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LA PENSIONE DI REVERSIBILITA’: IL CONCORSO TRA CONIUGE

SUPERSTITE E CONIUGE DIVORZIATO

a cura di Laura Galli

Brevi cenni sulla pensione di reversibilità


Le prestazioni pensionistiche si inseriscono nel quadro generale della previdenza
sociale e sono costituite da quattro erogazioni fondamentali:
- la pensione di vecchiaia per i lavoratori autonomi;
- la pensione di vecchiaia per i lavoratori dipendenti;
- la pensione di anzianità;
- la pensione ai superstiti.
Quest’ultima prestazione previdenziale è quella che interessa per la trattazione
dell’argomento in esame.
La pensione ai superstiti può rivestire due forme: indiretta e di reversibilità.
Quest’ultima spetta al defunto il quale fosse già titolare di pensione diretta
(vecchiaia, inabilità, anzianità). Essa spetta, altresì, al coniuge separato e
divorziato che ha diritto a tale pensione purché ricorrano le seguenti condizioni:
a) sia titolare di assegno di divorzio;
b) non si sia risposato;
c) l’ex coniuge abbia iniziato l’assicurazione presso l’INPS prima della sentenza
di scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La L.74/87 prevede, inoltre, che il coniuge divorziato abbia diritto alla pensione
anche se il defunto si sia risposato e sia in vita il nuovo coniuge. In questo caso,
però, l’INPS non paga automaticamente la pensione ma deve attendere una
specifica sentenza del tribunale che divida la pensione tra i due interessati
(coniuge ed ex coniuge) in proporzione alla durata del matrimonio di ciascuno
(vedi oltre).

Il primo orientamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità


(Principali riferimenti normativi e giurisprudenziali: art.5 L.898/70;
art.9L.898/70; Cass. civ. 12/01/98 n. 159; Cass. civ. 16/06/00 n. 8233).

La pensione di reversibilità da attribuire al coniuge superstite ed ex coniuge in


