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UN NODO TEORICO IMPORTANTE

Numerose sono state le filosofie che si sono affacciate durante la storia dell’uomo. In molte di esse
ciò che noi chiameremmo ‘disperazione’ è un tratto importante per comprendere alcune evoluzioni
del pensiero umano. Leggere alcune pagine del Leopardi ad un bambino che non abbia mai dovuto
fare i conti con il profondo significato di questo termine, ad esempio, risulterebbe un’esperienza
completamente priva di senso. Allo stesso modo, parlargli dell’angoscia (Angst) in Martin
Heidegger apparirebbe privo di senso. Più in generale, coloro che propongono nelle loro visioni del
mondo una eco leibniziana del migliore dei mondi possibili, saranno in genere mal propensi a
leggere alcune pagine di scrittori come Emil Cioran, o Ferrnando Pessoa. E dunque malvolentieri
saranno propensi ad ammettere la carica di tragicità che segna da sempre la vicenda umana.
L’obiezione di coloro che forse in modo un poco banale si potrebbero etichettare come gli ottimisti
potrebbe risiedere, almeno in alcuni di essi, proprio nel fatto che un pensiero, un’idea deve produrre
effetti anche sul piano pratico. Potrebbero affermare che nessuna visione del mondo possa
svincolarsi del tutto, almeno nei fatti e al di là delle dichiarazioni programmatiche dei filosofi, da
una ricaduta pratica, sul concreto experiri di ognuno di noi. Infatti il termine greco che sta per
verità, aletheia, è un atto pratico e non teorico: è il disvelamento. È dunque un’azione, un atto, non
un pensiero. E così, secondo questa lettura, ogni filosofo, ogni pensatore, ogni scrittore, compie
innanzitutto un’azione, dalla quale in un secondo momento ricava un pensiero. Del resto mi pare si
possa affermare che l’esistenzialismo abbia per l’appunto messo al centro il carattere della scelta,
dell’agire, in antagonismo rispetto all’astrattezza della metafisica e della filosofia idealistica
hegeliana. E dunque proprio questa dimensione dell’agire appare centrale nella filosofia del
Novecento e contemporanea. Le verità ultime che hanno guidato l’occidente per millenni sembrano
essersi dissolte per lasciar spazio all’individuo, al suo concreto operare. Ma anche dir ciò significa,
in ogni caso, far filosofia, proprio perché la filosofia da sempre, ovviamente comprendendo in essa
anche i grandi sistemi metafisici del passato, ha sempre puntato - anche se in alcuni casi
inconsapevolmente – alla felicità dell’uomo. La conoscenza, l’amore per la conoscenza (da cui il
termine filo-sofia) ha sempre rappresentato per il filosofo la sua via - per quanto complessa e
accidentata e forse irraggiungibile - alla felicità. E questo è avvenuto anche per quei sistemi di
pensiero che apparentemente possono aver poco a che fare con la dimensione dell’agire umano,
perché la conoscenza in tutta la filosofia è per l’appunto amata, cioè considerata un bene per
l’uomo.
Ma se fin qui il ragionamento appare fors’anche di banale evidenza, ritengo opportuno in questa
fase introduttiva riportarlo con lo scopo di evitare futuri equivoci o fraintendimenti di qualsiasi
genere.
Ipotizzare quale potrebbe essere la risposta di un pessimista a tali obiezioni degli ottimisti non è
impresa facile, ma sorge d’uopo in questo caso riportare alcune frasi tratte da una video intervista
concessa da Emil Cioran, in merito alla valenza del suo pensiero

INTERVISTATORE: In generale avete il sentimento della responsabilità, in particolare


della vostra responsabilità verso gli altri?

EMIL CIORAN: Assolutamente no. Non l’ho mai avuto. E quando scrivo, per esempio,
non penso mai che quanto scrivo potrebbe fare del male a qualcuno.

INT.: Si dice che Gide abbia causato la perdita di una generazione?

E. CIORAN: No, per quanto mi riguarda un problema di tal genere non esiste, perché ad
ogni modo non ho lettori. Ho il vantaggio d’essere, nevvero, senza lettori, dunque non
devo avere quel sentimento di responsabilità, ma ad ogni modo non l’avrei. Ritengo che si
scriva per far del male, nel senso “superiore” del termine, per sconcertare, poiché io stesso,
tutto quanto ho letto nella mia vita, l’ho letto per turbarmi. Uno scrittore che, in un modo o
nell’altro, non vi martirizza, non mi interessa. Occorre che qualcuno vi faccia soffrire,
altrimenti non vedo la necessità di leggerlo. In fondo, su questa storia della responsabilità,
vi risponderei in modo molto concreto. E tuttavia qualche lettore ce l’ho per forza di cose.
Ebbene, questi individui sono per la maggior parte dei poveracci, delle persone pietose,
degli sventurati, e per la maggior parte sono nevrotici. Beh, leggere certe mie cose è stata
per loro una sorta di liberazione. In realtà il problema della responsabilità, con le
implicazioni diciamo negative, non si è mai posto né si porrà mai. Ovviamente, forse, non
avrei lo stesso sentimento se i miei libri circolassero normalmente, ma anche in quel caso,
sa, ad ogni modo, essendo la vita quello che è, una cosa assolutamente terribile, non vedo
perché la si dovrebbe truccare, perché eludere il problema del male. È un problema reale
che ci si è posti da sempre, la Genesi inizia con il problema del male. Non è possibile
riesumare questo problema con i buoni sentimenti, bisogna avere il coraggio di essere
crudeli, no? Soprattutto sul piano teorico, e in questo mi riconosco una sorta di ferocità
intellettuale, se vuole. Il problema è che non si può parlare del male in altro modo.

Qualsiasi filosofia - data una coerenza ed un sistema di pensiero che sia il più possibile razionale, e
privo di contraddizioni – dovrà o accettare la visione delle cose di Cioran appena esposta, od
opporsi ad essa. Tertium non datur. E dunque il problema filosofico - per come è stato impostato
fino ad ora, lungo tutta la storia della filosofia - appare porsi in tal modo, inequivocabilmente: o
come rinuncia alla pretesa di felicità, data la consapevolezza dell’irraggiungibilità della stessa, e
l’accettazione che non vi sia via d’uscita al problema del male, e che proprio questa tragica
consapevolezza possa comportare un certo sollievo, oppure al contrario come pensiero che
riconosca, pur con certi limiti, il valore di una filosofia come possibilità per l’uscita dalla crisi.
Tertium non datur. Nel caso di questa seconda eventualità si potrebbe parlare - almeno in una
esplicitazione evidente di queste premesse all’interno di un sistema omogeneo di pensiero - di
ottimismo filosofico, o comunque di una visione ‘eroica’ che consenta all’uomo di poter
fronteggiare il ‘problema del male’ e la crisi.

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