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Silvia Guetta
Introduzione
il libro nasce dalla necessità di scoprire le migliori pratiche che facilitano il vivere e il condividere il
benessere e quali siano i contributi teorici e metodologici nazionali e internazionali che educano alla
cultura della convivenza pacifica. Tre percorsi intrecciati: intra/inter-cultura, inter/intra-religioso e
pace. Tutto questo si presenta come una sfida contro ogni forma di condizionamento e adattamento
passivo alla realtà che, spesso ci coglie impreparati dentro un mondo che si fa sempre più
complesso, globalizzato, conflittuale e autodistruttivo.
E’ necessario dare spazio al dialogo, inteso come potenzialità di cambiamento/trasformazione del
pensare, un dispositivo interessante per la disponibilità e l’apertura al confronto. Il tema
dell’intercultura diviene necessaria per sviluppare il dialogo e l’educazione a una cultura di pace, al
fine di promuovere e sostenere la convivenza pacifica, partendo dal riconoscimento dei diritti
umani, delle pari opportunità e delle questioni di genere per arrivare a distruggere gli stereotipi
culturali responsabili di razzismi, marginalità e disuguaglianza.
L’Europa ha il compito di dare priorità all’educazione alla pace, costruendo processi di reciproca
conoscenza e inclusione. È dentro questa ottica che il religioso, come esperienza educativa, viene
ripensato e vissuto dentro gli spazi del laico che dialoga con quella spiritualità con cui gli essere
umani si interrogano sui misteri della vita, ponendo l’educazione al dialogo interreligioso come
strumento di opposizione ad ogni forma di fondamentalismo e di estremismo. I differenti modi
religiosi devono dialogare anche con ciò che religioso non è, per aprirsi e confrontarsi.
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come apertura di entrata di persone in cerca di nuovo posto dove vivere. Il mare è stato il canale più
utilizzato, e i primi ad arrivare sono stati soprattutto uomini. La distribuzione delle comunità si
presenta come policentrica, costituita cioè da vari gruppi etnici (più di 100 nazionalità di
provenienza). La natura del fenomeno migratorio si è negli anni modificata per l’aumento
dell’arrivo dei gruppi, per la tipologia delle persone interessate e per gli scenari internazionali di
conflitti armati e di emergenze naturali. Gradualmente sono apparse le donne, i bambini e i ragazzi,
testimonianza della sofferenza causata da gravi situazioni umanitarie. La questione dei minori non
accompagnati è un fenomeno che ha preso forma agli inizi degli anni ’90 ed è andato gradualmente
aumentando interessando tutta l’Europa. I minori stranieri non accompagnati sono soggetti
fortemente vulnerabili e necessitano di una protezione e di una tutela che ne garantisca sia la
protezione dai pericoli, ma anche lo sviluppo della persona come indicato nella Convenzione dei
diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza; in molti casi però i minori subiscono gli stessi sistemi di
espulsione degli adulti.
Le esperienze delle nuove generazioni, chiamate secondo generazioni, fanno pensare che il modello
multiculturale, che considera la coesistenza di gruppi, delle culture e delle religioni, l’uno accanto
all’altro, ma separati e senza necessità di riconoscimento reciproco, è stato superato da quello
interculturale dove prevale l’interazione tra le persone portatrici di molteplici riferimenti culturali e
il riconoscimento-valorizzazione delle diversità. È a partire dagli anni ’90 che nella scuola italiana
comincia a delinearsi la tematica e poi il paradigma dell’intercultura: in un primo momento si
impegna a rispondere a specificità come l’emergenza, l’accoglienza, le differenti madrelingue, la
diversità e lo svantaggio e con gli anni rinforza il riferimento alla diversità come risorsa umana
positiva, dell’educazione al dialogo, alla reciprocità e alla costruzione condivisa di convivenze
sociali. Per diversi anni la percezione dello svantaggio è stata associata all’idea che i bambini
essendo privi di riferimenti linguistici e culturali richiesti dalla società di accoglienza, dovessero
conseguentemente trovarsi in una condizione di limitate possibilità di apprendimento. Ciò ha reso
possibile il grande investimento nei confronti dell’insegnamento dell’italiano come L2 come aspetto
centrale della tematica dell’intercultura. Solo dopo, si è diffusa la cultura dell’accoglienza e
dell’attenzione nei confronti della diversità. Questo ha determinato una forma di separazione che
può esprimersi nella forma noi e gli altri, dove nel contenitore degli Altri vengono posti tutti coloro
che non appartengono alla cultura occidentale in senso generale e italiana in particolare. Da qui la
considerazione che gli autoctoni siano tutti uguali e che solo gli immigrati siano carichi di diversità.
