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Copertino
Prof. Domenico Copertino, Lei è autore del libro Antropologia politica dell’Islam pubblicato
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da Edizioni di Pagina: qual è la prospettiva antropologica dell’impegno politico-sociale in
nome dell’Islam e che ruolo vi assume il fondamentalismo?
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Lo studio antropologico dell’Islam consente di superare l’approccio
puramente testuale a questa tradizione religiosa; l’antropologia, infatti, ritiene
che l’Islam non sia solo ciò che è scritto nel Corano e negli Hadith, ma anche
ciò che i musulmani dicono e fanno in quanto musulmani, sulla base delle
proprie interpretazioni dei testi fondamentali e degli studi giuridici e politici
della tradizione islamica. Negli ultimi cinquant’anni, l’antropologia
dell’Islam ha indagato le relazioni tra le diverse dimensioni dell’esperienza
religiosa (la credenza, la pratica, la tradizione), da una parte, e la struttura
sociale, l’economia, le tradizioni locali, il cambiamento storico, dall’altra.
L’antropologia analizza anche la relazione tra religione e politica nell’Islam,
indagando lo sviluppo delle istituzioni politiche in relazione ai testi islamici e
cercando di comprendere come i musulmani trasformino questi testi in modelli di vita e di
organizzazione sociale adatti ai contesti specifici in cui vivono.
Oggi l’antropologia dell’Islam deve inglobare nella definizione del proprio oggetto di studio la
dimensione dell’attivismo sociale e politico di ispirazione islamica, ciò che viene definito
islamismo. Questo è sovente confuso con il fondamentalismo. Se intendiamo per fondamentalismo
l’adozione di comportamenti quali l’oscurantismo, il jihadismo, la segregazione dei generi, vediamo
subito come non tutti gli islamisti possono essere definiti fondamentalisti. In un’altra accezione,
“fondamentalismo” indica il riferimento esclusivo alle scritture fondamentali dell’Islam:
fondamentalisti, in questo senso, possono essere considerati quanti individuano nelle scritture
l’unica fonte di autorità religiosa, rifiutando in massima parte l’autorità normativa e dottrinale
dell’elaborazione giuridico-letteraria dei secoli successivi alla rivelazione e alla prima formazione
della umma islamica. Inoltre, in termini politici, il concetto di fondamentalismo coincide in parte
con quello di salafismo e può indicare le campagne di alcuni gruppi per l’istituzione della religione
islamica come unico fondamento dello Stato.
Lei tratta della distinzione tra lotta politica (al-jihad) e attivismo sociale (ad-da‘wa).
Ad-da‘wa è l’invito alla vita impostata sulla devozione, condotto attraverso pratiche di preghiera,
studio, divulgazione delle conoscenze religiose, assistenza sociale; i movimenti
della da‘wa diffondono i comportamenti e i valori islamici attraverso attività quotidiane di
volontariato e welfare. Al-jihad o an-niḍāl è la lotta politica condotta dentro e fuori dalle istituzioni.
Solitamente gli studi sull’attivismo islamico contemporaneo tengono separato l’ambito pratico-
discorsivo della da‘wa da quello della lotta politica ispirata a valori islamici, il cosiddetto
islamismo; tale distinzione avviene attraverso una classificazione dicotomica che separa l’Islam
“sociale” dall’Islam “politico” propriamente detto. L’osservazione etnografica mostra le
sovrapposizioni esistenti tra i discorsi della da‘wa e dell’Islam politico in senso stretto, le attività
dei movimenti che si ascrivono all’una o all’altra categoria, e le interrelazioni tra persone attive
nell’uno e nell’altro ambito; nel mio libro parlo di movimento islamico in senso ampio,
inglobandovi tanto i giovani attivi nella da‘wa quanto gli attivisti e parlamentari del partito
islamico.
L’Islam sunnita è una religione senza clero: quali sono i presupposti sociali e dottrinali
dell’impegno politico islamista?
Questo interrogativo è al centro del mio libro. In assenza di un clero e soprattutto di un’ortodossia
universalmente riconosciuta, quali dottrine islamiche giustificano l’utilizzo dei valori religiosi nella
politica? Provo a rispondere indagando le tradizioni discorsive islamiche in un contesto specifico, la
Tunisia contemporanea. L’Islam non è costituito solo da un corpus di testi fondamentali (Corano e
Sunna) e da un insieme di pratiche riconosciute (i cinque pilastri, in arabo arkan): molte attività che
i musulmani svolgono, ritenendole parte dell’Islam (come le pratiche sufi, le visite alle tombe dei
santi, le attività di volontariato, la lotta politica), non trovano un riferimento autorizzante in
un’ortodossia testuale e non fanno parte dell’ortoprassi stabilita dai cinque arkan. Cionondimeno, si
tratta di attività che l’antropologia considera parte delle tradizioni islamiche. Bisogna di
conseguenza indagare in che modo queste tradizioni siano legate 1) a determinati contesti storico-
sociali, 2) ad alcuni individui o gruppi ritenuti autorità nella validazione di pratiche e dottrine, 3) a
qualche tipo di riferimento testuale condiviso (non necessariamente nei testi fondamentali, ma
anche nel corpus giuridico islamico, nella letteratura sufi, nelle opere dei riformisti moderni, negli
scritti politici degli intellettuali contemporanei) e 4) a dei discorsi basati su questi testi e condivisi in
questi contesti. Questo permette di capire in che modo tali tradizioni discorsive diventino
riferimenti autorevoli che autorizzano determinate pratiche in certi contesti specifici. Nel mio studio
analizzo le tradizioni discorsive che autorizzano l’attivismo islamico nella Tunisia
postrivoluzionaria; esso interessa una parte delle classi medie istruite del paese, che all’istruzione
moderna affiancano una profonda conoscenza delle fonti testuali e una competenza
nell’interpretazione diretta di queste fonti; queste tradizioni hanno come autorità validanti alcuni
intellettuali islamici contemporanei come Rached Ghannouchi e Yadh Ben Achour, che hanno
elaborato e disseminato un discorso basato sull’epistemologia dei principi dell’Islam e sulla
specificità dell’Islam tunisino.