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DIRITTO PUBBLICO

CAPITOLO 2 - FONTI DEL DIRITTO


Fonte, disposizione, norma

Fonte: ogni atto o fatto abilitato dall’ordinamento a produrre norme giuridiche

▪ Fonti di produzione
o Fonti atto → volontarietà (es: legge e altre fonti scritte)
o Fonti fatto → comportamenti (es: consuetudini)
▪ Fonti di cognizione (es: Gazzette ufficiali)
▪ Fonti sulla produzione: norme che hanno come contenuto non già la disciplina di un comportamento ma la disciplina della produzione di altre norme (es: la
Costituzione ci dice come si producono le leggi).

Disposizione: enunciato linguistico di senso compiuto di cui si compone un atto giuridico.

Attraverso l’interpretazione di quell’enunciato linguistico che è la disposizione, contenuta nella fonte (testo scritto), noi traiamo la norma.

TESTO → DISPOSIZIONE → NORMA

Norma: regola di comportamento che si desume dall’interpretazione della disposizione.

Es: art.9 Cost. → manca il soggetto nel 2° comma, soggetto che è contenuto nel 1° comma: (La Repubblica) tutela il paesaggio [TESTO → “tutela il paesaggio”;
DISPOSIZIONE → “La Repubblica tutela il paesaggio”; NORMA → Cosa vuol dire Repubblica? Stato, Regioni, soggetti pubblici, privati… E cosa s’intende per paesaggio?

Norma vs. Provvedimento

NORMA PROVVEDIMENTO

Regola, prescrizione di contenuto generale e astratto: si rivolge alla generalità Atto concreto con cui si impone un dato comportamento consistente in un
dei consociati ed è un comando ripetibile nel tempo. “fare” o in “non fare”.
Può trattarsi per esempio di una qualche autorità amministrativa che, in
attuazione di una norma generale, ti impone un dato comportamento.

Es: Al semaforo rosso bisogna fermarsi Es: gesto del vigile con cui ti dice: “fermati”

Criteri per la risoluzione delle antinomie normative (=contrasti fra le norme)


In un ordinamento caratterizzato dalla pluralità delle fonti, le norme prodotte dalle stesse possono trovarsi a confliggere.

Come risolvere le antinomie? Applico l’una o l’altra norma?

A. Criterio cronologico
➔ La norma prodotta per ultima è quella che troverà applicazione
➔ Opera fra fonti dello stesso livello gerarchico
➔ Effetto di abrogazione: la norma prodotta per ultima abroga quella prodotta precedentemente (art.15 disposizioni preliminari al
c.c.).
• Abrogazione espressa: allorché la norma prodotta successivamente dalla fonte indichi esplicitamente quali sono le
norme che debbano ritenersi abrogate
• Abrogazione tacita: quando la norma prodotta successivamente contenga disposizioni incompatibili con le norme
precedenti
• Abrogazione implicita: di fronte a una nuova disciplina di una certa materia, il fatto che ci sia già una disciplina
completa della medesima materia fa sì che l’eventuale disciplina completa si ritenga implicitamente abrogata.

L’abrogazione nasce ex nunc (“da ora”). Di fronte a due norme non applicabili contemporaneamente (abrogazione espressa), la norma
precedente, abrogata, continua a disciplinare i comportamenti fino all’entrata in vigore della norma abrogante.

L’abrogazione operando ex nunc, continua a disciplinare i comportamenti tenuti sotto la sua vigenza. Non c’è un giudizio di disvalore nei
confronti della norma precedente, ma se mai un giudizio di non opportunità a mantenere quella norma: i comportamenti verranno, in
ogni caso, giudicati sulla base della norma abrogata fino a che essa è rimasta vigente.

B. Criterio gerarchico
➔ Opera fra fonti di rango diverso
➔ Effetto di annullamento

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Se io sono di fronte a due norme non applicabili contemporaneamente in quanto disciplinano in maniera diversa i comportamenti, devo
vedere se le norme sono state prodotte da fonti del medesimo livello o di livello diversi. Nel secondo caso la norma contenuta da una
fonte di rango più basso sarà annullata per mancato rispetto di una norma prodotta da una fonte di rango più elevato.

Vizio → contrasto fra norme che deriva non già da una valutazione di opportunità del decisore di sostituire la norma ma è una
conseguenza del fatto che una norma prodotta da una fonte di rango inferiore cozza con la norma prodotta dalla fonte di livello più alto.
Conseguenza del vizio è l’annullamento: esso opera ex tunc (“da allora”), sin dall’inizio, dal momento della produzione della norma
illegittima.

Se una norma prodotta da un regolamento viola una norma contenuta in una legge, la prima è destinata ad essere annullata. Una volta
che sia stata annullata, il suo annullamento opera sin dall’inizio: effetto retroattivo. La norma illegittima viene eliminata dall’ordinamento
giuridico sin dall’inizio della sua vigenza.

Mentre l’abrogazione può essere riconosciuta da ogni operatore, l’annullamento effetto del criterio gerarchico dev’essere dichiarata da
un giudice.

Quando una fonte di grado inferiore viola quella di grado superiore pur essendo intervenuta precedentemente, i due criteri sopracitati
operano contemporaneamente: la Corte costituzionale ha sempre ritenuto in via normale preferibile l’operabilità del criterio cronologico
salvo alcuni casi (es: Costituzione del ’48 successiva a una legge del ’36).

C. Criterio della competenza


➔ Opera quando vi è una fonte superiore che può distribuire la competenza fra più soggetti (es: Costituzione)

Esempio: art.64 della Costituzione recita che “ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi
componenti.”.

Vi sono attività delle Camere che sono disciplinate solo dai regolamenti parlamentari: una legge che intervenisse in quell’ambito
violerebbe il principio di competenza perché invaderebbe la riserva di competenza che la Costituzione attribuisce ai regolamenti
parlamentari. L’art. 117 infatti distribuisce la competenza fra legge statale e legge regionale.

➔ Normalmente anche il criterio di competenza conduce all’annullamento della norma prodotta da fonte incompetente, ma non
sempre

Riserva di legge di una fonte a vantaggio di un’altra: si ha quando la Costituzione prevede che una determinata materia sia disciplinata dalla
legge.

RISERVA ASSOLUTA RISERVA RELATIVA RISERVA RINFORZATA


La Costituzione prevede che una certa materia sia La Costituzione prevede che una certa materia sia La Costituzione oltre a preveder l’intervento dà
disciplinata soltanto dalla legge escludendo disciplinata soltanto dalla legge, la quale può anche indicazione alla legge di quale sia la direzione
l’intervento di fonti subordinate. limitarsi a dettare i principi generali della materia che deve prendere e quale sia il contenuto che
affidando il dettaglio a atti subordinati. dev’essere impresso a quella materia.

CAPITOLO 3 - FORME DI STATO E FORME DI Governo


Elementi costitutivi dello stato

1. Sovranità: potere rivendicato da un ente in maniera originaria e indipendente; potere che un soggetto esercita sia verso l’interno che verso l’esterno non
derivandolo da nessun altro.
2. Popolo: la sovranità si esercita nei confronti di un popolo che risiede sopra un determinato:
3. Territorio

Classificazione delle forme di stato basata sui rapporti sovranità-popolo


Rapporti fra chi governa ed è titolare della sovranità e chi invece è governato (sudditi o consociati). Attiene al rapporto autorità-libertà.

▪ Ordinamento patrimoniale
▪ Stato assoluto
▪ Stato di polizia
▪ Stato liberale → base rappresentativa limitata → crisi stato liberale
▪ Stato totalitario/autoritario
▪ Stato socialista → eliminazione della proprietà privata
▪ Stato sociale → espansione della base rappresentativa; diffusione generalizzata dei diritti di libertà ed economici; assunzione del principio di
uguaglianza come principio base del sistema attraverso strumenti della democrazia; ai diritti di libertà si affiancano i diritti sociali che permettono ai
consociati di avere una pari situazione di partenza anche nel godimento dei diritti di libertà.

Classificazione delle forme di stato basate sui rapporti sovranità-territorio


▪ Stati unitari
▪ Stati composti
▪ Stati accentrati
▪ Stati decentrati
▪ Stati federali
▪ Stati regionali

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Nozione e classificazione delle forme di Governo
Forma di Governo: definisce come, nell’apparato titolare dei poteri autoritativi, questi poteri si distribuiscono e in che modo questi poteri si raccordano fra loro.

I. Parlamentare: esistenza di un rapporto di fiducia fra titolari del potere legislativo e titolari del potere esecutivo. Il popolo elegge il Parlamento: il Parlamento
elegge un Governo che è legato al Parlamento, inteso come luogo della rappresentanza politica, da un rapporto di fiducia. Il Governo deve avere la
maggioranza in Parlamento ed è la maggioranza parlamentare che esprime l’esecutivo.
Questa forma di Governo nasce quando al passaggio fra stato assoluto e stato liberale il Governo cessa di essere espressione della volontà del sovrano e
diventa un rapporto che si crea fra Parlamento e Governo.
i. Parlamentare pura: nasce quando l’esecutivo cessa di essere espressione di un rapporto col sovrano e diventa espressione di un
rapporto col Parlamento; non vi sono altri attori istituzionali in questo rapporto.
ii. Parlamentare razionalizzata: ci si rende conto che i sistemi politici erano più complicati e s’introducono nel sistema istituzionale
figure in grado di bilanciare il gioco politico fra Parlamento e Governo; si assiste anche all’introduzione di un Capo dello stato e di
un controllo di costituzionalità: elementi che razionalizzano la forma di Governo parlamentare.
II. Presidenziale: elezione diretta del Capo dello stato il quale è titolare del potere esecutivo. Potere legislativo e potere esecutivo godono di due legittimazioni
uguali e parallele ma non dipendenti l’uno dall’altra.

Congresso → eletto dal popolo

Presidente → eletto dal popolo

III. Semipresidenziale (Francia): elezione del Presidente della Repubblica che ha possibilità di incidere sull’indirizzo politico essendo effettivamente colui che
dirige l’esecutivo in forza degli ampi poteri a lui concessi.
IV. Direttoriale: esecutivo né legato da un rapporto di fiducia al Parlamento, né espressione diretta della volontà popolare. Il popolo elegge il Parlamento; esso
elegge un Governo che non è espressione della maggioranza parlamentare ma in cui sono rappresentati tutti o la maggioranza dei partiti in Parlamento. Il
Governo infine non potrà essere sfiduciato dall’assemblea rappresentativa per la durata del mandato.

CAPITOLO 4 - IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Il Presidente della Repubblica nella Costituzione Repubblicana


➔ Il Capo dello Stato rappresenta l’unità nazionale (art.87 Cost.).
➔ Potere neutro che svolge un ruolo di garanzia costituzionale [nelle monarchie parlamentari il Capo dello stato è il monarca].

Elezione del Presidente della Repubblica


➔ È eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri (art.83.1 Cost.). È un collegio, più ampio delle sole Camera e Senato, integrato da un n° di
58 delegati regionali (3 per ogni Regione [Val d’Aosta: 1]).
➔ Viene eletto nei primi 3 scrutini (83.3 Cost.); è necessaria una maggioranza una maggioranza di 2/3 dell’assemblea. Dopo il 3° scrutinio è sufficiente la
maggioranza assoluta dell’assemblea, a prescindere da quanti vi partecipano.
➔ L’elezione del Presidente della Repubblica implica la necessità di un accordo fra maggioranza parlamentare e opposizione.

Chi può essere eletto?

➔ Tetto minimo di età: 50 anni


➔ Bisogna godere di diritti civili

Durata mandato e cessazione del suo ufficio


➔ Mandato: 7 anni [Camera e Senato durano in carica 5 anni]

Cessa dal suo ufficio per:

a) Scadenza del mandato: negli ultimi 6 mesi del mandato il Presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere o anche una sola di esse salvo che i 6
mesi coincidano con gli ultimi 6 mesi della legislatura.
b) Impedimento permanente
c) Morte
d) Dimissioni (Leone)
e) Decadenza dalla carica in caso di sentenza di condanna della Corte costituzionale per reato presidenziale

Nei casi a), b) e d) il Presidente della Repubblica sarà Senatore a vita salvo che vi rinunci.

➔ Convocazione del collegio 30 gg. prima della scadenza del mandato per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica
➔ Le Camere che siano prossime alla scadenza della loro legislatura o scadute non eleggono il Presidente della Repubblica (82 Cost.); i poteri del
Presidente uscente vengono prorogati fino all’elezione del nuovo.

Attribuzioni relative al potere legislativo


Il Presidente della Repubblica:

➔ Può inviare messaggi alle Camere


➔ Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione
➔ Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo
➔ Indice il referendum abrogativo
➔ Scioglie le Camere
➔ Promulga le leggi
➔ Nomina i 5 Senatori a vita

Attribuzioni relative al potere esecutivo


➔ Emana gli atti aventi forza di lege e i regolamenti
➔ Nomina i funzionari dello Stato
➔ Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici

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➔ Ratifica i trattati internazionali
➔ Ha il comando delle forze armate
➔ Presiede il C.S.D.
➔ Dichiara lo stato di guerra
➔ Nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri
➔ Presiede il CSM
➔ Può concedere la grazia e commutare pene
➔ Nomina i 5 giudici della Corte Costituzionale

Irresponsabilità del Presidente della Repubblica e controfirma ministeriale


➔ Art.90 Cost.: l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica deriva dalla vecchia figura dell’irresponsabilità regia (il re era tale per grazia divina e non
poteva sbagliare).
➔ Reati presidenziali:
o Attentato alla Costituzione: per gravi violazioni della Costituzione che mettono in pericolo l’esistenza dell’ordinamento giuridico italiano.
o Alto tradimento: reato di difficilissima configurazione che consiste in collusioni col nemico
➔ Nelle ipotesi di reato presidenziale il Presidente viene giudicato dalla Corte Costituzionale in composizione integrata: 15 giudici + 16 cittadini
sorteggiati da un elenco di 45 eletto dal Parlamento.
➔ Le ipotesi di reato presidenziale sono fattispecie aperte (impossibili da tipizzare ex ante) sebbene questo fatto confligga con l’art.35 della Costituzione
in forza del quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso.
➔ Art.90 Cost. Irresponsabilità non assoluta bensì limitata all’interno delle funzioni [se utilizza poteri esorbitando dalle sue funzioni è responsabile degli
atti commessi].

Es: Cossiga citato in giudizio per frasi ingiuriose che nel corso del settennio rivolse ad alcuni Senatori → a conferma del fatto che l’irresponsabilità è limitata.

➔ Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni
➔ Gli atti necessitano ai fini della loro validità della controfirma ministeriale
➔ Il ministro proponente assume la responsabilità dell’atto
➔ Il Presidente della Repubblica, solo in virtù della deroga posta dall’art.90, si sottrae al principio generale di responsabilità civile, penale e
amministrativa di tutti i funzionari e dipendenti dello Stato ai sensi dell’art.28 Cost.
➔ La collocazione del Presidente della Repubblica non prevede strumenti che possano far valere contro di lui la responsabilità politica ad esempio per
rimuoverlo. Tuttavia, è assoggettabile a una responsabilità politica di tipo diffuso: i suoi comportamenti possono essere criticati dall’opinione
pubblica.

Classificazione degli atti presidenziali


3 categorie

1. Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali: in questo caso l’atto proviene dal Presidente della Repubblica ma è il Presidente della Repubblica a
determinarne il contenuto. La controfirma ministeriale controlla la provenienza dell’atto, la correttezza formale dell’atto e assume la responsabilità
dell’atto: verifica che l’atto sia rimasto all’interno delle funzioni del Presidente della Repubblica e che questi non abbia esorbitato dalle sue funzioni.

Es: nomina dei 5 giudici costituzionali, nomina dei 5 Senatori a vita (art.59 Cost.), messaggi alle Camere (rinviando la legge per esempio)

Nella misura in cui potesse incidere sulla linea di politica criminale, è difficile pensare che possa essere sostanzialmente presidenziale un atto come la grazia,
a meno che la stessa non abbia una finalità equitativo-umanitaria.

2. Atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi: atti il cui contenuto sia determinato dal Governo.

Es: nomina degli alti funzionari dello Stato; emanazione decreti-legge e decreti legislativi; data di indizione del referendum; promulgazione delle leggi.

In questi casi è il Presidente della Repubblica che nel suo atto accerta la regolarità del procedimento. Egli non può rifiutare l’atto a meno che con quell’atto
non rischi di ricadere nelle ipotesi di reati presidenziali.

3. Atti formalmente presidenziali e sostanzialmente complessi: atti il cui contenuto è congiuntamente determinato da Presidente della Repubblica e
Ministro/ministri/1° Ministro.
Si tratta di atti duali.
Es: nomina del Presidente del Consiglio; scioglimento delle Camere; scioglimento dei Consigli regionali; grazia…

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CAPITOLO 5 - SISTEMI ELETTORALI E CORPO ELETTORALE (INQUADRAMENTO
GENERALE)

Sistema elettorale
Procedure istituzionalizzate per la scelta dei rappresentanti di un’organizzazione/collettività (società per azioni, assemblee…)

Nelle democrazie moderne caratterizzate dalla diffusione del diritto di voto e dal suffragio universale, i meccanismi elettorali sono gli strumenti necessari e
imprescindibili per fare in modo che la volontà di governa sia tendenzialmente collegata e rappresenti la volontà di chi viene governato.

Quando parliamo di sistema elettorale in senso lato facciamo riferimento alla disciplina che regola il fenomeno elettivo (vicenda presentazione delle candidature,
vicende del controllo delle candidature e delle liste e dei simboli che queste adottano fino al momento finale della verifica degli eletti). Questo procedimento va sotto il
nome di sistema elettorale.

Formula elettorale

Formule elettorali: meccanismi attraverso i quali le preferenze espresse dai cittadini o di una comunità sono tradotte in seggi all’interno di un determinato organo.

Sistema maggioritario e sistema non maggioritario

• Formule elettorali di tipo maggioritario

Nel sistema maggioritario il seggio/i posti in competizione nel collegio vanno al candidato/ti che ottengono la maggioranza dei voti validamente espressi.

1a distinzione:

o uninominale: se all’interno del collegio viene eletto un solo candidato (es: un paese che deve eleggere dieci rappresentanti; il territorio viene
diviso in dieci collegi e ognuno dei collegi elegge un solo rappresentante)
o plurinominali: se ognuno dei collegi elegge due o più rappresentanti

2a distinzione:

o modello plurality: viene eletto il candidato che abbia ottenuto la maggioranza relativa dei voti espressi (es: se in un collegio uninominale il
candidato A raccoglie 100 voti, il candidato B raccoglie 90 voti e il candidato C raccoglie 50 voti, nel modello plurality il candidato A viene eletto
perché ha ottenuto la maggioranza relativa ossia ha avuto più voti degli altri candidati pur non avendo avuto la maggioranza assoluta dei voti.

Questo modello è tradizionalmente adottato nei paesi anglosassoni: G.B, USA, Canada, Nuova Zelanda…

o modello majority: è richiesta per l’elezione non la maggioranza relativa, bensì la maggioranza assoluta

Nell’ esempio di prima se in quel paese si adotta un modello di tipo majority il candidato A non viene eletto perché non ha avuto la maggioranza
assoluta dei voti: sono stati espressi in tutto 240 voti e il candidato A ha preso solo 100 voti.

Il paese tipico che adotta il modello majority è la Francia, ma anche L’Australia c’è un modello majority.

Come si fa a supplire al problema del mancato raggiungimento della maggioranza assoluta?

I due modelli tipici per costringere a riversare la maggioranza assoluta su un candidato sono o la ripetizione della votazione oppure il meccanismo
adottato in Australia che è quello del voto singolo trasferibile: l’elettore indica una sua prima preferenza, una sua seconda preferenza, terza
preferenza. Se nessun candidato raggiunge la maggioranza assoluta con le prime preferenze si sommano le prime preferenze e le seconde
preferenze e poi ancora le terze preferenze finché uno dei candidati non abbia ottenuto la maggioranza assoluta.

3a distinzione:

o Si vota con un turno di votazioni


o Con più turni di votazione

Nei sistemi di tipo plurality si vota con n solo turno di votazione essendo sufficiente la maggioranza relativa. Nei sistemi di tipo majority invece
occorre un secondo turno di votazione (es. Francia in cui si va almeno a un secondo turno di votazione, il cd. “turno di ballottaggio”.

Vantaggi dei sistemi maggioritari:

I sistemi maggioritari tradizionalmente spingono i partiti a collegarsi fra di loro; spingono ad un assetto bipartitico o bipolare del sistema politico.
La formazione di un sistema bipartitico o bipolare rende più stabile la Costituzione di una maggioranza di Governo e rende più compatta e coesa
anche la collocazione delle stesse opposizioni.

Svantaggi del sistema maggioritario:

Tradizionalmente mal si adatta a comunità eterogenee (attraversate da fratture etniche/religiose/sociali o nelle quali vi siano delle minoranze).
Il sistema maggioritario non rappresenta le minoranze a meno che non siano fortemente localizzate a livello territoriale. Ma una minoranza
diffusa su tutto il territorio nazionale non viene rappresentata. Il sistema maggioritario inoltre può portare a far vincere i partiti che hanno
ottenuto meno voti sul territorio nazionale

Esempio di vittoria in termini di seggi del partito che ha preso meno voti a livello nazionale.

Ipotizziamo 4 collegi in cui si presentano candidati appartenenti a partiti diversi. Candidati A, B, C


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A B C
1° collegio 100 90 50
2° collegio 100 90 60
3° collegio 100 90 40
4° collegio 10 100 60
RISULTATO 310 + 3 SEGGI 370 + 1 SEGGIO 210 + 0 SEGGI

Il risultato è che il partito B, coi suoi candidati, ha preso più voti in totale di A, ma 1 solo seggio. Il partito C pur avendo preso tanti voti non ha
preso neppure un seggio: essendo arrivato sempre secondo o 3° e mai 1° non ha ottenuto alcun seggio.

Questa situazione è tipica in G.B., dove esiste da sempre 1/3 partito (Partito liberal-democratico) che prende tanti voti in termini percentuali ma
pochissimi seggi perché pochi sono i collegi in cui arriva al 1° posto. E non raramente il partito che avuto più voti, a causa di una distribuzione
territoriale non congrua ha avuto meno seggi. Questo è un problema tipico del sistema maggioritario specialmente in quelli di tipo plurality a un
solo turno di votazione.

Altro problema tipico dei sistemi maggioritari è l’estrema attenzione nel disegnare i collegi: disegnando il quarto collegio diversamente (ridisegno
il collegio in modo da spostare un po’ di elettori di B nei collegi vicini 3 e 2, in modo da spostare 15 elettori di B dal collegio 4 al collegio 3, e 15
elettori di B dal collegio 4 al collegio 2). B perde 30 voti e va a 70 e rimane 1° nel collegio 4 ma nel 3° collegio B guadagna 15 voti e diventa 1° e nel
secondo collegio egualmente sale a 105 voti e diventa 1°. Ridisegnando i collegi si possono stravolgere i risultati elettorali in particolare nei collegi
maggioritari uninominali ed è per questo che le giurisprudenze di tutte le corti supreme e costituzionali nei paesi che adottano sistemi maggioritari
uninominali vietano le cd. Tecniche del “gerrymandering” dal nome di un governatore americano, con cui i collegi vengono ridisegnati in modo da
favorire l’uno o l’altro schieramento. I collegi uninominali devono essere disegnati in modo da garantire omogeneità e continuità economica,
sociale e territoriale del collegio e debbono essere disegnati da soggetti imparziali, non possono essere utilizzati per modificare la composizione
sociopolitica del collegio.

• Formule elettorali di tipo non maggioritario

Caratteristica comune dei sistemi non maggioritari è quella di garantire una rappresentanza alle minoranze.

Sistemi per definizione plurinominali, vale a dire in cui nei collegi sono distribuiti più di un seggio, perché se io distribuisco un solo seggio, quel seggio va
solamente a chi vince: quindi nei sistemi non maggioritari i collegi devono attribuire due o più seggi.

I sistemi non maggioritari sono sistemi basati sulla presenza dei partiti o dei movimenti: nei sistemi maggioritari io posso anche avere candidature slegate da
partiti o movimenti; nei sistemi non maggioritari le candidature sono tradizionalmente organizzate per liste

o Sistemi proporzionali: sistemi in cui tutti i soggetti politici sono rappresentati proporzionalmente al numero dei voti ottenuti

A loro volta sulla base del meccanismo matematico utilizzato per distribuire i seggi si distingue in:

▪ Metodo del quoziente: i metodi del quoziente si basano sulla individuazione di un quoziente elettorale e il quoziente è
dato dal numero di voti presi da ciascuna lista in quel collegio diviso per il numero dei seggi attribuiti a quel collegio
▪ Metodo del divisore: caratterizzati dalla divisione dei voti presi da ciascuna ista all’interno o di quel determinato
collegio per una serie di numeri progressivi

Ipotizziamo che in un collegio siano in palio 10 seggi e che si presentino 4 partiti: lista A, lista B, lista C e lista D.

LISTA A 269.467 voti


LISTA B 178.056 voti
LISTA C 95.652 voti
LISTA D 56.825 voti
TOTALE 600.000 voti
Il quoziente è dato in questo caso da: il numero totale dei voti espressi (600.000) diviso il numero dei seggi attribuiti (10) →600.000/10=60.000

Il quoziente elettorale è quindi 60.000. Come si procede? Si divide il n. di voti ottenuti da ciascuna lista per il quoziente elettorale:

➢ LISTA A: 269.467/60.000 → 4 SEGGI e un resto 29.467


➢ LISTA B: 178.056/60.000 → 2 SEGGI e un resto di 58.056
➢ LISTA C: 95.652/60.000 → 1 SEGGIO e un resto di 35.652
➢ LISTA D:56.825/60.000 → 0 SEGGI e un resto di 56.825

Io sono dunque riuscito ad assegnare 7 seggi:

LISTE SEGGI DIRETTAMENTE ASSEGNATI RESTI


A 4 29.467
B 2 58.056
C 1 35.652
D 0 56.825

➔Utilizzando il metodo del quoziente naturale si sono attribuiti direttamente solo 7 seggi su 10. Se io divido il n. dei voti validi espressi per un
quoziente più elevato, cioè per un quoziente che è dato dal n. dei seggi + 1 o +2 vedremo che assegneremo direttamente un maggior numero di seggi
perché se aumento il divisore il quoziente si riduce. Per distribuire gli altri 3 o si aumenta il quoziente (11 o 12) oppure i seggi residui possono essere
assegnati o col meccanismo dei resti più alti [assegnerò i tre seggi rimasti a quelle liste che hanno dei resti maggiori: in questo caso a B, D e C] oppure
posso riversare quei 3 seggi che mi sono rimasti e che non sono riuscito ad assegnare in un collegio più vasto e ripetere questo tipo di operazione.

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➔L’altro metodo usato è quello del divisore: sempre ragionando sull’esempio precedente io divido il n° dei voti ottenuti da ciascuna lista per una
serie di numeri progressivi (1,2,3,4,5...). Mi risultano delle cifre. Poi dovendo assegnare 10 seggi mi vado a cercare le 10 cifre maggiori e i 10 seggi
saranno assegnati ai 10 risultati maggiori che io ho individuato all’interno della tabella seguente.

A B C D
269.467 178.056 95.652 56.825
134.733,5 89.028 47.826 28.412,5
89.822,33 59.352 31.884 18.941,67
67.366,75 44.514 23.913 14.206,25
53.893,34 35.611,2 19.130,4 11.365

Prendo le 10 cifre maggiori risultanti dalla divisione del voto ottenuto da ciascuna lista per una serie di numeri progressivi.

Risultato finale:

LISTA A 5 SEGGI
LISTA B 3 SEGGI
LISTA C 1 SEGGIO
LISTA D 1 SEGGIO

Il meccanismo visto pocanzi è la cd. Formula d’Hondt. Modificando i divisori ottengo risultati diversi.

Caratteristiche dei sistemi proporzionali:

➔ tendono a fotografare le opinioni politiche e gli schieramenti politici della collettività: tante persone la pensano in un certo modo e avranno una
loro rappresentanza in seno all’organo di rappresentanza.
➔ tutela delle minoranze: minoranze minimamente forti all’interno di un paese attraverso il sistema proporzionale possono essere rappresentate;
mentre invece in un sistema maggioritario possono essere rappresentate solo quelle minoranze molto presenti a livello territoriale, ma
minoranze diffuse non sono rappresentate.
➔ Tende a rendere più facile l’emersione di forze politiche nuove: nei sistemi maggioritari le forze politiche nuove devono arrivare a vincere il
collegio quindi devono prendere più voti degli altri per essere rappresentate. Nei sistemi proporzionale una forza politica nuova basta che riesca
ad arrivare a un minimo di voti che raccoglie e troverà rappresentanza.

Difetti dei sistemi proporzionali:


➔ Non impedisce il frazionamento politico: nei sistemi proporzionali possono essere presenti e rappresentati una pluralità di partiti.

Per modificare gli effetti e le conseguenze dei sistemi proporzionali possono essere adottati dei correttivi:

1. Introduzione di clausole di sbarramento: introduzione di un principio per cui possono accedere alla rappresentanza all’interno dell’organo solo quelle forze
politiche abbiano raggiunto una certa soglia di voti a livello nazionale o regionale. Tipico sistema che adotta la clausola di sbarramento è il sistema tedesco
(soglia del 5%). Questi meccanismi riducono la capacità di fotografare le opinioni politiche dei sistemi elettorali proporzionali ma aumentano la capacità di
creare maggioranze. Se io riduco il numero dei partiti che sono rappresentati servendomi della clausola di sbarramento io creerò raggruppamenti politici più
forti che probabilmente saranno più in grado di governare stabilmente.
2. Lavorare sulla dimensione dei collegi: se io adotto un collegio unico nazionale, devo eleggere 600 deputati e li eleggo in un unico collegio è evidente che la
soglia per essere rappresentati è molto bassa: mi basterà ottenere pochissimi voti per essere rappresentato. Se io invece creo collegi molto piccoli, in cui
sono eletti 4,5,6 rappresentanti, la soglia per essere rappresentato si aumenterà di molto.

Quanto più un paese è frammentato tanto più sarà preferibile adottare collegi molto ampi in modo che tutte le sfumature di opinione siano rappresentate ma
questo va a scapito della stabilità delle maggioranze di Governo.

o Sistemi non proporzionali ovvero a rappresentanza generica: quei sistemi elettorali in cui è il legislatore che predetermina la quota di
rappresentanza riconosciuta alle minoranze.

Sistemi misti
Di fronte alla difficoltà a conciliare i dati positivi dei sistemi elettorali proporzionali con le caratteristiche positive dei sistemi elettorali maggioritari, si è in numerosi
paesi andati verso l’adozione di sistemi elettorali cd. misti, in cui una parte dei seggi è attribuita con un sistema elettorale maggioritario e una parte dei seggi è
attribuita con un sistema elettorale di tipo proporzionale. Tipici di questa tendenza verso sistemi elettorali misti sono la Germania, in cui la metà di seggi è
attribuita in collegi uninominali e l’altra metà con un sistema di tipo proporzionale. Anche se il risultato finale tedesco è di tipo complessivamente proporzionale; e
l’Italia, dopo il referendum del 1993 in cui sono adottati per la Camera e il Senato sistemi elettorali di tipo misto.

CAPITOLO 6 - I SISTEMI ELETTORALI VIGENTI IN ITALIA


Principi costituzionali in tema di voto

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“Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.” Art.48 Cost.

Personale = il voto dev’essere espresso direttamente dal titolare del diritto di voto: vale a dire che non è ammissibile il voto per delega o per procura. Rispetto a questi
tipi di situazioni l’ordinamento prevede una deroga ristrettissima per permettere di esprimere il voto a coloro che non fossero nelle condizioni di poterlo esprimere per
ragioni di vista o di impedimenti talmente gravi che impediscono l’esercizio del voto.

Eguale = non è possibile nel nostro ordinamento l’attribuzione a persone di voti che valgano più dei voti attribuiti agli altri. Il principio generale è “un uomo un voto” e
quindi con l’esclusione del voto plurimo o del voto multiplo (vale a dire di quei voti che attribuiscono ad un soggetto o un peso maggiore ovvero attribuiscono ad alcuni
soggetti di votare in più località a seconda del tipo di collocazione residenziale o professionale). Il principio del voto eguale si riferisce, come si dice in dottrina, al “voto in
entrata”: non è ammissibile la differenziazione di peso fra i voti nel momento dell’espressione. Ma il principio dell’eguaglianza del voto non si riferisce al peso del “voto
in uscita”: sono ammissibili sistemi elettorali al cui esito i voti espressi per esempio dalla maggioranza che vince valgano di più dei voti espressi dalla minoranza. Il
principio del voto eguale dunque non proibisce l’adozione ad esempio di sistemi maggioritari o di sistemi che differenziano, in funzione della creazione della stabilità
governativa, l’output del voto.

Libero e segreto = il voto non dev’essere riconducibile al soggetto che lo ha espresso: questo principio ha la funzione di garantire la libera formazione della volontà da
parte dell’elettore.

Il suo esercizio è dovere civico: ci fu una lunga discussione in assemblea costituente fra coloro che ritenevano che occorresse costruire il diritto di voto come espressione
di un dovere di voto e cioè che occorresse dire che il voto era obbligatorio; e coloro invece che ritenevano che il diritto di voto fosse, comunque, espressione di una
libertà e che quindi anche il non votare fosse ammissibile. Fu individuata questa formula ambigua e compromissoria dell’esercizio del voto come dovere civico:
nell’ordinamento non erano previste sanzioni per chi non andava a votare ma semplicemente la menzione nel certificato elettorale del non esercizio del diritto elettorale
in questa o in quell’altra elezione. Sanzioni però abolite nel 1993.

Elettorato attivo e passivo


A chi spetta il diritto di voto e chi può essere destinatario del voto.

Il diritto di voto nel nostro ordinamento: quando parliamo di elettorato attivo ci riferiamo alla capacità di votare. Nel nostro ordinamento la capacità di votare è
subordinata al possesso di 2 requisiti:

1. la cittadinanza italiana
2. la maggiore età.

Sono previste differenziazioni per quanto riguarda la maggiore età con riferimento al diritto di voto rispetto al Senato per cui l’elettorato attivo lo si ottiene
a 25 anni (e non a 18 con il raggiungimento della maggiore età).

L’elettorato attivo lo si può perdere in presenza di alcune condizioni che danno luogo alla perdita della capacità elettorale.

• Per cause d’incapacità civile


• Per effetto di sentenze penali irrevocabili e per cause di indegnità morale

L’elettorato passivo invece presuppone anch’esso:

• La cittadinanza italiana
• Un livello di età: per la Camera 25 anni e per il Senato della Repubblica 40 anni
• Inesistenza di cause che incidono sulla capacità elettorale passiva.

Si tenga presente che l’ordinamento italiano richiedendo la cittadinanza e la maggiore età come requisiti per l’elettorato attivo ha da tempo abbandonato quelli che
erano all’inizio del secolo scorso alcune cause di mancanza di requisito di elettorato attivo per esempio l’alfabetizzazione e avere almeno un certo reddito.

L’elettorato per quanto riguarda Camera e Senato viene esercitato in Italia ma con alcune leggi costituzionali recenti: legge n.1 del 2000 e legge n.1 del 2001: è stato reso
possibile il voto degli italiani all’estero individuando una circoscrizione estero; e con la legge ordinaria n.459 del 2001 sono state create 6 ripartizioni (Europa 1; Europa 2;
America Meridionale 1; America Meridionale 2; America settentrionale e Centrale; Africa, Asia, Oceania) dove viene esercitato il voto degli italiani all’estero.

Ineleggibilità, incompatibilità e incandidabilità


Con queste formule si fa riferimento a situazioni che rendono impossibili o l’elezione o la compresenza e l’ottenimento e mantenimento di due cariche o addirittura la
candidabilità.

Ineleggibilità: consiste in un impedimento a costituire un valido rapporto elettorale per chi si trova in una causa ostativa.

Incompatibilità: situazione giuridica in cui il soggetto, pur essendo stato validamente eletto, non può cumulare nello stesso tempo le due funzioni.

Su queste due nozioni di ineleggibilità e incompatibilità vi è tradizionalmente un affaticarsi della dottrina ma soprattutto della Giurisprudenza ordinaria, amministrativa e
costituzionale nell’individuare i confini e i presupposti dell’ineleggibilità e incompatibilità. Da ultimo un qualche principio di chiarezza è stato posto dalla legge n.165 del
2004 che, nel dettare norme di principio per la legge elettorale regionale, ha affermato che le cause di ineleggibilità sussistono qualora le attività o le funzioni svolte dal
sindacato possano turbare o condizionare in modo diretto la libera decisione degli elettori ovvero possano violare la parità d’accesso alle cariche elettive rispetto agli
altri candidati. Quindi il presupposto della ineleggibilità consiste nella turbativa del libero svolgimento dell’elezioni e l’ineleggibilità la si risolve dimettendosi dall’incarico
che comporta ineleggibilità prima dello svolgimento dell’elezioni.

Sempre sulla base della legge n.165 del 2004, all’articolo 3 si dice che le cause di incompatibilità sussistono in caso di conflitto fra le funzioni svolte per chi ricopre una
certa carica rispetto ad altre situazioni o cariche: situazione che compromette il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione ovvero il libero espletamento della
carica elettiva. L’ineleggibilità dunque ha come presupposto la messa a repentaglio del libero svolgimento delle elezioni; l’incompatibilità ha come presupposto una
situazione di compresenza fra cariche che non permette il corretto espletamento dei due mandati e si risolve con le dimissioni dall’una o dall’altra carica ritenuta
incompatibile.

Una legislazione recente, la legge n.16 del 1992, ha poi introdotto la non candidabilità: consiste in un’idoneità funzionale assoluta ossia nell’impossibilità di presentare la
propria candidatura. Su questa legge sono poi intervenute delle sentenze della Corte costituzionale (in particolare la n.141 del 1996) che hanno ridotto l’ambito di questa
incandidabilità.

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Vediamo adesso in dettaglio le leggi elettorali della Camera e del Senato : oggi le leggi elettorali sono state recentemente modificate nel 2005 con la legge 270 del 2005
che è succeduta alle leggi elettorali n.276 e 277, emanate all’inizio del ‘93 alle leggi, che furono adottate a seguito di una consultazione referendaria tenutasi nel ’93; con
questa consultazione referendaria il corpo elettorale si era espresso (83%) a favore della modifica in senso maggioritario della legislazione elettorale del Senato . Sulla
base di quel referendum, le leggi sopracitate hanno introdotto un sistema elettorale che veniva definito misto, in cui il 75% dei seggi erano attribuiti in collegi
uninominale e il 25 % era attribuito con un sistema proporzionale. Questo sistema elettorale del ‘93 ha disciplinato le elezioni del 1994, del 1996, del 2001, succedendo a
sua volta ad un altro sistema elettorale, quello che aveva disciplinato le elezioni parlamentari dal ‘48 al ‘92, a sistemi elettorali tipicamente proporzionali forse con alcune
differenze fra Camera e Senato.

La nuova legge elettorale 270 del 2005:

➔ Questa legge introduce sia per la Camera che per il Senato un sistema proporzionale di riparto dei seggi con un premio di maggioranza
eventuale, che scatta solamente a determinate condizioni

Sistemi elettorale per il Senato della Repubblica


➔ L’articolo 57 della Costituzione prevede che il Senato deve essere eletto su base regionale, salvo i seggi assegnati alla circoscrizione estero. Dei
315 seggi di cui è composto il Senato, ai sensi dell’art.57 comma 2°, 309 sono distribuiti fra le diverse Regioni e i residui 6 sono attribuiti alla
circoscrizione estero.
➔ Tutti i 309 seggi vengono distribuiti fra le diverse Regioni secondo un criterio, che è dettato ai commi 3° e 4° dell’art.57, per cui nessuna Regione
può avere meno di 7 Senatori, tranne il Molise che ne ha 2 e la Val d’Aosta che ne ha 2 in ragione del minor n° di abitanti di queste Regioni.
➔ Se la lista o la coalizione vincente nella circoscrizione regionale non ottiene il 55% dei seggi in palio, scatta il premio di maggioranza → il n° di
seggi che sono attribuiti alla lista o alla coalizione di liste vincenti dev’essere pari ad almeno il 55 % dei seggi.
➔ La legge del sistema elettorale del Senato così come quella della Camera ha un complicato meccanismo di soglie di sbarramento: sempre
operando a livello regionale, accedono al riparto dei seggi le liste non coalizzate (per lista non coalizzata intendiamo una lista che si sia
presentata da sola e che non si sia collegata con altre liste nell’agone elettorale) che abbiano ottenuto almeno l’8% dei voti su base regionale.
➔ Partecipano alla ripartizione dei seggi le coalizioni (insieme di liste collegate) che abbiano conseguito almeno il 20 % dei voti sempre su base
regionale e che contengano al loro interno almeno 1 lista che abbia conseguito almeno il 3 % dei voti validi su base regionale.
➔ Quindi partecipano al riparto dei seggi le liste coalizzate che abbiano conseguito il 3% dei voti validi su base regionale
➔ Se si presenta una coalizione che non raggiunge il 20 % su base regionale occorre che le liste in essa contenuta, pur non avendo la coalizione
raggiunto il 20 %, abbiano ottenuto almeno l’8 % dei voti.
➔ Complicazione: il premio di maggioranza che ha come logica quella di favorire la governabilità del paese e un assetto stabile delle forze politiche
viene attribuito non già a livello nazionale ma a livello regionale e quindi col rischio di risultati casuali. Se non ha questo tipo di obiettivo, la
logica del premio di maggioranza è barcollante e non se ne capisce la funzione distorsiva del risultato elettorale.

Sistemi elettorale per la Camera dei deputati


Legge 270 del 2005

➔ 618 seggi sui 630 complessivi sono distribuiti tra le diverse circoscrizioni
➔ I restanti 12 seggi sono distribuiti nella circoscrizione estero
➔ Tutti i seggi sono attribuiti con un sistema proporzionale anche in questo caso
➔ Anche in questo caso è previsto un premio di maggioranza che però stavolta è attribuita a livello nazionale. La logica è di garantire alla coalizione vincente,
anche se vinca per pochissimo, come è successo nelle elezioni del 9 e del 10 aprile del 2006, quanto minimo sia pure lo scarto della vittoria, almeno 340
seggi (55% dei seggi distribuiti a livello nazionale). Naturalmente se una coalizione ottiene più del 55 % dei seggi il premio di maggioranza non scatta. Nelle
elezioni del 9 e del 10 aprile 2006 la coalizione di centro sinistra per esempio ha vinto con uno scarto di 4000 voti sulla coalizione di centro destra ed è
scattato il premio di maggioranza di 340 seggi.
➔ Se la coalizione vincente non ottiene almeno 340 seggi (il 55 % dei seggi distribuiti su base nazionale) scatta dunque il premio di maggioranza.
➔ Anche il sistema della Camera dei deputati prevede soglie di sbarramento
➔ Accedono al riparto dei 618 seggi le liste ancorché non coalizzate (non collegate in una coalizione) che abbiano conseguito almeno il 4 % dei voti validi su
base nazionale.
➔ Accedono alla distribuzione dei seggi le coalizioni (insiemi di liste collegate) [le coalizioni che si candidano a governare depositano un unico programma
elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona indicata come unico Capo della coalizione] che abbiano conseguito, sommando tutti i voti
delle liste che la compongono, almeno il 10 % dei voti su base nazionale, e al cui interno vi sia almeno una lista che abbia conseguito almeno il 2 % dei voti
validi su base nazionale.
➔ Partecipano dunque al riparto dei voti quelle liste coalizzate che abbiano conseguito almeno il 2 % dei voti validi su base nazionale
➔ La legge elettorale della Camera prevede altresì il recupero della miglior lista fra quelle che hanno conseguito meno del 2 %: le altre liste che hanno
conseguito meno del 2% partecipano alla sommatoria del risultato della coalizione ma non ottengono seggi, non partecipano alla distribuzione dei seggi.
➔ Se invece ci trovassimo di fronte a coalizioni che non hanno raggiunto il 10 % dei voti a livello nazionale, all’interno di tali coalizioni accederebbero al riparto
le liste che abbiano ottenuto almeno il 4 % dei voti su base nazionale
➔ Oltre alle caratteristiche viste precedentemente [sistema elettorale con premio di maggioranza eventuale, un complicato meccanismo di soglie di
sbarramento] l’altra caratteristica che ha segnato questo sistema elettorale è data dal fatto che le liste sono bloccate: non è possibile per l’elettore
esprimere alcun voto di presenza. [Se teniamo presente che la tradizione elettorale italiana ha visto per la Camera dei deputati fino al 1991 l’espressione di
3 o 4 preferenze a seconda della circoscrizione elettorale, dalle elezioni del ‘92 si votò invece con la possibilità di esprimere un’unica preferenza; dal ’94 al
2001 per tre tornate elettorali si è votato con un sistema maggioritario in cui si sceglieva sì la coalizione ma anche in relazione al candidato che c’era nel
collegio uninominale] certo il sistema con cui si è votato nel 2006 costituisce un unicum nella storia dei sistemi elettorali italiani e costituisce sicuramente un
sistema su cui riflettere se sia opportuno mantenerlo ovvero se occorra apportare una modifica.
➔ Sotto il profilo del risultato questi nuovi sistemi elettorali di Camera e Senato dovrebbero continuare a garantire la creazione di due coalizioni politiche
(centro-destra; centro-sinistra), ma non hanno evitato la frammentazione politica: all’interno delle coalizioni si sono presentate nel 2006 molte liste, il che
ha reso più instabile le due coalizioni che devono fare i conti con numerosi soggetti che di quelle coalizioni fanno parte (a causa di alcuni meccanismi: il fatto
che si contavano il voto di tutte le liste comprese nelle coalizioni).

Sistemi elettorale per le elezioni regionali


Art.122.1 della Costituzione

➔ Il sistema di elezione nei casi di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente, degli altri componenti della Giunta nonché dei Consiglieri regionali sono
disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica.

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➔ Il sistema elettorale dell’elezione dei Consigli regionali è affidato alla libera scelta delle Regioni pur se all’interno dei principi fissati da una legge quadro
statale. In realtà alle elezioni del 2005 nessuna Regione è andata con un proprio sistema elettorale tranne la Regione Toscana che è riuscita a fare una
propria legge che comunque si inseriva nel filone della legge con cui si è votato anche per le altre Regioni
➔ Legge 43 del 1995: relatore della legge in Parlamento Tatarellum (così come la legge elettorale del ’93 veniva chiamata Mattarellum → questa legge
elettorale regionale consiste in un sistema proporzionale che si basa su collegi plurinominali di dimensione provinciale col quale vengono assegnati l’80 %
dei seggi, spettanti a ciascuna Regione; mentre il restante 20 % dei seggi (cd. “listino” viene attribuito non più a livello provinciale, ma a livello regionale alla
lista collegata al Presidente che ha vinto le elezioni e quindi costituisce premio di maggioranza per il Presidente vincente
➔ A livello provinciale nelle elezioni per i Consigli regionali sono previste soglie di sbarramento: il 3 % su scala provinciale e il 5% su scala regionale.
➔ I seggi assegnati a livello regionale costituiscono il premio di maggioranza: sono seggi che permettono alle liste collegate al Presidente vincente di avere una
maggioranza a lui collegata in Consiglio regionale (a livello regionale vige il principio per cui Presidente e Consiglio regionale insieme erano stati eletti (“simul
stabunt”) insieme cadono (“simul cadunt”) nel caso si verifichino alcune situazioni che impediscono la prosecuzione della legislatura
➔ Ai sensi dell’art.122 Cost. è stata emanata la legge n.165/2004 che stabilisce i principi fondamentali in materia elettorale che le Regioni debbono rispettare
nell’elaborazione della normativa di dettaglio sull’elezione del Consiglio. In questo caso per quanto riguarda le modalità di elezione del Consiglio il principio è
dato dall’art.4 che ci dice che “le Regioni possono disciplinare il sistema di elezione del Presidente della Giunta e dei Consiglieri regionali individuando un
sistema elettorale che agevoli la formazione di stabili maggioranze nel Consiglio regionale e assicuri la rappresentanza delle minoranze. Il sistema elettorale
deve assicurare la contestualità dell’elezione del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale nel caso in cui il Presidente è eletto a suffragio
universale diretto → questi sono i principi per le leggi elettorali regionali nel caso in cui le Regioni riuscissero a fare proprie leggi elettorali.

Sistemi elettorale per le elezioni comunali


➔ Comuni fino a 15.000 abitanti: si vota con un sistema “non maggioritario” e “non proporzionale” in cui viene eletto sindaco il candidato che abbia ottenuto
anche la maggioranza relativa dei seggi e alla sua elezione a sindaco corrisponde altresì la creazione di una maggioranza in Consiglio comunale
➔ Comuni al di sopra dei 15.000 abitanti: si vota con un sistema di elezione a doppio turno con due schede: una per il Sindaco e l’altra per il Consiglio (voto
disgiunto). Il sindaco dev’essere eletto a maggioranza assoluta dei voti espressi; nel caso che nel 1° turno di votazione il candidato sindaco non raggiunga
una maggioranza assoluta si va a una votazione di ballottaggio fra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti. Il candidato vincente
trascina con sé anche una maggioranza in Consiglio comunale
➔ È possibile il cd. voto dissociato: è possibile votare disgiuntamente il sindaco di uno schieramento e una lista di un altro schieramento.

Sistemi elettorale per le elezioni provinciali


➔ Il sistema elettorale per il Presidente della provincia e per i Consigli provinciali è un sistema simile a quello precedentemente visto.

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CAPITOLO 7&8 - IL PARLAMENTO
Il Parlamento come sede della rappresentanza politica
Questo principio del Parlamento come sede della rappresentanza politica lo ricaviamo da un esame sistematico della nostra Costituzione: in primo luogo dall’art.1 che ci
dice al 2°comma “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Quindi secondo le procedure e i principi che sono delineati
in Costituzione questo principio del Parlamento come sede della rappresentanza politica lo ricaviamo dall’art.67 della Costituzione: ogni membro del Parlamento
rappresenta la nazione e esercita le su funzioni senza vincolo di mandato (cd. divieto di mandato operativo). Lo ricaviamo dall’art.49 secondo cui tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Lo ricaviamo altresì dalla collocazione sistematica
delle norme sul Parlamento che sono collocate all’inizio della Parte 2a della Costituzione (Parte sulla organizzazione costituzionale: “Ordinamento della Repubblica) che si
apre proprio specificamente col Parlamento a indicare la centralità del Parlamento nel nostro sistema costituzionale. Questo a prescindere dalle evoluzioni del sistema
elettorale proporzionale, maggioritario o comunque dovesse essere disegnato il sistema costituzionale, ma indica la collocazione sistematica del Parlamento nel nostro
ordinamento.

Il bicameralismo
Il Parlamento italiano è caratterizzato dal bicameralismo. L’art.55 1° comma ci dice: “il Parlamento si compone della Camera dei Deputati e del Senato della
Repubblica”; noi abbiamo cioè due Camere nel nostro ordinamento”.

Quali sono le ragioni del bicameralismo? In alcuni assetti costituzionali abbiamo assistito all’abbandono del modello bicamerale e la adozione di un modello
monocamerale in cui esiste una sola Camera di rappresentanza politica della nazione.

Le ragioni tradizionali per le quali i nostri costituenti si sono orientati verso un modello bicamerale sono le seguenti:

➔ I bicameralismi del XIX secolo erano Parlamenti bicamerali perché una Camera rappresentava la totalità dei cittadini, la seconda Camera, la Camera alta era
tradizionalmente riservata ad una rappresentanza di ceti o di classi particolari (nobiltà ed ecclesiastici). Il modello tradizionale in questo senso è quello della
House of Lords britannica in cui siedono solamente i Lords ovvero coloro che abbiano lo statuto di pari: è una Camera di rappresentanza della nobiltà.
Questo modello era anche il modello adottato dal Senato regio nel periodo dello Statuto Albertino e la Camera cd. bassa rappresenta la totalità dei cittadini
o comunque tutti i cittadini che votano; la Camera cd. alta era la Camera espressione solo di alcuni ceti sociali ovvero la Camera in cui il re poteva nominare
persone di sua fiducia. Naturalmente con l’avanzare del principio democratico è successo che le seconde Camere, le Camere alte non legate alla
rappresentanza politica, ma legate appunto a un principio di rappresentanza per ceti sociali, o sono scomparse ovvero sono andate perdendo peso e
significato. Tornando sempre al modello tradizionale del bicameralismo di questo tipo, la storia della House of Lords in G.B. nel XX secolo è una storia di
progressiva perdita di peso nel sistema costituzionale. Gli inglesi hanno voluto mantenere la House of Lords come rappresentanza di tipo nobiliare; poiché
però i principi che regge i sistemi politici non può che essere il principio democratico e di uguaglianza, la House of Lords è andata progressivamente
perdendo peso e significato rimanendo poco più che una Camera di riflessione nel sistema politico britannico. Il secondo modello tradizionale di seconda
Camera è la Camera di rappresentanza delle entità sub-statali negli stati di tipo federale o regionale. Anche qui i modelli tipici in questo senso sono gli USA,
la Germania, la Svizzera ma anche l’Austria e tutti i modelli di tipo federale: la Camera bassa rappresenta tutta la collettività nazionale; la Camera alta o la
seconda Camera rappresenta le entità sub-statali. Così negli USA il Congresso rappresenta tutti i cittadini americani, il Senato è basato sul principio della
rappresentanza paritaria di ognuno dei 50 stati americani: ci sono 2 Senatori per ognuno dei 50 stati; egualmente in Germania nella seconda Camera, il
Bundesrat, sono rappresentate, in maniera non perfettamente proporzionale alla popolazione, i governi dei Länder, cioè le entità sub-statali.
➔ Il bicameralismo ha un processo politico-legislativo che permette pause di riflessione (non è troppo immediato) che contiene in sé elementi di riflessione.
Idea del Senato come Camera di riflessione, come Camera di saggezza che tempera gli istinti politici. In questo schema le due Camere non sono collocate
pienamente sullo stesso piano perché sia nella Camera alta come rappresentanza per ceti, sia nella Camera alta come rappresentanza sub-statali, sia nella
Camera alta concepita come Camera di riflessione, normalmente i poteri dell’una e dell’altra Camera sono diversamente dislocati. Il nostro costituente,
invece, ha scelto il bicameralismo ma poi ha collocato Camera e Senato su un piede di assoluta parità.

Bicameralismo paritario e perfetto

➔ Il nostro bicameralismo è quello che si chiama paritario e perfetto: Camera e Senato svolgono le medesime funzioni e partecipano alle funzioni del
Parlamento con lo stesso identico ruolo. In particolare, la funzione legislativa, come dice l’art.70, è esercitata collettivamente dalle due Camere e la fiducia al
Governo è data da ambedue le Camere; altresì tutta l’attività di indirizzo e controllo politico è paritariamente svolta dalle due Camere. Perché si arrivò a un
bicameralismo paritario e perfetto? Perché fu un po’ una scelta di compromesso fra una sinistra socialista e comunista che avrebbe voluto un Parlamento
monocamerale e le altre forze politiche che avrebbero preferito un Parlamento bicamerale ma con una differenza fra Camera e Senato. Alla fine, il
compromesso fu trovato con due Camere sì ma ambedue partecipanti egualmente alle funzioni legislativa e di rapporto col Governo e di controllo svolte dal
Parlamento e ambedue rappresentative egualmente del sistema politico nel suo complesso.
➔ Punto di criticità del funzionamento del sistema politico italiano: il bicameralismo provoca un rallentamento dei tempi della decisione politica. Tanto più
grave quanto più il nostro mondo moderno è un mondo che richiede rapidità di decisioni. Se la decisione politica espressa dal Parlamento è lenta in ragione
del bicameralismo. La decisione politica si sposterà verso il Governo.

In realtà Camera e Senato nel nostro testo costituzionale hanno delle differenze organizzative ma queste differenze in realtà non sono poi così rilevanti da segnare una
complessiva differenza di ruolo delle due Camere nel sistema istituzionale.

➔ La principale differenza è nel numero: i deputati sono 630, ai sensi dell’art.56 Cost., di cui 12 sono eletti nella circoscrizione estero secondo la modifica
costituzionale; i Senatori sono 315, di cui 5 eletti nella circoscrizione estera. Una Camera è il doppio dell’altra.
➔ È diversa l’età sia dell’elettorato attivo, cioè della possibilità di eleggere, che dell’elettorato passivo, la possibilità di essere eletti. Alla Camera l’elettorato
passivo, cioè il diritto di voto è fissato con la maggiore età quindi 18 anni; al Senato l’elettorato attivo è fissato a 25. Alla Camera l’elettorato passivo, cioè la
possibilità di essere eletti è fissata a 25 anni; al Senato l’elettorato passivo è fissato a 40 anni. Quindi alla Camera vi sono deputati tendenzialmente più
giovani di quelli che ci sono al Senato perché al voto per la Camera partecipa una fascia di età dai 18 ai 25 che non partecipa al voto per il Senato.
➔ Nel Senato siedono, oltre ai Senatori eletti secondo il sistema elettorale, anche dei Senatori di diritto o a vita. Sono Senatori di diritto o a vita gli ex
Presidenti della Repubblica; sono Senatori a vita, ai sensi dell’art.59 comma 2° della Costituzione, 5 cittadini che “hanno illustrato la patria per altissimi
meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario che possono essere nominati Senatori a vita dal Presidente della Repubblica”. Sull’art.59 comma 2°
vi è stata una discussione interpretativa: in un 1° momento si riteneva che i Senatori a vita potessero essere 5 complessivamente e che quindi solo 5
potessero essere di nomina presidenziale; in un secondo momento è prevalsa l’interpretazione secondo cui ogni Presidente della Repubblica può nominare
5 Senatori a vita. Naturalmente il problema che deriva da ciò è che, soprattutto con sistemi elettorali maggioritari, in cui le maggioranze possono essere a
seconda dei casi anche molto risicate, i Senatori di diritto o a vita possono spostare o influire sulla composizione della maggioranza.
➔ I sistemi elettorali sono tendenzialmente simili, anche se con qualche piccola differenza, sia quando si era nel regime proporzionale sia adesso che si è in
una fase di sistema elettorale di tipo maggioritario, perché sono entrambi sistemi elettorali basati sul fatto che il 75% dei seggi attribuiti col sistema
maggioritario uninominale e il 25% attribuiti col recupero proporzionale. Vi è una piccola differenza perché, ai sensi dell’art.57 1° comma, il Senato è eletto

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su base regionale. Questo ha condotto sia il legislatore precedente sia il legislatore attuale a basare la distribuzione dei seggi su circoscrizioni di tipo
regionale. Ma alla fine la differenza non è rilevante.
➔ Non vi è differenza fra la durata del mandato, che per ambedue le Camere è posta a 5 anni, mentre precedentemente, nel testo originario della
Costituzione, il Senato durava 6 anni. Tuttavia, questa differenza di mandato fra Camera e Senato non fu mai attuata perché già nelle prime legislature il
Senato fu sciolto anticipatamente per eleggerlo insieme alla Camera.
➔ Nel sistema politico italiano, tradizionalmente i leader dei partiti siedono alla Camera: è raro ma non impossibile [pensiamo a Spadolini segretario del Partito
Repubblicano] che i leader dei partiti siedano al Senato. Si tratta comunque di una prassi.
➔ Anche le differenze fra i regolamenti di Camera e Senato non sono poi così rilevanti da marcare una significativa distinzione.
➔ Le differenze sopracitate non inficiano però il carattere paritario e perfetto del nostro bicameralismo. Si è discussa una proposta di riforma della
Costituzione che modifica i criteri di composizione del Senato introducendo un modello di composizione del Senato basato sulla rappresentanza delle
Regioni.

Il Parlamento in seduta comune (art.55, comma 2)

➔ Il Parlamento in seduta comune è un organo diverso sia dalla Camera e dal Senato, sia dal Parlamento nel suo complesso.
➔ È previsto all’art.55, nel 2° comma, che: “il Parlamento si riunisce in seduta comune dei membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione” →
è quindi un organo non permanente non con funzioni generali ma che ha solamente quelle specifiche funzioni attribuitegli dalla Costituzione.
➔ La presidenza del Parlamento in seduta comune è affidata al Presidente della Camera
➔ Normalmente il Parlamento in seduta comune può adottare un proprio regolamento, ma normalmente adotta quello della Camera dei deputati. Da un
punto di vista fisico, il Parlamento in seduta comune si riunisce presso la Camera dei deputati per un fatto numerico (la Camera dei deputati è in grado di
ospitare un maggior numero di persone).

Le funzioni del Parlamento in seduta comune sono quelle fissate esplicitamente fissate dalla Costituzione

➔ Il Parlamento in seduta comune elegge il Presidente della Repubblica, integrato dai rappresentanti delle elezioni
➔ Elegge 5 giudici costituzionali
➔ Elegge 1/3 dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM)
➔ Elegge i 45 cittadini fra i quali si sorteggiano i 16 giudici aggregati alla Corte costituzionale per il giudizio penale del Presidente della Repubblica
➔ Mette in stato di accusa il Presidente della Repubblica

L’organizzazione interna del Parlamento

• I presidenti delle Camere


• Gli uffici di presidenza
• I gruppi parlamentari
• Le Commissioni e le giunte

Ai sensi dell’articolo 63 comma 1 della Cost., ciascuna Camera elegge fra i suoi componenti il Presidente e l’ufficio di presidenza. I regolamenti della Camera e del Senato
disciplinano diversamente le modalità di elezione dei rispettivi presidenti. Alla Camera dei deputati è richiesta la maggioranza dei 2/3 per i primi 3 scrutini;
successivamente l’elezione del Presidente viene adottata con la sola maggioranza assoluta (metà + 1 dei componenti l’assemblea). Al Senato è richiesta la maggioranza
assoluta per i primi 2 scrutini; al 3° scrutinio è sufficiente la maggioranza semplice (maggioranza dei presenti in aula); dopo il 3° scrutinio si procede al ballottaggio fra i
due più votati nel 3° scrutinio. Quindi la regola di elezione del Senato tende ad accelerare l’elezione del Presidente del Senato, nel senso che l’elezione del Presidente del
Senato comunque avverrà al 4° scrutinio; l’elezione del Presidente della Camera, invece, richiede sempre e comunque, almeno la maggioranza assoluta.

Queste regole di elezione dei Presidenti delle Camere hanno un particolare significato, perché il problema retrostante a queste regole è quello della collocazione dei
Presidenti delle Camere. Nel sistema costituzionale i Presidenti delle Camere hanno un ruolo particolare: intanto abbiamo ricordato come il Presidente della Camera
presieda il Parlamento in seduta comune con quei compiti che il Parlamento in seduta comune deve svolgere; il Presidente del Senato invece supplisce il Presidente della
Repubblica in caso di sua assenza o impedimento; i Presidenti delle Camere sono sentiti obbligatoriamente dal Presidente della Repubblica nel caso di scioglimento delle
Camere, ai sensi dell’articolo 88 (il Presidente della Repubblica può sentiti i loro presidenti sciogliere le Camere o anche una sola di esse). Infine, pur non essendo
previsto dalla Costituzione, i Presidenti delle Camere sono consultati dal Presidente della Repubblica nel procedimento di formazione del Governo. La legge 140 del 2003
aveva creato un’immunità particolare per una serie di figure istituzionali fra cui i Presidenti delle Camere. Questa particolare collocazione istituzionale dei Presidenti
delle Camere spinge a chiedersi se i Presidenti delle Camere possano essere espressione della maggioranza o debbano svolgere un ruolo super partes. È la polemica
tipica sui presidenti delle Camere.

Nel sistema politico italiano vi è stata una fase in cui i presidenti delle Camere erano espressione, l’uno della maggioranza, l’altro dell’opposizione comunista: dal 1976 al
1994 la presidenza della Camera dei deputati è stata affidata ad un esponente del Partito comunista, mentre la presidenza del Senato era affidata a un esponente o
democristiano o della maggioranza, a rimarcare questa collocazione super partes dei presidenti. Nella stagione precedente Camera e Senato, l’una aveva un Presidente
espressione della D.C., l’altra aveva un Presidente espressione dei partiti laici o socialisti.

Con l’avvento del regime maggioritario, i presidenti dal 1994 in poi sono stati sempre eletti dalla maggioranza di Governo. In realtà, pur essendo i Presidenti espressione
della maggioranza di Governo, un ruolo di imparzialità nella gestione dei lavori parlamentari non può non far parte dei compiti dei Presidenti delle Camere, i quali hanno
sì una loro collocazione, dei loro obiettivi e profili politici, ma nella conduzione dei lavori d’aula non possono non svolgere questa attività in posizione super partes e
imparziale. Espressione di questa posizione imparziale e super partes dei presidenti è la regola secondo la quale i Presidenti delle Camere non partecipano al voto sui
provvedimenti delle Camere (si astengono dal voto).

In questa loro attività di direzione della macchina organizzativa della Camera e del Senato e di direzione dei lavori dell’assemblea (complicate sedute dei lavori
parlamentari talvolta con scontri verbali) i Presidenti devono svolgere questa attività; e in questa attività sono coadiuvati dall’ufficio di Presidenza che viene eletto
insieme al Presidente e che ha come funzione proprio quella di coadiuvare il Presidente allo svolgimento dei suoi compiti.

Un altro organo significativo di ciascuna Camera è dato dai gruppi parlamentari: essi altro non sono che la proiezione nella Camera dei deputati e nel Senato della
Repubblica dei partiti politici. Il 1° atto che compiono i deputati e i Senatori una volta eletti è quella di aderire a un gruppo parlamentare perché Camera e Senato
riconoscono una serie di diritti particolari proprio ai gruppi parlamentari e perché i gruppi parlamentari rappresentino l’unità base sotto il profilo politico della Camera e
del Senato. I gruppi parlamentari, in particolare, sono citati all’articolo 72 e all’articolo 82 Cost., in riferimento alla composizione delle Commissioni.

Due precisazioni:
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1. Abbiamo detto in precedenza che i gruppi parlamentari sono l’espressione dei partiti politici in Parlamento; questo è un principio tendenziale ma non
necessariamente i gruppi parlamentari debbono rispecchiare i partiti. Questo perché si possono avere partiti che si presentano unitariamente di fronte al
corpo elettorale e che poi, in sede di composizione del gruppo parlamentare si scompongono in due o più gruppi ovvero si possono avere fenomeni di
scissione o di aggregazione dei partiti che poi si rispecchiano nella composizione del gruppo.
2. Camera e Senato, al fine di evitare una eccessiva proliferazione dei gruppi e un appesantimento dei lavori delle due Camere, hanno una regola che è quella
che il gruppo parlamentare si può comporre alla Camera con almeno 20 deputati, mentre al Senato con almeno dieci Senatori.

Si registra anche negli ultimi vent’anni una crescita del fenomeno del cd. “gruppo misto”: i parlamentari che non sono in grado di costituire un gruppo secondo le regole
sopracitate ovvero che decidono di uscire dal gruppo a cui precedentemente appartenevano, dovendo iscriversi a un gruppo si iscrivono al cd. gruppo “misto”.
Dall’avvento del sistema maggioritario in poi, soprattutto con un fenomeno di difficile riconoscimento nella logica bipolare del sistema politico, e con un fenomeno di
trasmigrazione di deputati e Senatori da un partito all’altro, il numero di soggetti presenti nel gruppo misto è andato enormemente aumentando, tanto che il gruppo
misto ha tradizionalmente costituito il 3° o 4° gruppo della Camera o del Senato negli ultimi anni.

Organi invece di tipo organizzativo della Camera e del Senato sono le Commissioni e le giunte. Le Commissioni sono citate all’art. 72 e 82: all’art.72 come base del
procedimento legislativo; all’art.82 per quanto riguarda la formazione di Commissioni di inchiesta. Il principio base di composizione delle Commissioni è quello della
composizione proporzionale alla consistenza dei gruppi. In altri termini, le Commissioni devono rispecchiare la consistenza dei gruppi parlamentari. Attenzione: non
devono rispecchiare maggioranza e opposizione; devono rispecchiare proporzionalmente i diversi gruppi parlamentari. Questa regola del rispetto proporzionale della
composizione dei gruppi è richiesta dalla Costituzione per le Commissioni in sede legislativa qualora abbiano una funzione deliberante, cioè quando siano le Commissioni
ad approvare la legge; ed è richiesta altresì dalla Costituzione all’art.82 per le Commissioni di inchiesta. In realtà nella vicenda costituzionale, come appare logico, la
composizione delle Commissioni in qualunque sede esse seggano, è sempre legato al rispetto della proporzione fra i gruppi parlamentari.

Le giunte sono un altro organo della Camera e del Senato. Sono normalmente organi collegiali previsti dai regolamenti parlamentari per l’esercizio di funzioni diverse da
quelle legislative e di controllo. In particolare, sono la Giunta per le elezioni, la Giunta per il regolamento e, al Senato, la Giunta per gli affari delle comunità europee. Si
ricorda poi, tornando sulle Commissioni d’inchiesta che le Commissioni s’inchiesta sono disposte ai sensi dell’art.82; possono essere istituite da ciascuna Camera, quindi
sono normalmente bicamerali; possono però anche essere bicamerali (quindi composti da membri delle due Camere). Nel caso delle Commissioni bicamerali possono
essere istituite con atti di eguale contenuto delle due Camere ovvero possono anche essere istituite per legge.

Durata del mandato


➔ Secondo l’art.60 1° comma della Costituzione, Camera e Senato durano in carica 5 anni. Questa equiparazione fra Camera e Senato per quanto riguarda la
durata del mandato si è avuta solamente con la legge costituzionale n.2 del ’63 che ha equiparato la durata di Camera e Senato a 5 anni. Nel testo originario
della Costituzione, la Camera durava in carica 5 anni, mentre il Senato 6. Nei fatti, in realtà, anche nelle prime legislature, quelle successive all’entrata in
vigore della Costituzione fino alla riforma costituzionale del ’63, il Senato veniva sciolto anticipatamente in modo che tutte e due le Camere durassero 5
anni. La scelta di una durata diversa era legata all’idea di graduare la durata temporale degli organi costituzionali; ma poi si rivelò non funzionale al
bicameralismo paritario e perfetto del nostro attuale assetto costituzionale.
➔ La durata delle Camere non può essere prorogata se non per legge e se non nel caso di guerra. L’art. 60 1°comma, esclude la proroga della durata,
prevedendo che la proroga, quindi il mantenimento in carica delle due Camere nonostante la scadenza de mandato, possa essere prevista solamente con
legge o nel caso di guerra. Istituto diverso è la cd. prorogatio: l’istituto attraverso il quale le Camere o comunque un organo rimane in vigore e continua a
esercitare le sue funzioni, fino a quando non entra in funzione il nuovo organo. Questo istituto è fissato all’art.61 Cost. che prevede che l’elezione delle
nuove Camere abbia luogo entro 70 gg. dalla fine delle precedenti e che la prima riunione abbia luogo non oltre il 20° giorno dalle elezioni. Sino alla riunione
delle nuove Camere, rimangono nell’esercizio delle loro funzioni le vecchie Camere della precedente legislatura. Si discute su quali siano i poteri dell’organo
scaduto. Sicuramente è escluso che le Camere in fase di prorogatio possano eleggere il Presidente della Repubblica. Ai sensi dell’art.85 1° comma, “se le
Camere sono sciolte o mancano meno di tre mesi alla loro cessazione, l’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo entro 15 gg. dalla riunione delle
Camere nuove”. Quindi le Camere, sia se mancano ancora 3 mesi alla scadenza, a maggior ragione se sono in prorogatio, non possono eleggere il nuovo
Presidente della Repubblica nel caso in cui le due scadenze coincidano. Altrimenti si ritiene normalmente comunque che le due Camere in prorogatio
possano esercitare la cd. ordinaria amministrazione: esplicitamente la Costituzione prevede che le Camere possano ancorché sciolte, e quindi ancorché in
prorogatio, possano approvare, convertire in legge i decreti-legge. Lo Ricaviamo dall’art.77 comma 2 che prevede che i provvedimenti provvisori con forza di
legge debbono essere il giorno stesso presentati per la conversione alle Camere, che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro 5
gg.

Regole decisionali
Esse attengono al funzionamento della Camera e del Senato. Si ricorda che le sedute della Camera e del Senato sono pubbliche in via generale e, ai sensi dell’art.64 Cost.,
“ma tuttavia ciascuna delle due Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta.

➔ I quorum sono quelle regole che attengono al n° dei soggetti che devono essere presenti per la validità della seduta e al n° dei soggetti che devono
approvare il provvedimento. Il 1° quorum è il cd. quorum strutturale: il quorum che regola la validità delle sedute della Camera e del Senato ovvero di
qualsiasi altro organo collegiale. Gli organi collegiali per riunirsi validamente abbisognano della presenza di un certo n° di soggetti. Il quorum strutturale per
la Camera e il Senato, vale a dire il quorum che riguarda la validità delle sedute delle due assemblee è fissato dalla Costituzione alla maggioranza dei
componenti. Ai sensi dell’art. 64 comma 3, “le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro
componenti”: quindi occorre la metà + 1 dei membri. I numeri alla Camera, composta da 630 deputati, affinché la seduta sia valida occorre che siano
presenti la metà (315) + 1, quindi 316 deputati. Al Senato (315+ i Senatori a vita) se supponiamo, per esempio, che il numero totale di Senatori sia 320
occorrerebbe la metà dei membri (160) + 1 quindi 161. La presenza della maggioranza dei componenti si dà sia alla Camera che al Senato per presupposta,
cioè viene ritenuta esistente, a meno che, in determinate situazioni, il regolamento non lo imponga ovvero non venga richiesta la verifica del n° legale: in
questo caso si procede a verificare se effettivamente sono presenti la maggioranza dei componenti della Camera o del Senato.

