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Massimo Pamio

PROLEGOMENI A UNA TEORIA CRITICA DELLO STATUTO


LETTERARIO
L’ immaginario letterario

Da quando Thomas Nagel si è interrogato sulla possibilità di immaginare sé stessi in


una coscienza che non sia la propria, l’uomo ha compreso che forse non saprà mai
come egli si sentirebbe ad essere un pipistrello o un leone. Si tratta di un limite che
coarta anche l’immaginazione letteraria?
La potenza sprigionata dalla fantasia degli scrittori sembrerebbe contraddire le
conclusioni di Nagel. Luciano che si trasforma in asino, Gregorio Samsa che si
risveglia coricato sul suo dorso, impossibilitato a muoversi, divenuto scarafaggio, il
burattino che indossa i panni di un bambino e viceversa, la moglie che diviene
Melampus, cane fedele, nel romanzo di Flaiano, e Mefistofele, Frankestein, Mr.
Hyde, Nosferatu, sono solo alcuni degli esempi che riguardano la capacità dello
scrittore di attribuirsi – forse impunemente – esistenze inaccessibili, grazie alle
metamorfosi e alle trasformazioni dei personaggi frutto della sua fantasia.
Nell’approssimarsi all’elaborazione di un romanzo, gli scrittori saggiano esperienze
che estendono i confini del sistema percettivo e mentale, mediante veri e propri stati
di sospensione del pensiero e dell’io, che romanticamente vengono definiti
ispirazione o atto creativo. Grazie alla capacità di concentrarsi e di astrarsi, essi
inventano storie dal nulla, con cui dimostrano di aver varcato soglie che ai comuni
mortali non è concesso, se non ricorrendo all’uso di sostanze psicotrope. L’audacia di
coloro che si sono messi nei panni di coscienze diverse dalla propria è pari solo a
quella di altri ardimentosi che hanno compiuto abissali incursioni nella propria.
Marcel Proust ha osato avventurarsi nei meandri della mente riuscendo ad anticipare
scoperte scientifiche che avrebbero approvato le basi della sua concezione funzionale
della memoria; Joyce, con lo stream of consciousness, ha illuminato un aspetto in
ombra del pensiero, Kafka ha descritto, penetrando anche negli alveoli del sogno, gli
arcani simbolici che governano intimamente la coscienza quando si pone di fronte a
paure ancestrali pervenute ai contemporanei sotto mutate, nuove configurazioni:
quelle dell’angoscia, degli stati di dissociazione, della mania di persecuzione.
Individui particolarmente dotati di spirito di osservazione, di sensibilità per la parola,
ma anche provvisti della qualità specifica di lasciarsi avviluppare nei gangli della
propria interiorità e di perdersi laddove nessuno riesce: di sentirsi, almeno per un’ora,
pipistrello o leone, ecco, gli scrittori.
Assodato che l’esperienza è personale, pertanto intrinsecamente irriproducibile e
irriferibile, lo scrittore si impegna, per mezzo della parola, a offrire un contenuto a
stati di vera e propria transe, di estasi mentali, di pericolosi abbandoni dell’io in
plaghe ancora insondate. La creatività artistica è l’effetto di una pratica interiore
assimilabile a quella vissuta dai mistici durante le “uscite dal corpo” o da alcuni
ricercatori della scienza nel corso della massima concentrazione mentale, allorché
intuiscono nuove ipotesi o nuove formule: ristretta serie di stati inusuali di esperienze
intime che potrebbero aprire le porte di una dimensione inesplorata, l’ultima zona
geografica non ancora raggiunta dalle sfrontate esplorazioni umane, quella in cui
l’uomo sembra superare i limiti della propria coscienza, per accogliere il mistero e la
complessità del mondo.
Letteratura e potere

