Sei sulla pagina 1di 934

1

CORSO DI STORIA DELLA FILOSOFIA PER I LICEI E PER GLI ADULTI


CHE DESIDERANO CONOSCERLA: DALLA FILOSOFIA ANTICA A
QUELLA CONTEMPORANEA.

A cura di Francesco Lorenzoni

Anno di stesura: 2012

VOLUME PRIMO

FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE

INTRODUZIONE.

Ho osservato che, in merito al pensiero di ciascun filosofo, l'esposizione di un


manuale è chiara in alcuni tratti mentre, a causa di un linguaggio troppo tecnico o
poiché sono saltati taluni passaggi logico-descrittivi, diventa per i principianti poco
comprensibile in altri aspetti, i quali tuttavia, a loro volta, sono esposti più
chiaramente in un ulteriore manuale. Questo corso è stato ricavato dai più accreditati
manuali scolastici di storia della filosofia, tra cui quelli di Nicola Abbagnano e
Giovanni Fornero; Giovanni Reale e Dario Antiseri; Enrico Berti; Sergio Moravia;
L.Tornatore, G. Polizzi, E. Ruffaldi; V. e A. Perrone, G. Ferretti, C. Ciancio; G.
Fornero e S. Tassinari; F. Adorno, T. Gregory , V. Verra; ecc.

Pertanto, nell'obiettivo di pervenire alla maggior chiarezza possibile, pur senza


banalizzare, nell'illustrazione del pensiero di ciascun filosofo o tema filosofico, ho
operato una cernita fra tutti i manuali presi in considerazione, estraendo i tratti
espositivi più chiari ora da un manuale ora da un altro, talvolta riportando pari pari
intere frasi e talaltra, frequentemente, cambiando e semplificando a mia volta il testo,
rielaborando e collegando quindi il tutto secondo un criterio logico-consecutivo.
Per contro ho riservato, per economia di scrittura, solo brevi cenni alla biografia dei
vari filosofi, poiché rinvenibile in qualsiasi manuale senza particolari difficoltà di
comprensione. Parimenti, non mi sono inoltrato in analisi tecnico-erudite, di tipo
specialistico, non necessarie ad una comprensione comunque idonea dei filosofi ed
argomenti filosofici di volta in volta illustrati. Peraltro, e con valore facoltativo per il
lettore, ho trascritto in corsivo una serie di argomentazioni integrative, se qualcuno
avesse eventualmente intenzione di prendere conoscenza anche di esse.
2

Sono convinto che la chiarezza espositiva è il sistema migliore per attirare gli studenti
allo studio della filosofia, come anche coloro che, ormai adulti, intendano accostarsi
ad essa per la prima volta ovvero rispolverare le conoscenze filosofiche apprese a
scuola.
Dalla comprensibilità espositiva può nascere inoltre il piacere e il gusto stesso per la
filosofia ed il desiderio di personali ulteriori approfondimenti. Ciò sarebbe il risultato
più lusinghiero derivante da questa mia fatica, dedicata a tutti coloro che abbiano
occasione e voglia di approfittarne, essendomi preoccupato di inserire il presente
corso nella rete Web.
Dell'importanza di una chiara narrazione ho fatto personale esperienza per via di
lezioni di filosofia che ho avuto modo di impartire a giovani studenti, con risultati, mi
sia consentito dire, più che soddisfacenti.

Francesco Lorenzoni
3

LA NASCITA DELLA FILOSOFIA.

Secondo la tradizione, sembra che il creatore del termine "filosofia" ( che alla lettera
significa “amore per il sapere”) sia stato Pitagora. Per la concezione dell'epoca il
possesso della sapienza, cioè del vero certo e totale, era supposto possibile solo agli
dei, mentre per l'uomo era possibile solamente una tendenza alla sapienza. La
filosofia è sorta intorno al sesto secolo avanti Cristo nelle antiche colonie greche e
poi si è sviluppata nella Grecia classica, presentandosi come modalità di pensiero
assolutamente nuovo ed originario e plasmando la visione del mondo dell'intera
civiltà occidentale, che ha preso una direzione completamente differente da quella
orientale.
Non sono in verità mancati tentativi di far derivare la filosofia dall'oriente, ma i
popoli orientali, con i quali i greci erano entrati in contatto, possedevano una forma di
“sapienza” fatta soprattutto di convinzioni religiose e di miti e non di una scienza
filosofica basata sulla pura ragione (sul “logos”). Possedevano cioè un tipo di
sapienza analoga a quella che possedevano i Greci prima di creare la filosofia.
Maggiori contributi sono stati arrecati dagli orientali nell'ambito di alcune
conoscenze scientifiche: la matematica e geometria dagli egiziani, l'astronomia dai
babilonesi, l'alfabeto dai fenici, ma tali conoscenze avevano scopi soprattutto pratici,
mentre i Greci hanno saputo trasformarle in teorie razionali organiche e sistematiche.
Quindi, mentre la sapienza orientale era essenzialmente religiosa e fondata sulla
tradizione, la filosofia greca è invece essenzialmente ricerca e, come tale, nasce da un
atto di libertà di fronte alle tradizione e alle credenze tramandate ed accettate o
imposte. Mentre in oriente il sapere era patrimonio di una casta privilegiata (quella
sacerdotale), in Grecia la filosofia era a portata di ogni uomo, perché ogni uomo è
"animale razionale" (Aristotele).
Per capire il sorgere e lo sviluppo della filosofia di popolo e di una civiltà è utile fare
riferimento all'arte, alla religione e alle condizioni socio-politiche di quel popolo e di
quella civiltà. Anteriormente alla nascita della filosofia i poeti ebbero, presso i Greci,
grande importanza nell'educazione e nella formazione spirituale dell'uomo,
specialmente i poemi di Omero e di Esiodo. In essi, pur così ricchi di immaginazione
e di eventi fantastici, si trova altresì un senso dell'armonia, della proporzione, del
limite e della misura. Di rilievo è anche l'arte della motivazione, costante nei poemi
omerici. Omero non si limita a narrare una serie di fatti ma ne ricerca anche le cause,
le ragioni, i perché (sia pure a livello mitico-fantastico). Un altro carattere della
poesia omerica è quello di presentare la realtà nella sua interezza: dei e uomini, cielo
e terra, guerra e pace, bene e male, gioia e dolore, valori e disvalori. È la stessa
mentalità che ispirerà il pensiero filosofico alla ricerca di una spiegazione della
totalità delle cose mediante l'individuazione del comune principio, fondamento ed
origine. Esiodo, con la "Teogonia" narra la nascita e la natura di tutti gli dei. E poiché
molti dei coincidono con parti dell'universo e con fenomeni del cosmo, la teogonia
diventa anche cosmogonia, ossia spiegazione mitico-poetica e fantastica della genesi
dell'universo. Questo poema aprì la strada alla successiva cosmologia filosofica, che
4

cercherà con la ragione, e non più con la fantasia, il "principio primo" da cui tutto si è
generato. Altrettanto, la poesia ha impresso nella mentalità greca fondamentali idee
etiche ed estetiche, quali l'idea di giustizia, di giusta misura e di limite, che la
filosofia assumerà e svilupperà come concetti basilari.
Circa la religione, è utile distinguere tra "religione pubblica" e "religioni dei misteri".
Per Omero e per Esiodo, secondo le credenze proprie della religione pubblica, tutto
quanto è divino, poiché tutto ciò che accade viene spiegato in funzione dell'intervento
degli dei: i fenomeni naturali come la vita associata, la pace e la guerra. Gli dei sono
forze naturali personificate, sono uomini idealizzati, differenti solo per quantità ma
non per qualità. La religione pubblica greca è, in sostanza, una forma di "
naturalismo". Come naturalistica fu la religione pubblica greca, così "naturalistica" fu
la prima filosofia greca. Inoltre, i Greci non ebbero libri sacri o comandamenti
religiosi frutto di una rivelazione divina. Di conseguenza la loro religione non fu di
tipo assolutistico-dogmatico né vi fu una casta sacerdotale potente e autoritaria. Tutto
ciò lasciò ampia libertà al pensiero filosofico, che non trovò nella religione ostacoli
insuperabili.
Ma la religione pubblica non fu sentita da tutti i Greci come soddisfacente. Per tale
motivo si svilupparono, presso cerchie e sette ristrette, i culti dei "misteri",
specialmente i misteri orfici, dal poeta tracio Orfeo. L'orfismo introduce nella civiltà
greca un nuovo sistema di credenze ed una nuova interpretazione dell'esistenza
umana. Mentre la religione pubblica riteneva l'uomo mortale, l'orfismo proclamava
l'immortalità dell'anima, preesistente all'uomo come principio divino e caduta in un
corpo a causa di una colpa originaria. Attraverso la metempsicosi l'anima si reincarna
di volta in volta di una serie di corpi, fino a che, grazie al comportamento virtuoso
dell'uomo nel quale da ultimo si è incarnata, l'anima ne esce purificata e ritorna
presso gli dei. In base all'idea della colpa, del castigo, dell'espiazione e del premio,
l'orfismo viene a concepire l'uomo secondo uno schema dualistico che contrappone il
corpo all'anima. L'uomo vede per la prima volta la contrapposizione in sé di due
principi in lotta fra di essi: l'anima (il principio divino) e il corpo (tomba ed
espiazione dell'anima). Si incrina così, anche sul piano della credenza religiosa, la
visione naturalistica: l'uomo comprende che alcune tendenze legate al corpo sono da
reprimere e la purificazione diviene lo scopo del vivere. L'orfismo anticipa dunque,
rispetto all'originario naturalismo, una serie di importanti sviluppi della filosofia
greca, influenzando il pensiero di Pitagora, di Eraclito, di Empedocle e soprattutto di
Platone.
Per quanto concerne le condizioni socio-politiche ed economiche che favorirono il
sorgere della filosofia, va posto l'accento sulla libertà politica di cui beneficiarono i
greci rispetto ai popoli orientali. Nei secoli settimo e sesto a.C. la Grecia subì una
trasformazione socio-economica notevole: da paese prevalentemente agricolo
divenne centro di fiorente sviluppo dell'artigianato e del commercio, con conseguente
fondazione di molte colonie. Sorse un nuovo ceto di commercianti e di artigiani che
si contrappose vittoriosamente alla nobiltà terriera; le vecchie forme aristocratiche di
governo si trasformarono così nelle nuove forme repubblicane che caratterizzarono il
nascere e il diffondersi delle “polis” (le città greche). Nel clima di libertà individuale
5

e collettiva delle polis greche fiorirono i confronti fra le idee e quindi la cultura, le
arti e, appunto, la filosofia. Anzi, la filosofia nacque prima nelle colonie, in quelle
dell'Asia minore e poi dell'Italia meridionale, poiché le colonie, con la loro operosità
e i loro commerci, raggiunsero per prime il benessere e, a causa della lontananza
dalla madrepatria, poterono per prime darsi libere istituzioni. In seguito la filosofia si
diffuse nella stessa Grecia, soprattutto ad Atene.

I connotati essenziali della filosofia antica.

Fin dal suo primo nascere la filosofia presentò tre connotati principali
relativamente al contenuto, al metodo, allo scopo.
Per quanto riguarda il contenuto, il sapere cui il filosofo si rivolge non è un sapere
settoriale (come per le scienze particolari) né la conoscenza di una parte della realtà,
ma vuole indagare e spiegare la totalità delle cose, ossia tutta la realtà nella sua
interezza e compiutezza. L'oggetto di tale sapere è definito con il termine greco di
“aleteia” (il non essere nascosto), che traduciamo col termine "verità". La verità è il
tutto, la totalità, cioè, come verrà definito, è l'essere, la realtà in generale, ossia tutto
ciò che è, l’insieme di tutte le cose e di ciò che esse hanno in comune e da cui hanno
avuto origine. L’"ontologia" è quel particolare campo della filosofia che, appunto,
indaga l'essere, cioè la realtà in generale. La domanda dei primi filosofi è infatti:
"quale è il principio di tutte le cose"? Rispondendo al bisogno di conoscenza insito
nell'uomo, la filosofia, specie quella delle origini, si propone di spiegare globalmente
la realtà, ricercandone i principi generali e non accontentandosi di osservare come
stanno le cose ma cercando di capire il "perché" delle cose stesse. In particolare, la
filosofia sorge quando la spiegazione della realtà non viene più basata sul mito o
sugli dei, ma quando si distacca dal mito. La filosofia degli inizi cerca il principio di
tutte le cose all'interno della natura, ossia del mondo, dell'universo nel suo
complesso.
Per quanto concerne il metodo, la filosofia mira ad essere spiegazione puramente
razionale di quella totalità che essa ha come oggetto. Ciò che vale in filosofia non è il
discorso narrativo, il raccontare, ma il discorso argomentativo secondo ragione, la
motivazione logica, il "logos"(=la razionalità, il ragionamento). Non basta alla
filosofia raccogliere esperienze, ma deve andare oltre le esperienze per trovarne la
causa o le cause con la ragione. Altrettanto, rispetto alla condotta pratica la filosofia
sostituisce l'accettazione acritica dei valori e delle credenze con la ricerca razionale
intorno a ciò che è bene per il singolo e per la comunità. Le dottrine filosofiche sono
dunque un prodotto della ragione e, lungi dalla pretesa di essere verità dogmatiche,
indiscutibili, si sottopongono alla discussione, alla critica e alla confutazione, per
essere sostituite con altre dottrine che la ragione mostri più convincenti. In tal modo
la filosofia si distingue sia dal mito sia dalla religione, poiché mito e religione non
sono il frutto della pura ragione, bensì costituiscono elementi di ispirazione o
rivelazione, in quanto tali non sottoposti a dibattito o critica. Aristotele chiamò
"teologi" i narratori di miti come Omero ed Esiodo, mentre chiamò “fisici” i primi
6

filosofi, cioè studiosi della natura (in greco “physis”), anche se quei primi filosofi per
physis intendevano non soltanto una parte o un aspetto dell'essere, cioè la natura
fisica del mondo, ma la totalità dell'essere stesso, cioè la totalità della realtà, anche
quella non fisica.
Infine, lo scopo della filosofia sta nel puro desiderio di conoscere e di contemplare la
verità. La filosofia è disinteressato amore di verità, senza proporsi di conseguire
qualche utilità pratica. La filosofia infatti nasce solo dopo che gli uomini hanno
risolto i problemi fondamentali della sussistenza e si sono liberati delle più urgente di
necessità materiali. Dice Aristotele: "noi non ricerchiamo la filosofia per un qualche
vantaggio estraneo ad essa. Essa è da sola fine a se stessa e perciò essa sola, fra tutte
le altre scienze, diciamo libera. Tutte le altre scienze saranno più necessarie, ma
nessuna sarà superiore". Contemplando la totalità dell'essere cambiano
necessariamente tutte le prospettive usuali, muta la visione del significato della vita e
si impone una nuova gerarchia di valori. La verità contemplata infonde un’enorme
energia morale ed una viva coscienza sociale.

La filosofia come bisogno primario dello spirito umano.

"Tutti gli uomini -scrive Aristotele- aspirano per natura al sapere". Tendono al sapere
perché, come avvertono Platone ed Aristotele, si sentono pieni di "stupore" e di
"meraviglia" dinnanzi alla grandezza e al mistero del tutto, della realtà, della quale ci
si domanda quale sia l'origine e il fondamento e quale posto l'uomo stesso occupi in
questo universo. Perché c'è l'essere e non il nulla? È questa la domanda di fondo della
filosofia, che Leibniz verrà successivamente a trattare. Perché c'è il mondo? Da che
cosa è sorto? Quale è la sua ragione di essere? Quale il suo senso e significato?
Perché c’è l'uomo? Perché io esisto? Si tratta di problemi che l'uomo non può evitare
di porsi e che mantengono la loro attualità anche dopo il trionfo delle scienze
specialistiche moderne. Le scienze rispondono a domande su di una parte ma non sul
senso del tutto.

I temi fondamentali della filosofia antica

Dapprima la totalità della reale fu vista come "physis" (natura) e come cosmo; quindi
l’originario problema filosofico fu quello cosmologico, col sorgere perciò della
filosofia della natura. Come nasce il cosmo? Quali sono le forze che agiscono in
esso? Questi furono i problemi che si posero i primi filosofi, detti appunto "fisici" o
naturalisti o cosmologi. Poi, con i sofisti, il quadro muta. Diviene inattuale il
problema del cosmo e l'attenzione si concentra sull'uomo e sulla sua specifica natura
e virtù. Nascerà così la problematica e la filosofia morale. Le grandi costruzioni
sistematiche del quarto secolo a.C., cioè i grandi sistemi filosofici di Platone e di
Aristotele, arricchiranno ulteriormente la tematica filosofica. Platone scoprirà e
7

cercherà di dimostrare che la realtà, o l'essere, non è di un unico genere e che oltre al
mondo sensibile esiste anche una realtà trascendente il sensibile, scoprendo quindi
quella che più tardi sarà chiamata "metafisica" (che indaga cioè quelle realtà che
trascendono le realtà fisiche e che si colgono solo con la ragione e non anche
attraverso i sensi). Anche i problemi morali verranno a specificarsi con la distinzione
tra il momento della vita individuale e quello della vita sociale: nasceranno così,
rispettivamente, la filosofia etica o morale e la filosofia politica. Con Platone ed
Aristotele saranno inoltre sviluppati i problemi della genesi e della natura della
conoscenza umana, col sorgere quindi della filosofia della conoscenza o
“gnoseologia”, nonché i problemi logici e metodologici, col sorgere quindi della
logica. La domanda che viene posta è: quale è la via che l'uomo deve seguire per
giungere alla verità? Problema quest'ultimo essenzialmente introdotto da Parmenide.
E poi: quale è l'apporto dei sensi e quello della ragione nella ricerca della verità?
Quale è la caratteristica del vero e del falso? Quali sono i principi e le forme logiche
mediante cui l'uomo pensa, ragiona e giudica? Quali sono le regole del retto pensare e
quali le condizioni perché un ragionamento possa qualificarsi scientifico? In
connessione con i problemi gnoseologici e logici nascono anche i problemi estetici
(cosa è il bello e l'arte?), col sorgere quindi della filosofia estetica.
8

I FILOSOFI NATURALISTI. LA SCUOLA DI MILETO: TALETE,


ANASSIMANDRO, ANASSIMENE. ERACLITO DI EFESO.

Come già indicato, la filosofia greca antica nasce dapprima nelle colonie e solo dopo
nella madrepatria. Precisamente sorge a Mileto, attiva colonia commerciale sulle
coste dell'Asia minore. I continui scambi commerciali e contatti con tradizioni e usi
differenti sono causa di una grande apertura culturale e, probabilmente, anche di un
certo senso di disorientamento rispetto al mondo di provenienza ed alla propria
identità. E’ derivato l’intento di trovare una visione unitaria della realtà, a partire da
quella della natura, andando alla ricerca di un principio in base al quale spiegare
complessivamente l'origine del mondo e delle cose nonché il loro divenire, ossia il
continuo cambiamento e mutamento d’aspetto delle varie cose ed altresì il loro
destino una volta uscite dal mondo.
Per l’iniziale interesse nei confronti della natura, in greco “physis”, i primi
filosofi sono stati definiti “fisici”, ovvero “filosofi naturalisti”, tutti contraddistinti
dall’intendimento di ricondurre il principio primo della realtà, concepito come causa
generale di tutte le cose particolari, ad un comune elemento naturale. Il termine greco
"physis" viene abitualmente tradotto con "natura", ma essa non va intesa soltanto
come complesso dei fenomeni che formano il mondo naturale bensì anche come
fondamento ed essenza della natura medesima, come sua intima organizzazione di
fondo.
Principio primo in greco si dice "arché". Il termine arché possiede tre significati:
1. ciò da cui tutte le cose derivano: l’origine e la causa di tutte le cose;
2. ciò che permane identico anche quando nelle cose si verificano modificazioni:
è l'elemento basilare che tutte le cose hanno in comune, la loro comune
sostanza, il fondamento del tutto;
3. ciò che continua a rimanere immutato: l'unità da cui tutto viene e a cui tutto
ritorna.
La ricerca della spiegazione della realtà attraverso i concetti di physis e di arché è
assolutamente innovativa poiché basata su di un nuovo tipo di razionalità
dimostrativa che abbandona la spiegazione mitica.
Rispetto alla figura arcaica del sapiente, il nuovo sapiente, cioè il filosofo, non si
limita all’enunciazione di massime morali di vita, ma coltiva anche capacità tecnico-
scientifiche e abilità pratiche. Il grande merito della filosofia milesiana (e della
filosofia presocratica in generale) è quello di aver creato una nuova immagine di
universo, ordinato e razionale, dove gli accadimenti non dipendono più
dall'intervento, spesso capriccioso, degli dei, ma sono collegati fra loro secondo
principi regolari e costanti che divengono oggetto di indagine.

Talete.

Visse a Mileto tra il settimo e sesto secolo avanti Cristo. Oltre che filosofo fu
scienziato e uomo politico; studiò le proprietà della calamita; calcolò l'altezza delle
9

piramidi misurandone l'ombra; predisse un'eclissi di sole; elaborò teoremi di


geometria e la progettazione di un canale.
Talete è il pensatore che, secondo la tradizione, ha dato inizio alla filosofia greca.
Non risulta che abbia scritto libri. Conosciamo il suo pensiero solo attraverso la
narrazione orale.
È stato l'iniziatore della filosofia della physis poiché per primo affermò che esiste
un principio originario unico, causa di tutte le cose, ed individuò tale principio
nell'acqua, influenzato in tal senso dalla constatazione che "il nutrimento di tutte le
cose è umido".
Peraltro il valore di Talete, ossia la grande rivoluzione operata che portò alla
creazione della filosofia ed agli albori della civiltà occidentale, consiste, più che
nell'individuazione dell’acqua come principio primo, nell'aver definito per primo il
concetto stesso, filosofico-razionale, di principio originario, inteso non solo come
causa e termine di tutte le cose ma altresì come elemento unitario della totalità della
natura.
In questo senso, l'acqua di Talete non va interpretata come elemento sensibile, ma
come simbolo del principio primo, volto a rappresentare ciò che è comune in tutte le
più diverse cose.
Talete è un naturalista nel senso antico del termine e non un materialista nel senso
moderno. Tant’è che l'acqua come principio è stata concepita da Talete come
principio vitale di natura divina. "Dio, egli diceva, è infatti la cosa più antica
perché ingenerato, ossia perché principio". Emerge in tal modo una nuova
concezione di Dio, pensato come principio secondo criteri di ragione e non di
immaginazione. Quando Talete affermava, ulteriormente, che “tutto è pieno di dei”
(panteismo) voleva dire che ogni cosa è pervasa dal principio originario. E poiché il
principio originario è vita, Talete intende dire che tutto è vivo, tutto ha un'anima,
anche le cose inorganiche (panpsichismo, da psiche=anima). La concezione secondo
cui tutta la materia è animata, è vitale, è definita anche col termine greco di
“iloizismo”.
Sia Talete che gli altri milesi (i filosofi della scuola di Mileto), più che negare
l'esistenza degli dei sono interessati a definire ciò che con tale termine si vuol
indicare: gli dei non sono più le creature del mito, bensì le forze vitali nascoste
nei recessi delle cose e della natura, che in quanto tali possono essere razionalmente
concepite. Scompare l'aspetto aggressivo e pauroso anticamente attribuito dal mito
alla collera degli dei e prevale un atteggiamento di indagine di tipo scientifico.

Anassimandro.

Discepolo e successore di Talete, visse a Mileto dal 610 al 545 a.C. Fu attivo nella
vita politica con incarichi anche di governo. Compose un trattato "Sulla natura",
scritto per la prima volta in prosa per la necessità di liberare il ragionamento dal
vincolo della metrica e della rima poetica.
10

Con Anassimandro la problematica del principio primo si approfondisce. Egli non


ritiene l'acqua un principio ma un qualcosa di già di derivato. Individua invece il
principio (arché) nell’ “àpeiron” (alla lettera="senza limiti"). Si tratta di un
principio più astratto. Non si riferisce ad un elemento naturale, ma designa ciò che è
inesauribile e quindi infinito ma anche indefinito. Per Anassimandro il principio, il
sostrato di tutte le cose, è dunque l'infinito indeterminato, ritenendo impossibile che
da un elemento naturale determinato traggano origine tutti gli altri fra di essi assai
diversi. Le determinazioni si producono in seguito, col derivare delle cose
determinate dal principio primo, infinito nello spazio, cioè quantitativamente, ed
indefinito qualitativamente, come un magma indistinto da cui trovano poi origine
tutte le cose determinate.
L’àpeiron è un principio divino perché indistruttibile ed eterno. In quanto infinito
ed illimitato, il principio non ammette né una fine e neppure un inizio. Gli antichi dei
invece erano immortali ma non eterni poiché nascevano.
Come Talete, anche Anassimandro è un "naturalista", nel senso che non concepisce il
principio divino come trascendente, cioè distinto e al di sopra del mondo, ma come
l'essenza del mondo immanente in esso.
Talete non si era posto la domanda circa il come e il perché dal principio derivino
tutte le cose. A tale domanda Anassimandro intende invece dare una risposta. Parte
dalla considerazione che il mondo è costituito da una serie di elementi contrari e che
questi tendono a sopraffarsi l'un l'altro (caldo e freddo, secco e umido, ecc.). Viene in
qualche modo anticipata una prima concezione dialettica (=contrapposizione di
elementi) della realtà.
In questa volontà di sopraffazione di un contrario nei confronti dell'altro
consisterebbe quell'ingiustizia per cui, secondo Anassimandro, tutte le cose sono
destinate alla dissoluzione, pagando con ciò la colpa della loro prepotenza. In tale
situazione il tempo è visto come giudice, poiché assegna un limite a ciascuno degli
elementi contrari, ponendo un termine al predominio dell'uno a favore dell'altro e
viceversa. L'intero mondo nasce dalla separazione degli elementi contrari, fra di
essi in lotta. In ciò è vista la prima ingiustizia, che dovrà essere espiata con la fine
del mondo stesso, destinato poi a rinascere di nuovo attraverso cicli infiniti. Sembra
innegabile in questa concezione un influsso delle dottrine orfiche per quanto riguarda
l'idea di una colpa originaria e dell'espiazione attraverso la metempsicosi. Scrive in
proposito Anassimandro: "donde le cose traggono la loro nascita, ivi si compie anche
la loro dissoluzione secondo necessità; infatti reciprocamente pagano il fio e la colpa
dell'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo".
Così come infinito è il principio, altrettanto, per Anassimandro, sono infiniti i
mondi, nel senso che questo nostro mondo non è che uno degli innumerevoli mondi
che, ciclicamente, tutti nascono e muoiono in maniera analoga.
Il processo di generazione del cosmo e di tutti i mondi prende avvio, secondo
Anassimandro, dall’eterno movimento vorticoso e circolare che anima l’àpeiron,
per cui l'infinito non è statico ma dinamico. Tale movimento provoca dapprima il
distacco dall’apeiron dei contrari fondamentali: il caldo-freddo e il secco-umido.
Da essi derivano poi, per condensazione e per rarefazione, tutte le altre cose. Il
11

freddo, originariamente liquido, si raccoglie nelle cavità, costituendo i mari e l'acqua.


Il fuoco trasforma il freddo in aria. La sfera del fuoco, poi, si spezza in tre,
originando la sfera del Sole, della Luna e degli astri. Dai mari e dall'acqua, sotto
l'azione del Sole, nascono i primi animali, di struttura elementare, da cui via via si
sviluppano gli animali più complessi.
La Terra è immaginata di forma cilindrica, situata al centro dell'universo, in
equilibrio senza bisogno di sostegni materiali.
Queste idee possono a prima vista sembrare puerili. Ma sono potentemente
anticipatrici di teorie moderne: l'equilibrio delle forze a causa della gravitazione
universale, che da sola, senza appoggi, regge la Terra (e gli altri corpi celesti);
l'origine della vita proveniente da animali acquatici; una prima rudimentale
concezione dell'evoluzione delle specie viventi.

Anassimene

Visse anch'egli a Mileto, nel sesto secolo avanti Cristo, e fu discepolo di


Anassimandro. Ci restano frammenti di una sua opera sulla natura.
Anassimene ritiene che il principio primo debba sì essere infinito ma non
indeterminato come per Anassimandro. Egli individua questo principio nell'aria,
tornando quindi ad identificarlo con un elemento naturale. L'aria è pensata come aria
infinita, sostanza aerea illimitata. Considera l'aria un principio che, rispetto
all’àpeiron di Anassimandro, permette di dedurre in modo più logico e razionale la
derivazione da essa di tutte le cose. Infatti, per la sua natura estremamente mobile,
l'aria si presta assai di più ad essere concepita come perenne movimento e come
causa dell’origine e trasformazione delle cose: le cose derivano dal processo continuo
di condensazione e rarefazione dell'aria. L’aria condensandosi si raffredda e diventa
acqua e poi terra; rarefacendosi e dilatandosi si riscalda e diventa fuoco.
Viene così semplificato il sistema un po' macchinoso di Anassimandro. L'origine
delle cose dall'aria è spiegato su base esclusivamente quantitativa, secondo il grado di
condensazione e di rarefazione, senza ricorrere anche a spiegazioni qualitative, quali
il distacco e la contrapposizione dei contrari, adottate da Anassimandro.
In tal senso, Anassimene anticipa la spiegazione meccanicistica-quantitativa della
natura, abbandonando le concezioni orfiche cui si è ispirato Anassimandro (la lotta
dei contrari, da cui deriva la colpa e l'espiazione che le cose subiscono in quanto
finite e quindi destinate a perire).

Eraclito.

Visse ad Efeso anch'essa, come Mileto, colonia greca nell'Asia minore sulla costa
ionica, all’incirca fra il 550 ed il 476 avanti Cristo. Di famiglia aristocratica, fu di
carattere schivo e scontroso. Scrisse un libro intitolato "Sulla natura", di cui ci sono
12

pervenuti numerosi frammenti, con uno stile volutamente oscuro ed oracolare,


riservato solo ai sapienti.
Già i Milesi (i filosofi della Scuola di Mileto) avevano notato l'universale dinamismo
delle cose del mondo, che nascono, crescono e periscono, rappresentando tale
dinamismo quale caratteristica essenziale dello stesso principio primo. Non avevano
però approfondito in modo sistematico tale aspetto della realtà, come invece fa
Eraclito. Eraclito, infatti, parte dalla constatazione del generale divenire delle cose
(cioè del loro continuo trasformarsi). Egli scrive: "Tutto scorre" (in greco “panta
rhei”). "Non si può scendere due volte nello stesso fiume perché è sempre diversa
l'acqua che vi scorre".
Come per Anassimandro, anche per Eraclito le cose nascono per effetto del continuo
passare da un contrario all'altro: le cose fredde si riscaldano, quelle calde si
raffreddano, le cose umide si dissecano, quelle secche si inumidiscono, il giovane
invecchia, il vivo muore, ma da ciò che muore rinasce ad un'altra vita, e così via. La
realtà è quindi caratterizzata da una continua contrapposizione, da una continua
guerra (in greco “polemos”) fra i contrari, fra gli opposti, che si avvicendano l'uno
all'altro. "Polemos è il padre di tutte le cose", scrive Eraclito.
Anassimandro aveva pensato che l'incessante contrapposizione dei contrari intaccasse
in qualche modo l'unità della realtà e perciò aveva ritenuto che i contrari si
risolvessero di volta in volta nel comune e unitario infinito-indefinito (àpeiron) da cui
derivavano. Ma per Eraclito solo la gente comune può pensare, ingenuamente che
un contrario possa esistere senza l'altro. In realtà ciascun contrario è strettamente
legato al suo opposto. Anzi, solo nella reciproca relazione i contrari acquistano
significato. Non si può comprendere il bene se non in contrapposizione al male; il
giorno in contrapposizione alla notte; la salute in opposizione alla malattia; la vita in
contrapposizione alla morte e viceversa. In questo necessario rapporto fra i contrari
Eraclito riconosce una sottostante e sostanziale unità dei contrari stessi (unità non
è eguaglianza). La realtà è sempre un'unità nell'opposizione. Lo scorrere perenne
delle cose e il divenire universale si mostrano come armonia e unità dei contrari,
ossia come perenne conciliazione di elementi contrapposti. Solo contrapponendosi a
vicenda i contrari danno senso uno all'altro, ma al loro fondo si rivela una sostanziale
unità.
Eraclito ha posto il fuoco come principio primo che spiega unitariamente
l'incessante divenire, l'incessante trasformazione delle cose, che deriva dalla
contrapposizione dei contrari. Per Eraclito il fuoco è più adatto dell'aria di
Anassimene a spiegare il generale divenire: tutte le cose sono trasformazione del
fuoco. In tal senso il divenire è spiegato attraverso due procedimenti: "la via in giù e
la via in su". La prima via parte dal fuoco che, condensandosi, diventa umido, e
quando viene compresso, si trasforma in acqua; l'acqua poi, congelandosi, si
trasforma in terra. La seconda via procede in senso inverso: dal liquefarsi della terra
nasce l'acqua e da questa, per evaporazione e condensazione, si giunge al fuoco.
Anche per quanto riguarda le anime degli uomini, alcune sono fredde e umide come
l'acqua (gli uomini che non sanno nulla) e altre, poche, sono calde e secche come il
fuoco (i sapienti).
13

Se ci si ferma all'apparenza, il mondo può sembrare caos e disordine, ma in realtà


il saggio comprende l'unità degli opposti ed il mutarsi di un opposto nell'altro. È
anche questa una concezione dialettica (conflittuale) del divenire: in superficie una
continua contrapposizione, una continua guerra tra gli opposti, ma nel fondo una loro
sottostante unità. Proprio nella contrapposizione dei contrari consiste il principio
unitario (simboleggiato dal fuoco) che governa la realtà e che la ragione, il logos, ci
consente di cogliere.
Il logos (la razionalità) è il terzo tema della filosofia di Eraclito. Secondo Eraclito gli
uomini sono incapaci, in generale, di elevarsi alla verità e di oltrepassare l'apparenza.
Ma la verità non va cercata in ciò che esteriormente ci appare bensì dentro di noi,
abbandonando il mondo delle apparenze e imparando a guardare nella propria anima.
Bisogna stare in guardia nei confronti dei sensi e delle opinioni degli uomini perché
si fermano alla superficie delle cose. La verità, per contro, consiste nel cogliere, al di
là dei sensi, il logos, cioè l'intelligenza che governa tutte le cose. Emerge un contrasto
tra logos ed opinioni, tra verità e sensazioni (conoscenza sensibile) che sarà a lungo
dibattuto nel corso della storia della filosofia.
In Eraclito il termine "logos" ha tre diversi significati ma strettamente collegati:
1. è la legge universale del cosmo, la legge del divenire come diversità-unità degli
opposti;
2. è la ragione umana che comprende la legge del mondo; è il pensiero;
3. è il sapere, cioè la filosofia, che sa spiegare la realtà e la verità profonda delle
cose.
14

PITAGORA E LA SCUOLA PITAGORICA

Pitagora nasce a Samo nel 570 a.C., isola del Mar Egeo, dove viene a conoscenza
della filosofia della scuola di Mileto. Fugge da Samo a seguito di una rivolta. Compie
numerosi viaggi in oriente e quindi si stabilisce a Crotone in Italia meridionale, nella
Magna Grecia, dove nel 530 a.C. fonda la sua scuola. Muore a Metaponto intorno al
490 avanti Cristo.
È difficile distinguere le dottrine di Pitagora da quelle dei suoi discepoli poiché i suoi
insegnamenti erano segreti. Si preferisce perciò parlare, in generale, di Scuola
pitagorica. Tale scuola era costituita come comunità mistica e ascetica, riservata solo
agli iniziati, similmente alla Scuola orfica. Tuttavia, mentre per l'orfismo la
purificazione avviene attraverso l'ascesi mistica, mediante riti iniziatici e misterici;
per il pitagorismo invece la purificazione è frutto del sapere e si consegue attraverso
lo studio della matematica, della musica e dell'astronomia.
Oltre che filosofo, Pitagora fu anche politico e grande matematico. Fu venerato dai
seguaci quasi come un dio e la sua parola aveva quasi valore di oracolo.
I filosofi di Mileto avevano cercato il principio della natura e delle cose in una
sostanza particolare, in un elemento naturale. Con Pitagora la ricerca filosofica si
affina notevolmente. Infatti i pitagorici, più che rivolgersi a sostanze materiali, come
l'acqua, l'aria, il fuoco, per cercarvi la radice da cui tutte le cose provengono e di cui
tutte sono fatte, si rivolgono piuttosto alla forma delle cose ed indicano nel
"numero" il principio primo della realtà.
A prima vista questa teoria può stupire. In realtà deriva dall’osservazione che in tutte
le cose esiste una regolarità matematica, ossia numerica.
Infatti il numero esprime:
1. il rapporto di proporzione esistente fra le cose;
2. l'elemento comune di tutte le cose, poiché tutte sono misurabili.
Dire che dai numeri derivano tutte le cose significa dire che tutte le cose e tutte le
relazioni fra di esse sono esprimibili attraverso determinazioni numeriche, attraverso
numeri. Il numero assume pertanto la funzione di principio primo, di arché. È il
numero che rende intelligibile (comprensibile) la realtà delle cose in quanto ne
rivela la struttura quantitativa e geometrica. Definire il numero come principio
significa ritenere che la natura dell'universo è, appunto, ordinabile e misurabile
attraverso il numero. Per noi il numero è una astrazione mentale, un concetto; per i
presocratici invece il numero è una cosa reale, concreta. È una grandezza spaziale
avente forma ed estensione, è un punto geometrico solido. I numeri erano infatti
rappresentati come successione ordinata di punti solidi, similmente al pallottoliere. Si
pensi all'uso arcaico di utilizzare dei sassolini per indicare il numero, da cui è derivata
l'espressione "fare i calcoli", nonché il termine "calcolare", dal latino "calcolus" che
pure vuol dire "sassolino". Così, il punto rappresentava l'unità, il due raffigurava la
linea, il tre il triangolo, il quattro il tetraedro e così via.
Se la sostanza della realtà è il numero, le opposizioni tra le cose equivalgono allora
ad opposizioni tra i numeri. Il numero si divide in pari e dispari e quindi anche la
15

realtà si divide in due parti, l'una corrispondente al pari e l'altra al dispari. I numeri
pari, essendo illimitati, cioè divisibili per due all'infinito, senza limite, sono imperfetti
perché incompiuti (per gli antichi Greci l’infinito illimitato è imperfetto in quanto
indefinito, indeterminato). I numeri dispari invece, essendo limitati, cioè delimitati da
un resto quando vengono divisi in due parti, sono perfetti. L'uno è "parimpari", in
quanto se sommato ad un numero pari lo fa diventare dispari e se sommato ad un
numero dispari lo fa diventare pari. Il dieci è considerato il numero perfetto, formato
dai primi quattro numeri (1+2+3+4) e raffigurato come un triangolo perfetto avente il
numero quattro per ogni lato: racchiude infatti sia i quattro numeri pari (2,4,6,8) sia i
quattro numeri dispari 3,5,7,9). Da ciò è nata la teorizzazione del "sistema decimale"
e la tavola pitagorica. Lo zero era invece sconosciuto alla matematica antica.
I numeri pari e i numeri dispari sono i contrari da cui scaturisce l'armonia del cosmo:
i numeri pari rappresentano tutte le determinazioni negative (i casi negativi), poiché
imperfetti e i numeri dispari quelle positive, poiché perfetti.
Così come i numeri si dividono tra i illimitati e limitati, anche la realtà è raffigurata
come contrapposizione fra illimitato e limitato. L'illimitato è il vuoto che circonda il
tutto ed il mondo, il quale nasce mediante una sorta di "inspirazione", di parziale
riempimento di questo vuoto da parte di "Uno", il primo numero.
L'universo non viene più concepito come caos e disordine, ma come sistema ordinato.
Se il numero è ordine (accordo di elementi illimitati e limitati) e se tutto è
determinato dal numero, tutto è ordine. E poiché in greco ordine si dice "cosmos", i
pitagorici chiamano l'universo "cosmo" ossia "ordine". Con i pitagorici l'uomo ha
imparato a vedere il mondo non più dominato da oscure potenze, ma come razionalità
e verità, come ordine perfettamente concepibile dalla ragione.
La scienza pitagorica era coltivata come mezzo per raggiungere un ulteriore fine,
consistente nella pratica di un tipo di vita virtuosa atta a purificare e liberare l'anima
dal corpo. Pitagora sembra essere stato il primo dei filosofi a sostenere la dottrina
della metempsicosi, tuttavia modificata rispetto all'orfismo: mezzo di purificazione
non sono più le pratiche religiose e i misteri, ma la pratica della scienza. I pitagorici
hanno introdotto il concetto del retto agire umano inteso come un farsi "seguace di
Dio", come un vivere in comune con la divinità. Sono stati in tal modo gli iniziatori
della vita contemplativa, spesa nella ricerca della verità e del bene tramite la
conoscenza, che è la più alta purificazione.
16

GLI ELEATI: LA SCOPERTA DELL’ESSERE.

A causa della minaccia persiana e dell'avvio di una fase di regresso economico-


culturale di Mileto e delle colonie sulle coste ioniche dell'Asia minore, la
colonizzazione greca si indirizzò verso le coste della Magna Grecia, tra le altre ad
Elea, da cui il termine di "eleati" per indicare i filosofi di quella colonia. Nel nuovo
ambiente vennero elaborati concetti più sofisticati, presentati in forma di categorie
(concezioni) contrapposte con cui si intendeva interpretare il mondo, quali essere-
divenire, ragione-sensi, anima-corpo, uno-molteplici. L'indagine venne rivolta non
più solo nei confronti del comune principio delle cose della natura, ma altresì
dell'individuazione di un superiore principio di verità, sia della realtà fisica che del
pensiero e della ragione. L'intendimento era di superare l'apparenza del divenire per
cercare un principio unico al di sopra del divenire stesso, giudicando, per la prima
volta nella storia del pensiero occidentale, il divenire delle cose come mera illusione.
Il principio non venne più identificato con un determinato elemento naturale bensì
con l'essere in quanto tale (ossia con la realtà in generale), concepito come entità
razionale metafisica, trascendente (al di sopra) l'esperienza sensibile, dando quindi
avvio all'ontologia ( quella parte della filosofia che indaga l’essere).
Si affaccia una nuova visione del mondo in cui viene superata la preesistente
distinzione fra le cose reali da un lato, il pensiero che le indaga dall’altro e la parola
che le esprime dall’altro lato ancora. La realtà coincide col pensiero e col linguaggio.
Anzi, il pensiero e linguaggio, e quindi il ragionamento logico, sono la realtà
autentica, la quale ha una portata più ampia e più vera della realtà sensibile poiché
esprime inoltre concetti che non corrispondono a cose visibili. La verità più autentica
non si coglie con i sensi ma appartiene alla ragione, che va oltre le apparenze
sensibili.

Senofane.

Nato nella colonia ionica di Colofone intorno al 570 a.C., emigra nelle colonie
italiche della Magna Grecia, in Sicilia e nell'Italia meridionale, avendo avuto qualche
contatto anche con Elea. Non è stato tuttavia il fondatore della scuola eleatica, ma
piuttosto un pensatore solitario e indipendente, presentando affinità solo generiche
con gli Eleati. Per primo, comunque, ha affermato l'unità dell'essere supremo, cioè di
Dio, contro il politeismo e l’antropomorfismo della tradizione religiosa dell'epoca.
Mentre gli Eleati fondarono la problematica ontologica, la problematica di Senofane
è soprattutto di carattere teologico e cosmologico. Il tema centrale è la critica della
concezione antropomorfica degli dei. L'errore di fondo, per Senofane, è stato quello
di attribuire agli dei forme esteriori nonché caratteristiche psicologiche e passioni
uguali o del tutto analoghe a quelle degli uomini, solo quantitativamente maggiori,
17

ma qualitativamente non diverse. Critica l'ingenuità di questa concezione che


attribuisce agli dei tutto ciò che l'uomo stesso compie, nel bene e anche nel male:
come gli uomini, anche gli dei rubano, dicono menzogne, si ingannano
reciprocamente, lottano fra di essi. Secondo tale ingenuo pensiero, obietta Senofane,
avverrebbe che anche gli stessi animali, se avessero pensiero e immaginazione,
concepirebbero gli dei in forma animale. Altrettanto ingenue ed inverosimili sono per
Senofane le spiegazioni mitiche dei fenomeni naturali attribuiti agli dei.
Alla concezione antropomorfica Senofane oppone una concezione filosofica,
razionale, della divinità. Dio è uno perché sommo e supremo ed in quanto sommo
non ve ne possono essere altri come lui. È anche immobile (non ha bisogno di mutare
e perfezionarsi) perché perfetto dall'eternità.
A breve distanza dalla sua nascita, la filosofia mostra in tal modo la sua potente
carica innovatrice: rivoluziona radicalmente il modo di vedere Dio quale era proprio
dell'uomo antico. Peraltro, non essendo ancora stata maturata la concezione
creazionistica del mondo da parte di Dio concepito come persona, ben si comprende
come da Senofane Dio venga identificato con il cosmo. Dio è il principio immobile
che tiene insieme l'universo. La divinità non è quella che viene adorata nei templi, ma
è la totalità della natura (concezione immanentista e panteistica). Non c'è ancora il
concetto di trascendenza, ma può essere comunque colta la rivoluzionaria novità nel
concepire Dio come sommo principio regolatore dell'universo, colto attraverso la
ragione e la ricerca filosofica anziché attraverso l'immaginazione mitologica.
Non meno radicale è stata la critica di Senofane contro i valori tradizionali della
società aristocratica, che aveva esaltato le virtù guerresche, l'agonismo e la forza
fisica. I valori autentici stanno invece, per Senofane, nell'intelligenza e nella sapienza,
soprattutto nelle buone leggi e nella saggezza degli uomini.

Parmenide.

Nasce ad Elea (l'attuale Velia, in Campania, a sud di Paestum) intorno al 540 a.C. Ha
dato ottime leggi alla sua città ed è stato uomo onorato dai suoi concittadini. È stato il
fondatore della cosiddetta "Scuola eleatica", di cui Zenone e Melisso sono stati i più
noti allievi. È morto verso la metà del quinto secolo avanti Cristo.
Si deve a Parmenide l’inizio di una nuova fase della filosofia, non più interessata allo
studio della natura, del cosmo e della sua origine (come per la scuola di Mileto), ma
interessata invece al problema di quale sia la realtà vera e profonda. Con Parmenide,
al posto della cosmologia o filosofia della natura, sorge l'ontologia, che significa
filosofia della realtà in generale, ossia filosofia dell'essere, poiché la realtà in generale
può anche essere chiamata "l'essere": tutto ciò che è.
Nell'uomo, dice Parmenide, vi sono due forme di conoscenza: la conoscenza
sensibile, attraverso i sensi, e la conoscenza razionale, attraverso la ragione, il
pensiero. Ma solo il pensiero, il ragionamento, è in grado di conoscere la realtà vera e
18

profonda, mentre i sensi si fermano alla superficie, all'apparenza delle cose. Dunque,
quella sensibile non è vera conoscenza ma solo semplice opinione. Quello di
Parmenide è il problema della realtà autentica, dell'essere autentico della realtà,
ma anche, contemporaneamente, il problema della ragione e del linguaggio che
l'uomo adopera per parlare delle cose e della realtà in generale. Per Parmenide vi è
identità fra realtà, ragione e linguaggio. Infatti, si può pensare e parlare solo di ciò
che è, ossia della realtà vera, mentre ciò che non è non può essere né pensato né se ne
può parlare. Realtà, pensiero e parola sono i tre aspetti fondamentali dell'essere e
tutti obbediscono ad una medesima legge, che è contemporaneamente legge logica e
legge della realtà: l'essere coincide con la logica (il pensiero) e con il linguaggio che
descrive l'essere, cioè la realtà; la logica e il linguaggio coincidono a loro volta con
la realtà; l'ordine del mondo coincide con l'ordine del pensiero che lo pensa e del
linguaggio che lo descrive.
Parmenide parte dall'osservazione che è vero ciò che è ed è falso ciò che non è e la
esprime dicendo che "l'essere è mentre il non essere non è". Collega cioè l'essere e
il non essere con la verità e la falsità.
Espone la sua dottrina attraverso un poema, di cui ci restano 154 versi. Protagonista
del poema è una dea, che simboleggia la verità, la quale rivela che ci sono due modi,
due vie lungo le quali l'uomo procede nella conoscenza. La prima via è quella
della verità, certa e sicura, mentre la seconda è quella dell'opinione (in greco
"doxa"), fallace e sbagliata: è la via dell’apparenza. Solo la prima via conduce alla
verità, quella che parte e si basa sul principio che l'essere è e non può non essere,
mentre il non essere non è e non può in alcun modo essere. L'essere è qui inteso da
Parmenide come l'essere puro, assoluto, l'essere in generale, per cui il non essere che
gli si contrappone è il nulla assoluto, l’assolutamente niente, ed il niente, ossia il non
essere, non solo non esiste, ma neppure può essere pensato né descritto.
L'essere è la proprietà generale, la proprietà prima e comune di tutte le cose. Infatti
qualsiasi cosa, prima di essere qualcosa di specifico (per esempio un tavolo, un
tramonto, una persona, un'idea), deve innanzitutto essere, cioè esistere, esserci. Ogni
cosa è quindi dapprima un essere, cioè un ente (ente, dal latino “ens”, significa che
c'è, che esiste). E poiché il contrario dell’ essere, ossia il non essere, è il nulla, il
niente, allora tutte le cose che sono, che esistono, non possono prima o poi diventare
anche non essere, cioè diventare niente: o ci sono oppure non ci sono; non possono
esserci e, prima o dopo, anche non esserci. Questa di Parmenide è la prima
grandiosa formulazione del principio di non contraddizione, il quale afferma
l'impossibilità che i contrari sussistano nel medesimo tempo: o c'è l'essere o c'è il non
essere. L'essere non può pervenire dal non essere o diventare non essere.
Eppure la realtà sensibile ci mostra continuamente il divenire delle cose, cioè il
continuo trasformarsi e mutare di tutte le cose, che prima sono una certa cosa, cioè un
certo modo di essere, e poi diventano un'altra cosa, diventano cioè un "non essere"
più la cose di prima. Ma per Parmenide la vera realtà non è quella del divenire delle
cose perché in contrasto col principio di non contraddizione. La realtà sensibile,
conclude Parmenide, non è né autentica né vera ma è realtà illusoria, solo
apparenza, solo opinione. La verità non è la realtà sensibile, che si coglie con i
19

sensi, bensì quella che si coglie soltanto con la ragione, col ragionamento, e che non
riguarda le cose sensibili ma i principi, i concetti. In sostanza, ciò che vale per
Parmenide non è l'esperienza sensibile, perché i sensi rimangono alla superficie delle
cose e/o possono ingannare, ma è la logica, basata su principi, su concetti e regole,
che rimangono sempre fissi e immutabili, per cui l'essere, il loro essere, rimane tale
costantemente e non può divenire anche non essere.

Gli attributi dell'essere.

Avendolo concepito in termini assoluti (come essere assoluto), cioè in maniera logica
e non sensibile, fisica, Parmenide definisce di conseguenza gli attributi, ossia le
proprietà, le caratteristiche, dell'essere.
Innanzitutto l'essere è unico e non possono esistere esseri molteplici, perché se
l'essere è uno e l'altro o gli altri non sono il primo, allora essi sono "non essere"
rispetto al primo, cioè sono niente, nulla. Pertanto non vi è una pluralità di esseri e
neppure l'essere diviene, cioè cambia, si trasforma, perché se si trasforma diventa un
"non essere" più quello di prima, mentre il non essere non esiste, è niente.
In secondo luogo, l'essere è eterno immutabile, immobile. L'essere è eterno, ossia
ingenerato ed incorruttibile, perché se fosse stato generato, se avesse cioè avuto un
inizio, sarebbe dovuto derivare da un non essere, il che è assurdo poiché il non essere
non è, è niente; oppure sarebbe dovuto derivare da un altro essere, il che è
impossibile essendo l'essere unico. Neppure è corruttibile, ossia destinato a perire,
perché non può andare nel non essere.
In terzo luogo, l'essere è compiuto perché non manca di nulla e quindi è perfetto.
Infine, se l'essere è perfetto e compiuto allora è limitato e finito, simile a una sfera
perfetta. Nell'antichità infatti, come già premesso, l'idea di perfetto coincideva ed era
collegata ad entità complete e finite, mentre l'idea di infinito coincideva ed era
collegata all'idea di indefinito, cioè di indeterminato e di incompiuto, e perciò
imperfetto.
Qui va detto, peraltro, che Parmenide usa il verbo essere esclusivamente nel senso
sostantivato di "esistere". Ignora, cosa tipica a qull’epoca, il significato e la funzione
anche copulativa del verbo essere, che non significa soltanto esistere, ciò che esiste,
ma che serve altresì ad unire un sostantivo ad un predicato; in questo senso allora vi
sono numerosi modi di essere (è bello; è brutto; è giusto; è sbagliato; ecc.).
Parmenide conserva invece l'abitudine di sostantivare il verbo essere, che diventa
l'essere, cioè la reificazione (trasformare in cosa) di un concetto, che avviene quando
si scambia e si trasforma un concetto astratto in oggetto concreto, dimenticando che,
come dice il filosofo Fuerbach, "gli oggetti sono dati ma i concetti sono posti". La
copula si applica ad un sostantivo e non ha senso applicarla ad un verbo, nel caso al
verbo essere, quantunque sostantivizzato. Dire che l'ente è ha senso, ma dire che
l'essere è non ha alcun senso, è vuota tautologia (ripetizione del medesimo
significato). In effetti, interrogandosi sul non essere, cioè ponendo la domanda "che
cos'è il nulla?", Parmenide si imbatte nel "paradosso del non essere". Da un lato
infatti il non essere è niente per sua stessa definizione; dall'altro esso però è anche
20

qualcosa: è appunto il non essere. È questo un paradosso che, secondo la moderna


filosofia analitica del linguaggio, smaschera l'illusione metafisica dell'essere e del
non essere. Ossia il paradosso prova che, benché siano molti gli esseri e i non essere
relativi (cioè il non essere una cosa perché si è una cosa diversa) non c'è invece
alcun Essere o Non Essere assoluti.

La terza via, quella delle apparenze plausibili o dell'opinione possibile.

Nella seconda parte del suo poema, di cui però è rimasto molto poco, Parmenide
parla anche di una terza via della conoscenza, quella della apparenza plausibile o
della opinione possibile, riconoscendo la validità di un certo tipo di discorso con il
quale cercare di spiegare anche la realtà sensibile, ossia i fenomeni e l'apparenza
delle cose, purché non in contrasto col fondamentale principio di non contraddizione,
ammettendo insieme sia l'essere che il non essere. Questa terza via consisterebbe
nello scartare le opinioni meno convincenti per mantenere invece quelle più
plausibili. È però evidente che si tratta di un tentativo destinato ad urtare contro
insuperabili contraddizioni, dal momento che è difficile ammettere la contemporanea
sussistenza dell'essere e del non essere.

Le teorie di Parmenide, per il loro carattere innovativo e poiché assolutamente


contrarie al senso comune, provocarono enorme stupore e suscitarono vivaci
polemiche, specialmente perché negavano la molteplicità degli esseri, degli enti,
nonché il loro divenire, cose ritenute invece del tutto evidenti in base all'esperienza. I
discepoli di Parmenide, in particolare Zenone e Melisso, si proposero allora, per
rafforzare la teoria del loro maestro, di dimostrare con esempi concreti, ricorrendo a
paradossi (dimostrazioni lontane dal senso comune e dalla generale esperienza), che
la molteplicità e il divenire degli enti non sono reali ma solo apparenti, mentre reale è
solo l'essere unico e immutabile, come sostenuto, appunto, da Parmenide.

Zenone.

Nato ad Elea nel 490 a.C., fu discepolo di Parmenide. Morì nel 430 avanti Cristo.
Zenone è stato tenace difensore delle tesi del suo maestro. Egli tenta di dimostrare,
con ben 40 paradossi, utilizzando la forma della dimostrazione per assurdo, che
assai più contraddittorie sarebbero le conseguenze derivanti dalle tesi contrarie
a quelle di Parmenide.
Zenone è stato definito l'inventore della dialettica intesa come arte della confutazione.
I suoi argomenti più noti sono quelli contro il divenire delle cose, volti a ribadire
l'immutabilità e immobilità dell'essere, e quelli contro la molteplicità e pluralità delle
cose stesse, volti a ribadire l'unità ed indivisibilità dell'essere.
21

I più famosi paradossi contro il movimento e il divenire delle cose sono


l'argomento di Achille e la tartaruga, l'argomento della freccia e quello della
dicotomia.
Secondo il paradosso di Achille e la tartaruga, il veloce Achille non potrà mai
raggiungere in una corsa la tartaruga se ad essa sia stato concesso un vantaggio
iniziale anche di un solo passo. Infatti, quando Achille raggiunge il punto dal quale è
partita la tartaruga, essa ha già percorso un certo tratto; quando poi Achille percorrere
questo secondo tratto, la tartaruga, di nuovo, percorre un altro piccolo tratto, e così
via all'infinito. Quindi in uno spazio continuo, cioè infinitamente divisibile, è assurdo
pensare che i corpi si muovano.
L'argomento della freccia vuole dimostrare che una freccia scagliata contro un
bersaglio è in realtà immobile. Infatti, in ogni istante in cui è divisibile il tempo del
volo della freccia, essa è ferma nello spazio che occupa in quell'istante medesimo.
Essendo immobile in ogni istante, lo è anche nella totalità di essi e quindi la freccia
che si muove è in realtà sempre ferma.
Contro la tesi di Parmenide, l'opinione comune è convinta che un corpo, muovendo
da un punto di partenza, possa giungere ad un punto di arrivo prestabilito. Utilizzando
l'argomento della dicotomia (=divisibilità per due), Zenone vuole invece dimostrare
che ciò non è possibile. Infatti tale corpo, prima di raggiungere il termine del
percorso, dovrebbe percorrere la metà di esso e, prima ancora, la metà della metà e
così via all'infinito. Quindi, in conclusione, i corpi non si muovono.
È evidente che gli argomenti di Zenone funzionano solo se si presuppone che lo
spazio sia divisibile all'infinito (come in matematica). Nella realtà fisica però,
come dirà Aristotele, esiste solo il finito e solo distanze finite.
Contro l'opinione della molteplicità delle cose Zenone argomenta che, per esserci
la molteplicità, dovrebbero esserci molte unità (singole cose), dato che la molteplicità
è appunto molteplicità di unità. Ma il suo ragionamento vuole dimostrare che tali
unità sono impensabili ed assurde. Infatti, se gli esseri sono molteplici è necessario
che essi siano tanti quanti sono e non di più e neppure di meno. Ma se essi sono tanti
quanti sono devono essere finiti (in un numero definito). Però, se sono molteplici, gli
esseri sono anche infiniti; infatti tra l'uno e l'altro di tali esseri ci saranno sempre di
mezzo altri esseri, giacché ogni essere esteso è sempre divisibile all'infinito. Se poi si
trattasse di essere inestesi, cioè uguali a zero, anche la somma totale degli esseri
molteplici sarebbe sempre zero, cioè nulla, mero non essere. Dunque, sia nel primo
che nel secondo caso non vi sono esseri (cose) molteplici.

Melisso

È nato e vissuto a Samo, fra il sesto e il quinto secolo avanti Cristo. È stato
comandante della flotta che sconfisse la flotta ateniese di Pericle.
Sviluppa e in parte modifica la dottrina di Parmenide. In particolare dice che l'essere
deve essere infinito, e non finito come diceva Parmenide, perché non può avere
limiti né di tempo né di spazio; infatti, se fosse finito dovrebbe confinare con un
vuoto e quindi con un "non essere" più se stesso, il che è impossibile posto che il non
22

essere non esiste. In quanto infinito, l'essere è necessariamente anche unico: infatti,
se fossero due o più, questi non potrebbero essere infiniti, perché si limiterebbero
reciprocamente. L'essere come unico ed infinito è anche incorporeo, non nel senso
di immateriale ma nel senso di essere privo di qualsiasi figura e spessore, perché se
avesse corpo e spessore sarebbe composto di parti e perciò non sarebbe più unico.
L'essere quindi non può nemmeno avere la perfetta forma della sfera, come
voleva Parmenide. L'essere è quell’uno infinito che non lascia nulla fuori di sé:
dunque è il tutto. Di conseguenza, l'essere è anche inalterabile perché se mutasse
diverrebbe altro da sé, il che è impossibile perché l'essere già contiene in sé la totalità.
Anche Melisso ribadisce, contro l'opinione comune, l'impossibilità del divenire e
della pluralità delle cose. Le cose molteplici che i sensi parrebbero attestare, dice
Melisso, esisterebbero alla sola condizione che ciascuna di tali cose permanesse
sempre identica ed immutabile quale è l'essere-unico. Invece l'esperienza ci mostra
che le cose mutano continuamente, il che contraddice la logica della ragione. Perciò
le cose molteplici e mutevoli sono solo apparenza: occorre negare la validità dei
sensi. Ritenere fondato il mutamento e la molteplicità delle cose significherebbe,
contro la logica, ammettere che anche il "non essere" esiste.
Con Melisso l’eleatismo (la filosofia della scuola eleatica) si conclude con la più
radicale negazione della molteplicità e mutamento delle cose, benché attestati
dall'esperienza e dall'evidenza quotidiana, giungendo, come dirà Aristotele, ad una
esaltazione folle della ragione fino a disprezzare completamente la conoscenza
sensibile. La filosofia successiva cercherà invece di riconoscere anche la funzione
dell'esperienza, nel tentativo di salvare il principio di Parmenide ma di salvare pure
l'esperienza sensoriale.
23

I FILOSOFI PLURALISTI: EMPEDOCLE, ANASSAGORA, DEMOCRITO.

Dopo Parmenide i filosofi successivi non potevano ignorare il rigore e la forza logica
del suo pensiero, per cui l'essere è o non è, e quindi la struttura profonda della realtà,
ossia "l’essere", è unica e immutabile, essendo assurdo pensare che una cosa che è
diventi un "non essere" più quella cosa, giacché il non essere è il nulla, è niente, ed il
niente non esiste.
Tuttavia non poteva nemmeno essere negata l'evidenza del divenire e la molteplicità
dei fenomeni, delle cose, come illustrato da Eraclito. Si trattava allora di conciliare il
principio parmenideo dell'eternità e immutabilità dell'essere con quello eracliteo
del continuo divenire delle cose e della loro pluralità. Il processo stesso della
conoscenza (il modo di conoscere), venne ritenuto, non poteva essere attribuito
esclusivamente alla ragione, al ragionamento logico-astratto, ma bisognava tener
conto anche della conoscenza sensibile.
Nel cercare una sintesi fu concepita quindi l'esistenza di una pluralità di esseri, o
enti, ciascuno eterno e immutabile come l'essere di Parmenide, e costituenti la
base e la sostanza immodificabile di tutte le cose, ma tali però che essi,
combinandosi variamente fra loro, potessero spiegare altresì l'origine, il
divenire, la varietà e molteplicità delle diverse cose del mondo.
Pertanto, al fondo delle cose viene pensata la sussistenza di elementi, di enti od
esseri, eterni e immutabili come in Parmenide, ma tali da originare, variamente
unendosi o separandosi, le cose sensibili quali noi vediamo, molteplici e in continuo
cambiamento. In tal senso, non vi è né nascita né morte delle cose ma solo varie
combinazioni di elementi in se stessi immutabili. Viene così formulato il principio
per cui in natura nulla si crea e nulla si distrugge veramente, ma tutto invece si
trasforma.
I filosofi che elaborarono questa teoria, ritenendo molteplici, cioè plurimi, gli
elementi di base costitutivi della natura furono perciò chiamati "filosofi o fisici
pluralisti".

Empedocle. Le quattro radici.

Nasce ad Agrigento, intorno al 484 a.C., da famiglia nobile. Si impegna in politica e


diviene capo del partito democratico. È stato al tempo stesso scienziato e medico ed
ha avuto fama di mago. Ha scritto due opere in poesia: "Della natura" e "Le
purificazioni". Muore nel 424 a.C.
Come Parmenide, Empedocle ritiene che l'essere non possa né nascere né perire,
intesi come un venire dal nulla e un andare nel nulla, perché il nulla è non essere,
è assolutamente niente. Quindi la nascita e la morte (degli uomini ma anche di tutte le
cose) non esistono. Invece, ciò che ci appare come nascita e come morte, cioè
24

come continuo divenire e trasformarsi delle cose, deriva dal mescolarsi e dal
dissolversi degli elementi fondamentali che compongono le cose stesse e che
permangono eternamente uguali e indistruttibili. Tali elementi, che Empedocle
chiama "radici di tutte le cose", sono l'acqua, l'aria, la terra e il fuoco.
I filosofi della scuola di Mileto ed Eraclito avevano scelto chi solo uno o chi solo un
altro di questi elementi. La novità di Empedocle è di aver affermato che tutti e quattro
insieme danno origine al mondo e alle cose e che ognuno di essi è immutabile e non
trasformabile. Nasce così il concetto di "elemento", concepito come qualcosa di
originario e qualitativamente immodificabile, ma in grado di unirsi o separarsi
meccanicamente nello spazio con un altro elemento. Sorge cioè la concezione
pluralistica, che supera il monismo (il sussistere di un unico e solo principio) dei
filosofi ionici delle colonie dell'Asia minore oltre che degli Eleati.
Vi sono dunque quattro elementi, quattro radici, che unendosi danno origine alle cose
e separandosi danno origine al loro scomparire e trasformarsi. Ma che cosa spinge
questi elementi ad unirsi o separarsi? Empedocle spiega che i quattro elementi
sono mossi e animati da due forze cosmiche, chiamate rispettivamente Amore o
Amicizia e Odio o Discordia: la prima è causa dell'unione e la seconda è causa della
separazione degli elementi (attrazione e repulsione). Queste forze si alternano a
vicenda, prevalendo ciclicamente una sull'altra e dando luogo a continui cicli cosmici.
Quando predomina l'amore tutti gli elementi si raccolgono in unità; non vi sono cose
distinte ma c'è un Tutto uniforme, una compatta unità che Empedocle chiama Uno o
“Sfero” (ricorda la sfera di Parmenide). Quando predomina l'odio gli elementi si
separano del tutto; si ha il caos e neppure in questa fase del ciclo cosmico esistono le
singole cose e il mondo. Le cose ed il mondo nascono invece nelle due fasi
intermedie del ciclo cosmico, quando l'amore comincia a riemergere dal caos e
riunifica gli elementi oppure quando comincia ad agire l'odio, che separa gli elementi
traendoli fuori dalla compatta unità dello Sfero.
In base ai quattro elementi ed alle due forze che li muovono Empedocle spiega anche
come avviene la conoscenza. Per Empedocle il principio fondamentale della
conoscenza è che il simile si conosce col simile. Dalle cose si sprigionano degli
effluvi (emanazioni di particelle invisibili) che colpiscono gli organi di senso. La
conoscenza avviene dall'incontro tra l'elemento che è nei sensi dell'uomo e l'elemento
simile, corrispondente, che è nelle cose esterne: la terra si conosce attraverso il
corrispondente elemento che è negli organi di senso, e così l'acqua con l' acqua, l'aria
con l'aria e il fuoco col fuoco.
Nel poema "Le purificazioni" Empedocle sviluppa concezione orfiche. L'anima
dell'uomo è un démone, bandita dall’Olimpo per una colpa originaria e gettata nel
mondo per espiare. Empedocle si preoccupa quindi di indicare le regole di vita atte a
purificare l'anima e a liberarla dai cicli delle reincarnazioni per ritornare tra gli dei.
Divine sono per Empedocle le quattro radici e le due forze cosmiche, amore e odio, e
démoni sono le anime, poiché tutte sono partecipi del divino.
25

Anassagora. La teoria dei semi e dell'intelligenza ordinatrice.

Nato a Clazomene, nella Ionia, nel 499 a.C., si trasferì ad Atene dove introdusse lo
studio della filosofia e vi operò per un trentennio. Fu amico di Pericle. Perseguitato
perché aveva negato il carattere divino dei corpi celesti, si rifugiò a Lampsaco, nella
Misia, dove morì nel 428 a.C. Scrisse un trattato "Sulla natura".
Anche Anassagora è d'accordo sull'impossibilità che il non essere sia e quindi che
nessuna cosa nasca o muoia veramente: invece tutte le cose si trasformano
attraverso processi di unificazione e di divisione dei loro elementi costitutivi, in
quanto tali immutabili. Per Anassagora gli elementi costitutivi delle cose non
possono tuttavia essere soltanto le quattro radici di Empedocle, perché da sole non
bastano a spiegare l'innumerevole varietà delle cose stesse. Gli elementi infatti
devono essere infiniti, cioè infinitamente vari come le cose. Le cose derivano da una
infinità di “semi”, intesi come particelle piccolissime e invisibili di materia, di
qualità diverse: vi sono semi di oro, di pietra, di carne, di ossa, ecc. Poiché i semi
rimangono intrinsecamente sempre uguali a se stessi, furono chiamati da Aristotele
"omeomerie", cioè parti simili, uguali.
Ogni cosa deriva dal tipo di semi dai quali è in prevalenza costituita, però in essa ci
sono pure, in minor quantità, i semi di tutte le altre cose. Perciò -dice Anassagora-
"Tutto è in tutto. In ogni cosa c'è parte di ogni cosa". I semi sono infinitamente
divisibili e infinitamente aggregabili, ma ognuno rimane sempre uguale a se stesso:
ha le caratteristiche dell'eternità e della immutabilità dell'essere di Parmenide. Ogni
cosa, pertanto, è una ben ordinata mescolanza in cui esistono, in diversa proporzione,
i semi di tutte le cose. Infatti, in ogni cosa vi deve essere anche parte di ogni altra
cosa, perché se, per esempio, l'erba (mangiata dagli animali) diventa carne, vi devono
essere particelle di carne anche nell'erba, poiché la carne non può provenire da ciò
che non è carne.
All'inizio i semi costituivano una massa indistinta in cui tutto era mescolato insieme.
Sui semi agisce però una intelligenza ordinatrice divina, chiamata da Anassagora
"Nous" (=intelligenza in greco), che muove ed anima i semi originariamente
mescolati, li separa e li seleziona in ben ordinate combinazioni, formando così il
mondo e le cose del mondo. Ogni cosa contiene parti di tutte le altre cose, ma
l'intelligenza che le muove è illimitata, indipendente e non mescolata ad alcuna cosa.
L'intelligenza imprime alla massa indistinta e originaria dei semi un moto di
rotazione, che divide e separa i semi per contrapposizione tra caldo e freddo, tra
luce ed oscurità, tra rarefatto e denso, tra umido ed asciutto. Il movimento rotatorio
ha provocato il distacco dalla terra di masse che si sono infiammate ed hanno formato
il sole e gli astri. Gli animali e l'uomo si sono formati dai semi provenienti dall'aria.
Mentre per Empedocle la separazione dei quattro elementi dall'unità dello Sfero, e
quindi la formazione e trasformazione delle cose, è ciclica, per Anassagora la
separazione dei semi dalla massa originaria è definitiva: ciò comporta una
concezione rettilinea del tempo e della storia, che Anassagora anticipa per la prima
volta.
26

Innovativa e grandiosa è in Anassagora l'intuizione di un principio intellegibile


(che si coglie con la ragione, l'intelletto, e non con i sensi), ossia il “Nous”, distinto
dal mondo, dalle cose ed anche dai semi, cioè trascendente, puro, infinito e dotato di
conoscenza e di dominio su tutto, il quale produce le cose e la realtà. Il pensiero
filosofico diventa più raffinato, perché si avvicina ad una concezione spirituale della
realtà, benché non del tutto, poiché nel Nous permane un residuo materiale seppur di
sostanza sottilissima. Per la prima volta, con Anassagora, appare la teoria di una
mente e di una intelligenza ordinatrice. Anticipa la scoperta della causa finale,
pur se pensata solo come causa motrice. Da questa dottrina prenderà le mosse la
metafisica di Platone e di Aristotele, anche se l'azione del Nous è ancora più di tipo
fisico che spirituale. Il Nous, in effetti, non è creatore della materia e dei semi, che
sono eterni, ma è la forza, il principio divino che vi mette ordine.
Per quanto riguarda la teoria della conoscenza, Anassagora, diversamente da
Empedocle, ritiene che essa avvenga non già per contatto fra cose simili ma per
contrasto rispetto alle cose dissimili. Conosciamo il freddo in contrapposizione al
caldo, ossia conosciamo ciò che è freddo perché sappiamo ciò che è caldo, altrettanto
conosciamo il dolce in contrapposizione all'amaro, il giusto in contrapposizione
all'ingiusto e così via. Inoltre, Anassagora considera fattori importanti della
conoscenza l'esperienza, la memoria, il sapere ed anche la tecnica, dall'agricoltura
all'urbanistica, ecc., in cui il sapere trova la propria concretizzazione. La conoscenza,
cioè, non è solo contemplazione della verità ma ha anche un valore pratico. È
caratteristica peculiare di Anassagora la rivalutazione della prassi. Egli scrive:
"L'uomo è il più intelligente degli animali grazie al possesso delle mani".

Leucippo, Democrito e l’atomismo.

Fondatore dell'atomismo fu Leucippo di Mileto, di cui abbiamo però scarse notizie. Il


più famoso esponente dell'atomismo è stato Democrito, discepolo di Leucippo, nato
ad Abdera intorno al 460 a.C. e morto assai vecchio. Viaggiò molto, in Egitto, in
Persia, in India ed Etiopia e si trattenne anche ad Atene, venendo a contatto con la
cultura sofistico-socratica. Ebbe fama di sapiente completamente dedito alla
speculazione (al ragionamento astratto). A Democrito sono attribuiti molti scritti, tra
cui: La piccola cosmologia; Sulla natura; Sulle forme degli atomi. Morì intorno al
370 avanti Cristo.
L'atomismo rappresenta una delle più significative teorie, e di grande importanza
storica, della filosofia greca. Di solito Democrito viene presentato come l'ultimo dei
presocratici, ma in realtà risulta contemporaneo di Socrate e, in parte, anche di
Platone. Tant'è che l'atomismo, sebbene sia prevalentemente una dottrina sulla natura,
si mostra aperto anche ai problemi della morale, della storia e del linguaggio, divenuti
attuali con la filosofia socratico-platonica.
27

La filosofia di Democrito e di Leucippo è un ulteriore tentativo di risolvere le gravi


difficoltà messe in luce da Zenone circa l'infinita divisibilità delle grandezze
geometriche e spaziali.
Al riguardo, Democrito distingue nettamente tra divisibilità matematica, che
effettivamente è proseguibile all'infinito, essendo il punto matematico privo di
dimensioni, e divisibilità fisica. In fisica, in natura, non può infatti essere adottata la
divisibilità matematica, perché i corpi fisici non sono divisibili all'infinito. Nel
dividere un corpo in parti sempre più piccole si giunge ad un certo momento ad una
particella che non è ulteriormente divisibile: è l'atomo, che in greco significa,
appunto, ente non (più) divisibile.
In quanto particelle piccolissime di materia, gli atomi sono invisibili. All'idea di
atomo Leucippo e Democrito non giungono quindi attraverso la sperimentazione, ma
attraverso una deduzione razionale. Infatti, essi argomentano, non è assolutamente
possibile dividere all'infinito la realtà materiale, perché altrimenti, a furia di dividerla,
la realtà si risolverebbe nel nulla e quindi dalla materia si passerebbe alla non
materia, al niente, il che è assurdo. Al fondo della natura non vi può essere il nulla,
perché non si capirebbe, altrimenti, come da tale nulla possa derivare la realtà
concreta e materiale dei corpi quale manifestata dai sensi.
Oltre che indivisibili, gli atomi sono eterni, ingenerati, immutabili. In tal senso
conservano le proprietà dell'essere di Parmenide e sono tutti della medesima
sostanza: sono la frantumazione dell'essere-uno di Parmenide in infiniti esseri-uni.
Peraltro, sono privi di qualità sensibili (colori, suoni, sapori, che sono solo
apparenze). Si differenziano però tra loro per forma (lisci, ricurvi, scabrosi,
sferici), grandezza e posizione, cioè per sole caratteristiche quantitative.
Gli atomi sono contenuti e si muovono in uno spazio vuoto. Lo spazio vuoto è il
non essere di Parmenide, inteso però non più come il contrario dell’essere, ma come
mancanza di atomi, cioè come mancanza di materia. Anche lo spazio vuoto viene
dedotto razionalmente: se c'è movimento, sostiene Democrito, deve esserci per
forza il vuoto. Essendo l'atomo pensato come materia piena, esso presuppone
necessariamente il vuoto, poiché senza vuoto gli atomi non potrebbero muoversi e
nemmeno differenziarsi.
Originariamente il movimento degli atomi nello spazio vuoto era caotico e
volteggiavano in tutte le direzioni come il pulviscolo atmosferico. Da questo moto
iniziale è poi derivato un movimento vorticoso che spinge gli atomi simili ad
aggregarsi variamente fra di loro, generando così il mondo e le cose del mondo. Gli
atomi non sussistono da soli, ma fanno sempre parte di un aggregato. Seguitando il
loro moto, gli atomi e i loro aggregati si urtano, si spezzano e formano nuovi
aggregati, causando così l'incessante divenire e trasformarsi delle cose.
All'interno del medesimo aggregato i singoli atomi sono sempre separati da uno
spazio vuoto. Il moto degli atomi non ha mai avuto origine, esiste da sempre e si
conserva indefinitamente.
Negli aggregati di atomi, che compongono le varie cose, bisogna distinguere tra
qualità primarie, o oggettive, che sono di carattere geometrico-meccanico e
quantitativo (volume, numero, struttura, posizione) e qualità secondarie, o
28

soggettive, che sono invece di tipo qualitativo e, appunto, soggettivo (suoni, colori,
sapori). È compito della scienza ignorare e ridurre le qualità secondarie a quelle
primarie.
Poiché gli atomi sono infiniti, infinite sono le loro possibili combinazioni. Democrito
suppone che vi siano infiniti mondi che perpetuamente nascono e muoiono
ciclicamente.
Nel movimento degli atomi non vi è alcun finalismo, alcuno scopo predeterminato.
Pur ammettendo in qualche modo gli dei, Democrito ritiene che nel mondo non vi sia
alcuna intelligenza rivolta a un determinato fine. Ciò non significa un caos
assolutamente disordinato, inteso come assenza di causalità, poiché il cosmo è il
prodotto di un sistema ben preciso di cause, tuttavia si tratta di cause meccaniche e
non finali.
Ritenendo che le uniche realtà del mondo siano la materia, il movimento e le loro
leggi, gli atomisti e Democrito sono stati i primi ad interpretare la natura
secondo una concezione esclusivamente materialista e meccanicistica della
realtà: i fenomeni naturali e le cose sono il prodotto di cause solamente meccaniche
per cui, data una determinata causa, deriva necessariamente un certo e preciso effetto.
Ciò non toglie, tuttavia, che gli atomisti si siano preoccupati di indagare anche gli
elementi costitutivi dell'anima e dell'intelligenza, individuati in atomi "privilegiati",
lisci, sferiformi, di natura ignea e quasi divina. In ogni caso, anche gli atomi
dell'anima e dell'intelligenza sono di natura materiale, regolati da cause solo
meccaniche, escludendo nell'anima e nel mondo interventi di carattere teleologico
(finalistico) e divino. L'atomismo è in sostanza una dottrina atea, che nega la
presenza di progetti divini regolatori della realtà e del divenire.
Coerentemente, Democrito applica il modello materialistico anche all'uomo e al
processo conoscitivo. L'anima, come detto, è anch'essa corporea e materiale,
seppur costituita da atomi particolari e mobilissimi, ed è diffusa in tutto il corpo.
Alla morte del corpo si disgrega anche l'anima. Non c'è dunque immortalità
dell'anima, ma solo dei singoli atomi che, essendo eterni, andranno poi a formare
altri aggregati. Le sensazioni sono prodotte nell'anima da effluvi (emanazioni) degli
atomi che compongono gli oggetti esterni, i quali, entrando in contatto con gli atomi
dell'anima, impressionano (stimolano) gli atomi corrispondenti che stanno nell'anima
stessa, sicché, analogamente ad Empedocle, il simile si conosce col simile. Tuttavia,
poiché non si entra in contatto diretto con le cose ma solo con gli effluvi dei loro
atomi, la sensazione non è in grado di superare l'apparenza sensibile giacché
solamente l'intelletto sa elaborare i concetti e concepisce l'esistenza degli atomi. È
perciò importante, per Democrito, distinguere fra conoscenza sensoriale, che è
oscura, e conoscenza intellegibile (intellettiva), che è autentica. Non tutte le
proprietà che noi attribuiamo agli oggetti esistono veramente nelle cose, perché le
proprietà qualitative degli oggetti sono percepite in modo soggettivo e quindi diverso
da persona a persona. La distinzione tra proprietà oggettive e soggettive, ripresa
poi da Galilei e da Locke, è di grande importanza storica; infatti anticipa
l'orientamento della fisica moderna, volto a ricercare esclusivamente gli aspetti
quantitativi della natura in quanto essi solo sono misurabili. Mentre la conoscenza
29

sensibile ci dà solo l'opinione, la conoscenza intelligibile (concettuale) ci dà la verità,


ci consente cioè di conoscere l'autentica struttura della realtà e di coglierne la comune
sostanza, consistente negli atomi e nelle loro leggi meccaniche di movimento.
Democrito, benché materialista, ha elaborato anche un sistema di massime di elevato
valore etico-morale, derivante dal carattere razionalistico che sta comunque alla base
della teoria materialistica, volto ad elevare la ragione a giudice e guida anche morale
dell'esistenza. Per Democrito il bene più alto è la felicità, che non risiede però nelle
vanità mondane, nelle cose esteriori e nei piaceri del corpo, ma nell'interiorità
dell'anima, cioè nel bene pensare, nel bene parlare e nel bene agire, ossia nella
saggezza. La vita dell'uomo saggio consiste nel "eutimia" (tranquillità d'animo), che
consente di giudicare, in base alla ragione, le cose essenziali della vita.
In Democrito si manifesta anche una visione cosmopolita ("ogni paese della terra è
aperto all'uomo saggio: perché la patria dell'animo virtuoso è l'intero universo")
nonché il riconoscimento dell'utilità dello Stato e del buon governo, quello
democratico anziché oligarchico, rispetto alla vita primitiva senza leggi ed insicura.
30

I SOFISTI. PROTAGORA E GORGIA.

Col termine "sofisti" vennero indicati, nel quinto secolo avanti Cristo, quegli
intellettuali, dotati di vasta cultura generale, che facevano professione di sapienza e la
insegnavano dietro compenso, fatto che appariva scandaloso alla mentalità
aristocratica greca, secondo cui il sapiente doveva essere disinteressato. Tant'è che
Senofonte chiamò i sofisti "prostituti della cultura". Ma furono soprattutto Socrate,
Platone ed Aristotele a criticarli. Ancora oggi il termine "sofista" è sinonimo di
maestro di ragionamenti capziosi (ingannevoli), falsi e artificiosi.
La critica odierna, invece, pur confermando determinati aspetti negativi, ha
riabilitato l'importanza storica e filosofica del movimento sofistico. In effetti, i
sofisti hanno operato una vera e propria "rivoluzione filosofica", spostando
l'interesse della filosofia dalla riflessione sulla natura e sul cosmo alla riflessione
sull'uomo e sulla vita sociale. I temi dominanti divennero pertanto l'etica, la
politica, la retorica, la lingua, le leggi, la religione e l'educazione, cioè i temi
concernenti, in generale, la cultura dell'uomo, che diedero l’avvio ad una nuova
concezione umanistica nell'ambito della filosofia antica.
Questo nuovo centro di interessi trova origine in un duplice ordine di cause. Da una
parte, la filosofia della natura si era via via esaurita, avendo svolto tutte le
riflessioni all'epoca possibili sul tema della ricerca naturalistica. Dall'altra parte, lo
sviluppo della sofistica fu favorito da ampi mutamenti sociali, economici e culturali
che caratterizzarono l'evoluzione della storia greca e consistenti, in particolare, nella
crisi della aristocrazia per l'avvento di istituzioni più democratiche, nella
accresciuta potenza della borghesia cittadina (artigiani e commercianti) contro
l'aristocrazia nobiliare terriera, nell'allargarsi dei traffici e dei commerci che favorì il
confronto con la cultura degli altri paesi.
La crisi dell’aristocrazia comportò anche la crisi dell'antica virtù ("aretè") e dei valori
tradizionali, facendo crollare sia la convinzione che virtuosi si nascesse e non si
diventasse, sia la concezione di un sapere riservato ai soli ceti nobiliari. L'avvento
della democrazia, praticata attraverso la partecipazione alle assemblee nella polis,
rese particolarmente sentita l'esigenza di imparare l'arte dell'eloquenza e della
retorica e di servirsi dell'abilità discorsiva per esporre efficacemente e far prevalere la
propria opinione. In tal modo venne altresì rivalutata l'importanza dell'educazione e
della formazione culturale e civica. La conoscenza ed il confronto con i diversi usi,
costumi e leggi degli altri popoli, con cui grazie ai commerci si venne sempre più a
contatto, contribuì a sfatare il pregiudizio della assoluta superiorità della civiltà greca,
che fino ad allora aveva indotto a considerare le altre popolazioni alla stregua di
barbari. Si sviluppò di conseguenza una mentalità più aperta e cosmopolita ed una
nuova consapevolezza del relativismo culturale (=non c'è una cultura superiore, ma
varie culture, differenti e relative secondo lo sviluppo storico e sociale dei vari
popoli).
È vero che i sofisti esigevano compensi per i loro insegnamenti, cosa ritenuta
scandalosa a causa dell’aristocratica concezione di un sapere disinteressato. Ma è
anche vero che tale atteggiamento era basato sulla considerazione di un sapere
31

riservato solo a pochi privilegiati, cioè agli aristocratici e a ricchi, che non avevano
problemi economici e che traevano da altre fonti le loro risorse. Un compenso era
invece necessario per consentire ai sofisti di vivere e viaggiare per diffondere i loro
insegnamenti anche a favore di altri ceti sociali.
Per la libertà di spirito e di critica contro i miti, le credenze e i dogmi della tradizione
nonché per la fiducia posta nella ragione umana e nella diffusione del sapere, la
sofistica è stata definita come una sorta di "illuminismo greco", che concorse allo
svecchiamento ed alla democratizzazione della cultura, pur non mancando tra i sofisti
profittatori e mestieranti disonesti.
È bene distinguere fra due categorie di sofisti: da un lato, i sofisti della prima
generazione, rappresentata da grandi e celebri maestri (Protagora, Gorgia, Ippia,
Antifonte), che perseguirono anche nobili ideali; dall'altro lato, i sofisti della seconda
generazione, chiamati "eristi" (dal greco "eristica", che è l'arte di impostare
ragionamenti al solo scopo di far prevalere la propria opinione anche se falsa o in
malafede), i quali condussero alla crisi e alla degenerazione della sofistica.

Protagora.

Nasce ad Abdera intorno al 490 avanti Cristo. Soggiorna più volte ad Atene, da cui è
costretto ad allontanarsi perché accusato di empietà. È stato uomo di grande fascino
intellettuale e di straordinaria eloquenza.
Opere: Le Antilogie (=contrapposizione di differenti ragionamenti sul medesimo
argomento); Ragionamenti demolitori.
La tesi fondamentale e divenuta famosa di Protagora risiede nel principio: "l'uomo è
la misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono, delle cose che non
sono in quanto non sono". Il termine misura è da intendersi come criterio di giudizio
e l'espressione vuol dire che il significato delle cose non sta nelle cose stesse ma
dipende dall'uomo, dal soggetto che le valuta. Le cose cioè appaiono diversamente a
seconda degli individui e del loro modo di pensare e di sentire. Ognuno valuta le cose
secondo la mentalità individuale e del gruppo sociale cui appartiene. Se è così, allora
è assurdo chiedersi chi di noi ha ragione perché, se le opinioni sono soggettive e
variano, nessuno è nel falso ma tutti sono nel (loro) vero.
Tre sono le principali caratteristiche della filosofia di Protagora:
1. rappresenta una forma di umanismo, in quanto il centro di giudizio sulla realtà è
sempre l'uomo;
2. è una forma di fenomenismo, in quanto non conosciamo le cose come sono in se
stesse, ma solo come appaiono a noi ("fenomeno" significa infatti ciò che ci appare);
3. è una forma di relativismo conoscitivo e morale, in quanto non esiste una verità
assoluta ed assoluti valori morali, ma ci sono diversi punti di vista ed ogni verità o
principio morale è relativo a chi giudica.
32

Nella concezione di Protagora è evidente il riferimento polemico al pensiero di


Parmenide, per cui la verità, l'essere, è solo una ed immutabile. Per Protagora invece
l'essere, la realtà, cioè la verità e i valori morali, non costituiscono un sistema unico,
valido per tutti e per sempre, trattandosi invece di giudizi, credenze e costumi relativi
e mutevoli a seconda delle persone e dei vari gruppi sociali: le stesse cose possono
essere buone per alcuni o cattive per altri, giuste o ingiuste, vere o false, ecc.
Per Protagora quindi tutto è relativo. Tuttavia egli non conclude affermando che
allora non c'è alcun criterio in base al quale guidare i nostri comportamenti e le nostre
scelte. Protagora cioè non perviene ad uno scetticismo assoluto circa la morale e il
fondamento della conoscenza poiché, egli dice, anche se tutto è relativo esiste tuttavia
qualcosa che è più utile, più conveniente e perciò più opportuno. Esiste quindi un
criterio di scelta per determinare il valore di un'opinione o di un comportamento
rispetto ad un altro ed è il criterio della maggiore utilità, non solo per il singolo
individuo ma anche per la comunità. Protagora respinge dunque criteri di scelta
ispirati soltanto dall'egoismo individuale, poiché essi devono avere altresì un valore
politico-sociale, pur se non esplicita su quali basi sia possibile riconoscere ciò che è
socialmente utile; a tal fine bisognerà attendere il pensiero di Socrate. Comunque
compito del sofista, per Protagora, è quello di farsi propagandista dell'utile, di
modificare cioè le opinioni, mediante l'arte della parola e del discorso, per
indirizzarle verso ciò che è utile. Di conseguenza l'esercizio della retorica è
finalizzato anche a scopi politico-educativi. Certo, in tale posizione vi è anche il
rischio di ridurre il sofista a soggetto sfruttato come strumento di potere. Infatti chi
nella città e nelle assemblee stabilisce ciò che è utile se non i gruppi più forti, la
classe dominante? Protagora tuttavia non intendeva prestarsi a tale ruolo, concependo
l'utile e le leggi in vista del benessere comune della polis. Solo più tardi alcuni sofisti
della seconda generazione avanzeranno la teoria della legge del più forte, ponendosi
al servizio, riccamente compensato, dei potenti.
Anche in campo politico e morale vale per Protagora la concezione relativistica: i
valori politici e morali variano in relazione al giudizio degli uomini. Ma pure in
questo campo, per Protagora, esiste un'opinione migliore, più conveniente ed
opportuna, che è quella orientata verso gli interessi generali della collettività e che
non tiene conto dei particolarismi individuali.
Altresì in campo religioso Protagora è coerente con la sua visione relativistica:
"Degli dei -egli dice- non posso sapere né se sono né se non sono né quali sono". Il
che non significa essere ateo, come qualcuno ha interpretato. Protagora esprime
invece il proprio punto di vista agnostico: l'uomo cioè non possiede adeguati
strumenti mentali né per dimostrare né per negare razionalmente l'esistenza di Dio.
Da ciò l'accusa di empietà di cui fu colpito.

Gorgia.

Nasce a Lentini (Sicilia) nel 485 a.C. Muore a Larissa (in Tessaglia), sembra ultra
centenario.
33

Opere: Sul non essere o sulla natura; L'encomio di Elena.


Gorgia è assai più radicale di Protagora. Quest'ultimo giunge a conclusioni
relativistiche, Gorgia giunge invece ad una prima forma di nichilismo (dal latino
“nihil”=niente: non credere assolutamente a niente; niente ha qualche valore). Contro
Parmenide dice infatti che:
- l'essere non esiste ed invece nulla esiste: non c'è l'essere perché se è infinito non è
in nessun luogo (qui l'infinito coincide con l'indefinito); non c'è nemmeno il non
essere perché se ci fosse conseguirebbe che una cosa può allo stesso tempo essere e
non essere, il che è assurdo;
- anche se l'essere esistesse, esso non potrebbe essere conosciuto, perché non è
vero che il nostro pensiero, come sosteneva Parmenide, è sempre e solo pensiero
dell'essere, cioè non tutto quello che noi pensiamo esiste per il solo fatto che noi lo
pensiamo: ci sono infatti cose pensate ma inesistenti, come ad esempio un cocchio
che corra sul mare;
- se pure l'essere fosse conoscibile non sarebbe comunicabile agli altri, perché se
anche l'essere si facesse vedere e percepire dai nostri sensi, non potrebbe comunque
diventare comprensibile anche per gli altri attraverso la sua descrizione da parte
nostra dal momento che il nostro linguaggio è inadeguato ad esprimere
compiutamente la complessità dell'essere e della realtà.
Di conseguenza, Gorgia nega la coincidenza fra essere, pensiero e linguaggio
proclamata da Parmenide.
Il ragionamento di Gorgia sembra uno scherzo di parole al solo scopo di sbalordire,
ma ciò che intende è che la realtà è ingannevole e che è impossibile pretendere di
comprenderne l'essenza profonda e raggiungere una verità assoluta, così come è
impossibile conoscere quell'essere supremo che è Dio. La posizione di Gorgia,
quindi, è di totale scetticismo metafisico, cioè di sfiducia nelle possibilità
conoscitive della nostra mente, soprattutto quando pretende di andare oltre
l'esperienza per cogliere la sostanza metafisica, profonda ed essenziale, della realtà.
Quello di Gorgia è la prima radicale critica delle pretese della metafisica,
anticipatrice della filosofia di Kant e di gran parte della filosofia contemporanea.
Emerge in Gorgia una visione tragica della vita e della realtà. Di fronte al sostanziale
ottimismo razionalistico dei filosofi precedenti e soprattutto di quelli successivi
(Platone e Aristotele), che vedono la vita e l'essere (cioè la realtà in generale) sempre
guidati dal "logos", dalla ragione, Gorgia ritiene invece che l'esistenza sia
fondamentalmente irrazionale e misteriosa. Per Gorgia le azioni degli uomini non
paiono rette dalla logica e dalla verità, ma dalle circostanze, dalle passioni, dal
caso o da un misterioso destino. È questo il senso di ciò che di Gorgia vuol dire
nella famosa opera "Encomio di Elena", dove sostiene che ella fece ciò che fece solo
per volere del caso o degli dei o del destino o perché sopraffatta dall'amore; in ogni
caso Elena è considerata più una vittima anziché colpevole.
Al contrario di Protagora, che diceva che tutto è vero in base ai diversi punti di
vista di ogni uomo, Gorgia conclude dicendo che tutto è falso, che su tutto domina
la falsa apparenza e l'illusione. Per Gorgia è inaffidabile anche la via dell'opinione,
della conoscenza sensibile. Egli cerca una terza via, consistente nell'analizzare ogni
34

volta la situazione in cui ci si trova per tentare di capire meglio, sia pur in termini
relativi, ciò che si deve o non si deve fare. In tal senso l'uomo può essere aiutato dal
progresso delle tecniche, dall'agricoltura, dall'urbanistica, ecc., ma anche dalle
tecniche della politica, ossia le tecniche della convivenza sociale, mediante le quali
trasformare a proprio vantaggio il mondo circostante. Sorge così un nuovo modo di
considerare la storia umana. Anticamente la storia era vista come un regresso da
una iniziale e mitica età dell'oro, quale ad esempio narrata da Esiodo. Gorgia
concepisce invece la storia come progresso, cioè come faticoso, lento, ma costante
sviluppo della società mediante la tecnica e le leggi.
Altrettanto nuova è la posizione di Gorgia nei confronti della retorica. Se non esiste
una verità assoluta e tutto è falso non resta allora che la potenza del linguaggio, la
forza della parola, che permette il dominio degli stati d'animo. La parola può essere
portatrice di persuasione, di credenza e di suggestione. Da ciò, la celebrazione della
retorica, che è l'arte della parola, l'arte del persuadere. Le tesi di Gorgia sulla retorica
hanno stimolato la riflessione filosofica sul problema del linguaggio, cioè sul
problema se l'origine e la natura del linguaggio siano convenzionali o naturali, ossia
se vi sia connessione diretta oppure no fra la parola e la cosa indicata; è derivato
pertanto un vivo interesse per lo studio dell'etimologia delle parole.
Gorgia fu il primo filosofo che cercò di teorizzare il valore anche estetico della
parola e l'essenza della poesia. L'arte, per Gorgia, è come la retorica, perché sa
suscitare sentimenti ed emozioni ma, a differenza della retorica, l'arte non mira ad
interessi pratici (persuadere e far prevalere la propria opinione), bensì alla finzione
poetica, ad evocare suggestive illusioni. Sia Platone che Aristotele si richiameranno a
questi pensieri, il primo per negare la validità dell'arte, il secondo per scoprire la
potenza catartica (purificatrice) del sentimento poetico.
Mentre i due maggiori sofisti, Protagora e Gorgia, hanno saputo elaborare concezioni
significative su un'ampia varietà di temi filosofico-culturali, gli altri sofisti si sono
interessati per lo più a temi settoriali, in particolare quelli della religione, della natura
delle leggi e della politica.

Sulla religione.

Già abbiamo visto che Protagora ha sostenuto una posizione agnostica, affermando
l'impossibilità umana di dimostrare sia l'esistenza che l'inesistenza di Dio.
Per Prodico di Cleo (nato intorno al 470-460 a.C.) gli dei sono la personificazione
dell'utile e del vantaggioso: "Gli antichi consideravano dei, in virtù dell'utilità che ne
derivava, il sole, la luna, i fiumi, le fonti e in generale tutte le cose che giovano alla
nostra vita".
Per Crizia (460-403 a.C.), uno dei Trenta tiranni, gli dei sono un'invenzione dei
governanti per sottomettere e ottenere più obbedienza da parte dei sudditi attraverso i
precetti religiosi ed il timore degli dei (concezione della religione come
"instrumentum regni").
35

Sulla natura delle leggi e la politica.

Anticamente le leggi e le norme sociali erano concepite come direttamente derivate


dagli dei (concezione sacrale e religiosa delle leggi). I sofisti proclamano invece
l'origine esclusivamente umana delle leggi. Da ciò la domanda: se le leggi sono
solamente opere umana, che cosa obbliga a rispettarle?
Abbiamo già visto che per Protagora e Gorgia l'uomo diventa tale solo entrando in
società ed inventando le tecniche. Ma la società non può esistere senza leggi e senza
quella tecnica della convivenza sociale che è la politica. Quindi le leggi devono
essere rispettate perché altrimenti non ci sarebbe la società e quindi l'uomo.
Importante divenne anche il dibattito della corrispondenza od antitesi fra legge
naturale e legge umana, cioè la legge positiva posta dagli uomini, intendendosi
invece per legge naturale un insieme di norme immutabili, valide in ogni paese e in
ogni tempo, derivanti dalla stessa natura ed istinto sociale dell'uomo. La legge umana,
o positiva, è quella scritta, emanata dai diversi popoli, mutevole e varia secondo gli
usi e costumi di ciascun popolo.
Per Ippia di Elide (nato intorno al 443 a.C.) vi è contrapposizione e non
corrispondenza fra legge naturale e legge positiva ed è da preferire senz'altro la
legge naturale, perché la natura unisce gli uomini al di là dello spazio e del tempo,
mentre le differenti leggi umane dividono e tiranneggiano gli uomini e le popolazioni.
Emerge l'ideale cosmopolita ed egualitario che ha caratterizzato la prima sofistica.
Antifonte di Atene (seconda metà del quinto secolo avanti Cristo) radicalizza la
teoria di Ippia, dissacrando le leggi positive. Egli ritiene vera solo la legge di natura,
mentre quella umana è opinabile oppure decisamente falsa. Accentuando l'ideale
cosmopolita ed egualitario, afferma l'uguaglianza di natura fra tutti gli uomini, a
prescindere se nobili o plebei, civili o barbari. Non giunge tuttavia dire in che cosa
consista l'uguaglianza tra gli uomini e quale ne sia il fondamento. Anche in tal senso
bisognerà attendere Socrate per avere una soluzione del problema.
Trasimaco di Calcedonia (nato nel 460 a.C.) ha invece una visione pessimistica delle
leggi e della giustizia. Sono un'illusione perché in natura vale la legge del più forte.
Perciò è addirittura giusto, per lui, che le leggi siano soltanto strumenti di cui si
servono i governanti e gli uomini di potere per tutelare i propri interessi e dominare i
deboli.
Anche per Crizia, già citato, le leggi sono soltanto dei paraventi, una maschera, per
giustificare e sostenere chi detiene il potere.
Pure Callicle (V secolo a.C., di cui si sa ben poco) esprime il medesimo concetto
mediante un diverso punto di vista: la legge di natura si identifica col diritto del più
forte, mentre le leggi umane, le leggi civili, sono state inventate dai più deboli per
difendersi dai potenti.

La crisi della sofistica: l'eristica.

La crisi della sofistica coincide con la crisi della polis, e di Atene in particolare,
nonché con l'estremizzazione dei principi originariamente innovativi introdotti dai
36

sofisti della prima generazione. La sofistica si ridusse sempre di più ad "eristica",


cioè ad arte artificiosa di ragionamenti costruiti al solo scopo di prevalere
sull'avversario, chiamati "sofismi". La sofistica, divenuta eristica, decadde ponendosi
al servizio degli uomini politici, non quelli più giusti ma quelli più "furbi" ed
opportunisti. Anziché aiutare la democrazia aiutò la demagogia, cioè l'arte di
incantare le folle a proprio esclusivo vantaggio e potere personale.
37

SOCRATE (470-399 a.C.).

Visse ad Atene. Il padre, Sofronisco, era scultore e la madre levatrice. Si tenne


lontano dalla vita politica. La sua vocazione fu la filosofia, ispirata da un "dèmone"
dentro di lui. A tal fine trascurò ogni attività pratica e trascorse la vita in semplicità
con la moglie Santitppe e i figli.

Il problema delle fonti.

Socrate, di proposito, non ci ha lasciato niente di scritto, ritenendo il fare filosofia


una continua ricerca, un continuo interrogarsi, piuttosto che l'elaborazione di una
teoria sistematica. Considera il dialogo il mezzo più idoneo per filosofare, poiché
più vivo ed immediato, mentre lo scritto, rileva Socrate, può comunicare una dottrina
ma non stimolare l'indagine e la curiosità intellettuale.
Ciò ha tuttavia causato grosse difficoltà nella ricostruzione del pensiero
socratico, dovendo ricorrere, di conseguenza, a testimonianze indirette.
Aristofane, di idee conservatrici e tradizionalistiche, mette in caricatura Socrate,
accusandolo di essere un chiacchierone perdigiorno ed utopista, nonché empio a
causa delle sue idee innovative. I sofisti e l'ultrademocratico Policrate hanno invece
accusato Socrate di essere antidemocratico. Senofonte ci presenta un Socrate in
dimensioni ridotte, come un moralista e predicatore talvolta addirittura banale. E’
Platone, in ogni caso, che ci porta la maggior quantità di testimonianze, anche se
è portato ad idealizzare la figura di Socrate e vi attribuisce inoltre pensieri che non
sono di Socrate ma suoi. Aristotele parla occasionalmente di Socrate e lo mette in
evidenza soprattutto come anticipatore della formulazione dell'idea di "concetto" e di
"virtù" concepita come scienza (conoscenza).

I rapporti con la sofistica e con Platone.

Socrate è frequentemente rappresentato come un antisofista per eccellenza. Ma se ciò


è vero per molti aspetti, per molti altri ne subisce l'influsso. Della sofistica Socrate
condivide:
1. l'attenzione per i problemi dell'uomo e il disinteresse per le indagini sul cosmo
e sulla natura delle cose;
2. la tendenza a cercare nell'uomo, e non fuori dall'uomo, i principi-guida del
pensiero e dell'azione;
3. la mentalità razionalistica ed anticonformista;
4. l'inclinazione verso la dialettica (l'arte del ragionamento) e il paradosso
(=affermazioni contrarie alla superficiale opinione comune).
Contro la sofistica invece Socrate:
1. non intende fare della cultura una professione;
2. rifiuta di ridurre la filosofia a retorica, a bravura verbale;
38

3. si propone di andare oltre il relativismo conoscitivo e morale, poiché sente


l'esigenza di condurre gli uomini a condividere delle verità comuni
(quantomeno condivise da una determinata comunità sociale nell’ambito di un
certo periodo storico), anche se non assolute, e tali da avvicinarli fra loro.
Platone, discepolo di Socrate, concorda sull'esigenza di superare il relativismo
sofistico, tuttavia rispetto a Socrate ha un minor interesse per i problemi dell'uomo
(per l’umanismo socratico) e maggior interesse per la metafisica, nell'intendimento di
fondare principi di verità assoluti, non solo oltre le cose sensibili ma anche oltre la
finitezza umana.

La filosofia come ricerca e dialogo sui problemi dell'uomo.

