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Quarta lezione: indagare il senso dell’esperienza

In questa quarta lezione i concentreremo sul motivo per il quale la filosofia deve
identificarsi con l’indagine sul senso dell’esperienza e in quale modo ciò possa accadere.
Il percorso che abbiamo fatto fin ci ha fatto prendere coscienza del fatto che, se
volgiamo davvero metterci nell’ottica della ricerca del senso dell’esperienza, dobbiamo
innanzitutto combattere lo scetticismo, e in particolare quella forma di scetticismo che è il
naturalismo, e accedere alla dimensione gnoseologica del senso dell’esperienza.
Ora, grazie all’analisi che Ricœur che seguiremo, vedremo quale sia la modalità di una
filosofia che si diriga al senso dell’esperienza. La sua indagine si dirige, in questo caso, nei
confronti della fenomenologia, e ci restituisce il senso dell’impostazione trascendentale che
la caratterizza. Ci basti per ora dire che proprio tale impostazione verrà ritrovata in Cassirer,
sebbene sotto un segno diverso.
Quale ruolo riveste il concetto di “senso” negli approcci filosofici che abbiamo
considerato?
Per rispondere a questa domanda, faremo innanzitutto ricorso – come già detto – ad
un testo di Ricœur, La sfida semiologica, che raccoglie un ciclo di lezioni tenute a Catania nel
1972. Il quadro generale di riferimento di queste lezioni è il rapporto tra fenomenologia e
analisi linguistica, ma ciò che ci interessa per il nostro percorso è la caratterizzazione che della
fenomenologia viene data rispetto a tale analisi.
Si potrebbe dire che Ricœur cominci dall’esaminare la distinzione capitale tra l’analisi
linguistica e la fenomenologia: questa ricorre all’intuizione come fondamento originario della
ricerca filosofica, al contrario della prima che tratta l’intuizione alla stregua di una realtà
mistica, essendo essa essenzialmente inaccessibile agli altri soggetti e dunque assimilabile al
linguaggio privato (Ricœur 2006, p. 99).
Ricœur aggiunge poi che l’analisi linguistica lavora sull’espressione esplicita, «ben
formata», mentre la fenomenologia riconduce ad un livello più originario e fondativo, ovvero
ciò che è alla base della successiva espressione linguistica:

La mia tesi è, quindi, che il vissuto della fenomenologia, o per meglio dire
ciò che la fenomenologia chiama vissuto, corrisponde a ciò che l’analisi
linguistica chiama linguaggio ordinario […]. Per conseguenza il linguaggio
custodisce il campo dell’esperienza fenomenologica (Ricœur 2006, p. 102).

Ciò significa che Ricœur riconosce alla fenomenologia una particolare modalità di
indagine dell’esperienza. Essa non si dirige al modo in cui traduciamo linguisticamente la
nostra esperienza, bensì punta a porre come oggetto della sua attenzione il senso dell’esperienza.
Ma per raggiungere tale senso, occorre operare un capovolgimento di prospettiva, che
Husserl chiama riduzione, e che altro non è che una via di accesso, un metodo (nel senso di
μετὰ-ὁδός, “la strada attraverso cui”) che ci conduce dall’oggetto del vissuto al senso che tale
oggetto ha per il soggetto che ne è cosciente.

<Il metodo della riduzione> distingue fondamentalmente la

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fenomenologia dalla filosofia dell’intuizione della vita interiore […]. Il vissuto non
è immediatamente reperibile, ma è ciò che appare alla riflessione, allorquando si ha la
messa in parentesi dell’attitudine naturale per la quale le cose esistono
indipendentemente dal loro senso (Ricœur 2006, p. 103).

