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Storia ed estetica della musica

LINEAMENTI DI STORIA ED ESTETICA DELLA MUSICA NEL XX E XXI SECOLO


1. Il concetto di estetica e i rapporti tra storia ed estetica nel XX e XXI secolo
L’estetica è quella branca della filosofia che indaga le condizioni del bello – del bello naturale e del
bello artistico – e anche le implicazioni che legano la bellezza alle altre sfere del pensiero, l’etica in
primo luogo: se una cosa è bella o butta lo sarà anche in relazione a ciò a cui si attribuisce valore
positivo o negativo (l’esito di un atto creativo risulterà dotato o privo di una sua bellezza a seconda
che esprima o contraddica valori che abbiano anche risvolti di ordine morale; che sia cioè percepito
come adeguato o censurabile, produttivo o inerte, giusto o sbagliato, ecc.).
La cultura occidentale si è sempre preoccupata di definire i caratteri del bello, poiché ha
sempre percepito la problematicità di questo concetto. Alla metà del Settecento è nata una disciplina
specifica che ha iniziato a indagare sistematicamente, anche su basi filosofiche, ciò che è bello e ciò
che non lo è, e a differenziare anche il bello naturale – poiché la bellezza si è sempre riferita anche
alla natura – e il bello artistico. Questa disciplina è appunto l’estetica (da intendersi come filosofia
estetica o estetica filosofica).
Nel suo senso più originario, ‘estetica’ si lega al concetto di percezione: significa appunto
‘percepire’, attiene all’esperienza sensoriale, e in quanto tale rientra nella sfera delle attività
conoscitive dell’uomo. E tuttavia, proprio in quanto forma di conoscenza, ha un suo statuto specifico:
non ha a che fare con la conoscenza intellettuale, cognitiva, concettuale, almeno non vi ha a che fare
in prima istanza. L’estetica nasce infatti quando la filosofia e anche la scienza iniziano ad ammettere
che sia possibile cogliere la realtà non solo intellettualmente, ma anche attraverso i sensi, e che
questa esperienza sensoriale è una modalità di conoscenza di grado diverso, che non può e non deve
essere ignorata. Ma le esperienze sensoriali sono per loro stessa natura transitorie, non si lasciano
fissare, sono effimere. La nascita dell’estetica filosofica è legata aalla consapevolezza che
un’esperienza sensoriale acquista rilevanza quando viene fissata in un discorso che sia in grado di
fermare e descrivere l’esperienza, garantendone così la permanenza. Estetica, in un senso più
specifico, significa tradurre il campo dell’esperienza sensoriale in discorso verbale.

L’estetica musicale è una branca dell’estetica generale. Il concetto di musica come arte e linguaggio
inizia a stabilizzarsi intorno alla metà del Settecento. I filosofi se ne sono sempre occupati, da Platone
e Aristotele a Sant’Agostino, da Leibnitz a Kant e Hegel. Tra la fine del Settecento e il primo Ottocento,
anche i musicisti iniziano a percepire la necessità di una conoscenza anche intellettuaIe e critica della
musica. Nei decenni successivi alla Rivoluzione francese, nascono e si diffondono in tutta Europa
modelli didattici e pedagogici che tendono progressivamente a valorizzare, accanto alla competenza
artigianale e tecnica del mestiere di musicista e di compositore, anche un articolato bagaglio teorico.
Il modello per tutta Europa sarà l’ordinamento del Conservatoire di Parigi; in Italia, uno dei primi a
raccogliere la sfida di trasformare il musicista da artigiano (considerato socialmente né più e né meno
di un domestico, un autista o un cuoco) a citoyen, cittadino e intellettuale, sarà Giovanni Simone
Mayr. Robert Schumann, fu tra i primi ad affiancare all’attività compositiva quella di critico musicale.
La mutazione diventa cruciale nel periodo di cui dovremo parlare, il tardo ’800, il ’900 e questo primo
scorcio del XXI secolo. Già i compositori del ’900 storico si sono trovati, per il carattere rivoluzionario
della loro esperienza artistica, nella condizione di dover spiegare le proprie opere argomentando le

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loro scelte poetiche in scritti di carattere teorico, estetico, poetico. Man mano che si complicavano
le forme, man mano che il linguaggio musicale, la sua grammatica e la sua sintassi, perdevano il
carattere di struttura data una volta e per sempre, si avvertì l’esigenza di motivare i mutamenti, le
evoluzioni, gli sviluppi delle poetiche musicali, che implicavano anche una progressiva trasformazione
delle strutture linguistiche; e lo si fece ricorrendo a una disciplina teorico-filosofica che giudicava ogni
scelta in termini di adeguatezza e conformità a una certa idea di bellezza. Ora, quel che risulta
evidente, seguendo le vicende della musica attraverso i secoli, è che quest’idea di bellezza è
costantemente mutata: non soltanto la musica è soggetta alle dinamiche del mutamento storico,
anche l’idea di bello appare storicamente determinata.

2. Centralità di Richard Wagner


La storia di cui dobbiamo occuparci ha le sue radici nel secondo Ottocento. Il punto di partenza
potrebbe essere individuato nell’esperienza artistica di Richard Wagner, non solo perché Wagner fu
tra i primi a motivare nella forma del saggio filosofico-letterario le sue scelte poetiche – tra i molti
titoli: Die Kunst und die Revolution (Arte e rivoluzione, 1849), Das Kunstwerk der Zukunft (L’opera
d’arte dell’avvenire, 1849), Oper und Drama (Opera e dramma, 1851), Deutsche Kunst und deutsche
Politik (Arte tedesca e politica tedesca, 1867) –; non solo, ancora, perché ha posto le premesse per
un passaggio fondamentale, ovvero il superamento della tonalità, ma soprattutto perché ha
contribuito in modo decisivo a fissare alcuni principi dell’estetica moderna. Con lui si afferma l’idea
dell’arte come esperienza fondativa dell’esistenza umana, come riscatto spirituale, che consente
all’uomo moderno di sollevarsi sulle miserie della vita ordinaria e quotidiana. La musica non è più una
semplice attività di intrattenimento, ma una forma di conoscenza. E in quanto forma di conoscenza
deve necessariamente votarsi all’esplorazione e alla conquista di nuovi territori dell’immaginazione
e della realtà sonora. L’artista, non più artigiano, ma sacerdote di un rito mistico-religioso, entro il
quale l’arte sprigiona la sua energia rigeneratrice e catartica, assume un ruolo guida all’interno della
società, indicando con le sue creazioni forme di vita più evolute. E l’arte, e in modo specifico la musica
in quanto arte, dovrà riflettere questa nuova condizione in un rinnovamento continuo. Si radicherà
così, nell’estetica moderna, il principio dell’originalità, come esito del rinnovamento continuo delle
forme artistiche, e l’opposizione tra arte autentica, come avamposto della crescita spirituale, e il
kitsch, termine con il quale si indicavano le forme degradate della musica di intrattenimento e del
consumo.
È da questo momento che si afferma l’idea che la musica debba animata da una tensione al
continuo auto-superamento, che non segue le convenzioni, che non ripete il già noto. Il principio
dell’originalità diventa una delle discriminanti estetiche fondamentali. Il carattere del bello viene
fatto aderire all’idea del ‘Nuovo’. È in relazione al valore estetico positivo del ‘Nuovo’ che si definisce
anche il concetto di epigonismo: epigoni sono coloro che si limitano a ripetere le conquiste degli
autori maggiori, ma che per questo vivono di vita riflessa, mancano di originalità. Poi, il valore
conoscitivo, di esperienza inesauribile, di cui sono funzioni la complessità e la densità: Wagner diceva
che un’opera d’arte è tale quando non si può padroneggiare in un solo ascolto, dev’essere piuttosto
come una foresta intricata, in cui ci si può continuamente perdere, e in cui è possibile tracciare
percorsi continuamente nuovi; una melodia è degna di attenzione – gli fa eco Adorno – quando non
può essere fischiettata per strada, altrimenti scade nel banale e nel volgare, dunque nel kitsch.

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3. Wagnerismo e decadentismo
Il wagnerismo fu una vera e propria epidemia che si diffuse dagli anni Sessanta dell’Ottocento e si
prolungò in vario modo fino ai primi decenni del ’900. Un’impronta wagneriana si coglie nelle sinfonie
di Mahler, nei poemi sinfonici di Strauss, e in tutto il teatro musicale del primo Novecento. Un uso
della tecnica sinfonica costruita sul leitmotiv fu praticato perfino da Puccini, almeno in Manon e nella
Bohéme. In Italia, prima di lui, vi erano state personalità assai influenti che furono wagneriani convinti
come Arrigo Boito, che non fu solo un letterato raffinatissimo, ma anche un compositore, autore di
due opere, il Mefistofele (1868 e 1875) e il Nerone (1862-1915, prima rappresentazione postuma, nel
1924). Esponente assai influente del Decadentismo italiano, dopo aver criticato il teatro verdiano per
il suo attaccamento alla tradizione dell’opera italiana, divenne il librettista delle due ultime opere di
Verdi: Otello (1887) e Falstaff (1893), e in una certa misura ne riorientò la drammaturgia musicale.
In Francia, il documento più eloquente dell’invasamento wagneriano fu la nascita della «Revue
wagneriénne». Fondata a Parigi nel 1885, e pubblicata per tre anni, fino al 1888, uscì mensilmente
con scritti di letterati, critici, musicisti. Subì gli effetti di un’infatuazione wagneriana perfino Debussy,
e una versione del wagnerismo totalmente piegata a finalità ideologiche ebbe una parte importante
nella propaganda nazista. Hitler si fece strada nei salotti buoni tedeschi e costruì la sua carriera
politica su un’ardente passione per la musica di Wagner e grazie a una profonda conoscenza delle
sue opere.
La capacità di suggestione della musica wagneriana, la sensazione di una musica che accede
a una dimensione trascendente, risiede soprattutto nel flusso melodico continuo, ininterrotto, che
Wagner chiama ‘melodia infinita’, privo di cesure nette, e che costantemente elude una ritmica
regolare. L’idea stessa di infinità è data dall’assenza di scansione ritmica. Già nel Preludio del
Lohengrin questo aspetto è del tutto evidente: c’è sempre la stessa figura musicale che viene ripetuta
e fatta scorrere. Ci sono pochissimi tratti ritmici, prevale la tendenza al suono continuo, lungo e
tenuto, e la capacità di far scorrere e riprendere costantemente presentandolo in figure nuove e
sviluppate il medesimo elemento. L’idea del motivo continuamente presente, ripreso in forme
sempre rinnovate è il cuore del Musikdrama wagneriano. L’elaborazione motivica si accompagna alla
modulazione incessante, al punto da rendere sempre più indefiniti i contorni tra una tonalità e l’altra;
il paradigma di questa labilità armonica, e della sfuggente definizione tonale che ne consegue è il
famoso accordo del Tristano, inclassificabile, metamorfico, intrinsecamente ambiguo.
L’indefinitezza armonica è decisiva per due motivi: da una parte, fa sì che la musica wagneriana sfugga
alla prevedibilità delle direzioni tonali; dall’altra realizza nel concreto l’idea di una musica che pur
essendo interessante e coinvolgente, risulti inafferrabile, e susciti per questo il bisogno di essere
continuamente ripercorsa.

4. Debussy e il Simbolismo
Nel 1861 un evento preciso condizionò la cultura francese in modo duraturo: la prima
rappresentazione a Parigi del Tannhäuser di Wagner. Malgrado l’antagonismo tradizionale
dei francesi verso lo spirito germanico, che aumentò dopo la sconfitta della Francia nel
conflitto franco-tedesco del 1870, non vi fu influenza capace di suscitare tanto interesse e di
lasciare un segno profondo come quello del wagnerismo in Francia. All’indomani della
rappresentazione del Tannhäuser Charles Baudeleaire scrisse che nessun musicista eccelleva
come Wagner nell’evocare «lo spazio e la profondità materiale e spirituale». Cresceva una