Socrate in un primo periodo della sua vita ha seguito con interesse il pensiero dei
filosofi naturalisti, ritenendo anch'egli importante "conoscere le cause di ciascuna
cosa e perché ogni cosa si genera e perisce ed è". Ma in seguito ne rimane deluso
perché si rende conto che i naturalisti, nel cercare di risolvere i problema del
"principio" e della "natura", si sono contraddetti al punto di sostenere tutto e il
contrario di tutto (l'essere è uno; l'essere è molti; niente si muove; tutto si muove;
nulla si genera né si distrugge; tutto si genera e si distrugge). Conclude quindi che
questi problemi, riguardanti la causa prima e il fine ultimo delle cose, sono insolubili
per l'uomo: "unicamente sapiente è il Dio". Di conseguenza, come i sofisti, si occupa
dei problemi dell'uomo, ma in maniera più approfondita, nell'obiettivo di giungere
quanto meno a verità comuni, senza la pretesa di cogliere l'assoluto. I naturalisti
hanno cercato di rispondere al problema: "che cosa è la natura e la realtà ultima delle
cose?". Socrate cerca invece di rispondere al problema: "qual è la natura e l'essenza
dell'uomo?". Compito della filosofia, per Socrate, è quindi di indagare "quale debba
essere l'uomo e cosa l'uomo debba fare". Socrate risponde che l'essenza dell'uomo è
la sua anima, cioè la coscienza e la ragione umana, che lo distingue da tutte le altre
cose e creature e ne regola sia il pensiero (la conoscenza), sia il comportamento
(l'etica o morale). Allora, se l'essenza dell'uomo è la sua coscienza, curare se stessi
significa aver cura non del proprio corpo ma della coscienza, dell'anima. Insegnare
agli uomini la cura della propria coscienza è appunto il compito del filosofo, che in
tal senso è soprattutto educatore (valore educativo della filosofia).
Socrate fa proprio il celebre motto dell'oracolo di Delfi: "Conosci te stesso". Il vero
sapere è conoscere se stessi. Se l'uomo si impegna in questa ricerca, da un lato
acquista consapevolezza dei propri limiti e della propria ignoranza, dall'altro viene
stimolato a procedere nel cammino della vera conoscenza, che trascende (supera) la
sensazione.
La prima condizione della ricerca filosofica è la coscienza della propria
ignoranza. Quando Socrate viene a sapere che l'oracolo di Delfi aveva proclamato
che lui era il più sapiente fra gli uomini, così come Platone ci racconta nell’"Apologia
di Socrate", Socrate interpreta questo responso come se l'oracolo avesse voluto
significare che sapiente è soltanto chi sa di non sapere. Non si tratta tuttavia di una
39

professione di scetticismo, perché sui problemi dell'uomo, sui problemi etico-


esistenziali, Socrate, mentre critica coloro che presumono di possedere sicure
conoscenze (politici, sacerdoti, rètori), non esclude tuttavia la possibilità di giungere
a conoscere qualcosa. Solo chi sa di non sapere cerca di sapere, mentre chi si crede
in possesso della verità non sente il bisogno di cercarla e di approfondirla.

Il metodo socratico nella ricerca filosofica volta a conoscere l'uomo.

Secondo Socrate, l'uomo è veramente tale solo in rapporto con gli altri uomini,
vivendo e parlando con gli altri. Pertanto, le indagini sulle varie questioni e problemi
dell'uomo sono sempre condotte in forma di dialogo, mediante il quale aiutare e
condurre l'interlocutore a riflettere su ciò che ritiene di conoscere, liberandolo
dalle sue presunzioni, dai suoi pregiudizi, dalle sue false conoscenze. Il fine del
metodo socratico è fondamentalmente di natura etica ed educativa e solo
indirettamente di natura logica e gnoseologica (conoscitiva).
Il metodo socratico, come si è visto, si basa sul dialogo, cioè sull’interrogare le
persone, e si articola in due parti:
1. una parte distruttiva, in cui Socrate si avvale dell'ironia e della tecnica della
confutazione (fare obiezioni, critiche), insinuando il dubbio nell'interlocutore
circa le proprie convinzioni;
2. una parte costruttiva, chiamata "maieutica" (l'arte della levatrice), mediante
cui Socrate, così come la levatrice aiuta le donne a partorire, aiuta gli
interrogati a far emergere essi stessi la verità, traendola dal loro interno, dalla
loro coscienza e ragione.
Nelle interrogare gli altri, la prima preoccupazione di Socrate è di renderli
consapevoli della loro ignoranza e della loro presunzione di sapere. Si serve a tale
scopo dell'ironia. Facendo ironicamente finta di non sapere, Socrate chiede al suo
interlocutore di spiegargli le cose. All'inizio comincia ad adularlo e lodarlo, ma poi
lo incalza con domande martellanti, inducendo l'interlocutore a dubitare delle sue
opinioni e giungendo a mostrarne l'inconsistenza attraverso la tecnica della
confutazione. In tal modo Socrate raggiunge il suo scopo, che è quello di condurre
l'interrogato a scoprire da solo dove sta la verità. Socrate non propone e non impone
mai la propria verità, il suo punto di vista. Egli non vuole insegnare la verità, ma
aiutare gli interrogati a trovare loro stessi la risposta giusta ai problemi all'interno
della loro coscienza. La verità non va imposta dall'esterno, ma deve essere
conquista personale. Da me, dice Socrate, gli altri non imparano nulla ma solo da se
stessi, riflettendo all'interno del loro animo. Il mio solo merito sta nell'aiutarli nella
loro personale ricerca del vero.
40

Socrate come scopritore del "concetto", della "definizione", e del metodo


induttivo.

Nei suoi dialoghi Socrate continuava a domandare ai suoi interlocutori "che cosa
è questo?", "che cosa è quello?" (ad esempio, cos'è la santità, l'empietà, la bellezza,
la giustizia, ecc.), per aiutarli a giungere a nozioni generali, ossia ai "concetti". Per
tale motivo Aristotele ed altri studiosi attribuirono a Socrate il merito di aver scoperto
i principi logici del "concetto" e della "definizione". È stata pure attribuita Socrate la
scoperta dell'induzione, del metodo induttivo (=risalire, attraverso l'osservazione e il
ragionamento, dai casi particolari alle nozioni generali, ai concetti). In verità Socrate,
se ha aperto la via alla formulazione di questi principi, tuttavia non è giunto ad
approfondirli e ad elaborare una teoria logica e sistematica al riguardo. Il suo scopo
era soltanto quello di far emergere la verità che è in ognuno. Quando ad esempio
Socrate domandava che cos'è la virtù, di solito l'interlocutore rispondeva facendo un
elenco di casi virtuosi. Ma Socrate non si accontentava di questa elencazione, voleva
invece trarre dall'interlocutore una definizione generale di virtù, però Socrate non ha
mai inteso formulare una scienza logica del concetto, della definizione e
dell'induzione. Contro il relativismo sofistico intendeva più semplicemente
pervenire a verità condivise tra gli uomini, anche se provvisorie, poiché, come
abbiamo visto, non credeva nella possibilità della mente umana di pervenire a verità
assolute ed eterne, cioè metafisiche, come invece pensarono Platone e Aristotele. Ciò
che più conta è che Socrate si rende conto che, mentre i casi particolari (di giustizia,
di coraggio, ecc.) vengono conosciuti mediante la percezione sensibile, il carattere
universale (generale) che li accomuna, che li contraddistingue tutti, può essere colto
solo con la mente, cioè con la ragione, l'intelletto. Perciò, si può dire piuttosto che
Socrate ha scoperto la necessità di salire dalla conoscenza sensibile alla
conoscenza razionale o, meglio, che la scienza, il sapere autentico, non è una
conoscenza sensibile ma razionale. Socrate distingue quindi con precisione questi due
diversi tipi di conoscenza.

La morale di Socrate.

Per Socrate la morale consiste nella virtù, intesa come ricerca e come scienza (come
sapienza). In greco virtù si dice "areté" e significa il modo migliore, ottimale, di
essere qualcosa. Riferita all'uomo, la virtù è allora la maniera migliore di essere
uomo, cioè il modo migliore di comportarsi nella vita.
Tradizionalmente la virtù era considerata come un dono degli dei concesso agli
uomini di nobile nascita. Invece già i sofisti avevano proclamato che la virtù non è un
dono divino riservato solo a pochi e che virtuosi non si nasce ma si diventa; tutti
possono diventarlo attraverso l'educazione e l'impegno. La virtù quindi si impara, si
può imparare. In tal senso per Socrate la virtù è sempre una forma di sapere, è una
scienza, una sapienza, ossia un prodotto della mente e consiste nel sottoporre la vita e
la condotta al controllo della ragione. In particolare, la virtù è sapere ciò che è bene
41

e ciò che è male. Non già conoscere cos'è il bene e il male in assoluto, perché l'uomo,
per Socrate, non può cogliere verità assolute, ma sapere di volta in volta, secondo le
diverse circostanze, che cosa è bene fare o non fare.
In quanto scienza la virtù può essere insegnata; deve essere conosciuta da ogni
uomo. Non basta infatti che ciascuno sappia il proprio mestiere, poiché bisogna che
ciascuno impari bene anche il mestiere di vivere, cioè sapere cosa è bene e cosa è
male fare. Se è così, allora la virtù è unica, perché le virtù particolari (giustizia,
coraggio, prudenza, ecc.) sono tutte ricomprese nel più generale concetto di virtù
intesa come conoscenza di ciò che è bene.
Dal concetto socratico di virtù come conoscenza, sapienza, deriva una rivoluzione
del tradizionale sistema di valori: i valori veri non sono quelli legati alle cose
esteriori, come la ricchezza, il potere, la fama, e nemmeno quelli legati al corpo,
come la bellezza, la salute fisica, la forza, ma solamente i valori dell'anima, perché in
essa, nella nostra interiorità, sta la conoscenza. Ciò non significa, come farà
Nietzsche, considerare Socrate come un noioso moralista, che disprezza gli istinti, i
piaceri e la gioia di vivere. Per Socrate la morale non consiste nella mortificazione,
ma nel capire invece che cosa può per davvero rendere la vita più felice. Solo il
virtuoso è felice, mentre il non virtuoso si abbandona ad istinti (quali la violenza e
l'intemperanza) che alla lunga lo rendono infelice. Socrate non vuole negare gli
istinti, ma semplicemente sottoporli al controllo della ragione perché siano coltivati
in maniera equilibrata, senza eccessi. L'anima è felice quando è ordinata, equilibrata,
ossia virtuosa. Invece l'ingiusto e il malvagio sono infelici perché l'ingiustizia e la
malvagità provocano disordine nell'anima.
La virtù è la salute dell'anima e la sua malattia è invece il vizio, l'ingiustizia.
Perciò, conclude Socrate, è meglio subire l'ingiustizia che commetterla (così infatti
farà Socrate, accettando serenamente la sua ingiusta condanna a morte). La virtù
comporta la felicità e non vi è contrasto fra utile e bene, nel senso che coincidono.
Se ciò che è utile non fosse anche virtuoso sarebbe un danno per l'anima; pertanto
non sarebbe nemmeno qualcosa di utile.
La tesi di Socrate della virtù come conoscenza, come scienza, implica due
conseguenze che possono sembrare paradossi (assurde):
1. se la virtù è conoscenza, il vizio allora non è “colpa” ma piuttosto ignoranza;
2. nessuno pecca volontariamente e chi fa il male lo fa per ignoranza.
Socrate cioè non ritiene possibile conoscere il bene e non farlo. Quando un uomo
fa il male, in realtà non lo fa perché è male, ma perché, sbagliandosi e per ignoranza,
si aspetta di ricavarne un bene: quindi chi fa il male è vittima della sua ignoranza. In
verità Socrate ha ragione quando dice che conoscere ciò che è bene è condizione
necessaria per farlo, ma essa da sola non basta. Socrate cade di un eccesso di
razionalismo, di ottimismo nella forza della ragione, poiché per fare il bene ci vuole
anche il concorso della volontà: non basta conoscere il bene, ma bisogna anche
volerlo. Ma sulla volontà i filosofi greci non hanno sufficientemente riflettuto; a tale
riguardo bisognerà attendere l'avvento della morale cristiana.
42

Le critiche alla morale socratica.

La morale di Socrate, secondo cui la virtù è scienza ed il vizio è ignoranza, ha


ricevuto di volta in volta nei secoli, da parte dei critici, l'accusa di razionalismo
morale, ossia di eccessiva fiducia nella ragione. In particolare, la morale di Socrate
è stata accusata di formalismo (una morale più di forma che di sostanza), di
intellettualismo e di relativismo.
L'accusa di formalismo è stata imputata a Socrate perché egli, limitandosi a dire che
la virtù coincide con la scienza (con la conoscenza), non ha specificato quale sia il
comportamento effettivo che ogni uomo deve seguire. Ma, come si è visto, Socrate
non intendeva stabilire una volta per tutte le quale sia il bene in concreto quanto
piuttosto offrire all'uomo un criterio generale per ben comportarsi: agisci come
vorresti che anche gli altri agissero nei tuoi confronti.
L'accusa di intellettualismo è stata pronunciata poiché Socrate, quale fattore della
virtù e del bene, non ha considerato anche l'importanza della volontà sul controllo
delle passioni ma soltanto quella dell'intelletto. A difesa di Socrate si può rispondere
dicendo che egli intendeva dire che chi è veramente persuaso che una cosa sia bene
la fa, altrimenti, se non la fa, è perché la sua convinzione è superficiale.
L'accusa di relativismo proviene dal fatto che Socrate non dà una definizione in
assoluto di bene e di male. Ma in verità egli non voleva definirli in termini assoluti,
sempre validi per tutti e in ogni tempo. Riteneva piuttosto che l'idea di ciò che è bene
potesse scaturire di volta in volta, anche in modo mutevole secondo le circostanze,
mediante l'esercizio della ragione. Tiene comunque ferma la convinzione che il bene
da ciascuno considerato, secondo la particolare situazione personale e storica, è in
generale da intendersi morale qualora rispetti la propria e l'altrui dignità umana.

La religione di Socrate.

Socrate tende ad attribuire alla sua opera un carattere religioso. Considera il fare
filosofia come una missione che gli è stata affidata dalla divinità. Parla infatti di un
dèmone (uno spirito) che lo consiglia e lo stimola, una voce che sente dentro e che, in
particolare, gli suggerisce ciò che non deve fare più che ciò che deve fare, rendendolo
consapevole di ciò che è vietato.
Nello specifico, la concezione di Dio che Socrate insegna non è certo antropomorfica,
che anche Senofane aveva criticato. Per Socrate Dio è l'intelligenza che opera nel
mondo. Il mondo appare ordinato e non dominato dal caos e ciò che non è semplice
opera del caso, ma rivela ordine e armonia, è tale in vista di un fine, di uno scopo.
Significa allora che vi è una Intelligenza nel mondo: tale Intelligenza è Dio. Agli dei
della religione popolare Socrate presta invece un ossequio solo formale, poiché
ciò rientra negli obblighi del buon cittadino. Contro coloro che obiettano che
l'Intelligenza divina operante nel mondo non si vede, Socrate risponde che nemmeno
la nostra anima, cioè la nostra intelligenza, si vede, eppure nessuno nega che ci sia.
43

Il Dio di Socrate è dunque Intelligenza che conosce ogni cosa e regola ogni cosa
secondo un fine. Dio quindi è anche Provvidenza, ma una Provvidenza immanente
(dentro) al mondo, che si occupa del mondo e degli uomini in generale, poiché l'idea
di una Provvidenza che si occupi del singolo in quanto tale si presenterà solo nel
pensiero cristiano.

Il processo e la morte di Socrate.

Il modo di fare di Socrate, di interrogare le persone e bombardarle di domande per


far capire loro, attraverso l'ironia, l'inconsistenza delle loro opinioni e la loro
presunzione, provocava anche reazioni irritate. Inoltre dava fastidio il suo successo
presso i giovani. Vi è anche da dire che in Atene vigeva all'epoca una democrazia
conservatrice, contraria all'atteggiamento anticonformista di Socrate in fatto di idee e
di religione.
Per tutti questi motivi Socrate fu accusato, da coloro che lo odiavano, di empietà,
cioè di non riconoscere gli dei tradizionali, ma di introdurne di nuovi, nonché di
corrompere i giovani. Fu processato e condannato a morte, costringendolo a bere
la cicuta, un potente veleno. Quantunque i suoi discepoli avessero organizzato la sua
fuga, Socrate rifiutò, bevve la cicuta e quindi morì, ritenendo giusto essere fino in
fondo coerente e fedele ai suoi principi, secondo cui le leggi della propria città
devono sempre essere rispettate anche se appaiono ingiuste. Le leggi si possono
cambiare o migliorare ma non violare. Questa morte è divenuta il simbolo del tragico
soccombere dell'intellettuale nei confronti del potere organizzato e Socrate è stato
visto come il primo martire del pensiero occidentale e della libertà di pensiero contro
la prepotenza dei regimi politici illiberali.
Platone, nel suo dialogo "L'apologia di Socrate", descrive con grande commozione
ed affetto il processo e la morte di Socrate e, nel suo morire serenamente, lo
rappresenta mentre pronuncia davanti ai giudici che lo avevano condannato queste
celebri e nobili parole: "Ebbene, anche voi, o giudici, bisogna che abbiate buone
speranze davanti alla morte, e dovete pensare che una cosa è vera in modo
particolare, che ad un uomo buono non può capitare nessun male, né in vita né in
morte. Le cose che lo riguardano non vengono trascurate dagli dei… Ma è ormai
venuta l'ora di andare: io a morire e voi, invece, a vivere. Ma chi di noi vada verso ciò
che è meglio, è oscuro a tutti, tranne che al dio".

Conclusioni.

Il pensiero di Socrate ha recato una quantità straordinaria di riflessioni e di novità


sulla natura e sull'essenza dell'uomo, lasciando tuttavia anche problemi aperti
sviluppati successivamente.
In primo luogo sull'anima: Socrate si è limitato a determinare le funzioni dell'anima
(è ciò per cui noi siamo buoni o cattivi), ma ha lasciato insoluti grandi interrogativi:
44

se l'anima si serve del corpo e lo controlla, essa allora è distinta dal corpo o no?
Quale è il suo essere e la sua differenza rispetto al corpo?
Analogamente rispetto a Dio: Socrate dice che egli è l'Intelligenza che governa il
mondo e le coscienze. Ma cos'è questa divina Intelligenza? In che cosa si distingue
dagli elementi fisici?
La maieutica socratica, inoltre, non è in grado di condurre al vero tutte le anime, le
coscienze, ma, dice Socrate, solo quelle "gravide", che sono cioè già predisposte.
Allora chi o che cosa rende l'anima gravida e predisposta al vero?
Con questi problemi, cui non giunge a dare risposta, Socrate apre peraltro la via
alla metafisica. Sarà la filosofia metafisica di Platone e poi di Aristotele, e quindi di
tutta la storia della filosofia occidentale, che si confronterà con queste che sono le
questioni più alte e profonde che il pensiero umano si è posto. Anche perciò del
messaggio di Socrate è debitore l'intero Occidente.
45

PLATONE (Atene 428-347 a.C.)

Nasce da famiglia aristocratica. È stato discepolo di Socrate. Ha viaggiato molto: a


Megara in Egitto, in Italia meridionale, dove conosce le comunità pitagoriche, e a
Siracusa, più volte, in qualità di consigliere del tiranno Dionisio. Ad Atene fonda la
sua scuola, chiamata "l'Accademia" perché sorta nel ginnasio fondato da Accademo,
ed organizzata sul modello delle comunità pitagoriche.
Platone vive in un periodo critico della storia greca, in corrispondenza col tramonto
dell'età di Pericle. L'ingiusta condanna a morte di Socrate, il suo amato maestro, è
giudicata uno scandalo incomprensibile ed imperdonabile. Platone giunge perciò a
condannare tutta la politica del tempo, ravvisando l'esigenza di un radicale
cambiamento sociale, politico e culturale. Il suo progetto è di integrare, mettere
assieme, la politica e il sapere: la politica deve essere basata sul sapere, sulla
filosofia, cosicché la politica diventi una scienza.
Dopo essersi inizialmente dedicato alla politica attiva, la scandalosa ingiustizia della
condanna a morte di Socrate induce Platone a porsi domande di fondo su cui riflettere
filosoficamente: come ha potuto il male prevalere sul bene? Cos'è allora il bene, la
verità, la giustizia? Esistono veramente o sono solo parole e concetti relativi? E se
esistono, in che modo sono conoscibili e in che modo devono essere praticati?
La motivazione e finalità principale che ha spinto Platone a fare filosofia è stato
proprio l'interesse politico, perché per governare bene il governante deve essere
sapiente, cioè, come si vedrà, essere un filosofo. Accanto alla finalità politica, Platone
pone anche quella pedagogico-educativa, per il rinnovamento dell'uomo e dei
cittadini e per l'idonea formazione dei governanti.
Ma Platone è filosofo poliedrico, che abbraccia anche tutti gli altri temi della
filosofia, quelli metafisici, gnoseologici, etici, religiosi, logici, scientifico-matematici,
componendo quindi un ampio ed eterogeneo quadro di tematiche.

Opere e sviluppo del pensiero platonico.

Di Platone ci sono rimasti tutti gli scritti, quasi tutti autentici: l'Apologia di Socrate,
34 dialoghi e 13 lettere. Dai suoi allievi abbiamo appreso che Platone ha elaborato
anche importanti dottrine non scritte, riservate agli allievi dell'Accademia. Secondo la
successione degli scritti, sono stati classificati tre periodi dell'attività filosofica di
Platone, cui corrispondono altrettante fasi di sviluppo del suo pensiero:
-Primo periodo: scritti giovanili o socratici (Apologia, Critone, Eutidemo, Ippia,
Gorgia, Protagora, Cratilo). La tematica è prevalentemente etica ed etico-politica, ad
approfondimento delle posizioni cui era pervenuto Socrate.
-Secondo periodo: scritti della maturità (Menone, Fedone, Convivio, Repubblica,
Fedro). Contro il relativismo sofistico, Platone elabora la teoria delle idee e della
conoscenza nonché il modello ideale di comunità politica (di Città o Stato).
46

-Terzo periodo: scritti della vecchiaia (Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo,
Timeo, Crizia, Leggi, le Lettere). Platone opera una revisione della propria teoria
delle idee ed elabora una nuova concezione dell'essere e del non essere, sviluppando
e correggendo il pensiero di Parmenide.
Platone non volle produrre opere di carattere sistematico, ma riprodurre invece
lo spirito del dialogo socratico: l'interrogare senza posa, insinuando il dubbio per
arrivare maieuticamente alla verità. Nei dialoghi platonici i protagonisti sono Socrate
(dietro cui sta Platone stesso), che discute con uno o più interlocutori, nonché il
lettore medesimo, che viene espressamente coinvolto nel dibattito ed al quale viene
lasciato spesso il compito di trarre da se stesso le conclusioni e la soluzione dei
problemi discussi.
Nei suoi dialoghi Platone fa sovente ricorso all'uso dei miti, mentre la filosofia sorge
proprio come liberazione del pensiero dal mito e dalla fantasia. Come spiegare questo
ritorno al mito? È un atto di sfiducia nella ragione o vi sono altre motivazioni?
Platone si avvale del mito per due fondamentali motivi:
1.il mito è uno strumento per comunicare in maniera più accessibile ed immediata le
dottrine esposte;
2.il mito è il mezzo (come nelle dottrine orfiche) per cogliere intuitivamente
concezioni e verità profonde, che stanno oltre i limiti cui l'indagine razionale può
giungere e che vengono quindi accolte per fede, ma in forma di fede ragionata, non
dimostrabile razionalmente tuttavia comprensibile con l'intuizione.

Gli scritti (i dialoghi) Socratici.

Questi dialoghi sono dedicati all'illustrazione e alla difesa dell'insegnamento di


Socrate nonché alla polemica contro i sofisti e sono rivolti essenzialmente alla
ricerca della risposta alla domanda: "quale è l'essenza della virtù"?
Platone illustra i capisaldi dell'insegnamento socratico, che sono fondamentalmente
tre:
1. La virtù è una sola e si identifica con la scienza (con la sapienza);
2. solo come scienza la virtù è insegnabile;
3. nella virtù come scienza sta la felicità dell'uomo.
In questi dialoghi di solito manca la soluzione, appositamente, per stimolare il lettore
a ricercarla per proprio conto. L'intento di Platone è di approfondire la natura della
virtù come scienza nonché la natura del bene, oggetto di tale scienza. Il metodo
seguito è quello dialettico: si ammette in via di ipotesi, per assurdo, l'ipotesi
contraria a quella che si vuol dimostrare e si fa constatare che essa conduce a
conclusioni contraddittorie, rimanendo così confutata (smentita).
La virtù, ribadisce Platone, è una sola, è la scienza (sapienza), nello specifico è la
scienza del bene, perché se esistessero virtù indipendenti l'una dall'altra (per esempio
la santità, il coraggio, la giustizia) dovrebbe essere possibile la sussistenza di ognuna
di esse per proprio conto. Ma invece, se isolate dalla scienza, nulla si può dire intorno
alla loro natura non essendo scientificamente indagabili. Inoltre, se le virtù fossero
47

molteplici, ognuna tenderebbe a un diverso valore, a un diverso ideale: o il bello o


l'utile o il santo. Ma il bello, l'utile, il santo non possono essere definiti per proprio
conto e indipendentemente. Vi è un unico valore che comprende ed assomma in sé
tutti gli altri: è il bene.
I dialoghi Socratici più importanti sono il Protagora, l'Eutidemo, il Gorgia e il Cratilo.
Il Protagora parla di come possa essere insegnata la virtù e quindi del valore
dell'educazione, in polemica con i sofisti per i quali la virtù è relativa e soggettiva.
Nell’Eutidemo e nel Gorgia vengono criticate e condannate l'eristica e la retorica, che
sono tecniche che hanno il solo obiettivo di persuadere e di sopraffare l'avversario a
prescindere dalla verità o falsità degli argomenti sostenuti. Il retore pretende inoltre di
essere competente in tutte le cose, ma ogni competenza è invece sempre particolare
(la medicina, l'architettura, ecc.). Quindi la retorica è solo apparenza di sapere, è
immoralità ed inganno. La retorica e le competenze tecniche ci permettono di
raggiungere solo fini particolari e strumentali, ma sono incapaci di indicare il fine
ultimo cui questi fini particolari possono servire. Solo la filosofia potrà darcelo,
riflettendo sul bene.
Nel Cratilo si parla dell'origine e della natura del linguaggio, contro il parlare a vuoto
dei sofisti. Vi sono tre teorie del linguaggio:
1. il linguaggio è pura convenzione, del tutto arbitrario;
2. il linguaggio è prodotto e deriva (etimologicamente) dalle cose;
3. il linguaggio è una produzione dell'uomo, ma non una produzione arbitraria
perché è volto ad imitare il più possibile le cose ed esprimerne l'essenza, la
sostanza, ossia "ciò che l'oggetto è". Quest'ultima è la tesi di Socrate-Platone.

La dottrina delle idee.

Come abbiamo visto, lo scopo principale della filosofia di Platone è di tipo politico:
la filosofia è concepita come scienza del bene e del giusto, la cui conoscenza è
necessaria per poter governare bene. Per Platone i governanti devono essere filosofi.
Lo scopo della filosofia, in aggiunta, oltre che politico è anche pedagogico-educativo:
la filosofia serve per la formazione dei governanti.
Cosa sia poi quel"bene" la cui conoscenza è indispensabile per governare viene
illustrato da Platone con la "dottrina delle idee", la più celebre fra sue le dottrine.
I filosofi, spiega Platone, sono coloro che possiedono la vera scienza, la vera
conoscenza. Ritenendo possibile acquisire una conoscenza vera, certa e universale
(valida per tutti in ogni tempo e luogo), Platone respinge con forza il relativismo
conoscitivo dei sofisti. La conoscenza vera è quella che si ottiene solo attraverso
la ragione, mediante il ragionamento, e non attraverso la conoscenza sensibile,
come nel caso dei filosofi naturalisti, i quali spiegavano le cose sensibili per mezzo di
elementi anch'essi di tipo sensibile, materiale. Tutto ciò che è sensibile, osserva
Platone, è mutevole, cambia continuamente ed è opinabile e relativo, cambia cioè da
48

persona a persona secondo la relativa opinione. La vera conoscenza, invece, è quella


che si basa su elementi e principi sovrasensibili (che sono al di sopra di quelli
ricavati solo attraverso i sensi), i quali soltanto sono in grado di spiegare in modo
stabile e certo anche le cose sensibili (che si vedono e si toccano mediante i sensi).
Con la dottrina dell'idee Platone giunge alla scoperta della metafisica. La
metafisica è quella parte della filosofia, considerata la più importante, che intende
spiegare i principi e le cause profonde della realtà, che stanno oltre e al di sopra dei
sensi e che si colgono con la ragione e non con l'esperienza. Soltanto la realtà
soprasensibile è immutabile, mentre la realtà sensibile (le cose sensibili), poiché
cambia continuamente, non è la realtà vera, non è il vero essere e non è nemmeno
pienamente conoscibile: essa è una specie di via di mezzo tra l'essere e il nulla. La
conoscenza sensibile non è vera conoscenza e vera scienza ma semplice opinione,
una via di mezzo, appunto, tra la scienza e l'ignoranza. Solo la conoscenza della
realtà metafisica, cioè sovrasensibile, è certa, stabile e universale.
La dottrina delle idee non è esposta da Platone in modo unitario e ordinato, cioè
sistematico, ma è distribuita per parti successive nei vari dialoghi del secondo periodo
(specialmente nel Teeteto, nel Menone e nella Repubblica).
La conoscenza, ribadisce Platone, per essere infallibile deve oltrepassare la
sensazione, ossia la conoscenza sensibile, ed avere per oggetto ciò che è e permane
immutabile, che sta oltre i sensi e che, quindi, è invisibile, non appare. Platone stesso
reca l'esempio della spiegazione del perché una cosa è bella, ossia della causa, del
motivo per cui essa è bella. I filosofi naturalisti baserebbero la loro spiegazione su
elementi puramente fisici, quali il colore, la figura, ecc. Ma questi non sono vere
cause bensì caratteristiche particolari e mutevoli. Bisogna quindi presupporre
l'esistenza di un'ulteriore causa (nel nostro esempio la vera causa della bellezza), la
quale per essere vera non dovrà essere qualcosa di sensibile e dunque di mutevole,
ma dovrà essere oltresensibile, sovrasensibile, cioè qualcosa che sia solo intellegibile,
che si coglie e si conosce con l'intelletto, con la ragione, e non con i sensi.
L'intellegibile è, in qualche modo, il concetto, il quale, appunto, è elemento pensabile
ma non sensibile, non si ricava dai sensi. Tornando al nostro esempio, l'elemento
intellegibile che può spiegare il perché una cosa è bella è l'idea del bello in sé.
Qualunque cosa sensibile esistente ha una causa superiore che non è di carattere
fisico, sensibile, ma metafisico (metafisica, alla lettera, significa che sta oltre, dopo,
la fisica, oltre gli elementi fisici sensibili), cioè sovrasensibile, e con la quale si
spiegano stabilmente, in modo certo, le stesse cose fisiche. Le cose fisiche,
sensibili, poiché divengono e cambiano continuamente, non possono garantire una
conoscenza certa; invece le cause metafisiche, sovrasensibili, delle cose sensibili
sono immutabili e perciò garantiscono una conoscenza certa ed universale.
Queste cause superiori, metafisiche e sovrasensibili, delle cose sensibili sono
chiamate da Platone le idee delle varie cose sensibili. Mentre le cose sensibili
cambiano e si trasformano (le cose belle diventano brutte col passare del tempo), le
idee invece non cambiano, sono immutabili (l'idea del bello, della bellezza, non
cambia mai, nemmeno col passare del tempo). Perciò, se conosciamo le cose
attraverso le corrispondenti idee, le nostre conoscenze sono allora stabili e certe.
49

Come prima accennato, si potrebbe dire che le idee sono ciò che noi chiamiamo
concetti. Ma per Platone le idee sono qualcosa di più dei concetti. Infatti il concetto
è una costruzione della nostra mente e deriva dalla conoscenza sensibile. Ad esempio,
se osserviamo gli alberi mediante i sensi, vediamo che sono tutti diversi l'uno
dall'altro ma vediamo anche che tutti hanno delle caratteristiche comuni: tutti hanno
una radice, un tronco, dei rami e delle foglie. Il nostro intelletto astrae, seleziona
queste caratteristiche comuni osservate con i sensi e costruisce il concetto di albero:
l'albero è una cosa che ha radici, tronco, rami e foglie. Perciò, anche quando
scorgiamo un albero mai visto prima, riconosciamo che esso è un albero in base al
concetto costruito dal nostro intelletto. Per Platone invece le idee non sono
costruzione dell'intelletto, non sono semplici nostri pensieri, ma sono vere e proprie
entità, realtà, che esistono per loro conto indipendentemente dalla nostra mente;
esistono anche se non le pensiamo, così come le entità, gli enti matematici, ad
esempio il triangolo, il quadrato, ecc., esistono comunque sia che li pensiamo o no.
Dunque le idee (dal greco "eidos" che significa forma, essenza) non sono semplici
concetti anche se vi assomigliano, ma sono le essenze delle cose, ossia ciò che di
comune hanno fra loro tutte le cose di una certa categoria, di un certo genere, e che le
distingue da ogni altro genere di cose. Però queste caratteristiche comuni e distintive
(le idee) vanno oltre le apparenze sensibili delle cose, sono profonde ed invisibili ai
sensi; invece sono intellegibili (comprensibili) solo con la ragione ed inoltre sono
stabili, immutabili e universali: i singoli alberi concreti o le singole cose belle non
solo sono diversi gli uni dagli altri, ma ognuno di essi cambia col tempo, mentre
l'idea di albero o l'idea di bellezza non cambia mai ed è valida per tutti. Le idee
dunque hanno un valore assoluto e non relativo: sono immutabili e universali.
Infatti, ad uno può sembrare bene e buona una certa cosa e ad un altro invece un'altra
cosa, ma l'idea del bene è valida e uguale per tutti.
Platone scopre dunque che esistono due specie di realtà, due piani dell'essere, due
mondi:
1. c'è un mondo sensibile, che è quello dei fenomeni, delle cose sensibili,
visibili, che si conoscono con i sensi;
2. c'è un mondo sovrasensibile, che è quello del idee, che sono invisibili ai sensi
perché esse sono enti metafisici, vanno cioè al di là della conoscenza fisica e
sensibile, e sono conoscibili solo con la ragione, col ragionamento (vedo le
cose belle ma non vedo il bello; però posso conoscere l'idea del bello con la
ragione, con l'intelletto).
Con la scoperta del mondo sovrasensibile Platone inaugura la filosofia metafisica
vera e propria, che influenzerà tutta la successiva filosofia occidentale, sia che si
accetti o non si accetti l'esistenza di una realtà metafisica, sovrasensibile, superiore e
separata dalla realtà fisica e sensibile, poiché anche chi non intenderà accettarla sarà
comunque costretto a considerarla per motivare il suo rifiuto. Solo dopo Platone si
può parlare di distinzione fra realtà fisica e metafisica, fra realtà sensibile e
sovrasensibile, fra realtà materiale e realtà immateriale, spirituale.
Di conseguenza, per Platone, e per i filosofi metafisici dopo Platone stesso, la natura
e il cosmo (l'universo fisico) non costituiscono più la totalità di tutte le cose, ma
50

solo delle cose sensibili, ossia dei "fenomeni", che appaiono e sono visibili.
Appartiene invece alla totalità anche e soprattutto la metafisica, il mondo
sovrasensibile puramente intellegibile, non visibile ma conoscibile solo con
l'intelletto.
Proseguendo nello sviluppo della dottrina del idee, Platone si pone poi la domanda:
se le idee appartengono al mondo sovrasensibile, in che modo esse entrano in
rapporto con le cose sensibili, consentendo una loro conoscenza certa e non
mutevole? Platone risponde che il rapporto tra idee e cose sensibili è di due tipi:
1. le idee sono il modello delle cose sensibili ad esse corrispondenti e le cose
sensibili sono copie o imitazioni imperfette delle idee. Ad esempio, nel mondo
sensibile esiste una pluralità di cose più o meno belle o più o meno giuste, ecc,
ma nel mondo sovrasensibile esiste una sola ed unica idea di bellezza o di
giustizia, che sono il modello perfetto (o forma) delle cose belle o giuste del
mondo sensibile;
2. le idee sono la causa della conoscenza delle cose sensibili poiché conosciamo
le cose in base alle corrispondenti idee. Ad esempio diciamo che due cose sono
uguali in base all'idea di uguaglianza oppure diciamo che due azioni sono
giuste in base all'idea di giustizia, ecc.
Essendo le cose sensibili copie o imitazioni delle idee, significa che le cose
partecipano delle idee anche se in modo imperfetto e incompleto. Partecipare qui
vuol dire essere in parte simile e in parte diverso. Ad esempio, gli uomini concreti
partecipano dell'idea di uomo poiché sono imitazione di tale idea, ma si tratta di
un’imitazione imperfetta ed incompleta perché gli uomini concreti, in quanto
imitazione, non sono l'originale ed inoltre mutano continuamente (nascono, crescono
e muoiono), mentre l'idea di uomo non cambia mai, è stabile, immutabile e completa.
La dottrina delle idee di Platone costituisce una sintesi fra quella di Eraclito e
quella di Parmenide. Il mondo sensibile è caratterizzato dal continuo divenire, ossia
dal continuo mutamento e trasformazione delle cose, come diceva Eraclito. Invece il
mondo sovrasensibile è costituito da idee che sono immutabili ed eterne come l'essere
di Parmenide. Però, a differenza di Parmenide, per il quale l'essere è unico, unitario e
distinto dal mondo sensibile giudicato solo apparenza ed illusione, per Platone invece
l'essere non è unico ma molteplice, poiché è formato da una pluralità di idee ed
inoltre non è separato dal mondo sensibile, ma esiste un preciso rapporto tra mondo
sovrasensibile (l'essere) e mondo sensibile, perché le idee del mondo sovrasensibile
sono il modello e la causa della conoscenza delle cose del mondo sensibile. Il mondo
sensibile per Platone non è pertanto solo illusione, ma grazie alle idee è invece
conoscibile ed anch'esso possiede una sua realtà seppur imperfetta giacché la
perfezione appartiene solo al mondo delle idee.
Ma, si domanda ancora Platone, se le idee non sono semplici concetti costruiti dalla
nostra mente e presenti solo in essa, bensì sono enti reali che esistono
indipendentemente e al di fuori della nostra mente e delle cose sensibili, allora dove
stanno le idee? Platone risponde che le idee esistono e stanno in ciò che lui chiama
"Iperuranio", ossia in un luogo superiore e celeste, simile all'empireo greco o al
paradiso cristiano anche se, in verità, Platone non spiega più di tanto cosa sia e dove
51

sia l'Iperuranio. L'Iperuranio, cioè il mondo delle idee, va probabilmente interpretato


non come un empireo o un paradiso, bensì come un luogo al di fuori dello spazio e
del tempo fisico, sensibile, e al di fuori dell'intelletto umano, così come gli enti
matematici, il triangolo, il quadrato, il numero, ecc., stanno anch'essi in un loro luogo
al di fuori dello spazio e del tempo e al di fuori della mente, perché esistono anche se
non sono pensati.
Avendo concepito le idee sia come immutabili, eterne e universali, sia come separate
ed indipendenti dalla mente e dal pensiero umano, Platone supera in tal modo non
solo il relativismo conoscitivo sofistico, ma anche l'umanismo di Socrate, per il
quale la conoscenza, la verità, sta nella coscienza, nell'anima umana ("conosci te
stesso"). Platone scopre invece che il fondamento della verità e la causa della
conoscenza non stanno dentro l'uomo ma nel mondo delle idee, che è una realtà
metafisica, sovrasensibile ed extraumana. La conoscenza acquista un valore oggettivo
ed universale, cioè assoluto, e non è più relativa all'uomo e alle coscienze individuali.

Nota critica.

Anche Platone, come Pitagora, attribuisce una fondamentale importanza alla


conoscenza matematica, considerate il primo gradino della conoscenza razionale,
dopo il quale sta subito la filosofia in quanto conoscenza del mondo delle idee. Ma
rispetto al " tutto è numero" di Pitagora si notano due cose: da un lato la matematica
rimane al centro della spiegazione del mondo e del pensiero; dall'altro l'aritmetica
viene però sostituita dalla geometria. Il motivo è ovvio: la scoperta dei numeri
irrazionali (radice quadrata di due) aveva mostrato che i numeri non potevano
essere la misura di tutte le cose, ma restava la possibilità che lo potessero essere i
segmenti o, più in generale, le figure. In maniera ragionevole Platone definisce le
figure geometriche come "visioni astratte", estrapolate da modelli concreti. Il
termine usato da Platone, come indicato, è "eidos", cioè "idea", derivante dal verbo
greco "idein", che significa vedere. Da qui il nome di teoria delle idee, o di teoria
delle forme, visto che è appunto la forma ciò che si vede nelle figure geometriche
quando le si guarda con gli occhi del corpo. E poiché le forme o idee geometriche, in
quanto astratte, possiedono una perfezione che non è di questo mondo, si può dire,
metaforicamente, che esse esistono indipendentemente dalle loro imperfette
raffigurazioni concrete e che costituiscono in qualche modo un mondo parallelo a
quello sensoriale, quello chiamato da Platone Iperuranio. Ma la ragionevole
idealizzazione della geometria è stata, meno ragionevolmente, estesa ad altri campi,
ai concetti. La teoria delle forme diviene allora una "teoria dei concetti", ottenuti per
astrazione dagli oggetti. Il platonismo arriva cioè a considerare, pericolosamente, il
mondo dei concetti non solo più perfetto ma addirittura più reale di quello degli
oggetti, dimenticando che il mondo degli oggetti fisici esiste indipendentemente da
noi, ma quello dei concetti metafisici no. Insomma, Platone attua quell'operazione
chiamata "reificazione dei concetti" (reificazione dal latino “res”=cosa), che
significa supporre come cose concrete enti che sono invece astratti.
52

La struttura del mondo delle idee e i gradi della conoscenza.

Le idee sono molteplici e fra di loro diverse per tipo e per grado. Vi è un'idea per
ogni genere di cose sensibili. Pur essendo diverse e molteplici, le idee non
costituiscono affatto un mondo disordinato e disorganizzato, ma compongono invece
un sistema gerarchico-piramidale ordinato, in cui vi sono idee di grado inferiore e di
grado superiore.
Dal basso verso l'alto, Platone distingue quattro tipi o gradi di idee:
1. le idee delle cose corporee, sensibili: ad esempio l'idea di albero, di pietra, di
cavallo, di uomo;
2. le idee degli enti matematici: ad esempio l'idea di triangolo, di cerchio, di
numero;
3. le idee dei valori (=ideali) estetici, come ad esempio l'idea di bellezza, di
meraviglia, e le idee dei valori etici o morali, come ad esempio l'idea di
coraggio, di giustizia, di carità;
4. l'idea suprema del Bene, che sta in cima a tutte le idee.
Il Bene è la perfezione massima e rende partecipi tutte le altre idee della sua
perfezione. Perciò l'idea del Bene è l'idea suprema. Platone dice che non si può
conoscere alcuna idea né alcuna cosa se prima non si conosce il bene in sé. Infatti,
ogni idea e ogni cosa per il semplice fatto di esistere è già un bene. Per tale motivo
dunque tutte le idee partecipano (rientrano) dell'idea suprema del Bene.
Ne deriva che, per Platone, l'idea del Bene ha un significato non solo morale ma
anche ontologico (=concernente l'essere, la realtà): l'essere, l’esistere, riveste
comunque un valore positivo rispetto al caos e al disordine ed originario. Inoltre,
anche l'esistenza di cose o di idee determinate e ordinate, ed in quanto tali
conoscibili, è di per sé un bene. Così il Bene, oltre che avere un valore morale e
ontologico, ha pure un valore gnoseologico (conoscitivo).
Con la dottrina dell'idea del Bene anche Platone, si può dire, va alla ricerca del
principio primo della realtà, come i primi filosofi naturalisti. Però, a differenza di
questi, che consideravano tale principio immanente (=dentro) in tutte le cose, Platone
concepisce il principio primo del Bene come trascendente (=separato, al di fuori e al
di sopra delle cose sensibili).
Il carattere trascendente del Bene ed il fatto di essere causa di tutte le cose (l'idea del
bene è causa di tutte le altre idee e di tutte le cose perché le rende intellegibili, cioè
comprensibili, conoscibili) potrebbe far assomigliare la stessa idea del Bene di
Platone al Dio della religione. Però il Bene di Platone e il Dio della religione, pur
avendo in comune la trascendenza e la causalità (l'essere causa) nei confronti di ogni
cosa, sono in realtà diversi, perché il Bene di Platone non è inteso come persona
suprema che intende tutto e può tutto, quale è il Dio della religione, ma soltanto come
condizione e causa prima che consente la conoscenza della realtà. Inoltre, il Bene non
è causa delle cose nel senso che le ha create ma nel senso che le cose, esistendo di per
sé, partecipano e rientrano in quanto tali nell'idea del Bene.
Per Platone essere filosofi significa allora, soprattutto, conoscere l'idea del Bene,
che è l'idea suprema. Questo è il motivo per cui i governanti devono essere filosofi,
53

perché solo sapendo che cos'è il Bene essi potranno governare con saggezza e con
giustizia, distinguendo ciò che è buono e giusto da ciò che non lo è, e guidare quindi
gli uomini alla virtù e alla felicità.
Così come vi è una gerarchia nel mondo delle idee, c'è anche una corrispondente
gerarchia nei gradi della conoscenza. Alla distinzione tra mondo sensibile delle
cose e mondo sovrasensibile delle idee e corrisponde, secondo Platone, la distinzione
fra due tipi fondamentali di conoscenza (dualismo gnoseologico;
dualismo=contrapposizione): l'opinione da una parte, che riguarda la realtà delle cose
sensibili, e la scienza dall'altra, che riguarda la realtà delle idee sovrasensibili.
L'opinione, che è conoscenza delle cose, è una conoscenza imperfetta perché le cose
sensibili mutano e cambiano continuamente e perciò non possono essere conosciute
in modo stabile. La scienza, che è conoscenza delle idee, è invece una conoscenza
perfetta, stabile e duratura, perché stabili, durature perfette sono le idee che essa
indaga. A loro volta, l'opinione e la scienza si dividono ciascuna in due ulteriori gradi
di conoscenza. Perciò quattro sono i gradi della conoscenza nel complesso:

A. l'opinione, o conoscenza sensibile, che riguarda le cose sensibili e mutevoli, la


quale si suddivide in:
1) immaginazione o congettura, che riguarda i sogni, le fantasie, l'arte;
2) le credenze, che riguardano le cose sensibili;

B. la scienza o conoscenza sovrasensibile, che riguarda le idee immutabili e che si


suddivide in:
3) ragione matematica, che riguarda le idee matematiche;
4) filosofia, o intelligenza filosofica, che riguarda le idee e in particolare le idee
estetiche ed etiche, ad esempio la bellezza, la giustizia, il bene.
Sia la matematica che la filosofia hanno per oggetto il mondo sovrasensibile delle
idee. Però Platone, pur esaltando la matematica, al punto di dire: "Non entri
nell'Accademia chi non è matematico", considera la filosofia di grado superiore
poiché la matematica rimane in parte ancora attaccata al mondo sensibile,
specialmente per quanto riguarda le figure geometriche che assomigliano alla forma
delle cose, ed inoltre si basa su postulati che non sono dimostrabili.
Tuttavia la matematica è importante perché ci abitua a conoscere le idee, in quanto gli
enti matematici sono già idee anche se di grado inferiore, e ci aiuta così ad
oltrepassare la conoscenza sensibile. Perciò la conoscenza matematica è per
Platone preliminare alla conoscenza filosofica, ossia alla conoscenza delle idee
vere e proprie.
Nei suoi ultimi dialoghi, e specialmente nelle sue dottrine non scritte, Platone elabora
una concezione matematica del mondo che, per certi aspetti, anticipa la concezione
della moderna fisica-matematica di Galilei. Infatti, dice Platone, tutti i corpi esistenti
nell'universo hanno forme matematiche: tutte le cose hanno una forma paragonabile
alle varie figure geometriche solide, che sono scomponibili in superfici piane, le quali
a loro volta sono scomponibili in triangoli e poi in linee, quindi in punti ed infine in
numeri in corrispondenza dei vari punti, di modo che i rapporti matematici tra le varie
54

cose possono essere misurati e calcolati (più grande, più piccolo, più lungo, più corto,
il doppio, la metà, più denso, meno denso, ecc.).

La formazione del mondo sensibile: il Demiurgo.

Si è visto che le cose del mondo sensibile sono copie o imitazioni delle idee, le quali
sono il modello perfetto delle cose stesse. Il mondo fisico deriva cioè dal mondo
sovrasensibile delle idee. Ma come può il mondo sensibile delle cose derivare dal
mondo sovrasensibile delle idee che sono separate dalle cose? Platone risponde
che il mondo sensibile deriva da quello sovrasensibile grazie all'opera di un dio,
chiamato Demiurgo, che è l'artefice (non il creatore) del mondo. Demiurgo in greco
significa appunto artefice.
All'inizio il mondo era solo un caos informe, era solo materia priva di vita costituita
in modo disordinato dai quattro fondamentali elementi naturali: fuoco, acqua, aria e
terra. Il Demiurgo, per bontà e amor di bene, ha utilizzato la materia originaria e l’ha
plasmata, separando e combinando in modo ordinato i quattro elementi e formando
così un cosmo ordinato nonché le singole cose (i corpi) del mondo, che poi ha
animato e rese vive, dotandole di movimento, di capacità di crescita e di
trasformazione. Nel plasmare le cose il Demiurgo ha preso per modello le
corrispondenti idee del mondo sovrasensibile che, in quanto Dio, egli conosceva.
Dunque, lo schema cosmologico (=dell'universo) di Platone è chiaro: le idee sono il
modello in base al quale il Demiurgo ha plasmato le cose sensibili, le quali sono
copia ed imitazione delle idee. Il mondo delle idee è eterno, eterna è anche la
materia originaria informe utilizzata dal Demiurgo ed eterno è il Demiurgo stesso,
paragonabile ad una mente divina intelligente che ha dato forma al mondo ed alle
cose del mondo. Il mondo sensibile delle cose, invece, non è eterno, essendovi
all'inizio solo la materia informe ed inerte, inanimata; però, in quanto opera di una
divinità, esso non è destinato a corrompersi e perire.
Il mondo sensibile, pur essendo stato costruito ordinatamente dal Demiurgo, non è
tuttavia perfetto poiché è stato costruito ad imitazione del mondo del idee, il quale
soltanto è perfetto. Infatti nel mondo sensibile c'è imperfezione e c'è anche il male,
causati dai residui di materia informe e di caos primordiale (originario) che sono
inevitabilmente rimasti al termine dell'opera del Demiurgo.
Il Demiurgo, divinità dotata di intelligenza e di volontà, assomiglia al Dio-persona
della religione ma se ne distingue per due motivi: 1) perché non è il creatore del
mondo in quanto si è limitato a plasmare la materia informe originaria già esistente;
2) perché è gerarchicamente una divinità inferiore al mondo del idee, in quanto non
solo non le ha create dipendendo anzi da esse, giacché le idee sono il modello a cui il
Demiurgo si è ispirato nel plasmare le cose. La visione della divinità rimane in
Platone ancora politeistica, secondo la mentalità greca. Non si ispira tuttavia agli dei
della tradizione poiché è sì molteplice ma è impersonale; esprime piuttosto la
perfezione e l'ordine del mondo delle idee. Peraltro non ha i caratteri del Dio delle
religioni monoteistiche.
55

Con la costruzione del mondo il Demiurgo ha dato inizio anche al tempo, che Platone
definisce "immagine mobile dell'eternità", perché con il suo succedersi ordinato di
giorni e notti, di mesi e anni, il tempo rispecchia l'ordine eterno del mondo delle idee.
Il tempo delle cose sensibili non è eterno, avendo avuto un inizio, ma anch'esso, come
il mondo, è destinato a perdurare per sempre.

Il problema della conoscenza (in che modo avviene la conoscenza?).

Abbiamo visto che le idee sono sia il modello sia la causa della conoscenza delle
cose: si conoscono le cose mediante la conoscenza delle idee corrispondenti. Solo
così la conoscenza sarà stabile e universale, ossia sarà scienza. Se le cose venissero
conosciute attraverso i sensi non vi sarebbe scienza ma soltanto opinione, poiché le
cose cambiano continuamente e i nostri sensi colgono le cose nei loro continui
mutamenti, quindi mai in modo stabile ma in maniera diversa nel tempo e da
individuo a individuo.
Però se le idee appartengono al mondo sovrasensibile e sono separate dalle cose e
indipendenti dalla nostra mente in quale modo l'uomo può conoscere le idee?
Platone risponde elaborando al riguardo una teoria della conoscenza assolutamente
nuova, con la quale confuta (=smentisce) il relativismo conoscitivo dei sofisti. La
filosofia della conoscenza di Platone, o gnoseologia (termine che significa, appunto,
filosofia della conoscenza) ci offre la prima e più completa teoria della conoscenza
della storia della filosofia.
Platone afferma che la conoscenza è essenzialmente "reminiscenza"
(reminiscenza=ricordo): conoscere significa ricordare. Poiché, secondo Platone, le
cose si conoscono mediante la conoscenza delle idee corrispondenti e poiché le idee
sono forme immateriali, contenute nel nostro pensiero o anima, esse non possono
essere conosciute che dall'anima stessa, ma non nella vita terrena, dove l'anima è
unita ad un corpo, perché nessuna cosa che incontriamo in questa vita e che
conosciamo con i sensi è universale, immutabile e perfetta come sono le idee.
Dunque bisogna concludere che l'anima abbia conosciuto le idee prima di unirsi al
corpo, prima della nascita del corpo.
La nostra anima appunto, dice Platone, prima di calarsi nel corpo umano è
vissuta nel mondo delle idee in cui ha potuto conoscere direttamente tutte le idee
medesime. Una volta discesa nel nostro corpo, l'anima conserva un ricordo oscuro e
sfuocato delle idee conosciute nel mondo sovrasensibile. Quando, unita al corpo,
l'anima fa esperienza delle cose attraverso i sensi, essa è stimolata dalle cose stesse a
ricordare in modo vivo e chiaro le corrispondenti idee viste nell'Iperuranio. Ecco
perché Platone afferma che conoscere è ricordare.
Questa teoria di Platone, come quelle successive di tipo simile, è stata chiamata
"innatismo", in quanto ritiene che la conoscenza vera non derivi dai sensi, dalle cose
esterne di cui si fa esperienza, bensì dalle idee, che sono innate e presenti in noi, nella
nostra anima (innato= presente fin dalla nascita).
56

L'immortalità dell'anima. Il mito di Er, sul destino delle anime, e il mito del
cavallo alato, sulla caduta delle anime nei corpi.

Per Socrate era sufficiente comprendere che l'essenza dell'uomo, ciò che lo
contraddistingue, è la sua anima. Non era quindi necessario per lui stabilire se l'anima
sia o no immortale. Per Platone invece il problema dell'immortalità dell'anima
diventa fondamentale, perché altrimenti, se l'anima non fosse immortale e non
fosse vissuto nel mondo delle idee prima di incarnarsi in un corpo umano, la sua
teoria della conoscenza come reminiscenza crollerebbe.
Platone fornisce tre prove dell'immortalità dell'anima:
1. la prova per somiglianza: se l'anima è capace di ricordare e conoscere le idee
che sono eterne, allora deve essere anch'essa eterna e, a maggior ragione,
immortale;
2. la prova dei contrari: così come in natura ogni cosa sorge dal suo contrario (il
freddo dal caldo, il sonno dalla veglia, ecc.), altrettanto la vita sorge dalla
morte nel senso che l'anima rivive dopo la morte del corpo;
3. la prova della vitalità dell'anima: l'anima in quanto è soffio vitale che dà la vita,
è perciò principio di vita e partecipa all'idea della vita; dunque non può essere
contemporaneamente anche il suo opposto, che è la morte; quindi l'anima non
può morire.
Abbiamo visto che il rapporto fra le idee e le cose non è dualistico, cioè contrapposto,
giacché le idee sono la vera causa della conoscenza delle cose. Invece secondo
Platone è dualistico, ossia contrapposto, il rapporto tra anima e corpo: la prima è
sovrasensibile mentre il secondo è sensibile. Perciò il corpo non è inteso, come per
Socrate, in senso positivo, quale involucro al servizio dell'anima. Platone ha una
concezione negativa del corpo, che definisce tomba e carcere dell'anima; il corpo è
cioè il luogo dell'espiazione dell'anima a causa delle colpe dalla stessa commesse. Il
corpo è per Platone la radice dei mali, delle insane passioni, delle inimicizie,
dell'ignoranza e della follia. Pertanto la morte non deve essere temuta perché
consente all'anima di liberarsi dalla prigionia del corpo e dai mali del mondo e di
ritornare nel mondo delle idee. Il destino e la virtù dell'anima si realizzano mediante
la sua fuga dal corpo e la sua fuga dal mondo.
Socrate indicava nella cura dell'anima, ossia nell'ascoltare la propria coscienza, il
supremo compito morale dell'uomo. Anche Platone conferma questo comandamento
socratico ma precisa che cura dell'anima significa purificazione dell'anima, poiché
l'incarnazione dell'anima in un corpo ed il suo allontanamento dal mondo delle idee
dipendono dalle colpe da essa medesima commesse, che devono pertanto essere
purificate nella vita terrena. Tale purificazione avviene, secondo Platone, elevandosi
ai gradi più alti della conoscenza, fino a giungere alla conoscenza delle idee e
dell'idea suprema del Bene, la quale coincide col Vero. La conoscenza dunque non
ha solo valore razionale ma anche morale, non è solo comprensione della verità ma
è anche impegno di purificazione volto a salire all'idea del Bene, cioè alla virtù. In
questa ascesa progressiva consiste quello che è stato definito il "misticismo
platonico".
57

Il mito di Er.

Ma quale è il destino delle anime dopo la morte del corpo cui erano unite? Platone ce
lo descrive attraverso il mito di Er, un eroe morto in battaglia e resuscitato dopo
dodici giorni, il quale ha potuto così raccontare la sorte dell'anima dopo la morte del
corpo. Attraverso il racconto di Er, Platone spiega che le anime che hanno vissuto,
quando erano unite ad un corpo, una vita troppo legata ai piaceri e alle passioni
terrene non riescono a separarsi interamente dal corpo dopo la morte e vagano come
fantasmi attorno ai sepolcri fino a che, attratte dal desiderio del corporeo, si uniscono
nuovamente ad altri corpi di uomini squallidi od anche di animali repellenti. Dunque,
per punizione della loro colpa, non tornano nel mondo delle idee e si riuniscono a
corpi indegni. Anche le anime che sono vissute secondo una virtù non filosofica ma
semplicemente comune non tornano nel mondo del idee ma sia riuniscono ad altri
corpi, però di uomini retti o di animali mansueti. Solo le anime che sono vissute
secondo virtù filosofica ritornano nel mondo delle idee. Tuttavia, prosegue Platone
nella Repubblica, poiché le anime sono in numero limitato rispetto al numero dei
corpi sulla terra, esse non possono rimanere per sempre nel mondo delle idee, ma
dopo un periodo massimo di mille anni sono destinate a reincarnarsi in un altro corpo.
Trascorso il loro periodo di permanenza nel mondo delle idee, le anime si radunano
in una pianura per decidere in quale tipo di corpo tornare a reincarnarsi. A tale
proposito Platone opera una rivoluzione della credenza tradizionale, secondo cui
sarebbero gli dei o il destino a stabilire a quali corpi le anime vadano ad unirsi.
Invece sono le anime stesse, dice Platone, che decidono liberamente, secondo le loro
inclinazioni, in quale corpo incarnarsi e quale tipo di vita terrena vivere, se secondo
virtù o secondo il vizio. Il significato di questa innovazione è chiaro: la
responsabilità del tipo di vita prescelta e la colpa dei vizi è sempre individuale e non
può essere attribuita ad un destino crudele o agli dei; non ci sono scusanti. Platone
anticipa in tal modo il concetto di "libero arbitrio".
Platone sa benissimo che questa sua spiegazione, fornita attraverso il mito, non è
dimostrabile però, egli afferma, è buona cosa crederlo.

Il mito del carro alato.

Perché le anime non possono rimanere eternamente nel mondo delle idee e sono
invece periodicamente costrette a cadere sulla terra ed incarnarsi in un corpo umano?
Oltre alla spiegazione, troppo semplice, data nel mito di Er concernente il numero
limitato delle anime rispetto a quello dei corpi sulla terra, Platone ci dà una
spiegazione più profonda col mito del carro alato. Le anime cadono in un corpo
sulla terra per loro colpa. L'anima infatti, dice Platone, è come un carro tirato da
due cavalli alati, guidati da un auriga. Dei due cavalli uno è buono, simboleggia
l'anima irascibile (cioè coraggiosa, volitiva) e spinge verso l'alto, verso il luogo che
Platone chiama la "Pianura della verità", da cui si può contemplare il mondo
sovrasensibile delle idee e la suprema idea del Bene. Il secondo cavallo è cattivo,
simboleggia l'anima concupiscibile (passionale) e spinge verso il basso, verso la terra,
58

cioè verso il mondo sensibile. L’auriga simboleggia la ragione. Se l’auriga riesce a


domare il cavallo cattivo, cioè se la ragione riesce a controllare le passioni, allora il
carro alato, cioè l'anima, riesce a raggiungere la Pianura della verità e rimane nel
mondo delle idee. Se invece l'auriga non riesce a domare il cavallo cattivo, ossia se la
ragione non riesce a controllare le passioni, allora il carro alato (l'anima) non
raggiunge la Pianura della verità ma, per sua colpa, si scontra con gli altri carri alati;
le ali dei cavalli si spezzano e il carro (l'anima) cade sulla terra.
Con questo mito Platone vuole significare il valore e la forza della ragione, che può
essere in grado di controllare i vizi e le passioni e quindi purificare l'anima,
rendendola meritevole del mondo delle idee. Ancora una volta torna il concetto
secondo cui il vero (la conoscenza, la ragione) e il bene (la virtù) coincidono.

La dottrina dell'amore e della bellezza come via per elevarsi al Bene. La


condanna dell'arte.

Platone non collega la bellezza all'arte. Anzi egli, nella Repubblica, condanna
l'arte e non la considera degna di entrare nel percorso educativo del filosofo per due
motivi.
Il primo motivo è di tipo metafisico-gnoseologico; l'arte, dice Platone, non è vera
conoscenza perché si limita a riprodurre l'immagine delle cose naturali che sono a
loro volta imitazione delle idee. L'arte è dunque l'imitazione di una imitazione; è una
realtà inferiore e lontana dalla conoscenza ed anziché spingere le anime verso le idee
le tiene legate alle cose sensibili riprodotte.
Il secondo motivo è di tipo pedagogico-politico: l'arte in generale, ed in particolare la
commedia, corrompe gli uomini perché rimangono negativamente influenzati e
suggestionati dalle passioni che essa rappresenta. Pertanto l'arte è diseducativa e non
può rientrare nelle discipline da insegnare nella formazione dei filosofi.
La bellezza è invece collegata da Platone all'amore, in greco "eros". La
conoscenza, dice Platone, non è una qualità esclusivamente intellettuale perché
implica anche la volontà e non solo l'intelletto (per conoscere bisogna prima voler
conoscere). E la volontà è guidata dalla forza dell'amore, dell'eros, a salire lungo i
diversi gradi della bellezza fino all'idea del Bello in sé. E poiché per gli antichi greci
il Bello coincide col Vero e col Bene, allora l'eros è la forza che conduce alla
conoscenza e alla virtù. In tal senso, il Vero e il Bene si raggiungono sia per via
gnoseologica (conoscitiva) sia per via estetica (intesa come disciplina che tratta
della bellezza), salendo nei vari gradi della bellezza.
Alla teoria dell'amore Platone dedica due dialoghi:
1) il "Fedro", che considera cos'è l'amore, inteso come aspirazione dell'anima verso la
bellezza e come sua progressiva elevazione al mondo delle idee al quale appartiene
l'idea del Bello: amore è sete e desiderio di bellezza e di bene. In tal senso l'amore è
filosofia, cioè amore della sapienza;
2) il "Simposio", che considera soprattutto l'oggetto dell'amore, cioè la bellezza ed
illustra i vari gradi della bellezza stessa.
59

L'amore dunque è desiderio di qualcosa che non si ha e di cui si sente il bisogno: è


desiderio di bellezza, di bene e di conoscenza (valore non solo estetico ma anche
morale e conoscitivo dell'amore).
In particolare, Platone distingue cinque gradi di bellezza lungo i quali l'uomo può
risalire, attraverso un lungo ed impegnativo cammino:
1. la bellezza del corpo, che sta al grado più basso, e che attrae l'uomo;
2. la bellezza dell'anima (cioè avere un bel carattere, essere buoni e gentili), che
sta al di sopra della bellezza del corpo, la quale però prima o poi svanisce;
3. la bellezza delle istituzioni sociali, delle leggi e della giustizia, che consentono
agli uomini di convivere pacificamente insieme;
4. la bellezza della scienza, cioè della conoscenza, che eleva gli uomini al sapere;
5. l'idea del Bello, della bellezza in sé, che è eterna, è superiore al divenire delle
cose ed alla morte, è perfetta, è la fonte di ogni altra bellezza ed è l'oggetto
della filosofia.
Fra tutte le altre idee, l'idea del Bello è quella più splendente, amabile e desiderabile.
Questo desiderio della bellezza in sé, di salire verso l'idea del Bello e del Bene (etica
ascetica) è appunto ciò che è stato definito l'eros o amore platonico e sbaglia chi lo
ritiene come semplice piacere della bellezza sensibile, perché al suo grado più alto
l'amore platonico è amore della virtù e della conoscenza, coincidendo il Bello col
Bene e col Vero.

La filosofia politica.

Platone stesso, nella LetteraVII, dichiara che la motivazione principale che lo ha


spinto a filosofare è stata la politica, ossia la ricerca di un modello di comunità, di
società, in cui l'uomo possa vivere in pace e in giustizia con gli altri uomini.
Connesso all'interesse politico è in Platone quello pedagogico-educativo, volto a
formare buoni cittadini e buoni governanti.
La stessa finalità della dottrina delle idee è di tipo politico. Con essa Platone ha
voluto offrire agli uomini uno strumento per uscire dal caos delle opinioni e del
relativismo conoscitivo sofistico, considerato causa di disordine e violenza poiché,
nell'intento sofistico di far prevalere la propria opinione, si finiva col giustificare la
legge del più forte. Per Platone solo la conoscenza delle idee è conoscenza certa e
stabile in base alla quale diviene allora possibile fondare una scienza politica
universale (valida per tutti), capace di garantire pace e giustizia alla società (alla
polis). Tutto ciò implica pertanto la convinzione che i governanti debbano essere
filosofi, giacché solo se i governanti sono filosofi, in grado cioè di conoscere le idee e
soprattutto la suprema idea del bene, e quindi del giusto, essi possono governare con
saggezza. Per Platone dunque filosofia e politica coincidono.
La dottrina politica di Platone è esposta in numerosi suoi dialoghi: anzitutto nella
"Repubblica", scritto nella maturità, e poi nel "Politico" e nelle "Leggi", scritti nella
vecchiaia.
60

Platone nella "Repubblica", il suo capolavoro, oltre che esporre in parte la dottrina
delle idee, espone in particolare il proprio modello di società, di Stato ideale. Scopo
fondamentale dello Stato è quello di realizzare il bene, che sostanzialmente consiste
nella giustizia. La giustizia è una virtù essenzialmente sociale: nessuna società
umana può sussistere senza giustizia, afferma Platone, respingendo quindi la teoria
sofista dello Stato basato sulla legge del più forte.
Uno Stato, dice Platone, nasce perché ciascuno di noi non è autosufficiente ma ha
bisogno dei servizi e della collaborazione di molti altri uomini; in primo luogo sono
necessari i servizi di coloro che provvedono ai bisogni materiali (il cibo, i vestiti, le
abitazioni); in secondo luogo sono necessari i servizi di coloro che hanno il compito
di custodire e difendere lo Stato; in terzo luogo è necessaria l'opera di coloro che, in
pochi, sappiano ben governare.
Lo Stato quindi deve essere costituito da tre classi o categorie sociali.
1) La classe dei contadini, degli artigiani e dei mercanti, composto da uomini in
cui prevale l'anima (il carattere) concupiscibile, cioè quella in cui dominano gli
istinti materiali e le passioni e che è la più diffusa. Perciò la prima classe è anche la
più numerosa. Questa classe è buona quando in essa predomina la virtù della
temperanza, che è sia la capacità di controllare i piaceri e i desideri sia la
disponibilità a sottomettersi alle classi superiori. Solo questa classe sociale può
possedere ricchezze e beni materiali, che non devono essere né troppi né troppo
pochi.
2) La classe dei guerrieri o custodi, nei quali prevale l'anima irascibile (=
coraggiosa, volitiva). La virtù di questa classe deve essere il coraggio o fortezza.
Compito dei guerrieri è di difendere lo Stato dai nemici interni ed esterni nonché di
evitare che i cittadini della prima classe sociale diventino troppo ricchi, perché ciò
genera ozio, lusso ed incontinenza, oppure che diventino troppo poveri, perché ciò fa
sorgere i vizi opposti. Spetta pure ai custodi di vigilare affinché ogni cittadino svolga
correttamente i propri doveri sociali.
3) La classe dei governanti, che è costituita da uomini nei quali prevale l'anima
razionale e la loro virtù è la sapienza. I governanti devono essere filosofi, ossia
devono conoscere il mondo delle idee e soprattutto la suprema idea del Bene per
poter ben governare lo Stato.
Dunque lo Stato perfetto è quello in cui predomina la temperanza nella prima classe
sociale, la fortezza o coraggio nella seconda e la sapienza o saggezza nella terza. Ma
la virtù centrale, che ricomprende tutte e tre queste virtù, è la giustizia, fare ciò che
è giusto: l'accordo fra le tre virtù si realizza quando ciascun cittadino fa ciò che è
giusto, ossia quando svolge bene il proprio compito ed ha ciò che gli spetta. Ognuno
deve dedicarsi al compito per cui è più adatto e che più corrisponde al personale
carattere o tipo di anima.
L'appartenenza degli individui ad una o l'altra classe sociale dipende dalle loro
inclinazioni, dal loro carattere, ossia dal loro tipo di anima: o concupiscibile o
irascibile o razionale. La divisione degli individui in classi sociali non deriva
quindi, per Platone, da un fattore ereditario ma psicologico, a seconda del tipo
d'animo di ciascuno. Lo Stato platonico dunque non è un sistema di classi chiuse,
61

come caste, per cui nessuno può passare ad una classe sociale superiore poiché
costretto a rimanere per sempre nella classe sociale di nascita. Però è anche vero,
riconosce Platone, che solitamente i figli somigliano ai padri e quindi, di regola,
rimangono nella classe di provenienza, nella quale sono nati.
Dopo aver definito cos'è la giustizia nello Stato, che si ha quando ogni cittadino ed
ogni classe sociale svolge bene il proprio compito, Platone indica quali sono, secondo
lui, le condizioni che garantiscono il miglior funzionamento dello Stato e la
realizzazione della giustizia. A tal fine Platone propone l'eliminazione della
proprietà privata, l'abolizione della famiglia e la comunione dei beni (=mettere a
disposizione di tutti ciò che è necessario per vivere) per le due classi superiori (i
guerrieri e governanti), affinché non siano distratte nello svolgimento dei loro
compiti da interessi economici e familiari individuali. Solo la classe inferiore può
possedere proprietà privata e ricchezze, però suo compito è quello di mantenere le
due classi superiori. È questo il cosiddetto "comunismo platonico".
Per le classi dei guerrieri e dei governanti l'intento di Platone è di creare come
un’unica grande famiglia in cui tutti vivano in comune, ritenendo in tal modo di
eliminare gli egoismi individuali. Non devono esserci coppie fisse di uomo e donna
(abolizione del matrimonio) entro le quali educare i figli, ma tutti gli uomini e le
donne devono vivere insieme, svolgere identiche mansioni (parità delle donne) e tutti
i figli non appena diventano fanciulli devono essere sottratti ai genitori ed essere
allevati ed educati in comune da parte dello Stato. Le nozze tra uomini e donne
devono essere provvisorie e la scelta dell'uomo e della donna da unire
provvisoriamente in matrimonio deve spettare ai governanti ed essere compiuta al
fine di ottenere la prole migliore possibile. Platone aveva in mente, in proposito, il
modello di Sparta, ove gli Spartiati (i guerrieri) vivevano in comune.
Il comunismo platonico dunque, oltre che all'eliminazione degli egoismi individuali,
è finalizzato anche all'educazione dei giovani. Uno Stato perfetto deve avere
un'educazione perfetta, tranne che per la prima classe sociale, che non ha bisogno di
una speciale educazione perché i mestieri si imparano più facilmente con la pratica.
Per le classi dei custodi e dei governanti Platone propone inizialmente un'educazione
ginnico-musicale allo scopo di irrobustire il carattere e l'animo. Successivamente
Platone prevede lo studio delle cosiddette discipline propedeutiche (=preparatorie)
alla filosofia, cioè l'aritmetica, la geometria, l'astronomia. Fra i trenta e i trentacinque
anni i migliori sono avviati allo studio della filosofia o dialettica. Fra i trentacinque e
i cinquanta anni coloro che sono stati in grado di seguire con profitto gli studi di
filosofia sono inviati a compiere il tirocinio pratico nelle cariche militari e civili. Solo
dopo i cinquanta anni gli "ottimi", che abbiano superato tutte le prove, potranno
diventare governanti dello Stato.
Platone è consapevole che il suo è uno Stato ideale che non esiste in alcun luogo
della terra. Tuttavia è persuaso che rappresenti un modello in base al quale
confrontare e migliorare gli Stati reali. Negli scritti della vecchiaia (specie nel
"Politico" e nelle "Leggi") Platone torna ad occuparsi della filosofia politica in
maniera più realistica e meno idealistica, tenendo conto cioè delle concrete
situazioni ed effettive possibilità storico-sociali, abbandonando la rigida distinzione
62

in tre classi sociali ed il comunismo dei beni e delle famiglie. Il governante non deve
essere necessariamente un filosofo completo ma deve conoscere "la scienza del
governare", che consiste soprattutto nell'arte della misura: in ogni cosa bisogna
evitare gli eccessi e i difetti per trovare il giusto mezzo. Inoltre, se nello Stato ideale
non c'è bisogno di leggi, poiché il governante-filosofo, che conosce il bene e il giusto,
è sempre in grado di adattare le sue decisioni alle varie situazioni, nello Stato reale
invece, a causa dell'imperfezione umana, la legge è necessaria e deve essere sovrana;
ad essa si devono sottomettere anche i governanti. La funzione della legge non deve
essere solo punitiva ma anche educativa, deve cioè convincere cittadini che è buona e
necessaria.
L'educazione civica ha come base la religione. Platone considera infatti la religione
un incentivo, uno stimolo, al rispetto delle leggi e della virtù. L'ateismo è giudicato
un male sociale. Peraltro quella che Platone propone è una religione di Stato, assai
diversa dalla religione tradizionale. La divinità è vista negli astri e nell'ordine
cosmico (da ciò l'importanza attribuita all'astronomia) piuttosto che negli dei della
tradizione. Solo in un universo ordinato e retto da leggi divine lo Stato degli uomini
può essere concepito come riflesso e imitazione di tale ordine.
Poiché nello Stato reale le leggi sono necessarie, allora occorre elaborare una
costituzione (=una forma di Stato) scritta. Platone individua tre principali tipi di
costituzione realizzate nella storia:
1. la monarchia o governo di uno solo, il re, che deve possedere il senso
dell'onore;
2. l'aristocrazia o governo di pochi, intesi come i migliori per sapienza e per
saggezza e non come nobili per nascita;
3. la democrazia o governo dei molti, fondata sulla libertà e sul rispetto delle
leggi.
Nel corso della storia tuttavia queste costituzioni sono spesso degenerate o sono
destinate a degenerare a causa degli egoismi umani. Tre sono le forme degeneri di
costituzione, ossia di Stato, in contrapposizione a quelle positive:
1. la timocrazia (dal greco "timè"=onore), quando il re, il monarca, concepisce
l'onore non più come coraggio e saggezza ma come desiderio di potere e di
fama personale;
2. l'oligarchia, quando gli aristocratici non si fanno più guidare dalla sapienza e
saggezza, ma ricercano la ricchezza e il potere personale;
3. la demagogia, quando la libertà che c'è nella democrazia non è più basata sul
rispetto di leggi giuste ma ognuno vuol prevalere sugli altri, senza rispettare i
diritti e le libertà altrui.
Quando con la demagogia non c'è più nessun minimo rispetto della libertà degli altri,
ma prevale solo la legge del più forte, sorge allora la tirannide, la peggior forma di
Stato, che è il potere dispotico preso con la forza da uno solo: il tiranno.
Personalmente, Platone preferisce l'aristocrazia, perché la monarchia può degenerare
più facilmente in timocrazia o in tirannide, dal momento che il re ha troppo potere,
mentre più facilmente la democrazia può degenerare in demagogia oppure anch'essa
in tirannide se c'è troppa libertà. Platone si ispira ancora, quindi, al concetto del
63

giusto mezzo, diffidando sia del regime monarchico sia di quello democratico. Egli
non ritiene che la politica possa essere esercitata da tutti, secondo il moderno
principio di democrazia, ma soltanto dai migliori esponenti della città. La concezione
politica di Platone coincide quindi con quella di uno statalismo aristocratico
élitario (dal francese "élite"=pochi privilegiati, i migliori).
Non sono mancate al riguardo successive critiche alla dottrina politica di Platone,
sia da destra che da sinistra, nonché strumentalizzazioni del pensiero platonico. Si è
parlato di utopia, condannata da alcuni ed esaltata da altri. In riferimento al
comunismo platonico vi è chi ha visto in esso l'anticipazione degli ideali del
socialismo e chi vi ha visto una concezione antiliberale, totalitaria, della società. Altri
ancora, in riferimento alla visione aristocratica della politica, hanno criticato come
antidemocratica la concezione platonica di una società divisa in rigide classi sociali e
di un potere destinato a pochi privilegiati. Non sono mancati neppure coloro che
hanno scorto nel modello platonico l'anticipazione di ideologie vicine al
nazifascismo, per un ravvisato eccesso di statalismo e di gerarchia nella struttura
sociale, nonché per il culto dei capi e della purezza della razza derivanti da
un’educazione riservata ai soli guerrieri e governanti.

Il mito della caverna.

Al centro della "Repubblica" si trova il celebre mito della caverna. Esso esemplifica
non solo la teoria della conoscenza e dell'educazione ma anche, in generale, la
metafisica, la dialettica, come pure l'etica, la politica e la mistica di Platone. Insomma
ne simboleggia il complessivo pensiero.
Il mito immagina che vi sia una caverna sotterranea in cui si trovano schiavi
incatenati e costretti a guardare solo davanti a sé, nel fondo della caverna dove,
illuminate da un fuoco, si riflettono immagine di statuette che sporgono al di sopra di
un muro alle spalle degli schiavi e che raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il
muro vi sono, senza essere visti, degli uomini che muovono in qua e in là le statuette.
Dietro questi uomini brilla un fuoco che riflette le ombre delle statuette sul fondo
della caverna. Gli schiavi scambiano quelle ombre per la sola realtà esistente. Ma se
uno schiavo riuscisse a liberarsi, egli voltandosi si accorgerebbe delle statuette e
capirebbe che esse, e non le ombre, sono la realtà. Se poi riuscisse ad uscire dalla
caverna vedrebbe le cose della natura e scoprirebbe che nemmeno le statuette sono la
vera realtà perché esse sono soltanto, a loro volta, imitazione delle cose della natura.
Dopo essersi abituato alla luce riuscirebbe infine a fissare il sole, comprendendo che
il sole, illuminandole, è la causa di tutte le cose visibili. Naturalmente lo schiavo
liberatosi vorrebbe rimanere per sempre nella luce del sole. Supponiamo tuttavia che,
per far partecipi i suoi compagni di schiavitù della sua straordinaria scoperta, egli
rientri nella caverna. Spiegando agli altri schiavi che la vera realtà è quella esterna
alla caverna questi lo deriderebbero, non sarebbe creduto e preso per pazzo.
Insistendo nel voler rivelare loro la verità rischierebbe perfino di essere ucciso, come
è successo a Socrate.
64

Qual è il significato del mito? Rappresenta innanzitutto la rivelazione dei quattro


gradi ontologici della realtà, cioè il mondo sensibile, diviso in immaginazioni o
congetture (le ombre delle statuette) e in credenze, ossia le cose sensibili (le
statuette), ed inoltre il mondo sovrasensibile, il mondo delle idee (la realtà esterna
alla caverna illuminata dalla luce del sole) ed infine la suprema idea del Bene (il
Sole). In secondo luogo, il mito della caverna simboleggia l'aspetto mistico e
religioso, inteso come ascesa verso la conoscenza e la virtù, cioè il risalire dal mondo
sensibile a quello sovrasensibile, ascesa rappresentata dallo schiavo che si è liberato
dalle catene della realtà fisica fino a contemplare il Sole, ossia il Bene e il Divino. In
terzo luogo, il mito rappresenta altresì la concezione politica di Platone, espressa dal
ritorno dello schiavo liberato nella caverna per far conoscere i suoi compagni quale
sia la vera realtà. Questo ritorno è indubbiamente il ritorno del filosofo-politico il
quale, se seguisse il suo solo desiderio, resterebbe a contemplare il Sole, cioè il Bene,
il Vero e il Divino. Ma invece, per il suo senso del dovere, torna nella caverna per
cercare di far capire anche agli altri la verità autentica. Il vero politico, secondo
Platone, non ama il potere, ma lo usa come servizio reso alla comunità per attuare il
bene. E proprio questo è, al di là delle varie critiche intervenute, il significato più
genuino che Platone ha inteso attribuire alla sua concezione politica. Dunque lo
schiavo liberato ritorna nella caverna anche se sarà deriso e rischierà la vita; ossia il
filosofo-politico non se ne sta in disparte ma pone la sua sapienza al servizio della
comunità, anche a costo di veder ripagato il suo impegno col disprezzo e, al limite,
con la sua stessa vita. Per Platone, infatti, la conoscenza e la filosofia non sono solo
contemplazione ma anche impegno civile e sociale.

La critica a Parmenide: il nuovo senso (significato) dell'essere.

Nei dialoghi della vecchiaia (il "Parmenide", il "Sofista") Platone approfondisce la


sua dottrina del idee rispetto alla teoria dell'essere di Parmenide. Nel dialogo
"Parmenide" Platone fa pronunciare allo stesso Parmenide una serie di
obiezioni alla propria dottrina del idee, che Platone prende in considerazione per
confutarle e quindi per rafforzare la dottrina medesima.
L'obiezione principale mossa da Parmenide consiste nel fatto che le idee di Platone
sono sì eterne ed immutabili come l'essere parmenideo, però sono anche molteplici:
vi sono tante idee quanti sono i generi di cose. Per Platone quindi vi sono tanti esseri,
mentre per Parmenide l'essere è unico e tutto il resto è non essere, è niente, cioè
illusione e apparenza.
Platone era un ammiratore di Parmenide per la logica rigorosa del suo pensiero.
Proprio per questo definisce Parmenide "venerando e terribile"; terribile per la forza
ferrea della sua logica. Tuttavia Platone è costretto a rendersi conto della necessità
di rinnegare la teoria dell'essere di Parmenide per salvare la propria concezione
della molteplicità delle idee, ossia della molteplicità degli esseri. Platone è cioè
costretto a commettere il cosiddetto "parricidio" o "parmenicidio". L'essere cui
pensa Parmenide, osserva Platone, è l'essere puro, l'essere assoluto, cioè l'essere in
65

generale, pertanto Parmenide ha certo ragione quando afferma che il contrario


dell'essere assoluto è il non essere assoluto, cioè il niente e che il niente, il non
essere assoluto, allora non esiste. Tuttavia, precisa Platone, ci sono due sensi del
non essere:
1. c'è il non essere assoluto come opposto o contrario dell'essere assoluto, per cui
allora è vero che il non essere non esiste;
2. c'è però anche il non essere relativo, inteso come un essere diverso da un altro
essere, per cui in questo senso il non essere allora esiste.
È vero ad esempio che albero non significa essere, e in questo senso albero è non-
essere. Ma albero non significa nemmeno niente; non è il contrario di essere ma è un
essere diverso che, in quanto tale, esiste anch'esso. Quindi il non essere, quando non è
inteso come nulla, come assolutamente contrario all'essere, ma è invece inteso in
senso relativo, ossia come un essere diverso da un altro essere, è pure esso esistente.
Se il non essere relativo, cioè il non essere una certa cosa ma l’ essere una cosa
diversa, esiste, vuol dire allora che possono esistere molti esseri diversi. In questo
modo esiste sia la molteplicità delle idee sia la molteplicità delle cose sensibili.
Infatti, ogni idea e ogni cosa per essere quello che è deve essere diversa da tutte
le altre, ossia deve "non essere" tutte le altre. Perciò, in senso relativo, inteso
come diverso, anche il non essere esiste.
Avendo dimostrato e confermato che le idee sono molteplici e che sono in relazione
fra loro, come descritto trattando della struttura del mondo delle idee e dei quattro
gradi delle idee medesime, Platone individua e definisce quindi gli attributi
(proprietà) fondamentali delle idee, che egli chiama "generi sommi" o "idee
generalissime" e che sono cinque: l'essere, l'identico, il diverso, la quiete e il
movimento.
Infatti, ogni idea innanzitutto esiste e quindi è essere. Ogni idea poi è identica a se
stessa. Ma se è identica a se stessa allora è diversa dalle altre. Inoltre ogni idea può
starsene da sola, ossia essere in quiete, oppure può entrare in relazione con le altre,
ossia essere in movimento, muoversi verso le altre idee includendole od
escludendone. Potendo anche essere in movimento, le idee allora non soltanto sono
molteplici ma sono altresì in divenire, ossia divengono nel senso che, entrando in
relazione con altre idee, ne partecipano agendo su di esse o subendo un'azione da
esse. In tal modo, contro Parmenide che concepiva l'essere non solo come unico
ma anche immobile, Platone afferma invece sia la molteplicità sia il divenire, la
mobilità, delle idee e, quindi, la molteplicità e il divenire dell'essere poiché anche le
idee sono "essere", anzi di grado superiore all'essere delle cose. Essendo poi le idee in
relazione con le cose sensibili, dal momento che sono il modello e la causa della loro
conoscenza, consegue che alla molteplicità e al divenire delle idee corrisponde pure
la molteplicità e il divenire delle cose sensibili medesime.
66

La dialettica.

Abbiamo visto che per Platone le idee costituiscono nel loro insieme una struttura
gerarchica (vi sono idee inferiori e idee superiori) formata da quattro gradi di idee,
così come, per Platone, quattro sono anche i gradi della conoscenza.
Per Platone inoltre vi è un netto dualismo (contrapposizione) sia ontologico (che
riguarda l'essere, la realtà) tra mondo sovrasensibile e mondo sensibile, ossia tra
anima e corpo, sia un dualismo gnoseologico (che riguarda la conoscenza) tra
opinione e scienza, ossia tra conoscenza sensibile e conoscenza razionale.
Gli uomini comuni si fermano alla conoscenza sensibile, cioè ai primi due gradi
dell'opinione; i matematici arrivano al primo grado della scienza, o conoscenza
razionale, e solo i filosofi giungono al secondo grado della scienza, ossia alla
conoscenza delle idee-valori.
La dialettica è la stessa filosofia o, meglio, il metodo applicato nel fare filosofia.
Platone definisce di due tipi di dialettica:
1. la dialettica come confutazione, quando si dimostra falsa qualcosa;
2. la dialettica come unificazione e divisione delle idee, che mostra le relazioni
esistenti fra le idee; questo secondo tipo di dialettica è dichiarato il più
importante.

La dialettica come confutazione.

Nel "Menone" Platone precisa che la dialettica si serve di ipotesi su ciò che si vuol
sapere e ne deduce le conseguenze per giudicare in base ad esse quale è l'ipotesi vera
e quale è l'ipotesi falsa. In particolare, dice Platone nel "Fedone", la dialettica
consiste nel formulare un'ipotesi circa ciò che si vuol sapere, ad esempio l'ipotesi
circa la causa di una determinata realtà, e nell'esaminare quali conseguenze ne
derivano: se esse sono in contraddizione fra di loro, l'ipotesi può essere
considerata falsa; se invece le conseguenze non sono in contraddizione ma in
accordo, allora l'ipotesi può essere confermata. Però, aggiunge Platone nel
"Parmenide", non basta formulare una sola ipotesi, bisogna invece risalire ad
ipotesi più generali finché non si giunga ad un principio, ad una causa, la cui
verità possa essere accertata e verificata con sicurezza, e soprattutto bisogna
assumere anche l'ipotesi opposta alla prima e dedurne ugualmente le conseguenze.
Infatti, solo la confutazione dell'ipotesi opposta ci può assicurare che quella non
confutata è vera.
La dialettica come confutazione mostra, secondo Platone, la differenza esistente
fra matematica e filosofia e la superiorità della filosofia. La matematica infatti
parte da ipotesi, nello specifico da postulati, e ricava le conseguenze che
necessariamente derivano, cioè i teoremi. Ma la verità dei postulati non è dimostrata
dalla matematica, perciò, conclude Platone, essa non è vera scienza. La filosofia
invece parte anch'essa da ipotesi, ma non le considera vere già in partenza come fa la
67

matematica in riferimento ai suoi postulati, poiché anche le ipotesi filosofiche di


partenza devono essere verificate e dimostrate.

La dialettica come unificazione e divisione delle idee.

Il filosofo è per Platone colui che conosce il mondo delle idee ed inoltre colui che,
mediante l'intelletto (il ragionamento), è in grado di cogliere (comprendere) le
relazioni esistenti tra le idee, le quali sono di implicazione, cioè di unificazione,
quando un'idea implica un'altra idea, nonché di esclusione, cioè di divisione, quando
un'idea ne esclude un'altra, potendo risalire in questo modo da idea a idea fino a
cogliere l'idea del Bene, che è l'idea somma e assoluta perché non dipende da
nessuna altra idea.
Il procedimento o il metodo col quale si colgono le relazioni fra le idee passando da
un'idea all'altra è appunto la dialettica come unificazione e divisione delle idee,
che si può quindi definire come la scienza che stabilisce le relazioni fra le idee per
ognuna delle quali, in tal modo, si può dare la relativa definizione.
Le idee possono implicarsi una con l'altra od escludersi una dall'altra. L'implicazione,
ossia l'unificazione di un'idea ad un'altra, e l'esclusione, ossia la divisione (qui=
separazione) di un'idea da un'altra, sono appunto i due modi in cui procede la
dialettica come unificazione e divisione:
1. procede per unificazione delle idee quando parte da idee particolari e risale
gradualmente, per implicazione (unendo un'idea ad un'altra e così via), alle
idee più generali fino a giungere all'idea somma del Bene;
2. procede per divisione del idee quando parte dall'idea somma del Bene, o
comunque da idee generali, e scende gradualmente, per esclusione (dividendo e
separando un'idea da un'altra e così via), fino a idee particolari.
In questa maniera la dialettica come unificazione e divisione riesce ad
individuare, entro la complessiva struttura del mondo delle idee, il posto che ogni
idea occupa in relazione alle altre, cosicché, definendo il posto che ogni idea
occupa, tale dialettica è in grado di dare anche una più precisa definizione per
ogni determinate idea.
Esempio: definizione del posto occupato dall'idea di filosofia rispetto alle altre idee e
quindi definizione della stessa filosofia:
-la filosofia implica attività ed esclude l'inerzia (l'inattività);
-l'attività implicata è quella intellettuale ed esclude perciò quella manuale;
-l'attività intellettuale implicata è quella che si occupa della conoscenza delle idee ed
esclude perciò quella delle cose sensibili.
Risulta ricavata in tal modo la definizione di filosofia: la filosofia è attività
intellettuale che si occupa della conoscenza delle idee ed esclude quella delle cose
sensibili.
68

ARISTOTELE (384-383; 322-321 a.C.)

Nasce a Stagira, al confine macedone. A 18 anni si reca ad Atene, entra


nell'Accademia e diventa allievo di Platone, rimanendovi per vent'anni, fino a che
Platone resta in vita. Poi si reca in Asia minore, ad Asso e a Mitilene. Nel 343-342
Filippo il Macedone lo chiama a corte e gli affida l'educazione del figlio Alessandro,
il futuro Alessandro il Grande. Se in qualità di precettore Aristotele ha potuto
condividere l'idea di unificare le città greche sotto il regno macedone, egli non
capisce in ogni caso l'idea di Alessandro di ellenizzare i “barbari” (condurli a
condividere i costumi greci, dell'Ellade) e di parificarli con i Greci. Nel 335-334
ritorna ad Atene e prende in affitto alcuni edifici vicino ad un tempietto dedicato ad
Apollo Licio, da cui il nome di "Liceo" dato alla scuola che Aristotele fonda in quel
luogo. Poiché Aristotele impartiva i suoi insegnamenti passeggiando nel giardino
della scuola, essa è stata chiamata anche Peripato (dal greco "peripatòs" che significa
passeggiata) e "Peripatetici" sono stati nominati i suoi seguaci. Nel 323 a.C., morto
Alessandro, sorge in Atene una forte reazione antimacedone in cui è coinvolto anche
Aristotele, incolpato di essere stato maestro di Alessandro Magno. Aristotele fugge a
Calcide, nell’Eubea, patria di sua madre, dove muore nel 322-321 a.C. dopo pochi
mesi di esilio.
Il tempo in cui Aristotele si trova a vivere è già profondamente diverso da quello del
suo maestro Platone. La Grecia perde la sua indipendenza ed è sottomessa alla
Macedonia. Il cittadino greco, non più diretto protagonista della vita pubblica, perde
quella passione politica che aveva caratterizzato il platonismo e si rivolge ad altri
interessi, soprattutto conoscitivi ed etici. Questo mutato clima storico-culturale si
riflette nella filosofia di Aristotele.

Gli scritti di Aristotele.

Gli scritti di Aristotele si dividono in due grandi gruppi: 1) gli scritti "essoterici"
(esterni), composti per lo più in forma di dialogo e destinati al grosso pubblico,
esterno alla scuola, nei quali Aristotele fa uso di miti e di altri elementi di attrattiva e
di cui sono rimasti solo pochi frammenti; gli scritti "esoterici " (interni, riservati),
destinati ai discepoli e quindi riservati, segreti. Ci sono pervenuti quasi tutti, ma solo
quasi trecento anni dopo, nella metà del primo secolo avanti Cristo quando furono
pubblicati da Andronico di Rodi.
Gli scritti esoterici appaiono impostati in maniera sistematica e compiuta, a
differenza di Platone, pur se il pensiero di Aristotele ha subito mutamenti, passando
da una iniziale adesione alla filosofia di Platone ad un successivo distacco, nonché da
interessi prevalentemente filosofici ad interessi scientifici particolari.
Gli scritti esoterici trattano di vari argomenti. Innanzitutto gli scritti di logica (noti
complessivamente col nome di "Organon", che in greco significa strumento
metodologico di ricerca) e precisamente: Categorie, Sull'interpretazione, Analitici
primi, Analitici secondi, Topici, Elenchi (= confutazioni) sofistici.
69

Segue poi l'opera più famosa, la Metafisica, in 14 libri, scritta tuttavia in periodi
diversi.
Quindi gli scritti di filosofia naturale, di cui i principali sono la Fisica, in otto libri,
e il trattato Sull'anima, in tre libri.
Infine gli scritti di etica, politica, poetica e retorica: l'Etica nicomachea, edita dal
figlio Nicomaco; la Politica, in otto libri; la Retorica, in tre libri, e la Poetica, di cui
ci è giunta solo la parte riguardante l'origine e la natura della tragedia.
Numerose sono anche le opere di scienza naturale, specialmente di studio degli
animali.
Dalla varietà degli argomenti trattati emerge il carattere sistematico-enciclopedico
della filosofia di Aristotele.

I rapporti fra Platone e Aristotele. La ripartizione enciclopedica delle scienze.

Dapprima discepolo di Platone, Aristotele si distacca progressivamente dal pensiero


platonico, pur conservando sempre il massimo rispetto e grande riconoscenza per il
proprio maestro. Le differenze fra Platone e Aristotele, oltre che riguardare
specifiche teorie, rispecchiano nell'impostazione di fondo la diversa concezione degli
scopi e della struttura del sapere, quale derivata dal passaggio dall'età classica a
quella ellenistica.
-Platone è convinto della finalità politica della conoscenza e concepisce il filosofo
come governante della città. Aristotele concepisce la filosofia come conoscenza
disinteressata della realtà e vede il filosofo soprattutto come sapiente o scienziato,
dedito esclusivamente alla ricerca e all'insegnamento. In Platone prevale l'intento
politico-educativo, in Aristotele quello conoscitivo e scientifico.
-Platone vede il mondo secondo un'ottica verticale e gerarchica, composto dalla
superiore realtà delle idee e dalla realtà inferiore delle cose sensibili, distinguendo in
modo corrispondente fra conoscenze superiori e conoscenze inferiori. Aristotele
guarda il mondo secondo un'ottica tendenzialmente orizzontale e unitaria,
considerando tutti i diversi tipi di realtà su di un piano di pari dignità ontologica e
tutti i tipi di scienze e di conoscenze su di un piano di pari dignità gnoseologica per
cui, secondo Aristotele, la realtà, pur essendo unitaria, si divide in vari settori,
ognuno dei quali è oggetto di scienze distinte, basate ciascuna su principi e metodi
propri.
-Aristotele lascia cadere gli influssi mistico-religiosi presenti nella filosofia di
Platone, derivanti dalla religione orfica e misterica, e privilegia un'impostazione del
discorso filosofico più rigorosa, meno idealistica e più scientifico-razionale.
Mentre Platone nutriva maggior interesse per le scienze matematiche, Aristotele
invece ha maggior interesse per le scienze empiriche, fisiche e naturali.
-Infine, mentre l'ironia e la maieutica ereditate da Socrate hanno indirizzato Platone
ad un tipo di filosofare mai compiuto ed inteso invece come ricerca senza fine, lo
spirito scientifico di Aristotele lo conduce ad una sistemazione organica delle
conoscenze acquisite e a una distinzione dei diversi temi e problemi secondo la
70

differente natura ed anche secondo una conseguente differenziazione dei rispettivi


metodi.
Nasce così il sistema aristotelico enciclopedico del sapere con le sue parti: logica,
metafisica, fisica, psicologia, politica, etica, estetica, retorica, poetica.

Il quadro delle scienze.

Aristotele distingue le scienze in: pratiche, poietiche e teoretiche:


1. le scienze pratiche indagano le azioni umane per ricavarne norme di condotta
morale: sono l'etica e la politica, che studiano il comportamento individuale e
quello collettivo;
2. le scienze poietiche o produttive (dal verbo greco "poiéin" che significa fare,
produrre), che studiano la produzione artistica e letteraria e sono la poetica, la
retorica, l'estetica; ma vengono considerate anche quelle relative alla
produzione di oggetti e alle tecniche;
3. le scienze teoretiche, che non riguardano né l'azione né la produzione ma solo
la pura contemplazione, ossia il puro conoscere come tale; hanno come scopo
la conoscenza disinteressata (non strumentale e non indirizzata a fini
particolari) della realtà; esse hanno per oggetto il necessario (ossia ciò che non
può essere diverso da così come è), mentre le scienze pratiche e poietiche
hanno come oggetto il possibile (ossia ciò che può essere diverso da così come
è); le scienze teoretiche sono: la fisica, la matematica, la metafisica.
La fisica studia la sostanza che ha la capacità di movimento, ossia la sostanza
sensibile, quella dei corpi materiali. La concezione aristotelica della fisica è
profondamente diversa da quella odierna, che trae la sua origine da Galileo. Infatti
per Aristotele la fisica è scienza qualitativa e di ricerca di essenze e forme (quindi è
soprattutto descrizione dei fenomeni), mentre per Galileo essa è invece scienza
quantitativa (quindi è soprattutto misurazione dei fenomeni). Paragonata alla nostra,
quella di Aristotele è più una metafisica che una fisica.
La matematica: a differenza di Platone e dei Pitagorici, Aristotele ritiene che la
matematica non riguardi le cose sensibili e nemmeno enti autonomi. Per Aristotele la
matematica si occupa solo di alcune (non tutte) proprietà delle cose sensibili, come le
lunghezze e i piani ed inoltre gli oggetti di cui tratta non sono enti che sussistono di
per sé, come per Platone (il quale afferma che i numeri esistono indipendentemente
dalla nostra mente, cioè anche se non sono pensati), ma sono solo astrazioni del
pensiero.
La metafisica è la scienza fondamentale, la forma di conoscenza prima, ossia
"filosofia prima" perché, a differenza delle scienze particolari, anziché indagare
separatamente i diversi settori della realtà essa si interroga sulla realtà in generale, per
cui essa è "prima" delle altre scienze nel senso che viene prima di esse in quanto
studia l'oggetto comune a tutte quante, cioè l'essere (la realtà in generale) e i principi
(le caratteristiche) dell'essere. È la scienza più alta, scienza divina.
71

La logica o "analitica".

Nella sua classificazione, o quadro, delle scienze Aristotele non ricomprende la


logica perché, a suo avviso, essa non è una scienza ma piuttosto uno strumento (in
greco: "organon"), ossia il metodo del ragionamento, in quanto tale applicabile a tutte
le scienze. Aristotele non usa il termine "logica", che è stato introdotto
successivamente, e neppure il termine "organon", adoperato per la prima volta da
Alessandro di Afrodisia. Impiega invece in termini di "analitica", che significa "fare
l'analisi", ossia scomporre il ragionamento nei suoi elementi costitutivi. L'analitica
indica cioè il metodo con cui, partendo da una data proposizione o dichiarazione, si
procede a scomporla nelle parti in cui è costituita, per cui più facilmente si può
verificare se le singole parti sono o no corrette, potendosi in tal modo concludere
sulla correttezza e giustificazione o meno della proposizione complessiva.
In generale la logica è lo studio del pensiero e del linguaggio (in greco "logos") o,
meglio, del pensiero come esso si esprime attraverso il linguaggio. Scopo principale
è la distinzione tra proposizioni corrette o non corrette.
In particolare per Aristotele la logica è il metodo del ragionamento e la tecnica
dimostrativa che definisce i requisiti, le caratteristiche, che deve possedere una
proposizione o un ragionamento per essere corretto, non nel senso di vero ma di
coerente, ossia non contraddittorio. La logica di Aristotele è stata perciò definita
"logica formale", perché utilizzata e finalizzata ad analizzare la forma del
ragionamento più che la verità o falsità del ragionamento stesso, ossia finalizzata a
verificarne la coerenza, cioè l'ordine corretto delle varie parti del ragionamento
svolto. Tuttavia Aristotele non ha voluto dare alla logica un'impostazione puramente
formale, del tutto slegata dai contenuti, dagli aspetti di verità o falsità delle
proposizioni o dei ragionamenti. Per Aristotele la logica non deve escludere un
rapporto tra ragionamento e realtà, ossia fra la correttezza e l'ordine coerente del
ragionamento e la sua corrispondenza alla realtà.
Nelle sue opere di logica Aristotele inizia partendo dalla concezione platonica di
dialettica come procedimento di divisione e unificazione delle idee per stabilirne le
relazioni, cioè per stabilire in quali casi le idee si implichino fra loro e in quali no,
vale a dire in quali casi un predicato appartiene ad un soggetto o non gli appartiene.
Aristotele distingue quattro modi in cui il predicato può essere formulato e quindi
quattro tipi di predicato:
1. la definizione, quando il predicato è usato per definire il soggetto cui si
riferisce. In questo caso vi è identità fra predicato e soggetto: per esempio
nella definizione "l'uomo è (=) un animale razionale". La definizione si ottiene
ricavando rispetto al genere cui il soggetto appartiene la differenza specifica,
che è ciò che caratterizza e distingue il soggetto da ogni altro individuo, cosa
o specie che rientrano nel medesimo genere. Nel nostro esempio, "animale" è
il genere e "razionale" è la differenza specifica che distingue e definisce
l'uomo rispetto a tutti gli altri animali.
2. Il genere, che è un predicato nel quale il soggetto rientra interamente ma che è
tuttavia più ampio del soggetto. Nel nostro esempio, infatti, l'uomo rientra nel
72

genere degli animali ma non si identifica con questo perché non ogni animale
è un uomo.
3. La proprietà, che è un predicato il quale, pur non esprimendo l'essenza
specifica, la definizione precisa del soggetto, può tuttavia appartenere soltanto
ad esso. Per esempio, se il soggetto è "uomo", una sua proprietà è "colto" o
"incolto".
4. L'accidente, che è un predicato che può o non può appartenere ad un certo
soggetto; esprime ciò che accade e capita o no in modo accidentale (casuale)
al soggetto. Per esempio se il soggetto è "uomo", un suo accidente è "alto" o
"basso".
La logica di Aristotele, composta da sei trattati, svolge argomenti che vanno da
quelli più semplici a quelli più complessi: indaga e analizza dapprima i concetti e
le categorie, poi le proposizioni e quindi il ragionamento.

I concetti e le categorie.

