Sei sulla pagina 1di 24

LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA – G.Cambiano, L.Fonnesu, M.

Mori
Kant
L’epoca della critica
Kant (1724-1804) segna una frattura così netta con la tradizione e con lo sviluppo precedente al suo
pensiero, da poter dire che questo pensiero non ha nel suo contenuto nessuna storia. Kant negli
scritti precritici si mette singolarmente in relazione con gli atteggiamenti spirituali che tenterà poi di
dominare sinteticamente nella critica della ragione. Molti pensieri della filosofia matura di Kant
diventano più comprensibili se letti come sviluppi del confronto con la filosofia del suo tempo.
Importante è la propria relazione con la sua epoca. La consapevolezza critica, una volta raggiunta,
non può essere persa: “difficilmente un’epoca futura potrà superarci”. Si individuano dunque forme
diverse dei discorsi umani, diversi tipi di affermazioni dotate di diverse fonti di legittimità:
conoscenze scientifiche, fedi religiose, prospettive politiche. Una volta individuati questi principi, il
senso dei discorsi che fondano è modificato, nell’ambito in cui ognuno può legittimarsi. Si può fare
chiarezza su quest’epoca cercando di comprendere la divaricazione dei diversi linguaggi tra la
conoscenza scientifica e i discorsi che orientano la vita umana: morale, diritto, religione.
2. Kant prima di Kant
Lento processo attraverso cui Kant rimedita il pensiero di Leibniz e Wolff, fino ad emanciparsene
con la pubblicazione della Dissertazione del 1770. La prima opera di Kant= Pensieri sulla vera
valutazione delle forze vive – 1749. A 25 anni, quindi, Kant tratta la tematica della misurazione
della forza. Nella filosofia naturale vi erano problematiche di fisica e metafisica. Kant cerca la
conciliazione, assumento infine la posizione di Leibniz e anche Baumgarten riguardo la metafisica.
Traspare l’attenzione per la metafisica come disciplina, considerata alle soglie di una conoscenza
ben fondata. Emerge l’importanza di un “faro che orienti la navigazione”= metodo atto a trovare e
prevenire errori. Kant sostiene che un discorso sul metodo della metafisica non potrà essere
metafisico ma deve basarsi su dati certi dell’esperienza. Il metodo che delinea è di una filosofia
come progressiva chiarificazione di concetti già posseduti in modo oscuro: ma rifiuta l’analogia tra
metafisica filosofia e matematica. Obiettivo=ricercare ciò che si sa di certo riguardo concetti
posseduti, fondando argomentazioni solo su questi dati sicuri. Ma le proposte metodologiche di
Kant non sono all’altezza, il problema di un metodo per la filosofia e la metafisica resta aperto.
Nonostante queste inquietudini Kant è convinto di poter sviluppare una metafisica tradizionale
come conoscenza di eventi sovrasensibili con opportune correzioni metodologiche. L’ultima
correzione è proposta dalla dissertazione Sulla forma e i principi del mondo sensibile e intellegibile
del 1770, riformulando la teoria di Leibniz, che insegna a discriminare tra conoscenza sensibile e
intellettuale. Kant dice di non voler discutere a fondo un argomento tanto esteso, dà dolo delle
indicazioni per dissolvere principi ingannevoli: i principi per la conoscenza sensibile invadono il
campo delle cose dell’intelletto. La filosofia critica nasce nell’illuminismo, un periodo di acuta
auto-consapevolezza storica. Nel progetto di Kant vi è il riposizionamento della ragione nei
confronti delle altre istanze che pretendono di regolare la vita dell’uomo. La critica (=autoanalisi
della ragione rispetto alle sue possibilità e ai limiti di poter conoscere) è la condizione perché la
ragione possa presentarsi e legittimarsi come autentica guida. Nella Prefazione alla prima edizione
della Critica della ragion pura del 1781 Kant sostiene che a volersi sottrarre alla critica sono la
religione (per la sua santità) e la legislazione (per la sua maestà); così facendo, però, esse fanno
sorgere il sospetto. L’autorità religiosa e politica è condizionata da quella critica che consiste nella
valutazione, libera e pubblica, del fondamento di tutte le affermazioni. Mette sul tribunale della
ragione la ragione stessa.
Il pensiero critico lega il ruolo della metafisica agli interessi profondi dell’uomo: porta a disegnare
un progetto di convivenza pacifica tra i popoli, fondato sulla libertà e la ragione. Il modo di pensare
del criticismo è caratterizzato dalla massima di non assumere mai come vero qualcosa se non dopo
un completo esame dei principi. Così, il compito della critica è distruttivo e costruttivo: deve
portare alla distruzione degli apparenti fondamenti attraverso la ricerca dei fondamenti solidi. In
matematica si comincia dal semplice e dalle definizioni; in metafisica da concetti complessi. I sogni
di un visionario spiegati coi sogni della metafisica (1766): Kant confessa che è la scienza di cui è
innamorato, ma la paragona alle visioni di Swedenborg, teologo che narrò di contatti diretti con
mondi mistici. In una lettera al filosofo ebreo Moses Mendelssohn, scrive che dalla metafisica
dipenderebbe il vero e il duraturo bene del genere umano. Nel sensibile l’oggetto è conosciuto come
appare sulla base di forme spazio e tempo. L’intelletto consente di conoscere l’oggetto com’è: come
un noumeno (ciò che è pensato).
3. La Critica della ragion pura e la metafisica
Dopo la dissertazione nel 1770 c’è il “decennio silenzioso” in cui nasce la Critica della ragion pura,
e con essa l’idea di una nuova sistemazione della filosofia e del sapere in generale. Il nuovo lavoro
di Kanti consisteva nell’analizzare la conoscenza in generale per distinguerne le forme, verificarne
le possibilità e capire se è possibile una conoscenza metafisica giustificabile. Nella parte conclusiva
della prima Critica distingue due concetti di filosofia: quello scolastico=concetto di un sistema della
conoscenza che viene cercata soltanto come una scienza senza avere come fine nient’altro che la
completezza logica della conoscenza; quello cosmico=per Kant è sempre stato alla base del termine
filosofia. La filosofia è quindi la scienza dei fini essenziali della ragione umana, e il filosofo è il
legislatore della ragione umana. Il concetto cosmico della filosofia considera ogni conoscenza in
relazione agli interessi essenziali dell’uomo come cittadino del mondo (il principale di cui potrebbe
essere il bisogno di collegare ogni fine settoriale dell’agire e del conoscere con un fine ultimo).
Qualunque sapere può essere inteso come una tecnica (=abilità relativa a fini arbitrari) e ha quindi
un valore condizionato al fine cui serve. La filosofia, riferendo ogni sapere agli interessi dell’uomo,
acquisisce invece un valore incondizionato, poiché è un sapere che è in grado di orientare e
conferire senso a tutti gli altri. Kant sa che la filosofia così intesa si presenta come un modello
ideale dal perseguire, ma da non considerare mai acquisito. Il concetto cosmico di filosofia è quindi
riferito al filosofo come figura ideale personificata, e non alla filosofia come scienza. Per lo stesso
motivo Kant sostiene che la filosofia propriamente culmina nella saggezza, cioè in qualcosa che
riguarda l’azione dell’uomo nel mondo, la sua dimensione morale, ma che non si può tradurre in un
sapere già acquisito e fissato. Tuttavia la scienza è la premessa indispensabile per far si che la
ragione riesca ad orientarsi, e a sua volta presuppone un esame preliminare delle sue possibilità e
dei suoi limiti. Matematica, fisica e conoscenza empirica hanno un alto valore come mezzi, specie
in vista di fini necessari per l’umanità (anche se in quest’ultimo caso sono importanti solo con la
mediazione di una conoscenza razionale che muova da semplici concetti, ossia della metafisica).
L’interesse di Kant per la metafisica deriva soprattutto dal ruolo che essa può assumere in una
organizzazione generale del sapere. È dunque in gioco non una disciplina astrusa, ma il modo di
funzionare di un sistema di forme di sapere legato ai fini ultimi dell’uomo. Riproponendo la
filosofia come metafisica e la metafisica come compimento di ogni cultura della ragione umana,
Kant sta proponendo un progetto filosofico del tutto nuovo. Ovviamente questa impresa è stata
percepita dalla cultura del tempo come un’opera di distruzione del sapere tradizionale
(Mendelssohn: “Kant che tutto frantuma”). Come teoria, la metafisica ha un valore limitato
(prevalentemente di critica delle conoscenza, piuttosto che di conoscenza stessa), ma acquista il suo
senso positivo nell’ambito morale, in relazione ai fini dell’agire umano.
La metafisica diventa così una teoria della possibilità e dell’uso delle diverse forme di esperienza
umana, che ne indica le condizioni e il senso, senza pretendere di costituire un particolare sapere di
oggetti non accessibili empiricamente.
4. La metafisica e la conoscenza
È possibile una metafisica come scienza? La scienza è un tipo di conoscenza, ma è possibile una
conoscenza in generale? La componente minima identificabile nella conoscenza è quella del
concetto: esso, come tale, non costituisce ancora una conoscenza; è una rappresentazione generale
che si può riferire a una pluralità di oggetti (“albero”). Da solo, quindi, il concetto non dice nulla, è
solo il predicato di un giudizio possibile e l’unità minima di conoscenza è il giudizio=unione di due
concetti, soggetto e predicato. I concetti sono solo rappresentazioni, strumenti del conoscere umano,
senza fondamento in un’essenza delle cose. Quindi il legame tra un soggetto e un predicato in un
giudizio ha il suo fondamento solo nelle operazioni del pensiero stesso. Se conoscere è giudicare,
per comprende diversi tipi di conoscenza bisogna considerare i diversi tipi di giudizi. E Kant
distinguerà:
-giudizio analitico = il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto
implicitamente in questo concetto A;
-giudizio sintetico = B è completamente fuori dal concetto A, anche se sono in connessione
(ESEMPIO: tutti gli alberi sono piante=giudizio analitico; tutti gli alberi sono combustibili=giudizio
sintetico). Kant non ha di mira un criterio per distinguere tra i due tipi di giudizio; gli interessa
piuttosto distinguere il principio in base al quale il giudizio viene formulato: quello logico di
identità, oppure un altro. Il principio di identità consente di chiarire una conoscenza già posseduta,
non contribuisce ad acquisirla o estenderla. Per acquisire conoscenza bisogna istituire connessioni
prima non note. La conoscenza analitica è importante, ma ha un senso solo dove presuppone la
possibilità di una conoscenza sintetica. Tale distinzione tra due modi di conoscere, si intreccia con
la distinzione tra le due fonti possibili della conoscenza:
-conoscenza a posteriori = successiva, derivante dall’esperienza
-conoscenza a priori = precedente, indipendente dall’esperienza (per lui scienze sintetiche a priori
sono matematica e fisica pura)
Per essere reale acquisizione di conoscenza, la metafisica dovrà contenere giudizi sintetici e, poiché
la metafisica è la scienza che oltrepassa l’esperienza, tali giudizi dovranno essere a priori. Ma
com’è possibile la metafisica e come sono possibili i giudizi sintetici a priori? La risposta di Kant
sarà che la metafisica come ontologia (=scienza dell’ente in generale-metafisica generale) è
possibile con una limitazione all’oggetto dell’esperienza; e la metafisica di enti determinati come
Dio, mondo e anima (metafisica speciale) non è possibile come conoscenza, ma può esistere con un
carattere diverso: trasformazione dell’ontologia e riformulazione della metafisica speciale. Se
l’analisi di forme di conoscenza a priori può dare indicazioni importanti, l’analisi di conoscenze a
posteriori può dare indicazioni su come si produca conoscenza sintetica. L’unione di concetti non è
l’unica fonte di conoscenza umana: esiste un altro genere di rappresentazione, l’intuizione, che al
contrario del concetto è singolare. Il concetto si riferisce a una classe di cose con caratteri comuni
