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A Ferro e Fuoco
A Ferro e Fuoco
1914 – 1945
Indice
Capitolo 1: Trockij “La guerra civile è la forma
culminante della lotta di classe”
Capitolo 2: “Anatomia della Guerra Civile”
Capitolo 3 “Guerra Contro i Civili”
Capitolo 4 “La giustizia dei vincitori”
Capitolo 5 “Deflagrazione”
Capitolo 6 “Immaginario”
Capitolo 7: “La critica alle armi”
Capitolo 8: “La cultura tra fascismo e antifascismo”
Capitolo 5 “Deflagrazione”
PREFIGURAZIONI: Pochi eventi nella storia del mondo
moderno hanno avuto un impatto così profondo sulla
cultura europea come la prima guerra mondiale. E rare, al
contempo, sono le grandi svolte epocali altrettanto inattese
e traumatiche. Il pessimismo culturale che si era diffuso
nel vecchio mondo alla fine dell'800, quando si profilava
una messa in discussione dell'idea di progresso a favore di
una visione della modernità come decadenza, non
suscitava il timore di una nuova guerra.
Le prefigurazioni della catastrofe non venivano dalle
scienze sociali, ma dalla letteratura e dalle arti, luoghi
privilegiati dell'immaginario utopico. H.G.Wells nella
“Guerra dei Mondi” preannuncia l'invasione dell'Inghilterra
da parte di un esercito di marziani che vi sperimentavano
armi meccaniche di distruzione di massa: armi chimiche
che prefiguravano non solo gli attacchi di gas a Ypres ma
anche le bombe atomiche della seconda guerra mondiale.
Emile Zola ne “La bestia umana” delinea la metafora del
progresso tecnico come catastrofe, egli parla di soldati
allegri e incoscienti del pericolo. Stravinskij con “Sagra
della Primavera” rimette in luce la visione tradizionale del
mondo: l'eruzione di un primitivismo feroce e selvaggio che
rinnegava le forme di civiltà, di vitalismo che si stacca dal
razionalismo, il rigetto delle convenzioni musicali in nome
della rivolta della soggettività.
FEBBRE NAZIONALISTA: Nell'agosto 1914 le
dichiarazioni di guerra suscitavano un'incredibile ondata di
entusiasmo collettivo in tutte le capitali europee. La febbre
nazionalista conquista rapidamente la cultura,
contaminando gli animi senza quasi eccezione. In
Germania, Thomas Mann nella “Considerazioni di un
impolitico” afferma il proprio disgusto, riprendendo
Nietsche, per i principi dell'Illuminismo, la guerra gli appare
come la continuazione con le armi di uno scontro già
iniziato da tempo nel campo della letteratura. In Austria,
l'ondata sciovinista tocca anche Freud, fiero per la partenza
dei figli per il fronte. In Russia, numerosi sono gli
intellettuali che si arruolano nella crociata contro la
“barbarie germanica”. I nazionalisti italiani, dal socialista
Mussolini al decadentista d'Annunzio, invocano la fine della
neutralità del paese e l'entrata in guerra contro l'impero
absburgico per liberare le terre “irredente” da Trento a
Trieste. Tale ubriacatura patriottica si esaurisce durante la
guerra, la quale rivela un aspetto molto diverso dalla
mitologia che ha invaso le strade delle capitali europee
nell'agosto 1914 e che i responsabili delle grandi potenze,
caduti nell'illusione di una guerra di breve durata, hanno a
loro volta coltivato. In questo contesto, molti intellettuali
abbandonano il nazionalismo per aderire al pacifismo
umanista.