Ora andiamo a vedere come si assume una decisione

➔ Quorum deliberativo (o funzionale): la Costituzione ci dice che “le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento, non sono valide se non è presente la
maggioranza dei loro componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale”. Quindi
la regola generale che attiene a tutte le deliberazioni della Camera e del Senato è che, posta la validità della seduta, affinché un provvedimento della
Camera o del Senato sia approvato, occorre che si pronuncino favorevolmente la maggioranza dei presenti (la metà + 1 dei presenti) → è quella che viene
chiamata maggioranza semplice → regola generale. La Costituzione ci dice “salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale”: possibilità che
sulla base di specifiche richieste costituzionali la maggioranza sia più elevata. Es: regolamenti parlamentari → (art.64 comma 1) “ciascuna Camera adotta il
proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti”. La maggioranza assoluta, secondo la dottrina, e in questo caso anche con la
specificazione del testo costituzionale, è la metà + 1 dei componenti. Quindi quando in Costituzione viene richiesta la maggioranza assoluta, tanto più se
viene ulteriormente specificato “a maggioranza assoluta dei componenti” significa che quel determinato provvedimento deve essere approvato dalla metà +
1 del n° complessivo dei componenti l’organo, anche se quel giorno sono presenti in pochi. [Se in quella seduta, per esempio, sono presenti 450 deputati,

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ma per quel provvedimento è prescritta la maggioranza assoluta, occorreranno sempre e comunque 316 voti favorevoli. Anche se quel giorno fossero
presenti in pochi.]. La maggioranza assoluta è una maggioranza più alta di quelle ordinarie: il che vuol dire che è una maggioranza che serve a garantire un
maggior consenso per quel tipo di provvedimento. La Costituzione prevede poi altre ipotesi di maggioranze più elevate. Altri esempi: la maggioranza per le
leggi di revisione costituzionale è la maggioranza dei 2/3 per un certo tipo di procedimento (nell’altro caso invece è sufficiente la maggioranza assoluta più la
possibilità di referendum); per l’elezione del Presidente della Repubblica è richiesta una maggioranza dei 2/3 nelle prime 3 votazioni (e da quella successiva
in poi la maggioranza assoluta); per l’elezione dei giudici costituzionali è richiesta la maggioranza dei 2/3 nelle prime votazioni e poi dei 3/5 da quella
successiva alla 3° in poi.

Vari tipi di maggioranze: regola generale → maggioranza semplice (metà + 1 dei presenti); una serie di casi importanti in cui la maggioranza richiesta è quella
assoluta (vale a dire la metà + 1 dei componenti); altri casi in cui la Costituzione prevede maggioranze più elevate.

La maggioranza più elevata ha lo scopo di creare un maggior consenso all’interno dell’assemblea parlamentare e quindi, fondamentalmente, di coinvolgere
l’opposizione nella decisione che deve essere assunta.

Modalità con cui viene espresso il voto alla Camera e al Senato

➔ La regola generale del voto, sia alla Camera che al Senato, è la regola del voto palese: chi vota, anche per rispondere ed essere controllabile dai suoi elettori
e per svolgere la sua funzione di rappresentante nazionale, vota palesemente, cioè esprime palesemente il suo voto e la sua opinione. Nel 1988 vi fu
un’importante riforma dei regolamenti parlamentari, che allargò i casi di ricorso al voto segreto. Per esplicita scelta dei regolamenti di Camera e Senato, si
ricorre al voto segreto tutte le volte in cui il voto riguardi persone (se si tratta di eleggere una persona); in più sulla base della richiesta di un certo n° di
parlamentari si può procedere a voto segreto tutte le volte in cui vengano in considerazione diritti e libertà costituzionalmente garantiti. In questo caso, su
richiesta di un gruppo di parlamentari, si procede a voto segreto.

Le immunità
Le immunità parlamentari sono disciplinate dall’art.68 della Costituzione. L’articolo 68 della Costituzione ha conosciuto una importante riforma nel 1993, sulla cui base è
stata eliminata una particolare guarentigia.

➔ La prima immunità che viene in rilievo è la cd. insindacabilità dei voti e delle opinioni espresse. (art.68 Cost.) “I membri del Parlamento non possono essere
chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati, nell’esercizio delle loro funzioni”. Sulla base di questa regola, i parlamentari, e insieme ad essi,
una serie di altri soggetti (giudici della Corte costituzionale, i Consiglieri regionali, i membri del CSM e i deputati del Parlamento europeo) non possono
essere sindacati né per i voti espressi né per le opinioni date. Siamo di fronte, quindi, ad una sottrazione alla regola generale che vuole la responsabilità, sia
per il modo in cui si vota che per le opinioni che vengono espresse. La ratio di questa sottrazione alla regola generale è quella della possibilità che il dibattito
politico parlamentare si svolga nella sua maggiore ampiezza e senza limitazioni ed è quella che il parlamentare nel momento in cui vota non debba avere
timore di render conto a qualcuno del modo in cui ha votato o delle opinioni che ha espresso. Es: durante il dibattito parlamentare sulla prima guerra in Iraq
alcuni parlamentari urlarono al Presidente del Consiglio “assassino assassino”. Se io do a qualcuno dell’assassino sicuramente incorro in responsabilità
penali; se invece un parlamentare nel corso di un dibattito dia dell’assassino al Presidente del Consiglio che annuncia un invio di truppe in un altro paese,
l’opinione sarà discutibile; potrà essere approvata, potrà essere discussa, potrà essere particolarmente aspra, ma la insindacabilità di quella opinione serve a
garantire la maggiore apertura e il maggior sviluppo del dibattito politico parlamentare. L’insindacabilità permette il massimo dispiegarsi del dibattito
politico parlamentare. Si tratta di una deroga significativa rispetto alle regole generali. Quindi il problema che si è posto alla Giurisprudenza costituzionale,
alla prassi politico istituzionale è quali siano i limiti a questa insindacabilità, in modo che la stessa non diventi un privilegio ingiustificato. L’originaria
concezione dell’insindacabilità delle opinioni espresse limitava la tutela dei parlamentari alla sola sede parlamentare. Erano cioè esentati da responsabilità i
voti espressi in Parlamento e le opinioni espresse fisicamente nel luogo parlamentare. Questa interpretazione è abbastanza riduttiva perché ci possono
essere attività parlamentari che vengono svolte al di fuori della sede parlamentare. La tesi dottrinale opposta è quella che ritiene che tutte le attività del
parlamentare, dovunque e comunque svolte, siano in ogni caso sottratte a responsabilità e cadano sotto l’usbergo (tutela) dell’art.68 comma 1. Anche
questa è un’opinione probabilmente eccessiva in quanto sottrae a responsabilità anche la mera attività politica del parlamentare. Allora la Corte
costituzionale, facendo seguito a una famosa sentenza (n.1150 del ’88) ha tentato di legare l’insindacabilità, valorizzando un elemento che c’è già nell’art.68,
che dice che “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati, nell’esercizio delle loro funzioni” ha
legato l’insindacabilità alle funzioni. L’insindacabilità esiste, cioè, tutte le volte in cui il parlamentare fa un qualcosa legato all’esercizio della funzione
parlamentare. Naturalmente, in concreto, è estremamente difficile andare a fare questa verifica, e, specie dopo la sopracitata sentenza del 1988, vi è oramai
un amplissimo contenzioso fra Magistratura e Parlamento, che attiene proprio all’individuazione di questi limiti all’insindacabilità dei voti e delle opinioni
espresse. Amplissimo contenzioso che si traduce in conflitti di attribuzione che il giudice o la Camera sollevano di fronte al giudice costituzionale con la
conseguenza di un ampio contenzioso che è portato di fronte alla Corte costituzionale per individuare, di volta in volta, se una certa opinione data goda o
meno della tutela dell’insindacabilità
➔ La seconda guarentigia è la cd. immunità penale, che è prevista nell’art.68 comma 2: “Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun
membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale,
o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il
quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza”. Il comma 3 dell’articolo 68 ci dice che “Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del
Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”. I giudici non possono arrestare, privare
della libertà personale, incidere in nessun modo sulla libertà personale, né attraverso le perquisizioni, ovvero intercettando telefonate o corrispondenza. La
ratio di questa ampia immunità? La ratio va sempre ricondotta a quella necessità che il mandato del parlamentare si dispieghi nella sua massima ampiezza
proprio in funzione del fatto che ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione e quindi non è permesso al giudice di toccare la libertà personale. [Es:
arresto di un parlamentare in una situazione in cui le maggioranze siano molto labili (la maggioranza parlamentare ha 1/2/3/4 voti di maggioranza
sull’opposizione: è evidente che l’arresto del parlamentare gli impedisce di andare a votare e mette a rischio la sopravvivenza del Governo. Questo è il caso
limite, ma in realtà, incidere sulla libertà personale del parlamentare può significare mettere a rischio la sua libertà di valutazione e di opinione della
situazione politica]. È stata molto discussa l’autorizzazione all’intercettazione perché si dice: se io prima di intercettarti devo chiedere l’autorizzazione alle
Camere è chiaro che tu lo vieni a sapere e quindi ti regoli in maniera tale da evitare di essere intercettato. È vero ma d’altra parte l’intercettazione telefonica
o di corrispondenza lede quella libertà di formazione delle opinioni che dev’essere totalmente garantita al parlamentare. Naturalmente si potrà incidere
sulla libertà personale con l’autorizzazione della Camera di appartenenza ovvero in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna ovvero se il
parlamentare venisse colto in flagrante, nel mentre compie un qualche reato per il quale è previsto l’arresto in flagranza.
➔ Nel ’93 è stata eliminata un’ulteriore guarentigia che era presente nell’art.68: l’autorizzazione a procedere. Fino al ’93 la Costituzione prevedeva che nei
confronti dei parlamentari non potessero nemmeno essere iniziati procedimenti penali se non con autorizzazione delle Camere. Quindi il procedimento
penale iniziato da un Pubblico Ministero nei confronti del parlamentare si bloccava perché occorreva l’autorizzazione a procedere da parte della Camera di
appartenenza. La valutazione sia dell’autorizzazione a procedere, sia della sua eliminazione, non può che essere molto delicata. È vero che le Camere
avevano, fino al 1993, abusato degli istituti dell’autorizzazione a procedere non concedendo sostanzialmente insabbiando le ric hieste di autorizzazione e
lasciando che il tempo decorresse senza risponder. È anche vero che non può non esserci un equilibrio delicato e attento fra Magistratura e parlamentari,
che limiti rigorosamente le attività dell’un potere nei confronti dell’altro e garantisca a un potere così come all’altro spazi anche significativi sia di autonomia
che di indipendenza. Tant’è che quello che è successo negli ultimi 20 anni di fronte all’eliminazione dell’autorizzazione a procedere è stato l’aumento della
conflittualità fra Magistratura e Parlamento sul profilo dell’insindacabilità. L’autorizzazione a procedere ovviamente copriva tutti i tipi di reati; però è

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evidente che il reato che compie maggiormente un parlamentare è un reato legato all’espressione delle proprie opinioni. Le ipotesi principali sono quelle in
cui il parlamentare utilizzi la propria opinione in maniera anche penalmente rilevante. Prima questo problema era coperto dall’autorizzazione a procedere;
eliminata l’autorizzazione a procedere è aumentata la conflittualità fra Magistratura e Parlamento per quanto attiene all’insindacabilità dei voti e delle
opinioni espresse.

L’autonomia delle Camere


Le Camere godono di una autonomia guarentigiata: tutta l’attività delle Camere è coperta da questa autonomia che è funzionale a quell’obiettivo di rappresentanza della
nazione che ogni membro del Parlamento e il Parlamento nel suo insieme devono perseguire. Il costituente ha ritenuto che per raggiungere questo obiettivo, occorresse
garantire alle Camere una particolare autonomia.

➔ La prima espressione dell’autonomia parlamentare sono i regolamenti parlamentari. Ai sensi dell’art.64 della Costituzione, sono adottati a maggioranza
assoluta dei componenti delle Camere e disciplinano una serie di aspetti importanti e significativi che attengono all’organizzazione interna delle Camere e
all’organizzazione del procedimento legislativo. In alcuni casi la Costituzione stessa rinvia ai regolamenti parlamentari la disciplina di particolari attività. Es:
l’articolo 72 comma 2 prevede che “Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l'urgenza. Può altresì
stabilire in quali casi e forme l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni, anche permanenti, composte in modo da
rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari.”.
➔ Quindi i regolamenti parlamentari in varie occasioni organizzano l’attività delle Camere e il procedimento legislativo; e in varie occasioni agiscono su
esplicita richiesta della Costituzione. La collocazione dei sistemi parlamentari all’interno del sistema delle fonti è una collocazione peculiare: i regolamenti
parlamentari sono subordinati alla sola Costituzione; non sono subordinati alla legge ordinaria; ciò che può essere disciplinato da un regolamento
parlamentare non può essere disciplinato da una legge ordinaria → separazione fra l’una e l’altra fonte; e i regolamenti parlamentari sono immediatamente
e solamente subordinati alla Costituzione. Nonostante questa collocazione che una parte della dottrina ha definito di carattere sub-primario dei regolamenti
(cioè subordinato alla sola Costituzione) e nonostante la richiesta che da numerose aree della dottrina era stata avanzata, la Corte costituzionale ha ritenuto
che i regolamenti parlamentari non fossero sindacabili dalla Corte stessa né in sede di giudizio sulle leggi. Ha ritenuto cioè di non poter conoscere
direttamente della illegittimità dei regolamenti parlamentari, ritenendo appunto che i regolamenti parlamentari, ancorché collocati in posizione subordinata
alla sola Costituzione, godessero di questa particolare forma di autonomia. Si ricorda la sentenza principale sotto questo profilo: la n.154 del 1985.
➔ Le Camere godono altresì dell’autonomia contabile: hanno la possibilità di costruire un proprio bilancio e il bilancio delle Camere non viene assoggettato a
controllo della Corte dei Conti. Anche su questo punto si è pronunciata esplicitamente la Corte costituzionale, sancendo l’insindacabilità del bilancio della
Camera e del Senato.
➔ Le Camere inoltre godono della cd. autodichia, vale a dire della possibilità di farsi giustizia da sé. Quindi si è di fronte ad una sottrazione di una serie di
rapporti all’area della giurisdizione ordinaria o amministrativa. I rapporti di lavoro instaurati con la Camera dei deputati o col Senato della Repubblica,
oppure i contratti di appalto e tutta una serie di attività non possono essere portate di fronte al giudice ordinario ma vengono risolte in sede di autodichia
(cd. giustizia domestica) all’interno delle Camere.
➔ Da questa situazione la Corte costituzionale ha ricavato un principio di insindacabilità degli interna corporis acta (Corte cost. sent. N. 154/1985): l’attività
interna della Camera e del Senato non può essere sottoposta a controllo esterno, non può essere giudicata da soggetti esterni alla Camera e al Senato. Forse
si potrebbe ritenere che la garanzia dell’autonomia delle Camere possa essere data anche riconoscendo un sindacato da parte della Corte costituzionale o
degli altri giudici sull’attività delle Camere. Ma questo è l’assetto che attualmente ha raggiunto il nostro ordinamento. Si ricorda che la sottrazione al
sindacato degli atti interni dell’organo non significa che questi atti siano totalmente inconoscibili. Si è ricordato poc’anzi i casi in cui la Corte costituzionale
può sindacare, attraverso lo strumento del conflitto di attribuzione, le deliberazioni della Camera sull’insindacabilità dei parlamentar. Vi sono alcuni limitati
casi in cui le determinazioni dei regolamenti parlamentari sono giunte al controllo della Corte costituzionale come norma interposta nel giudizio su alcune
leggi [Il caso più importante fu quello in cui fu sottoposta alla Corte costituzionale una regola che riguarda la differenza del computo degli astenuti prevista
nei regolamenti di Camera e Senato; la Corte ritenne che Camera e Senato potessero disciplinare diversamente il computo degli astenuti. Il computo degli
astenuti è rilevante nei quorum strutturale e deliberativo. Il regolamento della Camera dei deputati prevede che chi si astiene non venga calcolato nel
computo della maggioranza ai fini della deliberazione; il regolamento del Senato prevede invece che chi si astiene venga computato nel compito della
maggioranza. Nel regolamento della Camera, gli astenuti non es1°no un proprio parere e la delibera favorevole riguarda il sì e il no. Nel regolamento del
Senato chi si astiene è come se votasse contro perché va a comporre il quorum deliberativo. Nonostante questa diversità di assetto fra regolamento della
Camera e regolamento del Senato, la Corte costituzionale ha ritenuto che questa diversità di assetto fosse espressione della autonomia delle Camere;
eppure, pur essendo insindacabili i regolamenti, in questo caso particolare la Corte era arrivata a giudicare del contenuto di un regolamento. Quindi la
regola generale degli interna corporis acta trova di volta in volta limitazioni che derivano da particolari assetti procedurali della nostra giustizia].
➔ Ai sensi dell’art.69 i membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge.

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CAPITOLO 9 - IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO
La legge formale
La legge formale è quell’atto che ha la forma della legge, quel atto che proviene da quel procedimento, disegnato in Costituzione dagli articoli dal 71 al 74 e che si
compone delle delibere di approvazione da parte delle due Camere e della promulgazione del Presidente della Repubblica. La nozione di legge formale si collega alla
nozione di forma di legge. Nella idea tradizionale della legge formale, la legge è tale perché proviene da un certo procedimento e la legge è tale perché ha un contenuto
normativo (contiene prescrizioni che hanno il carattere di essere generali e astratte secondo le cose che abbiamo detto all'inizio sulla nozione di norma). Tant'è che nella
dottrina sulla scorta di una distinzione che si faceva nella giuspubblicistica tedesca del xix secolo si distingue fra leggi meramente formali e leggi formali e sostanziali,
essendo le leggi meramente formali quegli atti che provengono dal procedimento di approvazione della legge ma che non hanno le caratteristiche sostanziali della legge
(cioè non sono a contenuto normativo: non contengono prescrizioni generali astratte) si distinguono appunto dalle leggi che sono tali sia sotto un profilo formale (il
procedimento da cui promanano) che sotto un profilo sostanziale (il contenuto dell'atto che esse hanno).

Il procedimento legislativo di formazione della legge


L'altra notazione che si voleva richiamare prima di esaminare nel dettaglio il procedimento legislativo è la modifica, che anche sotto un profilo costituzionale, si è
verificata nel nostro testo. Originariamente noi quando facevamo riferimento alla legge formale avevamo in testa sempre e solo la legge del Parlamento. L'articolo 70
della Costituzione introduce la sezione seconda dedicata alla formazione delle leggi e ci dice che la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.
All'articolo 70 oggi noi dobbiamo affiancare (e non dico contrapporre ma comunque dobbiamo tenerli ambedue presente contemporaneamente) l'articolo 117 del nuovo
testo costituzionale così come modificato con la legge costituzionale n. 3 del 2001. L'articolo 117 al comma 1 ci dice: “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. La centralità costituzionale dell'articolo
70 nel definire la funzione legislativa è in qualche modo venuta meno perché oggi noi non possiamo pensare all'articolo 70 se non lo leggiamo insieme all'articolo 117
della Costituzione. vediamo ora più in dettaglio il procedimento legislativo:

La fase preparatoria (iniziativa legislativa)

• la prima fase è la fase preparatoria vale a dire quella della iniziativa legislativa; questa fase è disciplinata dall'articolo 71 della Costituzione. Per iniziativa
legislativa intendiamo la presentazione di un progetto di legge ad una delle due Camere; progetto di legge che consiste nella presentazione di un testo
redatto in articoli (l'articolo è la struttura base di un testo legislativo) accompagnato da una relazione che esplichi le finalità e gli obiettivi di questa iniziativa
legislativa. Nel linguaggio tecnico nel regolamento della Camera si parla di disegni di legge per i progetti presentati dal Governo e di proposte di legge per
tutti gli altri casi [ma questa distinzione non è usata sempre in maniera molto precisa, tant'è che per esempio nel regolamento del Senato si parla di disegni
di legge per tutte le iniziative legislative e di proposte di legge per le iniziative popolari].

L'articolo 71 disciplina altresì i soggetti a cui spetta questo potere d'iniziativa:

1. Il 1° soggetto, anche così elencato nell'articolo 81 della Costituzione, è il Governo.

L'iniziativa governativa ha alcune caratteristiche peculiari: in primo luogo questa iniziativa si caratterizza per un sub-procedimento: affinché si
realizzi l'iniziativa governativa ci sono più atti finalizzati ad un determinato obiettivo che si inseriscono nel procedimento legislativo generale.
Questo sub-procedimento consiste nella presentazione di un testo da parte di uno o più ministri in Consiglio dei ministri, la approvazione di
questo disegno di legge da parte del Consiglio dei ministri; e poi vi è una fase abbastanza peculiare che quella dell’autorizzazione del Presidente
della Repubblica alla presentazione del disegno di legge. [Questo potere del Presidente della Repubblica è un potere che qualcuno ha addirittura
definito un “retaggio storico” nel senso che è un potere su cui il Presidente la Repubblica ben poco può intervenire].Tutto questo sotto il profilo
procedimentale dell'iniziativa governativa; sotto il profilo contenutistico e sostanziale dell’iniziativa governativa vanno ricordate due cose: a) vi
sono dei casi in cui l'iniziativa legislativa spetta solamente al Governo: sono i casi di iniziativa legislativa obbligatoria (è vincolata). Spetta al
Governo e solo al Governo la presentazione della legge di bilancio; spetta al Governo e solo al Governo la presentazione del disegno di legge di
conversione del decreto-legge. È discutibile se sia anch'esso un caso di iniziativa obbligatoria vincolata ma sicuramente solo il Governo
tradizionalmente presenta i disegni di legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Altresì tutto il profilo contenutistico va
segnalato che l'iniziativa governativa è l'iniziativa con le maggiori chance di successo: le percentuali di arrivo in porto dei disegni di legge
governativi sono infatti molto alte perché il Governo usa l'iniziativa legislativa per attuare il programma sulla base del quale ha avuto la fiducia
parlamentare (quindi l'iniziativa legislativa governativa è strumento dell'attuazione del programma di Governo) e perché, nella forma di
Governo parlamentare, il Governo gode della maggioranza in Parlamento.

2. L'iniziativa legislativa spetta ad ogni singolo parlamentare. Questo è un potere particolarmente importante che caratterizza le forme di
Governo parlamentare. È un potere che si riverbera altresì nel potere di ogni singolo parlamentare di presentare emendamenti durante il
procedimento di formazione della legge. L'iniziativa parlamentare è un'iniziativa quantitativamente molto numerosa: in realtà le percentuali di
successo dell'iniziativa parlamentare sono molto minori dell'inizio percentuali di successo dell'iniziativa governativa.

3. L’iniziativa parlamentare spetta poi al popolo ed è uno degli strumenti di democrazia diretta; e viene esercitata attraverso una proposta
corredata dalle firme di almeno 50.000 elettori

4. Spetta inoltre ai Consigli regionali che possono presentare disegni di legge in Parlamento. [si discuteva se i Consigli regionali fossero meno
limitati a presentare leggi lega disegni di legge legati solo all'interesse regionale: la Giurisprudenza in una sentenza della Corte si ha affermato
che i disegni dei Consigli regionali possono presentare proposte di legge con riferimento più ampio anche dell'interesse regionale].

5. Spetta altresì Consiglio Nazionale dell'economia e del lavoro. Anche qui si è discusso se questa iniziativa fosse solo legata ai soli e le sole
materie di competenza del CNEL, ma in realtà questa iniziativa è stata scarsamente esercitata e comunque di non grandissimo peso ed
efficacia.

La verità è che le iniziative importanti sono l'iniziativa governativa l'iniziativa parlamentare tutti gli altri soggetti sono iniziative godono di questa iniziativa
legislativa, il che sta a testimoniare di un sistema aperto di iniziativa legislativa, ma certo alla fine sarà molto più facile trovare un parlamentare che presenti
una proposta di legge piuttosto che attivare questi procedimenti più complicati che passano per l'iniziativa popolare o per il Consiglio regionale o per il CNEL.
L'iniziativa e il testo vengono presentati indifferentemente all'una o all'altra Camera: naturalmente il singolo parlamentare presenterà il testo alla sua
Camera non all'altra Camera, ma altrimenti il Governo, il popolo, i Consigli regionali e il CNEL possono presentare il testo alternativamente a una delle due
ha una delle due Camere: è invalsa la prassi per cui, soprattutto il Governo nel caso di iniziative legislative significative, alterna: un anno a una Camera, un
anno all'altra Camera.

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Il testo viene presentato al Presidente della Camera e da questo momento inizia la fase costitutiva.

La fase costitutiva (deliberazione delle Camere)

• La fase costitutiva vede la deliberazione dell'assemblea e può articolarsi secondo tre procedimenti diversi:

1) Il 1° procedimento è quello definito normale (od ordinario) ed è caratterizzato da una collocazione delle Commissioni competenti che viene
definita in sede referente. Questo procedimento, che si conclude necessariamente con una approvazione da parte dell'assemblea, (e vedremo
che vi sono dei casi in cui vi è una riserva di assemblea quindi è necessario che il procedimento si chiuda in aula) è caratterizzato da una fase
che si svolge in Commissione; all'esito di questa fase le Commissioni riferiscono all'aula; ed è per questo che in questo caso le Commissioni
siedono, come si dice, in sede referente. Questo procedimento è il procedimento più usato, il più tipico e più caratteristico del procedimento
legislativo; è necessario, per questo , si dice che vi è “riserva di assemblea”, in tutti i casi previsti dall'articolo 72 della Costituzione, ultimo
comma, che dice che “la procedura normale di esame e approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in
materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali di approvazione di
bilanci e consuntivi”.

I regolamenti parlamentari hanno altresì aggiunto 2 casi ulteriori di riserva per il procedimento ordinario: i casi in cui la Camera o il Senato
ridiscutono e riapprovano un testo rinviato dal Presidente della Repubblica; e i casi di approvazione delle leggi di conversione dei decreti-legge.
Si discute poi se vi sia riserva d'assemblea nei casi di amnistia e indulto, ovvero se vi sia riserva di assemblee anche nel caso particolare delle
leggi che toccano materie di competenza regionale ai sensi dell'articolo 11 della legge costituzionale n.3 del 2001.

Com’è caratterizzato questo procedimento? La prima fase si svolge in Commissione: le Commissioni, sia alla Camera che al Senato, sono
organizzate per materie (ripartizione per materia fra le diverse Commissioni) ed è il Presidente o della Camera o del Senato, che in alcuni casi è
coadiuvato dall'ufficio di presidenza, a decidere la destinazione del disegno di legge all'una o all'altra Commissione competente per materia. La
Commissione articola il suo esame secondo uno schema tre letture: una prima lettura generale; una fase di votazione articolo per articolo e
un'ultima lettura generale. Finito questo esame da parte della Commissione, la Commissione trasmette il testo approvato accompagnato da
una o più relazioni all'aula (per questo punto si dice referente). L'aula procede nuovamente secondo il modello delle tre letture: una prima
lettura generale; una lettura e approvazione articolo per articolo; una lettura e discussione e approvazione del testo in generale.

Vediamo alcune caratteristiche di questo procedimento, però che valgono anche per gli altri procedimenti: in primo luogo, l'articolo 72 della
Costituzione ci dice che ogni disegno di legge presentato da una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una
Commissione e poi dalla Camera stessa. L'esame in Commissione è una caratteristica del procedimento legislativo; e lo scopo dell'esame in
Commissione, sia in questo schema di procedimento sia negli altri, è quello di facilitare l'istruttoria del testo: è più facile discutere in 40
persone che in 600. In 40 persone si possono raggiungere dei livelli di perfezione tecnica maggiore di quelli che si raggiungono se si discute in
tante persone insieme. Vi è stata recentemente una polemica vertente sul problema se l'esame in Commissione possa o meno essere saltato,
cioè se si possano porre dei termini di tempo al lavoro della Commissione scaduto il quale si possa passare direttamente in aula. La questione,
ai sensi della Costituzione, sarebbe discutibile: vi sono almeno 2 precedenti nella recente prassi parlamentare che sembrerebbero permettere
l’apposizione di un termine all'attività delle Commissioni e il passaggio direttamente in aula.

Secondo problema: fase della votazione articolo per articolo → questa fase è caratteristica ed è peculiare perché è la fase in cui i singoli
parlamentari, sia in Commissione che in aula, possono presentare emendamenti e possono quindi modificare il significato, il contenuto, la
direzione complessiva del testo che si sta approvando; è questo il motivo per cui, dopo la fase articolo per articolo, è necessaria un’
approvazione finale del testo: perché durante questa fase di votazione vi potrebbero essere dei risultati profondamente diversi. “Articolo per
articolo”: esiste un'unità che noi possiamo definire articolo oppure l'articolo può essere ridottissimo o amplissimo? Nella prassi parlamentare
italiana sono successe, per rendere più facile più scorrevole il procedimento, delle cose che sembrano buffe: cioè si è accorpato il testo in un
unico o in 2/3 articoli; vi sono alcuni casi di alcune leggi finanziarie in cui l'articolo ha 300/400 500 commi: perché si fa così? perché nel
procedimento parlamentare, se accorpo tutto in un unico articolo, poi il Governo può mettere la fiducia su quell'unico articolo, in quanto la
fiducia il Governo durante il procedimento legislativo la mette sull'articolo; se io ho tanti articoli devo chiedere tante fiducie, se io, invece, ho
accorpato in un unico articolo, la fiducia la chiedo una sola volta. Questo però rende particolarmente complicato il lavoro degli interpreti
perché andare a cercare in un testo l'articolo 1 comma 350 non è molto semplice; ma anche questo fa parte delle prassi parlamentari, non
commendevoli, che si sono spesso utilizzate.

Nel procedimento legislativo è stato così previsto (si fa riferimento alla Camera dei deputati) un Comitato particolare, che il Comitato per la
legislazione, composto pariteticamente da 5 deputati dell'opposizione e 5 della maggioranza, il quale s’ inserisce nel procedimento legislativo,
andando a verificare la qualità, non tanto sostanziale bensì formale, dell'atto legislativo: è un'iniziativa importante e significativa, ma che certo
non è riuscita a porre rimedio ad un procedimento legislativo che certe volte non ha dei frutti chiarissimi.

2) La seconda tipologia di procedimento legislativo è quello che viene definito il procedimento decentrato (o procedimento con le Commissioni in
sede deliberante). Questo procedimento è un procedimento in cui a decidere sono direttamente le Commissioni, il testo di legge non richiede
cioè il passaggio in aula; non chiede che si vada ad approvare da parte dell'intera assemblea. L'esame in Commissione è un esame che conduce
alla approvazione del testo. È un procedimento che richiede una serie di garanzie perché se io eleggo 630 e 315, rappresentanti io voglio che la
legge sia approvata dall'aula, dal complesso dei rappresentanti; nel procedimento decentrato, invece, il testo viene approvato da quei 30/40
deputati o Senatori che fanno parte della Commissione. Allora, intanto abbiamo visto che vi sono alcune materie che non possono mai andare
con il procedimento decentrato: le materie su cui vi è riserva di assemblea. Poi, nel caso di procedimento decentrato, il testo è rimesso all'aula
e obbligatoriamente rimesso all'aula quando lo richiede il Governo o 1/10 dei componenti della Camera o 1/5 della Commissione; si dice che
l'assegnazione alla Commissione in sede deliberante è un'assegnazione precaria, giacche quei soggetti elencati possono far tornare il testo in
aula. La Costituzione poi all'articolo 72 (questo procedimento è disciplinato direttamente in Costituzione) pone un requisito di carattere
organizzativo: l'esame può essere deferito a Commissioni permanenti che devono essere composte in modo da rispecchiare la proporzione dei
gruppi parlamentari. Da tenere presente che oggi, nella concreta organizzazione delle Camere, le Commissioni permanenti sono sempre
organizzate in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari: cioè le Commissioni rispecchiano in piccolo la composizione
dell'aula secondo i gruppi parlamentari. Ma la Costituzione pone questo requisito non già per tutte le Commissioni bensì per le Commissioni
che decidono, che siedono in sede deliberante.

3) Ultimo tipo di procedimento è il cd. procedimento misto in cui le Commissioni siedono in sede redigente: è un procedimento in cui, una parte
del lavoro finale lo fa la Commissione, una parte lo fa l'aula. Qui c'è una piccola differenza fra i regolamenti di Camera e Senato: nel
regolamento del Senato la Commissione in sede redigente svolge la prima lettura generale (quella lettura articolo per articolo) e viene riservata

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all'aula solamente la lettura finale; nel regolamento della Camera la Commissione svolge la prima lettura generale poi redige gli articoli e
l'approvazione articolo per articolo e la rilettura finale, poi, sono riservati all'aula.

Questo è il procedimento per la cd. fase costitutiva; ma non è sufficiente nel nostro ordinamento l'approvazione da parte di una sola Camera: il nostro
sistema è un sistema di bicameralismo paritario e perfetto. Quindi la legge nell'ordinamento vigente della Costituzione italiana (su cui molte sono le
proposte di riforma che si sono esercitate e tuttora si esercitano) la legge nell'ordinamento italiano richiede l'approvazione del medesimo testo da parte
delle due Camere: Camera dei deputati e Senato della Repubblica. Fino a che non si raggiunge il consenso sul medesimo testo, il testo tornerà indietro
all'altra Camera: questa quella che si chiama “navette” fra Camera e Senato. Vi sono stati alcuni casi anche clamorosi di testi che si rimpallavano avanti e
indietro fra l'una e l'altra Camera. È uno dei punti più delicati del nostro bicameralismo anche se certo, in un sistema complesso, una qualche esigenza di
riflessione di ponderazione è comunque apprezzabile.

La fase integrativa dell’efficacia

• Dopo l'approvazione, interviene la fase integrativa dell'efficacia: in questo momento la legge è perfetta ma non è ancora efficace.
1) Affinché la legge divenga efficace, occorre in primo luogo la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica. La promulgazione
disciplinata dagli articoli 73 e 74 della Costituzione e, ai sensi del 1° comma dell'articolo 73, “il Presidente della Repubblica deve promulgare la
legge entro un mese dall'approvazione”. Le Camere, a maggioranza assoluta dei propri componenti, possono dichiarare l'urgenza della legge,
promulgandola nel termine da essa stabilito (la maggioranza assoluta è la metà più uno dei componenti di una assemblea, di una qualsiasi
assemblea; le leggi si approvano invece a maggioranza semplice, vale a dire la maggioranza che è data dalla metà più uno dei presenti in aula
sempre che sia stato raggiunto il quorum costitutivo in quel determinato momento. Quindi l’approvazione della legge a maggioranza semplice;
questa previsione di urgenza richiede invece la maggioranza assoluta. Durante la il termine che è concesso al Presidente per la promulgazione,
ai sensi dell'articolo 74 della Costituzione, “il Presidente può rinviare la legge” cioè può chiedere alle Camere una nuova deliberazione. Il potere
presidenziale di rinvio è un potere estremamente delicato; intanto il rinvio rientra fra i poteri formalmente e sostanzialmente presidenziali.
Tuttavia, è un potere particolarmente delicato perché è difficile dargli una precisa collocazione. Sicuramente il Presidente può rinviare
eccependo dubbi di costituzionalità, ma ciò non vuol dire che le leggi non rinviate dal Presidente siano sicuramente costituzionali; e quindi il
Presidente non è obbligato a rinviare le leggi da lui ritenute incostituzionali perché il controllo di costituzionalità lo fa nel nostro ordinamento
la Corte costituzionale; d'altra parte il Presidente non può rinviare per una valutazione strettamente politica: non può rinviare dicendo “io avrei
preferito organizzare quella disciplina in un altro modo”; però certo alcuni rinvii sfiorano o arrivano a quello che sicuramente si può definire il
merito costituzionale. Tanto tempo fa Presidente Leone rinvio alle Camere una legge con cui le Camere avevano abolito gli esami nella
progressione di carriera dei magistrati. Era incostituzionale quella legge? Leone non lo disse; eravamo di fronte a una valutazione che
potremmo definire di merito costituzionale. Intanto se il Presidente rinvia la legge, le Camere devono riesaminare il testo e, riesaminato il testo
da parte delle Camere, il Presidente non può più rinviare la legge una seconda volta; gli è proibito dall'articolo 74 comma 2 “se le Camere
approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”. La dottrina ritiene che il dovere di promulgazione dopo la seconda
approvazione possa essere superato solamente nel caso in cui l'eventuale promulgazione di una legge integri gli estremi dei reati presidenziali
(alto tradimento o attentato alla Costituzione); altrimenti il Presidente deve promulgare. In che cosa consiste la promulgazione? Intanto si deve
segnalare l'esistenza di una discussione in dottrina: qualcuno ritiene che la promulgazione si atto formalmente presidenziale e sostanzialmente
governativo; qualcun altro lo colloca fra gli atti dovuti del Presidente.
La promulgazione consiste nell’ accertamento da parte del Presidente che la legge è stata approvata nel medesimo testo da ambedue i rami
del Parlamento. Il Presidente con la promulgazione manifesta la volontà di promulgare la legge, ne ordina la pubblicazione in Gazzetta ufficiale
e fa obbligo a chiunque di osservarla come legge della Repubblica (questo è quindi il 1° passo dell'integrazione dell’efficacia).
2) Il secondo caso è la pubblicazione in Gazzetta ufficiale: la pubblicazione è prevista dall’ultimo comma dell'articolo 73, il quale prevede altresì
che le leggi entrino in vigore decorsi 15 giorni dalla loro pubblicazione: è la cd. “vacatio legis”; anche qui la possibilità per le leggi di stabilire un
termine diverso, normalmente di abbreviare il termine per l'entrata in vigore. Quindi con promulgazione e pubblicazione in gazzetta la legge è
entrata in vigore. Si è completata la fase integrativa dell'efficacia e la legge è divenuta appunto efficace.

Leggi rinforzate e leggi atipiche

2 casi particolari: il caso delle leggi rinforzate e il caso delle leggi atipiche. Noi abbiamo visto un procedimento che parte con l'iniziativa, poi la fase costitutiva e la fase
integrativa dell'efficacia: un procedimento che è unico per tutte le leggi o che comunque è generalmente usato per quegli atti che hanno la forma della legge. Nella
nostra Costituzione non sono infrequenti i casi in cui, agli elementi procedimentali che abbiamo visto finora, si aggiungono ulteriori fasi del procedimento: si aggiunge
una fase in più, si aggiunge un passaggio in più. È necessario sotto il profilo procedimentale qualcosa di più di quello che abbiamo visto finora. Quando la Costituzione
prevede fasi procedimentali ulteriori siamo di fronte a leggi che vengono chiamate leggi rinforzate perché vi è un elemento procedimentale ulteriore per l'approvazione
della legge.

Gli esempi possono essere tanti. Un esempio tipico è l'esempio delle leggi che approvano i rapporti fra lo stato e la Chiesa Cattolica ovvero le leggi che approvano le
intese fra lo Stato e le confessioni non cattoliche, ai sensi degli articoli 7 e 8 della Costituzione. Qui siamo di fronte ad un elemento procedimentale ulteriore nella legge.
Un altro esempio è dato dall’articolo 11 della legge costituzionale n.3 del 2001, ai sensi del quale, “occorre il parere della Commissione parlamentare per le questioni
regionali quando un progetto di legge riguardi materie di potestà legislativa concorrente fra stato e Regioni”. Oppure l'articolo 119 (da questo dall'eventuale parere
negativo ne discendono poi delle conseguenze particolari) dal quale discende la necessità che l’approvazione avvenga a maggioranza assoluta dell'assemblea. Questo
articolo 11 non è stato mai attuato finora, ma qui siamo di fronte ad un elemento procedimentale in più, che rende queste leggi rinforzate e quindi non le rende
equiparabili totalmente al tipo generale della legge.

Leggi atipiche sono invece quelle leggi che, pur avendo un procedimento identico al procedimento generale della legge, pur non avendo varianti procedimentali, hanno
però una forza diversa da quella generale del tipo legge a cui anche esse appartengono. Quindi hanno una forza o passiva o attiva diversa. L’esempio tipico di legge
atipiche sono le leggi sottratte dall'articolo 75 della Costituzione al referendum abrogativo: fa parte della forza del tipo legge il poter essere abrogata dal referendum. Se
la Costituzione sottrae alcune leggi al referendum abrogativo, quelle leggi avranno una forza passiva maggiore. Sono come tutte le altre, ma non possono essere
abrogate dal referendum diversamente dalle leggi in generale; quindi sono fonti atipiche perché hanno una forza passiva diversa, in questo caso maggiore, rispetto a
quella generale della fonte legislativa. Si è detto in dottrina, e sicuramente sotto questo profilo è vero, che le leggi rinforzate costituiscono una categoria speciale delle
leggi atipiche, giacche se io introduco un elemento procedimentale in più nell'approvazione di una legge, non potrò eliminare dall'ordinamento quella legge se non con
lo stesso procedimento.

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CAPITOLO 10 - LA REVISIONE COSTITUZIONALE E LE LEGGI COSTITUZIONALI

Leggi costituzionali e leggi di revisione costituzionale. Leggi in materia costituzionale

L'articolo 138 della Costituzione si riferisce sia alle leggi di revisione della Costituzione e alle altre leggi costituzionali, dicendoci che sono adottate le une e le altre con un
determinato procedimento che appena più avanti vedremo. Diventa quindi necessario capire che cosa intendiamo parlando di leggi di revisione costituzionale e che cosa
intendiamo parlando di altre leggi costituzionali. Le leggi di revisione costituzionale sono quelle che vanno a modificare puntualmente il testo della Costituzione; cioè
sono leggi adottate con la procedura di cui all'articolo 138 della Costituzione, il cui oggetto e compito specifico è quello di modificare il testo della Costituzione (rivedono
il testo della Costituzione). Nella prassi italiana di leggi di revisione costituzionale ve ne sono molte anche importanti che nel corso della lezione vedremo.

La procedura di cui all’articolo 138 è adottata anche per le altre leggi costituzionali (come dice appunto il 1° comma dell'articolo 138): per tali si intendono quelle leggi
adottate con quella procedura, caratterizzate dal non incidere, dal non modificare il testo della Costituzione. La dottrina ha tentato di individuare alcuni casi, alcune
categorie in cui si parla tradizionalmente di legge costituzionale. Il 1° caso di legge costituzionale sono quelle leggi per cui la stessa Costituzione richiede l'adozione del
procedimento speciale ex articolo 138 della stessa Costituzione, a richiedere che intervenga la legge costituzionale: siamo in questi casi di fronte all'istituto della riserva
di legge costituzionale. Per fare alcuni esempi l'articolo 137, ad esempio, prevede che sia una legge costituzionale a stabilire le condizioni e le forme e i termini di
proponibilità dei giudizi legittimità costituzionale; ovvero l'articolo 71 prevede che l'iniziativa delle leggi spetti ad alcuni soggetti e poi agli organi ed enti ai quali sia
conferita da legge costituzionale; ovvero l'articolo 116 che prevede che vi sono alcune Regioni a statuto speciale (Regioni che dispongono di forme condizioni particolari
di autonomia) secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale; ovvero ancora (e qui siamo di fronte ad un caso di rafforzamento della legge
costituzionale) le leggi costituzionali richieste dall'articolo 132 per la modifica delle Regioni [qui si tratta di leggi costituzionali rafforzate perché prevedono elementi
procedimentali ulteriori: vale a dire la richiesta dei Consigli comunali e il referendum]. Ma anche qui siamo di fronte ad una legge costituzionale perché è la Costituzione
che chiede la legge costituzionale. Poi leggi costituzionali saranno tutte quelle leggi che possono essere adottate solo con la disciplina della legge costituzionale perché
non potrebbe quella disciplina essere adottata con legge ordinaria essere [se per esempio una sentenza della Corte colpisse una certa disciplina adottata con legge
ordinaria, si potrebbe, sempre che non vengano violati altri principi costituzionali, adottare quella disciplina con legge costituzionale]. 3° caso di legge costituzionale sono
i casi in cui il Parlamento ritenga di dare una particolare forza a una certa disciplina, approvandola con legge costituzionale invece che con legge ordinaria, in modo da
sottrarla alla modifica da parte del legislatore ordinario. Sono frequenti nella prassi costituzionale italiana i casi di leggi costituzionali adottate per inadempimento delle
riserve di legge costituzionale previste in Costituzione.

L'articolo 72 della Costituzione ha sollevato un problema interpretativo. L'articolo 72 dice all'ultimo comma: “la procedura normale di esame e approvazione diretta da
parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale”. Ci si è posti allora il problema se il costituente, quando parlava di disegni di legge
in materia costituzionale, volesse riferirsi a una materia di tale importanza sostanziale, a una materia sostanzialmente costituzionale che richiedesse sempre l'esame in
Commissione (e quindi una sorta di leggi che, pur non essendo costituzionali, si collocassero su un livello di importanza maggiore. La Corte costituzionale ha sciolto
questo dubbio affermando che, quando l'articolo 72 si riferisce alle leggi in materia costituzionale, non prevede una diversa categoria di leggi ordinarie di rango
sostanzialmente costituzionale, ma si limita a fare riferimento alla necessità dell’esame in Commissione (con le Commissioni in sede referente) per la prima parte del
procedimento di revisione costituzionale. Quindi revisione costituzionale e leggi costituzionali, ex articolo 128, richiedono l'esame da parte della Commissione e poi da
parte dell'assemblea; impediscono che si possa utilizzare il procedimento con le Commissioni in sede redigente ovvero in sede deliberante.

Il procedimento per la revisione costituzionale e per le leggi costituzionali

Esso è disciplinato dall'articolo 138 della Costituzione e si sostanzia in una serie importante di aggravamenti del procedimento legislativo ordinario. Titolare della
funzione di revisione costituzionale e di legislazione costituzionale è sempre il Parlamento; la funzione di revisione e la funzione di legislazione costituzionale sono
adottati con leggi; queste leggi hanno delle caratteristiche procedimentali ulteriori e sono caratterizzate da particolari aggravamenti della procedura adottata dal
Parlamento per l'esercizio della funzione legislativa. Questi particolari aggravamenti ben si collegano alla nozione che abbiamo visto nelle prime lezioni di rigidità della
Costituzione. Le costituzioni rigide sono quelle che non possono essere modificate con il medesimo procedimento della legislazione ordinaria (ed è quello che succede
nel testo della Costituzione italiana).

Quindi abbiamo detto che il procedimento ex articolo 138 si caratterizza per una serie di aggravamenti del procedimento legislativo ordinario:

1) Il 1° aggravamento è dato dalla duplice deliberazione di ambedue le Camere: per l'approvazione di una legge di revisione costituzionale o di una legge
costituzionale occorre che le due Camere si pronuncino sul medesimo testo, non già una volta come nel procedimento ordinario, bensì ambedue devono
pronunciarsi due volte sul medesimo testo.
2) Il secondo aggravamento è dato dal decorso del tempo; l'articolo 138 dice che le leggi di revisione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna
Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi; fra la prima deliberazione di una Camera e la seconda deliberazione della
stessa Camera occorrono almeno tre mesi. I tre mesi quindi devono decorrere fra la prima e la seconda deliberazione della stessa Camera. Nella prassi
costituzionale, al fine di abbreviare i tempi, si ritiene ammissibile che, nell'intervallo di tre mesi fra la prima e la seconda deliberazione della stessa Camera,
intervenga la prima deliberazione dell'altra Camera. Quindi tre mesi fra la prima e la seconda ad esempio della Camera dei deputati; nell'intervallo di tre
mesi può pronunziarsi il Senato che poi farà la seconda deliberazione a tre mesi dalla sua prima deliberazione: le deliberazioni di Camera e Senato si possono
incrociare fra di loro.
3) Il 3° aggravamento è quello delle maggioranze più elevate: le leggi ordinarie possono essere approvate a maggioranza semplice (vale a dire con la metà più
uno dei presenti in aula); le leggi di revisione costituzionale e le leggi costituzionali richiedono maggioranze più elevate: maggioranza assoluta (vale a dire la
metà più uno dei componenti dell'assemblea) ovvero la maggioranza dei 2/3 per ognuna delle due Camere. Questo vale per la seconda deliberazione perché
la prima deliberazione può essere adottata a maggioranza semplice; il principio delle maggioranze più elevate vale per la seconda deliberazione. U
4) Ultimo aggravamento: il referendum approvativo del testo, che può essere richiesto, nel caso di approvazione della legge di revisione o della legge
costituzionale con la maggioranza assoluta; e può essere richiesto da 1/5 dei parlamentari di ciascuna Camera, da 500mila elettori ovvero da 5 Consigli
regionali.

Questo è il quadro degli aggravamenti previsti dalla dall'articolo 138. Abbiamo collegato gli aggravamenti alla rigidità della Costituzione; abbiamo detto che è tipico delle
costituzioni rigide essere approvati con procedure più gravi, più difficili delle procedure della legislazione ordinaria. Vediamo rapidamente la ratio di questi
aggravamenti. La duplice approvazione da parte di ambedue le Camere che cosa vuol dire? Vuol dire che si richiede alle Camere di tornare un'altra volta sul testo. Il
costituente ritenne necessario che le Camere ripensassero al testo e ci ritornassero sopra, che non approvassero con una sola deliberazione. Il secondo aggravamento è
quello del decorso del tempo. Qual è la ratio di questo aggravamento? La revisione costituzionale e le leggi costituzionali non possono essere adottate sulla emotività;

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non può esserci una revisione o una legge costituzionale che viene adottata perché, a un certo punto, vi è un'ondata emotiva nel paese e, sull'ondata emotiva, si approva
la revisione della Costituzione: il costituente ha chiesto una pausa di riflessione per l’approvazione delle modifiche costituzionali o delle leggi costituzionali. 3°
aggravamento: maggioranze più alte perché le costituzioni rigide es1°no il patto nel paese; il senso della rigidità della Costituzione è che la Costituzione rappresenta il
patto della convivenza politica, civile e sociale e che questi patti della convivenza politica civile e sociale non possono essere modificati da maggioranze occasionali; le
maggioranze per la modifica sono maggioranze più elevate delle maggioranze per la legislazione ordinaria; ma, previdentemente, il costituente ritenne di differenziare le
maggioranze: una certa procedura di modifica può essere adottata a maggioranza assoluta, ma in questo caso, vi sarà la possibilità per alcuni soggetti ( 1/5 dei membri
delle Camere, 50.000 elettori o 5 Consigli regionali) di verificare l'approvazione del testo in un referendum; altrimenti una maggioranza molto alta → la maggioranza dei
2/3 dei componenti delle Camere. Con la maggioranza dei 2/3 dei componenti delle Camere, nella vigente Costituzione, il referendum è escluso. Perché questa
esclusione? Perché ottenere la maggioranza dei 2/3 significa necessariamente ricomprendere, nella maggioranza che approva la modifica costituzionale, non solo la
maggioranza governativa ma anche l'opposizione o una parte dell'opposizione. Allora il legislatore costituzionale, il costituente, i padri della Costituzione ritennero che, lì
dove si fosse raggiunta una maggioranza così alta, potesse essere evitato il ricorso al popolo. Vi sono alcune proposte di modifica che tendono a ritenere sempre
possibile il ricorso al referendum. Questo referendum è un referendum di tipo approvativo, cioè un referendum che interviene non già sulla legge già compiuta e definita
ma interviene su una delibera legislativa del Parlamento perfetta, sotto il profilo del procedimento legislativo parlamentare, pubblicata in Gazzetta ufficiale a fini
notiziali, ma non ancora entrata in vigore. Quindi il referendum, nel caso in cui venga richiesto, serve a permettere di completare il procedimento di revisione
costituzionale o di approvazione della legge costituzionale. Questo referendum è un referendum senza quorum. Il referendum abrogativo disciplinato dall'articolo 75
della Costituzione prevede che” il referendum è valido se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto”. Il referendum approvativo è un referendum
per cui non è richiesta questa maggioranza; quindi anche se va a votare un numero bassissimo di elettori e quegli elettori si es1°no per il sì, la legge sarà approvata; se gli
elettori ma anche una percentuale bassissima si es1°no per il no, la legge costituzionale bloccherà il suo iter e cadrà. Nella vicenda italiana è stato un caso di referendum
costituzionale ed è il referendum che si tenne nell’ottobre 2001 sulla legge costituzionale di modifica del titolo quinto, di modifica dei poteri delle Regioni, dei Comuni,
degli enti locali e che ha dato luogo alla legge costituzionale 3 del 2001. Quello fu proprio un caso in cui andò a votare meno della metà degli elettori; ma all'interno di
quel numero di elettori che andò a votare, inferiore al 50 %, prevalse il sì e il testo divenne legge costituzionale. Abbiamo collegato la revisione costituzionale e le leggi
costituzionali alla rigidità della Costituzione. La televisione costituzionale e leggi costituzionali sono adottate con una procedura aggravata perché la nostra Costituzione è
rigida; ma oltre a ciò va segnalato che la dottrina costituzionale e la Giurisprudenza ritengono che, nemmeno con la procedura di revisione costituzionale e nemmeno
con la procedura ex articolo 138, si possa modificare tutto il testo della Costituzione, ogni e qualsiasi norma della vigente Costituzione italiana: cioè si ritiene che esistano
limiti alla revisione costituzionale.

Limiti alla revisione costituzionale

Questa è una discussione che la dottrina aveva fatto tante volte, sulla scorta soprattutto di riflessioni della dottrina tedesca; e si e tante volte parlato di leggi
costituzionali incostituzionali: ossia di leggi di revisione o costituzionali, che però violano la Costituzione; questa era rimasta una affermazione dottrinale fino a quando,
con una sentenza nel 1988, la 1146, la Corte costituzionale fece delle importanti affermazioni; allora la Corte disse: “la Costituzione italiana contiene alcuni principi
supremi che non possono essere sovvertiti e modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono,
tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma Repubblicana, quanto i principi
che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui
quali si fonda la Costituzione italiana”. Il Presidente allora era Saia; il relatore era Baldassarre. Questa sentenza è stata poi confermata dalla sentenza della Corte 2 del
2000.

• Limite procedimentale
• Limiti sostanziali
• Limiti espliciti (art.139)
• Limiti impliciti

Le modifiche alla Costituzione avvengono solamente con il procedimento di cui all’articolo 138 della Costituzione. Se si vuole approvare una revisione ovvero una legge
costituzionale con un procedimento diverso bisogna prima modificare ovvero derogare l’articolo 138; ed è quello che fecero due leggi costituzionali, la n. 1 del ’93 e la
n.1 del ’97, che istituirono ambedue Commissioni parlamentari per le riforme costituzionali modificando per queste singole Commissioni il procedimento di revisione
costituzionale. Quindi 1° limite è un limite di tipo procedimentale.

Poi vi sono limiti di tipo sostanziale, cioè limiti che attengono a ciò che non si può contenutisticamente modificare.

Il 1° limite è il limite cd. limite esplicito, (lo abbiamo visto anche nella sentenza della Corte) che è dato dall‘ articolo 139 della Costituzione. L’articolo 139, ultimo della
Costituzione, (ricordarsi che vi sono le disposizioni transitorie e finali, ma disposizioni transitorie e finali sono numerate con i numeri romani) recita “la forma
Repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Che cosa vuol dire? Con riferimento alla storia della Costituzione italiana, è da segnalare la centralità
nella vicenda costituzionale italiana del referendum del 2 giugno del 1946, con cui fu scelta, tra Repubblica e monarchia, la forma Repubblicana; e il popolo italiano scelse
la Repubblica in luogo della monarchia. L'articolo 139 si collega a questa scelta fondamentale del popolo italiano compiuta nel 2 giugno ‘46 e quindi vieta la
reintroduzione della monarchia: non si può introdurre la monarchia. Vi furono alcuni autori subito dopo, negli anni ’50, che dissero “bene ma noi potremmo abrogare
l'articolo 139 con una prima legge di revisione costituzionale e poi successivamente reintrodurre la monarchia”. Si obiettò a questi aiuti autori che l'ha anche la semplice
abrogazione dell'articolo 139 avrebbe costituito una fuoriuscita dal testo costituzionale. La discussione principale però è: che cosa vuol dire forma Repubblicana? Vi è chi
ritiene che il limite esplicito contenuto nell'articolo 139 attenga solamente al divieto di reintroduzione della forma monarchica; quindi per esempio non si può introdurre
un Capo dello stato di tipo monarchico caratterizzato, non già dall’ elettività ma dalla ereditarietà del titolo; altra dottrina ritiene che, nel limite della revisione di
quell’articolo 139, non vi sia solamente il carattere Repubblicano o monarchico dell'assetto statuale italiano ma vi siano anche quei requisiti che caratterizzano un
ordinamento come democratico. La storia costituzionale europea ci dimostra chiaramente come possano esistere ordinamenti pienamente democratici caratterizzati
dalla assetto monarchico: si pensi all'Unione europea, in cui non è contestata la democraticità degli ordinamenti, ma in cui numerosi stati dell'Unione europea sono
caratterizzati da un assetto monarchico ( G.B, Olanda, Belgio, Spagna) Non è che i principi dell'assetto democratico possono essere modificati; ma forse i principi
dell'assetto democratico entrano fra i limiti impliciti alla revisione costituzionale; e sono facilmente deducibili dall'articolo 1 della Costituzione, quello in cui si dice “l’Italia
è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Quindi è una Repubblica e non può essere modificata ex articolo 139; le caratteristiche di democraticità della
Repubblica (l’elezione del Parlamento, rapporto fra chi governa il corpo elettorale) non possono essere modificate come limite implicito che noi riduciamo dall'articolo 1
della Costituzione.

Quali sono questi limiti impliciti? Sicuramente costituiscono limiti impliciti alla revisione costituzionale i diritti di libertà (i diritti di libertà che caratterizzano l'essenza del
testo costituzionale). Naturalmente diritti di libertà possono essere modificati nella loro concreta disciplina ma mai potrebbe essere, nemmeno con legge di revisione
costituzionale, eliminata la presenza dei diritti di libertà (diritto di libertà personale). Poi sicuramente costituiscono limiti alla revisione costituzionale alcune
caratteristiche di fondo dell'organizzazione statuale italiana e tutte quelle caratteristiche che riguardano appunto la democraticità dell'assetto statuale: proprio su
questo punto si sofferma la sentenza 2 del 2004, la quale ricorda come la forma di Governo parlamentare classica non sia sottratta alla revisione e come il legislatore

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costituzionale possa anche introdurre forme di raccordo fra corpo elettorale, Parlamento ed esecutivo, diverse dalla forma di Governo parlamentare classica. Ma per
esempio, non si potrebbe certo eliminare la temporaneità, il carattere elettivo del Parlamento; non si potrebbe certo eliminare il raccordo fra corpo elettorale ed
esecutivo (per il tramite del Parlamento nel nostro ordinamento ma quella sentenza che citavo farebbe pensare anche alla possibilità di assetti diversi cioè di un rapporto
diretto corpo elettorale esecutivo); non si potrebbe eliminare la giurisdizione costituzionale; non si potrebbe eliminare il carattere di rigidità della Costituzione; non si
potrebbe eliminare il principio contenuto nell'articolo 5 della Costituzione della autonomia e del decentramento. Non si potrebbero colpire i principi contenuti nei primi
12 articoli della Costituzione.

Un'ultima considerazione sui limiti impliciti (perché sono naturalmente la maggior parte dei limiti) alla revisione costituzionale. Nella discussione costituzionale e politica
italiana degli ultimi 20 anni si è molto discusso su quali fossero questi limiti. Diciamo che vi sono due grandi orientamenti: un 1° orientamento è quello che tende a
costruire un elenco dettagliato e puntuale di limiti alla revisione; un secondo orientamento tende invece a individuare alcuni grandi limiti, espressione di fondamentali
principi, che costituiscono limiti alla revisione. Da segnalare che, in realtà, il più grande processo di modifica costituzionale che ci sta coinvolgendo negli ultimi anni,
quello che riguarda l’Italia nell’Europa, non passa per la procedura di revisione costituzionale perché la Giurisprudenza della Corte costituzionale italiana e la prassi
costituzionale italiana hanno oramai aderito alla tesi secondo la quale l'ingresso dell’Italia nell'Unione europea e tutte le modifiche arrecate da questo ingresso siano
possibili, salvo determinati limiti, con legge ordinaria, ai sensi dell'articolo 11 della Costituzione.

La revisione costituzionale nella prassi


➔ La prima fase (sino alla approvazione della legge sul referendum)
➔ Le Commissioni bicamerali (Commissione Bozzi 1983, l. cost. 1/1993, l. cost. 1/1997)
➔ La procedura ex art. 138 Cost. per la riforma di intere parti della Costituzione (L. cost. 1\1999, L. cost.2\2001, L. cost. 3\2001; la riforma discussa nella XIV
legislatura)

Si è parlato in precedenza di come il procedimento di revisione abbia due strade diverse: una strada è quella della modifica a maggioranza dei 2/3 che non richiedono il
referendum; l'altra strada è maggioranza assoluta e possibile richiesta di referendum. Ora, la disciplina del referendum in Italia è stata introdotta solamente nel 1970: sia
del referendum abrogativo ex articolo 75 della Costituzione, sia del referendum approvativo ai sensi del 138.

Dal ‘48 al 1970 tutte le riforme costituzionali, peraltro non numerose, furono adottate con la procedura della approvazione a 2/3; quindi poche, non moltissime e con un
larghissimo consenso (la maggioranza dei 2/3 richiede un larghissimo consenso).

Con l'approvazione della legge sul referendum nel 1970 si apre la strada delle possibili modifiche anche con la procedura diversa; ma pochi anni dopo, dal 1980 in poi,
inizia in Italia una fase in cui l'assetto costituzionale italiano è sottoposto a tensioni politiche istituzionali; queste tensioni politiche istituzionali si riverberano nella
continua ricerca di meccanismi procedurali per la modifica sulle parti organizzative della Costituzione italiana.

Nel 1983 Camera e Senato, con due analoghi documenti, istituiscono una Commissione bicamerale composta da 20 deputati e 20 Senatori nominati dai presidenti dei
due rami del Parlamento in modo da rispecchiare la proporzione fra i gruppi parlamentari. Questa Commissione aveva il compito di presentare proposte di modifica alla
Costituzione in tema di diritti e libertà fondamentali, forma di stato, forma di Governo e ordinamento giudiziario ed era presieduta dal vecchio liberale costituente Aldo
Bozzi.

Nel 1993 e nel 1997, in questo caso non con documenti delle due Camere, bensì con legge costituzionale, la n.1 del ‘93 la n.1 del ‘97 vengono istituite, nell'uno e
nell'altro caso, delle Commissioni bicamerali per le riforme istituzionali (o costituzionali si dice nel 97). Queste leggi costituzionali introducono alcune deroghe puntuali al
procedimento dell'articolo 138, investendo queste Commissioni del compito di modificare la parte II, la parte organizzativa della Costituzione italiana.

Nel 93 la Commissione fu presieduta dall’ on. Iotti e dall’ on. De Mita; nel 97 fu presieduta dall’ on. D'Alema; tutte e tre le esperienze però falliscono; e soprattutto
falliscono le esperienze delle Commissioni bicamerali dotate del potere, per legge costituzionale, di erogare al procedimento di cui all’ articolo 138. Da allora in poi, dal
fallimento di questa procedura, riparte l'idea nella prassi costituzionale italiana di approvare le modifiche costituzionali con l'articolo 138 della Costituzione. Sono molte
le riforme che sono adottate in questo modo: la 1\1999 sui poteri dei presidenti delle Regioni; la n.2 del 2001 sugli statuti speciali; la legge costituzionale n.3 del 2001,
che modifica tutto il titolo 5° del testo costituzionale (quello destinato alla parte sulle Regioni); e la riforma che viene discussa in Parlamento presentata e approvata
fondamentalmente dalla maggioranza di centrodestra. Il dato di fondo di queste modifiche è che sembrano, soprattutto le ultime due, abbandonare la prassi della
ricerca di maggioranze ampie e procedono con l'approvazione di revisioni costituzionale con maggioranze molto limitate, scontando anche la possibilità di un
referendum approvativo alla fine del procedimento.

CAPITOLO 11 – IL REFERENDUM ABROGATIVO

Referendum abrogativo

Il referendum come strumento di democrazia diretta


Nel nostro sistema il referendum è considerato uno strumento di democrazia diretta. L'articolo 1 della Costituzione al comma 2 prevede che la sovranità appartiene al
popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Il nostro come si è già visto in altre elezioni è un sistema fondamentalmente di democrazia
rappresentativa, ma che riconosce e prevede alcuni istituti appunto di democrazia diretta. Il principale fra questi istituti è il referendum ma non è l'unico; l'articolo 71
della Costituzione prevede infatti l'iniziativa legislativa popolare e, attraverso l'iniziativa legislativa popolare, il popolo può esercitare l'iniziativa delle leggi mediante la
proposta da parte di almeno 50 mila elettori di un progetto redatto in articoli (e questo è lo strumento dell'iniziativa legislativa popolare); l'articolo 50 della Costituzione
prevede che tutti i cittadini possano rivolgersi alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità (e questo è lo strumento della petizione);
l'articolo 75 della Costituzione prevede il referendum abrogativo, che entra nel nostro dettato costituzionale insieme ad altre tipologie di referendum, in particolare il

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referendum costituzionale disciplinato dall'articolo 138, che s’inserisce nel procedimento di revisione costituzionale, di cui abbiamo già parlato e i referendum regionali
previsti in Costituzione all'articolo 123, di cui faremo un cenno in conclusione della lezione.

La legge n.352 del 1970 e la sua genesi


Il principale strumento di democrazia diretta il referendum abrogativo che, disciplinato dall'articolo 75 della Costituzione, ha trovato la sua attuazione nella legge
ordinaria numero 352 del 1970, la cui genesi è di un certo interesse. Ma torniamo un attimo indietro: l'articolo 75 disciplina i principi generali e alcune condizioni generali
di esercizio del referendum; ma, al 5° comma, prevede che sia una legge a determinato le modalità di attuazione del referendum. [La Costituzione come sappiamo entra
in vigore il 1° gennaio del ’48; la legge sul referendum come vediamo è la n. 352 del 1970: passano più di vent'anni prima che la legge di attuazione venga approvata. Che
cosa è successo? Perché questo ritardo? Da un lato la fine degli anni ‘60/inizi degli anni ‘70, è un periodo che si caratterizza per una importante fase di attuazione della
Costituzione (ricordiamoci per esempio che l'istituzione delle Regioni è del 1970; ricordiamoci che lo statuto dei lavoratori è del 1970): molte sono le leggi e gli atti di
attuazione della Costituzione collocate proprio nella fase finale degli anni ‘60/inizi degli anni 70. In più c'è una contingenza particolare in quel periodo: nel 1970 viene
approvata la legge sul divorzio, che viene approvata con una maggioranza parlamentare, che vede insieme il partito comunista, il partito socialista e i partiti laici del
centrosinistra e, del centrodestra, il partito liberale. Maggioranza parlamentare che rompe la maggioranza governativa, perché la maggioranza governativa in quel
periodo era costituita da democrazia cristiana, partito cattolico, socialisti, socialdemocratici e Repubblicani. La legge sul divorzio viene approvata con una maggioranza
parlamentare che rompe la maggioranza governativa e, lasciando all'opposizione a votare contro questa legge, democrazia cristiana, MSI e il PDUM (partito democratico
di unità monarchica). La democrazia cristiana accetta di far passare questa legge, la legge sul divorzio, in cambio dell'approvazione della legge sul referendum. Fu Fanfani
che propose questo lodo, questa questo scambio fra legge sul divorzio e legge referendum; quindi la democrazia cristiana fa passare la legge sul divorzio, a condizione
dell'approvazione della legge sul referendum, di modo che le forze contrarie al divorzio potessero immediatamente dopo sperimentare nel paese se avevano o meno la
maggioranza; ovvero anche nel paese vi fosse una maggioranza favorevole al divorzio. Questa è l'origine della legge 352.

Il procedimento referendario

➔ La raccolta delle firme (3 mesi; deposito tra il 1° gennaio e il 30 settembre)


➔ Il giudizio dell’Ufficio centrale per il referendum (entro il 15 dicembre)
➔ Il giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale (entro il 10 febbraio)
➔ La votazione (tra il 15 aprile e il 15 giugno)
➔ Il risultato del referendum (il problema dell’astensione)
➔ Gli effetti del referendum

La legge 352 disciplina un procedimento referendario particolarmente complicato e articolato. Secondo l'articolo 75 della Costituzione al comma 1, possono richiedere il
referendum abrogativo 500.000 elettori o 5 consigli regionali. La raccolta delle 500.000 firme deve avvenire, secondo la legge n. 352 appunto, deve avvenire in un
periodo di 3 mesi, che va dal 1° gennaio al 30 settembre di ogni anno, ma il periodo di raccolta delle firme non può superare i tre mesi. Le firme ovvero il le deliberazioni
dei consigli regionali devono essere depositate presso l'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione entro il 30 settembre di ogni anno; e l'ufficio
centrale decide sulla legittimità delle richieste di referendum entro il 15 dicembre di ogni anno. Sempre in questa fase del giudizio dell'Ufficio centrale, l'ufficio centrale
appone, secondo la legge n.172 del 1995, il titolo al referendum, sentito il Comitato dei promotori. Dopo il 15 dicembre, le richieste di referendum vengono trasmesse
dall'Ufficio centrale per il referendum alla Corte costituzionale, che entro il 10 febbraio decide sull'ammissibilità del referendum, cioè decide se il referendum, alla luce
dell'articolo 75 e della complessiva disciplina costituzionale, è ammissibile e può essere svolto; la decisione della Corte deve intervenire entro il 10 febbraio di ogni anno.
La votazione, infine, viene indetta dal Presidente della Repubblica su proposta del Governo e deve svolgersi necessariamente fra il 15 aprile e il 15 giugno di ogni anno.
Quindi si tratta di un procedimento estremamente scandito: la raccolta delle firme avviene in un certo periodo, il giudizio dell’Ufficio centrale ha un certo lasso di tempo,
il giudizio della Corte costituzionale ha un altro lasso di tempo, il voto deve intervenire in quel particolare periodo. Il referendum, ai sensi dell'articolo 75 comma 4 della
Costituzione, o meglio la proposta soggetta a referendum è approvata se hanno partecipato al voto la maggioranza degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza
dei voti validamente espressi. Questo è il problema di cui si è tanto discusso negli ultimi anni dell’astensione: affinché un referendum sia valido occorre un quorum
deliberativo di almeno il 50 % + 1 degli elettori (devono partecipare al voto la metà più uno degli aventi diritto). Questa previsione fu introdotta in Costituzione nel 1948,
per fare in modo che non fosse sufficiente una minoranza di cittadini a mettere in dubbio il risultato del referendum: la ratio di questa previsione è quella di impedire
che minoranze nel disinteresse del paese potessero abrogare una legge votata dal Parlamento. In realtà nel corso degli anni questa clausola del quorum della metà + 1
dei partecipanti si è rivelata un grandissimo scoglio per il referendum e, dopo il referendum del 1995, tutte le tornate referendarie non hanno mai raggiunto il quorum
del 50 % + 1 degli aventi diritto. Quindi nel ‘97 nel ’99, nel 2000, nel 2003 e nel 2005 i referendum che erano stati richiesti si sono scontrati contro il mancato
raggiungimento della soglia del 50 % + 1 degli elettori. In alcuni casi sfiorando questa soglia, come nel ‘99 successe per il referendum elettorale che raggiunse il 49,6 %
degli elettori (veramente a pochissima distanza dalla soglia); in altri casi mantenendosi su livelli estremamente bassi [nei referendum del 2003 in cui veniva in discussione
l'abrogazione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, si raggiunse poco più del 23 % dei votanti; nei referendum del 2005 in cui veniva in discussione un tema che
sembrava fortemente sentito e fortemente coinvolgente, perché toccava i problemi sociali come quello della fecondazione assistita, si è raggiunto solamente poco più
del 25 % dei votanti; questo mancato raggiungimento della soglia del 50 % + 1 degli elettori [mancato raggiungimento riconducibile a diverse ragioni: qualche volta il
disinteresse o meglio una fascia di astensionismo generalizzato, in secondo luogo la complessità dei quesiti, in 3° luogo il disinteresse di alcuni settori, in quarto luogo
campagne politiche che spingono all'astensione come successe nel 2003 in cui la sinistra non si volle confrontare sul tema del referendum sull'articolo 18 dello statuto
dei lavoratori o come è successo nel 2005, in cui i cattolici e la chiesa cattolica hanno spinto per l'astensione]. Questo mancato raggiungimento costituisce oggi un serio
problema di funzionamento dell'istituto referendario, giacché appare oramai sempre più difficile se non addirittura impossibile il raggiungimento del quorum per la
validità del referendum. Tant'è che sono state avanzate anche alcune proposte di modifica del regime della validità del referendum. La legge 352 disciplina altresì gli
effetti del referendum prevedendo esplicitamente che, se la proposta soggetta a referendum viene respinta, il quesito referendario non si può ripresentare nei
successivi 5 anni dal rigetto della proposta referendaria. La legge 352 nulla dice sul problema della eventuale riproposizione del referendum nel caso di mancato
raggiungimento del quorum: la questione si pose nel 1999 dopo il mancato raggiungimento del quorum sul referendum elettorale, l'Ufficio centrale, competente a
giudicare questo punto della questione, ritenne che nel caso di mancato raggiungimento del quorum ben si poteva ripresentare il referendum, giacché il limite dei 5 anni,
previsto dalla legge 352, è vigente solamente nel caso di rigetto del referendum ma non nel caso di mancato raggiungimento del quorum. L'effetto, invece nel caso di
accoglimento della richiesta referendaria, è un effetto di tipo abrogativo. Nel caso in cui la richiesta referendaria venga accolta, la legge o l’atto avente forza di legge o
quella parte della legge, viene cancellata dall'ordinamento con l'effetto tipico dell’abrogazione.

I limiti all’ammissibilità del referendum abrogativo


Quali sono i limiti all’ ammissibilità del referendum?