Ricœur sta così mostrando la via di accesso al livello trascendentale della riflessione,
quel livello che si pone in maniera radicale la domanda sul fondamento di validità della
conoscenza stessa. Se infatti prescindessimo dal senso che l’esperienza ha, se cioè trattassimo
la conoscenza come una mera conoscenza di oggetti che non coinvolge il soggetto
conoscente, rischieremmo di dire qualcosa che a rigore non si può giustificatamente dire:
cioè che abbiamo accesso all’oggetto indipendentemente dalla soggettività. Ma in quale modo
possiamo accedere all’oggetto prescindendo dall’esser soggetti in relazione con tale oggetto?
C’è forse un modo in cui l’oggetto può manifestarsi, mostrarsi (esser dunque fenomeno) a
prescindere dalla soggettività per la quale e nella quale appare? E se ignorassimo questo, se
cioè vanificassimo la ricerca cartesiana del fundamentum inconcussum veritatis, in quale altro modo
potremmo pensare, secondo rigore gnoseologico, l’oggetto? In quale altro modo è possibile
dirigersi all’oggetto se non a partire e grazie ad una soggettività per la quale esso è? O
potremmo forse porre, come punto di partenza, che c’è qualcosa, e che questo “qualcosa”
solo secondariamente si manifesta, e che questa azione incontra un soggetto su sui essa
esercita il suo potere modificandolo solo in maniera accidentale? Ma, in questo modo, come
potremmo rispondere alla domanda: «come sai di questo “qualcosa”?», se non perché siamo
originariamente in relazione con esso?
È la domanda su questa originarietà l’essenza della ricerca fenomenologica e ciò che
dà alla fenomenologia husserliana il carattere trascendentale. Per questo motivo, la riduzione
sposta l’attenzione dall’oggetto su cui naturalmente dirigiamo la nostra coscienza all’esser
coscienti di tale oggetto e ai modi con i quali ne siamo coscienti. E l’esser-coscienti-di (il
Bewusst-sein) non è privo di regole. La direzione della riflessione verso il modo in cui l’oggetto
è oggetto-di-coscienza ci permette di individuare quella normatività necessaria affinché
l’esperienza sia sensata per il soggetto che la vive. Ciò vuol dire che, invece di dirigere il focus
indagatore della nostra attenzione filosofica all’oggetto e alle regole che ne normano
l’esistenza, ci dirigiamo all’oggetto di coscienza e alle norme grazie alle quali esso si manifesta
alla coscienza stessa. Ma perché un oggetto sia tale per una coscienza, è necessario che, per
l’appunto, esso sia determinato in un certo modo, che sia organizzato secondo una struttura
che lo rende quello che è. E tale struttura corrisponde al modo in cui esso si dà alla coscienza
che è ad esso diretta: in altre parole, corrisponde alle modalità di costituzione della coscienza
intenzionale.

Dopo la riduzione – infatti – e attraverso l’atto della medesima, il vissuto


non è un vivere del tutto naturale, ma è un sistema di significazioni che appare in una
coscienza che lo costituisce. Io direi che l’oggetto della fenomenologia non è
l’esperienza, ma il senso dell’esperienza e la prima decisione della
fenomenologia è di far scaturire un ambito di senso; il senso, dunque,
esiste solamente per la coscienza (Cassirer 1979, p. 103).

Così, la fenomenologia è in grado di aprire alla riflessione sul senso dell’esperienza e,