La logica di Platone, che egli chiamava dialettica, era scienza delle idee (cioè di
realtà universali e separate dal mondo sensibile) nonché delle relazioni fra le idee
medesime. Aristotele respinge la teoria di Platone concernente l'esistenza di un
mondo delle idee (quali modelli delle cose e cause di conoscenza delle cose stesse)
separato e distinto dal mondo sensibile. Una volta eliminato da parte di Aristotele il
mondo sovrasensibile delle idee, la logica rimane scienza di concetti non più
separati dalle cose sensibili ma che esprimono gli aspetti universali, ossia le
caratteristiche generali, universali e comuni, di realtà (cose) sensibili appartenenti ad
una medesima specie, genere o categoria. In effetti Aristotele non usa il termine
"concetti", introdotto successivamente, ma quello di "universali".
I concetti sono il primo elemento della logica: sono le parole, i termini del
linguaggio, intendendosi per termini del linguaggio gli elementi della proposizione.
Sono i singoli nomi delle cose, sia individuali che collettive, e che in grammatica
costituiscono la prima parte del discorso ( il nome).
Aristotele rileva che i concetti, ossia i termini o parole o nomi, sono distribuiti
secondo una scala che va dai concetti più estesi, generali ed universali, a quelli meno
estesi e più particolari. I concetti più generali sono i concetti di genere delle cose
(ossia il genere a cui un gruppo di cose appartiene). Meno ampi e più circoscritti sono
i concetti di specie. Ad esempio il quadrato appartiene al genere dei poligoni ed alla
specie dei quadrilateri. Al gradino più basso della scala dei concetti vi sono i concetti
elementari, quelli più specifici e particolarissimi che sotto di loro non hanno nessun
altro concetto, nessuna ulteriore e possibile specificazione. I concetti elementari
sono quelli che indicano le singole cose concrete, i singoli individui. Col termine
"individuo" Aristotele non indica solo le singole persone (ad esempio Socrate,
Mario, Giorgio) ma anche le singole e specifiche cose concrete (ad esempio questa
matita qui, questo albero qui). Individuo significa infatti ciò che è "indivisibile",
ossia che non è ulteriormente divisibile in più specifici casi particolari, in altre
possibili sottocategorie. Ad esempio "Socrate" o "questo albero qui" non possono
73

essere suddivisi in casi più particolari od ulteriori sottocategorie. Aristotele chiama i


concetti elementari o individui col nome di "sostanze prime", perché sono le
sostanze di base, le realtà che esistono di per sé, al di sotto delle quali non ve ne sono
altre di più particolari e specifiche. Le specie e i generi in cui rientrano le sostanze
prime sono invece chiamati da Aristotele "sostanze seconde".
Oltre alle sostanze prime e seconde, Aristotele osserva che le proposizioni sono
composte da altri termini, che vi sono cioè altri tipi di termini: le proprietà e gli
accidenti. Le proprietà sono predicati, ossia caratteristiche che, pur non esprimendo
l'essenza specifica (ciò che precisamente è), o sostanza specifica, del soggetto cui si
riferiscono, non possono tuttavia che appartenere soltanto ad esso. Per esempio, se il
soggetto è "uomo" una sua proprietà è "colto" o "incolto". Gli accidenti sono invece
predicati che possono o non possono appartenere (riferirsi) ad un certo soggetto. Essi
esprimono ciò che accade, ciò che capita o non capita in modo accidentale (casuale)
al soggetto. Per esempio, se il soggetto è "uomo", un suo accidente è "alto" o "basso".
Ebbene, Aristotele nota che tutti i concetti, ossia tutti i termini o parole, siano essi
sostanze prime o seconde, proprietà o accidenti, sono riconducibili (rientrano in) a
dieci generi supremi, quindi più in alto dei generi nella scala dei concetti, che egli
chiama "generi sommi" o "categorie". Sono sommi perché al di sopra di essi non vi
è alcun altro genere superiore nel quale essi possano a loro volta rientrare. Al gradino
più basso, come visto, vi sono invece gli individui, o sostanze prime, sotto i quali non
vi è niente altro. Le dieci categorie, o generi sommi, sono quelle che vedremo anche
nella metafisica: sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, stato, ecc.
Dal punto di vista logico le categorie sono i modi più generali con cui noi pensiamo
le cose e parliamo delle cose.
Ma anche dal punto di vista logico rimane tuttavia in Aristotele un'impostazione
metafisica perché reifica (trasforma i concetti astratti in cose concrete) i termini del
discorso, parlando ad esempio della sostanza non come soggetto di un predicato ma
come l'essenza di un ente. Aristotele approfondisce poi la differenza tra la sostanza e
gli accidenti, dicendo che ogni sostanza è sostrato, che cioè sta sotto (dal latino "sub-
stare", da cui il termine "substantia") ad ogni altro termine e che, inoltre, la sostanza
prima è separata, cioè esiste separatamente dalle altre sostanze (ad esempio Socrate
esiste indipendentemente dall'esistenza di Platone), mentre gli accidenti sono sempre
uniti a qualche sostanza. E poi, ancora, la sostanza in sé non ha contrario (non esiste
il contrario di Socrate o di uomo, mentre esiste il contrario dell'accidente "bianco"
come di ogni altro accidente). La sostanza, altresì, non consente gradazioni (non si
può essere più o meno uomo, mentre si può essere più o meno bianco), ma può
accogliere in sé, tuttavia successivamente, i contrari, cioè essere caratterizzata in
seguito anche dai contrari: ad esempio, un uomo può essere prima bianco e poi nero,
cioè molto abbronzato, mentre l'accidente "bianco" non può mai essere "nero".
Infine, la sostanza prima è "un questo", ossia solo un certo e preciso individuo o
ente, mentre gli accidenti sono soltanto "un quale", indicano cioè quale carattere o
proprietà appartiene casualmente ad una data sostanza prima.
Tutti i concetti o termini (generi sommi, generi, specie, sostanze prime o individui)
hanno due caratteristiche: l'estensione e la comprensione.
74

L'estensione dei concetti è la loro ampiezza, la loro universalità, ossia la capacità di


contenere in sé altri concetti che costituiscono casi particolari dei concetti più estesi
(ad esempio, la specie "uomo" è un caso particolare che rientra nel genere "animale",
il quale è quindi più esteso, più ampio).
La comprensione dei concetti è il loro grado di specificità, di particolarità, ossia
quanto si distingue da altri concetti: più un concetto è specifico e distinto dagli altri
tanto più esso è comprensibile nei suoi dettagli, nelle sue particolarità.
Così, percorrendo la scala dei concetti dall'alto verso il basso si passa
progressivamente dai generi sommi, che hanno il massimo grado di estensione e il
minimo grado di comprensione, alle sostanze prime o individui, che hanno il
massimo grado di comprensione ed il minimo grado di estensione. Al contrario,
percorrendo la scala dei concetti dal basso verso l'alto si passa progressivamente dal
grado di maggiore di comprensione e minor estensione a gradi di minor
comprensione e di maggior estensione. Quanto maggiore è l'estensione di un
concetto tanto minore è la sua comprensione e viceversa: così, il genere ha
maggior estensione di una sua specie ma una minore comprensione; la specie ha
minore estensione del genere però ha maggior comprensione.
Scala dei concetti

generi sommi o categorie (sostanza, qualità, quantità, eccetera)


generi (ad esempio animale)
specie (ad esempio uomo)
sostanze prime o individui (ad esempio Socrate, questo albero qui)

La definizione dei concetti o termini.

Per Aristotele la definizione di un concetto, di una parola, non consiste nello


spiegare il significato di quel concetto, di quella parola, ma si ricava collegando al
soggetto un predicato che, appunto, lo definisca, che ci dica che cosa è; ad esempio:
"l'uomo è un animale razionale". Nella definizione vi è identità fra soggetto e
predicato: "uomo" (soggetto) è identico a "animale razionale" (predicato).
Intendendo in tal modo la definizione, allora le categorie, in quanto generi sommi
entro cui rientrano tutti gli altri termini del linguaggio, non sono definibili perché
non possono essere collegate a nessun altro predicato o termine al di sopra di esse.
Altrettanto indefinibili, all'estremo inferiore della scala dei concetti, sono gli
individui o sostanze prime perché sono entità uniche, di base, a cui non può essere
collegato nessun altro predicato al di sotto di essi. Sono invece definibili i concetti o
termini che occupano una posizione intermedia nella scala dei concetti, ossia i generi
e le specie.
Pertanto, la definizione si ottiene stabilendo il genere prossimo (quello più vicino) in
cui rientra il soggetto, il termine, che si vuol definire e quindi individuando la
differenza specifica che distingue il soggetto da ogni altra specie che rientra nel
genere prossimo stabilito. In sintesi, la definizione si ottiene per genere prossimo e
differenza specifica. Secondo l'esempio di cui sopra, se voglio definire cos'è
75

"l'uomo" devo stabilire quale è il genere prossimo in cui rientra, che non è quello di
"vivente", perché lo sono anche le piante, ma è quello di "animale" e poi devo
individuare la differenza specifica che contraddistingue il soggetto che vogliamo
definire, cioè l'uomo, da ogni altra specie che rientra nel genere "animale". Nel nostro
esempio, la differenza specifica è "razionale" perché nessun altro animale è razionale.
Dunque l'uomo è definito come animale razionale.

Le proposizioni o giudizi.

Le proposizioni sono costituite dall'unione di un concetto, o nome o termine o


parola, con almeno un predicato, verbale o nominale: ad esempio, "Mario corre"
oppure "Mario è simpatico".
I nomi e i predicati presi ciascuno da solo non sono né veri né falsi (ad esempio,
quel Mario lì -sostanza prima- ci può essere o non essere e può correre o non correre).
Sono le proposizioni invece che possono essere vere o false: sono vere quando
corrispondono alla realtà verificabile dei fatti di cui si fa esperienza, effettivamente
percepiti; sono false quando non vi corrispondono. Poiché le proposizioni affermano
o negano qualcosa circa la realtà dei fatti, esse allora "giudicano" questi fatti stessi, se
cioè sono veri o falsi, positivi o negativi, ecc. Perciò le proposizioni sono chiamate
anche "giudizi".
Dunque dei concetti (i nomi e i predicati) presi isolatamente non si può dire né che
siano veri né che siano falsi, poiché vera o falsa è solo una combinazione fra di essi.
Ciò vuol dire che il vero e il falso nascono solo con la proposizione o giudizio, del
quale la proposizione è l'espressione logica. Una proposizione è vera o falsa quando
ciò che essa afferma o nega corrisponde o non corrisponde alla realtà (realismo logico
e non logica simbolica).
Aristotele riconosce che ci sono pure proposizioni che non sono né vere né false,
come le preghiere, le domande, i comandi, le esclamazioni, o quelle di carattere
retorico o poetico. Tuttavia per Aristotele tali proposizioni non rientrano nella
logica ed egli non se ne occupa.
In effetti, la logica di Aristotele si occupa esclusivamente delle proposizioni
dichiarative (o apofantiche), che affermano o negano qualcosa di verificabile come
vero o falso in corrispondenza con la realtà.
In particolare, Aristotele distingue tra:
1. proposizioni di qualità, che si distinguono a loro volta in proposizioni
affermative o negative;
2. proposizione di quantità, che si distinguono a loro volta in universali,
particolari o singolari.
Aristotele analizza quindi il rapporto sussistente fra le proposizioni universali
affermative o negative e le proposizioni particolari affermative o negative,
costruendo il cosiddetto "quadrato degli opposti" o "quadrato logico" (per la
visualizzazione del quale si rimanda ad un qualsiasi manuale di storia della
filosofia), ed esaminando i rapporti di verità e falsità esistenti tra le diverse forme di
relativa comparazione-opposizione.
76

Dopo aver distinto i giudizi per qualità e per quantità, Aristotele li distingue anche
per modalità, ossia secondo il modo in cui il predicato è collegato al soggetto,
distinguendo ulteriormente, in tal senso, tra giudizi di asserzione o di affermazione
(Socrate è un uomo); giudizi di necessità (è necessario che 2+2 sia uguale a
quattro); giudizi di possibilità (è possibile che il tempo diventi brutto); di
contingenza o casualità (è contingente, casuale, che il tempo sia bello); di
impossibilità (è impossibile che il cerchio sia quadrato). Lo sviluppo dello studio dei
giudizi modali ha condotto alla contemporanea "logica modale".

Il ragionamento o discorso e il sillogismo.

La proposizione che afferma o nega qualcosa non è ancora un ragionamento o un


discorso. Il ragionamento, chiamato anche discorso, si ha quando si combinano
tra di esse più proposizioni che contengano ognuna un termine presente anche
nelle altre.
Il tipo perfetto di ragionamento è per Aristotele il sillogismo, ossia il ragionamento
formato da tre proposizioni, o giudizi, di cui la prima è chiamata premessa
maggiore (più estesa), la seconda è chiamata premessa minore e la terza è detta
conclusione, che deriva necessariamente dalle premesse assunte. Nel sillogismo le
due premesse devono inoltre avere in comune un termine, detto termine medio, il
quale occupi in ciascuna di esse una posizione diversa, che sia cioè soggetto nella
prima e predicato nella seconda. Oltre al termine medio, la premessa maggiore
contiene un altro termine, chiamato termine o estremo maggiore, e la premessa
minore contiene pure un altro termine, chiamato termine o estremo minore. La
conclusione, che deriva necessariamente dalle premesse, è formata dagli altri due
termini, quello minore e quello maggiore.

Esempio:

premessa maggiore: ogni uomo è mortale


premessa minore: Socrate è un uomo
conclusione: Socrate è mortale.
Nell'esempio di cui sopra, "uomo" è termine medio; "mortale" è termine maggiore;
"Socrate" è termine minore.
Poiché la conclusione è sempre particolare, il sillogismo va da una proposizione
universale ad una proposizione particolare: il sillogismo è basato cioè sulla
deduzione (=passare dal generale al particolare).
Il sillogismo, in quanto tale, è valido in base alla sola correttezza formale dei
passaggi e dei collegamenti fra premesse e conclusione, ma prescinde di per sé dalla
verità o falsità delle premesse assunte e quindi dalla verità della derivante
conclusione; prescinde cioè dalla corrispondenza delle premesse e della conclusione
con la realtà. Insomma, il sillogismo non serve per acquisire nuove conoscenze
perché, essendo basato sulla deduzione, la conclusione è già implicita nelle premesse,
ma è importante perché ci insegna a ragionare correttamente.
77

Peraltro, Aristotele distingue tre tipi principali di sillogismo:


1. il sillogismo scientifico o dimostrativo;
2. il sillogismo dialettico;
3. il sillogismo eristico o sofistico.

Il sillogismo scientifico o dimostrativo.


Il sillogismo scientifico o dimostrativo si ha quando le premesse da cui si parte
sono vere, cioè corrispondono alla realtà. In questo caso è sicuramente vera anche
la conclusione, senza bisogno di confrontarla con la realtà: è sufficiente confrontare
solo le premesse. Il sillogismo scientifico consente quindi di dimostrare e garantire
la verità della conclusione, ossia che la conclusione è necessariamente così e non
può essere diversa. In tal senso anche Aristotele condivide la concezione platonica
della scienza come conoscenza certa e immutabile, in quanto le conoscenze
scientifiche derivano da una successione necessaria di cause ed effetti.
Le premesse del sillogismo scientifico, ossia le premesse della dimostrazione, quando
sono anche "prime", cioè non dedotte, non ricavate a loro volta da altre ed ulteriori
premesse, sono chiamate da Aristotele i principi della scienza, i quali costituiscono
proposizioni universali (valide per tutti) vere.
Si può giungere ai principi della scienza, ossia a proposizioni universali vere, in due
modi: 1) mediante induzione; 2) mediante intuizione.
L'induzione è un ragionamento e un procedimento attraverso cui dai casi particolari
si risale all'universale, ossia ai concetti generali. Ma l'induzione è soprattutto un
processo di astrazione mentale, che dipende cioè dalla nostra mente o intelletto, e
non è un vero e proprio ragionamento in quanto non dà garanzie che le cose saranno
sempre così come le abbiamo indotte, ossia supposte, perché non si può osservare e
fare esperienza di tutti i casi possibili, passati, presenti e futuri, e quindi essere certi
che l'induzione operata sarà sempre vera anche in futuro o in altre circostanze.
L'intuizione è invece un processo attraverso cui l'intelletto coglie, comprende
immediatamente come evidenti, i principi primi, le proposizioni e verità universali.
I principi primi, cioè i principi delle varie scienze, non sono dimostrabili perché,
essendo per l'appunto primi, essi non derivano da ulteriori cause di cui si possa
giungere a dimostrazione. Essi vengono colti e conosciuti soprattutto mediante
l'intuizione e vengono riconosciuti come veri per la loro evidenza intuitiva.
L'intuizione parte dalla percezione sensibile delle cose particolari, ad esempio di un
singolo uomo (Socrate, Platone o Mario). Ma poiché nelle realtà particolari sono
presenti aspetti universali, comuni a tutte le cose della medesima specie o genere (per
esempio in ogni singolo uomo è presente l'essenza dell'uomo che è la sua razionalità),
quando la percezione si ripete molte volte, ossia quando se ne fa frequentemente
esperienza, allora l'intelletto riesce a cogliere, con riguardo alle varie specie e generi
in cui rientrano le cose particolari, i loro aspetti universali, ossia i loro principi.
Mentre per Platone la scienza, come conoscenza dell'universale, è una reminiscenza
semplicemente occasionata dall'esperienza, per Aristotele invece la scienza deriva
proprio dalla percezione sensibile, ossia dall'esperienza.
78

Ogni scienza procede mediante dimostrazioni, partendo da premesse dimostrate vere.


Però non può risalire indietro all'infinito, nel senso che ogni scienza parte da principi
primi (postulati) che non sono a loro volta dimostrabili ma intuibili.
In merito ai principi primi della scienza, Aristotele distingue tra:
1. principi propri, che sono quelli di base, i postulati di ogni singola scienza (ad
esempio i postulati della matematica);
2. principi comuni ad un gruppo di scienze affini (ad esempio quelli comuni a
tutte le scienze quantitative, che intendono spiegare i fenomeni mediante
misurazione, misurandoli, e per le quali vale dunque il comune principio
secondo cui se si sottraggono quantità uguali a quantità uguali si ottengono
quantità uguali). I principi comuni sono evidenti a tutti e non solo agli
specialisti delle singole scienze e per questo sono detti assiomi che (dal greco
"àxios"=degni) significano proposizioni degne di essere accettate a causa della
loro evidenza.
Per Aristotele dimostrare qualcosa significa individuare, spiegare le cause di quella
cosa. Ma abbiamo visto che i principi della scienza, o delle varie scienze, non sono
dimostrabili bensì solo intuibili poiché trattasi di principi "primi". Tuttavia, prosegue
Aristotele, sono da considerare veri per la loro evidenza intuitiva e, seppur non
dimostrabili, sono la condizione, la base di partenza, di ogni successiva
dimostrazione mediante l'utilizzo, appunto, di sillogismi scientifici o dimostrativi, i
quali partendo dai principi primi ci garantiscono della verità delle loro conclusioni.
Tra gli assiomi, ossia tra i principi primi comuni a più scienze, ve ne sono tre
comuni a tutte quante le scienze e conoscenze, in quanto tali evidenti a tutti e non
solo agli scienziati. Essi sono i tre fondamentali principi della logica:
1. il principio di identità (A=A);
2. il principio di non contraddizione (A non può essere contemporaneamente
anche B);
3. il principio del terzo escluso (o è A o è B; è esclusa una terza possibilità; ad
esempio, piove o non piove; è grande o non è grande, ecc.).

Il sillogismo dialettico.

Come si è visto, il sillogismo scientifico o dimostrativo si ha solo partendo da


premesse basate su principi primi (i principi della scienza) o da premesse vere, cioè
corrispondenti alla realtà per averne fatta effettiva esperienza. Ma quando non si
dispone di principi primi o di premesse vere da cui partire bensì semplicemente
probabili, ossia fondate non sulla scienza ma sull'opinione, si ha allora il sillogismo
dialettico. Esso è un tipo di sillogismo che non conduce a conclusioni sicuramente
vere, ma è comunque utile per discutere in modo corretto e non contraddittorio. Il
sillogismo dialettico è, in tal senso, quello usato nei ragionamenti politici, nella
retorica (arte del bel discorso), nella letteratura e nella poesia.
Questo sillogismo è chiamato dialettico da "dialettica", che Aristotele definisce
come tecnica del discorso corretto (corretto non significa necessariamente vero bensì
non contraddittorio in sé). Mentre Platone considerava la dialettica come scienza
79

delle idee, o meglio delle relazioni tra le idee, e quindi come la scienza più alta, per
Aristotele invece la dialettica non è scienza (non è sillogismo scientifico) ma è una
forma di ragionamento, una forma di sillogismo, più debole perché parte da premesse
non verificate come vere ma solo probabili. Tuttavia il sillogismo dialettico ha per
Aristotele un utile valore pratico. In mancanza di principi o premesse vere, il
sillogismo dialettico assume come premesse opinioni di particolare valore poiché
condivise da tutti o da coloro che sono i più autorevoli.
Dalla distinzione tra sillogismo dimostrativo e sillogismo dialettico deriva una
distinzione della logica, o meglio dell'analitica di Aristotele, in analitica apodittica
(dimostrativa), o scienza del ragionamento dimostrativo e vero, e in analitica
dialettica, o scienza del ragionamento (sillogismo) discorsivo e probabile.

Il sillogismo eristico o sofistico.

Infine, quando il sillogismo non parte da premesse vere e neppure da premesse


probabili e autorevoli ma solo da opinioni apparenti, si ha il sillogismo eristico o
sofistico. Eristica, come si è visto, significa in greco l’arte o la tecnica di impostare i
ragionamenti al solo scopo di far prevalere la propria opinione anche se falsa o in
malafede. Infatti il sillogismo eristico è solo formalmente corretto, ma è una tecnica
disonesta di ragionamento perché tende unicamente al successo nella discussione con
qualsiasi mezzo, anche con l'inganno.

Conclusioni sulla logica aristotelica.

La scoperta della moderna logica simbolica ha notevolmente modificato e rinnovato


la logica aristotelica. Altrettanto, è difficile sostenere che il sillogismo sia l'unica
forma propria di qualsiasi ragionamento logico. Oggi, per esempio, ha avuto molti
sviluppi la logica modale, mentre quella di Aristotele rimane essenzialmente logica
enunciativa, cioè dichiarativa. Ma è indubbio che la logica occidentale nasce con la
logica aristotelica, che resta l'origine di tutti gli sviluppi successivi della logica nel
suo complesso.

La metafisica.

Aristotele è giunto ad occuparsi della "filosofia prima" o "metafisica" dopo essersi


occupato della filosofia fisica. Nella sua ricerca sulla natura ha ripreso il concetto
platonico di filosofia come scienza dei principi o delle cause prime. Ma nella ricerca
delle cause prime della natura Aristotele è pervenuto a risultati che vanno oltre
l'ambito della stessa natura, nel senso che tali cause, come i motori immobili dei
cieli e l'intelletto attivo, quali vedremo nel trattare della fisica di Aristotele, si sono
rivelate del tutto immateriali e dunque non fanno parte della natura fisica. Ciò
induce Aristotele a riconoscere che l'oggetto della filosofia non può consistere solo
nell’individuazione delle cause prime naturali, bensì in una realtà più ampia ed
80

onnicomprensiva, non solo materiale ma altresì immateriale, che egli, si vedrà,


indica come "l'essere in quanto essere". La filosofia dunque, come ricerca delle cause
prime, cioè delle cause del tutto, della realtà nel suo complesso, non è più soltanto
scienza o sapere sulla natura fisica, ma va oltre la fisica e diventa "metafisica" (che
letteralmente significa, appunto, "dopo la fisica") o meglio, secondo la definizione di
Aristotele, diventa anzitutto "filosofia prima". L'essere in quanto essere non è altro
che la totalità dell'essere, ossia tutto ciò che esiste sia di materiale che di immateriale.
Il termine metafisica non è stato impiegato da Aristotele, che usa invece, come
abbiamo visto, l'espressione "filosofia prima". La nascita della parola metafisica è
casuale e risale ad Andronico di Rodi che, mettendo in ordine e classificando le opere
di Aristotele, collocò i libri di filosofia prima dopo quelli di fisica (in greco "metà
physikà"=dopo la fisica). Da allora in poi fu preferito questo nuovo termine, che
definisce idoneamente quella parte della filosofia che indaga le strutture
profonde, le cause prime e i fini ultimi della realtà che stanno dopo la fisica, cioè
al di fuori e al di sopra delle cose sensibili, e che, pertanto, non si possono cogliere
con i sensi, poiché invisibili, ma soltanto col ragionamento. In alternativa, al termine
di metafisica si usa anche quello di "ontologia", benché esso si riferisca ad un aspetto
parziale della metafisica, ossia alle proprietà dell'essere, vale a dire ai modi di essere
della realtà e delle cose in generale.
Aristotele dà quattro definizione di metafisica:
1. indaga le cause e i principi primi o supremi;
2. studia l'essere in quanto essere, cioè la realtà in generale, sia materiale che
immateriale;
3. indaga la sostanza;
4. indaga Dio, la sostanza e le sostanze immobili sovrasensibili.
Sono quattro definizioni distinte ma fra di esse complementari; si integrano nel senso
che ognuna rimanda alle altre: la metafisica è scienza delle cause o principi primi ed
è anche scienza dell'essere. Come scienza dell'essere intende pervenire, appunto, alle
cause prime dell'essere, cioè della realtà in generale. E tutti i significati dell'essere
ruotano a loro volta intorno al significato centrale della sostanza. E Dio, infine, è il
principio o la sostanza somma.
A cosa serve la metafisica? Essa, dice Aristotele, è la scienza più alta perché è
conoscenza disinteressata. Non è legata alle necessità materiali e non è diretta a scopi
pratici. Le scienze particolari non valgono in sé e per sé, ma solo nella misura in cui
raggiungono i loro scopi specifici, pratici. Invece la metafisica è scienza che vale in
sé e per sé. Non corrisponde a bisogni materiali ma spirituali, ossia all'esigenza del
conoscere per il bisogno che l'uomo sente di chiarire i perché più profondi del mondo,
delle cose, del pensiero, dello spirito. Perciò, scrive Aristotele: "Tutte le altre scienze
saranno più necessarie agli uomini, ma superiore a questa nessuna".

La metafisica come scienza delle cause e dei principi primi o supremi.

La scienza si distingue dalla pura constatazione empirica (per esempio di un'eclisse


solare) perché di una cosa, di un fenomeno, si propone di conoscere il perché, cioè la
81

causa o il principio di quella cosa o di quel fenomeno. Tuttavia, se è sufficiente la


conoscenza delle cause o principi di un fenomeno per avere scienza, per avere
scienza metafisica bisogna invece aver conoscenza delle cause e dei principi primi e
supremi. Il che significa che si ha metafisica quando si determinano le cause e
principi non solo di una cosa o di un gruppo di cose o fenomeni, come le scienze
particolari, ma invece di tutte quante le cose, quando cioè si determinano i
principi e i fondamenti comuni di tutta quanta la realtà in generale, della totalità
senza distinzioni, ossia i principi e i fondamenti comuni di tutto l'essere. La
metafisica è allora la scienza del perché ultimo di tutte le cose. È perciò scienza
superiore a tutte le altre: è scienza divina perché è scienza di Dio e che solo Dio
possiede interamente e perfettamente.

La metafisica come scienza dell'essere (ontologia).

Che cos'è l'essere per Aristotele? In polemica con Parmenide, Aristotele afferma
che con il termine essere noi non indichiamo una sola realtà: l'essere non ha
un'unica forma e un unico significato, ma una molteplicità di aspetti e di
significati. L'essere si presenta in molti modi. Anche Platone, introducendo il
concetto di non-essere relativo inteso come "diverso", aveva ammesso la pluralità
degli esseri, ma si era fermato a riconoscere come veri esseri solo le idee, ossia gli
esseri intellegibili (che si possono cogliere con l'intelletto e non con i sensi).
Aristotele invece fa rientrare nel concetto di essere anche le cose sensibili e
divenienti, che divengono trasformandosi continuamente e che, quindi, non sono
immutabili come le idee o i concetti.
Fra i diversi aspetti e significati dell'essere, Aristotele ne individua quattro
fondamentali, che raccoglie in un'apposita tavola:
1. l'essere come categorie o essere per sè (categorie= modi generali di essere);
2. l'essere come atto e potenza;
3. l'essere come accidente (l'opinione);
4. l'essere come vero, come verità (la logica).
L'essere come vero e l'essere come accidente cadono al di fuori dell’indagine
metafisica giacché l'essere come vero è studiato dalla logica; a sua volta l'essere
come accidente, essendo l'essere fortuito o casuale, non è oggetto di scienza perché
la scienza si occupa solo di ciò che è necessario, cioè di ciò che non può essere
diversamente da come è. La metafisica si occupa invece dei due restanti significati
dell'essere, cioè l'essere come categorie e l'essere come potenza e atto.

L'essere come categorie.

Abbiamo visto che Aristotele, nella logica, definisce le categorie come i modi con cui
noi pensiamo e parliamo delle cose. Ma in metafisica le categorie sono anche i modi
secondo i quali le cose sono costituite e sussistono effettivamente (valore sia
logico che ontologico delle categorie). Il termine categorie deriva dal verbo greco
"categorein" che significa giudicare, attribuire significati. In particolare, per categorie
82

Aristotele intende le caratteristiche fondamentali e strutturali dell'essere, quelle


comuni a tutte le cose, a tutta la realtà, ossia le caratteristiche più generali che ogni
essere ha e non può fare a meno di avere.
Aristotele elenca 10 categorie (sono quelle che abbiamo già visto nella logica):
sostanza (un uomo, un cavallo, eccetera); quantità (ad esempio lungo 10 metri);
qualità (ad esempio bianco); relazione (ad esempio figlio di…); luogo (ad esempio
nella piazza); tempo (ad esempio l'anno scorso); stato (ad esempio siede, cammina);
possesso (ad esempio con le scarpe); attività (ad esempio taglia, brucia); passività
(ad esempio è tagliato, è bruciato).

La sostanza.
Di tutte le categorie, la più importante è la sostanza. Solo questi infatti ha una
sussistenza autonoma, mentre tutte le altre presuppongono una sostanza e si
fondano su di essa (la qualità e la quantità sono sempre di una sostanza -un cigno
bianco e grande -; le relazioni sono sempre fra sostanze -un cigno femmina con i
cuccioli- e così via). In questo senso la sostanza è definita anche come "sostrato"
(=la base che sta al di sotto) di ogni altra categoria o modo di essere.
Dichiarando Aristotele che vi sono diversi tipi di essere (cioè di realtà), e in
particolare quattro tipi fondamentali, potrebbe sorgere il pericolo che l'essere risulti
pertanto privo di una qualsiasi unità, per cui non sarebbe più possibile una scienza
complessiva di esso, cioè la stessa "filosofia prima". Tale pericolo è però evitato,
secondo Aristotele, dal fatto che comunque una certa unità dell'essere esiste ed è
precisamente costituita, appunto, dalla dipendenza di tutte le altre categorie dalla
sostanza.
La sostanza è quindi la categoria fondamentale, ma in pratica un essere non esiste
solo come sostanza pura poiché possiede anche altre proprietà corrispondenti ad
una o più delle altre categorie: un cigno non esiste se non con un colore
determinato, con determinate dimensioni, da solo o in compagnia, in un certo luogo e
in un certo tempo, ecc. Quindi la sostanza "cigno" si precisa e si definisce
ulteriormente in base alle altre categorie, che però presuppongono e rimandano tutte
al fatto che, in sostanza, si tratta di un cigno. Senza la sostanza, senza il riferimento
a una sostanza, le altre categorie non hanno in sé esistenza autonoma e
indipendente. Un essere, una cosa, si definisce essenzialmente specificandone la
sostanza.
Questa teoria implica due importanti conseguenze:
1) l'essere si presenta in diversi modi perché diverse e molteplici sono le categorie
dell'essere; quindi l'essere non è univoco ma non è neppure equivoco (cioè senza
riferimenti) in quanto i diversi modi e significati dell'essere (di ogni singola cosa)
hanno tutti un comune riferimento alla propria specifica sostanza;
2) se l'essere si identifica con le categorie, cioè si conosce attraverso le categorie, e
le categorie si basano tutte sulla sostanza, allora la domanda iniziale "che cos'è
l'essere?" coincide con la domanda "che cos'è la sostanza?".
In altri termini, l'essere si definisce sì come categorie ma soprattutto come
sostanza. Quindi, se la metafisica è scienza dell'essere, vuol dire che essa è
83

scienza della sostanza. E la sostanza, a sua volta, è basata sul principio di non
contraddizione: una certa sostanza non può essere contemporaneamente anche
un'altra sostanza diversa.
Aristotele perviene anche attraverso un altro procedimento a stabilire che l'oggetto
più specifico della metafisica è la sostanza. Egli afferma che la metafisica deve
costituirsi in analogia alle altre scienze. Ogni scienza stabilisce i propri principi
primi, assiomi o postulati, che riguardano l'oggetto specifico di ciascuna. Allo stesso
modo la filosofia deve ridurre tutti i molteplici significati della parola "essere" ad un
significato unico e fondamentale, poiché deve considerare l'essere non come
quantità, qualità, movimento, ecc., ma proprio e solo in quanto essere. A tal fine ha
bisogno di un principio o assioma fondamentale che è il principio di non
contraddizione (è impossibile che una cosa, un essere, sia contemporaneamente e
nello stesso luogo uguale a se stesso e diverso da se stesso, oppure uguale e diverso
da un altro essere). Tale principio mostra cioè che ogni essere ha una sua propria
natura determinata che è impossibile negare e che, in questo senso, è necessaria non
potendo essere diversa da così come è. La natura necessaria di un qualsiasi essere è
appunto la (sua) sostanza: la sostanza è l'essere dell'essere, ossia il suo significato
fondamentale.
Sostanza è, per Aristotele, ogni singolo ente (cosa, individuo) che ha una
sussistenza autonoma, che cioè non è proprietà o attributo di un altro ente.
Sostanza è, per esempio, "questo uomo concreto qui", "questo cavallo qui", "questa
mela qui", ecc. Aristotele infatti chiama la sostanza anche come "il questo qui".
Più in particolare, per sostanza Aristotele intende una cosa, un ente, che:
1. è sostrato, base, di tutti gli altri modi di essere (le categorie);
2. che è sussistente di per sé, indipendentemente da altre cose;
3. che è determinato, che cioè non è una qualità generale o universale come le
specie o i generi; perciò è chiamata "sostanza prima" (ad esempio "Socrate"),
distinta dalle "sostanze seconde" relative alla specie (uomo) e al genere
(animale);
4. che è intrinsecamente unitario e non un aggregato di parti.
Ogni sostanza concreta è unione, chiamata da Aristotele, in greco, "sinolo", di due
elementi: la forma e la materia. Per forma Aristotele non intende l'aspetto esteriore
di una cosa, ma la sua intima natura, la sua essenza. L'essenza di una cosa è ciò che la
fa essere ciò che è e che la distingue da ciò che non è, ossia da ogni altra cosa o ente.
Per esempio la forma o essenza dell'uomo è l'anima razionale, la ragione, mentre la
materia dell'uomo è il corpo. La forma è l'elemento attivo che, appunto, dà una
forma specifica alla materia, mentre la materia è l'elemento passivo, che viene
determinato, modellato e strutturato dalla forma. Di conseguenza ciò che caratterizza
una sostanza è allora proprio la sua forma anziché la sua materia. Perciò Aristotele
chiama la sostanza non solo sinolo, ossia unione di forme materia, ma anche, più
brevemente e semplicemente, soltanto forma. Insomma, l'essere come categorie è
soprattutto sostanza e la sostanza è soprattutto forma, per cui vale l'equivalenza:
essere= sostanza= forma, nel senso che tali termini, nella metafisica di Aristotele,
possono essere usati come sinonimi. In effetti, se da un punto di vista empirico
84

sembra che il sinolo (unione di materia e forma) sia ciò che costituisce la sostanza, da
un punto di vista speculativo (logico, conoscitivo) la sostanza per eccellenza è la
forma, poiché è la forma che struttura e qualifica una sostanza. D’altro canto
Aristotele riconosce che vi sono anche sostanze che non sono sinolo, che non sono
cioè unione di materia e forma, ma soltanto forma, prive cioè dell'elemento materiale.
Infatti, come vedremo, Aristotele afferma l'esistenza anche di sostanze soprasensibili
nonché di Dio, che è sostanza sovrasensibile massima. Il sinolo infatti riguarda
esclusivamente le sostanze di cose concrete, sensibili.
Rispetto all'accidente, la sostanza è ente determinato e stabile in quanto essenza
necessaria di una cosa; pertanto è direttamente contrapposta all'accidente stesso, il
quale indica non già l'essenza di una cosa ma ciò che quella cosa può o non può
avere. Ad esempio Socrate come sostanza permane necessariamente un uomo, mentre
può accidentalmente essere, nei vari momenti, allegro o triste, pallido o abbronzato,
ecc. La sostanza dunque è un modo di essere necessariamente in sé e per sé, mentre
l'accidente è un modo di essere fortuito, casuale, della sostanza cui l'accidente si
riferisce.

La dottrina delle quattro cause. La critica del idee platoniche.

Connessa alla teoria della sostanza è la dottrina, o teoria, delle quattro cause. Già si è
visto che una delle definizione di metafisica è per Aristotele quella di indagine sulle
cause e principi primi. Aristotele afferma che la conoscenza e la scienza nascono
dalla meraviglia di fronte all'essere ( di fronte alla realtà del mondo) e consistono nel
rendersi conto della causa delle cose. Ricercare e conoscere la causa di una cosa
significa chiedersi il perché di quella cosa. Ma sono diversi i tipi di perché che
possiamo formulare, per cui sono allora diversi anche i tipi di causa.
Aristotele elenca quattro tipi di cause:
1. la causa materiale, che è la materia di cui una cosa è fatta e che rimane nella
cosa (ad esempio il marmo è causa materiale della statua);
2. la causa formale, che è la forma, il modello, cioè l'essenza necessaria di una
cosa (ad esempio la statua del dio Apollo, la cui causa formale è di
rappresentare e celebrare tale dio; oppure l'anima razionale dell'uomo, che è
l'essenza, o forma, che lo distingue dalle altre specie o generi);
3. la causa efficiente, che è ciò che origina o produce qualcosa ed è ciò che dà
inizio al mutamento delle cose (ad esempio l'artista che scolpisce la statua, o il
padre che è causa efficiente del figlio, o la volontà che è causa efficiente delle
azioni dell'uomo);
4. la causa finale, che è lo scopo, il fine a cui le cose o le azioni tendono (ad
esempio il fine di celebrare con una statua il dio Apollo, o il diventare adulto
che è il fine del bambino).
Aristotele non ha scoperto queste cause, ma ne ha dato una definizione organica.
La dottrina delle quattro cause costituisce il più importante distacco di
Aristotele dalla teoria delle idee di Platone. Per Platone infatti la causa vera sta
85

solo nella forma, cioè nelle idee, che sono le vere cause del mondo e delle cose. Ma,
dice Aristotele, se le idee sono fuori dalle cose e separate da esse, come possono
allora essere causa delle stesse? Per Aristotele il principio o la causa delle cose
non può che risiedere nelle cose stesse, ossia nella loro forma interiore, intrinseca,
nella loro sostanza. Ad esempio "l'umanità" non è un'idea esistente nell’ Iperuranio,
ma indica semplicemente la specie biologica umana, immanente negli uomini e non
separata da essi. Le idee di Platone, dice Aristotele, sono altrettante realtà che si
aggiungono alle realtà sensibili e quindi le idee sono inutili doppioni, che
complicano anziché semplificare la spiegazione. Inoltre le idee, essendo
immutabili, immobili, non sono in grado di spiegare il movimento e il divenire delle
cose sensibili, non possono essere causa efficiente del divenire, ossia delle
trasformazioni e mutamenti che si producono nelle cose.
In sintesi, le prime due cause, quella materiale e quella formale, sono il sinolo, ossia
la materia e la forma che costituiscono le cose sensibili, ed esse sono sufficienti e a
spiegare le cose staticamente. Ma se noi vogliamo studiare le cose
dinamicamente, cioè nel loro svolgimento, nel loro divenire e mutamento, le prime
due cause non bastano. Se considero staticamente un individuo, appare chiaro che
egli è la sua materia e la sua forma e ciò basta a spiegarlo. Ma se mi chiedo "chi lo ha
generato?" e "perché è nato?", allora bisogna fare ricorso alla causa efficiente e
alla causa finale.

La potenza e l'atto e la dottrina del divenire.

Che il divenire esista, che cioè la realtà sia in continuo cambiamento e


trasformazione, è per Aristotele un fatto incontestabile. Rimane invece il problema
del modo in cui il divenire debba essere pensato. Come sappiamo, per Parmenide il
divenire era logicamente impensabile poiché implicherebbe un passaggio dall'essere
al non essere, comportando quindi l'esistenza del nulla. Anche Aristotele afferma che
l'essere non può mai diventare nulla e che dal nulla non può derivare alcun essere,
tuttavia egli ritiene che il divenire non implichi un passaggio dal non essere all'essere
e viceversa, ma semplicemente il passaggio da un certo modo di essere ad un altro
modo di essere. Per Aristotele il divenire è uno dei quattro modi o significati
fondamentali dell'essere, cioè l'essere inteso come potenza e atto, per cui il
divenire non è un passaggio dal nulla all'essere ma dall'essere in potenza all’
essere in atto. Ogni qualvolta si ha un divenire (cioè il mutamento di forma, di una
cosa), osserva Aristotele, si nota che una cosa che non aveva un certo carattere, una
certa forma, poi l’acquista (ad esempio un uomo che prima era privo di cultura poi
l'acquista e diventa colto). Ebbene, il divenire può essere spiegato solo ricorrendo
alla causa efficiente, che produce il divenire stesso, nonché alla causa finale, che
costituisce il fine, lo scopo, del divenire medesimo.
Dunque il divenire, ossia il passaggio dalla potenza all'atto, implica tre elementi:
1. la cosa che muta, e questa è il sostrato, la sostanza materiale (ad esempio il
legno);
86

2. la mancanza in essa di un certo carattere, di una certa forma; tale mancanza è


chiamata da Aristotele "privazione"; ad esempio il legno, che non è ancora
tavolo, che è privo di tale forma, ma che alla fine del processo di
trasformazione verrà ad acquisirla;
3. infine, il carattere, ossia la nuova forma che è stata acquisita.
Il divenire, vale a dire il passaggio dalla potenza all'atto, non riguarda solo le
sostanze ma tutte le categorie. C'è infatti un essere in potenza e un essere in atto non
solo secondo la sostanza, ma anche secondo la qualità (uomo può essere colto in
potenza, mentre sta studiando, e lo è in atto, quando ha imparato) nonché secondo la
quantità (il bambino è alto in potenza e in seguito lo sarà anche in atto), ecc. Poiché
valgono per tutte le categorie, come pure per gli accidenti, potenza e atto riguardano
dunque tutto l'essere.
In particolare, per potenza si intende la possibilità o capacità della materia di
assumere una determinata forma: può anche essere chiamata potenzialità.
Per atto si intende l'attuazione, la realizzazione, di quella capacità.
Ad esempio il seme è il fiore in potenza ed il fiore è il seme in atto.
La potenza è dunque materia, mentre l'atto è forma, ossia è la forma che la
materia può acquisire secondo le sue potenzialità.
Il punto di partenza di un processo in divenire, di un divenire, è quindi la materia (o
sostrato) come privazione di una certa forma, mentre il punto di arrivo è
l'attuazione, l'acquisizione, di tale forma. In tal senso l'atto è chiamato da Aristotele
"entelechia", che in greco significa perfezione o finalità realizzata allorché, per
l'appunto, si ha l'attuazione della forma con il passaggio dalla potenza all'atto.
In particolare, tra potenza e atto c'è sempre perfetta compatibilità: non qualsiasi
cosa può diventare qualsiasi altra cosa (un uomo non diventerà mai un albero); ne
deriva che la potenza, la potenzialità, è più una necessità piuttosto che una
possibilità: è un divenire, una trasformazione, intrinsecamente necessitato, che non
può non accadere (il bambino diverrà necessariamente adulto), mentre la semplice
possibilità può realizzarsi o meno.
-L'atto precede sempre la potenza: infatti noi vediamo sempre le cose in atto e non
in potenza; ad essa si risale dalle cose in atto studiandone e scoprendone le cause (ad
esempio nel seme non vediamo mai che esso è potenzialmente un fiore).
Rispetto alla potenza, l'atto possiede dunque una priorità cronologica ma anche
ontologica (=dal punto di vista reale) e gnoseologica (conoscitiva). L'atto infatti
sussiste temporalmente prima della potenza (noi vediamo sempre il fiore quando è in
atto, mentre non lo vediamo quando è potenza nel seme); l'atto è ontologicamente
superiore alla potenza poiché costituisce lo scopo e il fine della potenza; la
conoscenza della potenza presuppone una preliminare conoscenza dell'atto di cui essa
medesima è potenza.
La materia prima.
Abbiamo visto che forma e materia, o atto e potenza, sono i principi che
spiegano il divenire. Il divenire, che è movimento e mutamento delle cose,
presuppone in quanto tale la causa efficiente, che dà inizio al movimento, nonché
la causa finale, che è il fine del divenire stesso. Se tutti i movimenti e mutamenti
87

che avvengono in natura vanno da una materia ad una forma, d’altro canto ciò che è
forma, ossia punto di arrivo di un divenire, diventa sovente materia, ossia punto
di partenza di un divenire ulteriore. Perciò una medesima cosa può essere
considerata materia (=potenza) o forma (=atto) secondo il punto di vista da cui si
guarda il relativo movimento-mutamento (ad esempio il pulcino è potenza rispetto
alla gallina ma è atto rispetto all'uovo). Si produce cioè una catena di innumerevoli
movimenti-mutamenti che vanno da una potenza ad un atto, da una materia ad una
forma. Ma questa catena non può continuare all'infinito e presuppone quindi,
secondo Aristotele, due termini estremi: un punto di partenza primo e un punto di
arrivo ultimo. Da un lato, presuppone una materia pura ovvero, come dice
Aristotele, una materia prima che sia pura potenza, cioè senza alcuna minima
forma, assolutamente priva di determinazioni, mentre, dall'altro lato, il divenire
dell'universo presuppone, all'estremo opposto della catena dei movimenti-mutamenti
degli esseri, una forma pura o atto puro, cioè una perfezione completamente
realizzata e tale perciò che non abbisogna più di alcun altro movimento o fine a
cui tendere. Questa forma pura, come vedremo, costituisce per Aristotele la sostanza
immobile divina, ossia la sostanza più alta dell'universo, oggetto della teologia.
La materia prima di cui parla Aristotele non deve essere intesa come ciò che noi
comunemente chiamiamo materia, per esempio l'acqua, il fuoco, il bronzo, il
marmo, ecc., che non sono pura materia perché già hanno in sè, in atto, una qualche
forma, una qualche determinazione, tant'è che noi li distinguiamo uno dall'altro. La
materia prima è piuttosto qualcosa di assolutamente informe, che non è né acqua,
né fuoco, né bronzo, né marmo, ecc., ma che può diventare questo o quello.
(Corrisponde alla materia-madre di cui aveva già parlato Platone nel Timeo.) Essa è
un concetto-limite, una nozione astratta, che noi ammettiamo come base o sostrato
di ogni divenire ma che di per sé non possiamo osservare e conoscere perché ciò
che esiste al mondo è sempre materia più o meno formata, avente comunque, cioè,
una qualche forma.

La sostanza soprasensibile. Il motore immobile: Dio.

Definita la sostanza come categoria principale dell'essere, rimane da chiarire quali


sostanze esistono. Aristotele indica tre tipi di sostanze, gerarchicamente ordinate:
1. sostanze sensibili e corruttibili (destinate a corrompersi, cioè a perire): sono
tutti gli esseri del mondo terrestre, costituiti di materia e forma; lo studio di
queste sostanze è compito della fisica;
2. sostanze sensibili ma incorruttibili: sono i cieli, i pianeti e le stelle, costituiti
di materia incorruttibile, che Aristotele, come vedremo nella fisica, chiama
etere o quinta essenza (quinta essenza, ovvero quinto elemento ulteriore
rispetto ai quattro elementi costituiti dall'acqua, terra, aria, fuoco); tali sostanze
sono studiate dall'astronomia;
3. sostanze soprasensibili, immobili ed eterne: è Dio che, come vedremo,
Aristotele definirà Motore immobile, nonché, entro certi limiti, lo sono anche
le sostanze motrici delle diverse sfere celesti; sono costituite solo di pura
88

forma, assolutamente prive di materia; lo studio di queste sostanze è proprio


della metafisica.
Nella metafisica e nella fisica Aristotele ci da una prova dell'esistenza di Dio
ricavandola dalla teoria generale del movimento. Tutto ciò che è in moto, spiega
Aristotele, è necessariamente mosso da qualcos'altro. Questo poi, se è anch'esso in
moto, sarà mosso da qualcos’altro ancora e così via. Tuttavia non è possibile risalire
all'infinito, perché altrimenti il movimento iniziale rimarrebbe non spiegabile. Alla
fine della serie dei movimenti ci deve quindi essere una causa, un principio
assolutamente primo e immobile, causa iniziale di ogni movimento possibile, cioè un
motore immobile quale causa prima di tutti i movimenti. Per Aristotele tale
motore immobile è Dio.
Conseguentemente, Aristotele definisce gli attributi di Dio:
1. in primo luogo è eterno, perché solo così può causare un movimento eterno
quale è, vedremo nella fisica, il movimento dei cieli; se il movimento
dell'universo è eterno, eterna deve esserne anche la causa;
2. è immobile, perché solo l'immobile è causa "assoluta" (cioè non condizionata a
sua volta) del mobile, di ciò che si muove;
3. è atto puro, cioè assolutamente privo di potenzialità, privo cioè di potenza e
quindi immateriale (non costituito da materia dato che la potenza è materia); è
privo di potenza perché potenza significa possibilità di movimento, mentre Dio
è invece immobile, non soggetto al divenire in quanto già pienamente perfetto.
Si pone a questo punto una domanda fondamentale: in quale modo Dio, il Primo
motore, il Motore immobile, può essere causa del movimento dell'universo e di
ogni cosa restando assolutamente immobile? Aristotele risponde che esso non
produce il movimento come causa efficiente, cioè imprimendo una spinta alle cose,
bensì come causa finale, ossia come oggetto d'amore che attrae e fa muovere verso
di sé tutte le altre sostanze e gli altri esseri, così come la persona, o l'oggetto amato,
pur rimanendo impassibile ed immobile, attrae verso di sé l'amante. In altri termini,
Dio è Forma e Perfezione assoluta che, restando immobile, attira a sé come una
calamita tutto l'universo comunicandogli e causandone il movimento. Non soltanto la
materia prima, completamente priva di forme e quindi "affamata" di esse, tende verso
la forma e perfezione assoluta che è Dio, ma anche tutti gli altri esseri del mondo, che
sono sinolo di materia e forma, tendono verso la forma perfettissima di Dio in un
processo inesauribile poiché in essi la materia non può mai essere eliminata.
Essendo causa finale, e non causa efficiente, Dio non ha quindi creato il mondo,
che invece è eterno.
Non c'è stato un momento in cui prima c'era il caos e non il cosmo, il mondo, perché
se così fosse sarebbe contraddetto il principio della priorità dell'atto sulla potenza:
dapprima cioè vi sarebbe stato il caos, che è potenza, e solo dopo il mondo, che è
atto, il che è assurdo poiché, come abbiamo visto, l'atto precede sempre la potenza. E
ciò è ancora più assurdo in quanto Dio, essendo eterno, da sempre ha attratto e
attrae verso di sé il mondo che tende a Dio come proprio oggetto d'amore. Da
sempre quindi il mondo ha dovuto essere quale è. L'universo non è nient'altro che
uno sforzo della materia verso Dio, un desiderio incessante di prendere una forma
89

sempre più perfetta. Perciò nell'universo di Aristotele non è Dio che ordina e da
forma al mondo, ma piuttosto è il mondo che, aspirando all'ordine e alla perfezione
di Dio, si auto-ordina assumendo le varie forme delle cose.
Come entità perfettissima e totalmente compiuta a Dio non manca nulla e non ha
bisogno di nulla poiché in Lui non vi è alcun scopo irrealizzato. La vita di Dio è la
più eccellente, è la vita del puro pensiero, quella della pura intelligenza, alla quale
l'uomo si solleva solo per brevi periodi, mentre Dio ne gode continuamente. Come
puro pensiero l’attività di Dio è assolutamente contemplativa ed oggetto dell'attività
contemplativa di Dio è Dio stesso; è assoluta auto contemplazione di sé. Essendo
perfetto Dio non può che pensare la perfezione stessa, ossia se medesimo: Dio non
può che pensare se stesso. Perciò è definito da Aristotele "Pensiero di Pensiero".
Come assoluta auto contemplazione di sé Dio non pensa e non contempla il mondo,
anche se certamente conosce il mondo e ne conosce i principi universali. Altrettanto,
Dio è per Aristotele soltanto oggetto d'amore, ma egli non ama il mondo o, al più,
ama solo se stesso. Il Dio di Aristotele pertanto non è Provvidenza, non si prende
cura degli uomini, ma sono gli uomini e tutte le cose che tendono verso Dio in quanto
perfezione massima. Il fatto che Dio non ami nulla al di fuori di sé si spiega con la
concezione platonica e aristotelica dell'amore, inteso come tendenza a cercare ciò di
cui si è privi. In tal senso qui l'amore si rivela sempre come una mancanza d’essere,
una mancanza di qualche cosa, per cui Dio, non mancando di niente, non può amare.
In effetti è estraneo alla mentalità greca il concetto di amore inteso come solidarietà,
come trasporto verso gli altri e come dono gratuito di sè.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la sostanza soprasensibile di Dio
come primo motore immobile non è tuttavia concepita da Aristotele come unica.
Aristotele infatti ritiene che Dio non basti da solo a muovere tutte le sfere celesti
delle quali il cielo è costituito. Dio muove direttamente il primo mobile, ossia il cielo
delle stelle fisse; ma fra questo e la Terra, secondo l'antica concezione astronomica
tolemaica, vi sono molte altre sfere concentriche, quelle dei pianeti e dei satelliti:
Aristotele ne conta 56, degradanti e rinchiuse l'una nell'altra. Che muove queste
sfere? Aristotele, come vedremo nella fisica, non ritiene che esse siano mosse
meccanicamente per moto derivante dal Primo motore immobile (Dio), ma che siano
invece mosse da altre subordinate sostanze soprasensibili, immobili ed eterne, che
suscitano il movimento in modo analogo al Primo motore.
Per Aristotele, così come per Platone e per i Greci in genere, il Divino non è Persona,
ma è sostanza soprasensibile diffusa e distribuita in molti enti ed entità: divino è il
Primo motore immobile ma anche le altre sostanze soprasensibile motrici delle sfere
celesti al di sotto della sfera delle stelle fisse; divina è anche l'anima intellettiva degli
uomini; divino è tutto ciò che è eterno ed incorruttibile. Quindi, nonostante
l'innegabile primato posseduto da Dio Primo motore immobile, anche il pensiero di
Aristotele, secondo la mentalità greca, è di tendenziale politeismo. Vicini alla
concezione delle grandi religioni monoteistiche sono invece la superiorità e
l'indipendenza assoluta di Dio Primo motore immobile rispetto all'universo, potendosi
intravedere in tal senso una forma di trascendenza. Ma dal Dio delle religioni
monoteistiche quello di Aristotele rimane tuttavia diverso per il fatto che non è
90

creatore dell'universo ma soltanto causa del suo movimento. L'universo infatti,


secondo Aristotele, non è stato creato ma è sempre esistito; è anch'esso eterno in
quanto eterne sono le sostanze celesti che si muovono eternamente di moto circolare,
così come sono eterni non già gli individui, le singole cose, ma i generi e le specie
delle sostanze terrestri, la cui eternità è assicurata dal ciclo ininterrotto della
riproduzione.

La fisica.

Nelle sue opere di fisica Aristotele prende dapprima in esame il fenomeno che più di
ogni altro caratterizza la natura, vale a dire il continuo mutamento-movimento
delle cose sensibili, ossia il loro continuo divenire, trasformarsi e mutare.
Aristotele definisce il mutamento-movimento come acquisizione in atto (=
attuazione) di una forma (=caratteristica essenziale) che si possiede solo in potenza (=
come possibilità di sviluppo).
Oggetto della fisica aristotelica sono, appunto, le sostanze sensibili in movimento. La
fisica di Aristotele è quindi anzitutto teoria del movimento delle sostanze
sensibili.
Per altri versi, la fisica di Aristotele è anche scienza delle forme, delle essenze, cioè
delle finalità del movimento delle cose sensibili per cui, paragonata alla fisica
moderna, quella di Aristotele è soprattutto una fisica qualitativa piuttosto che
quantitativa: è più che altro descrittiva, quasi una metafisica. In effetti, nei libri di
fisica sono abbondanti le considerazioni di carattere metafisico poiché, ritenendo
Aristotele che il soprasensibile sia causa e ragione del sensibile, il metodo di studio
applicato nella fisica è affine a quello applicato nella metafisica.
Abbiamo visto che potenza e atto riguardano le varie categorie e non solo la prima
delle categorie, cioè la sostanza. Anche il movimento, che è passaggio dalla
potenza all'atto, riguarda le diverse categorie. Le sostanze fisiche sono infatti
distinte secondo la natura del loro movimento, in particolare con riferimento
alle categorie della sostanza, della qualità, della quantità e del luogo.
Aristotele considera quattro tipi fondamentali di movimento:
1. il movimento (o mutamento) sostanziale, cioè secondo la sostanza, il quale
consiste nella generazione e corruzione delle cose;
2. il movimento qualitativo, che è mutamento o alterazione;
3. il movimento quantitativo, che è aumento o diminuzione;
4. il movimento locale, secondo la categoria del luogo, che è la traslazione da un
luogo ad un altro, cioè il movimento propriamente detto, giacché a
quest'ultimo, secondo Aristotele, si riducono tutti gli altri movimenti.
Infatti la generazione e la corruzione, così come l’alterazione, suppongono il riunirsi
in un determinato luogo o il separarsi di determinati elementi; altrettanto, l'aumento e
la diminuzione sono dovuti all'afflusso o all'allontanamento di una certa materia.
Pertanto, il movimento locale, cioè il cambiamento di luogo, è quello
fondamentale che consente di distinguere e di classificare le varie sostanze fisiche.
91

Aristotele distingue quindi tre specie di movimento locale:


1. il movimento circolare intorno al centro del mondo;
2. il movimento verso l'alto dal centro del mondo;
3. il movimento verso il basso, verso il centro del mondo.
Le due ultime specie di movimento sono reciprocamente opposte, provocando,
spostandosi verso l'alto o verso il basso, la nascita, il mutamento e la morte delle
sostanze sensibili. Il movimento circolare invece non ha contrari, sicché le sostanze
che si muovono secondo tale di movimento, cioè i corpi celesti, sono di conseguenza
immutabili, ingenerabili e incorruttibili. In particolare, i corpi celesti sono, per
Aristotele, composti di una speciale materia sottilissima chiamata "etere" o "quinta
essenza", in quanto si tratta di un'essenza o elemento che si aggiunge agli altri quattro
fondamentali elementi, ossia all'acqua, alla terra, all'aria e al fuoco. L’etere possiede
solo la potenza di passare da un punto all'altro secondo un movimento circolare, ma
non anche verso l'alto e verso il basso, per cui esso non è né pesante né leggero.
I movimenti verso il basso e verso l'alto, invece, sono propri dei quattro elementi
fondamentali (acqua, aria, terra e fuoco) che compongono le cose terrestri o
sublunari. Per spiegare il movimento di questi elementi Aristotele elabora la "teoria
dei luoghi naturali": ognuno di questi elementi ha nell'universo un suo luogo
naturale; se una parte di essi viene allontanata dal suo luogo naturale a causa di un
moto violento (ad esempio i fenomeni atmosferici), essi tendono a ritornarvi con un
moto naturale. I luoghi naturali dei quattro elementi sono determinati dal rispettivo
peso, che è causa del loro moto naturale. Al centro del mondo c'è l'elemento più
pesante, cioè la terra, che si dirige quindi verso il basso; il fuoco si dirige verso l'alto;
l'acqua, a sua volta, si dirige verso l'alto rispetto alla terra ma verso il basso rispetto al
fuoco; infine, l'aria si dirige verso il basso rispetto al fuoco e verso l'alto rispetto alla
terra e all'acqua. Al di sopra del mondo terrestre c'è la prima sfera eterea o celeste,
quella della Luna.

L'universo: lo spazio, il tempo e l'infinito.

Dopo aver spiegato i principi, le cause e i tipi del movimento, Aristotele descrive
quindi la struttura dell'universo, diviso in mondo celeste, costituito dall'etere e dai
corpi celesti al di sopra della Terra, tutti caratterizzati da un moto circolare, perfetto
ed eterno, e in mondo terrestre o sublunare, costituito dai quattro elementi naturali
e caratterizzato dal moto rettilineo, che è di due specie, naturale o violento. Non solo
il mondo celeste ma anche quello terrestre è per Aristotele perfetto, unico, finito
ed eterno. La perfezione anche del mondo terrestre è sostenuta mediante il ricorso ad
argomenti di derivazione orfica e pitagorica. Secondo il concetto pitagorico che
considera il numero tre come perfetto, anche l'universo, dice Aristotele, il quale
possiede tutte e tre le dimensioni possibili (altezza, lunghezza e profondità) è
perfetto perché non manca di nulla. E se è perfetto, allora esso è anche finito, nel
senso originario di compiuto, contrapposto al concetto di infinito originariamente
inteso dalla filosofia greca come incompiuto, ossia mancante di qualcosa che può
sempre essere aggiunto. Aristotele (così come gli antichi Greci) non pensa che
92

l'infinito possa essere l'immateriale, perciò il finito è concepito come perfetto e


l'infinito come imperfetto. L'universo è unico poiché la sfera delle stelle fisse ne
segna i limiti, al di là dei quali per Aristotele non c'è spazio. Il vuoto, lo spazio
vuoto, non esiste: nel mondo celeste lo spazio è riempito dall'etere e dai corpi celesti;
nel mondo terrestre lo spazio è riempito dai quattro elementi naturali e dalle cose
sensibili.
Del resto, dice Aristotele, è impensabile un luogo in cui non ci sia nulla, in cui ci sia
solo il vuoto. Per Aristotele il luogo, per definizione, è sempre luogo di qualcosa: non
concepisce un luogo come semplice contenitore all'interno del quale possa anche non
esserci alcunché. Se ha senso chiederci dove si trova un oggetto, per Aristotele non
ha senso chiederci dove si trova l'universo. L'universo non è contenuto in alcunché
poiché esso è ciò che tutto contiene. Questa dottrina, in apparenza strana, presenta
peraltro talune somiglianze col modello di universo proposto da Einstein.
Circa il tempo, esso è per Aristotele strettamente connesso col movimento e col
divenire, poiché in un ipotetico universo di enti immutabili ed immobili la
dimensione del tempo non esisterebbe. Tuttavia, precisa Aristotele, il tempo non è il
mutamento-movimento delle cose, bensì la misura del loro divenire, del loro
movimento- mutamento secondo "il prima e il poi". La durata fra il prima e il poi che
noi percepiamo è il tempo. In quanto misura (unità di misura) il tempo è una
costruzione mentale umana, ma per Aristotele esso non è un tempo soggettivo poiché
è collegato col movimento-mutamento dei corpi che è indipendente dal soggetto; il
tempo quindi conserva un suo carattere oggettivo. Il tempo, prosegue Aristotele, è
potenzialmente infinito, ma non lo è in atto, in quanto esso non può esistere tutto
insieme attualmente (in un unico e medesimo momento), ma si svolge e si accresce
senza fine.
Anche l'infinito è per Aristotele solo potenziale, negando quindi che possa esistere
un infinito in atto. Quando parla di infinito Aristotele intende soprattutto un corpo
infinito che, in quanto tale, non può esistere, perché ogni corpo occupa un luogo che
è pur sempre delimitato non esistendo il vuoto. L'infinito esiste solo in potenza. I
corpi sono in potenza (potenzialmente) divisibili all'infinito, ma non lo sono in atto
(in realtà) perché, pur potendo seguitare a rimpicciolirsi o crescere, ogni corpo,
nell'atto in cui si misura, ha una propria dimensione finita e non infinita: significa che
una serie (ad esempio una serie di numeri) è infinita solo in potenza ma non in atto.
In conclusione, come totalità perfetta l'universo è eterno (ciò che è perfetto non si
può corrompere): non ha avuto inizio né avrà fine. Conseguentemente Aristotele non
ci ha dato una cosmogonia (una dottrina sull'origine del cosmo), come Platone nel
Timeo, dal momento che secondo lui il mondo non nasce. A questa eternità del
mondo è congiunta l'eternità di tutti gli aspetti fondamentali e di tutte le forme
sostanziali del mondo: sono perciò eterni i generi e le specie inanimati e animati
del mondo ed anche la specie umana, che può subire alterne vicende nella sua
storia, ma è imperitura così come è ingenerata.
93

La fisica di Aristotele nella storia della scienza.

L'importanza storico-culturale della fisica aristotelica fu notevole giacché da essa


è emersa un'immagine globale del mondo destinata ad influenzare per secoli la
scienza occidentale, ritardandone tuttavia lo sviluppo moderno, avendo la fisica
platonico-aristotelica soppiantato quella di Democrito, di per sé più aderente alla
fisica moderna. Democrito, per esempio, crede nel movimento degli atomi nel vuoto,
arrivando ad intuire il principio di inerzia, mentre Aristotele nega l'esistenza del
vuoto. Democrito crede che il movimento sia una proprietà della materia, mentre
Aristotele, con la sua teoria dei luoghi naturali, lo fa dipendere da qualcosa che esiste
al di fuori della materia. Democrito, sulla scia dei filosofi naturalisti, ritiene che il
cielo e la terra siano costituiti della stessa materia, proponendo così l'idea di un
cosmo unitario e omogeneo, mentre Aristotele, rifacendosi a Platone, ai pitagorici e
alla mentalità comune, ripartisce gerarchicamente l'universo fra mondo celeste e
mondo sublunare, immaginandoli costituiti di sostanze diverse. Democrito crede in
un universo "aperto", costituito da una molteplicità di mondi, mentre Aristotele crede
ad un universo "chiuso", limitato a un solo mondo. Democrito cerca di ridurre le
differenze qualitative dei fenomeni a differenze quantitative, ponendo così le basi per
una matematizzazione della fisica, mentre la fisica di Aristotele rimane di tipo
qualitativo, allontanando di secoli un'applicazione della matematica alla fisica
stessa. Soprattutto, Democrito si propone di spiegare il mondo mediante le sole
cause naturali e meccaniche, mentre Aristotele fa ricorso alle cause finali,
secondo il principio che la natura non fa niente senza uno scopo e tende sempre
all’"ottimo". Così come fu grande nella sistemazione e negli sviluppi della metafisica,
la fisica aristotelica invece, per quanto ingegnosa di per sé, organica e completa, fu
per lungo tempo di ostacolo al progresso della scienza moderna. L'esigenza della
metafisica di spiegare i principi primi e i perché ultimi della realtà è un bisogno
spirituale dell'uomo, ma la scienza moderna si propone invece di limitarsi a
spiegare non il perché ma il come, cioè il modo in cui i fenomeni avvengono e
non per quale scopo, fondando in questa delimitazione del campo di indagine i
propri progressi. A differenza di quello odierna, la fisica di Aristotele è ricerca di
essenze e di forme: è soprattutto descrizione e non misurazione dei fenomeni.

La psicologia e la gnoseologia (= filosofia della conoscenza).

L'anima e le sue funzioni.

La fisica aristotelica studia non solo l'universo fisico e la sua struttura ma anche gli
esseri che sono nell'universo, distinguendo tra quelli inanimati, privi di anima, e gli
esseri animati, dotati di anima, cui Aristotele dedica il celebre trattato "Sull'anima".
L'anima, per Aristotele, è studiata dalla psicologia, che considera una parte
della fisica in quanto l'anima è definita "forma del corpo" e quindi incorporata
nella materia fisica. Gli esseri animati, ossia i corpi viventi, sono come il sostrato
94

materiale, e quindi potenziale (potenza=materia), di cui l'anima è forma, è atto: da


ciò, appunto, la definizione di anima come forma ed entelechia del corpo (entelechia=
fine, scopo). L'anima è cioè la prima attuazione, realizzazione, di un corpo che ha la
vita in potenza (che potenzialmente può prendere vita per intervento, appunto,
dell’anima).
La concezione dell'anima come forma del corpo implica il rifiuto dei due principali
modelli di spiegazione dell'anima dei filosofi precedenti, ossia:
1. il modello naturalistico-materialistico: l'anima è una sorta di materia "sottile"
(gli atomisti);
2. il modello orfico-pitagorico: l'anima è sostanza a sé stante, autonoma e
distinta dal corpo.
Per Aristotele, infatti, l'anima non è materia ma forma, è attuazione di un corpo
vivente, però, dall'altro lato, pur non riducendosi a corpo opera solo a contatto col
corpo, incorporata in esso.
In corrispondenza con le tre funzioni vitali principali, Aristotele distingue tre
funzioni fondamentali o tre tipi di anima:
1. l'anima vegetativa, che regola le attività biologiche in tutti gli esseri viventi, a
cominciare dalle piante, consistenti principalmente nella funzione nutritiva e
riproduttiva;
2. l'anima sensitiva, che consente e regola la sensibilità e il movimento ed è
propria degli animali e degli uomini;
3. l'anima intellettiva o razionale, che è propria e caratterizza l'uomo.
Le funzioni superiori assorbono quelli inferiori e non viceversa. Per Aristotele
ogni genere di essere animato possiede un solo tipo di anima, quello che gli
corrisponde. Ad esempio l'uomo, che è l'essere sensibile superiore, non possiede
l'anima vegetativa cui si aggiunge quella sensitiva e infine quella intellettiva, ma
possiede solo l'anima intellettiva, quella superiore, che tuttavia svolge anche le
funzioni dei tipi inferiori di anima, mentre non vale il contrario.

La conoscenza.

Per Aristotele la conoscenza umana implica la cooperazione della sensibilità e


dell'intelletto. Contro Platone, Aristotele rifiuta la teoria dell'innatismo; pensa che
l'intelletto sia una "tabula rasa", un foglio bianco, nel senso che in esso non c'è
niente di innato e solo le sensazioni sono in grado di imprimervi dei segni. L'intelletto
non è altro che capacità di formare concetti, è pura potenzialità che si traduce in
atto costruendo i concetti sulla base dei dati sensibili ricevuti dall'esperienza.
Pertanto la teoria della conoscenza di Aristotele è definita come "empirismo", per
indicare che tutta la conoscenza parte dall'esperienza ma che tuttavia non si non si
esaurisce nella sola esperienza. L'esperienza da sola non è ancora conoscenza.
Per Aristotele tre sono i gradi della conoscenza: la sensibilità, l'immaginazione e
l'intelletto.
95

La sensibilità.
Costituisce il primo grado della conoscenza e la prima funzione dell'anima sensitiva.
Le nostre facoltà sensitive non sono in atto ma in potenza, sono cioè soltanto
capacità di ricevere sensazioni. A contatto con l'oggetto sensibile mediante
l'esperienza, la facoltà sensitiva, da semplice capacità di sentire, diventa sentire in
atto. Nella sensazione viene assimilata solo la forma e non anche la materia. I sensi
sono capacità di ricevere le forme (le sostanze) sensibili senza la materia, così come
la cera che riceve l'impronta dell'anello ma non la materia (ad esempio l’oro) di cui è
composto.
Aristotele passa quindi in esame i cinque sensi, ognuno dei quali consente specifiche
sensazioni (colori, suoni, sapori, ecc.). Quando un senso coglie la sostanza (la cosa)
sensibile ad esso corrispondente, allora la relativa sensazione è infallibile. Ma, oltre ai
cinque sensi specifici, Aristotele afferma che c'è un senso comune, il "sesto senso",
che svolge una duplice funzione: a) costituisce la coscienza della sensazione, cioè il
sentire di sentire, che non può appartenere a nessun senso particolare; b) percepisce
gli stimoli, le caratteristiche sensibili comuni a più sensi, come il movimento, la
quiete, la figura, la grandezza, il numero, l'unità.
L'immaginazione.
L'immaginazione è la facoltà di conservare, riprodurre o combinare le immagini di
oggetti percepiti anche indipendentemente dal permanere della loro presenza ai nostri
sensi. Sull'immaginazione si basa quindi la memoria, la fantasia e il desiderio.
Oltre a queste funzioni, l'immaginazione è capace di riunire insieme le singole
immagini di oggetti simili (ad esempio le diverse varietà di alberi visti), traendone
una rappresentazione schematica (per esempio lo schema delle caratteristiche più
frequenti riscontrate negli alberi percepiti), cioè un’immagine complessiva che
costituisce una sorta di anticipazione del concetto, ma che non è ancora tale perché
varia da persona a persona mentre il concetto ha valore universale (valido per tutti).
Perciò i concetti sono definiti anche come "gli universali".
L'intelletto.
L'intelletto elabora i dati sensibili ricevuti nonché le nostre immaginazioni
producendo i concetti veri e propri, ossia gli universali, cioè le varie forme, le
essenze, dei vari generi o specie di cose. L'intelletto è una funzione capace di cogliere
nell'immagine offerta dai sensi un'essenza intellegibile (=comprensibile), immutabile
e universale. Mediante un processo di astrazione, esso riesce ad enucleare la
forma o sostanza intellegibile delle cose (che può essere colta non dai sensi ma solo
dall'intelletto medesimo), ossia a costruire i concetti universali su cui si basa tutta la
nostra conoscenza. Per esempio, la rappresentazione schematica di albero varia da
persona a persona, secondo le specie di albero da ognuno viste. Ma l'intelletto avverte
che in quella rappresentazione schematica è potenzialmente (in potenza) contenuto il
concetto di albero, ossia ciò che vi è di essenziale in tutti gli alberi possibili, anche se
non visti.
D'altra parte anche l'intelletto, così come i sensi, è soltanto capacità di intendere e
formare l’intellegibile, ossia il concetto; anch'esso è cioè soltanto potenziale, in
potenza; non possiede in sé i concetti belli e fatti; è tabula rasa.
96

Per formare e comprendere i concetti in atto (effettivamente) occorre in qualche


modo subire l'azione dei concetti stessi. In proposito Aristotele distingue fra
intelletto passivo o potenziale ed intelletto attivo o agente.
L'intelletto passivo è soltanto capacità (potenza) di formulare i concetti, che però
non stanno ancora in esso, non sono ancora posseduti.
Per formare i concetti in atto, cioè per comprenderli effettivamente, è necessario
l'intervento di una sorta di luce intellettuale, che Aristotele chiama intelletto attivo o
agente. L'intelletto attivo agisce su quello passivo in modo analogo alla luce. Infatti,
come la luce fa passare all'atto (rende visibili) i colori che nell'oscurità non sono
visibili ma sono solo in potenza, così l'intelletto attivo fa passare in atto (li rende
comprensibili) i concetti che nell'intelletto passivo risiedono solo in potenza.
Aristotele sente la necessità di distinguere fra intelletto passivo ed intelletto
attivo perché altrimenti l'intelletto sarebbe solo quello individuale e i concetti da
esso formulati non sarebbero universali ma individuali anch'essi, variabili da
individuo a individuo.
L'intelletto attivo non è quindi individuale; è distinto e separato dal corpo e
dall'anima individuale e si congiunge ad essi solo in modo provvisorio.
L'intelletto attivo è una facoltà che contiene in atto tutte le verità, tutti i concetti
universali. Quindi è solo atto, solo forma, perché solo ciò che è già in atto può far
passare all'atto altre cose. Essendo solo atto non è in potenza e quindi è immateriale,
poiché la potenza è solo nella materia; esso è cioè indipendente dal corpo e perciò è
immortale ed eterno, ma ciò non comporta l'immortalità di alcun organismo
individuale né quella dell'anima o intelletto passivo individuale, il quale sì non è
separato dal corpo ma incarnato in esso.
Cadono quindi le interpretazioni secondo cui l'intelletto attivo è Dio giacché opera
solo congiuntamente all'intelletto passivo. L'intelletto attivo, precisa Aristotele,
viene dal di fuori, ha i caratteri dell'eterno e del divino e rimane nell'animo dell'uomo
per tutta la sua vita. Tuttavia non coincide col corpo, non ha niente di materiale e
dunque è trascendente (=sta al di fuori e al di sopra) rispetto alle cose sensibili.
Significa che in noi c'è una dimensione soprasensibile e spirituale: il divino che è
in noi. L'intelletto attivo non è Dio ma possiede i caratteri del divino.
Se Aristotele giunge a concepire la spiritualità che è in noi, lascia però aperti ed
irrisolti molti interrogativi. Questo intelletto attivo è dell'uomo, rendendone
immortale anche l'anima individuale passiva, o è di Dio, oppure è di entrambi? E se è
separato dal corpo, solo provvisoriamente congiunto ma distinto da esso, in che modo
viene dal di fuori? In che rapporti sta con la nostra coscienza e col nostro
comportamento morale? Che senso ha il suo sopravvivere al corpo? Questi sono
problemi che Aristotele non si è posto e non ha approfondito e che saranno a lungo
dibattuti fino al Rinascimento.

Le scienze pratiche: l'etica e la politica.


Lo studio del comportamento e del fine dell'uomo come singolo è l'etica o la morale;
lo studio del comportamento e del fine dell'uomo come membro di una società è la
politica.
97

L'etica: felicità e ragione.


Tutte le azioni umane, dice Aristotele, tendono a determinati e molteplici fini, molti
dei quali sono desiderati soltanto come mezzo in vista di fini superiori. Ma ci deve
essere un fine supremo che è desiderato per se stesso e non come mezzo per un fine
ulteriore. Questo fine ultimo, concepito come bene supremo, è per Aristotele la
felicità.
Ma in che cosa consiste per l'uomo la felicità? Per la moltitudine è il piacere e il
godimento, ma ciò rende simili agli schiavi e degni delle bestie. Per alcuni la felicità
è l'onore, il successo, ma l'onore è qualcosa di estrinseco che in gran parte dipende da
chi lo conferisce. Per altri la felicità sta nella ricchezza, ma questa è una vita "contro
natura", perché la ricchezza è solo un mezzo per qualcos'altro e non può valere quindi
come fine. Il bene supremo dell'uomo, e quindi la felicità, consiste invece, per
Aristotele, nel perfezionarsi in quanto uomo, ossia consiste in quell'attività che
differenzia e distingue l'uomo da tutti gli altri esseri: l'attività della ragione.
"L'uomo che vuole vivere bene deve vivere sempre secondo ragione". Ognuno è
felice quando fa bene il suo mestiere: il suonatore quando suona bene; l'artigiano
quando costruisce oggetti perfetti; ecc. Ma il compito comune proprio degli uomini
è di vivere secondo ragione ed in ciò sta la virtù. L'indagine sulla felicità diventa
quindi un'indagine sulla virtù. La virtù e la malvagità dipendono solo dagli
uomini, dal loro senso di responsabilità.
Certo, l'uomo non sceglie il fine della felicità poiché esso è già in lui per sua natura
(nessuno sceglierebbe di non essere felice), ma la virtù dipende dalla scelta dei mezzi
idonei in vista del fine supremo che è la felicità intesa come virtù. Questa è una
libera scelta perché dipende esclusivamente dalla responsabilità umana. Aristotele
chiama libero ciò che ha in sé il principio (la causa) dei suoi atti: ciò che è
"principio di se stesso". Il discorso socratico-platonico (ragione=felicità=virtù) è qui
recepito in pieno. "Ciascuno è soprattutto intelletto", afferma Aristotele, anche se
egli, col suo robusto senso realistico, riconosce un'utilità anche ai beni materiali.
Poiché nell'uomo, oltre alla parte razionale dell'anima, vi è anche la parte dei desideri
e delle passioni, la quale, pur essendo distinta dalla ragione, può essere però diretta
dalla ragione, così ci sono per Aristotele due virtù fondamentali:1) le virtù etiche,
che consistono nel controllo dei desideri e delle passioni da parte della ragione,
determinando in tal modo i buoni costumi; 2) le virtù intellettive vere e proprie, o
virtù razionali, chiamate in greco virtù dianoetiche, che consistono nell'esercizio
stesso e nel miglior uso della ragione.

Le virtù etiche come giusto mezzo.


Le virtù etiche si acquisiscono con la ripetizione di una serie di atti successivi, ossia
con l'abitudine ad esercitarle. La virtù diventa così "abito" o modo di essere. Poiché
sono molti gli impulsi e le passioni che la ragione deve dominare, pure molte sono le
virtù etiche, ma tutte hanno una comune caratteristica essenziale. Gli impulsi, le
passioni e i sentimenti tendono all'eccesso o al difetto (al troppo o troppo poco); la
ragione, intervenendo, deve stabilire la giusta misura, che è la via di mezzo o
"medietà" fra i due eccessi. Il coraggio, ad esempio, è una via di mezzo fra la
98

temerarietà e la viltà; la generosità è il giusto mezzo fra prodigalità e avarizia. La via


di mezzo non è una sorta di mediocrità, ma un "culmine", un valore. È questo un
atteggiamento che rispecchia totalmente la tradizionale saggezza greca.
La principale tra le virtù etiche è, per Aristotele, la giustizia, poiché è capacità di
tenere un comportamento virtuoso non solo in rapporto a se stessi ma anche in
rapporto agli altri. Con riferimento alla giustizia, intesa in senso generale come
rispetto delle leggi, Aristotele distingue tra: 1) giustizia distributiva: tutti i beni
devono essere distribuiti secondo i meriti di ciascuno; 2) giustizia commutativa, la
quale commuta, trasforma le colpe in pene, ossia in punizioni per le violazioni delle
leggi e dei contratti che regolano la convivenza sociale.
Sulla giustizia è fondato il diritto, distinto fra diritto privato e diritto pubblico.
Quest'ultimo è ulteriormente distinto fra diritto positivo (le leggi scritte) e diritto
naturale (i diritti insiti nella stessa natura umana: il diritto alla vita, alla libertà, ecc).

Le virtù razionali o dianoetiche: saggezza e sapienza. La sapienza come perfetta


felicità.
Le virtù razionali o dianoetiche sono quelle della ragione vera e propria e consistono
nell'esercitare la ragione nel modo migliore possibile. Esse sono:
1. l'arte o la tecnica: la capacità di produrre oggetti;
2. la saggezza: capacità di regolare la condotta pratica e morale secondo il criterio
del giusto mezzo;
3. l’intelligenza: capacità di cogliere i principi primi (i postulati e gli assiomi) di
tutte le scienze;
4. la scienza: capacità dimostrativa deducendo dai principi;
5. la sapienza: riguarda le cose più alte e universali, le verità e i principi primi che
sono al di sopra della realtà sensibile; è il grado più alto della scienza e
coincide con la metafisica, ossia con la "filosofia prima" intesa come
conoscenza delle cause prime.
Le virtù dianoetiche fondamentali sono la saggezza e la sapienza. Poiché, come
abbiamo visto, la felicità consiste nella virtù, la felicità più alta consisterà allora nella
virtù più alta che è, appunto, la sapienza. Il sapiente basta a se stesso. La sua vita è
fatta di serenità e di pace poiché egli non si affatica per un fine esterno, ma la
sapienza è fine a se stessa. La vita teoretica (conoscitiva), quella della sapienza, è di
ordine superiore alla vita umana naturale: l'uomo non vive secondo sapienza in
quanto uomo, ma in quanto ha in sé qualcosa di divino.
Questa assimilazione della vita contemplativa alla vita divina mancava in Platone,
poiché il concetto di Dio come mente suprema, pensiero di pensiero, compare solo in
Aristotele. Platone inoltre non distingueva la sapienza dalla saggezza. Per Aristotele
la saggezza ha valore pratico, ha per oggetto le faccende umane, che sono mutevoli e
non possono essere incluse tra le cose più alte; la sapienza ha invece per oggetto i
principi e le cause prime, i fini ultimi: consiste nella metafisica.
Merito dell'etica aristotelica è stato quello di aver cercato di superare
l'intellettualismo socratico, riconoscendo che una cosa è conoscere il bene ed altra è
farlo, volerlo fare. Infatti Aristotele ha posto l'attenzione sull'atto della scelta, legato
99

a quello della volontà. Tuttavia per Aristotele le scelte umane riguardano solo i
mezzi e non i fini: volendo raggiungere determinati fini, noi possiamo stabilire quali
sono i mezzi migliori. I fini non sono oggetto di scelta perché, secondo Aristotele, la
volontà di per sé vuole sempre il bene o ciò che appare bene. Si tratta tuttavia di una
concezione ottimistica non troppo dissimile da quella socratica, secondo cui chi
conosce il bene non può non volerlo. Ciò che Aristotele non riesce ancora ad
individuare è "il libero arbitrio", che è libertà-responsabilità di scelta degli stessi fini
e non soltanto dei mezzi. Ma i concetti di volontà e di libero arbitrio sorgeranno solo
col pensiero cristiano.

La dottrina dell'amicizia.

Nell'"Etica nicomachea" Aristotele compie un'interessante analisi circa le specie e le


condizioni dell'amicizia. Individua tre specie di amicizia: quella fondata sull'utilità,
quella fondata sul piacere e quella fondata sulla virtù. Secondo le prime due specie gli
uomini si amano in vista dell'utile e del piacere ma non per se stessi, per cui tali
amicizie sono accidentali e facili a rompersi. L'amicizia di utilità è tipica dei vecchi,
quella del piacere è propria dei giovani. Al contrario, l'amicizia di virtù è stabile e
ferma in quanto fondata sul bene: chi è buono ama l'amico per se stesso e non in vista
di vantaggi. Ciò non toglie che tale amicizia sia anche utile e piacevole. Peraltro le
amicizie di virtù sono rare perché rari sono i buoni.
Circa le condizioni in cui si realizza, l'amicizia sorge soltanto fra coloro che vivono
in intimità. Non sopporta allontanamenti troppo lunghi e non può nascere in persone
scontrose. L'amicizia è una forma di concordia che per funzionare presuppone una
sostanziale uguaglianza fra gli individui, pur se talora, però più raramente, possono
esistere amicizie anche fra diseguali.
Circa il numero di amici vale la teoria del giusto mezzo: tanti quanti sono sufficienti
a vivere in intimità, poiché è impossibile essere intensamente amico di molti.
L'amicizia si distingue dalla benevolenza, che si nutre anche verso chi non si conosce,
così come si distingue dall'amore, che implica anche fattori emotivi, estetici e
sessuali.

La politica.

Per Aristotele l'origine della vita sociale è da ricercarsi nel fatto che l'individuo non
basta se stesso, e non soltanto perché non può provvedere da solo ai suoi bisogni ma
anche perché da solo, al di fuori di una comunità, l'individuo non può giungere alla
virtù.
L'uomo per Aristotele è un "animale naturalmente politico": la vita al di fuori
della società è solo quella degli esseri inferiori (le bestie) o superiori (gli dei). Per sua
propria natura l'uomo è spinto ad aggregarsi in associazioni sempre più ampie: la
famiglia, il villaggio, la polis o Stato. Lo Stato è la forma più compiuta di società
umana, ma Aristotele non sottovaluta il ruolo dell'individuo e della famiglia. La
famiglia e il villaggio soddisfano i bisogni primari dell'uomo: la sopravvivenza
100

individuale e la continuazione della specie. La famiglia è anche centro dell'attività


economica (l’economia domestica delle società antiche).
Però solo lo Stato, con le sue leggi e col sistema educativo, può garantire la
realizzazione delle virtù etiche e quindi la felicità. Compito dello Stato è infatti di
emanare leggi e stabilire rapporti giusti tra gli uomini (giustizia distributiva e
commutativa).
Poiché lo Stato deve provvedere non solo alla vita materiale ma anche alla vita
spirituale, virtuosa e felice, proprio per tale motivo gli schiavi non possono
partecipare alla vita politica in quanto, secondo Aristotele, essi sono tali per natura,
essendo incapaci delle virtù più elevate. Gli schiavi sono coloro che non hanno di
meglio che usare il loro corpo come strumento di lavoro e come mezzo per soddisfare
i bisogni dei cittadini. Inoltre non dispongono del tempo libero necessario per
partecipare alle assemblee e all'amministrazione pubblica. Infine, poiché lo schiavo
era spesso un barbaro divenuto prigioniero di guerra, in quanto barbaro già è
giudicato, per sua natura, inferiore. Aristotele, insomma, condivide il pregiudizio
razziale della superiorità dei Greci.
Sulla scia di Platone, Aristotele distingue tre forme di costituzione, cioè tre forme
di Stato:
1. la monarchia: governo di uno solo;
2. l'aristocrazia: governo dei migliori;
3. la politìa (oggi democrazia): governo della moltitudine.
A questi tre tipi di governo corrispondono altrettante degenerazioni quando i
governanti, anziché mirare al bene comune, mirano ai propri vantaggi:
1. la tirannide;
2. l'oligarchia: governo dei più abbienti;
3. la democrazia (oggi demagogia): governo degli opportunisti, che sanno illudere
ed ingannare il popolo fingendo di esserne gli esponenti.
Aristotele manifesta la propria preferenza per la politìa, l’attuale democrazia, in cui,
secondo il principio del giusto mezzo, prevale la classe media: governanti e governati
non devono essere né troppo ricchi né troppo poveri.
In ogni caso e diversamente da Platone, Aristotele, sempre molto realista, non
propone uno Stato ideale ma segue con senso pratico una via di mezzo consistente nel
trovare per ogni città (o Stato) la costituzione ad essa più adatta, tenendo conto
del numero dei cittadini, che non deve essere né troppo elevato né troppo basso, del
tipo e dell'estensione del territorio, della mentalità prevalente. È necessario poi che
nello Stato tutte le funzioni siano ben distribuite e che si costituiscono le tre classi
fondamentali già considerate da Platone (i lavoratori; i guerrieri o custodi; i
governanti). Contro Platone, Aristotele esclude però la comunione delle donne, della
proprietà e dei beni, perché in contrasto con la natura umana.
101

Le scienze poietiche: la retorica e la poetica.

La retorica.

Come per Platone, anche per Aristotele la retorica non ha il compito di insegnare la
verità; essa è invece una tecnica che ha lo scopo di persuadere gli interlocutori e il
pubblico. Pertanto, deve possedere una coerenza simile a quella della logica, in
particolare a quella parte della logica che Aristotele chiama "dialettica", che si basa
sull'opinione comune anziché su elementi scientificamente fondati. Inoltre, la retorica
deve possedere anche forza di suggestione.

La poetica.

Anche per Aristotele, come per Platone, l'arte è imitazione della realtà. Tuttavia,
contrariamente a Platone, Aristotele riconosce all'arte un valore conoscitivo: è
rappresentazione dell'essenza delle cose ed aiuta a comprendere meglio l'uomo.
Oggetto dell'arte è di rappresentare, più che il vero, il verosimile, ossia non ciò che
è accaduto, come fa la storia, ma ciò che può accadere e che potrebbe o dovrebbe
essere. Quindi l'arte e la poesia hanno, come la scienza, un carattere di maggior
universalità rispetto alla storia, che invece tratta solo di fatti particolari. I contenuti
dell'arte hanno un valore universale, che non è logico ma simbolico e fantastico.
"La poesia è più filosofica ed elevata della storia": sta a metà strada.
La poetica di Aristotele, nella parte che ci è giunta, riguarda quasi esclusivamente la
teoria della tragedia: essa illustra personaggi tragici esemplari di valore universale,
positivo o negativo. Aristotele sottolinea in particolare il requisito dell'unità di
azione che la tragedia deve possedere: la rappresentazione di una tragedia deve
svolgersi con continuità, dal principio alla fine senza salti in avanti o indietro, e tutti
gli avvenimenti rappresentati devono essere collegati in modo tale che non sia
possibile sopprimerli o mutarli senza sconvolgere l'ordine complessivo della
narrazione tragica.
All'arte e alla poetica in generale ed alla tragedia in particolare Aristotele riconosce
una importante funzione di purificazione delle passioni: la "funzione catartica" (da
catarsi che in greco significa purificazione), riconoscendone dunque anche un
valore morale oltre che conoscitivo. Il poeta e il drammaturgo suscitano nello
spettatore pietà o terrore. Di fronte agli eventi pietosi o terribili rappresentati, lo
spettatore si riconosce e si identifica con essi, riflette sui propri sentimenti e si
purifica delle proprie passioni.
102

L’ELLENISMO O L’ETA’ ELLENISTICA.

Per "ellenismo" s'intende quel periodo storico-culturale che sorge dopo la morte di
Alessandro magno (323 a.C.) e che si conclude nel 500 d.C., caratterizzato dalla
diffusione e dallo sviluppo della cultura e della filosofia greca dapprima in tutto
l'oriente (epoca alessandrina: 323-143 a.C.) e poi, dopo la conquista della Grecia da
parte di Roma, anche all'interno della stessa civiltà romana (epoca ellenistico-
romana: 146 a.C.-529 d.C.). Termina nel 529 d.C. con la chiusura dell'Accademia di
Atene ordinata dall'imperatore Giustiniano.
Con l'avvento dell'ellenismo si conclude l’epoca della cultura e filosofia greca
classica (quella di Socrate, di Platone e di Aristotele) e sorge una nuova cultura e
un nuovo modo di fare filosofia.
Dopo la morte di Alessandro Magno il suo impero viene suddiviso in tre regni
principali: quello della Macedonia, quello dell'Egitto e quello dell'Asia. In questi tre
regni si diffonde la cultura greca o ellenistica (da ciò il nome di "ellenismo"), la quale
si mescola con la cultura orientale, perdendo quindi la sua originaria specificità.
L'ellenismo diventa così cosmopolita: la civiltà e la cultura greca rimangono quelle
più diffuse, ma anche alle altre sono riconosciuti importanti elementi.
Nel primo periodo dell'età ellenistica la città di Alessandria d'Egitto, sotto la dinastia
dei Tolomei, si eleva a centro culturale-scientifico di primo ordine. Celebre è stata la
grande biblioteca creata intorno al 297 a.C. propri ad Alessandria, che ha raccolto
tutto il materiale bibliografico reperibile in Grecia e in Asia.
Nell'ellenismo la Grecia, assoggettata dai Macedoni, perde la sua indipendenza.
Quindi l'interesse culturale-filosofico che prevale non riguarda più la politica e le
virtù civili e neppure la metafisica perché cambia il concetto di sapienza. Con la
caduta delle polis greche e della loro indipendenza la filosofia non si interessa più
dei problemi politici e sociali ma dei problemi individuali e diventa quindi
individualistica. Il suo scopo principale non è più di tipo teoretico (conoscitivo) ma
pratico e morale, nel senso che la ricerca filosofica si rivolge soprattutto a soddisfare
il bisogno di felicità dell'individuo. I temi filosofici prevalenti si chiedono cioè:
Cos'è la felicità? È raggiungibile? Perché esiste il dolore? Qual è il vero piacere?
Come fare per ottenerlo? Cos'è la virtù? Come giudicare la morte? Gli dei esistono
davvero? La filosofia diventa in tal modo una sorta di medicina per curare i dubbi,
le ansie, le preoccupazioni e le paure dei singoli individui.
Tre sono le principali scuole filosofiche (indirizzi di pensiero) dell'età ellenistica:
1. lo scetticismo (=dubitare della validità della conoscenza), che vuole salvare gli
uomini dalle illusioni e ambizioni della filosofia metafisica classica, la quale
pretendeva di trovare le cause prime i fini ultimi di tutta la realtà;
2. l'epicureismo, che vuole salvare gli uomini dalle superstizioni e dalle paure di
fronte alle cose e alla morte;
3. lo stoicismo, o filosofia stoica, che vuole salvare gli uomini dalle sciocche
credenze.
103

Simile per tematiche a queste scuole è anche il cinismo, fondato da Antistene dopo la
morte di Socrate, che si propone di salvare gli uomini dalle convenzioni e falsità del
vivere insieme.
Benché differenti e contrapposte per quanto concerne i modelli di vita proposti,
comune è tuttavia il fine di queste scuole: garantire all'uomo la tranquillità dello
spirito. Il fine dell'uomo è la felicità ed essa consiste nell'assenza di turbamenti e
nel controllo delle passioni. Tutte queste scuole propongono un ideale di saggezza
indifferente alle vicissitudini della vita quotidiana e dell'esistenza.
Questa comunanza di obiettivi ha favorito l’individuazione di un terreno di incontro
su cui le diverse scuole potessero conciliarsi e fondersi. Questa tendenza fu
rappresentata dall'eclettismo (dal greco ek-lego=scegliere), consistente nel scegliere
tra le diverse concezioni filosofiche quelle migliori o ritenute più convincenti,
anziché elaborare concezioni proprie ed originali.
L'eclettismo si diffonde particolarmente nella cultura romana. Dopo la conquista
della Grecia, la cultura di Roma rimane nondimeno influenzata dalla filosofia greca
ed ellenistica, seppur adattate alla mentalità romana poco incline alle teorie astratte e
più attenta ai problemi pratici. Cosicché la civiltà romana si indirizzò a scegliere e ad
unificare in una complessiva sintesi (eclettismo) gli elementi comuni delle diverse
scuole. Come criterio di unificazione viene assunto quello del "consensus gentium",
ossia del comune accordo degli uomini su certe verità fondamentali, ammesse come
presenti nell'animo umano ed avvertite indipendentemente e prima di ogni ricerca.
L'indirizzo eclettico appare dapprima nella scuola stoica e poi è accolto altresì dalla
scuola peripatetica (quella fondata a suo tempo da Aristotele). Solo gli epicurei si
mantengono estranei all’eclettismo, rimanendo fedeli alla dottrina del maestro.
Nell'ellenismo le numerosi parti in cui era suddivisa la filosofia greca classica
sono ridotte essenzialmente a tre: 1) la logica, intesa come studio della conoscenza;
2) la fisica, intesa come descrizione complessiva della realtà; 3) l'etica, intesa come
ricerca della felicità individuale. Soltanto per quanto riguarda l'etica, tuttavia, le
filosofie ellenistiche sviluppano concezioni originali, mentre nella logica e nella
fisica riprendono in genere le concezioni elaborate in precedenza, addirittura anche
dai filosofi presocratici. Anzi, la logica e la fisica sono per lo più considerate in
funzione dell'etica, senza attribuire ad esse, più di tanto, un valore autonomo.

Il cinismo o scuola cinica.

Il termine "cinismo" deriva da cane, come fu soprannominato Diogene, poiché


conducevo una vita randagia, da cane, e ringhiava come un cane.
Fondatore del cinismo è stato Antistene, vissuto fra il quinto e sesto secolo a.C., già
discepolo di Socrate. L'esponente principale di questa scuola è però Diogene di
Sinope, contemporaneo di Alessandro Magno.
Già Antistene aveva portato agli estremi la morale di Socrate, che Diogene
radicalizza ulteriormente. Celebre è la sua frase: "cerco l'uomo", la quale vuol
significare, con provocatoria ironia, la volontà di cogliere la natura elementare
104

dell'uomo al di là di tutte le esteriorità e convenzioni sociali: solo vivendo in


conformità alla sua natura genuina l'uomo può essere felice. Sono quindi inutili le
scienze e le filosofie. Il cinismo si presenta come la più anticulturale della filosofia
antica, proclamando che i veri bisogni dell'uomo sono quelli elementari, derivanti
dalla sua animalità: vivere senza méta, senza bisogno di casa né di fissa dimora,
senza il conforto delle comodità. Famosa è l'immagine di Diogene che sceglie come
sua abitazione una botte. Questo modo di vivere coincide per Diogene con la
libertà: più si eliminano i bisogni superflui più si è liberi. Ma i cinici hanno insistito
sulla libertà fino all'eccesso e alla sfrontatezza. Da ciò il significato negativo
assunto dal termine "cinico".
I tratti peculiari della vita cinica sono:
1. esercizio e fatica, per irrobustire il corpo contro le intemperie della natura e
dell'esistenza;
2. disprezzo del piacere, perché rammollisce il fisico e lo spirito e mette in
pericolo la libertà, rendendo l'uomo schiavo delle cose e degli uomini;
3. contestazione della polis: il cinico si proclama cittadino del mondo
(cosmopolita) e apolide (senza una propria patria), giacché la polis è
espugnabile e non è il rifugio del saggio;
4. autarchia, ossia il bastare a se medesimi, nonché apatia ed indifferenza di
fronte a tutto.
Noto è l'episodio di Diogene che, all'offerta di Alessandro Magno: "chiedimi quel che
vuoi", risponde: "fatti da parte ché mi fai ombra", volendo con ciò significare
l'inutilità della potenza poiché la felicità viene dal di dentro e non dal di fuori
dall'uomo.
Il cinismo esprime molte tesi dell'età ellenistica (la vita basta a se stessa e ciò è la
maniera più facile per vivere), influenzando taluni modelli letterari e specialmente la
satira latina. Ma nell'espressione dei suoi temi il cinismo pecca di estremismo, di
anarchismo (disprezzo dell’autorità) e di povertà culturale; perciò è scuola minore,
destinata a languire nel volgere di un breve periodo di tempo e, per l’atteggiamento
provocatorio e trasgressivo, è chiaramente contrapposta ai costumi castigati della
mentalità romana del periodo repubblicano.

Lo scetticismo: Pirrone di Elide.

Scetticismo è parola che deriva dal greco e significa dubitare. Lo scetticismo infatti
dubita e nega che l'uomo possa mai conoscere la verità assoluta e definitiva delle
cose, come invece pretendeva la filosofia metafisica classica di Platone e di
Aristotele, la quale è perciò criticata come filosofia dogmatica (che pretende di essere
indiscutibile e indubitabile), come dogmatismo.
Lo scetticismo è stato fondato da Pirrone, nato a Elide (città greca) nel 365 e morto
nel 275 a.C. Egli prese parte alla spedizione di Alessandro Magno in Oriente e si recò
in India, dove rimase colpito dal modo in cui i sapienti indiani riuscivano a non farsi
impressionare dalle disgrazie nonché dal modo in cui riuscivano a sopportare dolori,
105

rimanendo altresì indifferenti davanti alle ricchezze, alla fama e alla gloria come gli
asceti.
Pertanto Pirrone si convinse che la realtà e i fatti sono relativi: che cioè non ci sono
cose vere o false, belle o brutte, buone o cattive, piacevoli o dolorose in se stesse, per
loro natura, ma che esse dipendono invece dal modo in cui noi le consideriamo; sono
le nostre abitudini, i nostri costumi e le nostre credenze che stabiliscono il valore e il
significato delle cose (per alcuni sono validi certi fatti e certe cose, per altri sono
validi fatti e cose diversi).
Quindi la conoscenza ed anche la morale sono relative. Il medesimo concetto di
"relativismo conoscitivo e morale" era pure stato espresso dai sofisti (Protagora e
Gorgia). Anche per gli scettici le cose e i fatti in se stessi sono tutti uguali, sono tutti
"indifferenti", poiché il giudizio su di essi varia da persona a persona: siamo noi che
diamo alle cose maggiore o minore importanza ma la maggiore o minore importanza
non è nelle cose.
Questo concetto di "realtà indifferenziata" è ricavato da Pirrone in parte dalla
cultura e dalla filosofia indiana, per la quale il mondo empirico, il mondo dei
fenomeni, è solo apparenza ed illusione, giacché la vera realtà sta nel principio
originario chiamato, come vedremo anche in Plotino, l'Uno-Tutto, da cui derivano
tutte le cose, ed è ricavato, dall'altra parte, dal concetto dell'Essere unico di
Parmenide, perché se tutte le cose sono tra loro indifferenti allora sono identiche, si
equivalgono, costituendo un unico Essere, un'unica e identica realtà.
Se tutte le cose sono fra di essi identiche e indifferenti, nel senso che una cosa vale
l'altra, allora anche le nostre sensazioni e le nostre opinioni non sono né vere né
false perché dipendono dal modo in cui ognuno considera le cose ed ognuno può
considerarle in modo diverso. Non è pertanto possibile conoscere una realtà e una
verità valida per tutti. La verità è invece relativa perché ad ogni opinione è sempre
possibile opporre un'opinione contraria. Non rimane allora che sospendere ogni
giudizio, non rimane cioè che rinunciare alla pretesa di giungere ad una
conoscenza infallibile.
Ciò non impedisce tuttavia di giungere alla felicità e alla tranquillità dell'animo.
Come tutte le scuole ellenistiche, anche lo scetticismo ha come scopo principale
quello di conoscere quale deve essere il tipo di vita che permette di raggiungere la
felicità. Per Pirrone e per lo scetticismo si può giungere alla felicità con il
"distacco", cioè con la rinuncia ad ogni desiderio e passione per le cose del mondo,
per i piaceri terreni, per la ricchezza, per la gloria. La felicità giunge quando le cose
del mondo diventano per noi indifferenti, senza più alcuna importanza. Se i nostri
desideri e le nostre passioni non hanno più valore, allora l'uomo riuscirà ad essere
felice anche nel dolore se ad esso non diamo importanza. Il saggio, che sa
comprendere come tutte le cose siano indifferenti, senza importanza, giunge alla
felicità attraverso "l'afasia" (la rinuncia a parlare delle cose e a giudicarle) nonché
attraverso "l’atarassia" (la mancanza di turbamenti e di ansie), cioè attraverso
l'imperturbabilità dell'anima. L'ideale di felicità per Pirrone è quindi quello
dell'ascetismo indiano, della vita ascetica, del distacco e della rinuncia nei confronti
106

delle cose del mondo, per trovare conforto solo nell'interiorità, nella quiete e
tranquillità della nostra anima.
Dopo Pirrone lo scetticismo continua per altri cinque secoli, sviluppando e
approfondendo le idee di Pirrone stesso, in parte confermandole e in parte
modificandole, ma non in modo sostanziale.

L'epicureismo.

Epicuro e la scuola epicurea.

Epicuro nasce a Samo nel 342 a.C. Da giovane si reca ad Atene per prestare servizio
militare, ma ad Atene si interessa della filosofia ed anzi fonda proprio in Atene una
sua scuola filosofica, in una casa alla periferia della città e dotata di giardino. Perciò
la sua scuola è stata chiamata il "Giardino" e i suoi discepoli sono stati chiamati "i
filosofi del giardino". Muore nel 271 a.C.
Alla scuola epicurea erano ammessi tutti coloro che volevano parteciparvi, anche se
non avevano una specifica preparazione filosofica perché tutti, secondo Epicuro, ne
hanno diritto se sono interessati alla conoscenza filosofica. La scuola era
organizzata come una comunità: il maestro e gli allievi vivevano insieme. Tuttavia
non esisteva la regola di mettere in comune le ricchezze individuali. I più ricchi però
aiutavano quelli più poveri. Nella scuola vigeva una rigorosa disciplina: Epicuro ne
era il maestro e il capo e gli allievi potevano approfondire i suoi insegnamenti ma non
criticarli.
Le caratteristiche principali dell'epicureismo sono le seguenti:
1. la realtà è tutta materiale (non vi sono sostanze spirituali) ed è perfettamente
conoscibile dall'intelligenza dell'uomo;
2. in tale realtà è possibile la felicità dell'uomo;
3. la felicità è soprattutto mancanza di dolore (aponia) e assenza di turbamenti ed
ansie (atarassia);
4. per raggiungere la felicità l'uomo non ha bisogno dello Stato e della società, ma
deve imparare solamente a bastare a se stesso (autarchia);
5. non servono quindi le città, la vita sociale, la gloria, le ricchezze e nemmeno
gli dei: la tranquillità dell'animo si trova vivendo appartati.

La filosofia come tetrafarmaco (=quadruplice farmaco).

Per Epicuro la filosofia è la via per raggiungere la felicità, che si ottiene quando ci si
libera dalle passioni. Lo scopo principale della filosofia non è dunque conoscitivo
bensì pratico e strumentale: essa è il mezzo per giungere alla felicità. Mediante la
filosofia l'uomo si libera dalle opinioni sbagliate sul mondo e sulle cose e si libera
dalle sue paure. Anche le scienze naturali, aiutate dalla filosofia, hanno un valore
strumentale: servono a comprendere i fenomeni naturali ed altresì a comprendere gli
dei in modo da non avere più paura di essi.
107

La filosofia è quindi come una medicina contro i mali dell'ignoranza e delle false
opinioni. Essa è un tetrafarmaco, cioè un quadruplice farmaco, una quadruplice
medicina (“tetra” in greco=quattro) capace di guarire le paure e le ansie degli uomini.
In particolare la filosofia ci fa capire:
1. che non si deve aver paura degli dei, perché gli dei non si occupano delle
vicende umane; essi vivono beati nel loro mondo e non si curano degli uomini:
non si preoccupano di farci del bene ma non ci fanno nemmeno del male; non
vi è quindi alcuna provvidenza divina (provvidenza =prendersi cura);
2. che non si deve aver paura della morte, perché con la morte non sentiamo
più niente, non abbiamo più paure e dolori giacché dopo la morte non c'è
niente: o c'è la vita, e quindi la morte non c'è ed allora non dobbiamo
preoccuparcene, oppure c'è la morte, ma allora non sentiamo e non proviamo
più niente e del niente non si può aver paura;
3. che il bene può essere procurato facilmente, perché la vera felicità sta nei
piaceri semplici che tutti possono soddisfare;
4. che il male si sopporta facilmente, perché se è acuto è di breve durata oppure
se è di lunga durata allora è lieve e quindi si sopporta con facilità.