concorso tra loro ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti da parte della
Suprema Corte, non ancora del tutto sopite.
Occorre premettere che l’argomento in questione è disciplinato dal secondo e
terzo comma dell’art.9 L.898/70, come riformato dalla L.74/87.
Il secondo comma dell’art.9 dispone che il coniuge divorziato “in caso di morte
dell’ex coniuge ed in assenza di un coniuge superstite, avente i requisiti per la
pensione di reversibilità, ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia
titolare di assegno ai sensi dell’art.5, alla pensione di reversibilità, sempre che il
rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla
sentenza”. Il terzo comma dispone, invece, che “qualora esista un coniuge
superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della
pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo
conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la
sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia
titolare dell’assegno di cui all’art.5........”.
L’art.9, pertanto, nei due commi sopra enunciati distingue l’ipotesi in cui l’ex
coniuge titolare del diritto a pensione sia morto senza lasciare un coniuge
superstite e quella della sussistenza di questo coniuge.
La conseguenzialità logica attraverso cui devono essere le due disposizioni
del’art.9 è a fondamento del principio assunto dall’orientamento giurisprudenziale
in esame.
L’articolazione tra i due enunciati presuppone una posizione di complementarietà
nel senso che mentre il secondo detta le regole generali per la disciplina della
materia, il terzo detta, de iure condendo, una disciplina specifica per l’ipotesi
particolare della sopravvivenza all’ex coniuge di un altro coniuge. Ciò significa
che la norma ha ampliato l’ambito degli aventi diritto alla pensione di reversibilità
ed ha introdotto un nuovo soggetto titolare che è il coniuge divorziato, al quale ha
esteso, alla sussistenza di determinati presupposti, il trattamento previsto per il
coniuge superstite.
Si tratta della coesistenza di diritti concorrenti alla ripartizione della medesima
pensione tra due aventi diritto ad essa, secondo cui il coniuge superstite non è più
l’unico destinatario della pensione di reversibilità ma è soltanto uno dei coniugi in
concorrenza con il divorziato.
Sorge, quindi, in capo al coniuge divorziato un diritto autonomo e concorrente in
pari grado con quello del coniuge superstite all’unico trattamento di reversibilità.
L’autonomia di tale diritto, che nasce in via automatica nel momento della morte
del pensionato ed è acquisito iure proprio, trova il suo fondamento nell’incidenza
dell’apporto di ciascuno dei coniugi alla formazione del patrimonio familiare,
apporto che non può essere vanificato dal successivo evolversi degli eventi
relativi al rapporto matrimoniale (es. scioglimento del matrimonio).
Per effetto di tali considerazioni, la norma enuncia alcuni presupposti
fondamentali a cui è subordinata la pensione di reversibilità del coniuge
divorziato.
a) L’autonomia e la pari concorrenzialità con l’altro coniuge sottraggono alla
discrezionalità del giudice la determinazione dell’attribuzione della pensione
di reversibilità;
b) La norma non prevede la subordinazione del trattamento allo stato di bisogno
del coniuge divorziato. Infatti, pur prevedendo quale requisito fondamentale
per il riconoscimento al trattamento la titolarità dell’assegno di cui all’art.5
(assegno divorzile), svincola la concreta attribuzione ai parametri che fondano
il riconoscimento di quell’assegno (appunto lo stato di bisogno); analogo
discorso vale per la determinazione del “quantum”, attribuito qualunque sia
l’ammontare dell’assegno divorzile, anche se minimo o meramente simbolico;
c) Ulteriore requisito consta nell’anteriorità della sentenza di divorzio al rapporto
da cui trae origine il trattamento pensionistico.
I presupposti sopra elencati costituiscono la ratio giuridica di un’altra questione
affrontata dalla giurisprudenza, vale a dire l’individuazione del criterio di
determinazione della quota.
Atteso, infatti, che il diritto in capo al coniuge divorziato sorge in via autonoma
ed automatica e pertanto non è soggetto al potere discrezionale del giudice; che
tale acquisizione “iure proprio” prescinde dallo stato di bisogno del coniuge
divorziato essendosi formatasi sull’apporto alla formazione del patrimonio
comune, l’individuazione del quantum non può che essere fondata sul criterio
della durata dei rispettivi periodi matrimoniali, escludendo qualsiasi altro
elemento valutativo.
A sostegno di tale principio, concorre, in primis, il criterio letterale della norma di
cui all’art.9 che manifesta la volontà di considerare solamente la durata temporale
ed esclude il ricorso ad altri criteri.
Infatti, il criterio utilizzato, secondo l’orientamento in esame, è l’unico che
consenta una ripartizione equa tra coniuge divorziato e superstite della pensione
di reversibilità, creando, in tal modo, una situazione di omogeneità.
L’utilizzo di altri elementi, invece, porterebbe inevitabilmente a considerare
situazioni soggette alla discrezionalità del giudice che potrebbero creare disparità
tra gli aventi diritto.
In secondo luogo, a favore del tenore letterale della norma concorre il concetto di
“rapporto” inteso quale durata legale del matrimonio, depurato da un eventuale
periodo di convivenza more uxorio con il coniuge superstite.
L’esclusione della rilevanza della convivenza more uxorio sostenuta dalla
giurisprudenza maggioritaria (Cass, civ. 12/01/98 n.159; Cass. 16/06/00 n. 8233)
si fonda sul presupposto dell’inammissibilità di un rapporto di fatto
extramatrimoniale nel nostro ordinamento (art.29 Costituzione) e dallo stesso
apporto patrimoniale di cui si è anzidetto che presume una comunione di vita
sottesa al matrimonio.
Tutto ciò premesso, ai fini di un esempio chiarificatore, ipotizzando che il
matrimonio tra il coniuge divorziato e l’ex coniuge sia durato 17 anni e quello tra
coniuge superstite ed ex coniuge sia durato otto anni, per un totale di 25 anni, la
quota del coniuge divorziato è pari a 17/25 del trattamento globale di reversibilità
e quella del coniuge superstite di 8/25 dello stesso trattamento.
In conclusione, il criterio restrittivo del dato letterale di cui all’art.9 L.74/87 è la
ratio ispiratrice della stessa riforma della legge sul divorzio, con cui il legislatore,
adottando un parametro di valutazione rigido ed automatico, ha inteso eliminare
le occasioni di litigiosità e disparità legate al trattamento di reversibilità.

L’orientamento più recente della Suprema Corte


(Principali riferimenti normativi e giurisprudenziali: artt.433 ss. C.c.; art.5, art.9
L.898/70; Corte Cost. 419/99; Cass. 27/06/95 n. 7243; Cass. 27/05/95 n. 5910;
Cass. 09/12/92 n. 13041; Cass. 23/04/92 n. 4897; Cass. 14/03/00 n. 2920; Cass.
19/02/03 n.2471).

