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medica. Il senso comune ci fa pensare a noi stessi come composti di un corpo, di una mente e di
una rete di rapporti sociali, e a considerare queste tre sfere come autonome e nettamente
separate l’una dall’altra. Nella prospettiva antropologica il rapporto tra queste tre sfere implica
reciproche influenze. Si potrebbe dire che il corpo e la mente non sono dati indipendentemente
dalle relazioni sociali, ma si costituiscono attraverso si esse, in specifici contesti storico-culturali.
Questo è il principio dell’antropologia medica: le malattie sono entità biologiche causate da lesioni
traumatiche o da disfunzioni organiche, e queste ultime producono anomalie fisiologiche e
“sintomi” legati alla sofferenza dei pazienti. In questa definizione vediamo articolarsi tre livelli:
-l’esperienza di dolore del paziente – i suoi tentativi di comunicare questa esperienza interiore -la
condizione biologica del corpo. La medicina assegna priorità al piano biologico che può essere
descritto oggettivamente attraverso i saperi delle scienze naturali. La diagnosi consiste
nell’interpretare l’esperienza comunicata dai pazienti attraverso un linguaggio culturale da
decodificare. Questa prospettiva si viene consolidando nel corso del XVIII secolo; non che nelle
medicine pre-scientifiche mancasse l’osservazione del corpo, ma segni e simboli erano considerati
indicatori di un livello più profondo di ordine o disordine, nascosto sotto ampie costruzioni
simboliche. Qui è il paino dei rapporti sociali che determina la condizione del corpo, tramite la
mediazione dell’ordine invisibile delle forze spirituali, sulle quali il guaritore deve agire attraverso
pratiche rituali di purificazione. La “biomedicina moderna” prende le distanze da tutto questo.
Foucault, uno dei più grandi intellettuali del XX secolo, ne ha descritto la nascita parlando di una
“rivoluzione epistemica”, cioè un nuovo sguardo al discorso del corpo insieme a nuove modalità di
controllo del corpo stesso da parte dello Stato. È una pratica che ci permette di scoprire le
strutture segrete dell’organismo, prima rappresentabili solo metaforicamente. Pensiamo alle
pratiche di dissezione dei cadaveri che implica l’esperienza della fisicità della morte; oppure la
follia che rende possibile un discorso sull’interiorità psichica. A medicina moderna ci cala in un
mondo di costante visibilità, parlando del corpo come di una cosa. Tuttavia la nuova medicina non
nasce grazie a una serie di scoperte empiriche che si accumulano, ma si tratta di un riordinamento
complessivo dello sguardo e del linguaggio, all’interno del quale le scoperte e gli esperimenti
possono avvenire e assumere significato. Il corpo e la spiritualità si aprono a una descrizione
materialistica e abbandonano i sistemi simbolici e le connotazioni etiche ed estetiche alle quali
erano legati. Tutto quanto non rientra nelle leggi del determinismo biologico appare come un
residuo di arcaicità e superstizione, poiché nella cultura popolare e nelle interpretazioni profane
della biomedicina sopravvivono elementi di “metafisica del male”. Tuttavia, il determinismo
biologico, sostenuto dal sapere medico e dalle istituzioni sanitarie dello Stato, diviene largamente
egemone, per questo è difficile accettare l’idea che corpo, salute e malattia possano rappresentare
“campi culturali”. Anche l’antropologia, influenzata dalla visione positivista della scienza come
rispecchiamento della realtà, considera le concezioni premoderne del corpo e della medicina,
forme di ignoranza o di conoscenza imperfetta. Le pratiche di diagnosi e guarigione delle culture
“primitive” sono trattate in due modi: vi sono quelle basate sull’uso di erbe e rimedi naturali al
quale si riconosce una certa efficacia empirica, una sorta di inconsapevole adesione ai principi
biomedici; e vi sono medicine basate su rimedi magici e religiosi di tipo rituale palesemente false e
illusorie. L’antropologia positivista distingue dunque “conoscenze” reali e “credenze” che non per
forza corrispondono alla realtà; ed è qui che le teorie antropologiche classiche offrono le loro
interpretazioni di tipo psicologico e sociologico. In assenza di conoscenze scientifiche il pensiero
primitivo si rifugerebbe in tentativi pseudo-razionali di spiegare e risolvere il male. In quest’ottica,
lo studio della “altre” forme di medicina consiste in una sorta di classificazione delle credenze,
sulla base di categorie assunte dal sapere biomedico, considerato oggettivo e pre-culturale. Ciò
che vale per i “primitivi” vale anche per la cultura polare dei paesi occidentali, tant’è che la
“demoiatria” è uno studio di carattere compilativo che raccoglie i rimedi delle popolazioni
contadine. Quella che oggi chiamiamo “antropologia medica” è la continuazione di questa
prospettiva, che ha l’obiettivo di trattare in modo simmetrico le nostre e le altre medicine, per
capire come noi e gli altri affrontiamo il male nella società. A questo atteggiamento l’antropologia
arriva con l’approfondimento della ricerca sul campo nelle altre culture, descrivendo i sistemi
culturali e morali locali. Tuttavia si fa sentire anche in antropologia l’indebolimento del
positivismo. Non meno di altri linguaggi, quello scientifico interpreta la realtà trasformandola in
esperienza, e lo fa sulla base di assunti culturali, teorici e persino metafisici. Di conseguenza il
rapporto sulla biomedicina certamente fondata e i diversi sistemi medici, non può basarsi sulla
dicotomia vero-falso. L’antropologia medica deve allora studiare come le culture, con le loro
pratiche sociali, formano la realtà, e come la conoscenza è organizzata in rapporto alla realtà. Non
si parla di relativismo radicale, non ci si contrappone alla biomedicina proponendo una visione
alternativa di corpo, salute, malattia e guarigione. Prendiamo come esempio le condizioni di vita in
Inghilterra tra ‘500 e ‘600: un’aspettativa di vita meno di 30 anni e frequenti epidemie. Di fronte a
ciò i medici erano del tutto incapaci di diagnosticare e curare le malattie, finendo per proporre
spesso rimedi che peggioravano la situazione. Perciò i progressi della biomedicina rappresentano
progressi storici che non si possono relativizzare. Infatti possiamo filosofeggiare quanto vogliamo,
ma al momento di farci curare non avremmo dubbi su chi scegliere. Occorre tenere a mente
quanto detto precedentemente sulla prima parte del libro. Non si tratta di dire che tutto va bene o
che il mondo è diviso in tante unità separate, ciascuna con la propria verità ed efficacia.