1) In primo luogo, vi sono i limiti previsti dall'articolo 75 della Costituzione: deve trattarsi di una legge o di un atto avente valore di legge; questa è la richiesta
del l'articolo 75 1° comma della Costituzione. Quindi può essere sottoposto al referendum solamente una legge o un atto equiparato alla legge. Per fare un
esempio: la vicenda dei limiti di velocità sulle strade e sulle autostrade. È possibile fare un referendum sui limiti di velocità? Non è possibile, perché i limiti di

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velocità sono previsti non da una legge o da un atto avente valore di legge, ma da un decreto ministeriale. Quindi da un atto che, nella gerarchia delle fonti,
è subordinato alla legge. L’articolo 75 non lo dice esplicitamente ma dalla collocazione dell'articolo 75 nella parte della Costituzione dedicata al Parlamento e
alla formazione delle leggi, si deduce che il referendum dell'articolo 75 deve rivolgersi contro una legge un atto avente valore di legge dello Stato. Quindi
non possono essere sottoposti al referendum abrogativo ex articolo 75 le leggi o eventualmente gli atti aventi valore di legge delle Regioni, i quali saranno
sottoposti al referendum regionale.
2) La Giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n.16 del 1978)
L’articolo 75 prevede poi esplicitamente alcuni limiti e in particolare ci dice che “non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia
e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Limiti molto specifici e che si riveleranno di fronte all'esperienza referendaria troppo
limitati, troppo bassi, non in grado di bloccare l'ondata di referendum che in particolare faranno parte della strategia del partito Radicale e del suo leader
storico, Marco Pannella. Di fronte a questa strategia politico istituzionale di utilizzare i referendum abrogativi per entrare nel sistema politico, per creare
contraddizioni nel sistema politico, la Corte costituzionale fu chiamata già dal 1978 a operare una delicata attività; e il giudizio della Corte costituzionale di
ammissibilità del referendum si rivelò il luogo più difficile della mediazione fra le istanze referendarie portate avanti dai radicali e la resistenza che
tradizionalmente poneva il mondo politico all'utilizzo di questa strategia referendaria. Il giudizio di ammissibilità fu definito da importante costituzionalista,
Leopoldo Elia, che fu anche Presidente della Corte costituzionale, “un dono avvelenato” alla Corte costituzionale: perché se si va a guardare le competenze
della Corte originariamente previste nel testo dell'articolo 134, non vi è il giudizio di ammissibilità, che fu attribuito alla Corte, successivamente con la legge
costituzionale del 1948. Quindi Elia parlò di un “dono avvelenato” di fronte alle tantissime polemiche che si aprivano, si sono aperte e tradizionalmente si
aprono, nella fase del giudizio di ammissibilità. Quindi la Corte fu chiamata a ridisegnare i confini del giudizio di ammissibilità e lo fece con una storica e
importante sentenza, che è la sentenza n.16 del 1978; e in quella sentenza la Corte riscrisse i limiti del referendum e, deducendolo dal contesto dell'articolo
‘75, affermò in primo luogo che non sono soggette al referendum la Costituzione e le leggi costituzionali. Il referendum, di cui all'articolo 75, non si può
rivolgere contro la Costituzione o contro leggi costituzionali; sia per un argomento formale: il referendum colpisce le leggi o gli atti aventi forza di legge, non
può colpire gli atti di grado superiore; sia per un argomento di tipo sistematico: nel procedimento di approvazione delle leggi costituzionali vi è un
referendum particolare, che è disciplinato in modo diverso dall'articolo 138.
3) Poi la Corte introdusse l'ulteriore limite della sottrazione al referendum delle leggi a forza passiva rinforzata. La Corte dedusse l'inammissibilità di
referendum vertenti su leggi a forza passive rinforzata, da un ragionamento sulla forza del referendum. Questo fu il ragionamento della corte: se il
referendum ha forza di legge potrà abrogare solamente le leggi che appartengono alla categoria generale; ma se noi ci trovassimo di fronte a leggi che per
qualche ragione, procedimentale o sostanziale sono in grado di resistere all'abrogazione, cioè hanno una forza passiva rinforzata, queste leggi non possono
essere abrogate dal referendum. L'esempio classico è quello dei Patti Lateranensi (o oggi del Concordato o eventualmente anche degli accordi con le
confessioni religiose diverse dalla cattolica) l'articolo 7 della Costituzione dice che “i rapporti fra lo stato e la chiesa sono regolati dai patti lateranensi e le
modificazioni accettate dalle due parti non richiedono procedimento di revisione costituzionale” Quindi la legge con cui furono approvati i patti lateranensi è
una legge che ha alle spalle l'accordo fra le parti. Una legge senza accordo fra le parti non potrebbe abrogare i Patti lateranensi ed egualmente il referendum
non può colpire i patti lateranensi.
4) Poi la Corte ritenne che nell'ordinamento vi sono leggi così strettamente connesse, collegate a quelle elencate dall'articolo 75, che l’inammissibilità di
quesiti vertenti su di esse discende direttamente all'articolo 75. I due casi in cui la Corte si pronunciò in questo senso sono estremamente discussi (non vi è
concordia in dottrina su questo punto) ma la Corte ritenne che dalla inammissibilità di referendum su leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati
internazionali derivi anche l'inammissibilità di referendum vertenti su leggi di esecuzione del trattato internazionale. Seppur successivamente, la Corte
ritenne che dalla inammissibilità di referendum sulla legge di bilancio derivasse anche l'inammissibilità di referendum vertenti sulle leggi finanziarie. Si tratta
di due esempi su cui vi è stata una grande contestazione in dottrina.
5) La Corte sottrasse al referendum, sempre in quella sentenza 16 del ’78, le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, vale a dire quelle leggi che, pur
essendo ordinarie, rappresentano l'unica attuazione possibile di una legge costituzionale. Questo fu il ragionamento della corte: se io colpisco una legge
ordinaria, che è l'unico possibile sviluppo di una norma o di una legge costituzionale, io in realtà vado a colpire non già la legge ordinaria bensì direttamente
la norma costituzionale.
6) Poi la corte, sempre nella 16 del ‘78, elaborò un requisito particolare che è stato il requisito più discusso, più difficoltoso e più contestato nella storia del
referendum: quello della necessità che il quesito referendario avesse carattere omogeneo. La Corte così dichiarò inammissibili le richieste referendarie
contenenti una “pluralità di domande eterogenee carenti di matrice razionalmente unitaria” (cioè tutte quelle domande in cui l'elettore non avrebbe potuto
rispondere chiaramente sì o no, ma si sarebbe trovato di fronte a scelte complesse, articolate che richiedevano un’articolazione del giudizio). Il criterio
quindi era quello della omogeneità del quesito: il quesito avrebbe dovuto essere chiaro semplice e completo ed essere strutturato in modo tale da rendere
chiaro e riconoscibile ai votanti il risultato dell'abrogazione. Così posto, il requisito sembra assolutamente condivisibile; l'attuazione di questa requisito posto
dalla Giurisprudenza della Corte fu poi molto altalenante: si passò dalla omogeneità del quesito alla omogeneità della normativa che residuava dal quesito.
La Corte dichiara inammissibili negli anni ‘90 alcuni quesiti in cui residuava una normativa non chiara e non omogenea. Poi, sempre in alcuni referendum
degli anni ’90, dichiarò inammissibili i quesiti in cui la normativa che risultava dal ritaglio referendario non avrebbe potuto funzionare compiutamente; e
quindi trasferì il requisito dell'omogeneità dal quesito alla normativa di risulta.
7) Collegato a questo problema dell’omogeneità del quesito e dell’omogeneità della normativa di risulta, è il problema particolare dei referendum contenuto
additivo; e, in particolare, ci si riferisce a due importanti sentenze della Corte: la n.36 del ’97 e la n.13 del ’99, vertente sui quesiti elettorali. Passo indietro:
la Costituzione dice all'articolo 75 comma 1, “è indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente
valore di legge”. Che cosa vuol dire parziale? Che cosa voglia dire abrogazione totale è chiaro: prendo una legge intera, ne chiedo l'abrogazione e la elimino
dall'ordinamento. Quando la Costituzione dice che “è indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione parziale di una legge”, qual è il limite
minimo a cui io posso arrivare come parzialità dell'abrogazione della legge? Un titolo della legge? Un articolo? Un comma della legge? Un periodo che inizia?
Un periodo completo che finisce da lì dove arriva al punto? Oppure io posso arrivare ad abrogare anche singole parole all'interno della legge? A seconda di
come ritengo che operi il limite della parzialità dell'abrogazione ottengo effetti completamente diversi. Si a qual è l'effetto dell’abrogazione della parola
“non”: se io all'interno di una legge abrogo la parola “non”, io Capovolgo il significato della legge. Se io ho una legge in cui c'è scritto non si mangia o non si
beve o non si fuma o non si uccide, e io chiedo l'abrogazione della parola “non”, io avrò un risultato completamente diverso. La legge diventerà si mangia, si
beve, si fuma, si uccide: ho Capovolto il significato della legge. Nella prassi referendaria la tecnica dell'abrogazione parziale è stata sempre usata: i promotori
del referendum hanno sempre tradizionalmente costruito quesiti, in cui ritenevano di poter ritagliare singole parole; e la Corte non si è mai opposta a questa
prassi fino ad un caso che intervenne nei referendum del 1997, in cui l'operazione di ritaglio all'interno di un testo legislativo era stata così dettagliata ed era
andata a penetrare così tanto all'interno del testo, che da due o tre periodi, ne era stato ricavato un solo periodo, che travolgeva il significato, che costruiva
una vera e propria disciplina totalmente nuova. Lì la Corte disse: non si può. Con la sentenza n.36 del 1977 dichiarò inammissibile un “quesito referendario
nel caso in cui l'abrogazione parziale richiesta con il quesito si risolve sostanzialmente in una proposta all'elettore attraverso l'operazione di ritaglio sulle
parole e il conseguente stravolgimento dell'originaria ratio e della struttura della disposizione, ricavando una nuova statuizione del tutto estranea al
contesto normativo”. La Corte poi spiega in dettaglio il perché dell'inammissibilità in questi casi. Quindi io non posso ritagliare, all'interno di un testo
legislativo, parole in modo da creare una nuova disposizione. Questo criterio fu confermato dalla sentenza n.13 del ’99, vertente sui referendum elettorali.
Nel 99 si tentò di trasformare il sistema misto delle elezioni per la Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica in un sistema totalmente
maggioritario, abrogando alcune parole, abrogando alcune frasi. Lì la Corte disse che quella abrogazione parziale che veniva richiesta “non sostituisce la
disciplina precedente con una assolutamente diversa e estranea, ma amplia un criterio esistente”. Quindi quando l'abrogazione parziale colpisce sì singole
parole, ma amplia un principio esistente all'interno della normativa, lì l'abrogazione parziale è ammissibile; quando l'abrogazione parziale ritaglia parole
all'interno di una legge e costruisce una disciplina totalmente nuova, lì l'intervento parziale con effetti additivi o manipolativi è inammissibile.
Giurisprudenza complicata quella della corte.

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I referendum nel sistema politico italiano

Complicata fu l'introduzione dei referendum abrogativi nel sistema politico italiano. Da cosa deriva questa complicata e difficile introduzione del referendum nel sistema
politico italiano? In primo luogo, sicuramente dal fatto che la nostra Costituzione costruisce un sistema di democrazia rappresentativa e mantiene il referendum come
strumento, se non eccezionale, comunque particolare e di uso limitato. Quindi vi è tradizionalmente una tensione fra gli istituti della democrazia rappresentativa e gli
istituti della democrazia diretta. Sicuramente un'altra grande difficoltà del referendum deriva dal fatto che, in particolare un partito politico, il partito radicale, ha
utilizzato per oltre 30 anni di storia Costituzione italiana, il referendum come strumento principale della sua attività e del suo intervento politico. Basti ricordare che la
strategia radicale in più di un'occasione si è basata sulla presentazione di una pluralità di quesiti di fronte al corpo elettorale, sottoponendo quindi non la singola
questione bensì un insieme di politiche, un insieme di richieste politiche; in questo modo necessariamente sconvolgendo l'agenda politica costruita dai soggetti della
democrazia rappresentativa. In questa fase, in questa strategia, il partito radicale ha avuto anche alcuni successi: per esempio si ricorda che i promotori del referendum,
il Comitato dei promotori del referendum, è stato riconosciuto, a partire dalla sentenza n.69 del ‘78 della Corte costituzionale, potere dello stato; e quindi ha avuto
accesso ai conflitti di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale come potere dello stato. Questo strumento ha segnato anche alcuni successi importanti: per esempio
il Comitato dei promotori ha impedito, con la sua azione, che il Parlamento potesse fare una legge totalmente identica alla legge precedente, in modo da scavalcare e
impedire il referendum, poiché sulla base di un ricorso del Comitato dei promotori, con la sentenza 68 del ’78, la Corte disse che se il Parlamento avesse riapprovato una
legge sostanzialmente identica a quella oggetto di referendum, il referendum si sarebbe trasferito dalla vecchia alla nuova legge: questo fu ottenuto dai promotori. Un'
altro importante successo avuto dei promotori fu con la sentenza 161 del ’95, con cui la Corte ritenne che il decreto-legge sulla normativa sulla par condicio non si
applicasse al quesito referendario. In un paio d'occasioni invece i promotori hanno provato a contestare la data del 15 giugno come data per lo svolgimento del
referendum, sostenendo che il 15 giugno l'astensione fosse elevata dalla naturale facilità di essere in vacanza o di andare al mare: in questi casi la Corte ha respinto il
ricorso dei promotori contro la fissazione della data. Quindi una difficoltà sicuramente è stata data dal fatto che un partito politico ha costruito la sua strategia sui
referendum; la complessità delle questioni e dei quesiti ha creato una barriera e una qualche difficoltà. Sicuramente un colpo, un freno al referendum è stato dato dalla
modifica dell'assetto politico italiano da proporzionale a maggioritario. Il referendum, con la sua struttura sì/no bianco/nero, si inseriva come pungolo molto forte in un
sistema abituato a contarsi proporzionalmente. Quando il sistema politico italiano, anche grazie ai referendum, diventa un sistema politico tendenzialmente bipolare
certo è difficile la sovrapposizione fra la logica bipolare del sistema partitico e la logica bipolare del sistema referendario. I due strumenti rischiano di sovrapporsi. Certo
non può essere dimenticato come alcune tappe significative della storia istituzionale italiana nascono proprio attraverso la vicenda referendaria (la legge sul divorzio
confermata nel referendum nel ’74. la legge sull'aborto confermata nel referendum dell’81, la trasformazione del sistema elettorale da proporzionale e maggioritario
ottenuta con il referendum del ’93; sarà da interrogarsi sugli effetti del referendum del 2005 sulla fecondazione assistita, che ha visto una amplissima astensione pari al
75 % anche su spinta e su indicazione della Chiesa e dei partiti e dei movimenti di ispirazione cattolica).

Il referendum consultivo sul Parlamento Europeo


Nel sistema italiano, in un sistema referendario di tipo abrogativo, una volta sola si tenne un referendum consultivo: fu nell’89 , quando, in concomitanza con le elezioni
per il Parlamento europeo, fu chiesto agli italiani se, anticipando alcune vicende poi svoltesi, si è chiesto se si doveva procedere alla trasformazione delle comunità
europee, in una effettiva Unione dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando al Parlamento europeo il mandato di redigere una Costituzione
europea. Fu un referendum consultivo il cui esito fu abbastanza scontato: ebbe l'affluenza dell’80% ed ebbe l’88 % dei voti favorevoli.

I referendum regionali e locali


I referendum sono poi previsti anche a livello regionale e locale: in particolare per quanto attiene al livello locale, è l'articolo 123 della Costituzione che attribuisce agli
statuti regionali il compito di prevedere referendum, che a differenza dei referendum statali possono riguardare sia leggi che atti amministrativi e possono avere effetti
sia di tipo abrogativo che tipo consultivo e di tipo propositivo.

CAPITOLO 12 – LA FORMAZIONE DEL Governo

Democrazie mediate e democrazie immediate


Abbiamo già visto nella lezione precedente come il Governo, ai sensi dell'articolo 92 della Costituzione, è un organo complesso “composto del Presidente del Consiglio
dei ministri che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri”. Come può essere istituito il Governo? Come un ordinamento può giungere alla formazione del Governo?
Una grande distinzione fra le tante distinzioni che sono possibili fare è quella appunto fra democrazie e mediate e democrazie immediate. Quando parliamo di
democrazie mediate facciamo riferimento a quegli ordinamenti democratici in cui la formazione del Governo avviene fondamentalmente in Parlamento attraverso la
mediazione e il confronto fra i partiti politici che hanno ottenuto il consenso dei cittadini e che sono presenti in Parlamento. Quando parliamo di democrazie immediate,
facciamo riferimento invece a quelle forme, a quegli assetti democratici in cui l'investitura del Governo, o nella sola figura del Presidente del Consiglio o più
complessivamente del Governo, avviene non tanto sulla base della mediazione partitica in Parlamento quanto attraverso forme di investitura più o meno dirette da parte
del corpo elettorale. Sotto questo profilo le norme costituzionali italiane che adesso vedremo sono norme estremamente scarne che nella storia costituzionale italiana,

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nella vicenda costituzionale italiana hanno permesso sia un meccanismo di democrazia mediata, cioè la formazione dei governi in Parlamento attraverso la mediazione
dei partiti, sia pur impedendo l'investitura diretta del Presidente del Consiglio hanno permesso forme di immediatezza nel rapporto fra corpo elettorale e Governo.
Questo è successo soprattutto negli ultimi vent’ anni, cioè dopo l’entrata in vigore delle leggi elettorali per Camera e Senato di tipo maggioritario; invece il sistema
italiano era più assimilabile a una forma di democrazia mediata, con le leggi proporzionali che hanno disciplinato la formazione del Parlamento italiano dal 1948 al 1993
(cioè fino al referendum che si tenne in quell'anno).

Le fonti che disciplinano la formazione del Governo e procedimento di formazione dello stesso

Si tratta di un aspetto particolarmente interessante, anche sotto un profilo di teoria del diritto costituzionale, perché le fonti che disciplinano la formazione sono in
piccola parte contenute nella Costituzione: agli articoli 92, 93, 94 che dettano poche e scarne regole sulla formazione del Governo. Entrano, invece, a disciplinare la
formazione del Governo una serie di altre fonti che integrano la norma costituzionale: in primo luogo, vi sono delle vere e proprie consuetudini costituzionali (e quindi
sono vere e proprie fonti del diritto); poi sicuramente questa fase della formazione della formazione del Governo è altresì disciplinata da convenzioni costituzionali, cioè
da accordi fra gli attori istituzionali retti dal principio rebus sic stantibus, cioè retti dal principio che quegli accordi valgono fino a che le cose stanno in quel modo; e poi
un’ ampia e importante parte della formazione del Governo è disciplinata o comunque va letta alla luce delle prassi costituzionali. Il principio basilare nell'ordinamento
costituzionale italiano che attiene, sia in generale alla forma di Governo, ma soprattutto in particolare per questa fase della formazione del Governo è dato dalla
necessità della esistenza di un rapporto di fiducia fra Parlamento e Governo. Questo principio noi lo troviamo nell'articolo 94 1 ° comma della Costituzione: “il Governo
deve avere la fiducia delle due Camere” ed è un principio basilare sia per interpretare la forma di Governo, sia per interpretare e per costruire questa fase della
formazione del Governo. Torniamo di nuovo sulle norme costituzionali: la 1a norma costituzionale che riguarda la formazione del Governo è l'articolo 92 comma 1, ai
sensi del quale, “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questi, (cioè del Presidente del Consiglio) nomina i ministri”. Come
giunge il Presidente della Repubblica ad effettuare questa nomina? La Costituzione dice solamente che è potere del Presidente della Repubblica nominare il Presidente
del Consiglio; ma il potere del Presidente della Repubblica di nominare il Presidente del Consiglio è finalizzato, ai sensi dell'articolo 94 della Costituzione, a nominare un
Governo che abbia la fiducia delle due Camere. Il potere del Presidente deve essere finalizzato a quell'obiettivo. come fa il Presidente della Repubblica a finalizzare la sua
attività a quell'obiettivo di nominare un Presidente del Consiglio e ministri che poi godano della fiducia del Parlamento? Nella vicenda costituzionale italiana si è
introdotto questo istituto definito: consultazioni. Il Presidente della Repubblica quando deve procedere alla nomina del Presidente del Consiglio effettua delle
consultazioni: consulta, sente, parla con una serie di soggetti di particolare rilievo istituzionale. Queste consultazioni non sono previste in Costituzione: abbiamo visto
quei tre articoli 92, 93, 94 che non parlano di consultazioni; eppure la maggioranza della dottrina costituzionalistica ritiene che le consultazioni siano rette da una vera e
propria consuetudine costituzionale: cioè che costituiscano una norma costituzionale non scritta bensì derivante appunto dalla consuetudine. Come si fa a ricavare
l'esistenza di una consuetudine? Qualora ricorrano i due requisiti: il requisito della ripetizione di questo comportamento nel tempo (e questo comportamento del
Presidente della Repubblica di consultare una serie di soggetti si è sempre avuto) e la cd. opinio iuris seu necessitatis (la l'idea, la convinzione che questo comportamento
corrisponda a diritto o a necessità). La convinzione che questo comportamento corrisponde a diritto o necessità deriva proprio dal fatto che le consultazioni sono
funzionali, strumentali all'individuazione di un Governo che abbia la maggioranza in Parlamento. Chi consulta il Presidente della Repubblica? Nella prassi costituzionale,
le consultazioni sono estremamente ampie: si ricordano casi di consultazione dei sindacati; si ricordano casi di consultazione del Presidente di Confindustria o del
Presidente del CNEL; in alcune occasioni durante le consultazioni furono sentiti pure i vertici delle forze armate. Normalmente le consultazioni per la formazione del
Governo vedono la consultazione degli ex presidenti della Repubblica e dei presidenti della Camera e del Senato, ma in realtà il vero nucleo delle consultazioni consiste
nella consultazione dei partiti presenti in Parlamento. Perché? Perché il Presidente attraverso la consultazione dei partiti presenti in Parlamento viene a sapere se la
persona che lui ha in testa, per nominarlo come Presidente del Consiglio, avrà o meno la fiducia delle Camere; e quindi il nucleo delle consultazioni consiste nelle
consultazioni delle delegazioni dei partiti politici, ma di quei partiti politici che siano rappresentati in Parlamento. Tant'è che normalmente alle consultazioni con il
Presidente della Repubblica prendono parte i capigruppo parlamentari dei partiti normalmente accompagnati dal segretario politico o dal Presidente del partito
interessato. Questo è il vero nucleo su cui esiste una vera e propria consuetudine costituzionale. Naturalmente il ruolo delle consultazioni si è andato modificando con il
mutamento del sistema elettorale. Fino all'esistenza fino al ‘93 con sistemi elettorali di tipo proporzionale dalle elezioni non uscivano chiare indicazioni su quale tipo di
maggioranza avrebbe governato il paese; e la decisione sul tipo di maggioranza che avrebbe governato il paese era presa dai partiti politici nel confronto fra di loro; le
consultazioni del Presidente della Repubblica spesso funzionavano come levatrice di queste idee di maggioranza; spesso aiutavano i partiti a procedere sulla strada degli
accordi per individuare la maggioranza; dal 1994 in poi, cioè dal 1° voto con sistemi elettorali, sia pur non perfettamente e incompiutamente maggioritari, il risultato
delle elezioni già offriva una prima (in alcuni casi più netta, in altri casi meno netta) indicazione sulla maggioranza scelta dal corpo elettorale e quindi è evidente che in
questi casi la funzionalità delle consultazioni era minore, in quanto già vi era stata in qualche modo una indicazione della maggioranza che avrebbe governato il paese. Si
pensi alle elezioni del 1996 in cui partiti raccolti nel centrosinistra già avevano indicato Prodi come candidato alla presidenza del Consiglio; oppure si pensi alle elezioni
del 2001, in cui i raggruppamenti, sia del centrosinistra che dal centrodestra, avevano già un proprio candidato alla presidenza del Consiglio. Il problema in questo caso è
la correttezza formale, visto che è la Costituzione a dire che è il Presidente della Repubblica che nomina il Presidente del Consiglio. Quindi queste investiture che nascono
dalle elezioni sono investiture che non possono mai interferire col potere che in ultima istanza è affidato al Presidente della Repubblica.
All'esito delle consultazioni il Presidente della Repubblica procede normalmente all'incarico, cioè non nomina direttamente il Presidente del Consiglio, come pur l'articolo
92 gli permetterebbe, (visto che l'articolo 92 dice che “il Presidente Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri”) ma affida un incarico a colui che ritiene
possa raccogliere la fiducia parlamentare. In alcune occasioni, soprattutto nella fase proporzionalistica della nostra vicenda costituzionale, la prassi costituzionale ha
conosciuto anche altre le figure: in particolare le figure del preincarico e del mandato esplorativo. Il preincarico veniva affidato a quel soggetto a cui il Presidente della
Repubblica riteneva che poi successivamente avrebbe affidato l'incarico di formare il Governo; allora lo chiamava diceva “guarda forse lo affido a te l'incarico, però
ancora è un incarico un po’ meno forte, un po’ meno pieno: siamo ancora in una fase preliminare al vero e proprio incarico; e la fantasia dei cronisti e dei giornalisti ma
anche la dottrina costituzionale ha iniziato a parlare di preincarico. Un'altra figura era quella del mandato esplorativo. Il mandato esplorativo veniva dato in quelle
situazioni in cui il Presidente della Repubblica, effettuato il suo giro di consultazioni, si rendeva conto che la situazione non era ancora chiara, che la situazione doveva
ancora decantarsi; ma non voleva essere lui ad essere coinvolto nello svolgere un ulteriore giro di consultazioni; pertanto il mandato esplorativo, normalmente conferito
a figure istituzionali di alto rilievo (di solito i presidenti dell'una o dell'altra Camera), serviva al Presidente della Repubblica a chiedere a questa figura: “esplora, svolgi tu
un ulteriore giro di consultazioni esplora tu, meglio di quanto ho potuto fare io finora, i rapporti reciproci fra i partiti politici: poi torni da me e mi dipani, mi racconti
quello che tu hai colto in questo ulteriore giro di consultazioni”. Sia quella del preincarico che quella del mandato esplorativo sono istituti che presuppongono un
Governo formato nelle mediazioni che si creano tra i partiti e sono figure che sembrano poco compatibili con quei meccanismi di democrazia immediata in cui, ancorché
non formalmente, è il corpo elettorale a investire un soggetto alla carica di Presidente del Consiglio dei ministri. L'incaricato, il soggetto che viene incaricato di formare il
Governo, normalmente nella prassi costituzionale accetta con riserva, cioè dice al Presidente della Repubblica: “va bene accetto questo tuo incarico ma mi riservo di
rinunziare”, perché il Presidente del Consiglio incaricato svolgerà una sua fase di consultazione per capire se veramente poi raccoglierà la fiducia in Parlamento. La fase di
consultazioni da parte del Presidente del Consiglio incaricato è ancora meno formalizzata delle consultazioni da parte del Presidente della Repubblica; in particolare,
mentre il Presidente della Repubblica deve consultare tutti i partiti presenti in Parlamento, il Presidente del Consiglio incaricato in questo suo giro di consultazioni può
anche consultare solamente i partiti che lui ritiene faranno parte della sua maggioranza: non ha un obbligo di consultazione di tutti i partiti presenti in Parlamento.
Qualora l'incaricato sciolga la riserva e accetti l'incarico si procede alla nomina del Presidente del Consiglio: la norma è sempre l'articolo 92 della Costituzione comma 2,
che prevede che “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri”. Qui siamo di fronte, secondo la ricostruzione più accolta, ad un atto
misto o complesso, in cui la volontà del Presidente del Consiglio si incontra con la volontà del Presidente della Repubblica nel comporre questo atto. È utile forse
sottolineare che la discrezionalità del Presidente della Repubblica nell’incaricare prima, e nel nominare poi, un Presidente del Consiglio è tanto minore, quanto più le
forze politiche che compongono la maggioranza sono compatte nell'indicare un nome. Nella prassi costituzionale italiana, nella vicenda costituzionale italiana, abbiamo

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avuto tante volte situazioni in cui le forze politiche si recavano dal Presidente della Repubblica con indicazioni vaghe, non chiare, con una non grande precisione circa la
composizione della maggioranza e il nome destinato a guidarla; abbiamo avuto invece situazioni in cui i partiti rappresentativi delle forze politiche e i gruppi parlamentari
rappresentativi delle forze politiche andavano dal Presidente della Repubblica dicendogli già chiaramente: “questa è la maggioranza con cui noi intendiamo governare;
questo è il nome che ti proponiamo”. È chiaro e non tocca in alcun modo i poteri del Presidente della Repubblica che, il qualora il Presidente aveva indicazioni nette sul
tipo di maggioranza e sul nome del Presidente del Consiglio, i suoi poteri erano estremamente limitati e doveva (e deve) raccogliere questa indicazione; quanto più
invece le indicazioni sono vaghe, tanto più si esaltano e aumentano i poteri del Presidente della Repubblica. La nomina del Presidente del Consiglio viene fatta comunque
rientrare nella dottrina maggioritaria fra gli atti complessi o misti.
Sempre tornando all'articolo 92 della Costituzione, l’articolo ci dice che “il Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio nomina i ministri”. Che
cosa ricaviamo da questa da questa formula dell'articolo 92 comma 2? Una certa qual preminenza di ruolo del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai ministri;
preminenza di ruolo che non è così forte nell'ordinamento italiano come per esempio nell'ordinamento tedesco, in cui la fiducia viene data al cancelliere, cioè al Capo
dell'esecutivo; ma in realtà dall'ordinamento costituzionale italiano è possibile ricavare una preminenza di ruolo del Presidente del Consiglio dei ministri.
Nominati i ministri, il passo successivo è quello del giuramento: “il Presidente del Consiglio dei ministri e il Governo” ai sensi dell'articolo 93 della Costituzione “prestano
giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica”. Questa norma dell'articolo 93 è particolarmente importante perché si dice: “il Presidente del Consiglio dei
ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica”. Se ne deduce che il Governo entra nell'esercizio
delle sue funzioni appena prestato giuramento. Se il Governo entra nell'esercizio delle funzioni appena prestato giuramento, e tanto deduciamo dall'articolo 93 della
Costituzione, ciò vuol dire che entra nell'esercizio delle funzioni prima di ottenere la fiducia delle Camere, in quanto la fiducia delle Camere, disciplinata dall'articolo 94, è
un passaggio successivo. Quindi siamo di fronte ad un soggetto, il Governo che entra nell'esercizio delle sue funzioni, ma non ha ancora ottenuto la fiducia. Quindi è una
situazione che dura poco, perché l'articolo 94 ci dice che “entro dieci giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta alle Camere per ottenere la fiducia”. Quindi
questa fase del Governo che esercita le sue funzioni ma non ha ancora avuto la fiducia dura al massimo dieci giorni. Però il problema è: quali sono i poteri del Governo in
questa fase? Si dice con formula generale che, non avendo ancora ottenuto la fiducia, il Governo in questa fase può procedere all'ordinaria amministrazione, ma non può
compiere atti che impegnino l'indirizzo politico perché ancora non è nella pienezza dei suoi poteri non essendosi creato il rapporto di fiducia fra Governo e Parlamento,
che è quello attraverso il quale, il Governo può adottare atti di indirizzo politico. Quindi dopo il giuramento il Governo entra nell'esercizio delle sue funzioni.

Il rapporto di fiducia tra il Parlamento e Governo

Il voto di fiducia

➔ Mozione motivata
➔ Appello nominale
➔ Maggioranza semplice

A questo punto l'articolo 94 ci detta delle regole sulla fase successiva, quella che attiene alla creazione del rapporto di fiducia fra Governo e Parlamento. La prima regola
che noi traiamo dall’articolo 94 è quella che dicevamo prima: “entro 10 giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta alle Camere per ottenere la fiducia”. Come
viene votata la fiducia? Occorre una mozione motivata perché il Parlamento vota su propri atti e quindi su una mozione parlamentare. Normalmente sono i capigruppo
parlamentari della maggioranza, capigruppo parlamentari o di Camera o di Senato della maggioranza che, richiamandosi al programma esposto dal Governo, chiedono
all'aula di accordare la fiducia al Governo. La votazione avviene per appello nominale: quindi il principio è che pubblicamente ogni parlamentare dichiara il proprio
appoggio, la propria contrarietà o eventualmente l'astensione rispetto al Governo; e la mozione di fiducia viene approvata, secondo il principio generale che deduciamo
dall'articolo 64 della Costituzione, a maggioranza semplice, vale a dire con la maggioranza dei presenti in Parlamento. Questo è molto importante perché se è vero,
come è vero, che la mozione motivata di fiducia viene approvato a maggioranza semplice, ciò vuol dire che possono esistere e vivere governi tecnicamente di minoranza,
governi che non sono appoggiati dalla maggioranza assoluta dei parlamentari. Questo perché, se l'approvazione della mozione di fiducia è possibile con la sola
maggioranza semplice, che consiste nella metà + 1 dei presenti in aula, io posso avere governi che godono della maggioranza semplice, ma non dell'appoggio di metà + 1
dei parlamentari (perché questo non è impedito dalla Costituzione). Va ricordato che, ai sensi dell'articolo 94, il Governo deve avere la fiducia delle due Camere; quindi
Camera dei deputati e Senato della Repubblica. Ambedue nel nostro ordinamento (è una delle conseguenze del bicameralismo paritario e perfetto) danno la fiducia al
Governo e in ambedue le Camere occorre la medesima procedura: presentazione del Governo, esposizione del programma, mozione motivata e voto favorevole. Non è
possibile un'abbreviazione, un'accelerazione che tagli fuori una delle due Camere. In via di prassi, i governi si presentano alternativamente, prima ad una Camera e poi
all'altra, alternando: se l'ultimo Governo si è presentato prima alla Camera e poi al Senato, il Governo che segue temporalmente si presenterà prima al Senato e poi alla
Camera: vengono alternate le presentazioni.

La mozione di sfiducia (art.94 Cost.)

➔ Firmata da almeno un decimo dei membri di una Camera

La Costituzione disciplina anche la rottura del rapporto di fiducia tra Camere e Governo.
Si richiama l'attenzione su un comma della Costituzione dell'articolo 94, in cui si prevede che “il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del
Governo non importa obbligo di dimissioni”. Si tratta di una previsione particolarmente importante perché è, in qualche modo, un aiuto alla stabilità del Governo. Che
cosa vuol dire qui la Costituzione? Vuol dire che, se il Governo presenta un proprio provvedimento alla Camera o al Senato, e la Camera o il Senato non approvano
questo provvedimento il Governo non è obbligato a dimettersi: può rimanere in piedi anche se quel singolo provvedimento è stato bocciato, è andato in minoranza, non
è riuscito a farlo passare. Dipenderà dalle valutazioni del Governo ritenere se la bocciatura di quel provvedimento sia particolarmente importante, così particolarmente
significativa da ritenere che oramai il rapporto di fiducia si sia interrotto. Questa vicenda per esempio successe negli anni ’60: il Presidente del Consiglio, Aldo Moro,
presentò un disegno di legge sulla riforma dell'organizzazione della scuola; questo disegno di legge fu bocciato e Moro si dimise a seguito della bocciatura di questo
testo; ma, ai sensi dell'articolo 94 4° comma, questo non è un obbligo. Ma torniamo alla mozione di sfiducia, che è l'atto con cui si interrompe formalmente il rapporto di
fiducia fra Parlamento e Governo.
La Costituzione disciplina la mozione di sfiducia all'articolo 94 Cost., prevedendo che la mozione di sfiducia debba essere firmata da almeno un decimo dei membri di una
Camera e possa essere discussa non prima di 3 giorni dalla sua presentazione. Perché queste due regole? Perché il costituente anche qui si è posto il problema di
garantire un minimo di stabilità al Governo; e quindi la mozione di sfiducia può essere presentata solo se un certo numero significativo di parlamentari (deputati o
Senatori) ritengono di buttare giù il Governo; e quindi almeno un decimo dei parlamentari di una o dell'altra Camera; e non può essere discussa prima di 3 giorni dalla
sua presentazione. Perché? Per evitare colpi di mano: perché possono esserci situazioni in cui la maggioranza non è presente in Parlamento; se non ci fosse questa
norma dilatoria che prevede che la mozione di sfiducia venga votata non prima di tre giorni, la minoranza potrebbe percepire un’assenza di membri della maggioranza in
quel giorno della seduta, presentare una mozione di sfiducia, poi chiedere che venga posta in votazione immediatamente e provocare la caduta del Governo. Invece la
Costituzione ha posto almeno questo requisito di stabilità: queste sono le due formule richieste dall’ articolo 94 della Costituzione al suo ultimo comma. In realtà, nessun
Governo nella vicenda istituzionale italiana dall'entrata in vigore della Costituzione ad oggi è mai caduto per una esplicita mozione di sfiducia: vi sono stati governi che si
sono dimessi dopo un voto negativo di una delle due Camere su un provvedimento da essi presentato; per esempio, il Governo prodi cadde perché fu respinta una
questione di fiducia posto dallo stesso Governo ma mai governi sono caduti sulla base di una mozione di sfiducia perché, basandosi i governi italiani su accordi di
maggioranza fra i partiti politici, nella prassi costituzionale italiana i governi hanno sempre ritenuto di dimettersi prendendo atto della rottura dell'accordo di coalizione.
E quindi nella prassi costituzionale, là dove il Presidente del Consiglio verificava la rottura dell'accordo di maggioranza, ha sempre ritenuto sufficiente, nella maggioranza

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dei casi, questa rottura dell'accordo di maggioranza per presentare le proprie dimissioni al Presidente della Repubblica. Dalla fine anni ‘60 in poi, si è introdotta questa
prassi che è la cd. “parlamentarizzazione” della crisi: i presidenti della Repubblica, di fronte alle dimissioni presentate dal Presidente del Consiglio a seguito della rottura
dell'accordo di maggioranza, hanno quasi sempre invitato il Presidente del Consiglio a recarsi in Parlamento e a presentare in Parlamento le ragioni della crisi. Il
Presidente del Consiglio verificava l'esistenza della rottura del rapporto di maggioranza; presentava le dimissioni al Presidente della Repubblica; il Presidente della
Repubblica lo invitava a recarsi in Parlamento; il Presidente del Consiglio esponeva di fronte alle Camere le ragioni della crisi del Governo, o meglio della rottura
dell'accordo di maggioranza e della conseguente crisi di Governo; e, prima che vi fosse un esplicito voto parlamentare, veniva dichiarata chiusa la discussione e il
Presidente del Consiglio tornava dal Presidente della Repubblica, confermando le sue dimissioni. Da tenere presente che il Presidente del Consiglio, ancorché
dimissionario, rimane in carica per il disbrigo degli affari di corrente amministrazioni fino alla nomina del nuovo Governo. Nel testo costituzionale manca un’esplicita
disciplina della questione di fiducia, cioè della possibilità per il Governo di chiedere la fiducia su un proprio provvedimento all'una o all'altra Camera: è disciplinata la
mozione di fiducia nella fase genetica del Governo, mentre non è disciplinata la questione di fiducia che il Governo possa di volta in volta porre su un proprio
provvedimento. In realtà, ragionando sistematicamente, ci si rende conto che, esistendo un voto di fiducia iniziale su una mozione, esistendo una possibilità della
mozione di sfiducia ed esistendo altresì quel principio che abbiamo visto, cioè che il voto contrario non comporta obbligo di dimissioni del Governo, la possibilità per il
Governo di porre la questione di fiducia deriva da una costruzione sistematica dei rapporti tra Parlamento e Governo. La disciplina della questione di fiducia è posta
direttamente nei regolamenti parlamentari, in maniera analoga alla disciplina della questione di sfiducia, ma è posta non già in Costituzione bensì nei regolamenti
parlamentari. In particolare, la disciplina più compiuta la si trova nell'articolo 116 del regolamento della Camera.

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CAPITOLO 13 – La composizione del Governo & la Pubblica Amministrazione
(principi e organizzazione)

Il Governo della Repubblica


L'articolo 92 della Costituzione 1° comma costruisce il Governo come un organo complesso; ci dice infatti che “il Governo della Repubblica è composto del Presidente del
Consiglio e dei ministri che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri”. Quindi il Governo è un organo complesso composto da Presidente del Consiglio, ministri e
Consiglio dei ministri, che sono definiti organi necessari del Governo. Il problema più delicato della vicenda costituzionale italiana è quella di definire il rapporto fra
questi tre organi. Nella tradizione costituzionale italiana il Presidente del Consiglio dei ministri non è in una forte posizione di supremazia rispetto agli altri ministri (come
è invece nella tradizione tedesca del cancellierato o come nella tradizione britannica della premiership del 1° ministro). La Costituzione, all'articolo 95, prevede che “il
Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile, mantiene l'unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando
l'attività dei ministri. La formulazione costituzionale permette in realtà un’ampia gamma di possibilità nel rapporto fra Presidente del Consiglio, Consiglio dei ministri e
ministri; la concreta attuazione di questa ampia possibilità e poi è stata data dalle vicende politico istituzionali: nei governi di coalizione, sulla base di sistemi elettorali
proporzionali, era evidente che i poteri del Presidente del Consiglio dei ministri non fossero così pervasivi e forti nei confronti dei ministri; nei governi, anch'essi di
coalizione, ma basati su meccanismi di investitura del Capo della coalizione, come avvenuto nelle elezioni dal 1994 in poi, i poteri del Presidente del Consiglio si sono
rafforzati. La definizione normativa dei poteri del Presidente del Consiglio è data da una legge, la n.400 dello ’88, che cerca di rafforzare i poteri del Presidente. Il dato di
fondo però è che la fiducia intercorre fra il Governo nel suo complesso e il Parlamento (cioè la fiducia non viene data al solo Presidente del Consiglio); l'altro dato di
fondo che limita i poteri del Presidente nei confronti del Consiglio dei ministri è che il Presidente del Consiglio non gode, secondo la ormai definita prassi costituzionale
avallata anche da una sentenza della corte, di un vero e proprio potere di revoca dei ministri. Eventualmente si potrà procedere ad una sfiducia individuale del
Parlamento nei confronti del ministro, che permetterà al Presidente di revocare il ministro che sia uscito dalla linea politica coordinata con il Presidente del Consiglio.
Questi sono un po’ due problemi forti della nostra organizzazione costituzionale: non è un caso che tutti i tentativi di riforme costituzionali abbiano cercato di rafforzare
il ruolo del Presidente del Consiglio non solo rispetto al Parlamento quanto soprattutto rispetto alla sua compagine governativa.

I ministri, ai sensi dell'articolo 95 2 °comma, “sono responsabili collegialmente degli atti dei ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Le attribuzioni del
Consiglio dei ministri sono definite specificamente nell'articolo 2 della legge n.400 del 1988. Affianco agli organi necessari del Governo, così come si ricavano dall'articolo
92 1° comma, la prassi poi stabilizzata nella legge n.400 del 1988 e successivamente ancora nel d.lgs. 300 del ’99, ha previsto una serie ulteriori di organi che vengono
definiti non necessari: il 1° organo non necessario di tipo collegiale è il cd. Consiglio di gabinetto che è previsto dalla n.400 del 1988 (organo non solo necessario ma
anche eventuale nel senso che in molti casi non viene istituito,) ai sensi della legge 400 del 1988, “la funzione del Consiglio dei gabinetti” dice l'articolo 6 “è che il
Presidente del Consiglio, nello svolgimento delle funzioni previste all'articolo 95, può essere coadiuvato da un Comitato, che prende nome di Consiglio di gabinetto ed è
composto da ministri da lui designati, sentito il Consiglio dei ministri”. In alcune vicende governative, il Consiglio di gabinetto era un po’ una Camera di compensione
rispetto alla coalizione ed era un luogo interno al Governo in cui la coalizione di maggioranza ritrovava il proprio equilibrio prima di procedere (prima di andare in
Consiglio dei ministri); ma è un'esperienza che non è stata poi alla fine frequentissima nella vicenda costituzionale italiana. Altri organi non necessari sono i comitati di
Ministri e i comitati interministeriale, che possono essere di due tipi: quelli istituiti per legge (la legge ne fissa composizione e competenza) e quelli istituiti con decreto
del Consiglio dei ministri. Vi sono poi una serie di altre sotto-distinzioni. Il problema fondamentale dei comitati di ministri e dei comitati interministeriali è dato dal fatto
che occorre individuare un momento collegiale di fronte ai due fenomeni del grande aumento dei compiti delle amministrazioni pubbliche e dell'intreccio di competenze
fra diversi ministri. Proseguendo questa carrellata di organi non necessari del Governo, sempre la 400 del 1988 prevede i Vicepresidenti o il Vicepresidente del Consiglio
dei ministri. Il Presidente del Consiglio, ai sensi dell'articolo 8, “può proporre al Consiglio l'attribuzione a uno più ministri delle funzioni di vicepresidente del Consiglio dei
ministri”. In realtà è un organo chiaramente non necessario, tant'è che lo stesso articolo 8 ci ricorda (perché è un principio generale) che qualora non vi sia un
vicepresidente “in caso di assenza o di impedimento temporaneo del Presidente del Consiglio, la supplenza spetta al ministro più anziano”. Quindi è una funzione che
ben può essere assolta anche senza la funzione di presidenza supplente del Consiglio dei ministri; ben può essere assolta anche nel caso di assenza del vicepresidente.
Qual è la ratio della istituzione di vicepresidenti del Consiglio? È quella di compensare in qualche maniera il diverso peso e la diversa organizzazione delle forze politiche.
In alcuni casi l'attribuzione ad un personaggio politico della vicepresidenza del Consiglio serve per esempio a rimarcare che una forza politica è la forza politica principale
della coalizione; ovvero, nel caso in cui Presidente del Consiglio sia una persona che non proviene dal partito più forte della coalizione, serve a rimarcare la collocazione
del partito più forte. In realtà l'istituzione di vicepresidente del Consiglio non è una necessità funzionale ma risponde ad una necessità politica di equilibrio della
coalizione. Altra figura non necessaria è quella dei ministri senza portafoglio. Si intendono con ministri però senza portafoglio quei ministri i quali hanno sì una funzione
politica e partecipano al Consiglio dei ministri, ma non hanno un proprio dicastero e, normalmente, gli vengono attribuite funzioni su delega della presidenza del
Consiglio (cioè svolgono funzioni che altrimenti spetterebbero al Presidente del Consiglio). La loro dizione appunto in questi casi è di “ministri senza portafoglio”. Per fare
un esempio: il ministro degli affari regionali è un ministro senza portafoglio perché svolge funzioni delegate dal Presidente del Consiglio dei ministri e che altrimenti
spetterebbero alla presidenza. Altra figura, questa introdotta però dalla legge dal d.lgs. 300 del ‘99 è quella dei Viceministri: si tratta si tratta di sottosegretari, ai quali
vengono attribuite delle deleghe permanenti e non delle deleghe ad hoc dal ministro. Le deleghe sono relative all'intera area di competenza e il numero dei viceministri
non può essere, sensi della legge 300 del ’99, superiore a 10 membri. I sottosegretari (si tratta di una vecchia figura dell'organizzazione costituzionale disciplinata poi
definitivamente dalla legge 400 del 1988) coadiuvano il ministro o il Presidente del Consiglio ed esercitano compiti che il ministro o il Presidente del Consiglio, di volta in
volta, delega loro con un provvedimento revocabile da parte del singolo ministro mediante un provvedimento pubblicato in Gazzetta ufficiale. Sono ancora organi
eventuali non necessari del Governo i commissari straordinari, che vengono nominati con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del
Consiglio e previa delibera del Consiglio dei ministri; vengono nominati al fine di realizzare determinati obiettivi in relazione a programmi e indirizzi stabiliti dal Governo o
dal Parlamento. Per fare un esempio: negli anni del Giubileo il sindaco di Roma fu nominato commissario straordinario del Governo proprio per realizzare tutte le opere e
coordinare tutte le attività necessarie, al fine della riuscita dell'evento giubilare a Roma. Il vero problema della nostra vicenda costituzionale sotto il profilo del Governo è
quello in realtà degli strumenti in Capo al Presidente del Consiglio per attuare l'articolo 95 della Costituzione, cioè per dirigere la politica generale del Governo, per
mantenere l'unità di indirizzo politico-amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri come specificamente recita l'articolo 95.

La Presidenza del Consiglio


Sempre l'articolo 95, al comma 3, prevede che sia proprio la legge a provvedere all'ordinamento della presidenza del Consiglio: proprio per assicurare al Presidente del
Consiglio gli strumenti per attuare i compiti che a lui sono commessi dall’articolo 95 1° comma. Dopo una lunga fase in cui in realtà questa normativa sulla presidenza del
Consiglio non vi è stata e si continuava a utilizzare i testi precedenti alla Costituzione Repubblicana, i due interventi normativi sono stati quelli della legge 400 del 1988 e
poi, successivamente, il decreto legislativo n.303 del ‘99 che ha riorganizzato la struttura interna della presidenza del Consiglio articolandola nel segretariato generale e
nei dipartimenti che sono uffici che svolgono le particolari funzioni della presidenza del Consiglio. Si ricorda il “dipartimento per gli affari giuridici e legislativi”, il cd.
DAGL; “il dipartimento nazionale per le politiche antidroga”; “l’organizzazione relativa ai rapporti con le autonomie”; “l'organizzazione relativa alla partecipazione
all'Unione europea” … Tutte articolazioni che prevede il d.lgs. 300 del ’99.

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I Ministeri

Come abbiamo visto, l'articolo 95 comma 3, prevede anche che sia la legge a determinare il numero, l'attribuzione e l'organizzazione dei ministeri. La storia dei ministeri
italiani è una storia articolata, complicata: molti erano i ministeri che risalivano naturalmente al periodo immediatamente dopo l'unità. Ma poi i ministeri sono di volta in
volta sorti sulla base delle esigenze politiche o sociali o organizzative del momento, spesso non rispettando la riserva di legge. Esempio: l'istituzione del Ministero dei
beni culturali, che poi è diventato centrale nelle politiche legislative governative italiane, avvenne con un decreto-legge, cioè con un atto di cui la Costituzione
presuppone l'utilizzo nei soli casi straordinari di necessità e di urgenza: eppure il Ministero dei beni culturali fu negli anni Settanta istituito con questo tipo di atto.
Recentemente vi è stato un intervento che ha provveduto alla riforma e alla riorganizzazione dei ministeri ed è il decreto legislativo 300 del 1999, che ha riorganizzato i
Ministeri, prevedendone il numero e disciplinandone l'organizzazione interna. Sulla base del d.lgs. 300 del ’99, i ministeri sono 14; anche se ne è sempre possibile una
riorganizzazione, dato che il d.lgs. 300 del ’99 è atto con forza di legge (quindi una legge o un atto con forza di legge ben potrebbe modificare questa organizzazione che
adesso rapidamente si richiama). I ministeri quindi sono 14: affari esteri; interno; giustizia; difesa; economia e finanze; attività produttive; comunicazioni; politiche
agricole e forestali; ambiente e tutela del territorio; infrastrutture e trasporti; lavoro e politiche sociali; salute; istruzione, università e ricerca; beni e attività culturali.
Questi sono i ministeri con portafoglio, cioè i ministeri che hanno un'organizzazione dicasteriale, e siamo di fronte ad un restringimento del numero dei ministeri rispetto
alla precedente prassi politica costituzionale italiana, che ha dimostrato vantaggi e svantaggi: il grande vantaggio è stato quello di un accorpamento delle politiche in
Capo ad un solo soggetto; lo svantaggio è stato quello talvolta di aver creato ministri con un peso molto forte all'interno della compagine governativa. L'esempio più
classico è quello del Ministero dell'economia e delle finanze che ha raccolto in sé l'eredità di ben 3 i ministeri: il Ministero del tesoro, il Ministero delle finanze e il
Ministero del bilancio, facendo del ministro dell'economia e delle finanze un soggetto molto forte all'interno della compagine governativa. Affianco ai 14 ministeri al cui
Capo vi è un ministro, del Consiglio dei ministri fanno parte anche i ministri senza portafoglio (ministri che hanno una delega da parte del Presidente del Consiglio).
Sempre il d.lgs. 300 del ‘99 ha disciplinato l'organizzazione interna dei ministeri prevedendone l’articolazione in dipartimenti o in direzioni generali. Sempre nei profili
organizzativi vi ricordo le agenzie che sono strutture operative di dicasteri che svolgono attività di carattere tecnico; fra queste, per esempio, l'agenzia per l'ambiente, cui
sono delegati una serie di compiti di carattere tecnico-operativo, che vengono svolti in funzione della politica dell'ambiente e del territorio.

I principi costituzionali sulla Pubblica Amministrazione


Da tenere presente che quando si parla di questi principi costituzionali ci si riferisce al complesso della Pubblica Amministrazione, quindi non solo alle amministrazioni
statali, ma anche alle amministrazioni regionali, locali, degli enti pubblici, degli enti funzionali eccetera. Il 1° principio è il principio di legalità: non è esplicitamente scritto
nel testo della Costituzione ma si ricava implicitamente dall'adesione del nostro testo costituzionale al principio generale della divisione dei poteri e implicitamente da
alcune da alcune ulteriori disposizioni costituzionali. Questo principio ha diversi gradi: in senso più debole vuol dire che le attività e gli atti della Pubblica Amministrazione
non devono contraddire ciò che è fissato dalla legge (quindi un principio di non contraddittorietà o di preferenza della legge). Poi il principio di legalità può essere inteso
anche nel senso per cui ogni potere amministrativo deve trovare fondamento nella legge: questo è il principio cd. di legalità formale → una legge deve attribuire il potere
all’autorità amministrativa; e può essere intesa altresì come principio legalità in senso sostanziale, nel senso che la legge non solo deve attribuire il potere ma deve
altresì indicare le finalità per cui quel potere amministrativo deve essere esercitato. Il principio di legalità si intreccia con la riserva di legge che, come abbiamo visto nelle
precedenti lezioni, può essere inteso in senso assoluto o in senso relativo. In senso assoluto quando la legge deve non solo dare, fornire, attribuire il potere ma anche
indicare gli obiettivi rispetto ai quali il potere deve essere esercitato. In senso relativo quando la legge può limitarsi a indicare i principi generali dell'azione
amministrativa. Dall'articolo 97 della Costituzione poi richiamiamo i principi dell'imparzialità e del buon andamento. Ci dice l'articolo 97 della Costituzione “i pubblici
uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione”. Il principio del buon
andamento lo possiamo intendere come un principio di efficienza, ossia come un principio che vuole che venga verificato il rapporto fra risultati conseguiti e risorse
impiegate e come principio di efficacia vale a dire la verifica del rapporto fra risultati conseguiti e gli obiettivi prefissati. Nell'articolo 97, trova poi una sua collocazione
particolare il principio di imparzialità: questo principio vieta alla Pubblica Amministrazione di effettuare discriminazioni fra i soggetti coinvolti nella sua attività;
discriminazioni che non siano rette da una giustificazione razionale rispetto agli obiettivi perseguiti dal potere che è stato attribuito alla Pubblica Amministrazione.
Questo principio si applica sia all'organizzazione che all'attività amministrativa. È da ricordare che, collegati al principio di imparzialità, sono numerosi altri principi
costituzionali. In particolare l'articolo 97, lì dove richiede e impone che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si acceda mediante concorso, salvo i casi stabiliti
dalla legge, deriva dal principio di imparzialità; così come attuazione e collegamento con il principio di imparzialità sono le prescrizioni dell'articolo 98 della Costituzione,
che prevedono che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione” e prevedono altresì nel 2° comma una norma secondo la quale “si possono con legge
stabilire limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici
e consolari all'estero”. Cioè rafforza così tanto il principio di imparzialità da prevedere, in nome del principio di imparzialità, una limitazione di un altro diritto
costituzionalmente garantito, quale quello della associazione in partiti politici; e fa ciò in nome del principio di imparzialità. Un altro principio costituzionale dell'operato
della Pubblica Amministrazione è il principio di trasparenza: è necessario che l'attività della Pubblica Amministrazione non nasconda e non protegga fattispecie
illegittime; pertanto l’attività dell'amministrazione non può, a meno che ciò non sia richiesto per particolarissime situazioni, svolgersi se non nella massima trasparenza.
Alcuni istituti previsti da leggi successive sono espressione del principio di trasparenza: la pubblicità degli atti, il principio di motivazione degli atti (che ritroviamo anche
in Costituzione), il diritto di accesso ai documenti amministrativi (disciplinato dalla legge 241 del ‘90 e delle successive modificazioni), le attività di informazione e
comunicazione della P.A. così come regolate dalla legge 150 del 2000. Costituiscono invece un limite al principio della trasparenza, la tutela della riservatezza e il segreto
di stato. Un altro principio costituzionale è il principio di azionabilità delle situazioni giuridiche nei confronti della Pubblica Amministrazione: lo troviamo espresso
chiaramente nell'articolo 24 della Costituzione, ai sensi del quale, “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri interessi, diritti ed interessi legittimi”; e questo
principio è collegato all'altro principio della sindacabilità dell'azione amministrativa, ai sensi dell'articolo 113 della Costituzione, che prevede che “contro gli atti della
Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi davanti agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa”.
Questi due principi presuppongono la distinzione fra diritto soggettivo e interesse legittimo. Un ulteriore principio costituzionale che ricaviamo dall'articolo 28 della
Costituzione è quello della responsabilità personale dei funzionari pubblici: ad evitare che si creino margini e luoghi di immunità dei funzionari statali e dei funzionari
pubblici la Costituzione dice specificamente che “i funzionari e dipendenti dello stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e
amministrativi degli atti compiuti in violazione dei diritti; prevedendo comunque che in questi casi la responsabilità civile del funzionario non escluda la responsabilità
dello stato, ma si estenda allo stato e agli enti pubblici. Quindi, quando siamo di fronte ad atti compiuti in violazione dei diritti, ne sono responsabili sia il funzionario che
ha agito sia direttamente lo stato o l'ente pubblico in relazione al quale si è costituito un rapporto organico fra il funzionario e appunto l’ente. La Costituzione contiene
poi un principio importantissimo all'articolo 5 (fra i primi articoli sui principi fondamentali) ed è il principio del decentramento amministrativo. Si dice infatti che “la
Repubblica è una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali” ma soprattutto, quello che ci interessa in questo momento “la Repubblica attua nei servizi che
dipendono dallo stato il più ampio decentramento amministrativo ed adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del
decentramento”. È un principio organizzativo generale che poi ha trovato sostanza in una recente riforma della Costituzione, quando con la legge costituzionale 3 2001 è
stato modificato l'articolo 118 della Costituzione, introducendo specificamente come principi per il riparto delle funzioni amministrative fra stato, Regioni, province, città
metropolitane e comuni i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, che sono considerati come i principi sulla cui base si deve articolare la distribuzione
delle funzioni amministrative. Secondo il principio di sussidiarietà, le funzioni amministrative devono essere svolte, sulla base dell'articolo 118 1° comma della
Costituzione, in linea di principio dai comuni; e ciò in attuazione del principio di sussidiarietà, che vuole che le funzioni siano svolte dal livello di Governo più vicino agli
interessi coinvolti; e che venga portato più su l'esercizio di questa funzione solo quando l'ente immediatamente coinvolto negli interessi dei cittadini non riesce a
svolgere in maniera adeguata questa funzione ovvero quando è necessario l'esercizio unitario. Principio di sussidiarietà: le funzioni vengono svolte dal livello più basso, a
meno che non sia necessario portarle su in ragione di uno svolgimento adeguato ed unitario. Da tenere presente poi che, sulla base di una sentenza della Corte
costituzionale, la 303 del 2003, il principio di sussidiarietà, nato in Costituzione come principio di sussidiarietà rivolto alle funzioni amministrative, si applica secondo la
Corte anche alla potestà legislativa. Il principio di adeguatezza deve essere letto, anch'esso, in relazione al principio di sussidiarietà e fa riferimento alla capacità, sia in

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termini di risorse finanziarie e umane sia in termini di unitarietà della funzione, alla capacità dell'ente prescelto di svolgere una determinata funzione. L’ente a cui viene
attribuito a quella funzione deve essere in grado di svolgerla in maniera adeguata: questo è un criterio di scelta e la scelta è a quale soggetto debba essere attribuita la
funzione. Il 3° principio, quello della differenziazione, parte dalla osservazione fattuale, da cui deriva che nel campo degli 8.400 comuni italiani vi possono essere comuni
grandi e comuni piccoli e che non tutte le entità locali base sono in grado di svolgere nella stessa maniera lo stesso grado di funzioni: le funzioni che vengono attribuite a
una città di 100.000 abitanti non sarà in grado di svolgerle probabilmente un piccolo covi comune di 5.000 abitanti. Quindi sussidiarietà e adeguatezza ma anche
differenziando la locazione delle funzioni in funzione delle caratteristiche oggettive degli enti interessati. Questo principio nella realtà italiana caratterizzata dalla
presenza di oltre 8mila comuni di dimensioni diversissime è un principio di particolare importanza.

L’organizzazione della Pubblica Amministrazione


Per quanto riguarda l'organizzazione della Pubblica Amministrazione viene in considerazione il rapporto fra principio democratico e Pubblica Amministrazione. L’ attività
amministrativa, ai sensi degli articoli 95 e 121 della Costituzione, deve far Capo ad organi politici che a loro volta rispondono agli organi che rappresentano la volontà
popolare. Questo lo ricaviamo dagli articoli 90 e 121; ma questo principio è un principio di difficile attuazione e soprattutto difficile equilibrio, in quanto è vero che la
Pubblica Amministrazione deve avere un rapporto con il principio democratico, ma sono anche veri quei principi di imparzialità, buon andamento e trasparenza, per cui
noi dobbiamo continuamente saper conciliare il rapporto fra Pubblica Amministrazione e principio democratico con un’idea di separatezza tra politica e amministrazione.
Sempre per quanto riguarda l'organizzazione della Pubblica Amministrazione viene in rilievo la distinzione fra organi e uffici. La nozione di organo e una nozione
difficilissima su cui la dottrina ha discusso sempre. Possiamo accogliere in questa sede una definizione secondo cui l'organo è un ufficio qualificato da una norma come
idoneo esprimere la volontà della persona giuridica e a imputarle l'atto e i relativi effetti. Gli organi poi andranno distinti secondo una pluralità di distinzioni: vengono in
rilievo distinzioni sulla base della struttura (organi monocratici/collegiali/complessi); sulla base della funzione (organi attivi/organi consultivi/organi di controllo); sulla
base della competenza territoriale (centrale/regionale/locale). Diversamente dagli organi, che sono parte dell'ente, gli uffici sono un'unità organizzativa di un apparato
amministrativo e possono svolgere la loro funzione sia solamente verso l'interno dell'amministrazione sia anche attività rilevanti verso l'esterno (in questo caso si parla di
ufficio organi). Ultima nazione relativamente agli organi che viene in considerazione è quella degli organi ausiliari che trovano una particolare disciplina in Costituzione,
che all'articolo 100 disciplina specificamente il Consiglio di stato e la Corte dei conti come organi che hanno anche funzioni giudiziarie ma hanno anche funzioni
consultive nei confronti del Parlamento del Governo e, infine, all'articolo 99 il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro che è appunto organo di consulenza delle
Camere del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Nell'organizzazione della Pubblica Amministrazione hanno un ruolo
particolare le autorità amministrative indipendenti.

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CAPITOLO 14 - ATTI CON FORZA DI LEGGE

Nozione di forza di legge


Che cosa intendiamo con forza di legge? Dobbiamo sottolineare che nel testo della Costituzione si parla talvolta di forza di legge, talaltra di valore di legge: ad esempio
nell'articolo 77 si dice che il Governo non può senza delegazione emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Nell'articolo 134 della Costituzione si dice che “la
Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello stato e delle Regioni”. Allora noi
siamo di fronte ad un uso talvolta della parola forza, talaltra della parola valore. Una prima tesi dice che in Costituzione i termini “forza” e “valore” sono usati in maniera
indifferenziata. Un'altra tesi che risale alle elaborazioni di Aldo Sandulli sottolinea invece una diversità fra la nozione di forza di legge e la nozione di valore di legge: per
cui la forza di legge indicherebbe la collocazione dell'atto nella scala gerarchica delle fonti [le fonti del diritto sono ordinate almeno in linea di prima approssimazione
secondo una scala gerarchica: fonti di rango più elevato, poi fonti subordinate, ulteriormente subordinate e scendendo per una scala. Si parla di scala gerarchica delle
fonti]. Il termine “forza” indicherebbe dunque la collocazione dell'atto in questa scala il termine “valore” di legge indicherebbe il modo con cui quell’atto è trattato
dall'ordinamento. Per esempio, può essere annullato solo dalla Corte costituzionale; può essere o non può essere sottoposto al referendum e via di questo passo. Questa
distinzione fra “forza” e “valore” di legge, per cui la forza indica la collocazione dell'atto nel sistema delle fonti e il valore indica il trattamento dell'atto da parte
dell'ordinamento continui ad avere una sua validità e continui ad avere una sua utilità. Distinguiamo allora tra forza di legge attiva e forza di legge passiva. Con la nozione
di forza di legge attiva ci riferiamo alla capacità della legge o di quell'atto di abrogare o modificare fonti di rango equiparato alla legge o eventualmente subordinate ad
essa: quindi hanno forza di legge, sotto un profilo attivo, solamente quelle fonti che sono in grado di abrogare/modificare leggi o atti equiparati alla legge. Hanno invece
forza di legge passiva quelle fonti che sono capaci di resistere all’ abrogazione da parte di fonti subordinate. Quindi la forza di legge attiva è la capacità di innovare
nell'ordinamento al livello della legge; la forza di legge passiva è la capacità di resistere all’ innovazione da parte di fonti che non siano ad esse equiparate. Questi
concetti di forza di legge attiva e passiva pongono dei problemi nel momento in cui l’ordinamento si complica e il sistema delle fonti si differenzia (come abbiamo visto
qualche lezione precedente quando abbiamo introdotto il criterio della competenza per disciplinare i rapporti fra le fonti) dato che noi possiamo avere fonti che hanno
un rapporto con la legge di totale separazione: noi possiamo avere delle fonti, le quali mai potranno intervenire in un ambito disciplinato dalla legge e, a loro volta, mai
potranno essere modificate dalla legge. L'esempio più tipico di una fonte avente queste caratteristiche sono i regolamenti parlamentari, vale a dire i regolamenti e gli atti
disciplinati dall'articolo 64 della Costituzione con cui le due Camere (Camera e Senato) disciplinano la propria attività e organizzazione interna. Dalla Costituzione si ricava
che mai una legge potrà intervenire in un ambito disciplinato dal regolamento parlamentare e, a sua volta, i regolamenti parlamentari mai potranno intervenire in ambiti
disciplinari dalla legge: fra queste due fonti vi è un rapporto totale di separazione. Gli ambiti competenziali dell'una e dell'altra fonte sono totalmente differenziati. Allora
il problema che ci si è posto è: ma questi anni hanno forza di legge o no? Perché intervengono nell'ordinamento ad un livello che è equiparato alla legge; e la legge non
potrà mai intervenire su di essi. Sono state date due risposte a questa domanda. Una tesi ritiene che abbiano forza di legge tutti gli atti che sono immediatamente
subordinati alla Costituzione. Quando io cioè sono di fronte a un atto che, nel sistema delle fonti, vede collocato sopra di esso solamente la Costituzione in tutti questi
casi questi atti che sono immediatamente subordinati alla sola Costituzione hanno di per sé forza di legge. Secondo questa tesi avrebbero dunque forza di legge tutte le
fonti che godono del carattere della primarietà vale a dire della sola subordinazione alla Costituzione. Quella tesi fu è stata elaborata in particolare da Vezio Crisafulli e,
secondo questa tesi, i regolamenti parlamentari avrebbero forza di legge perché godono della primarietà nel sistema delle fonti e sono subordinate alla sola
Costituzione. L'altra tesi invece è quella secondo la quale la forza di legge caratterizza il rapporto fra legge ed altri atti. Secondo questa tesi, il cui autore fu soprattutto
Sandulli, i regolamenti parlamentari per definizione non hanno forza di legge, proprio perché mai si incroceranno con la legge. Dall’ avere o non avere forza di legge, sulla
base dell'articolo 134, deriva la sottoponibilità dell'atto al giudizio della Corte costituzionale, perché la Corte costituzionale “giudica sulle controversie relative alla
legittimità costituzionale degli atti aventi forza di legge”. Quindi è un requisito importante questo della forza di legge. Finora la Corte costituzionale ha sempre ritenuto
che i regolamenti parlamentari non fossero sottoponibili al suo giudizio. Su questo punto la posizione della Corte è un po’ ambigua perché la Corte non ha mai chiarito
esplicitamente se abbiano o meno forza di legge giacché ha elaborato la tesi della non sottoponibilità dei regolamenti parlamentari al sindacato della Corte costituzionale
prendendo le mosse soprattutto dal carattere di autonomia guarentigiata (garantita) che hanno i regolamenti parlamentari. Sembrerebbe però di poter cogliere nella
Giurisprudenza della Corte una preferenza verso la tesi secondo cui i regolamenti parlamentari hanno sì carattere primario ma non forza di legge. Questo tema della
forza di legge ci introduce ad un altro tema: quello delle fonti atipiche e delle fonti rinforzate. Per fonti atipiche, e in particolare per leggi atipiche, che si intendono
quelle fonti e in particolari quelle leggi che, pur appartenendo alla tipologia legge, pur essendo riconducibile all'atto l'atto legislativo, hanno però una efficacia, una forza
diversa da quella del tipo a cui appartengono. Quindi l’atipicità consiste nella dissociazione fra tipo di fonte e forza di questa stessa fonte: sono atipiche quindi tutti
quegli atti che pur appartenendo al tipo legge hanno una forza attiva o passiva diversa da quella della legge. Per esempio, le leggi che non possono essere sottoposte al
referendum sensi dell'articolo 75 della Costituzione hanno una forza passiva diversa da quella del tipo legge. Tutte le leggi che non possono essere modificate da una
legge “normale” ordinaria hanno una forza attiva superiore. Per esempio, le leggi di esecuzione dei trattati lateranensi e le modificazioni; le leggi di esecuzione dei
trattati non possono essere modificate da altre leggi: hanno una forza attiva maggiore e diversa. Per fonti rinforzate, in particolare per legge rinforzate, si intendono
invece quelle leggi che hanno un elemento procedimentale ulteriore: il cui procedimento non è quindi il procedimento tipico di formazione della legge ma su quel
procedimento si è introdotto un elemento in più (un parere, una consultazione, un accordo, un'intesa). Le leggi per esempio di accordi con la chiesa cattolica o le leggi
che disciplinano le intese con la confessione cattolica sono le leggi che prevedono un elemento procedimentale in più che s’ introduce nel procedimento: queste sono le
cd. leggi rinforzate. A ben vedere, le leggi rinforzate sono anche atipiche perché hanno una forza diversa da quella del tipo legge a cui appartengono giacché non
potranno che essere modificate da una legge che abbia quell'elemento procedimentale ulteriore.

Andiamo a vedere i principali atti aventi forza di legge

Decreto-legge (d.l.)
Il decreto-legge è disciplinato dall'articolo 77 della Costituzione. Soggetto titolare del potere è il Governo inteso come Consiglio dei ministri. Quindi i decreti-legge sono
adottati dal Governo e poi emanati dal Presidente della Repubblica. Presupposto del decreto-legge, ai sensi dell'articolo 77 comma 2 della Costituzione, sono i casi
straordinari di necessità e di urgenza. Questo particolare atto avente forza di legge denominato decreto-legge può essere adottato dal Governo solo in casi straordinari di
necessità e urgenza. Qui si è andati, rispetto alla previsione costituzionale che sembra molto rigida (“casi straordinari di necessità ed urgenza”) verso una modifica dell’
interpretazione costituzionale: dall'idea rigorosa del costituente che presupponeva appunto casi straordinari di necessità ed urgenza, pensando quindi a situazioni di
emergenza non controllabili con altri tipi di atti, la prassi costituzionale ha voluto che il decreto-legge lo si adotti in realtà anche in situazioni in cui manca sia la
straordinarietà sia necessità sia talvolta anche l'urgenza [ovvero che l'urgenza venga definita “politicamente”: per esempio, abbiamo avuto nella vicenda istituzionale
italiana, ministeri istituiti con decreto-legge. Ora, l'istituzione del Ministero è una cosa che vorrebbe stabilità, riflessione: non è straordinaria e non vi è questo requisito
dell'urgenza. Può essere necessaria l'istituzione di un nuovo Ministero, ma non è un urgente così come la Costituzione lascerebbe pensare]. La caratteristica
fondamentale del decreto-legge secondo la Costituzione è quella di essere “provvedimenti provvisori con forza di legge”. La Costituzione attribuisce forza di legge al
decreto-legge, ma lo definisce, da un punto di vista contenutistico, come un atto che deve contenere provvedimenti e misure concrete caratterizzate dalla provvisorietà.
Anche qui la prassi costituzionale è andata in un altro senso (esempio di prima dell’istituzione con decreto-legge di un Ministero o la riforma con decreto-legge, per
esempio, della disciplina della Corte dei conti o di altre discipline di particolare ampiezza). La fondamentale caratteristica poi del decreto-legge è quella che il decreto-
legge dev’essere convertito in legge entro 60 giorni dalla sua adozione e dalla sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Quindi è un provvedimento del Governo
emanato in casi di straordinaria necessità ed urgenza, che dovrebbe avere un contenuto provvisorio, che deve essere convertito in legge entro 60 giorni. Se il decreto-
legge non viene convertito entro 60 giorni, quindi se il testo del decreto-legge non viene approvato dalle due Camere sulla base di questa legge di conversione nel
termine di 60 giorni dalla pubblicazione in gazzetta, il decreto-legge decade ex tunc: decade sin dal momento della sua emanazione. La disciplina dettata dal decreto-
legge è come se non fosse mai esistita (tamquam non esset). Quindi si tratta di una conseguenza drastica: io disciplino qualcosa con un decreto-legge; questo decreto-
legge non viene convertito in legge; se non viene convertito in legge è come se non fosse mai esistito. I rapporti che si sono svolti sulla base della disciplina del decreto-
legge vengono totalmente travolti dalla mancata conversione. La Costituzione si rende conto della gravità di questa conseguenza e prevede all'ultimo comma
dell'articolo 77 che “le Camere possano regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti” cioè il decreto viene emanato; sorgono dei rapporti sulla

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base di questo decreto; poi il decreto non viene convertito: le Camere possono intervenire disciplinando il rapporto. L'esempio più classico è il decreto-legge con cui si
provvede all'aumento di un prezzo disciplinato con norme di diritto pubblico (quando era regolato il prezzo della benzina per legge il classico esempio era l'aumento
della benzina con un decreto-legge; il decreto-legge non viene convertito; per disciplinare i rapporti sorti sulla base del decreto-legge non convertito le Camere dicono
che rimangono fermi gli effetti del decreto-legge nonostante la mancata conversione. In questo caso vorrebbe dire che i soldi in più pagati per la benzina non vengono
restituiti indietro; altrimenti l'effetto del decreto-legge non convertito sarebbe quello dell'obbligo di restituzione dei soldi in più con cui si è pagata la benzina, il cui
prezzo era stato aumentato con un decreto-legge). In una lunga fase della storia costituzionale italiana è successo che i decreti-legge venivano adottati dal Governo,
emanati dal Presidente della Repubblica, presentati in Parlamento e poi non convertiti; allora la prassi, per una lunga fase della storia costituzionale italiana, era quella di
reiterare il decreto: lo stesso decreto-legge con qualche modifica (magari con le modifiche introdotte nel testo da una delle due Camere veniva ripresentato); e via di
questo passo. Il record della reiterazione dei decreti-legge è un decreto-legge che fu reiterato per ben 26 volte; vale a dire che, per la bellezza di 52 mesi, si andò avanti
con un decreto-legge che veniva presentato e decadeva, veniva presentato e decadeva, veniva presentato e decadeva; fino alla ventiseiesima volta con una incertezza
dei rapporti giuridici assai grave. Bene questa prassi, che aveva come effetto una grave incertezza dei rapporti giuridici, era sempre stata ritenuta contraria alla
Costituzione: si dovrebbe ritenere che non si possa reiterare il decreto-legge, cioè che il decreto-legge una volta può essere adottato e, se non viene convertito, sono
solo le Camere che possono disciplinare i rapporti derivanti dalla mancata conversione. La Corte costituzionale è arrivata a questa conclusione con la sentenza 360 del
1996. Con questa sentenza la Corte costituzionale ha vietato la reiterazione dei decreti-legge. Quindi il decreto-legge adottato, emanato e poi non convertito, non può
più essere ripresentato; da quella sentenza della Corte costituzionale in poi la prassi della reiterazione dei decreti-legge si è finalmente fermata.