La teoria della conoscenza o logica.

Come in tutte le scuole ellenistiche, anche Epicuro suddivide la filosofia in tre


parti:
1. la logica, o teoria della conoscenza, che studia le regole (che in greco si
chiamano "canoni") in base alle quali stabilire come avviene la conoscenza e
come si fa a distinguere tra conoscenze vere e conoscenze false;
2. la fisica, che studia come è fatto il mondo;
3. l'etica, o morale, che studia le regole del comportamento e della condotta
umana nonché i mezzi, i modi, per raggiungere il fine dell'uomo, cioè la
felicità.
Epicuro chiama la teoria della conoscenza, ossia la logica, "canonica" perché è
diretta a stabilire le regole (canoni) per raggiungere la verità delle nostre conoscenze.
Per Epicuro sono vere solo le conoscenze che risultino immediatamente evidenti e
pertanto tre sono i modi in cui la nostra conoscenza può giungere alla verità: 1) le
sensazioni; 2) le anticipazioni (o prolessi); 3) le affezioni (o emozioni, sentimenti).
Tutto il resto è solo fantasia o semplice supposizione.
Mentre per Platone la conoscenza vera non può mai fondarsi sulle sensazioni (ma
invece sul mondo delle idee) perché i sensi ci possono ingannare, per Epicuro invece
la sensazione sta proprio alla base della conoscenza. Per Epicuro le sensazioni
avvengono nello stesso modo già descritto da Democrito: dalla superficie delle cose
con cui noi veniamo a contatto si staccano piccolissime particelle di materia
(chiamate "effluvi") che colpiscono i nostri sensi, i quali trasmettono quindi alla
nostra mente la sensazione, l'immagine delle cose percepite. In tal modo le sensazioni
108

sono sempre vere e corrispondono alle cose percepite poiché sono emanate e
provengono direttamente dalle cose stesse.

Quando le medesime sensazioni si ripetono allora si conservano nella memoria e si


producono così le anticipazioni (o prolessi), cioè i concetti. Ad esempio, quando si
riceve la sensazione di molti alberi, allora si conserva e si fissa nella memoria
l'immagine dell’albero, cioè il relativo concetto. Viene chiamata anticipazione
perché, quando si è formato il concetto di qualcosa, in base ad esso si è in grado di
riconoscere anticipatamente le cose future della medesima specie anche se al
momento non sono presenti davanti i sensi. Poiché le sensazioni sono sempre vere ed
evidenti, lo sono anche le anticipazioni, o concetti, in quanto derivano da sensazioni
ripetute.
Infine, le affezioni sono costituite dalle emozioni e, in particolare, dai sentimenti di
piacere e di dolore. Esse ci consentono di conoscere e di distinguere ciò che è bene e
ciò che è male: bene è ciò che reca piacere, male è ciò che reca dolore. Pure le
affezioni sono una specie di sensazioni, prodotte non da oggetti esterni ma dai nostri
sentimenti interni di piacere e di dolore. Perciò anche le affezioni, essendo una specie
di sensazioni, sono sempre vere ed evidenti.
Ma allora dove nasce la possibilità dell'errore? Non dai sensi, perché per Epicuro
essi non sbagliano. Nasce invece dai ragionamenti che, quando riguardano cose ed
argomenti che non derivano dai sensi, cioè dall'esperienza e dall'osservazione,
possono essere sbagliati. Quando le opinioni e i ragionamenti non sono confermati
dall'esperienza allora sono falsi.

La fisica.

Alla logica sensistica (basata sulle sensazioni) corrisponde in Epicuro una fisica di
tipo materialistico: non esistono realtà e sostanze spirituali nel mondo, neppure
l'anima e i sentimenti, concepiti come affezioni originate anch’esse dalle sensazioni.
Come per Democrito, anche per Epicuro gli elementi di base che costituiscono il
mondo fisico, ossia i corpi e i fenomeni naturali, sono gli atomi, i quali non si
possono percepire con i sensi (non si vedono e non si toccano) ma si giunge a
comprendere la loro esistenza col ragionamento. In effetti, dicono Democrito ed
Epicuro, i corpi materiali, le cose concrete, non si possono suddividere all'infinito,
cioè rimpicciolire all'infinito, perché allora diverrebbero non più materia,
diverrebbero un niente, ma questa è una contraddizione. Perciò vi deve essere per
forza un punto oltre il quale la materia e i corpi materiali non possono più essere
ulteriormente divisibili, rimpiccioliti. Gli elementi indivisibili della materia sono
appunto gli atomi (atomi =indivisibili).
Epicuro non basa quindi la scienza e la filosofia solo sulle sensazioni e sull'esperienza
ma anche sul ragionamento. In questo senso si dice che la filosofia epicurea non
consiste in un empirismo radicale, cioè esclusivo, perché anche il ragionamento è
importante.
109

Gli atomi si muovono nello spazio, ma allora, dice Epicuro, se è così bisogna
concludere che esiste anche il vuoto, perché se tutto lo spazio fosse occupato dai
corpi, dagli oggetti, gli atomi non potrebbero muoversi. Però, mentre per Democrito
il movimento degli atomi è vorticoso ed in tutte le direzioni, per Epicuro è invece
verticale, dall'alto verso il basso, ed è causato dal diverso peso posseduto da ogni
atomo. Si può rilevare in proposito una certa somiglianza con la teoria aristotelica dei
luoghi naturali dei quattro elementi terrestri. Muovendosi, gli atomi si incontrano e si
uniscono, cioè si aggregano, e allora nascono le cose dell'universo (le stelle, i pianeti,
le pietre, le piante, gli animali, gli uomini) oppure gli atomi si scontrano, si separano,
cioè si disgregano, ed allora le cose periscono, muoiono. Ma come fanno gli atomi
ad incontrarsi ed aggregarsi o scontrarsi e disaggregarsi se il loro movimento è
rettilineo e verticale? Epicuro risponde che ad un certo punto, non si sa quando e
non si sa dove, gli atomi deviano dalla loro traiettoria perpendicolare. La loro
traiettoria diviene obliqua e così si possono incontrare ed aggregare o scontrare e
disaggregare. Questa è la teoria della deviazione detta anche declinazione degli
atomi (in latino "clinamen"). Mentre per Democrito l'aggregazione o disaggregazione
degli atomi avviene in base a precise e necessarie leggi meccaniche, per Epicuro le
deviazione degli atomi dalla loro traiettoria perpendicolare avvengono assolutamente
per caso. Di conseguenza, la nascita e il perire delle stelle, dei pianeti, delle cose e
degli uomini è del tutto casuale. Tutto è frutto del caso. Con la teoria della
deviazione casuale degli atomi Epicuro vuole appunto far intendere che ogni cosa,
ogni realtà, non deriva da leggi necessarie, secondo predeterminati rapporti di causa
ed effetto, ma che invece ogni realtà nasce solo per caso e non per necessità.
Se non c'è necessità allora c'è libertà. Ciò significa che il mondo non è regolato da
leggi meccaniche rigorose e insuperabili, che non è regolato da un fato o da un
destino necessario, che il mondo non è diretto verso un fine, verso uno scopo
prestabilito a cui gli uomini sono sottomessi: nella concezione di Epicuro non c’è
finalismo predeterminato. Gli uomini possono rompere e vincere le leggi del
destino ed agire liberamente. Mentre per gli stoici, come vedremo, l'uomo è
inevitabilmente sottoposto ad un destino necessario, per Epicuro invece l'uomo è
artefice del proprio destino, può decidere liberamente del suo destino.
Essendo lo spazio vuoto ed infiniti gli atomi, infinite sono anche le loro possibili
aggregazioni, capaci di dare origine, perciò, ad infiniti mondi, alcuni simili al nostro,
altri diversi.

L'anima e gli dei.

Come tutte le cose, anche l'anima è materiale; è costituita da un aggregato di atomi


materiali, con l'unica differenza che sono più sottili e leggeri, come quelli del vento
rispetto agli atomi che costituiscono gli oggetti fisici. L'anima è come un soffio caldo
che anima (fa muovere) il corpo ed è diffusa in tutte le sue parti. L'anima ha due
funzioni:
1. quella, appunto, di animare il corpo, di dargli vita;
2. quella di consentire i pensieri e i sentimenti.
110

Essendo composta da un aggregato di atomi materiali, l'anima non è immortale:


quando il corpo muore anche gli atomi dell'anima si disgregano ed anche l'anima
muore.
La certezza che l'anima non sopravvive, e che non c'è nessuna vita ultraterrena
dopo la morte ma solo il niente, è per Epicuro l'argomento migliore per liberarci
dalla paura della morte. Epicuro non è ateo; crede nell'esistenza degli dei perché
di essi tutti hanno una sensazione, la quale non può essere prodotta che dalle
emanazioni (dall'effluvio) degli atomi che, come per tutte le sensazioni, si staccano
dalla superficie della figura degli dei stessi. Perciò devono esistere, altrimenti noi non
potremmo averne la sensazione o l'immagine. Anche gli dei sono composti da atomi,
ma molto più sottili e tali che non si disgregano mai, perciò sono eterni. Però, come
abbiamo visto, gli dei non si occupano e non si preoccupano degli uomini e delle
vicende del mondo, poiché sono esseri superiori e beati e, in quanto tali, non possono
abbassarsi a prendersi cura di esseri inferiori quali sono gli uomini. Non c'è dunque
finalismo o provvidenza divina. Che gli dei non si curino del mondo e degli uomini è
dimostrato anche dal fatto che nel mondo esiste il male, il quale altrimenti non vi
sarebbe se gli dei si preoccupassero davvero di essi. Quindi gli uomini non devono
aver paura degli dei e non devono aspettarsi nulla da essi: né la felicità del paradiso
né la punizione dell'inferno, né favori o miracoli, né dispetti o disgrazie. Il motivo per
cui gli uomini adorano gli dei non è il timore ma l'ammirazione della loro superiorità.

L'etica e la politica.

Mentre per Platone, ed anche per gli stoici come vedremo, la felicità dell'uomo deriva
dalla virtù, per Epicuro invece la felicità dell'uomo deriva dal piacere, dalla
possibilità di vivere sensazioni piacevoli. Ma non tutti i piaceri conducono alla
felicità: bisogna saper scegliere quali piaceri ricercare e quali invece respingere. I
piaceri smodati ed eccessivi (il troppo mangiare e bere, fare sempre festa e voler
sempre divertirsi, il ricercare sempre le ricchezze, la gloria mondana, il potere) sono
come un movimento violento, che al momento possono anche dare un gran
godimento ma che poi portano con sé turbamenti ed ansia. I veri piaceri che
conducono alla felicità sono invece quelli semplici (accontentarsi di poco) che tutti
possono provare. Essi sono come un movimento (una passione) lento, che dà quiete e
tranquillità. Il vero piacere consiste nella mancanza di dolore nel corpo (aponia) e
nella mancanza di turbamenti e di ansie nell'anima (atarassia). Il vero piacere quindi
non consiste nel fare qualcosa ma nella mancanza di dolore e di preoccupazioni.
Pertanto Epicuro non è un edonista, come molti credono; cioè non vuole vivere solo
per il piacere e provare tutti i piaceri. Il saggio è invece colui che si fa guidare dalla
ragione e ricerca solo i piaceri semplici e naturali, respingendo tutti gli altri.
La ricerca dell'imperturbabilità dell'animo, cioè della atarassia, porta il saggio a
rifuggire dalla vita politica, considerata dai Epicuro come innaturale perché
comporta continuamente dispiaceri ed ansie. L'uomo saggio è colui che vive
appartato, che non cerca il successo politico e sociale, ma se ne sta per conto suo
111

insieme ai suoi veri amici. È saggio colui che vive in modo da bastare a se stesso
(autarchia).
Questo disinteresse per la politica corrisponde allo stato d'animo degli uomini,
soprattutto dei Greci, dell'età ellenistica, i quali vivono in società governate da
monarchie assolute, in cui le polis greche hanno perso la loro libertà ed indipendenza.
Perciò, contrariamente al pensiero di Platone e di Aristotele, la legge, il diritto e lo
Stato non rappresentano più un ideale, ma valgono soltanto perché sono utili al fine
di regolare la vita sociale e per impedire che prevalga la prepotenza. L'individuo è
più importante della società e dello Stato (individualismo).
Ma l'individualismo e l'autarchia cui parla Epicuro non sono misantropia
(=avversione, fastidio nei confronti dell'umanità), perché Epicuro non ci invita a
vivere esclusivamente in maniera solitaria, come degli eremiti. Per lui è invece
importante vivere con gli amici. L'amicizia può inizialmente nascere anche allo
scopo di ottenere qualche vantaggio, ma poi diventa un piacere in se stessa, un
piacere disinteressato. I veri amici non pretendono e non chiedono nulla ma sono
contenti soltanto di stare insieme e di vivere, di pensare e di sentire nella stessa
maniera.

Nell'ambito della civiltà romana aderirà all'epicureismo il poeta latino Lucrezio.

Lo stoicismo o filosofia stoica.

I fondatori della scuola stoica: Zenone e Crisippo.

Fondatore della scuola stoica fu Zenone di Cizio (nell'isola di Cipro), fenicio di


origine, nato nel 336 a.C., e poi giunto e vissuto ad Atene. Morì nel 364 a.C. Non
essendo un cittadino ateniese, non aveva il diritto di acquistare un edificio per farne la
sede della sua scuola filosofica. Perciò Zenone tenne le sue lezioni in un portico, che
in greco si dice "stoà": da ciò il nome di scuola stoica o stoicismo e il nome di stoici
dato ai suoi discepoli.
Zenone scrisse molte opere, però tutte andate perse. Successore di Zenone nella
direzione della scuola stoica fu Cleante di Asso, ma più importante fu il suo discepolo
Crisippo di Tarso (281-208 a.C.), che divenne a sua volta direttore della scuola.
Anche le sue opere sono andate quasi tutte perdute. Quindi noi conosciamo la
filosofia stoica solo in base a quanto ci viene riferito dai discepoli e dai filosofi stoici
successivi, i quali però, nell'esporre il pensiero stoico, non precisavano con chiarezza
a quale filosofo appartenessero i diversi argomenti trattati. Perciò è possibile
descrivere la filosofia stoica solo in generale e non in riferimento ad ogni singolo
filosofo.
Lo stoicismo durò per secoli, dal terzo secolo avanti Cristo al terzo secolo dopo
Cristo, diffondendosi quindi anche nella civiltà romana: importanti stoici dell'età
romana furono Seneca, precettore dell'imperatore Nerone, Epitteto e l'imperatore
Marco Aurelio.
112

La filosofia stoica è per molti versi contrapposta alla filosofia epicurea.


Per gli epicurei il mondo è frutto del caso, per gli stoici invece è il frutto di una
ragione, di un'intelligenza (in greco il "logos"), che plasma e dà forma al mondo e
che non deriva da una divinità trascendente, cioè separata e al di sopra del mondo, ma
immanente nel mondo, che cioè sta dentro il mondo e che dal di dentro conferisce
ordine e armonia a tutte le cose.
Inoltre, mentre per gli epicurei il fine dell'uomo è la ricerca del piacere (sia pure
dei piaceri semplici e naturali), per gli stoici il fine dell'uomo è di vivere secondo
quanto suggerisce la ragione, cioè il logos, e quindi di vivere secondo virtù, perché
la virtù consiste proprio nell'osservare i precetti della ragione, mentre una vita vissuta
nella ricerca del piacere degrada l'uomo e lo abbassa al livello degli animali.
Anche per gli stoici la filosofia consiste pressoché esclusivamente nella logica, o
teoria della conoscenza, nella fisica e nell'etica.

La logica stoica.

Come per gli epicurei, anche per gli stoici la logica è lo studio delle condizioni e dei
modi in base a cui distinguere i discorsi veri da quelli falsi e quindi del modo in cui
avviene la conoscenza.
Anche gli stoici, come gli epicurei, ritengono che il primo gradino della conoscenza
è quello che deriva dai sensi, dalle sensazioni. La mente, l'intelletto, è di per sé una
"tabula rasa", un foglio bianco che ancora non conosce niente, non possiede idee
innate; le idee della mente derivano invece dalle sensazioni. La sensazione è
un'impressione provocata dagli oggetti sui nostri sensi. I nostri sensi rimangono
impressi dagli oggetti con i quali vengono a contatto e trasmettono queste impressioni
alla mente, all'intelletto, per cui la mente riceve l'immagine, la rappresentazione
mentale dell'oggetto. Fino a questo momento la funzione conoscitiva della mente è
solo passiva: essa si limita a ricevere le immagini, le rappresentazione degli oggetti.
Ma in una seconda fase, nel secondo gradino della conoscenza, la mente diviene
attiva, perché essa valuta, giudica le impressioni e le immagini e dà il proprio
assenso, cioè riconosce come vere solo quelle immagini e rappresentazioni che
risultino evidenti e non contraddittorie, mentre non dà il proprio assenso, cioè
riconosce come false le immagine confuse, non chiare, che non corrispondono a
come stanno le cose, cioè alle sensazioni ricevute. Il criterio di verità è dunque
l'evidenza delle sensazioni.
La rappresentazione, o immagine chiara ed evidente, derivante dalla sensazione e che
riceve l'assenso della mente, è chiamata dagli stoici "rappresentazione catalettica" (=
che comprende). Le sensazioni sono sempre vere perché sono una specie di
impronta delle cose nell'anima, nella mente. In tal modo gli stoici spiegano anche
come sorge l'errore (che non deriva dai sensi i quali non ci ingannano diversamente
da come pensava Platone), che nasce quando la nostra mente dà il suo assenso ad
immagini che non corrispondono alla realtà delle cose, degli oggetti. L'errore può
stare dunque nella conoscenza attiva e mai nella conoscenza passiva.
113

L'accumularsi e il ripetersi di medesime immagini e rappresentazioni conduce poi alla


formazione delle anticipazioni (nel senso definito anche dagli epicurei), cioè dei
concetti. Di fronte a tante immagini ripetute di alberi, la mente costruisce il concetto
di albero. I concetti sono conoscenze universali, sono cioè uguali e valide per tutti. Il
mio concetto di albero è uguale al concetto di albero di tutti gli altri. Perciò i concetti
sono chiamati anche "universali". Tuttavia per gli stoici i concetti non esistono
nella realtà (in termini filosofici si dice che non hanno valore ontologico: ontologia=
la scienza dell'essere, dei principi primi delle cose che esistono). I concetti sono solo
nomi astratti formati dalla mente e che esistono solo nella nostra mente. Nella realtà
esistono solo le cose singole, concrete: non esiste l'albero ma solo i singoli alberi; non
esiste la giustizia ma solo le singole azioni giuste, ecc. Non sono quindi possibili le
generalizzazioni: non è lecito pretendere che le nostre conoscenze possano passare
dalla conoscenza di alcuni casi particolari ad una conoscenza generale di tutti i casi
simili, anche di quelli non ancora accaduti, perché il rischio di sbagliare è assai
grande: se io vedo solo alcuni uomini bianchi, non posso affermare con sicurezza che
tutti gli uomini siano bianchi.
La logica stoica, oltre che presentarsi come teoria della conoscenza, si occupa anche
del linguaggio e delle sue parti ed in tal senso è più propriamente chiamata
"dialettica", formata soprattutto dai concetti, dalle proposizioni e dai sillogismi.
I concetti sono suddivisi dagli stoici in quattro grandi categorie:
1. il sostrato o sostanza, cioè le singole cose concrete in se stesse,
2. la qualità essenziale, cioè l'essenza di ogni cosa che la distingue da ogni altra;
3. le qualità accidentali o modo, ossia le particolari caratteristiche che ogni cosa
ha ma non in modo essenziale perché può avere anche caratteristiche diverse;
4. le qualità di relazione, ossia i rapporti fra le cose (causa-effetto, ecc.).
Le proposizioni, o giudizi, sono combinazioni di più concetti o termini e possono
essere categoriche, o dichiarative, quando affermano o negano qualcosa, oppure
ipotetiche, cioè condizionali.
I sillogismi sono combinazioni di più proposizioni e possono essere:
1. ipotetici, quelli in cui le premesse sono ipotesi condizionali (ad esempio se è
giorno c'è luce; ma è giorno, dunque c'è luce);
2. disgiuntivi, quelli in cui le premesse sono giudizi disgiuntivi, che esprimono
cioè un'alternativa: o è giorno o è notte, ma è giorno, quindi non è notte.
Come si può notare, i sillogismi stoici si distinguono da quelli aristotelici perché non
sono costituiti da collegamenti solo formali fra i termini, che possono essere anche
irreali, basati soltanto sul rapporto di coerenza e di non contraddizione fra di essi
(ad esempio A=A; A è diverso da B; o è A o è B, dove A e B possono essere cose reali
oppure semplici simboli senza corrispondenza nella realtà), bensì sono costituiti da
collegamenti fra proposizioni esprimenti ciascuna un fatto, un evento reale, un dato
di esistenza.
114

La fisica.

La fisica stoica è:
1. materialistica: la realtà è costituita solo da materia animata (in movimento) e,
analogamente al pensiero epicureo, non vi sono sostanze spirituali;
2. monistica (=il contrario di dualistica o pluralistica; monismo=esistenza di un
solo ed unico tipo di realtà, dal greco monos che significa unico): esistono solo
corpi materiali e non ci sono esseri spirituali, quindi vi è un solo tipo di realtà,
perché l'essere è solo ciò che ha la capacità di agire o di partire, cioè di
compiere o di subire un'azione, proprietà queste che appartengono soltanto ai
corpi materiali; di conseguenza anche le virtù, i vizi, l'anima, il bene e il male
sono corporei;
3. panteistica (Dio è in tutta la natura, distribuito entro di essa): tutti i corpi
materiali, tutte le cose, derivano da una materia originaria indistinta, che esiste
da sempre, costituita dal fuoco o, meglio, da un soffio infuocato detto
"pneuma" (termine greco che significa, appunto, soffio, vento); le cose sono
ricavate e plasmate da questa materia originaria non da una divinità
trascendente ma dal Logos che, come abbiamo visto, è l'intelligenza che sta
dentro il mondo (immanente).
Il logos è la ragione che c'è nel mondo, che forma e anima le cose del mondo
ricavandole dalla materia originaria; anche il logos è corporeo, è forza materiale dato
che, secondo gli stoici, esistono solo corpi costituiti da materia; tuttavia l'agire,
l'operare del logos ha i caratteri del divino. Perciò la divinità, appunto, non è
trascendente (distinta e al di sopra del mondo) ma è immanente (dentro il mondo)
ed è panteisticamente diffusa in tutte le cose del mondo: Dio è in tutte le cose e
tutte le cose sono in Dio.
Il logos divino dà forma e ordine a tutte le cose del mondo perché contiene in sé i
semi di tutte le cose, dai quali tutte si generano. Per tale motivo il logos è chiamato
anche "la ragione seminale del mondo". Quello del logos è un operare necessario e
razionale: è la legge necessaria che dal di dentro anima del mondo.
Se il logos forma e dà ordine razionale al mondo, significa allora che il mondo non è
frutto del caso, come sostengono di epicurei, ma è invece il prodotto di un
progetto razionale, quello del logos stesso. Perciò tutte le cose del mondo sono
perfette e derivano necessariamente da quel progetto razionale e tutte sono rivolte ad
uno scopo, ad un fine preciso. Dunque, contrariamente agli epicurei, nel mondo non
opera un meccanicismo casuale ma un finalismo necessario: tutte le cose sono dirette
dal logos verso un fine di armonia e di ordine sempre più grande.
Se tutte le cose del mondo sono perfette, poiché derivano dal progetto razionale del
logos, ciò vuol dire anche che nel mondo non c'è veramente il male. Le sofferenze,
le ingiustizie e la morte non sono veri mali, sono solo mali apparenti e provvisori,
destinati a trasformarsi in un bene superiore. Del resto, se non vi fosse il male non ci
sarebbe nemmeno il bene, perché anche gli stoici, come Eraclito, affermano che una
cosa non può esistere se non esiste anche il suo contrario.
115

Se nel mondo vi è finalismo, allora vuol dire che c'è anche una provvidenza. Ma
tale provvidenza non è quella del Dio cristiano o comunque di un Dio trascendente
che si prende cura del mondo e degli uomini. Essa non è niente altro che l'ordine e
l'armonia universale che opera nel mondo. È il destino, il fato, che governa
necessariamente tutte le cose e a cui non ci si può sottrarre.
Poiché il mondo è costituito solamente da corpi materiali, essi prima o poi sono
pertanto destinati a perire e a ritornare nel fuoco originario. Il mondo tutto è destinato
a morire, ma poi rinasce nuovamente ogni volta esattamente come prima, con le
stesse cose, con gli stessi uomini e con le medesime vicende. È questa la dottrina
della palingenesi (della continua e nuova nascita del mondo), ovvero la teoria
dell'eterno ritorno, che nel 1800 sarà ripresa da Nietzsche.

L'etica.

L'etica è la parte più importante della filosofia stoica. Per gli stoici l'uomo è l'essere
più privilegiato dell'universo e la struttura dell'uomo corrisponde alla struttura
dell'universo: a livello di microcosmo (nel suo piccolo) l'uomo riproduce (è simile)
la struttura del macrocosmo, cioè dell'intero universo. Infatti, così come l'universo è
un grande corpo che dentro di sé tiene insieme in modo ordinato tutte le parti di cui è
costituito, anche il corpo dell'uomo tiene insieme dentro di sé ordinatamente tutte le
sue parti. Altrettanto, così come il logos, la ragione, la razionalità, dà forma e ordine
a tutte le parti dell'universo animandole, anche l'anima dell'uomo è una parte del
logos universale che anima il corpo umano. L'anima ha sede nel cuore ed è la guida,
il centro direttivo (in greco si dice che è l'egemonico=la guida) del corpo e di tutte le
sue parti. Ma, come abbiamo visto, l'anima non è una sostanza spirituale; è come
un soffio caldo diffuso in tutto il corpo, che fa muovere il corpo e ne è anche
influenzata: se il corpo è dolorante anche l'anima soffre e se il corpo sta bene anche
l'anima prova gioia. Tale influenza è per gli stoici una prova ulteriore che anche
l'anima è materiale come il corpo.
Come gli epicurei, anche per gli stoici il fine dell'uomo è raggiungere la felicità.
Tuttavia mentre per gli epicurei la felicità si ottiene attraverso il piacere, sia pur
quello semplice e naturale, per gli stoici la felicità si raggiunge invece con la virtù.
Vivere secondo virtù significa vivere secondo ragione, secondo il logos, cioè vivere
in armonia e in accordo con le leggi naturali stabilite dal logos che regola tutto
l'universo. L'animale raggiunge l'accordo con la natura attraverso l'istinto. L'uomo vi
giunge mediante l'uso della ragione.
Se la virtù è vivere secondo razionalità, allora il vizio è irrazionalità. Se la virtù è il
vero bene perché incrementa la razionalità (il logos), il vero male allora è il vizio
perché danneggia la razionalità. Di conseguenza, tutto ciò che non è virtù o vizio è
moralmente indifferente: sono perciò indifferenti, cioè né bene né male, la vita, la
morte, la ricchezza, la malattia, la povertà, ecc., insomma tutte quelle realtà che non
derivano dalla nostra coscienza ma dall'esterno e che allora la nostra coscienza, la
nostra anima o logos o ragione, non può controllare. Con ciò gli stoici vogliono
116

intendere che il bene e il male derivano sempre dall'interno della nostra


coscienza, dalle nostre intenzioni, mai da fatti esterni, per cui la felicità può essere
raggiunta indipendentemente dagli eventi esterni, anche se nocivi; anzi, si può
essere felici persino in mezzo ai tormenti fisici. Tuttavia, tra le cose indifferenti, che
non sono né bene né male, alcune sono da preferire (ad esempio l'intelligenza, la
salute, il benessere) e sono allora chiamate "valori", mentre altre non sono da
preferire (ad esempio l'ignoranza, la malattia, la povertà) e sono allora chiamate
"disvalori" (=non valori).
L'agire secondo ragione, e non secondo gli istinti e le passioni, è moralmente perfetto
e quindi è doveroso. Il dovere consiste appunto nel comportarsi razionalmente: sono
doverose le azioni suggerite dalla ragione; sono azioni contrarie al dovere quelle che
non sono conformi alla ragione, che sono condannate dalla ragione.
Il principale ostacolo alla virtù, ad una vita virtuosa, sono le passioni, considerate
dagli stoici errori della ragione causati da ignoranza, da presunzione, superbia e
stoltezza, e tali da condurre all'infelicità. Chi vive soltanto per il piacere subirà
prima o poi turbamenti ed ansie, perché se si è attratti solo dai piaceri si viene distolti
dalla virtù e dalla ragione. Colui che è dominato dalle passioni è schiavo e dipende
dagli eventi esterni che non può controllare perché non dipendono da lui. Perciò
gli stoici sono molto duri nei confronti delle passioni: non è sufficiente moderarle
e regolarle, come dicevano Platone e Aristotele, bisogna invece di eliminarle
totalmente, non farsi minimamente tentare da esse. Il saggio deve quindi raggiungere
uno stato, una condizione (un modo di vivere) di completa "apatia" (=assenza di
passioni). Questa è la celebre teoria della apatia: bisogna cioè diventare totalmente
indifferenti e insensibili di fronte a tutte le passioni, quali il desiderio di beni futuri o
la gioia per i beni presenti, ma anche diventare indifferenti rispetto alla paura di mali
futuri o alla sofferenza per i mali presenti. Non è male il dolore fisico, non è male la
morte di una persona cara, perché il saggio sa accettare la realtà anche quando è
dolorosa. Il saggio sa che ogni evento, anche tragico, è causato dal fato, dal destino,
che l'uomo non può vincere e cambiare poiché il fato deriva dal logos che governa
l'intero universo, per cui ciò che sembra male a noi non è un male per l'intero
universo, ma è un passaggio necessario in vista del futuro bene generale.
Non solo le passioni malvagie non devono influenzare il saggio, ma anche i più
nobili desideri e intenzioni non devono distoglierlo dalla completa apatia, dalla
completa impassibilità. Il saggio non deve neppure provare pietà o compassione di
fronte alle disgrazie sue e degli altri. Il saggio non può perdonare a nessuno una
colpa commessa. Egli deve limitarsi a correggere con la ragione gli errori suoi o degli
altri. Questo non significa che il saggio debba disinteressarsi di quanto succede
intorno a lui, ma quando agisce, quando interviene, deve farlo senza nessuna
emozione, solamente in modo razionale e distaccato. L'apatia stoica è estrema;
esclude non solo le passioni cattive ma anche quelle nobili, anche la compassione e la
pietà. Mentre l'epicureo ama la vita, lo stoico vive invece la vita con distacco e con
fredda razionalità.
117

Il cosmopolitismo stoico.

Poiché, come si è visto, l'anima dell'uomo deriva dal logos, dalla ragione universale
che è dentro il mondo e che lo governa e gli dà ordine, allora tutti gli uomini,
avendo la loro anima una medesima origine, sono uguali fra loro, anzi tutti fratelli.
Quindi non vi è differenza fra Greci e barbari, fra liberi e schiavi, né tra le polis o fra
gli Stati. Tutti gli uomini costituiscono un'unica e generale comunità-società: tutti
sono ugualmente "cittadini del mondo". Tale è la concezione cosmopolita degli
stoici. Cosmopolitismo alla lettera significa che il mondo (il cosmo) costituisce
un'unica città (polis). Per tutti gli uomini vale la medesima legge di natura e tutti
devono essere amici tra loro (filantropia).
118

LA FILOSOFIA A ROMA.

L'eclettismo e Cicerone.

La cultura e le filosofie ellenistiche, per la lunga durata nel corso dei secoli, si
estendono e gradatamente si trasferiscono dai centri della Grecia e dell'Oriente
(Atene, Alessandria, Pergamo, Rodi) alla civiltà romana e particolarmente a Roma.
La cultura romana non elabora una propria ed originale filosofia ma assorbe piuttosto
le filosofie greco-ellenistiche adattandole, come si è visto, in senso eclettico. La
tendenza all'eclettismo (scegliere tra le diverse concezioni filosofiche quelle ritenute
migliori e più persuasive) sorge fin dal secondo secolo avanti Cristo e si sviluppa
specialmente in ambiente romano, in quanto più consona allo spirito pratico e alla
valorizzazione del senso comune tipici degli antichi Romani.
Maggior esponente dell'indirizzo eclettico romano è Marco Tullio Cicerone (106-43
a.C.). Il pensiero filosofico dei Romani, in conformità con la loro indole pratica,
mostra interesse soprattutto per i problemi etici e politici nonché una nuova
sensibilità per i problemi giuridici, il che costituisce una specialità della civiltà
romana.
Cicerone considera criterio di verità il consenso (accordo) comune dei filosofi e
spiega tale consenso con la presenza in tutti gli uomini di idee innate, simili alle
anticipazioni dello stoicismo.
In fisica respinge la concezione meccanicistica degli epicurei ed il casualismo (=il
mondo e ogni evento è frutto del caso), ritenendo peraltro impossibile risolvere i
problemi della fisica a causa della loro complessità ed esprimendo perciò su questo
punto un atteggiamento scettico.
Nell'etica afferma il valore della virtù per se stessa, ma oscilla tra stoicismo ed
aristotelismo.
Afferma l'esistenza di Dio, la libertà e l'immortalità dell'anima, ma non approfondisce
questi temi metafisici.
Nel suo eclettismo Cicerone non elabora sostanziali novità, tuttavia è stato colui
che più di tutti, ed in ciò sta il suo maggior merito, ha contribuito alla diffusione e
divulgazione della cultura e della filosofia greco-ellenistica in ambiente romano.
I suoi più originali contributi stanno nell'intuizione politica secondo cui la
costituzione romana ha realizzato l'ideale platonico della costituzione mista, mettendo
insieme un elemento monarchico (i Consoli), un elemento aristocratico (il Senato) ed
un elemento democratico (i Tribuni della plebe), il che, secondo Cicerone, rende la
costituzione romana la più stabile e migliore.
Abbastanza originale è anche il suo approfondimento della dottrina stoica della
legge naturale, secondo cui tale legge è stabilita dagli dei per tutti gli uomini, è
conoscibile dalla ragione e deve costituire il punto di riferimento delle leggi positive.
119

Lucrezio e l'epicureismo.

Tito Lucrezio Caro (primo secolo a.C.) è stato colui che, con il suo poema "De
rerum natura", ha maggiormente contribuito alla diffusione dell’epicureismo nella
cultura romana.
Lucrezio esprime un amaro pessimismo nei confronti della società umana, tormentata
da passioni irrazionali e da idee superstiziose. Una via di salvezza sta nella filosofia
epicurea, che insegna l'arte di appartarsi dalla vita attiva e dalle passioni, rendendo
così possibile l'eliminazione dei turbamenti e delle inquietudini degli uomini.

Lo stoicismo romano.

Principali esponenti e divulgatori dello stoicismo in ambiente romano sono stati


Seneca, Epitteto e Marco Aurelio.
Lo stoicismo romano, pur improntato all'indirizzo eclettico generale, si caratterizza
per la particolare sensibilità verso i temi religiosi, dell'interiorità spirituale,
dell'introspezione e della coscienza. Valorizza la concezione del saggio come colui
che è autosufficiente e ricava da se medesimo la verità, trovando in se stesso
l'ispirazione per vivere una vita conforme alla natura e al senso del divino presente
nel cosmo. È stata la dottrina più vicina al cristianesimo in virtù dei suoi concetti
di divinità, di fratellanza e amore tra gli uomini e di sopravvivenza della vita dopo la
morte. Tuttavia non supera la concezione materialistica e panteistica di fondo per
indirizzarsi, invece, verso una concezione trascendente della divinità e spiritualistica
della realtà.

Seneca.

Lucio Anneo Seneca nasce a Cordova verso l'inizio dell'era cristiana e muore nel 65
d.C. per ordine di Nerone, di cui era stato per lungo tempo consigliere.
Insiste sul carattere pratico della filosofia, la quale insegna a fare più che a dire. Il
saggio è per lui l’"educatore" del genere umano. Perciò trascura la logica mentre
si occupa della fisica solo da un punto di vista morale e religioso. Per Seneca,
infatti, l'ignoranza dei fenomeni fisici è la causa fondamentale dei timori dell'uomo e
la fisica può eliminarli. Inoltre la grandezza del mondo e della divinità ci insegna a
riconoscere la nostra piccolezza. In un certo senso la fisica è superiore alla stessa
etica, perché questa ha a che fare con l'uomo e quella, invece, con la divinità che si
rivela nei cieli e nel mondo. Tuttavia né la fisica né la metafisica di Seneca
contengono elementi davvero originali.
Circa la concezione dell'anima Seneca si ispira alla dottrina platonica, distinguendo
una parte razionale e una parte irrazionale; quest'ultima è suddivisa in anima
irascibile (le passioni) e anima concupiscibile, che insegue il piacere e i desideri.
Anche per Seneca il corpo, come in Platone, è prigione dell'anima, la quale ritorna
nell'eterno con la morte del corpo.
120

Seneca si discosta dalla concezione estremamente rigida che lo stoicismo ha del


saggio, individuato come assolutamente contrapposto alla massa degli stolti.
L'oscillazione tra il bene e il male, dice Seneca, è propria di tutti gli uomini ed anche
il saggio è imperfetto e peccatore. Le imperfezioni e gli errori degli uomini vengono
considerati da Seneca con maggiore indulgenza.
Condanna aspramente la schiavitù ed insiste sulla necessità dell'amore reciproco
tra gli uomini: la vera nobiltà è data solamente dalla virtù e la virtù è a disposizione di
tutti. Scrive Seneca: "Comportati con gli inferiori come vorresti che i tuoi superiori si
comportassero con te… La natura ci produce tutti fratelli, generati dagli stessi
elementi e destinati agli stessi fini".
Seneca scopre la "coscienza" come forza morale e spirituale fondamentale
dell'uomo. La coscienza è la consapevolezza interiore ed ineliminabile del bene e del
male: anche il malvagio non può sfuggire ai rimproveri della sua coscienza.
Nell'interiorità della coscienza si trova la divinità.
Lo stoicismo tradizionale, secondo la mentalità intellettualistica greca, identifica la
moralità con la conoscenza, che è propria del saggio. Seneca per la prima volta va
oltre e parla espressamente di "volontà" come di una facoltà distinta dalla conoscenza
(non basta conoscere il bene, bisogna anche volerlo), benché non approfondisca il
concetto.

Epitteto.

Epitteto (50-60 a.C.; 138 d.C.) nasce schiavo e diviene liberto di Nerone. Vive a
Roma fino al 92-93 d.C., quando l'editto di Domiziano bandisce da Roma numerosi
filosofi. Si ritira a Nicopoli in Epiro, dove fonda una scuola. Non scrive nulla. Un suo
discepolo pubblica il suo pensiero col titolo le "Diatribe".
Epitteto ripartisce le cose in due classi:
1) quelle che sono in nostro potere (opinioni, desideri, impulsi, sentimenti, ossia atti
spirituali);
2) quelle che non sono in nostro potere (il corpo, gli averi, la reputazione, ossia
tutte quelle cose che non sono nostre attività spirituali).
L'uomo può giungere alla virtù mediante la ragione. La virtù è libera, ma l'uomo
può essere libero solo rendendosi indipendente dalle cose esterne che non sono in
suo potere. Egli può invece agire sulle cose che sono in suo potere e su di esse
fondare la sua libertà, modificandole e dominandole. Il suo motto è: "Sopporta e
astieniti". Il male e il bene abitano solo nelle cose che sono in nostro potere, perché
esse dipendono dalla nostra volontà. In questo senso non c'è posto per gli
"indifferenti" e per le "cose intermedie". La scelta è quindi netta e radicale. Non si
può scegliere un po' di questo è un po' di quello. Chi sceglie il corpo, i piaceri, gli
averi non solo va incontro a delusioni e contrarietà, ma perde addirittura la sua libertà
e diventa schiavo di quelle cose. La scelta morale di fondo dunque non dipende da
un astratto criterio di verità, ma da una precisa decisione individuale.
Una volta operata la scelta di fondo, le scelte particolari scaturiscono di
conseguenza. La scelta di fondo può sembrare un atto della volontà, però quella di
121

Epitteto non è un'etica volontaristica ma rimane intellettualistica, ritenendo la


morale guidata dalla conoscenza piuttosto che dalla volontà: resta il concetto
socratico di virtù come scienza anziché di virtù come scelta della volontà.
È accentuata in Epitteto la dipendenza dell'uomo da Dio. Ma rispetto al
cristianesimo resta la differenza etica fondamentale: per Epitteto l'uomo può
giungere alla virtù solo attraverso l'uso della ragione, mentre per il cristianesimo la
via del bene è indicata all'uomo da Dio stesso attraverso la rivelazione espressa nelle
"Sacre scritture". Rimane, inoltre, la concezione monistico-materialistica dello
stoicismo anziché l'apertura ad una metafisica spiritualistica e trascendente.

Marco Aurelio (121-180 d.C.).

Imperatore romano, scrive un'opera intitolata "Ricordi", in 12 libri, composta da una


serie di massime e riflessioni.
Si distacca dalla filosofia stoica tradizionale per ciò che riguarda, in particolare, il
concetto di anima, separandosi dal materialismo stoico.
Sostiene che l'uomo è composto di tre principi:
1. il corpo, che è carne;
2. l'anima materiale, che è soffio caldo, pneuma, ed è il principio motore del
corpo;
3. l'intelligenza o l'intelletto (Nous), che è superiore all'anima stessa, al di fuori
dell'anima; è un dèmone divino, un "brano di Zeus stesso".
Le percezioni appartengono al corpo, gli impulsi all'anima, i pensieri all'intelletto.
L'intelletto è il nostro rifugio sicuro dalle passioni, secondo la concezione stoica
della meditazione interiore, del ritirarsi in se stesso distaccato dalle vicende del
mondo. Delle vicende esterne non c'è da preoccuparsi perché l'universo è regolato
secondo un ordine divino ed è governato dalla provvidenza.
Sottolinea non solo la parentela fra tutti gli uomini ma anche fra gli uomini e Dio.
L'uomo è parte del flusso incessante delle cose. Ma quale sia il destino dell'anima
in questo flusso non è detto chiaramente, se essa cioè, alla fine del corpo, sia
destinata a tramutarsi in altri esseri od essere riassorbita nel Tutto. Chiara è, per
contro, l'affermazione del corpo come prigione e tomba dell'anima.
Insiste sulla caducità delle cose, sul loro inesorabile passare. Questo sentimento
della transitorietà delle cose è lontano non solo dal pensiero greco dell'età classica
ma anche da quello del primo ellenismo. Il mondo antico sta dissolvendosi e il
cristianesimo sta conquistando gli animi, svuotando tutte le cose del loro antico
significato. Ma Marco Aurelio è convinto di trovare ancora nella concezione stoica
un senso nelle cose al di là della loro apparente nullità; un senso che egli basa sul
concetto etico di dovere morale nonché sulla visione panteistica del Tutto (di ogni
realtà), concepito come sommo principio da cui tutto l'universo trae origine e dal
quale, dal di dentro (immanentismo), è animato.
122

IL NEOPLATONISMO E PLOTINO.

Il neoplatonismo è un indirizzo filosofico che prende avvio intorno al 200 d.C. ed è


caratterizzato dall'intento di riproporre la filosofia di Platone, sviluppandone i temi
principali. Ma in realtà ricomprende anche le tendenze della filosofia greca ed
alessandrina dell'ultimo periodo, cosicché vengono fusi col platonismo elementi
pitagorici, aristotelici e stoici, in una sintesi ampia ed originale che influenzerà il
corso del pensiero cristiano e medievale. È l'ultima grande manifestazione della
filosofia greca.
Fondatore del neoplatonismo è Ammonio Sacca (175-242 d.C.), che insegna filosofia
ad Alessandria. Ma l'esponente principale del neoplatonismo è Plotino (204-270
d.C.).
Plotino nasce al Licopoli in Egitto. Si reca da Alessandria e quindi a Roma dove apre
la sua scuola. Muore in Campania.
Platone aveva fondato l'Accademia per formare uomini capaci di rinnovare lo Stato
(la polis). Aristotele aveva fondato il Peripato per organizzare la ricerca del sapere.
Le scuole ellenistiche (stoicismo, epicureismo, scetticismo) si proponevano di indurre
negli uomini l’atarassia, ossia la serenità e la tranquillità dell'anima. La scuola di
Plotino vuole invece insegnare agli uomini il modo di liberarsi dai legami della vita
terrena per riunirsi al divino e poterlo contemplare attraverso l'estasi.
Lo scolaro di Plotino, Porfirio di Tiro, pubblicò gli scritti del maestro ordinandoli in
sei "Enneadi", ossia libri di nove trattati ciascuno (dal greco en-né-a-de=libro diviso
in nove parti).

L'Uno.

Plotino riformula la metafisica classica giungendo a posizioni nuove rispetto a


Platone ed Aristotele. Presenta la filosofia greca come l'unica suprema forma di
conoscenza e ritiene il cristianesimo una forma di sapienza inferiore poiché basato
sulla fede e non sulla ragione. Con Plotino la filosofia greca supera il dualismo (la
contrapposizione e distinzione) platonico fra idea e materia e quello aristotelico fra
Dio, pensiero di pensiero, e materia, affermando che se la materia fosse
indipendente da Dio, come appunto in Platone ed in Aristotele che avevano
dichiarato l’eternità della materia indipendentemente dal principio divino, Dio allora
mancherebbe di qualche cosa. Di conseguenza, in quanto privo di qualcosa, non
potrebbe essere atto puro, bensì un essere in potenza e quindi diveniente
(suscettibile di divenire, cioè di mutamento e completamento come le cose terrene),
pertanto non perfetto e immutabile. È dunque necessario affermare che Dio, in
quanto immutabile, perfetto in se stesso e non mancante di niente, produce anche la
materia, ossia produce anche la natura e il mondo. Però Plotino non può accettare
che la creazione-produzione del mondo avvenga dal nulla (come è invece per la
Bibbia e per il cristianesimo), perché secondo il pensiero greco dal nulla non può
derivare nulla. Allora non resta che far derivare il mondo sensibile dallo stesso
123

principio primo, da Dio, ma senza che egli si sminuisca sdoppiandosi nella materia e
contrapponendola a sé.
Plotino prende atto della molteplicità delle cose, ma stabilisce immediatamente
come loro condizione l'unità: la molteplicità sarebbe impensabile senza l'unità, cioè
senza una comune ed unitaria origine. Persino il due presuppone l'uno. Anzi, dice
Plotino, ogni cosa, ogni ente, è tale in virtù della sua unità, al punto che, "tolta l'unità,
è tolto l'ente". In altri termini Plotino osserva che le cose del mondo sono molteplici e
differenti, però ognuna è quello che è e si distingue da ogni altra perché, pur
mutando, ciascuna conserva dentro di sé la propria unità, ossia la propria sostanza,
vale a dire la propria identità e specificità. A maggior ragione, allora, unitario deve
essere altresì il principio primo o supremo da cui tutte le cose derivano e che perciò
Plotino chiama l'Uno o l’Uno-Tutto, assimilato in quanto tale al divino. Per poter
essere principio di tutto, l’Uno deve essere anche infinito e indeterminato,
informe, perché se fosse determinato sarebbe una qualche cosa specifica, ossia, per
l’appunto, determinata, e non potrebbe essere quindi il principio, l'origine di tutte le
diverse cose. Se l’Uno è indeterminato, allora di esso non si può dire niente di
determinato, cioè non si può dire che cosa esso è ma solo che cosa esso non è. In tal
modo Plotino dà inizio a quella che in seguito sarà chiamata la "teologia negativa": è
impossibile definire Dio (l'Uno) secondo ciò che è perché questa conoscenza è
irraggiungibile per l'uomo; si può definirlo solo in base a ciò che egli non è.
Ovviamente, vi sono diversi livelli di unità: gli esseri minori hanno meno unità
(ricomprendono unitariamente in se stessi un numero minore di parti), mentre gli
esseri maggiori ne hanno di più, finché di grado in grado si giunge all'unità massima
che tutto comprende, si giunge appunto all'Uno-Tutto, da cui tutto deriva: il mondo e
la molteplicità delle cose.
Non potendosi definire l'Uno per ciò che esso è, si può tutt'al più paragonarlo all'idea
platonica del Bene. Già Platone, infatti, aveva posto l'idea del Bene al vertice del
mondo delle idee, tuttavia, secondo la mentalità greca per cui l'infinito è
l'indeterminato mentre il finito è il compiuto, il perfetto, Platone aveva di
conseguenza concepito l'idea del Bene (l'Uno secondo Plotino) come finita, come
limitata dalla sua forma ed, in questo senso, perfetta. Plotino afferma invece che
l'Uno, poiché principio di tutte le cose, è radicalmente diverso da esse. In quanto
principio del tutto e centro permanente di generazione di ogni cosa, l'Uno non può
essere limitato, finito, cioè delimitato secondo una qualche determinazione
(specificità) come vale per le cose finite; esso perciò non può essere che infinito.
Solo i filosofi naturalisti presocratici avevano parlato, prima di Plotino, di un
principio infinito (l'apeiron di Anassimandro), ma tuttavia lo avevano concepito come
realtà fisica, materiale. Plotino concepisce per contro l'Uno come infinito e
immateriale, come illimitata potenza ed energia produttrice, giungendo in tal
modo al concetto metafisico di infinito inteso come infinita ed illimitata potenza. Di
conseguenza, poiché gli esseri (le varie cose nonché l'intelligenza, il pensiero) erano
stati concepiti nella filosofia classica come finiti, Plotino pone l'Uno al di sopra
dell'essere (della realtà) e dell'intelligenza (del pensiero). In quanto infinito, l'Uno
è privo di forma e di figura (da cui sarebbe altrimenti delimitato). E poiché dove non
124

c'è forma non c'è neppure essere o essenza, per tale motivo l'Uno è al di là dell'essere
e della sostanza, è cioè trascendente. Proprio perché infinito, al di fuori di ogni
delimitazione quantitativa e spazio-temporale, l'Uno, come si è visto, non può venire
definito mediante attributi finiti. Poiché l'essenza dell'Uno è quella di generare
tutte le cose, esso non è nessuna di quelle cose; non è pertanto "qualcosa": non è né
qualità, né quantità, né spirito, né anima. È il principio originario, tutto chiuso in se
stesso. È l'informe che esiste prima di ogni idea, di ogni pensiero, prima del moto e
della quiete delle cose sensibili materiali. L'Uno è l'assolutamente diverso da
qualsiasi altra cosa, per cui è l'ineffabile (=inesprimibile), al punto che, come si è
detto, di esso si può dire solo ciò che non è.
Come infinita potenza, l'Uno non è causato da niente ma si autocrea liberamente; egli
è causa di se stesso. Questo concetto dell'Uno causa di se stesso, attività auto
produttrice che crea se stesso, è assolutamente nuovo nella metafisica antica e del
tutto elevato. Platone e Aristotele non si erano mai posta la domanda del come e del
perché dell'esistenza dell'idea del Bene e del Pensiero di Pensiero (Dio), limitandosi
semplicemente a concepirli come già dati, già presenti fin dall'eternità.

L'emanazione delle cose dall'Uno. Le tre ipostasi.

Perché dall’Uno derivano le altre cose e il mondo? Perché l'Uno, che è pienamente
appagato di sè, non è rimasto in se stesso? L'Uno, dice Plotino, nella sua perfezione
non ha certo bisogno del mondo. Ma in quanto potenza ed energia illimitata egli è
sovrabbondanza di essere che trabocca automaticamente da se stesso. Da questo
traboccare derivano tutte le altre cose, quelle sensibili e quelle intellegibili (=le
idee, i pensieri, che si colgono solo con l'intelletto e non si vedono né si toccano con i
sensi). La derivazione del mondo dall'Uno (Dio) è come l'irradiarsi, il diffondersi
della luce a partire dal Sole. Discende dall'Uno un processo di emanazione (in
termini tecnici si dice di "processione") involontario e necessario. In tal senso la
generazione del mondo da parte dell'Uno, anche se in parte assimilabile al Dio
cristiano o comunque al Dio-persona, rimane atto ben diverso da quello creativo,
sempre libero e volontario, del Dio delle religioni monoteistiche. L'Uno è sì libertà
perché crea se stesso liberamente, ma il suo trasbordare è necessario ed involontario.
Il processo di emanazione dall'Uno procede in forma di cerchi successivi,
attraverso una serie di gradi di essere (di realtà) sempre meno perfetti man mano che
ci si allontana dal principio iniziale. Questa successione di gradi diversi ha però un
carattere solamente logico e non cronologico. Infatti, come il calore procede dal
fuoco ma non è posteriore ad esso, così i diversi gradi del processo di emanazione
non sono posteriori all'Uno, al principio iniziale da cui sono emanati; l'emanazione
cioè non si compie nel tempo ma è simultanea e coeterna all'Uno medesimo.
La potenza, la forza generatrice che emana dall'Uno è la prima forma di sostanza.
Però, essendo l'Uno diverso da tutte le altre cose, tale potenza non può essere la
sostanza costitutiva anche delle altre cose stesse. Ed infatti Plotino pensa ad altri due
tipi di sostanza che svolgano una funzione di collegamento, di mediazione, tra l'Uno e
la molteplicità degli enti nel mondo: 1) l'Intelletto o Spirito; 2) l'Anima del mondo o
125

Anima universale. Il processo di emanazione del mondo dall'Uno avviene dunque


attraverso la successione di tre tipi di sostanza incorporea, spirituale, che Plotino
chiama ipostasi (=le sostanze che popolano il mondo intellegibile, cioè il pensiero) e
che sono l'Uno stesso, l'Intelletto, l’Anima universale. Viene conservata in tal modo,
ad ulteriore differenza rispetto al Dio del monoteismo, una concezione politeistica
della divinità.
La prima ipostasi è l'Uno, concepito come potenza irradiante che, espandendosi,
costituisce il principio iniziale che genera le altre cose.
La seconda ipostasi è l'Intelletto (lo Spirito), che sorge dalla contemplazione
dell'Uno. La potenza irradiata dall'Uno è informe; non è né pensiero né
contenuto del pensiero (pensato) perché, come abbiamo visto, è al di sopra di
entrambi. Il pensiero e il pensato sorgono dall'Intelletto, il quale, derivando
dall'Uno, si rivolge ad esso e lo contempla riempiendosi così di contenuti, di pensati,
traendoli da quelli che in potenza (=potenzialmente in quanto possibilità di essere)
sono nell'Uno medesimo. Poi l'intelletto si rivolge a se stesso, riflette su di sé, ed
avverte (coglie) se stesso come pensiero (pensante). Rispetto alla assoluta unità
dell'Uno, nell'Intelletto sorge quindi lo sdoppiamento fra soggetto pensante ed
oggetto pensato. Ma che cosa pensa l'intelletto? Pensa tutti gli infiniti pensieri
pensabili, pensa la totalità degli intellegibili (di tutto ciò che può essere pensato)
ovvero, per dirla con Platone, pensa alla totalità di quei modelli eterni delle cose che
sono le idee oppure, per dirla con Aristotele, pensa a tutti i diversi modi dell'essere
(all'essere come categorie, all'essere come atto e potenza).
Dall'Intelletto, per un’ulteriore emanazione, deriva la terza ipostasi, ossia l'Anima
universale. La sua specifica natura non consiste nel puro pensare (altrimenti non si
distinguerebbe dell'Intelletto), bensì nel dar vita (animare) a tutte le cose sensibili,
nell'ordinarle e governarle. Essa è suddivisa in due parti: l'Anima superiore, che
guarda le idee che sono nell'intelletto, e l'Anima del mondo, che plasma la materia a
somiglianza e ad imitazione delle idee dell’Intelletto, materia che emana dall'Anima
del mondo medesima. L'anima è la terza ed ultima sostanza intelligibile, immateriale
e spirituale (ipostasi), che confina con le cose sensibili di cui essa è causa. Essa entra
in ogni ente corporeo e quindi si trova in tutto pur rimanendo se stessa: è una e
molteplice, è una e molti. Vi è quindi una gerarchia di anime:
1. l'Anima superiore o suprema, che resta in stretta unione con l'Intelletto da cui
proviene;
2. l'Anima del mondo, che plasma il mondo e le cose sensibili, ossia l'universo
fisico;
3. le anime particolari, che scendono ad animare gli astri, i corpi e tutti gli esseri
viventi.
Tutte le anime derivano dalla prima e sono distinte da essa pur senza esserne
separate. L'Anima del mondo è altresì analoga al Logos degli stoici, che penetra nella
natura e la governa in modo provvidenziale: quindi è anche Provvidenza, sia pur in
senso diverso da quello cristiano. Anche l'anima umana è parte dell'Anima
universale e dell'Anima del mondo.
126

Come si può notare, ogni ipostasi nasce da un atto di contemplazione dell'ipostasi


precedente e costituisce un grado di realtà inferiore rispetto a quello dell'ipostasi di
provenienza. L'Uno è simboleggiato dalla luce, l'Intelletto dal Sole e l'Anima dalla
Luna che trae la luce dal Sole.
Con l'Anima del mondo ha termine la serie delle ipostasi del mondo intelligibile (ha
termine il mondo spirituale e del pensiero). Ad essa segue il mondo sensibile. Ma
perché la realtà non termina col mondo incorporeo ed esiste anche un mondo
corporeo? Come è sorto il mondo sensibile, la materia? La materia è l'ultima,
estrema tappa inferiore del processo di emanazione, nella quale la potenza e
forza produttrice dell'Uno si indebolisce fino ad esaurirsi. In tal modo la materia
diventa privazione estrema della forza e potenza dell'Uno. Perciò la materia è
"male"; è concepita negativamente come il venir meno del positivo. Essa è l'oscurità
che comincia là dove termine la luce. La materia è male in quanto è privazione di
essere o, meglio, è privazione di spirito, di sostanza spirituale. Tuttavia non è un
male e un non-essere assoluto, cioè non è l'opposto del bene e dell'essere, bensì ne è
soltanto la mancanza. In quanto assenza e privazione, la materia non è una realtà
sostanziale, non ha proprietà proprie. La materia, in cui si è esaurita la potenza
dell'Uno e delle altre ipostasi, non ha più la forza di rivolgersi verso chi l'ha
generata per contemplarla a sua volta. Pertanto tocca all'Anima di sorreggerla,
ordinarla, darne forma e tenerla agganciata all'Essere supremo, all'Uno, attraverso la
serie delle ipostasi.
È una visione che presenta delle analogie con l'attuale concetto fisico di materia
intesa come decadimento dell'energia: quando al termine del processo di emanazione
l'energia dell'Uno si esaurisce, essa si solidifica e diventa materia.
Peraltro, come dall'Uno che è Bene possa ad un certo punto scaturire il male, anche
se concepito non come male in sé ma come privazione della potenza dell'Uno, è
questione che la metafisica teologica di Plotino non riesce convincentemente a
spiegare. La metafisica di Plotino infatti è una concezione monistica della realtà,
secondo cui, cioè, uno solo è il principio della realtà stessa ed è di natura spirituale,
incorporea, mentre la materia (e il male che ne consegue) non è considerata
principio e neppure è concepita come derivante dal principio supremo poiché, nella
sua essenza, esso è Bene, è l’opposto del Male. Perciò tale concezione resta senza
spiegazione causale, oscura nella sua origine.
Le anime singole sono parti o, meglio, immagini dell'Anima del mondo, le quali sono
cadute e si sono incarnate nei corpi. L'Anima del mondo produce l'unità e la simpatia
fra tutte le molteplici cose poiché tutte hanno un'unica e medesima anima. In quanto
plasmato dall'Anima universale, che è sostanza razionale, il mondo ha un ordine
e una bellezza perfetti: ogni cosa trova il suo posto e la sua funzione, anche quelle
apparentemente imperfette, che appaiono come male, poiché subordinate invece ad
un bene e fine superiore.
Per quanto riguarda il tempo, esso è solo nel mondo fisico e nasce dall'attività
dell'Anima del mondo, la quale dà forma e vita alle cose secondo una successione
temporale: le cose vengono animate e vengono a vivere in momenti successivi,
127

mentre nel mondo delle idee, dello spirito, tutto è eterno e simultaneo ed il tempo non
esiste.
Va sottolineata l'originalità della teoria plotiniana dell'emanazione, ispirata ad un
monismo razionalistico-spiritualista che si differenzia nettamente sia dalla
concezione dualistica del mondo (da una parte Dio che dà ordine al mondo e
dall'altra la materia informe, anch'essa eterna e che coesiste indipendentemente da
Dio), sia dalla concezione creazionistica (Dio crea volontariamente dal nulla il
mondo e la materia), sia dalla concezione panteistica (Dio è in tutte le cose, in tutta
la natura). La metafisica di Plotino si presenta come la prima forma di metafisica
trascendente della storia della filosofia: l'Uno (Dio) è l'unico principio della realtà
(monismo), è incorporeo ed è al di sopra e distinto dal mondo, è cioè trascendente.

Il ritorno all'Uno.

Il cosmo è concepito da Plotino come un circolo che, per emanazione, inizia con la
discesa dell'Uno nelle cose molteplici del mondo ed in particolare nelle singole anime
degli uomini. Ma l'uomo è come un pellegrino pieno di nostalgia che desidera
ritornare e ricongiungersi all'Uno, in cui si trovava la sua anima prima di cadere
nel corpo. Per Plotino infatti l'anima degli uomini preesiste ai corpi nei quali,
cadendo, si incarna. Anche in Plotino si ritrova la concezione platonica dell’anima
come carcere e tomba dell'anima.
Le anime cadono nei corpi per una duplice colpa:
1. la caduta delle anime è una necessità ineluttabile ed involontaria a causa del
processo di emanazione; ma discendendo nel corpo l'anima è presa dal
desiderio colpevole di attaccarsi al corpo in cui si incarna, distaccandosi dal
mondo intellegibile, quello dello spirito;
2. la seconda colpa, che è quella più grave, consiste nel fatto che l’anima, una
volta incarnata, si prende eccessiva cura del corpo e si mette al servizio delle
cose esteriori, terrene, dimenticando la propria origine.
Collocate fra l'Uno e la materia (i corpi) le anime, se da un lato sono attratte dalle
seduzioni del corpo, dall'altro non possono fare a meno di avvertire il richiamo
dell'Essere, dell'Uno da cui sono nate. Plotino riprende la concezione platonica della
purificazione delle anime mediante il ritorno al mondo delle idee, sostenendo però
che già su questa terra è possibile realizzare il distacco da ciò che è corporeo e
ricongiungersi all'Uno.
Anche i filosofi dell'età ellenistica insistevano sul fatto che la felicità può essere
goduta su questa terra, perfino fra i tormenti fisici, guadagnando l'atarassia, cioè
l'imperturbabilità dalle passioni. Plotino ribadisce questo concetto, ma rileva che
essere felici anche su questa terra, sia pur fra i tormenti, è possibile solo perché c'è
in noi una componente trascendente che può unirci al divino pur nella sofferenza del
corpo. Mentre per i filosofi ellenisti la felicità può essere raggiunta, mediante
l'atarassia, dentro il mondo terreno, per Plotino essa è invece possibile solo con un
saldo aggancio alla trascendenza.
128

Il ritorno all'Uno è possibile solo se l'uomo abbandona le cose esteriori e terrene


per rivolgersi alla sua interiorità, alla sua coscienza.
Una prima tappa del ritorno all'Uno è costituita dalla liberazione da ogni
dipendenza nei confronti del corpo attraverso l'esercizio delle "virtù civili" (sapienza,
temperanza, coraggio, giustizia). Ma la seconda tappa, la vera e propria via del
ritorno, risiede nell'arte, nell'amore e nella filosofia.
L'arte è contemplazione della bellezza in sé e quindi è un primo gradino per andare
oltre e sollevarsi dalle cose sensibili. Nell'amore l'uomo risale gradualmente dalla
contemplazione della bellezza corporea a quella incorporea, che è immagine del
Bene. Con la filosofia l'uomo procede verso la conoscenza e la fonte stessa della
bellezza, ossia verso l'Uno in sé.
Ma nemmeno con la filosofia, col pensiero, l'uomo arriva veramente all'Uno,
perché il pensiero è condizionato e caratterizzato dal dualismo (contrapposizione) fra
soggetto pensante ed oggetto pensato, mentre l'Uno è assoluta unità, al di sopra
dell'essere e del pensiero e, come abbiamo visto, sfugge ad ogni tentativo di
conoscenza (teologia negativa). All'Uno-Dio l'uomo può giungere solo tramite
l'estasi (=letteralmente "stare fuori da sé", dal greco ek-stàsis, e immedesimarsi in
Dio), cioè mediante una sorta di unione mistica con l'Uno, il sentirsi immedesimato
in Dio, per cui l'anima esce fuori da sé e dimentica la propria individualità.
L'estasi, dice Plotino, costituisce un avvenimento eccezionale che tuttavia, pur
presentando talune affinità con la religiosità orientale mistica, non implica una fuga
assoluta dagli impegni della vita ordinaria. L'estasi di Plotino è piuttosto il punto di
arrivo di un pensiero squisitamente razionale. La religiosità di Plotino, a differenza
di quella cristiana, non fa affidamento su aiuti dall'alto (la grazia, la provvidenza) e
su "intermediari" tra l'uomo e Dio (come la Chiesa o i santi), ma confida sull'uomo
stesso. La dottrina dell'estasi era stata diffusa, in ambiente ellenistico, da Filone
Ebreo. Però, mentre Filone intendeva l'estasi come grazia, ossia come dono gratuito
di Dio, Plotino si mantiene agganciato alla mentalità greca: Dio non fa dono di sé
agli uomini (nella sua perfezione non ha bisogno di niente ed è indifferente), ma gli
uomini possono salire a lui purché lo vogliano.
Con il neoplatonismo termina la filosofia antica pagana. La sua fine ha una data
ufficiale, il 529 d.C., allorché l'imperatore Giustiniano, sostenitore ormai del
cristianesimo, proibisce ai pagani ogni pubblico ufficio e quindi anche di tenere
scuole e di insegnare.
129

CRISTIANESIMO E FILOSOFIA.

L'avvento del cristianesimo ha avuto un valore non solo esclusivamente religioso ma


anche storico, politico, sociale, culturale ed altresì filosofico, poiché molti concetti
della dottrina cristiana hanno contribuito a rilevanti cambiamenti nelle preesistenti
concezioni filosofiche greco-classica ed ellenistica.
Quelli seguenti sono i principali ed innovativi contributi apportati dal
cristianesimo in campo filosofico:
Il monoteismo (credere nell'esistenza di un solo ed unico Dio), mentre la filosofia
greca classica e quella ellenistica avevano una concezione politeistica (credere
nell'esistenza di molti dei).
Un nuovo concetto della verità: il cristianesimo si presenta come una religione che
annuncia la verità del mondo e della vita sia terrena che ultraterrena. Una verità che
però non è conseguita mediante la ragione (il ragionamento), ma che è direttamente
rivelata da Dio stesso attraverso i profeti, le sacre scritture (la Bibbia) ed, infine,
attraverso la predicazione di Gesù.
Il creazionismo: mentre perlopiù la filosofia greca ed ellenistica ritenevano che il
mondo e la materia fossero eterni, secondo il cristianesimo il mondo è stato invece
liberamente creato da Dio dal nulla per amore. Dio ha creato il mondo e la vita come
dono gratuito. Il creato, pertanto, è sempre concepito in modo positivo ed è esclusa
ogni visione pessimistica del mondo.
L’antropocentrismo: l'uomo è visto come creatura privilegiata, fatto a immagine e
somiglianza di Dio, mentre nel pensiero greco entità privilegiate erano gli astri
(cosmocentrismo).
La morale è stabilita da Dio: per la filosofia greco-ellenistica la morale deriva
soprattutto dal sentimento naturale, dal naturale modo di sentire dell'uomo e viene
fatta coincidere o con la conoscenza o con la virtù individuale e civile o con il piacere
equilibrato e moderato. Per il cristianesimo la morale è invece stabilita direttamente
da Dio attraverso i dieci comandamenti e i suoi precetti.
La provvidenza divina: la filosofia greco-ellenistica ignora il concetto di
provvidenza, oppure fa coincidere la provvidenza con l'ordine e l'armonia del mondo
o, addirittura, con il fato, col destino che governa il mondo e si impone agli uomini,
che nulla possono contro di esso. In ogni caso, la provvidenza della filosofia greco-
ellenistica non si rivolge mai al singolo uomo, non è un prendersi cura dei singoli
uomini. Per il cristianesimo invece la provvidenza è un prendersi cura volontario e
diretto di Dio, rivolto non solo nei confronti del creato in generale ma anche, e in
particolare, verso i singoli uomini.
Il nuovo senso della storia: i Greci non avevano un chiaro senso della storia intesa
come progresso. Erano portati, piuttosto, a considerare la storia come regresso da una
felice ed originaria "età dell'oro". In ogni caso avevano una concezione circolare,
ciclica, del corso della storia, secondo cui il mondo e le vicende umane nascono,
muoiono e poi rinascono come prima. La concezione cristiana della storia invece non
è circolare ma rettilinea. La storia procede come una retta che prosegue
costantemente verso sviluppi e progressi sempre maggiori fino alla fine del mondo,
130

che avverrà col Giudizio universale e col trionfo del Regno di Dio (concezione
ottimistica della storia; la storia come progresso).
Il rapporto tra fede e ragione. Abbiamo visto che per il cristianesimo la verità del
mondo e della vita non è conseguita dalla ragione ma è direttamente rivelata da Dio.
Il cristianesimo perciò è una religione che non richiede di essere compresa mediante
la ragione ma chiede di aver fede nella verità rivelata. Da ciò deriva il principale
problema che caratterizzerà tutta la filosofia cristiana-medievale: la fede è
qualcosa di irrazionale o è invece compatibile con la ragione? La ragione può essere
o no di aiuto per comprendere meglio i precetti della fede, oppure fede e ragione sono
totalmente opposte? Quale è quindi il rapporto tra fede e ragione? Alcuni filosofi
cristiani-medievali considereranno la ragione sempre distinta e subordinata alla fede,
per cui, diranno, la ragione è ancella della fede, cioè deve essere sempre al servizio
della fede. Ma per lo più i filosofi cristiani-medievali non considereranno fede e
ragione come fra di esse contrapposte. Certo, essi dicono, la fede è superiore alla
ragione per cui, se con il ragionamento si arriva a conclusioni che siano in contrasto
con la fede, non è la fede in errore bensì sono sbagliati i ragionamenti. In ogni caso la
fede non è irrazionale, anzi la ragione ci aiuta a capire meglio i precetti e le verità di
fede. Non solo, ma i filosofi cristiani-medievali trovano che molti precetti e
concezioni del cristianesimo sono stati anticipati proprio da alcuni importanti concetti
e teorie della filosofia greca ed ellenistica. Lo studio della fede attraverso la ragione,
per comprenderla meglio, fa nascere la filosofia cristiana medioevale, che durerà fino
al 1300 (XIV secolo).

Il cristianesimo sorge storicamente durante l'età ellenistica. Inizialmente i cristiani


sono stati perseguitati, ma in seguito, con gli imperatori romani Costantino e
Teodosio, la religione cristiana viene accettata ed anzi nel 529 d.C., con l'imperatore
Giustiniano, diventa la religione ufficiale.
La filosofia cristiana-medievale si divide in due grandi periodi:
1. il periodo della "Patristica", che dura fino al 750 d.C. circa;
2. il periodo della "Scolastica", che giunge fino al XIV secolo, concludendosi
con l'avvento dell'Umanesimo.
131

LA FILOSOFIA PATRISTICA.

La Patristica è stata così denominata con riferimento ai primi "Padri della Chiesa",
cioè i primi filosofi cristiani, e dura fino al 750 d.C. circa.
Tre sono state le principali fasi e finalità della patristica:
1. difendere il cristianesimo dalle accuse e dalle persecuzioni esterne (perdura
fino al 200 d.C. circa); in ciò si sono distinti Giustino e Tertulliano;
2. chiarire e spiegare la dottrina cristiana per renderla meglio comprensibile a
tutti gli uomini e ai popoli (perdura fino al 450 d.C. circa); in tal senso già si
era distinto San Paolo ed in seguito Origene e Gregorio di Nissa;
3. approfondire e sistemare le dottrine già formulate nonché difendere il
cristianesimo dalle minacce e dalle eresie interne (perdura fino al 750 d.C.
circa). Il maggior esponente di tale fase, come anche della patristica in
generale, è stato Sant'Agostino.
In particolare la patristica ha curato:
1. l'indicazione dei testi sacri da considerare fondanti, distinguendo soprattutto tra
Vangeli autentici e Vangeli apocrifi (non autentici);
2. il consolidamento dell'organizzazione della Chiesa, individuando nel vescovo il
successore degli apostoli e la figura principale delle diverse comunità (diocesi)
cristiane;
3. la demarcazione tra dottrine ortodosse (dal greco "orthè doxa"=retta dottrina) e
dottrine eretiche, operata attraverso numerose e vivaci controversie interne e loro
conseguente soluzione mediante la ripetuta convocazione di sinodi e concili. Il più
importante fu il Concilio di Nicea, che sancì il dogma della Trinità e proclamò
eretico l’arianesimo (poiché considerava Gesù più un profeta anziché il figlio di
Dio).

Già le lettere di San Paolo costituiscono la prima chiara espressione dei capisaldi
della nuova religione: la conoscibilità naturale di Dio attraverso le sue opere; la
dottrina del peccato originale e del riscatto mediante la fede; il concetto della
grazia; il contrasto tra la vita secondo la carne e la vita secondo lo spirito.

Giustino.
Nasce in Palestina, vive nel secondo secolo, si trasferisce a Roma dove fonda una
scuola. Muore martire intorno al 165.
Giustino è considerato il primo importante esponente ed anzi il fondatore della
Patristica. Sostiene che il cristianesimo è la sola filosofia sicura ed utile e che esso è
il risultato ultimo a cui la ragione deve giungere nella sua ricerca. Considera i
filosofi prima di Cristo vissuti secondo ragione come precursori del cristianesimo.
Tuttavia, aggiunge, costoro non conobbero l'intera verità: in loro c'erano solo semi
di verità. Con tale concetto Giustino si collega alla dottrina stoica delle ragioni
seminali, su cui fonda il suo giudizio di continuità tra filosofia greca e cristianesimo
nell'obiettivo di identificare la verità cristiana con la verità filosofica.
132

La Gnosi.
Nel secondo secolo sorgono numerose sette e diverse e contrastanti interpretazioni
della dottrina cristiana. Una delle più importanti è la Gnosi. Gnosi vuol dire, alla
lettera, "conoscenza", ma con tale termine si indica una forma di conoscenza mistica
riservata a pochi eletti a cui Dio si manifesta. Gli gnostici partono dalla fede nella
rivelazione, ma la fede è considerata come una scelta provvisoria, preparatoria alla
conoscenza intellettiva, anche se il raggiungimento della verità ultima è ritenuto
acquisibile più per intuizione ed illuminazione diretta anziché per via logico-
razionale.
Secondo la gnosi, tutta la realtà intellegibile (il mondo dello spirito e del pensiero) e
tutto l'universo derivano da un principio divino attraverso una serie di entità astratte,
eterne, chiamate eoni. Cristo sarebbe l'ultimo eone della serie e quindi Gesù non
sarebbe il figlio diretto di Dio bensì un'entità divina, rivestita di un corpo solo
apparente: pertanto Gesù non è nemmeno vero uomo.
Inoltre, per la gnosi coesistono dall'eternità due principi primi contrapposti: un Dio
benigno e un Demiurgo malvagio, identificato nella materia e creatore del male nel
mondo.
Per la gnosi può aspirare alla salvezza solo un'elite privilegiata di iniziati (i
discepoli) e non la totalità degli uomini anche se di buona volontà. Contro la gnosi
presero posizione i Padri della Chiesa.

Tertulliano.
Nasce a Cartagine intorno al 160. Esercita la professione di avvocato a Roma.
Convertito al cristianesimo polemizza poi contro la Chiesa cattolica e fonda una
setta propria: i "Tertullianisti".
È esponente della patristica occidentale. Mentre la patristica orientale e greca, come
nel caso di Giustino, sostiene la continuità del cristianesimo con la filosofia,
presentando la dottrina cristiana come il vero ed ultimo sviluppo della filosofia
stessa grazie alla rivelazione di Cristo, la patristica occidentale e latina, come nel
caso di Tertulliano, sottolinea l’originalità e quindi la distinzione della rivelazione
cristiana nei confronti della sapienza pagana. La rivelazione, afferma Tertulliano, si
fonda soprattutto sulla fede anziché sulla ricerca filosofica, che deve essere perciò
condannata in quanto da essa nascono soltanto eresie. Cercare dopo che si è giunti
alla fede significa precipitare nell'errore.

Origene.
Nasce nel 185 ad Alessandria; si rifugia a Cesarea per le persecuzioni di Caracalla.
Muore martire nel 254 a causa della persecuzione di Decio.
Ha elaborato il primo grande sistema di filosofia cristiana. Gli apostoli, secondo
Origene, ci hanno tramandato le dottrine fondamentali del cristianesimo ma non
anche quelle accessorie. Interpreta i passi della Bibbia in modo prevalentemente
allegorico e simbolico. In tal maniera riesce a superare le letture puramente letterali
ed antropomorfiche del Vecchio Testamento, giungendo ad un concetto
assolutamente spirituale e trascendente di Dio. Dio è superiore all'essere (a tutta la
133

realtà in quanto da lui creata), alla sostanza e alle idee, poiché è assoluta Unità. Egli
è il Bene sommo in senso platonico; è bontà assoluta.
La formazione del mondo è dovuta alla caduta e alla degenerazione delle sostanze
(delle intelligenze) del mondo intellegibile create da Dio, tutte uguali fra loro ma
anche libere. Riprendendo la dottrina del Fedro di Platone, Origene prosegue nel
dire che mentre alcune di queste sostanze spirituali sono rimaste angeli, altre invece,
per loro colpa o pigrizia, ma in ogni caso per una libera scelta imputabile a loro
soltanto e non a Dio, si sono rivolte al male allontanandosi da Dio; così è cominciata
la loro caduta nel mondo. Da intelligenze angeliche quali erano diventano anime
destinate a rivestire un corpo più o meno luminoso a seconda della gravità della
colpa originaria: alcune divengono anime di corpi celesti, altre divengono anime di
uomini ed altre ancora, le più perverse, divengono demoni, diavoli.
Le anime sono tuttavia destinate a ritornare alla loro condizione di intelligenze
spirituali e a rientrare nel mondo intellegibile (sovrasensibile). Ma questo ritorno
avviene attraverso una lunga espiazione e purificazione, aiutati e illuminati
progressivamente da Cristo in cui si è incarnato il Logos, la ragione. L'uomo
rinascerà in tanti altri mondi finché non avrà espiata la sua colpa. Il tempo
dell'espiazione dipende dalla libera scelta dell'uomo, se virtuosa od ancora viziosa.
Origene ha esaltato al massimo il libero arbitrio delle creature a tutti i livelli delle
loro esistenze. Ma alla fine tutti gli esseri saranno purificati e ritorneranno a Dio. È
questa la celebre dottrina della "apocatàstasi", ossia del ritorno di tutti gli esseri allo
stato originario. Nello stadio finale sarà lo stesso libero arbitrio di ogni creatura
che, vinta dall'amore di Dio, vorrà rimanere presso di lui senza più ricadute. Si ha in
ciò una spiritualizzazione dei corpi che diventano immortali. In tal modo Origene
interpreta il mistero della resurrezione della carne.
Gli avversari di Origene gli hanno soprattutto rimproverato il posto subordinato che
egli assegna al Figlio (Gesù) rispetto al Padre. Infatti Origene, pur ammettendo che
il Figlio di Dio, che è Logos, "Sapienza di Dio", è stato generato ab aeterno dal
Padre e non creato come le altre cose, considera tuttavia una certa subordinazione
del Figlio al Padre medesimo, di cui è ministro, del quale realizza cioè la volontà.

Gregorio di Nissa.
Vissuto nel quarto secolo, è stato il maggior luminare del Concilio di Nicea, che ha
proclamato il dogma della Trinità contro l'eresia di Ario (arianesimo).
Secondo Gregorio, la Trinità di Dio deriva dalla stessa perfezione divina. Nell'uomo
la ragione è limitata e mutevole, quindi non ha sostanza e forza propria. In Dio
invece la ragione è immutabile ed eterna e sussiste come persona, ossia come Logos
o Figlio di Dio. Persona è anche lo Spirito Santo, che è amore e fa da mediatore fra
Dio e l'uomo. Il Figlio e lo Spirito Santo sono persone che procedono da Dio, che
sono con Lui coeterne e sono della medesima sostanza.
134

SANT’AGOSTINO

Nasce nel 354 d.C. a Tagaste, cittadina della Numidia, in Africa, da padre pagano e
da madre cristiana. La sua formazione culturale è in lingua latina. Studia grammatica
e diventa rétore, insegnando retorica prima a Tagaste e poi a Cartagine. Da giovane
conduce una vita disordinata. In seguito cresce in lui il desiderio di conoscenza e si
convince che in essa sta la vera felicità e non nelle ricchezze e negli onori. Compie
letture di vario tipo: astronomia, musica, matematica, filosofia.
Negli anni giovanili aderisce al "manicheismo". Il manicheismo è una religione,
condannata dalla Chiesa come eretica, formulata dal principe persiano Mani (da cui il
nome di manicheismo) nel terzo secolo dopo Cristo, secondo cui nel mondo
sussistono due principi, due divinità, ossia il Bene e il Male, la luce e le tenebre, in
eterna lotta fra di essi, per cui a periodi di bene seguono sempre periodi di male e
viceversa. L’adesione al manicheismo dura ben nove anni.
Nel 383 Agostino si trasferisce a Roma per insegnare retorica. L'anno successivo si
trasferisce a Milano. Studia in particolare le opere di Platone che suscitano in lui
grande interesse. In effetti la filosofia di Agostino risulta fortemente influenzata
da quella platonica, anche se adattata alla concezione cristiana.
A Milano conosce il vescovo Ambrogio e si converte al cristianesimo,
abbandonando il manicheismo. Agostino infatti si persuade che il manicheismo non
può essere giustificabile da un punto di vista filosofico perché esso metteva in dubbio
il concetto della incorruttibilità di Dio, cioè della sua perfezione e della sua
onnipotenza, dal momento che, secondo il manicheismo, non sempre vince il
principio del bene (cioè Dio) ma periodicamente vince anche il principio del male.
Nel 387 ritorna a Tagaste dove nel 391 è ordinato sacerdote. Nel 395 viene eletto
vescovo di Ippona. Muore a Ippona nel 430, mentre i vandali assediavano la città.
L'attività filosofica e teologica di Agostino è rivolta non solo a difendere e a chiarire i
precetti della fede cristiana, ma anche a combattere le eresie e i nemici della Chiesa.
In particolare combatte contro le eresie del "donatismo" e del "pelagianesimo", oltre a
quella del manicheismo dopo averla abbandonata.

La lotta contro il donatismo.

Secondo il vescovo Donato (da cui il nome donatismo), i sacerdoti e i vescovi che
durante il tempo della persecuzione di Diocleziano non erano rimasti fedeli, per
paura, alla religione cristiana non potevano poi riprendere il loro compito e ministero.
Agostino combatte contro questo punto di vista perché, egli dice, se uno ha ricevuto il
sacramento del sacerdozio le funzioni che egli celebra e i sacramenti che dispensa
rimangono sempre validi, anche se si è allontanato e separato dalla Chiesa, in quanto
il sacerdote è solo lo strumento in terra di Dio e quindi la pratica sacerdotale conserva
il suo valore anche se individualmente è divenuto indegno. Del resto, prosegue
Agostino, la Chiesa è fatta da uomini che sono anch'essi creature deboli e imperfette
come tutti.
135

La lotta contro il pelagianesimo.

Mentre per Socrate e Platone la conoscenza del bene è di per sé sufficiente per non
commettere il male, per la filosofia cristiana (ed anche per le filosofie successive)
non basta conoscere il bene per farlo, ma bisogna anche volerlo fare. Dunque la
conoscenza non è sufficiente ma ci vuole anche la volontà.
Senonché, per il cristianesimo, dopo il peccato originale la volontà dell'uomo si è
indebolita. Da solo l'uomo non è più capace di fare il bene ma ha bisogno dell'aiuto di
Dio e dell'intervento della grazia divina. Invece il monaco irlandese Pelagio (da cui
il nome pelagianesimo) non credeva che il peccato originale avesse indebolito
completamente la capacità dell'uomo di fare da solo il bene anche senza la grazia
divina, pur se il compierlo è divenuto più difficile. Contro questa eresia combatte
anche Agostino. Infatti il pelagianesimo finiva col far ritenere inutile
l'incarnazione di Dio in terra per donare agli uomini la grazia e la salvezza. Per
Agostino e per la Chiesa, invece, tutti gli uomini sono condizionati dal peccato
originale, per cui nessuno è in grado di salvarsi se non interviene la grazia divina.

Grazia e predestinazione divina.

In merito al necessario intervento della grazia divina affinché l'uomo possa salvarsi,
la Chiesa si trova ben presto di fronte a due grosse questioni:
1. Dio concede la grazia tutti gli uomini o solo ad alcuni "eletti", da lui prescelti
in modo misterioso (predestinazione)?
2. Per salvarsi, la grazia è determinante oppure è concorrente? Cioè, per
salvarsi basta soltanto aver ricevuto da Dio il dono della grazia oppure, oltre
alla grazia, l'uomo deve diventare meritevole lui stesso della salvezza mediante
il compimento di opere buone?
Su tali questioni si esprime anche Agostino, che però non dà risposte precise perché
talvolta ritiene che Dio conceda la grazia tutti gli uomini, i quali tuttavia, per salvarsi,
devono anche dedicarsi alle buone opere (tale è la posizione prevalente della
Chiesa cattolica), mentre qualche altra volta Agostino ritiene che Dio conceda la
grazia solo a pochi eletti e che il dono della grazia sia sufficiente da solo per salvarsi
(tale è stata, in particolare, la posizione della Chiesa protestante).

Ragione e fede.

Per Agostino ragione e fede non sono in contrasto fra di esse perché derivano
entrambe da Dio, il quale non può donare agli uomini, sue creature, due facoltà
contrapposte. Ragione e fede sono strettamente unite e si rafforzano a vicenda.
Sono fra di esse complementari (si completano vicendevolmente) nel senso che
dapprima è necessaria la fede nella verità rivelata da Dio ma poi, per avere una
fede più salda, è indispensabile comprenderne al meglio i precetti, il significato e il
senso, attraverso l'uso della ragione. La fede è necessaria per credere in quei misteri
della religione che la ragione non può dimostrare, ma per tutto il resto la ragione ci
136

aiuta a spiegare e capire meglio la verità religiosa, cioè il senso del mondo e il destino
ultraterreno dell'uomo. Da ciò il celebre motto di Agostino "credo ut intelligam,
intelligo ut credam" (credo per capire e capisco per credere).

L'uomo, l'anima e il corpo.

Ad Agostino non interessa conoscere il cosmo, l'essere del mondo, come invece si
preoccupava di ricercare la filosofia greca, che era soprattutto ontologia (=filosofia
dell'essere che intende indagare cosa è nel profondo la realtà). Ad Agostino interessa
soprattutto conoscere l'interiorità dell'uomo, la sua coscienza, la sua anima e il
rapporto che lega l'uomo (la creatura) a Dio (il creatore). Perciò la filosofia di
Agostino non è oggettiva, non riguarda gli oggetti esterni, ma è soggettiva, riguarda
il soggetto, cioè il problema dell'uomo, della sua coscienza o anima e della relazione
esistente tra l’anima e Dio.
Come per tutti i Padri della Chiesa (gli esponenti della Patristica) anche per Agostino
l'uomo è composto di anima e di corpo. E non solo l'anima ma anche il corpo è una
realtà positiva, perché sia l'anima che il corpo derivano entrambi da Dio e da Lui
sono stati creati. Agostino quindi non accetta la concezione negativa del corpo,
considerato carcere e tomba dell'anima, quale aveva Platone.
L'anima è legata al corpo perché essa dà vita e sensibilità al corpo stesso: funzione
vegetativa e sensitiva dell'anima. Ma l'anima umana, pur svolgendo tali funzioni
corporee, non è materiale, possiede invece un'essenza, una natura, spirituale.
L'anima vegetativa è posseduta anche dalle piante e quella sensitiva è posseduta
anche dagli animali. Ma Dio ha donato agli uomini anche l'anima spirituale, fatta a
sua immagine e somiglianza. L'elemento spirituale è quello più elevato. L'anima
umana è semplice, cioè non è composta da parti, non possiede né lunghezza né
larghezza né solidità, tutte proprietà queste che sono invece caratteristiche dei corpi
materiali. È proprio grazie ad essa che l'uomo sa pensare e ha coscienza ed
autocoscienza di sé. Ed il pensiero, la coscienza e l'autocoscienza, non sono materia
ma spirito.
Come spirito l'anima umana è immortale. Infatti:
1. l'anima per pensare e riflettere su se stessa (autocoscienza) non ha bisogno del
corpo e quindi, anche se il corpo muore, la funzione spirituale dell'anima non è
danneggiata ma si conserva;
2. l'anima è capace di conoscere la verità, sa intuire i principi primi e le leggi
universali (ad esempio l'idea di Dio, l'idea del bene, l'idea di giustizia, ecc.)
perché Dio li ha infusi ed impressi in essa. Ma poiché la verità è eterna e non
cambia mai, allora anche l'anima, che sa intuire e vedere in se stessa questa
verità e questi principi eterni, deve essere essa stessa immortale.
Circa il modo in cui le singole anime si generino, la soluzione di Agostino rimane
peraltro incerta: se cioè Dio crei ciascuna anima direttamente, ovvero se le abbia
create tutte in Adamo e da Adamo via via vengano trasmesse agli altri uomini tramite
i genitori (traducianismo). Agostino sembra preferire questa seconda soluzione in
quanto spiegherebbe meglio la trasmissione del peccato originale.
137

La condanna dello scetticismo e la teoria della conoscenza come illuminazione.

Se l'anima umana sa intuire e vedere entro se stessa principi e verità eterne, allora lo
scetticismo, che dubita della possibilità di raggiungere verità certe e sicure, è una
concezione filosofica sbagliata.
Infatti, dice Agostino, non è possibile dubitare e ingannarsi su tutto, perché se dubito
vuol dire allora che è certo ed indubitabile che io esisto almeno come essere che
dubita. Questa è una verità sicura e quindi non è vero che non esiste alcuna verità
certa come pretende lo scetticismo. Dice Agostino: "si fallor, sum" (se dubito, allora è
certo che esisto). Inoltre, per dubitare della verità bisogna avere già una qualche idea
della verità, poiché non si può dubitare di una cosa se non si sa nemmeno un po' cosa
possa essere. Però la verità che l'uomo può raggiungere non è creata dall'anima e
dalla mente dell'uomo, perché la verità è eterna ed immutabile mentre l'uomo è
invece imperfetto e limitato. La mente dell'uomo ha la capacità di scoprire la
verità ma non di crearla. Essa infatti esiste indipendentemente dalla mente
dell'uomo (come per Platone, anche per Agostino la bellezza, il bene, il triangolo,
ecc. (cioè le idee) esistono anche se non sono pensati, anche se non si conoscono).
Ma allora da dove ci arriva questa verità eterna ed immutabile, mentre noi siamo
invece essere finiti e mutevoli? Non certo da noi stessi, risponde Agostino, bensì da
un essere supremo, eterno ed immutabile come la verità stessa, il quale non può
essere che Dio. Questa è per Agostino la dimostrazione più convincente
dell'esistenza di Dio. Un'altra prova dell'esistenza di Dio si ricava per Agostino
dalla constatazione dell'armonia e dell'ordine dell'universo, i quali non possono che
essere stati creati da una mente superiore divina, cioè da Dio.
Ma in quale modo allora l'uomo scopre e conosce la verità se non è stata creata da
lui ma da Dio? Agostino risponde a questa domanda con la sua teoria della
conoscenza come illuminazione.
Il primo gradino della conoscenza, dice Agostino, è la sensazione: i nostri sensi
percepiscono gli oggetti e la nostra anima, cioè la nostra mente, si costruisce una
rappresentazione, cioè un'immagine mentale, degli oggetti percepiti.
Il secondo gradino della conoscenza avviene sempre ad opera dell'anima, che
trasforma in concetti (o idee) immutabili e perfetti le sensazioni, le quali sono
invece mutevoli e imperfette perché sono legate agli oggetti percepiti, i quali pure
sono mutevoli e imperfetti (i singoli alberi che vediamo sono tutti diversi l'uno
dall'altro, mentre il concetto di albero è sempre uguale a se stesso, è immutabile).
I concetti sono dunque superiori alle cose percepite mutevoli e imperfette. Ma i
concetti sono anche superiori all'anima umana perché essa, pur essendo a sua volta
superiore agli oggetti percepiti, è comunque mutevole, può commettere errori.
Quindi non può essere la stessa anima a produrre i concetti. Come fa allora
l'anima a trasformare le sensazioni in concetti se non li produce?
In proposito Agostino non può accettare la teoria platonica della conoscenza come
reminiscenza (ricordo), perché essa presuppone l'eternità dell'anima eternamente
preesistente nel mondo delle idee prima dell'incarnazione in un corpo umano. Per
138

Agostino invece, e per il cristianesimo, l'anima è immortale ma non eterna perché è


creata da Dio insieme al corpo.
Per Agostino le idee, i concetti stanno e sono tutti contenuti nella mente di Dio,
essendo eterni ed immutabili come Dio stesso. I concetti sono i pensieri di Dio. Essi
giungono nell'anima derivando direttamente da Dio il quale, simile a una luce
intensa, "illumina" la nostra mente, permettendole di trasformare le sensazioni in
concetti e, quindi, permettendole di apprendere e di conoscere. Da ciò la concezione
della conoscenza umana come frutto dell'illuminazione divina.

La natura di Dio e i suoi attributi.

Per Agostino e per il cristianesimo non solo è possibile credere in Dio attraverso la
fede ma, come abbiamo visto, è altresì possibile dimostrarne l'esistenza attraverso la
ragione. Però dimostrare che Dio esiste non significa comprenderne anche la
natura, comprendere come egli è. Spesso abbiamo una concezione antropomorfica di
Dio, cioè immaginiamo la forma di Dio simile a quella dell'uomo. Ma Dio è
talmente superiore all'uomo che non può essere simile a lui e la mente umana è così
limitata e inadeguata che non può illudersi di comprendere quale sia veramente la
natura di Dio e dei suoi attributi, delle sue qualità. Ci è più facile sapere ciò che Dio
non è anziché ciò che egli è (si tratta di quella concezione definita come "teologia
negativa" che già abbiamo visto in Plotino).
Se la natura di Dio è spirituale, si potrà dire che la sua natura non è composta ma
semplice, ossia che Dio non è composto anche da parte di materiali ma, altresì, che
neppure è composto da altre ed ulteriori parti spirituali, perché esse allora,
mescolandosi, potrebbero modificare la natura divina, mentre Dio è invece
eternamente immutabili perché già perfettissimo e quindi non ha bisogno di alcun
cambiamento.
Però Dio si è anche incarnato, si è fatto uomo ed è disceso sulla terra; inoltre,
attraverso i profeti e la predicazione di Gesù, ci ha rivelato la verità e ci ha svelato
quindi qualcosa di sé. È perciò possibile parlare di Dio ed attribuirgli le qualità di
Essere supremo (Dio padre e creatore), di Verità (il Figlio di Dio) e di Amore
infinito (lo Spirito Santo), qualità che sono espresse nel mistero della Trinità. Ma
questa conoscenza della natura di Dio sarà sempre parziale e incompleta. Essa
semmai può essere limitatamente intuita meditando nell'interiorità della nostra anima.

La trinità di Dio.

Parlando degli attributi di Dio si è detto che è possibile attribuirgli le qualità di


Essere supremo, di Verità e di Amore infinito. Queste sono le tre qualità espresse nel
mistero e nel dogma cristiano della Trinità di Dio, secondo cui Dio è una sola
sostanza in tre persone, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ciò significa che tali
attributi o qualità di Dio non vanno intesi come veri e propri attributi, come
139

caratteristiche di Dio, perché gli attributi sono accidentali, cioè mutevoli (si possono
o non si possono avere, oppure un certo momento si hanno e poi non si possiedono
più). Il mistero della Trinità dice invece che Essere, Verità e Amore non sono
attributi ma tre distinte persone, che tuttavia coincidono ed hanno la medesima
sostanza divina. Sono tre persone che coesistono in Dio e sono coeterne con Lui.
Per spiegare in qualche modo il mistero della Trinità Agostino fa un paragone con
l'anima umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio. L'anima è anzitutto mente
o memoria ed in ciò consiste il suo "essere"; poi essa è conoscenza di sè o
autocoscienza ed in ciò consiste il suo conoscere, la sua " verità"; infine l'anima è
amore di sè ed in ciò consiste la sua volontà di "amore". Altrettanto, Dio è anzitutto
Essere, cioè il Padre; poi è Pensiero, cioè Verità, Verbo, ossia il Figlio di Dio che
contiene in sé le idee eterne di tutte le cose; infine Dio è Amore, cioè Spirito Santo,
Provvidenza che si prende cura del mondo e degli uomini. Così come l'essere
dell'anima, la sua verità e la sua volontà di amore non sono suoi attributi ma sono
tutt'uno con essa, allo stesso modo, in Dio, il Padre in quanto Essere, il Figlio in
quanto Verità e lo Spirito Santo in quanto Amore sono persone distinte che tuttavia
compongono un tutt'uno in Dio stesso.

Il problema della creazione e del tempo.

Il problema metafisico che aveva maggiormente tormentato gli antichi era stato
quello della derivazione del molteplice (delle plurime e diverse cose) dall'Uno (cioè
dall'Essere assoluto, dal principio primo). In che modo dall'essere, che non può non
essere, è nato anche il divenire, che implica il passaggio dall’essere al non essere e
viceversa? Nessuno degli antichi filosofi nel risolvere questo problema è giunto al
concetto di creazione, che è di origine biblica. Platone introduce il Demiurgo, che
agisce liberamente e nella volontà del bene, ma non crea bensì plasma il mondo,
utilizzando la materia a lui coeterna e ponendo come modello le idee del mondo
soprasensibile, rispetto alle quali lo stesso Demiurgo è in posizione subordinata. Per
Aristotele la materia e il mondo fisico non sono né creati né plasmati ma sono eterni,
come pure i generi e le specie delle varie cose, le quali divengono e gradatamente si
perfezionano attratte dal Primo Motore Immobile (Dio), alla cui perfezione aspirano
ad avvicinarsi. Plotino, dal canto suo, deduce le idee, il mondo spirituale delle
intelligenze, dal processo, necessario e non libero, di emanazione dall’Uno, senza
attribuire, inoltre, consistenza propria alla materia, concepita come mero esaurirsi
della traboccante potenza-energia dell’Uno.
Mentre per i filosofi antichi dal nulla non può derivare alcunché, ossia dal niente non
può nascere l’essere, la realtà, per il cristianesimo e per Agostino Dio ha creato il
mondo e le cose dal nulla mediante un libero atto di volontà e di amore: creazione
dal nulla, cioè non proveniente dalla medesima sostanza divina, come nel caso
dell’emanazione secondo Plotino, e nemmeno plasmata da qualcosa di preesistente,
come la materia originaria ed eterna secondo Platone ed Aristotele.
Infatti, spiega Agostino, una realtà può derivare da un'altra in tre modi:
140

1. per generazione, ed in questo caso deriva dalla sostanza stessa del generante,
come il figlio deriva dal padre, ed è composta della medesima sostanza;
2. per produzione o per fabbricazione, ed in tal caso la cosa prodotta deriva da
una materia preesistente;
3. per creazione dal nulla assoluto, ossia non dalla propria sostanza e nemmeno
da una sostanza esterna.
Rilevante è quindi la differenza tra generazione e creazione.
In quanto Essere primo e fondamento di tutto ciò che è, Dio è dunque il creatore del
tutto. La stessa mutevolezza del mondo dimostra che egli è l'Essere creatore,
immutabile ed eterno. Dio ha creato il mondo attraverso la Parola, il Verbo, ossia il
Logos, il Figlio di Dio. Il Logos o Figlio ha in sé le idee, cioè le forme o ragioni (i
modelli) delle cose. In conformità a tali forme o ragioni sono formate tutte le cose
che nascono e muoiono. Tali forme non costituiscono dunque, come in Platone, un
mondo intellegibile in sé, ma sono i pensieri di Dio e in Dio; costituiscono l'eterna
ed immutabile ragione (razionalità) attraverso cui Dio ha creato il mondo. Separare il
mondo intellegibile da Dio significherebbe ammettere, il che è assurdo, che Dio è
privo di razionalità nella creazione del mondo. Se le singole forme o ragioni (ossia i
modelli delle varie cose create) sono nella mente divina, significa che anch'esse sono
eterne ed immutabili.
Nello spiegare la creazione Agostino utilizza non solo la teoria delle idee ma anche
la teoria stoica delle "ragioni seminali". Dio non crea la totalità delle cose possibili
come già attuate, ma immette nel creato i "segni" o i "germi" di tutte le cose possibili,
le quali poi, nel corso del tempo, si sviluppano via via in vario modo. Questa teoria è
stata da qualcuno considerata un'anticipazione dell'evoluzionismo darwiniano, ma in
realtà è l'esatta antitesi perché le ragioni seminali hanno un carattere di pre-
determinazione della realtà che è invece del tutto estraneo alla teoria evoluzionistica,
ove il caso e le circostanze ambientali giocano un ruolo molto forte.
Alcuni Padri della Chiesa, per esempio Origene, ritenevano che la creazione del
mondo fosse eterna, non potendo essa implicare un mutamento nella volontà divina,
nel senso che solo in un certo e successivo momento temporale giunge a decidere di
creare il mondo. Il problema si presenta anche ad Agostino: "Che cosa faceva Dio
prima di creare il cielo la terra?". Ma, risponde Agostino, questa è una domanda
insensata perché prima della creazione non c'era nemmeno il tempo; esso è stato
creato col mondo. Il tempo è collegato al movimento, ma non vi è movimento prima
del mondo bensì solo col mondo. In Dio vi è invece solo eternità, che è come un
infinito presente atemporale dove non c'è né un prima né un poi. In Dio nulla è
passato e nulla è futuro perché il suo essere è immutabile, è un eterno presente.
Ma allora che cos'è il tempo? Il tempo implica passato, presente e futuro. Ma il
passato non è più, il futuro non è ancora e il presente trascorre continuamente, è un
continuo cessare di essere. E tuttavia, se il tempo non ha realtà ontologica (concreta),
come mai noi, nonostante la sua fuggevolezza, riusciamo a misurarlo? Parliamo
infatti di un tempo breve o lungo, del passato e del futuro. Come e dove effettuiamo
la misura del tempo? Agostino risponde: nell'anima. Il tempo è la misura del
movimento, ma chi misura il movimento è l'anima, la coscienza. Infatti non si può
141

certo misurare il passato in sé che non è più o il futuro che non è ancora. Ma noi
conserviamo la memoria del passato e serbiamo un'attesa per il futuro. Allora il
tempo, in realtà, esiste solo nello spirito, nell'anima dell'uomo, perché solo in essa
si mantiene la sensazione del tempo. In tal senso, dice Agostino, il tempo è
distensione dell'anima (l'anima si distende nel passato, nel presente, nel futuro), è
cioè estensione dell'anima articolata in tre stati d'animo: il passato è l'estensione
dell'anima verso la memoria delle cose passate; il presente è privo di durata ed in un
istante trapassa, ma perdura nell'anima l'attenzione alle cose presenti, per cui il
presente è estensione dell'anima verso l'attenzione; pure il futuro è estensione
dell'anima verso l'attesa delle cose a venire. Partito alla ricerca della realtà oggettiva
del tempo, Agostino giunge invece a chiarire che esso esiste invece solo nella nostra
coscienza soggettiva: fa quindi propria una concezione soggettiva e non oggettiva
del tempo.

La polemica contro il manicheismo e il problema del male.

