sentito alla classe.
“Questo gruppo mi piace. Siete come spighe cariche di
grossi chicchi, che tuttavia tengono alta la cresta, fiera e
indomabile. Vi ammiro e vi voglio bene. A ognuno di voi.”
E, ancora, guardai Giulia.
Mymesis 181

Mymesis
da Svegliami nel cuore della notte

La storia di un istinto primordiale irresistibile.

Ti sorrido… mi sorridi.
Se sbadigli e ti annoi, sbadiglio e m’annoio anch’io.
Se gioisco e mi accendo, gioisci e ti accendi anche tu.
Ti guardo minaccioso… e mi minacci.
Ti do la precedenza in ascensore… e tu insisti per darla
a me.
Mi offri l’ultimo cioccolatino… e io lo cedo a te.
Ti dico Ti amo. Mi rispondi Ti amo.
Dubito di te… dubiti di me.
Se metti il vestito bello, voglio metterlo pure io…
Michele e Wang si sgomitano, e Wang non si fa scap-
pare l’occasione: “Prof!… Quando siamo fra noi, se mi
scappa un rutto, c’è subito qualcuno che risponde.”
Fragore di risate.
Aspetto che l’atmosfera contagiosa da curva nord si
plachi un poco, e proseguo: “Anche se non capisci il buffo
182 Svegliami nel cuore della notte

di una barzelletta, è istintivo ridere con tutti gli altri…”


“Un po’ quello che state facendo adesso”, aggiungo,
per riprendere l’attenzione della classe.
“Accanto all’istinto di riproduzione, legato alla soprav-
vivenza stessa della specie, qual è la pulsione più potente
a cui ubbidiamo?”
I ragazzi, pronti: “Socializzare, imparare cose nuove.”
“Ci siete vicini”, dico loro. “Ha a che vedere con l’ap-
prendimento e con lo stare insieme. Però…”
E loro: “Migliorare la propria condizione… fare sem-
pre meglio…”
“Lo specchio, ragazzi… Pensate allo specchio… Su, su!”…
I ragazzi, nel sentire la parola specchio, piombano in
uno stato di fascinazione. Mi pare che abbiano già inteso
dove vado a parare…
“Ah!”, esclama Giulia, come illuminata. “Osservare…
guardare gli altri… desiderare…”
“Brava Giulia! Ci sei arrivata, ma occorre chiarire il
concetto…
Il comportamento a specchio è un agire di riflesso che
può portare fortuna o disgrazia nella nostra vita, un istinto
praticamente irresistibile. Imitare è come scambiarsi dei
virus invisibili. Quello che facciamo viene osservato e
ripetuto dagli altri.
Quello che fanno gli altri, viene da noi registrato e
riproposto in condizioni simili – magari introducendo
certe varianti personali, secondo le nostre qualità
umane.
Mymesis 183

Anche se non ne abbiamo alcuna memoria, l’attività


principale in cui siamo impegnati fin dalla nascita è copia-
re fedelmente quello che fanno i nostri genitori, i nostri
fratelli maggiori, zii, cugini… Le persone che frequentia-
mo in modo consistente lasciano un marchio altrettanto
forte su di noi. Nel bene e nel male.
Pochissimo di quello che facciamo, pensiamo e dicia-
mo è solo nostro, assolutamente originale: costruiamo
case, le arrediamo, andiamo in vacanza, desideriamo vesti-
ti, cose, oggetti, tifiamo per una squadra, abbracciamo
una fede politica, ecc. in modo assolutamente ripetitivo.
E’ una pulsione radicata di cui non siamo consapevoli.
Imitare e riprodurre è tanto naturale che non ce ne ren-
diamo conto – e neanche lo riconosciamo come un istin-
to primario. Il più importante. Quello che ci permette di
migliorare o peggiorare, di generazione in generazione.
Leggi, istituzioni, costumi, il gusto e l’avversione per certe
cose sono replicati a specchio. Copiare è il filo condutto-
re della storia dell’umanità. Semplice, meraviglioso e spa-
ventoso allo stesso tempo.
Vi racconto un episodio che risale a tanto tempo fa.
Avevo dodici o tredici anni, ma lo ricordo come fosse
accaduto ieri.
Con Luigi eravamo amici per la pelle, inseparabili.
Compagni di scuola, di banco, di sport e di avventure, con-
dividevamo tutto. Dalle medie all’università siamo cresciu-
ti insieme. Nel bisogno io difendevo lui, lui me. La gente
ci vedeva sempre insieme a confabulare, a progettare e a
184 Svegliami nel cuore della notte

sognare. Insieme in bici. Insieme in moto. Insieme in


mille piccoli affari.
Mio padre ci disse una volta: “Ci manca solo che vi
fidanzate adesso.”
Eppure un giorno accadde ciò che nessuno – noi per
primi – avrebbe creduto possibile.
Iniziammo una discussione su non so cosa, e non ci
trovammo d’accordo. Uno di noi disse qualcosa di sba-
gliato, o, almeno, fu frainteso dall’altro. Credo che Luigi
mi diede un buffetto alla nuca, dicendo con sarcasmo
“Ma che dici, scemo?”
Io lo spintonai a due mani sul petto, rispondendo irri-
tato “Che cz… dici tu!”
Mi restituì lo spintone e, credo per errore, mi diede una
manata sulla guancia che mi fece male.
Io gli mollai un calcio alle gambe… E qualche attimo
dopo eravamo lì a rotolarci per terra e a darcele di santa
ragione...
Mulinare di pugni alla cieca… abiti laceri…
Poi, all’improvviso, sentii una presa forte intorno alla
vita sollevarmi di peso, mentre Luigi, sotto di me, conti-
nuava a colpirmi e a scalciare.
Era suo zio, accorso giù in cortile attirato dalle grida
della zuffa. Urlando a sua volta e rimproverandoci, riuscì
presto a calmarci e a rimettere ordine nei pensieri che tur-
binavano.
“Ma cosa fate?”, ci chiese, incredulo. Poi ancora, rivolto al
nipote: “Cosa cz… è successo?… Fate a pugni?… Perché?”
Mymesis 185

Lo guardammo ammutoliti. L’adrenalina nel sangue ci


faceva ancora tremare. Il fiatone non ci permetteva di
spiccicare parola… Ma nulla avevamo da dire.
Ci guardammo, cercando di capire il senso della
domanda… solo per provare un grande imbarazzo: non
avevamo una risposta. Né io, né Luigi sapevamo cosa
replicare. Non ricordavamo neanche la ragione della lite,
tantomeno come fosse iniziata.
Avevamo ripetuto, come allo specchio, una escalation di
atteggiamenti minacciosi, ubbidendo ciecamente alla legge
dell’imitazione. Pura violenza mimetica fine a se stessa.
Quello stesso istinto che ci aveva fatto scambiare ami-
cizia e gentilezze, ci aveva fregati. Avevamo scoperto il
fascino del comportamento a specchio: l’origine di tutte
le guerre.
Rientrammo ciascuno a casa sua, senza parole.
Malconci sia fisicamente che spiritualmente.
L’indomani, con Luigi, andammo a vedere un film al
cinema.
Amici come sempre. Forse di più.
187

