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Master Universitario annuale di I livello

in
“Metodologie didattiche per
l’insegnamento della lingua italiana a
stranieri - Didattica dell’Italiano L2”

Modulo 3 – Insegnare la lingua e


insegnare la cultura

Area 1–L’analisi dei bisogni comunicativi


dei discenti‒ SSD: L-LIN/01 -L-LIN/02

Prof. Giuseppe Maccauro


Dottore di ricerca - Docente di Italiano L2
Indice

1. Dinamiche psicologiche nel processo di apprendimento


1.1. Introduzione
1.2. Linguistica acquisizionale e didattica dell’italiano L2
1.3. L’influsso della L1 sul processo di apprendimento della L2
1.4. Il progetto Pavia

2. Processi di apprendimento I: l’italiano a immigrati


2.1. Introduzione
2.2. Il profilo “immigrati”
2.3. Le varietà del “nuovo” italiano
2.4. L’italiano a immigrati: orientarsi nella didattica
2.5. Le finalità dell’intervento didattico

3. Processi di apprendimento II: l’italiano LS a bambini e adulti


3.1. Introduzione
3.2. Insegnare l’italiano L2 ai bambini
3.3. Gli obiettivi della glottodidattica dell’italiano a bambini
3.4. Insegnare l’italiano L2 a studenti universitari
3.5. Le competenze “in entrata” e bisogni comunicativi dello studente universitario
3.6. L’italiano specialistico e la didattica a studenti universitari
3.7. Obiettivi didattici dell’italiano L2 a studenti universitari
3.8. L’italiano L2 a studenti di origine italiana
3.9. Elementi di variabilità nella lingua italiana degli emigrati
3.10. Aspetti glottodidattici dell’italiano come lingua di origine
4. Processi di apprendimento III: l’italiano L2 tra didattica della
lingua cultura
4.1. Introduzione
4.2. Insegnare la cultura
4.3. Tra inculturazione e acculturazione
4.4. I corsi di storia dell’arte italiana
4.5. I corsi di cinema e di letteratura italiana
1. Dinamiche psicologiche nel processo di apprendimento

Introduzione
La possibilità di scoprire il funzionamento dei sistemi cognitivi che
regolamentano i processi di apprendimento della lingua L2 negli uomini
è una sorta di miraggio, o di “terra promessa”, della ricerca. Conoscere in
modo approfondito questo genere di meccanismo, infatti, consentirebbe
agli operatori della didattica delle lingue, a tutti i livelli, di entrare
metaforicamente nella testa del discente e realizzare dei piani formativi
che siano diretta espressione del funzionamento del cervello umano.
Verrebbe a cadere, in sostanza, quel limite di separazione fra l’attività del
docente e quella dei discenti, lo stesso limite che rende il lavoro
dell’insegnante al contempo arduo ed entusiasmante: nascerebbe la
possibilità di somministrare prodotti didattici già pronti per essere
metabolizzati dagli studenti, perché capaci di entrare in perfetta
risonanza con i ritmi di apprendimento del cervello umano.
Non è un caso se le scienze che si interrogano sul funzionamento del
cervello abbiano cercato di aggirare il problema dell’insegnamento della
lingua concentrandosi sulle forme di apprendimento spontaneo (quelle
che avvengono nei bambini, per intendersi): la possibilità di riprodurre
stimoli simili a quelli che colpiscono l’individuo nel corso dei suoi primi
anni di vita, e che gli permettono di apprendere in un tempo
sorprendentemente breve una lingua, rappresenterebbe la chiave per
riattivare canali cognitivi che – è il senso comune a dimostrarcelo –
sembrano funzionare a pieno regime soltanto nei bambini, e
sclerotizzarsi man mano che il tempo trascorre. Ma è davvero possibile
paragonare il percorso di apprendimento della L1 e quello della L2? È
possibile istituire una relazione fra il processo di acquisizione di una
lingua da parte di un individuo che ancora non si esprime
linguisticamente, e il processo che comporta l’innestarsi di una L2 sulla
lingua materna?

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È molto facile constatare che i due processi non sono simili:
l’acquisizione della L2, di fatto, avviene attraverso un complesso
meccanismo di interazione con la L1, che provoca delle inevitabili
differenze rispetto a quanto era accaduto, nel medesimo individuo, al
momento in cui da bambino scopriva come esprimersi attraverso la
lingua madre.
La linguistica acquisizionale – tema che qui introduciamo e che
tratteremo nelle seguenti pagine, soprattutto in relazione alla didattica
dell’italiano L2 – è probabilmente la branca della linguistica che ha
meglio interpretato questo tipo di problemi, e che oggi offre il numero
più cospicuo di risposte a chi si interroga su di essi a partire dalla
prospettiva dell’insegnamento della L2. Chiariamo in primis un aspetto
legato al nome della disciplina, che ha valore illuminante per
comprenderne la prospettiva generale: l’aggettivo acquisizionale, infatti, è
dovuto alla particolare attenzione che essa pone sul problema della
acquisizione della lingua, ovvero sui meccanismi inconsci, o spontanei,
che regolamentano le sequenze di acquisizione. La differenza fra
acquisizione e apprendimento, come abbiamo già avuto modo di vedere,
risiede proprio nel fatto che il concetto di apprendimento rimanda ad
una dimensione di riflessione sulla lingua, che è poi tipica dei contesti
scolastici. Quando parliamo di acquisizione, invece, ci richiamiamo
all’ambito molto differente dei contesti come, ad esempio, quello
migratorio, in cui adulti, senza frequentare percorsi scolastici o formativi,
acquisiscono una L2. La linguistica acquisizionale è infatti la disciplina che
studia le sequenze di apprendimento spontaneo dell’italiano da parte di apprendenti
adulti.
Troviamo qui sottolineato il principale aspetto di novità che caratterizza
la linguistica acquisizionale: essa di fatto rinuncia a considerare assimilabili i
processi di apprendimento della L1 e della L2, e si focalizza in modo molto specifico
sui secondi.

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La glottodidattica proprio per questi motivi si è incontrata, negli ultimi
anni, con le scienze psicologiche e con le scienze cognitive e sebbene il
miraggio della piena conoscenza dei meccanismi dell’apprendimento
umano sia destinato a rimanere tale, importanti progressi nella
suadirezione sono comunque possibili. Negli ultimi decenni, inoltre, si è
tentato di applicare i principi della linguistica acquisizionale alla
glottodidattica dell’italiano L2, soprattutto a fronte della crescente
casistica di adulti che si sono trovati nella necessità di apprendere la
nostra lingua. Il numero di adulti impegnati in processi spontanei di
apprendimento della lingua italiana, dovuto al fenomeno
dell’immigrazione, è enormemente aumentato negli ultimi anni e
costituisce un tema di grande novità e interesse.

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Linguistica acquisizionale e glottodidattica dell’italiano L2
La linguisticaacquisizionale ha cercato sin dal principio di
comprendere il funzionamento dei meccanismi di apprendimento
spontaneo della lingua. Come anticipato, questo tipo di ricerca ha
prodotto molto spesso la percezione dell’esistenza di una struttura
cognitiva universale, che potesse dare ragione delle forme e delle
modalità in cui l’apprendimento avviene. Una delle domande cui si è
cercato di dare risposta è la seguente: esistono degli universali di
apprendimento? È possibile immaginare che un giorno potremo avere la
loro mappatura?
La difficoltà di fornire una risposta positiva al quesito appena posto, ha
suggerito di modificare in modo leggero, ma decisivo, il punto in
questione: si è cercato, nel tempo, di abbandonare la strada della ricerca
degli universali linguistici, preferendo piuttosto l’indagine svolta su
campioni di parlanti allo stesso livello di competenza, attraverso la quale
rintracciare gli elementi di continuità nello sviluppo della interlingua
individuale. La linguistica acquisizionale, in sostanza, ha riconosciuto che
lo sviluppo della competenza avviene attraverso canali che non sono affatto isolati
rispetto al mondo esterno, al retroterra culturale dell’individuo, alla società in cui è
inserito, alla motivazione all’apprendimento, ecc. Questi fattori di
differenziazione suggeriscono molta cautela in coloro i quali ritengono
possibile rintracciare le sorgenti universali delle forme di apprendimento
linguistico.

L’ipotesi dell’esistenza degli universali linguistici, tuttavia, non è stata un


abbaglio dei ricercatori. La potremmo definire come un’illusione ottica,
generata dalla osservazione del processo di apprendimento della L2 e
della gradualità con cui esso avviene. In effetti è parso a molti possibile

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parlare di universali linguistici perché, soprattutto agli stadi iniziali, il
processo di apprendimento sembra si verifichi in modo molto simile per tutti gli
individui. È solo in seguito, dunque, che inizia ad agire sull’interlingua la
serie dei fattori individuali (estrazione socio-culturale, motivazione, ecc.),
che dà origine a percorsi di apprendimento estremamente differenziati.

Possiamo trarre una indicazione di grande rilievo dagli sviluppi della


linguistica acquisizionale. L’indicazione riguarda la grande importanza
che, nel processo di apprendimento, viene riconosciuta agli elementi di
natura culturale. Ed è tanto più notevole, l’indicazione, perché proviene
da un ambito di studi, quale è quello della linguistica acquisizionale,
strettamente intrecciato con alcune “scienze dure”, come la
neurobiologia. L’indicazione ci dice che l’ambito dell’apprendimento
delle lingue non è fatto di leggi fisse e, per così dire, “naturali”, ma è
influenzato in modo molto netto da fattori culturali, di fatto,
imprevedibili. Non esiste un apriori del processo di apprendimento della
lingua, ma c’è soltanto la sensibilità dell’insegnante che, coadiuvato dagli
strumenti messi a disposizione dalla ricerca, può cogliere i processi di
sviluppo della interlingua e intervenire laddove il caso lo richiede.

Il richiamarsi che si è fatto, negli ultimi anni, alla linguistica


acquisizionale da parte del mondo della glottodidattica dell’italiano
L2, è stato dovuto soprattutto alla percezione degli stravolgimenti che il
fenomeno migratorio stava producendo sul mondo dell’insegnamento
dell’italiano come L2. La linguistica acquisizionale, in questo frangente, è
stata percepita come risposta adatta a fornire, se non altro, un solido
punto di partenza teorico per affrontare le sfide che il futuro sembrava
riservare.
Quali convinzioni ha prodotto l’intreccio di linguistica acquisizionale e
glottodidattica dell’italiano L2? Dobbiamo dire, in primo luogo, che
l’osservazione dei fenomeni di apprendimento spontaneo della lingua da
parte degli stranieri giunti negli ultimi decenni nel nostro territorioha

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potuto confermare l’ipotesi dell’esistenza di una progressionedel processo di
apprendimento della lingua. In sostanza la competenza sembra svilupparsi
seguendo dei percorsi precisi, che possono essere valutati e misurati
attraverso delle griglie interpretative.
Non è un caso se in ambito di linguistica acquisizionale grande successo
abbia riscontrato il concetto di interlingua, proposto da Selinker nel
1972 e del quale abbiamo già avuto modo di parlare. Non torneremo,
dunque, sul problema dell’interlingua, ma dobbiamo constatare
l’importanza che esso ha avuto nella definizione di una scala degli stadi di
sviluppo della competenza della lingua italiana appresa come L2. Tali stadi
di sviluppo quantificano il livello di interferenza che esiste fra la L1 e la
L2 che il parlante sta apprendendo. Sul piano dello sviluppo delle
competenze fonologiche, vengono individuati cinque stadi, che
corrispondono ad altrettanti livelli di interferenza fra la lingua madre e la
lingua italiana che si sta apprendendo:
1. Varietà prebasica: il livello di interferenza è molto alto. Questo
livello di interferenza segnala l’esistenza di una interlingua allo
stato molto iniziale.
2. Varietà basica: il livello di interferenza è alto e i tratti interferenziali
sono marcati. L’interlingua è ad un livello iniziale
3. Secondo stadio: le interferenze esistono e sono sensibili.
L’interlingua è a un livello intermedio.
4. Terzo stadio: sussistono interferenze fra L1 e L2. Il livello
dell’interlingua è intermedio.
5. Quarto stadio:i tratti di interferenza vengono evitati e, quando si
presentano, non sono troppo marcati. L’interlingua è a uno stadio
avanzato.