attraverso tali caratteri; l’intuizione si riferisce a una singola cosa, senza mediazione di caratteri
comuni (percepisco questo albero). Intuizioni e concetti fanno riferimento a due fonti diverse della
conoscenza:
-sensibilità = passiva, riceve impressioni dai sensi (concetti)
-intelletto = attivo, produce le sue rappresentazioni (intuizioni)
La tesi che ne deriva è che la conoscenza scaturisce solo dall’unione di queste due fonti: “senza
sensibilità nessun oggetto ci verrebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I
pensieri senza contenuto sono vuoti; le intuizioni senza concetti sono cieche”. Inoltre “l’intelletto
non può intuire nulla, e nulla possono pensare i sensi. È soltanto dalla loro unione che può scaturire
la conoscenza”. Nella tradizione filosofi ca precedente (sia empirista che razionalista), le
rappresentazioni erano viste in un orizzonte di continuità. In Leibniz, ad esempio, le
rappresentazioni sensibili si distinguevano da quelle intellettuali non per le opposizioni
passività/attività e singolarità/generalità, ma per gradi di definizione: la possibilità di distinguere in
modo nitido (in quelle intellettuali) o di percepire in modo confuso (in quelle sensibili) le
componenti rappresentative interne. L’istituzione di una discontinuità tra le due forme
rappresentative porrà a Kant il problema della loro connessione, ma gli consentirà anche di
affrontare in modo più radicale la questione della possibilità della conoscenza. A congiungere
soggetto e predicato in un giudizio sintetico nell’ambito della conoscenza sintetica a posteriori è
l’esperienza che io faccio dell’oggetto, e più precisamente l’intuizione sensibile empirica
dell’oggetto. Per Kant il concetto empirico si costruisce gradualmente: all’inizio serve solo per
indicare l’oggetto, e man mano viene arricchito dalle esperienze fatte. La critica deve verificare se
esistono intuizioni e concetti puri in grado di produrre effettive conoscenze a priori. Questo tipo di
indagine sulla possibilità di conoscenza a priori è indicato da Kant col termine trascendentale: è
trascendentale ogni conoscenza che si occupa non tanto di oggetti, ma del nostro modo di conoscere
gli oggetti, nella misura in cui questo modo deve essere possibile a priori. Trascendentale è quindi
una conoscenza riguardante la possibilità di una conoscenza a priori.
5. La filosofia trascendentale
Nucleo della filosofia trascendentale è l’esame critico della ragion pura. La filosofia trascendentale
dovrebbe contenere in modo completo le conoscenze sintetiche e analitiche in questione,
oltrepassando la critica in una metafisica dei costumi e una della natura. Individuate le due fonti
della conoscenza (sens. e int.), bisogna capire se esse contengono principi che consentano una
conoscenza a priori. Vanno quindi sviluppate:
-una scienza degli elementi a priori della sensibilità = estetica trascendentale
-una scienza degli elementi a priori dell’intelletto = logica trascendentale (a sua volta divisa in
analitica trascendentale = analisi degli elementi della conoscenza pura; e dialettica trascendentale =
esame della conoscenza solo apparente e delle ragioni di tale parvenza).
Kant esclude la possibilità di un’intuizione intellettuale. Tuttavia individua due intuizioni sensibili e
pure, prive di componenti empiriche: spazio e tempo. Le rappresentazioni di spazio e tempo sono
rappresentazioni di una singolarità, quindi intuizioni. Queste, però, non sono proprietà delle cose,
ma forme attraverso cui ordiniamo rappresentazioni sensibili. Se posso concepire cose fuori da
spazio e tempo, non posso percepire cose fuori di essi (sono quindi condizioni di ciò che è dato alla
sensibilità). Dunque non valgono per ogni ente pensabile e sono “ideali” non dati nelle cose. Lo
spazio sta a fondamento della geometria, che deve il suo carattere sintetico al riferimento a
un’intuizione a priori che oltrepassa ciò che è contenuto nei concetti. E il tempo come intuizione
pura è una condizione per concepire il mutamento, che è alla base della teoria generale del
movimento, ed è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale. Si manifesta quindi
la possibilità di conoscenze sintetiche a priori ed emerge contemporaneamente il suo limite: esse
possono valere solo per oggetti che si danno nello spazio e nel tempo, ossia gli oggetti di
un’esperienza possibile. Kant riprende così la distinzione tra fenomeni e noumeni (cose in sé). Gli
enti rispetto a cui è possibile una conoscenza sintetica a priori sono i fenomeni (=ciò che si
manifesta a un soggetto dotato di sensibilità).
Si trasforma quindi metodo e campo della metafisica generale, che quindi non si rivolge più agli
enti in quanto tali, ma solo ai fenomeni o enti del mondo fisico. Ma per comprendere a quali
condizioni i fenomeni si manifestano a noi, bisogna identificare dei caratteri che essi devono avere
per essere a noi manifesti. Dato che l’intuizione da sola non dà conoscenza, dovrà essere indagato il
ruolo dell’intelletto e le condizioni intellettuali, non sensibili della manifestazione dei fenomeni
l’intelletto non potrà fare altro a priori che anticipare la forma di una possibile esperienza generale,
e poiché ciò che non è fenomeno non può essere oggetti di esperienza, l’intelletto non potrà
oltrepassare i limiti della sensibilità. Per rendere comprensibile questa trasformazione del metodo
dell’ontologia, Kant fa un’analogia con la riv.copernicana: Copernico ha cambiato il punto di vista
facendo ruotare la Terra intorno al Sole; così la filosofia trascendentale deve cambiare il suo punto
di vista e non muovere da pretese proprietà dell’ente, ma dal modo in cui ci è possibile accedere
all’ente stesso, e cercare in esso i caratteri a priori di qualsiasi fenomeno. Il punto metodologico di
partenza non è quindi l’oggetto, ma il soggetto. Se fin ora si pensava che ogni conoscenza
bisognasse regolarla sugli oggetti, si provi a vedere se non possiamo adempiere meglio ai compiti
della metafisica ammettendo che siano gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza. Se si
deve raggiungere la comprensione della possibilità di una conoscenza a priori bisogna stabilire
come possano valere per i fenomeni dei giudizi sintetici e a priori, dunque dei concetti puri. Come
fa il pensiero a essere condizione dei fenomeni? L’idea di base di Kant è che tra le operazioni
dell’intelletto nei giudizi e la percezione sensibile c’è un’unità di fondo: la funzione dell’intelletto
che unifica delle rappresentazioni in un giudizio è anche in grado di unificare le rappresentazioni in
un’intuizione. Quindi al giudizio come unione di concetti corrisponde un’unificazione della
molteplicità di dati che la percezione sensibile ci presenta, e un’unificazione diversa a seconda della
forma di unificazione pensata nel giudizio. Le diverse tipologie di giudizio daranno luogo a
operazioni diverse dell’intelletto in rapporto alla sensibilità. Kant identifica tutte le funzioni logiche
di unificazione di concetti in una tavola completa di giudizi, e di poter ricavare da essa una tavola di
concetti puri dell’intelletto o categorie. Queste sono concetti di un oggetto in generale, per mezzo di
cui si considera l’intuizione di quell’oggetto; sono modi di unificare ciò che ci si manifesta nei
fenomeni; regole per decifrare ciò che vediamo. Tali regole sono a priori, ma non sono idee innate:
sono forme per leggere l’esperienza; sono concetti puri non innati, ma originariamente acquisiti =
nascono con l’esperienza, non dall’esperienza. Conoscenza = composto di ciò che riceviamo dalle
impressioni e ciò che la nostra facoltà conoscitiva apporta da sé stessa. Sono così possibili dei
giudizi sintetici a priori in relazione agli oggetti di una possibile esperienza: si tratta di regole
presupposte prima di svolgere ogni esperienza, ma che consentono di svolgerla = i principi
fondamentali dell’intelletto puro. Kant individua 12 forme di giudizio e quindi 12 categorie,
suddivise in 4 gruppi:
-quantità = i principi corrispondenti a questa e alla qualità sono: “tutte le intuizioni sono quantità
estensive” e “in tutti i fenomeni il reale oggetto della sensazione ha una quantità intensiva cioè un
grado” principi della matematizzazione dei fenomeni
-qualità
-relazione = il principio corrispondente è “l’esperienza è possibile solo mediante la
rappresentazione di una connessione necessaria delle rappresentazioni”.
Tale principio si articola in tre aspetti, quindi ci sono 3 principi legati alle categorie di relazione: 1)
in ogni cambiamento dei fenomeni la sostanza permane e il quantum di essa in natura rimane
invariato; 2) tutti i mutamenti accadono secondo la legge della causalità; 3) tutte le sostanze, in
quanto percepibili nello spazio come simultanee, si trovano tra loro in azione reciproca universale
-modalità = non prefigurano un oggetto in generale, ma indicano solo diverse forme di rapporto col
soggetto conoscente.
La limitazione della conoscenza a priori al campo dell’esperienza possibile poteva essere attaccata
sia dai sostenitori della metafisica tradizionale sia da coloro che negavano radicalmente la
possibilità di una conoscenza a priori. Quindi Kant per dimostrare che siamo in possesso di
conoscenze sintetiche a priori utilizza una “deduzione trascendentale delle categorie”, cioè una
legittimazione del loro possesso in quanto concetti puri. In questa celebre argomentazione (la più
importante riguardo alla facoltà dell’intelletto) emerge in primo piano il ruolo del’io. Gli oggetti
dell’esperienza (fenomeni) non sono sostanze la cui natura è determinata da un’essenza concettuale,
ma insiemi di relazioni regolate. Le relazioni non possono esistere senza un soggetto che le
riconosce. Il semplice presentarsi delle cose non contiene di per sé alcuna unità o collegamento la
sensibilità offre un molteplice senza unità. Ogni unità sorge da un processo attivo, dall’operazione
di composizione da parte di un soggetto, della sua facoltà attiva: l’intelletto. Il soggetto delle
operazioni intellettuali è l’ “io penso” o “appercezione trascendentale”, che ha quindi un ruolo
cruciale, ed è inteso come una funzione di unificazione. La leva per dimostrare la validità oggettiva
delle categorie è che essa ha tanta certezza quanto ne ha l’autocoscienza dell’atto io penso: le due
cose si implicano a vicenda. Ogni rappresentazione, anche l’intuizione, deve sottostare alle
condizioni che le permettano di esistere insieme alle altre in un’unica autocoscienza (unificata); e
l’io, a sua volta, deve la sua identità alla sintesi delle rappresentazioni, regolata dalle categorie.
6. Smarrimento e trasfigurazione della metafisica
La scoperta di un campo limitato in cui una conoscenza a priori è possibile implica l’esclusione di
una conoscenza a priori su altri tipi di oggetti, cioè quelli che nessuna esperienza possibile può
includere. I temi più classici trattati dalla metafisica ai tempi di Kant (Dio, anima, mondo) non sono
oggetti di una conoscenza legittimabile. Il percorso filosofico di Kant porta a delineare
un’immagine della ragione diversa da quella di una semplice facoltà di conoscenza di enti
sovrasensibili.
L’analisi delle forme logiche del giudicare porta anche a una distinzione tra aspetti della ragione in
senso generico:
-la facoltà dei concetti (o regole) di formulare giudizi è l’intelletto
-la facoltà di applicare i giudizi, di giudicare in senso pieno, è la facoltà di giudizio
-la capacità di inferire, cioè collegare tra loro i giudizi per ricavarne conoscenze è la ragione in
senso stretto.
La ragione, infatti, deriva il particolare dall’universale (le inferenze della ragione sono chiamate
sillogismi = derivazione di conseguenze da una premessa che vale come principio generale).
Da un punto di vista trascendentale, quindi se si considera che questa facoltà (la ragione) da sola
possa dar luogo a conoscenze a priori, risulta che una conoscenza scaturita dalla sola ragione
sembra impossibile. La ragione conserva però una funzione relativa al conoscere.