Al problema della creazione è connesso il grande problema del male nel mondo. Se
tutto proviene da Dio, che è Bene, da dove proviene allora il male? Agostino è
uno dei filosofi occidentali che ha vissuto con maggior tormento questo problema ed
è stato il primo ad affrontarlo in modo sistematico, offrendo il più celebre tentativo di
soluzione in senso cristiano.
Riluttante a far coesistere la credenza in un Dio buono con la realtà del male,
Agostino, come si è visto, aveva in un primo tempo abbracciato il manicheismo che
in seguito abbandona.
Nell'affrontare il problema del male Agostino non poteva certo riproporre la dottrina
platonica (esposta nel Timeo), secondo cui il male dipende dalla materia primordiale
di cui è costituito il mondo, giacché tale materia è anch'essa creatura di Dio.
Agostino si richiama piuttosto allo schema neoplatonico e plotiniano, secondo cui
il male non è un essere, cioè non esiste in sé ma è invece una privazione, una
mancanza di essere. Se il mondo è stato creato da Dio, che è Bene, allora non ci può
essere il Male metafisico, ossia il Male assoluto (quello con la M maiuscola). Infatti
nel creato non ci sono cose che si possano definire come male. E’ vero che tutte le
cose del mondo sono corruttibili, cioè si guastano e periscono. Ma per corrompersi
devono essere in qualche modo un bene poiché, altrimenti, se fossero un male (il
male in assoluto) sarebbero già totalmente corrotte e non corruttibili. Solo il
positivo, e non anche il negativo, il niente, è suscettibile di corruzione. Quindi il male
metafisico, il male assoluto, non esiste perché sarebbe un non essere assoluto, ossia
un nulla, un niente. Dio, dunque, non ha creato il Male metafisico, il Male in sé, e
le cose create sono comunque un bene.
Però Agostino riconosce che nel mondo, se non c'è il Male metafisico creato in
quanto tale da Dio, esistono sia mali fisici sia mali morali, i quali tuttavia sono
mali accidentali, ossia sono sempre un male di qualcosa, sono cioè l'accidente (ciò
che può succedere) di una cosa, di una sostanza, che di per sé è bene.
I mali fisici sono di due tipi:
142

1. i mali di natura, ossia le catastrofi naturali;


2. i mali fisici individuali, ossia le malattie, le sofferenze e la morte.
I mali di natura possono sembrare tali se singolarmente considerati, ma non sono
veramente dei mali se sono considerati nel quadro complessivo dell'ordine universale
delle cose: non sono veri mali ma sono eventi naturali perché il mondo e gli uomini
sono esseri finiti e limitati e non si può pretendere la perfezione in essi.
I mali di natura infatti:
1. derivano dalla struttura gerarchica dell'universo, che per la sua completezza
richiede non solo gli esseri superiori ma anche quelli inferiori, ossia realtà di
grado inferiore che, considerate superficialmente, possono sembrare difetti ma
che invece sono elementi necessari nell'ordine naturale complessivo (ad
esempio certi animali che ci sembrano nocivi in realtà non lo sono all'interno
del complessivo ecosistema);
2. oppure, i mali di natura sono elementi necessari dell'armonia cosmica, così
come le ombre sono necessarie per dare risalto alle luci.
A loro volta, i mali fisici individuali sono un effetto del peccato originale, che ha
reso l'uomo creatura limitata, debole e corruttibile. Ma questi mali non impediscono
la salvezza dell'uomo.
I mali morali consistono invece nel peccato, il quale è una cattiva volontà che
rinuncia a Dio e si attacca alle cose inferiori. Nessuna cosa creata da Dio è un male,
ma è un male attaccarsi ad essa come se fosse Dio. Questo è per Agostino il vero
male. L'aver avuto da Dio una volontà libera (il libero arbitrio) è stato un gran bene, è
ciò che rende l'uomo superiore ad ogni animale, ma l'uso cattivo di questo grande
dono è un male perché si preferisce la cosa creata a Dio creatore. Solo questi mali
morali, e non quelli fisici-naturali, comportano un giusto castigo.
In conclusione, il Male metafisico non esiste mentre i mali fisici sono parte di un
ordine cosmico che, globalmente considerato, si rivela un bene. Esistono solo i mali
morali che dipendono dalla responsabilità od irresponsabilità dell'uomo. È questa una
concezione definibile di "ottimismo teologico".

La città celeste e la città terrena. Il nuovo senso della storia.

Nel 410 i Goti di Alarico compiono il saccheggio di Roma. Questo evento ridà forza
alla vecchia tesi secondo cui il cristianesimo, con la sua dottrina dell'amore per tutti,
anche verso i nemici, è stato concausa di debolezza e di dissolvimento dell'impero.
Contro questa tesi Agostino scrive il suo capolavoro "La città di Dio".
La città di Dio esprime la vita ultraterrena, ma non in modo esclusivo perché
corrisponde altresì ad un atteggiamento di vita assumibile già nell'esistenza terrena.
Agostino afferma che la vita di ogni uomo si caratterizza in base alla scelta
fondamentale che egli può compiere: scegliere di vivere secondo la carne, cioè
attaccato alle cose di questo mondo ed agli egoismi terreni, oppure scegliere di
vivere secondo lo spirito, cioè vivere per Dio e nell’amore verso di Lui.
Così è anche nella storia umana e in ogni società, a seconda che si scelga il potere,
la gloria e la potenza terrena. oppure che si scelga la carità e la solidarietà fra gli
143

uomini. Nel primo caso si genera la città terrena, quando prevale l'amore di sé
rispetto all'amore di Dio; nel secondo caso si genera la città celeste, quando la nostra
vita è uniformata all'amore di Dio. Queste due città, questi due modi di vivere la
vita individuale e sociale, sono in questa terra continuamente intrecciati. Non
vale quindi l'affermazione di chi attribuisce ad Agostino l'identificazione della città
terrena con lo Stato e della città celeste con la Chiesa.
In base alla teoria delle due città e contro coloro che imputavano al cristianesimo
la crisi dell'impero romano, Agostino mostra che i mali fisici e morali hanno
indebolito Roma già da quando il paganesimo era ancora trionfante ed il
cristianesimo non era ancora sorto.
Sulla terra le due città sono sorte con Caino ed Abele e sono da loro simboleggiate.
Altrettanto, Roma è sorta con il fratricidio di Romolo da parte di Remo. Le stesse
virtù dei romani sono solo apparenti, poiché non è possibile la vera virtù senza Cristo
e l'amore di Dio. Su questa terra il cittadino della città terrena sembra essere il
dominatore; il cittadino della città celeste, invece, è come un pellegrino. Ma il
primo è destinato all'eterna dannazione, il secondo all'eterna salvezza.
Guardando alla storia di Israele, Agostino distingue tre periodi nel corso della storia
umana secondo il grado del processo spirituale:
1. nel primo periodo gli uomini vivono senza leggi e non vi è ancora rinuncia ai
beni materiali del mondo, che distolgono da Dio;
2. nel secondo periodo gli uomini vivono sotto la legge, combattono contro i vizi
del mondo ma sono vinti, perché ancora non ispirati dalla rivelazione e dalla
grazia divina: è il periodo in cui emerge il valore dei grandi filosofi pagani,
come Socrate, Platone, Plotino, ma che non sono ancora illuminati da Dio;
3. il terzo periodo è quello dell'avvento della rivelazione e della grazia divina, in
cui gli uomini possono combattere il mondo e vincerlo, facendo prevalere
anche su questa terra il modello della città celeste.
Si manifesta in Agostino il nuovo senso della storia tipico del cristianesimo in
contrapposizione alla concezione ciclica della storia tipica della mentalità greca
antica, secondo cui lo svolgimento della storia è sostanzialmente concepito come
decorso circolare, destinato a ripetersi ciclicamente.
Presso i Greci non troviamo ancora una filosofia della storia. Per loro il mutamento
storico si presenta come una deviazione accidentale dall'essenza e dalla forma
permanente della realtà e dell'essere, cui è soprattutto rivolto il loro interesse.
Agostino e il cristianesimo perseguono invece una visione lineare e progressiva
della storia: ogni avvenimento storico è in sé unico ed irripetibile e il corso della
storia non ritorna ciclicamente indietro, ma ha un inizio, una direzione ed un fine, uno
scopo finale: il Giudizio universale e la resurrezione.
La concezione lineare della storia sta alla base di tutte le successive filosofie della
storia, secondo cui nella storia umana, nonostante la diversità degli avvenimenti, è
comunque possibile individuare un senso, un ordine o un disegno complessivo,
alternativamente concepito come immanente o trascendente: nella storia opera cioè
una provvidenza, un progetto universale. Secondo alcuni esso è insito ed immanente
nelle leggi interne stesse dello sviluppo storico, mosso dalla ragione, dallo spirito, o
144

dalla lotta di classe; secondo altri tale progetto è invece stabilito da un essere
trascendente, cioè da Dio, che agisce nella storia attraverso la Provvidenza divina.
La filosofia della storia, che ha avuto un forte sviluppo specie nell'Ottocento, è stata
poi messa in discussione dalla filosofia del Novecento.
Secondo la visione cristiana e agostiniana, l'andamento lineare e progressivo della
storia è affermato sostenendo che:
1. una sola volta Cristo è nato, ha patito ed è morto sulla croce;
2. una sola volta a ciascuno di noi è dato di nascere, di vivere e di morire (non
c'è metempsicosi);
3. dopo il martirio di Cristo, che ha riscattato l'umanità dal peccato originale, si
è aperto nel mondo un futuro di speranza e di salvezza (ottimismo teologico e
storico: la storia è progresso).

Decadenza della Patristica. Severino Boezio.

Dopo Agostino la Patristica proseguirà fino al 750 circa, tuttavia senza più formulare
teorie nuove ed originali. In Oriente si riduce a dispute teologiche di politica
ecclesiastica, che perdono quindi ogni valore filosofico. In Occidente crolla la civiltà
romana e la cultura sotto i colpi dei barbari che hanno invaso ormai tutte le province
dell'Impero. La cultura vive a spese del passato e non ci sono più nuove elaborazioni
culturali e filosofiche.
In Occidente vale la pena di ricordare l'opera di Severino Boezio (480-525), filosofo
romano, che contribuì a far sopravvivere nel Medioevo una parte della filosofia
antica. Egli infatti tradusse in latino tutte le opere di logica di Aristotele, compose
numerosi opuscoli teologici nonché uno scritto filosofico intitolato "De consolazione
philosophiae". In questo scritto Boezio si ispira a concetti neoplatonici e stoici.
Afferma che la felicità dell'uomo non consiste nel bene del mondo ma in Dio. Discute
del problema della provvidenza e del fato e della loro conciliazione con la libertà
umana, se cioè siano da considerare in contrasto oppure compatibili con la libertà
dell'uomo.
Quello di Boezio è un platonismo eclettico: da Platone ricava il concetto di Dio come
sommo Bene; da Aristotele il concetto di Dio come primo motore immobile; dagli
stoici il concetto della provvidenza e del fato. Sebbene cristiano, la sua filosofia è per
lo più di impostazione neoplatonica. Boezio rappresenta, nella sua persona, il
passaggio dalla filosofia antica a quella medievale: è l'ultimo dei filosofi romani e il
primo dei filosofi scolastici.
145

LA FILOSOFIA SCOLASTICA.

Per filosofia scolastica, o più semplicemente Scolastica, si intende la filosofia e la


teologia insegnate nelle scuole medievali (scuole monacali, episcopali e palatine) nel
periodo che va dall'8° fino al 14º secolo e che termina con l'avvento dell'Umanesimo.
Il crollo dell'impero romano e l'avvento dei regni romano-barbarici comporta una
generale decadenza politica, economica, sociale e culturale della società latina. Le
città si spopolano e le popolazione latine preferiscono ritirarsi nelle campagne per
allontanarsi e difendersi dai pericoli delle invasioni barbariche. Si passa da una civiltà
urbana ad una civiltà rurale. Sono questi i secoli più bui dell'alto medioevo.
Anche gli studi e le arti vengono trascurati e spesso abbandonati. Gli unici centri di
cultura rimanenti sono presso i monasteri e i conventi, dove sorgono le scuole
monacali, e presso le cattedrali, dove sorgono le scuole episcopali.
L'insegnamento svolto in tali scuole è per lo più ispirato dalla religione cristiana e dai
problemi religiosi (soprattutto il problema del rapporto tra fede e ragione). Il compito
di queste scuole è principalmente quello di istruire i religiosi (monaci, chierici,
sacerdoti) e prepararli allo svolgimento della loro missione. Ma hanno avuto anche il
merito di conservare e di trascrivere molte opere della cultura e della filosofia
classica ed ellenistica, impedendo che andassero distrutte.
Solo con Carlo Magno e con la costituzione del Sacro Romano Impero, nell'800 d.C.,
si ha una certa rinascita della cultura e degli studi anche presso i castelli, i palazzi e le
corti dei principali signori e sovrani del feudalesimo. Si parla in proposito di
"rinascita carolingia". Accanto alle scuole monacali ed episcopali, sorgono così
anche le scuole palatine (da "palazzo"), con sede nei palazzi e nei castelli, con il
compito di istruire e preparare i funzionari dell'impero. Importante al riguardo è stata
l'attività di Alcuino di York, cui Carlo Magno ha affidato l'organizzazione delle
scuole palatine stesse.
Alcuino imposta gli studi e l'istruzione in tre gradi:
1. leggere, scrivere, nozioni elementari di latino volgare, comprensione sommaria
della Bibbia e dei testi liturgici;
2. studio delle sette arti liberali, suddivise in trivio (grammatica, retorica,
dialettica) e in quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica);
3. studio approfondito delle Sacre scritture.
Come si può notare, anche nelle scuole palatine erano curati gli studi religiosi oltre a
quelli laici.
Due sono le fondamentali forme di insegnamento nelle scuole medievali:
1. La "lectio", che consiste nel commento di un testo;
2. la "disputatio", che consiste nel dibattere un argomento sulla base di tutti gli
elementi pro e contro.
Una rinascita e un risveglio culturale maggiore si ha in Europa intorno all'anno
mille, grazie anche all'avvento di un periodo di ripresa e di crescita economica e
sociale: vi è un aumento della popolazione ed il sistema feudale comincia, sia pur
lentamente, a decadere; le città cominciano a ripopolarsi e nascono i primi governi
cittadini dal cui sviluppo sorgerà alla civiltà comunale.
146

A partire dal 13º secolo sorgono le prime Università degli Studi, a Parigi e a
Bologna.
Nel corso dei sette secoli di durata, si suole suddividere la Scolastica in quattro
fasi:
1. La prima scolastica, detta anche pre-scolastica, che va dall'ottavo al nono
secolo: sorge dapprima in un ambiente di decadenza culturale ma poi, con la
rinascita carolingia e l'instaurazione del Sacro Romano Impero, prende avvio la
restaurazione delle scuole e quindi della cultura. È affermata l'identità di
ragione e fede nei termini di un'assimilazione della prima alla seconda. Il
principale esponente di questa prima fase è Giovanni Scoto Eriugena.
2. La seconda fase, detta anche alta scolastica, va dal 10° al 12º secolo. È l'età
della riforma monastica, del rinnovamento politico della Chiesa con la lotta per
le investiture, delle crociate e dell'incipiente civiltà comunale. Il problema del
rapporto tra ragione e fede comincia ad essere approfondito sulla base della
potenziale antitesi dei due ambiti. I maggiori esponenti sono Anselmo
d'Aosta, Pietro Abelardo, nonché le cosiddette Scuola di Chartres e la
Scuola di San Vittore. Appartiene a questo periodo la famosa disputa sugli
"universali".
3. La terza fase è quella della fioritura della scolastica, dell'età aurea, che si
svolge nel 13º secolo. Sono elaborati i grandi sistemi scolastici. La ragione e la
fede, pur distinte fra di esse, vengono concepite come armonicamente
conducenti a medesimi risultati. Le figure di rilievo sono quelle di
Bonaventura da Bagnoregio, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino,
Giovanni Duns Scoto.
4. La quarta fase, che copre il 14º secolo, è segnata dal dissolvimento della
scolastica e dal divorzio tra ragione e fede, considerati ambiti eterogenei e non
conciliabili. Si dubita che vi sia corrispondenza tra ragione e fede,
distinguendo la fede da una parte, con una propria autonomia ed indipendenza,
e la ragione dall'altra, con una sua propria e differente autonomia e
indipendenza. Figura di rilievo è Guglielmo di Ockham.

Con Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone viene altresì elaborata, intorno al 13º
secolo, una filosofia medievale della natura ad indirizzo sperimentale,
anticipatrice della filosofia della natura rinascimentale e della successiva rivoluzione
scientifica.
147

La prima fase della scolastica (ottavo-nono secolo). Giovanni Scoto Eriugena.

Giovanni Scoto Eriugena (810-880) è chiamato verso l'847 presso la corte di Carlo
il Calvo ed è posto a capo della scuola palatina. Influenzato dal neoplatonismo, tenta
un'interpretazione del dogma cristiano in termini neoplatonici.
La sua opera principale è intitolata "De divisione naturae". Col termine natura egli
intende la totalità del reale, sia sovrannaturale che naturale, suddivisa in quattro
specie secondo un processo, appunto, di divisione, destinato poi ad unificarsi in un
unico tutto mediante un processo chiamato, a sua volta, di risoluzione. L'insieme dei
due processi è concepito e denominato come dialettica.
Le quattro specie in cui la natura (la totalità del reale) si divide sono:
1. natura che non è creata e che crea: è Dio. Poiché perfettissimo e
assolutamente trascendente, Dio non è conoscibile (teologia negativa). Egli è al
di sopra di ogni attributo (proprietà, caratterizzazione), per quanto grande, che
possa essere concepito dalla mente umana, limitata e finita: Dio è
superessenza, superverità, superpotenza, superbontà.
2. Natura che è creata e che crea: è il Logos o Figlio di Dio; è la sapienza di
Dio, coeterno e coessenziale al Padre. Dio non sarebbe tale se non fosse
dall'eternità generatore del proprio Logos o sapienza. Nel Logos sono
contenute le idee, le essenze, i modelli di tutte le cose, chiamati anche
predestinazioni o divine volontà, ad imitazione delle quali le cose saranno
formate. Queste essenze sono eterne ed immutabili. A differenza delle idee
platoniche non costituiscono soltanto un modello ma sono anche cause
efficienti delle cose e degli individui. Chi trasforma questi modelli in cause
efficienti è lo Spirito Santo, che è quindi causa della divisione, moltiplicazione
e distribuzione nel mondo, secondo i diversi generi e specie di cose, delle
essenze o idee unitariamente contenute nel Logos. Quella dello Spirito Santo
non è propriamente la creazione materiale delle cose quanto invece la
trasmissione ad esse della loro sostanza ed essenza, ossia del loro invisibile
sostrato che va a costituirne la specificità.
3. Natura che è creata e non crea: è il mondo, creato dal nulla nello spazio e
nel tempo da Dio. Esso è perciò manifestazione di Dio (in greco “teofania”).
4. Natura che non è creata e non crea: è Dio come termine finale cui tutte le
cose sono destinate a ritornare. L'aspetto sensibile, molteplice e caduco delle
cose, cioè la materia, è espressione del peccato originale. Ma il senso ultimo
del mondo è nell'uomo (nell'uomo è rappresentato in sintesi il cosmo intero), la
cui sostanza è nell'anima di cui il corpo è lo strumento. Ad imitazione del
Figlio di Dio, incarnatosi e risorto, l'uomo è chiamato, con tutte le cose e con la
resurrezione anche dei corpi, a ritornare a Dio con la fine del mondo. Allora
Dio sarà tutto in ogni cosa, nel senso che ogni cosa sarà presso Dio. Dopo il
processo di divisione ad opera dello Spirito Santo, si compie qui il processo di
risoluzione.
La dottrina di Scoto, che identifica natura e Dio, può sembrare panteismo. In realtà,
se è vero che il mondo è assimilabile a Dio, poiché le essenze delle cose sono
148

impresse in esse dallo spirito Santo, ed in quanto tali sono partecipi della sostanza
divina, tuttavia Dio non è assolutamente identico al mondo: Dio trascende il mondo;
è creatore e persona distinto dalle creature.
Scoto proclama una stretta corrispondenza fra pensiero e realtà (i pensieri delle cose
rispecchiano fedelmente le cose stesse) poiché entrambi derivano dalla medesima
sapienza divina. Con ciò egli contribuisce in modo rilevante alla rivalutazione della
ricerca logico-filosofica e sottolinea la necessità di appellarsi alla ragione per
spiegare e chiarire controversi e tesi contrapposte della dottrina religiosa.
Con la sua concezione dialettica del processo di divisione-risoluzione della natura,
Scoto va oltre al concetto di logica concepita come semplice tecnica del linguaggio.
La dialettica viene intesa non solo in senso logico ma ontologico, come la struttura
stessa della realtà nel suo farsi. La dialettica è innanzitutto un'arte divina. Per questo
gli uomini scoprono (ma non creano) la dialettica quale strumento di comprensione
del reale e di ascesa a Dio. In tal modo Scoto supera la distinzione tra religione e
filosofia: la vera filosofia non è altro che la religione e viceversa.
Molti dei motivi del pensiero di Scoto vengono ripresi dalla scolastica successiva e
soprattutto dal Rinascimento: il concetto della deificazione dell'uomo, cioè del suo
congiungersi con Dio nell'estasi, sarà ripreso dalla mistica medievale, mentre il
concetto della superiorità dell'uomo su tutte le creature (l'uomo riassume in sé il
cosmo) sarà ripreso dal Rinascimento, specie da Pico della Mirandola.
Infine, con riguardo alla filosofia della natura, Scoto nega che i cieli siano composti
di una sostanza ingenerabile e incorruttibile, ossia l’etere, come voleva Aristotele.
Tale negazione si troverà poi di nuovo solo in Nicolò Cusano nel 15º secolo.
149

Seconda fase della scolastica (10º-12º secolo).

Dialettici e antidialettici.

La dissoluzione dell'Impero carolingio dopo la morte di Carlo Magno arresta la


ripresa intellettuale dell'Occidente. Il risveglio della cultura riprende quando Ottone il
Grande ristabilisce l'unità dell'Impero.
Mentre la prima fase della scolastica ha un carattere soprattutto preparatorio, la
seconda fase è quella della prima vera scolastica ed è dominata dalla polemica tra
antidialettici e dialettici. Gli antidialettici proclamano il primato della fede e la
prioritaria autorità, in materia di fede, dei santi e dei profeti, limitando il compito
della ragione e della filosofia ad una funzione strumentale e ancillare di difesa delle
dottrine rivelate (la filosofia è ancella della fede). I dialettici vogliono invece affidarsi
alla ragione ed alla logica (dialettica) per meglio intendere la verità della fede.
Fra gli antidialettici si distingue Pier Damiani (Ravenna 1007 - Faenza 1072), che
nega ogni valore al ragionamento e afferma che Dio è superiore non solo alle leggi
della natura ma anche a quelle della logica e può fare quindi anche ciò che alla
ragione appare contraddittorio.
Fra i dialettici spicca la figura di Berengario di Tours (morto nel 1088), il quale
afferma l'importanza della dialettica (la logica) ed il ricorso alla ragione nella
spiegazione e miglior comprensione della verità di fede, posto che proprio in virtù
della ragione l'uomo è creato ad immagine di Dio.
In questo periodo, in effetti, si ha una rinascita degli studi di logica, in particolare
della dialettica aristotelica, che sfocia nella famosa disputa sugli "universali".
Le due più famose scuole medievali di questo periodo sono quella di Chartres, di
orientamento prevalentemente retorico-letterario e platonico, e la Scuola di San
Vittore, a Parigi, più mistico-contemplativa. I maggiori pensatori sono Anselmo
d'Aosta e Pietro Abelardo.

Anselmo d'Aosta (Aosta nel 1033-Canterbury 1109).

È dapprima abate del monastero di Bec, in Normandia, e poi arcivescovo di


Canterbury.
Opere principali: Monologion (soliloquio) e Proslogion (colloquio).
Nel Monologion procede a dare dimostrazioni a posteriori dell'esistenza di Dio,
partendo cioè dall'osservazione delle cose e dell'ordine del mondo; nel Proslogion
fornisce una prova a priori dell'esistenza di Dio, cioè indipendentemente
dall'osservazione e dall'esperienza ma basata solo sul concetto di Dio come essere
perfettissimo.

Fede e ragione.

Anche per Anselmo, come per Agostino, vi è accordo tra fede e ragione. Pur
ritenendo che la fede sia superiore, è tuttavia convinto che fede e ragione non siano in
150

contrasto. Il suo motto è infatti "credo ut intelligam" (credo per capire meglio). Non
si può capire perché c'è il mondo e la vita se non si ha fede, ma occorre dimostrare e
spiegare meglio la fede con argomenti razionali (con il ragionamento). Certo, precisa
Anselmo, qualora su di una questione dovesse sorgere un contrasto tra fede e ragione,
bisognerebbe allora far prevalere la fede, ma Anselmo è persuaso che un tale
contrasto non vi sia perché anche la ragione, come la fede, deriva dalla medesima
illuminazione divina. La stessa esistenza di Dio è infatti, per Anselmo, una pura
verità di ragione, che la ragione può cioè dimostrare da sola, con le sue sole forze,
senza bisogno di rivelazione, la quale ci svela invece gli attributi e i precetti divini.
Nel Monologion, come detto, dà dimostrazioni dell'esistenza di Dio a posteriori
(partendo cioè dalle cose, dal creato, che è posteriore a Dio), per risalire quindi a Dio
con l'argomento dei gradi: vi sono molte cose buone nel mondo ma tutte hanno un
grado maggiore o minore di bontà. Vi deve essere allora, sopra le cose, una bontà
assoluta, cioè un bene assoluto da cui deriva la maggiore o minore bontà delle cose
del mondo. Questo bene assoluto è Dio. Lo stesso ragionamento si può fare per ogni
altro valore o perfezione esistenti nel mondo (per i diversi gradi di grandezza, di
perfezione, di causa efficiente): tutti rimandano al Valore e alla Perfezione assoluta
che è Dio.

La prova ontologica dell'esistenza di Dio.

Tuttavia, rispetto alle prove a posteriori dell'esistenza di Dio, quella più famosa
fornita da Anselmo, espressa nel Proslogion, è la cosiddetta prova a priori o prova
ontologica.
È a priori ed ontologica perché non parte dall'osservazione e dall'esperienza
sensibile delle cose ma invece, in modo a priori, ossia prima dell'esperienza, parte dal
concetto, dall'idea di Dio, cioè dall'analisi dell’essenza ontologica di Dio (ontologia=
filosofia dell'essere, dell'essenza delle cose) per giungere a dimostrarne l'esistenza. E
quale è il concetto, l'idea che noi abbiamo di Dio? È certamente quella di un Essere
perfettissimo, che possiede tutte le perfezioni, che possiede tutto. Allora, se l'idea di
Dio è quella di un Essere che possiede ogni perfezione, al quale non manca nulla,
Egli deve possedere per forza anche l'esistenza, deve per forza esistere, altrimenti
non potremmo pensare a Dio come Essere perfettissimo.
Questa prova ontologica e a priori dell'esistenza di Dio è in particolare rivolta nei
confronti degli atei, che Anselmo chiama insipienti. Gli atei, dice Anselmo,
affermano che Dio non c'è, però anche per gli atei la parola "Dio" significa Essere
perfettissimo. Anche l'ateo ha questa idea di Dio pur non credendo che esista. Ma in
questo modo, dice Anselmo, l'ateo si contraddice, perché non può avere l'idea di un
essere perfettissimo, al quale non manca nulla, e contemporaneamente dichiarare che
gli manca all'esistenza, che non esiste. Quindi l'ateo si sbaglia.
Tale prova ontologica dell'esistenza di Dio non ha trovato però d'accordo tutti i
filosofi, sia contemporanea ad Anselmo sia successivi. Hanno accettato questa prova
Alberto Magno e Bonaventura di Bagnoregio nel Medioevo ed in età moderna
Cartesio, Spinoza, Leibniz ed Hegel. Ma già un filosofo-teologo contemporaneo di
151

Anselmo, il monaco Gaunilone, l’ha criticata affermando che, pur avendo l'idea di
Dio come essere perfettissimo, non si può per questo concludere che egli debba
allora, necessariamente, anche esistere, così come dall'idea di un'isola perfettissima o
di un cavallo alato non deriva per forza anche l'esistenza di tale isola o di tale cavallo.
In effetti, non si può passare direttamente ed automaticamente dal piano delle idee al
piano della realtà, sostenendo che le idee che passano nella mente, anche le migliori e
più logiche, esistono necessariamente anche nella realtà. Per dire con sicurezza che
ad una mia idea corrisponde una realtà concreta devo prima verificarla
sperimentalmente, ossia posso dire che un'idea esiste anche nella realtà solo se vedo e
tocco concretamente una cosa corrispondente a tale idea, ma Dio non si vede e non si
tocca (questo ad esempio sarà l'argomento usato da Kant nell'affermare che la prova
ontologica di Anselmo non ha valore).
Con la sua critica il monaco Gaunilone non vuole negare l'esistenza di Dio, vuole
semplicemente affermare che l'esistenza di Dio è questione di fede e non di
dimostrazione e che sono comunque preferibili le prove a posteriori dell'esistenza di
Dio (risalendo cioè dalle cose del mondo, ossia dagli effetti, alla loro causa prima che
è Dio).
Anche lo stesso Tommaso d'Aquino, come vedremo, non accetta la prova ontologica
a priori di Anselmo, ma fornisce invece prove a posteriori, simili a quelle fornite da
Aristotele.

Il pensiero teologico.

Il pensiero teologico di Anselmo segue l'orientamento agostiniano, precisando


peraltro che le proprietà attribuite a Dio assumono, riferite a Lui, un carattere
diverso da quello che possiedono quando sono riferite alle cose. Anselmo dice che le
proprietà di Dio sono predicati di Dio "quidditivamente" e non qualitativamente,
cioè vanno direttamente considerate come aspetti della "quidditàs" divina, vale a
dire della sostanza divina. In tal senso non si dirà che Dio è giusto ma che è la
giustizia, nel senso che la giustizia fa parte della sua essenza, della sua sostanza. E
così per le altre proprietà.
Da Agostino invece Anselmo si allontana nell'affermare la libertà umana contro il
concetto di predestinazione, misteriosamente ed esclusivamente determinata da Dio
senza necessità alcuna del concorso dell'uomo mediante le buone opere. Anselmo
ritiene che la libertà resti preservata all'uomo nonostante il peccato originale: essa è
intesa come capacità di conservare il senso originario di giustizia che l'uomo ha
ricevuto da Dio, così come chi non vede più un oggetto, perché ormai lontano,
conserva comunque la capacità di vederlo. La vera libertà, per Anselmo, consiste nel
"poter peccare o non peccare", nel qual caso Dio e gli angeli, non potendo peccare,
non sarebbero liberi nei termini in cui è concepita la libertà umana. Secondo
Anselmo la libertà è connotato essenziale della volontà, definita come rettitudine o
capacità di fare il bene: la libertà è quindi capacità di agire rettamente, che si
identifica con la volontà del bene. Si tratta di una rettitudine che deve essere amata e
perseguitata per se stessa e non per altri fini. Certo, la volontà può traviare, può
152

perdere tale rettitudine diventando schiava dei vizi. Ma anche in questo caso la
volontà conserva la sua libertà, cioè quell'istinto di rettitudine, di giustizia, in cui la
libertà consiste e che, mediante l'aiuto e la grazia di Dio, consente di liberarsi dal
peccato e riprendere la strada del bene. Col peccato si allontana dall'uomo l'istinto
della giustizia e l'uomo non può riacquistarlo se non con la grazia divina, la quale
soltanto restituisce all'uomo l'esercizio attivo della sua libertà. Ma questa libertà non
può essere tolta l'uomo, rimane conservata in lui. Non la toglie neppure la prescienza
divina. Dio prevede certamente tutte le azioni umane, buone o cattive. Ma per sua
volontà lascia all'uomo libera scelta circa le proprie azioni. Quindi, nel predestinare
gli eletti alla vita eterna e i malvagi alla dannazione, Dio non compia alcun atto
ingiusto; non predestina nessuno contro la sua volontà, salvando solo coloro di cui
prevede il retto volere. Il peccare o non peccare rimane un atto umano di libera
volontà giacché tale libertà è prevista da Dio stesso. Dio non predestina alla
salvezza facendo violenza alla volontà dell'uomo poiché, in tal caso, Dio verrebbe
meno alla ragione per cui ha creato l'uomo libero e quindi responsabile delle sue
azioni, responsabilità in cui consiste, in ultima analisi, la sua superiorità rispetto alle
altre creature. La salvezza rimane in potere del predestinato, dell'uomo; pertanto la
predestinazione non toglie o diminuisce la libertà umana. Ciò non significa sostenere
che l'uomo sia autosufficiente e che non abbia bisogno, quindi, dell'aiuto di Dio e
della grazia divina per raggiungere la salvezza. La grazia rimane un dono. Ma
l'accoglimento di tale dono dipende da una libera adesione.
Anselmo tratta anche dell'essenza di Dio, cioè della sua natura, affermando che Dio
è la somma essenza, cioè il puro essere esistente di per sé e creatore di tutte le cose
dal nulla. Dio, pensando se stesso ed esprimendo tale pensiero in parola, genera il
Verbo (il Figlio), nel quale risiedono le idee eterne, i modelli perfetti delle cose.
Dall'amore intercorrente tra Dio e il suo Verbo, cioè tra il Padre e il Figlio, procede
poi lo Spirito Santo, custode della Chiesa e consolatore degli uomini. In tal modo
Anselmo ritiene di aver dimostrato razionalmente il mistero della Trinità. Altrettanto,
per quanto concerne il mistero dell'incarnazione Anselmo afferma che Dio si è fatto
uomo perché solo un uomo poteva espiare la colpa (il peccato originale) commessa
da un uomo (Adamo) e solo Dio poteva espiare una colpa commessa contro Dio.
153

Il problema degli universali.

Il problema si sviluppa a partire dal 12º secolo e segna un'ulteriore tappa di


valorizzazione della ragione nell'ambito delle questioni teologiche.
Gli "universali" sono i concetti, così definiti poiché sono universalmente validi;
conservano per tutti il medesimo significato e non variano da persona a persona (il
concetto di cavallo, ad esempio, rimane costante per ciascun individuo).
Ciò premesso, è stata quindi sollevata la questione se gli universali esistono anche
nella realtà oppure se sono soltanto nomi astratti costruiti dalla nostra mente.
Tre sono le domande poste al riguardo:
1. se gli universali sono "ante rem" (prima della cosa), cioè se sono essenze,
sostanze soprasensibili che esistono di per se stesse, come le idee platoniche,
indipendenti e separate dagli individui concreti e costituenti i modelli degli
individui e delle cose stesse, dei quali modelli sono copia;
2. oppure se sono "in re" (nella cosa), se cioè, come afferma Aristotele, tali
essenze risiedono solo dentro le cose e gli individui concreti, come loro forma
(o sostanza o sostrato) non visibile, da cui però la nostra mente ricava i concetti
con un'operazione di astrazione;
3. infine, se sono "post rem" (dopo la cosa), vale a dire se gli universali esistono
solo nella nostra mente, che li concepisce esclusivamente come nomi collettivi
astratti o idee generali.
Questa disputa sugli universali ha avuto una durata plurisecolare e fondamentalmente
due sono state le principali soluzioni rinvenute: quella realista e quella
nominalista. A sua volta, ognuna di queste due soluzioni è stata contraddistinta
secondo due tendenze, una estrema ed una moderata, per cui abbiamo nel
complesso quattro tipi di soluzioni:
1. il realismo estremo;
2. il realismo moderato;
3. il nominalismo estremo;
4. il nominalismo moderato.
La soluzione realista dice che gli universali (i concetti) esistono anche nella realtà,
cioè al di fuori ed indipendentemente dalla nostra mente, ossia anche se non li
pensiamo. In particolare:
secondo il realismo estremo, derivante da Platone, gli universali esistono "ante rem",
in un loro mondo (come il mondo delle idee di Platone) separato e distinto dal mondo
sensibile delle singole cose e dei singoli individui concreti; però, pur essendo
separati, gli universali sono le idee o i modelli in base ai quali, a loro imitazione, Dio
crea le cose del mondo e gli uomini, cose e uomini che costituiscono quindi una
realtà di grado inferiore, mutevole e transitoria; maggior esponente del realismo
estremo è stato Guglielmo di Champeaux (1070-1121); è stato pure accolto da Scoto
Eriugena, da Anselmo d'Aosta e dai pensatori della scuola di Chartres;
secondo il realismo moderato, derivante da Aristotele, gli universali non esistono in
un loro mondo separato dal mondo sensibile delle cose e dei singoli uomini, ma
esistono "in re", dentro le singole cose e dentro i singoli uomini; costituiscono cioè
154

non già il loro aspetto esteriore, visibile, bensì la forma o essenza che caratterizza e
distingue ogni genere ed ogni specie dagli altri generi e specie; ad esempio, l'essenza
che caratterizza l'uomo non è il suo aspetto esteriore, variabile da individuo a
individuo, ma la sua anima razionale, la sua razionalità; è tale forma od essenza che
distingue infatti l'uomo, che pure appartiene al genere animale, da ogni altra specie di
animali; tale essenza razionale è comune e identica in tutti gli uomini ed esiste
realmente dentro e al di sotto dell'aspetto esteriore di ciascuno, che è puramente
accidentale, casuale; il realismo moderato insomma, a differenza di quello estremo,
riconosce pienamente, e non come grado inferiore, la realtà degli individui (delle
singole cose e persone), che perciò, pur scorgendo in ciascun individuo la presenza di
un'essenza (sostrato) universale, non sono copia di enti soprasensibili; la tesi del
realismo moderato è stata accolta, tra gli altri, da Tommaso d'Aquino.
La soluzione nominalista afferma invece che gli universali non esistono in realtà,
ma esistono solo nella nostra mente, sono un prodotto della nostra mente, sono pure
rappresentazioni mentali. Ad esempio, nella realtà esistono solo i singoli e diversi
alberi ma non esiste "l'albero", così come esistono solo i singoli e diversi uomini ma
non esiste "l'uomo". In particolare:
secondo il nominalismo estremo, il cui maggior esponente è stato Roscellino (1050-
1120), esistono soltanto le singole cose e individui concreti, mentre i cosiddetti
universali sono solo "flatus vocis", ossia puri suoni, puri nomi astratti collettivi, senza
alcuna corrispondenza con la realtà;
secondo il nominalismo moderato, che ha avuto in Ockham uno dei maggiori
esponenti, gli universali non esistono nella realtà ma solo nella nostra mente come
concetti creati da noi, tuttavia non sono puri nomi di comodo perché hanno
comunque una loro validità logica e gnoseologica (conoscitiva), nel senso che sono
utili per raccogliere in una medesima classe, o categoria, una serie di individui, di
cose, aventi tra di essi caratteristiche affini.
Il problema degli universali ha avuto implicazioni non solo sulla logica e sulla
filosofia, ossia sulle capacità della ragione e sulla validità dei suoi strumenti, ma
anche sulla teologia.
Lo sviluppo di tale questione è stato un segno del nuovo spirito che ha cominciato a
contraddistinguere la Scolastica a partire dagli ultimi decenni dell'11º secolo.
Prima di allora nessun pensatore metteva in dubbio i concetti di genere e di specie
quali idee reali, presenti nella mente divina o in un mondo sovrasensibile, oppure
quali forme od essenze eterne capaci di imprimere e caratterizzare le cose. Porre la
questione, ossia concependo gli universali non più come strumenti dell'azione
creativa di Dio o del Demiurgo, ovvero come sostanze eterne insite negli individui,
ma pensandoli invece come semplici strumenti e condizioni della conoscenza umana,
ha significato ammettere che la questione stessa possa essere risolta in modo
differente rispetto sia alla metafisica tradizionale che alla Patristica e alla prima
Scolastica. La soluzione dominante nel pensiero greco era quella di tipo realistico,
cioè di corrispondenza fra pensiero e realtà: il pensiero rispecchia e riproduce
l'essere. Solo l'indirizzo sofistico-scettico aveva dubitato di tale postulato. Anche la
filosofia cristiana aveva continuato a pensare, per secoli, secondo una concezione
155

realista, idonea in quanto tale a favorire lo sviluppo della filosofia metafisica e della
teologia. Ma con la soluzione nominalista si comincia a dubitare che i concetti siano
davvero essenze metafisiche esistenti sopra o dentro le cose. Se infatti per il
nominalismo i concetti non sono entità realmente sussistenti bensì semplici nomi
astratti collettivi, aventi esclusivo valore logico-gnoseologico, consegue che la
filosofia e la teologia si riducono di fatto a logica analitica (ad analisi logica).
Mentre il realismo, grazie ai concetti di idea, di sostanza, di genere e di specie, si
presta a giustificare filosoficamente un'interpretazione metafisica e/o teologica della
realtà, il realismo viene invece a compromettere tale interpretazione. Questa portata
antimetafisica ed antiteologica del nominalismo diverrà esplicita soprattutto nella
tarda Scolastica, in particolare con Ockham, che riduce il pensiero astratto-
metafisico a pura generalizzazione e classificazione dell'esperienza (i concetti altro
non sono che generalizzazioni di casi particolari osservati) ed antepone alla ragione
la conoscenza sensibile (empirismo). Mentre le correnti realistiche della Scolastica
continueranno a difendere la tradizionale concezione metafisica e teologica del
mondo, quelle nominalistiche finiranno per schierarsi contro la metafisica e la
teologia, pervenendo a concezioni anticipatrici della cultura rinascimentale e
moderna e concorrendo quindi all'esaurirsi della Scolastica medesima. Dal
nominalismo, specialmente quello estremo, con la sua negazione di un fondamento
ontologico (di consistenza reale) degli universali( negando cioè che una pluralità di
singoli enti o individui, anche se affini e appartenenti alla medesima specie o genere,
possano condividere la medesima sostanza) deriverà sul piano teologico
l'impossibilità di comprendere la Trinità divina, ossia la presenza in Dio di tre
persone distinte e tuttavia della medesima sostanza. Da qui il "triteismo" (=credere
all'esistenza di tre Dei) di cui fu imputato Roscellino, accusato di eresia.
Insomma, la soluzione realistica, che ritiene gli universali realmente esistenti come
essenze e sostanze sovrasensibili, è compatibile con la filosofia metafisica e la
teologia, che studiano appunto le essenze e le sostanze come cause prime e fini ultimi
di spiegazione della realtà: vale a dire l'essenza e il fine dell'uomo; l'essenza del
mondo, cioè il fine, il senso e il destino del mondo; l'essenza di Dio; ecc. Invece la
soluzione nominalista, che ritiene gli universali semplici nomi astratti prodotti dalla
mente dell'uomo, mal si concilia con la metafisica e la teologia: essa dà invece
maggiore importanza alla libertà umana ed alla conoscenza empirica e scientifica
anziché alla conoscenza metafisica e teologica.
Nella disputa fra realisti e nominalisti non sono mancati nel Medioevo tentativi
di conciliazione fra le due posizioni, in particolare, come vedremo, da parte di
Pietro Abelardo, con la sua teoria del "concettualismo", da parte di Tommaso
d'Aquino e anche da parte di Duns Scoto. Tuttavia la contrapposizione di fondo
rimane.
Da una parte vi sono i realisti che, anche in presenza di una realtà composta da
singoli individui concreti, sostengono l'esistenza o quantomeno la partecipazione
delle singole individualità ad una qualche comune essenza, considerata
indispensabile per comprendere ciò che vi è identico nel sostrato degli individui del
medesimo genere e specie. Dall'altra parte vi sono i nominalisti, per i quali gli
156

universali hanno solo un significato logico-linguistico, senza riferimento alcuno ad


essenze comuni e tanto meno universali, sostenendo che noi siamo in grado di
affermare che una certa persona è un uomo o che un certo animale è un cane non
perché vi è una natura, una sostanza comune a tutti gli uomini o a tutti i cani, ma
perché il nostro linguaggio viene usato secondo funzioni diverse, per cui la parola
"uomo" può essere usata sia per indicare un uomo particolare sia per designare
determinati aspetti comuni a tutti gli uomini.

Pietro Abelardo (Nantes 1079 – Cluny 1142).

Francese di nascita, è stato maestro di logica e di teologia presso la scuola cattedrale


di Parigi. È stato altresì protagonista della più celebre storia d'amore del Medioevo. Si
innamora di una sua giovane allieva, Eloisa, che sposa segretamente. Lo zio di Eloisa
reagisce in modo estremo al matrimonio, rendendo difficile il rapporto amoroso e
costringendo ad interromperlo. Del resto, anche lo stesso Abelardo abbandona Eloisa
per sopraggiunta vocazione religiosa ed ambedue si ritirano in convento. Questa
storia è raccontata da Abelardo nell'autobiografia "Storia delle mie disgrazie".
Se Anselmo d'Aosta è la figura più rappresentativa del secolo XI, Abelardo è la figura
più prestigiosa del secolo XII. Egli è un convinto sostenitore dei diritti della
ragione e ritiene che non si può credere se non a ciò che si comprende.
Rovesciando quello di Sant'Anselmo, fa suo il motto "intelligo ut credam". Alla
tradizione e all'autorità bisogna credere soltanto finché non si è scoperta la causa e la
motivazione razionale di ciò che si sta indagando. L'autorità diventa anzi inutile
quando la ragione ha modo di accertare da sé la verità. Bisogna sempre discutere su
ciò che si deve o non si deve credere, in caso contrario non rimarrebbe che prestar
fede ugualmente sia a quelli che dicono il vero sia a quelli che dicono il falso. Per
Abelardo dunque la ragione non è semplice ancella (serva) della teologia, ma vale
per se stessa, anche se il fine ultimo rimane la miglior comprensione della verità di
fede.
La ricerca filosofica di Abelardo è impostata su nuove basi, secondo il metodo del
"sic et non" (così e non in altro modo). Egli infatti raccoglie le opinioni dei Padri
della Chiesa, le ordina e le confronta in modo da distinguere quelle che rispetto allo
stesso problema forniscono una risposta positiva o negativa. Scopo di Abelardo è
dimostrare la necessità di adoperare la ragione per risolvere il contrasto tra le
opinioni e trovare una soluzione. In seguito questo metodo diviene proprio di tutti gli
scolastici. Viene definito più in generale il metodo della "disputatio", che consiste
nello stabilire una questione, nell’enunciare gli argomenti che sono favorevoli o
contrari, nel scegliere una soluzione e confutare (smentire) la soluzione opposta.
Peraltro la ragione, benché autonoma, non può dare spiegazioni definitive perché
tra ragione e fede c'è sì continuità, ma solo in senso ascendente (è la ragione che sale
verso la fede).
157

Il valore che Abelardo assegna alla ricerca e alla ragione lo induce ad attribuire la
massima considerazione verso gli stessi filosofi pagani: anch'essi hanno cercato e
trovato la verità. Perciò Abelardo è convinto che tra loro e l'insegnamento del
cristianesimo ci sia un accordo fondamentale. In particolare, secondo Abelardo, i
filosofi pagani hanno conosciuto la trinità: Platone riconobbe che l'intelligenza divina
è nata da Dio ed è coeterna con lui e considerò l'Anima del mondo come una terza
persona, che procede da Dio ed è la vita e la salvezza del mondo.
Abelardo prende posizione anche sul problema degli universali, tentando di
conciliare le contrapposte tesi fra realisti e nominalisti attraverso la sua caratteristica
teoria del "concettualismo". Il concetto, l'universale, dice Abelardo, non può
essere una realtà dal momento che una realtà, una sostanza, non può essere il
predicato di un'altra sostanza (Socrate non può essere predicato, cioè attributo, di
Platone, come il cavallo non può essere predicato del cane) e poiché, invece,
l'universale è ciò che è predicabile di più enti (cose), ossia è un modo sintetico per
classificare e denominare con un unico concetto enti affini, proprio per questo esso
non può essere sostanza singola e specifica: infatti, come ha affermato Aristotele,
ogni sostanza è diversa ed è soltanto individuale. Ma, prosegue Abelardo, l'universale
non può essere neppure un puro nome (flatus vocis) come voleva Roscellino,
perché anche il nome è una realtà particolare e non può essere il predicato di un'altra,
non può essere riferito ad un'altra (il nome "albero" non può essere riferito al nome
"fiume"). Gli universali sono invece "sermones", cioè discorsi mentali, concetti,
che scaturiscono da un processo di astrazione ed hanno la funzione di significare la
caratteristica comune di una pluralità di oggetti affini. Gli universali sono
"sermones", discorsi, che implicano sempre il riferimento alla cosa significata. La
Scolastica posteriore chiamerà "intenzionalità" questo riferimento del concetto alla
cosa significata. Tale proprietà del concetto gli conferisce anche una sua propria
oggettività, poiché un concetto non può riferirsi indifferentemente a qualsiasi gruppo
di cose: il concetto di uomo indica gli uomini e non gli asini. Il concetto dunque, pur
non denotando una realtà sostanziale, denota comunque le caratteristiche comuni che
si trovano in tutti gli enti individuali designati con quel preciso concetto. In
conclusione, non si può dire che i concetti siano veri o falsi, in quanto non hanno
corrispondenti nella realtà, ma possiedono comunque una loro validità logico-
linguistica: sono categorie che collegano il mondo del pensiero con quello
dell'essere, delle cose concrete (nominalismo moderato): nel riferirsi
intenzionalmente (espressamente) alle cose, i concetti acquistano una loro oggettività.
È vero che i concetti non sono reali, ma la loro intenzione, chiamata in gergo
filosofico "intenzionalità", cioè il loro scopo, è di riferirsi a un genere o a una
specie di cose concrete per riassumerne ed esprimerne le comuni caratteristiche.
Sono "post rem", cioè solo nella nostra mente ma si riferiscono a cose concrete.
La teoria del concettualismo induce Abelardo a ritenere che nella Trinità le
persone divine non sarebbero veramente tali bensì solo aspetti o modi di
un'unica divinità: da ciò il nome di "modalismo" assegnato a questa concezione:
col nome di Padre ritiene che si indichi la potenza e l'onnipotenza della maestà
divina; col nome di Figlio, o Verbo, che si indichi la sapienza e l'onniscienza di Dio;
158

col nome di Spirito Santo che si indichi la carità o benevolenza divina. Tali
denominazioni rappresenterebbero cioè un’individuazione soltanto di tre qualità
anziché di tre effettive persone distinte sia pur di una medesima sostanza. Tale
posizione modalistica di Abelardo è stata aspramente combattuta dal mistico
Bernardo di Chiaravalle perché non rispettosa della realtà delle tre persone divine. A
causa di essa Abelardo subirà una condanna ecclesiastica.
L'azione di Dio nel mondo, secondo Abelardo, è necessaria, ha il carattere della
necessità, perché essa è sempre quale deve essere in quanto Dio non può volere che il
bene. Ammettere che Dio avrebbe potuto agire diversamente, o desiderarlo, significa
negare all'azione di Dio ogni fondamento e ritenere la volontà divina un arbitrio
cieco, un capriccio. Da tale concezione Abelardo ricava il suo ottimismo metafisico:
tutto ciò che accade è bene ed è necessariamente così e non può essere diversamente
perché accade per volontà di Dio che non può volere altro che il bene. Tutto rientra
nell'ordine provvidenziale, anche il tradimento di Giuda, perché senza di esso non
sarebbe stata possibile la crocifissione di Cristo, la sua morte e resurrezione e quindi
la redenzione dell'umanità. Alla stessa maniera, anche tutti i mali del mondo hanno
la loro ragione e una loro finalità positiva seppur rimangono nascoste all'uomo.
L'uomo porta in sé l'immagine della Trinità divina: la sostanza dell'anima umana è
immagine della persona di Dio padre; la virtù e la sapienza che sono nell'anima sono
immagine del Figlio; la capacità dell'anima di vivificare il corpo è immagine dello
Spirito Santo.
La vera libertà dell'uomo non consiste nel seguire gli istinti e le passioni ma nella sua
capacità di agire razionalmente e virtuosamente. In tale libertà consiste l'azione
morale. La condotta etica dipende dall'intenzione interiore (l'intenzione di fare il
bene). Dunque non il rigido ascetismo né la conformità passiva ed esteriore alla
norma etica sono di per sé morali: le azioni non sono buone o cattive in sé,
indipendentemente dall'intenzione di chi le compie. Abelardo concepisce la vita
morale dell'uomo come una continua lotta della volontà razionale contro
l'inclinazione naturale al vizio. Così come la buona intenzione è indispensabile
perché un'azione sia virtuosa, altrettanto è sufficiente solo l'intenzione (cattiva) a
determinare il peccato (peccato di intenzione).

Bernardo di Chiaravalle: la via mistica verso Dio (Francia 1091-1153).

Mentre la Scolastica cerca di avvicinare l'uomo a Dio mediante la ragione e la


filosofia, la mistica cerca di portare l'uomo a Dio attraverso l'ascesi, lo slancio
d'amore. Nel Medioevo la via mistica e la ricerca scolastica sono di solito ritenute
complementari, ma talora la mistica accusa la ricerca scolastica di smarrirsi in
sottigliezze e di sopravvalutare le deboli forze della ragione.
Il fondatore della mistica medievale è Bernardo di Chiaravalle. La filosofia
scolastica gli appare inutile e vi contrappone la via mistica. Il primo grado del
misticismo è l'intenzione dell'anima di giungere alla verità. Il secondo grado è la
contemplazione, che è intuizione della verità. La contemplazione si sviluppa a sua
159

volta in gradi ulteriori: il primo è l'ammirazione della maestà divina; l'ultimo grado
è l'estasi, in cui l'anima umana si perde e si confonde in Dio, per cui l'uomo
dimentica completamente il corpo e la propria umanità terrena.

La scuola di Chartres (Francia).

È stato il principale centro culturale del XII secolo. Si caratterizza per una cultura
più retorico-letteraria che logica e per un orientamento prevalentemente platonico.
Si distingue anche per la lettura diretta dei classici, in particolare del Timeo di
Platone che viene interpretato in termini creazionisti, ossia come anticipazione
dell'atto della creazione del mondo da parte di Dio. Attribuisce notevole importanza
alle "humanae litterae".

La scuola di San Vittore (Parigi).

Predomina un orientamento mistico. La scuola insiste soprattutto sulla preghiera e


sulla contemplazione di Dio. Nella sua opera "Didascalion", Ugo di San Vittore
colloca l'uomo fra il mondo sensibile e Dio: appartiene al primo per il corpo ed è
orientato a Dio per lo spirito. Si ascende a Dio partendo dalla "cogitatio", che è un
pensare dipendente dalle immagini sensibili, quindi mediante la "meditatio", che è
quella dell'anima su se stessa, per giungere infine alla "contemplatio", che è la
visione diretta di Dio culminante nell'unione mistica.
160

La terza fase della scolastica (13º secolo).

La situazione politico-culturale del Duecento.

Il 1200-1300 è il periodo aureo della scolastica.


Sul piano politico-sociale è il periodo del consolidamento della civiltà comunale e
del forte sviluppo dei ceti borghesi.
Sul piano delle istituzioni ecclesiastiche è il periodo in cui sorgono i due ordini
religiosi più prestigiosi: quello dei domenicani e quello dei francescani. A
differenza dei precedenti ordini monastici (Abbazia di Cluny, Scuole di Chartres e di
San Vittore) sparsi nelle campagne, i nuovi ordini scelgono le città come centro della
loro attività.
Sul piano delle istituzioni scolastiche sorgono le prime università: dapprima quella
di Bologna, interessata più al diritto che alla teologia ed indipendente dall'autorità
religiosa; come seconda quella di Parigi, divenuta il più importante centro
universitario di filosofia e teologia, presa a modello dalle università di Oxford, di
Cambridge e dalle numerose altre che saranno erette un po' dappertutto in Europa.
Sotto il profilo più propriamente culturale-filosofico l'avvenimento di maggior
rilievo, grazie all'opera dei commentatori arabi Avicenna e soprattutto Averroè con i
quali si era entrati in contatto, è costituito dalla presa di conoscenza del pensiero di
Aristotele sia per quanto concerne la metafisica che la fisica, mentre dapprima si
conosceva solo la logica, pensiero trasmesso dai filosofi arabi a quelli occidentali. La
novità di tali opere aristoteliche consiste nel fatto che esse offrono una spiegazione
razionale del mondo ed una visione dell'uomo indipendente dalle verità
cristiane: con la scoperta di Aristotele ci si accorge che la filosofia mira ad una
propria autonomia rispetto alla teologia.
La prima reazione della filosofia scolastica nei confronti dell'aristotelismo è
infatti ostile, specie per la tesi aristotelica dell'eternità del mondo (Aristotele
concepisce Dio come causa finale e non efficiente), contraria alla credenza nella
creazione, nonché per quella dell'unità dell'intelletto, che pareva escludere
l'immortalità dell'anima. Si riaccende pertanto il dibattito sul rapporto tra ragione e
fede, tra filosofia e teologia.
In ogni caso, le opere sconosciute di Aristotele e dei suoi commentatori arabi
vengono tradotte in latino e l’aristotelismo trova spazi ed occasione per diffondersi.
Lo stesso aristotelismo si divide in due correnti:
1. la prima, rappresentata dai maestri laici dell'università di Parigi e dagli
averroisti, distingue nettamente la filosofia e la scienza, nella loro autonomia,
dalla teologia e sostiene che, essendo le due verità diverse ed inconciliabili,
devono rimanere ognuna confinata nel proprio campo (dottrina della doppia
verità: di ragione e di fede);
2. la seconda, rappresentata dai maestri domenicani quali Alberto Magno e
soprattutto Tommaso d'Aquino, cerca di conciliare l’aristotelismo col
161

cristianesimo, proponendo così al pensiero scolastico la sostituzione


dell'orientamento platonico-agostiniano con quello aristotelico.

La filosofia islamico-araba.

Lo svilupparsi di rapporti commerciali ma anche militari (le Crociate)


dell'Occidente col mondo orientale, e soprattutto con gli Arabi, consente la
diffusione delle opere rimaste sconosciute della filosofia e della scienza greche,
specialmente quelle di Aristotele, che gli Arabi avevano ereditato ed assimilato
nei secoli precedenti attraverso i filosofi dell'Impero Romano d'Oriente, allorché
la cultura occidentale invece, col crollo dell'Impero Romano d’Occidente, era quasi
completamente caduta in oblio.
Anche la filosofia araba, del resto, si presentava nel proprio ambito come una
scolastica, cioè come tentativo di trovare una spiegazione razionale alla verità
religiosa rivelata dal Corano.
Il periodo di maggior fioritura della filosofia araba si ha tra l'11º e 12º secolo. In
essa possiamo distinguere due tendenze fondamentali: quella neoplatonica,
rappresentata specialmente da Avicenna, il cui aristotelismo è in realtà più apparente
che sostanziale, e quella aristotelica, che ha il maggior esponente in Averroè.

Avicenna (persiano: 980-1037)

Avicenna formula nel modo più chiaro il principio che caratterizza la filosofia araba
nel suo insieme: il principio della necessità dell'essere, secondo cui tutto ciò che è,
o accade, è o accade necessariamente e non potrebbe essere o accadere in modo
diverso. L'essere è la proprietà comune a tutte le cose: qualsiasi cosa, prima di
essere ciò che specificatamente è, deve innanzitutto essere, cioè esistere. L'essere
inteso in generale è dunque un'essenza, una proprietà unica e indeterminata comune a
tutti gli enti, che successivamente si determina negli enti singoli. Avicenna distingue
ulteriormente tra essere possibile ed essere necessario: tutti gli enti che incontriamo
nell'esperienza sono enti possibili (poiché avrebbero anche potuto non essere, non
esistere), i quali pertanto non hanno in sé la causa della propria esistenza. Ma dato
che esistono, devono allora aver ricevuto l'esistenza da un altro ente, il quale pure, a
sua volta, può essere possibile o necessario; se quest'altro ente è pure esso possibile,
deve aver ricevuto anch'esso l'esistenza da un altro, e così via finché non si giunge ad
un essere necessario che ha in sé la causa della propria esistenza: questi è Dio. È
una prova dell'esistenza di Dio che, come vedremo, sarà ripresa da Tommaso
d'Aquino. La distinzione tra essere possibile ed essere necessario è fondamentale
perché separa il mondo da Dio. L'essere necessario è soltanto uno (monoteismo) ed
esso assume il grado di primo principio e di causa prima.
Ma quale è il rapporto tra il mondo (la natura) e Dio? Si tratta di un rapporto di
necessaria ed automatica emanazione (Plotino) o di un rapporto di libera creazione?
Avicenna risponde fondendo insieme Aristotele e il neoplatonismo. A suo avviso il
162

mondo è contingente (=che può o non può essere) e necessario insieme: è


contingente in rapporto a se stesso ed è necessario rapporto a Dio, il quale non può
che agire secondo la sua natura, che è quella di principio e causa prima, ossia di
creatore. Perciò la creazione non è un atto libero ma si svolge necessariamente
come creazione-emanazione da Dio: una volta che Dio ha creato i vari enti questi
esistono necessariamente; è una necessità di fatto.
Concepito aristotelicamente come pensiero di pensiero, Dio pensando se stesso
produce necessariamente la prima Intelligenza (il Figlio o il Verbo cristiani), la
quale produce a sua volta la seconda Intelligenza e così via, avviando un processo
discendente necessario e non libero. Ogni intelligenza crea necessariamente quella
inferiore (i diversi cieli) fino alla decima. La decima intelligenza, a differenza delle
altre, non genera una nuova realtà ma agisce sul mondo terrestre posto sotto il nono
cielo della Luna. Agisce sia sul piano ontologico che su quello gnoseologico: sul
piano ontologico struttura per emanazione il mondo in forma e materia corruttibile,
a differenza di quella incorruttibile dei cieli; sul piano gnoseologico opera il
passaggio dalla potenza all'atto dell'intelletto umano individuale possibile, o
intelletto passivo, imprimendo in esso i principi primi e i concetti universali che
apprendiamo mediante astrazione. Siamo quindi di fronte a una forma di innatismo.
In particolare, rifacendosi ad Aristotele, Avicenna distingue fra:
1. intelletto attivo, che è quello divino;
2. intelletto passivo, che è quello umano e che riceve dall'intelletto attivo, per
emanazione-irradiazione, i principi in base a cui è posto in grado di ragionare
e dedurre;
3. intelletto acquisito, o intelletto in atto, che è quello che ragiona e astrae i
concetti dalle immagini sensibili individuali.
Questa dottrina interessò molto gli scolastici latini perché pone in dubbio
l'immortalità dell'anima. Infatti immortale è solo l'intelletto attivo, l'unico che
non ha bisogno del corpo per funzionare. L'anima dell'uomo, afferma Avicenna,
ritorna dopo la morte all'intelletto attivo universale; esso soltanto quindi è immortale
e non anche l'anima individuale vegetativa e sensitiva.

Averroè (Cordova 1126-Marocco 1198).

Tutto sommato, l'aristotelismo di Avicenna non destò grosse perplessità presso i


filosofi cristiani (se non all'anima vegetativa e sensitiva, a quella intellettiva sembra
comunque riconosciuta una qualche forma di immortalità). Non fu così per
l'aristotelismo di Averroè, a causa della sua fiducia totale nella ragione che lo porta a
tre concezioni in contrasto con la dottrina cristiana:
1. la necessità dell'essere (della realtà), da cui consegue la negazione della
creazione del mondo come libero atto di Dio;
2. l'eternità del mondo;
3. la negazione dell'immortalità delle anime singole.
163

Queste tesi erano in contrasto anche con la religione islamica e perciò Averroè subì
l'esilio.
Per Averroè la filosofia non solo è indipendente dalla teologia e dalla religione
ma è mezzo privilegiato per giungere alla verità. In caso di contrasto tra filosofi e
teologi, il testo religioso va interpretato in base alla ragione, poiché le verità religiose
esposte nel Corano sono simboli imperfetti, e come tali da interpretare, in quanto
formulate in un linguaggio adatto a persone semplici ed ignoranti. Le divergenze tra
filosofia e teologia sono cioè, più che altro, differenze di interpretazione anziché
effettiva diversità di principi essenziali: non vi è contrasto di fondo tra fede e
ragione, però la ragione ha un ruolo di guida per la comprensione della rivelazione
divina.
Tra i filosofi arabi, Averroè è stato il principale commentatore delle opere di
Aristotele. Per lui la dottrina di Aristotele è la verità stessa. È inoltre convinto che la
filosofia aristotelica sia in fondamentale accordo con la religione musulmana, che sa
anzi esprimere meglio, in forma scientifica e dimostrativa.
Primo concetto fondamentale di Averroè è la necessità di tutto ciò che esiste: la
necessità dell'essere. Il mondo è necessario perché necessariamente creato da Dio.
Dio è perfetto per cui ciò che egli fa deve necessariamente rispecchiare questa sua
perfezione: se non avesse creato il mondo Dio sarebbe imperfetto. Oltre che
necessario, il mondo è anche ordinato in virtù della perfezione divina e tale ordine
dirige la stessa azione degli uomini, i quali pertanto non hanno né capacità né
libertà d'iniziativa. Il principio dell'ordine del mondo ha da sempre favorito e
stimolato la ricerca scientifica, per la sottintesa fiducia di poter scoprire e
comprendere scientificamente quest’ordine medesimo in tutti i fatti naturali.
Derivante dalla dottrina della necessità dell'essere e del mondo è la dottrina
dell'eternità del mondo. Averroè ammette, come Avicenna, che il mondo è stato
creato, poiché l'essere del mondo è un essere possibile che non verrebbe alla realtà
senza l'azione creatrice di Dio. Ma egli vede nella creazione non già un atto libero
di Dio bensì una manifestazione necessaria di Dio stesso, per cui il mondo non ha
avuto inizio nel tempo, ma è coeterno a Dio derivando dalla stessa natura di Dio:
tutti i motori immobili sono eterni, e a maggior ragione il primo motore che è Dio, e
tutti muovono eternamente i rispettivi cieli; pertanto è eterno anche l'universo nel
suo complesso. In quanto perfetto, abbiamo visto, Dio non può non creare il
mondo e Dio, in quanto eterno, ha creato il mondo fin dall'eternità.
La terza dottrina peculiare di Averroè è quella dell'unicità dell'intelletto: non esiste
un intelletto passivo (o potenziale) individuale separato dall'intelletto attivo
universale, per la ragione che, se l'intelletto passivo può trasformarsi in intelletto
attivo allorquando passa in atto formando i concetti, deve avere allora la stessa
natura dell'intelletto attivo. L'intelletto è quindi unico per tutti gli uomini; è un
intelletto universale, potenziale e attivo al tempo stesso, e non è individuale: è
separato dall'anima vegetativa e sensitiva umana. L'anima umana è quindi
ridotta a materia (con esclusive funzioni vegetative sensitive) e proprio per questo
l'intelletto, in quanto capace di conoscenza universale, non può mescolarsi con
l'anima umana individuale. Se l'anima dell'uomo dunque è solo quella vegetativa-
164

sensitiva legata al corpo, essa allora non è immortale. Invece l'intelletto passivo,
diventando attivo nel passare in atto, non è parte dell'anima ma solo
temporaneamente legato ad essa. Immortale è solo l'intelletto attivo universale, che
può essere concepito come patrimonio dell'intera umanità. Con questa tesi Averroè
intende anche salvare il sapere, che non perisce con l'individuo: l'intelletto universale
può essere infatti inteso, altresì, come quello della specie umana, superiore al singolo
individuo, nel quale si conservano tutte le conoscenze via via acquisite dagli uomini.
È ovvio come la tesi di Averroè che nega l'immortalità dell'anima abbia
preoccupato non poco i filosofi scolastici. Infatti, se l'individuo e la sua anima si
dissolvono con la morte, permanendo soltanto l’intelletto universale, allora l'uomo
non è conclusivamente responsabile della sua attività spirituale, essendo essa super
individuale, ed allora la predicazione sulla vanità del mondo e sulla resurrezione
perde vigore. Si ritrovano qui i germi di una concezione materialistica o quantomeno
naturalistica della vita e dell'uomo.

Bonaventura da Bagnoregio (Bagnoregio 1221-Lione 1274).

Nasce a Bagnoregio, in provincia di Viterbo. Fattosi francescano, diviene docente


all'università di Parigi. È contemporaneo di Tommaso d'Aquino.
Opera principale: L'itinerario della mente verso Dio (Itinerarium mentis in Deum).
Come si è detto, la prima reazione della Scolastica cristiana nei confronti
dell'aristotelismo è stata di ostilità, in particolare per le concezioni, derivanti da
Aristotele, dell'eternità del mondo, che esclude la creazione, e dell'unicità
dell'intelletto, che esclude l'immortalità dell'anima. La Scolastica si irrigidisce nella
sua posizione tradizionale platonico-agostiniana, accettando tutt'al più solo alcuni
delimitati principi dell’aristotelismo.
Maggior esponente dell'antiaristotelismo è stato Bonaventura da Bagnoregio.
Bonaventura sostiene che la sapienza si costruisce esclusivamente sulla fede. Non
è possibile lasciare piena autonomia alla ragione perché altrimenti si verrebbero a
creare due forme di sapienza tra loro contrapposte. La filosofia non ha quindi
autonomia rispetto alla teologia. Conoscere la verità ha per solo scopo la salvezza,
mentre la ragione serve piuttosto a rendere più evidenti i segni e la presenza di Dio
nel mondo.
Contro Aristotele, Bonaventura ritiene che non tutte le conoscenze derivino dai
sensi. Attraverso i sensi e la ragione si conoscono solo le cose sensibili inferiori, ma
per conoscere le cose interiori e superiori l'intelletto ha bisogno
dell'illuminazione divina. Difatti l'anima conosce se stessa e Dio senza l'aiuto dei
sensi: ha già in sé la conoscenza di sé medesima (autocoscienza) e l'idea di Dio
(innatismo). Dai sensi derivano solo le immagini mentali, le apparenze esteriori delle
cose. Ma l'anima non potrebbe conoscerle se non le fosse dato da Dio un lume
direttivo che la guida nell'organizzare e classificare tutte le conoscenze. In tal senso,
165

Bonaventura accetta la teoria agostiniana della conoscenza come illuminazione


divina.
Così come Dio è la luce della conoscenza umana, egli è pure la ragione dell'essere
(dell'esistere) delle cose. Infatti, nella mente divina vi sono le idee, ossia i modelli,
gli esemplari delle cose. È questa la teoria dell'esemplarismo, che Bonaventura
elabora per escludere la concezione di Dio come motore immobile impersonale e non
come creatore del mondo e Provvidenza. Le cose non procedono da Dio per una
inconsapevole e necessaria emanazione (in ciò corregge il neoplatonismo), ma sono
da lui liberamente create e volute. Così, il mondo è pieno di segni ed immagini di
Dio. Nel mondo vi è come una scala attraverso cui salire a Dio, decifrando i segni
del divino nella natura creata.
Nella creazione del mondo Bonaventura adotta la teoria delle "ragioni seminali",
significando che Dio ha già immesso nella materia i germi, i semi di ciò che sorgerà,
per cui l’azione della natura sviluppa ciò che Dio ha seminato. Dunque non è mai
esistita una materia eterna totalmente informe, ma anch’essa è stata creata da Dio
con già impresse le forme seminali. Con questa tesi Bonaventura intende combattere
da un lato la dottrina aristotelica dell’eternità della materia e, dall'altro, la concezione
di quanti negavano alla natura una qualsiasi attività propria, benché derivata da Dio.
Dalla teoria dell'esemplarismo e delle ragioni seminali Bonaventura ricava quindi la
propria teoria della conoscenza, denominata tesi della cointuizione. Il contatto
con l'oggetto implica la percezione confusa dell'esemplare (del modello) divino. La
conoscenza sensibile si riferisce agli oggetti materiali. La conoscenza intellettiva
invece trascende i sensi e attinge ai concetti universali. Ma come si formano i
concetti? Un aristotelico risponderebbe che essi derivano dal processo di astrazione,
che estrae dalle cose singole e contingenti ciò che fra di esse vi è di comune e
necessario. Però Bonaventura è insoddisfatto di tale risposta. Secondo lui, e
diversamente da Aristotele, non vi è nelle cose un sostrato, una forma, che
costituisce la loro essenza universale. La spiegazione dei concetti non può essere
che l'intervento di una luce divina che consente il collegamento delle cose finite
con gli esemplari che sono nella mente di Dio. Infatti, come è possibile conoscere
le cose imperfette e contingenti se non si è forniti dell'idea del perfetto e del
necessario? Senza l'idea dell'infinito, impressa nell'anima da Dio, non è possibile
conoscere il finito. Le cose possono generare una conoscenza immutabile ( ossia i
concetti) solo in rapporto agli esemplari divini. Perciò la conoscenza implica la
compresenza in noi delle cose (conoscenza sensibile) e di Dio, che ha creato
l'anima umana a sua immagine e somiglianza, immettendo in essa l'idea stessa di
Dio, del perfetto, dell'infinito e dell'immutabile: è questa, appunto, la cointuizione
attraverso l'illuminazione divina.
Circa l'esistenza di Dio, Bonaventura accetta la prova ontologica di Anselmo.
Ma poiché Bonaventura è persuaso che tutto parli di Dio (il mondo è pieno dei suoi
segni), più che mostrarne l'esistenza si preoccupa di affinare lo sguardo
interiore dell'uomo perché sappia cogliere la presenza di Dio fuori di sé, dentro
di sé, sopra di sé, in un cammino ascendente che si conclude con una visione di
beatitudine.
166

L'anima per Bonaventura è il motore del corpo. Essa non è pura forma (come
volevano gli aristotelici) ma ha una sua materia e quindi è sostanza nel senso pieno
del termine (è sinolo: unione di forma e materia) giacché è capace di sussistere di
per sé, di agire e di patire: pertanto, come sostanza in sé, è separabile e sopravvive
alla morte del corpo; è incorruttibile e immortale perché così creata da Dio.
Bonaventura riconosce all'uomo la libertà nel campo dell'azione e capacità di
iniziativa nella conoscenza. Così come la conoscenza è guidata dalla luce divina,
dalla medesima luce è guidata la condotta dell'uomo. Chiama questa luce
"sinderesi", o scintilla della coscienza (conoscenza innata di ciò che è bene e male).
All'origine degli errori di Aristotele vi è per Bonaventura il rifiuto della teoria
platonica delle idee, reinterpretate come idee attraverso cui Dio ha creato il mondo.
Negare le idee nella mente di Dio, ossia gli esemplari in base a cui ha creato e crea
le cose, vuol dire che Dio è solo causa finale e non anche efficiente delle cose.
Significa ammettere che tutto ciò che avviene o è casuale o dipende da un
destino, da un fato necessario e predeterminato. Ma ciò significa allora negare la
libertà e la responsabilità umane e, quindi, l'esistenza di premi o pene oltre questa
vita.
L'opera "L'itinerario della mente verso Dio" esprime soprattutto il misticismo di
Bonaventura, ispirato a quello della Scuola di San Vittore e derivante dalla
tradizione agostiniana.
Bonaventura distingue tre facoltà della mente umana, tre tappe per salire a Dio:
1. la sensibilità, rivolta le cose esterne;
2. lo spirito, rivolto a se stesso (l'introspezione interiore);
3. la mente, rivolta al di sopra di sé, verso le idee od esemplari universali che
sono nella mente di Dio.
Attraverso queste tre facoltà l'uomo è capace di cogliere i segni di Dio che sono
nel mondo, risalendo gradualmente a Lui.
Sei sono i gradi di ascesa verso Dio:
1. la considerazione dell'ordine e della bellezza delle cose;
2. la considerazione delle cose quali sono nell'anima umana, cioè le sue facoltà
spirituali, separate dai vincoli delle cose sensibili;
3. la contemplazione dell'anima come immagine di Dio (autocoscienza), in
quanto le tre facoltà dell'anima, memoria, intelletto e volontà (amore), sono
immagine della Trinità divina;
4. la contemplazione di Dio nell'anima illuminata e perfezionata dalla fede,
dalla speranza e dalla carità;
5. la contemplazione di Dio direttamente nel suo primo attributo, che è l'essere
primo, creatore dell'essere del mondo (della realtà);
6. la contemplazione di Dio nella sua massima potenza, che è il Bene.

Ai gradi di ascesa verso Dio si può giungere con l'intelletto, attraverso la


riflessione e la meditazione. Ma perché l'anima si sollevi veramente a Dio bisogna
abbandonare la ragione, che da sola è insufficiente, ed affidarsi alla grazia
divina. Attraverso la grazia l'anima raggiunge l'estasi, definita da Bonaventura
167

come uno stato di "ignoranza dotta", nella quale si comprende l'oscurità e la vanità
dei poteri umani e si scorge il vero potere della luce divina.

Alberto Magno (1193- 1280).

Fattosi domenicano, diviene cattedratico della facoltà di teologia di Parigi ed è stato


maestro di Tommaso d'Aquino.
A differenza dell'iniziale ostilità della filosofia scolastica nei confronti
dell'aristotelismo, Alberto Magno è convinto ammiratore della filosofia e della
scienza di Aristotele, che introduce nel pensiero cristiano orientando in tal senso gli
interessi del suo illustre discepolo Tommaso d'Aquino.
Alberto Magno giudica la filosofia di Aristotele come l'opera più perfetta cui la
ragione umana sia giunta. Egli, peraltro, distingue nettamente la ricerca filosofica
dalla teologia. La filosofia deve servirsi esclusivamente della ragione e procedere
per via di dimostrazioni. La teologia invece si serve di principi ammessi per fede. La
filosofia parte dall'esperienza delle cose create; la fede va oltre la ragione e parte
dalla rivelazione divina. Ad Aristotele bisogna dare maggiore importanza in filosofia
e ad Agostino, invece, in teologia.
La conoscenza della realtà non è unica ma duplice, a seconda che si considerino
le cose del mondo, oggetto della filosofia e della scienza, o le cose della fede,
oggetto della teologia e della morale.
Notevole è stato anche l'interesse scientifico di Alberto Magno, che è stato tra i
pochissimi scrittori medioevali ad avvicinarsi ad una effettiva osservazione della
natura.
168

Tommaso d'Aquino (1225-1274).

È il maggior esponente della fase aurea della scolastica. Nasce nel 1225 a
Roccasecca, tra Lazio e Campania, da famiglia nobile. Frequenta l'università di
Napoli iniziando anche gli studi di filosofia. In particolare comincia a leggere le
opere di Aristotele, riscoperte diffuse per merito dei filosofi arabi, soprattutto
Avicenna e Averroè.
Se la filosofia di Agostino e la filosofia patristica in generale sono influenzate dalla
filosofia di Platone, la filosofia di Tommaso e la tarda Scolastica sono invece
influenzate dalla filosofia di Aristotele, adattando comunque sia la filosofia platonica
sia la filosofia aristotelica alla filosofia cristiana.
A Napoli Tommaso decide di farsi frate domenicano. Si reca poi a studiare a
Colonia, in Germania. Dal 1252 fino al 1259 è docente di teologia all'università di
Parigi. Nel 1259 fino al 1269 si trasferisce in Italia e diventa consigliere teologico
presso la Corte pontificia.
Nel 1269 torna ad insegnare all'università di Parigi, chiamato colà per risolvere
questioni teologiche che rischiavano di diventare eretiche a causa del modo in
cui il teologo Sigieri di Brabante (1240-1284), influenzato da Averroè, insegnava
la filosofia aristotelica. Sigieri di Brabante infatti sosteneva tesi ed argomenti che
contrastavano gravemente con la fede: diceva che l'anima umana non è
immortale; che non esiste il libero arbitrio; che la provvidenza divina non è
rivolta a tutti ma solo ad alcuni eletti; che il mondo non è stato creato da Dio ma
è eterno. Sigieri di Brabante affermava che tutti questi argomenti discendevano da
rigorosi ragionamenti filosofici, anche se, in base alla fede, era possibile credere il
contrario.
Insomma, Sigieri di Brabante affermava che non esiste un'unica verità ma che
esiste invece una doppia verità; è la teoria denominata appunto della doppia verità:
da una parte ci sono le verità di ragione (a cui si arriva ragionando) e dall'altra vi
sono le verità di fede (cioè quelle rivelate dalla Bibbia e da Gesù); queste due verità
possono benissimo essere in contrasto tra di esse, e ciò contrariamente al prevalente
orientamento della Scolastica che sosteneva l'accordo tra fede e ragione.
Tommaso combatte energicamente l'insegnamento di Sigieri di Brabante, al punto
che tale insegnamento viene ufficialmente condannato dall'arcivescovo di Parigi nel
1270.
Nel 1272 Tommaso lascia Parigi e ritorna presso la Corte papale. Muore nel 1274.
Opere principali: De ente et essentia (L'ente e l'essenza); Summa contra gentiles
(Summa contro i pagani); Summa theologiae (Summa teologica). Summa significa
esposizione sistematica, completa e ordinata, di un argomento o di una dottrina.

Fede e ragione.

Ai tempi di Tommaso sul rapporto tra fede e ragione vi erano due punti di vista
contrapposti:
169

1. per i seguaci della filosofia aristotelica esisteva un'unica forma di conoscenza,


cioè la conoscenza razionale, senza il bisogno di conoscenze rivelate da Dio e
accolte per fede;
2. per i francescani invece l'unica forma di conoscenza era quella della fede,
della teologia, per cui anche le verità che la ragione potrebbe giungere a
conoscere da sola non sono complete se non c'è la fede che illumina
l'intelletto.
Tommaso non accetta nessuno di questi due punti di vista. Per lui vi è invece
accordo tra fede e ragione ed anzi la ragione e la filosofia sono di aiuto alla fede
in tre modi:
1. la ragione è in grado di dimostrare i "preamboli" (=i preliminari) della
fede, ossia quelle verità che non sono oggetto di rivelazione divina ma che
sono raggiungibile mediante il solo ragionamento, come la dimostrazione
dell'immortalità dell'anima o dell'esistenza di Dio, perché non si può credere a
ciò che Dio ha rivelato se non si sa che Dio c'è; queste verità che possono
essere raggiunte con la sola ragione aiutano l'uomo ad avere fede;
2. la ragione può aiutarci a chiarire ed esemplificare i dogmi e i misteri della
fede mediante similitudini e paragoni; certamente i misteri della fede non si
possono dimostrare con la ragione, altrimenti non sarebbero più tali; essi
vanno accettate per fede; ma la ragione, se non può dimostrare questi misteri,
può dimostrare però che essi non sono irrazionali ed assurdi, che non sono
cioè contrari alla ragione;
3. la ragione può controbattere le obiezioni contro la fede, dimostrando che
sono false o che, almeno, non sono convincenti.
Inoltre, dice Tommaso come del resto altri filosofi scolastici, poiché sia la ragione
che la rivelazione (la fede) derivano entrambe da Dio, allora non possono essere in
contrasto fra di esse perché Dio non ci vuole ingannare. Non ci può essere una
doppia verità, come sosteneva Sigieri di Brabante, cioè una verità di ragione in
contrasto con la verità di fede. Se la ragione arrivasse ad affermazioni in contrasto
con la fede, non vuol dire che c'è contrasto tra ragione e fede, ma semplicemente che
quel certo particolare al ragionamento è sbagliato, per cui la ragione stessa è in grado
di capire il suo errore e correggersi, giungendo all'accordo con la fede.

La teologia è scienza della fede.

Fino al XIII secolo la teologia non è mai stata considerata come una scienza, perché
basata soprattutto sulla fede e sulla rivelazione divina e non sulla conoscenza
razionale.
Tommaso invece afferma che anche la teologia può essere considerata una vera
scienza.
Le altre scienze partono da principi primi i quali o sono assolutamente evidenti per la
ragione, come i principi della logica o i postulati della matematica, oppure sono
derivati da altre scienze, come i principi della fisica che sono derivati dall'aritmetica
e dalla geometria. Quindi le altre scienze, partendo da questi principi primi,
170

procedono per conseguenti dimostrazioni delle loro teorie. Ma è così anche per la
teologia. Essa, come la fisica, ricava i suoi principi primi da un'altra scienza, ossia
dalla rivelazione che è la scienza di Dio, e poi, partendo da tali principi primi, anche
la teologia procede attraverso ragionamenti e dimostrazioni, utilizzando i medesimi
strumenti e metodi di tutte le altre scienze.

La metafisica: ente, essenza ed esistenza.

Il primo concetto che l'intelletto concepisce, pensa, è quello di "ente", ossia di


qualche cosa che è, che esiste (dal latino "ens"= che è) e tale concetto precede tutti
gli altri.
Tommaso distingue tra:
1. ente logico, che consiste in quella parte del linguaggio che è la proposizione,
formata da soggetto e predicato, tenendo presente peraltro che non tutte le
proposizioni corrispondono alla realtà (ad esempio, "quel cavallo è alato");
2. ente reale, che sono le cose reali, presenti nella realtà, classificabili secondo le
dieci categorie enumerate da Aristotele (ogni cosa ha una sua propria sostanza,
qualità, quantità, relazione, luogo, stato di moto o di quiete, ecc.).
Per ogni ente reale Tommaso distingue inoltre tra essenza dell'ente ed esistenza
dell'ente.
L'essenza dell'ente, che Tommaso chiama anche "natura", indica "il che cosa è una
cosa", la sua "quiddità", riguarda cioè la definizione dell'ente che si considera, che
caratterizza quell'ente e lo distingue da ogni altro. Essa è costituita dalla pura forma
per gli enti immateriali (Dio e gli angeli), mentre è costituita dalla forma e dalla
materia per le cose corporee: ad esempio "una statua (forma) di marmo (materia)";
oppure "l'essenza, o forma dell'uomo (forma ed essenza sono sinonimi), è quella di
animale razionale", ove si nota che, in tale esempio, è compresa non solo la forma,
cioè la razionalità, ma anche la materia, cioè l'animalità umana.
L'esistenza dell'ente, o l'essere dell'ente, è invece l'effettiva esistenza di fatto di
quell'ente, è il suo essere in atto.
L'essenza ha per oggetto i concetti, i pensieri, e non implica necessariamente
l'esistenza del concetto pensato, come ad esempio il concetto o il pensiero di un
cavallo alato.
Solo in Dio, che è Essere primo e necessario (è Essere primo perché sopra di lui non
c'è nessun altro essere; è Essere necessario poiché, se c'è il mondo, Dio è Essere
necessario della sua creazione), essenza ed esistenza coincidono. Infatti la sua
essenza è, in particolare, quella di essere causa prima, creatore di tutta la realtà, e
pertanto ricomprende anche l'esistenza perché, se Dio non esistesse, non ci sarebbe
neppure il mondo creato da Dio.
Le cose finite invece, ossia le cose del mondo, non esistono necessariamente; sono
contingenti (possono esserci o no), ma per esistere hanno bisogno di Dio che
conferisca loro l'esistenza, che le crei.
Tommaso, dicendo che l'essenza di Dio implica necessariamente anche la sua
esistenza, non accoglie con ciò la prova ontologica dell'esistenza di Dio formulata
171

da Sant'Anselmo d'Aosta. Per Tommaso la dimostrazione dell'esistenza di Dio può


essere solo a posteriori, partendo cioè dal mondo e dalle cose da lui create, in
quanto tali posteriori a Dio, per poi risalire da esse, cioè dagli effetti, alla loro prima
causa, cioè a Dio creatore. Tommaso non può accettare la prova ontologica, che è a
priori, perché si basa solo sul concetto di Dio, ma in quanto concetto è un ente logico
e non un ente reale e, come già da Tommaso sostenuto, non sempre gli enti logici
esistono realmente. Però, una volta che sia stata dimostrata a posteriori
l'esistenza di Dio come causa prima e creatore del mondo, risulta del tutto
evidente che la sua esistenza coincide con la sua essenza di creatore, ossia di
colui che dona l'essere (l'esistenza) a tutte le cose finite del mondo.
Dio è quindi l'Essere, l'Essere supremo, mentre il mondo e le cose del mondo non
sono l'essere ma hanno l'essere ossia ricevono il loro essere da Dio. Infatti, a
differenza di Dio, l'essenza delle cose finite non implica necessariamente anche la
loro esistenza, poiché l'essenza delle cose finite è la semplice possibilità di essere (di
esistere), ossia è potenza e non atto.
Mentre per Aristotele il divenire delle cose (il loro nascere, trasformarsi e perire) è
sempre passaggio dalla potenza all'atto, e quindi ogni cosa (ogni essere) è di volta
in volta sia in potenza sia in atto (cioè ogni cosa, ogni essere, possiede in sé sia la
potenza sia l'atto), per Tommaso invece gli esseri finiti, per passare dalla potenza
all'atto, ossia dalla possibilità di esistere all'esistenza effettiva, hanno bisogno
dell'intervento creativo di un altro essere, ossia dell'Essere supremo, Dio, che è
causa prima perché non riceva a sua volta la propria esistenza ed essenza da
nient'altro di superiore a Lui.
La distinzione fra essenza ed esistenza negli enti reali è un fondamentale
adeguamento della filosofia di Aristotele operato da Tommaso per accordarla con
la concezione cristiana della creazione del mondo da parte di Dio. Infatti per
Aristotele le specie (l'uomo, il cavallo, la pecora) e i generi (i minerali, le piante, gli
animali) sono eterni, così come eterna è la materia informe del mondo; quindi per
Aristotele sono eterne anche le loro forme o essenze. In quanto elementi tutti eterni,
Aristotele esclude dunque la creazione (si rammenta che la forma o essenza di una
cosa è quella qualità che si comprende solo con l'intelletto e non si conosce
attraverso i sensi ed è perciò chiamata l’"intellegibile" (il contrario di sensibile) che
consente di distinguere quella certa cosa, quella specie o quel genere, da tutti gli
altri).
In altri termini, Aristotele si interessa solo delle categorie, ossia dei vari modi
dell'essere, cioè dei vari modi in cui le cose possono consistere (fatte di una certa
sostanza, di una certa quantità, qualità, relazione di causa-effetto, ecc.), ma non si
interessa di come le varie cose giungano ad esistere poiché, appunto, considera
eterni i loro generi e le loro specie, escludendo pertanto la creazione. Tommaso
invece, distinguendo tra essenza ed esistenza, riconosce che solo le essenze degli enti
reali, cioè delle cose finite, sono eterne come afferma anche Aristotele, in quanto le
essenze sono i concetti, le idee, i modelli eterni presenti nella mente di Dio in base a
cui ha creato le cose. Però il passaggio dai concetti, ossia dalle essenze (che sono
172

soltanto possibilità di essere), all'esistenza effettiva delle cose non può che essere
opera della libera e volontaria creazione di Dio.
Concependo la creazione del mondo come atto libero e volontario di Dio, Tommaso
respinge con ciò la concezione secondo cui la creazione del mondo è atto necessario
di Dio, nel senso che Dio non poteva fare meno di creare il mondo poiché in qualche
modo costretto a farlo per realizzare in pieno la sua perfezione, derivandosi in tal
senso che il mondo è allora coeterno a Dio. Respinge altresì la concezione secondo
cui l'origine del mondo è conseguenza dell'emanazione divina, come sosteneva
Plotino. Infatti, poiché l'emanazione è un processo meccanico, automatico ed
involontario da parte di Dio, finisce anch'essa per coincidere col precedente
concetto di creazione necessaria, nel senso che Dio non può fare a meno del mondo,
perdendo altrimenti la propria onnipotenza o, meglio, la sua sovrabbondanza. Che il
mondo sia stato liberamente creato da Dio non significa però che, come riteneva
Bonaventura, esso abbia necessariamente avuto inizio nel tempo. Non è
inconcepibile secondo Tommaso che la creazione sia stata compiuta fin dall'eternità,
che sia coeterna a Dio. Infatti, se la creazione del mondo è opera non solo della
libera volontà ma anche della bontà di Dio, pure essa eterna in Dio, può essere
benissimo, allora, che il mondo sia coeterno a Dio stesso. Per Tommaso insomma la
questione dell'eternità o meno del mondo non può essere risolta mediante
dimostrazione razionale ma può trovare invece risposta nella Bibbia, la quale
afferma che la creazione non esiste da sempre. Su tale punto la fede integra quindi
la semplice ragione naturale umana, incapace di decidere per l'una o l'altra tesi.

Il principio della partecipazione e della analogia degli esseri.

Dire che gli esseri (le cose) finiti sono stati creati da Dio significa dire che Dio ha
trasmesso e partecipato ad essi l'esistenza. Gli essere finiti hanno cioè la loro
esistenza per partecipazione (=ricevere in parte qualcosa –ossia l'esistenza- che
appartiene globalmente, nella sua interezza, ad un altro, cioè a Dio). Dio solo è
l'Essere per essenza, l'Essere pieno. Anche le cose finite sono esseri, ma non sono
esseri pieni, sono soltanto esseri per partecipazione, nel senso che possiedono solo
una parte dell'essere, che Dio invece possiede totalmente.
Gli esseri creati da Dio, in quanto esistenti, sono simili a Dio poiché anch'essi
possiedono l'esistenza come Dio. Ma Dio non è simile ad essi. Il rapporto fra Dio
e le sue creature non è cioè un rapporto di uguaglianza bensì di analogia.
Analogia significa essere in parte simili ed in parte diversi. Infatti le creature
hanno l'esistenza similmente a Dio, ma la loro esistenza è di grado enormemente
inferiore poiché è un esistenza finita e non infinita.
Con il principio della partecipazione e della analogia degli esseri finiti Tommaso
vuole affermare l'assoluta trascendenza di Dio (trascendente=che è distinto e al di
sopra) rispetto al mondo e agli uomini, contro ogni forma di panteismo,
concezione quest'ultima secondo cui Dio non è distinto e al di sopra del mondo e
degli uomini ma è diffuso dentro il mondo per cui tutte le cose sono divine.
173

I tre trascendentali ed il primato metafisico (filosofico) dell'essere sull’ essenza.

Il concetto di essenza, intesa come possibilità di essere, è importante nella filosofia


di Tommaso ma lo è ancora di più quello di essere, per cui la filosofia di Tommaso è
soprattutto una filosofia dell'essere piuttosto che una filosofia delle essenze o delle
forme come invece in Aristotele. In questo senso si parla di primato dell'essere
sull'essenza. L'essere è posseduto da Dio in forma originaria e piena, mentre è
posseduto dalle creature solo in forma derivata o per partecipazione. Prima di avere
l'essere, l'essenza è un puro nulla, una semplice possibilità.
La concezione del primato dell'essere sull'essenza è del tutto nuova rispetto alla
filosofia metafisica e all'ontologia (=scienza dell'essere, della realtà) greca e
aristotelica in particolare. Come abbiamo visto, la metafisica greca e aristotelica si
interessava soprattutto delle essenze, ossia delle forme, delle categorie, cioè dei vari
modi dell'essere, dei vari modi in cui le cose consistono (sostanza, qualità, quantità,
relazione, ecc.). Tommaso si interessa invece, in primo luogo, non delle essenze ma
dell'essere: Che cos'è l'essere? Come le cose vengono ad esistere? Perché c'è
l'essere anziché il nulla? Domanda quest'ultima che si sono posti anche importanti
filosofi successivi come Leibniz, Shelling, Heidegger, Wittgenstein.
Per Tommaso è lo stupore e la meraviglia davanti al mistero dell'essere, per cui noi
veniamo all'esistenza dal nulla, che costituisce il problema principale, mentre la
descrizione dei vari modi dell'essere attraverso le dieci categorie è problema
secondario. Pertanto, rispetto alle categorie, Tommaso ritiene prioritario descrivere
quelli che lui chiama i "trascendentali", che sono le proprietà, le caratteristiche che
contraddistinguono l'essere in quanto tale (e non i suoi modi o categorie), i quali
trascendono (=superano, vengono prima) le categorie stesse: da ciò, appunto, il
nome di trascendentali.
Tre sono per Tommaso i trascendentali fondamentali: l'Uno; il Vero; il Bene (o il
Buono).
L'Uno. Ogni ente è uno, cioè unico, unitario in sé, indiviso e distinto da ogni altro
ente. (Ad esempio "questo cavallo qui", ossia questo essere esistente che è questo
cavallo qui, che è uno solo, solo questo, distinto da ogni altro cavallo e da ogni altra
cosa). L'uno, l'unitarietà è il primo carattere dell'essere, di ogni essere.
Il Vero. Poiché ogni ente (ogni cosa) è stato progettato e creato da Dio, allora ogni
ente è anche vero, nel senso che risulta comprensibile e razionale, cioè in grado di
essere compreso dalla ragione. Per Aristotele la metafisica non si occupa del vero e
del falso perché, secondo lui, essi sono invece oggetto della logica. Infatti, dice
Aristotele, il vero o il falso non stanno nelle cose o nella proposizione. Ogni cosa in
sé può essere vera o falsa; solo nella proposizione, quando cioè si collega un
predicato ad un soggetto, ad esempio "Giorgio è alto", si può ricavare la verità o
falsità di quanto affermato verificando se corrisponde o no alla realtà. Ma
"Giorgio" in sé e "alto" in sé non sono né veri e falsi. Tommaso ritiene invece che
anche la metafisica si debba occupare della verità, del vero o del falso, perché il
mondo e le singole creature derivano dal progetto divino. Certamente anche
Tommaso concorda con Aristotele nel dire che del singolo ente in sé, al di fuori di
174

una proposizione, non si può dire se è vero o falso, però ogni ente deve essere in sé
comunque comprensibile, in grado di essere compreso dalla ragione. In ciò sta il
vero di ogni ente, che è il secondo trascendentale dell'essere. Ogni ente, inoltre, è
più o meno vero secondo il grado di essere che possiede. La verità di ogni ente,
prima che essere scientifica o logica come per Aristotele, deve anzitutto essere, per
Tommaso, metafisica e teologica. In questo senso Dio è la somma verità perché è il
sommo essere. Gli esseri finiti sono più o meno veri a seconda se partecipano di più
o di meno all'essere divino, a Dio. Sono più veri gli enti che corrispondono al
progetto e alla finalità di Dio che li ha creati. Sono meno veri, falsi e infedeli, quegli
enti che, come certi uomini, non osservano e tradiscono il volere di Dio. Insomma
per Tommaso la verità dell'ente non è quella logico-scientifica, ma consiste nel
rispettare i fini divini.
Il Bene. Ogni ente è stato creato da Dio per amore, quindi ogni ente è bene e buono.
Per il solo fatto di esistere ogni cosa è un bene perché già è un bene l'esistenza in sé
donata da Dio. In quanto buono, ogni ente va amato e rispettato, secondo il
comandamento divino che dice di amare il prossimo e tutte le creature di Dio (non
solo gli uomini ma anche gli animali, le piante, la terra, l'ambiente: oggi si direbbe
l'ecologia).
Il primo trascendentale, l'essere, prevale comunque sugli altri due: l'uno prevale
rispetto al vero e al bene. Tant'è che la verità e la bontà di un ente dipendono dal
grado di essere che esso possiede. Ciò non significa tuttavia che il vero il bene siano
separabili dall'essere: sono anch'essi insisti nell'essere stesso. Per Tommaso non c'è
nulla nell'essere che non sia anche vero e buono.
Da questa teoria dei trascendentali, secondo cui ogni ente è unico, con un suo
proprio grado di perfezione, ed è inoltre sia vero che buono, deriva una delle più
radicali forme di ottimismo metafisico della storia, da Tommaso espressa.

Le cinque prove o "vie" dell'esistenza di Dio.

Abbiamo visto che per Tommaso l'essenza divina, che implica anche l'esistenza, non
ci è nota a priori perché la conoscenza umana comincia dai sensi. Perciò egli non
accoglie la prova ontologica a priori dell'esistenza di Dio di Anselmo d'Aosta. Per
Tommaso la dimostrazione dell'esistenza di Dio non può essere che a posteriori,
partendo cioè dei sensi, dall'esperienza del mondo e delle cose del mondo, che sono
appunto posteriori a Dio, e risalendo quindi a Dio stesso come loro causa, vale a dire
partendo dagli effetti per conoscerne la causa. Solo dopo aver dimostrato a posteriori
l'esistenza di Dio diventa allora possibile conoscere anche la sua essenza. Tommaso
condivide come Anselmo d'Aosta il concetto di Dio come "colui del quale non si può
pensare nulla di maggiore", però, dichiara Tommaso, non consegue necessariamente
che un concetto presente nell'intelletto sussista anche nella realtà. Ecco perché la
dimostrazione dell'esistenza di Dio deve essere a posteriori.
Tommaso fornisce cinque prove a posteriori dell'esistenza di Dio, chiamate
cinque "vie", tutte tratte in modo vario dalla cosmologia (=filosofia sul cosmo,
sull'universo) di Aristotele.
175

1. La prova del movimento (ex motu). Parte dalla constatazione empirica che
tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa d'altro. Ma nell'individuare la
catena (la serie) delle cause del movimento delle cose non si può procedere
all'infinito. Ci deve essere una causa prima del movimento che fa muovere le
cose senza essere mossa a sua volta: ci deve essere cioè un primo motore
immobile e questo è Dio. Infatti non è possibile che le cose sensibili siano al
tempo stesso in atto e in potenza, che siano cioè sia l’effetto che,
contemporaneamente, la causa del loro movimento.
2. La prova causale (ex causa). Nella serie delle cause efficienti dei vari
fenomeni non si può risalire all'infinito. Nessuna cosa può essere effetto di se
stessa, perché ciò che produce un effetto deve esistere prima di questo. Perciò
deve esistere una causa prima di tutte le cose che non sia a sua volta effetto di
un'altra causa e questa causa prima è Dio.
3. La prova della contingenza (ex possibili et necessario), cioè del rapporto tra
ciò che è contingente (=possibile) e ciò che è necessario. Le cose possibili
esistono perché sono l'effetto di una cosa necessaria che le fa necessariamente
esistere. Ma anche qui non è possibile procedere all'infinito, bisogna per forza
che ci sia una cosa necessaria in sé, quale causa dell'esistenza delle cose
contingenti, senza che essa sia stata fatta esistere da un'altra cosa pure
necessaria. Questa prima cosa necessaria, che spiega l’esistenza delle altre
cose contingenti, è Dio.
4. La prova dei gradi di perfezione (ex gradu). Fra le cose ve ne sono di più o
meno vere, buone e perfette. Vi deve essere allora un ente assolutamente
perfetto rispetto al quale misurare e distinguere i diversi gradi di perfezione
delle altre cose. Questo ente assolutamente perfetto è Dio.
5. La prova del finalismo (ex fine). Nel mondo vi sono cose che, pur essendo
sprovviste di intelligenza, appaiono tuttavia dirette ad un fine, ad uno scopo, e
ciò non potrebbe essere se non fossero guidate da un essere dotato di
un'intelligenza suprema: questo essere è Dio.

Gli attributi (=le proprietà) di Dio e il rapporto di analogia fra le creature e Dio.

Le cinque prove a posteriori dell'esistenza di Dio di Tommaso vogliono dunque


farci conoscere che Dio, nel complesso, è: motore immobile; causa prima; essere
necessario; perfezione somma; intelligenza suprema e ordinatrice delle cose in senso
finalistico. Ci fanno conoscere insomma i principali attributi dell'essenza di Dio,
essenza che, altrimenti, non potrebbe essere conosciuta a priori.
Procedendo sempre a posteriori, la ragione umana può giungere a scoprire altri
attributi di Dio attraverso due vie:
1. per via negativa, scoprendo ciò che Dio non è; in particolare affermando che
Dio non possiede le imperfezioni delle creature: non è essere finito, non è
ingiusto, non è crudele, non è ignorante, ecc.;
176

2. per via positiva, attribuendo a Dio in grado massimo le diverse qualità delle
creature: Dio è sommamente giusto, sommamente buono, sommamente
sapiente, infinito, eterno, ecc.
Poiché tali qualità sono attribuite a Dio in grado massimo, allora fra gli attributi o
qualità delle creature e quelli di Dio non c'è univocità, ossia non sono attributi di
ugual grado, e dunque non c'è panteismo, ma neppure c'è equivocità, cioè gli
attributi di Dio non sono diversi in assoluto da quelli delle creature, semmai sono di
grado massimo e quindi non c'è sfiducia e scetticismo nei confronti delle creature
(non si può dire che non valgono niente). Fra gli attributi di Dio e quelli delle
creature non c'è univocità né equivocità ma c'è analogia, ossia sono in parte simili
ed in parte dissimili.
Con la teoria dell'analogia fra le creature e Dio Tommaso intende valorizzare
anche il creato e le creature contro chi pensa che il mondo e la vita terrena non
valgano niente, ma che valga solo la vita ultraterrena.

La teoria della conoscenza.

Ricalca in buona parte quella di Aristotele, con una rilevante differenza.


Come per Aristotele, anche per Tommaso il primo grado della conoscenza è
costituito dalle sensazioni. La conoscenza comincia dai sensi. I sensi sono una
potenza ricettiva di tutte le forme sensibili, ossia sono capaci di ricevere sensazioni
da tutti gli oggetti materiali con cui entrano in contatto.
Il secondo grado di conoscenza è quello dell'intelletto. Esso è una potenza ricettiva
di tutte le forme intellegibili, ossia è capace di ricevere i concetti e i pensieri, che di
per sé sono immateriali. L'intelletto ricava dalle immagini sensibili delle cose le loro
forme o essenze, ossia i concetti delle cose, mediante un processo di astrazione,
astraendo e prescindendo dagli aspetti materiali delle cose stesse per coglierne,
appunto, il concetto, di per sé immateriale (i concetti non si vedono e non si
toccano).
A questo punto, anche Tommaso esprime la propria opinione in merito alla disputa
sugli "universali". Per Tommaso, come per Aristotele, le forme delle cose, ossia i
loro concetti o idee, non sono separate dalle cose stesse come le idee di Platone,
ma sono unite alle cose, sono dentro le cose; sono la sostanza o sostrato delle cose.
E sono proprio i concetti, le forme delle cose, che consentono di distinguere i generi
e le specie delle cose stesse nonché l’essenza di ogni cosa, consentendo di
riconoscerla anche se il suo aspetto materiale, esteriore, cambia: le cose cambiano
ma non la loro forma, il loro concetto. Ad esempio gli uomini cambiano (prima sono
giovani e poi vecchi) ma il concetto, l'essenza o forma di uomo, che è di "animale
razionale" non cambia. Dunque per Tommaso l'universale, ossia il concetto, non
esiste fuori dalle cose singole (dai singoli individui) ma solo dentro di esse; è "in
re" come forma o essenza delle cose: realismo moderato. Nell'intelletto invece, a
seguito del processo di astrazione intellettiva, l'universale è "post rem" (dopo le
cose, cioè dopo averne fatto esperienza). Ma l'universale, e in ciò Tommaso si
177

differenzia da Aristotele, è anche "ante rem" (prima delle cose). Preesiste nella
mente divina come principio, modello o idea, delle cose create, mentre per Aristotele
l'universale è forma eterna di per sé e, come tale, è sempre "in re" e mai anche "ante
rem".
L'intelletto umano è in sé un intelletto finito, che non conosce in atto, in un colpo
solo, tutti gli intellegibili, cioè tutti i concetti. Esso è un intelletto solo in potenza,
che possiede solo la possibilità di conoscere gli intelligibili: è soltanto un intelletto
passivo. Ma poiché, come anche per Aristotele, "nulla passa dalla potenza all'atto se
non per opera di ciò che è già in atto", la possibilità di conoscere che è propria
dell'intelletto passivo umano avviene grazie all'azione e all'intervento di un intelletto
attivo, o agente, il quale, agendo come la luce che rende visibili i colori, fa passare
all'atto gli intellegibili (i concetti), astraendoli dalle cose materiali. Però,
differenziandosi ulteriormente da Aristotele e soprattutto da Averroè, per
Tommaso l'intelletto attivo non è separato ma unito all'intelletto passivo
dell'anima umana. Infatti, argomenta Tommaso, se l'intelletto attivo fosse separato
dall'uomo, dalla sua anima, non sarebbe l'uomo ad intendere e a trasformare in
concetti le sensazioni ricevute, bensì il preteso intelletto attivo. L'intelletto attivo
dunque non è unico e generale, uno solo per tutti gli uomini e separato dalle singole
anime umane, come affermava la filosofia aristotelica e averroistica. Tommaso
respinge la tesi dell'unicità dell'intelletto attivo e sostiene che vi sono tanti intelletti
attivi quante sono le anime umane. In tal modo Tommaso salva la concezione
cristiana dell'immortalità dell'anima individuale poiché, altrimenti, se l'anima
possedesse solo l'intelletto passivo, che è potenza, cioè materia, essa sarebbe
solamente anima vegetativa e sensitiva e morirebbe con la morte del corpo.
L'intelletto attivo, unito a quello passivo e alla singola anima individuale, coglie per
astrazione le forme, le essenze, che sono nelle singole cose. Perciò vi è
corrispondenza tra l'intelletto e la cosa. La verità infatti, dice Tommaso, è
l'adeguazione (la corrispondenza) reciproca dell'intelletto e della cosa (adaequatio
intellectus et rei). L'intelletto passivo di per sé non contiene forme innate ma come
intelletto attivo è capace di intenderle. L'intelletto è di per sé vuoto ma esso è, per
sua natura ed intenzionalmente, sempre rivolto a qualche cosa di cui cogliere la
forma per intendere la cosa stessa. Anche Tommaso, dunque, riprende la teoria
della "intenzionalità dell'intelletto o coscienza".
Vi è peraltro una radicale differenza fra l'intelletto divino e quello umano. Dio
comprende ogni cosa mediante un atto di intuizione diretta e globale; in un solo atto
egli comprende e, volendo, crea contemporaneamente l'essenza di tutte le cose. Si
comprende una cosa quando se ne comprende l'essenza, cioè la forma, il concetto.
L'intelletto umano invece non raggiunge con un solo ed unico atto la comprensione
perfetta e completa delle cose. Di una cosa esso intende dapprima qualche elemento,
per esempio l'essenza, o forma o sostanza, di quella cosa, che è l'oggetto
fondamentale e primo dell'intelletto, e poi passa a comprendere le proprietà
secondarie e gli accidenti di tale cosa (grande o piccola, colorata o no, piacevole o
sgradevole, ecc.). A differenza della conoscenza divina che ha carattere
immediatamente e globalmente intuitivo, che cioè si compie tutta in un colpo solo,
178

la conoscenza umana ha invece carattere discorsivo, ossia si svolge per atti, per
momenti graduali e successivi di divisione, vale a dire di analisi, scomponendo gli
elementi che costituiscono una certa cosa, e poi di composizione, vale a dire di
sintesi, riunificando gli elementi scomposti (e perciò conosciuti in modo migliore
nelle loro singole parti) per giungere ad una conoscenza complessiva più idonea di
quella cosa). La divisione e composizione, ossia l’analisi e la sintesi dei fenomeni,
delle cose che si vogliono conoscere, viene espressa mediante proposizioni
affermative o negative. Questo procedere per gradi (momenti) successivi
dell'intelletto è il ragionamento, per cui la conoscenza e la scienza che ne deriva
è conoscenza e scienza discorsiva (=che procede gradualmente per analisi e sintesi).