Questo non ha dato modo di poter esplorare altre forme di diversità che caratterizzano la realtà (di
genere, socio- economiche…).
Nella scuola italiana, a partire dagli anni’90, si sono succedute tre macro-fasi che caratterizzano il
rapporto tra educazione e interculura:
1. La scuola risponde all’emergenza e fa posto agli alunni stranieri: la scuola fa fronte ad una
situazione inaspettata e alla quale gli insegnati e lo stesso sistema scolastico non erano
preparati. C’è stato un immediato tentativo di cercare di comprendere le problematiche
rispondere alle nuove richieste sociali.
L’educazione interculturale viene riconosciuta come aspetto e impegno della scuola nel
1990 con la circolare ministeriale n° 250 che fornisce indicazioni operative per
l’inserimento degli alunni stranieri nelle scuole in un sistema formativo integrato. La scuola
ha dovuto rispondere con i mezzi e le risorse che possedeva, alla necessità di costruire gli
spazi dell’integrazione e dell’accoglienza, in contrapposizione agli stereotipi che si sono
insidiati. Per semplicità gli immigrati venivano ricondotti ad una tipologia di diversità e
stereotipati per facilitare la comprensione delle caratteristiche dell’altro.
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2. La scuola si organizza, attivandosi per l’integrazione degli alunni stranieri: già a partire dalla
fine degli anni ’90 il Consiglio d’Europa ha focalizzato la propria attenzione sul problema
del pluralismo interculturale, con la necessità di far fronte agli episodi di razzismo e di
antisemitismo. Su questa nuova idea di incontro tra le appartenenze si costruisce la necessità
di abbandonare il modello di assimilazione sociale e culturale delle minoranze, dove
l’integrazione è vista come un’azione che deve compiere chi si trova in una situazione che la
società ritiene “di diversità”. Sono i “diversi” che devono avvicinarsi ed inserirsi nelle
norme e regole sociali, culturali, scolastiche, allo scopo di integrarsi alla maggioranza
L’integrazione diventa l’obiettivo finale del percorso scolastico perché un eventuale
fallimento potrebbe condurre a forme di disagio e di marginalità.
Molti sono gli elementi di criticità che limitano il successo dei percorsi di integrazione: non
corrispondenza tra classe di inserimento e età anagrafica, mancata organizzazione di corsi di
lingua italiana fuori dall’orario scolastico, idea che la non conoscenza della lingua italiana
equivalga ad una mancanza di ogni tipo di conoscenza linguistica e che la sua mente sia una
tabula rasa. Indubbiamente l’apprendimento della lingua italiana è un importante elemento
facilitatore, forse il più importante per integrarsi nella scuola ed apprendere i contenuti, ma
non è l’unico. In alcuni casi i bambini parlano la lingua del paese ospitante ma hanno
comunque difficoltà ad inserirsi nel gruppo dei pari ed a comprendere la prassi, in gran parte
implicite, che la vita e il sistema scolastico educativo richiedono. È necessario
accompagnare questi casi con specifici interventi di mediazione per favorire l’acquisizione
di strumenti utili volti alla comprensione di quello che va oltre le parole ed è componente
fondamentale del sistema sociale: sono momenti molto delicati che possono generare nel
bambino una percezione di sé negativa.
3. La scuola elabora una nuova prospettiva interculturale nella prospettiva dell’inclusione e
dello stare insieme: Allo scopo di essere coerenti con un modello di educazione
interculturale partecipata, è necessario coinvolgere tutti gli interessati in ogni fase del
processo
Dall’integrazione all’inclusione
A quale scopo è pensata l’integrazione e quali sono i suoi obiettivi finali? L’integrazione è un
processo continuo o limitato nel tempo?
Il modello di integrazione si collega al bisogno di rendere un po’ meno diversi gli immigrati.
L’integrazione auspica a interventi mirati che recuperano bambini immigrati, considerati come
bambini-problema, con un approccio che vede il coinvolgimento di tutta la classe.
