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Non è facile definire Corrado Malanga. Si potrebbe dire che è uno scienziato che studia un certo tipo di
fenomeni in una certa categoria di esseri umani, oppure si può dire che è un essere umano che studia una
certa categoria di fenomeni in modo scientifico.
Nel primo caso, Corrado Malanga studia i casi di coloro che ritengono di essere stati “addotti” da esseri
viventi di origine extra-terrestre. Nel secondo caso Corrado Malanga sta curiosando fra le pieghe del
tempo e dello spazio, alla ricerca dell’origine dell’uomo e dell’universo.
Il tutto avviene, in ogni caso, tramite le sedute di ipnosi regressiva a cui si sottopongono le persone
addotte dagli alieni.
Chiariamo prima di tutto questo fatto, perchè la naturale diffidenza suscitata da un argomento come
questo rischia di ostacolare un sereno apprezzamento del lavoro svolto da Malanga: esistono nel mondo
migliaia di persone che ritengono di essere state addotte dagli alieni, e nel loro insieme costituiscono una
realtà impossibile da liquidare come semplice fantasia della mente umana. Una quantità notevole di
riscontri incrociati, sommati a numerose prove tangibili, permettono oggi di dire che queste persone – nella
loro stragrande maggioranza, si intende – abbiano realmente vissuto le esperienze che descrivono.
Che poi siano stati rapiti da veri extraterrestri, piuttosto che da pupazzi di Disneyland, rimane da decidere,
ma sulla veridicità dei loro racconti è difficile ormai avanzare dubbi.
In questo caso poi il fatto di saperne poco rappresenta, paradossalmente, una conferma del fenomeno: la
diffusa ignoranza in materia infatti è il risultato preciso, voluto e pianificato di una campagna di
disinformazione e occultamento messa in atto dai militari americani a partire dagli anni ’50, su tutto quello
che riguarda l’esistenza di esseri extraterrestri.
Fu con il Robertson Panel, che risale al 1952, che gli “omini verdi” del Pentagono (ogni pianeta ha i suoi
problemi, a quanto pare) decisero che questa realtà andasse nascosta alla popolazione, ed imposero da
allora non solo il totale silenzio mediatico sull’argomento, ma anche la sistematica ridicolizzazione di
chiunque ne parlasse in pubblico, per ottenere un risultato ottimale. E non si può dire che non ci siano
riusciti.
In ogni caso, la questione è enormemente complessa, e va affrontata altrove. Qui interessava più che altro
stabilire una premessa relativamente solida su cui poggiare il discorso su Malanga, il cui lavoro merita, a
mio parere, di essere preso molto seriamente.
Chi ci ha rimesso di più infatti, in questo festino permanente di disinformazione, sono proprio gli addotti:
mentre chi racconta di “aver visto un UFO” rischia al massimo di sentirsi chiedere se per caso abbia la
febbre, chi è stato addotto dagli alieni non pensa nemmeno lontanamente di raccontarlo agli altri, e si
ritrova costretto a convivere con questa realtà agghiacciante nella più profonda solitudine.
Finchè non scopre Corrado Malanga.
Come racconta lui stesso, una ventina di anni fa Malanga fu mandato ad esaminare alcuni casi di
abduction, senza saperne assolutamente nulla. Ed infatti, non ci capì assolutamente nulla.
Da una parte la naturale ritrosia dei soggetti, dall’altra il suo approccio strettamente scientifico, gli
impedivano di trovare una chiave valida con cui impostare il suo lavoro di indagine.
Presto gli fu chiaro, di fronte a racconti assolutamente inconcepibili per i normali esseri umani, che doveva
prima di tutto allargare il campo dell’indagine ad ipotesi non immediatamente verificabili con metodo
scientifico. Se ti chiamano per riparare la diga di Folson non puoi presentarti con la chiave dell’idraulico.
“Io volevo studiare gli alieni – dice Malanga – ma mi sono reso conto che prima di tutto dovevo capire
come è fatto l’uomo”.
Dopo una serie iniziale di esperimenti in doppio cieco, condotti su persone che non si erano mai
conosciute fra di loro, Malanga si rese conto che era necessario introdurre nell’ equazione termini come
“anima”, “spirito”, o “coscienza”, che non sono quantizzabili in termini scientifici, ma la cui presenza
ricorreva in tutte le storie con regolarità impressionante.
Per Malanga infatti è centrale il ruolo della coscienza, che è in grado di modificare la nostra percezione
della realtà, come dimostrato ormai da anni da un noto esperimento scientifico.
