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9-CORPO, SALUTE, MALATTIA E I PROCESSI DI GUARDIGIONE stanno al centro dell’antropologia

medica. Il senso comune ci fa pensare a noi stessi come composti di un corpo, di una mente e di
una rete di rapporti sociali, e a considerare queste tre sfere come autonome e nettamente
separate l’una dall’altra. Nella prospettiva antropologica il rapporto tra queste tre sfere implica
reciproche influenze. Si potrebbe dire che il corpo e la mente non sono dati indipendentemente
dalle relazioni sociali, ma si costituiscono attraverso si esse, in specifici contesti storico-culturali.
Questo è il principio dell’antropologia medica: le malattie sono entità biologiche causate da lesioni
traumatiche o da disfunzioni organiche, e queste ultime producono anomalie fisiologiche e
“sintomi” legati alla sofferenza dei pazienti. In questa definizione vediamo articolarsi tre livelli:
-l’esperienza di dolore del paziente – i suoi tentativi di comunicare questa esperienza interiore -la
condizione biologica del corpo. La medicina assegna priorità al piano biologico che può essere
descritto oggettivamente attraverso i saperi delle scienze naturali. La diagnosi consiste
nell’interpretare l’esperienza comunicata dai pazienti attraverso un linguaggio culturale da
decodificare. Questa prospettiva si viene consolidando nel corso del XVIII secolo; non che nelle
medicine pre-scientifiche mancasse l’osservazione del corpo, ma segni e simboli erano considerati
indicatori di un livello più profondo di ordine o disordine, nascosto sotto ampie costruzioni
simboliche. Qui è il paino dei rapporti sociali che determina la condizione del corpo, tramite la
mediazione dell’ordine invisibile delle forze spirituali, sulle quali il guaritore deve agire attraverso
pratiche rituali di purificazione. La “biomedicina moderna” prende le distanze da tutto questo.
Foucault, uno dei più grandi intellettuali del XX secolo, ne ha descritto la nascita parlando di una
“rivoluzione epistemica”, cioè un nuovo sguardo al discorso del corpo insieme a nuove modalità di
controllo del corpo stesso da parte dello Stato. È una pratica che ci permette di scoprire le
strutture segrete dell’organismo, prima rappresentabili solo metaforicamente. Pensiamo alle
pratiche di dissezione dei cadaveri che implica l’esperienza della fisicità della morte; oppure la
follia che rende possibile un discorso sull’interiorità psichica. A medicina moderna ci cala in un
mondo di costante visibilità, parlando del corpo come di una cosa. Tuttavia la nuova medicina non
nasce grazie a una serie di scoperte empiriche che si accumulano, ma si tratta di un riordinamento
complessivo dello sguardo e del linguaggio, all’interno del quale le scoperte e gli esperimenti
possono avvenire e assumere significato. Il corpo e la spiritualità si aprono a una descrizione
materialistica e abbandonano i sistemi simbolici e le connotazioni etiche ed estetiche alle quali
erano legati. Tutto quanto non rientra nelle leggi del determinismo biologico appare come un
residuo di arcaicità e superstizione, poiché nella cultura popolare e nelle interpretazioni profane
della biomedicina sopravvivono elementi di “metafisica del male”. Tuttavia, il determinismo
biologico, sostenuto dal sapere medico e dalle istituzioni sanitarie dello Stato, diviene largamente
egemone, per questo è difficile accettare l’idea che corpo, salute e malattia possano rappresentare
“campi culturali”. Anche l’antropologia, influenzata dalla visione positivista della scienza come
rispecchiamento della realtà, considera le concezioni premoderne del corpo e della medicina,
forme di ignoranza o di conoscenza imperfetta. Le pratiche di diagnosi e guarigione delle culture
“primitive” sono trattate in due modi: vi sono quelle basate sull’uso di erbe e rimedi naturali al
quale si riconosce una certa efficacia empirica, una sorta di inconsapevole adesione ai principi
biomedici; e vi sono medicine basate su rimedi magici e religiosi di tipo rituale palesemente false e
illusorie. L’antropologia positivista distingue dunque “conoscenze” reali e “credenze” che non per
forza corrispondono alla realtà; ed è qui che le teorie antropologiche classiche offrono le loro
interpretazioni di tipo psicologico e sociologico. In assenza di conoscenze scientifiche il pensiero
primitivo si rifugerebbe in tentativi pseudo-razionali di spiegare e risolvere il male. In quest’ottica,
lo studio della “altre” forme di medicina consiste in una sorta di classificazione delle credenze,
sulla base di categorie assunte dal sapere biomedico, considerato oggettivo e pre-culturale. Ciò
che vale per i “primitivi” vale anche per la cultura polare dei paesi occidentali, tant’è che la
“demoiatria” è uno studio di carattere compilativo che raccoglie i rimedi delle popolazioni
contadine. Quella che oggi chiamiamo “antropologia medica” è la continuazione di questa
prospettiva, che ha l’obiettivo di trattare in modo simmetrico le nostre e le altre medicine, per
capire come noi e gli altri affrontiamo il male nella società. A questo atteggiamento l’antropologia
arriva con l’approfondimento della ricerca sul campo nelle altre culture, descrivendo i sistemi
culturali e morali locali. Tuttavia si fa sentire anche in antropologia l’indebolimento del
positivismo. Non meno di altri linguaggi, quello scientifico interpreta la realtà trasformandola in
esperienza, e lo fa sulla base di assunti culturali, teorici e persino metafisici. Di conseguenza il
rapporto sulla biomedicina certamente fondata e i diversi sistemi medici, non può basarsi sulla
dicotomia vero-falso. L’antropologia medica deve allora studiare come le culture, con le loro
pratiche sociali, formano la realtà, e come la conoscenza è organizzata in rapporto alla realtà. Non
si parla di relativismo radicale, non ci si contrappone alla biomedicina proponendo una visione
alternativa di corpo, salute, malattia e guarigione. Prendiamo come esempio le condizioni di vita in
Inghilterra tra ‘500 e ‘600: un’aspettativa di vita meno di 30 anni e frequenti epidemie. Di fronte a
ciò i medici erano del tutto incapaci di diagnosticare e curare le malattie, finendo per proporre
spesso rimedi che peggioravano la situazione. Perciò i progressi della biomedicina rappresentano
progressi storici che non si possono relativizzare. Infatti possiamo filosofeggiare quanto vogliamo,
ma al momento di farci curare non avremmo dubbi su chi scegliere. Occorre tenere a mente
quanto detto precedentemente sulla prima parte del libro. Non si tratta di dire che tutto va bene o
che il mondo è diviso in tante unità separate, ciascuna con la propria verità ed efficacia.
All’antropologia medica interessa invece affermare il progresso non è solo passaggio dallo stato di
ignoranza alla conoscenza, ma come transizione tra “complessive cornici di senso” che articolano il
rapporto tra corpo, esperienza e linguaggio. Tali cornici sono alla base di alcuni comportamenti
della vita quotidiana che ci appaiono naturali, uno sfondo ovvio che non viene mai messo in
discussione. La biomedicina costituisce uno sfondo di questo tipo, mentre l’antropologia non vuole
falsificarlo o proporre cornici alternative, ma lo colloca in una visione più ampia, che consenta di
comprendere altre forme culturali, in senso storico ed etnologico. De Martino, nello studiare le
pratiche medico-religiose del mezzogiorno è stato un precursore dell’antropologia medica. Dare
per scontato certe pratiche quotidiane ci rende incapaci di percepirle o riconoscerle. Pensiamo al
camminare o al parlare, che apprendono faticosamente da bambini e che tuttavia ci sembrano del
tutto naturali. Si tratta di un “felice oblio” poiché non riusciremmo a parlare o camminare
fluidamente se dovessimo pesare alle condizioni culturali che rendono possibili queste pratiche.
Ma ci sono due momenti in cui l’atteggiamento naturale viene problematizzato: il primo è
rappresentato dalle “crisi psicopatologiche”. La schizofrenia, per esempio, è considerata la
catastrofe dell’orizzonte domestico; il secondo caso, questa volta in positivo, sta nella
“comprensione storica e antropologica”, il tentativo di capire le diverse costituzioni culturali del
mondo. Qui torniamo al rapporto tra l’antropologia e la biomedicina: la prima non può dare per
scontato il concetto di “natura” su cui si basa la seconda. I due saperi stanno su piani diversi e
l’antropologia non intende ne confermare ne confutare la biomedicina, ma cerca di porla in una
situazione storico-culturale più ampia, portandola a guardare in un’altra ottica alcuni suoi aspetti
cruciali, a partire dal concetto di “malattia” o “efficacia terapeutica”. Si apre qui la possibilità di un’
“antropologia del corpo” il cui principale esponente è Mauss, che in un saggio degli anni ’30 lancia
un vasto programma di etnografia descrittiva riguardo l’uso del corpo nelle diverse culture.
Propone una classificazione delle tecniche corporee, basato su un percorso di ciclo della vita
(tecniche della nascita o dello svezzamento), sulla distinzione tra varie funzionalità (tecniche del
sonno, dell’igiene, dell’attività sessuale, della cura), e ancora distingue le tecniche differenziate in
base al sesso e all’età, all’efficacia, per trasmissione e addestramento. Riempire questi schemi ci
porta ad osservare un’enorme quantità di particolari inosservati che mostrano come il corpo sia
plasmato da categorie culturali implicite e profonde, lontane dalla coscienza e dal linguaggio.
Mauss parla di questa cultura come di un “habitus”- abitudini, ma non in senso psicologico o
mentale, ma soprattutto con il variare della società, dell’educazione, delle mode, con il prestigio.
Camminare, gesticolare, mangiare, vestire sono quasi sempre indicatori dello status sociale,
relativamente statico. In questo senso si può dire che il corpo è “percorso da rapporti di potere
interni a una determinata società” e al tempo stesso evidenzia i rapporti tra cultura dominante e
subalterna. Anche Mary Douglas parla degli usi simbolici del corpo, sostenendo l’esistenza di una
corrispondenza tra le forme del controllo sociale e le regole di presentazione pubblica del corpo. Il
corpo è ricco di simboli e capacità espressive, limitate tuttavia dalle regole sociali e i concetti di
pudore. Il processo di socializzazione insegna dunque al bambino a tenere sotto controllo
defecazione, vomito e altri atti fisiologici, come sbadigli, starnuti, tosse… ciò porta Douglas a
sostenere l’esistenza di due corpi, fisico e sociale: il primo contrae o espande le sue esigenze in
base alle pressioni sociali; si apre qui la possibilità di studiare l’intera fenomenologia
dell’espressione corporea come funzione della natura delle relazioni e dell’esperienza sociale. La
più recente antropologia critica insisterà invece sul corpo come soggettività agente e sulle
dimensioni politiche che lo attraversano. Intanto concentriamoci sugli aspetti culturali della
malattia e della guarigione, tenendo conto della distinzione che gli antropologi hanno operato tra i
termini inglesi “DISEASE, ILLNESS, SICKNESS: -“con “disease” si intende la malattia come entità
nosologica (scienza che si occupa della classificazione delle malattie) riconosciuta dalla
biomedicina. Si tratta di una trasformazione evidente del corpo dallo stato di normalità, causata da
cause specifiche (trauma, virus..). spesso nelle medicine moderne e tradizionali, le cause sono
invisibili, non riconoscibili dai profani, ma dagli specialisti. La malattia “disease” è trattata come
entità autonoma con la quale si entra in contatto (influenza, raffreddore..). - con “illness” si
intende invece l’esperienza soggettiva di sofferenza ed il suo significato per il paziente; - con
“sickness” ci si riferisce al ruolo sociale dell’ammalato, alle conseguenze sul piano dei
comportamenti e delle relazioni interpersonali verso un soggetto colpito da malattia; Queste tre
accezioni del termine dovrebbero coincidere nella prospettiva biomedica: un paziente avverte un
disturbo, questo viene diagnosticato da uno specialista, vengono prescritte cure che possono
cambiare lo status sociale del soggetto. Ma di fatto queste tre dimensioni non sempre coincidono,
come quando si prova un disagio che i medici non collegano a nessuna anomalia. Il riconoscimento
dello stato di malattia dipende da molte variabili di carattere culturale e socio-economico. La
biomedicina rappresenta una cornice di misurazione e valutazione diagnostica più o meno
universale; essa si trasforma però in pratica sociale relazionandosi con differenze di vario ordine,
come gli sfondi culturali, i rapporti di potere, l’appartenenza etnica, genere e generazione…
Stabilire il “limite” che separa la salute dalla malattia dipende in parte da questi aspetti. Un tema
classico studiato dall’antropologia per mostrare gli aspetti culturali della salute e della malattia è
quello delle “sindromi culturalmente condizionate”. Si tratta di malattie che sono riconosciute e
diffuse in una specifica area socioculturale: presentano sintomi e segni precisi, sono attribuiti a
cause particolari e legate a forme di diagnosi e terapia previste dalla tradizione. In Italia il caso più
noto di sindrome culturale condizionata è quello del tarantismo pugliese. Il “tarantismo” è un
istituto culturale diffuso tra i ceti contadini del Salento, e documentato fin dal medioevo. Consiste
in un disturbo psichico che si ritiene causato dal morso di un ragno, che viene curato attraverso un
rito esorcistico di carattere “coreutico-musicale”. L’ammalata danza per ore, talvolta per giorni a
ritmo della “pizzica” suonata da un orchestrina loca davanti alla comunità di villaggio. La danza
manifesta manifesta la taranta che la possiede, finchè quest’ultima, esausta non ne abbandona il
corpo. Le persone guarite divengono devote di San Paolo, il santo delle tarante e ogni anno i
ritrovano alla festa nella cappella a Galatina, dove la crisi e la religione vengono rivissute. De
Martino tratta il tarantismo come un vero e proprio dispositivo medico: un modo per dar nome e
senso a una configurazione culturale a una crisi in se caotica e irrelata, e al tempo stesso una
terapia che porta in qualche modo a risolverla. Dunque il rito non è solo superstizioso, ma risulta
anche efficace. Qualche anno prima, il concetto di efficacia simbolica era stato formulato da Levi-
Strauss, in un saggio dedicato all’analisi di un incantesimo per favorire un parto difficile. Il parto
non riesce perché Muu, la potenza che si occupa della formazione dei feti, si è impadronita
dell’anima della donna. Lo sciamano deve compiere un viaggio lungo e difficile verso la dimora di
Muu per recuperare l’anima, impresa in cui alla fine riesce, rendendo possibile il parto.