Le conoscenze, infatti, devono organizzarsi in unità, così come i fenomeni vengono unificati dai
concetti, e ciò comporta la ricerca di condizioni sempre più universali. La ragione cerca
l’incondizionato, la totalità delle condizioni. Compito della critica è interpretare, senza cancellarla,
tale tendenza naturale della ragione umana, eliminando l’inganno nato da un malinteso. Si può
infatti produrre semplice conoscenza illusoria che ha come esito un conflitto della ragione con se
stessa (=dialettica), ma è anche possibile individuare un esercizio corretto di questa facoltà (=uso
regolativo della ragione). Le rappresentazioni proprie della ragione sono le idee, ossia concetti che
esprimono una totalità delle condizioni, che non può mai essere oggetto di esperienza. Le idee
scaturiscono come rappresentazione necessaria di un’unità incondizionata; si trasformano
inevitabilmente, venendo intese impropriamente come rappresentazioni di enti soprasensibili, come
concetti di cose. Così intese generano conoscenze apparenti ma profondamente aporetiche (anima,
mondo, Dio). La dialettica trascendentale diventa l’analisi dei procedimenti concettuali che
producono le idee come concetti illusori e la dissoluzione delle aporie che ne conseguono attraverso
l’introduzione della distinzione tra fenomeni e cose in sé. I conflitti si dissolvono se si considera che
le cose del mondo sono fenomeni e che per esse, quindi, non possono valere condizioni riferite dalla
ragione alle cose in sé. Così l’esito dei paralogismi della ragione (ragionamenti distorti e solo
apparentemente concludenti) è la psicologia razionale. L’idea di mondo come totalità
incondizionata oggetto della cosmologia razionale, invece, non genera ragionamenti erronei, ma
un’antitetica della ragione, cioè il presentarsi di tesi contrapposte che sono entrambe indecidibili: un
dissidio interno della ragione con se stessa (antinomia) che si articola in 4 conflitti riguardo:
l’esistenza o meno di un limite del mondo nel tempo e nello spazio; parti semplici nel mondo;
causalità mediante libertà diversa da quella meccanica; essere necessario nella serie delle cause.
Infine vi è l’analisi critica dell’idea della teologia razionale: l’idea di un’unità e condizione assoluta
di tutti gli enti pensabili corrisponde all’idea di un ens realissimum (Dio), cioè un ente che contiene
in sé tutte le realtà, le proprietà positive delle cose. Il malinteso qui consiste nello scambiare la
presenza di un ideale (che ha la funzione solo di rendere pensabile la necessaria determinazione
completa delle cose) con l’esistenza effettiva di un ente un modello viene trasformato in un oggetto
reale. Nel caso della teologia razionale Kant spinge la sua trattazione oltre l’analisi dell’uso distorto
dell’idea. Vi è un cammino naturale che intraprende ogni ragione umana che consiste nel cercare a
partire dall’esperienza comune un fondamento assolutamente necessario. Questa pretesa si traduce
in tre forme di argomentazione filosofica: 1) prova fisico-teleologica = dimostrazione di una causa
suprema a partire dall’esistenza del mondo fisico; 2) prova cosmologica = dimostrazione
dell’esistenza di un ente necessario a partire da qualunque esistenza; 3) prova ontologica =
dimostrazione della necessaria esistenza di un ente realissimo in base al suo solo concetto.
7. Il compimento della ragione: la ragione pratica, la libertà
Il concetto più autentico di filosofia per Kant concepiva la filosofia come un sapere culminante
nella saggezza. La teleologia della ragione umana indicava un uso della ragione in grado di legare
scienze e agire umano alla destinazione dell’uomo nel mondo. La critica della metafisica finisce per
liberare uno spazio per un discorso razionale che non coincide con la conoscenza di enti
sovrasensibili. L’individuazione dell’esperienza possibile come unico campo della conoscenza
limita le pretese di quel tipo di sapere modellato sulla conoscenza delle cose sensibili di esaurire
ogni forma di ragionevolezza. Il concetto di noumeno assume il senso di un concetto limite utile a
circoscrivere la pretesa della sensibilità lasciando libero un diverso ambito discorsivo: il pensabile
(“ho dovuto mettere da parte il sapere per far posto alla fede”). La parola fede indica una modalità
del ritener vero, che si distingue dalla conoscenza vera e propria, ma che ha una sua legittimità.
Se non può essere oggetto di conoscenza, lo spazio indicato dalla cosa in sé può essere riempito da
un discorso che segue una diversa logica e che è legato alla dimensione del dover essere e della
ragione pratica, che regola l’agire dell’uomo. I temi che rivestivano un grande interesse per la
ragione ora sembrano subordinati a una domanda più radicale: cosa si deve fare se la volontà è
libera, se esiste un Dio e se vi è un mondo futuro? La logica di tale domanda introduce una
dimensione diversa da quella conoscitiva: le ragioni naturali che spingono a volere, gli stimoli
sensibili, non possono mai produrre il dovere, ma solo il volere, che non è mai necessario ma
sempre condizionato; la ragione non segue l’ordine delle cose così come si presentano nel
fenomeno, ma si costruisce con piena spontaneità un proprio ordine secondo idee. Dunque in
ambito pratico la ragione ricerca un fondamento assoluto, e allo stesso tempo si pensa come in
grado di agire in base a esso e nel mondo. Problema di fondo della ragion pratica è quindi com’è
possibile che la ragione in quanto tale eserciti una causalità distinta da quella empirica? E come può
autodeterminarsi e determinare l’azione? A questa questione Kant dedica la Fondazione della
metafisica dei costumi e la Critica della ragion pratica (1788). Individuando ancora nel giudizio il
suo elemento basilare e analizzandone le tipologie, egli cerca di identificare gli elementi primi del
discorso pratico. Le proposizioni normative che indicano un dover essere vengono chiamate regole
pratiche. Esse sono principi tecnico-pratici o prescrizioni, regole che ci dicono come dover agire in
rapporto a uno scopo arbitrario, e che riguardano la scelta di mezzi appropriati per un determinato
fine. Esse prevedono una valutazione tecnica di condizioni per produrre un certo effetto. All’interno
dei principi tecnico-pratici, a seconda se lo scopo sia arbitrario o dato dalla natura dell’uomo
(ricerca della felicità) si distinguono regole dell’abilità e consigli di prudenza. Le regole pratiche
possono essere anche principi pratico-morali e riguardano sia la valutazione dei mezzi che la scelta
dei fini. Essi si dividono in: massime (principi con valore soggettivo-mi ripropongo di essere
gentile) e leggi (principi con valore oggettivo). Trovare la legge che orienta la libera azione umana
è il problema centrale della morale. Per una “volontà santa”, conforme alla ragione, in cui volere e
dovere coincidono, la regola non ha carattere di costrizione. Tuttavia per gli uomini che non sono
guidati solo dalla ragione, alcune regole pratiche diventano un comando. La struttura logico-
linguistica dei comandi contiene invariabilmente l’espressione di un dover essere e, a una
proposizione che contiene il verbo dovere come formula del comando, Kant dà il nome di
imperativo. Imperativo = proposizioni che contengono un’espressione di dovere che non indica una
necessità fisica, ma un compito da eseguire. L’imperativo può essere:
-ipotetico, in cui il dovere è condizionato da un’ipotesi, da uno scopo di per sé non necessario (se
vuoi vincere devi allenarti);
-categorico, in cui il dovere non è sottoposto a condizioni, ma l’azione viene rappresentata come di
per sé necessaria
Affermando la necessità di un’azione, un imperativo ne dà una valutazione: l’azione è considerata
buona relativamente a uno scopo o come mezzo per un fine (nell’imperativo ipotetico), oppure
buona in sé incondizionatamente (nell’imperativo categorico). Dai due tipi di imperativo
scaturiscono quindi due sensi molto diversi di “buono”. Il buono dell’imperativo ipotetico vuol dire
“adatto a produrre uno scopo, efficace” (efficacia = bontà relativa = imp.ipotetico). L’azione buona
dell’imperativo categorico invece non si riferisce a uno scopo, quindi ha valore in sé (bontà morale
= assoluta = imp.categorico). Ma cosa valutiamo quando stabiliamo non l’efficacia, ma la bontà
morale di un’azione? Abbiamo detto che la proposizione da cui scaturisce la valutazione di bontà è
quella che indica un dovere: buona è quindi l’azione che corrisponde a quel dovere. Ma non basta
che l’azione come tale corrisponda al dovere. Kant distingue un’azione conforme al dovere e
un’azione compiuta per dovere (qui c’è valutazione morale.
L’azione può conformarsi a una regola ma può essere motivata da altro e tendere ad altri fini che
non siano l’adempimento a un dovere per questo la valutazione morale non deve rivolgersi
all’azione (commerciante onesto: corretto per dovere o per aumentare la clientela?). Per Kant c’è
solo un oggetto cui può essere attribuito in senso morale l’attributo della bontà: la volontà (le virtù
non sono tali incondizionatamente ma solo se orientate da una volontà buona). Ma quale qualità
della volontà viene valutata? Kant esclude che una volontà sia buona per ciò che fa e ottiene (il
risultato di un’azione non dipende unicamente dalla volontà da un’azione malvagia può scaturire un
risultato positivo e viceversa), e anche per la capacità di attuare ciò che si propone. Ciò che viene
giudicato è l’intero principio dell’agire, la regola pratica che la volontà dà a se stessa, cioè la
massima del volere: essa è il principio che ne organizza e orienta una serie di azioni, ed è l’oggetto
autentico della valutazione morale. Esempio di massima: principio per cui mi propongo di non
ingannare le persone. Non ci chiediamo quale sia il risultato dell’azione, ma da quale principio essa
si sia prodotta. E in base a quale criterio si valuta la massima? Dobbiamo sempre tener presente che
il criterio che deve rendere necessaria un’azione non deve essere condizionato da un fine ulteriore:
non deve essere un imperativo ipotetico. L’ambito in cui il criterio della moralità va cercato è quello
di una filosofia pura a priori, una metafisica dei costumi. Nel trattare la possibilità di una metafisica
speculativa nella Critica della ragion pura, la ragione doveva mostrare di conoscere legittimamente
a priori qualcosa fuori di sé; mentre circa la possibilità di una metafisica dei costumi, la ragione
deve dimostrare di poter essere da sola principio dell’azione, e cioè che esiste un principio puro
razionale e che solo da questo scaturiscono le azioni. Se c’è un imperativo ipotetico, non c’è ragion
pratica; se c’è un imperativo non ipotetico, sì. Kant dedica due opere alla possibilità di una
metafisica dei costumi: la Fondazione della metafisica dei costumi e la Critica della ragion pratica,
entrambe con l’obiettivo di individuare un principio assoluto del volere, ma con procedute diverse:
la F. muove dalla conoscenza morale comune per trovare in essa il principio da chiarire
filosoficamente in una metafisica dei costumi; la C. parte dai principi scaturiti da un’analisi
concettuale per dimostrare la capacità di tali principi di determinare la volontà. Entrambe lasciano
lo spazio aperto a una vera e propria metafisica dei costumi (pubblicata nel 1797) che determini un
sistema dei doveri in relazione alla natura umana, sulla base del principio della moralità. Per trovare
una legge che valga incondizionatamente bisogna considerare che essa non può riferirsi a nessun
oggetto che possa considerarsi desiderabile: se il modo in cui ci rappresentiamo uno stato determina
la volontà di attuarlo, la relazione che si crea tra sogg. e ogg. è di “piacere”. Ma tale relazione
dipende dalla natura del soggetto, non può fondare una legge necessaria; può solo fondare una
massima soggettiva, ossia quella di raggiungere la felicità (“coscienza della piacevolezza della vita”
guida azione umana). Anche se essere felici è il desiderio di ogni essere umano, ciò non costituisce
una legge, poiché il contenuto della felicità dipende dai desideri, e può essere diverso per ognuno.
Se nessun oggetto del volere può essere fonte di un volere necessario, allora il principio deve essere
formale: non deve dirci cosa desiderare ma COME desiderare. La forma di una legge consiste nella
sua universalità (valere x tutti), ed è tale forma a fornire l’unico principio pratico incondizionato
ecco individuato il criterio di valutazione delle massime: è buona quella massima (quindi la volontà
che la assume) adatta a qualificarsi come legge universale. IMPERATIVO CATEOGORICO:
“agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come
principio di una legislazione universale”. Un essere razionale non riesce a riflettere sui fini della
propria azione se non sentendosi obbligato a pensare la propria massima nella prospettiva di una
legge (quindi segue fino in fondo la razionalità). La legge morale è la struttura implicita nel
ragionamento morale di ogni uomo. La novità dell’etica di Kant consiste nel delineare un principio
che la ragione pratica trova in se stessa, senza derivarlo né dalla religione né da una conoscenza
teoretica. In questo senso la ragione è legislatrice e il filosofo è legislatore della ragione umana. Il
discorso razionale culmina in questa possibilità di auto legislazione legata all’agire umano, che però
implica il concetto di libertà.
La volontà razionale della r.pratica deve essere libera, indipendente da impulsi sensibili (libertà
negativa) e libera di determinare la propria legge (libertà positiva). Poiché ciò non è possibile nel
mondo sensibile, si ripresenta un problema metafisico. Nel discorso pratico la libertà non è
conoscibile, ma deve essere ammessa come idea, come presupposto dell’agire razionale. Una volta
ammesso che l’essere razionale che riconosce la legge morale non può agire se non
presupponendosi libero, ciò equivale a dire che per esso valgono tutte le leggi inseparabilmente
connesse con la libertà, come se la sua volontà fosse spiegata come libera anche in se stessa. Quindi
è la coscienza della legge morale, propria di ogni essere razionale, a costringerci a pensare come se
fossimo liberi.
• Libertà = condizione della legge morale, la quale non avrebbe senso se non fossimo liberi. Libertà
= ratio essendi della legge morale la ragione che la fa essere, perché se non fossimo liberi non
esisterebbe nemmeno l’autonomia della volontà
• Coscienza della legge morale = condizione per la coscienza di essere liberi. Legge morale = ratio
cognoscendi della libertà la ragione che la fa conoscere
Rimane però aperto un problema di fondo, quello del rapporto tra la moralità delle azioni e il corso
del mondo. Si può pensare un “sommo bene”, cioè unione di virtù e felicità? Spesso l’azione
conforme al dovere contrasta con la felicità personale e si presenta il controsenso di realizzare un
dovere razionale in un mondo irrazionale. Per ricomporre questo dissidio Kant usa la dottrina dei
postulati della ragion pratica. Tali postulati sono proposizioni teoretiche, ammesse solo dal p.di
vista pratico per orientare l’azione dell’uomo; non sono dogmi, ma supposizioni; acquisiscono un
uso pratico che consiste nel consentire di vivere come se fossero veri, di credere possibile una
riconciliazione tra la virtù e il corso del mondo, un legame tra la coscienza della moralità e l’attesa
di una felicità a essa proporzionata. I postulati autorizzano concetti come Dio e anima che non sono
strumenti di conoscenza, ma possibilità che rendono sensato l’orizzonte dell’azione. primato della
ragion pratica su quella teoretica: nel suo uso pratico la ragione può trovare un uso legittimo anche
fuori di ciò che la ragione speculativa può conoscere, mentre quest’ultima non può rigettare ciò che
la ragion pratica stabilisce. I concetti di Dio, immortalità dell’anima e libertà possono infatti
conservare un senso anche se non sono conoscenze. La ragion pratica può dunque ammettere ciò
che la ragione teoretica aveva indicato come inconoscibile. compimento della riformulazione
kantiana della metafisica. L’immortalità dell’anima consente di pensare in una vita futura la
coincidenza tra l’esser compiutamente degni della felicità e la felicità effettiva; l’esistenza di Dio
consente di pensare la natura e il mondo dell’azione umana come compatibile con la moralità.
Intese come postulati pratici, come principi di orientamento dell’azione, tali idee sono libere dalla
superstizione e dal fanatismo. Liberato dalla conoscenza, il discorso morale rende possibile una
religione puramente razionale: i contenuti di tale religione vengono fatti dipendere dalla moralità
capovolgimento: è la morale che fonda la fede e non viceversa. Tuttavia la fede è una “massima del
ritener vero”, una modalità di assenso che richiede da parte nostra una scelta, è una libera
determinazione del nostro giudizio.
8. Sviluppi della filosofia critica: la facoltà di giudizio
La Critica della facoltà di giudizio, pubblicata nel 1790, è secondo Cassirer quella con cui Kant ha
inciso più a fondo che con ogni altra nel tutto della cultura intellettuale del suo tempo. Con il
primato della ragion pratica è stato possibile pensare insieme natura e libertà, ma rimanevano
ancora aperti diversi problemi, il principale di cui era quello di un’effettiva mediazione tra natura e
libertà, che la sola possibilità del sommo bene non sembrava garantire in modo adeguato. Tra i due
domini di natura e libertà vi è un immenso abisso e tuttavia la libertà deve realizzare nella natura
(mondo sensibile) gli scopi che si pone; e le leggi della natura devono essere pensate in modo che si
accordino almeno con la possibilità degli scopi da realizzare in essa mediante la libertà.
I postulati della ragion pratica pur garantendo armonia tra moralità ed esiti del corso del mondo,
non fondavano un accordo tra la legalità naturale e la libertà, basato sul differente modo di pensare
(meccanicismo=cause meccaniche VS finalismo=libera posizione di fini).
Nelle prime due critiche Kant ci rivela due mondi opposti:
1)il mondo fenomenico, dominato dal meccanicismo e dalla causalità;
2)il mondo noumenico, proteso verso la libertà e il finalismo.
Nella 1° critica Kant studia la conoscenza, nella 2° la morale, nella 3° il sentimento.
Nella Critica del Giudizio Kant esamina la facoltà di giudizio, una facoltà intermedia fra intelletto e
ragione, fra conoscenza e morale. Kant distingue il giudizio determinante dal giudizio riflettente
Mentre i giudizi scientifici sono detti determinanti, in quanto determinano gli oggetti fenomenici
mediante gli “a priori”, e sono caratterizzati dalla necessità, i giudizi sentimentali sono detti
riflettenti perché riflettono su una natura già costituita mediante i giudizi determinanti. Col giudizio
riflettente ci troviamo di fronte a un oggetto già conosciuto attraverso lo spazio, il tempo e le
categorie e riflettiamo su di esso per collegarlo con un nuovo elemento universale, che non è logico
ma sentimentale, il quale esige sempre e dovunque finalità ed armonia. Il giudizio riflettente ci
rappresenta il mondo fisico in termini di finalità e di libertà e permette, nel soggetto, l’incontro fra i
due mondi. Il giudizio riflettente si esprime attraverso il sentimento, che è la facoltà mediante la
quale l’uomo coglie la finalità del reale che la 1.a Critica ammetteva solo sul piano fenomenico e la
2.a postulava sul piano noumenico. Il sentimento esprime un bisogno tipicamente umano. Il
sentimento si pone fra il “potere di conoscere” e il “potere di desiderare”.
Kant esamina due tipi di giudizio riflettente:
1)il giudizio estetico, che è dato dall’intuizione della pura forma del bello, per cui vediamo un
oggetto corrispondere direttamente alle nostre esigenze spirituali. Il bello è perciò l’oggetto di un
piacere disinteressato e universale;
2)Il giudizio teleologico, che riguarda il discorso sugli scopi della natura.