Prefazione alle favole


Il lettore frettoloso penserà subito, fin dalle prime pagi-
ne, alle favole di Esopo, Fedro o meglio ancora La
Fontaine. Ci sono animali che pensano e che parlano e
dunque… Ma non è così.
Tiziana Soriana ha paura; Marilyn vorrebbe essere un
delfino, e Dolphin blue un bambino; un viandante cerca
una pietra di immenso valore; Fuoco di Notte e Tremula
Inquietudine devono sopravvivere; Chi, Come, Quando e
Perché, le scimmie parlanti, aspirano ad elevare la propria
primitiva condizione; Terra, Aria, Acqua e Fuoco prima
litigano, poi si ignorano, infine…
Queste favole non hanno a cuore tanto una morale,
che alla fine si riveli più o meno esplicita, quanto l'espres-
sione di un mondo misterioso, l’impero dei segni, che
coinvolge e cattura l’orecchio interiore di ciascuno di noi.
I personaggi di questi racconti hanno un sogno, e ogni
storia è il diario di viaggio di un’emozione. Ugo Libardo
offre al lettore le chiavi che aprono le porte di un mondo
possibile: la MAGIA e l’AMORE – messaggi silenziosi da
accettare come un dono.
188

Dunque, il lettore dovrà tornare sui suoi passi e scopri-


re questo straordinario microcosmo senza fretta, e lasciar-
sene incantare senza timore. Non gli sarà difficile perché
la scrittura di Ugo Libardo è, ancora una volta, estrema-
mente accattivante.
La musicalità della narrazione, a tratti, diventa poesia e
confonde e cancella la sottile linea di demarcazione fra
prosa e versi. Leggerlo è poi come confidarsi con un
amico, uno che conosci e che ti conosce da sempre. Le
sue emozioni sono le tue, i suoi sogni sono i tuoi sogni, le
sue ansie le riconosci, le sue paure e le sue speranze ti
sono compagne da una vita. In tal modo il piacere di leg-
gerlo si fa spesso meraviglia, e ti chiedi: ma quand’è che ci
siamo detti tutte queste cose?
***
I Racconti dell’Innocenza li riconosci perché hai incon-
trato la Gatta Tiziana, la piccola Marilyn e Dolphin Blue
tante e tante volte nelle tue fantasie di bambino. Erano
nei tuoi giochi, negli scarabocchi colorati, nelle malinco-
nie improvvise, negli improvvisi scoppi di felicità – così
difficili da spiegare ai grandi. E sono rimasti nascosti fin-
ché non li hai ritrovati nella musica di un libro che non è
fatto per gli altri, adulti o bambini che siano, ma solo per
te. Come un segreto finalmente condiviso.
Tutto è così simmetrico e perfetto nei Racconti dell’in-
nocenza: le cose accadono e si evolvono esattamente
come piace a te.
E questa è MAGIA.
189

Anche i Racconti dell’Esperienza ti appartengono e li


intendi alla perfezione perché il disincanto ti si è fatto
compagno dell’età matura. La consapevolezza, e con lei il
dolore, ti fanno andare veloce verso il buio o verso la luce.
Dipende solo da come ti poni di fronte alla vita. Ma l’au-
tore percorre ambedue le strade.
Tutto è perfetto anche nei Racconti dell’esperienza, e
persino più simmetrico, nonostante le cose accadano e si
evolvano a modo loro, vivendo una propria vita, non
come piacerebbe a te, bensì come comanda la Natura.
Il dramma di Tremula Inquietudine e Fuoco di Notte ti
coinvolge e ti affascina con il ritmo serrato della narrazio-
ne che evoca antiche danze tribali. Nell’incalzare della sto-
ria puoi sentire finanche i tamburi lontani dei bivacchi.
Se ti fermi ad ascoltare.

***

“Ma le parole possono davvero tanto?”, cominci a


domandarti. “Curiosità, vanità, presunzione, intelligenza,
fantasia sono fatte veramente tutte della stessa materia?
Se la curiosità e l’intelligenza non fossero insite nella
natura umana, potrebbe esservi Progresso?”
Dipende ovviamente da ciò che intendiamo per progres-
so. Certo, le scimmie parlanti corrono seri rischi allorché,
sedotte dal suono della propria voce, vogliono alterare in
profondità la loro natura. L’impulso generoso di Baboo ci
insegna che quelli come lui rischiano continuamente di
190

venire travolti. Ma nel mondo animale non esiste cattive-


ria, né bontà; solo istinto e inclinazione naturale: la legge
della sopravvivenza.
Dunque la metafora è chiara: sono gli esseri umani a
dover stare accorti perché non si può opporre al male la
bontà disarmata, priva di ogni scaltrezza. Il buono inge-
nuo e sprovveduto è esposto a seri pericoli.

***

Che cosa resta allora per chi ha un ideale e non può


barattarlo con nulla al mondo? Per chi ha un sogno e non
vuole rinunciarvi, né rassegnarsi e soccombere al caos?
Sopravvive alla fine solo l’armonia. L’armonia creata dalla
comprensione e dall’aiuto reciproco. L’armonia che porta
al meglio per sé solo attraverso il bene fatto ad altri. È la
pace l’ultima e sola via di salvezza per l’uomo.
E questo è AMORE.

Graziella Sensi
La soriana Tiziana 191

La soriana Tiziana
da 6 favole

Tiziana Soriana era una gatta a pelo lungo, tanto lungo da


impigliarsi dappertutto. Era una Soriana docile e disponibi-
le, cosicché molti approfittavano di lei. Tiziana trotterellava
volentieri e, ovunque andasse, le piaceva andarci al trotto.
“Perché non vai più piano…”, miagolavano le amiche
in coro, “e porti a spasso i nostri micini?”
Per farle contente lei rallentava e portava i gattini a pas-
seggio, badando che non si mettessero nei guai.
“Perché non vai più veloce?”, le chiedevano altri.
“Qualcuno deve farsi inseguire dai cani, mentre noi cer-
chiamo i topini per la cena.”
E Tiziana alzava il passo e correva, correva… Il suo
cuore batteva forte da scoppiare, ma la micia si allenò
scrupolosamente, e ogni volta che il mastino del vicinato
la braccava, con pochi balzi si metteva in salvo sul mae-
stoso carrubo.
“Vieni a stare con me!”, ordinò il Gatto Pappone a
pelo raso. “Il profumo della tua coda dice che è giunto il
momento di avere gattini tutti tuoi.”
192 6 favole

“Tu dici?”, disse la Soriana. “Non ci avevo pensato.”