A partire dall’analisi di questi stati, si potrebbero chiarire molte questioni riguardanti


l’interpretazione dei testi, schiudendo nuove prospettive teoriche o di lettura del
fenomeno letterario. L’avvalersi di questa diversa prospettiva potrebbe indurre a
ripensare i confini stessi della letteratura, le classificazioni e i generi, a riflettere su
quanto di errato e di limitato (e di limitante) alberghi e sia albergato nelle
codificazioni, nelle gerarchie di valore o nella redazione di ristrette liste di maestri di
stile e di scuole e di movimenti stabilite dai critici e dagli storici della letteratura. C’è
da avvertire molto rammarico nell’immaginare di quali e quante splendide pagine non
si sia conservata alcuna memoria, estromesse dalle antologie e dalle storie della
letteratura pregiudizialmente volte a stabilire in base al principio di autorità il
“canone” della letteratura dei vari paesi, mediante l’imposizione di generalizzazioni
storiche e dei loro inconsapevoli esponenti, con l’esclusione e la censura di autori e di
opere che avrebbero meritato miglior sorte. Il discorso sulle forze che irretiscono
l’immaginario letterario allora non riguarderà più i limiti della coscienza, ma quelli
indotti dall’ideologia dominante.
La letteratura potrebbe essere interrogata dal punto di vista del contributo
all’immaginario e al ripensamento dei canoni sociali e culturali dell’uomo (si pensi
alla fantascienza, al fantasy, alla letteratura fantastica in genere, al noir, ecc.), per
scoprire come abbia elaborato in modo criptico un controcanto delle forme in cui si
sono cristallizzate le civiltà offrendo una visione alternativa a quella che gli uomini
hanno stabilito dei fatti, appellandoli sotto il nomignolo di storia. Sarebbe lecito
chiedersi di liberare la letteratura al fine di liberare le verità che da sempre sono state
occultate, rimosse, mascherate, censurate, vituperate. Per esempio, potrebbe essere
utile analizzare la zona grigia in cui la storia e la letteratura si sovrappongono o si
contrappongono in modo netto.
Non si può affermare che la letteratura sia esente da travestimenti, esclusa dallo
sterminio delle verità. Entrambe, storia della letteratura da una parte e storia
dell’uomo dall’altra, scritte dai vincitori, da quelli che si sono affermati con
l’esercizio del loro potere sugli altri, possono essere accusate di aver manipolato fatti,
avvenimenti, vicende in funzione dei propri interessi, l’una e l’altra costrette a
assecondare la sussistenza di una vero e proprio corpus di antiverità sociali,
fondamenti di una cultura, di quella congerie di rapporti di forze che garantiscono un
patrimonio condiviso, un comune rispecchiarsi in miti e norme che ordinano un
“buon vivere”, ossia il rispetto di quel patto sociale teso a occultare, a nascondere, più
che a svelare, costruendo barriere e mura intorno a tabù, a nuclei originari e fondanti
di violenze e sopraffazioni, di negazioni di altre identità e di altre culture. Nel caso
della letteratura, di essere stata specchio dell’ideologia egemone (sovraideologia
culturale, secondo Gramsci) e di aver cancellato le opere di innumerevoli scrittori
ostili al regime di turno. Insomma, l’uomo non può concepire che cosa sia essere un
pipistrello, ma neanche che cosa significhi vivere in un’altra cultura, in un’altra
civiltà, dovendo per convenzione sociale aprioristicamente escludere tale ipotesi. A
una medietà (o mediocrità) che rispetta l’ideologia letteraria dominante si deve
ispirare ogni scrittore se vuole emergere e farsi conoscere, rispettando l’uso
linguistico, i temi affrontati, i generi più frequentati di quel periodo.
Da questo punto di vista, si potrebbe tacciare la letteratura di inautenticità, di non
essere libertà di espressione svincolata da ogni preconcetto, qualità di comporre e
immaginare mondi, quanto piuttosto di consistere in una parodia di sé stessa, di
essere celatamente e sordidamente ancella del potere. Lo scrittore, in quanto uomo
egli stesso, non sfuggirebbe alla legge secondo cui il fine ultimo di ciascun esemplare
umano non si identificherebbe nell’appassionarsi alla ricerca della verità della propria
condizione bensì si tradurrebbe nella volontà di esercitare il potere oppure, come nel
caso del letterato, nel rendersene silenziosamente complice. La letteratura sembra
acconsentire alle mene di un manipolo di potenti che vuole a ogni costo giustificare
l’uso del dominio, e che divide il mondo in alto e basso, in superiore e inferiore, in
mente e corpo, in maschi e femmine, in ricchi e poveri, in bianchi e negri, ovvero in
tutta una serie di opposizioni di una logica discriminatoria che contribuisce a ordinare
il funzionamento del convivere: di quale convivere, se appunto pregiudizialmente ci
sono distinzioni che favoriscono e privilegiano l’esistenza di alcuni rispetto ad altri?

