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Giornalisti, basta carcere ma ancora querele

- Andrea Fabozzi, 23.06.2021

Libertà di stampa. La Corte costituzionale accoglie l’impostazione della Corte europea. (Quasi)
cancellata la detenzione in caso di diffamazione aggravata che restava nell'ordinamento da oltre 70
anni. I giudici delle leggi costretti a intervenire per l'inerzia del parlamento. Che resta tale anche
per il problema delle querele temerarie

L’articolo della legge italiana che ancora prevede il carcere come pena per la diffamazione
aggravata a mezzo stampa è incostituzionale. È un articolo il 13 della legge sulla stampa del 1948
che aveva oltre settant’anni, ieri la Corte costituzionale lo ha cancellato. L’ha fatto sulla spinta di
una serie di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno condannato il nostro paese
per questa arcaica previsione, da Strasburgo giudicata niente di meno che una lesione della libertà
di espressione.

La Corte costituzionale ha deciso ieri (presidente Coraggio, relatore Viganò), ma in realtà aveva
già deciso il 9 giugno del 2020 in una delle sempre più frequenti ordinanze di «incostituzionalità
prospettata», quando cioè aveva dato un anno di tempo al parlamento perché intervenisse con una
nuova legge. Perché, disse allora la Corte, solo il legislatore può bilanciare i due principi in gioco, la
«tutela della reputazione individuale» e la «libertà di manifestazione del pensiero, in particolare con
riferimento all’attività giornalistica». Ma il parlamento non è intervenuto. Anche se non mancano i
disegni di legge sull’argomento. Prevedono la cancellazione del carcere per la diffamazione sia il
disegno di legge presentato al senato da Caliendo di Forza Italia, sia due disegni di legge presentati
alla camera da Verini del Pd e da Liuzzi dei 5 Stelle. Solo il primo è stato esaminato ma non è andato
oltre la commissione del senato. E così è arrivata ieri la decisione «telefonata» della Consulta, il
replay di quello che era già successo di fronte a un’identica inerzia del parlamento sul fine vita.

La Corte ieri però si è limitata a dichiarare l’incostituzionalità della legge sulla stampa del ’48 che
prevede il carcere da uno a sei anni insieme a una multa pecuniaria nei casi di accertata
diffamazione a mezzo stampa aggravata (lo è quando c’è l’attribuzione di un fatto determinato falso).
Non ha invece raccolto la richiesta, che pure le arrivava dai tribunali che avevano sollevato la
questione di costituzionalità (Salerno e Bari), di cancellare anche l’articolo 595 del codice penale,
che prevede il carcere per la diffamazione semplice a mezzo stampa da sei mesi a tre anni ma in
alternativa alla pena pecuniaria. Questo perché la Corte costituzionale ha deciso di accogliere
l’impostazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, che facendo salvo il diritto degli stati di
determinare le sanzioni penali ha ripetutamente stabilito che la previsione del carcere per i
giornalisti si giustifica solo per fatti di particolare gravità che comportano la lesione concreta di
diritti fondamentali o costituiscano incitamento alla violenza. Viceversa la minaccia della detenzione
costituisce di per sé una coercizione della libertà di espressione, e di stampa, anche quando non
dovesse essere materialmente eseguita. Come non lo fu nel caso pilota che ha inaugurato la
giurisprudenza in materia della Corte Edu, quello che riguardò due giornalisti rumeni nel 1996. E
non lo è stato nemmeno per i primi due casi che hanno comportato una condanna dell’Italia,
entrambi del 2013, in cui Strasburgo ha dato ragione prima ad Antonio Ricci e poi a Maurizio
Belbietro, condannati entrambi a 4 mesi di carcere per diffamazione. Alla detenzione, seppure
domiciliare, è invece arrivato Alessandro Sallusti, condannato a un anno e due mesi nel 2012 anche
lui da direttore del Giornale come Belpietro e anche lui per aver diffamato un giudice ma graziato
dal presidente della Repubblica Napolitano dopo tre settimane. Anche Sallusti ha ottenuto nel 2019
la condanna dell’Italia per la sproporzione della pena.

Soddisfazione hanno espresso sia la Federazione nazionale della stampa che l’Ordine nazionale dei
giornalisti. Ma una volta cancellata o resa ancor più improbabile la prospettiva del carcere, per i
giornalisti resta la ben più concreta minaccia delle querele temerarie. Anzi, la (semi) rimozione di un
residuo antistorico dall’ordinamento come la pena della detenzione per i giornalisti, rischia di
diventare l’alibi per le camere che hanno ampiamente dimostrato di non considerare una priorità la
tutela della libertà di stampa. Camera e senato già nella scorsa legislatura, malgrado ben quattro
letture parlamentari, non riuscirono ad approvare una legge di sistema (riprodotta nella sostanza nel
disegno di legge Verini). E in questa legislatura è arrivato in aula ma è fermo da oltre un anno, al
senato, il disegno di legge del 5 Stelle Primo Di Nicola che punta a limitare le querele temerarie,
stabilendo che chi agisce con malafede o colpa grave contro un giornalista deve essere condannato a
risarcirlo per almeno il 25% della somma che gli aveva ingiustamente chiesto.

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