Decreto legislativo delegato (d.lgs.)


L'altro atto principale avente forza di legge è il decreto legislativo delegato, disciplinato dall'articolo 76 della Costituzione. Il decreto legislativo delegato è un atto con
forza di legge che interviene sulla base di una delega legislativa data dal Parlamento al Governo (destinatario della delega è di nuovo il Governo) con legge ordinaria.
Mentre nel 1° caso che abbiamo visto, quello dei decreti-legge, il Governo adotta atti con forza di legge, sulla base del presupposto della straordinaria necessità ed
urgenza, e poi l'atto viene convertito in legge; nel caso della delega legislativa lo schema è inverso: è il partito che delega al Governo l'esercizio della funzione legislativa;
e questa delega al Governo viene data con legge. È una legge ordinaria l'atto con cui il Parlamento delega il Governo. Da un punto di vista procedimentale, la legge di
delega è una legge che non può essere adottata dalle Commissioni parlamentari: è necessaria la procedura ordinaria di approvazione della legge con le Commissioni in
sede referente e poi la approvazione da parte dell'aula. La procedura con le Commissioni in sede deliberante è proibita per le leggi di delegazione legislativa dall’articolo
72 della Costituzione. La legge di delega poi, ai sensi dell'articolo 76 della Costituzione, deve avere necessariamente dei contenuti: deve contenere un oggetto (la
Costituzione richiede la presenza di oggetti definiti) [qui vi è una discrasia, una differenza fra le interpretazioni della dottrina e la prassi costituzionale. La dottrina
sostiene che, quando la Costituzione dice che la delega può essere data per oggetti definiti, pensa che il costituente abbia usato il termine “oggetto” in senso ristretto
cioè come termine che sta a indicare che la delega non può essere data su materie (intendendosi per materie una disciplina generale di determinati settori della vita
associata) ma il costituente voleva che la delega, di volta in volta, avesse oggetti limitati. In realtà nella prassi costituzionale le deleghe vengono date su materie: il
Governo è delegato a riformare la scuola superiore, a riformare l'ordinamento dell'università… Concettualmente la riforma dell'università è una materia, non un oggetto;
ma questo tipo di evoluzione si è oramai assestata ed è difficilmente modificabile. Quindi nella legge di delega deve essere contenuto uno o più oggetti definiti. La legge
di delega deve altresì contenere principi e criteri direttivi. Il Legislatore delegante nel momento in cui delega il Governo a emanare un atto con forza di legge gli deve
anche dire secondo quali principi deve agire e quali sono i criteri che devono dirigere la sua attività: la delega non può essere in bianco, non può essere generica. Il
legislatore parlamentare quando si spoglia della funzione legislativa deve dire al legislatore delegato come deve disciplinare quella materia.

Poi la legge di delega deve avere un termine cioè deve dire al Governo di emanare il decreto legislativo entro sei mesi, otto mesi, dodici mesi, un anno, due anni… Deve
dire entro quale termine il decreto deve essere adottato. La legge 400 del 1988 ha previsto generalmente un termine di durata della delega di due anni per la adozione
del decreto legislativo, prevedendo che qualora le deleghe superino i due anni, occorra necessariamente prevedere il parere di una Commissione parlamentare sullo
schema di decreto legislativo. La legge delega poi può (è una possibilità non già un dovere) [mentre i contenuti che abbiamo visto prima (oggetto, principi e criteri
direttivi, termini) devono necessariamente essere presenti nella legge di delega] può avere altresì contenuti ulteriori; possono esserci dei limiti ulteriori, pur non
essendo esplicitamente previsto in Costituzione. Il limite tipico all'attività del legislatore delegato, che le leggi delega normalmente contengono, è la previsione di un
parere delle Commissioni parlamentari: la legge della lega dice al Governo “fai tutte queste cose e disciplina questo oggetto; ma prima di adottare il decreto legislativo,
sottoponi lo schema di testo al parere della Commissione parlamentare competente per materia; questo parere è obbligatorio nel caso di deleghe che superino i due
anni; ovvero la legge delega può in alcuni casi contenere anche delle discipline direttamente efficaci (può disciplinare in concreto anche pezzi della materia altrimenti
destinata alla delega). Quindi la Giurisprudenza della Corte ha ritenuto che i limiti ulteriori fossero ammissibili. Abbiamo parlato finora della legge delega. L'atto emanato
sulla base della legge delega è il decreto legislativo delegato (d.lgs.). Questo decreto legislativo delegato ha un suo procedimento di approvazione: viene adottato dal
Consiglio dei ministri; viene eventualmente sottoposto al parere della Commissione parlamentare; poi viene emanato dal Presidente della Repubblica questi; e
successivamente pubblicato in Gazzetta ufficiale: è naturalmente dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale che decorre la sua efficacia. Gli schemi dei decreti legislativi
delegati possono anche essere sottoposti a un parere preventivo del Consiglio di stato. Queste 3 fasi [1) adozione da parte del Governo; 2) emanazione da parte del
Presidente della Repubblica; 3) pubblicazione] sono importanti perché entro il termine prima richiamato deve intervenire l'emanazione del Presidente della Repubblica.
Non è sufficiente l'approvazione del decreto legislativo da parte del Governo; e entro il termine deve intervenire anche l'emanazione da parte del Presidente. La
pubblicazione in Gazzetta ufficiale del testo del decreto legislativo, secondo la Giurisprudenza della corte, può anche intervenire una volta che il termine della delega sia
spirato, si sia già dissolto. Entro il termine deve avvenire l'emanazione: non è necessaria anche la pubblicazione. Da un punto di vista sistematico il decreto legislativo è
un atto con forza di legge; ma è un atto con forza di legge collocato in una posizione subordinata rispetto alla legge di delega. Il decreto legislativo può sì modificare
norme contenute in leggi (e ha quindi forza di legge sia attiva che passiva), ma è subordinato alla legge di delega. Nel caso in cui il decreto legislativo non rispetti la legge
di delega, il decreto legislativo potrà essere sottoposto al giudizio della Corte costituzionale anche sotto il profilo del mancato rispetto della legge di delega, cioè del cd.
“eccesso di delega”. È un caso peculiare perché, in questo caso, sembrerebbe che il giudizio della Corte costituzionale intervenga fra due atti aventi forza di legge: se io
giudico il decreto legislativo, atto avente forza di legge, rispetto alla legge di delega, giudico un atto avente forza di legge rispetto a una legge ordinaria; e questo
sembrerebbe contraddire la logica del giudizio di costituzionalità. In verità il decreto legislativo quando viola la legge di delega, quando non rispetta la delega, viola
indirettamente l'articolo 76 della Costituzione, poiché è l'articolo 76 della Costituzione a chiedere al decreto legislativo di rispettare la legge di delega. Si dice che in
questo caso la legge di delega è norma interposta nel giudizio di costituzionalità: si interpone, si colloca a metà strada fra il decreto legislativo, oggetto del giudizio, e la
norma costituzionale, parametro del giudizio; e ci dà la misura della violazione dell'articolo 76 della Costituzione. Un caso particolare di atto dell'ordinamento che viene
normalmente ricondotto allo schema della delega legislativa è quella dei testi unici: raccolte di tutta la legislazione o normazione1 presente una certa materia. Si pensi
alla legislazione in materia edilizia o in materia di agricoltura o in materia di ambiente sparsa fra mille leggi: può essere utile raccogliere questa legislazione in un unico
testo che si chiama testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, oppure testo unico delle leggi sull'edilizia e via di questo passo… Se la raccolta delle leggi in materia di
pubblica sicurezza la faccio io o una persona di noi, quel testo sarà utile per la consultazione, ma non avrà nessuna forza ufficiale. Pertanto, si è adottato lo schema di
delegare il Governo a raccogliere in un testo unico tutta la legislazione inerente a una determinata materia. Il principio di questa delega è il coordinamento della
legislazione. Sulla base di questa delega il Governo raccoglie tutti i testi, tutta la legislazione di una determinata materia in un unico testo, e la coordina (cioè effettua
quelle modifiche normalmente piccole che servono a tenere insieme il testo). Questa è una cosa che succede abbastanza frequentemente.

1
Normalmente i testi unici raccolgono solamente atti con forza di legge; negli ultimi anni è subentrata una prassi incerta, non sicurissima, di testi unici misti in cui il Governo ha raccolto sia la
legislazione sia la normazione secondaria (cioè quella contenuta in regolamenti).

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Altri atti aventi forza di legge
Vi sono poi numerosi altri atti aventi forza di legge:

➔ il referendum abrogativo ha forza di legge; cioè l'atto conclusivo del referendum è un atto che ha forza di legge, se l'abrogazione viene raggiunta.
➔ i decreti di attuazione, gli atti con i quali si dà attuazione, agli statuti delle Regioni delle 5 Regioni speciali, hanno forza di legge.
➔ hanno forza di legge i decreti emanati dal Governo, sulla base dell'articolo 78 della Costituzione, nel caso in cui le Camere deliberano lo stato di guerra (in
forza dell'articolo 78 “conferiscono al Governo i poteri necessari”. La dottrina ritiene che questi decreti abbiano forza di legge.
➔ hanno egualmente forza di legge, le leggi regionali, ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione.
➔ secondo quella distinzione di atti che, pur non avendo forza di legge, sono collocati in posizione primaria nell'ordinamento (vale a dire sono subordinati alla
sola Costituzione) vanno altresì citati i regolamenti i parlamentari cioè gli atti che disciplinano l'organizzazione e le attività delle due Camere, e i
regolamenti della Corte costituzionale, gli atti che disciplinano l’attività e l'organizzazione della corte.

CAPITOLO 15 – I REGOLAMENTI

I regolamenti come fonti secondarie del diritto


Con il nome regolamenti si indicano una serie molto ampia di atti (il nome regolamento è un nome chiaramente molto generico); quando noi parliamo di regolamenti
governativi noi facciamo riferimento a fonti secondarie del diritto, che sono nella scala gerarchica dell'ordinamento normativo subordinate, poste in posizione inferiore
alle fonti legislative. [Noi durante il nostro corso ci troveremo a parlare o ci siamo trovati a parlare di regolamenti parlamentari, ci troveremo ci siamo trovati a parlare di
regolamenti comunitari, parleremo di regolamenti consiliari quindi il nomen regolamenti è un nome ampio]. Quando parliamo di regolamenti governativi facciamo
riferimento ad atti che sotto il profilo soggettivo (cioè sotto il profilo di chi è titolare di questo potere, del potere a emanare questo atto) sono atti formalmente
amministrativi: provengono dal potere esecutivo; sotto il profilo oggettivo (cioè sotto il profilo del contenuto di quest'atto) sono atti sostanzialmente normativi:
contengono norme (prescrizioni a contenuto tendenzialmente generale e astratto).

La disciplina delle diverse tipologie di regolamento esecutivo


Se iniziamo a guardare le fonti che disciplinano la potestà regolamentare, dobbiamo subito dire che oggi con la legge costituzionale 3 del 2001 il quadro costituzionale
delle fonti che disciplinano i regolamenti si è modificato. Prima del nuovo testo dell'articolo 117 comma 6 introdotto con la legge costituzionale 3 del 2001, gli unici
richiami in Costituzione alla potestà regolamentare erano contenuti nell'articolo 87, là dove si dice al comma 3 che “il Presidente della Repubblica promulga le leggi ed
emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti; e erano contenuti altresì dei richiami negli articoli 121, 122, 123 della Costituzione che facevano in diverso modo
riferimento alla stessa natura di atti cioè i regolamenti, ma in questo caso di spettanza del soggetto regione. Quindi si tratta di un fondamento costituzionale molto
limitato alla potestà regolamentare. L'articolo 117, che è destinato al riparto di competenza legislativa fra stato e Regioni secondo un elenco di materie che è contenuto
nell’articolo 117. L'articolo 117 al comma 6 ha previsto la distribuzione della potestà regolamentare fra i diversi soggetti della Repubblica; esplicitamente l'articolo 117
comma 6 ci dice che “allo stato spetta la potestà regolamentare nelle materie di esclusiva competenza statale” (vale a dire quelle contenute nell'articolo 117 comma 2
della Costituzione); alle Regioni la potestà regolamentare spetta nelle materie di potestà legislativa regionale concorrente (vale a dire in cui stato e Regione concorrono
nel dettare le regole) e residuale (cioè quel tutte quelle materie che residualmente rimangono in Capo alle Regioni) ai sensi dell'articolo 117 commi 3 e 4 della
Costituzione. Lo stato può altresì delegare alla Regione la potestà regolamentare nelle materie di competenza esclusiva statale. Infine, il comma 6 ci dice che la potestà
regolamentare spetta a comuni e province in ordine alla disciplina e alla organizzazione delle funzioni pubbliche ad essi attribuite. Questo comma sesto pone delle grandi
difficoltà di funzionamento (ma non è questo l'argomento che si vuole trattare adesso). Il richiamo al 117 comma 6 serve in questa sede per testimoniare l'esistenza di
un sicuro aggancio e fondamento costituzionale della potestà regolamentare. I problemi principali sono quelli che sorgono fra stato e Regione per ciò che attiene
all'esercizio della potestà regolamentare nelle materie di potestà legislativa concorrente; sono poi quelli che riguardano il difficile rapporto con comuni e province per ciò
che attiene alla disciplina dell'organizzazione e delle funzioni attribuite ai comuni e alle province. In questo nuovo quadro costituzionale, la disciplina generale della
potestà regolamentare governativa (cioè quella di spettanza del Governo o meglio di spettanza dell'esecutivo, ivi compresa quindi la potestà regolamentare ministeriale
e interministeriale) è oggi contenuta nell'articolo 17 della legge 400 del 1988. Si è così posto fine anche al problema del fondamento legislativo della potestà
regolamentare; stante il fatto che prima dell'articolo 17 della 400 la disciplina dei regolamenti era contenuta nella, ormai vecchia e peraltro definita dalla dottrina
“fascistissima”, legge 100 del 1926. Oggi i confini e le modalità di esercizio della potestà regolamentare noi li ritroviamo nell'articolo 17 della fondamentale e
importantissima legge 400 del 1988.

I regolamenti del Governo


I regolamenti dell'esecutivo si distinguono in tre diverse categorie: 1) regolamenti del Governo, cioè attribuiti al Governo nella sua complessità; 2) regolamenti
ministeriali; 3) regolamenti interministeriali.

Queste seconde due ultime categorie, i regolamenti ministeriali e quelli interministeriali, sono al rigore da considerarsi fonti terziarie sempre nella ipotetica scala
gerarchica delle fonti, giacché sono esplicitamente, ai sensi sempre dell'articolo 17 della n.400 comma 3, giacché sono esplicitamente subordinati ai regolamenti
governativi. Quindi in un'ipotetica scala gerarchica vanno posti in terza posizione. La legge 400 all'articolo 17 disciplina le diverse modalità e tipologie di regolamenti. La
prima tipologia di regolamenti sono i cd. regolamenti di esecuzione che sono disciplinati all'articolo 17 comma 1 lettera a; e, ai sensi del quale, noi abbiamo regolamenti
che disciplinano appunto l'esecuzione delle leggi degli altri atti aventi forza di legge (quindi in particolare dei decreti legislativi) e anche dei regolamenti comunitari ossia
delle fonti comunitarie direttamente applicabili nell'ordinamento italiano. La caratteristica dei regolamenti di esecuzione è quella di svolgere una funzione applicativa ed
interpretativa: di fronte ad una legge il regolamento esecutivo detta la disciplina di stretta ed immediata applicazione/attuazione della legge o dell'atto avente forza di
legge o del regolamento comunitario. Si sottolinea che il fatto che i regolamenti esecutivi potessero anche eseguire regolamenti comunitari non è una previsione
originaria della legge 400 del 1988, ma è una previsione introdotta con la legge 25 del ’99; si richiama questa modifica per sottolineare che l’ordinamento italiano ha
ritenuto che con regolamento esecutivo si potessero disciplinare anche i regolamenti comunitari dopo un certo lasso di tempo. I regolamenti di esecuzione quindi sono

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regolamenti con un bassissimo tasso di discrezionalità e con un bassissimo tasso di autonomia rispetto alla legge. La legge disciplina praticamente tutto il quadro e il
regolamento si limita a dettare le norme esecutive. Essendo questa la caratteristica dei regolamenti esecutivi o di esecuzione è evidente che siffatti regolamenti possono
essere emanati anche nelle materie coperte da riserva assoluta di legge. La riserva assoluta di legge è quell'istituto secondo il quale la disciplina di una materia può
essere dettata solamente dalla legge; e nel caso di riserva assoluta solo la legge e nessun'altra fonte può intervenire a dettare la disciplina. Nel caso dei regolamenti di
esecuzione proprio perché non vi è discrezionalità nell'attuazione della legge, il regolamento d'esecuzione può intervenire anche nelle materie coperte da riserva di
legge. La seconda categoria di regolamento, disciplinata dall'articolo 17 della 400, sono i regolamenti di attuazione e integrazione. La differenza può naturalmente
essere in via di fatto molto sottile; tuttavia, i regolamenti di attuazione e di integrazione, sotto il profilo teorico, non si limitano a eseguire la legge, ma la integrano
dettando anche una disciplina che è la disciplina di dettaglio della legge. Una cosa è eseguire qualcosa; un’altra cosa è attuare quel qualcosa. Chi esegue si limita a stare
all'interno della strada tracciata da chi ha dettato l'ordine; chi attua ha un margine di scelta e di discrezionalità maggiore. L'articolo 17 comma 2 prevede pertanto questa
categoria di regolamenti, che sono esclusi nelle materie di competenza regionale. La conseguenza di questa diversa caratteristica dei regolamenti di attuazione e
integrazione è che siffatti regolamenti non possono essere emanati nelle materie coperte da riserva assoluta di legge. Dove la Costituzione dice che solo la legge può
disciplinare, regolamenti di esecuzione possono intervenire mentre regolamenti di attuazione o di integrazione non possono intervenire.

Abbiamo poi i regolamenti indipendenti, che sono, come dice sempre l'articolo 17, “i regolamenti che intervengono nelle materie in cui manchi la disciplina da parte di
leggi o di atti aventi forza di legge sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge. Ciò vuol dire che nella disciplina del sistema italiano io posso avere
anche se sono molto rari casi in cui una certa materia non è regolata da una legge. È rarissimo; però posto che una materia la si possa trovare, su questa materia dove
non vi è una disciplina di legge, quindi di quell'atto che proviene dal Parlamento approvato secondo il procedimento degli articoli 71, 74 e promulgato dal Presidente
della Repubblica (a questo si fa riferimento quando si parla di legge ovvero si può far riferimento alle leggi regionali) se vi è una materia non coperta da legge il
regolamento può intervenire in maniera indipendente a disciplinare quella materia. Tuttavia, i regolamenti indipendenti non possono intervenire, anche se non vi sia
disciplina legislativa sul punto, nelle materie che la Costituzione riserva alla legge sia con riserva di tipo assoluto che con una riserva di tipo relativo. Riserva di tipo
assoluto → i casi in cui la Costituzione vuole che tutta la disciplina sia data da una legge o da un atto avente forza di legge; riserva di legge relativa → i casi in cui la
Costituzione vuole che almeno la disciplina di principio di quella materia sia posta con atto legislativo potendo poi un regolamento attuare e dettare la normativa di
dettaglio. Esempio sui regolamenti indipendenti: prima che la legge 40 del 2004 disciplinasse la fecondazione assistita, questa materia (delle modalità con cui poteva
essere appunto assistita la fecondazione) non era coperta da legge: non vi era una legge che dettasse criteri, limiti, condizioni, possibilità di ricorso alla fecondazione
assistita e la materia era disciplinata da un regolamento governativo che dettava alcuni criteri delle modalità di ricorso alla fecondazione assistita. Quindi si era di fronte
a una materia non coperta da legge su cui un regolamento era intervenuto. Il dubbio che ci si poteva porre in realtà è se l'area della fecondazione assistita fosse o meno
coperta da riserva di legge assoluta o relativa ai sensi dell'articolo 32; ma questo è un esempio possibile.

Un'ulteriore tipologia di regolamenti sono i regolamenti di organizzazione: quei regolamenti che ai sensi dell'articolo 17 comma 1 lettera d “disciplinano l'organizzazione
e il funzionamento delle amministrazioni secondo disposizioni dettate dalla legge”. Qui la discussione in dottrina si è alternata fra due idee: da un lato coloro che
ritenevano che la materia dell'organizzazione amministrativa fosse coperta da riserva relativa di legge e che quindi occorresse una legge che comunque dettava i principi
generali della materia potendo il regolamento solamente attuare questa legge; dall'altro lato una tesi che ha riscosso grande successo, portata avanti da un importante
amministrativista Mario Nigro, riteneva che nella materia dell'organizzazione vi fosse una riserva a favore dell'esecutivo. I regolamenti disciplinati dall'articolo alla lettera
d sono regolamenti di tipo esecutivo e attuativo. Una riforma introdotta nel ‘97 ha ulteriormente modificato la disciplina dei regolamenti organizzativi; ma li ha
accomunati ad una categoria, i regolamenti di delegificazione. I regolamenti di delegificazione sono disciplinati dall'articolo 17 sempre al comma 2 e prevedono che
regolamenti governativi possano sostituirsi alle leggi secondo un determinato modello procedimentale, che è proprio disciplinato e disegnato dall'articolo 17 comma 2.
Condizioni per l'adozione di siffatti regolamenti di delegificazione sono: 1) che la materia su cui interviene quel regolamento non sia coperta da riserva assoluta di legge
cioè che per quella materia la Costituzione non chieda l'intervento necessario e totale della legge [totale nel senso tutta la disciplina dettata della legge]; 2) che l'esercizio
di tale potestà regolamentare sia autorizzato con legge, cioè che sia la legge che dice al potere esecutivo “ok adotta un regolamento su questa materia”; 3) che in questa
legge, con cui il Parlamento autorizza il Governo all'esercizio della potestà legislativa, siano contenute le norme generali che regoleranno la materia da quel momento in
poi; 4) che sia la stessa legge che autorizza il regolamento governativo di delegificazione e pone i principi nuovi della materia ad abrogare le norme di legge che verranno
cancellate dopo l'entrata in vigore del regolamento. Una tipologia abbastanza complicata: occorre che non vi sia riserva di legge; occorre che sia la legge ad autorizzare la
potestà regolamentare; che questa legge indichi principi; e che essa stessa abroghi le norme legislative. Qual è la funzione e quali sono stati i limiti di questo strumento
della legificazione? La funzione dei regolamenti di delegificazione era quella di tentare di snellire il corpus normativo italiano. Noi abbiamo un corpus normativo
ridondante composto in larga misura da leggi; e spesso e volentieri queste leggi frutto della superfetazione storica, della sovrapposizione storica dei dati normativi,
spesso queste leggi disciplinano aspetti molto particolari, disciplinano procedimenti, fissano termini del procedimento. È chiaro che una legge che va così nel dettaglio, a
dire per esempio entro quanti giorni va presentata un'autorizzazione, può diventare facilmente e rapidamente obsoleta. Può non essere più adatta a disciplinare quella
materia; mentre invece il regolamento governativo è uno strumento più flessibile; è più facile adottarlo; è più rapida la decisione che attiene al regolamento governativo.
E si è detto: se non vi è un'esigenza forte che la materia sia coperta da legge e se è la legge stessa a dettare le condizioni della delegificazione, bene sfoltiamo
l'ordinamento da leggi. Qualche volta questa operazione è riuscita; altre volte qualche dubbio può essere sollevato.

La disciplina generale della delegificazione quindi, pur se vi erano numerosi motivi e ragioni che hanno spinto a suo favore, ha incontrato anche dei limiti. I limiti
principali della struttura della delegificazione di quel procedimento così complicato descritto prima, almeno se applicato come strumento generale, i limiti principali
sono:

1. il procedimento della delegificazione è un procedimento sufficientemente complicato: legge che pone i principi e individua altresì le norme abrogate; e le
abroga; regolamento che interviene sulla base di questa legge. Il procedimento alla fine non è che sia semplicissimo. All'interno di questa ragione di
complicazione vi è la difficoltà a individuare ex ante le norme da abrogare: questo è un problema. Deve la legge ricorrere alla abrogazione espressa delle
norme nel caso di delegificazione o può far riferimento anche all'abrogazione tacita e implicita? Questo è un dubbio irrisolto di questa vicenda.
2. il secondo problema della delegificazione è che, non essendoci nell'ordinamento italiano una riserva di potestà regolamentare, se il legislatore dopo aver
messo in piedi tutto questo movimento (legge di delegificazione; regolamento delegificante) rifà una legge, tutto il lavoro precedentemente fatto per
delegificare quella materia è come se non fosse mai esistito, dato che non vi è un limite all'intervento legislativo. La delegificazione abbassa di rango la
disciplina di una materia, ma non proibisce al legislatore di intervenire su quella materia; e quindi il rischio è quello che si riinizi da Capo.

Forse un qualche interesse la delegificazione lo ha in due casi particolari:

a) lo ha per quanto riguarda i regolamenti di attuazione delle direttive comunitarie, che costituiscono proprio una species dei regolamenti di delegificazione,
non potendo però intervenire nelle materie coperte da riserva sia assoluta che relativa.
b) Nella legge comunitaria annuale, la legge cioè che viene adottata ogni anno per adempiere agli obblighi che l’Unione europea impone all'Italia, il Governo
può essere autorizzato ad attuare le direttive comunitarie mediante regolamento con la stessa tecnica dei regolamenti di delegificazione. Questa è la
previsione contenuta nell'articolo 11 della legge 11 del 2005, la cd. “legge Buttiglione” (ministro delle politiche comunitarie all'epoca dell'approvazione della
legge) che ha modificato la 86 del 1989 che era chiamata “legge Lapergola”. Un’ ulteriore categoria di regolamenti di delegificazione sono i nuovi
regolamenti organizzativi così come sono disciplinati dal comma 4 bis dell'articolo 17 della legge 400 del 1988; comma che è stato introdotto dalla legge 59
del ‘97 che ha avvicinato la disciplina dei regolamenti di organizzazione al modello dei regolamenti di delegificazione.

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Il procedimento di adozione dei regolamenti governativi
Sotto il profilo del procedimento per l'adozione dei regolamenti governativi va segnalato che:

1. l'iniziativa dei regolamenti spetta a uno o più ministri ovvero al Presidente del Consiglio dei ministri
2. sul testo viene richiesto il parere del Consiglio di stato, parere che ha carattere obbligatorio (deve essere richiesto) ma non vincolante: il Consiglio dei
ministri può anche distaccarsi dal parere del Consiglio di stato
3. successivamente vi è la deliberazione del Consiglio dei ministri con cui il testo viene approvato
4. Vi è poi l'emanazione del regolamento da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell'articolo 87 5 ° comma della Costituzione
5. Poi il regolamento viene sottoposto al controllo di legittimità da parte della Corte dei conti che provvede al visto e alla registrazione
6. Viene infine pubblicato in Gazzetta ufficiale
7. Entra in vigore, anche in questo caso così come per quanto riguarda la legge, con il termine generale della vacatio legis di 15 giorni che può però
essere ridotto.

I regolamenti ministeriali e interministeriali


Sempre l'articolo 17 al comma 3 della legge 400 prevede altresì i regolamenti ministeriali ed interministeriali, attribuendo la potestà regolamentare anche a singoli
organi del potere esecutivo. Il 1° fondamentale principio che dobbiamo ricordare a questo proposito è che la potestà regolamentare ministeriale o interministeriale
richiede che la legge espressamente attribuisca il potere regolamentare al ministro o a più ministri; nel caso di dubbio la potestà regolamentare dell'esecutivo è una
potestà regolamentare di spettanza del Consiglio dei ministri, non del singolo ministro: occorre la esplicita previsione della legge. In secondo luogo, i regolamenti
ministeriali interministeriali possono essere adottati, sempre ai sensi dell'articolo 17 comma 3, nelle materie di competenza del ministro o di autorità sotto-ordinate al
ministro (ivi compreso fra i ministri che possono avere una competenza il Presidente del Consiglio dei ministri). I regolamenti interministeriali sono quelli che la legge
prevede che siano adottati da più ministri insieme. Si è ricordato prima che i regolamenti ministeriali e interministeriali, da un punto di vista gerarchico, sono collocati in
posizione terziaria, cioè sono esplicitamente assoggettati e devono esplicitamente rispettare i regolamenti governativi: dunque sono subordinati non solo alla legge, ma
anche ai regolamenti governativi. Nel caso di contrasto fra una prescrizione contenuta in un regolamento governativo e una prescrizione contenuta in un regolamento
ministeriale prevale quella contenuta nel regolamento governativo.

Sotto il profilo procedimentale i regolamenti ministeriali non sono deliberati dal Consiglio dei ministri, ma sono semplicemente comunicati a fine di coordinamento al
Presidente del Consiglio e non sono emanati dal Presidente della Repubblica (come i regolamenti governativi) ma possono essere adottati con decreti ministeriali ovvero
interministeriali. Sul punto si è pronunciata una risalente sentenza della corte: la 79 del 1970. Riepilogando la potestà regolamentare spetta al Governo; la fonte
costituzionale oggi è nell'articolo 117 della Costituzione comma 6; la concreta disciplina legislativa è contenuta nelle sue varie differenziazioni e nelle sue varie modalità e
tipologie di regolamenti nell'articolo 17 della legge 400 del 1988. Questo era il quadro teorico. In realtà in via di prassi i problemi che pone la potestà regolamentare sono
numerosissimi. Si è ricordato prima dei problemi che attengono al riparto di competenze fra stato, Regione ed enti locali nella distribuzione e nell'esercizio della potestà
regolamentare. Vediamo infine un altro esempio di una difficoltà: qual è la differenza fra regolamento e atto amministrativo generale? Perché se io ritengo che un atto
non contenga norme ma sia atto amministrativo generale, vale a dire contenga prescrizioni che sono generali (perché si rivolgono a tutti i consociati) ma non sono
astratte (non sono ripetibili nel tempo) io sono di fronte ad un atto amministrativo generale (ad esempio i bandi di concorso sono atti amministrativi generali) non ad un
esercizio di potestà regolamentare; e allora per esempio lo stato potrà emanare atti amministrativi generali, anche se ricadenti nelle materie di potestà legislativa
concorrente regionale; ovvero quell'atto avente la natura di atto amministrativo generale potrà essere emanato anche senza la necessità delle procedure, viste finora
disciplinare la potestà regolamentare.

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CAPITOLO 16 - LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (IN PARTICOLARE LE REGOLE CHE
DISCIPLINANO L’AZIONE DEI PUBBLICI POTERI)

L’attività della P.A.


L'amministrazione agisce, si comporta, svolge attività. Quindi c'è tutta una attività che noi definiamo attività amministrativa, mediante la quale gli organi
dell'amministrazione (che può essere quella statale, quella regionale, quella locale, le amministrazioni che vengono definite enti di autonomia funzionale) provvedono
alla cura degli interessi pubblici ad essi affidati. Noi siamo di fronte in realtà a una serie di comportamenti della Pubblica Amministrazione: vi è una fascia di
comportamenti che sono giuridicamente irrilevanti, che non hanno effetti nei confronti degli altri soggetti. Vi è un'area invece di comportamenti della Pubblica
Amministrazione che sono giuridicamente rilevanti. Questi comportamenti giuridicamente rilevanti noi li distinguiamo: all'interno di essi distinguiamo delle vere e
proprie attività semplicemente materiali oppure degli atti della Pubblica Amministrazione. Affianco agli atti della Pubblica Amministrazione poi abbiamo tutta un'ampia
parte di attività delle pubbliche amministrazioni che è retta dalle regole del diritto privato: quest'ampia area di attività retta dalle regole del diritto privato è un'area in
cui l'amministrazione agisce ponendosi in posizione paritaria rispetto ai soggetti con cui tratta (si pensi a tutta l'area della contrattazione; si pensi alla vendita di un
immobile da parte della Pubblica Amministrazione). È da tener presente naturalmente che anche quando agisce mediante gli strumenti del diritto privato, le pubbliche
amministrazioni in realtà devono pur sempre aver di mira l'interesse pubblico: cioè l'agire con gli strumenti del diritto privato non esclude che le finalità rimangano
comunque finalità di carattere pubblico. Che cosa intendiamo per atti della Pubblica Amministrazione? Noi definiamo atti amministrativi tutti gli atti unilaterali, cioè che
provengono dall’amministrazione, aventi rilevanza esterna (che incidono verso l'esterno) posti in essere da una Pubblica Amministrazione nell’ esplicazione di una
potestà amministrativa. Quando parliamo di questi atti amministrativi dobbiamo distinguere gli atti amministrativi secondo diverse tipologie; e così li potremo
distinguere in relazione alla natura dell'attività esercitata: e avremo allora atti di amministrazione attiva quindi atti con cui vengono direttamente soddisfatti gli interessi;
atti di amministrazione consultiva, cioè con cui si danno pareri, opinioni, consigli al soggetto che poi decide; atti di amministrazione di controllo con cui si controlla
l'attività di altri soggetti. In relazione all'elemento psichico, cioè al carattere, al tipo di esplicazione della volontà di cui un atto amministrativo è espressione, potremmo
distinguere fra manifestazioni di volontà, manifestazioni di conoscenza, manifestazioni di giudizio e atti aventi una natura variamente mista. In relazione alla
discrezionalità possiamo distinguere fra atti discrezionali (e qui naturalmente poi varia la quantità e la natura della discrezionalità, di cui la Pubblica Amministrazione è
portatrice) e atti vincolati cioè atti in cui esiste un vincolo rispetto al contenuto dell'atto. Possiamo distinguere gli atti amministrativi ancora in relazione all'efficacia
dell'atto e le distinguiamo in atti costitutivi, vale a dire quegli atti che creano, modificano o estinguono un rapporto giuridico; e in atti dichiarativi. Possiamo distinguere
gli atti della Pubblica Amministrazione ancora in relazione al risultato, distinguendo fra atti ampliativi, ossia quegli atti che allargano la sfera giuridica del soggetto, e atti
restrittivi, quelli che restringono la sfera giuridica del destinatario. Poi ancora possiamo distinguere gli atti amministrativi in relazione al o ai destinatari; e avremo
pertanto gli atti particolari, se l'atto fa riferimento ed è destinato ad un solo soggetto, e gli atti invece con una pluralità di destinatari, che possono essere plurimi (l'atto
che raccoglie formalmente più soggetti, ma che in realtà sarebbe scindibile in tanti atti diversi). Si pensi per esempio al decreto di nomina dei vincitori di concorso: è un
atto plurimo nel senso che in quell'atto vi saranno i nomi di più vincitori: ma noi in realtà potremmo fare invece di un unico atto plurimo tanti atti particolari. Infine, sono
atti collettivi quegli atti in cui l'amministrazione si rivolge genericamente a una collettività, una pluralità di soggetti. Inoltre, dobbiamo distinguere gli atti collettivi dagli
atti generali, che sono quelli in cui la collettività di soggetti non è a priori a priori determinabile, cioè quegli atti i cui destinatari non sono individuabili a priori. Da tener
presente che sulla differenza fra atti particolari, atti plurimi, atti collettivi e atti generali si basa la tradizionale distinzione fra norma e provvedimento, essendo il
provvedimento quell'atto che ha una finalità concreta e si rivolge ad un soggetto ovvero ad una sfera di soggetti individuabili, e la norma cioè l'atto che ha un contenuto
generale astratto nel senso che i destinatari di questo comando non sono a priori individuabili. Sulla distinzione fra norma e provvedimento si basa quella classificazione
particolare che ci dice che sono atti amministrativi anche i regolamenti, quei particolari atti amministrativi caratterizzati appunto dal contenuto normativo (contenuto
generale astratto). Gli atti amministrativi poi possono essere distinti in relazione all’ interdipendenza, ai collegamenti che si creano fra di essi: e allora avremo atti
composti, vale a dire quelli formati da più manifestazioni di volontà, tali da essere così unite da farlo considerare un unico atto. Poi avremo gli atti contestuali, che
risultano dalla riunione di più atti in un’unica manifestazione; atti simultanei; atti plurimi. Sempre in relazione alle distinzioni degli atti della Pubblica Amministrazione
possiamo poi fa riferimento a quelle distinzioni che hanno rilievo rispetto al procedimento amministrativo: quindi potremmo parlare di atti procedimentali, quegli atti
cioè che si inseriscono all'interno di un procedimento amministrativo e sono coordinati fra di loro al fine del raggiungimento dell'obiettivo di quel procedimento e quindi
in relazione all'adozione del provvedimento amministrativo tipico di quel procedimento. Poi possiamo far riferimento, sempre relazione al procedimento, alla categoria
degli atti presupposti, ossia quegli atti che, pur rilevando ai fini della produzione dell'effetto giuridico finale, acquistano però un rilievo autonomo in seno al
procedimento amministrativo (ovvero costituiscono atto conclusivo di un procedimento pur caratterizzato dall’autonomia). Alcuni esempi cui si potrebbe far riferimento
sono per esempio l'adozione del piano regolatore da parte del Consiglio comunale rispetto alla successiva approvazione da parte della Regione nei casi, in realtà sempre
meno numerosi nella concreta disciplina urbanistica; ma anche questa scissione fra adozione del Consiglio comunale e approvazione del Consiglio regionale sugli atti di
approvazione della regione, sugli strumenti pianificatori generali va scomparendo: comunque l'adozione da parte del comune è un caso di atto presupposto. Per gli atti
presupposti vale una regola diversa rispetto a quella degli atti procedimentali: gli atti presupposti sono in linea generale autonomamente impugnabili senza dover
attendere l'atto finale; ma anche qui occorre poi far attento riferimento alle classificazioni e alle ricostruzioni fornite dalla giurisprudenza. Gli atti amministrativi poi
vanno distinti anche in relazione ai soggetti che li pongono in essere. Per cui potremmo distinguere fra atti che promanano da un da un solo organo, da un solo soggetto
(questo soggetto può essere individuale o collettivo e in questo caso parleremo di atti collegiali) e atti invece che promanano da più organi. Gli atti che promanano da più
organi possono essere complessi (risultano dal concorso della volontà di più soggetti); e la complessità può essere eguale, nel caso in cui ambedue o la pluralità dei
soggetti partecipi in maniera eguale alla formazione della volontà, ovvero atto complesso ineguale, che si ha quando ha valore preminente, preponderante la volontà di
uno solo degli organi. Sempre fra gli atti che promanano da più soggetti facciamo riferimento poi agli atti di concerto, che sono quelli adottati da un solo organo, ma
previo concerto, ossia previa intesa con altri organi. Queste sono alcune distinzioni che la dottrina effettua all'interno della categoria degli atti amministrativi: come
sempre poi le ricostruzioni possono essere le più diverse, le più varie possibili, tanto più in questa area degli atti e dei poteri della Pubblica Amministrazione che è
un'area di forte creazione da parte della Giurisprudenza e dei giudici amministrativi.

Il provvedimento amministrativo
Con la nozione di provvedimento amministrativo noi facciamo riferimento a quelle manifestazioni di volontà, che hanno rilevanza verso l'esterno, che provengono da
un'amministrazione nell'esercizio di un'attività amministrativa, che sono indirizzate a soggetti determinati o determinabili (cioè il soggetto deve essere individuato
ovvero deve essere concretamente individuabile) e che siano in grado (queste manifestazioni di volontà) di apportare una modificazione unilaterale (cioè senza necessità
del consenso del soggetto destinatario) nella sfera giuridica dei destinatari stessi.

L'atto amministrativo ha alcune caratteristiche principali:

• autoritarietà, la capacità di imporre unilateralmente modificazioni nella sfera giuridica dei destinatari
• esecutorietà, ossia quella possibilità che è concessa alla Pubblica Amministrazione di dare immediata e diretta esecuzione all'atto amministrativo, anche
contro il volere del soggetto destinatario [da tener presente che l'esecutorietà si distingue dalla esecutività, che è invece l'attitudine in astratto dell'atto di
essere eseguito; l'esecutorietà è la concreta possibilità dell'amministrazione di portare ad esecuzione quell'atto].
• tipicità: gli atti amministrativi sono solamente quelli previsti cioè tipizzati dall'ordinamento. Sono tipici solo quelli e non altri genericamente considerati o
individuati.

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• nominatività: a ciascun interesse pubblico è preordinato e finalizzato un tipo di atto definito conclusivamente dalla legge. Da tenere presente che tutta
questa tematica dei provvedimenti amministrativi è retta da quei principi costituzionali che reggono l'azione dell'amministrazione, fra cui in particolare il
principio di legalità dell'azione amministrativa e i principi di imparzialità e di buon andamento.

Principali tipologie di atto amministrativo


▪ autorizzazioni: l'autorizzazione può essere definita come quel provvedimento mediante il quale la Pubblica Amministrazione nell'esercizio di un'attività
discrezionale provvede alla rimozione di un limite, che dev’essere un limite legale, posto all'esercizio di un'attività di un soggetto privato: attività che può
essere inerente o a un diritto soggettivo o a una potestà pubblica. Quindi la caratteristica dell'autorizzazione sarebbe la rimozione di un limite all'esercizio di
un diritto.
▪ concessioni: sono quegli a quei provvedimenti amministrativi con cui la Pubblica Amministrazione conferisce ex novo posizioni giuridiche al destinatario
ampliandone la sfera giuridica. Quindi, mentre nell'autorizzazione vi è una situazione giuridica preesistente che è limitata e l'autorizzazione elimina rimuove
quel limite, la concessione invece è un provvedimento con cui l'amministrazione amplia la sfera giuridica del soggetto interessato.
▪ ordini: sono quei provvedimenti, in questo caso restrittivi della sfera giuridica del destinatario, con cui la Pubblica Amministrazione fa sorgere nuovi obblighi
a carico dei destinatari.
▪ atti ablativi: sono quei provvedimenti mediante i quali la P.A. priva il titolare di un determinato diritto reale, eliminandolo, estinguendolo o trasferendolo in
modo coattivo ad un altro soggetto ovvero limitandolo. Sono quindi i provvedimenti che estinguono o com1°no diritti incidendo favorevolmente su soggetti.
Il classico atto ablativo reale è l'espropriazione con il quale una Pubblica Amministrazione nel perseguimento di un interesse pubblico elimina, sopprime il
diritto di proprietà di un soggetto su un determinato bene. Queste vicende espropriative e gli atti ablativi reali incidono su una situazione soggettiva che è
caratterizzata nel nostro ordinamento costituzionale dall'artico 42 e quindi devono intervenire nel rispetto dei caratteri sostanziali posti a tutela del diritto di
proprietà dall'articolo 42 della Costituzione e nel rispetto dei procedimenti, che sono dettagliatamente definiti dalla legge nel rispetto del principio legalità,
del principio di buon andamento ed imparzialità e del principio della tutela della proprietà privata.
▪ Si ricorda poi la categoria dei provvedimenti che operano su atti amministrativi: i cd. provvedimenti di secondo grado. Sono quei provvedimenti con i quali
la Pubblica Amministrazione incide su atti da essa precedentemente emanati. Incide naturalmente in varie maniere: li modifica, li estingue, ne fa cessare
l'efficacia eccetera.

Noi abbiamo parlato finora di atti, di provvedimenti; abbiamo fatto riferimento a questa azione della Pubblica Amministrazione che deve rispettare i principi
costituzionali. Non abbiamo introdotto una nozione che è fondamentale nell'operare della Pubblica Amministrazione e che è la nozione della discrezionalità
amministrativa. Anche in questo caso si tratta di una nozione che nel diritto amministrativo e nella Giurisprudenza amministrativa è stata particolarmente scandagliata e
studiata e si tratta di un istituto, di una figura in cui le ricostruzioni dottrinali sono le più varie e le più differenziate; spesso le ricostruzioni dottrinali rischiano di
sovrapporsi rispetto alle elaborazioni giurisprudenziali non sempre cogliendo tutti i profili della giurisprudenza; questa è un'area in cui forse siamo più di fronte a un
diritto giurisprudenziale che a un diritto di derivazione legislativa. Se vogliamo provare ad adottare qualche nozione per definire la discrezionalità possiamo dire che la
discrezionalità è quella facoltà di scelta dell'amministrazione fra più comportamenti tutti giuridicamente leciti, finalizzati al soddisfacimento dell'interesse pubblico e per
il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere. In realtà quando parliamo della discrezionalità dobbiamo far riferimento al fatto che l'amministrazione
pondera e compara interessi: ha di fronte a sé un interesse primario da perseguire, ma nell'attività di perseguimento di quell’interesse primario in realtà si trova ad
operare, a toccare, a incidere interessi anch'essi rilevanti, ma che rispetto all'interesse primario sono secondari (non tutelati nello stesso modo dalla legge); e quindi
l'amministrazione deve comparare, ponderare e bilanciare questi interessi secondari nel raggiungimento dell'interesse primario. Nel far ciò, non può che avere di fronte
a sé la possibilità di scegliere modelli di comportamento, modelli di attività diversi, pur tutti quanti caratterizzati da operati legittimi. Il vero problema della
discrezionalità amministrativa è come si può concedere all'amministrazione una ragionevole libertà di scelta nelle modalità con cui perseguire il fine primario che è ad
essa commesso dalla legge, come si fa a permettere questa ragionevole libertà della Pubblica Amministrazione evitando però che questa libertà di scelta
dell'amministrazione ridondi o diventi una situazione arbitraria nelle scelte dell'amministrazione? Questa facoltà di scelta della Pubblica Amministrazione si può riferire
sia al “se” dell'emanazione di un provvedimento sia al “quando” cioè al momento in cui è più opportuno effettuare l'intervento programmato, sia al quomodo e al quid
cioè agli elementi accidentali e alla forma dell'atto, nonché al contenuto concreto che si palesi più opportuno. Quindi anche qui l'invito è quello a una forte attenzione
all'elaborazione giurisprudenziale su questa tematica della discrezionalità amministrativa.

Il procedimento amministrativo
Quando parliamo di procedimento amministrativo ci riferiamo ad una sequenza di atti, di fatti e di attività connessi fra di loro e adottati al fine di giungere
all'emanazione del provvedimento amministrativo. Quindi l'obiettivo è il raggiungimento di un provvedimento amministrativo. Questo obiettivo si raggiunge attraverso
una serie di atti e comportamenti fra loro unitariamente collegati.

Il procedimento amministrativo si distingue in più fasi:

1) fase preparatoria (o fase istruttoria): questa è una fase dove vi è normalmente un atto di iniziativa, poi vi è la fase dell'istruttoria una sotto fase istruttoria
ed è questa è la fase in cui si raccoglie e si svolge l'attività consultiva. L’attività consultiva è caratterizzata dal momento della raccolta di pareri che si
distinguono in “facoltativi” (pareri che possono, a scelta dell'organo agente, essere o meno richiesti) “obbligatori” (pareri in cui c'è l'obbligo per la gente di
raccogliere il parere di un altro soggetto) e “vincolanti” (pareri per cui è necessario non solo sentirlo, raccogliere quel parere, ma l'organo agente deve
necessariamente conformarsi al contenuto del parere).
2) fase decisoria: la fase in cui l'organo agente determina il contenuto dell'atto. Normalmente in conclusione della fase decisoria l'atto diviene perfetto.
3) eventuale fase integrativa dell'efficacia per esempio in seguito allo svolgimento di attività di controllo.

La disciplina del procedimento amministrativo fino agli anni ‘90 spezzettata fra diversi atti legislativi ovvero ricavabile solamente dalle elaborazioni giurisprudenziali è
oramai stata legislativamente fissata in una legge che è la 241 del 19990 successivamente più volte modificata con alcune modifiche su cui ci soffermeremo fra un
attimo. La legge 241 del ‘90 è ispirata a una serie di principi che hanno una qualche significativa importanza: il 1° principio è quello della partecipazione al
procedimento: viene riconosciuto dall'articolo 7 della legge 241 del ‘90 il diritto dei soggetti interessati, oltre che dei destinatari, a partecipare al procedimento
amministrativo instaurando al suo interno una dialettica con la Pubblica Amministrazione competente e con gli altri soggetti pubblici e privati portatori di interessi in
qualche modo contrapposti. Il principio della partecipazione al procedimento è finalizzato a che l'amministrazione procedente abbia la più piena contezza degli interessi
incisi dal suo agire e dal suo provvedere e possa bilanciare gli e compararli essendo consapevole di tutte le situazioni, rappresentate direttamente dall'amministrazione
dal soggetto interessato. Un secondo principio, introdotto dalla legge 241 del ‘90 è il diritto di accesso ai documenti: i soggetti interessati hanno diritto non solo a
partecipare al procedimento, in esso apportando le proprie posizioni, ma hanno diritto anche di accedere a tutti i documenti che sono inseriti nel procedimento
amministrativo e di conoscerli per poter meglio esprimere le proprie posizioni. Questo diritto di accesso ha peraltro una particolare tutela giudiziaria che si può esplicare
con un procedimento di fronte al giudice amministrativo particolarmente veloce. Un ulteriore principio che regge il procedimento amministrativo ed è stato
particolarmente sviluppato nella 241 e poi nella legislazione successiva è il principio di semplificazione: principio sulla cui base sono stati introdotti taluni istituti che
sono diretti, in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento contenuti nell'articolo 97, a snellire e rendere più veloce l'azione amministrativa. Si pensi in
particolare agli istituti del silenzio assenso, della conferenza dei servizi, della dichiarazione in luogo di autorizzazione. Un altro principio di particolare interesse è quello
del divieto di aggravamento del procedimento: l'amministrazione non può aggravare il procedimento, per esempio svolgendo un'attività istruttoria che si riveli

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sostanzialmente inutile, se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria (articolo 1 della 241). Ulteriore procedimento, anch'esso
di particolare rilievo per tutti i cittadini che si trovano ad operare di fronte alle pubbliche amministrazioni, è l'obbligo di conclusione esplicita del procedimento:
l'amministrazione deve concludere entro un determinato tempo, che è stabilito in generale dalla 241, ovvero può essere previsto dalle singole leggi di settore, deve
concludere entro un determinato tempo il procedimento. Se quel tempo non viene rispettato, anche in questo caso, vi sono rimedi giurisdizionali particolari previsti dalla
legge 241. Principio generalissimo, ma anch'esso di grande rilievo, che si ricava dalla Costituzione, è l'obbligo di motivazione del provvedimento: “ogni provvedimento”,
ai sensi dell'articolo 3 della 241, “deve essere motivato” e “la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
della Pubblica Amministrazione”. Sono esclusi dalla motivazione gli atti normativi e quelli a contenuto generale; e soprattutto nell'atto devono essere indicati il termine e
l'autorità a cui è possibile ricorrere. Da tenere presente che la mancanza di motivazione dell'atto costituisce un vizio dell'atto amministrativo. Un ulteriore rilevante
principio è quello dell'individuazione dell'ufficio e del responsabile del procedimento. La 241 prevede esplicitamente che le amministrazioni debbano individuare
l'ufficio e il soggetto responsabile del procedimento. La 241 è stata ulteriormente modificata con due leggi: le leggi nn.15 e 80 del 2005. Esse hanno introdotto alcune
importanti novità. In primo luogo, si fa riferimento ai principi del diritto comunitario fra i principi individuati come principi dell'azione amministrativa dalla legge 241. Poi
viene introdotta la previsione generale, sulla cui base, “la Pubblica Amministrazione nell'adozione di atti di natura non autorizzativa agisce normalmente secondo le
norme del diritto privato, a meno che la legge non disponga diversamente”. Viene ampliata la norma sul silenzio assenso e viene altresì ampliata la possibilità di
sostituire ogni atto di autorizzazione vincolata con una dichiarazione di inizio attività, la cd. “dia”.

La patologia dell’atto amministrativo

L’atto amministrativo può avere una sua patologia, cioè può trovarsi in uno stato patologico. Le principali situazioni patologiche dell'atto amministrativo sono:
l'inesistenza e la illegittimità. Da tenere presente che nel diritto amministrativo si discute se esista una categoria della nullità diverso dalla categoria dell'inesistenza:
alcuni autori ritengono che esista (in particolare quegli autori che fanno riferimento a una ricostruzione di tipo negoziale del provvedimento amministrativo ritengono
che esista anche questa categoria della nullità); altri autori hanno fatto riferimento ad una inesistenza-nullità. Ma nella ricostruzione più consolidata si ha inesistenza
dell'atto amministrativo [e l'inesistenza è la mancanza di uno degli elementi essenziali, che condizionano e permettono l'esistenza dell'atto] quando vi è inesistenza del
soggetto vale a dire l’agente non è qualificabile come organo della P.A.; quando vi è incompetenza assoluta per territorio (cioè quando l'atto sia stato emanato da un
organo astrattamente competente ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale); quando vi è incompetenza assoluta per materia; quando vi è inesistenza
dell'oggetto; quando vi è mancanza di forma essenziale; quando vi è inesistenza il contenuto; ancora quando vi è una mancanza della finalità. Questi sono i casi di
inesistenza dell'atto amministrativo.

La categoria tipica dei vizi dell'atto amministrativo è la categoria delle illegittimità. L'illegittimità comporta l'annullabilità dell'atto amministrativo, categoria che è
espressamente prevista dal legislatore nell'articolo 26 del regio decreto 1054 del 1924, che è il testo unico delle leggi sul Consiglio di stato. L'articolo 26 distingue tre
categorie di vizi di legittimità: l'incompetenza, l'eccesso di potere e la violazione di legge. L'incompetenza a cui facciamo riferimento come vizio di legittimità è
l’incompetenza relativa; non è quell’ incompetenza assoluta che abbiamo visto sopra. Quindi è considerato viziato da incompetenza quel provvedimento amministrativo
emanato da un organo amministrativo diverso da quello che la norma prevede sia competente ad adottarlo. L'incompetenza assoluta è causa invece di nullità o
inesistenza dell'atto. L'eccesso di potere è un cattivo uso del potere da parte della Pubblica Amministrazione o quelle violazioni di quei limiti interni della discrezionalità
amministrativa che, pur non essendo consacrati in norme positive, sono inerenti alla natura stessa del potere esercitato. È un vizio che attiene a scorrettezze,
incongruenze, errori all'interno delle scelte discrezionali della Pubblica Amministrazione; e all'eccesso di potere dobbiamo ricollegare anche lo sviamento di potere che si
ha quando l'amministrazione usi un potere discrezionale ad essa attribuito per fini diversi da quelli per i quali lo stesso potere le era attribuito. In realtà la Giurisprudenza
amministrativa nella difficoltà di raggiungere definizioni soddisfacenti del vizio di eccesso di potere ragiona sulle cd. figure sintomatiche, cioè su tutti quei casi in cui la
Pubblica Amministrazione incorre in comportamenti anomali che non sarebbero altrimenti spiegabili se il fine pubblico fosse correttamente perseguito. Sono tipiche
figure sintomatiche dell'eccesso di potere: il travisamento all'erronea valutazione dei fatti, l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione, la contraddittorietà fra atti,
l'inosservanza di atti interni o di circolari, la disparità di trattamento, l'ingiustizia manifesta, i vizi del procedimento, la mancanza di idonei parametri di riferimento e, via
via, altre figure elaborate di volta in volta dalla giurisprudenza. Infine, il vizio di violazione di legge è ritenuta una figura residuale perché essa comprende tutti quei vizi
che non rientrano nelle due categorie precedenti dell'incompetenza e dell'eccesso di potere. Il contrasto deve riguardare la mancata applicazione di una legge o la falsa
applicazione; e qui il concetto di legge, nel termine “violazione di legge” ha una nozione ampia, giacché si riferisce non solo alla legge formale ordinaria del Parlamento,
bensì a tutti gli atti a carattere normativo: compresi quindi gli atti di rango secondario e, sotto il profilo soggettivo, ricomprendendo nel vizio di violazione di legge non
solo gli atti di derivazione statale, ma anche gli atti di derivazione regionale o locale, ovvero gli atti di derivazione comunitaria.

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CAPITOLO 17 – LE AUTORITA’ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI

Principali autorità indipendenti: struttura e funzioni


Quando parliamo di autorità amministrative indipendenti facciamo riferimento a autorità amministrative dotate di un’alta specializzazione tecnica in relazione alla
materia e al settore ad esse assegnata, che godono di una speciale posizione di indipendenza rispetto alla politica e il rispetto al circuito delle istituzioni rappresentative e
che hanno il compito di regolare e amministrare alcuni importanti settori della vita economica e sociale (settori di particolare rilievo sia economico che tecnico). I
principali settori di intervento, in cui negli ultimi anni è aumentato il numero delle autorità amministrative indipendenti sono: le politiche per la concorrenza, la
regolazione del mercato creditizio, le politiche monetarie, i mercati finanziari e delle assicurazioni, la tutela e la regolazione determinati diritti costituzionali e la
regolazione dei più importanti servizi pubblici. Quali sono le ragioni delle istituzioni delle autorità amministrative indipendenti? Sono in realtà una pluralità di ragioni.
Una prima ragione è sicuramente quella della continua specializzazione tecnica e del continuo progresso tecnologico: come abbiamo visto le autorità amministrative
svolgono i propri compiti di regolazione e di amministrazione in settori che richiedono una alta specializzazione tecnica. Proprio in ragione di questa alta specializzazione
tecnica le politiche pubbliche sono delegate a soggetti caratterizzati dalla estraneità rispetto alla politica, ma i cui requisiti, le cui caratteristiche di investitura, cioè i
criteri con i quali vengono individuati i soggetti che fanno parte di queste autorità amministrative, devono rispondere a criteri di elevata professionalità e perizia. Alcuni
di questi settori poi (si pensi per esempio all'area dell'energia, si pensi all'area delle telecomunicazioni, si pensi all'area dei mercati finanziari: sono tutte aree su cui
intervengono autorità amministrative indipendenti) sono caratterizzate da un elevato e rapido progresso delle tecnologie e degli strumenti. Ciò richiede una continua e
flessibile attività di adattamento delle politiche regolatrici. Spesso il legislatore è troppo lontano e comunque non è così rapido per intervenire rispondendo a tali
esigenze; per cui la scelta diventa quella dell’attribuire funzioni di regolazione su questi settori caratterizzati da un'elevata specializzazione tecnica e da un elevato
progresso tecnologico a autorità amministrative appositamente costruite. Una seconda ragione che sta dietro le autorità amministrative indipendenti è l'esigenza di
indipendenza dalla politica: in questi settori è necessario un intervento finalizzato alla promozione dell'efficienza e al rispetto delle logiche intrinseche, interne di
funzionamento dei mercati. Questo tipo di logica dell'intervento (logica che promuova l'efficienza nello stesso tempo rispettando i meccanismi interni dei mercati
interessati) spesso non riesce ad essere risolta dall'amministrazione tradizionale, perché nella tradizione dei nostri sistemi costituzionali l'amministrazione è legata alla
politica attraverso gli apparati ministeriali e l'amministrazione tradizionale alla fine si è rivelata inadeguata a garantire standard di efficienza in queste politiche
regolatorie. Peraltro, l'altro problema è che gli apparati tradizionali proprio in virtù del legame che hanno con la politica spesso sovrappongono logiche politiche alle
logiche interne dei settori da regolare con una distorsione della libera concorrenza fra operatori economici e spesso con una lesione dei diritti dei cittadini. Quindi è stata
ritenuta preferibile la sottrazione della regolazione di aree di particolare rilievo alla regolazione da parte dei soggetti politici. Peraltro, si tenga presente che in Italia il
fenomeno della proliferazione delle autorità amministrative indipendenti è un fenomeno che risale agli inizi degli anni ‘90 e che con tutta evidenza si collega a una fase di
profonda crisi di legittimazione dei partiti politici tradizionali. Si è anche più volte ricordato come è proprio all'inizio degli anni ‘90 che si rompe il circuito che vedeva i
partiti politici in posizione centrale nella determinazione dell'indirizzo politico: quindi c'è anche questo elemento che interviene. Una terza ragione che sta dietro a
questo proliferare delle autorità amministrative indipendenti si può sicuramente trovare nella crisi delle politiche economiche interventiste e comunque nella crisi del
modello del welfare: gli economisti hanno tradizionalmente parlato di un fallimento dello stato, vale a dire di un’inefficienza delle politiche economiche tradizionali
consistenti nel ricorso massiccio alla spesa pubblica e agli aiuti di stato come strumento di sostegno dell'economia; e un intervento diretto dello stato nell'economia
spesso in regime di monopolio nella gestione di attività economiche, ma anche nella gestione di attività caratterizzate da esigenze del servizio pubblico. Quando entra in
crisi questo modello, contemporaneamente partono, anche sotto la spinta delle esigenze comunitarie, politiche di liberalizzazione e di privatizzazione. Si passa così da un
modello di stato sociale, da un modello di stato interventista, che è il classico modello dello stato sociale, a un modello di stato regolatore. Esempio tratto direttamente
dalla vicenda costituzionale italiana: se andiamo a rileggerci l'articolo 43 della Costituzione troveremo che “a fini di utilità generale, la legge può riservare
originariamente o trasferire mediante espropriazione o salvo indennizzo allo stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti, determinate imprese o
categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale”.
Nella logica della Costituzione del ’48, quando si era di fronte a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia, o situazioni di monopolio la risposta non doveva essere
necessariamente ma poteva essere quella della attribuzione allo stato o a soggetti pubblici di questo settore di intervento (Enel negli anni Sessanta). La logica invece che
è dietro le politiche di liberalizzazione e di privatizzazione è completamente opposta: quando si è di fronte a situazioni di monopolio occorre introdurre strumenti che
garantiscano il corretto funzionamento del mercato. Come vedremo, una delle principali autorità amministrative indipendenti, la cd. autorità antitrust, interviene proprio
per evitare situazioni di monopolio invertendo quindi la logica sottesa all'articolo 43 della Costituzione. Una forte spinta poi all’istituzione delle autorità amministrative
indipendenti è stata data proprio dalle politiche comunitarie per la concorrenza e la liberalizzazione dei mercati. Invero un grande impulso in questa direzione è
arrivato proprio dall'ordinamento comunitario e dalle politiche comunitarie, anche e soprattutto, in quei servizi che erano gestiti direttamente dallo stato in situazioni di
monopolio. Infatti, la compresenza di compiti di regolazione e di gestione diretta del servizio da parte dello stato ha alterato il gioco della parità nella libera concorrenza
fra operatori privati a detrimento dell'efficienza complessiva del sistema economico. Questo problema poi è stato particolarmente evidente in alcuni settori, di nuovo
caratterizzati da un'elevata tecnicità, da una collocazione strategica nella crescita dell'economia europea: si fa riferimento ai settori delle telecomunicazioni, dell'energia
e in parte anche dei trasporti, in cui a un modello di gestione pubblicistica di questi servizi si è andato costruendo, spinto proprio dalle politiche comunitarie, un modello
di privatizzazione di questi settori e di liberalizzazione. In alcuni altri settori in cui intervengono le autorità amministrative indipendenti si è di fronte ad un’esigenza di
carattere diverso. Si è di fronte ad un'esigenza di garanzia dei diritti costituzionali prima dell'intervento della Magistratura: cioè che modelli e offra dei meccanismi di
regolazioni in aree particolarmente incidenti sui diritti costituzionali anticipando l'eventuale intervento della Magistratura. Si pensi, per esempio, ai diritti relativi alla
libertà e al pluralismo dell'informazione; si pensi alla privacy (tutte quelle tecniche, quelle politiche contro il trattamento abusivo dei dati personali); si pensi al problema
dello sciopero nei servizi pubblici essenziali in cui si contrappongono un diritto costituzionalmente garantito, che è quello allo sciopero, con i diritti dei cittadini e degli
utenti a usufruire di una serie di servizi. In queste aree l'istituzione di autorità indipendenti si lega ad un’esigenza di una garanzia più efficiente e più specifica di quella
che invece si potrebbe avere rivolgendosi direttamente all’autorità giudiziaria: garanzia più efficiente e più rapida senza però dover passare per il circuito politico del
Governo e del Parlamento. Queste sono le ragioni di fondo sottese proliferare delle istituzioni di autorità amministrative indipendenti.

Le autorità amministrative indipendenti si differenziano fra loro fortemente sotto un profilo sia strutturale che funzionale: cioè sia sotto il profilo della loro
organizzazione sia sotto il profilo delle funzioni ad esse attribuiti. Sotto il profilo funzionale abbiamo un'ampia gamma e una grande differenziazione di poteri attribuiti
alle autorità amministrative: alcune autorità esercitano veri e propri poteri di normazione; altre esercitano poteri di vigilanza sui settori; altre ancora di amministrazione
attiva; altre attività para-giurisdizionali (quasi giurisdizionali) risolvendo in maniera arbitrale conflitti fra soggetti privati; altre esercitano attività anche (o in parte)
consultiva; ovvero quasi tutte le autorità hanno un mix fra tutte queste funzioni. Estremamente differenziate sono anche le modalità di composizione delle autorità e un
tradizionale criterio di distinzione delle autorità amministrative indipendenti si basa proprio sui diversi criteri di nomina dei loro componenti che vedono protagonisti in
maniera congiunta o disgiunta il Parlamento e il Governo.

➔ L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), nel linguaggio comune “Anti-trust”, viene istituita con la legge n.287 del 10 ottobre del 1990
che reca norme per la tutela della concorrenza e del mercato; e che, intervenendo a ben 100 anni di distanza dalla prima legislazione sulla tutela della
concorrenza del mercato negli USA che è appunto del 1890, rovescia e Capovolge la logica sottesa all'articolo 43 e istituisce, all'articolo 10, l'autorità garante
della concorrenza e del mercato. L'autorità si compone di 5 membri, fra cui il Presidente, scelti tra persone di notoria indipendenza e professionalità, per 7
anni con decreto congiunto dei presidenti dei due rami del Parlamento: qui siamo di fronte a soggetti che sono nominati dai presidenti del Parlamento. I
poteri dell’autorità antitrust sono di estrema importanza, di estrema ampiezza. In rapidissima sintesi possiamo ricordare che l'autorità vigila sulla
concorrenzialità dei mercati; ha poteri sanzionatori nei confronti delle imprese che pongano in essere comportamenti artificialmente restrittivi della libera
concorrenza (l'abuso di posizione dominante, intese restrittive della concorrenza, concentrazioni abusive). Il suo potere si estrinseca attraverso un'attività
provvedimentale e un'attività di tipo sanzionatorio. Non sono evidenti i poteri normativi, o meglio, non ha una netta caratterizzazione di poteri normativi di

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regolazione; ha invece un ruolo, in alcune situazioni, un ruolo consultivo e di segnalazione nei confronti del Governo e del Parlamento ovvero degli altri
soggetti pubblici.
➔ Il Garante per la protezione dei dati personali (il cd. Garante della privacy) è un’autorità che è stata istituita con la legge n.675 del ‘95 e si compone di 4
membri eletti da ciascuno dei due rami del Parlamento (due per ogni ramo) i quali eleggono uno dei 4 come Presidente secondo una formulazione
caratteristica in queste leggi istitutive delle autorità amministrative indipendenti. I membri devono essere scelti fra persone che assicurino indipendenza e
che siano esperti riconosciuti nelle materie del diritto o dell'informatica. Il garante della privacy ha come specifico compito quello di vigilare sul corretto
utilizzo dei dati personali allo scopo di evitare abusi e indebite intromissioni nella sfera privata degli individui e ciò a salvaguardia del diritto alla riservatezza.
Anche qui diritto che trova la sua prima origine, la sua prima scaturigine proprio in una risalente Giurisprudenza della Corte suprema americana: la sentenza
nota warren-brandeis.
➔ La Commissione di garanzia per il diritto allo sciopero: anche questa Commissione istituita nel 1990 con la legge n.146 si compone di 9 membri designati
dai presidenti della Camera dei deputati e del Senato fra esperti in materia di diritto costituzionale, di diritto del lavoro e relazioni industriali e nominati con
decreto del Presidente della Repubblica. I membri in questa caso durano in carica 3 anni. Il compito precipuo della Commissione è quello di valutare e
bilanciare il diritto di sciopero dei lavoratori garantito dalla Costituzione con l'esigenza di garantire in ogni caso e in ogni situazione un livello minimo di
prestazione in tutti quei servizi che vengono considerati essenziali per la vita della collettività ovvero per la tutela dei diritti sanciti nella carta costituzionale
(si pensi per esempio alla sanità, si pensi per esempio ai trasporti pubblici, si pensi all'assistenza e alla previdenza sociale, si pensi all'area della sicurezza o
all'area dell'istruzione). La disciplina della Commissione di garanzia è stata recentemente riformata con una legge del 2000 la n.83 che ha attribuito alla
Commissione anche degli importanti poteri di regolamentazione.

A seguire le autorità di nomina governativa (si tratta di alcune autorità in cui la nomina non è di provenienza parlamentare come le 3 che abbiamo visto
precedentemente ma la nomina è di spettanza del Governo):

➔ La Commissione nazionale per la società e la borsa (CONSOB): la Commissione è stata istituita con la legge n.216 del ‘74 ed è composta da un Presidente e
4 membri scelti anche in questo caso fra persone di specifica e comprovata competenza ed esperienza nei settori di riferimento che sono nominati dal
Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio previa deliberazione del Consiglio dei ministri; e durano in carica 5 anni.
Originariamente la CONSOB nasce come organo servente il Governo nella regolazione e nella vigilanza sulla borsa e sui mercati finanziari. Nel corso del
tempo, e in particolare attraverso molteplici interventi legislativi degli anni ‘80 e ’90, la CONSOB si trasforma in una vera e propria autorità amministrativa
indipendente, ampliando i suoi poteri di intervento e venendo accentuata la sua indipendenza dal Governo e dal circuito dell'indirizzo politico. La CONSOB
esercita poteri normativi per assicurare la trasparenza e il regolare funzionamento dei mercati finanziari ed è dotata di poteri di vigilanza e sanzionatori per
reprimere le violazioni, le trasgressioni appunto della sua disciplina finalizzata a regolare il finanziamento dei mercati finanziari. Negli ultimi anni vi è poi una
grande discussione pubblica se non ulteriormente aumentare i poteri della CONSOB, facendo condividere alla CONSOB insieme all'autorità antitrust, i poteri
di vigilanza anche sul sistema creditizio.
➔ L'istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private (ISVAP) è stato istituito con una legge del 1982, la 576, e di cui sono organi il Presidente e il Consiglio;
Presidente nominato con decreto del Presidente della Repubblica su deliberazione del Consiglio dei ministri e su proposta del ministro dell'industria;
componenti nominati invece dal Presidente del Consiglio dei ministri di concerto col ministro dell'industria. Il Presidente dell'ISVAP dura in carica 5 anni; i
membri 4 anni e possono essere confermati. L'ISVAP svolge funzioni di vigilanza sul mercato delle assicurazioni; ha poteri sia di tipo regolamentare che di
tipo provvedimentale-sanzionatorio. Anche in questo caso lo sviluppo verso il modello delle autorità amministrative indipendenti (in particolare la
soppressione di alcuni poteri di ingerenza e di direttiva del Governo e dei comitati interministeriali si realizza nel corso del tempo) l'ISVAP trova una sua
definitiva disciplina con il decreto legislativo delegato 373 del ’98.
➔ La Banca d’Italia (BI) è un istituto di diritto pubblico che esercita funzioni Bancarie nel ruolo di Banca centrale della Repubblica italiana. Dal 1998 è parte
integrante del sistema europeo delle banche centrali; gli organi di vertice della Banca sono il direttorio composto da sei membri e il governatore. La nomina
del governatore è disposta con un decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del
Consiglio dei ministri sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d’Italia. Il medesimo procedimento si applica anche alla revoca del governatore.
Fino alla recentissima riforma, introdotta con il decreto legislativo 262 del 2005, il governatore rimaneva in carica a vita. Il decreto legislativo 262 ha
introdotto invece il principio del mandato a termine anche del governatore. La Banca d’Italia esercita due principali funzioni: una monetaria, l'altra di
vigilanza, ai fini della concorrenzialità del sistema Bancario. Da tenere presente che oggi il Governo della moneta è passato alla Banca centrale europea.
Entrambe le funzioni sono di autorità amministrativa indipendente, ma come autorità di vigilanza del sistema creditizio la Banca d’Italia è sottoposta alle
direttive del Comitato interministeriale per il credito e risparmio. La Banca d’Italia ha avuto una lunga evoluzione: nella legge Bancaria del 1936 era
considerata un soggetto pubblico strumentale agli apparati governativi (per il Governo all'indirizzo del settore Bancario); ma progressivamente la Banca
d’Italia ha acquisito prestigio e autorità che sono state concretamente ottenute sul campo e ha conquistato quella indipendenza che, in realtà, di fatto non è
costituzionalmente prevista. Viene considerata, ancorché sui generis, un'autorità amministrativa indipendente; e anche sotto il profilo processuale i suoi atti
vengono trattati dal giudice amministrativo come atti di autorità amministrativa indipendente. Piccolo particolare a testimonianza della peculiarissima
collocazione della Banca d’Italia e del suo governatore nel sistema politico italiano: si può ricordare e come ben due governatori della Banca d’Italia siano
diventati presidenti della Repubblica (Einaudi nel ‘48 e Ciampi nel ’99).