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generazione di intellettuali e di artisti sempre più inclini a contrapporre al positivismo e al


materialismo un atteggiamento di alta e quasi mistica spiritualità, a cercare le proprie verità
oltre il mondo reale e quotidiano. La dimensione estetica assumeva il carattere di via maestra
per accedere a questa ‘ulteriorità’, e l’espressione non si esauriva più nel semplice atto
comunicativo di individuale commozione, ma come realtà che rispecchiava leggi cosmiche le
quali agivano attraverso l’artista ma al di là della sua responsabilità individuale. La teoria e la
pratica del Wort-Ton-Drama, cioè l’unione di varie pratiche artistiche, poesia, musica,
funzione drammatica del mito, arte visuale e arte scenica, incarnava questa idea di arte come
elevazione all’altezza di verità soprannaturali attraverso il superamento delle specificità
artigianali e tecniche di ogni singola arte. La forza d’impatto di Wagner si spiega come
risposta a questa prospettiva estetica della cultura francese, che trovò espressione
programmatica nei poeti decadenti e nel Simbolismo, il cui ispiratore principale fu Stephan
Mallarmé. In questo clima crebbe e si formò Achille Claude Debussy.
Debussy nasce a Parigi nel 1962 da una famiglia di piccoli commercianti. A dieci anni entra
in conservatorio. Nel 1880 ottiene un primo premio nella classe di accompagnamento
pianistico, che gli valse l'ingresso nella classe di composizione e una segnalazione a M.me
von Meck, già nota come protetrice di Caicovskij. Nelle tre estati passate al seguito della
nobildonna russa, Debussy affinò i propri gusti, le sue conoscenze musicali, e in genere la sua
cultura; soggiornò a Mosca, a Vienna, dove ascoltò per la prima volta Tristan und Isolde, poi
a Venezia.
Rientrato a Parigi, Debussy visse di lezioni di pianoforte e accompagnando strumentisti e
cantanti. Nel 1884 partecipa al Prix de Rome e lo vince. Si trasferisce a Roma dal 1885 al
1887 e durante il soggiorno di studio romano all’Accademia di Belle Arti compone una suite
sinfonica, Printemps, in riferimento alla quale il segretario dell’Accademia Hébert, nel suo
rapporto sul brano del musicista, usò per la prima volta il termine «impressionismo», per
definire il prevalere del colore sulla precisione del disegno e della forma. Quel termine ebbe
fortuna e per molto tempo ha accompagnato la musica di Debussy, anche in virtù del fatto
che legava il musicista all’emergente movimento di pittori impressionisti, con i quali
sembrava effettivamente che vi fossero tratti in comune.
In realtà, lo stesso Debussy confidò di non aver pensato a un programma per Printemps, ma
di aver cercato di seguire il movimento interno, nascosto delle cose, non allo scopo di
trasmetterne una pura impressione, bensì di penetrarvi in profondità, verso ciò che vi è
celato. Era la prima testimonianza di una spontanea convergenza verso il Simbolismo.
Tornato a Parigi, Debussy inizia a frequentare la libreria di Edmond Bailly, dove si potevano
incontrare scrittori come Villiers de l'Isle-Adam, André Gide, Paul Claudel, Pierre Louys, Henri
de Règnier, e soprattutto Mallarmé, che Debussy conosce nel 1887. L’Aprés- midi d’un faune
che Mallarmé aveva scritto più di dieci anni prima, nel 1876, era diventato il testo di
riferimento del nuovo movimento che era sorto dalla costola francese del decadentismo.
Decadentismo e Simbolismo costituiscono anzi due fasi successive della stessa rivoluzione
poetica, in cui il primo appare come la reazione più lirica ed emotiva alla generale crisi di
valori che si profilava alla fine dell’Ottocento, mentre il secondo come risposta più
intellettuale a quella crisi, una fase di riflessione che puntava alla conquista di una poetica
unitaria, coerente, consapevole. La ‘poetica delle corrispondenze’ di Baudeleaire (il ‘tempio
della natura’ che diviene ‘foresta di simboli’) perviene in Mallarmé ad un ‘linguaggio di

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rapporti simbolici’, ad effetti calcolati di musicalità, di suggestione e mistero, insomma alla


‘poesia pura’. La rivelazione della realtà vi avviene tramite operazioni di «decifrazione» e
«traduzione» con i mezzi connaturati all’attività poetica, e dunque, metafore, similitudini,
simboli.
All’ammirazione di Mallarmé per la musica di Wagner corrispose un’iniziale infatuazione
di Debussy. Tra il 1889 e il 1889 il musicista si reca a Bayeruth. Ma i pellegrinaggi wagneriani
testimoniano solo di una parte dei suoi interessi, che si nutriva comunque di una gammma
molto vasta di esperienze. Ascolta il gregoriano a Solesmes, ascolta i gamelan giavanesi alla
Esposizione Universale di Parigi, ‘scopre’ il Boris Godunov di Mussorgskij. Ma soprattutto
Debussy inizia a comporre. Le sollecitazioni di cui s’è appena accennato spingono a
composizioni di liriche per voce e pianoforte, su testi di Baudelaire (Cinq poèmes, 1887-89),
di Verlaine (Ariettes oubliées, 1888; Trois mélodies, 1891; la prima serie delle Fêtes galantes,
1892), di Pierre Louÿs (Chansons de Bilitis, 1897). Nei Cinq poèmes l’influenza di Wagner è
molto evidente, molto meno nelle Ariettes, per la minor sontuosità del testo di Verlaine.
Anzi, proprio a partire da quest’ultima composizione per voce e pianoforte, l’iniziale
infatuazione per Wagner si tramuterà in crescente insofferenza, spingendo Debussy alla
ricerca di strade alternative e perfino antitetiche. Raccolta dal musicista tedesco la
dimensione intellettuale, Debussy ne rigettò ben presto l’armamentario tecnico. Le linee
vocali delle liriche debussiane evitano il tono alto ed enfatico della declamazione drammatica
e melodrammatica per avvicinarsi ad una prosa colloquiale, con profili melodici e inflessioni
ritmiche che seguono gli accenti e le durate del parlato. Decisamente antiwagneriane sono
una certa allergia per le ripetizioni, e un generalizzato atteggiamento di discrezione
espressiva: in tutta la musica di Debussy ogni idea sonora non assume mai il tono affermativo
di un enunciato definito, ma sembra ritrarsi nell’ombra nell’esatto momento in cui viene
delineata. È in questo modo che Debussy traduce l’estetica simbolista, e particolarmente
l’idea di ‘oggetto taciuto’ di Mallarmé, per il quale, ad una percezione di indeterminatezza
della realtà – sia fisica che emozionale – corrisponde l’idea che al poeta come al musicista,
sia concesso evocare di quella realtà nulla più che la sua risonanza interiore.
Così, proprio partendo da queste affinità di concezione e da una emblematica
dichiarazione di fede simbolista di Debussy, secondo cui la musica non sarebbe limitata «à
une réproduction plus ou moins exacte de la nature, mais aux correspondances mystérieuses
entre la Nature et l’Imagination» (a una riproduzione più o meno esatta della natura, ma a
corrispondenze esatte nella Natura e nelll’Immaginazione) uno studioso polacco, Stefan
Jarocinski ha potuto mostrare in modo convincente la maggior fondatezza di un legame col
Simbolismo piuttosto che alla più semplificatoria nozione di impressionismo, che implicava
solo un rapporto di riproduzione della realtà.
Le due composizioni strumentali che seguiranno l’iniziale gruppo di liriche segnano nei
rispettivi campi della musica da camera e di quella sinfonica, la nascita della musica moderna:
il Quatuor à cordes del 1893, e il Prélude a l’aprés-midi d’un faune scritto tra il 1892 e il 1894.
Il Quatuor introduce la modernità in una delle forme della letteratura musicale più restia ai
cambiamenti, il quartetto per archi, liberandolo da quell’estetica di rigore elaborativo nella
quale era stato bloccato dall’affermazione di riferimento indiscusso dei modelli
beethoveniani. Ciò che qui viene superata è proprio la concezione della variazione
elaborativa e dello sviluppo a partire da un tema definito e identificabile dato all’inizio. Qui,

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nel quartetto debussiano, il discorso procede attraverso una sequenza di configurazioni


musicali il cui collegamento tematico è comunque presente, ma è reso decisamente più
labile dall’allentamento dei rapporti di identità dei motivi e delle cesure stabilite dalle
funzioni cadenzali.
Ma la vera rivelazione fu il Prélude a l’aprés-midi d’un faune, dato in prima esecuzione nel
1894, dove la forma più libera del poema sinfonico consentì a Debussy di liberare per la
prima volta il suo potenziale di nuova immaginazione sonora. Si è detto numerose volte che
fin dalla frase iniziale affidata al flauto, il Prélude instaura una respirazione nuova dell’arte
musicale, che dà libero corso ad una espressività sciolta e mobile. Anche qui, come nel
quartetto per archi, invece di scegliere un tema distinto e svilupparlo in vari modi, Debussy
sceglie un’idea di per sé esitante, non assertiva, che ritorna su se stessa, non utilizzabile per
una elaborazione logica. Ma è soprattutto nell’uso della tavolozza orchestrale che Debussy
fonda le premesse del suo stile maturo. Agli enfatici apparati orchestrali wagneriani Debussy
contrappone una leggerezza del tessuto sonoro ottenuto con una ricerca accuratissima sui
modi d’attacco del suono: frullati, tremoli, armonici, differenziazione del tocco e delle
emissioni, effetti percussivi. Procede poi ad una scissione degli impasti timbrici tradizionali,
con sonorità inattese e uso frequente di timbri puri. Questo paricolarissmo tessuto
orchestrale verrà sviluppato e riarticolato nella sua opera per il teatro, Pélleas e Melisande,
su soggetto di Maeterlinck, alla quale Debussy lavorò dal 1894 al 1902; nei Trois Nocturnes:
Nuages, Fetes, Sirènes, che risalgono al 1897-99; in La mer (1904-05) e nelle Images (1913).
In La mer e nelle Images per orchestra e poi ancora di più in Jeux, del (1912), porta a logica
conseguenza le ricerche avviate con il Prelude à l’aprés-midi d’un faune, relative sia
all’individuazione timbrica, sia agli stessi procedimenti compositivi: l’immaginazione del
compositore non agisce componendo un gesto musicale e poi rivestendolo con i colori
strumentali, ma la stessa orchestrazione diviene un atto di vera e propria composizione,
influendo non solo sulle idee musicali, ma anche sul modo di scrittura destinata a renderne
conto.
Emergeranno d’ora in avanti altre influenze, le sonorità sospese e fluttuanti della musica
gamelan giavanese, ascoltate all’Esposizione Universale parigina del 1889 e con quelle
sonorità, scale modali di varia derivazione. Questi aspetti si fanno più evidenti nelle
composizioni per pianoforte dove si mescolano molte altre componenti, che hanno il loro
punto d’avvio nel pianismo rapsodico di Liszt e nell’arte dell’arabesco chopiniano. E ancora,
l’idea del clavicembalismo settecentesco: Pour le piano (1901) e Suite bergamasque (1905).
Una forma di raffinato esotismo pentatonico si trova in Pagodes, primo pezzo contenuto nel
trittico di Estampes (1903). Su elementi di varia provenienza si costruiscono anche le due
serie di Images per pianoforte (1905 e 1907), che segnano la pienezza di una certa forma di
scrittura pianistica in cui sono esplorate tutte le risorse timbriche. Analoga ricchezza di
soluzioni si trova nei due volumi di Préludes (1910 e 1913): aloni e morbidezze timbriche nei
bassi, pulviscolo luminoso negli acuti, che ricorda un certo Liszt; il gusto aspro della
percussione; un pianismo nel complesso discontinuo, imprevedibile, mobile e calcolatissimo
nonostante i momenti di sognante abbandono. Spagnolismo in forme visionarie e
trasfigurate, dove del cante hondo e della onnipresente chitarra si danno frammenti e
accenni: la Serenade interrompue è in questo senso molto rappresentativa. I Douze études
ancora per pianoforte, En blanc et noir per due pianoforti, chiudono il ciclo pianistico, e

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l’intera attività di Debussy insieme agli ultimi lavori – i Trois poèmes de Mallarmé (1913) per
canto e pianoforte, la Sonata per violoncello e pianoforte (1915), le ultime opere tre sonate
(per violoncello e pianoforte, per flauto, viola e arpa, per violino e pianoforte) – prima della
morte che lo colse nel 1918.
L’avvio che Debussy diede alla modernità musicale trova il suo centro nell’aspetto che
appare oggi, guardando tutto il Novecento retrospettivamente, quello decisivo e più
duraturo, e cioè l’attenzione al suono preso in sé, colto nell’istante della sua apparizione
come entità discreta e autonoma, piuttosto che come elemento di un discorso che si
costruisce attraverso di esso.
Nonostante queste posizioni avanzate che hanno permesso la consacrazione di Debussy
come padre del moderno pensiero musicale, Debussy non soffrì l’isolamento che colpì gli
altri musicisti che inaugurarono quella nozione di avanguardia; questa differenza va colta
nella via scelta da Debussy, cioè non nel rifiuto radicale dell’orizzonte musicale precedente
ma attraverso l’allargamento progressivo e anche estremo, del vecchio sistema armonico
funzionale, senza tuttavia dissolverlo mai completamente.

