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L’estetica musicale è una branca dell’estetica generale. Il concetto di musica come arte e linguaggio
inizia a stabilizzarsi intorno alla metà del Settecento. I filosofi se ne sono sempre occupati, da Platone
e Aristotele a Sant’Agostino, da Leibnitz a Kant e Hegel. Tra la fine del Settecento e il primo Ottocento,
anche i musicisti iniziano a percepire la necessità di una conoscenza anche intellettuaIe e critica della
musica. Nei decenni successivi alla Rivoluzione francese, nascono e si diffondono in tutta Europa
modelli didattici e pedagogici che tendono progressivamente a valorizzare, accanto alla competenza
artigianale e tecnica del mestiere di musicista e di compositore, anche un articolato bagaglio teorico.
Il modello per tutta Europa sarà l’ordinamento del Conservatoire di Parigi; in Italia, uno dei primi a
raccogliere la sfida di trasformare il musicista da artigiano (considerato socialmente né più e né meno
di un domestico, un autista o un cuoco) a citoyen, cittadino e intellettuale, sarà Giovanni Simone
Mayr. Robert Schumann, fu tra i primi ad affiancare all’attività compositiva quella di critico musicale.
La mutazione diventa cruciale nel periodo di cui dovremo parlare, il tardo ’800, il ’900 e questo primo
scorcio del XXI secolo. Già i compositori del ’900 storico si sono trovati, per il carattere rivoluzionario
della loro esperienza artistica, nella condizione di dover spiegare le proprie opere argomentando le
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Storia ed estetica della musica
loro scelte poetiche in scritti di carattere teorico, estetico, poetico. Man mano che si complicavano
le forme, man mano che il linguaggio musicale, la sua grammatica e la sua sintassi, perdevano il
carattere di struttura data una volta e per sempre, si avvertì l’esigenza di motivare i mutamenti, le
evoluzioni, gli sviluppi delle poetiche musicali, che implicavano anche una progressiva trasformazione
delle strutture linguistiche; e lo si fece ricorrendo a una disciplina teorico-filosofica che giudicava ogni
scelta in termini di adeguatezza e conformità a una certa idea di bellezza. Ora, quel che risulta
evidente, seguendo le vicende della musica attraverso i secoli, è che quest’idea di bellezza è
costantemente mutata: non soltanto la musica è soggetta alle dinamiche del mutamento storico,
anche l’idea di bello appare storicamente determinata.
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Storia ed estetica della musica
3. Wagnerismo e decadentismo
Il wagnerismo fu una vera e propria epidemia che si diffuse dagli anni Sessanta dell’Ottocento e si
prolungò in vario modo fino ai primi decenni del ’900. Un’impronta wagneriana si coglie nelle sinfonie
di Mahler, nei poemi sinfonici di Strauss, e in tutto il teatro musicale del primo Novecento. Un uso
della tecnica sinfonica costruita sul leitmotiv fu praticato perfino da Puccini, almeno in Manon e nella
Bohéme. In Italia, prima di lui, vi erano state personalità assai influenti che furono wagneriani convinti
come Arrigo Boito, che non fu solo un letterato raffinatissimo, ma anche un compositore, autore di
due opere, il Mefistofele (1868 e 1875) e il Nerone (1862-1915, prima rappresentazione postuma, nel
1924). Esponente assai influente del Decadentismo italiano, dopo aver criticato il teatro verdiano per
il suo attaccamento alla tradizione dell’opera italiana, divenne il librettista delle due ultime opere di
Verdi: Otello (1887) e Falstaff (1893), e in una certa misura ne riorientò la drammaturgia musicale.
In Francia, il documento più eloquente dell’invasamento wagneriano fu la nascita della «Revue
wagneriénne». Fondata a Parigi nel 1885, e pubblicata per tre anni, fino al 1888, uscì mensilmente
con scritti di letterati, critici, musicisti. Subì gli effetti di un’infatuazione wagneriana perfino Debussy,
e una versione del wagnerismo totalmente piegata a finalità ideologiche ebbe una parte importante
nella propaganda nazista. Hitler si fece strada nei salotti buoni tedeschi e costruì la sua carriera
politica su un’ardente passione per la musica di Wagner e grazie a una profonda conoscenza delle
sue opere.
La capacità di suggestione della musica wagneriana, la sensazione di una musica che accede
a una dimensione trascendente, risiede soprattutto nel flusso melodico continuo, ininterrotto, che
Wagner chiama ‘melodia infinita’, privo di cesure nette, e che costantemente elude una ritmica
regolare. L’idea stessa di infinità è data dall’assenza di scansione ritmica. Già nel Preludio del
Lohengrin questo aspetto è del tutto evidente: c’è sempre la stessa figura musicale che viene ripetuta
e fatta scorrere. Ci sono pochissimi tratti ritmici, prevale la tendenza al suono continuo, lungo e
tenuto, e la capacità di far scorrere e riprendere costantemente presentandolo in figure nuove e
sviluppate il medesimo elemento. L’idea del motivo continuamente presente, ripreso in forme
sempre rinnovate è il cuore del Musikdrama wagneriano. L’elaborazione motivica si accompagna alla
modulazione incessante, al punto da rendere sempre più indefiniti i contorni tra una tonalità e l’altra;
il paradigma di questa labilità armonica, e della sfuggente definizione tonale che ne consegue è il
famoso accordo del Tristano, inclassificabile, metamorfico, intrinsecamente ambiguo.
L’indefinitezza armonica è decisiva per due motivi: da una parte, fa sì che la musica wagneriana sfugga
alla prevedibilità delle direzioni tonali; dall’altra realizza nel concreto l’idea di una musica che pur
essendo interessante e coinvolgente, risulti inafferrabile, e susciti per questo il bisogno di essere
continuamente ripercorsa.
4. Debussy e il Simbolismo
Nel 1861 un evento preciso condizionò la cultura francese in modo duraturo: la prima
rappresentazione a Parigi del Tannhäuser di Wagner. Malgrado l’antagonismo tradizionale
dei francesi verso lo spirito germanico, che aumentò dopo la sconfitta della Francia nel
conflitto franco-tedesco del 1870, non vi fu influenza capace di suscitare tanto interesse e di
lasciare un segno profondo come quello del wagnerismo in Francia. All’indomani della
rappresentazione del Tannhäuser Charles Baudeleaire scrisse che nessun musicista eccelleva
come Wagner nell’evocare «lo spazio e la profondità materiale e spirituale». Cresceva una
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l’intera attività di Debussy insieme agli ultimi lavori – i Trois poèmes de Mallarmé (1913) per
canto e pianoforte, la Sonata per violoncello e pianoforte (1915), le ultime opere tre sonate
(per violoncello e pianoforte, per flauto, viola e arpa, per violino e pianoforte) – prima della
morte che lo colse nel 1918.