CAMPO DELL'ONORE E MATTATOIO: tra il 1914 e 1918
gli stati d'animo scivolano dall'idealismo cieco e entusiasmo
smisurato allo spavento e all'orrore. Da un lato la guerra
celebra il trionfo di una concezione dell'onore e dell'eroismo
racchiusa nel motto “Pro Patria Mori”ritornata in auge nel
corso del romanticismo. Dall'altro, è proprio la prima
guerra mondiale a seppellire il mito della morte nel campo
dell'onore, svelando gli orrori del massacro tecnologico e
della morte anonima di massa. Ernst Junger in “Tempeste
d'acciaio” parla di un'Europa nuova nella quale lo spirito
cavalleresco è scomparso per sempre, lasciando il posto
alla temporalità di un combattimento sottomesso al
dominio delle macchine. La grande guerra si concluderà
con le commemorazioni al “milite ignoto” e segna il
passaggio dall'una all'altra di queste due immagini
antinomiche, sostituendo la figura dell'eroe con quella del
milite ignoto, la morte nel campo dell'onore con quella
della morte nel mattatoio. La visione della guerra come
mattatoio è abbozzata da Churchill, all'inizio degli anni 20,
e descrive la Prima guerra mondiale come una terribile
ferita inflitta alla civiltà europea. Una guerra che si
distingue da tutte le precedenti per la mostruosa potenza
del fuoco e dei mezzi di distruzione. Il paesaggio politico
che si profila nelle sue parole non è più quello della guerra
classica, ma quello di una guerra totale che inghiotte le
nazioni, nella quale le popolazioni civili si annientano e non
esistono pi regole, se non quella della distruzione completa
del nemico.
Capitolo 6 “Immaginario”
PAURA: Nelle trincee la paura della morte violente è
sempre presente, ineludibile, benché provenga da una
minaccia impersonale e meccanica, anziché da un nemico
in carne e ossa. Al cospetto della violenza e della morte, i
riflessi acquisiti nella vita civile svaniscono. La solidarietà
sembra scomparsa negli esseri umani che stanno lottando
per sopravvivere. I soldati sono ormai morti insensibili
sono ancora capaci di uccidere. Gli attacchi sono
sincronizzati. In ogni trincea, in poche ore il fuoco delle
mitragliatrici nemiche, falciavano migliaia di soldati che,
aspettando l'ordine dell'attacco vivevano istanti pieni di
angoscia. La guerra tecnologica sfigura i corpi e dopo la
battaglia migliaia di cadaveri sono irriconoscibili. La morte
violenta, industrializzata e anonima della guerra moderna
si contrappone alla morte che appartiene alla società
arcaica come un fatto naturale, suscettibile di assumere,
agli occhi dei viventi, un carattere esemplare. → analisi di
Walter Benjamin che prosegue indicando nella grande
guerra una cesura nella quale il vissuto corporale della
morte in combattimento non può essere restituito dal
racconto. Non solo l'esperienza della morte violenta nella
guerra moderna non può essere tramandata, ma neppure
rappresentata, così come nell'arte, anche nella fotografia e
il cinema che abbozzano i contorni di una “guerra cubista”
dominata dalla tecnologia, dalle macchine e l'acciaio,
mostrano un paesaggio di rovine dal quale emerge un
paesaggio di rovine che non lascia intuire, neppure da
lontano, la violenza del massacro seriale. Dopo la prima
guerra mondiale, la morte non sarà più narrata né
rappresentata attraverso un racconto o immagini di lutto
capaci di inscriverla nel flusso ininterrotto di una storia
naturale. La paura sorta nel 900 non ha ancora trovato il
storico, per colmare questa lacuna, Joanna Burke
suggerisce di fare appello all'estesiologia, vale a dire la
conoscenza delle sensazioni e delle emozioni di un mondo
secolarizzato che tende a privilegiare i trattamenti
“anestetici”, allo scopo di neutralizzare i sensi.