G. Favaro riguardo agli obiettivi dell’integrazione, individua alcuni indicatori considerati
fondamentali per monitorare l’apprendimento, le interazioni e le identità personali:
1. l’inserimento e l’andamento del percorso scolastico;
2. l’acquisizione in progress delle competenze della lingua italiana;
3. la qualità delle relazioni in classe, gli ambienti, il tempo e gli spazi dell’extrascuola;
4. il mantenimento all’uso e al riferimento alla lingua materna;
5. la continua attenzione agli aspetti motivazionali e di autostima.
L’integrazione è uno scenario in trasformazione e tutti quelli che vi partecipano, sono portati ad
agire insieme.
Il processo di integrazione non può essere considerato uguali per tutti. Tutti i bambini devono essere
accolti dando spazio ai loro bisogni, aspettative e risorse in modo che possa essere vissuta
un’integrazione calda.
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E’ necessario andare oltre l’integrazione per entrare nella prospettiva dell’inclusione. L’inclusione
guarda con uno sguardo più ampio al processo di relazione scolastica, educativa e formativa. Con
l’educazione inclusiva è possibile rispostare l’attenzione sul fatto che ogni bambino, in situazione di
apprendimento, è un soggetto modificabile ma che, il miglioramento delle capacità e competenze di
apprendimento è dipendente dalla qualità della relazione educativa proposta. Quindi devono essere
garantiti i metodi e le didattiche, le tecniche e gli strumenti che favoriscono l’inclusione di tutti i
bambini: è necessario individuare quali sono le barriere che limitano o impediscono la
partecipazione e l’apprendimento individuale e quello cooperativo e quali sono i bambini che per
vari motivi hanno difficoltà a vivere queste esperienze di apprendimento. Quale natura hanno gli
ostacoli e come è possibile dare ai bambini gli strumenti per costruire le strategie utili a superarli.
La loro presenza può essere dovuta a molti fattori (esogeni: dipendono dalle relazioni con
l’ambiente di vita o edogeni) e cause.
FEUERSTEIN utilizza due criteri della mediazione che possono essere significativi per lavorare nei
processi di inclusione educativa. Mediazione intesa come esperienza di apprendimento mediato,
ovvero stabilire relazioni educative che siano in grado di trasmettere ai bambini conoscenze utili per
potersi adattare all’ambiente presente e prossimo, significa fornire prerequisiti e strumenti necessari
per renderei bambini capaci di imparare ad imparare.
• Mediazione del comportamento di condivisione: prepara il bambino a riconoscere il
bisogno, la necessità e l’importanza di cooperare con gli altri uscendo dal proprio sé ed
accettare che gli altri partecipino alle sue vicende. La mediazione è costruita sugli
aspetti che riguardano le competenze di ascolto reciproco ed empatia, il rispetto
reciproco. La condivisione è un bisogno fondamentale dell’individuo: per questo il
bambino agisce molto precocemente per apprendere i comportamenti di condivisione, la
quale può essere costruita solo nella reciprocità del sentire, del pensare e del fare.
• Mediazione dell’individualità e della differenza psicologica: pone importanza alla
necessità di distinguersi dagli altri. L’attenzione educativa è rivolta a dare modo ai
bambini di sentirsi individui distinti dagli altri. Questo comporta anche la necessità di
prendersi cura, ascoltare, credere in sé stessi: per poter stare bene con gli altri è
necessario stare bene con sé stessi. Il processo di individualizzazione comporta la
definizione dell’unicità di ogni essere umano e stabilisce un confine tra sé stessi e gli
altri.
La mediazione lavora sulla consapevolezza che è necessario riconoscere le potenzialità e le
caratteristiche della persona nella loro complessità, dimostrando così rispetto per la sua dignità e la
sua privacy.
I due criteri sono complementari, entrambi necessari per favorire le dinamiche che interessano i
processi di inclusione, di rispetto e di dialogo con la diversità. Sta ad ogni singola persona
arricchirsi nella diversità costruendo la condivisione e la partecipazione piuttosto che l’opposizione,
il protagonismo, la competizione escludente.
