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IL BUDDHISMO DELL’INDIA

(PRIMA PARTE)

Benedict Kanakappally
INTRODUZIONE

Parlare del “Buddhismo dell’India” in certo qual modo è fuorviante. E ciò per due ragioni
abbastanza curiose: la prima, perché non ci sono in realtà ‘buddhismi’ che non siano dell’India, e la
seconda, perché non esiste oggi in India un buddhismo di cui parlare.
Sanno tutti che il buddhismo è una religione sorta in India; ma meno conosciuto forse è il
fatto dell’indebitamento delle varie forme del buddhismo praticate oggi in diverse parti del mondo
a certi sviluppi che si verificarono nella storia del buddhismo indiano. Senza sminuire i contributi e
cambiamenti apportati al buddhismo dai suoi destinatari in paesi dove approdò, si può affermare
che le principali scuole del buddhismo – il Theravada, Mahayana e il Vajrayana – erano state già
sostanzialmente plasmate in India prima del loro trapianto in altri paesi. Le basi dottrinali, gli
sviluppi iniziali delle diverse forme del buddhismo che vanno dal Tantrismo all’Amadismo si
trovano infatti nelle diverse interpretazioni del buddhismo già apparse nella storia del buddhismo
indiano. Pertanto, una comprensione a fondo del buddhismo della Cina, del Tibet e degli altri paesi
asiatici richiedono quale condizione essenziale una certa conoscenza degli sviluppi storici del
buddhismo indiano.
Anche se il buddhismo è essenzialmente indiano, l’India d’oggi non è neppure
nominalmente buddhista. Tra un miliardo e più di abitanti dell’odierno stato indiano, appena sei
milioni di persone aderiscono formalmente al buddhismo, fra cui un certo numero di buddhisti
rifugiatisi in India dal Tibet. Un visitatore in India vede oggi soltanto delle piccole comunità
buddhiste rimaste in Bengala, Ladakh e Sikkim, ma può ancora osservare dei fedeli buddhisti
provenienti da tutto il mondo accalcarsi intorno agli storici siti sacri buddhisti. In sostanza, il
buddhismo dell’India è la storia del buddhismo, che si conserva nei resti archeologici dei suoi
monumenti, nelle sue realizzazioni artistiche di un tempo, e soprattutto, nella sua vastissima
collezione di letteratura religioso-filosofica.
Tuttavia, la storia del buddhismo in India, per quanto concerne la sua fase primitiva,
presenta formidabili difficoltà per gli studiosi: non emerge ancora un quadro sostanzialmente
completo del buddhismo indiano dei primi secoli con il continuo succedersi in esso di sempre più
nuove scuole, dottrine e tendenze. Se ci sono da una parte prove inconfutabili e testimonianze
attendibili per quanto riguardano alcuni momenti di questa storia, ce ne rimangono pure, d’altra
parte, lunghi tratti oscuri. Si è cercato in queste pagine di tratteggiare una brevissima storia del
buddhismo indiano dal Concilio di Rajagriha alla fine del settimo secolo d.C., mettendo a fuoco
alcuni momenti e problematiche salienti di questo periodo.
CAPITOLO 1

I ‘CONCILI’ BUDDHISTI E LA FORMAZIONE DEL ‘CANONE’

È solito trovare nei manuali della storia buddhista una trattazione sui cosiddetti ‘concili’
buddhisti. Si parla così di diversi ‘concili’ buddhisti, che si sono celebrati in diverse occasioni fin
dal periodo iniziale, in diverse località e sotto il patrocinio di vari re, e nei quali avrebbero
partecipato cinquecento, settecento o più monaci. I manuali della storia buddhista si basano
ovviamente su alcuni documenti buddhisti, anche alcuni di riconosciuta antichità, che contengono
riferimenti a dei formali raduni delle autorevoli figure per decidere su questioni di grande interesse
per tutta la religione buddhista. Già subito dopo il parinirvana del Buddha i monaci di una certa
reputazione e di influsso nella comunità sarebbero convenuti per risolvere alcune questioni di
estrema importanza per la religione; e ci sarebbero state altre riunioni simili anche dopo. Tuttavia, a
motivo di evidenti incongruenze e contraddizioni che si notano nelle fonti buddhiste riguardo al
carattere, all’occasione, al luogo ecc. di queste assemblee buddhiste, molti studiosi si mostrano oggi
alquanto scettici sulla loro realtà storica. Così, la storicità dei primi concili buddhisti, o almeno il
carattere storico di alcuni di essi, rimane una questione aperta. 1
Sebbene allo stato attuale della nostra conoscenza sul buddhismo primitivo non sarebbe
possibile emettere giudizi definitivi a proposito della realtà storicità o meno di alcuni dei primi
concili, il racconto che ne danno le fonti buddhiste servono comunque a gettare luce sulla generale
problematica riguardante i ‘concili’ buddhisti. Va notato prima di tutto che nel nostro caso il
termine ‘concilio’ è semplicemente una tradizione del vocabolo ‘sanghiti’ che troviamo nei testi
buddhisti. Sebbene si possa ritenere che il concetto ‘concilio’ esprima meglio di qualche altro
concetto la realtà indicata dal sangiti buddhista, non sarebbe tuttavia il caso di mettere sullo stesso
piano i sangiti buddhisti e i concili di qualche altra tradizione religiosa, come quelli del
cristianesimo, ad esempio. Né dal punto di vista delle loro caratteristiche formali né dal punto di
vista del loro intento il sangiti buddhista e il concilio cristiano si equivalgono: le differenti
concezioni religiose di fondo che caratterizzano queste religioni determinano pure il loro modo di
concepire e condurre i loro rispettivi ‘concili’.
Significativo in questo senso è il fatto che la parola ‘sangiti’ letteralmente vuol dire
semplicemente ‘la recita’. Evidentemente, questo termine divenne indicativo per i concili nel
buddhismo proprio perché i primi concili buddhisti erano stati convocati con l’evidente scopo di
‘recitare’ i testi sacri. Senza dubbio, è la questione dei testi sacri che dominava il lavoro dei primi
concili: erano stati indetti appunto per accertare e autenticare i testi sacri allora in circolazione, e
per garantire la loro interpretazione e trasmissione fedele. Esiste dunque un innegabile legame tra i
concili e la questione dei testi sacri nel buddhismo; e tale legame emerge più evidente che mai dal
racconto tradizionale offerto sul primo concilio buddhista.

Il primo concilio buddhista


Le notizie riguardo ai primi due concili buddhisti sono contenute già nella sezione
Cullavagga del Vinaya (disciplina monastica) theravada; ma anche i Vinaya delle altre scuole
conservano notizie a proposito. Secondo queste fonti, il primo concilio sarebbe stato deciso
all’indomani della morte del Buddha, e sarebbe stato celebrato, qualche mese dopo, durante la
stagione delle piogge, alla città di Rajagriha sotto gli auspici di re Ajataśatru di Magadha, il figlio e
1
Notiamo che la critica più ampia della storicità dei primi concili buddhisti, l’ha espresso E. LAMOTTE, History of
Indian Buddhism: From the Origins to the Saka era, Peeters Press, Louvain 1998 (pubblicato originariamente in
francese col titolo: Histoire du Bouddhisme Indien, Louvain 1958). Va notato che d’altra parte ci sono anche studiosi
che accettano la sostanziale storicità dei primi concili, sebbene questi non sarebbero avvenuti nella maniera in cui
sono descritti dai testi buddhisti.
successore di Bimbisara; mentre il secondo sarebbe stato celebrato alla città di Vaiśali, a distanza di
100 o 110 anni dalla scomparsa del Buddha. Diciamo subito che gli studiosi sono più propensi ad
attribuire realtà storica al secondo concilio che al primo, il racconto del quale tuttavia meriterebbe
attenzione non solo perché la sua storicità non è mai stata definitivamente dimostrata falsa, ma
anche perché è illustrativo di alcune tendenze e prese di posizione religiose del buddhismo
primitivo.
È il bisogno di conservare l’insegnamento del Buddha nella sua purezza che occasionò la
convocazione il Concilio di Rajagriha. Secondo quanto dice il Vinaya pali, è stato il discepolo
Maha Kaśyapa (pali: Maha Kassapa) ad avanzare l’idea di un concilio – o meglio, l’idea di una
riunione di monaci più insigni – nell’immediata situazione di un certo disorientamento in cui era
venuta a trovarsi comunità dopo la morte del Buddha. Nella comunità buddhista, alla quale
mancava un sistema di autorità formalmente costituito, la morte del maestro significava la perdita
d’un punto di riferimento auterevole. Già alcuni monaci cominciavano ad esprimere sollievo nel
fatto che la morte del maestro aveva comportato l’effettiva fine di qualsiasi imposizione esterna, e
che ora erano diventati liberi a seguire la vita religiosa secondo la propria concezione. La storia
della reazione del monaco Subhadra (Subhadda) alla morte del Buddha, riportata dal Cullavagga, è
ovviamente priva di fondatezza storica; essa serve solo ad inquadrare il discorso sull’idea iniziale di
convocare il concilio. Eppure questa storia è indicativa della motivazione di base che spinse la
comunità a tenere il primo concilio. Si racconta nel Cullavagga che il monaco Subhadra, uno degli
ultimi arrivati al Sangha, reagì alla morte del Buddha dicendo agli altri che non era il caso di
rimpiangere la sua morte, perché, ora che non potrà più dire ai monaci di fare o di non fare questo o
quell’altro, ognuno poteva fare quello che gli pareva giusto.1
Era in fondo il timore che ci potevano sorgere ora interpretazioni diverse degli
insegnamenti del Buddha o anche pratiche monastiche diverse da lui raccomandate a spingere la
comunità alla decisione di indire il primo concilio. Ma prima di tutto il resto c’era l’assoluto
bisogno di stabilire gli insegnamenti autentici del Buddha come pure le autentiche regole
disciplinari della comunità, e distinguerli da quelli che potevano essere spuri. È questa infatti la
preoccupazione che si esprime in un brano ricorrente del racconto canonico del primo concilio, in
cui si dice: “recitiamo insieme il Dhamma e il Vinaya prima che ciò che sono il Dhamma e il
Vinaya vengono messi da parte e il non-Dhamma e il non-Vinaya vengono diffusi, prima che
coloro che contrastano il Dhamma e il Vinaya diventino più forti e coloro che li sostengano
diventino deboli.”2 Ma il compito di stabilire l’autentico Dhamma e Vinaya non poteva essere certo
facile, dato che il Buddha aveva insegnato ininterrottamente per circa quarantacinque anni della sua
vita e non aveva lasciato nessun testo scritto dei suoi ammaestramenti. Egli insegnava quando
un’occasione ci si presentava, e insegnava spesso su qualsiasi argomento che gli veniva proposto
dai suoi interlocutori. Era anche certo che il Buddha durante il lungo corso del suo insegnamento
aveva apportato delle necessarie modifiche nel modo di esporre le sue dottrine, ossia aveva adattato
gli insegnamenti alla capacità d’intendimento dei suoi ascoltatori. E’ possibile, però, come
sostengono molti autori, che fosse esista già un elenco (matrika) di argomenti principali dei suoi
insegnamenti compilato da Sariputra, o che il Buddha stesso, poco prima della sua morte, avesse
provveduto ad offrire ai discepoli un elenco dei suoi insegnamenti essenziali che prese il nome di
Bodhi-pakshya-dharma (‘le ali del risveglio’), e che si trova inserito nelle scritture di tutte le scuole
buddhiste antiche.3 Si attribuisce pure al Buddha, quale misura per impedire una possibile
adulterazione dei suoi insegnamenti, la formulazione di un criterio per l’autenticazione di qualsiasi
insegnamento ascritto a lui, che è la verifica comunitaria in base alla sua coerenza con quanto già si
sapeva della sua dottrina.4

1
Cf. Cullavagga, XI.1.1.
2
Cullavagga, XI.1.1.
3
Cf. R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista. Un’introduzione storica, Ubaldini Editore, Roma
1998, pp.66,76.
Eppure l’insegnamento del maestro, quasi nella sua totalità, doveva essere ora ricostruito
dalla memoria dei discepoli che erano accanto a lui durante la sua attività di predicazione. E questo
fu il compito principale del primo concilio buddhista. Si narra che Maha Kaśyapa scelse
cinquecento monaci (il numero ‘cinquecento’ compare spesso nei testi buddhisti come pure il
‘settecento’, ‘mille’, ‘milleduecento’ ecc., e ha solo un valore approssimativo) che erano degli
arhat, e diede appuntamento nella città di Rajagriha per la successiva stagione delle piogge.
Kaśyapa stesso avrebbe presieduto il concilio, mentre il re Ajataśtru, la cui capitale era rimasta
ancora a Rajagriha, avrebbe provveduto tutto per la sua celebrazione. Per la verità, all’apertura del
concilio sarebbero presenti solo quattrocentonovantanove monaci, poiché Ánanda, il discepolo che
fungeva da assistente al maestro durante gli ultimi vent’anni della sua vita, ne era stato escluso per
non aver ancora ottenuto lo stato dell’arhat. Ma sarà Ánanda, dopo aver raggiunto la perfezione
spirituale che compete ad un arhat, con il concilio ancora in corso, a recitare quasi l’intera mole di
discorsi (Sutta/Sutra) pronunciati dal Buddha durante la sua vita.5 Prima della recita dei Sutta da
parte di Ánanda, però, l’assemblea conciliare si sarebbe rivolto a Upali, il discepolo che si era
distinto per la sua profonda conoscenza delle regole della comunità, con la richiesta di recitare le
regole del Vinaya, così da poter sottoporle alla verifica dei conciliari. È l’antica tradizione
buddhista, dunque, che nel Concilio di Rajagriha Ánanda recitò tutti i discorsi del Buddha e che
Upali fece altrettanto con le regole monastiche del Vinaya. Alcune tradizioni posteriori hanno
voluto attribuire allo stesso concilio anche la recita dell’Abhidamma, il terzo ‘canestro’ delle
scritture pali, per bocca di Maha Kaśyapa, ma sono tradizioni prive di qualsiasi fondamento storico.
Dai racconti dei Vinaya delle varie scuole emerge che il Concilio di Rajagriha si era
trasformato anche in un processo contro Ánanda per le sue numerose mancanze personali nel ruolo
dell’assistente al Buddha. Saranno diversi i capi d’accusa ai quali dovrà rispondere Ánanda durante
il concilio. Dovrà difendersi, ad esempio, dall’accusa di favoreggiamento nei confronti di Prajapati
e altre donne nella vicenda della fondazione del Sangha femminile. Ánanda dovrà, inoltre,
confessare la propria colpa per aver calpestato il vestito del maestro, per aver permesso alle donne
di avvicinarsi alla salma del maestro e di insozzarla con le loro lacrime, per non aver pregato al
maestro di continuare in vita quando aveva annunciato il suo desiderio di entrare in parinirvana,
per non aver cercato di chiarire certi punti sull’interpretazione del Vinaya mentre il maestro era
ancora in vita ecc. Secondo alcuni racconti questo processo contro Ánanda fu fatto già all’inizio del
concilio; la sua temporanea esclusione dal concilio, infatti, era dovuta a queste sue supposte colpe. 6

La questione del ‘Canone’


Il dubbio espresso da alcuni studiosi sulla storicità del primo concilio si fonda spesso su
certe considerazioni, che naturalmente si collegano con il suo racconto tradizionale. Già, l’impresa
attribuita a Ánanda e Upali, di recitare l’intero corpus di Sutta e Vinaya, non può che essere vista
con scetticismo per il semplice motivo che ci si tratta di un’enorme massa di letteratura. Eppure
4
Tale criterio della verifica delle parole attribuite al Buddha, lo si trova esposto nel Maha-parinibbana-sutta.
Evidentemente, è questo il criterio che verrà adottato nella procedura conciliare della recita dei discorsi del Buddha.
Pensiamo però che la promulgazione di questo criterio sia stata semplicemente attribuita al Buddha, così da
rivendicare autorità all’operato del concilio.
5
I racconti dei Vinaya delle diverse scuole presentano diversamente l’episodio dell’iniziale esclusione e della
successiva ammissione di Ánanda nel concilio. Secondo il Vinaya pali, Ánanda ottenne lo stato dell’arhat nella
vigilia del concilio, mentre secondo alcuni altri questo sarebbe avvenuto solo dopo un periodo trascorso in strenui
esercizi spirituali. Secondo il racconto pali, inoltre, l’ottenimento dell’arhatta da parte di Ánanda è avvenuto
all’improvviso, nel momento stesso in cui si preparava a coricarsi per la notte (Cullavagga, XI.1.6). Sebbene non si
può giudicare sulla storicità di questo fatto, si può tuttavia notare la verosimiglianza fenomenologia della sua
descrizione con molti altri racconti dell’ottenimento dell’arhatta che ci sono pervenuti da altre parti del Canone,
particolarmente dai Theragatha e Therigatha. Però, al di là di tutte queste notizie, ciò che può essere vero
storicamente è che Ánanda era una persona non gradita ad alcuni membri influenti del concilio, di cui servizio però
era diventato indispensabile per il lavoro del concilio.
6
Cf. BU-STON, The History of Buddhism in India and Tibet (traduzione E. Obermiller), Vol. II, Sri Satguru
Publications, Delhi 1986 (Heidelberg 1932), pp.77-82.
bisognerebbe notare che il racconto non parla della recita dell’intero corpus di Sutta e Vinaya da
parte di questi discepoli, bensì della recita da parte loro di determinati sutta o parti del Vinaya,
sull’istanza dell’assemblea. È ovvio che si trattava dei testi che erano ritenuti importanti da tutti i
conciliari, e che Ánanda e Upali non erano i soli a conoscerli. D’altronde dovrebbe essere anche
chiaro che i discorsi del Buddha, dal punto di vista dei suoi discepoli, non significavano semplici
sermoni edificanti da ascoltare, ma insegnamenti da ricordare e da trasmettere agli altri: infatti,
c’erano già, mentre il Buddha era ancora in vita, monaci dediti a memorizzarli e ripeterli a
beneficio della comunità. Ánanda e Upali evidentemente erano due fra questi, che si erano distinti
per la loro ampia o migliore conoscenza di questi discorsi che, come si può anche notare, erano stati
già organizzati in due grandi blocchi, a seconda del loro indirizzo principale, e cioè a seconda della
loro attinenza o alla categoria di ‘dottrina’ o alla categoria di ‘disciplina’. Anche se si trattava qui
di ricordare una massa non indifferente di testi, ciò comunque non dovrebbe stupire più di tanto,
specie se si tiene presente la prodigiosa tradizione di memorizzazione e di trasmissione dei testi
vedici praticata nell’ambito dell’induismo. Il fatto stesso che i discorsi del Buddha vengono detti
‘sutta’ (sutra) indica che sono testi compilati avvalendosi delle tecniche mnemoniche in modo da
facilitare la loro esatta memorizzazione e riproduzione.
Il racconto tradizionale della recita dei sutta e Vinaya nel concilio rivela alcune
caratteristiche fondamentali dei testi religiosi buddhisti, che sono degne di nota. Degna di nota, in
modo particolare, è la generale comprensione buddhista dei suoi testi religiosi e il senso di
‘sacralità’ che si attribuisce a questi. Si parla in questa connessione del ‘buddha vacana’ (la parola
del Buddha), che costituisce la parte più autorevole dei testi buddhisti. Eppure è importante da
notare che, pur parlando del buddha vacana, il buddhismo non ha mai preteso di riprodurre le
medesime parole del Buddha nell’esatta maniera in cui le ha pronunciate. Il fatto stesso che i testi
buddhisti – in quanto si possa saperne – siano comparsi allo stesso tempo in diverse lingue, e ciò
indipendentemente dal fatto quale fosse la lingua usata dal Buddha per le sue prediche, indica già
un particolare modo di intendere il buddha vacana. Infatti, nonostante la grande armonia del
pensiero che si nota nei vari discorsi attribuiti al Buddha, e nonostante l’esatta corrispondenza che
si può verificare tra alcuni importanti brani, ritrovati in vari antichi canoni, le scritture buddhiste né
nel loro insieme né nelle loro parti riproducono esattamente le reali parole del Buddha: il buddha
vacana dei testi sacri buddhisti si riferisce piuttosto ad una riproduzione sostanzialmente fedele dei
discorsi del Buddha che non alle esatte parole pronunciate dal lui e scrupolosamente riprodotte.
Come sostengono Robinson e Wilson, “nei testi sembra che i primi discepoli si siano preoccupati di
illustrare contenuti sostanziali più che di riportare precisamente i vari discorsi. Solo i passi classici
che descrivono gli insegnamenti fondamentali ricorrono parola per parola in tutte le raccolte.” 1 È
giusto in questo senso ritenere che i testi del buddhismo non contengono nessuna raccolta dei detti
del Buddha pure e semplici, nonostante che la presentazione dei discorsi direttamente attribuiti al
Buddha venga invariabilmente premessa nei canoni con la formula “così ho udito” (evam maya
śrutam), come se si trattasse delle esatte parole del Buddha. La formula “così ho udito”, con cui
iniziano i sutta, fa riferimento piuttosto alla lunga tradizione orale della loro trasmissione che non
alla riproduzione delle precise parole del Buddha.
Non c’è dubbio che per la comunità buddhista le parole del Buddha hanno sempre rivestito
una importanza enorme; di conseguenza si è cercato, compiendo straordinari sforzi di
memorizzazione, di conservarle per le generazioni future. Tuttavia, il buddha vacana per i
buddhisti non è come “la parola di Dio”, ad esempio, delle tradizioni religiose semitiche. Le parole
del Buddha non sono messaggi, per così dire, che vengono “dall’alto” e che rivelano la verità in
quanto tale; il Buddha in fondo è un uomo che ha avuto l’esperienza profonda della realtà, le cui
parole possono servire da guida per gli altri per arrivare alla stessa sorta di esperienza. La
comprensione buddhista dei testi sacri e l’atteggiamento dei buddhisti nei loro confronti derivano in
fondo da questa particolare valenza a loro attribuita. Le note parabole buddhiste della “freccia

1
R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.73.
avvelenata”, della “zattera”, delle “foglie di simpsapa” ecc. alludono appunto a questa concezione
buddhista riguardo ai testi sacri. A differenza delle parole rivelate dell’ordinaria concezione
religiosa, le parole del Buddha, nella concezione buddhista, non presuppongono un loro nesso
intrinseco con la realtà stessa, ossia non presuppongono una sostanziale identità tra l’essere e il
pensiero. Non si esentano, in questo senso, dal generale sospetto che il buddhismo nutre sulla realtà
del linguaggio e sulla realtà delle parole, neanche le parole del Buddha. Esse sono, segnatamente,
funzionali, terapeutiche, destinate a distogliere la confusione e la passione dei loro ascoltatori che
sono le cause delle loro sofferenze.
In nessun modo i testi o le parole come tali costituiscono il centro dell’esperienza religiosa
dei buddisti: sono stati solo i theravadin a tributare ai testi, con il loro appassionato – e quasi non
buddistico – attaccamento al canone della lingua pali, un senso di straordinaria sacralità. Ciò che
conta dal punto di vista genuinamente buddhista è l’esperienza del Bodhi, l’illuminazione della
mente, che le parole dovrebbero aiutare a produrre. Da questa prospettiva le parole del Buddha
possono rivelarsi illuminanti; e tuttavia sono dispensabili alla luce del proprio Bodhi. La storia della
reazione del vecchio monaco Purana alla notizia della riunione dei monaci e della loro recitazione
dei sutta – che egli non ha bisogno di sapere dagli altri l’insegnamento del Buddha –, lungi da
esprimere una critica o disapprovazione del concilio, come hanno pensato in molti, esprime in
fondo sia la relatività dei testi rispetto all’esperienza religiosa propria, sia la relatività delle versioni
ufficiali dei testi rispetto alla loro originaria articolazione da parte del Buddha. 2
Collegata a quanto abbiamo detto sopra è la questione problematica del ‘canone’ buddhista.
La storicità del Concilio di Rajagriha venne messa in dubbio anche perché si era pensato
acriticamente ad uno stretto legame tra quest’avvenimento e la fissazione del canone buddhista. Per
la verità, l’idea del ‘canone’, come la si intende nel Giudaismo, nel Cristianesimo o nell’Islam, non
ha molto a che fare con il buddhismo:3 sono stati gli studiosi occidentali a introdurla nel contesto
della loro discussione sul buddhismo quando sono venuti a conoscenza dell’esistenza di una
collezioni di testi nella lingua pali, conservata dai periodi antichi. In seguito sono venuti a
conoscenza, però, di altri testi in altre lingue, antichi quanto i testi pali, eppure un po’ diversi da
questi quanto ai contenuti, e si è parlato dei ‘canoni’ originali esistenti in lingua sanscrita e in altre
lingue indiane e centro-asiatiche, che tuttavia si erano conservati solo in parte. I cosiddetti canoni
della lingua cinese e tibetana sono posteriori, e contengono testi presi in prestito da altri canoni già
esistenti, e tradotti in queste lingue, come anche testi assolutamente nuovi. In genere esiste nel
Buddhismo un’intesa sui testi da considerarsi più o meno autorevoli; tutti i suoi primi concili si
sono occupati di determinare l’autorevolezza dei testi che circolavano durante il periodo della loro
convocazione; l’aspetto antico e quasi delimitato e chiuso della collezione dei testi pali certamente
crea l’impressione di una canonicità. Ciò nondimeno, a differenza delle altre religioni, la
concezione della canonicità dei testi nel buddhismo rimane assai fluida. Certamente, il Concilio di
Rajagriha, a giudicare dal racconto che ne offre la tradizione, ha proposto una serie di testi come
normativi per i buddhisti. Eppure questo rappresentò semmai solo l’inizio di un lungo processo di
fissazione di un corpus di testi ritenuti autorevoli dal punto di vista religioso. Non ci fu nessuna
fissazione definitiva di un canone nel Concilio di Rajagriha, e infatti nessuno dei canoni esistenti
(ce ne sono almeno sette) può essere direttamente ricondotto a questo concilio, anche se sembra
innegabile che i testi autenticati da esso, in una o in un’altra delle loro versioni, abbiano formato il
nucleo dei primi canoni. Prima di una loro sistemazione definitiva i diversi canoni antichi in realtà
hanno attraversato più fasi. Il noto canone pali non è diverso in questo rispetto dagli altri canoni che
ci sono pervenuti solo in forma incompleta: iniziata la formazione ad una data non proprio
precisabile, si pensa che il canone pali abbia assunto una fisionomia definibile nonché una
sostanziale completezza all’incirca 250 a.C. nel concilio di Pataliputra, convocato da Aśoka. Ci
saranno certo altre aggiunte posteriori al suo contenuto – e questo processo durerà fino al quarto

2
Cf. Cullavagga, XI.1.12.
3
R.J. CORELESS, The Vision of Buddhism: The Space under the Tree, Paragon House, New York 1989, p.215.
secolo d.C. –; il canone stesso, dopo un periodo di trasmissione orale, verrà messo per iscritto circa
l’anno 80 a.C. nello Sri Lanaka.
La prerogativa del canone pali rispetto agli altri consiste semplicemente in questo: è uno dei
tanti canoni dell’epoca antica a giungere fino ai nostri tempi nella sua interezza,4 ed è relativamente
ristretto quanto all’estensione. Si nota a questo proposito comunque che diventa oggi possibile
ricostruire quasi per intero il canone sanscrito, in base alle traduzioni dei suoi testi conservatesi in
cinese e in tibetano. I canoni buddhisti, come è noto, vengono detti ‘Tipitaka’ o ‘Tripitaka’ (che
vuol dire ‘tre canestri’), in ovvio riferimento alla loro struttura basilare corrispondente ad una
sistemazione tripartita dei testi in ordine al loro contenuto. I tre ‘canestri’, a loro volta, si chiamano,
in ordine, il Vinaya-, Sutta- e Abhidhamma-pitaka. Si può valere quale indizio evidente della sua
tarda origine il fatto che il canone buddhista tibetano, pur mantenendo il titolo di Tipitaka,
s’avvalga di una sistemazione semplicemente bipartita dei testi, consistente di cosiddetto ‘Kanjur’
(bka.’gyur, ‘traduzione della parola del Buddha’, composte di sutra e tantra, attribuiti al Buddha
storico) e ‘Tanjur’ (bstan.’gyur, ‘traduzione della dottrina’, composte di śastra, ossia di trattati e
commentari). Nei canoni tradizionali, al di là della loro tripartita divisione, secondo le generali
tematiche, non si avvedono ulteriori divisioni basate su qualche principio generale. I testi sono
raggruppati a volte in ordine alla loro lunghezza, a volte secondo un percepito senso della loro
coesione, e succede anche che a volte i testi sono messi insieme semplicemente come in una
collezione miscellanea.
Ci sono stati tentativi da parte degli studiosi per determinare la relativa antichità dei testi,
ma non hanno ancora dato risultati apprezzabili.5 Il Vinaya in genere è considerato il più antico tra i
‘tre canestri’, per la sostanziale omogeneità che si nota tra i Vinaya dei diversi canoni. Il Vinaya-
pitaka della lingua pali consta di tre parti: il Sutta-vibhanga (contenente anche il famoso
‘Patimokkha-sutta’), i Khandaka (divisi in due sezioni: Mahavagga e Cullavagga) e il Parivara. Il
Sutta-pitaka è costituito da materiali per la maggior parte molto antichi. Indubbia antichità sarebbe
affermabile rispetto alle prime quattro collezioni di testi (nikaya) che ne fanno parte, le quali,
d’altronde, figurano anche in altri canoni oltre che a quello pali. I nikaya (nel canone sanscrito si
chiamano ‘agama’, e sono leggermente più lunghi rispetto ai nikaya, a motivo delle aggiunte) che
compongono il Sutta-pitaka pali sono cinque: il Lungo (Digha-nikaya: comprende 34 grandi sutta o
sttanta) , il Medio (Majjhima-nikaya: comprende 152 sutta di media lunghezza ripartiti in 3 libri), il
Connesso (Samyutta-nikaya: comprende 2889 sutta ripartiti in 5 sezioni e 56 sottosezioni), quello
In progressione di uno (Anguttara-nikaya: comprende secondo varie recensioni 2308/2344/2363
sutta ripartiti in 11 libri o nipata e 60 sezioni) e il Breve (Khuddhaka-nikaya).6 Quest’ultimo è di
carattere miscellaneo; raccoglie testi provenienti da vari periodi e tendenze dottrinali, alcuni dei
quali sono comunque di grande interesse come il Dhammapada, Udana, Itivuttaka, Suttanipata,
Theragatha, Therigatha, Jataka, Niddeśa, Buddhavamśa ed altri. Si ritiene che la parte che
s’intitola ‘Parayana’ del Suttanipata, il cui discussione verte su “quelli che vanno all’altra riva”,
sia il brano più antico in assoluto che ci sia pervenuto. Il Buddhavamśa, di contro, si ritiene che sia
uno dei testi più tardivi di tutto il canone pali. Come si è detto l’ultimo nikaya si trova solo nel
canone pali; tuttavia va notata la presenza di alcuni testi di questa collezione anche in altri canoni,
come ad esempio la presenza del Dhammapada nel canone cinese.
4
Scrive a questo proposito P. WILLIAMS in un recente studio: “Sarebbe inesatto ritenere al di là di ogni dubbio che la
scuola Theravada rappresenti il buddhismo originario, e che il suo canone riporti le parole originali del Buddha.
Esistevano altre scuole del buddhismo primitivo, e ragguardevoli sezioni della loro versione del canone sopravvivono
in frammenti dei testi originali… Ogni scuola considerava se stessa come il buddhismo originario, e il proprio canone
come la vera parola del Buddha. Gli studiosi si dilettano nel mettere a fronte queste differenti versioni canoniche, ma
benché si trovino differenze nei particolari, tali differenze non sono in genere tali da suggerire radicali diversità
dottrinali”. Il buddhismo dell’India. Un’introduzione completa alla tradizione indiana, Ubaldini Editore, Roma 2002,
p.36.
5
R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.73.
6
Per una succinta presentazione dei testi del canone pali, cf. M. PIANTELLI, Il buddhismo indiano, in G. FILORAMO (a
cura di), Buddhismo, Editori Laterza, Roma-Bari 2001, pp.88-92.
L’Abhidhamma-pitaka, senza dubbio alcuno, è la parte più recente del canone, e senz’altro
di una rilevanza assai minore rispetto alle altre due, dal punto di vista della vita religiosa pratica.
Incidentalmente, è proprio nei rispettivi Abhidhamma che si notano anche le maggiori differenze
esistenti tra i vari canoni e le varie scuole loro proprietarie. Annotiamo, però, che solo gli
Abhidhamma della scuola Theravada (in lingua pali), Sarvastivada (in traduzione cinese) e
Dhamaguptaka (anche questo in tradizione cinese) si sono conservati fino ad oggi in forma
integrale. Le tradizioni buddhiste, come abbiamo già accennato, attribuiscono la stesura
dell’Abhidhamma originario al primo concilio, e la sua recita sia ad Ánanda sia a Maha Kaśyapa,
mentre la sua paternità originaria si attribuisce allo stesso Buddha. Ma queste tradizioni, come
abbiamo anche accennato, non sembrano affatto storicamente verosimili. ‘Abhidhamma’ (sanscrito:
Abhidharma) vorrebbe dire ‘(Trattato) sul Dhamma’, o ‘ciò che si attiene al Dhamma’,7 nel senso
che ci si tratta di delucidazioni ed ulteriori elaborazioni del Dhamma, ossia della ‘Dottrina’
insegnata dal Buddha. L’ossatura attorno alla quale si è costruito il corpo abhidhammico è
probabilmente le liste dei punti principali dell’insegnamento del Buddha che esistevano già da
tempo. Oltre all’elenco dei principali insegnamenti, l’Abhidhamma offre un elenco di sensazioni e
concezioni psicofisiche che hanno la loro sede nelle pratiche meditative. Per l’Abhidhamma,
dunque, non s’intende in genere l’insegnamento immediato del Buddha, bensì la spiegazione e
l’interpretazione ufficiale del Sangha della dottrina buddhista contenuta nei sutta. Per questo
motivo esiste un interessante rapporto tra la storia degli scismi buddhisti e la proliferazione degli
Abhidamma: ogni gruppo scismatico a sua volta ha redatto un proprio Abhidhamma al fine di
giustificare le proprie posizioni dottrinali e di criticare quelle degli altri.
L’inizio stesso di tutta la tradizione abhidhammica va collegato con il tentativo, da parte dei
monaci, di risolvere alcuni problemi che si facevano notare nel corpus dei discorsi del Buddha.
Erano, in fondo, problemi di mancata chiarezza di alcune affermazioni, e addirittura
d’incongruenza tra le varie affermazioni, che esistevano nei testi attribuiti al Buddha. C’erano
inoltre delle imprecisioni del linguaggio colloquiale che erano una costante fonte di confusione. I
primi Abhidhamma ovviamente cercavano di appianare queste difficoltà per via di una
rielaborazione sintetico-sistematica dei punti cardinali della dottrina esposta dal Buddha,
adoperando un linguaggio filosofico-scientifico. Le esigenze di tale lavoro hanno portato i monaci
ad acquisire una certa familiarità con il pensiero logico-filosofico, sebbene il Buddha avesse messo
in guardia i monaci contro le tentazioni filosofiche. Comunque, bisognerebbe notare che l’attività
filosofia perseguita dai buddhisti era di un tipo tutto particolare: non aveva molto a che fare con le
tradizionali problematiche filosofiche, né ci si usavano i metodi tradizionali del filosofare. Ad ogni
modo, il risultato dell’analisi filosofica dei discorsi del Buddha fu la scoperta che il Buddha
avrebbe adattato l’insegnamento in modo che vada bene alla capacità di comprensione delle diverse
persone. In effetti, il Buddha avrebbe parlato in due modi distinti: un modo di parlare
convenzionale, rivolto al volgo, in cui si adoperava il linguaggio figurato per rendere la dottrina in
qualche modo accessibile a quanti non erano capaci di intenderla nelle sue espressioni tecniche; e
un altro modo di parlare, indirizzato a quanti erano in grado di comprendere la dottrina nella sua
verità più profonda e astratta, in cui si usava un linguaggio letterale. Quest’ultima modalità del
discorso buddistico era naturalmente considerata come la più attinente alla realtà, anzi come
l’espressione stessa della realtà. Alla luce di questa scoperta, l’attenzione ora fu rivolta
all’identificazione di quei nomi che rappresentavano la realtà, o più correttamente gli ultimi,
irriducibili aspetti o componenti della realtà. In un primo momento, tale nomenclatura dei
componenti della realtà fu grosso modo identificata con i ‘cinque aggregati’ (forma, sensazione,