All’antropologia medica interessa invece affermare il progresso non è solo passaggio dallo stato di
ignoranza alla conoscenza, ma come transizione tra “complessive cornici di senso” che articolano il
rapporto tra corpo, esperienza e linguaggio. Tali cornici sono alla base di alcuni comportamenti
della vita quotidiana che ci appaiono naturali, uno sfondo ovvio che non viene mai messo in
discussione. La biomedicina costituisce uno sfondo di questo tipo, mentre l’antropologia non vuole
falsificarlo o proporre cornici alternative, ma lo colloca in una visione più ampia, che consenta di
comprendere altre forme culturali, in senso storico ed etnologico. De Martino, nello studiare le
pratiche medico-religiose del mezzogiorno è stato un precursore dell’antropologia medica. Dare
per scontato certe pratiche quotidiane ci rende incapaci di percepirle o riconoscerle. Pensiamo al
camminare o al parlare, che apprendono faticosamente da bambini e che tuttavia ci sembrano del
tutto naturali. Si tratta di un “felice oblio” poiché non riusciremmo a parlare o camminare
fluidamente se dovessimo pesare alle condizioni culturali che rendono possibili queste pratiche.
Ma ci sono due momenti in cui l’atteggiamento naturale viene problematizzato: il primo è
rappresentato dalle “crisi psicopatologiche”. La schizofrenia, per esempio, è considerata la
catastrofe dell’orizzonte domestico; il secondo caso, questa volta in positivo, sta nella
“comprensione storica e antropologica”, il tentativo di capire le diverse costituzioni culturali del
mondo. Qui torniamo al rapporto tra l’antropologia e la biomedicina: la prima non può dare per
scontato il concetto di “natura” su cui si basa la seconda. I due saperi stanno su piani diversi e
l’antropologia non intende ne confermare ne confutare la biomedicina, ma cerca di porla in una
situazione storico-culturale più ampia, portandola a guardare in un’altra ottica alcuni suoi aspetti
cruciali, a partire dal concetto di “malattia” o “efficacia terapeutica”. Si apre qui la possibilità di un’
“antropologia del corpo” il cui principale esponente è Mauss, che in un saggio degli anni ’30 lancia
un vasto programma di etnografia descrittiva riguardo l’uso del corpo nelle diverse culture.
Propone una classificazione delle tecniche corporee, basato su un percorso di ciclo della vita
(tecniche della nascita o dello svezzamento), sulla distinzione tra varie funzionalità (tecniche del
sonno, dell’igiene, dell’attività sessuale, della cura), e ancora distingue le tecniche differenziate in
base al sesso e all’età, all’efficacia, per trasmissione e addestramento. Riempire questi schemi ci
porta ad osservare un’enorme quantità di particolari inosservati che mostrano come il corpo sia
plasmato da categorie culturali implicite e profonde, lontane dalla coscienza e dal linguaggio.
Mauss parla di questa cultura come di un “habitus”- abitudini, ma non in senso psicologico o
mentale, ma soprattutto con il variare della società, dell’educazione, delle mode, con il prestigio.
