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Titolo : A Ferro e Fuoco: La Guerra Civile Europea

1914 – 1945

Indice
Capitolo 1: Trockij “La guerra civile è la forma
culminante della lotta di classe”
Capitolo 2: “Anatomia della Guerra Civile”
Capitolo 3 “Guerra Contro i Civili”
Capitolo 4 “La giustizia dei vincitori”
Capitolo 5 “Deflagrazione”
Capitolo 6 “Immaginario”
Capitolo 7: “La critica alle armi”
Capitolo 8: “La cultura tra fascismo e antifascismo”

Capitolo 1: Trockij “La guerra civile è la forma


culminante della lotta di classe”
Durante la prima metà del Novecento l'Europa ha
conosciuto uno straordinario intreccio di conflitti: guerre
“classiche”, rivoluzioni, guerre civili, guerre di liberazione
nazionale, genocidi e violenze. Molti osservatori
contemporanei hanno presentato questa epoca turbolenta
come una “guerra civile europea”, a coniarla fu il pittore
tedesco Franz Marc, intendendo che la guerra mondiale
non era né una lotta contro un eterno nemico, né un
conflitto razziale, ma una guerra contro il nemico invisibile
dello spirito europeo. Ernst Junger, autore del dopoguerra,
nel 1942 membro dell'Alto comando della Wehrmacht a
Parigi, descrive il conflitto in corso nelle pagine del suo
diario come una Weltburgerkrieg, guerra civile su scala
mondiale che andava ben oltre lo scontro tradizionale fra
grandi potenze per trasformarsi in un incendio generale e
devastante. Ernst Nolte, storico tedesco, cui è associato il
concetto di guerra civile europea che usa per definire il
periodo che si apre nel 1917 con la rivoluzione di ottobre e
si esaurisce con la disfatta del nazismo. Il sottotitolo del
suo libro Nazionalsocialismo e Bolscevismo sottintende già
un'interpretazione di questa guerra civile: un conflitto
generato dal germe totalitario del comunismo, di cui i
crimini nazisti sarebbero solo una copia. Nolte situa il
nocciolo profondo del fascismo nella resistenza alla
trascendenza del mondo moderno, incarnata nella sua
forma più radicale dal marxismo sul piano filosofico e dal
bolscevismo su quello politico. Il fascismo è visto come una
reazione organizzata contro l'avvento della modernità, in
quanto appartenente ad una tradizione coservatrice o
meglio reazionaria. Lo storico tedesco interpreta il 20
secolo come un'epoca dominata dal conflitto radicale fra la
trascendenza e la resistenza contro di essa, ossia fra
rivoluzione e contro rivoluzione, tra comunismo e fascismo.
Secondo Nolte questo scontro titanico che ha lacerato il
mondo dopo il 1917 era stato prefigurato su piano
filosofico da Marx e Nietsche, nell'800 Nietsche era stato il
primo rappresentante di una rivolta contro il mondo
moderno, era una visione della modernità come universo
senza dio né profeti, egli rigettava la democrazia, della
società di massa e del socialismo. Marx aveva invece dato
forma filosofica e politica al grande sollevamento degli
schiavi dell'età moderna e si opponeva a Nietsche come
rivoluzione alla controrivoluzione. Con il bolscevismo quella
“provocazione universale” intuita da Nietsche era divenuta
realtà. Respingendo l'approccio apologetico di Nolte, molti
storici datano l'inizio di questa guerra civile nel 1914, la
prima guerra mondiale segna la fine di una certa idea
dell'Europa e l'avvio di una nuova epoca di crisi, conflitti
sociali, politici e militari che dilaniano il continente come se
fosse in preda ad una guerra civile. Hannah Arendt “Le
origini del totalitarismo” : la grande guerra è descritta
come l'esplosione del vecchio mondo i cui frammenti
cozzavano con violenza gli uni contro gli altri, in un
disordine che non corrispondeva né al vecchio sistema
imperiale né ad un insieme coerente di stati nazionale.
Arendt pone quindi i vent'anni di una pace incerta seguiti al
conflitto mondiale sotto il segno della guerra civile, o
piuttosto di una catena di guerre civili. Francois Furet
considera a sua volta la seconda guerra mondiale un
conflitto che obbediva a una logica dell'ideologia,
situandola nel contesto creato dalla svolta del 1914. Dopo
la conflagrazione scaturita dall'attentato di Sarajevo, la
faccia dell'Europa non era più la stessa. Questa crisi
dell'Europa rimane la matrice del comunismo e del
fascismo, due reazioni antiliberali, antinomiche ma in un
certo senso parallele e gemelle.
ANTECEDENTI: La guerra civile Europea del 20 secolo ha
due antenati: la guerra dei 30 anni (1618 – 1648) e la
Rivoluzione francese, lungo processo di rotture e
trasformazioni che inizia con la presa della Bastiglia e si
conclude con la caduta dell'impero napoleonico (1789 –
1815), entrambe devastanti e cambiarono il volto del
continente.
Il primo ad aver delineato un parallelo tra la crisi europea
del 18 secolo e una futura guerra mondiale fu Friedrich
Engels e durante il secondo conflitto mondiale la guerra dei
30 anni fu evocata più volte. Nel 1942 il politologo tedesco
Neumann suggeriva di guardare i tre ultimi decenni come
un periodo essenzialmente unitario, come una seconda
guerra dei trent'anni. Il paragone compare anche in un
discorso del generale De Gaulle diffuso sulle onde di Radio
Londra nel settembre 1941 e, nell'introduzione di Wiston
Churchill della seconda guerra mondiale, che lo statista
inglese presenta come il racconto di un'altra guerra dei 30
anni. Le analogie fra le guerre del 600 e quelle del 900
sono incontestabili, si tratta in entrambi i casi di guerre
totali e devastanti, non solo per i soldati ma anche per le
popolazioni civili che le hanno subite, insieme a carestie ed
epidemie, bombardamenti, massacri e genocidi. La prima
fu caratterizzata sul piano religioso dal conflitto tra
cattolicesimo e protestantesimo, sul piano politico dallo
scontro tra feudalità e assolutismo; la seconda, invece,
scoppia nel 1914, come un conflitto classico tra grandi
potenze per l'egemonia continentale, ed è proseguita dopo
il 1917 come uno scontro tra rivoluzione e
controrivoluzione per culminare nel 1941 in una guerra tra
visioni del mondo antagoniste. La sua forma politica è stata
complessa e frammentata in una serie di fili intrecciati:
capitalismo contro collettivismo, libertà contro uguaglianza,
democrazia contro dittatura. Durante queste due guerre
dei 30 anni si sono articolate guerre interstatuali e guerre
civili, mutamenti di frontiera e politici, entrambe hanno
avuto come epicentro la Germania nel 1648 e 1945, con la
sua divisione. La differenza risiede nelle conseguenze. Con
la pace di Vestfalia, la prima guerra dei 30 anni ha creato
un sistema stabile di relazioni internazionali fondato
sull'equilibrio fra stati, tale equilibrio sarà perturbato dalla
rivoluzione francese, poi ristabilito a Vienna nel 1815. La
seconda guerra dei 30 anni non ha creato alcun
compromesso tra i belligeranti né un nuovo equilibrio tra
forze. La prima guerra dei 30 anni è stata percepita sul
piano storico come una tappa del processo di civilizzazione,
la seconda come il momento parossistico della sua crisi. La
seconda guerra civile europea si apre con la rivoluzione
francese e trova il suo epilogo a Waterloo, lo storico Roman
Schnur ha studiato i conflitti europei tra 1972 e 1814 nei
termini di una guerra civile mondiale, la quale prende la
forma di un gigante sconvolgimento sociale e politico poi
sfociato in guerra ideologica. Sul piano militare essa inizia
come lo scontro tra una coalizione monarchica e una
nazione rivoluzionaria che in nome del diritto naturale
aveva dichiarato una guerra all'antico regime. In un
discorso del 1793, Robespierre aveva affermato il principio
della fraternità tra i popoli che doveva condurli a cooperare
come cittadini di uno stesso stato e che faceva
dell'oppressore di una nazione il “nemico di tutti”. La lotta
contro gli avversari del genera umano diventava una
guerra civile, poiché secondo Robespierre essa non poteva
essere ricondotta entro le leggi del diritto internazionale.
Secondo lo storico Jean-Clement Martin, la rivoluzione
francese aveva affermato una nuova visione del mondo
organizzata intorno alla dicotomia amico/nemico della
libertà, che metteva fine ai conflitti tra monarchie. In
questo modo i bolscevichi condurranno la loro battaglia
contro le guardie bianche tra il 1918-21. Alla stregua della
prima guerra dei 30 anni, la rivoluzione francese e le
guerre napoleoniche demolirono il vecchio ordine sociale,
coinvolgendo l'insieme degli stati europei, mobilitando i
popoli del continente, suscitando l'avvento dei nazionalismi
moderni e il loro impatto si estese fino alle Americhe. La
pace di Vestfalia aveva dato luce all'assolutismo, il
congresso di Vienna ne aveva segnato il decesso. Nel 1815
il Congresso di Vienna istituisce una “pace dei cent'anni”
che fu turbata soltanto da qualche conflitto di portata e
durata limitate, come la guerra di Crimea (1853-54), la
guerra francoaustriaca che fu all'origine del Risorgimento
(1859), la guerra austro-prussiana (1866-1867) e la
franco-prussiana (1870-71), che permisero a Bismark di
realizzare l'unità tedesca. Le guerre balcaniche del 1912 –
1913, d'altra parte, erano sembrate più un'espressione
della crisi dell'impero ottomano che una minaccia per la
stabilità europea, benché proprio in quella regione dovesse
nascere la crisi che avrebbe fatto saltare l'ordine del
continente. Karl Polanyi ha individuato quattro pilastri di
questa “pace dei cent'anni” sorta nel 1815: l'equilibrio tra
le grandi potenze (balance of power system), il gold
standard, un'economia liberale sostenuta dalla rivoluzione
industriale e fondata sul principio di stato di diritto
caratterizzato dal riconoscimento di alcune libertà
costituzionali. A eccezione della Russia zarista, dove il
quarto elemento brillava per la sua assenza, tutti gli altri
paesi europei aderivano a questi principi. Vi era un
profondo ottimismo condiviso dall'insieme delle forze
politiche, durante gli anni immediatamente precedenti alla
conflagrazione del 1914, i socialisti europei avevano
lanciato una grande offensiva pacifista che aveva raggiunto
il suo apogeo alla conferenza di Basilea, nel novembre
1912. Il movimento operaio, proclamavano, saprà impedire
una guerra mondiale e, nel caso questa dovesse scoppiare,
la trasformerà in rivoluzione socialista. Ma queste
dichiarazioni solenni rivelavano un ottimismo ingenuo. Karl
Kautsky, principale teorico della socialdemocrazia tedesca,
riconosceva in termini lucidi, alla fine del conflitto, la
miopia di tutti i membri dell'Ufficio socialista internazionale
he si era riunito alla fine di luglio 1914. Il sistema fondato
sulla neutralizzazione reciproca dei grandi imperi doveva
crollare nell'agosto 1914, i trattati di pace del dopoguerra,
a partire da quello di Versailles, non avrebbe ristabilito
l'equilibrio tra le forze. La conferenza di Versailles decise di
punire la Germania condannandola al disarmo e
amputazioni territoriali che lasciavano fuori dalle sue
frontiere milioni di cittadini del vecchio impero prussiano.
La Russia sovietica fu isolata. Quanto al liberismo, esso fu
dapprima messo in discussione dalle economie di guerra,
poi colpito dalla crisi del 1929, che favorì il passaggio di
una parte di Europa al fascismo. Nessuno più credeva alle
virtù autoregolatrici del mercato. Dopo il 1930, la crisi
economica fece saltare la fragile architettura di Versailles e
rivelò l'inefficacia della società delle nazioni. Quest'ultima si
basava sul principio dell'autodeterminazione nazionale, di
cui Wilson era stato l'ispiratore, che rifletteva la
democratizzazione delle società europee. La Germania era
stata indebolita ma non paralizzata. La paura del
bolscevismo era all'origine di una riconciliazione
simboleggiata dal trattato di Locarno (1925) poi con
l''ingresso della Germania nella Società delle nazioni.
Secondo l'economista John Maynard Keynes tale politica
non si limitava a impoverire l'Europa centrale, ma gettava
le basi di un nuovo conflitto di portata ancora più vasta. La
paura del bolscevismo era all'origine della passività franco-
britannica di fronte al riarmo tedesco e alla militarizzazione
della Renania del 1936, come pure all'annessione della
Saar, dell'Austria e dei Sudeti. Uscita indebolita dalla prima
guerra mondiale e priva di un esercito all'altezza della sua
democrazia, la Francia non aveva più la forza di reagire. La
Gran Bretagna non temeva soltanto un indebolimento
eccessivo della Germania di fronte alla minaccia bolscevica,
ma voleva anche evitare un'egemonia francese sul
continente. Entrambe tardarono a capire che Hitler voleva
la guerra e, soltanto allo scoppio della guerra gli
osservatori internazionali presero atto della vera natura del
progetto di Hitler: non instaurare un'egemonia tedesca in
Europa, ma conquistarla, non sottomettere la Polonia ma
annientarla, non connettere l'Urss, ma colonizzare l'est
europeo per farne il proprio spazio vitale.
CICLO: Fernand Brudel distingue in uno studio classico tre
diversi tempi storici: 1. Evento: “la durata più capricciosa e
ingannatrice” capace di accecare gli osservatori, effimera e
insignificante dal punto di vista delle scienze sociali. 2.
Longue durée: permette di cogliere le strutture, le grandi
tendenze demografiche, economiche e culturali soggiacenti
ai movimenti secolari della società. 3. Congiuntura o Ciclo:
movimento intermedio di cui fissa la durata a “una decina
di anni o quarto di secolo” e definisce un'epoca nella quale
gli eventi non figurano come semplici agitazioni superficiali,
ma possono essere messi in prospettiva e analizzati alla
luce delle grandi tendenze secolari. Il ciclo è un lasso di
tempo che mostra i legami tra gli eventi e le strutture, nel
quale breve e lunga durata si toccano, e le temporalità
sembrano sincronizzarsi.
Il concetto di guerra civile europea non si riferisce né a una
vicenda particolare né una tendenza secolare, ma
precisamente a un ciclo nel quale una catena di eventi
catastrofici, condensa un mutamento storico le cui
premesse si sono accumulate, nella lunga durata, nel corso
del secolo precedente. L'avvento della società di massa, la
transizione dal capitalismo liberale al capitalismo
monopolistico, la democratizzazione della politica, la
nazionalizzazione delle masse e la rivoluzione militare
hanno preceduto la rottura del 1914. Il passaggio da un
ordine imperiale a un sistema conflittuale di stati-nazione,
spesso eterogenei, è stato preparato dall'usura dei regimi
aristocratici “persistenti” dopo la Rivoluzione francese e i
sollevamenti del 1848. L'ondata comunista che segue il
1917 suppone l'esistenza di un proletariato industriale, così
come la comparsa del fascismo implica l'incontro del
contro-illuminismo con una destra rivoluzionaria non più
aristocratica ma nazionalista. La guerra totale non sarebbe
concepibile senza gli eserciti di massa e i mezzi di
distruzione creati dalla tecnologia moderna, né la
propaganda. Il concetto di guerra civile europea potrebbe
da un certo punto di vista apparire inappropriato,
trattandosi di cogliere nella sua sequenza temporale una
crisi che assume fin dall'inizio una dimensione
internazionale. Essa è circoscritta da due guerre totali, la
prima caratterizzata dall'intervento degli USA, la seconda
combattuta su più teatri, dall'Africa al Pacifico. Tra le due si
collocano varie crisi, tra cui una recessione economica
internazionale che, scatenata dal crollo della borsa di New
York nel 1929, avrà profonde ripercussioni sul vecchio
mondo. Il periodo tra le due guerre rimane cruciale per
definire il destino dell'Europa, poiché sono la sua
distruzione materiale e la sua lacerazione spirituale a
rivelarne, nelle forme più tragiche, l'eredità comune,
ponendo l'esigenza della sua unità. Nonostante i suoi tratti
di guerra civile, la grande guerra, nella quale si affrontano
eserciti di milioni di soldati, rimane un conflitto
interstatuale. Circoscritta da due guerre totali, la guerra
civile europea è fatta anche di una moltitudine di guerre
civili nazionali o regionali che si potrebbero suddividere in
tre fasi principali. Prima il periodo che si apre con la
rivoluzione russa del 1917 e si conclude negli anni 20
(insurrezione fallita ad Amburgo del 1923), durante il quale
la guerra interstatuale sfocia sfocia in una serie di
rivoluzioni e guerre civili in diversi paesi dell' Europa
centrale e orientale. Poi la guerra civile spagnola, che
condensa in un solo paese una serie di conflitti di portata
continentale. Infine la seconda guerra mondiale, che
genera a sua volta una catena di guerre civili. Questi tre
momenti sono strettamente legati tra loro ed è proprio
l'intreccio di questi che segna la continuità dell'epoca tra
1914 – 1945.