Vi sono poi una serie di autorità a nomina mista facciamo riferimento:

➔ L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) è stata istituita con la legge n.248 del ’97: gli 8 commissari sono eletti per metà dalla Camera dei
deputati e per metà dal Senato della Repubblica. Il Presidente invece è proposto direttamente dal Presidente del Consiglio, ma è sottoposto al parere
positivo delle Commissioni parlamentari. L'autorità svolge una funzione attiva di controllo di tutto il sistema delle comunicazioni, i cui attori devono
conformarsi in primo luogo ai principi dell'articolo 21 della Costituzione: pluralismo e promozione della concorrenza, garanzia di un’informazione imparziale,
completa, obiettiva e di qualità. L'autorità ha competenza in materia tariffaria, di qualità e controllo degli operatori del mercato e ha poteri regolamentari.
Tutta l'area delle telecomunicazioni, dalla televisione, agli audiovisivi, ai telefonini che noi continuamente utilizziamo è tutta quanta assoggettata a incisivi
poteri di regolazione e di controllo da parte delle autorità della AGCOM.
➔ L'autorità per l'energia elettrica e il gas (AEEG) anch'essa istituita nel ‘95 con la legge 481, i cui membri sono nominati con decreto del Presidente del
Consiglio, su deliberazione del Consiglio dei ministri e proposta del ministro dell’attività produttiva; ma le nomine sono subordinate al parere vincolante
espresso a maggioranza dei 2/3 dei componenti delle Commissioni parlamentari. Anche per questa autorità vale il tradizionale requisito della professionalità
e dell'indipendenza. L'autorità si occupa di promuovere l'efficienza e la concorrenza nei settori dell'energia elettrica e del gas garantendo economicità,
qualità, tutela dei consumatori e degli utenti; e ha la potestà di fissare le tariffe dei servizi.

Profili di diritto costituzionale


Il 1° elemento che viene in rilievo nella vicenda delle autorità amministrative indipendenti è la sottrazione al circuito della responsabilità politica. L'articolo 95 della
Costituzione fa riferimento ad un modello di amministrazione per cui l'amministrazione soggiace al Governo ed è a sua volta legata, attraverso appunto il Governo, al
circuito fiduciario con il Parlamento. Quindi nel sistema italiano l'amministrazione è strumento dell'indirizzo politico che si crea nel rapporto fra corpo elettorale-
Parlamento-governo. Ciò non accade per le autorità amministrative indipendenti, la cui natura di indipendenza le sottrae a questo circuito che si crea corpo elettorale-
Parlamento-governo-Pubblica Amministrazione: le ragioni che hanno spinto all'adozione di questo modello sono quelle che si è provato a dire all'inizio. Tuttavia, ciò non
toglie che siamo di fronte a un modello organizzativo che rompe il circuito disegnato originariamente nell'articolo 95 della Costituzione; tant'è vero che tutte le proposte
di riforme costituzionali che si sono succedute negli ultimi 20 anni hanno tradizionalmente tentato di prevedere la costituzionalizzazione delle autorità amministrative
indipendenti. L'altro problema peculiare che tocca le autorità amministrative indipendenti è quello che deriva dal fatto che, per potere esercitare efficacemente le
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proprie competenze regolatorie e per poter adattare le proprie attività a quelle esigenze mutevoli dei settori regolati (settori caratterizzati da un elevato grado di
tecnicità e da un elevato grado di modifiche delle condizioni: si pensi al settore della televisione, si pensi al settore delle comunicazioni, si pensi al settore dell'energia in
cui bisogna di volta in volta reagire rispetto a quello che è oramai solo un aumento dei prezzi del petrolio). Per fare in modo che queste autorità possono agire
rapidamente ed efficacemente, in realtà bisogna dotarle di un'ampia discrezionalità e di una notevole flessibilità d'azione. Quindi spesso le leggi istitutive di queste
autorità si limitano ad indicare obiettivi dell'azione delle autorità con enunciazioni di principio sullo scopo delle attività, senza disciplinare concretamente e
specificamente i poteri e le finalità dei poteri ad esso attribuite. Quindi anche qui siamo di fronte ad una rottura del modello tradizionale dell'amministrazione, che è
un'amministrazione che invece opera sulla base del principio di legalità (cioè della previsione da parte della legge dei poteri attribuiti all'amministrazione e, spesso e
volentieri, sulla base di leggi che indicano specificamente poteri, compiti e finalità). Si tende a dire che le autorità amministrative indipendenti in questo caso operano
avendo a riferimento direttamente non solo l'enunciazione di principio date dalle leggi istitutive, ma anche le enunciazioni di obiettivi direttamente date dalla
Costituzione.

Le principali garanzie
Questi due problemi però vanno collocati in un contesto che vede anche l'emergere di garanzie rispetto al sistema delle autorità amministrative indipendenti. La
garanzia di fondo, a cui facciamo riferimento, è proprio quel carattere di neutralità, di indipendenza, di tecnicità dei componenti e quei criteri di nomina che
garantiscono questa loro indipendenza. Però teniamo anche presente che le autorità amministrative indipendenti sono sì indipendenti, ma entrano in un rapporto
dialettico con le istituzioni rappresentative; non sono quindi totalmente scisse dalla politica e dal circuito politico, ma hanno una serie di relazioni comunicative, di
contatti formali e informali con Parlamento, Governo, Regioni ed enti locali (si pensi per esempio alle relazioni al Parlamento che spesso le autorità amministrative
svolgono).

L’attività delle autorità amministrative è assoggettata ad un sindacato giurisdizionale che è il principale fattore di controllo e di responsabilizzazione dell'operato delle
autorità amministrative. Il sindacato è esercitato dal giudice amministrativo sia sull'attività di carattere regolamentare che sulla attività di carattere provvedimentale-
sanzionatorio. Anche qui da tenere presente che nella fase iniziale dell’istituzione dell'autorità amministrativa vi fu una linea di riflessione che tendeva a costruire le
autorità amministrative indipendenti come organo quasi giurisdizionale. Ci furono spesso proposte che tendevano a sottrarre il sindacato sulle autorità amministrative
indipendenti rispetto al circuito del giudice amministrativo, ritenendo che il controllo sull'attività dell'autorità amministrativa indipendente andasse effettuato
direttamente dal Consiglio di stato (cioè non con 1° e secondo grado bensì direttamente all'organo di vertice della giustizia amministrativa). Queste linee di tendenza poi
sono state sconfitte, sono state superate e oggi c'è un sindacato giurisdizionale completo: 1° e secondo grado. Il problema di fondo di questo sindacato è l'ampiezza di
questo sindacato giurisdizionale: se sia un sindacato giurisdizionale. Tant'è che vi sono riflessioni che tendono a parlare di un sindacato di tipo debole: cioè di un
sindacato che può limitarsi a controllare la logicità del procedimento decisionale delle autorità amministrative indipendenti, senza penetrare nel tipo della decisione
perché diventerebbe una penetrazione in un merito che è caratterizzato, spesso e volentieri, da una elevata tecnicità. L'ultima garanzia questa ampia carrellata a cui
facciamo riferimento è quella del giusto procedimento: l'attività delle autorità amministrative indipendenti, la loro produzione giuridica sono assoggettate alle regole del
giusto procedimento e quindi in particolare a tutte quelle regole che disciplinano la partecipazione dei soggetti al procedimento e l'accesso ai documenti.

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CAPITOLO 18 – LE REGIONI DELL’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE

Le Regioni nella Costituzione italiana


Quando il costituente nel ’46-‘48 approvò il testo della Costituzione italiana, l'istituzione delle Regioni fu vista come una delle cose più originali del testo della
Costituzione. In costituente si discusse fra il mantenimento di un assetto unitario (sul modello dello stato francese) ovvero si discusse sul riconoscere più o meno ampie
autonomie ad entità sub statali. Prevalse l'idea dell'istituzione delle Regioni riallacciandosi non già agli stati preunitari (da tenere presente che durante il dibattito in
costituente il timore di un eccesso di frammentazione del paese era sempre presente, avendo l’Italia nel ’46-‘48 meno di 100 anni di storia unitaria); ci si riallacciò quindi
a ripartizioni geografiche che non corrispondevano naturalmente agli stati preunitari; si istituirono le Regioni; e la grande novità quella della potestà legislativa
riconosciuta alle Regioni. L'elenco delle Regioni è contenuto nell'articolo 131; l'articolo 116 prevede alcune Regioni (le cd. Regioni a statuto speciale) con forme
particolari di autonomia e 15 Regioni a stato ordinario. Con questa disciplina particolare delle Regioni, con questa disciplina particolare del decentramento (che ha il suo
fondamento nell'articolo 114 e seguenti ma il richiamo in termini di principio è contenuto nell'articolo 5 della Costituzione) l’Italia si riallacciava e si riallaccia tutt’ora ad
una vicenda (che è una vicenda comune in tutti gli stati contemporanei): il dibattito sulla costruzione di stati federali e sul rapporto fra stato federale e stato regionale. La
differenza fra stato federale e stato regionale è andata sempre più affievolendo e oggi sono moltissimi gli stati che riconoscono forme particolari di autonomie alle
istanze regionali di tipo sub-statale. Nell’Unione europea, da una situazione originaria in cui vi era solo la Germania che aveva un assetto di tipo federale ( in Italia le
Regioni furono istituite negli anni ’70) si è passati a numerosi stati che hanno una struttura di tipo regionale; tant'è che l'articolo 1.5 del Trattato che adotta una
Costituzione per l’Europa a prescindere dalle sorti della sua approvazione dice “l'Unione rispetta l'uguaglianza degli stati membri davanti alla Costituzione e la loro
identità nazionale, la struttura fondamentale politica e costituzionale compreso il sistema delle autonomie locali e regionali” cioè il rispetto del sistema di autonomie
locali e regionali è diventato un principio dell'intera struttura costituzionale europea. È tutto l'assetto europeo che ha visto uno svilupparsi forte delle autonomie
regionali. Esempi recenti: l'esempio della Spagna. In Italia la Costituzione istituisce 15 Regioni a statuto ordinario + 5 Regioni a statuto speciale. Le Regioni a statuto
speciale sono: Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta che dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia secondo i
rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. Le altre Regioni sono Regioni a statuto ordinario. La differenza politico istituzionale fra le une alle altre deriva
dal diverso grado di autonomia che originariamente ebbero le speciali rispetto alle ordinarie; le speciali furono istituite negli anni che vanno dal ‘46 al ‘63 e derivano
questa loro caratteristica dalla collocazione geografica (Sicilia e Sardegna) ovvero dal fatto di essere in situazioni di confine (val d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-
Venezia Giulia) e dall'avere più o meno forti minoranze linguistiche (francofona, germanofona e una minoranza slovena piccola ma significativa, in ragione della
collocazione della Regione in Friuli-Venezia Giulia). Le condizioni speciali di autonomia consistono in un’autonomia legislativa e finanziaria che, almeno all'origine, era
molto più ampia della Regione a statuto ordinario (anche se oggi, sotto il profilo l'autonomia legislativa, le situazioni si sono sufficientemente parificate); diverso rimane
il tema delle disponibilità finanziarie delle Regioni a statuto speciale che tuttora godono di un regime privilegiato rispetto alle Regioni ordinarie. Le Regioni ordinarie sono
invece le altre 15. La Costituzione è stata modificata con la legge costituzionale n.3 del 2001 che, fra l'altro, ha introdotto un nuovo testo dell'articolo 114 che è di
particolare significato in quanto ci dà una nozione generale di Repubblica affermando che “la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città
metropolitane, dalle Regioni e dallo stato”. Quindi lo stato diventa un elemento costitutivo insieme agli altri di questo elemento complessivo della Repubblica e ci precisa
che” i comuni, le province, le città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Da
questi due commi dell'articolo 114 la dottrina e la Giurisprudenza della Corte ne hanno derivato un principio, che è il principio della eguale dignità istituzionale di tutti
questi enti all'interno della Repubblica, che però non deve diventare un'idea che tutti questi enti facciano tutti la stessa cosa: eguale dignità istituzionale degli enti ma
differenziazione delle funzioni tra province, comuni, città metropolitane, Regioni e stato. Il ruolo delle Regioni è stato profondamente modificato in Italia nel corso della
XIII legislatura. La XIII legislatura è quella che ha visto una significativa attività legislativa ordinaria; in particolare si fa riferimento alla legge 59 del ’97, la cd. “legge
Bassanini” dal nome del ministro proponente e i successivi decreti legislativi di attuazione di questa legge: in particolare il decreto legislativo 112 del ’98, che hanno
significato un 1° importante aumento di ruolo delle Regioni. Si ricorda inoltre che le Regioni a statuto ordinario furono istituite nel 1970, videro un 1° trasferimento di
funzioni nel 1972 e un successivo trasferimento di funzioni nel 1978; il 3° trasferimento è quello attuato con nel ’97-’98. Sempre nel corso della XIII legislatura sono state
approvate le due importanti leggi costituzionali: la n.1 del ‘99 e la 3 del 2001. Di queste due leggi costituzionali ci interessa sottolineare che non hanno risolto un nodo
fondamentale dello stato italiano: quello dei rapporti fra stato e Regioni e degli strumenti di attuazione del principio di leale cooperazione.

Il principio di leale cooperazione


È evidente che uno stato, sia esso federale o sia esso regionale, ma in cui sono riconosciute ampie autonomie a entità sub-statali e addirittura la potestà legislativa, deve
avere degli strumenti e dei luoghi in cui lo stato e le Regioni si confrontino, discutano e decidano insieme, trovino insieme i modi per andare avanti. Deve avere anche
degli strumenti con cui a un certo punto l’entità superiore possa dire: “basta la discussione è finita. Bisogna decidere”. Tutto ciò va esercitato secondo il principio che la
Corte costituzionale ha iniziato a elaborare addirittura nel 1985 il principio di leale cooperazione. Stato e Regioni, così come i poteri dello stato, devono operare
atteggiandosi reciprocamente secondo un principio di cooperazione leale. Il principio lo si ritrova affermato in tantissima Giurisprudenza della corte: lo si trova
richiamato, anche se non disciplinato nel testo della Costituzione in cui si parla di “intesa” e “coordinamento” all'articolo 118, all'articolo 120 comma 2 dove si parla di
principio di sussidiarietà e principio di leale collaborazione. Tuttavia, non basta affermare il principio, occorre anche dargli gambe, luoghi e procedure. Sotto questo
profilo, la Costituzione italiana rimane carente. Il luogo principale di confronto fra stato e Regioni rimane a tutt'oggi la conferenza stato-Regioni e in generale il sistema
delle conferenze. La conferenza stato-Regioni fu istituita e ridisciplinata per la prima volta organicamente con il d.lgs. 281 del ‘97 che ha previsto la possibilità che in
conferenza stato-Regioni si disciplinino intese, gli accordi, scambi di dati e informazioni e le modalità del confronto fra stato e Regioni. Sempre lo stesso ha poi previsto,
insieme a fianco alla conferenza stato-Regioni, una conferenza stato-città e la conferenza unificata per trattare gli argomenti di interesse comune fra lo stato, le Regioni e
le autonomie locali. Questo sistema di conferenza ha un funzionamento molto importante, molto significativo; la principale attività del sistema delle conferenze consiste
nel rendere pareri su testi dello stato ovvero è il luogo in cui, anche secondo la Giurisprudenza della Corte costituzionale, stato e Regioni devono trovare intese in tutti i
casi in cui le materie siano intrecciate fra l'uno e gli altri soggetti. Il limite della conferenza stato-Regioni è quella di essere un luogo di discussione amministrativo: cioè si
discute su atti amministrativi e non si discute di indirizzo politico. Si discute su come costruire quel singolo atto, si discute su come costruire quel singolo finanziamento
ma manca una riflessione sugli orientamenti complessivi che stato e Regione si devono dare. Peraltro, la conferenza stato-Regioni richiederebbe oggi probabilmente una
disciplina procedimentale più accurata. Sempre il legislatore costituzionale della legge n.3 del 2001 con una ambiguissima norma “sino alla revisione delle norme del
titolo I della parte II della Costituzione” (sostanzialmente voleva dire fino a quando non faremo un una Camera in cui le Regioni saranno rappresentate; fino a quando
non faremo il cd. Senato o la cd. Camera federale) quindi ponendosi il problema di una legislazione di un nuovo testo costituzionale, “i regolamenti della Camera
deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle province autonome e degli enti locali alla Commissione
parlamentare per le questioni regionali”. Secondo l'articolo 11 della n.3 del 2001, i progetti di legge che riguardavano le materie di potestà legislativa concorrente stato-
Regione o la distribuzione delle risorse finanziarie dovevano passare in Commissione bicamerale integrata (bicamerale vale a dire composta da Senatori e deputati) dai
rappresentanti delle Regioni delle autonomie e, se la Commissione dava parere negativo o parere condizionato, l'assemblea avrebbe dovuto approvare il testo a
maggioranza assoluta dei componenti: quindi con una maggioranza più elevata di quella ordinaria (che si ricorda essere quella semplice → la metà più uno dei presenti in
aula). Questa Commissione parlamentare così integrata avrebbe dovuto svolgere il ruolo del confronto politico-istituzionale fra stato e Regioni; ai più può sembrare un
palliativo, un luogo riduttivo, un luogo che avrebbe avuto solamente la funzione di rendere più difficile il procedimento legislativo; poteva però essere un embrione di
luogo di discussione. La prassi politico-istituzionale ha fatto sì che, almeno nel corso della XIV legislatura, questa Commissione parlamentare non sia mai stata integrata
dai rappresentanti delle Regioni e delle autonomie e così questo ruolo di luogo di discussione politica non si è avuto. In realtà si sta continuando a discutere se
trasformare una delle due Camere, presumibilmente il Senato, (in ragione del collegamento che la Costituzione pone con l’elezione su base regionale) in una Camera

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delle Regioni; ma questo è ancora argomento di future riforme costituzionali. La 1 del ’99 e la 3 del 2000 hanno aumentato i poteri della Regione nell'ordinamento
costituzionale; non hanno risolto il nodo cruciale degli strumenti di raccordo fra stato e Regioni.

Gli organi necessari della Regione


Secondo l'articolo 121 della Costituzione, vi sono alcuni organi necessari della regione: il Presidente della Giunta, la Giunta, il Consiglio regionale, il Consiglio delle
autonomie locali. Sempre secondo l'articolo 121 della Costituzione comma 4, “il Presidente della Giunta rappresenta la regione, dirige la politica della Giunta e ne è
responsabile, promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali”. Da tenere presente che la 1 del ‘99 ha profondamente modificato il sistema di individuazione del
Presidente della Giunta e la sua collocazione nel circuito dell'indirizzo politico, corpo elettorale, Consiglio regionale e Presidente.

La Giunta regionale, sempre dall'articolo 121, è definita “l'organo esecutivo delle Regioni” e il Consiglio regionale “è titolare della potestà legislativa e delle altre funzioni
conferite dalla Costituzione e dalle leggi e può fare proposte di legge alle Camere”. Il Consiglio delle autonomie locali è stato introdotto dalla legge costituzionale n.3 del
2001 secondo la quale “in ogni Regione lo statuto disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali”.

La forma di Governo regionale


La n.1 del ‘99 ha profondamente modificato la forma di Governo regionale suggerendo una forma di Governo particolare. Dobbiamo partire dobbiamo fare un passo
indietro: la forma di Governo prevista originariamente in Costituzione per le Regioni a statuto ordinario, e vi è più accentuata dagli statuti del 1970, era sì una forma di
Governo parlamentare in cui Governo e Consiglio erano legati dal rapporto di fiducia, ma è una forma di Governo che la dottrina ha sempre definito di tipo assembleare
(cioè con peculiari rapporti da parte dell'organo rappresentativo). I due punti di maggiore evidenza di questa caratteristica assembleare della forma di Governo regionale
erano 1) il tipo di rapporto fra Presidente della Giunta e Consiglio. Nessun meccanismo di stabilizzazione era previsto né in Costituzione né negli statuti a favore
dell'esecutivo regionale, il quale poteva essere modificato continuamente dal Consiglio regionale. In Consiglio regionale si creavano maggioranze diverse e
immediatamente si aveva un riverbero sulla Giunta. Quindi la mancanza di qualsiasi meccanismo di stabilizzazione a favore dell'esecutivo regionale. 2) l'attribuzione della
potestà regolamentare ai consigli. La n.1 del ‘99 interviene su questi due punti: elimina la riserva di potestà regolamentare a favore del Consiglio lasciando liberi, secondo
l'interpretazione oramai sanzionata dalla sentenza della corte, gli statuti di disciplinare diversamente la potestà regolamentare; ma soprattutto indica come forma
normale di elezione del Presidente della Giunta l'elezione a suffragio universale e diretto. L'articolo 122 ultimo comma prevede che “il Presidente della Giunta regionale,
salvo che lo statuto disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto. Il Presidente eletto nomina e revoca i componenti della Giunta”. Non solo: l'articolo
126 ultimo comma, anch'esso introdotto dalla legge costituzionale 1 del ’99, all’articolo 4, prevede che “tutte le vicende che toccano il Presidente della Giunta
(l'approvazione di una mozione di sfiducia, la rimozione, l'impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie del Presidente) comportano altresì le dimissioni
della Giunta e lo scioglimento del Consiglio. Secondo la formuletta che viene utilizzata, Presidente e Consiglio “insieme stavano, insieme cadono”. Si usa nel linguaggio
istituzionale e giornalistico è prevalsa questa formuletta: simul stabunt simul cadent. Se cade il Presidente, cade anche il Consiglio. Non vi è maggior deterrente per la
politica regionale che quello dato dal fatto che, se voto contro il Presidente o se lui si dimette, si scioglie anche il Consiglio; e infatti da quando questa norma è entrata in
vigore, i consigli regionali hanno sempre svolto la loro attività: non ci sono stati scioglimenti anticipati e soprattutto non c'è mai stata la sostituzione in corsa del
Presidente della Giunta. Il Presidente la Giunta viene eletto a suffragio universale e diretto; la sua elezione comporta anche l'attribuzione di una maggioranza al
Presidente della Giunta; e in questo modo i presidenti si sono fatti tutta la legislatura rimanendo sempre in piedi. Pregi: la stabilità e responsabilità (io ti eleggo; tu stai 5
anni; all'esito dei 5 anni mi dici che cosa hai fatto e che cosa non hai fatto; e io ti valuto sulla base delle cose che hai fatto o che non hai fatto; infine io cittadino, che ho
contribuito direttamente senza la mediazione dei partiti a individuare quel Presidente della Giunta, all'esito dei 5 anni ti rivaluto o rivaluto la maggioranza che ti ha
sostenuto e decido se dare il voto a te o al tuo successore ovvero a un altro schieramento: è un grande vantaggio questo). Demeriti: certo legare le sorti di idee, di
attuazione delle idee, di maggioranze al ruolo di una sola persona comporta inevitabilmente una personalizzazione della politica. Nella personalizzazione della politica è
anche fonte di dubbi un eccesso di personalizzazione. Fatto sta che il sistema è andato avanti abbastanza coerentemente su questo meccanismo; ma il sistema è
suggerito dalla Costituzione. L'articolo 122 dice “il Presidente e la Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale
diretto”. Quindi in Costituzione è prevista la possibilità per gli statuti regionali di disciplinare diversamente l'elezione del Presidente della Giunta regionale. Lo stesso
articolo 123 dice che “ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di Governo e i principi fondamentali di organizzazione
e funzionamento. Quindi lo statuto può modificare, ai sensi dell’art.122 ultimo comma, le modalità di elezione del Presidente della Giunta; lo statuto può disciplinare la
forma di Governo delle Regioni. Per forma di Governo nella discussione dei costituzionalisti si fa riferimento all'assetto dei rapporti fra gli organi titolari della funzione di
indirizzo politico; il che vuol dire che lo statuto potrebbe modificare, ma nel rispetto della Costituzione e in armonia con essa, il rapporto fra corpo elettorale-Consiglio
regionale-Giunta-Presidente della Giunta. Vediamo quante ampia rispetto alle tradizionali forme di Governo questa possibilità di modifica. È un dato di fatto che esiste
una forma di Governo che si definisce “presidenziale”, caratterizzata dalla elezione diretta del Capo dello stato, ma soprattutto dalla mancanza di un rapporto di fiducia
fra organo legislativo e Capo dell'esecutivo, giacché il Capo dell'esecutivo viene direttamente eletto dal popolo. La forma di Governo presidenziale nel suo modello tipico,
quindi nel modello in cui c'è elezione diretta del Capo dell'esecutivo, ma assenza del rapporto di fiducia fra legislativo ed esecutivo, non è possibile in ambito regionale
perché l'articolo 126 con norma che è da ritenersi inderogabile da parte degli statuti regionali prevede necessariamente la possibilità che il Consiglio regionale adotti la
mozione di sfiducia nei confronti del Presidente e le conseguenze di questa mozione. Quindi se è vero, come ha ritenuto anche la corte, che la possibilità di mozione di
sfiducia da parte del Consiglio non può essere eliminata dallo statuto regionale, la forma di Governo presidenziale classica, modello USA, non è adottabile a livello
regionale. Precedentemente abbiamo parlato di forme di Governo semipresidenziali: una forma ibrida, ma anch'essa caratterizzata dalla presenza di un duplice rapporto
di fiducia dell'esecutivo da un lato verso il Capo dello stato, dall'altro verso il Parlamento ma caratterizzata soprattutto anche dalla duplicità di figure a Capo
dell'esecutivo. A Capo dell'esecutivo vi è sia il Capo dello stato sia il 1° ministro. Questa formula, almeno nel suo modello tipico di semipresidenzialismo modello
francese, anch'essa non è possibile perché l'articolo 121 ultimo comma prevede che sia il Presidente della Giunta a rappresentare la regione; quindi impedisce lo
sdoppiamento di figura fra un Presidente della Giunta e un Presidente della regione. Quello sdoppiamento tipico del modello semipresidenziale francese, a livello
regionale non è possibile; ma altresì non è possibile nemmeno la forma di Governo cd. “direttoriale”: quella adottata in Svizzera che prevede una parità dei componenti
del Governo a determinare l'indirizzo politico. Non è possibile la forma di Governo “direttoriale” nel suo schema classico giacché il Presidente della Giunta non è uno fra i
pari come occorre nella forma di Governo direttoriale, ma, ai sensi dell'articolo 121 comma 4, dirige la politica della Giunta e ne è responsabile: è lui il Capo quindi non è
uno dei pari come nella forma di Governo “direttoriale”. In verità, alla fine, anche secondo l'esperienza che si è realizzata in questi anni a livello regionale la vera scelta è
fra forme di Governo parlamentari classiche (forme di Governo caratterizzate da un rapporto di fiducia fra Consiglio e Capo dell'esecutivo; e da una scelta del Capo
dell'esecutivo da parte del Consiglio) ovvero le cd. forme di Governo “neoparlamentari”, cioè quelle forme di Governo in cui si è iniziato a parlare in dottrina (anche sulla
base di prassi, per esempio, di discussioni che si ebbero in Francia nel periodo fra la quarta e la quinta Repubblica) → quelle forme di Governo che prevedono
meccanismi di selezione del Capo dell'esecutivo direttamente o indirettamente da parte del corpo elettorale.

Nella prassi italiana, gli statuti avrebbero potuto modificare la forma di Governo suggerita dal legislatore; ma se ciò avessero fatto sarebbero dovuti tornare ad una
forma di Governo “parlamentare pura”. Una Regione in particolare provò ad aggirare il rigore di quella clausola simul stabunt simul cadent prevedendo l'elezione in
“ticket” di un Presidente e di un vicepresidente, in grado di subentrare al Presidente nel caso di sue dimissioni o di voto di sfiducia nei confronti del Presidente. La Corte
costituzionale, con la sentenza 2 del 2004, dichiarò illegittimo lo statuto calabrese su questo punto e ci disse che “appare assolutamente legittima la scelta per una
radicale semplificazione del sistema politico a livello regionale e per la per la unificazione dello schieramento maggioritario intorno alla figura del Presidente della
Giunta”. Ci dice inoltre che “questo meccanismo è imposto temporaneamente al sistema politico regionale” ed è indicata come “normale possibilità di assetto
istituzionale” ma che “può essere legittimamente sostituita da altri modelli di organizzazione dei rapporti fra corpo elettorale-consiglieri regionali e Presidente della
Giunta. In realtà tutti gli statuti regionali finora approvati (approvati nel corso della legislatura regionale che andava dal 2000 e 2005) hanno tutti mantenuto quella

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forma di Governo suggerita come normale dalla legge costituzionale n.1 del ’99: elezione diretta → poteri forti di indirizzo politico del Presidente della Giunta →
Presidente della Giunta che nomina e revoca i suoi assessori → regoletta simul stabunt simul cadent (hanno tutti adottato questa forma di Governo).

Statuti e organizzazione
Gli statuti regionali hanno disciplinato anche molti altri aspetti dell'organizzazione regionale e in particolare hanno disciplinato quelli che potremmo chiamare “organi
eventuali” all'interno dell'organizzazione regionale. Hanno ridisciplinato anche aspetti importanti dell'organizzazione regionale disegnando figure organizzative nuove e
spesso interessanti. Si segnalano in particolare all'interno dei nuovi statuti regionali, quelli approvati nel periodo 2004-2005, la presenza di un organo particolare, quella
che quasi tutti gli statuti chiamano “consulta statutaria” ovvero “consulta per le garanzie statutarie”, cioè una sorta di mini Corte costituzionale, una sorta di organo che
controlla a livello regionale il rispetto da parte delle leggi regionali e degli organi regionali dello statuto regionale: un organo chiamato a vigilare sul rispetto nell’assetto
istituzionale regionale dello statuto. Non siamo ancora in grado di dare un giudizio su questo organo perché dovremmo verificarne il funzionamento in via di prassi. La
Corte costituzionale nella sentenza 378 del 2004 si è pronunziata su questo organo con una sentenza ancora cauta che ha lasciato passare il principio, probabilmente
riservandosi di effettuare un controllo futuro su questi organi. Sempre gli statuti disciplinano poi in maniera questa interessante il rapporto fra Regioni e enti locali cioè
costruiscono in maniera interessante il circuito istituzionale dei rapporti fra Regioni ed enti locali.

CAPITOLI 19 & 20 – REGIONI E FONTI

Gli statuti delle Regioni speciali


Gli statuti delle Regioni speciali per esplicita previsione dell'articolo 116 della Costituzione sono leggi costituzionali. L'articolo 116 della Costituzione dice che “Il Friuli-
Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i
rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”. Dunque, per queste 5 Regioni a statuto speciale la legge costituzionale è prevista dall'articolo 116 della
Costituzione ed è necessaria per attribuire a queste Regioni appunto forme e condizioni particolari di autonomia. Quindi per poter permettere a queste 5 Regioni di
derogare al regime generale previsto per le Regioni italiane dal titolo V della Costituzione. In alcuni casi a fianco al nome italiano compare un nome in tedesco o un
nome in francese: questa è la modifica che è stata introdotta nella legge costituzionale n.3 del 2001 che ha, per la prima volta, previsto la denominazione bilingue del
Trentino-Alto Adige (la parte della Regione che noi chiamiamo Alto Adige è chiamata dai tedeschi Südtirol) e ha previsto la denominazione francese della Regione val
d’Aosta. Quindi forme e condizioni speciali di autonomia con legge costituzionale. La ragione delle 5 Regioni a statuto speciale in due casi la deriva dalla particolare
collocazione geografica delle due Regioni: Sardegna e Sicilia che sono notoriamente isole; negli altri tre casi deriva dalla particolare collocazione geopolitica e dalla
particolare situazione di presenza di minoranze linguistiche o di situazioni delicate di confine. In Valle d’Aosta vi è una forte minoranza francofona: in generale la lingua
parlata dai residenti in Val D'Aosta è un dialetto francese; in Trentino-Alto Adige vi è una forte minoranza (300 mila persone) di lingua tedesca; il Friuli-Venezia Giulia si
caratterizza per essere una Regione di confine con un regime peculiare, che era il regime di Trieste, per una minoranza di lingua slovena. Ma la fondamentale
caratteristica è quella di essere una Regione di confine con quella parte dell’Europa che in quegli anni faceva parte di un diverso schieramento politico: aderiva al mondo
del comunismo europeo. Le leggi costituzionali di queste Regioni sono adottate nel 1948 e sono adottate dall'assemblea costituente sulla base della 17a disposizione
transitoria e finale, che prevede che l'assemblea costituente possa essere convocata dal Presidente per deliberare anche sulla legge per l’elezione del Senato, sulla legge
per la stampa e sugli statuti regionali speciali. Gli statuti sono le leggi costituzionali n.2, 3, 4 e 5 del ‘48 rispettivamente per la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta, il
Trentino-Alto Adige. Per la Sicilia è interessante notare che la legge costituzionale 2 del ‘48 è una legge che converte in legge costituzionale un testo che risale addirittura
al 15 maggio ’46, emanato con regio decreto legislativo da re Umberto II, in quel brevissimo lasso di tempo in cui Umberto fu re: brevissimo lasso di tempo che si colloca
fra l'abdicazione di Vittorio Emanuele III e il referendum del 2 giugno ‘46 con cui il popolo italiano scelse la Repubblica; e in quel lasso di tempo il re Umberto fu
denominato il re di maggio.
Lo statuto del Trentino-Alto Adige poi è stato più volte modificato e l'ultimo testo è il testo contenuto nel d.p.r. 31 agosto 1972 n.670: qui è approvato il testo unico delle
leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige. Questa è una particolarità sotto il profilo delle fonti perché siamo di fronte ad un testo unico
di rango costituzionale adottato sulla base di una di una delega contenuta in una legge costituzionale. Lo statuto del Friuli-Venezia Giulia risale invece al 1963 ed è dato
con la legge costituzionale 1 del 1963. Il Friuli-Venezia Giulia era sì previsto in Costituzione sia nell’articolo 116 sia alla decima a disposizione transitoria; ma lo statuto fu
adottato con un certo qual ritardo in ragione della peculiare situazione internazionale di Trieste. Sotto il profilo delle fonti, questi statuti sono leggi costituzionali, ma
hanno un procedimento diverso dall'articolo 138 per due ragioni: 1) perché è ammessa l'iniziativa da parte dei consigli regionali o delle assemblee legislative delle
Regioni interessate; 2) perché le leggi costituzionali che approvano questi statuti sono sottratte al referendum costituzionale previsto dall’articolo 138: referendum
costituzionale che per le leggi costituzionali riguarda l'intero territorio nazionale e non avrebbe avuto molto senso prevedere un referendum nazionale sulla legge
costituzionale di approvazione dello statuto di una singola regione.
Vi sono molte proposte di riforma che mirano a rafforzare il ruolo della Regione speciale o della provincia nell'approvazione del testo dello statuto. In particolare, la
riforma in discussione nella XIV legislatura (riforma che riguarda numerosissimi articoli della Costituzione riforma che per il momento è stata approvata in prima lettura
delle due Camere), il disegno di legge numero 2.544 b, prevede una modifica all'articolo 116 della Costituzione sulla base della quale gli statuti delle Regioni a statuto
speciale sono approvati previa intesa con la Regione o provincia autonoma. Il diniego da parte della Regione o della provincia autonoma può essere manifestato entro
tre mesi dalla deliberazione del testo e con deliberazione a maggioranza dei 2/3 dei componenti del Consiglio o dell'assemblea regionale o del Consiglio della provincia
interessata. Intesa che quindi richiede il parere favorevole della Regione e per il diniego occorre la maggioranza dei 2/3 dei componenti del Consiglio o dell'assemblea
regionale o del Consiglio della provincia. Si tratta di una proposta di modifica all'articolo 116 della Costituzione che rafforza il ruolo delle Regioni o delle province nel
procedimento di approvazione dello statuto.
Recentemente è stata approvata la legge costituzionale n.2 del 2001, la quale ha prodotto quella che possiamo definire “la decostituzionalizzazione” del regime delle
Regioni a statuto speciale, per ciò che attiene alla forma di Governo. Occorre un piccolo passo indietro. Con la legge costituzionale n.1 del ‘99 si era introdotto per le
Regioni a statuto ordinario, vale a dire per le altre 15 Regioni, un regime di particolare autonomia nell'approvazione degli statuti e, soprattutto, si era introdotta
l'elezione diretta dei presidenti delle Regioni. Ci si accorse che, paradossalmente, dopo la n.1 del ‘99 veniva data maggiore autonomia alle Regioni a statuto ordinario
rispetto alle Regioni a statuto speciale, che erano in qualche modo ingessate dentro una legge costituzionale. Quindi, mentre Regioni a statuto ordinario, avrebbero
potuto autonomamente modificare il proprio statuto, le Regioni a statuto speciale dovevano necessariamente passare per la complicata procedura dell'articolo 138 della
Costituzione. Allora la legge costituzionale del 2001 previde in linea generale l'elezione diretta dei presidenti delle Regioni, con la possibilità delle Regioni speciali di
modificare questo regime, attraverso una legge statutaria che potevano approvarsi esse stesse. Quindi il regime dell'elezione del Presidente della provincia o della
regione, il regime del rapporto fra Consiglio regionale ovvero provinciale e Presidente, il regime dei poteri del Presidente non è più disciplinato nella legge costituzionale,
ma può essere autonomamente disciplinato dalle Regioni a statuto speciale con una propria legge statutaria. La forma di Governo delle Regioni a statuto speciale è stata
in qualche modo decostituzionalizzata. Si è arrivati però a una conseguenza in qualche modo paradossale: i vecchi statuti delle Regioni a statuto speciale sono oggi in
qualche modo paragonabili a delle forme di formaggio in cui i buchi sono maggiori della disciplina che effettivamente è contenuta. Infatti, la forma di Governo delle
Regioni a statuto speciali, originariamente disciplinata negli statuti, oggi può essere disciplinata nelle leggi statutaria. Le norme sull'autonomia finanziaria delle Regioni a

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statuto speciale sono sì formalmente contenute negli statuti (leggi costituzionali) ma in realtà possono essere modificate con legge ordinarie. La ripartizione della potestà
legislativa fra stato e Regione speciale, originariamente prevista nello statuto, è oggi da ritrovarsi nel testo della legge costituzionale n.3 del 2001 attraverso un
complicato meccanismo d'integrazione fra vecchio statuto speciale e nuovo articolo 117. Gli statuti speciali sono in qualche modo di fronte ad una situazione di crisi;
tant'è che molte Regioni speciali stanno in questo momento provando a rielaborare i propri statuti speciali.

Gli statuti delle Regioni ordinarie

La disciplina degli statuti delle Regioni ordinarie è data ieri e oggi dall'articolo 123 della Costituzione; ma l'articolo 123 della Costituzione ha subito importanti modifiche
dopo la legge costituzionale n.1 del ’99; e invero la legge costituzionale n.1 del ‘99 ha profondamente modificato il procedimento di approvazione dello statuto. Nel
precedente regime di vigenza dell'articolo 123, prima della riforma, lo statuto delle Regioni a statuto ordinario era deliberato dal Consiglio regionale e approvato con
legge del Parlamento. In dottrina si discuteva se fosse una legge regionale o se fosse una legge statale. Al di là della di questa discussione complicata, il dato di fondo era:
il Consiglio regionale deliberava il testo, ma era il Parlamento a sancirne definitivamente l'approvazione con una legge statale e con un procedimento in cui addirittura le
Commissioni affari costituzionali dell'una o dell'altra Camera determinavano anche le modifiche da introdurre nel contenuto dello statuto. Il nuovo articolo 123 ha
definitivamente trasformato lo statuto in una legge regionale caratterizzata da alcune interessanti peculiarità di tipo procedimentale. 1° dato procedimentale: a
somiglianza della procedura di approvazione delle leggi costituzionali, lo statuto richiede una duplice approvazione a maggioranza assoluta da parte del Consiglio
regionale; e, a ulteriore somiglianza, con il procedimento di cui all’articolo 138, fra la prima e la seconda deliberazione dello statuto devono decorrere almeno 2 mesi.
Non solo: lo statuto è sottoposto a referendum se lo richiedono, entro tre mesi dalla pubblicazione, 1/50 degli elettori della Regione o 1/5 dei componenti del Consiglio
regionale; e ancora sulla scorta del referendum costituzionale “lo statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti
validi”: anche in questo caso non vi è quorum costitutivo. L'articolo 123 prevede altresì uno strumento di controllo: il ricorso governativo contro lo statuto di fronte alla
Corte costituzionale. Sempre l'articolo 123 dice al 2° comma che “il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti
regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro 30 giorni dalla loro pubblicazione”. Qui si è ampiamente discusso su come andasse costruito il procedimento: se cioè vi
fosse duplice approvazione da parte del Consiglio regionale e cosa si collocasse prima (se il referendum ovvero il ricorso del Governo). La Corte costituzionale ha ritenuto
che il ricorso governativo intervenisse dopo la seconda approvazione da parte del Consiglio regionale e, quindi, su una pubblicazione meramente notiziale, prima del
referendum e, soprattutto, che il ricorso governativo e il giudizio della Corte vertessero non già sul testo pubblicato e promulgato (quindi definitivamente entrato in
vigore) bensì che il ricorso governativo avesse carattere endo-procedimentale (cioè si collocasse all'interno del procedimento). Questa è stata la posizione assunta dalla
Corte in una sentenza sulla Regione Marche e poi confermata in numerose altre sentenze: la n.2 del 2004 e le nn.372,378 e 379 del 2004. Quindi, nel procedimento di
approvazione dello statuto, vi è una prima pubblicazione veramente notiziale; da quella pubblicazione decorre il termine per il Governo per impugnare lo statuto; sul
testo si pronunzia la corte; se la Corte non individua vizi, finalmente il testo potrà essere nuovamente pubblicato e promulgato dal Presidente della regione. Il problema
delicato è sorto nei casi in cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime disposizioni contenute nel testo dello statuto impugnato dal Governo. Questo è successo:
per quanto riguarda la Regione Calabria, il cui statuto fu impugnato e la Corte ne dichiarò illegittime alcune norme per con la sentenza n.2 del 2004; è successo poi con lo
statuto della Regione Umbria e della Regione Emilia-Romagna, che la Corte ha, sia pur in una sola disposizione, dichiarati illegittimi con le sentenze 378 e 379 del 2004.
Lo statuto della Regione Toscana, anch'esso impugnato dal Governo, invece è andato indenne da censure di costituzionalità con la sentenza 372 del 2004. Che cosa
succede di fronte ad una declaratoria di illegittimità di una disposizione contenuta nello statuto? Nel caso della Regione Calabria, dopo la declaratoria di illegittimità, la
Regione Calabria ritenne di dover far ripartire il procedimento: quindi si rifece una prima lettura e, a distanza di due mesi, si rifece una seconda lettura del testo dello
statuto, il quale fu poi pubblicato e, successivamente, non avendo il Governo impugnato, promulgato dal Presidente della regione. Nel caso delle Regioni Emilia-Romagna
e Umbria, la Corte costituzionale si limitò a colpire una piccolissima disposizione degli statuti (relativamente piccola in realtà perché è la disposizione che riguardava
l’incompatibilità fra consigliere e assessore. Diceva lo statuto che chi fa l'assessore deve dimettersi da consigliere. La Corte disse che non può essere lo statuto a
disciplinare questi aspetti. Le Regioni Umbria ed Emilia-Romagna hanno ritenuto di poter promulgare lo statuto, così come colpito dalla sentenza della corte. Nel
frattempo però avevano chiesto un parere al Consiglio di stato; e il Consiglio di stato con due pareri del 2005 aveva statuito quanto segue: “ulteriore conseguenza è che
la dichiarazione di legittimità costituzionale di parte del testo approvato dal Consiglio regionale ne compromette irreparabilmente l'identità, interrompe la linearità e
l'intrinseca coerenza del procedimento e ne determina la definitiva interruzione, in quanto il testo normativo residuo non corrisponde a quello espresso dall’organo
rappresentativo con le modalità prescritte dall'articolo 123”. Il Consiglio di stato disse in questo parere: se la Corte costituzionale colpisce anche un piccolissimo
frammento normativo contenuto nello statuto bisogna riiniziare da Capo. Il procedimento dell'articolo 123 deve iniziare da Capo. Le due Regioni Emilia-Romagna e
Umbria non tennero conto di questo parere; promulgarono lo statuto; nei confronti della promulgazione degli statuti il Governo ha presentato ricorso in Corte
costituzionale e se ne attende la decisione.
Sotto il profilo contenutistico l'articolo 123 detta alcuni contenuti degli statuti. Dice l'articolo 123 “Ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione,
ne determina la forma di Governo e i princìpi fondamentali di organizzazione e funzionamento. Lo statuto regola l'esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su
leggi e provvedimenti amministrativi della Regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali”. Quindi l'articolo 123 detta un contenuto dello statuto;
prevede che cosa lo statuto deve disciplinare. L'attenzione dei commentatori, ma della stessa politica regionale, è per lungo tempo andata sul problema forma di
Governo. Vedremo presto qual è il problema fra la disciplina costituzionalmente prevista dell'elezione diretta del Presidente della Regione e le possibilità per gli statuti
regionali di modificare questa disciplina. Ma oltre a questo, lo statuto alcuni ulteriori contenuti: i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione
(come organizzare la regione), diritto d'iniziativa delle leggi e dei regolamenti, referendum sulla legge e regolamenti. In più l'ultimo comma dell'articolo 123 prevede,
come esplicita indicazione per gli statuti, che “in ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli
enti locali” (comuni e province). Quello di cui abbiamo discusso finora è il contenuto necessario degli statuti, cioè quello che l'articolo 123 richiede sia il contenuto degli
statuti. Si è lungamente discusso, sia in dottrina che in giurisprudenza, e anche nella prima fase di approvazione degli statuti che risale al 1971-72, se oltre al contenuto
necessario gli statuti potessero avere anche un contenuto eventuale, vale a dire se potessero contenere disposizioni diverse e ulteriori rispetto a quelle indicate
dall'articolo 123; e in particolare se negli statuti potessero essere elencate disposizioni programmatiche e di principio. La prima Giurisprudenza della Corte costituzionale,
la Giurisprudenza che intervenne sugli statuti degli anni ’70, non sciolse il dubbio; disse: si tratta di un contenuto appunto eventuale, che può esserci o non esserci, ma
non tocca, non modifica quella che è la sostanza degli statuti. Ma non andò più in là di questa formulazione. Questo principio fu ripetuto anche nella sentenza n.2 del
2004 e la Corte disse: a prescindere dalla efficacia giuridica o meno di disposizioni programmatiche di principio, non mi pongo il problema di questi contenuti.
Così nella discussione che è avvenuta nei consigli regionali nel corso della legislatura 2000-2005, in fase di approvazione degli statuti, quasi tutti i consigli regionali hanno
dedicato buona parte della loro attività a discutere circa l'inserimento di disposizioni programmatiche di principio; e così i consigli regionali si sono divisi, discutendo sul
valore da assegnare alla resistenza, sul richiamo ai principi cristiani, sul richiamo alla tutela della pace, fra gli obbiettivi che andavano inseriti negli statuti: una discussione
in realtà difficilmente sopprimibile; difficilmente impedibile ai consiglieri regionali, ma certo una discussione che sembrava fare dei consigli regionali delle mini
assemblee costituenti. Alcuni statuti, per esempio, hanno previsto ad esempio: la tutela di altre forme di convivenza (il riferimento alle coppie di fatto); la previsione di
un'attività a favore dell'attribuzione della cittadinanza italiana agli extracomunitari; varie attività di carattere finalistico e con forti indicazioni di principi e di obiettivi.
Rispetto a queste indicazioni, il Governo reagì con dei ricorsi, che colpivano in particolare Toscana, Umbria ed Emilia-Romagna; e colpivano proprio queste previsioni di
principio. La Corte costituzionale, con le tre sentenze 372,378 e 379 del 2004, ha reso nei confronti del ricorso del Governo una pronuncia di inammissibilità, cioè ha
detto: il ricorso non devo coltivarlo, non gli devo dare retta, perché tanto queste previsioni contenute negli statuti regionali “dalle premesse appena formulate sul
carattere non prescrittivo e non vincolante delle enunciazioni statutarie di questo tipo deriva che esse (le disposizioni di principio contenute negli statuti) esplicano una
funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica ma certo non normativa”. Qui per esempio, per quanto riguarda l'Umbria, rinviene un carattere di questo tipo
lì dove si dice che la Regione tutela altresì altre forme di convivenza intendendosi diverse dal matrimonio. Dunque, che cosa vuole dire la Corte con questa sentenza?
Queste disposizioni di principio non hanno natura giuridica: sono previsioni culturali, previsioni politiche…Quindi tu Governo è inutile che ti lamenti perché tanto queste

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previsioni non hanno nessuna efficacia. Si è trattato di un modo sottile per risolvere la questione, criticato da gran parte della dottrina: perché in effetti sarà poi difficile
capire quand'è che le disposizioni di principio contenute nello statuto hanno mera efficacia politica e culturale e quand'è che, invece, sono capaci di influire sulla
legislazione. Quindi si tratta di una sentenza che risolve abilmente il problema dell'impugnativa del Governo contro gli statuti delle tre Regioni, che in quel momento
avevano una maggioranza diversa dal Governo; ma certo porrà dei problemi nei tempi a venire, con questa svalutazione delle disposizioni di principio contenute negli
statuti. Sarà interessante andare a vedere nei tempi futuri: a) se gli statuti ancora da approvare continueranno a prevedere disposizioni di principio; b) se la politica
regionale considererà queste disposizioni di principio come inesistenti ovvero se continuerà a richiamarsi ad esse.
L'articolo 123 prevede altresì che “Ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina alcuni contenuti”. Su questo tema dell'armonia
con la Costituzione si è espressa la sentenza 2 del 2004, in cui la Corte ha chiarito che “gli statuti regionali non solo devono rispettare puntualmente ogni disposizione
della Costituzione, ma devono rispettarne anche lo spirito, in nome della costituzionalmente necessaria armonia con la Costituzione”; la Corte ha continuato “ciò che più
recentemente ha trovato conferma nell'affermazione che gli statuti dovranno essere in armonia con i principi e i principi tutti ricavabili dalla Costituzione” → vincolo
rilevante. Questo difficile procedimento, che si ha richiamato, sull'approvazione degli statuti regionali delle Regioni a statuto ordinario ha fatto sì che, nel corso della
legislatura regionale che andava dal 2000 al 2005, non tutte le Regioni a statuto ordinario sono riuscite ad approvare gli statuti. In particolare, gli statuti sono stati
approvati dalle Regioni: Calabria, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria (con quel problema che si ricordava per cui lo statuto
promulgato dell'Emilia-Romagna e dell'Umbria è stato impugnato dal Governo per non aver rispettato la procedura di approvazione). Mancano quindi, nel 2005,
all'approvazione degli statuti ancora: la Lombardia, il Veneto, il Molise, la Basilicata, Abruzzo e Campania.
Gli statuti delle Regioni a statuto speciale sono leggi costituzionali originariamente approvate o dall’assemblea costituente o con la procedura, di cui all'articolo 138; una
parte importante di questi statuti speciali è stata decostituzionalizzata ed affidata alla decisione regionale sulla base della legge costituzionale n.2 del 2001. Gli statuti
delle Regioni a statuto ordinario, precedentemente nel vecchio regime dell'articolo 123 approvati con leggi statali, a seguito della previsione nuova dell'articolo 123 della
Costituzione, introdotto con la legge costituzionale n.1 del ’99, sono oggi leggi regionali approvate con una procedura rafforzata rispetto alla procedura delle leggi
regionali ordinarie.

La potestà legislativa regionale


La potestà legislativa regionale è stata profondamente modificata con la legge costituzionale n.3 del 2001, che ha modificato la struttura e il contenuto dell'articolo 117
della Costituzione ridisciplinando e riscrivendo i confini della potestà legislativa regionale in relazione alla potestà legislativa dello stato. La grande novità della legge
costituzionale 3 del 2001 della modifica intervenuta sull'articolo 117 è stata quella di aver rovesciato il criterio del riparto di competenze fra stato regione. Mentre nel
precedente testo dell'articolo 117 vi era la potestà residuale dello stato e un elenco di materie di potestà legislativa concorrente fra stato e Regioni (e tutto ciò che non
era contenuto in quell'elenco era per definizione di competenza dello stato), nel nuovo testo dell'articolo 117 vi è un elenco di materie di competenza dello stato, un
elenco di materie di competenza concorrente fra stato e regione: tutto ciò che non è contenuto nei primi due elenchi ricadrebbe da solo nella potestà legislativa
regionale. Questa è la grande modifica introdotta dalla legge costituzionale 3 del 2001 che, nell’ idea del Parlamento che ha approvato questo testo, avrebbe dovuto
avvicinare il modello di stato regionale italiano ai modelli tipici e tradizionali di stato federale.

Vediamo in primo luogo quali sono oggi i limiti generali alla legge regionale, che noi ricaviamo oggi in primo luogo dall'articolo 117 comma 1 della Costituzione, che
equiparando potestà legislativa dello stato e potestà legislativa della Regione ci avverte che ambedue i soggetti (stato e regione) esercitano la potestà legislativa nel
rispetto della Costituzione (sia per la legge statale che per legge regionale) e nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Quindi ambedue i soggetti titolari di potestà legislativa sono assoggettati all'ordinamento comunitario e agli obblighi internazionali. Nessun dubbio che le leggi regionali
siano assoggettati all'ordinamento comunitario e agli obblighi internazionali; più delicato è il problema del rapporto tra legislazione statale, fonti comunitarie e fonti
internazionali.

Altri limiti generali, oltre a questi indicati dall'articolo 117 comma 1, alla potestà legislativa regionale (alla legge regionale) sono dati dal limite del territorio: le leggi
regionali sono leggi che possono disciplinare ciò che accade sul territorio regionale, non possono disciplinare cose che succedono fuori dal territorio regionale. Esempio:
leggi regionali sul condono possono disciplinare, nei limiti della potestà legislativa regionale, le vicende di condono all'interno della Regione considerata. Certo una legge
regionale del Lazio non può disciplinare il condono nella Toscana. Le leggi regionali che esorbitano dal territorio sono per esempio le leggi regionali che prevedono
l'apertura di una rappresentanza della Regione X presso la Comunità europea: quella è una legge che, in realtà, dal punto di vista materiale esorbita dal territorio
regionale (ma sono casi peculiari che hanno una loro giustificazione). Il 3° limite generale alla legge regionale è dato dalla definizione delle materie. Il problema della
definizione delle materie oggi riguarda sia la potestà legislativa statale che la potestà legislativa regionale; anzi, ad essere rigorosi, è più un problema che riguarda la
potestà legislativa statale che la potestà legislativa regionale. Il criterio utilizzato dal legislatore costituzionale italiano sia nel ‘48 sia nel nuovo articolo 117 per
individuare il riparto fra stato e Regioni è il criterio che noi chiamiamo “criterio delle materie”: vi sono ambiti materiali di competenza dello stato, ambiti materiali di
competenza delle Regioni. Da tenere presente che nella prassi costituzionale, ma anche nella prassi internazionale non si è individuato nessun altro criterio per ripartire
competenze fra una pluralità di soggetti. Tutti gli stati federali e regionali adottano il criterio delle materie, la tecnica della ripartizione per materie; ma anche il tentativo
recente di Costituzione europea o meglio di trattato per l'approvazione di una Costituzione europea adottava nel riparto di competenze fra Unione europea e stati
nazionali il criterio delle materie. Quindi è un criterio forse rudimentale, ma difficilmente superabile. Esempio: nell'elenco delle materie concorrenti è contenuta la
materia “governo del territorio”. Si è posto il problema se la disciplina urbanistica e la disciplina edilizia facciano parte del Governo del territorio o siano cose diverse.
Oppure: tutta la disciplina dello spettacolo fa parte della tutela dei beni culturali o fa parte della promozione e organizzazione di attività culturali oppure è una materia a
sé stante? Siamo abituati a incasellare le attività umane all'interno di una materia e questa operazione può creare non poche difficoltà. La Costituzione si è limitata a
mettere le teste di capitolo: la denominazione della materia, il contenuto della materia potrà esser dato solamente dalla legislazione e dalla Giurisprudenza
costituzionale. Un tentativo di intervenire attraverso lo strumento della legislazione era stato fatto con la legge 131 del 2003 (la cd. legge La Loggia) che prevedeva
un’attività statale di individuazione dei confini della materia e di ricognizione dei principi di quella materia. Su questa legge è intervenuta una sentenza della corte, la
n.280 del 2004, che ha limitato questa possibilità per lo stato e la vicenda dell'attuazione di questa legge 121 del 2003, a metà 2005, è per il momento ferma. Per quanto
riguarda il procedimento di approvazione della legge regionale, la legge costituzionale n.3 del 2001 ha introdotto una importante novità: ha eliminato il controllo
preventivo dello stato sulle leggi regionali. Nel regime precedente, lo stato poteva impugnare le leggi regionali, dopo l'approvazione da parte del Consiglio regionale,
prima della loro entrata in vigore. Il Governo rinviava la legge al Consiglio regionale, indicandogli eccezioni e obiezioni che faceva al testo; se il Consiglio regionale
riapprovava il testo, lo stato poteva impugnare quella legge regionale di fronte alla Corte costituzionale. La legge costituzionale n.3 del 2001 ha eliminato questa fase di
controllo governativo all'interno del procedimento e ha collocato l'impugnativa statale contro le leggi regionali, non già dopo l'approvazione consiliare, prima della
promulgazione, bensì dopo approvazione e promulgazione: quindi l'impugnativa delle leggi regionali da parte dello stato oggi interviene su leggi regionali vigenti. Questo
pone il problema tipico della possibilità per la Corte di sospendere le leggi regionali. Si segnala, nell'ambito di questa fase del procedimento di approvazione della legge
regionale, che è venuto a cadere nel nuovo testo della Costituzione anche quel vecchio e mai utilizzato strumento che era l'impugnazione della legge regionale di fronte
al Parlamento per violazione dell'interesse nazionale. Il vecchio testo della Costituzione prevedeva questa possibilità; questa possibilità non era mai stata utilizzata dal
Governo; e il limite dell'interesse nazionale da limite “di merito” era diventato un limite “di legittimità”: cioè il Governo impugnava le leggi regionali anche di fronte alla
Corte costituzionale sostenendo che violavano l'interesse nazionale. L'interesse nazionale era diventato il limite di legittimità più ampio e più comprensivo delle leggi
regionali. Questa possibilità è caduta e il testo della legge costituzionale 3 del 2001 ha eliminato anche l'interesse nazionale come limite specifico e generale alle leggi
regionali.

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La potestà legislativa concorrente
Come funziona oggi il riparto di competenza fra stato e regione? L'articolo 117 comma 2 contiene un 1° elenco di materie dalla A alla S, che sono materie di legislazione
esclusiva dello stato. Si tratta di un elenco molto lungo che comprende una serie di materie che sono tradizionalmente ritenute di competenza delle amministrazioni
centrali. Si richiamano all'interno di questo elenco alcune materie di particolare importanza: politica estera e rapporti internazionali sono di potestà legislativa centrale,
ma solo per quanto attiene alla politica estera e ai rapporti internazionali dello stato. Tutta la fascia della cittadinanza e del rapporto con i cittadini di altri stati, l'area
dell'immigrazione, i rapporti con le confessioni religiose, tutti i temi che attengono alla difesa del paese, una serie di specifici temi di macroeconomia (la moneta, la
tutela del risparmio, i mercati finanziari, la tutela della concorrenza) ordine pubblico e sicurezza, tutta l'area della giurisdizione, tutta l'area o meglio l'area principale
della disciplina di comuni, province e città metropolitane (legislazione elettorale, organi di Governo, funzioni fondamentali di comuni, province, città metropolitane)
misura determinazione del tempo, statistica e informatica. L'ultima materia di potestà legislativa statale è la tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali.
Materie su cui lo stato è solo lui competente a indicare le norme (apporre norme legislative).

Il secondo elenco è contenuto nell'articolo 117 comma 3 della Costituzione che fa riferimento alla cd. potestà legislativa concorrente fra stato e regione: anche qui si
tratta di un elenco molto lungo: sotto un profilo di tecnica della redazione del testo, la particolarità è che nel 117 comma 2 i gruppi di materia sono elencati per lettera
dalla A alla S; per la potestà legislativa concorrente invece non vi è questo elenco che un minimo facilita la lettura del testo. Un elenco di particolare rilievo perché vi
sono ricomprese non solo materie che tradizionalmente erano di potestà legislativa concorrente [anche nel precedente ordinamento, soprattutto si pensi all'area del
Governo del territorio e della sanità, che erano già di potestà legislativa concorrente nel precedente ordinamento costituzionale] ma sono ricomprese in questa area due
grandi blocchi di settore di attività di particolare rilievo. Nell'articolo 117 comma 3 si è introdotto nell'area di potestà legislativa concorrente tutto il settore delle grandi
infrastrutture; e se noi andiamo a guardare troviamo nella potestà legislativa concorrente porti, aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, ordinamento
della comunicazione, produzione e trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi.
L'idea è quella di far condividere fra stato e Regione l'esercizio della potestà legislativa nell’ area delle infrastrutture. Altresì di potestà concorrente: la grande area dei
servizi sociali (tutela e sicurezza del lavoro, istruzione, tutela della salute, alimentazione, ordinamento sportivo, protezione civile, previdenza complementare e
integrativa). Queste due grandi aree sono inserite nella potestà legislativa concorrente. Come funziona secondo il modello italiano la potestà legislativa concorrente? Ci
dice l'articolo 117 comma 3 nell'ultimo periodo: nelle materie di legislazione concorrente “Spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei
principi fondamentali riservata alla legislazione dello stato”. Quindi lo schema della nostra Costituzione è nelle materie di potestà legislativa concorrente. Lo stato pone
le norme di principio, quindi le norme generali, le norme che caratterizzano quel settore di attività, la normativa di dettaglio (cioè quella con cui si dà attuazione, si
attuano i principi) è posta dallo stato. Questo sarebbe lo schema previsto dal legislatore costituzionale. Da tenere presente che in altri ordinamenti, per esempio
nell'ordinamento tedesco, si parla di potestà legislativa concorrente nel senso che stato e Regioni concorrono a disciplinare la materia con prevalenza della legislazione
statale. Questo tipo di potestà legislativa che noi in Italia definiamo concorrente, in Germania definita come potestà legislativa “quadro”. Ma questo è il modello
adottato da noi. Questo modello pone un problema immediato: che cosa succede se lo stato cambia i principi e le Regioni non attuano i principi nuovi? Si pensi alla
grande discussione sul tema del condono edilizio. Bello o brutto che fosse il 1° problema era: a chi spetta a disciplinare il condono?

Lo stato pone principi nuovi su queste materie; le Regioni non attuano i principi nuovi; non fanno la loro legislazione (perché non sono in grado/perché non vogliono
/perché vogliono bloccare la legislazione dello stato/per tante ragioni). La discussione che è nata negli ultimi anni, dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale 3 del
2001, è se lo stato possa dettare norme di dettaglio (cioè norme di attuazione dei principi) che vengono definite in dottrina e Giurisprudenza come “cedevoli”, cioè che
cedono il passo ad una successiva ed eventuale legislazione regionale. Quindi secondo lo schema di cui si discute: lo stato pone la norma di principio nuova, la norma di
dettaglio di attuazione di questo principio; ma questa norma di dettaglio cede il campo, cioè viene eliminata, nel momento in cui le Regioni pongono loro la norma di
attuazione del principio nuovo. Nel precedente sistema costituzionale (fino alla 3 del 2001) questa possibilità era accettata. Allo stato attuale della Giurisprudenza non è
ancora chiaro se c'è questa possibilità, anche la sentenza n.196 del 2004 sembrerebbe andare in quel senso. L'articolo 117 comma 4 contiene in realtà un non-elenco:
“Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Come funziona il meccanismo? Io
legislatore o operatore o avvocato io giudice o funzionario amministrativo, che mi trovo di fronte al problema della disciplina di un certo settore, dovrei in primo luogo,
per capire qual è il soggetto competente, andare a scorrere l'elenco dell'articolo 117 comma 2 (potestà esclusiva dello stato); in secondo luogo scorrere l'elenco
dell'articolo 117 comma 3 (potestà concorrente-stato regione); se quell'ambito materiale di attività non è ricompreso né nell'elenco del 2° comma né nell'elenco del 3°
comma, io dovrei dire potestà legislativa residuale della regione: ciò che residua spetta alla regione. [Questo schema di funzionamento è uno degli indici di
riconoscimento degli stati federali] Perché “dovrei dire”? La materia “spettacolo”, l'ambito materiale di attività umana “spettacolo” (quindi il cinema, il teatro, la danza,
la musica) non è ricompreso né nel 117 comma secondo, né nel 117 comma 3°. Di 1° acchito io “dovrei dire”: è potestà legislativa residuale delle Regioni perché non c'è
nell'elenco, non è compreso; io leggo e non lo trovo “spettacolo”. Questa è stata per lungo tempo la tesi delle Regioni; a questa tesi lo stato ha opposto un’altra tesi: “è
potestà legislativa esclusiva dello stato la tutela dei beni culturali”. Lo spettacolo è in larga misura tutela di beni culturali: “tutto mio” ha detto per lungo tempo lo stato.
Ma nella potestà legislativa concorrente esiste un ambito che si definisce “promozione e organizzazione di attività culturali”: probabilmente lo spettacolo ricade là
dentro. È successo che stato Regione non si sono messi d'accordo per 2,3 anni su dove incasellare lo spettacolo. Fino a che dopo 3 anni di discussione è arrivata la Corte
costituzionale che ha detto che la materia spettacolo è “promozione e organizzazione di attività culturali “. Se io non so i confini della materia, inizio a discutere se sta qui
o se sta lì. Quindi questo è il 1° problema: il meccanismo di residualità a favore delle Regioni non funziona fino in fondo. Poi in questi 4 anni di attuazione dell'articolo 117
ci si è accorti che questi elenchi di materie di competenza dello stato erano limitati: c'era poca roba. Sebbene apparentemente, l’elenco si è rivelato non
sufficientemente corto; e allora la Giurisprudenza della Corte costituzionale [che in questa vicenda ha svolto un ruolo pretorio (cioè sicuramente al di là dei suoi compiti)
ma imprescindibile, perché ci ha aiutato a chiarire l'interpretazione del meccanismo dei rapporti fra stato e Regioni] con alcune intuizioni della dottrina che erano andate
in questa direzione ha individuato all'interno delle materie di potestà legislativa dello stato delle materie cd. trasversali, nel senso che attraversano tutti gli ambiti di
attività. Esempi: tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali → la tutela dell'ambiente tocca la tutela della salute; tocca il Governo del territorio; tocca
l'ordinamento delle comunicazioni; tocca il Governo dell'energia. Tante materie sono attraversate dalla problematica della tutela dell'ambiente. Questo ha permesso allo
stato di intervenire in nome della tutela dell'ambiente su materie altrimenti da ritenersi di potestà regionale concorrente ovvero residuale; ma lo stesso vale per la tutela
della concorrenza, che la Corte ha utilizzato nello stesso senso; lo stesso vale per un ambito di competenza dello stato che l'articolo 117 2° comma lettera m definisce
“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. In soldoni spetta allo
stato, anche nelle materie di potestà legislativa regionale, individuare quella soglia comune di prestazioni che devono essere uguali su tutto il territorio nazionale. Anche
se le prestazioni riguardano una materia di potestà legislativa regionale (per esempio l'assistenza sociale) spetta allo stato determinare la soglia comune a livello
nazionale. Queste sono le cd. materie statali trasversali.

Poi sempre la Corte si è “inventata” (e in dottrina qualche autore ha parlato addirittura di “potere costituente” della Corte in questo senso) l'idea che così come la
sussidiarietà vuole che siano portate verso il basso le funzioni, ovvero che siano diffuse fra gruppi e cittadini, altrettanto la sussidiarietà può permettere di portare verso
l'alto funzioni; e quindi, se ci sono fra le materie di potestà legislativa regionale, concorrente o residuale, attività che non possono essere svolte in maniera soddisfacente
a livello regionale, la legge dello stato può tirare su, a livello statale questo tipo di funzioni. La prima sentenza in cui la Corte ha elaborato questa tesi è la 303 del 2003.
Questa sentenza è stata poi confermata da varie altre sentenze fra cui la 6 del 2004 e la 242 del 2005. In particolare, in queste sentenze la Corte ha detto che “una
deroga al normale riparto di competenze è ammissibile solo se la valutazione dell'interesse pubblico, sottostante all'assunzione di funzioni regionali da parte dello stato,
sia proporzionata e non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità”. La Corte in queste sentenze ha imposto altresì che “la
chiamata in sussidiarietà di funzioni che spettano alle Regioni deve comportare anche la necessità che lo stato coinvolga sostanzialmente le Regioni stesse”. Quindi io
posso portare verso l'alto la disciplina di funzioni che sarebbero regionali, solo se questo portar verso l'alto sia congruente e ragionevole rispetto alla disciplina, e solo se
io stato coinvolgo le Regioni nel costruire insieme la disciplina sostanziale di queste materie. La sentenza 303 del 2003 interviene sul tema “grandi reti di trasporto e di
navigazione e ordinamento della comunicazione” (temi cruciali per costruire un paese); la n.6 del 2004 interviene nella materia “produzione, trasporto e distribuzione
nazionale dell'energia”. La 242 del 2005 interviene sul tema delle “grandi politiche economiche dello stato”. Lo stato deve coinvolgere le Regioni su queste grandi
materie ai sensi dell’art.117 Cost.

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La verità è che nell'articolo 117 è stato compiuto un tentativo generoso, ma forse ingenuo di eliminare la valutazione del livello degli interessi nella disciplina delle
materie. L'esempio più eclatante è il fatto che spetti alla potestà legislativa concorrente la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia. Questo è stato il
tentativo fatto nell'articolo 117: la Corte si è trovata nella necessità di reintrodurre questa valutazione del livello degli interessi nella disciplina delle materie. In questa
direzione vanno anche i tentativi di riforma dell'articolo 117, di cui si sta discutendo in questa legislatura.

Cosi tracciata a grandissime linee il riparto di potestà fra stato e regione, diamo un rapido sguardo alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni a statuto speciale.
Premessa legata all'articolo 10 della legge 3 del 2001. Gli statuti speciali risalgono a più di 40 anni fa. La disciplina più recente delle Regioni a statuto ordinario è del 2001.
In realtà oggi è più moderna la disciplina delle Regioni a statuto ordinario di quella delle Regioni a statuto speciale; e allora il legislatore costituzionale nella 3 del 2001
introduce un articolo 10: “sino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge regionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale, per
le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”. Quindi io operatore ogni volta devo confrontare il nuovo articolo 117 con i vecchi
statuti; vedere se il nuovo articolo 117 è più favorevole anche alle Regioni speciali, e in tal caso applico il nuovo articolo 117; altrimenti applico il vecchio statuti e
riemergono i limiti tradizionalmente posti alla potestà legislativa definita esclusiva delle Regioni a statuto speciale.

In estrema sintesi, questi limiti erano e sono (oltre all'interesse nazionale su cui vale ragionamento che abbiamo fatto prima, oltre alle norme costituzionali e agli obblighi
internazionali dello stato, che rimangono anche attualmente come limite) i principi generali dell'ordinamento giuridico dello stato e le norme fondamentali di riforma
economico-sociale.

La potestà regolamentare regionale


Dopo la legge costituzionale 1 del ’99, la legge che ha introdotto l'autonomia statutaria dell'elezione diretta del Presidente della regione, modificò altresì l'articolo 121
sottraendo ai consigli regionali (assemblea legislativa delle Regioni) la competenza ad emanare i regolamenti. Prima il testo diceva “il Consiglio regionale esercita le
potestà legislative e regolamentari attribuite alla regione”; adesso le parole “regolamentari” sono cadute dal testo e quindi ai consigli spetta solo la potestà legislativa. Si
discusse subito dopo la 1 del ‘99 se questa abrogazione della parola “regolamentari” dal testo dell'articolo 121 avesse comportato l'immediato spostamento della
potestà regolamentare in Capo alle giunte, vale a dire agli esecutivi regionali ovvero no. In un 1° momento l'orientamento maggioritario delle istituzioni e della dottrina
fu nel senso dell'immediato spostamento in Capo alle giunte. Due sentenze della corte, la n.313 del 2003 e la n.2 del 2004, hanno invece precisato che non era sufficiente
la modifica costituzionale, ma che correva modificare anche gli statuti regionali. Finora gli statuti regionali che sono intervenuti e che sono stati finora approvati, hanno
quasi tutti riportato la potestà regolamentare nella sua latitudine o nella sua quasi totale latitudine in Capo alle giunte, ricomponendo in maniera più equilibrata il
rapporto fra Consiglio regionale e Giunta.

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CAPITOLO 21 – LE AUTONOMIE LOCALI; L’AUTONOMIA FINANZIARIA DELLE REGIONI E
DEGLI ENTI LOCALI

L’art. 114 Cost.