Lo stesso schema vale per lo sviluppo della competenza circa le regole


morfologiche dell’italiano:
1. Varietà prebasica: ad uno stadio molto iniziale l’interlingua presenta
alcune caratteristiche fra le quali l’assenza del sistema degli

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articoli, l’indistinzione delle parti del discorso, l’utilizzo della
formula c’è come polifunzionale, la quasi totale assenza di
morfologia.
2. Varietà basica: l’interlingua è a uno stadio iniziale. Le caratteristiche
sono in particolare il frequente ricorso alla semplificazione, la
scelta di forme non marcate, un’embrionale sensibilità
morfologica.
3. Secondo stadio: allo stadio intermedio l’interlingua presenta alcune
caratteristiche come l’aumento della sensibilità morfologica,
l’acquisizione della categoria del numero, il persistere di tratti di
semplificazione e l’acquisizione di forme morfologiche regolari.
4. Terzo stadio:l’interlingua, che adesso è allo stadio intermedio, inizia
ad arricchirsi attraverso l’acquisizione di forme morfologiche non
regolari, dal momento che aumenta la sensibilità morfologica del
parlante.
5. Quarto stadio: è lo stadio dell’interlingua avanzata. La competenza
morfosintattica risulta soddisfacente.

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L’influsso della L1 sul processo di apprendimento dell’italiano L2
I processi di acquisizione risentono in parte dell’influsso delle L1 degli
apprendenti, che si manifesta nei fenomeni di interferenzadi strutture della
L1 sulla L2. L’interferenza si riscontra in dipendenza di quattro fattori:

1. Età: gli adulti mostrano l’influsso delle strutture della loro L1 più dei
bambini. Sappiamo infatti dalla neurobiologia che, a partire dalla
prima adolescenza, si innescano nel cervello i cosiddetti fenomeni di
mielinizzazione delle sinapsi neuronali. Tali fenomeni costituiscono un
aumento, in termini di efficienza, dei processi neuronali già acquisiti,
ma, allo stesso tempo, una perdita di elasticità del cervello per quanto
riguarda la creazione di nuove connessioni.
2. Stadio di apprendimento: la quantità di parole e di strutture disponibile in
stadi più avanzati offre maggiori possibilità di identificazione con
parole e strutture della L1.
3. Distanza tipologica: chiunque abbia fatto esperienza di docenza di
italiano come L2 in classi plurilingue ha avuto occasione di notare la
facilità con la quale i parlanti madrelingua spagnoli, portoghesi, o
francesi, compiono progressi nella competenza. All’opposto è
osservabile la lentezza con cui progredisce un madrelingua tedesco, o
cinese. La difficoltà di alcuni parlanti rispetto ad altri è dovuta al tipo
di L1 che questi parlano: entra in gioco la distanza fra la tipologia
linguistica della propria L1 e quella della L2.

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4. Componente del sistema linguistico: le interferenze possono avvenire su più
piani del sistema linguistico: più permeabile a interferenze è la
fonologia, sulla quale si riverberano, soprattutto agli stadi iniziali della
interlingua, tutte le differenze di pronuncia fra laL1 e la L2; meno
permeabili, nell’ordine, il lessico, la sintassi, la morfologia. La relativa
vicinanza tipologica tra la L1 dell’apprendente e l’italiano è riflessa in
misura proporzionale nella crescente permeabilità alle interferenze di
tutte le componenti del sistema linguistico. Una lingua
tipologicamente più vicina all’italiano produrrà un maggior numero di
interferenze sull’interlingua dell’apprendente, che tenderà a ricorrere
alle componenti della propria L1, vista la loro “spendibilità” nella
comunicazione in L2.

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Il Progetto Pavia
Come si è giunti alla codificazione del processo di apprendimento
dell’italiano L2? Come dicevamo, è stata da tempo riconosciuta
l’importanza dell’immigrazione sulla storia e sullo sviluppo della
linguistica italiana e, soprattutto, della glottodidattica dell’italiano. I primi
passi della linguistica acquisizionale dell’italiano sono stati mossi all’inizio
degli anni ’80 quando sono state gettate le basi per la nascita del Progetto
Pavia. Il Progetto Pavia – un progetto interuniversitario che ha coinvolto
studiosi di Bergamo, Torino, Trento, Roma e Siena – aveva come
principale obiettivo la raccolta e la creazione di un corpus del parlato di
apprendenti adulti. Se si fa eccezione per Roma e Siena, si nota che i
territori su cui la ricerca è stata condotta sono quelli investiti per primi e
in modo più pesante dal fenomeno dell’immigrazione, che prende piede
proprio sul finire degli anni ’70, quando l’Italia si trasforma in uno dei
poli d’attrazione dei flussi migratori. L’utilità del corpus è quella di
individuare le sequenze naturali di sviluppo dell’interlingua in contesti di
apprendimento spontaneo e fornire dati per una sua mappatura.
La presenza di un crescente numero di immigrati sul territorio nazionale
ha rappresentato, per gli studiosi coinvolti nel progetto, un interessante
punto di vista per l’osservazione di un fenomeno nuovo nella storia della
nostra lingua, perché per la prima volta da lunghissimo tempo si è potuto
assistere al comportamento di persone intente ad apprendere la lingua al

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di fuori di percorsi istituzionali: il caso degli immigrati forniva un
esempio paradigmatico di apprendimento spontaneo ai ricercatori del Progetto
Pavia. L’obiettivo generale del progetto, d’altra parte, era proprio di
scoprire quali aspetti cognitivi entrano in gioco al momento
dell’apprendimento di una L2, e di comprendere se esistono delle forme
fisse e ricorsive nel loro funzionamento.

I risultati della linguistica acquisizionale (e dei progetti di ricerca ispirati


ad essa, come lo stesso Pavia) sono stati molteplici e se da un lato hanno
prodotto un progressivo deteriorarsi dei convincimenti teorici che erano
alla base della disciplina stessa (come nel caso della convinzione circa
l’esistenza di strutture cognitive universali dell’apprendimento della
lingua), dall’altro hanno apportato una serie di contributi allo sviluppo della
didattica comunicativa.
Uno dei punti su cui la linguistica acquisizionale ha permesso di
soffermarsi con grande profondità critica è rappresentato dal tema,
centrale anche nel Quadro comune europeo, dell’apprendente e dei suoi bisogni.
Potremmo dire, di fatto, che l’attenzione per i contesti di apprendimento
spontaneo ha permesso che lo scandaglio della ricerca si soffermasse sul
bisogno comunicativo e sull’importanza che acquisisce per incentivare
l’apprendimento. Infatti è solo il bisogno del singolo, e non lo stimolo
proveniente dal docente, a costituire il traino dell’apprendimento da
parte di chi studia una L2 in ambiente extrascolastico. È stato inoltre
possibile approfondire l’aspetto del bisogno comunicativo in una
prospettiva estremamente ricca, quale era quella fornita dallo studio dello
sviluppo delle competenze (o dell’interlingua), così da offrire contributi
illuminanti sul tipo di strategia acquisizionale che lo studente dell’italiano
L2 mette in pratica.

Al di là della difficoltà e dell’alto livello di astrazione teorica di certi


concetti della linguistica acquisizionale, è necessario riconoscere il
contributo che essa ha saputo fornire alla ricerca in ambito

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glottodidattico, ovvero a quanti praticano il “mestiere” di insegnanti di
italiano L2. Anche se la linguistica acquisizionale non ha mai prodotto
contributi sulla teoria dell’insegnamento, né offerto indicazioni precise
sul tipo di lavoro che il docente dovrebbe svolgere in classe per essere
meglio compreso dai propri discenti, essa ha tuttavia rappresentato un
importante riferimento teorico per la chiarificazione del problema della competenza
linguistica e del suo progresso. Ciò le ha permesso di avere una forte
influenza, ad esempio, su quanti hanno partecipato alla stesura del Quadro
comune europeo di riferimento, soprattutto per quanto concerne gli argomenti
dell’interlingua e della teoria dell’errore.
Inoltre alla linguistica acquisizionale va il merito di aver colto, li abbiamo
visti prima, dei punti fermi nel processo di sviluppo della competenza e
di acquisizione della lingua, in corrispondenza con altrettanti aspetti della
morfologia o della fonologia della lingua italiana. Sappiamo, dunque, che
una interlingua ad uno stadio prebasico difficilmente acquisisce
competenza di forme irregolari della morfologia. Questo tipo di rilievi
può diventare uno strumento molto valido nelle mani del docente che si
trovi a stendere il sillabo per un intervento formativo.
Infine la linguistica acquisizionale ha rappresentato il punto di
riferimento di coloro i quali si sono interessati al tema della valutazione e
della certificazione delle competenze.

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2. Processi di apprendimento I: insegnare l’italiano a immigrati

Introduzione
Il fenomeno dell’immigrazione, diventato negli ultimi anni uno dei temi
più sensibili del dibattito culturale, politico ed economico nazionale ed
europeo, è ormai una componente strutturale della società italiana da
circa trenta anni a questa parte. Il comparto dell’educazione in tutti i suoi
aspetti e in tutte le sue derivazioni è uno di quelli in cui l’impatto del
fenomeno ha dato origine ai contraccolpi più evidenti e, di fatto,
rappresenta una delle principali sfide che attualmente gli operatori
nell’ambito dell’istruzione di trovano di fronte.
Nel volgere di un lasso di tempo relativamente breve, grazie al progresso
economico e al benessere diffusosi nel Paese, l’Italia, storicamente terra
di emigrazione per molti decenni, si è trovata a diventare una delle mete
predilette degli immigrati. La prima immigrazione ha riguardato in
prevalenza persone provenienti dalle ex repubbliche sovietiche e dal
nord-Africa, mentre più recentemente, a causa soprattutto delle
condizioni di instabilità politica e del cronico sottosviluppo economico
delle aree di origine, assistiamo all’arrivo in numero massiccio di
immigrati dai Paesi dell’Africa sub-sahariana e dal medio ed estremo
oriente.

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Il rimescolamento complessivo che il fenomeno migratorio ha prodotto
sulla società italiana ha creato, come facilmente prevedibile, la nascita di
una specifica esigenza formativa e linguistica: da un lato occorre fornire
ai nuovi arrivati cognizione del funzionamento del sistema dei
diritti/doveri del cittadino – e con esso la competenza, almeno in forma
elementare, intorno al funzionamento della macchina burocratica statale
e dei suoi apparati – oltre che una precisa formazione teorico-pratica per
la collocazione sul lavoro di persone sovente non abbastanza
specializzate; dall’altro si rivela necessario dotare ognuno della
competenza linguistica e comunicativa sufficiente per l’integrazione nel
tessuto sociale italiano. Entrambe le esigenze sono ispirate dalla necessità
di rendere autonomo ogni nuovo cittadino nel minor tempo possibile, senza che ciò
diminuisca l’efficacia complessiva dell’intervento.

L’importanza innegabile del fenomeno migratorio è stata riconosciuta a


più livelli, come dimostrano le iniziative europee dedicate alla formazione
e all’inserimento professionale degli immigrati (specialmente per quanti
di coloro rientrano fra la schiera dei titolari di protezione internazionale),
e i dispositivi di legge promulgati anche in Italia, che dovrebbero
regolamentare le pratiche di rilascio dei permessi di soggiorno (di cui
discuteremo a parte, in questo capitolo, perché il tema si intreccia con
quello della didattica dell’italiano L2).
Dal punto di vista squisitamente glottodidattico, invece, possiamo dire di
aver assistito, negli ultimi anni, alla nascita di un intenso dibattito, che ha
condotto alla individuazione di un nuovo profilo di apprendenti,
costituito per l’appunto dal pubblico degli immigrati. Questa tipologia di
profilo ha tratti e caratteristiche specifiche, tali da richiedere interventi
formativi mirati.

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Il profilo “immigrati”
Come abbiamo avuto modo di vedere, una delle prime conseguenze della
riflessione intorno al tema dell’insegnamento dell’italiano a immigrati è
stata l’individuazione di una tipologia glottodidattica specifica, che va
sotto il nome di italiano come lingua di contatto (Modulo 2, Area 2, Cap. 1:
La programmazione dei percorsi formativi). Il tipo di utenza che vive l’italiano
come lingua di contatto è rappresentata, in massima parte, proprio da
coloro i quali, adulti o bambini, si trovano nella condizione di “entrare”
nella nostra cultura attraverso la lingua, pur provenendo da un retroterra
culturale differente (e, a volte, molto differente).
Al di là del contesto in cui avviene il “contatto” con la lingua italiana (che
può essere molto vario, dai banchi di scuola per i più giovani, ai corsi dei
CPIA dedicati agli adulti), possiamo già segnalare diverse tipologie di
destinatari. Si tratta di uno spettro di utenza molto vasto, che va dai
discenti non alfabetizzati – sia adulti, sia bambini, che per la prima volta si
trovano nelle condizioni di apprendere la lingua italiana e che, caso
tutt’altro che raro, a volte effettivamente entrano in contatto per la prima
volta con l’istituzione scolastica proprio in Italia, non avendo avuto
modo di frequentarla nel proprio Paese di origine – a quelli già scolarizzati
e, in alcuni casi, anche dotati di qualifiche professionali, che quindi fruiscono

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di corsi di italiano L2 principalmente per migliorare la propria qualità di
vita ed il proprio livello di integrazione all’interno del Paese.