7
Alcuni traducono il termine come ‘dhamma superiore’. Questa traduzione è letteralmente giusta, dato che il prefisso
‘abhi’ può anche indicare un senso di ‘eccedenza’ o ‘superiorità’. Ma come la preposizione ‘su’ in italiano, abhi può
esprimere sia un senso di sovrapposizione e superiorità sia un senso di ‘riguardare’ o di ‘avere a che fare con’
(qualche altra cosa), come nell’esempio di ‘parlare su qualcosa’. La traduzione di ‘abhidhamma’ in termini di
‘dharma superiore’ è difficile accettare perché presuppone un dhamma ulteriore rispetto a quanto si è espresso nei
sutta, sia che il dhamma venga inteso come l’insegnamento del Buddha sia come gli elementi dell’esistenza.
percezione, disposizione e coscienza), e in un secondo momento, nel tentativo di definire la realtà
in modo più dettagliato, questi aggregati stessi furono ulteriormente suddivisi in altri componenti
più fini. Giunti agli ultimissimi componenti della realtà, i ricercatori abhidhammici li chiamarono i
‘dhamma’, cioè i ‘reali’, gli elementi irriducibili di cui è composta la realtà.
In fondo, la ricerca abhidhammica riguardava l’eterna questione filosofica della distinzione
tra l’apparenza e la realtà. Il fatto è che ai ricercatori abhidammici apparvero privi di sostanza i fatti
che normalmente consideriamo reali, come ad esempio una persona, un carro, un fiore ecc. Hanno
solo una realtà pratica, convenzionale (samvriti-satya), una realtà apparente. Questi fatti come tali
non resistono ad un’analisi meticolosa; la loro realtà svanisce quando si scopre una pluralità di
ulteriori elementi che li costituiscono. Per l’Abhidamma la realtà, in ultima analisi, appariva come
‘granulare’, fatta di finissimi fattori.
Il buddhismo originario non ha mai arrischiato un discorso sulla realtà come tale,
indipendentemente alla sua possibile esperienza; e ciò vale anche nel caso dell’originaria indagine
abhidhammica sulla realtà delle cose. Dunque, nella prospettiva abhidammica, i dhamma erano
tutta una serie dei ‘reali’, ricavabili dai discorsi più inequivocabili del Buddha, e che erano, allo
stesso tempo, capaci di essere verificati nelle proprie esperienze. In altre parole, i dhamma erano i
componenti ultimi della realtà – come, per esempio, i mattoni in una costruzione – che un’analisi
introspettiva delle esperienze rivelano o dovrebbe rivelare. Nell’analisi abhidhammica fatta a tale
scopo, vengono filtrate nella mente l’esperienza delle cose, del mondo in genere, e il senso
dell’individualità, eccetto l’esperienza del Nirvana, trattandosi in questo caso di esperienza della
Realtà assoluta, incondizionata, non suscettibile a qualsivoglia analisi. L’Abhidhamma theravada
arriva ad individuare in questo modo ottantadue dhamma,8 mentre per l’Abhidhamma sarvastivadin,
il loro numero è settantacinque. Secondo gli Abhidhamma, all’analisi attenta dell’esperienza, i
dhamma si rivelano come micro-eventi, in continuo susseguirsi e in stato di muta dipendenza. Ciò
vuol dire che tutte le possibili esperienze si possono suddividere in una serie di micro-eventi,
ognuno dei quali è un esempio di dhamma. Tutti i dhamma eccetto il Nirvana sono condizionati
(samskrita), e cioè dipendenti da cause e condizioni per il loro esistere. Il Nirvana, pur essendo un
dhamma, è un dhamma incondizionato (asamskrita). Ognuno dei dhamma ha, inoltre, la sua
specifica caratteristica (svabhava) che permette la sua identificazione. Gli ottantuno dhamma
condizionati dei theravadin si dividono in tre categorie: la coscienza, le associazioni mentali e la
forma fisica (rupa). La coscienza è costituita di un unico dhamma, mentre le associazioni mentali
sono formate da cinquantadue dhamma e la forma fisica da ventotto. I dhamma delle associazioni
mentali si dividono poi in quelli salutari (come la non brama, il non odio, la fede, la
consapevolezza, la compassione ecc.), non salutari (gli opposti dei primi) e neutri (che diventano
moralmente positivi o negativi in associazione con gli dhamma).
Dato che tutti i dhamma eccetto il Nirvana sono condizionati, ossia prodotti per via di una
causazione mutua, anche un’elaborazione sistematica della ‘teoria della relatività dei fenomeni’,
ossia della dottrina del paticca samuppada, entrerà a far parte dei compiti assolti dagli Abhidamma.
L’analisi abhidhammica in genere continuerà ad interessare i buddhisti per molti secoli; ogni nuova
scuola produrrà una propria Abhidhamma, e il numero dei dhamma scoperti aumenterà sempre di
più. Sarebbe però sbagliato vedere nelle analisi abhidhammico solo un’intenzione teorica, o la
semplice predilezione per la speculazione filosofica. Come commenta Paul Williams, “non è solo
un astratto filosofare, che si impegna nell’analisi unicamente per un interesse intellettuale.
L’interesse è rivolto direttamente alla via di liberazione. Il monaco impegnato nella meditazione di
visione osserverà, calmo e concentrato, il nascere e lo svanire dei dhamma, vedendo la vera realtà
delle cose e recidendo il senso dell’io, ma riconoscerà anche quali fattori conducono a occasioni
mentali positive e salutari, apprendendo così a ‘smettere di fare il male e imparare a fare il bene’”. 9
Uno dei risvolti più negativi di tutta l’analisi abhidhammica sarà comunque un radicale
travisamento dell’originale senso della teoria dell’anatta (‘non-anima’), dovuto ad
8
E. LAMOTTE, History of Indian Buddhism, pp.593 ssg.
9
P. WILLIAMS, Il buddhismo dell’India, p.90.
un’interpretazione del concetto di anatta in senso letterale e metafisico.10 La comparsa della scuola
dei cosiddetti Pudgalavadin rappresenterà una reazione all’analisi abhidhammica protesa ad
eliminare il concetto dell’anima o della persona individuale. Gli Abhidhamma originali avevano
escluso il pudgala (persona, individuo) dalla lista dei dharma, considerandolo inesistente. La scuola
Pudgalavada (detta anche Vatsiputriya), una delle prime fazioni buddhiste a distaccarsi dalla
corrente principale, cercherà di dimostrare, con l’aiuto dei Sutta, che il Buddha stesso ne aveva
ammesso l’esistenza. Secondo questi, il Buddha avrebbe parlato del pudgala in riferimento alla
dottrina dei ‘cinque aggregati’ (gli skandha), come colui che porta il “fardello” (il bhara) degli
aggregati finché uno non raggiunge il Nirvana, la finale deposizione di questi. Avrebbe fatto lo
stesso anche in riferimento alla dottrina della trasmigrazione e del Parinirvana. I Pudgalavadin
introducevano così la nozione di una sostanza individuale, come un surrogato dell’anima, che
garantiva qualche continuità tra le diverse sensazioni, percezioni e le stesse molteplici operazioni
mentali di un individuo. Il pudgala non era certo considerato come un dharma, ma era tuttavia
ritenuto tanto reale quanto gli aggregati, con cui restava in rapporto fino all’ingresso di uno nel
Nirvana.
L’Abhidhamma-pitaka del canone pali, della scuola Theravada, si divide in sette sezioni che
portano i seguenti titoli e argomenti:
(1) Dhamma-sangani (‘Enumerazione dei dhamma’), un manuale buddhista di etica
psicologica che elenca i dhamma mentali e fisici con brevi annotazioni; ventidue
triadi che distinguono tra il buono, cattivo e indifferente, e cento paia che
enumerano le radici morali;
(2) Vibhanga (‘Analisi’), che analizza ‘i cinque aggregati’ (khandha) e deriva da
questi tutti gli altri ulteriori dhamma; esamina concetti come ayatana (campi
sensoriali) dhatu (elementi) ecc.;
(3) Dhatu-katha (‘Discorso sugli elementi’), ulteriori analisi degli elementi; esame
dei dhamma quali costituenti della coscienza umana;
(4) Puggala-paňňatti (‘Concetto di persona’), che esamina la questione della
‘personalità’ permanente dell’uomo, come pure i vari tipi di carattere e le
evoluzioni spirituali;
(5) Kathavatthu (‘Argomenti di esposizione’ o ‘Punti di controversie’), un trattato
polemico che discute le tesi adottate da altre scuole contemporanee e antiche sulle
questioni dottrinali: contrasta cinquecento formulazioni dottrinali ortodosse ad
altrettante formulazioni eterodosse, confutando queste ultime;
(6) Yamaka (‘Le paia’), che adoperando un linguaggio estremamente tecnico
persegue l’analisi dei dhamma; si usa uno schema in cui le questioni si
presentano a due a due;
(7) Patthana (‘Relazioni condizionate’), la sezione più voluminosa di tutte, che
esamina in maniera dettagliata il reciproco condizionarsi dei dhamma al livello
ultimo dell’esperienza, in base al verificarsi di una o più di una delle ventiquattro
varianti di relazioni causali; quasi incomprensibile ai non-specialisti, anche in
traduzione.

Il Concilio di Vaiśali
Un secolo o poco più di un secolo dopo la morte del Buddha, secondo la tradizione
buddhista, fu indetto il secondo concilio, che ebbe luogo nella città di Vaiśali, a nord-est dell’India.
Notizie su questo concilio si sono conservate nei Vinaya di dverse scuole e, secondo il racconto che
ne dà il Vinaya pali, il motivo per la sua convocazione fu certe usanze tra i monaci che
apparentemente andavano contro le regole della comunità. Si racconta che monaci del paese di
Vajji, di cui Vaiśali era la capitale, avevano introdotto 10 pratiche non ortodosse come: tenere il

10
Cf. R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.77.
sale in un corno (per condire il cibo), continuare a mangiare anche dopo il mezzo-giorno, prendere
del latte non frullato, bere del succo di palma non ancora fermentato, prendere decisioni ufficiali
nell’assenza di un’assemblea legalmente costituita, servirsi di stuoie più larghe di ciò che era
consentito, considerare permissibili anche per se stessi le pratiche seguite dal proprio precettore
(upajjhaya) ecc. La più grave tra queste dubbie pratiche era senz’altro l’accettazione di doni in oro
e argento, ossia di soldi offerti dai laici. Testi tardivi esagereranno le mancanze dei monaci di
Vaiśali fino a dire che il loro priore aveva una ciotola per le elemosine di oro massiccio e al
plenilunio mandava i monaci a raccogliere oro e argento. Ora, i problemi, che eventualmente
portarono il Sangha a tenere il concilio, cominciarono quando un certo monaco di nome Yasa fece
visita al monastero di Vaiśali, e giudicò scandalose le summenzionate pratiche seguite dai suoi
membri. In una successione di eventi che precederà la convocazione del concilio, Yasa cercò di
persuadere i laici a non offrire denaro ai monaci, del resto riuscendovi; i monaci cercarono di
eseguire un atto ufficiale di sospensione (ukkhepaniya-kamma) dal Sangha di Yasa; Yasa schierò i
monaci delle altre regioni da sua parte e, più significativamente, vinse alla sua causa l’importante
figura di Revata il quale i monaci avevano cercato di corrompere senza successo. 1 Sarà il monaco
Revata infatti poi a prendere in mano la questione sollevata dai comportamenti dei monaci di
Vaiśali, a nominare una commissione di otto monaci di buona reputazione per le indagini
preliminari sulla questione e, finalmente, a presiedere al concilio in cui verrà di nuovo discusso le
conclusioni della commissione.
La commissione degli otto riterrà tutte le pratiche dei monaci di Vaiśali contro lo spirito del
Vinaya. L’unica concessione che si farà riguarderà la possibilità di seguire l’esempio del proprio
upajjhaya in alcuni casi. Il concilio ribadirà le conclusioni della commisione. Comunque, il
concilio offrirà l’occasione per una nuova recitazione del Vinaya da parte del monaco Sabbakami –
il più perito sul Vinaya tra i partecipanti – sull’istanza di Revata.
Sebbene il racconto metta dieci specifiche pratiche in rapporto con la convocazione del
secondo concilio buddhista, sarebbe più giusto considerare quale motivo per la sua convocazione
una situazione generale che si era creata nel Sangha buddhista: e cioè l’esistenza di due tendenze
nell’interpretare le regole monastiche, una rigorista e l’altra lassista. Più che altro, nelle dieci nuove
pratiche introdotte da monaci di Vaiśali si viene a riflettere un’interpretazione più liberale delle
regole in genere che non un esplicito di alcune di esse. Infondo, si trattava di determinare se il
momento in cui “l’ombra era lunga di due dita” non fosse da considerare ancora come il
mezzogiorno, l’ora entro la quale i monaci dovevano terminare l’unico pasto della giornata, o di
determinare se il bere il succo di palma non fermentato rientrasse o meno nel divieto generale delle
bevande alcoliche ecc. Il testo stesso di Cullavagga ammette che le questioni che erano state poste
non erano di facile risoluzione. E’ interessante a notare che le due tendenze nell’interpretare le
regole rispecchiano più o meno una divisione territoriale del Sangha: saranno i monaci delle regioni
orientali ad avvalersi dell’interpretazione liberale delle regole, mentre sono quelli delle regioni
occidentali a insistere e, eventualmente, far valere nel concilio l’interpretazione rigorista. È
ugualmente degna di nota il fatto che i monaci delle regioni orientali ad un certo punto faranno
appello alla provenienza del Buddha stesso dalle loro regioni, quasi per indicare che sono loro a
capire meglio le regole nel loro spirito autentico. 2
Va notato, comunque, che l’interesse principale del racconto conciliare del Cullavagga sta
nel mostrare che ci fu una seconda recitazione del Vinaya piuttosto che nel parlare delle
controversie che la precedettero. Di conseguenza il racconto termina dicendo che dopo aver
pronunciato sulle dieci pratiche controverse, il concilio interrogò Sabbakami sulle regole. Il
Cullavagga non ci fa sapere se la decisione del concilio fu accolta dai monaci di Vaiśali, oppure
fino a che punto furono riformate le pratiche dei monaci delle regioni orientali in seguito alla presa
di posizione conciliare. Tuttavia, secondo le notizie contenute nel Vinaya della scuola Mula-

1
Cf. Cullavagga, XII.1.1-2.7.
2
Cullavagga, XII.2.1.3.
sarvastivada, il concilio procedette all’espulsione dal Sangha dei monaci lassisti. 3 Secondo molti
studiosi, il Concilio di Vaiśali divenne così anche l’occasione della prima grande spaccatura in seno
alla comunità. Secondo questi studiosi, la separazione tra le scuole Theravada e Mahasanghika
sarebbe avvenuta durante questo concilio, mentre per gli altri ciò è avvenuta un po’ più tardi,
durante il primo dei due concili tenuti a Pataliputra, il concilio che appunto si associa in modo
particolare con la scuola dei Mahasanghika.

Il Concilio Mahasanghika
Secondo diverse tradizioni, ci fu un altro concilio subito dopo quello tenuto a Vaiśali.
Questo era o un concilio convocato dalla fazione sconfitta e espulsa dal concilio di Vaiśali o un
concilio che produsse la spaccatura definitiva tra l’ala conservatrice e l’ala progressista del Sangha.
Rimangono molti punti oscuri sull’attuale vicenda di questo concilio, sia rispetto alla sua data, al
luogo in cui si tenne, ai suoi partecipanti, alle sue risoluzioni. Una tradizione molto diffusa vuole
che questo concilio sia avvenuto sotto il patrocinio del famoso imperatore Aśoka. 4 Però, ciò che
sembra chiaro è che ci fu una sorta di concilio – forse non partecipato da tutti, forse prima della
salita al trono di Aśoka – che ebbe luogo probabilmente a Pataliputra. L’importanza di questo
concilio per la susseguente storia del buddhismo fu quella di aver portato alla ribalta la scuola
chiamata Mahasanghika (traducibile come “quelli della grande ecclesia”), le cui dottrine poi
influenzarono fortemente il generale orientamento dottrinale della futura confessione buddhista
detta il Mahayana. Sembra che la scuola Mahasanghika fosse sorta (o durante questo concilio o
quello precedente) quando la parte più cospicua dei partecipanti, sostenitori degli innovamenti
dottrinali, decise di staccarsi dalla parte minoritaria e conservatrice dei membri del concilio. La
parte conservatrice del concilio si autodefinirà come il Theravada (sanscrito: Staviravada, coloro
che si tengono alla ‘dottrina degli anziani’), e continueranno ad essere influenti ancora per molto
tempo nell’area nord-occidentale dell’India. La scuola Theravada che attualmente esiste nello Sri
Lanka discenderebbe da questa fazione buddhista. I membri del Mahasangha si distinguevano da
altri monaci sia per il modo di vestirsi sia per il modo di elemosinare il cibo, e saranno presenti
nelle terre orientali, e reperibili per lunghissimo tempo a Pataliputra; tanto che, molti secoli più
tardi, il pellegrino cinese Fa-Xian, venuto in India in cerca dei testi autentici del Buddhismo, otterrà
proprio la recensione del Vinaya e dell’Abhidhamma di questa scuola. Tuttavia sarà al sud, intorno
ai grandi centri religiosi di Amaravati e Nagarjunakonda, nell’attuale stato federale di Andhra
Pradesh, dove la scuola Mahasanghika diventerà una forza dominante. A proposito della divisione
del Sangha in diverse scuole, bisogna comunque tener presente che tale situazione non sempre
comportò una separazione fisica tra i membri di rispettive scuole: secondo le testimonianze che si
riferiscono alla vita religiosa dei conventi buddhisti, spesso i membri di diverse scuole abitavano
nello stesso monastero, dandosi allo studio dei testi compilati dalla propria scuola e celebrando
indipendentemente i riti dell’uposatha, vassa ecc.
Le testimonianze storiche divergono sulla questione delle esatte circostanze che condussero i
Mahasanghika a separarsi dagli altri. Peter Harvey, che situa la divisione del Sangha nel corso del
secondo concilio, considera un tentativo da parte di alcuni membri del concilio, di aumentare,
anche se di poco, il numero delle regole monastiche quale motivo del lorosepararsi. 5 Secondo
Robinson e Johnson, la separazione era dovuta principalmente al rifiuto da parte dei Mahasanghika
3
Cf. G. ELDER (ed.), Buddhist Insight: Essays by Alex Wayman, Motilal Banarsidass, Delhi 1990, p.38.
4
Cf. J. Bowker (ed.), The Oxford Dictionary of World Religions, Oxford University Press, Oxford 1997, p.241. La
storia del buddhismo di Bu-Ston Rin-chen-gru-pa (si pronuncia: Budon Rinchendub), il compilatore del monumentale
canone tibetano di Kanjur e Tanjur, scritto nel quattordicesimo secolo, già fa riferimento alle notizie contraddittorie
che esistono sul conto dei concili tenuti in seguito ai primi due menzionati nel Vinaya. Riguardo al concilio che
abbiamo nominato il ‘Concilio di Mahasanghika’, egli riporta anche l’opinione corrente al suo tempo che fosse
avvenuto durante il periodo del re Nanda o Mahapadma Nanda, dunque prima ancora di Chandragupta Maurya che
regnò l’India tra il 302 e 268 a.C. Accanto a Pataliputra sono menzionati anche altri luoghi come la sede dove è
avvenuto. Cf. BU-STON, The History of Buddhism in India and Tibet, Vol. II, pp. 96-101.
5
P. HARVEY, Introduzione al buddhismo. Insegnamenti, storia e pratiche, Le Lettere, Firenze 1998, p.87.
di considerare i Sutra e il Vinaya quali uniche e definitive autorità sugli insegnamenti del Buddha.
Secondo loro non tutti gli insegnamenti del Buddha si trovano nei Sutra attualmente in
circolazione; anzi gli insegnamenti più sublimi del Buddha sono da cercare altrove, e da riscoprire
con l’ausilio della logica e dell’intuizione.6 Questo atteggiamento nei confronti dei Sutra esistenti,
aggiungiamo, permetterà poi a Mahayanisti a comporne dei nuovi, con l’intento di completare gli
insegnamenti del Buddha.
Ma una circostanza che si collega invariabilmente con il concilio mahasanghika, e si nomina
spesso quale motivo primario per la separazione tra le due fazioni, è la proposta di alcune tesi
controverse da parte di un maestro di nome Mahadeva. Le tesi controverse riguardavano la figura
dello Arhat, ed erano intenzionate a sminuirne il prestigio spirituale. Mahadeva proponeva cinque
tesi che, andando contro i punti di vista tradizionali, affermavano che:
(1) lo Arhat pur essendo libero dai desideri carnali, può tuttavia andare soggetto a
polluzioni notturne in seguito a sogni provocati dal Mara (il maligno);
(2) lo Arhat, pur essendo libero dall’ignoranza relativa alla dottrina, può tuttavia
restare ignorante su questioni empiriche, come, ad esempio, sul nome di una
persona, sulla direzione da seguire per uscire da una foresta in cui si è perso, sui
nomi botanici delle piante che vi si trovano ecc.;
(3) lo Arhat, pur essendo libero da dubbi sulla dottrina, può avere ancora dubbi sui
fatti pertinenti alla realtà empirica;
(4) lo Arhat è tale, anche se il conseguimento di questa sua condizione gli viene
partecipato da altri, senza che egli stesso ne si renda conto;
(5) lo Arhat può fare uso di mantra, ossia la recitazione ripetuta di una determinata
combinazione di parole, per aiutarsi a raggiungere la stasi meditativa. 7
Per molti versi, lo scisma mahasanghika segnò uno spartiacque nella storia antica del
buddhismo. Con il suo liberalismo disciplinare e il porre accento sulle interpretazioni libere e
personali degli insegnamenti del Buddha, la scuola Mahasanghika preparerà il terreno per alcuni
importanti futuri sviluppi nel buddhismo. Lokottoravada (‘Dottrina sulla natura trascendente [del
Buddha]’, con la sua originale e elaborata buddhologia, e Prajnaptivada (‘Dottrina sulla
designazione’), con la sua distinzione tra due livelli dell’insegnamento del Buddha – il primo
destinato agli iniziati e il secondo agli adepti –, erano due delle sottoscuole mahasanghika, che
possono giustamente essere viste come scuole proto-mahayaniche. In sostanza, le innovazioni
dottrinali introdotte dalla scuola Mahasanghika e dalle sue ramificazioni si possono riassumere nei
seguenti punti:
(A) Lo status dei testi: in genere la scuola mahasanghika considera i testi ritenuti autorevoli dai
Thera (‘gli anziani’) né completi né contenenti di insegnamenti superiori del Buddha, i quali
erano rivolti solo a pochi discepoli scelti. Secondo essa, gli anziani non potevano avere
ricordato tutto l’insegnamento del maestro, o ad ogni modo non potevano aver capito
sempre l’essenziale dei suoi pronunciamenti. I testi d’altronde usano il linguaggio
convenzionale e mondano, mentre gli insegnamenti più elevati del Buddha come tali non
sono di questo mondo. Si concepisce così possibilità che il Buddha trascendente possa far
sorgere nella mente degli uomini intuizioni che non necessariamente trovano riscontro nei
testi.
(B) Lo status del Buddha: il Buddha costituiva senz’altro il cuore della riflessione
mahasanghika, che lo innalzò ad una sfera d’esistenza e di realtà paragonabile a quella del
Brahman upanishadico: il Buddha vero era lokottara (‘sovra-mondano’), trascendente,
impersonale, infinitamente potente (ananta-prabhava) e eternamente esistente (amitayus),
identico al principio del Dharma (Dharma-dhatu) ossia la Legge universale e Assoluto,
sebbene anche capace di manifestarsi nel mondo in un’infinità di forme corporali. Il Buddha
vero è da sempre libero da ogni macchia (aśrava), dalle leggi del karma, e da ogni
6
R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.78.
7
Cf. M. PIANTELLI, Il buddhismo indiano, pp.54-55.
cambiamento; perennemente in samadhi (assorbimento meditativo), egli non dorme, non
sogna né mai si distrae; egli fa udire la sua voce senza aver bisogno di parlare, e in un’unica
parola espone tutto il Dharma, l’ascolto del quale rappresenta la massima letizia per gli
esseri del cielo e della terra. Sakyamuni, il Buddha storico, è una forma corporale (nirmana-
kaya) fatta apparire nel mondo dal Buddha vero per insegnare la Dottrina agli abitanti del
mondo.8 Non si trattava di un’esistenza veramente reale, un uomo, per così dire, in carne ed
ossa; ma di una sorta di fantasma che solo sembrava di nascere e di morire e di fare le cose
che anche altri uomini normalmente fanno. Per questo motivo, i mahasanghika in genere si
opporranno la pratica della venerazione dei resti mortali del Buddha, considerandola un po’
assurda, e del tutto inutile in ordine al fine religioso; sostentamento del Sangha con doni del
denaro o delle cose che gli occorrono, verrà considerato invece una pratica religiosamente
più proficua.
(C) Lo status dello Arhat: secondo il Mahasanghika gli Arhat erano uomini ancora imperfetti,
fallibili riguardo al ricordo degli insegnamenti del Buddha e ignoranti su molte cose. Gli
Arhat non costituiscono gli ideali da seguire per gli altri; bisogna considerare come ideali
solo coloro che, dopo lunghi periodi di perfezionamento spirituale si sono giunti alla
buddhità.
(D) Lo status dei dharma: mentre la scuola Theravada riteneva che i dharma o i componenti
ultimi della realtà erano reali nel senso di essere ‘sostanziali’, i Mahasanghika negarono
sostanzialità ai dharma. Per loro tutto era privo di sostanzialità, tutto era śunya, sia che si
tratti dei dharma, del pudgala (‘l’individuo’), della realtà in genere.