L’avvio che Debussy diede alla modernità musicale trova il suo centro nell’aspetto che
appare oggi, guardando tutto il Novecento retrospettivamente, quello decisivo e più
duraturo, e cioè l’attenzione al suono preso in sé, colto nell’istante della sua apparizione
come entità discreta e autonoma, piuttosto che come elemento di un discorso che si
costruisce attraverso di esso.
Nonostante queste posizioni avanzate che hanno permesso la consacrazione di Debussy
come padre del moderno pensiero musicale, Debussy non soffrì l’isolamento che colpì gli
altri musicisti che inaugurarono quella nozione di avanguardia; questa differenza va colta
nella via scelta da Debussy, cioè non nel rifiuto radicale dell’orizzonte musicale precedente
ma attraverso l’allargamento progressivo e anche estremo, del vecchio sistema armonico
funzionale, senza tuttavia dissolverlo mai completamente.
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ogni riferimento tonale viene gradualmente abbandonato. L’azione è insomma tutta interiore, vi
viene estesa ed estremizzata l’idea del ‘sonoro silenzio’, che in Wagner designava i lunghi momenti
in cui i personaggi restano muti sulla scena, mentre l’orchestra canta in loro vece.
Una ricerca di essenzialità unita all’urgenza di un’espressività incandescente si ritrova nei Gurre-
Lieder (composti nel 1900-1901, ma strumentati in due fasi, nel 1901-1903 e nel 1910-11), destinati
a un organico gigantesco, con orchestra, coro e voci soliste; oppure nella Kammersymphonie op. 9,
del 1905-06. Concepita in un blocco unico, ma che ingloba nel suo scorrere senza soluzione di
continuità quattro sezioni riconducibili a tempi di sonata (come aveva già fatto Liszt nella Sonata in si
minore per pianoforte), questa ‘sinfonia da camera’ è composta per 15 strumenti (8 legni, 2 corni, 5
archi). La dimensione melodica e armonica appaiono fortemente integrate (in modo tale che i temi
d’apertura generano accordi basati sulla successione di intervalli di quarta e sulla scala per toni interi.
Accanto alla densità contrappuntistica, è questa la strada che conduce al superamento della tonalità.
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altro importante lavoro teatrale di questi anni, Die Glückliche Hand [La mano felice]), un modo di
ritornare, negli anni dell’Espressionismo, con segno radicalmente mutato, all’idea di
Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale): per mezzo della tensione visionaria verso una
rappresentazione totale, l’ansioso anelito di ricondurre tutto all’immediatezza interiore approda ad
un esito frantumato, di intensità lacerante.
Dopo il 1909, un anno di vera esplosione creativa per Schoenberg, vi fu un rallentamento
dell’attività compositiva. Schoenberg si dedicò alla pubblicazione dell’Harmonielehre (Manuale di
armonia), un ponderoso trattato la cui prima uscita data 1911. È un segno di quando Schoenberg
conoscesse profondamente l’armonia tonale e la musica classico romantica, il che per contrasto
rafforza la convinzione di quanto fosse radicata in lui la necessità, l’urgenza espressiva di ciò che
andava scrivendo. La sua musica creava scandalo e irritazione nel pubblico dei concerti, ma
Schoenberg lo ripagava con gesti di aperta sfida. Era convinto di stare obbedendo a un imperativo
morale, che era il compimento della musica al suo ultimo stadio di sviluppo: la musica poteva essere
finalmente, grazie all’emancipazione della dissonanza, ciò che doveva essere. Questa era la sua verità,
in questo modo risultava autentica, in questo modo chi la scriveva non mentiva agli altri e a se stesso.
Schoenberg avrebbe potuto scrivere perfettamente in modo tradizionale se solo lo avesse voluto. Ma
una musica ben levigata, in cui ogni dissonanza, ogni disarmonia fosse accortamente integrata in un
tutto perfettamente conciliato, sarebbe stata una menzogna. La creazione musicale doveva imporsi
di scavare a fondo, di proseguire nel dissodamento delle sue relazioni più profonde, per ritrovare la
rappresentazione più autentica del modo in cui si pone il rapporto tra io e mondo. Non importa se
poi questo rapporto si riveli angosciante, o sgradevole; il compito dell’artista non è quello di
nascondere la verità, bensì di portarla in superficie, con un linguaggio appropriato. L’arte non è un
mezzo di distrazione di massa, ma una forma di conoscenza: «Se è arte non è per tutti, se è per tutti
non è arte», diceva Schoenberg. Ritornano insomma i temi dell’estetica wagneriana.
Vi era per Schoenberg una vita interna delle forme e dei linguaggi espressivi, che implicava
una continua evoluzione dei loro nessi strutturali e delle loro proprietà di relazione; e questa
evoluzione corrispondeva alla storia esterna del mondo: ogni epoca sviluppava le proprie specifiche
forme e i propri specifici linguaggi, per dar corpo e sostanza a ciò che il mondo effettivamente è o è
diventato. In questo modo si spiega anche l’enunciato «emancipazione della dissonanza».
Nell’Harmonielehre Schoenberg spiega che la dissonanza è già compresa nella natura stessa del
suono, poiché compare negli armonici superiori; per molto tempo il linguaggio musicale si è basato
solo sui primi 4 suoni della serie degli armonici, ottava, quinta, ottava, terza, su cui si è costruita
l’armonia classica; l’emancipazione della dissonanza consiste pertanto in una progressiva inclusione
degli altri armonici che sono già sempre compresi nella vita di un suono. La dissonanza è insomma
già presente nel suono in quanto realtà acustica; è necessario accogliere questa realtà acustica e
tradurla in linguaggio.
Connesso a questo ordine di questioni, nell’Harmonielehre schoenberghiana si trova anche
una riflessione sul timbro, e vi si ipotizza una Klangfarbenmelodie, una ‘melodia di timbri’, che di fatto
Schoenberg aveva già sperimentato nel terzo degli Orchesterstücke (Pezzi per orchestra) op. 16:
all’inizio, lo stesso accordo è intonato da strumenti diversi, sicché muta soltanto il colore sonoro. Nel
1911 Schoenberg scrisse i Sechs kleine Klavierstücke (Sei piccoli pezzi per pianoforte) op. 19, dove si
attua in modo più radicale un processo di ripiegamento interiore, attraverso veri e propri grumi di
timbro. Qualcosa di simile stava realizzando il suo allievo Anton Webern, particolarmente negli
straordinari Sechs Orchesterstücke op. 6. E anche per Webern, forse il più ermetico dei tre
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compositori della cosiddetta Seconda scuola di Vienna, vale il discorso, che se solo avesse voluto
avrebbe potuto scrivere in un modo che gli avrebbe garantito una carriera più tranquilla e
confortevole. Prova ne sono il giovanile movimento di quartetto, Langsamer Satz, e l’orchestrazione
realizzata per l’Offerta musicale di J. S. Bach.