Fra le motivazioni che spingono l’utenza immigrata a scegliere di


frequentare corsi di lingua e cultura italiana, sia pubblici che privati, c’è
da alcuni anni anche la necessità stabilita da una legge del 2010 di dotarsi
di un certificato di conoscenza della lingua italiana. Secondo la legge,
comunemente chiamata Accordo di integrazione, il cittadino straniero che
intenda ottenere il permesso di lungo soggiorno (della durata di 5 anni)
deve presentare all’ufficio della Prefettura, insieme al resto della
documentazione, anche un certificato attestante che questi ha sostenuto
e superato l’esame di conoscenza della lingua italiana almeno per il livello
A2. Il provvedimento, ovviamente, non si applica per i cittadini
provenienti dagli altri Paesi della Comunità Europea e, come è logico,
per coloro i quali hanno ottenuto lo status di rifugiati politici in quanto
destinatari di protezione internazionale.
La recente diffusione della pratica della certificazione anche presso i
cittadini stranieri si è concretizzata nella decisione da parte di alcuni degli
enti certificatori riconosciuti dal MIUR (che, lo ricordiamo, sono
l’Università per Stranieri di Siena, l’Università per Stranieri di Perugia,
l’Università degli Studi Roma 3 e la Società Dante Alighieri) di ampliare
la propria offerta, dando la possibilità ai candidati di sostenere un esame
ad hoc per la certificazione della competenza degli immigrati: è il caso
dell’esame CELI i, proposto dall’Università per Stranieri di Perugia.

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Le varietà del “nuovo” italiano
Come abbiamo avuto modo di vedere, il verificarsi e l’aumentare
costante dei fenomeni di immigrazione hanno prodotto la necessità, da
parte della ricerca in ambito glottodidattico, di riflettere sulle modifiche
che questo tipo di nuova utenza ha prodotto. Anche in ambito linguistico,
tuttavia, si è resa necessaria una complessiva presa di coscienza intorno ai
cambiamenti che hanno avuto luogo negli ultimi decenni.
L’innesto di nuove culture e nuove lingue sul sostrato italiano non
poteva non generare dei profondi cambiamenti. Quali sono gli
elementidivariabilità che contribuiscono alla nascita del “nuovo”
italiano?

1) Variabili diastratiche: la variabile diastratica riguarda il riflesso sulla


lingua degli aspetti legati alla condizione sociale del parlante. Nel caso
che stiamo analizzando, dobbiamo innanzitutto isolare la variazione
legata all’età dei parlanti. La maggior parte degli immigrati che sta
raggiungendo il nostro Paese appartiene alla fascia dei giovani-adulti,
ovvero persone che hanno una età compresa fra i 19 e i 40 anni;
un’altra consistente porzione di popolazione immigrata è composta,
invece, da giovani e giovanissimi (non di rado appartenenti alla

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purtroppo numerosa popolazione di “minori stranieri non
accompagnati”). La variabile diastratica agisce, specialmente su questi
ultimi, come rapida capacità di apprendimento della L2, dal momento che,
come è noto, i bambini e i preadolescenti mostrano una capacità ed
una velocità di apprendimento di gran lunga superiore a quella degli
adulti.
Un altro aspetto è legato alla questione del sesso degli immigrati.
Possiamo osservare come la percentuale di uomini e di donne, fra gli
immigrati, sia sostanzialmente equilibrata. Altrettanto facilmente,
però, possiamo notare come l’immigrazione da alcuni Paesi (vedi
quelli dell’est europeo) sia prevalentemente femminile, mentre quella
dai Paesi africani e mediorientali sia prevalentemente maschile. Ciò
che incide come variabile diastratica sulla qualità della lingua, però, è
un altro fattore: le donne che giungono in Italia in seguito a
ricongiungimento familiare con i mariti tendono a continuare a
condurre il medesimo stile di vita adottato in patria. Molto spesso,
dunque, si occupano esclusivamente delle faccende domestiche e
delegano ai mariti tutti gli oneri della vita pubblica (dai rapporti con la
scuola, a quelli con le istituzioni). Ciò ha ovviamente l’effetto di
ritardare, o di arrestare sul nascere, ogni possibile progresso nella
competenza della lingua italiana. Lo stesso non avviene per quelle
donne che, invece, giungono in Italia da sole e con il proposito di
lavorare. Ciò le mette in contatto con una rete molto fitta di relazioni
sociali, obbligandole di fatto ad acquisire in modo anche rapido i
rudimenti della lingua.
In generale la ritrosia di molte donne immigrate a prender parte alle
dinamiche della società in cui si insediano è visibile anche nella
prevalenza del pubblico maschile ai corsi di lingua italiana organizzati
dai CPIA o dagli enti privati e di volontariato.

Durante i corsi di italiano rivolti ai discenti immigrati adulti,


l’insegnante molto spesso si ritrova di fronte ad una classe

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disomogenea in cui ogni singolo studente è in possesso di un proprio
bagaglio culturale legato fondamentalmente al livello di
scolarizzazione e agli approcci educativi adottati nei diversi Paesi di
origine. Risulta indispensabile, quindi, ricorrere ad una didattica
modulare, che rievochi le conoscenze dei singoli apprendenti, tenga
conto delle diverse modalità, nonché ritmi, di apprendimentodegli
allievi e stimoli l’autonomia di apprendimento. Si richiede, pertanto,
una organizzazione modulare e dinamica delle unità di
apprendimento, che colmino le lacune e rafforzino le abilità
pregresse.
Dinanzi ad una classe di studenti immigrati è importante e
interessante valutare le motivazioni che spingono gli allievi a voler
apprendere la lingua italiana. La maggior parte di essi dichiara di
essere interessata alla lingua del Paese ospitante non solo per poter
comunicare temporaneamente con gli altri, ma anche per diventare
parte integrante del tessuto sociale in cui desiderano ricostruire la
propria vita. Dati statistici, rivelano, infatti, che tra le principali
motivazioni di richiesta di permesso di soggiorno rientrano il
ricongiungimento familiare, la protezione internazionale e il lavoro
(dipendente o autonomo).

La variabile diastratica agisce anche sui contenuti dei corsi di italiano a


immigrati e sulle modalità di presentazione dei contenuti medesimi.
Di norma la frequenza ai corsi di lingua è superiore da parte degli
adulti lavoratori, cui occorre acquisire competenze sia per migliorare
la propria condizione lavorativa e sociale, sia per poter ottenere il
rinnovo del permesso di soggiorno e, eventualmente, poter richiedere
il ricongiungimento familiare. In generale è importante per il docente
calibrare l’input in modo da sviluppare nei discenti, oltre alla
competenza comunicativa, anche quella pragmatica della conoscenza
delle regole comportamentali.

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2) Variabili diatopiche: riguardano prevalentemente la lingua e la cultura di
appartenenza degli individui e quelle del luogo di destinazione, che
ovviamente incide sul complessivo processo di apprendimento della
lingua. Fra gli elementi che rendono gli apprendenti l’italiano L2
molto differenti gli uni dagli altri vi è anche il livello di attitudine al
multilinguismo della comunità di provenienzadei vari individui. È
molto facile, ad esempio, trovare casi di plurilinguismo presso adulti
nordafricani che, specialmente se hanno avuto modo di frequentare
le scuole, sono solitamente arabofoni e francofoni: l’arabo sarà
dunque la lingua della socializzazione e della quotidianità, mentre il
francese quella delle istituzioni e delle situazioni ufficiali. Molto
difficile, al contrario, trovare casi di plurilinguismo presso comunità
come quelle cinesi, che per storia e atteggiamento culturale tendono
ad essere molto più conservative e a mantenere la propria lingua in
ogni contesto.
Un altro aspetto di variabilità diatopica è costituito dalla L1 del Paese
di provenienza: restando all’esempio preso in considerazione in
precedenza, è da osservare la facilità con cui i parlanti francofoni
compiono i primi progressi nella acquisizione di competenze nella
lingua italiana. Incide, in tal senso, la vicinanza tipologica con il
francese. L’opposto, come facilmente possiamo immaginare, accade
con i sinofoni, ai quali tocca in prima istanza il compito “ingrato” di
familiarizzare con un alfabeto diversissimo dal proprio.

Anche il luogo di destinazione rappresenta un fattore di variabilità


diatopica molto importante. Abbiamo fatto cenno, in precedenza, al
fatto che molti immigrati abbiamo come primario obiettivo di
apprendimento il raggiungimento di una competenza che gli consenta
una più efficace interazione e integrazione sociale. Simili obiettivi non
sono raggiungibili tanto attraverso l’apprendimento dell’italiano
standard, quanto attraverso quello della varietà dialettale parlata nel
luogo di stanziamento. La lingua che un immigrato completamente

20
calato nella realtà di arrivo può ascoltare (e che prevedibilmente
apprenderà) è quella dei negozi, dei bar, degli uffici e di tutti i luoghi
in cui la vita sociale si svolge. E, come l’esperienza comune ci
insegna, la lingua della vita quotidiana è sovraccarica di elementi di
marcatezza diatopica. Molto probabilmente, dunque, l’immigrato
entrerà in contatto con una variabile della lingua vicina allo standard
soltanto se frequenterà dei corsi di italiano L2.

3) Variabili diafasiche: la variabile diafasica è costituita dal contesto di


apprendimento, che può essere spontaneo, guidato, o misto.
L’apprendimento spontaneopuò avvenire sia in patria, sia direttamente
in Italia. L’apprendimento spontaneo in patria è quello del contatto
diretto con la lingua attraverso la frequentazione di parlanti l’italiano
come L1, siano essi turisti, o funzionari, o militari. L’apprendimento
spontaneo in patria, però, può avvenire anche in mancanza di un
contatto “fisico” con i parlanti: oggi sono infatti i media che riescono
a portare la lingua al di fuori dei confini nazionali. Basti pensare, ad
esempio, agli immigrati albanesi, giunti in Italia negli anni ’90 a
ondate successive, che avevano appreso la lingua prima ancora di
emigrare, dal momento che in patria guardavano la TV italiana.
La forma più comune di apprendimento spontaneo, comunque, resta
quella che si realizza in Italia, attraverso il confronto con il mondo
del lavoro, con le istituzioni, con la scuola, oppure nelle relazioni
quotidiane.

L’apprendimento guidato è quello che si svolge in aula.


Nell’apprendimento guidato l’input, gli argomenti, la progressione
della difficoltà e l’interazione comunicativa sono in larga parte gestiti
dal docente. Di fatto un contesto di apprendimento guidato vero e
proprio non si realizza in Italia. Il caso tipico, invece, è quello
dell’italiano LS, ovvero della lingua insegnata/appresa all’estero,

21
dunque in un contesto “artificiale”, che non presenti, al di fuori delle
attività didattiche, occasioni per utilizzare la lingua italiana.

Non a caso si parla anche di apprendimento misto: con il concetto di


apprendimento misto si intende la possibilità che il parlante eserciti la
lingua sia in classe, in un regolare percorso formativo, sia in ambito
extradidattico, perché, trovandosi in Italia è di fatto costretto ad
utilizzare l’italiano in ogni circostanza.

L’italiano a immigrati: orientarsi nella didattica


A differenza di quanto accadeva fino a soltanto un decennio fa, oggi
l’utenza immigrata ha a disposizione un notevole numero di opportunità
formative per apprendere la lingua italiana. In effetti l’attenzione al
problema dell’integrazione linguistica dei nuovi arrivati è cresciuta in
modo proporzionale all’acutizzarsi del fenomeno, che è diventato
endemico e che non riguarda più soltanto zone circoscritte del Paese. Se i
primi insediamenti di immigrati si concentravano prevalentemente
intorno ai grandi centri urbani e in alcune regioni del nord Italia, oggi,
soprattutto con l’apertura di numerose strutture dedicate all’accoglienza
dei richiedenti asilo politico, la distribuzione è molto più omogenea e
anche nei comuni più piccoli la presenza straniera è sensibilmente
aumentata. Oltre alla scuola (in particolar modo ai CPIA), sono anche
organizzazioni di volontariato, ONLUS o cooperative ad occuparsi della
formazione linguistica degli immigrati.