La scuola dell’inclusione mette come priorità la costruzione di processi formativi di qualità capaci
di coniugare i successi negli apprendimenti con la diffusione di una cultura dei diritti e della pace,
del sapere vivere insieme attraverso la reciproca conoscenza, la valorizzazione di tutti, la
cooperazione e la partecipazione responsabile del gruppo classe. A questo si aggiunge l’importanza
di educare ad una visione ottimistica in grado di guardare al futuro con gli strumenti della criticità e
della scelta. Ogni persona può scegliere se orientarsi verso un’alternativa pessimistica o ottimistica
della vita. La prima scelta può portare a situazioni di difficoltà, di passività e di progressiva scarsa
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autonomia; la seconda scelta dipende dalle qualità relazionali ed educative ricevute. Se l’inclusione,
sostenuta dall’alternativa ottimistica, viene assunta come principio guida del lavoro educativo, deve
essere attuato un cambiamento nella formazione dei sistemi, che richiede sfide a livello sociale e
culturale.
L’educazione inclusiva è quindi vista come un processo costantemente orientato a rispondere a
differenti bisogni di attenzione, ascolto, relazione intervento di ogni soggetto come parte della
comunità.
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importante nella diffusione dei contatti tra persone che vivono in realtà lontane e
culturalmente differenti.
Il dialogo interculturale e interreligioso ha il duplice scopo di essere strumento di prevenzione alle
scissioni e ai conflitti violenti e possibile stabilizzatore delle pratiche dell’incontro e dello scambio.
Il dialogo interculturale ci porta a percepire la diversità come espressione di una ricchezza
comunitaria, diversità percepita come vicina.
La capacità di dialogare con l’altro e di riconoscersi tutti appartenenti alla stessa comunità
planetaria, necessita una riformulazione del pensiero, sostenuta da Morin. Esso guarda al futuro
ponendosi la domanda del “destino comune”. L’impegno è di formare una democrazia cognitiva che
faccia percepire alla stessa umanità, di essere una comunità di destino.
Negare il dialogo e l’incontro significa negare la formazione dell’identità planetaria. Il dialogo
interculturale è lo strumento per il rispetto e la salvaguardia dell’ecologia, per la formazione di una
coscienza ecologica.
Il dialogo interculturale ha come condizione di partenza la rinuncia all’etnocentrismo occidentale,
che è parte integrante della nostra storia e del nostro sistema educativo (basta pensare al modo in
cui le “altre” società sono presentate nei testi scolastici).
Il dialogo interculturale è come il lavoro che il cervello umano compie quando fa circolare
un’informazione e quando questa entra nel circuito della mente: attiva sinapsi di collegamento e di
scambio, sinapsi che permettono tipologie differenti di informazioni e collegamenti grazie alle
innumerevoli connessioni attivabili.
Il dialogo non è una relazione che s’improvvisa, richiede esercizi di decentramento cognitivo,
emotivo, spirituale e fisico. È necessario acquisire l’abitudine di essere proattivi piuttosto che
reattivi (passivi). Essere reattivi significa non scegliere liberamente e non fare uso del libero
arbitrio. Come la riflessione interiore, anche la competenza di convivialità può essere acquisita
grazie ad un percorso formativo che fornisca metodo e strumenti capaci di incoraggiare e alimentare
queste azioni.
Infine la disponibilità al cambiamento, all’apertura dei propri orizzonti richiede volontà e un forte
impegno di adattamento creativo. Questa è una competenza culturale che fa propria la capacità di
aprire al dialogo, incontro e trasformazione a più livelli e su più campi.
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stata importante per dare avvio ad altri importanti momenti di riflessione. Nel 2001 viene approvata
la dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale e si apre la decade a sostegno della cultura di
pace e della non violenza per i bambini del mondo. È nel 2006 che viene firmato un accordo per il
lancio della rete UNESCO Chairs of Interreligious Dialogue for Intercultural Understanding.
L’obiettivo è quello di promuovere le ricerche e gli studi per facilitare la reciproca comprensione tra
differenti religioni, dare impulso allo scambio di interessi comuni. L’UNESCO cerca attraverso la
cultura del dialogo di trovare gli strumenti per fermare il continuo dilagarsi di stragi e violenze.
L’UNESCO ha cercato di promuovere la reciproca interazione tra tradizioni religiose e spirituali da
una parte, e dall’altra, il bisogno di promuovere la reciproca comprensione sfidando e combattendo
i pregiudizi che spesso alimentano forme di esclusione e violenza nei confronti di chi appartiene a
tradizione diverse rispetto a quelle ammesse all’interno degli Stati.