5. Radicalizzazione del pensiero wagneriano.


Arnold Schoenberg: musica come verità
Dopo Wagner, Mahler, Richard Strauss, la musica parla di un profondo disagio esistenziale. Il periodo
tra fine Otto e inizio Novecento è stato attraversato, da una profonda inquietudine, dalla sensazione
che tutte le certezze sul destino dell’uomo, sulla civiltà occidentale, sulla permanenza e sulla stabilità
degli ordinamenti politici, sulla stabilità delle istituzioni sociali stessero per sbriciolarsi sotto la
pressione di forze incontrollabili. Non erano sensazioni infondate: di lì a poco sarebbe crollato l’ultimo
grande, secolare impero d’Occidente, l’impero asburgico; gli effetti della seconda rivoluzione
industriale si sarebbero fatti sentire con il progressivo svuotamento delle campagne e il gonfiarsi a
dismisura delle città, la nascita dei grandi gruppi industriali, i nuovi modi di vita urbana, le forme di
consumo, il disgregarsi delle istituzioni famigliari allargate, la disfatta sempre più evidente e
irreversibile dell’ancient régime, l’ingrossarsi di masse di operai salariati, il consolidamento di una
piccola borghesia impiegatizia. Sarebbero arrivate la Prima guerra mondiale (1914-1918) e la
Rivoluzione d’ottobre (1917). L’inquietudine ben presto si trasformò in angoscia, e questo
sentimento prevalente trovò le sue forme di rappresentazione musicale nell’implosione della tonalità
e nel disordine dei linguaggi dell’arte contemporanea: il tramonto della prospettiva e la dissoluzione
della figura nelle arti visive; il definitivo superamento di una fraseologia regolare e coordinata nella
musica, l’instabilità e l’angosciosa asprezza di armonie dissonanti.
Si fece più stretto il legame tra verità e bellezza: l’arte, e la musica in particolare, apparivano
tanto più efficaci e necessarie quanto più divenivano lo specchio di questo disordine; ma le direzioni
che presero non furono univoche. Di certo non si poteva pensare di riprodurre un mondo che non
c’era più, oppure, se lo si faceva, l’opera prendeva il senso di un’evocazione nostalgica, il ricordo di
un mondo svanito per sempre. Nella maggioranza dei casi tesero a rappresentare il cambiamento,
sia nella sua dimensione tragica, come il tramonto definitivo del soggetto e la fine dell’umanesimo;
sia con atteggiamenti di resistenza, provocatoria e ironica; sia, ancora, come promessa di un mondo
nuovo, liberazione di energie primitive, arcaiche, rigeneranti. Da una parte i tratti tragici
dell’Espressionismo austro-tedesco, dall’altra l’esotismo e il primitivismo e lo sperimentalismo

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futuristico di una moltitudine di compositori, da Ferruccio Busoni a Skrjabin, da Debussy a Stravinskij


a Bartók.
L’Espressionismo austro-tedesco risultò l’epicentro di questa evoluzione, e Schoenberg
(1874-1951) ne fu l’esponente più rilevante.
Negli anni della formazione e della prima maturità di Schoenberg, Vienna può essere
considerata il punto nevralgico della cultura europea: nella città che Karl Kraus chiamò «stazione
metereologica per la fine del mondo» maturavano in campi diversi idee e riflessioni fondamentali per
la cultura del nostro secolo. Nella stessa città e negli stessi anni vissero Freud (che nel 1895 pubblicò
gli Studi sull’isteria insieme con Breuer e nel 1900 l’Interpretazione dei sogni), Hofmannstahl,
Schnitzler, Weininger (che morì suicida nel 1903, nello stesso anno in cui venne pubblicato il suo testo
Sesso e carattere), Kraus, Mach, Musil, Wittgenstein. Mahler arriva a Vienna mentre nasce la
Secessione: da quell’esperienza artistica presero forma i mondi figurativi di tre artisti molto diversi,
Schiele, Kokoschka e Loos. L’elenco potrebbe continuare, ma qui importa soprattutto sottolineare
che personalità tanto diverse e attive in ampi disparati sembrano trovare un terreno di indagine
comune nella riflessione sulla crisi della nozione tradizionale del soggetto e del suo linguaggio. È la
crisi testimoniata da Hofmannsthal in Ein Brief (Lettera di Lord Chandos), un breve racconto il cui
protagonista vive una sorta di scollamento tra le proprie emozioni e il linguaggio che dovrebbe
permettere di esprimerle verbalmente in modo ordinato: «Mi è venuta completamente a mancare la
capacità di pensare o di parlare su qualsiasi cosa in modo coerente»; oppure nell’Uomo difficile, un
dramma teatrale, nel quale il protagonista – uomo difficile, appunto – avverte l’impossibilità di
parlare, poiché ha la sensazione del disfarsi e decomporsi delle parole prima di riuscire a
pronunciarle. È la percezione del dissolversi della capacità del soggetto di porsi come principio
ordinatore della realtà. Non è difficile individuare legami tra questa perdita di controllo dell’Io e la
scoperta dell’inconscio in Freud, il lavoro letterario di Musil e Schnitzler, o la radicale revisione della
riflessione sui processi conoscitivi e sulla logica operata da Wittgenstein e dal Circolo di Vienna.
«La musica non deve ornare, deve essere vera», ha scritto Schoenberg, e questa sua frase
rivela un punto di contatto non soltanto con Mahler, ma con tutti i grandi protagonisti della cultura
viennese, le cui diversissime esperienze possono essere ricondotte a una generalizzata indagine sul
linguaggio, vissuta con strenuo impegno etico, nella consapevolezza dell’impossibilità di chiudersi
ormai nell’ordine dei linguaggi tramandati, della necessità di sperimentare ordini nuovi sapendo che
non vi sono soluzioni su cui contare, né vie d’uscita certe e rassicuranti. Quasi completamente
autodidatta, ebbe solo qualche lezione da Zemlinsky, Schoenberg si confrontò inizialmente con
l’eredità di Wagner e Brahms: da Wagner recuperò il potenziale dissolvente della modulazione
continua, per giungere tramite il processo modulante prima a un indebolimento della tonalità, poi a
un’armonia fortemente segnata dal cromatismo, poi ancora alla pura atonalità’; da Brahms ricavò le
possibilità costruttive dell’elaborazione motivica e del contrappunto applicati alle forme della musica
strumentale. Un’opera assai significativa in questo senso è Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) per
sestetto d’archi, del 1899. È un poema sinfonico «da camera», con tanto di testo poetico di
programma, il cui autore è il poeta Richard Dehmel. Vi viene narrato il turbamento di un uomo, al
quale una notte la sua donna confessa di essere incinta di un altro; lo svolgimento della composizione
punta a rappresentare l’incalzare della sorpresa, poi della disperazione, del furore, dello sprofondare
nello sperdimento, della tensione tra la volontà di chiudere una relazione culminata nel tradimento
e l’impossibilità di recidere un legame profondo, fino alla risoluzione di accettare l’accaduto e il suo
esito. L’opera si apre in un re minore ancora ben definito e si chiuderà in re maggiore. Ma in mezzo,

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Storia ed estetica della musica

ogni riferimento tonale viene gradualmente abbandonato. L’azione è insomma tutta interiore, vi
viene estesa ed estremizzata l’idea del ‘sonoro silenzio’, che in Wagner designava i lunghi momenti
in cui i personaggi restano muti sulla scena, mentre l’orchestra canta in loro vece.
Una ricerca di essenzialità unita all’urgenza di un’espressività incandescente si ritrova nei Gurre-
Lieder (composti nel 1900-1901, ma strumentati in due fasi, nel 1901-1903 e nel 1910-11), destinati
a un organico gigantesco, con orchestra, coro e voci soliste; oppure nella Kammersymphonie op. 9,
del 1905-06. Concepita in un blocco unico, ma che ingloba nel suo scorrere senza soluzione di
continuità quattro sezioni riconducibili a tempi di sonata (come aveva già fatto Liszt nella Sonata in si
minore per pianoforte), questa ‘sinfonia da camera’ è composta per 15 strumenti (8 legni, 2 corni, 5
archi). La dimensione melodica e armonica appaiono fortemente integrate (in modo tale che i temi
d’apertura generano accordi basati sulla successione di intervalli di quarta e sulla scala per toni interi.
Accanto alla densità contrappuntistica, è questa la strada che conduce al superamento della tonalità.

6. L’Espressionismo tedesco, il primitivismo, lo sperimentalismo americano


Schoenberg rifiutava termini come atonale o atonalità, che sono comunque entrati nell’uso corrente.
Preferiva parlare di emancipazione della dissonanza (perché non ha più alcun significato l’obbligo di
risolvere le dissonanze e si cancella la distinzione stessa tra consonanza e dissonanza), e di
«sospensione della tonalità». Vengono scardinate le gerarchie dell’organizzazione tonale e il
concatenarsi degli accordi non rimanda più a funzioni tonali; ma lo stravolgimento e il rinnovamento
del linguaggio riguarda molti aspetti del ‘gesto’ musicale, che rifiuta gli automatismi, le convenzioni
discorsive del linguaggio tradizionale, ne distrugge gli schemi, le simmetrie e le ripetizioni, crea nuovi
mezzi di costruzione coerenti con le necessità di trovare modi espressivi corrispondenti all’idea di
interiorizzazione, concentrazione, essenzialità. Frasi, temi, motivi, tendono a concentrarsi in
dimensioni ridotte o minime, l’armonia, il contrappunto, il timbro assolvono alla funzione di portare
in superficie una pura «necessità interiore». Questo modo di procedere obbediva alle ragioni della
poetica espressionista. Il movimento artistico dell’Espressionismo tedesco partiva dall’idea che il
linguaggio sintatticamente ordinato, riflesso di una coscienza che è ancora in grado di esercitare un
controllo sulle pulsioni emozionali, fosse continuamente scosso e disarticolato dalle scosse profonde
dell’inconscio.
Nel carteggio che Schoenberg avviò con Vassilij Kandinskij, a partire dal 1911, questo principio
di fondo viene continuamente affermato, e un riflesso di questa condivisione di idee si trova
nell’evoluzione dei rispettivi sviluppi artistici: l’ordine sconvolto dello spazio pittorico del primo
astrattismo di Kandinskij, privato di un centro di coordinamento della visione qual era la prospettiva
nella pittura classica, corrisponde al vertiginoso stravolgimento dello spazio sonoro che negli stessi
anni produce in Schoenberg l’abolizione di un centro tonale.
Una condizione emblematica dell’Espressionismo schoenberghiano è quella di angosciosa e
totale solitudine dell’unica protagonista di Erwartung (Attesa), dramma musicale scritto nel 1909, e
indicato in partitura come «monodramma» perché prevede un solo personaggio in scena, una donna:
il testo di Marie Pappenheim, un medico che aveva conosciuto Freud, presenta non a caso uno
spessore psicanalitico, ed è l’allucinato delirio di una donna che attende l’uomo amato e che poi lo
ritrova morto. La musica appare in effetti un sismogramma dell’inconscio, come un «flusso di
coscienza oggettivato» (Schnebel), perché il flusso della musica si frantuma in un incalzante
sovrapporsi di idee, di brevi illuminazioni, di svolte repentine. Il lavoro rappresenta (insieme ad un

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Storia ed estetica della musica

altro importante lavoro teatrale di questi anni, Die Glückliche Hand [La mano felice]), un modo di
ritornare, negli anni dell’Espressionismo, con segno radicalmente mutato, all’idea di
Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale): per mezzo della tensione visionaria verso una
rappresentazione totale, l’ansioso anelito di ricondurre tutto all’immediatezza interiore approda ad
un esito frantumato, di intensità lacerante.
Dopo il 1909, un anno di vera esplosione creativa per Schoenberg, vi fu un rallentamento
dell’attività compositiva. Schoenberg si dedicò alla pubblicazione dell’Harmonielehre (Manuale di
armonia), un ponderoso trattato la cui prima uscita data 1911. È un segno di quando Schoenberg
conoscesse profondamente l’armonia tonale e la musica classico romantica, il che per contrasto
rafforza la convinzione di quanto fosse radicata in lui la necessità, l’urgenza espressiva di ciò che
andava scrivendo. La sua musica creava scandalo e irritazione nel pubblico dei concerti, ma
Schoenberg lo ripagava con gesti di aperta sfida. Era convinto di stare obbedendo a un imperativo
morale, che era il compimento della musica al suo ultimo stadio di sviluppo: la musica poteva essere
finalmente, grazie all’emancipazione della dissonanza, ciò che doveva essere. Questa era la sua verità,
in questo modo risultava autentica, in questo modo chi la scriveva non mentiva agli altri e a se stesso.
Schoenberg avrebbe potuto scrivere perfettamente in modo tradizionale se solo lo avesse voluto. Ma
una musica ben levigata, in cui ogni dissonanza, ogni disarmonia fosse accortamente integrata in un
tutto perfettamente conciliato, sarebbe stata una menzogna. La creazione musicale doveva imporsi
di scavare a fondo, di proseguire nel dissodamento delle sue relazioni più profonde, per ritrovare la
rappresentazione più autentica del modo in cui si pone il rapporto tra io e mondo. Non importa se
poi questo rapporto si riveli angosciante, o sgradevole; il compito dell’artista non è quello di
nascondere la verità, bensì di portarla in superficie, con un linguaggio appropriato. L’arte non è un
mezzo di distrazione di massa, ma una forma di conoscenza: «Se è arte non è per tutti, se è per tutti
non è arte», diceva Schoenberg. Ritornano insomma i temi dell’estetica wagneriana.
Vi era per Schoenberg una vita interna delle forme e dei linguaggi espressivi, che implicava
una continua evoluzione dei loro nessi strutturali e delle loro proprietà di relazione; e questa
evoluzione corrispondeva alla storia esterna del mondo: ogni epoca sviluppava le proprie specifiche
forme e i propri specifici linguaggi, per dar corpo e sostanza a ciò che il mondo effettivamente è o è
diventato. In questo modo si spiega anche l’enunciato «emancipazione della dissonanza».
Nell’Harmonielehre Schoenberg spiega che la dissonanza è già compresa nella natura stessa del
suono, poiché compare negli armonici superiori; per molto tempo il linguaggio musicale si è basato
solo sui primi 4 suoni della serie degli armonici, ottava, quinta, ottava, terza, su cui si è costruita
l’armonia classica; l’emancipazione della dissonanza consiste pertanto in una progressiva inclusione
degli altri armonici che sono già sempre compresi nella vita di un suono. La dissonanza è insomma
già presente nel suono in quanto realtà acustica; è necessario accogliere questa realtà acustica e
tradurla in linguaggio.
Connesso a questo ordine di questioni, nell’Harmonielehre schoenberghiana si trova anche
una riflessione sul timbro, e vi si ipotizza una Klangfarbenmelodie, una ‘melodia di timbri’, che di fatto
Schoenberg aveva già sperimentato nel terzo degli Orchesterstücke (Pezzi per orchestra) op. 16:
all’inizio, lo stesso accordo è intonato da strumenti diversi, sicché muta soltanto il colore sonoro. Nel
1911 Schoenberg scrisse i Sechs kleine Klavierstücke (Sei piccoli pezzi per pianoforte) op. 19, dove si
attua in modo più radicale un processo di ripiegamento interiore, attraverso veri e propri grumi di
timbro. Qualcosa di simile stava realizzando il suo allievo Anton Webern, particolarmente negli
straordinari Sechs Orchesterstücke op. 6. E anche per Webern, forse il più ermetico dei tre

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Storia ed estetica della musica

compositori della cosiddetta Seconda scuola di Vienna, vale il discorso, che se solo avesse voluto
avrebbe potuto scrivere in un modo che gli avrebbe garantito una carriera più tranquilla e
confortevole. Prova ne sono il giovanile movimento di quartetto, Langsamer Satz, e l’orchestrazione
realizzata per l’Offerta musicale di J. S. Bach.
Il culmine e anche l’assestamento delle esplorazioni musicali di Schoenberg è rappresentato
dal Pierrot lunaire del 1912. Il testo su cui è basato è una scelta di 21 poesie di un poeta simbolista
belga, Albert Guiraud, nella libera traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben, e si pone sotto il segno
dell’ironia, del paradosso, dell’immagine grottesca e malata, del fantasticare sul vuoto, del narcisismo
e del sarcasmo: Il Pierrot, di cui si deve immaginare la voce che canta, è una sorta di clown
sonnambulo, emblema, nella mani di Schoenberg, di una regressione del soggetto, di una svagata
follia, della perdita dell’identità. La musica si presenta infatti come un variegato ed elaboratissimo
caleidoscopio di immagini, dove è decisivo anche il rapporto per lo più sghembo che si instaura tra il
discorso strumentale e la parte vocale. Quest’ultima presenta parti eseguite nella forma dello
Sprechgesang (cantato parlato), secondo la quale l’interprete deve rispettare rigorosamente il ritmo
e intonare le note scritte con emissione parlata. Al di là dei complessi problemi che pone la
realizzazione dello Sprechgesang va sottolineata la sua natura di canto ibrido, estraniato, di fantasma
di canto, di aggressione, quasi, ai canoni convenzionali della vocalità.