22
Che cosa dovrebbe offrire un corso di italiano L2 a questa tipologia di
utenza?

Un docente che si trovi nella condizione di programmare la didattica


per un corso rivolto ad una utenza immigrata non dovrebbe discostarsi
troppo dalle indicazioni contenute, ad esempio, nel QCE in fatto di
obiettivi: il punto cruciale della azione didattica, in effetti, dovrebbe essere
in ogni caso quello di favorire lo sviluppo della competenza comunicativa del
discente. Ovviamente non è possibile non notare che esistono delle
differenze abbastanza profonde che intercorrono, ad esempio, fra il
giovane studente universitario che arriva in Italia per l’Erasmus, e il suo
coetaneo africano che è richiedente asilo politico. Ciò non toglie, però,
che al di là delle differenze e delle specificità dell’utenza immigrata,
estremamente fragile dal punto di vista del retroterra culturale e della
motivazione all’apprendimento, un buon corso di lingua dovrebbe
prefiggersi due obiettivi: sviluppare competenza e sviluppare strategie di
apprendimento autonomo, che sono i medesimi per qualunque altra tipologia
di utenza.
Una inevitabile modifica nell’atteggiamento del docente e nella
programmazione dell’intervento didattico, allora, non riguarderà tanto gli
obiettivi, quanto i metodi e gli approcci. Essi non si differenzieranno da
quelli che abbiamo avuto modo di osservare in precedenza, ma
cambieranno in parte nei contenuti.
Prendiamo come esempio il punto cardine di ogni Unità Didattica,
ovvero l’input. È abbastanza raro che un input abitualmente utilizzato
nella didattica dell’italiano L2 possa funzionare, ad esempio, presso gli
utenti ospiti di un centro di prima accoglienza. Molto spesso, infatti, essi
rimandano ad un serie di temi e di argomenti che possono essere ripresi
in contesto migratorio solo con molta cautela: un argomento come
quello delle “vacanze” probabilmente risulterà incomprensibile a degli
immigrati africani; un argomento come quello della “famiglia”, invece,
potrebbe addirittura suscitare in qualche discente ricordi che lo hanno

23
segnato, e finire per creare situazioni di imbarazzo o di vero e proprio
disagio.
Un altro aspetto problematico potrebbe essere rappresentato anche dal
ricorso a metodologie che sollecitino la partecipazione attiva dei discenti
(come per altro suggerito anche nel QCE). La didattica comunicativa
rientra ormai nell’orizzonte di attese di quasi tutti gli utenti dei corsi di
lingua del mondo occidentale e nessuno, o quasi, si iscrive ad un corso di
lingue per apprendere la grammatica della L2, mentre tutti si aspettano di
trovarsi immersi nella lingua viva. Siamo sicuri di trovare lo stesso tipo di
atteggiamento mentale da parte degli stranieri immigrati? Molto spesso la
richiesta di partecipazione attiva viene accolta con imbarazzo dai
discenti, o completamente evasa nel caso delle donne.

Quello che un corso di lingua italiana a immigrati dovrebbe sicuramente


fare, al di là dei problemi esaminati, è sollecitare la motivazione attraverso una
didattica orientata all’azione. I discenti andrebbero coinvolti in compiti
comunicativi che possano metterli in contatto con il territorio e con
l’ambiente in cui si trovano, in modo da promuovere
contemporaneamente sia la competenza linguistica, sia la competenza
pragmatica.
Proprio l’ambito della pragmatica andrebbe approfondito in maniera
ulteriore: un corso di lingua dovrebbe infatti consentire l’acquisizione di
una competenza interculturale, intesa come conoscenza dei rapporti di
gerarchia nella società, rispetto dei ruoli, relazioni con l’altro sesso, ecc.,
senza mai cadere nella trappola di considerare scontato lo status quo e le
regole della società in cui si è nati. Si tratta di un esercizio estremamente
complesso da fare, perché si richiede la capacità di uscire letteralmente
dal proprio abito culturale, quello dentro cui si è sempre vissuti.
Senza dubbio il motivo per cui i corsi di lingua italiana vengono richiesti
ed erogati è facilitare il processo di integrazione della popolazione
immigrata con quella indigena. Questo processo viene molto agevolato
se l’insegnamento della lingua, anziché soffermarsi in modo esclusivo

24
sulla lingua standard – che comunque non può essere trascurata –
comprende anche le varietà regionali e, in particolare, la varietà del luogo
di insediamento degli immigrati medesimi.
Un aspetto caratteristico del processo di apprendimento dell’italiano da
parte di studenti immigrati è rappresentato dal livello solitamente molto
basso di sviluppo dell’interlingua che questi tendono a raggiungere. I
motivi per cui questo fenomeno si verifica sono molteplici, e vanno
dall’appagamento per il raggiungimento di un obiettivo minimo da parte
di alcuni, alle oggettive difficoltà di superare un determinato stadio di
competenza da parte di altri. Il docente dovrebbe lavorare
predisponendo azioni di contrasto al fenomeno, oppure, considerata
anche la difficoltà del compito, operare in un’atra direzione: fornire gli
strumenti al discente perché sia in grado di proseguire autonomamente il
proprio percorso formativo.
Infine, uno degli obiettivi più concreti che l’azione didattica può
presentare è quello della certificazione: avviare degli studenti al
conseguimento di un certificato di competenza, e lavorare per prepararli
a sostenere l’esame può essere un modo molto efficace per mantenere un
livello accettabile di motivazione per un periodo anche abbastanza lungo.

25
Le finalità dell’intervento didattico
Abbiamo volutamente separato la parte degli obietti da quella delle
finalità. Di fatto con “obiettivo della didattica” abbiamo inteso isolare
soprattutto quello che dovrebbe essere l’esito della programmazione di
un percorso formativo per discenti immigrati. La finalità, invece, è in
senso lato il tipo di ricaduta che la frequentazione di un corso di lingua
dovrebbe produrre sull’utenza.
Le finalità di un corso di italiano L2 per immigrati sono strettamente
legate al tipo di bisogni che questa tipologia di utenza manifesta e che,
come detto, potremmo riassumere per la stragrande maggioranza dei casi
con la formula “desiderio di integrazione”. Dove per “integrazione”,
ovviamente, non dobbiamo intendere la semplice costruzione di un
tessuto di relazioni sociali con gli indigeni, ma un complesso processo di
autonomizzazione dell’individuo che si mette in condizione di interagire
con la società che lo ospita in maniera accettabile a tutti i livelli.

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Nel suo articolo Bisogni, mete e obiettivi del 2000, Pierangela Diadori mette
proprio in evidenza gli aspetti che abbiamo definito “finalità” della
azione didattica. Nel caso dell’utenza immigrata al primo posto
dovremmo mettere l’autorealizzazione: il percorso di apprendimento di
una lingua è innanzitutto un processo di riaffermazione della propria
identità in un contesto totalmente differente rispetto a quello nativo.
Effettivamente l’esperienza dell’emigrazione può generare fenomeni
psicologici di disturbo nella percezione della propria identità, per
l’espressione e l’espansione della quale all’individuo catapultato in un
contesto straniero mancano letteralmente le parole. La graduale
acquisizione della competenza, e soprattutto la capacità di adeguare il
codice espressivo alla situazione, sono i principali fattori che possono
contribuire a questo processo di ricostruzione.
Strettamente collegata alla autorealizzazione è la socializzazione, vale a dire
il processo di ritessitura di una trama di relazione in molti casi
completamente nuove.
Vi è poi l’obiettivo definito culturizzazione, che è quello più ambizioso, se
vogliamo, fra quelli considerati. La culturizzazione è in effetti il
raggiungimento di un completo possesso non soltanto della lingua, ma
anche della infinita serie di rimandi alla realtà culturale del Paese
ospitante che attraverso la lingua si realizza. La culturizzazione è lo
sviluppo di una sensibilità culturale profonda e dinamica del Paese di
arrivo, che solo raramente può essere raggiunta, ma che, tuttavia,
dovrebbe essere metaforicamente il “faro” di ogni azione glottodidattica.

27
3. Processi di apprendimento II: l’italiano a bambini e adulti

Introduzione
L’offerta di corsi di italiano L2 è progressivamente aumentata per
estensione nel corso degli ultimi anni. L’utenza di immigrati, che
abbiamo appena esaminato, rappresenta infatti soltanto una delle ultime
esigenze formative manifestatesi nell’ambito della glottodidattica
dell’italiano L2. Molto più “antica”, invece, è l’attitudine
all’apprendimento della nostra lingua da parte di un’utenza composta
prevalentemente da bambini e adulti. Un’utenza le cui esigenze, occorre,
precisarlo, si sono però modificate in modo anche molto profondo nel
corso degli ultimi anni.
Qual è la differenza fra le tipologie di utenza individuate come immigrati e
adulti/bambini? La differenza non va cercata nella tipologia di approccio o
di metodologia adottata per l’erogazione dei corsi di lingua, ma nel
background culturale e nel tipo di obiettivi che questo genere di utenza si

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prefissa al momento di intraprendere un percorso di apprendimento
dell’italiano. Se l’azione didattica deve dunque essere incentrata sullo
sviluppo di una competenza di tipo comunicativo, l’obiettivo dei discenti
tende ad orientarsi altrove. Vedremo nelle pagine che seguono quali sono
le differenti strade possibili.

Insegnare l’italiano L2 ai bambini


Il tipo di utenza dei corsi dedicati ai giovanissimi è duplice: da una parte
abbiamo dei contesti educativi tipici dell’italiano L2, che riguardano
quindi i bambini delle scuole, figli di immigrati o di madrelingua
differenti da quella italiana; dall’altro abbiamo i contesti di italiano LS,
ovvero i corsi di lingua italiana erogati all’estero e dedicati in modo
specifico ad un tipo di utenza di apprendenti di età solitamente inferiore
ai dieci anni.

Perché trattare a parte questo ambito della glottodidattica, rispetto al


mondo dell’insegnamento ad adulti? Le differenze fra l’insegnamento a
bambini e quello ad adulti riguardano numerosi aspetti, il primo fra i
quali è da collegare all’età anagrafica. Nel bambino, proprio in virtù della
giovane età, non sono ancora giunti a compimento una serie di processi
di maturazione riguardanti il suo sviluppo cognitivo, psicomotorio,

29
culturale e affettivo. In termini di glottodidattica ciò significa la necessità
di adeguare alla condizione ancora fluida e dinamica della psicologia del
bambino tutto il percorso di insegnamento. Un percorso che, di norma,
produce risultati migliori e più duraturi rispetto a quelli degli adulti,
perché la capacità di assimilazione da parte dei bambini è di gran lunga
superiore e non di rado l’insegnamento della L2, intrapreso in
giovanissima età, può produrre competenza linguistica pari a quella di un
parlante nativo.

Altro aspetto riguarda la poca solidità delle difese psicologiche che i


bambini innalzano in un contesto didattico. Il filtro affettivo, nei
bambini, è come disattivato e, nella maggior parte dei casi, è molto facile
impostare una didattica fortemente partecipativa in una classe di
giovanissimi. Non è un caso se, dal punto di vista degli approcci, si
tenda a prediligere, in una classe di bambini, quelli che possano far leva
in modo sistematico sulla disponibilità del bambino a farsi coinvolgere
nell’azione didattica: gli approcci ludici, umanistico-affettivi e cooperativi si
rivelano molto spesso delle scelte molto azzeccate, perché centrano
l’obiettivo di una didattica partecipativa e rendono molto più dinamico
l’interno contesto di apprendimento, producendo un ambiente
stimolante e rilassato.

Più complesso è il discorso riguardo ai bisogni comunicativi che nel


corso di una azione didattica possono emergere. Bisogna partire da un
presupposto: il bisogno comunicativo è avvertito in maniera molto più
netta dall’adulto che non dal bambino. Questi, infatti, è in un’età in cui le
scelte formative non vengono fatte in prospettiva di sviluppo e
realizzazione professionale, né ha l’assillo del conseguimento della
certificazione per l’ottenimento del permesso di soggiorno e,
eventualmente, della richiesta di un ricongiungimento familiare. I motivi
(talvolta forieri di stress e preoccupazione) che spingono l’adulto a
seguire un corso di lingua nel bambino, spesso, sono del tutto

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inconsapevoli. Non è detto che ciò faciliti il compito del formatore,
tutt’altro, soprattutto nel caso di classi con bambini svogliati.
Al di là di queste considerazioni va comunque osservato che in un
contesto quale quello della istituzione scolastica il bisogno
dell’apprendente, soprattutto nel caso di figli di immigrati, è integrativo,
oltre che legato alla necessità di frequentare la scuola con profitto. Una
simile motivazione non si rintraccia, al contrario, nel contesto di
apprendimento dell’italiano all’estero, dove nella maggioranza dei casi
sussistono delle motivazioni di tipo culturale, e delle esigenze sul piano
esistenziale meno pressanti.