9. Il bello e il sublime
IL GIUDIZIO ESTETICO
Se guardo un fiore senza alcun interesse o scopo provo un godimento disinteressato: dico che il
fiore è bello soltanto perché è bello; perciò lo contemplo senza alcuno scopo. Il bello è ciò che piace
universalmente, ciò che è condiviso da tutti (universalità e necessità su base sentimentale e non
concettuale), in quanto si fonda sul giudizio di gusto, che non è un giudizio conoscitivo, ossia non si
basa su concetti, ma su quella facoltà di giudizio, comune a ogni uomo: è la mente umana che fonda
il giudizio di gusto; pertanto esso è universale. L’autonomia estetica garantisce l’universalità e la
libertà del giudizio di gusto. Contro gli empiristi e i sensisti, che riconducevano l’apprensione del
bello ai sensi, Kant difende il carattere specifico e spirituale dell’esperienza estetica. Contro i
razionalisti, che consideravano la bellezza come una conoscenza “confusa” della perfezione degli
oggetti, Kant sostiene che l’esperienza estetica è fondata sulla spontaneità e non sulla conoscenza.
Il gusto è il criterio su cui si basa il giudizio estetico, ossia la facoltà di giudicare il bello. Il bello
non è una proprietà oggettiva delle cose, ma il frutto di un incontro del nostro spirito con esse.
La forma dell’oggetto bello non è una qualità della cosa, ma consiste in un’armonia interiore del
soggetto, che viene proiettata sull’oggetto. Se le belle forme sono in natura, la bellezza è nell’uomo,
ossia nella sua mente. Se la bellezza risiedesse nelle cose, e quindi nell’esperienza, essa non sarebbe
più universale e neppure sarebbe libera, perché verrebbe imposta a noi dalla natura. Il giudizio di
gusto, dunque, oltre a essere universale, deve essere libero. Il piacere estetico è puro e scaturisce
dalla contemplazione della “forma” di un oggetto. Tutte le volte che la bellezza è un fatto di
attrattiva fisica, che mette in moto i sensi più che lo spirito, il giudizio estetico perde la sua purezza
e diventa particolare e individuale. In tal caso parliamo di piacevole e non di bello. Mentre il
piacevole, che si basa su un sentimento particolare ed è legato ad uno scopo, dà luogo a giudizi
estetici empirici (non puri né universali, ma scaturiti dalle attrattive che le cose esercitano sui sensi
e legati alle inclinazioni individuali ), il bello come piacere estetico è qualcosa di puro, non soggetto
ad alcun condizionamento. Il piacevole si basa su un sentimento particolare ed è legato ad uno
scopo. Il bello si basa su un sentimento universale e non ha scopi conoscitivi o pratici.
Il genio
Il genio è la capacità di creare la bellezza. Esso è originale e creativo ed è inimitabile. E’
impossibile mostrare scientificamente come avviene la produzione del genio. Per giudicare la
bellezza di un oggetto occorre il gusto. Per produrre la bellezza occorre il genio. L’arte bella è
spontanea come la bellezza della natura, ma l’opera d’arte non è un’imitazione della natura e
neppure un’interpretazione della realtà: essa non proviene né dalla fantasia né dall’intelletto, ma è
frutto del sentimento che nell’opera d’arte esprime l’universale nel particolare, l’intelligibile nel
sensibile, il noumeno nel fenomeno. E così fa sorgere il piacere estetico, che appaga tutto l’uomo,
creando un accordo fra immaginazione ed intelletto.
La rivoluzione copernicana
Fondando il giudizio di gusto e la sua universalità sulla mente umana, Kant perviene ad una
rivoluzione copernicana estetica: il bello non è una proprietà oggettiva delle cose, non è una qualità
dell’oggetto, perché è vissuta interiormente dal soggetto, che la proietta sull’oggetto.
Il sublime
E’ sublime ciò che è grande in maniera smisurata, al di là di ogni possibile confronto.
-Sublime matematico è l’estensione assolutamente grande nello spazio e nel tempo (ad es. l’oceano,
le galassie, il diametro terrestre) - illimitatezza oggetto naturale
-Sublime dinamico è una forza assolutamente potente (ad es. l’uragano o il terremoto) - potenza
sovrastante dell’oggetto naturale
Di fronte a queste cose proviamo ambivalenza: da un lato proviamo dispiacere perché la nostra
immaginazione è troppo limitata per abbracciare tali grandezze; d’altra proviamo piacere perché la
nostra ragione si eleva all’idea di INFINITO (piacere negativo). Queste entità sublimi, ma pur
sempre
limitate, hanno il potere di risvegliare in noi l’idea di infinito, che è superiore ad ogni realtà, per
quanto questa possa essere smisurata e potente. Osservando queste realtà scopriamo la nostra
limitatezza ma, coscienti dei nostri limiti, cerchiamo di superarli mirando all’infinito, perché è già
in noi l’idea dell’infinito pensata dalla Ragion pura come una totalità assoluta. Di fronte a tale idea
la grandezza del sublime della natura si rivela ben poca cosa: la vera sublimità non sta nella
grandezza della natura, ma piuttosto nell’animo di colui che giudica sublime tale grandezza, ossia
nell’uomo.
Il sublime (che nasce dal contrasto fra immaginazione e ragione e ci appare come qualcosa di
terribile) si distingue dal bello (che nasce dall’armonia tra le facoltà dell’animo e ci procura serenità
ed equilibrio). Sia il bello che il sublime presuppongono come loro condizione la mente del
soggetto.
10. L’organismo e la teleologia. Natura e cultura
IL GIUDIZIO TELEOLOGICO
Il giudizio teleologico esprime la nostra capacità di pensare che debba esserci una finalità obiettiva
per cui un certo oggetto esiste. La finalità del reale può essere appresa immediatamente, nel
giudizio estetico, oppure mediatamente, nel giudizio teleologico.
-Giudizio estetico = coglie la finalità soggettiva;
-Giudizio teleologico = coglie la finalità oggettiva.
Noi non sappiamo cosa sia la natura in sé (noùmeno), giacché la conosciamo solo
fenomenicamente. Tuttavia non possiamo fare a meno di considerarla come organizzata in vista di
un fine. Tutto nel mondo è utile. Niente esiste invano. In esso domina un principio finalistico: gli
elementi naturali esistono in vista di un fine. Di fronte all’ordine generale della natura non possiamo
fare a meno di pensare che essa risponde a un bisogno dell’uomo. Il giudizio teleologico ci fa
cogliere nella realtà la presenza di un fine che sfuggiva all’intelletto e ci spinge ad una visione
finalistica della natura, che integra la visione meccanicistica di essa. Il coordinamento delle parti di
un organismo e dei diversi esseri nel tutto non è un risultato meccanico: il meccanicismo e la
causalità colti nel mondo fenomenico non ci forniscono una spiegazione soddisfacente e totale dei
fenomeni naturali e ci appaiono inadeguati soprattutto quando osserviamo gli esseri viventi:
Nessuna ragione umana può sperare di comprendere secondo cause meccaniche la produzione
anche solo di un filo d’erba. Lo scienziato ha il dovere di spiegare causalisticamente e
meccanicamente tutti gli avvenimenti della natura, ma avverte il bisogno di considerare il tutto
come predisposto intenzionalmente da un Essere superiore. Mediante il giudizio teleologico ci
accorgiamo che esiste un finalismo nell’uomo, come in tutti gli esseri naturali, ma che egli è lo
scopo ultimo della natura. Senza l’uomo il mondo sarebbe un deserto vuoto. Naturalmente il
giudizio teleologico non ha carattere teoretico e dimostrativo, ma risponde a un bisogno tipico
dell’uomo. Esso ci induce a credere a un Essere superiore che ha organizzato la realtà in modo
rispondente all’attuazione dei fini della nostra vita morale. Mentre il punto di vista scientifico coglie
la causalità della natura, il punto di vista teleologico coglie la finalità della natura, ossia
l’espressione di una volontà superiore. Tale volontà predispone la natura per il trionfo del bene. Il
giudizio quindi accorda le facoltà conoscitive con la morale. Vi è una mirabile finalizzazione della
natura, la quale indica che l’uomo è il fine della creazione e la sua suprema destinazione morale.
CONCLUSIONE
La Critica del Giudizio è l’opera che ha avuto maggior influenza sui romantici, per i quali Kant è
soprattutto l’autore della terza Critica. Nonostante Kant si sia rifiutato in tutte le critiche di andare
oltre il fenomeno, i romantici andranno oltre Kant e pretenderanno di rompere le dighe del
criticismo e di fare irruzione nel mondo noumenico, trasformando i postulati della morale e le
esigenze del sentimento in altrettante realtà. Scrisse Kant: Due cose mi riempiono maggiormente
d’ammirazione: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Per Kant l’uomo che nella
Ragion pura si è rivelato un essere fenomenico, finito, ma dotato, in quanto essere razionale, di
un’apertura all’Infinito (le Idee), nella Ragion pratica e nella Critica del Giudizio si rivela come
effettivamente votato all’Infinito. Il destino dell’uomo è l’Infinito.
Con queste posizioni Kant trascende gli orizzonti dell’Illuminismo e giunge alle soglie del
Romanticismo, che sarà tutto proteso, nella poesia e nella filosofia, verso l’Infinito.
11. Diritto e pace perpetua
La critica del giudizio doveva anche mostrare la possibilità di un passaggio tra il modo di pensare
relativo alla natura e quello relativo alla libertà, rendendo concepibile una finalità riguardante la
natura, e quindi la possibilità dello scopo finale che può diventar effettivo sono nella natura e in
accordo con le sue leggi. La mediazione tra libertà e natura allora risulta essere l’azione dell’uomo
nel mondo per promuovere gli scopi morali. A tale aspetto si riferiscono due importanti opere: la
Metafisica dei costumi (1797) e l’Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798)in tale opera
trovano espressione le lezioni di antropologia di Kant che costituivano una sorta di estensione dello
studio empirico dell’uomo proprio della psicologia empirica, che veniva inteso nell’antropologia
come una conoscenza che indagava ciò che l’uomo come essere libero fa o può fare di se stesso:
una conoscenza dell’uomo come cittadino del mondo finalizzata a permettere di operare nel mondo
in rapporto ad altri uomini. L’antropologia pragmatica comprendeva l’analisi delle facoltà
dell’animo e questioni come il carattere di un popolo, una razza e la specie umana come tale; tutti
aspetti esaminati in relazione al progettarsi attivo dell’uomo come agente libero e fine ultimo di se
stesso. L’agire nel mondo in rapporto ad altri uomini (politico) era emerso come esito della nuova
teleologia della 3° Critica. La costruzione critica di Kant si era dispiegata nel riconoscimento della
necessità del diritto come condizione per raggiungere quegli scopi ultimi che la ragione indica in
modo universale. La critica della ragione ripensando conoscenza, morale, religione, metafisica,
progetta l’intervento della ragione nella storia degli uomini. La “pacifica felicità del popolo” non
può essere come tale un fine della natura o della ragione pratica, ma diventa una condizione
richiesta dalla ragione stessa perché possa liberamente porre i suoi scopi finali. Se la felicità quindi
non è uno scopo morale per l’uomo, promuovere la felicità altrui viene riconosciuto nella Dottrina
della virtù della Met.dei costumi come un dovere fondamentale accanto al perfezionamento di sé.
Alla costruzione di una visione della storia e di una teoria del diritto Kant dedica diverse opere ad
esempio il saggio L’idea di una storia, o il progetto filosofico Per la pace perpetua (1795), in cui
propone e indica le tappe per costituire un organismo sovranazionale, una federazione di stati che
garantisca la pace tra le nazioni, sotto l’idea di un’unità tra morale e diritto. La sua premessa sta
nella fondazione di una società civile, di uno Stato. La filosofia del diritto kantiana (che contiene
elementi dell’epoca come la posizione subordinata della donna) cerca di legittimare come idea
necessaria una costituzione improntata alla massima libertà umana secondo leggi in base alle quali
la libertà di ciascuno possa coesistere con quella degli altri. Cerca quindi di offrire una fondazione
razionale pura che legittimi il diritto come qualcosa di riconoscibile e giustificabile dalla ragione
degli uomini, capace di indicare quale azione o legge sia giusta. Scopo dello Stato non la felicità,
ma di garantire il diritto del cittadino e la “libertà esterna” (=agire indipendentemente da costrizioni
altrui). Il diritto è legittimato dal principio di universalità- reciprocità, per cui esso è l’insieme delle
condizioni che garantiscono l’accordo dell’arbitrio dell’uno con quello dell’altro secondo una legge
universale della libertà. La possibilità della coercizione sussiste solo perché consente di rimuovere
gli ostacoli alla libertà esterna di qualcuno. Compiti e ambiti del diritto sono diversi da quelli della
morale: riguardano il rapporto esterno tra persone le cui azioni si influenzano a vicenda. Ma il
diritto ha una fondazione morale. Per Kant il superamento dello stato di natura non è dettato da
interessi come felicità o paura, ma dalla ragione: il contratto originario non è un fatto ma un’idea
della ragione che ha la forza di obbligare ogni legislatore a fare le leggi come se fossero scaturite
dalla volontà unita di un intero popolo.