SEQUENZA: Nata come un conflitto intestatuale, la grande
guerra si conclude con il crollo degli imperi continentali in
un contesto di guerra civile. I socialisti europei contrari alla
guerra si riuniscono nel 1915 a Zimmerwald, nelle Alpi
svizzere, rappresentano minoranze isolate. Alla fine della
guerra le società europee sono profondamente divise. In
Russia il regime degli zar è rovesciato nel febbraio 1917 da
una rivoluzione che si fa sempre più radicale fino all'arrivo
dei bolscevichi in ottobre. Nel marzo 1918 questi firmano
una pace separata con Germania a Brest – Litovsk e
affrontano, sul piano interno, una guerra civile sanguinosa
dalla quale usciranno vincitori tre anni dopo. In Germania
l'imperatore Guglielmo 2 è costretto ad abdicare a causa
della rivolta popolare che instaura la repubblica. Il clima di
guerra civile che domina il paese dopo il crollo del regime
degli Hohenzollern è simboleggiato dall'atto di nascita della
Repubblica di Weimar, 9 novembre 1918. la crisi sfocia in
uno scontro armato nel gennaio 1919. il prefetto Emil
Eichorn , non voleva ristabilire l'ordine, ma rovesciarlo.
Insurrezione di sinistra è preparata nell'autunno del 1923,
quando i comunisti formano governi di coalizione con le
correnti di sinistra della socialdemocrazia, in Sassonia e
Turingia, che procedono all'armamento degli operai, ma
viene messa in atto soltanto ad Amburgo in ottobre, ancora
una volta isolata, viene repressa. Nello stesso momento
Hitler fa il suo ingresso nella scena politica organizzando a
Monaco il putsch della birreria, miseramente fallito.
Novembre 1918 crolla l'impero absburgico, le cui diverse
componenti nazionali si separano per formare stati
indipendenti. Questa crisi sfocia in uno sciopero generale a
Vienna e nella nascita di una Repubblica sovietica in
Ungheria sotto la guida del comunista Bela Khun che dura
solo 4 mesi. Sia a Monaco che a Budapest la repressione
anticomunista provoca un bagno di sangue e assume
violenti accenti antisemiti. In Finlandia, dove la vicinanza
dell' Urss e della guerra civile russa acuisce i conflitti e
scatena una feroce repressione ed esecuzione di 20.000
rossi. Nei paesi baltici, in particolare l'Estonia, la guerra
civile assume tratti cruenti a causa della sovrapposizione di
conflitti politici, sociali e nazionali. La presenza di diversi
gruppi etnici (estoni, lituani, russi, polacchi, tedeschi ed
ebrei) aggrava le lotte creando un'osmosi tra classe e razza
che prefigura la guerra nazista contro l'Urss del 1941. i
tedeschi occupano nel 1915 la Lettonia e l'Estonia, con la
promessa ai volontari del loro corpo di spedizione di una
rapida appropriazione di terre. A partire dal 1918 la loro
offensiva si trasforma in lotta antibolscevica. C'è una
relazione simbiotica tra rivoluzione e controrivoluzione è un
tratto tipico delle guerre civili che fanno seguito alla grande
guerra. Così come la rivoluzione francese si era battuta su
due fronti (coalizione monarchica e reazione vandeana
all'interno), la rivoluzione russa conduce una guerra civile
contro le guardie bianche e fronteggia gli interventi militari
britannico, francese e nipponico. I bolscevichi considerano
la rivoluzione mondiale come la migliore difesa della
rivoluzione russa e creano nel 1919 l'internazionale
comunista. Per questo una delle principali preoccupazioni
delle diplomazie europee sarà quello di isolare il focolaio
rivoluzionario russo. In Russia la guerra civile si presenta
subito come scontro di portata europea tra la rivoluzione e
la controrivoluzione: i bolscevichi puntano sull'estensione
del sollevamento rivoluzionario al di fuori delle frontiere
russe, mentre le guardie bianche possono avvalersi
dell'appoggio militare delle potenze occidentali. Il conflitto
acquista subito una dimensione internazionale. I bianchi
sono finanziati, armati, equipaggiati e spesso sostenuti da
unità militari occidentali, in particolare francesi e
britanniche. I rossi, da parte loro, possono mobilitare varie
decine di migliaia di “internazionalisti” stranieri che si
schierano in difesa della rivoluzione: cinesi, coreani,
ungheresi e anche molti tedeschi che si trovano in Russia
come prigionieri di guerra. In queste circostanze si
intrecciano diversi conflitti: una guerra rivoluzionaria dello
stato sovietico contro una coalizione internazionale, una
guerra di classe del proletariato urbano contro le elite
industriali e aristocratiche, una guerra nazionale tra la
Russia e i popoli allogeni (di stirpe diversa dalla
maggioranza). Questi conflitti sono terribilmente
sanguinosi. La figura più sinistra della Russia fu Krasnov,
generale che organizza la rivolta dei cosacchi del Don.
Azione dei bolscevichi è il Terrore: decretato il 6
settembre, dopo degli attentati in cui anche Lenin rimane
ferito. Il regime sovietico ricorre ad un organo specifico del
terrore: la CEKA, che procede all'esecuzione di oltre 10.000
controrivoluzionari. Nella regione del Don, la lotta contro la
vandea cosacca sfocia nella deportazione di più di 300.000
persone. Spesso i conflitti, sia sociali sia politici e nazionali,
si sovrappongono. Ma la guerra civile non oppone soltanto
l'armata rossa e le guardie bianche: un terzo attore svolge
un ruolo importante, gli eserciti “verdi” ovvero contadini
che combattono sia i bolscevichi sia i controrivoluzionari,
oscillando tra i due. I bolscevichi avranno la meglio poiché
riusciranno a neutralizzare i verdi ed isolare i bianchi dopo
aver messo in piedi un esercito disciplinato e
ideologicamente unito. I bianchi rappresentano un regime
sconfitto, isolato nelle campagna. I verdi saranno
condannati a priori perchè incapaci di dotarsi di un
progetto sociale e una prospettiva nazionale. Questi
conflitti trovano una soluzione provvisoria all'inizio degli
anni '20, con la sconfitta della controrivoluzione. L'armata
rossa vince sui propri nemici e la Nuova politica economica
allevia le sofferenze dei contadini reintroducendo il
mercato. Sul piano nazionale, i conflitti sono disinnescati
sia attraverso la cessione dell'indipendenza alle minoranze
nazionali dell'ex impero (ritiro dei russi dalla Polonia,
indipendenza della Finlandia e dei paesi baltici), sia
attraverso la repressione militare (la “sovietizzazione” del
Caucaso). La guerra civile russa trova il suo epilogo a
Kroonstadt, la fortezza del Baltico, alle porte di
Pietrogrado, che rivendica dei “soviet liberi” ma rischia di
trasformarsi, agli occhi dei bolscevichi, in punto di raccolta
delle forze ostili alla rivoluzione. Impietosa la loro reazione
che si conclude con la condanna ed esecuzione di migliaia
di insorti. I bolscevichi concepiscono la guerra civile come
uno scontro di classe, tanto sul piano interno quanto su
quello internazionale. 1920 offensiva dell'Armata Rossa è
bloccata, alle porte di Varsavia, dalla resistenza polacca
che si solleva contro l'antico oppressore russo. La guerra
civile, il vero “battesimo del fuoco” per i bolscevichi, è
all'origine di una concezione militare della rivoluzione che
lascerà la sua impronta su tutta la storia del comunismo.
Nolte non sbaglia nell'interpretare la fondazione
dell'Internazionale comunista, nel 1919, come l'atto di
nascita di un “partito della guerra civile mondiale”, Lenin
aveva imboccato questa via nel 1917, quando aveva posto
al centro della propria strategia l'obiettivo di “trasformare
la guerra imperialista in guerra civile”. I conflitti che
attraversano l'Europa tra il 1918 e il 1923 non rispecchiano
più un conflitto fra nazioni ma esprimono una dialettica che
oppone rivoluzione e controrivoluzione, nella quale i
nazionalismi sono assorbiti e ridefiniti. I metodi e le
pratiche della guerra di trincea si trasferiscono in seno alla
società civile, brutalizzando i linguaggi e le forme della
lotta. Nel dopoguerra la “nazionalizzazione delle masse”
assume tratti radicali, populisti, aggressivi e
antidemocratici. A Berlino e Monaco, i Freikorps
rappresentano la punta avanzata della controrivoluzione. In
Italia l'avvento del fascismo implica lo scontro tra i
nazionalisti che non accettano la “vittoria mutilata” e gli
Arditi del popolo, ex combattenti che hanno scelto di
opporsi a Mussolini. Nell'Italia del dopoguerra il
nazionalismo porta l'impronta delle trincee e la violenza
diviene strumento naturale. Il conflitto che si apre in
Spagna nel luglio del 1936 con il pronunciamento del
generale Francisco Franco contro la Repubblica si inserisce
in questo contesto di tensioni, la Spagna era rimasta, fino
a quel punto, su di un piano secondario per poi diventare
un punto nevralgico. Gli ideologi del franchismo
interpretano il conflitto in termini religiosi, demonizzando i
repubblicani quali incarnazione del male. A Pamplona il
colpo di stato viene celebrato da una festa popolare dai i
carlisti al grido di “Viva Cristo re”. Si tratta di una guerra
tra modernità e conservatorismo, tra fascismo e
democrazia. È una guerra civile nella guerra civile, poiché
rivoluzione e controrivoluzione si oppongono in seno allo
stesso campo repubblicano, varcando la soglia del
confronto armato, a Barcellona, nel maggio 1937, quando i
comunisti fedeli a Mosca sconfiggono gli anarchici e il
Partido obrero de unificaciòn marxista. È infine una guerra
europea, tale dimensione è dimostrata dalla presenza di
truppe straniere sul campo di battaglia: Franco è sostenuto
da Mussolini, Hitler e Salazar (Portogallo), mentre l'Urss
arma le forze repubblicane. L'intervento militare italo-
tedesco assicura ai franchisti una superiorità aerea
schiacciante. Isolate dal non-intervento franco-britannico,
le forze repubblicane, pur ricevendo aiuto dall'Urss e altri
paesi europei, non riusciranno a fronteggiare tale
offensiva. Questo conflitto è all'origine del termine ancora
oggi utilizzato “quinta colonna” che sta per “nemico
interno”. L'Italia rimane un caso emblematico per lo studio
delle guerre civili durante la seconda guerra mondiale. A
partire dall' 8 settembre 1943, quando il maresciallo
Badoglio, nominato dal re capo del governo dopo la
destituzione di Mussolini, annuncia l'armistizio con le forze
angloamericane che hanno invaso il sud della penisola, lo
stato si disgrega. L'esercito si sfascia, dopo qualche tragico
tentativo di resistere alle truppe tedesche. La continuità
dello stato è simbolicamente mantenuta dalla monarchia
mentre Mussolini, liberato sul Gran sasso da un commando
tedesco, proclama la Repubblica sociale italiana,
dichiarandosi pronto a collaborare con l'occupante nazista.
La Resistenza non rappresenta uno stato, se si esclude una
corrente minoritaria di ispirazione monarchica. Claudio
Pavone argomenta che la Resistenza si costruisce su tre
assi paralleli e connessi: 1. movimento di liberazione
nazionale contro l'occupante tedesco. 2. lotta per la
democrazia contro una dittatura fascista. 3. guerra di
classe contro le elite tradizionali storicamente identificate
con il fascismo. Guerra e guerra civile si intrecciano. Caso
della Francia di Vichy del 1940: la scelta di collaborazione è
accettata da alcuni come il prezzo da pagare per
preservare la parvenza di stato nazionale. Gli alleati
sbarcano in Normandia e sulla costa mediterranea tra il
giugno e agosto 1944. due elementi impediscono a questo
conflitto di sfociare in guerra civile: la ripidità dell'avanzata
alleata, che libera il paese in pochi messi; dall'altro la
presenza in seno alle forze alleate di un contingente
militare francese che permette al generale De Gaulle, una
volta arrivato a Parigi, di proclamare la Restaurazione della
Repubblica. Anche nei Balcani la Resistenza assume la
forma di liberazione nazionale, di una guerra di classe e
guerra civile. La prima è rivolta contro l'occupazione italo-
tedesca. La seconda oppone un movimento a base
essenzialmente operaia e contadina, guidata dai comunisti
alle elitè urbane e alla proprietà fondiaria. La terza vede lo
scontro tra i resistenti e i collaborazionisti e una lotta tra le
forze della Resistenza, divise tra nazionalisti di fede
monarchica e comunisti.
Caso della Grecia: si articolano diversi conflitti. Si tratta
innanzitutto di una lotta di liberazione nazionale contro le
forze di occupazione italo-tedesche, intrecciata ad una
guerra civile tra Resistenza e fascisti greci. Si tratta anche
di una guerra civile tra le due componenti della Resistenza,
i comunisti a capo dell'ELAS, Corpo nazionale di
liberazione, e i nazionalisti fedeli alla monarchia in esilio.
Questo conflitto esplode a partire dal 1944, i comunisti
rinunceranno a prendere il potere, a causa della presenza
britannica e del loro isolamento internazionale. La guerra
civile spagnola appare quindi come la prefigurazione di un
conflitto di portata ben più vasta che si apre in Europa
pochi mesi dopo la proclamazione della vittoria da parte di
Franco. La seconda guerra mondiale è una guerra totale
nella quale si articolano diverse guerre parallele. Il nazismo
vuole riorganizzare l'Europa su basi razziali, lo sterminio
degli ebrei si situa all'incrocio di vari obiettivi della politica
nazista: la conquista dello “spazio vitale” e la distruzione
del comunismo. Nella visione del mondo nazista, gli slavi e
il comunismo si identificano con uno stato guidato da
un'elitè ebraica. La Shoah si rende progressivamente
autonoma fino a diventare un obiettivo in sé della politica
nazista. La conquista del Lebensraum e l'annientamento
del bolscevismo non spiegano la deportazione ad Auschwitz
degli ebrei di Corfù, come non spiega il contesto delle
operazioni militari del 1943, dopo la sconfitta di
Stalingrado. Nonostante la sua specificità, le guerra nazista
contro gli ebrei prende forma come una dimensione della
guerra civile europea. Certo la sua singolarità non può
essere diluita nell'insieme delle violenze della guerra, ma
sarebbe assurdo isolarla in questo contesto globale, che ne
fu teatro e detonatore. La guerra civile europea ha creato
un insieme di condizioni senza le quali la Shoah non
sarebbe stata né concepita né realizzata.
Capitolo 2: “Anatomia della Guerra Civile”
ANOMIA: i teorici della guerra ne hanno sempre messo in
luce la stretta relazione con la politica, la guerra tocca la
natura stessa dello stato che ne è detentore. Per Grozio e
Pufendorf, che la analizzano in termini laici, non più come
conflitto teologico ma come “lotta per la difesa di sé e dei
propri beni”, la guerra non è altro che uno scontro
interstatuale e viene concepita come un mezzo per
realizzare la giustizia e il suo scopo non è l'annientamento
del nemico bensì la conclusione di una pace equa.
