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7. CRISTINA L'AMMIRABILE_01-introduzione 15/04/15 16.

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CRISTINA L’AMMIRABILE
1150-1224

Alla fine del XII secolo nella cittadina di St. Trond, nella valle della Mosa,
abitavano tre sorelle. Rimaste presto orfane dei genitori, decisero di riorganiz-
zare la famiglia secondo uno stile di vita religiosa. La prima sorella doveva dedi-
carsi alla preghiera, la seconda occuparsi delle faccende domestiche, Cristina, la
più giovane, avrebbe portato le bestie al pascolo. Una piccola azienda a con-
duzione famigliare, un microcosmo femminile, caratterizzato da una divisione
equilibrata e razionale dei compiti, in grado di garantire a donne ormai sole i
mezzi del proprio sostentamento e insieme una sistemazione dignitosa. A quel
tempo, formazioni spontanee di questo tipo, ancora prima del sorgere dei gran-
di beghinaggi, costellavano i borghi e i villaggi delle Fiandre. Ma presto sareb-
be accaduto qualcosa che avrebbe sconvolto l’ordine. Dio infatti scelse Cristi-
na, la guardiana delle pecore, la più umile e disprezzata. Andava a visitarla spes-
so, di nascosto, donandole la grazia della dolcezza interiore e rivelandole i
segreti celesti. Era dimenticata da tutti, sconosciuta, ma il Signore amava lei più
di ogni altra. Morì poco tempo dopo, consumata dall’esercizio interiore della
contemplazione, portando con sé il suo segreto. Si celebrarono allora i funera-
li, in mezzo al compianto delle sorelle e degli amici spirituali. Ma durante il
rito funebre, al momento dell’offerta, la morta si sollevò all’improvviso dal
feretro e con un gran balzo raggiunse il soffitto della chiesa. Rimase lassù, in
alto, per tutto il tempo della messa, appollaiata sulle travi come un uccello spa-
ventato, e non ci fu verso di farla scendere. Passati i primi momenti di terrore,
dopo la fuga generale, erano di nuovo tutti lì, avidi di conoscere il suo raccon-
to. Cristina rivelò che due angeli l’avevano portata in purgatorio e poi all’in-
ferno. Infine era stata condotta in paradiso, dinanzi al trono della Maestà divi-
na. Parlandole dolcemente, Dio l’aveva messa di fronte a una scelta: restare in
quel luogo con lui oppure ritornare nel corpo e nel mondo, per soffrire ed
espiare le pene delle anime del purgatorio e convertire con l’esempio della
propria vita e del proprio dolore i peccatori. Senza esitare, lei gli aveva rispo-
sto di voler tornare.
Questo episodio è narrato nel Prologo della Vita di Maria di Oignies. Gia-
como da Vitry non citava il nome di Cristina, ma dichiarava di averla «vista»,
di aver conosciuto personalmente la donna tornata dal mondo dei morti per
patire il purgatorio in terra. Il dotto agiografo domenicano Tommaso di Can-
timpré scrisse la Vita di Cristina l’Ammirabile nel 1232, quando lei era morta

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CRISTINA L’AMMIRABILE

da otto anni. Novizio del convento di Lovanio, dopo aver lasciato il canonica-
to, si firmava ormai indignus frater Ordinis Praedicatorum. Era rimasto colpito dal
racconto di Giacomo da Vitry, verso cui nutriva un’autentica venerazione, ma
aveva sentito parlare di lei anche dalla sua maestra spirituale, Lutgarda di Ton-
gres, che l’aveva conosciuta e frequentata in giovinezza, ai tempi in cui era
ancora una monaca benedettina del cenobio di S. Caterina di St. Trond. Anzi,
era stato proprio su consiglio di Cristina che la pia Lutgarda si era in seguito
trasferita nella comunità cisterciense di Aywières. Sulla scorta delle sue guide
spirituali, Tommaso decise quindi di andare a fondo della incredibile vicenda e
affrontò un lungo viaggio per recarsi a St. Trond. La cittadina, non distante da
Léau, era a metà strada tra Lovanio e Liegi. Interrogò numerosi testimoni ocu-
lari, e anche Yvette di Léau, una reclusa famosa con cui Cristina aveva condi-
viso la cella e per questo conosceva molti suoi segreti. Era tutto vero: quei fat-
ti erano di pubblico dominio e ben noti a tutti.
Ma allora, come interpretare questa storia? I precedenti agiografici non
mancavano. Vi erano molti racconti disseminati nella ormai lunga memoria
medievale di monaci, eremiti e cavalieri che avevano varcato le soglie della
morte ed erano tornati indietro raccontando la propria esperienza: Baronto,
Bonello e Fursy (VII sec.), Guthlac (VIII sec.), Wetti (IX sec.). Nel XII secolo
si erano fatti anche più numerosi: Alberico, Tnugdal, san Patrizio. Alla base di
tutti questi racconti visionari vi era il modello del viaggio nell’aldilà come pro-
va e ordalia, itinerario di penitenza e di espiazione. L’aspetto giuridico era deci-
samente sottolineato in questi testi, sottoposti all’istanza di un debito da paga-
re che generalmente era associato a una colpa. Anche nell’archetipo letterario
di Baronto, il penitente del monastero di Longoreto nelle Gallie, l’incontro con
Dio era culminato in un patto che siglava una struttura di scambio. Baronto
nella sua vita aveva molto peccato, ma si era pentito. Per questo gli veniva data
ancora una possibilità, permettendogli di rientrare e di saldare in questo modo
il proprio debito: la penitenza era il prezzo da pagare per l’ingresso nella patria
celeste. Rispetto ai racconti visionari antichi, l’esempio duecentesco ci intro-
duce a un modo diverso di praticare l’assoluto: il contratto con Dio infatti non
aveva come posta la personale espiazione – Cristina infatti era già salva –, ma
la redenzione degli uomini. Il ritorno-discesa era dunque un servizio d’amore,
secondo il modello cristico, che risuona anche nel nome della beata, del sacri-
ficio e dell’offerta della vittima innocente.
Ma la piega presa dal racconto autorizza un interrogativo: Cristina era dav-
vero resuscitata, di nuovo realmente incarnata nello spessore della storia, o era
stata soltanto un’apparizione, un miraculum? Quale tipo di verità la sua vicenda
poteva comunicare? Qualche espressione che ricorre nel testo suona ambigua:
l’agiografo parla di un corpo «sottile», simile quasi a un’«ombra» e ricorre spes-
so alla metafora della donna-uccello. Quasi negli stessi anni in cui Tommaso
scriveva la Vita di Cristina l’Ammirabile, un monaco cisterciense della Rena-