Nel 2001 è stata introdotta una profonda e importante riforma del testo della Costituzione, con la quale sono state modificate molte norme del titolo V parte II della
Costituzione le norme dedicate alle Regioni, province e comuni. In particolare, come incipit di questa riforma è stato modificato specificamente l'articolo 114 della
Costituzione che ha profondamente cambiato alcuni principi del rapporto tra stato, Regioni e altre autonomie locali. In primo luogo, l'articolo 114 comma 1 ci dice che
“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Questa formula, che pure è stata contestata da molti autori
e da parte della dottrina, comprende una serie di enti tutti egualmente componenti della Repubblica. Quindi non vi è più l'idea di una differenziazione fra questi enti nel
comporre la Repubblica, ma tutti, dal comune allo stato, costituiscono questo soggetto più ampio e generale che è la Repubblica. La dottrina e la Giurisprudenza della
Corte costituzionale, da questa nuova formulazione dell'articolo 114, ha dedotto che siamo di fronte ad un principio di “equi-ordinazione” gerarchica fra questi enti, cioè
di pari ordinazione sotto il profilo della gerarchia dei rapporti, ma che non tocca un profilo invece di differenziazione funzionale. Sotto il profilo gerarchico comune,
province, città metropolitane, Regioni e stato sono pari ordinati, ma ciò non vuol dire che non facciano cose diverse l'uno dagli altri: ciò non vuol dire che tutti e 5 gli enti
debbano fare tutti la stessa cosa. Abbiamo visto e continueremo a vedere come, nella ripartizione dei compiti, diverse siano le funzioni che ognuno di questi enti svolge.
Il 2° comma precisa ulteriormente questa nozione e introduce una differenziazione fra il gruppo delle autonomie regionali e locali e lo stato, perché ci dice che i comuni,
le province, le città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. In questa dizione
dell'articolo 114 comma 2, si segnalano due profili significativi: in primo luogo, se riprendiamo il testo, vediamo che la Costituzione ci dice che i comuni, le province, le
città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi; se torniamo alle radici del diritto pubblico nei discorsi teorici di diritto pubblico sappiamo che lo stato è sovrano;
allora, a prescindere ora da ogni discussione sul significato della sovranità e sul contenuto della sovranità, specialmente nel mondo contemporaneo, in cui noi viviamo
oggi, certo che qui la Costituzione ha voluto dire che i comuni, le province, le città metropolitane e le Regioni sono autonomi, mentre invece lo stato rimane sovrano.
Quindi ha voluto aggettivare di autonomia questi enti, distinguendoli rispetto alla sovranità che spetta esclusivamente allo stato. Ora, la sovranità nel mondo
contemporaneo ha cambiato di natura; non è più riconoscibile con la vecchia formulazione per cui sovrani sono quegli enti caratterizzati dall'essere superiorem non
recognoscens (cioè sovrani sarebbero quegli e solo quegli enti che non riconoscono enti superiori adesso; sovrani sarebbero solo quegli enti in grado essi solo di
esercitare il dominio nell'ambito di un determinato territorio). Questa idea di sovranità non c'è più; certo il legislatore costituzionale ha voluto definire provincia, comuni
città metropolitane e Regioni come enti autonomi, contrapponendoli allo stato che rimane l'unico ente sovrano. L'altra formulazione su cui si vuole richiamare
l’attenzione nell'ambito del 114 comma 2 è che in questa formulazione i comuni, le province e le città metropolitane sono equiparate alle Regioni, sotto il profilo
dell'autonomia, sotto il profilo dell’esistenza di propri statuti, sotto il profilo dell'esistenza di poteri e funzioni proprie e tutti quanti agendo secondo i principi fissati dalla
Costituzione. Nel precedente testo costituzionale, quello approvato nel ‘48 e modificato con la riforma del 2001, autonomia e propri statuti e quindi una garanzia
costituzionale dell'autonomia l'avevano solamente le Regioni; mentre comuni e province avevano un’autonomia il cui ambito era affidato alle leggi dello stato. Quindi nel
passaggio dal testo del 1948 al testo del 2001, il livello di autonomia dei comuni e delle province, da un’autonomia garantita solo dalla legge statale è diventata
un’autonomia garantita direttamente e immediatamente dalla Costituzione. Il 3° comma dell'articolo 114 introduce questa idea di Roma come capitale della Repubblica
prevedendo che la legge dello stato disciplini in maniera particolare il suo ordinamento. Il riconoscimento di Roma come capitale della Repubblica è null'altro che un
riconoscimento costituzionale di uno stato di fatto e di una situazione storica istituzionale esistente; la previsione di una legge dello stato per disciplinare l'ordinamento
di Roma come capitale della Repubblica è una novità perché significa prevedere la possibilità che la disciplina di Roma come capitale della Repubblica sia diversificata
rispetto a quella degli altri comuni. Lo strumento della garanzia di comuni, province e città metropolitane è dato dalla riserva di legge statale in materia di legislazione
elettorale, organi di Governo e funzioni fondamentali prevista dall'articolo 117 comma 2 lettera p della Costituzione, così come introdotto dalla riforma del 2001. Qual è
il problema, qual è lo sfondo di questa riserva di legge statale? Lo sfondo è quello del tradizionale difficile rapporto fra Regioni ed enti locali. L'idea è tradizionalmente
quella che province e comuni debbano godere di una loro autonomia particolare anche nei confronti delle Regioni; la radice di questa diffidenza delle autonomie locali
nei confronti delle Regioni la si può anche storicamente collocare, riflettendo sul fatto che i comuni in Italia hanno una tradizione millenaria, le province hanno una
tradizione più che centenaria, le Regioni hanno in Italia una tradizione di 70 anni per le Regioni speciali e di poco più che 40 anni per le Regioni a statuto ordinario.

Questa diversità di profondità storica dell'esistenza di questi enti fa sì che tradizionalmente il nostro ordinamento sia caratterizzato da una diffidenza di comuni e
province nei confronti delle Regioni; espressione di questa tradizionale diffidenza è l'articolo 117, comma 2, lett. p, in cui si prevede che sia competenza esclusiva dello
stato la legislazione elettorale, la definizione degli organi di Governo e delle funzioni fondamentali di comuni province e città metropolitane. Ciò che attiene alla legge
per l'elezione dei comuni, delle province e delle città metropolitane, ciò che attiene all'individuazione degli organi di Governo e dei reciproci rapporti (fondamentalmente
sindaco-Giunta-Consiglio comunale e provinciale o Presidente della provincia) e ciò che attiene all’individuazione delle funzioni fondamentali delle autonomie locali è di
competenza dello stato. Ora, il problema delicato è sorto relativamente a questa formula “individuazione delle funzioni fondamentali”. Qui vi è un dibattito, tuttora
irrisolto, nella vicenda istituzionale italiana, su che cosa voglia dire affidare allo stato l'individuazione delle funzioni fondamentali di comuni e province. Qualcuno ha
ritenuto che, quando si parla di funzioni fondamentali, si fa riferimento alle sole funzioni di Governo; qualcuno ha ritenuto che, quando si parla di funzioni fondamentali
si fa riferimento alle funzioni proprie, tipicamente proprie, di comune e provincia; qualcun altro ha detto che le funzioni fondamentali sono le funzioni tipicamente
caratterizzanti il comune e la provincia: questo tipo di discussione è tuttora irrisolto, per la semplice ragione che, dopo la riforma del 2001, ancora non si è provveduto ad
aggiornare e a modificare, rispetto alla riforma del 2001, il testo unico degli enti locali che rimane tuttora quello adottato con il decreto legislativo n.267 del 2000. Quindi
è un testo che precede la riforma del 2001. L'aggiornamento ancora non c'è stato e questa individuazione di quali siano le funzioni fondamentali di comuni, province e
Regione ancora manca nell’ordinamento costituzionale italiano. Comune, province e città metropolitane godono quindi di un'autonomia costituzionalmente garantita;
per quanto riguarda gli altri enti locali, cioè gli altri enti che hanno una struttura legata al territorio locale (si pensi per esempio tipicamente alle comunità montane),
secondo il testo della riforma del titolo V, così come interpretato dalla Corte costituzionale (si fa riferimento in particolare alla sentenza n.244 del 2005) la competenza
sugli altri enti locali è delle Regioni, sulla base della loro potestà legislativa ordinaria.

Iniziamo a vedere i singoli enti

Il Comune
Secondo il testo unico degli enti locali, quindi il d.lgs. 267 del 2000, “il comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo
sviluppo”. Si ricordano i passaggi principali degli ultimi 15 anni della legislazione in tema di autonomie locali. Un 1° testo legislativo che modifica profondamente la
vecchia struttura e le vecchie funzioni degli enti locali è la legge 142 del 1990; a questa legge segue poi la legge 81 del ‘93 che introduce l'elezione diretta del sindaco e
del Presidente della provincia; un passaggio fondamentale verso la fine degli anni ‘90 è dato dal decreto legislativo delegato 112 del ’98, con cui il legislatore statale
redistribuisce le funzioni amministrative fra stato, Regioni, comune e provincia, partendo dal principio che le funzioni amministrative di base spettano al comune. Punto
di arrivo di queste riforme è il decreto legislativo delegato 267 del 2000 che riforma, riordina e rimette insieme il tessuto della legislazione sulle autonomie locali. Poi
abbiamo la legge costituzionale 3 del 2001.

Quali sono gli organi principali del comune? Ai sensi della legge 81 del ’93, organi del comune sono: il Consiglio comunale, la Giunta comunale e il Sindaco. Con la legge
81 del ‘93 è stata introdotta l'elezione diretta del sindaco differenziando le forme di Governo adottate a livello comunale, a seconda che si faccia riferimento a comuni
con più di 15mila abitanti ovvero a comuni con meno di 15.000 abitanti. In ambedue le tipologie di comuni il principio è quello della elezione diretta del sindaco, ma con
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alcune differenze. Nei comuni con più di 15mila abitanti è previsto che sia eletto Sindaco colui che ottiene la maggioranza assoluta dei voti; qualora nel 1° turno di
votazioni nessun candidato ottenga la maggioranza assoluta dei voti, si procede a distanza di due settimane ad un secondo turno (il cd. turno di ballottaggio) a cui
partecipano i due candidati che hanno avuto più voti nel 1° turno e viene eletto poi sindaco colui che riceverà più voti tra i due candidati. Il candidato vincitore al 1° o al
secondo turno porta con sé anche una maggioranza di consiglieri comunali. Al vincitore divenuto sindaco è attribuita un 60% dei consiglieri comunali nei comuni sopra i
15.000 abitanti, salvo alcuni casi normativi particolari. Quindi elezione di colui che riceve la maggioranza assoluta al 1° turno → ovvero ballottaggio fra i due più votati al
secondo turno → maggioranza del 60 % al sindaco al candidato che è diventato sindaco nei comuni con meno di 15.000 abitanti → elezioni su un turno solo → colui che
ottiene la maggioranza anche relativa dei voti diviene sindaco e la sua lista ottiene i 2/3 due voti.

Sia nell’un caso (sopra i 15mila abitanti) che nell'altro (sotto i 15 mila abitanti), le altre liste si dividono il residuo 40 % o 1/3 dei seggi.

Si tratta di un testo normativo che ha avuto 2 effetti. Da un lato, ha condotto all’emersione forte della figura del sindaco anche con un effetto di personalizzazione
intorno a questa figura (non dimentichiamoci che la disciplina prevede la possibilità di un voto di sfiducia al sindaco, ma se il sindaco viene sfiduciato, cioè perde il
rapporto di fiducia con il Consiglio comunale) viene sciolto anche il Consiglio comunale; in più la disciplina prevede che la Giunta sia composta di assessori nominati e
revocati dal sindaco. Quindi da un lato emersione della figura del sindaco e personalizzazione delle leadership a livello locale. Dall'altro, bipolarizzazione del sistema
politico anche a livello locale: se l'insieme di liste che sostengono il sindaco ottiene il 60 % e gli altri si dividono il 40 %, l'ipotesi più probabile è che si avrà una
bipolarizzazione forte anche a livello locale. Si può notare come, soprattutto nelle grandi città, i sindaci siano diventate persone che hanno un particolare rilievo anche
nella vita politica della nazione (gli ultimi sindaci di Roma sono stati: Rutelli, che è stato Presidente di uno dei principali partiti del centrosinistra; prima Veltroni; a Napoli
sindaco è stato per lungo tempo Bassolino, poi Iervolino). In quasi tutte le grandi città i sindaci sono spesso persone di rilievo politico nazionale.

La Provincia
Sempre nel testo che si ricordava prima, il d.lgs. 267 del 2000, la provincia viene definita come “l'ente locale intermedio fra comune e regione, il quale rappresenta la
propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e coordina lo sviluppo”. Nel testo del 2000, la definizione della provincia è una definizione che appare un po’ più
riduttiva rispetto a quella del comune. Il comune veniva definito come ente che cura tutti gli interessi della collettività; la provincia sembrava avere un ruolo più
particolare. Questo tipo di distinzione probabilmente è da ritenersi superata sulla base della riforma del 2001, ma manca ancora un testo normativo che aggiorni le
definizioni al nuovo testo costituzionale.

Anche per quanto riguarda la provincia, gli organi istituzionali sono: il Consiglio provinciale, la Giunta e il Presidente della provincia. Anche per quanto riguarda la
provincia, viene adottato un sistema elettorale ricalcato su quello dei comuni superiori a 15mila abitanti: quindi elezione diretta del Presidente della provincia al 1°
turno, se supera il 50 % dei voti; al secondo turno attraverso il ballottaggio a cui accedono i due più votati; maggioranza attribuita alle liste che sostengono il Presidente
della provincia.

La città metropolitana
L'articolo 114 ha costituzionalizzato altresì una figura particolare che è quella delle città metropolitane. Qui siamo di fronte a una situazione molto particolare perché è
forse la prima volta che viene costituzionalizzato un organo o un istituto che in realtà non esiste ancora, perché le città metropolitane sono una figura prevista nella legge
142 del ‘90 e poi ripresa nel d.lgs. 267 del 2000, ma non sono mai state concretamente istituite. L’idea è che esistono alcune aree metropolitane caratterizzate da
problemi economici, sociali, culturali, infrastrutturali, di disciplina del trasporto eccetera, particolarmente rilevanti. Problemi che nascono dall’esistenza di un grande
conglomerato urbano e da una rete di comuni intorno che vivono legati alla realtà del grande agglomerato urbano. Nella legge 142 e poi nel d.lgs. 267 del 2000 si diceva
che in alcune zone, le cd. aree metropolitane, potevano essere istituite città metropolitane, comprendenti il comune principale e “gli altri comuni i cui insediamenti
abbiano con il comune principale rapporti di stretta integrazione territoriale, in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali e alla vita sociale, nonché alle
relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali”. La legge 142 e poi il d.lgs. 267 facevano specifico riferimento, come possibili aree metropolitane, a quelle che
comprendono i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, bologna, Firenze, Roma, Bari e Napoli, con la possibilità che le Regioni a statuto speciale potessero
disciplinare autonomamente la previsione delle città metropolitane. Idea sicuramente giusta; il problema degli aggregati urbani intorno alle grandi città è un problema
che richiede una disciplina diversa dalla disciplina dei normali comuni. In Italia i comuni sono oltre 8.100, la maggior parte dei quali, di piccole o piccolissime dimensioni:
è evidente che un aggregato urbano come a Roma o come a Milano, vicino o superiore ai 3 milioni di abitanti, richiede discipline diverse. Il problema è che non si è mai
riusciti a chiudere il profilo del modello istituzionale, non si è mai riusciti a capire: a) quali sarebbero stati i rapporti fra comuni-città metropolitana- provincia (cioè cos'è
che sarebbe caduto nel caso di istituzione della città metropolitana? I comuni? O la provincia? b) non si è mai riusciti a definire in maniera stabile e con una riflessione
accurata i confini della possibile nuova città metropolitana. Quindi questa idea sicuramente giusta sotto il profilo della intuizione della disciplina territoriale non ha mai
avuto attuazione; ma ciò nonostante è rimasto nel testo della Costituzione: è stata introdotta la figura della città metropolitana nell'articolo 114.

La potestà normativa degli enti locali


L'articolo 114, comma 2, ci dice che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi
fissati dalla Costituzione”.

L'articolo 117, comma 6, ci ricorda che “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà
regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.”

Sinteticamente, la potestà normativa di comuni, province e città metropolitane si esercita attraverso due strumenti: gli Statuti, con i quali sono definiti le funzioni
fondamentali e l'assetto fondamentale dell'ente; i regolamenti comunali o provinciali, con i quali sono disciplinate, ai sensi dell'articolo 117 comma 6, l'organizzazione
del comune o della provincia e lo svolgimento delle funzioni ai comuni o alle province attribuite. Il problema fondamentale di questa potestà normativa comunale
provinciale è come si ponga in rapporto con la legislazione statale e regionale, cioè se gli statuti e soprattutto i regolamenti possano o meno contraddire la precedente
legislazione regionale e statale (cioè se nei regolamenti comunali e provinciali possono essere contenute norme che non rispettano ciò che è stato stabilito a livello
legislativo). Si tratta di un problema cruciale e, anche su questo problema, vi è una incertezza dottrinale e giurisprudenziale. Si segnala una sentenza particolarmente
importante della Cassazione, con cui la Cassazione ha ritenuto che la rappresentanza processuale dei comuni e delle province potesse essere disciplinata direttamente
nello statuto dell'ente, anche in contraddizione con la legge statale; sentenza che lascia pensare che la Cassazione possa ritenere possibile una certa qual capacità
derogatoria degli atti normativi, comunali e provinciali rispetto alla legislazione regionale e statale; capacità derogatoria che, se riconosciuta esistente, dovrebbe però
limitarsi ai soli profili organizzativi dell'ente e non anche alla disciplina delle funzioni.

Le autonomie funzionali
Nella Costituzione non si parla delle cd. “autonomie funzionali”. Il termine “autonomie funzionali” è stato introdotto per la prima volta dalla legge 59 del 1997; una legge
con cui si è provveduto a delegare il Governo a redistribuire le funzioni amministrative, decentrandole dallo stato a Regioni, comuni e province. Fra i criteri di delega vi
era il rispetto dei compiti esercitati localmente in regime di autonomia funzionale dalle Camere di commercio, industria, artigianato, agricoltura e dalle università degli
studi. Con questa formulazione è entrata per la prima volta nel lessico normativo italiano la nozione di autonomie funzionali, facendo riferimento a quelle autonomie
che non sono caratterizzate da un legame con il territorio (così come le autonomie territoriali: comune e provincia), né sono caratterizzate da un particolare legame con

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alcuni profili sociali (le cd. autonomie sociali: si pensi per esempio al sindacato o alle associazioni), ma da enti tradizionalmente pubblici caratterizzati da una peculiare
autonomia in relazione alle funzioni ad essi attribuiti dalla legislazione.

Nel linguaggio comune si fa riferimento alle autonomie funzionali parlando appunto delle Camere di commercio, dell'università (garantite peraltro dall'articolo 33 della
Costituzione) e si cerca di capire se questa figura delle “autonomie funzionali” sia una figura istituzionale nuova, cercando di ricomprendere in essa anche altri soggetti;
per esempio si parla delle autorità portuali che anch’esse potrebbero essere riconosciute come autonomie funzionali.

C’è una sentenza della Corte costituzionale, la 477 del 2000, che riconosce una certa qual particolare connotazione di autonomia proprio specificamente alle Camere di
commercio e, in questo caso, nel rapporto con una Regione a statuto speciale che, in quel caso, era il Trentino-Alto Adige. La caratteristica quindi sarebbe data
dall'essere soggetti autonomi, titolari di funzioni pubbliche, ma caratterizzati da una base sociale di tipo economico che svolgono in autonomia funzioni ad esse attribuite
dalla legislazione statale.

L’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali


Anche qui siamo di fronte ad una modifica profonda e significativa, creata dalla riforma del titolo V che ha modificato l'articolo 119 della Costituzione. Caratteristica
principale del nuovo testo dell'articolo 119 è quella di porre principi generali che cercano di mirare al cd. “federalismo fiscale”, cioè a un regime in cui tutti gli enti
dell'assetto istituzionale hanno una propria autonomia, sia di entrata che di spesa; ma, ponendo l'articolo 119 solamente principi, ha bisogno di un intervento legislativo
ordinario. Quali sono i principi posti dal nuovo articolo 119? Secondo l'articolo 119 “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia
finanziaria di entrata e di spesa; hanno risorse autonome; devono poter stabilire e applicare tributi e entrate proprie (autonomia tributaria). I tributi e le entrate proprie
devono essere in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica. La seconda fonte di finanziamento del sistema locale (Regioni,
province, città metropolitane e comuni) è data dalla compartecipazione al gettito dei tributi erariali: la legislazione dello stato deve prevedere tributi ed entrate proprie
di questi enti; ma poi deve prevedere che, sui grandi tributi erariali (si pensi fondamentalmente all’IRPEF, all’IRPEG e all'IVA) vi siano compartecipazioni che sono
attribuite direttamente a questi soggetti. Dunque, una quota dei grandi tributi erariali deve andare a Regioni, comuni, province e città metropolitane.

L'articolo 119 prevede poi che la legge dello stato debba istituire un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Questo fondo perequativo
serve a bilanciare i territori più ricchi e i territori più poveri; inoltre, secondo la Costituzione il fondo perequativo non deve avere vincoli di destinazione, cioè non deve
essere legato a questo o quello specifico scopo. Sempre l'articolo 119 prevede altresì che la legge dello stato possa destinare risorse aggiuntive per particolari interventi
necessari a promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, rimuovere gli squilibri economici e sociali, favorire l'effettivo esercizio dei diritti della
persona. In questo caso lo stato può destinare risorse aggiuntive o effettuare interventi speciali a favore di determinati enti locali.

Questo insieme di risorse è eretto dal principio per cui queste risorse spettanti a comuni, province, città metropolitane e Regioni devono permettere l'integrale
funzionamento delle funzioni pubbliche attribuite: ciò che, in termini di funzione spetta un comune, una provincia, una Regione o a una città metropolitana, deve
trovare nelle fonti, integrale finanziamento. Si tratta di principi molto generali, significativi, ma principi che devono essere poi organizzati dal legislatore ordinario. Dal
2001 a oggi è mancata (e la Corte costituzionale lo ha rimarcato in più di un'occasione) un’attuazione dell'articolo 119 della Costituzione. Siamo ancora in attesa di un
intervento legislativo che modelli il sistema dei rapporti finanziari tra stato, Regioni, comuni, province e città metropolitane secondo i nuovi principi dell'articolo 119.

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CAPITOLO 22&23 - L’UNIONE EUROPEA

L’evoluzione storica, geografica e istituzionale: dalla Comunità all’Unione


Dietro le istituzioni dell'Unione europea che noi conosciamo vi è sicuramente una grande storia e una grande idea di Europa, su cui hanno scritto illustri autori. L'idea
d’Europa si riallaccia sicuramente se non addirittura all’Impero Romano all’ impero germanico. C’è un libro del 1689 che si chiama “Dell’uso e dell'autorità del diritto
civile dei romani nei domini dei principi dei cristiani” e che tratta dell'uso dell'autorità del diritto civile dei romani nei domini dell’impero germanico, nei domini dei
principi d’Italia, nel regno di Napoli e di Sicilia, nel regno dei Galli, nel regno della Spagna, nel regno del Portogallo, nel regno inglese, nel regno scozzese, nel regno
Polacco, nel regno dell'Ungheria, in Danimarca, in Svezia, in Boemia: ricomprendendo quindi un'idea di Europa che arriva fino ai massimi confini orientali, quelli a cui si è
ritornati oggi con l'allargamento agli ultimi dieci paesi entrati nel 2004. Questa idea d’Europa attraversa la storia europea con alti e bassi; con fasi di comunione fra gli
europei ma con fasi di grandi guerre e di grandi scontri; ed è dopo l'ultima grande guerra, l'ultimo grande scontro fra gli europei che è la Seconda guerra mondiale, che
finalmente questa idea d’Europa inizia a avere gambe che le permettono di costruire anche istituzioni. Basti ricordare prima ancora della fine della Seconda guerra
mondiale alcune grandi anticipazioni, come quella per esempio che ebbe Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi quando scrissero il manifesto del movimento federalista
europeo nel 1941 quando erano in carcere al confino a Ventotene; ma sarà appunto dopo la Seconda guerra mondiale che questa idea di Europa inizierà a trovare dei
grandi uomini politici europei che appoggeranno questa idea (basti pensare a uomini politici Adenauer, De Gasperi, Jean Monnet); poco alla volta inizierà ad avere delle
istituzioni. Dopo il fallimento del tentativo costruire una difesa comune europea, nel 1951 si avrà la prima istituzione europea che metterà insieme quelle che
tradizionalmente erano state le risorse su cui gli europei si erano scontrati: metterà insieme carbone e acciaio come a superamento di quei grandi scontri, su cui
Germania e Francia soprattutto, si erano scontrate nella Prima e nella Seconda guerra mondiale.

Da un punto di vista geografico l'Europa conosce una grande espansione. Gli stati fondatori dell’Europa sono 6: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi
Bassi nel 1957 con il trattato di Roma. Poi vi è un 1° allargamento nel 1973 e entrano in Europa Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca.

Un secondo allargamento si ha nel 1980 con l'ingresso della Grecia; un 3° allargamento nel 1986 con l'ingresso di Spagna e Portogallo; un quarto allargamento si avrà nel
1995 con l'ingresso dell’Austria, della Finlandia e della Svezia. E poi vi è il grande allargamento del 2004 con l'ingresso di 10 nuovi paesi che modifica profondamente la
struttura, la composizione, l'organizzazione dell'Europa in una situazione anche di difficoltà riorganizzativa che in qualche modo oggi ci portiamo ancora dietro: entrano
Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.

Se noi ripercorriamo un attimo il significato politico di queste progressive estensioni non possiamo non fare qualche notazione molto importante: 1) l'Europa nasce
mettendo insieme paesi che avevano vinto la guerra con paesi che avevano perso la seconda guerra mondiale: nasce mettendo insieme la Francia, che era uno dei
vincitori insieme con altri paesi che avevano subito la guerra come il Belgio, l’Olanda e Lussemburgo; nasce mettendo insieme questi paesi con i due grandi paesi europei
sconfitti della Seconda guerra mondiale: Germania e Italia. Si tratta di un 1° segno di superamento dello scontro dei nazionalismi nella Seconda guerra mondiale.

Poi c'è il 1° allargamento ai paesi dell'area ai paesi del nord Europa: Danimarca e soprattutto Gran Bretagna, Irlanda. Poi sono da segnalare gli allargamenti a quei paesi
che riscoprono la democrazia uscendo da totalitarismi di destra: nella ‘80 la Grecia, nel 1986 la Spagna e il Portogallo. Poi l'Europa si allarga a paesi tradizionalmente
neutrali come l’Austria e la Finlandia; e poi nel 2004 vi è il grande ingresso dei paesi dell'Europa centro-orientale, che erano usciti dal controllo dell'Unione sovietica ed
erano usciti da regimi totalitari comunisti. Quindi nella costruzione prima e nell'allargamento poi dell'Europa vi è questo segnale, in primo luogo di pacificazione, e poi di
ingresso di tutti quei paesi che superano esperienze totalitarie si avviano verso esperienze di democrazia politica.

Da un punto di vista istituzionale, il 1° atto è il Trattato di Parigi del 1951 con l'istituzione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio; nel 1957 finalmente a Roma
vengono firmati i trattati istitutivi della Comunità economica europea e dell’EURATOM. Poi negli anni ‘70 l'Unione europea si rafforza: il 1° grande e importante
passaggio istituzionale si ha nel 1986 con l’approvazione dell'Atto unico europeo che pone le basi del mercato comune e rafforza le basi della cooperazione politica. Nel
1992 con il trattato di Maastricht viene istituita l'Unione europea. Nel 1997 con il trattato di Amsterdam si potenziano il 1° e il secondo pilastro delle politiche
comunitarie. Il 1° pilastro nel gergo comunitario è costituito dalle tre preesistenti comunità:

1. 1° pilastro: la Comunità economica, la CECA [carbone e acciaio], l’EURATOM sull'utilizzo dell'energia nucleare (con le politiche previste e gli strumenti
istituzionali previsti dai trattati sopracitati)
2. Secondo pilastro è quello della politica estera e di sicurezza comune
3. 3° pilastro è quello della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

Fondamentalmente la grande differenza è che sul 1° pilastro sono ampiamente utilizzati strumenti istituzionali comunitari che si basano su decisioni delle istituzioni
comunitarie. Sul secondo e sul 3° pilastro che attengono a sfere di cui più tipicamente gli stati nazionali continuano ad essere gelosi (la politica estera e di sicurezza
comune; la cooperazione di polizia e giudiziaria) sono invece più forti e più frequenti le politiche intergovernative: le decisioni sono ancora assunte con gli strumenti del
confronto fra i governi nazionali (le politiche della cooperazione intergovernativa).

Dopo il trattato di Amsterdam del ’97, nel 2001 viene firmato il trattato di Nizza, con cui vengono inserite nell'ordinamento giuridico comunitario la carta dei diritti
fondamentali e viene preparato l'allargamento.

La Costituzione per l’Europa


Il passo successivo è poi quello della preparazione di un trattato che adotta una Costituzione per l'Europa. Si chiama appunto “trattato che adotta una Costituzione per
l'Europa”, con quest’uso di due termini che in qualche modo sono contraddittori perché il “trattato” fa pensare ad un accordo fra governi, mentre la Costituzione fa
pensare a un testo che disciplina la vita e lo stare insieme del popolo europeo. C'è questa ambiguità che è stata sottolineata anche da autorevoli politici e costituzionalisti
(Giuliano Amato ha parlato della natura anfibia di questo testo sottolineando il fatto che questi due termini, trattato e Costituzione, fossero reciprocamente ambigui e in
qualche modo contraddittori]. Tuttavia, la volontà politica era quella di indicare che con questo atto di provenienza intergovernativa si scriveva un testo che avrebbe
dovuto essere la nuova Costituzione europea. Il testo fu preparato dalla Convenzione europea cioè da un'assemblea che riuniva i rappresentanti dei governi e dei
parlamenti degli stati membri, nonché i rappresentanti del Parlamento europeo e della Commissione che insieme hanno elaborato questo progetto di trattato. Il testo
elaborato dalla convenzione europea è poi stato sottoposto alla Conferenza intergovernativa che ha riunito i rappresentanti dei governi degli stati membri in vista
dell'approvazione del trattato. Il trattato è stato firmato nel 29 ottobre 2004.

Vediamo un attimo la struttura di questo trattato che adotta una Costituzione per l'Europa. Sotto il profilo strutturale abbiamo un preambolo che inizia: “ispirandosi
all'eredità culturali, religiose, umanistici dell'Europa da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inabili della persona, della libertà, della democrazia
dell'uguaglianza e dello stato di diritto; convinti che l'Europa, ormai riunificata dopo dolorose esperienze, intende avanzare sulla via della civiltà; persuasi che i popoli
dell'Europa, pur restando fieri della loro identità e della loro storia nazionale, sono decisi a superare le antiche divisioni; i capi di stato dei 25 paesi adottano questo
testo”. Questo era il preambolo. Nel preambolo manca il richiamo alle radici cristiane dell'Europa (si dice “ispirandosi alle eredità culturali, religiose ed umanistiche delle
parti dell'Europa”: ci fu una lunga polemica in cui soprattutto esponenti dei partiti popolari chiedevano invece il richiamo specificamente alle radici cristiano-giudaiche
dell'Europa. Poi dopo il preambolo vi è una parte I che contiene le norme che potremmo definire più propriamente costituzionali e le disposizioni generali per la politica

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estera, di sicurezza, di difesa, per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Questa parte contiene appunto articoli sulla definizione degli obiettivi dell'Unione e poi disegna
le nuove istituzioni comunitarie. La parte II del trattato recupera la carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, quella che era entrata con il Trattato di Nizza; la
parte III è relativa alle politiche dell'unione; la parte IV reca disposizioni generali e finali; e poi vi sono i protocolli e alcune dichiarazioni allegate al trattato.

Il processo di ratifica del trattato che adotta una Costituzione per l'Europa ha visto, in primo luogo, dopo l'approvazione da parte della convenzione, la firma da parte dei
capi di stato e di Governo del trattato. La firma è avvenuta a Roma il 29 ottobre del 2004. Per disposizione specifica del trattato che adotta una Costituzione per l'Europa,
il trattato potrà entrare in vigore solamente quando sarà stato ratificato da ciascuno stato membro, quindi da tutti i 25 stati membri, secondo le procedure costituzionali
interne, le procedure costituzionali nazionali.

Attualmente la Costituzione è stata ratificata è stata ratificata da 14 stati membri: l’Austria, il Belgio, Cipro, la Germania, la Grecia, l’Ungheria, l’Italia, la Lettonia, la
Lituania, Lussemburgo, Malta, Slovacchia, Slovenia e Spagna. Quindi siamo 14 su 25. In molti paesi vi è stata una discussione importante e significativa se la ratifica
dovesse avvenire con leggi di revisione costituzionale o con leggi ordinarie. In Italia si è ritenuto che fosse sufficiente, per ratificare il trattato che adotta la Costituzione
per l'Europa, la legge ordinaria, facendo riferimento ad una tradizionale Giurisprudenza della Corte costituzionale basata sull'articolo 11 della Costituzione, secondo cui
l'articolo 11 permetterebbe che l’Italia aderisca a organizzazioni, ancorché tali organizzazioni presuppongano una limitazione della sovranità; e che ciò si possa fare
anche con legge ordinaria. Su questo punto vi è stata una discussione politica e costituzionale molto significativa; e le ragioni di chi sosteneva invece la necessità della
legge di revisione costituzionale non sono ragioni da sottovalutare, giacché è evidente che questo trattato, che istituisce una Costituzione per l'Europa, in realtà modifica
profondamente la struttura della vicenda politico-istituzionale e costituzionale italiana ed europea. Attualmente il processo di ratifica del trattato per la Costituzione
europea è bloccato perché in Francia e nei Paesi Bassi in due referendum, svoltisi rispettivamente il 29 maggio e il 1° giugno del 2005, la maggioranza degli elettori
francesi e olandesi hanno votato “no” al testo della Costituzione. Pertanto, si è oggi di fronte ad una situazione d’impasse. Sicuramente è particolarmente preoccupante
perché in questo periodo di tempo che ci separa dal “no” francese ed olandese al trattato per la Costituzione, la politica europea non è riuscita a trovare un meccanismo
per uscire da queste difficoltà. Da tenere presente altresì che dall'elenco dei paesi che hanno già ratificato mancano due paesi che tradizionalmente potrebbero avere
qualche difficoltà in sede di ratifica (Gran Bretagna, Danimarca, Polonia dove dopo una prima fase di entusiastica adesione all'Europa forse vi è un momento di difficoltà
nei confronti dell'unione). Certo che non siamo ancora riusciti a individuare idee e percorsi intorno ai quali far ripartire il processo costituzionale comunitario.

Per quanto il processo si sia bloccato e quindi oggi non esista un testo costituzionale europeo, però probabilmente un diritto costituzionale europeo esiste comunque ed
è il diritto delle istituzioni europee ed è il diritto comunitario così come elaborato e interpretato da una attività della Corte di Giustizia delle comunità europee. Quindi si
potrebbe dire che certo la Costituzione europea si è bloccata, ma comunque esiste un diritto costituzionale europeo. Qualcuno ha detto che occorre un'idea forte
intorno a cui far ripartire il processo europeo e ha lanciato l'idea che questa potrebbe essere l'elezione a suffragio universale diretto di un Presidente europeo; qualcun
altro ha detto “snelliamo il trattato” perché questo trattato, che nella parte III contiene tutte le disposizioni relative alle politiche dell'unione, è lunghissimo… “limitiamo
il trattato che adotta una Costituzione per l'Europa alla parte I sulle disposizioni di principio, le disposizioni organizzative e alla parte II sui diritti fondamentali”. Qualcun
altro ha detto faccia “coinvolgiamo maggiormente le strutture comunitarie nel processo di ratifica; facciamo un passaggio in Parlamento nel Parlamento europeo perché
il trattato vada avanti; convochiamo referendum in contemporanea in tutti i paesi europei” Ci sono molte idee, ma purtroppo il processo in questo momento appare
bloccato. È pensabile in realtà che probabilmente deve finire anche una fase di sommovimenti politici nazionali ed è pensabile che dopo le elezioni presidenziali in
Francia nel 2007 qualche segnale diverso potrà emergere.

Le fonti comunitarie
Distinguiamo le fonti comunitarie in 2 tipologie di fonti:

• Le fonti primarie: tutti i trattati sopra menzionati, che in quanto trattati, sono atti del diritto internazionale che nascono dall'incontro tra le volontà dei
diversi stati che partecipano al trattato.
• Fonti derivate: fonti che sono istituite dai trattati e, in particolare, abbiamo: i regolamenti, le direttive e le decisioni.

Mentre i trattati pongono norme di diritto internazionale, le fonti derivate sono fonti di diritto comunitario.

Iniziamo a vederle:

➔ I regolamenti comunitari: sono fonti caratterizzate dal fatto di avere portata generale; sono gli obbligatori in tutti i loro elementi; e la caratteristica
fondamentale dei regolamenti, ai sensi dell'articolo 249 del Trattato sulla Comunità europea, è che sono direttamente ed immediatamente applicabili in
ciascuno degli stati membri. I regolamenti producono norme che ognuno di noi, nel suo stato, può immediatamente e direttamente applicare.
➔ L'altra fonte principale sono le direttive comunitarie. Esse sono rivolte agli stati membri e vincolano gli stati membri per quanto riguarda il risultato da
raggiungere. Quindi rimane salva la possibilità degli organi nazionali, in merito alla forma e ai mezzi, di attuazione delle direttive. La direttiva quindi indica un
obiettivo generale; poi spetterà agli stati membri come attuare quelle direttive e quegli obiettivi. Le direttive poi spesso possono avere delle componenti
che si ritengono essere auto-applicative (“self executing”); e, in questo caso, la Giurisprudenza della Corte di giustizia è andata progressivamente
avvicinando le direttive nella loro parte auto-applicativa ai regolamenti comunitari.
➔ Le altre fonti del diritto comunitario sono le decisioni, le raccomandazioni e i pareri non vincolanti.
Le decisioni sono atti obbligatori in tutti i loro elementi, ma caratterizzati dal fatto di essere rivolte a singoli soggetti o a singole situazioni.
Raccomandazioni e pareri sono invece atti caratterizzati dal non vincolo per i destinatari.

Questa complicata struttura di fonti prove dovrebbe trovare una sua semplificazione, una sua riorganizzazione nella prospettiva del trattato che adotta una Costituzione
europea, che dovrebbe prevedere la legge europea come atto immediatamente vincolante; la legge quadro europea in luogo delle direttive e che dovrebbe prevedere
poi regolamenti di esecuzione e regolamenti delegati.

La ripartizione delle competenze fra Comunità e Stati membri


Vediamo ora rapidamente come sono suddivise le competenze fra comunità e stati membri il 1° principio. Il 1° principio cui dobbiamo far riferimento, contenuto
nell'articolo 5 del trattato della Comunità europea, è il principio di attribuzione, ai sensi del quale, la comunità agisce solamente nei limiti delle competenze che sono ad
essa conferite e degli obiettivi che sono ad essa assegnati dal trattato: quindi la comunità è competente solo per ciò che viene ad essa specificamente attribuita. Questo
principio di attribuzione, che ridurrebbe, se rigorosamente e strettamente interpretato, la possibilità di agire della comunità dell'unione, è temperato dai cd. poteri
impliciti, la cui citazione troviamo nell'articolo 308 del trattato della Comunità europea, ai sensi del quale, quando un'azione della comunità è necessaria per
raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della comunità, ma il trattato non abbia attribuito poteri d'azione a tal scopo, il Consiglio
deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e, dopo aver consultato il Parlamento europeo, prende/adotta le disposizioni e i provvedimenti del caso. Qual è
il senso di questa norma sui poteri impliciti? È vero che la comunità agisce nei limiti delle attribuzioni; ma se vi sono azioni necessarie per il raggiungimento di uno scopo,
di un obiettivo generale della comunità e il trattato non ha previsto poteri a tal fine, è possibile attivare una procedura, ancorché all'unanimità e su proposta della
Commissione, con cui la comunità può adottare misure e provvedimenti. Quindi è una clausola importante di allargamento delle competenze. L'altro principio che regge
l'azione delle comunità europee è il principio di sussidiarietà, contenuto nell'articolo 5, comma 2, del trattato comunitario, ai sensi del quale, nei settori che non sono di
sua competenza esclusiva (cioè nelle materie che non spettano solamente alla comunità), la comunità interviene soltanto e nella misura in cui gli obiettivi non possono
essere soddisfacentemente realizzati dagli stati membri e, dunque, possono essere meglio realizzati ad un livello superiore. Quindi la comunità nelle materie non di

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competenza esclusiva interviene solo se quell'obiettivo, quella finalità, quello scopo può essere meglio realizzato operando a livello europeo e non a livello dei singoli
stati membri: è un principio, è una direttiva d'azione particolarmente importante perché permette agli stati membri di evitare che tutte le loro competenze siano
assorbite verso l'alto.
Vediamo rapidamente alcuni principi che attengono all'adattamento dell'ordinamento italiano all'ordinamento comunitario. Su questo punto una lunga discussione vi è
stata fra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia delle comunità europee: l'ordinamento italiano ha per lungo tempo cercato di frapporre difficoltà, sia teoriche che
pratiche, all'ingresso della normativa comunitaria nell'ordinamento nazionale. Una prima difficoltà fu data storicamente dall'idea che le leggi nazionali potessero
abrogare regolamenti comunitari, mentre la Corte di giustizia ha sempre detto che il regolamento comunitario prevale sulla legge, ancorché successiva; e quindi alla fine
anche la Corte costituzionale italiana si è dovuta adattare all'idea della prevalenza del diritto comunitario derivato sul diritto nazionale interno.
La seconda tradizionale difficoltà frapposta dall'ordinamento italiano (ma in fin dei conti, in misura maggiore o minore, tutti gli ordinamenti hanno sempre avuto qualche
difficoltà nell'adattamento all'ordinamento comunitario) nasceva dall’ attuazione delle direttive comunitarie.
C'è stato un lungo periodo della storia politica-istituzionale italiana in cui l’Italia arrivava tardi nell'attuazione delle direttive comunitarie e veniva regolarmente
condannata dalla Corte di giustizia. Questo problema è stato risolto prima con la legge con la cd. legge La Pergola, poi con la legge 11 del 2005, che hanno previsto e
raffinato lo strumento della cd. legge comunitaria annuale. Lo schema di fondo della legge comunitaria annuale è dato dall’idea che ogni anno il Parlamento delega il
Governo ad attuare con decreto legislativo delegato le direttive comunitarie approvate nell'anno precedente. Questo meccanismo delle leggi comunitarie annuali con la
delega al Governo ha sufficientemente snellito i tempi di attuazione delle direttive comunitarie e l’Italia non è più negli ultimi anni in questa situazione di tendenziale
ritardo nei confronti delle direttive.
Le recenti riforme del titolo V della Costituzione hanno posto un nuovo problema: quello del rapporto fra gli ordinamenti regionali e il diritto comunitario.
Questo problema è presente non solo in Italia ma in tutti i paesi che hanno una struttura di tipo federale o regionale (Germania, Austria, Spagna, Belgio).
L'articolo 117 comma V della Costituzione prevede, nella nuova versione riformata con la legge costituzionale 3 del 2001, che le Regioni possano partecipare alla fase cd.
ascendente (cioè la fase di formazione degli atti comunitari) ma soprattutto possano direttamente attuare le direttive comunitarie; è previsto un potere sostitutivo dello
stato nel caso in cui le Regioni non attuino tempestivamente il diritto comunitario (questo potere sostitutivo secondo l'orientamento legislativo e giurisprudenziale può
anche essere esercitato ex ante, cioè prevedendo normative statali cedevoli rispetto al successivo intervento regionale).
Vi è un orientamento che sta sorgendo in molte Regioni ed è quello che anche le Regioni inizino a utilizzare lo strumento della legge comunitaria regionale, per recepire e
attuare direttamente nelle materie di competenza regionale. Per quanto riguarda invece la partecipazione delle Regioni all'elaborazione del diritto comunitario, la norma
di riferimento è data dall’articolo 5 della legge 131 del 2003.

Il Consiglio europeo
Gli Organi ausiliari

Il Consiglio europeo è un organo intergovernativo previsto dal trattato dell'Unione europea; è il vero e proprio organo di indirizzo politico dell'Unione e si compone dei
capi di stato e di Governo dell'Unione degli stati appartenenti all'Unione europea e ha il compito di dare l'impulso necessario allo sviluppo dell'Unione e di definirne gli
orientamenti politici generali. Si riunisce normalmente due volte all'anno, presieduto dal Capo di stato o di Governo che in quel momento ha la presidenza dell'Unione
europea; si riunisce anche con la presenza, naturalmente, del Presidente della Commissione europea e decide all'unanimità perché, per quanto inserito nell'ambito delle
strutture dell'Unione europea, rimane un organo di cooperazione intergovernativa.

Le Istituzioni comunitarie
Le vere e proprie istituzioni comunitarie sono in primo luogo:

• il Consiglio dell'Unione europea: disciplinato dagli articoli 202 e 210 del trattato delle comunità europee, è l'organo rappresentativo degli stati membri ed è
formato da un rappresentante di ciascun stato membro a livello ministeriale, abilitato ad impegnare il Governo dello stato membro, ai sensi dell'articolo 203
del trattato. Questa previsione che deve trattarsi di un rappresentante ciascuno stato membro a livello ministeriale ha posto tradizionalmente un problema
negli stati con una struttura di tipo federale, in particolare per Germania, Austria e Belgio, che hanno introdotto nelle loro costituzioni formule che
permettono eventualmente di far partecipare al Consiglio dell'Unione europea un Presidente di un'entità sub-statale (di un Länd o di una Regione nel caso
del Belgio). Normalmente viene definito come il Consiglio dei ministri e vi partecipano i presidenti del Consiglio ovvero i ministri, di volta in volta competenti,
a seconda della materia trattata. Fra i principali poteri e attribuzioni del Consiglio va ricordato che provvede al coordinamento delle politiche economiche
degli stati membri e dispone a questo proposito di un potere di decisione, conferisce alla Commissione il potere di dare esecuzione agli atti adottati dal
Consiglio e esercita i poteri normativi del Consiglio secondo le procedure di cooperazione e di co-decisione previste dagli articoli 252 e 251 del trattato delle
comunità europee. Il Consiglio dei ministri ha diversi meccanismi di decisione: in alcuni casi decide all'unanimità, in altri casi decide con una maggioranza
qualificata in cui il peso dei diversi stati viene ponderato, in altri casi ancora decide a maggioranza semplice.
Il Consiglio in alcuni casi utilizza i cd. poteri impliciti. In particolare, ai sensi dell’articolo 308 del trattato (TCE), quando un'azione della comunità risulti
necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della comunità senza che il trattato abbia previsto poteri d'azione
relativi a quello scopo, il Consiglio deliberando all'unanimità, su richiesta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, prende le
disposizioni del caso. Si tratta di uno strumento che serve a permettere al Consiglio di agire, anche qualora dei poteri non gli siano esplicitamente e
puntualmente attribuiti, purché si ritenga che quelle azioni rientrino fra gli scopi della comunità: in tal caso però occorre la procedura all'unanimità.
• Fra le istituzioni comunitarie va segnalato il CO.RE.PER, vale a dire il Comitato dei Rappresentanti permanenti. Il CO.RE.PER assiste e coadiuva il Consiglio dei
ministri nell'esercizio delle sue funzioni, ne prepara i lavori e può effettuare studi, ricerche e documentazioni di base ai lavori del Consiglio. È composto da
rappresentanti permanenti degli stati membri presso l'Unione europea e si riunisce normalmente secondo due composizioni: il cd. CO.RE.PER 1, formato dai
rappresentanti permanenti aggiunti che trattano questioni prevalentemente di natura tecnica; e il cd. CO.RE.PER 2, che riunisce i rappresentanti
permanenti, di solito gli ambasciatori, di ciascuno stato membro; esamina, pre-istruisce rispetto al Consiglio le questioni di particolare importanza, ossia
questioni che hanno riflessi di tipo politico-istituzionale.
• Il Parlamento europeo è disciplinato dagli articoli 189-201 del trattato delle comunità europee (TCE). Nel 1979 il Parlamento europeo è eletto a suffragio
universale europeo dai popoli degli stati membri con un sistema elettorale di tipo proporzionale; sistemi elettorali che sono diversi paese per paese giacché
ancora non si è ritenuto di arrivare ad una legge elettorale uniforme. Il Parlamento quindi è composto dai rappresentanti dei popoli degli stati membri. Con
l'ultimo allargamento, quello del 2004, il Parlamento europeo è composto da 732 membri: di questi 732 membri la Germania, che è il paese con il maggior
numero di abitanti, ha 99 membri; gli altri 3 cd. grandi, cioè Francia, Gran Bretagna e Italia, ne hanno 78; Malta, che è il più piccolo dei paesi, ne ha 5;
Lussemburgo e Cipro ne hanno 6. Quindi vi è una grande differenziazione con un criterio di crescita del numero del numero dei deputati decrescente
rispetto alla differenza di popolazione. La composizione del Parlamento europeo alle elezioni che si sono svolte nel giugno del 2004, all’esito delle elezioni, si
è confermato come gruppo parlamentare più grande il gruppo del partito popolare europeo con 268 deputati aderenti; e il secondo gruppo è il partito
socialista europeo con 198. Vi sono poi nel Parlamento europeo 7 gruppi parlamentari schierati lungo l'asse destra-sinistra e con un gruppo misto
abbastanza stabile (ben 31 deputati appartenenti al gruppo misto). Il Parlamento europeo ha visto progressivamente aumentare i suoi poteri e le sue
funzioni. Il Parlamento europeo partecipa all'attività normativa dell'unione. Pur non godendo di un potere legislativo come i parlamenti, come le assemblee
rappresentative negli stati membri (potere normativo che spetta nella sua pienezza al Consiglio dei ministri e alla Commissione) il Parlamento partecipa
all'attività normativa attraverso un potere di iniziativa, disciplinato all'articolo 192 del TCE, attraverso poteri che insistono, che incidono nella fase della
consultazione e della cooperazione con le altre istituzioni comunitarie; e in alcuni casi è previsto un potere di co-decisione del Parlamento europeo sui

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regolamenti comunitari. Il Parlamento europeo poi ha ampi poteri di controllo: partecipa alla procedura di nomina della Commissione; può votare una
mozione di sfiducia alla Commissione, che in tal caso deve dimettersi; può utilizzare i tradizionali strumenti delle interrogazioni; può nominare Commissioni
di inchiesta; è destinatario di petizioni da parte dei cittadini; e nomina il mediatore europeo. Il Parlamento, infine, ha ampi poteri in materia di bilancio
previsti dall'articolo 272 del TCE. Deliberando infatti a maggioranza dei membri che lo compongono, il Parlamento può emendare il progetto di bilancio della
comunità e, deliberando a maggioranza assoluta, può proporre modificazioni al Consiglio per quanto riguarda le spese che derivano obbligatoriamente dal
trattato o dagli atti adottati secondo esso.
• La Commissione europea: è disciplinata dagli articoli 211-213 del trattato della comunità. A differenza del Consiglio, in cui siedono i rappresentanti degli
stati membri, e quindi che tutela gli interessi degli stati membri, la Commissione rappresenta e difende gli interessi dell’Europa nel suo complesso; ed è per
suo statuto indipendente dai governi nazionali. Con il recente allargamento, la Commissione europea è composta da 25 membri: uno quindi per ciascuno
degli stati membri. Fra di essi uno è il Presidente della Commissione. Il Presidente è scelto della Commissione, scelto dai governi dell'Unione e la sua scelta
dev’essere approvata dal Parlamento europeo. Gli altri commissari sono nominati dai rispettivi governi nazionali in consultazione con il Presidente
nominato; anch'essi devono essere approvati dal Parlamento europeo e occorre quindi un voto favorevole del Parlamento. Clamoroso negli ultimi tempi è
stato il caso del commissario italiano nella Commissione Barroso, con il commissario designato dall’Italia Buttiglione, che non ha ricevuto il gradimento in
Commissione e che è stato poi sostituito dal ministro Frattini che è attualmente commissario italiano nell'Unione europea. I commissari non rappresentano i
governi degli stati membri né i paesi di loro provenienza, bensì rappresentano e difendono gli interessi dell'unione. Il meccanismo di riparto delle
competenze tra i commissari è un meccanismo di riparto per materia: ogni commissario è responsabile di una determinata area di attività dell'Unione
europea. Sotto il profilo della durata temporale, il Presidente e i commissari sono nominati per 5 anni che coincidono con la durata del Parlamento europeo,
fatta salva la possibilità di un voto di sfiducia da parte del Parlamento europeo. La Commissione è il vero organo di motore, di impulso, di amministrazione,
l'organo che dà attività all'Unione europea; partecipa alla formazione degli atti del Consiglio e del Parlamento attraverso l'iniziativa; dà attuazione agli atti
del Consiglio secondo le direttive stabilite da esso; dispone di un proprio autonomo potere decisionale; può formulare raccomandazioni e pareri; vigila sulle
disposizioni del trattato e sulle disposizioni adottate dalle istituzioni comunitarie; e può, a tutela del diritto comunitario, adire la Corte di giustizia
• la Corte di Giustizia è disciplinata dagli articoli 220-245 del trattato della comunità e compone il sistema giudiziario dell’Unione europea insieme al tribunale
di 1° grado. Compito principale della Corte di giustizia è quello di assicurare che il diritto comunitario venga interpretato ed applicato nello stesso modo in
tutti i paesi dell'unione. Ha sede in Lussemburgo ed è composta da un giudice per ognuno degli stati membri. La Corte si pronuncia su una serie di ricorsi e di
procedimenti che sono ad essa affidati. Le categorie più comuni di questi procedimenti sono:
o il rinvio pregiudiziale: è il meccanismo che i giudici degli stati membri possono, e in talune situazioni, devono adottare qualora vi siano dubbi
sull'interpretazione o sulla validità di una norma comunitaria. In questi casi, il giudice nazionale, chiamato ad applicare la norma comunitaria in
un caso concreto, cioè in un giudizio che si svolge di fronte ad esso, può o deve adire la Corte di giustizia chiedendo ad essa qual è
l'interpretazione corretta della disposizione comunitaria presa in considerazione. Questo meccanismo serve a fare in modo di creare un sistema
giudiziario in cui tutti i giudici nazionali possano applicare il diritto comunitario, ma nel contempo vi sia un unico giudice, la Corte di giustizia,
chiamata a controllare l'uniformità dell'applicazione del diritto comunitario. In questo caso l'interpretazione della Corte assume la forma di una
pronuncia pregiudiziale: la Corte viene chiamata a decidere sull'interpretazione di una norma diritto comunitario in un caso in cui il giudice
nazionale sta applicando quella norma del diritto comunitari.
o il ricorso per inadempimento: esso invece può essere promosso dalla Commissione o da uno stato membro qualora la Commissione o lo stato
membro ritengano che un altro stato non ottemperi gli obblighi cui è tenuto in forza del diritto dell'Unione europea. In questi casi lo stato che è
giudicato dalla Corte di giustizia inadempiente, deve immediatamente conformarsi alle decisioni della Corte di giustizia.
o il ricorso di annullamento: in questi casi gli stati membri, la Commissione, il Consiglio e, a determinate condizioni il Parlamento europeo,
possono chiedere l'annullamento di una norma di diritto comunitario nel caso la reputino illegittima; in questo caso la Corte di giustizia annulla
la norma del diritto comunitario. Anche i privati possono chiedere l'annullamento delle norme del diritto comunitario qualora queste norme
siano per loro immediatamente pregiudizievoli, cioè arrechino ad essi immediatamente pregiudizio. Qualora l'atto sia stato adottato in
contrasto con norme sostanziali e procedurali, e con i trattati, la Corte annulla l'atto. Molti in realtà dei ricorsi di annullamento, soprattutto dei
privati, sono svolti di fronte al tribunale di 1° grado.
o il ricorso per carenza: si ha quando, in violazione del trattato, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione si astengano dal
pronunziarsi, si astengano dall’ intervenire; in questi casi gli stati membri ovvero le altre istituzioni della comunità possono adire la Corte di
giustizia per far constatare la violazione che consiste nella carenza di intervento.
• A fianco alla Corte di giustizia è stato istituito il tribunale di 1° grado, al quale sono affidate le controversie fra i funzionari e l'istituzione, e le azioni
giuridiche intraprese da privati, persone giuridiche o persone fisiche, contro gli atti comunitari; ma non quindi i ricorsi degli stati o delle istituzioni
comunitarie fra di loro o contro gli atti delle istituzioni comunitarie.
• La Corte dei conti, disciplinata dagli articoli 246-248 del TCE. La Corte dei conti comunitaria, secondo il modello di molte corti dei conti nazionali, verifica che
i fondi comunitari siano spesi in modo legittimo ed economicamente vantaggioso e siano destinati allo scopo previsto. Anch'essa ha sede in Lussemburgo e
può rivedere i conti delle organizzazioni, degli organismi e delle società che utilizzino i fondi comunitari.
• Il quadro delle istituzioni comunitarie poi vede anche un organo che si chiama Comitato delle Regioni, di recente istituzione. Si tratta di un organo
consultivo che viene consultato, viene sentito in relazione alle decisioni comunitarie che possono avere ripercussioni a livello locale o regionale in settori
quali i trasporti, la sanità, l'occupazione e l’istruzione. È composto da 317 membri nominati da ciascuno stato membro; e il dato significativo del Comitato
delle Regioni è che rappresenta i livelli della democrazia locale e regionale nei paesi dell'Unione europea. Va segnalato che, mentre all'inizio della esperienza
comunitaria, nell’Europa a 6, solamente la Germania aveva una struttura di tipo federale e conosceva entità politiche di livello sub-statale (i Lander), negli
anni successivi il numero di stati comunitari aventi una forte struttura federale o regionale è progressivamente aumentato. Oltre alla Germania, una
struttura federale ce l’ha anche l’Austria. Si sono progressivamente federalizzati (si è dato istituzioni di tipo federale) il Belgio; la Spagna; l’Italia, che ha
progressivamente aumentato il potere delle istituzioni regionali; paesi tradizionalmente unitari come la Francia o la Gran Bretagna hanno assunto
interessanti modelli di autonomia regionale; paesi di nuova istituzione o di nuovo ingresso, come la Polonia, hanno rinverdito la tradizione dei cd. voivodati,
facendone delle istanze sub-statali di tipo regionale. Insomma, negli ultimi 20 anni in Europa è aumentato il livello di importanza degli istituti di democrazia
regionale e locale, che trovano appunto rappresentanza nel Comitato delle Regioni.
• Poi abbiamo il Comitato economico e sociale: anch'esso un organo consultivo che fornisce pareri sulle proposte di decisioni comunitarie in settori quali
l'occupazione, la spesa sociale, la formazione professionale. Anche in questo caso siamo di fronte ad un organo che è composto da 317 membri che
rappresentano una vasta gamma di interessi: non solo i datori di lavoro e lavoratori attraverso le organizzazioni sindacali, ma anche consumatori, ecologisti
e cioè le gamme di interessi che partecipano alla vita associata europea.
• Va chiaramente ricordata, fra le istituzioni comunitarie settoriali, la Banca Centrale europea (BCE) che è dotata di personalità giuridica propria, ai sensi degli
articoli 8, 105 e 113 del TCE. Ha un ruolo decisivo sulle politiche comunitarie; e siamo di fronte ad un organo che ha un elevato grado di indipendenza
rispetto alle altre istituzioni comunitarie. La sede della Banca Centrale europea è Francoforte. Oggi la Banca europea è l'organo responsabile delle politiche
monetarie che attengono alla nuova moneta europea: l'euro. Il compito principale è quello di garantire la stabilità dei prezzi contro spinte inflazionistiche,
ma sono significativi tutti i suoi poteri in tema di euro. Sono organi della BCE, il Presidente e il Comitato esecutivo, che, insieme ai governatori delle banche
centrali, costituiscono il Consiglio direttivo. Secondo un meccanismo di funzionamento abbastanza tipico la durata degli organi della BCE è scaglionata
rispetto alla durata degli organi politici: i membri della BCE infatti durano in carica 8 anni, rispetto ai 5 anni dei commissari o del Parlamento europeo; e sono
nominati di comune accordo tra i governi: è significativo che la BCE è il soggetto che oggi ha il diritto esclusivo di autorizzare le emissioni di banconote
all'interno della comunità. Si ricorda che dal 1° marzo 2002 l'euro è l'unica moneta circolante nei 12 paesi dell'Unione europea che hanno fin qui attuato la
convergenza monetaria sull'euro. Insieme alle altre banche centrali, la BCE costituisce il sistema europeo delle banche centrali, che ha il compito di
assicurare il mantenimento della stabilità dei prezzi e di sostenere le politiche generali della comunità, ai sensi dell'articolo 105 del TCE.

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• Va poi segnalata la Banca europea per gli investimenti: essa finanzia progetti di interesse europeo, in particolare nelle Regioni più svantaggiate, relativi a
infrastrutture (come collegamenti ferroviari o stradali, come aeroporti o programmi ambientali); fornisce crediti per investimenti alle piccole e medie
imprese; eroga prestiti a tassi agevolati anche agli stati candidati e in via di sviluppo.
• Il Mediatore europeo è una sorta di difensore civico, nominato dal Parlamento europeo, al quale tutti i cittadini europei possono rivolgersi per denunziare
casi di cattiva amministrazione da parte di organi e istituzioni della comunità.

Tutto il quadro delle istituzioni comunitarie è stato sottoposto ad una operazione di revisione e di razionalizzazione nell'ambito del trattato che adotta una
Costituzione per l'Europa (sospeso a causa della mancata ratifica da parte di una serie di stati membri e in particolare a causa del risultato negativo del referendum
svoltosi in Francia e nei Paesi Bassi); è evidente che questo meccanismo istituzionale complesso che disciplina la vita della Comunità europea andrebbe in qualche
modo sottoposto ad un'opera di ripensamento e di razionalizzazione; tuttavia, quest'opera peraltro significativa che era stata compiuta col trattato costituzionale
europeo è stata bloccata dalle vicende politiche citate poc’anzi. Vanno segnalato, in particolare, 3 punti all’interno del Trattato: 1) una complessiva opera di
razionalizzazione e di sistemazione delle istituzioni europee; 2) un significativo ulteriore incremento di poteri del Parlamento europeo, che tendeva a superare
quello che era stato chiamato il deficit di legittimazione democratica della comunità; 3) il trattato costituzionale prevedeva un maggior coinvolgimento dei
parlamenti nazionali nelle procedure decisionali comunitarie e una maggiore attenzione alle istituzioni regionali e locali attraverso la possibilità di richiamare
all'attenzione delle istituzioni comunitarie l’eventuale violazione del principio di sussidiarietà.

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CAPITOLO 24 - STORIA E STRUTTURA DEI DIRITTI FONDAMENTALI

Storia e struttura dei diritti costituzionali


Si era già notato parlando delle forme di stato come vi sia un legame profondo fra le forme di stato e diritti e libertà. Le forme di stato si caratterizzano per il rapporto
che c'è fra potere e libertà, fra autorità e cittadini e si caratterizzano proprio per l'ambito dei diritti di libertà che sono riconosciuti ai cittadini, ai soggetti di fronte
all’apparato autoritativo. Se ci limitiamo a prendere in considerazione le forme di stato degli ultimi due secoli, Ottocento e Novecento, nelle forme di stato liberali, di cui
esemplare era lo Statuto Albertino italiano dato nel 1848, le libertà erano concepite come libertà dallo stato. Nelle costituzioni liberali vengono trattati i soli diritti
individuali e i diritti politici (i diritti che attengono alla collocazione del cittadino nell'ambito della struttura politica). I diritti individuali tradizionalmente si rivolgono nei
confronti dello stato (sono libertà dallo stato) e hanno la caratteristica di essere libertà negative: vogliono indicare una pretesa all'astensione da comportamenti
incidenti nella sfera delle situazioni soggettive del cittadino da parte dello stato e delle autorità pubbliche. Quindi caratteristica dei diritti di libertà nello stato liberale
sono libertà che hanno come controparte lo stato e che sono caratterizzati come libertà negative; e si rivolgono alla sola sfera delle libertà individuali.

Nella Costituzione italiana, così come nelle costituzioni democratiche del 1° ma soprattutto secondo dopoguerra in poi, le libertà si espandono: non sono più
semplicemente libertà relative ai soli diritti individuali, ma toccano anche la sfera delle libertà collettive e dei cd. diritti sociali; sono libertà che non sono caratterizzate
solamente dall’avere una pretesa all'astensione nei confronti dello stato, ma sono libertà che richiedono comportamenti positivi da parte dello stato e delle pubbliche
autorità e, appunto, si rivolgono a una fascia più ampia.

Caratteristica di questo mutamento della struttura dei diritti di libertà fra stato liberale e stato sociale la troviamo nel mutamento del principio di uguaglianza. L'articolo
3 della nostra Costituzione lo troviamo scisso/diviso in due commi: il 1° comma contiene riguarda la cd. uguaglianza formale; il 2° comma l'uguaglianza sostanziale. Ai
sensi del 1° comma, “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali”. Ai sensi del 2° comma “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto
la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica,
economica e sociale del paese”. Nel 1° comma nel 1° comma viene sancito il principio di uguaglianza formale: necessità che la legge tratti in maniera ragionevolmente
uguale tutti i cittadini, necessità che i cittadini siano pari davanti alla legge, collocati in posizione uguale davanti alla legge. Dal principio di uguaglianza formale non
deriva un obbligo della legge di trattare tutti sempre nello stesso modo, perché questo significherebbe un appiattimento delle situazioni soggettive che non sarebbe
altrimenti sopportabile; e la Giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, così come delle altre corti costituzionali, ha tratto dal principio di uguaglianza il cd.
principio di ragionevolezza, sostenendo che dall’articolo 3 deriva un obbligo per il legislatore di trattare in modo uguale le situazioni eguali e di trattare in modo
ragionevolmente diverso le situazioni diverse; cioè l'obbligo di ugual trattamento è un obbligo che si rivolge alle persone, alle cose che sono in eguali situazioni.

Sempre l'articolo 3, 1° comma, continua individuando alcune particolari situazioni rispetto alle quali al legislatore è imposto un obbligo più severo. Dice il 3, 1° comma,
“sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinione politiche, condizioni personali e sociali”. Il legislatore costituzionale si è reso
conto che nella concreta vicenda politico istituzionale e sociale delle nostre società vi erano, e vi sono tuttora, alcune condizioni particolari che spesso sono fonte di
discriminazione; e ha avvertito il legislatore: “guarda che quando tu tratti quelle situazioni, quell’elemento non può mai assurgere a giustificazione di una
differenziazione”; e ha individuato le situazioni più sensibili, più delicate. Il legislatore ha detto che non vi può essere distinzione basata sul sesso; è evidente che il sesso
è stato, se non è tuttora, un classico argomento di discriminazione. Ha detto che non vi possono essere distinzioni basate sulla razza: non dimentichiamoci che la
Costituzione italiana è del ’48, quindi alla fine di un drammatico periodo della vita italiana e della vita europea in cui la razza era stata assunta come criterio di
discriminazione. “Senza distinzioni di lingua”: la lingua non può essere oggetto di discriminazioni. Da tenere presente che noi abbiamo tradizionalmente avuto nel nostro
paese il problema di una lingua ampliamente maggioritaria, l'italiano, ma di enclave di aree, più o meno grande, dove esistevano lingue diverse (tedesco, francese, greco,
albanese, romeno). Egualmente la religione non può mai essere fonte di discriminazione; e così le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali.

Questi sono elementi particolari, elementi peculiari che il legislatore costituzionale ha indicato come fonte di una particolare attenzione del legislatore lì dove va a
normare. Qui su questi elementi citati il problema delicato è: ma non si può mai differenziare sulla base di questi elementi ovvero la differenziazione è possibile purché
non abbia intenti discriminatori? Facciamo un esempio. La normativa che dice che le donne non possono essere adibite a lavori particolarmente pesanti è sicuramente
una normativa che differenzia sulla base del sesso; ma è una normativa che va dichiarata illegittima sulla base di quel periodo dell'articolo 3 o è una normativa che, pur
differenziando, non lo fa con intenti discriminatori? Ancora: norme che, per esempio, riconoscessero particolari forme di risarcimento agli ebrei dopo le leggi razziali,
dopo il periodo del fascismo, sono norme che violano l'articolo 3 o sono norme che ripristinano una eguaglianza precedentemente violata? Noi dobbiamo assumere
quegli elementi citati dalla Costituzione nell'articolo 3 come elementi che impongono un divieto di differenziazione basato su quegli elementi, a meno che non vi siano
particolarissime ragioni che giustifichino una disciplina differenziata: ad esempio quella legata al carattere particolarmente pesante del lavoro oppure legata al ripristino
di situazioni di eguaglianza.

Il 2° comma dell'articolo 3, che nasce in costituente dall'incontro fra i costituenti di origine cattolica (in particolare Costantino Mortati) e i costituenti di origine socialista
(in particolare Lelio Basso), ha una struttura, anche grammaticale, complicata: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Questa è stata definita come “eguaglianza materiale” o “sostanziale” proprio perché parte dall’assunzione
che vi possono essere ostacoli di ordine economico/sociale nella struttura del paese, i quali ostacoli hanno come effetto quello di limitare in via di fatto la libertà e
l'uguaglianza [il presupposto nella nostra Costituzione è che, di diritto, libertà ed eguaglianza sono riconosciute a tutti]; ma la nostra Costituzione all’articolo 3, 2°
comma, pur partendo dal presupposto che, in via di diritto, libertà e uguaglianza sono riconosciute a tutti, ne assume la possibilità che vi siano limitazioni di fatto. Questi
ostacoli di ordine economico o sociale, i quali limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza hanno come effetto di impedire il pieno sviluppo della persona e l'effettiva
partecipazione dei lavoratori all'organizzazione del paese, è compito della Repubblica rimuoverli. Dunque, le istituzioni pubbliche (non solo lo stato), la collettività
devono operare per rimuovere quegli ostacoli, cioè per rendere effettive la libertà e l'uguaglianza. Si è molto scritto in sede teorica su questo articolo 3, 2° comma; ci
furono alcuni autori negli anni ‘60 e ‘70 che individuarono in esso anche la fonte di una possibile organizzazione di tipo socialista del nostro assetto statuale.
L'interpretazione più corretta dell’art. 3, 2° comma, è verosimilmente quella che vede in esso, sotto un profilo costituzionale, il fondamento dei diritti sociali, cioè il
fondamento di quei diritti di libertà e di quei diritti fondamentali che caratterizzano lo stato sociale. Questi diritti sociali trovano qui nell’articolo 3, 2° comma, il loro
fondamento. Il 3, 2° comma, poi non ha avuto una particolarissima utilizzazione nella Giurisprudenza della Corte costituzionale. È paragonabile a quelle clausole
contenute in molte costituzioni che spingono l'ordinamento alla ricerca degli strumenti in grado di realizzare il benessere e la felicità dei consociati (nella Costituzione
americana c’è proprio un riferimento alla felicità dei cittadini: sono quindi articoli che difficilmente possono essere fatti valere sotto un profilo tecnico giuridico).

Le garanzie costituzionali dei diritti di libertà


Se torniamo al problema dei diritti libertà, della loro garanzia e del loro inserimento nelle costituzioni, in particolare nelle costituzioni liberali prima e sociali dopo, nelle
costituzioni dello stato liberale prima e dello stato sociale dopo, dobbiamo fare alcune osservazioni di carattere generale. La prima è che i diritti di libertà trovano, nello
stato liberale prima e nello stato sociale, poi una collocazione ed una garanzia costituzionale: vengono costituzionalizzati e gli viene data una tutela di rango più elevato
rispetto alla semplice tutela data dalla legislazione. La garanzia costituzionale dei diritti di libertà la ricaviamo nella nostra Costituzione da tutti gli articoli nella prima

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parte dedicati ai diritti fondamentali; ma troviamo una sintesi di questa garanzia nell'articolo 2 della Costituzione: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale”. Intanto l'articolo 2 pone l'obbligo alla Repubblica e non solamente allo stato: quindi a tutte le istituzioni pubbliche, ma a tutta la collettività.
Questo obbligo è un obbligo non solo di garantire e quindi non solo di operare affinché questi diritti fondamentali vengano usufruiti; ma l'articolo 2 dice “la Repubblica
riconosce” come a dire che i diritti di libertà, i diritti fondamentali preesistono all’organizzazione statuale; sono qualcosa che vive nella collettività; sono qualcosa che dà
struttura e senso ad una collettività, tant'è che la Repubblica prima ancora di garantirli riconosce la loro esistenza. Questi diritti sono riconosciuti sia come singolo sia
nelle formazioni sociali. Quindi nei modelli costituzionali moderni e in particolare nel modello italiano, i diritti fondamentali son diritti del singolo, ma son diritti delle
formazioni sociali.

L'articolo 2 definisce i diritti “inviolabili” cioè dà ad essi questa caratteristica di inviolabilità. Che cosa vuol dire che i diritti sono inviolabili? Possiamo ricavare almeno 3
significati. 1) inviolabilità come fondamentali: definire i diritti inviolabili significa attribuire ad essi lo status di diritti fondamentali, vale a dire, lo status di diritti che
fondano, che caratterizzano e che danno una peculiare caratterizzazione all'assetto costituzionale. In questo senso i diritti libertà sono fondamentali perché fondano la
legittimità degli ordinamenti costituzionali democratici e moderni; 2) sono inviolabili perché su di essi non si può incidere o intervenire se non in particolari condizioni
sono inviolabili i diritti di libertà perché sono irrivedibili: sono, almeno nel loro dire contenuto essenziale, sottratti ad interventi modificativi non solo del legislatore
ordinario ma anche del legislatore costituzionale. Quando abbiamo parlato di revisione costituzionale, abbiamo individuato l'esistenza di alcuni principi sottratti anche al
legislatore costituzionale; il nucleo essenziale dei diritti libertà non può essere intaccato nemmeno dal legislatore costituzionale.

Si ricorda delle polemiche che talvolta si fanno su questa nozione di contenuto essenziale dei diritti libertà sottratto alla revisione. Nella Costituzione italiana non si usa il
termine “contenuto essenziale” che invece è tipico della Costituzione tedesca; quindi si discute se effettivamente esista questa idea. Che cosa si vuole esprimere dicendo
che il contenuto essenziale dei diritti di libertà è sottratto a revisione? Si vuole esprimere l'idea che modifiche non cruciali sull'assetto costituzionale del diritto di libertà
sono anche ammissibili; modifiche per esempio migliorative e modifiche costituzionali che non tocchino il nucleo della disciplina costituzionale del diritto di libertà sono
anche ammissibili; mentre invece sono inammissibili modifiche che vadano a toccare la natura profonda della disciplina costituzionale del diritto di libertà. Quindi al di là
delle polemiche sull'uso sul termine “contenuto essenziale” pare che ben si possa dire che i diritti libertà, almeno nel loro nucleo, sono sottratti a revisione.

Queste erano le conseguenze della collocazione costituzionale dei diritti di libertà. La Costituzione, oltre a dare questo status particolare diritti di libertà, pone una serie
di garanzie costituzionali, cioè costruisce intorno ai diritti di libertà alcune garanzie. Queste due garanzie sono:

▪ La riserva di legge: per riserva di legge noi intendiamo un istituto, previsto in una Costituzione rigida, sulla base del quale la Costituzione attribuisce alla
legge il compito di disciplinare, totalmente o parzialmente, una determinata materia. In tutta la sfera dei diritti di libertà noi troviamo riserve di legge: noi
troviamo che la Costituzione indica che il soggetto abilitato a disciplinare quel diritto è il legislatore; il legislatore quindi con esclusione di intervento sul
diritto di libertà dell'esecutivo attraverso gli strumenti dell'esecutivo. Tipicamente in questo senso si muove, per esempio, la libertà personale: “Non è
ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato
dell'autorità giudiziaria [cfr. art. 111 c. 1, 2] e nei soli casi e modi previsti dalla legge [cfr. art. 25 c. 3]”. L'articolo 13, 2° comma, è il prototipo delle garanzie
poste a presidio dei diritti di libertà. Riserva di legge → necessità che intervenga il legislatore a disciplinare quella materia.