Parallelamente a ciò che fanno Schoenberg e i suoi allievi (Seconda scuola di Vienna), vi sono altre
direttrici: la prima si realizza nell’altro polo europeo, Parigi, con Debussy e Stravinskij. Entrambi gli
autori si muovono lungo una traiettoria diversa: la scuola di Schoenberg si era concentrata sulla
componente diastematica e armonica, continuando il processo avviato con Wagner fino a dissolvere
la sintassi armonica. Debussy e Stravinskij partono da un principio ritmico-timbrico e in entrambi si è
innescata la scintilla di un processo di rinnovamento soprattutto tramite suggestioni di tipo esotistico,
ispirati dalla conoscenza di mondi sonori extra-europei.
Debussy incontra la musica giavanese all’esposizione universale di Parigi e apprende due
caratteristiche di questo mondo: la prima è il superamento dei dispositivi sintattici dell’armonia
funzionale non attraverso il cromatismo ma attraverso una scrittura di tipo modale o l’adozione di
altre tipologie scalari anemitoniche; la seconda, che è una conseguenza della prima è la staticità,
l’andamento fluttuante, la percezione di un flusso non direzionato verso una meta.
L’altra grande esperienza novecentesca è quella di Stravinskij. La cultura austro-tedesca aveva
egemonizzato l’Europa. Un certo processo di emancipazione della musica russa si era verificata con
la Scuola dei Cinque ed da lì era partita una ricerca che potesse dare identità alla musica russa
resistendo alla musica tedesca. Il Sacre du printemps segna l’integrazione di materiali folklorici quasi
grezzi nella costruzione della composizione (motivi ricavati dalle canzoni dei battellieri) e l’idea di
musica come coinvolgimento corporeo. È molto forte in Stravinskij la ricerca di una corporeità della
musica. Le prime composizioni sono infatti pensate come balletti. Stravinskij si concentra sul ritmo,
che diviene il motore stesso dello sviluppo compositivo. Gli elementi diastematici, il gioco delle
altezze, si riducono in modo considerevole. Il Sacre è fatta di elementi melodici semplicissimi e
primitivi, continuamente riarticolati attraverso la variazione ritmica.
Stravinskij e Debussy sono entrambi mossi dalla necessità di allontanarsi dalla tradizione
classico- romantica. L’uno lo fa adottando la linea di un primitivismo rigenerante (l’idea del rituale
arcaico e del sacrificio nel Sacre, ad esempio, oppure il matrimonio contadino nelle Noces per quattro
pianoforti e percussione), l’altro inseguendo il suono esotico e fluttuante delle percussioni giavanesi.

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Storia ed estetica della musica

In questi termini si muove anche l’esperienza di Bartók, che fa qualcosa di simile a Stravinskij.
Lavora su materiali di carattere etnico e folklorico e li usa per ricavare costrutti che poi riproduce
nella propria scrittura.
Ma tutti i compositori, in modo più o meno consapevole, avvertivano di non poter spingere
con la stessa intensità la propria rivoluzione linguistica su ogni dimensione della composizione.
Sentivano che se avessero spinto l’attività dissolutrice su tutte le dimensioni, la composizione sarebbe
esplosa.
In generale, la liberazione del timbro diventa il tratto comune più rilevato di tutte le
esperienze novecentesche. Se prima timbro e ritmo non facevano altro che rafforzare la struttura
delle altezze, ora è spesso il contrario.
L’emersione del timbro si manifesta anche nella scissione dei timbri puri, come nel Pierrot
Lunaire di Schoenberg o nell’Histoire du Soldat di Stravinskij, dove l’organico composto di più
strumenti a parti reali e l’uso di registri molto differenziati, favorisce una dissociazione dei timbri
piuttosto che una loro coagulazione in impasti sonori.
Uno dei punti più estremi del processo di concentrazione sul timbro è rappresentata nel primo
Novecento dalla musica di Edgar Varèse, compositore francese di nascita, ma americano d’adozione.
È il compositore che formula la definizione di musica come «suono organizzato»: non ha importanza
cosa costituisce la musica, cosa essa significhi, ma come si organizza il suono. È un autore che
incarnerà la vocazione autenticamente sperimentale della musica americana, più tardi prolungata e
sviluppata da John Cage. Vi era stato un precedente negli Stati Uniti, Charles Ives (1874-1954), che
prima di Varèse ha contribuito a consolidare l’idea di una musica votata alla sperimentazione
continua, anticipando – come del resto anche Varèse – tecniche e concezioni estetiche
dell’avanguardia musicale del secondo Novecento. Oltre a utilizzare la politonalità e l’atonalità vera
e propria, Ives sperimentò effetti di spazializzazione del suono e l’impiego di organici e strumenti
inusuali.
Le opere americane di Varèse procedono lungo la medesima traiettoria di Ives. Tra queste,
Ionisation ne è un significativo esempio. È del 1930-31, ma conclude un processo di individuazione
stilistica che ha inizio nei primissimi anni Venti, quando conclude Arcana. Ionisation risulta come un
tessuto sonoro compatto e chiuso in se stesso, in cui temi ritmici sono messi in evidenza dal timbro
dei 41 strumenti a percussione impiegati (assieme a 3 sirene).

7. Nuovo ordine: Neoclassicismo e principio dodecafonico


L’onda lunga di questa frenesia di sperimentalismo si propaga fino agli anni Quaranta del Novecento,
negli Stati Uniti e nelle zone periferiche del continente europeo. Nel cuore dell’Europa, nei grandi
centri propulsivi della produzione artistica moderna, a Parigi, a Berlino e a Vienna, la fine della Prima
guerra mondiale segnò una battuta di arresto. Si fece largo l’esigenza di tirare il fiato e di mettere un
po’ d’ordine.
Nella produzione di Stravinskij, l’opera spartiacque è un nuovo balletto, il Pulcinella (1919-1920). Gli
anni Venti furono caratterizzati da una sorta di ‘ritorno all’ordine’, che fu chiamato genericamente
‘Neoclassicismo’. Come suggerisce il nome stesso, il neoclassicismo consisteva nel reintrodurre
elementi stilistici della musica del passato, in realtà, soprattutto del passato pre-classico. Ma
nell’accezione del termine ‘neoclassico’ finiva per rientrare tutto ciò che non appariva ‘moderno’. Nel
caso particolare di Pulcinella esisteva una fonte ben definita: la musica di compositori napoletani del
primo Settecento, movimenti strumentali e arie che Stravinskij adattò e arrangiò. Già prima di lui altri

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Storia ed estetica della musica

compositori avevano fatto incursioni nel passato, Strauss ad esempio, con Ariadne auf Naxos e
Prokof’ev con la sua Sinfonia Classica, ma fu Stravinskij a dare al neoclassicismo una sua sistematicità,
contagiando numerosi altri compositori. Elementi del passato, da lungo tempo ormai accantonati,
vengono qui recuperati: modelli formali, tessiture, stilemi melodici e ritmici. Soprattutto si fece strada
l’esigenza di un recupero di assetti formali ben squadrati e riconoscibili.

La medesima necessità di ordine e chiarificazione si manifesterà in ambito austro-tedesco, perfino


all’interno della cosiddetta Seconda scuola di Vienna, ovvero nella cerchia di Schoenberg, Berg e
Webern. La composizione atonale ed espressionista era stata caratterizzata da un’invenzione
sostanzialmente rapsodica, un modo di scrivere molto intuitivo, che inseguiva immagini sonore e che
si esauriva nel momento stesso in cui questa immagine veniva definita. Questo processo così libero
e destrutturato dava la sensazione di non potersi sviluppare ulteriormente. Bisognava dare un po’ di
corpo e di struttura. Fu da questa esigenza che Schoenberg assunse come dato di fatto che la
composizione atonale si fondava sull’utilizzo dell’intera gamma dei dodici suoni della scala cromatica,
e trasformò questa liberazione del semitono in metodo. Nacque così il saggio Il metodo di
composizione con dodici note e l’adozione della serie dodecafonica come elemento basilare del
processo compositivo. Questo articolo ratificava la dissoluzione definitiva della tonalità, ma sostituiva
questa struttura archetipica con un’altra scala, quella cromatica. L’impianto di ogni composizione
doveva essere cromatico e tutti i suoni non dovevano essere ripetuti prima che tutto l’insieme dei 12
suoni non fosse esposto integralmente. La serie dodecafonica non è una scala vera e propria, non ha
mai uno stesso ordine. Non è nemmeno un tema. L’idea di Schoenberg è che nell’insieme dei dodici
suoni e nella configurazione della serie che di volta in volta viene adottata, vengono individuate le
caratteristiche strutturali che avrebbero contraddistinto la composizione. La serie poteva generare
un insieme di serie correlate, determinate dai processi derivati dalle forme di inversione e
retrogradazione dell’antico contrappunto. La struttura della serie garantiva una maggiore durata del
pezzo. Tutte le possibilità potenziali di configurazioni collegate alle caratteristiche della serie
fondamentale potevano costituire sviluppi possibili del processo compositivo.

Il metodo dodecafonico prende forma contemporaneamente all’avvio della fase neoclassica di


Stravinskij. Ma inizialmente, negli anni Venti, fu il nuovo stile di Stravinskij a imporsi come linguaggio
diffuso. Quello del compositore russo era un falso neoclassicismo, era in realtà una modalità
compositiva molto ironica. Il Pulcinella montava pezzi di composizioni preesistenti di musicisti
napoletani dell’epoca di Giovan Battista Pergolesi. Il balletto di Stravinskij appare all’inizio come un
calco settecentesco, ma poi man mano che si procede nell’ascolto appaiono strumentazioni anomale,
elementi che si inceppano, armonie non conformi al modello. Si crea una sfasatura sempre più netta
tra la musica che ci aspetteremmo di ascoltare e quello che realmente accade. È un modo di
comporre tutto giocato sul montaggio e sul dislivello, sul progressivo straniamento che provoca il
gioco di attese e sorprese innescato dal compositore. Il principio estetico del Neoclassicismo, nello
stile assai personale che caratterizzò la musica di Stravinskij, occupò un intero trentennio, e
caratterizzò molte opere strumentali, come il concerto per orchestra Dumbarton Oaks, o veri e propri
capolavori, come Oedipus Rex e la Sinfonia di salmi, fino all’opera teatrale in tre atti The Rake’s
Progress (La carriera di un libertino).
Lo stesso Stravinskij si collocava in un solco che aveva altri rappresentanti, soprattutto il
Gruppo dei Sei, compositori francesi che auspicavano una sorta di ritorno al passato come risposta a

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Storia ed estetica della musica

un più genuino bisogno di ordine e chiarezza, ed erano tutti riconducibili a un’idea di modernità che
non fosse in conflitto con il passato e con il pubblico comune. Il neoclassicismo si diffuse anche in
altre nazioni: in Italia, in vario modo, Casella, Malipiero e Respighi furono attivi promotori di questa
tendenza musicale. Anche in ambito tedesco con Hindemith, che si inventò la Gebrauchmusik, una
musica d’uso, nella quale poteva ritrovare spazio una dimensione artigianale del fare musica. Si
sviluppò anche una corrente musicale di ispirazione socialista o comunista, che inseguiva
l’immediatezza nella semplicità quotidiana della canzone (si vedano ad esempio il teatro-canzone di
Kurt Weill, e le sue collaborazioni con Bertolt Brecht).