Bisognerebbe quindi, in questa prospettiva, esplorare la
cultura della società del dopoguerra ripercorrendo una
“storia delle reazioni corporali ed emotive nei confronti del
mondo esterno”. Ciò vale innanzitutto per la paura della
morte violenta che lascia un marchio profondo sul
paesaggio mentale dell'Europa degli anni '20 e '30. Tale
sensazione di paura non è sempre espressa in modo
esplicito, si tratta più che altro di un'angoscia diffusa e
inafferrabile e che rimane occultata da una parvenza di
civiltà. È la faccia nascosta dagli innumerevoli monumenti
ai caduti che sono stati eretti in tutto il continente. Edvard
Munch “La morte nella stanza della malata” (1893): le
figure della composizione mostrano la pena di una famiglia
riunita attorno al letto di un'ammalata durante l'agonia,
senso di rassegnazione e dolore interiorizzato, clima
austero di decoro e rispettabilità; messo in contrasto con
“La notte” di Max Beckam (1918) che invece mostra
l'omicidio in una soffitta da parte di tre uomini che cercano
di strangolare un uomo, vi è una donna a gambe aperte
come se fosse stata stuprata e una bambina spaventata
che osserva questo spettacolo. In questo quadro, la morte
non ha più nulla di naturale ma appartiene ad un contesto
di caos e violenza.
TRAUMA E ISTERIA: Negli anni fra le due guerre, la
paura della morte violenta diventa materia di studio per un
nuovo ramo della medicina e della psicologia che affronta
le nevrosi traumatiche di cui soffrono i soldati reduci dalla
guerra . Fin dai primi anni del conflitto, la psicanalisi si
interessa a questo problema. Il lessico scientifico si
arricchisce di parole nuove: shock traumatico, isteria di
guerra, nevrastenia, shell-shock. Testimoniando nel 1921
di fronte alla commissione creata dal British War Office per
studiare lo shell-shock, l'ufficiale medico J.F.C Fuller
constata che il soldato esposto in modo prolungato alla
violenza del combattimento, rimane ossessionato dalla
paura, traducendo questa sensazione in un nervosismo che
assomiglia più ad una forma di terrore mentale che a paura
fisica nel senso tradizionale. Lo psicologo militare tedesco
Pick pensa che l'impotenza sessuale osservata in molti
soldati traumatizzati possa essere la conseguenza di una
“paura rimossa della morte”. Dopo aver passato in
rassegna le diverse patologie delle nevrosi di guerra, lo
storico Eric J. Leed constata che tutte condividono la stessa
diagnosi: vigliaccheria, shell-shock, stanchezza da
combattimento, ansietà, depressione ecc.. Dopo aver
raggiunto il corpo, la paura penetra la mente e infrange la
barriera che protegge l'interiorità dalle minacce esterne.
Negli ospedali, i soldati traumatizzati adottavano le stesse
posizioni che avevano in trincea per proteggersi dal fuoco,
potevano chiudersi nel mutismo o lanciare grida
improvvise, amnesia e balbuzie. La fenomenologia della
paura era varia e multiforme. Nell'ambito delle scienze
mediche e antropologiche dell'epoca era molto diffusa la
tendenza a ricondurre tutti questi sintomi a una stessa
malattia moderna, l'isteria. Tutte le manifestazioni della
nevrosi di guerra sembravano coincidere con i tratti
dell'isteria rilevati da Martin Charcot e poi integrati
nell'immaginario conservatore in una visione negativa
dell'isterico come outsider. Nella maggior parte dei casi
questi era identificato con l'ebreo o l'omosessuale, le
incarnazioni idealtipiche della degenerazione del mondo
moderno. Gli outsiders anticipavano le patologie del
