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Presentazione

Il peggio sembrava passato. Dopo anni trascorsi in solitudine, costantemente braccata dai
nostri nemici, avevo finalmente ritrovato i miei compagni e, insieme, stavamo sviluppando i
nostri poteri e raccogliendo sempre più informazioni sulla nostra missione. Diventavamo ogni
giorno più forti. Eravamo quasi felici...
Ma poi loro hanno corrotto il Numero Cinque e lo hanno convinto a rivelare il nostro
nascondiglio. A causa del suo tradimento, non rivedremo mai più il Numero Otto. Sarei disposta a
tutto pur di riaverlo al mio fianco, però è solo un sogno. Non mi resta altro che la vendetta.
Perché loro hanno preso il Numero Uno in Malesia.
Il Numero Due in Inghilterra.
Il Numero Tre in Kenya.
Il Numero Otto in Florida.
E li hanno uccisi.
Io sono il Numero Sette. Ho trascorso metà della mia vita in fuga, e adesso è giunto il
momento di reagire. Siamo più forti di quanto credano. Conosciamo i loro segreti e i loro punti
deboli. Non è più tempo di nascondersi. È tempo di combattere.
E questa volta li annienteremo.

Pittacus Lore è il capo degli Antenati, gli anziani che governavano il pianeta Lorien prima
della sua distruzione. Vive sulla Terra da dodici anni, preparandosi per la guerra che deciderà il
destino dei Nove e, con loro, quello dell'intera umanità. Nessuno sa dove sia.
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@EditriceNord

www.illibraio.it

Titolo originale
The Revenge of Seven

ISBN 978-88-429-2665-8

In copertina: Jacket art © 2014 Craig Shields


Grafica: Meccano Floreal

Copyright © 2014 by Pittacus Lore


All rights reserved
© 2015 Casa Editrice Nord s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale 2015


IL RITORNO
GLI EVENTI NARRATI IN QUESTO LIBRO SONO REALI.

I NOMI DI PERSONE E DI LUOGHI SONO STATI MODIFICATI


PER PROTEGGERE I LORIC,
CHE SONO TUTTORA NASCOSTI.

ESISTONO DAVVERO ALTRE CIVILTÀ.

ALCUNE STANNO CERCANDO DI DISTRUGGERVI.


1

L'incubo è finito. Quando apro gli occhi, vedo solo il buio.


Sono sdraiata su un letto, e non è il mio. Il materasso è molto largo e segue alla perfezione i
contorni del mio corpo; per un momento mi domando se i miei amici mi abbiano trasportata in una
delle camere da letto dell'attico di Nove. Allargo braccia e gambe, ma non trovo i bordi del
materasso. Il lenzuolo che mi copre è più liscio che morbido, sembra quasi un telo di plastica, ed
emana calore. Anzi non solo calore, ma anche una vibrazione costante che allevia il dolore nei
muscoli.
Quanto ho dormito? E dove mi trovo?
Cerco di ricordare cosa mi è successo, ma mi torna in mente soltanto l'ultima visione. Un
incubo orribile e interminabile. Sento ancora la puzza di gomma bruciata, le nubi di fumo che
aleggiano sopra Washington dopo la battaglia che è infuriata lì. O che infurierà, se la mia visione
dovesse avverarsi.
Le visioni. Sono la manifestazione di una nuova Eredità? Le Eredità degli altri non li lasciano
traumatizzati ogni mattina. Sono profezie? O minacce inviate da Setrákus Ra, come i sogni che
John e Otto facevano? Sono avvertimenti?
Qualsiasi cosa siano, vorrei che se ne andassero.
Faccio lunghi respiri per scacciare dalle narici la puzza di Washington, pur sapendo che è
solo nella mia testa. Peggio ancora della puzza è il fatto che ricordo ogni dettaglio, fino allo
sguardo di terrore sul volto di John quando mi ha vista condannare a morte Sei, su quel palco con
Setrákus Ra. John era intrappolato con me nella visione. Ero inerme, lassù, stretta fra Setrákus
Ra, che si era autonominato imperatore del mondo, e...
E Cinque. Cinque è complice dei Mogadorian! Devo avvertire gli altri!
Mi alzo di scatto a sedere sul letto. La testa mi comincia a girare, sfere color ruggine mi
offuscano la vista. Batto le palpebre, sento gli occhi appiccicosi, le labbra secche e la gola riarsa.
No, non mi trovo nell'attico.
Muovendomi devo avere attivato qualche sensore, perché le luci si accendono gradualmente e
gettano sulla stanza una luminescenza rossastra. Mi guardo intorno in cerca della fonte di luce e
vedo che sulle pareti coperte da pannelli cromati pulsano vene luminose. Mi corre un brivido
lungo la schiena quando vedo com'è spoglia e severa la stanza, priva di qualsiasi decorazione.
Ora la coperta emana più calore di prima, quasi mi stesse chiedendo di raggomitolarmi nel letto.
La spingo via.
Questo posto appartiene ai Mogadorian.
Avanzo carponi fino al bordo dell'enorme letto -- è più grande di un SUV, potrebbe ospitare
comodamente un dittatore mog alto tre metri -- e tiro giù le gambe: i miei piedi nudi restano
sospesi sopra un pavimento di metallo. Indosso una lunga camicia da notte grigia, ricamata con
tralci e spine nere. Rabbrividisco all'idea che mi abbiano infilato questa camicia e mi abbiano
lasciata qui a riposare. Potevano uccidermi, e invece mi hanno messa in pigiama. Nella visione
ero seduta accanto a Setrákus Ra, che mi definiva la sua erede. Ma cosa significa? È per questo
che sono ancora viva?
Non importa. Sta di fatto che sono prigioniera. E, ora che lo so, cosa posso farci?
Immagino che i Mog mi abbiano trasferita in una delle loro basi. Ma la stanza in cui mi trovo
non somiglia alle orribili e anguste celle in cui Nove e Sei mi hanno raccontato di essere stati
rinchiusi. No, questa dev'essere l'idea distorta di ospitalità dei Mogadorian. Vogliono prendersi
cura di me.
Setrákus Ra ha ordinato a tutti di trattarmi più da ospite che da prigioniera, perché vuole che
un giorno io regni al suo fianco. Non capisco ancora perché, ma al momento è l'unica cosa che mi
tiene in vita.
E gli altri?
Se io sono qui, cos'è successo agli altri, a Chicago?
Mi tremano le mani, mi vengono le lacrime agli occhi. Devo andarmene di qui. E devo
riuscirci da sola.
Mi faccio forza, ricaccio indietro la paura e le visioni di una Washington rasa al suolo, i
timori per la sorte dei miei amici. Sgombero la mente da ogni pensiero: devo essere una tabula
rasa, com'ero quando abbiamo combattuto per la prima volta contro Setrákus Ra in New Mexico,
e com'ero durante l'addestramento con gli altri. È più facile essere coraggiosa se non ci penso. Se
mi affido all'istinto, posso farcela.
Corri, mi dico, immaginando che sia la voce di Crayton. Corri finché non saranno troppo
stanchi per inseguirti ancora.
Ho bisogno di un'arma con cui combatterli. Mi guardo intorno. Accanto al letto c'è un
comodino di metallo, l'unico altro mobile nella stanza. I Mog mi hanno lasciato un bicchiere
d'acqua, che mi rifiuto di bere anche se ho una sete terribile. Accanto al bicchiere c'è un libro
grosso come un dizionario, con la copertina in pelle di serpente su cui è inciso un titolo in lettere
concave dai bordi frastagliati, come se avessero usato l'acido al posto dell'inchiostro: Il grande
libro del progresso mogadorian. Al di sotto ci sono strani geroglifici spigolosi, che immagino
siano nella lingua dei Mog.
Prendo il libro e lo apro. Ogni pagina è divisa a metà, inglese da una parte e mogadorian
dall'altra. Vogliono che lo legga?
Lo richiudo di scatto. L'importante è che è un libro grosso e pesante: non basterà per
trasformare un Mog in una nube di cenere, ma è meglio di niente.
Scendo dal letto e raggiungo quella che mi sembra la porta: un pannello rettangolare ritagliato
nella parete metallica, senza maniglie né pulsanti.
Mentre mi avvicino in punta di piedi, chiedendomi come aprire la porta, sento un ronzio
meccanico dall'interno della parete. Dev'essere un sensore di movimento, come le luci: non
appena la raggiungo, la porta inizia a scorrere sibilando dal basso verso l'alto e scompare nel
soffitto.
Non mi soffermo a chiedermi perché non mi abbiano chiusa dentro. Stringo il libro ed esco in
un corridoio freddo e rivestito di metallo come la stanza.
«Ah, sei sveglia», dice una voce femminile.
Non ci sono guardie, ma c'è una Mogadorian seduta su uno sgabello appena fuori dalla stanza:
è chiaro che mi aspettava. Non avevo mai visto una Mog femmina, credo, e di sicuro nessuna che
somigliasse a lei. Di mezz'età, con un reticolo di rughe sulla pelle chiara intorno agli occhi, la
Mog sembra stranamente poco minacciosa nel suo abito a collo alto e lungo fino ai piedi, simile a
quelli che indossavano le suore del convento di Santa Teresa. Ha la testa rasata, a parte due
lunghe trecce nere fissate sulla nuca; il resto del cuoio capelluto è coperto da un intricato
tatuaggio. Gli altri Mog contro cui ho combattuto erano spietati e violenti, ma questa è quasi
elegante.
Mi fermo davanti a lei, incerta sul da farsi.
La Mog guarda il libro che ho tra le mani e sorride. «E sei pronta a iniziare i tuoi studi,
vedo.» Si alza. È alta e magra, ha un po' le movenze di un ragno. Si profonde in un inchino.
«Padrona Ella, sarò la tua istitutrice finché...»
Non appena ha chinato la testa a sufficienza, le sferro col libro un colpo in pieno volto, con
tutta la forza che ho.
La colgo alla sprovvista, e mi sembra strano: tutti i Mog che finora ho incontrato erano pronti
a combattere. Lei invece emette un breve gemito e stramazza a terra in un frusciare di gonne.
Non mi fermo a controllare se è svenuta, o se sta tirando fuori un fucile da qualche piega di
quel vestito. Scelgo una direzione a caso e mi metto a correre più veloce che posso. Il pavimento
di metallo mi fa male ai piedi nudi; i muscoli iniziano a dolermi, ma li ignoro. Devo andarmene.
Purtroppo nelle basi dei Mogadorian non ci sono mai cartelli che indichino l'uscita. Svolto un
angolo e poi un altro, percorro una serie di corridoi identici tra loro. Mi aspetto di sentire da un
momento all'altro una sirena che annuncia la mia fuga, e invece no. E non sento dietro di me i
passi pesanti dei Mog lanciati all'inseguimento.
Proprio quando non ho più fiato e temo di dover rallentare, alla mia destra si apre una porta
da cui escono due Mogadorian. A differenza della femmina, hanno l'aspetto tipico della loro
razza: grandi e grossi, in uniforme nera, mi fissano con gli occhietti penetranti. Li aggiro e
continuo a correre, anche se loro non tentano di fermarmi. Anzi mi sembra di sentir ridere uno dei
due.
Ma che succede?
Percepisco che i due Mog mi guardano scappare, perciò m'infilo nel primo corridoio che
trovo. Non so se sto girando in tondo; non c'è luce naturale né nessun rumore dall'esterno, nulla
che mi lasci pensare di essere vicina a un'uscita. I Mog sembrano disinteressati a me, come se
sapessero che in ogni caso non riuscirei a fuggire.
Rallento per riprendere fiato, procedo con cautela nel corridoio bianco e vuoto. Il libro che
stringo ancora -- la mia unica arma -- inizia a farmi male. Lo sposto nell'altra mano e proseguo.
Di fronte a me una grande porta si apre sibilando; è diversa dalle altre, più larga e a forma di
arco, e dall'altra parte vedo strane luci lampeggianti.
No, non luci. Stelle.
Quando varco la soglia, il soffitto rivestito da pannelli metallici lascia il posto a una cupola
di vetro: mi trovo in una grande sala che somiglia a un planetario, ma l'universo che mostra è
quello vero. Dal pavimento spuntano vari computer e pulsantiere -- forse è una specie di sala di
controllo -- ma ho occhi solo per l'incredibile panorama che vedo al di là della cupola di vetro.
Buio. Stelle.
La Terra.
Ora capisco perché i Mogadorian non m'inseguivano. Sanno che non posso fuggire.
Sono nello spazio.
Mi avvicino al vetro e ci appoggio le mani. Percepisco il vuoto che è là fuori, lo spazio
interminabile e gelido che mi separa da quella sfera azzurra.
«Bello, vero?»
La sua voce tonante mi sferza come una secchiata d'acqua fredda. Mi volto addossandomi al
vetro: il vuoto dietro di me mi sembra preferibile a lui.
Setrákus Ra è in piedi dietro uno dei moduli di controllo e mi guarda accennando un sorriso.
La prima cosa che noto è che la sua statura si è ridotta rispetto a quando abbiamo combattuto
contro di lui alla base di Dulce. Ma è ancora alto e imponente, col corpo massiccio stretto nella
severa uniforme nera decorata in un assortimento di medaglie mogadorian dai contorni
frastagliati. Porta al collo tre ciondoli loric che emanano una leggera luminescenza azzurra: sono
quelli che ha sottratto ai primi tre Garde uccisi. «Vedo che hai già preso il mio libro», dice
indicando la mia arma, il volume grande come un dizionario. Non mi ero resa conto di stringerlo
al petto. «Benché non per il motivo che speravo. Per fortuna la tua sorvegliante non è rimasta
ferita in modo grave...»
All'improvviso, tra le mie mani, il libro inizia a brillare di una luce rossa, com'era successo
al frammento di macerie che ho raccolto alla base di Dulce. Non so esattamente come io ci stia
riuscendo e perché accada.
«Ah, molto bene», commenta Setrákus Ra, inarcando un sopracciglio.
«Va' al diavolo!» strillo, e gli scaglio addosso il libro che brilla ancora.
Setrákus Ra alza una delle grandi mani: il libro si ferma a mezz'aria. «Basta così», mi
rimprovera.
Guardo svanire lentamente la luminescenza rossa. «Cosa vuoi da me?» grido. Gli occhi mi si
riempiono di lacrime per la frustrazione.
«Lo sai già. Ti ho mostrato cosa succederà. Come un tempo l'avevo mostrato a Pittacus Lore.»
Setrákus Ra preme alcuni pulsanti sul pannello di controllo che ha davanti.
L'astronave inizia a muoversi. La Terra, che sembra al contempo lontanissima e così vicina da
poterla toccare con un dito, mi scorre davanti lentamente. Non ci stiamo muovendo verso di lei;
stiamo girando su noi stessi.
«Sei a bordo dell'Anubis», m'informa Setrákus Ra, con una nota d'orgoglio. «La nave
ammiraglia della flotta mogadorian.»
Quando l'astronave termina la rotazione, resto senza fiato. E mi appoggio al vetro per non
cadere, perché improvvisamente mi tremano le ginocchia.
Là fuori, in orbita intorno alla Terra, c'è la flotta mogadorian. Centinaia di astronavi, quasi
tutte argentate e di forma allungata, delle dimensioni di piccoli aeroplani: proprio come quelle
contro cui i Garde raccontano di avere combattuto. Ma poi c'è anche una ventina di gigantesche
astronavi da guerra, imponenti e minacciose, dalla cui carena spuntano cannoni che mirano dritti
sull'ignaro pianeta.
«No, non è possibile», sussurro.
Setrákus Ra viene verso di me, ma sono troppo scioccata per muovermi. Mi appoggia
delicatamente una mano sulla spalla. Sento il gelo delle sue dita pallide attraverso la camicia da
notte.
«È giunto il momento. Finalmente la Grande Espansione ha raggiunto la Terra», dice,
guardando la flotta. «Festeggeremo insieme il progresso mogadorian, nipote.»
2

Guardo dalla finestra rotta, al primo piano di uno stabilimento tessile abbandonato: un
vecchio, in jeans sporchi e con un impermeabile logoro, si siede davanti al portone dell'edificio
di fronte, sbarrato da assi di legno, estrae dall'impermeabile una bottiglia in un sacchetto di carta
marrone e inizia a bere. È metà pomeriggio, durante il mio turno di guardia; da ieri, quando siamo
arrivati in questa zona abbandonata di Baltimora, quell'uomo è il primo essere vivente che vedo.
È un posto silenzioso e deserto, ma è preferibile alla versione di Washington che ho visto
nell'incubo di Ella. Per ora, non sembra che i Mogadorian ci abbiano inseguiti fin qui da Chicago.
Tecnicamente, però, non ne avevano bisogno. C'è già un Mogadorian tra noi.
Dietro di me, Sarah batte un piede a terra. Ci troviamo in quello che doveva essere l'ufficio
del caposquadra: c'è polvere ovunque, le assi del pavimento sono rigonfie e ammuffite. Mi giro e
la vedo osservare perplessa i resti di uno scarafaggio sulla suola della scarpa da ginnastica.
«Sta' attenta, rischi di spaccare il pavimento e cadere di sotto», le dico, scherzando solo a
metà.
«Era troppo chiedere che tutte le vostre basi segrete fossero superattici di lusso, vero?»
replica lei, sorridendo.

Stanotte abbiamo dormito nella vecchia fabbrica, stendendo i sacchi a pelo sulle assi
malmesse del pavimento. Siamo entrambi sudici, non facciamo una doccia da due giorni, e i
capelli biondi di Sarah sono imbrattati di fango: ma ai miei occhi è ancora bellissima. Senza di
lei al mio fianco avrei rischiato il crollo psichico dopo l'attacco a Chicago, quando i Mog hanno
rapito Ella e distrutto l'attico.
A quel ricordo rabbrividisco. Mi allontano dalla finestra e vado verso di lei. «L'incertezza mi
uccide», dico, scrollando la testa. «Non so cosa fare.»
Sarah mi accarezza il viso, cerca di consolarmi: «Almeno sappiamo che non faranno del male
a Ella, se è vero ciò che mostra la visione».
Sbuffo. «Si limiteranno a lavarle il cervello e trasformarla in una traditrice, come...» Lascio
la frase in sospeso, pensando agli altri amici scomparsi e al traditore con cui viaggiavano. Non
abbiamo ancora notizie di Sei e degli altri, ma d'altronde non è facile mettersi in contatto: tutti i
loro scrigni sono qui e, se anche provassero a raggiungerci con mezzi più tradizionali, non
saprebbero dove trovarci, dato che siamo dovuti fuggire da Chicago.
L'unica certezza è che ho una nuova cicatrice sulla gamba, la quarta. Non fa più male, ma mi
sembra di sentirne il peso. Se i Garde fossero rimasti separati, se avessimo mantenuto intatto
l'incantesimo loric, la quarta cicatrice avrebbe simboleggiato la mia morte. Invece uno dei miei
amici è morto in Florida e io non so chi, non so come, e non so cosa ne sia stato degli altri.
Dentro di me sento che Cinque è ancora vivo. L'ho visto nel sogno di Ella accanto a Setrákus
Ra: è un traditore. Deve avere attirato gli altri in una trappola, e ora uno di loro non tornerà da
noi. Sei, Marina, Otto, Nove... uno di loro non c'è più.
Sarah mi prende la mano, la massaggia per alleviare la tensione nei muscoli.
«Non riesco a smettere di pensare alla visione...» dico. «Avevamo perso. E adesso sembra
che si stia avverando, che questo sia l'inizio della fine.»
«Non significa niente, e tu lo sai», replica Sarah. «Pensa a Otto: non c'era forse una profezia
di morte sul suo conto? Ed è sopravvissuto.»
Mi astengo dal farle notare che potrebbe essere Otto quello che è stato ucciso in Florida.
«So che sembra terribile», continua lei. «E la situazione è brutta, John. Non posso negarlo.»
«Ottimo tentativo di consolarmi.»
Sarah mi stringe forte la mano e mi guarda sgranando gli occhi, per zittirmi. «Sono Garde.
Continueranno a combattere e vinceranno. Devi crederci, John», mi dice. «Quand'eri in coma, a
Chicago, non ti abbiamo dato per spacciato. Abbiamo continuato a lottare, e ne è valsa la pena.
Proprio quando sembrava che tutto fosse perduto, tu ci hai salvati.»
Penso allo stato in cui versavano i miei amici quando mi sono risvegliato, a Chicago.
Malcolm era in punto di morte e Sarah era gravemente ferita, Sam aveva quasi finito le munizioni
e Bernie Kosar era sparito. Avevano tutti rischiato la vita per me.
«Mi avete salvato prima voi.»
«Sì, è vero. Perciò ora ricambia il favore e salva il nostro pianeta.» Lo dice come se fosse
una cosa facile, e mi strappa un sorriso.
La tiro a me e la bacio. «Ti amo, Sarah Hart.»
«Ti amo anch'io, John Smith.»
«Be', vi amo anch'io...»
Ci giriamo e vediamo Sam sulla soglia, con un sorriso imbarazzato stampato in faccia. Tiene
in braccio un grosso gatto arancione, una delle sei chimere che il nostro nuovo amico mogadorian
ha portato con sé, attirate dagli ululati di Bernie Kosar sul tetto. A quanto pare, il corno di cervo
che BK ha trovato nello scrigno di Otto era una specie di totem per chimere, che le ha condotte da
noi: la versione loric di un fischietto per cani, in pratica. Abbiamo raggiunto Baltimora passando
per le strade meno trafficate, controllando di non essere seguiti. Durante il lungo viaggio, stipati
nel furgone, abbiamo avuto il tempo di dare un nome ai nostri nuovi alleati. Questa chimera
preferisce assumere la forma di un gatto grassottello, e Sam ha insistito perché la chiamassimo
Stanley, come il vecchio alter ego di Nove. Se è ancora vivo, Nove sarà felicissimo di scoprire
che un gatto ciccione e affezionatissimo a Sam è stato battezzato in suo onore.
«Scusate se vi ho disturbato», dice Sam.
«No, figurati», replica Sarah, e allunga un braccio verso di lui. «Abbraccio di gruppo?»
«Magari più tardi. Gli altri sono tornati e stanno sistemando tutto al piano di sotto.»
Annuisco, mi separo controvoglia da Sarah e vado a prendere il borsone con le nostre
attrezzature. «Stanno avendo qualche problema?»
Sam scuote la testa. «Hanno dovuto accontentarsi di due piccoli generatori da campeggio. Coi
soldi a disposizione non sono riusciti a trovare di meglio. Comunque l'elettricità dovrebbe
bastare.»
«E la sorveglianza?» chiedo, tirando fuori dal borsone il tablet localizzatore e il suo
caricabatterie.
«Adam dice di non avere visto ricognitori mog», riferisce Sam.
«Be', se c'è qualcuno capace di riconoscerli è lui», interviene Sarah.
«Vero», dico con poca convinzione, perché non mi fido ancora di quel cosiddetto
«Mogadorian buono», anche se da quand'è comparso a Chicago non ha fatto altro che aiutarci.
Ancora adesso, mentre lui e Malcolm installano i nostri nuovi apparecchi elettronici nella
fabbrica al piano di sotto, provo un certo disagio all'idea che uno di loro sia così vicino. Ma
scaccio quel pensiero. «Andiamo.»
Seguiamo Sam giù per un'arrugginita scala a chiocciola e arriviamo al piano terra, nella
fabbrica vera e propria. Devono averla chiusa in tutta fretta, perché lungo le pareti ci sono ancora
stand pieni di completi maschili in stile anni '80, e sui nastri trasportatori ci sono scatoloni
abbandonati che contengono impermeabili.
Una chimera in forma di golden retriever, che abbiamo chiamato Biscuit su insistenza di
Sarah, ci passa davanti stringendo tra i denti la manica strappata di una giacca: è impegnato in un
tiro alla fune con Dust, l'husky grigio. Un'altra chimera, Gamera, che Malcolm ha chiamato così in
onore del mostro protagonista di vecchi film giapponesi, tenta di rincorrere gli altri ma fatica a
tenere il passo, avendo assunto la forma di una tartaruga. Le altre due nuove chimere -- un falco
che abbiamo chiamato Regal e un procione tutto pelle e ossa di nome Bandit -- assistono al gioco
da sopra un nastro trasportatore fermo.
È un sollievo vederli giocare. Le chimere non erano in ottima forma quando Adam le ha
liberate dai laboratori mogadorian, e non stavano ancora bene quando le abbiamo portate a
Chicago. C'è voluto del tempo, ma sono riuscito a curarle con la mia Eredità di guarigione. C'era
qualcosa dentro di loro, qualcosa di mogadorian, che sembrava opporsi ai miei poteri. A un certo
punto mi si è addirittura attivato da solo il Lumen: non era mai successo durante una guarigione.
Alla fine però, qualsiasi cosa i Mog avessero fatto a quelle creature, i miei poteri hanno avuto la
meglio.
«Hai visto BK?» chiedo a Sam, cercandolo con lo sguardo. Lo avevo trovato sul tetto del
John Hancock Center, dilaniato dal fuoco dei fucili mogadorian e vivo per miracolo. Lo avevo
curato coi miei poteri, pregando che funzionassero. Ora sta meglio, ma lo tengo d'occhio ancora
più del solito, probabilmente perché non so cosa ne sia stato di tanti altri amici.
«Laggiù», risponde Sam, facendo un cenno con la testa.
In fondo alla stanza, addossati a una parete coperta di graffiti, ci sono tre enormi bidoni che
traboccano di pantaloni color cachi. In cima a uno dei mucchi c'è Bernie Kosar, che sembra
trovare noiosi i giochi di Biscuit e Dust. Nonostante le mie cure è ancora debole, e gli manca un
pezzo di orecchio, ma con la mia telepatia animale percepisco che è contento di vedere le altre
chimere. Quando ci vede entrare scodinzola, alzando nuvolette di polvere dal mucchio di vecchi
vestiti.
Quando Sam lo posa a terra, Stanley il gatto raggiunge BK sui mucchi di vestiti, che immagino
siano stati adibiti a zona relax per i pisolini delle chimere.
«Non avrei mai pensato di avere una chimera tutta per me», dice Sam. «E di sicuro non mezza
dozzina.»
«E io non avrei mai pensato di lavorare con uno di loro», replico, guardando Adam.
Al centro della fabbrica ci sono panche d'acciaio imbullonate al pavimento. Adam e il padre
di Sam, Malcolm, stanno installando i computer che hanno appena comprato scambiandoli con
alcune delle mie ultime gemme loric. Dato che nella vecchia fabbrica non c'è l'elettricità, hanno
dovuto comprare piccoli generatori a batterie per i tre computer.
Guardo Adam, che sta collegando una delle batterie dei laptop -- il pallore mortale, i capelli
di un nero opaco e i lineamenti spigolosi gli conferiscono un'aria leggermente più umana rispetto
agli altri Mogadorian --, e ricordo a me stesso che è dalla nostra parte. Sam e Malcolm sembrano
fidarsi di lui; e poi ha un'Eredità, il potere di generare onde d'urto, che gli deriva da Uno. Se non
l'avessi visto coi miei occhi, non l'avrei ritenuto possibile. Una parte di me vuole credere -- forse
ha bisogno di credere -- che un Mog non potrebbe rubare un'Eredità, che debba prima
dimostrarsene degno. Devo credere che sia accaduto per un motivo.
«Umani, Loric, Mog... in pratica siamo al primo summit delle Nazioni Unite Intergalattiche»,
mi dice Sam mentre raggiungiamo gli altri. «È un evento di portata storica.»
Sbotto in una risata e mi avvicino al computer portatile che Adam ha appena finito di
collegare. Lui mi guarda e deve intuire qualcosa -- forse non sono molto bravo a nascondere le
mie perplessità -- perché abbassa lo sguardo e si fa da parte, lasciandomi spazio e spostandosi
sul computer successivo. Tiene gli occhi fissi sullo schermo e digita velocemente.
«Com'è andata?» chiedo.
«Abbiamo trovato quasi tutte le apparecchiature che ci servivano», risponde Malcolm mentre
armeggia con un router wireless. Nonostante la barba lunga ha un'aria molto più sana rispetto a
quando l'ho conosciuto. «Ci sono novità?»
«Nessuna», dico, scuotendo la testa. «Ci vorrebbe un miracolo perché i Garde in Florida ci
rintracciassero. Ed Ella... continuo a sperare di sentire in testa la sua voce che mi dice dove
l'hanno portata, ma non si è messa in contatto.»
«Una volta collegato il tablet, sapremo almeno dove si trovano gli altri», osserva Sarah.
«Con la roba che abbiamo comprato, penso che riusciremo a introdurci nella rete telefonica
del John Hancock», spiega Malcolm. «In questo modo, se provano a chiamarci lì, possiamo
intercettare la chiamata.»
«Buona idea.» Collego il tablet bianco al computer e aspetto che si accenda.
Malcolm si sistema gli occhiali sul naso e si schiarisce la voce. «In realtà è stata un'idea di
Adam.»
«Ah...» ribatto, in tono inespressivo.
«È davvero una buona idea», interviene Sarah. Si siede accanto a Malcolm e si mette al
lavoro sul terzo computer, scoccandomi un'occhiata come a dire che dovrei provare a essere più
gentile con Adam.
Non reagisco, e nella stanza cala un silenzio imbarazzato. Ci sono stati molti silenzi così, da
quando abbiamo lasciato Chicago.
Prima che l'imbarazzo aumenti troppo, il tablet si accende.
Sam si avvicina a guardarlo da sopra la mia spalla. «Sono ancora in Florida.»
Sullo schermo del tablet c'è un singolo puntino che lampeggia sulla costa est -- quello sono io
-- e, molto più a sud, i quattro puntini dei Garde superstiti. Tre dei puntini sono raggruppati,
praticamente sovrapposti, mentre il quarto è poco distante. Mi viene subito in mente una serie di
possibili spiegazioni per quel puntino isolato. Uno dei nostri amici è stato catturato? Hanno
dovuto separarsi dopo essere stati aggrediti? O forse è Cinque quello separato dagli altri. Questo
dimostrerebbe che è un traditore, come diceva la mia visione?
Mi distraggo da quei pensieri quando vedo il quinto puntino sul tablet: è letteralmente a un
oceano di distanza dagli altri. È sospeso sopra il Pacifico ed è un po' meno luminoso degli altri.
«Dev'essere Ella», dico, perplesso. «Ma come...?»
Prima che io possa finire la domanda, il puntino di Ella tremola e scompare. Un istante dopo,
senza lasciarmi neanche il tempo di andare nel panico, il puntino si riaccende: ora lampeggia
sopra l'Australia.
«Ma che cavolo...?» Sam è stupito quanto me. «Si muove talmente in fretta... Forse la stanno
trasportando da qualche parte.»
Il puntino svanisce di nuovo e riappare sopra l'Antartide, vicino al bordo esterno dello
schermo del tablet. Per qualche secondo continua a spegnersi e riaccendersi, rimbalzando qua e là
sulla mappa.
Picchietto sul bordo del tablet, demoralizzato. «Stanno alterando il segnale, chissà come. Non
riusciremo a trovarla, finché continuano così.»
Sam indica gli altri puntini riuniti in Florida. «Se volevano fare del male a Ella, non gliene
avrebbero già fatto?»
«Setrákus Ra la vuole», interviene Sarah, guardandomi.
Ho raccontato loro l'incubo che ho avuto a Washington, in cui ho visto Ella regnare con
Setrákus Ra. Non riusciamo ancora a crederci, ma almeno ci dà un vantaggio: ora sappiamo cosa
vuole Setrákus Ra.
«Detesto l'idea di lasciarla lì», dico, avvilito. «Ma non penso che le farà del male. Non
ancora, almeno.»
«Almeno sappiamo dove sono gli altri», insiste Sam. «Dobbiamo andare laggiù prima che
qualcun altro...»
«Sam ha ragione.» Ho il terribile presentimento che un altro di quei puntini possa spegnersi
all'improvviso. «Forse hanno bisogno del nostro aiuto.»
«Penso che sarebbe un errore.» Adam parla in tono incerto, ma la sua voce ha ancora la
cadenza aspra dei Mogadorian.
Stringo i pugni d'istinto: non sono abituato ad avere uno di loro sempre accanto. Mi giro e lo
fisso. «Cos'hai detto?»
«Un errore», ripete lui. «È una mossa prevedibile, John. È la reazione a uno stimolo. È per
questo che i miei simili vi trovano sempre.»
Muovo la bocca cercando di formulare una risposta, di resistere alla tentazione di prenderlo a
pugni. Sto per fare un passo verso di lui quando Sam mi posa una mano sulla spalla.
«Calmati», sussurra.
«Vuoi che restiamo qui a girarci i pollici?» chiedo a Adam, cercando di mantenere la calma.
So che dovrei ascoltarlo, ma con tutto quello che sta succedendo mi sento braccato. E ora dovrei
accettare consigli da un tizio la cui specie mi dà la caccia da quando sono nato?
«Certo che no», risponde Adam, guardandomi con quegli occhi da Mogadorian, neri come la
pece.
«E allora?!» sbotto. «Dammi un valido motivo per non andare in Florida.»
«Te ne do due. Primo, se gli altri Garde sono in pericolo, o sono stati catturati come tu
sospetti, allora la loro sopravvivenza dipende dalla loro capacità di attirarti lì. Sono utili solo
come esche.»
«Stai dicendo che potrebbe essere una trappola?»
«Se sono prigionieri, sì, certo che è una trappola. D'altro canto, se invece sono liberi, a cosa
servirebbe il tuo eroico intervento? Non sono ben addestrati e perfettamente in grado di tirarsi
fuori dai guai?»
È vero, no? Sei e Nove, forse i due tipi più tosti che conosco, non sono forse capaci di fuggire
dalla Florida e trovarci?
E se invece sono laggiù ad aspettare che andiamo a prenderli? Scrollo la testa, e ho ancora
voglia di strozzare Adam. «Allora nel frattempo cosa dovremmo fare? Starcene qui ad
aspettarli?»
«Non possiamo lasciarli lì», interviene Sam. «Non hanno modo di trovarci.»
Adam gira il portatile per mostrarmi lo schermo. «Tra il rapimento di Ella e l'uccisione di un
Garde in Florida, il mio popolo penserà di avervi messi in fuga. Non si aspetteranno un
contrattacco.»
Visualizzate sul laptop ci sono le foto scattate da un satellite sopra un quartiere di periferia.
Sembra un normalissimo sobborgo benestante, ma guardando più attentamente vedo che sull'alto
muro di pietra che circonda la proprietà sono montate moltissime telecamere di sicurezza: una
quantità che denota un'autentica paranoia.
«Sono le Residenze Ashwood, un complesso che sorge a pochi chilometri da Washington»,
continua Adam. «Ospitano gli alti funzionari mogadorian di stanza negli Stati Uniti. Ora che la
struttura di Plum Island è distrutta, e le chimere sono state recuperate, penso che dovremmo
sferrare un attacco lì.»
«E la base nelle montagne del West Virginia?» chiedo.
Adam scrolla la testa. «Quella è solo una base militare, tenuta segreta per poterci radunare le
truppe. Ora come ora, sarebbe molto difficile invaderla. E comunque i veri Mogadorian
purosangue, i leader, risiedono ad Ashwood.»
Malcolm si schiarisce la voce. «Ho cercato di riferire tutto ciò che mi hai detto sui
purosangue, Adam, ma forse sarebbe meglio se lo spiegassi tu.»
«Non so da dove cominciare.»
«Puoi saltare tutta la parte sulle api e sui fiori mogadorian», dice Sam, sorridendo.
«Ha a che fare con le stirpi, giusto?» chiedo, per spronare Adam a parlare.
«Sì. I purosangue sono quelli che discendono da una stirpe in linea diretta: Mogadorian figli
di Mogadorian. Come me.» Adam ha incurvato un po' le spalle: non va molto fiero del suo status
di purosangue. «Gli altri, frutto d'ingegneria genetica, sono i soldati contro cui avete sempre
combattuto. Non nascono da una madre ma in laboratorio, grazie alla scienza di Setrákus Ra.»
«È per questo che si disintegrano?» domanda Sarah. «Perché non sono... be', non sono veri
Mog?»
«Sono selezionati per combattere, non per essere seppelliti», afferma Adam.
«Non si direbbe una gran bella vita», commento. «E voi Mog venerate Setrákus Ra per
questo?»
«Stando ai racconti contenuti nel Grande Libro, il nostro popolo era in via d'estinzione
quand'è arrivato il cosiddetto Benevolo Condottiero. L'ingegneria genetica di Setrákus Ra ha
salvato la nostra specie.» Adam tace per un momento, sembra rifletterci, fa un sorriso amaro.
«Naturalmente è stato Setrákus Ra a scrivere il Grande Libro, quindi...»
«Affascinante», commenta Malcolm.
«Decisamente più di quanto ci tenessi a saperne sulla riproduzione dei Mogadorian», dico io,
tornando a guardare il computer. «Se questo posto pullula di pezzi grossi, non sarà anche pieno di
guardie?»
«Sì, ce ne saranno, ma non abbastanza da fare la differenza», risponde Adam. «I Mogadorian
si sentono al sicuro lì. Sono abituati a essere i cacciatori, non le prede.»
«E allora?» ribatto. «Uccideremo qualche Mog purosangue... Tutto qui?»
«Una riduzione anche minima del numero di purosangue avrà serie conseguenze sulle attività
dei Mogadorian: i soldati creati in laboratorio non sono molto bravi a organizzarsi da soli.»
Adam passa un dito sull'immagine dei prati perfettamente rasati delle Residenze Ashwood. «E poi
sotto queste case c'è una rete di gallerie.»
Malcolm gira intorno al tavolo e si sofferma a guardare le immagini, a braccia conserte.
«Pensavo che tu avessi distrutto quelle gallerie, Adam.»
«Le ho danneggiate, sì. Ma si estendono molto al di là della zona in cui eravamo noi. Neppure
io sono sicurissimo di cosa potremmo trovare laggiù.»
Sam sposta lo sguardo sul padre. «È lì che...?»
«È lì che mi tenevano prigioniero.» Malcolm annuisce. «È lì che mi hanno strappato i ricordi.
Ed è lì che Adam è venuto a salvarmi.»
«Forse scopriremo come ripristinare i tuoi ricordi.» Adam sembra davvero impaziente di
aiutare Malcolm. «Se le apparecchiature non sono troppo danneggiate.»
Dice cose sensate, ma non riesco ad ammetterlo. È tutta la vita che scappo, mi nascondo dai
Mogadorian, combatto contro di loro, li uccido. Mi hanno portato via tutto. E ora eccomi qui, a
progettare battaglie insieme con uno di loro. Non mi sembra giusto, ecco. E stiamo parlando di un
attacco frontale a una base dei Mog, in cui io sarei l'unico Garde.
Dust va ad accucciarsi ai piedi di Adam, che si china ad accarezzarlo distrattamente dietro le
orecchie.
Se gli animali si fidano di lui, non dovrei potermi fidare anch'io?
«Qualsiasi cosa troviamo in quelle gallerie, sono sicuro che ci permetterà di scoprire molto
sui loro piani», prosegue Adam, che probabilmente ha capito di non avermi ancora convinto. «Se
i tuoi amici sono stati catturati o sono inseguiti, lo sapremo con certezza quando mi sarò infiltrato
nei sistemi mogadorian.»
«E se uno di loro muore mentre noi siamo impegnati in questa missione?» chiede Sam, e a
quel pensiero gli s'incrina la voce. «Se muoiono perché non siamo andati a salvarli quando ne
avevamo la possibilità?»
Adam annuisce. «So che è difficile per voi», dice, spostando lo sguardo tra me e Sam.
«Ammetto che è un rischio calcolato.»
«Rischio calcolato?» ribatto. «È dei nostri amici che stai parlando.»
«Sì. E sto cercando di non lasciarli morire.»
Razionalmente so che è vero, che Adam vuole aiutarci. Ma sono sotto stress, e mi hanno
sempre insegnato a non fidarmi di quelli come lui. D'istinto, senza riflettere, faccio un passo verso
di lui e gli pianto un dito sul petto. «Spero per te che ne valga la pena. E se in Florida succede
qualcosa...»
«Me ne assumerò la responsabilità», dichiara Adam. «Sarà colpa mia. Se mi sbaglio, John,
puoi ridurmi in polvere.»
«Se ti sbagli, probabilmente non ne avrò bisogno», replico, fissandolo negli occhi.
Lui non abbassa lo sguardo.
Sarah fischia per richiamare l'attenzione di tutti. «Se riuscite a mettere da parte per un
momento le pose da macho, credo che dovreste guardare qui.»
Giro intorno a Adam, cercando di calmarmi, e guardo il sito web che Sarah ci sta indicando.
«Cercavo notizie su Chicago e mi è apparso questo», spiega lei.
Il nome del sito è Sono tra noi. Ha i titoli tutti in stampatello e un mucchio di GIF animate a
forma di disco volante. Nella sezione degli Articoli più letti, una serie di link di un colore verde
neon che nelle intenzioni, immagino, dovrebbe far pensare agli alieni, ci sono: I MOGADORIAN
INSIDIANO IL GOVERNO e I PROTETTORI LORIC DELLA TERRA COSTRETTI A NASCONDERSI. La
pagina che Sarah ha aperto contiene una foto del John Hancock Center in fiamme, sotto il titolo:
ATTACCO MOG A CHICAGO: L'ORA ZERO È ARRIVATA?
«Oddio, vi prego, non questi svitati», mugugna Sam.
«Cos'è questa roba?» chiedo a Sarah, strizzando gli occhi per leggere l'articolo.
«Questa gente scriveva su giornaletti fotocopiati in bianco e nero... Ora sono anche su
Internet?» continua Sam. «Non so se è meglio o peggio.»
«I Mog li hanno uccisi», gli faccio notare. «Come fanno a esistere ancora, in qualsiasi
forma?»
«Evidentemente c'è un nuovo direttore», risponde Sarah. «Guarda qui.» Entra negli archivi del
sito e recupera il primissimo articolo pubblicato. Il titolo dice: ATTACCO ALLA SCUOLA DI
PARADISE: L'INVASIONE ALIENA È INIZIATA. Sotto c'è una foto sgranata, fatta con un cellulare, delle
macerie intorno al campo da football del liceo. Scorro rapidamente l'articolo: la quantità di
dettagli è impressionante. È come se chi l'ha scritto si fosse trovato lì con noi.
«Chi è JOLLYROGER182?» chiedo, leggendo il nome dell'autore.
Sarah mi guarda con uno strano sorriso.
«Non è la bandiera dei pirati, Jolly Roger?» domanda Sam.
«Sì», risponde Sarah. «Come i Pirates, la squadra di football della scuola di Paradise. Il cui
vecchio quarterback, guarda caso, è una delle poche persone esterne al nostro gruppo che sanno
cos'è successo alla scuola.»
«Non è possibile...» mormoro, sbalordito.
«Invece sì. Penso proprio che JOLLYROGER182 sia Mark James.»
3

«'Si ritiene che i Mogadorian, insieme coi loro complici nelle forze di sicurezza nazionale,
abbiano combattuto a lungo in New Mexico contro gli eroici Garde'», legge a voce alta Sam. «'Le
mie fonti affermano che i Mogadorian sono stati costretti a battere in ritirata quando il loro leader
è rimasto ferito. Nessuno sa dove si trovino attualmente i Garde.'»
«È tutto vero. Ma dove ha preso queste informazioni?» chiede Malcolm, girandosi a guardare
me.
«Non ne ho idea. Non siamo rimasti in contatto, dopo Paradise.» Mi sporgo sopra la spalla di
Sam per leggere l'articolo successivo. Sono sconcertato dalla quantità di informazioni che Mark
James -- o chiunque sia -- ha pubblicato su Sono tra noi. Un resoconto della nostra battaglia alla
base di Dulce, ipotesi preliminari sull'attacco a Chicago, editoriali fin troppo approfonditi
sull'aspetto fisico e sulle abilità dei Mog, e appelli all'umanità perché sostenga l'azione dei Loric.
Ci sono articoli su argomenti che non avevo mai preso in considerazione: addirittura elenchi di
membri del governo americano che sono complici dei Mogadorian.
Sam clicca su un articolo in cui Mark accusa il segretario della Difesa, Bud Sanderson, di
usare il proprio potere per spianare la strada a un'invasione mog. Poi leggiamo un altro articolo,
dal titolo: SEGRETARIO CORROTTO SI SOTTOPONE ALL'INGEGNERIA GENETICA MOGADORIAN. Il
testo è accompagnato da due immagini di Sanderson, una vecchia di cinque anni e una di pochi
mesi fa. Nella prima foto, è un quasi ottantenne dall'aria trasandata, sovrappeso; ha il doppio
mento e il viso punteggiato di macchie d'età. Nella seconda è dimagrito, ha una folta chioma
argentata e sprizza salute da tutti i pori. Sembra quasi che abbia viaggiato nel tempo. Scommetto
che chiunque penserebbe a un trucco, magari a una foto di vent'anni fa spacciata per una foto di
oggi. Ma, se c'è da credere alle parole di Mark, il segretario della Difesa è decisamente
cambiato: non è solo questione di dieta e di esercizio fisico, e neppure di chirurgia plastica.
«Come può Mark sapere tutte queste cose?» Sam scrolla la testa, incredulo. «Sarah, tu e lui
uscivate insieme. Sapeva leggere, almeno?»
«Sì», risponde stizzita Sarah. «Mark sapeva leggere.»
«Ma non è mai stato... be', portato per il giornalismo, no? Questa roba sembra WikiLeaks.»
«Le persone tendono a cambiare, quando scoprono che gli alieni esistono davvero», ribatte
Sarah. «A me sembra che stia cercando di aiutarci.»
«Non abbiamo la certezza che sia davvero Mark», osservo, perplesso.
Adam è rimasto in silenzio da quando abbiamo iniziato a consultare il sito. Ci ascolta
pensieroso, col mento posato sulla mano.
«Potrebbe essere una trappola?» gli chiedo.
«Certo», risponde senza esitare. «Ma, se lo è, è una trappola complicata. E stento a credere
che Setrákus Ra ammetterebbe di essere stato cacciato dalla base di Dulce, anche se servisse a
ingannare te.»
«È vero quello che scrive sul segretario della Difesa?» gli chiede Malcolm.
Adam fa spallucce. «Non lo so. Può essere.»
«Ora gli scrivo un'e-mail», annuncia Sarah.
«Aspetta...» fa Adam, in tono un po' più cortese rispetto a quando ha bocciato la mia idea di
andare a salvare gli altri. «Se questo Mark ha davvero accesso a tutte quelle informazioni
riservate...»
Sam sghignazza.
«... i miei simili staranno sicuramente monitorando le sue comunicazioni», conclude Adam,
scoccando un'occhiataccia a Sam. Poi si rivolge di nuovo a Sarah. «E di sicuro leggono le tue e-
mail.»
Sarah solleva lentamente le dita dalla tastiera. «E tu non puoi farci niente?»
«So come funzionano i loro sistemi di tracciamento informatico. Ero... molto bravo in queste
cose, durante l'addestramento. Potrei elaborare un codice di cifratura, dirottare il nostro IP
attraverso altri server in altre città.» Adam si gira verso di me, come per chiedermi il permesso.
«Prima o poi se ne accorgerebbero, comunque. Per stare sul sicuro dovremmo andarcene da qui
entro ventiquattr'ore.»
«Procedi», gli dico. «In ogni caso, è meglio non fermarci mai troppo a lungo nello stesso
posto.»
Adam inizia subito a digitare sul proprio laptop.
«Dovresti dirottarli verso i posti più assurdi, fargli credere che Sarah sia in Russia o
qualcosa del genere», suggerisce Sam.
Adam gli rivolge un sorriso complice. «Consideralo già fatto.» Impiega circa venti minuti per
scrivere il codice che reindirizzerà il nostro indirizzo IP attraverso una dozzina di località remote.
Ripenso al complesso sistema informatico di Henri e alla rete telematica ancora più articolata
che Sandor aveva costruito a Chicago. Poi immagino cento Mogadorian uguali a Adam, chini sulle
tastiere a darci la caccia. Non ho mai dubitato che la paranoia dei nostri Cêpan fosse giustificata,
ma vedendo lavorare Adam capisco finalmente quanto era necessaria.
«Accidenti!» esclama Sarah quando finalmente apre la casella di posta elettronica. I messaggi
non letti, in grassetto, sono tutti di Mark James. «È davvero lui.»
«Oppure i Mog si sono infiltrati nella sua casella di posta elettronica», ipotizza Sam.
«Ne dubito.» Adam scuote il capo. «I miei simili sono meticolosi, certo, ma questo metodo mi
sembra... troppo contorto.»
Guardo l'oggetto delle e-mail: sono tutti in stampatello e con molti punti esclamativi. Qualche
mese fa, l'idea che Mark James inondasse di spam la mia ragazza mi avrebbe irritato, ma ora la
nostra rivalità mi sembra appartenere a un'altra vita, come se quelle cose fossero successe a
qualcun altro. «Quanto tempo era che non controllavi le e-mail?» chiedo.
«Qualche settimana? Non ricordo, di preciso», risponde Sarah. «Ho avuto un po' da fare.»
Apre il messaggio più recente di Mark.

Sarah,
non so perché continuo a spedire queste e-mail. Una parte di me spera che tu le
legga, che le usi per aiutare i Loric, e che non possa rispondere per motivi di sicurezza.
Un'altra parte di me teme che tu non ci sia più, che te ne sia andata. Mi rifiuto di
crederci, ma...
Ho bisogno di avere tue notizie.
Pensavo di averti rintracciata in New Mexico, ma ho trovato soltanto una base
militare deserta e le tracce di una grande battaglia. Molto più grande e cruenta di quella
che si è svolta a Paradise. Spero che vi siate salvati tutti. Spero davvero di non essere
rimasto da solo a combattere contro quegli stronzi. Sarebbe un vero schifo.
Un amico mi ha messo a disposizione un rifugio sicuro. Un nascondiglio. Un posto in
cui possiamo impegnarci per far sapere al mondo intero la verità su quei mostri pallidi.
Se riesci a metterti in contatto con me, troverò un modo per inviarti le coordinate.
Abbiamo scoperto qualcosa di grosso. A livello internazionale. Ma non so come usare
queste informazioni.
Se stai leggendo questa mail, se sei ancora in contatto con John, è il momento giusto
per farti viva. Ho bisogno del tuo aiuto.
Mark

Sarah si gira verso di me, con un'espressione determinata stampata sul viso. Ho già visto
quell'espressione, la conosco bene. È il modo in cui mi guarda sempre quando sta per dirmi che
vuole fare qualcosa di pericoloso.
Non ha bisogno di dirmelo, lo so già: Sarah vuole trovare Mark James.

L'orologio sul cruscotto segna le 07:45. Abbiamo quindici minuti prima che l'autobus parta
per l'Alabama.
Mi restano quindici minuti da trascorrere con Sarah Hart.
Un quarto d'ora è il tempo che Adam ha impiegato per cifrare l'e-mail di Sarah e proteggerla
dagli hacker mogadorian. Sarah ha scritto un breve messaggio a Mark, che ha risposto quasi
subito con l'indirizzo di un ristorante di Huntsville. Ha detto a Sarah che avrebbe tenuto d'occhio
quel posto per qualche giorno: se lei era davvero Sarah Hart, si sarebbero incontrati lì e lui
l'avrebbe accompagnata nel proprio nascondiglio. Almeno prende qualche precauzione, mi sono
detto.
Dopo il breve scambio di messaggi, Adam ha subito cancellato entrambi gli account di posta
elettronica.
E adesso eccoci qui.
Siamo in auto, fermi davanti alla stazione degli autobus al centro di Baltimora, affollata anche
al tramonto. Io sono al volante, Sarah è seduta accanto a me. Non diamo nell'occhio: siamo due
adolescenti a bordo di una vecchia macchina, che si salutano prima che uno dei due parta.
«Continuo ad aspettare il momento in cui cerchi di dissuadermi», dice Sarah, con un sorriso
triste. «Dirai che è troppo pericoloso, litigheremo, vincerò io e partirò comunque.»
«È pericoloso, sì», dico, girandomi a guardarla. «E non voglio che tu parta.»
«Ecco, ora ti riconosco.» Mi prende la mano, intreccia le dita alle mie.
Passo l'altra mano tra i suoi capelli, poi gliela poso delicatamente sulla nuca per spingerla
verso di me. «Ma non è più pericoloso che restare qui con me.»
«Questo è il John iperprotettivo che conosco e amo», dice Sarah, con un sorriso complice.
«Questi addii sono sempre difficili, vero?»
«Sì. Non migliorano col tempo.»
Restiamo in silenzio, ci abbracciamo stretti e guardiamo passare i minuti sull'orologio del
cruscotto.
Prima, nella fabbrica, non abbiamo dibattuto a lungo sull'opportunità che Sarah andasse a
cercare Mark James: erano tutti convinti che fosse la cosa giusta da fare. Se davvero Mark è
riuscito a trovare informazioni cruciali sui Mogadorian, e se rischia la vita per aiutarci, dobbiamo
ricambiare il favore. Ma gli altri Garde sono ancora dispersi. E il piano di Adam per l'attacco
alla roccaforte mogadorian di Washington sembra sempre più una buona idea, una mossa
strategica, che servirà a raccogliere informazioni e a far vedere a quei bastardi che siamo ancora
pronti a combattere. Stanno succedendo troppe cose insieme, non possiamo dedicare tutte le
nostre risorse nella ricerca di Mark. E Sarah ha risolto il problema offrendosi volontaria.
Naturalmente, inviarla da sola in una missione potenzialmente pericolosa, e in compagnia di
un suo ex, non mi sembra proprio un'idea geniale. Ma non riesco a non pensare che il terribile
futuro che ho visto nel sogno di Ella stia per realizzarsi. E, se è così, abbiamo bisogno di tutto
l'aiuto possibile. Se c'è anche la minima possibilità che mandare Sarah in Alabama ci aiuti a
vincere questa guerra, è un rischio che dobbiamo correre, a dispetto del mio egoismo.
E comunque non viaggerà da sola.
Sul sedile posteriore, Bernie Kosar appoggia le zampe sul finestrino e scodinzola
furiosamente guardando la gente che entra ed esce dalla stazione degli autobus. Il mio vecchio
amico sembrava messo davvero male dopo la battaglia a Chicago, ma quando ci siamo rimessi in
viaggio gli è tornata un po' di energia. Un tempo, a Paradise, proteggeva me: ora proteggerà
Sarah.
«Non devi pensare a me come alla tua ragazza, adesso», dice all'improvviso Sarah, in tono
pacato.
Mi tiro indietro e la guardo di sottecchi. «Non sarà facile.»
«Voglio che tu pensi a me come a un soldato», insiste lei. «Un soldato che combatte in questa
guerra e fa il proprio dovere. Non so bene cosa troverò laggiù, ma ho la strana sensazione che da
lì riuscirò ad aiutarti di più. Se non altro, non ti sarò d'intralcio nelle battaglie.»
«Non mi sei d'intralcio.»
Sarah liquida la mia replica con un cenno della mano. «Non importa, John. Voglio stare con te,
voglio vedere che stai bene, voglio vederti vincere. Ma non tutti i soldati possono combattere in
prima linea, no? Qualcuno può rendersi più utile lontano dal fronte.»
«Sarah...»
«Ho con me il telefono», continua indicando lo zaino, che ha riempito in tutta fretta. Dentro c'è
un telefono usa e getta comprato da Malcolm, oltre a qualche vestito e una pistola. «Mi farò viva
ogni otto ore. Ma anche se non hai mie notizie devi andare avanti, continuare a combattere.»
Capisco cosa sta cercando di fare. Non vuole che io corra in Alabama se non ricevo una delle
sue telefonate. Vuole che mi concentri sul mio lavoro. Forse percepisce anche lei che ci stiamo
avvicinando alla fine di questa guerra, o almeno a un punto di non ritorno.
«Questa cosa è più grande di noi, John.»
«Più grande di noi», ripeto. So che è vero, ma non riesco a farmene una ragione. Non voglio
perderla, non voglio dirle addio, ma devo. Guardo le nostre mani intrecciate e ricordo com'erano
semplici le cose, almeno per un po' di tempo, quando ero arrivato a Paradise. «Sai, la prima volta
che si è manifestata la mia telecinesi è stata durante quella festa del Ringraziamento a casa tua.»
«Non me l'avevi mai detto», ribatte Sarah, spiazzata dal mio improvviso sentimentalismo. «È
stata la cucina di mia madre a ispirarti?»
Ridacchio. «Non lo so, forse. Quella sera Henri si è scontrato coi membri originari del
gruppo di Sono tra noi, e coi Mogadorian che li usavano. Dopo la battaglia voleva che ce ne
andassimo da Paradise, ma io mi sono rifiutato. E ho usato la telecinesi per immobilizzarlo sul
soffitto.»
«La cocciutaggine non ti è mai mancata», commenta Sarah scrollando la testa, ma con un
sorriso.
«Gli ho detto che non potevo ricominciare a fuggire. Non dopo Paradise. E dopo te.»
«Oh, John...» Sarah mi appoggia la fronte sul petto.
«Pensavo che non valesse la pena di combattere questa guerra se non potevo averti al mio
fianco», le dico, sollevandole delicatamente il mento. «Ma ora, dopo tutto quello che è successo,
dopo tutto quello che ho visto, ho capito che sto combattendo per il futuro. Il nostro futuro.»
Con la coda dell'occhio, guardo l'orologio: mancano solo cinque minuti. Mi concentro su
Sarah: vorrei avere un'Eredità che mi permettesse di fermare il tempo, o di serbare per sempre
questo momento. Asciugo coi pollici le lacrime sulle sue guance. Lei posa una mano sulla mia, la
stringe forte, e capisco che sta cercando di farsi forza.
Fa un lungo respiro e ricaccia indietro altre lacrime. «Devo andare, John.»
«Mi fido di te», le dico, in un sussurro concitato. «Non solo ho fiducia che troverai Mark, ma
che se le cose si mettono male sopravvivrai. Sono sicuro che tornerai da me tutta intera.»
Sarah mi afferra per la maglietta e mi tira a sé. Le sue lacrime mi bagnano la guancia. Cerco
di non pensare a niente -- gli amici scomparsi, la guerra, lei che se ne va -- e di vivere soltanto
nel suo bacio, per un istante. Vorrei poter tornare a Paradise con lei. Non come stanno le cose
adesso, ma com'erano mesi fa: quando ci baciavamo di nascosto in camera mia mentre Henri era a
fare la spesa, quando ci scambiavamo occhiate furtive durante le lezioni... Era una vita facile,
normale. Ma quei tempi sono passati. Non siamo più ragazzini. Siamo guerrieri, e dobbiamo
comportarci come tali.
Sarah si stacca da me e, in un unico movimento, per non prolungare troppo un momento così
doloroso, apre la portiera e salta giù. Si mette lo zaino in spalla e fa un fischio. «Vieni, Bernie
Kosar!»
BK salta sul sedile anteriore, poi mi guarda con la testa piegata di lato come per chiedermi
perché non scendo anch'io dalla macchina. Gli do una grattatina dietro l'orecchio buono, e lui
guaisce.
«Proteggila», gli dico con la telepatia.
Lui mi appoggia le zampe sulla gamba e si sporge a leccarmi la faccia.
«Quanti baci d'addio», dice Sarah, ridendo. Poi, dopo che BK è saltato giù dal pick-up, gli
aggancia il guinzaglio.
«Questo non è un addio», ribatto.
«Hai ragione.» Sarah annuisce, ma il suo sorriso vacilla, una nota d'incertezza si fa strada
nella sua voce. «Ci vediamo presto, John Smith. Sta' attento.»
«Ci vediamo presto. Ti amo, Sarah Hart.»
«Ti amo anch'io.» Si gira e si avvia a lunghi passi verso le porte scorrevoli della stazione
degli autobus, con Bernie Kosar che le trotterella dietro. Si volta a guardarmi una sola volta,
subito prima di entrare, e io la saluto con la mano. Poi svanisce nella stazione, diretta in qualche
località segreta dell'Alabama, in cerca di un modo per aiutarci in questa guerra.
Devo trattenermi dal correrle dietro, quindi stringo il volante finché non mi si sbiancano le
nocche. Ma stringo troppo: improvvisamente mi si attiva il Lumen, le mani iniziano a brillare.
Non mi succedeva di perdere il controllo da... be', da quand'ero a Paradise. Faccio un respiro
profondo e mi tranquillizzo. Mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi abbia visto. Giro
la chiave nel quadro, accendo il motore e mi allontano dalla stazione degli autobus.
Sarah mi manca. Mi manca già.
Mi dirigo verso uno dei quartieri più malfamati di Baltimora, dove mi aspettano Sam,
Malcolm e Adam, impegnati a organizzare un attacco. So dove sto andando e cosa sto facendo, ma
mi sento lo stesso alla deriva. Ripenso alla mia breve colluttazione con Adam nell'attico distrutto
del John Hancock, quando ho rischiato di precipitare dalla finestra. Quel senso di vuoto alle mie
spalle, l'impressione di barcollare sull'orlo di un precipizio... è così che mi sento.
Ma poi immagino le mani di Sarah che mi tirano via da quel baratro. Immagino il giorno in cui
ci rivedremo, quando Setrákus Ra sarà stato sconfitto e i Mogadorian saranno stati ricacciati nel
gelido vuoto dello spazio. Faccio un sorriso amaro. C'è un solo modo per far avverare quel
futuro.
È il momento di combattere.
4