Fin dal medioevo la guerra ha le proprie leggi: il diritto di
dichiararla (jus ad bellum) e il diritto nella sua condotta
(jus in bellum). Da un lato, una guerra può essere decisa
solo da un'autorità legittima, deve avere una giusta causa
(difesa da un'aggressione o riparazione di un torto subito),
non deve nascondere intenti contrari al diritto naturale e
deve essere necessaria. Dall'altro la guerra esige norme di
condotta condivise dai belligeranti che devono rispettare i
diritti dei prigionieri. L'elaborazione dello jus publicum
europaeum (inteso come rinuncia da parte dei singoli di
una parte dei diritti che hanno in natura per costruire
l'ordine sociale.), di cui il diritto di guerra è solo un
aspetto, segna l'avvento di un sistema codificato di
relazioni fra stati sovrani che esercitano il monopolio della
violenza in seno ai rispettivi territori. La legittimità della
guerra non è più legata alle sue motivazioni teologiche
etiche o politiche, essa risiede nella qualità dei belligeranti
che, al di là dei loro obiettivi, possiedono tutti lo jus ad
bellum. È quindi la guerra civile a diventare illegittima, T.
Hobbes la paragona ad una malattia che colpisce il corpo
umano e lo corrode fino ad ucciderlo. Una volta bandita in
seno allo stato, la guerra può dirigersi contro un nemico
esterno, Clausewitz la definisce un duello (Zweikampf) su
vasta scala, il quale obiettivo non è la morte
dell'avversario, sebbene questa non sia esclusa, ma il
rispetto di un codice di onore, segno di appartenenza ad
una elitè sociale. Il diritto prussiano legittimava il duello
considerandolo una sorta di diritto consuetudinario, utile
allo scopo di preservare il senso dell'onore all'interno della
casta militare. Nell' estate 1914, quando l'attentato di
Sarajevo scatena un balletto diplomatico tra le cancellerie
europee, i principi consolidati dello jus publicum
europaeum sembrano ancora imporsi in modo naturale. In
un primo tempo, l'impero austroungarico voleva solo dare
una lezione alla Serbia, avvalendosi dell'appoggio tedesco,
e non intendeva scatenare una guerra mondiale.
L'intervento russo a fianco della Serbia ravvivò la tensione
tra Germania e Francia. Londra, dal canto suo, era alleata
di Parigi e non poteva rimanere passiva di fronte a un
possibile mutamento degli equilibri geopolitici, con il rischio
di un'egemonia tedesca sul continente. Un anno dopo,
mettendo fine alla sua neutralità, l'Italia volle approfittare
della situazione conquistando i territori di maggioranza
italiana appartenenti al suo ex alleato austriaco. Infine
furono gli USA ad entrare nel conflitto nel 1917,
preoccupati per la solvibilità dei propri alleati indebitati fino
al collo. L'attentato di un nazionalista serbo si era
trasformato nella miccia che aveva incendiato il continente.
Al di là delle sue cause più profonde, la grande guerra non
fu prevista e desiderata. Nessuno, tra i responsabili, aveva
previsto gli eserciti bloccati per anni nelle trincee, l'uso di
armi chimiche, i bombardamenti e le città distruttte. Nel
1914, gli schemi mentali e la memoria collettiva erano
ancora legati all'esperienza dell'800 cone le sue guerre
“civilizzate” tra stati d'antico regime che si rispettavano
reciprocamente. Nel natale 1914 i combattimenti furono
sospesi per una tregua, i soldati avversari brindarono
insieme, come dimostrano le foto dell'epoca, questo perché
gli avversari si rispettavano reciprocamente. Questa cosa
non sarebbe più successa, la guerra si trasforma in un
conflitto tra popoli, nazioni e civiltà. Lo jus in bello fu
sepolto, prima dalla violazione tedesca della neutralità di
Belgio e Lussemburgo, poi dalla violazione della neutralità
dei mari, dall'embargo contro gli imperi centrali. A Ypres
nel 1915 ebbe luogo il primo attacco con armi chimiche. La
grande guerra viene paragonata alle guerre coloniali,
guerre di conquista e spesso anche sterminio, non di certo
civili, poiché in esse si affrontavano forze distanti tra loro,
sia sul piano geografico che culturale, i cui protagonisti non
sono ispirati a leggi divine ma in preda ad una comune
violazione delle leggi umane. Sono gli stessi sentimenti e
stati d'animo descritti dai testimoni delle guerre civili del
900: Victor Serge descrive la guerra civile come un
conflitto irriducibile fra due parti di una società divisa, un
conflitto che conosce solo la violenza, nel quale nessun
compromesso è possibile. Ogni principio di umanità è
messo al bando da entrambe le parti. Ciò non può che
sfociare nel terrore, il quale non è tanto una politica di
governo quanto piuttosto che uno stato d'animo dei
combattenti. Una guerra civile è sempre fatta di atrocità e
orrori.
Nel primo volume della sua “Storia della rivoluzione russa”
Trockij sviluppa un'analisi della guerra civile in termini
marxisti, cogliendone il punto culminante nella formazione
di un dualismo di poteri. Si tratta di una fase transitoria di
anarchia destinata ad essere superata dalla vittoria di una
delle due parti in lotta, come indicano tutte le grandi
rivoluzioni della storia. Nella Russia del 1917 il governo
provvisorio di Kerenskij si oppone all'assemblea dei soviet,
nella quale i bolscevichi ottengono la maggioranza in
ottobre. Ed è proprio per dare tutto il potere ai soviet che i
seguaci di Lenin decidono di sciogliere l'assemblea
costituente. Questa frammentazione del potere in due
entità irriducibilmente antagoniste non può rimanere
permanente. Scrive Trockij “L'esigenza di una dittatura,
così tipica delle rivoluzioni e controrivoluzioni, trae origine
dalle contraddizioni intollerabili del dualismo di poteri. Il
passaggio dall'una all'altra di queste forme avviene tramite
guerra civile”. La guerra civile non mira ad istituire una
pace giusta con avversario legittimo, ma all'annientamento
del nemico. Durante la conferenza di Casablanca nel 1943,
Churchill e Roosevelt affermano in una dichiarazione
comune che le forze alleate non accetteranno alcun
compromesso con Germania e Giappone, ma solo alla loro
resa incondizionata (unconditional surrender). Questa
dichiaraione, che già annuncia i tribunali di Norimberga e
Tokyo, non usa il termine corrente del vocabolario militare,
“capitolazione”, bensì opta per la formula l'espressione
resa incondizionata. Dopo una capitolazione, i soldati
depongono le armi nel corso di cerimonie pubbliche che ne
sanciscono la disfatta , ma non cessano di appartenere
all'esercito di uno stato riconosciuto come tale dal diritto
internazionale. In una resa incondizionata l'esercito vinto
diventa proprietà del vincitore, che gli impone il proprio
dominio. Secondo Churchill non si trattava di ridurre i
tedeschi in condizione di schiavitù, ma di rifiutare ogni
negoziato di pace.
PARTIGIANI: figura caratteristica della guerra civile
europee, la Grande Guerra non ha conosciuto questo
fenomeno, se non proprio alla fine con gruppi armati che
danno vita a combattimenti di strada. Questo fenomeno
non è limitato nella Russia sovietica ma il culmine della
lotta partigiana rimane la seconda guerra mondiale, dove
centinaia di uomini e donne combattono una guerra
parallela a quella che oppone eserciti di milioni di soldati.
Fin dai primi mesi di guerra nekl 1941, Stalin lancia un
appello alla lotta partigiana. A partire dal 1943 la
Resistenza assume dimensioni considerevoli anche nei
Balcani e sul fronte occidentale, dalla Jugoslavia alla
Grecia, dal Belgio all'Olanda. In Italia i fascisti chiamano i
partigiani “bastardi” per indicare la loro estraneità alla
comunità nazionale. Per la resistenza, al contrario, questi
sono patrioti che lottano per la libertà. Ovunque cercano di
ottenere uno statuto, si dotano di una struttura militare e
gerarchica e aspirano ad essere riconosciuti dalle forze
alleate al momento della Liberazione. Alla Liberazione il
partigiano è una forma legittimata e diventa simbolo della
società civile insorta. L'importanza del ruolo svolto dal
partigiano, nelle sue diverse accezioni, durante la seconda
guerra mondiale rivela il carattere anomico di questo
conflitto, la rimessa in discussione delle norme tradizionali
della guerra. Carl Schmitt parla di partigiano come una
figura idealtipica, è un combattente irregolare, la cui lotta
si nutre di motivazione profonda legata ad un impegno
politico intenso, come indica l'etimologia della parola che
significa essere “membro di un partito”. Si caratterizza per
la sua mobilità, velocità e alternanza improvvisa
dell'attacco prima della ritirata. Il partigiano presenta un
carattere tellurico: nella maggior parte dei casi è
profondamente radicato in un territorio che vuole liberare e
la sua azione è favorita dai suoi legami con la popolazione
locale. Le bande e truppe partigiane attive durante la
seconda guerra mondiale rientrano nella categoria stabilita
dalla convenzione dell'Aja (milizie e corpi volontari,
popolazione che prende spontaneamente le armi
all'avvicinarsi del nemico) ma i tedeschi le consideravano
esclusivamente terroriste. I loro attentati davano luogo a
rappresaglie che eliminavano 10 banditi per ogni tedesco
ucciso o colpivano le popolazioni civili. Un atteggiamento
simmetrico viene adottato dai sovietici, che passavano per
le armi i membri delle milizie popolari tedesche
(volkssturm) create per difendere il Reich nell'ultima fase
della guerra. Secondo i nazisti, la lotta antipartigiana
apparteneva alta tradizione della repressione
controrivoluzionaria. Il partigiano non veste l'uniforme, ma
ha una morale e norme di condotta. Il fatto di mettersi
fuori dalla legge era conseguenza di mettere fine ad un
ordine odioso e formarne uno nuovo. Nel 1944 la
resistenza francese è largamente maggioritaria in una
società civile che quattro anni prima aveva sostenuto il
regime di Vichy. Nell'autunno 1943 la maggioranza degli
italiani esita a prendere posizione tra la Repubblica sociale
di Mussolini e una monarchia passata dalla parte degli
alleati, dopo aver lasciato crollare l'apparato statale e il suo
esercito. I giovani che scelgono di prendere le armi per
combattere il fascismo sono una minoranza. Solo nel 1944
la Resistenza inizia a consolidarsi fino a diventare egemone
della società al momento della liberazione. I partigiani sono
posti di fronte a scelte difficili e i civili oscillano tra la
solidarietà e la paura.
VIOLENZA CALDA: La guerra civile e la festa
costituiscono momenti essenziali di socializzazione nelle
quali gli individui si abbandonano ad un'effervescenza
collettiva che trasforma in atto comunitario la soluzione dei
loro problemi, rimettendo in discussione le distanze sociali
e l'autonomia individuale. Le abitudini sono messe da
parte, l'odio perde il suo carattere astratto, cessa di essere
una disposizione mentale o un sentimento che nutre scelte
politiche per diventare una pulsione che si traduce in atto.
Svanisce l'autocontrollo delle pulsioni nel quale, sulla scia
di Freud, Norbert Elias vede la fonte di un'economia
psichica dell'individuo civilizzato che gli impedisce in tempi
normali di abbandonarsi al piacere dell'aggressione. La
violenza assume dimensioni parossistiche, dispiegandosi
senza limiti e si manifesta secondo un rituale che resuscita
nel mondo moderno l'immagine arcaica della folla
vendicatrice. Nella guerra civile la violenza non è mai
puramente strumentale, si carica di una forte dimensione
simbolica, si sviluppa fino ad avere una dinamica propria,
fino a diventare fine a sé. Nel luglio 1936, nei giorni che
seguono il colpo di stato franchista, i militari spagnoli
uccidono quasi un migliaio di repubblicani nella zona di
Valladolid. Organizzano esecuzioni pubbliche. La guerra
civile ravviva le pulsioni e pregiudizi antichi, l'avversario
non deve essere solo sterminato, ma anche umiliato
pubblicamente come trofeo di guerra. Così nazisti e fascisti
impiccavano i partigiani in Polonia, Italia e Balcani. La
vendetta, simbolica e materiale, è un aspetto della festa
popolare che accompagna la conclusione della seconda
guerra mondiale. Per un breve momento, prima
dell'entrata in funzione della giustizia legale, si attivano
tribunali popolari improvvisati che praticano la loro
giustizia, spesso procedendo a esecuzioni sommarie. Tra il
1944-45 la disfatta degli eserciti tedeschi lascia il posto ad
una “festa pazza”, è un'ondata di entusiasmo, vi è un'
interruzione del tempo cronologico e irruzione di un tempo
qualitativo carico di sensazioni e speranze. Ma lo scatenarsi
delle passioni non è sempre vissuto come solo una
liberazione ed esige la sua dose di corpi umiliati e la festa
popolare si trasforma in un “brutto carnevale”. È una sorta
di violenza anarchica, che Michelle Vovelle oppone al
Terrore, ossia pratica coercitiva, organizzata e codificata,
tesa non più a distruggere i simboli dell'antico regime e
coloro che li incarnano ma a creare un ordine nuovo. È la
violenza che esplode in Francia tra 1789 e 92, l'antico
regime è demolito, ma la sovranità popolare rimane una
nozione astratta, poiché non ha ancora preso forma un
nuovo potere. Il trono è vuoto. Secondo Robespierre
bisogna sostituire la vendetta popolare, cieca e pericolosa,
con il gladio della legge. Alcuni tratti analoghi si trovano
nella rivoluzione russa: secondo Marc Ferro la dittatura
comunista legittimava e sollecitava un terrore nato dal
risentimento e sorto dal profondo e ne sfruttava la forza
per rimanere al potere. A differenza della violenza
contadina, improvvisa e incontrollata, le azioni della CEKA
non erano spontanee, si inserivano nella logica della guerra
civile che opponeva rivoluzione e controrivoluzione, rossi e
bianchi, contadini e proprietari fondiari. Il trono vuoto
ritorna durante la guerra civile spagnola, quando il
pronunciamento franchista genera una rivoluzione sociale
nelle zone repubblicane. Il maggior numero di vittime risale
all'estate del 1936, si assiste ad un'eruzione di violenza
popolare che nasce dallo sfaldamento dello stato e dal
ivuoto di potere che ne consegue. Tale violenza anarchica
si esaurisce nell'autunno, quando l'autorità repubblicana si
ricostruisce e impone la sua legge. La violenza
antirepubblicana si accresce fino a che l'esercito franchista
consolida le sue posizioni, per continuare ancora dieci anni
dopo la fine della guerra civile e l'instaurazione del regime
del caudillo. Le atrocità della seconda guerra mondiale, in
particolare quelle dell'esercito tedesco sul fronte orientale,
sono documentato e mostrano la violenza e la morte nella
loro dimensione più cruda e rivelano un'altra faccia della
guerra.
VIOLENZA FREDDA: la guerra civile europea del 900 si
presenta tuttavia come un maelstom di guerre, rivoluzioni,
guerre civili e genocidi. Essa genera un clima nel quale la
violenza bruta e ancestrale si combina con la violenza
moderna della guerra totale, con le tecnologie delle bombe
atomiche e lo sterminio industriale delle camere a gas. La
violenza nata dal regresso della civiltà si unisce con la
violenza moderna e tecnologica della società industriale.