Si aprì così per Malanga un mondo vasto e sconosciuto, del quale è venuto scoprendo gli aspetti più
reconditi grazie a venti anni di sedute di ipnosi regressiva condotte sugli addotti.
Sono loro – o meglio la loro coscienza – a descrivere tutto questo, e lo fanno spesso con una minuzia nel
dettaglio scientifico che trascende di gran lunga la preparazione culturale del soggetto esaminato.
“Raramente – dice Malanga – senti al bar il calzolaio con la terza elementare che disquisisce sul rapporto
spazio-tempo, mentre disegna con disinvoltura su un foglietto la struttura del DNA”.
Nasce così una preziosa raccolta di informazioni, che dopo lunghi anni di ricerca Malanga sta finalmente
cercando di riordinare in termini scientifici. Rimane la barriera, per ora insuperabile, che impedisce di
quantificare gli elementi più “volatili” del fenomeno, di cui Malanga ha percepito l’esistenza.
D’altronde, l’introduzione di elementi non verificabili, nella costruzione di una teoria, viene praticata
regolarmente dalla scienza. Accade ad esempio che l’astrofisico si accorga che manchi nell’universo,
secondo le Leggi di Newton, circa il 90% della massa necessaria al suo equilibrio complessivo, e
presupponga quindi l’esistenza di una non meglio definita “materia oscura”, nell’attesa di poterla portare
completamente in luce.
“Se non facessimo così – dice Malanga – non potremmo nemmeno affermare che l’universo esiste, visto
che non possiamo replicarlo in laboratorio”.
E’ peraltro affascinante la sensazione costante che offre Malanga di poter ridurre un giorno a sistema
matematico quello che la scienza oggi non vuole nemmeno sentir nominare: Dio.
Malanga, che si professa rigorosamente ateo, chiama “Dio” il Grande Sistema Cosciente di cui facciamo
parte. Viene in mente in proposito il racconto di Edgar Mitchell, che descriveva la sua sensazione estatica
nell’osservare lo spazio infinito dagli oblò di Apollo 14: “La prima cosa che mi venne in mente fu
un’interconnessione, il fatto che non siamo in un Universo – come dice la nostra scienza – fatto di
molecole che rimbalzano una contro l’altra come palline da ping-pong, ma che si tratta di un sistema molto
più intelligente e organizzato, di un “sistema organico”, in cui le molecole del mio corpo e quelle della
navicella spaziale erano dei prototipi realizzati in una remota epoca cosmica.”
Siamo quindi agli antipodi di Cartesio, che poneva l’osservatore fuori dal sistema osservato, illudendoci di
poterlo valutare in termini oggettivi.
All’interno del Grande Sistema Cosciente, secondo Malanga, interagiscono da milioni di anni diverse razze
di esseri viventi, che abitano diversi pianeti in diversi sistemi stellari.
Per quando diverse all’apparenza fra loro, queste razze sembrano avere tutte una matrice in comune,
rilevabile dalla forma “umanoide”: testa, tronco, braccia e gambe. Il corpo delle diverse razze varia cioè in
dimensioni, proporzioni e aspetto esteriore, ma condivide la stessa struttura fisiologica, intesa come
collocazione relativa delle varie parti del corpo.
Se condividano poi anche gli aspetti “sottili” dell’essere umano, a noi non visibili, rimane forse la domanda
più interessante di tutte.
Malanga ipotizza un universo in cui i vettori principali siano quattro: tempo, spazio, energia e coscienza.
Mentre i primi tre possono interagire fra loro in tutte le varianti possibili, la coscienza è qualcosa di
superiore, trasversale, onnipresente, che pervade e collega tutti gli elementi del sistema, appartenendo a
ciascuno in modo specifico, ma restando in qualche modo separata da tutti. “Dio”, appunto, nel
Cristianesimo.
Se Malanga fosse Padre Balducci, citerebbe a questo punto la recente dichiarazione di Gabriel Funès,
direttore dell’osservatorio astronomico della Specola Vaticana (la persecuzione di Galileo, ormai è chiaro,
fu solo una grandiosa messa in scena: i migliori telescopi sembra che li abbiano proprio loro): “Si può
ammettere l’esistenza di altri mondi e altre vite – ha detto Funès – anche più evolute della nostra, senza
per questo mettere in discussione la fede nella creazione, nell’incarnazione e nella redenzione”.
Malanga però non ama le religioni, e ci ricorda che il termine deriva da res-ligo, ovvero “legiferare”, quindi
“mettere sotto controllo”. Malanga invece vuole essere libero di muoversi in ogni direzione, per poter
analizzare, classificare e interpretare al meglio i dati ricavati dalle mille sedute di ipnosi regressiva.