In una prospettiva del tutto opposta a quella sin qui descritta, si inserisce
l’orientamento più recente della Suprema Corte, avvallato, altresì dalla Corte
Costituzionale.
La Suprema Corte osserva, infatti, che il parametro della durata legale del
matrimonio non costituisce l’esclusivo criterio di valutazione ai fini del
trattamento di reversibilità ma occorre prendere in considerazione anche altri dati
di riferimento che attengano alle condizioni economiche delle parti ed alla natura
assistenziale e solidale dell’assegno divorzile, di cui la quota della pensione di
reversibilità spettante al coniuge divorziato rappresenta la prosecuzione.
Con lo scioglimento del matrimonio a seguito di divorzio, infatti, sul piano
successorio i coniugi perdono ogni reciproco diritto. Tuttavia, la legge ha previsto
che l’ex coniuge superstite, già titolare dell’assegno, può vantare alcuni diritti in
occasione della morte dell’altro coniuge iure proprio.
In tale contesto, si inserisce l’assegno divorzile previsto dall’art.5 L.74/87, a cui
la giurisprudenza riconosce natura assistenziale e funzione solidaristica,
inquadrandolo, in tal modo, nell’obbligazione alimentare ex art.433 ss. cc.,
obbligo che permane anche a seguito del divorzio in forza del vincolo di affinità
sorto dal matrimonio.
Gli alimenti, infatti, sono posti a carico soltanto di certe persone e a favore di
certe altre; essi rappresentano un vincolo personale compreso nell’ambito della
famiglia, che, dunque, lega fra loro persone facenti parte del medesimo gruppo
familiare.
Il fondamento dell’obbligazione alimentare è da rinvenirsi nel cosiddetto “diritto
alla vita” di colui che versa in stato di indigenza; più in particolare, nella tutela
accordata dall’ordinamento giuridico a quei rapporti sociali ritenuti talmente saldi
da non consentire che uno dei soggetti di siffatti rapporti venga ridotto
all’indigenza quando l’altro si trovi, invece, in condizioni economiche da poter
alleviare, senza eccessivi sacrifici, lo stato di indigenza.
Quanto alle persone obbligate a prestare gli alimenti a favore di colui che versa in
stato di bisogno, il coniuge è al primo posto. Egli assolve a quella funzione di
sostentamento prevista per il coniuge economicamente più debole. Tale funzione
di sostegno assume significato anche nell’ambito dell’art.9 comma 3 come una
forma di proiezione, oltre la morte, del contegno assistenziale tenuto in vita dal de
cuius e persegue lo scopo di preservare il coniuge superstite dall’eventuale stato
di bisogno che potesse derivare dalla morte del coniuge.
Tale assunto ha ricevuto l’avvallo decisivo della Corte Costituzionale, con la
sentenza n. 419/99, in sede di verifica di legittimità costituzionale della norma di
cui all’art.9 L.74/87 in riferimento agli artt.3 e 38 Cost.
Secondo la pronuncia della Corte, l’art.9 comma 3, pur imponendo al giudice di
tenere presente l’elemento temporale di durata dei rispettivi matrimoni, non
postula che la ripartizione del trattamento di reversibilità debba avvenire
necessariamente sulla base del criterio matematico, rigidamente assunto, della
durata legale del matrimonio ma prende in considerazione anche altri elementi di
valutazione. Atteso, infatti, che il legislatore, attraverso la riforma in esame, ha
inteso assicurare all’ex coniuge, cui sia stato attribuito l’assegno di divorzio, la
continuità del sostegno economico connesso al permanere della solidarietà
familiare, non si può prescindere dalla funzione solidaristica svolta dalla stessa
pensione di reversibilità. In primis, nei confronti del coniuge superstite come una
sorta di ultrattività della solidarietà coniugale che consente la prosecuzione del
sostentamento già assicurato dal reddito del coniuge deceduto; in secundis, nei
confronti dell’ex coniuge (divorziato) a cui è riconosciuta, parimenti, la continuità
del sostegno.
Ed è proprio muovendo dal carattere solidaristico della pensione di reversibilità
che la norma di cui all’art.9 comma 3 considera, ai fini della ripartizione della
stessa pensione, l’elemento valutativo della durata del matrimonio quale misura
prescrittiva ma non esaustiva.
Nel suo apprezzamento, il giudice potrà, dunque, valutare ulteriori elementi da
utilizzare quale criteri correttivi del profilo temporale. Tra gli elementi
considerati, assumono particolare significato l’ammontare dell’assegno goduto
dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge e le condizioni
economiche (es. stato di bisogno) dei soggetti coinvolti nella vicenda
matrimoniale.
Da ultimo, la Cassazione, intervenendo sul punto ancora una volta, con la
sentenza 19/02/03 n.2471 ha fatto proprie le conclusioni sopra esposte,
affermando, altresì, che il giudice del merito potrà considerare anche l’esistenza
di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge con il de cuius.
L’assegno a carico dell’eredità
(Principali riferimenti normativi e giurisprudenziali: art. 9 bis L.898/70; Cass.
17/07/92 n. 8687).