Carlo Ginzburg evoca la metafora della lettera sui ciechi di
Diderot, secondo lui la guerra aerea del 20 secolo, che
trasforma il nemico in un bersaglio minuscolo e risparmia
la visione del sangue agli esecutori dei massacri, sembra
confermare l'idea di Diderot: “Se spinta all'estremo, la
distanza può generare una mancanza assoluta di
compassione nei confronti degli altri esseri umani.” Queste
osservazioni colgono un aspetto della guerra e violenze di
massa del mondo moderno. Si applicano alla guerra aerea,
alla violenza fredda, amministrativa e tecnica degli apparati
totalitari che hanno bisogno di “assassini di ufficio” come
Adolf Eichmann. Ma nella guerra civile europea questa
violenza fredda e “distante” si unisce alla violenza calda e
infiamma dalla passione della crociata contro un nemico
sconosciuto, di cui si vuole esibire il cadavere, alla violenza
fisica.
DITTATURA: la guerra civile europea ha trasformato il
senso e l'uso della nozione di dittatura. Dopo l'avvento al
potere di Mussolini, Hitler e Stalin, questo termine è
divenuto sinonimo di regime autoritario, totalitarismo,
oppressione e terrore. Dall'antichità al 19 secolo, la
dittatura era considerata quale corollario della democrazia.
Nella sua accezione classica questa indica una forma di
governo repubblicana in tempo di crisi, quando l'esercizio
del potere è monopolizzato da una persona. Ma la dittatura
romana era una magistratura con prerogative, campo
d'azione e tempi limitati. Non era un potere dispotico,
arbitrario e illegale, poiché il suo fondamento rimaneva
democratico. La dittatura implica lo stato di eccezione, cioè
la sospensione del diritto e la limitazione delle libertà
individuali. Ma si tratta di misure transitorie. Il dittatore
non è comunque un usurpatore o tiranno, impadronitisi del
potere con un colpo di stato, perché esercita un potere non
solo de facto ma anche de jure. Carl Schmitt ha definito
due tipi distinti di dittatura: dittatura classica
(kommissarische Diktatur) e la dittatura sovrana
(souverane Diktatur), la prima delle quali agisce come
emanazione di un potere costituito, la secondo come
organo di potere costituente. Il modello di quest'ultima
sonp la rivoluzione inglese del 600 con Cromwell e la
rivoluzione francese con la convenzione che, nel 1793, crea
il proprio organo del terrore, il comitato di salute pubblica.
Si tratta di un potere personale che pretende di sottrarsi a
vincoli legali: un potere incarnato da un corpo unico, né
dinastico né istituzionale ma carismatico. Inevitabilmente,
la fine di questo potere carismatico implica la distruzione
del suo corpo: calpestato, umiliato e appeso per i piedi
quello di Mussolini nel 1954, automutilato quello di Hitler.
Nel 1920 il pamphlet di Trockij contro Kautskij, Terrorismo
e Comunismo, sembra anticipare il saggio di Schmitt sulla
dittatura. Il capo dell'armata rossa analizza e legittima il
terrore rivoluzionario come strumento indispensabile per la
creazione di un nuovo potere e giustifica la politica dei
bolscevichi in nome delle leggi della storia. La violenza del
potere bolscevico, conclude Trockij, riposa su basi di classe
che la inscrivono nel corso della storia. Questa apologia del
terrore non era, in fondo, che un aspetto della nuova
percezione della violenza nelle società nate dal trauma
della grande guerra, la quale aveva forgiato la mentalità, i
valori e la visione politica dei dirigenti fascisti. A differenza
della Russia, dove la dittatura bolscevica era nata da una
rivoluzione sociale e politica che aveva infranto l'apparato
dello stato ereditato dallo zarismo e aveva distrutto le
vecchie classi dominanti, in Italia e Germania il fascismo
aveva preso il potere per vie legali. In Italia la demolizione
dello stato liberale si conclude nel 1925, con la
promulgazione delle leggi fascistissime seguite all'attentato
di Zamboni contro Mussolini. In tre anni il sistema
parlamentare fu praticamente distrutto, tutti i poteri furono
concentrati nelle mani dell'esecutivo e le libertà
fondamentali soppresse. Il pluralismo della stampa fu
annientato dalla censura, la pensa di morte reintrodotta, le
amministrazioni locali affidate a “podestà” nominati dal
potere centrale e, nel 1928, il Gran Consiglio del Fascismo
divenne l'organo costituzionale supremo del regime. In
Germania fu il decreto straordinario per la protezione del
popolo e dello stato promulgato da Hitler il 28 febbraio
1933 a sospendere tutte le libertà costituzionali. La
dittatura hitleriana aveva legalizzato la guerra civile perché
non poteva consolidarsi se non rendendo permanente lo
stato d'eccezione tipico delle guerre civili. Stato nazista
come doppio stato: capace di far coesistere due strutture
giuridiche antinomiche: da un lato il diritto nazionale
moderno, concernente l'economia e la sfera privata,
dall'altro una legge d'eccezione che permetteva al potere
politico di sottrarsi progressivamente a ogni procedura
legale-razionale.

Capitolo 3 “Guerra Contro i Civili”


ANNIENTARE: il primo conflitto mondiale, l'atto di nascita
della guerra civile europea, è sorto come una
conflagrazione classica fra stati. Nessuno ne aveva previsto
i caratteri nuovi, apparsi fin dai primi mesi del conflitto,
che scuotono il continente come un terremoto. Si scopre
l'impotenza delle diplomazie, la guerra non è più un affare
da gentiluomini ma l'eruzione di una violenza apocalittica.
L'occupazione tedesca del Belgio è accompagnata dalla
paura dei franchi tiratori e sfocia in un'ondata di violenza
contro i civili, con il saccheggio e l'incendio dei villaggi di
frontiera. Questi eventi alimentano una campagna franco-
britannica contro le atrocità tedesche. La violenza
dell'esercito prussiano varca una soglia nella condotta della
guerra, rendendola così una guerra contro i civili. Non si
tratta di misure reattive ma preventive. Nel novembre
1914 2 milioni di belgi sono rifugiati in Francia, Olanda e
Gran Bretagna. Pratiche analoghe si ripetono un anno dopo
sul fronte orientale. Nel 1915 una commissione d'inchiesta
francese pubblica un rapporto sui crimini di guerra
tedeschi, catalogati come atti commessi dal nemico
calpestando il diritto internazionale. Da questo punto di
vista, il primo conflitto mondiale è solo un inizio e la vera
svolta non sono né l'invasione della Polonia nel settembre
1939, né il Blitzkrieg sul fronte occidentale che annienta in
poche settimane la difesa francese. La vera svolta è
l'aggressione tedesca contro l'URSS nel giugno 1941. A
partire da quel momento il conflitto cambia natura e, sul
fronte orientale, inizia a profilarsi come una guerra civile,
vale a dire come una guerra nella quale solo una regola è
ammessa: quella del terrore, dell'odio e della violenza
senza limiti nel tentativo di annientare il nemico. 22 giugno
1940 i rappresentanti della Francia e quelli del Terzo Reich
firmano l'armistizio nello stesso vagone in cui, il 18
novembre 1918 era stata siglata la resa tedesca. La
Francia sconfitta rimane una nazione europea, civilizzata e
suscettibile a far parte dell'Europa nazista. Per quanto
sottomessa, potrà comunque conservare un simulacro di
sovranità su una parte del suo territorio. La guerra sul
fronte orientale viene concepita da Hitler diversamente:
come una guerra di conquista e di sterminio, conquista
dello spazio vitale tedesco, colonizzazione del mondo slavo,
distruzione del bolscevismo e distruzione degli ebrei. Non si
fa alcuna distinzione tra civili e militari, nella quale popoli
interi devono essere ridotti a schiavitù. Nella visione del
mondo nazista la simbiosi tra gli ebrei e il bolscevismo è
così profonda che il loro annientamento costituisce un solo
obiettivo. Le differenze tra fronte orientale ed occidentale
saltano all'occhio con la sola comparazione delle vittime
civili e militari: la Francia piange 600 mila morti come
l'Italia (inclusi sia i soldati che combattono a fianco del
Reich che i partigiani e civili uccisi sotto l'occupazione
tedesca). Le cifre diventano esigue se comparate agli orrori
di guerra sul fronte orientale dove le vittime si contano a
milioni. Lo storico Omer Bartov ha stilato un inventario dei
temi privilegiati nel corso di questa
Weltanshchaaungskrieg, ricordando come questi venissero
sviluppati in bollettini e opuscoli, l'aspetto più evidente di
questa propaganda è la negazione del carattere umano del
nemico, definito in base alle categorie del lessico nazista.
Lo scopo essenziale della guerra risiede nell'annientamento
del “giudeo-bolscevismo” e secondo Bartov questa
propaganda contribuisce a creare una nuova concezione
dell'eroismo, la cui molla decisiva è l'avvento del
nichilismo, se liberare l'Europa dall'avvento del bolscevismo
e dagli ebrei significa realizzare una missione redentrice, i
soldati cui è affidato tale compito diventano guerrieri eroici.
Nelle condizioni concrete del fronte orientale ciò si traduce
in una lotta terribilmente crudele. Concepita in termini
darwinisti, questa guerra assume i tratti di una lotta per
l'esistenza. Il ripudio delle norme tradizionali della guerra è
inscritto nella guerra nazista, concepita in termini ideologici
e razziali e messa in atto come guerra coloniale. Sul fronte
orientale, l'imbarbarimento della guerra non può che
scuotere profondamente le truppe sovietiche. La difesa si
organizza. Nei territori occupati dalla Wehrmacht Stalin
decide di rispondere con la lotta partigiana. Nel discorso
diffuso via radio il 3 luglio 1941, Stalin aveva lanciato il suo
appello alla “grande guerra patriottica”, il cui scopo non era
solo quello di difendere l'URSS minacciata, ma anche di
contribuire a liberare tutti i popoli d'Europa. Nel 1944 le
truppe sovietiche entrano nella Prussia orientale, è noto poi
l'ingresso delle truppe rosse a Berlino dove si svolse
un'apoteosi di violenza, con esecuzioni sommarie. Questo
conflitto si svolge sotto il segno dell'odio, il fascismo aveva
seminato il terreno proclamando la fine dell'umanismo,
idealizzando la guerra come igiene del mondo, erigendo il
culto della violenza e della forza.
BOMBARDARE: avviati nel 1940 e conclusi nell'agosto
1945 con l'annientamento atomico di Hiroshima e
Nagasaki, i bombardamenti aerei sistematici sulle città
illustrano un nuovo paradigma della guerra che viene
definita “atmoterrorista”. Il suo principio, di cui si coglie la
prima manifestazione nell'attacco gas sferrato dall'esercito
tedesco contro le forze franco-canadesi a Ypres nel 1915,
non risiede più nell' intentio directa che mira al corpo
nemico, ma nella distruzione delle sue condizioni
ecologiche di esistenza. La guerra aerea uccide i civili,
eliminando il loro habitat naturale. I primi bombardamenti
aerei vengono sperimentati durante la Grande Guerra, ma
sono circoscritti ai territori vicini alle linee del fronte.
All'indomani del conflitto, la società delle nazioni istituisce
una commissione di giuristi incaricata di elaborare un
codice della guerra aerea. Riunita all'Aia tra 1922-23, essa
fissa un insieme di regole vincolanti che proibiscono di
aggredire le città. Queste non vengono rispettate dall'Italia
fascista durante la guerra d'Etiopia nel 1935. tali ordini
verranno poi dimenticati durante il secondo conflitto
mondiale. I primi bombardamenti aerei avvengono nel
settembre 1939 contro le città polacche, preparando
l'occupazione di Varsavia. Nel 1940 è la volta di Rotterdam.
Dopo la sconfitta francese, la Gran Bretagna, isolata e
priva di altri mezzi di combattimento, lancia un'offensiva
aerea contro gli impianti industriali della Renania,
adottando la strategia dell'area bombing, ossia lo
sganciamento di bombe incendiarie su zone urbane. Tra
1940-41 i raid tedeschi uccidono più di 40.000 civili.
Durante la conferenza di Casablanca, gli alleati avevano
adottato una strategia militare il cui obiettivo esplicito era
quello di annientare, per mezzo del bombardamento
sistematico delle città, la società civile tedesca. La
dismisura dei bombardamenti aerei rivela gli effetti
perversi di un conflitto senza regole, nel quale l'odio del
nemico si traduce in volontà di distruzione totale. Questo
aspetto del tutto nuovo della guerra totale è colto
dall'espressione cultural bombing : il 29 marzo 1942 la RAF
bombarda la città di Lubecca, danneggiando i suoi
monumenti storici. Hitler allora decide di bombardare città
quali Exeter, Bath e York. Il cultural bombing alleato
prosegue a dismisura, la biblioteca di Monaco perde mezzo
milione del suo patrimonio a causa degli incendi, le bombe
vogliono inghiottire la società civile tedesca e fare tabula
rasa della sua cultura. Poche sono le voci che si oppongono
a tale politica di annientamento della società tedesca. Al
processo di Norimberga, cercando di sottrarre ogni
argomento alla difesa tedesca, il procuratore americano
Taylor presenta il bombardamento aereo della città come
“una parte riconosciuta della guerra moderna” integrandolo
così nel diritto consuetudinario. In altre parola il massacro
dei civili sarà implicitamente ammesso come una fatalità
della guerra totale.
SRADICARE: La guerra totale oltrepassa i limiti della
guerra classica per invadere lo spazio della società civile,
tradizionalmente esclusa dallo scontro armato. Non è più
combattuta solo sulle linee del fronte, tutto il continente
diviene teatro delle operazioni militari: gli operai diventano
militi del lavoro e le donne entrano in massa nella
produzione in nome del dovere patriottico, sostituendo gli
uomini arruolati. La guerra contro i civili, scrivono Audoin-
Rouzeau e Becker “è una guerra vera e propria, i cui
obiettivi non differiscono da quelli del conflitto condotto sui
campi di battaglia.”. Alla fine del conflitto nessuno può
ignorare in quale misura le società europee siano state
scosse da questo trauma: una nazione è stata sfalciata
nelle trincee, le nazioni sono impoverite, gli stati indebitati,
i sistemi politici colpiti. È in questo clima di guerra che,
nell'impero ottomano in declino, il regime turco mette in
atto il genocidio di oltre un milione di armeni sospettati di
agire come quinta colonna. Una lunga storia di persecuzioni
trova il proprio epilogo tragico nell'ambito di una guerra
totale che rende sempre più radicale il nazionalismo turco,
trasformando la sua ostilità nei confronti delle minoranze
etniche e religiose in un progetto di sterminio. Gli armeni
sono accusati di essere alleati del nemico russo in quanto
cristiani e di essere quindi solidali con gli armeni arruolati
nell'esercito zarista. In virtù del ruolo sociale, economico e
culturale all'interno dell'impero ottomano, gli armeni
impediscono la costruzione di una comunità nazionale,
auspicata dai giovani turchi. Si tratta del primo genocidio
perpetrato in nome del nazionalismo moderno. Una logica
analoga ispira le vaste operazioni di pulizia etnica che
hanno luogo in Europa centrale e nei Balcani alla fine della
grande guerra. Questa, come ha messo in luce Hannah
Arendt in “Le Origini del totalitarismo” dà via ad una nuova
categoria di persone senza cittadinanza né diritti: i profughi
e gli apolidi (stateless people). Diverse minoranze non
trovano posto in seno al nuovo sistema politico imperniato
sul modello stato-nazione. A differenza dei loro
predecessori al tempo delle guerre di religione, per
esempio gli ugonotti accolti dall'Europa protestante, gli
apolidi degli anni fra le due guerre sono spesso
abbandonati a se stessi. Una delle conseguenze dei trattati
di pace del 1919 che sanciscono la dissoluzione degli
imperi centrali è il trasferimento coatto di circa 10 milioni
di persone. Oltre un milione di tedeschi viene espulso dai
territori sottratti all'ex impero prussiano o fuggono dai
paesi baltici in preda alla guerra civile. Due milioni di
polacchi sono trasferiti nel nuovo stato polacco creato al di
fuori della loro terra natale. La guerra civile nell'ex impero
zarista provoca l'esodo di oltre due milioni di russi e
ucraini. Hannah Arendt considera la comparsa degli apolidi,
esseri umani sprovvisti di riconoscimento e protezione
legale, rivelatrice di un paradosso della modernità. Gli
apolidi sono fuori-legge, non perché abbiano trasgredito la
legge ma perché nessuna legge li riconosce quali cittadini,
questi hanno perduto la loro vecchia patria e non possono
neppure averne una nuova. La comparsa sulla scena della
storia di questa massa di apolidi è quindi un altro sintomo
della guerra civile europea. Ovviamente , è la seconda
guerra mondiale a presentare nel modo più esplicito la
propria natura di guerra contro i civili. Al termine del
conflitto questi costituiscono circa la metà delle vittime. In
questa guerra, le vittime civili sono viste come bersagli la
cui distruzione è pianificata. La guerra ridisegna da cima a
fondo nono solo la carta politica, ma anche quella
etnografica del continente, soprattutto nella sua parte
centro-orientale. La fine della Mitteleuropa è conseguenza
della guerra civile europea, dopo il 1945 l'idea di
Mitteleuropa conosce un'eclisse con la scomparsa dei suoi
pilastri: l'annessione della Prussia orientale alla Polonia e
all'Urss, l'espulsione delle minoranze tedesche, la fine delle
piccole nazioni multietniche dell'area danubiana e lo
sterminio degli ebrei.