Il discorso intorno ai bisogni comunicativi ci ricollega direttamente al


problema oggi forse più scottante fra quelli che i fenomeni sociali
contemporanei stanno mettendo davanti alla classe dei docenti: la
presenza di studenti stranieri nella scuola.
Non c’è dubbio che questo fattore di differenziazione etnica e culturale
all’interno delle classi in cui crescono le nuove generazioni di italiani
abbia un effetto positivo e arricchente. Ma è altresì innegabile che la
compresenza di persone dotate di una competenza linguistica differente
crei non pochi problemi alla didattica. Molte scuole, soprattutto quelle
che per motivi legati alla loro ubicazione in quartieri multietnici ospitano
un gran numero di ragazzi stranieri, approntano progetti dedicati al
recupero e al consolidamento della competenza linguistica degli alunni
non madrelingua italiana. Si tratta di un impegno meritorio, che
dovrebbe rispondere ad una serie di esigenze molto più ampie della
“mera” formazione linguistica.

L’apprendimento dell’italiano, per un parlante non madrelingua, è prima


di tutto un modo per entrare all’interno di una comunità di persone (o,
per meglio dire, di parlanti) dalla quale è marginalizzato. Un corso di
lingua italiana L2, soprattutto se dedicato ad un’utenza di questo tipo,
non può assolutamente trascurare di promuovere la competenza

31
pragmatica e culturale del discente: bisogna resistere alla tentazione di
considerare la lingua soltanto come lo strumento dell’apprendimento.
Legato al problema dell’apprendimento è anche un altro fattore, che
spesso impedisce agli studenti non nativi di proseguire nello sviluppo
della competenza linguistica: è molto facile, e accade abbastanza spesso,
che il docente confonda l’acquisizione di concrete capacità linguistiche
con il completo sviluppo di unaprofonda capacità cognitiva
“attraverso” la lingua. Detto in altri termini, la capacità di parlare ed
esprimersi in lingua L2 non comporta automaticamente la capacità di
apprendere attraverso la medesima L2. Lo sviluppo di questo tipo di
abilità, di solito, avviene molto dopo che si è riusciti a sviluppare la
prima, perché essa richiede la capacità di maneggiare concetti astratti,
riassumere, operare collegamenti concettuali, ovvero svolgere delle
operazioni che richiedono un impegno cognitivo di gran lunga superiore
a quello necessario per chattare, conversare con un compagno, o cantare
una canzone.

Gli obiettivi della glottodidattica dell’italiano a bambini


Anche la didattica della lingua a bambini ha come obiettivo lo
sviluppo della competenza comunicativa, così come è intesa nel
Quadro comune europeo di riferimento delle lingue. Tuttavia le specifiche
caratteristiche degli apprendenti suggeriscono di concentrarsi su
alcuni aspetti in particolare. Abbiamo detto, in precedenza, che una
caratteristica del sistema cognitivo dei bambini è di essere ancora
“aperto” e malleabile, tanto da poter produrre, in qualche caso,
risultati eccellenti nell’apprendimento, come la maturazione di una
competenza quasi da madrelingua. Questa particolare predisposizione

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dei bambini all’apprendimento della lingua seconda – in realtà dovuta
al fatto che fino alla preadolescenza non si completano i processi di
lateralizzazione del cervello, né quelli di mielinizzazione delle sinapsi
– rende i bambini particolarmente propensi ad acquisire la
competenza fonetica della nuova lingua, ed è quindi giusto
incentivare la conoscenza di questi aspetto della L2.

Vediamo nel dettaglio alcune indicazioni generali circa le


caratteristiche che dovrebbe avere un eventuale curricolo di un corso
di italiano L2 a bambini:

• Competenza linguistica: è importante stimolare l’acquisizione


della competenza fonologica nei bambini data la loro naturale
predisposizione. Tuttavia non vanno dimenticati anche altri
aspetti della lingua, come la prossemica, la vestemica, o la
cronemica, che completano il quadro della competenza
linguistica, pur essendo fattori di tipo extralinguistico.
• Competenza pragmatica: la lingua è strumento di espressione
della propria identità e di autodeterminazione. Essa deve
essere insegnata attraverso questa tipologia di utilizzo. Il target
massimo dovrebbe essere quello di far maturare nel discente la
capacità di liberare la propria immaginazione “in lingua”,
ovvero di dare voce al proprio mondo interiore attraverso il
ricorso alla lingua non materna.
• Competenza socio-culturale: la competenza socio-culturale a
differenza di quello che si potrebbe immaginare, non riguarda
soltanto quegli strati della società che si definiscono, di solito,
“attivi”, ovvero classe produttiva. La rete di relazioni sociali
che il bambino potenzialmente può tracciare non è affatto
inferiore a quella degli adulti e, pertanto, occorre stimolarne
l’apprendimento. La competenza socio-culturale è
l’ancoraggio della lingua, la parte contenutistica, che segna
33
l’effettiva differenza fra il parlante di livello medio basso e
quello di livello medioalto.

Insegnare l’italiano L2 a studenti universitari


All’interno del profilo di apprendenti comunemente chiamato “giovani
adulti” c’è una classe di utenti di corsi di lingua italiana L2 molto
omogenea per estrazione e motivazione culturale, vale a dire quella degli
studenti universitari. L’Italia è da secoli una delle mete predilette di
viaggi di studio, condotti per completare il proprio percorso di istruzione
in un contesto, quello delle nostre città d’arte, in cui sia possibile
respirare l’atmosfera della cultura umanistica e antica. Anche senza
scomodare gli illustri esempi del passato – il rimando naturale è al Viaggio
in Italia di Goethe – è possibile notare come ancora oggi, sebbene per

34
motivi differenti, il nostro Paese sia ancora meta di viaggi formativi.
L’Europa promuove la dimensione multiculturale e plurilinguistica, e
l’integrazione fra le differenti identità culturali dei Paesi membri: in
questa ottica l’Italia è diventata luogo di approdo di numerosi studenti
universitari che, dagli atenei dei tanti Paesi promotori del progetto
Erasmus, vengono aggregati alle università italiane per periodi più o
meno lunghi di tempo.
A questa tipologia di utenza bisogna aggiungere quella che
autonomamente, per motivi di studio, o per il semplice piacere di
scoprire la nostra lingua e la nostra cultura, giunge in Italia con un tipo di
bagaglio culturale e delle esigenze non dissimili da quelle degli studenti
universitari stranieri.

Le competenze “in entrata” e i bisogni comunicativi dello studente universitario


Lo studente universitario che oggi partecipa ai programmi Erasmus, e
che trascorre periodi di studio in Italia aggregandosi ad un ateneo
italiano, al momento del suo arrivo non è (o non dovrebbe essere)
completamente a digiuno della lingua L2. Il programma Erasmus, infatti,
prevede l’erogazione di corsi di lingua nei mesi precedenti alla partenza
dello studente per il Paese di destinazione. Nello specifico, sebbene non
sempre venga raggiunto, l’obiettivo dei corsi è portare gli utenti al livello B1 (il
cosiddetto livello soglia) di competenza, ritenuto sufficiente per permettere

35
la frequenza dei corsi. Si tratta di un livello abbastanza alto, che fa dello
studente universitario una tipologia di persona abbastanza insolita nel
panorama italiano, dal momento che raramente un parlante non
madrelingua, per giunta radicato in un contesto linguistico differente, al
momento del suo arrivo in Italia è in grado di districarsi con la lingua in
modo così disinvolto.

Uno degli aspetti tipici del profilo “studente universitario” è costituito


dal tipo di e dalla continuità della motivazione che lo spinge ad
apprendere la lingua italiana. L’ambizione dello studente che decide di
trascorrere un periodo di studio in Italia, o che intraprende qui l’intero
percorso di studi universitari, è quella di riuscire in tempi ragionevoli ad
interagire efficacemente a più livelli con l’istituzione cui è affiliato. I suoi
interessi primari sono sia di incrementare il profitto degli studi, sia di
imparare ad interagire con l’intera compagine sociale (dunque non solo
quella gravitante intorno al mondo universitario). Lo studente si troverà
ad aver a che fare con la burocrazia, con le regole della vita sociale, con le
abitudini culturali, alimentari, familiari della vita quotidiana, insomma
entrerà in un universo culturale che gli è in larga parte ignoto, ma nel
quale vorrà rivestire un ruolo adeguato alla propria estrazione.

Come relazionarsi ad un’utenza composta da questo tipo di apprendenti?


Come risponde il docente ai bisogni comunicativi di un giovane adulto
universitario?
In primo luogo è necessario andare incontro alle esigenze particolari
dello studente universitario: si tratta di esigenze generate dagli impegni di
studio e di frequenza dei corsi. Un percorso di insegnamento della lingua
italiana, allora, dovrebbe necessariamente svolgersi al di fuori degli orari
tradizionalmente dedicati alle lezioni universitarie, un po’ come avviene
per i corsi dedicati ad adulti, i cui impegni lavorativi suggeriscono i
formatori di svolgere lezioniserali.

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L’obiettivodi un corso di italiano L2 dedicato a studenti universitari
potrebbe essere raggiunto coinvolgendo i discenti in attività che
sollecitino la loro capacità di comunicare e sviluppino la competenza.
Questo aspetto generale della didattica dovrebbe però essere
efficacemente integrato dalla grande attenzione dedicata dal docente allo
sviluppo di un lessico tecnico-scientifico adeguato, soprattutto in
considerazione del fatto che i discenti sono persone giunte in Italia per
studiare. Lo studio universitario, di per sé, rappresenta esso stesso
un’abilità specifica: quando parliamo di studio, infatti, non dobbiamo
pensare esclusivamente alle ore trascorse sui libri per preparare un
esame, oppure passate nei laboratori, ma di un complesso di stimoli e
sollecitazioni in cui rientrano anche abilità di tipo comunicativo e
pragmatico, come prendere un appuntamento con un collega per
svolgere un ultimo “ripasso”, o fare materialmente la prenotazione di un
esame.
L’adozione di un metodo comunicativo-induttivo risulta in questi casi
la scelta più adeguata, proprio per l’insistenza con cui si concentra sullo
sviluppo della competenza e della capacità pragmatica di saper fare con la
lingua.

L’italiano specialistico e la didattica a studenti universitari


La tipologia di discenti rappresentata dagli studenti universitari –
caratterizzata dall’alto livello culturale e dalla alta attitudine
all’apprendimento e allo studio – richiede un’adeguata attenzione anche
all’oggettodiinsegnamento. Gli studenti universitari, di fatto, hanno
necessità di apprendere un tipo di linguaggio, che è quello tecnico-
scientifico delle discipline da loro studiate, in tempi molto brevi.
Negli ultimi anni alcuni linguisti, parlando anche in virtù del diffondersi
della pratica dei soggiorni di studi all’estero per gli universitari, hanno
considerato l’esistenza di una dimensione orizzontale e di una dimensione

37
verticale della lingua settoriale (si veda in proposito Michele Cortellazzo,
Italiano d’oggi, 2009). I linguaggi specialistici sono molto numerosi,
tuttavia esiste un sostrato comune che li tiene uniti e che si differenzia
allo stesso tempo dalla lingua dell’uso quotidiano e informale. Questa
dimensione comune dei linguaggi specialistici è definita appunto
orizzontale. Il suo opposto è la dimensione verticale, ovvero la lingua
specialistica, settoriale, nel senso più estremo del termine. Un corso di
italiano L2 dedicato ad un’utenza di universitari dovrebbe riuscire a
compenetrare le due cose e a sviluppare nel discente strategie di
apprendimento di entrambe le dimensioni. D’altra parte, come dicevamo
in precedenza, sono due i bisogni comunicativi immediati per chi viene
in Italia a trascorrervi un periodo di studi: essere presto in condizione di
seguire con profitto le lezioni e le attività del proprio corso di studi;
sviluppare la capacità di comunicare e di usare la lingua in tutti i contesti
della vita quotidiana e in particolare in quelli maggiormente legati ai
propri interessi di studente.

Obiettivi didattici dell’italiano L2 a studenti universitari


Quale dovrà essere il bagaglio di acquisizioni necessarie allo studente per
sviluppare competenza nell’ambito della dimensione orizzontale della
linguaspecialistica?
Bisognerà pensare che si sta insegnando a persone di livello culturale
elevato, a futuri professionisti, che molto probabilmente anche nelle
forme meno controllate di eloquio hanno la necessità di mantenere un
livello (se non altro sul piano dei contenuti) abbastanza elevato, o

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comunque adeguato al proprio rango sociale. Dal punto di vista del
lessico, ad esempio, non ci si dovrebbe limitare alle parole del cosiddetto
parlato quotidiano, ma, proprio in virtù della particolare predisposizione
all’apprendimento di questo tipo di utenza, si dovrebbero presentare
anche parole più complesse, come i neologismi, i latinismi, i grecismi, che
fanno parte del lessico di tutti i giorni, ma al tempo stesso sono il
fondamento di quasi tutti i lessici scientifici in circolazione.
Anche sulla dimensione dellamorfologia e dellasintassi l’attenzione del
docente dovrebbe essere massima: di fatto quando parliamo di questi
argomenti stiamo implicitamente rimandando anche alla capacità di
produzione scritta dei discenti, che deve essere portata ad un livello
accettabile. Lo studente si trova infatti in molte circostanze di fronte al
compito di divere produrre e inviare documenti scritti e deve dunque
apprendere che il linguaggio scientifico possiede delle regole. Regole che,
quando osservate per la produzione di testi scritti e orali, sono un
importante biglietto da visita presentato sotto gli occhi del lettore. Per lo
stesso motivo sarebbe opportuno approfondire gli aspetti testuali, vale a
dire tutte le formule e i connettivi che abbondano nella produzione
scientifica (cioè, poiché, nella misura in cui, ecc) e che ne costituiscono in
qualche modo la cifra stilistica.
In sostanza al docente spetta il compito di assecondare la volontà e
l’ambizione del discente di confrontarsi alla pari, o quasi, con un mondo di parlanti di
livello culturale molto più alto della media, molto sensibile alla qualità del testo
prodotto e non di rado anche capace di apprezzare, perché li comprende,
gli sforzi che la persona alloglotta compie per adeguarsi al livello generale
dei parlanti.