Avanziamo nel buio, arrancando nel fango delle paludi. Il silenzio è rotto soltanto dal
risucchio ritmico delle nostre scarpe nell'acquitrino e dal ronzio incessante degli insetti.
Passiamo davanti a un palo di legno storto e quasi sradicato, sormontato da un lampione spento; i
cavi elettrici penzolano sotto i rami folti degli alberi, si perdono tra le foglie. È bello vedere le
prime tracce della civiltà dopo due giorni trascorsi ad annaspare nella melma, senza quasi
dormire e nascondendoci al minimo rumore.
È stato Cinque a condurci nelle paludi. Conosceva la strada, naturalmente: ci ha teso
un'imboscata. Non è stato facile andarcene da quel posto. Non potevamo tornare all'auto con cui
eravamo arrivati: i Mog la tenevano sicuramente d'occhio.
Qualche passo davanti a me, Nove si schiaffeggia la nuca per schiacciare una zanzara. A quel
rumore Marina rabbrividisce, e per un attimo sento intensificarsi il gelo che emana da lei da
quando ha combattuto contro Cinque. Non so bene se Marina fatichi a controllare la sua nuova
Eredità o se stia volutamente raffreddando l'aria intorno a noi. Le paludi della Florida sono così
afose che non è spiacevole avere un condizionatore d'aria portatile.
«Tutto bene?» le chiedo, a bassa voce perché non voglio che Nove ci senta; ma so che è
inevitabile, col suo udito sovrumano.
Marina non rivolge la parola a Nove da quando Otto è rimasto ucciso, e non ha detto quasi
niente neppure a me. Ora mi guarda, ma al buio non riesco a leggere la sua espressione. «Secondo
te?» ribatte.
Le stringo il braccio, e sento che ha la pelle fredda. «Li prenderemo», le dico. Non sono
brava a fare questi discorsi d'incoraggiamento -- di solito se ne occupa John -- quindi vado dritta
al punto: «Li uccideremo tutti. Non sarà morto invano».
«Non doveva morire», ribatte Marina. «Non avremmo dovuto lasciarlo laggiù. Ora è nelle
loro mani, e chissà cosa ne faranno del suo corpo.»
«Non avevamo scelta», dico, e so che è vero. Nelle condizioni in cui Cinque ci aveva ridotti,
non eravamo in grado di opporci a un battaglione di Mogadorian, per di più spalleggiato da una
delle loro astronavi.
Marina scrolla la testa.
«Chiedevo sempre a Sandor di portarmi in campeggio», dice improvvisamente Nove, girando
la testa verso di noi. «Perché odiavo vivere in quell'attico per smidollati. Ma, a questo punto,
confesso che quasi mi manca.» Parla così da quando abbiamo combattuto contro Cinque:
sdrammatizza con aneddoti spiritosi e un umorismo forzato, come se non fosse successo niente di
grave. Per il resto del tempo cammina, usando la sua supervelocità per mantenersi a una certa
distanza da noi.
Quando lo raggiungiamo ha già catturato qualche animale, di solito un serpente, e lo sta
cuocendo su un piccolo fuoco acceso su uno dei rari tratti di terra asciutta. Sembra quasi che
voglia fingere di essere in vacanza. Io non sono schizzinosa, mangio tutto quello che Nove cattura;
Marina invece no. Penso che a darle fastidio non sia il sapore degli abitanti delle paludi, quanto il
fatto che sia Nove a catturarli. Ormai starà morendo di fame.
Dopo un altro paio di chilometri mi accorgo che il terreno sta diventando più compatto, come
se il sentiero fosse più trafficato. Vedo una luce davanti a noi. Ben presto il ronzio degli insetti
lascia il posto a un suono altrettanto irritante: musica country.
Non la definirei esattamente una città. Scommetto che non è segnata nemmeno sulla mappa più
dettagliata. Sembra più un campeggio da cui la gente ha dimenticato di andarsene. O forse è solo
un posto in cui si radunano i cacciatori della zona per sfuggire alle mogli, a giudicare dal numero
di pick-up parcheggiati nel vicino spiazzo di ghiaia.
Ci sono baracche sparpagliate lungo un tratto di costa bonificato, una ventina, identiche ai
gabinetti esterni delle case di una volta. In pratica sono alcune assi di legno inchiodate l'una
all'altra alla bell'e meglio, pronte a crollare alla prima ventata. Evidentemente è inutile sforzarsi
più di tanto quando si costruisce sulla sponda di una palude della Florida. Tra una baracca e
l'altra, a rallegrare il deprimente panorama, ci sono ghirlande di lucine natalizie lampeggianti e
alcune lanterne a gas. Oltre le baracche, dove ricomincia la palude, c'è un pontile fatiscente cui
sono attraccate alcune barche.
La fonte della musica, il fulcro di questa «cittadina» nonché l'unico edificio con un minimo di
stabilità è il Trapper's: un bar dall'aria malfamata ospitato in una capanna di tronchi con una
vistosa insegna al neon che campeggia fiera sul tetto. Sulla veranda di legno c'è una sfilza di
alligatori impagliati con le fauci aperte. Da dentro, sopra la musica, sento provenire grida e il
rumore di palle da biliardo che si scontrano.
«Bene, è proprio il posto giusto per me!» esclama Nove, battendo le mani.
Mi ricorda quei luoghi isolati in cui mi rifugiavo quand'ero da sola e in fuga, quei posti in cui
gli abitanti si somigliavano tutti, e se c'era un Mogadorian lo riconoscevi subito perché spiccava
rispetto agli altri. Eppure, quando vedo un tizio di mezz'età che ci fissa -- è alto e magro, in
canottiera, coi capelli corti sopra e lunghi sotto, e fuma una sigaretta dietro l'altra nella penombra
della veranda --, mi chiedo se non sia il caso di trovare un rifugio più sicuro.
Ma Nove sta già salendo i gradini di legno, seguito a ruota da Marina, perciò mi accodo.
Spero che ci sia un telefono, così potremo almeno contattare gli altri a Chicago e chiedere come
stanno John ed Ella: spero che stiano meglio, soprattutto perché ora sappiamo che la cura
miracolosa che Cinque sosteneva di avere nel suo scrigno era solo un trucco. Dobbiamo mettere
in guardia gli altri sul conto di Cinque. Chissà quali informazioni ha riferito ai Mogadorian.
Quando entriamo dalla porta a doppio battente del Trapper's, fatta come quella di un saloon,
la musica non s'interrompe di colpo come nei film: però tutti si girano a guardarci, quasi
all'unisono. Il locale è affollato; non c'è granché lì dentro, a parte il bar, un tavolo da biliardo e
qualche vecchio mobile da giardino. Sento puzza di sudore, kerosene e alcol.
«Ehilà!» esclama qualcuno, e poi fa un fischio sonoro.
Capisco subito che io e Marina siamo le uniche due donne nel locale. Anzi forse siamo le
prime donne che abbiano mai messo piede lì dentro. Gli ubriachi che ci fissano sono obesi oppure
scheletrici, tutti in camicie scozzesi sbottonate sul petto o canottiere macchiate di sudore; alcuni
ghignano con la bocca sdentata, altri si lisciano la barba incolta e ci squadrano dalla testa ai
piedi.
Un tizio, che indossa una maglietta strappata col logo di una band heavy metal e ha la bocca
piena di tabacco da masticare, si allontana dal tavolo da biliardo e si accosta a Marina.
«Dev'essere la mia serata fortunata», biascica. «Tu mi...»
Non riesce a portare a termine il tentativo di abbordaggio: non appena cerca di posarle un
braccio sulle spalle, Marina gli agguanta il polso. Sento uno scricchiolio, il sudore che gela sul
braccio; un istante dopo, l'uomo lancia un grido.
Marina gli ha torto il braccio dietro la schiena. «Non avvicinarti», gli intima in tono calmo, a
volume sufficiente per comunicare ai presenti che l'avvertimento vale per tutti.
Ora nel locale cala davvero il silenzio. Un uomo lascia scivolare la bottiglia nella mano fino
a tenerla per il collo, pronto a brandirla come un'arma. Due energumeni a un tavolo in fondo si
scambiano un'occhiata e si alzano, guardandoci dritti in faccia. Per un attimo ho paura che l'intero
bar stia per aggredirci. Finirebbe male per loro, e tento di comunicarglielo con lo sguardo. Nove,
che coi capelli neri e spettinati e col viso sporco s'intona perfettamente all'ambiente, si scrocchia
le nocche e piega la testa di qua e di là, guardandosi intorno.
Alla fine uno degli altri giocatori di biliardo fa un fischio. «Ehi, Mike, chiedi scusa e torna
qui, scemo! Tocca a te!»
«Scusa», piagnucola Mike, rivolto a Marina. Il suo braccio è diventato blu nel punto in cui lei
lo tocca. Marina lo spintona via e lui torna dagli amici, massaggiandosi il braccio ed evitando i
nostri sguardi.
Basta questo per spezzare la tensione. Tutti tornano a quello che stavano facendo, ovvero a
tracannare birra. Immagino che episodi del genere -- piccole zuffe, battaglie di sguardi, magari
una coltellata ogni tanto -- succedano in continuazione, al Trapper's. Niente di eccezionale. Come
immaginavo, è uno di quei posti in cui nessuno fa domande.
«Controllati», dico a Marina mentre ci avviciniamo al bancone.
«Lo sto facendo.»
«Non mi sembra.»
Nove si fa largo tra due alcolizzati e batte la mano sul vecchio bancone di legno.
Il barista, che sembra leggermente più sveglio e pulito dei suoi clienti, probabilmente perché
indossa un grembiule, ci osserva con stanca riprovazione. «Tengo un fucile sotto il bancone. Non
voglio altri guai», ci avverte.
Nove gli sorride. «Tranquillo, bello. Hai anche qualcosa di commestibile, sotto quel
bancone? Stiamo morendo di fame.»
«Potrei farvi un hamburger.»
«Non è carne di opossum o roba del genere, vero?» chiede Nove, poi alza le mani. «Lascia
stare, non voglio saperlo. Dacci tre dei tuoi hamburger migliori, amico mio.»
Mi sporgo sopra il bancone prima che il barista si allontani per andare in cucina. «C'è un
telefono?»
L'uomo indica col pollice l'angolo buio in fondo al bar, dove un telefono a gettoni è appeso
storto alla parete. «Puoi provare con quello. A volte funziona.»
«A quanto pare, qui dentro tutto funziona solo 'a volte'», borbotta Nove guardando il
televisore appeso sopra il bancone. Il segnale è disturbato, le due antenne storte che spuntano
dall'apparecchio non fanno il loro lavoro, ma si direbbe un telegiornale.
Mentre il barista va in cucina, Marina si siede a un paio di sgabelli di distanza da Nove, evita
il suo sguardo e osserva affascinata le interferenze sul televisore. Intanto Nove tamburella con le
dita sul bancone, si guarda intorno come per sfidare uno degli ubriachi a dirgli qualcosa.
Non mi ero mai sentita così tanto una babysitter. «Provo a chiamare Chicago», dico.
Prima che possa allontanarmi, l'uomo allampanato che fumava in veranda mi si fa accanto e
mi rivolge un ghigno che nelle sue intenzioni dovrebbe essere affascinante: peccato che gli
manchino un paio di denti e che il sorriso non raggiunga gli occhi, sbarrati e disperati. «Ehi,
bellezza...» esordisce. Evidentemente non ha assistito alla dimostrazione di Marina su cosa
succede agli ubriachi che tentano di abbordarci. «Pagami da bere e ti racconto la mia storia. È
molto avvincente.»
«Sta' lontano da me», gli dico.
Il barista esce dalla cucina accompagnato dall'aroma della carne in cottura, che mi fa
brontolare lo stomaco. Vede lo spilungone accanto a me, si avvicina e gli schiocca le dita davanti
alla faccia. «Mi pareva di averti detto di non entrare se non hai soldi, Dale. Vattene.»
Dale lo ignora e mi rivolge un'ultima occhiata supplicante. Vedendomi irremovibile, si sposta
lungo il bancone per mendicare da bere a un altro cliente.
Scuoto la testa e faccio un lungo respiro; devo andarmene da questo posto, ho bisogno di
farmi una doccia e di prendere a pugni qualcosa. Sto cercando di mantenere la calma, di usare la
testa, soprattutto considerato che i miei due compagni non si comportano in modo molto
ragionevole, ma sono arrabbiata. Furiosa, anzi. Cinque mi ha messa al tappeto, mi ha quasi
staccato la testa. Mentre ero priva di sensi, il mondo è andato sottosopra. So che non avrei potuto
prevederlo: non mi sarei mai aspettata che uno dei nostri fosse un traditore, neppure un tipo strano
come Cinque. Ma non riesco a non pensare che le cose sarebbero andate diversamente se fossi
rimasta in guardia. Se fossi riuscita a schivare quel primo pugno, forse Otto sarebbe ancora vivo.
Non ho neppure avuto una possibilità di combattere, mi sento inutile. Ma tengo dentro la rabbia:
la conservo per la prossima volta che vedrò un Mog.
«Sei, guarda», dice Marina. Improvvisamente le trema la voce, non ha più quel tono
distaccato e freddo.
Sul televisore il segnale è meno disturbato di prima e si vede chiaramente il notiziario. Un
giornalista sferzato dal vento sta davanti al John Hancock Center: il palazzo è cordonato con un
nastro della polizia.
«Ma che cazzo...?» borbotto.
Un tuono improvviso fa tremare il tetto. È colpa mia, mi sono lasciata sfuggire un po' di quella
rabbia.
Sullo schermo scorrono le immagini registrate dell'incendio agli ultimi piani del John
Hancock Center.
«Non è possibile», mormora Marina, con gli occhi sbarrati. Mi guarda per chiedere conferma
del fatto che è solo un brutto scherzo.
Sto cercando di mantenere la calma, almeno io, ma non trovo nulla di rassicurante da dire.
Il barista fa schioccare la lingua: anche lui sta guardando la televisione. «Assurdo, no?
Maledetti terroristi.»
Mi sporgo sopra il bancone e lo agguanto per la pettorina del grembiule prima che possa
anche solo pensare di prendere il fucile da sotto il bancone. «Quand'è successo?»
«Ehi, ma che ti prende?» fa lui. Ma qualcosa nei miei occhi lo convince a non opporre
resistenza. «Non lo so, un paio di giorni fa. In TV non parlano d'altro, dove diavolo siete stati
ultimamente?»
«A farci imbrogliare», borbotto, e lo spingo via. Cerco di calmarmi, di placare l'ansia.
Nove è rimasto in completo silenzio da quand'è iniziato il telegiornale: fissa il televisore
senza tradire emozioni. Vede bruciare il nostro quartier generale, il suo attico, e se ne sta a bocca
socchiusa, quasi paralizzato. Sembra che il cervello gli sia andato in tilt, che non sia in grado
d'incassare questo nuovo colpo.
«Nove...»
La mia voce lo riscuote dalla trance. Senza dire una parola a me o a Marina, senza neppure
guardarci, si volta e va verso l'uscita. Uno degli uomini che giocavano a biliardo non riesce a
spostarsi in tempo e una spallata di Nove lo scaraventa a terra.
Gli corro dietro, sperando che Marina non faccia morire assiderato nessuno in mia assenza.
Quando esco sulla veranda del Trapper's, Nove è già arrivato nel parcheggio e cammina a lunghi
passi verso il vialetto di ghiaia. «Dove vai?» gli grido dietro, scavalcando la ringhiera della
veranda e mettendomi a correre.
«A Chicago.»
«Vuoi arrivarci a piedi?»
«Giusto», ribatte, senza rallentare. «Ruberò una macchina. Venite anche voi?»
«Piantala di fare l'idiota», sbotto. E, quando vedo che non rallenta ancora, lo afferro con la
telecinesi e lo faccio girare verso di me.
Lui affonda i talloni nella ghiaia, per non lasciarsi trascinare. «Lasciami andare», ringhia.
«Lasciami andare subito.»
«Fermati a riflettere per un momento», insisto, e capisco che non sto cercando di convincere
solo lui ma anche me stessa. Affondo le unghie nel palmo delle mani: non so se per la
concentrazione richiesta per tenere fermo Nove con la telecinesi, o per lo sforzo di restare calma.
Sul tetto del John Hancock Center avevo detto a Sam che eravamo in guerra e che ci
sarebbero state vittime. Pensavo di essere preparata, ma perdere Otto -- e ora forse gli altri, a
Chicago --, no, non lo sopporterei. Non può essere stata quella la mia ultima conversazione con
Sam. Non è possibile.
«Non potevano essere ancora a Chicago», continuo. «Saranno fuggiti. È quello che avremmo
fatto noi al posto loro. E sappiamo che John è ancora vivo, altrimenti avremmo un'altra cicatrice.
Ha il tablet, ha il suo scrigno. È più probabile che loro trovino noi piuttosto che il contrario.»
«Be', l'ultima volta che l'ho visto, John era in coma. Non è in condizioni di trovare nessuno.»
«Un edificio che esplode è un'ottima sveglia», ribatto. «È uscito vivo di lì. Se così non fosse,
lo sapremmo.»
Dopo un attimo, Nove annuisce controvoglia. «Va bene. Lasciami.»
Lo libero dalla telecinesi.
Lui distoglie subito lo sguardo, osserva la strada buia, incurva le spalle larghe. «Siamo
spacciati. Lo sento», dice con voce roca. «Come se avessimo già perso e nessuno ce l'avesse
detto.»
Mi avvicino e gli poso una mano sulla spalla. «Stronzate, noi non perdiamo.»
«Vallo a dire a Otto.»
«Nove, dai...» Non lo vedo bene in viso perché ha alle spalle le luci al neon del Trapper's, ma
sono sicura che ha le lacrime agli occhi.
Lui si passa le mani tra i capelli spettinati, con tanta forza che sembra voglia strapparseli. Poi
si sfrega il viso. Quando lascia ricadere le mani lungo i fianchi, capisco che sta cercando di farsi
coraggio. «È stata anche colpa mia. L'ho fatto uccidere io.»
«Non è vero.»
«Sì che è vero. Cinque mi ha messo fuori combattimento, e io non sono riuscito a trattenermi.
Ho continuato a parlare, a insultarlo... Dovevo morire io al posto di Otto. Io lo so, tu lo sai, e lo
sa anche Marina.»
Tolgo la mano dalla sua spalla e gli sferro un pugno sul mento.
«Ahi! Ma che cazzo...?» Barcolla all'indietro, rischiando di perdere l'equilibrio sulla ghiaia.
«È questo che vuoi?» gli chiedo, avvicinandomi e stringendo i pugni. «Vuoi che ti prenda a
botte? Che ti punisca per quello che è successo a Otto?»
Lui alza le mani. «Smettila, Sei.»
«Non è stata colpa tua», gli dico in tono più calmo, allentando i pugni, e poi gli pianto un dito
sul petto. «È stato Cinque a uccidere Otto, non tu. E la colpa è dei Mogadorian. Capito?»
«Sì, ho capito», risponde.
Ma non so se sono riuscita a far passare davvero il messaggio o se vuole soltanto che io
smetta di tormentarlo. «Va bene. E ora basta piangersi addosso. Dobbiamo capire cosa fare.»
«Lo so io», interviene Marina.
Ero così impegnata a far ragionare Nove che non l'ho sentita avvicinarsi. E neppure Nove.
Dal suo sguardo imbarazzato capisco che si sta chiedendo cosa Marina abbia sentito.
Al momento, Marina non sembra preoccuparsi della crisi di Nove: è indaffarata con Dale, il
tizio che voleva raccontarmi una storia in cambio di una birra. Marina lo trascina attraverso il
parcheggio verso di noi, tenendolo per l'orecchio come una maestra severa che scorta dal preside
un alunno indisciplinato. Sulla guancia di Dale si sta formando un sottile strato di brina.
«Marina, lascialo andare», dico.
Lei obbedisce, spintonando Dale davanti a sé e facendolo cadere in ginocchio sulla ghiaia
proprio di fronte a me.
Le scocco un'occhiataccia: capisco da dove viene quell'impulso violento, ma non mi piace.
Lei m'ignora. «Racconta anche a loro quello che hai detto a me», ordina a Dale.
Lui ci guarda, desideroso di compiacerci ma anche palesemente terrorizzato: probabilmente
pensa che lo ammazzeremo se non ci dà retta. «C'è una vecchia base della NASA giù nella
palude. L'hanno smantellata negli anni '80, quando il livello dell'acquitrino ha iniziato ad alzarsi»,
comincia, esitante, massaggiandosi la guancia per scaldarla. «Ci vado ogni tanto, a cercare
rottami da rivendere. Di solito è deserta. Ma ieri sera, accidenti, vi giuro che ho visto degli alieni
laggiù. Tizi spaventosi, che stavano di guardia con armi che non avevo mai visto. Voi non siete
amici loro, vero?»
«No, decisamente no», rispondo.
«Dale si è offerto volontario per mostrarci la strada», c'informa Marina, assestandogli un
colpetto con la punta del piede.
Lui deglutisce con forza e poi annuisce entusiasta. «Non è lontano. Un paio d'ore nelle
paludi.»
«Abbiamo appena passato due giorni in quelle paludi, e ora volete tornarci?» ribatte Nove.
«Lui è con loro», sibila Marina, indicando il buio davanti a noi. «Hai sentito cos'ha
raccontato Malcolm su ciò che hanno fatto a Numero Uno. Le hanno rubato le Eredità.»
Faccio una smorfia di disappunto. «Facciamo bene a parlarne?» chiedo, accennando a Dale:
probabilmente non capisce niente di ciò che stiamo dicendo, ma ci ascolta attentamente.
Marina sbuffa. «Ti preoccupi di lui? Ci stanno ammazzando, fanno saltare in aria i nostri
amici. Difendere i segreti dalle orecchie di un ubriaco è l'ultimo dei nostri problemi.»
Dale alza una mano. «Giuro che non dirò niente su... su quello di cui state parlando, qualunque
cosa sia.»
«E Chicago?» chiede Nove. «E gli altri?»
Marina lo guarda solo per un istante, poi si volta verso di me. «Sai che sono preoccupata per
loro, ma non sappiamo dove sono. E invece sappiamo dov'è Otto. E non ho nessuna intenzione di
lasciarlo nelle mani di quei bastardi.»
Dal tono perentorio in cui lo dice capisco che non riuscirò a farle cambiare idea. Se non
andiamo con lei, ci andrà da sola.
D'altronde anch'io ci voglio andare: ho voglia di combattere quasi quanto lei. Se c'è una
possibilità che il corpo di Otto sia ancora laggiù -- nelle grinfie dei Mog che sono ancora in
Florida, forse con Cinque -- allora dobbiamo almeno provare a recuperarlo. Non dobbiamo
lasciare indietro nessun Garde.
«Dale, mi auguro che tu abbia una barca da prestarci», dico.
5

La fetta di carne davanti a me ha la consistenza del pesce crudo, e quando la infilzo con la
forchetta tremola come gelatina. O forse è ancora viva e sta cercando di fuggire, di scivolarmi via
dal piatto. Forse, se distolgo lo sguardo, vibrerà più forte e cercherà d'infilarsi in una ventola del
condotto di aerazione.
Mi viene da vomitare.
«Mangia», ordina Setrákus Ra.
Ha detto di essere mio nonno. Quel pensiero mi dà ancora più nausea del cibo. Non voglio
credergli. Forse è come le visioni, un trucco per mettermi ansia. Ma perché fare tanta fatica?
Perché portarmi qui? Perché non uccidermi e basta?
Setrákus Ra siede davanti a me, al capo opposto di un tavolo assurdamente lungo che sembra
scolpito nella lava. La sua sedia somiglia a un trono, è fatta della stessa pietra scura del tavolo,
ma non è abbastanza grande per il gigantesco guerriero contro cui abbiamo combattuto alla base
di Dulce. No, a un certo punto mentre io non lo guardavo Setrákus Ra ha assunto una statura più
ragionevole, due metri e mezzo, per potersi chinare comodamente sul manicaretto mogadorian.
Questa capacità di cambiare statura potrebbe essere un'Eredità? Funziona in modo molto
simile a quando io cambio età.
«Vuoi farmi delle domande, vero?» ruggisce.
«Cosa sei?»
Setrákus Ra piega la testa di lato. «Che vuoi dire, bambina?»
«Sei un Mogadorian. Io sono una Loric. Non possiamo essere imparentati.»
«Ah, che idea semplicistica. Umani, Loric, Mogadorian... sono solo parole, mia cara.
Etichette. Secoli fa, i miei esperimenti hanno dimostrato che il nostro patrimonio genetico poteva
essere modificato. Arricchito. Non dovevamo aspettare che Lorien ci donasse le Eredità:
potevamo appropriarcene quando ne avevamo bisogno, sfruttarle come ogni altra risorsa.»
«Perché continui a dire noi?» gli chiedo, con voce incrinata. «Tu non sei uno di noi.»
Setrákus Ra accenna un sorriso. «Un tempo ero un Loric. Il decimo Antenato. Fino al giorno in
cui sono stato bandito. Poi sono diventato quello che vedi ora: i poteri di un Garde uniti alla forza
di un Mogadorian. Un accrescimento evolutivo.»
Iniziano a tremarmi le gambe sotto il tavolo. Smetto di ascoltarlo dopo la menzione del
decimo Antenato. Ricordo quella storia, ne parlava la lettera di Crayton. Diceva che mio padre
era ossessionato dal fatto che un tempo nella nostra famiglia c'era stato un Antenato. Poteva
trattarsi di Setrákus Ra?
«Sei pazzo. E sei un bugiardo», dico.
«Non sono nessuna di quelle cose», replica lui. «Sono realista. Credo nel progresso. Ho
alterato il mio patrimonio genetico per somigliare di più a loro, affinché mi accettassero. In
cambio della loro lealtà, li ho aiutati a moltiplicarsi. Erano sull'orlo dell'estinzione, e io li ho
salvati. Unirmi ai Mogadorian mi ha permesso di proseguire gli esperimenti che spaventavano
così tanto i Loric. Ora il mio lavoro è quasi finito. Ben presto, tutte le forme di vita nell'universo -
- Mogadorian, umani, perfino ciò che resta dei Loric -- verranno accresciute sotto la mia attenta
guida.»
«Non hai migliorato la vita su Lorien», ribatto. «Li hai uccisi tutti.»
«Si opponevano al progresso», spiega Setrákus Ra, come se la morte di un intero pianeta
fosse irrilevante.
«Sei malato.» Non ho paura di rispondergli a tono. So che non mi farà del male, o almeno non
ancora. È troppo vanitoso, ci tiene troppo a convertire un'altra Loric alla sua causa. Vuole che
accada esattamente ciò che ho visto nel mio incubo. Da quando mi sono risvegliata qui, una
squadra di Mogadorian femmine si prende cura di me: mi hanno fatto indossare questo lungo abito
da sera nero, molto simile a quello che indossavo nella visione. Prude da morire, devo
continuamente sistemarmi la scollatura.
Fisso apertamente il suo volto orribile, e mi detesto perché cerco tracce di una somiglianza.
La testa è pallida e tonda, coperta da intricati tatuaggi mogadorian; gli occhi sono neri e vuoti,
come quelli dei Mog; i denti sono stati limati per renderli appuntiti. Se guardo attentamente,
riesco quasi a vedere le tracce dei Loric nei lineamenti, come rovine archeologiche sepolte sotto
il pallore e i disgustosi disegni sulla pelle.
Setrákus Ra alza gli occhi dal piatto e incontra il mio sguardo. «Mangia», ripete. «Devi
rimetterti in forze.»
Mi dà ancora i brividi, devo sforzarmi per non distogliere gli occhi. Esito per un momento:
non so fin dove posso spingermi con l'insubordinazione, ma non ci tengo proprio ad assaggiare la
versione mogadorian del sushi. Lascio cadere la forchetta facendola sbattere rumorosamente sul
bordo del piatto.
Il rumore riecheggia nella stanza dal soffitto alto, la sala da pranzo privata di Setrákus Ra, che
è poco meno spoglia delle tante stanze fredde e vuote a bordo dell'Anubis. Le pareti sono
tappezzate da dipinti in cui i Mogadorian si lanciano audacemente in battaglia. Il soffitto di vetro
offre una vista mozzafiato sulla Terra che ruota impercettibilmente nello spazio.
«Non provocarmi, ragazzina. Fa' come ti dico.»
Spingo via il piatto. «Non ho fame.»
Setrákus Ra mi punta addosso lo sguardo condiscendente di un genitore che vuole mostrare a
un bambino indisciplinato di quanta pazienza è capace. «Posso farti riaddormentare e alimentarti
con una flebo, se preferisci. Forse al prossimo risveglio, dopo che avremo vinto la guerra, saresti
più beneducata. Ma poi non potremmo parlare. Non potresti assistere di persona alla vittoria di
tuo nonno. E non potresti meditare sui tuoi vani propositi di fuga.»
Mi si serra la gola. So che prima o poi scenderemo sulla Terra: Setrákus Ra non tiene le sue
astronavi in orbita intorno al pianeta solo per poi andarsene via, ci sarà un'invasione. Continuo a
ripetermi che quando atterreremo avrò una possibilità di fuggire. Ovviamente Setrákus sa che
preferirei morire piuttosto che essere sua prigioniera, o regnare al suo fianco, o qualsiasi cosa
abbia in mente; ma, dall'aria tronfia che ha, si direbbe che non gliene importi nulla. Forse pensa
di potermi fare il lavaggio del cervello prima che torniamo sulla Terra.
«Come faccio a mangiare, con la tua brutta faccia davanti?» gli chiedo, sperando di veder
vacillare quell'arroganza. «Non è esattamente uno stimolo per l'appetito.»
Mi guarda come se cercasse di trattenersi dal saltare sul tavolo e strozzarmi. Dopo un
momento allunga una mano verso il bastone posato sul bracciolo della sedia. Riccamente
intagliato in un metallo dorato e brillante, con un minaccioso occhio nero sull'impugnatura, è lo
stesso che gli ho visto usare durante la battaglia alla base di Dulce. Mi preparo a fronteggiare un
attacco.
«Questo è l'Occhio di Thaloc», dice Setrákus Ra. «Come la Terra, un giorno sarà tuo.»
Prima che io possa chiedere spiegazioni, l'occhio di ossidiana lampeggia sull'impugnatura del
bastone. Rabbrividisco, ma capisco subito di non essere in pericolo.
È Setrákus Ra che viene scosso dalle convulsioni. Lampi di luce rossa e viola escono
dall'Occhio di Thaloc e lo avvolgono dalla testa ai piedi. Un raggio di energia si trasferisce dal
bastone a Setrákus, che trema e si contorce: la pelle gli si stacca dal corpo, espandendosi verso
l'esterno e vibrando come una bolla che si forma nella cera di una candela.
Al termine del processo, Setrákus ha l'aspetto di un umano. Anzi sembra una star del cinema.
Ha assunto la forma di un bell'uomo sui quarantacinque anni, coi capelli brizzolati e
impeccabilmente pettinati, con profondi occhi azzurri e con un accenno di barba. È alto, ma non
più in modo innaturale, e indossa un elegante completo blu e una camicia ben stirata, aperta sul
collo e senza cravatta. Del suo aspetto precedente rimangono solo i tre ciondoli loric con le pietre
azzurre, intonate alla camicia.
«Così va meglio?» mi chiede. Al posto della voce roca c'è un baritono melodioso.
Lo guardo sconcertata.
«Ho scelto questa forma a beneficio degli umani», continua Setrákus Ra. «Le nostre ricerche
evidenziano che i terrestri sono naturalmente attratti dagli uomini caucasici di mezz'età con queste
caratteristiche fisiche. A quanto pare, li considerano affidabili e dotati di capacità di leadership.»
Cerco di far ordine tra i pensieri. «In che senso, a beneficio degli umani?»
Setrákus Ra indica il mio piatto. «Mangia e risponderò alle tue domande. Non è una richiesta
irragionevole, no? Credo che gli umani lo chiamino do ut des.»
Guardo il pezzo di carne pallida che mi attende sul piatto. Penso a Sei e Nove e agli altri
Garde e mi domando cosa farebbero al mio posto. Sembra che Setrákus Ra abbia voglia di
parlare, quindi credo sia meglio dargli corda. Forse, mentre cerca di conquistarmi, si lascerà
sfuggire il segreto per sconfiggere i Mogadorian. Se esiste. In ogni caso, un morso di carne bollita
sembra un piccolo prezzo da pagare in cambio di informazioni importanti. Non dovrei
considerarmi una prigioniera, ma un soldato in missione dietro le linee nemiche.
Ecco, sì, sono una spia.
Prendo coltello e forchetta, ritaglio un quadratino dal bordo della carne e lo infilo in bocca. È
praticamente insapore, sembra di mangiare un pezzo di carta appallottolato. È la consistenza a
darmi più fastidio: la carne inizia a sfrigolare e sciogliersi non appena tocca la lingua, tanto che
non ho bisogno di masticare. Mi torna in mente il modo in cui i Mogadorian si disintegrano
quando vengono uccisi, e a quel pensiero devo sforzarmi per trattenere un conato.
«Non è il genere di pietanza cui sei abituata, ma è quanto di meglio l'Anubis sia equipaggiata
per produrre», dice Setrákus Ra, quasi in tono di scuse. «Il cibo migliorerà dopo che avremo
conquistato la Terra.»
Lo ignoro, perché m'interessa ben poco la cucina mogadorian. «Ho mangiato, ora rispondi alla
mia domanda.»
Setrákus Ra piega la testa di lato, sembra affascinato dalla mia schiettezza. «Ho scelto di
assumere questa forma perché gli umani la trovano confortante. Mi vestirò così per accettare la
loro resa e prendere possesso del pianeta.»
«Non si arrenderanno.»
«Certo che si arrenderanno. A differenza dei Loric, che combattono invano senza possibilità
di vittoria, gli umani hanno una lunga tradizione di soggiogamento. Apprezzano le dimostrazioni
di forza e accetteranno con gioia i principi del progresso mogadorian.» Setrákus Ra sorride. «E
chi non li accetta morirà.»
«Progresso mogadorian?» ripeto. «Ma di che parli? Vuoi far diventare tutti come te? Dei
mos...» Mi blocco. Stavo per dargli del mostro, ma poi mi è tornata in mente la visione che ho
avuto, durante la quale condannavo spietatamente a morte Sei. E se, in qualche modo, Setrákus Ra
si annidasse già dentro di me?
«Mi pare che ci fosse almeno una domanda, mescolata a tutto quell'astio», osserva Setrákus,
sempre con quel sorrisetto, che mi fa infuriare ancora di più ora che sfoggia un bel volto umano, e
indica il mio piatto: mando giù un altro boccone disgustoso. Lui si schiarisce la voce come se
stesse per tenere un discorso. «Sei sangue del mio sangue, nipote, ed è per questo che ti verrà
risparmiato il destino che ho in serbo per i Garde che credono di potermi sconfiggere. Perché,
diversamente da loro, tu sei in grado di cambiare», spiega. «Un tempo anch'io ero un Loric, ma
nei secoli mi sono trasformato in qualcosa di meglio. Una volta conquistata la Terra, assumerò il
potere e potrò cambiare la vita di miliardi di persone. Dovranno solo accettare il progresso
mogadorian, e il mio lavoro darà finalmente i suoi frutti.»
«Il potere?» Lo guardo socchiudendo gli occhi. «E da dove?»
«Lo vedrai quando sarà il momento, bambina. Allora capirai.»
«Capisco già. Capisco che sei un mostro disgustoso e assassino che si è travestito da
Mogadorian.»
Il suo sorriso vacilla per un istante, e mi chiedo se ho esagerato. Poi Setrákus Ra sospira e si
passa le dita sulla gola, dove la pelle da umano si scosta rivelando la spessa cicatrice viola.
«Pittacus Lore mi ha fatto questa, quando ha cercato di uccidermi», dice, con voce fredda e
misurata. «Ero uno di loro, ma lui e gli altri Antenati mi hanno bandito. Sono stato esiliato da
Lorien a causa delle mie idee.»
«Immagino che si rifiutassero di eleggerti comandante supremo. Giustamente.»
Setrákus Ra si passa di nuovo una mano sulla gola: la cicatrice scompare. «Avevano già un
comandante», dice a voce più bassa, come se quel ricordo lo facesse arrabbiare. «Solo che
rifiutavano di ammetterlo.»
«Non capisco.»
«Mia cara, gli Antenati erano governati dal pianeta stesso. Lorien prendeva le decisioni al
posto loro: chi diventava Garde e chi Cêpan. Pensavano che il nostro compito fosse custodire il
pianeta e lasciare che la natura determinasse il nostro destino. Io non ero d'accordo. Le Eredità
concesse da Lorien sono semplicemente una risorsa, come ogni altra cosa. Lasceresti scegliere ai
pesci dell'oceano chi ha il diritto di mangiarli? Permetteresti al ferro di decidere quando
dev'essere forgiato? Certo che no.»
Cerco di assimilare tutte quelle informazioni e confrontarle con quelle che ho appreso da
Crayton e dalla sua lettera. «Volevi solo comandare.»
«Volevo il progresso», ribatte Setrákus Ra. «I Mogadorian l'hanno capito. A differenza dei
Loric, erano un popolo pronto per la gloria.»
«Tu sei pazzo.» Spingo via il piatto. Non ne posso più di questa conversazione.
«Sei ancora una bambina», ribatte Setrákus Ra, di nuovo con quel tono condiscendente.
«Quando inizierai i tuoi studi, quando scoprirai cos'ho fatto per te e cosa i Loric ti hanno negato,
allora capirai. Imparerai ad amarmi e a rispettarmi.»
Mi alzo, anche se non so dove andare. Setrákus Ra è stato cortese con me, finora, ma mi ha
fatto capire chiaramente che la mia libertà di movimento negli sterili corridoi dell'Anubis è
limitata. Se vuole tenermi qui e costringermi a finire la cena, lo farà. Forse sarebbe più facile
lasciar correre tutte le sue bugie e mezze verità, ma non ci riesco. Penso a Nove, a Sei e agli altri:
so che loro non terrebbero mai la bocca chiusa di fronte a questo mostro.
«Hai distrutto il nostro pianeta e sei riuscito soltanto a fare del male alla gente», dico,
cercando d'imitare il suo tono di superiorità. «Sei un mostro. Non smetterò mai di odiarti.»
Lui sospira, i suoi bei lineamenti si contraggono per un istante in un'espressione costernata.
«La rabbia è l'ultimo rifugio degli ignoranti», sentenzia, alzando la mano. «Lascia che ti mostri
qualcosa che ti hanno negato, nipote.»
Intorno alla sua mano alzata si forma una spirale luminosa di energia rossa. Intimorita,
indietreggio di un passo.
«Gli Antenati hanno scelto chi poteva fuggire da Lorien, e tu non eri tra loro», continua. «Ti
hanno negato i privilegi che spettavano agli altri Garde. Rimedierò a questa ingiustizia.»
L'energia si condensa in una sfera crepitante davanti alla mano di Setrákus Ra, resta sospesa lì
per un momento e poi schizza verso di me. Mi tuffo di lato. La sfera cambia direzione, viene dritta
verso di me come se agisse di propria iniziativa. Rotolo sul pavimento freddo e cerco di
schivarla, ma è troppo veloce. Mi brucia l'orlo del vestito e mi si avvinghia alla caviglia.
Grido. Il dolore è lancinante, come una scarica elettrica sulla pelle. Tiro indietro la gamba e
cerco di schiaffeggiare il punto in cui la sfera mi ha toccata, come se andassi a fuoco e dovessi
percuotere le fiamme per spegnerle.
Ed è allora che la vedo. La sfera rossa di energia è svanita, lasciandosi indietro una banda di
tessuto cicatriziale dai contorni irregolari intorno alla caviglia. Ricorda i tatuaggi che ho visto
sulle teste dei Mogadorian, ma ha anche qualcosa di familiare e perciò inquietante. È una
cicatrice molto simile a quelle che hanno i Garde, e che simboleggiano l'incantesimo loric.
Quando alzo lo sguardo su Setrákus Ra, devo mordermi il labbro per trattenere un grido. La
gamba del suo pantalone è stata divorata dal fuoco, e la caviglia è marchiata a fuoco con un
simbolo identico al mio.
«Ora siamo uniti anche noi, proprio come loro», dice, con un sorriso beato.
6

In un certo senso, abbiamo rapito Dale. Però a lui non sembra dispiacere. Si diverte un
mondo, stravaccato sulla poppa della sua vecchia barca: beve dalla fiaschetta di liquore distillato
clandestinamente e continua a squadrare senza vergogna me e Marina. L'imbarcazione è
letteralmente tenuta insieme con nastro isolante e lacci da scarpe, e non possiamo accelerare
troppo nei tortuosi canali delle paludi per paura di surriscaldare il motore. Ogni tanto Nove deve
usare un secchio per svuotare lo scafo dall'acqua scura prima che si accumuli e ci faccia
affondare. Non è un viaggio molto confortevole, però Marina resta convinta che Dale si sia
imbattuto in un accampamento dei Mogadorian. Quindi, per ora, è lui la nostra guida.
Abbiamo scoperto che il barista del Trapper's affitta le baracche intorno al locale a chiunque
passi da quelle parti. Ce ne ha data una per pochi spiccioli, e ci ha offerto anche la cena:
probabilmente pensava che il rifiuto di aiutarci gli avrebbe causato più problemi.
Convinti che Dale sarebbe scappato alla prima occasione, ieri notte abbiamo stabilito dei
turni di guardia. Il primo turno è toccato a Nove, che si è seduto con Dale fuori dalla nostra
casupola e l'ha ascoltato parlare di tutte le cose interessanti che aveva trovato nella palude.
Io e Marina ci siamo sdraiate fianco a fianco su un materasso lercio gettato sul pavimento
della catapecchia, nella quale c'erano solo un fornello da campeggio, una lanterna a olio e un
lavandino arrugginito. Considerando però che eravamo reduci da due giorni nelle paludi in cui
non avevamo quasi chiuso occhio, devo dire che non stavo così comoda da un bel pezzo. Mi sono
accorta che Marina non irradiava più il gelo che l'ha circondata sempre da quando Otto è stato
ucciso. Ho pensato che si fosse addormentata, ma poi ha iniziato a bisbigliare al buio.
«Lo percepisco, Sei.»
«In che senso?» ho sussurrato, confusa. «Otto è...» Ho esitato, incapace di esprimere l'ovvio.
«Lo so che è morto. Ma sento ancora la sua... non so, la sua essenza, o qualcosa del genere.
Mi sta chiamando. Non so perché, né come: so solo che sta succedendo e che è importante.»
Sono rimasta in silenzio. Mi sono ricordata che Otto ci aveva raccontato di avere incontrato
un uomo anziano e misterioso, in India. Mi pare che si chiamasse Devdan. Aveva insegnato a Otto
le arti marziali e poi era sparito nel nulla. Otto aveva trovato grande conforto nello studio
dell'induismo: credo che l'avesse aiutato a superare la morte del Cêpan. Accidenti, forse c'è
qualcosa di vero in tutte quelle storie sulla reincarnazione. Otto era certamente quello di noi con
l'indole più spirituale: se c'è una persona che cercherebbe di mettersi in contatto con noi
dall'aldilà, è certamente lui.
«Lo troveremo», ho sussurrato, ma non ne ero molto convinta. Ho ripensato alle parole di
Nove durante la sua crisi di nervi: avevamo già perso la guerra e nessuno ce l'aveva detto. «Ma
non so cosa faremo dopo.»
«Ci verrà rivelato quando sarà il momento», ha detto Marina in tono sereno, stringendomi
forte la mano: per un attimo ho rivisto la ragazza affettuosa che conoscevo, e non la furiosa
vendicatrice che dovevo sopportare da un paio di giorni a quella parte. «So che sarà così.»
E quindi stamattina siamo tornati nella palude. Gli alberi sono fitti su entrambe le sponde e
spesso dobbiamo rallentare per aggirare radici contorte che si sono fatte strada nell'acqua. I rami
s'intrecciano folti sopra le nostre teste, lasciando passare solo sprazzi di luce. Tronchi marci
galleggiano sull'acqua, non sempre facilmente distinguibili dagli alligatori che infestano la
palude. Se non altro, gli insetti hanno smesso di pungermi. Oppure sono io che non ci faccio più
caso.
Marina sta a prua e guarda dritta davanti a noi; ha i capelli e il viso impregnati di umidità. Le
fisso la schiena, mi chiedo se sia impazzita o se questa percezione sul corpo di Otto non possa
essere la manifestazione di un'altra nuova Eredità. È in momenti come questi che ci farebbe
davvero comodo un Cêpan: Marina fatica moltissimo a tenere sotto controllo l'Eredità di
congelamento. Io e Nove non gliene abbiamo parlato; probabilmente Nove ha paura che lei gli
stacchi la testa a morsi, mentre io spero che se Marina impara a tenere sotto controllo la rabbia
riuscirà anche a governare i propri poteri.
Questo nostro ritorno alla palude può essere stato causato da una nuova Eredità
potenzialmente incontrollabile, dal semplice intuito, dal bisogno di elaborare il lutto oppure da un
autentico contatto col mondo degli spiriti. Forse da una combinazione di tutte queste cose.
Non importa, a dirla tutta. Tanto ormai siamo qui.
Sono passati solo pochi giorni da quando Cinque ci ha condotti in acque simili a queste.
Eravamo tutti di umore più allegro, allora: ricordo Marina e Otto appiccicati l'una all'altro --
c'era davvero qualcosa tra loro -- e Nove che esultava e faceva lo stupido ogni volta che
vedevamo un alligatore. Mi passo una mano tra i capelli, arruffati e impregnati di umidità dopo i
giorni trascorsi in questo clima, e mi dico che non è il momento di abbandonarsi ai ricordi.
Stiamo andando verso un pericolo, ma almeno stavolta ne siamo consapevoli.
«Quanto manca?» chiedo a Dale.
Si stringe nelle spalle. «Un'oretta.» È molto più a suo agio con noi di quanto lo fosse ieri sera.
Probabilmente grazie al contenuto di quella fiaschetta.
«Ti consiglio di non fare scherzi», lo avverto. «Se ci prendi in giro, ti abbandoniamo
quaggiù.»
Lui si tira a sedere un po' più dritto. «Giuro che è vero, signora. Ho visto degli alieni
pazzeschi, lì. Ci può scommettere.»
Nove, che ha finito di togliere l'acqua dalla barca, strappa la fiaschetta dalla mano di Dale.
«Cosa c'è qui dentro?» chiede, annusandola. «Odora di solvente per vernici.»
«Be', non è solo solvente», ribatte Dale. «Assaggia.»
Nove lo guarda con sufficienza e gli restituisce la fiaschetta, poi si gira verso di me.
«Davvero ci fidiamo di questo tizio?» mi chiede a voce bassa, più per non farsi sentire da Marina
che da Dale, seduto accanto a noi.
«Non solo di lui», rispondo, scoccando un'occhiata a Marina. «Lei percepisce qualcosa.»
«E da quando in qua...?» Nove lascia la domanda in sospeso, e per una volta riflette un
momento prima di parlare. «Mi sembra ancora una pazzia.»
Prima che io possa replicare, Marina richiama la nostra attenzione con un cenno della mano.
«Spegni il motore!» sibila.
Dale si riscuote e spegne il motore, ancora attento a non far arrabbiare Marina.
La barca continua ad avanzare in silenzio.
«Che c'è?» chiedo.
«C'è qualcuno laggiù.»
Lo sento anch'io. Un motore che singhiozza molto meno di quello di Dale, e a volume sempre
più alto: si sta avvicinando. Ma non riusciamo a vedere l'altra barca, perché il canale su cui ci
troviamo procede a zig-zag tra gli alberi.
«Circola altra gentaglia, quaggiù?» chiede Nove a Dale.
«A volte», risponde lui. Poi ci guarda come se gli fosse venuto in mente qualcosa. «Ehi,
aspettate. Siamo in pericolo? Non era nei patti.»
«Non c'è nessun patto», gli ricorda Nove.
«Zitti, ecco che arrivano», sbotta Marina.
Potrei renderci tutti invisibili. Sono tentata di prendere per mano Marina e Nove e usare la
mia Eredità per dare l'impressione che ci sia solo Dale sulla barca. Ma non lo faccio. D'altronde
Marina e Nove non sembrano avere molta voglia di tenersi per mano.
Se ci sono dei Mogadorian laggiù, vogliamo combattere.
Guardo una sagoma scura muoversi tra gli alberi e scivolare in acqua davanti a noi. È una
barca a fondo piatto come la nostra, ma molto più elegante e probabilmente senza falle. Non
appena ci vedono, anche loro spengono il motore.
La barca avanza ancora per trenta metri, la sua scia ci fa ondeggiare leggermente. Dentro ci
sono tre Mog. Per via del caldo si sono tolti gli stupidi impermeabili di pelle nera e sono rimasti
in canottiera: hanno le braccia pallidissime, i fucili e i pugnali sono chiaramente visibili sulle
cinture. Mi chiedo cosa ci facciano lì in piena vista, e poi capisco che probabilmente cercano noi.
Dopotutto la palude è il luogo in cui siamo stati avvistati per l'ultima volta. Questi sfortunati
ricognitori mog devono essere stati inviati a perlustrare l'area.
Restiamo tutti immobili: noi fissiamo i Mog, e mi domando se ci riconosceranno nello stato in
cui siamo; e i Mog fissano noi, senza accennare a riaccendere il motore e togliersi di mezzo.
«Amici vostri?» borbotta Dale.
La sua voce spezza quell'immobilità. All'unisono, due dei Mog imbracciano i fucili, il terzo si
gira per riaccendere il motore. Io attivo la telecinesi e colpisco la prua della loro barca con tutta
la forza che ho, facendola sollevare dall'acqua. Il Mog che stava accendendo il motore cade fuori
bordo e gli altri due barcollano all'indietro.
Un istante dopo, Marina affonda la mano nell'acqua di palude. Uno strato di brina si espande
sfrigolando verso l'imbarcazione dei Mog, che resta imprigionata nel ghiaccio.
Nove salta giù dalla nostra barca, corre con passo leggero sulla distesa di ghiaccio, afferra
per il collo il Mog più vicino e insieme scivolano sul ponte inclinato verso poppa. Il secondo
Mog alza il fucile e lo punta su Nove, che però non gli dà il tempo di sparare e gli scaraventa
contro l'avversario che aveva tra le mani.
Il Mog che era caduto in acqua cerca d'issarsi sullo strato di ghiaccio creato da Marina. È un
errore. Una stalagmite emerge dalla superficie impalandolo. Prima ancora che il Mog si sia
tramutato in cenere, con la telecinesi strappo via quella spada di ghiaccio e la scaglio a infilzare
uno degli altri due ricognitori. L'ultimo Mog sguaina il pugnale e si avventa su Nove, che però lo
afferra per il polso, lo fa ruotare all'indietro e lo pugnala all'occhio con la sua stessa arma.
E così, in pochi istanti, è tutto finito. La battaglia è durata meno di un minuto. Per quanto
disorganizzati possiamo sembrare, siamo ancora bravi a uccidere i Mog.
«Ah, questo sì che mi ha rimesso al mondo!» grida Nove, sorridendomi.
Sento qualcosa che cade in acqua alle mie spalle, e voltandomi vedo Dale nuotare
freneticamente nell'acquitrino: si sta allontanando alla massima velocità consentita dalle braccia
smilze e dall'ubriachezza. «Dove vai, idiota?»
Dale raggiunge un gruppo di radici coperte di fango che spuntano dall'acqua e ci si arrampica
ansimando. Rimane a fissare me e gli altri, a occhi sbarrati. «Siete dei mostri!» grida.
«Non è una cosa molto carina da dire.» Nove ride mentre torna a passo cauto verso la barca
di Dale: il ghiaccio evocato da Marina sta già iniziando a sciogliersi all'aria calda della Florida.
«Non rivuoi indietro la barca?» grido a Dale. «Pensi di tornare a nuoto fino al Trapper's?»
«M'inventerò qualcosa che non richieda poteri da stregoni mutanti, grazie mille.»
Sospiro e alzo la mano per trascinarlo telecineticamente indietro fino alla barca.
Marina mi ferma posandomi un braccio sulla spalla. «Lascialo andare.»
«Ma abbiamo bisogno di lui per trovare la base.»
«Siamo già abbastanza vicini», replica Marina. «E poi...»
«Oh, merda!» c'interrompe Nove. Sta guardando il cielo, riparandosi gli occhi con la mano.
Marina annuisce. «Ci basterà seguire quella... cosa.»
All'improvviso sembra calare la notte. Alzo lo sguardo e vedo passare un'ombra sopra di noi,
a coprire quella poca luce che filtrava tra i rami. Nell'intrico di foglie vedo solo la corazza
lucente di un'astronave mogadorian che inizia la discesa. Non somiglia affatto alle navicelle a
forma di disco volante che sono riuscita a far precipitare con qualche fulmine ben mirato: questa è
un'astronave enorme, grande quanto una portaerei, dal cui ventre spuntano torrette rotanti armate
con cannoni. Gli uccelli tutt'intorno fuggono spaventati.
Istintivamente prendo per mano Nove e Marina e ci rendo invisibili. Una barca piena di Mog
è un conto, ma non credo che siamo pronti per un avversario del genere.
Gli occupanti dell'astronave non si accorgono della nostra presenza: rispetto a loro siamo
piccoli e insignificanti come le zanzare della palude. Mentre la nave passa lentamente sopra di
noi e piano piano la luce del sole torna a illuminarci, ho come la sensazione di essermi
rimpicciolita. Di essere tornata bambina.
E poi ricordo quell'ultimo giorno su Lorien. Noi nove e i nostri Cêpan in corsa verso
l'astronave che ci avrebbe portati sulla Terra. Le grida tutt'intorno a noi, il calore della città in
fiamme, i colpi dei fucili che sibilavano nell'aria. Ricordo di avere guardato il cielo notturno e di
avere visto astronavi identiche a quella che ora ci sta sorvolando: nascondevano le stelle,
sparavano dai cannoni nelle torrette, aprivano le stive per lasciar cadere orde di piken assetati di
sangue. Sopra le nostre teste, ora lo capisco, c'è una nave da guerra mogadorian. Quella che
useranno per conquistare definitivamente la Terra.
«Sono arrivati», dico, col fiato mozzo. «Sta iniziando.»
7

Gradualmente, i sobborghi intorno a Washington iniziano a cambiare aspetto. Le case


diventano più grandi e più lontane l'una dall'altra. Fuori dai finestrini del pick-up vediamo prati
perfettamente rasati o parchi in miniatura con alberi piantati a intervalli ossessivamente regolari,
progettati per nascondere agli sguardi indiscreti le case che ci sono dietro. Le strade laterali che
si dipartono dalla principale hanno nomi prestigiosi come Oaken Crest Way o Goldtree
Boulevard, e sono tutte protette da cartelli con scritto PROPRIETÀ PRIVATA.
Sul sedile posteriore, Sam fa un lungo fischio. «Non riesco a credere che vivano qui. Come
miliardari.»
«Incredibile davvero», dico, stringendo il volante. Stavo pensando la stessa cosa, ma non mi
andava di parlarne perché temevo che l'invidia mi trasparisse dalla voce. Ho passato tutta la vita
in fuga, sognando di abitare in una casa come quelle: un posto tranquillo, stabile. Ed ecco i ricchi
Mog purosangue fare la bella vita su un pianeta che vogliono solo sfruttare e poi distruggere.
«L'erba del vicino è sempre più verde», commenta Malcolm.
«Se può consolarti, loro non lo apprezzano», dice Adam a bassa voce. Sono le prime parole
che pronuncia da quando siamo partiti per questi ultimi chilometri fino alle Residenze Ashwood,
la sua vecchia casa. «Insegnano loro a non apprezzare ciò di cui non possono appropriarsi.»
«In che senso?» chiede Sam. «Cioè, se un Mogadorian andasse al parco...?»
«'Non si trae soddisfazione da ciò che non si può possedere'», recita Adam, e trattiene a stento
un ghigno sprezzante. «È una citazione dal Grande Libro di Setrákus Ra. A un Mogadorian non
importerebbe niente di un parco, Sam, a meno di non poter abbattere gli alberi.»
«Gran bel libro...» Lancio un'occhiata a Adam, accanto a me sul sedile del passeggero: sta
guardando fuori dal finestrino, con gli occhi persi nel vuoto. Mi chiedo se la situazione gli appaia
strana: praticamente sta tornando a casa.
Lui gira la testa, si accorge che lo guardo e sembra quasi imbarazzato. Assume subito
un'espressione che mi è familiare: la fredda compostezza mogadorian. «Accosta qui», mi dice.
«Manca solo un chilometro e mezzo.»
Parcheggio il pick-up sul ciglio della strada e spengo il motore. Il cinguettio incessante alle
mie spalle sembra alzarsi di volume.
«Accidenti, ragazzi, calmatevi», dice Sam alle chimere eccitate nella gabbia posata tra lui e
Malcolm.
Mi giro a guardarle: sono tutte in forma di uccelli. Regal, che a riposo ha la forma di un
imponente falco, sta appollaiato accanto a un trio di volatili meno appariscenti: un piccione, una
colomba e un pettirosso. Poi c'è un falco dal liscio piumaggio grigio che dev'essere Dust e un gufo
sovrappeso che immagino sia Stanley. Tutti portano sottili collari di cuoio.
Questa è la fase uno del nostro piano.
«Funziona tutto?» chiedo a Sam.
Lui alza lo sguardo dal computer che ha sulle ginocchia e mi sorride. «Guarda un po' qua»,
dice orgoglioso, girando il portatile verso di me.
Usare le chimere in questo modo è stata una sua idea. Sullo schermo scorrono diversi video
sgranati, ciascuno dei quali mostra il mio viso da un'angolazione leggermente diversa. Le
telecamere funzionano.
Durante il tragitto da Baltimora a Washington ci siamo fermati in un negozietto buio di nome
SpyGuys, specializzato in telecamere e apparecchiature per la sicurezza domestica. Il commesso
non ha chiesto a Malcolm perché volesse comprare una quindicina di telecamere wireless del
modello più miniaturizzato: sembrava contento di fare buoni affari e ci ha anche spiegato come
installare il software necessario su uno dei nostri computer. Poi abbiamo preso i collari in un
negozio di articoli per animali. Gli altri hanno collegato le telecamere ai collari mentre io
guidavo.
I Mogadorian si sono sforzati così tanto di sorvegliarci, di pedinarci. Ora tocca a loro.
«Sparpagliatevi intorno alle Residenze Ashwood», dico telepaticamente alle chimere, e invio
loro un'immagine delle foto satellitari di Ashwood che studio da ieri. «Cercate di coprire tutte le
angolazioni. Concentratevi soprattutto sui punti in cui si trovano i Mogadorian.»
Le chimere rispondono con cinguettii entusiasti e un gran battere d'ali.
Rivolgo un cenno del capo a Sam, che apre la portiera del pick-up. I sei uccelli-spia
mutaforma spiccano il volo tutti insieme, in una nube di piume e penne. Per quanto difficile sia la
nostra situazione, c'è qualcosa di bellissimo in questa scena: Sam è estasiato, e perfino Adam si
concede un accenno di sorriso.
«Funzionerà», dice Malcolm, dando al figlio una pacca sulla schiena.
Il sorriso di Sam si allarga ancora di più.
Le immagini sullo schermo del computer lasciano disorientati: le chimere volteggiano in
direzioni diverse. Le prime a raggiungere gli alberi si posizionano proprio sopra i cancelli in
ferro battuto delle Residenze Ashwood, dai quali un muro di mattoni prosegue per qualche metro
e poi, presumibilmente quando non è più visibile dalla strada, si trasforma in un inquietante
recinto sormontato da filo spinato.
«Sentinelle», dico, indicando i tre Mogadorian: due seduti nella guardiola, uno che cammina
avanti e indietro davanti al cancello stesso.
«Ce ne sono solo tre?» Sam fa spallucce. «Sarà una passeggiata.»
«Non si aspettano un attacco frontale. Né un attacco di nessun genere, a dire il vero», spiega
Adam. «Sono lì principalmente per scacciare eventuali automobilisti che sbagliano strada.»
Mentre le altre chimere si posano sui tetti e sui rami degli alberi, le immagini dei video si
mettono a fuoco fornendoci un'idea più chiara della struttura delle Residenze Ashwood. Dietro il
cancello principale inizia un vialetto d'accesso, breve ma tortuoso, abbastanza scoperto. Da lì si
arriva a un grande piazzale rotondo senza uscita, un'area ricreazione circondata da una ventina di
case eleganti. A quanto pare, i Mogadorian hanno tavoli da picnic, campo da basket e una piscina.
Sembrerebbe un idilliaco angolo di periferia, però non c'è nessuno in giro.
«Sembra tutto tranquillo», dico, guardando le immagini sullo schermo. «È sempre così?»
«No, c'è qualcosa di strano», ammette Adam.
Una delle chimere spicca il volo e si posa in un punto da dove possiamo vedere una delle
case, che prima restava nascosta. Lì davanti è parcheggiato un camion dei rifiuti, col motore
spento.
«C'è qualcuno.» Sam zooma su quella ripresa.
Un Mogadorian staziona accanto al camion, con aria annoiata, digitando qualcosa su un tablet.
Adam osserva attentamente i tatuaggi sulla sua testa rasata. «È un meccanico.»
«Come lo capisci?» chiedo.
«Dai tatuaggi. Quelli dei purosangue sono simboli d'onore e testimonianza dei successi
riscossi. I Mog creati in laboratorio invece portano scritte sulla pelle le mansioni che svolgono.
Così è più facile dare loro ordini.»
«Ce ne sono altri», osserva Sam.
Vediamo quattro guerrieri mog uscire dalla casa con un computer grosso come un frigorifero.
Lo portano verso il ciglio della strada e lo posano davanti al meccanico, che inizia a girarci
intorno per ispezionarlo.
«Si direbbe un server.» Malcolm si volta verso Adam. «È possibile che vogliano sostituire le
macchine che hai distrutto?»
«Sì, può darsi», risponde Adam, ma non sembra sicuro. Indica una casa a due piani con
veranda, a poca distanza da quella davanti alla quale lavorano i Mogadorian. «Quella era casa
mia. So per certo che da lì si accede alle gallerie, ma è probabile che vi si acceda anche dalle
altre case.»
Il tecnico finisce l'ispezione e scrolla la testa. Gli altri Mog sollevano il server, lo gettano nel
cassone del camion dei rifiuti e rientrano in casa.
«A quanto pare, non fanno la raccolta differenziata», commenta Sam.
Prima che il gruppetto di Mog sia rientrato in casa ne escono altri, con un oggetto che somiglia
a una sedia da barbiere uscita da un brutto film di fantascienza: al contempo futuristica e
spaventosa, con grovigli di cavi penzolanti. Il tecnico si fa avanti per andare loro incontro, li
aiuta a posare delicatamente la sedia sul prato davanti alla casa.
«La riconosco», dice Malcolm con amarezza.
Adam annuisce. «È la macchina del dottor Anu, quella che hanno usato su Malcolm. E su di
me.»
«E ora cosa intendono farsene?» chiedo, guardando il meccanico che inizia l'ispezione.
«Sembra una squadra di recupero», spiega Adam. «L'ultima volta che sono stato qui ho inferto
qualche danno alle gallerie. Ora stanno salvando i macchinari salvabili e si sbarazzano del
resto.»
«E che ne è di tutti i purosangue che dovevano essere qui?»
Adam fa una smorfia di disappunto. «Potrebbero averli evacuati finché non rimettono in sesto
questo posto.»
«Quindi siamo venuti fin qui per niente?» Il mio disappunto è palese.
«No. Se riusciamo a neutralizzare questa squadra prima che dia l'allarme, avremo accesso
completo a quello che rimane di Ashwood», dice Adam. «Da lì possiamo entrare nella loro
rete...»
«E arrivare dove?»
«È come se uno del mio popolo potesse aprire uno dei vostri scrigni, John. Conosceremo i
loro segreti. I loro piani.»
«Saremo un passo avanti a loro.»
«Sì.» Adam annuisce, guardando il tecnico che esamina la macchina del dottor Anu. «Ma
dobbiamo entrare lì dentro. Ciò che la squadra di recupero decide di distruggere potrebbe ancora
tornare utile a noi.»
«C'è un ingresso segreto o qualcosa del genere?»
«A questo punto, penso che un attacco diretto sia la chance migliore che abbiamo», dice
Adam, sostenendo il mio sguardo. «Per te va bene?»
«Sì.»
In origine avevamo progettato di usare la rete di sorveglianza composta dalle chimere per
monitorare i movimenti dei Mog per un po' di tempo, in modo da decidere l'approccio strategico
migliore per l'attacco. Ma adesso che siamo qui non vedo l'ora di scendere in battaglia. Devo
vendicarmi di tutto ciò che mi hanno fatto: hanno rapito Ella, hanno distrutto la casa di Nove,
hanno ucciso uno dei miei amici. Se Adam dice che dobbiamo fare irruzione, io sono pronto.
Malcolm tira fuori una scatola da sotto il sedile. Ne estrae due auricolari, uno per me e uno
per Adam, collegati ai due walkie-talkie che Sam e Malcolm useranno. M'infilo l'auricolare
nell'orecchio, Adam fa lo stesso col suo.
«Dobbiamo temere la polizia locale?» chiede Malcolm. «Uno scontro a fuoco in pieno giorno
potrebbe attrarre l'attenzione.»
Adam scuote la testa. «Le forze dell'ordine sono state corrotte», dice, poi guarda me. «Però
dobbiamo fare in fretta e uccidere i Mog prima che possano chiamare i rinforzi. Se riesco a
oltrepassarli e raggiungere la mia vecchia casa, dovrei essere in grado di sabotare i loro sistemi
di comunicazione.»
Lego il pugnale loric al polpaccio, nascosto sotto la gamba del pantalone. Poi metto al polso
il braccialetto rosso: la pietra ambrata al centro, capace di espandersi per formare uno scudo,
brilla al sole di mezzogiorno. Immediatamente avverto una sensazione di gelo e una serie di
punture di spillo: il braccialetto mi avverte che i Mog sono vicini. È naturale: ce n'è uno seduto
accanto a me. La presenza di Adam darà un mucchio di problemi al mio senso del pericolo.
«Sei pronto?» gli chiedo.
Lui si sistema una fondina a tracolla, s'infila sotto le ascelle due pistole col silenziatore e
annuisce.
«Ehi, aspettate!» esclama Sam. «Date un'occhiata a questo tizio.»
Io e Adam torniamo a guardare il computer: un altro Mogadorian sta uscendo dalla casa che il
gruppo di recupero sta sgomberando. È alto, con le spalle larghe, più grosso degli altri e con un
atteggiamento più autoritario. A differenza degli altri, porta un'enorme spada sulla schiena.
Abbaia un ordine al meccanico e poi rientra in casa.
Quando mi giro a guardare Adam, lo vedo più pallido del solito. «Che c'è?»
«Niente», risponde lui, troppo in fretta. «Ma state attenti a quello lì. È un generale
purosangue, uno degli uomini più fidati di Setrákus Ra. Ha...» Adam esita, guardando il punto
dello schermo da cui il generale è appena sparito. «Ha ucciso dei Garde.»
Sento scaldarsi le mani. Se non fossi stato già pronto a combattere, lo sarei sicuramente ora.
«È un uomo morto.»
Adam si limita ad annuire, apre la portiera e scende dal pick-up.
Mi volto verso Sam e Malcolm. «Io e Adam neutralizziamo le guardie. Voi ci coprite le
spalle.»
«Va bene», dice Sam. «Guarderò il monitor e ti strillerò nell'orecchio quando vedo guai.»
Malcolm ha già tirato fuori dalla custodia il fucile di precisione. Gliel'ho visto usare in
Arkansas, per salvarmi la vita. Non potrei chiedere di meglio che i Goode a guardarmi le spalle.
«State attenti, tutti e due», dice Malcolm, alzando la voce per farsi sentire da Adam.
Io e Sam battiamo il cinque. «Fategliela vedere», dice lui.
E poi scendo dal pick-up e mi metto a correre verso la roccaforte dei Mogadorian.
Adam mi affianca. «John... c'è un'altra cosa che devo dirti.»
Lo sapevo! Proprio mentre iniziavo ad abbassare la guardia con lui, proprio mentre stiamo
andando in battaglia insieme, vuole cogliermi alla sprovvista.
«Che cosa?»
«Il generale Andrakkus Sutekh è mio padre.»
8