Il presente

Ai nostri giorni, l’ipocrisia è il vero sentimento universale che uniforma e globalizza


gli uomini. Tutte le culture ossequiano una gerarchia mondiale di superpotenze e
multinazionali, fissando parametri e perfino modi di pensare e di agire, di giudicare
(il pregiudizio è sempre orientato e tende a normare). Il pregiudizio, in tutte le sue
coniugazioni (le fake news e il politicamente corretto ne sono nuove implicazioni), è
divenuto il fondamento della società umana. Non ci sono più sacche che permettono
di esercitare un giudizio critico, un meditato ripensamento dei fondamenti culturali;
la censura opera non solo all’interno della società, ma perfino nella mente d’ogni
individuo. Insieme con i loro vessilli, sono scomparse le forme e le idee della libertà e
dell’utopia, estinte per sempre le avanguardie, i profeti del nuovo, annientati da una
planetale corsa sfrenata che ne anticipa e spegne le velleità, in virtù di un continuo
costante stato febbricitante delle società integralmente proiettate verso il nuovo ed
impegnate a generare una produzione seriale degli oggetti di consumo che si è
evoluta in una continua e ininterrotta proposizione di novità. Questa dinamica rende
improponibile il pensiero critico, abbisognevole di presenze reali, di oggetti da
smascherare e non di feticci volti a sostituirsi, a negare loro stessi da un giorno
all’altro, in un movimento alienante che rende impossibile la verifica di una qualsiasi
forma di opposizione all’esistente, a un presente reso instabile e senza centro,
sovrappopolato di simulacri che sono replicanti ready-made del volto sfuggente del
potere, il quale, smarcatosi rispetto al tempo e allo spazio, si è reso irreperibile
proprio perché impensabile in questo suo mostrarsi sempre nuovo, in forza di un
volto in perenne mutazione. Un volto proprio del trasformismo (o travestitismo)
facciale o del lifting che lo rifà diverso ogni giorno, un volto che è sempre lo stesso
ma via via più irriconoscibile, e appiattito, privo dei lineamenti originari. Il potere si è
reso democraticamente accessibile a tutti: proprio nel volto-feticcio, che, essendo
senza rughe e senza lineamenti riconoscibili, può essere copiato e incollato sul
proprio mediante il lifting, in una costruzione collettiva anticipata del giorno ultimo,
quello del Giudizio, in cui il volto è diventato unico, uguale per ognuno, maschera di
gomma e di silicone, che rende democraticamente tutti invisibili e senza una vera
connotazione. Il potere diventa assoluto facendo perdere le tracce del proprio volto o
disseminandosi nell’infinita produzione di oggetti che lo presentificano e lo
vivificano grazie al desiderio di coloro che ne sono eccitati. In virtù del rinnovamento
quotidiano di cose, l’esistenza diviene una cerimonia rituale atta a ripetere sé stessa
all’infinito in cui tutti i senza-volto si possono riconoscere. L’irruzione compulsiva
del nuovo rende sempre più nevrotici e inaffidabili gli esseri umani, sottoposti a
liturgie che mirano al raggiungimento del piacere propagandato dai mass media
impegnati a mantenere vivi gli appetiti delle masse. Le masse sono divenute corpo
unico globale desiderante, privo di coscienza e di alcuna identità, privo di volontà.
Tutti tesi verso le isole del divertimento aperte ad hoc, poi rinchiusi dentro casa per
evitare la pandemia, debitamente in fila per acquistare l’ultimo modello tecnologico,
indotti a scaricare sul cellulare la nuova app che controlla i desideri personali ma
permette di ricevere in omaggio il biglietto mediante cui partecipare al concorso
mediante cui si vince l’accesso alle isole del divertimento aperte ad hoc.
Le masse, simili a sciami di storni, si liberano in comode rotte aeree verso le isole del
piacere, e mutano direzione al mutare dei luoghi del divertimento, in riti collettivi
preorgiastici, il cui unico fine è quello di rispettare la volontà di colui o di coloro che
dettano il movimento. È necessario, per il potere, mantenere desto il desiderio,
alimentato dai mass media, rinnovato dalla tecnologia; l’organizzazione mondiale è
resa stabile e funzionale grazie a una matrice simbolica universale riconoscibile che
rende semplice ottenere l’accesso al desiderio: il denaro. Senza denaro, non si ha
diritto di appartenere allo sciame. Si corre il rischio di essere emarginati, espulsi,
reietti, resi invisibili, inesistenti, definiti vecchi pensionati parassiti o inutili barboni,
oltraggiati perché disoccupati cronici, fisicamente invalidi, malati, disabili, senza
casa, clandestini, senza documento, emigrati da terre inabitabili, componenti di una
parte sociale sottoposti a espiare la propria colpa venendo allontanati dal diritto
all’espressione del desiderio ma anche, esclusi dallo sciame in volo, scelti per essere
additati quali rappresentanti di una non-umanità, di un nonluogo dell’umano, di
quella zavorra che si elegge come ciò (e non come coloro) che nessuno vuole.
Il meccanismo infernale è quello di un accumulo della emanazione-produzione
infinita di oggetti sostitutivi del piacere verso i quali le masse-sciame s’involano,
attratte come insetti dal nettare dei fiori, subornati dalle immagini pubblicitarie, che
adornano i beni di consumo di profumi e colori che le masse percepiscono eccitando
il loro movimento all’interno del volo rapido che lega gli individui, obbligati a
mantenere la stessa velocità per non perdere il passo e non andare a sbattere contro
quello che insegue dietro, restando fuori dal disegno di bellezza che tutti insieme
definiscono. Piacere e bellezza sono il vero estetico del capitale, che adopera tutti i
mezzi dell’elevazione culturale per addomesticare i corpi fondendoli in uno, nella
massa, appunto, materia grossolana del capitale, sistema che mira a sostituire la
materia con strumenti più sofisticati, in funzione di un’immortalità del desiderio e dei
desideranti.
La letteratura e il piacere