8
Cf. M. PIANTELLI, Il buddhismo indiano, pp.57-58.
CAPITOLO 2

AŚOKA: UN IMPERATORE AL SERVIZIO DEL DHARMA BUDDHISTA

È un dato di fatto che si osserva già dai primi testi buddhisti il tentativo di operare un
accostamento tra la religione buddhista e la regalità: Siddhartha Buddha è presentato spesso da
questi testi come un principe reale che ha rinunciato ad un futuro regno; alla sua nascita fu predetto
il suo futuro da imperatore (chakravarti), un imperatore che avrebbe esercitato il suo dominio su
tutto il mondo. La stessa opera religiosa del Buddha verrà poi vista in termini d’instaurazione di un
regno, un regno spirituale, dove vige il Dharma, l’ordine giusto. Il Buddha stesso si presenta quale
incontestato sovrano di questo regno che, con la sua predicazione, o in termini propriamente
buddhisti, con il suo “girare la ruota del Dharma” (Dharma-chakra-pravartana), avrebbe fondato.
Già, l’immagine della ‘ruota’ (chakra), simboleggiante la religione o il Dharma proclamato dal
Buddha, esprime in maniera inconfondibile questo suo percepito legame con la regalità: il Dharma
nella sua derivazione etimologica e storica è l’archetipico ordine universale (il vedico Rta),
trascendente e dinamico, che viene a rispecchiarsi in questo mondo nelle fattezze di un ordine
socio-politico retto da un re giusto e buono (Dharma-raja).
Se quello del Buddha fu un impero del Dharma inteso nel suo senso trascendente e
spirituale, il buddhismo antico conserva comunque i ricordi di un altro imperatore, questi inteso
nel senso reale, che ha fatto del Dharma il fondamento del suo regno e governo. Si tratta
dell’imperatore Aśoka, soprannominato Dharma-Aśoka, un personaggio ben noto dalle leggende e
storie buddhiste dell’India e dello Sri-Lanka, e la cui storia è reperibile perfino nei testi del
buddhismo giapponese. Aśoka ha rappresentato, infatti, nell’immaginario dei buddhisti in tutto il
mondo di tutti i tempi la figura esemplare di un sovrano che governa secondo i nobili principi della
religione buddhista; in lui si realizza in effetti l’ideale del re proposto dal Buddha in uno dei testi
canonici, secondo il quale:
“Un raja che è chakravarti (sovrano universale) e dharmika dharma-raja (re ideale e giusto)
dipende dal Dharma – onorando il Dharma, con il Dharma come vessillo, con il Dharma
come suo capo – e guarda e protegge il suo popolo. Ancora, un raja che è chakaravarti
[ecc.], guarda e protegge i guerrieri che lo seguono, i brahmani, i padri di famiglia, gli
abitanti delle parti lontane, gli sramana (asceti), gli animali e pure gli uccelli. Un tale raja
propone la ruota della sovranità, non sarà soggiogato da nessuna persona umana, da nessun
nemico vivente.”9
Nelle tradizioni buddhiste indiana e cingalese, corroborate da prove storiche, Aśoka è ammirato
non solo come un sovrano ideale, cui regno era ispirato al Dharma, ma anche come il primo
imperatore indiano che si era convertito alla religione buddhista, adoperandosi poi per la sua
diffusione sia dentro che fuori dei confini del suo impero. In questo senso Aśoka si mostra assai
diverso da tutti gli altri re conosciuti dai primi racconti del buddhismo, come i re Bimibisara,
Prasenajit e Ajataśatru, che erano contemporanei del Buddha e sostenitori delle sue opere, sia per il
suo vasto dominio territoriale che per il suo attivismo missionario a favore della religione. E’ grazie
a lui – secondo tutti gli storici della religione – se il buddhismo ha potuto realizzare il principio
d’universalità racchiuso nella sua concezione originaria, che altrimenti sarebbe rimasta una
religione geograficamente assai delimitata, come avvenne per le altre religioni sorte nel suo stesso
contesto.
Ma chi era Aśoka, di cui lode è piena la tradizione buddhista indiana? In realtà, Aśoka è uno
dei pochi personaggi della storia indiana del periodo prima dell’era comune di cui si sa assai, e con
inconfondibile certezza storica, indipendentemente anche alle fonti buddhiste, grazie soprattutto ad
una serie di editti che ha lasciato incisi su pietre e su colonne in tutto il suo impero. Fu il terzo

9
Anguttara Nikaya I,109.
monarca del primo grande impero pan-indiano, l’impero Maurya, fondato da Chandragupta in
seguito alla campagna militare di Alessandro Magno in India. Per quanto riguarda l’India,
l’impresa militare di Alessandro, che non fu altro che una incursione nei suoi territori che,
d’altronde, si era arrestata all’attuale città di Amritsar, nel Punjab, si concludeva nel 326 a.C. a
causa probabilmente del restio delle sue truppe a proseguire. Secondo le fonti classiche, una volta
nella città di Taxila Alessandro avrebbe già incontrato il futuro imperatore Chandragupta (noto
come ‘Sandrakotto’ nelle opere di Strabo e Giustino), il quale gli avrebbe offerto assistenza per
invadere l’importante regno di Mgadha, nel bacino del Gange, su cui trono, una volta occupato da
Bimbisara e Ajataśatru, si sedeva ormai un certo Mahapadma Nanda. Anche se Chandragupta non
riuscì a persuadere Alessandro alla conquista del Magadha, è proprio questa l’impresa che, di lì a
poco, riuscì a Chandragupta stesso, con l’abile assistenza di un consigliere politico di nome
Kautilya. Kautilya, conosciuto anche come Chanakya, un brahmano, portatore di un certo handicap
fisico e uomo senza scrupoli, è il personaggio a cui si attribuisce la paternità della famosa opera
sulla politica, l’Artha-śastra (lett. ‘trattato sulla ricchezza’). Stando alla fondamentale idea di una
netta separazione tra l’etica e politica sostenuta da quest’opera, è naturale pensare che il suo autore,
Kautilya, avrebbe consigliato a Chandragupta l’uso dei metodi anche immorali quali mezzi per
conseguire e per conservare il potere politico. Ad ogni modo, a quanto pare, Chandragupta si servì
del vacuo politico che si era venuto a creare nell’area nord-occidentale dell’India in seguito alla
ritirata di Alessandro Magno per gettare le basi del suo potere politico, per prendere poi il più
potente regno di quel tempo, il Magadha. Secondo gli storici, già nel 320 a.C. Chandragupta
regnava da Pataliputra, la capitale del vecchio regno di Magadha, su un vasto impero che si
estendeva su quasi tutto il sub-continente indiano nonché su una buona parte dell’attuale
Afghanistan. Un’opera composta da Megesthenes, l’ambasciatore inviato alla corte di
Chandragupta da parte di Seleucus Nicator – il governatore dei territori asiatici conquistati da
Alessandro – della quale restano solo dei frammenti incorporati in altre opere, ci fornisce
comunque un quadro storico alquanto attendibile e dettagliato di questo primo impero indiano e del
suo governo. Secondo una tradizione degna di fede, Chandragupta a un certo punto della sua
carriera da imperatore si era fatto seguace della religione giainista, e verso la fine della sua vita si
sarebbe addirittura ritirato in un monastero della stessa religione, in una località non lontana
dall’odierna città di Bangalore.10
Bindusara, il figlio al quale Chandragupta aveva lasciato in eredità l’impero, sarebbe stato,
invece, un ardente sostenitore della setta degli ajivaka. Oltre a questo fatto, si conosce poco su
questo personaggio, che dalle fonti greche comunque viene denominato ‘Amitrochates’ (una
corruzione dell’espressione sanscrita ‘amitra-khata’, cioè ‘uccisore di nemici’). Aśoka, che fu
considerato dallo storico H.G. Wells come “il più grande dei re”,11 era colui che succedette a
Bindusara sul trono di Maurya all’incirca 268 a.C., dopo un interregno di quattro anni. Ci sono
sostanzialmente tre tipi di fonti che riguardano la storia di Aśoka: l’Aśokavadana (lett. ‘le lodi di
Aśoka’), una collezione di leggende in circolazione in India dai tempi imemorabili; i testi della
storia del buddhismo singhalese, il Dipavamśa e il Mahavamśa; e, più importante di tutti, gli editti
tramandatici da lui stesso. Comunque, fino a quando non fu possibile decifrare i caratteri di questi
editti, il che riuscì solo nel 1837, grazie al paziente lavoro di un ufficiale inglese di nome James
Prinsep,12 la storia di Aśoka veniva accolto con una buona dose di scetticismo dagli studiosi.
Da queste fonti, prese nel loro insieme, emerge con chiarezza che Aśoka fu uno dei molti
figli di Bindusara che, pur non essendo il principe ereditario, si era assicurato il trono con metodi
violenti: si parla dei suoi numerosi fratricidi pur di arrivare al potere. La sua carriera politica era
cominciata con la soppressione violenta di un’insurrezione contro il potere imperiale verificatesi
10
Cf. J. KEAY, India: A History, HarperCollins Publishers, London 2000, pp.60-86.
11
H.G. WELLS, A Short History of the World, Penguin, Harmondsworth 1946, p.115.
12
Incidentalmente, esisteva un editto bilingue greco-aramaico di Aśoka, a Kandahar in Afghanistan, che fu scoperto
da una missione archeologica italiana nel 1958. Se questa scoperta fosse fatta prima, tutti gli sforzi di Prinsep
sarebbero stati resi superflui.
nella regione di Taxila. In seguito a questa dimostrazione di forza, sarebbe stato nominato il
governatore della provincia di Ujjain. Della sua vita in veste di governatore di Ujjain, le fonti
buddhiste mettono in risalto un particolare dettaglio, e cioè la sua relazione con una giovane della
casta vaiśya, figlia di un ricco meracante della città di Vidisa, soprannominata per tale motivo la
‘Vidisa-devi’ (‘la dea di Vidisa). Sebbene non sarà destinata ad accompagnare Aśoka a Pataliputra,
quando questi diventerà il re, si pensa ad un suo chiaro influsso sulla sua vita e sulla sua eventuale
‘conversione’ al buddhismo. È assai probabile che la comunità alla quale ella apparteneva fosse già
convertita al buddhismo; in ogni caso, si pensa che è dovuto proprio al suo interessamento le
costruzioni buddhiste che Aśoka fece fare da imperatore a Vidisagiri presso Sanchi. Si nota inoltre
che il figlio e la figlia di Aśoka – Mahindra e Sanghamitra (quest’utlimo nome significa “l’amica
del Sangha”, si tratta di un soprannome piuttosto che il nome proprio) – che secondo le fonti si
fecero missionari del buddismo nello Sri-Lanka, erano nati dalla sua unione con Vidisa-devi. 13
Per motivi facilmente intuibili, i testi buddhisti tendono a mettere in evidenza i lati negativi
della personalità di Aśoka prima della sua conversione, nominandolo ‘Chandaśoka’ (‘Aśoka il
furioso’). Ovviamente, la trasformazione di Chandaśoka in Dharmaśoka (‘Aśoka il pio’), avvenuta
in un particolare momento della sua vita da imperatore, è il motivo per il quale egli è diventato un
personaggio di eterna fama mondiale oltre che di speciale ammirazione buddhista. Questo capitale
evento della sua vita si trova ben documentato in uno dei suoi maggiori editti su roccia (n. XIII), in
cui si dice:
“Dal re Devanam-priya Priya-darśi [il titolo onorifico di Aśoka con cui iniziano tutti gli
editti, possibile tradurre come ‘il re grazioso, l’amato degli dèi’], nell’ottavo anno del suo
regno fu conquistato lo stato di Kalinga [oggi Orissa]. Non meno di 150.000 uomini sono
stati deportati prigionieri, non meno di 100.000 sono morti sul campo, un numero uguale è
mancato. Da quando il Kalinga è stato preso in possesso, l’osservanza del Dharma
(Dharma-śilan), l’amore del Dharma (Dharma-kamata) e l’esortazione al Dharma
(Dharma-anuśishti) sono stati adottati dell’amato degli dèi. Per aver conquistato il Kalinga,
l’amato degli dèi sente il rimorso. Perché, quando un paese non conquistato viene
conquistato, avvengono morte, uccisione e deportazione, cose che grandemente addolorano
l’amato degli dèi… Se un centesimo o un millesimo del numero di persone dovesse oggi
morire o venire ucciso o deportato, di quanto morirono o vennero uccisi o deportati
nell’annessione del Kalinga, l’amato degli dèi si sentirebbe offeso. Se qualcuno gli fa del
male, l’amato degli dèi gli perdona, in quanto ciò è possibile… L’amato degli dèi desidera
nonviolenza, dominio di sé, imparzialità, bontà verso ogni essere vivente”. 14
A quanto sembra, Aśoka cominciò a promulgare gli editti solo in seguito al suo mutamento di cuore
dopo la sanguinosa conquista (o probabilmente la riconquista) del Kalinga. Sono stati scoperti una
quarantina di tali editti, incisi su rocce e lastre e su colonne commemorative, e classificati in quelli
maggiori e minori in ordine alla loro lunghezza. Sono senz’altro modellati sugli editti degli
Accamenidi, ma a differenza di questi, che sono volti all’elogio dei re e alla celebrazione delle loro
vittorie su altri popoli, qui si notano delle finalità, a dir poco, insolite: annunciare il ripudio delle
guerre da parte di un re e, più importante ancora, annunciare un suo programma governativo basato
su, quello che viene detto, il Dharma. Senza dubbio ‘Dharma’ è la parola ricorrente in tutti gli
editti di Aśoka; è evidentemente in servizio del Dharma che furono promulgati tutti i suoi editti,
dato che sono noti anche proprio come le “iscrizioni sul Dharma” (Dharma-lipi).
Idee e sentimenti affini a quelli espressi nell’editto sopra, si trovano anche in altri. Negli
editti dice Aśoka espressamente che “tutti gli uomini sono i miei figli”, e auspica che tutti confidino
in lui pensando che “il re è simile ad un padre per noi; lui ci vuol bene quanto a se stesso”. Dichiara
esplicitamente la sua benevolenza pure nei confronti dei popoli oltre i confini del suo regno:
“Possono chiedersi i popoli oltre le frontiere: ‘che intenzione ha il re nei nostri confronti?’ Dunque,
questo è il mio desiderio per loro: il re vuole che essi siano senza timori nei riguardi del re, che
13
Cf. M. PIANTELLI, Il buddhismo indiano, p.54.
14
Aśokan Inscriptions (R. Basak ed.), Progressive Publishers, Calcutta 1959, pp.71-72.
invece confidino in lui e che aspettino da lui felicità e non miseria. Anche questo devono sapere:
che il re è disposto a perdonare ogni loro offesa.”15 Gli editti parlano delle numerose iniziative del
re per migliorare la condizione della vita degli uomini e delle bestie e alleggerire le loro pene:
costruzione di ospedali per gli uomini e per gli animali in tutti territori dell’impero, coltivazione di
piante medicinali in orti speciali, costruzione di locande lungo le strade principali per i viaggianti,
standardizzazione delle procedure amministrative e giudiziarie nel territorio, riduzione delle pene
dei carcerati e la concessione dell’indulto ai pentiti, proroga dell’esecuzione dei condannati a morte
ecc. In sintonia con la dottrina dell’ahimsa, pietra angolare dell’etica buddhista, gli editti
proibiscono la caccia agli animali non adatti al cibo, come anche l’uccisione degli animali
commestibili, per tutto il periodo in cui si trovano con i cuccioli. Ci sono esortazioni negli editti
volte a scoraggiare il sacrificio degli animali, praticato diffusamente nell’induismo d’allora, e in
uno di questi il re stesso annuncia il suo proposito di rinunciare alla carne a tavola. “In passato,
migliaia di animali erano macellati ogni giorno nella cucina del re per la preparazione del ragù. Ma
ora, mentre quest’edito del Dharma (Dharma-lipi) viene emanato, solo tre animali vengono
macellati, due pavoni e, di tanto in tanto, un’antilope, che non viene macellato regolarmente. In
futuro neanche questi animali saranno macellati”.16 In un altro editto si dirà che invece della battuta
di caccia, praticata dal re per lo sport, egli ora trova piacere nel recare in pellegrinaggio ai luoghi
sacri (Dharma-yatra).17

Il Dharma di Aśoka
Non c’è dubbio che le idee espresse nelle iscrizioni di Aśoka, e i valori che cercano di
inculcare nel popolo, sono largamente coincidenti con quelli proposti dal buddhismo. Tuttavia, è
significativo il fatto che eccetto in poche iscrizioni, per di più quelle trovate nei tradizionali luoghi
buddhisti nel bacino del Gange, non ci sono riferimenti espliciti al buddhismo. Stupisce anche il
fatto che sono assenti dagli editti menzioni alle Quattro Nobili Verità e all’Ottuplice Sentiero,
considerati i pilastri portanti del Dharma buddhista. Inoltre, ci sono chiare indicazioni che Aśoka
patrocinava pure tutte le altre importanti religioni del suo regno, l’ajivika forse in un modo anche
particolare, perché, come testimonia uno degli editti, Aśoka fece infatti scavare un monastero in
roccia per i loro religiosi.18 In base a questi indizi, comunque, alcuni storici hanno voluto in mettere
in discussione la storia della sua conversione al buddhismo. Anche se la parola ‘conversione’ non è
atta per descrivere ciò che avvenne a Aśoka, poiché non si sarebbe trattato di un formale abiuro di
una religione per abbracciarne un’altra, la tesi che lo vuole buddhista sarebbe comunque sostenuta
da argomenti assai validi. Innanzitutto, come accennato sopra, ci sono degli editti indirizzati
esplicitamente ai buddhisti a differenza degli altri religiosi; in uno di questi Aśoka mostra pure una
certa familiarità con i testi buddhisti. Secondo, ci sono le colonne in pietra eretta da lui nei luoghi
sacri buddhisti, un onore che non estese ai luoghi sacri di altre religioni. 19 E, in fine, ci sono anche
dichiarazioni negli editti riguardo al suo stato dello śravaka (l’uditore, il seguace laico) buddhista.20
Il Dharma, di cui Aśoka si annuncia di essere praticante, difensore e divulgatore nei suoi
editti, dunque, si potrebbe dire, è un Dharma buddhista laico. È risaputo che questo termine
‘Dharma’ è polivalente, in grado di significare cose diverse secondo il contesto del suo uso. Si nota
comunque che non è nella sua valenza ontologica o di verità religiosa ultima che questo termine
appare negli editti. Non è neppure nella sua accezione specificamente brahmanica del
comportamento etico-rituale ineccepibile che il Dharma viene usato negli editi. Qui, il suo senso è
piuttosto quello di una cultura morale universale – condivisa largamente anche da altre religioni –
che si esprime poi in azioni ritenute generalmente virtuose. L’osservanza di questo Dharma – che, a

15
Editto su Roccia (Jaugada), Aśokan Inscriptions, p. 126.
16
Editto su Roccia, n. I, Aśokan Inscriptions, p. 4.
17
Editto su Roccia, n. XIII, Aśokan Inscriptions, p.42.
18
Barabar Hill Cave Inscription, cf. Aśokan Inscriptions, p.154.
19
Cf. R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, Ubaldini Editore, Roma 1998, p.85.
20
Editto su Roccia (Rupnath), Aśokan Inscriptions, p.139.
dire degli editti, dovrà durare “fino a quando dureranno il sole e la luna” e avrà quale conseguenza
“la felicità in questo mondo e quell’altro” – comporta in fondo una serie di comportamenti ed
atteggiamenti più o meno precisi, come l’onestà, il rispetto verso gli anziani, la nonviolenza ecc.,
che non hanno comunque nulla di esclusivamente buddistico. È in qualità dunque di un
denominatore comune per quello che è socialmente e moralmente accettabile e buono che il
concetto del Dharma si presenta negli editti. Sono diversi i passi degli editti dove si cerca di
definire e codificare la pratica del Dharma. In uno, il Dharma, il cui dono, elogio e condivisione
sono considerati gesti impareggiabili, si definisce così: “giusto comportamento con gli schiavi e i
servi, obbedienza al padre e alla madre, generosità verso gli amici, conoscenti e parenti e verso
asceti e brahmana, e astenersi dall’uccidere esseri viventi.” Proseguendo, il Dharma viene spiegato,
in somma, come un’azione o un gesto di cui direbbe “un padre, figlio, fratello, marito, amico,
conoscente e vicino: ‘questo è proprio buono, questo deve essere fatto’”. 21 In un altro si dirà che il
Dharma consiste nell’essere esente da peccati, nel compiere azioni buone di ogni tipo, nella
generosità, veracità e rettitudine.22 In un altro, si aggiungono alle opere del Dharma la virtù della
parsimonia e del non ammassare le ricchezze eccessive.23
Il Dharma degli editti va apprezzato nel contesto della ricerca da parte di Aśoka di una
politica religiosa e sociale capace di garantire l’unità e la pace nel suo vastissimo regno formato da
popoli di estrazione etnica, culturale e religiosa diversa. Ricordiamo che era un periodo in cui
pullulavano nella pianura gangetica sette religiose di ogni tipo, che si facevano concorrenza
accanita per attirare patrocinatori e aderenti alle loro cause. In un tale clima, non stupisce dunque se
l’intento di un editto si rivela proprio quello di richiamarle tutte a un comportamento all’insegna
della mutua conoscenza e del mutuo rispetto. In quello che potremmo considerare oggi come un
chiaro invito al ‘dialogo interreligioso’, che è certamente il primo del genere di cui esista una
testimonianza scritta in tutta l’antichità, l’Editto su Roccia n.XII si rivolge a tutti i religiosi con le
seguenti parole:
“Ci deve essere progresso nell’essenza di tutte le religioni. Questo progresso, però, è
multiforme; la sua radice è il controllo della parola, cioè né esaltare la propria religione né
biasimare quella degli altri senza motivo. Comunque, quando bisogna criticare, ci vuole
moderazione. Per un motivo o un altro, tutte le religioni meritano il rispetto. E facendo così
si promuove la propria religione e si presta un servizio anche alle altre; facendo altrimenti,
uno danneggia la propria religione. Chiunque esalta la propria religione e condanna le altre,
lo fa di certo per devozione alla sua religione e pensa: ‘Voglio rendere gloria alla mia
religione’. Ma al contrario, così facendo, danneggia la sua religione ancor più gravemente.
Pertanto, gli incontri tra le religioni sono buoni. Uno dovrebbe conoscere e rispettare le
dottrine professate dagli altri. Il re desidera che tutte le religioni siano ben informate e di
spirito aperto.”24
Come si può apprezzare, definito in una maniera non ristrettamente settaria, il Dharma per Aśoka
significava in effetti un compendio di principi guida per il comportamento dei suoi sudditi, che
d’altronde, ben si sapeva, non solo avrebbe incontrato l’approvazione generale della gente ma
avrebbe anche aiutato la coesione del suo regno e il consolidamento del suo potere. È significativo
in questo senso che, come testimoniano gli stessi editti, Aśoka istituì addirittura un nuovo
dipartimento governativo incaricato degli affari del Dharma. C’erano così gli “ufficiali del
Dharma” (Dharma-mahamatra), con poteri giudiziari, inviati ad ogni angolo del regno, che
dovevano riferire direttamente al re sulla situazione incontratovi. Alcune iscrizioni contengono le
istruzioni di Aśoka rivolte proprio a questi ufficiali del Dharma.

21
Editto su Roccia, n. XII, Aśokan Inscriptions, p.56.
22
Cf. Editto su Colonna, n. II, Aśokan Inscriptions, p. 86.
23
Editto su Roccia, n. III, Aśokan Inscriptions, pp.11-12.
24
Aśokan Inscriptions, p.61. La traduzione del testo riportata qui segue quella fornita da M. FUSS, Aśoka, in AA.VV.,
Le grandi figure del Buddhismo, Cittadella Editrice, Assisi 1995, p.115.
Si potrebbe aggiungere qui un particolare dalla storia post-indipendente dell’India che ha
una certa rilevanza in questo contesto. Il fatto che, quando Jawaharlal Nehru e altri dovevano
scegliere il simbolo nazionale per un’India, progettata come una repubblica laica che avrebbe
tuttavia rispettata e resa onora a tutte le religioni in modo uguale, l’hanno trovato nell’emblema
utilizzato da Aśoka in una delle sue colonne commemorative – la figura dei quattro leoni che
guardano in quattro direzioni, sormontati sulla ‘ruota del Dharma’ – è assai significativo.
L’emblema di Aśoka è diventato l’emblema dell’India proprio perché il Dharma, nel senso che lo
adopera Aśoka nelle sue iscrizioni, lungi da indicare qualche affiliazione religiosa in particolare,
indica piuttosto l’essenza comune a tutte le religioni.

Il suo servizio alla religione


Aśoka è diventato eroe delle leggende e cronache buddhiste non tanto per la sua singolare
interpretazione del Dharma quanto per i suoi sforzi compiuti a favore della difesa e diffusione della
religione buddhista o il dharma buddhista. Gli editti indicano chiaramente ai suoi interventi negli
affari della religione. Quello di Bhabru, che è specificatamente indirizzato ai buddhisti, raccomanda
ai monaci e alle monache come anche ai laici e alle laiche la frequente lettura e la meditazione su
un assortimento di testi buddhisti ritenuti particolarmente significativi dal punto di vista del
Dharma;1 quello di Sarnath, rivolto esclusivamente al Sangha, minaccia punizione contro i monaci
e le monache che cercano di fomentare divisioni e fratture nel Sangha buddhista, e prevede la loro
riduzione allo stato laico. Lo stesso edito ordina poi la sorveglianza delle celebrazioni uposatha dei
sangha locali da parte degli “ufficiali del Dharma”, che ricorderanno ai monaci le conseguenze
annunciate dall’editto per coloro che seminano discordia nel Sangha.2
Uno sguardo ai messaggi e ai possibili destinatari dei singoli editti dovrebbe aiutarci a
stabilire con una certa approssimazione la presenza del buddhismo nel regno di Aśoka. I luoghi in
cui si sono trovati editti contenenti riferimenti espliciti al buddhismo, dunque, si possono
considerare come luoghi dove esso si è affermato. Alcuni luoghi tradizionalmente identificati con
l’attività del Buddha come Sarnath e Kośambi e altri, che si trovano pur sempre nell’area coperta
dalla prima ondata missionaria buddhista, come Sanchi, Rupnath e Bhabru siano i luoghi dove sono
stati trovati tali editti, ci indica la limitata diffusione della religione fino ad un certo periodo della
carriera di Aśoka. E cioè, fino al suo attivo interessamento per le sorti della religione dopo la sua
cosiddetta conversione ad essa. Se la sua politica interna, improntata all’etica buddhista, procurava
già conversioni in massa al buddhismo in tutto il territorio sotto il suo controllo, Aśoka mise in
piedi ancora una politica estera destinata a favorire la diffusione sia della religione buddhista sia del
suo ideale del Dharma.
È nell’Editto su Roccia n. XIII che il re, dopo aver dichiarato che “la vittoria più grande è la
vittoria del Dharma (Dharma-vijaya)”, dà delle indicazioni sui suoi sforzi per la sua divulgazione
nei paesi oltre i propri confini. Si parla qui dell’invio di messaggeri, latori del messaggio del
Dharma, “nelle regioni lontane dove vive il re greco di nome Antiyoka [identificato con Antioco Il
Theos] e, più in là, Tulamaya [Tolemeo Il Philadelphos], Antekina [Antigono Gonata di
Macedonia], Maka [Maga di Cirene], Alikasundara [Alessandro d’Epiro], e giù, al sud, nelle
regioni di Chola e di Pandya [Tanjore e Madurai nel Tamil Nadu] fino a Tamraparni [nello Sri
Lanka].”3 Sebbene non abbiano lasciato tracce le attività missionarie nelle terre lontane come
l’Egitto, la Siria e la Grecia, quelle nelle terre più vicine furono certamente coronate da successo. È
un punto disputato dagli storici, fin dove al sud della penisola indiana si estendeva l’impero di