Sono tentato di fermarmi di scatto, ma Adam non sembra intenzionato a rallentare e quindi
mantengo il passo. «Stai scherzando?»
«No.» Adam si rabbuia, guarda la strada davanti a sé. «Non andiamo molto d'accordo.»
«Vuoi...?» Non so neppure come dirlo. «Riuscirai a...?»
«Combattere? Uccidere? Sì. Non avrò compassione di lui, perché lui non ne avrà di noi.»
«Ma... tuo padre? Insomma, anche per un Mogadorian mi sembra una cosa un po' spietata.»
«A questo punto, sconfiggerlo in battaglia è l'unico modo per renderlo orgoglioso di me»,
ribatte Adam, e aggiunge debolmente: «Non che me ne importi».
Scrollo la testa. «Siete tutti malati.»
Procediamo in silenzio verso l'ingresso delle Residenze Ashwood. Il Mogadorian davanti al
cancello ci vede e si ripara gli occhi dal sole per guardarci meglio. Procediamo a velocità
costante e non tentiamo di nasconderci. Ci separano dal cancello meno di cinquanta metri, ma agli
occhi del Mog potrebbe sembrare che stiamo semplicemente facendo jogging. Non può ancora
vedere le pistole che Adam ha addosso.
«Aspetta che siamo un po' più vicini», dico tra i denti, e Adam annuisce.
Quando siamo a trenta metri da lui, il Mog gira la testa e si rivolge ai due compari nella
guardiola. Li avverte che forse sta succedendo qualcosa. Li vedo alzarsi, sono sagome in
controluce davanti alla finestra: ci guardano. Il primo arretra leggermente e allunga la mano verso
l'arma che sicuramente porta nascosta sotto la giacca. Ma esita. Non pensavano proprio che
saremmo venuti a cercarli. Non sono preparati.
Quando mancano venti metri, accendo il Lumen: le fiamme mi si sprigionano dalle mani.
Accanto a me, senza smettere di correre, Adam estrae entrambe le pistole e prende la mira.
Il Mog più vicino cerca di sguainare il fucile, ma è troppo lento. Adam spara due colpi, uno
da ciascuna pistola, entrambi smorzati dal silenziatore. Colpito due volte al petto, il Mog barcolla
per un momento e poi esplode in una nube di cenere.
Lancio una sfera di fuoco verso la guardiola del cancello. I Mogadorian all'interno cercano di
reagire, ma neanche loro sono abbastanza rapidi. La sfera di fuoco manda in frantumi la finestra e
avviluppa nelle fiamme uno dei Mog. L'altro riesce a lanciarsi fuori dalla porta, col fuoco che gli
lambisce la schiena. Si ferma proprio di fronte al cancello chiuso di Ashwood, quindi attivo la
telecinesi e sollevo dai cardini la pesante struttura di ferro battuto, mandandola a schiacciare il
Mog.
«Pensi che gli altri ci abbiano sentiti?» chiedo a Adam, mentre giriamo intorno al cancello
divelto ed entriamo nelle Residenze Ashwood.
«Be', non siamo stati molto discreti.»
Sento la voce di Sam nell'auricolare: «Ne arrivano quattro dal vialetto d'accesso, coi fucili
spianati».
Il vialetto è in salita e fa una leggera curva in cima, prima di raggiungere le case. Non ci sono
molti nascondigli.
«Sta' dietro di me», dico a Adam.
In quell'istante i Mog svoltano la curva e senza fare domande aprono il fuoco. Adam s'infila
dietro di me mentre il mio scudo si apre come un paracadute: un tessuto rosso che si espande a
partire dall'avambraccio per parare i colpi.
Adam mi agguanta per la maglietta. «Non ti fermare.»
Avanzo verso i Mog, mentre lo scudo incassa altri raggi infuocati dai loro fucili. Il
braccialetto continua a tremarmi dolorosamente sul polso. Seguendomi da vicino per non essere
colpito, Adam si sporge per un istante oltre il bordo dello scudo e abbatte due Mog in un colpo
solo. Gli altri due battono in ritirata. Io abbasso lo scudo e scaglio una sfera di fuoco che esplode
tra i due, scaraventandoli entrambi a terra. Adam li finisce con qualche pallottola ben mirata. Ora
che siamo momentaneamente fuori pericolo, lo scudo si ritrae nel braccialetto.
«Niente male», dico.
«Era solo l'inizio», ribatte Adam.
Percorriamo di corsa il vialetto, svoltiamo la curva e vediamo le lussuose case di Ashwood.
Fuori non c'è nessuno e tutte le finestre sono buie; sembra una città fantasma. Alla nostra destra
vedo la vecchia casa di Adam, e poco più avanti il camion dei rifiuti e la sedia supertecnologica
che il meccanico stava ispezionando. Le squadre di recupero, il meccanico e il generale sono
spariti.
«Arrivano dal giardino sul retro!» grida Sam.
Io e Adam ci giriamo appena in tempo per vedere uno squadrone di guerrieri mog avanzare
verso di noi nascosto tra due case. Sarebbe stata un'imboscata efficace se non avessimo avuto le
vedette sugli alberi. Quando i Mog alzano i fucili, Adam è già pronto: batte un piede sul terreno, e
una vibrazione fortissima si propaga verso di loro, sollevando pezzi di asfalto e zolle di prato. I
Mog più vicini vengono scaraventati a terra, altri barcollano e uno spara per errore alla schiena
di un altro.
«Li finisco io!» dico a Adam. «Tu va' a controllare che non chiamino i rinforzi.»
Lui annuisce e si avvia di corsa sul prato verso la sua vecchia casa. Nel frattempo, accanto ai
Mogadorian storditi, noto un serbatoio di metallo che si è staccato dal muro di un edificio.
Tendendo l'orecchio sento uscire un lieve sibilo. Mi viene quasi da ridere al pensiero del colpo
di fortuna che mi è capitato: sono le tubazioni del gas.
Lancio una sfera di fuoco contro i Mog, prima che riescano a riprendersi. La sfera sfreccia a
un millimetro dal capopattuglia, e mi sembra di vederlo ghignare, convinto che io abbia mancato
il colpo, in quei due secondi prima che il serbatoio di propano esploda incenerendoli tutti. Le
finestre delle due case vicine esplodono verso l'interno per la forza dell'onda d'urto, e all'esterno
si formano grandi chiazze nere di bruciato; l'erba prende fuoco. Devo sforzarmi per non trovare
affascinante quella scena di distruzione: mi sembra quasi catartico fare a pezzi quel posto,
abbattere ciò che i Mog hanno costruito, dopo tutte le volte che loro mi hanno impedito di
costruirmi una vita normale.
«Accidenti, l'abbiamo sentito fin quaggiù!» esclama Sam.
Tiro fuori il walkie-talkie dalla tasca posteriore dei jeans. «Com'è la situazione?»
«Via libera. Ma è strano, pensavo che ce ne sarebbero stati di più.»
«Potrebbero essere giù nelle gallerie», dico, avviandomi verso la casa in cui è entrato Adam.
Lungo il tragitto guardo nelle finestre, temendo di vedere dei Mog appostati. C'è davvero troppo
silenzio.
«E quell'energumeno del generale...» aggiunge Sam. «Non era con gli altri che hai fatto
esplodere.»
Sto attraversando il prato davanti alla casa di Adam quando la finestra della facciata esplode
e Adam viene scaraventato fuori. Batte con forza le gambe sulla ringhiera della veranda, finisce a
testa in giù e atterra sul prato come una bambola di pezza.
Corro da lui mentre tenta faticosamente di rialzarsi. «Cos'è successo?» grido.
«Mio padre... non è contento», risponde, in un lamento, alzando lo sguardo su di me mentre mi
accovaccio. Una grossa scheggia di vetro gli esce dalla guancia, un rivolo di sangue gli cola sul
collo. Estrae la scheggia e la getta via.
«Riesci ad alzarti?» gli chiedo, prendendolo per la spalla.
Prima che Adam possa rispondere, una voce tonante c'interrompe: «Numero Quattro!»
Il generale Sutekh esce a lunghi passi dalla porta della casa e resta a guardarmi dalla veranda.
È altissimo e muscoloso. I tatuaggi sul cranio pallido sono i più intricati che abbia mai visto,
dopo quelli di Setrákus Ra. Percepisco un movimento alle sue spalle: altri Mogadorian, non so
quanti. Sono ancora dentro la casa. Sembra quasi che il generale voglia risolvere la questione da
solo.
Lo fronteggio, con le mani lucenti e calde: una sfera di fuoco mi galleggia sul palmo. «Sai chi
sono, eh?»
«Sì. Da molto tempo speravo d'incontrarti.»
«Meglio così. Se mi conosci, allora sai che non hai speranze contro di me.» Allungo il collo
per guardare dietro di lui. «Non avete speranze.»
Il generale sorride. «Strafottenza: una gradevole novità. L'ultimo Loric che ho incontrato è
fuggito, e ho dovuto pugnalarlo alla schiena.»
Ne ho abbastanza di parlare: gli scaglio addosso la sfera di fuoco. Il generale la vede
arrivare, si china e, con un movimento sorprendentemente fluido, sguaina la spada. Fende l'aria
davanti a sé proprio mentre la sfera di fuoco si avvicina, e la lucente lama mogadorian intercetta
il mio attacco.
Così non va.
Il generale salta giù dalla veranda, con la spada sollevata sopra la testa, e vibra un colpo
potentissimo verso di me. È veloce, molto più degli altri Mog contro cui ho combattuto, e ho
appena il tempo di aprire lo scudo prima di essere affettato. Lo scudo para il colpo con un gran
rimbombo, ma la forza dell'urto basta a farmi cadere all'indietro.
«John!» grida Adam.
Il generale, atterrato proprio accanto a lui, si prende un momento per sferrargli un calcio in
faccia facendolo rotolare via. «Sei una perenne delusione», sibila, a voce così bassa che lo sento
a malapena. «Sta' giù, e forse avrò pietà di te.»
Mi rialzo subito in ginocchio e mi preparo a lanciare un'altra sfera di fuoco. Il generale punta
la spada su di me e sento una corrente d'aria, quasi come se la lama stesse risucchiando l'energia
intorno a sé. La sfera di fuoco vacilla e si rimpicciolisce, costringendomi a uno sforzo maggiore
per tenerla accesa. Nel frattempo l'erba intorno al generale diventa marrone: la lama la sta
seccando. Non vedevo un'arma mog di quel genere dai tempi della battaglia nei boschi intorno
alla scuola di Paradise.
«Non lasciarti colpire!» mi avverte Adam, sputando sangue.
Ma l'avvertimento arriva troppo tardi.
Un lampo a forma di pugnale schizza fuori dalla spada mog e saetta verso di me: è un'energia
nera, o per meglio dire priva di qualsiasi colore, e modifica la consistenza stessa dell'aria che
attraversa, risucchiando vita e ossigeno come un piccolo buco nero.
Non faccio in tempo a schivarla. Il mio scudo si riapre, espandendosi a mo' di ombrello come
al solito, ma quando viene colpito diventa nero e fragile. Lentamente inizia a sbriciolarsi, va in
cenere come un Mog appena morto. Venature scure, come di ruggine, si formano anche sul
braccialetto, e mi affretto a togliermelo prima che arrivino a toccarmi la pelle. Quando tocca
terra, il braccialetto si spezza a metà.
Il generale mi sorride di nuovo e chiede: «Come pensi di fuggire, ora?»
9

I Mogadorian che si nascondevano dentro la casa scoppiano a ridere. L'uno dopo l'altro
escono sulla veranda, impazienti di guardare da vicino il loro grande generale che uccide uno dei
Garde. Sono più di venti, la squadra di recupero più alcuni guerrieri e ricognitori, tutti creati in
laboratorio. Non esattamente gli obiettivi prioritari che speravamo di stanare, ma al momento non
importa. Ci sono solo due Mog purosangue alle Residenze Ashwood: uno di loro è Adam, ed è
sdraiato sull'erba a pochi metri da me, col volto ridotto a una maschera di sangue. L'altro mi si
avventa addosso.
Mentre il generale sta per vibrarmi un colpo alla gola, c'è un istante in cui penso che abbiamo
sopravvalutato le nostre possibilità, cercando di conquistare da soli un'intera roccaforte mog.
Ma poi ricordo che non ci siamo soltanto noi due.
Dust, ancora in forma di falco, lancia un grido e si tuffa addosso al generale, affondandogli gli
artigli sul volto. L'enorme Mogadorian grugnisce di dolore, ma poi riesce a scacciare Dust.
Sfruttando quell'attimo di distrazione, evoco rapidamente un'altra sfera di fuoco e la scaglio
contro il generale. Stavolta non gli lascio il tempo di alzare la spada, e il fuoco lo colpisce dritto
al petto. Mi aspetto di vederlo quantomeno cadere a terra, invece barcolla soltanto per qualche
passo. Il petto dell'uniforme brucia rivelando una corazza mogadorian di ossidiana.
Dust, stordito dall'impatto, cade sull'erba ai piedi del Mog, che tenta di colpirlo con la spada;
ma all'ultimo istante si trasforma in un serpente e riesce a sgusciare nell'erba allontanandosi dalla
lama.
Il generale, ferito in volto dagli artigli, torna a guardare me. «Ti fai difendere da qualche
animaletto... È una vergogna!» strilla. «Combatti con onore, ragazzo. Basta scherzi.»
Alzo la mano e gli sorrido, vedendo gli uccelli che accorrono da tutte le direzioni. «Aspetta.
Solo un ultimo scherzo.»
Ed è allora che il rinoceronte precipita dal cielo.
Un attimo prima la chimera -- non so neppure quale -- è un pettirosso che vola innocente sopra
le teste dei Mogadorian; un attimo dopo è un rinoceronte africano da mezza tonnellata che si
abbatte su di loro. Un paio dei Mog sulla veranda vengono schiacciati subito; il legno si spezza,
persino la facciata della casa si piega leggermente sotto il peso dell'animale. Gli altri fuggono
verso il prato, continuando a sparare. Non ridono più. La nobile esecuzione cui il generale voleva
farli assistere è stata rovinata dal nostro piccolo esercito di chimere.
È il caos. Tutt'intorno a noi gli uccelli si stanno trasformando in animali più pericolosi -- un
orso, un paio di pantere e una grossa lucertola che penso sia un drago di Komodo -- e inseguono i
Mogadorian. Per una volta, siamo riusciti a sfruttare l'elemento della sorpresa.
«Sembra che debba essere tu a fuggire», grido al generale mentre lo raggiungo. A dire la
verità, non so bene cosa farmene di lui. È il padre di Adam, dopotutto. Adam mi ha detto di non
mostrargli pietà, ma mi sembra comunque sbagliato uccidere un uomo di fronte al figlio, anche se
sono due Mogadorian. Guardo Adam, sperando che mi mostri almeno un pollice alzato o un
pollice verso, ma è ancora a terra e sta cercando di rialzarsi. Dust è accanto a lui in forma di lupo
e gli sta leccando la faccia, e anche lui sembra un po' malconcio.
«Il mio nome è già nei libri di storia come giustiziere dei Garde!» ruggisce il generale,
incurante della strage di soldati in corso alle sue spalle. «Se oggi dev'essere il giorno della mia
morte, ti porterò con me all'inferno!» Mi si avventa contro, puntandomi la spada allo sterno.
Alzo il braccio, per proteggermi, e ci metto un momento a ricordare che non ho più il
bracciale-scudo. Il generale riesce quasi a infilzarmi per quel momento di distrazione. Devo
girarmi di lato all'ultimo istante e, quando la lama mi taglia via un pezzo di stoffa dalla maglietta
sulla schiena, capisco che c'è mancato davvero poco.
La spada del generale non ha messo a segno il colpo, ma il suo gomito prosegue la rotazione e
mi colpisce alla tempia. Quella corazza mogadorian deve coprirgli tutto il corpo, perché sembra
più una martellata che una gomitata. Barcollo di lato, vedo le stelle. Il generale mi colpisce di
nuovo, e riesco a malapena ad attivare la telecinesi per spintonarlo via.
Affonda i talloni nell'erba, si rifiuta di cadere. Invece di assalirmi di nuovo, solleva la spada
e convoglia nella punta un altro minivortice. Mi coglie impreparato -- non ho più lo scudo, non ho
niente con cui ripararmi -- e so che non posso lasciarmi colpire da quell'energia che prosciuga
ogni linfa vitale. Mi preparo a tuffarmi di lato.
Tuttavia, prima che la spada possa scaricare l'energia accumulata, la mano destra del generale
esplode. Con un ruggito, lui lascia cadere l'arma e si guarda la mano, dov'è apparso un buco
grande come una monetina.
«Papà dice 'prego'», cinguetta la voce di Sam nel mio orecchio.
Mi guardo alle spalle e vedo il nostro pick-up parcheggiato nel vialetto d'accesso. Malcolm
Goode, al riparo dietro la portiera del conducente, sta guardando nel mirino del fucile.
«Intrusi!» ringhia il generale. E, prima che Malcolm possa sparare un altro colpo, si mette a
correre, trovando riparo dietro il camion dei rifiuti. È sorprendentemente veloce per la sua stazza
e considerato il peso dell'armatura.
In ogni caso, sta scappando: era quello che volevo.
Lo rincorro, spronato dal ricordo dei Garde che ha ucciso. Con la coda dell'occhio vedo un
guerriero mog che mi punta il fucile addosso. Mentre spara, una chimera in forma di pantera nera
gli salta sulla schiena. Il colpo viene deviato e finisce per segare a metà la sedia usata dal dottor
Anu nei suoi esperimenti. So che il nostro obiettivo era conservare intatte quelle tecnologie mog,
ma al momento non m'importa.
Ho un unico obiettivo: il generale, così orgoglioso di avere ucciso i Garde, di avere ucciso
dei bambini. Scriverò l'ultimo capitolo della sua biografia. Lo scriverò adesso.
Mentre giro intorno al camion dei rifiuti, vedo che il generale è arrivato al campo da basket e
si è fermato: mi fa cenno di raggiungerlo. Parto alla carica, pur sapendo che deve trattarsi di una
trappola. Qualsiasi cosa sia, non mi fermerà.
Il generale ringhia qualcosa in lingua mogadorian, si direbbe un ordine. Sotto i miei piedi,
sotto l'asfalto, un generatore di qualche tipo si accende vibrando. Sento una scarica di elettricità,
e un campo di forza a forma di cupola s'innalza intrappolandomi insieme col generale.
All'improvviso cala un silenzio assoluto: il campo di forza blocca il rumore delle chimere che
massacrano i Mogadorian.
Faccio un passo avanti allontanandomi dalla parete della cupola e percepisco la stessa scossa
elettrica che avevamo sentito alla base in West Virginia. Ricordo quanto ero stato male -- ci
avevo messo giorni a riprendermi -- e capisco che non posso avvicinarmi troppo.
D'un tratto una chimera in forma di tigre si avventa sul generale. L'energia bluastra respinge la
belva a metà del balzo, la sferza con una scossa elettrica e la lascia a terra, squassata dalle
convulsioni, fuori dal campo di forza.
«Qui organizzavamo combattimenti tra piken», dice il generale, indicando con la mano lo
spazio chiuso. «Come intrattenimento per i guerrieri. Peccato che non ci sia un pubblico più
numeroso ad assistere alla gara di oggi.»
«Volevi passare un po' di tempo da solo con me, vero?» lo derido, accertandomi di restare a
debita distanza dal campo di forza.
«Voglio ucciderti in santa pace. Sotto gli occhi impotenti dei tuoi amici.»
«In bocca al lupo, allora.» Senza esitare mi avvento contro di lui lanciando sfere di fuoco.
Lui le para tutte. Ampi brandelli dell'uniforme vengono corrosi dalle fiamme, ma la corazza
che c'è sotto sembra ancora intatta. Il generale non dà segno di provare dolore e si scaglia in
avanti, come per abbattersi su di me con tutto il suo peso. Deve pesare almeno cento chili più di
me, con quell'armatura. Ma non m'importa.
Ci scontriamo. Io mi sento mozzare il fiato, ma riesco a restare in piedi. Gli premo sulla
guancia la mano ancora avvolta nelle fiamme del Lumen. Lui grugnisce di dolore mentre la pelle
chiara si carbonizza. Mi serra la gola con entrambe le mani, così grandi che si sovrappongono
sulla mia nuca. Stringe, e immediatamente vedo formarsi macchie scure davanti agli occhi.
Non riesco a respirare. Con la mano che non gli sta bruciando la guancia, cerco di liberarmi il
collo. Sento che, se stringe ancora un po', mi schiaccerà la trachea.
È difficile trovare la concentrazione mentre vengo strangolato, ma riesco a mantenere
l'intensità del Lumen mentre attivo la telecinesi e sfilo il pugnale da sotto la gamba dei pantaloni.
Non avendo una mano libera, convoglio verso la punta della lama tutta la forza telecinetica di cui
sono capace e miro al cuore del generale.
Il pugnale viene respinto dalla corazza. Prima che io possa fare un nuovo tentativo, lui mi
stringe più forte la gola e mi fa perdere il controllo della telecinesi. Mi sento mancare e riesco
soltanto a far ardere il Lumen sulla sua guancia.
«Chi pensi che morirà per primo, ragazzo?» ghigna il generale, mentre dalla bocca gli esce il
fumo della guancia arrostita. Cerco d'indietreggiare, di staccarmi da lui, ma mi sta addosso con
tutto il suo peso e mi costringe a inginocchiarmi.
All'improvviso, vedo una spada mogadorian diretta verso il mio volto. Tento di ritrarmi, ma
ho la testa immobilizzata. La punta della lama lucente si ferma vicinissima al mio occhio. Il
generale allenta la presa e poi si stacca completamente da me. Ricado sul fianco, ansimando, e
cerco di capire cos'è successo.
«Alla schiena. Non è il metodo che usi anche tu, padre?»
Adam regge la grande spada del generale con entrambe le mani -- è quasi troppo pesante per
lui -- e la estrae dalla schiena del padre. La lama l'ha trapassato completamente, fuoriuscendo dal
petto: è riuscita a infilzare la corazza come se fosse carta stagnola. Ero troppo impegnato a
cercare di sopravvivere per accorgermi che il campo di forza è svanito. Per fortuna non se n'è
accorto neppure il generale, che ora fissa sbigottito Adam. Deve avere compreso il suo errore:
tutti i Mog conoscono il comando vocale che serve a disattivare il campo di forza, ma uno di loro
non combatteva dalla sua parte.
Il generale si porta le mani al petto, sulla ferita, e per un attimo penso che continuerà a
combattere. Ma poi barcolla e allunga le mani verso Adam, come se volesse abbracciarlo. O
forse strangolarlo. È difficile dirlo.
Adam si fa da parte, con uno sguardo distaccato, e lo lascia cadere a faccia in giù sul campo
da basket.
Nel frattempo la battaglia è finita, i Mog sono tutti morti. Sul prato, Sam è in ginocchio
accanto a una chimera ferita. Malcolm è a qualche passo da noi, a bordo campo, e osserva con
aria preoccupata il generale.
Mi rialzo e vado da Adam. «Come stai?» Ho la voce roca, la gola secca e dolorante. «Sei...?»
Lui alza una mano per interrompermi. «Guarda», dice, in tono inespressivo.
Ai nostri piedi, il generale inizia a disintegrarsi. Non istantaneamente, come i tanti guerrieri e
ricognitori nati in laboratorio. Si decompone lentamente; alcune parti del corpo si disfano più in
fretta di altre. In certi punti la carne si dissolve ma le ossa restano integre; il gomito sporge dal
terreno accanto alla cassa toracica, sormontata da un cranio mezzo disintegrato.
«Puoi vedere le parti del corpo in cui Setrákus Ra l'ha modificato geneticamente», dice Adam,
con voce quasi incolore. «Ha rimarginato ferite, curato malattie, aumentato la forza fisica e la
velocità. Gli ha promesso l'immortalità. Ma le parti innaturali si disintegrano, come i guerrieri
nati in laboratorio. Il resto, quello che rimane, è purosangue, vera carne.»
«Non c'è bisogno di parlarne ora», riesco a dire, ancora col fiato mozzo. Non è che non
m'interessino quelle informazioni, ma il padre di Adam giace morto ai nostri piedi e lui mi sta
tenendo una lezione di genetica mog come se non fosse successo niente.
«Il mio popolo non se ne rende conto, ma questo è il destino che Setrákus Ra gli ha offerto.
Cenere e brandelli», afferma Adam, osservando i resti di suo padre. «Mi chiedo quanto
resterebbe di lui, se il Benevolo Condottiero non gli avesse avvelenato il corpo e la mente.»
Lascia cadere la spada, che atterra rumorosamente.
Gli poso una mano sulla spalla, dimenticando la repulsione che ho provato per lui in questi
ultimi giorni. Mi ha appena salvato la vita uccidendo suo padre. «Non pensarci ora...» Non so
bene cosa dire, in una situazione così assurda.
«Lo odiavo.» Adam fissa l'uniforme bruciata, i mucchi di cenere e ossa che un tempo erano il
generale Sutekh. «Ma era mio padre. Vorrei che le cose fossero andate diversamente. Per tutti
noi.»
Mi accovaccio accanto ai resti del generale e con cautela rimuovo il semplice fodero di cuoio
nero che portava a tracolla: è un po' bruciacchiato, ma ancora intero. Raccolgo la spada che
Adam ha lasciato cadere, la infilo nel fodero e gliela porgo.
«Non la voglio», dice, fissandola disgustato.
«Le cose possono ancora andare diversamente. Usala come tuo padre non l'ha mai usata.
Aiutaci a vincere questa guerra e a cambiare il destino dei nostri popoli.»
Adam esita per un momento, poi prende la spada e resta a fissarla. Dopo un lungo momento di
contemplazione, si mette il fodero in spalla. Il peso gli strappa un gemito, ma riesce a restare in
piedi. «Grazie, John», mormora. «Ti giuro che questa spada non verrà mai più usata contro un
Loric.»
Sam ci raggiunge. «State bene?»
Adam annuisce.
Io mi tocco la gola, gonfia nel punto in cui il generale ha cercato di strozzarmi. «Sì, sto bene»,
rispondo, poi guardo Adam. «Abbiamo finito? O ne stanno arrivando altri?»
Lui scuote la testa. «Ho interrotto le comunicazioni appena prima che mio... che il generale mi
raggiungesse. Non arriveranno rinforzi.»
«Bene.» Sam sta guardando le finestre vuote delle Residenze Ashwood. «Quindi abbiamo
conquistato una base mogadorian.»
Prima di poter gioire della vittoria, però, vedo Adam rabbuiarsi. Non guarda più il padre, ma
l'orizzonte, come se si aspettasse di veder arrivare qualcosa di brutto da un momento all'altro.
«Che c'è?» gli chiedo.
«Sono entrato nella rete di comunicazione per pochi istanti, ma ho sentito una conversazione»,
dice lentamente, scegliendo le parole con cura. «Truppe in movimento. Spostamenti in massa di
purosangue verso la fortezza in West Virginia. Contingenti di guerrieri inviati in grandi centri
abitati.»
«Sì, e allora?»
«L'invasione.» Adam socchiude gli occhi. «L'invasione è imminente.»
10

Setrákus Ra mi ha fatta rinchiudere in una stanza fredda e senza finestre. Immagino che sia
finito il tempo delle cene disgustose e delle conversazioni raffinate. La stanza è così piccola che,
se mi piazzo al centro e allargo le braccia, riesco quasi a toccare entrambe le pareti. Al centro del
soffitto c'è una piccola struttura convessa: scommetto che è una telecamera. Contro una parete è
appoggiata una piccola scrivania di metallo, con una sedia che sembra progettata appositamente
per essere scomoda. Sulla scrivania c'è una copia del Grande libro del progresso mogadorian.
Dovrei starmene qui a studiare le grandi imprese di mio nonno. Leggere tre capitoli e passare
almeno venti minuti a riflettere profondamente su ciascuno.
No, grazie.
Non so se è la stessa copia che ho usato per colpire quella Mogadorian il mio primo giorno di
permanenza in questo posto. Ce ne sono tanti di libri così, a bordo dell'Anubis. Si direbbe che i
Mog non leggano altro. Ma questa copia è incatenata alla scrivania, per assicurarsi che io non la
trasformi in un'arma.
Invece di studiare, mi appoggio alla parete più lontana dalla scrivania e aspetto che i Mog
esauriscano la pazienza. Cerco d'ignorare il prurito dell'incantesimo mog che porto inciso a fuoco
sulla caviglia. Se mi stanno osservando -- e mi osservano sempre, ne sono quasi sicura -- non
voglio che mi vedano a disagio.
E di sicuro non voglio che sappiano quanto mi disgusta l'idea di essere connessa a Setrákus
Ra. I Mog odiano i Loric, ma farebbero di tutto per compiacere il loro Benevolo Condottiero, che
prima era uno di noi. Stando a ciò che mi ha detto a cena, Setrákus Ra si è trasformato in una
mostruosa specie ibrida grazie alle potenti Eredità di un Antenato e ai ritrovati tecnologici dei
Mog. Ma è difficile distinguere realtà e menzogna, con lui. Qualsiasi cosa sia ora -- Loric, Mog o
una via di mezzo -- Setrákus Ra ha impiegato secoli a convincere i Mog a considerarlo un
salvatore. Un dio. A loro non importa più nulla delle sue origini. E, anche se alcuni dei soldati a
bordo dell'Anubis mi guardano storto, per la maggior parte di loro sono allo stesso livello di
Setrákus Ra.
Sono la nipote di un re autoproclamato. E finora questa circostanza mi ha tenuta in vita.
Come se essere imparentati non fosse abbastanza, ora siamo legati anche dalla sua versione di
un incantesimo loric. Ricordo che mi ero sentita esclusa quando avevo scoperto che tutti gli altri
Garde erano collegati nello stesso modo, che tutti erano stati un tempo protetti dalla stessa forza.
Volevo fare parte di quel gruppo. Ora ho due larghe strisce di tessuto cicatriziale intorno alla
caviglia.
Sta' attenta a quello che desideri, Ella.
Sono immersa nei pensieri, cerco di farmi venire in mente un modo per scoprire di cosa è
capace l'incantesimo, senza farmi del male, quando sento un rumore che somiglia moltissimo a un
allarme antincendio. All'inizio è un trillo sommesso, ma pochi istanti dopo cresce di volume fino
a invadermi i pensieri. Mi copro le orecchie, ma il frastuono aumenta ancora. Entra dalle pareti,
da tutte le direzioni.
«Spegnetelo!» grido.
Per tutta risposta, il volume aumenta.
Sta per scoppiarmi la testa. Mi allontano barcollando dalla parete, e immediatamente il
rumore cala da uno strillo assordante a un fischio intenso. Quando faccio un altro passo verso il
Grande Libro, il volume si abbassa un altro po'. Ora ho capito. Quando finalmente apro il libro, il
suono si riduce a un fastidioso ronzio.
Dunque è così che Setrákus Ra intende «istruirmi»: facendo sì che io possa trovare pace,
letteralmente, solo tra le pagine della sua opera.
Forse dovrei sfruttare questa occasione. Nel noiosissimo libro potrebbero esserci
informazioni preziose da usare contro Setrákus Ra. Non mi nuocerà sfogliarlo. Tanto non crederò
mai a quelle bugie.
Quando inizio a leggere la prima pagina, il rumore cessa del tutto. Controvoglia, perché la
cosa m'irrita, faccio un piccolo sospiro di sollievo.

Non c'è trionfo più grande, per una specie, che assumersi la responsabilità del proprio
destino genetico. È per questo motivo che la razza mogadorian dev'essere considerata la forma
di vita più elevata dell'universo.

Non mi capacito che vada avanti così per cinquecento pagine, e che sia una lettura
obbligatoria per un'intera specie. Non troverò niente di utile qui dentro.
Non appena distolgo gli occhi dalla pagina sento di nuovo l'odioso ronzio, più intenso di
prima. Stringo i denti e torno a guardare il libro, scorrendo un altro paio di frasi finché non mi
viene un'idea. Afferro per il lato superiore le prime trenta pagine e le strappo dalla rilegatura.
Il frastuono nelle orecchie si fa insopportabile, mi vengono le lacrime agli occhi, ma mi
costringo a proseguire. Alzo le pagine per farle vedere ai Mogadorian e le strappo a metà. Poi in
quarti, e sempre più piccole finché non mi ritrovo con un mucchietto di coriandoli, che lancio in
aria.
«E ora come faccio a leggerlo?» grido.
La sirena continua a suonare per un altro paio di minuti. Iniziano a farmi male il collo e la
schiena per il modo in cui mi s'incurvano le spalle, come se volessero coprirmi le orecchie.
Continuo a strappare le pagine dal libro. Non sento neppure il rumore della carta strappata.
E poi, all'improvviso, il rumore cessa. Le ossa del viso, i denti... mi fa male tutto. Ma ho vinto
io, e il silenzio in quella stanzetta scomoda è la cosa più bella che abbia mai sentito.
La mia ricompensa è un paio d'ore di solitudine. Più o meno: non ho modo di valutare con
precisione lo scorrere del tempo. Siedo sul bordo della sedia scomoda, poso la testa sulla
scrivania e cerco di fare un sonnellino. I pensieri mi rintronano in testa a volume più alto del
dovuto, e il ronzio nelle orecchie non mi lascia dormire. Oltre alla sensazione di essere
osservata.
Quando riapro gli occhi ho l'impressione che la stanza si sia ulteriormente ristretta. So che è
soltanto la mia immaginazione, ma inizio a spaventarmi un po'.
La caviglia mi prude da morire. Sollevo l'orlo dello scuro abito mogadorian -- uno nuovo, non
quello che Setrákus Ra ha bruciato -- e osservo la cicatrice sulla gamba. Sto fallendo nell'impresa
di non dare a vedere il fastidio, ma non ce la faccio più. Mi gratto la caviglia, con un sospiro.
Premo la mano sulla cicatrice ed esprimo il desiderio che sia sparita quando toglierò la mano.
Ovviamente c'è ancora, ma almeno il sudore della mano dà un po' di sollievo alla pelle ustionata.
D'un tratto mi viene un'idea. E se usassi il mio Aeternum per ringiovanirmi? La pelle sulla
caviglia tornerebbe intatta?
Decido di provarci. Chiudo gli occhi e visualizzo il mio aspetto di due anni fa. La sensazione
di rimpicciolirmi somiglia a quella di espirare dopo avere trattenuto il fiato. Almeno stavolta,
quando riapro gli occhi, la stanza sembra essersi ingrandita.
Mi guardo. Sono più bassa di qualche centimetro, più magra, i muscoli che avevo iniziato a
sviluppare negli ultimi mesi sono spariti. Eppure il simbolo mogadorian dai contorni irregolari è
ancora sulla gamba, arrossato e dolente come prima.
«L'Aeternum. Abbiamo questo in comune.» È Setrákus Ra, ed è sulla soglia della mia
stanzetta. Ancora con quell'odiosa e fasulla forma umana. Mi osserva con un sorriso distratto,
appoggiandosi alla porta a braccia conserte.
«È inutile», ribatto in tono aspro, coprendomi la caviglia. Chiudo gli occhi e assumo di nuovo
la mia vera età. «Ecco cosa ottengo per essere tua parente. L'Eredità più stupida del mondo.»
«Non la penserai così quando avrai la mia età», afferma Setrákus, ignorando il mio insulto.
«Sarai giovane e bella per sempre, se lo desideri. I tuoi sudditi ti ammireranno vedendoti radiosa
e senza età.»
«Non ho sudditi.»
«Non ancora, ma presto ne avrai.»
So esattamente su chi Setrákus Ra vuole che io regni, ma mi rifiuto di ammetterlo. Sono
pentita di avere usato l'Aeternum: ora sa qualcos'altro sul mio conto, ha un'altra arma per cercare
un terreno comune con me, come se fossimo uguali.
«L'incantesimo ti dà fastidio?» chiede in tono gentile.
«Non è niente, non lo sento neppure», rispondo.
«L'irritazione dovrebbe passare in un giorno o due.» Setrákus si sofferma a riflettere con una
mano sul mento. «So che fa male, Ella. Ma col tempo imparerai ad apprezzare le lezioni che stai
imparando. Mi ringrazierai per la mia benevolenza.»
Gli scocco un'occhiataccia. «Vorresti... proteggermi, con questa cosa? È a questo che serve?»
«Non voglio che ti accada nulla di brutto, bambina.»
«Questo incantesimo funziona come quello che avevano i Garde?» Faccio un passo verso di
lui e verso la porta. «Se fuggo da qui e uno dei tuoi servi cerca di fermarmi, tutto il male che mi fa
si rifletterà su di lui?»
«No. Il nostro incantesimo non funziona così», risponde Setrákus, in tono paziente. «E sarei io
a fermarti, nipote. Non uno dei miei servi.»
Faccio un altro passo verso di lui, chiedendomi se indietreggerà. Non si muove. «Se mi
avvicino troppo, l'incantesimo si spezzerà?»
Setrákus Ra resta immobile. «Come ogni incantesimo funziona in modo diverso, così ciascuno
ha un punto debole tutto suo. Se soltanto io avessi scoperto prima che radunare i Garde avrebbe
spezzato il codardo incantesimo degli Antenati, li avrei già annientati.» Tocca i tre ciondoli loric
che gli luccicano al collo. «Ma devo ammettere che è stato divertente dare loro la caccia.»
Faccio del mio meglio per sembrare disinvolta e sincera. «Non dovrei sapere qual è questo
punto debole? Non voglio spezzare per errore il nostro legame, nonno.»
Setrákus Ra mi sorride. Evidentemente gli piace la mia ipocrisia. Poi sposta lo sguardo sulle
pagine strappate del libro, e il sorriso vacilla. «Forse presto lo saprai. Quando sarai pronta,
quando crederai alla purezza delle mie intenzioni», risponde, e poi cambia argomento. «Dimmi,
nipote, a parte l'Aeternum, quali altre Eredità hai sviluppato?»
«Solo quella che ho usato per farti del male alla base di Dulce», dico, pensando che sia
meglio tenere segreta la telepatia. Ho cercato di usarla per mettermi in contatto coi Garde, ma
probabilmente l'Anubis è troppo lontana dalla Terra. Quando atterreremo ci riproverò. Fino ad
allora, meno Setrákus Ra viene a sapere sul mio conto e meglio è. «E non so usarla bene. Non so
neppure cosa sia.»
«Non mi hai fatto molto male», sbuffa Setrákus Ra. «Le tue altre Eredità si svilupperanno
presto, mia cara. Nel frattempo, vuoi che ti mostri l'estensione dei tuoi poteri?»
«Sì», rispondo, quasi sorpresa dalla forza del mio desiderio. Mi dico che è saggio imparare a
usare le mie Eredità, anche se ho per insegnante il mostro più orribile dell'universo.
Setrákus Ra sorride. Sembra quasi che pensi di avermi convinta. Non è così, ma preferisco
lasciargli credere che sto diventando un'allieva modello. Indica con la mano i brandelli del libro
strappato.
«Prima di tutto pulisci», ordina. «Ti permetterò di esercitarti con le Eredità dopo l'arrivo del
tuo promesso sposo.»
Il mio cosa?
11

Il tramonto nelle Everglades sarebbe suggestivo, se non fosse per l'enorme astronave da
guerra mogadorian che nasconde l'orizzonte. Di qualsiasi metallo alieno sia fatta, non riflette
alcunché: la luce rosa e arancione del crepuscolo viene semplicemente assorbita dallo scafo. Il
bestione non atterra: non c'è abbastanza spazio in quella zona paludosa, a meno di non voler
schiacciare le navicelle più piccole che sono parcheggiate sulla stretta pista. Perciò resta sospesa
in aria, e dalla sua pancia discendono passerelle di metallo che toccano terra. I Mog vanno e
vengono dalle rampe, caricando materiali nella stiva.
«Dobbiamo distruggerli», dice Marina in tono inespressivo.
Nove la guarda incredulo. «Dici sul serio? Mi sembra di contare almeno cento Mog e
l'astronave più grossa che abbia mai visto.»
«E allora? Non ti piace combattere?»
«Sì. Quando ho una possibilità di vincere.»
«E se non puoi vincere ti limiti a parlare, giusto?»
«Basta così», sibilo prima che Nove possa ribattere. Non so per quanto ancora Marina abbia
intenzione di tenere il muso a Nove, e cosa ci vorrà per alleviare la tensione, ma di sicuro non è
questo il momento giusto. «Bisticciare non ci aiuterà.»
Siamo sdraiati a pancia in sotto nel fango, nascosti dall'erba alta alla vista degli indaffarati
Mogadorian, nel punto in cui la palude confina con uno spiazzo bonificato. Ci sono due edifici
davanti a noi: uno è a un piano solo, in vetro e acciaio, e sembra quasi una serra; l'altro è un
hangar con una breve pista d'atterraggio, perfetta per piccoli aerei o per le navicelle dei
Mogadorian, ma decisamente troppo piccola per l'astronave da guerra sospesa a mezz'aria. Come
ci aveva detto Dale prima di fuggire, il posto ha l'aria di essere rimasto abbandonato per molto
tempo. La palude ricomincia a farsi strada incrinando l'asfalto, la struttura metallica della serra è
arrugginita, il logo NASA è sbiadito quasi completamente sulla fiancata dell'hangar. Ovviamente
queste condizioni non sembrano avere dissuaso i Mog dall'approntare qui una piccola base.
Ma ora sembra che se ne stiano andando.
«Marina, percepisci qualcosa?» chiedo.
A questo punto non abbiamo niente su cui basarci a parte l'intuito di Marina. È stato quello a
portarci fin qui, in mezzo ai Mogadorian. Tanto vale continuare a farci affidamento ancora per un
po'.
«Lui è qui», dice Marina. «Non so come faccio a saperlo, ma è qui.»
«Allora entriamo. Ma in modo intelligente.» Li prendo entrambi per mano e ci rendo
invisibili. «Marina, fa' strada tu», bisbiglio.
Mentre usciamo dalla palude, Nove inciampa su una radice e rischia di cadere e di staccarsi
da noi: sarebbe stata la missione segreta più breve della storia. Gli stringo più forte la mano.
«Scusa», sussurra. «È strano non potermi vedere le gambe.»
«Non deve succedere di nuovo», lo avverto.
«Non sono più tanto convinto di questo piano: fare irruzione e ammazzarli tutti. Passare
inosservato non è proprio il mio forte.»
Marina emette un gemito d'irritazione.
Stringo forte la mano anche a lei. «Dobbiamo muoverci all'unisono», dico tra i denti,
sperando che riusciremo a ritrovare quella capacità istintiva di lavorare in squadra che abbiamo
usato contro i tre ricognitori nella palude. «Procedete lentamente, in silenzio. Attenti a non urtare
niente e nessuno.»
Ci avviamo a passo lento. Non mi preoccupo troppo del rumore dei nostri passi sull'asfalto; i
Mogadorian sono indaffarati a trasportare attrezzature pesanti dalla serra all'astronave, e le ruote
dei loro carrelli cigolano. Sono abituata a muovermi quando sono invisibile, mi fido dell'istinto,
ma so che per gli altri può essere difficile. Ci avviciniamo lentamente, tenendoci stretti, più
silenziosi possibile.
Marina ci porta dapprima verso la serra. I Mog sono concentrati in quell'area, trasportano
carrelli carichi di strane apparecchiature da scienziato pazzo. Ne vedo uno spingere uno scaffale
pieno di piante in vaso: fiori, zolle d'erba, arbusti... tutte cose trovate sulla Terra, ma venate di
uno strano fluido grigio. Sembrano appassite, moribonde, e mi domando che genere di esperimenti
i Mog stessero conducendo.
Uno molto alto staziona in fondo alla rampa che conduce all'astronave da guerra. La sua
uniforme è diversa da quelle abituali dei guerrieri, formale e severa, tutta nera, tappezzata di
medaglie lucenti e con le spalline dorate: dev'essere un ufficiale dell'esercito. I tatuaggi sulla
testa sono molto più complessi degli altri che ho visto. Ha in mano un tablet su cui depenna le
voci da una lista mentre gli altri caricano le attrezzature sulla nave. Ogni tanto grida un ordine
nella loro aspra lingua.
Marina cerca di farci avvicinare alla serra, ma io le stringo più forte la mano e pianto i piedi
a terra. Nove mi sbatte addosso e grugnisce di stizza perché ci siamo fermati. Il vialetto davanti a
noi è una specie di corsa a ostacoli: i Mogadorian sono ovunque. Se ci avviciniamo ancora,
rischiamo che uno di loro ci venga addosso. Se Otto si trova in quella serra insieme coi loro
esperimenti e materiali, la nostra unica possibilità di trovarlo sarebbe un assalto frontale. E non
sono ancora pronta per quell'opzione. Marina percepisce la mia riluttanza, e la sua mano si
raffredda un po' nella mia.
«Non ancora», sibilo. «Prima controlliamo l'hangar.»
Facciamo un'altra decina di passi, poi un guaito animale ci spinge a fermarci. Dalla serra, una
squadra di Mog spinge fuori una grande gabbia su ruote. Dentro c'è una creatura che a un certo
punto poteva essere stata una mucca, ma che nel frattempo è stata trasformata in qualcosa di
orribile. Ha gli occhi umidi e giallastri, corna appuntite e mammelle estremamente gonfie e
percorse dalle stesse venature grigiastre che ho visto sulle piante. La creatura sembra intontita e
priva di forze, viva per un soffio. Gli esperimenti dei Mog dovevano essere davvero terribili, e
anch'io, come Nove, inizio a dubitare della possibilità di fare a pezzi questi bastardi.
«Aspetta, ho un'idea», mi bisbiglia Nove all'orecchio.
Esposti come siamo, non mi sembra un buon momento per una delle sue pazze idee. Ma un
istante dopo che lui ci ha fatti fermare, la mostruosa mucca nella gabbia emette un altro lamento e
si rialza faticosamente. Barcolla e si appoggia a un lato della gabbia; i Mog che la spingono
chiedono aiuto a gran voce perché la gabbia minaccia di rovesciarsi. Poi la creatura colpisce le
sbarre con uno degli enormi zoccoli, rischiando di spaccare la faccia a un Mog.
«Le ho chiesto di distrarli», bisbiglia Nove, mentre altri Mog accorrono intorno alla gabbia
per tentare di sedare l'animale. «Quella poveretta è stata felice di aiutarci.»
La telepatia di Nove con gli animali funziona a meraviglia. La mucca sembra avere finalmente
trovato uno scopo cui dedicare la vita: continua ad agitarsi, sbatte contro i lati della gabbia,
infilza con un corno un Mog alla spalla. Il caos ci permette di passare inosservati davanti alla
serra e proseguire verso l'hangar.
Ci fermiamo sentendo sparare un fucile mog. Voltandomi vedo l'ufficiale rimettersi l'arma in
spalla e un buco fumante sulla tempia della mucca. L'animale è riverso nella gabbia, immobile.
L'ufficiale bercia un ordine: i Mog iniziano a caricare la carcassa sull'astronave da guerra.
Tendo i muscoli, ma Nove mi sussurra: «È meglio così. Soffriva molto».
Ora che siamo un po' più lontani dai Mog trovo il coraggio di chiedere: «Cosa le stavano
facendo?»
Nove esita prima di rispondere. «Non sono riuscito a scambiarci più di qualche parola. Ma
penso che cercassero di renderla più efficiente. Ehm... esperimenti sull'ecosistema.»
«Pazzi furiosi», mormora Marina.
Acceleriamo il passo e proseguiamo verso l'hangar. Alla nostra destra, sul bordo della pista,
ci sono tre astronavi più piccole, di quelle a forma di disco volante. Una squadra di manutenzione
composta da cinque Mog è riunita intorno a una delle navicelle e osserva con aria perplessa
alcune schede elettroniche estratte dal veicolo. A quanto pare, anche i Mogadorian possono avere
problemi tecnici. A parte quei cinque, non c'è in giro nessun altro.
Le enormi porte metalliche dell'hangar, grandi abbastanza per un piccolo aereo, sono aperte
quanto basta per far passare una persona. Dentro l'hangar le luci sono accese, ma dalla porta
socchiusa vedo solo uno spazio vuoto.
Marina rallenta quando arriviamo alla porta e poi si ferma per guardare dentro. Nel frattempo
io mi guardo alle spalle. Non è cambiato niente: i Mog stanno ancora caricando materiali
sull'astronave da guerra, ignari della nostra presenza.
«Vedi niente?» bisbiglia Nove, e percepisco che allunga il collo per scrutare dentro l'hangar.
Sento che a Marina si mozza il fiato in gola. La mano che stringo nella mia sembra essersi
tramutata in un blocco di ghiaccio.
«Merda, Marina!» sibilo, ma lei non mi ascolta: si sta tuffando oltre la soglia. Fatico molto a
trattenerla, perché ho la mano intorpidita. Tiro via Nove, che sbatte la spalla sulla porta d'acciaio
ed emette un lamento che viene coperto dall'eco del rumore metallico.
L'hangar è quasi completamente vuoto: i Mogadorian hanno già portato via tutta la loro roba.
Dalle travi del soffitto, grandi fari illuminano il tavolo di metallo e la sedia al centro della stanza.
Sono le uniche cose rimaste lì dentro, e proiettano lunghe ombre sul pavimento di cemento.
Sul tavolo c'è il corpo di Otto.
È avvolto in una sacca nera per cadaveri, con la lampo tirata giù fino alla vita. È a torso nudo,
si vede chiaramente la ferita delle dimensioni di una monetina che Cinque gli ha inferto all'altezza
del cuore. La pelle bruna è livida, ma per il resto è uguale a prima, come se da un momento
all'altro potesse teletrasportarsi giù dal tavolo e giocarmi uno scherzetto dei suoi. Ha degli
elettrodi neri attaccati alle tempie e allo sterno, con corte antenne dall'aria fragile. Gli elettrodi
generano una specie di campo a malapena visibile, come se attraverso il corpo transitasse una
corrente elettrica leggera e costante. Penso che i Mog volessero conservare intatto il corpo in
vista dei loro esperimenti. Oltre agli elettrodi, qualcuno ha lavato via il sangue e,
sorprendentemente, gli hanno lasciato al collo il medaglione loric: la pietra gli riluce sul petto. È
orribile vederlo in quello stato, ma sembra quasi sereno.
E tuttavia non è Otto il motivo per cui Marina si è precipitata nell'hangar, né il motivo per cui
mi sta congelando la mano. Seduto accanto a Otto, con la testa tra le mani, c'è Cinque; siede chino
in avanti, come se volesse ripiegarsi su se stesso. L'occhio che Marina gli ha ferito nella palude è
bendato, e le bende sono leggermente macchiate di rosa. L'occhio buono è cerchiato di rosso:
sembra che abbia pianto o che non abbia dormito, o entrambe le cose. La testa è rasata di fresco,
e mi domando tra quanto tempo gli faranno i tatuaggi. È vestito con abiti formali mogadorian,
simili a quelli dell'ufficiale che presiedeva alle operazioni di carico dell'astronave da guerra. Ma
la sua uniforme è tutta stropicciata, i bottoni intorno al collo sono slacciati, tutto sembra andargli
un po' stretto.
È impossibile che il traditore guercio non ci abbia sentiti entrare. Lo spazio vuoto dell'hangar
amplifica ogni suono, tanto che ho paura di respirare. Quel che è peggio, sento provenire da
Marina un ringhio basso, come se stesse per gridare e avventarsi su Cinque. Dietro di me sento
Nove trattenere il fiato.
L'occhio buono di Cinque lancia uno sguardo nella nostra direzione. Ci ha sentiti di sicuro, ma
non può vederci. Forse penserà che il rumore sia stato provocato dai Mog lì fuori.
Anch'io voglio vendicarmi del traditore, e possibilmente stavolta non vorrei essere messa al
tappeto prima ancora che inizi la battaglia; ma dobbiamo agire con tempismo. Uno scontro con
Cinque in uno spazio chiuso, a poca distanza da un'astronave mog, non è certo la battaglia che
vogliamo. Dovremo trovare un altro sistema per recuperare il corpo di Otto.
Tiro Marina per un braccio, anche se ormai non mi sento più la mano per il freddo, e cerco di
farle capire che aggredire Cinque sarebbe una pessima idea. Lei oppone resistenza per un
momento, ma poi la sento calmarsi: lo capisco perché la mia mano inizia a riscaldarsi.
D'un tratto, mentre Marina espira lentamente e senza fare rumore, vedo il suo fiato formare
una nuvoletta: l'aria intorno a lei è troppo fredda. Una nuvoletta di fiato, proveniente da una
ragazza invisibile, galleggia a mezz'aria sotto le luci intense dell'hangar.
Cinque la vede, stringe gli occhi. Si alza dalla sedia e guarda nella nostra direzione. «Non
l'ho fatto apposta», dice.
12