Come si inserisce il discorso sullo statuto letterario in un contesto in cui il potere


tende alla trascendenza di sé stesso mediante un processo autorigenerante?
La letteratura è un fenomeno speculare, che ricalca in qualche modo la follia
onnipotente e trascendente del capitale. All’interno di essa, la parola prende linfa
dalla vita, si abbevera al desiderio assoluto e unico dell’esistenza, per essere
rigenerata in una dimensione immaginaria, senza passare per la prova dell’esperienza,
ma solo toccando le corde della sensibilità del possibile lettore. È autorigenerarsi di
un movimento apparentemente libero in cui ogni parola è oggetto del desiderio del
lettore, stimolato a seguirne il volo in modo appartato, partecipe del sentimento dello
scrittore, astro di riferimento.
La qualità che garantisce tali processi è costituita dal piacere, da una forma della
natura del piacere che, derivata da una legge dettata da un codice universale, si
manifesta in un vero e proprio sviluppo d’un movimento orbitale reso effettivo e
operante, diventato fine e non più mezzo (o impulso) della stessa vita. Occorrerebbe
dunque individuare i meccanismi di tale circuito del piacere, probabilmente legato a
una specie di matrice, per comprendere come si siano sviluppati paradigmi dotati di
componenti basali riproducibili, interpretati sotto forme di numeri, di forze e leggi
fisico-chimiche, di dinamiche culturali, e che orientano ogni specie di relazioni e di
rapporti.
Il piacere del possesso del reale – il governo dell’esistente – è il potere, una delle
dinamiche osmotiche attorno a cui si stabilisce la logica stessa della società umana, se
si basa sul contrapporsi delle forze all’interno del gruppo. Si esplica nel sentimento
dell’onnipotenza da parte del capo, il quale concentra il movimento desiderante del
piacere attorno alla sua persona, degna di essere consacrata e desiderata, scegliendo
anche i simboli e i feticci del suo corpo, quali sostituti dell’oggetto del desiderio.
Tutto il moto è rivolto al Corpo e ai Nomi e alle Effigi del Capo, in un vortice
desiderante che lo rafforza: l’energia centripeta spinge verso la sua Immagine, origine
e scopo della vita sociale.
Il Capitale per mezzo del Denaro muove vorticosamente gli oggetti-merci attorno a
sé, in una corsa sempre più sfrenata, che però rischia di risucchiare e travolgere tutto
e tutti, “nel punto del vortice in cui la pressione è uguale a meno infinito” (cito
Giorgio Agamben, da Il fuoco e il racconto, 2014, a p. 62).
Attorno al Corpo dello Scrittore divenuto Letteratura e Vita ruotano i desideri dei
lettori, per assorbirne i sentimenti e per riconoscersi in lui, fine ultimo del ripetersi
infinito della Narrazione. Fino a che esisteranno lettori, il corpo dello scrittore vivrà,
donandosi nella sua infinita bontà fatta dei sentimenti racchiusi nella narrazione. Il
piacere si trasmetterà per sempre attraverso la parola, mezzo e non più fine della
Letteratura.
Che il piacere sia lo scopo di ogni dinamica del vivente, è per il semplice motivo che
ogni specie, per sopravvivere, deve replicarsi. Probabilmente, il piacere è stato
aggiunto in seguito alla necessità della replicazione, come un di più, che però ha
rivestito di sé ogni dinamica, fino a pervenire a una condizione di necessarietà o di
onnipresenza. Accanto al godimento, occorre citare il gusto estetico, divenuto aspetto
portante della società umana. Piacere e bellezza rivestono alcune delle componenti
più rilevanti mediante cui la specie umana organizza le sue tecniche di
sopravvivenza. Fino a che la letteratura contribuirà a formare l’idea della bellezza e
del piacere (dei sentimenti) essa sopravviverà.

Per una critica dello statuto del piacere

Da queste argomentazioni basate su un programma teorico di cui sono state delineate