Il culmine e anche l’assestamento delle esplorazioni musicali di Schoenberg è rappresentato
dal Pierrot lunaire del 1912. Il testo su cui è basato è una scelta di 21 poesie di un poeta simbolista
belga, Albert Guiraud, nella libera traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben, e si pone sotto il segno
dell’ironia, del paradosso, dell’immagine grottesca e malata, del fantasticare sul vuoto, del narcisismo
e del sarcasmo: Il Pierrot, di cui si deve immaginare la voce che canta, è una sorta di clown
sonnambulo, emblema, nella mani di Schoenberg, di una regressione del soggetto, di una svagata
follia, della perdita dell’identità. La musica si presenta infatti come un variegato ed elaboratissimo
caleidoscopio di immagini, dove è decisivo anche il rapporto per lo più sghembo che si instaura tra il
discorso strumentale e la parte vocale. Quest’ultima presenta parti eseguite nella forma dello
Sprechgesang (cantato parlato), secondo la quale l’interprete deve rispettare rigorosamente il ritmo
e intonare le note scritte con emissione parlata. Al di là dei complessi problemi che pone la
realizzazione dello Sprechgesang va sottolineata la sua natura di canto ibrido, estraniato, di fantasma
di canto, di aggressione, quasi, ai canoni convenzionali della vocalità.
Parallelamente a ciò che fanno Schoenberg e i suoi allievi (Seconda scuola di Vienna), vi sono altre
direttrici: la prima si realizza nell’altro polo europeo, Parigi, con Debussy e Stravinskij. Entrambi gli
autori si muovono lungo una traiettoria diversa: la scuola di Schoenberg si era concentrata sulla
componente diastematica e armonica, continuando il processo avviato con Wagner fino a dissolvere
la sintassi armonica. Debussy e Stravinskij partono da un principio ritmico-timbrico e in entrambi si è
innescata la scintilla di un processo di rinnovamento soprattutto tramite suggestioni di tipo esotistico,
ispirati dalla conoscenza di mondi sonori extra-europei.
Debussy incontra la musica giavanese all’esposizione universale di Parigi e apprende due
caratteristiche di questo mondo: la prima è il superamento dei dispositivi sintattici dell’armonia
funzionale non attraverso il cromatismo ma attraverso una scrittura di tipo modale o l’adozione di
altre tipologie scalari anemitoniche; la seconda, che è una conseguenza della prima è la staticità,
l’andamento fluttuante, la percezione di un flusso non direzionato verso una meta.
L’altra grande esperienza novecentesca è quella di Stravinskij. La cultura austro-tedesca aveva
egemonizzato l’Europa. Un certo processo di emancipazione della musica russa si era verificata con
la Scuola dei Cinque ed da lì era partita una ricerca che potesse dare identità alla musica russa
resistendo alla musica tedesca. Il Sacre du printemps segna l’integrazione di materiali folklorici quasi
grezzi nella costruzione della composizione (motivi ricavati dalle canzoni dei battellieri) e l’idea di
musica come coinvolgimento corporeo. È molto forte in Stravinskij la ricerca di una corporeità della
musica. Le prime composizioni sono infatti pensate come balletti. Stravinskij si concentra sul ritmo,
che diviene il motore stesso dello sviluppo compositivo. Gli elementi diastematici, il gioco delle
altezze, si riducono in modo considerevole. Il Sacre è fatta di elementi melodici semplicissimi e
primitivi, continuamente riarticolati attraverso la variazione ritmica.
Stravinskij e Debussy sono entrambi mossi dalla necessità di allontanarsi dalla tradizione
classico- romantica. L’uno lo fa adottando la linea di un primitivismo rigenerante (l’idea del rituale
arcaico e del sacrificio nel Sacre, ad esempio, oppure il matrimonio contadino nelle Noces per quattro
pianoforti e percussione), l’altro inseguendo il suono esotico e fluttuante delle percussioni giavanesi.
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In questi termini si muove anche l’esperienza di Bartók, che fa qualcosa di simile a Stravinskij.
Lavora su materiali di carattere etnico e folklorico e li usa per ricavare costrutti che poi riproduce
nella propria scrittura.
Ma tutti i compositori, in modo più o meno consapevole, avvertivano di non poter spingere
con la stessa intensità la propria rivoluzione linguistica su ogni dimensione della composizione.
Sentivano che se avessero spinto l’attività dissolutrice su tutte le dimensioni, la composizione sarebbe
esplosa.
In generale, la liberazione del timbro diventa il tratto comune più rilevato di tutte le
esperienze novecentesche. Se prima timbro e ritmo non facevano altro che rafforzare la struttura
delle altezze, ora è spesso il contrario.
L’emersione del timbro si manifesta anche nella scissione dei timbri puri, come nel Pierrot
Lunaire di Schoenberg o nell’Histoire du Soldat di Stravinskij, dove l’organico composto di più
strumenti a parti reali e l’uso di registri molto differenziati, favorisce una dissociazione dei timbri
piuttosto che una loro coagulazione in impasti sonori.
Uno dei punti più estremi del processo di concentrazione sul timbro è rappresentata nel primo
Novecento dalla musica di Edgar Varèse, compositore francese di nascita, ma americano d’adozione.
È il compositore che formula la definizione di musica come «suono organizzato»: non ha importanza
cosa costituisce la musica, cosa essa significhi, ma come si organizza il suono. È un autore che
incarnerà la vocazione autenticamente sperimentale della musica americana, più tardi prolungata e
sviluppata da John Cage. Vi era stato un precedente negli Stati Uniti, Charles Ives (1874-1954), che
prima di Varèse ha contribuito a consolidare l’idea di una musica votata alla sperimentazione
continua, anticipando – come del resto anche Varèse – tecniche e concezioni estetiche
dell’avanguardia musicale del secondo Novecento. Oltre a utilizzare la politonalità e l’atonalità vera
e propria, Ives sperimentò effetti di spazializzazione del suono e l’impiego di organici e strumenti
inusuali.
Le opere americane di Varèse procedono lungo la medesima traiettoria di Ives. Tra queste,
Ionisation ne è un significativo esempio. È del 1930-31, ma conclude un processo di individuazione
stilistica che ha inizio nei primissimi anni Venti, quando conclude Arcana. Ionisation risulta come un
tessuto sonoro compatto e chiuso in se stesso, in cui temi ritmici sono messi in evidenza dal timbro
dei 41 strumenti a percussione impiegati (assieme a 3 sirene).
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Storia ed estetica della musica
compositori avevano fatto incursioni nel passato, Strauss ad esempio, con Ariadne auf Naxos e
Prokof’ev con la sua Sinfonia Classica, ma fu Stravinskij a dare al neoclassicismo una sua sistematicità,
contagiando numerosi altri compositori. Elementi del passato, da lungo tempo ormai accantonati,
vengono qui recuperati: modelli formali, tessiture, stilemi melodici e ritmici. Soprattutto si fece strada
l’esigenza di un recupero di assetti formali ben squadrati e riconoscibili.