1
I testi nominati nell’editto rimangono comunque di difficile identificazione; lo è almeno in vista dei loro titoli, che
non trovano riscontri nei titoli dei testi del Canone. Il Vinaya-samutkarsha (‘l’esortazione all’osservanza del
Vinaya’); Arya-vasa (‘il vivere nobile’); Anagat-abhaya (‘il rifugio di colui che non ritorna’); Muni-gatha (‘il canto
degli asceti’); Mauneya-sutra (‘gli aforismi degli ascetici’); Upatishya-praśna (‘le questioni di Upatishya’): questi
sono i titoli dei testi buddisti che figurano nell’editto.
2
Cf. Editto su Colonna (Sarnath), Aśokan Inscriptions, pp.147-148.
3
Aśokan Inscriptions, p.72.
Aśoka. Mentre si ritiene, in base ai ritrovamenti degli editti, che l’attuale stato federale del
Karnataka faceva parte dell’impero, si pensa che lo stato del Tamilnadu, o gran parte di esso, non
ne faceva parte, un fatto che sarebbe dimostrato anche dalla menzione di Chola e di Pandya assieme
agli altri paesi esteri nel summenzionato editto. Tuttavia, ci sono sicuri indizi sulla presenza dei
buddhisti nello stato del Tamil Nadu, una presenza risalente più o meno al periodo di Aśoka. Si sa
che il viaggiatore cinese Huan Xang, che visitò lo stato nel 640 d.C., osservò nella città di
Kancipuram, tra le altre cose buddhiste, uno stupa, il quale secondo la tradizione locale fu costruita
da Aśoka, per commemorare una leggendaria visita al luogo del Buddha durante la sua vita. 4
Emerge da un’iscrizione (Editto su Roccia, n. II) anche che Aśoka mantenne amichevoli rapporti
con il “Keralaputra” (l’attuale Kerala), dove fece costruire ospedali per gli uomini e animali:
un’indicazione chiara sul successo missionario buddhista in una regione fuori dei confini
dell’impero.5
È noto che, tra le varie missioni estere lanciate da Aśoka, il successo più grande e duraturo
fu quello ottenuto dalla missione cingalese. Lo Sri Lanka è un paese che rivendica un rapporto
speciale con il buddhismo, attribuendosi un certo status di terra santa buddhista. Il mito originario
della fondazione della nazione cingalese vuole che la sua fondazione sia avvenuta nello stesso
giorno del parinivana del Buddha nel 543 a.C., con l’arrivo nell’isola del principe indiano Vijaya,
che divenne poi il suo primo re. Le notizie sull’origine del buddhismo nello Sri Lanka sono
contenute nelle opere conosciute come il Dìpavamśa (“il lignaggio dell’isola”) e il Mahavamśa (“il
grande lignaggio”), del quarto e quinto secolo d.C. rispettivamente, contenti comunque dei
materiali anche più antichi. Secondo il Mahavamśa – che sostanzialmente rimaneggia i materiali
contenuti nel Dìpavamśa apportandovi delle aggiunte – il buddhismo fu introdotto nell’isola dai
missionari mandati da Aśoka in seguito al Concilio buddhista tenuto a Pataliputra intorno all’anno
250 a.C. Il testo offre alcuni dettagli sull’evento: la missione era capeggiato dal figlio di Aśoka,
Mahindra; il suo gruppo constava di quattro monaci, un novizio e un fedele laico; arrivarono nello
Sri Lanka durante il regno di Tissa. Avendo incontrato il re casualmente nella foresta di Mihintale
durante una battuta di caccia a cui si era dato, Mahindra gli predicò la dottrina buddhista,
procurando così la sua istantanea conversione. Il testo riferisce anche l’arrivo nell’isola, più tardi,
di Sanghamitra, la figlia di Aśoka, con lo scopo di fondare il ramo femmine del Sangha (bhikkuni-
sangha). Si dice che il re mandò per mezzo suo un ramo dell’albero di bodhi, sotto il quale il
Buddha ottenne illuminazione, e che ella lo piantò nel giardino di Mahamegha ad Anuradhapura, la
capitale di Tissa.6 L’albero di bodhi esistente oggi a Anuradhapura sarebbe quello stesso mandato
da Aśoka, che assieme alla sacra reliquia del dente del Buddha, giunta nel paese già in questo
periodo iniziale della missione, e conservata oggi a Kandy, costituisce il fulcro della venerazione
popolare dei buddhisti cingalesi.
È il Mahavamśa a fornire notizie anche su molte altre iniziative missionarie di Aśoka,
dentro e fuori del suo regno. Così si parla della missione di Kashmir e Gandhara affidata a
Majjantika, di Mahishamandala (Mysore) a Mahadeva, di Yonaloka (gli insediamenti greci nel
nordovest dell’India) a Maharakkhita, di Himavanta (le regioni himalayane) a Majjhima, di
Suvarnabhumi (la Birmania) a Sona e Uttara ecc.7 Il servizio reso da Aśoka alla diffusione del
buddhismo si misura anche dal fatto che saranno le successive ondate missionarie partite da questi
stessi luoghi – o più modestamente, i contatti culturali o commerciali resi possibili da questi luoghi
– evangelizzati durante il suo regno che in fine guadagnerà quasi l’intero continente asiatico alla
causa buddhista. Particolarmente significativo, in questo senso, si rivela il ruolo che la presenza del
buddhismo nelle zone di Kashmir e Gandhara ebbe per la sua eventuale propagazione nell’Asia
settentrionale. L’affermasi del buddhismo in queste zone l’ha aiutato poi, percorrendo la via della
seta, ad arrivare nell’Asia centrale e in Cina. Sebbene vi fosse entrato già prima, il buddhismo
4
Cf. D.C. AHIR, Buddhism in South India, Sri Satguru Publications, Delhi 1992, pp.21-27.
5
Vedi, D.C. AHIR, Buddhism in South India, pp.97-99.
6
Cf. D.C. AHIR, Glimpses of Sri Lankan Buddhism, Sri Satguru Publications, Delhi 2000, pp.4-5.
7
D.C. AHIR, Buddhism in South India, p. 29.
cominciò a diffondersi in Cina a partire dal secondo secolo d.C., ottenendo una certa ufficialità nel
regno orientale di Ch’in nel 335. Da lì, il buddhismo raggiunse la Corea nella seconda metà del IV
secolo, e di seguito il Giappone, dove il buddhismo fu proclamato la religione di Stato nel 610.
Fu in vista di una maggiore divulgazione del buddhismo che Aśoka intraprese anche
un’altra opera molto celebrata dalla tradizione buddhista, e cioè la costruzione di 84.000 stupa8 in
varie zone dell’impero. Aśoka dunque avrebbe fatto aprire gli otto o più stupa iniziali eretti sopra i
resti mortali del Buddha e dei suoi discepoli più immediati, e avrebbe ridistribuito il loro contenuto
nelle nuove aree dell’impero dove si espandeva la religione. Quasi certamente il numero riportato
degli stupa è una esagerazione; dietro tale numero si cela probabilmente un’intenzione simbolica:
ottantaquattromila sarebbero il numero totale delle sezioni contenute nel Canone buddhista, o
anche, stando ad una concezione antica, il numero degli atomi che compongono il corpo umano.
Nel fissare il numero degli stupa a questa cifra, dunque, non è difficile scorgere un tentativo di
immedesimazione a modo simbolico tra il territorio governato da Aśoka da una parte e il corpo e le
dottrine del Buddha dall’altra. Ad ogni modo, è stata l’opera di costruzione degli stupa in ogni
angolo del suo impero da parte di Aśoka che rese possibile il diffondersi della venerazione di stupa
– una pratica religiosa inizialmente ristretta all’ambito laico ma poi entrata anche nell’ambito
monastico –. Nel periodo di Aśoka gli stupa divennero i più importanti oggetti di culto, oggetti
contenenti i sacri resti del Buddha che garantiva in qualche modo una sua reale presenza. O già in
questo periodo o poco più tardi, si cominciò anche la pratica di racchiudere lo stupa dentro una
costruzione rettangolare detta il caitya, dando in questo modo origine ai primi prototipi di templi
buddhisti dove il rito religioso praticato inizialmente fu solo la deambulazione in senso orario
(pradakshina) intorno allo stupa. Nel caitya, lo stupa si trovava alla fine di una lunga sala dove i
fedeli potevano riunirsi. Un corridoio esterno, delimitato da un colonnato, tracciava il percorso
della deambulazione rituale. Già, l’adesione di Aśoka al buddhismo favoriva la sua rapida
divulgazione tra il popolo. Così anche l’atto di erigere colonne commemorative nei luoghi
identificati con i principali eventi della vita del Buddha e la sua abitudine di recarvisi in visita
servirono a promuovere maggiormente la già esistente pratica buddhista del pellegrinaggio. Sembra
che Aśoka avesse un particolare fascino per il luogo dell’illuminazione del Buddha, Bodhgaya, che,
grazie all’attenzione di Aśoka divenne un centro buddhista di primaria importanza. Qui, di fronte
all’albero dell’illuminazione, Aśoka fece costruire un sedile di pietra scolpito, noto come il
vajrasana, per simboleggiare la presenza del Buddha. Il sedile, insieme alle balaustre di pietra che
fece scolpire, si conservano ancora.9
Secondo le fonti buddhiste la decisione di inviare i missionari in diverse regioni dell’India e
iin vari paesi stranieri era stata presa nel Concilio di Pataliputra, tenuto sotto gli auspici di Aśoka
all’incirca 250 a.C. La convocazione di questo concilio è giustamente vista come un’ulteriore prova
del suo ruolo attivo in veste di difensore della religione buddhista, in quanto il concilio era indetto
con il principale scopo di arginare la tendenza lassista di cui era pervasa il Sangha di quel periodo.
Benché alcune fonti indichino il sorgere delle diciotto scuole buddhiste, con le loro discordanti
interpretazioni delle parole del Buddha, quale motivo per la sua convocazione, 10 è molto più
8
Lo stupa è una costruzione tipicamente buddhista, contenete la reliquia del Buddha o di altri religiosi dall’antichità
buddhista. Fu Inizialmente un semplice tumulo di terra, a forma emisferica, innalzato sopra le reliquie; in seguito,
esso fu ricoperta da muratura in mattoni, e la sua dimensione andò sempre aumentandosi. Alla base è circondata da
una balaustra (vedika), con quattro portali (torana), come si può notare nello stupa di Sanchi, vicino a Bhopal, uno
dei pochi stupa dall’antichità che è rimasto fino ad oggi. La parte emisferica dello stupa è attraversato verticalmente
da un asse che si proietta fuori, in alto, ed è sormontato da ombrelli cerimoniali che simboleggiano la regalità. Lo
stupa con la sua forma semplice e astratta, si presta a diverse interpretazioni: rappresenta allo stesso tempo la
‘presenza’ (nelle reliquie) e l’‘assenza’ (nella morte) del Buddha; diventa, quindi, sia l’oggetto di venerazione,
prestata attraverso le offerte di fiori e dei doni, sia l’oggetto della meditazione sulla morte e sull’impermanenza di
tutto. Nei periodi successivi l’architettura dello stupa, sia in India che altri paesi dove il Buddhismo è stato
trasportato, ha conosciuto cambiamenti radicali. È significativo, comunque, anche nei Pagoda giapponesi si notano
essenziali simbolismi espressi dall’architettura degli stupa iniziali.
9
R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.105.
10
BU-STON, The History of Buddhism in India and Tibet, Vol. II, pp.96-97.
probabile che il motivo reale fu di tipo disciplinare. Secondo molti autori, la situazione disciplinare
del Sangha si era aggravata, paradossalmente, a motivo proprio del suo patrocinio regale, poiché
questo induceva molte persone ad abbracciare lo stato monastico anche senza forti motivazioni
religiose.
Anche se il Concilio di Pataliputra sia quello riconosciuto ufficialmente come il terzo
concilio buddhista, come abbiamo detto nel capitolo precedente, esistono tuttavia notizie sulla
convocazione di un altro concilio precedente (concilio mahasanghika), che alcune fonti
attribuiscono all’iniziativa di Aśoka o comunque al periodo della sua reggenza. Ma il concilio che
può essere attribuito senz’altro agli sforzi di Aśoka resta quello di Pataliputra del 250 a.C. circa.
(Secondo il Mahavamśa era avvenuto esattamente 17 anni dopo l’intronizzazione di Aśoka.) Era
presieduto da un monaco di nome Tissa Mogalliputta, sotto la richiesta di Aśoka. Intenzionato a
ripulire il Sangha di elementi lassisti, si dice che egli interrogò i monaci sulla dottrina professata da
ognuno di loro e, in seguito a quest’esame, espulse un gran numero dei monaci. Il concilio avrebbe
durato circa nove mesi, durante i quali vennero recitati di nuovo e codificati i discorsi ritenuti
autentici del Buddha. Uno degli ovvi frutti del concilio fu la composizione di un testo noto come
Kathavatthu, che venne inserito nell’Abhidhammapitaka: si tratta di un testo contenete le
confutazioni delle dottrine degli eretici, e la sua paternità è generalmente attribuita allo stesso Tissa
Mogalliputta. Con la stesura di questo libro, si pensa che la composizione del Canone pali fu – se
non definitivamente, almeno sostanzialmente – portata a termine. Il concilio fu l’occasione inoltre
di una nuova spaccatura del Sangha: sorsero due fazioni note sotto le designazioni di
Vibhajyavadin (‘i distinzionisti’) e Sarvastivadin (‘coloro che si tengono alla dottrina di ‘tutto
esiste’’). Erano stati solo i primi tra i due ad essere incaricati da Aśoka della missione in altri
luoghi, mentre i secondi, censurati dal concilio, sono emigrati a ovest e a nord, stabilendosi in
Kashmir e in altri centri come Mathura e il Gandhara. 11 Tuttavia, sono stati i Sarvastivadin – i quali
prosperarono nelle regioni nord-ovest per circa mille anni – a contribuire effettivamente
all’espansione del buddhismo nell’Asia centrale e nella Cina.

Il progresso del Buddhismo dopo Aśoka


A quanto pare, Aśoka non promulgò nessun editto durante gli ultimi dieci anni del suo
regno, un fatto che fa a pensare alcuni storici che già verso la fine della sua vita il vasto impero di
Aśoka cominciava a cadere a pezzi. Non si sa con certezza se egli riuscì oppure no a conservare
intatto l’impero fino alla fine della sua vita; ma ciò che è certo è che la dinastia di Maurya non durò
oltre una cinquantina d’anni dalla morte di Aśoka, avvenuta nel 233 a.C. I successori di Aśoka non
avevano certo né la sua visione politica né il suo spirito buddhista; per di più, il loro dominio non si
estendeva effettivamente oltre la pianura gangetica, ossia i confini del vecchio regno del Magadha.
È la dinastia Shunga-Kanva (185-28 a.C) che succedette ai Maurya al potere in quello che
rimaneva del vecchio impero di Chandragupta e di Asoka. Secondo le fonti buddhiste, i buddhisti
avrebbero conosciuto persecuzioni sotto il regno della suddetta dinastia: si nomina in modo
particolare Pushyamitra Shunga come un acerrimo nemico del buddhismo. Ma le persecuzioni,
sebbene ci fossero, non dovevano comunque essere di eccessiva intensità, poiché anche in questo
periodo, per quanto sia possibile saperne da altre circostanze storiche, la religione buddhista
continuava a prosperare, o in ogni caso non ci sono forti segni del suo declino o di qualche
rallentamento nella sua diffusione. Degno di nota a questo riguardo è il fatto che alcune delle più
famose costruzioni buddhiste, quali lo stupa di Bharhut e di Sanchi e le grotte di Karle, furono
realizzate proprio nel periodo sotto esame.1 Evidentemente, ci fu anche un’ulteriore
popolarizzazione della religione buddhista accompagnata da una fenomenale moltiplicazione di
sette o scuole buddhiste, cui numero la tradizione mette a ben diciotto. Queste scuole si erano
formate per via di suddivisione di alcune scuole principali che esistevano da tempo, e le differenze
dottrinali tra una e un’altra scuola spesso si riducevano al minimo. Secondo una delle varie
11
Cf. R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, pp.81-82.
1
P.V. BAPAT (ed.), 2500 Years of Buddhism, Government of India Publications, Delhi 1956, p.54.
classificazioni che si può trovare nei testi buddhisti, la scuola Mahasanghika si era divisa in cinque
sottoscuole: Orientale, Occidentale, Himalayana, Lokottoravadin, Prajnaptivadin; la scuola
Sarvastivada in sette: Mulasarvastivadin, Kaśyapiya, Mahishasaka, Dharmaguptaka, Bahusrutiya,
Tamraśatiya, Vibhajyavada; la scuola degli Sthavira o Theravada in tre: Jetavaniya, Abhagirivasin,
Mahaviharavasin; e la scuola Sammitiya in tre: Kaurukullaka, Avantaka, Vatsiputriya. 2 Le loro
differenze dottrinali si basavano spesso su questioni sulla natura della liberazione finale e sullo
stato della personal liberata. Le scuole si divergevano nella loro risposta a questioni come: è la
persona liberata scevra da ogni contaminazione morale e karmica? È lo stato della liberazione
(nirvana) uno stato di esistenza o non-esistenza? Può esistere allo stesso tempo più di una persona
totalmente illuminata (samyak-sambuddha) nel mondo? Sono degni di venerazione i bodhisattva o i
futuri Buddha?3 Una questione più sentita era quella riguardante lo status dello Arhat, di cui
abbiamo parlato altrove.
Qualche tempo dopo la morte di Aśoka, nella parte nord-occidentale del suo ormai
disintegrante impero – nell’attuale Pakistan e Afghanistan – si era formato il regno di Menandro
(Milinda, in pali), un greco proveniente dalla regione della Battriana, che da comandante militare di
Demetrius aveva invaso il Gandhara, Sind e Punjab, con Sagala (Silakot) come la sua capitale.
Menandro è famoso nel ruolo dell’interlocutore del monaco buddhista Nagasena nell’opera
Milinda-panho (‘le questioni di Milinda’), che è senz’altro una delle più significative opere non-
canoniche del buddhismo. L’opera presenta una serie di domande – trecentoquattro, per essere
precisi – rivolte da Menandro a Nagasena con l’intento di conoscere meglio le dottrine professate
da quest’ultimo. Secondo le fonti buddhiste, il re Menandro si convertì al buddhismo, fece costruire
un grande monastero – Milinda Vihara – a Sialkot per l’alloggio di Nagasena e si suoi compagni,
fece sostanziali doni al Sangha in tutto il suo territorio e aiutò la propagazione del buddhismo. 4
Dopo Menandro, la summenzionata regione passò sotto il controllo di Saka (I a.C. – I d.C) e i
Kushana (Yüeh-chih, I d.C. – metà III d.C.), anche questi originari della Battriana e Partia. La
diffusione del buddhismo nell’Asia centrale, come si può notare, è stata non poco facilitata dalla
presenza di questi regni, i cui sovrani continuavano a mantenere legami culturali e commerciali con
gli ambienti della loro origine. Le figure e le iscrizioni sulle monete in uso in questo periodo
rivelano la loro fede buddhista. Kanishka, che regnò tra il 78 e il 101 d.C., fu il più potente tra i
sovrani kushani (il suo dominio si estendeva su quasi tutta l’India nord e centrale), e anche il più
attivo tra loro nel promuovere la religione. Infatti, la seconda grande espansione del buddhismo
avvenne nel periodo di questo monarca, un periodo che, si potrebbe aggiungere, era caratterizzato
da un crescente influsso brahmanico sul buddhismo. Ciò è possibile notare sia dalle opere di
Aśvaghosha e Vasumitra che sono vissuti in questo periodo sia dall’introduzione del sanscrito nei
circoli intellettuali buddhisti.
Per quanto riguarda il servizio reso alla religione, il re Kanishka è accreditato di aver
convocato un concilio buddhista, il quarto e l’ultimo di quelli celebrati nei tempi passati, prima
della loro ripresa nei tempi più recenti. Tenutosi in Kashmir, il concilio fu piuttosto una faccenda
quasi esclusivamente dei Sarvastivadin che costituivano ormai la fazione buddhista dominante
nell’area nord-occidentale del paese. Si ritiene che il concilio autorizzò la traduzione del Canone
nella lingua sanscrita, e produsse un’immensa mole di commentari in sanscrito sui testi canonici.
Kanishka è accreditato anche di aver costruito molti stupa e monasteri, come fece Aśoka al suo
tempo. Il pellegrino cinese Hsüan-tsang osservò ancora nel 630 il grande stupa costruito da
Kanishka nella sua capitale Purushapura (Peshawar), che secondo la sua testimonianza raggiungeva
un’altezza di circa 130 metri.5 I ruderi di Shah-ji-ki-dheri, nella vicinanza di Peshwar, sono ciò che

2
BU-STON, The History of Buddhism in India and Tibet, Vol. II, pp. 98-99.
3
L.O. GOMEZ, Buddhism in India, in J.M. KITAGAWA (ed.), The Religious Traditions of Asia: Religion, History and
Culture, RoutledgeCurzon, London and New York 2002, p. 57.
4
D.C. AHIR, Buddhism in North India and Pakistan, Sri Satguru Publications, Delhi 1998, p. 24.
5
D.C. AHIR, Buddhism in North India and Pakistan, p.29.
restano oggi di questo monumento innalzato al Buddha da uno dei suoi devoti più potenti del
passato.
Il periodo kushano ha prodotto una rivoluzione nell’arte indiana, specie nell’arte buddhista.
Le scuole d’arte buddhista di Gandhara e Mathura al nord e di Andhra al sud, in un significativo
cambio di direzione rispetto all’arte tradizionale che semplicemente indicava la presenza del
Buddha con dei simboli, produssero le prime rappresentazioni iconiche del Buddha. Notiamo anche
che è stato il popolo di uno dei regni kushani a scolpire le gigantesche statue di Buddha a Bamiyan,
nel cuore delle montagne di Hindu Kush. Situato ad un punto strategico sulla cosiddetta rotta della
seta, Bamiyan rappresentava un importante punto d’incontro tra le diverse idee, culture e arti
provenienti dall’Asia centrale, India, Persia e Grecia. Fino a pochi anni fa, fino a che il governo
talebano dell’Afghanistan non le rasò al suolo, un visitatore al Bamiyan avrebbe potuto ammirare le
due imponenti statue di Buddha, una di 53 metri e l’altra di 38 metri, scavate nelle rosse scogliere
del luogo. Erano delle rappresentazioni rimarchevoli del Buddha; ad un tempo queste statue erano
dipinte di colori e adornate di risplendenti armamenti. Tutto intorno c’erano dei monasteri scavati
nella roccia, alcuni dei quali conservano ancora delle stupende pitture che rappresentano temi
buddhisti. Bamiyan era un centro di pellegrinaggio per i buddhisti nel periodo della fioritura
buddhista nell’Asia centrale, che sfortunatamente non rimase tale per lungo; circa tredici secoli fa il
buddhismo veniva spazzato via da qui con l’arrivo dell’islam.
CAPITOLO 3

ALCUNE SCUOLE BUDDHISTE E L’ORIGINE DEL ‘MAHAYANA’

L’apparire di diversi Abhidharma già in un periodo abbastanza antico della storia del
buddhismo testimonia a delle divisioni che si sono manifestate fin dal principio nella comunità
buddista, con la conseguente comparsa di scuole e correnti di pensiero che pretendevano di
rappresentare l’originaria visione buddhista o di supplementare le parti mancanti nelle dottrine
tradizionalmente tramandate, o anche di correggere le errate interpretazioni della dottrina offerte da
altre scuole. È giusto ritenere in questo senso che, più che le questioni di pratiche religiose, sono
state questioni dottrinali a dare adito alle prime divisioni nella comunità buddhista. Ciò non
dovrebbe stupire più di tanto, perché le religioni in India non sono mai state pure e semplici
questioni dell’ortoprassi, bensì dell’ortodossia, della corretta conoscenza della realtà; non
puramente questioni della salvezza dell’anima, bensì della ‘liberazione’ che si configura come il
superamento dell’ignoranza sul reale stato delle cose. Infatti, la filosofia in India non era mai
separata dalla religione; le religioni stesse erano allo stesso tempo sistemi filosofici. Il buddhismo
non costituisce un’eccezione a questo quadro generale. Come dice uno studioso giapponese del
buddismo, “nel buddhismo la religione e la filosofia sono come un albero il cui tronco si biforca
alla base. Entrambe nascono dalle stesse radici ed entrambe sono alimentate dalla stessa linfa. La
religione forma il tronco principale e la filosofia la sua diramazione, ma le due rimangono
intimamente connesse”.1
Infatti, contrariamente ad un’opinione molta diffusa, secondo la quale il buddhismo si
ridurrebbe in fondo ad una prassi etica o un cammino spirituale, il buddhismo non ha mai
rinunciato all’impegno filosofico di evidenziare le premesse su cui si edificano le sue concezioni
religiose. Basterebbe guardare al primo sutta del Digha-nikaya, al Brahmajala-sutta, per sapere
quanto importante considerasse il buddhismo originario già un chiarimento preliminare sulle sue
scelte filosofiche.2 Si può dire che, invece di tralasciare la filosofia, il buddhismo diede origine ad
un nuovo modo di fare la filosofia, con delle prospettive e problematiche nuove. Al buddhismo,
però, è mancata un’autorità generale costituita che approvasse o condannasse le posizioni dottrinali
assunte da varie scuole. I concili stessi, quando non erano già un affare esclusivo di una o l’altra
scuola, diventavano spesso fonte di divisione del Sangha in nuove scuole e sette. Il buddhismo
fiorì, infatti, fin dai primi secoli della sua storia con un proliferarsi di sette e scuole che erano
altrettanti sistemi di pensiero filosofico. Una di queste scuole che meritano l’attenzione – sia per la
sua antichità che per l’importanza delle sue dottrine – è il Sarvastivada, l’origine del quale, come
abbiamo visto, la tradizione la colloca nel periodo del terzo concilio buddhista, attorno al 250 a.C.

Sarvastivada
Dello Staviravada (pali: Theravada) indiano, la scuola dal quale si era distaccato il
Sarvastivada, si conosce poco con precisione. Diverse scuole, inclusa quella Theravada dello Sri
Lanka, hanno preteso di discenderne. Ma sembra che gli Staviravadin che erano coinvolti nelle
dispute con i Sarvastivadin si autodefinissero come i Vibhajyavadin (‘i distinzionisti’), per il fatto
1
T. YOSHINORI, Il cuore del Buddhismo. Alla ricerca di valori originari e perenni del Buddhismo, EMI, Bologna
1999, p.33.
2
Questo sutta passa in rassegna sessantadue punti di vista circa il mondo e l’anima sostenuti da varie scuole
filosofiche, criticandoli. Il buddhismo stesso adotta un metodo differente alla speculazione razionale basata su
presupposti infondati di altre scuole: un ritorno alla realtà delle cose attraverso una loro presa di coscienza critico-
empirica, che si assomiglia da vicino al metodo fenomenologico. Per una discussione approfondita sullo status della
filosofia buddhista come fenomenologia, vedi D. LUSTHAUS, Buddhist Phenomenology: A Philosophical
Investigation of Yogacara Buddhism and the Ch’eng Wei-shih lun, RoutlegeCurzon, New York 2002.
che facevano un ‘distinguo’ su un punto cruciale, riguardante la reale esistenza dei karma passati.
Ammettevano l’esistenza di karma passati, o meglio di dharma passati che veicolano i karma, fino
alla loro fruizione definitiva nel tempo. Dunque si faceva una distinzione tra i dharma o i karma
passati: quelli che hanno già prodotto i loro frutti karmici, e quindi non esistono più, e quelli che
non hanno ancora prodotto i loro frutti, che quindi devono essere considerati in qualche modo
esistenti. I Vibhajyavadin ritenevano anche che esistesse una specie di coscienza inattiva, detta il
bhavanga (‘anello dell’esistenza’) che, oltre a servire come il recipiente di impressioni karmiche,
servisse anche da anello di congiungimento tra un’esistenza all’altra nel processo di reincarnazione.
Le stesse posizioni di Vibhajayavadin su questi argomenti, però, si capiscono in fondo solo in
contrasto con quelle ritenute dai Sarvastivadin.
Accanto al Pudgalavada, Theravada e altri, il Sarvastivada è una delle molte scuole
appartenenti al cosiddetto ‘Hinayana’ (‘il veicolo inferiore’, un’etichetta applicata dal Mahayana a
tutte quelle scuole che non condividevano le sue idee), con una caratteristica teoria della realtà da
cui prende il suo nome. ‘Sarvastivada’ vuol dire la ‘teoria (vada) secondo la quale tutto (sarva)
esiste (asti)’. Il ‘tutto’ si riferisce, nella prospettiva di questa scuola, agli ultimissimi componenti
della realtà (i dharma), e ‘l’esistenza’ indica la loro attualità nelle tre modalità di tempo, il passato,
il presente e il futuro. La teoria stessa, che ha forti implicazioni soprattutto per la concezione del
karma, afferma che i dharma esistono tanto nel passato quanto nel presente e nel futuro, sebbene in
maniere diverse. Aveva lo scopo di risolvere un problema sorto dalle analisi abhidharmiche e che si
è acuito nell’interpretazione che ne davano i fautori di un certo kshanika-vada (‘la teoria
dell'istantaneità’), secondo la quale i dharma erano semplici micro-eventi evanescenti, che si
combinavano l’un altro come momentanee costellazioni, duravano un istante, e lasciavano posto ad
altre costellazioni. Il problema era questo: se è così, come funziona allora il karma? Come può
l’effetto delle azioni/intenzioni del presente perdurare nel futuro, o come possono influire sul
presente le azioni/intenzioni avute in un passato lontano?3 Si aggiungevano anche altre domande:
come può un evento passato fungere da oggetto di conoscenza, come nel caso della memoria? come
possono le aspettative future, ad esempio la speranza della liberazione, diventare forze che
motivano le azioni del presente? La soluzione dei Sarvastivadin era ovviamente quella di supporre
l’esistenza dei dharma in tutte le tre modalità del tempo. Qualcosa che non esiste non può produrre
un effetto, né può fungere da motivazione, né può costituire l’oggetto di conoscenza.
Anche se l’esistenza dei dharma nelle tre dimensioni del tempo proposta dai Sarvastivadin
veniva accusata da altre scuole dell’‘eternalismo’, e quindi di andare contro l’insegnamento
fondamentale del Buddha sull’anicca (impermanenza delle cose), i Sarvastivadin facevano delle
distinzioni importanti. L’esistenza dei dharma nelle tre modalità del tempo non è vista come
equivalente. Invocando il concetto del svabhava (caratteristica propria) distintiva di ogni dharma,
assimilabile più o meno al concetto dell’essenza, i Sarvastivadin replicavano alle accuse dicendo
che i dharma passati e futuri esistono soltanto secondo le caratteristiche proprie (sasvabhava-
matra), e ciò è come dharma passati o futuri. I dharma presenti stessi sono impermanenti, ma aventi
la caratteristica propria di essere presenti. Erano queste caratteristiche proprie dei dharma che in
fondo permettevano di conoscerli e di parlarne, e che li rendevano possibili oggetti del linguaggio e
della conoscenza. I dharma appartenenti alle tre dimensioni del tempo si distinguono, per i
Sarvastivadin, anche in ordine alle proprie attività. Un dharma è proprio quel dharma perché fa ciò
che fa. Come spiega Paul Williams:
Un dharma presente fa appunto ciò che il dharma fa. Il non fare ancora ciò che un dharma
appunto fa (il non svolgere ancora la sua attività) è ciò che lo rende un dharma futuro. Fare
invece ciò che quel dharma fa in presenza delle appropriate cause e condizioni lo rende un
dharma presente; e cessare di fare ciò che fa quando le cause e condizioni non sussistono
più lo rende un dharma passato. Questo “fare ciò che fa” è momentaneo, istantaneo. Quindi
ogni dharma presente è momentaneo.4
3
Si nota che per il buddhismo il karma consiste proprio nell’intenzione, e non nell’azione stessa.
4
P. WILLIAMS, Il buddhismo dell’India, p.112.
Questa spiegazione comunque – tranne forse a dimostrare come i fatti del passato e futuro
possono diventare oggetti della conoscenza e del linguaggio – non risponde adeguatamente alla
questione della continuità psico-fisica della persona (a motivo dell’istantaneità di dharma presenti)
o dell’efficacia causale del passato sul presente, presupposta per il funzionamento del karma. In
altre parole, anche se i dharma passati esistono, ed è possibile conoscerli e di parlarne, come è che
possono essere riconosciuti come ‘miei’, o come fattori che esercitano il loro influsso sul mio
presente? Per questo i Sarvastivadin posteriori hanno dovuto supporre che i dharma presenti
condizionano quelli successivi in modo tale da creare una sequenza causale. Inoltre, hanno dovuto
supporre l’esistenza di uno speciale tipo di dharma chiamato ‘possesso’ (prapti). Il prapti è un
dharma che accompagna gli altri dharma presenti, fungendo in qualche modo come il registro
karmico delle azioni/intenzioni. Pur essendo un dharma momentaneo come gli altri, il prapti
tuttavia dà origine ad una serie di prapti momentanei, creando in tal modo un flusso, in cui si
conservano le intenzioni karmiche originarie. Quando poi le condizioni saranno appropriate, in
quest’esistenza o in un’altra, le intenzioni karmiche portate avanti in questo modo produrranno i
loro risultati.
Un altro punto dall’analisi abhidharmica dei Sarvastivadin che vale la pena di essere
menzionato riguarda la loro distinzione tra gli ‘esistenti primari’ (dravyasat) e gli ‘esistenti
secondari’ o ‘concettuali’ (prjanaptisat). Come per tutte le altre scuole abhidharmiche, anche per i
Sarvastivadin la realtà ultima la possedevano solo i dharma. Questi erano dunque gli ‘esistenti
primari’, che secondo i Sarvastivadin ammontavano a settantacinque. Ma pure gli enti delle
esperienze quotidiane, gli aggregati dei dharma che appaiono come un libro, una sedia, un tavolo
ecc., hanno una certa realtà. La designazione sarvastivada per tali entità è significativamente
‘esistenti concettuali’. Non è che questi enti non esistano, ma che la loro esistenza è il risultato di
un processo mentale di reificazione, che trasforma una pluralità di elementi in un’unità concettuale.
Esistono in quanto rappresentano un modo conveniente e pratico di concepire e nominare una
collezione dei dharma impermanenti. Hanno una realtà pratica, non ontologica. All’analisi, la realtà
ontologica la posseggono solo i dharma; solo questi si mostrano di avere una ‘natura propria’ (sva-
bhava). Gli esistenti secondari, invece, essendo realtà concettuali, sono ‘privi di natura propria’
(nishsvabhava). Essi sono quindi vuoti (śunya) di natura propria, e ‘vacuità’ è un altro modo di
esprimere la mancanza di natura propria.5 Ma il punto da notare sarebbe che per i Sarvastivadin – a
differenza del Mahayana – non tutte le realtà erano vuote; c’erano appunto i dharma che risultavano
veramente reali all’analisi.
La tradizione abhidarmica dei Sarvastivadin è stata certamente quella più importante e
influente in India per un lungo periodo, e che ha maggiormente influenzato anche l’approccio
mahayana. I Sarvastivadin costituivano il gruppo dominante nelle nord-occidentali dell’India. La
loro presenza era marcata nel Kashmir e nella regione di Gandhara. Una forte presenza di
Sarvastivadin è stata segnalata anche nel Turkestan cinese. Infatti, il viaggiatore cinese Hsüan-tsang
osservò, ancora nel settimo secolo, molte fiorenti comunità di monaci Sarvastivadin in tutta l’India
del nord fino a Bengala all’est. I monaci erano soliti a portare una sopraveste di colore rosso scuro,
di ricevere il cibo elemosinato direttamente nella ciotola e di dormire in celle singole. 6 La scuola
Sarvastivada era in possesso di un canone completo, con un Vinaya e un lignaggio di ordinazione.
Ma sembra che non tutti coloro che erano ordinati nel lignaggio Sarvastivada aderivano per forza
alle posizioni dottrinali proprie della scuola. Anche membri di altre scuole, come quelli della scuola
Sautrantika, che non avevano un proprio Vinaya o un lignaggio di ordinazione ricevevano
l’ordinazione sarvastivada, pur conservando le proprie posizioni dottrinali. Ad ogni modo sembra
accertato che, oltre alla coabitazione dei membri di scuole diverse negli stessi cenobi, esistesse un
grande liberalismo riguardo alle scelte dottrinali dei singoli monaci buddhisti. Ricordiamo che il
quarto concilio buddhista, tenutosi a Kashmir, fu una vicenda quasi esclusivamente dei
Sarvastivadin. Si ritiene che il motivo per la convocazione del concilio fu le diverse interpretazioni
5
Cf. P.WILLIAMS, Il buddhismo dell’India, pp.92-93.
6
M. PIANTELLI, Il buddhismo indiano, pp.62-63.
di alcuni punti dell’Abhidharma. Era presieduto dal maestro Katyayaniputra, a cui è attribuito
un’opera fondamentale della scuola, lo Abhidharma-jnanaprasthana-śastra (‘Testo autorevole sui
capisaldi della conoscenza dell’Abhidharma’). Questo testo col tempo diede origine ad un famoso
commento, noto come Maha-vibhasha (‘Grande Commento’), attribuito a Vasumitra. E a partire
dalla compilazione di questo commento, i Sarvastivadin che condividevano le posizioni dottrinali
ivi esposte venivano chiamati i Vaibhashika, e cioè ‘quelli del commento’. Praticamente tutta la
scuola di Sarvastivada si atterrà alle posizioni dottrinali del ‘Grande Commento’, e quindi si
conoscerà d’ora in poi come la scuola Vaibhahika.