Camminare, gesticolare, mangiare, vestire sono quasi sempre indicatori dello status sociale,
relativamente statico. In questo senso si può dire che il corpo è “percorso da rapporti di potere
interni a una determinata società” e al tempo stesso evidenzia i rapporti tra cultura dominante e
subalterna. Anche Mary Douglas parla degli usi simbolici del corpo, sostenendo l’esistenza di una
corrispondenza tra le forme del controllo sociale e le regole di presentazione pubblica del corpo. Il
corpo è ricco di simboli e capacità espressive, limitate tuttavia dalle regole sociali e i concetti di
pudore. Il processo di socializzazione insegna dunque al bambino a tenere sotto controllo
defecazione, vomito e altri atti fisiologici, come sbadigli, starnuti, tosse… ciò porta Douglas a
sostenere l’esistenza di due corpi, fisico e sociale: il primo contrae o espande le sue esigenze in
base alle pressioni sociali; si apre qui la possibilità di studiare l’intera fenomenologia
dell’espressione corporea come funzione della natura delle relazioni e dell’esperienza sociale. La
più recente antropologia critica insisterà invece sul corpo come soggettività agente e sulle
dimensioni politiche che lo attraversano. Intanto concentriamoci sugli aspetti culturali della
malattia e della guarigione, tenendo conto della distinzione che gli antropologi hanno operato tra i
termini inglesi “DISEASE, ILLNESS, SICKNESS: -“con “disease” si intende la malattia come entità
nosologica (scienza che si occupa della classificazione delle malattie) riconosciuta dalla
biomedicina. Si tratta di una trasformazione evidente del corpo dallo stato di normalità, causata da
cause specifiche (trauma, virus..). spesso nelle medicine moderne e tradizionali, le cause sono
invisibili, non riconoscibili dai profani, ma dagli specialisti. La malattia “disease” è trattata come
entità autonoma con la quale si entra in contatto (influenza, raffreddore..). - con “illness” si
intende invece l’esperienza soggettiva di sofferenza ed il suo significato per il paziente; - con
“sickness” ci si riferisce al ruolo sociale dell’ammalato, alle conseguenze sul piano dei
comportamenti e delle relazioni interpersonali verso un soggetto colpito da malattia; Queste tre
accezioni del termine dovrebbero coincidere nella prospettiva biomedica: un paziente avverte un
disturbo, questo viene diagnosticato da uno specialista, vengono prescritte cure che possono
cambiare lo status sociale del soggetto. Ma di fatto queste tre dimensioni non sempre coincidono,
come quando si prova un disagio che i medici non collegano a nessuna anomalia. Il riconoscimento
dello stato di malattia dipende da molte variabili di carattere culturale e socio-economico. La
biomedicina rappresenta una cornice di misurazione e valutazione diagnostica più o meno
universale; essa si trasforma però in pratica sociale relazionandosi con differenze di vario ordine,
come gli sfondi culturali, i rapporti di potere, l’appartenenza etnica, genere e generazione…
Stabilire il “limite” che separa la salute dalla malattia dipende in parte da questi aspetti. Un tema
classico studiato dall’antropologia per mostrare gli aspetti culturali della salute e della malattia è
quello delle “sindromi culturalmente condizionate”. Si tratta di malattie che sono riconosciute e
diffuse in una specifica area socioculturale: presentano sintomi e segni precisi, sono attribuiti a
cause particolari e legate a forme di diagnosi e terapia previste dalla tradizione. In Italia il caso più
noto di sindrome culturale condizionata è quello del tarantismo pugliese. Il “tarantismo” è un
istituto culturale diffuso tra i ceti contadini del Salento, e documentato fin dal medioevo. Consiste
in un disturbo psichico che si ritiene causato dal morso di un ragno, che viene curato attraverso un
rito esorcistico di carattere “coreutico-musicale”. L’ammalata danza per ore, talvolta per giorni a
ritmo della “pizzica” suonata da un orchestrina loca davanti alla comunità di villaggio. La danza
manifesta manifesta la taranta che la possiede, finchè quest’ultima, esausta non ne abbandona il
corpo. Le persone guarite divengono devote di San Paolo, il santo delle tarante e ogni anno i
ritrovano alla festa nella cappella a Galatina, dove la crisi e la religione vengono rivissute. De
Martino tratta il tarantismo come un vero e proprio dispositivo medico: un modo per dar nome e
senso a una configurazione culturale a una crisi in se caotica e irrelata, e al tempo stesso una
terapia che porta in qualche modo a risolverla. Dunque il rito non è solo superstizioso, ma risulta
anche efficace. Qualche anno prima, il concetto di efficacia simbolica era stato formulato da Levi-
Strauss, in un saggio dedicato all’analisi di un incantesimo per favorire un parto difficile. Il parto
non riesce perché Muu, la potenza che si occupa della formazione dei feti, si è impadronita
dell’anima della donna. Lo sciamano deve compiere un viaggio lungo e difficile verso la dimora di
Muu per recuperare l’anima, impresa in cui alla fine riesce, rendendo possibile il parto.