L'anima.

Abbiamo visto che per Aristotele:


1. l'anima è forma sostanziale del corpo, ossia dà movimento, anima il corpo;
2. l'anima individuale, costituita da quella vegetativa, da quella sensitiva e
dall'intelletto passivo, non è immortale;
3. immortale è solo l'intelletto attivo, uno solo per tutti gli uomini, il quale è
distinto e separato dal corpo, congiungendosi ad esso in modo provvisorio.
Ovviamente, questa è una concezione contrastante con quella cristiana
dell'immortalità dell'anima individuale. Tant'è vero che Agostino ha invece
concepito l'anima come sostanza spirituale, ossia immateriale, e perciò incorruttibile,
non destinata a perire.
Anche Tommaso, adeguando l'aristotelismo alla dottrina cristiana, afferma che
l'anima non è soltanto forma del corpo ma possiede un suo essere proprio, una
sua essenza, che non riceve né dal corpo né dalla sua unione con il corpo ma
direttamente da Dio. L'anima è quindi sostanza sussistente per se stessa; l'anima
intellettiva, dichiarata da Tommaso unita e non separata dal corpo, ha cioè natura
(sostanza) autonoma ed incorporea e ciò per tre ragioni:
1. per la sua capacità di conoscere tutti i corpi, il che non avverrebbe se essa
fosse un corpo;
2. per la sua capacità di cogliere le realtà immateriali e i concetti universali;
3. per la sua capacità di configurarsi come autocoscienza.
Pertanto, in quanto forma pura o sostanza autonoma, l'anima è immortale. Infatti
noi diciamo che qualcosa si corrompe quando la materia di cui è costituita perde la
sua forma per acquistarne un'altra. Ma l'anima, poiché è forma pura ed immateriale,
non può corrompersi e dunque sopravvive alla morte del corpo.
A questo punto la domanda è: come può l'anima, dopo la sua separazione dal
corpo, conservare quell’individualità che le viene appunto dal corpo? Tommaso
risponde che l'anima intellettiva è sì unita al corpo ma, poiché essa possiede pure una
sua essenza immateriale ricevuta da Dio, tale essenza permane anche dopo la morte
del corpo, conservando le proprie caratteristiche di individualità. Ciò consentirà ad
179

ogni anima, nel giorno della resurrezione dei corpi, di reincarnarsi nel corpo a cui era
unita.

L'etica.

Nel campo dell’etica Tommaso tratta del fine dell’uomo, del libero arbitrio, del
male nel mondo e della virtù.
Per Tommaso l'agire segue l'essere (agere seqitur esse) poiché vi è correlazione fra
la natura di un ente e il suo modo di agire (quale il modo di essere, tale il modo di
operare). Ora, poiché l'essere dell'uomo è quello di creatura di Dio, egli non potrà
fare a meno di tendere al Creatore, causa prima e fine ultimo di tutte le cose. Infatti
molti filosofi hanno affermato che il fine cui tende l'uomo è la felicità, ma questa
non può consistere in qualche bene finito (ricchezze, fama, potere) né soltanto nel
sapere, come per Aristotele; essa consiste invece nella contemplazione di Dio, che è
il fine dell'uomo benché raggiungibile dopo la morte. In Tommaso abbiamo quindi un
fondamento onto-teologico dell'etica, ossia un sistema morale per cui l'essere (la
naturale tendenza umana) è la norma dell'agire e Dio, l'Essere per eccellenza, è il fine
ultimo del nostro operare.
Abbiamo visto, anche in relazione alle prove dell'esistenza di Dio, che ogni cosa e
l'uomo stesso, per Tommaso, sono soggetti alla Provvidenza e al governo divino.
Ma ciò per Tommaso non esclude la libertà dell'uomo, il libero arbitrio, perché la
libertà umana è voluta dalla stessa provvidenza divina e la predestinazione alla
beatitudine eterna non priva l'uomo di tale libertà. E’ vero che l'uomo non può
giungere alla beatitudine con le sue sole forze naturali e quindi deve essere
indirizzato da Dio tramite la grazia. Ma con ciò Dio non necessita, non obbliga
l'uomo, perché fa parte della predestinazione che l'uomo liberamente si indirizzi o
meno alla beatitudine. Nemmeno la prescienza divina impedisce l'esercizio del libero
arbitrio. Ovviamente Dio vede e prevede tutte le azioni che saranno compiute dagli
uomini, ma col vederle non toglie ad esse la libertà: Dio vede tutte le azioni future
degli uomini lasciandole tuttavia alla libera scelta umana, sia essa rivolta verso il
bene o verso il male. In quanto creatura privilegiata, fatta ad immagine e somiglianza
di Dio, Dio intende preservare la dignità e la responsabilità dell'uomo donandogli il
libero arbitrio, anche se esso può esprimersi contro il Creatore. Del resto, se non vi
fosse libera scelta non vi sarebbe nemmeno merito alcuno nell'agire umano. Certo, se
l'intelletto umano fosse in grado di pervenire alla visione beatifica di Dio, la volontà
umana non potrebbe non volere il raggiungimento di tale fine. Ma ciò non è possibile
quaggiù. Nella vita terrena l'intelletto conosce solo il bene e il male di cose e di azioni
che non sono Dio e pertanto la volontà è libera di volerle o non volerle.
Proprio nel libero arbitrio Tommaso vede la radice, la causa del male nel
mondo. Anche Tommaso condivide la dottrina platonico-agostiniana secondo cui
il Male in sé, il Male metafisico, non esiste, essendo esso, piuttosto, mancanza del
bene. Dio non può essere creatore anche del Male, inteso come forza maligna
immessa nel mondo, poiché ciò sarebbe in contraddizione con l'attributo della bontà
180

divina. La presenza di spiriti demoniaci non è opera di Dio bensì di una libera scelta
contraria a Dio operata dai démoni medesimi, pure ai quali Dio ha concesso il libero
arbitrio. Invece tutte le cose che esistono, già per il solo fatto di esistere, sono un bene
secondo il grado di essere di ogni cosa. Ma poiché l'ordine del mondo richiede la
sussistenza anche dei gradi inferiori dell'essere e del bene, derivano allora da
esso due specie di mali: la pena e la colpa.
La pena è il male fisico, che discende dalla natura delle cose del mondo, che sono
finite e imperfette e quindi non possiedono quella perfezione somma che è solo di
Dio. Del resto il creato non può essere costituito da una perfezione pari a quella
divina perché, in tal caso, sarebbe un doppione di Dio, il che è assurdo, un
controsenso.
La colpa è il male morale, è il peccato commesso dagli uomini, che consiste nel
contravvenire l'ordine della ragione e della legge divina. Mentre la pena, dunque, è la
condizione naturale delle cose, del mondo e degli uomini in quanto esseri finiti, il
vero male è la colpa, che la Provvidenza cerca di eliminare o correggere con la pena.
L'uomo non è privo della capacità di scorgere il bene e di tendere al bene, essendo
l'idea del bene impressa nella sua anima. Così come nell'uomo c'è una disposizione
naturale a cogliere i principi della conoscenza, vi è in lui anche una naturale
disposizione a comprendere i principi pratici dell'azione morale. Tale disposizione
che ci dirige al bene è la "sinderesi", già vista in Bonaventura da Bagnoregio, da
intendersi come conoscenza innata di ciò che è bene e di ciò che è male. Ma
comprendere non significa ancora agire. L'uomo, proprio perché è libero, pecca
quando deliberatamente infrange quelle leggi universali che la ragione gli fa
conoscere e che la legge di Dio gli rivela.
Su questa disposizione naturale dell'intelletto pratico (morale) sono fondate le virtù.
Gli esseri naturali (gli animali) sono determinati dall’istinto ad agire in un unico
modo; non hanno libertà di scelta. Gli esseri razionali invece, ossia gli uomini, non
sono determinati in un unico senso: possono agire in più sensi secondo la loro libera
scelta. Quando la scelta che l'uomo assume è quella di vivere rettamente e di
rifuggire dal male, egli pratica allora la virtù.
Come Aristotele, Tommaso distingue tra virtù intellettuali e virtù morali. Le
principali virtù morali, chiamate anche virtù cardinali, sono la giustizia, la
temperanza, la prudenza, la fortezza. Le virtù intellettuali e morali sono virtù
umane: esse conducono alla felicità che l'uomo può conseguire in questa vita con
le sue sole forze naturali. Ma per conseguire la beatitudine eterna queste virtù non
bastano; sono necessarie le virtù teologiche, direttamente infuse da Dio nell'uomo, e
cioè la fede, la speranza e la carità.

Diritto e politica.

Tommaso pone a fondamento della sua concezione politica la teoria del diritto
naturale, una delle maggiori eredità dello stoicismo ed assunta a base dello stesso
diritto canonico.
181

Tommaso distingue quattro tipi di leggi:


1. la legge eterna, che è la ragione che governa tutto l'universo e che esiste nella
mente divina; è il piano razionale di Dio, l'ordine dell'universo intero nel quale
opera la Provvidenza divina;
2. la legge naturale, o legge di natura, che si trova negli uomini ed è un riflesso
della legge eterna; la legge naturale deriva dalla razionalità della natura umana:
quindi non va confusa con l'istinto naturale; consiste in tre fondamentali
inclinazioni naturalmente possedute dall'uomo e suscitate in lui dalla sua
stessa razionalità: 1) l'inclinazione verso il bene naturale, che l'uomo condivide
con qualsiasi altra sostanza o ente, e che consiste nel desiderio e nel diritto alla
propria conservazione; 2) l'inclinazione, tipica di ogni specie, ad atti
determinati, come la riproduzione e l'educazione dei figli che la natura ha
insegnato a tutti gli animali; 3) l'inclinazione, più propria della razionalità
umana, a conoscere la verità, a vivere in società, ecc.;
3. la legge umana, ossia la legge giuridica, il diritto positivo, vale a dire la legge
scritta e posta dall'uomo; suo scopo è di dissuadere i singoli dalle ingiustizie;
però tutte le leggi positive devono fondarsi sulla legge naturale; la legge
umana deriva dalla legge naturale in due modi: 1) per deduzione (ius gentium)
e per specificazione di norme più particolari (ius civile); le leggi positive che
non derivano dalla legge naturale non sono leggi giuste; le leggi positive
hanno il diritto di imporsi come obbligatorie ma solo quando sia necessario
"per evitare scandalo o disordine"; in ogni caso bisogna sempre disobbedire
alla legge positiva ingiusta se va contro la legge divina; la ribellione è
giustificata anche contro il tiranno;
4. la legge divina, che è quella rivelata da Dio ed è necessaria per indirizzare
l'uomo al suo fine soprannaturale, alla salvezza ultraterrena.
Tra le forme di governo elencate da Aristotele Tommaso ritiene che la migliore sia
la monarchia, poiché garantisce meglio l'ordine e l’unità dello Stato ed è più simile
allo stesso governo divino del mondo. Ma lo Stato, se può indirizzare gli uomini alle
virtù intellettuali e morali, non può invece indirizzarli alla contemplazione di Dio che
è il loro fine ultimo. Pertanto l'autorità civile e politica deve essere subordinata a
quella religiosa. In quale modo si debba esercitare questa subordinazione non è stato
tuttavia da Tommaso pienamente definito.

Cosmologia ed ontologia greca ed ontologia e teologia tomistica.

Nel pensiero tomistico (di San Tommaso) Dio è fonte e creatore dell'essere, ossia di
tutte le cose. Nel pensiero greco Dio è colui che dà forma e ordine al mondo, al
cosmo, attraendolo verso di sé in virtù della sua perfezione. Il Dio dei filosofi greci
non dà l'essere, ma è solo un certo modo di essere: non è l'essere totale bensì
parziale perché anche la materia esiste sin dall'eternità ed è da lui indipendente.
Le prove cosmologiche dell'esistenza di Dio, che appaiono prese di peso da
Aristotele, mutano di segno in Tommaso, nel senso che Dio, più che primo motore
182

immobile, è atto puro: per Tommaso tali prove conducono soprattutto al primo
essere anziché al primo motore. Secondo Tommaso Dio, prima di essere motore, è
creatore: le prove di Tommaso non sono quindi fisiche ma fisico-metafisiche.
La preoccupazione cosmo-ontologica di Tommaso è di spiegare come da Dio, essere
supremo, possono derivare creature fuori di lui. A questa domanda Tommaso
risponde, come abbiamo visto, con la dottrina dell’analogia e della partecipazione.
Le creature sono esseri che derivano dall'essere divino per partecipazione: tale
concetto implica amore, libertà e consapevolezza, mediante cui Dio trasmette e dona
l'essere alle creature al di fuori di sé. Il Dio di Aristotele attira a sé le cose come
causa finale, richiamate a lui dalla sua perfezione. Il Dio di Tommaso attira a sé le
creature per amore, avendo le create per amore, completando così il ciclo dell'amore
aperto con la creazione.
Dio non crea per la sua gloria, poiché questa è inalterabile e non può né crescere né
diminuire. Dio crea invece gli altri esseri non per sé ma perché godano della sua
gloria. In tal senso Dio è Provvidenza, non chiuso in se stesso, nei suoi pensieri,
come per Aristotele.
Nel nuovo contesto cosmo-ontologico tomistico anche il problema del male assume
altri significati. Per la filosofia antica il male è il non essere inteso come la materia
che si ribella all'azione plasmatrice del Demiurgo platonico o delle Intelligenze
aristoteliche dei cieli che danno ordine al mondo sublunare. Il principio del male sta
nella materia, anch'essa eterna ma distinta dal principio eterno del bene. Tommaso
invece, per il quale tutto viene da Dio, pone il problema del male fisico (pena) e del
male morale (colpa) in un diverso quadro. La causa del male fisico sta nella natura
necessariamente finita ed imperfetta del creato. La causa del male morale sta nella
libertà della creatura razionale, cioè dell'uomo, che può non riconoscere la sua
dipendenza da Dio. Il male morale non è un venir meno alla razionalità, non è
identificabile con l'errore, come per i filosofi greci, ma è disobbedienza a Dio.
Anche il problema della materia assume in Tommaso un senso diverso. Viene dissolta
la visione dualistica e pessimistica del mondo greco: la materia non è più fondo e
residuo tenebroso. Platone ha ridotto il corpo, che è materia, a prigione e tomba
dell'anima, mentre Aristotele non riconosce l'immortalità dell'anima-intelletto
passivo individuale per via delle sue funzioni materiali, vegetative e sensitive, nonché
per il carattere esclusivamente potenziale dell'intelletto dei singoli individui umani,
tant'è che finisce col tornare a tesi platoniche, attribuendo immortalità e divinità ad
un intelletto attivo generale ed astratto, immateriale, separato e al di sopra delle
anime-intelletti passivi, similmente al mondo delle idee di Platone. Per Tommaso
invece il corpo è sacro come lo è l'anima. Egli intende salvaguardare l'inscindibile
unità corpo-anima individuale: è l'uomo individuale che pensa, non l'intelletto attivo-
anima generale; è l'uomo che sente, che prova sentimenti, e non il corpo. Pur
essendo spirituale, l'anima è forma del corpo in senso pieno: vi è stretta unione tra
anima e corpo, anzi la sostanza dell'anima è fondata proprio sulla sua capacità di
animare e di infondere razionalità al corpo in cui è incarnata. Da ciò il primato
della persona, dell'individuo, sulla specie, che Tommaso sostiene. Non la specie
183

umana ma la persona occupa il primo posto; essa è destinata alla visione beatifica di
Dio e non già la specie.
Secondo il pensiero greco Dio è concepito come perfezione e ordine dell'essere, della
realtà, e non già come creatore dell'essere. Il finalismo divino è altresì concepito
come del tutto immanente: il dio greco è dentro il mondo; è l'ordine, l'intelligenza ed
il fine interni al mondo e non al di fuori e al di sopra di esso. Nel pensiero cristiano
Dio è invece assolutamente trascendente; è Creatore, ossia è causa degli enti a cui
partecipa l'esistenza, ed è Provvidenza.
184

Il periodo finale della terza fase della Scolastica: gli inizi della crisi

La dottrina tomista dell'accordo tra ragione e fede costituisce un importante


innovazione rispetto al più radicale aristotelismo arabo, soprattutto di Averroè,
secondo cui la religione rivelata è solo una verità approssimativa, buona per chi non è
filosofo, il quale deve invece ammettere solo ciò che è dimostrabile.
Tale aristotelismo estremo fu ripreso nel XIII secolo da vari maestri dell'Università di
Parigi, tra cui in particolare, come abbiamo visto, Sigieri di Brabante con la sua
dottrina della doppia verità.
Ma anche l'aristotelismo moderato di Tommaso, adattato alla concezione
cristiana, non mancò di suscitare reazioni da parte di quei filosofi scolastici,
particolarmente i francescani, che preferivano richiamarsi al tradizionale
indirizzo agostiniano difendendo, contro Tommaso, la dottrina dell'illuminazione
divina, secondo cui l'uomo non conosce la verità attraverso i procedimenti
dimostrativi della ragione, ma attraverso una specie di illuminazione che il suo
intelletto riceve direttamente da Dio. Dall'altro lato, contro i neo-agostiniani, i
domenicani, ossia i confratelli di Tommaso, continuavano invece a difenderne
l'insegnamento.

Gli sviluppi della logica medievale.

Nel medioevo la logica viene insegnata nelle facoltà delle arti quale preparazione
all'ingresso nelle superiori facoltà di teologia, di diritto e di medicina; in particolare
viene insegnata nelle discipline del "trivium", dopo la grammatica e la retorica,
precedendo quindi le discipline del "quadrivium" (aritmetica, geometria, astronomia,
musica). Peraltro la logica medievale si configura prevalentemente come
sistemazione didattica della logica antica e ad essa viene per lo più attribuito un
valore essenzialmente strumentale (in greco: "organon") ad altri fini, filosofici o
teologici. Questo indirizzo tradizionale è stato chiamato la "via antiqua" della logica.
Tuttavia, verso la metà del Duecento gli studi logici cominciano ad assumere una
più specifica autonomia ed un valore non più meramente strumentale. Questo nuovo
indirizzo è stato designato col nome di "via moderna" della logica. Tale innovazione
si ha in particolare col sorgere della dottrina dei termini, cioè delle parole e del loro
significato, allorché la logica viene considerata in rapporto stretto con la
grammatica e vengono studiati i termini logico-grammaticali, cioè il significato e le
proprietà delle parole, considerate come segni convenzionali delle cose. Si opera una
distinzione fra termini che hanno significato di per sé, come i nomi o i verbi, chiamati
termini categorematici, e termini che non hanno significato di per sé ma svolgono
funzioni di collegamento tra altri termini, modificando o determinando i nomi o i
verbi in certi modi precisi mediante negazioni, congiunzioni, qualificazioni, ecc.
Questi vengono chiamati termini sincategorematici, quali ad esempio: ogni, nessuno,
qualche, non, e, o, non, salvo, soltanto, ecc.
185

Il sistematore della nuova logica è stato Pietro Ispano, nato a Lisbona e vissuto nel
XIII secolo, divenuto Papa Giovanni XXI. Egli sviluppa in particolare la dottrina
della supposizione , cioè del rapporto tra la parola, il termine, e l'oggetto che viene
significato. Tale dottrina afferma che la funzione del sostantivo soggetto di una
proposizione (ad esempio "l'uomo è mortale") è semplicemente quella di
rappresentare gli oggetti che esso appunto "suppone", ossia indica, e non si riferisce
invece a forme universali di tipo aristotelico (il termine "uomo", cioè, non si riferisce
alla forma o essenza dell'uomo ma ha invece per suoi "supposti", suoi riferimenti, i
vari uomini concreti: Pietro, Paolo, Giovanni, ecc.). In altri termini, la logica della
supposizione è nominalistica e non ammette forme o realtà universali ma soltanto
cose o esseri individuali, quali sono conosciuti nell'esperienza. A tale logica si rifarà
l'empirismo del secolo successivo a partire da Ockham.
Nella storia della logica medievale occupa un posto a parte Raimondo Lullo, nato a
Palma di Maiorca intorno al 1235 e morto nel 1315. Contro la filosofia araba, specie
di Averroè, egli ritiene che tutte le credenze della fede possano essere dimostrate con
ragionamenti logici. Mentre la "via moderna" della logica tentava di liberarsi dai
vincoli della metafisica e della teologia, la logica di Lullo intende porsi al servizio
della religione come importante strumento di persuasione e conversione degli
infedeli.
Originale è la sua concezione di una logica intesa come scienza universale,
fondamento di tutte le scienze, esposta nella sua opera maggiore intitolata "Ars
magna". Poiché ciascuna scienza ha principi propri e diversi, vi deve essere allora,
afferma Lullo, una scienza generale dei principi primi e comuni di tutte le scienze
particolari. Però questa scienza generale non può essere la metafisica, come voleva
Aristotele che parlava di "filosofia prima", perché la metafisica ha per oggetto
l'essere mentre la scienza generale che sta a fondamento delle scienze particolari,
cioè la logica, deve considerare soltanto i termini di base, dalla cui combinazione e
composizione possono risultare i principi di tutte le scienze. Sono in tal senso termini
di significato generale quelli come bontà, grandezza, differenza, concordanza, Dio,
uomo; oppure si tratta di regole cui corrispondono domande molto generali: che,
perché, quale, quando, dove, ecc. Da tali termini o regole dovrebbero risultare,
mediante composizione, tutte le verità naturali cui l'intelletto umano può giungere.
Viene introdotto in tal modo il concetto di logica intesa come "arte combinatoria",
che procede mediante la scomposizione dei concetti composti in nozioni del tutto
semplici, nonché mediante l'uso di lettere e simboli per indicare queste nozioni
(linguaggio simbolico), nell'intento di scoprire le regole per operare tutte le
combinazioni possibili dei termini. Il progetto di arte combinatoria avrà grande
fortuna nei secoli successivi, soprattutto nel Rinascimento (ne fu entusiasta seguace
Giordano Bruno). È questo uno sviluppo della logica ancora lontano dall'attuale
logica simbolico-combinatoria, ma nell'arte combinatoria di Lullo si trovano
significative anticipazioni, riprese da Leibniz, quali le idee di calcolo logico-
combinatorio e di simbolismo espressivo, indispensabili per sviluppare il calcolo
delle espressioni logiche.
186

La filosofia sperimentale della natura medievale.

Pur nel prevalente interesse per i temi filosofico-teologici, sono sopravvissute nel
medioevo anche indagini di filosofia della natura, riservate dapprima ad alchimisti,
maghi e simili. Ma col XIII secolo, grazie anche alla diffusione dell'aristotelismo e
della fisica aristotelica, che individua nel mondo fisico un campo autonomo di
indagini della ragione, si assiste ad una sensibile fioritura delle ricerche
naturalistiche, che cessano di essere lavoro segreto, riservato agli iniziati,
diventando una componente significativa dell'attività filosofica.
Già Alberto Magno, abbiamo visto, aveva insistito sull'importanza della ricerca
sperimentale, affermando al riguardo: "unicamente l'esperienza dà certezza in questi
argomenti, perché su fenomeni così particolari il sillogismo non ha valore".
La ricerca naturalistico-sperimentale viene coltivata in particolare dai
francescani inglesi, tra cui Roberto Grossatesta che ne fu il principale iniziatore, e
Ruggero Bacone, suo allievo, che ne fu il massimo rappresentante. Infatti, mentre
nell'università di Parigi rimane preponderante l'attenzione per la filosofia e la teologia
nonché per le arti del Trivio (grammatica, retorica, e dialettica o logica), ad Oxford
invece l'interesse di più di un maestro si dirige soprattutto alle arti del Quadrivio
(aritmetica, geometria, musica e astronomia) e proprio ad Oxford si hanno le prime
manifestazioni più significative di una filosofia empirica della natura connessa ad
iniziali forme di indagini sperimentali.
Ad Oxford Roberto Grossatesta, francescano, nato nel 1175, compie studi di
specifica natura scientifica ed empirica sulle proprietà degli specchi e sulle lenti,
benché all'interno di una "cosmologia della luce" (la prima realtà creata è la luce e le
nove sfere celesti, mentre i quattro elementi terrestri si formano attraverso processi di
diffusione, aggregazione e disgregazione della luce). Ma soprattutto egli esprime un
principio che sarà a fondamento del pensiero di Galileo e della fisica moderna, vale a
dire il principio dell'utilità dello studio delle linee, degli angoli e delle figure
geometriche, poiché senza di esso non si può conoscere niente della filosofia
naturale.
Ruggero Bacone (1214-1292) studia ad Oxford e poi a Parigi, dove diventa maestro
di teologia. Le sue teorie sono state condannate dal Padre generale dell'ordine
francescano e Bacone è stato costretto ad una severa clausura. Nella sua opera
principale, intitolata "Opus maius", Bacone considera Aristotele il filosofo più grande
tuttavia, egli precisa, ciò non significa che la ricerca della verità termini con
Aristotele perché la scienza è continuo progresso. Due sono per Bacone i modi della
conoscenza: la ragione e l'esperienza. Ma solo l'esperienza dà certezze mentre la
ragione non arriva mai ad eliminare il dubbio. A sua volta l’esperienza è di due
specie: quella esterna, che facciamo attraverso i sensi, e quella interna, che non è
l'autocoscienza ma che proviene dall'illuminazione divina agostiniana. In tal modo
Bacone concilia il suo sperimentalismo con la teoria dell'illuminazione.
Dall'esperienza esterna derivano le verità naturali, da quella interna le verità
soprannaturali. Però anche alcune verità naturali, che l'uomo possiede sin
dall'origine (innatismo), non derivano dall'esperienza ma da una illuminazione
187

generale, la quale è tuttavia diversa dall'illuminazione straordinaria che Dio concede


attraverso la grazia. L'esperienza interna, in particolare, si sviluppa soprattutto con un
processo mistico, il cui grado più alto è la conoscenza estatica. Lo sperimentalismo di
Bacone si conclude perciò nel misticismo.
Non c'è quindi da meravigliarsi se, pur nell'ambito della filosofia naturale, le ricerche
di Bacone sono cariche di caratteri magici e religiosi propri degli alchimisti. Si può
comunque riconoscere a Bacone il merito di precursore della scienza moderna per
il valore attribuito alla ricerca sperimentale e alla matematica. In effetti Bacone è
stato studioso di fisica, e particolarmente dell'ottica avendo compreso le leggi della
riflessione e della rifrazione della luce. Studioso delle lenti, a lui si attribuisce
l'invenzione degli occhiali. Intuisce inoltre la possibilità di scoperte e di macchine
che poi sono state effettivamente realizzate: gli esplosivi, la circumnavigazione del
globo, la propulsione meccanica, le imbarcazioni a motore, le macchine per volare,
carri che si muovono senza cavalli, la leva meccanica, macchine sottomarine.
Con Alberto Magno, Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone vediamo dunque
nascere, e lentamente svilupparsi, un filone matematico e sperimentale all'interno
della filosofia scolastica; si sviluppa cioè un mondo tecnologico che era al di fuori del
sapere tradizionale ma che contribuisce a dare all'Europa la supremazia politico-
economica sugli altri continenti e che sul piano filosofico, riunendo teoria e pratica,
porterà alla scienza moderna e al dissolvimento, quindi, della concezione tradizionale
del mondo.
188

Giovanni Duns Scoto (1266-1308).

Nasce nella cittadina di Duns, in Scozia, da cui il nome di Scoto. Diventa francescano
e compie la sua formazione ad Oxford e a Parigi, dove sarà anche insegnante. È stato
chiamato "Doctor subtilis" per la sottigliezza e l'acutezza del suo pensiero.
La sua opera principale è intitolata "Opus Oxoniense".
Dopo quello di Tommaso, Duns Scoto è autore del secondo e fondamentale nuovo
corso della Scolastica, lungo il quale, per la rigorosa differenziazione operata tra
filosofia e teologia, la Scolastica stessa si avvia verso l'esaurimento del suo ciclo.
Duns Scoto infatti, rispetto alle frequenti dispute fra tomisti, averroisti ed agostiniani,
sente il bisogno di andar oltre tali contrasti, puntando da una parte sull'autonomia e
sui limiti della filosofia e, dall'altra, sullo specifico ambito e ricchezza di problemi
della teologia, superando così il fondamentale intento, proprio della Scolastica
tradizionale, di conciliare e trovare un accordo fra i due ambiti.

Distinzione tra filosofia e teologia.

Abbiamo visto che per gli agostiniani la filosofia deve intendersi assorbita dalla
teologia, nel senso che la sua funzione essenziale è di chiarire ed interpretare
razionalmente la verità religiosa senza metterla mai in discussione; per gli averroisti,
al contrario, la filosofia è fonte prevalente di verità rispetto alla teologia; per i
tomisti, dal canto loro, filosofia e teologia devono intendersi in reciproco accordo.
Per Duns Scoto va invece riconosciuta una netta distinzione dei due ambiti.
Infatti:
1. la filosofia si occupa dell'ente (dell'essere e della realtà); segue il procedimento
dimostrativo; si basa sulla logica naturale; si occupa di nozioni generali o
universali in quanto è indotta, per sua natura, a seguire un processo conoscitivo
basato sull'astrazione; ha infine un carattere essenzialmente teoretico
(conoscitivo) e mira al conoscere per il conoscere;
2. la teologia tratta invece gli "articula fidei", cioè gli oggetti di fede; segue un
procedimento persuasivo; si basa sulla logica del soprannaturale;
approfondisce quanto Dio si è degnato di rivelare circa la Sua natura e il nostro
destino; ha un carattere essenzialmente pratico (morale) poiché volta ad indurci
ad agire più correttamente.
La filosofia non migliora se viene subordinata alla teologia, né quest’ultima diventa
più rigorosa e persuasiva se utilizza gli strumenti della filosofia. Da Duns Scoto le
polemiche tra ragione e fede sono ritenute derivare proprio dall’imprecisa e confusa
considerazione dei rispettivi ambiti di ricerca. Pur nei suoi limiti, la sola
conoscenza e scienza possibile nell'uomo è quella della ragione. La fede non ha
nulla a che fare con la scienza ma ha invece un valore squisitamente pratico-
morale. Il campo delle conoscenze scientifiche e filosofiche è contraddistinto dal
carattere necessario e razionale delle dimostrazioni, mentre il campo della fede è
quello della libertà (di adesione) e quindi dell'impossibilità di ogni dimostrazione
189

necessaria. Scopo della teologia non è infatti la conoscenza, bensì quello di


persuadere l'uomo ad agire per la propria salvezza. Il suo fine non è teoretico ma
educativo.
Anche Duns Scoto si ispira all'aristotelismo come Tommaso. Ma per Tommaso
l'aristotelismo va adeguato affinché possa concorrere alla spiegazione della fede
cristiana. Per Duns Scoto l'aristotelismo, cioè l'indagine filosofica, rimane invece
delimitato nel suo autonomo ambito, separato rispetto all'ambito pratico della fede.
Tutto ciò che è razionalmente dimostrabile è oggetto della filosofia ed invece ciò
che non lo è puro oggetto di fede. Duns Scoto elenca al riguardo numerose
proposizione di fede che sono indimostrabili mediante la ragione a causa del dei
limiti della conoscenza umana. Non si può dimostrare: che Dio è vivo; che è sapiente;
che è dotato di volontà; che è la prima causa efficiente; che è provvidenza; che è
immutabile ed immobile; che è onnipotente. È cioè impossibile dimostrare tutti gli
attributi di Dio ed anche la stessa immortalità dell'anima umana. L'anima è
certamente una sostanza, un ente esistente, ma ciò non basta per proclamarne
l'indistruttibilità poiché, se lo fosse, non potrebbe essere creata o distrutta neppure da
Dio. Tutte queste proposizioni, razionalmente indimostrabili, costituiscono
verità di fede. Non hanno in sé valore speculativo (conoscitivo) bensì pratico,
ossia sono in grado di guidare la condotta morale e sono oggetto di libera
accettazione da parte dell'uomo. Implicano persuasione anziché dimostrazione.
Circa la scienza vale esclusivamente l'ideale aristotelico del procedimento
dimostrativo quale unico strumento di conoscenza. Con ciò sono estromessi
dall'ambito della ricerca filosofica i principi fondamentali della religione, che
attengono ad un campo separato di verità. Così la Scolastica si avvia ad esaurire la
propria essenziale ragione di essere e motivazione, essendo fondata sulla convinzione
di un rapporto e non di una distinzione tra fede e ragione.

La concezione dell’univocità dell'ente.

È questa una parte piuttosto originale della filosofia di Duns Scoto. Con l'intento di
evitare equivoci tra elementi filosofici e teologici, Duns Scoto sottopone ad analisi
critica tutti i concetti complessi (composti di essenza, la forma o concetto in sé, ed
esistenza, la reale sussistenza) al fine di ottenere concetti semplici. Un concetto è
semplice quando non è identificabile o commisto con nessun altro, quando è cioè
assolutamente univoco (indicante una sola realtà od ente), tale per cui è solo possibile
affermarlo o negarlo e non l'uno e l'altro insieme: ossia non può essere in parte
affermato ed in parte negato, come nel caso dei concetti analogici, che sono sempre
composti (ad esempio una certa specie di animali può esistere ma pure no od
estinguersi) .
Fra tutti i concetti semplici ed univoci, il primo e fondamentale concetto è quello
di ente, o sostanza comune o sostanza prima, privo di qualsiasi determinazione (tale
cioè da non essere ancora un particolare modo di essere, un particolare ente) ma
invece assolutamente generico ed astratto. È chiamato anche sostanza comune poiché
190

ciò che è comune in ogni ente, sia esso una cosa concreta o un concetto, è l'essere,
cioè l'esistenza, ed è chiamato anche sostanza prima perché è la prima nozione
(concetto) posseduta dall'intelletto. L’ente concepito come sostanza comune o
sostanza prima è il primo concetto intuitivamente colto dall'intelletto umano: è
ancora del tutto indifferenziato e quindi, in questo senso, del tutto univoco, dotato
cioè di un unico indistinto significato. È questa la dottrina dell'univocità dell'ente,
che Duns Scoto formula in contrapposizione alla dottrina della molteplicità
dell'essere di Aristotele. Quando noi percepiamo un ente, in un primo momento non
sappiamo ancora se esso sia sostanza o accidente, se sia divino o creato: dapprima
esso è percepito come sostanza comune indeterminata, che ancora non è né
individuale né universale. Solo successivamente, mediante un processo di
individualizzazione o di astrazione e generalizzazione, giungiamo a cogliere la realtà
individuale concreta propria dell'ente oppure ne concepiamo il concetto, cioè la sua
universalità, il suo valore universale.
Duns Scoto parte dalla fondamentale distinzione tra conoscenza intuitiva e
conoscenza astrattiva. La conoscenza intuitiva è quella dell'ente indifferenziato, della
sostanza prima e comune. Sulla conoscenza intuitiva è fondata la metafisica, intesa
come scienza del significato originario e primo (generico e indifferenziato)
dell'essere. La conoscenza astrattiva invece astrae, cioè prescinde dall'esistenza reale
dell'ente, dell'oggetto, poiché, mediante un procedimento di generalizzazione, mira a
determinare il concetto, l'universale; ad esempio, mira a determinare il concetto
universale di albero, valido per tutti, prescindendo dai singoli alberi concreti, ognuno
diverso dall'altro.
In altri termini, posto che nella realtà non esistono che cose individuali e che i
concetti universali esistono solo nell'intelletto, Duns Scoto si preoccupa di
trovare il fondamento comune sia del carattere individuale delle singole cose
concrete sia del carattere universale dei concetti. Questo comune fondamento è
appunto l'ente indifferenziato o sostanza comune e prima, che viene per primo
intuitivamente colta riguardo ad ogni ente, ad ogni essere. Esempio ulteriore: la
sostanza (sostanza qui=realtà che può essere sia concettuale sia concreta) "uomo" è la
natura comune di tutti gli uomini. È questa la sostanza comune che da un lato sta
fondamento degli uomini singoli concreti, che sono molteplici, e che dall'altro lato sta
a fondamento del concetto di "uomo", in quanto tale unico ed universale, col quale
noi pensiamo gli uomini stessi.

Il principio di individuazione e l'"haecceitas".

Abbiamo visto che la sostanza prima o comune è quella dell'ente univoco, generico e
indifferenziato, poiché può essere indifferentemente una cosa concreta individuale,
oppure un concetto universale, sostanza che tuttavia è il fondamento di entrambi:
infatti dalla sostanza comune l'intelletto astrattivo coglie successivamente l'universale
(il concetto), mentre i sensi, sempre successivamente, colgono la realtà individuale
esterna, cioè l'oggetto specifico.
191

È definito "processo di individuazione" quel processo mediante cui dalla sostanza


prima o comune viene ricavata, attraverso i sensi, la cosa reale esterna, ossia quel
processo che specifica la sostanza comune e la determina, cioè la individua, come
singola cosa concreta. Questa individualizzazione della sostanza è chiamata da Duns
Scoto "haecceitas", dal pronome latino "haec", che significa appunto "proprio
questo", "proprio questa cosa qui". È l'haecceitas, e non la materia o la forma o la loro
unione (sinolo), che per Duns Scoto consente l'individualizzazione dell'ente rispetto
all'originaria sostanza comune ed indistinta che si coglie al primo momento. Infatti,
dice Duns Scoto, né la materia, che è essenzialmente indeterminata, né la forma, che
è indifferente rispetto alle individualità (che cioè prescinde da esse essendo per sua
natura comune a tutti gli enti della medesima specie), e neppure, la loro unione, di
conseguenza, possono essere causa delle caratteristiche e delle differenze individuali.
Due sono le principali conseguenze derivanti dal concetto di univocità dell'ente,
ossia di indifferenza della sostanza comune o essere primo:
1. il rifiuto del principio dell'analogia dell'essere tra Dio e le creature
affermato da Tommaso, poiché l'essere di Dio, come concetto semplice, è
sostanzialmente identico all'essere degli uomini: se vi è identità non c'è dunque
distinzione e quindi non ci può essere nemmeno analogia;
2. pertanto, la distinzione tra l'essere di Dio e l'essere degli uomini non è
formale, concettuale, essendo il concetto di essere il medesimo per entrambi;
invece la differenza è "modale", consiste cioè nel modo di essere, che in Dio è
infinito e nell'uomo è finito.
L'infinità è in effetti il solo attributo intrinseco di Dio che si può definire, mentre gli
altri attributi, come si è visto, sono per Duns Scoto razionalmente indimostrabili
rientrando nelle verità di fede. L'infinità divina è definibile e dimostrabile poiché Dio,
in quanto ente primo, non può essere limitato da nulla, dunque è infinito. In tal modo
Duns Scoto sostiene, contro Aristotele, che l'infinito in atto esiste e non è solo
potenziale. Il che significa che Dio nella sua infinità trascende (supera, è al di sopra)
tutte le sue creature.
Dal principio dell’haecceitas deriva in Duns Scoto l'esaltazione della persona
umana e la valorizzazione della sua libertà ed individualità, e ciò in polemica con
l'averroismo che, con la teoria dell'intelletto unico, negava il valore della persona
individuale. L'uomo non è né un concetto astratto né un accidente in cui solo
casualmente si sia incarnata la forma (l'anima). L'uomo è persona, è individuo
concreto, è realtà singolare (specifica) nel tempo ed irripetibile nella storia (non si
nasce una seconda volta). È realtà privilegiata perché destinato, grazie alla
mediazione di Cristo, alla beatitudine e alla contemplazione di Dio.

La libertà umana e l'etica.

La valorizzazione della persona umana, concreta e libera, vuole contrapporsi, per


Duns Scoto, alle dottrine filosofiche greche ed arabe che ritenevano necessario,
ineluttabile, il carattere delle leggi di formazione dell'universo e di sviluppo dei
192

fenomeni naturali, così come ritenevano altresì immutabili le essenze sia della realtà
che dell'uomo, per cui tutto avverrebbe secondo necessità. Da ciò il nome di
"necessitarismo" attribuito a questa concezione greco-araba. Invece Dio, creando
liberamente gli enti, li ha voluti caratterizzati nella loro singolarità ed individualità e
non irrigiditi in necessarie essenze formali. Il mondo e gli uomini hanno quindi il
carattere della contingenza (=che possono o non possono esistere). Questa
contingenza per Duns Scoto non riguarda solo il mondo ma anche le leggi morali.
L'accordo dei pensatori medievali era unanime circa la contingenza del mondo, non
altrettanto per quanto riguarda le norme morali.
Per Duns Scoto l'idea di bene, sul piano morale, non è deducibile dall'idea dell'essere,
cioè della realtà, se buona o no, ma solo dal Dio infinito. Il bene è ciò che Dio
prescrive e vuole; e può volere tutto o il contrario di tutto. La sola legge cui anche
Dio è vincolato è rappresentata dal principio di non contraddizione. Di conseguenza
la teoria del diritto naturale (quelle norme morali che si ritengono insite nella
natura umana: il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà, ecc.) non ha valore
assoluto ed incontestabile. Afferma infatti Duns Scoto che parecchie cose proibite
potrebbero diventare lecite se il legislatore (Dio) le comandasse o le permettesse:
addirittura anche il furto, l'adulterio, l'omicidio. Esse infatti non implicano una
insuperabile contrapposizione rispetto al fine ultimo della salvezza. I precetti morali
veramente necessari e non contingenti sono esclusivamente i primi due
comandamenti stabiliti da Dio e trasmessi a Mosé, cioè l'unicità di Dio e l'obbligo di
adorare lui soltanto. Tutti gli altri precetti non sono assoluti di per sé: la loro
obbligatorietà deriva solo dalla volontà di Dio, che così li ha prescritti ma che
avrebbe potuto prescrivere anche diversamente.
Le norme morali derivano dunque unicamente dalla volontà divina e non dalla
circostanza che esse sono morali in sé, perché se così fosse si avrebbe solamente
un'etica razionale, la cui trasgressione sarebbe irrazionale, non però
peccaminosa. Pertanto il male è peccato e non errore (ignoranza o mancanza di
conoscenza del bene) come ritenevano invece Socrate e i filosofi greci in genere. Il
necessitarismo pagano è ampiamente superato: "Come Dio poteva agire
diversamente, così poteva stabilire altre leggi morali".
Se il male è nel peccato e non nell'errore, ciò significa allora che non è l'intelletto
ma la volontà umana che determina la condotta morale. La volontà umana è
libera: in quanto tale è l'unica vera espressione della superiorità dell'uomo sul
mondo delle cose, governato dalla necessità (secondo rapporti necessari di causa-
effetto) e non dalla libertà. Tale concezione della libera volontà umana è definita col
termine di "volontarismo". Duns Scoto però non cade nell'arbitrarismo, cioè non
giustifica una volontà umana assolutamente arbitraria, sregolata. Di fronte alla
domanda del come possa la volontà amare ciò che ignora, ossia Dio, dal momento
che ciò che caratterizza la morale è la volontà stessa e non l'intelletto, ossia la
conoscenza del bene e del male, Duns Scoto risponde che la luce dell'intelletto
divino è necessaria però non è determinante. Non è l'intelletto che sceglie il bene
ma è la volontà che liberamente si indirizza verso questa o quella cosa. L'unica guida,
l'unica legge della volontà umana, se vuole essere buona, non è l'intelletto ma
193

soltanto la volontà divina. Fare il bene per l'uomo significa fare ciò che la volontà
(i comandamenti) divina gli prescrive. Tutta la vita morale dell'uomo si riduce
perciò all'obbedienza ai comandamenti di Dio. È tale obbedienza che caratterizza
l'azione umana veramente buona, così come, per contro, è l'odio verso Dio il solo atto
veramente cattivo. Ogni altro atto è buono o cattivo secondo le circostanze: può
esserlo in alcuni casi e non in altri.
Potente in Duns Scoto è l'esaltazione della morale religiosa, derivante dai precetti
divini; debole è la considerazione della morale razionale, ispirata dalla sola ragione
umana.

L'esistenza di Dio.

Abbiamo visto che la nozione prima di ente, di sostanza comune, è indifferenziata.


Solo successivamente, mediante individualizzazione e astrazione, l'intelletto giunge a
definire i diversi modi di essere e i diversi gradi di intensità di essere dei vari enti,
passando dall’indifferenziato al concetto determinato, specifico. I due estremi, dal
basso e all'alto, dei modi di essere sono la finitezza e l'infinità. Dell'esistenza degli
enti finiti non è necessaria prova alcuna perché sono oggetto di diretta esperienza.
Dell'esistenza dell'ente infinito occorre invece una precisa dimostrazione, perché
non costituisce un atto di immediata evidenza ed esperienza. In quanto concetto,
quello di "ente infinito" non è contraddittorio in se stesso, stante il carattere
indifferenziato della nozione originaria di ente, di sostanza comune, il che implica
l'infinità delle possibili determinazioni (specificazioni). Ma ben altra cosa è
dimostrare l'esistenza dell'ente infinito. Al riguardo Duns Scoto non si accontenta
delle cinque vie di Tommaso perché troppo aristoteliche. Intende piuttosto elaborare
una prova metafisica che si fondi sul concetto di essere e non sul concetto di Dio
come motore immobile, alla stregua di Aristotele e di Tommaso. Se la prova vuole
essere di tipo metafisico, sono perciò insufficienti per Duns Scoto le prove a
posteriori, fondate su dati empirici che partono dagli effetti, come quelle di
Tommaso, perché i dati empirici sono certi ma non necessari essendo contingenti.
Duns Scoto non parte dalla constatazione dell'esistenza e contingenza delle cose
create, bensì dal concetto concernente la loro possibilità di essere. L'esistenza
effettiva delle cose è infatti un dato contingente e non necessario mentre, prima di
esserci, è necessaria la possibilità che le cose possano essere, cioè esistere. Duns
Scoto si domanda allora quale sia il fondamento di tale preliminare necessità
concernente la possibilità di essere prima che le cose esistano effettivamente. Tale
fondamento non può essere il nulla, come quando si afferma che Dio crea dal nulla,
perché il nulla non può in nessun modo essere fondamento o causa. Se le cose sono
possibili, e lo sono, è allora possibile un ente primo quale fondamento della
possibilità di essere delle cose, capace di esistere da se stesso e di creare il mondo
senza essere a sua volta creato, perché se non esistesse non sarebbe più un ente
capace di esistere da sé e non vi sarebbe nemmeno più la possibilità dell'esistenza
194

delle cose, quando invece la possibilità della loro esistenza, anzi la loro esistenza
effettiva, è dimostrata dall'esperienza.
L'ente primo di cui in tal modo Duns Scoto mostra l'esistenza non è causa motrice,
motore immobile, ma in quanto ente, cioè essere, è causa efficiente di tutte le cose,
ossia il loro creatore e, in quanto essere primo o supremo, è anche causa formale,
esemplare, cioè il modello di ogni ente creato, ed è anche il fine ultimo di tutti gli
enti.
La contemplazione dell'infinità e perfezione di Dio è anche, in particolare, il fine
ultimo dell'uomo ed è un fine che, a causa della distinzione e diversità tra filosofia e
fede, non già i filosofi ma solo la fede è in grado di indicare, il che giustifica
l'insostituibile valore pratico-morale della teologia quale disciplina distinta dalla
filosofia.
195

SECOLO XIV: LA QUARTA FASE DELLA SCOLASTICA. LA SUA CRISI E


DISSOLVIMENTO.

Il Trecento è un secolo di grandi mutamenti storici e politici, economici e sociali,


culturali e filosofici.
Dal punto di vista storico-politico l'Impero e il Papato perdono di importanza:
l'Impero, perché in Europa cominciano a sorgere le monarchie nazionali, che
vogliono rendersi autonome e indipendenti oppure, dove non sorge l'unità nazionale
come in Italia e in Germania, si formano Signorie e Principati che pure vogliono
l'indipendenza dall'Impero; il Papato, perché si comincia a criticare il potere
temporale della Chiesa e a pensare che il compito della Chiesa debba essere solo di
tipo spirituale e che il governo politico spetti al solo potere civile, al Re e non al
Papa.
Dal punto di vista economico-sociale il Trecento è il secolo del progressivo declino
delle classi feudali nobiliari ed ecclesiastiche per il sorgere invece di una nuova
classe sociale destinata ad espandersi, cioè la borghesia, composta da mercanti, da
banchieri e da imprenditori artigianali. Dall'altro lato, nel Trecento si aggrava la
miseria dei più poveri, con conseguente rivolte popolari (la rivolta dei Ciompi o
quella dei contadini francesi).
Anche dal punto di vista culturale molte sono le novità: con Dante, Petrarca e
Boccaccio si afferma una nuova cultura e una nuova letteratura, mentre in campo
artistico sorge l'arte gotica, tutte espressioni queste di un nuovo modo di concepire la
natura e la divinità.
In filosofia viene meno la fiducia e l'idea che tra fede e ragione vi sia accordo. Già
Duns Scoto aveva dichiarato che fede e ragione sono tra di esse distinte ed autonome,
per cui non vi è intreccio fra teologia e filosofia ma ognuna studia e si occupa di cose
diverse. Il filosofo Guglielmo d’Ockham, vedremo, non solo dirà che fede e
ragione sono distinte ma che anzi sono separate: la filosofia non deve più
occuparsi di questioni metafisico-religiose, lasciandole alla sola teologia, bensì
occuparsi della logica e del processo della conoscenza umana, cioè del modo in cui la
conoscenza umana si svolge, avviene, nonché della sua validità ma anche dei suoi
limiti.
Questo nuovo modo di pensare conduce al tramonto e alla fine della Scolastica e
favorisce lo sviluppo di una cultura più laica che porterà nei secoli successivi
all'avvento dell'Umanesimo e del Rinascimento.

La filosofia giuridico-politica del medioevo: Marsilio da Padova.

Nella prima metà del XIV secolo, oltre a quello metafisico-teologico, diventa più
vivace anche il dibattito giuridico-politico, particolarmente in merito alla teoria del
diritto naturale ed al problema dei rapporti tra potere ecclesiastico (Papato) e potere
civile (Impero).
196

Come abbiamo visto, le complessive concezioni giuridico-politiche della Scolastica


sono fondamentalmente basate sulla teoria del diritto naturale, dapprima enunciata
dagli stoici, poi divulgata da Cicerone e posta quindi a fondamento anche del diritto
canonico medievale.
Nella forma matura che ha assunto in Tommaso, il diritto naturale, o legge di natura,
deriva direttamente dalla stessa legge divina e ad essa devono ispirarsi sia le leggi
civili sia quelle religiose.
Bisognerà attendere Marsilio da Padova, verso la fine del periodo medievale,
perché si affacci un diverso punto di vista.
Marsilio da Padova (1275-1342), docente e poi rettore dell'università di Parigi,
partecipa alla lotta tra Ludovico il Bavaro e il Papato avignonese come consigliere
di Ludovico. La sua opera principale è intitolata "Defensor pacis".
Formula una nuova teoria dello Stato, prendendo a riferimento non più l'Impero
bensì lo Stato nazionale o il Comune o la Signoria. Tale Stato è per lui una
costruzione umana, che assolve finalità umane senza vincoli di natura teologica.
Fede e ragione sono distinte, come la Chiesa e lo Stato. E quest'ultimo non deve
essere sottoposto a quella, anzi, per quel che concerne la vita terrena, è la Chiesa
che deve essere sottoposta allo Stato. Certamente, vi è la legge religiosa, che ha per
fine la gloria o la pena ultraterrena. Ma vi è anche la legge che definisce ciò che è
giusto e utile sul piano puramente umano e sociale e che non deriva da una
sovraordinata legge naturale di carattere divino.
La novità ed originalità di Marsilio sta in questa concezione della legge intesa come
legge assolutamente positiva, cioè esclusivamente posta, scritta e stabilita, dagli
uomini e che non ha né un fondamento divino né una base morale e neppure si basa
sul diritto naturale, non derivando da inclinazioni naturali direttamente poste da Dio
nell'animo umano. Quello di Marsilio è un concetto ristretto di legge: la legge è
propriamente tale quando assume la forma di un comando coattivo legato ad una
punizione o ad una ricompensa da attribuire in questo mondo.
Due sono le caratteristiche di questa concezione della legge:
1. ciò che è giusto o ingiusto per la comunità umana non è suggerito da un istinto
naturale posto nell'uomo da Dio, ma è definito direttamente dalla ragione
umana, la quale è dunque l'effettiva creatrice della scienza del diritto;
2. la forma di legge è attribuita non alle semplici valutazioni della ragione (che
di per sé può produrre solo la scienza del diritto), bensì a quelle norme che
diventano coattive perché collegate ad una sanzione (tale concetto tecnico-
formale costituisce un antecedente del contemporaneo positivismo giuridico).
In quanto costruzioni umane, lo Stato e la legge trovano giustificazione unicamente
dall'essere posti dalla volontà umana. Il solo legislatore è il popolo, o la parte
prevalente e più importante di esso, che esprime la sua volontà nell'assemblea
generale. Quindi sovrana è la legge e non il singolo monarca o governo che non è al
di sopra di essa. Alla legge così stabilita sono egualmente sottoposti anche i
religiosi. Pertanto, la pretesa del Papato di assumere anche la funzione legislativa e
il potere temporale altro non è che un'usurpazione che produce conflitti. Pure per la
197

stessa definizione delle dottrine di fede l'autorità legittima non è quella del Papa, ma
quella del Concilio dei vescovi e dei teologi.
Va rilevata la modernità delle tesi di Marsilio: secondo il principio che più tardi sarà
ripreso da Hobbes, il compito dello Stato viene limitato alla difesa della pace tra i
cittadini, cioè all'eliminazione dei conflitti e, conseguentemente, il potere della legge
viene circoscritto agli atti esterni dei cittadini, cui va garantita la libertà di pensiero
e di coscienza, non potendo la legge imporsi anche sulle coscienze degli uomini.
La sovranità popolare e lo Stato di diritto sono dunque i due innovativi pilastri
dell'originale teoria giuridico-politica di Marsilio. Vi è in ciò il preannuncio,
impressionante in uno scrittore del Trecento, di dottrine che matureranno ben più
tardi, nel 17º e 18º secolo, con il cosiddetto "contrattualismo".
198

Guglielmo di Ockham (1290-1348).

Nasce nel villaggio di Ockham, a venti miglia da Londra. Entra nell'ordine


francescano. Studia e insegna a Oxford. Nel 1324 si trasferisce ad Avignone,
convocato da papa Giovanni XXII per rispondere all'accusa di eresia. Sono censurate
51 delle sue tesi. Nel 1328 fugge da Avignone, insieme col Padre generale dei
francescani, entrambi sostenitori, contro il Papato, della tesi della povertà evangelica
cui la Chiesa doveva tornare. Si rifugia presso l'imperatore Ludovico il Bavaro, che
era in lotta contro il Papato avignonese. Muore a Monaco. È stato chiamato "dottore
invincibile".
La sua opera principale ha per titolo "Commentario alle sentenze".
Guglielmo di Ockham è l'ultima grande figura della Scolastica e la prima dell'età
moderna. Il problema fondamentale dell'accordo tra filosofia e teologia, tra
ragione e fede, viene ulteriormente dichiarato impossibile e svuotato di significato.
Con ciò la Scolastica medievale chiude il suo ciclo storico e la ricerca filosofica
diventa disponibile per la considerazione di altri problemi, primo fra tutti quello
della natura e l'indagine scientifico-sperimentale dei fenomeni naturali, cioè del
mondo cui l'uomo appartiene e che può conoscere con le sole forze della ragione.

Empirismo gnoseologico e separazione tra ragione e fede.

Già Duns Scoto aveva definito l'impossibilità della spiegazione filosofico-razionale


delle verità religiose in base all'ideale aristotelico della scienza che, in quanto tale,
può avere valore solo se fondata su procedimenti dimostrativi. Nel medesimo senso
Ockham fonda la validità della scienza e della conoscenza solo sull'esperienza. Il
suo è un empirismo radicale (estremo): tutto ciò che oltrepassa i limiti
dell'esperienza non può essere conosciuto né dimostrato. Perciò le verità teologiche,
che riguardano ciò che è al di là dell'esperienza, cadono al di fuori della ricerca
filosofica e sono invece soltanto oggetto di fede. I tentativi della Scolastica di
accordare ragione e fede, con elementi agostiniani od aristotelici, appaiono ad
Ockham non solo inutili dal punto di vista gnoseologico (conoscitivo) ma dannosi
alla stessa fede, che deve essere invece liberata da tutti i vincoli terreni. Fede e
ragione sono separate. Anzi, voler spiegare la fede con la ragione è un atto di
superbia. Le verità di fede potrebbero essere dimostrate solo se si avesse una
conoscenza intuitiva od empirica di Dio, ma tale conoscenza è impossibile all'uomo.
La filosofia non è ancella della teologia e la teologia non è scienza, ma un complesso
di credenze tenute insieme dalla forza della fede. La ragione non riesce a rendere la
verità rivelata più chiara di quanto non possa fare la fede. Il vero compito del
teologo non è di dimostrare con la ragione le verità accettate per fede ma dimostrare,
dall'altezza di quelle verità, l'insufficienza della ragione a comprenderle. Quindi, non
"intelligo ut credam" né "credo ut intelligam", ma "credo et intelligo": la teologia
cessa di essere scienza; l'accettazione delle verità religiose è dovuta esclusivamente
al dono della fede, vero fondamento della vita religiosa.
199

Indimostrabilità dell'esistenza e degli attributi di Dio.

Le stesse prove dell'esistenza di Dio non hanno per Ockham valore dimostrativo.
Infatti, l'esistenza di una qualsiasi realtà è rivelata all'uomo solo dall'esperienza.
Ma di Dio l'uomo non ha esperienza. Anche l'essenza di una realtà è conoscibile
solo se dapprima ne è conoscibile l'esistenza. Pertanto l'uomo non conosce né
l'esistenza né l'essenza di Dio. Non valgono quindi le prove a posteriori
dell'esistenza di Dio né vale la prova ontologica a priori poiché la proposizione "Dio
esiste" non è evidente in quanto l'esistenza, anche quella di Dio, non è
necessariamente implicata dall'essenza, ancorché concepita come quella di essere
perfettissimo.
In particolare, con riguardo alle prove a posteriori, Ockam critica anche la prova
cosmologica, di derivazione aristotelica, formulata da Tommaso e da Duns Scoto, in
quanto nega il valore dei due principi su cui la prova cosmologica si fonda:
1. non è vero in senso assoluto che tutto ciò che si muova sia mosso da altro;
infatti l'anima e gli angeli si muovono da sé e così il peso che tende al basso;
2. non è vero in senso assoluto che è impossibile risalire all'infinito nella serie
dei movimenti; infatti nelle grandezze continue (ad esempio i numeri
matematici) il movimento si trasmette necessariamente e incessantemente
dall'una all'altra delle infinite parti che le compongono (ad un numero si può
sempre aggiungerne un altro, cosi come ciascun numero o serie di numeri è
sempre divisibile all’infinito).
Quanto alla prova desunta dal principio causale (Dio come causa del creato),
Ockam non ritiene dimostrabile che Dio sia causa efficiente, totale o parziale, dei
fenomeni e che neppure le sole cause naturali bastino a spiegare fenomeni. Infatti
Ockham nega che il rapporto di causalità sia dimostrabile perché noi abbiamo
un'intuizione ed esperienza separate della causa e dell'effetto.
La conclusione è che tutte le prove fornite dell'esistenza di Dio possono avere tutt'al
più un valore di plausibilità ma non dimostrativo. L'esistenza di Dio può essere solo
creduta, non dimostrata.
A maggior ragione, allora, non si possono conoscere e dimostrare gli attributi di
Dio.
Non si può dimostrare con certezza che vi sia un unico Dio, perché nessuna
contraddizione deriverebbe dall'ammettere una pluralità di cause prime. Neppure si
può dimostrare l'immutabilità di Dio, poiché sembra anzi negata dall'incarnazione di
Dio in Cristo, ovvero in una natura inferiore. Non può essere dimostrata neppure
l'onnipotenza e l'infinità di Dio, confutando rispetto a quest'ultima gli argomenti di
Duns Scoto. Di Dio, dice Ockham, non si può avere che un concetto parziale, desunto
per astrazione dalle cose naturali di cui soltanto possiamo avere esperienza. In
merito poi al dogma della Trinità, Ockam afferma che esso supera ogni senso, ogni
intelletto umano ed ogni capacità di comprensione, per cui può essere accettato solo
per fede. Anche nel concetto di creazione Ockam rinviene contraddizioni. Poiché
nell'eternità, come Agostino aveva insegnato, non c'è né un prima né un dopo, allora
non è necessario ammettere che Dio esisteva prima della creazione e che esisterà
200

dopo. Può sembrare infatti contraddittorio concepire una durata di Dio al di là dei
limiti temporali del mondo poiché, se Egli è eterno, il concetto di durata è estraneo
alla sua natura divina.
Criticando le dimostrazioni tradizionali, Ockam non intende negare l'esistenza di Dio
bensì sottolineare soltanto che la ragione umana deve abbandonare la smania di
dimostrare e di esplicitare. Oltretutto, se si restringe l'ambito della ragione umana per
quanto concerne Dio, diviene per contro più ampio l'ambito della fede.

La conoscenza umana, gli universali e il nominalismo.

Se la conoscenza umana è esclusivamente fondata sull'esperienza, ad essa è escluso


dunque il mondo sovrannaturale, ma ad essa si apre il mondo della natura, verso il
quale si indirizza l'interesse prevalente di Ockam.
La teoria della conoscenza di Ockam si configura come una teoria
dell'esperienza, che egli espone utilizzando la distinzione di Duns Scoto tra
conoscenza intuitiva o sensibile e conoscenza astrattiva o intellettuale.
La conoscenza intuitiva è quella che immediatamente coglie gli oggetti, le cose, e ci
consente di stabilire non solo quando una cosa c'è ma anche quando non c'è: si muove
quindi nell'ambito della contingenza, ossia delle cose che ci sono ma che potrebbero
anche non esserci. La conoscenza intuitiva è la conoscenza di base; da essa deriva
la conoscenza astrattiva, la quale prescinde dalla realtà o irrealtà degli oggetti
ma che si può avere solamente su ciò di cui si è precedentemente avuta
conoscenza intuitiva. La conoscenza intuitiva può essere sia sensibile che
intellettuale, poiché l'intelletto conosce altresì intuitivamente i propri moti dello
spirito, come il piacere, il dolore, l'amore, l'odio. La conoscenza intuitiva proviene
dal rapporto immediato con la realtà e quindi non ha bisogno di nessuna specie o
genere o categoria che faccia da intermediario: la realtà è sempre composta da enti
individuali, da singole cose, e al di fuori dell'anima (dell'intelletto) non vi è nulla
di universale. L'universale, o concetto, è solo nell'intelletto ed è il prodotto della
conoscenza astrattiva.
La conoscenza astrattiva procede mediante astrazione, cioè estraendo dalle
diverse e singole cose concrete, appartenenti ad un medesimo genere o specie, le
caratteristiche che esse hanno in comune, formando così i concetti o gli
"universali". Diversamente da quella intuitiva, la quale oltre che sensibile può anche
essere intellettuale, la conoscenza astrattiva è invece solo intellettuale. Gli universali
o concetti non si riferiscono a realtà concrete (non ci sono essenze, forme o
sostrati), essi sono soltanto nomi astratti (nominalismo) che hanno una funzione
abbreviativa e pratica, ossia quella di significare e indicare, con un solo nome, una
classe, una molteplicità di cose simili fra loro (il concetto di "albero" indica la
molteplicità di tutti i singoli alberi concreti). Poiché la realtà è costituita soltanto da
singoli individui, da singole cose concrete, cade allora il problema legato al principio
di individuazione, che tanto aveva tormentato i classici e che abbiamo visto in Duns
201

Scoto, perché non vi è nessun passaggio da una inesistente essenza universale al


singolo individuo.
Ma se gli universali non sono reali, quale è allora il valore della scienza, la quale,
secondo gli aristotelici e gli agostiniani, ha per oggetto non il singolare ma
l'universale, ossia il concetto? Certamente dalla concezione di Ockam è escluso un
sistema di leggi universali e ancor più una struttura gerarchica e sistematica
dell'universo. Secondo Ockham tale tipo di sapere metafisico irrigidisce
dannosamente il sapere stesso. Ma la caduta della metafisica non pregiudica per
Ockham ogni forma di sapere: è sufficiente un tipo di conoscenza probabile la
quale, fondandosi su ripetute esperienze, ci consente di prevedere che ciò che è
accaduto in passato ha un alto grado di probabilità di accadere anche nel futuro.
E’ anticipata con ciò la moderna concezione del valore probabile e non assoluto della
conoscenza e della verità.

La teoria della supposizione.

L'universale quindi esiste solo nell'intelletto; non è un'entità reale bensì solo un
modo di funzionare dell'intelletto medesimo. Riprendendo la dottrina stoica, per
Ockham l'universale è solo un segno, un nome, che indica e sta al posto di una classe
di cose individuali fra loro simili. Poiché sta al posto di qualche cosa d'altro, la
funzione dell'universale, cioè del concetto, è di supposizione.
Per Ockham la supposizione, come per tutta la logica nominalistica del 13º e 14º
secolo, è il riferirsi dei concetti ad oggetti diversi dei concetti stessi. Gli oggetti cui la
supposizione si riferisce sono sempre enti individuali; non esistono entità metafisiche
ed universali come l’"umanità" o la "bianchezza", ecc. La supposizione si riferisce
sempre ad oggetti che hanno un modo di esistenza determinato: o come realtà
empiriche (cose o persone) o come concetti mentali (pensieri) o come segni scritti
(termini, parole). Vi sono quindi tre tipi di supposizione:
1. la supposizione personale, quando il termine indica le cose significate;
2. la supposizione semplice, quando il termine si riferisce ad un concetto della
mente, cioè ad un termine che ha funzione universale ma non per quanto
riguarda le cose significate: ad esempio, "l'uomo è una specie";
3. la supposizione materiale, quando il termine impiegato indica la sua propria
funzione terminologica: ad esempio, "l'uomo è un nome".
Lo stesso termine può dunque avere un significato diverso a seconda della funzione
con cui è impiegato. E la funzione dei termini (gli elementi della proposizione) è
comunque sempre quella di indicare qualcosa di diverso da se stessi. Ockam separa
quindi rigorosamente la logica dalla realtà, distingue fra termini e cose,
rivendicando l'autonomia della logica come scienza. Ciò consente ad Ockham di
occuparsi dei termini come puri simboli e correlarli fra loro ("ars combinatoria") a
prescindere e senza preoccuparsi della realtà designata. In tal modo Ockham offre
una teoria della dimostrazione logica e rigorosa in se stessa, intuendo gli sviluppi
della moderna logica simbolica. Peraltro Ockham invita a non farsi prendere la
202

mano nel considerare le proposizioni logiche esclusivamente in se stesse, ma invita a


valutarle in rapporto alla realtà indicata, imprimendo con ciò un forte incremento
alla tradizione sperimentale, al fine di controllare sempre il nostro riferimento alla
realtà.
In sostanza, gli universali (i concetti) non sono reali; sono solo nomi che stanno al
posto (supposizione) di una classe di cose tra loro simili ed hanno consistenza e
funzione solo linguistica ed abbreviativa. Non esistono neppure per astrazione
derivante da un processo di generalizzazione di singole esperienze, perché i concetti
così ricavati seguitano a non rivestire carattere reale ma solo linguistico e di
economicità (brevità) di linguaggio. Neppure esistono come concetti o idee della
mente, essendo solo strumenti, modi di funzionare dell'intelletto, per cogliere ciò che
è comune a diversi enti. Gli universali (i concetti) sono soltanto un segno, un nome,
che segue sempre l'esperienza e che viene stabilito arbitrariamente, cioè senza
nessun legame reale con le cose che sta a significare. Il linguaggio allora è pura e
semplice convenzione, è apposizione arbitraria di segni ad esperienze o a gruppi di
esperienze individuali. I segni hanno perciò significato solo per chi ha compiuto
quelle esperienze. Ad esempio, la parola "fuoco" significa qualcosa solo per chi ha
sperimentato il fuoco, ma è assolutamente priva di significato per chi non ha mai
visto il fuoco.
Però, precisa Ockham, la conoscenza, pur derivando solo dall'esperienza, non
esclude la logica come analisi dei discorsi "universali", riguardanti cioè i concetti.
Anzi, essa ha grande valore metodologico. La logica mette in rapporto fra loro i vari
termini, i vari segni, e quindi non considera la realtà ma solo una struttura (una
costruzione) convenzionale. Anche la scienza con le sue formulazioni universali,
ossia con le sue leggi generali, è una forma di linguaggio e dunque ha per oggetto
non le cose ma i contenuti mentali che "stanno al posto" delle cose. La conoscenza
scientifica è quindi basata sui segni del linguaggio. Come tale non è conoscenza
intuitiva, la quale si riferisce solo all'ente individuale, e pertanto la scienza ha un
valore relativo, probabile e provvisorio, avendo bisogno di una continua conferma o
smentita da parte dell'esperienza, che è unica fonte certa di conoscenza.

La critica alla metafisica tradizionale. Il "rasoio di Ockham" e il volontarismo


ontologico.

Ockham opera una sostanziale critica della metafisica tradizionale. Basandosi sul
carattere individuale di ogni realtà, nonché sull'empirismo e sul principio di
economia, ossia su quel procedimento metodologico che i discepoli chiameranno il
"rasoio di Ockham", egli afferma che è assolutamente dannoso ed inutile
moltiplicare gli enti (i generi di cose e i concetti) se non è necessario, creando
realtà intermedie in soprannumero rispetto a quelle da spiegare (come quando,
per volere intendere l'uomo, si ricorre all'idea platonica di umanità). In tal senso
Ockham rifiuta gran parte dei concetti metafisici poiché considerati inverificabili o
inutili.
203

Circa il concetto di sostanza, Ockham anticipa la critica che farà Locke nel XVII
secolo: delle cose noi conosciamo solo le qualità (primarie e secondarie) o gli
accidenti, secondo ciò che ci mostra l'esperienza sensibile. Ma dalle qualità non
possiamo risalire alla conoscenza della sostanza, o sostrato, di per sé invisibile, sulla
quale ritenere appoggiate tali qualità; essa rimane inconoscibile e può essere indicata
solo negativamente come "ciò che non è qualità". Nessun motivo depone a favore
dell'esistenza della sostanza e la sua ammissione viola il principio dell'economia della
ragione.
Ancora più importante è la critica del concetto di causa (causa efficiente), che
precorre Hume. Ockham insiste sulla diversità tra causa ed effetto, per cui dalla
conoscenza dell'effetto non si può in nessun modo certo risalire alla conoscenza della
causa. Neppure si può discendere dalla conoscenza della causa a quella dei possibili
effetti se questi effetti non sono stati dapprima conosciuti attraverso l'esperienza:
l'unico fondamento possibile di un legame tra causa ed effetto è l'esperienza, la quale
però ci mostra soltanto il legame e non la dipendenza di uno dall’altro fra due fatti:
due fatti sono legati l'uno all'altro quando, semplicemente, al verificarsi del primo
anche il secondo tende a verificarsi. Ciò che è empiricamente conoscibile è solo la
diversità tra causa ed effetto, pur nel costante susseguirsi di questo a quella. È
comunque possibile enunciare le leggi che regolano il succedersi dei fenomeni ma
senza la pretesa di un vincolo metafisico necessario tra causa ed effetto, non
essendovi alcuna necessaria certezza che da una determinata causa seguirà sempre,
incontestabilmente, quel determinato effetto.
Il distacco di Ockham dalla metafisica aristotelica risulta evidente anche dalla sua
critica al concetto di causa finale, secondo cui il fine muove all'azione perché amato
e desiderato. Ma questo, per Ockham, è solo un parlare metaforico perché il desiderio
e l'amore non implicano un'effettiva azione. Non è possibile dimostrare, né mediante
proposizioni logicamente evidenti né empiricamente, che un certo effetto sia stato
prodotto da una causa finale, soprattutto con riguardo ai fenomeni naturali, i quali si
svolgono invece in modo uniforme e costante e perciò escludono ogni elemento
contingente e mutevole, come appunto sarebbe l'amore o il desiderio verso un fine.
Non è neppure dimostrabile la causalità finalistica di Dio (il finalismo divino)
nell'universo poiché le cose naturali, prive come sono di conoscenza, producono i
loro effetti indipendentemente dalla conoscenza di Dio. Non ha senso dire che il
fuoco brucia in vista di un fine dal momento che non è necessario postulare un fine
perché si abbia tale effetto (principio di economia). Tale critica prelude a quella
famosa di Spinoza, il quale affermerà: "è comune la convinzione che gli avvenimenti
naturali si verificano in base a leggi costanti, che ne garantiscono l'uniformità ed
escludono ogni arbitrio o contingenza".
Per quanto concerne la gnoseologia (la filosofia della conoscenza), circa il
dibattuto argomento se è necessario distinguere l'intelletto attivo da quello
passivo Ockham risponde che questo è un problema ozioso, inutile. Egli non solo
nega come superflua tale distinzione ma afferma l'unità nell'intelletto dell'atto
conoscitivo. Se il complesso delle conoscenze è unico (ossia è medesimo e unitario
sia nell'individuo sia nella società), unico deve essere l'intelletto che le compie. La
204

conoscenza deriva dal contatto immediato con il mondo empirico ed ogni ricorso ad
entità più complicate va respinto come inutile. Così è in riferimento alle "specie" e ai
"generi" aristotelici, intesi come forme eterne delle cose e come immagini intermedie
tra noi e gli oggetti singoli. I generi e le specie sono inutili per spiegare la percezione
degli oggetti; il valore conoscitivo dei generi e delle specie è nullo perché, se
l'oggetto non fosse immediatamente colto, il genere o la specie non potrebbero
comunque farlo conoscere.
La critica alla metafisica tradizionale è condotta da Ockham anche in base ad un altro
principio, quello del cosiddetto "volontarismo teologico", mediante cui Ockham
esprime la convinzione che il mondo derivi dalla volontà misteriosa e sopra-razionale
di Dio, il quale crea l'universo a suo arbitrio, senza sottostare, come invece preteso
dalla metafisica, a nessuna regola logica che si imponga anche a Dio stesso, quale ad
esempio il principio di non contraddizione. Tant'è vero, secondo Ockham che Dio
avrebbe potuto creare il cosmo in modo totalmente diverso e con leggi
completamente dissimili da quelli vigenti nel nostro mondo. Egli stesso avrebbe
potuto decidere di incarnarsi in un asino o in una pietra senza il sorgere di
contraddizioni.
Le conseguenze filosofiche di tale volontarismo teologico sono evidenti: poiché il
mondo non è stato costruito secondo dei perché logici, necessari e immutabili, ai
filosofi non resta che prendere atto della realtà così com'è senza pretendere di
spiegarne le ragioni metafisiche. In tal modo si rivelano vani tutti i millenari sforzi
della filosofia, quella greca prima e quella cristiana poi, di scoprire le cause ultime
del mondo. L'unica cosa che rimane da fare è di abbandonare la pretesa di capire
l'essenza o il fine dei fenomeni, sforzandosi invece di descrivere come essi
avvengono.
Il rifiuto occamista della metafisica o, meglio, di una certa metafisica apre le
porte alla fisica nel senso moderno del termine.

La critica alla fisica tradizionale e l'avvio di una nuova concezione del cosmo.

Al disinteresse per i problemi teologici corrisponde in Ockham l’impegno nei


problemi della filosofia della natura. La natura è il campo proprio della conoscenza
umana. La ricerca naturalistica cessa di avere, per Ockham, il carattere iniziatico
(riservato a pochi) e magico che ancora conserva in Ruggero Bacone e diventa un
ambito di indagine aperto a tutti gli uomini. Ockham critica profondamente la
filosofia fisica aristotelica e prelude ad una nuova concezione del mondo che la
filosofia del Rinascimento farà sua, anticipando altresì i fondamenti della scienza
moderna.
Per la prima volta Ockham, salvo Democrito, mette in dubbio la diversità di natura
e di sostanza tra i corpi celesti e i corpi sublunari (terrestri) stabilita dalle dalla
fisica aristotelica e mantenuta per tutto il medioevo: sia i corpi celesti sia i corpi
terrestri sono per Ockham formati della stessa materia. Il principio di economia vieta
di ammettere la diversità delle sostanze, giacché l'ammissione che la materia dei corpi
205

celesti (l’etere) è distinta da quella dei corpi terrestri non aggiunge spiegazioni più
precise ed ulteriori. Neppure i seguaci di Ockham seguiranno il maestro su questo
punto. Bisognerà giungere a Nicolò Cusano per trovarlo riaffermato.
Contro Aristotele, Ockham ammette e difende la possibilità di più mondi.
Aristotele argomentava che, se ci fosse un mondo diverso dal nostro, la terra di
quest’ultimo si muoverebbe naturalmente (per la teoria dei luoghi naturali) verso il
centro e si congiungerebbe con la nostra (data la concezione che pone la Terra al
centro dell'universo). Lo stesso accadrebbe per tutti gli altri elementi (acqua, aria,
fuoco), giungendo comunque, così, al formarsi di un mondo unico. Ockham
controbatte negando che lo spazio abbia un unico centro. Un mondo diverso dal
nostro avrebbe un altro centro e un alto e un basso diversi. Tale relatività delle
determinazioni spaziali dell'universo sarà uno dei capisaldi della fisica del
Rinascimento. Induce ad ammettere la pluralità dei mondi, secondo Ockham, anche
l'onnipotenza divina: Dio può produrre infinita materia ed infiniti individui; nulla
vieta che formi con essi un mondo diverso o più mondi diversi dal nostro.
La pluralità dei mondi implica altresì, per Ockham, la possibilità (non la necessità)
dell'infinito reale contro la tesi secondo cui l'infinito è solo potenziale. Infatti
nell'infinito, come si dirà nel Rinascimento, il centro può essere dappertutto. Così
come Dio può sempre creare ulteriore materia, può anche infinitamente estendere la
grandezza del mondo. All'obiezione di Ruggero Bacone che l'infinito non può essere
reale poiché in esso la parte sarebbe identica al tutto, Ockham risponde che il
principio per il quale il tutto è maggiore della parte vale solo per un tutto finito e non
per un tutto infinito, come nel caso delle grandezze continue, quali la serie dei
numeri, il tempo, la velocità, la massa, l'area, la lunghezza. Le grandezze continue,
oltre che infinite, sono altresì infinitamente divisibili e non esistono in esse entità
indivisibili.
Infine, Ockham ammette e difende la possibilità che il mondo sia stato prodotto
ab aeterno. Non lo afferma esplicitamente ma si limita a mostrare che questa
possibilità non è contraddittoria. All'obiezione che se il mondo fosse eterno si sarebbe
già verificato un numero infinito di rivoluzioni celesti, il che è impossibile perché un
numero reale non può essere infinito, Ockham risponde che ciascuna rivoluzione
celeste aggiunta alle altre forma sempre un numero finito, sebbene il succedersi delle
rivoluzioni celesti possa essere indefinito. Ockham è consapevole che l'eternità del
mondo implica la sua necessità, giacché ciò che è eterno non può non essere,
rimanendo esclusa così la creazione come libero atto volontario di Dio. Ma ciò
nonostante ritiene che tale eternità sia probabile, data anche la difficoltà di concepire
l'inizio del mondo nel tempo. Infatti, se Dio è eterno e l'eternità è un infinito presente,
come può esserci stato un passato in cui Dio ha deciso di creare il mondo? Questa
ipotesi, presentata da Ockham come probabile, diverrà certezza nel Rinascimento.

Psicologia (studio dell'anima) ed etica.

Nel campo della psicologia Ockham critica il concetto di anima come forma o
essenza immateriale ed incorruttibile e pertanto immortale. Noi conosciamo,
206

mediante l'esperienza, i pensieri, i desideri, i nostri stati interiori, ma nulla sappiamo


di una pretesa forma incorruttibile che sia il sostrato (una sorta di stampo) di essi. Né
a cogliere questo sostrato vale il ragionamento, perché ogni dimostrazione in questo
senso è dubbia. È evidente l'analogia con la critica che farà Hume allorquando
affermerà l'impossibilità, sulla base dell'esperienza, di risalire dalla varietà degli stati
psichici ad una supposta loro sostanza od essenza permanente. È vero, riconosce
Ockham, che per spiegare la conoscenza bisogna ammettere che l'intelletto, o
anima, sia immateriale e quindi immortale, tale cioè che non possa mutarsi e
corrompersi, poiché altrimenti, se l'anima fosse materiale e mutevole, sarebbe
mutevole anche la conoscenza. Ma l'immortalità dell'anima individuale non può
essere dimostrata dalla ragione perché di essa non si ha esperienza. Tale immortalità
va semmai accettata per fede.
Eliminata l'anima come forma o sostrato, Ockham elimina pure l'intelletto attivo,
unico e distinto dagli intelletti passivi individuali, sul quale tanto aveva dibattuto
l'aristotelismo arabo e latino. È inutile ammettere l'intelletto attivo perché nessuna
funzione può essere riconosciuta a tale intelletto nel meccanismo e nel processo della
conoscenza. Infatti il primo grado di conoscenza, vale a dire la conoscenza intuitiva,
è direttamente causato dall'esperienza individuale, dai sensi, mentre la conoscenza
astrattiva, secondo grado della conoscenza fatta di concetti o simboli, deriva a sua
volta dalla conoscenza intuitiva.
Circa la volontà umana, essa è per Ockham una volontà libera, seppur non
dimostrabile razionalmente, risultando tale, invece, in base all'esperienza. La vita
morale dell'uomo consiste nel sottoporsi al comando divino, che è la sola norma
morale possibile. Tuttavia, anticipando la dottrina della predestinazione di
Lutero, Ockham afferma che Dio salva soltanto coloro che egli stesso sceglie e nulla
vieta che egli scelga quelli che vivono unicamente secondo le indicazioni della
ragione, anche senza credere in nulla che non sia dalla ragione stessa dimostrato,
quindi anche senza credere a nulla per sola fede.

Il pensiero politico.

Ockham è, con Marsilio da Padova, il maggior avversario, nella sua epoca, della
supremazia politica del Papato. Però, mentre Marsilio si basa su motivazioni
giuridiche, Ockham, contro l'assolutismo papale, si basa sulla concezione del primato
della libertà di coscienza religiosa e della ricerca filosofica. Al Papato non
appartiene il potere assoluto, non solo in materia politica ma anche in materia
spirituale. Il potere papale è stato istituito per il vantaggio dei sudditi, ma non perché
sia tolta ad essi la libertà. Non solo il Papa ma anche il Concilio non hanno il potere
di stabilire le verità che tutti i fedeli hanno l'obbligo di accettare. L'infallibilità in
materia religiosa appartiene soltanto alla Chiesa intesa come comunità e
moltitudine di tutti i fedeli. Per questo suo ideale Ockham combatte il Papato
avignonese in quanto ricco, autoritario e dispotico. Il Papa, come anche il Concilio,
può errare e cadere in eresia, ma non può cadere in eresia la Chiesa intesa come
207

comunità universale di tutti i fedeli la quale, secondo la parola di Cristo, durerà fino
alla fine dei secoli.
Ockham mostra che è infondata la tesi del Papato secondo cui l'autorità imperiale
ha origine da Dio solo attraverso il Papa, il quale soltanto possiede quindi l'autorità
assoluta sia nelle cose spirituali che in quelle temporali. Infatti Ockham osserva che
l'Impero non è stato istituito dal Papa, giacché esisteva prima ancora dell'avvento di
Cristo. L'Impero fu fondato dei Romani e da essi fu trasferito a Carlo Magno ed in
seguito fu trasmesso dai Franchi alla nazione tedesca. I Romani, dunque, e i popoli ai
quali hanno trasferito il potere hanno il diritto di eleggere l'Imperatore, in particolare,
nell'epoca di Ockham, i principi di Germania e non il Papato.
Circa il rapporto tra Impero e Papato Ockham sostiene non solo la teoria
dell'indipendenza dei due poteri, ma riconosce anche un certo potere dell'Impero
sul Papato soprattutto per ciò che riguarda l'elezione del Papa, cosa che, in qualche
caso, può essere nello stesso interesse della Chiesa.
Come francescano persegue altresì l'ideale di un ritorno della Chiesa alla povertà
evangelica ed alla sua missione esclusivamente spirituale e non temporale.
208

Caratteri dell’ultima Scolastica.

Dopo Ockham la Scolastica non ha più grandi personalità né grandi sistemi.


Rimangono le varie scuole, il tomismo, lo scotismo e l’occamismo, che dibattono fra
loro. Di fronte al tomismo e allo scotismo, che rappresentano la "via antiqua",
l’occamismo rappresenta la via moderna, cioè la critica e l'abbandono della tradizione
scolastica.
Nonostante divieti e condanne, il nuovo orientamento occamista si impone
lentamente nelle grandi università. Con esso si afferma l'interesse per la ricerca
naturalistica, riconosciuta come più adatta alle forze naturali dell'intelletto umano
rispetto alla speculazione teologica, i cui problemi vengono dichiarati in gran parte
insolubili.

Il misticismo tedesco Giovanni Eckhart.

La via mistica, di ispirazione neoplatonica, è stata sempre presente nella Scolastica,


ma era per lo più considerata come continuazione anch'essa, a suo modo, della
ricerca razionale. Però nell'ultimo periodo della scolastica, come si è visto, la
possibilità di dimostrare o di comprendere attraverso la ragione le verità di fede era
stata negata o messa fortemente in dubbio. Bisognava allora, se la fede non trovava
più supporto nella ragione, ristabilire la possibilità di un rapporto diretto tra la
creatura e il creatore, al di fuori del ricerca scolastica speculativa. In tal senso
rifiorisce il misticismo come via autonoma, piuttosto che sussidiaria, rispetto alla
filosofia. Esso si sviluppa soprattutto in Germania dove, grazie in particolare
all'influenza che aveva lasciato in eredità Alberto Magno, erano meno incisivi gli
indirizzi tomistico e scotistico.
Maggior esponente del misticismo tedesco è stato Giovanni Eckhart (1260-1327),
appartenente all'ordine domenicano e maestro alle università di Strasburgo e di
Colonia.
Eckhart vuole giustificare la fede trovando la via di un'unione diretta, mistica e
spirituale, tra l'uomo e Dio. Attraverso la meditazione e l'introspezione, l'uomo può
sentirsi unito e appartenente a Dio mediante un processo di elevazione spirituale
mistica, che diventa possibile allorquando l'uomo sia in grado di negare se stesso,
cancellando tutti i richiami ai vincoli della sua natura terrena e finita per far
emergere lo spirito divino che è in lui e ad esso abbandonarsi. Quando l'uomo
giunge a questo stadio egli diventa uno con Dio e solo una linea sottile lo divide da
Lui: l'uomo è Dio per grazia, Dio è Dio per natura.
D'altro canto Dio, come assoluto contrario di ogni cosa finita, non può essere
determinato che negativamente. La teologia negativa caratterizza così il misticismo.
Possiamo solo dire che a Dio non appartiene a nessuna delle qualità umane,
nemmeno le più grandi, perché comunque inadeguate di fronte a Dio stesso. Dio è
oltre e al di sopra di ogni attributo che, pur in massimo grado, la mente umana
209

sappia concepire: è una "quiete deserta", nella quale non c'è molteplicità né
mutamento, ma solo l'unità; è un'essenza superessenziale ed un nulla superessente.
210

INDICE

Introduzione. 1
La nascita della filosofia. 2
I filosofi naturalisti. La scuola di Mileto: Talete,
Anassimandro, Anassimene, Eraclito di Efeso. 8
Gli Eleati: Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso. 16
I filosofi pluralisti: Empedocle, Anassagora, Democrito. 23
I sofisti: Protagora e Gorgia. 30
Socrate. 37
Platone. 45
Aristotele. 68
L'Ellenismo. 102
Il cinismo. 103
Lo scetticismo. 104
L'epicureismo. 106
Lo stoicismo. 111
La filosofia a Roma. 118
Il neoplatonismo e Plotino. 122
Cristianesimo e filosofia. 129
La filosofia patristica. 131
Sant'Agostino. 134
La filosofia scolastica. 145
Prima fase della scolastica. Scoto Eriugena. 147
Seconda fase della scolastica. Anselmo d'Aosta. 149
Il problema degli universali. 153
Pietro Abelardo. 156
Bernardo di Chiaravalle. 158
Terza fase della scolastica. 160
La filosofia islamico-araba. Avicenna e Averroè. 161
Bonaventura da Bagnoregio. 164
Alberto Magno. 167
Tommaso d'Aquino. 168
Periodo finale della terza fase della scolastica.
Gli inizi della crisi. 184
Giovanni Duns Scoto. 188
Quarta fase della scolastica e suo dissolvimento. 195
Guglielmo di Ockham. 198
1

CORSO DI STORIA DELLA FILOSOFIA PER I LICEI E PER GLI ADULTI


CHE DESIDERANO CONOSCERLA: DALLA FILOSOFIA ANTICA A
QUELLA CONTEMPORANEA.

A cura di Francesco Lorenzoni

Anno di stesura: 2012

VOLUME SECONDO

DALL’UMANESIMO ALL’ILLUMINISMO

INTRODUZIONE.

Ho osservato che, in merito al pensiero di ciascun filosofo, l'esposizione di un


manuale è chiara in alcuni tratti mentre, a causa di un linguaggio troppo tecnico o
poiché sono saltati taluni passaggi logico-descrittivi, diventa per i principianti poco
comprensibile in altri aspetti, i quali tuttavia, a loro volta, sono esposti più
chiaramente in un ulteriore manuale. Questo corso è stato ricavato dai più accreditati
manuali scolastici di storia della filosofia, tra cui quelli di Nicola Abbagnano e
Giovanni Fornero; Giovanni Reale e Dario Antiseri; Enrico Berti; Sergio Moravia;
L.Tornatore, G. Polizzi, E. Ruffaldi; V. e A. Perrone, G. Ferretti, C. Ciancio; G.
Fornero e S. Tassinari; F. Adorno, T. Gregory , V. Verra; ecc.

Pertanto, nell'obiettivo di pervenire alla maggior chiarezza possibile, pur senza


banalizzare, nell'illustrazione del pensiero di ciascun filosofo o tema filosofico, ho
operato una cernita fra tutti i manuali presi in considerazione, estraendo i tratti
espositivi più chiari ora da un manuale ora da un altro, talvolta riportando pari pari
intere frasi e talaltra, frequentemente, cambiando e semplificando a mia volta il testo,
rielaborando e collegando quindi il tutto secondo un criterio logico-consecutivo.
Per contro ho riservato, per economia di scrittura, solo brevi cenni alla biografia dei
vari filosofi, poiché rinvenibile in qualsiasi manuale senza particolari difficoltà di
comprensione. Parimenti, non mi sono inoltrato in analisi tecnico-erudite, di tipo
specialistico, non necessarie ad una comprensione comunque idonea dei filosofi ed
argomenti filosofici di volta in volta illustrati. Peraltro, e con valore facoltativo per il
2

lettore, ho trascritto in corsivo una serie di argomentazioni integrative, se qualcuno


avesse eventualmente intenzione di prendere conoscenza anche di esse.
Sono convinto che la chiarezza espositiva è il sistema migliore per attirare gli studenti
allo studio della filosofia, come anche coloro che, ormai adulti, intendano accostarsi
ad essa per la prima volta ovvero rispolverare le conoscenze filosofiche apprese a
scuola.
Dalla comprensibilità espositiva può nascere inoltre il piacere e il gusto stesso per la
filosofia ed il desiderio di personali ulteriori approfondimenti. Ciò sarebbe il risultato
più lusinghiero derivante da questa mia fatica, dedicata a tutti coloro che abbiano
occasione e voglia di approfittarne, essendomi preoccupato di inserire il presente
corso nella rete Web.
Dell'importanza di una chiara narrazione ho fatto personale esperienza per via di
lezioni di filosofia che ho avuto modo di impartire a giovani studenti, con risultati, mi
sia consentito dire, più che soddisfacenti.

Francesco Lorenzoni
3

UMANESIMO E RINASCIMENTO.

Il contesto storico-sociale e culturale.

L'età dell'Umanesimo (XV secolo) e del Rinascimento (XVI secolo) è caratterizzata


da profonde trasformazioni sociali, economiche, politiche nonché culturali e
filosofiche.
Perdono potere le grandi istituzioni universalistiche (sovranazionali) costituite dal
Papato e dall'Impero a causa del sorgere delle prime monarchie nazionali
(Inghilterra, Francia, Spagna) e, in Italia, delle Signorie e dei Principati. L'Impero e il
Papato avevano dato all'Europa unità di lingua (il latino), di governo politico, di
cultura e di religione, nonostante la suddivisione politico-territoriale in tanti feudi
nobiliari. Si parla infatti di "universalismo" del Medioevo. Col sorgere delle
monarchie nazionali, delle Signorie e dei Principati, al posto di una politica e di una
visione politico-sociale, culturale e religiosa unitaria, universale, si affermano le
politiche e le culture nazionali, che spesso entreranno in contrasto ed in guerra fra di
esse per il desiderio di ciascuna di estendere il proprio potere.
Nasce e si consolida una nuova classe sociale, la borghesia cittadina, attiva e
industriosa, assai diversa sia dalla nobiltà militare sia dalla classe e mentalità
contadina del Medioevo. Mentre nel Medioevo la società era di tipo rurale, con
l'Umanesimo e il Rinascimento diventano più importanti le città rispetto alla
campagna, sia come centri economici che culturali: civiltà urbana.
Queste trasformazioni storico-politiche ed economico-sociali favoriscono il formarsi
di una nuova cultura e di una nuova mentalità.
Per Umanesimo e Rinascimento si intende, appunto, la nuova cultura, la nuova
società e la nuova civiltà che, dopo il Medioevo, sorge dapprima in Italia, nel
Quattrocento, e poi si diffonde nel Cinquecento in tutta l'Europa, comportando un
profondo rinnovamento della letteratura, dell'arte, della scienza e della filosofia.

I caratteri generali dell'Umanesimo e del Rinascimento.

L'affermazione della borghesia e l'avvento di nuove attività e di nuovi mestieri


cambiano i modi di vita: avviene il passaggio, già iniziato nell'età dei Comuni, ad un
nuovo tipo di economia basata sul commercio e sulla produzione artigianale, che
sostituisce l'economia feudale basata sull'agricoltura. Contestualmente sorgono
nuove concezioni sull'uomo, sul rapporto uomo e Dio, sull'atteggiamento verso il
tempo, sulla rivalutazione del lavoro e della ricchezza nonché sulla natura fisica del
mondo.
L'uomo è artefice del suo destino.
L'affermarsi di nuove professioni e mestieri dipendenti dalle capacità professionali
determina un nuovo interesse per la formazione culturale e professionale
dell'individuo. L'uomo che ha una buona preparazione culturale e professionale è
destinato ad avere successo: l'uomo può essere l'artefice (il costruttore) del proprio
destino. Da qui l'interesse che l'Umanesimo ha per l'uomo, per il valore dell'uomo,
4

che non è più considerato, come nel Medioevo, un pellegrino nella vita terrena in
attesa di quella ultraterrena. L'uomo vale anche per se stesso: è concettualmente
collocato al centro dell'universo. Il suo fine non è più soltanto la salvezza
ultraterrena ma anche il saper vivere la vita terrena con senso di responsabilità, con
soddisfazione ed impegno civile. Si passa dal teocentrismo (Dio sta al centro)
medievale all'antropocentrismo (l'uomo sta al centro). La vita attiva diventa più
importante della vita contemplativa esaltata nel Medioevo, secondo cui ogni
interesse doveva essere anzitutto rivolto alla conoscenza filosofico-teologica. Viene
invece attribuito valore anche alla conoscenza e alla pratica delle cose umane e
terrene.
L'uomo e Dio.
L'uomo dell'Umanesimo e del Rinascimento ha riconquistato fiducia nelle proprie
individuali capacità e nel proprio valore. Anche nei confronti di Dio aspira ad un
rapporto più diretto: sente come un peso eccessivo l’autoritarismo della Chiesa e
la sua tendenza a regolare i comportamenti individuali fin nel dettaglio. L'individuo
vuole essere più autonomo nel praticare la propria fede e nell'interpretare le Sacre
scritture, ruolo questo che la Chiesa considerava esclusivamente suo. Saranno questi
nuovi atteggiamenti e questi nuovi modi di sentire che porteranno alla contestazione
della struttura gerarchica della Chiesa e quindi alla Riforma protestante cui seguirà la
Controriforma cattolica.
L'atteggiamento verso il tempo.
Con la nuova mentalità cambia anche il modo di concepire il tempo:
1. il tempo della vita terrena non è più considerato solo come attesa e cammino
verso l'aldilà, ma assume importanza e valore in se stesso; la brevità della vita
comporta che il tempo e la vita terrena siano vissuti intensamente;
2. il tempo della società e dell'economia agricola medievale era regolato dalla
natura, quello della nuova società ed economia umanistica e rinascimentale è
un tempo che l'uomo vuole controllare e misurare poiché inteso ormai
coincidere col denaro (il tempo è denaro); meno tempo si impiega nella
produzione economica maggiore è il guadagno; il tempo non va sprecato.
Rivalutazione del lavoro e della ricchezza.
Collegata alla superiorità della vita attiva su quella contemplativa è l'importanza
attribuita al lavoro umano: il fine dell'uomo non è più la fuga dal mondo per
l'aldilà, secondo l'ideale dell'eremita e dell'ascetismo medievali, ma anche la vita
terrena ha un suo valore. Il lavoro non è più considerato una maledizione che ha
colpito l'uomo a causa del peccato originale, ma come una sorta di collaborazione
dell'uomo nell'opera creatrice di Dio. Ed anche il frutto del lavoro, ossia la
ricchezza, viene guardato positivamente. Essere ricchi non è una colpa se è il risultato
di un onesto lavoro ed impegno personale.
Nuova concezione della natura.
L'economia agraria medievale dipendeva strettamente dagli eventi meteorologici
naturali (col bel tempo c'erano buoni raccolti e col cattivo tempo c'erano scarsi
raccolti): la natura veniva perciò considerata come qualcosa di non controllabile
dall'uomo. La nuova economia mercantile ed artigianale è invece largamente
5

indipendente dagli eventi naturali, svolgendosi prevalentemente all'interno dei


fabbricati cittadini. Il successo economico non dipende più dalla forza incontrollabile
della natura, ma dipende dalla capacità e dalla formazione professionale dei singoli
individui nonché dall'abilità nell'organizzare la vita sociale e politica all'interno della
città. Di conseguenza nasce una nuova mentalità nei confronti della natura: non si
dipende più interamente da essa, ma ci si rende conto della possibilità di conoscerla
meglio per regolarla, favorendo i commerci e la produzione artigianale. Da ciò lo
sviluppo della filosofia naturalistica che caratterizzerà soprattutto il Rinascimento e
che per certi aspetti anticiperà la rivoluzione scientifica del Seicento.
La natura non è più considerata una forza imprevedibile contro cui l'uomo non può
fare nulla, ma invece si comincia a comprendere che i fenomeni naturali
avvengono con una certa regolarità e che sono quindi prevedibili, per cui l'uomo è
allora in grado di trasformare la natura con le nuove tecniche di sua invenzione.
Cambia di conseguenza anche la concezione del sapere e della conoscenza: il
sapere non è più soltanto quello teologico, finalizzato alla comprensione della fede,
ma diventa un sapere pratico, finalizzato al miglioramento della vita terrena.

Distinzione o continuità tra Umanesimo e Rinascimento e tra Rinascimento ed


Età moderna.

Per Umanesimo, che si sviluppa nel Quattrocento, si intende specificatamente il


ritorno alle "humanae litterae", cioè la riscoperta e valorizzazione delle opere
culturali, letterarie, poetiche e filosofiche dell'antichità classica greco-romana,
considerate esemplari per bellezza ed eleganza dello stile nonché come modelli di
vita per l'esaltazione delle virtù civili.
Diversamente dalla Scolastica più matura che, principalmente con Tommaso
d'Aquino, si era ispirata in gran parte alla filosofia di Aristotele, anche se adattata alla
concezione cristiana, per l'Umanesimo il più importante maestro di pensiero è
Platone, per lo stile poetico ed artistico e per il carattere idealistico della sua filosofia.
Più in generale, gli umanisti respingono la cultura medioevale e scelgono quella
dell'antichità classica perché più vicina alla loro nuova mentalità.
Per Rinascimento, sviluppatesi nel Cinquecento, si intende specificatamente la
rinascita, dopo quello medievale, dell'uomo nuovo, il quale considera se stesso, gli
altri, il mondo e Dio in modo nuovo ed in senso non più esclusivamente religioso. Un
aspetto importante del Rinascimento è la rinascita dell'interesse per la filosofia della
natura: la natura è concepita come "animismo", cioè come forza che anima, che
produce, dà vita e movimento alle cose; non una natura morta, passiva ed inerte ma
attiva e viva; una natura come organismo vivente e non come meccanicismo (la
natura e i fenomeni naturali non sono cioè il risultato di soli rapporti meccanici di
causa-effetto, ma la natura ha una sua anima, una sua vitalità ed un suo proprio fine).
Questo interesse per la natura induce successivamente a riconsiderare l'importanza,
oltre che di Platone, anche della filosofia di Aristotele perché più razionalista e di
maggior orientamento naturalistico. Peraltro la filosofia naturalistica
6

rinascimentale ha un carattere ambiguo, oscillante: da un lato mira ad essere


scientifica, cercando di comprendere scientificamente i fenomeni naturali, ma
dall'altro lato si è portati a pensare che la natura sia qualcosa di magico, da
studiare perciò anche con la magia, con metodi e pratiche magiche ed esoteriche. In
taluni altri casi la natura è identificata con Dio (Dio non è sopra la natura ma
dentro di essa: panteismo) e comunque si è portati a vedere nella natura la
manifestazione di una intelligenza divina.
A causa delle rispettive e specifiche caratteristiche alcuni studiosi ritengono che
Umanesimo e Rinascimento siano due periodi storico-culturali da tenere fra di essi
distinti.
Taluni, in particolare il tedesco G. Voigt e lo svizzero Burchardt, distinguono
nettamente i due periodi, affermando che l'Umanesimo ha un carattere
soprattutto letterario, basato sugli studi umanistici e classici, mentre il
Rinascimento ha un carattere più filosofico e scientifico. Ciò significa dire che gli
umanisti furono soprattutto filologi (filologia=studio dei testi e delle parole), con
prevalenti interessi letterari ed artistici, mentre le persone dotte del Rinascimento
furono più filosofi, con prevalenti interessi per la filosofia naturalistica e per un
nuovo modo di considerare Dio e il rapporto uomo-natura-Dio.
Ma l'opinione della maggioranza degli studiosi, a partire dallo storico tedesco
Burdach, sostiene che Umanesimo e Rinascimento non devono essere visti come
due età separate ma continuative, come due facce di un identico fenomeno, perché
già lo studio delle "humanae litterae" va avvertito come vera rinascita (Rinascimento)
della civiltà. Così, pur senza negare le differenziazioni interne, il termine
storiografico di Rinascimento viene ad estendere il proprio significato per denotare
l'intera civiltà culturale del Quattrocento e Cinquecento: Umanesimo e
Rinascimento insieme.
In effetti, la storia procede gradualmente e non fa salti: già alcune caratteristiche
dell'Umanesimo e del Rinascimento si ritrovano e sono anticipate nell'età dei
Comuni, rinvenendo in Francesco Petrarca e Colucci Salutati due significativi
precursori.
Si è altresì dibattuto circa i rapporti del Rinascimento con l'Età moderna. Per
lungo tempo i sostenitori della distinzione tra Rinascimento e Medioevo hanno
considerato il Rinascimento come l'inizio stesso dell'Età moderna in ragione del
definitivo tramonto dell'età medievale. Invece i sostenitori della continuità tra
Umanesimo e Rinascimento hanno interpretato il Rinascimento, anziché come inizio
dell'Età moderna, ancora come prosecuzione, in buona parte, della civiltà cristiano-
medievale.
Gli studiosi odierni, in genere, hanno assunto una posizione mediana fra le due
opposte interpretazioni anzidette, collocando l'inizio dell'Età moderna con la
Rivoluzione scientifica (Galilei e Francesco Bacone) e considerando piuttosto il
Rinascimento come periodo di transizione tra Medioevo ed Età moderna, ossia come
epoca di sintesi tra il vecchio e il nuovo, avente in sé elementi di novità e di
conservazione al tempo stesso.
7

La nuova figura dell'intellettuale laico e le nuove sedi della cultura umanistica e


rinascimentale.