L’interpretazione di Levi-Strauss si basa sul fatto che il luogo del viaggio è la vagina e l’utero della
donna; e l’incantesimo è una sorta di manipolazione psicologica dell’organo malato. Lo sciamano
sovrappone dunque alla realtà disordinata del male, una struttura mitica ordinata che ripercorre le
difficoltà e gli ostacoli, ma contiene in se la certezza della soluzione positiva. Levi-Strauss nota
anche che tale metodo assomiglia alla psicoanalisi, la quale attraverso un linguaggio specifico
rende possibile esprimere conflitti che non si potrebbero altrimenti manifestare e con ciò conduce
alla loro risoluzione. Il linguaggio suscita qui, un’esperienza vissuta che nella psicoanalisi è definita
“abreazione”. Nella seconda metà del ‘900 il tema dell’efficacia simbolica sta al centro della
riflessione medicoantropologica e non si tratta solo di comprendere le terapie rituali e magico-
religiose tradizionali. Anche nella pratica biomedica moderna, gli elementi simbolici e “rituali”
sono molto diffusi. Sembra rientrare in quest’ambito l’ “effetto placebo”, cioè il fatto che una
qualsiasi terapia farmacologica produce una certa percentuale di guarigioni anche in caso di
somministrazione di sostanze inerti. Il fenomeno è talmente noto che lo si usa nelle procedure di
validazione dei principi attivi. In realtà, in ogni momento della pratica biomedica gli aspetti
simbolici si intrecciano con quelli tecnici: sottoporsi a cure mediche significa vivere un’esperienza
sociale particolare che prima ancora di intraprendere una terapia muta lo status del paziente. Si
capisce dunque che in chiave antropologica, l’interazione medico-paziente è molto più di un
momento tecnico di raccolta di informazioni: è il momento cruciale dell’intero percorso
terapeutico, quello in cui il senso del male assume una sua precisa configurazione. Le intuizioni di
Levi-Strauss e Martino sull’importanza della “pensabilità del male”, della possibilità di dominarlo in
un ordine intellettuale e in una struttura mitica che porta verso la sua risoluzione, si rilevano
dunque importanti anche in relazione alle pratiche mediche di base. I loro argomenti lasciano
comunque aperto il mistero del nesso psico-somatico: il modo in cui modificazioni organiche
potrebbero essere indotte da esperienze sociali con la mediazione del piano psicologico. I recenti
indirizzi dell’antropologia “critica” imboccano una direzione diversa. Abbiamo già visto le prese di
distanza verso l’approccio “culturista” in nome di teorie forti del potere che collocano l’analisi
antropologica sul piano dell’economia politica. In antropologia medica questa tendenza si
manifesta nettamente a partire da istanze etiche ancor prima che teoriche. Nel campo della salute
e della malattia, come in quello della violenza, la ricerca può difficilmente rappresentare
un’impresa neutrale. I ricercatori si trovano di fronte alla sofferenza di concreti esseri umani. In
questi casi è difficile considerare il rapporto con il corpo e il male in termini di semplici “differenze
culturali”. Emerge invece con evidenza, da un lato la disuguaglianza tra l’Occidente agiato e il
nesso diretto tra gli stati del corpo e i fattori economico politici che producono povertà, privazioni
e sofferenze. Al contempo, la denuncia e l’aiuto si sovrappongono a quelle dell’osservazione e
della comprensione distaccata. Per Theory il punto di partenza, è il ruolo del corpo nel sapere
antropologico, o per meglio dire il concetto di “incorporazione”, concetto chiave di una nuova fase
dell’antropologia medica: il corpo non è un oggetto da studiare in relazione alla cultura, ma
dev’essere considerato come il soggetto della cultura stessa. La prospettiva dell’incorporazione,
intende superare la classica dicotomia tra mente e corpo, facendo direttamente di quest’ultimo il
protagonista delle pratiche sociali. Due antropologhe americane hanno coniato l’espressione
“mindfull body” per esprimere questo concetto. Ai “due corpi” naturali e sociali della Douglas, esse
sostituiscono una teoria basata sulla compresenza di tre dimensioni del corpo, sociale politico e
personale. Il corpo sociale è quello di cui parla l’antropologia simbolica che appare “un peso
morto, inerte e passivo” legato a una mente vivace, attenta e nomade, e che rappresenta il vero
agente della cultura. Il corpo politico è quello plasmato dalle relazioni di potere: il riferimento qui
è alle teorie di Foucault sui saperi-poteri disciplinari che governano e addomesticano i corpi. Per
l’antropologia critica in Foucault manca ancora una dimensione, quella esistenziale del “corpo
personale” che non è solo vittima del controllo politico, ma soggetto attivo di strategie di
autoaffermazione e resistenza. Il tema del potere porta opportunamente a considerare le
condizioni che determinano le condizioni di salute e malattie e i modi locali di riconoscerle. Si apre
cosi il campo della “economia politica della sofferenza” dove la malattia non è considerata come
un evento naturale ma causata dallo sfruttamento economico. Ma tutto sommato l’attenzione a
questi fattori non è nuova e ne specificamente antropologica perché già affrontata
dall’epidemiologia e dalla medicina sociale, specie nel quadro del pensiero marxista. Andare oltre,
presentando i sintomi come una forma di protesta politica implicita è una mossa poco
convincente. Nonostante queste situazioni a volte possano verificarsi, l’antropologia critica ha
avuto il merito di evidenziare un collegamento tra l’etnografia di microcontesti delle sottili reti di
significati locali e le analisi delle macrocondizioni politico-economico che determinano e condizioni
di salute di individue e collettività. Tener conto di questa duplice dimensione è importante
soprattutto in campi quali lo studio dell’AIDS in Africa. Qui gli antropologi hanno smontato la
naturalità della malattia, non tanto o non solo relativizzandola in termini culturali, ma soprattutto
mostrando i grandi meccanismi socio-economici che la producono e la gestiscono. Torniamo per
concludere, alla biomedicina alla sua diffusione globale. Abbiamo visto che l’antropologia non
contesta i successi di questa disciplina, ma propone una comprensione critica in un duplice senso:
da un lato, il richiamo è a non considerare la biomedicina come a un sapere vero che si sostituisce
a uno falso, bensì come il frutto di un complesso processo storico nei quali si modifica la
concezione del corpo, della salute e della malattia, e i modi in cui la società considera la vita degli
individui; dall’altro lato, l’antropologia propone una comprensione delle medicine tradizionali e
riconosce la possibilità di cogliere alcuni aspetti dell’esperienza sociale della malattia per
mobilitare attorno ad essa ricchi apparati simbolici che garantiscono un certo grado di efficagia. In
questa prospettiva si può meglio intendere il fenomeno del “pluralismo medico” che caratterizza
molte parti del mondo, in riferimento alla compresenza di biomedicina e medicina tradizionale nei
sistemi di diagnosi e cura. L’ Organizzazione Mondiale della Sanità che pur muovendosi in un
orizzonte principalmente biomedico, ha cercato di considerare la medicina tradizionale, come un
patrimonio da preservare che da abbattere. Negli ultimi decenni del ‘900 ha avuto grande
diffusione il fenomeno delle “medicine non convenzionali” (MNC) che si differenziano dalla
biomedicina, anzi spesso polemizzano con essa, proponendo visioni del corpo, della salute e della
malattia radicalmente alternative: esempio l’agopuntura. Le loro origini sono molto diverse, si
tratta di discipline di derivazione Orientale e di tradizioni minoritarie nella storia della scienza
occidentale. Ne fanno uso i ceti medio-alti o con un alto livello di istruzione. Nelle società basate
sul consumo di massa e sull’industria del tempo libero, il corpo riveste una nuova centralità:
estetica, forma, piaceri, e le persone non ne delegano la cura solo alle istituzioni ufficiali. Neppure
la scienza gode più di un’autorità assoluta e anche le scelte mediche devono essere collegate alla
costruzione di un proprio stile di vita. La scelta medica diviene dunque un diritto del consumatore,
nonostante lo Stato garantisca il diritto alla salute. Uno dei punti fermi all’interno delle MNC
riguarda il fatto che non ci si ammala per caso: la malattia come la cura dipende dalla
responsabilità individuale: un cattivo stile di vita, rapporti sociali eccessivamente stressanti, un
cattivo rapporto con la natura. La cura, a sua volta, p la riconquista di uno stato di armonia ed
equilibrio.
10-TEMPO, MEMORIA, STORIA
In antropologia la memoria non è solo un oggetto di studio, ma una costituente delle sue forme
più importanti e molti dei fenomeni sociali su cui si basa l’attenzione dell’antropologia possono
essere considerate forme di memoria collettiva. La memoria è da sempre oggetto di studi
psicologici e sia l’antropologia che la storia sono prevalentemente interessate alla “memoria a
lungo termine”. La “memoria a breve termine” è considerata dagli psicologi la capacità di
richiamare informazioni assunte nel giro di pochi secondi. La psicologia cognitiva ha elaborato
modelli piuttosto complessi di funzionamento della memoria a breve termine: a sua volta distinta
da una memoria a “brevissimo termine” e “sensoriale”, i quali diventano a breve termine, solo
quando sono selezionate dall’attenzione. Memoria sensoriale e a breve termine sono comprese
nella memoria “di lavoro” con funzioni di direzione dell’attenzione. Il concetto di memoria a lungo
termine indica invece la capacità di ritenere informazioni per un tempo superiore ai pochi secondi
che caratterizzano la memoria di lavoro. Si è soliti suddividere la memoria a lungo termine in tre
sistemi: la memoria “procedurale”, “semantica” e “episodica”. La prima opera quasi sempre in
modo implicito (andare in bicicletta); la seconda consiste nel nostro sapere generale sul mondo,
cioè quelle conoscenze che permettono l’uso e la comprensione del linguaggio; la terza, registra
eventi o episodi di cui il soggetto ha avuto esperienza. Per questo talvolta definita “memoria
personale o autobiografica”. La memoria semantica ed episodica sono definite anche “memoria
dichiarativa” in quanto mirano a rappresentare il mondo o il passato in contrapposizione alla
memoria “abituale o procedurale” che rappresenta il requisito di abilità pratiche e non
rappresentative. Parzialmente sovrapposta alla distinzione dichiarativa-procedurale, è quella tra
“memoria esplicita e implicita”, concetto introdotto dalla psicologia sperimentale per sottolineare
quei casi in cui si è influenzati da un’esperienza passata senza essere consapevoli di ricordare.
Rientra in questo ambito anche il concetto di “memoria involontaria” introdotto da Proust, in cui
uno stimolo sensoriale apre improvvisamente uno scenario di ricordi che sembravano perduti. La
psicologia sperimentale rivolge invece, scarsa attenzione al tema del “rimosso”. I modelli elaborati
dalla psicologia sperimentale sono per lo più basati sulla “misurazione” di performance
mnemoniche in situazioni controllate in laboratorio, secondo la metodologia di Ebbinghaus, che
lavorando tra ‘800 e ‘900 ideò un metodo di studio del lavoro della memoria, consistente nella
ripetizione di sillabe senza senso, con l’obiettivo di isolare il funzionamento della memoria senza le
influenze del contesto. Nella psicologia novecentesca a questo metodo, se ne oppone uno
centrato sull’osservazione di contesti pragmatici e socio-culturali reali di uso della memoria,
secondo una visione “interpretativa” della memoria (Bartlett) , concepita come uno sforzo verso il
significato, non come la capacità di immagazzinare dati passati. Di particolare importante è
l’approccio “ecologico” alla ricerca della memoria, che si riferisce alla necessità di collegare le
prestazioni mnemoniche al contesto pratico di vita in cui sono impiegate. Questa metodologia
apre la psicologia cognitiva all’analisi delle componenti sociali, culturali e storiche della memoria.
Osserviamo che l’approccio della visione “interpretativa” cosi come quella “ecologica”(Neisser)
attribuisce centralità a fenomeni che hanno importanti implicazioni per la storia e l’antropologia,
cioè quelli della falsa memoria e delle distorsioni del ricordo. Si tratta di aspetti del funzionamento
della memoria che non possono essere interpretati come pura perdita di informazioni, ma come il
prodotto di strategie di “ricostruzione del passato” sulla base dell’esperienza e strutture di senso.
Bartlett ha introdotto il concetto di “schema” per indicare simili strutture, relativamente resistenti
all’oblio, la ricerca cognitiva più recente preferisce parlare di “copioni” che tendono a configurarsi
come sequenze di eventi attorno ai quali si organizzano le informazioni. Schemi e copioni svolgono
una funzione di filtro rispetto alla possibilità di integrare esperienze della memoria a breve
termine in quella a lungo termine; ma ciò che più conta, essi sembrano in grado di plasmare
ricordi in configurazioni coerenti. È in questo quadro ricostruttivo del passato, che i fenomeni dei
falsi ricordi o delle distorsioni vanno compresi. Questa prospettiva è diversa da quella
psicoanalitica, la quale suppone invece che il ricordo reale continua a esistere, intatto, nelle
profondità della psiche, oscurato da rappresentazioni secondarie. Nella prospettiva cognitivistica,
invece, non si può parlare di un ricordo reale, che sarebbe celato dal falso o dall’oblio: il lavoro di
plasmazione degli schemi è tipico del normale funzionamento della memoria. Tuttavia, la
psicologia cognitiva riprende dalla psicoanalisi alcune idee-chiave sui meccanismi che guidano gli
schemi: ad esempio lo “spostamento e la condensazione”. Neisser ha introdotto il concetto di
memoria “repisodica” per indicare la tendenza a ricordare più eventi analoghi come se si trattasse
di un unico episodio: una strategia di condensazione che produce un ricordo falso, con sfumature
di verità. È ovvia la rilevanza di questi temi per le discipline che fanno uso di fonti orali: essi
influenzano la verità della testimonianza e il suo rapporto con il sapere storico o etnografico.
Dunque, la consapevolezza del carattere “costruito” delle memorie ci impedisce di considerare le
testimonianze in un’ottica realista. Ciò che interessa sottolineare è la concezione bartlettiana della
memoria come “sforzo verso il significato”, come interpretazione del passato sulla base di schemi
psicologici connessi alla vita concreta. In questo caso l’atto del ricordare non va inteso separato
dal sociale e culturale. Fondamentale è il concetto durkheimiano di “rappresentazione collettiva”
intesa come una categoria del pensiero che precede l’elaborazione intellettuale e che è radicata
nelle istituzioni e nelle pratiche sociali. L’atto individuale del ricordare è possibile solo sulla base di
quadri sociali che sono logicamente antecedenti a qualsiasi ricordo. Tali quadri non si limitano a
selezionare i ricordi, piuttosto li producono: quindi non c’è nulla che si conserva e i ricordi sono
ricostruzioni orientate sul presente. Dunque mentre gli “schemi” sono una forma vuota in cui i
ricordi trovano una loro collocazione; i “quadri sociali” non sono semplici strutture cognitive, ma
hanno un forte contenuto di senso che corrisponde al gruppo sociale cui si riferiscono. Il che
significa che la memoria del gruppo è in qualche modo più reale della memoria individuale.
Significa inoltre che, la memoria “interna” cioè i meccanismi psichici del ricordare, non può essere
scissa dalla memoria “esterna”, cioè da quei dispositivi tramite i quali le società incorporano la
memoria del passato in oggetti luoghi o in pratiche. Ci interessa ora analizzare i tre aspetti di
queste analisi sociali della memoria come fenomeno sociale: l’indirizzo di analisi del discorso, le
indagini empiriche sui rituali celebrativi e quelle sull’incorporazione della memoria in luoghi e
oggetti materiali. L’analisi del discorso tende a considerare le pratiche quotidiane di interazione fra
le persone, come l’unica realtà sociologica che è possibile descrivere in modo oggettivo. I costrutti
teorici di cui ci serviamo normalmente non fondano quelle interazioni ma ne sono il prodotto. La
psicologia sociale assume questo punto di vista riprendendo le posizioni di Bartlett, secondo cui la
memoria non è il ripescaggio di informazioni “all’interno”, ma l’attiva costruzioni di resoconti del
passato. L’analisi del discorso invece colloca la memoria “là fuori” all’interno delle pratiche
discorsive e simboliche quotidiane sena considerare l’esistenza di processi mentali come i ricordi.