Stringo più forte le mani di Marina e Nove, sperando di dissuaderli dal rispondere a Cinque
rivelando così la nostra posizione. Non sono ancora pronta a rinunciare al nostro unico vantaggio,
l'invisibilità. Per fortuna riescono entrambi a controllarsi, e le parole di Cinque restano senza
risposta.
«So che non mi crederete», continua Cinque. «Ma nessuno sarebbe dovuto morire.» Il suo
sguardo implorante è ancora puntato dritto su di noi.
Inizio lentamente a far spostare gli altri di lato. Ci muoviamo pochi centimetri alla volta,
senza fare rumore, attenti a non intralciarci. Gradualmente usciamo dal campo visivo di Cinque e
ci posizioniamo al suo fianco. Ora Cinque guarda davvero nel vuoto e aspetta invano una risposta.
Poi sbuffa e si gira. Come se non ci avesse mai rivolto la parola, inizia invece a parlare
direttamente al corpo di Otto. «Non avresti dovuto tuffarti davanti a Nove», lo rimprovera, e
sembra quasi dispiaciuto. «Sarà anche stato un gesto eroico, e per questo ti ammiro, ma non ne
valeva la pena. I Mogadorian vinceranno lo stesso. Un ragazzo intelligente come te avrebbe
imparato a stare al proprio posto. Potevi aiutarci nella ricostruzione e nell'unificazione. Nove
invece... è troppo stupido per accorgersi che ha perso. Non è utile a nessuno.»
Sento tendere i muscoli nel braccio di Nove, che tuttavia per ora resiste alla tentazione di
scagliarsi contro Cinque. Bene, sta imparando. O forse anche lui, come me, è sconcertato da ciò
che sente, da Cinque che blatera fingendo di non sapere che noi siamo lì.
Cinque posa delicatamente la mano sulla spalla di Otto. La manica dell'uniforme si solleva,
mostrando la fondina di cuoio legata al braccio, quella che contiene il sottile pugnale a molla che
ha ucciso il nostro amico. «Mi ha detto...» Gli s'incrina leggermente la voce mentre continua a
rivolgersi a Otto. «Mi ha detto che avrei avuto una possibilità di convincervi a venire con noi.
Nessuno si sarebbe fatto male, se solo voi aveste accettato il progresso mogadorian. In passato ha
mantenuto le promesse: io stesso ne sono la riprova. Quando l'incantesimo si è spezzato, lui
avrebbe potuto uccidermi, ma non l'ha fatto.»
Immagino che stia parlando di Setrákus Ra, di un accordo che ha stretto con lui. Gira intorno
al tavolo, dandoci le spalle. Marina fa un passo verso di lui, ma non le permetto di proseguire.
Non so perché Cinque sia così loquace, ma non può non sapere che siamo qui. Non so se sia una
trappola, un'esca o chissà cos'altro. Ma voglio ascoltare.
«Non mi aspettavo che ti avessero fatto un tale lavaggio del cervello», riprende Cinque, chino
sul corpo di Otto. «Che tu vedessi tutto in bianco e nero, eroi contro cattivi.» Solleva il ciondolo
di Otto, stringe il gioiello nel pugno. Attiva la propria Eredità -- Externa, l'ha chiamata --, che gli
permette di far assumere alla pelle le caratteristiche di ogni sostanza che tocca. Vediamo il suo
corpo rilucere per un istante dell'azzurro della loralite. Poi Cinque lascia andare il ciondolo, con
un sospiro. La sua pelle riacquista il colore normale. «Ma d'altronde forse sono io a essere stato
plagiato, no? Non è quello che mi avete detto?» Ride a bassa voce, poi si sistema attentamente la
benda sopra l'occhio ferito. «Ti riempiono la testa di questa merda: gli Antenati, il Grande Libro,
tutte quelle regole su chi dovremmo essere... Ma a me non importa niente di quella roba. Cerco
soltanto di sopravvivere.»
Sento la mano di Nove sudare nella mia; si sta sforzando di non scagliarsi all'attacco. Intanto
Marina ha smesso d'irradiare il gelo di poco fa, probabilmente perché la scena cui stiamo
assistendo è così assurda e pietosa. Se quel discorso -- chiaramente pronunciato a nostro
beneficio -- ha rivelato qualcosa, è che Cinque è sulla buona strada per la pazzia.
Spazza via delicatamente un bruscolino dalla fronte di Otto e poi scrolla la testa. «Comunque,
il punto è: mi dispiace, Otto.» Ancora quel suo tono da saputello, ma stavolta percorso da una
vena di sincerità. «So che non significa niente. Sarò un codardo, un traditore, un assassino per il
resto della vita. Questo non cambierà. Ma devi saperlo: vorrei che le cose fossero andate
diversamente.»
Dietro di noi, qualcuno si schiarisce la voce. Eravamo tutti così concentrati sul folle
monologo di Cinque che non l'abbiamo sentito entrare. L'ufficiale mogadorian sta diritto come un
fuso e scruta Cinque con perplessità. Guardandolo lì in piedi pronto a fare rapporto, mi viene il
sospetto che quel Mogadorian prenda ordini da Cinque. Se è così, la cosa sembra disgustarlo
parecchio.
«Abbiamo finito di caricare la nave», dice l'ufficiale.
Cinque resta in silenzio per un lungo, imbarazzante momento. È ancora chino sul corpo di
Otto, fa lunghi respiri. Ho il timore che quel suo strano gioco sia finito e che ora stia pensando di
dare l'allarme.
L'ufficiale mogadorian non riesce a nascondere l'irritazione suscitata dal silenzio di Cinque.
«Una delle squadre di caccia non è tornata», prosegue. «E i meccanici non riescono a far
funzionare uno dei velivoli da ricognizione.»
Cinque sospira. «Non fa niente, li lasceremo indietro.»
«Sì, questi sono stati i miei ordini», replica l'ufficiale, rivendicando non troppo velatamente
la propria autorità. «Sei pronto a partire?»
Cinque alza lo sguardo, con una scintilla malevola nell'occhio sano. «Sì, andiamocene.»
Raggiunge le porte dell'hangar a passo lento e con aria strafottente.
Noi tre restiamo a guardare tutta la scena, in silenzio.
L'ufficiale inarca un sopracciglio, senza farsi da parte per lasciar passare Cinque. «Non
dimentichi qualcosa?»
Cinque si gratta la testa. «Cosa?»
«Il corpo», precisa l'ufficiale. «I tuoi ordini erano di portare via con noi il corpo del Loric. E
il ciondolo.»
«Ah, quello», ribatte Cinque, e si volta a guardare il tavolo di metallo dove giace Otto. «Il
corpo è andato, capitano. I Garde devono essersi intrufolati qui e averlo rubato. È l'unica
spiegazione possibile.»
L'ufficiale mogadorian resta spiazzato. Allunga il collo con un gesto plateale per guardare alle
spalle di Cinque: il corpo di Otto è ben visibile sul tavolo. «È uno scherzo, Loric?» sibila.
«Oppure ti sei accecato anche l'altro occhio? Il Garde è lì.»
Cinque lo ignora, scrolla la testa e fa schioccare la lingua. «Ed è successo mentre eri di
guardia tu», dice. «Ti sei fatto rubare da sotto il naso una risorsa bellica. Questa è alto
tradimento, amico mio. E sai bene qual è la pena prevista per l'alto tradimento.»
Il Mogadorian apre la bocca per protestare. Viene interrotto da uno stridore metallico: la lama
di Cinque che esce da sotto la manica. Senza esitare, Cinque affonda la lama sotto il mento
dell'ufficiale e dritta nel cervello.
Prima che il Mog inizi a disintegrarsi, sul suo volto si dipinge lo stupore. Cinque resta
immobile mentre l'ufficiale viene ridotto in cenere. Si disintegra più lentamente dei tanti altri Mog
che ho visto morire, e alla fine dall'uniforme stropicciata spuntano ossa affilate. Cinque fa
rientrare la lama nel meccanismo sull'avambraccio e scalcia via dalla soglia i resti dell'ufficiale.
Poi si spazzola accuratamente i vestiti con le mani e si sistema la giacca.
Dal punto in cui ci troviamo lo vediamo di profilo, dal lato dell'occhio bendato, quindi non è
facile interpretare la sua espressione.
«Buona fortuna», dice. Poi esce dalla porta dell'hangar e se la richiude alle spalle.
Nessuno parla e nessuno si muove per circa un minuto: abbiamo tutti un po' paura che uno
squadrone di Mog faccia irruzione da un momento all'altro.
Alla fine Nove stacca la mano dalla mia e torna nel mondo visibile. «Che cazzo è successo?»
sbotta. «Quel ragazzino vuole farsi perdonare, o è soltanto un idiota?»
«Non importa», dico. «Abbiamo Otto, è questo l'importante. A Cinque penseremo un'altra
volta.»
«È solo e sperduto», dice piano Marina, lasciandomi andare la mano. Vede che me la
massaggio per scaldarla e aggrotta la fronte. «Scusa, Sei.»
La zittisco con un cenno: non è il momento di parlare del controllo esercitato da Marina sulle
proprie Eredità. Raggiungo in punta di piedi la porta dell'hangar e la socchiudo, appena in tempo
per vedere Cinque salire sulla rampa ed entrare nell'astronave, ultimo uomo a bordo: subito dopo,
la rampa rientra nella stiva e l'enorme nave inizia a prendere quota. I motori ronzano pianissimo,
a un volume così basso da sembrare impossibile per un veicolo di quelle dimensioni. Una volta
raggiunta una certa altitudine, l'immagine dell'astronave inizia a tremolare e fatico a distinguere i
suoi contorni dalle nubi viola. Enorme, silenziosa ed equipaggiata con tecnologie di
occultamento: come possiamo vincere contro una cosa del genere?
«Sembra quasi che ti dispiaccia per lui», dice Nove a Marina.
«Non è vero», ribatte lei, ma sento un'ombra di dubbio nella sua voce, qualche crepa nella
corazza. «Io... Gli hai visto l'occhio?»
«Ho visto un buco nella testa coperto da un cerotto», risponde Nove. «Se l'è meritato
ampiamente.»
«Pensi che Otto avrebbe voluto una cosa del genere?» domando, e me lo chiedo davvero. «È
morto perché cercava d'impedire che ci ammazzassimo a vicenda.»
Quando l'astronave da guerra svanisce alla vista, mi giro a guardare gli altri.
Nove si morde il labbro e guarda a terra, riflettendo sulle mie parole.
Marina si è seduta accanto a Otto, sulla sedia prima occupata da Cinque. Tocca con cautela gli
elettrodi e passa le dita nel campo energetico, ma non succede nulla. Gli accarezza i riccioli. Ha
di nuovo gli occhi lucidi, ma trattiene le lacrime. «Sapevo che ti avrei trovato», sussurra.
«Scusami se ti ho abbandonato.»
La raggiungo al tavolo e guardo Otto. Forse è solo la mia immaginazione, ma mi sembra di
vedergli un accenno di sorriso. «Mi sarebbe piaciuto conoscerti meglio», gli dico, posandogli una
mano sulla spalla. «Avrei voluto che le nostre vite fossero diverse.»
Nove esita, ma alla fine ci raggiunge al tavolo, piazzandosi accanto a Marina. All'inizio evita
di guardare direttamente il corpo di Otto, ma stringe le labbra; i muscoli del collo gli guizzano
come se stesse sollevando qualcosa di pesante. Capisco che si vergogna. Alzare gli occhi sembra
richiedergli molto sforzo, ma dopo un momento riesce a guardare Otto. Immediatamente allunga le
mani per tirare un po' più su la lampo della sacca, per nascondere la ferita. «Oh, accidenti», dice
a bassa voce. «Mi dispiace per...» Scrolla la testa, si passa una mano tra i capelli. «Insomma,
grazie di avermi salvato la vita. Cinque aveva ragione, be'... probabilmente non avresti dovuto. Se
solo io avessi tenuto la bocca chiusa, forse ora saresti ancora... merda, mi dispiace, Otto. Mi
dispiace tanto.» Nove fa un respiro affannoso, è chiaro che sta trattenendo le lacrime.
Marina gli posa una mano sulla schiena e si appoggia a lui. «Ti perdonerebbe», dice piano, e
soggiunge: «Io ti perdono».
Nove la cinge con un braccio e la stringe a sé, con tanta forza da farla strillare. Le affonda il
viso tra i capelli, per nascondere le lacrime.
Ho la testa sempre piena di pensieri -- mi domando che ne è di John, Sam e gli altri, mi
preoccupo di come li ritroveremo, se sono ancora vivi e liberi -- ma vedere Marina e Nove che
iniziano a riconciliarsi mi dà speranza. Siamo un popolo forte. Possiamo superare tutto.
«Dobbiamo andarcene», dico piano. Mi dispiace interrompere quel momento, ma so che è
necessario. Tiro su la lampo della sacca.
Nove lascia andare Marina, si china e, con delicatezza, prende in braccio il corpo di Otto.
Proprio mentre ci voltiamo verso la porta dell'hangar, la sentiamo aprirsi. Mi ero
completamente dimenticata dei Mog che stavano lavorando sulla navicella da ricognizione. Sono
sulla soglia, stanno spingendo nell'hangar il velivolo in panne. Sembrano sorpresi quanto noi nel
vederci.
Prima che possiamo fare alcunché, sentiamo un cigolio metallico provenire dalla navicella. Il
lato rivolto verso di noi si solleva e appare una torretta da cui fuoriesce un cannone. Dentro
dev'esserci un Mog.
«State giù!» grida Nove.
Non ci sono nascondigli in quell'hangar vuoto, a parte il tavolo di metallo, ed è troppo tardi
per renderci invisibili. Marina rovescia il tavolo, Nove si accovaccia col corpo di Otto ancora
tra le braccia e io mi tuffo di lato, sperando di fare abbastanza in fretta, mentre il cannone apre il
fuoco.
13

«Il nome Grahish Sharma ti dice qualcosa?» chiede Sarah.


Rifletto per un momento, passo al setaccio i ricordi. «Mi sembra di averlo già sentito.
Perché?»
Sono sul prato davanti alla vecchia casa di Adam, e la voce di Sarah esce dal cellulare usa e
getta. Dietro il campo da basket il sole inizia a calare sull'orizzonte. Un grosso uccello solca il
cielo arancione, mi domando se sia uno dei nostri: abbiamo piazzato le chimere come sentinelle
in tutto il terreno delle Residenze Ashwood, con l'ordine di avvertirci se dovessero avvistare
intrusi. Finora non si è visto nessuno. Se non sapessi come stanno le cose, penserei di trovarmi in
un sonnacchioso angolo di periferia, in un'ora in cui tutti sono ancora al lavoro.
«Viene dall'India», spiega Sarah. «È il comandante di un gruppo chiamato Vishnu Nationalist
Eight.»
Ora ricordo. Schiocco le dita. «Ah, sì. È il tizio dell'esercito che proteggeva Otto
sull'Himalaya.»
«Quindi la sua versione dei fatti è credibile», dice Sarah.
Cammino avanti e indietro sul prato, immaginando Sarah coi capelli biondi raccolti in una
crocchia fermata con penne e matite, intenta a leggere documenti nel nuovo ufficio di Sono tra
noi. È irrilevante che quell'ufficio si trovi in un ranch abbandonato a ottanta chilometri da
Huntsville, in Alabama. È irrilevante che Sarah sia stata scortata fin lì dal suo ex ragazzo, Mark,
che si è rivelato sorprendentemente abile nello spionaggio. È sull'immagine di Sarah che mi
concentro.
«Quale versione?»
«Be', un sacco di dicerie e complottismi internettiani tra cui stiamo cercando di mettere
ordine. Ma questo tizio, Sharma, sostiene di avere abbattuto un'astronave aliena e di avere
catturato l'equipaggio.»
«Mog che inseguivano Otto, probabilmente.»
«Sì, li ha presi vivi. È successo in India, ma avrebbero dovuto parlarne anche i giornali di
qui: e invece no. Qualcuno ha insabbiato tutta la faccenda. Mark sta cercando di mettersi in
contatto con Sharma. Vuole scrivere un articolo su Sono tra noi, per rivelare all'opinione
pubblica l'esistenza dei Mog.»
«Potrebbe fruttarci un po' di sostegno, se le cose dovessero mettersi male.»
«Quanto si metteranno male, le cose, John?»
Deglutisco a fatica. Pur avendo usato la mia Eredità di guarigione poco dopo la battaglia,
sento ancora le dita del generale strette alla gola. «Non lo so», rispondo, senza riferire a Sarah
che Adam ritiene imminente l'invasione della Terra. Forse perché cerco ancora di proteggerla.
«Come sta Mark?» chiedo, cambiando rapidamente argomento.
«Sta bene. È molto cambiato.»
«In che senso?»
Sarah esita. «È difficile da spiegare.»
Non insisto: non è delle attuali condizioni di Mark James che voglio parlare. A dirla tutta,
dopo essere quasi morto oggi pomeriggio, voglio solo sentire la voce di Sarah. «Mi manchi», le
dico.
«Mi manchi anche tu. Dopo una lunga giornata trascorsa a fronteggiare invasori alieni e
svelare intrighi internazionali, vorrei che potessimo sdraiarci su quel vecchio divano nel mio
seminterrato e guardare un film.»
Il pensiero della vita normale che io e Sarah potremmo fare, se non stessimo cercando di
salvare il mondo, mi strappa una risata amara. «Presto lo faremo», dico, cercando di suonare
convinto.
«Lo spero.»
Sento muoversi qualcosa dietro di me. Girandomi, vedo Sam sulla veranda distrutta della casa
di Adam: mi fa cenno di entrare. «Sarah, devo andare.» Non ho la minima voglia di riagganciare.
Ci sentiamo ogni otto ore, come da accordi, e ogni volta che sento la sua voce provo un grande
sollievo. E ogni volta che chiudo il telefono inizio a pensare alla volta successiva... quando lei
non chiamerà. «Sta' attenta. Le cose potrebbero farsi difficili.»
«Non lo sono già? Sta' attento anche tu. Ti amo.»
Saluto Sarah e rivolgo un cenno del capo a Sam: sembra quasi entusiasta, come se negli ultimi
cinque minuti avesse ricevuto buone notizie. «Che succede?»
«Vieni, abbiamo scoperto una cosa.»
Salgo su quello che rimane della veranda dopo la battaglia di quel pomeriggio e seguo Sam
oltre la porta mezza scardinata. L'interno della casa non è dissimile dall'esterno -- il classico
esempio di periferia di una qualsiasi città degli Stati Uniti -- ma i mobili sembrano disposti
esattamente come sulle pagine di un catalogo. È una casa che non sembra abitata. Cerco
d'immaginare come debba essere stato per Adam crescere lì, provo a figurarmelo intento a
giocare coi pupazzetti dei piken, ma non ci riesco.
In fondo al salotto c'è un'enorme porta di metallo con una serie di serrature azionate da un
pannello elettronico coperto di simboli mogadorian. È l'unico elemento che stona con l'illusione
di una tranquilla casetta suburbana. Mi stupisce che i Mog non abbiano tentato di nasconderla
dietro un mobile o qualcosa del genere: evidentemente non immaginavano che i loro nemici
sarebbero giunti fin lì. La porta è già aperta, scassinata in precedenza da Adam, ed è da lì che io e
Sam scendiamo nelle gallerie sotto le Residenze Ashwood.
Al termine di una lunga scala di metallo, la falsa atmosfera accogliente della casa lascia il
posto a gelido acciaio inox e ronzio dei neon. Il labirinto di tunnel sotto Ashwood è molto più in
sintonia con la mia idea dei Mogadorian: funzionale e freddo. Il complesso non è esteso come la
montagna scavata in West Virginia, ma è sicuramente molto più grande della base di Dulce. Mi
chiedo quanto tempo ci sia voluto per scavare tutti quei cunicoli mentre io e Henri eravamo in
fuga, ignari di tutto.
A metà della scala inizia una lunga crepa nella parete che prosegue verso il basso lungo le
gallerie. Sam ci passa sopra una mano: la polvere di cemento gli resta sulle dita.
«Siamo sicuri che questo posto non ci crollerà addosso?» chiedo.
«Adam pensa di no.» Sam batte le mani per pulirle: il suono riecheggia nella galleria. «Ma
questo posto mi mette ansia, davvero. Claustrofobia pura.»
«Non ti preoccupare, non ci resteremo a lungo.»
Nelle gallerie troviamo altre crepe, punti in cui le fondamenta si sono mosse, pezzi di cemento
che strusciano l'uno sull'altro. Sono i danni inferti da Adam l'ultima volta che è stato qui, quando
ha usato la sua Eredità per evocare un terremoto e far evadere Malcolm. In alcune gallerie il
soffitto è crollato.
A un certo punto passiamo davanti a una grande stanza ben illuminata che forse in passato era
un laboratorio: vediamo molti rubinetti, leve e tavoli da lavoro, ma nessuna apparecchiatura.
Devono essere state distrutte durante l'attacco di Adam, e la squadra di recupero dei Mog non ha
avuto occasione di rimpiazzarle. Accanto al laboratorio troviamo una serie di stanzette con spesse
porte in vetro antiproiettile. Celle. Tutte vuote.
«Gli archivi sono quaggiù», dice Sam. «Papà non si è più mosso da lì. I Mog registravano
ogni cosa.»
Ci fermiamo davanti a una piccola stanza -- sembra quasi un ufficio -- con una parete coperta
di schermi. Malcolm è seduto davanti all'unico terminale, con gli occhi rossi per avere guardato
chissà quante ore di video.
Su uno degli schermi, un ricognitore mogadorian parla direttamente rivolto alla telecamera:
«Tre giorni fa abbiamo sparso voci sulla presenza dei Loric a Buenos Aires. Non c'è ancora
traccia dei Garde, ma la sorveglianza continua...»
Vedendoci entrare, Malcolm mette in pausa il video e si stropiccia gli occhi.
«Hai trovato qualcosa di utile?» chiedo.
Lui scrolla la testa e apre sullo schermo una lista di file. Passa un dito sul touchscreen: i titoli
dei file iniziano a scorrere. Ce ne sono migliaia, tutti in lingua mogadorian. «A quanto ho capito,
sono quasi cinque anni di archivi dell'intelligence mogadorian», spiega Malcolm. «Avrei bisogno
di un'intera squadra per vederli tutti. Anche se Adam mi ha tradotto i titoli, che in pratica sono
solo date e orari, è difficile capire da dove iniziare.»
«Forse possiamo assoldare qualche stagista», suggerisce Sam, sorridendo. Poi mi tira per un
braccio: «Coraggio, dobbiamo andare da Adam».
«Fa' quello che puoi», dico a Malcolm prima che Sam mi trascini via. «Anche l'informazione
più insignificante potrebbe aiutarci.»
Qualche altro metro di corridoio più in là c'è la stanza che Adam ha definito «centro di
controllo». È praticamente intatta, quindi ci sistemiamo lì. Le pareti sono tappezzate di monitor,
alcuni dei quali trasmettono i filmati delle telecamere di sicurezza di Ashwood, ma anche
immagini provenienti da altri luoghi, compresa una telecamera che mostra l'esterno del John
Hancock Center. Sotto i monitor c'è una fila di computer, non semplicissimi da usare perché i
caratteri sulle tastiere sono dell'alfabeto mogadorian.
Mi poso le mani sui fianchi e mi guardo intorno, osservando le immagini delle telecamere che,
non molto tempo fa, sarebbero state puntate su di me. È strano trovarmi dall'altra parte. Come
Sam, anch'io mi sento a disagio in questo posto. «Siamo al sicuro qui?» chiedo. «Tutte queste
telecamere... Non ce n'è nessuna puntata su di noi?»
«Le ho disattivate», risponde Adam. È seduto su una sedia da ufficio, davanti a uno dei
computer, e sta digitando una serie di comandi. Si gira verso di me. «Usando i codici di
autorizzazione del generale, ho inviato un messaggio al centro di comando dei Mogadorian in
West Virginia, dicendo che la squadra di recupero ha individuato una fuoriuscita di sostanze
tossiche. Ci vorrà un po' di tempo per bonificare l'area. Penseranno che le telecamere spente
abbiano qualcosa a che fare col lavoro della squadra di recupero.»
«E questo quanto tempo ci lascia?»
«Un paio di giorni, forse una settimana. S'insospettiranno quando il generale non si farà vivo,
ma per un po' dovremmo riuscire a passare inosservati.»
«Nel frattempo cosa cerchiamo?»
«I tuoi amici», risponde Adam. «Anzi credo di averli già trovati.»
«Sì, sono in Florida. Lo sapevamo già.»
«No, li ha proprio trovati. La posizione esatta», ribatte Sam, sorridendo. «Per questo sono
venuto a chiamarti. Guarda qui.» Indica uno degli schermi, su cui è visualizzata una mappa degli
Stati Uniti punteggiata da triangoli di varie dimensioni.
C'è un piccolo triangolo in corrispondenza del punto in cui ci troviamo, e altri sparsi per il
Paese. Ci sono triangoli più grandi sui centri urbani più popolati: New York, Chicago, Los
Angeles, Houston... tutte quelle città sono segnate sulla mappa. Il triangolo più grande di tutti è a
ovest rispetto a noi, proprio sopra la base segreta dei Mog nelle montagne del West Virginia.
«Questo è un...» Sam guarda Adam. «Come lo chiameresti?»
«Prospetto riassuntivo delle risorse tattiche», risponde Adam. «Mostra i luoghi in cui si
svolgono le attività del mio popolo.»
«Si stanno radunando nelle città principali», dico, osservando la mappa.
«Si preparano per l'invasione.» Il tono di Adam è cupo.
«Non pensiamo all'invasione per il momento, d'accordo?» interviene Sam. «Guarda qui.» Mi
porge il tablet che mostra la posizione degli altri Garde, collegato a uno dei computer.
Lo sguardo mi cade subito sulla Florida. Il mio cuore manca un battito: c'è un solo puntino
lampeggiante sulla mappa. Impiego qualche secondo a capire che i quattro puntini relativi ai
Garde superstiti sono così vicini tra loro da apparire perfettamente sovrapposti. «Sono quasi
l'uno sull'altro. Tutti e quattro.»
«Sì», dice Sam, riprendendosi il tablet. «E ora guarda qua.» Avvicina il tablet alla mappa
delle attività dei Mogadorian. I quattro puntini coincidono perfettamente con uno dei triangoli
arancioni più piccoli in Florida.
«Sono nelle mani dei Mog?» La notizia mi sconcerta. «Adam, che tipo di base è quella?»
«Una stazione di ricerca. La documentazione mostra che lì si svolgevano esperimenti genetici.
Non è il genere di posto in cui normalmente terrebbero prigionieri, e certamente non i Garde.»
«E poi, a questo punto, perché prendere prigionieri?» chiede Sam. «Insomma, capisco che
Setrákus Ra sia fissato con Ella, ma gli altri...»
«Non sono prigionieri!» esclamo, dando una pacca sul braccio a Sam per l'entusiasmo.
«Stanno facendo qualcosa. Stanno attaccando.»
«Sto cercando di ottenere immagini della base», dice Adam, digitando sulla tastiera.
«E come?» Mi siedo accanto a Adam. Guardo le sue dita volare sulla tastiera mogadorian.
Non so cosa stia facendo, ma gli viene naturale.
«Ho sabotato una navicella da ricognizione, così non potranno usarla. Quella è stata la parte
facile. Meno facile si sta dimostrando il compito d'isolare la strumentazione di sorveglianza a
bordo, per mantenere inutilizzabile il veicolo.»
«Stai hackerando un'astronave?» Sam non riesce a nascondere l'ammirazione.
Il monitor davanti a Adam mostra un segnale disturbato dalle interferenze.
«A che ci serve?» chiedo.
«Questa sala di controllo è un centro nevralgico, John», spiega Adam, smettendo per un attimo
di digitare. «Le informazioni provenienti da tutte le altre basi arrivano qui. Dobbiamo solo
consultarle.»
«In che modo?»
«Il mio popolo dà la caccia ai Loric da tanti anni, ed è diventato paranoico: hanno il terrore di
lasciarsi sfuggire una possibile pista. Ogni operazione viene registrata. Ci sono telecamere
ovunque.» Adam preme un tasto, con un gesto trionfante. «Anche a bordo delle astronavi.» I
monitor lampeggiano per un momento e poi mostrano le immagini sgranate di una pista
d'atterraggio nel mezzo di una palude. «Se i Garde sono da quelle parti, potremmo riuscire a
vederli.»
«Sempre che non siano invisibili», dico, fissando il monitor.
Sotto la telecamera, un gruppetto di Mog dall'aria irritata sta smontando il motore della
navicella da ricognizione. Puliscono i vari pezzi, li riassemblano e, vedendo che non succede
niente, iniziano a smontare qualcos'altro.
«Cosa stanno facendo?» chiede Sam.
«Cercano di rimediare ai miei danni», risponde Adam, con aria soddisfatta: sembra
compiaciuto di avere battuto in astuzia il proprio popolo. «Ipotizzano un problema al motore, non
che i sistemi automatizzati siano stati disabilitati. Ci metteranno un po' a capirlo.»
Un altro Mog, con un'uniforme di gala simile a quella del generale Sutekh, si avvicina al
gruppo di meccanici e inizia a strillare, poi esce dall'inquadratura.
«La telecamera si può muovere?» chiedo.
«Certo.» Adam preme un pulsante.
La telecamera inizia a spostarsi lateralmente, seguendo il Mogadorian in ghingheri. All'inizio
non c'è molto da vedere a parte l'asfalto e le paludi in lontananza. Ma, dopo avere percorso un
breve tragitto a piedi, il Mog entra in un hangar.
«Pensi che i Garde siano lì dentro?» chiedo.
«Questa telecamera dovrebbe essere attrezzata per la visione termica, se scopro come si usa.»
Prima che Adam capisca come fare, vediamo Cinque uscire dall'hangar. Dalla visione di Ella
avevo intuito che era un traditore, ma continuavo stupidamente a sperare che non fosse vero. O
addirittura, per quanto brutto fosse quel pensiero, speravo che fosse Cinque quello che era
rimasto ucciso nella battaglia. E invece eccolo lì, in una divisa mogadorian stropicciata e con
l'occhio destro bendato.
Sento Sam trasalire, sbigottito. L'unica parte delle mie visioni di cui non avevo parlato a
nessuno era Cinque, perché non volevo infangare il suo nome nell'eventualità che mi sbagliassi.
«Lui...» Sam scuote la testa. «Quel bastardo traditore. Dev'essere stato lui a parlare di
Chicago ai Mog.»
«Uno dei vostri», mormora Adam. «Questo non me l'aspettavo.»
Devo distogliere lo sguardo dall'immagine di Cinque prima che mi ribolla il sangue. «Non lo
sapevi?»
«No.» Adam scuote la testa. «Te l'avrei detto. Lo stesso Setrákus Ra deve averlo tenuto
segreto.»
Mi costringo a guardare lo schermo e a osservare il mio nuovo nemico mantenendo la calma.
Le spalle incurvate, la testa rasata di fresco, lo sguardo cupo nell'occhio superstite. Cosa può
avere portato uno dei nostri a fare qualcosa di così orribile?
«Lo sapevo che di quello lì non c'era da fidarsi», dice Sam, camminando avanti e indietro per
la stanza. «John, che facciamo?»
Non rispondo, soprattutto perché l'unica soluzione che mi venga in mente al momento, mentre
guardo Cinque nell'uniforme del nemico, è ucciderlo. «Dove sta andando? Seguilo», dico a Adam.
La telecamera segue Cinque lungo la pista d'atterraggio fino a una rampa che conduce
all'astronave più grande che io abbia mai visto, così smisurata che la telecamera non riesce a
inquadrarla tutta.
«Porca miseria, che cavolo è quella roba?»
«Un'astronave da guerra», risponde Adam, con una nota di meraviglia nella voce. «Non riesco
a capire quale.»
«Quale? Perché, quante ne hanno?» chiede Sam.
«A decine. Sono alimentate dal vecchio carburante di Mogadore e da quello che il mio popolo
è riuscito a estrarre dalle miniere di Lorien. Non sono veicoli particolarmente efficienti. E sono
lenti. Quando mi cacciavo nei guai da bambino, mia madre minacciava di mettermi in castigo
finché non fosse arrivata la flotta...» Adam si accorge di stare parlando a vanvera, lascia la frase
in sospeso e alza gli occhi su di noi. «A voi non importa di queste cose, giusto?»
«Diciamo che forse non è il momento migliore per rivangare i ricordi d'infanzia», rispondo,
guardando Cinque che sale sull'astronave. «Ma cos'altro puoi dirci della flotta?»
«È in viaggio fin dai tempi della caduta di Lorien. Gli strateghi mog pensano che resti
carburante a sufficienza per un ultimo assedio.»
«La Terra.»
«Sì. Poi il mio popolo si stabilirà qui. Forse ricostruirà la flotta, se Setrákus Ra trova un
motivo valido.»
«Se trova altri pianeti abitati da conquistare, intendi dire.» Mi è sempre più difficile
mantenere la calma.
Sam scrolla la testa, ancora meravigliato dall'enorme astronave. «Hanno un tallone d'Achille,
vero? Come quel punto sulla Morte Nera che, se colpito, fa esplodere tutto.»
Adam aggrotta la fronte. «Cos'è la Morte Nera?»
Sam sospira. «Siamo nella merda.»
«Se li hanno presi prigionieri e li tengono a bordo di quell'astronave...» Non finisco di
esprimere il pensiero, soprattutto perché non mi viene in mente nessuna soluzione. Conquistare
una base mogadorian praticamente abbandonata è un conto; riuscire a salire a bordo di un'enorme
astronave da guerra è tutt'altra storia. Soprattutto se quell'astronave sta lentamente prendendo
quota. Forse ha ragione Sam, forse siamo spacciati.
Restiamo tutti e tre a guardare in silenzio l'astronave che decolla. Prima di sparire
completamente dallo schermo, tremola per un istante. Poi scompare... be', non del tutto: i contorni
del veicolo sono ancora visibili, ma distorti, come se la luce s'incurvasse tutt'intorno, come
quando si guarda un oggetto sott'acqua.
«Un dispositivo di occultamento», dice Adam. «Ce l'hanno tutte le astronavi da guerra.»
«Ehi, guardate il tablet: forse qualche buona notizia c'è.»
Mentre l'astronave ormai invisibile continua a innalzarsi, uno dei puntini sul tablet si allontana
lentamente dagli altri. È Cinque. Dopo qualche secondo il puntino comincia a lampeggiare qua e
là per lo schermo. Ora abbiamo due indicatori, due Garde, che saltellano in tutte le direzioni sulla
mappa.
«Proprio come Ella», dice Sam, aggrottando la fronte.
Adam annuisce. «L'astronave da guerra sta tornando in orbita...»
«Quindi Ella è già a bordo di una di quelle cose», concludo. «L'hanno portata lassù.»
«E noi come ci arriviamo, lassù?» chiede Sam.
«Non dobbiamo arrivarci», risponde Adam. «Sarà la flotta a venire da noi.»
«Ah, giusto. L'invasione del pianeta.» Sam scrolla il capo. «Quindi dobbiamo aspettare che
invadano?»
Sfioro il tablet con la punta del dito, indicando i tre puntini ancora in Florida. «Il piano è
andare a prendere gli altri. Sono ancora lì. Dobbiamo soltanto...» M'interrompo quando torno a
guardare lo schermo. «Pensavo che tu avessi sabotato la navicella. Perché si sta muovendo?»
Adam preme rapidamente una serie di tasti e fa abbassare la telecamera. Da quell'angolazione
vediamo l'equipaggio mogadorian che, con grande fatica, spinge la navicella da ricognizione
verso l'hangar.
«Evidentemente si sono arresi: non parte», osserva Sam.
Uno dei Mog corre avanti per aprire le porte di metallo: lì, fermi al centro dell'hangar vuoto,
ci sono Nove, Marina e Sei.
Il grido entusiasta di Sam si smorza quando lui si rende conto che ci sono tre Garde anziché
quattro, e che Nove porta in braccio una sacca per cadaveri. «Otto... Merda.»
Mi giro verso Adam: non sono ancora pronto a elaborare il lutto. «La navicella che hai
hackerato ha dei cannoni?»
14

Dopo una scarica di spari assordanti nello spazio vuoto dell'hangar, la navicella resta in
silenzio. Io e Marina ci accovacciamo l'una accanto all'altra dietro il tavolo di metallo
rovesciato. Ci scambiamo uno sguardo: il tavolo non è stato colpito neppure una volta. Il cannone
non gli si è avvicinato neppure.
«Bella mira, stronzo!» grida Nove, ridendo. È sdraiato a terra accanto al tavolo e fa scudo al
corpo di Otto.
Sporgo la testa da dietro il tavolo. Tra noi e la navicella c'è una dozzina di mucchietti di
cenere, i resti dei meccanici mogadorian. Il cannone fuma ancora, ma non spara più; non sembra
minimamente interessato a noi.
Mi alzo con cautela, seguita da Marina. «Che diavolo succede?» chiedo.
«E chi se ne frega?» ribatte Nove, prendendo in braccio il corpo di Otto. «Andiamocene da
qui.»
«Forse si è inceppato qualcosa», ipotizza Marina avvicinandosi alla navicella, che ci blocca
l'uscita.
Ci separiamo, attenti a non trovarci sotto il tiro del cannone.
«Ha colpito solo i Mog», dico. «Un inceppamento molto comodo.»
Sussultiamo tutti e tre quando la cabina di pilotaggio si apre con un fruscio idraulico. Da un
altoparlante esce un ronzio, poi una voce familiare si staglia sopra le interferenze: «Ragazzi, mi
sentite?»
«John?!» Non credo alle mie orecchie: l'ultima volta che l'ho visto era in coma. Corro verso
la navicella e salto sul cofano, piazzandomi davanti alla cabina di pilotaggio per sentire meglio la
sua voce.
«Sono io, Sei. Che bello vederti», dice John.
«Vedermi?» chiedo, poi noto la piccola telecamera montata sopra la cabina. Si muove avanti e
indietro, quasi annuendo per salutare.
«Ehi, amico, cos'è successo?» domanda Nove, scrutando la cabina con aria scettica. «Ti è
rimasto intrappolato il cervello in un'astronave mogadorian?»
«Non fare l'idiota», replica John, e immagino la sua espressione irritata e divertita allo stesso
tempo. «Abbiamo conquistato una base mogadorian e usato la loro tecnologia per prendere il
controllo di questa navicella.»
«Niente male.» Nove si rilassa. Salta agilmente sul cofano della navicella, ancora con Otto tra
le braccia, e atterra accanto a me. Il nostro lato della navicella s'inclina leggermente sotto il suo
peso e poi si raddrizza con un cigolio del carrello d'atterraggio. Nove sferra un calcio col tallone
allo scafo di metallo, come per saggiarne la resistenza. «Perciò questo sarà il nostro mezzo di
trasporto?»
Per tutta risposta, il motore della navicella inizia a vibrare sotto i nostri piedi. Guardo nella
cabina di pilotaggio e vedo sei sedili di plastica, un cruscotto lampeggiante pieno di simboli
mogadorian, un piccolo volante e controlli simili a quelli che si trovano su un aeroplano. Non che
io abbia mai pilotato un aeroplano, tantomeno uno costruito dai Mog.
«Abbiamo visto cos'è successo a Chicago», dice Marina, salendo anche lei sulla navicella.
«State tutti bene?»
«Sì», risponde John, poi sembra ripensarci. «Hanno preso Ella, ma non penso che sia in
pericolo per il momento.»
Marina inarca le sopracciglia, allarmata, e la sento irradiare aria fredda. «L'hanno catturata?»
«Vi spiegherò tutto quando sarete decollati», taglia corto John. «Prima però dobbiamo
portarvi via da lì.»
«Mi pare una buona idea.» Nove entra nella cabina e posa delicatamente il corpo di Otto su
due dei sedili.
«Ehm... John, c'è un problema», dico, seguendo Nove a bordo della navicella. «Come
facciamo a pilotare questo coso?»
All'altro capo c'è un momento di silenzio. Poi risponde una voce che non è quella di John, e il
cui timbro aspro mi fa irrigidire i muscoli delle spalle.
«Potrei pilotarvi in remoto, ma ho paura che l'hackeraggio del computer di bordo abbia
danneggiato alcuni protocolli del pilota automatico. È meno rischioso che lo pilotiate
manualmente seguendo le mie istruzioni», spiega rapidamente il Mogadorian. Poi, rendendosi
conto del nostro sconcerto, soggiunge: «Ciao, io sono Adam».
«Il tizio di cui ci ha parlato Malcolm...»
«Non preoccuparti, Sei.» È la voce di Sam, e sentendola mi viene da sorridere. «Non è
assolutamente cattivo.»
«In tal caso, decolliamo pure. Ora sì che sono tranquillo», dice Nove in tono sarcastico, ma si
accomoda lo stesso su uno dei sedili.
Io mi siedo al posto di pilotaggio.
Marina esita per un momento, guardando con diffidenza la radio da cui è uscita la voce del
Mog. «Come facciamo a sapere che quello è veramente John?» chiede. «Setrákus Ra può mutare
forma. Forse è una trappola.»
Nell'emozione di sentire la voce di John e di Sam, non avevo neppure considerato la
possibilità che fosse un trucco.
Dietro di me, Nove grida rivolto alla radio: «Ehi, Johnny, ti ricordi a Chicago quando
sostenevi di essere Pittacus Lore e discutevamo sulla possibilità di andare in New Mexico?»
«Sì.» Sembra che John parli a denti stretti.
«Come avevamo risolto la questione?»
John sospira. «Mi avevi fatto penzolare dal bordo del tetto.»
Nove sorride tutto contento. «È sicuramente lui.»
«Marina, il giorno in cui ci siamo conosciuti, mi hai rimarginato due ferite d'arma da fuoco
alla caviglia», dice John, temendo che il piccolo test di Nove non sia bastato. «E poi siamo stati
quasi colpiti da un missile.»
Un sorrisetto si forma sulle labbra di Marina, il primo da giorni. «E mi sono detta che non
avevo mai conosciuto un tipo sveglio come te, John Smith.»
Nove scoppia a ridere e scrolla la testa.
Marina sale a bordo e si siede accanto al corpo di Otto. Posa una mano sulla sacca per
cadaveri, con un gesto protettivo.
«Attenti alla testa», ci avverte Adam mentre lo sportello della cabina si richiude sopra di noi.
Per un momento mi assale il panico all'idea di essere chiusa ermeticamente dentro
un'astronave mogadorian, ma scaccio quella sensazione e stringo forte il volante. C'è penombra
nella cabina, i vetri sono oscurati come occhiali da sole. Direttamente sul vetro sono proiettati
flussi di dati in simboli mogadorian, che solo un pilota mog saprebbe interpretare. «Bene, e
adesso?»
«Ehi, aspetta... ma perché tocca a te guidare?» interviene Nove, sporgendosi in avanti.
«Gira il piccolo volante che hai davanti», dice la voce di Adam, paziente ma autoritaria.
«Così farai ruotare la navicella.»
Faccio come mi dice. Il volante si muove facilmente e la navicella gira su se stessa di
centottanta gradi senza che le ruote si muovano. Smetto di girare quando ci ritroviamo di fronte
all'uscita dell'hangar.
«Bene», continua Adam. «La leva alla tua sinistra fa muovere le ruote.»
Stringo la leva e la spingo leggermente. La navicella fa un balzo in avanti. I controlli sono
sensibili, e non ci vuole molta pressione per farci uscire lentamente sulla pista.
«Da' un po' di gas, accidenti!» si lamenta Nove. «Guidala come se l'avessimo rubata.»
«Non dargli retta!» ribatte Marina.
«Se siete fuori dall'hangar, puoi fermarti», dice Adam.
Guardando fuori dalla calotta di vetro vedo soltanto il cielo, quindi lascio andare la leva. La
navicella cigola e si ferma.
«Bene. Ora stringi il volante in posizione 'nove e quindici'. Riesci a sentire i pulsanti?»
Stringo di nuovo il volante e cerco a tentoni i due pulsanti inseriti al di sotto. «Trovati», dico,
premendo quello di sinistra.
Un istante dopo, la vibrazione del motore dell'astronave s'intensifica a dismisura e ci
solleviamo in aria.
«Wow!» strilla Nove.
Accanto a me, Marina chiude gli occhi. «Sta' attenta, Sei», bisbiglia.
Lascio andare il pulsante: la navicella mantiene l'altitudine. Siamo fermi in aria a una ventina
di metri da terra.
«Non dovevi ancora premerlo», mi rimprovera Adam.
«Ah, scusa. È la prima volta che piloto un'astronave.»
«Non c'è problema. Il pulsante alla tua sinistra aumenta l'altitudine, quello a destra la fa
calare.»
«Sinistra su, destra giù. Ho capito.»
«Siete a bordo di quello che il mio popolo chiama 'skimmer'. Non è costruito per viaggi
interplanetari, quindi non è davvero un'astronave.»
Nove sbuffa in una risata. «Questo tizio vuole tenerci una lezione sull'aeronautica
mogadorian? Ma che gli prende?»
«Lo sai che ti sento, vero?» ribatte Adam.
«Ti chiedo scusa per Nove», dico. «Ci sono i seggiolini eiettabili?»
«Sì», risponde Adam.
Nove sgrana gli occhi. «Sei, non farti venire strane idee.»
Lo zittisco quando sento una serie di rumori metallici provenire dalla stiva della navicella.
«Cos'è?»
«Non preoccuparti, ho solo sbloccato il carrello d'atterraggio», risponde Adam.
Quando il rumore cessa, due piccoli pannelli sul volante si aprono rivelando pulsanti larghi
come il mio pollice e posizionati in modo da poter essere premuti simultaneamente ai controlli di
altitudine.
«Dovresti vedere due nuovi pulsanti», continua Adam. «Premili per accelerare, lasciali
andare per frenare.»
Stringo il volante con più delicatezza di prima e premo leggermente i pulsanti, attenta a non
toccare quelli sotto il volante. Lo skimmer scatta in avanti e poi si ferma di scatto quando lascio
andare il pulsante.
«È come un videogioco», commenta Nove, sporgendosi a guardare da sopra la mia spalla.
«Qualsiasi idiota saprebbe pilotare questo coso. Senza offesa, tizio mog.»
«Nessuna offesa.»
Premo un po' più forte l'acceleratore: la navicella scatta di nuovo in avanti. Inizia a
lampeggiare un messaggio di allarme sullo schermo -- il significato è chiaro, anche se non
capisco la lingua -- e subito dopo sfioriamo la cima di un albero col fondo dello skimmer. Sento
spezzarsi dei rami e, allungando il collo, li vedo cadere a terra. «Scusate», dico, e lancio
un'occhiata di sottecchi a Marina.
Lei mi sta guardando impaurita. «Sei, ti giuro che...»
«Ti conviene salire un po' di quota», suggerisce Adam.
Nove ride e torna ad appoggiarsi allo schienale.
Premo il pulsante che regola l'altitudine e saliamo un po'. Quando usciamo dal fitto degli
alberi intorno alla palude, l'orizzonte diventa visibile. Una linea punteggiata e sottilissima appare
sul vetro della cabina di pilotaggio, sovrapposta al panorama.
«Ho mappato la vostra rotta», dice Adam. «Devi soltanto seguire la linea.»
Annuisco e accelero un altro po', procedendo lungo la rotta verso nord. «Bene, ragazzi.
Stiamo arrivando.»

Il volo dalla Florida a Washington dura circa due ore. Seguendo le istruzioni di Adam,
restiamo a bassa quota per non essere visti dai satelliti o incrociare la rotta di qualche aeroplano,
ma abbastanza in alto per non scatenare un'ondata di avvistamenti di UFO lungo la costa orientale
degli Stati Uniti. D'altra parte, considerato quanto è concreta la minaccia di un'invasione
mogadorian, forse sarebbe meglio farci vedere, sparare qualche razzo di segnalazione, avvertire i
terrestri.
Dopo il primo momento di entusiasmo per le voci di John e di Sam, per la conferma che i
nostri amici sono vivi, la conversazione si sposta su argomenti molto meno allegri. Alla radio, i
ragazzi raccontano cos'è successo al John Hancock Center. Poi John ci dice cos'ha visto
nell'incubo che ha condiviso con Ella, e perché ritiene che Setrákus Ra non voglia farle del male.
La teoria di John è che Ella potrebbe essere imparentata con Setrákus Ra, e che il leader dei
Mogadorian potrebbe essere una specie di Loric degenerato, l'Antenato esiliato di cui parlava la
lettera di Crayton. Non sono ancora pronta ad affrontare una simile possibilità.
Poi tocca a noi raccontare agli altri cos'è successo in Florida. Anche alla radio capisco che
John cerca di non farci troppe pressioni. Mi viene in mente che convive da giorni con una nuova
cicatrice sulla caviglia, e per giorni si è chiesto chi di noi non sarebbe più tornato: è doloroso
parlarne, ma John ha il diritto di sapere cos'è accaduto a Otto. Tuttavia né Marina né Nove hanno
molta voglia di raccontarlo, quindi devo spiegargli io che Cinque ci ha traditi, che ha ucciso Otto:
per sbaglio, sì, ma soltanto perché stava cercando di uccidere Nove. Dal momento che sono
rimasta priva di sensi per gran parte della battaglia, mi limito a raccontare i fatti essenziali. Poi
spiego come abbiamo recuperato il corpo di Otto dalla base dei Mogadorian e il modo in cui
Cinque ha ucciso il suo amico mog. Al termine del mio racconto un'atmosfera cupa avvolge
l'abitacolo della navicella, e proseguiamo il viaggio in silenzio finché non arriviamo alla
periferia di Washington.
Faccio atterrare la navicella al centro di un campo da basket. Siamo in un elegante sobborgo
reso particolarmente inquietante dalle finestre oscurate e dall'assenza di abitanti. La cabina di
pilotaggio si apre da sola; Marina si alza, con evidente sollievo. Nove prende in braccio il corpo
di Otto e si appresta a scendere dalla navicella. Marina gli resta accanto, tenendogli una mano sul
gomito per assicurarsi che Otto non venga sbatacchiato troppo. Fatico ancora a credere che ci sia
il nostro amico in quella sacca, e mi sembra sbagliato scarrozzarlo in giro in questo modo.
«Il tuo viaggio è quasi finito», sento dire a Marina, rivolta al corpo di Otto. Deve avere avuto
il mio stesso pensiero.
Io e Marina saltiamo a terra e ci voltiamo per aiutare Nove a calare il corpo di Otto.
Anziché passarcelo, Nove si guarda intorno nel buio. «Strane creature ci spiano.»
«Creature?» Alzo lo sguardo su di lui: la sua espressione è diventata inscrutabile -- be', più
del solito --, come gli succede quando usa la telepatia con gli animali.
«Ah, dimenticavo di dirvi che abbiamo trovato qualche nuovo amico!» È John, che corre
verso di noi dalla porta mezza scardinata di una casa che sta in piedi per miracolo, come se la
terra avesse cercato di mangiarsela ma non ci fosse riuscita del tutto.
Sam lo segue a pochi passi di distanza e mi sorride, ma quando vede che l'ho notato sorride un
po' di meno, per darsi un contegno. Dietro John e Sam ci sono due persone che spingono una
barella: uno è Malcolm, l'altro è un tizio magro e pallido che deduco sia Adam. I capelli scuri che
gli nascondono il viso lo fanno sembrare un incrocio tra un Mog e una rockstar emo.
«Quante chimere!» esclama Nove, scrutando nel buio. «È fantastico!»
«Abbiamo dato il tuo nome a quella grassottella e pigra», lo informa Sam.
«Questo è meno fantastico.»
Quando ci raggiunge, John va subito ad abbracciare Marina. Anche al buio gli leggo la
preoccupazione negli occhi cerchiati di ombre violacee. Ricordo quel ragazzino dagli occhi
sgranati che ho trovato intento a combattere contro i Mogadorian nel suo liceo, e mi domando se
si sia sentito così anche stavolta, di nuovo solo contro il mondo. Dovrebbe essere un sollievo
ritrovarci finalmente tutti insieme: ma uno di noi non c'è più, e conosco abbastanza John per
sapere che il senso di colpa lo tortura da giorni.
«Ce l'hai fatta», dice, lasciando andare Marina e abbracciando me. Parla a voce bassa per
farsi sentire solo da me. «Non sapevo cosa avrei fatto se...»
«Non devi dire niente», mormoro, ricambiando l'abbraccio. «Ora siamo qui. Combatteremo.
Vinceremo.»
John fa un passo indietro, e per un secondo gli passa in volto un'espressione sollevata, come
se avesse avuto bisogno di sentirsi dire quelle parole da qualcuno. Annuisce, poi va verso la
navicella e prende in braccio il corpo di Otto per consentire a Nove di scendere a terra. Tutti
restiamo in silenzio mentre Malcolm si avvicina con la barella e John vi posa il corpo.
«I Mog gli hanno messo addosso qualcosa», dice Marina. «Un campo elettrico di qualche
tipo.»
Adam avanza con aria incerta e si schiarisce la voce. «Elettrodi? Sul cuore? Sulle tempie?»
«Sì», risponde Marina senza guardare Adam, con gli occhi fissi sulla sacca che contiene il
corpo di Otto.
«I Mog li usano per...» Adam esita, poi conclude imbarazzato: «Per mantenere la freschezza
dei campioni. Non vengono danneggiati, solo preservati».
«Campioni», ripete Nove, con una smorfia di disappunto.
«Mi dispiace per il vostro amico», dice Adam, passandosi una mano tra i capelli. «Pensavo
solo che doveste sapere...»
«Va bene. Grazie, Adam», dice John. Posa una mano sulla spalla di Marina. «Vieni,
portiamolo dentro.»
«Cosa...?» Marina è sull'orlo delle lacrime e deve fare un lungo respiro per calmarsi. «Cosa
ne farete di lui?»
«Abbiamo predisposto una stanza tranquilla in casa», risponde Malcolm, in tono gentile.
«Non so quali siano le tradizioni funerarie dei Loric...»
Guardo prima John, che è immerso nei pensieri, e poi Nove, che sembra sconcertato. «Non le
conosciamo neanche noi», dico. «Insomma, quand'è stata l'ultima volta che abbiamo potuto
piangere i nostri morti come si deve?»
«In ogni caso, non possiamo seppellirlo qui», dice Marina. «Questo posto appartiene ai
Mog.»
Malcolm annuisce comprensivo e le posa delicatamente una mano sulla spalla. «Vuoi che ti
aiuti a portarlo dentro?»
Marina annuisce. Lei e Malcolm spingono la barella col corpo di Otto verso la casa in rovina.
Adam li segue a rispettosa distanza, con le mani giunte dietro la schiena in una posa imbarazzata.
Dopo un momento, Nove assesta una gran pacca sulla schiena di John, spezzando la tensione.
«Allora, ho capito male alla radio, oppure hai mandato la tua ragazza in una sexy missione segreta
col suo ex?»
«Siamo in guerra, Nove, non c'è da scherzare», ribatte John, torvo. Dopo un momento di
silenzio imbarazzato, sorride. «E poi che diavolo è una missione sexy?»
«Hai davvero bisogno della mia guida», replica Nove. Gli posa un braccio sulle spalle e lo
conduce verso la casa. «Vieni, ti spiego cosa vuol dire sexy.»
«Lo so cosa vuol... Ma perché ti sto a sentire?» John spintona Nove, che però lo stringe
ancora più forte. «Levami le mani di dosso, idiota.»
«Coraggio, Johnny, hai più bisogno che mai del mio affetto.»
Li guardo con comprensione mentre camminano verso la casa persi nel loro momento di
amicizia virile. Resto sola con Sam, che sta a qualche passo da me e mi fissa con aria seria.
Intuisco che sta cercando le parole da dirmi, o più probabilmente il coraggio per dirle. Si
preparava per questo momento da ore, preparava il fantastico discorso da rivolgere alla ragazza
che temeva non avrebbe più rivisto.
Alla fine decide di dirmi: «Ciao».
«Ciao.» E, senza lasciargli il tempo di dire altro, lo abbraccio e lo bacio con tanta forza da
mozzargli il fiato.
All'inizio resta di stucco, ma dopo un momento ricambia il bacio, cercando di eguagliare la
mia intensità. Lo afferro per la maglietta e lo tiro a me appoggiandomi al fianco dello skimmer:
non proprio il posto più romantico del mondo, ma mi accontento. Gli prendo le mani e me le poso
sui fianchi, poi gli accarezzo le guance e gli passo le dita tra i capelli: dentro di me e in quel
bacio si riversa un'energia disperata.
Dopo un paio di minuti Sam si stacca da me, col fiato mozzo. «Accidenti, Sei, che ti prende?»
L'espressione che ha in volto non è quella che mi aspettavo. Sì, è incredulo e paonazzo, ma al
di sotto c'è la preoccupazione.
Istintivamente distolgo lo sguardo. «È solo che ci tenevo proprio», rispondo, ed è la verità.
«Non sapevo se avrei avuto un'altra possibilità di farlo.» Mi appoggio al suo collo e sento il suo
cuore battermi sulla guancia. Negli ultimi giorni ho cercato di essere forte, perché Marina e Nove
erano sull'orlo di un crollo nervoso. Finalmente posso lasciarmi un po' andare, almeno finché
restiamo al buio. Sam mi cinge in vita e io mi abbandono a lui, mi lascio reggere e gli sospiro sul
collo. «Potrebbe finire tutto così all'improvviso...» sussurro, tirandomi indietro per guardarlo.
«Non volevo non averlo fatto, capisci? E non m'importa se complica le cose.»
«Neanche a me importa. Ovviamente.»
Ricominciamo a baciarci, stavolta con più delicatezza, e le mani di Sam mi scorrono
lentamente su per i fianchi.
Quando sento un ululato -- rintrona nell'aria, è vicino -- all'inizio immagino sia Nove che ci
spia dalla casa e ci prende in giro facendo versi stupidi. Ma poi un secondo e un terzo lupo
avviano un coro di ululati.
Torno a guardare Sam. «Che roba è? Lupi in città?»
«Non lo so...» fa lui, ma poi sgrana gli occhi. «Le chimere stanno dando l'allarme!»
Un istante dopo sento ronzare sopra di noi le pale di almeno tre elicotteri. Aguzzando l'occhio
vedo le sagome avvicinarsi nel cielo notturno. E poi vedo i lampeggianti azzurri sull'unica strada
che porta al complesso di edifici: un convoglio di SUV neri sta sfrecciando a tutta velocità verso
di noi.
15