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Storia ed estetica della musica
un più genuino bisogno di ordine e chiarezza, ed erano tutti riconducibili a un’idea di modernità che
non fosse in conflitto con il passato e con il pubblico comune. Il neoclassicismo si diffuse anche in
altre nazioni: in Italia, in vario modo, Casella, Malipiero e Respighi furono attivi promotori di questa
tendenza musicale. Anche in ambito tedesco con Hindemith, che si inventò la Gebrauchmusik, una
musica d’uso, nella quale poteva ritrovare spazio una dimensione artigianale del fare musica. Si
sviluppò anche una corrente musicale di ispirazione socialista o comunista, che inseguiva
l’immediatezza nella semplicità quotidiana della canzone (si vedano ad esempio il teatro-canzone di
Kurt Weill, e le sue collaborazioni con Bertolt Brecht).
L’opera di Anton Webern e il principio della ‘costellazione’ che è in essa sviluppato (cioè la
frantumazione del tessuto musicale in un pulviscolo di nuclei sonori dissociati e privi di attrazione di
gravità) vennero a costituire un nuovo punto di partenza. In Webern si intravedeva la possibilità di
un ‘azzeramento’. La dodecafonia schoenberghiana, con i suoi equivoci patteggiamenti con moduli e
forme della tradizione appariva contraddittoria. Composizioni di Schoenberg come l’Ode a Napoléon
(1942) o A Survivor from Warsaw (1947), in cui il metodo dodecafonico tende a ricostituire un tessuto
discorsivo compiuto apparivano contraddittorie e irrisolte. Al contrario, la ferrea coerenza del
serialismo di Webern viene a incarnare, agli occhi della neoavanguardia, l’utopia del linguaggio
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Storia ed estetica della musica
PIERRE BOULEZ
Schoenberg è morto (1951)
Con Schoenberg assistiamo a uno dei più importanti sconvolgimenti mai subiti dal linguaggio musicale.
Il materiale propriamente detto, certo, cambia: i dodici semitoni; ma la struttura che organizza questo
materiale viene messa in causa: dall’organizzazione tonale, passiamo all’organizzazione seriale. Come è
venuta alla luce questa nozione di serie? In quale momento dell’opera di Schoenberg si colloca? Di quali
deduzioni è il risultato? […]
Diciamo prima di tutto che queste scoperte di Schoenberg sono essenzialmente morfologiche. Questa
progressione evolutiva parte dal vocabolario postwagneriano per arrivare a una ‘sospensione’ del
linguaggio tonale. Anche se in Verklärte Nacht, nel Primo Quartetto op. 7, nella Kammersymphonie, si
possono vedere delle tendenze nettissime […]
La sospensione del sistema tonale si traduce con efficacia nei tre pezzi per pianoforte che costituiscono
l’op. 11. Poi le ricerche assumono un’acutezza sempre più penetrante e giungono allo stepitoso Pierrot
lunaire. Osserviamo nella scrittura di queste tre partiture tre fenomeni sorprendenti: il principio della
ripetizione costantemente efficace, vale a dire la non ripetizione; la preponderanza degli intervalli
‘anarchici’ – che presentano relativamente al mondo tonale la tensione maggiore – e l’eliminazione
progressiva del mondo tonale per eccellenza: l’ottava; scrupolo manifesto di costruire
contrappuntisticamente.
[…] Schoenberg stesso si confidò a questo proposito in un modo che autorizza a parlare di
espressionismo: «Nelle mie prime opere del nuovo stile, sono state soprattutto delle fortissime licenze
espressive a guidarmi in particolare e in generale nell’elaborazione formale, ma anche e non in ultimo
luogo, un senso della forma e della logica ereditato dalla tradizione e bene educato dall’applicazione e
dalla coscienza». […]
Eccoci dunque in presenza di una nuova organizzazione del mondo sonoro [ovvero del metodo
dodecafonico, avviato per la prima volta nella Serenade op. 24]. Organizzazione ancora rudimentale che
si codificherà soprattutto a partire dalla Suite per pianoforte op. 25, e del Quintetto per fiati op. 26, per
arrivare a una schematizzazione cosciente nelle Variazioni per orchestra op. 31.
Possiamo amaramente rimproverare a Schoenberg questa esplorazione del campo dodecafonico,
poiché è stata condotta con tale persistenza nel senso contrario che difficilmente si incontra, nella storia
della musica, un’ottica altrettanto erronea.
Non affermiamo questo gratuitamente. Perché?
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Storia ed estetica della musica
Non dimentichiamo che l’instaurazione della serie proviene in Schoenberg, da una ultratematizzazione
dove, come abbiamo detto prima, gli intervalli del tema possono venir considerati come intervalli
assoluti, sciolti da qualsiasi obbligo ritmico o espressivo […]
Siamo obbligati a riconoscere che questa ultratematizzazione rimane soggiacente nell’idea di serie, ne
è soltanto il risultato depurato. Del resto, la confusione, nelle opere seriali di Schoenberg, fra il tema e
la serie, è prova sufficientemente esplicita della sua impotenza a intravedere l’universo sonoro implicato
dalla serie. La dodecafonia non consiste allora che in una legge rigorosa per controllare la scrittura
cromatica; ha soltanto il compito di uno strumento regolatore, il fenomeno seriale è, per così dire,
passato inosservato in Schoenberg […]
Poiché le forme preclassiche o classiche che reggono la maggior parte delle sue architetture non sono,
storicamente, per nulla legate alla scoperta dodecafonica, si produce uno iato inammissibile tra
infrastrutture legate al fenomeno tonale e un linguaggio di cui si sorgono ancora sommariamente le
leggi di organizzazione. Non soltanto il progetto che si proponeva fallisce: vale a dire che tale linguaggio
non viene consolidato da queste architetture; ma si osserva proprio il contrario: queste architetture
annullano le possibilità di organizzazione incluse in questo nuovo linguaggio. Due mondi sono
incompatibili: e si è tentato di giustificarli l’uno con l’altro. […]
La persistenza, per esempio, della melodia accompagnata; di un contrappunto basato su una parte
principale e delle parti secondarie (Hauptstimme e Nebenstimme). Eccoci in presenza di una delle
eredità meno felici dovuta alle sclerosi difficilmente sostenibili di un certo linguaggio bastardo adottato
dal romanticismo. Non soltanto in queste concezioni superate ma anche nella scrittura stessa,
percepiamo le reminiscenze di un mondo abolito. Dalla penna di Schoenberg abbondano, in effetti –
non senza provocare irritazione – i cliché di scrittura temibilmente stereotipi, rappresentativi, anche
qui, del romanticismo più ostentato e più desueto. Intendiamo parlare di quelle costanti anticipazioni
con appoggio espressivo sulla nota reale; vogliamo segnalare quelle false appoggiature; e ancora quelle
formule di arpeggi, di ripetizioni, che suonano del tutto vuote e sono del tutto degne della loro qualifica
di ‘parti secondarie’. Segnaliamo infine l’impiego lugubre e uggioso di una ritmica derisoriamente
povera, brutta, dove certe astuzie di variazione nei riguardi della ritmica classica sconcertano per la loro
bonomia e inefficacia. […]
[Nelle opere americane poi, vediamo risorgere] gli intervalli di ottava, le false cadenze, i canoni esatti
all’ottava. Un atteggiamento simile raggiunge una incoerenza massima che del resto è soltanto il
parossismo fino all’assurdo, delle incompatibilità di Schoenberg. Si sarebbe dunque arrivati a una nuova
metodologia del linguaggio musicale soltanto per cercare di ricomporre l’antica? […]
Nondimeno è possibile discernere perché la musica seriale di Schoenberg fosse votata al fallimento.