Capitolo 4 “La giustizia dei vincitori”
“DEBELLATIO”: Alla fine della Secondo guerra mondiale
l'Europa è un cumulo di rovine. I morti, militari e civili sono
decine di milioni. Gli sfollati a causa dei bombardamenti
20milioni. Il continente è diviso in sfere di influenza e la
struttura sociale di alcune nazioni è intaccata. I danni
materiali sono altrettanto enormi, i centri urbani sono
devastati dai bombardamenti, in particolare in Germania,
dove oltre il 70% degli edifici è distrutto. Nel 1945 la
Germania non è sottoposta a uno stato “d'occupazione
belligerante”, secondo la definizione della convenzione
dell'Aia del 1907. Detto altrimenti, non è una nazione
sconfitta e temporaneamente occupata da forze vincitrici
che ne riconoscono il carattere di stato belligerante. Dopo
la sua “resa incondizionata” e la dissoluzione dell'ultimo
governo del Reich presieduto dall'ammiraglio Donitz, la
Germania ha perduto la propria sovranità, che è stata
trasferita, de facto, alle quattro potenze occupanti. Non
esiste più uno stato tedesco. L'Urss, gli USA, Gran
Bretagna e Francia non vogliono firmare un trattato di pace
con il nemico vinto, ma decidere del suo avvenire. Il
processo del nemico serve a consolidare la vittoria, a
legittimarla, renderla sacra sul piano morale e soffocare il
desiderio di vendetta e impedire un''ondata di violenza
incontrollata.
GIUSTIZIA POLITICA: Il processo di Norimberga è stato
alquanto improvvisato, i suoi imputati sono i capi nazisti
caduti nelle mani di vincitori costretti a rispettare un certo
equilibrio tra loro. La proposta iniziale di Stalin che, nel
1943 aveva suggerito l'esecuzione sommaria di qualche
decina di migliaia di responsabili del terzo Reich, fu
scartata da Churchill. Punire il nemico attraverso un
processo esemplare: è questa la logica che presiede
all'istituzione del tribunale militare internazionale di
Norimberga. L'idea di affidare l'organizzazione della
giustizia ad un paese neutrale non fu nemmeno presa in
considerazione, essere rimasti neutrali in guerra non era
vista come una virtù, il tribunale fu istituito dai vincitori, in
base a delle regole fissate nel corso della guerra, per non
ripetere gli errori del passato. Prodotto di un lungo
negoziato londinese, nell'estate 1945, tra i rappresentanti
delle quattro potenze vincitrici, la corte di Norimberga, di
fronte alla quale compaiono una ventina di alti responsabili
del regime nazista, dell'esercito e dell'economia tedeschi,
formalizza tre capi di accusa principali: 1. “Crimini contro la
Pace” violazione del diritto internazionale e la cospirazione
in vista di una guerra di conquista. 2. “Crimini di Guerra”
trattamento inumano di prigionieri e civili, saccheggio e
distruzione dei beni pubblici e privati dei paesi nemici, non
giustificati per ragioni militare. 3. “Crimini contro
l'Umanità” vale a dire la deportazione, riduzione in
schiavitù e sterminio delle popolazioni civili messa in atto
per ragioni politiche, razziali o religiose. Le condanne a
morte e le altre pesanti pene combinate a Norimberga
hanno immediatamente suscitato un vasto dibattito
giuridico e politico. Le nozioni di “crimini contro l'umanità”
e “crimini contro la pace” non esistevano prima della
guerra, vengono introdotti da parte del diritto
anglosassone e suscitano perplessità sia nel mondo
francese, che teme che tali nozioni riduca l'insieme di
crimini nazisti al “complotto” di un piccolo gruppo di
gerarchi, mettendo in secondo piano i crimini “sostanziali”
che avevano segnato questa guerra di aggressione.
L'opposizione dei sovietici ha motivazioni diverse.
Adottando questo principio, l'Urss avrebbe dovuto essere a
sua volta condannata in seguito all'invasione della Polonia
e dei paesi baltici. Kelsen ritiene che la nozione di “crimini
contro la pace” non sia affatto necessaria per giudicare e
condannare i crimini di guerra perpetrati nel corso di un
conflitto la cui origine poteva essere l'oggetto di una
condanna politica, non di sanzioni pensali contro singoli
individui. Paradossalmente, questa innovazione giuridica
rischiava di sminuire il carattere del condannato, nella
misura in cui la guerra d'aggressione era attribuita ad una
cospirazione che appariva come l'opera malvagia di una
piccola cricca, senza mettere in discussione l'intera catena
delle responsabilità tedesche. Nel 1945 la nozione di
“crimini contro l'umanità” non suscita obiezioni, ma rimane
marginale in un processo concepito innanzitutto per punire
i responsabili di una cospirazione contro la pace. Il
carattere secondario dei crimini contro l'umanità
contribuisce all'accettazione generale di questo capo
d'accusa, di fronte al quale nessuno solleva obiezioni,
l'introduzione del criterio della responsabilità individuale
per questi crimini non contraddice alcuna legislazione
anteriore, la definizione “crimini contro l'umanità” sembra
fare appello al diritto naturale, come una sorta di norma
etica anteriore e soggiacente al diritto positivo
storicamente costituito. Per quanto consensuale, il nuovo
concetto di crimini contro l'umanità è usato dall'accusa
senza rigore e in modo impreciso. I procuratori sovietici
mettono in primo piano la deportazione politica, mentre gli
angloamericani non fanno distinzione tra campi di
concentramento e campi di sterminio. Gli ebrei non sono
presi in considerazione come gruppo ma vengono inclusi
nei loro paesi di appartenenza. I campi di Sobibor e
Treblinka sono appena menzionati negli atti. La spartizione
della Polonia nel 1939 fu considerata crimine contro la pace
della sola Germania e non dell'Urss, la cui invasione di
Finlandia e paesi baltici non fu mai menzionata. Alcuni
crimini sovietici, come il massacro degli ufficiali polacchi a
Katyn furono attribuiti ai tedeschi, benché la verità fosse
nota a tutti. Poiché il tribunale non era legittimato a
giudicare i crimini di guerra alleati, la guerra navale e il
bombardamento delle città tedesche non furono
praticamente evocati. Norimberga fu un processo nel quale
una “messa in scena drammatica”, coma la definisce
Arendt, servì a soddisfare una richiesta generale di
giustizia, sia a legittimare lo statuto dei vincitori. Come
tutti i processi politici della storia, il suo verdetto era già
noto in anticipo e il suo svolgimento assunse l'aspetto di
una liturgia rivolta all'opinione pubblica internazionale.
Oltre a consacrare i vincitori, Norimberga ebbe una
conseguenza fondamentale per la definizione dell'ordine
politico del dopoguerra. La sua sentenza riconosceva e
puniva delle responsabilità individuali, le quali
permettevano di dissolvere la nozione di “colpa collettiva”
che pesava allora sulla Germania, gettando le basi per la
rinascita dello stato tedesco e mettendo fine al Reich
hitleriano. Quando il verdetto fu pronunciato a Norimberga,
l'alleanza dei vincitori iniziava ad incrinarsi e si sentivano i
primi schicchiolii della Guerra Fredda.
EPURAZIONE: Alla fine del conflitto, l'Europa è
drammaticamente posto di fronte alle proprie divisioni, sia
quelle che hanno contrapposto le grandi potenze del
continente, sia quelle prodotte in seno a ciascun paese. Gli
accusati di collaborazionismo nei confronti del regime
nazista e dei suoi alleati si contano a milione. L'epurazione
che fa seguito alla caduta del nazismo e dei suoi alleati
assume un carattere multiforme a seconda dei paesi e delle
aree geopolitiche. In Urss, dove non esiste uno stato di
diritto, essa si traduce nella deportazione di interi popoli
accusati nel loro insieme di collaborazionismo. Nei paesi di
blocco sovietico l'epurazione antifascista coincide con
l'instaurazione delle democrazie popolari e finisce per
identificarsi con l'eliminazione delle vecchie elitè dominanti.
Laddove l'occupazione tedesca è stata particolarmente
feroce e la guerra di liberazione nazionale ha assunto i
tratti di una guerra civile contro i regimi collaborazionisti,
l'epurazione diventa spesso selvaggia con la creazione di
tribunali popolari ed esecuzioni extra giudiziarie. In
Jugoslavia questa prende la forma di un vero e proprio
massacro. Ma si diffonde anche in Europa occidental. In
Francia le esecuzioni extra giudiziarie del 1944 eliminano
tra gli 8-10 mila collaborazionisti. In Italia, nel corso del
1945, la Resistenza procede all'esecuzione di oltre 10 mila
rappresentanti della repubblica di Salò. La violenza di
questa epurazione spontanea e brutale è legata alle
sofferenze e al risentimento accumulati durante un anno e
mezzo di occupazione e repressione. La Norvegia, l'Olanda
e la Danimarca che avevano abolito la pena di morte nell'
800 la reintroducono. In Italia, il contrasto tra l'ampiezza
dell'epurazione spontanea messa in atto dalla Liberazione e
la quasi assenza di epurazione legale da parte delle
istituzioni giudiziarie è notevole. All'origine di questa
anomalia, nella quale va situato il naufragio di una
Norimberga italiana (1944-46) si trova ovviamente la
posizione sui generis della monarchia sabauda. Da un lato,
essa deve pagare per i crimini di guerra perpetrati
dall'esercito in quanto membro dell'asse; dall'altro, essa ha
ottenuto dagli angloamericani uno statuto di cobelligerante
che le permette di reclamare giustizia per i crimini degli
occupanti tedeschi e della Repubblica di Salò. I fascisti e i
saloini, fuggiti all'epurazione selvaggia delle prime
settimane potranno beneficiare di un'amnistia dal 1946.
moltissimi riavranno incarichi di rilievo nella funzione
pubblica. Solo qualche gerarca saloina , come i ministri
dell'Interno e della Difesa, Guido A. Guidi e Augusto
Graziani, verranno condannati dalla War Crimes
Commission of Italy.
AMNISTIA: In un articolo non firmato del 1949, Carl
Schmitt, già vittima dell'epurazione americana, fa richiesta
di amnistia. In Francia l'epurazione legale è seguita da
diverse misure di amnistia, lo stesso in Italia che, dopo
un'epurazione selvaggia, nel 1946 Parlmiro Togliatti,
ministro di Grazia e di giustizia, promulga un'amnistia che
mette in libertà 219.000 imputati. L'amnistia concerne tutti
coloro che si sono macchiati di crimini commessi per
ragioni politiche, a eccezione degli alti responsabili della
politica collaborazionista, degli autori di massacri e sevizie
efferati. Duramente contestata per la sua ampiezza e
carattere precoce, ad appena un anno dalla liberazione del
paese, questa misura fa seguito al referendum che aveva
dato nascita alla Repubblica. L'Italia aveva voltato pagina e
il nuovo stato voleva, attraverso questo atto di clemenza,
riconciliare i suoi cittadini. Nei fatti, tuttavia, l'amnistia fu
totale, praticamente tutti gli autori della collaborazione
furono liberati. All'inizio degli anni 50 tutti i criminali
fascisti furono liberati e una nuova stagione di processi tesi
a perseguire gli atti di violenza della resistenza si aprì.
Bisognerà attendere gli anni 60 perché la nozione di
imprescindibilità entri gradualmente nelle giurisprudenze
dei diversi paesi del continente, permettendo di istruire
processi tardivi per giudicare i crimini rimasti impuniti.
Questi atti che, a partire dal 1946, chiudono la guerra civile
sul piano giuridico, si iscrivono in una lunga tradizione
storica. Più o meno sommaria, più o meno rapida a
seconda dei casi, l'amnistia ha sempre messo fine alle
guerre civili. Il paradigma di queste amnistie concepite e
applicate come politiche di riconciliazione nazionale, rimane
la democrazia ateniese greca 404 a.C.
L'interdizione politica del ricordo ha un carattere
fondamentale, è un patto che sancisce la riconciliazione e
impedisce la vendetta. Le nazioni nascono dalla violenza e
dai massacri, dalle guerre di religione a quelle civili, per
costruirsi devono imparare a dimenticare. Questa dialettica
dell'amnistia e dell'oblio caratterizza spesso l'uscita dai
conflitti. Il timore di ricadere nella guerra civile e la volontà
di riconciliazione sono spesso all'origine della
rivendicazione di amnistia la quale implica inevitabilmente
un'amnesia collettiva. Nella loro analisi della dialettica che
unisce amnistia e oblio, Ernst Renan e Nicole Lauraux non
prendono in considerazione l'erosione della coscienza
storica che inevitabilmente tale dialettica comporta,
talvolta accompagnata da una negazione della memoria
delle vittime, abbandonate al sentimento di una rinnovata
ingiustizia e prive di un riconoscimento pubblico. L'amnistia
può rivelarsi efficace nell'immediato come politica di
riconciliazione, ma anestetizza la memoria creando le
condizioni di una sua ricomparsa tardiva, con l'espressione
di una sofferenza a lungo soffocata e di ingiustizia
compiuta.

Capitolo 5 “Deflagrazione”
PREFIGURAZIONI: Pochi eventi nella storia del mondo
moderno hanno avuto un impatto così profondo sulla
cultura europea come la prima guerra mondiale. E rare, al
contempo, sono le grandi svolte epocali altrettanto inattese
e traumatiche. Il pessimismo culturale che si era diffuso
nel vecchio mondo alla fine dell'800, quando si profilava
una messa in discussione dell'idea di progresso a favore di
una visione della modernità come decadenza, non
suscitava il timore di una nuova guerra.
Le prefigurazioni della catastrofe non venivano dalle
scienze sociali, ma dalla letteratura e dalle arti, luoghi
privilegiati dell'immaginario utopico. H.G.Wells nella
“Guerra dei Mondi” preannuncia l'invasione dell'Inghilterra
da parte di un esercito di marziani che vi sperimentavano
armi meccaniche di distruzione di massa: armi chimiche
che prefiguravano non solo gli attacchi di gas a Ypres ma
anche le bombe atomiche della seconda guerra mondiale.
Emile Zola ne “La bestia umana” delinea la metafora del
progresso tecnico come catastrofe, egli parla di soldati
allegri e incoscienti del pericolo. Stravinskij con “Sagra
della Primavera” rimette in luce la visione tradizionale del
mondo: l'eruzione di un primitivismo feroce e selvaggio che
rinnegava le forme di civiltà, di vitalismo che si stacca dal
razionalismo, il rigetto delle convenzioni musicali in nome
della rivolta della soggettività.
