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La pioggia fa un bel rumore fuori dalla finestra semiaperta.

C’è una ragazza in piedi


dietro la finestra; guarda cadere la pioggia scostando le tende quanto basta per
potersi affacciare. Il suo viso è pallido e magro come quello di una morta. Ha occhi
molto neri e molto lucidi, sporgenti, troppo grandi per la sua testa. Indossa una felpa
lunga fino alle ginocchia, con una ridicola toppa a forma di foglia sulla spalla sinistra.
La pioggia forma dei rivoli d’acqua che corrono ai bordi della strada; la ragazza li
segue con gli occhi, ma finiscono all’improvviso cadendo a tradimento nei tombini,
come stradine a fondo cieco. In mezzo alla strada c’è una ragazza, immobile, di
spalle. Nel giardino della casa di fronte c’è un cespuglio di rovi scuri, sembra che la
pioggia lo colpisca senza bagnarlo davvero. Anche i capelli della ragazza sono così
neri e così ricci che la pioggia ci scivola sopra e sembrano asciutti. Invece
l’impermeabile grigio che indossa è fradicio, e le pende lungo il corpo. Chissà
perché non mette il cappuccio. La ragazza alla finestra invece ha il cappuccio tirato
in avanti a proteggerle la fronte, e tiene le mani dentro le maniche della felpa. Il cielo
è chiaro per un giorno di pioggia, più che pieno di nuvole sembra coperto da un
lenzuolo sottile; per questo c’è tanta luce, e si intravede addirittura il sole, che però
non sembra il sole ma una fredda lampada al Neon. I capelli della ragazza in mezzo
alla strada brillano, un po' per la pioggia, un po’ per il sole, un po’ forse per un gioco
di riflessi. Rimbalzano ad ogni goccia che li colpisce, come molle. Chissà perché li
tiene corti, se i capelli crescono è un delitto tagliarli; è un po' come mettere i criceti
sulla ruota, che corrono corrono solo per ritrovarsi al punto di partenza. Ci sono
tante cose strane in una ragazza immobile sotto un diluvio, il suo impermeabile
senza cappuccio, la sua noncuranza di bagnarsi… Invece i capelli non sono strani.
Non c’è niente di strano nell’avere i capelli. Però, è molto strano non avere i capelli,
soprattutto se sei una donna e se ha meno di 20 anni. Per questo porto il cappuccio
ben calato sulla fronte. Per questo oggi, invece di essere a scuola, sono a guardare
la pioggia dietro la finestra della mia stanza. Per questo sul comodino accanto al
mio letto – che non rifaccio da settimane- c’è una confezione aperta di pastiglie
contro il vomito. Per questo, sotto la felpa, sul petto, ho un piccolo disco di metallo
sotto pelle. Per questo preferisco le giornate di pioggia come oggi, quando anche
chi ha i capelli se ne sta chiuso in casa sotto le coperte. Per questo non riesco a
staccare gli occhi dalla ragazza con l’impermeabile grigio che aspetta immobile
sotto il diluvio. La pioggia è insolitamente verticale, le gocce sembrano sbarre di una
prigione. Le persone non se ne rendono contro, ma non servono sbarre di ferro e
catene alle caviglie per essere in prigione. Basta la pioggia, basta il caldo, basta la
stanchezza, o la solitudine; basta non avere i capelli, basta qualche chilo di troppo.
La verità è che non è la pioggia che ti tiene in prigione, ma la tua paura di bagnarti.
Ecco, forse è questa la cosa più strana della ragazza coi capelli a molla, lei non ha
paura di bagnarsi. Lei è come anche io vorrei essere. L’acqua continua a scorrere
sulle sue spalle e sull’asfalto. Il rumore della pioggia da oggi non sarà più lo stesso,
porterà sempre con sé una testa di riccioli neri e l’odore della solitudine e del
coraggio. Lascio andare la tendina e lei scompare, ma il rumore della pioggia
continua. Torno a letto e spero che la stanchezza che sento in ogni centimetro del
mio corpo abbia la meglio, ma oggi non funziona. Sento montare la nausea, ma
cerco di convincermi che è solo nella mia testa, che l’ultimo ciclo ormai l’ho finito da
una settimana. Chiudo gli occhi per cercare di non pensare, ma non faccio altro che
sentire il rumore della pioggia ancora più forte. Non avrà mai più il potere di
calmarmi. Suonano alla porta. Faccio finta di non essere in casa, come al solito.
Suonano ancora. Qualcosa mi spinge ad alzarmi. Infilo le ciabatte e senza pensare
che sotto la felpa ho le gambe nude scendo e vado ad aprire: sulla soglia c’è lei. Ha
l’impermeabile fradicio, e sotto, anche le sue gambe e i suoi piedi sono nudi. Lei mi
guarda negli occhi; anch’io la guardo. Ha tratti eleganti, labbra violacee che