L’analisi del discorso considera il linguaggio in modo radicale antirealista: esso è uno strumento di
gestione, creazione e mantenimento delle relazioni sociali prima ancora che una forma di
rappresentazione del mondo. Tutti viviamo l’interno di mondi naturali che sono di fatto costituiti
dalle nostre pratiche linguistiche e relazionali. Il costruzionismo sociale richiede uno sforzo di
estraniamento simile all’esperienza antropologica: ciò che generalmente consideriamo normale
deve essere visto come un problema. Il problema della “discourse analisis” non consiste nella
scarsa attenzione al livello soggettivo del ricordare, poiché essa mira a una nuova integrazione del
livello individuale e sociale. Sul piano epistemologico semmai il costruzionismo radicale si scontra
con il problema della verità. Se ogni resoconto sul passato è una costruzione plasmata
dall’esigenze del presente, che ne è del problema della verità del ricordo? Non rischiamo di
sostituire la verità con un accordo consensuale, con le difficoltà che ciò implicherebbe? L’analisi
del discorso forse trascura la possibilità che ogni resoconto del passato vi sia un’autentica istanza
rappresentativa. Un problema che emerge con forza in quella particolare forma di
rappresentazione memoriale che è la testimonianza. Si può testimoniare la violenza o la giustizia
se il nostro racconto del passato non è altro che una costruzione retorica? Senza bisogno di
spingerla alle sue estreme conseguenze epistemologiche, l’analisi del discorso ci mostra come
l’istanza rappresentativa e quella pragmatica convergono nel discorso quotidiano. Pensiamo ad un
lavoro dedicato all’analisi linguistica e relazionare della pratica domestica nel guardare gli album
fotografici di famiglia. Gli attori mostrano in modo convincente, sulla base dell’analisi etnografica,
come al contrario qui sia in gioco la costruzione cooperativa dei ricordi e soprattutto i bambini
imparano a ricordare. Per fissarsi nella memoria di un gruppo “una verità deve presentarsi sotto la
forma concreta di un avvenimento, di una figura personale di un luogo”. I luoghi santi so o il
principale terreno di plasmazione di un passato che gioca un ruolo cruciale per la memoria
culturale cristiana. Agli antropologi, abituati a lavorare in società senza scrittura, l’incorporazione
della memoria in luoghi e oggetti è abbastanza familiare (pensiamo alle vie dei canti nella
mitologia australiana). Un altro esempio è costituito dai “churinga”: oggetti rituali australiani che
rappresentano il corpo di un antenato detenuto dalla persona vivente che ne è la reincarnazione.
La loro funzione è per Levi-Strauss, quella di rendere vero l’essere diacronico entro la sincronia.
Essi sono una manifestazione diretta e materiale del passato all’interno del presente (simili ai
moderni archivi). Sia gli archivi che i churinga incorporano la memoria di un gruppo sociale, in un
senso che va al di la delle specifiche informazioni che veicolano. L’accostamento tra i due trova
tuttavia nella distinzione che LeviStrauss avanza tra due modelli di società: da un lato vi sono le
società calde, come quella occidentale e moderna, che interiorizza risolutamente il divenire storico
per farne il motore di sviluppo; dall’altro le società fredde, che cercano di annullare l’effetto che la
storia può avere sul loro equilibrio e continuità. La contrapposizione tra società fredde e calde, è
uno dei tentativi tramite cui gli studi sociali hanno cercato di evidenziare la trasformazione della
memoria sociale nel passaggio dalla tradizione alla modernità. Alcuni autori l’hanno riletta in
termini di differenza tra “oralità e scrittura” come modalità prevalenti della comunicazione sociale.
Nel primo caso la memoria ha una coerenza rituale, cioè depositata in riti tramandati secondo il
principio della ripetizione; nel secondo si parla di una coerenza testuale che apre lo spazio
dell’esegesi e dell’interpretazione. L’idea-chiave in simili teorie, è che la modernità sviluppa una
consapevolezza della storicità, dello scorrere del tempo, sconosciuto alle società tradizionali. Nora,
ha in mente una discontinuità che si produce negli ultimi due secoli nella cultura di massa: ma il
concetto sui cui lavora, resta quello del passaggio da una comunità che vive un tempo “circolare”,
costantemente immersa nella memoria, tanto da non essere neppure consapevole della sua
esistenza, a una comunità che vive un tempo “vettoriale”, ossessionata dallo sfuggire inesorabile
del tempo, organizzando la propria cultura a produrre memoria. Una dicotomia così netta è
difficilmente sostenibile, cosi come quella tra società calde e fredde, anche se una divisione così
netta non è avvertita dalle scienze sociali. Il concetto di “luogo di memoria” ha avuto un gran
successo per la capacità di aprire nuovi scenari alla comprensione della struttura simbolica degli
spazi sociali e delle pratiche celebrative, in contesti moderni e tradizionali. Si parla oggi di “boom
della memoria” nella storiografia contemporanea, poiché il tema della memoria è divenuto il
concetto centrale attorno al quale si organizzano gli studi storici, una posizione un tempo occupata
dalle nozioni di razza, lasse e genere. Se la distinzione di Nora tra “ambiente e luoghi della
memoria” è assai dubbia, essa suggerisce però la presenza di diversi livelli di costruzione pubblica
della memoria. Posso risultare più utili in questo caso distinzioni tra memoria “comunicativa e
culturale “, intese come modalità che non si succedono evolutivamente ma coesistono in ogni
aspetto sociale. La prima è basata sulla comunicazione orale quotidiana su un ambito relazionare
ristretto (famiglia). La seconda si determina quando un evento del passato supera la barriera
dell’oblio ed entra nel patrimonio dei ricordi di una comunità; è dunque fortemente
istituzionalizzata, legata alle forme del potere e gestita da specialisti. Dunque mentre la memoria
ufficiale si basa su una riaffermazione della realtà in termini ideali, la memoria vernacolare
esprime il senso di come la realtà sociale è avvertita, non come dovrebbe essere. La sua stessa
esistenza è una minaccia per le espressioni ufficiali. Secondo una diffusa interpretazione il modello
di memoria culturale più diffuso, legato a un’ampia identità nazionale, nasce con le grandi
rivoluzioni moderne, americane e francese. Monumenti, parate militare e civile, comici nei luoghi
pubblici, bandiere e inni nazionali solo gli strumenti che consentono l’immaginazione di una
comunità moderna. Questa plasmazione nazionalista di una memoria comune presuppone una
“condivisione dell’oblio” nei confronti di aspetti scomodi del passato. Il tutto termina dopo la
seconda metà del XX secolo poiché la religione civile degli stati-nazione che venerano se stessi
attraverso il proprio passato, è messa in discussione dai disastri della seconda guerra mondiale; e i
movimenti degli anni 60indirizzano la loro critica proprio contro le istituzioni fondanti la memoria
culturale del nazionalismo. Inoltre la globalizzazione apre nuove possibilità alla costruzione di
memorie e identità cosmopolite ed etniche, transnazionali o particolaristiche. A causa della
polverizzazione e desacralizzazione della vita pubblica nascono delle personalizzazioni delle
pratiche di memoria: coltivare memorie autobiografiche o familiari, prima prerogativa dei ceti
aristocratici, diviene un fenomeno di massa. È come se indebolendosi le forme pubbliche e
istituzionali delle memoria culturale, la funzione del ricordare passasse sugli individui. Si conserva
di tutto, anche grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie. Nell’incertezza su cosa sia più
importante si mette da parte tutto e ci si sente in dovere di farlo, come se le nostre esperienze
perdessero importanza. In una certa misura si vive in funzione della futura memoria: si cercano
cioè, ad esempio nell’ambito del turismo, certe esperienze con l’obiettivo di poterle poi ricordare e
narrare. Alla narrazione nazionale del passato, si sostituisce la moltitudine delle narrazioni
autobiografiche. Concludiamo questa rassegna, accennando alcuni problemi che emergono dalle
correnti di studio qui esaminate: si parla spesso di “eccesso di memoria” che riguarda anche la
produzione storiografica e antropologica, anch’esse inevitabilmente coinvolte nei processi sociali
di produzione di memorie in quanto produttrici scientificamente accreditate di resoconti sul
passato, sulla tradizione e sull’identità culturale. Mentre gli storici studiano la memoria diventano
consapevoli dei complessi processi culturali tramite i quali essa si costituisce e sono chiamati a
testimoniare la semplice verità del passato; in questo ruolo si trovano anche a competere con il
“testimone”, figura-chiave nella memoria culturale dell’Occidente. Nel loro ruolo di specialisti nella
gestione pubblica della memoria, storici e antropologi si trovano inoltre coinvolti in un altro
dilemma relativo al tema dell’ “identità”. Come è evidente, quella che un gruppo sociale definisce
come propria identità, si concretizza elle produzioni della sua memoria collettiva. Reificata o
essenzializzata, l’identità è intesa come una sorta di proprietà dei gruppi sociali; e in quanto tale è
strumento di politiche di chiusura ed esclusione, ideologia a sostegno di xenofobie e di conflitti
etnici. Il problema è dunque: in quale misura storici e antropologi si fanno complici di tutto ciò,
seppur inconsapevolmente. Lo stesso concetto di “patrimonio culturale” si fa partecipe di questa
ambiguità o implicita complicità: esso corrisponde a più comuni esigenze e incorpora tratti
comuni. Ci confrontiamo gli uni con gli altri, le cui somiglianze ignoriamo per sottolineare la nostra
superiorità, creando rivalità e conflitto. La storia è una tra le molte forme di produzione della
memoria “pubblica” , differenziandosi per il suo carattere “freddo” da quelle “culture del ricordo” i
cui contenuti sono sempre in relazione con l’identità del gruppo che ricorda. Partecipare alle
pratiche di costruzione della memoria pubblica restando consapevoli dei complessi meccanismi
che li costituiscono meccanicamente e politicamente nel presente, è il difficile comito che
accomuna storici e antropologi.

11-IL DONO FRA ECONOMIA E ANTROPOLOGIA


In antropologia si parla di “dono” a proposito di varie forme di scambio, di beni non riducibili alla
logica del mercato. In esse sembrano venir meno i due principi cruciali della vita economica
moderna: la ricerca dell’utile e la legge dell’equivalenza del valore. Nel dono non esiste il concetto
di “prezzo giusto”: si lotta per dare di più o per distruggere, non per guadagnare. E scienze
economiche del ‘900 tendono a considerare due principi: il primo, è un concetto utilitarista, lo
scambio e il comportamento economico sono motivati dalla ricerca dell’utile, per se o per la
propria società; di conseguenza, secondo principio, le forme dello scambio possono essere
descritte attraverso modelli formalizzati, di validità universale. Gli antropologi hanno difficoltà a
tener fermi questi principi perché mettono in discussione l’esistenza di una dimensione economica
“autonoma”. Se magia e religione sono state i terreni cruciali nella messa in discussione della
razionalità epistemologica, lo scandalo della razionalità economica è stato il dono. Nella prima
metà del ‘900, Mauss a proposito del dono, nel suo saggio parla di varie forme di scambio di beni
di prestigio che chiama “prestazioni sociali totali” che rintraccia nelle società arcaiche. I tratti
comuni a queste istituzioni culturali sono i seguenti: la transazione è una pratica pubblica e
influenza in profondità i rapporti sociali tra le parti dello scambio; si tratta di forme di scambio non
legate a una logica di mercato baratto; non vi sono accordi contrattuali, ma tradizioni che regolano
gli scambi. Affinchè la catena non si interrompa, occorre che ciascun dono sia accettato e
ricambiato. In quanto scambi, si tratta di pratiche economiche nelle quali si intrecciano tuttavia
altre dimensioni come quella giuridica, politica, religiosa, morale: da qui la definizione di fatti
sociali “totali”. Il saggio si sofferma in particolare su alcuni casi etnografici, a partire dal Kula delle
isole Trobriand studiato da Malinowski, in cui lo scambio di oggetti preziosi è un’attività di
suprema importanza. Durante i viaggi, kula si vendono o barattano anche altre merci, ma lo
scambio dei gioielli avviene al di fuori dell’ambito mercantile: implica uno spirito di dono e una
tendenza al rilancio, nel senso che chi riceve un oggetto cerca di ricambiare con uno ancora più
prezioso. Ciò che ci interessa in questi casi è che lo scambio è posto al servizio della costruzione di
relazioni sociali. Spesso si parla di “hau”, o spirito della cosa donata, che vuole tornare da dove è
partito incarnandosi nel “contro-dono”, ciò significa che il vincolo che si stabilisce attraverso le
cose è un “legame di anime”, perché la cosa stessa ha un’anima. Mauss utilizza una scala di
comparazione universale, un metodo comparativo molto diverso da quello degli evoluzionisti: non
un accumulo di dati somiglianti, ma l’accostamento di casi cruciali, ciascuno dei quali contribuisce
a comporre un modello ideale di “dono” che non esiste in realtà. Inoltre definendo “dono” queste
prestazioni, Mauss le paragona a ciò che noi oggi intendiamo con regali o scambi gratuiti. Mauss
proietta inoltre, il rapporto tra dono e mercato su una scala storica: il dono sarebbe stato represso
dallo sviluppo del mercato, che subordina ogni forma di scambio al principio dell’equivalenza del
valore. In esso non c’è dunque bisogni di un rapporto particolare tra chi da e chi riceve. Di
orientamento socialista, Mauss ritiene che le riforme sociali dei suoi tempi, le nascenti forme di
assistenza statale rappresentino una rinascita moderna del dono. L’intervento pubblico o statale
riporta nell’economia quell’elemento morale che era stato cancellato dal mercato. Gli anni in cui
viene pubblicato il saggio sul dono vedono un’accentuata attenzione dell’antropologia per gli
aspetti economici delle culture “primitive”. Malinowski ritiene che il modello utilitarista del “homo
oeconomicus” non basti a comprendere pratiche come il “kula”. Nei suoi lavori nelle Trobriand
cerca di mostrare la razionalità del sistema economico locale e la complessità delle forme di
scambio, convinto di poter applicare ai contesti indigeni le stesse categorie dell’economia classica.