“Certo!”, disse il Pappone. “Io procuro da mangiare…
tu ti occupi delle altre faccende.”
Incantata dal gagliardo felino, la soriana lo seguì a testa
bassa. Ammirava i tipi decisi – forse perché lei era spesso
alquanto esitante.
Così, la giovane micia lasciò il suo quartiere e i suoi
amici e andò ad abitare in una lavatrice rotta nella discari-
ca di periferia, il dominio del Gatto Pappone.
Il territorio era piuttosto lurido e frequentato dai più
disparati incroci felini, ma la soriana si adattò e qualche
mese più tardi partorì otto micini, quattro a pelo lungo e
quattro a pelo raso.
Le faccende e i mestieri per la gentile Soriana erano
diventati tanti: portare a spasso i gattini, nutrirli e istruir-
li, eludere i cani randagi… e fare mille commissioni per il
Pappone, che amava essere servito come un re.
“Vieni costì! Leccami qui!… Sdraiati qua! Grattami
là!”, soffiava lui, mostrando grinfie lucide d’acciaio. Il gat-
tone sapeva sempre cosa comandare, mentre la mite
Soriana ubbidiva, ma senza fare le fusa.
Far contenti tutti era impegnativo, ma la gatta, pur pro-
vando un certo disagio, non sapeva dire No. Il suo cuore
conosceva la malinconia, ma lei si era convinta che quel
malessere fosse un fatto inevitabile, come le furiose bat-
taglie per il territorio o la stagione dell’estro.
In una calma giornata di agosto la Soriana si stava
crogiolando al primo sole del mattino. I gattini, oramai
La soriana Tiziana 193

cresciuti, inseguivano le lucertole da soli, mentre il Pappone


era sparito da giorni per una delle sue scorribande.
Assaporando per la prima volta un senso di libertà, la
Soriana pensò alla sua condizione di gatta e a ciò che la
avviliva. Le sorse un felice dubbio e provò un improvvi-
so stupore: forse era possibile stare bene.
Mentre faceva quei pensieri, si trovò a passare il
Siamese Osservatore, un felino che lei ammirava, noto
per la sua esperienza. Non appena lo vide arrivare,
Tiziana prese la prima decisione da quando era nata e
pensò di chiedere consiglio.
In segno di riguardo, scelse dalla dispensa un lucerto-
lone semivivo e glielo pose fra le zampe. Un fiocco del
suo lungo pelo finì sulle vibrisse del siamese, il quale ne
apprezzò sia il profumo, sia la morbidezza.
E mentre l’ospite mangiava di gusto, lei gli domandò:
“Secondo te, perché mi sento così inquieta e infelice?”
E cosa fece il siamese osservatore?… Dapprima la osser-
vò a lungo, poi, annusandola dietro il collo, disse: “Tu con-
sideri gli altri gatti più importanti di te. Ti senti in soggezio-
ne poiché credi di valere poco… e, come il tuo pelo s’impi-
glia dappertutto, i tuoi pensieri s’impigliano in mille paure.”
“Se non facessi ciò che mi viene chiesto, rimarrei sola:
non sono più una micina ”, rispose la gatta. “Il pappone
mi graffierebbe e non mi porterebbe più cibo... Morirei di
fame con i miei gattini.”
“Il cibo, sai trovarlo da sola. Ho osservato come corri”,
disse il siamese. “Nessuna condizione e nessuna età sono
194 6 favole

di ostacolo per una vita perfetta. Ho notato le tue qualità.


Sei generosa, agile, veloce...”
“Vorrei cambiare qualcosa, ma non riesco a decidermi
perché ho paura”, disse. “Le grinfie del Pappone sono
terribili. Quando dimentico di grattargli la pancia mi
morde e mi graffia dappertutto.”
“Meglio mille graffi sulla pelle, che guariscono e ti ren-
dono più forte, che un solo, profondo graffio nel cuore –
l’unghiata della paura –, che ti indebolisce, fino ad uccide-
re l’animo felino.
Allena il muscolo delle decisioni e non temere di sba-
gliare. Finché avrai paura di decidere con la tua testa gat-
tina, faticherai di più, poiché qualcun altro deciderà per te
e ti farà ballare a suo piacere gattone.”
“Non so decidere”, disse la gatta. “Non ho mai impa-
rato come si fa.”
“Se non sai decidere ciò che vuoi, inizia a decidere
quello che proprio non vuoi. Decidere non è più difficile
che non-decidere”, replicò il Siamese.
Mentre parlava, il saggio felino non rizzava il pelo e non
soffiava minaccioso come il Gatto Pappone. La Soriana
gradì il suo modo di miagolare e lo ascoltò con attenzione.
“Tu hai paura, Tiziana, e avresti bisogno di coraggio.
Ma la prima legge del coraggio è l’amore… Come può
nascere una nuova vita in un cuore che trema? Cerca una
passione, un nuovo amore. Solo l’amore ferma la paura e
solo grazie all’amore si esce dal limbo felino e si inizia a
vivere.”
La soriana Tiziana 195

La soriana sapeva che il Siamese stava dicendo qualco-


sa di importante, ma si sentì confusa dalle sue parole. “Mi
spieghi cosa intendi, per favore?”, gli chiese.
“Tutti decidono, Tiziana. È impossibile non decidere.
Persino chi non decide mai, ha comunque deciso… di non
decidere. Si decide sempre, nel bene e nel male.”
Tiziana allora capì e, come per prodigio, si sentì pron-
ta. Ma non decise di decidere poiché si era finalmente
decisa. Fu il richiamo lontano di una forza naturale ed un
inspiegabile desiderio di appassionarsi a svegliarla dal
sonno inquieto della paura.
“La paura di un male porta solo mali peggiori”, conclu-
se il gatto. “Se ami veramente, non hai bisogno di aver
paura.”
Detto ciò, il saggio felino si sdraiò all’ombra di un ulivo
secolare. Si era alzato un venticello amabile che rinfresca-
va anche lo spirito, e il gatto iniziò a leccarsi i baffi e a fare
toilette.
“Chissà se la decisione che ha preso è quella decisiva”,
si domandò. “Non è facile cambiare abitudini, fare altri
pensieri e respirare una vita nuova... Alla fine, la gatta farà
quello che è capace di fare, né più, né meno.”
Mentre stava per andarsene, il gatto pensò: “Se ripasso
da queste parti, la invito ad invitarmi a cena. Il lucertolo-
ne era delizioso…”
Ma la gatta decise anche di non lasciarlo andar via
come se nulla fosse accaduto. Raggiunse il Siamese al fre-
sco del verde albero e inarcò vistosamente la schiena.
196 6 favole

Poi appuntò le unghie contro la corteccia dell’ulivo per


stiracchiare i tendini e rivolse al gatto uno sguardo specia-
le, di quelli che sai sempre cosa vuol significare.
Sul volto del Siamese sbocciò un’espressione ancor più
felina. Il gatto leccò il musetto e solleticò le vibrisse della
Soriana, che mugolò di piacere.
Con la coda di velluto Tiziana frustò lievemente il
musetto del Siamese e gli permise di annusarla.
Natura decise allora di unirli per la creazione e, sciolta
nei profumi del vento, fece giungere la stagione dell’estro.
I due felini sentirono battere l’uno il cuore dell’altro e
seppero, lì e allora, che dovevano ubbidire ad un coman-
do superiore.
Fu così che, senza sapere perché, i due mici si ritrova-
rono a sognare, a miagolare e a fare le fusa insieme.
Marilyn e Dolphin Blue 197