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SCRITTRICI MISTICHE EUROPEE

nia, Cesario di Heisterbach, raccoglieva un vasto repertorio di exempla antichi


e contemporanei dedicati alle apparizioni dei morti. Dopo le visioni dell’ol-
tretomba, anche le storie degli spettri e dei fantasmi, i revenants, potevano van-
tare ormai una genealogia illustre. Ma i defunti, come aveva insegnato Agosti-
no, non avevano più alcun potere sui vivi, se non quello di supplica. Se torna-
vano, era soltanto per portare loro una richiesta d’aiuto e sollecitarne l’inter-
cessione. Cristina invece era discesa di nuovo nel mondo con un lavoro da
compiere, una missione che Dio stesso le aveva affidato, quella di salvare gli
uomini. La sua immagine di santità doveva dunque incarnare perfettamente la
figura cristologica della “sostituzione”.
Nella Vita di Cristina di St. Trond Tommaso non segue un criterio crono-
logico: i “fatti” hanno un rilievo marginale, così come la preoccupazione di
offrire un ritratto fisico e psicologico della sua eroina. Il testo, forse concepito
anche ai fini della predicazione, segue un esile sviluppo biografico, ha l’anda-
mento di una parabola o di un exemplum. La Vita è articolata in tre blocchi nar-
rativi: dopo il racconto del viaggio di andata e di ritorno dall’aldilà, la prima
parte tratta della vita nascosta nel deserto, che è anche un tempo di prove e
persecuzioni. La seconda fase è quella della missione: Cristina rientra nel mon-
do per svolgere un ruolo profetico, divenendo una guida spirituale ricercatissi-
ma anche da uomini di Chiesa e personaggi potenti. Il periodo finale è quel-
lo della reclusione e della preghiera in preparazione alla morte.
La narrazione prende l’avvio da un apparente paradosso. La donna tornata
per la salvezza degli uomini ha orrore di loro: la loro presenza, l’odore stesso la
ripugnano. Ledendo ogni contratto sociale, essa non riprende il posto che le
era stato assegnato nell’ordinamento familiare, ma nemmeno ne sceglie uno
nuovo. Inaugura una serie di erranze, sempre in fuga, nei deserti, in cima agli
alberi, in luoghi isolati e segreti, comunque al di fuori dell’umano consorzio.
Cristina cerca la pace, lontana da tutti, desiderosa di restare sola con Dio. L’e-
remita dei boschi vive la vita degli uccelli, soffre la fame e la penuria, e per nove
settimane Dio la nutre con il latte che fluisce dai suoi seni verginali: è una
miroblita. Si preoccupa soltanto di eseguire il compito per il quale è stata invia-
ta nel mondo: espiare e soffrire. Come nell’antica scena monastica, sfida tutte
le leggi della natura: si getta nel fuoco, si immerge dentro i fiumi ghiacciati,
cammina sulle acque. Ai limiti dell’esaltazione salta sulle pale dei mulini a ven-
to, si impicca sul patibolo in mezzo ai delinquenti. Quando esce di notte i cani
inferociti la sbranano e nonostante il sangue che esce a fiumi dal suo corpo
rimane illesa. Ma la selvaggia con il suo comportamento provoca un rapporto
di forze. Le sorelle e gli amici spirituali, un “altro” che nel racconto rimane
indifferenziato e anonimo, pensano che sia impazzita, posseduta dai demoni.
Con il crescere del disagio e della vergogna si moltiplicano le violenze. Tutte
le azioni descritte nel racconto sono riconducibili a uno sciogliere e a un lega-
re. La bloccano con catene di ferro, ma lei le spezza, la rinchiudono dentro a

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