L’interpretazione di Levi-Strauss si basa sul fatto che il luogo del viaggio è la vagina e l’utero della
donna; e l’incantesimo è una sorta di manipolazione psicologica dell’organo malato. Lo sciamano
sovrappone dunque alla realtà disordinata del male, una struttura mitica ordinata che ripercorre le
difficoltà e gli ostacoli, ma contiene in se la certezza della soluzione positiva. Levi-Strauss nota
anche che tale metodo assomiglia alla psicoanalisi, la quale attraverso un linguaggio specifico
rende possibile esprimere conflitti che non si potrebbero altrimenti manifestare e con ciò conduce
alla loro risoluzione. Il linguaggio suscita qui, un’esperienza vissuta che nella psicoanalisi è definita
“abreazione”. Nella seconda metà del ‘900 il tema dell’efficacia simbolica sta al centro della
riflessione medicoantropologica e non si tratta solo di comprendere le terapie rituali e magico-
religiose tradizionali. Anche nella pratica biomedica moderna, gli elementi simbolici e “rituali”
sono molto diffusi. Sembra rientrare in quest’ambito l’ “effetto placebo”, cioè il fatto che una
qualsiasi terapia farmacologica produce una certa percentuale di guarigioni anche in caso di
somministrazione di sostanze inerti. Il fenomeno è talmente noto che lo si usa nelle procedure di
validazione dei principi attivi. In realtà, in ogni momento della pratica biomedica gli aspetti
simbolici si intrecciano con quelli tecnici: sottoporsi a cure mediche significa vivere un’esperienza
sociale particolare che prima ancora di intraprendere una terapia muta lo status del paziente. Si
capisce dunque che in chiave antropologica, l’interazione medico-paziente è molto più di un
momento tecnico di raccolta di informazioni: è il momento cruciale dell’intero percorso
terapeutico, quello in cui il senso del male assume una sua precisa configurazione. Le intuizioni di
Levi-Strauss e Martino sull’importanza della “pensabilità del male”, della possibilità di dominarlo in
un ordine intellettuale e in una struttura mitica che porta verso la sua risoluzione, si rilevano
dunque importanti anche in relazione alle pratiche mediche di base. I loro argomenti lasciano
comunque aperto il mistero del nesso psico-somatico: il modo in cui modificazioni organiche
potrebbero essere indotte da esperienze sociali con la mediazione del piano psicologico. I recenti
indirizzi dell’antropologia “critica” imboccano una direzione diversa. Abbiamo già visto le prese di
distanza verso l’approccio “culturista” in nome di teorie forti del potere che collocano l’analisi
antropologica sul piano dell’economia politica. In antropologia medica questa tendenza si
manifesta nettamente a partire da istanze etiche ancor prima che teoriche. Nel campo della salute
e della malattia, come in quello della violenza, la ricerca può difficilmente rappresentare
un’impresa neutrale. I ricercatori si trovano di fronte alla sofferenza di concreti esseri umani. In
questi casi è difficile considerare il rapporto con il corpo e il male in termini di semplici “differenze
culturali”. Emerge invece con evidenza, da un lato la disuguaglianza tra l’Occidente agiato e il
nesso diretto tra gli stati del corpo e i fattori economico politici che producono povertà, privazioni
e sofferenze. Al contempo, la denuncia e l’aiuto si sovrappongono a quelle dell’osservazione e
della comprensione distaccata. Per Theory il punto di partenza, è il ruolo del corpo nel sapere
antropologico, o per meglio dire il concetto di “incorporazione”, concetto chiave di una nuova fase
dell’antropologia medica: il corpo non è un oggetto da studiare in relazione alla cultura, ma
dev’essere considerato come il soggetto della cultura stessa. La prospettiva dell’incorporazione,
intende superare la classica dicotomia tra mente e corpo, facendo direttamente di quest’ultimo il
protagonista delle pratiche sociali. Due antropologhe americane hanno coniato l’espressione
“mindfull body” per esprimere questo concetto. Ai “due corpi” naturali e sociali della Douglas, esse
sostituiscono una teoria basata sulla compresenza di tre dimensioni del corpo, sociale politico e
personale. Il corpo sociale è quello di cui parla l’antropologia simbolica che appare “un peso
morto, inerte e passivo” legato a una mente vivace, attenta e nomade, e che rappresenta il vero
agente della cultura. Il corpo politico è quello plasmato dalle relazioni di potere: il riferimento qui
è alle teorie di Foucault sui saperi-poteri disciplinari che governano e addomesticano i corpi. Per
l’antropologia critica in Foucault manca ancora una dimensione, quella esistenziale del “corpo
personale” che non è solo vittima del controllo politico, ma soggetto attivo di strategie di
autoaffermazione e resistenza. Il tema del potere porta opportunamente a considerare le
condizioni che determinano le condizioni di salute e malattie e i modi locali di riconoscerle. Si apre
cosi il campo della “economia politica della sofferenza” dove la malattia non è considerata come
un evento naturale ma causata dallo sfruttamento economico. Ma tutto sommato l’attenzione a
questi fattori non è nuova e ne specificamente antropologica perché già affrontata
dall’epidemiologia e dalla medicina sociale, specie nel quadro del pensiero marxista. Andare oltre,
presentando i sintomi come una forma di protesta politica implicita è una mossa poco