Marilyn e Dolphin Blue


da 6 favole

Un giovane delfino di nome Dolphin Blue sognava di


diventare un bambino. Nuotava sempre sotto costa per
sbirciare fuori dell’acqua e veder giocare i bambini in riva
al mare.
In particolare, era attratto da Marilyn, una bimba che
rideva tanto da far felice la gioia.
Marilyn abitava con il padre in una casuccia di legno
sulla scogliera, non lontano dalla città. La sua mamma era
andata via da anni a causa di un male sconosciuto.
Bella era Marilyn, anzi bellissima, e Dolphin Blue tra-
boccava d’ammirazione per lei. “Come sono belli, i bam-
bini!”, pensava il delfino.
“Ridono così bene! Con le mani costruiscono castelli
di sabbia. Con le gambe saltano e corrono; quei gridolini
m’incantano… come mi piacerebbe essere uno di loro.”
Anche Marilyn si era accorta di Dolphin Blue.
Terminata la scuola, fin dai primi bagni aveva scorto
un’ombra che la inseguiva come un’onda azzurrina. Non
lo vedeva, ma lo avvertiva come un presentimento.
198 6 favole

Coraggiosa e per nulla timorosa, la bimba capì presto che


si trattava di un giovane delfino. Non parlò a nessuno di
quei contatti ravvicinati e volle tenere quel segreto per sé.
Era felice di averlo attorno, però non osava avvicinarsi
a lui per non rompere un incantesimo. Dalla finestra della
sua cameretta lo osservava con il binocolo del padre,
immaginando di udire il battito del suo cuore.
La sagoma dell’angelo marino tinteggiava di vita l’oriz-
zonte incendiato del tramonto. Spuntava dalla superficie
dell’oceano come per magia; sfrecciava nell’acqua e piro-
ettava nell’aria, facendo tuffi e capriole, e creando una
festa di fontanelle e spruzzi.
Inseguiva acciughe e sardine e, siccome scherzava col
mare, Natura gli offriva guizzanti filetti d’argento vivo.
Anche Marilyn nuotava leggera e veloce. Il padre dove-
va penare per farla uscire dall’acqua, laddove i suoni sono
di ovatta e coprono veloci ogni distanza.
Nel suo elemento preferito la cucciola d’uomo si lascia-
va cullare dai sogni disciolti nelle onde. I sogni di tutte le
creature del mare.
Chiudeva gli occhi e immaginava di volare nelle pro-
fondità, di prillare come un delfino. Cosa non avrebbe
dato pur di essere simile a quelle creature marine, così
umane nello spirito.
Dolphin Blue vegliava su di lei. Mentre ascoltava il
cuore della bimba battere sottacqua, gli veniva voglia di
giocarci insieme, magari solleticarla e farla cavalcare sul
dorso, ma per timidezza si teneva a distanza.
Marilyn e Dolphin Blue 199

Un giorno i suoi fratelli gli domandarono: “Perché non


stai con noi? Il pesce più buono nuota al largo, nell’acqua
cristallina.”
“Mi piace guardare i bambini sulla spiaggia”, sospirò
Dolphin Blue.
“Non li guardare, gli esseri umani! Sono cattivi”, grida-
rono i fratelli.
“Io guardo solo i bambini, e loro non possono mai
essere cattivi.”
“Finché non diventano adulti”, gridarono i fratelli a
una voce. “Anche gli uomini buoni sono pericolosi.
Mamma è morta soffocata da un sacchetto di plastica but-
tato in mare.
E conosci anche tu la morte crudele di nostro padre…
solo perché mangiava qualche sardina dalle reti.
È rimasto impigliato e i pescatori gli hanno mozzato le
pinne per pescare indisturbati. Sanno che per aiutare un
fratello in pericolo stiamo lontani dalle reti. Ma non
abbiamo potuto fare nulla per salvarlo.”
Le lacrime dei delfini non si notano: si disperdono pre-
sto nell’acqua di mare, e ciò li fa apparire sempre felici.
Ma Dolphin Blue era malinconico da tempo. Il suo sguar-
do si posò su un punto nel cielo, e sussurrò: “Voglio scopri-
re un altro mondo, bellezze trasparenti che gonfiano il petto
d’emozioni e salvano dalla paura e dall’inutile dolore.
Vorrei stare sulla terra ferma, ma, là, io non posso
andare. Non ho gambe, né piedi per correre; non ho brac-
cia, né mani per volare gli aquiloni.”
200 6 favole

“Caro Dolphin Blue”, dissero i suoi fratelli. “Ti voglia-


mo bene e sai che ti aspetteremo finché deciderai di riu-
nirti con noi.”
Detto ciò, si lanciarono all’inseguimento di un banco di
acciughe.
Anche Marilyn, talvolta, diveniva pensierosa e malinco-
nica. “Come mai i delfini sono così intelligenti?”, chiese un
giorno al padre, che conosceva a fondo il segreto del mare.
“Sembrano pesci, bambina mia, ma non lo sono.
Respirano aria come gli esseri umani; si accoppiano, par-
toriscono e allattano i loro piccoli. Giorno dopo giorno…
li istruiscono per anni.”
“E tutto questo… fa diventare intelligenti?”, chiese
Marilyn.
“L’affetto sviluppa sempre intelligenza. È l’amore,
infatti, la più sofisticata forma d’intelligenza. Più ami, più
sei intelligente. Meno ami, più diventi arida, timorosa,
priva di gioia. L’anima allora rinsecchisce e muore. Le
creature più intelligenti sono quelle che amano di più.
Hanno scoperto il più semplice dei segreti.”
“Voglio diventare come i delfini ed entrare nel loro
mondo”, disse allora Marilyn. “Sento che sanno amare.”
“Spero che non accada mai, poiché mi spezzeresti il
cuore…”, disse il padre. “Queste cose, per fortuna, acca-
dono solo nei sogni.”
Ma ogni cosa esistente ha iniziato il suo viaggio verso
la realtà partendo da un sogno. Un sogno forte, ostinato,
capace di realizzare l’impossibile – e persino l’inesistente.
Marilyn e Dolphin Blue 201

Una notte in cui la luna era un disco morbido color


pesca, Marilyn sognò, e Dolphin Blue sognò. Sognarono
lo stesso sogno, e nella quieta mattina di fine giugno,
senza essersi dati appuntamento, i due s’incontrarono allo
scoglio del faro.
Si guardarono negli occhi per la prima volta e danzaro-
no misteriosi movimenti, gesti nuovi che ignoravano di
conoscere. Emisero suoni d’intesa universali…
… e Marilyn e Dolphin Blue s’intesero alla perfezione.
I loro cuori iniziarono a parlarsi, seppero subito cosa fare,
ed era un sapere naturale ed affascinante.
Marilyn lasciò i vestiti sulla roccia e discese nell’acqua.
Dolphin Blue le andò incontro e la fece montare sul
dorso. Nuotando sul pelo dell’acqua, giunsero al largo sul
mare, là dove il soffio dell’estate è una brezza leggera che
sussurra meraviglie al nuovo mattino.
S’immersero e iniziarono insieme una danza marina
che ricordava il turbine; poi i vortici di luce dell’Aurora
boreale; infine il silenzio assoluto della calma piatta, in cui
sentivano solo i loro cuori impazziti e il frusciare delle
bollicine sulla pelle.
Le due creature erano ancora abbracciate quando il
miracolo del cambiamento raggiunse ogni loro cellula, e
così, giocando, tornarono a riva. Un ultimo abbraccio e si
lasciarono.
La voce di una bambina gridò forte al delfino che si
allontanava: “Ricorda quello che ti ho detto, mi racco-
mando! Non avvicinarti alle reti dei pescatori, e gioca
202 6 favole

molto con i miei fratelli. Ti ameranno come amano me.