Si è detto che il divorzio fa venir meno lo status di coniuge cessando


conseguentemente tutti i diritti che la legge riconnette allo stesso. Il divorziato,
quindi, non ha diritti successori nei confronti del de cuius ex coniuge, non
essendo erede, né partecipando alla chiamata ereditaria, se non in forza di un
diritto autonomo derivante dal testamento.
L’unico modo che ha il divorziato di partecipare alla successione, in relazione alla
pregressa qualità di coniuge, è quello indicato dall’art.9 bis della legge in esame
che prevede che il beneficiario di somme periodiche di denaro corrisposte a
norma dell’art.5 possa ricevere, in caso di morte dell’obbligato, qualora versi in
stato di bisogno, un assegno a carico dell’eredità.
Trattasi di un diritto nuovo ed autonomo che si giustifica a motivo della cessata
corresponsione dell’assegno di divorzio per morte dell’obbligato (art.443 c.c.),
permanendo lo stato di bisogno del percettore, diritto che nasce sulla base dei
presupposti e condizioni diverse da quelle su cui si fonda l’assegno divorzile. Si
pensi, ad esempio, che esso va corrisposto in relazione alle sostanze ereditarie,
mentre per la concessione dell’assegno post-matrimoniale occorre prendere in
considerazione i redditi dell’obbligato.
Non si attua, quindi, alcun trasferimento a carico degli eredi dell’obbligo imposto
al de cuius di corrispondere l’assegno all’ex coniuge, stante il carattere
strettamente personale dell’obbligazione stessa, che si estingue con la morte del
debitore.
Non vi è accordo in dottrina sulla qualificazione giuridica dell’assegno di cui si
tratta. Alcuni considerano l’assegno a carico dell’eredità un diritto di natura
successoria, qualificando lo stesso come legato ex lege; altri ritengono il
medesimo un diritto di credito a carico dei beneficiari dell’eredità.
La prima opinione sembra preferibile alla luce del contesto dell’art.9 bis. Diversi,
infatti, sono gli indici normativi tipici delle attribuzioni mortis causa: l’assegno è
posto a carico dell’eredità, il suo ammontare è correlato all’entità delle sostanze
ereditarie, la sua determinazione va fatta in relazione al numero ed alla qualità
degli eredi.
La natura successoria riconosciuta all’assegno de quo comporta che lo stesso sarà
dovuto, ove sussisteva lo stato di bisogno, dal momento di apertura della
successione.
La sentenza che accerta il diritto assume quindi natura dichiarativa, producendo
effetti ex tunc.
La locuzione “stato di bisogno” contenuta nell’art.9 bis depone poi per la
funzione alimentare del diritto, dalla quale derivano alcune conseguenze, quali
l’indisponibilità dello stesso (art.447 c.c.) e la sua imprescrittibilità.
Affinché possa procedersi all’attribuzione al coniuge superstite dell’assegno di
cui si tratta, la norma in commento richiede alcuni requisiti.
E’ necessario, anzitutto, che a costui sia stato riconosciuto l’assegno post-
matrimoniale, sempreché gli obblighi patrimoniali derivanti dal divorzio non
siano stati adempiuti in un’unica soluzione, costituendo la stessa una datio in
solutum che fa venir meno il diritto. Il coniuge divorziato deve essere già titolare
dell’assegno o deve aver proposto azione al fine di conseguirlo, vista la possibilità
di richiederlo anche successivamente alla sentenza di divorzio.
L’assegno non è dovuto se l’ex coniuge è passato a nuove nozze.
Ulteriore requisito richiesto è che il beneficiario versi in stato di bisogno.
Secondo la giurisprudenza prevalente, lo stato di bisogno, pur non coincidendo
con la povertà assoluta ovvero nell’impossibilità di sopravvivenza, configura una
situazione peggiore rispetto alla carenza di mezzi adeguati, vale a dire alla
mancanza di disponibilità idonee alla tendenziale conservazione del precorso
tenore di vita in quanto discende dall’insufficienza di risorse economiche alla
persona in rapporto ai suoi bisogni, cioè alle sue essenziali e primarie esigenze
esistenziali, che non possono rimanere insoddisfatti se non a costo di
deterioramento fisico e psichico (Cass. 17/07/92 n. 8687).
Sarà onere dell’interessato dimostrare l’esistenza dello stato di bisogno che
giustifica il beneficio.
La corresponsione dell’assegno è legata al perdurare dello stato di bisogno, per
cui il diritto si estingue alla cessazione di tale condizione ma sorge nuovamente
con il ripresentarsi della stessa.
I criteri per la determinazione dell’assegno sono direttamente indicati nel testo
dell’art.9 bis ed individuati nell’ammontare dell’assegno di divorzio, nell’entità
del bisogno e nella misura dell’eventuale attribuzione della pensione di
reversibilità, nonché nel numero, qualità, condizioni economiche degli eredi e
nell’ammontare delle sostanze ereditarie.
Quando al coniuge divorziato viene contestualmente attribuita parte della
pensione di reversibilità occorre tenere in debita considerazione il quantum della
stessa per il necessario riscontro, considerate altre eventuali disponibilità, della
sussistenza e della misura dello stato di bisogno.
Pertanto, quando al coniuge divorziato sia già stata attribuita o venga
contestualmente attribuita una parte del trattamento pensionistico di reversibilità,
il riconoscimento anche dell’assegno a carico dell’eredità non può prescindere
dall’accertamento del quantum di detto trattamento di pensione, per il necessario
riscontro dell’inadeguatezza del relativo importo, sommato con altre eventuali
disponibilità a tacitare i menzionati bisogni.
Per quanto riguarda i soggetti obbligati, problema aperto è se tenuti al pagamento
dell’assegno siano i soli eredi, sia legittimi che testamentari, o l’obbligo si
estenda anche ai legatari e donatari.
Stante la lettera della norma (che parla di sostanze ereditarie e fa riferimento al
numero e qualità degli eredi), sembra preferibile la prima opinione. I legatari che
non sono quindi obbligati nei confronti dell’ex coniuge saranno responsabili
unicamente nei rapporti interni con gli eredi. Gli eredi necessari sono tenuti nel
limite della porzione disponibile. La corresponsione dell’assegno avverrà in
proporzione delle rispettive quote ereditarie. L’assegno è intrasmissibile non solo
dal lato attivo ma anche da quello passivo, per cui nel caso di morte di un
coobbligato, il debito non si trasferirà agli eredi dell’erede medesimo. Il
divorziato avrà solo la possibilità di adire l’autorità giudiziaria al fine di
conseguire un incremento della quota a carico dei restanti obbligati.
Non è da ritenersi configurabile un litisconsorzio necessario fra i soggetti tenuti
alla corresponsione dell’assegno. Tuttavia, il giudice potrà chiamare in causa
coloro che non sono stati convenuti, accollando a questi la quota di spettanza.