Quando sentiamo gli elicotteri e le macchine in arrivo, io e Nove ci precipitiamo fuori dalla
casa, balziamo giù dalla veranda distrutta e ci mettiamo a correre sul prato, appena in tempo per
vedere un lampo che solca il cielo, evocato da Sei. È uno sparo di avvertimento: fa saltare in aria
un pezzo d'asfalto davanti a un SUV facendolo sbandare sul vialetto d'accesso.
«Di nuovo i federali?» ringhia Nove. «Pensavo che ce li fossimo tolti dalle scatole.»
«Adam dice che non vengono mai da queste parti, per via di qualche accordo coi Mog.»
«Evidentemente l'accordo non è più valido da quando li hai ammazzati tutti, John.»
Tre elicotteri volteggiano come avvoltoi sopra le nostre teste. Devono essersi scambiati un
segnale, perché tutti e tre accendono un faro nello stesso istante. Uno dei fari punta su me e Nove,
un altro sull'ingresso della casa dietro di noi e il terzo su Sei e Sam. Sotto la luce intensa vedo
Sam rifugiarsi dentro l'abitacolo dello skimmer. Sei ha alzato le mani e sta evocando qualche
fenomeno atmosferico per i nostri ospiti indesiderati: si rende invisibile prima che il faro possa
inquadrarla bene.
Nel frattempo, incurante dei fulmini, una carovana di SUV neri imbocca il vialetto d'accesso,
coi lampeggianti accesi sul cruscotto. Inchiodano l'uno accanto all'altro in formazione stretta,
creando una barricata di vetro antiproiettile e lastre di acciaio rinforzato. Le portiere si
spalancano e i veicoli vomitano un mucchio di agenti in giacche a vento blu scuro. Quelli che non
strillano nei walkie-talkie ci puntano addosso le pistole, e tutti si riparano dietro le portiere
aperte dei SUV. In meno di un minuto ci hanno circondati, intrappolandoci nel piazzale.
«Pensano davvero di fermarci in questo modo?» chiede Nove facendo un passo avanti, quasi a
sfidare gli agenti a sparargli.
«Non so cosa pensino, ma non sanno delle chimere», dico.
Le percepisco appostate nell'ombra appena fuori dal vialetto. I federali pensano di averci
accerchiati, ma gli occhi che vedo brillare nel buio li smentiscono. Le chimere restano in
posizione aspettando un segnale.
Sento scricchiolare qualcosa dietro di me e girandomi vedo Marina sulla veranda: dalle sue
mani spuntano ghiaccioli affilati come pugnali. Questa mi è nuova. Accanto a lei c'è Adam, che si
ripara dietro l'uscio e imbraccia un fucile mog.
«Cosa facciamo?» chiede Marina.
Vedo addensarsi in cielo nubi di tempesta: Sei è pronta a scatenare un temporale. Ma finora
gli agenti non hanno fatto nulla, a parte un mucchio di rumore. Non sono arrivati sparando, e
questo è l'unico motivo per cui non ho ancora attivato il mio Lumen.
«Non voglio fare loro del male, se non è necessario», dico. «Ma non abbiamo tempo da
perdere con queste stronzate. Di sicuro non mi farò portare in commissariato per un
interrogatorio.»
A quanto pare, Nove interpreta le mie parole come un incentivo a passare all'azione. Afferra
la base della sedia del dottor Anu, che è stata segata a metà dal fuoco dei fucili mog durante la
battaglia di poche ore fa. Deve pesare quasi cento chili, ma Nove la solleva agevolmente con una
mano sola e la fa roteare in aria, come dimostrazione di forza. «Siete in una proprietà privata! E
non vedo mandati di perquisizione!» grida. Prima che io possa intervenire, scaglia in aria il
pesantissimo oggetto, che finisce a pochi centimetri dal muso dell'elicottero più vicino.
È evidente, da dove mi trovo, che l'elicottero non corre pericoli concreti; ma suppongo che il
pilota umano non sia abituato a vedersi lanciare pezzi di metallo da un Garde coi superpoteri.
Tira indietro la cloche: l'elicottero prende quota ondeggiando in aria, e il cono di luce del faro
spazza il prato a zig-zag. Il pezzo di sedia ricade con un gran tonfo in mezzo alla strada.
«Non era necessario», osserva Adam dalla soglia.
«Secondo me, lo era», ribatte Nove.
Mentre si china a raccogliere un altro pezzo della sedia, sento scattare le sicure delle pistole
da dietro le portiere dei SUV. Deve averle sentite anche Sei, ovunque si sia nascosta, perché
all'improvviso un banco di nebbia si estende sul prato delle Residenze Ashwood, rendendoci
bersagli molto più difficili.
Accendo il Lumen e mi faccio avanti, piazzandomi tra Nove e i SUV. Alzo le mani per far
vedere bene agli agenti che sono avvolte nelle fiamme. «Non so perché siate venuti, ma state
commettendo un errore», grido, rivolto alle auto. «Questa è una battaglia che davvero non potete
vincere. La cosa più intelligente da fare è tornare dai vostri superiori e dire loro che qui non
avete trovato niente.»
Per sottolineare le mie parole, invio un comando telepatico alle chimere. Una serie di ululati
riecheggia nel buio e riverbera sulle carrozzerie dei SUV. Presi dal panico, alcuni agenti puntano
le pistole nell'ombra. Uno degli elicotteri dirige il faro sui campi che costeggiano il viale
d'accesso. Li abbiamo spaventati.
«Ultimo avvertimento!» grido, producendo una sfera di fuoco grossa come un pallone da
basket e facendola levitare sul palmo della mano.
«Abbassate le armi!» ordina una voce di donna da una delle macchine.
L'uno dopo l'altro, gli agenti eseguono l'ordine. Uno di loro passa tra due SUV e viene verso
di noi con le mani alzate in segno di resa.
Attraverso la nebbia vedo che è una donna, riconosco la postura diritta e la severa coda di
cavallo. «Agente Walker, è lei?»
Accanto a me Nove scoppia a ridere. «Non ci credo. Vuole provare ad arrestarci un'altra
volta?»
Walker si avvicina con una smorfia di disappunto: sul suo viso ci sono più rughe di quante ne
ricordassi. È pallida, e i capelli rossi sono venati di un grigio allarmante. Cerco di ricordare
quanto gravemente fosse rimasta ferita alla base di Dulce. Potrebbe non essersi ancora ripresa del
tutto?
Prima che Walker possa avvicinarsi troppo, Sei si materializza alle sue spalle e l'afferra per
la coda di cavallo. «Non un altro passo», ringhia.
Walker sbarra gli occhi e si ferma.
Sei le sfila la pistola dalla fondina e la lascia cadere sull'erba.
«Mi spiace per il trambusto», dice Walker, con voce un po' strozzata per la posizione in cui
Sei la costringe a tenere la testa. «I miei agenti hanno visto atterrare quell'astronave mogadorian e
pensavamo che foste sotto attacco.»
Lascio spegnere il Lumen sulle mani e la guardo perplesso. «Lei è corsa fin qui perché
pensava che noi fossimo sotto attacco?»
«So che non hai ragione di credermi, ma siamo qui per aiutarvi», dice lei, con voce roca.
Accanto a me Nove fa uno sbuffo di derisione. Guardo fisso Walker, aspettando che riveli di
avere fatto una battuta, o che ordini ai suoi uomini di aprire il fuoco.
«Per favore, ascoltatemi.»
Sospiro e indico la casa. «Portala dentro», dico a Sei, poi mi volto verso Nove. «Se gli altri
fanno qualcosa di minimamente sospetto...»
Nove fa schioccare le nocche. «Oh, lo so cosa devo fare.»
Sei spintona Walker su per i gradini rotti della casa di Adam e dentro la porta d'ingresso. Le
seguo a qualche passo di distanza, lasciando gli altri nostri amici di guardia al piccolo esercito di
agenti del governo.
«È un Mogadorian quello che ho visto qui fuori?» chiede Walker mentre Sei la conduce in
salotto. «Avete preso un prigioniero?»
«È un alleato», replico. «Al momento, la prigioniera è lei.»
«Capisco.» Senza che Sei debba spingerla, l'agente Walker si lascia cadere su uno dei divani.
Alla luce del salotto vedo che c'è effettivamente qualcosa di strano in lei. Forse è per le ciocche
grigie, ma sembra esausta. Nota la porta che conduce alle gallerie dei Mogadorian, ma non
sembra particolarmente interessata o sorpresa.
«Ah, abbiamo un'ospite», dice Malcolm, fermandosi sulla soglia tra il salotto e la cucina, col
fucile in spalla. «E si è portata diversi amici. Va tutto bene?»
«Non lo so ancora», rispondo con voce tesa, tenendo alta la guardia.
Sei gira intorno al divano per posizionarsi dove Walker non può vederla.
«Stavo per mettere su il caffè. Qualcuno lo prende?» chiede Malcolm. «Mi è sembrato di
vedere anche del tè, in cucina.»
Walker accenna un sorriso. «È il metodo del poliziotto buono e di quello cattivo, per caso?»
Sposta gli occhi da Malcolm a me. «È uno dei vostri... come li chiamate? Cêpan?»
Sei alza la mano rivolta a Malcolm. «Vorrei un caffè, sì.» La guardo storto e lei fa spallucce.
«Che c'è? Posso bere un caffè e mettere fuori combattimento la signora allo stesso tempo, se
necessario.»
L'agente Walker si gira a guardarla. «Le credo.»
Avanzo, mi piazzo di fronte a Walker e le schiocco le dita davanti alla faccia. «Va bene, non
perdiamo altro tempo. Dica quello che è venuta a dire.»
«L'agente Purdy è morto», annuncia Walker. «Ha avuto un infarto alla base di Dulce.»
«Ah, me lo ricordo», mormora Sei. «Che peccato...»
«Condoglianze.» Anch'io ricordo il collega dell'agente Walker, un uomo di mezz'età dai
capelli bianchi e col naso adunco. Mi stringo nelle spalle: non vedo cosa c'entri con noi. «E
allora?»
«Era uno stronzo», afferma Walker. «Il problema non è tanto il fatto che sia morto, ma quello
che è successo dopo.» Mi mostra le mani e poi, molto lentamente, ne infila una nella tasca della
giacca a vento. Ne estrae una busta formato A4 rigonfia, arrotolata e fermata con un elastico.
L'apre e tira fuori una polaroid, che mi porge.
Mi ritrovo sotto gli occhi un primo piano del defunto agente Purdy... o quello che ne resta.
Metà del volto si è sgretolata, ridotta in cenere sull'asfalto. «Mi sembrava che avesse parlato di
un infarto.»
«Infatti.» L'agente Walker annuisce. «Ma poi ha iniziato a dissolversi. Come un Mogadorian.»
Scrollo la testa. «Perché?»
«Si sottoponeva a certi trattamenti», continua Walker. «Accrescimento, lo chiamano i Mog.
Quasi tutti i ProMog di livello più alto lo fanno da anni.»
Il termine «ProMog» non mi è nuovo, mi ricorda Sono tra noi, ma non so cosa c'entri con gli
accrescimenti di cui ci ha parlato Adam. «Mi racconti tutto dall'inizio», le dico.
Con aria imbarazzata, l'agente Walker si sistema i capelli, e per un attimo mi chiedo se si stia
già pentendo della sua confessione. Ma poi mi porge la busta che ha in mano e mi guarda negli
occhi. «Il primo contatto è avvenuto dieci anni fa. I Mogadorian affermavano di essere alla
ricerca di alcuni fuggitivi. Volevano usare la rete delle forze dell'ordine, avere libertà di
movimento nel Paese, e in cambio ci avrebbero fornito armi e tecnologie. Ero appena uscita
dall'accademia, a quell'epoca, quindi non partecipavo alle riunioni con gli alieni. Il governo ha
ceduto subito: immagino che non volesse farli arrabbiare, o che fosse interessato alle armi, le più
potenti che avessimo mai visto. Lo stesso direttore dell'FBI ha partecipato ai negoziati. Questo
prima che ricevesse una promozione. Forse è per questo che è stato promosso, a dire il vero.»
«Mi lasci indovinare», dico, ricordando il nome dal sito web di Mark. «Il vecchio direttore
era Bud Sanderson. Oggi segretario della Difesa.»
«Esatto.» L'agente Walker sembra favorevolmente colpita. «Se fate due più due, troverete un
mucchio di gente che ha negoziato coi Mog dieci anni fa e che nel frattempo ha fatto molta
carriera.»
«E il presidente?» chiede Sei.
«Quello lì?» Walker fa uno sbuffo di derisione. «Un pesce piccolo. I funzionari eletti, quelli
che tengono i discorsi in televisione, ci mettono solo la faccia. Il vero potere è nelle mani delle
persone che vengono selezionate per lavorare dietro le quinte. Quelle che non avete mai sentito
nominare. Quelle che i Mog volevano e che hanno lasciato vivere.»
«Ma è comunque il presidente», ribatte Sei. «Perché non fa qualcosa?»
«Perché viene tenuto all'oscuro di tutto. E comunque il vicepresidente è un ProMog. Quando
sarà il momento, il presidente dovrà dare retta ai Mog, altrimenti verrà rimosso.»
«Ma che diavolo è un ProMog?» chiedo.
«Un fautore del progresso mogadorian», spiega Walker. «È così che chiamano la 'intersezione
delle nostre due specie'.»
«Agente, se mai decidesse di cambiare lavoro, conosco un sito per il quale potrebbe
scrivere», le dico, mentre inizio a sfogliare i documenti nella busta. Ci sono le specifiche tecniche
dei fucili mog, trascrizioni di conversazioni tra politici, foto di tizi del governo dall'aria
importante che stringono la mano ai Mog in divisa da ufficiali. È il genere di rivelazioni per cui
un sito come Sono tra noi sarebbe disposto a uccidere.
In realtà molta di quella roba era già sul sito di Mark. È stata Walker a passargli le
informazioni?
«Quindi il suo capo ha svenduto l'umanità in cambio di qualche nuova arma?» chiede Sei,
sporgendosi dallo schienale del divano per scoccare un'occhiataccia all'agente Walker.
«In pratica, è così. Non siamo stati l'unico Paese a stringere l'accordo, comunque», continua
Walker, in tono amareggiato. «E loro sapevano come tenerci stretti. Dopo le armi hanno iniziato a
promettere nuovi ritrovati della medicina. Accrescimento genetico, lo chiamavano. Affermavano
di poter curare qualsiasi malattia, dall'influenza al cancro. In pratica, promettevano
l'immortalità.»
Alzo gli occhi dai documenti, soffermandomi sulla foto di un soldato con la manica
rimboccata e le vene dell'avambraccio annerite come se il sangue si fosse trasformato in
fuliggine. «Come funziona questa roba?» chiedo, indicando la foto.
Walker si sporge a osservare l'immagine, poi mi guarda negli occhi. «Quello che vedi è
l'effetto di una settimana di astinenza dalle iniezioni dei Mogadorian. Ecco come funziona.»
Mostro la foto a Sei, che scrolla la testa disgustata.
«Vi uccidono lentamente», dice Sei. «Oppure vi trasformano in Mog.»
«Non sapevamo in cosa ci stessimo cacciando», replica Walker. «Ma vedere Purdy
disintegrarsi così ha aperto gli occhi a più di una persona. I Mog non sono i nostri salvatori. Ci
stanno trasformando in qualcosa di non umano.»
«Eppure continuate a fare affari con loro, no?» ribatto. «Ho sentito dire che qualcuno sta
cercando di far sapere all'opinione pubblica che alcuni Mogadorian sono stati catturati, ma
qualcun altro insabbia la notizia.»
Walker annuisce. «I Mog affermano che i loro accrescimenti genetici non faranno che
diventare più efficaci col tempo. Molti dei pezzi grossi di Washington vogliono continuare i
trattamenti. Evidentemente non hanno mai visto un essere umano sbriciolarsi. Sanderson e alcuni
degli altri ProMog nelle alte sfere hanno già iniziato a ricevere trattamenti più avanzati. In
cambio, i Mog vogliono solo che continuiamo a cooperare.»
«'Cooperare' in che modo?»
L'agente Walker inarca un sopracciglio. «Se non l'hai ancora capito, allora ho scelto la
squadra sbagliata e siamo spacciati davvero.»
«Forse, se lei avesse scelto la squadra giusta anni fa, invece di aiutarli nella loro caccia ai
ragazzini...» Incrocio lo sguardo di Sei e cerco di calmarmi. «Lasciamo stare. Ma sappiamo che
stanno arrivando. Non si nascondono più nelle ombre o in periferia. Arrivano in massa, giusto?»
«Sì. E si aspettano che consegniamo loro le chiavi del pianeta.»
Malcolm torna dalla cucina con due tazze di caffè. Ne porge una a Sei e una a Walker, che
sembra sorpresa ma grata.
«Mi scusi, ma come funzionerà?» le chiede Malcolm. «In una situazione d'incontro
ravvicinato con gli alieni, si diffonderà sicuramente il panico.»
«Hanno quelle facce pallide e mostruose», interviene Sei. «La gente si spaventerà a morte.»
«Non ne sarei tanto sicura», ribatte Walker, indicando con la tazza la cartelletta che ho ancora
in mano.
Dopo avere sfogliato un altro paio di pagine, arrivo a una serie di fotografie. Due tizi in
giacca e cravatta pranzano in un ristorante di lusso. Il primo è vicino alla settantina, ha i capelli
grigi e stempiati e la faccia di un gufo: è Bud Sanderson, il segretario della Difesa, ho visto la sua
foto sul sito di Mark. L'altro, un distinto signore di mezz'età che somiglia vagamente a un attore
famoso, non l'ho mai visto. Porta qualcosa al collo, quasi nascosto dalla cravatta e
dall'angolazione della fotocamera. Ma mi sembra di riconoscere quell'oggetto, quindi mostro la
foto all'agente Walker. «Questo è Sanderson, ma l'altro chi è?»
«Non lo riconosci?» Walker scrolla il capo. «A quanto pare, ha almeno un paio di look
diversi. Io non l'ho riconosciuto quando vi stava annientando alla base di Dulce: alto come una
casa e con una frusta infuocata. Anzi proprio in quel momento ho deciso che essere una ProMog
non faceva per me.»
Sgrano gli occhi e torno a guardare la foto. I ciondoli sono nascosti sotto la giacca, ma si
vedono chiaramente tre catenelle al collo.
L'agente Walker annuisce. «Setrákus Ra, che stringe accordi di pace tra Mogadorian e umani.»
Sei gira intorno al divano e mi prende la foto dalla mano. «Maledetto mutaforma! Ha fatto
tutto questo mentre noi eravamo in fuga. Ha messo in moto tutte queste macchinazioni mentre noi
cercavamo di salvarci la pelle.»
«Per ora è in vantaggio lui, ma non è ancora finita», afferma Malcolm.
«Be', il suo ottimismo è confortante», replica Walker, sorseggiando il caffè. «Ma sarà finita
tra due giorni.»
«Perché, che succederà tra due giorni?» chiedo.
«Si riunisce l'Assemblea generale dell'ONU. Guarda caso il presidente non potrà partecipare,
quindi al suo posto ci andrà Sanderson. E presenterà Setrákus Ra al mondo. Un capolavoro di
astuzia politica: dirà che i piccoli cari alieni non vogliono farci del male. Verrà proposta una
mozione per consentire alla flotta mogadorian di sbarcare sulla Terra, all'insegna del buon
vicinato intergalattico. I leader mondiali che Sanderson ha già corrotto sosterranno la mozione.
Credetemi, hanno la maggioranza. E una volta che sono arrivati, una volta che li lasciamo
entrare...»
«Abbiamo visto una di quelle astronavi da guerra», dice Sei, guardandomi avvilita. «Sarebbe
difficile abbatterle anche con un esercito già pronto alla battaglia.»
«Ma non ci sarà una battaglia», osservo, portando a termine il suo pensiero. «La Terra non
opporrà resistenza. E, quando capiranno di avere lasciato entrare un mostro, sarà troppo tardi.»
«Proprio così», dice Walker. «Non tutti nel governo sono d'accordo con Sanderson. Circa il
quindici per cento di agenti e soldati -- di FBI, CIA, Agenzia di sicurezza nazionale, esercito... --
è schierato coi ProMog. Si sono assicurati di avere molti amici potenti, ma la maggior parte della
gente è ancora all'oscuro. Immagino che sia così anche negli altri Paesi. I Mog sanno quanti umani
devono controllare per far riuscire la missione.»
«E voi cosa siete?» ribatto. «L'un per cento che oppone resistenza?»
«Meno, molto meno dell'un per cento. È una lotta impari se non si hanno i superpoteri, e...
cos'era quella roba qui fuori, un esercito di lupi? Comunque, i miei uomini erano appostati intorno
ad Ashwood in attesa di una possibilità di colpire, o... non lo so, di fare qualcosa. Quando vi
abbiamo visti conquistare questo posto...»
«Va bene, ho capito», dico, interrompendola e mettendo da parte i documenti. «Le credo,
anche se non mi fido completamente di lei. Ma cosa possiamo fare? Come li fermiamo?»
«Se ci mettessimo in contatto col presidente?» suggerisce Sei. «Dovrà pur essere in grado di
fare qualcosa.»
«Il presidente è un uomo solo, e circondato di guardie», replica Walker. «Se anche riusciste a
parlare con lui, a spiegargli la verità sugli alieni e a portarlo dalla vostra parte, ci sarebbero
ancora tanti collaborazionisti pronti al colpo di Stato.»
La fisso: ho capito che ha già un piano e la sta solo tirando per le lunghe. «Sputi il rospo.
Cosa vuole che facciamo?»
«Dobbiamo convincere le persone che non sanno ancora niente. E per riuscirci ci serve
qualcosa di grosso», afferma l'agente Walker con assoluta calma, come se parlasse di portar fuori
la spazzatura. «Vorrei che voi veniste con me a New York, assassinaste il segretario della Difesa
e denunciaste Setrákus Ra.»
16

Dal ponte panoramico guardo avvicinarsi l'astronave da guerra: all'inizio è solo un puntino
scuro sullo sfondo azzurro della Terra, ma diventa sempre più grande fino a nascondere il pianeta.
Inizia a rallentare quand'è relativamente vicina all'Anubis... relativamente, perché potrebbe essere
a molti chilometri da noi: la vastità dello spazio rende difficile valutare la profondità e le
distanze. Sono lontanissima dalla Terra. Lontana dai miei amici. E questa è l'unica distanza che
conta.
Sull'altra astronave si apre un portellone da cui spunta una navicella più piccola, bianca e
perfettamente sferica, come una perla che solchi l'oceano scuro dello spazio. Sento un rumore
metallico e un sibilo di decompressione: la stazione d'attracco dell'Anubis, proprio sotto i miei
piedi, si prepara ad accogliere il visitatore.
«Finalmente», dice Setrákus Ra, e mi stringe la spalla. Sembra impaziente di vedere il nuovo
arrivato: il suo volto rubato agli umani si schiude in un largo sorriso.
Restiamo fianco a fianco sul ponte panoramico sopra la stazione d'attracco: sotto di noi sono
ancorati varie file di navicelle da ricognizione e un gruppo meno numeroso di navicelle sferiche.
Stiamo aspettando il mio «promesso sposo». Già solo pensare quelle parole mi fa venire il
vomito, e la mano protettiva di Setrákus Ra sulla mia spalla non fa che peggiorare le cose.
Mantengo un'espressione imperscrutabile. Sto diventando più brava a nascondere le mie vere
emozioni. Sono decisa a non rivelare nient'altro a quel mostro. Fingo di essere emozionata
anch'io, forse un po' nervosa. Che pensi pure di avermi presa per sfinimento, o di avermi costretta
alla resa, che le lezioni sul progresso mogadorian stiano facendo effetto, che io stia diventando lo
spettro di me stessa, come nella mia visione.
Presto o tardi, ne sono certa, riuscirò a fuggire. O morirò nel tentativo.
Volto le spalle al finestrino e guardo giù dalla ringhiera del ponte, osservando la navicella che
raggiunge i portelloni della nostra stazione d'attracco. Si accendono dei lampeggianti per
avvertire i presenti che verranno risucchiati nello spazio se non evacuano l'area. Setrákus Ra ha
già provveduto a scacciare i meccanici per poter accogliere in privato il nuovo ospite. Le pesanti
porte si aprono e sento il risucchio del vuoto anche da dentro la camera di compensazione
dell'osservatorio; la pressione dell'aria cambia, come nelle orecchie quando si va sott'acqua. Poi
la navicella di trasporto scivola a bordo, i portelloni si richiudono alle sue spalle e cala di nuovo
il silenzio.
«Vieni», mi ordina Setrákus Ra, uscendo a lunghi passi attraverso il portellone della camera
di compensazione e scendendo la scala a chiocciola che porta alla stazione d'attracco.
Lo seguo obbediente, e i nostri passi rimbombano sul ponte di metallo mentre passiamo tra le
file di navicelle da ricognizione. Con cautela, cercando di non sembrare troppo interessata, mi
sporgo per vedere aprirsi la navicella. Mi aspetto di vedere un giovane e promettente purosangue
mogadorian selezionato da Setrákus Ra in persona, come quelli che ho visto, nervosi e in
soggezione, fare rapporto al loro Benevolo Condottiero. Per quanto mi sforzi di mantenere la
calma, non riesco a non sussultare quando vedo Cinque uscire dalla navicella.
Setrákus Ra si gira a guardarmi. «Voi due vi conoscete già, vero?»
Cinque ha un occhio coperto da una garza, con una disgustosa macchia di sangue scuro al
centro e i bordi imbrattati di sudore. Sembra esausto. Quando il suo occhio buono si posa su di
me, le spalle larghe s'incurvano ancora di più. Si ferma di fronte a Setrákus Ra, con lo sguardo a
terra. «Cosa ci fa lei qui?» chiede a bassa voce.
«Finalmente siamo tutti riuniti», esordisce Setrákus Ra, e lo prende per le spalle. «Gli
affrancati e gli illuminati, alla vigilia del trionfo del progresso mogadorian. Ed è anche grazie a
te, figliolo.»
Cinque aggrotta la fronte, rimanendo in silenzio.
Me lo ricordo nella visione: era lì per scortare Sei e Sam al patibolo, e Sei gli sputava in
faccia... ma mi ero dimenticata di quella parte, perché ero più concentrata sul mio spiacevole
legame con Setrákus Ra. E ora eccolo lì, Cinque, a farsi dare pacche sulle spalle dal leader dei
Mogadorian: il futuro che ho visto sta già prendendo forma. A quanto pare, gli sono stata
promessa in moglie, o qualsiasi aberrante rituale faccia le veci del matrimonio per i Mogadorian.
Al momento però non è quello il mio problema principale. Perché se Cinque è qui, e sembra
reduce da una battaglia...
«Cosa... cos'hai fatto?» chiedo, con voce più stridula di quanto vorrei. «Cos'è successo agli
altri?»
Cinque mi guarda di nuovo e storce le labbra. Non risponde.
«Hai dato loro una possibilità, non è vero?» gli chiede Setrákus Ra, ma capisco che parla a
mio beneficio. «Hai cercato di mostrare loro la luce.»
«Non hanno voluto ascoltarmi», mormora Cinque. «Non mi hanno lasciato scelta.»
«E guarda come ti hanno ricompensato per la tua misericordia.» Setrákus Ra sfiora la benda
sull'occhio di Cinque. «Lo faremo riparare immediatamente.»
Trasalisco e indietreggio di un passo quando Cinque si scrolla di dosso la mano di Setrákus
Ra con uno schiaffo sonoro che riecheggia sugli scafi delle navicelle intorno a noi. Vedo tendersi
i muscoli sulla schiena di Setrákus, la sua postura già eretta s'irrigidisce ancora di più.
Percepisco un mostro smisurato racchiuso in quella forma umana, che aspetta soltanto di venire
fuori.
«Lascia stare, voglio tenerlo così», replica Cinque, con voce bassa e tremante.
Il rimprovero che Setrákus Ra si preparava a fargli non arriva: sembra quasi colto alla
sprovvista dalla volontà di Cinque di restare con un occhio solo. «Sei stanco», dice infine. «Ne
riparleremo quando ti sarai riposato.»
Cinque annuisce e fa un passo cauto per girare intorno a Setrákus Ra, come incerto sul fatto
che lui lo lascerà passare. Setrákus non tenta di fermarlo. Cinque sbuffa e procede a spalle
ricurve verso l'uscita.
Arriva circa a metà strada e poi Setrákus Ra lo richiama. «Dov'è il corpo?» gli chiede.
«Dov'è il ciondolo?»
Cinque si ferma di scatto. Si schiarisce la voce, e noto che iniziano a tremargli le mani, finché
non fa uno sforzo cosciente per fermarle. Si gira a guardare Setrákus Ra, che è rivolto verso la
navicella come in attesa di vederne uscire qualcos'altro.
«Quale corpo?» chiedo, sentendo una stretta al petto. Vengo ignorata, perciò ripeto a voce più
alta: «Quale corpo? Il ciondolo di chi?»
«Spariti», risponde semplicemente Cinque.
«Ti ho fatto una domanda, Cinque!» grido. «Quale cor...?»
Senza guardarmi, Setrákus Ra agita una mano nella mia direzione. Sento sbattere i denti di
sotto su quelli di sopra: mi ha chiuso la bocca con la telecinesi. Mi sento come se mi avesse
schiaffeggiata: le guance mi si scaldano per la rabbia. Qualcuno è morto, lo so. Uno dei miei
amici è morto, e questi due bastardi m'ignorano.
«Spiegati meglio», ringhia Setrákus Ra. Anche se è in forma umana, si percepisce chiaramente
che sta iniziando a perdere la pazienza.
Cinque sospira, come se tutta quella conversazione fosse una scocciatura. «Il comandante
Deltoch ha deciso di fare la guardia personalmente al corpo, e io non volevo discutere i suoi
ordini. Ho trovato i suoi resti appena prima che partissimo. I Garde devono essersi introdotti lì
dentro per riprendersi il loro amico.»
«Dovevi portarlo a me», sibila Setrákus Ra, fulminandolo con lo sguardo. «Non Deltoch. Tu.»
«Lo so, ma non mi ha dato retta quando gli ho detto che quelli erano i tuoi ordini. Almeno è
morto per la sua insubordinazione.»
Vedo una nube scura passare sul viso di Setrákus Ra, gli vedo correre i pensieri dietro gli
occhi azzurri dell'involucro umano, come se sapesse che Cinque lo sta ingannando, e vedo
crescere in lui la rabbia. Sento allentare la stretta della telecinesi sul mio mento. Si è distratto,
ora è concentrato appieno su Cinque.
Prima che lui possa dire altro m'interpongo tra loro e alzo ancora di più la voce: stavolta
devono ascoltarmi. «Quale corpo? Di chi state parlando?»
L'occhio buono di Cinque si posa su di me. «Otto è morto.»
«No», dico in un sussurro. Cerco -- troppo tardi -- d'impedirmi di reagire. Sento vacillare le
ginocchia, e il volto impassibile di Cinque si fa sfocato quando gli occhi mi si riempiono di
lacrime.
«Sì», interviene Setrákus Ra, e tutta la rabbia gli è svanita dalla voce, rimpiazzata da un tono
squillante e allegro. «Ci ha pensato il nostro Cinque. Giusto, figliolo? Tutto in nome del progresso
mogadorian.»
Faccio un passo verso Cinque, stringendo i pugni. «Tu l'hai ucciso?»
«Era...» Per un momento sembra che Cinque voglia negare. Ma poi lancia un'occhiata a
Setrákus e si limita ad annuire. «Sì.»
Tutti i miei sforzi per non tradire emozioni davanti a Setrákus Ra si rivelano vani. Sento un
grido prorompermi dal petto. Voglio aggredire Cinque. Voglio avventarmi su di lui e farlo a pezzi.
So che non avrei possibilità contro di lui -- l'ho visto nell'Aula Magna, ho visto come sa
trasformare la pelle in metallo o in qualsiasi altra cosa che tocca -- ma gli infliggerò più danni
possibile. Mi spaccherò le mani sulla sua pelle di metallo pur di riuscire a tirargli un solo pugno.
Setrákus Ra mi posa una mano sulla spalla, per fermarmi. «Credo che sia il momento perfetto
per quella lezione di cui abbiamo parlato», mi dice nello stesso tono falsamente gentile di prima.
«Lezione di cosa?» sbotto, continuando a incenerire Cinque con lo sguardo.
Cinque sembra quasi sollevato che ora l'attenzione di Setrákus Ra sia focalizzata su di me.
«Posso andare?» chiede.
«No, non puoi.» Setrákus Ra si avvicina a una delle navicelle, trova un carrello pieno di
attrezzi -- chiavi inglesi, tenaglie, cacciaviti, non molto diversi da quelli terrestri -- e lo spinge
verso di noi. Mi guarda e sorride. «La tua Eredità, Ella, si chiama Dreynen. Ti consente di
disattivare temporaneamente l'Eredità di un altro Garde», dice Setrákus Ra, con le mani giunte
dietro la schiena. «Era una delle più rare, su Lorien.»
Mi asciugo gli occhi con l'avambraccio e cerco di stare più dritta. «Perché mi dici queste
cose adesso? Che me ne importa?»
«È importante conoscere la propria storia», ribatte Setrákus. «Se dobbiamo credere agli
Antenati, le Eredità sono sorte da Lorien per rispondere alle esigenze della società loric. Mi
domando allora quale vantaggio derivi da un potere che è utile solo contro gli altri Garde.»
Cinque rimane perfettamente immobile, ancora non mi guarda negli occhi.
Distratta dalla rabbia, dimentico di tenere a freno la lingua. «Non lo so», sbotto sarcastica.
«Forse Lorien sapeva che sarebbero arrivati mostri come voi e che qualcuno avrebbe dovuto
fermarvi.»
«Ah!» fa Setrákus Ra col tono compiaciuto di un professore, come se io fossi caduta nella sua
trappola. «Ma, se è così, allora perché gli Antenati non ti hanno scelta tra i giovani Garde da
salvare? E, se è vero che Lorien seleziona le Eredità in base alle esigenze dei Loric, perché
elargirle a chi non le merita? La stessa esistenza del Dreynen suggerisce una fallibilità, da parte
di Lorien, che gli Antenati vorrebbero negare. È un caos che va domato, non venerato.»
Cerco di fare un passo verso Cinque, ma Setrákus Ra usa la telecinesi per tenermi ferma.
Ingoio la rabbia e ricordo a me stessa che sono una prigioniera. Devo stare al gioco, allo stupido
gioco di Setrákus, finché non arriva il momento giusto. La vendetta dovrà aspettare.
«Ella, capisci cosa ti sto dicendo?» chiede Setrákus.
Sospiro e distolgo lo sguardo da Cinque per fissare inespressiva Setrákus Ra. Ovviamente si
era preparato questa lezione filosofica. Scommetto che è uno dei capitoli più lunghi del suo libro.
È inutile stare a discutere con lui.
«Perciò è tutto casuale e noi dovremmo sfruttarlo e bla, bla, bla», dico. «Forse hai ragione,
forse ti sbagli. Non lo sapremo mai, perché hai distrutto il pianeta.»
«Cos'ho distrutto, esattamente? Un pianeta, forse. Ma non Lorien in sé.» Setrákus Ra
giocherella con uno dei ciondoli che porta al collo. «È più complicato di quanto pensi, cara.
Presto la tua mente si aprirà, e allora capirai. Ma fino a quel momento...» Prende dal carrello una
chiave inglese e me la lancia. «Facciamo pratica.»
La prendo al volo e la tengo di fronte a me.
Setrákus Ra rivolge la sua attenzione a Cinque, che sta ancora lì in silenzio ad aspettare di
essere congedato. «Vola», gli ordina.
Cinque alza lo sguardo, confuso. «Cosa?»
«Vola!» ripete Setrákus Ra, indicando l'alto soffitto della stazione d'attracco. «Più in alto che
puoi.»
Cinque sbuffa e levita lentamente fino a ritrovarsi a circa dieci metri da terra, quasi sfiorando
le travi sul soffitto. «E ora?» chiede.
Anziché rispondergli, Setrákus Ra si rivolge a me. Ho già un'idea di cosa vuole che faccia.
Sento la mano sudata sul metallo freddo della chiave inglese.
Lui s'inginocchia accanto a me e parla a voce bassa. «Voglio che tu faccia ciò che hai fatto
alla base di Dulce.»
«Te l'ho detto, non so come ci sono riuscita.»
«So che hai paura. Di me, del tuo destino, di questo luogo in cui ti trovi», dice Setrákus Ra in
tono paziente, e per un orribile momento la sua voce suona simile a quella di Crayton. «Ma per te
la paura è un'arma. Chiudi gli occhi e lascia che ti scorra dentro. Il tuo Dreynen la seguirà. È una
creatura famelica, questa Eredità che vive in te: si nutre delle tue paure.»
Chiudo gli occhi. Una parte di me non vuole questa lezione, mi viene la pelle d'oca al suono
della voce di Setrákus Ra. Ma un'altra parte di me vuole imparare a usare l'Eredità, a qualsiasi
costo. Non sembra così innaturale: c'è un'energia dentro di me che preme per uscire. Il mio
Dreynen vuole essere usato.
Quando riapro gli occhi, la chiave inglese sprigiona una luminescenza rossa. Ci sono riuscita.
Proprio come alla base di Dulce.
«Molto bene, Ella. Puoi usare il Dreynen attraverso il tocco o, come hai appena fatto,
riversarlo in un oggetto per sferrare un attacco a distanza», spiega Setrákus Ra. Fa un rapido
passo indietro quando minaccio di tirargli addosso la chiave inglese. «Sta' calma, mia cara.»
Lo fisso senza battere le palpebre, stringendo la chiave inglese come stringerei una torcia per
scacciare un animale selvatico. Mi chiedo se potrei colpirlo con la chiave inglese, risucchiargli
le Eredità e poi spaccargli la testa. Cinque cercherebbe di fermarmi? Ci riuscirei? Non so ancora
bene quanto siano potenti le Eredità di Setrákus Ra, o di quali altri trucchetti sarebbe capace, o
cosa succederebbe con l'incantesimo che ora ci lega. Ma forse ne varrebbe la pena.
Gli si schiude lentamente in volto un sorriso, come se capisse che sto facendo quei calcoli
mentali e li apprezzasse. «Va' avanti», dice, e alza lo sguardo sul soffitto. «Sai cosa devi fare ora.
Lui mi ha deluso. E ha ucciso il tuo amico, non è vero?»
So che dovrei resistere, non dovrei obbedire agli ordini di Setrákus Ra. Ma sento quasi
agitarsi in mano la chiave inglese caricata col Dreynen, come se avesse fame e volesse essere
liberata. E poi penso a Otto, morto chissà dove giù sulla Terra, ucciso dal ragazzo grassottello
che ora levita con aria infastidita sopra di me, e col quale mio nonno vorrebbe farmi sposare.
Mi volto e scaglio la chiave inglese contro Cinque. Non sono sicura di avere fatto un buon
lancio, perciò lo correggo con la telecinesi.
Cinque vede arrivare la chiave, ma non cerca di schivarla. È questo che inizia a farmi pentire
della mia decisione: la sua aria rassegnata, la volontà di ricevere quella punizione.
La chiave inglese lo colpisce in pieno petto, ma con poca forza. Però gli resta attaccata sullo
sterno come una calamita. La sua espressione annoiata si trasforma in sbigottimento. Cerca di
strapparsi l'attrezzo di dosso, ma la chiave inglese un istante dopo emette un lampo, e Cinque
precipita.
È un atterraggio doloroso, con le gambe piegate sotto il corpo: le mani non riescono ad
attutire l'impatto, la spalla sbatte a terra. Cinque finisce sdraiato a pancia in sotto, ansimante.
Cerca di rialzarsi, ma non riesce a muovere il braccio e si tira su soltanto di qualche centimetro
prima di stramazzare di nuovo a terra. La chiave inglese gli cade dal petto: il danno è fatto,
l'Eredità è disattivata.
Setrákus Ra mi dà una pacca sulla schiena, con aria soddisfatta. E io inizio a sentirmi un po' in
colpa nel vedere Cinque in quello stato, pur sapendo cos'ha fatto a Otto. Mi viene in mente che
forse è prigioniero quanto me.
«Va' in infermeria», gli ordina Setrákus Ra. «Non m'importa cosa decidi di fare per l'occhio,
ma mi servi sano per quando scenderemo sulla Terra.»
«Sì, Benevolo Condottiero», mormora Cinque.
«Sei stata brava», mi dice Setrákus Ra, accompagnandomi verso l'uscita. «Vieni. Torniamo ai
tuoi studi sul Grande Libro.»
Anche se sono ancora furiosa per quello che ha fatto a Otto, quando passiamo davanti al corpo
riverso di Cinque mi rivolgo a lui con la telepatia. Mi rifiuto di dimenticare la differenza tra il
bene e il male solo perché sono imprigionata qui dentro. «Scusa», gli dico.
Non mi aspetto che risponda, visto che già prima non riusciva a guardarmi. Ma, proprio
mentre sto per recidere il legame telepatico, la risposta arriva.
«Non fa niente, me lo meritavo.»
«Meriti peggio di così», ribatto, anche se non con la perfidia che vorrei. È difficile trovare le
energie per essere cattiva mentre ricordo Otto che scherza e ride con me e con Marina.
«Lo so. Mi dispiace, Ella.»
Gli leggo qualcos'altro nella mente. Non era mai successo prima: forse la mia Eredità si sta
rafforzando. Ma ora non ho tempo di pensarci, perché con l'occhio della mente vedo il corpo di
Otto in un hangar vuoto. Cerco di capire il senso dell'immagine, ma i pensieri di Cinque sono una
matassa aggrovigliata. Ci sono molti impulsi in conflitto nel suo cervello, e io non sono
abbastanza brava con la telepatia per rimetterli in ordine. L'ho già oltrepassato, ma dopo la nostra
conversazione mi azzardo a girare la testa per lanciargli uno sguardo.
Cinque è riuscito a tirarsi su e sta giocherellando con un cuscinetto a sfera in attesa che gli
tornino le Eredità. Mi guarda dritta in faccia. «Dobbiamo andarcene da qui.»
17

Poco prima dell'alba, una foschia grigiastra accoglie il nuovo giorno. Le Residenze Ashwood
sono immerse nel silenzio.
Ho dormito male, ma questa non è una novità. Siedo accanto alla finestra del salotto nella
vecchia casa di Adam e fotografo col cellulare i documenti che l'agente Walker mi ha dato, per
inviarli a Sarah. Li faremo pubblicare online su Sono tra noi: è l'unico modo per garantirne la
diffusione. Walker ha una lista di giornalisti e altra gente dei media di cui pensa di potersi fidare,
ma ha una lista altrettanto lunga di reporter al soldo dei ProMog. Non c'è un modo sicuro per far
uscire queste informazioni se non propagarle noi stessi. Sarà una battaglia difficile. Negli anni
che noi Garde abbiamo trascorso in fuga, i Mogadorian hanno accumulato troppo vantaggio, si
sono fatti troppi amici nell'esercito, nel governo e perfino nei media. La loro mossa più
intelligente è stata costringerci a nasconderci.
Secondo Walker, ci vorrà qualcosa di grosso per cambiare le carte in tavola. Vuole che
decapitiamo i ProMog, assassinando il segretario della Difesa. Non so in che modo questo
dovrebbe fruttarci il sostegno dell'umanità. Walker dice che possiamo uccidere il segretario senza
esporci. Non ho ancora deciso se questa parte del piano mi convince, ma non è un male che
Walker ci creda disposti a fare il lavoro sporco per lei. Almeno per ora.
Ma la cosa più importante che dobbiamo fare è smascherare Setrákus Ra agli occhi dei
terrestri, usando contro di lui qualsiasi cosa abbia in programma di fare all'ONU. Il piano
consiste nel mettergli i bastoni tra le ruote, in modo che gli umani possano comprendere la vera
natura dei Mog e opporsi all'invasione. Una popolazione ingannata per dieci anni saprà finalmente
la verità. Quando gli umani vedranno coi loro occhi gli alieni, ci auguriamo che inizieranno a
prendere sul serio siti di nicchia come Sono tra noi. Spero solo che riusciremo a fare tutto questo
senza morire.
I brutti pensieri mi tormentano ancora. Se anche riuscissimo a mettere insieme una resistenza
più numerosa e più forte dei quattro gatti che abbiamo radunato alle Residenze Ashwood, non è
detto che basterebbe per scacciare i Mogadorian. Per tutto il tempo che ho passato sulla Terra, la
nostra guerra contro i Mog è stata combattuta nell'ombra: ora invece stiamo per coinvolgere
milioni di persone innocenti. Ho l'impressione che la nostra lotta abbia l'unico scopo di offrire
all'umanità, e a noi Loric superstiti, un'opportunità di combattere una guerra lunga e sanguinosa.
Mi chiedo se fosse questo il progetto che gli Antenati avevano in mente per noi. A quest'ora
avremmo dovuto avere già sconfitto i Mog senza che gli umani si accorgessero di niente? Oppure,
quando ci hanno mandati sulla Terra, gli Antenati erano disperati come lo siamo noi oggi?
Non mi stupisco di soffrire d'insonnia.
Dalla finestra vedo due agenti dell'FBI dividersi una sigaretta sulla veranda della casa di
fronte. Evidentemente non sono l'unico che non riesce a dormire per paura di un'invasione aliena.
Abbiamo permesso agli uomini di Walker di accamparsi nelle case vuote di Ashwood. Hanno
messo in sicurezza il perimetro, piazzato guardie al cancello che poche ore fa io e Adam abbiamo
divelto. In pratica, hanno fatto di questo posto il quartier generale della nuova resistenza umana-
loric.
Non mi fido ancora completamente dell'agente Walker e dei suoi, ma la minaccia di una guerra
imminente mi ha costretto a stringere parecchie alleanze con vecchi nemici. Finora è andato tutto
liscio, ma se la fortuna dovesse abbandonarmi, be'... comunque siamo tutti condannati. Tempi
disperati richiedono misure disperate.
Le assi del pavimento scricchiolano dietro di me. Voltandomi vedo Malcolm fermo sulla porta
che conduce alle gallerie dei Mogadorian. Ha gli occhi cerchiati dalla stanchezza e sta soffocando
uno sbadiglio.
«Buongiorno», dico, richiudendo la cartelletta che contiene i documenti di Walker.
«Ah, è già mattina?» fa lui, scrollando la testa incredulo. «Ho perso la cognizione del tempo,
laggiù. Sam e Adam mi stavano aiutando, e li ho costretti a prendersi una pausa. Mi sembrano
passati solo dieci minuti.»
«Sono passate ore», gli dico. «Sei rimasto in piedi per tutta la notte a guardare quei filmati
dei Mogadorian?»
Malcolm annuisce in silenzio e capisco che non è solo esausto: ha lo sguardo turbato di un
uomo che ha appena visto qualcosa di scioccante.
«Cos'hai trovato?» gli chiedo.
«Me», risponde, dopo un momento di esitazione. «Ho trovato me stesso.»
«In che senso?»
«Sarà meglio che tu raduni gli altri», si limita a dire Malcolm, prima di tornare nelle gallerie.
Marina dorme in una delle camere al piano di sopra, quindi sveglio lei per prima. In corridoio
si ferma davanti alla camera padronale, un tempo occupata dal generale Sutekh e dalla madre di
Adam, ma ora temporaneamente adibita a camera ardente per Otto. Marina posa la mano sullo
stipite prima d'incamminarsi di nuovo. Quando l'ho svegliata, ho notato che ora indossa il
ciondolo di Otto. Vorrei avere più tempo per piangere con lei la morte del nostro amico.
Adam dorme nell'altra stanza, con la spada a portata di mano. Esito solo un istante prima di
svegliare anche lui. Ora è uno di noi: l'ha dimostrato ieri quando mi ha salvato la vita uccidendo
il generale. Qualsiasi cosa Malcolm abbia scoperto su quelle registrazioni dei Mog, l'opinione di
Adam potrebbe essere preziosa.
Sam, Sei e Nove hanno dormito in altre case del complesso di Ashwood, quindi invio le
chimere a chiamarli.
Nove arriva pochi minuti dopo: sembra esausto quanto me. «Ho dormito sul tetto», spiega,
notando il mio sguardo sui suoi lunghi capelli spettinati.
«Ah, e perché?»
«Qualcuno doveva tenere d'occhio quei cretini del governo che hai mandato in campeggio.»
Scrollo la testa e lo seguo giù per le scale verso le gallerie. Malcolm e gli altri che ho
svegliato sono già riuniti negli archivi dei Mog, in un silenzio imbarazzato: Marina siede il più
lontano possibile da Adam.
«Sam e Sei?» mi chiede Malcolm quando entro.
Mi stringo nelle spalle. «Le chimere li stanno cercando.»
«Li ho visti entrare in una delle case abbandonate», dice Nove, con un sorriso sarcastico. Lo
guardo con aria interrogativa e lui fa dondolare le sopracciglia. «La fine del mondo, Johnny, sai
com'è.»
Non capisco bene cosa intenda, finché non vedo Sei e Sam precipitarsi nella stanza. Sei è
composta e pettinata, sembra che si sia data una ripulita e si sia riposata dopo la disavventura
nella palude. Sam invece è paonazzo, spettinato e ha la camicia abbottonata storta. Quando vede
che lo guardo, arrossisce ancora di più e mi rivolge un sorriso imbarazzato. Scuoto la testa
incredulo e mi sforzo di non sorridere, nonostante l'umore tetro. Nove fischia tra i denti e perfino
Marina accenna un sorriso. Sam arrossisce ulteriormente e Sei ci guarda con aria di sfida.
Malcolm, naturalmente, non si è accorto di nulla. È concentrato sul computer, dove sta
caricando uno dei video mog. «Bene, ci siamo tutti», dice, alzando gli occhi dalla tastiera. Si
guarda intorno, sembra nervoso. «Mi sento molto in colpa nel dovervi mostrare ciò che sto per
mostrarvi.»
L'imbarazzo di Sam si tramuta in preoccupazione. «Che vuoi dire, papà?»
«Io...» Malcolm scrolla la testa. «Mi hanno strappato queste informazioni e anche ora, dopo
avere visto ciò che sto per mostrarvi, non me lo ricordo. Vi ho delusi tutti.»
Aggrotto la fronte. «Non dire così, Malcolm.»
«Tutti abbiamo commesso errori», dice Marina, e vedo il suo sguardo girare verso Nove.
«Cose di cui ci pentiamo.»
Malcolm annuisce. «Comunque, spero che non sia troppo tardi perché questo video vi mostri
un'altra soluzione.»
Sei lo guarda perplessa. «Un'altra rispetto a cosa?»
«Rispetto alla guerra totale. Sta' a vedere.»
Malcolm preme un tasto. Lo schermo sulla parete si accende. Appare il volto scavato di un
vecchio Mogadorian: la sua testa lunga e stretta riempie quasi tutto lo schermo, ma sullo sfondo è
visibile una stanza simile a quella in cui ci troviamo ora. Il Mog inizia a parlare nella sua lingua
aspra, in un tono che suona formale e accademico, anche se non capisco le parole.
«Dovrei capire cosa dice questo mostro?» chiede Nove.
«È il dottor Lockram Anu», ci spiega Adam, traducendo. «Ha creato la macchina dei ricordi
che... be', lo sai. Ieri sera ne hai lanciato un pezzo contro un elicottero.»
Nove sorride. «Ah, quella. È stato divertente.»
«Questo è un vecchio filmato, registrato durante i primi collaudi della macchina», continua
Adam. «Sta presentando un soggetto, dice che la sua mente era meno malleabile rispetto agli altri
soggetti su cui ha lavorato. Ora dimostrerà come la macchina si può utilizzare per gli
interrogatori...»
Adam lascia la frase in sospeso mentre il dottor Anu si fa da parte rivelando un Malcolm
Goode più giovane, legato alla tetra sedia piena di cavi. È pallido e magro, i muscoli del collo
sono messi in risalto dalla strana angolazione della testa. I polsi sono legati ai braccioli; una
flebo infilata nel dorso della mano inietta sostanze da una sacca lì vicino. Vari elettrodi sono
collegati al viso e al petto del prigioniero e alle schede elettroniche della macchina. Gli occhi di
Malcolm sono rivolti verso la telecamera, ma persi nel vuoto.
«Papà... Oh, mio Dio...» mormora Sam.
È doloroso guardarlo, tanto più quando Anu inizia a fargli le domande.
«Buongiorno, Malcolm», dice, ora in inglese e nel tono in cui di solito ci si rivolge ai
bambini. «Sei pronto a riprendere la nostra conversazione?»
«Sì, dottore», risponde Malcolm sullo schermo, ma non riesce a muovere bene le labbra e
inizia a sbavare.
«Molto bene.» Anu guarda una cartelletta che tiene sulle ginocchia. «Voglio che tu ripensi al
tuo incontro con Pittacus Lore. Voglio sapere cosa ci faceva sulla Terra.»
«Si preparava a ciò che verrà», dice Malcolm, con voce monocorde e robotica.
«Sii più specifico», insiste Anu.
«Si preparava all'invasione dei Mogadorian e alla rinascita di Lorien.» Sullo schermo,
Malcolm sembra improvvisamente allarmato. Cerca di divincolarsi dai legacci. «Sono già qui. Ci
danno la caccia.»
«È vero, ma ora sei al sicuro.» Anu aspetta che Malcolm si calmi. «Da quanto tempo i Loric
visitano la Terra?»
«Da secoli. Pittacus sperava che l'umanità fosse pronta quando fosse arrivato il momento.»
«Il momento di cosa?»
«Di combattere. Di far rinascere Lorien.»
Anu picchietta con la penna sulla cartelletta, irritato dalla vaghezza di quelle parole. «Come
faranno a far rinascere Lorien da qui? Il pianeta è ad anni luce di distanza. Mi stai mentendo?»
«È la verità», borbotta Malcolm. «Lorien non è un semplice pianeta. È qualcosa di più. Può
esistere in ogni luogo in cui le persone ne siano degne. Pittacus e gli Antenati hanno già compiuto
i preparativi. La loralite fluisce già ora sotto i nostri piedi, circola dentro la Terra. Come il
sangue che scorre nelle vene, ha solo bisogno di un battito del cuore per mettersi in moto. Deve
solo essere risvegliata.»
Anu si sporge in avanti, improvvisamente molto interessato. Mi ritrovo a fare lo stesso gesto,
a piegarmi verso lo schermo con la testa inclinata di lato.
«Come ci riusciranno?» chiede Anu, sforzandosi di non far trasparire l'entusiasmo.
«Ciascuno dei Garde possiede quelli che Pittacus chiamava 'cristalli della Fenice'», racconta
Malcolm. «Quando i Garde raggiungeranno la maturità, i cristalli potranno essere impiegati per
ricreare le condizioni presenti su Lorien: la flora, la loralite, le chimere.»
«Ma le Eredità? Cosa ne è dei veri doni di Lorien?»
«Anche quelle arriveranno, quando ci sarà il risveglio di Lorien», risponde Malcolm. «I
cristalli della Fenice, i ciondoli... tutto ha uno scopo. Quando verranno consegnati al pianeta
Terra, nel Santuario degli Antenati, Lorien tornerà a vivere.»
Anu lancia uno sguardo alla telecamera, con gli occhi sbarrati. Poi si ricompone e continua:
«Dov'è questo Santuario?»
«A Calakmul. Solo i Garde possono entrarvi.»
A questo punto, Malcolm mette in pausa il filmato. Si guarda intorno: stringe le labbra in
un'espressione contrita, ma nei suoi occhi c'è una scintilla di speranza. Lo guardiamo sconcertati:
nessuno di noi ha compreso appieno quello che abbiamo appena visto.
Nove alza una mano, aggrotta la fronte. «Non capisco. Cosa cavolo è Calakmul?»
«Un'antica città maya. Nel Messico sudorientale», risponde Malcolm, con voce venata di
eccitazione.
«Perché non ne sapevamo niente?» chiede Sei, continuando a fissare il fermo immagine sullo
schermo. «Perché gli Antenati non ce l'hanno detto? O i nostri Cêpan? Se è così importante,
perché tenerci all'oscuro?»
Malcolm si stringe con due dita la radice del naso. «Non ho una risposta soddisfacente da
darti, Sei. L'invasione dei Mogadorian ha colto gli Antenati alla sprovvista. Siete stati spediti
sulla Terra in tutta fretta, i vostri Cêpan erano impreparati quanto voi. La priorità assoluta era la
vostra sopravvivenza. Posso solo immaginare che tutto questo -- i cristalli della Fenice, i vostri
ciondoli, il Santuario -- dovesse esservi rivelato quando aveste raggiunto la maggiore età, dopo
avere sviluppato le Eredità, quando foste stati pronti a combattere. Dirvelo prima avrebbe reso
troppo vulnerabili i vostri segreti. Tuttavia...» Malcolm guarda sconsolato la propria immagine
sullo schermo. «Come potete vedere, la segretezza non ci è servita a molto.»
«Forse è per questo che Henri è venuto a Paradise a cercarti, papà», ipotizza Sam. «Forse era
giunto il momento.»
Ho mille pensieri in testa. Senza neppure accorgermene, mi sono messo a camminare su e giù
per la stanza. Sei deve scoccarmi un'occhiataccia per farmi fermare.
«Ho sempre pensato che avremmo vinto questa guerra e poi saremmo tornati su Lorien», dico
lentamente, cercando di fare ordine tra i pensieri. «Pensavo che Henri intendesse questo con 'far
rinascere Lorien'.»
«Forse intendeva qui», suggerisce Sei. «Forse dobbiamo farla rinascere qui.»
«Ma che significa?» chiede Sam. «Cosa succederebbe alla Terra?»
«Non potrà essere peggio di quello che succederà quando arriveranno qui i Mog», ribatte
Nove. «Insomma, ricordo che Lorien non era niente male. Faremmo un favore alla Terra.»
«Nel filmato, da come ne parlavi, sembrava un'entità di qualche genere», dice Marina rivolta
a Malcolm.
Malcolm scrolla la testa. «Vorrei potermi ricordare di più. Non ho le risposte che cerchi.»
«Potrebbe essere una specie di divinità», dice lei, con una pacata reverenza nella voce.
«Potrebbe essere una specie di arma che salta fuori dalla Terra per ammazzare tutti i Mog»,
osserva Nove.
Adam si schiarisce la voce, a disagio.
«Qualsiasi cosa sia, Malcolm ha detto che ci servono i cristalli della Fenice per risvegliarla»,
dico.
«E i ciondoli!» esclama Sei. «Forse è per questo che Setrákus Ra li conserva. Potrebbero
essere qualcosa in più che trofei, per lui.»
«A Chicago abbiamo esaminato il contenuto dei nostri scrigni», dice Nove in tono lamentoso,
probabilmente ricordando quanto si era annoiato a inventariare il nostro patrimonio ereditario.
«Ho un mucchio di sassi e robaccia varia e non so cosa farmene.»
«Dovremmo portarli tutti lì», propone Marina, in tono più convinto. «I nostri patrimoni
ereditari, i nostri ciondoli... Portare tutto al Santuario e consegnarlo alla Terra, come ha detto
Malcolm.»
Malcolm annuisce. «So che è vago, ma quantomeno è qualcosa.»
«Potrebbe essere il vantaggio che stiamo cercando», dico. «Accidenti, potrebbe essere il
motivo stesso per cui ci hanno mandati quaggiù!»
Nove incrocia le braccia, con aria scettica. «Ieri mi sono ritrovato davanti l'astronave
mogadorian più grande che si sia mai vista. Seppellire la nostra roba in un vecchio tempio
polveroso poteva essere una buona idea qualche mese fa, ma ora siamo a un passo dalla guerra e
penso che dovremo ammazzare qualche cattivo.»
Prima che io possa replicare, interviene Malcolm: «Il Santuario potrebbe essere la nostra
salvezza, ma è meglio non puntare tutto su una carta sola».
«Nove ha ragione, più o meno», dice Sei. «Per quanto io detesti l'idea di separarci di nuovo,
alcuni di noi dovrebbero seguire il piano di Walker: sferrare un attacco contro i Mog e i loro
alleati.»
Nove mima un pugno in aria. «Presente!»
«E altri di noi dovrebbero andare in Messico.»
«Io ci voglio andare. Voglio vedere questo Santuario», dichiara Marina. «Se è un posto fatto
per i Loric, un posto in cui abbiamo vissuto, forse è lì che dovremmo seppellire Otto.»
Annuisco e guardo Sei, aspettando la sua decisione. «Allora? New York o Messico?»
«Messico», risponde, dopo un momento. «Tu sei più bravo di me a interagire con quelli del
governo. Se abbiamo bisogno di un rappresentante dei Loric all'ONU, tu sei la scelta migliore.»
«Grazie», mormoro, non troppo convinto.
«Ti sta dicendo che sei un boy-scout», mi sbeffeggia Nove.
Guardo Sam, che ha aperto la bocca e sembra in procinto di replicare. Viene interrotto da Sei,
che lo guarda scuotendo leggermente la testa.
«Rimarrò qui anch'io, penso», dice Sam, dopo un momento di esitazione. Sembra deluso. Si
costringe a sorridermi. «Qualcuno deve tenere in riga te e Nove.»
Resta solo Adam. Il nostro alleato mogadorian è rimasto in rispettoso silenzio per tutto questo
tempo, probabilmente per non intromettersi mentre venivano rivelati i segreti della nostra razza.
Quando mi volto verso di lui vedo che sta ancora guardando lo schermo. Sembra smarrito nei
ricordi, forse sta ripensando al dottor Anu e alla sua macchina. Quando si accorge che lo
guardiamo tutti, si rabbuia. «Vi aspetteranno in Messico», dice. «Se lì c'è una fonte di potere
loric, il mio popolo starà cercando di accedervi da anni.»
«Ma solo i Garde possono entrare, giusto?» replica Sam.
«Così ho detto ad Anu», risponde Malcolm, con un'espressione incerta.
«Proprio come solo noi possiamo avere le Eredità?» interviene Nove, guardando Adam. «Stai
dicendo che potrebbe essere un'altra trappola, Mog?»
«Non è una trappola, se sai che c'è», ribatte Adam, scoccando una rapida occhiata a Nove e
poi guardando Sei. «Non so di preciso cosa troverete laggiù, ma posso assicurarvi che ci saranno
dei Mogadorian. So pilotare lo skimmer meglio di voi, e forse potrei schivarli, se hanno delle
astronavi.»
«Be', di sicuro non sarei andata fino in Messico a piedi», replica Sei. Poi si volta a
guardarmi. «Ti fidi di questo tizio?»
«Sì.»
Sei fa spallucce. «Allora benvenuto nel Team Calakmul, Adam.»
Sento Marina inspirare a denti stretti, ma non protesta.
«Ottimo. Mandiamo un Mogadorian a indagare su un luogo sacro dei Loric.» Nove scrolla la
testa. «Solo a me sembra irrispettoso?»
«Non l'hai appena definito un vecchio tempio polveroso?» chiede Sam.
«È quello che è. Ed è innegabile pure che questa storia del 'Mog buono' sia parecchio strana.
Senza offesa.»
Li zittisco tutti quando tiro fuori il ciondolo da sotto la maglietta e me lo sfilo dalla testa.
Sento uno strano freddo sul cuore. Non ricordo quando me l'ero tolto l'ultima volta. Nel silenzio
generale, porgo il ciondolo a Sei. «Prendilo. Assicurati che arrivi al Santuario.»
«Un lavoretto facile.» Sei sorride, prendendo il ciondolo.
«E ora...» Scruto i volti di tutti i presenti. «Vediamo di vincere questa guerra e cambiare il
mondo.»
18