convincente. Nonostante queste situazioni a volte possano verificarsi, l’antropologia critica ha
avuto il merito di evidenziare un collegamento tra l’etnografia di microcontesti delle sottili reti di
significati locali e le analisi delle macrocondizioni politico-economico che determinano e condizioni
di salute di individue e collettività. Tener conto di questa duplice dimensione è importante
soprattutto in campi quali lo studio dell’AIDS in Africa. Qui gli antropologi hanno smontato la
naturalità della malattia, non tanto o non solo relativizzandola in termini culturali, ma soprattutto
mostrando i grandi meccanismi socio-economici che la producono e la gestiscono. Torniamo per
concludere, alla biomedicina alla sua diffusione globale. Abbiamo visto che l’antropologia non
contesta i successi di questa disciplina, ma propone una comprensione critica in un duplice senso:
da un lato, il richiamo è a non considerare la biomedicina come a un sapere vero che si sostituisce
a uno falso, bensì come il frutto di un complesso processo storico nei quali si modifica la
concezione del corpo, della salute e della malattia, e i modi in cui la società considera la vita degli
individui; dall’altro lato, l’antropologia propone una comprensione delle medicine tradizionali e
riconosce la possibilità di cogliere alcuni aspetti dell’esperienza sociale della malattia per
mobilitare attorno ad essa ricchi apparati simbolici che garantiscono un certo grado di efficagia. In
questa prospettiva si può meglio intendere il fenomeno del “pluralismo medico” che caratterizza
molte parti del mondo, in riferimento alla compresenza di biomedicina e medicina tradizionale nei
sistemi di diagnosi e cura. L’ Organizzazione Mondiale della Sanità che pur muovendosi in un
orizzonte principalmente biomedico, ha cercato di considerare la medicina tradizionale, come un
patrimonio da preservare che da abbattere. Negli ultimi decenni del ‘900 ha avuto grande
diffusione il fenomeno delle “medicine non convenzionali” (MNC) che si differenziano dalla
biomedicina, anzi spesso polemizzano con essa, proponendo visioni del corpo, della salute e della
malattia radicalmente alternative: esempio l’agopuntura. Le loro origini sono molto diverse, si
tratta di discipline di derivazione Orientale e di tradizioni minoritarie nella storia della scienza
occidentale. Ne fanno uso i ceti medio-alti o con un alto livello di istruzione. Nelle società basate
sul consumo di massa e sull’industria del tempo libero, il corpo riveste una nuova centralità:
estetica, forma, piaceri, e le persone non ne delegano la cura solo alle istituzioni ufficiali. Neppure
la scienza gode più di un’autorità assoluta e anche le scelte mediche devono essere collegate alla
costruzione di un proprio stile di vita. La scelta medica diviene dunque un diritto del consumatore,
nonostante lo Stato garantisca il diritto alla salute. Uno dei punti fermi all’interno delle MNC
riguarda il fatto che non ci si ammala per caso: la malattia come la cura dipende dalla
responsabilità individuale: un cattivo stile di vita, rapporti sociali eccessivamente stressanti, un
cattivo rapporto con la natura. La cura, a sua volta, p la riconquista di uno stato di armonia ed
equilibrio.
10-TEMPO, MEMORIA, STORIA
In antropologia la memoria non è solo un oggetto di studio, ma una costituente delle sue forme
più importanti e molti dei fenomeni sociali su cui si basa l’attenzione dell’antropologia possono
essere considerate forme di memoria collettiva. La memoria è da sempre oggetto di studi
psicologici e sia l’antropologia che la storia sono prevalentemente interessate alla “memoria a
lungo termine”. La “memoria a breve termine” è considerata dagli psicologi la capacità di
richiamare informazioni assunte nel giro di pochi secondi. La psicologia cognitiva ha elaborato
modelli piuttosto complessi di funzionamento della memoria a breve termine: a sua volta distinta
da una memoria a “brevissimo termine” e “sensoriale”, i quali diventano a breve termine, solo
quando sono selezionate dall’attenzione. Memoria sensoriale e a breve termine sono comprese
nella memoria “di lavoro” con funzioni di direzione dell’attenzione. Il concetto di memoria a lungo
termine indica invece la capacità di ritenere informazioni per un tempo superiore ai pochi secondi
che caratterizzano la memoria di lavoro. Si è soliti suddividere la memoria a lungo termine in tre
sistemi: la memoria “procedurale”, “semantica” e “episodica”. La prima opera quasi sempre in
modo implicito (andare in bicicletta); la seconda consiste nel nostro sapere generale sul mondo,
cioè quelle conoscenze che permettono l’uso e la comprensione del linguaggio; la terza, registra
eventi o episodi di cui il soggetto ha avuto esperienza. Per questo talvolta definita “memoria
personale o autobiografica”. La memoria semantica ed episodica sono definite anche “memoria
dichiarativa” in quanto mirano a rappresentare il mondo o il passato in contrapposizione alla
memoria “abituale o procedurale” che rappresenta il requisito di abilità pratiche e non
rappresentative. Parzialmente sovrapposta alla distinzione dichiarativa-procedurale, è quella tra
“memoria esplicita e implicita”, concetto introdotto dalla psicologia sperimentale per sottolineare
quei casi in cui si è influenzati da un’esperienza passata senza essere consapevoli di ricordare.