La conoscenza di esperienza diverse permette di uscire dall’isolamento delle problematiche da
affrontare creando una condivisione delle questioni più urgenti e di individuare dei criteri base utili
a proporre metodologie appropriate per promuovere l’insegnamento del dialogo interreligioso.
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La realtà italiana e la presenza delle tradizioni religiose
Nella storia del secondo dopo guerra è stato posto l’accento sull’importanza delle libertà
individuali, di opinione e di espressione religiosa. Quella religiosa è stata la prima libertà ad essere
rivendicata nei confronti dello stato.
La chiesa cattolica ha sempre avuto un ruolo egemone per lo sviluppo della cultura italiana e nei
confronti delle altre comunità di credenti. Nel corso della storia ha fornito la costruzione di
rappresentazioni dell’Altro come l’alterità negativa tollerabile solo se disponibile alla conversione.
Per lungo tempo la forte spinta all’assimilazione che la religione di maggioranza imponeva in varie
forme sulle minoranze si è intrecciata anche con le forme di emarginazione e di espulsione delle
altre fedi (esperienza plurisecolare di chiusura della popolazione ebraica dentro i ghetti). Con la
supremazia del culto cattolico vengono a mancare stabili garanzie per le altre confessioni e si
determinano gravi libertà di coscienza e di culto.
Nel 1848 lo Statuto Albertino si impegnava a riconoscere come culti ammessi l’ebraismo e il
protestantesimo, culti che però mantenevano un rapporto di minoranza e dipendenza con il
cattolicesimo.
1871: Legge delle guarantigie: all’indomani dell’annessione di Roma allo Stato Unitario, si cercò di
regolamentare i rapporti con la Santa Sede. Una legge non accettata dalla Chiesa, che creò un forte
conflitto nella co unità dei credenti fino ai Patti Lateranensi.
I Patti Lateranensi (1929) sanciscono un accordo tra stato e chiesa, riconoscendo l’ammissione di
un credo religioso superiore agli altri, in particolare a quello ebraico e protestante. Un previlegio
che ancora oggi crea disuguaglianza e incomprensioni culturali, se non proprio pregiudizi che
impediscono di vedere la realtà nella quale quotidianamente viviamo.
Nell’art 7 della Costituzione si parla del rapporto tra stato e chiesa (indipendenti e sovrani) e si
sottolinea che i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Nell’art. 8 si sostiene che la
Costituzione considera le altre tradizioni religiose affermando che tutte le confessioni sono
egualmente libere davanti alla legge.
Le prime consultazioni avviate furono con le comunità già storicamente presenti nella realtà sociale
e culturale italiana come quella cristiana e successivamente quella ebraica. Le trattative con le altre
tradizioni religiose prendono avvio agli inizi degli anni ’90 per concludersi con le comunità
buddista e induista nel 2013. Per quanto sia sempre più presente la presenza di numerosi
appartenenti alla tradizione islamica, rimane ancora aperto il processo di consultazione con questa
comunità.
Lo strumento del dialogo favorisce il diritto di pari riconoscimento, pari opportunità, pari spazio di
espressione per tutte le tradizioni religiose.
In Italia manca una legge capace di garantire la libertà religiosa e di promuovere il dibattito a
sostegno della crescita della società civile che deve investire nel pluralismo piuttosto che
nell’omologazione.
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L’esperienza proposta da questo programma vuole partire dalle innate capacità di sviluppo
spirituale dei bambini facendo in modo che questa crescita e apertura possa stimolare la creatività e
l’intelligenza ed essere un contributo al benessere di tutta la comunità.
Spiritualità e religione non esprimono la stessa cosa: la spiritualità è la possibilità di percepire
l’altro, pur rimanendo sintonizzati con la realtà e sentendoci parte del genere umano e dell’universo.
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sviluppo della cultura della guerra. Per confutare le costruzioni pseudoscientifiche sostenitrici di
una giustificazione della guerra come espressione naturale dell’aggressività umana, tale
dichiarazione presenta 5 enunciati che cercano di chiarire e di rispondere anche all’annoso
problema sulla natura violenza dell’essere umano:
1. Scorrettezza dell’assunzione che gli esseri umani abbiano ereditato dagli animali la
tendenza a fare la guerra. Ogni azione di guerra è un prodotto culturale e non un’azione
mossa dall’istinto di difesa.