▪ La riserva di giurisdizione: necessità che l'atto limitativo della libertà sia emanato da un giudice.

Perché riserva di legge? Perché riserva di giurisdizione? Perché la legge è l'atto del Parlamento, inteso come soggetto rappresentativo della collettività; e,
secondo la concezione garantista della riserva di legge, la legge è da preferirsi ad interventi di altri atti normativi (ad esempio i regolamenti governativi) per
2 ragioni: 1) perché il procedimento di formazione della legge è un procedimento caratterizzato da garanzie di pubblicità che spesso il procedimento di
formazione di atti normativi secondari del Governo non hanno; 2) perché nel procedimento di formazione della legge partecipano sia la maggioranza che
l'opposizione: partecipano tutti gli schieramenti politici; mentre invece il procedimento di formazione di regolamenti è un provvedimento che si svolge
vedendo la partecipazione solamente di chi in quel momento è maggioranza politica e quindi controlla il Governo. Quindi, secondo l'idea garantista della
riserva di legge, la legge è da preferire perché dà maggiori garanzie di pubblicità e maggiori garanzie di partecipazione delle diverse opinioni politiche. La
riserva di giurisdizione nell'intervento sui diritti di libertà si basa su una logica non dissimile: si basa sull'idea che per limitare diritti libertà occorre
l'intervento di un soggetto che nell'ordinamento sia collocato in posizione terza, indipendente e imparziale. La riserva di giurisdizione esclude quindi
interventi diretti e immediati sulla incidenza sulla sfera dei diritti di libertà dei cittadini che derivino dall'autorità di pubblica sicurezza; in ragione del fatto
che l'autorità di pubblica sicurezza è istituzionalmente dipendente dall'esecutivo.

Quindi riserva di legge e riserva di giurisdizione costituiscono due garanzie dei diritti di libertà che nascono nell'ambito dell'assetto costituzionale dello stato
liberale e che oggi sono in qualche modo soggette non tanto ad un mutamento ma ad una necessità di maggiore approfondimento delle garanzie. Da tenere
presente altresì che su questa struttura di riserva di legge e di riserva di giurisdizione sono diversamente modulati i diritti di libertà. Questo è il modello
tendenziale, ma vi possono essere alcune situazioni in cui manca o è diversamente strutturata, per esempio, la riserva di giurisdizione. Da tenere altresì
presente che la riserva di legge nella maggior parte dei casi, almeno dei diritti di libertà individuali e collettivi legati alla pretesa e all'astensione nei confronti
dello stato, la riserva di legge è una riserva di legge assoluta: impedisce l'intervento da parte di norme dell'esecutivo. In altre situazioni la riserva di legge è
una riserva di legge relativa, che chiede alla legge solamente di disciplinare i principi di quella materia permettendo l'intervento della norma secondaria di
provenienza governativa. Quanto al rapporto fra riserva di legge e riserva di dizione riprendiamo per esempio l'articolo 13: “Non è ammessa forma alcuna di
detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria [→
riserva di giurisdizione] e nei soli casi e modi previsti dalla legge [→ riserva di legge]. Che cosa vuol dire? Vuol dire che la legge deve prevedere i casi generali
in cui si può intervenire a limitare la libertà personale; e che il caso concreto, la situazione concreta in cui si incide sulla libertà personale deve essere
contenuta in quelle indicazioni generali date dalla legge, ma dev’essere determinata la concreta incidenza con un atto dell'autorità giudiziaria. Quindi la
riserva di legge serve a garantire l’esistenza di una previsione generale e astratta che, qualora si verifichi un caso concreto, permette l'incidenza sul diritto di
libertà, sulla base di un atto che, in questo caso, deve provenire dal giudice.

Libertà individuali e collettive


Facciamo una prima distinzione generale fra libertà individuali, cioè quelli che spettano ai singoli soggetti, e libertà collettive, ossia quelle che si rivolgono a soggetti
associati. Fra le libertà individuali facciamo rientrare: la libertà personale, disciplinata dall'articolo 13; la libertà di domicilio, disciplinata dall'articolo 14 della
Costituzione; la libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, disciplinata dall'articolo 15; la libertà di circolazione e di soggiorno; la
libertà di religione; la libertà di manifestazione del pensiero (art.21 della Costituzione).

Fra le libertà collettive facciamo rientrare: la libertà di riunione , disciplinata dall'articolo 17; la libertà di associazione, articolo 18; e due libertà che alla libertà di
associazione si collegano, la libertà di organizzazione dei partiti politici (articolo 49); e la libertà di organizzazione sindacale (articolo 39).

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I diritti sociali
Si citano infine, come caratteristici della forma di stato sociale, i cd. diritti sociali. Sono diritti caratterizzati, a differenza dei diritti individuali, dalle libertà negative non
più da una pretesa all'astensione nei confronti dello stato, bensì da una richiesta di interventi positivi dello stato, cioè di interventi che rendano queste situazioni possibili
e permettano il riconoscimento e l'esercizio del diritto. Fra i principali diritti sociali vanno ricordati: il diritto al lavoro, previsto come tale dall'articolo 4 della Costituzione
e che poi trova un suo riferimento negli articoli 35, 36 e 37 della Costituzione stessa; il diritto alla salute, previsto nell'articolo 32; il diritto allo studio, previsto
nell'articolo 34; ma dobbiamo ricordare anche il diritto alla previdenza e alla assistenza previsti nell'articolo 38 della Costituzione; i diritti della famiglia, posti all'inizio del
titolo sui rapporti etico-sociali e previsti negli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione italiana.

Un problema particolare, che è sorto, è quello della esistenza di cd. nuovi diritti e della loro tutela costituzionale. La Costituzione italiana, essendo stata scritta nel 1946-
47 è una Costituzione chiaramente legata alle problematiche politiche, sociali, istituzionali e economiche di quel periodo. Quindi è una Costituzione che prevede e
riconosce, talvolta anche con lungimiranza, diritti e situazioni soggettive, ma che comunque erano legate a quel periodo di tempo. È evidente che lo sviluppo della
società, lo sviluppo dei rapporti sociali, l'avanzamento delle situazioni possono creare esigenze di tutela di nuove situazioni soggettive. Esempio: diritto alla riservatezza.
Il costituente nel ‘46-‘47 non si poneva questo problema. Che cosa ne è/ Qual è il rango costituzionale di queste situazioni soggettive che sono emerse, via via, nell'arco
di questi 70 anni? Sono situazioni soggettive che trovano una diretta tutela costituzionale oppure sono situazioni soggettive che sono affidate all'intervento disciplinativo
del legislatore? Altro esempio: tutela del consumatore. Il costituente non si pone questo problema. Oggi la nostra vita ci pone tante volte di fronte un’esigenza di
tutelare le situazioni soggettive del consumatore. Qui c'è stata, e c'è tuttora, una discussione che si riaggancia alla caratteristica dell'articolo 2 della Costituzione: “la
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo”. La discussione verte sul problema se l'articolo 2 della Costituzione costituisca una sorta di clausola di
apertura alla tutela costituzionale di nuove situazioni soggettive ovvero se l'elenco costituzionale dei diritti, in particolare dei diritti fondamentali, sia solamente quello
contenuto nella parte I della Costituzione. Vi è un filone dottrinale importante e significativo che ritiene che l'articolo 2 sia una valvola di apertura che permette di
garantire tutela costituzionale e di offrire rango costituzionale, anche a una serie di situazioni soggettive non elencate specificamente in Costituzione. Il problema di
questa tesi è che naturalmente, ogni volta che io creo un diritto nuovo e a questo diritto nuovo riconosco rango costituzionale, è evidente che di fronte a un diritto ci
sono anche situazioni soggettive passive: ci sono anche doveri che si creano; e quindi ogni volta che creo diritto, creo correlativamente obblighi nei confronti di altri
soggetti. Un'altra tesi è quella che sostiene che l'articolo 2, più che essere una clausola di apertura generica e generale che permette la costituzionalizzazione di nuove
situazioni soggettive, permetta alla Corte costituzionale di interpretare estensivamente la lista dei diritti contenuta nella parte I della Costituzione; e quindi permetta alla
Corte costituzionale di operare non in maniera creativa rispetto a nuove situazioni soggettive ma permetta alla Corte di ricavare dall’interno di quella lista, che già è
presente in Costituzione, altre norme che tutelano situazioni soggettive nuove e diverse. Alla fine, le due tesi, se pur apparentemente distanti, s’incontrano e ne rimane
confermata l'idea che l'articolo 2 sia una valvola di apertura verso le nuove situazioni soggettive.

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CAPITOLO 25 – LE LIBERTA’ INDIVIDUALI

La libertà personale
La libertà personale è disciplinata dall'articolo 13 della Costituzione, vale a dire, dall’articolo con cui si apre la parte I della Costituzione, quella dedicata ai diritti e doveri
dei cittadini. Il 1° problema che dobbiamo porci è: qual è l'oggetto di tutela disciplinato dall'articolo 13 dalla libertà personale? L’articolo 13 inizia dicendo che la libertà
personale è inviolabile e poi ci dice “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione, di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà
personale se non in determinati modi”. La disciplina dell'articolo 13 si riallaccia alla tradizionale disciplina dell'habeas corpus, cioè alla disciplina di origine medioevale
inglese che poneva dei limiti all'intervento del sovrano sulla libertà dei suoi sudditi. Il 1° nucleo tutelato dalla libertà personale è proprio la disponibilità del proprio
essere fisico: il 1° oggetto è l’impedire a qualsiasi potere pubblico di poter limitare la disponibilità del proprio essere fisico. Se andiamo a rileggerci il 2° comma “non è
ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione, di perquisizione personale né qualsiasi altra restrizione della libertà personale”. Tu potere pubblico non puoi limitare
la disponibilità del mio fisico, la disponibilità che io ho sul mio corpo e sul mio fisico. È evidente che la sfera del proprio essere fisico ha una immediato riverbero, si
estende immediatamente anche alla disponibilità del proprio essere morale, alla propria libertà morale, tant’è vero che tradizionalmente si dice appunto che l'oggetto di
tutela consiste nella libertà fisica e nella libertà morale di ogni singolo individuo/di ogni singola persona. Il riferimento alla libertà morale lo si trova nel 4° comma
dell'articolo 13, lì dove si dice “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”: quindi c'è questa estensione anche alla
libertà morale. Si tenga presente che è particolarmente importante capire i contenuti dei diritti di libertà perché, come vedremo fra un attimo, i diritti di libertà spesso
hanno garanzie diverse; allora capire se un certo comportamento o una certa situazione è tutelata dall'articolo 13 sulla libertà personale o da un altro articolo della
Costituzione è significativo per capire quale tipo di garanzia l'ordinamento costituzionale appresta a favore di quella determinata situazione. I problemi più delicati sono
tradizionalmente sorti nel rapporto fra libertà personale e libertà di domicilio, ma soprattutto sono sorti nel rapporto fra libertà personale, così come tutelata
dall'articolo 13, e disciplina dell'articolo 23 della Costituzione che ci dice “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”
facendo riferimento anche a prestazioni personali cioè obblighi di fare qualcosa che possono avere un profilo di contatto con la disponibilità del proprio essere fisico; e
per quanto riguarda il divieto di prestazioni personali imposte la tutela è diversa, perché c'è una tutela data dalla sola riserva relativa di legge; e l'altro articolo della
Costituzione con cui vi sono tradizionalmente dei problemi di interferenza fra disciplina della libertà personale e l'articolo 32, al 2° comma, in cui si dice che “nessuno può
essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Allora anche qui il confine fra incidenza sull'essere fisico tutelata dall'articolo
13 e incidenza sulla disponibilità del fisico invece che ricade sotto la tutela dell'articolo 32 è un profilo di particolare delicatezza. Il problema è quello delle garanzie
perché l'incidenza sulla libertà personale nell'articolo 13 è tutelata da una riserva assoluta di legge e da una riserva di giurisdizione: “Non è ammessa forma alcuna di
detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e
modi previsti dalla legge”. Si ritiene che qui la riserva sia assoluta e cioè la legge debba indicare tutti, nel dettaglio, i casi in cui si può intervenire sulla libertà personale
non possa dare spazio ad interventi normativi secondari. Nei soli casi e modi previsti dalla legge e per atto motivato dell'autorità giudiziaria: occorre l'intervento per
l'autorità giudiziaria. L'articolo 13 prevede anche delle deroghe non tanto la riserva assoluta di legge, quanto alla riserva di giurisdizione. Nel 3° comma si prevede che in
casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge, (quindi la riserva assoluta di legge addirittura è più forte se volete perché questi casi devono
essere indicati tassativamente dalla legge), l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori (il fermo di polizia) ma questi provvedimenti provvisori
devono essere comunicati (la Costituzione pone un termine entro 48 ore all'autorità giudiziaria; e l'autorità giudiziaria entro le successive 48 ore li deve convalidare
altrimenti i provvedimenti provvisori rimangono privi di effetti). Quindi lo schema generale è riserva di giurisdizione: all'intervento immediato del magistrato in funzione
di garanzia, in ragione della sua posizione di terzietà nell'ordinamento, si può derogare solamente in quei casi eccezionali di necessità e di urgenza che devono essere
indicati tassativamente dalla legge; ma comunque il provvedimento incidente sulla libertà personale preso dall’autorità di pubblica sicurezza è un provvedimento
provvisorio che deve essere comunicato immediatamente e immediatamente convalidato dall'autorità giudiziaria. La Giurisprudenza della Corte costituzionale ha fatto
rientrare nell'articolo 13, comma 3, anche alcuni provvedimenti tipo l'espulsione del cittadino straniero o il trattenimento presso alcuni centri dello straniero immigrato
clandestinamente in Italia. La Corte li ha fatti rientrare in questa disciplina dell'articolo 13 comma 3 sottoponendoli quindi alla necessità della comunicazione della
convalida da parte dell'autorità giudiziaria. È rilevante richiamare, ancorché in questa rapidissima carrellata, che la Costituzione non fa riferimento alle cd. misure di
prevenzione e di sicurezza; la Giurisprudenza della Corte ha ritenuto di dover sottoporre anche le misure di prevenzione e sicurezza, cioè quelle misure che sono irrogate
in funzione preventiva prima del giudizio, prima della conclusione del giudizio Corte, alle garanzie dell'articolo 13, comma 2: riserva assoluta di legge e riserva di
giurisdizione. Un ultimo riferimento: è rilevante ricordare che, per quanto riguarda la sfera della libertà morale dell'individuo, si ricollega a questo profilo della difesa
della libertà morale dell'individuo tutta la disciplina della riservatezza e della cd. privacy, disciplinata (decreto legislativo delegato 196 del 2003 dove anche prevista
l’istituzione di una particolare autorità per la tutela della privacy).

La libertà di domicilio
La libertà disciplinata successivamente dal testo della Costituzione è la libertà di domicilio disciplinata appunto all'articolo 14. Il concetto di domicilio a cui fa riferimento
la Costituzione, così come interpretata dalla Giurisprudenza della Corte costituzionale, è una nozione estremamente ampia. Qui il domicilio non è inteso né secondo la
nozione penalistica di domicilio, vale a dire, la privata dimora, né secondo la nozione civilistica di domicilio, vale a dire, la sede principale degli affari e degli interessi della
persona; ma la Corte costituzionale ha sempre ritenuto che l'articolo 14 dove dice “domicilio inviolabile” faccia riferimento “ad ogni luogo di cui la persona fisica o
giuridica abbia legittimamente la disponibilità per lo svolgimento di attività connesse alla vita privata o di relazione e dal quale intenda escludere i terzi”. Vi è un caso
notissimo nella Giurisprudenza della Corte costituzionale in cui la Corte estende la tutela, di cui all'articolo 14 della Costituzione, alla autovettura: l'autovettura è tutelata
dall'articolo 14 della Costituzione come domicilio, perché risponde a quella nozione ampia di domicilio. Sotto il profilo della struttura delle garanzie, le garanzie previste
per la libertà di domicilio, che non a caso è definita con lo stesso aggettivo, è inviolabile (così come la libertà personale) sono le stesse garanzie per la libertà personale
(proprio a indicare questo fatto che il domicilio viene concepito come immediata espansione dell'essere fisico). Quindi sono di nuovo riserva di legge assoluta, con
esclusione di atti secondari che possono indicare i casi in cui si può intervenire, e riserva di giurisdizione cioè necessità dell'intervento dell'autorità giudiziaria. Anche in
questo caso sono possibili delle deroghe, ai sensi del comma 3° della Costituzione, per cui si dice che “Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità
pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali”. Qui il problema che sorge è la possibilità di superare la riserva di giurisdizione e quindi la possibilità di
interventi diretti dell'autorità di pubblica sicurezza in questi casi particolari dettati dal comma 3 dell'articolo 14.

La libertà di circolazione e soggiorno


È disciplinata dall'articolo 16 della Costituzione, che garantisce al cittadino la libertà di circolare e soggiornare liberamente all’interno del territorio dello Stato nonché la
libertà di uscire e rientrare in tale territorio: è la cd. libertà di espatrio. Oggetto della tutela quindi è, in senso molto ampio, il circolare, il soggiornare, l’espatriare, il
rimpatriare. Le garanzie in questo caso sono leggermente diverse perché la disciplina è tutelata da una riserva di legge che viene definita rafforzata: occorre la legge per
disciplinare questi oggetti della libertà di circolazione e di espatrio, ma questa legge ha anche delle finalità che sono indicate in Costituzione. In particolare, “ogni
cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge (quindi riserva di legge) stabilisce in via
generale per motivi di sicurezza o di sanità: il cd. rafforzamento sta in ciò che la Costituzione dice alla legge quali sono gli unici motivi (sanità e sicurezza) per i quali
questa libertà può essere limitata.

Specificamente la Costituzione, sempre al 1° comma dell'articolo 16, prevede che nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche.

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La libertà di comunicazione
Il quadro delle libertà strettamente attinenti all’individuo è poi completato dalla libertà di corrispondenza, disciplinata dall'articolo 15 della Costituzione. Si è posposto
l’articolo 15 all'articolo 16 per la ragione che la libertà di corrispondenza è strettamente correlata alla libertà di manifestazione del pensiero.

Anche in questo caso la tutela della libertà di corrispondenza è data con gli stessi strumenti di garanzia delle altre libertà (cioè riserva di giurisdizione e riserva di legge).
Oggetto della tutela sono: la corrispondenza e ogni altra forma di comunicazione, definite anch’esse inviolabili secondo lo schema visto prima, e della corrispondenza di
ogni altra forma di comunicazione, la Costituzione tutela sia la libertà sia la segretezza, intendendosi i due aspetti come strettamente correlati. Qual è l'oggetto? Questo
il punto delicato. Quando la Costituzione dice “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. La loro limitazione
può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”, si riferisce a quelle forme di comunicazione interpersonale che sono
caratterizzate dalla intersoggettività (cioè dal fatto di provenire da un soggetto e di esser destinate ad un altro soggetto, a un gruppo individuato e determinato di
soggetti) ed alla attualità (cioè comunicazioni che si svolgono nell’oggi che si svolgono in questo momento). L’attualità della corrispondenza e delle altre forme di
comunicazione distingue l'oggetto di tutela dell'articolo 15 da altri oggetti di tutela (per esempio quelli relativi alla libertà della scienza dell'insegnamento oppure si pensi
per esempio agli epistolari di persone famose: non sono più tutelati ai sensi dell'articolo 15). L’intersoggettività, cioè il fatto di esserci un mittente e un destinatario o un
gruppo individuato di destinatari, distingue la tutela e la libertà di corrispondenza dalla libertà di manifestazione del pensiero. Si tenga presente che lo sviluppo di mezzi
di comunicazione di massa diversi (si pensi per esempio a internet) ha reso più labili e meno difficilmente controllabili i confini fra la tutela della libertà di corrispondenza
e tutela della libertà di manifestazione del pensiero. Mentre prima di internet la tutela della corrispondenza riguardava la lettera che io inviavo ad un'altra persona, i
mezzi di comunicazione di massa più recente intrecciano molto di più questa dimensione del rapporto intersoggettivo.

La libertà di manifestazione del pensiero

È tutelata dall'articolo 21 della Costituzione. Qui la libertà è la libertà di manifestare le proprie idee e il proprio pensiero ad una moltitudine indeterminata di persone
senza definire chi è il destinatario (senza che il destinatario sia individuato, definito o definibile). La libertà di manifestazione del pensiero è talmente cruciale in un
ordinamento democratico che, non a caso la Giurisprudenza sia della nostra Corte costituzionale così come di altre Corte costituzionale, definisce questa libertà come
pietra angolare dei sistemi democratici. La tutela apprestata dall'articolo 21 riguarda tutte le modalità attraverso le quali può essere espresso il proprio pensiero. La
Costituzione infatti dice che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. E la tutela
garantita riguarda altresì tutti i tipi di pensiero: non è che vi è una tutela privilegiata per il pensiero politico e meno privilegiata per il pensiero che riguarda la sfera
economica, la sfera sociale o la sfera del divertimento e dell'intrattenimento. La garanzia riguarda tutti i mezzi di manifestazione del pensiero, ma anche tutte le
tipologie, tutte le finalità, tutte le modalità di manifestazione del pensiero. Casomai eventualmente vi potranno essere, rispetto a questa tutela generalizzata della
manifestazione del pensiero, situazioni o soggetti che hanno delle limitazioni minori. Si pensi ad esempio all'articolo 68 della Costituzione quando dice che: “i membri del
Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni” sposta più in avanti o addirittura elimina i limiti a
quelle manifestazioni delle opinioni espresse dai parlamentari nell'esercizio delle loro funzioni. Quando un articolo della Costituzione definisce “libere” l'arte e la scienza
e “libero” l'insegnamento, sposta in avanti i limiti apposti alla manifestazione del pensiero in quelle particolari aree; ma, altrimenti, la tutela prestata dall'articolo 21
riguarda tutti i mezzi e anche tutte le tipologie, tutti i possibili contenuti della libertà della manifestazione del pensiero.

La Giurisprudenza della Corte, ma anche la prassi e le vicende degli ordinamenti democratici moderni, ci hanno insegnato che la libertà della manifestazione del pensiero
(detto altrimenti libertà di espressione) è collegata strettamente al diritto e alla libertà all'informazione. La mia libertà di manifestazione del pensiero presuppone una
libertà di informare; permette a me titolare di quel diritto di libertà di manifestazione del pensiero di informare gli altri soggetti; ma presuppone altresì il diritto ad essere
informato: è infatti evidente che il mio pensiero si potrà formare liberamente solo se io avrò la possibilità di accedere a tutti gli strumenti di informazione, a tutti i dati e
a tutte le informazioni. Se i miei accessi, se il mio accesso all'informazione è in qualche modo limitato/vietato/impedito/confuso è il mio diritto a formarmi un'opinione
che ne viene limitato; è il mio diritto a manifestare liberamente il mio pensiero che ne viene limitato. Quindi presupposto e conseguenza dell'articolo 21 è l'esistenza di
un diritto ad essere informati; e conseguenza è una libertà di informare. I tre aspetti sono strettamente connessi e non possono essere scissi tant'è che la Giurisprudenza
della Corte italiana e delle altre corti costituzionali supreme collega questi tre aspetti. La Costituzione, pur dicendo che tutti hanno diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, è stata scritta nel 1947: il mezzo di diffusione tipico del pensiero nel 1947 non era la televisione;
non era internet; era la stampa. La Costituzione, pur avendo questa apertura (“ogni altro mezzo di diffusione”), poi disciplina negli articoli successivi la stampa; al 2°, al
3°, al 4° e al 5° comma detta una disciplina specificamente per la stampa, salvo appunto quel riferimento iniziale ad ogni altro mezzo di diffusione. Come disciplina le
garanzie che riguardano l'intervento sulla stampa? Sempre con lo schema della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione. Ci dice specificamente che la
stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure; e si prevede il sequestro solo, appunto, con atto motivato dell'autorità giudiziaria in quei casi di delitti per i
quali la legge espressamente prevede questa possibilità. La Costituzione disciplina altresì i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero. Il limite esplicito è quello del
buon costume che è previsto nell'ultimo comma dell'articolo 21 in cui si dice “sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni
contrarie al buon costume”. Qui “buon costume” va inteso in senso penalistico stretto. Il buon costume a cui fa riferimento la Costituzione è quello che attiene alla sfera
del pudore sessuale; ed è evidente che questa clausola cambia di significato col mutare dell'evoluzione dei costumi. Ciò che poteva offendere il senso del pudore
sessuale 50 anni fa, molto probabilmente non lo offende più nel 2018: non vi è bisogno di ricordare come la sfera dei costumi anche nel campo sessuale si sia
profondamente modificata nel corso di questi 60 anni. Quindi è evidente che questa clausola ha mutato di significato. Poi, tranne questo limite che è l'unico limite
esplicito previsto dalla Costituzione, si può ritenere (ed è un limite introdotto dalla Giurisprudenza della Corte costituzionale) che l'ordine pubblico, anche qui inteso in
senso strettamente penalistico, costituisca un limite alla libertà di manifestazione del pensiero (anche se qui è discutibile l'ampiezza di questa limitazione). Il problema è
poi quello degli altri limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, implicitamente ricavabili dal tessuto dell'ordinamento costituzionale, giacché collegati/connessi a
valori e interessi di rango costituzionale. Il problema è quindi come raffrontare la libertà di manifestazione del pensiero con l'onore e la riservatezza delle persone,
l'interesse della giustizia, il dovere di difesa della patria, la tutela della salute, la tutela dei minori, la tutela dell'onore delle istituzioni… Qui il problema è difficilmente
risolvibile in astratto, ma, di volta in volta, da verificare in concreto del bilanciamento fra la pietra angolare, libertà di manifestazione del pensiero, e altri interessi e valori
costituzionalmente rilevanti. Uno dei casi limiti per esempio di questo problema di bilanciamento è quello che gli americani chiamano “burning the flag”, il bruciare la
bandiera. Nella Giurisprudenza della Corte suprema si troveranno negli anni atteggiamenti diversi: vi sono alcune sentenze che hanno ritenuto prevalente, nel bruciare la
bandiera, una forma di manifestazione del pensiero e quindi hanno ritenuto tutelato quel gesto da questa libertà; vi sono altri periodi e altre sentenze in cui invece è
stato ritenuto prevalente l'interesse alla tutela della dignità e l'integrità delle istituzioni rispetto a questa forma estrema di manifestazione del pensiero. Di esempi di
questo bilanciamento continuo fra libertà di manifestazione del pensiero e altri valori e interessi costituzionalmente rilevanti se ne possono trovare numerosi. Si ricorda
sempre come questo limite sia attenuato per alcuni soggetti: per i parlamentari, per i consiglieri regionali, per i giudici della Corte costituzionale, per i quali vige
l'immunità dei voti e delle opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni. Si è detto prima come la Costituzione disciplini solamente la stampa e non altri mezzi di
manifestazione del pensiero; in particolare, nulla ci dice sul sistema radiotelevisivo e nulla ci dice su mezzi più moderni di manifestazione del pensiero. Il problema di
fondo sia della stampa sia del sistema radiotelevisivo è che qui la disciplina della libertà di manifestazione del pensiero s’intreccia inevitabilmente con la disciplina della
proprietà del mezzo di comunicazione di massa: s’intreccia inevitabilmente con l'articolo 41 sulla libertà dell'iniziativa economica privata; e quindi occorre tutta la
disciplina legislativa e tutta la Giurisprudenza della Corte costituzionale (anche qui italiana come gli altri paesi) che cerca di bilanciare questi due interessi: libertà di
manifestazione del pensiero, con il suo connesso diritto a informare e ad essere informato, e libertà dell'iniziativa economica privata, cerca di intrecciare questi profili
lavorando sul concetto del pluralismo informativo. La garanzia del diritto ad essere informati, quale presupposto della libertà di manifestazione del pensiero, non può
che essere data da un sistema ispirato al pluralismo informativo; lì dove l'accesso ai mezzi di comunicazione di massa non pone gravosi problemi di intervento privato e lì

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dove i mezzi sono facilmente a disposizione dei privati, come nel caso della stampa, il principio del pluralismo informativo è il pluralismo dei mezzi di comunicazione di
massa: cioè la garanzia del pluralismo è data dalla esistenza di una pluralità di mezzi di informazione che di per sé rendono il concerto non monotono e non omogeneo. Lì
dove invece è più difficile l'accesso e il controllo del mezzo di comunicazione di massa (l'esempio classico è la televisione) deve essere garantito non solo il pluralismo dei
mezzi di informazione ma il pluralismo nei mezzi d'informazione: occorre una disciplina che oltre a permettere l'accesso (ma l'accesso può non esser semplice) garantisca
che all'interno di quel mezzo di informazione sia rispettato il pluralismo e che quindi lo scenario delle opinioni politiche rappresentate sia il più ampio possibile. Questo è
il problema cruciale dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare, oggi del sistema radiotelevisivo più che del sistema della stampa; è però vero che tutto questo
nostro quadro è destinato ad essere profondamente ripensato dall'intervento rivoluzionario dei sistemi di comunicazione in rete.

La liberà di religione

Anche questa libertà è disciplinata dall'articolo 19 della Costituzione; l'oggetto di questa libertà è la libertà di professare la fede religiosa sia in forma individuale sia in
forma collettiva, ma anche la libertà di non professare la religione, cioè di non partecipare all'una o all'altra confessione religiosa. Queste libertà, soprattutto le libertà
che hanno una dimensione collettiva, sono sempre libertà che hanno un risvolto negativo. La libertà religiosa ricomprende anche la libertà di fare propaganda e la libertà
di esercitare il culto sia in privato che in pubblico; e il limite esplicito alla libertà di religione è anche qui “purché non si tratti di riti contrari al buon costume” → anche qui
la sfera è la sfera del pudore sessuale. La libertà di religione è poi strettamente collegata da un lato agli articoli 7 e 8 che garantiscono la sovranità e l'indipendenza della
dello stato e della chiesa cattolica, ma garantiscono (articolo 8) “l'uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose” e la possibilità delle confessioni
religiose diverse dalla cattolica di organizzarsi secondo propri statuti; e la libertà religiosa dell'articolo 19 è strettamente legata all'articolo 20 secondo cui il carattere
ecclesiastico e il fine di religione o di culto di un'associazione istituzione non possono essere causa di limitazioni legislative.

La libertà dell’arte, della scienza e dell’insegnamento


Si richiama all'articolo 33 comma 1° della Costituzione, in cui si proclama che “l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento”. Questa proclamazione di
libertà dettata dall'articolo 33, 1° comma, permette alla scienza, all'arte e all'insegnamento di essere liberi nella loro esplicazione; riduce i limiti che abbiamo appena
visto apposti in generale alla libertà di manifestazione del pensiero ed è la garanzia che il libero confronto delle idee è il principale strumento di crescita di una collettività
e di una società che vuole essere moderna e democratica. Questa garanzia nella nostra Costituzione è pienamente data dalla proclamazione dell'articolo 33, 1° comma.

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CAPITOLO 26 - Le libertà collettive. I diritti sociali ed economici

La libertà di riunione
La libertà di riunione è disciplinata dall'articolo 17 della Costituzione, ai sensi del quale, i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi. Per riunione si
intende tradizionalmente la compresenza volontaria di più persone nello stesso luogo; è proprio la volontà della compresenza, il fatto di scegliere di stare insieme in
quello stesso luogo, che distingue la riunione da altre forme di presenza di gruppi di persone all'interno di uno stesso luogo. Quindi distingue la riunione dalle altre forme
di assembramento, in cui può mancare proprio la volontà di stare insieme nello stesso luogo. La Costituzione pone come limite al diritto di riunione il riunirsi
pacificamente e senz'armi: cioè si vuole tutelare l'ordine pubblico, la sicurezza e l'incolumità delle persone e delle cose; per questo sono opposti questi due limiti. La
riunione è un diritto; non può essere limitato; non vi sono autorizzazioni che devono essere richieste per riunirsi. Ai sensi dell'articolo 17, il diritto di riunione spetta ai
cittadini, ma la Giurisprudenza della Corte costituzionale lavorando sull'articolo 2 della Costituzione (che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo) ha ritenuto
che il diritto di riunione si estendesse non solo ai cittadini, ma anche a tutti i soggetti comunque presenti sul territorio italiano.

L'articolo 17 distingue:

1) le riunioni in luogo pubblico;


2) le riunioni in luogo aperto al pubblico;
3) le riunioni in luogo privato.

1)Per le riunioni in luogo pubblico, e solo per le riunioni in luogo pubblico, è richiesto il preavviso: i soggetti che promuovono la riunione devono avvertire prima
l'autorità di pubblica sicurezza. L'autorità di pubblica sicurezza, sempre per le riunioni in luogo pubblico, può vietare la riunione ma solo per comprovati motivi che
attengono alla sicurezza e all'incolumità pubblica. Questa è la disciplina che è data alla libertà di riunione all'articolo 17 comma 3°. Quindi per esempio non può
essere vietata una riunione solo per mancanza di preavviso: la mancanza di preavviso comporterà delle responsabilità di ordine penale o di ordine amministrativo
ai promotori, ma non può avere come conseguenza, di per sé (a meno che non sia un sintomo di un rischio per la sicurezza o per l'incolumità pubblica), non può
avere come conseguenza il divieto della riunione. Si tenga sempre presente altresì che il divieto è un ex post: la riunione che viene preavvisata può essere vietata,
ma non diventa mai un profilo di autorizzazione alla riunione.

2)e3) Per le riunioni invece private o in luogo aperto al pubblico non è richiesto alcun preavviso. Tradizionalmente si distingue le riunioni in luogo pubblico dalle
riunioni in luogo aperto al pubblico, essendo tali (luoghi aperti al pubblico), quelli in cui l'accesso è soggetto a modalità determinate da chi ha la disponibilità di
quel luogo. Si pensi per esempio a una piazza transennata, in cui vi è qualcuno che controlla chi accede alla piazza o un teatro in cui vi è un controllo sull'accesso:
quindi luoghi pubblici e luoghi aperti al pubblico possono anche essere fisicamente la stessa cosa, purché vi sia il controllo sull'accesso. Se vi è controllo
sull'accesso si è di fronte ad un luogo aperto al pubblico. Per queste riunioni così come per quelle private non è richiesto preavviso.

La libertà di associazione
L'articolo 18 della Costituzione disciplina poi il la libertà di associazione: il diritto di associarsi così come il diritto di non associarsi. Ai sensi dell'articolo 18, io sono libero
di scegliere se partecipare o meno a una determinata associazione. Vi sono dei casi nella Giurisprudenza della Corte costituzionale, in cui la Corte ha ritenuto che alcune
associazioni obbligatorie, di cui è necessario fare parte, fossero comunque compatibili con la struttura dell'articolo 18, perché legate al raggiungimento di determinati
obiettivi e finalità posti dalla legge; in via generale, altrimenti, dall'articolo 18 ne deriva anche il diritto di non associarsi.

L'articolo 18 pone alcuni limiti alla libertà di associazione. Intanto viene ribadito che i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente (e anche qui senza autorizzazione)
per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale: non è ammissibile un divieto di finalità posto ad un'associazione, se quel divieto di finalità non è posto anche
dalla legge penale, quindi con una sanzione penale, nei confronti dei singoli individui. La dimensione associativa per il costituente italiano è una dimensione che non può
essere trattata in modo deteriore alla dimensione individuale; se qualcosa può essere fatto in forma singola, quel qualcosa può essere fatto anche in forma associata.
Sono poi proibite, dal comma 2 dell'articolo 18, le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere
militare. Il costituente ha voluto evitare che scopi a carattere politico, vale a dire, scopi vertenti sulla dimensione associativa e pubblica della collettività italiana,
venissero perseguiti con un'organizzazione strutturata secondo il modello militare: quindi per esempio con un forte ordinamento gerarchico all'interno. Naturalmente
occorre, affinché queste associazioni siano proibite, il concorso di ambedue requisiti: il perseguimento scopi politici e l'organizzazione di carattere militare. Se torniamo
indietro sul problema delle associazioni segrete: l’attuazione di questa previsione dell'articolo 18 della Costituzione è stata data con la legge 17 del 1982, che viene
ricordata come la legge sulla P2, perché fu emanata a seguito della scoperta delle attività illecite che erano svolte da una loggia deviata della massoneria.
L'interpretazione data da questa legge è un'interpretazione restrittiva della segretezza; e si considerano associazioni segrete quelle che, anche all'interno di associazioni
palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali ovvero rendendo sconosciuti, in tutto o in parte, e anche
reciprocamente i soci, svolgono attività diretta ad interferire sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento
autonomo, di enti pubblici economici nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale. La legge 17 del 1982 dà un'interpretazione restrittiva della segretezza
collegando la segretezza ad un attività di interferenza sulle istituzioni pubbliche.

I partiti e i sindacati
Come norma speciale, collegata all'articolo 18 della Costituzione, dobbiamo ricordare l'articolo 12 delle disposizioni transitorie e finali, che vieta la riorganizzazione sotto
qualsiasi forma del disciolto partito fascista. I partiti politici sono, in quanto tali, una particolare forma di associazione: sono disciplinati all'articolo 49 della Costituzione,
in forza del quale “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente (torna quindi la stessa formula dell'articolo 18) in partiti, per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale”. Siamo di fronte ad un diritto di associarsi liberamente. La Costituzione prevede che i partiti concorrano a determinare
la politica nazionale: vi è quindi evidentemente, già nel testo della Costituzione, l'idea del pluralismo dei partiti, giacché sono una pluralità di partiti che possono
concorrere a questa finalità. Concorrere a che cosa? A determinare la politica nazionale, vale a dire, le grandi scelte che toccano gli orientamenti della collettività
nazionale. Si tenga presente però questa formula elevata: i partiti concorrono a determinare la politica nazionale, non le singole scelte. I partiti sono servono ad
orientare le grandi scelte. Tutto ciò con metodo democratico: il problema di questa formula è se questa formula si rivolga solamente a un profilo di procedure interne dei
partiti ovvero abbia anche un qualche carattere sostanziale e finalistico (cioè se quando si parla di metodo democratico si debba andare a vedere solamente
l'organizzazione interna: i partiti devono essere organizzati in modo democratico; ovvero se ne possano andare a vedere anche le finalità e gli obiettivi). È una
discussione molto delicata e molto difficile perché tocca diritti e libertà di carattere fondamentale. Tocca la libertà di manifestazione del pensiero; tocca il diritto di
associazione; tocca la possibilità di determinare le grandi scelte. Si tenga presente, inoltre, che nella Costituzione italiana manca una norma (come è invece presente
nella Costituzione tedesca) che impone ai partiti politici il rispetto dell'ordine fondamentale liberaldemocratico, delegando al tribunale costituzionale tedesco il compito
di dichiarare incostituzionali i partiti che contraddicono l'ordine fondamentale liberaldemocratico. Si tratta di una disposizione, sulla cui base, in Germania
rispettivamente nel 1952 e nel 1956 furono dichiarati incostituzionali il partito neofascista e, successivamente, nel 1956 il partito comunista tedesco. Manca da noi una
formula di questo tipo. Allora sicuramente “con metodo democratico” significa la necessità di un'organizzazione democratica; anche se da qualche altra norma della
Costituzione possiamo trarre qualche spia rivolta anche alle finalità. Intanto si è già ricordato prima come l'articolo 12, ancorché con norma speciale e finale, vieti la
riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista: questa norma è stata applicata in un solo caso nella vicenda istituzionale italiana al partito che
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dichiaratamente si richiamava l'esperienza fascista, il partito di ordine nuovo. Quindi il divieto di riorganizzazione del partito fascista fa pensare che vi siano, non solo
delle modalità, ma anche degli obiettivi politici che non possono essere riproposti. Si segnala altresì l'articolo 98 della Costituzione che detta una norma di prudenza e
prevede che si possano con legge stabilire limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di
polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero; è una norma in larghissima misura rimasta inattuata, che però è indicativa di una esigenza di neutralità e di
anche apparenza di indipendenza per alcune categorie particolari: esigenza di neutralità ed indipendenza che potrebbe venire a mancare nel caso di iscrizione di quei
soggetti ai partiti politici. All'interno di questa discussione si potrebbe pensare che non siano ammissibili quelle finalità che cozzano contro i principi fondamentali
dell'ordinamento costituzionale italiano.

Piuttosto, il vero problema dell'articolo 49 della Costituzione è che manca qualsiasi richiamo alla possibilità del legislatore di disciplinare la vita interna dei partiti. Ora
probabilmente legislatore lo potrebbe anche fare, anche in assenza di una norma. Certo manca una previsione secondo cui la legge disciplina in maniera morbida alcuni
aspetti dell'organizzazione interna dei partiti. Questo profilo dell'organizzazione interna è toccato invece dall'articolo 39 a proposito dei sindacati. L’articolo 39 ci dice
che “l'organizzazione sindacale è libera” e poi prevede una serie di disposizioni, nei commi 2°, 3° e 4°, che sono rimaste fondamentalmente inattuate. Nell’articolo 39, ai
commi 2°, 3° e 4°, si prevede la possibilità di una registrazione secondo le norme di legge presso gli uffici centrali o locali dei sindacati; e prevedono, come condizione per
la registrazione, che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. Secondo il comma 4 dell'articolo 39, i sindacati registrati, non solo
hanno personalità giuridica, ma possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si
riferisce: possono dunque stipulare dei contratti collettivi che vengono definiti erga omnes (efficaci nei confronti di tutti).

Questi tre commi dell'articolo 39 sono stati il dilemma della politica sindacale e della politica istituzionale nei confronti del sindacato e del mondo del lavoro, perché la
Costituzione ha chiaramente agganciato i contratti collettivi con efficacia erga omnes a quelle esigenze di registrazione e di ordinamento interno a base democratica che,
in realtà, nella vita istituzionale italiana non hanno mai trovato una legge che li disciplinasse. A prescindere da una verifica sulle ragioni di questa inattuazione, fatto sta
che la Corte costituzionale ha sempre ritenuto che i sindacati non registrati non potessero stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes. In una famosa vicenda
della fine degli anni ‘50 ha dichiarato incostituzionale una legge che aveva previsto per i sindacati ordinari, cioè per i sindacati non registrati ai sensi dell'articolo 39, la
possibilità di stipulare contratti con efficacia erga omnes: da allora la politica istituzionale e sindacale italiana ha sempre dovuto fare i conti con il fatto che la
contrattazione collettiva è una contrattazione collettiva che si rivolge, almeno sotto il profilo teorico e sotto il profilo di principio, solamente agli iscritti alle associazioni
che contrattano e non è applicabile erga omnes; poi nel diritto del lavoro sono stati individuati alcuni rimedi che hanno permesso, di volta in volta, un progressivo
ampliamento dei contratti collettivi, ancorché effettuati da sindacati non registrati.

I diritti sociali
Quella sfera di diritti che disciplina interventi dei pubblici poteri, che sono diretti a dare attuazione al principio di uguaglianza sostanziale: quella sfera quindi di interventi
che trovano la loro fonte e la loro legittimazione costituzionale nell'articolo 3, 2° comma, della Costituzione.

Il diritto al lavoro
Il 1° diritto sociale che viene in considerazione è chiaramente il diritto al lavoro che fissato nell'articolo 4 della Costituzione. L’articolo 4 ci dice “la Repubblica riconosce a
tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Anche se l'incipit dell'articolo parla di diritto al lavoro e riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro, dalla struttura della disposizione è però evidente che siamo di fronte ad una disposizione che viene definita di carattere programmatico e non
a una disposizione immediatamente precettiva/immediatamente applicabile; basta leggere il secondo periodo del 1° comma: “la Repubblica promuove le condizioni che
rendano effettivo questo diritto”. La creazione di una situazione in cui il lavoro diventi un diritto è un obiettivo delle istituzioni pubbliche, che hanno l'obbligo di rendere
effettivo questa situazione soggettiva (se lo devono rendere effettivo vuol dire che non è immediatamente precettivo/applicabile). Quindi l'articolo 4 non attribuisce un
diritto soggettivo a un posto di lavoro, ma, eventualmente, compatibilmente con le norme che noi definiamo della Costituzione economica italiana si pone l'obiettivo
della piena occupazione o comunque dell'applicazione più ampia e più piena possibile. Egualmente, un collegamento con l'articolo 4 lo ritroviamo in alcuni altri articoli
della Costituzione: l'articolo 38 che prevede il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale per gli inabili e i cittadini sprovvisti dei mezzi necessari per vivere; prevede il
diritto all’assistenza nel caso di infortunio malattia/invalidità/vecchiaia; prevede l'organizzazione di organi e istituti predisposti dallo stato per adempiere a questi
compiti, lasciando però libertà all'assistenza privata. Egualmente, un’attuazione dell'articolo 4 sono altri articoli della Costituzione: l'articolo 35, l'articolo 36 e l'articolo
37, che, in parte, hanno un contenuto programmatico, in parte, hanno però anche un contenuto di tipo precettivo. Rapidamente si segnala che, per esempio,
sicuramente un contenuto precettivo, così come interpretato dalla Giurisprudenza ordinaria, all'articolo 36 comma 1°, laddove si prevede che il lavoratore ha diritto ad
una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Sulla base
di questo articolo 36, 1° comma, la Giurisprudenza ordinaria ha ritenuto che le condizioni dei contratti collettivi stipulati da associazioni e da organizzazioni sindacali,
ancorché non registrate, si potessero estendere a tutti i lavoratori, perché ha ritenuto che i minimi fissati nei contratti collettivi fossero la misura della retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Quindi questo è stato il meccanismo
attraverso il quale la Giurisprudenza ha supplito alla inattuazione dell'articolo 39 della Costituzione. Egualmente un’efficacia precettiva ce l'ha l’articolo 36, 3° comma, ai
sensi del quale, “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”: qui c'è un diritto che immediatamente viene fondato dalla
Costituzione. Allo stesso modo, un’efficacia precettiva ce l’ha l'articolo 37, nella parte in cui prevede che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le
stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”: un carattere programmatico, ma con un programma forte. Infine, nell'articolo 37 comma 3°, in cui si prevede che la
Repubblica tuteli il lavoro dei minori con speciali norme e garantisca ad essi il diritto alla parità di retribuzione.

Fanno parte altresì della sfera dei diritti sociali l'articolo 32 sulla tutela della salute; gli articoli 29-31 sulla tutela della famiglia; gli articoli 33-34 sulla libertà di
insegnamento e sull'obbligatorietà/gratuita dell'istruzione inferiore nonché la possibilità per i capaci e meritevoli di raggiungere i gradi più alti degli studi.

I diritti economici

➔ La libertà di iniziativa economica (art.41 Cost.)


➔ Il diritto di proprietà (art. 42 Cost.)
➔ La proprietà pubblica e privata

La Costituzione disciplina la libertà di iniziativa economica all'articolo 41 della Costituzione con una formulazione in cui era possibile leggere diversi modelli: il costituente
italiano non ha scelto sicuramente un modello socialista di Costituzione economica; ma la scelta del costituente italiano nel ‘46 è stata quella che si dice la scelta per un
modello misto: la scelta per una economia di mercato, ma con ampia possibilità da parte dello stato di intervento per indirizzare l'economia di mercato e per evitare che
lo svolgimento dell'iniziativa economica privata si svolgesse in contrasto con alcuni obiettivi. L'incipit dell'articolo 41 è particolarmente significativo: “l'iniziativa
economica privata è libera” e quindi non possono essere apposti limiti; ma al 2° comma ci viene detto che “l'iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto
con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Il 3° comma dell'articolo 41 permette alla legge di “determinare i
programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata a fini sociali”. Queste norme degli articolo 41-42, da collegarsi
peraltro all'articolo 43 della Costituzione, ai sensi del quale, “la legge può riservare originariamente o trasferire ad enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti
determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di

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preminente interesse generale” hanno dato luogo ad un dibattito difficile sia in dottrina che in Giurisprudenza, la cui definitiva risoluzione è probabilmente arrivata con
l’adesione dell'Italia alla Comunità europea e lo sviluppo di alcuni profili costituzionali dell'Unione europea; infatti il trattato CEE, nell'individuare i compiti della
comunità, afferma che “essi si realizzano mediante l'instaurazione di un mercato comune e che l'azione della comunità comporta la creazione di un mercato interno
caratterizzato dall’eliminazione fra gli stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”; e, soprattutto nell'articolo 4
del trattato CEE, si prevede che “la comunità e gli stati membri adottano una politica economica fondata sullo stretto coordinamento delle politiche degli stati membri,
sul mercato interno e sulla definizione degli obiettivi comuni” e precisando che “tale politica economica deve essere condotta conformemente al principio di
un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Allora tutte le polemiche che si sono fatte nei primi 30/40 anni di attuazione della Costituzione italiana, se in
essa vi sia un'economia di mercato o vi sia un economia sociale, se sia possibile una trasformazione in senso socialista del sistema economico italiano, hanno un po’
perso di attualità e hanno un po’ perso di significato, una volta che, non solo l'Italia ha aderito alla Comunità europea, ma che si è sviluppata questa lettura compatibile
con la Costituzione italiana, che ha trovato poi la sua espressione nell'idea di politiche economiche condotte conformemente al principio di un'economia di mercato
aperta e in libera concorrenza. Si segnala in particolare che l'articolo 43, cioè la possibilità della riserva originaria o del trasferimento allo stato di enti pubblici di
determinate situazioni economiche, trovò applicazione negli anni ‘60 nei confronti delle imprese che svolgevano attività di produzione dell'energia elettrica, attraverso la
nazionalizzazione dell'energia elettrica e la creazione dell’Enel. A conclusione di questo ciclo, 35 anni si è cominciata ad avviare una politica di liberalizzazione della
produzione dell'energia e di riprivatizzazione del mercato; a testimonianza dell'esistenza di un ciclo. Si segnala altresì che l'articolo 43 è un po’ caduto in desuetudine non
solo perché pensa a politiche di nazionalizzazione nel momento in cui il ciclo economico invece pensa a politiche di liberalizzazione e di privatizzazione; ma perché
addirittura pensa alla riserva originaria o al trasferimento allo stato o a enti pubblici di fonti di energia, ma di imprese o categorie di imprese che si riferiscano a situazioni
di monopolio. La risposta dell'ordinamento italiano, così come degli ordinamenti europei, ma così come più di cento anni fa dell'ordinamento americano, non è quella
della nazionalizzazione delle imprese che operano in situazioni di monopolio, bensì quello della tutela e della garanzia che sul mercato si possa operare in situazioni di
concorrenza. La risposta è stata quella [in Italia con 100 anni di ritardo rispetto all’esperienza americana] dell’istituzione nel 1990, con la legge 287, l'autorità garante
della concorrenza del mercato, rivolta appunto a garantire la concorrenza, e la previsione di una serie di strumenti operativi con questo tipo di finalità.

L’articolo 42 disciplina il diritto di proprietà prevedendo la possibilità che la proprietà sia pubblica o privata e disciplina ndo la possibilità che nei casi previsti dalla legge e,
salvo indennizzo, la proprietà sia espropriata per motivi di interesse generale. Questa è una disciplina tradizionale negli stati moderni. Il problema di fondo è la misura
dell'indirizzo. Il problema vero delle discipline espropriative è nei motivi di interesse generale e soprattutto nella misura dell'indennizzo. Se l'indennizzo è una misura
simbolica siamo di fronte a norme che violano l'articolo 42, al suo 1° comma, (e peraltro le convenzioni internazionali a cui l'Italia ha aderito); allora il problema è quello
di costruire l'indennizzo come un serio ristoro della proprietà che viene espropriata. La Costituzione infine prevede sempre all'articolo 42 che i beni possano appartenere
o a privati o a enti o allo stato; nella tradizione i beni pubblici si distinguono fra beni demaniali (vale a dire i beni che sono legati a finalità dello stato) e beni patrimoniali
che, invece, sono beni che possono essere utilizzati dallo stato, ma possono anche essere dismessi con procedure più o meno particolari. Mentre invece i beni demaniali
sono quelli che sono strettamente legati all'attività pubblica.

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CAPITOLO 27 - La giustizia costituzionale

Il controllo di costituzionalità nello stato contemporaneo


Il controllo di costituzionalità, di cui la giustizia costituzionale è una espressione, è un fenomeno abbastanza recente nelle vicende istituzionali; è un fenomeno tipico
dello stato contemporaneo. La prima idea di una forma di controllo di costituzionalità risale infatti ad una famosa sentenza della Corte suprema americana, la sentenza
Marbury contro Madison del 1803, in cui il presidente della Corte Suprema, Marshall, sostenne che se si riconosce che la Costituzione è una fonte sovraordinata alla
legge (paramount law → una legge superiore) è allora necessario che la legge e tutte le altre fonti sotto ordinate alla Costituzione siano controllate rispetto alla
Costituzione: si deve verificare se la legge e le altre fonti rispettano la Costituzione perché altrimenti cadrebbe questa idea della Costituzione come fonte superiore e
sovraordinata. Ebbene, se deve essere attuato un meccanismo di rispetto della Costituzione, l'organo chiamato a verificare il rispetto della Costituzione, si dice in questa
sentenza, non può che essere la Corte suprema, il vertice dell'ordinamento giudiziario. Nella tradizione della giustizia costituzionale confluiscono due grandi filoni: i filoni
da un lato della tutela e del rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti, dall’altro, l’altro grande filone del controllo e della verifica che i vari organi e le varie
componenti dello stato rispettino le proprie competenze.

Sindacato accentrato e sindacato diffuso


Dal modello americano si distacca in qualche modo il modello europeo di giustizia costituzionale; e si discute infatti di due tipologie di sindacato di costituzionalità: il cd.
sindacato accentrato e il cd. sindacato diffuso. Il modello di sindacato diffuso è il modello tipico degli USA e delle forme di giustizia costituzionale che hanno seguito la
strada degli USA: in pratica ogni giudice può controllare il rispetto della Costituzione da parte della legge o degli altri atti di diritto pubblico: quindi il controllo di
costituzionalità appunto è diffuso (perché lo possono effettuare tutti i giudici); naturalmente questa diffusione del controllo è temperata dall'esistenza di un organo
gerarchicamente superiore, ossia il vertice dell'organizzazione giudiziaria, la Corte suprema appunto negli USA. Nel modello di sindacato diffuso, l'effetto del giudizio
circa il rispetto da parte della legge della Costituzione si risolve in una disapplicazione della legge al caso concreto. Questo è il modello tipico appunto gli USA e degli altri
sistemi di giustizia costituzionale che hanno seguito il modello statunitense.

In Europa, invece, e nei paesi che hanno seguito il modello europeo, ha prevalso un meccanismo diverso che viene definito di sindacato accentrato. Il principale teorico
di questo modello di sindacato accentrato fu Hans Kelsen, un giurista austriaco nato a Praga, che lavorò alla redazione della Costituzione austriaca del 1920. A questo
testo della Costituzione del 1920, Kelsen lavorò con un altro grande giurista: Merkl. Nell'idea di Kelsen e di Merkl, il controllo di costituzionalità non può essere affidato a
tutti i giudici, ma deve essere attribuito ad un organo accentrato chiamato esclusivamente alla verifica di costituzionalità. Quindi sindacato accentrato perché il controllo
è affidato ad un unico organo. Conseguenze del controllo accentrato sono: in primo luogo, la non diffusione/l’accentramento di questo controllo di costituzionalità in un
solo organo; in secondo luogo, l'intervento sulla legge o sull'atto sottoposto a controllo di costituzionalità non conduce alla disapplicazione, ma conduce alla eliminazione
di quell'atto dall'ordinamento. Tant'è che nell'idea di Kelsen si parla della Corte costituzionale come di un legislatore negativo, cioè di un soggetto dotato della stessa
forza del legislatore, ma i cui effetti sono non già di tipo creativo, ma rivolti all’eliminazione di un certo testo dall'ordinamento. Questo modello di sindacato accentrato si
diffonde in Europa sul modello della Costituzione austriaca del 1920; poi trova grande diffusione in Italia, in Germania, in Spagna e fondamentalmente in tutti i paesi che
escono dalle esperienze dittatoriali nella fine del ventesimo secolo (Spagna, Grecia, e Portogallo a metà degli anni ’70; si pensi poi ai paesi dell'Europa orientale dopo la
caduta del muro di Berlino e dopo la caduta del modello sovietico e comunista → in questi paesi abbiamo una forte adesione al modello della giustizia costituzionale di
solito attraverso un meccanismo di sindacato accentrato).

La Corte costituzionale italiana


Va ricordato in primo luogo come la Corte sia stata introdotta nel testo della Costituzione del ‘48 al titolo VI, sotto il titolo “garanzie costituzionali”: quindi la Corte
costituzionale viene introdotta all'interno delle garanzie della Costituzione. La Corte entrerà in funzione dal 1948 solamente nel 1956 perché ci vorranno, dal ‘48 al ’53, 5
anni per scrivere le leggi di attuazione di quella parte della Costituzione dedicata alla Corte costituzionale; e poi, scritte le leggi costituzionale e ordinaria di attuazione
della Costituzione, ci vorranno altri 3 anni per nominare tutti i giudici. Quindi la Corte entrerà in funzione solamente nel 1956 a otto anni di distanza dalla previsione
costituzionale.

La composizione della Corte


Nel modello costituzionale italiano, la Corte costituzionale ha una peculiare composizione, definita dall'articolo 135 della Costituzione; composizione che si è rivelata
sufficientemente equilibrata, tanto che alcuni modelli di giustizia costituzionale hanno seguito le orme del modello italiano. I 15 componenti della Corte costituzionale
sono eletti, ai sensi dell'articolo 135 della Costituzione, comma 2, fra i magistrati, anche a riposo, delle supreme magistrature ordinarie e amministrative; poi fra i
professori ordinari di università in materie giuridiche; e fra gli avvocati con almeno 20 anni di esercizio. Quindi i giudici della Corte costituzionale devono avere una
formazione giuridica: devono essere giuristi e devono essere tecnici del diritto. Si tenga presente che in alcuni modelli diversi di giustizia costituzionale (quella francese)
questa necessità di una qualifica tecnico-giuridica dei componenti dell'organo di giustizia costituzionale non è prevista; da noi invece è necessario questo tipo di
competenza tecnico-giuridica.

I 15 membri sono nominati:

➔ 5 dal Presidente della Repubblica


➔ 5 dal Parlamento in seduta comune
➔ altri 5 dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa

Queste nomine hanno funzioni diverse. I 5 giudici nominati dal Parlamento in seduta comune sono chiamati a portare in Corte costituzionale proprio l'esperienza e la
partecipazione politica: sono giudici per cui è sottolineato che devono portare dentro la Corte un’esperienza, una partecipazione, una sensibilità di tipo politico; tant'è
che sono eletti appunto dal Parlamento in seduta comune. Questi 5 giudici eletti dal Parlamento in seduta comune fino al ’93, fino a che vi è stato un sistema elettorale
di tipo proporzionale, erano nominati secondo uno schema per cui 2 giudici erano indicati dalla Democrazia cristiana, 1 giudice era indicato dal Partito Comunista, 1
giudice era indicato dal partito Socialista e un altro giudice era indicato dai piccoli partiti dell'area laico-socialista; dopo l'adozione di un sistema elettorale maggioritario
che permette di individuare in Parlamento una maggioranza e un'opposizione, quindi dopo l’organizzazione in senso bipolare del sistema politico italiano (naturalmente
con tutte i distinguo e le difficoltà di una caratterizzazione chiaramente bipolare) i 5 giudici di nomina parlamentare sono indicati: 3 dalla maggioranza, 2
dall’opposizione; e all'interno della maggioranza e dell'opposizione poi vi saranno accordi diversi (nel 2006 2 giudici erano indicati da Forza Italia, 1 da Alleanza Nazionale
e per l'opposizione 1 dal partito democratico e un altro dalla margherita). Qui siamo in un'area che è sicuramente non consuetudinaria, ma di convenzione
costituzionale: quindi rebus di accordi che valgono rebus sic stantibus, fino a che le situazioni rimangono di quel tipo.

Le nomine del Presidente della Repubblica sono atti formalmente e sostanzialmente presidenziali: quindi i 5 giudici nominati dal Presidente della Repubblica sono
nominati dal Presidente Repubblica secondo la sua scelta, la sua discrezionalità e la sua sensibilità: quindi non concorda la nomina di questi giudici con il Governo né con
la maggioranza tanto meno con l'opposizione parlamentare. Naturalmente, così come i giudici di provenienza parlamentare tendenzialmente rappresentano
orientamenti politici, sensibilità politiche, i giudici di nomina presidenziale dovrebbero qualificarsi fondamentalmente come grandi tecnici e grandi giuristi; e
normalmente le nomine presidenziali hanno rispecchiato questo tipo di requisito.

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I 5 giudici di provenienza dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative provengono: 3 dalla Corte di Cassazione, 1 dal Consiglio di Stato e 1 dalla Corte dei conti;
e sono proprio l’indicazione che vi siano dei tecnici specifici del diritto (persone anche sganciate dal dibattito politico e dal dibattito istituzionale) chiamati per loro
conformazione all'applicazione del diritto. Si tratta di una composizione sufficientemente equilibrata e comunque diversa da altre composizioni di organi di giustizia
costituzionale, in cui invece la provenienza politico-parlamentare prevale sulle altre provenienze. Nel sistema tedesco i giudici sono tutti nominati dal Parlamento, nel
sistema americano i giudici sono tutti nominati dal Presidente degli USA. Il nostro modello è un modello che equilibria diverse componenti.

La Costituzione e le leggi costituzionali di attuazione disegnano anche uno status del giudice costituzionale: questo status è particolarmente importante perché, essendo
così elevate e così particolari le funzioni di giudice della Corte costituzionale, è particolarmente importante garantire una collocazione peculiare ai giudici costituzionali. Il
mandato del giudice costituzionale dura 9 anni. Si tenga presente che è stato ridotto: con l'attuale testo dell'articolo 135, che prevede un mandato di 9 anni, la durata del
mandato fu ridotta rispetto agli originari 12 anni, poiché il legislatore costituzionale ritenne preferibile un maggiore avvicendamento all'interno della Corte e temette che
una durata di 12 anni fosse troppo lunga. [Molti modelli di giustizia costituzionale hanno durate più lunghe o, in alcuni casi, addirittura a vita. Vi sono vantaggi e
svantaggi: una durata novennale permette un più rapido avvicendamento di giudici; permette minori consolidazione di posizioni all'interno della Corte. Certo il rischio è
quello di una maggiore mutabilità della Giurisprudenza]. Sempre l'articolo 135 disciplina il divieto di proroga: ai sensi dell'articolo 135, 4° comma, “alla scadenza del
termine il giudice costituzionale cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni”. Non vi è proroga di funzioni; il giudice decade alla scadenza del termine e le sue funzioni
non possono essere prorogate.

I giudici costituzionali infine godono delle stesse immunità dei parlamentari: quindi hanno l'insindacabilità dei voti e delle opinioni espresse e hanno l’immunità penale
per l'aggancio che la legislazione sulla Corte fa all'articolo 68 della Costituzione.

Regole di funzionamento della Corte


La Corte composta da 15 giudici opera alla presenza di almeno 11 giudici perché il legislatore volle che fosse presente almeno 1 membro di ognuna delle tre provenienze
della Corte. Se sono 11 giudici, nel peggiore dei casi, vi sarà almeno 1 giudice di provenienza o parlamentare o presidenziale o delle magistrature. Quindi ha ha voluto che
tutte le componenti fossero rappresentate nel funzionamento minimo della Corte. Vi sono stati alcuni casi in cui si è andati vicino a situazione di impasse con il rischio
che la Corte dovesse sospendere il suo operare.

In sede penale, vale a dire quando la Corte giudica dei reati penali del Presidente della Repubblica, il numero minimo è di 21 membri.

Fra le altre regole di funzionamento della Corte costituzionale si segnala la regola relativa alla immodificabilità del collegio: se una questione viene trattata dalla Corte
con una determinata composizione (con una presenza di quei giudici, 12 giudici o di 13 giudici quanti che siano) e viene discussa in quella composizione, in quella
composizione va decisa. Il collegio che discute la causa deve essere lo stesso che decide la causa: il collegio è immodificabile. Questa regola di funzionamento, che è una
garanzia per quanto riguarda la conoscenza degli atti di causa, ha qualche volta ha provocato qualche problema. Se un giudice cessa dal mandato prima che la causa alla
cui discussione ha partecipato venga decisa, la causa non potrà più essere decisa e dovrà essere rimessa al ruolo: perché questo principio, la modificabilità del collegio, è
un principio fondamentale di funzionamento della Corte.

Si segnala poi il ruolo del Presidente della Corte costituzionale: ai sensi sempre dell'articolo 135 “la Corte elegge fra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla
legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall'ufficio di giudice”. Quali sono le cose importanti da
segnalare? 1) il Presidente della Corte costituzionale italiana non è nominato dall’esterno (come avviene per esempio nella Corte suprema americana in cui è il Capo
dello stato che nomina il Presidente in ambedue le situazioni) ma viene nominato dall’interno: sono i 15 giudici che scelgono chi dovrà essere il loro Presidente (e anche
questa è una garanzia dell'autonomia della Corte); 2) il giudice può essere scelto fra tutte le componenti che abbiamo ricordato; 3) dura in carica per un triennio ed è
anche rieleggibile [naturalmente senza poter superare la durata del mandato]. Nella vicenda concreta della Corte costituzionale italiana, i giudici eletti Presidente per un
periodo superiore a 3 anni sono solamente 3: tendenzialmente (anche se non necessariamente) la Corte elegge i propri presidenti seguendo, pur se non rigorosamente, il
criterio di anzianità. Normalmente, ma non necessariamente viene eletto a Presidente il giudice più anziano (non di età naturalmente ma più anziano di ruolo) fra quelli
che seggono in quel momento in Corte. Questo ha portato a durate del mandato di Presidente relativamente brevi, tant'è che negli oltre 50 anni di funzionamento della
Corte costituzionale i presidenti sono stati 30.

Il Presidente ha una funzione di rappresentanza all'esterno della Corte costituzionale. Il principale compito del Presidente, quello che rende la figura del Presidente di
particolare rilievo, è dato dal fatto che è il Presidente della Corte ad assegnare le cause ai giudici (cioè a nominare il relatore colui che istruisce la causa) ed è il Presidente
della Corte a mettere a ruolo le cause (cioè a decidere quando la causa verrà discussa e decisa). Sono due poteri importanti del Presidente che permettono al Presidente
di fare l'andatura della Corte; ma la Corte rimane pur sempre un organo profondamente collegiale: un organo in cui le decisioni sono assunte con un grande lavoro
collegiale. Il meccanismo di funzionamento è quello della Camera di Consiglio in cui i giudici discutono tutti e 15 la questione, di volta in volta presentata, proponendo i
diversi argomenti a favore dell'una o dell'altra soluzione. Il ruolo del Presidente è un ruolo importante ma non inficia la natura fondamentalmente collegiale del nostro
organo di giustizia costituzionale.

Le funzioni della Corte


Sono funzioni di particolare rilievo e che coprono un po’ l'area dei modelli di giustizia costituzionale: vi sono competenze diversificate. La prima competenza della Corte
costituzionale italiana è quella che si riallaccia al modello tipico della giustizia costituzionale come organo di controllo della superiorità della Costituzione; e quindi la
Corte giudica delle controversie di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello stato e delle Regioni (cioè giudica se le leggi e gli atti aventi
forza di leggi, statali e regionali, abbiano o meno rispettato la Costituzione). Come giudica la Corte? Come si arriva in Corte costituzionale per svolgere questo giudizio di
legittimità costituzionale? I modelli sono due: 1) il giudizio di legittimità costituzionale “in via diretta”; 2) il giudizio di legittimità costituzionale “in via incidentale”.

La prima tipologia di controllo di costituzionalità, disciplinato in questo senso dalla legge costituzionale del ’48, definita “in via diretta” è accessibile solamente allo stato
nei confronti delle leggi regionali ovvero alle Regioni nei confronti delle leggi dello stato. È un giudizio in via principale o in via diretta perché l'uno o l'altro soggetto
possono impugnare direttamente la legge di fronte alla Corte costituzionale.

Nel secondo modello invece, quello che viene definito “in via incidentale”, la questione di legittimità costituzionale è configurata come un incidente, cioè come una fase,
all'interno di un giudizio civile, penale o amministrativo. Come è costruito il meccanismo? Se all'interno di un giudizio deve essere applicata per risolvere quel giudizio
una legge, il giudice che sospetti della illegittimità costituzionale della legge può sollevare la questione di legittimità costituzionale con un’ordinanza che deve indicare
succintamente: i fatti di causa; il rapporto fra la legge “indubbiata” (la legge su cui sorge un dubbio) e i fatti di causa; e i profili di costituzionalità che si intende sollevare.
Si dice così che nell'ordinanza devono essere indicati la rilevanza della questione all'interno del giudizio e deve essere valutata la non manifesta infondatezza della
questione. Questo è l'accesso che viene definito “in via incidentale” cioè come incidente all'interno di un giudizio civile, penale o amministrativo o contabile o tributario.

Un altro gruppo di competenze della Corte costituzionale è quello di giudicare sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli fra lo Stato e le Regioni: la
Corte che cosa fa in questi casi? Verifica se i poteri dello stato abbiano esercitato le loro competenze agendo all'interno del loro ambito ovvero abbiano esorbitato dalle
proprie competenze o, ancora, abbiano esercitato le competenze in maniera così erronea da render difficile l'esercizio delle competenze di un altro potere (e questo
riguarda i rapporti fra poteri dello stato); oppure giudica dei conflitti di attribuzione fra stato e Regioni: cioè giudica se atti dello stato abbiano invaso la competenza delle

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Regioni o viceversa. Queste aree del giudizio della Corte costituzionale si sono particolarmente diffuse e ampliate negli ultimi anni proprio a testimonianza di una
difficoltà di funzionamento del sistema istituzionale.

La Corte poi giudica sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica: in questo caso con una composizione integrata con 14 membri scelti da un elenco di
45 giudici aggregati nominati dal Parlamento.

E infine la Corte giudica sull'ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo. Si tratta di una competenza attribuita non dall'articolo 135 ma dalla legge
costituzionale del 1948. In questo caso la Corte giudica se il referendum, strumento di democrazia diretta disciplinata dall'articolo 75 con il modello del referendum
abrogativo, possa essere ritenuto ammissibile ai sensi del parametro costituito dall’articolo 75. Si tratta come disse felicemente una volta un ex Presidente della Corte
costituzionale di un “regalo avvelenato” perché la Corte costituzionale nel giudizio di ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo viene inserita proprio nella
parte più difficile e più complicata di una vicenda politica: questo negli anni Ottanta e negli anni ‘90 in cui molte strategie politiche si basavano sull'utilizzazione del
referendum.

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CAPITOLO 28 – LA TIPOLOGIA DELLE DECISIONI DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Le ordinanze con cui la Corte decide

Le ordinanze sono quella tipologia di decisioni della Corte costituzionale che non decidono in maniera conclusiva una questione sottoposta alla Corte: cioè si limitano a
individuare delle ragioni che impediscono che quella decisione sia decisa nel merito. Questa è la prima generale definizione di ordinanza; poi andando avanti vedremo
che in realtà nel concreto funzionamento anche le ordinanze talvolta chiudono quella questione.

1) le ordinanze di inammissibilità (ovvero di manifesta inammissibilità) [nelle tipologie di decisioni della Corte viene usato spesso espressioni del tipo
“manifesta inammissibilità”, “manifesta irrilevanza”, “manifesta infondatezza” … Quando la Corte usa questa terminologia vuol dire che il vizio di
inammissibilità o di rilevanza o l'infondatezza della questione è particolarmente evidente]. Ordinanze di manifesta inammissibilità sono quelle ordinanze che
individuano una causa che impedisce la decisione della questione sottoposta alla Corte costituzionale nel merito: cioè che impedisce che la Corte possa
valutare la sostanza della questione che le viene sottoposta. Una prima e importante tipologia di ordinanze di inammissibilità sono le ordinanze di
irrilevanza: nel giudizio di legittimità costituzionale si arriva al giudizio della Corte costituzionale attraverso due vie: la via principale, che è la via del ricorso
che viene posto dallo Stato contro le leggi regionali o dalle Regioni contro le leggi statali; ovvero si può arrivare in Corte in via “incidentale”: nel corso di un
giudizio viene sollevata una questione di legittimità costituzionale su una norma che trova applicazione nel giudizio. Questo requisito è definito la rilevanza
della questione nel giudizio in via incidentale cioè la applicabilità di quella norma nel giudizio che si svolge di fronte a un giudice.
Normalmente la Corte tende a seguire la valutazione di rilevanza fatta dal giudice che solleva la questione, che con una formula latina viene definito il
giudice a quo cioè giudice dal quale proviene la questione; ma in alcuni casi la Corte può ripercorrere la valutazione fatta dal giudice e giungere a dire, per
esempio interpretando diversamente una norma, che quella questione non è rilevante nel processo a quo. In questi casi la Corte decide con un’ordinanza di
irrilevanza ovvero di manifesta irrilevanza. Questo tipo di ordinanze sono frequenti quando la Corte tende a sgombrare il campo da questioni che stanno
arrivando talvolta anche in maniera confusa.
Sempre una tipologia di ordinanze di inammissibilità viene utilizzata dalla Corte in quelle situazioni in cui il giudice chiede alla Corte costituzionale una
valutazione che incida, che tocchi l'uso del potere discrezionale del Parlamento. L'articolo 28 della legge 87 del ’53, che è la legge che ha dato attuazione alla
Costituzione sulla struttura del processo costituzionale, prevede appunto all'articolo al 28 che alla Corte non è permesso svolgere una valutazione di natura
politica o un sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento. Quando la questione tende a porre alla Corte costituzionale un giudizio di questo
tipo, la Corte si trincera dietro un'ordinanza di inammissibilità. Sono quelle che vengono chiamate political questions: alla Corte non possono essere
sottoposte questioni che non hanno una natura costituzionale, ma che chiedono alla Corte di fare un giudizio politico. Vi sono alcuni casi famosi: un 1° caso
di questo tipo è un caso in cui alla Corte si chiese un giudizio che sostanzialmente verteva su una comparazione fra soggetti che avevano partecipato alla
guerra in Spagna e militari ordinari; e la Corte disse: no qui mi chiedi una valutazione politica sull'operato del legislatore… io non te la posso fare. Famose
rimangono alcune ordinanze della Corte per esempio in materia di aborto: un'ordinanza, la 389 del 1988, con cui la Corte rifiutò di giudicare nel merito la
legge sull'aborto laddove tale legge non riconosceva rilevanza alla volontà del padre nella decisione in merito all'interruzione di gravidanza perché - disse la
Corte- “tale valutazione è frutto della scelta politico-legislativa, insindacabile da questa Corte, di lasciare alla donna, unica responsabile, la decisione di
interrompere la gravidanza”. La Corte disse: mi stai chiedendo una valutazione politica questo io non lo posso fare.
2) L'ordinanza poi viene utilizzata nel caso della infondatezza (e anche qui della manifesta infondatezza): quando la Corte ritiene che su quella questione che
viene sottoposta dal giudice esiste già, per esempio, una valutazione precedente della Corte oppure la questione è così palesemente priva di fondamento da
non dover nemmeno richiedere l'uso della sentenza. Si tenga presente che secondo il processo costituzionale, quando la Corte decide con ordinanza non è
necessaria la convocazione in udienza pubblica, ma è sufficiente la convocazione in Camera di Consiglio (quindi è un procedimento più snello, un
procedimento più rapido). Quindi le ordinanze di infondatezza o di manifesta infondatezza sono quelle con cui la Corte dice: bene la questione non ha
fondamento, io l'ho già decisa oppure è palesemente sbagliata la prospettazione che tu mi poni.
Le ordinanze non decidono nel merito la questione; mentre le ordinanze di infondatezza o di manifesta infondatezza invece decidono nel merito della
questione: solo che la decidano rapidamente.
3) le ordinanze di restituzione degli atti: queste sono più tipicamente processuali; vengono utilizzate dalla Corte di solito quando si è di fronte ad un ius
superveniens cioè a un nuovo diritto che è stato approvato, a una nuova legislazione che è stata approvata nelle more del giudizio di costituzionalità e la
Corte costituzionale rimanda gli atti al giudice a quo, il giudice dal quale, dicendogli: vedi un po’ se la questione così, dopo la nuova legislazione, è ancora
rilevante ovvero se è ancora necessaria la risoluzione della questione così come da te prospettata.
4) Un ulteriore tipo di ordinanza, anch'essa di tipo processuale e che quindi non interviene sulla questione, sono le cd. ordinanze istruttorie, vale a dire le
ordinanze con cui la Corte chiede di avere dati e informazioni. Non sono frequentissimamente usate nel giudizio di costituzionalità perché il giudizio di
costituzionalità è per sua struttura un giudizio in cui una norma di legge ordinaria viene paragonata ad una norma della Costituzione: quindi quando io
raffronto una norma con un'altra norma non ho necessità, in linea teorica, di avere dati e informazioni; ma vi possono essere alcune situazioni in cui per la
Corte è importante capire l'effetto di quella disposizione, capire come quella disposizione è stata interpretata, capire che conseguenze avrebbe una sua
decisione sull'ordinamento. In questi casi la Corte utilizza l'ordinanza istruttoria con cui chiede, normalmente al soggetto pubblico (all'avvocatura dello stato,
talvolta all'avvocatura della Regione o anche ai soggetti privati costituitisi in Corte) di fornirle dati e informazioni.