Prima di tutto l’esplorazione del campo seriale è stata condotta unilateralmente: manca il piano ritmico
e persino il piano sonoro propriamente detto: le intensità e gli attacchi. […] Rileviamo invece una
preoccupazione notevolissima nei timbri, con la Klangfarbenmelodie che per generalizzazione, può
condurre alla serie di timbri. Ma la causa essenziale del fallimento risiede nella disconoscenza profonda
delle FUNZIONI seriali propriamente dette, generate dal principio stesso della serie […] Vogliamo dire
che la serie interviene in Schoenberg come un comun denominatore per garantire l’unità semantica
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dell’opera; mentre gli altri elementi del linguaggio così ottenuti vengono organizzati da una retorica
preesistente non seriale.
Pierre Boulez fu senza dubbio il più rigoroso nel perseguire l’utopia di un linguaggio oggettivo,
totalmente riducibile all’astrazione numerica e depurato di ogni riflesso emotivo. Il distacco del
serialismo di Webern dalle sue matrici espressioniste, la progressiva estensione del principio seriale
troveranno in lui un campione di coerenza. E tuttavia, al razionalismo tagliente, così tipicamente
francese si affiancano in Boulez componenti di segno opposto, come l’insofferenza per le tecniche
rigide, l’immaginazione preziosa, la curiosità intellettuale, il gusto sensuale per la delibazione
timbrica, come in Debussy. Sicché, dopo l’infatuazione seriale, la scrittura di questo compositore si
orienterà, come gran parte della musica francese, da Dutilleux a Grisey e gli altri compositori
‘spettralisti’, sull’organizzazione del suono in sé.
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Storia ed estetica della musica
La storia recente era stata segnata da una tragedia senza precedenti, con l’instaurazione di regimi
totalitari, i milioni di morti, i campi di concentramento e la Shoah, le atomiche su Horoshima e
Nagasaki. Tutto ciò sembrava imporre una necessità storica assolutamente ineludibile: il rifiuto
radicale della tradizione occidentale, che si era per secoli fondata sulla centralità e
dell’emancipazione del soggetto, della sua hibris, la sua volontà di potenza e di affermazione, la
violenza esercitata sistematicamente sulla natura e sugli altri uomini o gruppi sociali.
Era dunque necessario un nuovo pensiero che inibisse l’idea stessa di arte come espressione
soggettiva e individuale, e che convogliasse le sue energie verso la costruzione di ‘oggetti’, oggetti
figurativi, oggetti sonori, non più visioni determinate da stati d’animo, proiezioni dell’inconscio e così
via, ma si dedicasse, più che a creare, a scoprire configurazioni degli elementi, stati della materia.
Il termine chiave, la parola d’ordine era appunto questa: non più creazione, che tradiva ancora
l’ambizione a plasmare il mondo, ma scoperta. Comporre musica voleva dire fare scoperte, non
inventare, ma quasi inciampare in oggetti che nella loro forma, nella loro coerenza interna, potessero
rivelare l’intima essenza del mondo e della sua storia. Non più creazioni, non più
Ciò che il compositore doveva limitarsi a fare era appunto predisporre le condizioni perché
una entità data si manifestasse e si rendesse conoscibile. Il modello di questa disposizione a far sì che
le cose si rivelassero in modo autonomo dai soggetti che si impegnavano a favorire il loro manifestarsi
era facilmente recuperato dal metodo scientifico, anzi proprio dalle scienze sperimentali. E infatti
molto spesso questi compositori assumevano anche il look degli scienziati: occhialoni spessi, camicia
bianca e cravatta, nei laboratori di musica elettronica, persino camici bianchi…
Le loro opere spesso assumevano dei titoli parascientifici: Poliphonie X, Matakstasis, Varianti ecc.
Tali opere, più che singole produzioni, sembrava dovessero sempre più apparire come documenti di
un più generale avanzamento della tecnica, e spesso e volentieri erano accompagnati da scritti che
ne spiegavano le procedure come se appunto fossero dei protocolli scientifici sperimentali.
Per la loro stessa natura, queste produzioni richiedevano un discorso che ne chiarisse gli
intenti e i risultati; i discorsi e le discussioni si moltiplicavano, e non avevano più a che fare con
l’evoluzione del gusto, ma piuttosto con l’idea di storicità, di libertà, di società, anche di misticismo,
che era una delle possibili conseguenze della perdita di centralità della soggettività, le rivendicazioni
della musica d’arte come forma di resistenza all’asservimento alle logiche puramente commerciali.
Spesso e volentieri questi filoni tematici si intrecciavano in una specie di esperanto filosofico e
letterario, fino a creare quasi un gergo, adottato anche dai compositori quando scrivevano sulla
musica propria e di altri.
Ora, non è che negli anni Cinquanta esistesse solo questa tendenza di musica sperimentale;
esistevano molte altre musiche. Erano ancora vivi molti dei protagonisti della prima metà del secolo:
Schoenberg morirà nel 1951, ma Stravinskij nel ’71; si diffondeva la musica leggera, la popular music,
il rock, il jazz; i Beatles, i Rolling Stones e via dicendo. Ma, soprattutto negli ambiti della creatività che
aspirava a porsi come musica d’arte, e in quanto tale esperienza di verità, quel modello di musica
d’avanguardia conservò a lungo un forte potere di suggestione, esercitò anzi una vera e propria
egemonia culturale. Tant’è vero che nacquero poi, anche in ambiti inizialmente generati da esigenze
diverse, delle correnti che si ispiravano a quella linea di ermeticità, di ricerca, di impegno, intellettuale
e sociale. Si pensi solo alle varie e sempre più diversificate espressioni del be bop, del free jazz, del
rock progressivo e psichedelico. Si pensi a personalità come John Coltrane, o ancora di più Ornette
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Storia ed estetica della musica
Coleman e Cecil Taylor, che nell’ambito del jazz d’avanguardia, tendevano a riprodurre quel modello
di artista-ricercatore. Oppure, per restare in Italia, si pensi a esperienze come quella degli Area; si
pensi al ruolo che giocò ancora negli anni Settanta un’etichetta come la Cramps, che produceva dischi
degli Area, quelli sperimentalissimi del suo cantante, Demetrio Stratos, e i primi documenti
discografici italiani della musica di John Cage.