2. Falsa credenza che la natura umana sia programmata per un comportamento violento.
Esiste sempre un’interazione tra ciò che una persona eredita dal punto di vista biologico,
e i contesti culturali dove sviluppa la sua formazione.
3. Confutare l’assunto che, nel corso della storia, il comportamento aggressivo abbia avuto
maggiori rinforzi rispetto ad altri e per tale motivo se ne sono giustificati la presenza e il
mantenimento. Il porre scarsa attenzione alle pratiche di cooperazione e collaborazione
che nelle esperienze sociali di tutti i popoli sono presenti è una precisa scelta culturale,
offre una legittimazione della violenza, la giustifica e la rende naturale.
4. Nullità dell’affermazione che gli essere umani hanno un cervello violento: l’apparato
neurale può reagire in modo violento a degli stimoli, ma ciò non significa che sia
programmato per un comportamento sempre distruttivo. Oltre ad un sistema complesso
che filtra gli stimoli, entrano in gioco anche altri fattori come la volontà e la
consapevolezza che possono orientare in una direzione piuttosto che in un’altra.
5. Scorrettezza dell’affermazione che la guerra è causata dall’istinto o da una specifica
motivazione. In realtà la guerra prevede una preparazione raziale, tecnica, operativa.
Bisogna vagliare la pluralità di elementi che entrano in azione per comprendere le ragioni del
conflitto.
La Dichiarazione afferma che non può esserci alcuna giustificazione scientifica, letta in termini
biologici, antropologici, sociali o ambientali che giustifica e/o condanna gli essere umani alla guerra
perpetua. Affermazione che le guerre iniziano nella mente degli esseri umani.
Human Security
Si parla di questo concetto a partire dal 1994 (nella documentazione prodotta dall’UNDP=
programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo). Il centro del discorso è l’essere umano, in quanto
soggetto agente e ricevente dei diritti dello sviluppo e della sicurezza (aspetti che conducono
sempre al valore della dignità umana).
Come sostiene Kofi Annan non c’è sicurezza se non c’è sviluppo, e viceversa. La sicurezza umana
pone attenzione al problema della sicurezza delle persone dalle minacce che ledono i loro diritti
(fame, diffusione di malattie, devastazioni ambientali povertà...), e possono essere causa di
conflitto, oltre che di sfruttamento e abuso. La necessità di pensare al concetto di Human Security
nasce dalla consapevolezza che situazioni di stress, paure, condizioni di povertà sono cause di
conflitto e di violenza. Il rapporto HDR (Human Development Report: pubblicazione annuale)
conteneva un progetto “Carta Mondiale Sociale” in cui le Nazioni Unite avevano il compito di
provvedere alla garanzia della pace e della sicurezza umana globale.
Nel XXI tale concetto è diventato una misura prioritaria di sicurezza globale per tutto il paese. La
sicurezza è il segno distintivo della libertà dalla paura mentre il benessere è l’obiettivo di libertà dal
bisogno. Correlazione stretta tra costruzione della convivenza pacifica e gli aspetti di sicurezza
umana come quella economica, alimentare, sanitaria, personale e ambientale. Tale concetto può
diventare un potente strumento di cambiamento per la società del XXI secolo. La Human security
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non deve essere più dipendente dai risultati finali delle guerre (favorire investimenti di prevenzione
piuttosto che di intervento).
Sviluppo Umano
La definizione di Human Development compare per la prima volta nel report UNDP nel 1990, tale
concetto non si rapporta necessariamente ad aspetti di tipo economico e quantitativo, piuttosto ad un
maggiore accesso per tutti gli abitanti del pianeta terra, alla conoscenza, alla padronanza del know-
how e delle competenze partecipative e decisionali. Fattori che permettono di aumentare o di creare
un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita locali e globali. Uno dei principali obiettivi
dello sviluppo umano è la costruzione condivisa di un ambiente di benessere per le persone e di
garantire a tutti un continuo miglioramento delle conoscenze e della qualità della vita, prolungando
le aspettative di vita. Si differenzia dalle precedenti strategie di sviluppo per la considerazione
dell’intera popolazione umana, senza nessun tipo di esclusione. Nella Carta di Copenaghen (1995)
sono sintetizzate le linee programmatiche dello sviluppo umano: sostenibilità e trascendenza.