Una fondazione razionale del diritto quindi si traduce in un principio di critica verso istituzioni di
diritto positivo: un’istituzione giuridica è legittimata e giusta solo se è conforme al principio
generale del diritto, che consenta la convivenza regolata delle libertà. Tale fondazione consente di
attribuire all’uomo i diritti che gli spettano prima di ogni istituzione di diritto positivo e in forza
della sua qualità di uomo: i diritti umani, che per Kant si riassumono in un unico diritto innato ossia
la libertà come indipendenza dall’arbitrio costrittivo degli altri. Per Kant, come gli individui anche
gli Stati dovrebbero dare vita a una federazione di popoli. Nonostante i rischi e le difficoltà che la
trasposizione dell’idea di contratto sociale a livello internazionale comporta (es.dispotismo), Kant
delinea il suo progetto di pace perpetua: bisogna promuovere la costruzione di uno stato universale
dei popoli e potranno essere gli stessi conflitti con il loro costo e le loro distruzioni a far si che un
progetto di convivenza pacifica risulti alla fine realizzabile. Concludendo lo scritto sulla Pace
perpetua Kant dirà che ci sono insieme un dovere e una fondata speranza di realizzare un diritto
internazionale, e che la pace perpetua non è un’idea ma un compito che man mano si fa sempre
vicino alla sua meta.
II. L’età kantiana, di Stefano Bacin
1.Empiristi e razionalisti contro la filosofia critica
Le tesi della critica di Kant si mostrano subito controverse. Il periodo tra il 1781 e il 1794, ossia tra
la pubblicazione della Critica della ragion pura e del Fondamento dell’intera dottrina della scienza
di Fichte, è caratterizzato da un’epoca kantiana, non perché il suo pensiero abbia dominato, ma per
le implicazioni e le esigenze teoriche che poneva, che compongono la storia, complessa e non
riducibile a una trama unitaria. Gli oppositori ne mettevano in risalto i limiti, quelli che aspiravano a
essere kantiani si scontravano con la complessità della teoria dalle ambizioni elevate che era
comunque in evoluzione. L’età kantiana non ebbe inizio con la pubblicazione della Critica della
ragion pura, innanzitutto non venne recepita immediatamente dal molti, tanto che Kant esprimendo
la sua delusione scrisse che l’opera era stata onorata dal silenzio. Quando poi ebbe una prima
reazione non fu positiva. Nel 1782 comparve una recensione che la presentava come incentrata su
una versione estrema di idealismo filosofico e che quindi la posizione di Kant conduceva allo
scetticismo nei confronti della realtà e del mondo esterno. Apparteneva a Christian Garve, autore di
scritti morali e politici e di traduzioni di classici e contemporanei, quali Burke e Adam Smith. Tra i
suoi principali interessi mancavano la logica e la metafisica, i due campi dove la critica interveniva.
Spiegò poi a Kant che non era stata pubblicata nella versione da lui redatta, e che i giudizi meno
accettabili erano di responsabilità del direttore della rivista che aveva pubblicato la recensione:
Feder. La sua comprensione venne complicata anche da un fraintendimento dei suoi obbiettivi
primari (accostamento all’opera di Berkeley). Kant in risposta si impegnò nella precisazione del suo
pensiero con una revisione della seconda edizione della critica (1787). Divenne poi uno dei
principali temi di discussione in Germania negli ultimi due decenni del secolo, ossia il rapporto tra
idealismo trascendentale e forme tradizionali di idealismo. Una prima fazione antikantiana fu
empirista, di cui Feder rappresentava la figura preminente. Sua fonte principale era Locke. Egli
preferiva i contemporanei teorici anglosassoni in cui vi era una risposta chiara allo scetticismo e
un’attenzione per le questioni della vita umana, individuale, sociale, più diretta di quella che vedeva
in Kant. Fece conoscere alla Germania la ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Feder non si
limitò a pubblicare contro Kant una serie di scritti, ma organizzò un fronte empiristico avverso alla
filosofia critica. Fondò una rivista antikantiana, dedicata a discutere temi delle opere di Kant. Durò
per 4 anni.