Ci accomiatiamo quella mattina sul tardi, tutti riuniti intorno allo skimmer sul campo da
basket.
È strano portare di nuovo al collo un ciondolo loric. E non per il peso; i ciondoli sono
leggerissimi. A quanto pare, contengono le Eredità di Lorien: tutto il potere del nostro popolo
quasi estinto, racchiuso in pochi cristalli lucenti di loralite.
Niente di che.
«C'è tutto?» chiede Marina, inginocchiata davanti al suo scrigno aperto, per metterne in ordine
il contenuto.
Abbiamo anche lo scrigno di Otto: non si apre più, forse il contenuto è distrutto, ma abbiamo
pensato che non potesse nuocere portarlo al Santuario con gli altri.
Io non ho uno scrigno, quindi il mio patrimonio ereditario è in quello di Marina. Dopo la
nostra riunione, John e Nove hanno esaminato i loro scrigni e radunato tutti gli oggetti che non
sono armi, pietre di guarigione o altre cose utili in combattimento. A parte la manciata di gemme
loric ancora da scambiare con appartamenti di lusso o computer, John ci ha consegnato un
mazzetto di foglie secche legato con uno spago ingiallito, che fanno il rumore del vento quando le
sfioro con le dita; e Nove ha rinunciato a un sacchetto pieno di terriccio morbido e scuro come il
caffè. Marina ha inserito quegli oggetti nel proprio scrigno insieme con una fiala piena di acqua
cristallina, un pezzo di loralite e un ramo d'albero privato della corteccia.
«Allora, dal momento che non sappiamo cosa siano di preciso questi cristalli della Fenice,
butteremo qualsiasi cosa che c'ispiri, va bene?» propongo, e subito mi correggo: «Cioè, non le
butteremo... le consegneremo al pianeta Terra. Come ha detto Malcolm al dottor Anu».
John soffoca una risata. «Se ci viene in mente un piano migliore, ti faccio sapere.»
«Papà è ancora di sotto a guardare i filmati», interviene Sam. «Forse troverà qualcos'altro.»
«Al momento, improvvisare mi sembra l'unica possibilità. Su quasi ogni fronte», dice John.
«Sei, c'è un'altra cosa che vi chiederei di portare al Santuario.»
Si china a prendere qualcosa dallo scrigno. Mi domandavo perché se lo fosse portato al
campo da basket dopo che avevamo già esaminato i contenuti. Ma poi mi porge un barattolo che
riconosco subito: le ceneri di Henri.
«John...»
«Prendilo», dice lui, in tono gentile. «Il suo posto è al Santuario.»
«Ma non vuoi venire anche tu, per dirgli addio?»
«Certo che vorrei. Ma, con tutto quello che sta succedendo, non so se ne avrò la possibilità.»
Quando ricomincio a protestare, John m'interrompe: «Non importa, Sei. Starò meglio sapendo che
lui è con te e che sta andando al Santuario».
«Se è questo che vuoi...» Tendo le mani. «Mi prenderò cura di lui, te lo prometto.» Prendo il
barattolo e lo poso delicatamente nello scrigno di Marina, col resto delle nostre cose.
Restiamo tutti in silenzio, l'atmosfera si fa lugubre. Ma è difficile raccogliersi in un momento
di riflessione quando ti senti osservato. Gli agenti del governo stanno a debita distanza, ma riesco
a vedere alcuni di loro, compresa Walker, guardarci da una veranda lì vicino.
«Non ti daranno problemi?» chiedo a John.
Lui si guarda intorno. «Sono dalla nostra parte, adesso.»
«Devo ripetermelo in continuazione.» Involontariamente sposto lo sguardo sullo skimmer.
«Sembra che mi capiti spesso, ultimamente.»
Adam è già a bordo dello skimmer, insieme con Dust, la chimera che gli si è affezionata.
Credo a John se mi dice che possiamo fidarci dello smilzo Mogadorian che sta controllando il
funzionamento dei comandi nella cabina di pilotaggio. Non so come la pensi Marina; non ha detto
niente di esplicito, ma sento irradiare il freddo da lei ogni volta che Adam è nei paraggi. Dopo
tutto quello che è successo, non posso biasimarla se nutre qualche sospetto. Sono rassegnata ad
avvertire molto freddo durante il volo.
«Fatevi sentire spesso», si raccomanda John, indicando il telefono che si è attaccato alla
cintura dei jeans con una molletta, come uno sfigato.
Io e Marina siamo attrezzate con telefoni satellitari, troppo ingombranti per portarli come
accessori di moda, quindi sono riposti col resto dell'attrezzatura che ci è arrivata grazie al
governo degli Stati Uniti... cioè, grazie alla fazione ribelle con cui Walker ha contatti. Adam e
Malcolm hanno controllato i telefoni e ci hanno assicurato che non contengono microspie.
«Sì, va bene», dico. «E anche tu, John. Tieniti in contatto. Resta vivo.»
«E prenditi cura di tutta la nostra roba», borbotta Nove. È a qualche passo da noi e guarda
perplesso Marina che traffica con lo scrigno. «Rivoglio indietro qualcuna di quelle gemme, se
possibile. Sai, per dopo. Dovrò comprarmi una casa nuova, grazie all'amico che me l'ha fatta
distruggere.»
Gli lancio un'occhiataccia. «Dici sul serio?»
Nove fa spallucce. «Bisogna pensare al futuro!»
Marina alza gli occhi dallo scrigno e con un sospiro lancia a Nove un paio di guanti scuri.
«Ecco. Non ho mai capito cosa farmene di questi.»
«Carini!» Nove li infila subito. Muove le dita nei guanti, che sembrano fatti di pelle, e poi
allunga le braccia con forza rivolgendo i palmi verso John. «Hai sentito qualcosa?»
John lo ignora e guarda Marina. «Siamo sicuri che non siano importanti? E se fossero cristalli
della Fenice?»
«Sono guanti, Johnny», fa Nove, senza sfilarseli. «Hai mai sentito di un antico rituale che
richieda di seppellire un bel paio di guanti alla moda? Ma dai.»
John scrolla la testa e si arrende. Continua a guardare le ceneri di Henri finché Marina non
richiude lo scrigno, e poi sposta lo sguardo sullo skimmer. «Vorrei poter venire con voi. Vorrei
essere lì per... per tutti e due.»
Il corpo di Otto è già a bordo dello skimmer, ben assicurato a uno dei sedili.
«Dopo», dice Marina, stringendo una mano di John. È ancora molto triste -- lo siamo tutti --
ma piano piano la vecchia Marina, quella buona, si sta facendo largo tra tutto quel ghiaccio. «Otto
capirebbe. Quando avremo vinto, ci sarà tempo per piangere i nostri morti come meritano. Tutti
insieme.»
Nove smette di giocare coi guanti nuovi e si fa serio per un momento. «Marina, ci conto.»
«Pronta?» le chiedo.
Lei annuisce e usa la telecinesi per caricare lo scrigno nello skimmer. «Fate attenzione, tutti
quanti.» E abbraccia i ragazzi, l'uno dopo l'altro.
Io faccio lo stesso. Abbraccio per ultimo Sam e, quando lui mi stringe, ho la stessa sensazione
di quand'eravamo tutti riuniti nelle gallerie dei Mogadorian: mi sembra che tutti ci osservino e
sparlino alle nostre spalle. M'irrigidisco un po', ma poi mi accorgo che l'abbraccio è durato molto
più che con gli altri, e i nostri amici si sono allontanati di qualche passo come per lasciarci un
momento da soli.
«Sei...» mi sussurra Sam all'orecchio.
Mi tiro indietro. «Non peggiorare le cose, Sam», bisbiglio, e mi ravvio i capelli dietro
l'orecchio scoccando occhiate di soppiatto agli altri.
Be', abbiamo passato la notte insieme. Forse non è stata la mossa più saggia da parte mia.
Voglio bene a Sam, a modo mio, e non voglio ingannarlo o ferire i suoi sentimenti. È solo che non
voglio relazioni di nessun genere finché questa storia non sarà finita, soprattutto dopo avere visto
quanto erano diventate stupide e complicate le cose con John, solo per avere flirtato un po'. Ma
dopo la Florida avevo bisogno di qualcosa di bello, tanto per cambiare -- qualcosa di caldo e
sicuro, di quasi normale -- e quel qualcosa è Sam. Pensavo capisse che non volevo una storia
seria come quella tra John e Sarah, gli sfortunati amanti tragicamente separati dal destino. E
invece eccoci qui in un momento romantico: e io cerco di essere fredda, ma non mi sto
esattamente sottraendo alle sue attenzioni.
«Non peggioro niente», replica Sam, con una smorfia. «È solo che... non capisco perché non
hai voluto che venissi con te.»
«Sarai più utile qui, con tuo padre. E dovrai tenere in riga John e Nove.»
«L'ultima volta che sono andato in missione con John, mi ha abbandonato dentro una
montagna.» Sam scrolla la testa. «Coraggio, Sei. Qual è il vero motivo?»
Sospiro, vorrei strangolarlo e baciarlo allo stesso tempo. Per un momento non so quale dei
due istinti avrà la meglio. Voglio qualcosa di più con Sam, credo. Prima o poi. Solo che non
voglio pensarci adesso. Stanotte era stanotte, ma ora devo tornare in guerra. «Non voglio
distrazioni. Va bene?»
«Ah...» fa lui, ferito nell'orgoglio. «Vuoi dire che dovresti salvarmi in continuazione dai Mog,
o impedirmi di finire in qualche antica trappola maya, o cose del genere. Pensavo che avessimo
superato quella fase. Me la cavo da solo, Sei. Solo una volta ti ho sparato per sbaglio durante
l'addestramento e...»
Lo bacio. Più che altro per farlo stare zitto e confermare la verità delle mie parole, ma anche
perché non riesco a trattenermi. Sento Nove esclamare: «Oooh!» E mi riprometto di farlo a
pezzetti alla prima occasione. «Ecco di che distrazione parlo», sussurro, col mio viso ancora
vicino al suo.
Sam è arrossito di nuovo, e ha l'aria di voler dire qualcos'altro: probabilmente cerca le parole
giuste per dirmi addio. Ma sono stufa di queste lungaggini, quindi do un ultimo sguardo al suo
viso dolce e smarrito e poi gli volto le spalle. Pochi secondi dopo sono sul sedile dello skimmer
con la cintura allacciata, accanto a Adam, e ignoro lo sguardo significativo che Marina mi
rivolge.
«Si parte?» chiede Adam.
Annuiamo. Lui preme qualche pulsante sulla plancia di comando dello skimmer. Rispetto a
quando guidavo io, ha l'aria di sapere molto meglio quello che fa.
Mentre ci alziamo lentamente da terra, guardo fuori e vedo Sam e gli altri salutarci con la
mano. Mi chiedo se nella mia vita ci saranno sempre questi momenti, gli addii dolorosi prima di
andare tutti a rischiare la vita. John dice sempre di volere una vita noiosa e normale, ma io sarei
felice? Prendiamo quota, saliamo oltre gli alberi, e io penso a Sam. Se non fosse per questa
guerra, per il caos incessante, non ci saremmo neppure mai messi insieme. Come sarebbe la vita
per noi senza i Mogadorian e la minaccia costante della distruzione?
Mi piacerebbe scoprirlo.
19

Nove si sporge sopra di me per guardare bene Sam e gli dice in un sussurro non troppo basso:
«Senti, bello, ma cosa combinate, tu e Sei?»
Sam guarda dritto fuori dal finestrino del pick-up. «Eh? Niente.»
«Già, certo. Dai, ci metteremo quattro ore ad arrivare a New York, raccontaci qualche
dettaglio piccante.»
Davanti a noi, sul sedile del passeggero, l'agente Walker si schiarisce la voce. «Sebbene io
trovi affascinanti le vite sessuali degli adolescenti, forse potremmo usare queste ore per discutere
dei nostri parametri operativi.»
«Sono d'accordo.» Spingo Nove indietro sul sedile, per farlo smettere di tormentare Sam.
«Dobbiamo concentrarci sulla missione.»
Sam mi rivolge un sorriso pieno di gratitudine.
Nove mi guarda storto. «E va bene, John. Starò buono e concentrato per il resto di questo
viaggio.»
«Bene.» Una parte di me crede davvero che dovremmo pensare alle nostre scarsissime
probabilità di vittoria, ma un'altra parte non vuole ascoltare i dettagli su Sam e Sei. Sono contento
per loro, penso. Mi fa piacere che si confortino l'un l'altra. Ma non riesco a non pensare che Sam
si ritroverà col cuore spezzato. Ricordo la mia visione del futuro, il modo in cui lui gridava
appena prima che i Mogadorian giustiziassero Sei. Forse per questo ho l'orribile sensazione che
andrà a finire male.
O forse sono soltanto invidioso. Non perché Sam si è messo con Sei, ma perché l'amore della
mia vita è a molti chilometri da me. Naturalmente non ho nessuna intenzione di rivelare queste
cose davanti a Nove, a Walker e al taciturno tizio dell'FBI che guida la macchina. Meglio
concentrarsi sulla missione.
Stiamo percorrendo l'Interstatale 95 da Washington a New York. Malcolm è rimasto alle
Residenze Ashwood per finire di consultare gli archivi dei Mogadorian, sperando di trovare
qualcos'altro di utile. Anche la grande maggioranza degli agenti fedeli a Walker è rimasta lì, a
presidiare il forte e usarlo come base operativa per coordinare l'azione contro i ProMog. Non mi
fido ancora degli uomini di Walker -- e probabilmente non arriverò mai a fidarmi del tutto, dopo
quello che il governo ci ha fatto passare --, quindi ho lasciato lì le cinque chimere rimaste, con
l'ordine di proteggere Malcolm.
Dietro di noi c'è un altro SUV pieno di agenti. In totale sei agenti più io, Nove e Sam. Non
siamo proprio un esercito; ma d'altronde la guerra non è ancora scoppiata. Forse, se tutto andrà
secondo i miei piani, non scoppierà affatto.
«Il segretario della Difesa soggiorna in un albergo a Midtown Manhattan, vicino al palazzo
dell'ONU», dice Walker, guardando il telefono sul quale digita da tutta la mattina. «Avevo una
talpa nella sua squadra di sicurezza, ma...»
«Cos'è successo?»
«Li hanno rimossi stamattina. Tutte le guardie del corpo, sostituite con una nuova squadra. Tizi
pallidi in impermeabile scuro. Vi ricorda qualcosa?»
Nove strofina un pugno nel palmo dell'altra mano. «I Mog tengono al sicuro il loro politico
preferito prima del grande discorso di resa.»
«Penso che in realtà la cosa vada a nostro vantaggio», replica Walker. «I miei uomini non ci
tenevano particolarmente a neutralizzare i loro colleghi per arrivare a Sanderson. Insomma, alcuni
di quegli agenti fanno solo il loro lavoro.»
«Neppure noi abbiamo l'abitudine di prendercela con gli umani», preciso. «A meno che non ci
costringano.»
«Quindi il piano è tutto qui?» chiede Sam, in tono scettico. «Andiamo in questo albergo, ci
sbarazziamo di qualche Mog e poi ammazziamo Sanderson?»
Walker annuisce. «Sì.»
«No», ribatto.
Tutti mi guardano. Anche il nostro stoico autista mi fissa dal retrovisore.
Walker inarca le sopracciglia. «Mi pareva che fossimo d'accordo.»
«Non uccideremo Sanderson», dico. «Noi Loric non ce la prendiamo con gli umani. E di
sicuro non li ammazziamo.»
«Ragazzino, se me lo trovo davanti, io premo il grilletto», replica Walker.
«Può arrestarlo, se vuole. Accusarlo di alto tradimento.»
«La pena prevista per l'alto tradimento è la morte!» esclama, esasperata. «Comunque, i suoi
compari ProMog non permetteranno che venga arrestato. E tu credi che i tribunali conteranno
qualcosa, una volta che Setrákus Ra sarà qui?»
«L'ha detto lei. È Setrákus Ra quello importante.»
«Esatto. E, al posto di Sanderson, ci sarete voi ad accoglierlo all'ONU. Mostreremo al mondo
la differenza tra gli alieni buoni e quelli cattivi. Nel frattempo, dietro le quinte, i miei uomini si
occuperanno dei ProMog.» Walker si massaggia le tempie. «Ho già fatto mettere in posizione gli
altri agenti. Mentre noi eliminiamo Sanderson, una dozzina di altri traditori ProMog sarà...»
La interrompo: «Se sta per parlarmi di altre uccisioni, non voglio saperlo».
Nove alza la mano. «Io voglio saperlo.»
«Non è questo che facciamo», insisto. «Non siamo fatti così.»
«Ragazzino, se vuoi che il mondo sappia dei Mog, presto o tardi dovrai sporcarti le mani.»
«E se fosse Sanderson a spargere la voce, al posto nostro?»
Walker aggrotta la fronte. «Ma che dici?»
«Sta per tenere un discorso all'ONU, giusto? Parlerà bene di Setrákus Ra, dirà agli umani che
non c'è pericolo nell'accogliere la flotta mogadorian.» Faccio spallucce, cerco di sembrare sicuro
del mio piano. «Potrebbe tenere un discorso diverso. Potrebbe lanciare un avvertimento.»
«Stai dicendo di convertire lui alla nostra causa?» sbotta Walker. «Sei pazzo.»
«Non credo proprio.» Mi giro a guardare Nove e Sam. «Io e i miei amici siamo molto
persuasivi.»
«Sì», interviene Nove, sorridendo all'agente Walker. «So essere molto convincente.»
Walker mi fissa per un lungo momento, poi si gira e ricomincia a digitare messaggi in codice
sul telefono. «Non avevo capito di essere alleata con alieni hippie e pacifisti», sospira. «E va
bene. Se riuscite a convincere Sanderson a cambiare casacca di fronte all'ONU, fate pure. Ma, se
non sono convinta del risultato, gli sparo.»
«Certo, è lei il capo», le dico.

Ci fermiamo a un distributore nel New Jersey per riempire i serbatoi dei SUV. Posso
allontanarmi per qualche minuto e decido che è un buon momento per sentire Sarah. Tiro fuori il
telefono e m'incammino nel parcheggio.
«Dove vai?» mi chiede Walker, gridando.
«A chiamare la mia ragazza», rispondo. «Ricorda? Una volta l'ha arrestata illegalmente.»
«Ah, fantastico», la sento borbottare rivolta all'autista. «Dobbiamo salvare il mondo e siamo
alla mercé di adolescenti in tempesta ormonale.»
Meglio noi che gente come lei, penso, ma fingo di non avere sentito.
Il telefono squilla cinque volte, e a ciascuna il mio cuore batte un po' più forte.
Poi Sarah risponde, appena prima che scatti la segreteria. «Prima che tu dica qualsiasi
cosa...» esordisce, senza neppure salutare. «Voglio dirti che sto bene.» Le trema la voce.
«Cos'è successo?» Cerco di nascondere il panico.
Sarah è in macchina, si sente il rumore del traffico in sottofondo. «Siamo andati in città per
fare provviste e ci siamo imbattuti in alcuni Mog», dice, ancora col fiatone. «Non so come ci
abbiano rintracciati, ma non sono molto contenti di Sono tra noi. Non preoccuparti, stiamo tutti
bene. Se n'è occupato Bernie Kosar.»
«Sei al sicuro ora?»
«Lo saremo presto. L'amico hacker di Mark, Guard, ci ha dato l'indirizzo della sua base ad
Atlanta.»
Mark aveva parlato di Guard in una delle sue e-mail a Sarah. È un altro fanatico complottista,
come uno dei vecchi redattori di Sono tra noi. Ma è anche un ottimo hacker e, secondo Mark, ha
accesso a una quantità incredibile di informazioni.
M'innervosisce un po' l'idea che Sarah e Mark stiano andando da lui senza che noi
conosciamo la sua identità. «Cosa sa Mark di questo tizio?»
Sarah ripete la mia domanda a Mark, poi mi riferisce la sua risposta: «Dice che
probabilmente è un nerd che se ne sta rinchiuso nel seminterrato della casa di sua madre. Ma che
è un 'tipo a posto' e che possiamo fidarci di lui».
Sbuffo. «Molto confortante. Ma per sicurezza t'invio per SMS l'indirizzo di un nascondiglio. È
una base che abbiamo conquistato a Washington, piena di tizi del governo che sono dalla nostra
parte. Se avete bisogno di rifugiarvi da qualche parte, potete andare lì.»
Sento accendersi due motori dietro di me. Mi giro e vedo che tutti gli agenti sono risaliti in
macchina. Nove e Sam sono ancora fuori dal nostro SUV, aspettano me. Nove mi rivolge un gesto
d'impazienza.
«Che succede lì?» mi chiede Sarah. «State per fare qualcosa di stupido ma che forse salverà
il mondo?»
«Più o meno», rispondo, e mi concedo un sorriso. «Hai ricevuto i documenti che ti ho
mandato?»
«Sì. Li metteremo online quando arriveremo ad Atlanta.»
«Perfetto. Ho la sensazione che il sito di Sono tra noi stia per ricevere molte più visite del
solito.» Esito, non ho voglia di riattaccare. «Gli altri mi aspettano. Devo andare.»
«Mark dice di farli a pezzi. E ti amo.» Sarah scoppia a ridere. «L'ultima parte non l'ha detta
Mark, è farina del mio sacco.»
Ci salutiamo e mi assale la stessa nostalgia mista a paura che provo dopo ognuna di queste
telefonate. Mi riavvio verso il SUV. Sono saliti tutti tranne Sam.
«Quindi vuoi mettere i documenti di Walker su Sono tra noi?» mi chiede. «È una buona idea.
Propaganda anti-mogadorian.»
«È un'idea disperata, ecco cos'è. Gli umani non andranno a fare ricerche su Internet mentre le
loro città vengono bombardate.»
«Ah, che pensiero confortante», replica Sam, rabbuiandosi. «C'è molto da leggere in quei
documenti. Se vuoi portare la gente dalla nostra parte, non devi parlare solo dei Mogadorian. Non
devi soltanto cercare di spaventare gli umani. Saranno già spaventati a sufficienza. Devi dare loro
un po' di speranza.»
«Tu cosa proponi?»
Sam ci pensa un istante, poi si stringe nelle spalle. «Non lo so ancora. Mi verrà in mente
qualcosa.»
Annuisco e gli do una pacca sulla spalla. Risaliamo in macchina. So che vuole solo aiutarmi:
per questo non gli dico che qualsiasi buona idea gli venisse... potrebbe arrivare troppo tardi.

Arriviamo a New York circa un'ora dopo. Non c'ero mai stato, e neppure Nove e Sam: mi
sarebbe piaciuto visitarla in circostanze diverse. Mentre procediamo a passo d'uomo, bloccati da
un ingorgo in un canyon di grattacieli, allungo il collo per guardare fuori dal finestrino. Chicago è
una città enorme, ma non può competere con la marea convulsa di pedoni sui marciapiedi di New
York. Ci sono insegne lampeggianti che pubblicizzano spettacoli di Broadway, taxi gialli che
saettano tra le macchine, un brusio di attività tutt'intorno a noi.
E tutte quelle persone non hanno idea di cosa sta per succedere.
Mentre procediamo verso nord diretti all'albergo di Sanderson, passiamo davanti a un tizio in
mutande e con un cappello da cowboy che suona una chitarra acustica di fronte a un gruppo di
turisti.
Nove scoppia a ridere. «Non la passerebbe liscia a Chicago.»
Mi sporgo verso Walker. «Manca molto?»
«Pochi isolati.»
Mi assicuro di avere ancora il pugnale loric legato alla gamba. Mi tocco anche il polso,
sovrappensiero, per controllare il bracciale-scudo: ma non c'è più, distrutto dal generale Sutekh.
«Il vostro uomo in avanscoperta vi ha detto quanti Mog dobbiamo aspettarci?» chiedo a
Walker.
«Una dozzina, forse più.»
«Una passeggiata.» Nove infila i guanti che Marina gli ha dato. Stringe i pugni, e io mi tiro
indietro per il timore che faccia scattare inavvertitamente qualche arma. Per fortuna non succede
niente.
«Vuoi combattere con quelli?» gli chiede Sam. «Non sai neppure a cosa servono.»
«Quale modo migliore di scoprirlo? Questi oggetti loric, amico, hanno il brutto vizio di
aiutarti soltanto dopo che hai rinunciato a capire come chiederglielo.»
«O forse servono solo a tenere calde le mani.»
«Basta che non faccia niente di stupido», dico a Nove.
Lui mi fissa serio. «Non preoccuparti, John. Puoi fidarti di me.»
Capisco che si sente ancora in colpa per ciò che è accaduto in Florida e vuole dimostrare
quanto vale. Mi limito ad annuire, perché so che se ne parlassi lo metterei in imbarazzo. Sono
contento che sia qui a combattere con me.
Walker si gira a guardare Sam. «Questi ragazzi lanciano sfere di fuoco e hanno guanti magici,
a quanto pare. Ma tu cosa sai fare?»
Sam sembra colto alla sprovvista, e vedo che si tocca le cicatrici sui polsi. Dopo un momento
di riflessione, dice: «Probabilmente ho ucciso più Mog di lei, signora».
Nove mi dà di gomito, io non trattengo un sorriso.
Sembra proprio la risposta in cui Walker sperava, gliene va dato atto. Apre il cassetto del
cruscotto, ne estrae una pistola nella fondina e la porge a Sam. «Be', sto ufficialmente armando un
minorenne. Fa' onore al tuo Paese, Samuel.»
Un minuto dopo, l'autista accosta sul ciglio della strada, in doppia fila; l'altro SUV si ferma
dietro di noi. Siamo in uno degli isolati più tranquilli di Manhattan. Dall'altra parte della strada,
poco più avanti, c'è l'ingresso di un albergo di lusso. Fuori ci sono un ampio tendone e un tappeto
rosso, un posto in cui i clienti possono lasciare le chiavi della macchina a un parcheggiatore e
posare i bagagli su uno dei carrelli in attesa.
Ma fuori dall'albergo non si muove foglia. Nessun turista passeggia sul marciapiede, nessun
portiere aspetta le mance. Niente. La zona è stata evacuata, o i suoi occupanti sono stati messi in
fuga, dai tre Mogadorian che stanno di guardia alla porta coi soprabiti aperti a scoprire i fucili.
Ormai non si curano neanche più di nascondersi.
«Vogliamo un'azione rapida e pulita», ci dice Walker, abbassandosi sul sedile per guardare i
Mog dal retrovisore. «Abbattete i Mog e raggiungete Sanderson prima che qualcuno possa dare
l'allarme, chiamare i rinforzi via radio o fare qualsiasi altra cosa.»
«Okay, capito.» Tiro su il cappuccio della felpa. «L'abbiamo già fatto altre volte.»
«Lasciate andare avanti i miei uomini. Mostreremo i distintivi, forse riusciremo a coglierli
alla sprovvista. Poi voi colpite duro.»
«Certo, voi distraeteli, ma poi toglietevi dai piedi», dice Nove.
Walker prende un walkie-talkie e si collega via radio agli agenti della seconda macchina.
«Siete pronti?»
«Affermativo», risponde una voce maschile. «Andiamo.»
«Ci siamo!» Nove batte le mani coperte dai guanti.
Il suono che si sprigiona dai guanti non supera letteralmente il muro del suono, ma ci va molto
vicino. È come se un tuono fosse rintronato sul sedile posteriore; tutti i finestrini del SUV vanno
in frantumi e l'intero veicolo viene sospinto in aria di qualche centimetro. L'altro SUV, dietro di
noi, non se la passa molto meglio: anche quei finestrini si rompono, ma verso l'interno, facendo
piovere le schegge di vetro sugli agenti. Si rompono anche le vetrine dei negozi vicini, e una
donna all'angolo dell'isolato finisce a terra. Accanto a me Sam si stringe le tempie, stordito.
Per i primi secondi non sento molto, a parte un cinguettio sommesso che ben presto identifico
come gli allarmi delle macchine di tutto l'isolato. Mi giro verso Nove con tanto d'occhi e vedo
che si sta guardando le mani, sorpreso quanto me. Non sento cosa dice e non sono bravo a leggere
il labiale. Ma sono quasi sicuro che stia dicendo: «Ops».
All'ingresso dell'albergo, uno dei Mogadorian è in ginocchio e si tiene la testa tra le mani. Gli
altri due indicano il nostro SUV e imbracciano i fucili.
E meno male che potevamo contare sull'elemento sorpresa.
20

Le orecchie mi fischiano così tanto che non sento la prima scarica di fuoco dei Mogadorian.
Ma la percepisco. I raggi di energia colpiscono la carrozzeria antiproiettile del SUV e lo fanno
oscillare. Walker si china rifugiandosi dietro la portiera. L'autista non è altrettanto fortunato: un
raggio entra dal finestrino e lo colpisce al collo. Si forma subito una brutta ustione e l'uomo viene
scosso dalle convulsioni.
«Andate!» grido, senza sentire la mia voce e senza sapere se gli altri la sentono. «Andate!»
Nove apre la portiera posteriore con tanta forza da scardinarla. Scende tenendosi la portiera
davanti, come scudo per assorbire il fuoco dei Mog.
Mi tuffo sul sedile anteriore e premo le mani sulla ferita dell'agente dell'FBI, lasciando fluire
la mia calda energia di guarigione. Lentamente la ferita inizia a rimarginarsi e le convulsioni
cessano. L'agente mi guarda con occhi sbarrati e pieni di gratitudine.
Percepisco un movimento alla mia sinistra e giro la testa. Fuori dal finestrino, sul lato del
guidatore, c'è la donna che è stata scaraventata a terra dal tuono di Nove. È una bella ragazza,
forse una studentessa universitaria, con grandi occhi castani. Sembra in stato di shock, incapace di
muoversi... ma non di tirar fuori il cellulare dalla borsa. Ha appena finito di filmare la guarigione
dell'autista e ora m'inquadra in volto mentre le grido di scappare.
Un'altra ondata di fuoco mog rimbalza sul cofano del nostro SUV, rischiando di colpire la
ragazza. Sam scatta fuori e l'afferra, la trascina più giù sul marciapiede e la fa nascondere dietro
un'auto parcheggiata.
Mesi fa, essere filmato mentre usavo le mie Eredità sarebbe stato un disastro. Ormai non me
ne importa niente. Però non possiamo lasciar entrare altre persone innocenti nella nostra zona di
guerra.
«Gira la macchina!» grido all'orecchio dell'autista. Non sono sicuro che mi senta, quindi
mimo il gesto di sterzare col volante. «Blocca la strada!»
Capisce e parte a razzo: non sento stridere gli pneumatici, ma sento odore di gomma bruciata.
L'autista ferma la macchina in perpendicolare al centro della strada, bloccando il traffico.
Salto giù e mi giro verso l'albergo appena in tempo per vedere un guerriero mogadorian
segato a metà e ridotto in cenere dalla portiera della nostra macchina, che Nove ha lanciato come
un frisbee. Nel frattempo gli agenti nella seconda macchina sono riusciti a riprendersi; vedendo la
nostra manovra, il loro autista innesta la retromarcia e blocca rapidamente l'accesso alla strada
dall'altra direzione. Poi scendono anche loro, si riparano dietro il SUV e iniziano a sparare sui
Mogadorian superstiti. I loro spari mi giungono smorzati alle orecchie.
Uno dei Mog si accascia al suolo, colpito da una pallottola in fronte. In chiara inferiorità
numerica, l'unico Mog rimasto entra nell'albergo. Con la telecinesi prendo un carrello per valigie
e glielo scaravento addosso, colpendolo sul retro delle ginocchia. Il Mog barcolla di nuovo fuori
dalla porta e gli agenti di Walker gli sparano.
Nove mi guarda e io annuisco. Insieme corriamo verso l'ingresso. Mi guardo alle spalle per
controllare Sam e lo vedo che sta parlando con la ragazza, indicando con gesti enfatici il suo
telefono. Non c'è tempo per preoccuparsi di quello.
L'elegante hall dell'albergo è completamente deserta, a parte un concierge spaventato che ha
cercato riparo dietro il bancone. Oltre le colonne di marmo e i divani in pelle ci sono gli
ascensori: stranamente, due su tre sono fuori servizio e il terzo è bloccato all'ultimo piano. I Mog
non si aspettavano un attacco, forse, ma di sicuro hanno preso precauzioni.
Ho un momento per riprendere fiato. Mi premo le mani sulle tempie e lascio fluire nelle
orecchie un po' di energia di guarigione. Le sento sbloccarsi e riacquisto lentamente l'udito, come
se avessi nella testa una manopola del volume che viene girata piano piano. Da fuori sento le
sirene, lo stridore degli pneumatici, gli uomini di Walker che gridano ai poliziotti di stare
indietro. Il nostro piano di agire in segreto è già fallito: ora dobbiamo fare in fretta.
Fermo Nove prima che arrivi agli ascensori e gli poso le mani sulle orecchie per curarlo.
Scuote la testa come per far uscire l'acqua dalle orecchie.
«Sei un idiota», gli dico.
Mi sventola in faccia i guanti supersonici, poi se li rimette in tasca. «Almeno ora sappiamo a
cosa servono.»
Vedendo che non siamo Mogadorian armati, il concierge emerge lentamente dal nascondiglio.
È magrissimo e di mezz'età. «Che... che succede?» balbetta, spaventato.
Prima che possiamo rispondere, Walker entra nella hall, mostra il distintivo al concierge e
grida: «A che piano è Sanderson?»
«All'attico. Quelle... quelle cose che avete ammazzato sono con lui. Hanno evacuato l'albergo
stamattina, a parte me e qualche altro dipendente. E io non sono neppure un dirigente.»
«Perché hanno tenuto te?» gli chiede Nove.
«Hanno richiesto il servizio in camera. Si comportano come se fossero a casa loro e noi
fossimo i loro servi.»
Nove scrolla la testa. «Che spudorati, neanche avessero già vinto.»
Walker guarda il concierge come se volesse strozzarlo, poi si volta verso di me e parla a voce
ancora altissima: «Porca miseria, non riesco a sentire niente».
Le faccio cenno di avvicinarsi e le premo le mani sulle orecchie. Intanto dico al concierge:
«Farà meglio ad andarsene di qui. Esca molto lentamente, con le mani alzate. Manderemo fuori
tutti quelli che incontriamo».
Il concierge annuisce in silenzio e inizia a camminare a passettini verso l'uscita, con le mani
sopra la testa.
Walker si scrolla di dosso le mie mani non appena le torna l'udito. «Cos'ha detto?»
«Che dobbiamo andare di sopra», rispondo, indicando l'ascensore.
«A dire il vero, stanno scendendo loro», dice Nove.
L'unico ascensore funzionante dell'albergo ha iniziato a scendere: sul display sopra le porte si
accendono in successione le lampadine che indicano i piani. Attivo il Lumen: è piacevole sentire
il fruscio delle fiamme che si accendono. Walker stringe più forte la pistola.
«Tranquilli, ci penso io», dice Nove. Solleva uno dei divani di pelle e lo regge come un ariete
di sfondamento.
Io e Walker ci facciamo da parte per lasciargli spazio. Quando l'ascensore trilla e le porte si
aprono, i quattro Mogadorian inviati a piano terra a dare man forte a quelli che abbiamo già
ammazzato vengono accolti da Nove, che grida e si avventa su di loro armato del divano. Uno dei
Mog riesce a sparare, ma colpisce solo il pavimento. Restano tutti bloccati nell'ascensore, il Mog
al centro viene schiacciato dal peso di Nove. Walker lo schiva con agilità e finisce con la pistola
gli altri Mog.
«Non basta ancora a farti perdonare per la faccenda dei guanti», dico a Nove quando lancia di
nuovo il divano nella hall.
«Ma dai, è stato un incidente», fa lui, sorridendo.
«Ci sono altri gadget alieni di cui devo sapere?» chiede Walker mentre saliamo in ascensore.
«Be, c'è questo», risponde Nove, e tira fuori di tasca la collana con tre pietre verdi: quando
viene lanciata, le pietre creano un minuscolo spazio vuoto che risucchia tutto ciò che ha intorno,
per poi risputarlo fuori con violenza. Deve averla presa dallo scrigno prima di consegnare il
resto del patrimonio ereditario a Marina e Sei.
«A cosa serve?» chiede Walker.
«Lo vedrà», rispondo. Poi mi rivolgo a Nove. «Lo sai che ce ne saranno altri ad aspettarci
fuori dall'ascensore, vero?»
«Proprio come pensavo», replica lui, sorridendo.
Mi addosso insieme con Walker alla parete laterale dell'ascensore, accanto alla pulsantiera.
Nove si appoggia alla parete opposta e lascia dondolare pigramente la collana.
«Sarà meglio che mi stia vicina», dico a Walker. «Ha visto come se la cava Nove coi gadget.»
«Ehi, questo lo so usare!» ribatte lui.
Pochi secondi dopo, le porte dell'ascensore si aprono e una scarica di raggi letali colpisce la
parete di fondo: quassù i Mog adottano la strategia prima-spara-poi-fa'-domande».
Restando addossato alla parete, Nove lancia la collana fuori dall'ascensore.
Le pietre verdi restano sospese in aria in un circolo perfetto e ruotano lentamente in avanti,
inghiottendo tutto ciò che incontrano. Sento il risucchio dell'aria seguito dalle grida dei
Mogadorian e da un mucchio di spari inutili. Sento spaccare i vetri dei quadri appesi nel
corridoio e le schegge che vengono aspirate nel minuscolo buco nero.
Poi Nove schiocca le dita, e tutto ciò che il vuoto ha assorbito viene espulso con violenza. Un
Mog viene scaraventato nell'ascensore, batte la testa con forza sulla parete di fondo e si spezza il
collo.
Fuori dall'ascensore tutto tace.
L'aria è piena di particelle di polvere che potrebbero essere i resti dei Mog. Un fucile che era
rimasto incastrato chissà come sul soffitto cade rumorosamente a terra. A parte quello, nel
corridoio c'è solo un carrello del servizio in camera che sembra passato dentro un tritacarne. C'è
una porta in fondo al breve corridoio, l'ingresso della suite dell'attico, ed è mezza scardinata.
«Che diavolo era quella roba?» chiede Walker.
«I Mog non sono gli unici ad avere armi di ultima generazione», commenta Nove,
raccogliendo da terra le pietre dall'aria innocua.
«Non si faccia venire strane idee, la nostra tecnologia non è in vendita», dico a Walker
quando la vedo scrutare con interesse le pietre verdi.
Lei mi guarda storto. «Be', tanto non sapete come usarla, a giudicare dai guanti.»
Dall'interno della suite sento l'audio di un televisore. Sembra un telegiornale, c'è un tizio che
parla di quotazioni azionarie. A parte quello, il corridoio è silenzioso: non c'è traccia di altri
Mogadorian. Comunque avanziamo cauti verso la porta della suite.
Temendo un'imboscata, apro la porta con la telecinesi prima che ci avviciniamo troppo. La
tiro su dai cardini con facilità e la lascio ricadere nella suite con un tonfo sordo. Le tende sono
tutte tirate, il salotto è illuminato solo dal riflesso bluastro del televisore.
«Entrate, qui dentro non c'è nessuno che possa farvi del male», dice una voce roca.
«È Sanderson», sussurra Walker.
Scambio una rapida occhiata con Nove. Lui fa spallucce e indica la porta. Entro per primo,
seguito da Nove e poi da Walker.
La prima cosa che noto è un odore di umido e muffa. La stanza puzza di marcio, con un sentore
di pomata al mentolo per i reumatismi. Sul tavolo nella zona pranzo della suite c'è una mappa di
New York con appunti scarabocchiati in lingua mogadorian. Accanto al tavolo c'è una sedia
rovesciata, come se qualcuno si fosse alzato in fretta. Ci sono anche dei cannoni mog appoggiati a
una parete insieme con alcuni zaini di tela scura pieni di attrezzature: vedo un computer portatile,
qualche cellulare e un grosso libro rilegato in pelle.
Nessuno di quegli oggetti m'interessa quanto il vecchio seduto sul bordo del letto
matrimoniale sfatto. Guarda la televisione attraverso la porta aperta della camera da letto: forse è
troppo debole per raggiungere il salotto della suite.
«Accidenti, amico, ma che hai?» chiede Nove quando vede Sanderson.
Negli ultimi giorni ho visto varie foto di Sanderson. La prima su Sono tra noi, in cui era un
vecchio con radi capelli bianchi, le guance cadenti e la pancia. Sul sito, in un articolo
scandalistico che non ho letto con troppa attenzione, Mark James accusava Sanderson di essersi
sottoposto a un trattamento mogadorian per fermare l'invecchiamento. La volta successiva che ho
visto Sanderson è stata nei documenti dell'agente Walker, in una foto che lo ritraeva a pranzo con
Setrákus Ra camuffato: lì Sanderson sprizzava salute da tutti i pori, i capelli brizzolati folti e
pettinati all'indietro: sembrava pronto a fare un po' di jogging dopo un pranzo a base d'insalata.
Il Sanderson che ho di fronte adesso non somiglia a nessuna di quelle due immagini. Io e Nove
entriamo nella camera per guardarlo più da vicino, Walker si ferma nell'altra stanza. Il segretario
della Difesa è un vecchietto fragile, col corpo ricurvo avvolto in un morbido accappatoio
dell'albergo. Il lato destro del viso è cadente e flaccido: la pelle intorno all'occhio si piega verso
il basso, il mento è indistinguibile sotto le pieghe di pelle. I capelli bianchi sono molto radi, il
riporto non riesce a nascondere una spruzzata di macchie d'età. Ci sorride, o forse è una smorfia
di dolore: i denti sono gialli, le gengive ritratte. Dalla scollatura dell'accappatoio e lungo gli
avambracci vedo alcune vene tinte di nero.
«Numero Quattro e Numero Nove.» Sanderson punta un dito tremante su di me e poi sul mio
compagno. Non sembra minimamente offeso dalla reazione disgustata di Nove, non sembra
neppure averla notata. «Le vostre foto arrivano sulla mia scrivania da anni. Scatti rubati da
telecamere di sicurezza e roba del genere. Praticamente vi ho visti crescere.» Sembra un nonnetto
confuso e perso nei ricordi.
Sono sbalordito: mi aspettavo un politico corrotto che avrebbe cercato di convertirmi al
progresso mogadorian. Invece quest'uomo sembra incapace di alzarsi dal letto, figurarsi tenere un
discorso di fronte all'ONU.
«E tu...» Sanderson alza la testa per guardare Walker. «Sei una dei miei, non è vero?»
«Agente speciale Walker», dice lei, entrando nella stanza. «Non sono una dei suoi. Ora sono
al servizio dell'umanità, signore.»
«Be', buono a sapersi.» Sanderson non sembra affatto interessato a lei. I suoi occhietti neri si
posano su me e Nove come se fossimo parenti raccolti intorno al suo letto di morte, e mi mettono
molto a disagio. Anche Nove si è chiuso in un silenzio imbarazzato.
Sul letto c'è un astuccio con alcune siringhe sottili piene di un liquido scuro che mi ricorda
vagamente il sangue dei piken.
Faccio un passo verso Sanderson. «Cosa le hanno fatto?»
«Niente che non avessi chiesto io», risponde, rattristato. «Vorrei che mi aveste trovato prima.
Ormai è troppo tardi. Anche se mi uccidete, non cambierà nulla.»
«Non siamo qui per ucciderla», ribatto. «Non so cosa le abbiano detto, con cosa le abbiano
riempito la mente e il corpo, ma non abbiamo finito di combattere.»
«Io sì.» Sanderson tira fuori dalla tasca dell'accappatoio una piccola pistola. Prima che io
riesca a fermarlo, se la porta alla tempia e preme il grilletto.
21

Se avessi avuto tempo per rifletterci, probabilmente non ci sarei riuscito.


C'è un millimetro di spazio tra la tempia di Bud Sanderson e l'estremità della canna della
pistola. È in quel millimetro che riesco con la telecinesi a fermare il proiettile. Lo sforzo mi
strappa un grugnito. Ogni muscolo del mio corpo si tende; stringo i pugni e arriccio le dita dei
piedi. È come se mi fossi tuffato con tutto me stesso per fermare quella pallottola.
Non mi capacito di avercela fatta. Non avevo mai usato i poteri con tanta precisione.
Sulla tempia di Sanderson si forma un'ustione a forma di anello, come il bordo della canna
dell'arma, ma per il resto la sua testa è intatta.
Soltanto quando lo sparo smette di rintronare nell'aria il segretario della Difesa si rende conto
che non è riuscito a suicidarsi. Mi guarda battendo le palpebre sugli occhi chiari, senza capire
bene perché sia ancora vivo. «Come...?»
Prima che Sanderson possa premere di nuovo il grilletto, Nove scatta in avanti e con uno
schiaffo sul polso gli fa cadere la pistola di mano. Espiro molto lentamente e permetto ai muscoli
di rilassarsi.
«Non è giusto», dice Sanderson, in tono accusatorio. Gli trema il labbro inferiore, si
massaggia il polso dove Nove l'ha colpito. «Lasciatemi morire.»
«Sì, perché l'avete fermato?» interviene Walker. «Ci avrebbe risolto tutti i problemi.»
«Non avrebbe risolto niente», dico, scoccandole un'occhiataccia mentre lascio ricadere il
proiettile sul letto sfatto.
«Ha ragione lui», dice Sanderson a Walker, incurvando le spalle. «Uccidermi non cambierà
nulla. Ma tenermi in vita è una crudeltà pura e semplice.»
«Non decidi tu quando chiamarti fuori, vecchio», gli dico. «Quando vinceremo questa guerra,
lasceremo decidere al popolo della Terra cosa farsene dei traditori.»
Sanderson fa una risata amara. «Ah, l'ottimismo della gioventù.»
Mi accovaccio per guardarlo in volto. «Sei ancora in tempo per redimerti. Per renderti utile.»
Sanderson alza un sopracciglio e sembra mettermi un po' più a fuoco. Ma poi gli si affloscia
di nuovo il lato destro della bocca e deve asciugarsi un filo di bava con la manica
dell'accappatoio. Distoglie lo sguardo con aria sconfitta. «No, non penso proprio.»
Nove sospira annoiato e raccoglie il kit di siringhe posato accanto al segretario. Esamina per
un momento il fluido nero all'interno e poi le sventola davanti alla faccia di Sanderson. «Cos'è
questa merda che ti danno? È in cambio di questa che hai barattato il pianeta?»
Sanderson guarda le fiale con desiderio ma poi le spinge via debolmente. «Mi hanno curato.
Anzi di più: mi hanno ringiovanito.»
«E guardati adesso. Fresco come una rosa, eh?»
«Il loro leader è in vita da secoli», ribatte Sanderson. «Ce l'ha promesso. Ci ha promesso
l'immortalità e il potere.»
«Ha mentito.»
Sanderson abbassa lo sguardo. «Sì.»
«Patetico», commenta Walker, ma senza più cattiveria nella voce. Anche lei, come me, si
aspettava un Sanderson più malvagio. Forse in passato era il burattinaio di una congiura
internazionale a sostegno dei Mog, ma ormai il progresso mogadorian lo ha ridotto l'ombra di se
stesso.
Questo non è il momento decisivo in cui Walker sperava. Temo che abbiamo sprecato il poco
tempo che avevamo.
Sanderson ignora gli altri e si rivolge direttamente a me: non so perché, forse perché l'ho
costretto a continuare a vivere. «Le meraviglie che ci hanno offerto... non capisci? Pensavo di
dare il via a un'età dell'oro per l'umanità. Come potevo dire di no? Dire di no a lui?»
«E ora devi continuare a prendere quella roba, giusto?» Guardo le siringhe che presumo
contengano qualcosa di simile all'innaturale intruglio genetico che i Mog usano per allevare i
soldati usa e getta. «Se smetti, ti dissolverai come uno di loro.»
«Tanto ormai è vecchio abbastanza per ridursi in polvere», borbotta Nove.
«Sono passati due giorni, e guardatemi...» Sanderson sembra una lumaca sciolta dal sale. «Mi
hanno usato. Continuavano a offrirmi trattamenti in cambio di favori. Ma voi mi avete liberato.
Ora posso finalmente morire.»
«Al diavolo, questo qui è una causa persa!» esclama Nove. «Dobbiamo trovare un altro
sistema.»
Inizio a perdere le speranze, ora che la pista di Walker sul segretario della Difesa ha fruttato
solo un vecchio con un piede nella fossa anziché aiutarci a scongiurare l'imminente invasione dei
Mogadorian. Ma non sono ancora pronto ad arrendermi. Questo relitto umano seduto di fronte a
me era un uomo potente: anzi lo è ancora, dato che i Mog gli hanno fornito una scorta. Dev'esserci
un modo per farlo guarire, per farlo tornare a combattere.
Una strana miscela di disperazione e intuito mi spinge ad attivare il Lumen. Non all'intensità
necessaria per produrre il fuoco, ma solo per far uscire dalla mano un raggio di luce pura.
Sanderson sgrana gli occhi e si tira indietro sul letto.
«Te l'ho già detto, non voglio farti del male», dico, piegandomi verso di lui. Illumino il lato
paralizzato e cadente del suo viso, per valutare bene la situazione: la pelle è grigiastra e sembra
quasi morta, ed è percorsa da sottili venature color cenere. Le particelle scure sotto la pelle
sembrano rifuggire dal Lumen, come se cercassero di rifugiarsi più in profondità. «Posso
guarirti», dico con convinzione. Non so se è vero, ma devo provarci.
«Tu... tu puoi rimediare a quello che mi hanno fatto?» chiede Sanderson, con una nota di
speranza nella voce roca.
«Posso riportarti a com'eri prima. Non meglio, come ti hanno promesso. Non più giovane.
Solo... come dovresti essere.»
«I vecchi invecchiano», interviene Nove. «Bisogna farsene una ragione.»
Sanderson mi guarda scettico. Le mie parole devono suonargli come quelle dei Mogadorian
anni fa, quando lo hanno convinto a schierarsi con loro. «Cosa vuoi in cambio?» chiede, come se
desse per scontato un prezzo alto.
«Niente», rispondo. «Puoi riprovare ad ammazzarti, per quello che me ne importa. O magari
puoi trovare quello che resta della tua coscienza e fare la cosa giusta. Dipende da te.» Gli premo
il palmo della mano sulla guancia.
Rabbrividisce quando sente scorrere in corpo l'energia calda della mia Eredità di guarigione.
Normalmente percepisco la ferita che si rimargina da sola, sento le cellule che si rigenerano
sotto le mie dita. Con Sanderson invece sento una forza che si oppone alla mia Eredità, come se
tra le cellule ci fossero interstizi bui in cui la mia luce sprofonda e si estingue lentamente. Sento
che Sanderson sta guarendo, ma molto lentamente: e devo concentrarmi molto più del solito.
A un certo punto qualcosa freme e scoppietta sotto la sua pelle, una delle vene scure diventa
bollente. Sanderson si ritrae di scatto dalle mie mani.
«Ti fa male?» chiedo, con la mano ancora accanto al suo viso.
«No... no, anzi mi sento meglio. Più... pulito. Continua.»
Continuo. Sento il fluido mogadorian rifugiarsi più a fondo, ritrarsi dal mio potere. Intensifico
l'energia, inseguo il fluido nelle vene di Sanderson. Mi accorgo di strizzare gli occhi per lo sforzo
e di avere la schiena madida di sudore freddo. Sono così concentrato nella lotta contro l'oscurità
che percepisco in Sanderson, che devo avere perso la cognizione del tempo o essere sprofondato
in una specie di trance.
Quando finalmente termino il lavoro, barcollo all'indietro e mi tremano le gambe; vado a
sbattere contro Sam. Non mi ero neppure accorto che fosse salito quassù. Ha in mano un telefono
-- l'ha rubato alla passante che abbiamo fatto cadere? -- con cui sta filmando la guarigione.
Si ferma quando vado a sbattere contro di lui. «È stato fantastico! Luccicavi, davvero. Ti senti
bene?»
Mi tiro in piedi con un certo sforzo; non voglio mostrarmi debole davanti a Walker e a
Sanderson, anche se mi sento esausto. «Sì, sto bene.»
Vedo Walker guardarmi con la stessa meraviglia con cui mi guardava il suo autista quando gli
ho curato la ferita al collo.
Sanderson, ancora seduto davanti a me, sembra sull'orlo delle lacrime. Le venature nere che
aveva sotto la pelle sono scomparse; il viso non è più cadente, i muscoli non sono atrofizzati. È
ancora un vecchio pieno di rughe, ma sembra un vecchio vero, non uno cui sia stata lentamente
risucchiata via la vita. Sembra di nuovo umano. «Grazie», mi dice, in un sussurro.
Nove viene a controllare che io stia bene, poi si gira verso Sanderson e fa uno sbuffo di
derisione. «Tutto questo non sarà servito a niente, nonno, se permetti a quei pallidi stronzi di
mettere piede sulla Terra.»
«Mi vergogno di ciò che ho fatto, di ciò che ero diventato...» Sanderson ha uno sguardo
supplicante e confuso. «Ma non capisco cosa vogliate che faccia. Come potrei fermarli?»
«Non ci aspettiamo che tu li fermi. Devi solo rallentarli. Devi aizzare la gente contro di loro»,
dico. «Domani, quando terrai il discorso all'ONU, devi dire chiaramente che la flotta mogadorian
non può avere il permesso di atterrare su questo pianeta.»
Sanderson mi guarda confuso, poi sposta lentamente lo sguardo su Walker. «È questo che ti ha
detto la tua talpa? È questo che pensi succederà domani?»
«So perfettamente cosa succederà», replica Walker, in tono non meno velenoso anche ora che
Sanderson sembra schierato dalla nostra parte. «Tu e gli altri leader che i Mog hanno corrotto
salirete sul palco e convincerete il mondo che dobbiamo convivere in pace.»
«Che in pratica significa arrenderci», precisa Nove.
«Sì, tutto ciò è in programma per domani, ma avete confuso l'ordine degli eventi», dichiara
Sanderson, e fa una risata cupa. «Secondo voi, io terrò un discorso e poi il loro Benevolo
Condottiero farà atterrare le astronavi? Pensate che gli importi qualcosa dei lenti ingranaggi della
politica umana? Non sta aspettando il permesso di nessuno. L'Assemblea generale dell'ONU si
riunirà per salvare vite umane, per tranquillizzare la popolazione spaventata, perché una
resistenza militare non ha speranze contro quei...» Gesticola animatamente in direzione della
porta, verso il televisore ancora acceso nell'altra stanza.
Lentamente, l'uno dopo l'altro ci giriamo e usciamo dalla camera da letto per andare nel
salotto della suite, attirati dal volto cinereo di un'annunciatrice della TV via cavo che,
balbettando incredula, cerca di spiegare che nel cielo di varie grandi città sono apparsi gli UFO.
Il segnale è disturbato, come se qualcuno stesse provocando interferenze di proposito.
«Apprendiamo ora che le astronavi sono state avvistate anche all'estero, in città come
Londra, Parigi e Shanghai», dice la giornalista leggendo dal teleprompter, con gli occhi
sbarrati. «Se vi siete appena sintonizzati, sta succedendo qualcosa che è letteralmente fuori dal
mondo: astronavi di origine aliena sono apparse nel cielo di Los Angeles, Washington...»
«Sta succedendo», mormora Sam, sgomento, guardandomi come in cerca di sostegno. «Le
astronavi da guerra stanno atterrando. Passano all'azione.»
Non so cosa dirgli. Sullo schermo appaiono le immagini sgranate di un'enorme astronave
mogadorian che si fa strada fra le nubi sopra Los Angeles. Le mie paure peggiori si stanno
avverando. La flotta mogadorian discende lentamente verso una Terra orribilmente impreparata.
Proprio com'è successo a Lorien.
«Ho cercato di dirvelo.» È la voce di Sanderson, dall'altra stanza. «È troppo tardi. Hanno già
vinto. Possiamo solo arrenderci.»
22

«Ne ho abbastanza di obbedire, di fare quello che mi dicono loro.»