Sautrantika
In una data non molto precisa, i cosiddetti Sautrantika si staccarono dai Sarvastivadin. Il
loro nome deriva dal fatto che consideravano i Sutra (detto anche Sutranta, i discorsi del Buddha)
come l’unica fonte autorevole di principi dottrinali da ammettere. In pratica ciò voleva dire il
rifiuto delle elaborazioni dottrinali prodotte dall’Abhidharma. Collegata a questa presa di posizione
sautrantika era anche il loro rifiuto di riconoscere nell’Abhidharma la parola del Buddha. I trattati
dell’Abhidharma apparivano a loro intrisi di sofismi e ragionamenti fallaci atti a fuorviare il
praticante religioso. Pertanto l’opposizione all’analisi abhidharmica dei Sarvastivadin è la
caratteristica distintiva di questa scuola e ciò che definisce le sue stesse posizioni dottrinali. Sarebbe
da notare, però, che con la loro critica contribuivano indirettamente ad un affinamento del pensiero
abhidharmico
I Sautrantika prendevano di mira in primo luogo l’esistenza reale dei dharma passati e
futuri, proposta dai Sarvastivadin. Se fosse affatto così, tutte le cose esisterebbero per sempre; e
non avverrebbe mai la ‘cessazione’ (della brama ecc.) che il Buddha aveva indicato non solo come
una condizione possibile, ma anzi come la condizione necessaria per il Nirvana. Esiste in realtà,
dunque, solo il dharma presente; i dharma passati sono esistiti; e se e quando si verificheranno le
condizioni appropriate, i dharma futuri esisteranno. I Sautrantika, comunque, prese dalla
speculazione sarvastivada la nozione dell’attività caratteristica di un dharma, e cioè di ‘fare ciò che
fa’. Ma le diedero un’interpretazione diversa: il ‘fare ciò che fa’ non è qualcosa aggiuntiva
all’esistenza di un dharma, ma identica alla sua esistenza. Essere in effetti è agire; esistere equivale
ad esercitare un’attività; non si può dissociare l’esistenza dall’azione. Dunque il non fare ciò che
altrimenti fa (nella modalità presente) non è indicativo dell’agire proprio di un dharma esistente nel
passato o nel futuro, ma indicativo della sua non-esistenza.
Poiché esistere vuol dire agire nel presente, i dharma si rivelano come realtà istantanee
(kshanika). Un istante o un dharma istantaneo non permette ulteriori suddivisioni; un dharma
istantaneo occupa una frazione del tempo infinitamente così breve che l’evanescenza piuttosto che
la durata sembra la designazione propria dell’azione di un dharma esistente. Infatti, secondo i
Sautrantika, essere, in somma, è scomparire o cessare. La ‘cessazione’ (che è la caratterizzazione
buddhista del Nirvana) è la vera natura delle cose, e un dharma vi va incontro proprio in virtù della
sua esistenza. In altre parole, l’esistenza temporale di un dharma è tanto effimera che non è neppure
più possibile parlarne in termini d’esistenza.7 Infatti, ciò che noi normalmente consideriamo come
esistenti non sono quelli che veramente esistono; e ciò che realmente esistono non li sperimentiamo
come esistenti. L’epistemologia di queste posizioni sautrantika verrà chiarita da pensatori che
verranno più tardi, da Dignaga (c. 450 – 520 d.C.), in particolare. Nel suo Pramana-samuccaya
(‘compendio di principi logici’) quest’autore, che ha la reputazione di essere il fondatore della
logica buddhista medioevale, sostiene che solo il primissimo istante di un atto percettivo si riferisce
veramente al ‘reale’, tutti i momenti successivi di un atto percettivo essendo semplicemente una
costruzione soggettiva. Ora, il momento iniziale di una percezione, che coglie il reale, è detto
‘privo di costruzione’ (nirvikalapa), mentre i momenti successivi della percezione sono detti ‘con
costruzione’ (savikalpa), e questi implicano una un processo di falsificazione mediante reificazione

7
Cf. P. WILLIAMS, Il buddhismo dell’India, p.116.
linguistica e concettuale. Di conseguenza, in un atto percettivo che ha qualche durata, ciò che
percepiamo è qualcosa d’artificiale, una costruzione, una finzione; e nel momento stesso in cui la
cosa percepita è stata costruita, il dharma originario è scomparso da tempo. 8
Anche a proposito della questione del karma – il nodo cruciale e la pietra di paragone per
tutte le filosofie buddhiste – i Sautrantika divergevano dalle posizioni assunte dai Sarvastivadin.
Loro rifiutavano soprattutto il concetto di prapti (possesso) introdotto dai Sarvastivadin nell’intento
di offrire una spiegazione convincente dell’operazione dei karma passati. Secondo i Sautrantika non
esiste affatto questo particolare genere di dharma detto prapti. La fruizione attuale dei karma
passati si spiega, invece, in un altro modo: con l’ipotesi della modificazione del flusso psicologico
con ogni atto intenzionale karmicamente significativo. Si parla in questo senso di ‘semi’ che le
azioni lasciano nel flusso della personalità in modo da colorarla e condizionarla, fino al momento
della loro maturazione ossia la fruizione finale. Dunque, ogni azione intenzionale di significato
karmico modifica tutti i successivi momenti del continuum psicologico della persona che la compie.
Come un seme gettata in terra con l’avverarsi delle condizioni giuste si germoglia, cresce e quindi
produce il frutto, il karma di un’azione continua ad esistere in forma germinale nella mente fino a
che si produce il frutto finale. Per evitare una concezione troppo oggettivata di questo processo, che
l’uso dell’immagine del seme è atto di favorire, si usa anche il paragone del ‘profumo’. Il germe di
karma lasciato da un atto intenzionale nel flusso psicologico di una persona è come un nuovo
‘profumo’ che si è preso, e cioè i momenti successivi di questo flusso avrà una fragranza diversa. Si
può notare che l’idea Sautrantika sul karma si rivelerà seminale rispetto al suo sviluppo in altre
scuole, in modo particolare nella scuola Yogacara.

Il Mahayana
A differenza di quanto si pensava prima, sappiamo oggi che il Mahayana non è una ‘scuola’
buddhista nel senso stretto. Non esiste né un Vinaya (compendio di regole monastiche) né un
lignaggio di ordinazione propriamente mahayana, e il nome stesso di Mahayana è
significativamente assente dal tradizionale elenco delle scuole buddhiste antiche. Si potrebbe notare
che il Vinaya di cui maggiormente si serviranno i Mahayanisti in India nel periodo classico sarà
quello dei Mulasarvastivadin, allo stesso modo che il Vinaya più seguito nelle aree d’influsso cinese
quando il Mahayana si spanderà verso il nord, sarà quello dei Dharmaguptaka. Il Mahayana non
possiede un Abhidharma, come sarebbe normale nel caso di una scuola qualsiasi. Infatti, uno dei
principali obiettivi dei pensatori mahayanisti sarà quello di dimostrare la falsità delle dottrine
abhidharmiche sulla realtà. Storicamente, l’origine del Mahayana non è collegabile a nessuno
scisma (sangha-bheda), sebbene molti autori abbiano creduto di poterla collocare nella frattura
della comunità avvenuta nel secondo concilio, a motivo della sua posizione intransigente rispetto
all’osservanza regolare.
Oggi, gli storici della religione buddhista sono anche portati a smentire l’esistenza di una
severa conflittualità tra i Mahayanisti e i non-Mahayanisti che i precedenti studi davano per
scontato. Se la coesistenza negli stessi monasteri di monaci che si consideravano i Mahayanisti e
Hinayanisti già testimonia ad un rapporto assai rilassato tra i buddhisti di ogni persuasione
dottrinale, il mancato status di una scuola per il Mahayana rendeva virtualmente impossibile un suo
scontro aperto con le altre scuole. Se ci fosse affatto qualche antagonismo tra i Mahayanisti e gli
altri, ciò si limitava ad un livello di convinzioni religiose, e non si riversava comunque nella vita
pratica. Quanto al Mahayana, si nota inoltre che è difficile individuare di una compagine di dottrine
che si possa considerare come propriamente sua. Esso offre infatti una serie di insegnamenti
originari che si incontrano trasversalmente nelle varie scuole non Mahayana, insegnamenti che,
proprio per tale motivo, non sembrano tutti compatibili tra di loro. Il Mahayana dunque non appare
un’entità compatta o unita. Alcuni studi recenti hanno fatto rilevare anche che le poche prove
epigrafiche che riferiscono al Mahayana cominciano ad apparire molti secoli dopo la comparsa dei

8
Cf. P. WILLIAMS, Il buddhismo dell’India, p.117.
suoi testi sacri, un fatto che indica la mancanza di un’identità forte e precisa per il Mahayana
durante i primi secoli iniziali.9 Fa parte di questo quadro nuovo offerto dagli studi attuali sul
Mahayana anche il fatto che esso non costituiva in nessun momento della sua storia indiana la
forma più diffusa del buddhismo, e neppure una forma del buddhismo che fin dall’inizio avrebbe
privilegiato il laicato. Lungi da essere una forma lassista e laicale del buddhismo, come si
prospettava prima, il Mahayana probabilmente rappresentava all’inizio una tendenza verso
conservatorismo. Almeno questa è la conclusione alla quale è arrivato Harrison, secondo il quale:
“Una certa spinta ai primi sviluppi del Mahayana venne dai monaci dimoranti nella foresta. Lungi
dall’essere il prodotto di un movimento urbano, laico e devozionale, molti sutra mahayana rivelano
un radicale tentativo ascetico di ritornare all’ispirazione originaria del buddhismo: la ricerca della
buddhità, o conoscenza risvegliata.”10
Dal momento che il Mahayana non era una scuola dottrinale né una setta unita in sé, che
cosa era dunque il Mahayana? Era, a quanto sembra, un movimento eclettico che trovava aderenti
nelle diverse scuole antiche, riconosciute del Buddhismo.11 Era un’associazione libera dei
buddhisti che traversava vari altri raggruppamenti più vincolanti. Piuttosto che un movimento
organizzato o dottrinalmente ben delineato, il Mahayana era, almeno all’inizio, l’espressione di una
visione o un’aspirazione, una certa maniera di comprendere il buddhismo stesso e di viverlo. Dice
Paul Williams a proposito, e giustamente: “Il Mahayana non è un’identità istituzionalizzata. È
piuttosto una motivazione interiore e una visione, e questa visione poteva essere presente in
chiunque al di là della propria posizione istituzionale.”12 Quale elemento principale di questa
visione o aspirazione si potrebbe indicare la ‘buddhità’ (l’essenza del risveglio), che è presente in
tutto ed è raggiungibile a tutti. Collegato a ciò è l’elevazione della figura del bodhisattva quale
ideale spirituale, e questa in sostituzione all’ideale hinayana dello arhat, ritenuto un esempio di vita
troppo egocentrico.
La corrente o il movimento mahayana del Buddhismo sarebbe sorto in India, secondo
l’opinione più diffusa, all’inizio, o poco prima, dell’era cristiana, anche se alcuni testi da cui trae
ispirazioni si possono datare ad un periodo circa un secolo o un secolo e mezzo anteriore. È la
corrente del buddhismo che si diffonderà nell’Asia settentrionale, dando origine eventualmente alle
forme di buddhismo che vanno dal Vajrayana tibetano allo Zen giapponese. Come segnala il suo
nome stesso (Maha = grande + yana = via, veicolo: dunque ‘Grande veicolo’), essa rappresenta un
movimento universalistico, di prospettive salvifiche (il termine yana contiene un inevitabile
riferimento alla salvezza) ampliate, e per aggiunta un forte componente di religiosità popolare e
devozione verso alcuni nuovi testi religiosi e un certo numero di divinità tutelari. Almeno da
quando questo movimento comincerà a chiamarsi il ‘Mahayana’ (probabilmente da quarto secolo
d.C.) e assumerà una certa fisionomia definibile, questi elementi faranno parte della sua visione
religiosa. Di particolare importanza per la comprensione del Mahayana sono i testi religiosi che i
suoi aderenti hanno ritenuto come propri, o che in ogni caso si collegano intimamente con l’inizio e
lo sviluppo del movimento mahayana.
Il Mahayana ha fin dall’inizio difeso le sue nuove visioni e aspirazioni religiose, rispetto
alle idee tradizionali, facendo valere l’idea che il Buddha fece uso degli upaya (espedienti; mezzi
appropriati) nei suoi insegnamenti. Il Buddha sarebbe stato esperto nell’uso dei metodi didattici
(upaya-kaushlya): avrebbe adattato i suoi insegnamenti per ogni tipo di persona e di gruppo,
secondo le loro capacità recettive, sicché potessero tutti trarne vantaggio ugualmente. In fondo, il
Mahayana giudica l’insegnamento del Buddha prevalentemente in chiave terapeutica: non sarebbe
9
Cf. P. WILLIAMS, Il buddhismo dell’India, p.101-102.
10
P. HARRISON, “Searching for the origins of the Mahayana: What are we looking for?”, in Eastern Buddhist, XXVIII
(1995/1), p.65.
11
Il pellegrino cinese Iit-sing, che visitò l’India nel settimo secolo, elencò le quattro maggiori scuole del tempo
(Mahasanghika, Sthavira, Sarvastivada e Pudgalavadin) e notò che ciascuna scuola comprendeva sia gruppi hinayana
sia mahayana, che spesso vivevano nello stesso monastero. Cf. R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione
buddhista, p.108.
12
P. WILLIAMS, Il buddhismo dell’India, p.100. (Corsivo nell’originale.)
destinato, come tale, a fornire una descrizione o conoscenza della realtà, ma piuttosto ad effettuare
una correzione, una trasformazione della coscienza negli ascoltatori, così da rendergli capaci da se
stessi a vedere la realtà.
L’ultima istanza dell’autorità religiosa, in questa prospettiva, risiede nel bodhi che ognuno
può avere, e nell’assenza di ciò, nelle indicazioni e negli ammaestramenti che derivano da persone
che hanno avuto l’esperienza del bodhi. Ma in quanto il bodhi è lo stesso per tutti – il sorgere della
conoscenza vera –, gli insegnamenti dei maestri che si sono realizzati nella vita spirituale sono
come se fossero del Buddha stesso. L’importanza, all’apparenza esagerata, accordata ai maestri in
quasi tutte le ramificazioni del Mahayana, come lo Zen, ad esempio, riflette in fondo questa
convinzione. Si può annotare qui in questa connessione quanto il principio del ‘mezzo adatto’ abbia
anche servito nelle conquiste missionarie del buddhismo, specie quelle fatte dal Mahayana, poiché
esso permetteva non solo un reale adattamento degli insegnamenti buddhisti alle culture dei paesi
destinatari, ma anche l’eventuale inclusione nel buddhismo di una buona parte delle loro religiosità
inclusi i loro maestri spirituali e le figure divine. Tutto ciò che esisteva in precedenza poteva essere
integrato nella nuova religione purché servisse in qualche modo all’acquisto del bodhi. Per il
Mahayana dunque la rivelazione del Buddha in certo senso si continua nel mondo; il Buddha stesso
non è un personaggio morto, che non sia più accessibile agli uomini. Se il Buddha continua ad
esistere in qualche modo già nei resti mortali interrati negli stupa, a maggior ragione egli vive nel
mondo nello spirito dei suoi insegnamenti e nella comunità che ha fondato. Per di più, nella pratica
del ‘ricordo del Buddha’ (Buddhanusmriti) e nella meditazione è anche possibile ‘vederlo’ e di
entrare in comunicazione con il suo spirito. I testi del Mahayana sono basati sulla continuazione
dell’insegnamento del Buddha anche dopo la sua morte fisica.
Nonostante che il Mahayana consideri il bodhi quale unica fonte di autorità, e il bodhi stesso
come ciò che sarebbe accessibile a tutti, in pratica esso attribuisce l’autorità di tutti i suoi testi al
Buddha stesso. Esso rivendica, inoltre, la stessa antichità per i suoi testi, se non addirittura una
maggiore, rispetto a quelli in possesso degli Hinayana. Tuttavia, una lettura comparata rivelerebbe
che i testi mahayana in genere suppongono già l’esistenza di testi hinayana. Secondo il Mahayana,
però, il Buddha stesso, nell’impartire insegnamenti, aveva fatto una distinzione tra i suoi stessi
discepoli, riservando gli insegnamenti superiori solo ad alcuni discepoli scelti. Si parla in questo
senso di un “secondo giro della ruota [della dottrina]”, che a differenza del primo, avvenuto a
Sarnath, avvenne al ‘Picco dell’Avvoltoio’, a Rajagriha. Se coloro che assistettero al primo giro
della ruota erano dei discepoli non ancora risvegliati, e l’insegnamento si verteva attorno alle
quattro nobili verità, coloro che assistettero al secondo giro della ruota erano degli arhat e
bodhisattva, e l’insegnamento era incentrato sulla ‘vacuità’ (śunyata) e sulle sei virtù trascendentali
(paramita).13 Gli insegnamenti del Mahayana dunque fanno appello a questa seconda messa in moto
della dottrina, e agli insegnamenti superiori comunicati dal Buddha in quell’occasione. Si tratta
dunque di insegnamenti che il Buddha aveva tenuto nascosto dai discepoli ordinari perché sapeva
che non li avrebbero intesi. Anche se questa narrazione, come è facile intuire, è destinata solo a
dare legittimità alle scritture mahayana, apparse senz’altro posteriormente, il legame tra le scritture
mahayana e gli insegnamenti originari del Buddha presenta tuttavia un problema assai intricato. Da
una parte, non tutti i testi mahayana sono posteriori, o in ogni caso non di molto, rispetto ad alcuni
testi dello Hinayana; e d’altra parte i testi mahayana spesso rivelano una certa continuità con gli
insegnamenti che conosciamo come autenticamente del Buddha stesso. In altre parole, i testi
mahayana non sembrano tutti delle invenzioni posteriori che non abbiano niente a che far con gli
insegnamenti originari del Buddha, ma sembrano proprio di ricalcare alcuni temi contenutici,
sebbene in maniera germinale.14 Molti studiosi hanno pure cercato di individuare le idee germinali
contenute nelle antiche parti della scrittura, le quali poi hanno trovato ulteriore sviluppo nella
letteratura mahayana. In questo senso, non di rado appare perfino che alcune dottrine mahayana
siano in maggiore armonia con ciò che si possono considerare come gli insegnamenti originari del
13
T. RINPOCHE, The Development of Buddhism in India, Sri Satguru Publications, Delhi 2001, pp.16-18.
14
Cf. N. DUTT, Mahayana Buddhism, Motilal Banarsidass, Delhi 1978, pp.71-78.
Buddha, di quanto non siano le dottrine proposte da altre scuole che tuttavia vengono generalmente
ritenute più fedeli all’originario spirito del Buddhismo, come il Theravada, ad esempio. A questo
proposito, è risaputo che le linee dottrinali sviluppatesi nelle scritture mahayana hanno il loro
fondamento nelle intuizioni riscontrabili già nelle scritture pali; e, d’altra parte, non si può più
ritenere fondatamente che l’interpretazione theravada del buddhismo sia senz’altro più genuina di
quella offerta dal Mahayana. In questa connessione è anche interessante notare la consueta presa di
posizione mahayana nei riguardi dello Hinayana e dei suoi testi. Il Mahayana si considera
genuinamente solo come l’ampliamento dello Hinayana, e non la sua sostituzione. E quanto ai suoi
testi, non li giudica come semplicemente falsi, ma come incompleti, contenenti di dottrine
superficiali insegnate dal Buddha a quanti erano incapaci di comprendere le verità più profonde. 15
D’altra parte, va da sé che dal punto di vista hinayana, il Mahayana rappresenterebbe una visione
errata del buddhismo, e i suoi testi non sarebbero altro che delle creazioni apocrife.

Le scritture sacre mahayana: La letteratura mahayana contiene, generalmente parlando, due classi
di testi, una contenente di ‘sutra’, considerati gli insegnamenti immediati del Buddha, e l’altra
contenente di ‘śastra’, le elaborazioni scolastiche e filosofiche successive degli stessi insegnamenti.
Sia dell’una che dell’altra classe, il Mahayana offre una vasta collezione di testi, composti in un
arco di tempo che va dal secondo secolo a.C fino al 650 d.C. circa. Ci sono certo altri testi che
appartengono ad un periodo ancora più tardo, ma questi sono o testi composti durante il periodo
dello sviluppo di Mahayana nei paesi fuori dall’India o testi che appartengono più specificamente
alla scuola Vajrayana. La collezione più importante dei sutra e di śastra mahayana va sotto il nome
di letteratura ‘prajna-paramita’, tradotto più delle volte come ‘perfezione della saggezza’. Ma
sarebbe più appropriata la traduzione ‘saggezza che-va-oltre’, ‘saggezza trascendente’ o
‘conoscenza oltrepassante’ dato che ‘param-ita’ significa letteralmente ‘andato oltre’. Più di
qualsiasi specificità dottrinale, è proprio la sua vasta letteratura di sutra che costituisce la nota
distintiva del Mahayana. Composti nella prestigiosa lingua sanscrita, e ciò a differenza delle lingue
‘pracrite’ (lingue come pali, magadhi ecc., considerate ‘non raffinate’) usate dai tradizionali sutta, i
sutra mahayana, anche quelli di una certa antichità, si distinguono generalmente per la loro
maggiore estensione rispetto a quelli del Canone pali, nonché per le loro raffinatezze linguistico-
espressive. Poco importa se queste sono anche caratteristiche che rendono più problematica la loro
immediata attribuzione ai discorsi pronunciati dal Buddha, il che d’altronde è un punto
caparbiamente sostenuto dai Mahayanisti. Lo stile generale di questi sutra mahayana, scrivono
Robinson e Johnson,
costituisce una caratteristica distintiva del movimento. Tutto serviva a riaffermare il primato
dell’aspetto visionario, sciamanico, del buddhismo: gli scenari surreali, misurati in
dimensioni stupefacenti e pieni di apparizioni abbaglianti; il cast smisurato composti di
personaggi di primo piano; l’assoluta stravaganza del loro linguaggio. La realtà apparente
della percezione quotidiana è qui considerata una modalità parziale e limitata per esperire
un universo pieno di livelli polivalenti, così varie complessi che quanto sembra reale in uno
si dissolve nalla maya (illusione) di un altro. L’effetto è oscurare la linea di demarcazione
fra il reale e l’illusorio, facendo sembrare il linguaggio totalmente inadeguato alla
descrizione della verità.16
La composizione dei sutra mahayana si capisce oggi come l’opera di un gruppo, assai
ristretto, di predicatori buddhisti itineranti, piuttosto che del Sangha. Però era inevitabile che si
formasse una tradizione su un presunto sanghiti (concilio) mahayana, che al pari dei concili
hinayana, avrebbe offerto l’occasione per la recita dei testi mahayana. Bu-ston fa riferimento alle
sue varie versioni, secondo una delle quali la recita dei testi mahayana sarebbe avvenuta nella
montagna chiamata Vimalasvabhava, a sud di Rajagriha, nella presenza di un milione di

15
C. HUMPHREYS, Il buddhismo, Ubaldini Editore, Roma 1964, pp.50-51.
16
R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.109.
bodhisattva: Maitreya recitò il Vinaya, Vajrapani i Sutra, e Manjuśri l’Abhidharma.17 I sutra
mahayana hanno comunque avuto la fortuna di ottenere un’istantanea popolarità, e di venire accolti
con estremo interesse soprattutto nelle regioni nord-occidentale dell’India e nell’Asia centrale. I
sutra della collezione prajna-paramita qualche volta vengono nominati con il numero di versi
contenuti in ognuno di questi. Così, si parla di Ashta-sahasrika (Sutra di 8.000 versi), Ashta-daśa-
sahasrika (di 18.000 versi), Panca-vimśati-sahasrika (di 25.000 versi), Śata-sahasrika (di 100.000
versi). L’accrescente voluminosità di questi testi è indicativa di un processo di rielaborazione di
pochi insegnamenti basilari che ha durato alcuni secoli. Secondo Edward Conze, infatti, la
letteratura prajnaparamita avrebbe conosciuto due fasi distinte di sviluppo: la prima, di una
espansione, in cui i testi diventavano sempre più lunghi e la seconda, di una certa contrazione, in
cui i testi esponevano in maniera sintetica il contenuto dei testi più lunghi composti in precedenza. I
sutra prajnaparamita sono alquanto ripetitivi per quanto concerne i temi esposti. La ‘saggezza
trascendente’, la ‘vacuità’, ‘l’ideale del bodhisattva’: questi possono considerarsi come i temi su cui
vertono tutta la letteratura dei prajnaparamita-sutra. Oltre ai sutra menzionati sopra, un altro sutra
importante di questa letteratura si chiama il Vajraccedika (‘la taglierina del diamante’, detto anche
‘Sutra del diamante’); venne tradotto al cinese da Kumarajiva nel quinto secolo, e stampato nel 868
in Cina, il primo libro in assoluto ad essere stampato. L’Avatamsaka-sutra (la ‘Ghirlanda’) è un
enorme opera che raccoglie insieme un numero di testi indipendenti e alquanto eterogenei – perciò
il nome di ‘Ghirlanda’ –, dei quali due più noti sono il Daśabhumika-sutra (‘Sutra delle dieci
terre’) e Gandhavyuha-sutra (‘Sutra dell’emersione della protuberanza’ sul capo del Buddha). Il
primo ha per il suo tema centrale la descrizione dei dieci stadi del commino del bodhisattava,
mentre il secondo parla della presenza di Buddha per tutta l’estensione del cosmo, nei suoi
molteplici settori e livelli, come anche in ogni atomo dell’esistenza. Nel Vimalakirti-nirdesa-sutra,
il protagonista, Vimalakirti, è un buddhista laico; il sutra è significativo per la sua polemica contro
l’ideale dell’arhat: anche il peggiore peccatore, dice questo testo, ha ancora la possibilità di
diventare un buddha, mentre l’arhat è qualcuno che è condannato a rimanere in uno stadio inferiore
di realizzazione spirituale per tutta l’eternità; egli si trova infatti ad un punto morto di un nirvana
inferiore. La polemica contro lo Hinayana e i suoi ideali raggiunge il suo culmine nel Mahayana-
parinivrana-sutra (composto tra 200 e 400): oltre ad affermare di contenere gli ultimi insegnamenti
segreti del Buddha, questo sutra minaccia una severa punizione dopo la morte per chiunque diffami
gli insegnamenti del Mahayana.18
Tra i testi più celebri che espongono la visione Mahayana si annovera il Sutra del Loto. Il
loto è un fiore che si associa in modo particolare con le religioni indiane, ed è considerato il
simbolo privilegiato del buddhismo per la sua caratteristica di nascere sotto l’acqua e nel fango e di
aprirsi verso l’alto e al sole: indicante, in qualche modo, del passaggio dalla schiavitù
dell’ignoranza alla libertà della conoscenza trascendente. Pur restando sull’acqua, i petali del loto
non sono toccati dalle torbide acque (del divenire), e in tal senso diventa una metafora della
perfezione raggiungibile in questo mondo. È un testo, composto probabilmente intorno al 200
d.C.,19 che nell’originale, in sanscrito, porta il nome di Saddharma-pundarika (‘il loto/compendio
della buona legge’). Esso rivestirà una straordinaria importanza per tutto l’estremo oriente a partire
dal sesto secolo quando, dopo la sua traduzione in giapponese, il principe reggente del Giappone,
Shotoku, ne comporrà un commento. Il Sutra si compone di tre sermoni: quello degli ‘innumerevoli
significati’, della ‘vera legge’ e della ‘universale virtù dei Bodhisattva’. Il testo dà grande risalto al
concetto dell’upaya (mezzi adatti), asserendo che il Buddha fu estremamente abile nell’applicare i
mezzi appropriati (upaya kauśalya). Egli avrebbe insegnato in vari modi adattandosi alla capacità
dell’uditorio, tanto che gli insegnamenti qualche volta possono apparire tra loro contrastanti.
S’adopera una parola, diventata molto famosa, di una casa in fiamme per spiegare l’uso degli
17
Cf. BU-STON, The History of Buddhism in India and Tibet, Vol. II, pp. 101-102.
18
Cf. R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.110.
19
Poiché si sa che è stato tradotto in cinese verso la fine del III secolo, alcuni studiosi ritengono che l’originale possa
risalire ad un periodo tra il I secolo a.C e il I secolo d.C. Cf. P. WILLIAMS, Il buddhismo dell’India, p.158.
espedienti: un padre di famiglia per far uscire dalla casa, che cominciava ad incendiarsi, i bambini
che erano troppo presi dai loro giochi, escogitò uno stratagemma: disse loro che fuori casa li
attendevano molti giocattoli. Non era vero, ma era un modo efficace per richiamare l’attenzione dei
bambini e quindi per salvarli. La casa in fiamma è qui una metafora del samara, e i giocattoli
stanno per indicare le diverse yana. Secondo il testo, il Buddha inizialmente si trattenne
dall’insegnare la saggezza trascendentale e il segreto della buddhità accessibile a tutti, limitandosi
ad insegnare le Quattro Nobili Verità e indicare come meta il Nirvana dello arhat. Secondo il
Saddharma-pundarika c’è in fatti un solo yana (veicolo), il ‘Buddha-yana’, di cui il Mahayana è
l’espressione più perfetta che in qualche modo anche incorpora anche lo Hinayana. Il testo cerca
anche di correggere l’eccessivo antagonismo espresso nei confronti dell’ideale dell’arhat da
Vimalakiriti-nideśa: nella sua prospettiva gli arhat non sono irrimediabilmente condannati ad un
nirvana inferiore, anch’essi potranno ottenere il risveglio supremo, perfetto.
In modo particolare il testo si propone di insegnare la dottrina della ‘buddhità’, vista come
la realtà che pervade tutto l’universo. La “parabola della pianta” esprime l’idea che, nello stesso
modo in cui la pioggia irrora la terra indifferentemente e le piante l’assorbono secondo le proprie
capacità, la buddhità che impregna tutto ciò che esiste viene realizzata in misura diversa dagli esseri
seconda la loro capacità. Un albero differisce da un filo d’erba per la sua enorme capacità di
assorbire l’acqua della pioggia. La parabola dunque fa vedere la buddhità come qualcosa che esiste
già dentro ogni essere in maniera latente, alla quale si tratta solo di ‘svegliarsi’. Il Saddharma-
pundarika anche rivela l’esistenza di numerosi buddha e bodhisattva celesti, sebbene il Buddha
Śakyamuni sia il protagonista in questo sutra. Gli sono accreditati molti poteri prodigiosi, la
capacità di vedere tutto quello che succede nei vari ‘campi di buddha’ (settori del cosmo) e di
conoscere a fondo tutta le realtà (dharma) così come sono. Più che come un personaggio storico, il
Buddha di questo testo appare come un padre cosmico eterno, sempre presente.20 In realtà, egli
ricevette l’illuminazione eoni fa; e non è realmente morto. Continuando a esistere, egli aiuta gli
uomini in mille modi compassionevoli. La sua manifestazione stessa nel mondo – la sua ricerca di
illuminazione, l’ottenimento dell’illuminazione e la morte – è stata un espediente per dare vari
insegnamenti all’umanità. L’idea che il Buddha sia ancora presente nel mondo ha determinato
religiosità buddhista, soprattutto in quei luoghi dove il Sutra del loto ha avuto grande diffusione:
era dunque possibile entrare in contatto con il Buddha per mezzo di meditazioni, visioni, preghiere
rogatorie, devozioni e rituali. Alimentava anche l’idea che nella stessa maniera sarebbe stato
possibile entrare in comunicazione anche con tutti gli altri innumerevoli buddha, che si trovano nei
vari punti del cosmo.
Non meno importante per conoscere il punto di vista mahayana è anche il Sutra del Cuore,
di cui il titolo originale sanscrito, Prajna-paramita-hridaya (=il cuore della saggezza trascendente),
indica già il suo carattere sintetico e sinottico. Composto probabilmente attorno al quarto secolo
d.C., questo brevissimo sutra espone la fondamentale dottrina del ‘vuoto’ (śunya). Il ‘vuoto’, si
dice qui, è identico alla ‘forma’ (questa, intesa nel senso buddistico, cioè come rupa) e, in fondo, a
tutti i cinque aggregati dell’esistenza. “La forma è vacuità, e proprio la vacuità è forma; la vacuità
non differisce dalla forma, la forma non differisce dalla vacuità; qualsivoglia cosa sia forma, quella
è vacuità, qualsivoglia cosa sia vacuità, quella è forma. [Lo stesso vale per sensazioni, percezioni,
disposizioni e coscienza]”.21 Il sutra, in somma, indica che tutti i fenomeni in ultima analisi si
mostrano vuoti, e che in tal modo s’identifica con il ‘Vuoto’ stesso, inteso qui come la Realtà
ultima, oltrepassante ogni dualismo del pensiero e discriminazione logica, al cui cospetto non
esistono né forme, né sensazioni ecc. e neppure nascita o morte, conoscenza o ignoranza,
sofferenza, causa di sofferenza, cessazione di sofferenza o il sentiero che mena alla cessazione di
sofferenza, ossia le ‘quattro nobili verità’. È questo il sutra che propone il cosiddetto mantra del
prajna-paramita, divenuto famoso e popolare, che suona: Gate Gate Paragate Parasamgate Bodhi