soldato rimasto vittima dello shell-shock. Guerra, shell-
shock, follia, isteria, nazionalismo e antisemitismo
sono gli ingredienti della tendenza del fascismo a
trasformare l'angoscia creata dalla guerra in odio del
nemico. Il fascismo aveva innestato il mito della minaccia
bolscevica sull'inquietudine e le insicurezze diffuse nelle
società europee del dopoguerra. Trasformava l'angoscia,
che la psicanalisi definisce un sentimento di timore
generico, incapace di focalizzarsi su un oggetto, in paura di
fronte ad un nemico concreto: il comunismo e la
rivoluzione. Una volta giunto al potere, il fascismo aveva
“istituzionalizzato” questo sentimento di odio attraverso il
ricorso sistematica alla propaganda e il terrore. L'angoscia
nata dalla guerra totale si mescolava così alla paura che
aveva investito le classi dominanti in Europa dopo la
rivoluzione russa del 1917. Le nevrosi legate all'esperienza
traumatica della guerra che affliggevano la generazione
degli ex combattenti erano soltanto l'aspetto visibile di una
paura che non rimaneva prigioniera dei ricordi. Essa
invadeva lo spazio sociale e mentale alla fine di una guerra
totale che aveva reso incerta la frontiera tra combattenti e
civili, nella quale la società civile non era più che la retrovia
del campo di battaglia. La paura collettiva è il soggetto del
film di Fritz Lang M, il mostro di Dusseldorf (1931)
lungometraggio che mette in scena la paura che si
impadronisce della città tedesca dove agisce un infanticida,
e che abita lo stesso assassino, vittima di un impulso
omicida e schizofrenico che scopre con orrore i propri
misfatti. M simbolo di una psicologia collettiva creata dalla
guerra che spinge la società a sottomettersi all'ordine
nazista come a una divinità protettrice. La morte in guerra
non è assente nella fotografia degli anni 20 e 30. Susan
Buck-Morss → interpreta la paura del suo tempo con una
serie di immagini di Hitler, una serie di cartoline postali,
espressione emblematica dell'estetizzazione della politica
tipica del nazismo, queste foto mostrano Hitler mentre sta
pronunciando un discorso. Possiamo intuire il pathos delle
sue parole, di cui conosciamo il messaggio grazie alle
didascalie ai piedi delle immagini. L'aurea che la
propaganda nazista conferisce all'immagine carismatica del
Fuhrer. Questa icona secolare contiene gli elementi sui
quali, negli anni 30, si fondava il culto del nazismo del
capo. Se mettiamo da parte gli elementi convenzionali che
inevitabilmente orientano la nostra percezione di Hitler, se
prescindiamo dalla loro dimensione iconografica, se
dimentichiamo la figura storica, queste foto appaiono come
la rappresentazione del terrore, come l'istantanea di un
attacco di follia. La paura è un sentimento intimamente
legato alla comprensione della storia.
BEHEMOTH: in un saggio del 1955, Hannah Arendt situa
l'esperienza della morte al centro delle preoccupazioni della
generazione intellettuale nata dalla guerra del 1914,
soprattutto in Germania. Il nuovo rapporto con la morte
generato dalla prima guerra mondiale si declina in diverse
forme: dal pacifismo umanista all'esaltazione estetica della
violenza meccanica da parte dei futuristi, dal disprezzo
fascista alla morte mitica nichilista di Junger, che celebra la
guerra come sacrificio rigenerante della nazione.
L'approccio esistenzialista trova la sua espressione più
profonda in Heiddeger, e riguardo la paura della morte
nell'opera “Essere e Tempo” dice: L'essere-per-la-morte
[Sein zum Tode] è essenzialmente angoscia [Angst].