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Storia ed estetica della musica
sino in fondo, con rigore quasi maniacale e come sospinta da un’autoimposta ‘necessità storica’, le
conseguenze dell’esperienza weberniana della disgregazione degli automatismi espressivi e della
atomizzazione del linguaggio, prima di poter recuperare altri filoni di ricerca e ritrovare le condizioni
per uscire dagli spazi angusti della serialità integrale.
Nel testo che segue, composto di brani estratti da una conferenza radiofonica del 1955,
Stockhausen illustra la sua Gruppen Technik (tecnica compositiva per gruppi) analizzando il primo dei
Klavierstücke (Pezzi per pianoforte) del 1952.
Per ‘gruppo’ si intende un numero determinato di suoni collegati secondo rapporti di affinità e su un piano
superiore di percezione, quello del gruppo appunto. I vari gruppi di una composizione si distinguono per diversi
tipi di proporzioni, per diversa struttura, ma sono correlati fra di loro nel senso che non è possibile
comprendere le proprietà di un gruppo se non in rapporto al grado di affinità che queste presentano con altri
gruppi.
Certe caratteristiche del brano sono del tutto tipiche del linguaggio musicale attuale: nessuna melodia con
accompagnamento, nessuna voce principale, né secondaria, nessun tema né transizione, e neppure relazioni
armoniche di tipo più semplice o più complesso, né tensione/risoluzione, né ritmi sincopati che diventano
regolari.
Se concentriamo il nostro ascolto sull’insieme, riceviamo un’impressione complessiva in cui le particolarità
sono sufficientemente distinte perché nessuna relazione assuma più importanza di un’altra (per esempi, i
grandi intervalli e il susseguirsi di elementi diversi in uno spazio-tempo minimo). Questo è appunto ciò che si
definisce ‘ascolto strutturale’; ciò che la memoria trattiene non è quanto appartiene alla sfera del particolare
(un intervallo isolato, una semplice proporzione di tempo), bensì il modo in cui i suoni sono connessi tra loro
e si dispongono all’interno del gruppo. [… un esempio chiarirà meglio:]
Se ci poniamo a esaminare da vicino una pietra vedremo una quantità di dettagli: linee, stratificazioni, venature
in una particolare disposizione (per evidenziarne meglio la struttura basterà applicare sulla pietra un foglio di
carta e annerirlo a matita sinché la struttura si palesa in tutta la densità della sua trama). Ma se torniamo a
guardare la pietra nel suo insieme, come avviene con un primo colpo d’occhio, non la descriveremo affatto
come la somma di quei dettagli puntuali, benché questi abbiano richiamato in noi l’idea di pietra e non, ad
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Storia ed estetica della musica
esempio, quella di legno. Così pure non diremo che questa o quella proprietà di struttura ha un’importanza
particolare, né descriveremo le venature per definire la pietra in quanto tale. Non intendo certo affrontare il
problema generale del rapporto che intercorre tra struttura e forma; ciò che voglio dire è che siamo arrivati a
un atteggiamento del tutto nuovo nei confronti di questi fenomeni (ed è noto che fu proprio questo un punto
d’avvio per la musica elettronica). Per tornare alla struttura musicale propriamente detta, le connessioni più
elementari hanno un ruolo essenziale nel contesto d’insieme, ma noi tendiamo a coglierlein modo unitario in
quanto qualità. Sul piano della sensazione possiamo distinguere modificazioni della struttura nei più diversi
gruppi di elementi, senza poter dire tuttavia che cosa si è effettivamente modificato nel dettaglio. Ciò che
emerge con evidenza sono i contorni dei gruppi: essi hanno lunghezze differenti, differenti forme, diverse
densità e diversi gradi di velocità; cioè, diversa forma sonora. […]
Che cosa si intende quando si parla di ‘corrispondenze’ fra gruppi’? non la ripetizione diun gruppo già
incontrato, nel senso di una corrispondenza tematica, e neppure una variazione di forma o uno sviluppo, ma
piuttosto un collegamento strutturale fra gli elementi […]
In un primo momento si si riuscirà appena a riconoscere la forma del gruppo già noto, che potrà essere
ricordato solo prestando un’attenzione concentrata ai rapporti di intensità e di durata; si percepirà insomma
una forma nuova, benché i rapporti dei su elementi siano affini a una struttura anteriore. L’importante è
prendere coscienza dei diversi gradi di trasformazione strutturale (talvolta il grado di affinità è elevato, altre
volte meno; […])
Se il fatto di mettere in luce e di fare intendere in modo approfondito il dettaglio o l’insieme invece di appellarsi
all’atto mistico dell’ispirazione – incompatibile con tale chiarezza – dovesse arrecare pregiudizio all’opera e al
suo autore, allora sarebbe assai triste per lui e per il suo lavoro. Poiché si sa che queste cose sono inesauribili
e che l’autenticità è nascosta nei meandri della coscienza. Per un compositore il sorprendente non sta al di là
delle cose, nascosto da qualche partecome un’idea, impossibile d percepire, ma al contrario nelle cose stesse,
nel fatto che esse sono quelle che sono e si concretizzano nei momenti in cui sono vissute dall’ascoltatore, ne
prenda o no coscienza, le accetti o meno.
Un particolare esponente di questo fronte avanguardista Gyorgy Ligeti. Studiando il metodo seriale
pluridimensionale si rese conto della sua contraddizione essenziale: il massimo della determinazione
degli elementi della composizione produce la massima indeterminatezza (Cfr. Metamorfosi della
forma musicale, 1959; testo allegato).
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Storia ed estetica della musica
Vi è dunque una differenza sostanziale tra il concetto di alea dei compositori americani e quello
sviluppato in Europa dagli esponenti dei Ferienkurse di Darmstadt. Per Morton Feldman e per John
Cage, l’essenza della pratica aleatoria risiede nella sospensione, totale o parziale, dell’intenzionalità
pre-formante del’autore, per affidarsi alla logica misteriosa e incontrollata di attori accidentali gli esiti
combinatori della materia sonora: si tratta insomma dell’apertura della forma musicale all’universo
dell’imprevedibile esistenziale, nel segno di una concezione vitalistica della musica, sostanzialmente
estranea all’avanguardia europea. Esempi ne sono Projection 1 di Feldman e Music for Changes di
Cage, basato su un sistema di sorteggio tratto dal libro di divinazione cinese I Ching.
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Storia ed estetica della musica
Per contro, l’assunzione dell’alea in Europa rappresenta una svolta implicita nello sviluppo stesso
dell’iperdeterminismo seriale, allorché la possibilità di discernere gli elementi strutturali della
composizione abbia superato le facoltà analitiche dell’orecchio umano, sottraendo di fatto al
controllo dell’autore gli esiti della composizione sul piano della sua percezione auditiva.