spiccano sulla pelle color terracotta, e occhi allungati e scuri come ali d’uccello. È
molto bella. Ha in mano una palla di stracci, me la porge. La prendo e la guardo: tra
la stoffa fradicia fa capolino un piccolo viso color terracotta, con gli occhi chiusi.
Scuoto la testa e mi abbasso il cappuccio. L’aria è gelida sulla mia testa nuda.
Anche lei scuote la testa e solleva le braccia: le mancano tre dita da ogni mano.
Scuoto la testa e le mostro il rilievo appena sotto la clavicola che indica la presenza
dell’infusore sottocutaneo. Lei scuote la testa e si scopre un fianco: ha una ferita
profonda e infetta, la tunica è macchiata di sangue nerastro. Anche le fasce in cui è
avvolto il bambino che ho tra le braccia sono sporche di sangue; lui però dorme
tranquillo. Ha un viso così piccolo che il naso è schiacciato tra gli occhi e la bocca;
accanto alle palpebre ha delle piccole rughe. I piedi della ragazza, a mollo nei
torrenti di pioggia sull’asfalto, sono bluastri per il freddo, e anche le labbra.
Annuisco. Lei annuisce. Indietreggio lentamente, incapace di distogliere lo sguardo
dai suoi occhi notturni e spalancati inchiodati su di me. Senza smettere di fissarmi,
la ragazza estrae da sotto la tunica un pezzo di una forbice, si porta le mani alla
testa e recide una ciocca corvina; poi lascia cadere la lama e mi allunga la mano
tremante. Anche le mie dita tremano mentre prendo i capelli: sono attorcigliati, lucidi
e compatti come una molla. Anche il bambino ha dei piccoli ricci dietro le orecchie.
Quando alzo gli occhi, lei non è più davanti alla porta. La guardo allontanarsi di
corsa sotto la pioggia battente; zoppica leggermente a destra, i capelli e
l’impermeabile rimbalzano al ritmo irregolare dei suoi passi mentre sparisce dietro la
curva. Solo allora il freddo mi fa rabbrividire. Stringo il bambino contro il mio petto e
salgo le scale in fretta. La porta della mia camera è aperta; mia madre è seduta sul
letto sfatto. Ha una cartella giallo scuro in mano. Guarda senza capire la mia felpa
bagnata, il fagotto di stracci e il ricciolo nero, ma più che interrogativi e severi i suoi
occhi sono smarriti, come di chi da troppo tempo naviga in un mondo senza senso.
Mi siedo al suo fianco, col neonato in grembo. Lei mi porge la cartella, ma io non ho
bisogno di aprirla, mi bastano il suo viso e il suo silenzio per capire; anzi, forse non
mi serve nemmeno quello perché lo sapevo già da tempo. E anche mia madre.
Forse per questo non dice nulla quando le porgo il bambino; lo prende tra le braccia
e gli sistema le fasce attorno al viso. Lui tira fuori una manina stretta a pugno e, nel
sonno, si stropiccia piano il nasino; ha delle fossette in corrispondenza di ogni dito.
Rimaniamo immobili. Io stringo la mia cartella gialla, fredda e pesante di un peso
infinito come una nuvola carica di tempesta; lei stringe a sé il bambino. Senza una
parola, mi alzo, ma mia madre allunga una mano e si aggrappa al mio polso con
una forza improvvisamente disperata. La guardo: una lacrima, una sola, le scende
lungo la guancia sinistra. Mi lascia andare la mano, e annuisce impercettibilmente.
Anche la ragazza fa cenno col capo, così grande e rotondo sul collo sottile. Poi dà
un ultimo sguardo alla madre e si volta. Mentre se ne va dalla stanza, la donna la
segue con occhi smarriti e rassegnati, naufraghi, sopraffatti dalle onde di troppe
cose senza senso. C’è una calma irreale ora. Anche la pioggia si è fermata, come in
segno di rispetto. Solo il respiro del neonato continua, quasi impercettibile, nel vasto
silenzio. Dicono che basti un soffio per rompere il silenzio, così come basta una
candela per sconfiggere l’oscurità, ma non è vero. Il silenzio è sempre presente,
dappertutto, riempie le stanze, le strade, il cielo; circonda le parole e le sostiene,
come il mare con le barche a vela. Il silenzio prende la forma degli spazi vuoti: la
forma del nostro corpo quando ci alziamo dal letto, la forma del mobile che abbiamo
buttato anche se non avremmo voluto, perché proprio non ci stava più. Nella
camera, il silenzio ha una felpa nera, una grande testa pelata e occhi molto neri e
molto rotondi; ora circonda la donna nelle sue braccia invisibili come lei fa col
bambino senza nome. La donna lo sa, forse è per questo che chiude gli occhi e si
abbandona, come un naufrago che infine si rassegna alla stretta del mare. Allora,
solo allora, la pioggia riprende lentamente a cadere.

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