L'Umanesimo e il Rinascimento, dopo aver spezzato l'unità politica del Medioevo


(con la crisi dell'Impero), ne rompono anche l'unità culturale, rifiutando la struttura
gerarchica del sapere che poneva in cima la teologia. Si ha infatti una tendenziale
laicizzazione del sapere, in virtù della quale le varie discipline cominciano a
rivendicare ognuna la propria autonomia. Ciò avviene lungo un tormentato processo:
la letteratura difenderà il principio dell'autonomia dell'arte, non più subordinata ad
obblighi pedagogico-moralistici ma valida in se stessa e nei valori formali della
bellezza; il protestantesimo di Lutero darà origine a una teologia sempre più
separata dalla filosofia; Machiavelli difenderà l'autonomia della politica rispetto
alla morale e alla religione; Ugo Grozio, nel Seicento, getterà le basi per un analogo
riconoscimento dell'autonomia del diritto; Galileo perverrà infine alla fondazione
dell'autonomia della scienza, svincolata da condizionamenti metafisici e teologici.
Questo processo di laicizzazione ed autonomizzazione del sapere viene a
caratterizzare la mentalità dei nuovi intellettuali, di estrazione borghese, i quali,
non essendo ecclesiastici, sono maggiormente portati a riconoscere l'autonomia delle
varie discipline umane.
Con l'Umanesimo e il Rinascimento la Chiesa perde dunque il secolare
predominio, conservato per tutto il Medioevo, nell'organizzazione della cultura
che passa i laici, ossia alla borghesia cittadina che apprezza l'arte, il bel parlare e
l'eloquenza nello scrivere come valori in sé, non più subordinati ad esclusive finalità
religiose ultraterrene: anche l’aldiquà ha un valore, da non disprezzare rispetto
all’aldilà, perché è anch'esso un dono di Dio. La cultura diventa laica e la
borghesia costituisce nuove scuole e nuove sedi culturali. Si diffondono le scuole
professionali, che preparano alla vita pratica e lavorativa: la conoscenza della lingua
scritta (imparare a scrivere) e la conoscenza dell'aritmetica vengono considerate come
condizioni necessarie per lo svolgimento di un'attività professionale.
Le carriere professionali che comportano lunghi studi universitari continuano ad
essere quelle tradizionali del giurista, del medico e dell'ecclesiastico, ma già
comincia ad apparire la professione del letterato.
Il ruolo più diffuso dei letterati è quello di scrittore al servizio del re o del
principe, per scrivere documenti ufficiali, in elegante latino, per tradurre dal greco in
latino o per scrivere opere celebrative delle virtù del re o del principe di cui è al
servizio. Sorge proprio in questo periodo la figura del "mecenate", ossia del nobile
che chiama alla sua corte un letterato e lo stipendia. Tutto ciò non impedisce tuttavia
ai letterati di scrivere opere anche di loro interesse, non richieste dal mecenate da cui
dipendono.
Ai livelli più alti della cultura, la borghesia istituisce, accanto alle Università, le
Accademie, che diventano luoghi di elaborazione di una cultura diversa da quella
della filosofia scolastica.
Numerose sono anche le biblioteche aperte al pubblico.
8

Certamente, gli intellettuali dell'Umanesimo e del Rinascimento rimangono una


minoranza privilegiata rispetto al resto della popolazione, che non conosce il latino e
che spesso è analfabeta.
Sorge allora il problema della lingua da usare, ossia se scrivere in latino oppure in
lingua volgare per farsi capire da un pubblico più ampio. Prevalentemente viene usato
il latino (non però quello medioevale bensì quello classico) come lingua
internazionale comprensibile a tutte le persone istruite d'Europa, ormai divisa in Stati
nazionali, e ciò anche per favorire lo scambio intellettuale e culturale a livello
europeo. Viceversa, si usa prevalentemente il volgare quando ci si vuol far capire
dalla popolazione locale. In ogni caso, anche quando si scrive in volgare si considera
condizione necessaria che lo scrittore conosca comunque il latino.

Tra i maggiori esponenti dell'Umanesimo possiamo citare: Leon Battista Alberti;


Nicolò Cusano; Marsilio Ficino; Pico della Mirandola; Pietro Pomponazzi.
Tra i maggiori esponenti del Rinascimento possiamo citare Bernardino Telesio;
Giordano Bruno; Tommaso Campanella.

Leon Battista Alberti (1404-1472).

Nasce a Genova da una famiglia fiorentina di mercanti colà emigrata. Studia lettere e
giurisprudenza. È stato non solo letterato e filosofo, ma anche architetto, scultore e
pittore.
Tra le opere scritte si possono ricordare i dialoghi intitolati "Della famiglia". In essi
vengono presentati esempi, indicazioni pratiche e modelli di vita tipici della
borghesia del tempo e soprattutto della classe dei mercanti. Gli argomenti non sono
specificatamente filosofici, ma rendono bene la nuova mentalità e i nuovi ideali
dell'Umanesimo.
Il mercante, protagonista dei dialoghi, è il diligente padre di famiglia che organizza
complesse attività economiche; la moglie è colei che custodisce i beni da lui
accumulati e i figli sono visti come i continuatori della sua attività.
L'opera è scritta in volgare. In essa si coglie bene la "filosofia pratica", che esalta la
vita attiva caratterizzante i nuovi ideali umanistici e la nuova visione dei compiti e
del ruolo sociale dell'uomo dell'età dell'Umanesimo.
Il personaggio principale dei dialoghi si chiama Giannozzo. Dichiara che l'uomo può
dare vera definizione su tre sue cose: l’animo, il corpo e il tempo.
Il buon uso dell'animo è la virtù, intesa non più come virtù cristiana ma come
capacità di stabilire buoni rapporti umani, di mantenere l'animo sereno e di non fare
mai cose malvagie. Il buon uso del corpo consiste nel preservare la salute attraverso
l'esercizio fisico e la dieta. Il buon uso del tempo esprime concetti che hanno
maggior valore filosofico. Il tempo non è più quello che dipende dal fato, dal destino
o dalla esclusiva volontà di Dio, ma il suo buon uso consiste nel saper organizzare la
propria esistenza e le proprie attività. Il peccato maggiore è sprecare il tempo, non
9

adoperarlo, perché è come gettare via la propria vita. Usando bene il proprio tempo,
in maniera attiva e laboriosa, l'uomo è anche in grado di controllare la fortuna, ossia
di evitare la cattiva sorte.
L'attività dell'uomo va finalizzata non solo all'utilità individuale ma anche a
quella degli altri uomini e della città. È da condannare chi si dà alla politica solo
per ambizione di potere, ma spetta ai buoni cittadini di prestare la loro opera anche al
servizio dello Stato.

Nicolò Cusano (1401-1464).

Nasce a Cusa, presso Treviri, in Germania. È tedesco di origine, ma italiano per


formazione culturale. Studia all'università di Padova e diventa vescovo di
Bressanone. Muore a Todi, in Umbria.
La filosofia di Cusano si ispira in gran parte alla filosofia di Platone, come del
resto, in prevalenza, la filosofia umanistica mentre quella rinascimentale si ispira
anche ad Aristotele. Nella filosofia di Cusano sono trattati grandi temi teologici e
religiosi, ma anche cosmologici (cosmologia=studio del cosmo, dell'universo, della
sua origine e della sua struttura). Si interessa anche della natura e dei modi della
conoscenza umana.
Oltre che di filosofia, si occupa anche di matematica e di fisica.
Suo scopo principale è la ricerca dell'unità: l'unità dell'uomo con Dio e l'unità fra
gli uomini, superando i conflitti umani a cominciare dai conflitti religiosi.
Partecipa al Concilio di Basilea (1431-1447) e sostiene che l'autorità e le decisioni del
Concilio, come assemblea di tutti i vescovi, è superiore all'autorità del Papa, che è
l'esecutore delle decisioni del concilio.
Condanna i conflitti fra le diverse religioni, affermando che le varie religioni, pur
diverse, hanno tutte una base comune, comuni elementi di fede. Le diversità sono
soltanto adattamenti, voluti da Dio, rispetto alle varie popolazioni e culture umane. I
contrasti sorgono quando alcuni uomini vogliono imporre agli altri i riti e le credenze
particolari dei loro specifici adattamenti alla fede religiosa. Ma si tratta di una pretesa
insensata.
Opere principali: La dotta ignoranza; Le congetture.

La dotta ignoranza.

Quando si cerca di conoscere le varie cose, in genere si paragona ciò che per noi è
certo e noto con ciò che è incerto e ignoto. La conoscenza è quindi proporzione
(rapporto, confronto, paragone) tra il noto e l'ignoto. Dati ad esempio tre termini
noti, di cui i primi due stiano fra loro in un certo rapporto, è possibile scoprire un
quarto termine ignoto che stia col terzo nello stesso rapporto in cui il secondo sta col
primo (è il modello delle proporzioni matematiche). Pertanto, quando si studiano le
cose finite è sempre possibile fare un paragone, una proporzione fra ciò che ci è
10

più noto, che ha un maggior grado di certezza, e ciò che ci è meno noto, che ha un
minor grado di certezza. Ma questa proporzione non è più possibile quando
vogliamo conoscere l'infinito e Dio, essendo entità lontanissime da ciò che già ci è
noto, mentre la conoscenza umana funziona solo partendo da cose note in base a cui
comprenderne altre ancora non note, ma comunque vicine a quelle già conosciute.
Invece Dio e l'infinito sono così lontani dalle cose finite più vicine a noi che sfuggono
ad ogni proporzione, ad ogni paragone, e quindi rimangono ignoti: la conoscenza
umana, che è finita, non potrà mai conoscere pienamente Dio, che è infinito. Perciò
bisogna riconoscere la nostra ignoranza su Dio. Però l'uomo ha consapevolezza
di questa sua ignoranza, di questa assoluta sproporzione fra la mente umana finita e
Dio infinito; pertanto, essendo consapevoli di questa nostra ignoranza, essa può
essere definita una "dotta" ignoranza.
Se l'uomo non potrà mai conoscere pienamente Dio, tuttavia può avvicinarsi
indefinitamente ad una conoscenza sempre più completa di Dio, così come un
poligono inscritto in un cerchio può progressivamente avvicinarsi sempre di più alla
circonferenza del cerchio pur senza mai coincidere con essa.
Non ci può essere dunque conoscenza positiva (completa) di Dio. Di lui possiamo
dire meglio ciò che non è anziché ciò che è: Cusano riprende la cosiddetta "teologia
negativa". Di Dio possiamo soltanto dire che è al di là dei limiti e delle possibilità
della conoscenza umana, che è il massimo. La teologia negativa è la necessaria
premessa di ogni teologia positiva che intenda conoscere qualcosa di Dio.
Dio è l'infinito, la totalità dell'essere, ossia comprende in sé ogni realtà, tutto
l'universo, pur non identificandosi e non coincidendo con esso, poiché Dio è
trascendente e non immanente. L'universo non può avere in sé nulla che non sia già in
Dio, che è tutto. Tutto ciò che è nell'universo deriva da Dio ed è stato da lui creato.

Dio come coincidenza degli opposti.

Per Cusano nell'infinito, e quindi in Dio, gli opposti coincidono: nell'infinito non
valgono più le leggi della conoscenza umana e il principio di non contraddizione. Vi
è coincidenza dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo. L'infinito è al
di sopra di ogni distinzione tra le cose, di ogni cosa determinata, ed è al di sopra di
ogni opposizione tra le cose, al di sopra di tutte le cose fra di esse contrarie, ma tutte
le contiene. L'infinito è totalità, cioè unità, non è composto da cose o parti
determinate perché è al di sopra di esse. Quindi l'infinito è totalità
indeterminata: perciò l'infinito, che è il tutto, coincide col nulla, col nulla di
determinato. Questa è appunto la coincidenza degli opposti, proprio come un
triangolo con un lato infinito finisce col coincidere con una linea retta, cioè col suo
opposto.
In Dio tutte le cose tornano all'unità, senza più distinzioni ed opposizioni: in questo
senso Dio è "complicatio" (=inclusione, riunificazione) dell'universo. Ma per
converso Dio si spazializza, si distende e si distribuisce nell'universo, che è creato e
deriva da lui: in questo senso Dio è "explicatio" (=esplicarsi, distendersi, specificarsi
e differenziarsi) dell'universo. Riappare quindi la coincidenza degli opposti: Dio è
11

inclusione, unità, e al tempo stesso è anche esplicazione, differenziazione; i due


opposti “unità” e “differenziazione” coincidono.

Il rapporto fra Dio e l'universo. Il principio del "tutto in tutto". L'uomo come
microcosmo.

Dio come infinito e totalità contiene in sé, include (complicatio) tutte le cose che si
esplicano nel mondo. Tutto l'universo è in potenza contratto (concentrato) in Dio,
ma poiché gli opposti coincidono ciò significa altresì che Dio è contratto
nell'universo, ossia l'universo è manifestazione di Dio nel senso che nell'universo è
reso manifesto, esplicito e attuale ciò che in Dio è implicito e incluso. Dio come unità
si manifesta nella pluralità degli elementi dell'universo; ogni cosa reca in sé una
scintilla divina.
Allora anche ogni essere, ogni ente è contrazione, è un concentrato dell'universo,
essendo ogni essere contrazione (manifestazione) di Dio. Ciascun ente pertanto, si
può dire, riassume l'universo intero e riassume Dio. L'universo è tutto in tutto, è in
ogni cosa, secondo l'antica massima di Anassagora. Qualunque cosa è in qualunque
altra perché tutte le cose sono fra loro collegate ed il finito è collegato con l'infinito
(coincidenza degli opposti). Ogni cosa è dunque un microcosmo, perché contrae in
sé tutte le cose. Ogni cosa è un'unità ma, per la coincidenza degli opposti, e anche
pluralità contratta.
Anche l'uomo è microcosmo, anzi è microcosmo privilegiato in quanto, essendo
dotato di mente e di conoscenza, egli, a differenza degli altri enti, ha consapevolezza
di contrarre, di concentrare in se stesso tutte le cose. In tal senso sussiste contratta
nell'uomo l'unità di tutti, dell’intera umanità. L'umanità contiene, in potenza,
(potenzialmente) Dio e l'universo. L'uomo è un piccolo mondo che è parte di quello
grande. In tutte le parti si riflette il tutto, perché la parte è parte del tutto. Il concetto
di uomo come microcosmo diviene un proclama ideale di tutto l'Umanesimo.

La cosmologia (= origine e composizione del cosmo, dell'universo).

Se l'universo è estrinsecazione (explicatio) di Dio, ossia creazione di Dio e


manifestazione di Dio nella natura, allora esso deve possedere i medesimi attributi
(proprietà) che possiede Dio.
Cusano costruisce una cosmologia originale e nuova, che anticipa molti aspetti della
futura rivoluzione astronomica. Innanzitutto l'universo è infinito, non come Dio ma
nel senso che è illimitato, senza limiti e confini, in quanto è esplicazione di Dio, la
quale non può subire limite alcuno. Allora, se è infinito, non ci può essere né un
centro né una circonferenza, perché altrimenti l'universo sarebbe delimitato dalla
circonferenza e quindi non infinito. Anche se per ragionamento filosofico e non per
sperimentazione scientifica, Cusano anticipa dunque, ancor prima di Copernico,
Keplero e Newton, il rifiuto del sistema geocentrico di Tolomeo e di Aristotele.
Non essendoci un centro nell'universo infinito, la Terra pertanto non è al centro
dell'universo. Essa si muove anche se noi non avvertiamo il movimento. La Terra
12

infatti è composta da materia ma, dice Cusano, nulla di materiale può rimanere fisso
ed immobile perciò, ad ulteriore motivazione, la Terra non può essere il centro fisso
dell'universo. Altrettanto, poiché illimitato, non c'è alcun limite dell'universo
costituito dalla sfera delle stelle fisse come sosteneva Aristotele.
In aggiunta, sostiene Cusano, la materia che compone la Terra (acqua, aria, fuoco,
terra) non è diversa da quella che compone gli altri pianeti e le altre stelle,
smentendo con ciò la teoria aristotelica dell'etere quale materia dei corpi celesti.
Solo Dio, che è il principio dell'universo, è il suo centro e il suo limite.

La teoria della conoscenza.

Nell'opera "Le congetture" Cusano afferma che la struttura dell'universo è


matematica. Dio ha cioè creato l'universo seguendo modelli matematici, in modo
rigoroso e ordinato, assegnando alle varie parti dell'universo (stelle, pianeti e tutto ciò
che essi contengono) dimensioni, distanze e composizioni proporzionate come in
matematica. Con tale pensiero Cusano anticipa altresì quello di Galileo.
Però gli enti matematici (i numeri e le figure geometriche), in base a cui Dio ha
creato l'universo, possono essere creati anche dalla mente umana. Vi è quindi
corrispondenza fra la struttura matematica dell'universo e la conoscenza matematica
umana. Più in generale, per quanto riguarda la conoscenza, pure quella non
matematica, anche l'uomo dunque è creatore, è capace di creare le proprie
conoscenze, così come Dio è creatore della realtà. In questo senso l'uomo è simile
a Dio, produce da sé gli strumenti (la matematica e le scienze) per spiegare e capire
l'universo. Tuttavia la matematica creata dall'uomo non è identica alla struttura
matematica completa dell'universo anche se vi si avvicina; ne è piuttosto
un'immagine, un simbolo, perciò la conoscenza umana non è mai certa ma è una
congettura (= supposizione). Da ciò il titolo dell'opera "Le congetture".

Marsilio Ficino (1433-1499).

Nasce a Figline Valdarno. Fonda e dirige l'Accademia platonica fiorentina col


patrocinio di Cosimo de’ Medici (grande mecenate). Traduce in latino i dialoghi di
Platone, le "Enneadi" di Plotino, ma anche il "Corpus hermeticum" di Ermete
Trismegisto, gli "Inni" di Orfeo e Zoroastro, che erroneamente Ficino riteneva
documenti antichissimi ed autentici, mentre sono di età romana-imperiale o
medievale.
Ficino intende dare fondamento teoretico (conoscitivo) al primato e alla dignità
dell'uomo (l'uomo centro dell'universo), su cui tutti gli umanisti della prima metà
del Quattrocento avevano insistito ma per lo più solo a livello descrittivo.
Il pensiero di Ficino è una forma di neoplatonismo cristianizzato, i cui capisaldi
sono:
1. il concetto di filosofia come "rivelazione", come "ispirazione religiosa";
13

2. il concetto di anima come copula del mondo (copula nel senso grammaticale di
congiunzione: l'anima congiunge le essenze spirituali, le idee, con le sostanze
materiali, con i corpi);
3. un ripensamento in senso cristiano dell'amor platonico.
Ficino afferma la comune origine e quindi l’unità di religione e di filosofia (anche
delle filosofie precristiane) . Ogni filosofia nasce, per Ficino, da una illuminazione
della mente, da una ispirazione divina, la stessa che ha ispirato la religione
rivelata. Gli antichi teologi, maghi e fondatori delle religioni, come Ermete
Trismegisto, Orfeo, Zoroastro, sono tutti profeti illuminati dalla luce della divina
rivelazione, derivante dall'unica e originaria fonte universale del sacro e del vero che
è il Logos, ossia il Verbo divino, che è uguale per tutti. A questa comune fonte
ispiratrice hanno attinto anche Pitagora, Platone e gli altri filosofi. La venuta del
Cristo, il farsi carne del Verbo, del Logos, segna il completamento di questa
rivelazione del sacro e del vero. Perciò non c'è nessuna contraddizione ma anzi
perfetto accordo tra religione e filosofia, tra cristianesimo e platonismo ed anche tra
l'antica magia e la teologia, in quanto derivanti dalla medesima sorgente.
In quest'ottica Ficino definisce l’ispirazione religiosa dei profeti e dei filosofi
come"docta religio", per sottolineare il valore di saggezza insito nella loro missione.
Per altro verso, Ficino non ha avuto esitazioni a proclamarsi anche mago, seguace
della magia naturale, ma non di quella spiritistica e di quella profana, che si
dedicano a venefici, a malefici o al culto dei démoni. Quella di Ficino è una magia
naturale che sfrutta i benefici delle cose della natura per la buona salute dei corpi. È
una magia virtuosa che Ficino ricollega a quella dei Re Magi. La magia di Ficino si
basa sul concetto dell'universale animazione di tutte le cose grazie allo "spirito",
sostanza materiale sottilissima, soffio, che pervade tutti i corpi. Ficino non considera
la magia contraria al cristianesimo: Cristo stesso infatti, egli afferma, è stato in molti
casi un guaritore. Il fascino per la magia risulta comune a molti degli uomini
dell'Umanesimo e Rinascimento e costituisce un elemento caratterizzante di
quell'epoca.
L'unità di religione e filosofia ha per Ficino lo scopo di rinnovare l'uomo e il suo
mondo, proclamando l'uomo centro dell'universo. Infatti, secondo lo schema
neoplatonico, Ficino distingue la struttura metafisica della realtà in cinque gradi
(o essenze) decrescenti di perfezione: Dio, angelo, anima, qualità (forma, essenza)
e corpo (materia). In questa scala l'anima sta nel mezzo, è l'elemento mediano e
di congiunzione tra il mondo intellegibile (dello spirito e delle idee) ed il mondo
fisico. Perciò l'anima è definita da Ficino "copula mundi" (elemento di
congiunzione, di collegamento) e l'uomo, portatore dell'anima, è collocato al centro
dell'universo. Così come l’infinito, lo spirito, è indistruttibile, lo è anche l'anima che
ad esso si collega e congiunge.
La funzione mediatrice e di collegamento dell'anima si esplica attraverso
l'amore, che è la forza che unisce le diverse parti della creazione, l'intero
universo. È per amore che l'universo tende a Dio ed esce così dal caos, si organizza e
raggiunge l'ordine e la perfezione. Ed è sempre per amore che Dio si prende cura
dell'universo e gli dà la vita. La reciprocità del sentimento d'amore è la novità
14

concettuale mediante cui Ficino converte l'amore platonico nell'amore cristiano,


riformulando ed ampliando il concetto di amore platonicamente inteso, limitato in
quanto tale ad attrarre a sé le cose senza tendere alle cose a sua volta.
Ma tutta l'intera concezione neoplatonica è utilizzata da Ficino per accentuare la
funzione centrale dell'uomo: mentre il centro del neoplatonismo di Plotino è
l’"Uno", Dio, da cui tutto deriva per emanazione e a cui tutto ritorna, il centro del
neoplatonismo di Ficino (come di Cusano, di Pico della Mirandola e degli umanisti
in genere) è l'uomo nella sua funzione di congiunzione tra mondo ultraterreno e
mondo terreno. L'uomo continua ad avere la sua origine e la sua perfezione in Dio,
ma trova in se stesso, nella sua dignità di essere privilegiato, il proprio valore e il
proprio fondamento nell'amore che lo lega Dio e di cui Dio lo ricambia. È nel potere
dell'uomo di ascendere, mediante un atto d'amore, la scala dei gradi della realtà
e di accendere l'anima in una sorta di "indiamento" (immedesimazione in Dio) nel
quale, in Dio, l'anima si fa eterna.

Pico della Mirandola (1463-1494).

Famoso anche per la sua eccezionale memoria, Pico della Mirandola si pone lo scopo
di allargare il campo della conoscenza, anche cercando di conciliare fedi e filosofie
diverse; sostiene ad esempio che fra la filosofia di Platone e quella di Aristotele,
ritenute molto diverse tra di esse, vi siano invece molti punti concordi.
La sua opera principale è il "Discorso sulla dignità dell'uomo". Ciò che distingue
l'uomo dagli altri esseri, egli dice, è la sua natura non definita, non
predeterminata. Infatti, mentre la natura degli angeli è razionale, e dunque il loro
comportamento è sempre determinato dalla ragione, e mentre la natura degli
animali è istintuale, e dunque il loro comportamento è sempre determinato
dall'istinto, l'uomo invece è libero e dipende da lui scegliere la strada che vuol
seguire (il bene e il giusto o il male e l'ingiusto). La scelta del tipo di vita comporta la
responsabilità dell'individuo, ma in questa libertà di scelta, non concessa agli altri
esseri, consiste la specifica dignità dell'uomo. L'uomo è artefice del suo destino.
L'elevazione dell'uomo verso gli esseri superiori comincia con il dominio delle
passioni e poi con la conoscenza, dapprima la conoscenza delle cose naturali
(filosofia naturale) e poi la conoscenza delle cose divine (teologia). L'uomo, nel suo
piccolo, è composto delle medesime parti, delle medesime sostanze di cui è composto
il cosmo intero, l'intero universo: nell'uomo come nel cosmo vi sono sia sostanze
materiali ed istintuali sia sostanze razionali e spirituali. Per tale ragione Pico afferma
che l'uomo è un microcosmo, corrispondente nel suo piccolo al macrocosmo, cioè al
cosmo intero. È il concetto di uomo come microcosmo che ritroviamo anche in molti
altri umanisti e filosofi rinascimentali.
Per Pico della Mirandola, come per numerosi pensatori dell'Umanesimo e del
Rinascimento, nella scienza rientra anche la magia: non la magia nera, che è opera
15

del demonio, ma la magia bianca che, con i suoi riti, le sue formule e le sue pratiche,
cerca di scoprire gli aspetti più misteriosi e nascosti della natura. Per l'Umanesimo e
per il Rinascimento infatti la natura e l'universo non sono concepiti come un insieme
meccanico di fenomeni materiali, ma come un organismo, come un essere vivente,
dotato quindi anche di sensibilità e spiritualità: gli elementi della natura sono capaci
di sentire, hanno sensazioni e gioiscono o patiscono come gli uomini. E la magia,
allora si pensava, mira proprio a ricercare questi elementi sensibili della natura per
utilizzarne l'energia e i benefici. La magia bianca, si diceva, non allontana da Dio;
anzi spinge l'uomo ad ammirare ancora di più Dio, perché proprio lui ha creato una
natura così misteriosa ed affascinante, piena di segreti nascosti.
In questo senso Pico è anche uno studioso della "Cabala", cercando di conciliarla col
cristianesimo. La Cabala è un insieme di dottrine di origine ebraica, basate su molti
elementi mistici e magici, che si propone di approfondire i rapporti tra Dio e il mondo
(la natura), considerando Dio misticamente e magicamente presente e nascosto nella
natura, per cui la natura non è solo materiale ma soprattutto spirituale.

Pietro Pomponazzi (Mantova 1462-Bologna 1524).

Insegna a Padova e a Bologna. È il maggior esponente dell'aristotelismo umanistico-


rinascimentale.
Opera principale: Sull'immortalità dell'anima.
Pur se inizialmente di orientamento platonico, l'Umanesimo-Rinascimento assume in
seguito anche orientamenti aristotelici. L'aristotelismo umanistico-rinascimentale è
diviso in due filoni:
1. gli averroisti, che sostengono l'esistenza di un unico intelletto attivo separato
dagli intelletti passivi individuali e, in quanto tale, immortale;
2. gli alessandrinisti, che considerano mortale non solo l'individuo e il suo
intelletto passivo, ma negano anche l'esistenza di un intelletto attivo separato e
immortale, giudicando che niente esiste o sopravvive al corpo, essendo l'anima
una funzione dell'organismo indissolubilmente legata ad esso.
Pomponazzi appartiene alla corrente degli alessandrinisti. Il suo intendimento
fondamentale è dimostrare che il mondo ha un ordine razionale necessario (in
esso cioè non vi è né libertà né finalismo). In Aristotele egli vede il filosofo che ha
escluso l'intervento diretto di Dio o di altri poteri soprannaturali nelle cose del
mondo. Pomponazzi non nega la realtà di fatti eccezionali o miracolosi che sembrano
testimoniati dall'esperienza. È vero che ci sono incantesimi, magie, stregonerie,
miracolosi effetti di piante o pietre. Ma tali fatti non sono miracoli nel senso di essere
contrari alla natura e fuori dall'ordine del mondo; sono chiamati miracoli solo perché
accadono raramente, ma non sono eventi sovrannaturali, rientrano invece nell'ordine
necessario della natura e si spiegano con l'azione degli astri. I corpi celesti infatti
sono il mezzo necessario con cui Dio agisce sul mondo. Dio non interviene
16

direttamente sulle cose naturali, perché tutte le azioni si trasmettono attraverso la


serie dei cieli.
Nell'ordine naturale e necessario del mondo rientra pure la storia degli uomini e
delle stesse religioni. Per ogni religione vi è il tempo del suo sorgere, del suo fiorire
e della sua fine. Il nascere di una religione è caratterizzato da oracoli, profezie e
miracoli che diminuiscono a misura che si avvicina l'epoca della fine. Proprio per
l'esaurirsi dei miracoli Pomponazzi prevede la prossima fine della fede cristiana.
Nell'ordine del mondo è inclusa anche l'attività spirituale dell'uomo. Secondo
l'orientamento aristotelico-alessandrinista, Pomponazzi sostiene che l'anima, anche
quella attiva ed intellettiva, non è immortale perché non può esistere né operare
senza il corpo. Non c'è dunque alcun intelletto attivo unico e separato dagli intelletti
passivi o anime sensitive. Rispetto all'anima sensitiva degli animali, l'anima
intellettiva dell'uomo è capace di conoscere l'universale e il soprasensibile (il
concetto). Tuttavia essa non è un'intelligenza separata, tant'è vero che non può
conoscere se non attraverso le immagini che le derivano dai sensi corporei. E se
l'anima umana è inseparabile dal corpo allora non può essere immortale, o quanto
meno la sua immortalità diventa dubbia ed in ogni caso è impossibile a dimostrarsi.
Questa tesi suscitò grande scalpore, soprattutto perché nel 1513 il Concilio
lateranense aveva proclamato solennemente il dogma dell'immortalità dell'anima. Ma
per Pomponazzi non si tratta di negare in assoluto l'immortalità dell'anima perché,
ricorrendo alla medievale dottrina della doppia verità (Volume I, pag. 168), se è
ragionevole e più probabile per la ragione che l'anima, in quanto forma del corpo, sia
mortale, tuttavia la tesi opposta può essere accettata in base alla fede, ossia in base
alla rivelazione divina e alle Sacre scritture.
Si pone allora la domanda: se l'anima è mortale, la vita morale e la virtù sono
ancora possibili? La risposta di Pomponazzi è positiva, anzi per lui la vita morale
e la virtù si salvano più con la tesi della mortalità che non con quella
dell'immortalità dell'anima, poiché chi si comporta rettamente in vista di un premio
o per timore di un castigo nell'aldilà in realtà diminuisce il merito o aumenta il
demerito della sua azione perché non è fine a se stessa, non è compiuta perché è
buona in sé ma è invece subordinata all'aspettativa di un vantaggio. Il premio
essenziale della virtù, sostiene Pomponazzi è la virtù stessa (la virtù è premio a se
stessa), che rende felice l'uomo, mentre la pena per il vizio è il vizio stesso, che lo
rende infelice.
Pomponazzi affronta altresì l'antico problema della conciliazione fra libertà
umana e prescienza e predeterminazione divina. Egli ritiene innegabile la libertà
umana in quanto testimoniata dall'esperienza e, quindi, di conseguenza conciliabile
con la prescienza divina. Considera però meno conciliabile la libertà umana con
l'onnipotenza divina. Pomponazzi ritiene più fondata l'opinione degli stoici che
ammisero il fato, il destino, cioè il procedere necessario dell'ordine cosmico stabilito
da Dio nella buona e nella cattiva sorte. Ma deriva allora il problema che Dio
sarebbe, in questo caso, causa non solo del bene ma anche del male. Pomponazzi
si orienta risolvere questa difficoltà affermando che il bene concorre insieme col male
alla compiutezza dell'universo. Tuttavia, ricorrendo ancora alla teoria della doppia
17

verità, Pomponazzi ammette che rispetto a queste simili conclusioni della ragione
naturale si possano per contro accettare e scegliere le credenze della fede quali sono
state rivelate.
Comunque, in sostanza, il pensiero di Pomponazzi conduce alla completa
naturalizzazione dell'uomo, inteso come sostanzialmente appartenente al mondo
naturale più che al mondo sovrannaturale. Ma il naturalismo di Pomponazzi
(l'uomo è natura materiale più che spirituale) non riduce, semplificandola, la dignità
dell'essere umano, il quale invece, attraverso un umanissimo processo, viene
faticosamente facendosi da bestia a uomo, innalzandosi dal vegetare e dal sentire
all'intendere e al comprendere. Pomponazzi conclude col dire che nell'intendere
l'anima è "nobilissima tra le cose materiali, ha, al confine delle cose immateriali, un
profumo di immortalità".
18

LA FILOSOFIA DELLA NATURA RINASCIMENTALE.

Nel Rinascimento il tema della rinascita non riguarda solo l'uomo, la religione o la
politica ma altresì i rapporti dell'uomo con la natura, concepita come il regno del
dominio dell'uomo in virtù della sua posizione privilegiata. L'interesse per la natura
esprime la convinzione di disporre di un potere di controllo e di utilizzazione delle
forze naturali simile a quello di Dio nell'universo.
L'indagine sulla natura è infatti la prevalente forma di filosofia espressa nel
Rinascimento e trova in Telesio, Bruno e Campanella i principali esponenti.
L'indagine naturalistica viene svolta secondo due modalità:
1. attraverso la magia, particolarmente coltivata nel Cinquecento sulla base di
due convinzioni: a) quella dell'universale animazione della natura, anche quella
inorganica, tutta pervasa da un medesimo spirito, da un'unica anima del mondo
simile a quella che agisce nell'uomo (la natura è organismo vivente e vi è
identità essenziale tra uomo e natura); b) quella della possibilità di cogliere e
servirsi delle forze recondite della natura mediante incantesimi od altre formule
per instaurare sulla natura un potere illimitato;
2. attraverso la filosofia della natura, che si afferma per la prima volta con
Telesio e viene quindi ripresa da Bruno e Campanella, caratterizzata
dall'abbandono della magia e dall'adozione di metodi di ricerca legati
all'osservazione e alle sensazioni empiriche. Rimane unicamente condivisa con
l'approccio magico la convinzione dell'animazione universale della natura,
considerata una totalità vivente, ma per il resto si ritiene che la natura sia retta
da propri principi e che le sue forze si rivelino principalmente nell'esperienza,
per cui occorre soltanto riconoscerle ed assecondarle anziché pensare di
evocarle con la magia; la filosofia naturalistica ritiene le forze naturali non
misteriose bensì comprensibili e suscettibili di indagine e di ricerca. Il
naturalismo rinascimentale adotta un metodo contrapposto a quello della
filosofia naturale aristotelica: intende cioè interpretare la natura con la natura,
ossia attraverso l'osservazione dei fenomeni, senza ricorrere ad ipotesi o
dottrine fittizie e metafisiche; si apre così la via all'indagine scientifica sulla
natura, anche se nel naturalismo rinascimentale non è ancora presente quella
sistematica metodologia di indagine che distinguerà la scienza moderna sorta
con la rivoluzione scientifica.

Magia e scienze occulte.

Nel Medioevo la magia era combattuta poiché considerata una tentazione


demoniaca, volta a stravolgere l'ordine gerarchico del mondo derivante dalla
creazione. Nel Rinascimento invece la magia è impiegata come uno dei mezzi per
dominare la natura. Il mondo rinascimentale è infatti popolato da una fitta schiera di
maghi e di cultori di scienze occulte. Di seguito si fa cenno ad alcuni dei più celebri.
19

Cornelio Agrippa (Colonia 1486-Grenoble 1535). Come Pico della Mirandola,


ammette tre mondi: quello degli elementi naturali; quello intellegibile (quello
dell'intelligenza umana); quello celeste. Questi mondi sono fra di essi collegati in
modo che le proprietà di quello superiore influiscono su quello inferiore mentre, dal
canto loro, gli esseri inferiori possono giungere attraverso gli esseri superiori sino al
mondo supremo. L'uomo è situato nel punto centrale dei tre mondi: ricomprende in
se, come microcosmo, tutto ciò che è disseminato nelle cose. Ciò gli consente di
conoscere la forza magica e spirituale che tiene avvinto il mondo e di servirsene per
compiere atti straordinari. La magia è in tal senso la scienza più alta e completa,
perché è quella che pone al servizio dell'uomo tutte le potenze nascoste della natura.
La magia si rivolge a tutti e tre i mondi e quindi vi sono tre tipi di magia:
1. la magia naturale, che studia e si serve delle proprietà nascoste delle cose
corporee per compiere azioni prodigiose;
2. la magia celeste, che studia gli astri e i loro influssi sugli uomini (astrologia);
3. la magia religiosa o cerimoniale, che studia gli spiriti e i démoni per evocare
il loro intervento sugli uomini.
La magia religiosa è anche chiamata magia nera mentre quella naturale e celeste
sono denominate magia bianca.

Uno dei maghi più famosi dell'epoca fu Teofrasto Paracelso, nato in Svizzera nel
1493 e morto a Salisburgo nel 1541. È stato anche medico e chirurgo, anzi il
riformatore della medicina, sia pure in senso magico, e l’anticipatore del metodo
scientifico. Per lui la ricerca deve collegarsi con l'esperienza e la teoria procedere
parallelamente con la pratica. Il principio che deve guidare la ricerca è la
corrispondenza tra il macrocosmo e il microcosmo. Per conoscere l'uomo (cioè il
microcosmo) dobbiamo rivolgerci al macrocosmo (cioè al mondo ,alla natura). La
medicina deve fondarsi su tutte le scienze che studiano la natura e su quattro
discipline fondamentali: la teologia per utilizzare l'influsso divino; l'astronomia-
astrologia per utilizzare gli influssi astrali; l'alchimia per utilizzare la quintessenza
delle cose, cioè l'elemento chimico dominante di una cosa; ed infine la filosofia.
Paracelso è stato definito il "Lutero della medicina", da lui riformata contro le due
massime autorità della medicina tradizionale, Galeno e Avicenna. Partendo dal
presupposto magico che la materia originale, ancor prima dei quattro elementi
(acqua, aria, terra, fuoco), e quindi ancor prima del corpo umano, sia un composto
chimico soprattutto di zolfo, mercurio e sale, ha dato inizio di fatto alla farmacologia
e alla iatrochimica (medicina chimica), anche se la relativa giustificazione è tratta
dal mondo magico, ritenendo che la salute si ristabilisca soprattutto non già con
l'assunzione di sostanze organiche (bile, sangue, creste di pollo o pidocchi), bensì di
sostanze minerali e vegetali (ad esempio il ferro o particolari erbe) che si trovano nel
mondo naturale, ravvisando nei minerali e nei vegetali la presenza di forze arcane (=
vivificanti, dal nome greco "archeus" che significa spirito animatore).
Fondatore della moderna epidemiologia è stato il medico-mago italiano Gerolamo
Fracastoro (1478-1533), sostenendo che molte malattie non devono essere imputate
all'influenza degli astri, ma alla trasmissione, per contatto, di germi invisibili. Sul
20

fronte più propriamente magico sottolinea il tema della simpatia universale delle
cose (del loro reciproco e armonico sentirsi) , che è il fondamento della magia.
21

Bernardino Telesio (1509-1588).

Nasce a Cosenza e studia Padova.


Opera principale: La natura secondo i propri principi.

L'autonomia e i principi propri della natura.

Rispetto alle concezioni che deriveranno dalla rivoluzione scientifica, la fisica di


Telesio è ancora di tipo prevalentemente qualitativo e descrittivo più che quantitativo.
Peraltro, rispetto alla mentalità rinascimentale il pensiero di Telesio già costituisce un
tentativo avanzato nell’avvio dello studio della natura fisica sulla strada di una ricerca
autonoma, disgiunta dalla magia come anche dalla metafisica aristotelica, che
considerava invece la fisica conoscenza teoretica delle sostanze sensibili soggette a
movimento. Telesio non nega, come vedremo, un Dio trascendente né un'anima o
sostanze sovrasensibili, ma pone queste sostanze al di fuori della ricerca fisico-
naturalistica. Intende cioè stabilire l'autonomia della natura e dei suoi propri
principi e di conseguenza l'autonomia nella ricerca di tali principi (autonomia
dalla metafisica e dalla fisica tradizionale aristotelica nonché dalla teologia). L'uomo
può conoscere la natura solo in quanto è lui stesso natura, parte della natura. Da qui la
preminenza attribuita alla sensibilità quale mezzo di conoscenza delle cose
naturali. L'uomo per conoscere la natura deve ascoltarla, affidandosi ai sensi
che gliela rivelano.
Telesio definisce i principi della natura su base sensistica, convinto che i"sensi"
rivelino la realtà della natura, essendo tutta la natura vitalità e sensibilità. Per
"sensismo" si intende quella concezione filosofica secondo cui il prevalente
fondamento della conoscenza sta nei sensi, nella sensibilità, nelle sensazioni. Nella
sua concezione vitalistica della natura (la natura è un organismo vivente), chiamata
anche "ilozoismo", che in greco significa materia animata e vitale, Telesio si
contrappone alla fisica aristotelica e si rifà piuttosto al panpsichismo presocratico di
Anassimene, Anassimandro, Anassagora, Eraclito, secondo cui tutto è vivo, anche le
cose inanimate. Panpsichismo significa infatti ritenere che in tutte le cose sia presente
uno spirito vitale.
I sensi, afferma Telesio, ci rivelano che le forze fondamentali che agiscono sulla
natura sono due: il caldo e il freddo. Il caldo ha effetti di dilatazione dei corpi, fa
essere le cose leggere e le mette in moto; il freddo produce condensazione e quindi
fa essere le cose pesanti e tende ad immobilizzarle. Il caldo e il freddo, come
principi e forze che agiscono sulla natura, sono in quanto tale incorporei e quindi
hanno bisogno di una massa corporea, di una materia, su cui agire. Cade così la
fisica dei quattro elementi naturali e cade la concezione aristotelica delle sostanze
come sinolo di materia e forma. Invece, dichiara Telesio, sia i quattro fondamentali
elementi naturali sia tutte le forme delle cose derivano dai due principi
fondamentali del caldo e del freddo e dalla loro azione sulla massa corporea o
materia.
22

Il caldo e il freddo pervadono ogni corpo, si contrastano e si sostituiscono a vicenda.


Se tutte le cose, compresi gli animali e gli uomini, sono formate dal caldo, dal freddo
e dalla massa corporea, è necessario che anche il caldo, il freddo e la massa
corporea siano dotati di sensibilità perché ciò che è nell'effetto deve essere anche
nella causa. La facoltà del caldo, del freddo e della materia hanno di percepire le
proprie azioni e quelle degli altri corpi produce sensazioni piacevoli rispetto a ciò
che favorisce la propria conservazione e produce sensazioni spiacevoli nel caso
contrario. Tutti gli enti pertanto "sentono" il rapporto reciproco. Come mai allora
solo gli animali hanno organi di senso? Perché, risponde Telesio, gli animali sono
enti complessi e gli organi fungono da vie di accesso attraverso cui l'azione delle cose
esterne (che modificano la sensibilità) giungono più facilmente al soggetto senziente.
Invece le cose semplici (minerali e vegetali) sentono direttamente. Tutte le cose
quindi sono vive e senzienti, anche i minerali. Appare dunque errata la distinzione
aristotelica tra mondo inorganico e mondo vivente, perché tra i due corre soltanto una
semplice differenza di grado.
Se la fisica (o filosofia della natura) di Telesio si mantiene complessivamente sul
piano qualitativo (è una fisica basata sulle "qualità" elementari del caldo del freddo),
tuttavia egli avverte l'esigenza di un'analisi quantitativa al fine di determinare la
quantità di calore necessaria a produrre i vari fenomeni, perché questa analisi
quantitativa, dice Telesio, può rendere gli uomini "non solo sapienti, ma potenti",
cioè può dar loro il controllo dalle forze naturali.

La dottrina dell'uomo come realtà naturale: l'anima, la sensibilità e la


conoscenza.

Come realtà naturale l'uomo è spiegabile allo stesso modo di tutte le altre realtà e
cose naturali. Gli organismi animali erano spiegati da Aristotele in base all'anima
sensitiva. Telesio, ovviamente, non può accogliere tale tesi ritenendo che anche le
cose inanimate possiedano sensibilità. Ciò che invece distingue l'animale dalle altre
cose è, così come chiamato da Telesio, lo "spirito prodotto dal seme", terminologia
di origine stoica, intendendo lo spirito come sostanza corporea sottilissima inclusa
nel corpo (quindi una sostanza materiale), svolgente le funzioni da Aristotele
attribuite all'anima sensitiva. Tale è definita anche l'anima dell'uomo, cioè come
spirito o sostanza naturale uguale a quella degli altri animali. L'anima dunque non è
"forma" del corpo in senso aristotelico, ma è spirito vitale, materia sottile presente
in ogni parte del corpo.
In base a tale spirito è spiegata la conoscenza nelle sue varie forme, la cui origine
è individuata nella sensazione (la conoscenza nasce dai sensi). L'anima umana
oltre a quella sensitiva possiede anche la facoltà intellettuale, ma essa ha
comunque natura materiale (l’anima è ridotta ad elemento fisico-naturalistico) e
conosce unicamente attraverso i sensi (sensismo conoscitivo). Si vedrà in seguito
che Telesio ammette altresì l'esistenza di un altro tipo di anima, immateriale e del
tutto spirituale e pertanto immortale.
23

Per Telesio, e questa volta similmente ad Aristotele, la sensazione produce una


conoscenza vera della realtà: essa imprime nell'anima l'immagine fedele della cosa
percepita, che i sensi stampano direttamente, meccanicamente ed automaticamente
nell'anima stessa. La conoscenza razionale, invece, è meno certa di quella dei sensi
e ad essa si deve fare ricorso soltanto per la conoscenza di cose di cui non si abbia
esperienza immediata. Ma già la sensazione prodotta da un contatto tra l'anima e le
cose esterne non si riduce per Telesio a fatto puramente materiale, poiché è
percezione consapevole di tale contatto, ossia dei mutamenti e movimenti che le cose
producono nello "spirito" dell'anima.
L'intelligenza a sua volta, prosegue Telesio, deriva dalla sensibilità, dalle
sensazioni, e consiste nell'estendere alle cose non ancora percepite le qualità che
l'anima ha colto nelle cose già percepite procedendo secondo il criterio della
somiglianza. Ad esempio, quando vediamo un uomo giovane l'intelligenza ci dice che
invecchierà. Tale invecchiamento non è da noi percepito, però possiamo "intenderlo"
grazie alle passate esperienze ed alla somiglianza di passate percezioni. Telesio
dunque non disprezza affatto la ragione, l’intelligenza, tuttavia afferma che i sensi
sono più credibili perché ciò che è appreso dai sensi non ha più bisogno di essere
indagato. Gli stessi principi della matematica, sostiene, derivano dai sensi per
similitudini ed analogie.

La vita morale e la vita religiosa.

Anche la vita morale dell'uomo è spiegata in base a principi e motivazioni


naturali (non metafisiche e sovrannaturali). Il bene supremo per l'uomo, come per
ogni essere, è la propria conservazione così come il male è la propria distruzione. In
tal senso il piacere è la sensazione della conservazione mentre il dolore è la
sensazione della distruzione. Il fondamento della morale è la tendenza di tutti gli
esseri alla propria conservazione e accrescimento. Le cose o gli eventi che
favoriscono questi processi producono una dilatazione dell'anima che corrisponde ad
una sensazione di calore, alla quale si associa una reazione di piacere cui diamo il
nome di "bene". Al contrario, altri fatti producono una contrazione dell'anima,
corrispondente ad una sensazione di freddo che è causa di dolore, cui diamo il nome
di "male". Il comportamento dell'uomo è determinato dalla tendenza spontanea a
ricercare il piacere e fuggire il dolore. L'unico spazio esistente per la volontà è un
calcolo del piacere maggiore, anche se meno vicino nel tempo, e quindi la
possibilità di rinunciare ad un piacere immediato per uno più grande in futuro, oppure
l'accettazione di un dolore al presente per evitarne uno peggiore nel futuro. Il piacere
e il dolore hanno pertanto un preciso scopo funzionale: essi non sono il fine che
perseguiamo ma il mezzo che ci agevola nel conseguire il fine della
autoconservazione. Parimenti, la virtù è la condizione necessaria per la
conservazione dell'uomo nel mondo, perché impone alle passioni un controllo che
evita gli eccessi dannosi.
Se Telesio riduce a puri elementi naturali l’intera vita intellettuale e morale
dell'uomo, non altrettanto dicasi per la vita religiosa, che gli appare irriducibile
24

alla natura, in quanto trattasi di aspirazione ad un bene che non è conosciuto dai
sensi e si rivolge ad un mondo diverso da quello sensibile. Per Telesio, oltre allo
"spirito" materiale dell'anima naturale, c'è dunque qualcosa di più: "un genere
di anima divina e immortale", che però non serve a spiegare gli aspetti naturali
dell'uomo bensì quelli che trascendono la sua naturalità. Quest'anima è
direttamente infusa da Dio nell'uomo ed è da Telesio chiamata "mens superaddita"
(mente, anima, aggiunta dall'alto). Con lo "spirito" dell'anima naturale l'uomo
conosce e tende alle cose che si riferiscono alla sua conservazione naturale; con la
"mens superaddita" egli conosce e tende alle cose divine, che riguardano non la sua
salute naturale ma quella eterna, la quale è oggetto di volontà, di una libera scelta, in
quanto non basta conoscere il bene eterno ma bisogna anche volerlo ed in ciò consiste
il libero arbitrio.
Deriva così una netta distinzione, ma non un contrasto, fra vita intellettuale e
morale e vita religiosa. Il naturalismo di Telesio non si contrappone alla religiosità,
che rimane da esso distinta ma non esclusa. Anticipando la concezione di Galilei, ne
esce riaffermata la distinzione tra scienza e fede. Telesio ammette un Dio creatore e
Provvidenza al di sopra della natura, ma semplicemente nega che si debba fare
ricorso a lui nell'indagine fisico-naturalistica. In questo senso Telesio critica
Aristotele poiché troppo metafisico in fisica e troppo fisico nel concetto metafisico di
Dio. La concezione aristotelica di Dio ridotto a motore immobile, a funzione
motrice del mondo, appare a Telesio del tutto inadeguata. È inconcepibile ricorrere
a Dio per spiegare i movimenti naturali che possono trovare invece nella natura stessa
il loro principio e la loro spiegazione, così come è inconcepibile che Aristotele neghi
a Dio la Provvidenza. Dio è piuttosto il principio dell'ordine delle cose naturali e della
conservazione di tutti gli esseri della natura, che altrimenti si distruggerebbero a
vicenda. Per Telesio, come sarà per Cartesio, Dio è il garante dell'ordine della natura.
25

Giordano Bruno (1548-1600).

È tra i maggiori esponenti del Rinascimento italiano. Nasce a Nola, presso Napoli.
Da giovane diventa frate domenicano. È tuttavia di carattere irrequieto e ribelle. Non
si limita a studiare i testi sacri e la filosofia scolastica, ma anche quella di Platone, di
Pitagora e la filosofia araba. In particolare trova interessanti la filosofia di Nicola
Cusano e le concezioni di Copernico. Le sue idee finiscono col non corrispondere più
a quelle del cristianesimo ed esce dall'ordine dei domenicani. Accusato di eresia, per
sfuggire all'Inquisizione e al processo si rifugia all'estero, in molte città. Giunto a
Ginevra aderisce alla religione calvinista ma ben presto si stacca anche da essa. Va a
Parigi, dove il re Enrico III gli dà l'incarico di insegnare la mnemotecnica (l'arte per
aumentare la memoria), nella quale giordano Bruno è esperto. A Parigi entra però in
contrasto con gli esponenti culturali di quella città, influenzati dalla filosofia di
Aristotele, mentre Bruno preferisce la filosofia di Platone. Si reca allora in Germania.
Rientrato in Italia viene arrestato dall'Inquisizione e viene processato, prima a
Venezia poi a Roma dove viene condannato a morte e, nel 1600, bruciato vivo come
eretico in Campo dei Fiori, un quartiere di Roma.
Scrive le sue opere soprattutto in forma di dialogo tra diversi personaggi, anche allo
scopo di difendersi dalle accuse di eresia, pensando, inutilmente, di poter dichiarare
in tal modo che le frasi eretiche erano da attribuirsi soltanto ad uno dei personaggi del
dialogo e non a lui direttamente. Tra le sue opere si distinguono:
1. i "Dialoghi metafisici": La cena delle Ceneri (sulla rivoluzione copernicana);
La causa, il principio e l'uno; L'infinito universo e i mondi;
2. i "Dialoghi morali": Lo spaccio (=l'imbroglio) della bestia trionfante; Gli eroici
furori.

Mentre Telesio aveva affermato l'autonomia del mondo naturale e l'oggettività


dell'indagine sulla natura, precorrendo lo spirito galileiano, Bruno (ed altresì
Campanella come vedremo) ritorna ancora, in parte, alla metafisica e alla magia,
segnando un regresso dal punto di vista scientifico, ma esprimendo in modo
appassionato l'entusiasmo naturalistico del Rinascimento.

L'amore dionisiaco per la vita e la religione della natura.

Tutte le opere di Bruno presentano una fondamentale nota comune: l'amore per la
vita nella sua potenza dionisiaca (ebbra, furiosa) e nella sua infinita espansione.
Questo amore passionale gli rende insopportabile il convento, tant'è che getta la
tonaca, e gli fa nutrire un odio inestinguibile per tutti quei pedanti accademici e
aristotelici che riducono la vita e la natura a fredda teoria, senza comprenderne la
forza viva, vitalistica. La vita non va compresa, ma vissuta con passione, con
ebbrezza dionisiaca.
Dall'amore passionale per la vita sorge l'interesse di Bruno per la natura, che non è
oggetto di ordinata analisi come per Telesio, ma è sentita come organismo e realtà
26

impetuosa, tutta viva e tutta animata. Da qui anche la sua predilezione per la magia,
che si fonda su questo panpsichismo (vitalismo) universale, in quanto la magia
intende appunto cogliere, attraverso le pratiche magiche, l'animismo della natura
saltando la paziente e laboriosa indagine naturalistica indicata da Telesio.
Da qui, ancora, la predilezione di Bruno per la mnemotecnica, l'arte della memoria
derivata da Raimondo Lullo, che ha la pretesa, attraverso l’ars combinatoria, non
solo di ricostruire e comprendere in un colpo solo l'ordine e le forze che operano nel
mondo, ma anche di conoscere, attraverso la magia, la struttura, la realtà profonda
delle cose per dominarle.
Tale è l'impeto passionale con cui Bruno sente e concepisce la natura che il suo
naturalismo è più una religione della natura: è sentimento di esaltazione, è eroico
furore piuttosto che rigorosa ricerca. Perciò l'opera di Bruno segna una battuta
d'arresto dello sviluppo del naturalismo scientifico, ma esprime nella forma più
appassionata e potente quel sentimento vivo per la natura che è stato uno degli
aspetti fondamentali del Rinascimento.

L'atteggiamento verso la religione positiva.

Tutto è vivo in Bruno, in un senso ben diverso rispetto a Telesio, il quale restringeva
la sua visione vitalistica al solo ambito del sensismo (tutte le cose sono dotate di
sensazione). Per Bruno tutta la natura, quella delle cose come quella dell'anima e
della mente, l'intera vita del cosmo, è infinita espansione della stessa vita di Dio: il
divino è ovunque, in una concezione prevalentemente monistica (=esiste un solo
principio di spiegazione e di origine della realtà) e panteistica del mondo.
La religione positiva, come sistema di credenze, appare per contro in Bruno
ripugnante ed assurda. Egli ne riconosce l'utilità sociale ai fini del governo di popoli
rozzi, ma le rifiuta qualsiasi valore. E’ giudicata un insieme di superstizioni
contrarie alla ragione e alla natura, poiché considera vile e scellerato ciò che invece
alla ragione appare eccellente; vuol far credere che la legge naturale è una
mascalzonata e che la natura e la divinità non hanno lo stesso fine; che la giustizia
naturale e quella divina sono contrapposte; che la filosofia e la magia sono pazze;
che ogni atto eroico è vigliaccheria e che l'ignoranza è la più bella scienza del
mondo.
Feroce in Bruno è la satira anticristiana, non solo nei confronti del cattolicesimo ma
anche del protestantesimo, che gli appare anzi peggiore, sia perché nega la libertà
dell'uomo ed il valore delle buone opere sia perché ha causato lo scisma e la
discordia fra i popoli. Bruno non poteva andar d'accordo né con i cattolici né con i
protestanti né con qualche setta, giacché il suo scopo era di fondare lui stesso una
nuova religione, quella dell'infinito della natura, di carattere neo-pagano: una
religiosità coincidente con lo stesso filosofare.
Bruno fa sua l'idea dominante nel Rinascimento, già espressa nella forma più
compiuta da Pico della Mirandola, di una comune religiosità-sapienza originaria
che, tramandata da Mosé, è stata svolta, accresciuta e chiarita da filosofi, maghi e
profeti del mondo orientale, classico e cristiano, tutti divinamente ispirati.
27

In particolare, Bruno intende ripristinare, in forma rinnovata, l'antica religiosità


magico-egiziana, che i dogmi del cristianesimo avevano distrutto in conseguenza di
quel processo di degenerazione, da Bruno denunciato, iniziato subito con San Paolo
il quale, proclamando il primato della sola fede, ha rinnegato il valore della ragione
e dell'operosità umana. Influenzato da Ficino, da Pico della Mirandola e dal
complessivo orientamento magico-rinascimentale, Bruno profetizza il ritorno alla
tradizione egiziana, la sola in grado di comporre i contrasti religiosi e rendere
possibile una riforma morale. L’egizianismo è infatti considerato da Bruno una sorta
di gnosi (conoscenza mistica, esoterica, riservata agli iniziati) di carattere magico-
salvifico, capace di realizzare l'ascesa neoplatonica all'Uno (al principio divino)
attraverso l'esperienza dell’"indiamento"(=immedesimarsi in Dio), in cui l'uomo
avverte la sua natura divina.
Da qui l'accettazione dell’eliocentrismo di Copernico, non per condivisione
scientifica ma perché esso si accorda perfettamente con la religione egiziana, in cui
il Sole assume il ruolo di divinità centrale, ed inoltre perché esso contrasta la visione
angusta degli aristotelici, i quali sostenevano che l'universo è finito, mentre la
visione cosmologica di Bruno è quella di un universo come uno (Dio e natura
insieme) ed infinito.

L'infinità dell'universo.

Bruno accoglie la teoria eliocentrica di Copernico, della quale tratta nella sua
opera "La cena delle Ceneri". Però la cosmologia di Bruno, ossia la sua concezione
dell'universo, accetta solo in parte la teoria di Copernico, mentre la modifica in
molte altre parti. Per Copernico, come sappiamo, non la Terra ma il Sole è al
centro dell'universo, un universo che rimane però finito poiché delimitato dalla
sfera delle stelle fisse.
La cosmologia di Bruno peraltro è di tipo filosofico, basata cioè su ragionamenti
filosofici e non di tipo scientifico, ricavata, come in Copernico, sull'osservazione
scientifica e sul calcolo matematico.
Accettando l’eliocentrismo di Copernico, Bruno poi se ne discosta ed assume
invece una concezione più simile a quella di Nicolò Cusano: l'universo, che è
l'effetto di una causa infinita (cioè Dio) non può non essere esso stesso infinito. Se
l'universo è infinito, allora non ha senso parlare di un centro dell'universo
(essendo infinito, l'universo non è chiuso dal cerchio delle stelle fisse e, se l'universo
non è un cerchio, allora non ha neppure un centro). È sbagliato quindi dire che la
Terra è al centro dell'universo (come sosteneva il sistema geocentrico di Tolomeo e
di Aristotele), ma è anche sbagliato dire che il Sole è al centro, come sosteneva
Copernico.
Bruno apprezza e loda comunque la teoria di Copernico perché ha avuto il merito
di far cadere il vecchio sistema geocentrico, durato per secoli poiché basato sulle idee
di Tolomeo e di Aristotele che erano considerati indiscutibili ed assolutamente
autorevoli. Per Bruno, il merito di Copernico è stato proprio quello di aver
finalmente spezzato il "principio di autorità", ossia l'accettazione acritica (= non
28

critica, ma passiva) del pensiero del passato solo perché espresso da filosofi giudicati
così autorevoli da non poter essere criticati e messi in dubbio. Questo è stato per
Bruno il grande valore culturale e morale della rivoluzione copernicana (chiamata
"rivoluzione" perché "rivolta", capovolge, l'universo, mettendo al centro il Sole e non
più la Terra).
L'adesione alla teoria copernicana suscita tuttavia grande scandalo nella Chiesa,
che all'epoca giudicava l’eliocentrismo in contrasto con la Bibbia (si ricordi il
celebre episodio di Giosuè quando, rivolgendosi a Dio, gli chiede di "fermare" il
Sole, argomentando la Chiesa, da ciò, che allora è il Sole a muoversi e non la Terra
che rimane fissa al centro dell'universo). Bruno viene pertanto accusato di eresia e
dunque da condannare.
In proposito e a sua difesa Bruno sostiene che bisogna distinguere nettamente la
filosofia naturale dalla religione e dalla fede, quando per contro già nel Medioevo,
ed in particolare nella filosofia scolastica, si affermava che non c'era distinzione ma
accordo tra ragione filosofica e fede. Bruno però insiste nel dichiarare che la fede,
basata sulla rivelazione e sulla Bibbia, si occupa della morale e della salvezza
dell'anima, perciò non spetta alla fede dare insegnamenti anche sulla natura e
sull'universo, giacché tale compito spetta solo alla filosofia naturale e alla scienza.

Dio e la natura.

Dopo "La cena delle Ceneri", Bruno pubblica un'altra opera appartenente ai Dialoghi
metafisici, cioè "La causa, il principio e l’uno". L'argomento centrale di quest'opera è
il rapporto, il collegamento, tra Dio e il mondo (o la natura). Noi, argomenta Bruno,
non possiamo conoscere Dio per se stesso perché è infinito mentre noi siamo
esseri finiti e le cose finite non possono avere l'idea di cosa sia veramente l'infinito.
Noi possiamo conoscere Dio solo nel suo rapporto col mondo, con la natura.
Rispetto al mondo e alla natura di Dio è contemporaneamente causa e principio.
La causa rimane sempre distinta e separata dall'effetto che determina (così come il
lampo è distinto dal tuono che provoca). Ed allora Dio come causa del mondo e della
natura, in quanto da lui creati, rimane da essi distinto e separato: in tal senso è il
Dio trascendente della religione (trascendente=distinto, separato, al di sopra del
mondo e delle cose della natura). Ma Dio come principio del mondo e della natura
permane dentro il mondo e la natura per renderli vivi, per animarli. Di
conseguenza, tutta la natura è animata; la vita è in tutte le cose perché dentro ogni
cosa c'è Dio, c'è il suo soffio vitale che anima e dà vita. Significa che ogni cosa del
mondo e della natura è partecipe (è parte) dell'infinito che è Dio.
La concezione di tutta la natura come di un unico organismo vivente, per cui le
cose naturali non sono inerti e insensibili, ma hanno invece ognuna un grado
maggiore o minore di sensibilità, cioè sono in grado di sentire, di gioire di soffrire
(tutte le cose, non solo gli uomini ma anche gli animali, le piante e addirittura anche i
minerali) è tipica, come abbiamo visto, di molta filosofia del Rinascimento. Ma
Bruno si spinge oltre: tutta la natura è animata non per una sua forza interna,
29

naturale, ma perché dentro il mondo, dentro ogni cosa della natura, c'è Dio, c'è il
suo soffio vitale, c'è, dice Bruno, "il respiro di Dio".
Se dentro tutte le cose c'è il soffio vitale di Dio, vuol dire allora che le cose non
periscono, sono eterne, non muoiono mai veramente ma semplicemente si
trasformano. Al di sotto di tutte le varie e differenti cose del mondo e della natura
c'è il loro collegamento, la loro unità con Dio, poiché per Bruno Dio coincide con la
natura. Da ciò discende il significato del titolo dato all'opera "La causa, il principio e
l'uno": l’uno è l'unità di tutte le cose con Dio e in Dio. È questa una concezione
antiaristotelica: la sostanza delle varie cose non è sinolo (unione) di materia e forma;
non c'è alcuna materia che sia pura passività poiché anche la materia è viva e animata
e le cose sono partecipi dell'eternità che è in loro grazie al soffio vitale di Dio; non ci
sono sostanze corruttibili.
In particolare, Bruno parla di Dio in due modi:
1. come "Mens super omnia" (Mente al di sopra di ogni cosa), che è il Dio
trascendente, soprannaturale, però inconoscibile alla ragione umana ed
oggetto solo di fede;
2. come "Mensa insita omnibus" (Mente insita in tutte le cose), che è il Dio
immanente nella natura, considerata come luogo della rivelazione e
manifestazione divina, anzi essa è lo stesso "respiro di Dio": In quanto Mente
presente in tutte le cose, ossia come elemento costitutivo delle cose, Dio risulta
allora accessibile alla ragione umana (conoscibile) e costituisce l'oggetto
privilegiato della filosofia; in tal senso Bruno definisce Dio come "fabbro del
mondo", che opera come forza seminale intrinseca nella materia, giacché
infonde nella materia i semi del suo conseguente sviluppo e dà forma alla
materia stessa configurandola nelle varie cose del mondo (si può notare
l'analogia con il concetto di "spirito prodotto dal seme" di Telesio).
Senonché, dire che Dio è immanente, cioè dentro il mondo e la natura, è panteismo
(=ogni cosa è Dio perché Dio è in ognuna) ed il panteismo è in contrasto con il
cristianesimo, per il quale Dio invece è esclusivamente trascendente, separato e al
di sopra del mondo e delle cose della natura e non anche presente e mescolato in esse.
Anche per questi suoi pensieri Bruno è stato condannato per eresia, oltre che a
causa del rifiuto del sistema geocentrico..

L'uomo nel mondo: i Dialoghi morali di Bruno e la sua filosofia etica.

Nell'opera "Lo spaccio della bestia trionfante", Giove (cioè Dio) raduna gli altri dei
per cancellare i nomi di animale (la bestia trionfante) dati alle costellazioni (Toro,
Ariete, Pesci, Cancro, ecc.), ossia per eliminare l'astrologia poiché falsa. L'astrologia
non è una virtù; la virtù principale, dice Giove, è la verità. La verità si divide a
sua volta in due ulteriori virtù:
1. la Provvidenza, che è l'attività di Dio (Dio vede e provvede);
2. la Prudenza, che è l'attività dell'uomo industrioso, che è attivo e si dà da fare.
30

Nell'antica età dell'oro gli uomini se ne stavano tranquilli senza far niente, erano
oziosi. Ma l'ozio, prosegue Giove, non è cosa dignitosa per l'uomo. La virtù
dell'uomo sta nella vita attiva e laboriosa: in ciò consiste la Prudenza umana. È qui
manifestata, secondo la mentalità umanistica e rinascimentale, l'esaltazione della vita
attiva, l'ideale dell'uomo "faber", industrioso. E quando l'uomo esercita la virtù
della Prudenza, dandosi da fare ed operando con l'intelletto e con le mani (ossia
ampliando le sue conoscenze e producendo cose) egli diventa allora simile a Dio
che crea le idee e le cose: la Prudenza umana è simile a quella divina. Il
cristianesimo medievale, invece, aveva trasformato l'uomo in un essere inattivo e
rassegnato poiché non considerava importante la vita e l'attività terrene, ma solo
quelle ultraterrene. Bisogna perciò distruggere i vizi della rassegnazione e
dell’inattività (cioè la bestia trionfante), nonché il suo imbroglio (lo spaccio), per
liberare ciò che di veramente divino è nell'uomo, ossia la sua capacità di conoscere
di produrre le cose in quanto, nel suo piccolo, l'uomo sa conoscere e creare le cose
come Dio che conosce e crea il mondo.
La nuova filosofia di Bruno non poteva non esprimere anche una nuova etica,
espressa particolarmente nei Dialoghi morali. Il fine è non solo la comprensione ma
altresì la fusione dell'uomo nell'infinità della natura.
Ne "Lo spaccio della bestia trionfante" Bruno descrive la crisi dei valori cristiani e
l'urgenza della loro distruzione definitiva per poterne creare di nuovi. Sdegnando
ogni morale ascetica e mistica, Bruno si dichiara a favore di una morale attivistica,
che esalti i valori del lavoro e dell'ingegno umano, secondo il tema rinascimentale
dell'uomo-fabbro. La contemplazione di Dio non è fine a se stessa poiché deve
rappresentare per l'uomo un incentivo a fare come Dio, producendo cose, "altre
nature, altri corsi, altri ordini".
Nella sua altra opera morale "Gli eroici furori" (eroico qui deriva dalla parola greca
"eros" che significa amore e desiderio di avvicinarsi al divino superando i limiti della
condizione finita ed imperfetta dell'uomo), Bruno celebra l'ideale platonico di
purificazione dell'uomo dalle sue passioni e dai suoi istinti, per elevarsi e
raggiungere l'infinito attraverso la conoscenza e l'amore. L'eroico furore è, appunto,
impeto, brama, fortissimo desiderio di ricongiungersi all'infinito, la qual cosa diventa
possibile per l'uomo quando comprende che Dio è nella natura e quindi anche
nell'uomo, per cui l'uomo stesso è parte di Dio, cioè dell'infinito.
La verità va ricercata in noi stessi e quando lo scopriamo diventiamo animati da
eroici furori, presi dalla brama dei nostri stessi pensieri. Per Bruno il grado più alto
della riflessione filosofica non è dunque l'estasi mistica, cioè un congiungimento con
Dio attraverso l'oblio e il distacco dal mondo, ma è la visione magica dell'unità della
natura e della sua vita inesauribile. Il filosofo è il "furioso", l'assetato di infinito e
l'ebbro di Dio che, andando al di là di ogni limite, con uno sforzo eroico ed
appassionato raggiunge una sorta di sovrumana immedesimazione ("indiamento")
con il cosmo, con l'universalità della natura. L'eroico furore è la versione
naturalistica del concetto platonico di amore: l'uomo, "arso d'amore", va in cerca
dell'infinito (dell'infinità della natura con cui Dio coincide) poiché esso soltanto può
appagare le sue brame, innalzandolo al di sopra dei "bassi furori" che lo tenevano
31

incatenato alle cose finite e generando in tal modo l'unione tra uomo e natura. In
questo identificarsi con la natura, in questo farsi natura, l'uomo, pur non annullando
il suo libero volere, sperimenta anche il grado più alto di libertà che gli sia
concesso: l'accettazione della necessità delle cose e del destino del Tutto. Questo è
l'uomo nuovo. Peraltro, come sia possibile conciliare il libero volere con la tesi della
divina necessità dell'infinito svolgimento della natura è questione che, dai testi di
Bruno, non risulta concettualmente chiara.

Conclusioni.

Il pensiero di Bruno, nonostante la sua apertura alle virtù "civili" e al mondo del
lavoro, reca tuttavia un'impronta aristocratica: solo a pochi è dato di congiungersi
con la natura attraverso i vari gradi di amore, nonostante il desiderio di Bruno di
coinvolgere masse più numerosi di individui. In effetti è dipinta un'umanità spaccata
in due schiere: i pochi, cui è dato di saper filosofare e di guidarsi secondo ragione, e
il gregge dei "rozzi popoli", che devono essere diretti dai preti delle varie Chiese.
Pur all'interno di questi limiti, Bruno manifesta intuizioni geniali ed anticipatrici.
Non è possibile farlo precursore della rivoluzione del pensiero moderno, perché i
suoi interessi sono di tutt'altra natura: magico-religiosi e metafisici. La sua difesa
della rivoluzione copernicana e dell’eliocentrismo si fonda infatti su basi e su finalità
del tutto diverse. Né è possibile dare rilievo alla forma matematica di molti suoi
scritti, dato che la sua matematica è di impostazione pitagorica e quindi metafisica.
Ma Bruno anticipa in modo sorprendente certe posizioni di Spinoza e soprattutto dei
romantici, specialmente di Schelling, per l'affinità della concezione della natura e del
divino nell'infinità del cosmo universale.
32

Tommaso Campanella (1568-1639).

Nasce a Stilo in Calabria. Entra nell'ordine domenicano ma subisce ben presto


processi e condanne per accuse di eresia. Ritornato a Stilo, partecipa ad una congiura
contro il governo spagnolo, nell'intento di realizzare il suo ideale religioso-politico di
fondazione di una repubblica teocratica. Per sfuggire alla condanna a morte si finge
pazzo, anche sotto tortura, e rimane in carcere per ben ventisette anni, dove compone
le sue opere maggiori. Liberato, si reca dapprima a Roma e poi a Parigi su invito del
re Luigi XIII, dove morirà.
Opere principali: La città del sole; Del senso delle cose e della magia; Metafisica.

Fisica, magia e conoscenza.

Il pensiero di Campanella si fonda sul sensismo di Telesio, corretto però da temi


neoplatonici e magici. Egli parte dalla fisica e dalla magia per giungere ad una
metafisica teologica assunta a base di un rinnovamento politico e religioso
dell'umanità.
Anche per Campanella tutte le cose, comprese quelle inorganiche, sono animate e
dotate di sensibilità. Se tutte le cose del mondo sono animate vi è allora anche
un'anima generale del mondo nella sua totalità. La comune anima del mondo e
delle cose determina un complessivo consenso, un accordo fra tutte le cose
naturali perché le dirige tutte ad un medesimo fine nonostante le loro
dissomiglianze. Di questo consenso si avvale la magia per effettuare le sue pratiche
miracolose.
Nell'opera "Del senso delle cose e della magia" Campanella, come Telesio, afferma
che tutta la conoscenza si fonda sulla sensibilità. La vera sapienza è quella basata
sui sensi, i quali soltanto possono verificare, correggere o confutare ogni conoscenza
incerta. "Il senso è certo e non vuol prova; ma la ragione è conoscenza incerta e vuol
prova".
Il sensismo di Campanella assume però ben presto un significato diverso rispetto
a quello di Telesio. Per Campanella il sensismo significa contatto diretto, tramite i
sensi, con la natura ed è quindi disgiunto dalla cultura libresca, ma pure
dall'indagine graduale e metodica praticata da Telesio. Scrive Campanella: "Imparo
di più dall'anatomia di una formica o di un'erba che non da tutti i libri che sono stati
scritti". Filosofare per Campanella è immedesimarsi nelle cose, sentirle; è quindi
soprattutto intuizione: non è un comprendere ma un compenetrare nella vita
delle cose e gustarle. Tant'è vero che Campanella fa derivare la parola "sapienza" da
"sapore", per cui conoscere equivale a sentire, a gustare e compartecipare con la cosa
nella sua interiorità. Mediante la compartecipazione ci facciamo in qualche modo
equivalenti a Dio, che rende il mondo e le cose compartecipi del suo amore. Come
già in Ruggero Bacone, l'empirismo di Campanella si converte in tal senso nel
misticismo.
33

Per Campanella tuttavia il sentire non è un semplice patire (ricevere passivamente


stimoli dall'esterno) bensì "percepir di patire": cioè è autocoscienza, conoscenza
originaria, conoscenza prima (sensus sui= aver senso, consapevolezza, di sè).

L'autocoscienza e la metafisica. Le tre primalità.

In che modo l'anima conosce, cioè sente se stessa? Campanella affronta questo
problema riproducendo all'inizio della sua "Metafisica" la confutazione dello
scetticismo già operata da Agostino: anche lo scettico, che afferma di non sapere
nulla, conosce almeno questa verità e così presuppone che vi sia un sapere originario,
autentico di cui non si può dubitare. L'anima ha una conoscenza innata di se
stessa: è questo il sapere originario, condizione di ogni altra conoscenza.
In tal modo Campanella va oltre a Telesio, valorizzando il sentire dell'animo
umano, ossia il soggetto senziente, rispetto agli oggetti sentiti. Lo spirito senziente,
dice Campanella, non sente il colore, ma in primo luogo sente se stesso: sente il
colore attraverso se stesso in quanto è modificato (nei sensi) dal colore. Le cose
esterne producono nell'anima (nella coscienza) modificazioni che rimarrebbero
sconosciute se essa non avesse originariamente (in modo innato) coscienza delle
proprie modificazioni. Non potremmo percepire gli oggetti se prima non
percepissimo noi stessi percepienti gli oggetti. La conoscenza di se è più certa di
quella delle cose che anzi, a differenza di quanto sosteneva Telesio, si rivelano
parzialmente e confusamente. Questa conoscenza prima e originaria, questa
autocoscienza non è propria soltanto dell'anima umana bensì appartiene a tutte le
cose naturali in quanto tutte sono dotate di sensibilità. Sicché ogni cosa sente se
stessa di per sé ed in modo essenziale, mentre sente le altre cose in modo accidentale,
cioè solo in quanto ha coscienza delle modificazioni che esse le procurano.
Proprio negli stessi anni Cartesio, come vedremo, giunge all’intuizioni immediata
dell'autocoscienza (il "cogito") come fondamento di ogni sapere scientifico. Vi è
indubbia analogia ma altresì differenza di presupposto e di prospettive.
L'autocoscienza di Campanella non è pensiero, come in Cartesio, ma sensibilità,
propria non solo dell'uomo ma di tutti gli esseri della natura. Di conseguenza è
assente in Campanella il problema posto da Cartesio sull'effettiva esistenza di una
corrispondente realtà esterna al pensiero. L'autocoscienza di Campanella rappresenta
l'ultima e più complessa formulazione della visione animistica e vitalistica del
naturalismo rinascimentale.
È l'autocoscienza che per Campanella rivela i principi e la struttura fondamentale
della realtà naturale. Tre sono questi fondamentali principi, chiamati le tre
"primalità": il potere, il sapere e l'amore. Noi siamo cioè consapevoli di sapere, di
potere e di amare e dobbiamo ammettere che l'essenza di tutte le cose è costituita
appunto da queste tre primalità.
1. Ogni cosa, in quanto esiste, è in primo luogo un "poter" essere, che è la
condizione preliminare dell'essere di ogni ente (ogni cosa prima di essere deve
poter essere; si può notare l'analogia con la necessità della possibilità
34

dell'esistenza, che in quanto tale precede l'esistenza concreta, quale espressa da


Duns Scoto).
2. Inoltre, tutto ciò che può essere "sa" anche di essere: è dotato della
conoscenza di sé e delle altre cose in quanto provvisto di sensibilità; su questa
comune sensibilità è fondato l'universale consenso delle cose, l'armonia che
regge il mondo.
3. Infine, ogni ente che sa di essere "ama" il proprio essere: tutti gli enti
amano il loro essere e desiderano conservarlo sfuggendo ciò che lo danneggia.
Tuttavia nelle cose finite il potere, il sapere e l'amore non sono illimitati bensì sono
limitati, per cui le cose finite hanno non solo l'essere ma anche il non essere. Vi sono
quindi anche tre primalità del non essere: l'impotenza, l'insipienza (ignoranza) e
l’odio, che si configurano come il male, inteso come mancanza di perfezione e
mancanza di essere. Solo in Dio, che non è finito ma infinito, le primalità non sono
limitate dal non essere: in lui il potere, la potenza, non implica nessuna impotenza,
la sapienza nessuna insipienza e l'amore nessuna deviazione dal bene.
Attraverso le tre primalità Dio crea il mondo e lo governa. Dalla potenza di Dio
deriva la necessità per cui nessuna cosa può essere o agire diversamente da come
prescrive la sua natura. Dalla sapienza divina deriva il fato, il destino, che è la catena,
la serie delle cause dei fenomeni naturali. Dall'amore di Dio deriva l'armonia dalla
quale tutte le cose sono indirizzate al fine supremo.
Tutte le cose richiamano, nelle tre primalità, lo schema della Trinità divina. Non solo,
ma tutte le cose comunicano fra loro con immediatezza, secondo una concezione
vitalistica e sensistica che Campanella riveste anche di caratteri magici.
Campanella distingue tre forme di magia:
1. la magia divina, che è quella che Dio conceda ai profeti e ai santi;
2. la magia demoniaca, che si avvale degli spiriti maligni e che viene condannata;
3. la magia naturale che, conoscendo ed utilizzando le proprietà delle cose, può
produrre effetti meravigliosi.
Alla magia naturale Campanella fa risalire non solo tutte le invenzioni e le scoperte,
ma anche la poesia e tutta la cultura: gli stessi poeti ed oratori rientrano nel novero
dei maghi. Ma, conclude Campanella, "la più grande azione magica dell'uomo è
dar legge agli uomini".

La politica teologica: la "Città del sole".

La "Città del sole" è una grande utopia magica in cui Campanella esplicita le
sue aspirazioni di rinnovamento politico-religioso.
La fisica e la metafisica di Campanella non sono infatti fini a se stesse, ma vogliono
costituire il presupposto per una riforma sociale e religiosa che dovrebbe riunire
l'intero genere umano in una sola comunità ideale costituita da uno Stato teologico
universale.
Dopo la liberazione dal carcere, Campanella indica nella monarchia spagnola
l'istituzione che avrebbe dovuto realizzare tale ideale. Successivamente deluso, si
rivolge poi, in tal senso, alla Francia.
35

Campanella immagine la sua Città del sole collocata su di un colle sovrastante una
vasta campagna e divisa in sette gironi che portano i nomi dei pianeti. In cima al colle
si erge un tempio rotondo. La città è retta da un principe-sacerdote, chiamato Sole
o Metafisico, il quale governa gli abitanti (i Solari) assistito da tre principi
collaboratori, Pon, Sin e Mor, che rappresentano le tre primalità della metafisica:
potenza, sapienza e amore.
Come in altri modelli utopici analoghi (la Repubblica di Platone, l'Utopia di
Tommaso Moro), i beni e le donne sono in comune ed è soppressa la proprietà
privata. Anche il lavoro è distribuito fra tutti i cittadini e ciò fa sì che esso non sia
faticoso, ma limitato a sole quattro ore al giorno. L'educazione dei solari non è
libresca, ma imparano perlopiù giocando. In tutte le mura dei gironi della città sono
istoriate immagini che illustrano tutte le scienze. È una città magica, costruita in
modo da attirare tutto l'influsso benefico degli astri.
La religione dei Solari è quella naturale che, rispetto alle altre religioni positive,
Campanella ritiene più fedelmente interpretata dal cristianesimo, però riformato e
restituito alla semplicità e povertà evangelica delle origini. Per Campanella la
religione naturale è innata ("religio indita") in tutti gli uomini ed è il fondamento di
tutte le religioni positive (quelle istituite dalle varie Chiese), che sono religioni
acquisite o sopraggiunte ("religio addita") e possono essere imperfette o anche false,
mentre quella innata è sempre vera. Tuttavia la religione innata non può stare da sola
senza quella acquisita. La religiosità innata è propria di tutti gli esseri naturali
che, avendo origine da Dio, tendono a ritornarvi; la religione acquisita è propria
soltanto degli uomini ed è la sola che implica merito e valore morale quando sia
liberamente scelta e praticata.
A differenza di Bruno, Campanella non ha mai assunto atteggiamenti anticristiani,
ritenendo il cattolicesimo la religione più vicina a quella naturale, una volta però
che esso sia stato riformato nei costumi e nella pratica, mantenendo immutati i
dogmi e la gerarchia della Chiesa ma ritornando all'ordine e alla semplicità del
periodo patristico. Tale atteggiamento, anche se motivato da prevalenti e difformi
ragioni filosofico-naturalistiche, si inserisce nel programma della controriforma
cattolica, venendo a giustificare e a difendere la rinnovata forza di espansione della
Chiesa romana. Campanella fa appello infatti a tutti i popoli della terra perché si
decidano a ritornare al cattolicesimo, secondo il fondamentale motto del
Rinascimento: "tutte le cose ritorneranno al loro principio". Si rivolge dunque ai
cristiani e ai non cristiani, anche indicando loro i segni astrologici e le profezie che
segnalano l'imminente rinascita della Chiesa cattolica.
Ma Campanella è egli stesso ormai un superstite: l'ultima delle grandi figure
rinascimentali. Al tramonto del Rinascimento egli si sforza di tenere unite le ragioni
della fede con quelle della natura, quando invece il cammino del pensiero moderno
andava a divergere, individuando nella natura il regno della conoscenza scientifica e
della necessità matematica e meccanica dei fenomeni naturali e, per contro,
individuando nella religione il regno della libertà e della fede.
36

RINASCIMENTO E POLITICA.

L'ideale umanistico-rinascimentale di rinascita non si limita solo all'individuo, alla


cultura e alla religione ma coinvolge anche la società. Da ciò deriva un preciso
interesse per lo studio e l'analisi della politica, al fine di scoprirne il fondamento
nonché le soluzioni del suo rinnovamento, indicate secondo due principali indirizzi:
1. l'indirizzo storicistico, risalente al neoplatonismo, secondo cui il rinnovamento
politico è concepito come ritorno della comunità alle proprie origini storiche,
dalle quali trarre nuova forza e vigore;
2. l'indirizzo giusnaturalistico, risalente all'antico stoicismo e alla dottrina del
diritto naturale sia antica che medievale, secondo cui il rinnovamento politico è
fatto consistere nel modellare la comunità conformemente a quei principi
giuridici stabili e universali, comuni a tutte le società, quali naturalmente e
spontaneamente avvertiti ed insiti negli uomini.

Niccolò Machiavelli (1467-1527).

Fiorentino, è esponente dell'indirizzo storicistico.


Opere principali: Il Principe; Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio.
Con Machiavelli inizia una nuova epoca del pensiero politico: viene proclamato il
principio dell'autonomia della politica sia dalla religione che dalla morale. È una
brusca innovazione che si registra nel pensiero di Machiavelli rispetto agli umanisti
precedenti, spiegabile in larga misura con la nuova situazione politica creatasi a
Firenze e in Italia con la frantumazione in molteplici Principati disuniti e rissosi.
Di fronte alla decadenza politica italiana, Machiavelli afferma che le società
possono rinnovarsi ed evitare il declino solo riconducendosi ai propri principi
originari, come è avvenuto per il cristianesimo del 12º secolo, che con San
Francesco e San Domenico è ritornato all'originaria semplicità evangelica, e come
avvenne altresì nella Roma antica, che fu in grado di superare le prime sconfitte e
ritrovare nuova unità e forza grazie all'istituzione dei tribuni della plebe e dei censori,
che incessantemente richiamavano i cittadini all’antica virtù. Allo stesso modo, la
società italiana, se vuole riacquistare la sua unità e libertà, deve ritornare alle
sue origini più nobili, che Machiavelli individua nella Roma repubblicana, libera e
forte.
Questo programma politico va perseguito con crudo realismo, senza idealismi e
moralismi che non solo sono inconcludenti, ma destinati a fallire. Compito del
politico infatti è di considerare la realtà per come è, ed agire di conseguenza, e non
per come dovrebbe essere. Il politico, il principe, il sovrano, non deve avere
scrupoli né morali né idealistici. Anzi, il sovrano può trovarsi in condizione di dover
applicare metodi estremamente crudeli. Ma a mali estremi deve adottare estremi
rimedi ed evitare in ogni caso la via di mezzo che non porta risultati ma scontenta
tutti. Famoso al riguardo è il motto di Machiavelli: il fine giustifica i mezzi. Deve
prevalere la ragion di Stato: ciò che più conta è il fine, il risultato, anche se ottenuto
37

impiegando mezzi disdicevoli. Se il risultato è conseguito, i mezzi impiegati saranno


sempre "indicati onorevoli e da ciascuno laudati".
L'atteggiamento di crudo realismo politico e l'assenza di scrupoli da parte del principe
sono d'altro canto indotti in Machiavelli dalla sua visione pessimistica dell'uomo: gli
uomini per lo più non sono buoni, perciò il sovrano deve imparare a non essere buono
a sua volta e a farsi temere più che farsi amare.
Nei tristi tempi in cui l'Italia si trova, l'unica possibilità di rinnovamento e di
unificazione è quella di affidarsi ad un uomo forte, ad un principe che sappia
imporsi sugli altri ed unire gli italiani.
Il principe, per riuscire vittorioso, deve essere dotato di virtù, non nel senso
cristiano di fede, speranza e carità, ma in quello greco di "areté" o in quello romano
(la cui etimologia rimanda a "vir"=uomo e forza al tempo stesso), virtù che consiste
nell'energia, nel vigore, nell'astuzia, nella capacità di pianificare e prevedere, nella
forza di volontà e nell'abilità politica.
Certo, di fronte alla virtù che deve caratterizzare il principe può mettersi di
mezzo la fortuna, ossia la cattiva sorte, l'imprevedibilità non sempre controllabile
degli eventi politici. Torna il tema del contrasto fra virtù, libertà e fortuna, caro a
molti umanisti. Molti identificano la fortuna con il destino inesorabile contro il quale
è inutile cercare di liberarsi. Ma per Machiavelli gli eventi umani dipendono per metà
dalla sorte e per metà dalla virtù e dalla libertà. Così come l'impeto di un fiume
quando straripa può essere previsto e controllato costruendo argini e ripari, altrettanto
il principe può affrontare la fortuna qualora non si rassegni agli eventi, ma si
impegni animosamente, traendo dalla storia passata utili insegnamenti per
l'avvenire. Il rischio non è sempre eliminato, ma il principe non rimane passivo.

Francesco Guicciardini (1482-1540).

Anch'egli fiorentino, è autore tra le altre dell'opera "Ricordi politici e civili".


Analoga passione politica si rintraccia anche in Guicciardini, però con una visione
ancor più pessimistica sulla natura dell'uomo e secondo una concezione più
individualistica e pragmatica della politica, basata soprattutto sull’esigenza di un
coordinamento dei vari interessi particolari, da Guicciardini chiamati il "particulare",
piuttosto che sulla realizzazione di grandi imprese eroiche, di grandi eventi storici. Il
vero politico per Guicciardini è colui che sa adattarsi agli eventi ed alla realtà,
evitando ideali utopici e sogni profetici.

Giovanni Botero (1533-1617).

Piemontese, scrive tra l'altro l'opera "Della ragion di Stato".


Raccoglie alla fine del Cinquecento l'insegnamento politico di Machiavelli,
riconoscendo anch'egli l'autonomia della politica ma tentando, rispetto al crudo
realismo di Machiavelli, di recuperare tra i compiti dello Stato anche una finalità
morale e religiosa, in modo da dare origine ad un "machiavellismo timorato di Dio".
38

Tommaso Moro e l'utopia (1478-1535).

Nasce a Londra; è stato discepolo e amico di Erasmo da Rotterdam, umanista lui


stesso. Copre alte cariche politiche. Profondamente cattolico, si rifiuta di riconoscere
Enrico VIII come capo della Chiesa anglicana. Per questo viene condannato a morte.
È esponente dell'indirizzo giusnaturalistico, che cerca peraltro di conciliare con
quello storicistico.
Opera principale:l' "Utopia".
Utopia (dal greco ou=non e topos=luogo) indica ciò che non è in nessun luogo, una
descrizione immaginaria che, nel caso Tommaso Moro, rappresenta l'ideale di una
società perfetta. In questo senso la prima opera utopica è stata la "Repubblica" di
Platone, ma il termine "utopia" è stato coniato proprio da Moro, colmando una lacuna
linguistica.
L'utopia non vuole essere una sorta di fuga in un regno immaginario, bensì un ideale
normativo, da assumere come modello di riferimento. L'ideale utopico di Moro
vuole esprimere non solo una critica nei confronti della realtà sociale presente ma
essere anche di stimolo a rinnovare le condizioni e i poteri dominanti.
La società criticata è l'Inghilterra del tempo, in cui stanno avvenendo profonde
trasformazioni economiche e sociali, volute dagli aristocratici e proprietari terrieri per
sostituire alla coltura dei cereali i pascoli per i montoni perché più redditizi. Tale
fenomeno però costringe molti contadini a lasciare le loro case; divengono
disoccupati e si danno spesso all'accattonaggio. Moro non accetta questo stato di cose
e cerca di cambiarlo descrivendo quale dovrebbe essere lo Stato ideale, ossia Utopia.
Utopia è il nome di un'isola rimasta ignota ed incontrata in uno dei suoi viaggi da
Amerigo Vespucci. In quest'isola Moro colloca e descrive il suo Stato ideale. In
esso non esiste proprietà privata ma comunione dei beni, fatto questo che fa
sparire le differenze sociali: tutti gli abitanti di Utopia si avvicendano a turno nei
vari lavori sia leggeri che pesanti, di modo che non vi siano classi sociali destinate a
lavori privilegiati ed altri invece solo a lavori umili. Il lavoro non è massacrante e
dura soltanto sei ore giornaliere per lasciare spazio agli svaghi e ad altre attività. La
pace è la condizione naturale di vita di Utopia, perché tutti seguono il sano piacere e
onorano Dio anche se in differenti modi (tolleranza religiosa). La visione ideale di
Moro è caratterizzata da un ottimismo di fondo: per allontanare i mali della società
basterebbe seguire la sana ragione, che è in perfetta armonia con la natura (vale
l'equivalenza diritto naturale= razionalità).
Se poi le utopie sono peggiori dei mali che vogliono sanare, perché i modelli
proposti sono tendenzialmente in contrasto con le libertà personali e recano in sé i
germi dell'integralismo e del totalitarismo, oppure se le utopie sono valide
concezioni, capaci di animare e scuotere le coscienze, è questa materia di dibattito
che ha attraversato incessantemente e tuttora attraversa il pensiero politico-sociale e
morale.
39

Jean Bodin: il carattere assoluto della sovranità dello Stato (1529-1596).

Più realistico è l'indirizzo, anch'esso giusnaturalistico, seguito dal francese Jean


Bodin, autore dei "Sei libri della Repubblica". Bodin afferma che non è la
popolazione o il territorio a formare lo Stato, ma l'unione di un popolo sotto un
unico signore sovrano: il vero fondamento dello Stato, cioè, è la sovranità, intesa
come potere assoluto, perpetuo e senza limiti, sopra il quale non esiste alcuna autorità
maggiore, potere che si esplica soprattutto nel dar leggi ai sudditi anche senza il loro
consenso. Tuttavia, precisa Bodin, il potere assoluto dello Stato deve rimanere nei
limiti della legge naturale, ossia di quella legge non scritta riguardante la pacifica
convivenza e la moralità umana, che è il comune fondamento della vita dell'uomo e
che è stabilita da Dio. La sovranità che non rispettasse la legge naturale sarebbe
tirannide. In nome di questa stessa legge naturale Bodin difende la tolleranza
religiosa, riconoscendo che esiste un fondamento naturale comune in tutte le
religioni. Su questa base comune è possibile un generale accordo religioso pur senza
rinunciare alla specificità della religione praticata (concetto di religione naturale).

Ugo Grozio (1583-1645).

Olandese, è il maggior esponente della giusnaturalismo rinascimentale.


Per Grozio i fondamenti della convivenza tra gli uomini sono la ragione e la natura,
fra di esse coincidenti poiché la razionalità è la specificità naturale dell'uomo: tali
fondamenti si riassumono nel "diritto naturale", costituito dalle naturali inclinazioni
e sentimenti presenti in tutti gli uomini, quali il diritto alla vita, alla dignità della
persona, alla libertà, alla proprietà, eccetera.
Secondo Grozio, il diritto naturale ha altresì una rilevante consistenza ontologica
(una rilevante sussistenza): esso è talmente stabile e fondato che Dio stesso non lo
potrebbe mutare, poiché il diritto naturale è il criterio stesso con cui Dio ha creato
l'uomo e che, come tale, non potrebbe alterare se non contraddicendosi poiché la
natura dell'uomo è la ragione.
Il diritto naturale è il comando della ragione. Le azioni comandate dalla ragione sono
valide in se stesse, quindi sarebbero buone anche nel caso, per Grozio assurdo, che
Dio non esistesse o non si preoccupasse delle faccende umane. In realtà, precisa
Grozio, la validità di tali azioni deriva proprio da Dio perché Dio stesso ha creato la
ragione umana ed il suo spontaneo sentimento dei diritti naturali. È la ragione, ed il
derivante diritto naturale, che ci rivela la razionalità od irrazionalità delle
nostre azioni, mentre le azioni che sono oggetto del diritto positivo, o civile,
vigente nei singoli Stati diventano lecite o illecite solo in virtù delle leggi che gli
uomini stabiliscono. Il diritto civile è infatti diverso da quello naturale poiché dipende
dalle decisioni degli uomini ed è promulgato dal potere civile.
Grozio è sostenitore dell'origine contrattualistica dello Stato: lo Stato è una
costruzione, un'organizzazione umana, derivante da un contratto o accordo stipulato
tra gli uomini appartenenti a un determinato territorio. Mai lo Stato può violare i
diritti naturali degli uomini, anche in caso di guerra.
40

Altrettanto, così come esiste un diritto naturale fondato sulla razionalità dell'uomo,
allo stesso modo esiste una religione naturale, antecedente alle religioni positive,
anch'essa fondata e derivante dalla ragione umana è perciò più vera. Essa si basa su
pochi principi naturalmente avvertiti e, si può dire, infusi da Dio in modo innato
nell'animo umano: Dio esiste ed è uno solo; è trascendente; è creatore e provvidenza.
In quanto antecedenti alle religioni positive, i principi della religione naturale sono
presenti in tutte le fedi religiose, conseguendo da ciò il principio della tolleranza
religiosa. Principio questo particolarmente sentito da Grozio in un'Europa
insanguinata dalle guerre di religione.
41

IL RINASCIMENTO EUROPEO.

L'Umanesimo e il Rinascimento, sorti dapprima in Italia, si diffondono in


Europa solo successivamente però, rispetto a quello italiano, mantengono
caratteri di maggior persistenza e durata. In Italia infatti al Rinascimento succede
un periodo di decadenza culturale, di tipo formalistico-erudito, in coincidenza con
l'indebolimento politico e l'assoggettamento italiano alle dominazioni straniere. In
Europa invece il Rinascimento si sviluppa secondo un processo magari più graduale
tuttavia continuativo sino a portare, senza regressi, alla formazione della mentalità e
della civiltà moderna con la rivoluzione scientifica.
Due sono i principali esponenti della Rinascimento europeo: Erasmo da Rotterdam e
Montaigne. Benché quest'ultimo sia posteriore a Erasmo, conviene trattarlo per primo
poiché Erasmo, per talune sue concezioni, è anticipatore, sia pur in forma attenuata,
della Riforma protestante di Lutero e Calvino, per cui è opportuno esporlo in
collegamento col complessivo movimento della Riforma e Controriforma religiosa.

Michel de Montaigne (1533-1592).

Francese, è autore tra l'altro de "I saggi", che narrano esperienze di vita ed è un
capolavoro di introspezione sulla natura e sui limiti dell'uomo.
Mentre nel Quattrocento le concezioni dominanti si rifanno al platonismo e
all'aristotelismo, Montaigne recupera invece elementi di filosofia stoica e scettica, in
particolare lo scetticismo di Sesto Empirico, al fine di dimostrare l'insufficienza
delle teorie filosofiche, e quindi della sola ragione, per raggiungere la libertà
spirituale.
Nei "Saggi" Montaigne in mette a confronto con le sue le esperienze di vita narrate da
autori antichi e moderni per giungere ad una concreta conoscenza della natura umana,
nell'obiettivo del ritorno dell'uomo a se stesso, alla propria umanità. Filosofare per
Montaigne significa infatti conoscere se stessi, secondo l'antico motto socratico,
riflettendo sui limiti dell'uomo e del suo sapere nonché sulla sua mediocrità.
L'ottimismo degli umanisti sul valore dell'uomo e sulla sua capacità di essere artefice
del proprio destino lascia il posto a un'idea di uomo quale "creatura miserabile e
infelice", contro la pretesa della superiorità umana sulle altre creature. Ecco allora
l'esigenza del ritorno dell'uomo a se stesso, del recupero della sua libertà spirituale
mediante il riconoscimento della sua finitezza ed imperfezione. Ecco perché,
altresì, Montaigne si richiama allo stoicismo, che ci rende indipendenti dalle cose
facendoci indifferenti nei loro confronti, nonché allo scetticismo, che ci rende liberi
dalla presunzione di sapere e ci dispone alla ricerca e alla riflessione con senso di
umiltà.
Montaigne non è convinto che gli uomini abbiano una comune natura poiché
notevolmente diversi tra loro. Bisogna pertanto che ciascuno si costruisca una
saggezza a propria misura.
Ma come può una visione scettica sulla verità e sul sapere raggiungere questo
obiettivo? Proprio mediante la rinuncia alla pretesa di conoscere la verità ed
42

accettando la vita quale è in qualunque circostanza, nel bene e nel male. La vita
ci è data come qualcosa che non dipende da noi. Soffermarsi sugli aspetti negativi (i
dolori, le malattie, la morte) non può che deprimere e portare alla negazione della
vita. Il saggio è colui che accetta la vita e tutto ciò di cui la vita è fatta: dolore,
malattie, morte. Morire non è altro che l'ultimo atto del vivere e quindi saper morire
fa parte del saper vivere. E saper vivere vuol dire, per essere felici, non aver
bisogno di niente altro se non del momento presente. Il saggio vive nel presente,
che per lui è la totalità del tempo. È inutile immaginare una natura, una vita più
perfetta di quella dell'uomo e lamentarsi di non possederla. Bisogna che l'uomo
accetti la sua condizione e la sua sorte.

Erasmo da Rotterdam (1466-1536).

Nasce a Rotterdam, in Olanda. Viaggia e vive in molte città d'Europa. Si laurea in


teologia all'Università di Torino e diventa monaco agostiniano. Non riesce però a
sopportare la vita del convento e così ottiene dal Papa l'esonero dai suoi obblighi
monacali. Muore a Basilea, in Svizzera.
Opere principali: Manuale del soldato cristiano; Elogio della pazzia.
L'ideale rinascimentale del ritorno dell'uomo alle sue origini si manifesta anche come
esigenza di rinnovamento della vita religiosa, ritornando alla semplicità evangelica
originaria della religiosità contro la decadenza e la corruzione dei costumi della
Chiesa del tempo.
Tale esigenza ha, fuori d'Italia, nell'umanista Erasmo da Rotterdam uno dei
maggiori esponenti, il quale critica aspramente i costumi della Chiesa cattolica
ma senza rompere con essa, mentre con la Riforma protestante di Lutero e
Calvino e degli altri riformatori si giungerà alla rottura dell'unità del
cristianesimo.
Per Erasmo il cristianesimo non è un insieme di dogmi e di riti formali ma è
soprattutto sentimento di fede. Il cristianesimo deve essere compreso da tutti,
anche dagli umili e non solo dai dotti, perché riguarda la morale e non la
conoscenza. È importante la fede e non la teologia, ossia la filosofia religiosa
intesa come scienza di Dio e delle cose divine. Perciò Erasmo pubblica una propria
traduzione aggiornata del Nuovo Testamento perché sia letto e compreso
direttamente dal maggior numero di fedeli.
Le critiche di Erasmo contro la corruzione e la decadenza della Chiesa sono per
molti aspetti simili a quelli di Lutero, tant'è che Lutero invita Erasmo ad aderire al
protestantesimo. Ma Erasmo non accetta, sia perché non intende staccarsi dalla
Chiesa cattolica sia perché non concorda su specifici e precisi punti della dottrina
di Lutero.
In effetti, mentre la mentalità di Lutero conserva un carattere ancora medievale
per la sua concezione pessimistica dell'uomo visto solo come peccatore, Erasmo
invece, che non è solo un religioso ma anche un letterato ed un umanista, intende
valorizzare l'importanza dell'uomo, la sua dignità e la sua libertà.
43

In particolare, Erasmo respinge la negazione del libero arbitrio e la dottrina


della predestinazione formulate da Lutero, secondo cui solo la grazia divina è
causa della salvezza, mentre la libertà dell'uomo è solo causa secondaria, anzi è più
un effetto che una causa. Per Lutero l'offesa che l'uomo ha recato a Dio col peccato
originale è così grave che la sua buona volontà ne esce non solo indebolita ma
annullata. La buona volontà e le buone azioni umane non sono sufficienti quindi, per
Lutero, a garantire la salvezza dell'uomo se non interviene la grazia e la
predestinazione divina. E Dio, misteriosamente, predestina alla salvezza eterna,
tramite la concessione della grazia, non tutti gli uomini ma solo alcuni. Perciò, anche
volendo l'uomo non è libero di scegliere da solo il bene, non possiede il libero arbitrio
se non viene graziato da Dio. La grazia è concessa solo ai predestinati e basta da sola
a garantire la salvezza poiché solo l'uomo che riceve la grazia divina sarà allora
capace di compiere anche il bene. All'uomo non resta che sperare di essere
predestinato: da solo non può fare di più. L'umanista Erasmo non accetta questa
concezione negativa dell'uomo. Egli invece crede nel libero arbitrio: se l'uomo sceglie
il bene per amore di Dio può vivere dignitosamente e responsabilmente e sperare
nella salvezza.
Famosa è divenuta l'opera di Erasmo l'"Elogio della pazzia", un capolavoro di
sarcasmo dedicato all'amico Tommaso Moro. In questa sua opera Erasmo stesso
personifica la pazzia che fa l'elogio, le lodi, di se stessa. La pazzia è presentata in
maniera multiforme, a volte in modo ironico ed altre in modo critico, passando
dall'estremo negativo, quando la pazzia manifesta la parte peggiore dell'uomo,
all'estremo positivo, quando la pazzia è fatta consistere nella fede in Dio, perché può
sembrare folle credere in un Dio che non si vede e non si può pienamente
comprendere con la ragione; ma la pazzia della fede è quella dell'amore di Dio e del
prossimo, e non si preoccupa egoisticamente ed esclusivamente del proprio personale
vantaggio. Fra i due estremi, quello negativo e quello positivo, Erasmo presenta tutta
una serie di gradi di pazzia, talora facendo uso dell'ironia socratica, talora di gustosi
paradossi, talora di feroce critica, in particolare quando viene denunciata la
corruzione dei costumi degli uomini di chiesa di quel tempo. Nella maggior parte dei
casi la pazzia rappresentata da Erasmo è l'umana illusione, l'incoscienza, l'ignoranza,
la menzogna o l'impostura cui l'uomo e la società ricorrono per nascondere la propria
meschinità e la cruda realtà. Così, la pazzia di Erasmo è rivelatrice di verità: squarcia
i veli e le ipocrisie e fa vedere che la vita dell'uomo è perlopiù una commedia, in cui
ognuno copre con una maschera il suo vero volto e recita la sua parte che è di
finzione ipocrita.
44

LA RIFORMA PROTESTANTE E LA CONTRORIFORMA E RIFORMA


CATTOLICA.

Il quadro storico culturale del Cinquecento e le esigenze del rinnovamento


religioso.