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Storia ed estetica della musica
Pierre Schaffer (1910-1995) punta a incamerare nell’indagine sonora oggetti sonori della vita
quotidiane («musique concréte» ha questo significato). Nel Centre parigino lavoreranno per brevi
periodi Boulez, Stockhausen, Messiaen, Xenakis. Ma sarà l’arrivo di Varèse, nel 1954, a dare alla
musica concreta il suo primo lavoro davvero convincente, Désert, per orchestra di fiati e percussione,
contenente tre inserti su nastro magnetico che interrompono la parte strumentale. Dopo Désert
l’interesse di Varèse per il suono organizzato tecnologicamente produrrà ancora il Poème
électronique (1958), la sua unica composizione interamente elettronica.
Se la ricerca dei parigini impiega le possibilità offerta dalla tecnologia elettroacustica nella
direzione di un allargamento del concetto di arte sino a includervi oggetti sonori allo stato
preculturale, colti nella loro fisica, primordiale concretezza, il ‘purismo’ dello Studio für elektronische
Musik di Colonia, fondato e diretto da Herbert Eimert muove nella direzione esattamente opposta,
di un restringimento dell’area musicale ai soli eventi fonici sui quali sia possibile esercitare un
controllo razionale totale, vale a dire suoni producibili per sintesi con le apparecchiature di
laboratorio (le quali sono essenzialmente di due specie: generatori di onde, da quelle più semplici o
‘sinusoidali’ alle più complesse ‘onde quadre’, ‘triangolari’, ‘a denti di sega’, ottenibili per addizioni
successive di serie di armonici; generator di ‘suono bianco’, cioè del suono risultante dalla
simultaneità di tutte le frequenze). Dinanzi allo sperimentalismo di Colonia si apre un campo di
possibilità astratto e totalmente asettico, depurato non soltanto di ogni residuo linguistico, ma anche
di tutti gli scarti di imprecisione, di fonicità incontrollata e di soggettività che sempre si producono
nell’esecuzione su strumenti originali; e più che alla scoperta di oggetti sonori nuovi, la ricerca è volta
a individuare un sistema di rapporti virtuali, da cui dedurre progetti di struttura sulla base di criteri
scientifici.
Data la comune impostazione strutturalistica, si viene immediatamente a istituire uno stretto
rapporto di cooperazione tra lo Studio di Colonia e la scuola di Darmstadt.
Paragonata a quella di Colonia, la ricerca elettronica dello Studio di Fonologia della RAI di Milano
(fondato nel 1955) appare improntato a uno schietto e disinvolto empirismo. Entrambi i suo
fondatori, Bruno Maderna (Venezia 1920-Darmstadt 1973) si accostano alle nuove risorse foniche
senza determinismi e senza idee preconcette circa la loro organizzazione, e tendono a lasciare
emergere liberamente dal materiale le sue virtualità: Maderna con un’accesa sensualità acustica e
una spiccata attitudine a far scaturire dal suono tensioni emotive e situazioni poetiche; Berio con
quella maggiore disponibilità ad accogliere stimoli e suggerimenti eterogeni, che dovrà fare d lui uno
dei compositori più versatili e aggiornati dell’avanguardia italiana. Per l’uno e l’altro la musica
elettronica viene a rappresentare, se non la prima esperienza musicale, certamente un importante
mezzo per liberarsi di quanto in loro è ancora legato a schemi superati (l’espressionismo e il modello
di Dallapiccola per Maderna, quello stravinskiano per Berio) e avviarsi verso soluzioni linguistiche più
radicali. Al Centro di Fonologia Berio realizza un primo capolavoro con Thema. Omaggio a Joyce
(1959) in cui utilizza come base di elaborazione un frammento dell’Ulisse di James Joyce registrato
da una voce femminile in inglese, francese e italiano. Diversamente da Stockhausen, il cui Gesang der
Jünglinge è peraltro un lontano modello di Omaggio a Joyce, Berio non è interessato alla
problematica spaziale, quanto piuttosto all’analisi delle peculiarità foniche del testo impiegato, e
giunge, attraverso una complessa manipolazione elettronica, a formulare un nuovo tipo di vocalità,
in cui la voce umana cessa di essere un semplice veicolo di trasmissione semantica e diviene un mezzo
per liberare le virtualità fonico-musicali insite in ciascuna sillaba del testo.
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Storia ed estetica della musica
Maderna scrive nel 1957 Musica su due dimensioni per flauto e nastro magnetico, che
precede di circa un anno un’analoga soluzione ad opera di Stockhausen e di Mauricio Kagel destinata
poi ad avere ampio seguito. La composizione si articola in cinque episodi, in parte per flauto solo, in
parte per nastro magnetico, collegati da interludi pure elettronici e variamente trasponibili o
interpolabili secondo un principio aleatorio che dà largo campo all’iniziativa estemporanea del
flautista e del tecnico del suono. Il rapporto tra lo strumentista e la banda magnetica viene ad
assumere una valenza quasi scenico gestuale.
L’ipotesi di una fusione fra musica registrata ed esecuzione strumentale dal vivo, contenuta
in Musica su due dimensioni di Maderna, trova, come si diceva, più ampia applicazione in due lavori:
Transición di Kagel (1959) e Kontakte di Stockhausen (1958-1960), entrambi per piianoforte,
percussione e banda magnetica, che segnano una svolta nell’evoluzione della musica elettronica non
soltanto perché viene definitivamente relegata alle cose del passato l’utopia, sino a qualche tempo
prima condivisa da molti, secondo la quale la musica elettronica rappresentava la musica
dell’avvenire, destinata a soppiantare ogni alto mezzo di produzione sonora, ma soprattutto perché,
con l’immissione di eventi fonici precostituiti su nastro nella dimensione viva dell’esecuzione e con
l’attrito rovente che deriva dallo scontro tra due vicende sonore, la gestualità implicita nell’azione
esecutiva viene ad acquistare uno spessore fisico e un’evidenza scenica che si sovrappongono,
amplificano o addirittura deformano la trama musicale, ipotizzando soluzioni di teatro gestuale che
di lì a poco diventeranno un’altra componente importante della musica contemporanea prodotta
negli anni Sessanta.
La musica elettronica è già un elemento virtualmente integrabile nella nuova temperie vitalistica
dell’improvvisazione e del teatro gestuale apportata da John Cage. Materiali concreti vengono
immessi in misura crescente, come accade nella Fabbrica illuminata di Luigi Nono (1964). La
strumentazione elettronica viene arricchendosi di nuove apparecchiature per la manipolazione del
suono (filtri, modulatori ad anello, regolatori, anche portatili) che consentono la produzione di suoni
elettronici live.