La sostenibilità è il modo con il quale gli essere umani compiono delle azioni e delle scelte
pensando alle conseguenze future per le nuove generazioni e la trascendenza è la competenza di
comprendere che ciò che viene fatto nella quotidianità ha delle conseguenze nel futuro.
Nonostante la presenza di strategie e dichiarazioni internazionali, sono ancora poco aiutate le realtà
svantaggiate che si trovano costrette a vivere differenti forme di deprivazione e di degrado, come
quello ambientale e culturale. Situazione che creano disparità e crisi, accompagnate a un mancato
investimento nell’educazione e nella formazione delle nuove generazioni, determinando in modo
esponenziale condizioni di povertà e violenza.
Lo sviluppo umano non si basa solo sul reddito nazionale, ma anche sul tasso di alfabetizzazione e
aspettativa di vita.
L’ UNESCO collega quanto considerato da Delors, circa i 4 pilastri dell’educazione, con le
conoscenze e le competenze di base per impostare un percorso di sviluppo umano integrato alla
promozione dei diritti umani e della cultura di pace. È importante considerare due aspetti: chi sono
le nuove generazioni e quale tipo di educazione le sta preparando. La formazione è fondamentale
perché è responsabile delle modalità di costruzione dei saperi.
Sviluppo sostenibile
Il concetto di sviluppo sostenibile è un concetto ampio e ricco di significati diversi a seconda del
contesto in cui prende forma. Dagli anni ’90 si sottolinea la necessità di “costruire e praticare uno
sviluppo partendo dalla gestione sostenibile delle risorse locali, dalla lotta radicale contro le forme
di inquinamento e dalla gestione pacifica delle diversità umane presenti nel territorio”.
Anche il tema dello sviluppo sostenibile entra nell’educazione con le tematiche del cambiamento
climatico, della riduzione del rischio delle catastrofi, della biodiversità.
Nel 1998 la Dichiarazione di Belem ha messo in evidenza la necessità di considerare lo stretto
rapporto tra diversità biologica e culturale, sottolineando come attraverso un reciproco
coinvolgimento sia possibile garantire il rispetto sia per gli esseri umani che per la natura.
È possibile considerare come la cultura sia il dinamico rapporto tra ambienti e bisogni umani e
come le condizioni ambientali siano la spinta all’agire in modo positivo o negativo.
È importante considerare il contributo delle tecnologie allo sviluppo e alla ricerca di alternative alla
rigenerazione ambientale. La formazione deve sensibilizzare alle problematiche ambientali, fornire
competenze di osservazione sulle diverse forme di relazioni tra esseri umani e ambiente e creare
formae mentis capaci di trovare soluzioni creative e innovative.
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Pratiche di educazione alla pace e costruzione di competenze sociali
L’UNESCO ha sviluppato un forte interesse per i contenuti dell’educazione alla pace e con la
Dichiarazione di Siviglia pone un’attenzione particolare al rapporto tra educazione e conflitti
armati. Un rapporto che per lungo tempo è stato letto solo in modo unidirezionale. E’ necessario
studiare l’educazione come strumento attraverso il quale il sistema politico e sociale mantiene, non
solo il controllo e l’ordine, ma diffonde la cultura della guerra attraverso i sentimenti di paura,
opposizione e odio del nemico. Al tempo stesso, l’educazione può prevenire la violenza e i conflitti
tra Stati.
Intervenire nella comprensione di quali aspetti del curriculum scolastico possono rimuovere il
conflitto, in una direzione di cambiamento e di rinnovo, riflettendo su quale rapporto esiste tra
sistema scolastico e sistema sociale. Devono essere esplorati quali tipi di valori, conoscenze,
competenze, atteggiamenti e comportamenti sono stati utilizzati prima e quali necessitano di
cambiare per incoraggiare ogni forma di rispetto per la dignità umana, la diversità all’interno dei
contenuti e delle discipline scolastiche.
L’analisi deve essere svolta secondo un approccio dialogico e partecipato, ponendo l’attenzione
l’attenzione verso la sensibilità al conflitto, che considera come concetti chiave la comprensione dei
contesti nei quali l’educazione si svolge e si realizza, l’analisi dei processi di integrazione tra
contesti, politiche, programmi e le azioni per ridurre al minimo gli impatti negativi e massimizzare
gli impatti positivi delle politiche educative. Evitare la ricostruzione, nel post conflitto, di strutture
educative che possono aver contribuito al conflitto.