solo le principali componenti, è possibile ricavare una critica dello statuto letterario e,
indirettamente, una critica dello statuto del piacere? La questione è complessa,
perché, come ai più attenti lettori sarà apparso, le leggi della vita e del Capitale si
sono pericolosamente specializzate e annodate, in un abbraccio mortale per la specie
umana, a causa di una complessità che proviene da lontano, da scelte compiute nel
tempo dalla coscienza operante all’interno dei sistemi viventi complessi,
nell’interazione con l’ambiente. Diviene difficile per il pensiero critico intervenire su
quello che si è pericolosamente incarnato nelle forme stesse e nelle regole del
vivente, ostico perfino a quel pensiero ecologico o biocentrico, che da Arne Naess in
poi si è impegnato, più rigorosamente di ogni altro, ad affrontare il problema e a
proporre possibili alternative (una studiosa estremamente dotata è Serenella Iovino,
autrice di opere di cui consiglio vivamente la lettura, Filosofie dell’ambiente. Natura,
etica, società, del 2004, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, del 2004,
Ecocriticism and Italy: Ecology, Resistance, and Liberation, del 2016).
Che cosa ritenere, che la letteratura sia stata sempre un divertimento solipsistico per
pochi, un approccio tra lettore e scrittore, un gioco erotico basato sul consenso
dell’immaginario, una folie à deux? E che cosa pensare della storia, se non che gli
uomini primitivi si siano strutturati in gruppi non solo per la loro propensione
socializzante e per procurarsi cibo più facilmente, ma anche e soprattutto in funzione
della garanzia sessuale e del piacere, nel condividere l’atto sessuale in gruppo,
liberamente, senza vincoli? E che già da allora il più forte provvedeva a ordinare
questa esigenza, imponendo il proprio corpo, come luogo privilegiato del piacere?
Potrebbe consistere in questa rivendicazione personale del possesso da parte
dell’autorità, la forma di una prima vera e propria rivoluzione sociale, che sarebbe
stata generata dall’abbandono dell’idea di un gruppo di eguali in favore di una società
basata sulla discriminazione e sul dominio di un solo componente? Sarebbe un atto di
primaria violenza o di affermazione del dominio personale sugli altri in nome del
piacere a segnare la nascita del principio del diritto del più forte, del possesso
personale, della nascita della proprietà privata? Ne troviamo tracce nella mitologia di
tutte le civiltà, a partire da quella greca che proietta l’idea del più forte in Zeus,
riconoscendogli il diritto di possedere tutte le donne, le dee, le ninfe, le umane.
Innumerevoli sarebbero i riferimenti. Esemplare è la storia ovidiana della ninfa Io,
che, posseduta da Giove, viene trasformata in giovenca per sfuggire alle gelosie di
Giunone, pronta a sequestrare l’animale per affidarlo alla stretta sorveglianza di Argo
dai cento occhi, il quale viene proditoriamente fatto addormentare da Mercurio al
suono della siringa, e cioè con l’ausilio dell’arte, presentata come espediente
ingannevole al servizio del potere: le implicazioni sarebbero troppe, per affrontarle in
questa sede.
Parimenti, la prima vera letteratura non è forse quella epica, la narrazione orale delle
gesta degli eroi, prima propaganda di regime, volta a conferire valore al corpo del
capo e dei suoi aiutanti, al fine di una pianificazione sociale, della codificazione della
normativa basata sulla legge del più forte e del suo “corpo” di guardia, di coloro che,
in suo nome, portano al di là dei confini il suo desiderio di possesso di nuove terre e
nuove donne? Enea non è il potente che, perduta la guerra in casa, andrà a compiere
altrove l’esercizio del dominio? Se la volontà di potere nasce dall’affermazione del
diritto unico del capo al piacere, non è forse vero che la guerra tra i greci e i troiani
avviene a causa della contesa di Elena, di una donna? E i romani non rapiscono le
sabine come primo atto di esercizio del dominio al di fuori della propria terra?
Penelope non rappresenta forse l’oggetto del desiderio che i potenti si disputano e che
compete solo al più forte, Ulisse?