20
Cf. R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.141.
21
E. CONZE (ed.), Scritture buddhiste, Ubaldini Editore, Roma 1973, p.144.
Svaha e, tradotto, significa: “Andato, Andato, Andato al di là, Andato completamente al di là, quale
Risveglio!”22

L’insegnamento sulla vacuità: Dal punto di vista dottrinale, le divergenze tra il Mahayana e lo
Hinayana, incluso il Theravada, si rivelano profonde e molteplici. La ‘saggezza trascendente’ – la
vera comprensione delle cose nella loro propria natura –, che può essere espresso solo in un
linguaggio molto ambiguo, paradossale e contraddittorio, nonostante una professata continuità con
la vecchia saggezza buddhista delle scuole Hinayna, è quella che in effetti radicalmente supera e
cancella la vecchia saggezza. La saggezza trascendete la si ottiene infatti solo in quanto si è
preparati a rinunciare alle vecchie saggezze: questa è un’impressione netta che si deriva dalle
letture dei testi prajnaparamita. Tutte le conoscenze acquisite, tutte le configurazioni razionali della
realtà, tutti gli schemi concettuali con cui si cerca di afferrare la realtà, sono fonti di attaccamento,
e come tali rappresentano un ostacolo sulla via della conoscenza trascendente, liberatoria. La
conoscenza trascendente è ciò che si lascia concepire in fondo come una ‘non-conoscenza’. Più che
con una conoscenza fatta di contenuti positivi, a cui si possa attaccare, la conoscenza trascendente
ha a che fare, dunque, con l’affrancamento della mente dalle trappole dei suoi ‘punti di vista’ e le
‘visioni speculative’. Ovviamente, i Mahayanisti pensavano che un invito ad un trascendimento del
pensiero finalizzato era stato rivolto dal Buddha nelle prime prediche dove egli criticava le visioni
speculative sulla realtà. In fondo, la saggezza trascendente si configura come l’apertura mentale, la
capacità di vedere oltre le dicotomie del pensiero oggettivo.
Un punto di divergenza tra il Mahayana e Hinayana in particolare – che prende spunto dalle
analisi abhidharmiche delle vecchie scuole – si mostra determinante per la comprensione di tutte le
altre differenze tra loro, e ciò si riferisce alla questione del ‘reale’. Il ‘reale’ per il Mahayana è solo
ciò che è provvisto di ‘propria esistenza’ (sva-bhava), ossia di realtà autonoma; e come tale indica
la ‘tathata’ (quiddità) di tutte le cose e anche la totalità assoluta che trascende tutto, il Dharma-
kaya. Non dipendente dalle cause e condizioni per il suo esserci, la sua realtà rimane incomposta
(asamskrita), non-plurale, non conoscibile in modo oggettivo, non esprimibile coi concetti,
indifferenziata nelle parole. Per lo Hinayana, al contrario, come abbiamo detto parlando del
Sarvastivada e Sautrantika, il ‘reale’ rappresenta gli ultimi componenti dell’esistenza (i dharma),
che stanno in mutua dipendenza tra di loro. Proprio perché i dharma si mostrano, in ultima analisi,
interdipendenti tra loro, sottoposti ai mutua causazione e condizionamenti, il Mahayana li considera
in fondo privi di sostanziale realtà, e cioè śunya (vuoti). I Mahayanisti notavano pure delle serie
incongruenze tra la prospettiva salvifica enunciata nelle Quattro Nobili Verità e la descrizione della
realtà offerta nelle analisi abhidharmici: se i dharma fossero proprio come li hanno descritto gli
Abhidharma il Nirvana stesso non sarebbe possibile. Dunque, perché si possa arrivare ad intuire la
vera e l’unica realtà assoluta, occorre – secondo il Mahayana – proprio un disconoscimento dei
dharma (dharma-nairatmya), il che in termini pratici vuol dire sperimentare la loro irrealtà o
vacuità. In effetti, mentre per lo Hinayana tutte le unità superiori alle mere e semplici elementi
dell’esistenza erano irreali, avendo queste solo realtà concettuali, per il Mahayana tutto il resto
eccetto la totalità trascendente ed assoluta era privo di realtà. La contrapposizione su questo punto
tra queste due fazioni del buddhismo è alquanto netta; essa si esprime nella rispettiva adesione ad
un radicale pluralismo dello Hinayana e ad un altrettanto radicale monismo del Mahayana.
Il śunya è la parola sanscrita per lo zero. Gli studiosi hanno additato ad un ruolo di primo
piano che ha avuto il pensiero mahayana sul śunya in ciò che è stata una lunga evoluzione,
cominciata nell’ambito della composizione della grammatica sanscrita ad opera di Panini, del
concetto matematico di zero e il suo impiego nella numerazione decimale. 23 Il particolare apporto
della speculazione mahayana in questo processo si collega con la sua radicale reinterpretazione
della teoria della ‘produzione condizionata’ (pratitya-samutpada). Diversamente dai pensatori
abhidharmici, per i quali i componenti della produzione condizionata come l’ignoranza, le
22
E. CONZE (ed.), Scritture buddhiste, p.145.
23
Cf. R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.112.
disposizioni innate, le sensazioni, il desiderio, la rinascita ecc. che fanno esistere il samsara (il
mondo della nostra esperienza) corrispondevano ai dharma sostanzialmente esistenti, il Mahayana
li considerava come fatti intrinsecamente vuoti, in ultima analisi inesistenti. Erano vuoti, eppure
funzionali in relazione al mondo dell’esperienza, proprio come gli zeri pur essendo vuoti
funzionano in relazione al resto del sistema decimale. Per il Mahayana, infatti, tutto il mondo
dell’esperienza è un sistema creato da fatti irreali, che tuttavia ottengono una certa realtà (la realtà
pratica o convenzionale) grazie ad una sorta di rete che si crea attraverso le loro correlazioni.
Riconoscere la relatività di questi fatti che danno origine al mondo dell’esperienza è riconoscerli
come vuoti. Ma riconoscere l’irrealtà del mondo è allo stesso tempo riconoscere la vera realtà
dietro l’illusione del mondo, che non è fuori del mondo né si comprende eccetto come la ‘vacuità’
(śunyata) stessa del mondo. Citiamo le parole di Robinson e Johnson a proposito della nuova
concezione inaugurata dal Mahayana rispetto alle vecchie scuole buddhiste:
Questo nuovo approccio considerava tutti i dharma come semplici verità convenzionali,
laddove la verità ultima era una: la vacuità in entrambe le sue modalità. Anziché
abbandonare il samsara considerandolo ancora essenzialmente reale, come raccomandavano
gli Abhidharmin, il Mahayana invitava a vedere il samsara come vuoto e a raggiungere la
liberazione proprio lì dove si era.24

Madhyamaka: Essendo un movimento suscitato da predicatori itineranti, il buddhismo mahayana


era sorto, a quanto pare, in tutta l’India quasi contemporaneamente. In ogni caso, è accertata una
significativa presenza di mahayanisti nelle regioni di Nagarjunakonda e Amaravati nel sud
dell’India dal periodo della formazione di Mahayana. Si conservano ancora oggi i resti degli stupa
e dei complessi monastici che un tempo esistettero in questi luoghi, e che si datano al III secolo
d.C.25 Dal punto di vista dello sviluppo del Mahayana, la sua presenza nel sud dell’India si mostrerà
importante perché è da qui che nasce una corrente del pensiero che eventualmente fornirà le basi
filosofiche necessarie per le sue dottrine, specie per la dottrina del śunyata. ‘Madhyamaka’ si
chiama questa corrente di pensiero che può essere considerata congeniale alle visioni mahayana, e il
suo fondatore è il famoso Nagarjuna. Come scrive un autore, “gli scritti di Nagarguna sono i primi
trattati filosofici (śastra) a nostra conoscenza, in cui si è cercato di offrire un’esposizione
sistematica, scolastica della teoria della vacuità (śunyata) e della non-sostanzialità (nish-
svabhavata) sia del sé (atman) e dell’individuo (pudgala) sia dei fattori dell’esistenza (dharma),
una delle nozioni più importanti dei sutra mahayana.”26
Nagarjuna è un personaggio i dettagli di cui vita non sono sufficientemente chiari. Ma
nonostante che certi autori abbiano messo in dubbio le notizie tradizionalmente tramandate sulla
sua vita e le sue attività,27 la vasta maggioranza degli studiosi tende a valorizzarle in modo critico, e
dunque di considerare Nagarjuna come una persona originaria di Nagarjunakonda, vissuta nel II
secolo d.C. Non si tratta di un pensatore importante solo per il Mahayana, ma lo è per tutti i
buddhisti di tutte le scuole attuali; anzi è una delle figure mondiali della filosofia. Karl Jaspers, uno
dei pochi filosofi occidentali ad interessarsi un po’ anche delle filosofie orientali, lo inserisce tra i
massimi metafisici originali di ogni tempo, accanto ad Eraclito, Parmenide, Plotino, Anselmo,
Spinoza e Lao-Tze.28 La scuola filosofica fondata da lui, e mantenuta poi da pensatori come
Aryadeva, Kumarajiva, Buddhapalita, Bhavaviveka, Chandrakirti ed altri, si nomina il
‘Madhayamaka’, e cioè ‘coloro che si tengono alla posizione mediana’. Questo nome contiene un
preciso riferimento al concetto di madhayama-pratipad (‘la via di mezzo’) degli insegnamenti del
24
R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.113.
25
Cf. S. DUTT, Buddhist Monks and Monasteries of India:Their History and their Contribution to Indian Culture,
Motilal Banarsidass, Delhi 1988, pp.126-137; D.C. AHIR, Buddhism in South India, p.45.
26
D.S. REUGG, The Literature of Madhyamaka School of Philosophy in India, Harrassowitz, Wiesbaden 1981, pp.5-6.
27
Cf. M. PIANTELLI,Il buddhismo indiano, pp.117-118. La storia del buddhismo di Bu-Ston contiene un racconto
leggendario della vita e opera di Nagarjuna: BU-STON, The History of Buddhism in India and Tibet, vol.II, pp. 122-
130.
28
K. JASPERS, Die grossen Philosophen (Erster Band), R. Piper &Co., Muenchen 1957.
Buddha, e vuole proiettare il pensiero sulla vacuità come una via di mezzo fra essere e non essere,
fra essenzialismo e nichilismo. Il ‘Śunyata-vada’ (‘la dottrina della vacuità’): questo era un altro
nome con cui si conosceva la scuola.
Il punto di partenza per le riflessioni di Nagarjuna era la constatazione che il Buddha
mantenne il silenzio di fronte ad alcune questioni che i filosofi del suo tempo avrebbero ritenute
fondamentali. Erano le questioni come: se il tathagata (il santo entrato nel nirvana) esiste, o non
esiste, o ‘esiste e non esiste’ allo stesso tempo, oppure ‘né esiste né non-esiste’; se il mondo fisico è
finito o infinito, o ‘finito e infinito’, oppure ‘né finito né infinito’; se l’anima è diversa dal corpo
oppure no ecc. A Nagarjuna fece riflettere sia il silenzio del Buddha sia la forma, detta il ‘quadri-
lemma’ fatta della formula ‘X’, ‘non X’, ‘X e non X’, ‘non X né non X’, in cui venivano poste le
domande. Più determinante ancora per l’impostazione del suo pensiero furono forse le parole del
Buddha, riportate nel Samyutta-nikaya, che dice: “Colui il quale con retta comprensione vede
secondo realtà il sorgere del mondo [dei fenomeni] non aderisce al nichilismo in riferimento al
mondo; colui il quale con retta comprensione vede secondo realtà il dissolversi del mondo non
aderisce al realismo in riferimento al mondo”. 29
Si attribuiscono molte opere a Nagarjuna, di cui molte ormai vengono considerate non
proprio sue. Tra le opere che sono state autenticate come le sue, quella fondamentale dal punto di
vista s’intitola il Madhyamaka-karika (le ‘Stanze del Madhyamaka). È composta di 449 strofe
divise in 27 capitoli, ognuno dei quali tratta un argomento centrale. Parte del titolo di ogni capitolo
è ‘pariksha’, che può essere tradotto come ‘esame’, ‘critica’, ‘analisi’, ‘decostruzione’. 30 In questi
capitoli l’autore prende in esame, dunque, argomenti come la ‘causa’, il ‘movimento’, i ‘sensi’, i
‘cinque aggregati’, l’‘azione-e-agente’, i ‘limiti del samsara’, il ‘sé’, il ‘tempo’, il ‘nirvana’ e così
via. Adoperando il metodo logico che si definisce prasanghika, l’opera compie un’analisi critica di
queste entità e dimostra le sconcertanti implicazioni sia delle loro affermazioni che delle loro
negazioni. Inoltre, postulando le varie possibilità logiche di concepirle, l’opera tende a dimostrare
le assurde conseguenze alle quali conducono. Ad esempio, le quattro possibilità di intendere la
‘causa’ sono o come identica all’effetto, o diversa dall’effetto, o parzialmente identica e diversa
rispetto all’effetto, o né identica né diversa rispetto all’effetto: e tutte queste portano all’impasse
logico. Di particolare interesse per il Madhyamaka-karika è lo smantellamento della tesi
abhidharmica sulla sostanziale realtà dei dharma, e dimostra che i dharma fossero esistenti ‘reali’,
il mondo della nostra esperienza costituita di causalità, movimenti, il tempo, le sensazioni ecc. non
potrebbe affatto funzionare così come invece funziona.
Nagarjuna afferma che il suo scopo non è di offrire una tesi alternativa a quelle offerte dagli
Abhidharma, ma semplicemente di far vedere le loro incoerenze, la completa inadeguatezza per
descrivere la realtà. In fondo, le categorie quali ‘identico’, ‘diverso’, ‘esistente’, ‘inesistente’,
‘cause’, ‘effetto’ ecc. non trovano riscontro in realtà; il mondo fenomenico ‘costruito’ secondo
queste categorie del pensiero non corrisponde alla realtà. Se la critica delle teorie abhidharmiche
sulla realtà serve, in senso più stretto, a dimostrare le loro inerenti contraddizioni, in senso più
ampio essa serve a disabituarci da ogni modello di pensiero che pretende di fornire un quadro
adeguato della realtà. Implicitamente contiene pure l’invito a trascendere le modalità dicotomiche
del pensare, e ad inoltrarsi nella direzione di una conoscenza superiore intuitiva detta il prajna.
L’intenzione del pensiero dialettico di Nagrajua – nel quale confluiscono prospettive
logiche, psicologiche, linguistico-epistemologiche e metafisiche – non è proprio quella di negare
che esistano le entità che compongono il mondo fenomenico, ma piuttosto di indicare che la loro
realtà è di un certo tipo, non certamente quella di realtà sostanziale. Distinguendo fra due livelli di
realtà o verità, fra verità convenzionale (samvriti-satya) e verità assoluta (paramartha-satya), al
mondo si attribuisce il primo livello di verità. Ma il punto è che un’analisi dei fatti del mondo ci fa
conoscerli come non sussistenti, privi di realtà intrinseca, come ‘vuoti’, infatti. Il ‘vuoto’ da una
parte significa proprio la realtà intrinseca che manca alle cose empiriche; e percepire il vuoto
29
Samyutta-nikaya, II.1.15. (Nell’edizione curata da V. TALAMO, Ubaldini Editore, Roma 1998, p.218.)
30
K.K. KLOSTERMAIER, Buddhism. A Short Introduction, Oneworld Publications, Oxford 1999, p. 173.
significa percepirlo proprio nel modo di essere le cose empiriche. Dunque, non c’è vacuità senza le
cose. D’altra parte il vuoto significa anche ciò che il vuoto delle cose lascia intravedere sullo
sfondo; che è indistinto dal vuoto delle cose ed innominabile salvo come il ‘tathata’ (‘ciò che è’).
La sua esperienza stessa non è altro che il dissolvimento del mondo dei fenomeni, il placamento
della pluralità (prapancoma-śama). È l’esperienza di vedere le cose nella loro vera natura, senza le
costruzioni del pensiero che s’interpongono. Nagarjuna può dire, dunque, che in ultima analisi non
c’è la minima differenza tra il Nirvana e il samara, tra l’assoluto e il relativo, tra l’eterno e il
temporale. Si tratta di due modi di vedere le cose, di stare in rapporto col mondo.
Madhyamaka non aveva nessun’implicazione nichilista; anzi è era la più alta affermazione
del mondo e la trascendenza. Ma proprio perché sia il mondo sia la sua trascendenza era chiamato
‘śunya’ dal Madhyamaka, era quasi inevitabile che l’etichetta del nichilismo venisse applicato al
suo pensiero, soprattutto da parte dei suoi oppositori brahmanici.

I molteplici aspetti del Budda: Il Mahayana si distingue dallo Hinayana, e Theravada in particolare,
per la sua complessa buddhologia, in cui si possono senz’altro scorgere degli elementi tratti dalla
speculazione induista sul Brahman. Trascendentalismo rappresenta la nota più distintiva di questa
buddhologia, poiché il Buddha stesso nella sua vera realtà rimane al di là del mondo e del tempo, di
tutto ciò che è contingente e mutevole: nell’interpretazione mahayana il Buddha s’identifica, infatti,
con la Realtà vera e trascendente. L’innalzamento del Buddha sopra l’umano e lo storico, per la
verità, era un fenomeno che era incominciato con il suo ingresso nel Nirvana, ma esso raggiunse il
suo vertice nelle speculazioni mahayana. Il mondo e la temporalità, in questa prospettiva, restano i
loci dell’apparizione del Buddha trascendente, ma si tratta però di un’apparizione che rimane anche
variegata nello spazio e tempo, per il moltiplicarsi di quest’ultimi in ulteriori mondi ed eoni. E cioè,
per la cosmologia buddhista non esiste solo il nostro mondo e il nostro tempo, ma esiste un
incalcolabile numero di altri mondi con le proprie misure e modalità del tempo, e le proprie storie,
se si può dire così. Se l’antica concezione cosmologica buddhista prospettava un sistema del mondo
composto di vari mondi celesti ed infernali accanto al mondo terrestre, in seguito questa concezione
lasciava posto ad un’altra più complessa. Si pensava che il cosmo nel suo insieme, nominato il
grande chiliocosmo, fosse composto di un miliardo di quei sistemi del mondo. Nelle dieci direzioni,
ad est, a sud-est, a sud, a sud-ovest, a ovest, a nord-ovest, a nord, a nord-est e a zenit e a nadir,
esiste un incalcolabile numero di universi, in molti dei quali è presente un tatagatha che insegna la
dottrina. Nominati le ‘terre’ o ‘campi’ di buddha (buddha-kshetra), in questi universi si verificano
condizioni esistenziali e prospettive salvifiche diverse dalle nostre. Infatti, una pratica mahayana
molto diffusa consiste nell’aspirare, anzi a sforzarsi a rinascere in una di queste ‘terre’ governate da
uno o un altro buddha, dove le condizioni sono più consone all’acquisto della buddhità. Per il
Mahayana, dunque, esiste un numero quasi infinto di buddha; lo stesso Buddha Śakyamuni – il
Mahayana conosce il Buddha della storia con questo nome che con il nome di Siddhartha – è uno
dei tanti. La singolarità sua consiste nell’essere apparso nella stessa frazione spazio-temporale che
occupiamo anche noi, e di aver trasmesso un insegnamento proprio destinato a diffondere la
conoscenza del Dharma nel nostro mondo.
Tuttavia, da un punto di vista superiore, Śakyamuni e altri Buddha non esistono e non sono
mai realmente esistiti, trattandosi di semplici proiezioni del Buddha trascendente nelle sfere
dell’esistenza stesse che sono prive di consistenza e di realtà propria. In realtà e da sempre, dunque,
tutto è Buddha, e il Buddha è tutto. Nel linguaggio mahayana, tutto è pervaso e penetrato dalla
‘Buddhità’; solo l’ignoranza c’impedisce dal riconoscerlo. La differenza, ora, tra la buddhologia dei
Theravada e Mahayana resta ancorata fondamentalmente su questo fatto che, mentre per i primi il
Buddha si riferisce ad un personaggio unico, il quale attraverso un lungo e faticoso
perfezionamento spirituale ottenne l’immedesimazione con la Realtà ultima nel nirvana, per gli
ultimi il Buddha si riferisce alla Reatà ultima e trascendente, e al suo variegato proiettarsi nel
mondo fenomenico. La buddhologia mahayana trova la sua espressione sistematica nella nota
dottrina dei Tri-kaya (‘tre-corpi’) del Buddha. Già, il termine kaya/corpo meriterebbe un
commento. È un termine polivalente, o in ogni caso un termine con diverse sfumature di
significato. Tener presente queste ambiguità del significato è certamente utile per una migliore
comprensione della dottrina stessa. Infatti, il kaya esprime tutta la gamma di significati che anche il
termine ‘corpo’ esprime. Scrive Paul Williams: “Il termine occidentale ‘corpo’ conserva abbastanza
bene l’ambiguità del sanscrito kaya. Il termine può indicare il corpo fisico degli esseri viventi o un
corpo simile ma meno ‘fisico’ (ad esempio un ‘corpo astrale’). Indica inoltre qualunque insieme di
elementi classificati all’interno di un’unica categoria, ad esempio un corpo di testi o un corpo
sociale.”31 Si potrebbe aggiungere che il senso che promana dai discorsi sui ‘corpi’ del Buddha è
quello affine al senso di ‘dimensioni’, ‘aspetti’ o ‘modalità di essere’ del Buddha.
L’inizio della speculazione sui ‘kaya’ o ‘corpi’ del Buddha appartiene ai Mahasanghika, i
quali distinguevano già tra il Buddha lokuttara (sovra-mondano) e il Buddha apparso nel nirmana-
kaya (il corpo creato/fabbricato). Ma la dottrina verrà completato con l’aggiunta di un terzo kaya, e
verrà perfezionato dal Mahayana. Sostanzialmente, la concezione del nirmana-kaya rimane identica
in tutte due le scuole, se non per una rivalutazione critica dello status del Buddha storico, il quale
viene visto nel Mahayana non proprio come un fantasma ma, alla pari di tutte le altre realtà
storiche, come dotato di realtà pratica seppure non di realtà ultima. Il nirmana-kaya è la
manifestazione del Buddha nel tempo: Śakyamuni è un esempio del nirmana-kaya; nel mondo sono
esiste e esisteranno molte altre manifestazioni del Buddha in nirmana-kaya. Il kaya che il
Mahayana aggiunse alle vecchie concezioni era il sambhoga-kaya (il corpo di diletto), che assieme
al nirmana-kaya costituisce il rupa-kaya (il corpo formale) del Buddha. Anche il samhboha-kaya,
come il nirmana-kaya, è molteplice: il Buddha in questo suo aspetto esiste nei diversi mondi
celesti, costituendosi l’oggetto della contemplazione gioiosa dei loro abitanti. La differenza fra
questi sta nel fatto che mentre il nirmana-kaya rappresenta il mezzo dell’apparizione del Buddha in
questo mondo per il beneficio degli śravaka (discepoli non ancora illuminati), il sambhoga-kaya
rappresenta il mezzo del suo presentarsi nelle sfere d’esistenza superiori per il beneficio delle
divinità e dei bodhisattava. Il Buddha nel suo sambhoga-kaya è maestoso, enorme e glorioso.
Il Buddha in questi primi due aspetti della sua realtà è dotato di un corpo formale –
nell’aspetto nirmana, di un corpo percepibile ai sensi e nell’aspetto sambogha, invece, di un corpo
raffinato percepibile alla mente – e si distingue come tale dal suo aspetto ultimo come il Dharma,
che è privo di qualsiasi forma. Il Buddha in quest’aspetto s’identifica con l’assoluto metafisico, con
la realtà nel suo aspetto di verità ultima. Viene descritto in diverse maniere, come il vero modo di
essere le cose (tathata); la coscienza intrinsecamente radiante del Buddha che è tutt’una con la
totalità della realtà; il Buddha in se stesso, nel suo vero aspetto. Il Dharma-kaya è il principio
unitario; è il kaya che funge da supporto per gli altri due kaya, e che allo stesso tempo li incorpora e
li trascende. Può darsi che all’inizio dell’evoluzione del Mahayana il Dharma-kaya non avesse il
significato di un assoluto metafisico, ma avesse solo un riferimento alla ‘dottrina’ in possesso del
Buddha. In questo senso è possibile scoprire nel concetto di Dharma-kaya tutte le ambiguità che si
collegano anche con il termine ‘dharma’, che può significare sia la dottrina buddhista, sia gli ultimi
componenti della realtà, sia la realtà ultima unica, sia la legge universale. Comunque nello sviluppo
del Mahayana, più di ogni altro, il significato che venne ad assumere il Dharma-kaya fu quello
dell’unica e ultima realtà intesa come la sorgente e il fine di tutto. In questo senso non è difficile
rinvenire nei testi mahayana quasi tutte le designazioni che le Upanishad adoperano nei confronti
del Brahman, la Realtà vera ed unica. Si potrebbe notare che questa interpretazione del Dharma-
kaya probabilmente trasse ispirazione dalla nota affermazione del Samyutta-nikaya sull’identità tra
il Buddha e il Dharma: chiunque vede il Dharma vede il Buddha e viceversa.32