Quando parliamo di dimensione verticale della lingua invece intendiamo


riferirci all’ambito d’uso del lessico specialistico. Possiamo identificare
differenti usi del lessico specialistico a seconda del contesto in cui esso si
manifesta. Il linguaggio scientifico-divulgativo, ad esempio, è una di queste, e
potremmo definirla come il livello più “basso” della dimensione

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verticale, perché nasce dalla necessità di adeguare la lingua settoriale alla
competenza lessicale degli ascoltatori non specialisti. Ad un livello più
alto si pone la lingua scientifica vera e propria, che è quella adottata nelle
conversazioni fra esperti, oppure nelle riviste. Si pone qui una difficoltà
oggettiva, che è quella per il docente di non poter entrare, perché non ne
ha le capacità, all’interno di alcuni “mondi” possibili della lingua e
dell’espressione. Inoltre un percorso di formazione linguistica raramente
sarà indirizzato in modo esclusivo ad una utenza complessivamente
omogenea dal punto di vista della conoscenza di un linguaggio
specialistico. Proprio per questo bisogna individuare una terza
dimensione linguistica, quella didattica, che dovrebbe diventare in target
finale di un’azione formativa dedicata a studenti universitari.

La dimensione didattica della lingua è stata individuata in alcuni studi


condotti da Stefania Semplici a partire dal 2000 e potremmo considerarla
come un livello intermedio, o meglio come un punto di equilibrio, fra le
dimensioni orizzontale e verticale, di cui abbiamo appena parlato. La
dimensione didattica rimanda direttamente agli aspetti linguistici che
emergono, o stanno emergendo, agli occhi dei discenti attraverso le
lezioni cui assistono frequentando i corsi universitari. Non si tratta
quindi di una dimensione linguistica facilmente formalizzabile, dal
momento che la sua consistenza, da un punto di vista della forma e del
loro contenuto, dipende in massima parte da tipo di argomento trattato.
La dimensione didattica della lingua è utile soprattutto per due motivi:
permette di isolare campioni di linguaggio scientifico, altrimenti difficile
da ricostruire in tutta la sua complessità; fornisce automaticamente l’input
che il docente può somministrare ai discenti. Di fatto l’input non si
dovrebbe discostare molto da quello cui, in forme e con obiettivi
differenti, i discenti sono sottoposti duranti i loro corsi universitari.
L’idea sarebbe dunque didattizzareinput somministrati ai discenti in un
contesto differente da quello dell’aula universitaria. Questa scelta
consente anche di mantenere un livello molto alto di motivazione, dal

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momento che l’azione glottodidattica gravita intorno ai temi e agli
argomenti già studiati dai discenti, e ai quali i discenti sono già interessati.

Uno degli aspetti che il docente non dovrebbe assolutamente trascurare


riguarda la tipologiatestuale da somministrare ai discenti. Uno studente
universitario di troverà di fronte a varie tipologie di testo, da quello
argomentativo, a quello narrativo, e le frequenterà all’interno di tutte le
abilità del parlante: dalla produzione scritta a quella orale, dalla lettura
all’ascolto. Chi segue un corso universitario, infatti, avrà allo steso tempo
il problema dell’approccio alla lettura di testi scritti, e quello della loro
produzione (si pensi alla stesura di una tesina, ad esempio, oppure allo
svolgimento di un compito scritto di verifica). Lo stesso vale per le abilità
legate all’ascolto e alla produzione orale: la didattica universitaria si
svolge in massima parte sotto forma di cicli di lezioni al termine della
quali gli studenti sono chiamati a sostenere un esame orale.
La “vita universitaria”, però, non si esaurisce qui: essa comprende infatti
anche l’instaurazione di legami sociali, a volte molto profondi, come
quelli con i propri colleghi di studi, o, più in generale, una complessa
serie di scambi di informazioni con i docenti. Si tratta di aspetti tutt’altro
che secondari, che possono incidere in maniera anche decisiva sulla
positività dell’esperienza di studio nel suo complesso. Anche in questo
caso – e ribadiamo ancora una volta uno dei punti fermi considerati dal
QCE – l’ambiente in cui è calato il discente viene considerato in primo
luogo come un’atmosfera di socialità e di produzione socioculturale di
testi, che non può essere limitata alla sola dimensione linguistica.

Dai bisogni comunicativi che abbiamo individuato per il profilo studente


universitario possiamo allora trarre una sintetica lista degli
obiettivi che, nell’eventualità dovesse ipotizzare un sillabo per questo
tipo di utenza, un docente dovrebbe considerare primari: sviluppare la
capacità di ascolto di una lezione universitaria; sviluppare la capacità di
prendere appunti e produrre testi (non necessariamente brevi) in lingua

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L2; la capacità di relazionarsi in modo efficace con i compagni di corso,
o con i docenti, o ancora con la parte burocratica dell’istituzione
universitaria; la capacità di produrre testi orali molto coerenti e ben
strutturati, come dovrebbero essere quelli di chi sostiene un esame orale.

L’italiano L2 a studenti di origini italiane


Uno dei contesti di apprendimento che abbiamo considerato nelle
precedenti lezioni è quello definito dell’italiano come lingua etnica (si veda in
proposito il Modulo 2, Area 2, cap. 1, La programmazione dei percorsi
formativi) Si parla di insegnamento dell’italiano come lingua etnica quando
la lingua è diffusa in contesti ad alta incidenza di oriundi italiani, ovvero
di figli o discendenti di persone di origine italiana, che sono emigrate
all’estero. Al contesto di italiano come lingua etnica corrisponde un

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preciso profilo di apprendenti, quello di cui trattiamo adesso, che è appunto
il pubblico degli oriundi italiani.
Questo tipo di utenza dei corsi di italiano ha rappresentato per molti
anni la principale voce di interesse all’estero della nostra lingua. In effetti
si è a lungo ritenuto che l’utenza dei corsi di italiano L2 all’estero fosse
composta quasi esclusivamente da studenti figli, o nipoti, di immigrati
italiani desiderosi di recuperare, almeno in parte, le proprie radici
linguistiche. Con la pubblicazione dello studio di Tullio De Mauro,
Italiano 2000 (2002), si è invece “scoperto” che l’utenza dei corsi di lingua
è molto differenziata, e che le motivazioni per lo studio dell’italiano sono
molteplici. Tuttavia, sebbene non sia più ritenuta maggioritaria,
l’incidenza di oriundi che accedono all’offerta di corsi di lingua L2 è
molto alta, soprattutto nei Paesi che sono stati meta degli imponenti
flussi migratori di italiani nell’800 e nel ‘900.

All’interno del profilo di apprendenti che abbiamo definito oriundi italiani,


esistono elementi di differenziazione molteplici, a partire da quello relativo al
livello di competenza: secondo Donatella Troncarelli, che ha dedicato
uno studio al fenomeno, se ne possono schematicamente ipotizzare
quattro. Premesso che per nessuno dei parlanti oriundi l’italiano è una L1, essi
tuttavia possono aver trovato stimoli diversi al suo utilizzo e motivazioni
più o meno profonde che li hanno spinti, in certi casi, a studiarla per
tentarne un recupero. Possiamo pertanto parlare di:
- Parlanti competenti, che però ricorrono alla L1 soltanto nel contesto
familiare o nella comunità di riferimento. Per questi parlanti l’italiano
è stato molto spesso la lingua della cosiddetta socializzazione primaria,
cioè lo strumento di interazione per i rapporti che si intrattengono
con i propri congiunti, o le persone della cerchia cui la propria
famiglia appartiene. Seppur coltivata, dunque, la lingua italiana è
rimasta relegata all’ambiente familiare.
- Parlanti competenti in altri domini, oltre a quello familiare, che quindi
parlano l’italiano anche per il lavoro, o per i propri viaggi di piacere, o

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ancora perché affascinati dalla cultura italiana nel suo complesso. In
generale questa tipologia di parlanti è particolarmente predisposta e
motivata alla acquisizione di competenze specifiche e più
approfondite.
- Parzialmente competenti, ovvero i parlanti che hanno perso in larga parte
la consuetudine con la lingua d’origine, e che intendono recuperarla
almeno per consolidare i contatti familiari con i parenti che praticano
ancora l’italiano.
- Scarsamente competenti: i parlanti che hanno perso quasi del tutto la
consuetudine con la lingua d’origine.

Negli ultimi decenni è stato osservato un fenomeno che potremmo


definire “fisiologico” dell’evoluzione della lingua degli emigrati italiani.
Come ha osservato Massimo Vedovelli nella sua Storia linguistica
dell’emigrazione italiana nel mondo (2011) si può notare un progressivo
impoverimento del livello di competenza medio dei parlanti l’italiano
all’estero, e una evidente riduzione degli spazi e dei contesti d’uso
dell’italiano. La lingua degli oriundi italiani all’estero sta seguendo le
trasformazioni della società: l’emigrazione italiana è ormai alla terza o
quarta generazione (gli ultimi considerevoli flussi migratori hanno
interessato alcune regioni d’Italia a ridosso degli anni ’60), dunque il
livello di conoscenza della lingua è diminuito sensibilmente, e diminuisce
man mano che si allenta il filo che collega i discendenti delle famiglie di
emigranti alla terra d’origine. Vengono meno anche i contesti in cui è
possibile ricorrere all’italiano, e spesso anche in famiglia si preferisce
parlare in L1, la lingua appresa nel Paese di emigrazione.

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Elementi di variabilità della lingua italiana degli emigrati
Il docente che si trovi a contatto con un parlante oriundo italiano, ma di
madrelingua straniera, noterà la presenza di numerosi elementi di
variabilità che marcano il suo italiano.
Possiamo provare qui a fare una breve panoramica di questi elementi:

- Variazione diatopica: la variazione diatopica dell’italiano degli emigrati


può incidere sulla lingua da due direzioni differenti: può recare i tratti
diatopici del luogo di provenienza; oppure può recare quelli del Paese

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di destinazione. Ogni emigrato ha portato con sé, lasciando il Paese, il
proprio repertorio linguistico, che è di norma carico di elementi
dialettali. Si è quasi naturalmente formata una variabile dell’italiano
all’estero, fortemente marcata in senso diatopico a seconda della
tipologia di parlanti prevalente.
Molto significativo per lo sviluppo successivo della lingua era anche il
luogo di arrivo. La possibilità o meno di mantenere la lingua d’origine
dipendeva da numerosi fattori, uno fra i quali era certamente il livello
di sensibilità mostrata dai governi locali nei confronti degli usi
linguistici delle minoranze. Dove si è adottato un atteggiamento di
tolleranza – si pensi a Paesi come il Canada, che da decenni è
orientato alla costruzione di una società multiculturale – è stato più
facile conservare le proprie abitudini linguistiche. Altrove è stato
molto differente. In sud America, ad esempio, al di là della mancanza
di un piano politico di tutela delle minoranze linguistiche, ha agito
anche la profonda somiglianza dell’italiano con lo spagnolo degli
autoctoni. Questo ha favorito il processo di contaminazione e,
successivamente, di abbandono della lingua d’origine.