La letteratura come voce del singolo e dell’ultimo

Un’altra caratteristica che collega il potere alla letteratura risiede nella affermazione
della singolarità. È il singolo che vuole affermare il dominio sugli altri, che intende
imporre agli altri il disagio della sottomissione e ribadire il diritto unico di possesso
estendendo il suo desiderio, soverchiando e anzi annullando quello dei suoi
concorrenti. Similmente, lo scrittore si rifugia nella sua individualità per creare un
mondo immaginario in cui egli possa esercitare liberamente il suo potere, da
comunicare poi ai suoi sottoposti che non sono i personaggi del romanzo, bensì i
senza-parole dei lettori, consenzienti muti del subdolo possessore della narrazione.
Fin qui, le concomitanze, da sottoporre a verifica, se è vero che reggano tutta
l’impalcatura di un processo teso a singolarizzare il dominio in un corpo solo, quello
del monarca o dello scriba.
È il caso di tentare di inquisire le ardite peripezie mentali dello scrittore.
Nell’elaborare una storia, lo scrittore si pone questa domanda: “Se fossi vissuto in un
altro tempo, come mi sarei comportato? Vivo in un luogo dove non ci sono conflitti
da un po’, ma mettiamo che fossi nato prima, quando il mio paese è entrato in guerra,
sarei stato interventista o anti-interventista? Avrei tentato di darmi alla fuga magari
riparando in esilio all’estero o mi sarei arruolato? E avrei disertato di fronte agli
orrori oppure avrei combattuto fino all’ultimo?”
Gli scrittori sono decisi a tutto pur di incarnare i loro personaggi. Per questo, devono
moltiplicare la loro sensibilità, fino a negare l’identità e a uscire dalla propria
coscienza, dalle proprie convinzioni, dal proprio sistema di pensiero, dalla propria
sessualità. È questo, forse, il motivo per cui molti scrittori sono omosessuali. La loro
sensibilità è sollecitata a tal punto da varcare i limiti dell’esperienza, perfino sessuale,
per tentare approdi diversi. Essi inoltre si caricano della memoria del passato,
travalicano i limiti che spazio e tempo definiscono, mutano in persone d’altri secoli,
di altri luoghi: e tutto questo attraverso l’esercizio di una individualità che si estende
oltre le parole e le regole del proprio mondo civile e culturale. Essi fanno rivivere lo
spaccato di un altro secolo a cui affidano la possibilità di esprimere un giudizio
postumo su sé stesso o, ancor più intrigante, nei confronti del presente, oppure si
gettano nel futuro parodiando il presente, generando una aperta critica nei confronti
della contemporaneità.
Lo scrittore si fa, anzi, è memoria linguistica intimamente abitata da una sensibilità
emotiva non comune che trascende spazio e tempo: ecco perché in qualche modo egli
può ergersi a giudice del suo tempo ed ecco anche perché quell’ambiente
magistralmente descritto nel romanzo appare al lettore così lucido e lancinante, tanto
da palesarglisi in una luce densa e avvolgente che simula il reale, un reale
abbagliante, che resta inciso come una ferita, come un vessillo mai sbiadito, uno
stendardo alto nel cielo, sogno vissuto a occhi aperti, palpitante, sprigionante una luce
diversa: quella del tempo. Un sogno rivissuto, ricostruito e a volte trasformato dalla
sensibilità del lettore. Il romanzo è una macchina del tempo su cui il lettore sale, per
magia, per restare incantato, sospeso, rinchiuso nel desiderio del racconto.
Interprete di una sorta di capacità di redenzione insita nelle vicende e nelle cose
quando si sposano in una balbettante rivelazione dei segreti affetti e dei collegamenti
intimi volti a illustrare un barlume della verità e a restituire le coordinate