Apro gli occhi di scatto. Dormivo profondamente: un sonno che non pensavo fosse possibile
nel mio gigantesco letto mogadorian con le sue strane lenzuola scivolose. Mi sto abituando fin
troppo bene alla vita a bordo dell'Anubis. Mi è sembrato di sentire una voce nel sonno, ma forse
era solo la mia immaginazione o il residuo di qualche sogno. Per non rischiare resto immobile e
faccio respiri regolari come se dormissi ancora. Se c'è un intruso, non voglio fargli sapere che
sono sveglia.
Dopo qualche secondo di silenzio, a parte l'onnipresente ronzio dei motori dell'astronave, una
voce riprende a parlare: «Una delle fazioni ci scarica su un pianeta sconosciuto e, in pratica, ci
costringe a lottare per salvarci la pelle. L'altra fazione parla di pace attraverso il progresso, ma
sono solo chiacchiere perché in realtà vogliono uccidere tutti quelli che gli si mettono tra i piedi».
È Cinque. È nella mia stanza. Non lo vedo al buio, lo sento soltanto borbottare sottovoce. Non
so neppure se sta parlando con me.
«Tutti volevano solo usarci», sibila. «Ma non glielo permetterò. Non combatterò la loro
stupida guerra.»
A questo punto si muove, e finalmente lo vedo. È seduto sul bordo del letto e ha la pelle scura
e liscia come le lenzuola, probabilmente perché le sta toccando e usa il suo Externa. Dunque ha
riacquistato il controllo delle Eredità. E mi fa molta paura, perché sembra un mostro uscito da
sotto il letto.
«Lo so che sei sveglia», mi dice senza girare la testa. «L'astronave ha iniziato la discesa, non
siamo più in orbita. Se vuoi scappare, è il momento giusto.»
Mi tiro a sedere sul letto, stringendomi le coperte al petto. Per un attimo valuto se sia il caso
di disarmarlo di nuovo, caricando le lenzuola col mio Dreynen. Ma cosa ci guadagnerei? Decido
di non farlo. Per ora.
«Pensavo che tu stessi dalla loro parte. Perché vuoi aiutarmi?» gli chiedo.
«Non sto dalla parte di nessuno. Ho chiuso con questa storia. Per un po', dopo che il mio
Cêpan è morto, sono rimasto solo. Non era così male, mi piacerebbe tornare a quella situazione.
Sai quante isolette ci sono nell'oceano? Ne sceglierò una e resterò lì finché non sarà tutto finito.
Non me ne frega niente di chi vince, purché mi lascino in pace.»
«Sei un codardo», ribatto, scrollando la testa. «Non ho intenzione di rintanarmi con te su
un'isola deserta.»
Cinque sbuffa in una risata. «Non ti avevo invitata, Ella. Io me ne vado da questa nave, e
pensavo che volessi venire anche tu. Tutto qui.»
Mi viene in mente che Setrákus Ra potrebbe averlo mandato da me per mettermi alla prova.
Ma poi ricordo come Cinque si è comportato nel nostro incontro precedente e decido di rischiare,
di credere che sia sincero. Salto giù dal letto e infilo le pantofole mogadorian dalla suola sottile.
«Okay, qual è il tuo piano?»
Cinque si alza, la sua pelle torna normale. Quando le luci della stanza si accendono in
automatico, lo vedo finalmente in faccia. Si è cambiato le bende sull'occhio, non sono più
imbrattate di sangue, ma non si è ancora fatto curare. Nell'occhio sano ha una scintilla, come se
non vedesse l'ora di cacciarsi in qualche guaio. Inizio a dubitare della mia decisione di allearmi
con lui.
«Aprirò una delle camere di compensazione e salterò fuori», dice, esponendomi il suo
brillante piano.
«Buon per te, ma tu sai volare. Io cosa dovrei fare, invece?»
Infila una mano in tasca e mi lancia un oggetto rotondo. Lo prendo al volo: è un sasso. Lo
riconosco, era nello scrigno di John.
«Pietra Xitharis», spiega. «L'ho... presa in prestito dai nostri amici.»
«L'hai rubata.»
Cinque fa spallucce. «L'ho caricata con la mia Eredità di volo. Usala per volare via e salvare
il pianeta.»
Nascondo la Xitharis nel vestito. «Tutto qui? Pensi che possiamo andarcene da qui come se
niente fosse?»
Non porta scarpe né calze, probabilmente perché vuole che i suoi piedi siano in contatto
costante coi pannelli metallici dell'Anubis. Inoltre ha uno strano oggetto legato all'avambraccio,
sembra un'arma. «Non riusciranno a fermarmi», dice con cupa determinazione.
Non è proprio confortante, ma è l'unica speranza che ho. «Va bene, fa' strada.»
La porta della stanza si apre, scorrendo nel muro. Cinque tira fuori la testa e si assicura di
avere via libera, poi esce in corridoio e mi fa cenno di seguirlo. Percorriamo a passo sostenuto i
labirintici corridoi dell'Anubis.
«Non dare nell'occhio», mi dice a voce bassa. «Ci sono guardie ovunque. Ma hanno anche
paura di noi. Di te, in particolare: hanno ordine di trattarti come un membro della famiglia reale.
Non interferiranno, purché non ci comportiamo in modo sospetto. E, anche se pensano che ci sia
sotto qualcosa, prima che uno di loro trovi il coraggio di dirlo al Benevolo Condottiero noi ce ne
saremo già andati...» Parla in fretta, quindi dev'essere nervoso.
Senza rifletterci -- perché se ci riflettessi forse sarei troppo disgustata -- lo prendo per mano.
«Siamo solo due ragazzini appena fidanzati, che iniziano a conoscersi», gli dico. «Stiamo facendo
una bella passeggiata nei corridoi di un'enorme astronave da guerra.»
La sua mano è sudata e fredda. Cerca di tirarla via, perché il suo istinto è di non farsi toccare,
ma dopo un momento si calma e la sua mano resta flaccida nella mia. «Fidanzati?» bofonchia.
«Setrákus Ra vuole che io e te ci sposiamo?»
«Così ha detto.»
«Dice un sacco di cose.» Cinque è paonazzo, rosso fino all'attaccatura dei capelli. Non so se
sia imbarazzato o arrabbiato, oppure una combinazione delle due cose. «Non ho mai detto che mi
stava bene. Sei una bambina.»
«Be', naturalmente neanch'io ho detto di sì. Sei un disgustoso assassino e un tradit...»
«Sta' zitta», sibila.
Per un attimo credo di averlo offeso davvero, ma poi mi accorgo che stiamo passando davanti
alla porta aperta del ponte panoramico. Non riesco a non rallentare il passo.
Lo spazio buio e vuoto fuori dalle vetrate è stato sostituito dalla familiare immagine azzurra
della Terra. L'Anubis è ancora in fase di discesa, ma sono già visibili i primi segni della civiltà:
strade che corrono tra campi verdi, schiere di casette nei sobborghi delle città. Decine di
Mogadorian sono riunite a guardare la Terra che si avvicina, e nell'aria c'è un certo nervosismo:
parlottano tutti tra loro, probabilmente si stanno già spartendo gli appezzamenti di terreno.
Cinque mi fa svoltare l'angolo. Andiamo a sbattere contro due guerrieri mog che corrono
verso il ponte panoramico.
Il più vicino dei due piega un angolo della bocca in un ghigno sdegnoso. «Che state facendo,
voi due?»
Per tutta risposta, drizzo le spalle per sembrare una vera principessa e scruto con freddezza il
Mog troppo curioso. Smette di ghignare e abbassa gli occhi a terra, perché si è ricordato che non
sono una Loric qualunque ma una parente del suo Benevolo Condottiero. Inizia a mormorare
qualche parola di scuse, ma un sibilo metallico lo interrompe.
Una lama sottile come un ago fuoriesce dall'imbragatura di cuoio sull'avambraccio di Cinque,
che in un istante infilza la fronte del primo Mog tramutandolo istantaneamente in cenere. L'altro
Mog sbarra gli occhi per il terrore e cerca di fuggire. Sul viso di Cinque si disegna un sorriso
soddisfatto. Prima che il Mog possa fare più di due passi nel corridoio, il braccio libero di
Cinque assume una consistenza gommosa e si allunga a dismisura, girando intorno al collo del
Mog e trascinandolo all'indietro per poi finirlo con la lama.
Il tutto si svolge in una decina di secondi.
«E meno male che non dovevamo dare nell'occhio», bisbiglio, consapevole che non siamo
lontani dall'affollato ponte panoramico.
Cinque mi guarda battendo le palpebre, come se non sapesse cosa gli è preso. Rinfodera
attentamente la lama. «Ho perso la calma.» Si strofina nervosamente i capelli rapati quasi a zero.
«Tanto ormai non importa, siamo quasi arrivati.»
Guardo il pazzo furioso che ho di fronte. Fa lunghi respiri, gli tremano le spalle, stringe i
pugni per l'impazienza. Pochi minuti fa sembrava quasi fragile, mentre borbottava nel buio della
mia stanza. È a pezzi, è crollato definitivamente: per reprimere il moto di compassione che provo
per lui devo rammentare a me stessa che ha ucciso Otto. Compassione, sì, ma ho anche paura di
lui. Ha perso il controllo senza essere stato minimamente provocato: sembrava quasi felice di
uccidere quei Mog.
Questo traditore pazzo, violento e codardo è la mia unica speranza concreta di andarmene
dall'Anubis.
Scrollo la testa e sospiro. «Andiamo.»
Cinque annuisce e ci rimettiamo a correre, senza più badare a tenerci per mano e puntando
dritti a destinazione. Vedo che stringe e allenta i pugni. Non ha niente nelle mani.
«Come sei riuscito a fare quella cosa col braccio?» gli chiedo, ripensando a quelle sfere di
gomma e d'acciaio che ha usato per cambiare pelle nella sala conferenze della casa di Nove, a
Chicago. «Pensavo che tu dovessi toccare qualcosa...»
Gira l'occhio buono verso di me e si tocca le bende fresche. «Perdere un occhio mi ha dato
nuove... be', possibilità di stoccaggio.»
Rabbrividisco, immaginando la sfera di gomma infilata nell'orbita. «Come hai fatto a
perderlo?»
«Me l'ero meritato», risponde, senza rancore.
«Non ne dubito.»
Svoltiamo un altro angolo ed entriamo nell'enorme stazione d'attracco: il corridoio si allarga,
il soffitto si alza. Dagli oblò vedo il cielo azzurro e sgombro; la luce del sole passa tra le decine
di navicelle da ricognizione ancorate ai moli. Per il resto, la stazione è vuota. I meccanici e i
tecnici devono essere sul ponte panoramico, ad ammirare il mondo che progettano di conquistare.
Siamo così vicini...
«Aspetta. Se apriamo la camera di compensazione non verremo risucchiati fuori?» chiedo.
«Ora siamo nell'atmosfera, non nello spazio», replica Cinque, impaziente. Si china su una
console per esaminare l'interfaccia. «Ci sarà vento. Non vorrai tirarti indietro perché hai paura,
eh?»
«No.» Mi guardo intorno nella stazione d'attracco. «Pensi che potremmo far saltare in aria un
po' di questa roba? Magari abbattere l'Anubis prima che riesca a fare qualcosa di brutto?
«Hai un'Eredità che ti permette di far esplodere le cose?»
«No.»
«Nemmeno io. Sai costruire una bomba?»
«No.»
«Allora dovremo accontentarci di fuggire.» Cinque preme un pulsante sulla console. «Questo
li rallenterà», dice, riferendosi a inseguitori che non abbiamo ancora.
Una spessa porta di metallo si chiude rumorosamente dietro di noi. È il portellone della
camera di compensazione, abbastanza resistente per proteggere l'astronave dal vuoto interstellare.
Ci isola completamente dal resto della nave.
«Buona idea», ammetto mentre sbircio dal piccolo oblò del portellone, aspettandomi di
vedere da un momento all'altro i Mog lanciati all'inseguimento.
Cinque preme qualche altro tasto e, con un sibilo idraulico e una ventata d'aria fredda, i
portelloni sul fondo della stazione d'attracco si aprono. Quando il vento mi sferza il viso, tiro un
gran sospiro di sollievo. Prendo la pietra Xitharis e lentamente m'incammino verso i portelloni
aperti, chiedendomi cosa proverò tuffandomi in quel cielo azzurro. Sarà molto meglio che restare
sull'Anubis, questo è certo.
«Allora, se stringo questa pietra riuscirò a volare?» chiedo.
«Dovrebbe funzionare così. Immagina che il tuo corpo sia leggero come una piuma, che
galleggi nell'aria. È così che ho imparato a usare la mia Eredità.»
Guardo il cielo sgombro e azzurro che mi aspetta. «E se non funziona?»
Cinque sospira e viene verso di me. «Coraggio, saltiamo insieme.»
«Non andrete da nessuna parte.»
Setrákus Ra era nascosto tra due navicelle. Non so se fosse lì fin dall'inizio ad aspettarci o se
si è teletrasportato qui in qualche modo. Ma non importa: ci ha trovati. Ancora in forma umana, si
piazza tra noi e i portelloni aperti: il vento gli scompiglia leggermente i bei capelli castani, gli
solleva i risvolti della giacca. Stringe in una mano il bastone dorato, l'Occhio di Thaloc.
«Togliti dai piedi, vecchio», ringhia Cinque. Cerca di fare il duro, ma non riesce quasi a
guardare Setrákus negli occhi. Mi posa una mano sulla spalla e cerca di spingermi indietro per
farmi scudo.
Me lo scrollo di dosso: affronteremo Setrákus Ra fianco a fianco.
«Non ne ho la minima intenzione», replica Setrákus, con voce carica di disprezzo e delusione.
«Mi aspettavo un comportamento del genere da te, Ella: ti sei unita a noi solo di recente e ci vorrà
tempo per disfare il lavaggio del cervello che i Garde ti hanno fatto. Ma, Cinque, figliolo, dopo
tutto quello che ho fatto per te...»
«Sta' zitto», dice Cinque a bassa voce, quasi in tono di supplica. «Parli tanto, ma non dici
niente di vero!»
«La mia è l'unica verità», ribatte severo Setrákus. «Verrai punito per la tua insolenza.»
Cinque non riesce ancora a guardarlo in faccia, ma le sue spalle si alzano e si abbassano
rapidamente come quand'eravamo nel corridoio coi guerrieri mog. Gli risale in petto un ringhio
basso, che mi ricorda una teiera in ebollizione. Faccio un piccolo passo di lato, temendo che
Cinque possa letteralmente esplodere.
«Basta con queste sciocchezze, bambini.»
La voce di Setrákus Ra è parzialmente coperta dall'urlo rabbioso che prorompe dai polmoni
di Cinque, che parte all'attacco.
All'inizio sento i suoi piedi nudi sbattere contro il ponte di metallo. Ma quando si avvicina a
Setrákus il rumore diventa quello del metallo sul metallo: l'Externa gli ha trasformato la pelle
nello stesso materiale del pavimento. Setrákus Ra si limita a inarcare un sopracciglio, per nulla
impressionato o intimorito.
Non resto a guardare con le mani in mano: mentre Cinque attacca, mi metto a correre verso
uno dei carrelli per attrezzi. Se riesco a prendere una chiave inglese o un altro oggetto in cui
infondere il mio Dreynen, forse posso rifare quello che ho fatto durante la lezione di ieri. Ma
stavolta il mio bersaglio sarà Setrákus Ra.
Il mio piano -- e quello di Cinque, qualunque fosse -- viene sventato quando Setrákus spazza
l'aria con un braccio tenuto in orizzontale. Un'ondata di forza telecinetica c'investe, sollevandomi
da terra e scaraventando gli attrezzi contro la parete di fondo. La telecinesi è così potente che
qualche navicella inizia a ondeggiare cigolando.
Atterro rovinosamente a pancia in sotto e subito mi rotolo a terra per ritrovare l'orientamento.
Anche Cinque è stato sbalzato in aria, ma ha attivato l'Eredità di volo e ora è sospeso a pochi
metri da Setrákus Ra. La sua pelle non ha più il color grigio opaco del pavimento: ora è cromata e
lucente, come il cuscinetto metallico che porta sempre con sé: deve avere infilato anche quello
nell'orbita dell'occhio.
«Fermati subito», ordina Setrákus Ra.
Ma Cinque si avventa su di lui sferrando pugni, con l'intenzione di spaccargli quella bella
faccia umana. Setrákus Ra para facilmente i colpi col bastone, però la furia di Cinque lo fa
indietreggiare verso i portelloni aperti della stazione d'attracco.
Vedendoli impegnati a combattere, mi rendo conto di avere una via d'uscita: che si ammazzino
pure a vicenda, io devo solo tuffarmi nel cielo azzurro e sperare che la Xitharis faccia quello che
Cinque ha detto.
Ma proprio quando inizio a muovermi vedo lampeggiare gli occhi di Setrákus Ra e
percepisco un campo invisibile di energia passarmi sopra: sembra quasi che la pressione dell'aria
si sia alterata. Cinque riacquista la pelle normale proprio mentre sta sferrando un pugno. Quando
la sua mano si scontra col bastone di Setrákus Ra, precipita con un grido.
Sta andando proprio come alla base di Dulce: Setrákus Ra ha generato un campo di forza che
annulla l'effetto delle Eredità. È un Aeternus come me, e ora so che abbiamo in comune anche il
Dreynen. La sua tecnica è diversa da quella che sono riuscita a imparare io: è come se avesse
caricato di energia le molecole dell'aria intorno a sé creando una bolla entro cui le Eredità
diventano inutilizzabili.
Ma su di me non funziona. Sento ancora la forza del Dreynen dentro di me e so che, se volessi,
potrei usare l'Aeternum. Non so come sia possibile, ma sono immune al Dreynen di Setrákus Ra.
Sarà perché siamo parenti? Oppure una delle mie Eredità consiste nell'immunità ai poteri di
Setrákus? Ha detto un mucchio di fesserie sul fatto che le nostre Eredità si presentano in modo
casuale, e che Lorien non sarebbe altro che caos. E se invece si sbaglia, e le mie Eredità sono
state appositamente selezionate per distruggerlo? E soprattutto: sa che il suo potere non ha effetto
su di me?
Non mi presta attenzione, è concentrato su Cinque. So che dovrei fuggire, ma non riesco a
muovermi. Nonostante tutto quello che ha fatto, posso davvero lasciare Cinque nelle sue grinfie?
È in ginocchio davanti a Setrákus Ra, si preme sullo stomaco la mano ferita.
La forma umana di Setrákus è cresciuta di una ventina di centimetri: ora è più alto e più largo,
gonfio in modo quasi grottesco. Abbassa una delle enormi mani e afferra la testa di Cinque.
«Dovevi solo obbedire agli ordini», sibila. Gli spinge la testa all'indietro per guardarlo in faccia.
«Saremmo potuti entrare insieme nel Santuario, se soltanto mi avessi portato quel maledetto
ciondolo. E ora mi fai questo: osi alzare la mano contro il tuo Benevolo Condottiero. Mi disgusti,
ragazzo.»
Non so cosa intenda con «Santuario», ma memorizzo quella parola. Faccio un passo verso di
loro, ancora indecisa se fuggire o aiutare Cinque, e incerta su come me la caverei in uno scontro
diretto col leader dei Mogadorian.
Cinque ha la testa riversa all'indietro, quindi può solo gorgogliare in risposta al rimprovero.
«Avrei dovuto sapere che era impossibile redimere un Garde», continua Setrákus Ra. «Sei il
mio peggior insuccesso. Ma sarai anche l'ultimo.» Gli stringe più forte il cranio, e Cinque grida.
Mi si rivolta lo stomaco quando capisco che vuole letteralmente schiacciargli la testa: non
posso permettere che succeda. Con tutta la forza telecinetica di cui sono capace, spingo Setrákus
Ra verso i portelloni aperti della stazione d'attracco.
Lui sgrana gli occhi per la sorpresa e barcolla all'indietro, l'aria aperta gli strattona il
completo elegante che ora sta per strapparsi, dopo la sua mostruosa crescita. Perde la presa sulla
testa di Cinque, le sue unghie gli graffiano lo scalpo. Riesce a fermarsi prima che io possa
spingerlo fuori dall'Anubis, e sento la sua telecinesi lottare contro la mia.
«Ella, come...?» inizia a chiedere, con stupore misto a frustrazione.
Ma poi Cinque gli si avventa contro con la lama estratta dall'avambraccio. «Muori!» grida.
Setrákus Ra cerca di farsi da parte, ma non riesce a schivarlo completamente. La lama gli
penetra nella spalla.
Lancio un grido: ho sentito una fitta di dolore. Mi si apre uno squarcio sulla spalla, il sangue
caldo mi cola sul petto. Barcollo e mi appoggio a una navicella, mi stringo la spalla ferita, cerco
di fermare il sangue. Sono ferita proprio nel punto in cui Cinque ha pugnalato Setrákus.
Cinque si ritrae di scatto da Setrákus, con gli occhi sbarrati.
Il Mogadorian sembra incolume: sorride mentre Cinque si gira a guardare me. «Guarda
cos'hai combinato!» esclama.
L'incantesimo mogadorian, mi dico, mentre mi sento svenire. Qualsiasi ferita inferta a
Setrákus Ra si trasferisce su di me.
Cinque è sconcertato. Prima che possa reagire, Setrákus Ra lo afferra per la gola e gli fa
sbattere ripetutamente la nuca sullo scafo della navicella più vicina, fino a stordirlo. Poi lo lancia
fuori dai portelloni aperti dell'Anubis.
Cerco di raggiungere Cinque con la telecinesi, ma sono troppo debole. Il suo corpo precipita
e sparisce alla vista.
Mi accascio a terra, il sangue mi scorre tra le dita. Non ho più forze. Non fuggirò dall'Anubis,
oggi. Mio nonno ha vinto.
Setrákus Ra incombe su di me nella sua forma umana, ma col completo strappato. Scuote la
testa, col sorriso di un maestro deluso. «Vieni, Ella, dobbiamo lasciarci alle spalle questo
episodio.»
Gli mostro la mano coperta di sangue. «Perché mi hai fatto questo?»
«Era l'unico modo per farti capire che il progresso mogadorian è più importante della tua
vita.» Setrákus Ra mi prende in braccio. Mentre inizio a perdere conoscenza, bisbiglia: «Non
disobbedirai più al Benevolo Condottiero, giusto?»
23

La rotta di volo prevista da Adam ci porterà lungo la costa atlantica sino alla Florida, poi a
ovest sopra il golfo e infine sulla punta sudorientale del Messico. Mantenendo lo skimmer alla
velocità massima e restando abbastanza bassi per evitare d'incrociare altri velivoli, dovrebbero
volerci circa quattro ore.
Viaggiamo in silenzio. Mi appoggio allo schienale e guardo sotto di noi le insenature e le
rientranze della costa. Adam non dice granché: tiene lo sguardo fisso in avanti, ogni tanto
modifica la rotta quando i sistemi indicano la presenza di un altro velivolo. Dust sonnecchia ai
suoi piedi. Quanto a Marina, sta impettita come al solito: la sua paura di volare non è migliorata
con un Mogadorian come pilota.
«Puoi riposarti per qualche ora», dice Adam, in tono incerto. Stavo già per appisolarmi,
quindi evidentemente parlava a Marina, che siede a schiena diritta ed emana una leggera aura
fredda. Adam deve averla vista con la coda dell'occhio.
Marina sembra rifletterci su per un momento e poi si sporge in avanti fin quasi a posare la
testa sulla spalla di Adam. Lui inarca un sopracciglio, ma lascia le mani sul volante.
«L'ultima volta che io e Sei abbiamo viaggiato verso sud è stata meno di una settimana fa»,
dice Marina, con voce misurata. «Abbiamo scoperto troppo tardi che un traditore viaggiava con
noi. Ho finito per pugnalarlo all'occhio. Perché ho avuto pietà di lui.»
«So cos'è successo in Florida. Perché me lo stai raccontando?» chiede Adam.
«Perché voglio che tu sappia cosa succederà se ci tradisci», risponde Marina, tirandosi
indietro. «E non dirmi di riposare.»
Adam mi guarda come a chiedere aiuto, ma mi stringo nelle spalle e mi volto. Marina non ha
ancora deciso quanto vuole essere arrabbiata, e io non ho intenzione di mettermi in mezzo. E poi
penso che instillare un po' di paura nel nostro compagno di viaggio mog non sia una pessima idea.
Immagino che Adam voglia chiudere lì la conversazione, ma dopo qualche minuto riprende a
parlare: «Ieri, per la prima volta, ho impugnato una spada che è nella mia famiglia da generazioni.
Finora non mi era mai stato permesso di toccarla, solo di ammirarla da lontano. Apparteneva a
mio padre, il generale Andrakkus Sutekh. Stava combattendo contro il Numero Quattro... contro
John. Ho infilzato mio padre con quella spada, alla schiena, e l'ho ucciso». Lo dice in tono
inespressivo, come se leggesse un notiziario.
Lo guardo battendo le palpebre, poi mi giro a guardare Marina. Ha gli occhi fissi a terra, è
immersa nei pensieri. Mentre il freddo che emana da lei inizia ad attenuarsi, Dust il lupo si alza e
va a posarle la testa in grembo.
«Bella storia», dico a Adam quando diventa dolorosamente chiaro che qualcuno deve
spezzare quel silenzio. «Non avevo mai conosciuto nessuno che andasse in giro con una spada.»
«Bella...» ripete Adam perplesso. «Quello che voglio dire è che non avete motivo di dubitare
della mia lealtà.»
«Mi dispiace che tu abbia dovuto fare questo a tuo padre», dice Marina, dopo un momento.
«Non lo sapevo.»
«A me non dispiace, ma grazie delle condoglianze», replica Adam, brusco.
Per sciogliere la tensione inizio a toccare qualche manopola sulla plancia di comando dello
skimmer. «C'è una radio, su questo coso? O vogliamo raccontarci storie macabre per tutto il
viaggio?»
Adam rimette subito a posto tutte le manopole che ho toccato. Mi sembra di vederlo accennare
un sorriso, probabilmente è sollevato all'idea che le minacce di morte siano terminate. «Non c'è
radio. Posso canticchiare qualche classico mogadorian, se vuoi.»
«Bleah, che schifo», ribatto, e sento Marina ridacchiare.
Mi accorgo che Adam mi guarda in modo strano: non avevo mai visto il suo viso spigoloso
così espressivo, senza la solita impassibilità di cui si fa scudo. Per un momento sembra quasi a
suo agio quassù, in compagnia di due nemiche mortali del suo popolo.
«Che c'è?» gli chiedo.
Lui distoglie subito lo sguardo: capisco che aveva la mente altrove. «Niente», mormora,
pensieroso. «Per un attimo mi hai ricordato una persona che conoscevo.»
Il resto del viaggio prosegue senza avvenimenti di rilievo. Riesco ad appisolarmi un paio di
volte, ma mai a lungo. Con Dust accoccolato sulle ginocchia, sembra che Marina riesca
finalmente a rilassarsi. Adam non intona canti mogadorian.
Stiamo sorvolando la foresta tropicale di Campeche, in Messico: manca solo un'altra ora al
Santuario loric, che dovrebbe essere nascosto tra le rovine di un'antica città maya, quando una
luce rossa inizia a lampeggiare sul parabrezza dello skimmer. La noto solo quando vedo Adam
irrigidirsi.
«Porca miseria!» esclama, e immediatamente inizia a premere una serie di pulsanti sul
pannello di controllo.
«Che c'è?»
«Qualcuno ci ha presi di mira.»
Le telecamere montate sullo skimmer c'inviano immagini da sotto e da dietro il velivolo: non
vedo altro che un limpido cielo azzurro e le fitte chiome degli alberi sotto di noi.
«Da dove vengono?» chiede Marina, scrutando fuori dal finestrino.
«Da lì.» Adam punta un dito sullo schermo: una navicella da ricognizione mogadorian uguale
alla nostra ci si avvicina lentamente dal basso. Il tettuccio è dipinto in sfumature di verde, per
camuffarsi nella foresta da cui proviene.
«Possiamo seminarli?»
«Ci posso provare», risponde Adam, tirando verso il basso la leva dell'acceleratore.
«Oppure possiamo abbatterli», suggerisco.
Mentre acceleriamo, alla luce rossa che lampeggia sulla console se ne aggiungono altre tre.
Due skimmer identici spuntano dalla giungla davanti a noi, un altro ci si affianca. Il primo ci sta
ancora alle calcagna. Circondato, Adam è costretto a rallentare. Gli altri skimmer ci accerchiano.
«Anche loro hanno i cannoni?» chiede Marina.
«Sì», risponde Adam. «Siamo in netto svantaggio.»
«Non del tutto», dico, e mi concentro sul cielo. Lentamente l'azzurro inizia a scurirsi, le nubi
che ho evocato si addensano.
«Aspetta, meglio non fargli sapere che siete entrambe a bordo», avverte Adam.
«Sei sicuro che non ci abbatteranno?»
«Al novanta per cento.»
Smetto di evocare la tempesta. Le nubi si disperdono in cielo.
Un istante dopo, dalla plancia di comando risuona un allarme.
«Ci stanno chiamando, vogliono comunicare», dice Adam.
Mi viene in mente un altro piano, che non richiede di combattere a mezz'aria e in inferiorità
numerica. «Hai detto che tuo padre era un generale, giusto? Allora non puoi... non so, far valere la
tua autorità, o qualcosa del genere?»
Adam ci riflette, ma l'allarme suona di nuovo. «Non sono molto benvoluto dal mio popolo.
Potrebbero non darmi retta.»
«Be', è un rischio. La cosa peggiore che può succedere è che ti prendano prigioniero, no?»
Adam fa una smorfia. «Sì.»
«Perciò lasciamo che ci accompagnino a destinazione. Non preoccuparti, ti verremo a
riprendere.»
«Be', qualcosa devi fare», gli dice Marina, indicando il parabrezza: la navicella davanti a
noi, impaziente o sospettosa, ha puntato su di noi il cannone.
«Va bene, diventate invisibili», dice Adam.
Mi giro sul sedile e prendo Marina per mano, facendo scomparire me e lei. Dust percepisce il
pericolo, si trasforma in un topolino grigio e si rifugia sotto il sedile.
Adam preme un pulsante sulla console: si accende uno schermo.
Un ricognitore mogadorian dall'aspetto minaccioso, con occhi vacui e troppo vicini tra loro,
denti corti e appuntiti, fissa Adam con aria di profonda irritazione e bercia qualcosa in lingua
mogadorian.
«Il protocollo d'immersione prescrive di parlare in inglese quando siamo sulla Terra, brutto
avanzo di laboratorio che non sei altro», ribatte gelido Adam. Si tira a sedere diritto, e
all'improvviso ha un'aria così strafottente che mi viene voglia di prenderlo a schiaffi. «Stai
parlando con Adamus Sutekh, figlio purosangue del generale Andrakkus Sutekh. Sono stato inviato
da mio padre in una missione urgente. Conducimi immediatamente al sito loric.»
Devo ammettere che è un ottimo bugiardo.
L'espressione del ricognitore passa dall'irritazione alla perplessità e poi alla paura.
«Sissignore, subito.»
L'uno dopo l'altro, gli skimmer si allontanano da noi e ci lasciano tornare in rotta.
«Ha funzionato», osserva Marina, un po' sorpresa, lasciandomi andare la mano.
«Per ora», dice Adam, incerto. «Ma era soltanto una recluta. Con gli ufficiali sarà più dura.»
«Non puoi dire semplicemente che tuo padre ti ha mandato qui per controllare i loro
progressi?»
«Ipotizzando che non sappiano che ho tradito il nostro popolo e che mio padre mi ha
praticamente condannato a morte? Sì, potrebbe funzionare.»
«Devi solo distrarli per un po'», dico. «Finché io e Marina non scopriamo come entrare nel
Santuario.»
«Eccolo lì.» Marina indica fuori dal finestrino, mentre lo skimmer inizia la discesa verso
Calakmul.
Sotto di noi ci sono alcuni edifici piccoli e antichi, tutti in pietra calcarea reduce da secoli di
erosione e di tentativi della giungla di riappropriarsene. Un'enorme piramide torreggia sugli altri
edifici: costruito sulla sommità di un colle, il tempio è massiccio, tutto a gradoni ripidi e
malandati. Non vedo bene da quella distanza, ma mi sembra che in cima ci sia una specie di porta.
Faccio un verso di disappunto. «Scommetto che dobbiamo arrampicarci su quel coso.»
«È il Santuario, ne sono sicura», replica Marina.
«Ne sono sicuri anche i miei simili, a quanto pare», dice Adam.
I Mogadorian hanno diboscato la giungla in un anello perfetto intorno al Santuario, abbattendo
tutti gli alberi: sullo spiazzo è parcheggiata un'intera flotta di navicelle da ricognizione. Lì
accanto vedo una serie di tende in cui devono essere accampati i Mog. Ci sono anche un paio di
grossi lanciamissili e cannoni, tutti puntati sul tempio, eppure la struttura sembra incolume.
Stranamente, alla base della piramide cresce ancora qualche albero; i folti rampicanti che si
aggrappano alle pareti sono in netto contrasto con l'ordine assoluto che regna nell'anello di terra
diboscato dai Mog, dove tutto ciò che era naturale è stato spazzato via.
«È come se qualcosa avesse impedito loro di avvicinarsi», commenta Marina.
Annuisco. «Malcolm ha detto che solo i Garde possono entrare.»
Le navicelle che ci hanno scortato atterrano sulla pista di fortuna, Adam si ferma a pochi metri
da loro. Il Santuario incombe in lontananza: ci separano dal tempio solo una striscia di terra e un
piccolo esercito di Mogadorian che ha iniziato a radunarsi sulla pista, imbracciando i fucili.
«Un bel comitato di accoglienza», dico.
Guardando i propri simili sullo schermo, Adam deglutisce con forza e si toglie la cintura di
sicurezza. «Andrò io per primo. Troverò un modo per farli allontanare. Voi entrate nel Santuario.»
«Non mi piace, ce ne sono troppi», dice Marina.
«Andrà tutto bene. Entrate e fate quello che siete venute a fare», ribatte Adam. Poi apre il
portellone dell'abitacolo e salta sulla carena dello skimmer. Lì sotto lo aspetta una trentina di
Mog; altri stanno uscendo dalle tende.
Io e Marina ci accovacciamo dentro lo skimmer, con le mani vicine nel caso dovessimo
diventare invisibili.
«Chi comanda, qui?» grida Adam, drizzando le spalle e dandosi arie da purosangue.
Si fa avanti una Mog alta, con un soprabito nero senza maniche e due grosse trecce che
partono dalle tempie e girano intorno alla testa, circondando i tradizionali tatuaggi mog. Ha le
mani bendate, come se si fosse ferita o ustionata di recente. «Sono Phiri Dun-Ra, figlia
purosangue del benemerito Magoth Dun-Ra.» È impettita e fiera quasi quanto Adam. «Cosa ci fai
qui, Sutekh?»
Adam salta giù dalla nostra navicella e scuote la testa per scostare i capelli dagli occhi. «Ho
ordine dal Benevolo Condottiero in persona d'ispezionare questo sito per prepararlo al suo
arrivo.»
Un fremito serpeggia tra i Mog quando Adam nomina Setrákus Ra. Molti di loro si scambiano
sguardi nervosi.
Phiri Dun-Ra resta impassibile. Avanza a lunghi passi, lasciando dondolare il fucile lungo il
fianco. I movimenti da predatore, la scintilla negli occhi che sembra promettere guai mi fanno
stringere lo stomaco. È molto più intelligente degli altri guerrieri mog che ho conosciuto. «Ah, il
Benevolo Condottiero. Ma certo.» Indica il tempio in lontananza. «Da dove volete iniziare
l'ispezione, signore?»
Adam fa un passo verso l'accampamento mog e apre la bocca per parlare.
Con un gesto fulmineo, Phiri lo colpisce sulla bocca col calcio del fucile facendolo
stramazzare a terra. «Che ne dici d'ispezionare l'interno di una cella, traditore?» ringhia, in piedi
sopra di lui, puntandogli il fucile in faccia.
24

Allungo la mano verso Marina, che l'afferra all'istante. Invisibili, scendiamo con cautela dalla
navicella, sincronizzando i movimenti. Dietro di noi sento un improvviso battito d'ali. Dust spicca
il volo in forma di uccello tropicale, con ali punteggiate di grigio. Nessuno dei Mog lo vede
uscire dall'abitacolo e non sentono me e Marina saltare a terra: sono troppo distratti dallo
spettacolo che Phiri Dun-Ra sta offrendo con Adam.
«Conosco tuo padre, Sutekh», sta dicendo Phiri, a voce alta per farsi sentire dai Mog riuniti in
un semicerchio intorno a loro due. «È un bastardo, ma almeno è nobile. Crede nel progresso
mogadorian.»
Se Adam riesce a rispondere, non lo sento sopra i mormorii di approvazione degli altri Mog.
Lo intravedo tra la folla: è accasciato ai piedi di Phiri, cerca di rialzarsi, ma probabilmente è
ancora intontito.
«Anzi è stato proprio tuo padre ad assegnarmi questo incarico», continua Phiri. «Ero
responsabile di una squadra che non è riuscita a impedire ai Garde di fuggire dalla roccaforte in
West Virginia. La punizione era la morte o un viaggio fin qui. Non c'era molto da scegliere,
insomma. In caso di fallimento, verremo giustiziati tutti comunque. L'unica possibilità di
sopravvivere è conquistare il Santuario.» Ha pronunciato quella parola in tono spregiativo,
alzando le mani in un gesto teatrale e sarcastico per indicare il tempio.
Mi fermo un momento per ascoltare cos'altro ha da dire.
«Non passa giorno che non mi domandi se ho preso la decisione sbagliata. Forse una morte
rapida sarebbe stata preferibile. Vedi, Sutekh, tutti noi siamo stati mandati qui per punizione.»
Mi rendo conto che non sta solo parlando a Adam: cerca anche di motivare le truppe. Forse il
morale non è molto alto, qui nella giungla.
«Ci hanno mandati in questo posto desolato per abbattere lo scudo impenetrabile che circonda
il bottino di guerra, qualsiasi cosa sia, che i Loric hanno nascosto nel tempio. Per tutti noi è
l'ultima possibilità di compiacere il Benevolo Condottiero. È il posto ideale per un traditore
come te.» Phiri si accovaccia davanti a Adam. «Tu conosci il segreto del Santuario? Sei venuto
per redimerti, finalmente?»
«Sì», risponde Adam, ancora stordito. «Se è un campo di forza, prova a tuffartici contro.»
Phiri scoppia a ridere per la battuta.
Quella risata mi sprona a rimettermi al lavoro: è minacciosa, lascia sospettare che lo
spettacolo stia per finire. Quindi dobbiamo sbrigarci. Tiro via Marina e ci spostiamo dietro il
semicerchio dei Mogadorian. Adam ha creato un eccellente diversivo: se ci attenessimo al piano,
entreremmo indisturbate nel perimetro del Santuario. Ma non ho intenzione di abbandonare Adam
al suo destino, e penso che non lo voglia neppure Marina. Invece di dirigerci verso il tempio, ci
muoviamo velocemente verso uno dei cannoni che i Mog usano per sparare invano al campo di
forza che protegge il Santuario.
«Tuffarmici contro...» La risata di Phiri si spegne. «Non è una pessima idea, Sutekh. Perché
non lo fai tu per primo?»
A un suo cenno, due soldati si fanno avanti e tirano in piedi Adam. Lo trascinano, seguendo
Phiri, verso la linea invisibile che divide la parte di giungla diboscata da quella ancora intatta che
circonda il tempio.
«Abbiamo provato tutto, tranne una bomba atomica, per entrare nel Santuario», continua Phiri,
in tono disinvolto. «Si dice che il Benevolo Condottiero conosca un modo per entrare. Servono i
Garde e i loro ciondoli: che però, come sai, si sono dimostrati... difficili da reperire. Ma se c'è da
credere al Grande Libro -- e io ci credo -- nulla può ostacolare il progresso mogadorian. Ciò
significa che questo maledetto campo di forza verrà dissolto. Ho intenzione di spezzare qualsiasi
incantesimo loric ci tenga fuori di lì, nel nome del Benevolo Condottiero.»
«Allora perché non l'hai già fatto?» ribatte Adam. «Se niente può ostacolare il progresso
mogadorian, perché non state facendo progressi?»
«Forse perché finora non avevamo un bel ragazzino purosangue da usare come ariete di
sfondamento», ribatte Phiri.
Io e Marina raggiungiamo il cannone più vicino e saliamo sui gradini della torretta che lo
sostiene. Somiglia a un martello pneumatico montato su una struttura di sostegno: c'è un
parabrezza con disegnato un bersaglio sopra la canna, due maniglie per farlo girare e, sulle
maniglie, due leve che somigliano ai freni di una bicicletta.
«Pensi di riuscire a farlo funzionare?» bisbiglio a Marina.
«Mira, premi, spara», replica lei. «È abbastanza intuitivo, Sei.»
«Va bene, aspetta.»
Per sparare servono due mani. Anche se tutti i Mog ci danno le spalle, non voglio tornare
visibile e rischiare che uno di loro si giri e rovini la nostra imboscata. Con cautela poso la mano
libera sulla nuca di Marina prima di lasciarle andare l'altra: in questo modo può lavorare sul
cannone mentre restiamo entrambe invisibili. Lentamente, Marina fa girare la torretta puntandola
sui Mog.
Il cannone avrebbe bisogno di essere oliato: quando gira produce un cigolio metallico. Agito
in aria la mano libera ed evoco subito una forte ventata per coprire il rumore.
«Lascia che ti anticipi cosa ti aspetta», sta dicendo Phiri. Ha piazzato Adam di fronte alla
barriera invisibile; i suoi scagnozzi lo costringono in ginocchio. Phiri si scioglie le bende su una
delle mani, rivelando orribili ustioni. «Ecco cosa fa lo scudo loric quando lo tocchiamo per
sbaglio.»
«Dovreste stare più attenti», replica Adam.
A un cenno di Phiri, i due soldati lo afferrano per le braccia e si preparano a spingerlo contro
il campo di forza. Poi la Mog scruta Adam per qualche istante, con sufficienza. «Circolano voci
sul tuo conto, Sutekh. Pare che tu sia diventato un mezzo Garde. Forse sei proprio quello che ci
serve per entrare nel Santuario. Forse uno scherzo della natura come te manderà in corto circuito
il campo di forza, e oggi sarà il giorno in cui entreremo nel Santuario nel nome del Benevolo
Condottiero.»
«In un modo o nell'altro, oggi è il tuo ultimo giorno al Santuario», ribatte Adam, a denti stretti.
«Te l'assicuro.»
Le sue parole fanno esitare Phiri, che si gira a guardare la nostra navicella e all'improvviso
intuisce che forse Adam non è arrivato da solo. Ma l'ha capito troppo tardi.
Marina ha già puntato il cannone sui Mog. «Pronta?» mi sussurra.
«Arrostiscili!»
Le mani invisibili di Marina premono i grilletti del cannone, che prende vita con tanta forza
da rischiare di scaraventarmi giù dalla struttura; ma riesco a restare aggrappata a Marina per
impedirle di tornare visibile. I Mog più vicini a noi non fanno neppure in tempo a girarsi: cilindri
lucenti di raggi infuocati li colpiscono alla schiena, riducendoli istantaneamente in polvere.
Dust intanto scende in picchiata dal cielo, in forma di falco. Lancia un verso stridulo e si
avventa con gli artigli sul viso di uno dei soldati che immobilizzano Adam.
I Mog si disperdono. Sono completamente spiazzati: forse pensano che il loro cannone sia
posseduto da un fantasma. Phiri Dun-Ra ha i riflessi pronti e schiva un raggio, ma poi corre a
cercare riparo. Marina continua a sparare, attenta però a non colpire per errore il nostro alleato.
Mentre Dust abbatte uno dei soldati, Adam sferra una gomitata allo stomaco dell'altro e,
quando quello si piega in due, lo spintona all'indietro contro la barriera invisibile che circonda il
Santuario. Con un lampo di energia blu, lo scudo che protegge il tempio si rivela: è come una
gigantesca rete elettrica a forma di cupola. Non appena tocca il campo di forza, il Mog avvampa
come la punta di un fiammifero. Quando lo scudo scompare di nuovo, il corpo si lascia dietro uno
strato di cenere che sembra galleggiare in aria, finché una folata di vento non lo spazza via.
Libero dai guerrieri che lo immobilizzavano, Adam si getta a terra a pancia in giù. Marina
gira immediatamente il cannone per colpire i Mog radunati intorno a lui. Alcuni, tra cui Phiri Dun-
Ra, hanno trovato riparo dietro una delle navicelle parcheggiate. Non possono vederci, ma
sparano verso il nostro cannone, che ben presto inizia a sputare fumo e a vibrare
minacciosamente.
«Si sta surriscaldando! Salta!» grido.
Ci tuffiamo in direzioni opposte mentre il cannone esplode in una nube di fumo nero. Siamo
visibili e completamente esposte.
Prima che i Mog superstiti possano spararci addosso, Adam batte il pugno a terra. Un tremito
riverbera nel terreno fino a loro e li fa cadere. Approfitto della distrazione per rotolare sotto una
navicella, e intanto evoco un temporale.
Il cielo si scurisce, inizia a piovere. Nella giungla è facilissimo richiamare questi fenomeni
atmosferici, ma ci vorrà ancora qualche secondo per evocare i fulmini, e non so se farò in tempo.
Phiri e i suoi soldati stanno già sparando, e colpiscono la terra bagnata davanti a me.
D'un tratto, però, un chicco di grandine grosso come un pugno colpisce Phiri sulla testa rasata.
La Mog ricade all'indietro, facendosi scudo con le braccia.
Vedo Marina nascosta dietro una pila di casse di legno. Si sta concentrando sulle gocce di
pioggia per trasformarle in ghiaccio intorno ai Mog e stordirli con la grandine. Sento il temporale
raggiungere il punto di rottura e scatenarsi con un lampo improvviso. Phiri riesce a scansarsi
all'ultimo momento, ma gli ultimi due soldati vengono fulminati e si riducono in polvere.
E poi, con mia grande sorpresa, Phiri Dun-Ra scappa. Senza neppure guardarsi alle spalle, la
purosangue mog si lancia nel fitto della giungla.
Adam scatta in piedi. Ha entrambe le labbra spaccate dai colpi di Phiri, il sangue gli cola sul
mento, ma per il resto sembra incolume e lucido. Si lancia all'inseguimento di Phiri, slittando sul
fango rossiccio che il mio temporale ha creato, ma si ferma a pochi metri da me perché la Mog ha
già fatto perdere le sue tracce.
«Lasciala andare», gli dico, mentre faccio placare il temporale.
«Non dovremmo rincorrerla?» chiede, sputando sangue a terra. Scruta le rovine e la linea
degli alberi, e capisco che vorrebbe scontrarsi ad armi pari con l'altra purosangue. Dust, di nuovo
in forma di lupo, va a sedersi accanto a lui e gli lecca la mano. Adam si gira verso di me. «Grazie
di avermi salvato.»
«Be', quella di distrarli era stata una mia idea. Mi sono sentita tenuta a evitare che ti
massacrassero.»
Adam accenna un sorriso, poi torna a guardare le rovine intorno al Santuario. «Dovremmo
catturarla, è pericolosa.»
«Lascia perdere Phiri Comesichiama», dico, alzando lo sguardo sul tempio.
«Abbiamo cose più importanti da fare che inseguire una Mog», concorda Marina, venendo
verso di noi. «Per quanto cattiva possa essere.»
Annuisco. «È rimasta sola, forse qualcosa la divorerà. Lasceremo qui Dust, a guardia delle
navicelle, nel caso Phiri cercasse di tornare indietro.»
Adam continua a fissare la giungla. Dopo un momento annuisce. «E va bene. Terrò d'occhio la
situazione mentre voi entrate.»
Scambio un'occhiata con Marina per assicurarmi che non abbia nulla in contrario a ciò che sto
per dire: lei scrolla le spalle, poi si avvia verso la nostra navicella per iniziare le operazioni di
scarico. «Non vuoi neppure provare a entrare con noi?» chiedo a Adam.
«Vuoi scherzare? Hai visto come si è ridotta Phiri Dun-Ra per avere toccato quel campo?»
«Se succede, ti curo io», dice Marina, girando la testa verso di noi.
«Non capisco.» Adam si volta a guardare il tempio, con le mani sui fianchi. Sembra nervoso.
«Perché volete che entri anch'io? È un luogo che appartiene ai Loric.»
«Come ha detto quella stronza di Phiri, ora sei un mezzo Garde», gli spiego. «Non sei un
Loric, ma hai le Eredità.»
«Ne ho una sola», precisa lui. «E non era neppure mia. Non... non so neppure se è giusto che
io l'abbia.»
«Non importa. Se ho capito bene quello che Malcolm ci ha detto -- ed è un grande 'se', temo --
in quel tempio c'è un pezzo di Lorien ancora vivo. È da lì che vengono le nostre Eredità. Quindi
anche tu sei connesso al tempio, proprio come noi.»
«Tutto è accaduto per un motivo.» Marina sta salendo sulla nostra navicella. Si gira a
guardarci pensierosa. «Ricordate le profezie di Otto.»
Adam non sembra convinto. Ha la gola serrata.
«Non sappiamo cosa ci aspetta lì dentro. Potremmo avere bisogno di te», insisto.
Lo vedo sorridere come aveva fatto durante il viaggio, quando si era smarrito nei ricordi. «Va
bene. Spero solo che il muro invisibile non mi carbonizzi la faccia.»
Raggiungiamo Marina alla navicella, per aiutarla.
Lei estrae dall'abitacolo lo scrigno che contiene i nostri patrimoni ereditari e lo porta a terra
con la telecinesi. Tira fuori delicatamente il corpo di Otto facendolo galleggiare in aria davanti a
sé, quasi come se lo stesse portando in braccio. Poi, con mia sorpresa, tira giù la lampo della
sacca. Vediamo Otto identico a quand'era vivo, preservato dagli elettrodi mogadorian.
«Marina, che stai facendo?»
«Voglio fargli vedere il Santuario», dice lei, scostandogli i riccioli dalla fronte. «Stai
tornando a casa», gli sussurra. Scende dalla navicella, affiancata dal corpo di Otto sorretto dalla
telecinesi. Con un'espressione determinata s'incammina verso il tempio, senza più guardarci.
Mi rendo conto che aspettava da giorni questo momento: l'occasione di seppellire Otto nel
modo giusto. Io e Adam ci accodiamo in silenzio alla processione.
Quando ci avviciniamo al bordo esterno dell'area diboscata dai Mog, e il tempio si erge
davanti a noi circondato da una vegetazione rigogliosa, sento uno strano formicolio sul petto.
Abbasso gli occhi e vedo che il ciondolo di John brilla e cerca di sollevarsi sotto la canottiera.
Abbasso la scollatura: il ciondolo sbuca fuori e inizia a tirare per liberarsi dalla catena. Sembra
che il Santuario lo attragga come una calamita. I due ciondoli che Marina porta al collo stanno
facendo la stessa cosa.
Adam scocca un'occhiata perplessa al mio ciondolo. Io mi stringo nelle spalle.
Marina è la prima a varcare la soglia. Il campo di forza riappare, azzurro loralite, e quando
Marina lo attraversa sentiamo un fruscio di elettricità statica. I capelli di Marina si sollevano,
caricati dall'energia, ma per il resto non accade nulla.
La seguo a pochi passi di distanza. Il campo di forza mi fa formicolare la pelle per un
momento, ma poi mi ritrovo dall'altra parte, ai piedi della scalinata piena di crepe e invasa dai
rampicanti. Mi giro a controllare Adam: si è fermato davanti al campo di forza.
Quando allunga un dito con cautela e lo sfiora, si sente uno sfrigolio. Adam scatta all'indietro,
ma non viene ustionato come gli altri Mog. «Sei sicura che sia una buona idea?»
«Non fare il vigliacco.»
Lui sospira, si fa coraggio e avanza di nuovo, stavolta con tutta la mano. Sulla sua pelle
chiarissima si sprigionano scintille, molto più di quanto sia successo a me e Marina, ma il campo
di forza lo lascia passare senza ridurlo in cenere. Gli sorrido, e lui mi guarda sollevato,
asciugandosi il sudore dalla fronte. «E ora?»
Marina si è fermata qualche metro più avanti, reggendo ancora a mezz'aria il corpo di Otto. Si
porta le mani alla nuca e si toglie uno dei ciondoli: la pietra levita lentamente verso i gradoni del
tempio, poi inizia a salire. «Ora saliamo anche noi», dice Marina.
Il ciondolo riflette con un riverbero azzurro la luce del sole. Mi accorgo che la loralite brilla
un po' più forte del solito, come se fosse carica, o qualcosa del genere. Lo percepisco anch'io: il
Santuario emette energia, a parte il campo di forza. Ho come l'impressione che ogni cellula del
mio corpo sia stata rinvigorita all'improvviso. Alzo gli occhi al cielo e mi rendo conto che potrei
evocare il temporale più forte della mia vita. Mi sento più in contatto del solito con le mie
Eredità. E, non so perché, sembra tutto assolutamente naturale: come se avessi già provato questa
sensazione.
Marina aveva ragione: siamo tornate a casa.
25

Impieghiamo circa mezz'ora a scalare la piramide maya. Cerco di far passare il tempo
contando i gradoni, ma verso i duecento perdo il conto. In alcuni punti si sono sgretolati, altrove
la pioggia ha eroso la pietra creando veri e propri scivoli. Nei tratti più difficili ci reggiamo ai
rampicanti, scalando la parete con mani e piedi. Non parliamo molto, se non per avvertirci di un
passaggio pericoloso. Ci sembra quasi maleducato disturbare il silenzio del Santuario.
Arrivati in cima, ci fermiamo per riposare. Siamo sudati, per il caldo e per l'arrampicata, e
Marina anche per lo sforzo di trasportare così a lungo con la telecinesi il corpo di Otto.
Adam si guarda intorno, con le mani sui fianchi. «Bel panorama.»
«È davvero bello.» Poso lo scrigno che ho portato con me e mi sgranchisco le dita.
Da quassù, più in alto delle chiome degli alberi, si possono vedere, oltre il bosco che
circonda la piramide, oltre l'anello di terra diboscato dai Mog, le altre rovine maya e la giungla
che ricomincia più in là. Immagino un antico sovrano che ispeziona il regno dalla cima di questa
piramide. E poi immagino lo stesso sovrano che volge gli occhi al cielo e vede un'astronave loric
discendere dalle nubi. L'immagine mi appare reale e vivida: ho la strana sensazione che non se la
sia inventata il mio cervello. Secoli fa, qualcosa del genere è accaduto davvero: i Loric sono
venuti qui, e il Santuario se lo ricorda.
«Ehi, ragazzi», ci chiama Marina. «Guardate qui.»
Io e Adam c'incamminiamo sulla sommità del tempio. Al centro esatto c'è una porta. Sulle
prime mi sembra che sia intagliata nella stessa pietra chiara del resto della piramide, ma
avvicinandomi vedo che la superficie è levigata e uniforme: il materiale color avorio sembra più
recente del resto del tempio. La porta è lì da un bel po' di tempo, ma è chiaro che è stata inserita
in cima a una piramide già esistente.
Non conduce da nessuna parte, come Marina appura girandole intorno. Il suo ciondolo fluttua
a mezz'aria davanti alla porta, aspettando che lo raggiungiamo.
Mi fermo davanti alla porta e ne esamino la superficie. È perfettamente liscia, non ci sono
maniglie o pomelli: ma al centro ci sono nove tacche rotonde disposte in un circolo.
«I ciondoli...» Passo le dita sulla pietra fredda.
Marina raccoglie il ciondolo sospeso in aria e lo inserisce in una delle tacche. S'incastra alla
perfezione, emettendo uno schiocco secco. La porta però non si muove.
«Ne abbiamo solo tre», dico, contrariata. «Non bastano.»
«Dobbiamo almeno provarci.» Marina si sfila l'altro ciondolo.
Ha ragione: siamo arrivati fin qui, non avrebbe senso rinunciare proprio ora. Mi sfilo il
ciondolo di John e lo infilo in un'altra delle tacche sulla porta.
Immediatamente le pietre di loralite iniziano a brillare con la stessa energia del campo di
forza. La luminescenza si propaga da una pietra all'altra e riempie gli spazi vuoti in cui
dovrebbero trovare posto gli altri ciondoli. Il simbolo circolare che prende forma sulla porta mi
fa pensare alle cicatrici che ci appaiono sulla caviglia quando uno dei Garde muore.
E poi, con un possente cigolio, la porta di pietra scorre verso il basso rientrando nel tempio e
lasciandosi indietro solo un sottile telaio, attraverso cui non si vede la giungla, bensì una stanza
piena di polvere e rischiarata dal bagliore bluastro della loralite.
«Pensavo che ne servissero di più. Ne abbiamo inseriti meno della metà», dico.
«O forse il Santuario sa quanto bisogno abbiamo di entrare», ipotizza Marina.
«È una specie di portale», commenta Adam, osservando la stanza che si apre oltre il telaio
nudo della porta. «Quello è l'interno del tempio?»
«Scopriamolo.» Raccolgo lo scrigno di Marina e varco la soglia.
Immediatamente mi assale quel senso di disorientamento che mi veniva ogni volta che Otto
usava l'Eredità di teletrasporto, ma dura solo un istante. Batto le palpebre aspettando che gli
occhi si abituino alla penombra. Il cambio repentino di pressione nell'aria mi fa stappare le
orecchie. Ho l'impressione di avere appena attraversato un portale e di trovarmi ora al centro del
tempio maya. O forse, dato che non sento più i rumori della giungla, siamo ancora più in
profondità. Forse questo Santuario si trova sotto la piramide.
Quando anche Marina -- seguita dal corpo di Otto -- e Adam entrano dietro di me, la porta
sparisce. Al suo posto non appare una via d'uscita, solo un muro di pietra calcarea, su cui però è
intarsiato un circolo di tacche uguali a quelle che erano sulla porta. I nostri ciondoli cadono a
terra, e io li raccolgo subito.
«Il Santuario...» mormora Marina.
«Quanto tempo fa l'hanno costruito?» chiede Adam.
«Non ne ho idea. Da secoli i Loric visitavano la Terra», rispondo distrattamente, guardandomi
intorno. «Ecco cosa venivano a fare.»
«Si preparavano a questo giorno», soggiunge Marina, di nuovo con quella strana certezza
nella voce.
«Cosa ci hanno lasciato, però?» chiedo, un po' delusa. «Una stanza vuota?»
Il Santuario è una lunga stanza rettangolare dai soffitti alti e senza porte né finestre. È come se
gli Antenati si siano teletrasportati all'interno di un blocco di roccia massiccia, siano riusciti
chissà come a scavarne l'interno creando una stanza, e poi si siano dimenticati di arredarla.
Dentro non c'è niente: venature lucenti di loralite percorrono il soffitto e le pareti formando
disegni intricati che gettano in tutta la sala un riverbero azzurro. Mi sembra di riconoscere un
disegno familiare in quelle linee e quelle spirali, ma non riesco a capire cosa sia.
«È l'universo», dice Adam. «Ed è... più ancora di quanto ne sappiamo noi. Le mappe stellari
dei Mogadorian non comunicano tutte queste informazioni.»
Impiego un momento a capire cosa sta dicendo. Ma poi noto che le venature di loralite si
addensano in alcuni punti formando circoli, e riconosco le varie costellazioni. Somiglia molto a
un Macrocosmo, ma è più grande e copre un'area più estesa dell'universo. Trovo Lorien su una
parete: il suo cuore pulsante di loralite brilla molto meno forte rispetto ad altri pianeti. «Casa
nostra...» Tocco delicatamente Lorien con un dito. Vengo scossa da un brivido: la loralite sembra
pulsare in risposta, quasi come se mi riconoscesse.
«Casa mia», dice Adam, in tono cupo, indicando un'area completamente priva di loralite,
come uno spazio vuoto nell'universo lucente. «Un'oscurità minacciosa.»
«Quelle non sono le nostre case. Non più», dichiara Marina, e fa scorrere le dita sulla parete
ripercorrendo la rotta seguita dalla nostra astronave, da Lorien alla Terra. «Adesso è questa la
nostra casa.»
La Terra disegnata nella loralite brilla molto più intensamente di ogni altra sezione della
parete. Marina la preme, e la loralite scricchiola e vibra. Qualcosa si sta muovendo sotto di noi.
Polvere e terra si staccano dal soffitto, i granelli rilucono nella luce improvvisamente più intensa.
So che non dovrei avere paura -- questo posto appartiene ai Loric, non ci farà del male -- ma
d'istinto mi addosso alla parete più vicina, perché all'improvviso il Santuario mi appare
claustrofobico. Adam barcolla verso di me, con gli occhi sbarrati.
Con uno scricchiolio e uno stridore di pietra contro pietra, una sezione circolare del
pavimento al centro della stanza si solleva: sembra quasi un altare. Quando quella piattaforma ci
arriva all'altezza della vita, la stanza smette di tremare. È un cilindro di loralite pura, sormontato
da una lastra di liscia pietra calcarea che sembra quasi un coperchio messo lì per proteggere
quello che c'è sotto, qualsiasi cosa sia. Ci avviciniamo cautamente tutti e tre.
«Sembra che questo coperchio si possa togliere.» Tocco la lastra, senza provare a rimuoverla.
«Sembra quasi un pozzo», dice Adam, pensieroso. «Cosa pensate che ci sia, lì sotto?»
«Non riesco proprio a immaginarlo.»
Marina indica con un dito. «Guardate i disegni.»
Somigliano alle pitture rupestri che Otto ci aveva mostrato in India, ma sono intagliati
direttamente sui fianchi del pozzo. Devo girare intorno al cilindro di loralite per vederli tutti.
Le sagome di nove persone sovrastano un pianeta che sembra la Terra; sotto di loro, in piedi
sul pianeta, ci sono nove sagome più piccole. Una persona -- non capisco se maschio o femmina -
- riversa il contenuto di una scatola in una buca nel terreno. Altre nove sagome, stavolta schierate
in fila davanti a un castello, si oppongono all'avanzata di un'onda, o forse di un drago a tre teste.
«Altre profezie?» chiedo.
«Forse.» Marina si è fermata di fronte al disegno della persona con la scatola. «O forse sono
istruzioni.»
«Secondo te, è qui che dobbiamo... consegnare alla Terra i nostri patrimoni ereditari?»
Marina annuisce. Posa delicatamente a terra il corpo di Otto, poi con la telecinesi fa scorrere
di lato la lastra che chiude il pozzo.
La lastra cade a terra con un gran fracasso e si spezza. Dal pozzo s'innalza una colonna di luce
azzurra, così luminosa che devo ripararmi gli occhi. Sembra un faro. Il calore che irradia mi
penetra nelle ossa.
«Ma è...» Adam lascia la frase in sospeso. Nei suoi occhi scuri di Mogadorian riluce una
profonda meraviglia.
Marina s'inginocchia davanti al proprio scrigno e lo apre. Con entrambe le mani estrae una
manciata di gemme loric e le getta nel pozzo del Santuario. Le pietre luccicano e sprigionano
lampi mentre le passano tra le dita e cadono nella colonna di luce. Tutta la stanza sembra farsi un
po' più luminosa. Le venature di loralite sulle pareti pulsano con maggiore intensità.
«Aiutami, Sei!» esclama Marina, in tono concitato.
Tiro fuori dallo scrigno il sacchetto di terra, lo apro e ne verso il contenuto nel pozzo. Nella
sala polverosa si diffonde un aroma fragrante, il profumo di una serra, e la luce s'intensifica
ancora di più. Marina getta nel pozzo anche le foglie e i rametti secchi. Nell'istante prima che si
stacchino dalla sua mano, mentre sono inondati di luce, potrei giurare di vederli di nuovo verdi e
vivi. Quando svaniscono nel pozzo, una brezza fresca si spande nella sala.
«Funziona», dico, anche se non so bene cos'è che stiamo facendo. So solo che mi fa sentire
bene.
Una volta gettati nel pozzo tutti gli altri contenuti dello scrigno, tiro fuori il barattolo con le
ceneri di Henri. Tolgo delicatamente il coperchio e lo svuoto nella luce. Le particelle di cenere
brillano per un istante e poi ricadono nel pozzo in una spirale. Vorrei che John fosse qui per
assistere alla scena.
Mi volto verso Marina e indico con un cenno il corpo di Otto. «Dobbiamo...?»
Marina scuote la testa. «Non sono ancora pronta.»
Mi guardo intorno per vedere se nella stanza è cambiato qualcosa. La luce del pozzo è intensa,
quasi quanto il sole, ma non mi fa più male agli occhi. Le venature di loralite nelle pareti pulsano
animate di energia. Il nostro scrigno è vuoto, le ceneri di Henri sono state disperse.
«Non c'è nient'altro da fare», dico a Marina. «È arrivato il momento.»
«I ciondoli, Sei. Dobbiamo consegnare i ciondoli.»
«Aspettate», interviene Adam, facendosi avanti per la prima volta. Ha assistito stupefatto a
tutta la cerimonia, ma le parole di Marina lo hanno riscosso. «Se lasciate cadere i ciondoli lì
dentro, non avremo modo di uscire da qui.»
Li tengo ancora tutti in mano. Li stringo forte e rifletto sul da farsi. «Dobbiamo avere fede,
no?» Scrollo le spalle. «Dobbiamo credere che, qualsiasi cosa ci sia laggiù, qualsiasi cosa gli
Antenati ci abbiano lasciato, ci mostrerà la strada per uscire.»
Marina annuisce. «Sì.»
Adam mi guarda per un momento, poi guarda la luce. Probabilmente tutte le cose che ha visto
oggi sono in conflitto coi suoi istinti di Mogadorian. Ma dentro di lui abita anche un Garde. «E va
bene, mi fido di voi.»
Stringo forte i ciondoli. Per quasi tutta la vita ho portato quell'amuleto al collo. Molte volte
mi ha ricordato chi ero, da dove venivo e per cosa combattevo. È stato orribile perdere due
ciondoli, e non mi sono mai sentita completa se non ne avevo uno al collo. È una parte di me -- di
tutti noi -- tanto quanto le cicatrici che portiamo alla caviglia. Ma è tempo di lasciarli andare.
Getto i tre ciondoli nel pozzo.
La reazione è immediata e accecante. La luce che esce dal pozzo diventa una supernova.
Lancio un grido e mi riparo gli occhi, e penso che Marina e Adam facciano lo stesso. Dal fondo
del pozzo risale uno strano rumore, come il battito di migliaia di ali o un minuscolo tornado
sotterraneo. Poi un tonfo fortissimo, profondo, che mi rintrona nei denti. Qualche istante dopo, il
tonfo si ripete.
Tum, tum. Tum, tum.
Il ritmo accelera, l'intensità aumenta. I tonfi si fanno regolari.
È un cuore che batte.
Non so quanto a lungo resto immersa in quella luce azzurra e pura, quanto a lungo continuo ad
ascoltare il battito del cuore di Lorien. Potrebbero essere due minuti o due ore. È un'esperienza
ipnotica e confortante.
Quando la luce inizia ad attenuarsi e il battito cala di volume e resta in sottofondo, ne sento
quasi la mancanza. È come risvegliarsi da un sogno piacevole e non voler tornare alla realtà.
Apro gli occhi e resto senza fiato: il corpo di Otto è sospeso in posizione eretta sopra il pozzo del
Santuario, al centro della colonna di luce azzurra.
Afferro la mano di Marina. «Lo stai facendo tu?» chiedo, a voce più alta di quanto volessi.
Marina scuote la testa e mi stringe forte la mano. Ha le lacrime agli occhi.
Qualche passo dietro di noi, Adam è in ginocchio. Dev'essere caduto quando la luce brillava
più forte. Tiene gli occhi fissi su Otto, completamente ipnotizzato.
«Guardate», dice Marina.
Vedo muoversi le dita di Otto. È stato solo un gioco di luce? No, deve averlo visto anche
Marina, perché lancia uno strilletto e si copre la bocca con la mano libera, mentre con l'altra
stringe più forte la mia.
Otto, sospeso in aria, muove le dita e scrolla le braccia e le gambe. Gira la testa di qua e di là
come per sgranchirsi il collo. Poi apre gli occhi: sono di loralite pura, la stessa sfumatura di
azzurro delle venature più profonde sulle pareti. Quando apre la bocca, gli esce dalle labbra un
raggio di luce blu. «Ciao», dice, in una voce che non è quella del nostro amico. È melodiosa e
suadente, e non l'avevo mai sentita prima.
È la voce di Lorien.
26