Ma cosa c’entrano gli addotti in tutto questo?
Il bello di Malanga sta proprio qui: in questa “configurazione filosofica” dell’universo non c’è nulla di
personale, di gratuito o di casuale. Malanga cerca solo il modo più corretto per ricomporre gli elementi del
puzzle che man mano viene raccogliendo nelle sedute con gli addotti.
Durante le sedute il soggetto viene lentamente portato ad annullare le funzioni cerebrali del lobo sinistro
(quello “razionale”), liberando così letteralmente la voce dell’inconscio, che di solito vive “addormentata”
nel lobo destro. Durante l’ipnosi infatti il paziente parla con una voce flebile ed incerta, spesso zoppicante,
che denuncia proprio la scarsa abitudine del lobo destro a controllare le corde vocali. Provate a lavarvi i
denti con la mano sinistra (oppure con la destra, se siete mancini), e scoprirete l’importanza che ha
l’abitudine nel compimento di qualunque funzione fisica.
Malanga però non si limita a chiamare “inconscio” ciò che avviene nell’ambito del lobo destro, poichè ha
scoperto che questo inconscio è tutt’altro che confuso, ignorante o insensato. E’ semplicemente
sconosciuto al nostro “conscio” – la contrapposizione dei due lobi cerebrali è di fondamentale importanza
in tutto il lavoro di Malanga – nel senso che noi non siamo in grado di percepirlo razionalmente, ma ha una
sua vita completa, indipendente, e pare anche piuttosto interessante.
E’ in realtà questa la manifestazione “locale”, nel soggetto esaminato, della coscienza universale di cui
sopra. Ed è proprio tramite la “voce della coscienza”, che noi sentiamo attraverso le corde vocali del
soggetto, che veniamo a conoscenza di tutte le informazioni che Malanga ha raccolto nel tempo.
A sua volta, la coscienza per Malanga non è l’anima. L’ anima è qualcosa che esiste al di là della
dimensione temporale, mentre la coscienza di ognuno è un estensione nel nostro tempo-spazio della
coscienza superiore, onnipresente ed eterna, che è poi la rappresentazione del Dio dei Cattolici.
Il nostro cervello, che funge da semplice “ricevitore” – esattamente come il sintonizzatore di una radio – è
sia il mezzo di collegamento con l’anima collettiva che la sede locale della coscienza e della mente.
L’interazione di tutti questi elementi avviene in termini puramente quantistici, e produce nella coscienza la
percezione del mondo esteriore, che in realtà è solo un ologramma che si attiva in ciascuno di noi nel
momento in cui ne riconosciamo l’esistenza.
In modo molto meno sofisticato lo stesso concetto viene espresso da una delle razze più antiche sulla
terra, quella degli aborigeni australiani, che chiamano il mondo fisico in cui viviamo “dreamworld”, “il
mondo sognato”.
Tutto quanto sopra non significa in alcun modo che Malanga si serva degli addotti in modo cinico, o
comunque egoistico, sia chiaro. Accedendo alla “memoria profonda”, le sedute servono prima di tutto al
soggetto per ricostruire quello che è avvenuto durante la abduction, che gli alieni evidentemente riescono
a cancellare dalla sua memoria a breve termine. Gli addotti infatti si ritrovano di solito “depositati” da
qualche parte, completamente disorentati, con un buco temporale che li angoscia e che cercano
disperatamente di colmare.
Schopenhauer diceva che il folle è l’uomo che abbia perso la memoria.
Quello che rimane sul tavolo di Malanga, alla fine di queste sedute, sono tanti curiosi pezzi del puzzle
universale, che a quel punto solo un’ameba con la meningite rinuncerebbe a volere ricomporre.
D’accordo, si dirà, ma di preciso cosa vogliono da noi gli alieni? Perchè ci rapiscono, e poi ci
“restituiscono”, cercando nel frattempo di farci dimenticare quello che è successo?
Qui si apre una serie di tematiche complesse e delicate, che Malanga sta ancora cercando di definire, e
che possono essere affrontate solo dopo aver conosciuto meglio il lavoro da lui svolto fino ad oggi.
Nel frattempo lo ringraziamo per lo sforzo immenso – e non privo di rischi, a questo punto – che sta
compiendo al posto di una intera comunità scientifica che continua codardamente ad ignorare tutto ciò che
non sa spiegare, vanificando in questo modo la funzione stessa della scienza. E forse anche la finalità
ultima della nostra esistenza terrena.