Conoscono il semplice segreto per amare.”
Gli squittii di un delfino che nuotava verso il largo grida-
rono alla fanciulla: “E tu non scordare quello che ti ho detto
io! Mio padre inventa ogni giorno regole nuove, ma ti vorrà
bene come ne vuole a me. Anche lui sa come si ama.”
Lo spirito cetaceo di Dolphin Blue si era fuso e dive-
nuto tutt’uno con lo spirito umano di Marilyn. Le due
creature si erano scambiate il cuore e la pelle con la pro-
messa di ritrovarsi alla fine dell’estate e decidere se torna-
re ciascuno alla sua vecchia vita, oppure No.
Avevano lasciato il timone della ragione all’Amore e
una forza gentile li avrebbe guidati per sempre. Per sem-
pre capaci di amare.
Un viandante ricercatore 203

Un viandante ricercatore
da 6 favole

In un tempo non troppo lontano vi era un viandante


ricercatore che non cercava minerali preziosi, ma solo una
pietra, la più fulgida al mondo, così scintillante da sbalor-
dire una stella. L’uomo cercava una pietra senza prezzo,
ma di immenso valore.
Nel corso del suo lungo viaggio ne aveva viste alcune
che emanavano un luccichio singolare. Belle erano, a
prima vista. E ancor più belle apparivano ai suoi occhi.
Occhi giovani e nuovi, che sapevano scorgere il bello.
Lontano da casa sua, un rubino rosa lo incantò, ma
presto il viandante si accorse che la sua luce fioca nascon-
deva un’incertezza.
Ancor più lontano, un verde smeraldo si rivelò splen-
dido ai suoi sensi e lo affascinò al punto di fargli smarri-
re la ragione.
Ma il luccichio dello smeraldo, in poco tempo, si con-
fuse con mille altri lumicini e così, anche la verde pie-
tra, come il rosa rubino, si volle sciogliere in un mare di
lucciole.
204 6 favole

Sconcertato per l’infruttuosa ricerca, dopo aver percor-


so lande immense, valicato catene montuose e attraversa-
to tutti i mari, il viandante cominciò a domandarsi in
quale modo avrebbe potuto riconoscere la pietra più ful-
gida in mezzo a tutti quei bagliori.
Giunto a completare il giro del mondo, avendone già
viste tutte le stagioni, capì di essere rivenuto al posto in
cui era nato.
Il ricercatore percepì un senso di festa e colse un par-
ticolare. Fra i milioni di punti brillanti disseminati sulla
sua strada, vi era un infinito spazio, fatto di penombra,
che circondava e avvolgeva quella costellazione di lumi.
Quella distesa tenue non era il vuoto, bensì una vastità
ricca di segrete sorprese e di emozioni insospettate.
Amante dell’inconsueto, ma forse solo per puro caso, il
viandante si lasciò incuriosire dalla morbida presenza di
quella zona d’ombra, senza la quale tutte le gemme bril-
lanti non troverebbero appoggio e precipiterebbero nel
nulla.
La terra in cui era nato si trovava in una di quelle zone
in semioscurità, ma siccome aveva fede di scoprire la pie-
tra senza prezzo, volle cercare anche là, e proprio nel
mezzo del giardino di casa sua intravide qualcosa.
Ai piedi di un albero di ulivo giaceva un pezzo di nero
carbone, semicoperto dalla terra e dalla erba. Frastagliato
era, e aspro e ruvido. Lo sollevò con cautela per appog-
giarlo sul muretto di pietra, e si accorse che era pesante -
troppo pesante per le sue dimensioni.
Un viandante ricercatore 205

Osservandolo da vicino, scorse una crepa profonda nel


minerale e intuì un’intensa, arcana presenza sotto il guscio
di carbone, che gli parve un cuore pulsante. L’aspettativa
crebbe nel cuore del viandante e una fortissima emozio-
ne lo fece tremare.
Con scalpello e martello prese a scrostare l’involucro
scabro e rugoso, finché una vista celestiale impressionò
gli occhi della sua anima.
Come un bozzolo, il carbone racchiudeva un diamante
angiolino, puro come secoli di acqua sorgiva, brillante di
una inspiegabile luce propria. Chissà per quanti anni la
gemma aveva dovuto trattenere il suo bagliore per se stes-
sa, incastrata nel baccello nero.
Era fredda quella pietra, ma il ricercatore sentiva che
dal cuore di puro cristallo stava per liberarsi un calore che
non avrebbe più smesso di scaldare; una luce iridescente,
la cui gloria non sarebbe mai più stata velata.
L’uomo la prese lievemente fra le mani, vi poggiò
sopra la guancia e la baciò, commosso da quell’inspiega-
bile ritrovamento. La sua fede aveva generato un miraco-
lo. Quella pietra, che lui aveva sognato e cercato per una
vita, in tutte le latitudini e in tutti i climi della terra, era
sempre stata nel giardino di casa sua, solo per lui, e nel-
l’ombra aveva aspettato il suo ritorno.
Lui, in fondo, ne aveva sempre sentito la presenza: era
lì, invisibilmente al suo fianco in ogni luogo, silenziosa
compagna di sentieri impervi. E con lei, la speranza del
viandante di trovarla.
206 6 favole

Era così felice che cercò di isolare quella straordinaria


emozione per godere appieno della sua potenza… e sco-
prì che era stato proprio il suo sogno a cercare lui.
Fece un pensiero che gli sembrò una certezza rivelata:
“Chissà quante pietre senza prezzo si nascondono nel
crepuscolo del mondo, e nessuno le cerca. È così bello
aver trovato la mia! Sicuramente ve n’è una per ogni per-
sona di fede che non abbia paura di cercarla.”
Il viandante, non più uno straniero, smise allora di
viandare e decise di vivere per sempre in prossimità della
luce che era sempre stata dentro di lui.
Il suo spirito imparò a volare libero oltre il tempo e
oltre ogni confine, con tutta la vitalità della ragione, sulle
ali leggere del cuore.
Fuoco di notte 207

Fuoco di notte
da 6 favole

Fuoco di Notte sentiva i morsi della fame. Le piogge


martellanti sulla jungla avevano fatto rintanare le prede negli
anfratti del sottobosco, e la belva non mangiava da giorni. I
suoi cuccioli erano già allo stremo e presto, prestissimo,
sarebbero morti di fame. Era solo questione di tempo.
Il bisogno di nutrirsi faceva sentire la bestia tesa, pron-
ta a scattare per azzannare e uccidere. La belva procedeva
calma e silenziosa nella foresta, ma si agitava in una forma
di tensione che la rendeva vigile, potente.
“Ti mangio, ti mangio!”, sibilava fra le zanne giallo avo-
rio. “Oggi ti sbrano e ti mangio”, diceva, pensando alla
sua preda.
Chi era Fuoco di Notte? Fuoco di Notte poteva solo
essere tigre.
Tremula Inquietudine brucava teneri ciuffi d’erba dal
buon profumo di pioggia. Le verdi foglioline dei giovani
cespugli erano fragranti e aromatiche.
Bacche rosse e scure, scelte fra le più mature, erano una
delizia, ma la giovane creatura ingoiava il cibo senza
208 6 favole