Heiddeger non si riferisce alla morte come conclusione del
ciclo vitale ossia come fenomeno fisiologico e naturale, per
cui è sbagliato identificare questa angoscia con la reazione
occasionale di fronte a un decesso. La morte è definita
come una condizione esistenziale permanente, una
possibilità che domina e schiaccia l'essere in ogni istante,
la modalità neutrale di essere “gettato” [geworfen] nel
mondo, il quale diviene un “esserci per morte”. L'angoscia
che si impadronisce di una vita ridotta ad attesa della
morte ed esprime la comprensione della possibilità della
morte come una condizione ontologica costituisce per
Heiddeger il vertice dell' Eigentlichkeit, la forma più
autentica dell'esistenza. La paura della morte domina il
dibattito filosofico tra le due guerre, Carl Schmitt riprende
il Leviathano di Hobbes, riprende il tema centrale di
protezione e sottomissione, che diventa ora il paradigma
dello stato nell'epoca della guerra totale. Questo ritorno a
Hobber è legato ai suoi occhi ad alcune affinità essenziali
tra l'Inghilterra della rivoluzione cromwelliana e l'Europa
del 900. Secondo Schmitt, Hobbes ha elaborato la sua
visione dello stato nelle “ore gravi della guerra civile”
quando gli uomini si sbarazzano delle loro illusioni
legittimistiche e normativistiche. Nel 1938 Schmitt pubblica
un libro su Hobbes, l'accento è posto sulla dicotomia tra
Leviatano e Behemoth, le due allegorie dello stato e della
guerra civile. La nozione di morte violenta appare ora nella
sua forma più apertamente politica, quella della guerra
civile. Nel Leviathano, in cui lo stato è una
rappresentazione antropomorfica, al contempo un dio
mortale, un corpo artificiale e un meccanismo animato,
quindi umano, la guerra civile è assimilata ad una malattia.
In Behemoth (1682) l'opera che l'ormai vecchio Hobbes
dedica all'analisi della guerra civile inglese, questa è
descritta come un atto di sedizione da parte della plebaglia
incolta e brutale. Le sue origini risiedono nella
disobbedienza e Hobbes non manca di aggiungere che
un'azione repressiva avrebbe potuto sedare tale rivolta
evitando il crollo della monarchia. L'allegoria di Behemoth e
del Leviatano, i due mostri biblici del libro di Giobbe, sono
usate, senza troppe preoccupazioni di tipo filologico, come
metafore politiche dell'anarchia e dell'ordine,
dell'obbedienza e dell'autorità sovrana, della guerra civile e
dello stato. Il bellum omnium contra omnes corrisponde
alla guerra civile, all'anarchia e al comunismo. Il
liberalismo tende a neutralizzare i conflitti separando lo
stato dalla società civile, ma ciò che ottiene è quello di
favorire il ritorno al caos, indebolendo lo stato e
legittimando, con il suo pluralismo, un'uguaglianza
conflittuale. Lo stato, al contrario, trasforma i lupi in
cittadini, sottomettendoli al suo potere. Grazie allo stato, la
forza che assicura “l'esistenza fisica di tutti i cittadini”,
regnano “la calma, la sicurezza e l'ordine”. Durante la
repubblica di Weimae, conclude Schmitt, la democrazia
aveva agito come un pericoloso Behemoth, per questo il
nazismo aveva ricostruito il Leviathano a partire dal 1933.
Nel cuore della seconda guerra mondiale, l'immagine di
Behemoth è usata, ma in un senso del tutto opposto e in
aperta polemica con Schmitt. Il Behemoth è usato come
metafora del sistema di potere nazista, uno stato
totalitario, razzista e imperialista, corroso dalle sue
contraddizioni interne.
GIOVENTU' VIRILE: i protagonisti della guerra civile
europea sono soprattutto giovani, il cui immaginario è
fortemente segnato da un'appartenenza di genere.
L'irruzione massiccia dei giovani sulla scena della storia è
legata innanzitutto ad un mutamento demografico, la
popolazione è raddoppiata rispetto al secolo precedente.
Negli anni fra le due guerre si profila una nuova visione
sociologica della gioventù. I protagonisti della guerra civile
appartengono innanzitutto alla “generazione del fronte”
sorta dalle trincee della prima guerra mondiale, dove ha
ricevuto il suo “battesimo del fuoco”. Entrambi, sia il
gruppo dei bolscevichi in Russia e i nazisti in Germania,
erano formate da giovani di sesso maschile, si
organizzavano come “sette segrete” e coltivavano la
passione dell'attivismo e della violenza. Questo è un
aspetto importante del contesto politico europeo.