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implicitamente, sulla sua dicibilità. E proprio questo legame con il linguaggio («la convinzione
più profonda della fenomenologia è che non ci sia nulla nell’esperienza che non possa essere
elevato al senso e, dunque, al linguaggio») è ciò che permette al cammino della riflessione di
arrivare all’elemento simbolico. Ma su questo dovremo tornare successivamente.
Certo è che, per Ricœur, la fenomenologia ha costruito un ponte tra bios e logos, tra
vita e ragione, e lo ha fatto sia grazie alla prospettiva gnoseologica della correlazione tra
noema e noesi, tra l’atto dell’esser-coscienti-di e l’oggetto di tale esser-coscienti, sia grazie al
riconoscimento del ruolo del corpo vivo (Leib) nella costruzione del senso dell’esperienza
innanzitutto percettiva. «Tale convinzione – scrive Ricœur – rappresenta la più fondamentale
possibilità per una filosofia del linguaggio che non sia un gioco gratuito nel quale il linguaggio
non rinvii ad altro che al linguaggio stesso» (Ricœur 2006, p. 104). Una filosofia che non
riesca a ritrovare l’aggancio tra l’esperienza e il significato grazie al quale tale esperienza è per
il soggetto rischia di diventare un discorso chiuso, autoreferenziale, come il gioco degli scacchi
del quale si conoscono perfettamente le regole, che funziona in maniera ineccepibile pur
senza poter uscire fuori dai propri confini. Se il significato linguisticamente inteso non può avere
alcun riferimento al di fuori di sé, se cioè non vi è «identità strutturale» tra linguaggio ed
esperienza, allora i significati si riducono ad una semplice compitazione nominalistica che
non può pretendere di dire alcunché non tanto delle cose, quasi se ne potesse parlare
indipendentemente dal soggetto cosciente, quanto dell’esperienza che noi ne abbiamo,
ovvero del senso che esse hanno per il soggetto esperiente. Per questo, la fenomenologia non
può essere un “vivere”, ma solo una riflessione sul vivere:

Il compito della fenomenologia non consiste nel vivere […] ma nel dire il
tono, il contenuto eidetico del vissuto […]. C’è dunque gradualità nel senso
dell’esperienza, ed è proprio la tonalità eidetica della nostra esperienza, e
non l’esperienza stessa, ad essere oggetto della fenomenologia (Ricœur
2006, p. 104).

Proprio questo rivolgimento riflessivo che viene operato non tanto sugli oggetti ma
sull’intendere gli oggetti è caratteristica anche della filosofia cassireriana.
Per prendere consapevolezza della posizione filosofica di Cassirer, occorre fare
riferimento a L’idealismo critico come filosofia della cultura, da Simbolo, mito e cultura.
Il primo passaggio che Cassirer ci propone di fare è indagare quale sia il significato
corretto di idealismo. Tale termine è stato molto utilizzato nella storia della filosofia, e ancor
più esso è stato oggetto di diverse interpretazioni, tanto che molte volte si è assistito a
fraintendimenti del significato stesso di tale parola. Infatti, vengono ricondotti alla categoria
di idealismo correnti di pensiero molto diverse tra loro, e solamente Kant ne ha tentato una
unificazione armonica.
Secondo il filosofo di Königsberg, nella filosofia platonica il termine idea non indica
semplicemente i concetti dell’intelletto, bensì gli archetipi delle cose stesse. L’origine di questa
posizione viene dal fatto che Platone si rende conto che per conoscere qualcosa non
possiamo fare semplicemente appello alla nostra capacità induttiva di raccogliere e catalogare
in unità sintetica la molteplicità dei fenomeni. Lo sforzo platonico segna allora, per Kant,

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quello slancio al di sopra dei fenomeni in cerca dell’unità architettonica dell’universo
conforme a scopi.
Questo excursus nell’interpretazione kantiana di Platone si spiega con l’esigenza di
chiarire quali siano le linee di fondo di una prospettiva filosofica di tipo idealistico.
Tale prospettiva presenta tre ordini di problemi che è necessario chiarire, in modo da
evitarne false interpretazioni.
Il primo riguarda la natura della verità. La sua determinazione coincide, per Cassirer,
con il principale scopo della dottrina delle Idee, la quale mira a

dare una definizione esatta ed una salda e soddisfacente teoria della verità
nella sua accezione così teoretica come pratica, nel suo significato così
logico come etico (Cassirer 1981, p. 75)