Le sentenze
Le due grandi tipologie di sentenze della Corte sono le sentenze di rigetto e le sentenze di accoglimento. Vedremo poi come rispetto a queste due tipologie originarie di
sentenze della Corte, così individuate nella legge 87 del ‘53, nella prassi/nella Giurisprudenza/nel divenire concreto della giustizia costituzionale la Corte abbia creato
numerose altre tipologie di sentenze, che sono servite a modulare gli effetti della sentenza sull'ordinamento.

• le sentenze di rigetto: sono quelle sentenze con cui la Corte respinge la questione di legittimità costituzionale presentatagli dal giudice a quo ovvero
presentatagli dalle parti ricorrenti nei giudizi in via principale dichiarando infondata la questione. La Corte dice: caro giudice, caro stato o Regione ricorrente,
tu ritieni che quella disposizione di legge violi un certo articolo della Costituzione, io ti rispondo che ciò non è vero. Quindi dichiaro infondata la questione
che tu mi hai posto. Per questione si intende il raffronto fra una norma di legge ordinaria o di atto avente forza di legge con una disposizione costituzionale.
Nelle sentenze di rigetto la Corte dichiara infondata la questione. Le sentenze di rigetto hanno un'efficacia limitata alle parti, la cd. efficacia inter partes:
quando la Corte dichiara infondata una questione di costituzionalità, non appone un timbro di costituzionalità sulla legge; non dice: bene questa legge è
costituzionale, non la giudicherò più; ma si limita a respingere la questione che viene presentata (quindi nel raffronto fra quella disposizione di legge e quella
disposizione costituzionale) e si limita a far ciò solamente con effetto nel giudizio in cui la questione è stata sollevata. Ciò vuol dire che: a) non vi è un timbro
di costituzionalità sulla legge; b) la questione può essere ripresentata, o meglio, il dubbio di costituzionalità su quella legge può essere ripresentato
cambiando parametro di raffronto: raffrontando la disposizione di legge non più all'articolo 3 della Costituzione, ma all'articolo 24 della Costituzione
cambiando il parametro di riferimento; c) la questione può essere ripresentata in altri giudizi; d) la questione può essere ripresentata nello stesso giudizio in
un grado diverso: se io sono in 1° grado, in 1° grado non potrò ripresentare la medesima questione, ma lo potrò fare in 2° appello o in Cassazione.
Naturalmente è evidente che sotto un profilo concreto, sotto un profilo di funzionamento pratico dell'ordinamento, quando la Corte respinge una questione
l'ordinamento tende a conformarsi a questa pronuncia della Corte costituzionale; ma vi sono numerosi casi in cui una certa questione di costituzionalità
respinta in 1° grado, respinta in 2° grado è stata poi accolta in Cassazione: l'ultimo grado del controllo giurisdizionale ha sollevato quella medesima
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questione che era stata respinta nei precedenti gradi di giudizio. Esempi di questo tipo non sono numerosissimi, ma sono sufficientemente frequenti e
possono facilmente anche essere ritrovati nella Giurisprudenza dei giudici ordinari e amministrativi.
• le sentenze di accoglimento: sono quelle sentenze con cui la Corte accoglie la questione di costituzionalità dichiarando l'illegittimità costituzionale della
legge sottoposta al suo giudizio. Vi possono essere situazioni in cui la medesima disposizione è contenuta nella legge x, nella legge y, nella legge z. La
questione viene sollevata sulla legge x, ma non sulla legge y e sulla legge z perché non sono rilevanti nel giudizio a quo. Bene, la Corte costituzionale può
utilizzare un potere previsto dall'articolo 27, l.87/53, di dichiarazione di illegittimità consequenziale e dichiarare illegittima la medesima disposizione
contenuta nella legge x e colpita, ma anche quella contenuta nella legge y e legge z non sottoposte al suo giudizio; ovvero vi possono essere le situazioni in
cui, colpita la disposizione contenuta nella legge x, vi sono altre disposizioni contenute nella medesima o in altre leggi che si trovano sbilanciate dalla
dichiarazione di illegittimità costituzionale: la Corte può utilizzare questo potere. Naturalmente è un potere ampio perché permette alla Corte di uscire da
ciò che le viene richiesto e che quindi la Corte utilizza con una particolare prudenza e attenzione. Uno dei principi fondamentali dell'attività della Corte
costituzionale (ma così come dell'attività di qualsiasi giudice) è quello della corrispondenza fra chiesto e pronunciato. Il giudice non può pronunziarsi al di là
di ciò che gli viene richiesto dalle parti. Questo è un principio generale dell'attività giurisdizionale che trova applicazione anche al giudizio della Corte. Quindi
la dichiarazione di illegittimità consequenziale è una rottura di questo principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato. Ma nel caso della Corte è un
potere importante perché evita che questioni sostanzialmente simili si affollino di fronte alla Corte e che naturalmente la Corte usa con particolare prudenza
e cautela.
Si è detto che le sentenze di accoglimento hanno un effetto che viene definito di annullamento: eliminano la norma dall'ordinamento. L'eliminazione della
norma dall'ordinamento ha effetti nei confronti di tutti: se io tolgo quella disposizione dall'ordinamento giuridico, la tolgo per i soggetti che hanno sollevato
la questione nel giudizio a quo, ma la tolgo per tutti quanti. Si dice allora che le sentenze di accoglimento hanno efficacia erga omnes. Anche l'altro effetto
principale delle sentenze di accoglimento viene definito ex tunc (=da allora). Le sentenze di accoglimento nel loro effetto di annullamento travolgono la
disposizione dichiarata illegittima erga omnes, nei confronti di tutti, ex tunc, da allora, cioè sin dal momento dell'entrata in vigore della disposizione
nell'ordinamento giuridico. Questi effetti sono così conformati dall'articolo 136 della Costituzione e dall'articolo 30 della legge 87 del ’53. Perché le sentenze
della Corte costituzionale hanno un'efficacia di annullamento? Perché colgono un vizio della legge: perché dicono che quella legge è stata approvata in
contraddizione con la Costituzione, è viziata, non va bene non funziona. O meglio, non solo non va bene e non funziona, ma c'è un vizio originario; e se c'è
un vizio originario io devo eliminare quella disposizione dall'ordinamento da quando essa è entrata in vigore: da subito. Le sentenze di accoglimento non
dicono: quella disposizione non funziona; perché se si limitassero a dire quella disposizione non funziona, bene, io la sostituisco da ora con un'altra
disposizione; ma questo non è il giudizio di costituzionalità. Il giudizio di costituzionalità coglie un vizio nella disposizione e la elimina con quegli effetti di cui
si è detto prima, che sono effetti quindi di tipo retroattivo. Ma a questi effetti di tipo retroattivo vi sono dei limiti. Vi sono cioè dei limiti alla retroattività
della sentenza di accoglimento. Perché vi sono dei limiti? Si pensi ad una sentenza di accoglimento che interviene nel 2005 colpendo una disposizione
contenuta in una legge del 1985 di vent'anni prima ovvero disposizioni ancora più risalenti nel tempo, o comunque che colpisce una disposizione di anni
precedenti. La colpisce/la elimina dall'ordinamento. Succede che se io ho una generalizzata efficacia retroattiva della sentenza della Corte, tutto ciò che è
basato sulla norma di legge dichiarata illegittima dovrebbe cadere, dovrebbe essere travolto, dovrebbe non funzionare più. Questo significa creare una
enorme incertezza nei rapporti giuridici. Se l'effetto retroattivo delle sentenze della Corte fosse privo di limiti, tutti i rapporti giuridici sarebbero
potenzialmente sottoponibili ad una continua incertezza; e allora si dice: bene, la sentenza della Corte di accoglimento è retroattiva, ma a questa
retroattività vi sono dei limiti in funzione ed in nome della certezza dei rapporti giuridici. Questi limiti impediscono che si applichi la retroattività della
sentenza della Corte, cioè limitano l'efficacia retroattiva della sentenza. Sono quei limiti che fanno in modo che determinati rapporti giuridici non siano più
pendenti, ma siano esauriti. Sono quei limiti che nascono dalla sentenza passata in giudicato, dall'atto amministrativo inoppugnabile e da quegli istituti che
limitano l'esercizio del diritto o l'esercizio dell'azione, la prescrizione e la decadenza. Esempio del funzionamento di questi limiti: io ho una determinata
statuizione amministrativa, un determinato provvedimento amministrativo che viene preso sulla base di una legge; legge della cui legittimità costituzionale
si dubita. Due soggetti: un soggetto impugna di fronte al giudice l'atto amministrativo che deriva da quella legge su cui vi sono dubbi di costituzionalità;
l'altro soggetto non impugna quell'atto amministrativo. Qualche anno dopo quella legge viene dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. Chi non ha
impugnato l'atto amministrativo basato sulla legge poi dichiarata incostituzionale non godrà dell’efficacia retroattiva della sentenza della Corte perché sul
suo rapporto è intervenuto un atto amministrativo divenuto inoppugnabile. Chi invece ha impugnato quell'atto amministrativo e, pur avendo avuto torto in
1° grado, torto in 2° grado, continua a coltivare il giudizio, nel caso della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma su cui era basato l'atto
amministrativo godrà degli effetti del giudizio di accoglimento della Corte della Corte costituzionale. Queste apparenti disparità di trattamento derivano
dall'applicazione di questo istituto che, in nome della pendenza o meno dei rapporti, permette di limitare la retroattività delle sentenze di accoglimento. Le
cose sono molto complicate: le sentenze della Corte sono retroattive; vi sono dei limiti alla retroattività; ma vi è un eccezione al limite. In materia penale se
io sono stato condannato e la sentenza di condanna è passata in giudicato sulla base di una norma penale poi dichiarata illegittima dalla Corte (e quindi
essendo passata in giudicato la sentenza, io non dovrei usufruire della retroattività della sentenza), siccome il nostro ordinamento è retto dal principio del
favor rei e dal principio della necessaria corrispondenza fra fattispecie e disposizione di legge che la colpisce, nel caso in cui venga colpita una disposizione di
legge penale sulla cui base un soggetto è stato condannato con sentenza passata in giudicato (cioè non più oppugnabile) cessano gli effetti penali della
condanna. La sentenza rimane in piedi, ma io ancorché condannato con sentenza passata in giudicato o comunque chi ha compiuto quel reato, vedrà cessati
gli effetti penali della condanna. Queste regole sono contenute nell'articolo 30 della legge 87 del ‘53 e si basa sul principio costituzionale contenuto
nell’articolo 25, comma 2, della Costituzione.

Questi sono i due grandi blocchi di sentenze della Corte costituzionale: sentenze di rigetto e sentenze di accoglimento. Come si diceva prima la
Giurisprudenza ormai sessantennale della Corte costituzionale (la Corte costituzionale inizio a funzionare nell'aprile del 1956) ha elaborato un amplissima
serie di sentenze che non rientrano in cui in quei due modelli schematici descritti e che vengono definite genericamente come sentenze manipolative. Le
sentenze manipolative sono tutte quelle sentenze che intervengono a manipolare e a modificare la questione ovvero a modificare e a interpretare la
disposizione sottoposta al giudizio della Corte.

• La prima categoria di sentenze di questo tipo sono le cd. sentenze interpretative di rigetto: sono sentenze di rigetto (quindi con quelle efficacia che
abbiamo definito prima) in cui il rigetto della questione deriva dal fatto che la Corte interpreta la disposizione sottoposta al suo giudizio. Il giudice o le parti
nel giudizio in via principale, presentano una questione o impugnano una legge dicendo: la legge contiene una disposizione che io interpreto nel modo A;
interpretata la disposizione nel modo A, questa disposizione viola una disposizione costituzionale (viola l'articolo 3, l'articolo 4, viola una norma sulle
libertà…). La Corte risponde dicendo: caro giudice o cara parte, ti sbagli; la disposizione che su sottoponi al mio giudizio, e che tu interpreti nel modo A
ritenendo che è illegittima, va interpretata non nel modo A ma nel modo B; se tu la interpreti in questo diverso senso, la disposizione non cozza contro
articoli della Costituzione. Quindi è una sentenza di rigetto (respinge la questione) interpretativa (reinterpreta la disposizione sottoposta al giudizio della
Corte); però è di rigetto: con quei limiti amplissimi all'efficacia della sentenza la Corte → sono limiti limitati alle parti del giudizio. E allora è successo varie
volte che la Corte costituzionale si è trovata costretta a passare dalla sentenza interpretativa di rigetto (che conserva la disposizione dicendo: interpreta in
un altro modo) alle sentenze interpretative di accoglimento. La parte dice che la questione riguarda la disposizione interpretata nel senso A; e la Corte dice:
non colpisce la disposizione, che rimane in piedi, ma colpisce l'interpretazione che viene data dalla disposizione, quindi la norma, espungendo quella
interpretazione e quindi la norma dall'ordinamento. La disposizione rimane in piedi permettendo altre interpretazioni; io però espongo quella
interpretazione, elimino quella interpretazione dall'ordinamento con gli effetti tipici delle sentenze di accoglimento.
• Altre due tipologie di sentenze create dalla Corte costituzionale sono le sentenze additive e le sentenze sostitutive. Le sentenze additive sono quelle
sentenze con cui la Corte costituzionale dichiarando illegittima una omissione nel contenuto di una legge ha come effetto di aggiungere qualcosa a quella
legge. Se io dichiaro illegittima una disposizione che dice che un certo beneficio non spetta a determinati soggetti, dico che la disposizione viola l’articolo 3

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perché non riconosce un determinato beneficio a soggetti in quelle determinate condizioni. L'effetto di questa dichiarazione di illegittimità che colpisce una
omissione è di aggiungere i soggetti o le fattispecie omesse nel contenuto della disposizione e quindi di aggiungere qualcosa.
Le sentenze sostitutive sono invece quelle sentenze che sostituiscono una determinata previsione con un'altra. Vi sono stati dei casi, per esempio, in cui un
certo procedimento poteva essere iniziato su iniziativa del ministro di giustizia. La Corte disse: no il procedimento non deve partire su iniziativa del ministro
di giustizia ma deve partire su iniziativa per esempio della medesima Corte costituzionale; ha dichiarato illegittima quella disposizione nella parte in cui
prevedeva l'iniziativa del ministro di giustizia anziché della Corte costituzionale; ha avuto un effetto sostitutivo. Si può notare facilmente come queste
sentenze non eliminano qualcosa dall'ordinamento, ma aggiungono qualcosa. Allora c'è sempre stata una polemica molto forte nella dottrina, e talvolta
anche con atteggiamenti di non applicazione di questa sentenza da parte dei giudici ordinari, quindi con critica anche nella giurisdizione, nei confronti di
queste sentenze manipolative e in particolare delle sentenze additive e sostitutive nella parte in cui producono qualcosa di nuovo. La risposta della Corte è
sempre stata un uso prudente appunto di questo tipo di sentenze ma soprattutto il dire: io utilizzo queste sentenze quando la situazione dell'ordinamento è
tale che questa addizione o questa sostituzione è la conseguenza obbligata di un certo percorso logico. C'è una frase famosa di un grande costituzionalista
della tradizione italiana, grande giudice costituzionale e grande studioso del diritto costituzionale, Vezio Crisafulli, che diceva che le sentenze additive le
sentenze sostitutive sono sentenze a rime obbligate: cioè la Corte è forzata a giungere a quella conclusione.

Un amplissimo gruppo di sentenze negli ultimi 30 anni è intervenuto sugli effetti temporali. Abbiamo visto prima che le sentenze di accoglimento sono
sentenze che retroagiscono al momento di emanazione della norma; questo può provocare delle conseguenze gravi: se io dichiaro illegittima una
disposizione entrata in vigore 20/30 anni, ci possono essere delle conseguenze gravi. E allora la Corte ha individuato una serie di tipologie, anche in maniera
non nettissima, non chiarissima, per modulare gli effetti temporali.
• La prima categoria sono le sentenze monito: sono le sentenze in cui dice si dice al legislatore: guarda stai attento! questa disposizione non mi piace, è
illegittima adesso non te la dichiaro incostituzionale, ma ti avverto che se non la cambi la dichiarerò incostituzionale. Sono sentenze che ammoniscono il
legislatore a modificare la norma.
• Le sentenze di legittimità provvisoria: sentenze che dicono → io per il momento salvo la disposizione perché mi rendo conto che in questa particolare
contingenza questa disposizione è necessaria; ma questa situazione durerà solamente per un certo periodo di tempo; successivamente ti avverto che questa
norma diventerà progressivamente illegittima. Vi sono poi delle sentenze che limitano la retroattività, cioè dicono l’legittimità costituzionale non decorre dal
momento dell'entrata in vigore, ma decorre da un momento successivo; anche qui la Corte cerca di individuare razionalmente questo momento successivo
in cui entra in vigore la retroattività
• la Corte poi ha creato delle sentenze di accoglimento pro futuro contraddicendo il principio della retroattività delle sentenze di accoglimento ha detto
questa norma diventa illegittima solo da oggi in poi, da un periodo in avanti in poi; anche qui con un problema difficile di bilanciamento.
• Un’ultima categoria è quella delle sentenze additive di principio: nelle sentenze additive di principio la Corte costituzionale dichiara illegittima una
omissione. Dice: quella mancanza è costituzionalmente legittima; ma non ne trae le conseguenze in ordine all’integrazione della disposizione con
un’aggiunta, con un’addizione, lasciando all'ordinamento la possibilità di individuare i rimedi per colmare quella omissione dichiarata illegittima in via di
principio. Sono tutte sentenze particolarmente delicate non di uso frequentissimo; singoli casi negli ultimi 30 anni che pongono continuamente un problema
di bilanciamento dei poteri della Corte costituzionale.

Le decisioni nei conflitti di attribuzione


La Corte costituzionale giudica sui conflitti di attribuzione fra poteri dello stato e fra stato e Regioni; in questi giudizi la decisione della Corte, sia nell'uno che nell'altro, ha
un duplice effetto: da un lato dichiara a chi spetta il potere contestato, dall’altro ha eventualmente un effetto di annullamento dell'atto che venga impugnato. Due
precisazioni: nei conflitti di attribuzione fra poteri dello stato, il giudizio può anche non riguardare un atto giuridico, ma può riguardare semplicemente un
comportamento: cioè non è necessaria l'individuazione dell'atto, che invece è necessaria nel conflitto di attribuzione fra stato e Regioni; e sia nell'uno che nell'altro tipo
di conflitto, quello che che può esser lamentato è sia la vindicatio potestatis, cioè la rivendicazione del potere, sia il comportamento dell'altro soggetto che mette in
difficoltà nell'esercizio di un proprio potere. Nel giudizio di ammissibilità del referendum l'ammissibilità viene conclusa con una sentenza della Corte, ma il cui effetto è
semplicemente quello di ammettere o meno il referendum; tant’è che si è discusso anche sulla natura giuridica delle sentenze di ammissibilità del referendum

Le decisioni nel giudizio penale sul Presidente della Repubblica

Le decisioni nel giudizio penale sono decisioni caratterizzate da questa deroga, da questo principio per cui la Corte decide in unico grado sugli eventuali reati penali,
prima del Presidente dei Ministri, adesso solamente del Presidente. Da tenere sempre presente infine che, ai sensi dell'articolo 137,” contro le decisioni della Corte
costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione”. Sono comunque decisioni definitive.

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CAPITOLO 29&30 - La giurisdizione

La funzione giurisdizionale

La Costituzione disegna in maniera interessante (anche se forse non si può dire necessariamente originale perché il disegno che ne dà Costituzione è legato al modo con
cui la problematica della collocazione della giurisdizione nel sistema dei poteri veniva affrontato nell'Ottocento) e affronta in maniera interessante il tema della
collocazione della giurisdizione nel sistema istituzionale. Gli articoli di riferimento sono l'articolo 101 e l'articolo 104. L'articolo 101 ci dice che la giustizia è amministrata
in nome del popolo: questo non vuol dire che i giudici siano in qualche modo assoggettati alla volontà popolare; non vuol dire che i giudici sono forme di espressione
della sovranità o che subiscano meccanismi di raccordo diretto con la volontà popolare e le forme del suo esercizio; ma la forza del dire che la giustizia è amministrata in
nome del popolo va colta nel suo opposto. Dire che la giustizia è amministrata nel nome del popolo significa superare la concezione assolutistica del periodo
dell'assolutismo monarchico in cui la giustizia veniva amministrata in nome del re. Il popolo è il titolare ultimo di tutte le funzioni pubbliche ed è il soggetto in nome del
quale tutte le funzioni pubbliche sono esercitate.

Ci dice poi l'articolo 102 che i giudici sono soggetti solamente alla legge. Si ricorda ricordare l'articolo 104, comma 1°, della Costituzione secondo cui “la Magistratura
costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Ne emergono 3 caratteristiche fondamentali della funzione giurisdizionale:

➔ Autonomia: è postulata dal 104, comma 1°, della Costituzione e vuol dire che i giudici non possono subire forme di pressione, di coercizione, di vincolo da
nessun altro soggetto dell'ordinamento
➔ Indipendenza: è espressione dell'autonomia
➔ Terzietà: la terzietà nel senso che la Magistratura applica la legge in maniera imparziale cioè non essendo egualmente distante da tutte le parti che devono
vedere l'applicazione della legge.

In Costituzione l’indipendenza è costruita sotto due diversi profili: un 1° profilo è quello della cd. indipendenza esterna vale a dire indipendenza dei giudici nei
confronti degli altri poteri dello stato. È la formula che si ricordava prima dell'articolo 104 della Costituzione, comma 1°: “la Magistratura costituisce un ordine
autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Il secondo profilo dell'indipendenza è la cd. indipendenza interna cioè il giudice non deve essere soggetto a vincoli
alla sua libertà nemmeno all'interno del suo ordine. Caratteristiche e profili di questa indipendenza interna sono due istituti: quello della inamovibilità dei giudici e
quello del divieto costituzionale di differenziazione dei giudici se non per diversità di funzioni. L'indipendenza a che cosa serve e come viene garantita?
L'indipendenza è uno strumento per garantire l'autonoma e imparziale applicazione della legge. I giudici devono essere tutelati da forme di pressione o di vincolo
che limitino la loro libertà; altrimenti non sarebbero autonomi e imparziali nell'applicazione della legge. Questa caratteristica dell'autonomia, ai sensi
dell’ordinamento costituzionale italiano e della Giurisprudenza che sull'ordinamento si è formato, può essere anche difesa da ogni singolo giudice con lo
strumento del conflitto di attribuzione. Ogni singolo giudice nell'esercizio delle sue attività può tutelare la sua sfera di competenza ricorrendo alla Corte
costituzionale contro illegittime invasioni da parte di altri soggetti. Naturalmente può anche essere assoggettato a essere portato in Corte costituzionale da parte
di altri poteri che si vedano invasi nella loro sfera di attività da attività svolte dai singoli giudici. Questo fatto che il singolo giudice può egli stesso singolarmente
individuato tutelare la sua sfera di competenza di fronte alla Corte ha fatto sì che della Magistratura si parli come di un cd. potere diffuso. Non solo la Magistratura
nel suo complesso può tutelare le sue attribuzioni di fronte alla Corte, ma ogni singolo giudice: questa è una Giurisprudenza ormai consolidata della Corte
costituzionale. L'altro profilo importante quello che deriva dall’articolo 101, 2° comma: i giudici sono soggetti soltanto alla legge. La legge è lo strumento attraverso
il quale l'organizzazione della giustizia viene definita; i giudici sono chiamati ad applicare la legge e quindi la legge è l'ambito: ci dà la misura della loro autonomia e
indipendenza; ma solo la legge non un altro atto. Si tenga presente che il rapporto fra il giudice e la legge (la legge intesa come misura e limite della libertà dei
giudici) si è modificato con l'entrata in vigore di una Costituzione rigida. La Costituzione rigida e il meccanismo di controllo in via incidentale della legge scusatemi
cioè la possibilità che i giudici nel corso del giudizio possano sollevare la questione di costituzionalità della legge che devono applicare al caso concreto, hanno
modificato profondamente il rapporto fra giudici e leggi. Innanzitutto, perché la vecchia e tradizionale idea che i giudici devono applicare la legge (sono obbligati
ad applicare la legge) nel nostro ordinamento non regge più perché i giudici nel caso che ritengano di non applicare la legge (perché la legge ha dei vizi) possono
non applicarla sollevando la questione di costituzionalità: il giudice ha uno strumento che gli permette di evitare l'applicazione della legge ritenuta illegittima ed è
la sollevazione della questione di costituzionalità. Questo potere di controllo sulla legittimità della legge che in conclusione è affidato alla Corte costituzionale, ma
che parte dai giudici ha altresì modificato anche sotto il profilo sostanziale la collocazione dei giudici. I giudici prima ancora di essere soggetti solamente alla legge
sono soggetti alla Costituzione; oramai è prevalso all'interno della Magistratura un orientamento che tende a vedere la legittimazione dell'attività dei giudici nella
applicazione della Costituzione. Questo è un argomento estremamente delicato e estremamente complesso che è stato fonte negli ultimi 30 anni in Italia di grandi
discussioni sia all'interno della Magistratura sia nei rapporti fra Magistratura e cultura giuridica sia nei rapporti fra Magistratura e altri poteri dello stato.

La giurisdizione ordinaria
Le norme sull'ordinamento giudiziario sono previste dall’articolo 102 della Costituzione che ci dice che “la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari
istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario”. Le norme sull'ordinamento giudiziario sono in larga misura contenute nel regio decreto n. 12 del 1941 con le
modifiche successivamente intervenute fra cui quelle contenute nel regio decreto n.511 del 1946. Una larga riforma dell'ordinamento giudiziario è prevista oggi nella
legge, 25 luglio 2005, n. 150, di delega al Governo appunto per la riforma dell'ordinamento giudiziario del 1941. Il testo è un testo estremamente corposo e
estremamente incisivo, di previsioni di profonde modifiche nel corpo dell'ordinamento giudiziario; è stato approvato dal Parlamento nel corso della legislatura 2001-
2006, rinviato dal Capo dello stato e nuovamente riapprovato. I decreti legislativi delegati, vale a dire gli atti di attuazione di questa legge delega, sono ancora in itinere.

All'interno dell'ordinamento della giurisdizione ordinaria dobbiamo introdurre alcune distinzioni organizzative. Si deve ricordare in prima in prima battuta la grande
distinzione fra: organi requirenti e organi giudicanti. Nell'ordinamento costituzionale italiano i magistrati facenti parti degli organi requirenti e i magistrati facenti parte
degli organi giudicanti sono egualmente organizzati nella Magistratura e godono delle medesime garanzie. L'articolo 107 della Costituzione prevede una serie di garanzie
che sono comuni a tutti i magistrati; ci ricorda appunto che i magistrati si distinguono fra di loro solo per diversità di funzioni; e prevede specificamente che il pubblico
Ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario.

Nel nostro ordinamento l'organo requirente è il pubblico Ministero che è organizzato in Procure: la Procura presso il tribunale, la Procure presso le corti d'appello e la
Procura generale presso la Corte di Cassazione. La funzione degli organi requirenti è quella di svolgere una funzione di iniziativa e di stimolo del processo nel nome e per
la tutela dell'interesse pubblico ovvero in alcuni casi per la tutela di alcune situazioni particolarmente deboli o particolarmente svantaggiate. Gli organi requirenti sono
tipicamente collocati presso gli organi giudicanti in materia penale ma esiste nel nostro ordinamento una funzione di pubblico Ministero anche in alcune situazioni di
giudizio civile ovvero di giudizio amministrativo. Gli organi giudicanti sono invece quegli organi che sono chiamati ad applicare il diritto al caso concreto sottoposto alla
loro attenzione in posizione di terzietà ed indipendenza rispetto alle parti. L'organizzazione degli organi giudicanti vede al gradino più basso il giudice di pace; poi il
tribunale, che opera in alcuni casi in composizione monocratica (cioè composto da un solo giudice), in altri casi in composizione collegiale; in penale a fianco al giudice di
pace dal tribunale esiste la Corte d'assise per alcuni reati di particolare gravità; poi la Corte d'appello (e in penale abbiamo la Corte d'assise d'appello); infine l'organo
giudicante supremo nel nostro ordinamento per quanto riguarda la funzione giudiziaria ordinaria è la Corte di Cassazione; vanno altresì ricordati il tribunale per i
minorenni che ha alcune funzioni giudicanti per quanto riguarda i minori di 18 anni; il magistrato del tribunale di sorveglianza in fase di applicazione della pena; e altresì il

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il tribunale regionale per le acque pubbliche e il tribunale superiore per le acque pubbliche che sono giudici specializzati presso le corti di appello e presso la Cassazione
in materia di acque sottoposte ad un regime pubblicistico.

I magistrati si distinguono fra giudici togati e giudici onorari. I giudici togati sono quei giudici che sono legati ad un rapporto di pubblico impiego con lo Stato e sono i
giudici che compongono gli organi requirenti e gli organi giudicanti che abbiamo citato, tranne il giudice di pace. Il giudice di pace nell'ordinamento italiano è una figura
particolare non legata allo Stato da un rapporto di pubblico impiego e si chiama appunto giudice onorario.

Si parlava prima della Corte di Cassazione. La Corte di Cassazione oltre a essere il giudice supremo dell'ordinamento giudiziario ordinario ha alcune peculiari funzioni. La
funzione principale della Corte di Cassazione è quella che viene definita nomofilattica: la Corte di Cassazione è il giudice che garantisce l'unità nell'interpretazione del
diritto. La Cassazione non è infatti, né in civile né in penale, il 3° grado della giurisdizione o civile o penale; ma è l'organo che garantisce rispetto agli altri livelli del sistema
giudiziario italiano l'unità nell'interpretazione del diritto. In più la Cassazione è organo di vertice anche rispetto alle altre giurisdizioni perché è l'organo che garantisce il
rispetto delle reciproche sfere di giurisdizione delle diverse giurisdizioni ordinarie (amministrativa, contabile, tributaria, militare)

Le guarentigie della Magistratura


Le guarentigie sono le garanzie della Magistratura, cioè quella serie di principi e di strumenti che garantiscono l'attività del magistrato. Si è ricordato prima come
l'autonomia e l'indipendenza siano caratteristiche tipiche del giudice. Il 1° principio lo è quello che ritroviamo espresso nell'articolo 102, 2° comma, vale a dire che ogni
giudice è soggetto soltanto alla legge con quei profili che si diceva: la legge che ci dà la misura ma è limite anche dell'ampiezza della libertà del giudice; ma è la legge che
come l'espressione la sovranità popolare organizza l'attività dei giudici.

Un principio che attiene alla autonomia e all’indipendenza dei magistrati è l’obbligatorietà dell'azione penale: l'obbligo per i magistrati degli organi requirenti di iniziare
l'azione penale, qualora vengano a conoscenza di una attività di reato. Questo è uno degli aspetti più delicati e più discussi di tutto il dibattito politico-istituzionale
italiano sulla Magistratura perché il problema cruciale è: ma l'azione penale è veramente obbligatoria o nella realtà dei fatti siamo di fronte a scelte organizzative dei
magistrati e degli organi requirenti nell’attivare l'azione penale? Di fronte alla evidente ampiezza di comportamenti abusivi e di comportamenti illegittimi, il magistrato
dell'organo requirente esercita sempre l'azione penale su tutti quei comportamenti abusivi ovvero sceglie se e quando iniziare un'azione penale e quindi esercita una
discrezionalità che si oppone al principio dell'obbligatorietà? Questo è uno dei temi più controversi dell’assetto della Magistratura italiana.

Un'altra garanzia dell’autonomia e dell'indipendenza dei magistrati è data dalla inamovibilità che è prevista dall'articolo 107, 1° comma, “i magistrati sono inamovibili:
non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni, se non in seguito a decisione del Consiglio Superiore della Magistratura,
adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso”. Quindi il principio è quello che il magistrato non può
essere spostato dalla sede della funzione in cui si trova. Questi spostamenti o sono effettuati con il consenso del magistrato oppure nel rispetto delle garanzie e dei
principi fissati dalle norme sull'ordinamento giudiziario.

Il Consiglio superiore della Magistratura

Nel sistema della giurisdizione ordinaria, il Consiglio Superiore della Magistratura è l'organo che garantisce l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura nei confronti
degli altri poteri.

Vi è una lunga discussione nel nostro ordinamento sulla collocazione del CSM nell'ordinamento costituzionale italiano. Il professor Onida dice: mi ha sempre lasciato
freddo la classica discussione sul punto se il CSM sia da qualificarsi come organo costituzionale o solo come organo di rilevanza costituzionale. È importante fissare
alcune caratteristiche che indubitabilmente connotano il CSM: esso è organo di vertice fra gli apparati dello stato, superiorem non recognoscens, cioè che non riconosce
organi superiori; è fornito di competenze deliberative attribuite ad esso direttamente dalla Costituzione; esercita le proprie competenze in piena indipendenza, essendo
garantita l'assenza di vincoli esterni alla volontà del collegio; può difendere le sue attribuzioni mediante lo strumento del conflitto di attribuzione di fronte alla Corte. È in
questo senso e a questi fini potere dello stato. Questa è la collocazione nel nostro ordinamento del CSM.

Il Consiglio della Magistratura svolge alcune funzioni che gli sono attribuite direttamente alla Costituzione all'articolo 105 in particolare. Decide cioè sulle assunzioni,
sulle assegnazioni, sui trasferimenti, sulle promozioni e sui provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. Di particolare delicatezza è il rapporto fra il CSM e il
ministro guardasigilli, il ministro della giustizia. Invero, se al CSM spettano tutte le funzioni sopra ricordate, l'articolo 110 della Costituzione ci dice che “ferme le
competenze del Consiglio Superiore della Magistratura, spettano al ministro della Giustizia l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Questo
intreccio di competenze ha dato luogo ad alcuni conflitti fra CSM e ministro; il ministro della giustizia è l'unico ministro che, essendo direttamente citato in Costituzione,
può accedere al conflitto di attribuzione fra poteri dello stato; così come anche il CSM accede al conflitto di attribuzioni fra poteri dello stato essendo un organo che
rappresenta una sfera, una parte dell'attribuzione garantita direttamente in Costituzione all'ordine giudiziario. Questa intreccio di competenze è stato più volte portato
dinanzi alla Corte costituzionale con lo strumento del conflitto d'attribuzione e la Corte costituzionale, da ultimo con la sentenza 380 del 2003, ha chiamato CSM e
ministro della giustizia a cooperare, a collaborare, a individuare le forme per la cooperazione e collaborazione a cui sono richiesti dall'articolo 105 e 110 della
Costituzione per il corretto funzionamento dell'organizzazione della giustizia.

Il CSM, ai sensi dell'articolo 104, dura in carica 4 anni. Ne fanno parte 3 membri di diritto, il Presidente della Repubblica, il 1° Presidente della Corte di Cassazione, il
Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, e due terzi dei membri sono eletti dai magistrati ordinari. Il residuo 1/3 dei membri è eletto invece dal Parlamento
in seduta comune fra i professori universitari ordinari di materie giuridiche e gli avvocati con almeno 15 anni di esercizio.

Il numero dei componenti del CSM è attualmente fissato a 24 elettivi + 3 di diritto: quindi a 27. Il numero naturalmente è modificabile con legge ordinaria perché la
Costituzione fissa solamente il riparto fra componenti di nomina dei magistrati e componenti di nomina del Parlamento in seduta comune. Fra i membri nominati dal
Parlamento in seduta comune viene votato un Vicepresidente del CSM che sostituisce il Presidente del CSM che è invece il Presidente della Repubblica, giacché com’è
facilmente immaginabile il Presidente della Repubblica non potrà partecipare a tutte le attività del Consiglio superiore la Magistratura e occorre quindi un vicepresidente
che svolga le sue funzioni.

Le garanzie del processo e nel processo


Va in primo luogo ricordata una recentissima riforma che ha modificato l'articolo 111 della Costituzione. L'articolo 111 oggi è introdotto dal principio che “la giurisdizione
si attua mediante il questo processo regolato dalla legge” → principio del giusto processo. Ci dice poi il 111 che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti in
condizioni di parità davanti a un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Poi detta alcune regole particolarmente nei confronti del processo
penale. Caratteristica di fondo di tutto il sistema giudiziario italiano è l'esistenza del diritto alla difesa: diritto al contraddittorio nel processo caratterizzato dalla presenza
di una difesa tecnica, cioè da parte dei soggetti esperti del diritto. Un'altra garanzia del processo la troviamo fra i principi della Costituzione all'articolo 25, quindi fra i
principi, ed è la garanzia del giudice naturale precostituito: “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Quindi occorrono dei meccanismi

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che permettano l'individuazione del giudice prima che avvenga il fatto che poi verrà portato di fronte al giudice. Non è ammissibile che all'intervengano modifiche del
giudice competente successive al fatto. Sempre fra le garanzie va ricordato il principio della personalità della responsabilità penale che non può che riguardare quella
singola persona. Dobbiamo poi ricordare l'ulteriore principio della irretroattività della legge penale, anch'esso lo troviamo nell'articolo 25, 2° comma: “nessuno può
essere punito, se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Inoltre, abbiamo l'altro principio generale della presunzione di non
colpevolezza che troviamo nell'articolo 27, comma 2: “l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. L'articolo 111 poi ci ricorda un altro
principio fondamentale di garanzia nel processo e dell'obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali: obbligo di motivazione che permette che possa che
sia ammesso sempre ricorso in Cassazione per violazione di legge contro tutte le sentenze ai provvedimenti sulla libertà personale. Infine, l'ordinamento giudiziario
italiano è caratterizzato dall'esistenza di un doppio grado di giurisdizione anche se questa caratteristica non gode di per sé della garanzia costituzionale.

I giudici speciali nella Costituzione


L’ articolo 102 della Costituzione prevede che la funzione giurisdizionale sia esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario.
Sembrerebbe come incipit fare una scelta di preferenza nei confronti della Magistratura ordinaria, tant'è che poi afferma che “non possono essere istituiti giudici
straordinari o giudici speciali, potendosi soltanto istituire presso gli organi giudiziari ordinari, sezioni specializzate per determinate materie”; quindi all'interno della
Magistratura ordinaria singole sezioni specializzate “anche con la partecipazione di cittadini estranei alla Magistratura”.

Poi però l'articolo 103 e la VI disposizione transitoria e finale della Costituzione fanno una scelta in qualche modo diversa, portano l'ordinamento in una direzione
diversa; e ci parlano del Consiglio di stato e degli altri organi di giustizia amministrativa, che hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della Pubblica
Amministrazione; degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. Ci parla sempre l'articolo 103 della Corte dei conti che
ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre materie specificate dalla legge. Ci parla sempre l'articolo 103 dei tribunali militari in tempo di guerra e in
tempo di pace; e la sesta disposizione transitoria e finale, con una previsione che in realtà è stata ritenuta non meramente ordinatoria dalla Corte costituzionale, ci dice
che entro 5 anni dall'entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del
Consiglio di stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari.

Allora, posto che il divieto posto dall'articolo 102, di giudici straordinari e di giudici speciali si riferisce, con il divieto di giudici straordinari, al divieto di costituzione di
organi giudicanti ex post (dopo l'evento) [questi sono i giudici straordinari] e, con il divieto dei giudici speciali, ci si riferisce al divieto di istituire organi giudicanti con
competenze speciali (cioè riferite a specifiche materie). In realtà la Costituzione, dopo aver fatto un'apparente scelta verso la giurisdizione ordinaria con il divieto dei
giudici speciali poi, pur definendo altri organi/plessi giudiziari speciali, li salva e dà loro specifiche competenze: attribuisce ad altri organi giudiziari specifiche competenze
sulla base della stessa Costituzione. Per cui alla fine il sistema giudiziario italiano appare un sistema fortemente articolato; per cui a fianco ai giudici ordinari abbiamo i
giudici amministrativi, i giudici in materia contabile, i giudici in materia tributaria e i giudici militari; quindi un sistema articolato su una pluralità di giurisdizioni.

Il giudice amministrativo

Vediamo allora, intanto, la giurisdizione amministrativa. Ai sensi dell'articolo 103 della Costituzione, che va in questo senso collegato all'articolo 24 della Costituzione, “il
Consiglio di stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione degli interessi legittimi e, in
alcune materie, anche dei diritti soggettivi”. L'articolo 24 afferma fra i diritti che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e degli interessi legittimi”.
Quindi abbiamo quello che viene tradizionalmente chiamato un sistema di doppio binario: la tutela del cittadino si basa su questa categoria dell'interesse legittimo e
sulla categoria dei diritti soggettivi. Si tratta di categorie fondamentalmente di elaborazione giurisprudenziale; la stessa Costituzione quando ha richiamato la nozione di
interessi legittimi, negli articoli 103 e 24, ha fatto riferimento ad una nozione di pretta, di chiara ed evidente elaborazione della Giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Questo sistema di doppia giurisdizione si basa sul fatto che l'autorità giudiziaria ordinaria è competente a decidere della violazione dei diritti soggettivi, potendo
eventualmente disapplicare l'atto amministrativo che risulti illegittimo, dichiarandone l'illegittimità; mentre l'autorità giudiziaria amministrativa è competente a
giudicare di questa particolare situazione soggettiva, che sono gli interessi legittimi, fatto salvo il caso della giurisdizione esclusiva, annullando l'atto amministrativo
illegittimo ovvero sostituendolo nei casi di giurisdizione di merito ovvero in alcuni casi riformandolo.

Sulla distinzione fra diritto soggettivo e interesse legittimo si sono scritte tantissime pagine di dottrina e di Giurisprudenza. Sono state elaborate tantissime teorie. Se
vogliamo fare esempi: il diritto soggettivo è quella situazione soggettiva che si crea nel rapporto fra soggetti posti sullo stesso piano, fra soggetti che nell'ordinamento si
collocano in una situazione di parità; e consiste nella possibilità di dire che nei confronti di un determinato bene/di un determinato oggetto/di un determinato interesse
esiste una pretesa del soggetto titolare a poter godere di quel bene/di quell'interesse/di quell'oggetto e a escludere che altri se ne approprino. Se la penna è mia, i miei
interlocutori me la prendono, io potrò esercitare nei loro confronti una pretesa a che non si approprino della mia penna; a che non si approprino di un mio terreno di
proprietà; a che non entrino nella mia casa; a che il contratto scritto fra di noi perché mi viene riconosciuto un certo bene venga portato a conclusione.

La caratteristica fondamentale è che il diritto soggettivo si basa nei rapporti fra pari, tra soggetti posti nelle medesime condizioni, e che da permette una tutela nei
confronti di altri soggetti che vogliono impedirmi di godere di quel bene; e permette una tutela che mi fa godere di quel bene.

L'interesse legittimo nasce come elaborazione nel rapporto fra il privato cittadino e la Pubblica Amministrazione, in tutti quei casi in cui la Pubblica Amministrazione non
opera con gli strumenti privatistici (non opera cioè alla pari dei del privato cittadino), in tutte quelle situazioni in cui l'amministrazione usa un potere autoritativo.

In tutti questi casi, il mio interesse/la situazione soggettiva da me è vantata non è quella a garantire che la penna rimanga mia; ma se io ho di mira non tanto
l'acquisizione di una penna ma ho di mira per esempio l'acquisizione di una casa popolare. Io sono in determinate situazioni di reddito, di condizioni sociali che mi
permetterebbero di ottenere un alloggio di edilizia economica e popolare. Il mio interesse, l'interesse che io posso far valere, è si volto all'ottenimento dell'alloggio di
edilizia economica e popolare; ma non già potendone pretendere l'assegnazione e non già potendo pretendere l'esclusione di altri soggetti; ma la mia situazione
soggettiva è una situazione che soggettiva che si rivolge alla verifica della correttezza dell'operato della Pubblica Amministrazione nell'attribuire a me o ad altri soggetti
quell’ alloggio di edilizia economica e popolare. Quindi nell'interesse legittimo non viene in considerazione il mio potere sul bene, ma pur avendo io di mira l'ottenimento
di quel bene la situazione soggettiva/quello che io posso vantare è la verifica del legittimo operato della Pubblica Amministrazione.

Come è facile intuire, su questa distinzione si sono poi via via costruite una serie di teorie dottrinarie e di orientamenti giurisprudenziali che rendono non facilissimo il
riconoscimento delle situazioni in cui si ha diritto soggettivo e delle situazioni in cui sia interesse legittimo.

Sono state così elaborate numerosissime teorie per distinguere diritti e interessi. Si è parlato delle teorie che fanno riferimento alla distinzione fra attività di gestione ed
attività di imperio della Pubblica Amministrazione; si è parlato della teoria del petitum, sulla cui base il riparto delle giurisdizioni va attuato a prescindere dalla
consistenza della posizione soggettiva dedotta secondo la natura del provvedimento richiesto dall’interessato; si è parlato della teoria della causa petendi, secondo cui il
criterio differenziatore si basa sulla natura della posizione giuridica portata nel giudizio; si è parlato della teoria della norma violata, per cui il riparto fra giudice
amministrativo e giudice ordinario è operato sulla base delle norme che si ritengono violate (questa teoria ebbe avuto molto successo: l'interprete/il sostenitore
principale fu Guicciardi). Secondo tale teoria il criterio di riparto si basa sulla differenza fra norme di azione, che regolano l'esercizio dei poteri della P.A. imponendo ad

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essa un determinato comportamento nell'interesse pubblico, e norme di relazione che regolano i rapporti fra cittadini e P.A. attribuendo all’una o all'altra diritti e
obblighi reciproci.

La Giurisprudenza da sempre si è orientata sul criterio della causa petendi: già da una sentenza addirittura del ‘49 che poi è stata sostanzialmente seguita osservando che
“tutte le volte che si lamenta il cattivo uso del potere dell’amministrazione si fa valere un interesse legittimo e la giurisdizione è del giudice amministrativo; mentre si ha
questione di diritto soggettivo, e quindi giurisdizione del giudice ordinario, quando si contesta l'esistenza del potere”.

Il collegamento quindi sulla base di questa sentenza della Cassazione è diventato quello per cui: quando vi è un cattivo uso del potere attribuito alla P.A., ma malamente
e illegittimamente utilizzato, si ha una situazione di interesse legittimo e quindi si va di fronte al giudice amministrativo; quando si ha carenza di potere cioè quando la
Pubblica Amministrazione agisce senza una norma di legge che le dia questo potere di agire autoritativamente nei confronti del privato, si ha diritto soggettivo e si va di
fronte al giudice ordinario.

Si tratta di una ripartizione di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo non privo di difficoltà: anzi nel concreto esercizio dell'attività defenzionale i
rischi di difficoltà nel riconoscimento delle situazioni sono molto elevati. Anche tenendo presente questo tipo di difficoltà, si è costruito un orientamento tendente all’
aumento della giurisdizione esclusiva. Si ricordi che leggendo l'articolo 103 si diceva che “il Consiglio di stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno
giurisdizione, per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione, degli interessi legittimi (quindi di quelle situazioni soggettive che si descriva prima); e in
particolari materie indicate dalla legge anche dei diritti soggettivi. Questa è quella che si chiama giurisdizione esclusiva, che ha avuto negli ultimi anni un’interessante
tendenza all'ampliamento: si è cercato di passare da un criterio di ripartizione basato sulla dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo a un criterio di ripartizione
basato su blocchi di materie. Espressioni di questa tendenza all'allargamento della giurisdizione esclusiva sono il decreto legislativo delegato numero 80 del 1998 e
successivamente la legge 205 del 2000, che hanno esteso la giurisdizione esclusiva a blocchi di materie; in particolare, l'articolo 33 del d.lgs. 80 del ’98, così come poi
modificato dalla legge 205 del 2000, stabilisce che “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi
ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni, sul mercato immobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi,
di cui alla legge numero 481 del ‘95”. Già peraltro l'articolo 34 dello stesso d.lgs., sempre come modificato dalla legge 205, “devolve la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie aventi ad oggetto atti, provvedimenti e comportamenti delle pubbliche amministrazioni ovvero dei soggetti equiparati alle pubbliche
amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia”. Si passa da un meccanismo che avrebbe dovuto essere, secondo lo schema della Costituzione, diritti soggettivi-
interessi legittimi a un meccanismo basato sul blocco di materie. Rispetto a questo orientamento espansivo, sono poi intervenuti anche alcuni orientamenti tendenti a
restringere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: in particolare tra continui tentativi di finium regundorum (di regolazione dei confini) fra la Cassazione,
come giudice della giurisdizione e il Consiglio di Stato, come giudice supremo amministrativo, va segnalata una sentenza della Corte costituzionale, la n.281 del 2004, che
dichiarò illegittimo il d.lgs. 80 del ‘98 individuando in esso un eccesso di delega; e la Corte in quell'occasione interpretò l'articolo 103 ponendo in paletti al rapporto fra
giudice amministrativo e giudice ordinario dicendo quanto segue: “l'articolo 103, 1° comma, non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta e incondizionata
discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare particolari materie
nelle quali la tutela nei confronti della P.A. investe anche diritti soggettivi; come a dire: guarda legislatore che tu puoi anche individuare singole materie e in esse
costruire casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma non puoi, attraverso quella previsione, individuare grandi blocchi di materie da attribuire tutti al
giudice amministrativo; cioè sappi che in linea generale il riparto rimane un riparto basato sullo schema diritto soggettivo-interesse legittimo e non sullo schema del
blocco di materie.

Su questo orientamento della Corte costituzionale oramai il sistema si è sufficientemente assestato, mentre invece rimane tuttora aperto e rimane tuttora di grande
interesse la problematica della responsabilità della Pubblica Amministrazione. Qui la sentenza cardine è la sentenza n.500 del ‘99 della Corte di Cassazione che,
coraggiosamente capovolgendo l'impostazione tradizionale, ha ritenuto che fosse possibile la cd. tutela risarcitoria degli interessi legittimi: cioè ritenuto che fosse
possibile prevedere l'utilizzo dell'articolo 2043 del codice civile (cioè la clausola generale della responsabilità extracontrattuale) anche nei confronti di atti e
comportamenti della Pubblica Amministrazione. Tradizionalmente l'orientamento tradizionale tendeva a dire che per la tutela degli interessi legittimi non esiste tutela
risarcitoria. Ma voi ipotizzate comportamenti illegittimi della P.A. che ritardino l'attribuzione di un bene sine die; occupazioni della pia; mancata assegnazione per
dell'alloggio di edilizia residenziale… è evidente che nei confronti di questi atti e comportamenti della P.A. io avrò un interesse non solo all'ottenimento del bene, ma
anche a veder risarcito quel periodo di tempo in cui io non ho ottenuto per un’illegittimità della Pubblica Amministrazione non ho ottenuto quel bene.

La n.500 del ‘99 affermò specificamente che l'articolo 2043 è una norma che tutela i danni subiti ingiustamente da un soggetto a causa del comportamento di un altro
soggetto e ritenne che questo principio andasse legato non tanto alla distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi, bensì a qualsiasi situazione soggettiva vantata
da un soggetto. Quella sentenza, la 500 del ’99, ritenne che la giurisdizione per il risarcimento dei danni di atti o comportamenti della P.A. spetti al giudice ordinario. Le
leggi che sono state citate prima, il d.lgs. 80 del ’98 e la legge 205 del 2000, hanno invece previsto che possa essere il giudice amministrativo ad esser competente per il
risarcimento del danno, anche nel caso di lesione di interessi legittimi. Si tratta di un terreno estremamente complicato e scivoloso su cui le elaborazioni giurisprudenziali
comunque stanno viepiù procedendo.

Da un punto di vista organizzativo, la giustizia amministrativa è organizzata sulla base di tribunali amministrativi regionali, che sono previsti all'articolo 125, oggi 1°
comma, essendo stato il 2° comma abrogato, ai sensi del quale “nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di 1° grado secondo l'ordinamento stabilito
da legge della Repubblica”. L’art.125 prevede anche che possano istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo di Regione (tant'è che vi sono alcune Regioni in cui vi è
una sede sdoppiata del tribunale amministrativo: Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Lombardia, Sicilia dove vi sono più sedi di tribunali amministrativi). I tribunali
amministrativi sono organi di 1° grado della giustizia amministrativa. Organo di secondo grado e di vertice della giustizia amministrativa il Consiglio di stato che, per
risalente tradizione, ha una duplice funzione ed è organizzato secondo due blocchi di funzioni. Infatti, ai sensi dell'articolo 100 della Costituzione, [mentre l'articolo 103 ci
dice che “il Consiglio di stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela degli interessi legittimi” quindi lo definisce come organo
giurisdizionale] “il Consiglio di stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell'amministrazione, cioè all'interno dell'amministrazione.
Il Consiglio di stato come organo giudiziario è organi tutela “nei confronti dell'amministrazione”; l’art.100 dice organo di tutela della giustizia “nell'amministrazione”.
Quindi c'è questa duplice veste del Consiglio di Stato come organo giurisdizionale e come organo consultivo che si riverbera nei profili organizzativi: il Consiglio di Stato è
composto da tre sezioni consultive e da tre sezioni giurisdizionali. La prima, la seconda e la terza sono sezioni consultive; la quarta, la quinta e la sesta sono sezioni
giurisdizionali a cui si aggiunge recentemente una sezione consultiva sugli atti normativi.

Da un punto di vista sempre di organizzazione del sistema, va segnalata l’istituzione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Sul modello di quanto
previsto dalla Costituzione per la giurisdizione ordinaria (che come abbiamo visto prevede un Consiglio Superiore della Magistratura) la legislazione ordinaria ha poi
previsto che simili organi di autogoverno fossero previsti anche per la giustizia amministrativa e per le altre giustizie; e così il Consiglio di presidenza della giustizia
amministrativa è composto da rappresentanti del Consiglio di stato e dei TAR e da membri laici eletti dal Parlamento che si occupa di tutti i profili di autogoverno della
giustizia amministrativa. Il modello è chiaramente il modello del CSM, Consiglio superiore della Magistratura.

La Corte dei Conti


La Corte dei conti ha lo stesso schema del Consiglio di Stato; essa è da un lato organo consultivo, ai sensi dell'articolo 100 della Costituzione, che ci dice al 2° comma che
“la Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello stato; partecipa al
controllo della gestione finanziaria degli enti a cui lo stato contribuisce in via ordinaria; e riferisce alle Camere sul risultato dal riscontro consultivo”. Quindi la Corte dei
conti ha da un lato funzioni consultive e in particolare di controllo preventivo di legittimità su una serie di atti del Governo; ha una funzione, anch'essa consultiva, di

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controllo contabile sulla gestione delle amministrazioni pubbliche; e poi ai sensi dell'articolo 103, comma 2, della Costituzione ha giurisdizione nelle materie di
contabilità pubblica, di pensioni e di responsabilità degli impiegati e nelle altre materie specificate dalla legge. Secondo una tradizionale Giurisprudenza della Corte
costituzionale non siamo qui di fronte ad una riserva di giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, ma è la legge ordinaria che può diversamente modulare e
disciplinare la giurisdizione della Corte dei conti. Sotto il profilo organizzativo, la Corte dei conti ha organi giudicanti e in particolare 3 sezioni centrali e poi è composta
dalle sezioni giurisdizionali regionali. Vi sono poi gli organi requirenti: la Procura generale presso la Corte dei conti e le Procure regionali presso le singole sezioni
regionali. Anche per quanto riguarda la Corte dei conti, si è istituito un Consiglio di presidenza della Corte dei conti con la funzione di autogoverno della Magistratura
contabile; è composto da membri eletti dai magistrati della Corte dei conti e da membri eletti, i cd. membri laici, eletti dal Parlamento.

Le Commissioni tributarie

Sono composte da esperti e non da giudici di professione e si articolano in Commissioni provinciali di I grado e Commissioni regionali di II grado.

Contro le decisioni delle Commissioni regionali di II grado è ammesso ricorso in Cassazione (la Cassazione peraltro ha istituito una sezione specificamente tributaria). Le
Commissioni tributarie esercitano funzioni giurisdizionali in materia di imposte (che sono state recentemente riformate) e, sulla base di un’interpretazione estensiva
della VI disposizione transitoria, si è ritenuto che anche ad esse si applicasse il principio della possibilità di revisione degli organi speciali di giurisdizione esistenti al
momento dell'entrata in vigore della Costituzione. Anche per la giustizia tributaria è previsto un Consiglio di presidenza della giustizia tributaria che svolge funzione di
autogoverno di questo plesso giudiziario.

La magistratura militare
La Costituzione poi fa ulteriormente riferimento ai giudici militari. Come già avevamo più volte ricordato all'articolo 103 si parla di tribunali militari in tempo di guerra che
hanno la giurisdizione stabilita dalla legge; mentre invece in tempo di pace i tribunali militari hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti
alle forze armate. Anche per quanto riguarda i giudici militari è prevista l'istituzione di un Consiglio della Magistratura militare che svolge funzioni di autogoverno dei
giudici militari.

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CAPITOLO 2 - FONTI DEL DIRITTO ............................................................................................................................... 1
FONTE, DISPOSIZIONE, NORMA ................................................................................................................................................ 1
CRITERI PER LA RISOLUZIONE DELLE ANTINOMIE NORMATIVE (=CONTRASTI FRA LE NORME) .................................................................. 1
CAPITOLO 3 - FORME DI STATO E FORME DI GOVERNO .............................................................................................. 2
ELEMENTI COSTITUTIVI DELLO STATO ......................................................................................................................................... 2
CLASSIFICAZIONE DELLE FORME DI STATO BASATA SUI RAPPORTI SOVRANITÀ-POPOLO ......................................................................... 2
CLASSIFICAZIONE DELLE FORME DI STATO BASATE SUI RAPPORTI SOVRANITÀ-TERRITORIO ..................................................................... 2
NOZIONE E CLASSIFICAZIONE DELLE FORME DI GOVERNO............................................................................................................... 3
CAPITOLO 4 - IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ........................................................................................................ 3
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA NELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA .......................................................................................... 3
ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ............................................................................................................................ 3
DURATA MANDATO E CESSAZIONE DEL SUO UFFICIO ..................................................................................................................... 3
ATTRIBUZIONI RELATIVE AL POTERE LEGISLATIVO ......................................................................................................................... 3
ATTRIBUZIONI RELATIVE AL POTERE ESECUTIVO............................................................................................................................ 3
IRRESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E CONTROFIRMA MINISTERIALE ....................................................................... 4
CLASSIFICAZIONE DEGLI ATTI PRESIDENZIALI ................................................................................................................................ 4
CAPITOLO 5 - SISTEMI ELETTORALI E CORPO ELETTORALE (INQUADRAMENTO GENERALE) ........................................ 5
SISTEMA ELETTORALE ............................................................................................................................................................. 5
FORMULA ELETTORALE ........................................................................................................................................................... 5
SISTEMA MAGGIORITARIO E SISTEMA NON MAGGIORITARIO ........................................................................................................... 5
SISTEMI MISTI....................................................................................................................................................................... 7
CAPITOLO 6 - I SISTEMI ELETTORALI VIGENTI IN ITALIA .............................................................................................. 7
PRINCIPI COSTITUZIONALI IN TEMA DI VOTO ................................................................................................................................ 7
ELETTORATO ATTIVO E PASSIVO................................................................................................................................................ 8
INELEGGIBILITÀ, INCOMPATIBILITÀ E INCANDIDABILITÀ .................................................................................................................. 8
SISTEMI ELETTORALE PER IL SENATO DELLA REPUBBLICA ................................................................................................................ 9
SISTEMI ELETTORALE PER LA CAMERA DEI DEPUTATI ..................................................................................................................... 9
SISTEMI ELETTORALE PER LE ELEZIONI REGIONALI ......................................................................................................................... 9
SISTEMI ELETTORALE PER LE ELEZIONI COMUNALI ....................................................................................................................... 10
SISTEMI ELETTORALE PER LE ELEZIONI PROVINCIALI ..................................................................................................................... 10
CAPITOLO 7&8 - IL PARLAMENTO ..............................................................................................................................11
IL PARLAMENTO COME SEDE DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA.................................................................................................... 11
IL BICAMERALISMO .............................................................................................................................................................. 11
IL PARLAMENTO IN SEDUTA COMUNE (ART.55, COMMA 2) ......................................................................................................... 12
L’ORGANIZZAZIONE INTERNA DEL PARLAMENTO ........................................................................................................................ 12
DURATA DEL MANDATO........................................................................................................................................................ 13
REGOLE DECISIONALI ........................................................................................................................................................... 13
LE IMMUNITÀ ..................................................................................................................................................................... 14
L’AUTONOMIA DELLE CAMERE ............................................................................................................................................... 15
CAPITOLO 9 - IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO ..........................................................................................................16
LA LEGGE FORMALE ............................................................................................................................................................. 16
IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO DI FORMAZIONE DELLA LEGGE...................................................................................................... 16
LA FASE PREPARATORIA (INIZIATIVA LEGISLATIVA) ...................................................................................................................... 16
LA FASE COSTITUTIVA (DELIBERAZIONE DELLE CAMERE)............................................................................................................... 17
LA FASE INTEGRATIVA DELL’EFFICACIA...................................................................................................................................... 18
LEGGI RINFORZATE E LEGGI ATIPICHE ....................................................................................................................................... 18
CAPITOLO 10 - LA REVISIONE COSTITUZIONALE E LE LEGGI COSTITUZIONALI ............................................................19

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LEGGI COSTITUZIONALI E LEGGI DI REVISIONE COSTITUZIONALE. LEGGI IN MATERIA COSTITUZIONALE .................................................... 19
IL PROCEDIMENTO PER LA REVISIONE COSTITUZIONALE E PER LE LEGGI COSTITUZIONALI ..................................................................... 19
LIMITI ALLA REVISIONE COSTITUZIONALE .................................................................................................................................. 20
LA REVISIONE COSTITUZIONALE NELLA PRASSI ............................................................................................................................ 21
CAPITOLO 11 – IL REFERENDUM ABROGATIVO ..........................................................................................................21
REFERENDUM ABROGATIVO .................................................................................................................................................. 21
IL REFERENDUM COME STRUMENTO DI DEMOCRAZIA DIRETTA ...................................................................................................... 21
LA LEGGE N.352 DEL 1970 E LA SUA GENESI ............................................................................................................................ 22
IL PROCEDIMENTO REFERENDARIO .......................................................................................................................................... 22
I LIMITI ALL’AMMISSIBILITÀ DEL REFERENDUM ABROGATIVO ......................................................................................................... 22
I REFERENDUM NEL SISTEMA POLITICO ITALIANO ........................................................................................................................ 24
IL REFERENDUM CONSULTIVO SUL PARLAMENTO EUROPEO ......................................................................................................... 24
I REFERENDUM REGIONALI E LOCALI ........................................................................................................................................ 24
CAPITOLO 12 – LA FORMAZIONE DEL GOVERNO........................................................................................................24
DEMOCRAZIE MEDIATE E DEMOCRAZIE IMMEDIATE .................................................................................................................... 24
LE FONTI CHE DISCIPLINANO LA FORMAZIONE DEL GOVERNO E PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE DELLO STESSO ...................................... 25
IL RAPPORTO DI FIDUCIA TRA IL PARLAMENTO E GOVERNO .......................................................................................................... 26
LA MOZIONE DI SFIDUCIA (ART.94 COST.) ................................................................................................................................ 26
CAPITOLO 13 – LA COMPOSIZIONE DEL GOVERNO & LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (PRINCIPI E
ORGANIZZAZIONE) ....................................................................................................................................................28
IL GOVERNO DELLA REPUBBLICA ............................................................................................................................................ 28
LA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO.............................................................................................................................................. 28
I MINISTERI ....................................................................................................................................................................... 29
I PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE ................................................................................................... 29
L’ORGANIZZAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE ............................................................................................................ 30
CAPITOLO 14 - ATTI CON FORZA DI LEGGE .................................................................................................................31
NOZIONE DI FORZA DI LEGGE ................................................................................................................................................. 31
DECRETO-LEGGE (D.L.)......................................................................................................................................................... 31
DECRETO LEGISLATIVO DELEGATO (D.LGS.) ............................................................................................................................... 32
ALTRI ATTI AVENTI FORZA DI LEGGE ......................................................................................................................................... 33
CAPITOLO 15 – I REGOLAMENTI.................................................................................................................................33
I REGOLAMENTI COME FONTI SECONDARIE DEL DIRITTO ............................................................................................................... 33
LA DISCIPLINA DELLE DIVERSE TIPOLOGIE DI REGOLAMENTO ESECUTIVO .......................................................................................... 33
I REGOLAMENTI DEL GOVERNO .............................................................................................................................................. 33
IL PROCEDIMENTO DI ADOZIONE DEI REGOLAMENTI GOVERNATIVI ................................................................................................. 35
I REGOLAMENTI MINISTERIALI E INTERMINISTERIALI .................................................................................................................... 35
CAPITOLO 16 - LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (IN PARTICOLARE LE REGOLE CHE DISCIPLINANO L’AZIONE DEI
PUBBLICI POTERI) ......................................................................................................................................................36
L’ATTIVITÀ DELLA P.A. ......................................................................................................................................................... 36
IL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO .................................................................................................................................... 36
PRINCIPALI TIPOLOGIE DI ATTO AMMINISTRATIVO ...................................................................................................................... 37
IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO ...................................................................................................................................... 37
LA PATOLOGIA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO ............................................................................................................................ 38
CAPITOLO 17 – LE AUTORITA’ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI ...............................................................................39
PRINCIPALI AUTORITÀ INDIPENDENTI: STRUTTURA E FUNZIONI ...................................................................................................... 39
PROFILI DI DIRITTO COSTITUZIONALE ....................................................................................................................................... 40
LE PRINCIPALI GARANZIE ....................................................................................................................................................... 41

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CAPITOLO 18 – LE REGIONI DELL’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE ..........................................................................42
LE REGIONI NELLA COSTITUZIONE ITALIANA .............................................................................................................................. 42
IL PRINCIPIO DI LEALE COOPERAZIONE ...................................................................................................................................... 42
GLI ORGANI NECESSARI DELLA REGIONE ................................................................................................................................... 43
LA FORMA DI GOVERNO REGIONALE........................................................................................................................................ 43
STATUTI E ORGANIZZAZIONE .................................................................................................................................................. 44
CAPITOLI 19 & 20 – REGIONI E FONTI ........................................................................................................................44
GLI STATUTI DELLE REGIONI SPECIALI ....................................................................................................................................... 44
GLI STATUTI DELLE REGIONI ORDINARIE ................................................................................................................................... 45
LA POTESTÀ LEGISLATIVA REGIONALE ....................................................................................................................................... 46
LA POTESTÀ LEGISLATIVA CONCORRENTE .................................................................................................................................. 47
LA POTESTÀ REGOLAMENTARE REGIONALE ............................................................................................................................... 48
CAPITOLO 21 – LE AUTONOMIE LOCALI; L’AUTONOMIA FINANZIARIA DELLE REGIONI E DEGLI ENTI LOCALI .............49
L’ART. 114 COST. ............................................................................................................................................................... 49
IL COMUNE ........................................................................................................................................................................ 49
LA PROVINCIA .................................................................................................................................................................... 50
LA CITTÀ METROPOLITANA .................................................................................................................................................... 50
LA POTESTÀ NORMATIVA DEGLI ENTI LOCALI ............................................................................................................................. 50
LE AUTONOMIE FUNZIONALI .................................................................................................................................................. 50
L’AUTONOMIA FINANZIARIA DELLE REGIONI E DEGLI ENTI LOCALI .................................................................................................. 51
CAPITOLO 22&23 - L’UNIONE EUROPEA.....................................................................................................................52
L’EVOLUZIONE STORICA, GEOGRAFICA E ISTITUZIONALE: DALLA COMUNITÀ ALL’UNIONE.................................................................... 52
LA COSTITUZIONE PER L’EUROPA............................................................................................................................................ 52
LE FONTI COMUNITARIE ........................................................................................................................................................ 53
LA RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE FRA COMUNITÀ E STATI MEMBRI .......................................................................................... 53
IL CONSIGLIO EUROPEO ........................................................................................................................................................ 54
GLI ORGANI AUSILIARI.......................................................................................................................................................... 54
LE ISTITUZIONI COMUNITARIE ................................................................................................................................................ 54
CAPITOLO 24 - STORIA E STRUTTURA DEI DIRITTI FONDAMENTALI ...........................................................................57
STORIA E STRUTTURA DEI DIRITTI COSTITUZIONALI ...................................................................................................................... 57
LE GARANZIE COSTITUZIONALI DEI DIRITTI DI LIBERTÀ .................................................................................................................. 57
LIBERTÀ INDIVIDUALI E COLLETTIVE ......................................................................................................................................... 58
I DIRITTI SOCIALI.................................................................................................................................................................. 59
CAPITOLO 25 – LE LIBERTA’ INDIVIDUALI ...................................................................................................................60
LA LIBERTÀ PERSONALE......................................................................................................................................................... 60
LA LIBERTÀ DI DOMICILIO ...................................................................................................................................................... 60
LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE E SOGGIORNO .............................................................................................................................. 60
LA LIBERTÀ DI COMUNICAZIONE ............................................................................................................................................. 61
LA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO .......................................................................................................................... 61
LA LIBERÀ DI RELIGIONE ........................................................................................................................................................ 62
LA LIBERTÀ DELL’ARTE, DELLA SCIENZA E DELL’INSEGNAMENTO ..................................................................................................... 62
CAPITOLO 26 - LE LIBERTÀ COLLETTIVE. I DIRITTI SOCIALI ED ECONOMICI .................................................................63
LA LIBERTÀ DI RIUNIONE ....................................................................................................................................................... 63
LA LIBERTÀ DI ASSOCIAZIONE ................................................................................................................................................. 63
I PARTITI E I SINDACATI ......................................................................................................................................................... 63
I DIRITTI SOCIALI.................................................................................................................................................................. 64
IL DIRITTO AL LAVORO .......................................................................................................................................................... 64
I DIRITTI ECONOMICI ............................................................................................................................................................ 64
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CAPITOLO 27 - LA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE ..........................................................................................................66
IL CONTROLLO DI COSTITUZIONALITÀ NELLO STATO CONTEMPORANEO ........................................................................................... 66
SINDACATO ACCENTRATO E SINDACATO DIFFUSO ....................................................................................................................... 66
LA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA ...................................................................................................................................... 66
LA COMPOSIZIONE DELLA CORTE ............................................................................................................................................ 66
REGOLE DI FUNZIONAMENTO DELLA CORTE .............................................................................................................................. 67
LE FUNZIONI DELLA CORTE .................................................................................................................................................... 67
CAPITOLO 28 – LA TIPOLOGIA DELLE DECISIONI DELLA CORTE COSTITUZIONALE .......................................................69
LE ORDINANZE CON CUI LA CORTE DECIDE ................................................................................................................................ 69
LE SENTENZE ...................................................................................................................................................................... 69
LE DECISIONI NEI CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE............................................................................................................................ 71
LE DECISIONI NEL GIUDIZIO PENALE SUL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA......................................................................................... 71
CAPITOLO 29&30 - LA GIURISDIZIONE .......................................................................................................................72
LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE .............................................................................................................................................. 72
LA GIURISDIZIONE ORDINARIA ................................................................................................................................................ 72
LE GUARENTIGIE DELLA MAGISTRATURA .................................................................................................................................. 73
IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA ....................................................................................................................... 73
LE GARANZIE DEL PROCESSO E NEL PROCESSO............................................................................................................................ 73
I GIUDICI SPECIALI NELLA COSTITUZIONE................................................................................................................................... 74
IL GIUDICE AMMINISTRATIVO ................................................................................................................................................. 74
LA CORTE DEI CONTI............................................................................................................................................................ 75
LE COMMISSIONI TRIBUTARIE ................................................................................................................................................ 76
LA MAGISTRATURA MILITARE ................................................................................................................................................. 76

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