L’analisi permette di definire degli indicatori per educare nel modello dell’inclusione e della
partecipazione, a una diversità sensibile come strumento di comprensione dei processi sociali e
culturali che convivono e agiscono su uno stesso territorio.
Un ulteriore passaggio che riguarda il processo di educazione sensibile al conflitto, considera anche
l’interconnessione tra l’approccio del peacebuilding e la sensibilità al conflitto. Questo approccio
promuove relazioni pacifiche, rafforza gli impegni politici, socio-economici e culturali delle
istituzioni per creare le condizioni necessarie a una pace sostenibile.
L’educazione alla pace, come sostiene la Montessori, deve essere attivata fin dalla prima infanzia:
forme di violenza colpiscono i bambini di ogni età e ciò avviene a casa, a scuola, sono veicolate dai
mass media. La formazione deve essere accompagnata da competenze e abilità capaci di
riconoscere ed intervenire con soluzioni di mediazione creative ai conflitti intra e interpersonali.
Mediazione che è possibile costituire solo a partire da se stessi, senza creare alcuna dimensione di
dipendenza o sottomissione dagli altri.
L’educazione alla pace richiede una costruzione continua di modelli e strumenti da adattare alle
situazioni e alle questioni da affrontare nella quotidianità, spiegando bene come la pace sia un
processo che non ha fine. Nessuno da solo può risolvere grandi problemi ma la collettività può
portare a grandi cambiamenti, smuovere le opinioni. L’educazione deve sviluppare una
positiva attitudine nei confronti del mondo, attraverso:
• sostegno alla cooperazione: problem solving e ricerca creativa di soluzione di fronte al
succedersi dei conflitti;
• il rispetto per se stessi e per gli altri;
• consapevolezza dei bambini di riconoscere che ogni essere umano è distinto dall’altro;
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• consapevolezza del ruolo pervasivo, in tema di violenza e di guerra, degli strumenti di
informazione, dei giochi elettronici che simulano azioni di guerra, di combattimento e di
morte;
• rapporto con la natura e la comprensione delle sue trasformazioni, delle bellezze e del loro
rispetto;
• stimolazione dell’immaginazione e della creatività attraverso le forme artistiche del corpo.
Galtung (esperto mondiale di studi per la pace e fondatore nel 1959 dell’International Research
Institute di Oslo) riflette su come deve essere considerata l’educazione alla pace nelle scuole.
L’educazione alla pace entra con difficoltà nelle proposte formative scolastiche, posizionandosi
soprattutto su un piano inferiore rispetto a quanto sviluppato nell’ambito della ricerca e dell’azione
sociale. E’ necessario, invece, un rapporto armonico tra le ricerche per la pace, l’educazione alla
pace e l’azione: non è sufficiente nei curricula inserire riferimenti all’educazione alla pace se questa
non si trasforma in azioni.
Galtung, inoltre, apre la riflessione sul significato del conflitto, della sua natura e della necessità di
includerlo dentro i modelli di educazione alla pace (essere nel conflitto, “litigare è un diritto dei
bambini”). Il conflitto è relazione sana, è separazione possibile, è autonomia. Apprendere io
conflitto significa comprendere i concetti di negoziazione e mediazione. Esperienze come queste
possono iniziare già dalla prima infanzia attraverso le attività ludiche che sperimentano la
potenzialità del divertimento e del piacere attraverso la: è attraverso il gioco che è possibile
imparare a saper rispondere in modo creativo e con fantasia alle situazioni complesse, a scoprire
linguaggi nuovi, ad entrare in empatia con i compagni.
La gestione positiva e creativa dei conflitti è un vero percorso che, partendo dalla prima infanzia
arriva fino al liceo.
Nell’esperienza italiana, il rapporto tra educazione alla pace e scuola fatica a decollare sia per lo
scarso investimento culturale e politico, sia per il mantenimento di una tendenza conservatrice.
È eccezione l’accordo tra il MIUR e la ONLUS Save the children, firmata nel 2007, che ha lo scopo
di collaborare per diffondere la cultura di pace e l’educazione non violenta, indicando le linee guida
sull’educazione alla pace.
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di condividere un obiettivo comune e sulla consapevolezza delle caratteristiche che i due popoli
hanno in comune (breve descrizione dei partner e individuazione di somiglianze con la propria
storia).
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