masticarlo e senza riuscire ad assaporarlo. Lo avrebbe


digerito più tardi, al riparo di un fossato, fitto di pruni e
di cardi.
Mangiava in fretta, Tremula Inquietudine, con gli orec-
chi tesi per distinguere un anomalo frusciare fra gli arbu-
sti; olfatto acuto, muso al cielo, per cogliere la minima
particella di quel tanfo pungente, acre come la morte;
occhi pronti a scorgere Fuoco di Notte.
Abbondante era il cibo per i mangiatori di erba e di
foglie, ma straripante era il fiume della paura – una ten-
sione benigna, che salva la vita e perpetua la specie.
Tremula Inquietudine poteva solo essere cerbiatto. Un
cerbiatto singolare, con una dose insolita di curiosità e vani-
tà – elementi pericolosi per le fragili creature della jungla.
“Non mangiare troppo…”, si raccomandava il capo
branco, “Altrimenti ti appesantisci e non puoi sfuggire a
Fuoco di Notte.
Quando lui viene, non lo senti arrivare. Se appena intui-
sci la sua presenza, puoi solo fuggire. Fuggire e scappare.”
“Qualcuno ha mai parlato con Fuoco di Notte?”, doman-
dò il cerbiatto. “Qualcuno ha mai provato a farlo ragionare?”
“Se qualcuno ci ha provato…”, rispose il capo branco,
“non è riuscito a raccontarlo, perché Fuoco di Notte bru-
cia e consuma. E tu devi solo correre, finché dalla bocca
non cola schiuma.”
E Tremula Inquietudine, un freddo mattino, lo incon-
trò, il tremendo. Fuoco di Notte sbucò dall’impossibile,
ruggendo: “Ti mangio, ti mangio!”
Fuoco di notte 209

Stava per scappare Tremula Inquietudine. La sua natu-


ra cerbiatta gli diceva: “Corri, cerbiatto, corri e scappa! Se
ti fermi a pensare, Fuoco di Notte t’acchiappa. Non par-
lare! Se vuoi dire qualcosa, dillo con le zampe, e scappa,
fuggi via lontano.”
Ma curiosità prevalse. Il giovane cervo doveva guarda-
re Fuoco di Notte negli occhi e ascoltare la sua voce. Non
l’aveva mai udita, ma un sapere ignoto gli diceva che pote-
va solo essere affascinante.
Si fece coraggio e, con ancora il sapore di foglie in
bocca, chiese alla belva: “Perché mi vuoi mangiare?”
“Io azzanno, strazio e divoro”, rispose il tigre. “E tu
dovresti tremare, correre e scappare. Se avevi una possi-
bilità di vivere, l’hai buttata via…”
Fuoco di Notte stava per ubbidire alla sua natura san-
guinaria e balzare addosso a Tremula Inquietudine, quan-
do il cerbiatto lo solleticò nel suo amor proprio, dicendo:
“Non mi mangiare. Ti prego, non farlo. Vuoi sapere per-
ché non sono fuggito?”
“Perché, perché? Dimmi perché!”, ruggì la bestia.
“Per conoscere la tua potenza”, singhiozzò il cerbiatto.
“Tu mi affascini.”
“Cosa abbiamo da dirci noi due? Ti mangio e basta.”
“Non mi mangiare. Non mi mangiare. Perché uccidere
tante creature, quando vi è abbondanza di vegetali e frut-
ti?”, chiese il cerbiatto, che già immaginava il sangue sgor-
gare a flutti.
La natura felina di Fuoco di Notte diceva alla belva:
210 6 favole

“Azzanna, tigre, azzanna e uccidi. Chi parla troppo, non


dice nulla. Devi parlare meno e dire di più. Dillo con le
zanne e uccidi. Adesso!”
Ma Fuoco di Notte indugiò ancora e non resistette alla
tentazione di dare al cerbiatto una lezione:
“Il mio corpo brama sangue e carne lacerata. Così
come il tuo chiede erbe e frutti, e gli uccelli cercano semi
e insetti, e gli insetti fiori e polline, come i fiori reclama-
no acqua e luce.”
“Cosa pensi mentre squarti e uccidi?”, chiese disperato
il giovane cervo.
“Il fuoco brucia, e io non penso di squartare. Io squarto.
E non penso di uccidere. Uccido. Solo così posso esistere.
Non sono feroce allo scopo di uccidere le mie prede.
Sono feroce e basta… e Natura mi premia con la vita.
Fermandoti a parlare con me, hai trascurato il tuo com-
pito principale, cerbiatto vanitoso. Solo perché ami parla-
re, credi di essere privilegiato? Ogni creatura è importan-
te, ma nessuna è speciale.
Cerbiatti come te mi fanno faticare meno, e ne ho divo-
rati tanti… ma tanti...”
“Ce ne sono molti come me? Non sono allora un poco
speciale?”, chiese l’immodesto cerbiatto.
“In effetti”, ammise il tigre, “la tua presunzione è fuori
dal comune.”
La conversazione fra Fuoco di notte e Tremula Inquie-
tudine tirava per le lunghe. Il cerbiatto comprese, però,
che non avrebbe incantato la belva con il suo parlare, e
che i suoi minuti erano contati.
Fuoco di notte 211

Sentì l’acre profumo del panico correre nel sangue, e


poi l’alito di Notte-per-sempre decisa ad inghiottirlo.
Solo allora Tremula Inquietudine scalpitò e, tremolan-
do, iniziò ad implorare: “Non puoi avere pietà di un cer-
biatto che tanto ti ammira?”
“Tu non hai avuto pietà di te stesso e della tua proge-
nie, e per la tua vanità morirai. Non sarai di aiuto per la
tua specie. Vi saranno cerbiatti in meno nella jungla e
tigrotti in più, che sfamerò con la tua carne succulenta.”
Detto ciò, Fuoco di Notte balzò addosso a Tremula
Inquietudine e lo sbranò, badando di lasciare i brandelli di
carne più teneri per i suoi cuccioli.
Poi, con il muso che grondava rosso sangue, pensò fra
sé e sé: “Simpatico cerbiatto! Nessuna preda vanitosa era
riuscita a farmi parlare tanto.”
Solo allora Fuoco di notte si sovvenne dei cuccioli che
lo aspettavano affamati, e si precipitò da loro. Quando
però giunse alla tana, li trovò in fin di vita, stremati dalla
fame, e a nulla valsero i suoi tentativi di rianimarli. I pic-
coli non avevano più neanche la forza di mangiare.
Fuoco di notte si era attardato a parlare, e troppo tardi si
era reso conto di aver trascurato la sua principale natura.
Molto aveva parlato e predicato. Nulla di utile aveva detto…
Il cuore dei tigrotti aveva smesso di pulsare allegro nel
petto.
Chi, Come, Quando e Perché 213