8. Estetica del secondo dopoguerra


Con l’avvento del nazismo e del fascismo la musica neoclassica divenne la musica di facciata dei
regimi, mentre la musica dodecafonica venne bollata come musica degenerata. Questo provocò
come contraccolpo una legittimazione della musica dodecafonica come musica della libertà e di
resistenza all’oppressione e al totalitarismo.
Dopo la seconda guerra mondiale, nell’Europa ridisegnata dall’intervento americano e dalla
Guerra fredda, attraversata dai fervori della ricostruzione e dalle inquietudini di una pace edificata
all’ombra del terrore atomico, l’avanguardia ovvero il ripudio delle forme convenzionali della
comunicazione linguistica parve come l’atteggiamento più congeniale alle nuove generazioni di
intellettuali e di artisti nel loro rapporto con la realtà contemporanea. Il riferimento ideale e
terminologico alla cultura radicale del primo Novecento, la continuità nei confronti di un immediato
passato dei movimenti che da questo momento in poi vengono chiamate ‘avanguardie storiche’
(Espressionismo, primitivismo ecc.) viene ritrovata appunto nella corrente che aveva subito gli effetti
di una repressione ideologica e materiale nei decenni precedenti, e cioè appunto, la corrente
dodecafonica. Sul tema dell’avanguardia, sulle sue ragioni e sui propositi, sul suo significato nella
società contemporanea si svolse un intenso dibattito teorico e filosofico, i cui principali riferimenti
furono György Lukács, Walter Benjamin, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Bertolt Brecht.
Adorno in particolare operò la sintesi più sviluppata. Adorno vide nell’avanguardia soprattutto
un tentativo estremo di fuga dalla mercificazione capitalistica del prodotto estetico in un’epoca in cui
questa veniva a costituirsi come la forma specifica di vita dell’arte. Fuga disperata e votata alla
sconfitta, in quanto l’avanguardia, sottratta al mercato, sarà destinata a un’esistenza protetta, a una
sorta di museo, che sempre più rapidamente finirà per neutralizzare il potere di contestazione insito
in essa. Se all’inizio del Novecento l’avanguardia aveva potuto apparire come un elemento di
eversione dell’ordine costituito (sia pure a livello delle forme artistiche), nel secondo dopoguerra essa
non fu più l’eccezione ma divenne la regola, condizione permanente di produzione di un nuovo che,
appena prodotto, già non è più d’avanguardia ma richiede un nuovo gesto d’avanguardia.

L’opera di Anton Webern e il principio della ‘costellazione’ che è in essa sviluppato (cioè la
frantumazione del tessuto musicale in un pulviscolo di nuclei sonori dissociati e privi di attrazione di
gravità) vennero a costituire un nuovo punto di partenza. In Webern si intravedeva la possibilità di
un ‘azzeramento’. La dodecafonia schoenberghiana, con i suoi equivoci patteggiamenti con moduli e
forme della tradizione appariva contraddittoria. Composizioni di Schoenberg come l’Ode a Napoléon
(1942) o A Survivor from Warsaw (1947), in cui il metodo dodecafonico tende a ricostituire un tessuto
discorsivo compiuto apparivano contraddittorie e irrisolte. Al contrario, la ferrea coerenza del
serialismo di Webern viene a incarnare, agli occhi della neoavanguardia, l’utopia del linguaggio

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Storia ed estetica della musica

incontaminato dalle prevaricazioni del soggetto. La focalizzazione sulla dodecafonia realizzata da


Webern, da parte dei compositori nati a metà degli anni Venti, comportò la demolizione del ‘padre
dell’avanguardia dodecafonica’. Il che avvenne con particolare virulenza polemica in un famoso testo
di Pierre Boulez. L’assunto di fondo teorico, identificato forzatamente in Webern, era che il principio
seriale, per svilupparsi coerentemente, doveva essere esteso a tutte le dimensioni della
composizione, dunque non soltanto alle altezze, ma al ritmo, al timbro, alle intensità. Con
l’estensione del principio dodecafonico dalla serie dei dodici suoni agli altri parametri, la dodecafonia
si trasformerà nella composizione ‘seriale pluridimensionale’, oppure, come pure si usava dire, nella
‘composizione totalmente determinata’ o ‘serialità integrale’.

PIERRE BOULEZ
Schoenberg è morto (1951)

Con Schoenberg assistiamo a uno dei più importanti sconvolgimenti mai subiti dal linguaggio musicale.
Il materiale propriamente detto, certo, cambia: i dodici semitoni; ma la struttura che organizza questo
materiale viene messa in causa: dall’organizzazione tonale, passiamo all’organizzazione seriale. Come è
venuta alla luce questa nozione di serie? In quale momento dell’opera di Schoenberg si colloca? Di quali
deduzioni è il risultato? […]
Diciamo prima di tutto che queste scoperte di Schoenberg sono essenzialmente morfologiche. Questa
progressione evolutiva parte dal vocabolario postwagneriano per arrivare a una ‘sospensione’ del
linguaggio tonale. Anche se in Verklärte Nacht, nel Primo Quartetto op. 7, nella Kammersymphonie, si
possono vedere delle tendenze nettissime […]

La sospensione del sistema tonale si traduce con efficacia nei tre pezzi per pianoforte che costituiscono
l’op. 11. Poi le ricerche assumono un’acutezza sempre più penetrante e giungono allo stepitoso Pierrot
lunaire. Osserviamo nella scrittura di queste tre partiture tre fenomeni sorprendenti: il principio della
ripetizione costantemente efficace, vale a dire la non ripetizione; la preponderanza degli intervalli
‘anarchici’ – che presentano relativamente al mondo tonale la tensione maggiore – e l’eliminazione
progressiva del mondo tonale per eccellenza: l’ottava; scrupolo manifesto di costruire
contrappuntisticamente.
[…] Schoenberg stesso si confidò a questo proposito in un modo che autorizza a parlare di
espressionismo: «Nelle mie prime opere del nuovo stile, sono state soprattutto delle fortissime licenze
espressive a guidarmi in particolare e in generale nell’elaborazione formale, ma anche e non in ultimo
luogo, un senso della forma e della logica ereditato dalla tradizione e bene educato dall’applicazione e
dalla coscienza». […]

Eccoci dunque in presenza di una nuova organizzazione del mondo sonoro [ovvero del metodo
dodecafonico, avviato per la prima volta nella Serenade op. 24]. Organizzazione ancora rudimentale che
si codificherà soprattutto a partire dalla Suite per pianoforte op. 25, e del Quintetto per fiati op. 26, per
arrivare a una schematizzazione cosciente nelle Variazioni per orchestra op. 31.
Possiamo amaramente rimproverare a Schoenberg questa esplorazione del campo dodecafonico,
poiché è stata condotta con tale persistenza nel senso contrario che difficilmente si incontra, nella storia
della musica, un’ottica altrettanto erronea.
Non affermiamo questo gratuitamente. Perché?

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Storia ed estetica della musica

Non dimentichiamo che l’instaurazione della serie proviene in Schoenberg, da una ultratematizzazione
dove, come abbiamo detto prima, gli intervalli del tema possono venir considerati come intervalli
assoluti, sciolti da qualsiasi obbligo ritmico o espressivo […]

Siamo obbligati a riconoscere che questa ultratematizzazione rimane soggiacente nell’idea di serie, ne
è soltanto il risultato depurato. Del resto, la confusione, nelle opere seriali di Schoenberg, fra il tema e
la serie, è prova sufficientemente esplicita della sua impotenza a intravedere l’universo sonoro implicato
dalla serie. La dodecafonia non consiste allora che in una legge rigorosa per controllare la scrittura
cromatica; ha soltanto il compito di uno strumento regolatore, il fenomeno seriale è, per così dire,
passato inosservato in Schoenberg […]

Poiché le forme preclassiche o classiche che reggono la maggior parte delle sue architetture non sono,
storicamente, per nulla legate alla scoperta dodecafonica, si produce uno iato inammissibile tra
infrastrutture legate al fenomeno tonale e un linguaggio di cui si sorgono ancora sommariamente le
leggi di organizzazione. Non soltanto il progetto che si proponeva fallisce: vale a dire che tale linguaggio
non viene consolidato da queste architetture; ma si osserva proprio il contrario: queste architetture
annullano le possibilità di organizzazione incluse in questo nuovo linguaggio. Due mondi sono
incompatibili: e si è tentato di giustificarli l’uno con l’altro. […]

La persistenza, per esempio, della melodia accompagnata; di un contrappunto basato su una parte
principale e delle parti secondarie (Hauptstimme e Nebenstimme). Eccoci in presenza di una delle
eredità meno felici dovuta alle sclerosi difficilmente sostenibili di un certo linguaggio bastardo adottato
dal romanticismo. Non soltanto in queste concezioni superate ma anche nella scrittura stessa,
percepiamo le reminiscenze di un mondo abolito. Dalla penna di Schoenberg abbondano, in effetti –
non senza provocare irritazione – i cliché di scrittura temibilmente stereotipi, rappresentativi, anche
qui, del romanticismo più ostentato e più desueto. Intendiamo parlare di quelle costanti anticipazioni
con appoggio espressivo sulla nota reale; vogliamo segnalare quelle false appoggiature; e ancora quelle
formule di arpeggi, di ripetizioni, che suonano del tutto vuote e sono del tutto degne della loro qualifica
di ‘parti secondarie’. Segnaliamo infine l’impiego lugubre e uggioso di una ritmica derisoriamente
povera, brutta, dove certe astuzie di variazione nei riguardi della ritmica classica sconcertano per la loro
bonomia e inefficacia. […]

[Nelle opere americane poi, vediamo risorgere] gli intervalli di ottava, le false cadenze, i canoni esatti
all’ottava. Un atteggiamento simile raggiunge una incoerenza massima che del resto è soltanto il
parossismo fino all’assurdo, delle incompatibilità di Schoenberg. Si sarebbe dunque arrivati a una nuova
metodologia del linguaggio musicale soltanto per cercare di ricomporre l’antica? […]

Nondimeno è possibile discernere perché la musica seriale di Schoenberg fosse votata al fallimento.
Prima di tutto l’esplorazione del campo seriale è stata condotta unilateralmente: manca il piano ritmico
e persino il piano sonoro propriamente detto: le intensità e gli attacchi. […] Rileviamo invece una
preoccupazione notevolissima nei timbri, con la Klangfarbenmelodie che per generalizzazione, può
condurre alla serie di timbri. Ma la causa essenziale del fallimento risiede nella disconoscenza profonda
delle FUNZIONI seriali propriamente dette, generate dal principio stesso della serie […] Vogliamo dire
che la serie interviene in Schoenberg come un comun denominatore per garantire l’unità semantica

16
Storia ed estetica della musica

dell’opera; mentre gli altri elementi del linguaggio così ottenuti vengono organizzati da una retorica
preesistente non seriale.

Pierre Boulez fu senza dubbio il più rigoroso nel perseguire l’utopia di un linguaggio oggettivo,
totalmente riducibile all’astrazione numerica e depurato di ogni riflesso emotivo. Il distacco del
serialismo di Webern dalle sue matrici espressioniste, la progressiva estensione del principio seriale
troveranno in lui un campione di coerenza. E tuttavia, al razionalismo tagliente, così tipicamente
francese si affiancano in Boulez componenti di segno opposto, come l’insofferenza per le tecniche
rigide, l’immaginazione preziosa, la curiosità intellettuale, il gusto sensuale per la delibazione
timbrica, come in Debussy. Sicché, dopo l’infatuazione seriale, la scrittura di questo compositore si
orienterà, come gran parte della musica francese, da Dutilleux a Grisey e gli altri compositori
‘spettralisti’, sull’organizzazione del suono in sé.

9. La storicità dell’esperienza musicale e l’estetica dell’‘oggetto sonoro’


L’idea di una storicità intrinseca al linguaggio musicale viene da un’assimilazione generalizzata del
concetto marxista di rispecchiamento. E cioè dall’idea che la musica, come ogni espressione
individuale o sociale e come ogni lucida espressione artistica, sia autentica e perciò stesso ‘adeguata’,
bella, quando rispecchia la realtà degli sviluppi storici e delle trasformazioni sociali. Queste
trasformazioni sono espresse già nella loro struttura più intima, ovvero nel ‘materiale’ di partenza
con cui è fatta un’opera d’arte: ad esempio, il colore e il tipo di colore in un dipinto, l’organizzazione
dello spazio in cui è generata l’immagine, la preminenza del disegno o della struttura geometrica, la
prospettiva o il fondo piatto; così in musica la scala diatonica o altri tipi di scale, ottatoniche, esatonali,
pentatoniche, cromatiche, gli strumenti utilizzati e il modo in cui li si utilizza, la regolarità o la
irregolarità delle sequenze ritmiche ecc. Dal materiale dipendono la sintassi, o la ‘tecnica
compositiva’, come si diceva, o le modalità di strutturazione, e dunque la forma complessiva, da cui
dipendono inevitabilmente le scelte poetiche dell’autore.
In questa prospettiva, un’opera musicale risulta tanto più efficace, riuscita, coinvolgente,
bella, quanto più corrisponde allo stadio di avanzamento storico che ce la fa percepire come
necessaria. Ed è necessaria perché riflette lo stadio più avanzato di un determinato sviluppo storico.
E in quanto storicamente necessaria, autentica, perché svela la realtà in cui siamo calati, senza
mascheramenti, senza confonderci con effetti facili e superficiali. Per la generazione di compositori,
di strumentisti, di artisti e di intellettuali operante nel secondo dopoguerra, la storia interna degli
sviluppi specifici di un linguaggio artistico e la storia generale dell’umanità erano strettamente
collegati, e un’opera d’arte, più che espressione di un’individualità soggettiva costituiva un
documento sullo ‘stato di avanzamento della tecnica’. Ogni opera d’arte e ogni composizione
musicale che non riflettesse quel collegamento appariva non degna di attenzione, poiché
ingannevole e regressiva; l’opera non al passo con gli sviluppi del materiale e della tecnica musicali
tradiva una complicità con la vocazione totalitaria del capitalismo monopolista, che tende a
trasformare ogni lavoro della coscienza in merce, e a trasformare ogni individuo in consumatore.
Fu Adorno a definire il campo teorico di questa estetica di resistenza. Adorno vedeva i fronti del
capitale industriale e della resistenza del soggetto (esposto proprio per questa resistenza alla
emarginazione e alla irrilevanza) come due soluzioni chiuse, monolitiche, due fronti compatti e
omogenei.