dell’identità, lo scrittore torna all’origine del proprio dirsi, del proprio avvoltolarsi
con l’esterno per fondare l’illusione dell’io, quella sostanza che regge come un filo il
tempo dell’esistenza facendone un’esperienza irripetibile e comunicabile, esprimibile,
affinché si possa percepire e godere il piacere dell’illusione dell’eternità – un piacere
quanto mai bizzarro e astruso.
La letteratura è dunque lotta del singolo in nome della specie contro l’angelo del
tempo, per irretirlo e costringerlo a rivelare la sua essenza, la sua verità, che è quella
di un misterioso avvicendarsi di esistenze di creature che forse, se potessero essere
trascritte tutte insieme (la Biblioteca di Babele di Borges) riuscirebbero a riempire
l’intera geografia del mondo, fino a coincidere con esso. È il sogno di riappacificarsi
e di coincidere con la natura, con ciò che da sempre è stato e sempre sarà, è un
messaggio in bottiglia spedito nell’eterno replicarsi dell’universo, in fondo alla
enigmatica coscienza del vivente, al prodursi e riprodursi della Natura nella forma
della vita, di un’energia che ruba sostanza al tempo, allo spazio, alla massa e
contribuisce alla pacifica dissoluzione del tutto.
Quel che conta, in fondo, per la letteratura, è la ricostruzione intima della vita, per
operarne una riduzione dentro la cartina al tornasole della scrittura,
un’interpretazione, una ridonazione del mondo al mondo, una rigenerazione che però
porta con sé il marchio e la dimensione del singolo: il mondo deve fare i conti con
l’ultimo, se vuol essere tale, e farsi strappare per trovare qualcuno che ne ricuci i
lembi fino a renderli veri, effettivi, funzionali. La letteratura contribuisce a rendere
fruibile il mondo.
Se la letteratura è fatta della stessa sostanza dei meccanismi della specie, essa pone
l’uomo però di fronte a una nuova concezione del possesso, a un nuovo rapporto con
il mondo, contribuendo a negare lo statuto stesso su cui si fonda. Dotata di una forza
che non solo contribuisce a negare il proprio essere, ma anche e soprattutto a negare
la singolarità come espressione di un’autenticazione del potere e dunque a criticare le
fondamenta funzionali dello statuto uomo, la letteratura si configura come
intrinsecamente rivoluzionaria, nella pratica creativa e ispirativa che la fonda,
contraddittoria e ambigua, proprio perché consente a tutto, e si apre a ogni elemento,
pronta a scavare nel fondo alla ricerca della più umile pietra per riscattarne il destino.
La caratteristica sostanza dell’immaginario letterario risiede nella essenza, propria
dell’uomo, della creatura che dalla sua conformazione può trarre la potenza insita nel
silenzio, nella coercizione, nella indifferenza. Egli può sviluppare la propria
differenza, la parola, il pensiero, la fantasia, può concretizzare il suo essere-aperto, il
suo essere-libero, il suo poter negare la sua appartenenza alla vita e alla Natura,
proprio perché chiuso nei recinti della vita e della Natura.
Alla letteratura, che si configura quale nutrimento della rivolta del singolo contro le
costrizioni della società, rivendicazione della complicità dell’altro (il lettore) per
comunicargli esotericamente il messaggio di sovversione che il suo statuto contiene,
espressione della rivincita dell’ultimo della specie, ribellione silente e pacifica,
paragonabile ma anche in contrasto con quella dell’eroe, ebbene alla letteratura
bisognerebbe chiedere un ultimo definitivo atto: di sospendersi, di interrompere la
sua produzione, per elevare una protesta senza pari, che comporti una risposta alla
tragica corsa dell’umanità verso il baratro dell’autoestinzione.