FEBBRE NAZIONALISTA: Nell'agosto 1914 le
dichiarazioni di guerra suscitavano un'incredibile ondata di
entusiasmo collettivo in tutte le capitali europee. La febbre
nazionalista conquista rapidamente la cultura,
contaminando gli animi senza quasi eccezione. In
Germania, Thomas Mann nella “Considerazioni di un
impolitico” afferma il proprio disgusto, riprendendo
Nietsche, per i principi dell'Illuminismo, la guerra gli appare
come la continuazione con le armi di uno scontro già
iniziato da tempo nel campo della letteratura. In Austria,
l'ondata sciovinista tocca anche Freud, fiero per la partenza
dei figli per il fronte. In Russia, numerosi sono gli
intellettuali che si arruolano nella crociata contro la
“barbarie germanica”. I nazionalisti italiani, dal socialista
Mussolini al decadentista d'Annunzio, invocano la fine della
neutralità del paese e l'entrata in guerra contro l'impero
absburgico per liberare le terre “irredente” da Trento a
Trieste. Tale ubriacatura patriottica si esaurisce durante la
guerra, la quale rivela un aspetto molto diverso dalla
mitologia che ha invaso le strade delle capitali europee
nell'agosto 1914 e che i responsabili delle grandi potenze,
caduti nell'illusione di una guerra di breve durata, hanno a
loro volta coltivato. In questo contesto, molti intellettuali
abbandonano il nazionalismo per aderire al pacifismo
umanista.
CAMPO DELL'ONORE E MATTATOIO: tra il 1914 e 1918
gli stati d'animo scivolano dall'idealismo cieco e entusiasmo
smisurato allo spavento e all'orrore. Da un lato la guerra
celebra il trionfo di una concezione dell'onore e dell'eroismo
racchiusa nel motto “Pro Patria Mori”ritornata in auge nel
corso del romanticismo. Dall'altro, è proprio la prima
guerra mondiale a seppellire il mito della morte nel campo
dell'onore, svelando gli orrori del massacro tecnologico e
della morte anonima di massa. Ernst Junger in “Tempeste
d'acciaio” parla di un'Europa nuova nella quale lo spirito
cavalleresco è scomparso per sempre, lasciando il posto
alla temporalità di un combattimento sottomesso al
dominio delle macchine. La grande guerra si concluderà
con le commemorazioni al “milite ignoto” e segna il
passaggio dall'una all'altra di queste due immagini
antinomiche, sostituendo la figura dell'eroe con quella del
milite ignoto, la morte nel campo dell'onore con quella
della morte nel mattatoio. La visione della guerra come
mattatoio è abbozzata da Churchill, all'inizio degli anni 20,
e descrive la Prima guerra mondiale come una terribile
ferita inflitta alla civiltà europea. Una guerra che si
distingue da tutte le precedenti per la mostruosa potenza
del fuoco e dei mezzi di distruzione. Il paesaggio politico
che si profila nelle sue parole non è più quello della guerra
classica, ma quello di una guerra totale che inghiotte le
nazioni, nella quale le popolazioni civili si annientano e non
esistono pi regole, se non quella della distruzione completa
del nemico.

Capitolo 6 “Immaginario”
PAURA: Nelle trincee la paura della morte violente è
sempre presente, ineludibile, benché provenga da una
minaccia impersonale e meccanica, anziché da un nemico
in carne e ossa. Al cospetto della violenza e della morte, i
riflessi acquisiti nella vita civile svaniscono. La solidarietà
sembra scomparsa negli esseri umani che stanno lottando
per sopravvivere. I soldati sono ormai morti insensibili
sono ancora capaci di uccidere. Gli attacchi sono
sincronizzati. In ogni trincea, in poche ore il fuoco delle
mitragliatrici nemiche, falciavano migliaia di soldati che,
aspettando l'ordine dell'attacco vivevano istanti pieni di
angoscia. La guerra tecnologica sfigura i corpi e dopo la
battaglia migliaia di cadaveri sono irriconoscibili. La morte
violenta, industrializzata e anonima della guerra moderna
si contrappone alla morte che appartiene alla società
arcaica come un fatto naturale, suscettibile di assumere,
agli occhi dei viventi, un carattere esemplare. → analisi di
Walter Benjamin che prosegue indicando nella grande
guerra una cesura nella quale il vissuto corporale della
morte in combattimento non può essere restituito dal
racconto. Non solo l'esperienza della morte violenta nella
guerra moderna non può essere tramandata, ma neppure
rappresentata, così come nell'arte, anche nella fotografia e
il cinema che abbozzano i contorni di una “guerra cubista”
dominata dalla tecnologia, dalle macchine e l'acciaio,
mostrano un paesaggio di rovine dal quale emerge un
paesaggio di rovine che non lascia intuire, neppure da
lontano, la violenza del massacro seriale. Dopo la prima
guerra mondiale, la morte non sarà più narrata né
rappresentata attraverso un racconto o immagini di lutto
capaci di inscriverla nel flusso ininterrotto di una storia
naturale. La paura sorta nel 900 non ha ancora trovato il
storico, per colmare questa lacuna, Joanna Burke
suggerisce di fare appello all'estesiologia, vale a dire la
conoscenza delle sensazioni e delle emozioni di un mondo
secolarizzato che tende a privilegiare i trattamenti
“anestetici”, allo scopo di neutralizzare i sensi.
Bisognerebbe quindi, in questa prospettiva, esplorare la
cultura della società del dopoguerra ripercorrendo una
“storia delle reazioni corporali ed emotive nei confronti del
mondo esterno”. Ciò vale innanzitutto per la paura della
morte violenta che lascia un marchio profondo sul
paesaggio mentale dell'Europa degli anni '20 e '30. Tale
sensazione di paura non è sempre espressa in modo
esplicito, si tratta più che altro di un'angoscia diffusa e
inafferrabile e che rimane occultata da una parvenza di
civiltà. È la faccia nascosta dagli innumerevoli monumenti
ai caduti che sono stati eretti in tutto il continente. Edvard
Munch “La morte nella stanza della malata” (1893): le
figure della composizione mostrano la pena di una famiglia
riunita attorno al letto di un'ammalata durante l'agonia,
senso di rassegnazione e dolore interiorizzato, clima
austero di decoro e rispettabilità; messo in contrasto con
“La notte” di Max Beckam (1918) che invece mostra
l'omicidio in una soffitta da parte di tre uomini che cercano
di strangolare un uomo, vi è una donna a gambe aperte
come se fosse stata stuprata e una bambina spaventata
che osserva questo spettacolo. In questo quadro, la morte
non ha più nulla di naturale ma appartiene ad un contesto
di caos e violenza.
TRAUMA E ISTERIA: Negli anni fra le due guerre, la
paura della morte violenta diventa materia di studio per un
nuovo ramo della medicina e della psicologia che affronta
le nevrosi traumatiche di cui soffrono i soldati reduci dalla
guerra . Fin dai primi anni del conflitto, la psicanalisi si
interessa a questo problema. Il lessico scientifico si
arricchisce di parole nuove: shock traumatico, isteria di
guerra, nevrastenia, shell-shock. Testimoniando nel 1921
di fronte alla commissione creata dal British War Office per
studiare lo shell-shock, l'ufficiale medico J.F.C Fuller
constata che il soldato esposto in modo prolungato alla
violenza del combattimento, rimane ossessionato dalla
paura, traducendo questa sensazione in un nervosismo che
assomiglia più ad una forma di terrore mentale che a paura
fisica nel senso tradizionale. Lo psicologo militare tedesco
Pick pensa che l'impotenza sessuale osservata in molti
soldati traumatizzati possa essere la conseguenza di una
“paura rimossa della morte”. Dopo aver passato in
rassegna le diverse patologie delle nevrosi di guerra, lo
storico Eric J. Leed constata che tutte condividono la stessa
diagnosi: vigliaccheria, shell-shock, stanchezza da
combattimento, ansietà, depressione ecc.. Dopo aver
raggiunto il corpo, la paura penetra la mente e infrange la
barriera che protegge l'interiorità dalle minacce esterne.
Negli ospedali, i soldati traumatizzati adottavano le stesse
posizioni che avevano in trincea per proteggersi dal fuoco,
potevano chiudersi nel mutismo o lanciare grida
improvvise, amnesia e balbuzie. La fenomenologia della
paura era varia e multiforme. Nell'ambito delle scienze
mediche e antropologiche dell'epoca era molto diffusa la
tendenza a ricondurre tutti questi sintomi a una stessa
malattia moderna, l'isteria. Tutte le manifestazioni della
nevrosi di guerra sembravano coincidere con i tratti
dell'isteria rilevati da Martin Charcot e poi integrati
nell'immaginario conservatore in una visione negativa
dell'isterico come outsider. Nella maggior parte dei casi
questi era identificato con l'ebreo o l'omosessuale, le
incarnazioni idealtipiche della degenerazione del mondo
moderno. Gli outsiders anticipavano le patologie del
soldato rimasto vittima dello shell-shock. Guerra, shell-
shock, follia, isteria, nazionalismo e antisemitismo
sono gli ingredienti della tendenza del fascismo a
trasformare l'angoscia creata dalla guerra in odio del
nemico. Il fascismo aveva innestato il mito della minaccia
bolscevica sull'inquietudine e le insicurezze diffuse nelle
società europee del dopoguerra. Trasformava l'angoscia,
che la psicanalisi definisce un sentimento di timore
generico, incapace di focalizzarsi su un oggetto, in paura di
fronte ad un nemico concreto: il comunismo e la
rivoluzione. Una volta giunto al potere, il fascismo aveva
“istituzionalizzato” questo sentimento di odio attraverso il
ricorso sistematica alla propaganda e il terrore. L'angoscia
nata dalla guerra totale si mescolava così alla paura che
aveva investito le classi dominanti in Europa dopo la
rivoluzione russa del 1917. Le nevrosi legate all'esperienza
traumatica della guerra che affliggevano la generazione
degli ex combattenti erano soltanto l'aspetto visibile di una
paura che non rimaneva prigioniera dei ricordi. Essa
invadeva lo spazio sociale e mentale alla fine di una guerra
totale che aveva reso incerta la frontiera tra combattenti e
civili, nella quale la società civile non era più che la retrovia
del campo di battaglia. La paura collettiva è il soggetto del
film di Fritz Lang M, il mostro di Dusseldorf (1931)
lungometraggio che mette in scena la paura che si
impadronisce della città tedesca dove agisce un infanticida,
e che abita lo stesso assassino, vittima di un impulso
omicida e schizofrenico che scopre con orrore i propri
misfatti. M simbolo di una psicologia collettiva creata dalla
guerra che spinge la società a sottomettersi all'ordine
nazista come a una divinità protettrice. La morte in guerra
non è assente nella fotografia degli anni 20 e 30. Susan
Buck-Morss → interpreta la paura del suo tempo con una
serie di immagini di Hitler, una serie di cartoline postali,
espressione emblematica dell'estetizzazione della politica
tipica del nazismo, queste foto mostrano Hitler mentre sta
pronunciando un discorso. Possiamo intuire il pathos delle
sue parole, di cui conosciamo il messaggio grazie alle
didascalie ai piedi delle immagini. L'aurea che la
propaganda nazista conferisce all'immagine carismatica del
Fuhrer. Questa icona secolare contiene gli elementi sui
quali, negli anni 30, si fondava il culto del nazismo del
capo. Se mettiamo da parte gli elementi convenzionali che
inevitabilmente orientano la nostra percezione di Hitler, se
prescindiamo dalla loro dimensione iconografica, se
dimentichiamo la figura storica, queste foto appaiono come
la rappresentazione del terrore, come l'istantanea di un
attacco di follia. La paura è un sentimento intimamente
legato alla comprensione della storia.
BEHEMOTH: in un saggio del 1955, Hannah Arendt situa
l'esperienza della morte al centro delle preoccupazioni della
generazione intellettuale nata dalla guerra del 1914,
soprattutto in Germania. Il nuovo rapporto con la morte
generato dalla prima guerra mondiale si declina in diverse
forme: dal pacifismo umanista all'esaltazione estetica della
violenza meccanica da parte dei futuristi, dal disprezzo
fascista alla morte mitica nichilista di Junger, che celebra la
guerra come sacrificio rigenerante della nazione.
L'approccio esistenzialista trova la sua espressione più
profonda in Heiddeger, e riguardo la paura della morte
nell'opera “Essere e Tempo” dice: L'essere-per-la-morte
[Sein zum Tode] è essenzialmente angoscia [Angst].
Heiddeger non si riferisce alla morte come conclusione del
ciclo vitale ossia come fenomeno fisiologico e naturale, per
cui è sbagliato identificare questa angoscia con la reazione
occasionale di fronte a un decesso. La morte è definita
come una condizione esistenziale permanente, una
possibilità che domina e schiaccia l'essere in ogni istante,
la modalità neutrale di essere “gettato” [geworfen] nel
mondo, il quale diviene un “esserci per morte”. L'angoscia
che si impadronisce di una vita ridotta ad attesa della
morte ed esprime la comprensione della possibilità della
morte come una condizione ontologica costituisce per
Heiddeger il vertice dell' Eigentlichkeit, la forma più
autentica dell'esistenza. La paura della morte domina il
dibattito filosofico tra le due guerre, Carl Schmitt riprende
il Leviathano di Hobbes, riprende il tema centrale di
protezione e sottomissione, che diventa ora il paradigma
dello stato nell'epoca della guerra totale. Questo ritorno a
Hobber è legato ai suoi occhi ad alcune affinità essenziali
tra l'Inghilterra della rivoluzione cromwelliana e l'Europa
del 900. Secondo Schmitt, Hobbes ha elaborato la sua
visione dello stato nelle “ore gravi della guerra civile”
quando gli uomini si sbarazzano delle loro illusioni
legittimistiche e normativistiche. Nel 1938 Schmitt pubblica
un libro su Hobbes, l'accento è posto sulla dicotomia tra
Leviatano e Behemoth, le due allegorie dello stato e della
guerra civile. La nozione di morte violenta appare ora nella
sua forma più apertamente politica, quella della guerra
civile. Nel Leviathano, in cui lo stato è una
rappresentazione antropomorfica, al contempo un dio
mortale, un corpo artificiale e un meccanismo animato,
quindi umano, la guerra civile è assimilata ad una malattia.
In Behemoth (1682) l'opera che l'ormai vecchio Hobbes
dedica all'analisi della guerra civile inglese, questa è
descritta come un atto di sedizione da parte della plebaglia
incolta e brutale. Le sue origini risiedono nella
disobbedienza e Hobbes non manca di aggiungere che
un'azione repressiva avrebbe potuto sedare tale rivolta
evitando il crollo della monarchia. L'allegoria di Behemoth e
del Leviatano, i due mostri biblici del libro di Giobbe, sono
usate, senza troppe preoccupazioni di tipo filologico, come
metafore politiche dell'anarchia e dell'ordine,
dell'obbedienza e dell'autorità sovrana, della guerra civile e
dello stato. Il bellum omnium contra omnes corrisponde
alla guerra civile, all'anarchia e al comunismo. Il
liberalismo tende a neutralizzare i conflitti separando lo
stato dalla società civile, ma ciò che ottiene è quello di
favorire il ritorno al caos, indebolendo lo stato e
legittimando, con il suo pluralismo, un'uguaglianza
conflittuale. Lo stato, al contrario, trasforma i lupi in
cittadini, sottomettendoli al suo potere. Grazie allo stato, la
forza che assicura “l'esistenza fisica di tutti i cittadini”,
regnano “la calma, la sicurezza e l'ordine”. Durante la
repubblica di Weimae, conclude Schmitt, la democrazia
aveva agito come un pericoloso Behemoth, per questo il
nazismo aveva ricostruito il Leviathano a partire dal 1933.
Nel cuore della seconda guerra mondiale, l'immagine di
Behemoth è usata, ma in un senso del tutto opposto e in
aperta polemica con Schmitt. Il Behemoth è usato come
metafora del sistema di potere nazista, uno stato
totalitario, razzista e imperialista, corroso dalle sue
contraddizioni interne.
GIOVENTU' VIRILE: i protagonisti della guerra civile
europea sono soprattutto giovani, il cui immaginario è
fortemente segnato da un'appartenenza di genere.