Rientra in questo ambito anche il concetto di “memoria involontaria” introdotto da Proust, in cui
uno stimolo sensoriale apre improvvisamente uno scenario di ricordi che sembravano perduti. La
psicologia sperimentale rivolge invece, scarsa attenzione al tema del “rimosso”. I modelli elaborati
dalla psicologia sperimentale sono per lo più basati sulla “misurazione” di performance
mnemoniche in situazioni controllate in laboratorio, secondo la metodologia di Ebbinghaus, che
lavorando tra ‘800 e ‘900 ideò un metodo di studio del lavoro della memoria, consistente nella
ripetizione di sillabe senza senso, con l’obiettivo di isolare il funzionamento della memoria senza le
influenze del contesto. Nella psicologia novecentesca a questo metodo, se ne oppone uno
centrato sull’osservazione di contesti pragmatici e socio-culturali reali di uso della memoria,
secondo una visione “interpretativa” della memoria (Bartlett) , concepita come uno sforzo verso il
significato, non come la capacità di immagazzinare dati passati. Di particolare importante è
l’approccio “ecologico” alla ricerca della memoria, che si riferisce alla necessità di collegare le
prestazioni mnemoniche al contesto pratico di vita in cui sono impiegate. Questa metodologia
apre la psicologia cognitiva all’analisi delle componenti sociali, culturali e storiche della memoria.
Osserviamo che l’approccio della visione “interpretativa” cosi come quella “ecologica”(Neisser)
attribuisce centralità a fenomeni che hanno importanti implicazioni per la storia e l’antropologia,
cioè quelli della falsa memoria e delle distorsioni del ricordo. Si tratta di aspetti del funzionamento
della memoria che non possono essere interpretati come pura perdita di informazioni, ma come il
prodotto di strategie di “ricostruzione del passato” sulla base dell’esperienza e strutture di senso.
Bartlett ha introdotto il concetto di “schema” per indicare simili strutture, relativamente resistenti
all’oblio, la ricerca cognitiva più recente preferisce parlare di “copioni” che tendono a configurarsi
come sequenze di eventi attorno ai quali si organizzano le informazioni. Schemi e copioni svolgono
una funzione di filtro rispetto alla possibilità di integrare esperienze della memoria a breve
termine in quella a lungo termine; ma ciò che più conta, essi sembrano in grado di plasmare
ricordi in configurazioni coerenti. È in questo quadro ricostruttivo del passato, che i fenomeni dei
falsi ricordi o delle distorsioni vanno compresi. Questa prospettiva è diversa da quella
psicoanalitica, la quale suppone invece che il ricordo reale continua a esistere, intatto, nelle
profondità della psiche, oscurato da rappresentazioni secondarie. Nella prospettiva cognitivistica,
invece, non si può parlare di un ricordo reale, che sarebbe celato dal falso o dall’oblio: il lavoro di
plasmazione degli schemi è tipico del normale funzionamento della memoria. Tuttavia, la
psicologia cognitiva riprende dalla psicoanalisi alcune idee-chiave sui meccanismi che guidano gli
schemi: ad esempio lo “spostamento e la condensazione”. Neisser ha introdotto il concetto di
memoria “repisodica” per indicare la tendenza a ricordare più eventi analoghi come se si trattasse
di un unico episodio: una strategia di condensazione che produce un ricordo falso, con sfumature
di verità. È ovvia la rilevanza di questi temi per le discipline che fanno uso di fonti orali: essi
influenzano la verità della testimonianza e il suo rapporto con il sapere storico o etnografico.
Dunque, la consapevolezza del carattere “costruito” delle memorie ci impedisce di considerare le
testimonianze in un’ottica realista. Ciò che interessa sottolineare è la concezione bartlettiana della
memoria come “sforzo verso il significato”, come interpretazione del passato sulla base di schemi
psicologici connessi alla vita concreta. In questo caso l’atto del ricordare non va inteso separato
dal sociale e culturale. Fondamentale è il concetto durkheimiano di “rappresentazione collettiva”
intesa come una categoria del pensiero che precede l’elaborazione intellettuale e che è radicata
nelle istituzioni e nelle pratiche sociali. L’atto individuale del ricordare è possibile solo sulla base di
quadri sociali che sono logicamente antecedenti a qualsiasi ricordo. Tali quadri non si limitano a
selezionare i ricordi, piuttosto li producono: quindi non c’è nulla che si conserva e i ricordi sono
ricostruzioni orientate sul presente. Dunque mentre gli “schemi” sono una forma vuota in cui i
ricordi trovano una loro collocazione; i “quadri sociali” non sono semplici strutture cognitive, ma
hanno un forte contenuto di senso che corrisponde al gruppo sociale cui si riferiscono. Il che
significa che la memoria del gruppo è in qualche modo più reale della memoria individuale.
Significa inoltre che, la memoria “interna” cioè i meccanismi psichici del ricordare, non può essere
scissa dalla memoria “esterna”, cioè da quei dispositivi tramite i quali le società incorporano la
memoria del passato in oggetti luoghi o in pratiche. Ci interessa ora analizzare i tre aspetti di
queste analisi sociali della memoria come fenomeno sociale: l’indirizzo di analisi del discorso, le
indagini empiriche sui rituali celebrativi e quelle sull’incorporazione della memoria in luoghi e
oggetti materiali. L’analisi del discorso tende a considerare le pratiche quotidiane di interazione fra
le persone, come l’unica realtà sociologica che è possibile descrivere in modo oggettivo. I costrutti
teorici di cui ci serviamo normalmente non fondano quelle interazioni ma ne sono il prodotto. La
psicologia sociale assume questo punto di vista riprendendo le posizioni di Bartlett, secondo cui la
memoria non è il ripescaggio di informazioni “all’interno”, ma l’attiva costruzioni di resoconti del
passato. L’analisi del discorso invece colloca la memoria “là fuori” all’interno delle pratiche
discorsive e simboliche quotidiane sena considerare l’esistenza di processi mentali come i ricordi.