Quasi tutti i presenti hanno il buonsenso di fuggire. I newyorkesi hanno visto abbastanza film
da sapere cosa succede quando un'astronave aliena si ferma sopra la loro città. Si riversano sui
marciapiedi, alcuni abbandonano le macchine in mezzo alla strada, ostacolando la marcia del
nostro convoglio di SUV neri. Per fortuna l'agente Walker è riuscita ad assicurarsi la
collaborazione dei poliziotti accorsi davanti all'albergo di Sanderson. Immagino che, per un
poliziotto che deve fronteggiare un'invasione aliena, un'agente federale in completo nero e
occhiali da sole sia una presenza confortante.
Anche con le sirene e i lampeggianti della polizia di New York è difficile farsi largo per le
strade. È il caos.
Però ci sono alcune persone che non scappano nella direzione opposta all'East River, dove
l'astronave da guerra dei Mogadorian staziona minacciosa sopra il palazzo dell'ONU: corrono
verso l'East River. Filmano coi telefoni la scena, curiosi di vedere che aspetto abbiano gli alieni.
Non so decidere se sono coraggiosi, pazzi o solo stupidi. Probabilmente una miscela delle tre
cose. Vorrei gridare loro dal finestrino di fuggire, ma non c'è tempo. Non riuscirò a salvarli tutti.
«Michael Worthington, senatore della Florida.» L'agente Walker bercia il nome al telefono,
leggendolo da un bloc-notes. Impartisce ordini dal sedile del passeggero, pur sapendo che ormai
non servono più a molto. «Melissa Croft, nello stato maggiore. Luc Phillipe, ambasciatore
francese.» S'interrompe perché ha finito la lista. Si gira a guardare il sedile posteriore, dove Bud
Sanderson è stretto fra me e Sam. «Li ho elencati tutti?»
Sanderson annuisce. «A quanto ne so, sì.»
Walker torna a parlare al telefono: «Arrestateli. Sì, tutti. Se oppongono resistenza,
uccideteli». E chiude la chiamata.
La lista di politici collusi coi Mog -- le decine di nomi che Walker ha snocciolato ai propri
contatti -- ci è stata fornita da Sanderson. Anche se gli agenti ribelli che ora sono al comando di
Walker riescono ad arrestarli, non è detto che serva a qualcosa: ormai siamo all'ora zero.
Dobbiamo sperare che Walker e i suoi riescano almeno a rimuovere dal potere i traditori amici
dei Mog, lasciando in piedi un governo pronto a opporre resistenza all'invasore. Resta però da
vedere quanta resistenza riusciranno a opporre.
Quanto ci hanno messo i Mog a conquistare Lorien, stando a ciò che mi ha raccontato Henri?
Meno di un giorno, credo.
L'astronave che vediamo dal parabrezza fa sembrare giocattoli i grattacieli della città e getta
nell'ombra vari isolati in tutte le direzioni. Sembra un enorme scarafaggio sospeso sopra New
York. Centinaia di cannoni spuntano dai fianchi e dal ventre del veicolo, e mi sembra di vedere
vari portelloni da cui probabilmente usciranno navicelle più piccole. Non sono sicuro che
riusciremmo ad abbatterla, neppure radunando tutti i Garde e dando fondo a tutte le Eredità.
Anche l'agente Walker sta guardando l'astronave; è impossibile ignorare lo smisurato oggetto
alieno che ingombra l'orizzonte. Poi però si gira a guardare me. «Voi potete distruggerla, vero?»
«Certo», rispondo, cercando d'imitare l'aria da spaccone di Nove, che è a bordo del SUV
dietro il nostro e probabilmente starà spiegando agli agenti della scorta come intende fare a pezzi
l'astronave a mani nude. «Ce la facciamo di sicuro.»
Accanto a me Sanderson sghignazza amaramente, ma viene zittito da un'occhiata torva di
Walker.
Seduto accanto all'ormai ex segretario della Difesa, Sam alza finalmente gli occhi dal
cellulare che ha «preso in prestito» dalla ragazza investita dall'onda sonica dei guanti di Nove.
«Il caricamento è completo», mi dice. «Sarah ha il filmato.»
«Perfetto.» Tiro fuori il mio telefono, per chiamare Sarah.
Mi chiedo cosa ne penserebbe Henri se vedesse me e Sam caricare un filmato in cui uso le
mie Eredità sul sito di Sono tra noi. Non avrei mai pensato che un giorno avrei volontariamente
mostrato agli umani i miei poteri. E invece eccoci qui.
Sarah risponde al primo squillo. «John, grazie a Dio! I Mog sono su tutti i telegiornali! Stai
bene?» C'è un trambusto in sottofondo: voci, televisione...
«Sto bene. Sto soltanto andando verso l'astronave mogadorian più grande che abbia mai
visto.»
«Spero che tu sappia cosa stai facendo.»
«Non è niente che non siamo in grado di gestire...» Vengo interrotto da un'interferenza.
«Sarah? Sei ancora lì?»
«Sono qui», risponde, un po' più lontana di prima. «Penso che qualcosa disturbi la linea.»
Devono essere le astronavi da guerra: probabilmente interferiscono con le reti cellulari. Per
non parlare della gente terrorizzata che in tutto il Paese si è attaccata al telefono. Devo sbrigarmi,
nel caso cada la linea.
«Sam ha appena inviato alcuni video al sito di Mark. Li avete ricevuti? Penso che potrebbero
tornare utili.» Ricordo quello che Sam mi ha detto alla stazione di servizio. «Non vogliamo solo
spaventare la gente, ma anche darle speranza.»
Accanto a me, Sanderson sbuffa. Immagino che non riponga troppa fiducia in Sono tra noi.
Non so neanch'io se funzionerà: come gli arresti ordinati da Walker, come tutto ciò che faremo
oggi, potrebbe arrivare troppo tardi per fare la differenza. Ma non dobbiamo lasciare nulla
d'intentato.
«Sì, sto guardando...» A Sarah si mozza il fiato. «John, sei fantastico! Ma d'altronde ho un
debole per gli alieni attraenti che fanno miracoli.»
Sto cercando di non tradire emozioni di fronte ai miei nuovi alleati, perciò volto le spalle a
Sanderson per nascondere il sorriso. «Be', grazie.»
«Torneranno utili, certo», dice Sarah, e la sento già digitare sulla tastiera. «Cosa pensi di fare,
però? Quell'astronave sembra enorme.»
Guardo il caos fuori dal finestrino. «Cercheremo di porre fine a questa guerra prima che
inizi.»
«E come? Qual è il piano?» Sarah sembra sapere che sto per dirle qualcosa di assurdo.
«Raggiungeremo l'astronave, attireremo fuori Setrákus Ra...» Sto cercando di ostentare fiducia
a proposito di un piano che mi sembra sempre più disperato quanto più ci avviciniamo
all'astronave. «E lo uccideremo.»
Il nostro convoglio deve fermarsi dieci isolati prima dell'ONU perché l'ingorgo c'impedisce
di proseguire. Le strade sono piene di persone che vogliono guardare da vicino l'astronave da
guerra. Alcune sono salite sui tettucci delle macchine per vedere meglio, e qualcuna addirittura
sul tetto di un autobus. Ci sono poliziotti ovunque, e fanno del loro meglio per riportare l'ordine,
ma dubito che siano addestrati per uno scenario di incontro ravvicinato del terzo tipo; quasi tutti
stanno col naso in su a guardare l'astronave. Tra la folla serpeggia un grande fermento, si levano
grida entusiaste.
Quella gente è solo un mucchio di bersagli facili per i Mogadorian. Attendo con terrore il
momento in cui i cannoni dell'astronave apriranno il fuoco. Vorrei gridare a tutti di fuggire, ma
rischio di scatenare il panico. Sempre che qualcuno mi ascolti.
«Largo, fate largo!» grida Walker scendendo dal SUV. Sventola davanti a sé il distintivo, ma
nessuno le presta attenzione.
Gli agenti che erano a bordo dei due SUV e i poliziotti che Walker ha reclutato all'albergo si
dispongono in circolo intorno a me, Sanderson e Sam.
Nove si fa largo a gomitate e si piazza vicino a noi, guardando storto un gruppo di ragazzini
che gridano all'astronave frasi d'incitamento. «Che idioti», borbotta, poi guarda me. «È una
pazzia, Johnny.»
«Dobbiamo proteggere più persone possibile», dichiaro.
«Devono proteggersi da sole», ribatte Nove, poi grida: «Andate a casa, cretini! Oppure
andate a prendere qualche pistola e tornate qui!»
Walker lo fulmina con lo sguardo. «Per favore, non incoraggiare i civili a prendere le armi.»
Nove la guarda sconcertato. «Siamo in guerra, signora! Questa gente deve tenersi pronta.»
Alcune persone intorno a noi hanno sentito le sue parole, o forse sono solo innervosite dal
numero sempre maggiore di poliziotti, e si scambiano occhiate inquiete. Lentamente la gente inizia
a defluire nella direzione da cui siamo venuti.
Walker spintona in avanti uno degli agenti. «Muoviamoci! Dobbiamo avanzare!»
Una marea di gente ci separa ancora dal palazzo dell'ONU, e non dà segno di volersi
muovere. Gli agenti e i poliziotti iniziano a farsi largo con la forza e noi veniamo trascinati con
loro.
«Guarda dove metti i piedi, bello! Siamo tutti in fila per farci teletrasportare a bordo!» strilla
uno degli spettatori.
«Porca puttana, sono arrivati i Men in Black!» grida un altro.
«Ci faranno del male?» strepita una donna rivolta a Sanderson, forse perché riconosce che è
un uomo importante. «Siamo in pericolo?»
Sanderson distoglie lo sguardo. La donna si perde nella folla.
Procediamo lentamente, anche se siamo preceduti da una dozzina di poliziotti e agenti
federali.
Walker va a sbattere contro un uomo -- occhi spiritati e barba lunga -- che ha l'aria di chi va in
giro con un cartello che annuncia la fine del mondo. Perde l'equilibrio, e io mi sporgo in avanti
per sorreggerla. Non mi ringrazia; nei suoi occhi leggo rabbia e irritazione. Porta la mano alla
pistola, forse pensando di sparare qualche colpo in aria per sgomberare la zona.
Le poso una mano sul braccio e, quando mi guarda storto, scrollo la testa. «Non lo faccia.
Scatenerà il panico.»
«C'è già, il panico.»
«Personalmente andrei ancora più nel panico se qualcuno iniziasse a sparare», interviene
Sam.
Walker emette un ringhio irritato e ricomincia a farsi largo tra la folla.
Io do di gomito a Nove. «Aiutiamoli. Ma non fare male a nessuno.»
Nove annuisce. Iniziamo a usare la telecinesi per spostare le persone che ci sbarrano il passo,
creando una specie di bolla intorno a noi. Nove è meno violento di quanto mi aspettassi: nessuno
finisce calpestato, e lentamente Walker e il resto della nostra scorta riescono a passare.
Avvicinandoci all'ONU ci ritroviamo sotto l'ombra gettata dall'astronave. Mi vengono i
brividi, ma cerco di non darlo a vedere. Le bandiere di tutte le nazioni sventolano nella brezza
primaverile ai due lati della strada che stiamo percorrendo.
Vedo che è stato montato un palco di fortuna all'ingresso del palazzo dell'ONU. In quella zona
c'è uno schieramento di forze dell'ordine più organizzato, composto dalla polizia locale e dagli
agenti di sicurezza privati dell'ONU, che tiene lontana la folla dal palco e blocca l'accesso
all'edificio principale. Più avanti c'è anche un assembramento di giornalisti: le telecamere
inquadrano alternativamente il palco e l'astronave.
Prendo Sanderson per le spalle e lo tiro a me, indicando il palco. «A che serve quello? Cosa
deve succedere lì?»
Sanderson mi guarda infastidito, ma non cerca di divincolarsi. «Il Benevolo Condottiero ha un
debole per le grandi coreografie. Lo sapevi che ha scritto un libro?»
«Leggere è da stupidi», grugnisce Nove, più concentrato sulla folla.
«Non m'importa della sua propaganda, Sanderson. Dimmi a cosa serve il palco.»
«Propaganda, come hai detto tu», replica Sanderson. «Io e qualche altro ProMog -- quelli che
probabilmente la nostra cara amica Walker ha fatto arrestare -- avremmo dovuto accogliere
Setrákus Ra, il quale avrebbe mostrato all'umanità i doni che i Mogadorian possono offrirle.»
Ricordo lo stato in cui abbiamo trovato Sanderson, moribondo e con le vene nere, annientato
dai cosiddetti «progressi scientifici» dei Mogadorian. «Vi avrebbe curati», dico, facendo due più
due.
«Alleluia! Il nostro salvatore!» esclama Sanderson, sarcastico. «Poi lo avremmo invitato nel
palazzo dell'ONU per una sessione speciale dell'Assemblea generale, e domani sarebbe stata
adottata una risoluzione pacifica per consentire ai Mog l'uso dello spazio aereo di ogni Stato
membro.»
«Ed ecco fatto, la Terra si sarebbe arresa», dice Sam.
«Almeno sarebbe stata una transizione pacifica», replica Sanderson.
«Non pensi che la gente si spaventerebbe a morte?» gli chiedo. «Insomma, guardati intorno.
Immagina cosa succederà quando i Mog si faranno vedere in faccia, cammineranno tra loro,
assumeranno il comando! Ci sarebbe il panico, un'insurrezione popolare, in barba alla tua stupida
diplomazia. Come facevi a illuderti che il vostro piano potesse funzionare?»
«Setrákus Ra ha pensato anche a questo», risponde Sanderson. «È così che pensa
d'identificare i dissidenti, gli elementi problematici.»
«Così saprà chi ammazzare», ringhia Nove.
«È uno schifo», sibila Sam.
«Un piccolo prezzo da pagare per la sopravvivenza dell'umanità», ribatte Sanderson.
«Ho visto il futuro sotto il dominio dei Mogadorian», dico a Sanderson. «Credimi, è un
prezzo più alto di quanto tu sia disposto a pagare.»
Sam mi guarda preoccupato e capisco che il mio tono di voce deve suonare rassegnato, come
se la guerra fosse inevitabile, come se ormai non potessimo fare più niente per impedire che la
gente si faccia male.
In effetti non sono sicuro che ci sia un modo per risolvere il problema senza spargimento di
sangue. La guerra sta già scoppiando. Ma ho bisogno che gli altri tengano viva la speranza. «Non
deve andare per forza così», dico. «Fermeremo Setrákus Ra prima che la situazione degeneri
ulteriormente. Ma tu devi aiutarci.»
Sanderson annuisce, con gli occhi fissi sul palco. «Vuoi che mi attenga al programma.»
Annuisco. «Lascialo scendere dall'astronave. E noi lo abbatteremo.»
«I vostri poteri basteranno?»
Mentre sto per rispondere, vedo la stessa domanda negli occhi di Sam. Lui non ha partecipato
alla nostra ultima battaglia con Setrákus Ra, ma sa che non è andata a finire bene. E in quella
battaglia c'erano tutti i Garde, mentre ora ci siamo soltanto io e Nove. Be', e tutte le armi che
l'agente Walker è riuscita a mobilitare.
«Dovranno bastare», dico.
Avvicinandoci all'ingresso dell'ONU e al palco, passiamo davanti a un tizio vestito come un
fattorino in bicicletta, circondato da giornalisti e telecamere. Ci faccio caso perché quell'uomo è
l'unica cosa capace di distrarre i reporter dalla gigantesca astronave dei Mogadorian. Tendo
l'orecchio per sentire cosa dice.
«Ve lo giuro, è caduto dal cielo!» esclama il fattorino. I giornalisti sembrano scettici. «O forse
si è calato con la levitazione, non lo so. Si è schiantato a terra, ma era protetto da... una corazza, o
qualcosa del genere. Sembrava proprio fuori di testa.»
Nove mi stringe una spalla. L'ha sentito anche lui, ed è così distratto che smette di usare la
telecinesi per spingere via le persone: gli agenti che ci scortano si ritrovano circondati dalla
folla, ma riescono a tenerla a bada. «Hai sentito, vero?» mi chiede, con occhi assetati di sangue.
«Potrebbe essere un mitomane», rispondo, indicando il fattorino, ma non ci credo davvero.
«In situazioni come queste saltano sempre fuori.»
«Impossibile», replica Nove, in tono eccitato. Fa saettare con rinnovato interesse lo sguardo
sulla folla. «Cinque è qui, bello. È qui, e io gli spaccherò quel brutto muso grasso.»
27

Mi sento intorpidita.
Nella stazione d'attracco, mi specchio sui pannelli di metallo dai riflessi perlati della
navicella che ci porterà a Manhattan. Sono bianca come un lenzuolo e ho le borse sotto gli occhi.
Mi hanno fatto indossare un nuovo abito elegante, nero con dei nastri rossi, e mi hanno legato i
capelli in una coda di cavallo così stretta da farmi temere che mi si stacchi la pelle dal cranio. La
principessa dei Mogadorian.
Non m'importa. Ho la mente annebbiata, mi sembra di andare alla deriva. So che dovrei
concentrarmi, fare ordine tra i pensieri. Ma non ci riesco.
Il portellone della navicella si apre e scende una scaletta. Setrákus Ra mi posa una mano sulla
spalla e mi sprona a salire a bordo. «Ci siamo, cara. È il grande giorno.»
La sua voce mi giunge smorzata alle orecchie. All'inizio rifiuto di muovermi, ma poi la spalla
ferita comincia a farmi male, come se sotto la pelle si agitassero lombrichi. Il dolore si allevia
soltanto quando inizio a mettere un piede davanti all'altro, salgo sulla navicella e mi lascio cadere
su uno dei sedili.
«Bene.» Setrákus Ra si siede al posto di pilotaggio. Dopo lo scontro con Cinque ha assunto di
nuovo fattezze umane e ora indossa un elegante completo nero con tocchi di rosso. Quei colori
non si addicono all'aspetto umano che sfoggia: lo fanno sembrare severo e autoritario, anziché
paterno come vorrebbe. Ma non glielo dico, sia perché non voglio aiutarlo sia perché parlare è
troppo faticoso.
Vorrei poter dormire e risvegliarmi quando sarà tutto finito.
Mi hanno fatto qualcosa, dopo la ferita alla spalla. L'emorragia mi faceva perdere conoscenza
a tratti, perciò ho ricordi confusi. Ricordo che Setrákus mi ha portata all'infermeria, in una parte
dell'astronave che fino ad allora non avevo avuto la sventura di frequentare. Ricordo che mi
hanno iniettato nella ferita un liquido nero. Sono quasi sicura di avere gridato per il dolore, ma
poi la ferita ha iniziato a rimarginarsi. Ma non come quando mi curavano Marina o John, e sentivo
la ferita richiudersi da sola come se si stesse formando nuova pelle; con le «cure» dei Mog mi
sembrava che la pelle venisse sostituita da qualcos'altro, qualcosa di freddo ed estraneo.
Qualcosa di vivo e affamato, che sento ancora muoversi sotto la pelle chiara e liscia della spalla
ormai guarita.
Setrákus Ra preme alcune leve sulla plancia di comando. La navicella si accende, le pareti
diventano traslucide. È la versione mogadorian di un vetro oscurato: noi possiamo vedere fuori,
ma nessuno può vedere dentro.
Mi guardo intorno: la stazione d'attracco è gremita di Mog pronti alla battaglia. Centinaia di
soldati schierati in file ordinate, perfettamente immobili, tutti col pugno stretto sopra il cuore per
salutare il loro Benevolo Condottiero che parte alla conquista della Terra. Guardo quei volti
pallidi e inespressivi, gli occhi scuri e vacui. È questo il mio popolo? Sto diventando una di loro?
Arrendersi sembra la scelta più facile.
Setrákus Ra sta per partire, quando si accende una luce rossa su uno degli schermi e sentiamo
un allarme. Quel rumore mi riscuote un po' dal torpore. Qualche sfortunato subalterno sta
chiamando Setrákus proprio nel bel mezzo del suo grande giorno. Lo vedo reagire con irritazione
al messaggio in arrivo, e per un momento penso che lo ignorerà. Invece preme un pulsante, e sullo
schermo appare un addetto alle comunicazioni dall'aria esausta.
«Che c'è?» ringhia Setrákus.
«Sono desolato per l'interruzione, Benevolo Condottiero. C'è una comunicazione urgente da
Phiri Dun-Ra.»
«Farà meglio a essere davvero urgente.» Setrákus agita una mano verso lo schermo, con
impazienza. «Molto bene. Passamela.»
Lo schermo lampeggia, emette un ronzio, e poi ci mostra una Mogadorian con due lunghe
trecce fissate intorno alla testa calva e una brutta ferita sopra l'occhio. È circondata dalla giungla
su tutti i lati. A quanto pare, un messaggio di questa purosangue è abbastanza importante da far
tardare il nostro volo per New York. Cerco di tirarmi a sedere più diritta, di prestare attenzione
nonostante l'intorpidimento.
«Cosa c'è, Phiri?» chiede Setrákus Ra, in tono freddo. «Perché mi hai contattato
direttamente?»
La Mog esita prima di parlare. Forse è sconcertata dal volto umano che le si rivolge con tanta
autorità. O forse ha solo paura del Benevolo Condottiero. «Sono arrivati», dice infine, con una
nota di trionfo nella voce. «I Garde hanno attivato il Santuario.»
Setrákus Ra si appoggia allo schienale. Ha le sopracciglia inarcate per la sorpresa e le mani
giunte davanti a sé come in meditazione. «Eccellente. Ti ordino di non lasciarli allontanare da lì,
Phiri Dun-Ra. A costo della vita. Ti raggiungerò a breve.»
«Come desiderate, Benev...»
Setrákus Ra chiude il collegamento senza lasciarla finire.
Sentendo nominare i Garde e il Santuario mi è tornata un po' di lucidità. Tento di pensare a
Sei e Marina, a John e Nove: lo so, vorrebbero che io lottassi per salvarmi la pelle. Ma è così
difficile impedire alla mente di svuotarsi, impedire al corpo di accasciarsi.
«Ho dato loro la caccia per anni», dice Setrákus Ra a bassa voce, quasi parlando tra sé. «Per
schiacciare l'ultima resistenza al progresso mogadorian, per impadronirmi di ciò che quegli stolti
degli Antenati hanno seppellito su questo pianeta. Oggi è il giorno in cui tutto ciò per cui ho
combattuto diventerà mio. Dimmi, nipote, chi potrebbe dubitare della superiorità mogadorian?»
Non vuole davvero una risposta, gli piace solo sentirsi parlare. Lascio che i farmaci mi
disegnino un sorriso in faccia.
Mio nonno sembra soddisfatto. Mi posa una mano sul ginocchio. «Ti senti meglio, vero?»
Preme qualche altro pulsante sulla plancia: il motore prende vita. «Vieni, andiamo a prenderci
quello che ci spetta.»
La navicella inizia a muoversi. Sfrecciamo attraverso la stazione d'attracco, oltrepassando le
schiere di soldati mog che si battono i pugni sul petto e gridano esortazioni nella loro lingua
aspra. Usciamo dallo stesso portellone da cui è volato via il corpo di Cinque. Sono contenta che
questo torpore mi aiuti a non pensare a lui, a com'è stato malmenato e poi buttato via come
spazzatura.
Discendiamo su Manhattan. Vedo gli umani radunati sotto di noi: sono migliaia, assiepati di
fronte a un complesso di edifici dall'aria lussuosa. C'è anche un palco lì davanti, sulla riva di un
fiume dalle acque torbide e agitate. Ricordo la Washington della mia visione, le rovine fumanti
che rendevano l'aria irrespirabile. Presto anche New York sarà così. Mi chiedo se quella gente si
butterà nel fiume quando la loro città inizierà a bruciare.
Le persone sotto di noi additano la nostra navicella. Le sento gridare e salutarci. Questi umani
-- quelli che si sono avvicinati di più all'Anubis -- non pensano di essere in pericolo.
D'un tratto mi rendo conto che stiamo per ritrovarci in mezzo alla folla, senza guardie
mogadorian. Lascio ciondolare la testa verso mio nonno, mi lecco le labbra e, con fatica, riesco a
parlare. «Li affrontiamo da soli?»
«Certo. Intendo fare solo del bene a queste persone.» Setrákus Ra sorride. «Non abbiamo
nulla da temere dagli umani. I miei servi sulla Terra ci hanno preparato un'accoglienza che trovo
più che accettabile.»
È chiaro che ha in mente qualcosa: forse ha già pianificato tutto. È improbabile che gli umani,
anche così numerosi, abbiano una possibilità di vittoria contro Setrákus e i suoi poteri, ma spero
ancora che qualcuno di loro non si lasci abbindolare dallo spettacolo e spari allo spaventoso
alieno.
Naturalmente morirei anch'io, ma a questo punto mi sembra quasi che ne valga la pena. Sento
scorrere sotto la pelle la sostanza che i Mogadorian mi hanno iniettato. Non potrei sopportare
altre cose del genere.
La discesa è terminata: siamo sospesi a cinque metri dal palco, dove ci aspetta un uomo
anziano dall'aria nervosa, in giacca e cravatta, forse un politico. I flash continuano a lampeggiare
incessanti. Batto le palpebre e cerco di tenermi sveglia.
«Vieni, Ella. Salutiamo i nostri sudditi.» Setrákus Ra prende il bastone dorato, l'ossidiana
dell'Occhio di Thaloc riflette la luce. Non so perché se lo sia portato dietro. Forse non vuole
affrontare disarmato i nostri cosiddetti «sudditi». O forse pensa che gli conferisca un'aria nobile,
come lo scettro di un re.
Mi rialzo, barcollo. Setrákus mi offre il braccio, e io lo prendo.
Il portellone della navicella si apre e lascia scorrere in basso una scala lucente che conduce
al palco. Quando usciamo, la folla sussulta. Nonostante gli occhi annebbiati, vedo decine di
telecamere puntate su di noi. I terrestri sono ammutoliti. Come appariamo ai loro occhi? Alieni...
alieni che sono identici agli umani. Un bel signore di mezz'età e la sua pallida nipote.
Setrákus Ra alza la mano in segno di saluto. Un gesto da sovrano, teatrale e indulgente.
Quando parla, la sua voce rimbomba come se avesse un microfono. «Vi saluto, popoli della
Terra!» grida in un inglese impeccabile, con voce ferma e rassicurante. «Mi chiamo Setrákus Ra e
questa è mia nipote, Ella. Abbiamo fatto un lungo viaggio per presentarci umilmente a voi con un
auspicio di pace.»
La folla applaude. Non sa come stanno davvero le cose.
Setrákus Ra getta uno sguardo soddisfatto sui loro volti alzati. Ma, quando vede il vecchio che
è sul palco, lo sento tendere i muscoli del braccio.
Qualcosa non va. Il comitato di accoglienza non è quello che si aspettava. Forse dovevano
esserci più umani ad aspettarlo sul palco a braccia aperte. O più mazzi di fiori.
Imperterrito, drizza le spalle e finisce di scendere dalla scaletta. «Vi portiamo doni preziosi!»
continua, con voce stentorea ma in tono bonario. «Nuove cure mediche, tecniche agricole
all'avanguardia per sfamare i vostri poveri, tecnologie che renderanno la vostra vita più semplice
e produttiva. In cambio, dopo il nostro lungo viaggio, vi chiediamo solo di offrirci riparo dal gelo
dello spazio.»
Mi guardo intorno per vedere se la gente gli crede. Incrocio lo sguardo di un ragazzo in prima
fila, fermo accanto a un gruppo di telecamere: i suoi occhi scuri cercano i miei. Indossa una felpa
col cappuccio da cui spuntano lunghi capelli neri, è alto e muscoloso, e...
Nelle condizioni in cui sono, ci metto un momento a riconoscerlo. Non molto tempo fa mi ha
tenuta sulle spalle e mi ha insegnato a volare. È Nove.
Quando lo riconosco, quando capisco che non sono sola, che non tutto è ancora perduto,
riacquisto di colpo la lucidità. Il dolore alla spalla aumenta, come se qualcosa stesse premendo
per uscire: c'è qualcosa dentro di me che vuole impedirmi di usare le Eredità. Lo ignoro e attivo
la telepatia. «Nove, il suo bastone! Lo usa per cambiare aspetto! Prendigli il bastone e
spezzalo!»
Un ghigno ferino si allarga sul volto di Nove, che annuisce. Ho il cuore in gola.
Accanto a me, Setrákus Ra si è irrigidito. Stringe il gomito al corpo, intrappolandomi la mano.
Ha capito che è successo qualcosa, ma va avanti con lo spettacolo come niente fosse: «Mi
aspettavo che un numero maggiore di loro fosse qui in questa occasione storica, ma vedo che uno
dei vostri leader è venuto ad accogliermi». Setrákus Ra porge la mano al vecchio. «Vengo in
pace, signore. Che l'incontro di oggi possa cementare l'amicizia tra i nostri due grandi popoli!»
Invece di stringergli la mano, il vecchio arretra di un passo. C'è terrore nei suoi occhi, ma non
è il genere di terrore che induce alla fuga: è la paura dell'animale in trappola. Il vecchio ha un
microfono, e mentre le telecamere ruotano verso di lui inizia a gridare: «Quest'uomo -- questa
cosa -- è un bugiardo!»
Setrákus Ra fa un passo verso il vecchio, liberandomi dalla sua stretta. Per la prima volta da
quando sono in sua compagnia, appare sorpreso. Sorpreso e infuriato.
Un mormorio d'incertezza serpeggia tra la folla.
Il vecchio grida qualcos'altro, sento le parole «schiavitù» e «morte», ma non capisco il resto.
Nessuno lo capisce.
Setrákus Ra ha usato la telecinesi per disattivare il microfono dell'uomo. «Devi essere
confuso, amico mio», gli dice a denti stretti, cercando ancora di salvare le apparenze. «Le mie
intenzioni sono...» Improvvisamente perde l'equilibrio.
E io so perché: un attacco telecinetico. Il bastone dorato gli viene strappato di mano. Nove lo
prende al volo e salta sul palco, sorridendo a Setrákus Ra.
Sento muoversi qualcosa alla mia sinistra; giro la testa e vedo John salire sul palco. Lo stanno
accerchiando, come ci eravamo allenati a fare in Aula Magna. Qua e là tra la gente vedo uomini e
donne in completo scuro che estraggono le armi. Tra la folla inizia a propagarsi il nervosismo,
alcuni civili -- quelli più intelligenti -- cominciano a indietreggiare dal palco.
È una trappola! I Garde sono qui!
Ora Setrákus Ra sembra davvero sconcertato. E forse addirittura un po' spaventato. «Siete
stati ingannati!» grida, indicando Nove e John. «Questi ragazzi sono terroristi venuti dal mio
pianeta! Non so cosa vi abbiano detto...»
«Non abbiamo detto niente», lo interrompe John. «Lasceremo che si facciano un'opinione da
soli. Un pazzo genocida è facile da riconoscere.»
«Menzogne!»
«Adesso!» grido a Nove, con la telepatia.
«Chissà cosa succede se faccio così...» Prima che Setrákus possa avventarglisi addosso,
Nove alza il bastone sopra la testa e lo sbatte con forza contro il palco. L'occhio di ossidiana
esplode in una nube di polvere.
Setrákus Ra viene scosso da spasmi e convulsioni. L'attraente forma umana cui era così
affezionato gli scivola via di dosso come un serpente che cambi pelle. Sul palco appare il vero
Setrákus Ra: il pallore mortale, i tatuaggi sul cranio calvo, la cicatrice intorno al collo, l'armatura
mogadorian coperta di borchie appuntite.
Molti spettatori gridano, altri si ritraggono inorriditi e si voltano per fuggire. Uno sparo: il
proiettile mi fischia accanto all'orecchio e rimbalza sulla navicella alle mie spalle, senza neppure
scalfirla. La gente si accalca spaventata sotto il palco. Altri spari, stavolta in aria. Uno degli
agenti che mirano a Setrákus Ra viene scaraventato a terra dagli spettatori terrorizzati.
È il caos.
Con un ululato mostruoso, Setrákus Ra cresce di statura fino a cinque metri. Il palco cigola
sotto i nostri piedi. Il vecchio che era sul palco coi Garde cerca di mimetizzarsi tra la gente, ma
Setrákus lo afferra con la telecinesi e lo scaglia come un proiettile contro Nove. I due cadono
insieme dal palco.
Sfere di fuoco divampano sulle mani di John, ma si spengono subito quando Setrákus attiva il
campo Dreynen. Imperterrito, John parte all'attacco sguainando il pugnale loric.
«Sì!» grida Setrákus. «Vieni, ragazzo, corri verso la morte!»
Il Dreynen non ha effetto su di me. Raccolgo un pezzo del bastone dorato: per due volte
rischia di cadermi di mano, perché ho ancora i muscoli intorpiditi. Ma mi concentro, ignoro il
dolore lancinante che sento sotto la pelle e carico col mio Dreynen quell'arma improvvisata.
Quando il pezzo di legno inizia a emettere una luce rossa, la uso per pugnalare mio nonno al
polpaccio.
Setrákus lancia un grido e riacquista la propria statura normale. Sento svanire il campo
Dreynen che blocca le Eredità. Setrákus barcolla in avanti tentando di allontanarsi da me, ma è
troppo tardi: lo spuntone caricato col Dreynen gli affonda nel polpaccio per tre centimetri.
Quando se lo strappa via, un rivolo di sangue nerissimo gli imbratta i pantaloni. Ora che se l'è
tolto, non so quanto dureranno gli effetti della mia Eredità.
D'un tratto mi rendo conto che la ferita non si è trasferita a me. Ogni incantesimo ha un punto
debole: l'ha detto lui stesso, appena prima d'incidermi quel marchio orribile sulla caviglia. Posso
fargli del male.
Solo io posso far del male a Setrákus Ra. Ho appena il tempo di elaborare questa
informazione prima che Setrákus si avventi su di me, con gli occhi sbarrati per la furia. Mi assesta
uno schiaffo col dorso della mano, scaraventandomi in aria. Ricado sul palco, col fiato mozzo;
ricomincia a girarmi la testa. Evidentemente sapeva che, seppure avessi trovato il punto debole
dell'incantesimo, non avrei avuto la forza necessaria per oppormi a lui.
Incombe sopra di me, coi lineamenti mostruosi e distorti dalla rabbia, e tenta di afferrarmi per
la gola. «Brutta traditrice...»
John gli si scaglia addosso con una spallata e gli fa perdere l'equilibrio. Setrákus atterra
riverso su un fianco, e io sento subito formarsi i lividi sul gomito. Accetto di buon grado il
dolore. So che ne arriverà altro.
Non ho la forza per combattere, ma ho già fatto la mia parte: gli ho prosciugato le Eredità. Ora
tocca agli altri.
John si tuffa su Setrákus Ra, che cerca di divincolarsi. Non è più così spaventoso, ora che
tenta di strisciare via.
Mi fa piacere vederlo così patetico e disperato: è giusto che sappia cos'è la disperazione,
prima che muoia. Prima che moriamo entrambi.
John riesce a immobilizzarlo, sedendosi sopra di lui, e alza il pugnale sopra la testa. Faccio
un respiro profondo e mi preparo. «Questo è per Lorien! E per la Terra!»
So cosa sta per succedere: John pugnalerà Setrákus Ra, e io morirò. L'incantesimo
mogadorian verrà spezzato, e i Garde riusciranno a uccidere davvero Setrákus. Ne vale la pena:
sono contenta di morire, se il mio sacrificio può porre fine alla miserabile vita del «Benevolo
Condottiero».
«Fallo!» grido telepaticamente a John. «Qualunque cosa accada, fallo!»
Mentre John sferra il colpo, sento un fruscio. Qualcosa vola verso di me, a grande velocità.
Una gocciolina di sangue mi stilla dalla gola, si apre un piccolo taglio. La lama di John non è
riuscita a fare altro, prima che un cromato proiettile umano fendesse l'aria, lo scaraventasse giù
da Setrákus Ra e lo mandasse a schiantarsi sul palco.
È Cinque. È vivo. Mi ha appena salvato la vita. E ci ha condannati tutti a morte.
Prima che io possa reagire, il palco cigola e crolla di colpo, inclinandosi di lato. Scivolo giù
e atterro sull'asfalto. Tutt'intorno a me la gente fugge urlando.
Setrákus Ra atterra vicino a me. Mi prende per i capelli e mi tira in piedi con violenza.
«Morirai per avermi messo in imbarazzo, bambina», ringhia, e inizia a trascinarmi sopra il palco
distrutto, verso la navicella.
Nove gli sbarra il passo.
28

Ho la spalla slogata, lo so per certo. Sono sdraiato sulla schiena, i frammenti del palco
distrutto mi affondano nella carne. Ci vedo doppio e non respiro bene. Mi sembra di essere stato
investito da un'auto.
Ma non era un'auto. Era Cinque.
Il traditore è in piedi sopra di me e fa respiri affannosi. La sua pelle è di metallo, ma è
gravemente ferito. Ha un occhio bendato, metà del viso pare gonfia e mi sembra di vedere
ammaccature nella corazza metallica che gli ricopre il cranio. Gli mancano un paio di denti.
Non so come si sia fatto male, e non m'importa: quel bastardo mi ha colto alla sprovvista.
C'ero quasi riuscito, Setrákus Ra era praticamente già morto. Ho ancora il pugnale legato al
polso, ma il braccio è inutilizzabile. Cerco di prendere il pugnale con l'altra mano...
Cinque mi tira su in piedi afferrandomi per il davanti della felpa strappata. «Ascoltami!»
«Vaffanculo!» Con la mano buona gli stringo l'avambraccio e attivo il Lumen, sforzandomi di
emettere più calore possibile. Qualunque sia il metallo in cui si è trasformato, deve pur avere un
punto di fusione. Chissà se riesco a fondergli la corazza prima che possa mettere in atto il suo
piano.
«Smettila, John!» grida, scuotendomi.
«Hai ammazzato Otto, figlio di puttana!»
Tra le mie dita filtra una nube di fumo tossico. Cinque sgrana l'occhio sano, ma non mi lascia
andare e non si tira indietro. Gli sto facendo male, ma non reagisce.
«Ascoltami, John! Se fai del male a Setrákus Ra, lo farai a Ella!»
Riduco leggermente la potenza del Lumen, perplesso.
«È un incantesimo, come quello che gli Antenati hanno praticato su di noi», continua Cinque.
«Setrákus l'ha alterato, non so come.»
Spengo completamente il Lumen. Cinque vuole aiutarci, ora? Mi ha separato da Setrákus non
per proteggere il Benevolo Condottiero ma per salvare Ella? Non so più cosa pensare.
«Come spezziamo l'incantesimo?» grido. «Come facciamo a ucciderlo?»
«Non lo so», risponde Cinque, guardandosi alle spalle, e all'improvviso si rabbuia. Mi lascia
andare e spicca il volo.
Mi rimetto in piedi appena in tempo per vedere Nove avventarsi su Setrákus Ra brandendo un
pezzo del palco come una lancia. «Nove, no!»
Non mi sente, ma Cinque lo sta spintonando via. Precipitano sui resti del palco, in una nube di
schegge di legno. Sembra che Cinque voglia spiccare di nuovo il volo, ma Nove lo afferra per la
caviglia gridando: «Dove vai, grassone?»
Nove si rialza, tenendo ancora Cinque per la caviglia, poi lo fa roteare con violenza. Cinque
allarga le braccia tentando invano di rallentare il movimento, ma Nove è più forte di lui e lo
scaraventa a faccia in giù sull'asfalto. L'impatto è così forte da spaccare il cemento. Per un istante
la corazza metallica di Cinque riassume l'aspetto della pelle normale: il colpo deve avergli fatto
così male da disattivare momentaneamente l'Externa.
«Nove, smettila!» grido, rialzandomi tra le macerie.
Lui scocca un'occhiata nella mia direzione, ed è allora che Cinque gli assesta un pugno sotto il
mento. Con un ruggito, Nove gli si avventa contro. Si prendono a pugni, diventano un intrico di
braccia e gambe in cui non distinguo più l'uno dall'altro, e che va a schiantarsi contro la vetrata al
piano terra del palazzo dell'ONU.
Ma ora non posso preoccuparmi di loro. Devo trovare Setrákus Ra e salvare Ella. Non
permetterò che me la portino via una seconda volta.
Il braccio sinistro mi penzola inerte lungo il fianco. Dovrei ridurre la lussazione alla spalla
prima di avviare la guarigione, ma non ho tempo. Lego il pugnale al polso del braccio buono.
Dovrò cavarmela con una mano sola.
Stranamente, Setrákus Ra non sembra affatto intenzionato a proseguire la battaglia. Trascina
Ella tra le macerie diretto alla navicella con cui è arrivato. Lei ha un aspetto molto simile a
quello che aveva nella visione che abbiamo condiviso, ambientata a Washington: al suo corpo
sembra mancare qualcosa di essenziale. Mi chiedo cosa le abbiano fatto, su quell'astronave da
guerra.
Qualunque cosa accada, fallo! mi ha gridato con la telepatia. Dunque Cinque non mentiva:
Ella sapeva cosa sarebbe successo se io avessi pugnalato Setrákus Ra, ed era d'accordo.
Qualsiasi cosa le abbiano fatto, i Mog non l'hanno spezzata. Ha ancora la forza di lottare, di
aiutarci. È successo di nuovo, come alla base di Dulce: Ella ha fatto brillare un pezzo delle
macerie, ha colpito Setrákus, e le mie Eredità sono ricomparse all'istante. Ha strappato i poteri a
Setrákus Ra e, a giudicare dalla codardia con cui lui è fuggito, i poteri non gli sono ancora tornati.
Potrei non riuscire a ucciderlo, ma posso catturarlo: voglio proprio vedere come faranno i
Mog a invadere la Terra mentre tengo in ostaggio il loro Benevolo Condottiero. Attraverso di
corsa il palco distrutto, cercando d'intercettare Setrákus prima che raggiunga la navicella. Ella mi
vede arrivare, affonda i talloni a terra, si divincola da Setrákus Ra e lo rallenta quanto basta. Lo
prenderò.
«Setrákus Ra!»
Maledizione, non adesso!
Il leader dei Mog non degna di uno sguardo la donna che gli sta andando incontro dall'altro
lato. Walker si aspetta forse che lui alzi le mani e si arrenda? È accompagnata da due agenti che
sono riusciti a farsi largo tra la folla, e con loro c'è anche Sam. Si fermano a qualche metro di
distanza, con le armi spianate.
Anche Sam sembra pronto a sparare: ha gli occhi socchiusi, le labbra serrate. Ricordo le
ustioni di acido sui suoi polsi: le ha provocate Setrákus Ra. Sono certo che Sam vuole vendicarsi.
«Aspettate!» grido, ma è troppo tardi.
Setrákus Ra gira di scatto la testa in direzione degli agenti e di Sam, e li guarda come
fastidiosi insetti da schiacciare. Con la mano che non regge Ella tira fuori la frusta a tre teste che
nascondeva sotto l'uniforme. Ma, prima che possa sferzarla, gli agenti e Sam aprono il fuoco.
Non mi capacito di quello che sto per fare. Fermo i proiettili a mezz'aria con la telecinesi.
Non so neppure se sarebbero penetrati nell'armatura di Setrákus Ra, ma non posso rischiare. Non
lascio il tempo a Sam e agli altri di rendersi conto che i colpi non sono andati a segno: sempre
con la telecinesi, li spintono tutti all'indietro. Non così forte da fare loro del male, ma abbastanza
da farli cadere sulle macerie del palco. E per tenerli fuori dalla portata della temibile frusta mog.
Chiederò scusa in seguito.
Setrákus Ra non li degna di un altro sguardo: quella breve distrazione gli è bastata per
raggiungere la scaletta della navicella. Inizia a salire di corsa, trascinandosi dietro Ella, e
svanisce nel veicolo.
Mi metto a correre: non ho intenzione di lasciarlo fuggire. La navicella inizia il decollo prima
ancora che la scaletta sia rientrata del tutto nella calotta sferica. Posso ancora acciuffarli, posso
ancora fermarlo. Sono vicinissimo.
Mi tuffo in avanti, e con la mano buona riesco ad afferrare l'ultimo gradino della scaletta. La
navicella continua a prendere quota mentre la scaletta rientra verso il portellone aperto,
portandomi più vicino a Setrákus Ra e a Ella. Riesco a posare un piede sull'ultimo gradino.
Siamo già a quasi trenta metri da terra, e sempre più vicini alla nave ammiraglia.
Gli scalini si ripiegano a fisarmonica e rientrano in un pannello alla base del portellone. Mi
spingo via prima di finire schiacciato nel meccanismo e mi tuffo verso il portellone aperto. Non è
facile, con un braccio solo. Mi ritrovo a penzolare dal bordo del portellone, col braccio che
inizia a farmi male. Le gambe mi dondolano nel vuoto, il terreno dista ormai una sessantina di
metri.
Setrákus Ra è in piedi sopra di me: la sua frusta a tre teste mi oscilla davanti alla faccia, con
le punte infuocate. Non penso che voglia tirarmi dentro la navicella. In mezzo alle sue gambe
divaricate vedo Ella: è riversa su uno dei sedili dell'abitacolo, sembra che l'abbiano sedata fino
all'incoscienza. Non potrà aiutarmi.
«John Smith, vero?» chiede Setrákus, in tono disinvolto. «Grazie di avermi aiutato, laggiù.»
«Non volevo aiutarti.»
«Ma l'hai fatto ugualmente. È uno dei motivi per cui ti lascerò vivere.»
Il braccio mi fa sempre più male, rischio di perdere la presa. Devo farmi venire un'idea, e in
fretta. È difficile lanciare una sfera di fuoco con un braccio slogato e l'altro che sorregge il resto
del corpo. Dovrò usare la telecinesi. Forse, se riesco a spingerlo all'indietro...
Non c'è più. La telecinesi non funziona più. Disattivata, proprio come prima. Ho fallito.
Setrákus Ra sorride: le sue Eredità stanno tornando. Si accovaccia per guardarmi dritto negli
occhi. «L'altro motivo è che così potrai vedermi arrostire questo pianeta.» Si rialza e con un
gesto noncurante mi sferza con la frusta.
Le tre teste infuocate mi colpiscono in faccia. Sono immune alle fiamme, ma mi restano tre
solchi sulla guancia. Bastano a farmi mollare la presa. Sto precipitando.
Mentre cado verso il fiume, sento tornare le Eredità: devo essermi allontanato a sufficienza da
Setrákus Ra. Uso la telecinesi per rallentare la caduta, ma l'impatto con l'East River è comunque
violento. L'acqua lercia m'invade i polmoni, e per un orribile istante non so più distinguere l'alto
dal basso, non so in che direzione nuotare. Riesco a tornare in superficie, rantolando e
boccheggiando, e cerco di nuotare controcorrente con un braccio solo. Col fiato mozzo, finisco
per nuotare a dorso. Sono esausto quando raggiungo la sponda, leggermente più a sud rispetto
all'ONU, e mi ritrovo circondato da spazzatura e pesci morti.
«John! Stai bene?» È Sam, che corre nel fango verso di me. Deve avermi visto cadere e mi ha
seguito fin qui. Rischia di scivolare nella melma per raggiungermi.
Riesco solo a emettere un mugolio a mo' di saluto. Penso di avere qualche costola rotta.
«Riesci a muoverti?» chiede, sfiorandomi delicatamente la spalla ferita.
Annuisco. Col suo aiuto mi rimetto in piedi. Sono fradicio, pieno di lividi, con qualche osso
rotto e tre lunghi tagli sul viso. Non so da dove cominciare l'opera di guarigione. «Dov'è Nove?»
riesco a chiedere.
«L'ho perso nel caos», risponde Sam, e gli si spezza la voce. «Lui e Cinque si stavano
ammazzando. Walker e i suoi stanno cercando di far evacuare i civili. È un pandemonio laggiù.
John, che facciamo?»
Apro la bocca, sperando che se inizio a parlare mi verrà in mente un piano, ma un'esplosione
a poca distanza m'interrompe. L'impatto è così potente da farmi battere i denti.
L'astronave da guerra dei Mogadorian ha appena aperto il fuoco su New York.
29

Gli occhi di Otto, braci lucenti di loralite pura, ci fissano. Indugiano più a lungo su Adam:
così a lungo che il nostro alleato mogadorian fa un passo indietro con aria nervosa. Io e Marina
restiamo immobili a fissare il nostro amico risvegliato a una specie di vita.
Otto resta sospeso sopra il pozzo del Santuario, in una colonna di energia. No, anzi, non si
limita a restare sospeso: l'energia è parte di lui. Sono praticamente certa che non sia il nostro
amico spiritoso e goffo quello che galleggia lassù. Ma, qualsiasi cosa sia, avverto con quell'entità
uno strano legame, come se la stessa energia che ha rianimato Otto scorresse anche dentro di me.
È la stessa sensazione che provo quando uso le mie Eredità. Forse sto guardando l'essenza di ciò
che mi rende una Loric, ciò che fa di me una Garde. Forse sto guardando Lorien.
«Due Loric e un Mogadorian», dice l'entità dopo averci scrutati a lungo. La sua voce non
somiglia affatto a quella di Otto: sono cento voci che parlano all'unisono, perfettamente
sincronizzate. I lampi di energia emanati da quelli che erano gli occhi di Otto si posano di nuovo
su Adam, le labbra si serrano in un'espressione incuriosita. «Ma non del tutto. Tu sei qualcosa di
diverso. Qualcosa di nuovo.»
«Be', grazie», mormora Adam, e fa un altro passo indietro.
Marina si schiarisce la voce e si avvicina al pozzo. Ha le lacrime agli occhi. Distende le
braccia davanti a sé, come se volesse prendere per mano l'entità e assicurarsi che esista davvero.
«Otto, sei tu?» La sua voce è appena avvertibile, sopra la pulsazione ritmata che rintrona ancora
da dentro il pozzo.
L'entità volge lo sguardo su Marina e si rabbuia. «No, mi dispiace, figliola. Il tuo amico se n'è
andato.»
Marina incurva le spalle, delusa. L'entità che abita il corpo di Otto allunga una mano per
confortarla, ma la ritrae quando una scarica di energia crepita tra loro. «Adesso lui è con me»,
dice, in tono rassicurante. «Mi è di grande aiuto, perché mi permette di parlare attraverso di lui.
Da molto tempo non avevo più una voce.»
«Sei Lorien?» riesco finalmente a chiedere. «Sei... il pianeta?»
L'entità sembra riflettere sulla mia domanda. Attraverso la stoffa sottile della maglietta di Otto
vedo che la ferita inizia a brillare di luce azzurra: tutto il corpo trabocca di quell'energia. «Un
tempo mi chiamavo così, sì.» Indica le incisioni che sfavillano sulle pareti. «Altrove portavo altri
nomi. E oggi, su questo pianeta, avrò un nome nuovo.»
«Sei un dio», mormora Marina.
«No. Semplicemente, sono.»
Scrollo la testa. Qualsiasi cosa sia, deve aiutarci. Non abbiamo tempo per gli indovinelli.
All'improvviso mi sento stanca, non ne posso più di pitture rupestri e profezie e gente che luccica.
«Sai cosa sta succedendo?» chiedo a Otto... a Lorien... a chiunque sia. «I Mogadorian ci stanno
invadendo.»
Gli occhi dell'entità si posano ancora su Adam. «Non tutti, vedo.»
Adam sembra a disagio.
L'entità distoglie rapidamente lo sguardo e lo sposta sul soffitto. Sembra che quegli occhi
luminosi riescano a vedere fuori dal tempio, che riescano a vedere tutto. «Sì. Stanno arrivando»,
dice, e sembra quasi divertita dall'imminente invasione dei Mogadorian. «Il loro capo mi dà la
caccia da molto tempo. I vostri Antenati hanno previsto la caduta di Lorien e hanno scelto di
proteggermi. Mi hanno nascosto qui sperando di ostacolare i suoi piani.»
«Non ci sono riusciti benissimo», ribatto.
Marina mi dà di gomito.
Per un momento, sul volto dell'entità si dipinge una profonda tristezza. «Tanti dei miei figli
sono scomparsi per sempre», continua, in tono amaro. «Immagino che ora siate voi gli Antenati
loric.»
«Siamo Garde», dico, correggendo quell'energia divina e millenaria. Non c'è più tempo da
perdere. «Siamo venuti a chiederti aiuto.»
«Antenati, Garde, Cêpan... questi sono i nomi con cui i Loric hanno scelto di chiamare i miei
doni. Non è necessario che sia così anche in questo luogo. Non è necessario che sia alcunché.»
L'entità fa una pausa di riflessione. «Quanto all'aiuto, non so cosa posso offrirvi, bambina.»
Altra confusione, altri indovinelli. Non pensavo certo che venendo al Santuario avremmo
scatenato una forza potentissima capace di spazzare via tutti i Mogadorian, come ironizzava
Nove; ma mi aspettavo almeno di trovare qualcosa che potesse aiutarci. I nostri amici sono in
pericolo di vita, l'invasione mogadorian sta iniziando, e io sono quaggiù a chiacchierare con
un'entità immortale che parla per enigmi.
«Non è abbastanza.» Scoraggiata, faccio un passo verso l'entità. Sento fremere l'energia
intorno a me. L'elettricità statica mi fa rizzare i capelli.
«Sei, sta' attenta», sussurra Adam.
Ignoro il suo avvertimento. «Siamo venuti fin qui per risvegliarti, abbiamo perso i nostri
amici! Devi fare qualcosa!» grido all'onnipotente Lorien. «Oppure ti sta bene che Setrákus Ra
marci su questo pianeta e lo distrugga? Che uccida tutti i terrestri? Hai intenzione di lasciar
accadere una cosa del genere per la seconda volta?»
Il volto di Otto aggrotta le sopracciglia. Uno squarcio si apre sulla sua fronte e inizia a
emanare energia. Marina si copre la bocca e soffoca un grido. Sembra che il corpo di Otto sia
cavo all'interno, che l'energia lo stia lentamente sgretolando.
«Mi dispiace, figliola», dice l'entità a Marina. «Questo involucro non potrà contenermi a
lungo.» Poi torna a voltarsi verso di me. Non dà segno che le mie parole l'abbiano offesa, o che
abbiano sortito un qualunque effetto su di lei. La sua voce è ancora melodiosa e paziente: «Non
approvo la distruzione ingiustificata della vita, ma non stabilisco io i destini. Non giudico. Se la
volontà dell'universo è che io cessi di essere, allora cesserò. Esisto soltanto per elargire i miei
doni a chi è disposto a riceverli».
«Io sono disposta a riceverli.» Allargo le braccia. «Riempimi di doni. Dammi le Eredità di
cui ho bisogno per distruggere Setrákus Ra e la sua flotta, e ti prometto che lascerò in pace le tue
chiappe luccicanti.»
L'entità sorride. Altre crepe si formano lungo il dorso delle mani di Otto: l'energia sta
fuoriuscendo. «Non è così che funziona.»
«E allora come cavolo funziona?» grido. «Dicci cosa dobbiamo fare!»
«Non resta niente da fare, figliola. Mi avete risvegliato e mi avete infuso nuova forza. Ora
appartengo alla Terra, e così i miei doni.»
«Ma in che modo questo ci aiuterà a vincere? A cos'è servito tutto quanto?»
L'entità m'ignora. Immagino che non abbia altre perle di saggezza da condividere. Guarda
Marina e le dice: «Non gli resta molto, figliola».
«A chi?» domanda lei. Ma credo che abbia capito.
Senza un'altra parola, l'entità chiude gli occhi. Il corpo di Otto inizia a tremare, l'energia lo
abbandona. Le crepe sul dorso delle mani smettono di brillare e si richiudono, così come quella
che gli si era aperta sulla fronte. Dopo qualche secondo, l'unica parte che brilla è la ferita in
corrispondenza del cuore.
Il corpo fuoriesce dalla colonna di energia e si ferma davanti a Marina. Apre gli occhi: non
luccicano più. Sono verdi com'erano prima: sereni, ma con una scintilla della sua inconfondibile
presenza di spirito. Quando vede Marina, incurva lentamente le labbra in un sorriso. «Ehi, ciao»,
dice con la sua voce, la voce di Otto.
È lui. È davvero lui.
Marina singhiozza per la gioia e si piega quasi in due. Ma si ricompone subito, e prende Otto
prima per le spalle e poi per le guance. Lo tira a sé. «Sei caldo», mormora, meravigliata. «Sei
così caldo.»
Otto scoppia a ridere, prende la mano di Marina e la bacia delicatamente. «Sei calda anche
tu.»
«Mi dispiace tanto, Otto. Mi dispiace di non essere riuscita a curarti.»
Otto scrolla la testa. «Marina, non fa niente. Mi hai portato qui. È... non riesco neppure a
descriverlo. È fantastico lì dentro.»
Vedo già l'energia spandersi dal cuore di Otto verso l'esterno. Gli invade tutto il corpo, gli
apre squarci su braccia e gambe. Ma non sembra fargli del male. Otto sorride a Marina e la
guarda come se volesse memorizzarne il viso.
«Posso baciarti?» gli chiede lei.
«Mi piacerebbe molto.»
Marina lo abbraccia stretto, lo bacia.
E l'energia abbandona Otto. Lentamente, il corpo inizia a disfarsi.
È diverso dal modo in cui si disintegrano i Mogadorian. È come se, per un attimo, riuscissimo
a vedere ogni cellula del corpo di Otto e l'energia proveniente dal pozzo rilucere tra una cellula e
l'altra. L'uno dopo l'altro quei pezzi si dissolvono e Otto diventa tutt'uno con la luce. Marina cerca
di restargli aggrappata, ma le sue dita stringono solo l'energia.
Se n'è andato. La luce rifluisce nel pozzo e rientra sottoterra. Il battito del cuore si abbassa di
volume: lo sento ancora, ma solo se tendo l'orecchio. Nella sala tornano il silenzio e il buio,
tranne per le incisioni luminescenti alle pareti. Sento una folata d'aria fresca sulla schiena e,
voltandomi, vedo che sulla parete si è aperta una porta che conduce a una scala, in cima alla
quale si vede la luce del sole.
Marina si accascia contro di me, scossa dai singhiozzi. L'abbraccio e mi sforzo di non
piangere anch'io.
Adam cerca di non fissarci troppo e si asciuga l'angolo di un occhio. «Dobbiamo andare. Gli
altri hanno bisogno del nostro aiuto.»
Annuisco. Mi domando se abbiamo combinato qualcosa di utile quaggiù. È stato bellissimo
rivedere Otto, anche se per pochi minuti. Ma la mia conversazione con l'entità cosmica che ci
assegna le Eredità non mi ha fornito molte risposte. E nel frattempo manca poco all'invasione dei
Mogadorian, se già non è iniziata.
Marina mi stringe il braccio. «L'ho vista, Sei», mi sussurra. «Mentre lo baciavo, ho visto
l'interno della cosa... Lorien, l'energia, come la vuoi chiamare.»
«Certo», le dico per confortarla, anche se non abbiamo tempo per queste cose. «E allora...?»
Marina mi sorride. «Si sta diffondendo, sulla Terra. Si sta diffondendo ovunque.»
«Cosa significa?» chiede Adam.
Marina si asciuga le guance e drizza la schiena. «Significa che non siamo più soli.»
30

I grattacieli bruciano.
Scappiamo.
L'astronave mogadorian sorvola New York, bombardando un isolato dopo l'altro con gli
enormi cannoni che sparano energia. Ha già partorito decine di navicelle da ricognizione, armate
a loro volta, che s'infilano nei viali e scaricano a terra guerrieri pronti a sparare a tutti i civili che
incontrano.
Anche altre cose sono saltate giù dall'astronave. Cose affamate, arrabbiate. Non ne ho ancora
vista nessuna: ho solo sentito i loro terribili ululati sopra il frastuono delle esplosioni. I piken.
New York è perduta, questo è certo. Ormai è impossibile fermare i Mogadorian. Non so cosa
stia succedendo nelle altre città in cui sono state avvistate astronavi da guerra. La rete cellulare è
in tilt, il mio telefono satellitare è affondato nell'East River.
Possiamo solo fuggire. Come ho sempre fatto per tutta la vita. Ma ora, purtroppo, un milione
di persone fugge con me.
«Correte!» grido a tutti quelli che incontriamo. «Correte finché non vedete più le loro
astronavi! Sopravvivete, radunatevi e li sconfiggeremo!»
Sam è con me: è pallidissimo e sembra sul punto di vomitare. Non ha visto ciò che i
Mogadorian hanno fatto a Lorien. Aveva passato momenti difficili con noi, ma mai niente del
genere. Ho l'impressione che avesse sempre pensato che avremmo vinto. Non immaginava che
questo giorno sarebbe davvero arrivato.
L'ho deluso.
Non so dove siano Nove e Cinque. Non ci sono nuove cicatrici sulla mia caviglia, quindi non
si sono ancora ammazzati a vicenda.
Ho perso anche l'agente Walker. Lei e i suoi uomini sono rimasti soli: spero che
sopravvivano. Forse avranno l'intelligenza di venirci a cercare alle Residenze Ashwood. Sempre
che io e Sam riusciamo ad arrivare fin lì.
Corriamo nelle strade piene di fumo, aggiriamo auto ribaltate, ci arrampichiamo sulle
macerie. Quando ci passa accanto una delle navicelle da ricognizione, ci tuffiamo in un vicolo o
dentro un portone.
Potrei combattere. Con tutta la rabbia che sento dentro, sono sicuro che potrei fare a pezzi i
Mog. Riuscirei ad abbattere una navicella, da solo.
Ma non sono solo.
Una ventina di superstiti segue me e Sam. Una famiglia che ho tirato giù con la telecinesi da
un balcone in fiamme, due poliziotti imbrattati di sangue, un gruppo di persone uscite dal
ristorante in cui si erano nascoste, e altri ancora.
Non posso salvare tutta la città, ma farò il possibile. Non devo cercare lo scontro coi Mog,
almeno finché non avrò messo al sicuro queste persone.
Ma è lo scontro a trovare me.
Attraversiamo un incrocio in cui i cavi dell'alta tensione caduti dai pali sono avvolti intorno
alla carcassa bruciata di un autobus, e ci ritroviamo davanti una dozzina di guerrieri mog. Ci
puntano i fucili addosso, ma li respingo con una sfera di fuoco prima che riescano a sparare.
Quelli che non finiscono inceneriti all'istante vengono colpiti dai poliziotti dietro di me.
Mi guardo alle spalle e rivolgo un cenno agli agenti. «Bella mira.»
«Ti guardiamo le spalle, John Smith», dice uno di loro.
Non mi viene neppure in mente di chiedergli come faccia a sapere il mio nome.
Percorriamo qualche altro isolato, poi sentiamo delle grida. Svoltando l'angolo troviamo una
giovane coppia che cerca di fuggire da un condominio in fiamme passando per la scala
antincendio. Sembra che i bulloni si siano staccati dal muro vicino al tetto, e ora la scala penzola
sopra la strada come un dito piegato. Al quinto piano, il ragazzo è scivolato oltre la ringhiera, e la
fidanzata sta cercando disperatamente di tirarlo dentro.
Rivedo il viso di Sarah. Non devo farmi ammazzare, mi dico. Presto saremo di nuovo
insieme. Corro verso la scala antincendio e la sorreggo con la telecinesi. «Lasciatevi cadere! Vi
prendo io!» grido alla coppia.
«Sei impazzito?» strilla il ragazzo.
Non abbiamo tempo di stare a discutere, quindi li afferro entrambi con la telecinesi e li stacco
dalla scala. Mentre li sto calando a terra, sento passi pesanti venire verso di me.
«John, attento!» grida Sam.
Giro la testa. È un piken, e galoppa verso di me a tutta velocità: le sue fauci grondano bava, le
zanne sono affilate come rasoi.
Sento gridare qualcuno nel mio gruppo. I poliziotti sparano al mostro, ma non lo rallentano
neppure. Gli altri hanno il buonsenso di fuggire. Ma la direzione in cui fuggono li porta dritti sotto
la scala antincendio. Che ovviamente sceglie proprio quell'istante per staccarsi completamente
dall'edificio.
Ho ancora i due ragazzi sospesi in aria, e ora sorreggo con la telecinesi anche la scala. Cerco
di trovare le energie per attivare il Lumen, ma non ci riesco. Sono esausto, è troppo faticoso.
Il piken mi è quasi addosso.
Mi torna in mente il viso di Sarah. Devo provarci. Stringo i denti e mi sforzo ancora.
Con un boato, un'onda di energia colpisce il piken e lo scaraventa in aria. Le zampe
muscolose si agitano vanamente. Atterra di schiena sopra un segnale di stop, impalato all'altezza
del cuore.
Non sono stato io.
Calo i due ragazzi a terra, al sicuro, getto da parte la scala e mi volto nella direzione da cui è
provenuta l'onda di energia.
Sam mi fissa, immobile. Tiene le mani aperte di fronte a sé, come se avesse appena spintonato
il piken e non avesse ancora completato il gesto. Batte lentamente le palpebre. Si guarda le mani,
poi guarda me. «Porca miseria, sono stato io?»
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