L'irruzione massiccia dei giovani sulla scena della storia è
legata innanzitutto ad un mutamento demografico, la
popolazione è raddoppiata rispetto al secolo precedente.
Negli anni fra le due guerre si profila una nuova visione
sociologica della gioventù. I protagonisti della guerra civile
appartengono innanzitutto alla “generazione del fronte”
sorta dalle trincee della prima guerra mondiale, dove ha
ricevuto il suo “battesimo del fuoco”. Entrambi, sia il
gruppo dei bolscevichi in Russia e i nazisti in Germania,
erano formate da giovani di sesso maschile, si
organizzavano come “sette segrete” e coltivavano la
passione dell'attivismo e della violenza. Questo è un
aspetto importante del contesto politico europeo.
Il partito bolscevico che conquista il potere in Russia
nell'ottobre 1917 è formato da giovani militanti e si
ringiovanisce ulteriormente durante la guerra civile. Lenin,
il suo fondatore e capo carismatico, ha 47 anni quando
prende testa del governo sovietico. Trockij ne ha 38.
l'entusiasmo con cui il nuovo regime sovietico vuole
dissolvere la vecchia famiglia “patriarcale e borghese”
rispecchia indubbiamente questa composizione di attivisti
pronti a cambiare tutto. Uno degli slogan del partito
durante la guerra civile: “Abbasso la tirannia capitalista
dei genitori!” In Germania, la rivolta spartachista è
diretta da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, della stessa
età di Lenin, dopo il loro assassinio, la direzione del Partito
comunista è assunta da militanti più giovani. Il principale
dirigente del partito comunista tedesco negli anni 30,
Thaelmann, ne ha 36. I movimenti fascisti formano la
seconda corrente politica capace di attrarre una gioventù
sempre più radicale. Ciò spiega sia la loro retorica
“rivoluzionaria” sia la loro volontà di rigenerare il mondo, di
fondare un ordine nuovo che non ha più niente a che
vedere con il nazionalismo e le ideologie precedenti al
1914. i fondatori del nazismo appartengono alla
Frontgeneration, Hitler è nato nel 1889, Goering e
Rosenberg nel 1893. Il movimento politico che esibisce nel
modo più esplicito le sue radici in seno alle giovani
generazioni, elaborando un vero e proprio “mito della
gioventù”, è tuttavia il fascismo. La rivoluzione fascista che
vuole rigenerare la nazione si presenta come opera di
un'aristocrazia nata nelle trincee, “trincerocrazia” ,
diventata adulta sfidando il mito della morte. Il mito della
gioventù è tanto più forte nel fascismo italiano che, a
differenza del nazismo, non possiede, almeno in fase
iniziale, una visione del mondo basata sul concetto di razza
o di classe. Nel dopoguerra il fascismo riesce a coagulare
un magma di correnti nazionaliste, dal sindacalismo
rivoluzionario al futurismo, ma il suo nucleo centrale è
formato dai militanti venuti dalla generazione del fronte
come Achille Starace, Roberto Farinacci (1892 Dino Grandi
e Giuseppe Bottai (1895). Per un ventennio, il fascismo
coltiva il mito della gioventù tramite una vasta rete di
associazioni sportive e studentesche che istillano tra i loro
membri l'illusione di essere una forza dirigente. Sono del
resto la burocratizzazione del regime e l'invecchiamento
relativo del suo gruppo dirigente a favorire, nella seconda
metà degli anni '30, la formazione di una nuova
generazione meno permeabile alla propaganda, in seno alla
quale si ricostituiscono le organi. Esule a Mosca,Togliatti
aveva intuito questo mutamento alla vigilia del subbuglio
che avrebbe seguito la caduta di Mussolini, la generazione
delle trincee, non c'era più, aveva perso le proprie illusioni
e scoperto il vero volto del regime. L'Italia aveva subito
una svolta generazionale. La seconda guerra mondiale sarà
l'esperienza fondatrice della nuova generazione della
Resistenza, momento decisivo nel quale la generazione
anteriore, “generazione corta” si ritrovava di fronte a
nuove scelte e alla prospettiva dell'azione. Questa nuova
generazione mette fine alla guerra civile europee. I giovani
diventati adulti tra il 1939 e il 1945 non vivono la fioritura
della mitologia della gioventù, ma la sua crisi e il suo
crollo. La Resistenza è il movimento di una gioventù che
non crede più al regime che l'aveva idealizzata e mitizzata.
ALLEGORIA DI GENERE: Sin dalla fine del 700,
Winckelmann ha fissato i codici del maschio, prendendoli in
prestito dall'arte greca: una sorta di ideale fisico, estetico e
morale identificato con l'armonia del corpo, con il coraggio
e la purezza spirituale. Verso la fine dell' 800, il movimento
giovanile tedesco (Wandervogeln, uccelli migratori)
sviluppa questa immagine conferendole un nuovo
significato, ben riassunto dal mito della fratellanza
maschile, il Maennerbund. A partire dal 1914 questo ideale
estetico e morale accentua molto il suo carattere
nazionalista e si identifica con la figura del soldato. La
guerra diventa il luogo di realizzazione dell'archetipo
maschile che si trasforma in virilità aggressiva. Così
definito, l'ideale maschile è inevitabilmente opposto a tutti i
sintomi della decadenza, i cui tratti si concentrano negli
outsiders ed ebrei: lineamenti femminili, sessualità
sfrenata, nervosismo eccessivo e intellettualismo a scapito
dell'attività fisica sono caratteristiche tipiche degli individui
“fuori norma”. Nella sua versione più radicale, nel caso
tedesco, si trasforma in misoginia → “l'amore per le donne
e l'amore per la patria sono antinomici.” Nessuno dubita
che i piaceri del combattimento siano ben più sublimi di
quelli carnali. Secondo Junger la guerra è fatta di brusche
eruzioni di sensualità e la violenza genera un culto virile
esacerbato, provocando un mutamento nei rapporti fra i
sessi.” Essa è vissuta dai soldati come un'esperienza
sensuale, lo scontro del nemico è fonte di estasi. La guerra
totale rimette in discussione la divisione tradizionale tra le
linee del fronte, la società civile appare sempre più
coinvolta, le donne entrano massicciamente nella
produzione per sostituire gli uomini arruolati o si arruolano
loro stesse come infermiere o personale ausiliario. Durante
i grandi eventi, la donna incarna l'immagine della nazione
ereditata dall' 800. Nel 1944, in Francia, la liberazione ha
l'aspetto di una bellezza raggiante avvolta nel tricolore. Ma
l'allegoria non è sempre festiva, siccome il corpo femminile
simboleggia quello della nazione, il suo stupro si trasforma
in una metafora del paese aggredito e martirizzato. Il
fascismo ha ereditato la divisione dei generi tradizionali
spingendole al parossismo attraverso la sua estetica virile e
la sua visione della donna come made prolifica,
riproduttrice della razza e angelo del focolare. Il
comunismo sembra in un primo tempo rompere questo
stereotipo, in Russia i bolscevichi proclamano
l'emancipazione della donna e la dissoluzione della famiglia
borghese, promuovendo l'uguaglianza tra i sessi e
legalizzando l'aborto. Le donne si arruolano numerose
nell'Armata rossa, ma si tratta soltanto di una parentesi
effimera e la divisione tradizionale di genere viene
restaurata nella cultura comunista. Un manifesto sovietico
del 1920 riassume bene la visione gendered della storia
che domina la cultura comunista: il compito di costruire il
socialismo spetta all'uomo, la donna è solo la sua
assistente. George Orwell descrive i primi mesi a
Barcellona in seguito al pronunciamiento franchista, nei
quali i comportamenti, le forme di socialità e
l'abbigliamento subiscono un cambio repentino. In questo
contesto appare una figura nuova: la miliciana, che adotta i
caratteri tradizionali della virilità e rovescia radicalmente la
visione cattolica della donna come angelo del focolare
(àngel del hogar) ampiamente diffusa nella propaganda
franchista. Ma le donne agiscono in seno alla resistenza
civile e scompaiono progressivamente, a partire dal 1937
una rigorosa divisione di genere si impone anche in campo
repubblicano → “Gli uomini al fronte, le donne nelle
retrovie”. Le donne in armi riappaiono nelle immagini della
Resistenza e nei manifesti sovietici della Seconda guerra
mondiale.

Capitolo 7: “La critica alle armi”


LE MUSE COMBATTENTI: Nel manifesto intitolato “Per
un'arte rivoluzionaria indipendente”, redatto in Messico nel
1938 da Lev Trockij, Andrè Breton e Diego Rivera si legge
che il compito supremo dell'arte a quell'epoca era di
partecipare coscientemente e attivamente alla
preparazione della rivoluzione. In altri termini,
l'intellettuale doveva sporcarsi le mani, misurarsi con le
asperità del presente, diventare a suo modo militante se
non voleva appassire come una figura anacronistica e
inutile di letterato fuori dal tempo. Durante gli anni 20 e 30
conflitti tra gli intellettuali si accentuano: vi sono
intellettuali che si mobilitano per difendere la democrazia,
altri cercano di distruggerla. Con l'imbarbarimento delle
società europee, la guerra ha polarizzato il campo
intellettuale in due correnti antagonistiche. Il conflitto tra
illuminismo e contro-illuminismo assume una dimensione
radicale, in particolare nei paesi vinti. Gabriele D'Annunzio,
il “poeta soldato” è un caso emblematico. La sua
vituperazione della democrazia “la bestia elettiva” si
trasforma durante la guerra in un attivismo nazionalista
sfrenato e sovversivo dal quale scaturisce un nuovo stile
politico che influenza Mussolini. È D'Annunzio ad inventare
certi simboli del fascismo come il saluto romano, la camicia
nera, le grida di guerra durante i raduni nazionalisti e le
iniziative più audaci come il volantinaggio aereo su Vienna.
L'avventura di Fiume, dove nel 1919 proclama un'effimera
repubblica, fornisce l'esempio di un intellettuale per il quale
l'arte e la vita, l'estetica e la politica sono indissociabili, e
per il quale, in maniera del tutto coerente, l'impegno
nazionalista si traduce in azione. La Germania è un altro
paese in cui, alla fine della prima guerra mondiale, il mito
della decadenza cede il posto al culto della violenza
rigeneratrice. Tra gli scrittori che elaborano questo
mutamento vi è Ernst Junger , nei suoi scritti del
dopoguerra si abbandona ad un'esaltazione del
combattimento come “esperienza interiore” fatta di estasi e
vitalità; poi, nel 1932, annuncia l'avvento di una nuova
era, quella dell'operaio, metafora con la quale designa una
dittatura totalitaria, crogiolo di razza, tecnica e volontà di
potenza. Larga parte della cultura europea tra le due
guerre aderisce a valori contrapposti a quelli del 1789. il
nazionalismo, l'antisemitismo, la “rivoluzione
conservatrice”, l'elitarismo antidemocratico e il fascismo
esercitano un'attrazione notevole su un gran numero di
intellettuali in Italia, Francia, Germania e persino
Inghilterra. All'inizio degli anni 20, Thomas Mann propone
un'allegoria di questo conflitto ne “La montagna incantata”:
da un lato l'intellettuale democratico, razionalista e
progressista, dall'altro il nichilista romantico e apocalittico,
insorto contro la modernità. I due eroi di questo romanzo,
Settembrini e Naphta, sono spesso interpretati come le due
anime dell'autore. Mann si è poi schierato contro il nazismo
e, durante il suo esilio in America, ne aveva denunciato i
crimini. Altri hanno colto nella Montagna incantata la
trasfigurazione letteraria del dialogo che Thomas Mann
aveva avuto con il fratello Heinrich. In questa fase storica,
comunismo e fascismo si presentano come le due uniche
alternative. Rivoluzione e controrivoluzione, fascismo e
comunismo si scontrano in una lotta mortale ma
condividono la coscienza di appartenere ad un secolo
armato, un secolo di guerra che ha messo fine alla pace, al
liberalismo, parlamentarismo e progresso. Entrambi
pensano la politica come un conflitto armato e lo stato
come uno strumento di guerra, la democrazia liberale
sembra il ricordo di un'epoca conclusa.
LEGALITA' E LEGITTIMITA': Posti di fronte alla crisi
profonda dello stato di diritto e del parlamentarismo, gli
attori dei conflitti del primo dopoguerra non credono più
alla diagnosi weberiana che vede nel “dominio legale” la
forma moderna del potere. Non sorprende quindi che
Schmitt indichi in Lenin e Lukacs i precursori
dell'opposizione tra legalità e legittimità. Il giurista tedesco
si riferisce a due testi apparsi nel 1920, nei quali i due
marxisti tracciano un bilancio dell'ondata rivoluzionaria che
ha scosso l'Europa centrale dopo l'Ottobre russo. Il primo è
“L'estremismo, malattia infantile del comunismo” un
pamphlet diretto contro le correnti più radicali del
Comintern nel quale Lenin difende la necessità di
combinare le forme di lotta legali e illegali, parlamentari e
insurrezionali, a seconda delle circostanze concrete. Il
secondo è un articolo intitolato “Legalità e Illegalità”, nel
quale Lukacs suggerisce di evitare gli scogli
dell'opportunismo, che si adatta alla legalità senza volerne
uscire, identificando quindi la lotta politica con il
parlamentarismo, e del “romanticismo” che idealizza la
clandestinità e respinge per principio ogni azione compiuta
entro una cornice legali. Secondo Lukacs questi due
atteggiamenti sono falsi perché la scelta della legalità e
illegalità è puramente tattica (empirica) e dipende dalle
circostanze concrete nelle quali deve agire il movimento
comunista. La rivoluzione è portatrice di una nuova
legittimità che, per imporsi, deve spezzare il vecchio
apparato statale con il suo dispositivo giuridico. Il
presupposto di questa dialettica tra legalità e illegalità è la
critica della visione liberale dello stato come entità al di
sopra della classe e dei loro conflitti. Nel 1917 i bolscevichi
decidono di sciogliere l'assemblea costituente, simbolo ai
loro occhi di una legalità storicamente obsoleta e quindi in
contraddizione con la legittimità del potere sovietico. Così,
nel suo pamphlet del 1919 contro Kautsky, Lenin considera
del tutto “naturale che gli interessi della rivoluzione siano
posti al disopra dei diritti formali dell'Assemblea
costituente.” Il clima turbolento del dopoguerra polarizza il
campo intellettuale creando figure paradossali di
“rivoluzionari conservatori”, stabilendo dialoghi
sorprendenti, inevitabilmente condannati al naufragio,fra
pensatori antipodici. Una volontà diffusa di rompere con il
passato spiega l'attenzione con la quale le correnti
nazionaliste guardano all'esperienza sovietica, come pure il
loro linguaggio rivoluzionario. Mussolini e Hitler sono
arrivati al potere per via legale, nominati rispettivamente
dal capo del governo italiano Vittorio Emanuele III
nell'ottobre 1922 e, il cancelliere tedesco dal presidente
Hindburg nel 1933. il mutamento del sistema politico
avviene più tardi, in pochi anni in Italia, in forme più
concentrate e traumatiche in Germania. Il fascismo e il
nazismo concepiscono tuttavia queste svolte come
autentiche rivoluzioni. Per Mussolini, la sua ascesa al
potere fu “un atto insurrezionale, una rivoluzione”. Il
regime fascista coltiva la leggenda della marcia su Roma
come sollevamento armato che inizia una nuova era.
Seguendo l'esempio della Rivoluzione francese, esso vuole
introdurre un nuovo calendario. Il 29 ottobre 1922 segna
l'anno I dell'era fascista, evento che sarà celebrato come
una festa nazionale fino alla caduta del regime. Il
nazionalismo tedesco adotta lo stesso linguaggio. Nel 1925
Ernst Junger scrive alcuni articoli per la rivista “Die
Standarte” allo scopo di dissipare il malinteso per cui i
nazionalisti vengono presentati come reazionari. È ben
vero che, una volta lasciate le trincee, essi hanno
combattuto gli spartakisti, il loro “nemico mortale”. Ma la
loro opposizione al bolscevismo non fa dei nazionalisti dei
reazionari, in un contesto in cui la lotta politica significa “la
persecuzione della guerra con altri mezzi”. Questa
rivoluzione non è altro che il compimento delle
trasformazioni profonde provocate dalla guerra con altri
mezzi.