Profili processuali
Si è detto che vi è un’ipotesi in cui l’erogazione dell’assegno non può essere
domandata direttamente all’INPS ma occorre il filtro del provvedimento
giudiziale. Tale ipotesi è prevista dal secondo comma dell’art.9 L.898/70, il quale,
oltre al coniuge divorziato, configura la presenza di un coniuge superstite. In tale
ipotesi, non è neppure prevista la necessaria chiamata in giudizio dell’ente
erogatore.
Pertanto, essendoci un ulteriore soggetto obbligato, competente a ricevere la
domanda è lo stesso tribunale che ha in precedenza pronunciata la sentenza di
scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La domanda va proposta con ricorso e decisa con sentenza all’esito di un
procedimento camerale, in cui il giudice stabilirà le modalità ed individuerà gli
obbligati alla corresponsione dell’assegno.
Quindi è il tribunale civile che attribuisce al coniuge divorziato una quota parte
della pensione e degli altri assegni ad essa collegati, ad integrazione dell’assegno
di divorzio previsto dall’art.5 della L.898/70. Nell’ipotesi di rifiuto ad adempiere
a quanto stabilito dal tribunale civile da parte dell’amministrazione tenuta alla
corresponsione della pensione e degli altri assegni, il coniuge divorziato può
proporre davanti al G.A. ai sensi dell’art.37 L.1034/71 il ricorso per ottenere
l’ottemperanza dell’amministrazione medesima al giudicato del G.O.

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