I bodhisattva: Il nome più antico del movimento mahayana sembra che fosse proprio il
‘Bodhisattva-yana’ (la ‘via del Bodhisattva’) – un nome che è stato coniato in contrapposizione allo
Śravaka-yana (la ‘via del discepolo’) e al Pratyeka-buddha-yana (la ‘via del buddha particolare’)
31
P. WILLIAMS, Il buddhismo dell’India, p.161.
32
Cf. Samyutta-nikaya, III.i.87.13.
delle antiche scuole –. In un tentativo di asserire la superiorità di questo ‘veicolo’, il nome originale
fu cambiato in ‘Maha-yana’ (il ‘grande veicolo’).
Il concetto di bodhisattva è uno che allo stesso tempo unisce e separa lo Hinayana e il
Mahayana. Nei 547 Jataka del canone pali, l’epiteto bodhisattva si applica alle precedenti rinascite
del Buddha Gotama, rinascite nelle quali nonostante che pratichi le virtù del non-egoismo e della
compassione in maniera eroica è ancora in cammino verso l’illuminazione,. Così, il bodhisattva
nelle fonti hinayna appare come un essere ancora imperfetto, in progressione verso la meta
dell’illuminzione; un Buddha in potenza. Ma il concetto del bodhisattva subirà nel pensiero
mahayana una trasformazione semantica, in quanto il suo senso originario di “essere destinato al
risveglio” o “colui che si aspira al risveglio”, così come appare nei Jataka, si cambia a significare
“l’essere di cui essenza è l’illuminazione”. Il bodhisattva mahayana non è tanto l’essere che è in
cammino verso la condizione del Buddha quanto l’essere che, pur potendo agguantare tale
condizione, preferisce a coinvolgersi di nuovo nelle vicende di questo mondo di sofferenze in modo
da aiutare i suoi abitanti infelici. Il concetto di bodhisattva inoltre fa riferimento ad un preciso
programma di salvezza (bodhisattva-yana) attualizzabile a tutti, e a coloro che lo mettono in
pratica.
In effetti, il concetto stesso del bodhisattva, che è tanto popolare nel buddhismo mahayana,
è il frutto di una fusione di diversi elementi tratti da dottrine quali il Trikaya (‘tre corpi’) del
Buddha, l’onnipresenza della buddhità (tutto è già Buddha) e la vocazione universale alla buddhità.
Ciò che costituisce la base della concezione mahayana del bodhisattva è la convinzione che tutti
possono un giorno acquisire la buddhità o diventare dei buddha, e che ci sono degli esseri pieni di
compassione, pronti a venire incontro ai bisogni dell’umanità sofferente, specie al suo bisogno di
salvezza. Incontriamo così nel Mahayana un certo numero di famose figure di bohdisattva – legate
a particolari sutra – che, pur rimanendo nei vari punti dell’universo, estendono il loro aiuto e
protezione agli uomini. Questi esseri che spesso si definiscono Mahasattva (grandi esseri), per i
loro poteri e perfezione sono dei quasi buddha; infatti, non esiste una chiara distinzione fra i
buddha cosmici della dottrina del Trikaya che sono associati con i vari ‘campi’ o ‘terra’ di buddha e
i grandi bodhisattva che hanno la loro dimora in varie parti del cosmo. Sono esseri che, sospinti
dalla compassione per la sofferenza altrui, hanno fatto il voto di impegnarsi fino in fondo per la
loro salvezza alle spese del proprio ingresso immediato nel nirvana. Sono esseri che subordinano la
propria felicità a quella degli altri. Per esempio, il bodhisattva Dharmakara (in seguito il buddha
Amitabha) è uno che fece il voto di non avvalersi del risveglio supremo, perfetto fino a che tale
condizione non sia assicurata a tutti gli esseri nati nella sua terra di buddha, il sukhavati (il paradiso
della beatitudine) che si situa a un trilione di campi di buddha a ovest. Chiunque abita in qualsiasi
parte del cosmo potrebbe rinascere nel paradiso sukhavati, se lo desidera ardentemente e con fede
sincera. Una volta rinatovi, dove il male non esiste, e da dove non è possibile decadere ai reami
inferiori d’animali o di spiriti affamati (preta), con l’aiuto del buddha Amitabha (‘luce illimitata’)
uno potrebbe in una sola esistenza raggiungere la perfezione.
Il Sutra del loto menziona ventitré e il Vimalakirti-sutra più di cinquanta grandi
bodhisattva, di cui tre hanno una posizione di preminenza nella religiosità popolare mahayana. Il
bodhisattva Maitreya è noto con il nome di ‘Metteya’(‘l’amichevole’) anche nelle fonti pali, dove
egli figura come colui che, rinascendo nel nostro mondo in un futuro, diventerà un buddha. Ora
abita nel paradiso Tushita, che è di solito visto come il punto d’accesso al nostro mondo, come lo
era anche per il Buddha Gotama. È suo il culto più antico di bodhisattva noto a noi: consiste nelle
pratiche destinate a procurarsi ora la rinascita nel paradiso di Tushita per poter poi rinascere in
questo mondo assieme a Maitreya. È la credenza dei devoti di Maitreya che quando egli diventerà
un buddha, tutti gli uomini che si troveranno nel mondo otterranno pure il risveglio. Il Maitreya-
vyakarana (‘predizione di Maitreya’) è un testo che descrive la futura manifestazione di Maitreya,
il suo conseguimento dell’illuminazione e le meraviglie che l’accompagneranno. Maitreya era
tenuto in particolare venerazione dalle scuole meditative di Kashmir. Il metodo consigliato per
rinascere ora nel paradiso di Tushita è concentrarsi su ciò nel momento della morte. Il bodhisattva
Manjuśri è menzionato in molti sutra mahayana, e l’arte buddhista lo rappresenta spesso in forma
di un mendicante con un’acconciatura abbondante, e una spada (per recidere l’ignoranza) e un libro
(la prajnaparamita) nelle mani. Il suo nome significa il ‘grazioso’; Manjughosha (‘voce graziosa’)
e Vajiśvara (‘signore della parola’) sono altri suoi epiteti. Secondo le leggende, settanta miriadi di
eoni fa e settemiladuecento miliardi di campi di buddha a est di questo mondo, Manjuśri era un re
pio che aveva risvegliato la facoltà del bodhi (bodhicitta). Fece il voto di rimanere nel samsara, e
di posporre il risveglio completo personale fino a che non avrà condotto tutti gli altri esseri alla
salvezza. La recita del suo nome e dei sutra che parlano di lui come anche preghiere rivolte a lui
sono considerati estremamente efficaci al fine di abbreviare l’ esistenza nel samsara (il mondo della
sofferenza) dei suoi devoti. Il terzo bodhisattva più illustre del Mahayana si chiama Avalokiteśvara,
che potrebbe essere reso in italiano come ‘il signore che osserva il mondo’. Questo nome è già
indicativo del suo interessamento per la sorte degli uomini, dei quali è uno dei più grandi
benefattori. Ha la sua dimora nel paradiso sukhavati, dove funge da assistente al buddha Amitabha
insieme ad un altro bodhisattva. È raffigurato nell’arte buddhista come un laico ornato di girelli,
con un copricapo recante una piccola immagine di Amitabha. Qualche volta viene rappresentato
con numerose braccia, simboleggianti il multiforme aiuto che reca agli uomini. Infatti, è un
bodhisattva che aiuta gli uomini in mille modi: egli salva i suoi devoti dal fuoco, dal naufragio, da
ladri, dall’omicidio, da pene capitali, da stregonerie, da demoni, da bestie feroci, da serpenti, da
fulmini ecc. nonché dalle negatività morali quali la brama, l’odio e l’illusione. Avalokiteśvara può
assumere qualsiasi forma per portare aiuto ai suoi devoti. Uno dei testi più antichi che parla di lui è
l’Avalokiteśvara-sutra facente parte del Sutra del loto, ma anche esistente come un testo a se stante.
Quando il buddhismo conquisterà il Tibet, Avalokiteśvara verrà venerato lì come il patrono e il
protettore del popolo di Tibet. Molto importante per il suo culto è il Karanda-vyuha-sutra che
descrive le sue eccezionali imprese a favore degli esseri sofferenti. Il famoso mantra recitato da
tutti i buddhisti tibetani, Om Mani Padme, Hum, è un’invocazione a bodhisattva Avalokiteśvara.
Non chiaramente demarcato dai grandi bodhisattva dal punto di vista di realtà ontologica e
funzionalità, esiste ancora nella concezione mahayana tutta una schiera di buddha, di cui alcuni
buddha sono di grande rilievo. Questi buddha spesso si presentano come persone che, dopo aver
trascorso eoni e eoni di anni di servizio agli altri in qualità di bodhisattva, hanno finalmente optato
per il risveglio totale. Ma una nota particolare di questa credenza sui grandi buddha, il che è anche
piuttosto inconsistente con il resto della dottrina di bodhisattva, è che questi non hanno ancora
cessato di beneficiare l’umanità. Oltre a Śakyamuni buddha, che continua a trasmettere la sua
dottrina e a aiutare gli uomini in mille altri modi compassionevoli, si conosce in questo senso
l’esistenza dei buddha quali Amitabha (‘luce illimitata’), Vairocana (‘risplendente’), Akshobhya
(‘imperturbabile) e Bhishajya-guru (‘maestro della medicina). Quest’ultimi hanno il loro ‘campo di
buddha’ noto spesso come la ‘Terra Pura’. Probabilmente il culto più antico tra questi buddha
appartiene a Akshobya, ed è descritto nell’Akshobhya-vyuha-sutra. La sua Terra Pura si chiama
Abhirati, e si trova nella direzione ad est; è un mondo senza le interferenze del Mara (il diavolo) e
senza montagne, un mondo di fiori, di fresche brezze e musiche. L’iconografia buddhista
rappresenta questo buddha di colore blu, con un diamante nella mano destra e la mano sinistra
nell’atto di compiere il cosiddetto ‘gesto di toccare la terra’ (bhumi-sparśa-mudra). Vairocana è un
buddha celeste che diventerà molto famoso nella forma tantrica del Mahayana. A proposito del
buddha Bhaishajya-guru, di cui culto è sorto abbastanza tardi, esiste qualche dubbio sulla sua
origine indiana. Secondo alcuni studiosi, il suo culto sarebbe originata nell’Asia-centrale da dove
poi sarebbe diffuso anche in India. Il Bhaishajyaguru-sutra è il testo fondamentale che ne parla, di
cui esiste una versione sanscrita oltre alla cinese e tibetana. Come il suo nome stesso lo indica, è il
buddha della medicina e guarigione. L’iconografia lo raffigura come uno seduto nella posizione del
loto, con il corpo di colore oro o blu, la mano sinistra adagiata sul grembo, tenente una ciotola
contenente un medicinale, e la mano destra che regge una pianta medicinale. A quanto pare, il
praticare della medicina era interdetto ai monaci nel buddhismo originario: avrebbero potuto
praticarla solo tra i membri del Sangha. Ma il fatto è che i monaci missionari, nella loro
propagazione del buddhismo, mettevano a buon uso anche le loro conoscenze mediche, una pratica
che troverà la sua piena legittimazione grazie ai testi del Mahayana e al suo innalzamento della
figura di Bhaishajyaguru ad uno dei massimi buddha.
Con la sua nuova interpretazione del concetto di bodhisattva e la scoperta di nuovi buddha
del tutto ignoti nel buddhismo antico, il Mahayana sottoscriveva naturalmente a certe nozioni
religiose quali la possibilità della salvezza per mezzo di fede, il trasferimento di meriti, l’efficacia
di devozione al fine della propria salvezza e al progresso spirituale ecc. Ciò a cui si assiste nello
sviluppo del Mahayana è niente meno che una completa trasformazione del buddhismo, per lo
meno a livello popolare, che secondo molti studiosi corrispondeva ad una simile trasformazione
avvenuta nell’induismo con l’introduzione della venerazione delle immagini sacre e le pratiche del
bhakti (devozione verso un dio preferito). In un certo senso il Mahayana offriva i vantaggi
combinati del buddhismo e del teismo. Nella nuova prospettiva religiosa emersa con il Mahayana,
“lo scenario della salvazione non era più confinato a questo mondo fisico, e ci si poteva aspettare
aiuto dall’esterno. I seguaci di Śakyamuni non erano orfani spirituali, poiché c’erano sempre amici
extraterresti pronti a proteggerli: non solo dèi come Śakra, Brahma e i quattro grandi re, ma anche
grandi buddha e bodhisattva.”33
Il pensiero mahayana sul bodhisattva e sui buddha cosmici introduceva inoltre una nuova
dimensione sociale nel buddhismo che mancava dalla sua impostazione originaria. Il bodhisatta è in
fondo un essere che, lungi da sfuggire dal mondo, si coinvolge nelle sue vicende e che riunisce in
sé una grande saggezza e un grande senso di compassione per gli altri, il motivo per cui diventerà
anche l’ideale spirituale per il Mahayana a scapito dell’arhat, considerato un modello egoistico
dell’impegno religioso. Per un buddhista, sia monaco sia laico, il bodhisattva rappresenta un ideale
di vita religiosa che congiunge alla ricerca della conoscenza trascendente la pratica della carità.
Infatti, il pensiero mahayana sul bodhisattva è rivolto infine a proporre il bodhisattva come un
modello a cui ispirarsi nella propria vita, e la sua condizione come una che è accessibile a
qualunque purché segua un sentiero ben preciso.
La descrizione più nota del cammino che porta alla condizione di bodhisattva è quella di
Śantideva (tra il 601 e 743), offerta nel suo libro Bodhicaryavatara (‘introduzione al cammino del
bodhi’), divenuto un classico della spiritualità mahayana. Il cammino inizia quando sorge
nell’uomo destinato a diventare un bodhisattva un’aspirazione al bodhi (bodhi-citta) e,
contemporaneamente, un desiderio per fare il possibile per la salvezza e il benessere di tutti.
L’aspirante bodhisattva quindi emette un voto a tale proposito, chiamato il ‘voto di bodhisattva’
che nel Bodhicaryavatara prende questa forma:
Che io possa essere un protettore per gli orfani, una guida per i viandanti; una barca, una
diga, un ponte per coloro che vogliono arrivare all’altra riva! Che io possa essere una
lampada per coloro che hanno bisogno di una luce, un luogo di rifugio per coloro che hanno
bisogno di rifugio, un servitore per coloro che hanno bisogno di un servitore! Così come la
terra e gli altri elementi sono in vari modi utili alle innumerevoli creature che occupano lo
spazio infinito, io possa essere utile in vari modi alle creature che non hanno ancora
raggiunto il nirvana!34
La sequela propria del cammino consiste nel praticare i cosiddetti paramita, le virtù trascendentali,
che a seconda dei testi mahayana possono essere o sei o dieci: la carità (dana), la moralità (śila), la
pazienza (kshanti), l’eroicità (virya), la contemplazione (dhyana), e la saggezza (prajna) nel caso in
cui questi si considerano sei, e nel caso in cui si considerano dieci si aggiungono la destrezza
nell’uso di mezzi adatti (upaya-kauśalya), la sottomissione della propria vita (pranidhana), la forza
(bala) e la conoscenza (jnana).
Si nominano diverse tappe, normalmente dieci, nella carriera di un bodhisattva, dette le
‘terre del bodhisattva’ (bodhisattva-bhumi). Il testo più antico che ne parla è il Daśa-bhumika-sutra
inserito nel Ghirlanda-sutra. Queste terre o tappe sono:
33
R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.140.
34
ŚANTIDEVA, Bodhicaryavatara, III, 17-20.
(1) La gioiosa (pramudità): in cui l’aspirante avendo compreso la vacuità di tutto, si vota
all’illuminazione; fa dieci grandi voti, si esercita nelle dieci virtù paramita.
(2) L’immacolata (vimala): in cui il bodhisattva si applica al perfezionamento dei dieci precetti
di ‘buona condotta’, quali l’astenersi dalle ingiurie, dalle menzogne, dall’impossessarsi
delle cose altrui ecc.
(3) La splendente (prabhakari): in cui rinascendo nel regno degli dèi inferiori, si esercita nelle
quattro meditazioni (dhyana) e nel perfezionamento della virtù della pazienza.
(4) La folgorante (arcishmati): in cui acquisisce le 37 “membra del bodhi” (o le ‘ali del
risvegio’), abbandona l’attaccamento al senso dell’‘io’ e porta alla perfezione la pratica
della virtù dell’eroismo.
(5) L’invincibile (sudurjaya): lo stato in cui il Boshisattva ottiene una perfetta comprensione
delle ‘Quattro Nobili Verità’; il suo amore universale s’intensifica e si dà da fare per
soccorrere gli esseri sofferenti.
(6) L’amichevole (abhimukhi): è lo stadio in cui il bodhisattva comprende appieno la dottrina
della relatività dei dharma (pratitya-samutpada) e pratica la perfezione della saggezza.
(7) L’avanzato (duramgama): in cui egli adotta il punto di vista della Realtà Suprema
(paramartha), e acquisisce una totale libertà di azione.
(8) L’irremovibile (acala): in cui ottiene la facoltà di conoscere tutto quello che avviene in tutto
l’universo, e raggiunge lo stadio dal quale non si può retrocedere.
(9) Il ben-intenzionato (sadhumati): in cui, contemplando le vicissitudini degli esseri e il loro
karma, insegna le dottrine dei buddha, e ottiene quattro conoscenze speciali riguardanti
l’essenza delle cose.
(10) La nube del Dharma (dharma-megha): detto anche abhisheka-bhumi (la terra di
consacrazione), in cui, il bodhisattva trionfa di tutti gli ostacoli e raggiunge il fine del suo
cammino; pratica la perfezione della saggezza trascendente (prajna-paramita); riceve la
consacrazione a buddha e entra nel suo buddha-kshetra (la terra di buddha).

Lo Yogacara
Sorta nell’ambito del Mahayana, la scuola Yogacara, secondo molti, rappresenta la
sua massima espressione in quanto comprensione della reale natura delle cose e interpretazione di
ciò che il buddhismo stesso è. Non si tratta dunque di una scuola con un proprio Vinaya, lignaggio
di ordinazione o altri principi organizzativi che ne farebbero allo stesso tempo anche una setta, ma
piuttosto di una scuola filosofica alle prese con il perenne problema buddhista di come configurare
la realtà e come conseguire la salvezza. In questo, lo Yogacara non si discosta neanche in maniera
decisiva dall’impostazione dottrinale del Mahayana, e d’altronde mantiene una sostanziale
continuità con la sua espressione filosofica raggiunta nel Madhyamaka, di cui sebbene sia anche
una critica e correzione. Ciò nondimeno, lo Yogacara (= la pratica dello yoga) offre delle nuove
prospettive; anzi tutto un nuovo modo di affrontare le questioni stesse, che a differenza della
dialettica madhyamaka, s’incentra sulla prassi yogica come vuole il suo nome stesso. Ci sono anche
altri nomi con cui questa scuola è conosciuta, i nomi che in qualche modo accentuano la sua reale o
presunta posizione sulla questione ontologica: Vijnanavada (‘dottrina della coscienza’), Vijnapti-
matra (‘solo concetto’), Citta-matra (‘sola mente’). Annotiamo che questi nomi, particolarmente
l’ultimo, hanno indotto molti studiosi, fra cui Edward Conze e D.T. Suzuki, ad interpretarla,
alquanto erroneamente, in senso di un puro idealismo. Ma la nozione stessa dell’idealismo è
abbastanza vaga. Se si può affatto parlare dell’idealismo in rapporto allo Yogacara, lo si può fare
solo nel senso di un ‘idealismo epistemologico critico’; e anche questo solo fino ad un certo punto.
Poiché, lo scopo finale dello Yogacara non è quello di conoscere in fondo se la realtà sia mentale
oppure no, ma quella di osservare come ciò che percepiamo come esternamente reale si sia
irrimediabilmente fuso con la coscienza tanto da formare un tutt’uno con essa; e partendo da qui di
designare una via di liberazione che porta all’esperienza della vera realtà, al di là delle sue
immagini mentali. Per questo motivo, mentre lo Yogacara appare per certi versi simile alla
fenomenologia di Husserl, in definitiva è portata ad eliminare la mente stessa. 35
L’origine dello Yogacara si colloca nel IV secolo d.C. nel contesto di una crescente
realizzazione che il pensiero madhyamaka, soprannominato ormai Śunya-vada (‘dottrina del
nulla’), approdava ad un nichilismo pur contro le intenzioni dei suoi autori. Si era sentito dunque il
bisogno di ripristinare la lista di dharma contenuta negli Abhidharma delle antiche scuole, e di
determinare di nuovo il loro autentico senso di realtà. Lo Yogacara costituirà in questo senso un
riesame dei dharma, di cui realtà verrà precisata come quella dei fatti mentali, senza però arrivare
alla conclusione che questi corrispondessero in qualche modo a qualche cosa esistente anche
esternamente.36 L’esempio che userà per giustificare la sua posizione è quello dei sogni: anche gli
oggetti delle esperienze oniriche sembrerebbero di avere una realtà indipendente alla mente, eppure
non ce l’hanno. Ciò che esiste – senza che si possa venire messa affatto in discussione – è la mente:
gli oggetti delle esperienze comuni e quelle oniriche possono anche non essere reali, ma queste
esperienze come tali esistono. Si potrebbe osservare a questo proposito che questo atteggiamento
‘mentale’ assunto dallo Yogacara nei confronti della realtà largamente corrisponde al modo di
vedere le cose che è proprio anche dei primi testi buddhisti;37 ma più specificamente ciò
corrisponde alla visione espressa dal primo versetto del Dhammapada: “Tutti i dharma sono
predeterminati dalla mente (manas), condotti dalla mente, prodotti dalla mente”.38
In somma, lo Yogacara è visto dai suoi proponenti come una nuova ‘via di mezzo’ – e
pertanto fedele alle originarie intenzioni del buddhismo – che designa un corso intermedio tra il
realismo semplicistico dell’Abhidharma e il nichilismo radicale del Madhyamaka. I suoi fautori più
audaci consideravano addirittura i suoi testi come il frutto di un nuovo, il terzo ‘giro della ruota’
della dottrina operato dal Buddha. Il testo più antico di questa scuola è conosciuto come il Samdhi-
nirmocana-sutra (‘risoluzione degli enigmi’), e ovviamente intende offrire soluzioni ai problemi
derivanti dalle erronee impostazioni dottrinali dell’Abhidharma e del Prajnaparamita. Secondo il
testo, le parole del Buddha sono state fraintese sia dagli analisti dei dharma sia dai Madhyamaka.
Un altro testo significativo appartenente al suo periodo iniziale è il Lankavatara-sutra (‘sutra della
discesa in Lanka’). Tuttavia, una presentazione sistematica del pensiero Yogacara si deve ai suoi
famosi maestri Asanga, il suo mentore Maitreyanatha e suo fratello Vasubandhu. Sono personaggi
attorno ai quali sono state costruite molte leggende straordinarie, Maitreyanatha era perfino
identificato con il bodhisattva Maitreya residente nel paradiso di Tushita. A lui si attribuiscono
opere come Abhisamaya-alankara (‘Ornamento della super-comprensione’), Mahayana-sutra-
alankara (‘Ornamento dei sutra mahayana’), Dharma-dharmata-vibhanga (‘Distinzione fra i
dharma e la Realtà’), Madhyanta-vibhanga (‘Distinzione tra il mezzo e gli estremi’). L’esposizione
più compiuta del pensiero Yogacara comunque rimane quella di Asanga (c.310-390), conseguita
nella sua monumentale opera intitolata Yogacara-bhumi (‘Stadi di Yogacara’). Si attribuiscono a
lui anche il Abhidharma-samuccaya (‘Compendio degli Abhidharma’) e il Mahayana-samgraha
(‘Epitome del Mahayana’). Secondo una leggenda, riportata anche da Bu-Ston, durante un periodo
del declino del buddhismo, una donna brahmina, di nome Prasannaśila, fece il voto di procreare
due figli per la causa della propagazione della retta dottrina. Si unì, dunque, con uno kshatriya e un
brahmano, e da queste unioni furono nati i due fratelli Asanga e Vasubandhu. Si racconta, inoltre,
che dopo lunghi anni di pratiche ascetiche e meditazioni Asanga ebbe una visione del bodhisattva
Maitreya, dal quale poi ricevette istruzioni sulla dottrina. 39 Vasubandhu all’inizio apparteneva alla
scuola di Sarvastivada, durante il quale periodo compose l’opera Abhidharma-kosa che è una

35
Cf. D. LUSTHAUS, Buddhist Phenomenology, pp. 4-6.
36
Notiamo che anche le analisi abhidharmiche di Vaibhashika e Sautrantika erano in fondo esami degli eventi
mentali; ma la differenza sta nel fatto che questi eventi erano ritenuti da loro come aventi un fondamento nelle cose
esterne.
37
Vedi D. LUSTHAUS, Buddhist Phenomenology, pp.46 ssg.
38
Dhammapada, I.1.
39
BU-STON, The History of Buddhism in India and Tibet, Vol. II, pp.137-140.
sintesi del buddhismo sarvastivada in 600 versi. Il suo punto di vista yogacara è contenuto
principalmente nel commento (bhashya) che lui stesso compose su quest’opera, dopo che si era
convertito alla scuola sull’istanza di suo fratello. Altre opere importanti di Vasubandhu che trattano
temi yogacara sono: Vimśatika (‘Venti versetti’), Trimśika (‘Trenta versetti’) e Trisvabhava (‘Tre
nature’). Vasubandhu verrà lungamente ricordato nelle zone dove si diffuse lo Yogacara, tanto che
quando Hsüan-tsang visitò la città di Peshawar circa due secoli dopo la morte di Vasubandhu, lui
poté ancora visitare la casa dove risiedeva e altri luoghi legati collegati con la sua memoria, che
d’altronde recavano delle placche commemorative.40
Lo Yogacara compie un tentativo a comprendere la mente nei suoi due aspetti cardinali:
quelli di essere la fonte sia di illusione sia di illuminazione. E in questo modo lo Yogacara cerca di
chiarire la struttura della mente, e quindi di tracciare un percorso che porta alla conversione e
all’illuminazione. L’influsso della letteratura prajnaparamita è evidente nello Yogacara. La stessa
concezione della ‘vacuità’ delle cose è ammessa dalla scuola, senza però sposare le sue
conseguenze che, nell’impostazione madhyamaka, rendevano le parole del Buddha, e
l’enunciazione delle Quattro Nobili Verità stessa, in ultima analisi prive di ogni significato. Se tutto
è un costrutto concettuale, come sostengono i Madhyamaka, ci deve essere pur sempre qualcosa su
cui costruire. Lo sforzo degli Yogacara si capisce pertanto come un tentativo ad affermare in
maniera positiva qualche realtà oltre il vuoto. Tra le altre, due dottrine distintive dello Yogacara
che vanno sotto il nome di ‘Alaya-vijnana’ (‘coscienza deposito’) e ‘Tathagata-garbha’
(‘grembo/embrione del tathagata’) meritano di essere menzionate.
Secondo lo Yogacara ci sono otto livelli di coscienza: mentre i primi sei livelli riguardano
coscienze oggettive collegate ai sei sensi, compresa la coscienza concettuale, il settimo livello
riguarda la mente stessa in quanto soggetto. E l’ottavo e il più profondo livello di coscienza è ciò
che s’intende per l’alaya-vijnana. Non si tratta dell’io empirico; gli Yogacara di solito negano pure
che questo sia paragonabile all’atman (il Sé) delle Upanishad, anche se alcuni testi Yogacara, ad
esempio il Lankavatara-sutra, lo denomineranno proprio atman. L’alaya-vijnana ad ogni modo
precede alla coscienza legata al senso dell’ego, e rappresenta il primo evoluto o il primo stadio del
manifestarsi dell’assoluto. Un’immagine usata spesso per rappresentarla è il fondo dell’oceano, gli
altri livelli di coscienza sarebbero come le onde alla superficie. È l’esistenza di questo livello di
coscienza, o meglio il substrato della coscienza, che spiega, secondo lo Yogacara, l’operazione del
karma e la continuità personale nelle reincarnazioni. Si chiama ‘coscienza deposito’ appunto perché
funge da ricettacolo di semi di karma passati, cattivi e buoni. I semi depositati nell’alaya
condizionano e colorano tutte le altre operazioni mentali che avvengono negli altri strati superiori.
Così si crea un flusso continuo di esperienze nel quale avviene una costante interazione tra lo strato
subconscio dell’alaya-vijnana e gli altri strati consci superiori. Vale a dire, mentre i semi residenti
nell’alaya modulano le esperienze consce, queste da parte loro agiscono sull’alaya con il continuo
depositare dei semi. La distinzione, certamente immaginaria, tra l’io e l’altro, il soggetto e l’oggetto
avviene a livello del manas (la mente). La mente costruisce i propri oggetti secondo le sue
proclività derivanti dal substrato dell’alaya. L’esperienza di una medesima cosa fatta da un santo e
da un peccatore divergono in base alle loro coscienze deposito e le loro colorazioni karmiche. Va
notato che l’alaya è anche il ricettacolo di semi (dharma) buoni o puri, la cui presenza qui sarebbe
da attribuire alle azioni buone precedenti o ai naturali elementi di perfezione che ogni alaya-
vijnana contiene. Infatti, se da una parte è con la torrefazione dei semi impuri, dall’altra è con la
progressiva maturazione dei semi puri – per mezzo delle pratiche etiche e meditative – che avviene
ciò che gli Yogacara designano ‘il capovolgimento della base della coscienza’, una sorta di
conversione, che è anche il primo passo decisivo verso la salvezza.
La nozione del Tathagata-garbha è un corollario della dottrina dell’alaya-vijnana, e si
riferisce al potenziale del risveglio che è innato in tutti gli esseri. ‘Garbha’ ha un duplice
significato: può significare sia il grembo e, per estensione, qualsiasi luogo interno, sia il contenuto

40
M. PIANTELLI, Il buddhismo indiano, p. 122.
del grembo, e cioè l’embrione o il feto. 41 Il tathagata-garbha nel senso del grembo è la stessa
coscienza deposito, depurata dei cattivi semi del karma, in cui la natura del buddha (la buddhità) si
germoglia e si matura. Nel senso dell’embrione, esso è costituito da semi puri esistenti nella
coscienza di ogni persona. Si tratta dell’universale presenza della buddhità in ogni essere, il cui
sviluppo rimane ritardato o, per dirlo diversamente, la manifestazione resta oscurata fino a che le
impurità della coscienza deposito non vengono rimosse. È importantissimo tener presente che né il
tathgatha-garbha nel suo doppio aspetto di grembo e di embrione né il suo rapporto con la
coscienza deposito si presta ad un’interpretazione dualistica di tipo soggetto-oggetto, come se
trattasse di una cosa che contiene un’altra. La buddhità non è un oggetto che s’inserisce nella
coscienza né un suo attributo aggiuntivo. La buddhità è la vera natura della coscienza nel suo
recesso più profondo. Noi siamo già dei buddha; si tratta solo di riconoscerlo, di riscoprire ciò che
noi già da sempre siamo. Per lo Yogacara il tathagata-garbha rappresenta la realtà ultima, assoluta,
il tathata, e si identifica con il Dharma-kaya della dottrina del triplice corpo del Buddha, una
dottrina che lo Yogacara pienamente condivide con il resto della scuola Mahayana. Si potrebbe
aggiungere che lo Yogacara nella sua storia conoscerà ulteriori sviluppi in Cina dove, oltre a
diffondersi rapidamente, subirà anche a delle modificazioni nel suo pensiero, con il prevalere delle
tendenze decisamente idealistiche.

41
Cf. R.H. ROBINSON & W.L. JOHNSON, La religione buddhista, p.120.
Capitolo 4

IL PERIODO GUPTA E LE TESTIMONIANZE DEI PELLEGRINI CINESI

La storia religiosa dell’India antica è quasi esclusivamente la storia di testi religiosi, che
erano per quanto sappiamo in continua proliferazione. L’unico interesse dei pensatori e autori
religiosi dell’India antica sembra che fosse quello di trasmettere ciò che consideravano le essenziali
delle religioni: le dottrine e regole, e le loro giuste interpretazioni. Abbiamo così un’infinità di testi
risalenti fino ai tempi remoti che trasmettono il sapere religioso di ogni tipo, ma senza
minimamente preoccuparsi a offrire una descrizione di quegli aspetti che noi avremmo considerato
necessari per formare un quadro in qualche modo completa della religione. Il caso esemplare è
costituito dall’enorme collezione di testi vedici, che nelle loro migliaia e migliaia di inni si
disinteressa del tutto delle reali prassi religiose; non contiene nemmeno qualche riferimento ad un
luogo identificabile o ad un personaggio o un evento storico tanto da offrirci qualche punto
d’appoggio sicuro per una conoscenza storica della religione alla quale tali testi appartengono. I
testi buddhisti non sono molto diversi dai testi di altre religioni indiane in tal senso: informazioni
che si possono ricavare da questi sulla religione buddhista, in quanto realtà esterna e visibile,
pratiche, osservanze ed istituzioni religiose, sono alquanto rare e scarne. Ma va detto che nei tempi
più recenti gli studi archeologici hanno considerevolmente servito ad ampliare la nostra conoscenza
del buddhismo come una realtà storica, che va oltre le sue collezioni di testi sacri e dottrina di
salvezza e le sue variate interpretazioni. Pure alcuni documenti di carattere secolare, come i
racconti dei viaggiatori cinesi in India, hanno fatto luce su determinati periodi della storia del
buddhismo indiano. Nonostante tutto ciò, bisogna ammettere che per lunghi tratti della storia del
buddhismo in India non è ancora possibile una ricostruzione sostanzialmente completa, o anche
soddisfacente.