Su un altro versante c’era l’opposizione di una parte leibniziano-wolffiana, il cui principale


esponente fu Eberhard che fondò una rivista dedicata alla polemica del fronte razionalistico contro
Kant. La strategia consisteva nell’ascrivere al dogmatismo tradizionale le tesi condivisibili di Kant
respingendo il resto come elemento di scetticismo. Davanti agli attacchi fecero fronte comune i
primi kantiani, come Marcus Herz, Herder, Schultz. Quest’ultimo, professore di matematica,
pubblicò Chiarimenti della Critica della ragion pura del professor Kant e vennero recepiti forse con
maggiore interesse della critica stessa. Una tendenza kantiana nacque anche a Jena, dove Schmid e
Schutz davano sostegno attivo pubblicando anche una rivista di impronta kantiana. Per i primi
kantiani era preminente chiarire e divulgare il pensiero tramite esposizioni accessibili, lezioni e
dizionari terminologici.
2. Jacobi: «realista come nessun altro prima»
Gli ultimi decenni del 700 vennero segnati anche dalla disputa su Spinoza innescata da Jacobi. Egli
si rivolse a Moses Mendelssohn per anticipargli che Lessing gli avrebbe confidato di essere
spinozista. Tale etichetta a una delle figure più note dell’illuminismo suscitò controversie: per come
era inteso all’epoca il pensiero di Spinoza, significava essere ateo e materialista. Jacobi scrisse Sulla
dottrina di Spinoza; Mendellsohn risponde con Gli amici di Lessing, non potè continuare la sua
difesa del razionalismo tradizionale perché morì poco dopo. Ma la questione non venne chiusa. Uno
dei risultati fu attenzione nuova sul pensiero di Spinoza. Pensatori successivi come Schellig,
Holderlin e Hegel rifletterono sul sistema di Spinoza più seriamente dei predecessori, preceduti da
Goethe. Nelle intenzioni di Jacobi la critica era rivolta alla filosofia tradizionale, accusata di puntare
a una razionalizzazione generalizzata che avrebbe portato a perdere di vista la realtà delle cose e dei
valori. Jacobi riteneva che tutti gli orientamenti tradizionali avessero un razionalismo di fondo che
consisteva nell’applicazione del principio di ragione sufficiente, ossia nella massima ex nihilo nihil
fit. Questo assunto conduceva la filosofia a un esito estremo; introdusse la parola nichilismo = la
tendenza a svuotare la realtà di ogni contenuto. Si perdeva di vista l’individualità di enti, persone,
concretezza dell’esistenza, della libertà. Al razionalismo della filosofia tradizionale Jacobi
contrapponeva una posizione che garantiva la realtà del mondo, il riconoscimento di un Dio
personale e la libertà del volere. È necessario abbandonare il principio di ragione sufficiente e
compiere il salto mortale per abbracciare la fede come accesso diretto alla realtà di sé stessi, del
mondo esterno, della libertà e di Dio. Jacobi intendeva così rimandare alla più semplice apprensione
dell’esistenza che è alla base di ogni conoscenza e azione. Già nel 1785 aveva presentato una
concezione alternativa alla filosofia accademica con due romanzi filosofici; Allwill e il Woldemar,
in cui indaga ideali morali attraverso personaggi. Jacobi criticò sia la morale del sentimento, nobiltà
di cuore, le regole sociali, le istituzioni, e l’idea stessa di una morale dottrinale. A esse contrappose
l’ideale di virtù vissuta che sappia adeguare nella concretezza della vita i principi che sono richiesti
dalla situazione, con le indicazioni immediate della coscienza. Egli credeva di poter contare su Kant
per le posizioni”simili”, e i due avevano punti di riferimento comuni come Rousseau e Hume. Ciò
suggeriva un comune obiettivo che era il modello razionalistico. L’intervento di Kant nella disputa
su Spinoza chiarì che non prendeva le parti di Jacobi, che anzi considerava sostenitore di
un’inaccettabile forma di irrazionalismo, arrivando a presentarlo come il principale esempio della
tendenza nichilistica della filosofia razionalistica tradizionale. Ciò sarebbe stato evidente dalla
tensione creata per la nozione di cosa in sé. Da avversario della filosofia tradizionale, Jacobi lo
divenne anche della filosofia nuova e la sua polemica si estese a pensatori successivi quali Fichte,
cui Jacobi indirizzò una lunga lettera dove diceva che La Dottrina della scienza aveva confermato la
sua diagnosi.