L’analisi del discorso considera il linguaggio in modo radicale antirealista: esso è uno strumento di
gestione, creazione e mantenimento delle relazioni sociali prima ancora che una forma di
rappresentazione del mondo. Tutti viviamo l’interno di mondi naturali che sono di fatto costituiti
dalle nostre pratiche linguistiche e relazionali. Il costruzionismo sociale richiede uno sforzo di
estraniamento simile all’esperienza antropologica: ciò che generalmente consideriamo normale
deve essere visto come un problema. Il problema della “discourse analisis” non consiste nella
scarsa attenzione al livello soggettivo del ricordare, poiché essa mira a una nuova integrazione del
livello individuale e sociale. Sul piano epistemologico semmai il costruzionismo radicale si scontra
con il problema della verità. Se ogni resoconto sul passato è una costruzione plasmata
dall’esigenze del presente, che ne è del problema della verità del ricordo? Non rischiamo di
sostituire la verità con un accordo consensuale, con le difficoltà che ciò implicherebbe? L’analisi
del discorso forse trascura la possibilità che ogni resoconto del passato vi sia un’autentica istanza
rappresentativa. Un problema che emerge con forza in quella particolare forma di
rappresentazione memoriale che è la testimonianza. Si può testimoniare la violenza o la giustizia
se il nostro racconto del passato non è altro che una costruzione retorica? Senza bisogno di
spingerla alle sue estreme conseguenze epistemologiche, l’analisi del discorso ci mostra come
l’istanza rappresentativa e quella pragmatica convergono nel discorso quotidiano. Pensiamo ad un
lavoro dedicato all’analisi linguistica e relazionare della pratica domestica nel guardare gli album
fotografici di famiglia. Gli attori mostrano in modo convincente, sulla base dell’analisi etnografica,
come al contrario qui sia in gioco la costruzione cooperativa dei ricordi e soprattutto i bambini
imparano a ricordare. Per fissarsi nella memoria di un gruppo “una verità deve presentarsi sotto la
forma concreta di un avvenimento, di una figura personale di un luogo”. I luoghi santi so o il
principale terreno di plasmazione di un passato che gioca un ruolo cruciale per la memoria
culturale cristiana. Agli antropologi, abituati a lavorare in società senza scrittura, l’incorporazione
della memoria in luoghi e oggetti è abbastanza familiare (pensiamo alle vie dei canti nella
mitologia australiana). Un altro esempio è costituito dai “churinga”: oggetti rituali australiani che
rappresentano il corpo di un antenato detenuto dalla persona vivente che ne è la reincarnazione.
La loro funzione è per Levi-Strauss, quella di rendere vero l’essere diacronico entro la sincronia.
Essi sono una manifestazione diretta e materiale del passato all’interno del presente (simili ai
moderni archivi). Sia gli archivi che i churinga incorporano la memoria di un gruppo sociale, in un
senso che va al di la delle specifiche informazioni che veicolano. L’accostamento tra i due trova
tuttavia nella distinzione che LeviStrauss avanza tra due modelli di società: da un lato vi sono le
società calde, come quella occidentale e moderna, che interiorizza risolutamente il divenire storico
per farne il motore di sviluppo; dall’altro le società fredde, che cercano di annullare l’effetto che la
storia può avere sul loro equilibrio e continuità. La contrapposizione tra società fredde e calde, è
uno dei tentativi tramite cui gli studi sociali hanno cercato di evidenziare la trasformazione della
memoria sociale nel passaggio dalla tradizione alla modernità. Alcuni autori l’hanno riletta in
termini di differenza tra “oralità e scrittura” come modalità prevalenti della comunicazione sociale.