Al contrario di Mauss, altri antropologi sono meno interessati alla questione del legame di anime:
nella loro prospettiva al concetto di dono, si sostituisce quello della “reciprocità”. Nel clima
funzionalista degli anni ’30-’40 la reciprocità è pensata come una logica profonda di organizzazione
degli scambi che tiene in equilibrio il sistema economico delle società primitive, in assenza di
istituzioni statali. Qualcosa di analogo alla “mano invisibile” di Smith in relazione al libero mercato
che trasforma i vizi privati in pubbliche virtù, vale a dire la ricerca egoistica del proprio interesse in
un bene comunitario. In questo modo però la tematica maussiana finisce per essere piegata a
un’interpretazione diversa da quella del “Saggio sul dono”. Quest’ultimo intendeva sostenere una
visione anti-unitarista; la nozione funzionalista di reciprocità presuppone invece agenti economici
guidati da una razionalità di tipo utilitario, volta al profitto individuale. A metà del ‘900 la
reciprocità è al centro di molti dibattiti antropologici, e gli obiettivi del comportamento economico
e la natura dei soggetti che lo praticano, non sono costanti pre-culturali, ma dipendono dai
mutamenti storici della cultura e della società. È la tesi “sostantivista”, che si contrappone alla
tendenza formalista dell’economia classica, convinta invece della universale applicabilità di
modelli economici normativi a ogni possibile contesto. Per Polanyi la reciprocità è una delle tre
principali forme di integrazione dell’economico nel sociale, insieme alla redistribuzione e al
mercato: come Mauss anch egli la caratterizza come uno scambio in cui la costruzione di legami
sociali è fondamentale. M la teorizzazione più celebre della reciprocità è quella di Levi-Strauss che
negli anni ’40 la pone al centro della sua teoria delle strutture elementari della parentela, in cui
riconosce a Mauss di aver intuito il principio strutturale della reciprocità; pensa però che non sia
riuscito a formularlo fino in fondo proprio perché sviato dalla questione dello hau. Dunque è lo
scambio che costituisce il fenomeno primitivo, non le operazioni distinte in cui lo scompone la vita
sociale. Obiettivo dell’antropologia è proprio cogliere la struttura profonda, generatrice di tutte le
possibili manifestazioni dello scambio. La reciprocità levistraussiana è una struttura generativa che
non ha nulla di etico, al contrario di Mauss. Nello strutturalismo dagli anni ‘5’ agli anni ’70, la
lettura di Levi-Strauss è decisamente dominante, ma non mancano altre prese di posizione
favorevoli allo hau. La grande scoperta del “Saggio sul dono” è che nelle prestazioni totali “le cose
sono correlate in quale misura come persone, e le persone come cose”: un principio che sfugge
alla moderna antropologia economica, che si è razionalizzata e ha cercato di evitare simili forme di
animismo. A partire dagli anni ’80 del ‘900 il dibattito sul dono esce dai confini dello specialismo
antropologico; dono diviene categoria centrale di una riflessione etico-politica sui limiti
dell’economia di mercato, del consumismo e del modello sviluppo liberista. Il principale
protagonista di questo percorso è una rivista-movimento che nella denominazione richiama
Mauss, “Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali”. Mauss concepisce la modernità come un
processo di differenziazione progressiva tra categorie che porta a separare l’economico dal
religioso e dal sociale. Per questo una legislazione sociale basata sull’azione di associazioni,
sindacati e istituzioni i dello Stato, può apparirgli come un ritorno a una morale di gruppo, che
inverte il processo storico di isolamento dell’individuo. Qui sta il punto di incontro, ma al
contempo la maggior distanza rispetto a Mauss: lo Stato, come il mercato, è un meccanismo anti-
dono, entrambi regolano le relazioni umane e la circolazione di beni. La modrnità accarezza il
progetto di un legame sociale pure, alleggerito dal peso improprio della circolazione di beni e
servizi, nonché delle identità economiche e giuridiche: ridotto dunque a puro amore o a pura
affettività. Ma questi meccanismi non riescono mai completamente a modellare ed esaurire i
rapporti personali, i quali continuano a scorrere come una corrente sotterranea, seguendo una
loro logica, diversa da quella della costituzione economico-giuridica. Si può dunque affermare che
il dono, apparentemente scomparso (non si fa nulla per nulla) in realtà nella modernità stessa, si
trova ovunque. Godbout, si rende conto che, storicamente, la razionalizzazione moderna è un
passo in direzione dell’uguaglianza e della democrazia: impostando la socialità come insieme di
relazioni formalizzate tra soggetti astratti, essa soppianta le relazioni di dipendenza diretta, come
la servitù. Ritiene tuttavia che il prezzo pagato sia troppo alto, implicando la rottura delle reti
comunitarie e delle forme più dirette di legame. Ma perché ciò avviene? Stato e mercato
presuppongono soggetti e relazioni astratte: chiedono che per muoversi nella sfera economica,
giuridica e amministrativa gli attori si astraggano dalle relazioni e vincoli locali, producendo
continue rotture senza per questo perdere la capacità di ricostruire delle relazioni. Si può
riconoscere che lo Stato-mercato e il dono rispondono a delle logiche diverse, ma i meccanismi
della modernità ridefiniscono gli spazi e i tempi delle relazioni primarie e dello spirito del dono, ma
non li soffocano. La fase più recente degli studi socio-antropologici sul dono, si caratterizza proprio
per un approccio “continuista”: da un lato documenta le forme del dono e della reciprocità,
nonché studiare i modi in cui il mercato globale penetra nelle tradizionali economie, integrandosi
con esse senza cancellarle; dall’altro lato apre un filone di studi etnografici del mercato stesso. Per
quanto riguarda il primo punto, dagli stessi lavori di Godbout e del MAUSS, emerge una grande
quantità di “pratiche di dono” presenti nella modernità. Possiamo suddividerle in alcune grandi
categorie: a) i dono cerimoniali come i doni di nozze, di natale, di compleanno… che costituiscono
una fetta importante dell’economia reale ma esplicitamente finalizzare a rafforzare i legami sociali
(nascono quindi come merci, prima di trasformarsi in doni e si incartano cancellando il prezzo
proprio per sottrarli al circuito commerciale); b)i doni in famiglia, non monetarizzati o sottoposti a
calcoli o equivalenza, perché quando si comincia a parlare di chi ha ricevuto o doto di più, significa
che la relazione si sta esaurendo. Non è d’accordo Mary Douglas, secondo la quale la famiglia
funziona come una comunità organica impegnata nel compito di gestire i beni comuni. In ogni caso
si tratta di un’economia che prescinde dalla logica del mercato. C) il volontariato e i settori no-
profit dell’assistenza e dell’economia. Sono attività che nelle società di mercato, hanno un ruolo
rilevante poiché offrono servizi che ne il mercato ne lo Stato riuscirebbero a garantire. Per
funzionare hanno bisogno non solo della generosità degli associati, ma anche di intrecci con il
mercato e i servizi pubblici. d) si possono collegare sul versante del dono anche le forme di
economia consapevolmente etica, come il commercio equo e solidale e il consumo critico, nonché
di condivisone di beni al di fuori dei circuiti mercantili. Si tratta di scambi nei quali gioca un ruolo
importante l’idea della reciprocità e un’attenzione alle relazioni umani che va oltre l’interesse per
il valore astratto; e) un campo interessante di scambio sottratto al mercato, è quello della
donazione del sangue, degli organi, dei tessuti e delle cellule staminali a fini medici. In molti Paesi
di questi beni, i ammette solo una donazione volontaria, gratuita e anonima. Occorre però
osservare che questi “regni del dono” non si presentano come campi protetti e incontaminati,
interagiscono costantemente con il mercato e con lo Stato e spesso raggiungono i proprio obiettivi
proprio grazie a questi. Ad esempio, è certamente una pura logica di solidarietà, a motivare i
donatori di sangue; ma se il sangue sonato non fosse preso in carico da un complesso sistema di
trattamento, controllo e distribuzione, gestito dalle istituzioni sanitarie, quel dono non servirebbe
a nulla e sarebbe inutilizzabile. Inoltre, non è vero che si scambiano dono per saldare le relazioni
d’affari? e che alla fine dell’anno si danno regali alle maestre? Non c’è ne affatto bisogno, ma con il
dono si vuole segnalare che in quel rapporto c’è stato qualcosa di più di quanto previsto dal
contratto di lavoro: una rapporto umano al di là dei diritti e dei doveri. Il mercato e il dono non
sono dunque polarità opposte, ma sistemi di regole che si compenetrano costantemente nella vita
sociale.

12-CULTURE GLOBALI E LOCALI


Prima ancora che la critica epistemologica, sono stati i mutamenti storici a farci pensare le culture
come a configurazioni ibride che si mescolano tra di loro. È dunque comprensibile che la
globalizzazione sia uno dei temi prevalenti dell’antropologia contemporanea. Vi sono numerosi e
contrastanti definizioni della “globalizzazione”, si può tuttavia affermare “il flusso crescente di
commercio, finanza, cultura, idee e persone”, consentito dagli sviluppi delle tecnologie di
comunicazione e di trasporto. Questi flussi di circolazione non sono una novità, sono anzi una
caratteristica essenziale dell’economia capitalistica. Si tratta tuttavia di globalizzazione, quando i
flussi assumono dimensioni tali, da indebolire le istituzioni classiche della modernità. La
globalizzazione è un processo complesso e multiforme, si possono distinguere almeno cinque filoni
di studio: a) Gli studi sulla globalizzazione economica che riguardano il piano della produzione, del
consumo e degli scambi finanziari; b) gli studi sulla globalizzazione politica; c) gli studi sui nuovi
flussi migratori; d) gli studi sulla globalizzazione della cultura e dei flussi comunicativi; e) gli studi
sulle nuove gerarchie sociali e sui rapporti di potere e di disuguaglianza, che si formano in un
contesto di interdipendenza mondiale. Le più note teorie sulla globalizzazione sono quelle che
privilegiano la dimensione economica. Wallerstein, aveva coniato il concetto di “sistema-mondo”
per indicare la scala planetaria dei rapporti che caratterizzano lo sviluppo del capitalismo, dal ‘500
ad oggi. la sua idea è che il capitalismo non può essere studiato a partire da unità di analisi
ristrette, perché i rapporti di potere che esso definisce sono sempre di scala mondiale. Il
capitalismo si sviluppa come un sistema unitario e le divisioni tra gli stati non lo indeboliscono.
Wallertein non crede che la globalizzazione rappresenti un fenomeno nuovo di radicale
discontinuità, la vede però come sintomo di una crisi irreversibile che potrebbe distruggere
l’intero sistema attorno alla metà del XXI secolo. Altri economisti ritengono invece che il
capitalismo globale sia qualcosa di diverso da quello mondiale: non si tratta si economie nazionali
che si connettono attraverso l’economia, ma di un’integrazione funzionale degli stessi processi
produttivi e delle classi che ne sono protagoniste su un piano transnazionale. Molti evidenziano la
formazione di un’élite globale che gestisce le principali sfere di governo. La spersonalizzazione del
potere e il suo allontanamento dai contesti concreti della vita sociale, svuota di contenuto le
procedure democratiche. Dunque, la globalizzazione aprirebbe la strada a nuove forme di
totalitarismo. Saremmo di fronte a una nuova forma di sovranità legata al declino degli Stati-
nazione che gli autori interpretano in senso foucaultiano: cioè come un potere radicato, più che in
specifici individui o gruppi, in dispositivi tecnici che risultano costitutivi degli individui stessi.
L’impero non solo amministra un territorio e una popolazione, ma vuole creare il mondo reale in
cui abita; non si limita a regolare i rapporti umani, ma cerca di dominare la natura umana. Fin qui,
abbiamo considerato teorie di orientamento marxista o neomarxista che collegano la
globalizzazione in una dimensione economico-politico. Altri contributi di carattere economico,
pongono l’accento sugli sviluppi tecnologici come motore della globalizzazione: particolarmente
nota è la nozione di “età dell’informazione”, secondo cui è la tecnologia informatica a creare un
nuovo modello di sviluppo basata sulla produzione e lo scambio di beni immateriali. La nuova
economia che ne risulta è basata sull’informazione e sull’innovazione, più che sul possesso di
capitali fissi. Internet diviene il modello più preciso di questa nuova economia, oltre che un nuovo
ambiente comunicativo che trasforma il virtuale in una realtà. Ci troveremo dunque in un’ “età
dell’accesso”: la proprietà di strutture materiali, appare più come un intralcio che ostacola la
flessibilità e le possibilità di seguire un mercato in continua evoluzione. Tutto ciò muta la natura
delle relazioni e del divario fra classi. Oltre che da flussi economici e finanziari, la globalizzazione è
costituita da flussi di persone, merci e comunicazioni. Consideriamo ora la dimensione
demografica, il cui aspetto più spettacolare consiste nei grandi movimenti migratori tra le aree più
povere del mondo verso quelle che presentano maggiori opportunità di lavoro e un maggiore
tenore di vita. Tuttavia, nella fase della globalizzazione i flussi demografici assumo caratteristiche
nuove in quantità e qualità: si è soliti riferirci a queste caratteristiche in termini di passaggio da un
modello “internazionale” ad uno “transnazionale” di migrazione. “transnazionale” si riferisce alla
costruzione di legami stabili che attraversano i confini nazionali, grazie alla relativa facilità ed
economicità di trasporti e comunicazioni. Negli studi sulle migrazioni si è a lungo parlato di
fenomeni diasporici per indicare lo spostamento permanente di gruppi compatti che nei luoghi di
destinazione mantengono rapporti forti con le proprie origini, grazie ai media. Gli spazi
transnazionali, non sono da intendersi solo come possibilità di preservare le proprie origini, ma si
tratta di spazi terzi, nuovi, diversi, sia dalla cultura si origine che da quella di arrivo. Le politiche di
“assimilazione” tendono ad assorbire i gruppi migranti, cancellando i loro tratti di origine,
uniformandoli alla cultura di destinazione; quelle basate sul “riconoscimento”, ammettono e
tutelano un certo grado di diversità. Questa contrapposizione coincide in parte con quella fra
“melting pot” e “salad bowl” usate in riferimento ai modelli di integrazione delle diverse
componenti etniche negli USA. In spazi geografici e sociali radicalmente contratti, in cui i gruppi
migranti non sono più separati dalla società d’origine, sia l’assimilazione che il riconoscimento non
hanno più lo stesso significato: gli spazi transnazionali non sono costituiti solo dai più classici flussi
migratori, come i lavoratori che si spostano nelle aree più industrializzate, sui livelli più alti della
scala sociale vi sono sfere professionali basate su rapporti in larga misura trasversali ai confini degli
stati: manager e operatori finanziari, ONG, giornalisti, scienziati e intellettuali che sviluppano un
qualche tipo di cosmopolitismo. Le culture legate a tali sfere diventano “transnazionali” sia quando
gli individui coinvolti fanno veloci incursioni da una casa madre a molti altri luoghi, sia nel caso che
essi lascino le loro basi, per periodi più lunghi nel corso della vita. Ovunque vadano troveranno
qualcuno pronto a interagire con loro. Tuttavia queste “sfere alte” sembrano meno propense a
produrre ibridazione culturale perché strutturate da modelli egemonici tipici delle classi dirigenti.
Ancora più complesso è il caso del turismo che propone spostamenti occasionali di ampie masse
su scala globale. La distanza spaziale è sempre meno importante nella programmazione delle mete
turistiche, specie dopo l’introduzione dei voli low-cost, salvo alcune mete considerate pericolose.
Non è che viaggiare rappresenti di per se un’esperienza transnazionale, eppure le reti
organizzative costruite attorno al turismo produco spazi transnazionali di sempre maggior rilievo.
Si pensi ad esempio ai villaggi turistici o alle navi da crociera, dove si raccolgono persone
provenienti da decine di paesi diversi: si tratta in questi casi di luoghi artificiali creati per il mercato
del tempo libero. Le grandi mete turistiche sviluppano così le caratteristiche di luoghi di frontiera,
dove figure o istituzioni particolari (guide, albergatori, ristoratori) mediano tra la cultura locale e
quella degli ospiti, dando luogo a configurazioni ibride. Gli studi più recenti sui flussi demografici
transnazionali, hanno messo a fuoco una grande qualità di fenomeni, come la mobilità legata ai
conflitti, alla persecuzione politica e a quelle “nuove guerre” che fanno della popolazione la
principale vittima. Nello spazio-tempo contratto del villaggio “globale” i beni e le persone circolano
più rapidamente e fluiscono in modo più libero, ma sono soprattutto i segni e le comunicazioni a
diffondersi in tempo reale. Sono numerose le teorie che cercano di evidenziare come i flussi
globali di risorse culturali mutino l’esperienza quotidiana e le strutture antropologiche, i modi di
vivere nel tempo e nello spazio, le relazioni sociali e i rapporti di potere. Il discorso sulla
globalizzazione coincide in parte con quello sulla Postmodernità che allude ai cambiamenti nei
modi di intendere la storia e il progresso. L modernità classica si è nutrita di “grandi narrazioni”
che pretendevano di conferire un senso unitario alla realtà ed indicare una strada obbligata per il
futuro. Quello post-moderno è invece un pensiero che non pretende di scoprire fondamenti
unitari e totalizzanti della storia, ma accetta la frammentazione e l’irriducibile molteplicità
dell’esperienza. La fortuna del termine post-moderno ha spinto ad utilizzarlo anche in senso
sociologico, in grado di esprimere la discontinuità tra il presente globalizzato e la modernità
classica. Alcune teorie intendono la globalizzazione come una radicalizzazione di elementi già
presenti nella modernità, come l’individualismo e l’indebolimento dei legami comunitari. Altre
teorie evidenziano invece un totale rovesciamento delle caratteristiche che i modelli sociologici
classici, come quelli di Weber, attribuivano alla modernità; particolarmente importante è il
fenomeno delle “de-differenziazione” delle sfere dell’agire sociale. Nella visione weberiana, la
modernità produce una sempre più netta differenziazione tra i tipi di attività, istituzioni, tempi e
spazi della vita sociale. La distinzione tra privato e pubblico, tra lavoro e tempo libero… la vita
sociale si svolge all’interno di sfere istituzionali, ciascuna caratterizzata da linguaggi specifici. Ora
se la globalizzazione comporta la perdita dei confini, ciò sembra riguardare anche i confini delle
sfere dell’agire, tra il pubblico e il privato. Assai evidente è la confusione tra i confini tra le sfere
alte e basse della cultura. È stata l’evoluzione dei “palinsesti televisivi” a fare da avanguardia: qui
le forme serie e quelle leggere si sono fuse, l’informazione si è lasciata assorbire dallo spettacolo.