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Storia ed estetica della musica

La storia recente era stata segnata da una tragedia senza precedenti, con l’instaurazione di regimi
totalitari, i milioni di morti, i campi di concentramento e la Shoah, le atomiche su Horoshima e
Nagasaki. Tutto ciò sembrava imporre una necessità storica assolutamente ineludibile: il rifiuto
radicale della tradizione occidentale, che si era per secoli fondata sulla centralità e
dell’emancipazione del soggetto, della sua hibris, la sua volontà di potenza e di affermazione, la
violenza esercitata sistematicamente sulla natura e sugli altri uomini o gruppi sociali.
Era dunque necessario un nuovo pensiero che inibisse l’idea stessa di arte come espressione
soggettiva e individuale, e che convogliasse le sue energie verso la costruzione di ‘oggetti’, oggetti
figurativi, oggetti sonori, non più visioni determinate da stati d’animo, proiezioni dell’inconscio e così
via, ma si dedicasse, più che a creare, a scoprire configurazioni degli elementi, stati della materia.
Il termine chiave, la parola d’ordine era appunto questa: non più creazione, che tradiva ancora
l’ambizione a plasmare il mondo, ma scoperta. Comporre musica voleva dire fare scoperte, non
inventare, ma quasi inciampare in oggetti che nella loro forma, nella loro coerenza interna, potessero
rivelare l’intima essenza del mondo e della sua storia. Non più creazioni, non più
Ciò che il compositore doveva limitarsi a fare era appunto predisporre le condizioni perché
una entità data si manifestasse e si rendesse conoscibile. Il modello di questa disposizione a far sì che
le cose si rivelassero in modo autonomo dai soggetti che si impegnavano a favorire il loro manifestarsi
era facilmente recuperato dal metodo scientifico, anzi proprio dalle scienze sperimentali. E infatti
molto spesso questi compositori assumevano anche il look degli scienziati: occhialoni spessi, camicia
bianca e cravatta, nei laboratori di musica elettronica, persino camici bianchi…

Le loro opere spesso assumevano dei titoli parascientifici: Poliphonie X, Matakstasis, Varianti ecc.
Tali opere, più che singole produzioni, sembrava dovessero sempre più apparire come documenti di
un più generale avanzamento della tecnica, e spesso e volentieri erano accompagnati da scritti che
ne spiegavano le procedure come se appunto fossero dei protocolli scientifici sperimentali.
Per la loro stessa natura, queste produzioni richiedevano un discorso che ne chiarisse gli
intenti e i risultati; i discorsi e le discussioni si moltiplicavano, e non avevano più a che fare con
l’evoluzione del gusto, ma piuttosto con l’idea di storicità, di libertà, di società, anche di misticismo,
che era una delle possibili conseguenze della perdita di centralità della soggettività, le rivendicazioni
della musica d’arte come forma di resistenza all’asservimento alle logiche puramente commerciali.
Spesso e volentieri questi filoni tematici si intrecciavano in una specie di esperanto filosofico e
letterario, fino a creare quasi un gergo, adottato anche dai compositori quando scrivevano sulla
musica propria e di altri.

Ora, non è che negli anni Cinquanta esistesse solo questa tendenza di musica sperimentale;
esistevano molte altre musiche. Erano ancora vivi molti dei protagonisti della prima metà del secolo:
Schoenberg morirà nel 1951, ma Stravinskij nel ’71; si diffondeva la musica leggera, la popular music,
il rock, il jazz; i Beatles, i Rolling Stones e via dicendo. Ma, soprattutto negli ambiti della creatività che
aspirava a porsi come musica d’arte, e in quanto tale esperienza di verità, quel modello di musica
d’avanguardia conservò a lungo un forte potere di suggestione, esercitò anzi una vera e propria
egemonia culturale. Tant’è vero che nacquero poi, anche in ambiti inizialmente generati da esigenze
diverse, delle correnti che si ispiravano a quella linea di ermeticità, di ricerca, di impegno, intellettuale
e sociale. Si pensi solo alle varie e sempre più diversificate espressioni del be bop, del free jazz, del
rock progressivo e psichedelico. Si pensi a personalità come John Coltrane, o ancora di più Ornette

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Storia ed estetica della musica

Coleman e Cecil Taylor, che nell’ambito del jazz d’avanguardia, tendevano a riprodurre quel modello
di artista-ricercatore. Oppure, per restare in Italia, si pensi a esperienze come quella degli Area; si
pensi al ruolo che giocò ancora negli anni Settanta un’etichetta come la Cramps, che produceva dischi
degli Area, quelli sperimentalissimi del suo cantante, Demetrio Stratos, e i primi documenti
discografici italiani della musica di John Cage.

10. I Ferienkurse e la musica ‘post-weberniana’


Nata dunque nel segno di Webern, la nuova avanguardia musicale manifestò i suoi propositi radicali
assumendo l’appellativo adorniano di Neue Musik (Nuova musica) e stabilì il suo epicentro in una
cittadina della Germania occidentale vicino a Francoforte: Darmstadt. Fondato nel 1946 per iniziativa
di Wolfgang Steinecke, l’Istituto Kranischstein di Darmstadt divenne nel 1948 la roccaforte del nuovo
pensiero seriale. Accanto a Webern, i capi carismatici indiscussi di questa nuova fase, Boulez e
Stockhausen posero Olivier Messiaen, e soprattutto il Modes de valeurs et d’intensités (1948),
secondo dei Quatre études du rythme (1948-1950) per pianoforte, in cui viene applicato un
particolare sistema di ‘predeterminazione del materiale di partenza’, per molti aspetti paragonabile
ai procedimenti della serialità pluridimensionale. Ma l’importanza che la musica di Webern assunse
nel circolo dei compositori legati ai Ferienkurse di Darmstadt rimane l’aspetto più rilevante e duraturo
degli anni Cinquanta. Si iniziò a pensare che solo partendo dalla musica di Webern, da alcune opere
in particolare, come il Konzert op. 24 per 9 strumenti, o le Variationen op. 27, si poteva ricostituire,
partendo da zero, una nuova lingua musicale comune della modernità. Webern sembrò il punto
obbligato per ogni musica che intendesse affrontare il problema del rinnovamento del linguaggio
sonoro, e tutto ciò che non si inscrivesse nelle coordinate desumibili dalla sua musica, e dalla serialità
integrale che dal suo pensiero sembrava scaturire, doveva essere privo di reali possibilità di sviluppo,
e dunque privo di valore estetico.
Guardando quelle vicende oggi, quella centralità attribuita a Webern appare poco fondata,
nel senso che Webern era solo in parte ciò che questa nuova avanguardia pensava fosse. Più che un
modo per comprendere davvero la musica weberniana, si piegava la sua interpretazione alle esigenze
polemiche del momento, finalizzate a loro volta ad affermare la nuova estetica dell’oggetto sonoro.
D’altra parte, la storia della Nuova Musica è anche, in una certa misura, la storia delle ragioni
concettuali di volta in volta affiancate alla pratica musicale per giustificarla. I compositori avvertono
sempre più intensamente la necessità di affiancare alle opere una produzione teorica, nella quale
essi stessi ambiscono a definire le categorie di interpretazione, e a delineare la ‘necessità storica’
delle loro scelte.
Ormai lontani da quegli anni, possiamo oggi osservare che solo in parte le linee di tendenza
riscontrabili nella musica contemporanea si lasciano ricondurre in senso stretto a una paternità
weberniana. Fenomeni come quelli della musica elettronica e concreta trovano piuttosto le loro
ascendenze storiche, oltre che negli esperimenti elettroacustici e di suddivisione infinitesimale degli
intervalli dei primi decenni del secolo, nel ‘fauvismo’ e nel ‘primitivismo’ di Stravinskij, o nel rapporto
fra arte e scienza instaurato da Edgar Varèse. Inoltre, solo più tardi si cominciò a valutare in senso più
ampio (e non soltanto in rapporto alla linea Messiaen-Boulez e al puntillismo post-weberniano)
l’apporto di quell’emancipazione del timbro come autonoma materia costruttiva perseguita da
musicisti estranei all’espressionismo mitteleuropeo, fra cui Debussy e Bartók. È interessante però che
nella costruzione del proprio cammino, la neoavanguardia europea ha creduto di dover consumare

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Storia ed estetica della musica

sino in fondo, con rigore quasi maniacale e come sospinta da un’autoimposta ‘necessità storica’, le
conseguenze dell’esperienza weberniana della disgregazione degli automatismi espressivi e della
atomizzazione del linguaggio, prima di poter recuperare altri filoni di ricerca e ritrovare le condizioni
per uscire dagli spazi angusti della serialità integrale.

11. Contraddizioni del pensiero seriale: Ligeti


Karlheinz Stockhausen fu l’altra grande personalità della musica d’avanguardia nata ai Ferienkurse di
Darmstadt. L’assunzione del serialismo weberniano a principio fondamentale di ogni composizione
musicale venne a costituire nel corso degli anni Cinquanta la discriminante essenziale tra vecchia e
nuova musica. A tale concezione estensiva del serialismo si giunse per gradi attraverso alcune
composizioni nate verso l’inizio d quel decennio, caratterizzate da una tessitura rarefatta, dispersa in
una miriade di frammenti, dai profili melodici secchi e nettamente sagomati. Quella tessitura formata
di singole note o cellule melodiche disseminate a grandi distanze tra loro, uniforme sul piano
espressivo, privo di organizzazione discorsiva percepibile se non sul piano timbrico, fu denominata
‘puntilistica’. Anche Stockhausen seguì questo percorso, che lo portò molto presto, dopo opere
chiaramente ispirate dalla tecnica di dissociazione ‘puntillistica’ – ad esempio in Kreuzespiel per oboe,
clarinetto basso, pianoforte e percussione (1951) o Kontra-Punkte per 10 strumenti (1952) ad
adottare processi di stratificazione multipla e dell’addensamento materico. Dalle trame rarefatte in
puto stile weberniano emergono, a tratti, densissimi grumi strumentali risultanti dalla stratificazione
di entità ritmiche e acustiche inestricabili, percepibili sono nell’insieme, come fasce di altezze, una
dimensione che sarà ulteriormente approfondita nella Gruppen-Technik.

Nel testo che segue, composto di brani estratti da una conferenza radiofonica del 1955,
Stockhausen illustra la sua Gruppen Technik (tecnica compositiva per gruppi) analizzando il primo dei
Klavierstücke (Pezzi per pianoforte) del 1952.

Per ‘gruppo’ si intende un numero determinato di suoni collegati secondo rapporti di affinità e su un piano
superiore di percezione, quello del gruppo appunto. I vari gruppi di una composizione si distinguono per diversi
tipi di proporzioni, per diversa struttura, ma sono correlati fra di loro nel senso che non è possibile
comprendere le proprietà di un gruppo se non in rapporto al grado di affinità che queste presentano con altri
gruppi.
Certe caratteristiche del brano sono del tutto tipiche del linguaggio musicale attuale: nessuna melodia con
accompagnamento, nessuna voce principale, né secondaria, nessun tema né transizione, e neppure relazioni
armoniche di tipo più semplice o più complesso, né tensione/risoluzione, né ritmi sincopati che diventano
regolari.
Se concentriamo il nostro ascolto sull’insieme, riceviamo un’impressione complessiva in cui le particolarità
sono sufficientemente distinte perché nessuna relazione assuma più importanza di un’altra (per esempi, i
grandi intervalli e il susseguirsi di elementi diversi in uno spazio-tempo minimo). Questo è appunto ciò che si
definisce ‘ascolto strutturale’; ciò che la memoria trattiene non è quanto appartiene alla sfera del particolare
(un intervallo isolato, una semplice proporzione di tempo), bensì il modo in cui i suoni sono connessi tra loro
e si dispongono all’interno del gruppo. [… un esempio chiarirà meglio:]
Se ci poniamo a esaminare da vicino una pietra vedremo una quantità di dettagli: linee, stratificazioni, venature
in una particolare disposizione (per evidenziarne meglio la struttura basterà applicare sulla pietra un foglio di
carta e annerirlo a matita sinché la struttura si palesa in tutta la densità della sua trama). Ma se torniamo a
guardare la pietra nel suo insieme, come avviene con un primo colpo d’occhio, non la descriveremo affatto
come la somma di quei dettagli puntuali, benché questi abbiano richiamato in noi l’idea di pietra e non, ad