Ultime riflessioni

Contrariamente a quel che ritiene Severino, uno dei più importanti filosofi del nostro
tempo, la forma più potente di dominio non è costituita dalla scienza (e nemmeno
dalla tecnologia), in quanto capace di adeguarsi al divenire, bensì dal Capitale, che
determina l’esperienza e lascia irrompere quel che incomincia ad essere, e lo accoglie
per metterlo alla prova (cfr. Emanuele Severino, Legge e caso); se un oggetto vale la
pena di mercificarlo, viene accolto, altrimenti respinto, annullato. È chiaro che il
Capitale orienta anche la ricerca scientifica e tecnologica, organizzando il “loro
divenire”, la loro azione, che viene influenzata dalla ricerca e dalla creazione di
“oggetti” (invenzioni, brevetti, vaccini, antibiotici, ecc.) in funzione delle esigenze
del Mercato, e cioè della Volontà e del Divenire del Capitale.
Il Capitale non è invincibile. La pandemia non solo ha arrestato il mercato facendo
crollare il movimento desiderante degli “oggetti-feticcio”, ovvero, in termini
economici, determinando la caduta del PIL e delle borse, ma anche e soprattutto
pericolosamente rievocando, nelle popolazioni, i fantasmi della solidarietà e del
sentimento della non-necessarietà (o dell’inutilità) degli oggetti-feticcio. Il Capitale è
riuscito a difendersi, comunque, invocando il bisogno di un vaccino che costituirà il
più grande affare economico di tutti i tempi.
Si tratterà allora di vibrare un altro colpo al Capitale. L’autore di questo saggio
propone uno sciopero generale di tutti gli uomini della cultura scientifica e
umanistica. Per 6 mesi ricercatori, scienziati, scrittori, poeti, medici, antropologi,
sociologi, matematici, psicologi, chimici, fisici, matematici statistici, ingegneri,
architetti, ed altri dovrebbero incrociare le braccia e rifiutarsi di compiere qualsiasi
attività. Un fermo culturale biologico di 6 mesi che cosa potrebbe provocare al
Capitale? Che cosa comporterebbe l’eclissi semestrale del nuovo, dell’emersione di
nuovi oggetti-feticcio?

8 ottobre 2020

Massimo Pamio

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