Ciò comporta che per Platone le due radici della teoria delle Idee sarebbero l’episteme
e l’agathon, la scienza e il bene. Ciò è possibile perché sarebbe implicito, nella filosofia
platonica, un binomio tra sapere e realtà. Potremmo dire che, come era stato sostenuto anche
da Parmenide, la conoscenza razionale, quando ben esercitata, corrisponde all’essere per
come esso è.
Trasposto in epoca moderna, questo discorso assume una nuova connotazione. È
Berkeley il filosofo di riferimento di questa prospettiva, una prospettiva che ribadisce la
coincidenza tra sapere e realtà, ma con una precisazione: per Berkeley il pensiero astratto è
fonte di errore, mentre per Platone la verità non può poggiarsi solo sulle percezioni. Per
Berkeley, infatti, noi siamo in grado di venire a contatto con solo tramite i sensi, dunque non
dobbiamo dire che vi siano due mondi (uno vero e l’altro apparente, uno della doxa e l’altro
dell’episteme), ma che vi è solo il mondo percepito.
A questa posizione, Kant risponde utilizzando la connotazione di trascendentale. Il suo
è sì un idealismo, ma un idealismo trascendentale, distinto da quello dogmatico di Descartes
e da quello scettico di Berkeley. La parola “trascendentale” indica ogni conoscenza che si
occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti nella misura in cui
essa deve essere possibile a priori (Critica della ragion pura A 11-2, B 25). L’idealismo
trascendentale, allora, non muove dall’asserzione circa la natura e l’esistenza degli oggetti ma
indaga criticamente i vari modi di conoscenza con i quali le differenti classi di oggetti ci si
rendono accessibili.
Questo problema precede quello dell’oggettività, e in questo modo accediamo alla
seconda questione problematica: quella della pensabilità di ciò che è materiale:

La vera oggettività di cui siamo in cerca non è più un’oggettività di


sostanze, fisiche o sovrafisiche, di cose empiriche o trascendenti. Il vero
problema del nuovo idealismo si dimostra esser non già quello delle cose
stesse, ma quello delle determinazioni da parte dei differenti modi di
conoscenza. La visione ontologica della vecchia metafisica, la visione di
Descartes o di Berkeley va abbandonata (Cassirer 1981, p. 78).

Proprio la visione che si concentra non sugli oggetti, ma sulle condizioni che ci

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permettono di conoscerle apre la prospettiva che a Cassirer interessa di più: quella di una
filosofia della cultura. È questo il terzo aspetto problematico che riguarda la posizione
trascendentale, e che Kant aveva solo potuto tratteggiare, senza però poterlo veramente
affrontare. Egli infatti ne getta le basi: poiché l’idealismo trascendentale si domanda come sia
possibile per la mente umana concepire l’universo come totalità, allora i modi con i quali ciò
avviene non devono essere pensati in maniera rigida, quasi che Kant abbia costruito una sorta
di “scolastica critica”. In altre parole, le analisi kantiane contenute nelle Critiche non devono
essere prese come qualcosa di concluso, ma solo come degli indirizzi metodologici che
richiedono di essere sempre di nuovo seguiti per rendere conto delle espressioni dell’essere
umano. Piuttosto – e qui sta l’originalità di Cassirer – occorre “dinamizzare” le categorie
kantiane per vedere quali modi ha trovato lo spirito per costruire questa visione unitaria
dell’universo.

<L’oggetto della filosofia della cultura> è una sinossi dell’universo di tal


genere, è una siffatta visione sintetica che hanno di mira così il mito come
la religione, così il linguaggio come l’arte e la scienza […]. Se il problema
è inteso in questo senso, diviene allora palese che non soltanto tutti gli
svariati e complessi sistemi di simboli contenuti nel linguaggio, nell’arte,
nella scienza e nel pensiero mitico e religiose sono accessibili a un’analisi
filosofica, ma tale analisi esigono espressamente (Cassirer 1981, p. 79).