- Variazione diastratica: il principale fattore di variabilità diastratica è


l’età. Stando ai dati raccolti attraverso le ricerche del Ministero degli
Affari Esteri, il gruppo di persone più rappresentato è quello degli
adulti. Tuttavia dai dati sembra che l’utenza dei corsi di italiano L2
all’estero, che può definirsi appartenente alla categoria dei parlanti
l’italiano come lingua etnica, sia abbastanza equamente distribuita per
fasce di età.
Qual è il retroterraculturale di queste persone? In generale esso è
abbastanza vario. Una caratteristica dei corsi di italiano rivolti a
oriundi italiani, però, è quella ospitare molto spesso ampi gruppi di
persone parlanti la medesima L1 e simili per la varietà di italiano
conosciuta. Questo capita perché l’emigrazione, molto spesso,
avveniva attraverso canali privilegiati, per cui gli abitanti di un

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territorio tendevano a stanziarsi tutti insieme nel Paese che
raggiungevano.
Molto differenziato è anche il quadro della motivazione. In special
modo negli adulti, la scelta di frequentare un corso di lingua italiana è
soprattutto dovuto a questioni sentimentali, come il desiderio di
recuperare le proprie radici linguistiche, o come la volontà di
consolidare i rapporti con i componenti della famiglia che sono
rimasti in Italia. In altri casi, però, vi può essere anche una
motivazione di tipo strumentale, dettata da esigenze lavorative, o di
studio. Infine c’è il profilo dei bambini. È raro che un bambino scelga
autonomamente di frequentare un corso di italiano: i più giovani,
infatti, soprattutto se nati all’estero, sentono molto meno degli adulti
il bisogno di recupero delle radici linguistiche della propria famiglia.
È, questa, una dinamica normale di progressivo distacco dalla identità
italiana, che viene percepita meno forte col trascorrere del tempo e
con il succedersi delle generazioni. Proprio per questo non di rado,
dietro la scelta di frequentare un corso da parte di un bambino, vi è
più che altro la volontà dei genitori.
L’età dei discenti è anche il principale fattore di differenziazione dei
loro bisogni comunicativi. Negli adulti è frequente si manifesti la
necessità di approfondire quegli aspetti della lingua che possano
rendere possibile l’interazione soprattutto in contesti lavorativi, o in
contesti scolastici e universitari. Nei bambini, di solito, vi è la
necessità di apprendere il lessico della vita quotidiana, ovvero quello
che permetta la relazione con i parenti più anziani, ancora padroni
della lingua d’origine.

- Variazione diafasica: quadi parliamo di variazione diafasica


consideriamo un ventaglio di possibilità molto ampio, che riguarda
anche il tipo di istituzione che eroga il corso si lingua. Dobbiamo
tenere presente che sono veramente molte le possibilità di
apprendere la lingua italiana all’estero, soprattutto nelle grandi città.

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Ai canali “istituzionali”, come gli Istituti Italiani di Cultura e i
comitati della Società Dante Alighieri, occorre anche considerare il
gran numero di scuole private e l’altrettanto grande offerta di corsi
che viene proposta regolarmente dalle scuole di lingua.

Aspetti glottodidattici dell’italiano come lingua d’origine


I corsi di italiano organizzati all’estero per promuovere la lingua presso le
nuove generazioni delle famiglie emigrate, hanno finalità didattiche
affini a quelle di qualunque altra tipologia di corso di lingua L2. Essi
infatti intendono sviluppare proprio il tipo di competenza suggerita
anche nel QCE. Promuovere l’italiano, in questo tipo di contesti e con
questo tipo di utenza, significa offrire la possibilità ai discenti di
arricchire in maniera consistente il proprio patrimonio personale. In altri

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casi, invece, l’arricchimento riguarderà soprattutto le possibilità di
crescita professionale. Particolare il caso dei bambini che, come detto,
sono spesso soggetti di scelte altrui, quella dei genitori, nel caso si
trovino a frequentare un corso di italiano L2. Per questa tipologia di
utenza sarà necessario soprattutto lavorare sulla motivazione, che tenderà
ad essere abbastanza bassa nel complesso.
Una particolare attenzione al docente è richiesta per quanto concerne il
metodo da adottare nel caso di studenti oriundi. Molto spesso i corsi di
italiano L2 per questa tipologia di utenza sono organizzati ed erogati da
istituzioni scolastiche. Questo significa dover stare attenti ad aspetti
imprescindibili quali i programmi ministeriali e le direttive che dall’alto
vengono impartite ai docenti; e allo stesso tempo considerare che i
discenti non si dedicheranno esclusivamente allo studio dell’italiano, ma a
tutte le materie di insegnamento previste dal loro curricolo.
Per quanto concerne le attività da svolgere durante il corso e la
manualistica di riferimento occorre dire che non esiste una possibile
selezione di testi dedicati in modo specifico alla tipologia di utenza che
stiamo analizzando. Il motivo per cui il mercato editoriale non ha
sviluppato un’offerta interessante per questo tipo di esigenza formativa è
molto interessante, perché fornisce un punto di riferimento per capire
quanto dinamica sia la situazione riguardante la lingua italiana e la
glottodidattica dell’italiano a oriundi. Uno degli aspetti più controversi
che si trova di fronte che volesse realizzare un manuale dedicato ai
discenti l’italiano come lingua d’origine, è proprio il tipo di attese
dell’utenza: fino a pochi decenni fa era molto probabile che si
somministrassero corsi di italiano L2 attraverso materiale predisposto per
la didattica dell’italiano come L1. Ciò avveniva per due motivi
fondamentali: innanzitutto il fenomeno era dovuto al fatto che il metodo
comunicativo muoveva i primi passi e ancora non era diffuso in modo
capillare, come oggi; in secondo luogo era la stessa utenza a non
manifestare il bisogno di apprender la lingua nei suoi spetti comunicativi,
perché già li possedeva, essendo l’italiano la lingua della socializzazione e

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della quotidianità. Tutto questo finisce con le terze e quarte generazioni,
che sono spesso figlie di matrimoni misti e che anche in famiglia non
ascoltano l’italiano che molto raramente e comunque mai da persone che
lo parlano da madrelingua.
In effetti potremmo dire che si sta assistendo ad un progressivo
assottigliarsi del confine che separa il discente oriundo da quello che, pur
senza avere legame alcuno con l’Italia, decide all’estero di intraprendere
un corso di lingua italiana. Questa tipologia di parlanti tende ad
assomigliarsi sempre di più ed è ipotizzabile che un contesto linguistico e
glottodidattico quale quello dell’italiano come lingua d’origine tenda
progressivamente a marginalizzarsi.

4. Processi di apprendimento III: l’italiano L2 tra didattica della lingua e


cultura

Introduzione
Nelle pagine che seguono ci soffermeremo su un aspetto specifico della
didattica dell’italiano L2, che concerne da vicino quegli aspetti della
competenza che il Quadro comune europeo di riferimento fa rientrare fra le
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competenze di tipo sociolinguistico e pragmatico. Cercheremo di farlo a
partire da una prospettiva meno teorica e più votata a far luce sulla
tipologia di competenza che, in differenti contesti, un docente dovrebbe
essere in grado di far acquisire ai propri studenti.
Quella del trasferimento di competenze di tipo pragmatico è una delle
sfide più ardue che il docente di lingua L2 si trova a dover affrontare,
perché mentre la lingua risulta essere, almeno dal punto di vista formale,
un elemento che è possibile schematizzare e sezionare in vista di uno
studio di tipo teorico, lo stesso discorso non si può certamente applicare
alla cultura. Ed è interessante notare la facilità con cui siamo in grado di
ridurre a “sistema” una lingua e la difficoltà di fare lo stesso con la
cultura. Vale la pena, in questa fase preliminare, domandarsi il perché del
fenomeno.

Una prima considerazione da fare riguarda la consistenza della lingua,


che potremmo definire uno dei mezzi di espressione della cultura: di qui
una differenza importante, che concerne il valore strumentale che spesso
attribuiamo al linguaggio, e che costituisce una sostanziale differenza
rispetto alla cultura e al suo carattere non strumentale. In quanto
strumento di cultura, la lingua sembra prestarsi a diventare “oggetto” di
uno studio quasi scientifico, come se si trattasse di un “fatto” materiale e
solido e non proteiforme come è la cultura. In sostanza potremmo dire
che il concetto di cultura è più aleatorio rispetto a quello di lingua, per
cui esse non possono essere misurati attraverso lo stesso criterio di
indagine.

L’atteggiamento di pensiero che sta dietro le considerazioni appena fatte,


tuttavia, è stato messo in seria discussione in tempi più o meno recenti.
Si è infatti affermata una percezione completamente differente dei
termini in questione e, come abbiamo avuto modo di vedere, anche un
documento “ufficiale” come il Quadro comune europeo di riferimento nereca il
segno. Il nostro compito, adesso, è provare a guardare in profondità

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quali sono stati i motivi di questo cambiamento, che è molto radicale.
Altrimenti alcune delle linee guida presenti nel QCE rischiano di
sembrare astruse e prive di qualunque radicamento nel tessuto della
didattica svolta “sul campo”.
Restiamo sui due termini della questione: lingua e cultura. Possiamo
senza dubbio affermare che il QCE non condivide l’idea che la lingua sia
uno strumento di comunicazione nel senso in cui lo abbiamo inteso noi
nella pagina precedente, dunque non la considera un elemento che possa
diventare “oggetto” di studio scientifico, che possa essere sezionato e
scomposto (e trasmesso ad altri in questo formato frammentario). Il
QCE ritiene che lingua e cultura siano sostanzialmente la stessa cosa, così che
l’insegnamento dell’uno non si può realizzare senza che vengano
trasmessi anche contenuti dall’altro. Eppure quando si parla di competenze,
abilità, o di saper fare con la lingua (nel QCE, come pure nei saggi teorici
di glottodidattica che al QCE si riferiscono) resta molto forte
l’impressione che anche qui la lingua venga considerata come strumento di
comunicazione, anche se nel senso, molto complesso, di promozione e
sviluppo della propria identità. Probabilmente allora dovremmo
modificare il nostro punto di vista e spostarlo su quello di cultura.
Il QCE, che è un documento contenente linee guida e indicazioni per
promotori e utenti dei corsi di lingua, non si interessa in modo specifico
di problemi legati alla definizione del concetto di cultura. Questo
problema, che riguarda in modo diretto storici, filosofi, antropologi ed
etnologi, sta tuttavia sullo sfondo dell’intero impianto teorico del QCE.
Proviamo a fare, di seguito, una piccola operazione di recupero di questo
sfondo, che ci servirà per quando dovremo trattare temi e problemi
inerenti le tematica dell’interculturalità.

Fornire una definizione del concetto di cultura sarebbe per lo meno


presuntuoso, tanta è la sua complessità. E se anche ne avessimo le
capacità, in questo spazio non avremmo ragione di farlo, perché il nostro
interesse è glottodidattico. Però possiamo provare a capire come

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l’evoluzione del concetto, nei tempi più recenti, abbia poi generato
interessanti interazioni con la glottodidattica, fino a fornire un possibile
canale di interpretazione del rapporto fra lingua e cultura, così come
viene implicitamente proposto nel QCE.
La cultura è l’insieme delle credenze, delle convinzioni, delle convenzioni
e dei simboli che una determinata comunità condivide e attraverso cui
tale comunità produce la propria identità. La rete di simboli, che
costituisce in senso lato la cultura di una comunità, è la visione del mondo
della comunità medesima. Potremmo dire – se accogliamo questo tipo di
proposta, che è stata dominante nel XX secolo e che è alla base di
importanti nozioni, quale quella di “relativismo culturale”, attraverso cui
sono state superate odiose concezioni razzistiche della storia e della
cultura stessa – che ogni visione del mondo porta con sé un nucleo di
verità, nella misura in cui consente alla comunità che la adotta di
interpretare efficacemente il mondo circostante ed interagire con esso.
La proposta appena analizzata, tuttavia, introduce un elemento di
profonda incertezza: se tutte le visioni del mondo sono legittime, questo
significa l’impossibilità di elevarne una soltanto a modello di verità (a
meno che non si voglia accogliere la possibilità di ricorrere alla violenza
per farlo).
Senza dubbio alcune culture riescono ad imporsi come modello
egemonico sulle altre (si pensi al fenomeno recente della globalizzazione,
che altro non è se non un’occidentalizzazione dei costumi del mondo
intero). Tuttavia resta valido il principio per cui non si può in alcun caso
giudicare il contenuto di una visione del mondo più “veritiero” rispetto a
quello di un’altra. Lo si può ritenere più efficace, nel senso di
adeguatezza alle contingenze storiche, o più dotato di forza espansiva,
ma nessuna visione del mondo si può considerare capace di esaurire tutte
le possibili sfumature di significato che il mondo e la storia possiedono e
possono generare.