Ma dall’ambiente mediatico, la de-differenziazione è passata al mondo reale, anche se in misura
meno radicale. Un esempio è l’università in quanto istituzione del sapere scientifico, vero e serio. Il
ricorso di molti atenei a testimoniale del mondo dello sport, della moda ecc è sintomo di una
labilità di confini che pare ad alcuni necessaria, mentre per altri rappresenta il tradimento di un’
originaria vocazione. Ma è forse nel mondo della politica che la de-differenziazione ha prodotto i
cambiamenti più evidenti, proponendo la commistione di generi e codici comportamentali,
linguaggi e personaggi impensabili nella modernità classica. Un ulteriore tratto del modello
weberiano di modernità che sembra invertirsi con la globalizzazione è il “disincanto del mondo”: il
processo di secolarizzazione inteso non come declino della fede o delle religioni, ma come
separazioni di queste dalla politica. Dagli ultimi decenni del ‘900 tuttavia si è iniziato a parlare di
un’inversione di tendenza di un “reincanto del mondo”. Nelle grandi religioni si sono fatte di
nuovo strada istanze mistiche e miracolistiche, con il ritorno in molti paesi islamici a un rapporto
strettissimo tra politica e religione. Le teorie sulla globalizzazione culturale cosi come quelle sul
post-modernismo, tendono a disporsi attorno a due contrapposte posizioni: da un lato si considera
la globalizzazione come il frutto di grandi “forze omogeneizzanti” che si espandono nell’intero
pianeta, diffondendo alcuni tratti culturali e cancellando le differenze; dall’altro si sottolinea invece
la capacità dei contesti locali, di reagire alle forze omologanti, rivitalizzando certe differenze e
creando di nuove. Le teorie dell’”omologazione” pensano alla globalizzazione come la
prosecuzione a un più alto livello dell’imperialismo culturale, imponendo il consumo di prodotti
occidentali e l’assunzione di modelli culturali egemonici. Si tratta di un processo si acculturazione
imposto dalla cultura dominante. È una prospettiva ben riassunta nel concetto di
“mecdonalizzazione” della società. Una pratica che tende ad espandersi in altre sfere producendo
forme di mec-lavoro, mec-università, mec-cittadini ecc. Per Ritzer è la prevedibilità la caratteristica
criciale di questo tipo di consumo: i consumatori sanno perfettamente cosa aspettarsi, dalla
qualità del cibo, all’atteggiamento del personale. Tutto è accuratamente programmato in serie a
livello internazionale. Ritzer parla oggi di una “globalizzazione del nulla” dove per nulla si
intendono forme sociali prive di contenuti distintivi; l’esatto contrario del concetto antropologico
di cultura. In questi casi l’analisi etnografica non riveste particolare importanza, non ci sono più
culture locali da cogliere e descrivere; tutto quello che si può fare è individuare le macrostrategie
dei grandi gruppi economici e denunciare la loro tendenza a imporre consumi e comportamenti.
Alle teorie dell’omologazione, si affiancano quelle dell’ “eterogeneità o ibridazione” in cui
l’interesse si sposta sul modo in cui le forze economiche interagiscono con i contesti locali,
modificandoli ma venendo a loro volta modificate. Altri studiosi hanno parlato di un “effetto
karaoke”. Sono soprattutto i prodotti americani o occidentali, ma diffondendosi essi vengono
anche “indigenizzati” e non è infrequente che i tratti culturali locali vengano rivitalizzati in
un’ottica di resistenza o patrimonializzazione: la diffusione dei McDonald non ha cancellato i odi
locali di mangiare e cucinare; spesso è anzi accaduto che a fronte della invasione dei fast food,
siano stati ripresi e valorizzati cibi tradizionali, entrati poi in circolazione sul piano globale. Per
cultura “mondiale”non si intende “una replica uniforme di modelli unici”, ma un’organizzazione
della diversità, si è parlato di una “struttura comune di differenze, di una cornice unitaria al cui
interno si esprime l’eterogeneità”. Appadurai vede la globalizzazione come il campo d’azione di
forze diverse, che si aggregano in cinque grandi dimensioni: a) ethnoscapes, il panorama dei
gruppi in movimento, come lavoratori, rifugiati, turisti; b) technoscapes, configurazione globale
della tecnologia che si muove ad alta velocità attraverso i confini; c) financeeschapes, movimenti
del capitale globale; d) mediaschapes, il grande panorama della produzione mediale e
dell’informazione elettronica, che fornisce all’umanità vasti repertori di immagini e narrazioni; e)
ideoschapes, scenari di valori, ideali politici, ideologie, modi di immaginare la libertà, il potere e la
democrazia. Si tratta di forze che spingono in direzioni diverse, spesso contrastanti e gli agenti
sociali si muovono in questi campi per costruire mondi immaginati in cui le costrizioni economiche
e politiche non sono meno forti che nel nazionalismo classico; ma più ampia è la gamma di risorse
cui attingere per immaginare i propri orizzonti esistenziali. Le teorie di omologazione colgono
dunque alcuni aspetti importanti dei processi di globalizzazione, ma non analizzano i modi in cui
essi influiscono i contesti locali. Per l’antropologia questa influenza deve essere studiata
empiricamente volta per volta. Di fatto l’analisi antropologica ed etnografica è sempre riferita a
una qualche unità i luogo, per quanto possiamo oggi intendere il concetto in modo
deterritorializzato: vale a dire riferita a reti concrete du legami sociali. Il perfetto cosmopolita che
si trova bene in qualunque luogo, non esiste. Le risorse possono circolare su scala mondiale, ma
sono consumate e acquistano significato in mondi locali. Pensiamo a internet e alla comunicazione
online: per gli adolescenti la comunità virtuale coincide con quella reale. Abbiamo già parlato
dell’ambito dei cultural sturies: pensiamo a serie tv come “Beautiful” di produzione
nordamericana, prodotti fortemente standardizzati che rappresentano stili di vita alti,
standardizzati e stereotipati. La loro distribuzione sulle tv di tutto il mondo appare come una
classica operazione di “imperialismo culturale” eppure ci troviamo di fronte a meccanismi di
“indigenizzazione” che producono diverse attribuzioni di significato. Questi esempi, mostrano
come l’antropologia non possa fare a meno di affrontare il campo della cultura e del consumo di
massa. Tuttavia, per criticare la globalizzazione bisogna prima capire cosa significhi per la vita della
gente: per questo non possono bastare le visioni sul sistema mondo, ne le nuove filosofie della
storia proposte dalle teorie totalizzanti.
13- SPAZIO, LUOGO, CITTA’
Il tempo e lo spazio sono due grandi categorie dell’esistenza umana: universali per certi aspetti ma
anche plasmati dalle culture che vi introducono differenze. Si tratta dunque di campi privilegiati
per l’analisi antropologica. Dopo aver evocato il concetto di tempo storico (capitolo 10) parleremo
ora dello spazio. L’antropologia culturale compie ricerche su territori specifici. Che si tratti di
distanze fra Occidente o paesi esotici, o fra il mondo urbano e le campagne, essa ha quasi sempre
fondato il suo lavoro sullo spostamento verso un altrove più o meno lontano. La descrizione
dell’ambiente negli studi antropologici, può avvenire in forma soggettiva, ad esempio riportando le
impressioni dell’etnografo che arriva sul campo, oppure in forma più oggettiva, citando dati sul
clima, la geologia, la flora e la fauna. Ma che in che modo si intrecciano le differenze dell’ambiente
fisico e quelle dello società umane che lo abitano? In geografia, spesso si utilizza la distinzione tra
“elementi naturali e antropici” di un paesaggio. I primi sono quelli che esistono
indipendentemente dall’uomo; dei secondi fanno invece parte i centri abitati, le vie di
comunicazione, ecc. dunque. L’ambiente naturale puro non esiste ad eccezione di rare zone
disabitate. Ancor meno esiste un “determinismo ambientale” che modelli meccanicamente il
comportamento umano in base al clima o alla fisicità del territorio. Lo spazio abitato viene sempre
modellato dall’attività umana; tuttavia è importante sottolineare che le caratteristiche fisiche di
alcune zone, non sono l’argomento centrale, ma piuttosto la premessa della ricerca e dell’analisi.
Per questo il tema dello spazio è molto difficile da isolare; tende infatti a sfumare e ad intrecciarsi
a diversi problemi che hanno a che fare con la parentela, l’organizzazione sociale, la religione e la
cultura materiale. Inoltre le culture non coincidono con una precisa porzione di spazio però il
metodo dell’antropologia prevede una “ qualche strategia localizzante”, anche perchè non si
considerano classi sociali in base a certe caratteristiche comuni, ma gruppi di persone in relazione
tra loro. Un’altra caratteristica dello studio antropologico dello spazio sta nel considerare il “punto
di vista del nativo” dalle cui parole emergono delle immagini dello spazio che andranno descritte e
interpretate. Per menzionare alcune delle parole-chiave con cui viene descritto questo
“trattamento dello spazio”, possiamo guardare a come vengono tracciati dei confini, precisate
delle tipologie di spazi e disegnati dei percorsi. Queste dimensioni generali non riguardano solo i
contesti “altri”, cosmologie esotiche, miti e cerimonie. Anche oggetti come il planisfero ci
trasmettono conoscenze sul mondo che derivano da una geografia tramandata che non si limita a
quei territori cui si fa diretta esperienza. Allo stesso tempo influenza la nostra conoscenza di luoghi
più familiari, ai quali viene attribuita una posizione in un ambito più vasto. Ci rendiamo inoltre
conto che all’interno degli spazi della nostra vita quotidiana, passano diversi generi di confini,
molti dei quali hanno naturalmente a che fare con lo status: un certo tipo di gruppo sociale,
detiene o pretende diritti su determinati spazi, escludendone gli altri, oppure limitandone i
comportamenti (pensiamo alle riserve di caccia riservate nel passato, all’aristocrazia).
L’antropologia ha sottolineato come le forme e il funzionamento dei diritti territoriali possano
essere profondamente diverse da quelle alle quali siamo abituati, poiché ci sono modalità diverse
di lettura degli spazi, che attribuiscono meno importanza a una geometria di superfici continue, e
di più a una rete di percorsi e snodi. Il trattamento culturale dello spazio dipende dalla capacità di
istituire tutta una serie di “differenze qualitative”, di principi organizzatori divenuti i “topoi” della
letteratura antropologica: la contrapposizione tra la foresta e l’insediamento, o fra spazi selvaggi e
umani. E i vari modi in cui questi e altri prodotti ordinatori si combinano e si ibridano. Gli sazi
qualitativi dei popoli studiati dagli antropologi, sembrano avere poco in comune con il carattere
geometrico e misurabile che siamo abituati ad associare allo spazio. Non bisogna dimenticare
quanti spazi sacri, solenni, minacciosi siano presenti nelle nostre città e campagne, e quanto poco
il nostro rapporto quotidiano con l’ambiente circostante, si svolga nei termini astratti, formalizzati
e disincarnati, che sono propri di alcuni saperi della nostra cultura. In un’antropologia più recente,
sembra consolidarsi la tendenza a non trattare più il tema dello spazio come lo sfondo della
descrizione culturale, ma come un problema da porre al centro dell’attenzione. Questo può avere
a che fare con il “localismo” ovvero il modo in cui appartenenze e identità locali mostrano una
capacità di riapparire, in forma aggiornata, anche nel contesto della società occidentale e della
globalizzazione. È come se non si affrontasse più la questione vedendo in che modo un
determinato sistema culturale “impatta” su un ambiente e lo “modella”, ma si considerasse invece
lo spazio una dimensione fondamentale della cultura. Nel rapporto tra spazio e luogo si allude alla
dicotomia tra uno spazio “qualitativo e vissuto” e uno spazio “astratto e quantificabile”, o tra uno
spazio “naturale” o “oggettivo” e la percezione soggettiva di esso. Quello che nella tradizione del
pensiero occidentale possiede le caratteristiche di originalità sembra essere lo spazio, mentre
Heideher pensa che la dimensione primaria della nostra esperienza sia un “essere nel mondo” un
abitare concreto, fatto di luoghi, vicinanze e lontananze. Aldilà dei riferimenti filologici la nozione
di luogo più famosa nelle scienze sociali indica un approccio attento alle dinamiche della vita
quotidiana, contro concetti di spazio più astratti e lontani dall’esperienza. Il rapporto non è tanto
con l’ambiente naturale ma con uno spazio costruito, oggetto di determinati saperi scientifici e
tecnici, modellato da rapporti di potere e usi informaliAll’attenzione per la nozione di luogo ha
contribuito anche la nozione di “non-luogo”: se i luoghi antropologici sono identitari, relazionali e
storici, la modernità crea non-luoghi ai quali nessuno può appartenere (autostrada, la stazione, la
metro, il centro commerciale, grandi uffici, banche) nei quali non siamo altro che utenti. Può
accadere che un non-luogo si trasformi in un luogo, qualora vi si sviluppassero delle reti sociali,
oppure ci si potrebbe chiedere se i non-luoghi siano tali per “tutti” poiché ad esempio, in essi si
potrebbero sviluppare amicizie e non semplici rapporti lavorativi. Bisogna dunque immergersi nei
luoghi per capire se ciò che essi rappresentano, per coloro che vi abitano, corrisponde a ciò che
essi risultano a chi li guarda dall’esterno. Dunque si può affermare che nell’antropologia
contemporanea del territorio, dello spazio e del luogo, si mescolano almeno tre obiettivi principali:
-la prima è la più classica, un’etnografia del luogo entro altre tradizioni culturali, che continua a
mostrare come il rapporto tra gli uomini e lo spazio non sia riducibile a qualcosa di naturale o di
pratico. Mostra modelli culturali di rapporto con l’ambiente diversi da quelli che sono considerati
nella nostra società; - la seconda si presenta come un approccio di ricerca fortemente orientato
verso le dimensioni micro della memoria e della vita quotidiana, in contesti più familiari; -la terza,
si concentra sul modo in cui nozioni come territorio, spazio, luogo, sono utilizzati all’interno delle
discipline sociali. “Senso del luogo” è diventato un concetto ricorrente negli studi, a indicare i
processi e le pratiche culturali tramite le quali i luoghi assumono il loro significato. L’attenzione al
senso del luogo mira a cogliere non tanto l’ordine sistematico di una cultura, quanto le dinamiche
che l’attraversano e modificano. Casey riprende l’analisi del rapporto tra spazio e luogo,
presentando quest’ ultimo come il contesto di eventi, memorie, pensieri. Il luogo, qualcosa che è
al tempo stesso fisico e culturale, diventa allora una delle dimensioni essenziali del modo in cui gli
uomini stanno al mondo e istituiscono ambiti diversi, con e per le loro attività. I modo nel quale
costituiamo tipologie di spazi differenti si intreccia con la definizione delle discipline che li
studiano. Al contrario dei villaggi e dei piccoli centri rurali, le metropoli non sembrano adatte agli
antropologi, ma piuttosto a sociologi e urbanisti. Tuttavia moltissimi studi antropologici sono stati
portanti a termine nelle città. Attorno a termini come “città” e “campagna” si concentrano
stereotipi che danno a questa tipologia di spazi un significato temporale: mentre la campagna
rimane agganciata a una dimensione tradizionale, la città tenderebbe al futuro, nel bene e nel
male. Tuttavia, la parola città può trarre in inganno. Il luogo del salto di qualità nel nostro caso,
non è la polis antica, ma la città che emerge dalla rivoluzione industriale, dall’affermazione del
capitalismo. Mentre la “società” è ideale e meccanica, fondata sulla razionalità economica,
rapporti formali e contratti; la “comunità” è reale e organica, fondata su una comunanza di
sentimenti, valori e modelli di comportamento tradizionali. Il punto insomma non è la città, ma a
modernità. Essa produce un ambiente umano specifico: “la grande città”. E se borghi e città
antiche potevano essere comunità, nella metropoli moderna, il modello societario domina per la
prima volta nella storia. In un contesto dominato dall’economia monetaria, dove l’organizzazione
sociale assume forme di una complessità senza precedenti, il singolo è più individualizzato che
mai, e si difende dall’eccesso di stimoli assumendo un atteggiamento scettico e distaccato.
