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Il presente
Un’altra caratteristica che collega il potere alla letteratura risiede nella affermazione
della singolarità. È il singolo che vuole affermare il dominio sugli altri, che intende
imporre agli altri il disagio della sottomissione e ribadire il diritto unico di possesso
estendendo il suo desiderio, soverchiando e anzi annullando quello dei suoi
concorrenti. Similmente, lo scrittore si rifugia nella sua individualità per creare un
mondo immaginario in cui egli possa esercitare liberamente il suo potere, da
comunicare poi ai suoi sottoposti che non sono i personaggi del romanzo, bensì i
senza-parole dei lettori, consenzienti muti del subdolo possessore della narrazione.
Fin qui, le concomitanze, da sottoporre a verifica, se è vero che reggano tutta
l’impalcatura di un processo teso a singolarizzare il dominio in un corpo solo, quello
del monarca o dello scriba.
È il caso di tentare di inquisire le ardite peripezie mentali dello scrittore.
Nell’elaborare una storia, lo scrittore si pone questa domanda: “Se fossi vissuto in un
altro tempo, come mi sarei comportato? Vivo in un luogo dove non ci sono conflitti
da un po’, ma mettiamo che fossi nato prima, quando il mio paese è entrato in guerra,
sarei stato interventista o anti-interventista? Avrei tentato di darmi alla fuga magari
riparando in esilio all’estero o mi sarei arruolato? E avrei disertato di fronte agli
orrori oppure avrei combattuto fino all’ultimo?”
Gli scrittori sono decisi a tutto pur di incarnare i loro personaggi. Per questo, devono
moltiplicare la loro sensibilità, fino a negare l’identità e a uscire dalla propria
coscienza, dalle proprie convinzioni, dal proprio sistema di pensiero, dalla propria
sessualità. È questo, forse, il motivo per cui molti scrittori sono omosessuali. La loro
sensibilità è sollecitata a tal punto da varcare i limiti dell’esperienza, perfino sessuale,
per tentare approdi diversi. Essi inoltre si caricano della memoria del passato,
travalicano i limiti che spazio e tempo definiscono, mutano in persone d’altri secoli,
di altri luoghi: e tutto questo attraverso l’esercizio di una individualità che si estende
oltre le parole e le regole del proprio mondo civile e culturale. Essi fanno rivivere lo
spaccato di un altro secolo a cui affidano la possibilità di esprimere un giudizio
postumo su sé stesso o, ancor più intrigante, nei confronti del presente, oppure si
gettano nel futuro parodiando il presente, generando una aperta critica nei confronti
della contemporaneità.
Lo scrittore si fa, anzi, è memoria linguistica intimamente abitata da una sensibilità
emotiva non comune che trascende spazio e tempo: ecco perché in qualche modo egli
può ergersi a giudice del suo tempo ed ecco anche perché quell’ambiente
magistralmente descritto nel romanzo appare al lettore così lucido e lancinante, tanto
da palesarglisi in una luce densa e avvolgente che simula il reale, un reale
abbagliante, che resta inciso come una ferita, come un vessillo mai sbiadito, uno
stendardo alto nel cielo, sogno vissuto a occhi aperti, palpitante, sprigionante una luce
diversa: quella del tempo. Un sogno rivissuto, ricostruito e a volte trasformato dalla
sensibilità del lettore. Il romanzo è una macchina del tempo su cui il lettore sale, per
magia, per restare incantato, sospeso, rinchiuso nel desiderio del racconto.
Interprete di una sorta di capacità di redenzione insita nelle vicende e nelle cose
quando si sposano in una balbettante rivelazione dei segreti affetti e dei collegamenti
intimi volti a illustrare un barlume della verità e a restituire le coordinate
dell’identità, lo scrittore torna all’origine del proprio dirsi, del proprio avvoltolarsi
con l’esterno per fondare l’illusione dell’io, quella sostanza che regge come un filo il
tempo dell’esistenza facendone un’esperienza irripetibile e comunicabile, esprimibile,
affinché si possa percepire e godere il piacere dell’illusione dell’eternità – un piacere
quanto mai bizzarro e astruso.
La letteratura è dunque lotta del singolo in nome della specie contro l’angelo del
tempo, per irretirlo e costringerlo a rivelare la sua essenza, la sua verità, che è quella
di un misterioso avvicendarsi di esistenze di creature che forse, se potessero essere
trascritte tutte insieme (la Biblioteca di Babele di Borges) riuscirebbero a riempire
l’intera geografia del mondo, fino a coincidere con esso. È il sogno di riappacificarsi
e di coincidere con la natura, con ciò che da sempre è stato e sempre sarà, è un
messaggio in bottiglia spedito nell’eterno replicarsi dell’universo, in fondo alla
enigmatica coscienza del vivente, al prodursi e riprodursi della Natura nella forma
della vita, di un’energia che ruba sostanza al tempo, allo spazio, alla massa e
contribuisce alla pacifica dissoluzione del tutto.