Il partito bolscevico che conquista il potere in Russia
nell'ottobre 1917 è formato da giovani militanti e si
ringiovanisce ulteriormente durante la guerra civile. Lenin,
il suo fondatore e capo carismatico, ha 47 anni quando
prende testa del governo sovietico. Trockij ne ha 38.
l'entusiasmo con cui il nuovo regime sovietico vuole
dissolvere la vecchia famiglia “patriarcale e borghese”
rispecchia indubbiamente questa composizione di attivisti
pronti a cambiare tutto. Uno degli slogan del partito
durante la guerra civile: “Abbasso la tirannia capitalista
dei genitori!” In Germania, la rivolta spartachista è
diretta da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, della stessa
età di Lenin, dopo il loro assassinio, la direzione del Partito
comunista è assunta da militanti più giovani. Il principale
dirigente del partito comunista tedesco negli anni 30,
Thaelmann, ne ha 36. I movimenti fascisti formano la
seconda corrente politica capace di attrarre una gioventù
sempre più radicale. Ciò spiega sia la loro retorica
“rivoluzionaria” sia la loro volontà di rigenerare il mondo, di
fondare un ordine nuovo che non ha più niente a che
vedere con il nazionalismo e le ideologie precedenti al
1914. i fondatori del nazismo appartengono alla
Frontgeneration, Hitler è nato nel 1889, Goering e
Rosenberg nel 1893. Il movimento politico che esibisce nel
modo più esplicito le sue radici in seno alle giovani
generazioni, elaborando un vero e proprio “mito della
gioventù”, è tuttavia il fascismo. La rivoluzione fascista che
vuole rigenerare la nazione si presenta come opera di
un'aristocrazia nata nelle trincee, “trincerocrazia” ,
diventata adulta sfidando il mito della morte. Il mito della
gioventù è tanto più forte nel fascismo italiano che, a
differenza del nazismo, non possiede, almeno in fase
iniziale, una visione del mondo basata sul concetto di razza
o di classe. Nel dopoguerra il fascismo riesce a coagulare
un magma di correnti nazionaliste, dal sindacalismo
rivoluzionario al futurismo, ma il suo nucleo centrale è
formato dai militanti venuti dalla generazione del fronte
come Achille Starace, Roberto Farinacci (1892 Dino Grandi
e Giuseppe Bottai (1895). Per un ventennio, il fascismo
coltiva il mito della gioventù tramite una vasta rete di
associazioni sportive e studentesche che istillano tra i loro
membri l'illusione di essere una forza dirigente. Sono del
resto la burocratizzazione del regime e l'invecchiamento
relativo del suo gruppo dirigente a favorire, nella seconda
metà degli anni '30, la formazione di una nuova
generazione meno permeabile alla propaganda, in seno alla
quale si ricostituiscono le organi. Esule a Mosca,Togliatti
aveva intuito questo mutamento alla vigilia del subbuglio
che avrebbe seguito la caduta di Mussolini, la generazione
delle trincee, non c'era più, aveva perso le proprie illusioni
e scoperto il vero volto del regime. L'Italia aveva subito
una svolta generazionale. La seconda guerra mondiale sarà
l'esperienza fondatrice della nuova generazione della
Resistenza, momento decisivo nel quale la generazione
anteriore, “generazione corta” si ritrovava di fronte a
nuove scelte e alla prospettiva dell'azione. Questa nuova
generazione mette fine alla guerra civile europee. I giovani
diventati adulti tra il 1939 e il 1945 non vivono la fioritura
della mitologia della gioventù, ma la sua crisi e il suo
crollo. La Resistenza è il movimento di una gioventù che
non crede più al regime che l'aveva idealizzata e mitizzata.