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Storia ed estetica della musica

esempio, quella di legno. Così pure non diremo che questa o quella proprietà di struttura ha un’importanza
particolare, né descriveremo le venature per definire la pietra in quanto tale. Non intendo certo affrontare il
problema generale del rapporto che intercorre tra struttura e forma; ciò che voglio dire è che siamo arrivati a
un atteggiamento del tutto nuovo nei confronti di questi fenomeni (ed è noto che fu proprio questo un punto
d’avvio per la musica elettronica). Per tornare alla struttura musicale propriamente detta, le connessioni più
elementari hanno un ruolo essenziale nel contesto d’insieme, ma noi tendiamo a coglierlein modo unitario in
quanto qualità. Sul piano della sensazione possiamo distinguere modificazioni della struttura nei più diversi
gruppi di elementi, senza poter dire tuttavia che cosa si è effettivamente modificato nel dettaglio. Ciò che
emerge con evidenza sono i contorni dei gruppi: essi hanno lunghezze differenti, differenti forme, diverse
densità e diversi gradi di velocità; cioè, diversa forma sonora. […]
Che cosa si intende quando si parla di ‘corrispondenze’ fra gruppi’? non la ripetizione diun gruppo già
incontrato, nel senso di una corrispondenza tematica, e neppure una variazione di forma o uno sviluppo, ma
piuttosto un collegamento strutturale fra gli elementi […]
In un primo momento si si riuscirà appena a riconoscere la forma del gruppo già noto, che potrà essere
ricordato solo prestando un’attenzione concentrata ai rapporti di intensità e di durata; si percepirà insomma
una forma nuova, benché i rapporti dei su elementi siano affini a una struttura anteriore. L’importante è
prendere coscienza dei diversi gradi di trasformazione strutturale (talvolta il grado di affinità è elevato, altre
volte meno; […])
Se il fatto di mettere in luce e di fare intendere in modo approfondito il dettaglio o l’insieme invece di appellarsi
all’atto mistico dell’ispirazione – incompatibile con tale chiarezza – dovesse arrecare pregiudizio all’opera e al
suo autore, allora sarebbe assai triste per lui e per il suo lavoro. Poiché si sa che queste cose sono inesauribili
e che l’autenticità è nascosta nei meandri della coscienza. Per un compositore il sorprendente non sta al di là
delle cose, nascosto da qualche partecome un’idea, impossibile d percepire, ma al contrario nelle cose stesse,
nel fatto che esse sono quelle che sono e si concretizzano nei momenti in cui sono vissute dall’ascoltatore, ne
prenda o no coscienza, le accetti o meno.

Un particolare esponente di questo fronte avanguardista Gyorgy Ligeti. Studiando il metodo seriale
pluridimensionale si rese conto della sua contraddizione essenziale: il massimo della determinazione
degli elementi della composizione produce la massima indeterminatezza (Cfr. Metamorfosi della
forma musicale, 1959; testo allegato).

Opere come Kreuzespiel e Gruppen di Stockhausen, Poliphonie X e Structures di Boulez, Varianti e Il


canto sospeso di Luigi Nono segnarono una presenza compatta e stabile della corrente
postweberniana. A partire dalla fine degli anni Cinquanta le avventure linguistiche postweberniane
cominciarono ad avere risonanza fuori dai ristretti cenacoli di Darmstadt e a esercitare un’influenza
più vasta in Europa. La generalizzazione dei principi seriali significò da un lato la cristallizzazione di un
manierismo d’avanguardia attorno a modelli e tecniche ormai stabilizzati – il puntillismo, lo
strutturalismo integrale, la musica aleatoria – dall’altro, una una diaspora di orientamenti personali
che in breve tempo pose fine al rigido unanimismo dei primi anni, nonché un’apertura a principi
linguistici concettuali estranei che cominciavano allora ad affluire dagli Stati Uniti e che dovevano in
pochi anni accelerare la crisi del modello postweberniano.

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Storia ed estetica della musica

12. L’alea e l’esperienza cageana


La crisi del modello della composizione seriale pluridimensionale provocò due effetti: da una parte
l’ingresso dell’alea (ovvero del caso), dall’altra un indebolimento dell’idea di una lingua comune
dell’avanguardia e della modernità, con l’insorgenza di una moltitudine di poetiche individuali
concentrazione sempre più focalizzata sul suono in sé.
Fu proprio Boulez, proprio a Darmstadt a formulare il principio dell’‘alea controllata’: questa
concezione non si discostava dall’estetica dell’‘oggetto sonoro’, ma in un certo senso tematizzava la
questione aperta dalla musica seriale, e cioè la perdita del controllo della totalità della composizione
da parte del suo artefice. Il compositore predispone una serie di materiali precomposti, una serie di
figure non collegate, che devono essere ricomposte dall’esecutore in ogni esecuzione.

Il principio aleatorio non rappresentò che il riconoscimento formale dell’ambiguità e delle


indeterminatezze già insite in un materiale non più percepibile come trama articolata secondo la
dialettica di armonia-melodia. Con la sospensione di ogni principio formale preesistente all’opera, col
raggiungimento, cioè di un tipo di musica percepibile come trama articolata solo sul piano dei timbri,
la serialità postweberniana aveva esaurito la sua funzione e non può essere che abbandonata.
Insieme alla serie viene anche abbandonato quell’impegno esasperato nella scelta dei materiali, nella
reinvenzione continua del linguaggio, in cui risiedevano l’autenticità e il fine ultimo del comporre.
Boulez abbandonerà la composizione dopo il 1960, ritornando solo saltuariamente nel 1962 con una
seconda serie di Structures e nel 1965 con Éclats. Altri cercheranno nuove direzioni: Luigi Nono
approfondirà le possibilità della composizione musicale di assumere su di sé l’impegno politico-
sociale («la musica, la musica, il teatro, l’arte in generale non può organizzare l’azione politica, ma
può spingere all’azione»); Luciano Berio recupererà una dimensione di virtuosismo artigianale (cfr.
Folk-songs) ed esplorerà a fondo i rapporti tra suono e parola poetica (cfr. Laborintus II); Karlheinz
Stockhausen tornerà a sondare secondo una molteplicità di traiettorie (musica elettronica, musica
elettro-acustica, musica ripetitiva, misticimo orientale); altri, recupereranno in modo più o meno
intenzionale e programmatico, più o meno cosciente, le forme classiche, preclassiche, anche antiche
(come la salmodia gregoriana in Arvo Pärt).
E intanto si diffonde dagli Stati Uniti, sull’onda della moda zen e della ‘musica’ di John Cage,
quell’altra concezione dell’alea che considera l’indeterminatezza come un mezzo, non come un fine
della composizione. La musica vi viene degradata a puro accadimento sonoro, qualcosa che accade
in nostra presenza e alla quale decidiamo di prestare ascolto. L’intenzione poetica si trasferisce dal
compositore – che nemmeno più è chiamato a predisporre i materiali, ma soltanto a creare una
situazione in cui il materiale e suo ordine interno possano manifestarsi – all’ascoltatore, che coglierà
in termini musicali un accadimento acustico.

Vi è dunque una differenza sostanziale tra il concetto di alea dei compositori americani e quello
sviluppato in Europa dagli esponenti dei Ferienkurse di Darmstadt. Per Morton Feldman e per John
Cage, l’essenza della pratica aleatoria risiede nella sospensione, totale o parziale, dell’intenzionalità
pre-formante del’autore, per affidarsi alla logica misteriosa e incontrollata di attori accidentali gli esiti
combinatori della materia sonora: si tratta insomma dell’apertura della forma musicale all’universo
dell’imprevedibile esistenziale, nel segno di una concezione vitalistica della musica, sostanzialmente
estranea all’avanguardia europea. Esempi ne sono Projection 1 di Feldman e Music for Changes di
Cage, basato su un sistema di sorteggio tratto dal libro di divinazione cinese I Ching.

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Storia ed estetica della musica

Per contro, l’assunzione dell’alea in Europa rappresenta una svolta implicita nello sviluppo stesso
dell’iperdeterminismo seriale, allorché la possibilità di discernere gli elementi strutturali della
composizione abbia superato le facoltà analitiche dell’orecchio umano, sottraendo di fatto al
controllo dell’autore gli esiti della composizione sul piano della sua percezione auditiva.

13. Superamento della musica come forma discorsiva:


il suono in sé, composizione per textures, la musica elettronica
Dalla musica seriale totalmente determinata, all’alea europea (‘controllata’) e americana, alla
diaspora delle poetiche individuali, l’unico tratto comune sarà il rovesciamento della gerarchia dei
parametri. Nella tradizione occidentale, il parametro decisivo era sempre stato l’altezza. La
diastemazia è il primo elemento che compare accanto alla voce che parla e che canta un testo fin dal
canto gregoriano; da quel testo derivano le intensificazioni, i cambi di timbro, l’accentazione
prosodica, dunque il ritmo; e con l’unione al testo cantato la musica tende ad assimilarsi al discorso.
Il modello della musica occidentale è sempre stato il discorso verbale. La musica del secondo
dopoguerra rompe radicalmente con quel modello e si concentra sul suono in sé: il timbro diviene il
parametro centrale. Questo accade e si radicalizza proprio a partire dalla serialità totalmente
determinata.
Dall’idea della centralità del suono in sé nasce anche la musica elettronica. In luogo dei dodici
suoni della scala cromatica temperata ai compositori si apre l’immensa disponibilità di frequenze,
microintervalli, combinazioni, timbri e impasti sonori nuovi producibili con la moderna tecnologia
elettroacustica. La scoperta del mondo elettroacustico come sorgente di sonorità inesplorate e di
possibilità inimmaginabili si sviluppò storicamente con un processo lento e graduale, che presuppose
da un lato l’esistenza di una tecnologia adeguata, dall’altro il recupero di un ruolo attivo e un
intervento ‘formante’ del compositore. In questo modo, l’intenzionalità soggettiva, uscita dalla porta,
rientra dalla finestra.
I principali centri di musica elettronica nacquero a partire dai primi anni Cinquanta. Il primo
nacque in Francia, ovviamente a Parigi: il Groupe de recherches de musique concrète, nel 1951.
Finanziato dalla Radio francese e dotato di apparecchiature per la registrazione magnetica su tre
piste, ebbe in Pierre Schaeffer il suo principale animatore. Città natale della poetica dada e dell’objet
trouvé, Parigi divenne nel dopoguerra il centro incontrastato della musica concreta, basata sul
riutilizzo di materiali fonici preesistenti. In questo modo la musique concrète si inscrive in quel
processo d rivalutazione della materia nella sua fisicità che costituisce una tendenza generale
dell’arte contemporanea, dalla pittura informale alla pop art, dal collage all’arte povera, dalla poesia
concreta alla junk art (junk: rifiuto, avanzo), dalla experimental music di Cage fino al materismo
informale postweberniano.
Gli sbuffi di caffettiera e gli sciacquî della musica concreta, gli oggetti ready-made di Marcel
Duschamp, come il celebre orinatoio del 1917, le lattine di minestra inscatolata di Andy Warhol o le
gigantografie a fumetti di Roy Lichtenstein, i selciati stradali delle tele di Dubuffet o le tele rappezzate
di Burri, l’enorme rossetto da labbra di Oldenburg o i manichini main-size di Kienholz sono tutte
manifestazioni di un’arte anti-idealistica che ha scoperto la materia come oggetto e fine dell’opera
stessa. Agli oggetti ‘costruiti’ dell’arte tradizionale di sostituiscono ora gli oggetti ‘trovati’,
l’assemblaggio di reperti d’uso. L’opera acquista carattere d’arte nel gesto dell’artista che coglie
l’oggetto nel fluire casuale della realtà e lo isola dal suo contesto.

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Storia ed estetica della musica

Pierre Schaffer (1910-1995) punta a incamerare nell’indagine sonora oggetti sonori della vita
quotidiane («musique concréte» ha questo significato). Nel Centre parigino lavoreranno per brevi
periodi Boulez, Stockhausen, Messiaen, Xenakis. Ma sarà l’arrivo di Varèse, nel 1954, a dare alla
musica concreta il suo primo lavoro davvero convincente, Désert, per orchestra di fiati e percussione,
contenente tre inserti su nastro magnetico che interrompono la parte strumentale. Dopo Désert
l’interesse di Varèse per il suono organizzato tecnologicamente produrrà ancora il Poème
électronique (1958), la sua unica composizione interamente elettronica.
Se la ricerca dei parigini impiega le possibilità offerta dalla tecnologia elettroacustica nella
direzione di un allargamento del concetto di arte sino a includervi oggetti sonori allo stato
preculturale, colti nella loro fisica, primordiale concretezza, il ‘purismo’ dello Studio für elektronische
Musik di Colonia, fondato e diretto da Herbert Eimert muove nella direzione esattamente opposta,
di un restringimento dell’area musicale ai soli eventi fonici sui quali sia possibile esercitare un
controllo razionale totale, vale a dire suoni producibili per sintesi con le apparecchiature di
laboratorio (le quali sono essenzialmente di due specie: generatori di onde, da quelle più semplici o
‘sinusoidali’ alle più complesse ‘onde quadre’, ‘triangolari’, ‘a denti di sega’, ottenibili per addizioni
successive di serie di armonici; generator di ‘suono bianco’, cioè del suono risultante dalla
simultaneità di tutte le frequenze). Dinanzi allo sperimentalismo di Colonia si apre un campo di
possibilità astratto e totalmente asettico, depurato non soltanto di ogni residuo linguistico, ma anche
di tutti gli scarti di imprecisione, di fonicità incontrollata e di soggettività che sempre si producono
nell’esecuzione su strumenti originali; e più che alla scoperta di oggetti sonori nuovi, la ricerca è volta
a individuare un sistema di rapporti virtuali, da cui dedurre progetti di struttura sulla base di criteri
scientifici.
Data la comune impostazione strutturalistica, si viene immediatamente a istituire uno stretto
rapporto di cooperazione tra lo Studio di Colonia e la scuola di Darmstadt.