Il risultato di questa ricerca deve portare ad una visione unitaria delle attività dello
spirito. Ma questa unitarietà non può essere concepita al modo della «metafisica sistematica».
Con questa espressione, Cassirer intende spazzar via la possibilità di pensare l’unitarietà in
termini di esistenza: non si può pensare allo spirito come un ente, né in prospettiva
individuale, né in prospettiva universale. Nel primo caso, infatti, ci si dovrebbe chiedere
innanzitutto come sia possibile parlare di esso in termini di esistenza senza incorrere nelle
critiche mosse da Kant nella Dialettica trascendentale, e secondariamente diventerebbe difficile
parlare del mondo della cultura come correlato dell’attività dello spirito inteso come totalità
dell’umanità. D’altronde, se adottiamo la seconda prospettiva e leggiamo il problema della
cultura in termini di una sostanza, allora diventa inevitabile accettare la prospettiva hegeliana
che identifica la cultura come manifestazione dell’Assoluto.
Per questo motivo, bisogna abbandonare questa impostazione del problema, e
l’unitarietà dello spirito

non può venire descritta in termini di mera sostanzialità. Deve invece


essere intesa e definita in termini funzionali, vale a dire in termini di
relazioni, di operazione e di azione. Quell’unità che io sono uso chiamare
l’unità del pensiero simbolico e delle rappresentazioni simboliche non può
venir astratta dalle sue varie manifestazioni (Cassirer 1981, p. 79).

Cassirer sta qui introducendo i concetti chiave di simbolo e forma simbolica. Per ora
basti dire questo: proprio l’attenzione alla capacità simbolica dell’uomo costituisce il tentativo
cassireriano di accedere alla soggettività a partire dalla sua “messa in forma” dell’esperienza.
Tutto questo, però, riposa sulla posizione idealista di Cassirer. In questo contesto, tale

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posizione assume una sfumatura nuova: linguaggio, religione e arte sono, a tutti gli effetti,
modalità di dare ordine, senso all’esperienza. Ciò nonostante, all’interno di tali forme
simboliche l’accezione di oggettività non può essere la medesima dell’ambito metafisico.
Infatti, proprio l’accezione prettamente gnoseologica dell’idealismo cassireriano mette al
riparo la sua filosofia dall’idealismo psicologico e da quello scetticismo: «tutti gli argomenti
avanzati da Berkeley e da Hume contro l’assunto di un’esistenza indipendente della materia
non debbono più intimorirci» (Cassirer 1981, p. 80) perché si può loro concedere di aver
ragione. Sulla linea di Kant, Cassirer ammette che l’esistenza delle cose esteriori, a rigore, deve
essere ammessa per fede. Ci si troverebbe così in un vicolo cieco se non si potesse cambiare
approccio metodologico e indirizzare la propria attenzione non più agli oggetti materiali,
bensì agli oggetti culturali.
In questo modo, non ci dobbiamo chiedere, ad esempio, se esista l’oggetto cui fa
riferimento un certo mito (ad esempio, se esista Crono come divinità che divora i propri figli),
quale modo di dare senso alla realtà vi sia dietro questo mito e, di conseguenza, dietro il mito
in generale.
Inoltre, concentrarsi sulla cultura umana significa domandarsi come sia possibile che
gli uomini abbiano un mondo comune:

lo scopo principale di tutte le forme della cultura consiste precisamente


nel compito di edificare un mondo comune del pensiero e del sentimento,
un mondo umano che vuol essere un κοινὸν κόσμον e non un sogno
individuale o una bizzarria o fantasia non meno individuale. Nella
costruzione di questo universo della cultura le singole forme non
obbediscono ad uno schema precostituito e predeterminato […]. Tutto
quel che possiamo fare è seguire il lento sviluppo che si manifesta nella
storia delle varie forme, e indicare, per dir così, le pietre miliari di questo
cammino (Cassirer 1981, p. 81).

Il linguaggio, per Cassirer, è il primo modo di costruire questo mondo comune, e


tuttavia esso non possiede l’universalità del pensiero logico, dovendo sottostare a condizioni
contingenti come una determinata collocazione etnica e geografica o addirittura particolarità
individuali. Nonostante ciò, esso rimane la porta di accesso al mondo dello spirito, tanto che
il «miracolo» del linguaggio permane, come cifra invariata, in tutte le attività mentali,
compresa la scienza.
Essa rimane nell’alveo della cultura in quanto modalità di organizzazione sensata della
realtà, e non semplice “registrazione” passiva di dati. L’esempio dell’impossibilità di leggere
la scienza come mera descrizione oggettiva della realtà viene fornito da Cassirer stesso: in
quale modo, altrimenti, potremmo interpretare l’impossibilità di ricondurre un modello di
descrizione della materia di tipo ondulatorio a quello di tipo corpuscolare?