Quel che conta, in fondo, per la letteratura, è la ricostruzione intima della vita, per
operarne una riduzione dentro la cartina al tornasole della scrittura,
un’interpretazione, una ridonazione del mondo al mondo, una rigenerazione che però
porta con sé il marchio e la dimensione del singolo: il mondo deve fare i conti con
l’ultimo, se vuol essere tale, e farsi strappare per trovare qualcuno che ne ricuci i
lembi fino a renderli veri, effettivi, funzionali. La letteratura contribuisce a rendere
fruibile il mondo.
Se la letteratura è fatta della stessa sostanza dei meccanismi della specie, essa pone
l’uomo però di fronte a una nuova concezione del possesso, a un nuovo rapporto con
il mondo, contribuendo a negare lo statuto stesso su cui si fonda. Dotata di una forza
che non solo contribuisce a negare il proprio essere, ma anche e soprattutto a negare
la singolarità come espressione di un’autenticazione del potere e dunque a criticare le
fondamenta funzionali dello statuto uomo, la letteratura si configura come
intrinsecamente rivoluzionaria, nella pratica creativa e ispirativa che la fonda,
contraddittoria e ambigua, proprio perché consente a tutto, e si apre a ogni elemento,
pronta a scavare nel fondo alla ricerca della più umile pietra per riscattarne il destino.
La caratteristica sostanza dell’immaginario letterario risiede nella essenza, propria
dell’uomo, della creatura che dalla sua conformazione può trarre la potenza insita nel
silenzio, nella coercizione, nella indifferenza. Egli può sviluppare la propria
differenza, la parola, il pensiero, la fantasia, può concretizzare il suo essere-aperto, il
suo essere-libero, il suo poter negare la sua appartenenza alla vita e alla Natura,
proprio perché chiuso nei recinti della vita e della Natura.
Alla letteratura, che si configura quale nutrimento della rivolta del singolo contro le
costrizioni della società, rivendicazione della complicità dell’altro (il lettore) per
comunicargli esotericamente il messaggio di sovversione che il suo statuto contiene,
espressione della rivincita dell’ultimo della specie, ribellione silente e pacifica,
paragonabile ma anche in contrasto con quella dell’eroe, ebbene alla letteratura
bisognerebbe chiedere un ultimo definitivo atto: di sospendersi, di interrompere la
sua produzione, per elevare una protesta senza pari, che comporti una risposta alla
tragica corsa dell’umanità verso il baratro dell’autoestinzione.
Ultime riflessioni
Contrariamente a quel che ritiene Severino, uno dei più importanti filosofi del nostro
tempo, la forma più potente di dominio non è costituita dalla scienza (e nemmeno
dalla tecnologia), in quanto capace di adeguarsi al divenire, bensì dal Capitale, che
determina l’esperienza e lascia irrompere quel che incomincia ad essere, e lo accoglie
per metterlo alla prova (cfr. Emanuele Severino, Legge e caso); se un oggetto vale la
pena di mercificarlo, viene accolto, altrimenti respinto, annullato. È chiaro che il
Capitale orienta anche la ricerca scientifica e tecnologica, organizzando il “loro
divenire”, la loro azione, che viene influenzata dalla ricerca e dalla creazione di
“oggetti” (invenzioni, brevetti, vaccini, antibiotici, ecc.) in funzione delle esigenze
del Mercato, e cioè della Volontà e del Divenire del Capitale.
Il Capitale non è invincibile. La pandemia non solo ha arrestato il mercato facendo
crollare il movimento desiderante degli “oggetti-feticcio”, ovvero, in termini
economici, determinando la caduta del PIL e delle borse, ma anche e soprattutto
pericolosamente rievocando, nelle popolazioni, i fantasmi della solidarietà e del
sentimento della non-necessarietà (o dell’inutilità) degli oggetti-feticcio. Il Capitale è
riuscito a difendersi, comunque, invocando il bisogno di un vaccino che costituirà il
più grande affare economico di tutti i tempi.
Si tratterà allora di vibrare un altro colpo al Capitale. L’autore di questo saggio
propone uno sciopero generale di tutti gli uomini della cultura scientifica e
umanistica. Per 6 mesi ricercatori, scienziati, scrittori, poeti, medici, antropologi,
sociologi, matematici, psicologi, chimici, fisici, matematici statistici, ingegneri,
architetti, ed altri dovrebbero incrociare le braccia e rifiutarsi di compiere qualsiasi
attività. Un fermo culturale biologico di 6 mesi che cosa potrebbe provocare al
Capitale? Che cosa comporterebbe l’eclissi semestrale del nuovo, dell’emersione di
nuovi oggetti-feticcio?
8 ottobre 2020
Massimo Pamio