Fondamentali a tal proposito sono i lavori della “scuola di Chicago” i cui aspetti principali sono: -il
legame tra i fenomeni sociali e gli spazi concreti della città; in particolare il cosiddetto “approccio
ecologico” nel quale i diversi gruppi umani si creano un rifugio nel territorio urbano; -l’ “approccio
etnografico”. Le ricerche più famose della scuola di Chicago mettono in campo un’ampia gamma di
metodologie etnografiche, dall’osservazione, all’intervista, all’uso di documenti personali come
lettere o diari, all’esperienza diretta del ricercatore; -non bisogna dimenticare il legame del lavoro
della Scuola con la ricerca di migliori politiche urbane: dal ghetto, alle bande giovanili, dalle
ballerine a pagamento ai luoghi del vizio, appare evidente lo sforzo della Scuola di mostrare mondi
marginali che rispetto a una presunta normalità della vita urbana, risultano inquietanti e
sconosciuti. Da questo punto di vista gli etnografi della scuola di Chicago appaiono come dei
reporter. Tuttavia, proprio perché questi mondi sono spesso sconosciuti, rischiano di essere
descritti in modo schematico o stereotipato. Schematismi dai quali l’antropologia classica non è
esente, ma che al tempo stesso contribuisce a minare, mostrando la complessità delle società
“semplici” e una ricchezza delle differenze culturali che fatica a rientrare entro tali
generalizzazioni. Per quanto la città possa somigliare a un gigantesco meccanismo, vivere al suo
interno non significa sganciarsi necessariamente dai rapporti primari o sviluppare una personalità
distaccata, poiché anche le città possono essere, come gli altri habitat umani, posti adatti agli
antropologi e alle loro strategie di ricerca “dal basso verso l’alto”. Nel 1996 è stato coniato il
termine “ruralcentrico” un atteggiamento che porta ad occuparsi prevalentemente del mondo
contadino e a guardare la città dal punto di vista della campagna, ossia come punto d’arrivo del
processo di urbanizzazione. La scelta di lavorare nelle “società complessi” da ipotesi discussa, è
diventata normalità, e anzi, sembrerebbe bizzarro che un antropologo pensasse a se stesso come
ad uno “specialista di villaggi”. Eppure si riscontra una persistente debolezza di statuto,
accompagnata da una forte disseminazione. In fin dei conti uno studio che indaga i conflitti intorno
all’apertura di un nuovo muse, sarebbe antropologia urbana o del patrimonio. Secondo un’antica
distinzione, in questi come in molti casi, saremmo di fronte a studi realizzati nelle città, non
necessariamente a un antropologia della città. Non a caso l’antropologia urbana è spesso descritta
dai suoi stessi cultori, come un campo che risente di una scarsa elaborazione teorica, incapace di
definire esattamente in che cosa consiste quell’ urbano che dovrebbe identificarla come filone
autonomo. Una delle caratteristiche più evidenti dello studio in città è che qui l’antropologo non è
il principale esperto, ma rispetto agli specialisti di altri discipline potrebbe anzi sembrare uno degli
ultimi arrivati. Il problema è allora quello di riuscire ad armonizzare scale di analisi di ampiezza
diversa, senza relegare l’antropologia in una posizione semplicemente ausiliaria. La possibilità di
parlare di “antropologia urbana” dipende dal fatto che i fenomeni culturali in questione, vengano
analizzati in stretta connessione con forme di organizzazione dello spazio, caratteristiche di ciò che
siamo abituati a chiamare città. Il che significa confrontarsi anche con difficoltà del metodo
etnografico. Troppo moderna e mutevole per il concetto di tradizione, troppo grande per essere
affrontata in blocco, la città sembra destinata a ispirare molti dubbi sull’efficacia dei metodi
qualitativi e di classici strumenti antropologici, come lo studio della parentela. Uno degli approcci
più importanti si può sintetizzare come il tentativo di padroneggiare questi labirinti urbani
prestando attenzione ai percorsi “concreti” degli abitanti. Negli anni ’50-’60 del ‘900 un
importante corpus di studi si sviluppa in Africa sulle città in rapidissima espansione. Quella che
emerge è una situazione nella quale la costruzione delle relazioni sociali, non può funzionare come
nei villaggi di provenienza, anche se alcuni principi tradizionali vengono ridefiniti e utilizzati in
modo nuovo. Questo genere si analisi, in cui vita urbana non vuol dire omologazione, e cultura
non vuol dire semplicemente tradizione, passa per un’attenzione specifica alla vita quotidiana, agli
individui e alle reti che li collegano. Il “network” è definito dalle relazioni sociali riconducibili a un
certo individuo; la sua forma e la sovrapposizione di reti diverse, possono permettere di
individuare principi socio-culturali di costruzione e gestione delle relazioni sociali, senza dover far
riferimento a una compatta e organica, e poco urbana struttura della comunità. Ma anche a
prescindere dalla tecnica del “network analisis”, l’idea dei percorsi, degli intrecci, delle reti, ha
effetti di scoperta non trascurabili. Un altro approccio, apparentemente più semplice, può fare
riferimento alla mappa della città, le sue differenti aree e alle loro specificità. Questa strada porta
facilmente a confrontarsi con l’urbanistica. Gli antropologi hanno spesso rimproverato
all’urbanistica proprio il suo approccio “dall’alto”, la tendenza a progettare la città senza
preoccuparsi del significato dei luoghi per i cittadini, producendo ristrutturazioni e rinnovamenti,
tendenti al controllo o alla sterilizzazione della vita sociale. All’atto pratico, le stesse dimensioni
della metropoli invogliano l’antropologo a scegliere luoghi etnograficamente più padroneggiabili
come quartieri, rioni o singole strade. Ma è una scelta che richiede grandi cautele dal momento
che la vita urbana appare segnata dalla mobilità almeno quanto dalla residenzialità. Perché e per
chi quello spazio sarebbe significativo? Non siamo quasi mai di fronte a un semplice dato di fatto:
bisogna che uno si percepisca come abitante di quella zona e che sia percepito come tale da altri.
In altre parole, c’è un complesso intreccio di rappresentazioni, elaborate da varie prospettive a
dare una forma comprensibile alle aree della città, a permettere che si faccia riferimento a uno
specifico spazio come luogo del proprio abitare. Sia nella forma delle “reti” che dei “percorsi”, che
in quella delle “mappe” e del “senso del luogo”, lo studio antropologico degli spazi urbani sfugge
all’alternativa fra il comunitarismo di presunti villaggi urbani e l’anonimità di un generico
urbanesimo; mette in evidenza economie informali e sistemi di relazione sfuggenti, abitudini
quotidiane, memorie più o meno condivise, conoscenze minute, modi di raccontare la città e il
quartiere, che sfuggono ad altre strategie di ricerca, anche quando non hanno per oggetto il
sottosuolo urbano della segregazione, della marginalità, dell’irregolarità.

14-GUERRA, VIOLENZA E GENOCIDIO


Questo capitolo affronta la questione più inquietante della storia del ‘900: la violenza di passa. Il
secolo che ha visto la decolonizzazione e la globalizzazione, l’emancipazione femminile, uno
sviluppo scientifico e tecnologico senza precedenti, è stato anche il secolo delle “tenebre”.La
violenza di massa nelle sue varie manifestazioni, ripropone l’interrogativo di Primo Levi “se questo
è un uomo”. Bisogna cominciare con l’osservare che da tale problema l’antropologia culturale si è
tenuta a lungo a distanza. Gli antropologi, naturalmente erano coscienti del destino che attendeva
i gruppi tribali. Per un secolo hanno visto un gruppo dopo l’altro sterminato dalle politiche dei
governi, senza fermare la violenza, perché le teorie evoluzioniste dominanti, rappresentavano la
scomparsa degli indigeni come naturale e inevitabile. Gli antropologi, alla fine del ‘900, svolgono il
loro “fieldwork” in aree che il colonialismo ha pacificato, e non pongono al centro
dell’osservazione ne i conflitti con i dominatori, ne quelli “intertribali”. È come se la guerra in
quanto evento storico e contingente, fosse un elemento estraneo alla struttura sociale che si vuole
descrivere nella sua integrità: un anomalo fattore di disturbo che occorre cercare di tenere da
parte per cogliere invece la normalità antropologica. In questa fase classica della disciplina, la
violenza è semmai evocata su un piano più teorico e speculativo. Si manifestano due punti di vista
simmetrici e contrapposti: secondo il primo, detto “hobbesiano”, la natura umana è
tendenzialmente aggressiva e violenta, e la società per funzionare ha bisogno di istituzioni che
tengano sotto controllo le pulsioni aggressive; un secondo punto di vista insiste invece sulla
società e sul potere come fonti della violenza che rappresenta il significato nascosto del potere. È
da vedere se quanto simili teorizzazioni speculative, servano a comprendere le concrete forme
storiche assunte dalla violenza nel contesto coloniale e nei genocidi del XX secolo. Il silenzio della
fase classica sulla violenza, comincia a inclinarsi negli anni ’60, grazie ai mutamenti della sensibilità
antropologica e alle caratteristiche che i conflitti assumono. È il campo stesso a cambiare.
Frequentando i luoghi classici della ricerca antropologica, ci si trova sempre più immersi in contesti
di guerra o in contatto con gruppi che sono stati esposi di recente a guerre e violenze di massa. Si
parla in questi casi di “nuove guerre” all’interno di uno stesso Stato, talvolta su base etnica, la cui
caratteristica cruciale è quella di coinvolgere la popolazione civile. Colpire e terrorizzare le
popolazioni non è più un effetto collaterale, ma l’obiettivo stesso delle strategie belliche. Lavorare
in Africa o in alcune aree dell’Asia significa oggi, incontrare necessariamente situazioni di violenza
o recenti memorie traumatiche. Come abbiamo visto nella prima parte del volume, i modelli
etnografici classici si pongono l’obiettivo di scoprire un ordine culturale, l’ “ethos” di una società,
la coerenza di un modo di vita. ma nelle situazioni di violenza radicale, è proprio quest’ordine che
viene disintegrato. Se l’obiettivo della scrittura antropologica è farci cogliere il punto di vista dei
nativi di fronte alla violenza, si tratta piuttosto di capire il senso della dissoluzione di un mondo
culturale. è come se l’etnografo, abituato a cercare di seguire faticosamente la via che porta al
significato, dovesse adesso ripercorla a ritroso. Il tentativo di capire le ragioni della guerra e della
violenza si avvicina pericolosamente all’obbiettivo di rendere la guerra “ragionevole”: mostrare i
dettagli delle atrocità e i tormenti della memoria di chi è sopravvissuto, l’orrore della tortura,
l’umiliazione e la disperazione delle vittime, colpisce con forza il lettore e tutto ciò può diventare
motivo di denuncia. Ci si chiede allora se la trasparenza etnografica sia un atteggiamento
moralmente legittimo di fronte alla violenza. Naturalmente tacere non serve però a testimoniare,
a rendere o chiedere pubblicamente giustizia per le vittimi. L’equilibrio tra uno sguardo troppo
distante e uno troppo ravvicinato è difficile da conseguire: una possibile soluzione consiste in un’
etnografia centrata attorno alle “voci dirette” dei testimoni, in cui sorgono tuttavia nuove
difficoltà. Intanto, quando i testimoni sono i continuatori della violenza e non le vittime, la
posizione morale del ricercatore si fa ancora più complessa: la tensione tra le convinzioni e il senso
di giustizia dello studioso da un lato, e dall’altro la sua propensione professionale ad empatizzare
con gli informatori e a guardare il mondo dal loro punto di vista, si fa qui fortissima. Cosa succede
quando per studiare la memoria della “guerra sporca” in Argentina, si deve cordialmente parlare
con gli ex torturatori? Il problema della voce dei testimoni ha però una dimensione più ampia, che
riguarda anche il rapporto con le vittime stesse. Eticamente, è più facile sostenere un progetto di
etnografia che si metta al servizio delle vittime preoccupandosi di dar loro voce, ma sul piano della
conoscenza e della comprensione, la voce delle vittime, non rappresenta in se la verità. Questo
problema è stato posto negli ultimi anni dagli storici in riferimento alle memoria della Shoah,
poiché proprio per la sua posizione di protagonista degli eventi, il testimone non può parlarne in
modo oggettivo, come invece farebbe la storia, la quale perde invece sempre più autorità. I
contesti di ricerca sono quelli di individui e comunità impegnate a elaborare un lutto per il quale la
cultura tradizionale non offre risposte adeguate. Il problema dell “antropologia della violenza”
finisce cosi per coincidere con il problema della “memoria traumatica”. Si pone prima di tutto il
problema di un’analisi retorica dei racconti di testimonianza che vanno considerati da un lato,
nella loro natura performativa, dall’altro, nell’intreccio con repertori narrativi e codici culturali
presenti nella tradizione. Lo studio della memoria traumatica si configura da un lato come
tentativo di comunicare con le soggettività ferite, dall’altro ci porta verso un’etnografia delle
forme pubbliche di elaborazione del lutto, delle rappresentazioni simboliche e delle pratiche rituali
che sono mobilitate a tal fine. L’elaborazione del lutto si intreccia spesso con il perseguimento
della giustizia: volte ad accertare giuridicamente le responsabilità e a punire i colpevoli. Ma la
giustizia non può che essere praticata in forme di compromesso perché la società normalizzata che
esce dalla violenza, è sempre divista e conflittuale. La memoria stessa è destinata cosi a restare
divisa, il che significa “complesso rapporto tra giustizia, verità e politica”. La memoria divista sta
anche al centro di un filone di studi italiano che si è sviluppato egli anni ’90, riguardante le
comunità colpite da eccidi di civili da parte delle truppe tedesche durante la seconda guerra
mondiale. Le comunità locali raramente hanno avuto giustizia. Si è detto che un tratto specifico
delle nuove guerre è la loro connessione con politiche dell’identità, vale a dire con “movimenti che
muovono dall’identità etnica, razziale o religiosa per rivendicare a se il potere dello stato”. Nel
linguaggio giornalistico e nell’opinione pubblica occidentale, si è infatti parlato prevalentemente
parlato di “conflitti etnici” indicando che i gruppi in conflitto sono definiti sulla base di
un’appartenenza e di vincoli pre-politici. Di conseguenza, molti antropologi sono intervenuti a
smontare il mito del conflitto etnico globale, che è stato usato dalle parti in lotta, come strumento
ideologico volto ad acquistare consenso e a coprire gli interessi politico-economici. Dunque
l’identità non è la causa dei conflitti, ma semmai la differenza. Non aver compreso questo punto è
stato un grave errore da parte delle istituzioni di mediazione internazionale. Il fatto che i recenti
conflitti etnici si siano verificati in contesti di globalizzazione, può aver contribuito alla loro
particolare atrocità. L’originalità della soluzione di Appadurai sta nel tentativo di legare la furia
della violenza etnica, non a certezze identitarie, ma alle incertezze che il mondo contemporaneo
porta costantemente a sperimentare a proposito delle nostre identità. È sempre meno chiaro se i
nostri vicini o la gente che ci vive accanto facciano parte di “noi” o degli “altri” e questa incertezza
diviene cruciale in situazioni di aperto conflitto, in cui il nemico può nascondersi fra noi. Allora la
violenza può essere considerata come un modo per estrarre “certezze” da una situazione di
“incertezza”. Si apre cosi la strada a un’analisi della sintassi simbolica di specifiche pratiche di
sopraffazione e crudeltà, che non sono viste come pura esplosione di furore “bestiale” e pre-
culturale, ma governate da codici che solo un ampio approccio antropologico è in grado di
cogliere. È qui che l’analisi storica e antropologica possono saldarsi: la violenza presenta spesso un
surplus rispetto alle finalità politiche che persegue e spiccate caratteristiche simboliche e rituali. La
comprensione antropologica non sfugge al contesto e rimanda a specifici modelli culturali, forme
di disciplina e tensioni sociologiche che il contesto stesso inscrive nei corpi e nelle menti dei
carnefici e delle vittime. L’etnografia delle nuove guerre si salda al più generale problema della
comprensione della violenza storica: in particolare della Shoah, delle due guerre mondiali e dei
crimini dei regimi totalitari che hanno caratterizzato il XX secolo. Come sono state possibili simili
tragedie in un secolo democratico, emancipato, decolonizzato e tollerante? Qui non è in gioco solo
un concetto astratto di sterminio, ma la capacità di compiere fisicamente atrocità contro bambini
e donne innocenti. Un lavoro specifico è stato condotto dagli studi di psicologia sociale cercando di
mostrare come in determinati contesti, un ampia maggioranza di individui “normali” possa essere
indotta a compiere violenze e torture. Pensiamo ad esempio ad un esperimento in cui uno
scienziato legittima l’elettroshock come mezzo per rafforzare l’apprendimento: la vittima delle
scosse è in realtà un attore che fa finta di soffrire, ma la maggior parte dei partecipanti non è in
grado di sottrarsi al clima autoriale dell’autorità. Secondo Milgram, in simili situazioni gli individui
vengono a trovarsi in uno stato di “eteronomia”, delegando ad altri la responsabilità dei loro
comportamenti. È un esito inquietante che suggerisce ce chiunque di noi in un contesto come la
Shoah avrebbe benissimo potuto agire da carnefice, convinto della “banalità del male”. Si parla in
questi casi di “continuum genocida”: vale a dire della contiguità dello sterminio di massa con
quelle violenze quotidiane, nascoste e spesso autorizzate che si praticano negli spazi sociali
normativi (scuole, cliniche, pronto soccorso, case di cura, tribunali, prigioni). Questo continuum
rinvia alla capacità umana di ridurre gli altri allo status di “non-persone” o di cose. Tra i crimini di
pace e i crimini di guerra c’è solo un passo e occorre una costante sorveglianza affinchè questo
passo non si compia. Quali contesti sociali trasformano la potenzialità genocida in atto e quali non
lo fanno? Il concetto di “genealogia della violenza nazista” è stato un esempio usato negli studi
dello storico Traverso, che ha mostrato di mostrarne le radici in una serie di fenomeni cruciali e
normali dell’esperienza storica contemporanea. Si tratta di radici ottocentesche, che ancorano il
nazismo alla storia dell’Occidente, all’Europa del capitalismo industriale, del colonialismo,
dell’imperialismo, della rivoluzione scientifica e tecnologica. Il nesso tra questi elementi e la
fenomenologia della violenza che caratterizza la Shoah, ha a che fare con i rapporti tra potere-
corpo-tecnologia. Importante è l’esperienza della conquista e della dominazione coloniale, in
particolare di quella conquista dell’Africa che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo
industriale. In esso trovano una sintesi storica il razzismo, che declassa certi gruppi umani in nome
delle obiettive verità della scienza e la burocrazia moderna. Infine, decisivi appaiono gli sviluppi
della pratica militare che troveranno il loro culmine nella grande guerra, con la formazione di
eserciti di massa composti da soldati-macchina sul modello del lavoro fordista, nei quali il valore
della vita umana perde di significato. Nel costruire una simile genealogia della violenza nazista,
Traverso intende attribuire quest’ultima alla storia dell’Occidente contemporaneo, senza per
questo vedere nel nazismo il naturale compimento di questa storia o la sua essenza profonda.