Buddhismo nell’impero Gupta


Appartiene alla dinastia Gupta il secondo più grande impero che si era mai instaurato nella
storia dell’India, dopo quello dei Maurya, di cui il re più importante, dal punto di vista della storia
del buddhismo, come si è detto, era Aśoka. Non molto minore in estensione rispetto a quello
Maurya nel periodo del suo apogeo, l’impero Gupta durò dall’anno 300 al 550 circa. I regnanti
della dinastia Gupta non erano però buddhisti, bensì indù che veneravano il dio Vishnu. Infatti, il
periodo dell’impero Gupta coincise con una grande fioritura della religione induista. Non solo per
quanto riguarda la religione induista nel senso stretto, ma per tutta la cultura indiana il periodo
rappresentò quello che si può considerare l’età d’oro. Come osserva un noto storico, tutto ciò che
può essere considerato ‘classico’ sia nella letteratura, arte o scienza indiana appartiene a questo
periodo.1 Il buddhismo era un contributore e beneficiario a pieno titolo in questo processo
dell’avanzamento complessivo della cultura, come si dimostra dalle molteplici realizzazioni
culturali buddhiste di questo tempo. Si nota che era anche il periodo in cui vennero composti i vari
Dharma-sastra (codici legali indù) e il periodo in cui visse il celebre poeta sanscrito Kalidasa.
Diverse iscrizioni rupestri e murali testimoniano all’uso di sanscrito quale lingua franca, cosa che
trova conferma pure nel fatto che i testi mahayana che erano composti in questo periodo usavano la
lingua sanscrita a preferenza delle lingue pracrite come facevano prima.
Sebbene uno solo fra i re Gupta, Baladitya, a quanto pare, venne sotto un certo influsso
buddhista – egli aveva per maestro l’illustre filosofo Yogacara Vasubandhu –, 2 tutti i regnanti
Gupta, secondo quella che era ormai una tradizione ben stabilita in India, si mostravano protettori
1
J. KEAY, A History of India, p.132.
2
S. DUTT, Buddhist Monks and Monasteries of India, p.197.
benefattori anche delle altre religioni. Lo stesso Baladitya fece costruire un grande tempio
buddhista a Nalanda; e altri re più eminenti, Chandra-Gupta, Samudra-Gupta, Kumara-Gupta ecc.,
erano ancora più generosi verso la causa del buddhismo. Esistono abbondanti testimonianze in
forma di documenti di donazione di terreni e di dedica di monasteri e templi incisi su lastre di rame
che danno prova della straordinaria munificenza loro nei confronti di monaci buddhisti. In un
periodo di benessere sociale senza precedenti, come testimonia un viaggiatore straniero, i monasteri
e le istituzioni buddhisti erano diventati estremamente ricchi e prosperosi. L’aspetto stesso dei
monasteri erano cambiati, da semplici edifici funzionali a costruzioni architettoniche con torri e
altri abbellimenti esterni ed interni. Ovviamente, pure in forma di resti archeologici, solo una
minima parte delle costruzioni e creazioni buddhiste di questo periodo – quelle realizzate in roccia
– rimane oggi. Anche se non attribuibile direttamente al patrocinio di Gupta, i monasteri e templi di
Ajanta, Karle e Kanheri, scavati in roccia, appartengono, in parte almeno, al periodo dei Gupta. In
modo particolare, le sculture e pitture che adornano le grotte di Ajanta risalgono a questo periodo, e
sono considerate emblematiche della perfezione artistica raggiunta nel periodo Gupta che, come
abbiamo ricordato, rappresenta l’età d’oro per l’arte indiana di ogni tipo. Una nuova finezza di
composizione e una nuova vena di creatività e maestria di esecuzione sono evidenti in esse. I temi
principali degli affreschi di Ajanta riguardano la vita del Buddha e le storie delle sue esistenze
precedenti raccontati nei Jataka. Ma a differenza delle loro rappresentazioni conseguite nell’arte
buddhista precedente, ciò che colpisce qui è la finezza artistica della loro esecuzione. Tra una
trentina di grotte che oggi si vedono ad Ajanta, sedici contengono pitture murali. Molte grotte
contengono pure le sculture, che si distinguono dalle sculture buddhiste precedenti di Gandhara e
Mathura, per la perfezione dei loro lineamenti, la leggerezza di forma, e soprattutto per la loro
capacità di trasmettere il senso religioso della saggezza (prajna) e compassione che si associano con
le figure di Buddha e di Bodhisattava, e che trovano riflesso nei loro volti sereni e pose meditative.
Sappiamo dal Mahavamśa che il re Meghavarna di Sri Lanka mandò un’ambasceria con
doni da Samudra-Gupta per chiedere il permesso di costruire un monastero accanto al sito
dell’illuminazione del Buddha, a Bodha-gaya, per ospitare i monaci pellegrini cingalesi. In seguito,
un enorme monastero fu costruito nel 388, e questo era uno dei tre e sei monasteri che i pellegrini
cinese Fa-Hsian e Hsüan-tsang videro attorno al tempio di Mahabodhi a Bodha-gaya all’inizio del
quinto e settimo secolo rispettivamente.3 Il tempio di Mahabodhi stesso fu ingrandito nel periodo in
discussione ad opera dei buddhisti birmani. Collegabili più direttamente al patrocinio dei re Gupta
sono però i grandi centri di studio buddhisti che sorsero nel periodo.
I monasteri buddhisti erano da sempre luoghi di un certo tipo di attività intellettuale
connesso con la memorizzazione e la trasmissione dei testi religiosi e la loro interpretazione. Con
l’andare del tempo, l’esigenza di una corretta e intellettualmente difendibile comprensione delle
dottrine buddhiste spinse i monaci allo studio della logica, metafisica, linguistica ecc. Ad ogni
modo un’enfasi sullo studio naturalmente faceva parte della mentalità buddhista, poiché la salvezza
stessa era in qualche modo identificata con la conoscenza vera e il suo acquisto. Se nei primi secoli
della storia del buddhismo, lo studio era concepito primariamente in relazione alla comprensione
della fede, questo si cambia nei secoli successivi per far posto ad una concezione più liberale dello
studio e dei suoi scopi. Nel periodo Gupta vediamo la crescita di questi nuclei monastici di studio
fino ad assumere lo status di prime università, cui curriculum, oltre a includere le materie
strettamente religiose, comprendeva anche scienze secolari ritenute utili. Già il testo Milinda-panha
del secondo secolo contiene una lunga lista di materie che venivano studiate in India. 4 La
grammatica, logica, medicina, matematica, astronomia e filosofia di varie scuole quali lo Yoga,
Samkhya e Nyaya, certamente facevano parte del curriculum di queste istituzioni educative. Non
solo da tutta l’India, gli studenti venivano da tutto il resto del mondo buddhista di quel periodo,
dallo Sri Lanka, dalla Birmania, dalla Cina. Secondo le testimonianze, il primo e il più grande, e
3
D.C. AHIR (ed.), A Panorama of Indian Buddhism. Selections from the Maha Bodhi Journal (1892-1992), Sri
Satguru Publications, Delhi 1995, pp. 515-516.
4
D.C. AHIR (ed.), A Panorama of Indian Buddhism, p.416.
senz’altro il più famoso, di queste università monastiche era quella di Nalanda, fondata nel 427 da
Kumara-Gupta,5 che rimasta attiva per circa un millennio fino alla scomparsa definitiva del
buddhismo dall’India. Altre simili istituzioni verranno fondate col tempo in varie parti dell’India:
nel settimo secolo esistevano a Valabhi, Vikramaśila, Odantapuri e Jagaddala università buddhista
che diffondevano il sapere religioso e secolare. Mentre Nalanda sembra che fosse una sede di studio
accademico particolarmente associata alla corrente mahayana, l’indirizzo intellettuale
dell’università di Valabhi sembra che fosse più in sintonia con le posizioni dottrinali dello
Hinayana. Nalanda, secondo, Hsüan-tsang poteva dare l’alloggio a più di diecimila alunni, e
metteva a disposizione numerose sale capaci di accogliere più di cento studenti. A giudicare dai
resti archeologici che si possono ammirare ancora oggi, Hsüan-tsang certo non esagerava. Le
università erano mantenute da sostanziosi contributi da parte dei sovrani. Si suppone che il motivo
per una simile generosità da parte dei Gupta, che comunque erano induisti, era la percepita utilità di
queste istituzioni in ordine alla promozione del sapere da cui si beneficiava in qualche modo tutta la
società.
Il periodo Gupta resta importante per la storia del buddhismo indiano anche per altre
ragioni. Il buddhismo stesso cambiava il volto attorno a questo periodo con il sopravvento della sua
forma mahayana, le cui basi dottrinali sono ben visibili nella letteratura prajna-paramita. Il
Mahayana era più che altro un movimento popolare estroverso che rifiutava il modello tradizionale
della religiosità buddhista monacale concepita alla guisa di una ricerca solitaria di salvezza al riparo
da ogni contatto con il mondo, e in cui il Buddha stesso era visto come un essere umano che aveva
semplicemente indicato la via alla salvezza. Ciò a cui si assiste nel periodo in considerazione è
dunque un’esplosione di devozionalismo nel buddhismo, che ha per il suo sfondo storico una simile
effervescenza di devozione verso le divinità occorsa nell’induismo poco prima. K. N. Upadhyaya
vede nella tradizione bhagavata dell’induismo, che produsse testi come la Bhagavad-gita e la
sezione ‘Narayaniya’ del Mahabharata, gli antecedenti storici del bhakti (devozionalismo)
mahayana.6 Ad ogni modo, sta di fatto che in questo periodo il graduale processo della
divinizzazione del Buddha giunge al culmine, e ci si assiste inoltre ad un fenomenale aumento dei
numeri e delle figure dei buddha e dei bodhisattva, maschili e femminili, principali e subordinati,
con i loro guardiani e aiutanti. Infatti la schiera di figure divine e semi-divine del buddhismo di
questo periodo non aveva nulla da invidiare con l’impressionate panteon induista. La devozione
verso i buddha e bodhisattva nel Mahayana era finalizzata sia per ottenere benefici terreni, sia per
ottenere una rinascita nei mondi celesti, sia per ottenere la salvezza finale con l’aiuto delle loro
grazie. Ed essa trovava espressione nella costruzione di templi dedicati a vari buddha e bodhisattva,
installazione delle loro statue e immagini nei templi e monasteri, celebrazione di feste in loro onore
e la loro venerazione per mezzo di un culto multiforme, sostanzialmente adottato dall’induismo. Il
Bodhicaryavatara di Śantideva infatti descrive i riti religiosi mahayana, che sono praticamente
uguali a quelli induisti del puja. Si potrebbe notare che è verso la fine del periodo dei Gupta, in cui
si assiste più che altro ad una graduale diminuzione delle differenze tra il buddhismo e l’induismo,
che avvenne anche il curioso fatto dell’inserzione del Buddha stesso nel panteon indù. 7 Più di un
purana (raccolte di mitologia) induista infatti menziona il Buddha tra i tradizionali dieci avatara
(incarnazione) del dio Vishnu. Si sa anche dell’esistenza di figure del Buddha nei diversi templi
induisti, a cui erano anche accordate tutte le venerazioni riservate alle divinità indù. Questo
rappresenta un fatto particolarmente significativo per la storia del buddhismo in India, poiché,
secondo molti studiosi, una delle cause che contribuirono alla sua eventuale scomparsa dall’India fu
proprio questa graduale perdita della sua identità distintiva rispetto all’Induismo.
Il declino definitivo e la scomparsa quasi totale del buddhismo dall’India avvenne però
molto più tardi, verso la fine del dodicesimo secolo, con l’instaurazione del sultanato islamico a
Delhi. Ma già verso la metà del quinto secolo gli Unni bianchi, originari dell’Asia centrale,
5
M. D’ONZA CHIODO, Buddhismo, Editrice Queriniana, Brescia 2000, pp.72-73.
6
A.K. NARAIN (ed.), Studies in History of Buddhism, B.R. Publishing Corporation, Delhi 1980, pp.354-355.
7
S. DUTT, Buddhist Monks and Monasteries of India, p.196.
cominciarono a invadere le zone nord-occidentali dell’India devastandone i monasteri. Lo stesso si
ripeterà anche quattro secoli più tardi quando i musulmani cominceranno a far scorrerie nell’attuale
Pakistan e Punjab. Dopo la disfatta dell’impero dei Gupta, avvenuta verso la metà del sesto secolo,
il buddhismo trovò ancora appoggio di re potenti in buona parte del territorio dell’India. Il re
Harshavardhana, che regnò dal 606 al 647 su quasi tutta l’India settentrionale, era probabilmente un
seguace del buddhismo. Il pellegrino cinese Hsüan-tsang, il cui soggiorno in India coincise con il
suo regno, ci parla dello stato ancora fiorente del Buddhismo in molte parti dell’India. Così anche i
re della dinastia Pala, che regnarono sulle regioni nord-orientali dell’India, dal 750 fino alla fine del
secolo XI erano tutti di religione buddhista e favorirono non poco al suo sviluppo.

Il pellegrinaggio di Fa Hsian
Nato nell’anno 374 in una regione della Cina che oggi si chiama Shansi ad una famiglia
buddhista, Fa Hsian (il suo nome cinese viene traslitterato in diversi modi: Fa Hian, Fa Hien, Fa
Xian ecc.) è diventato famoso per il suo leggendario viaggio in India di cui lasciò un racconto
affascinante nel suo Fo Kuo Chi (“Documentazioni sui regni buddhisti”). Fa Hsian (il nome
significa lo ‘splendore della legge’, un nome assunto da monaco; originariamente si chiamava Sehi)
anche contribuì sia al rafforzamento del buddhismo in Cina, introducendone dei testi che ancora
erano ignoti in Cina, sia alla conservazione di alcuni testi buddhisti del canone sanscrito grazie alle
traduzioni che ne fece in cinese; ma forse il suo servizio più grande è stato quello di aver lasciato
alle posterità delle chiare e preziose informazioni sulla vita sullo stato del buddhismo nel quinto
secolo d.C. Grazie alle descrizioni abbastanza particolareggiate di Fa Hsian, è possibile avere oggi
un quadro dell’India buddista prima che il buddhismo fosse riassorbito dall’induismo e fatto
scomparire del tutto dalle invasioni musulmane. Le sue descrizioni spesso corroborano le
informazioni che provengono da alter fonti, e soprattutto servono a interpretare i resti archeologici
che altrimenti rimangono muti.
La motivazione che spinse Fa Hsian a mettersi in viaggio per l’India era religiosa, ed è
descritta già all’inizio del racconto: era rattristato a vedere che in Cina i ‘precetti e le opere
teologiche’ buddhiste erano incompleti e sul punto di essere persi.8 Era partito o nell’anno 399 con
un gruppo composto di altri quattro (ancora altri si assoceranno al gruppo durante il percorso) in
cerca di documenti autentici della religione in India, un viaggio che diventerà lungo e avventuroso
e pieno di pericoli: alcuni dei suoi compagni moriranno per via, altri si rifiuteranno ad andare
avanti; molte volte Fa Hsian smarrirà la strada e cadrà in mano ai briganti e ladri. La prima tappa
del viaggio fu ‘Tun-hang’, noto come l'ingresso alla Cina, una città commerciale che era un luogo
di ritrovo per i commercianti provenienti da diversi paesi. Il re del luogo ricevette ed aiutò Fa Hsian
ed i suoi compagni per il loro ulteriore viaggio. Da lì si diressero verso un luogo nominato nel
racconto come ‘Shen-Shen’. Ma prima bisognava attraversare il deserto di Gobi. Fa Hsian riferisce
in modo drammatico l’attraversata del deserto. “Ci sono spiriti maligni e vento bruciante nel
deserto: chiunque l’incontra muore. Non ci sono né uccelli nell’aria né bestie sulla terra. In tutte le
direzioni, fin dove arriva lo sguardo, non si scorge che il mare di sabbia. Uno guarda lontano in
tutte le direzioni in cerca di un sentiero per attraversare il deserto, e non ne trova nessuno. Solo le
ossa essiccate di persone che vi erano morti, tentando di attraversalo, servono come guida per
scegliere la via da seguire.”9 Dopo un viaggio di 17 giorni e notti attraverso il deserto Fa Hsian
finalmente giunse a Shen-Shen dove soggiorno per un mese. Racconta i costumi e le abitudini del
suo popolo, e osserva che era un paese governato da un re buddhista e il buddhismo praticato lì era
dello Hinayana. Da lì, dopo aver traversato altri regni e superato ancora altri pericoli, Fa Hsian
raggiunse il paese di Khotan. Lui lo descrive come un paese ricco, civilizzato e buddista. Le
persone qui trovano soddisfazione nell’osservare i precetti e nell’ascoltare al Dharma. Ci sono
decine di migliaia di monaci buddisti che appartengono alla corrente Mahayana, e lui stesso trovò
8
The Pilgrimage of Fa Hian. Foe Koue Ki (edizione originale in francese di MM Remusat Kalpreth e Landress),
Cosmo Publication, Delhi 2000, p.1.
9
The Pilgrimage of Fa Hian, p.2.
l’alloggio in un monastero nomitato ‘Gomati’ appartenente all’ordine di Mahayana. Descrive la vita
del monastero: “al suonare del gong, tremila monaci si radunano per il pranzo. Quando entrano nel
refettorio, si comportano in modo grave e cerimonioso; si siedono secondo l’ordine stabilito;
mangiano in silenzio; non fanno acciottolio con le loro ciotole; non alzano la voce per richiamare
l’attenzione dei servitori per avere più cibo, ma solamente fanno segni con le mani.” 10 Fa Hsian
annota che qui molti cittadini avevano di fronte alle loro case piccoli stupa. Fa Hsian racconta
anche una festa buddhista di Khotan che lo impressionò grandemente. All'inizio di un particolare
mese le strade della città vengono scopate, annaffiate e decorate. All’ingresso della città viene
eretto un enorme palco. Il re e la sua regina e i cortigiani si presenziano per la festa. Da un punto
fuori della città si inizia un corteo guidate da monaci. Un carro, circa 9 metri alto e bellamente
decorato è tirato per le strade. Il carro contiene una statua di Buddha che è circondata da altre
figure divine e figure dei Bodhisattva. Molte statue sono o d’oro o d’argento. Quando il corteo si
avvicina alla porta della città il re toglie i suoi ornamenti regali e le scarpe, e si prostra di fronte al
carro che contiene la statua del Buddha. Fa Hsian osserva che ci sono molte feste di carro di questo
tipo. Ogni vihara organizza una festa di carro, e questo periodo di festività dura per 14 giorni. 11
Partito da Khotan, alla fine di una faticosa tappa di viaggio attraverso le montagne e i fiumi
di Hindu Kush, che durò venticinque giorni, Fa Hsian finalmente raggiunse la valle di Kashmir. Il
sentiero attraverso le montagne era stretto e scivoloso, e pieno di pericolosi precipizi. Ad un certo
punto, la montagna si presentava semplicemente come un “muro di pietra alto 8.000 piedi, e
quando uno gli si avvicinava, diventava confuso. Se uno dovesse commettere un piccolo errore, non
c’era più nulla da fare per salvarlo. Sotto c’era il fiume dell’Indo. I primi che avevano cercato la
scalata avevano cesellato dei gradini sulla roccia per creare una scala di settecento gradini”. 12 Fa
Hsian nota che il re del Kashmir (‘Kashgar’) era buddista. Lui ricevette anche l’invito a partecipare
ad un locale, quinquennale concilio buddhista tenuto sotto gli auspici del re. Secondo lui, la
maggioranza buddhista nel Kashmir era costituita da praticanti dello Hinayana. Lui nota nel suo
racconto di aver visto la sputacchiera usata dal Buddha e la reliquia del suo dente presso i buddisti
del Kashmir. Tra i buddhisti qui circolava anche la tradizione su una visita del Buddha in questi
luoghi durante la sua vita. Da qui, passando per Udhyan, Gandhara e Taxila Fa Hsian arrivò a
Peshawar. Qui vide molti monumenti buddhisti. Menziona in particolare lo stupa costruito da
Kanishka, che conteneva la ciotola usata dal Buddha e che avrebbe avuto degli effetti prodigiosi. Il
Madhya-deśa (la zona centrale del nord-India) era in un certo senso la meta del suo viaggio, e vi
arrivò passando per il nord-ovest e Punjab. La dinastia Gupta regnava su quasi tutta l’India. Fa
Hsian visitò posti quali Mathura e Kanuj, e tutti i luoghi importanti legati alla vita e attività del
Buddha: Kapilavastu, Sravasti, Kośambi, Kosala, Kuśinagara, Sarnath, Gaya, Pataliputra,
Rajagriha ed altri, e annotò le sue impressioni. Lo stato di degrado in cui era caduto Kapilavastu
colpì il visitatore: era come un grande deserto, non c’erano né re né persone, la città pressoché in
rovina. In una situazione simile si trovava anche Kuśinagara. Fa Hsian rimase colpito da
Pataliputra, che non era più la capitale dell’India, ma poté ancora ammirare le rovine degli edifici,
stupa e ospedali costruiti durante in periodo di Aśoka. In complesso Fa Hsian rimase stupito dalla
straordinaria vitalità che fede buddista ancora conservava in India. Osservò che i monaci buddisti
erano numerosi, ben onorati e rispettati. Stanze con letti e materassi, cibo e vestiti venivano offerti
gratuitamente per monaci residenti e viaggianti, e questo era lo stesso in tutti i luoghi. Rimase per
un lungo tempo a Pataliputra, discutendo con i maestri di varie sette buddhiste, studiando i testi in
sanscrito con gli studiosi buddisti, e trascrivendo il Vinaya della scuola di Mahasanghika. Acquisì
anche la versione del Vinaya dei Sarvastivada e il famoso Mahaparinirvana-sutra mahayana.
Fa Hsian visitò anche l'India meridionale. Tra le altre cose che vi osservò, egli parla di un
sangharama (monastero buddhista), scavato nella roccia, a cinque piani con 500, 400, 300, 200 e
100 nei diversi piani a partire da pian terreno. Dall'India meridionale ritornò a Tamralipti (odierno
10
The Pilgrimage of Fa Hian, p.19.
11
The Pilgrimage of Fa Hian, pp. 19-20.
12
The Pilgrimage of Fa Hian, p.40.
Calcutta) e per via marittima raggiunse ‘il regno dei leoni’ (Sinhala, Ceylon), l’attuale Sri Lanka.
Anche in Sri Lanka Fa Hsian visitò i più importanti centri buddhisti, discusse le dottrine buddhiste
con eminenti maestri e si procurò le copie del Vinaya della scuola Mahishasika e parti del canone
sarvastivada. Ma ormai Fa Hsian sentiva la nostalgia per il suo paese. Alla vista di un mercante
cinese fare un’offerta di un ventilatore di seta bianca ad una figura del Buddha, Fa Hsian non poté
trattenere le lacrime.13
Nell’ultimo capitolo del suo racconto Fa Hsian narra il suo viaggio di ritorno in Cina, il che
non fu meno avventuroso di quello d’arrivo. Scelse la via marittima per il ritorno. Dopo aver
passato due anni in Sri Lanka salì su bordo di una nave che lo avrebbe portato al paese di ‘Han’ in
Cina. Era una nave che trasportava le merci, che poteva ospitare anche duecento viaggiatori a
bordo. Ma appena dopo due giorni di navigazione la nave andò incontro ad una burrasca. Furono
gettati nel mare tute le merci di un certo peso; a Fa Hsian fu concesso però di trattenere la sua
collezione di testi e di immagini sacre. Si temeva in ogni momento l’affondamento della nave. Fa
Hsian collaborò con l’equipaggio per pompare l’acqua dalla nave. Egli scrive: “Il mare era vasto,
immenso, senza confini; non si distingueva né l’est né l’ovest… Nella notte si vedevano enormi
onde collidere l’una contro l’altra, fulmini di color fuoco, tartarughe, coccodrilli, mostri marini e
altri prodigi. I mercanti erano molto preoccupati. Il mare era senza fondo, non c’era nemmeno una
roccia presso la quale fermarsi. L’unica cosa da fare era pregare a Avilokiteśvara a farli arrivare al
paese di Han”.14 Dopo tredici giorni e notti di andare alla deriva la nave approdò ad un’isola piena
di pirati, e da lì finalmente raggiunge l’isola di Giava, nell’odierna Indonesia. Fa Hsian rimase lì
per sei mesi, e quindi s’imbarcò di nuovo su una nave diretta per la Cina. Ma i guai per lui non
terminavano nemmeno qui. Anche stavolta la nave di Fa Hsian si trovò in un mare tempestoso. Per
di più, Fa Hsian corse il pericolo di venire abbandonato in qualche isola, poiché secondo le
divinazioni di alcuni sacerdoti brahmini che erano sulla nave la causa di tutti i loro guai era la
presenza di Fa Hsian sulla nave. Fu salvato da un co-viaggiatore che minacciò di denunciare i
brahmini e l’equipaggio al re all’arrivo della nave a Han. Così, dopo settanta giorni di navigazione,
quando le scorte erano esaurite da giorni, la nave di Fa Hsian finalmente raggiunse le coste della
Cina. Il viaggio di ritorno aveva durato in tutto duecento giorni, e la sua mancanza dalla Cina ben
quattordici anni. Fa Hsian attesta che in questi anni aveva attraversato non meno trenta regni
diversi.15 Il resto della sua vita, la dedicherà a tradurre in cinese i preziosi testi che aveva portato
con sé con tanta fatica.

Hsüan-tsang
È più citato nei manuali della storia dell’India rispetto al suo predecessore per il motivo che
le sue testimonianze fanno luce sulla situazione generale – non solo buddhista – dell’India del suo
tempo. Si tratta del periodo tra il 629 e 645: questi erano gli anni del suo soggiorno indiano. Hsüan-
tsang nacque nel 603 nella provincia di Chin-li-yu in Cina, in una famiglia che aveva già dato vita a
molti uomini dotti. Hsüan-tsang era l'ultimo dei quattro ragazzi. Era, secondo tutte le testimonianze,
bello, educato e spiccatamente intelligente. Da molto giovane era entrato nel Vihara (monastero) di
Loyang, con una speciale dispensa. Si trasferì di vihara in vihara in cerca di maestri che avrebbero
potuto illuminarlo sulla vera dottrina del buddhismo. La conoscenza ed i chiarimenti che poté
trovare presso i buddhisti di Cina lo lasciarono insoddisfatto; si rese conto che c’erano molte
discrepanze negli insegnamenti buddhisti offerti nei monasteri della Cina. Dunque, come fece Fa
Hsian due secoli prima, Hsüan-tsang si mise in viaggio per l’India per scoprire la vera
interpretazione del Dharma buddhista.
Anche Hsüan-tsang entrò in India per via terra seguendo l’unico percorso praticabile allora,
e cioè attraverso il Hindu Kush, Afghanistan e Pakistan correndo gli stessi pericoli che corse Fa
Hsian. Per un pelo scappò da una freccia tirata contro di lui, e resistette alle allettanti offerte di un
13
The Pilgrimage of Fa Hian, p.364.
14
The Pilgrimage of Fa Hian, p.392.
15
The Pilgrimage of Fa Hian, p.395.
re di farlo suo ministro.16 Ma era fortunato a incontrarsi con il grande Khan dei Turchi occidentali
che si era accampato in un posto chiamato Issiq-Kul. Saputo lo scopo del viaggio di Hsüan-tsang, il
Khan offrì protezione ufficiale per le successive tappe del viaggio. 17 Nell’Afghanistan d’oggi,
Hsüan-tsang passò per Bamiyan e vi vide molti monasteri con migliaia di monaci in essi e anche
osservò le due colossali statue del Buddha. Al suo arrivo in India attraversò diverse città, Udhyan,
Nagarahara, Gandhara, Pushkalavati, Taxila, Peshawar ecc., e osservò che il buddhismo in questi
luoghi sperimentava una lenta ripresa in seguito alle invasioni degli Unni e le distruzioni che
causarono. Sulla situazione in Peshawar scrisse: “ci sono migliaia di monasteri buddhisti che sono
in rovine, e offrono uno spettacolo triste. La maggioranza degli stupa è anche in rovine.”18 La
situazione buddhista in Udhyan non era affatto migliore. In Kashmir gli fu accordato un cordiale
benvenuto dal suo re, e trascorse circa dune anni nella valle del Kashmir e nei luoghi vicini. Attesta
che c’era un centinaio di monasteri e circa 5.000 monaci nel Kashmir.
Dopo altre soste, una presso un bramino versato nella filosofia madhyamaka, si recò
finalmente nel Madhya-deśa, fermandosi per un periodo a Kanuj (Kanyakubja) che era a questo
tempo la capitale del più grande regno dell’India, quello creato da Harshavardhana. Di questo re
buddhista scrisse: “il suo regno era giusto e umanitario. Lui dimenticò di mangiare e bere
nell’esecuzione dei suoi doveri”.19 Come Fa Hsian prima di lui, Hsüan-tsang visitò tutti i luoghi
buddhisti consacrati da fama. Ma a differenza del racconto di Fa Hsian, ciò che si notano nelle
opere di Hsüan-tsang sono alcune indicazioni di un declino del buddhismo in India che forse
cominciava a farsi sentire. Apparentemente non molto era cambiato in questi due secoli: c’erano
ancora numerosi monasteri, e monaci che si contavano in migliaia. L’università di Nalanda era
ancora fiorente. Infatti, Hsüan-tsang soggiornò a Nalanda per lunghi anni studiando varie
discipline, e riferisce che c’erano circa 10.000 studenti a Nalanda, tra cui molti stranieri. Per gli
studenti venivano offerti gratuitamente l’alloggio, cibo, medicina e vestito. Secondo Hsüan-tsang a
Nalanda si poteva studiare il pensiero di tutte le diciotto scuole buddhiste. Si poteva studiare inoltre
la filosofia Samkya-Yoga, la logica Nyaya ecc. Egli menziona Śiladitya (o Śilabhadra) come il più
grande maestro del periodo, e Hsüan-tsang stesso fu uno dei suoi studenti. 20 Doveva essere il
pensiero Yogacara che impressionò di più Hsüan-tsang. Infatti, una buona parte dei 675 testi che
porterà con sé al suo ritorno in Cina sarà la letteratura yogacara. Oltre a tradurre questi testi in
cinese, comporrà anche un testo, in parte traduzione e in parte originale, Ch’eng Wei-shih lun, nel
quale esporrà la filosofia yogacara.
Dopo gli studi di Hsüan-tsang visitò l’India del sud. Dalle sue descrizioni appare che la
città di Kanchipuram, la prestigiosa capitale dei Pallava, nell’attuale Tamil Nadu, era un
prominente centro buddhista. Lui menziona Kanjipuram come la patria di Dharmapala che era un
grande santo e maestro buddista. In questo luogo egli avrebbe visto più di 10.000 monaci residenti
in un centinaio di vihara di buddisti, e più o meno 80 templi induisti. Vide pure molti monaci che
andavano completamente nudi (i digambara). Il vihara di Konkanpuri attirò l’attenzione di Hsüan-
tsang e la sua festa annuale durante la quale veniva esposta una corona dorata considerata
appartenente al Buddha Siddhartha. Sebbene desiderasse visitare lo Sri Lanka, ciò non fu possibile
a causa di una guerra civile che vi era in corso. Tornò a nord dell’India e a Nalanda. Nel 643 fece
parte in due assemblee buddhiste, a Kanuj e Allahabad, convocate da re Harshavardhana. 21 A
quanto sembra, verso la fine del suo soggiorno Hsüan-tsang era diventato molto famoso in India.
Alla sua partenza per la Cina gli fu accordato un solenne addio.
Ovviamente arrivavano anche altri visitatori cinesi in India, che erano spesso motivati o dal
desiderio religioso di conoscere i luoghi sacri associati al nome del Buddha o per studiare le

16
P.V. BAPAT (ed.), 2500 Years of Buddhism, p.232.
17
P.V. BAPAT (ed.), 2500 Years of Buddhism, p.234.
18
P.V. BAPAT (ed.), 2500 Years of Buddhism, p.236.
19
P.V. BAPAT (ed.), 2500 Years of Buddhism, p.237.
20
P.V. BAPAT (ed.), 2500 Years of Buddhism, p.239.
21
P.V. BAPAT (ed.), 2500 Years of Buddhism, p.240.
dottrine buddhiste. Iit-sing era un altro viaggiare famoso che emulò l’esempio di Fa Hsian e Hsüan-
tsang e riportò in Cina circa 400 opere buddhiste disponibili in India. Comunque, egli scelse la via
del mare sia per arrivare sia per ritornare. Arrivato in India nel 673, Iit-sing vi rimase fino al 685,
visitando molti luoghi buddhisti in India e studiando per lunghi anni a Nalanda. 22 Raccontò questi
viaggi e esperienze due libri che sono ricchi di informazione sullo stato del buddhismo. E le sue
testimonianze indicano chiaramente di un declino del buddhismo in India, che, come sappiamo, con
l’andare del tempo diventerà sempre più inarrestabile. La sua decadenza in questo periodo fu, tra
l’altro, a causa dell’affermarsi di un devozionalismo fervente induista rivolta al culto di Vishnu e
Śiva che attirava persone di ogni strato sociale.

22
P.V. BAPAT (ed.), 2500 Years of Buddhism, p.242.
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