Il destino nichilistico dell’idealismo diveniva più chiaro: a esso come sapere del nulla contrappone
il proprio non sapere e la propria non filosofia. Come scrive in una lettera del1800, è tale
prospettiva che lo rende realista come nessuno prima. La polemica contro il pensiero idealistico
proseguì: Le cose divine e a loro rivelazione, contro Schelling, che secondo lui aveva raggiunto una
nuova dimensione del nichilismo della filosofia professando un naturalismo che al tempo stesso si
presentava come la migliore forma di teismo.
3. Reinhold e la «filosofia senza appellativi»
Dalla lettura della Critica nacquero le Lettere sulla filosofia kantiana; le sue tesi si soffermavano di
più sulla loro utilità, sulle implicazioni per la morale e la religione; voleva dunque contribuire alla
soluzione delle questioni sulla vita individuale e sociale. Le lettere volevano mostrare come la
Critica aveva risolto il conflitto tra fede e ragione. La prospettiva aperta riconduceva a una base
filosoficamente accurata della fede in Dio, la libertà della volontà, l’immortalità dell’anima. Mentre
altri avevano accusato Kant di scetticismo idealistico. Per i risultati ottenuti dalle lettere Reinhold si
impegna a trovare le premesse della filosofia critica, introducendo l’analisi della facoltà di
rappresentazione. Parlò di filosofia elementare, la determinazione delle premesse della filosofia
critica diventata una propedeutica necessaria a una filosofia prima che avrebbe garantito il successo
di ulteriori svolgimenti teoretici, con questo si distaccò da Kant. La sua era una filosofia senza
appellativi. Reinhold introdusse il principio di coscienza che dovrebbe esprimere gli elementi
costitutivi di ogni rappresentazione. L’intento della sua filosofia è quello di individuare il principio
fondamentale che possa spiegare in maniera unitaria le diverse componenti della conoscenza
umana. questo principio è dato dalla conoscenza, la facoltà della rappresentazione: essa si scinde nel
proprio interno in due elementi collegati: soggetto, che costituisce la forma della conoscenza cioè
l’attività attraverso la quale il molteplice viene unificato in un concetto; oggetto, cioè materia,
contenuto rappresentativo unificato. Questa relazione tra i due elementi giustifica la connessione
che intercorre tra le diverse facoltà conoscitive: la sensibilità è data dal prevalere del soggetto
sull’oggetto, l’intelletto dal loro equilibrio e la ragione dalla libera attività soggettiva, svincolata da
contenuti materiali e oggettivi. Questa concezione consente di risolvere il problema della cosa in sé.
L’aspetto formale della conoscenza, essendo imputabile al soggetto, rientra nell’ambito della
rappresentazione, mentre la materia conoscitiva deriva da una cosa in sé intesa come qualcosa di
indeterminato e inconoscibile. La cosa in sé cade fuori dalla rappresentazione. Non ha senso porsi il
problema della cosa in sé perché non essendo rappresentabile non è neanche un oggetto reale ma
solo un concetto necessario a giustificare l’elemento materiale della conoscenza. Il filosofo opera
una correzione del criticismo in senso idealistico riconducendo la realtà alla rappresentazione e alla
sfera di conoscenza. Ci fu un’interruzione del programma della filosofia elementare, influenzata
dall’ascesa di Fichte.
4. Filosofia trascendentale e scetticismo: Schulze e Maimon
La discussione sulle tesi di Kant riportarono anche l’attenzione sullo scetticismo, anzitutto con la
pubblicazione di un libro anonimo (autore Schulze), polemico contro Kant e Reinhold:
l’Enesidemo, che venne recensito anche da Fichte. Schulze sosteneva che Kant non avesse sconfitto
lo scetticismo in una serie di lettere fittizie tra lo scettico Enesidemo (esponente della scuola
pirroniana) e Ermia, convertito alla filosofia critica, in cui si esaminano gli scritti di Reinhold sulla
filosofia elementare. Utilizza nomi di filosofi antichi per le due figure di confronto per mettere in
risalto un profilo antico dello scetticismo e al tempo stesso si richiamava anche a Hume sostenendo
che gli argomenti Kantiani contro le sue posizioni erano insufficienti. Presentato come elemento
costitutivo ineliminabile, è la persuasione più nitida e controllata del fatto che sono risultati
inefficaci tutti i tentativi di determinare ciò che devono essere o meno le cose in sé. È un non sapere
metodico e scientifico.
Il dubbio di Enesidemo è l’arroganza dell’uso teorico delle facoltà umane. Caratteristica degli
scettici è la fede nell’incessante perfettibilità della ragione filosofica intesa come uno dei più nobili
e incontestabili privilegi dello spirito umano. Si riconosceva a Kant di non aver falsato la natura
dello scetticismo che aveva cercato di superare, anzi egli era l’unico tra i dogmatici ad avergli reso
giustizia. L’insufficienza delle tesi di Kant si rivela sin da generali tratti metodologici. Per lui è
assurdo che il criticismo si proponga di ricondurre la conoscenza nei limiti dell’esperienza e che al
contempo cerchi il fondamento dell’esperienza nella cosa in sé (che è aldilà dell’esperienza e che
dunque sembra diventare un concetto vuoto); inoltre il criticismo dichiara la cosa in sé
inconoscibile, ma fonda su essa la conoscibilità di tutta la realtà. Schulze si appella quindi a Hume,
assumendo una posizione scettica. Egli argomentava contro Kant alla luce di una lettura
psicologizzante della Critica, che mostra quanto Reinhold abbia condizionato l’immagine di Kant
presso i contemporanei. Schulze considerava la filosofia elementare in continuità con la Critica.
Nell’Enesidemo si concentrava più su Reinhold che su Kant, tanto da diventare il critico più
influente della filosofia elementare. Schulze concesse a Reinhold alcune tesi fondamentali:
accettava che una filosofia scientifica dovesse svilupparsi da un principio e che si dovesse partire
dal concetto di rappresentazione in quanto è la nozione più generale tra quelle filosofiche, e che si
possono individuare dei fatti immediati dalla coscienza. Nonostante ciò Reinhold non ha sviluppato
bene tali punti condivisibili. Dal punto di vista logico il principio di coscienza non poteva fornire il
fondamento cercato, ma anzi sottostà almeno a un altro principio, quello di non contraddizione, che
non è quindi un principio supremo. Non riesce a determinare se stesso e conserva un’insuperabile
vaghezza ed equivocità, e non è universale. Schulze conclude che il principio proposto da Reinhold
sarebbe stato l’esito di una generalizzazione induttiva da diversi casi empirici. Nell’Enesidemo
Schulze contesta anche l’idea del primato della ragion pratica sulla teoretica e la dottrina del sommo
bene. Proseguì poi sostenendo che non vi può essere alcuna autentica conoscenza se non dei fatti
immediati della coscienza. Critica della filosofia teoretica del 1801: Schulze estese la sua critica a
Fichte, Schelling, oltre che a Kant. Prese l’iniziativa di scrivere in risposta Salomon Maimon, la cui
riflessione si sviluppò in buoa parte dal rapporto tra filosofia trascendentale e scetticismo. Invece di
vedere un’alternativa tra l’originale razionalismo di Kant e l’antirazionalismo di orientamento
scettico di Hume, Maimon riteneva che si ponessero solo a livelli distinti, ma articolati. La
prospettiva di Kant andava considerata compatibile con quella di Hume. La matematica era l’unico
ambito in cui i criteri razionali erano effettivamente sodisfatti, per questo fa dei paragoni con il
ragionamento matematico. Nella sua prospettiva, lo scetticismo è un elemento ineliminabile
dall’uso ordinario delle facoltà conoscitive, e un atteggiamento intellettuale che nasce da un
profondo convincimento razionalistico. Per lui il compito principale della filosofia era determinare
se le conoscenze siano vere. I problemi lasciati aperti dalla Critica non derivano dalla mancanza di
un principio unico su cui fondarne i risultati, ma dall’impossibilità di realizzare il passaggio dai
concetti che si riferiscono all’esperienza in generale a quelli che si riferiscono a esperienze
particolari. Sviluppa questa riflessione tra le più complesse del periodo nel Saggio sulla filosofia
trascendentale del 1790, definendo la propria posizione un Koalitions-System, una teoria che
compone elementi di diversa provenienza. Per superare la separazione tra intelletto e sensibilità
propone un intelletto infinito, come principio reali su cui fondare la conoscenza. Sensibilità e
intelletto devono essere considerati espressioni o modi della forza dell’intelletto infinito, in un senso
simile a quello della dottrina della sostanza di Spinoza. Maimon parla di una combinazione della
filosofia kantiana con lo spinozismo. L’atteggiamento eclettico di Maimon si doveva anche ad una
confluenza di apporti culturali diversi. Egli rielaborò tesi di Leibniz e Spinoza con elementi di
Hume all’interno di un quadro fortemente kantiano.

FICHTE
L’autore si occupa inizialmente di divulgare il pensiero kantiano, ponendo particolare attenzione al
concetto di fenomeno e noumeno. L’illuminismo di Kant si era appunto fermato al principio
dell’inconoscibile (es. se un albero cade nella foresta e nessuno lo vede è davvero possibile
affermare che ciò sia accaduto?), da questo punto ripartono i filosofi successivi. Fichte, in particolar
modo, si concentra sull’io. L’io kantiano conosce attraverso l’esperienza, dunque, tutte le
individualità hanno la stessa facoltà esperienziale e possono raggiungere una conoscenza
universale; L’io di Fichte, per conoscere, viene infinitizzato, si realizza un’individualità infinita
universale che genera e acquisisce conoscenza.
“Dottrina della Scienza”.
Si afferma che ciò che è conoscibile viene realizzato dalla coscienza, la quale realizza sé stessa in
quanto autocoscienza. Tutto ciò che si conosce viene filtrato dall’Io che si pone da sé, gli appartiene
dunque la caratteristica dell’auto-creazione. I tre principi della dottrina della scienza sono:
• L’io pone sé stesso; • L’io pone il non-io, che, essendo posto dall’io, è contenuto nell’io;
• L’io viene limitato dal non io e viceversa.
L’intero sistema filosofico di Fichte si costituisce intorno a questi tre momenti di cui il primo
costituisce la tesi, il secondo l’antitesi ed il terzo la sintesi. Attraverso tale ragionamento, però, il
non-io perde l’autonomia dell’esistenza e rischia di divenire semplice parvenza. A tale obiezione
Fichte risponde che l’immaginazione produttiva sviluppa il materiale percepito e che il non-io è
reale per l’io empirico e viene conosciuto progressivamente. L’uomo è volto ad agire in virtù del
fatto che conosce ed il suo conoscere si realizza per permettergli di agire, la sua azione consiste
nell’imporre al non-io le leggi dell’io, leggi libere e razionali. Nell’ideale etico si esprime l’infinità
dell’io il quale si rende infinito svincolandosi dal non-io che esso stesso ha creato per realizzare la
propria attività e libertà. L’io può, inoltre, concepire l’esistenza di altre individualità e comprendere
che dalla limitazione della propria libertà deriva la realizzazione della libertà delle altre
individualità. Fichte afferma: “Per essere liberi è necessario rendere gli altri liberi così da
avvicinarsi all’ideale di unificazione dell’umanità”. Secondo l’autore, in questo percorso devono
fare da guida coloro che detengono la maggior consapevolezza teorica.
Politica.
La posizione politica di Fichte varia a seconda del momento storico. Inizialmente appoggia la
rivoluzione francese, ma, quando si verificherà l’occupazione della Prussia assumerà posizioni
nazionalistiche. L’ideale dell’autore è una forma statale contrattualistica ed anti-dispotica, in cui lo
stato educa il cittadino alla libertà ed il cittadino ha la facoltà di ribellarsi qualora lo stato non
rispetti i termini del contratto sociale. Uno stato ideale è composto da individui liberi ed uguali, il
suo scopo è di rendersi superfluo. Fichte prospetta uno statalismo socialistico, in cui lo stato
interviene nella vita pubblica, e autarchico, con un’economia autosufficiente. Come già affermato, a
seguito dell’occupazione napoleonica della Prussia, Fichte assume posizioni nazionalistiche
scrivendo i “Discorsi alla Nazione” nei quali si prospetta una nuova educazione per l’individuo.
L’autore afferma che il popolo adatto a fornire tale educazione è senza dubbio quello tedesco,
popolo che ha mantenuto la propria lingua ed è stato protagonista della rivoluzione protestante.
Questi saranno temi cari al romanticismo, per cui la Germania era la nazione spiritualmente eletta.