Chi, Come, Quando e Perché


da 6 favole

Nella foresta del corno d’Africa viveva una famiglia di


scimmie che si era molto evoluta. Chi era il padre, Come la
madre, Quando e Perché i loro due figli, maschio e femmina.
Per una inspiegabile casualità, l’anomala famiglia aveva
imparato a comunicare emettendo con la bocca suoni
strani, veramente straordinari.
Questo passo avanti, tuttavia, non le aiutava a prosperare.
Infatti, le sofisticate creature non godevano di buona salute:
erano malnutrite e piuttosto spelacchiate. I peli sul corpo si
erano diradati, lasciandole esposte al freddo e alla pioggia.
Divenute più deboli, riuscivano a raggiungere solo i
rami più bassi degli alberi, e là passavano molto tempo a
litigare e a disputare.
Troppo tardi giungevano sui fusti degli alberi e doveva-
no accontentarsi dei frutti più acerbi – se mai le comuni
scimmie ne avessero lasciati.
Non si sa se la famiglia evoluta patisse la fame perché
troppo impegnata a conversare, ovvero se chiacchierasse
tanto poiché non riusciva a trovare il cibo.
214 6 favole

Natura è sublime e non ci svela quale sia l’origine e


quale il fine delle cose, essendo il creato mondo un mera-
viglioso girotondo.
Un umido mattino la fame mordeva ed era divenuto
urgente trovare da mangiare. Al solito, i membri della spe-
ciale famiglia, pur avendo imparato a parlare, non riusci-
vano a intendersi.
I giovani Quando e Perché erano sicuri che il cibo lo
avrebbero procurato i genitori, ma pensavano male. Chi e
Come credevano che se ne sarebbero occupati Quando e
Perché, più giovani e pieni di energie. Ma si sbagliavano
anche loro.
Dunque, nessuno lo fece. Lo stomaco urlava, ma,
nonostante ciò, le perspicaci scimmie continuavano ad
argomentare.
“Chi procura le banane?”, chiedeva il padre.
“Come si prendono le banane?”, diceva la madre.
“Quando e Perché bisogna trovarle?”, replicavano i figli
in coro.
Gli speciali primati avevano sempre un mucchio di
domande, ma non cercavano risposte, così potevano pas-
sare giorni prima che riuscissero ad affondare i denti nella
polpa di un frutto.
La famiglia intelligente era invidiosa delle comuni
scimmie: queste urlavano e squittivano senza ritegno,
divertendosi un mondo a fare acrobazie sui rami più alti.
Mangiavano frutti prelibati e il loro benessere e la loro
gioia erano fin troppo evidenti.
Chi, Come, Quando e Perché 215

Le scimmie parlanti erano anche disgustate dalle cugi-


ne più primitive, le quali si spidocchiavano senza ritegno
e si gingillavano in modo osceno con quelle parti del
corpo che mai vedono il sole.
Al contrario, le comuni scimmie erano ben disposte
verso le intelligenti cugine. Dal ramo più alto di una man-
grovia, Baboo, il capo di una numerosa comitiva, osserva-
va la strana famiglia con curiosità. Quegli esseri aristocra-
tici erano così buffi a vedersi da costituire un spettacolo
offerto da Madre Natura.
Grattandosi la pancia, Baboo si divertiva a vederle liti-
gare, mentre piluccava le bacche più sugose. Di tanto in
tanto ne lasciava cadere qualcuna ai loro piedi, perché non
morissero di fame.
“Sono così ridicole da sembrare uno scherzo”, diceva
Biiba, una delle sue mogli, in linguaggio scimmiesco, fatto
di segni e molecole invisibili di pensiero. “Devono aver
preso una terribile malattia.”
“Le aiuterò a non morire di fame…”, riprese Baboo.
“Ma potremo salvarle dalle fauci di Nero Fumo? Si fida-
no tanto delle parole, che hanno dimenticato il linguaggio
fondamentale del pensiero.
Non capiscono neanche i segnali di allarme. Solo per
puro caso ieri non sono state divorate da Nero fumo.
Parlerò con loro.”
“Tempo perso!”, disse Biiba. “Non ti ringrazieranno
neanche. L’intelligenza le ha rese sorde. Bada di non farti
contagiare, e non sostare sul terreno o sui rami bassi.
Nero Fumo non aspetta altro.”
216 6 favole

E un giorno, con mille cautele, Baboo si avvicinò agli


esseri superiori con il nobile intento di aiutarli.
Si rese conto, però, che solo Come, la femmina, aveva
qualche memoria del linguaggio del pensiero, mentre gli
altri componenti della famiglia lo guardavano sdegnati.
Chi, geloso della sua compagna, lo fissava minaccioso.
Quando, il figlio, si copriva gli occhi per non vedere il
modo con cui Baboo si spidocchiava. La giovane Perché si
tappava il naso, nauseata dalle flatulenze delle sue viscere.
“Come mai non scappate alle grida di allarme?”, chie-
se Baboo.
“Li ho messi in guardia anch’io, ma non ascoltano più.
Chi, Quando e Perché trovano quelle urla primitive.”
“Primitive?”, replicò incredulo Baboo.
“Molto primitive… I nostri suoni sono così dolci e
dignitosi.”
“Dolci?”, chiese Baboo.
“Dolcissimi!”
“Dignitosi?”
“Dignitosi e decenti”, ribadì la femmina.
“Ma quelle parole vi aiutano a capire?”, domandò Baboo.
“A capire cosa?”
“La vita!”, rispose Baboo. “Se taci, senti i pensieri della
jungla. Capisci il frusciare delle foglie, i messaggi della
pioggia, i profumi del vento, i pensieri delle creature a te
affini e delle bestie voraci come Nero Fumo. Ogni essere
vivente emette segnali di pensiero… ma il pensiero è mate-
ria fine che puoi cogliere solo ascoltando.”
Chi, Come, Quando e Perché 217

“E tu, tacendo, riesci a sentire tutto questo?”, chiese la


femmina.
“Tacendo e osservando”, disse Baboo. “E all’improv-
viso senti cose che nessuna parola può dire; segnali che
nessuno può raccontare. Nella jungla, chi non ascolta le
particelle di pensiero è destinato a morire. Lasciate la foresta
e cercate un posto più sicuro.”
“Pazzo scimmione!”, disse Come. “Sei invidioso dei
nostri suoni.”
In effetti, Baboo aveva iniziato ad apprezzare il fine lin-
guaggio. Aveva trovato così gradevole ascoltare la sofisti-
cata femmina che si era già trattenuto un bel po’ ai piedi
della mangrovia.
Nel frattempo, infatti, il loro vociare aveva attirato l’at-
tenzione di due orecchie tese. Strisciando sotto vento,
un’ombra indistinta si era avvicinata e due occhi saettanti
già li scrutavano immobili.
Quella silenziosità annunciava un agguato, e la terra,
vibrando, già si preparava a ricevere sangue. Molte orec-
chie attente colsero quelle vibrazioni, ma le scimmie
parlanti, troppo prese dal dotto dialogare, non le perce-
pirono.
Zanne a sciabola saettarono come fulmini nella notte.
Nero Fumo balzò fuori da un cespuglio come una nuvo-
la oscura che tutto ammanta e trasfigura.
Dapprima balzò sul ramo basso, dov’erano accovaccia-
ti Chi, Quando e Perché, e con pochi morsi e abili falciate di
grinfie li uccise all’istante.
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Poi saltò sul terreno, laddove Come e Baboo si erano


attardati a parlare, e con una zampata spezzò di netto il
collo di Come. Infine, mentre Baboo stava per mettersi in
salvo sulla mangrovia, lo tirò giù trascinandolo per una
gamba.
La disperazione gridò forte: “Bestia feroce! Non sei
ancora sazia di sangue e di morte?”
Ma Nero fumo non risponde a nessuno: muto non è,
ma non parla mai. Saettando nell’aria, la belva affondò le
zanne a sciabola nella gola di Baboo e con gli artigli delle
zampe posteriori lo sventrò senza esitare.
Mentre moriva, il generoso scimmione si rese conto
che per alcuni fatali minuti si era distratto e aveva smesso
di ascoltare le molecole di pensiero della jungla.
Nei suoi occhi si poteva scorgere un grande stupore,
che non era, però, solo terrore: all’improvviso, un nuovo
sapere lo aveva illuminato.
Anche lui aveva appreso il linguaggio parlato.
I quattro elementi 219