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Come interagisce e come si innesta la lingua su questo tipo di
problematiche, che qui abbiamo tratteggiato per sommi capi? Abbiamo
detto che la lingua non può essere considerata separatamente rispetto alla
cultura. Ma proprio perché lingua e cultura devono essere lette come
espressione del medesimo fenomeno, allora alla lingua dobbiamo
applicare lo stesso parametro di esame della cultura, e sottrarci alla
tentazione di suddividerla in sezioni o brani: questa operazione di
smembramento, che ci sembra impossibile da compiere sulla cultura, è
impossibile da compiere anche sulla lingua, perché sono la stessa cosa e
sono due fenomeni di enorme complessità, irriducibili ad un elenco di
funzioni.
Uno dei caratteri tipici del fenomeno lingua-cultura è il suo essere un
processo dinamico, che è in continua trasformazione e aggiornamento.
Vale la pena richiamarsi alle tesi più recenti avanzate da antropologi
come Jean-LoupeAmselle, che parla, a proposito di analisi dei sistemi
culturali, di logiche meticce, ovvero dei fenomeni di continua ibridazione fra
elementi di differenti provenienze, che costituisce uno dei caratteri di
composizione di ogni singola cultura. È abbastanza facile istituire un
parallelismo fra l’ipotesi del meticciato culturale, proposta da Amselle, e i
processi di formazione e sviluppo delle lingue. Soprattutto nel nostro
mondo, dove le informazioni viaggiano alla velocità di internet,
l’interazione fra lingue diverse, e i conseguenti fenomeni di ibridazione,
sono fenomeni facilmente osservabili da chiunque.
Non siamo troppo lontani dal vero se consideriamo il concetto di
competenza, proposto dal QCE in fatto di glottodidattica, come la capacità
del parlante L2 di intuire il ritmo di questo processo dinamico, per essere poi in
grado di seguirlo autonomamente. Ogni lingua-cultura (al di là della
difficoltà che, sulla scorta del concetto di meticciato, incontra colui che
voglia definirne in modo netto i confini) possiede dei propri canali di
sviluppo e delle regole interne di evoluzione, che in una certa misura
sono anche prevedibili per chi di essa conosce in modo approfondito il
sistema di segni che la contraddistingue. Fornire dunque una competenza

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di tipo pragmatico o sociolinguistico, significa creare competenza
culturale nel senso più vasto del termine, che è poi competenza interculturale,
perché è capacità di far interagire la propria cultura di origine con quella
legata alla L2 che si sta apprendendo e, una volta raggiunto un livello
adeguato di competenza, quest’ultima con tutte le altre.

Abbiamo già parlato in precedenza della competenza sociolinguistica e di


quella pragmatica. Non torneremo in queste pagine sull’argomento.
Tratteremo, però, di una componente della lingua che è ad esse molto
vicina, perché riguarda la capacità del parlante di acquisire
consapevolezza intorno a quei caratteri della L2 che sono extralinguistici,
ma che sono allo stesso tempo componenti essenziali per potersi
destreggiare in modo disinvolto nell’universo culturale della lingua
seconda. Questi caratteri li definiremo cultura in senso lato.

Insegnare la cultura

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Cosa si intende per insegnamentodellacultura? Chi si imbattesse,
facendo una semplice ricerca in internet, sui siti delle scuole di lingua
italiana, o sull’offerta formativa di università e centri di formazione, si
accorgerà immediatamente di quanto frequente sia il rimando, che in
questi contesti viene fatto, al tema dell’insegnamento della lingua e
dell’insegnamento della cultura. I due temi di studio, la lingua e la cultura,
ormai non sono più considerati come elementi separati. Tuttavia molto
spesso è assai più facile capire in cosa consista l’insegnamento della
lingua, di quanto non accada per l’insegnamento della cultura. E in effetti
non è sbagliato chiedersi cosa realmente ci sia dietro questo genere di
proposte didattiche.
L’offerta didattica di questa tipologia di corsi è molteplice, e riguarda i
temi più svariati, con una prevalenza di quelli che possono costituire un
approfondimento su alcuni degli aspetti più caratteristici della cultura
italiana: si va dai corsi dedicati al cinema, a quelli dedicati alla storia
dell’arte, fino a quelli di cucina. Si tratta, in sostanza, del tentativo di
promuovere un tipo di conoscenza della lingua a partire dai contesti ritenuti di
maggior valore fra quelli in cui la cultura italiana si è manifestata e si manifesta
tutt’ora.
Questo tipo di offerta didattica “esplode” soprattutto con l’imporsi degli
approcci di tipo comunicativo, e non a caso sono proprio le scuole di
lingua, in Italia e all’estero, a proporre il maggior numero di corsi di
questa tipologia. Esse hanno colto sin da subito le potenzialità e il valore
di questa tipologia di didattica, anche perché si tratta di strutture molto
più aperte e snelle, capaci di trasformare se stesse e la tipologia di offerta
in modo molto più rapido. I canali “tradizionali” di diffusione della
lingua italiana (le scuole italiane all’estero e gli Istituti Italiani di Cultura)
sarebbero invece arrivati solo successivamente, e non sempre, a
percorrere questo tipo di strada.
Vedremo in seguito dei possibili esempi di corsi dedicati
all’insegnamento della cultura italiana, ricordando, però, l’importanza di
considerare soprattutto il tipo di esigenza del discente: non tutti hanno la

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stessa facilità di accesso ai corsi dedicati alla cultura italiana e, se
vogliamo, dobbiamo anche considerare che non tutti i discenti
trarrebbero realmente giovamento da un corso dedicato alla storia del
cinema italiano. Si immagini il caso del discente immigrato, che ha
esigenze comunicative impellenti, e che difficilmente potrebbe
interessarsi, ad esempio, a un corso sulla storia del cinema.

Resta da considerare un ultimo aspetto circa la tipologia di didattica che


un corso dedicato alla cultura italiana dovrebbe prevedere. Trattandosi di
corsi dedicati ad un pubblico di apprendenti l’italiano L2, che molto
spesso sono inseriti all’interno di percorsi formativi ispirati agli approcci
di tipo comunicativo, essi si svolgono nella lingua-obiettivo: in italiano,
appunto. Questa tipologia di didattica, che prevede la somministrazione
di nozioni non immediatamente riconducibili all’ambito della formazione
linguistica, risulta essere molto simile al metodo CLIL, ovvero alla
didattica in lingua L2. Si comprende bene, considerati gli argomenti
trattati ed il livello di astrazione richiesto da alcuni di essi, che può essere
molto difficile, per un parlante con un livello molto basso di
competenza, accedere a questo tipo di contenuti e a questa forma di
didattica, al di là del livello di motivazione che lo spinge ad apprendere.

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Tra inculturazione e acculturazione
Il problema dello studio e dell’apprendimento di una cultura differente
dalla propria è stato studiato negli anni in maniera piuttosto
approfondita. L’apprendimento di un cultura, intesa in senso lato come
visione del mondo e modello di interazione con l’ambiente circostante,
può avvenire attraverso canali e contesti differenti.
Nello specifico si parla di inculturazione per definire il processo di
acquisizione delle regole sociali, linguistiche e comportamentali
necessarie per sopravvivere in un determinato contesto culturale. Con il
concetto di inculturazione si intende un processo cognitivo in parte
simile a quello che regola l’acquisizione della L1, nella misura in cui
costituisce un fenomeno spontaneo.
Acculturazione è invece acquisizione di un universo culturale differente
da quello che potremmo definire “nativo”. L’acculturazione solitamente
non è un processo spontaneo, ed in questo consiste la principale
differenza rispetto all’inculturazione. Alla base del processo di
acculturazione vi è quello che gli studiosi definiscono shock culturale,
inteso come il momento del primo contatto con l’ambiente culturale
nuovo.

Lo shock culturale non deve possedere necessariamente carattere


positivo o negativo: esso semplicemente testimonia del senso di
“sospensione” che il parlante prova nel momento in cui si trova fuori del
proprio contesto abituale. Contesto abituale che, di fatto, continuerà ad
agire per sempre sull’individuo che si avvicina ad un’altra lingua e ad
un’altra cultura: un po’ come accade per il percorso di acquisizione della
L2, anche in colui che entra in una nuova cultura non smette mai di
operare quella “nativa”. Lo sviluppo di una competenza culturale
seconda, ovvero il procedere nel percorso di acculturazione, non
avvengono mai senza una profonda relazione con la cultura materna e in
continuo dialogo con essa.

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I corsi di storia dell’arte italiana
Uno dei motivi di maggiore interesse della cultura italiana nel mondo è
senza dubbio rappresentato dalla grande ricchezza del nostro patrimonio
artistico. Esso costituisce uno dei principali incentivi alla conoscenza
della lingua, specie per quanti ambiscono ad una più consapevole
fruizione di un universo culturale ritenuto fra i più pregevoli del mondo.
Molte scuole di lingua – e gli stessi Istituti Italiani di Cultura all’estero,
almeno nella maggioranza dei casi – offrono a chi lo desideri
l’opportunità di entrare in contatto con questo patrimonio attraverso
l’erogazione di corsi ed approfondimenti sul tema. Si tratta di attività
molto spesso collaterali rispetto a quelle di glottodidattica vera e propria,
che nascono come loro completamento, o che possono anche essere
fruite autonomamente dai discenti.

Uno dei principali aspetti glottodidattici dei corsi dedicati alla storia
dell’arte italiana è costituito dalla possibilità che essi offrono di
specializzare la competenza del parlante in un ambito culturale preciso. I
corsi di storia dell’arte, di fatto, offrono una visuale panoramica su un
settore abbastanza ristretto (anche se rende possibili infiniti altri
collegamenti con numerosi altri settori delle scienze umane). Essi
offrono inoltre all’apprendente la possibilità di aprirsi ad una tipologia di
esperienza che, in larga parte, si svolge all’esterno dell’aula, nel cosiddetto
contesto extrascolastico: corsi di questo tipo, di fatto, prevedono lo
svolgimento di visite a monumenti o a luoghi di interesse all’interno delle
città d’arte, dunque promuovono un tipo di didattica che è estremamente
stimolante e che crea sin da subito la necessità, nel discente, di cimentarsi
con la lingua, spesso in autonomia.
Dal momento che viene erogata quasi esclusivamente da scuole di lingua,
questa tipologia di corso rappresenta molto spesso una tipologia di

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offerta che si muove sul confine fra didattica della lingua e promozione
turistica del territorio (il che non toglie nulla alla validità e alla capacità
che hanno questi corsi di centrare gli obiettivi didattici che si prefiggono
di raggiungere). Questo produce automaticamente un livello di
disponibilità molto alto nei discenti, i quali, prevedibilmente, possiedono
un retroterra culturale abbastanza solido, e una profonda curiosità per i
temi che loro stessi hanno deciso di approfondire.

Raramente l’obiettivo di fornire una completa conoscenza dei temi della


storia dell’arte italiana può essere raggiunto: ciò richiederebbe dei
percorsi estremamente lunghi, che non coincidono con i soliti tempi di
permanenza di uno studente presso una scuola di lingue in Italia, che di
norma non superano il mese. D’altra parte questa tipologia di offerta non
è legata tanto alla necessità pratica, da parte di queste persone, di
acquisire competenze da spendere in ambito professionale: la motivazione
è soprattutto dettata dalla volontà di alimentare la passione per la lingua e
la cultura italiane, magari approfittando di periodi più o meno lunghi di
vacanza.

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I corsi di cinema e di letteratura italiana
I corsi di cinema e di letteratura italiana rappresentano un’altra porzione
consistente dell’offerta didattica delle scuole di lingua, sia in Italia che
all’estero, e sono spesso presenti anche fra le proposte formative degli
Istituti Italiani di Cultura in tutto il mondo.
Li trattiamo insieme per via della caratteristica comune che presentano:
essi promuovono un tipo di didattica finalizzata soprattutto a stimolare la
conversazione, la facoltà astrattiva e la riflessione, oltre che la
competenza linguistica.

I destinatari di questi corsi sono spesso persone dotate di un buon


retroterra culturale, oltre che diun livello già abbastanza alto di
competenza. Per la tipologia didattica che li caratterizza, questi corsi non
devono essere necessariamente erogati in Italia, ma si sposano in modo
perfetto anche con le esigenze della didattica della lingua LS, ovvero in
contesto straniero.

Il tipo di abilità che essi stimolano, oltre a quella “passiva” di ascolto (nel
caso del cinema) e di lettura (nel caso della letteratura), è di tipo
discorsivo: corsi di cinema o di letteratura sono organizzati,
generalmente, sul modello dei cineforum o dei circoli di lettori, che quindi
prevedono l’emissione di un feedback, da parte del discente, inviato sotto
forma di commento al momento della partecipazione alla discussione
pubblica del film visto, o del libro letto. Non ci sono solo queste,
naturalmente, fra le competenze che vengono rinforzate attraverso un
corso di questa tipologia: cinema e letteratura, infatti, rappresentano
forse anche più della storia dell’arte una miniera fatti e simboli, che sono
parte integrante dell’immaginario collettivo italiano. Effettivamente,
dunque, rappresentano una modalità privilegiata di ingresso all’interno

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della cultura nazionale in maniera trasversale a tutti i livelli, da quello
colto a quello popolare.

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