Spiritualità.
Dopo l’800 Fichte affronta il tema della spiritualità nella “Dottrina dell’infinito nell’uomo” e nella
“Dottrina dell’infinito fuori dall’uomo”. Egli nega che l’uomo crea sé stesso, questo affermerebbe
che l’uomo non è stato creato da Dio, ma specifica che è l’io a creare sé stesso, e, l’io, deve perdere
i suoi residui soggettivistici.
Filosofia della storia.
Tema affrontato dall’autore nei “Trattati Fondamentali dell’Epoca Presente”. Opera una scissione
della storia in diverse fasi. I tempi più remoti erano dominati dall’istinto e dall’istinto dell’autorità,
progressivamente il popolo ha preso coscienza ed avviato rivoluzioni, si arriverà alla fine della
storia quando la terra sarà il regno di Dio.
SCHELLING.
Con questo autore si è in pieno Romanticismo, egli tratta il tema dell’infinito dentro e fuori l’uomo.
“Idee per una filosofia della natura” e “Intorno all’anima del mondo”. Si rifiuta il principio del puro
soggettivismo dell’io di Fichte il quale poco dice sul mondo e si rifiuta la sostanza di Spinoza che
non permette di indagare l’io. È dunque necessarie l’esistenza di un Dio assoluto al tempo stesso
soggetto e oggetto. È necessario comprendere i principi autonomi della natura come si
comprendono quelli della ragione e dell’intelletto. Si deve sviluppare una filosofia della natura che
indaghi come la natura si risolve nello spirito e una filosofia dello spirito che indaghi come questo
si risolve nella natura. La natura non è pura oggettività né lo spirito pura soggettività. L’indagine
deve essere dunque volta a comprendere come dalla natura si passa allo spirito e viceversa.
Schelling realizza il principio dell’Organicismo Finalistico Immanentistico, diverso dal
Meccanicistico-Scientifico e dal Finalistico-Teologico. Secondo tale principio, ogni cosa ha senso
solo in relazione al tutto. L’universo non si risolve in una continua collisione tra atomi né in un
intervento esterno ma attraverso il finalismo immanentistico della natura. È la natura ad organizzare
sé stessa in ciò che Schelling definisce anima del mondo. L’io di Fichte realizzava sé stesso
attraverso la sua dualità soggetto/oggetto, l’io di Schelling si polarizza in forze di attrazione e
repulsione. Qualsiasi fenomeno è una forza condizionata da una forza opposta. Tali forze sono
influenzate da caratteristiche di quantità (massa, gravità, meccanica, ecc.) e qualità (chimica ecc.).
quando si ha l’equilibrio tra le forze si realizzano i corpi non viventi, quando l’equilibrio si rompe e
si ricostituisce si ha un fenomeno chimico, quando l’equilibrio si rompe e non si ricostituisce si ha
la lotta perpetua e dunque la vita. Esempi di tali forze sono il magnetismo, l’elettricità e il chimismo
che si risolvono nella vita organica come sensibilità, irritabilità (impulsi elettrici), e riproduzione
(microscopica o cellulare e macroscopica). Per Schelling dunque la natura è una grande organismo
incosciente in perpetuo moto verso la coscienza. Definisce la sua filosofia della natura Filosofia
Speculativa.
“Sistema dell’Idealismo Trascendentale”.
In quest’opera intende realizzare la filosofia dello spirito, controparte di quella della natura. Lo
spirito è l’io, o la ragione e si risolve in due attività:
• L’io nel suo libero ed infinito porsi incontra un limite ed è dunque limitabile; • L’io nel suo
infinito intuirsi non incontra un limite ed è dunque illimitabile. Come l’io di Fichte, esiste in virtù di
un limite che esso stesso crea e oltrepassa continuamente.

Filosofia della Storia.


L’autore paragona l’intera storia ad una grande dramma, in cui l’assoluto è il poeta e si realizza
grazie alla libertà degli attori che sono gli uomini.
Teoria dell’arte.
Secondo Schelling l’arte è l’occasione d’incontro tra spirito e natura, si realizza attraverso un
momento inconscio, l’ispirazione, ed uno conscio, l’esecuzione.
Il finito in “Filosofia e Religione”.
Viene affermato che tra infinito e finito, tra assoluto e relativo non vi è passaggio ma solo caduta. Il
male del mondo si genera quando l’uomo tenta di scindere il finito dall’infinito, turbando i piani
divini. L’assoluto è in divenire e può realizzarsi solo attraverso la libera attività degli uomini.
DA SCHELLING A HEGEL
Tra la fine del ‘700 e la metà dell’800 il pensiero filosofico muta considerevolmente, sono già
evidenti le differenze tra gli illuministi francesi della metà del settecento e Kant. Altri autori vissuti
a cavallo del secolo ampliano la quantità dei temi affrontati consentendo l’avanzamento di ulteriori
discipline oltre a quella filosofica: Herder è considerato il fondatore della linguistica moderna,
afferma che il pensiero è profondamente influenzato dal linguaggio. Comprende poi che la natura
umana non è fissa, bensì varia a seconda di luogo e tempo. Schiller sarà punto di rifermento per
Goethe e Humboldt in quanto affermerà che per realizzare l’ideale dell’umanità non basta
intervenire sull’individuo ma è necessario prendere in considerazione la collettività in quanto tale.
Humboldt afferma che l’universo è costituito dall’azione di molteplici forze che hanno alla base una
forza comune espressa in diverse individualità. Realizza che ci sono profondi elementi di unitarietà
nell’umanità, tutti gli uomini sono dotati della stessa facoltà di linguaggio. Holderlin afferma che
l’autocoscienza è possibile solo attraverso la facoltà di giudizio. Novalis realizza che la natura non è
semplice non-io, ma, spirito e natura, sono indissolubilmente uniti. Tenta di realizzare un
linguaggio simbolico che idealizzi la lingua di Dio. Parla del romanticismo come di una corrente in
grado di estrapolare la poesia intrinsecamente contenuta nella realtà. Schleiermacher, in “Sulla
Religione. Discorsi agli uomini dotti che la disprezzano”, afferma che la fede prescinde da ragione
o attività ma è gusto per l’infinito. Si differenzia dalla scienza che presuppone una scissione della
realtà tra soggetto e oggetto, o dalla morale che scinde tra natura e libertà. La fede è in grado di
avvicinare alla forza unitaria che sta alla base della realtà. Quest’autore sviluppa, inoltre,
l’ermeneutica, intesa come la disciplina che pone l’attenzione al discorso ed alla sua composizione
a prescindere dall’argomento trattato. Tale disciplina si sviluppa appunto per districarsi
nell’argomento religioso.
Il dilagare del Romanticismo.
Con la chiusura del circolo di Jena i romantici si spostano a Monaco e Berlino, entrando in contatto
con ambienti religiosi. Si avvia lo studio della mitologia, anche quella orientale, come più antica
forma di storia e di filosofia. Si concretizza, inoltre, un grande impegno nello studio dei
monoteismi.

HEGEL.
Al pari di Kant è destinato a dare una profonda svolta alla storia della filosofia d’inizio ‘800. Tratta
temi legati alla rivoluzione francese, ovvero, la rigenerazione religiosa e morale come fondamento
della rigenerazione politica. L’idealismo trascendentale dell’autore può considerarsi nella:
• Dottrina della risoluzione del finito nell’infinito. Si considera la realtà come un organismo che non
contiene nulla al di fuori di sé, è dunque infinito. Gli enti sono aspetti parziali di questa realtà
infinita e risultano quindi essere finiti.
• La ragione e l’idea. L’individuo spirituale infinito alla base della realtà è l’idea o la ragione. Hegel
afferma nella “Prefazione ai Lineamenti della Filosofia del Diritto” che tutto ciò che è razionale è
reale e tutto ciò che è reale è razionale.
Il compito della filosofia è studiare ciò che è, ovvero la ragione.
“Enciclopedie delle scienze filosofiche in compendio”. Tale opera si fonda sui tre momenti
dialettici dell’idea attraverso cui l’assoluto si fa dinamico:
• L’idea in sé e per sé (tesi). L’idea non necessita di concretizzarsi nel mondo, è assimilabile a Dio
prima della creazione e analizzabile attraverso la filosofia logica.
• L’idea fuori da sé (antitesi). L’idea è assimilabile alla natura, analizzabile attraverso la filosofia
della natura;
• L’idea che ritorna in sé (sintesi). Lo spirito, dopo essersi fatto natura, torna nell’uomo, ciò è
analizzabile attraverso la filosofia dello spirito.
L’assoluto, inoltre, è in divenire, il divenire è affrontabile attraverso la dialettica che esprime il
pensiero in tre momenti:
• Pensiero astratto o intellettuale. Concepisce la realtà per rigide determinazioni e in base alle
differenze tra queste determinazioni;
• Pensiero dialettico o negativo-razionale. Realizza le connessioni tra le determinazioni
precedentemente divise;
• Pensiero speculativo o positivo-razionale. Le determinazioni divengono parte di una realtà più
ampia che contiene i due momenti precedenti.
In tale opera è contenuta una sezione dedicata alla logica intesa come scienza dell’idea pura, si
considera il concetto come pensiero oggettivo e si scinde tra:
• Logica dell’essere, l’individuo indeterminato prende coscienza e riflette su di sé; • Logica
dell’essenza, l’essere che ha riflettuto su di sé è divenuto essenza che si riconosce
identica a sé stessa e diversa da altro. Comprende la sua ragion sufficiente e diventa concetto;
• Logica del concetto, inizialmente del concetto soggettivo, quando diviene oggettivo si realizza
l’idea o la ragione che in quanto tale è la logica stessa.

L’io diventa assoluto quando l’idea o la ragione sono consapevoli della propria infinità e
assolutezza, questo può avvenire attraverso:
• Arte, il processo artistico è utile a prendere coscienza; • Religione, permette di affrontare
l’argomento dell’assoluto ma attraverso rappresentazioni; • Filosofia, permette di parlare
dell’assoluto sul piano dialettico senza necessità di
manifestazioni. Nella medesima opera è trattata la filosofia della natura intesa come l’idea al di
fuori dal suo essere, come esteriorità e la filosofia dello spirito ancora una volta affrontato
attraverso tre momenti:
• Spirito soggettivo, individuale; • Spirito oggettivo, sovra-individuale o sociale; • Spirito assoluto,
prende coscienza attraverso l’arte la religione o la filosofia.
Lo spirito soggettivo viene preso in esame dalle tre discipline: 1. Antropologia, lo considera come
anima; 2. Fenomenologia, lo considera come coscienza, autocoscienza e ragione, 3. Psicologia,
considera le sue manifestazioni universali.
Lo spirito oggettivo si realizza nella società. È considerato soggetto di diritto, il diritto esiste in
funzione della sua antitesi, il delitto, e della sintesi la pena. La pena è efficace solo se accettata dal
colpevole che si appella alla morale, in questo caso individuale e soggettiva. La morale oggettiva è
l’Eticità, questa si palesa quando il bene diventa realtà tangibile e può essere considerata come etica
sociale quando lo stato incarna giusti valori. Per Hegel, infatti, non sono i cittadini a fare lo stato ma
il contrario. La miglior forma statale è rappresentata dalla monarchia costituzionale moderna.
“Fenomenologia dello Spirito”. In quest’opera si affronta, in maniera romanzata, il percorso fatto
dalla coscienza che, attraverso sofferenza e dolore, perde la sua individualità e diviene universalità,
ragione e dunque realtà. Ancora una volta questo processo attraversa tre momenti relativi alle tre
fasi attraversate dalla coscienza:
• Coscienza. Si prende in considerazione l’oggetto. Si ha la certezza sensibile, la più povera, tuttavia
già si concepisce che la realtà è tale solo se considerata dall’io. Quando si comprende che oltre il
fenomeno c’è qualcos’altro che o è il nulla o qualcosa per la coscienza si passa all’autocoscienza.
• Autocoscienza. L’attenzione si sposta dall’oggetto al soggetto. Si percepisce l’esistenza di altre
individualità che danno certezza d’esistenza all’io. Tale conoscenza si sviluppa attraverso il
conflitto che porta alla subordinazione ed alla scissione tra servi e signori. I signori sono coloro che
durante il conflitto hanno rischiato la vita, i servi colore che hanno preferito sottomettersi piuttosto
che morire. Per dinamiche paradossali il padrone è destinato a diventare servo del servo quando
diventa dipendente dal suo lavoro. L’esistenza individuale del servo si delinea in tre momenti:
1. Conflitto, il momento in cui si delineano le parti; 2. Servizio, la coscienza impara a dominare i
propri impulsi; 3. Lavoro, grazie al lavoro il servo si rende indipendente. • Ragione. L’ultimo
momento attraversato dalla coscienza della “Fenomenologia”. In questa
fase soggetto e oggetto, io e mondo, diventano unità. La coscienza ricerca l’essenza delle cose e di
sé stessa arrivando al punto di volersi auto-riprodurre.

Potrebbero piacerti anche