ALLEGORIA DI GENERE: Sin dalla fine del 700,
Winckelmann ha fissato i codici del maschio, prendendoli in
prestito dall'arte greca: una sorta di ideale fisico, estetico e
morale identificato con l'armonia del corpo, con il coraggio
e la purezza spirituale. Verso la fine dell' 800, il movimento
giovanile tedesco (Wandervogeln, uccelli migratori)
sviluppa questa immagine conferendole un nuovo
significato, ben riassunto dal mito della fratellanza
maschile, il Maennerbund. A partire dal 1914 questo ideale
estetico e morale accentua molto il suo carattere
nazionalista e si identifica con la figura del soldato. La
guerra diventa il luogo di realizzazione dell'archetipo
maschile che si trasforma in virilità aggressiva. Così
definito, l'ideale maschile è inevitabilmente opposto a tutti i
sintomi della decadenza, i cui tratti si concentrano negli
outsiders ed ebrei: lineamenti femminili, sessualità
sfrenata, nervosismo eccessivo e intellettualismo a scapito
dell'attività fisica sono caratteristiche tipiche degli individui
“fuori norma”. Nella sua versione più radicale, nel caso
tedesco, si trasforma in misoginia → “l'amore per le donne
e l'amore per la patria sono antinomici.” Nessuno dubita
che i piaceri del combattimento siano ben più sublimi di
quelli carnali. Secondo Junger la guerra è fatta di brusche
eruzioni di sensualità e la violenza genera un culto virile
esacerbato, provocando un mutamento nei rapporti fra i
sessi.” Essa è vissuta dai soldati come un'esperienza
sensuale, lo scontro del nemico è fonte di estasi. La guerra
totale rimette in discussione la divisione tradizionale tra le
linee del fronte, la società civile appare sempre più
coinvolta, le donne entrano massicciamente nella
produzione per sostituire gli uomini arruolati o si arruolano
loro stesse come infermiere o personale ausiliario. Durante
i grandi eventi, la donna incarna l'immagine della nazione
ereditata dall' 800. Nel 1944, in Francia, la liberazione ha
l'aspetto di una bellezza raggiante avvolta nel tricolore. Ma
l'allegoria non è sempre festiva, siccome il corpo femminile
simboleggia quello della nazione, il suo stupro si trasforma
in una metafora del paese aggredito e martirizzato. Il
fascismo ha ereditato la divisione dei generi tradizionali
spingendole al parossismo attraverso la sua estetica virile e
la sua visione della donna come made prolifica,
riproduttrice della razza e angelo del focolare. Il
comunismo sembra in un primo tempo rompere questo
stereotipo, in Russia i bolscevichi proclamano
l'emancipazione della donna e la dissoluzione della famiglia
borghese, promuovendo l'uguaglianza tra i sessi e
legalizzando l'aborto. Le donne si arruolano numerose
nell'Armata rossa, ma si tratta soltanto di una parentesi
effimera e la divisione tradizionale di genere viene
restaurata nella cultura comunista. Un manifesto sovietico
del 1920 riassume bene la visione gendered della storia
che domina la cultura comunista: il compito di costruire il
socialismo spetta all'uomo, la donna è solo la sua
assistente. George Orwell descrive i primi mesi a
Barcellona in seguito al pronunciamiento franchista, nei
quali i comportamenti, le forme di socialità e
l'abbigliamento subiscono un cambio repentino. In questo
contesto appare una figura nuova: la miliciana, che adotta i
caratteri tradizionali della virilità e rovescia radicalmente la
visione cattolica della donna come angelo del focolare
(àngel del hogar) ampiamente diffusa nella propaganda
franchista. Ma le donne agiscono in seno alla resistenza
civile e scompaiono progressivamente, a partire dal 1937
una rigorosa divisione di genere si impone anche in campo
repubblicano → “Gli uomini al fronte, le donne nelle
retrovie”. Le donne in armi riappaiono nelle immagini della
Resistenza e nei manifesti sovietici della Seconda guerra
mondiale.