Il dualismo, che sembra inevitabile nella fisica moderna, cessa di essere


una contraddizione se ci volgiamo al significato e all’uso propri, corretti,
dei nostri concetti fisici. Se, invece di concepirli come immagini
immediate, come controparti delle cose esterne, li concepiamo come

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simboli che, per dirla con Kant, hanno il solo scopo di “compitare i
fenomeni per poterli leggere come esperienza”, comprendiamo allora che
non solo è possibile, ma può essere necessario impiegare nella decifrazione
dei fenomeni simboli differenti, e, per dir così, differenti alfabeti del
pensiero, i quali non si contraddicono, ma si completano l’un l’altro
(Cassirer 1981, p. 84).

In effetti, il problema nasce quando ci aggrappiamo al concetto di sostanza: se


vogliamo vedere la materia come un essere «autoconsistente, indipendente, assoluto», allora
finiamo necessariamente in un dualismo di tipo cartesiano, ma non più in termini di res cogitans
e res extensa, bensì nei termini di cogitata qua cogitata e res externa. Tale dualismo è presente,
come si è visto, anche all’interno della fisica e perdura fintanto che si tenti di applicare la
categoria di sostanza agli oggetti della fisica stessa.
Se invece, come propone Cassirer, si accetta di comprender la grammatica della
scienza, così come la grammatica dell’arte, quella del mito, quella della religione, allora diventa
possibile risalire dalle forme simboliche particolari fino alla radice comune di esse, ovvero la
funzione unica del pensiero che si esplica in tali forme. Non si tratta di ridurre, bensì di
ricondurre la molteplicità ad unità.

Il nostro tentativo mira ad analizzare e comprendere i modi fondamentali


di pensare, di concepire, di rappresentare, di immaginare e di raffigurare
che sono contenuti nel linguaggio, nel mito, nell’arte, nella religione e
financo nella scienza (Cassirer 1981, p. 89).

Tuttavia, tale tentativo ha una portata più ampia della sola gnoseologia. Esso cela in
sé un’istanza etica, un compito. Potremmo dire che la filosofia della cultura assume su di sé
l’onere del portare, sotto il lume della ragione, ogni aspetto dell’espressione dello spirito
umano, perfino quegli aspetti che più sembrano lontani da essa, come il mito. Di più: lo
spirito umano, compreso nei suoi sviluppi, mostra una unità teleologica che conduce verso
la piena realizzazione dell’aspetto razionale, nel senso di propriamente umano, dell’uomo.
Cassirer si rifiuta di lasciare questa questione nelle mani della filosofia dell’esistenza
a lui contemporanea (è evidente la critica a Heidegger): tale filosofia coincide con una
antropologia che fa del concetto di esistenza la chiave interpretativa dell’intero essere umano,
dimenticando però che lo stesso concetto di esistenza richiede una chiarificazione. Il compito
invece della filosofia della cultura è quello di mostrare come la cultura umana abbia, come
scopo ultimo, quello della libertà che, a differenza da quanto viene sostenuto
dall’esistenzialismo, coincide con l’auto-nomia della ragione, ovvero con il darsi legge a se
stessa della ragione. È, in definitiva, l’ideale kantiano della Critica della ragione pratica, ovvero
quello di una legge morale che, proprio perché libera, ha in sé il suo stesso principio
vincolante.
Infine, la filosofia della cultura, così come è intesa da Cassirer, si pone un compito
ben diverso da quello della filosofia hegeliana. Mentre questa vuole dedurre logicamente ogni
singolo passaggio dell’evoluzione storica e culturale, quella vuole porre questa unità come
punto di arrivo, come il prodotto degli sforzi degli esseri umani accomunati dalla stessa

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umanità.

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