RELAZIONI PERICOLOSE: Fascismo e Comunismo non
convergono, ma la loro opposizione può partire da un
bilancio condiviso: la crisi europea, il crollo definitivo del
vecchio ordine politico e la necessità di trovare una
soluzione radicale per l'avvenire. L'età del costituzionalismo
e della deliberazione sembra finita, i soli tratti riconoscibili
dell'ordine nuovo che si sta profilando sono quelli del
nichilismo.
Contatto tra Benjamin e Schmitt: fu Benjamin a
prendere contatto con Schmitt, nel dicembre 1930, con
una lettera in cui gli annunciava l'invio del suo libro sul
dramma barocco tedesco, il quale doveva molto agli scritti
del giurista renano. Nei suoi scritti dei primi anni 20,
Schmitt aveva teorizzato la dittatura come regime
implicando lo stato di eccezione. La sospensione dello stato
di diritto, con la restrinzione delle libertà individuali e la
rimessa in discussione di alcune libertà fondamentali,
poteva essere una misura transitoria nella prospettica di
preservare lo stato e di ristabilire il diritto o allo scopo di
instaurare un nuovo ordine legale. A differenza del
dittatore tradizionale, vincolato dalla legge, dotato di un
potere delegato e transitorio, il sovrano definito da Schmidt
dispone di un potere assoluto e autonomo, senza limiti.
Benjamin nel suo saggio “la critica della violenza”, a metà
tra marxismo e fascismo, teorizza una violenza non più
restauratrice dell'ordine e delle legge, ma “divina”
[Goettliche Gewalt] distruttrice del diritto, irriducibile a
ogni vincolo esteriore. Questa violenza presentava un
duplice volto, al contempo teologico e politico: teologico
perché faceva irruzione sulla scena della storia
rompendone la continuità come un'Apocalisse redentrice; e
politico, a casa della sua natura rivoluzionaria, analoga allo
sciopero generale. Questa violenza si situa agli antipodi
dello stato d'eccezione di Schmitt, prerogativa di un potere
sovrano teso a preservare o ristabilire l'ordine. Infatti è
proprio contro questa violenza redentrice che il giurista
cattolico reclama uno stato d'eccezione. Siamo in presenza,
con Benjamin e Schmitt, di due teologie politiche, una
ebraica, l'altra cattolica, una rivoluzionaria, l'altra
messiniaca. Per entrambe l'Anticristo incarna il nemico, ma
la prima assume le forme del nazismo e per la seconda
quello del bolscevismo ateo. La lettera di Benjamin a
Schmitt non ebbe risposta.
DILEMMI CRITICI: Lo scontro tra rivoluzione e
controrivoluzione solleva grandi dilemmi morali (la
legittimità della violenza, conflitto fra l'etica dei valori e
quella della responsabilità), ma i suoi attori raramente
condividono uno spazio pubblico per discuterli. Una
controversia etica coinvolge la figura di Trockij, che non
svolge più un ruolo di primo piano, e uno scrittore e un
filosofo, Victor Serge e John Dewey. Il rivoluzionario russo
era esule in Messico, dove analizzava la situazione
internazionale e proseguiva la propria battaglia contro lo
stalinismo, pur preconizzando la difesa dell'Urss
all'avvicinarsi di una nuova guerra. Dopo aver partecipato
alla rivoluzione e alla guerra civile in Russia, Serge era
stato deportato da Stalin in un gulag siberiano e si trovava
allora a Bruxelles, liberato. Dewey, filosofo liberale, aveva
affermato la crisi e il fallimento del marxismo. Con lui il
capo dell'Armata rossa ingaggiò una polemica sui
fondamenti etici del marxismo e della rivoluzione socialista.
Questo scambio di tesi costituisce uno specchio di tutti i
dilemmi etico-politici che attraversano gli anni fra le due
guerre. Al centro della polemica c'è la guerra civile vista
come problema morale. Nel suo saggio, Trockij difende con
intransigenza il proprio percorso, respingendo tutte le
accuse dei suoi critici, sia liberali sia socialdemocratici e
anarchici. Egli riafferma la propria interpretazione sullo
stalinismo, i cui crimini non vanno ricondotti all'
“amoralismo bolscevico” o al comunismo ateo, ma
all'isolamento storico di una rivoluzione soffocata
dall'imperialismo in un paese socialmente arretrato. Dopo
aver dissociato il bolscevismo dallo stalinismo, vale a dire
la violenza rivoluzionaria da quella di un potere
termidoriano che aveva usurpato la rivoluzione, egli faceva
propria la prima, di cui era stato uno dei responsabili, e
condannava la seconda, in nome di una morale socialista
che postula la liberazione dell'umanità. Le misure politiche
e militari adottate dai bolscevichi durante la guerra civile
avevano lo scopo di difendere la rivoluzione. Poiché,
secondo Trockij, la morale ha un carattere di classe,
sarebbe impossibile darne una definizione astratta. Ne
discende che “la guerra civile, forma culminante della
guerra di classe, abolisce violentemente qualsiasi legame
morale tra le classi nemiche”. Egli giustifica le esecuzioni
sommarie della CEKA, l'instaurazione delle censura , la
messa fuorilegge dei partiti avversi al regime bolsceviche e
la presa di ostaggi. Accusato di preconizzare l'amoralismo
machiavellico riassunto dalla formula “il fine giustifica i
mezzi” Trockij rispondeva che il marxismo non conosce
alcun dualismo tra fine e mezzi, poiché il legame che li
unisce non è tecnico o funzionale ma dialettico. Se il fine è
la liberazione dell'umanità, il superamento dell'oppressione
dell'uomo sull'uomo, ciò significa che non tutti i mezzi sono
legittimi per realizzarlo. I mezzi incompatibili con il fine
ricercato vanno respinti. Trockij si abbandona ad
un'apologia del terrore come corollario inevitabile della
guerra civile. Questa appare come uno spazio anomico nel
quale le regole etiche sono sospese o trasgredite in nome
di una morale superiore, incarnata da una delle parti in
lotta.

Capitolo 8: “La cultura tra fascismo e antifascismo”


ILLUMINISMO E CONTRO-ILLUMINISMO:
L'intellettuale engagè “in situazione” conosce il suo
momento di massima fortuna negli anni 30. La grande
svolta che annuncia la radicalizzazione degli intellettuali è il
1933, l'anno dell'ascesa al potere di Hitler in Germania.
Questo impegno spesso li spinge verso la sfera del
comunismo. A partire dal 1933 l'impegno antifascista degli
intellettuali assume dimensioni nuove e impressionanti. Nel
1945, alla fine della guerra, l'antifascismo è la corrente
egemonica in seno alla cultura europea. La mobilitazione
antifascista è segnata, tra il 1935 e il 1937, da due
congressi di difesa della cultura (il primo a Parigi, il
secondo nella Valencia repubblicana) ai quali partecipano
numerose personalità letterarie fra le più importanti
dell'epoca. Essa culmina durante la guerra civile spagnola,
dove la difesa della Repubblica s'identifica con quella della
cultura europea. È il carattere drammatico della situazione
a spiegare questa scelta di cui la letteratura del tempo ha
lasciato varie testimonianze. George Orwell va in Spagna
con l'idea di scrivere articoli per la stampa, ma decide
quasi subito di arruolarsi nella milizia del POUM, come
spiega in “Omaggio alla Catalogna” perchè il quel momento
sembrava l'unica cosa da fare. La guerra civile spagnola
assume così una dimensione simbolica decisiva che traccia
nuove frontiere e ridefinisce le posizioni nel campo
intellettuale. Da una parte, il triangolo tra il liberalismo,
comunismo e fascismo che si era profilato alla fine della
grande guerra, con i diversi sistemi di alleanze che ne
derivano e la possibilità, per larga parte dell'intellighenzia,
di ritirarsi in una comoda posizione di osservatrice, si
riduce ora a un unico scontro tra fascismo e antifascismo.
La scelta non può più essere dilazionata. La nozione di
“intellettuale” si arricchisce di un significato prima
sconosciuto, poiché i suoi attributi non si riducono più alla
penna e alla parola ma includono anche, se non altro
simbolicamente, le armi. I poeti repubblicani devono
rispondere a questa estetica del combattimento con la
politicizzazione della loro arte, che implica inevitabilmente
l'apologia della violenza antifascista come violenza
necessaria. W.H Auden in “Spagna” rinvia l'amore al
futuro, per lasciare spazio alla lotta. In “Spiego alcune
cose” del poeta cileno Pablo Neruda fa un inno alla Spagna
repubblicana che sta combattendo e che riuscirà a colpire il
cuore del suo nemico. L'arrivo al potere di Hitler era stato
un vero e proprio trauma. Se il fascismo italiano era stato
percepito come un fenomeno nazionale, isolato, poco noto
e al quale aveva aderito buona parte della cultura italiana,
l'avvento del nazismo in Germania conferisce al fascismo
una dimensione europea. Esso appare come una terribile
minaccia per la democrazia e la cultura su scala
continentale. Tale minaccia non si limita alla sfera politica,
ma mette in discussione la stessa civiltà. In Italia, fin dal
1924, nella rivista da lui fondata “La rivoluzione liberale”,
Piero Gobetti presenta il proprio antifascismo come una
scelta etica ed esistenziale che si impone come istinto
prima di acquistare i tratti di un'ideologia. Benedetto Croce
fu il principale rappresentante del liberalismo sulla penisola
e prende l'iniziativa di pubblicare su “Il Mondo” nel 1925 un
manifesto di intellettuali antifascisti. Due anni dopo, la
Concentrazione antifascista in esilio raccoglie la maggior
parte dei partiti messi fuori legge da Mussolini, dal partito
socialista a quello repubblicano. L'antifascismo si identifica
anche con la lotta per la pace, in un continente in cui le
ferite della prima guerra mondiale sono ancora aperte e in
cui gli equilibri politici sono precari. Non va dimenticato che
il fascismo fa degli intellettuali uno dei suoi bersagli
privilegiati. La cultura antifascista è in larga misura la
cultura dell'esilio. Diviso da una pluralità di correnti,
l'antifascismo non presenta un profilo omogeneo, ma le sue
diverse anime si identificano generalmente con l'eredità dei
Lumi. È il fascismo a formare l'unità dei suoi nemici. Nel XX
secolo questo ritorno ai lumi e ai valori del 1789 assume
una dimensione nuova, disegnando le grandi linee di uno
spazio pubblico europeo definito da frontiere culturali,
etiche e politiche. L'antifascismo contiene tutti gli elementi
costitutivi di una “sfera pubblica”: letteratura, scienze, arti,
stampa.
STALINISMO: in generale, l'antifascismo guarda al regime
sovietico con una certa compiacenza, talvolta cieca
ammirazione. Rari erano in Europa gli antifascisti pronti a
denunciare i crimini di Stalin, pochi pensavano che, se i
comunisti erano un alleato indispensabile nella lotta contro
il fascismo, ciò non doveva impedire la critica altrettanto
necessaria sullo stalinismo; che la stessa lotta antifascista
rischiava di essere svilita se si gettava un velo di silenzio
sulle deportazioni, sui campi di concentramento e le
esecuzioni sommarie. Tra queste minoranze vanno
menzionati i surrealisti, che nel 1936 denunciarono i
processi di Mosca come una messa in scena. Vi sono
esempi di come l'antifascismo non sia incompatibile con
l'antistalinismo e che il fascino esercitato all'epoca dal
comunismo sovietico non era irresistibile sull'intellighenzia
anti-fascista. Ma queste critiche rimanevano un'eccezione
in un contesto nel quale l'Urss era guardata con indulgenza
e godeva di un pregiudizio favorevole. Questo spiega anche
la forte reticenza con la quale il mondo intellettuale accolse
le prime formulazioni di una teoria del totalitarismo che
mettevano la Russia di Stalin e la Germania di Hitler come
due forme gemelle di assolutismo, tali teorie apparivano
come il sintomo di un ripiegamento di alcuni strati
intellettuali verso un atteggiamento di scetticismo passivo
e di pessimismo impotente che come un esempio di
impegno lucido ed efficace. Si può certamente
rimproverare agli intellettuali che hanno coltivato il mito
dell'Urss e contribuito a ingannare l'antifascismo, di cui
avrebbero potuto costituire la coscienza critica anziché farsi
propagandisti di un regime dispotico. Ma è altrettanto certo
che nessuna mobilitazione di massa contro il nazismo
sarebbe nata in Europa sotto l'impulso delle vecchie elitè
liberali. La lotta contro il fascismo aveva bisogno di una
speranza, di un messaggio emancipatore universale di cui il
paese della rivoluzione del 1917 sembrava indicare la
strada. Se una dittatura totalitaria come quella di Stalin ha
potuto incarnare questi valori agli occhi di milioni di
persone, e qui risiede la tragedia del comunismo del XX
secolo, è appunto perché le sue origini e la sua natura
erano profondamente diverse da quelle del fascismo.
L'unità antifascista era apparsa intorno alla metà degli anni
30, sotto l'impatto del nazismo e della guerra civile
spagnola, e si era in seguito approfondita, allargando le
proprie basi, durante la guerra e la Resistenza.
OLOCAUSTO: più complesso da decifrare è il silenzio degli
intellettuali antifascisti di fronte ad Auschwitz. Certo il
genocidio degli ebrei d'Europa non era prevedibile. Rimane
il fatto che, a partire dal 1933, una pesante minaccia
incombeva sugli ebrei, per quanto non se ne potesse
ancora cogliere l'aspetto catastrofico. Pochi intellettuali
ebbero la chiaroveggenza di Gershom Scholem che, tre
mesi dopo la vittoria di Hitler, scrisse una lettera in cui
definiva l'avvento del nazismo come una catastrofe di
portata mondiale. Nel dopoguerra la soluzione finale
sembrò una pagina tragica fra molte altre di un conflitto
che aveva devastato il pianeta. Un genocidio burocratico e
industriale non rientrava fra le categoria della cultura
antifascista. Questa sapeva cogliere solo il carattere
regressivo dei regimi di Hitler e Mussolini: l'antiliberalismo,
anticomunismo, antiparlamentarismo e rifiuto della
monarchia. Erano pochi che coglievano le radici del
fascismo nella società industriale, nella mobilitazione delle
masse all'avvento della democrazia, nel culto della tecnica,
ossia vedere nel fascismo una variante reazionaria della
modernità. Sul piano ideologico, i movimenti fascisti erano
assai sconcertanti, con la loro miscela di conservatorismo,
futurismo e romanticismo. Una caratteristica importante
dell'antifascismo, che aiuta a spiegarne sia la compiacenza
nei confronti dello stalinismo sia la cecità di fronte
l'olocausto, risiede nella difesa ostinata e acritica dell'idea
di progresso, una delle grandi categorie ereditate dalla
cultura europea dell' 800. la lotta per il progresso
coincideva con la difesa della patria del socialismo. W.
Adorno vede l'Olocausto che non può essere interpretato
come regressione né come parentesi, ma piuttosto come
prodotto autentico dell'occidente. Ai suoi occhi, la
percezione di Auschwitz come una rottura di civiltà era
indissociabile da una rimessa in discussione radicale
dell'idea di progresso. Se il nazismo aveva cercato di
cancellare l'età dei lumi, esso doveva essere compreso
dialetticamente come prodotto di questa civiltà, con la sua
razionalità tecnica e strumentale ormai priva di ogni
dimensione emancipatrice e ridotta a progetto di dominio.
Dinnanzi allo spettacolo di una civiltà che aveva
trasformato la tecnica moderna in una gigantesca forza
distruttrice, il solo sentimenti possibile era la vergogna.

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