Questo contesto antropologico ha forse a che fare con la tesi del “continuum della violenza” con
l’idea di uno stretto rapporto tra crimini di guerra e di pace; un contesto che crea le condizioni per
una peculiare qualità della violenza di massa, ma pone allo stesso tempo le basi per pratiche
sociali completamente diverse, guidate ad esempio dalla pace. Le stessi istituzioni di cui si
denuncia la complicità nel trasmettere i sentimenti sociali che preparano gli stermini, tra cui
l’esercito, la famiglia, la sciola, la chiesa e gli ospedali, contengono anche le potenzialità della pace
e della giustizia sociale.

15-PARENTELA, FAMIGLIA GENERE


Parentela, matrimonio e famiglia sono probabilmente i temi più studiati nell’intera storia
dell’antropologia, poiché costituiscono il libello basilare nell’organizzazione delle relazioni sociali.
Le regole dell’appartenenza a un gruppo familiare, riguardano ogni aspetto della vita quotidiana e
coinvolgono ogni individuo fin dalla nascita, rappresentando il livello più profondo della sua
identità. Ciò vale per le società tradizionali studiate dagli etnologi come per quelle occidentali
moderne, nonostante in quest’ultime le reti di parentela siano meno importanti. Dall’altro lato,
famiglia e parentela sono vicine più di ogni altra istituzione a quei “fatti generalissimi” della natura
umana, danno dunque una forma culturale alle basi biologiche dell’esistenza umana, in particolare
alla sessualità e alla procreazione, ma ciò non le rende istituzioni “naturali”, ma possiamo
considerarle istituzioni che interpretano e plasmano gli aspetti naturali. L’analisi antropologica ci
costringe comunque come primo passo, a uno sforzo di estraniamento. Tutti noi viviamo entro
sistemi familiari e di parentela che ci sembrano scontati: cosa c’è di più “naturale” che riconoscere
madre e padre, zii, cugini, nipoti… ma poi scopriamo che in altre culture si chiamano “padre”
anche gli zii paterni o che i cugini sono considerati “fratelli”. L’evoluzionismo credeva che le altre
classificazioni siano imprecisi, cercando di legittimare le nostre consuetudini (la monogamia) come
le più compiute e perfette. Si tratta di diversi modi di costruire i rapporti delle istituzioni e dei
sentimenti di parentela, che si sviluppano a partire dalle condizioni ambientali, demografiche,
economiche, culturali di particolari popolazioni. In ogni società la parentela poggia su relazioni
primarie, tutt’altro che modificabili. Insomma lo studio della parentela si è sviluppato i
antropologia nella tensione tra due opposte esigenze: da un lato, comprendere un aspetto intimo
della vita, dall’altro il timore di usare modelli che proiettano inconsapevolmente sugli altri, quelle
che sono solo le nostre prospettive, conferendo loro una presunta universalità. In altre parole
l’ombra dell’etnocentrismo si proietta sull’intero campo degli studi di parentela. Nell’isola di Yap,
la relazione padre-figlio non dipende da legami di sangue, ma dall’autorità, dalla dipendenza e la
cura, la cui posta in gioco sono i diritti sulle terre. Chiunque può subentrare nella relazione tra
questi due ruoli, lavorando la terra e prendendosi cura degli anziani. Lo studio della parentela è
uno degli ambiti più “tecnici” dell’antropologia culturale: nel tentativo di evidenziare la varietà
delle sue forme in una cornice unitaria, la disciplina ha sviluppato nozioni che si allontanano
talvolta dal linguaggio comune. Diciamo che la parentela è stata trattata come un sistema di
legami tra persone che poggia su tre tipi di relazioni: discendenza, collateralità e affinità. La
discendenza indica le relazioni di filiazione, ad esempio, in un sistema “patrilineare” un soggetto
(ego) discende dal padre, dal, nonno, dal bisnonno e cosi via; la collateralità si riferisce invece ai
rapporti tra due o più individui che non discendono l’uno dall’altro ma da un antenato comune;
cosi fratelli e sorelle. L’affinità o alleanza indica legami acquisiti tramite il matrimonio, dunque i
rapporti tra mariti e mogli. I sistemi di parentela possono essere “unilaterali” o “bilaterali”;
quest’ultimo caso rappresenta la norma delle moderne società occidentali, in cui un soggetto
riconosce come in un proprio gruppo di parentela sia gli ascendenti di parte materna che paterna.
I sistemi bilaterali sono erroneamente paragonatici a quelli “cognatici” nei quali la discendenza
può essere definita sia in relazione al gruppo della madre che a quello del padre, sulla base di
criteri “esterni” come la residenza. In questi casi è la residenza a determinare la residenza e non
viceversa. Ma un individuo definisce comunque la propria identità in relazione a un gruppo
unitario di discendenza, diversamente da quanto accade nei sistemi bilaterali. La discendenza
“unilineare” privilegia invece i rapporti con una sola ascendenza: esclusivamente quella paterna
“patrilineare o agnatica” o materna “matrilineare o uterina”. Il sistema patrilineare è quello
prevalente nella storia europea-occidentale; una unità sociale di questo tipo è “esogamica”: vale
cioè l’obbligo di sposarsi al di fuori del proprio gruppo di discendenza; in molte società agricole o
pastorali studiate dall’ antropologia, la discendenza unilineare costituisce un gruppo costituito da
persone che convivono, si trasmettono di generazione in generazione beni, diritti, status e obblighi
rituali, e rappresentano un’unità socio-economica. Comunemente un simile gruppo fondato sulla
parentela viene definito “lignaggio” (mentre un insieme di lignaggi che si riconoscono in un unico
antenato è denominato “clan”), considerati come la base naturale della società. Non esiste infatti
uno stato superiore e indipendente rispetto ai lignaggi, ne unità produttive diverse da quelle
familiari. Oggi questa visione è posta in discussione poiché molti esempi etnografici mostrano che i
gruppi corporati si costituiscono anche sulla base di criteri diversi dalla parentela. Occorre
distinguere però il concetto d “matrilineare” da quello di “matriarcato” ; quest’ultimo è stato
introdotto da alcuni studiosi ottocenteschi per indicare un’ipotetica fase caratterizzata dal potere
femminile; ma quest’ipotesi è rimasta indimostrata. Nelle forme di discendenza “matrilineare” la
prole appartiene al gruppo di parentela della donna, nel quale l’autorità familiare è politica è
comunque detenuta dagli uomini. Ciò dignifica che per i bambini vi sono più figure maschili di
riferimento: il padre e la sua “parte” a un lato, gli uomini della parte materna dall’altro (“zio
materno”). Già Malinowski aveva evidenziato questa situazione nelle Trobriand, sostenendo che i
rapporti di ego con il padre sono soprattutto di affetto e solidarietà, mentre il principio di autorità
e l’imposizione delle norme sociali sono a carico dello “zio materno”. Se il complesso di Edipo è
riscontrabile nella società viennese di fine ‘800 in cui Freud e i suoi pazienti vivevano, lo stesso non
vale per le società matrilineari, in cui invece, il rapporto con il padre non è caricato da una
pressione autoritaria e repressiva, svolta invece dallo “zio materno”. Inoltre, nel classificare le
forme della parentela, gli antropologi classici hanno attribuito grande importanza ai sistemi
terminologici: vale a dire ai modi in cui una determinata cultura definisce i diversi legami di
parentela. Si distinguono due tipi di terminologia: “descrittiva” in cui ogni rapporto viene indicato
da una parola specifica; e quella “classificatoria” che divide i parenti in classi contrassegnate da un
unico termine. Ma sistemi descrittivi puri non esistono e le stesse culture occidentali moderne
usano termini come “nipote, cugini” che non distinguono i gradi. Gli studi novecenteschi hanno
finito per accordarsi su una più complessa classificazione, basata su 8 criteri distintivi: a) la
generazione b) sesso o genere c) la distinzione tra consanguinei e affini d) la distinzione tra
consanguinei di linea diretta o collaterale e) biforcazione (distinzione tra parenti del lato materno
e paterno), l’età relativa ( tra fratello maggiore o minore) f) distinzione parallelo-incrociato ( si
parla di cugini paralleli per indicare i figli del fratello del padre o della sorella della madre;
incrociati sono invece i figli del fratello della madre o della sorella del padre) g) la condizione (vivo
o defunto). Diversamente combinati, questi criteri danno vita a sei tipi fondamentali di
terminologie identificate con il nome di gruppi etnici nei quali il modello si presenta con
particolare chiarezza. Si tratta dei sistemi: a) eschimese, che corrisponde anche alle terminologie
diffuse nei paesi occidentali: ha la caratteristica di distinguere i fratelli da tutti gli altri collaterali
(cugini) e il padre e la madre dagli zii; b) hawaiano, che non distingue gradi di parentela all’interno
di una stessa generazione, dunque chiama con lo stesso termine padre e zii , madre e zie, fratelli e
cugini. Questi due sistemi sono detti anche “bilaterali”: entrambi non distinguono parentele di lato
materno o paterno; distinzione fondamentale per gli altri tre sistemi detti “unilaterali” che
applicano il principio della “biforcazione”. c) “trochese”, che accomuna linguisticamente i genitori
e gli zii, ma all’interno della generazione di ego usa termini diversi per i cugini; d) “crow” tipico di
società matrilineari; e) “omaha” tipico di società patrilineari; f) “sudanese” a massima distinzione
terminologica poiché usa termini diversi per ogni parente di ego, per sesso, generazione e altri
criteri. Alla fine degli anni ’40 Levi-Strauss propone un tipo di analisi del tutto diverso, accostando
e più diverse forme di parentela, egli cerca di non classificarle in un numero ridotto di tipi, ma di
comprendere i principi universali per dare vita a una serie infinita di combinazioni di parentela,
basati sul principio di reciprocità che struttura le alleanze matrimoniali. Dunque, l’essenza della
parentela consiste nella discendenza o nell’alleanza? La teoria della discendenza è sostenuta
soprattutto nell’ambito dell’antropologia sociale anglofona e si sviluppa tra gli anni ’20 e ’60 del
‘900. La loro idea-chiave è che nelle società “primitive” i gruppi di discendenza unilineare (clan o
lignaggi) rappresentino la base dell’organizzazione economico-politica. Nella famiglia uni dei due
genitori costituisce il legame di ego con il gruppo corporato di discendenza (il padre nelle società
patrilineari e la madre in quelle matrilineari); l’altro genitore connette ego con un altro gruppo di
sostegno. La “teoria dell’alleanza” è appunti quella introdotta da Levi-Strauss, l’elemento
essenziale della vita sociale è la reciprocità, e la forma più elementare della reciprocità è lo
scambio matrimoniale. La regola della reciprocità assume essenzialmente due forme: lo scambio
ristretto e generalizzato (il primo caratterizza le società dualistiche divise in due metà che si
scambiano le donne, nel secondo sono in gioco tre o più gruppi e la reciprocità si attua a catene).
Strauss, chiama “elementari” le forme della parentela e le regole matrimoniali che prescrivono in
modo stringente le persone con cui ego si deve sposare, mentre le forme “complesse” si limitano a
generali interdizioni, e la scelta matrimoniale avviene sulla base di criteri esterni alla parentela (es.
economici o sentimentali). La teoria della discendenza e quella dell’alleanza condividono almeno
un presupposto: per entrambe la parentela è una forma culturale autonoma e primaria, in quanto
organizza le relazioni biologiche, e solo successivamente un ordine economico e politico.