Ma soprattutto per Luigi Nono la scoperta nel 1960 delle risorse elettroniche dovrà acquistare
una importanza fondamentale. Il compositore veneziano vi approda dopo l’importante esperienza
vocale del Canto sospeso (1956) e quella teatrale di Intolleranza 1960, sicché la ricerca elettronica
viene a innestarsi su una problematica tecnico-espressiva avviata da queste composizioni riguardo
all’uso della voce umana, al suo potenziamento semantico e al suo impiego come mezzo di
amplificazione delle potenzialità foniche della parola. Nella Fabbrica illuminata la viva voce del
soprano su testi di Giuliano Scabia e Cesare Pavese) si erge contro la parete sonora del nastro
magnetico come un polo di irriducibile contrapposizione, testimonianza e denuncia delle condizioni
disumane del lavoro di fabbrica, evocate dalle sonorità sinistre dei materiali acustici rilevati dal vivo
in alcuni stabilimenti industriali. In A floresta è jovem e cheia de vida (1967) l’interazione dialettica
fra la banda magnetica e l’esecuzione dal vivo giunge a configurare situazioni scenico gestuali. Invece,
prive dell’apporto della voce umana (peraltro ampiamente presente alla base della elaborazione
elettronica) sono le composizioni Ricorda cosa ti hanno fatto ad Auschwitz, che rielabora con esiti di
allucinante, lacerata espressività, materiali strumentali, voci di bambini, frammenti parlati e cantati
tratti dalle musiche di scena per L’istruttoria di Peter Weiss (1966) e Non consumiamo Marx,
realizzato nel 1969 sull’onda della contestazione studentesca e del Maggio francese. A una prima
parte («Un volto, del mare») basata su una poesia di Pavese manipolata elettronicamente in un clima
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Storia ed estetica della musica
di attonita fissità, segue una seconda (che dà il titolo alla composizione) costituita da materiali
registrati dal vivo durante manifestazioni studentesche e rielaborati insieme con frammenti di scritte
murali della contestazione parigina.
Luciano Berio ha studiato con Federico Ghedini e con Luigi Dallapiccola (per un periodo a
Tanglewood). È uno dei compositori che più di tutti hanno incarnato, dopo le esperienze seriali, la
propensione alla pluralità e alla mescolanza dei linguaggi.
Si riportano qui, a titolo di esempio, due brevi scritti su due suoi lavori molto noti: Folk songs per
mezzosoprano e sette strumenti, e Laborintus II per voci, strumenti e nastro magnetico (1965, testi
di Edoardo Sanguineti):
Folk songs
Ho sempre provato un senso di profondo disagio ascoltando canzoni popolari (cioè espressioni popolari spontanee)
accompagnate dal pianoforte. È per questo e, soprattutto, per rendere omaggio all’intelligenza vocale di Cathy Berberian
che nel 1964 ho scritto Folk Songs per voce e sette esecutori (flauto/ottavino, clarinetto, due percussioni, arpa, viola,
violoncello) e, successivamente, per voce e orchestra da camera (1973). Si tratta, in sostanza, di un’antologia di undici
canti popolari (o assunti come tali) di varia origine (Stati Uniti, Armenia, Provenza, Sicilia, Sardegna, ecc.), trovati su vecchi
dischi, su antologie stampate o raccolti dalla viva voce di amici. Li ho naturalmente interpretati ritmicamente e
armonicamente: in un certo senso, quindi, li ho ricomposti. Il discorso strumentale ha una funzione precisa: suggerire e
commentare quelle che mi sono parse le radici espressive, cioè culturali, di ogni canzone. Queste radici non hanno a che
fare solo con le origini delle canzoni, ma anche con la storia degli usi che ne sono stati fatti, quando non si è voluto
distruggerne o manipolarne il senso. Due di queste canzoni («La donna ideale» e «Ballo») non sono popolari nella
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Storia ed estetica della musica
sostanza, ma solo nelle intenzioni: le ho composte io stesso nel 1947. La prima sulle parole scherzose di un anonimo
genovese, la seconda sul testo di un anonimo siciliano.
Laborintus II
Composto nel 1965 su commissione dell’O.R.T.F. per celebrare il 700° anniversario della nascita di Dante, Laborintus
II prende il titolo dalla raccolta poetica Laborintus di Edoardo Sanguineti. Il testo di Laborintus II sviluppa alcuni temi
della Vita nuova, del Convivio e della Divina Commedia di Dante e li combina - soprattutto attraverso analogie formali e
semantiche - con testi biblici e con scritti di T. S. Eliot, Ezra Pound e Sanguineti stesso. Il principale riferimento formale
di Laborintus II è il catalogo, inteso nella sua accezione medievale (come per esempio le Etimologie di Isidoro di Siviglia,
anch’esse presenti in quest’opera), che mette in relazione i temi danteschi della memoria, della morte e dell’usura - cioè
la riduzione di tutte le cose a un solo metro di valore. A volte le parole isolate e le frasi devono essere considerate come
entità autonome, altre volte invece vanno ascoltate come parte della struttura sonora concepita come un tutto.
Il principio del catalogo non si limita solo al testo, ma serve anche da base alla struttura musicale stessa. Visto sotto un
certo aspetto, Laborintus II è un catalogo di riferimenti, di atteggiamenti e di semplici tecniche strumentali; un catalogo
dal carattere un po’ didattico, come le immagini di un libro scolastico che tratti delle visioni dantesche e del gesto
musicale. Le parti strumentali sono sviluppate soprattutto come estensione dell’azione vocale dei cantanti e la breve
sequenza di musica elettronica è concepita come prolungamento dell’azione strumentale. Laborintus II è un’opera
scenica; può essere trattata come una rappresentazione, come una storia, un’allegoria, un documentario, una danza. Può
essere rappresentata a scuola, a teatro, in televisione, all’aria aperta e in qualsiasi altro luogo che permetta di riunire un
uditorio.
Stefano Gervasoni (1962), ha deciso di dedicarsi alla composizione dopo aver conosciuto Luigi Nono
a Venezia. Ha studiato poi al Conservatorio di Milano, con Niccolò Castiglioni e Azio Corghi, e
successivamente con György Ligeti e Helmuth Lachenmann.
È tra i compositori contemporanei, uno dei più inclini all’espressione lirica, come lo sono stati Toru
Takemitsu, o lo è György Kurtág. Lirico in quanto la sua musica tende alla discrezione, possiede un
tono meditativo, un’inclinazione alla riflessione in solitudine, che si coglie soprattutto nel modo in cui
molto spesso privilegia piani dinamici molto prossimi al silenzio. Il tono lirico rifugge i contrasti, che
appartengono di più a una disposizione di tipo drammatico. Il tono lirico presume che un soggetto
che esprime un propria visione lo faccia tra sé e sé; non si rivolge ostentatamente a un pubblico. Il
pubblico in un certo senso capta ciò che il soggetto sta dicendo.
Carlo Boccadoro è nato nel 1963 a Macerata. Come molti musicisti della sua generazione è cresciuto
musicalmente non solo con la musica colta classica e contemporanea, ma anche con la popular music
e con il jazz. È espressione di quella ricerca continua che come dice Alex Ross è continuamente alla
ricerca di un equilibrio «la vita della mente e il rumore della strada». Ha fondato un gruppo musicale
specializzato in esecuzione di musica contemporanea che ha sede a Milano e si chiama Sentieri
selvaggi.
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