I quattro elementi
da 6 favole

Un pensiero distruttivo istigava i quattro elementi a litigare:


“Io do respiro alla vita”, sibilò Aria.
“Io le do da bere”, scrosciò Acqua.
“Io le offro un riparo sicuro”, tuonò Terra.
“Io la riscaldo”, avvampò Fuoco.
“Non è vero! Tu incendi e riduci in cenere”, diluviò Acqua.
“… Solo con la complicità di Aria.”
“Il mio ossigeno fa vivere la vita”, soffiò Aria, vantandosi.
“Ma senza il tuo ossigeno non infiammerei.”
Il pensiero distruttivo suggeriva: “Spazzate via, brucia-
te e inondate senza pietà, poiché nessuno ha compassio-
ne di voi. Chi prima colpisce, per primo si salva.”
Acqua spumeggiò, piena d’orgoglio: “Io rinfresco la
vita, la bagno e la salvo da Fuoco.”
“Falsa e bugiarda!”, scoppiettò Fuoco, sicuro come non
mai. “Tu soffochi e anneghi.”
“… Ma solo se Aria e Terra vengono a mancare.
“Terra, tu sì, sei ambigua”, urlò Aria. “Non offri riparo
sicuro. Tremi, sconquassi e inghiotti tutto.”
220 6 favole

“Solo per offrire un appoggio più stabile” , si difese lei,


fiera di sé.
“Chi procura i guai più seri, sei tu, Aria irrequieta. Soffi
e spazzi via tutto. Nulla si salva dai tuoi cicloni impazziti.”
“Però stupisco la vita con mille profumi”, ululò Aria.
“… E l’appesti di tanfo infernale”, tremò Terra.
Parlò l’Elemento più elementare: “Nessuno di voi è solo
male o solo bene. Ciascuno di voi semplicemente è, e non
può accusare gli altri senza ferire se stesso. La vostra
importanza non aumenta offendendo, anzi si disperde.
Siete elementi distinti, ma non diversi…
Tu, Acqua, vieni da Aria.
Tu, Fuoco, procedi da Terra.
E cosa sarebbe Acqua senza Terra.
Come potrebbe Fuoco ardere senza Aria?”
I quattro elementi si resero conto che odio e maldicen-
za non li rendevano felici. S’interrogarono in silenzio poi,
per un lungo giorno, interruppero ogni attività, e invece
di insultarsi, provarono ad ignorarsi.
Aria smise di soffiare e trattenne il respiro.
Fuoco si rifiutò di scaldare.
Terra non volle più ruotare e si raffreddò.
Acqua si congelò e non offrì più da bere.
Una infinita tristezza si impadronì del mondo per un
intero, lunghissimo giorno. Il sole stesso, all’alba di quel
mattino, non provò il desiderio di sorgere.
I quattro elementi sentirono il gelo della morte e il
nulla eterno, e compresero allora che neanche l’indiffe-
renza li faceva sentire meglio.
I quattro elementi 221

Infine, Fuoco, il più coraggioso, domandò all’Elemento


più elementare: “Come resistere alla tentazione di farci
guerra?”
“Rigettate il pensiero distruttivo. È un desiderio egoi-
stico che non rinforza, ma indebolisce e lacera i cuori.
Il proprio bene passa dal benessere degli altri.
Lasciate che siano i vostri compagni a elogiare le stra-
ordinarie qualità che vi distinguono.”
Irruppe infuriato il pensiero distruttivo: “No, NO!
Maleditevi a vicenda. Solo il più forte dominerà.”
L’Elemento più elementare replicò: “Su chi dominerà,
quando tutti avrà annientato? Con chi dividerà la gioia del
trionfo? Sarà un triste vincitore chiunque prevarrà in soli-
tudine.”
“Gli eroi trionfano soli e schiacciano ogni avversario.
La solitudine è vera forza”, ribadì il pensiero distruttivo.
“Ma può divenire infinita tristezza”, aggiunse
l’Elemento più elementare. Nessuna guerra conosce vin-
citori. Il vincitore diviene erede delle rovine dell’avversa-
rio, e quelle gli crolleranno addosso.
Amici elementi, una sacra unità vi lega, una materia
fine, che genera nuova vita. Tutto ubbidisce ad un pensie-
ro creativo: l’elefante e la formica, l’aquila e il colibrì, l’al-
bero e il fiore.”
Il pensiero distruttivo non voleva darsi per vinto:
“Lacerate, demolite e bruciate. Solo la distruzione ha un
senso.”
Ma l’Elemento più elementare affermò con calma:
222 6 favole

“Potete scegliere l’orgoglio e diffondere morte, o eleggere


la pace e far sorgere dal nulla mondi luminosi. Il futuro
dell’universo lo decidete solo voi – né io né il pensiero
distruttivo abbiamo questo potere.”
I quattro elementi stettero un poco in silenzio e consi-
derarono finalmente una possibilità: la scelta di amare. Per
una prodigiosa sincronia si scoprirono diversi, e si sorpre-
sero a provare un sollievo, una leggerezza nuova.
Cercare la pace non era difficile, poiché il seme buono
aveva sempre albergato in loro. Solo un pensiero distrut-
tivo li aveva confusi e aveva impedito loro di sognare.
E non appena quella nuova passione prese a pulsare,
Terra palpitò come un grembo materno;
Acqua ondeggiò come un campo di grano;
Aria si mosse come una soave melodia;
e Fuoco crepitò, caldo come un giaciglio di passione.
Illuminati da quel nuovo sogno, i quattro elementi ini-
ziarono a parlarsi con un impulso che avvicina:
“TU, Aria trasparente, dai respiro alla Vita”, scoppiettò
Fuoco.
“TU, limpida acqua, le dai da bere”, vibrò Terra.
“TU, Terra generosa, doni cibo e riparo”, sussurrò Aria.
“TU, Fuoco vigoroso, offri un tepore amico”, zampillò
Acqua.
Reso insofferente da quel trionfo di armonia, il pensie-
ro distruttivo rivelò chiara la sua tenebrosa natura, e si
allontanò fino a dissolversi.
Era la P a u r a.
I quattro elementi, liberati dal maligno incantesimo,
I quattro elementi 223

nuova vita videro agitarsi, e altri soli, e pianeti novelli.


Una scelta divenne una magia e l’Elemento più elemen-
tare trionfò, rivelandosi semplice nel suo splendore.
Candido, trasparente e invincibile.
A mor e .
Era l’A

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