Sfruttamento e dominio sono da ricercare nella struttura stessa della parentela e nelle relazioni di
dipendenza che essa crea, soprattutto nei confronti delle donne, semplici oggetti di scambio in
strategie di parentela, controllate dagli uomini. Il pensiero femminista, almeno dagli anni ’70 in poi
attacca questo principio da un lato rivendicando una maggiore capacità di decisione e azione
sociale, dall’altro vede nei sistemi di parentela non una base neutrale di organizzazione sociale, ma
uno strumento del dominio maschile. Fin dall’800 l’antropologia aveva usato il termine
“totemismo” per riferirsi a un sistema religioso diffuso tra gli aborigeni australiani, centrato sul
culto di un antenato comune. Levi-Strauss aveva dimostrato che un sistema totemico non esisteva
e che il fulcro di questi saperi locali non era una credenza, ma un esercizio di un pensiero logico
volto a classificare il mondo naturale e sociale. Schneider tenta di compiere un’operazione simile
con la parentela, poiché vi sono sistemi di relazioni tra gli esseri umani che condividono ambienti e
pratiche quotidiane. Tali culture locali possono essere descritte ma non ricondotte ad un'unica
realtà, una generale parentela che corrisponderebbe alla nostra concezione naturalista della
consanguineità. D’altra parte se la parentela non esiste non vuol dire che non esistono i fenomeni
che la teoria classica cercava di comprendere: il fatto che le persone vivano insieme con diversi
gradi di unione, che facciano nascere e allevino bambini, che sviluppano sentimenti specifici. Un
rinnovato interesse si sviluppa in particolare per le ontologie locali, vale a dire i modi in cui nelle
diverse culture vengono intesi il concepimento, la compartecipazione fra la “sostanza” o lo
“spirito” dei genitori o quello dei figli, la natura delle relazioni di discendenza e affinità… Un punto
da cui sono scaturite ampie discussioni sulla possibilità che i primitivi non si rendessero conto del
nesso tra coito e concepimento, nonché sul rapporto tra aspetti naturali e spirituali del
concepimento e della procreazione. Questi indirizzi si spingono talvolta a sostenere che i popoli
indigeni, vivono in realtà divere e separate rispetto a quello moderne-occidentali. In altre parole
non hanno solo diverse credenze o visioni del mondo, ma costruiscono in modo diverso la realtà.
È stata per questo proposta una nuova teoria universalista della parentela, secondo cui esiste un
carattere sostantivo della parentela che non consiste nell’idea occidentale di “consanguineità”, ma
in quella che chiama “reciprocità” dell’essere: un insieme di partecipazioni intersoggettive,
partecipare gli uni alle vite degli altri. I modi in cui una parentela cosi intesa viene acquisita
cambiano a seconda della società. Nelle società “unilineari” prevale la centralità della
procreazione; nelle società basate su un sistema “cognativo” la parentela dipende dalla vita
piuttosto che dall’utero, vale a dire sulla base della partecipazione attiva delle persone nelle
reciproche esistenze. Rifiutando una nozione utilitarista della natura umana e pensando alla
cultura e alle istituzioni come strumenti della creazione di legami sociali, ci si pone piuttosto nella
tradizione maussiana sul dono. Si possono distinguere almeno tre direzionidel dibattito
antropologico sul “genere” : il cosiddetto “problema delle donne” nella ricerca etnografica; il
problema della costituzione socioculturale delle differenze di genere; l’analisi delle forme del
dominio maschile e della connessa violenza simbolica. “problema delle donne” risale agli anni ’70,
per indicare l’assenza della voce femminile nella produzione etnografica, descritte semmai
dall’esterno come oggetti di scambio. Ma è proprio in questo periodo che una nuova generazione
di antropologhe comincia a produrre contributi sul tema. L’idea chiave è la “rivendicazione della
agency” , cioè della capacità di azione sociale e di gestione del potere che le donne possiedono.
Infatti anche nelle società che riservano la proprietà economica e le cariche politiche agli uomini,
vi sono molti modi non-ufficiali in cui le donne influenzano la vita pubblica. In che modo
un’antropologia sensibile alle questioni di genere ha collaborato con il pensiero e i movimenti
femministi occidentali? Questi ultimi si sono appoggiati su impianti teorici forti, come il marxismo
e la psicoanalisi, presentando il dominio maschile come un tratto universale della storia umana.
L’approccio interculturale proposto dall’antropologia è meno esplicito, e cerca di mostrare come le
relazioni uomo-donna possano cambiare con l’organizzazione socio-culturale, conferendo alle
donne poteri e opportunità diverse. È questo il principio che porta negli anni ’80 alla diffusione del
concetto di “genere” (gender), come contrapposto a “sesso”; mentre quest’ultimo termine
rimanda alle differenze biologiche, il genere si riferisce ai modi in cui le differenze sono plasmate
all’interno di specifici sistemi di relazioni sociali e simboliche. In questo campo di studi grande
attenzione viene posta a identità di genere non convenzionali o che sfuggono a una netta
dicotomia maschio-femmina. Di simili identità vi sono numerosi esempi nelle società tradizionali,
mentre nell’Occidente contemporaneo il riferimento è all’ambito delle relazioni omosessuali.
L’approccio transculturale dell’antropologia ha contribuito a combattere i pregiudizi sul carattere
“contronatura” di questi orientamenti sessuali e delle relative forme di unione, ponendosi dalla
parte dei movimenti per i diritti delle minoranze. Il problema è comprendere la complessità con
cui la cultura viene incorporata, fino a diventare seconda “natura” che ci porta al terzo aspetto del
dibattito antropologico sul genere: relativo all’analisi delle forme del “dominio maschile”. La
riflessione di Bourdieu , propone due aspetti peculiari: il primo è l’analisi del modo in cui la
differenza maschile-femminile è sostenuta non da una semplice “credenza”, ma da un intero
sistema di classificazioni cosmologiche, che riguardano il mondo naturale e morale; tali schemi
pratici sono inoltre sostenuti da apparati rituali volti a costruire i soggetti “giusti” a partire da riti di
iniziazione o istituzione che mirano a “virilizzare” i ragazzi e “femminilizzare” le ragazze. Da qui
l’impressione che queste distinzioni rientrino del normale ordine delle cose, ma proprio in questa
ovvietà, sta la forza del dominio e questo è il secondo elemento di maggior originalità della teoria
di Bourdieu: il porre al centro dell’analisi proprio il “processo di naturalizzazione”. Infatti il sistema
di rappresentazioni simboliche nel quale siamo immersi, mostra le differenze biologiche tra uomo
e donna. Non sono le necessità della riproduzione biologica a determinare l’organizzazione delle
divisioni sociali del lavoro, ma una costruzione arbitraria del biologico e in particolare del corpo,
dei suoi usi e delle sue funzioni, a offrire un fondamento in apparenza naturale alla visione
androcentrica della divisione sessuale del lavoro, quindi di tutto il cosmo. Ne consegue che il
lavoro dell’etnografia è quello di “snaturalizzare” la divisione fra i sessi. Resta da aggiungere che
questa costruzione sociale dei generi, che plasma i corpi e le disposizioni psicologiche è
indipendente dalla volontà delle singole persone. Non mancano certo difficoltà e limiti nelle tesi di
Bourdieau: egli sottovaluta la portata dei mutamenti nel rapporto uomo-donna avvenuti nel corso
del ‘900 e nel suo sistema teorico è difficile trovare vie d’uscita per un reale cambiamento. Una
“cultura delle donne” non è per lui possibile, rispetto a quella dominante. Alla conclusione del suo
libro egli accenna a una possibile uscita dal labirinto: è quella dell’ “amore puro”, un sentimento
basato sul disinteresse e sul dono di se, in cui vi è sospensione della lotta per il potere, il che
appare come l’unica alternativa all’esercizio del dominio. La concezione dell’amore romantico è
diffusa nella cultura occidentale contemporanea e fin da piccoli ci sono familiari linguaggi ideali e
di culto della persona amata. Tre dimensioni relazionali vengono a coincidere nell’amore:
l’idealizzazione o devozione romantica, l’intesa sessuale e l’unione nel matrimonio. L’eventuale di
non coincidenza crea forme imperfette cariche di tensione, ma la storia e l’antropologia sono
scettiche in proposito e sostengono l’universalità di alcuni tratti dell’amore romantico. Ma per lo
più sostengono la peculiarità culturale dell’amore romantico e la sua origine recente. Risalente al
Romanticismo, conosce una diffusione di massa solo in età contemporanea. Possiamo concentrarci
su un caso etnografico dai modelli che ci son più familiari: gli Umeda sono un gruppo che vive nelle
foreste della Papua Nuova Guinea e il loro numero è cosi ridotto che tutti si conoscono e il loro
sistema di parentela prevede un matrimonio preferenziale (tra cugini incrociati). Ogni ragazzo
conosce da sempre la ragazza che dovrà sposare. È possibile l’amore in questa situazione? Non
certo nel senso che intendiamo noi, ma l’idea dell’innamoramento non gli è sconosciuta. Tra
fantasia e realtà vi sono casi di adulterio che si consumano negli spazi isolati della foresta. Ma
appunto l’amore è del tutto scisso dal matrimonio. In questa sfera segreta, l’amore si intreccia con
l’altra grande forza occulta presente nelle società di questo tipo “la stregoneria”. In definitiva tra
gli Umeda, l’amore sembra esistere come forza emotiva e pulsionale sul piano individuale, ma non
è riconosciuto culturalmente. È solo con la cultura di massa, in età contemporanea, che il modello
romantico, si afferma in modo capillare, grazie al processo di individualizzazione. Le opportunità
economiche della società industriale indeboliscono i legami delle persone con i parenti e la
dipendenza da vincoli comunitari. Fidanzamento e matrimonio divengono un contratto
liberamente scelto dai soggetti. Da notare che la sostanziale parità all’interno della coppia è il
presupposto dei movimenti di emancipazione femminile. Cosa significa relazione “pura”? si tratta
della libera decisione di costruire un rapporto al di fuori di ogni ruolo costituito e da ogni obbligo
di continuità. Essa si colloca nel solco dell’amore romantico, ma ne supera alcune caratteristiche: il
romanticismo implica ad esempio una dimensione di devozione eterna (matrimonio), fa
riferimento esclusivamente a relazioni eterosessuali e richiede l’accettazione di un’immagine di
castità, purezza e sottomissione domestica. Sotto la spinta dell’emancipazione femminile, gli ideali
romantici si frammentano e fra le conseguenze di tutto questo vi è lo sviluppo di una dimensione
allargata della sessualità che ad esempio supera la divisone tra donne “rispettabili” e “facili
costumi”, valorizzando piuttosto l’acquisizione di una pluralità di esperienze sessuali, e include a
pieno titolo anche le relazioni omosessuali. Il linguaggio romantico classico oggi appare per lo più
ridicolo ed eccessivo. Le vicende dell’amore romantico ci hanno portato dalle strutture
genealogiche delle società “tradizionali” al discorso sulla “relazione pura” delle società
contemporanee. Verifichiamo ora le conseguenze di questi mutamenti in relazione all’unità
fondamentale di convivenza e parentela, cioè la “famiglia”. Come per la parentela, la disciplina l’ha
affrontata attraverso un’opera paziente e accurata di classificazione. Cosi sul piano delle regole
matrimoniali si sono distinte la famiglia “monogamica” e quella “poligamica”, che si distingue a
sua volta in “poliginica” (uomo con più mogli) e “poliandrica” (donna con più mariti). Sul piano
delle dimensioni e della struttura della famiglia, la principale distinzione è quella tra “famiglia
nucleare, estesa e multipla”: la prima è quella compista dai coniugi e dai loro figli; la seconda è
quella nucleare con la quale convivono alcuni parenti non sposati; nella terza convivono più nuclei,
in senso “verticale” rispetto alle generazioni (uomo e donna che sposandosi vanno a vivere con i
genitori di uno dei due), oppure in senso “orizzontale” (convivenza di più fratelli con i rispettivi
nuclei familiari). Fino a poco tempo fa, la famiglia multipla era largamente diffusa in alcune regioni
d’Italia, in particolare nel Mezzogiorno dominato dall’organizzazione mezzadrile del lavoro
agricolo; qui i possidenti terrieri, suddividevano le proprietà in unità di lavoro assegnate a una
famiglia colonica in cambio della metà del raccolto. La “famiglia mezzadrile” coincideva in questo
caso con l’unità produttiva e doveva essere abbastanza estesa da coprire le esigenze della forza
lavoro. In questo sistema, salvo rare eccezioni, sono le donne che con il matrimonio si spostano,
andando a vivere con i suoceri. Nel caso l’equilibrio si romba è possibile che avvenga una scissine
della famiglia, o che il padrone disponga un cambiamento del podere (assegnando un
appezzamento più piccolo). Questa forma di gruppo familiare- domestico si esaurisce nel secondo
dopoguerra a causa della costituzione di gruppi familiari sempre meno numerosi, la tendenza a
sposarsi ed avere figli in età più avanzata, e la diminuzione del tasso di fecondità; un’accentuata
instabilità matrimoniale e la sempre minor disponibilità di donne e di uomini ad anteporre le
esigenze della famiglia a quelle della propria realizzazione professionale o passionale. Gli anni del
dopoguerra hanno visto la famiglia sottoposta anche a un profondo attacco ideologico:
un’istituzione patriarcale, considerata dai movimenti femministi, che replica nel chiuso del gruppo
domestico lo sfruttamento delle donne, il cui controllo troppo stretto sui giovani conduce alla
schizofrenia. Su un versante del tutto diverso, il “familismo” era divenuto una delle principali
categorie del sottosviluppo economico e sociale, causa principale dell’assenza di una tradizione
civica e cooperativa e delle difficoltà do modernizzazione. Oggi siamo in grado di invertire il senso
di quelle critiche poiché la famiglia ha sempre rappresentato la difesa dall’invadenza degli stati
totalitari, delle violenze di massa, dei progetti di distruzione della società civile e della costruzione
di forme di “uomo nuovo”. Gli stati hanno apertamente tentato di invadere a famiglia o persino di
distruggerla creando un rapporto diretto tra individui e potere. In quanto al “familismo” la famiglia
è stata tutt’altri che amorale, giocando un ruolo virtuoso nella promozione di valori civili ed
esperienze cooperative. Dall’altro lato, mostrando come anche nel Mezzogiorno, non sia stato
tanto il familismo il fattore regressivo, ma il colonialismo interno e i rapporti tra stato centrale e
gruppi dirigenti locali. Ciò he ci interessa tuttavia, è che la famiglia è oggi viva e vegeta,
rappresenta il più importante insieme dei legami interpersonali e il luogo dei valori più “sacri”. Le
ricerche antropologiche sulle famiglie contemporanee evidenziano una sorta di tratto comune:
quando le strutture classiche della parentela si spezzano o si indeboliscono, esse non scompaiono
ma vengono ricucite creativamente sul piano culturale. Quindi di fronte alle frequenti separazioni
e divorzi, la sostituzione del matrimonio con le convivenze, alla complicazione dei rapporti, ad
esempio tra i figli e i nuovi compagni dei genitori e le rispettive linee di ascendenza e discendenza,
non si rinuncia alla “condivisione dell’essere” e alle relative culture familiari. L’aiuto, la solidarietà,
il dono sono la materia prima con cui si definiscono e si alimentano queste relazioni familiari.
Dall’altro lato la memoria culturale assume anche in famiglia la sua classica forma del conservare,
archiviare e collezionare. In sintesi dunque lo scenario del nostro presente mostra una famiglia che
si è indebolita come struttura normativa della compagine sociale, ma che resiste, anzi si rafforza
come struttura di sentimento. Certo le forme di questa “relatedness” sono spesso nuove e
mutevoli: non solo per l’apertura alle unioni di fatto o omosessuali, ma soprattutto per l’ampiezza
del fenomeno delle separazioni e delle nuove unioni, che dann0 luogo a reti assai estese di
parentele acquisite e a figure parentali anomale risetto agli schemi classici. L famiglia si rafforza
moralmente e culturalmente quanto più si distacca dal piano dell’obbligo normativo, quanto più i
suoi valori sono scelti e interiorizzati e non imposti. Le cosi dette unioni “arcobaleno” possono
essere eversive di una morale sessuale tradizionale, ma certo non lo sono nei confronti dei modelli
classici di famiglia: chiedendo di uniformarsi ad essi, ne confermano la forza e se non l’universalità,
almeno il profondo radicamento storico.

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