Nel primo caso la memoria ha una coerenza rituale, cioè depositata in riti tramandati secondo il
principio della ripetizione; nel secondo si parla di una coerenza testuale che apre lo spazio
dell’esegesi e dell’interpretazione. L’idea-chiave in simili teorie, è che la modernità sviluppa una
consapevolezza della storicità, dello scorrere del tempo, sconosciuto alle società tradizionali. Nora,
ha in mente una discontinuità che si produce negli ultimi due secoli nella cultura di massa: ma il
concetto sui cui lavora, resta quello del passaggio da una comunità che vive un tempo “circolare”,
costantemente immersa nella memoria, tanto da non essere neppure consapevole della sua
esistenza, a una comunità che vive un tempo “vettoriale”, ossessionata dallo sfuggire inesorabile
del tempo, organizzando la propria cultura a produrre memoria. Una dicotomia così netta è
difficilmente sostenibile, cosi come quella tra società calde e fredde, anche se una divisione così
netta non è avvertita dalle scienze sociali. Il concetto di “luogo di memoria” ha avuto un gran
successo per la capacità di aprire nuovi scenari alla comprensione della struttura simbolica degli
spazi sociali e delle pratiche celebrative, in contesti moderni e tradizionali. Si parla oggi di “boom
della memoria” nella storiografia contemporanea, poiché il tema della memoria è divenuto il
concetto centrale attorno al quale si organizzano gli studi storici, una posizione un tempo occupata
dalle nozioni di razza, lasse e genere. Se la distinzione di Nora tra “ambiente e luoghi della
memoria” è assai dubbia, essa suggerisce però la presenza di diversi livelli di costruzione pubblica
della memoria. Posso risultare più utili in questo caso distinzioni tra memoria “comunicativa e
culturale “, intese come modalità che non si succedono evolutivamente ma coesistono in ogni
aspetto sociale. La prima è basata sulla comunicazione orale quotidiana su un ambito relazionare
ristretto (famiglia). La seconda si determina quando un evento del passato supera la barriera
dell’oblio ed entra nel patrimonio dei ricordi di una comunità; è dunque fortemente
istituzionalizzata, legata alle forme del potere e gestita da specialisti. Dunque mentre la memoria
ufficiale si basa su una riaffermazione della realtà in termini ideali, la memoria vernacolare
esprime il senso di come la realtà sociale è avvertita, non come dovrebbe essere. La sua stessa
esistenza è una minaccia per le espressioni ufficiali. Secondo una diffusa interpretazione il modello
di memoria culturale più diffuso, legato a un’ampia identità nazionale, nasce con le grandi
rivoluzioni moderne, americane e francese. Monumenti, parate militare e civile, comici nei luoghi
pubblici, bandiere e inni nazionali solo gli strumenti che consentono l’immaginazione di una
comunità moderna. Questa plasmazione nazionalista di una memoria comune presuppone una
“condivisione dell’oblio” nei confronti di aspetti scomodi del passato. Il tutto termina dopo la
seconda metà del XX secolo poiché la religione civile degli stati-nazione che venerano se stessi
attraverso il proprio passato, è messa in discussione dai disastri della seconda guerra mondiale; e i
movimenti degli anni 60indirizzano la loro critica proprio contro le istituzioni fondanti la memoria
culturale del nazionalismo. Inoltre la globalizzazione apre nuove possibilità alla costruzione di
memorie e identità cosmopolite ed etniche, transnazionali o particolaristiche. A causa della
polverizzazione e desacralizzazione della vita pubblica nascono delle personalizzazioni delle
pratiche di memoria: coltivare memorie autobiografiche o familiari, prima prerogativa dei ceti
aristocratici, diviene un fenomeno di massa. È come se indebolendosi le forme pubbliche e
istituzionali delle memoria culturale, la funzione del ricordare passasse sugli individui. Si conserva
di tutto, anche grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie. Nell’incertezza su cosa sia più
importante si mette da parte tutto e ci si sente in dovere di farlo, come se le nostre esperienze
perdessero importanza. In una certa misura si vive in funzione della futura memoria: si cercano
cioè, ad esempio nell’ambito del turismo, certe esperienze con l’obiettivo di poterle poi ricordare e
narrare. Alla narrazione nazionale del passato, si sostituisce la moltitudine delle narrazioni
autobiografiche. Concludiamo questa rassegna, accennando alcuni problemi che emergono dalle
correnti di studio qui esaminate: si parla spesso di “eccesso di memoria” che riguarda anche la
produzione storiografica e antropologica, anch’esse inevitabilmente coinvolte nei processi sociali
di produzione di memorie in quanto produttrici scientificamente accreditate di resoconti sul
passato, sulla tradizione e sull’identità culturale. Mentre gli storici studiano la memoria diventano
consapevoli dei complessi processi culturali tramite i quali essa si costituisce e sono chiamati a
testimoniare la semplice verità del passato; in questo ruolo si trovano anche a competere con il
“testimone”, figura-chiave nella memoria culturale dell’Occidente. Nel loro ruolo di specialisti nella
gestione pubblica della memoria, storici e antropologi si trovano inoltre coinvolti in un altro
dilemma relativo al tema dell’ “identità”. Come è evidente, quella che un gruppo sociale definisce
come propria identità, si concretizza elle produzioni della sua memoria collettiva. Reificata o
essenzializzata, l’identità è intesa come una sorta di proprietà dei gruppi sociali; e in quanto tale è
strumento di politiche di chiusura ed esclusione, ideologia a sostegno di xenofobie e di conflitti
etnici. Il problema è dunque: in quale misura storici e antropologi si fanno complici di tutto ciò,
seppur inconsapevolmente. Lo stesso concetto di “patrimonio culturale” si fa partecipe di questa
ambiguità o implicita complicità: esso corrisponde a più comuni esigenze e incorpora tratti
comuni. Ci confrontiamo gli uni con gli altri, le cui somiglianze ignoriamo per sottolineare la nostra
superiorità, creando rivalità e conflitto. La storia è una tra le molte forme di produzione della
memoria “pubblica” , differenziandosi per il suo carattere “freddo” da quelle “culture del ricordo” i
cui contenuti sono sempre in relazione con l’identità del gruppo che ricorda. Partecipare alle
pratiche di costruzione della memoria pubblica restando consapevoli dei complessi meccanismi
che li costituiscono meccanicamente e politicamente nel presente, è il difficile comito che
accomuna storici e antropologi.