Paragonata a quella di Colonia, la ricerca elettronica dello Studio di Fonologia della RAI di Milano
(fondato nel 1955) appare improntato a uno schietto e disinvolto empirismo. Entrambi i suo
fondatori, Bruno Maderna (Venezia 1920-Darmstadt 1973) si accostano alle nuove risorse foniche
senza determinismi e senza idee preconcette circa la loro organizzazione, e tendono a lasciare
emergere liberamente dal materiale le sue virtualità: Maderna con un’accesa sensualità acustica e
una spiccata attitudine a far scaturire dal suono tensioni emotive e situazioni poetiche; Berio con
quella maggiore disponibilità ad accogliere stimoli e suggerimenti eterogeni, che dovrà fare d lui uno
dei compositori più versatili e aggiornati dell’avanguardia italiana. Per l’uno e l’altro la musica
elettronica viene a rappresentare, se non la prima esperienza musicale, certamente un importante
mezzo per liberarsi di quanto in loro è ancora legato a schemi superati (l’espressionismo e il modello
di Dallapiccola per Maderna, quello stravinskiano per Berio) e avviarsi verso soluzioni linguistiche più
radicali. Al Centro di Fonologia Berio realizza un primo capolavoro con Thema. Omaggio a Joyce
(1959) in cui utilizza come base di elaborazione un frammento dell’Ulisse di James Joyce registrato
da una voce femminile in inglese, francese e italiano. Diversamente da Stockhausen, il cui Gesang der
Jünglinge è peraltro un lontano modello di Omaggio a Joyce, Berio non è interessato alla
problematica spaziale, quanto piuttosto all’analisi delle peculiarità foniche del testo impiegato, e
giunge, attraverso una complessa manipolazione elettronica, a formulare un nuovo tipo di vocalità,
in cui la voce umana cessa di essere un semplice veicolo di trasmissione semantica e diviene un mezzo
per liberare le virtualità fonico-musicali insite in ciascuna sillaba del testo.

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Storia ed estetica della musica

Maderna scrive nel 1957 Musica su due dimensioni per flauto e nastro magnetico, che
precede di circa un anno un’analoga soluzione ad opera di Stockhausen e di Mauricio Kagel destinata
poi ad avere ampio seguito. La composizione si articola in cinque episodi, in parte per flauto solo, in
parte per nastro magnetico, collegati da interludi pure elettronici e variamente trasponibili o
interpolabili secondo un principio aleatorio che dà largo campo all’iniziativa estemporanea del
flautista e del tecnico del suono. Il rapporto tra lo strumentista e la banda magnetica viene ad
assumere una valenza quasi scenico gestuale.
L’ipotesi di una fusione fra musica registrata ed esecuzione strumentale dal vivo, contenuta
in Musica su due dimensioni di Maderna, trova, come si diceva, più ampia applicazione in due lavori:
Transición di Kagel (1959) e Kontakte di Stockhausen (1958-1960), entrambi per piianoforte,
percussione e banda magnetica, che segnano una svolta nell’evoluzione della musica elettronica non
soltanto perché viene definitivamente relegata alle cose del passato l’utopia, sino a qualche tempo
prima condivisa da molti, secondo la quale la musica elettronica rappresentava la musica
dell’avvenire, destinata a soppiantare ogni alto mezzo di produzione sonora, ma soprattutto perché,
con l’immissione di eventi fonici precostituiti su nastro nella dimensione viva dell’esecuzione e con
l’attrito rovente che deriva dallo scontro tra due vicende sonore, la gestualità implicita nell’azione
esecutiva viene ad acquistare uno spessore fisico e un’evidenza scenica che si sovrappongono,
amplificano o addirittura deformano la trama musicale, ipotizzando soluzioni di teatro gestuale che
di lì a poco diventeranno un’altra componente importante della musica contemporanea prodotta
negli anni Sessanta.

La musica elettronica è già un elemento virtualmente integrabile nella nuova temperie vitalistica
dell’improvvisazione e del teatro gestuale apportata da John Cage. Materiali concreti vengono
immessi in misura crescente, come accade nella Fabbrica illuminata di Luigi Nono (1964). La
strumentazione elettronica viene arricchendosi di nuove apparecchiature per la manipolazione del
suono (filtri, modulatori ad anello, regolatori, anche portatili) che consentono la produzione di suoni
elettronici live.
Ma soprattutto per Luigi Nono la scoperta nel 1960 delle risorse elettroniche dovrà acquistare
una importanza fondamentale. Il compositore veneziano vi approda dopo l’importante esperienza
vocale del Canto sospeso (1956) e quella teatrale di Intolleranza 1960, sicché la ricerca elettronica
viene a innestarsi su una problematica tecnico-espressiva avviata da queste composizioni riguardo
all’uso della voce umana, al suo potenziamento semantico e al suo impiego come mezzo di
amplificazione delle potenzialità foniche della parola. Nella Fabbrica illuminata la viva voce del
soprano su testi di Giuliano Scabia e Cesare Pavese) si erge contro la parete sonora del nastro
magnetico come un polo di irriducibile contrapposizione, testimonianza e denuncia delle condizioni
disumane del lavoro di fabbrica, evocate dalle sonorità sinistre dei materiali acustici rilevati dal vivo
in alcuni stabilimenti industriali. In A floresta è jovem e cheia de vida (1967) l’interazione dialettica
fra la banda magnetica e l’esecuzione dal vivo giunge a configurare situazioni scenico gestuali. Invece,
prive dell’apporto della voce umana (peraltro ampiamente presente alla base della elaborazione
elettronica) sono le composizioni Ricorda cosa ti hanno fatto ad Auschwitz, che rielabora con esiti di
allucinante, lacerata espressività, materiali strumentali, voci di bambini, frammenti parlati e cantati
tratti dalle musiche di scena per L’istruttoria di Peter Weiss (1966) e Non consumiamo Marx,
realizzato nel 1969 sull’onda della contestazione studentesca e del Maggio francese. A una prima
parte («Un volto, del mare») basata su una poesia di Pavese manipolata elettronicamente in un clima

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Storia ed estetica della musica

di attonita fissità, segue una seconda (che dà il titolo alla composizione) costituita da materiali
registrati dal vivo durante manifestazioni studentesche e rielaborati insieme con frammenti di scritte
murali della contestazione parigina.

14. Invito al molteplice:


Luciano Berio, Stefano Gervasoni, Carlo Boccadoro
A partire dagli anni Ottanta, si chiude la fase dell’avanguardia radicale. La severa disciplina della
sperimentazione che per i musicisti della generazione colpita dalla guerra era stata un’esperienza di
libertà, una faticosa conquista intellettuale, per i compositori più giovani non sono che un prontuario
di tecniche e di stili da prendere o lasciare secondo criteri di utilità o di gusto. Essi se ne assumono
l’eredità, ma liberandola dalle originarie motivazioni storiche e ideologiche, poiché profondamente
mutato è il loro rapporto con la tradizione, così com’è mutato il loro atteggiamento verso il presente.
All’idea della storicità degli sviluppi tecnico-compositivi, che spingeva i compositori che si ritenevano
d’avanguardia a inseguire continuamente l’inaudito – nel senso di ciò che non è stato ancora mai
ascoltato – all’interno di un opprimente reticolo di interdizioni e divieti, i compositori più giovani
contrappongono una volontaria equidistanza da ogni modello culturale, e rivendicano il diritto di
scegliersi liberamente i propri mezzi di espressione al di là di ogni determinismo storico.
Naturalmente questo mutamento di prospettiva investe anche i compositori della
generazione precedente, e tra questi uno dei più sensibili a questa trasformazione epocale, e tra i più
predisposti a muoversi in un orizzonte plurale e molteplice, dove passato e presente si intrecciano in
ordini formali assai diversificati è Luciano Berio (1925-2003), che anzi percepì assai precocemente il
cambiamento, fin dalla metà degli anni Sessanta.
Le brevi schede che seguono qui di seguito sono propedeutiche alla lettura dei testi proposti
in bibliografia, ovvero Invito di Luciano Berio, Opera prima di Stefano Gervasoni e una conversazione
di Carlo Boccadoro.

Luciano Berio ha studiato con Federico Ghedini e con Luigi Dallapiccola (per un periodo a
Tanglewood). È uno dei compositori che più di tutti hanno incarnato, dopo le esperienze seriali, la
propensione alla pluralità e alla mescolanza dei linguaggi.
Si riportano qui, a titolo di esempio, due brevi scritti su due suoi lavori molto noti: Folk songs per
mezzosoprano e sette strumenti, e Laborintus II per voci, strumenti e nastro magnetico (1965, testi
di Edoardo Sanguineti):

Folk songs
Ho sempre provato un senso di profondo disagio ascoltando canzoni popolari (cioè espressioni popolari spontanee)
accompagnate dal pianoforte. È per questo e, soprattutto, per rendere omaggio all’intelligenza vocale di Cathy Berberian
che nel 1964 ho scritto Folk Songs per voce e sette esecutori (flauto/ottavino, clarinetto, due percussioni, arpa, viola,
violoncello) e, successivamente, per voce e orchestra da camera (1973). Si tratta, in sostanza, di un’antologia di undici
canti popolari (o assunti come tali) di varia origine (Stati Uniti, Armenia, Provenza, Sicilia, Sardegna, ecc.), trovati su vecchi
dischi, su antologie stampate o raccolti dalla viva voce di amici. Li ho naturalmente interpretati ritmicamente e
armonicamente: in un certo senso, quindi, li ho ricomposti. Il discorso strumentale ha una funzione precisa: suggerire e
commentare quelle che mi sono parse le radici espressive, cioè culturali, di ogni canzone. Queste radici non hanno a che
fare solo con le origini delle canzoni, ma anche con la storia degli usi che ne sono stati fatti, quando non si è voluto
distruggerne o manipolarne il senso. Due di queste canzoni («La donna ideale» e «Ballo») non sono popolari nella

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Storia ed estetica della musica

sostanza, ma solo nelle intenzioni: le ho composte io stesso nel 1947. La prima sulle parole scherzose di un anonimo
genovese, la seconda sul testo di un anonimo siciliano.

Laborintus II
Composto nel 1965 su commissione dell’O.R.T.F. per celebrare il 700° anniversario della nascita di Dante, Laborintus
II prende il titolo dalla raccolta poetica Laborintus di Edoardo Sanguineti. Il testo di Laborintus II sviluppa alcuni temi
della Vita nuova, del Convivio e della Divina Commedia di Dante e li combina - soprattutto attraverso analogie formali e
semantiche - con testi biblici e con scritti di T. S. Eliot, Ezra Pound e Sanguineti stesso. Il principale riferimento formale
di Laborintus II è il catalogo, inteso nella sua accezione medievale (come per esempio le Etimologie di Isidoro di Siviglia,
anch’esse presenti in quest’opera), che mette in relazione i temi danteschi della memoria, della morte e dell’usura - cioè
la riduzione di tutte le cose a un solo metro di valore. A volte le parole isolate e le frasi devono essere considerate come
entità autonome, altre volte invece vanno ascoltate come parte della struttura sonora concepita come un tutto.
Il principio del catalogo non si limita solo al testo, ma serve anche da base alla struttura musicale stessa. Visto sotto un
certo aspetto, Laborintus II è un catalogo di riferimenti, di atteggiamenti e di semplici tecniche strumentali; un catalogo
dal carattere un po’ didattico, come le immagini di un libro scolastico che tratti delle visioni dantesche e del gesto
musicale. Le parti strumentali sono sviluppate soprattutto come estensione dell’azione vocale dei cantanti e la breve
sequenza di musica elettronica è concepita come prolungamento dell’azione strumentale. Laborintus II è un’opera
scenica; può essere trattata come una rappresentazione, come una storia, un’allegoria, un documentario, una danza. Può
essere rappresentata a scuola, a teatro, in televisione, all’aria aperta e in qualsiasi altro luogo che permetta di riunire un
uditorio.

Stefano Gervasoni (1962), ha deciso di dedicarsi alla composizione dopo aver conosciuto Luigi Nono
a Venezia. Ha studiato poi al Conservatorio di Milano, con Niccolò Castiglioni e Azio Corghi, e
successivamente con György Ligeti e Helmuth Lachenmann.
È tra i compositori contemporanei, uno dei più inclini all’espressione lirica, come lo sono stati Toru
Takemitsu, o lo è György Kurtág. Lirico in quanto la sua musica tende alla discrezione, possiede un
tono meditativo, un’inclinazione alla riflessione in solitudine, che si coglie soprattutto nel modo in cui
molto spesso privilegia piani dinamici molto prossimi al silenzio. Il tono lirico rifugge i contrasti, che
appartengono di più a una disposizione di tipo drammatico. Il tono lirico presume che un soggetto
che esprime un propria visione lo faccia tra sé e sé; non si rivolge ostentatamente a un pubblico. Il
pubblico in un certo senso capta ciò che il soggetto sta dicendo.

Carlo Boccadoro è nato nel 1963 a Macerata. Come molti musicisti della sua generazione è cresciuto
musicalmente non solo con la musica colta classica e contemporanea, ma anche con la popular music
e con il jazz. È espressione di quella ricerca continua che come dice Alex Ross è continuamente alla
ricerca di un equilibrio «la vita della mente e il rumore della strada». Ha fondato un gruppo musicale
specializzato in esecuzione di musica contemporanea che ha sede a Milano e si chiama Sentieri
selvaggi.

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