Nel Cinquecento nasce un conflitto politico-militare fra due grandi potenze,


volendo ognuna di esse conquistare la supremazia in Europa: da una parte la
monarchia francese e dall'altra l'Impero di Carlo V. In questo conflitto si
inseriscono ed entrano a far parte anche contrasti religiosi. In particolare, per i
seguaci di Carlo V era compito dell'Imperatore mettere ordine nella Chiesa, accusata
di essersi corrotta per plurimi motivi:
1. perché più interessata al potere politico-temporale anziché alla cura delle
anime;
2. perché i riti e le cerimonie ecclesiastiche erano divenuti sempre più sfarzosi e
lussuosi, lontani dalla povertà e semplicità della Chiesa delle origini;
3. perché erano corrotti e peccaminosi, frequentemente, i costumi di molti
vescovi, cardinali, alti prelati e a volte anche dello stesso Papa;
4. perché era diventata scandalosa l'insistenza della Chiesa affinché i fedeli
facessero offerte e donazioni di denaro, facendo loro credere che avrebbero
ottenuto con ciò l'indulgenza, ossia la cancellazione o la riduzione del periodo
di tempo da passare in purgatorio, in attesa di entrare in paradiso (la pratica
delle indulgenze).
Già fin dalla metà del Quattrocento la cultura umanistica aveva sollecitato un
rinnovamento sia religioso che organizzativo contro la corruzione e i mali della
Chiesa. Anche la Chiesa viene invitata ad un proprio "Rinascimento" mediante il
ritorno alla semplicità delle sue prime origini. Sono criticate in particolare le
discussioni complicate ed astratte della filosofia e teologia scolastica,
proclamando che occorre ritornare alla semplicità della fede e della parola di Dio
e di Gesù quale si legge nei Vangeli, perché la parola di Dio non si rivolge ai
dotti ma a tutti gli uomini, anche e soprattutto a quelli più umili e non istruiti.
Da ciò sorge la necessità, aiutata dall'invenzione della stampa, di tradurre la
Bibbia e i Vangeli nella lingua parlata dai vari popoli perché potessero essere letti
direttamente da un maggior numero di persone, anziché essere narrati e commentati
solo dagli ecclesiastici. La fede, si sostiene, è soprattutto una convinzione personale
e non un fatto di obbedienza esteriore e superficiale e neppure una meccanica e
passiva partecipazione alle cerimonie liturgiche. Perciò è importante che più
persone possibili leggano direttamente le Sacre scritture, per stabilire un
rapporto diretto e personale con Dio e non più solo attraverso la Chiesa e i
preti.
La critica contro la corruzione e la decadenza della Chiesa romana e del Papato
conduce da un lato, con Lutero, alla Riforma protestante, cioè alla formazione di
una nuova Chiesa cristiana, la Chiesa protestante, che si separa dalla Chiesa
cattolica.
45

Dall'altro lato, la Riforma protestante provoca per reazione la Controriforma


cattolica nonché la Riforma cattolica che cerca di rimediare alla corruzione e ai
mali precedenti.
Questi contrasti religiosi che sorgono in Europa porteranno ad una guerra di
religione che durerà oltre cent'anni.

Martin Lutero (1483-1546) e la Riforma protestante.

Studia ad Erfurt, in Germania, diventa monaco agostiniano e quindi insegna teologia


presso l'Università di Wittenberg.
Se Erasmo da Rotterdam esprime sul piano culturale le esigenze di un rinnovamento
e di una riforma religiosa mediante il ritorno alle fonti evangeliche originarie contro
le complicazioni erudite ed astratte della metafisica teologica scolastica, Martin
Lutero è colui che porta a compimento sul piano storico la Riforma e la scissione
protestante, spezzando l'unità del cristianesimo. È chiamata Riforma protestante
poiché sorge come protesta nei confronti della Chiesa cattolica romana.
Si può dire che dal punto di vista dell'unità religiosa con Lutero termina
definitivamente il Medioevo ed inizia il mondo moderno, mentre dal punto di vista
della concezione dell'uomo e del rapporto uomo-Dio il pensiero di Lutero è invece
ancora impregnato della più pessimistica ed intransigente mentalità medioevale, che
l'Umanesimo aveva oltrepassato.
Lutero critica aspramente il potere temporale della Chiesa, la corruzione dei
costumi e dei comportamenti del clero cattolico, la venalità degli ecclesiastici. La
goccia che fa traboccare il vaso è lo scandalo delle indulgenze, parziali o plenarie,
ossia le richieste sempre più eccessive ed esose della Chiesa di ricevere offerte in
denaro da parte dei fedeli, promettendo loro in cambio l'indulgenza, ossia la
riduzione o cancellazione del periodo di pena da trascorrere in Purgatorio.
Così, nel 1517 Lutero pubblica e fa affiggere sulla porta della cattedrale di
Wittenberg le sue famose "95 tesi", cioè tutti i punti e i motivi della sua critica
contro la Chiesa cattolica nonché i nuovi concetti e le nuove regole su cui baserà la
sua riforma protestante. Il Papa, di conseguenza, minaccia Lutero di scomunica. Ma
Lutero non obbedisce ed anzi riconferma tutte le sue critiche e la sua volontà di
separarsi dalla Chiesa cattolica: sorge così la nuova Chiesa protestante separata.
Le tesi principali della nuova religione protestante quali espresse da Lutero
sono le seguenti:
1. La giustificazione dell'uomo attraverso la sola fede: solo la fede cioè (e non
i dogmi, i riti sfarzosi della Chiesa, le decisioni e i precetti dei Concili) fa
l'uomo giusto (giustificazione dell'uomo) e consente la salvezza eterna.
L'uomo acquista la fede, secondo Lutero e come abbiamo visto, solo se è
predestinato e riceve la grazia da Dio. La salvezza dell'uomo dipende soltanto
dalla volontà di Dio, dal suo donare all'uomo la grazia. Il dono della grazia è
assolutamente gratuito, che Dio concede o non concede in maniera misteriosa,
46

a prescindere dal retto comportamento umano e dalla circostanza che siano


state compiute o meno buone opere. Certo, a seguito del dono della grazia e
della fede le buone opere conseguono naturalmente, ma esse allora non sono la
causa della fede, semmai solo l'effetto. Tutt'al più, un segno della
predestinazione può essere il successo nell'impegno politico e sociale.
2. Il diritto al libero esame delle Sacre scritture: esclusivamente la conoscenza
diretta e personale delle Sacre scritture è il fondamento e la base della fede e
della religiosità, mentre l'insegnamento della Chiesa non conta o ha un valore
secondario. Anzi, le prediche dei preti e dei teologi per spiegare Dio, la fede e
la religione con la ragione sono assurde. Ciò che importa non è capire ma
credere, abbandonandosi con fiducia Dio. Per tale motivo i fedeli protestanti
sono invitati a leggere ed interpretare direttamente le Sacre scritture,
specialmente il Vangelo, anziché apprenderle attraverso l'insegnamento dei
sacerdoti. Lo stesso Lutero, a tal fine, pubblica una sua edizione in lingua
tedesca della Bibbia. I sacerdoti quindi non servono ed il sacerdozio va
abolito, poiché ogni buon protestante deve essere il sacerdote di se stesso. Per
organizzare le cerimonie religiose non serve un sacerdote, ma solo un
"pastore", cioè un laico eletto questo compito della comunità dei cristiani.
3. L'unico capo della Chiesa è Cristo e non il Papa. Vanno quindi abolite tutte
le gerarchie ecclesiastiche ed anche tutti i sacramenti istituiti dalla Chiesa
tranne due, il battesimo e l'eucaristia, perché questi sono stati direttamente
istituiti da Cristo come risulta nel Vangelo.
La riforma protestante ha successo anche perché viene appoggiata e sostenuta
dai principi tedeschi, non però per una sincera adesione alla nuova fede ma perché,
con la scusa della rottura col Papato, sono posti in grado di confiscare ed
impadronirsi delle terre e dei grandi latifondi che dapprima, anche in Germania,
erano di proprietà della Chiesa cattolica.
Ma pure i contadini, nello spirito della riforma protestante, si sentono in diritto di
ottenere quelle terre contro i privilegi degli ecclesiastici e i soprusi dei signori
feudali. Sorge così una vasta ribellione contadina contro i principi tedeschi
divenuti i nuovi proprietari delle terre. Ma Lutero, che dal punto di vista politico è
stato un conservatore, accusa i contadini di essere venuti meno al comando di Dio
che impone ai sudditi l'obbedienza; di conseguenza esorta i principi a sterminare
senza pietà i contadini ribelli, cosa che i principi non esitano a fare: 5000 contadini
sono uccisi, cominciando con ciò a diffondersi il germe delle guerre di religione.
In effetti, la teoria del libero esame, per cui un cristiano da solo, se illuminato
direttamente da Dio, può aver ragione contro un Concilio e contro l'intiera Chiesa, ha
comportato una serie di conseguenze inizialmente non desiderate dallo stesso Lutero.
Egli infatti finisce poco a poco col convincersi di essere dotato, in base al suo libero
esame, proprio di quell'infallibilità che aveva a sua volta contestato al Papa e alla
Chiesa, diventando in tal modo sempre più dogmatico ed intransigente. Addirittura,
persa ogni fiducia nella capacità del popolo di organizzarsi secondo la sua
nuova religione, Lutero finisce col consegnarlo ai principi tedeschi perché
fossero loro a provvedere all'organizzazione religiosa. Nasce così la Chiesa e la
47

religione di Stato, che è esattamente il contrario di ciò a cui la riforma protestante


avrebbe dovuto condurre: il compito di controllare la vita religiosa dei sudditi e di
reprimere e punire chi non praticasse con zelo la religione viene, infine, affidato ai
principi. La difesa della religione passa in tal modo dall’autorità religiosa all'autorità
civile, secondo il principio "cuius regio, eius religio" (alla lettera: della qual
regione, o Stato, di essa la religione, ossia la religione da praticare è quella di colui
chi è al potere), principio che impone ai sudditi l'obbedienza alla religione adottata
dallo Stato, protestante o cattolica che sia.

La riforma in Svizzera: Zwingli e Calvino.

Ulrich Zwingli (1484-1531).

Discepolo di Erasmo, di Pico della Mirandola e di Ficino, Zwingli è dapprima


parroco nella cattedrale di Zurigo. Poi si distacca dalla Chiesa cattolica e promuove la
riforma protestante nella sua città, conservando tuttavia un proprio legame con la
cultura umanistica, in particolare per quanto concerne la dottrina di una religione
originaria comune e di una rivelazione universalmente ispirata da Dio e trasmessa ai
profeti, ai saggi e ai filosofi anche prima del cristianesimo.
Zwingli condivide con Lutero la dottrina della predestinazione, il primato della
diretta e personale interpretazione delle Sacre scritture rispetto all'insegnamento
ufficiale della Chiesa, il rifiuto di ogni gerarchia ecclesiastica. Si distacca invece da
Lutero ritenendo che tutti i sacramenti, quindi anche il battesimo e l'eucaristia, gli
unici da Lutero conservati, abbiamo solamente un significato simbolico e
commemorativo. Accentua ulteriormente, inoltre, il tema della predestinazione,
considerata una deterministica decisione di Dio più che un dono gratuito.
Come Lutero, anche Zwingli ritiene che il cristiano debba particolarmente impegnarsi
nella vita politica e sociale. Il successo nelle opere e nell'impegno civile può essere il
segno che meglio rivela il dono della grazia e della salvezza divina.
Zwingli vuole rinnovare la comunità mediante un ritorno alla società cristiana delle
origini. Predica la comunanza dei beni pur se consapevole che essa è possibile solo
tra i santi, ma ritiene che occorra comunque avvicinarsi il più possibile a tale
condizione con la beneficenza. Sostiene il principio della comunità dei fedeli
costituita anche in comunità politica, favorendo così il trapasso della riforma religiosa
in una concezione teocratica (=primato del potere divino e della religione) non priva
di ambiguità e contraddizioni.

Giovanni Calvino (1509-1564).


Francese, si forma soprattutto Parigi. Stabilitosi a Ginevra, diffonde in quella città la
riforma protestante, peraltro secondo un’impostazione particolarmente originale e
distinta per più aspetti dal luteranesimo.
48

Per Calvino il ritorno alle fonti del cristianesimo è essenzialmente il ritorno alla
religiosità del Vecchio Testamento più che del Nuovo. Dal Vecchio Testamento
ricava il concetto di Dio inteso, anziché come amore, soprattutto come onnipotenza
ed imperscrutabilità, di fronte a cui l'uomo è nulla. Dalla volontà di Dio dipende il
corso delle cose e il destino degli uomini.
Anche per Calvino vale la tesi della predestinazione divina. Ma, rispetto alle altre
forme di protestantesimo, Calvino sa meglio esprimere i segni in base a cui l'uomo
può essere maggiormente fiducioso circa la propria salvezza. Per Calvino infatti la
predestinazione, più che implicare la totale inerzia e l’abbandonarsi speranzoso
dell'uomo a Dio, è per contro di stimolo all'azione. Il lavoro è per Calvino un dovere
sacro ed il successo nel lavoro e negli affari è uno dei principali segni, secondo i testi
biblici, della grazia di Dio e quindi della salvezza. Il successo economico rimane
comunque un dono di Dio, il che comporta che il cristiano non possa disporre
egoisticamente dei beni prodotti e consumarli, ma debba invece valorizzarli a
beneficio della comunità e farli fruttare, per esempio reinvestendoli accumulando il
capitale. Su tale etica calvinista viene in gran parte a formarsi lo spirito attivo e
produttivo della nascente borghesia capitalistica. Da questa etica calvinista, infatti, il
sociologo Max Weber farà derivare le origini del capitalismo.
A Ginevra Calvino realizza, sia pur mediante un sistema di periodiche elezioni, una
sorta di regime teocratico molto rigido, ai limiti del fanatismo, nei confronti della vita
religiosa e morale dei cittadini, sottoposti ad un severo controllo e, se dissidenti,
perseguitati e mandati anche a morte. Con Calvino si accentua ulteriormente la
Chiesa di Stato.

La Controriforma e la Riforma cattolica.

Contro la Riforma protestante la Chiesa cattolica reagisce con una sua


Controriforma, condannando cioè severamente la religione protestante, anche
attraverso processi e punizioni, compresa altresì la pena di morte per i nuovi eretici.
Peraltro la Chiesa cattolica non si limita a reagire con una controriforma di sola
condanna del protestantesimo. Essa comprende che molte critiche ricevute sono
giuste, come quelle di corruzione e di nepotismo (=assegnare le più importanti
cariche non ai più meritevoli ma ai "nipoti", ossia ai parenti ed agli amici più fidati).
Perciò la Chiesa cattolica si convince della necessità di provvedere anch’essa ad una
propria profonda riforma e rinnovamento dall'interno contro la decadenza e i mali
precedenti. Ecco perché si parla non solo di Controriforma, ma anche di Riforma
cattolica.
La Riforma cattolica si realizza soprattutto col Concilio di Trento, durato dal
1545 al 1563.
Col Concilio di Trento si stabilisce:
1. Non è vero che per la salvezza eterna dell'uomo è sufficiente soltanto la grazia
(come sosteneva il protestantesimo), ma è invece necessario che l'uomo stesso,
esercitando il libero arbitrio, scelga e voglia il bene per meritare la salvezza
49

attraverso le buone opere e le buone azioni. Le buone opere non sono meno
importanti della grazia.
2. Sono confermati tutti i sette sacramenti, perché ognuno di essi è strumento e
mezzo che rafforza la fede e la salvezza dell'uomo.
3. Non è vero che i sacerdoti siano inutili e che il sacerdozio vada abolito. Anzi, i
sacerdoti e la Chiesa cattolica sono le uniche autorità ufficiali in grado di
spiegare ed insegnare le Sacre scritture e il Vangelo. Questo compito non può
essere svolto dal singolo fedele, interpretando direttamente la Bibbia, perché
non è preparato.
4. Viene confermata l'organizzazione della Chiesa basata sull'autorità del Papa e
dei vescovi, ai quali però viene impartito l'obbligo di risiedere nella loro
diocesi, di prendersi direttamente cura delle anime dei fedeli e di non curarsi
più in modo esclusivo del governo e del potere politico. È fatto inoltre divieto
ai vescovi di assumere anche altre cariche.
5. Per preparare i sacerdoti alla loro missione vengono istituiti i Seminari
diocesani e viene confermato l'obbligo del celibato dei preti.
6. Contro il pericolo di nuove eresie viene istituito il Tribunale dell'Inquisizione e
l'Indice dei libri proibiti. Se la riforma cattolica dà nuovo impulso alla Chiesa,
la ferita provocata dal protestantesimo è tuttavia tale da non poter essere
facilmente sanata. Ciò porta il cattolicesimo a rinchiudersi in sé, nella difesa
talvolta esasperata del dogma, di cui appunto sono manifestazione il Tribunale
dell'Inquisizione e l'Indice dei libri proibiti.
In generale, la Chiesa cattolica vuole che il sentimento religioso si diffonda in tutti gli
aspetti della vita individuale e della società: nella famiglia, nel lavoro, nella vita
sociale ed anche nell'organizzazione del tempo libero, per cui le feste popolari
diventano feste religiose. Analogamente, vengono abbellite le chiese, moltiplicate le
processioni, incoraggiato il culto della Madonna e dei santi per attrarre un numero
maggiore di fedeli.
La principale organizzazione che ha contribuito a recuperare la supremazia culturale
della Chiesa di Roma è stato l'"Ordine dei Gesuiti", fondato da Ignazio di Loyola
(1491-1556), chiamato anche "Compagnia di Gesù". I gesuiti si mettono subito al
servizio del Papa, sia per evangelizzare i "selvaggi" dei paesi lontani, sia anche per
riconvertire al cattolicesimo il maggior numero possibile di protestanti. Ulteriore
importante compito svolto dai gesuiti è stato quello dell'educazione e della
formazione culturale e spirituale dei giovani. Ben presto in tutti i paesi cattolici
sorgono collegi di gesuiti che diventano famosi e prestigiosi accogliendo i figli delle
famiglie più importanti.
Viceversa, così come rigorosa era la formazione dei gesuiti, era invece a volte troppo
tollerante il loro atteggiamento nei confronti del cristiano comune, a cui venivano
perdonati facilmente peccati anche gravi, purché egli, confessandosi, promettesse di
non peccare più, ma spesso più a parole che nei fatti, essendo con una certa frequenza
considerata più importante la pratica religiosa esteriore e l’obbedienza alla Chiesa
piuttosto che la coerenza morale.
50

Tra i maggiori esponenti della Riforma cattolica si possono ricordare il cardinale


Roberto Bellarmino, che ha particolarmente curato la riorganizzazione istituzionale
della Chiesa, nonché il cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, cui è stato
affidato il compito di curare un'edizione del "Catechismo romano" chiara, semplice e
comprensibile.
51

LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA.

Per rivoluzione scientifica si intende quel lungo processo nel corso del quale, nel
16º e 17º secolo, ha avuto origine e si è quindi sviluppata la scienza moderna. Si è
soliti considerare la durata di tale processo (150 anni) a partire dalla pubblicazione
dell'opera di Copernico "Le rivoluzioni dei corpi celesti", nel 1543, fino all'opera di
Newton "I principi matematici di filosofia naturale" del 1687.
Sotto il profilo storico-culturale, la nascita della scienza moderna ha comportato il
sorgere di una serie di interrogativi sui fattori che ne hanno favorito l’avvento, su
quelli che per tanto tempo ne hanno ostacolato la nascita, sulle ragioni del suo
finale trionfo, sui rapporti tra il nuovo sapere e la vecchia cultura.
Con la rivoluzione scientifica cade non solo la cosmologia tolemaica-aristotelica, ma
cadono altresì idee da lungo tempo consolidate, riguardanti l'immagine
dell'uomo, il lavoro dello scienziato, le relazioni tra scienza e tecnica, tra scienza
e filosofia, tra scienza e religione.
Da quando Copernico, con la sua teoria eliocentrica, mette al centro dell'universo il
Sole al posto della Terra, entra in crisi anche l'immagine dell'uomo basata sull'antico
modello geocentrico, che voleva invece al centro la Terra. Anche l'uomo infatti
comincia a perdere la sua centralità nell'universo e deve trovare nuove risposte
sulla sua collocazione nel mondo. Inoltre, sorge pure l'inquietante interrogativo: se
la Terra è un corpo celeste come gli altri e non è più il centro dell'universo, creata da
Dio in funzione dell'uomo concepito come il punto più alto della creazione, potrebbe
essere allora che esistono anche altri uomini su altri pianeti? Ed allora come
potrebbero esistere la verità dell'incarnazione e della discesa di Dio su questa Terra
per la redenzione degli uomini in confronto ai possibili abitanti di altri pianeti? In che
modo Dio potrebbe aver redento questi altri eventuali uomini?
Prima di tentare una risposta a questi interrogativi è utile illustrare le nuove
caratteristiche assunte dalla scienza moderna, che trova soprattutto in Galilei la sua
definizione metodologica, in Francesco Bacone la sua filosofia e, successivamente,
in Newton una più compiuta sistemazione metodologico-scientifica.
La rivoluzione scientifica è preceduta dalla rivoluzione astronomica. Entrambe
hanno comportato un cambiamento così ampio dei metodi e delle concezioni
astronomiche e scientifiche tali da essere considerate, appunto, "rivoluzionarie", un
vero e proprio capovolgimento dei metodi e delle teorie precedenti. Ecco perché si
parla di "rivoluzione".

La rivoluzione astronomica.

Essa è stata resa possibile dall'affermarsi dell'idea secondo cui l'universo ha una
struttura (=composizione) razionale, e perciò conoscibile, e che una spiegazione
semplice e unitaria al riguardo è da preferire ad una spiegazione complicata e
macchinosa quale era quella che stava alla base del vecchio sistema astronomico
tolemaico-aristotelico geocentrico, che poneva la Terra al centro dell'universo.
52

Inizialmente, astronomia, astrologia e magia erano intrecciate ma in seguito,


dapprima nei paesi protestanti, l'astronomia diventa una scienza autonoma.
Iniziatori e protagonisti della rivoluzione astronomica sono stati Copernico e
Keplero, ma vale altresì richiamare in proposito anche la concezione di Giordano
Bruno.

Nicolò Copernico (1473-1543).

Di origine polacca, studia dapprima all'università di Cracovia e poi a quelle di


Bologna, di Padova e di Ferrara.
L'antico sistema astronomico geocentrico di Tolomeo e di Aristotele appare a
Copernico diventato ormai troppo complicato e contorto a causa delle sempre più
numerose spiegazioni particolari continuamente aggiunte per seguitare a giustificarlo
rispetto a nuove osservazioni risultanti in contrasto con esso. Era divenuto
impossibile applicarvi la matematica per calcolare la posizione dei pianeti. Allora
Copernico cerca nei libri antichi soluzioni alternative al geocentrismo. Scopre in tal
modo che già i pitagorici avevano ipotizzato l'idea di un sistema astronomico
eliocentrico, ponendo il Sole e non la Terra al centro dell'universo, e si rende conto
che tale ipotesi è in grado di semplificare notevolmente la teoria astronomica,
consentendo altresì il calcolo matematico del movimento dei pianeti.
Copernico elabora dunque la sua nuova teoria astronomica, secondo cui:
1. il Sole è fisso ed immobile al centro dell'universo (eliocentrismo);
2. la Terra si muove con un moto circolare attorno al Sole ruotando anche su se
stessa, sul proprio asse;
3. anche gli altri pianeti, come la Terra, ruotano intorno al Sole;
4. il movimento dei corpi celesti è circolare, uniforme e perpetuo;
5. l'universo è sferico ma non infinito; è invece finito perché chiuso e delimitato
dal cielo (o sfera) delle stelle fisse.
Come si può notare, questa nuova teoria dell'universo conserva ancora molti
punti in comune con quella antica tolemaico-aristotelica, vale a dire la concezione
dell'universo come sferico e finito, quella del cielo delle stelle fisse che è immobile e
segna il confine dell'universo e quella del movimento circolare, e perciò perfetto, di
tutti i corpi celesti. Tuttavia il solo fatto di aver posto il Sole e non la Terra al centro
dell'universo costituisce di per sé una novità rivoluzionaria.

Copernico sapeva bene che la Chiesa avrebbe condannato il suo sistema


eliocentrico, perché le parole della Bibbia sembravano invece significare che la Terra
e non il Sole è al centro dell'universo. Pertanto, al fine di evitare l'accusa di eresia,
presenta la sua nuova teoria astronomica come una semplice ipotesi matematica al
solo scopo di semplificare i calcoli. Ma non riesce comunque ad evitare la condanna
della Chiesa. Perciò nei primi tempi la nuova teoria di Copernico non avrà successo e
diffusione.
53

Giovanni Keplero (1571-1630).

Tedesco di origine, Keplero è convinto della validità del sistema eliocentrico che
sviluppa e perfeziona. In particolare, egli abbandona l'idea del movimento
circolare degli astri solo perché perfetto e scopre invece che gli astri si muovono
secondo orbite ellittiche, con velocità variabile a seconda della posizione di volta in
volta occupata nell'ellisse.
Keplero si preoccupa anche di capire che cosa provoca il movimento dei pianeti
attorno al Sole ed ipotizza che esso dipenda da una forza motrice che viene dal Sole
medesimo e che raggiunge i pianeti facendoli muovere con maggiore o minore
velocità a seconda della loro distanza (più veloci i pianeti più vicini al Sole meno
veloci quelli più lontani). In seguito, con la scoperta del magnetismo, si ipotizza che
il Sole sia come un grande magnete, una grande calamita, che ruotando su se stesso
trascina e fa muovere attorno a sé i pianeti. Bisognerà attendere la scoperta della
legge di gravitazione universale di Newton per avere al riguardo una valida
spiegazione scientifica.

Giordano Bruno (1548-1600).

Non bisogna peraltro dimenticare la concezione dell'universo infinito che abbiamo


già visto espressa da Giordano Bruno, la quale, pur derivando da considerazioni
filosofico-metafisiche anziché scientifiche, è per molti aspetti più innovativa ed
avanzata delle stesse concezioni di Copernico e di Keplero.
Bruno nega e supera il concetto di universo chiuso, delimitato dalla sfera delle
stelle fisse, e sostiene invece il concetto di un universo infinito senza centro,
perché il centro cambia cambiando il punto di osservazione, nonché di una pluralità
di mondi. Mentre per Copernico e per Keplero il sistema solare rimane unico, Bruno
intuisce la possibilità che esistano, come effettivamente è stato scoperto, numerosi
sistemi solari, cioè numerose stelle circondate dai loro pianeti, non escludendo che
molti di questi altri sistemi siano abitati.

La rivoluzione scientifica.

Estendendo alle scienze naturali i nuovi metodi di calcolo matematico ed


osservazione empirica dell'astronomia, la rivoluzione astronomica ha comportato
altresì l'avvento di una più generale rivoluzione scientifica.
Con l'avvento della scienza moderna nasce un nuovo modo di concepire la
conoscenza e la scienza umana rispetto a quella antica, di concepire la natura e
di concepire la medesima scienza moderna.

Diversità fra conoscenza e scienza antica e medievale rispetto alla conoscenza e


scienza moderna.
54

La scienza antica e medievale ci dà una descrizione soprattutto qualitativa e


finalistica della realtà e della natura. Essa descrive la realtà come appare nei suoi
aspetti qualitativi esteriori, ma vuole anche scoprire, attraverso la metafisica, cosa c'è
sotto l'apparenza esteriore della realtà: intende cercare le essenze, le sostanze
fondamentali, le cause prime e i principi generali della realtà e delle cose del mondo e
vuole anche scoprire quale è lo scopo, il fine ultimo del mondo e delle cose. Anche
nella filosofia umanistica e rinascimentale rimane una visione in buona parte
qualitativa e finalistica della realtà e della natura, concepita come organismo
vivente, come realtà animata che ha una sua vita ed un suo fine.
La scienza moderna vuole invece fornire spiegazioni quantitative e
meccanicistiche della realtà e della natura, non limitandosi a descrivere ma
misurando i fenomeni naturali e calcolando quali gradi di relazione (di peso, di
distanza, di somiglianza o differenza, di associazione o di separazione) esistono o non
esistono fra di essi. Deve essere quindi applicato il metodo matematico (metodo
quantitativo). Inoltre, i fenomeni naturali sono spiegati in termini di rapporti
meccanici di causa ed effetto (in base a quali meccanismi un fenomeno è la causa di
un altro fenomeno oppure ne è l'effetto: meccanicismo), mentre non conta una
spiegazione in base ad ipotetici fini o scopi. Prevale la causa efficiente e non la
causa finale.

Il nuovo modo di concepire la natura.

1) L'oggettività.
La ricerca scientifica deve essere oggettiva, limitandosi ad osservare in se stessi gli
oggetti della natura ed abbandonando ogni concezione magica, finalistica, spirituale e
soggettiva della natura stessa (soggettiva =considerare la natura secondo i personali
bisogni e desideri anziché osservarla come oggettivamente è).
2) La causalità.
Nella natura ogni fenomeno è il risultato (l'effetto) di cause meccaniche ben precise e
niente avviene per caso. Perciò si conosce veramente un fenomeno quando se ne
scopre la causa.
3) La relazionalità.
La natura non è più concepito come un insieme di "essenze", di sostanze occulte, ma
come un insieme di relazioni tra i fenomeni. Il compito della scienza moderna non
può essere quello di ricercare tali essenze o sostanze occulte che starebbero sotto le
cose sensibili (sostrato), poiché esse non si possono osservare e verificare; alla
scienza moderna spetta invece di analizzare e scoprire quali sono le relazioni esistenti
tra i diversi fenomeni, ossia quali rapporti di causa-effetto sussistono fra di essi.
4) La legge.
Il vero scopo dello studio della natura è di trovare le regole uniformi, necessarie ed
universali, ossia le leggi scientifiche, attraverso cui la natura opera ed agisce.
55

Il nuovo modo di concepire la scienza.

1) La scienza ha carattere sperimentale.


La scienza moderna si fonda sull'osservazione dei fatti e le teorie scientifiche devono
essere sperimentate, cioè verificate empiricamente. Non possono basarsi
esclusivamente su puri ragionamenti e tanto meno sui miti o sulla magia.
2) La scienza è un sapere matematico.
La scienza è un sapere, una forma di conoscenza, basato sul calcolo e sulla
misurazione quantitativa dei fenomeni e deve essere capace di trasformare in formule
matematiche i propri dati e i risultati.
3) La scienza è un sapere intersoggettivo.
I procedimenti e i risultati della scienza devono essere pubblici, cioè essere portati a
conoscenza di tutti perché ognuno possa controllare la validità delle teorie e delle
scoperte scientifiche. Inoltre, sempre di più le teorie e le scoperte scientifiche sono il
risultato della collaborazione (intersoggettività) di molti e sempre di meno sono il
risultato di un unico scienziato.
4) La scienza è un sapere pratico.
La validità delle teorie e scoperte scientifiche consiste anche nella loro capacità di
prevedere i fenomeni per poterli controllare, ove possibile, e dirigere la natura a
vantaggio degli uomini. In molti casi prevale il carattere pratico della scienza rispetto
a quello puramente teoretico-conoscitivo: un valore pratico espresso del motto di
Bacone secondo cui "sapere è potere".
5) La scienza è un sapere necessario ed universale.
Il fine della scienza è la conoscenza oggettiva del mondo e delle sue leggi universali e
necessarie (necessariamente dimostrate come valide per tutti), operando in maniera il
più possibile neutrale e disinteressata, libera da schemi e da preoccupazioni estranee
di tipo etico-religiose o sentimentali.

I fattori che hanno favorito la rivoluzione scientifica.

La scienza moderna non nasce all'improvviso e neppure sorge dall'intuizione


illuminata di un singolo sapiente o filosofo, oppure mago o astrologo, ma è il
risultato di un lungo processo storico, sociale e culturale, in cui si trovano
intrecciate nuove concezioni con concezioni derivanti dalla filosofia antica, dal
neoplatonismo e naturalismo umanistico-rinascimentale ed altresì dalla stessa
magia, dall'ermetismo e dal misticismo.
Fattori storico-sociali.
Dal punto di vista sociale, lo sviluppo della scienza moderna è favorito da un
contesto storico caratterizzato dai mutamenti di struttura dell'economia europea e
dal nuovo tipo di società venutosi a delineare all'inizio dell'età moderna. La
formazione degli Stati nazionali, col loro complesso apparato amministrativo, ed il
consolidarsi della civiltà urbano-borghese producono un sistema di vita più
complesso e dinamico, che comporta una serie concomitante di nuove esigenze e
56

bisogni sociali: allestire eserciti sempre più potenti e meglio armati; ampliare le
città; migliorare le vie di comunicazione; solcare gli oceani con navi sempre più
resistenti e veloci; arginare e bonificare le acque; estrarre metalli; lavorare i vetri e
le stoffe; stampare libri. Tutto ciò presuppone una sequela di cognizioni di balistica,
metallurgia, architettura, carpenteria, cartografia, arte mineraria, idraulica,
tipografia, eccetera. A loro volta queste ultime implicano più approfondite
conoscenze di matematica, fisica, astronomia, geografia, eccetera, ossia ulteriori e
più ampie nozioni scientifiche, vale a dire, appunto, la creazione di un sapere
scientifico oggettivo, capace di permettere all'uomo un’efficace utilizzazione a
proprio vantaggio delle risorse naturali.
Rapporti tra scienza e tecnica.
Le maggiori richieste di abilità ed interventi tecnici richiedono da un lato la
formazione di artigiani superiori (ingegneri, idraulici, architetti, artisti) e dall'altro
un reciproco collegamento tra scienza e tecnica, fra teoria e prassi, fra scienziati e
tecnici, essendo gli stessi scienziati stimolati dal contatto e dai problemi posti dai
tecnici. Questa congiunzione di teoria e pratica, di scienza e tecnica è una delle
caratteristiche fondamentali della scienza moderna, diversamente dal sapere
medievale che manteneva ben separate le arti liberali dalle arti meccaniche, ritenute
indegne di un uomo libero nonché "bassi" e "vili" poiché implicanti il lavoro
manuale ed il contatto con la materia. Sorge così un nuovo tipo di " dotto ", che non
è più il filosofo medievale, l'umanista, il mago e l'astrologo, ma lo scienziato
sperimentale moderno, stimolato anche dalla tecnica e che ha bisogno della tecnica
per ricavare la strumentazione necessaria per le sue ricerche scientifiche e per
procedere alla sperimentazione e verifica empirica delle sue teorie.
I fattori culturali.
Ancora recentemente si era soliti ritenere che la rivoluzione scientifica fosse da
attribuire, secondo una vecchia interpretazione risalente all'Illuminismo, al
progressivo emanciparsi della ragione dalle superstizioni del pensiero e dalla
astratta metafisica delle "essenze", considerate di ostacolo allo sviluppo della
razionalità scientifica. Oggi si è consapevoli che il processo della rivoluzione
scientifica è il risultato, lungo e tortuoso, di un intreccio di concezioni, ivi comprese
quelle magico-ermetiche-metafisiche-neoplatoniche da cui la scienza solo lentamente
e in tempi successivi andrà a differenziarsi.
Già con Ockham si è assistito alla diffusione di una mentalità empiristica favorevole
alle ricerche naturalistiche.
Il Rinascimento poi, in primo luogo per effetto della laicizzazione del sapere e della
proclamazione della libertà della ricerca intellettuale nei confronti della tradizione
culturale e religiosa, ha aperto la via e le condizioni per lo sviluppo della scienza. In
secondo luogo il Rinascimento, grazie al principio del "ritorno all'antico", ha
prodotto la riscoperta di dottrine e di pensatori trascurati per secoli, quali la
filosofia di Democrito e degli atomisti, le teorie eliocentriche dei pitagorici, gli studi
di Archimede, le ricerche dei geografi, degli astronomi e dei medici dell'età
ellenistica, i quali a loro volta hanno fornito lo spunto per nuove scoperte
scientifiche. In terzo luogo il Rinascimento, in virtù dei suoi interessi per la filosofia
57

della natura, ha favorito un più vasto approfondimento scientifico dell'indagine


naturalistica.
La stessa magia inizialmente, anziché un avversario, è stata un fattore che ha
influenzato positivamente la nascita della scienza. Essa infatti, considerando la
natura come un immenso serbatoio di meraviglie che il ricercatore non deve limitarsi
a contemplare bensì a sfruttare, ha giovato al diffondersi dell'idea di utilità pratica
della scienza. Lo stesso Copernico è stato scienziato ma anche astrologo ed ha
giustificato la centralità del Sole richiamandosi alla dottrina magica di Ermete
Trismegisto. Ed anche Keplero e lo stesso Galilei effettuavano oroscopi basati
sull'influsso degli astri. Le scienze occulte, magiche, hanno inoltre avuto il merito di
distaccarsi dall'antica fisica aristotelica, che distingueva tra mondo terrestre
mutevole e imperfetto e mondo celeste immutabile, incorruttibile e perfetto. I cultori
delle scienze occulte, infatti (vedasi tra gli altri Cusano), hanno maturato la
convinzione che, se i corpi celesti esercitano il loro influsso sulla vita e sugli
avvenimenti terrestri, la loro natura non deve quindi essere molto dissimile.
Infine, e in larga misura, le concezioni neoplatoniche e pitagoriche umanistico-
rinascimentali, legate anche al pensiero magico-ermetico come in Ficino, hanno
notevolmente influenzato la nascita della scienza, e la sua immagine di sapere
matematico, per l'importanza che il neoplatonismo e il pitagorismo hanno attribuito
alla matematica ed alla sua funzione intermediatrice tra le idee e la materia. Va
infatti ricordato che il Dio-Demiurgo platonico costruisce il mondo imprimendo ad
esso un ordine geometrico che lo scienziato può svelare. Dirà Galilei che la natura è
scritta con linguaggio geometrico.

Scienza e scienziati. I nuovi luoghi della rivoluzione scientifica.

Da un lato vi sono coloro che individuano lo sviluppo della scienza moderna


soprattutto grazie alle nuove condizioni storico, sociali e culturali maturate nel
Cinquecento e Seicento; dall'altro lato vi sono coloro che sostengono che sono stati
soprattutto gli scienziati a creare la scienza, che altrimenti non sarebbe mai nata
senza il sorgere di individui e di menti geniali e creative. La risposta sta
probabilmente nel mezzo: la scienza moderna è stata il prodotto degli scienziati, ma
la sua nascita e sviluppo è stata favorita e stimolata dalla coesistenza di favorevoli
circostanze storico-culturali. I nuovi scienziati inoltre, dal canto loro, non devono
conoscere necessariamente il latino o aver letto molti libri. Essi, tranne il caso degli
astronomi e matematici di corte (richiesti per la lettura degli oroscopi), non sono per
lo più scienziati di mestiere, ma individui che coltivano la ricerca scientifica accanto
alle loro professioni di ingegneri, architetti, medici (ad esempio Leonardo da Vinci),
oppure sono persone benestanti che possono dedicarsi agli studi senza
preoccupazioni economiche. Infine, più che nelle università ove spesso era ancora
prevalente il vecchio sapere tradizionale, la nuova scienza si sviluppa e si organizza
in nuove istituzioni culturali, quali le Accademie scientifiche, i laboratori, le
officine, dove si elabora un sapere che è unione di teoria e pratica.
58

Scienza e idee extra scientifiche.

A prima vista si può essere portati a ritenere che le scoperte scientifiche nascano
sempre in ambiente scientifico. Oggi invece, grazie agli sviluppi della storia della
scienza, sappiamo che alla base di molte teorie scientifiche, soprattutto degli inizi,
stanno spesso idee extra scientifiche che si rivelano feconde per la scienza, vale a
dire concezioni metafisiche, credenze religiose di vario tipo, persuasioni fantasiose e
irrazionali, che tuttavia ispirano ipotesi di carattere scientifico. Le idee scientifiche
possono sorgere in effetti dalle fonti più disparate; non solo dalle osservazioni
sperimentali o da ragionamenti logico-matematici, ma anche dalla fantasia,
dall'intuizione, dalla metafisica o dal caso. L'importante è che esse siano sottoposte a
verifica e a prova sperimentale per poter essere confermate. E ciò lega ancor più la
storia della scienza alla storia generale della cultura, facendoci meglio capire, con
maggior consapevolezza, che la scienza è pur sempre, fondamentalmente, una
creazione umana.

Gli ostacoli e le forze contrapposti alla nuova scienza.

La rivoluzione scientifica, specie agli inizi, è stata contrastata da due forze


autorevoli che sentivano da essa minacciati i loro fondamenti: da un lato la
tradizione culturale-filosofica preesistente e, dall'altro lato, la Chiesa, sia cattolica
che protestante.
La cultura ufficiale si sentiva minacciata poiché la nuova scienza metteva in
discussione molte delle sue teorie cosmologiche e fisiche, specie di derivazione
aristotelica, ritenute certissime sino a quel momento. In secondo luogo avversava la
nuova scienza perché essa si basava su presupposti antifinalistici ed
antiessenzialistici (contrari alla dottrina delle "essenze"), tali da svuotare di senso
ogni concezione filosofico-metafisica legata all'autorità del passato.
Da parte sua la Chiesa si sentiva minacciata poiché vedeva distruggere pezzo per
pezzo quella visione cosmologica su cui aveva inquadrato le proprie credenze di
fede. Vedeva messi in discussione, infatti, non solo l'autorità di Aristotele ma altresì
di San Tommaso, che su Aristotele aveva basato gran parte del suo sistema filosofico,
assunto dalla Chiesa come proprio. La nuova scienza era inoltre considerata
avversaria della stessa Bibbia che, interpretata alla lettera, contrastava con la
visione cosmologica ed astronomica della scienza moderna. Infine, ad inquietare la
Chiesa era anche il metodo della nuova scienza il quale, essendo fondato sul
principio della libera ricerca, apriva la strada ad una mentalità spregiudicatamente
razionalista, che avrebbe potuto sovvertire i principi politici ed etici su cui la Chiesa
era impostata.
In seguito, se all'inizio erano state fattori di sviluppo, vanno ad opporsi alla nuova
scienza anche la magia e l'astrologia, per le contestazioni rivolte ai maghi e agli
astrologi da parte degli scienziati i quali, perseguendo l'ideale di un sapere pubblico
ed intersoggettivo, verificabile ed accessibile a tutti, finivano col distruggere il
concetto stesso di un sapere occulto, magico e riservato solo a pochi iniziati.
59

Conseguenze della nascita della scienza moderna sul piano storico-culturale.

Dal punto di vista teorico la scienza moderna, fin dal suo nascere, appare agli occhi
delle persone più aperte e progressiste come l'esempio di un sapere rigoroso e
universale, tant'è che qualche filosofo fin da subito ha tentato di estenderne il metodo
anche agli altri e più svariati campi dell'attività umana, come all'etica e alla politica.
Dalla nuova scienza è derivata, da parte di Cartesio o dagli empiristi come si vedrà,
anche la formulazione di nuove teorie della conoscenza, oppure di nuovi punti di
vista e visioni del mondo quali il meccanicismo.
Sul piano pratico, per la sua utilità sociale e la capacità di migliorare le condizioni
dell'uomo nel mondo, la scienza andrà ad ottenere l'appoggio sempre più consistente
della borghesia europea, secondo la concezione di Bacone che "sapere è potere" e
sulla base di una nuova utopia della scienza, vista come generatrice di una sorta di
paradiso in terra.
L'idea della scienza come sapere vero ed utile al tempo stesso sarà uno dei grandi
temi della battaglia illuministica contro l'ignoranza, la superstizione, il sapere
ozioso e le ingiustizie sociali. La scienza occuperà pure un posto centrale nella
filosofia di Kant, vertente sui fondamenti, sulla validità e sui limiti del sapere.
Nell'Ottocento, dopo la parentesi rappresentata dalla filosofia idealistica, si
svilupperà il positivismo, che tornerà a celebrare la scienza come fonte di
conoscenza autentica e di inarrestabile progresso.
Nel Novecento, cadute le illusioni del positivismo, si è assunto verso la scienza un
atteggiamento più critico e cauto, essendo maturata la convinzione che la scienza
non è in grado di spiegare tutto e che non è sempre progresso, dal momento che essa,
tramite la tecnica, mette nelle mani dell'uomo un potere gigantesco che, se male
usato, rischia di distruggere o compromettere la vita sul nostro pianeta. Di
conseguenza, in taluni settori della cultura contemporanea si è instaurato un vero e
proprio processo contro la scienza, accompagnato dal rifiuto della civiltà scientifico-
tecnologica. Rimane comunque maggioritaria la convinzione secondo cui la
scienza e la tecnica, se ben dirette, possono aiutare individui e popoli a raggiungere
sempre migliori condizioni di vita. Del resto, la scienza e la tecnologia fanno ormai
parte integrante della nostra condizione, al punto che il destino umano, nel bene e
nel male, appare indissolubilmente legato ad esse.
60

Galileo Galilei (1564-1642).

Nasce a Pisa. A Firenze compie iniziali studi di letteratura e di logica. Poi a Pisa si
iscrive alla facoltà di medicina che però non termina per dedicarsi invece allo studio
della matematica. Per diciotto anni insegna matematica all'Università di Padova.
Dopo Padova, Galilei è chiamato a Firenze e a Pisa per ricoprire la carica di primo
matematico.
Grazie all'uso del cannocchiale-telescopio, la cui scoperta è attribuita ad un olandese
ma che Galilei per primo utilizza come strumento scientifico, egli realizza prime ed
importanti verifiche sperimentali della teoria eliocentrica copernicana.
Accusato di eresia dalla Chiesa, è mandato in esilio nella sua villa privata di Arcetri
dove trascorre in solitudine gli ultimi anni di vita.

Le opere "Sidereus nuncius" e "Dialogo sopra i due massimi sistemi".

Nella sua opera "Sidereus nuncius" (Annuncio astrale), Galilei annuncia la


scoperta di stelle non visibili all'occhio umano, dimostrando così che l'universo è
più ampio di quello concepito dal vecchio sistema tolemaico-aristotelico. Scopre che
la superficie della Luna non è liscia e perfetta, dimostrando in tal modo che è falsa
la teoria di Aristotele che distingueva tra mondo terrestre o sublunare, costituito da
materia imperfetta, e mondi celesti o sopraterrestri, costituiti da materia perfetta
(l’etere) ed incorruttibile. Scopre anche quattro satelliti di Giove, scoperta questa
che rafforza la teoria eliocentrica: infatti, se i satelliti di Giove si muovono attorno
ad esso e se Giove a sua volta si muove attorno al Sole, nulla vieta di pensare che la
Terra e il suo satellite, la Luna, possano ruotare anch’esse attorno al Sole. Pure le
successive scoperte delle fasi di Venere e delle macchie solari riconfermano che è
falsa la teoria di Aristotele che riteneva perfetta ed incorruttibile la materia dei corpi
celesti al di sopra della Terra.
Galilei dunque accetta la teoria eliocentrica copernicana, affermando inoltre che
la scienza è autonoma sia nei confronti del "principio di autorità" (per il quale le
teorie degli autorevoli pensatori antichi sono indiscutibili e vanno accettate senza
riserve) sia nei confronti della fede e della religione. Per tali motivi Galilei viene
criticato e combattuto sia da parte dei filosofi seguaci di Aristotele sia da parte
della Chiesa. Viene denunciato al Sant'Uffizio e subisce una prima ammonizione da
parte del cardinale Bellarmino perché abbandoni la teoria e la divulgazione del nuovo
sistema astronomico copernicano.
Nell'altra e sua più celebre opera "Dialogo sopra i due massimi sistemi", scritta in
forma di dialogo nel 1632, Galilei mette a confronto i due massimi sistemi
astronomici che allora erano fra di essi in contrasto, cioè il vecchio sistema
tolemaico-aristotelico, geocentrico, ed il nuovo sistema copernicano, eliocentrico.
Sebbene anche Galilei, come Copernico, allo scopo di difendersi dall'accusa di eresia,
dichiari che la teoria copernicana è solo un'ipotesi matematica per semplificare i
calcoli, dalla lettura del Dialogo appare chiaramente come egli sostenga invece il
sistema copernicano anche in termini sostanziali. Ne è una dimostrazione la stessa
61

psicologia dei personaggi del Dialogo: da una parte c'è il copernicano Salviati,
rappresentato come un uomo intelligente ed anticonformista, e dall'altra c'è
l'aristotelico e tradizionalista Simplicio, rappresentato come un uomo pedante, di
mentalità conservatrice ed attaccato all’"autorità" di Aristotele che non poteva essere
messa in discussione. Arbitro e moderatore del dialogo fra i due è Sagredo, un nobile
veneziano amico di Galilei, colto, aperto, senza pregiudizi e tendenzialmente
simpatizzante anch'egli per le nuove teorie.
Il "Dialogo" è diviso in quattro giornate. Nella prima si pone sotto accusa la
distinzione aristotelica fra mondo celeste e terrestre, per mostrare invece che i due
mondi non sono composte di materia diversa.
La seconda giornata è dedicata a smentire le obiezioni dei tradizionalisti contro
il moto della Terra attorno al Sole. I tradizionalisti obiettano che se davvero la
Terra si muovesse solleverebbe un vento tale da spazzare via tutti gli oggetti dalla
superficie terrestre oppure che, se davvero la Terra si spostasse da ovest ad est, i gravi
(i pesi, gli oggetti) dopo essere stati lanciati in alto dovrebbero allora ricadere giù
obliquamente, più verso ovest, e non perpendicolarmente come invece si nota.
Galilei, attraverso Salviati, risponde che sia l'aria, sia il vento, sia i gravi partecipano
allo stesso movimento della Terra e quindi, muovendosi insieme ad essa, noi non
notiamo il loro movimento perché anche noi ci muoviamo insieme alla Terra e con la
stessa velocità. Sulla base di queste argomentazioni Galilei formula il suo cosiddetto
"principio della relatività galileiana", che anticipa il principio della relatività
ristretta di Einstein: cioè all'interno di un sistema (di un ambiente) chiuso, ossia senza
la possibilità di avere punti di riferimento esterni, è impossibile stabilire se tale
sistema sia in quiete (immobile) o in movimento.
Nella terza giornata viene dimostrato il moto di rotazione della Terra su se
stessa e nella quarta giornata Galilei espone la sua teoria sulle maree.
A causa di quest'opera, che riconferma la validità del sistema eliocentrico
copernicano, Galilei viene nuovamente accusato dalla Chiesa, subisce un secondo
processo da parte del Sant'Uffizio (il Tribunale dell'Inquisizione), è costretto a
rinnegare le sue teorie e, come si è detto, viene esiliato.

La definizione del metodo scientifico.

Come abbiamo visto, la scienza moderna (come tale non si intende la scienza
contemporanea ma quella che va dal 1600 al 1800), è il risultato della rivoluzione
astronomica e della rivoluzione scientifica. La prima definizione del metodo della
nuova scienza, ed in particolare del metodo della fisica, è merito di Galilei, anche
se egli non lo espone in modo sistematico, come farà Francesco Bacone; le parti ed
elementi del metodo si trovano tuttavia distribuiti nelle varie opere di Galilei.
Galilei suddivide il metodo della scienza da un lato in un momento risolutivo, o
analitico, e in un momento complessivo, o compositivo o sintetico, nonché,
dall’altro lato, in "sensate esperienze" e in "necessarie dimostrazioni".
Metodo scientifico galileiano:
1) momento risolutivo o analitico;
62

2) momento complessivo o sintetico;


3) sensate esperienze: per induzione;
4) necessarie dimostrazioni: per deduzione.
Il momento risolutivo o analitico (=scomporre) consiste nel risolvere, cioè nello
scomporre un fenomeno complesso nelle sue parti od elementi semplici, che siano
misurabili e dunque quantitativi, formulando quindi un'ipotesi matematica (una
formula) in base a cui calcolare e spiegare quali relazioni vi sono tra le varie parti del
fenomeno complessivo considerato ed individuando conseguentemente la legge
scientifica da cui queste relazioni dipendono.
Il momento compositivo o sintetico (=rimettere insieme) consiste nella
sperimentazione scientifica e nella verifica, cioè nel tentativo di riprodurre
artificialmente il fenomeno in modo tale che, se l'ipotesi formulata è confermata dalla
sperimentazione, essa è verificata (= fatta vera) e perciò viene accettata e formulata in
veste di legge scientifica, mentre se l'ipotesi non è confermata dalla sperimentazione
viene falsificata (= fatta falsa) ed abbandonata.
Come si può notare, per la scienza moderna la semplice esperienza sensibile, la
semplice osservazione del fenomeno, da sola non basta; essa deve essere tradotta ed
organizzata come sperimentazione scientifica.
Per sensate esperienze (=le esperienze sensibili) Galilei intende il momento
dell'osservazione induttiva della scienza (induzione=passare dai casi particolari a
quelli più generali), che è quello prevalente in talune scoperte. Infatti, in
predeterminati casi la scienza, mediante un'attenta osservazione dei fenomeni
particolari, giunge per induzione alla formulazione di una legge generale (ad
esempio, osservando col telescopio che la superficie della Luna è rugosa e non liscia
e perfetta, come pure che nel Sole vi sono delle macchie, si giunge a formulare la
legge generale per cui sia i corpi celesti sia la Terra sono composti della medesima
materia, smentendo così la teoria di Aristotele che distingueva tra materia perfetta dei
corpi celesti e materia imperfetta della Terra).
Per necessarie (=certe) dimostrazioni Galilei intende il momento ipotetico-
deduttivo della scienza (deduzione=passare dai casi generali a quelli particolari), il
quale è prevalente in un altro tipo di scoperte (ad esempio il principio di inerzia o
quello della caduta dei gravi). Le necessarie dimostrazioni, chiamate anche
"matematiche dimostrazioni", sono ragionamenti logici, condotti su base
matematica (pertanto non partono dall'esperienza sensibile, dall'osservazione dei
singoli fenomeni), mediante i quali si giunge a supporre, ad ipotizzare, una teoria
generale, riservandosi poi di verificarla nella pratica.
Il metodo scientifico delineato da Galilei spiega anche quali rapporti vi sono tra
la matematica e la fisica. La matematica, dice Galilei, è uno strumento fondamentale
per le scoperte scientifiche, poiché essa, mediante i calcoli e le deduzioni, consente di
formulare nuove ipotesi sui fenomeni ("necessarie dimostrazioni"). Però, mentre la
matematica pura non ha bisogno, per essere vera, di venir controllata (verificata)
dall'esperienza, la matematica applicata alla fisica ha valore solo se i risultati dei
calcoli matematici sono poi confermati dalla sperimentazione nella realtà.
63

Le idee filosofiche che stanno alla base del metodo scientifico.

Ogni metodo scientifico non nasce soltanto in base alle scoperte ed alle
conoscenze scientifiche, ma anche da idee generali sul mondo (visioni del mondo)
che sono idee di tipo filosofico, quali le idee, già viste in precedenza, di oggettività
della natura, di causalità, di razionalità, di legge scientifica. Così è anche per il
metodo della scienza moderna definito da Galilei.
Dal punto di vista filosofico rileva il fatto che il modo di vedere e di pensare la realtà
da parte della scienza moderna esclude ogni considerazione finalistica della
natura, come pure ogni considerazione soggettiva: non è compito della scienza
cercare il "perché", ossia per quale fine la natura agisca un certo modo (causa
finale) ma solo "come" la natura agisce ed opera (solo la causa efficiente).
Altrettanto, non possiamo giudicare ed interpretare i fenomeni in modo
soggettivo, cioè secondo i nostri desideri e sentimenti, ma soltanto in modo
oggettivo, cioè come essi sono in realtà, indipendentemente da ciò che vorremmo noi.
In particolare, il metodo scientifico moderno definito da Galilei si basa sulle
seguenti idee filosofiche:
1. La concezione della struttura (composizione) matematica del cosmo. Il
mondo, la natura, dice Galilei è un libro scritto in caratteri matematici. La
forma delle cose che sono nell'universo è simile a quella dei cerchi, dei
quadrati, dei triangoli e delle altre figure geometriche, per cui le cose possono
essere studiate e misurate applicando il calcolo matematico e la geometria.
Perciò solo chi conosce la matematica è in grado di comprendere il cosmo. A
tale proposito Galilei rimprovera i filosofi aristotelici perché non hanno
riconosciuto e capito l'importanza della matematica nello studio della natura.
La matematica non è una scienza astratta, ma riguarda la realtà fisica.
2. L'idea della maggior importanza degli aspetti quantitativi della realtà
rispetto a quelli qualitativi, ossia delle proprietà oggettive (o primarie) dei
corpi (delle cose) rispetto alle proprietà soggettive (o secondarie). Le proprietà
oggettive caratterizzano i corpi in se stessi: sono la figura, la grandezza, la
quantità, il luogo, il tempo, il movimento, eccetera. Le proprietà soggettive non
sono vere proprietà dei corpi, ma soprattutto nostri modi di percepirli, perché
dipendono in gran parte dai nostri sensi: sono i sapori, i colori, gli odori, i
suoni, eccetera, che noi attribuiamo alle cose, ma che invece sono influenzati
dalle sensazioni individuali di ciascuno. La fisica aristotelica, viceversa, è più
di tipo qualitativo-descrittivo anziché di tipo quantitativo-misurabile.
3. L'idea che i fenomeni naturali accadono e si svolgono sempre in maniera
uniforme, costante, immutabile e quindi necessaria come una verità
geometrica, un teorema geometrico: ogni cosa, cioè, è sempre il prodotto,
l'effetto di una determinata causa, la quale produrrà sempre in modo uniforme
quell'effetto o quegli effetti e non altri. La natura perciò può essere studiata
secondo il principio di causalità (il principio di causa-effetto): conosco una
cosa quando ne conosco una causa. La conoscenza della causa o delle cause dei
64

fenomeni, sempre costanti ed identiche a se stesse, consente allora di formulare


leggi scientifiche generali di spiegazione.

La teoria della conoscenza.

Sulla base di queste idee Galilei definisce quindi la sua teoria della conoscenza, ossia
definisce il modo in cui, a suo avviso, procede la conoscenza umana e quali sono le
sue caratteristiche.
La teoria della conoscenza di Galilei è profondamente influenzata dalla sua fiducia
nella capacità della scienza di giungere a conoscenze vere. Egli paragona la
conoscenza umana a quella divina. La conoscenza umana, dice Galilei, differisce
dalla conoscenza divina per il modo di apprendere e per la minor estensione
delle conoscenze, ma per quanto riguarda l’intensità delle conoscenze, cioè per il
grado di certezza, la conoscenza umana per Galilei è simile a quella divina, tanta è la
sua fiducia nella scienza umana. E ciò grazie soprattutto alla matematica la quale,
pur essendo un prodotto umano (e non divino), è in grado di condurre ad un sapere
certo e indubitabile che non ha nulla da invidiare per profondità, cioè per intensità, a
quello divino. Il modo di apprendere di Dio è intuitivo: Dio conosce
intuitivamente, in modo immediato e in un colpo solo, tutta la verità. Invece, il modo
di apprendere dell'uomo è graduale, procede un passo alla volta attraverso il
ragionamento e l'esperienza, ed inoltre la conoscenza umana non sarà mai totale.
Tuttavia ciò che l'uomo conosce è uguale a ciò che, per quella determinata cosa,
conosce Dio stesso: che 2 + 2 = 4 è vero sia per noi ed altrettanto per Dio.

Rapporto tra scienza e filosofia e tra scienza e fede. L'autonomia della scienza ed
il rifiuto del principio di autorità.

Assolutamente forte è sempre stata in Galilei la difesa dell'autonomia e della


libertà della scienza, cioè della sua indipendenza da ogni condizionamento esterno.
A differenza degli altri dotti del tempo, che avevano scelto di non sfidare l'autorità
culturale e religiosa prevalenti in quell'epoca, ossia di non andare contro "il principio
di autorità", Galilei è invece convinto che la battaglia per l'autonomia e la libertà
della scienza, sia nei confronti della vecchia filosofia sia nei confronti di certi dogmi
e precetti della religione, sia della massima importanza. Perciò Galilei combatte
contro i pregiudizi sia dell'autorità culturale, personificata dai filosofi aristotelici, sia
dell'autorità religiosa, personificata dalla Chiesa.
La lotta contro gli aristotelici e contro il principio di autorità.
Non è vero che ciò che ha affermato un sapiente antico, per quanto autorevole,
debba essere per forza sempre certo e indiscutibile. In verità, Galilei mostra stima
per Aristotele e per gli altri scienziati antichi; il suo disprezzo è rivolto invece contro
i loro infedeli discepoli, soprattutto contro gli aristotelici del suo tempo i quali,
anziché osservare e studiare direttamente la natura, si limitano a consultare i testi e i
libri degli antichi e più autorevoli sapienti affermando che quanto è in essi scritto è
indubitabile. Se Aristotele tornasse al mondo, prosegue Galilei, sarebbe certo
65

disposto lui per primo a cambiare le proprie idee in base alle nuove scoperte. Invece
gli aristotelici seguitano nel loro atteggiamento dogmatico (=che non accetta di essere
messo in dubbio) ed antiscientifico, che ostacola il progresso della scienza e del
sapere.
La lotta contro la Chiesa e i teologi.
La Chiesa e i teologi avevano stabilito che ogni forma di sapere dovesse essere
conforme non solo allo spirito ma anche alla lettera della Bibbia e delle Sacre
scritture. Galilei invece, che era uno scienziato ma anche un uomo di fede, sostiene
che tale modo di pensare è non solo di ostacolo al libero sviluppo del sapere e della
scienza, ma che danneggia la stessa Chiesa.
Perciò, nell'opera intitolata "Lettere copernicane" Galilei affronta il rapporto
tra scienza e fede. Per Galilei la natura, che è l'oggetto della scienza, e la Bibbia, che
è la base della religione, non possono essere in contrasto fra di loro perché
derivano entrambe da Dio. Eventuali differenze e contrasti tra verità scientifica e
verità religiosa sono quindi soltanto apparenti e vanno risolti non cambiando le
verità scientifiche e neppure cambiando quelle religiose, bensì mediante
l'interpretazione della Bibbia, cioè attraverso il modo di leggere la Bibbia ed il
significato da attribuire alle sue parole e ciò, prosegue Galilei, è cosa certamente
lecita perché: a) la Bibbia ha usato, per farsi comprendere anche dagli uomini non
istruiti del tempo, un linguaggio popolare, semplice e metaforico, volutamente non
complicato e pertanto inadeguato a spiegare i fenomeni anche dal punto di vista
scientifico; b) la Bibbia non intende insegnare verità e leggi scientifiche, ma verità
religiose, che riguardano la salvezza e il destino ultraterreno dell'uomo, essendo suo
scopo insegnarci, scrive Galilei, "come si vadia al cielo e non come vadia il cielo".
In quanto autonome e distinte tra di esse, scienza e fede non possono essere
paragonate fra loro, ma ciascuna rimane valida suo ambito e nei suoi scopi. Così
come non è compito della scienza di intervenire sulla fede e sulla religione,
altrettanto non è compito della fede di intervenire su questioni riguardanti i fatti
scientifici naturali. La Bibbia non è un trattato scientifico: l'errore dei teologi è
quello di credere che la Bibbia debba essere valida anche per quanto riguarda le
conoscenze della scienza.
Per questa posizione Galilei è stato condannato dalla Chiesa, ma il suo pensiero ha
finito nel tempo per prevalere e convincere non solo la cultura filosofica e la cultura
in generale ma anche la stessa Chiesa, che infine è giunta a riconoscere l'autonomia
della scienza nel campo delle conoscenze naturali, dimostrandosi disposta
eventualmente a cambiare l'interpretazione letterale dei testi biblici in conformità alle
nuove scoperte scientifiche.
66

Francesco Bacone (1561-1626).

Nasce a Londra da famiglia nobile. Durante il regno di Giacomo I Stuart, percorre


una brillante carriera politica fino a diventare Lord Cancelliere. Accusato poi di
corruzione, viene rinchiuso, ma solo per pochi giorni, nella Torre di Londra ed è
condannato a pagare un'ammenda.
Se Galileo ha fornito il nuovo metodo della scienza e Cartesio, come vedremo, il
nuovo metodo filosofico, Bacone, nell'Inghilterra del suo tempo all'avanguardia nel
settore delle miniere e dell'industria, ha considerato per primo il potere della
tecnica derivante dalla scienza, secondo la sua massima: "sapere è potere". Il
fine della scienza non è più la teoria astratta, la conoscenza pura, bensì le applicazioni
pratiche in grado di dare all'uomo la capacità di un'efficace trasformazione e
utilizzazione della natura proprio vantaggio.
Opere:
La "Nuova Atlantide": similmente all’"Utopia" di Tommaso Moro, Bacone
immagina un'isola, appunto la "Nuova Atlantide", al largo delle Colonne d'Ercole,
sprofondata negli abissi ed abitata da un popolo colto e saggio, organizzato in una
vera e propria comunità scientifica, che collabora in équipe e dedito a scoperte ed
invenzioni. A tal proposito Bacone anticipa e prevede molte invenzioni della
tecnologia moderna: il microscopio, gli aerei, i centri di ibernazione.
L’ "Instauratio magna": con quest'opera, rimasta tuttavia incompiuta, Bacone
intendeva realizzare un ambizioso progetto di redazione di una enciclopedia generale
delle scienze, distinguendo tra scienze che si fondano sulla memoria (la storia),
scienze che si fondano sulla fantasia o immaginazione (la poesia, la narrativa) e
scienze che si fondano sulla ragione (la filosofia, la matematica, la fisica). Di tale
progetto Bacone ha realizzato solo il "Nuovo Organo", che tratta della nuova logica
della scienza, cioè del procedimento tecnico-scientifico contrapposto all'antica logica
aristotelica.
La celebrazione del valore pratico della scienza e del potere della tecnica non esclude
però, aggiunge Bacone, l'importanza anche dell'etica e della verità (della conoscenza
vera ), perché l'utilità pratica della scienza e della tecnica presuppone "il buono e il
vero". Infatti, nell'opera i "Saggi" Bacone svolgere rilevanti analisi sulla vita morale e
politica.

La nuova logica della scienza: "Il Nuovo Organo".

"Il Nuovo Organo" è la nuova logica che, secondo Bacone, deve caratterizzare e
guidare il moderno sapere tecnico-scientifico.
Bacone critica il sapere magico, che aveva caratterizzato parte della filosofia
rinascimentale, perché cerca cause occulte anziché basarsi sulla sperimentazione;
perché è un sapere riservato solo a pochi iniziati anziché essere un sapere pubblico,
controllabile attraverso la verifica empirica; e perché il suo scopo è il dominio sugli
altri anziché l'utilità pratica per tutti.
67

Critica la filosofia tradizionale, quella antica e medievale perché, secondo Bacone,


è una filosofia fatta solo di parole anziché di risultati pratici; è volta alla ricerca di
principi astratti, che sono causa di continue dispute; è una filosofia, dice Bacone, da
bambini litigiosi che non produce applicazioni pratiche.
Critica soprattutto la logica tradizionale, specialmente quella aristotelica, perché
essa, dichiara Bacone, non solo è inutile ma anche dannosa in quanto rafforza gli
errori del passato.Il sillogismo infatti, che per Aristotele era il metodo del
ragionamento per eccellenza, non fa altro che dedurre conseguenze che sono già
implicite nelle premesse, ma non è la logica né il sillogismo che stabiliscono le
premesse, è invece l'osservazione empirica e l'esperimento. La logica antica serve
solo a prevalere nelle dispute verbali ma, dice Bacone, non serve a spiegare la natura.
La vecchia logica ricava conclusioni e spiegazioni generali affrettate solo in base
all'osservazione di pochi casi e prescindendo dall'esperimento. Quindi la vecchia
logica è una precipitosa "anticipazione della natura", ossia una falsa induzione
perché risale troppo in fretta dall'osservazione di pochi casi particolari alla
formazione di teorie generali. La nuova logica e la vera induzione sono basate
invece sull'esame e sull'osservazione di molti casi particolari distanziati nel tempo,
osservati ripetutamente in tempi successivi, procedendo senza salti e precipitazione
ma gradualmente, un passo alla volta, e mediante esperimenti ordinati e meticolosi.
Occorre quindi fondare un nuovo sapere e definire un nuovo metodo, un nuovo
organo, ossia una nuova logica, procedendo attraverso due fasi: dapprima la
"pars destruens" (distruggendo cioè tutti i pregiudizi, i falsi concetti della mente) e
poi la "pars construens" (costruendo cioè concetti e metodi di indagine corretti).

"Pars destruens": i pregiudizi della mente.

Occorre innanzitutto sgombrare la mente da tutti i pregiudizi, cioè da quei falsi


concetti, false opinioni, chiamati da Bacone in latino "idola", con i quali la natura è
anticipata anziché interpretata. Bacone individua quattro generi di idola (teoria
degli idola) :
1. gli "idola tribus", quando ci facciamo dominare dai pregiudizi sociali;
2. gli "idola specus" (della caverna), quando ci facciamo dominare dai nostri
pregiudizi individuali;
3. gli "idola fori" (della piazza, del mercato), quando ci facciamo dominare dalla
suggestione di certe parole e dalla retorica, anche se riguardanti cose inesistenti
od indeterminate e astratte;
4. gli "idola teatri", quando ci facciamo dominare dalla filosofia e dal sapere
tradizionali, antichi, mentre la verità invece, dice Bacone, è figlia del tempo (è
quella ritenuta tale nel tempo in cui si vive) e non dell'autorità (della
autorevolezza ed importanza attribuita esclusivamente ai pensatori antichi).
68

"Pars construens. La teoria delle forme.

Sgomberata la mente dai pregiudizi (gli "idola"), ci si può rivolger allo studio dei
fenomeni naturali. Due sono gli scopi:
1. generare e introdurre in un corpo, per utilizzarlo, una nuova natura
(proprietà, caratteristica) o più nature diverse: ad esempio fare leghe di
metalli, rendere il vetro più trasparente o infrangibile, conservare i cibi quando
è caldo, far maturare più rapidamente frutta e ortaggi;
2. scoprire la forma di una certa natura, di una certa cosa o fenomeno
naturale, ossia scoprire i caratteri e le proprietà specifiche di ogni cosa che si
intenda studiare ed esaminare. Va precisato che per Bacone la forma di una
cosa è la sua natura, cioè il principio interno che la anima, la fa nascere,
muovere e sviluppare, in senso diverso quindi dal concetto aristotelico di
forma, per cui la forma è intesa come la proprietà che distingue una cosa da
ogni altra (ad esempio, la forma dell'uomo è la sua razionalità).
Peraltro, Bacone è d'accordo con Aristotele, secondo cui il vero sapere è sapere per
cause (scire per causas): si conosce un fenomeno quando se ne comprende la causa. Il
vero sapere pertanto non consiste per Bacone nella misurazione e quantificazione dei
fenomeni come invece affermava Galilei. Quello di Bacone è quindi un sapere
ancora di tipo prevalentemente descrittivo e qualitativo anziché di tipo
matematico-quantitativo, tipico della scienza moderna.
Per Aristotele quattro sono le cause necessarie per la comprensione di un qualsiasi
fenomeno: la causa materiale, la causa efficiente, la causa formale e la causa finale.
Per Bacone invece non ha senso ricercare nello studio dei fenomeni naturali la loro
causa finale; essa può valere semmai nello studio delle azioni della storia umana. La
causa efficiente poi è estrinseca, esterna al fenomeno studiato, perché è quel qualcosa
d'altro che ha prodotto il fenomeno che si intende studiare. La causa materiale, infine,
ha un valore soltanto secondario, superficiale. Resta quindi solo la causa formale. È
questa che per Bacone dobbiamo conoscere, cioè conoscere la forma, o natura, delle
cose nel senso sopra illustrato.
Per far comprendere l'idea di forma Bacone introduce due nuovi concetti: lo
schematismo latente e il processo latente (latente=nascosto, sottostante, che non si
può vedere attraverso la semplice osservazione empirica).
Lo schematismo latente di una natura (o cosa o fenomeno) è la sua struttura, ossia
come quella certa cosa è fatta, da quali e quanti elementi è composta e in quale
relazione essi stanno tra loro. È evidente che la struttura interna di un fenomeno non è
in quanto tale visibile.
Il processo latente di una natura (o cosa o fenomeno) è la legge, cioè il modo in
base a cui quella certa cosa sorge e si sviluppa; è il movimento interno dei vari corpi,
delle varie cose, che li conduce alla realizzazione della loro forma specifica. Ma si
tratta di un movimento, di un processo, latente, nascosto e sottostante che i sensi non
colgono (ad esempio, non si vede il processo interno per cui il seme diventa fiore o il
fiore diventa frutto). Quindi non è un processo misurabile ma solo descrivibile: come
già indicato, Bacone non condivide il metodo quantitativo nello studio dei fenomeni.
69

In conclusione, comprendere la forma di una natura significa per Bacone


comprenderne lo schematismo latente, cioè la struttura interna, nonché comprenderne
il processo latente, cioè la legge, il processo, secondo cui quella certa cosa nasce e si
sviluppa assumendo la propria forma (o principio interno) specifica.

Il metodo induttivo per eliminazione dei casi particolari che si rivelano falsi.

Per ricercare la forma di un fenomeno Bacone definisce un apposito metodo


induttivo che consiste nell'induzione per eliminazione dei casi o delle ipotesi di
spiegazione che si rivelano false; respinge dunque l'individuazione aristotelica che è
un metodo induttivo il quale procede per semplice enumerazione di casi particolari,
giungendo poi frettolosamente alle conclusioni ("anticipazioni della natura") le quali,
per la troppa fretta, altro non sono che principi astratti. Il metodo proposto da
Bacone basato sull'induzione graduale è ritenuto invece più accurato, meno
affrettato e quindi più aderente al corretto criterio dell'interpretazione della natura
contro il criterio, giudicato errato, dell'anticipazione della natura.
Il nuovo metodo indicato da Bacone si basa sulla costruzione e sull'uso di tre
"tabulae" (= tabelle, registri):
1. la "tabula presentiae", nella quale vengono registrati tutti i casi in cui si
presenta un dato fenomeno (ad esempio il calore);
2. la "tabula absentiae", nella quale si registrano i casi somiglianti in cui però il
fenomeno non si presenta, è assente (ad esempio la luce lunare, che è luce
fredda, o i "fuochi fatui");
3. la "tabula gradum", nella quale si registrano tutti i casi in cui il fenomeno si
presenta secondo diversi gradi di intensità.
Utilizzando queste tavole si procede quindi all'operazione di induzione per
eliminazione vera e propria, escludendo ed eliminando tutte le ipotesi e i casi che si
rivelano falsi (ad esempio la luce lunare nel caso del calore). Si giunge così ad una
prima ipotesi di spiegazione del fenomeno osservato, chiamata da Bacone
"vindemiatio prima" (prima vendemmia, prima raccolta), da sottoporre poi ad
ulteriori controlli e sperimentazioni, in particolare a quello che Bacone chiama
l'esperimento cruciale (experimentum crucis), mediante il quale, quando si è in
dubbio sulla causa di un fenomeno, poter riconoscere la vera causa, la vera forma da
cui il fenomeno dipende, escludendo le altre cause o forme ipotizzate (ad esempio
escludendo che il peso dei corpi sia causato da una loro proprietà intrinseca
riconoscendo invece che esso è causato dalla forza di gravità, oppure escludendo che
la causa del calore sia la luce poiché, infatti, la luce della luna è fredda, ma
riconoscendo invece che il calore è causato dal movimento rapido ed espansivo delle
particelle che compongono un corpo).
Il metodo proposto segue una via diversa sia da quella del cieco empirismo, cioè
degli empirici, paragonati da Bacone a formiche che si limitano a raccogliere dati
senza poi elaborarli, sia da quella dei razionalisti, paragonati ai ragni che hanno il
difetto di pervenire a vuote astrazioni, sono come ragni che ricavano da sé medesimi
la loro tela. La via giusta è quella di mezzo, che Bacone chiama la via delle api, la
70

quale unisce l'osservazione dei dati con la loro sperimentazione ed elaborazione


razionale: le api infatti succhiano il nettare dei fiori (osservazione) e poi lo
convertono in miele per capacità propria (elaborazione).
Il metodo di Bacone, in sostanza, è una sintesi tra osservazione empirica e
ragionamento ed è basato su una concezione meccanicistica della realtà, intesa come
l’insieme dei movimenti dei corpi nello spazio prodotti da forze di attrazione e
repulsione.

I limiti del metodo scientifico di Bacone.

Bacone ha esercitato una scarsa influenza sugli sviluppi della scienza, ove ha
prevalso il metodo di Leonardo, di Keplero e soprattutto di Galilei, di tipo
matematico-quantitativo, in base al quale la conoscenza dei fenomeni consiste nella
loro misurazione e nel calcolo dei loro rapporti o relazioni. Bacone in effetti non
riconosce alla matematica una funzione efficace nella ricerca scientifica.
Rimangono in Bacone residui della fisica aristotelica, del sapere magico e del
vitalismo rinascimentale. Il suo metodo è di tipo descrittivo e qualitativo, come in
Aristotele, e non di tipo quantitativo, come quello della scienza moderna inaugurata
da Galilei, pur avendo egli indicato un diverso procedimento induttivo ed un diverso
concetto di forma. Tuttavia per Bacone il sapere, benché strettamente legato
all'esperienza, rimane pur sempre basato sulla conoscenza delle forme dei fenomeni,
cioè delle sostanze, e non basato invece sulla ricerca delle funzioni e delle leggi
quantitative. Similmente alla concezione rinascimentale, attribuisce inoltre a tutti i
corpi capacità di percezione: tutta la natura è pensata come organismo vivente.
L'importanza di Bacone consiste piuttosto nell'aver riconosciuto lo stretto legame tra
scienza e tecnica e potere umano di controllo ed utilizzazione della natura, secondo il
suo motto "sapere è potere".
71

Isaac Newton (1642-1727).

Inglese, studia ed insegna matematica all'Università di Cambridge. Svolge anche una


brillante carriera pubblica: diviene Presidente della Società Reale di Londra, direttore
e poi governatore della Zecca di Londra. Gli è conferito il titolo di "Ser". Viene
sepolto nell'abbazia di Westminster.
Con Newton la rivoluzione scientifica giunge a compimento e viene delineato
quel sistema del mondo e quell'immagine dell'universo che ancora oggi costituisce
la fisica classica.
Opera principale: "Principi matematici di filosofia naturale" (Philosophiae naturalis
principia mathematica).

Principali scoperte e teorie scientifiche.

Il calcolo infinitesimale (il calcolo delle flussioni).


Con Newton, mediante l'elaborazione di nuovi strumenti di calcolo, viene pienamente
attuata l'unificazione di matematica e fisica. Già grazie a Cartesio e al suo sistema di
assi cartesiane si era resa possibile l'unificazione di geometria e algebra con la
trasformazione di curve e superfici in equazioni algebriche. L'ulteriore problema
risolto da Newton è stato quello della cosiddetta teoria delle flussioni, cioè delle
grandezze continue (fluenti) e delle loro variazioni (flussioni) considerate istante per
istante: ad esempio, noto lo spazio in funzione del tempo calcolare nei vari istanti la
velocità e, viceversa, nota la velocità in funzione del tempo calcolare lo spazio
percorso; ossia rispettivamente, impiegando termini odierni, derivare lo spazio
rispetto al tempo ed integrare la velocità nel tempo. La teoria delle flussioni è stata
sviluppata da Newton in base ad un'intuizione di tipo fisico e più precisamente
meccanico. Newton supera l'idea che le linee siano degli aggregati (una somma) di
punti e le considera invece come traiettorie del moto di un punto; di conseguenza le
superfici divengono movimenti di linee e i solidi movimenti di superfici. Allora il
calcolo di questi movimenti e della loro direzione nei vari istanti si traduce nel
problema delle tangenti e delle quadrature: trovare la direzione di una curva in
ciascun punto (tangente o derivata) e l'area delimitata dalla curva stessa
(quadratura o integrale). Con questi nuovi strumenti di calcolo Newton studia il
movimento dei corpi (la dinamica), introducendo il concetto di derivata prima o
prima flussione, che misura la velocità, di derivata seconda o derivata della derivata,
che è l'accelerazione, e di derivata terza, che è l'incremento di accelerazione. In
sostanza, Newton definisce lo studio delle curve.
In relazione allo studio di curve continue e indefinite nello spazio e nel tempo, questi
nuovi procedimenti di calcolo finiscono col pervenire al concetto di infinito, o di
estensione infinita, considerato tuttavia con sospetto dalla scienza dell'epoca,
ritenendo quello dell'infinito un problema non scientifico ma piuttosto di speculazioni
metafisiche. In effetti, solo con Bolzano e con Cauchy, grandi matematici
dell'Ottocento, viene teorizzata la nozione di "limite". In ogni caso è a Newton,
insieme a Leibniz, che si deve la prima organica esposizione del metodo per
72

determinare derivate e integrali nonché per determinare il loro legame e reciproca


relazione. Newton dunque, con Leibniz, è il fondatore del calcolo infinitesimale,
utilizzato in particolare per lo studio sugli infinitesimi, cioè sulle variazioni piccole a
piacere di certe grandezze, sui loro rapporti (derivate) e sulle loro somme (integrali).
Leibniz giunge infatti contemporaneamente a Newton a fondare il calcolo
infinitesimale, indipendentemente da Newton e partendo da basi matematiche,
soprattutto di geometria analitica, e non da basi fisiche come Newton, ma giungendo
ad analoghe conclusioni. Da ciò deriverà fra i due una lunga disputa sulla priorità
della scoperta.

La gravitazione universale.
Voltaire ha diffuso la leggenda secondo cui l'idea della gravitazione sarebbe venuta
in mente a Newton osservando la caduta di una mela da un albero, al che egli si
sarebbe allora domandato che cosa sarebbe accaduto se la mela fosse caduta da un
albero alto quanto la luna. In realtà la scoperta di Newton (come in genere per
qualsiasi altra scoperta) non nasce da un'idea improvvisa ma dall'approfondimento
di precedenti e parziali tentativi di spiegazione: Copernico aveva riconosciuto la
gravità come una forza che attrae fra loro i corpi celesti, ma non era giunto a
misurarla; Huygens (fisico olandese) aveva determinato la formula della forza
centrifuga; l'italiano Alfonso Borelli aveva concepito la forza centripeta o attrattiva.
Il grande e geniale merito di Newton è stato quello di unificare tutte queste
spiegazioni parziali in un'unica teoria, in un unico principio, spiegando con una sola
formula, e misurandole, sia la forza che mantiene i pianeti nelle loro orbite sia la
forza che fa cadere i gravi sulla terra; forze queste due che, a prima vista, appaiono
contrapposte ma che Newton ha unificato in termini di risultanti di opposte
componenti. Riconosciuto quindi che il moto dei pianeti e la caduta dei gravi
derivano dalla medesima causa, Newton formula la sua legge sulla gravitazione
universale: i corpi si attraggono in maniera direttamente proporzionale al prodotto
della loro massa ed inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.
Newton per primo distingue la massa dal peso. La massa è la quantità di materia di
un determinato oggetto che non muta, mentre il peso è una forza che varia a seconda
del luogo e dell'elemento in cui il corpo si trova (nel vuoto, sulla Luna, sulla Terra,
nell'acqua).

La dinamica. Tempo e spazio assoluto.


Dopo la prima legge della dinamica, ossia il principio di inerzia, enunciato per la
prima volta in forma parziale da Leonardo e poi definito da Galilei e Cartesio, e
dopo la seconda legge, già formulata da Galileo, secondo cui il cambiamento di moto
(cioè l'accelerazione o variazione di velocità nell'unità di tempo) è proporzionale
alla forza che lo ha prodotto e non alla velocità stessa, Newton definisce il terzo
principio della dinamica, ossia il principio di azione e reazione: ogni azione provoca
una reazione uguale e contraria: se io premo una pietra con un dito, pure il dito
viene premuto dalla pietra; se un cavallo tira una carrozza, anche la carrozza attira
verso di sé il cavallo.
73

Le leggi della dinamica, ossia del movimento, come pure di quel generale movimento
che è la gravitazione universale, implicano a loro volta il concetto di moto assoluto,
riferito cioè allo spazio vuoto, il quale moto assoluto suppone a sua volta un tempo
ed uno spazio pure assoluti. Infatti, gli stati di quiete e di moto rettilineo uniforme
possono venir determinati solo relativamente ad altri corpi che siano in quiete o in
moto. Ma siccome il rinvio ad ulteriori punti di osservazione o sistemi di riferimento
non può andare all'infinito, Newton introduce quindi il concetto di tempo assoluto e
di spazio assoluto, concetti che saranno oggetto di grandi dibattiti e contestazioni ma
che saranno superati solo due secoli dopo con la teoria della relatività di Einstein.
Scrive Newton: " il tempo assoluto, vero e matematico, in sé e per sua natura fluisce
uniformemente senza relazione a qualcosa di esterno". Con altri terminei è definibile
come durata, per cui il tempo comunemente inteso, l’ora, il giorno, il mese, l'anno, è
la misura della durata. Altrettanto, lo spazio assoluto è per sua natura privo di
relazione a qualcosa di esterno e rimane sempre simile a se stesso ed immobile.

L'ottica.
In contrapposizione alla teoria ondulatoria della luce, sostenuta dal fisico olandese
Huygens, secondo cui la luce è considerata una vibrazione dell'etere che si propaga
per onde, Newton formula la teoria corpuscolare della luce, secondo cui l'agitazione
dell'etere produce l'emissione di particelle luminescenti (corpuscoli) di differente
grandezza: le più piccole danno origine al viola dello spettro luminoso e le più
grosse al rosso.

Le regole del metodo scientifico e i loro presupposti di carattere filosofico.

L'importanza di Newton non è solo scientifica ma anche culturale e filosofica. Il


suo sistema è divenuto punto di riferimento imprescindibile del sapere moderno in
generale. Nello specifico, elabora un metodo scientifico che ispira innanzitutto
l'empirismo inglese ed elabora un concetto di ragione diverso da quello cartesiano,
basato sul confronto costante con l'esperienza intesa come imprescindibile strumento
di verifica delle indagini. Tramite l'empirismo Newton influirà profondamente anche
sulla cultura illuministica, che vedrà in lui il metodologo per eccellenza. Il concetto
newtoniano di ragione costituirà la base teorica della messa in discussione della
metafisica tradizionale. Lo stesso Kant vedrà in Newton l'esponente per eccellenza
della verità scientifica, tant'è che la filosofia di Kant, sotto un certo aspetto, si può
definire come un tentativo di giustificazione critica della fisica newtoniana.
Nell'opera "Principi" Newton stabilisce quattro regole metodologiche del
procedimento scientifico le quali a loro volta, come avviene per ogni metodologia,
implicano e derivano da sottostanti concezioni filosofiche sul modo di considerare
la natura, la struttura dell'universo e la ragione umana.
Prima regola: "Bisogna ammettere solo quelle cause che sono necessarie per
spiegare i fenomeni". È un principio di parsimonia nell'uso delle ipotesi, una specie di
rasoio di Ockham riguardante le teorie esplicative. Questa regola esclude che si faccia
ricorso ad ipotesi complicate e soprattutto di tipo metafisico o di natura occulta,
74

magica, sperimentalmente non verificabili. È questo il senso della celebre frase di


Newton "Hypothesis non fingo" (Non invento ipotesi), ossia vanno respinte ipotesi
fantasiose, superflue o rivolte alla ricerca di essenze, di sostanze, di qualità occulte o
forze nascoste nei fenomeni fisici e naturali. Per esempio ammettere, oltre alla
gravità, altre forze che agiscano nei movimenti degli astri è inutile, perché la gravità
basta da sola a spiegarli.
Il postulato filosofico-ontologico di questa regola è la persuasione della semplicità
della natura. Perciò dobbiamo sempre mirare a raggiungere teorie semplici.
Seconda regola: "Effetti dello stesso genere devono sempre essere attribuiti, finché è
possibile, alla stessa causa". Non possiamo ad esempio controllare come si riflette la
luce sui pianeti ma soltanto sulla Terra, tuttavia, in forza dell’idea che la natura si
comporti in modo uniforme sia sulla Terra che sui pianeti, possiamo estendere anche
ai pianeti, con fiduciosa certezza, il medesimo comportamento della luce che
riscontriamo sulla Terra.
Il presupposto filosofico-ontologico di questa regola è quello dell'uniformità della
natura.
Terza regola: "Le qualità dei corpi, che non ammettono né aumento né diminuzione
di grado e che appartengono a tutti i corpi dei quali si può fare esperienza, devono
essere considerate come appartenenti a tutti i corpi in generale" (a tutti quelli del
medesimo genere). Ossia, verificando in un certo numero di casi il costante ripetersi
dei medesimi effetti, posso generalizzare e ritenere che i medesimi effetti siano
attribuibili anche a tutti gli altri casi, per quanto non osservati, che rientrino nello
stesso genere.
Il presupposto filosofico di questa regola è ancora quello dell'uniformità della natura.
Quarta regola: "Nella filosofia sperimentale le proposizioni raggiunte mediante
induzione dai fenomeni devono essere considerate, nonostante le ipotesi contrarie,
esattamente o approssimativamente vere fino al momento in cui altri fenomeni le
confermino interamente o facciano vedere che sono soggette ad eccezioni. Un'ipotesi
infatti non può indebolire i ragionamenti fondati su indicazioni suggerite
dall'esperienza". Ossia, le verità sperimentali sono certe finché corrispondono, con
una certa approssimazione, ai fatti.
Il presupposto filosofico è quello della sperimentazione e verifica poste a base delle
conoscenze.
Come si può notare, gli aspetti magici e neoplatonici sono ormai del tutto assenti e
sono definitivamente spazzati via i dogmi della fisica tradizionale, quali la
differenza di essenza fra i cieli e la Terra e il mito della circolarità del moto dei corpi
celesti.
Ne emerge un’idea di ragione non più libera di formulare ipotesi a piacere in merito
a supposte essenze, bensì limitata e controllata dall'esperienza. La scienza non
cerca sostanze ma funzioni; non cerca l'essenza della gravità, ma si accontenta di
constatare che questa esista di fatto e che sia in grado di spiegare i movimenti dei
corpi celesti.
75

L'ordine del mondo.

La visione del mondo di Newton è quella di un sistema meccanico ordinato. È una


concezione meccanicistica: il sistema del mondo è una grande macchina e le leggi di
funzionamento dei vari pezzi di questa macchina sono rinvenibili induttivamente
attraverso l'osservazione e l'esperimento.
Tuttavia, ammessa la spiegazione meccanica dell'universo ed ammessa la forza di
gravitazione universale, la quale presuppone che i pianeti si siano originariamente
trovati mossi da una velocità inerziale iniziale, la scienza non è però in grado di
spiegare da dove derivi questa velocità iniziale ed in genere da dove derivi tutto
l'ordine dell'universo. A questo punto non resta a Newton che ricorrere ad un
presupposto metafisico di fondo, quello che sta alla base della sua visione del
mondo. Quale causa dell'ordine dell'universo e del movimento iniziale degli astri
Newton ammette l'atto creativo, il progetto e la potenza di un Essere superiore
divino, di un Dio che governa tutte le cose. È un Essere eterno, infinito,
assolutamente perfetto ed onnipotente. Oltre a ciò, nient'altro possiamo dire di Dio.
Delle cose naturali, dice Newton, noi conosciamo solo quello che possiamo
constatare con i nostri sensi: figure e colori, superfici, odori e sapori, eccetera; ma
nessuno conosce cosa sia la "sostanza" di una cosa, ossia ciò che eventualmente vi sia
sotto. E se questo vale per il mondo naturale, vale assai di più rispetto a Dio: non
abbiamo un'idea certa della sostanza e degli attributi di Dio. Quelli espressi nella
rivelazione divina sono semmai oggetto di fede ma non hanno validità scientifica.
Newton giunge quindi ad una forma di deismo (non il Dio persona quale definito
nella rivelazione religiosa, ma un Dio impersonale, scientificamente ipotizzabile solo
come intelligenza e potenza ordinatrice dell'universo), concetto questo che, insieme a
quello di una ragione limitata e controllata dall'esperienza, sarà la principale eredità
trasmessa da Newton all’Illuminismo. Per contro, i materialisti del 18º secolo
troveranno la loro base teorica soprattutto nel meccanicismo cartesiano. Per i
cartesiani infatti il mondo è interamente composto di materia, mentre per Newton non
lo è poiché tra i corpi agisce un'azione a distanza (la forza di gravità). I cartesiani ma
anche Leibniz, sbagliando interpretazione, vedranno invece, antiscientificamente, in
queste misteriose forze gravitazionali che agiscono a distanze sconfinate nulla di più
che un ritorno alle "qualità occulte" del passato.
76

IL SEICENTO: GLI INIZI DELLA FILOSOFIA MODERNA. RAZIONALISMO


ED EMPIRISMO.

Il Seicento è un secolo importantissimo nella storia della filosofia perché con esso
nasce la cosiddetta "filosofia moderna", che si protrarrà fino all'Ottocento, mentre col
Novecento entriamo nella filosofia contemporanea.
La filosofia moderna si distingue da quella precedente (quella greca, quella
ellenistica e romana, quella medievale e quella umanistico-rinascimentale) perché
cambiano profondamente gli interessi filosofici prevalenti. Infatti, mentre per le
filosofie precedenti gli interessi prevalenti riguardavano l'"ontologia" (= quella
parte della filosofia che studia i fondamenti dell'essere, o della realtà, cioè i principi e
le caratteristiche essenziali, le essenze, i fini, del mondo e delle cose del mondo) per
la filosofia moderna gli interessi prevalenti riguardano la "gnoseologia" (= quella
parte della filosofia che studia la conoscenza umana, i suoi fondamenti, le sue
caratteristiche principali, il suo valore e i suoi limiti). Occupandosi del mondo, della
realtà e delle cose del mondo, cioè degli "oggetti" del mondo, le filosofie precedenti
avevano carattere oggettivo; occupandosi della conoscenza e del "soggetto"
conoscente, cioè del modo in cui il soggetto (l'uomo) conosce, la filosofia moderna
ha carattere soggettivo.
Il Seicento è dominato da due principali correnti filosofiche: 1) il razionalismo;
2) l'empirismo.
Il razionalismo è una forma moderna di filosofia metafisica rispetto a quella antica.
Con tale termine si intendono tutte quelle filosofie (filosofie razionalistiche) per le
quali il fondamento primo, la base di partenza della conoscenza, è la ragione e
non le sensazioni. I filosofi razionalisti ritengono che la ragione, la mente umana,
possieda entro di sé, fin dalla nascita, idee e principi generali chiamati "idee innate"
(innate=non nate ad un certo momento nella mente individuale ma presenti in essa fin
dalla nascita). Essendo innate, queste idee non derivano dall'esperienza ma sono
indipendenti da essa: si dice che sono idee "a priori" (= che vengono prima e a
prescindere dall'esperienza sensibile). Le idee innate quindi non sono sensazioni ma
sono "intuizioni" che la ragione, la mente, coglie in quanto presenti entro di sé e che
comprende immediatamente senza bisogno di dimostrazioni perché sono
assolutamente evidenti. Sono come i postulati della geometria (il punto non ha
dimensioni; la retta è la distanza più breve tra due punti; la retta è infinita; due rette
parallele non si incontrano mai; ecc.), i quali non sono dimostrabili ma sono accettati
da tutti perché del tutto evidenti. Quindi, partendo dalle idee innate, che sono di
tipo generale, o dai postulati nel caso della matematica, e procedendo per
deduzione, applicando cioè il metodo deduttivo (passando dal generale al
particolare), si giunge man mano, mediante la logica ed il ragionamento, alla
dimostrazione di realtà particolari, di singole cose o fatti o gruppi di cose o di fatti
(nel caso della geometria, partendo dai postulati si giunge, mediante quei particolari
ragionamenti che sono i teoremi, alla dimostrazione delle proprietà delle figure
geometriche particolari).
77

Idee innate sono, ad esempio: l'idea della coscienza (o anima o "io"), l'idea di
perfezione, l'idea di infinito, l'idea di sostanza, l'idea di spirito, l'idea di materia,
eccetera. Partendo da tali idee innate, di tipo generale, intuitive ed evidenti, che non
hanno quindi bisogno di essere dimostrate, si arriva poi, attraverso il metodo
deduttivo ed il ragionamento, a dimostrare, ad esempio, cos'è l'essenza e quali sono le
proprietà della coscienza, quali sono le proprietà dello spirito, cioè del pensiero, quali
sono le proprietà di fondo della materia nonché le proprietà, il senso ed il fine del
mondo fisico, della natura, dell'essere umano. Infine, poiché secondo i razionalisti le
idee innate da cui parte la conoscenza sono principi primi e idee generalissime
evidenti di per sé, allora le conoscenze che da esse derivano sono non soltanto
certe ma anche complete, esaustive.

Per empirismo si intendono tutte quelle filosofie (le filosofie empiriste) per le quali il
fondamento primo, la base di partenza della conoscenza non è la ragione, la
mente, ma è invece l'esperienza sensibile, cioè le sensazioni. Per gli empiristi le
idee innate non esistono: la mente, quando nasce, non possiede dentro di sé alcuna
idea; le idee verranno dopo, con l’esperienze e con la conoscenza. Poiché parte
dall'esperienza, allora per gli empiristi la conoscenza non è a priori ma è "a
posteriori" (=che viene dopo l'esperienza, dopo le sensazioni). Ciò non significa che
la ragione non sia necessaria per giungere a conoscere, anzi è determinante. Infatti,
se la conoscenza comincia dall'esperienza, essa però, per diventare tale, ha bisogno
dell'intervento della ragione, la quale elabora ed organizza le sensazioni, le
esperienze, trasformandole in concetti ed in spiegazioni.
Inoltre per gli empiristi la conoscenza non procede per deduzione ma per
induzione (=partire dai casi particolari, dalle singole esperienze e sensazioni, per
giungere a spiegazioni più generali). Tuttavia, diversamente dai razionalisti, gli
empiristi non ritengono possibile giungere a conoscenze complete ed esaustive.
Secondo il metodo induttivo è possibile giungere gradualmente a spiegazioni sempre
più ampie, giungere a scoprire cause sempre più generali, ma le spiegazioni e le
teorie saranno sempre parziali, mai complete, non essendo possibile spiegare le cause
prime e i fini ultimi della realtà, cioè l'essenza del mondo e delle cose del mondo,
l'essenza dello spirito, l'essenza della materia, eccetera, in quanto per gli empiristi
l'intelletto umano è limitato. Il metodo induttivo dell’empirismo, al contrario del
razionalismo, non parte da cause prime (le idee innate) per spiegarne gli effetti, ma
parte dagli effetti, dai singoli fenomeni, per spiegarne le cause, ritenendo però
che la mente umana, poiché limitata, non sarà mai in grado di scoprire le cause
prime della realtà (Perché c'è il mondo? Qual è il suo destino? ecc. A tali cause
prime e fini ultimi è impossibile per gli empiristi trovare una risposta).

Somiglianze fra razionalismo ed empirismo.


Sopra abbiamo visto le principali differenze tra razionalismo ed empirismo. Essi però
hanno anche taluni punti in comune, modi di pensare fra di loro simili. Infatti:
78

-Per entrambi noi non conosciamo direttamente le cose, gli oggetti, ma solo i
fenomeni, ossia ciò che ci appare delle cose, ciò che percepiamo, ossia le immagini,
l'aspetto esteriore delle cose così come la nostra mente ce le rappresenta
(rappresentazioni mentali), però non conosciamo le cose in se stesse. La nostra è
solo conoscenza dei fenomeni (fenomeno in greco significa "ciò che ci appare": ciò
vuol dire che non sappiamo con certezza se le cose in se stesse sono davvero
come ci appaiono).
-Per entrambi i fenomeni naturali avvengono sempre in maniera meccanica,
accadono secondo rapporti meccanici e necessari di causa-effetto, per cui, data
una certa causa, essa produce meccanicamente e necessariamente un certo
determinato effetto e, viceversa, dato un certo effetto, esso deriva meccanicamente e
necessariamente da una determinata causa. Così, è in generale ritenuto che tutti i
fenomeni accadano secondo leggi naturali necessarie. È questa una concezione
meccanicistica della natura che si contrappone alla concezione spiritualistica
della natura (la natura è governata da un Essere superiore divino e trascendente); si
contrappone altresì alla concezione panteistica della natura (dentro la natura,
dentro ogni cosa naturale, vi è uno spirito divino immanente che la anima) e si
contrappone pure alla concezione organicistica della natura che si aveva ad
esempio nel Rinascimento (la natura è come un immenso corpo vivente, composto
non solo di materia meccanica ma anche di spirito libero, che sceglie liberamente da
sé il modo in cui svilupparsi). In base alla concezione meccanicistica della natura, il
meccanismo secondo cui accade ogni fenomeno naturale è pertanto misurabile
ed è conoscibile mediante il calcolo ed il metodo matematico (come diceva
Galilei). Non ha senso dunque cercare un finalismo nella natura (essa non agisce
in vista di qualche fine o qualche scopo, ma agisce meccanicamente) e non ha senso
ricercare una libertà della natura, suo svilupparsi liberamente (la natura agisce
sempre in base a leggi naturali necessarie, costante ed uniformi). Finalismo e libertà
possono semmai essere cercati e trovati nello spirito, cioè nel pensiero umano,
nei comportamenti e nelle idee degli uomini e nella storia umana.

Fondatore del razionalismo è Renato Cartesio. Altri importanti razionalisti sono


Spinoza e Leibniz.

Precursore dell'empirismo è Hobbes ed il suo maggior esponente è Locke. Altri


importanti empiristi sono Berkeley e Hume.
79

RENATO CARTESIO - in francese René Descartes- (1596-1650).

Nasce a La Haye in Francia. Oltre alla filosofia, si è dedicato allo studio della fisica
ed è stato altresì un grande matematico. Inventa il sistema cartesiano col quale unifica
geometria e algebra. Partecipa in parte alla "Guerra dei trent'anni". Dopo aver
soggiornato a Parigi, nel 1628 si stabilisce in Olanda per godere della libertà
filosofica e religiosa propria di quel paese. Compie viaggi in tutta Europa. Nel 1649,
su invito della regina Cristina di Svezia, si stabilisce presso la sua corte a Stoccolma,
dove muore nel 1650.
Opere principali: Discorso sul metodo; Principi della filosofia; Le passioni
dell'anima.
Vivendo gran parte della sua vita durante la Guerra dei trent'anni, che fu guerra di
conquista ma anche guerra di religione, pubblica solo l'opera "Discorso sul metodo"
mentre, per evitare accuse di eresia, non pubblica le altre sue opere, che escono
postume.
Galileo fonda il metodo scientifico; Bacone celebra il potere della scienza e della
tecnica; Cartesio è il fondatore del nuovo metodo filosofico e del razionalismo.
Due sono i principali e fondamentali meriti filosofici di Cartesio:
1. egli per primo sposta l'interesse prevalente della filosofia dall'ontologia alla
gnoseologia, inaugurando così la filosofia moderna;
2. definisce il nuovo metodo della filosofia moderna, il quale non si fonda più sul
principio d'autorità, cioè sul pensiero dei più autorevoli filosofi antichi, che
anzi nella sua opera non sono nemmeno citati, ma si basa invece sulle idee
della nuova società derivanti dalla rivoluzione scientifica.

Il nuovo metodo filosofico (dall'opera "Discorso sul metodo").

Al termine dei suoi studi Cartesio critica il sapere tradizionale perché si accorge
che esso non si basa su criteri sicuri per distinguere il vero dal falso. Solo la
matematica gli appare degna di fiducia e pertanto si propone di costruire un nuovo
metodo filosofico prendendo per modello il metodo deduttivo della matematica,
ed in particolare della geometria. Il nuovo metodo filosofico proposto intende partire
da postulati o idee generali evidenti, immediate ed intuitive, che non abbiano bisogno
di dimostrazione ma dalle quali, per deduzione, si possano poi spiegare e dimostrare i
casi, i fenomeni e le realtà particolari. Le dimostrazioni sono però valide solo se le
idee generali di partenza sono così evidenti da essere sicuramente certe. Il nuovo
metodo filosofico, deduttivo, deve cioè partire e basarsi almeno su un'idea
generale che per sua propria evidenza sia così intuitiva, chiara e distinta da
essere senz'altro vera. In proposito, Cartesio definisce l'intuizione come la capacità
di cogliere le idee in modo così chiaro e distinto da non lasciare a nessun dubbio.
A tal fine, e senza basarsi in nessun modo sull'autorità della cultura tradizionale e sui
pensatori del passato, Cartesio dà avvio al suo metodo secondo le quattro
principali regole seguenti:
80

1. La regola dell'evidenza: non accettare mai per vera nessuna cosa che non si
presenti alla mente con assoluta evidenza, cioè in maniera chiara e distinta.
Tale regola comporta l'esclusione pertanto di ogni pensiero su cui sia possibile
il dubbio.
2. La regola dell'analisi: scomporre un problema complesso nelle sue parti
semplici, da considerare separatamente.
3. La regola della sintesi: passare gradatamente da conoscenze più semplici alla
loro unificazione (sintesi) in conoscenze più complesse.
4. La regola della enumerazione e della revisione: enumerare tutti i casi in cui
un problema, un fenomeno può manifestarsi (ad esempio il fenomeno del
calore) per essere sicuri di non aver dimenticato nulla e quindi controllare di
nuovo (revisione) tutte le procedure di analisi e di sintesi che sono state
seguite. L'applicazione dell'analisi e della sintesi è il metodo della matematica,
che parte da postulati considerati come evidenti, metodo che Cartesio ritiene di
estendere a tutte le scienze sulla base di una concezione della realtà strutturata
matematicamente, cioè secondo una serie necessaria di cause ed effetti
quantificabili e misurabili.

Il dubbio sistematico o metodico.

Come passo successivo, Cartesio applica le regole del suo metodo ai vari tipi di
conoscenza quali definiti dal sapere tradizionale: la conoscenza sensibile, la
conoscenza logico-razionale, la conoscenza matematica.
Per quanto riguarda la conoscenza sensibile, sembra che i sensi, l'esperienza
sensibile, ci diano una conoscenza indubitabile; ma Cartesio osserva che i sensi ci
possono ingannare. Infatti ci fanno vedere il Sole molto più piccolo e molto meno
caldo di quanto è in realtà. I sensi ci fanno conoscere solo l'apparenza (i fenomeni)
delle cose, non la loro realtà.
Per quanto riguarda la conoscenza logico-razionale, essa non deriva dai sensi, ma
si fonda sui principi della ragione e della logica (principio di identità; principio di non
contraddizione, ecc.) che risultano certi. Però, osserva Cartesio, c'è anche chi sbaglia
nel ragionare oppure potrei stare sognando e la distinzione tra veglia e sonno non è
sempre chiara. Quindi anche la conoscenza logico-razionale non è indubitabile.
Per quanto riguarda la conoscenza matematica, Cartesio osserva che, si sia svegli
o si dorma e si sogni, le regole della matematica non cambiano (2 + 3 = sempre 5).
Sembra quindi che la matematica possa essere ritenuta il fondamento, la base certa
del sapere e della conoscenza umana. Tuttavia, bisogna dubitare anche della
matematica perché potrebbe esistere un "genio maligno" che vuole sempre
ingannarci, facendoci ritenere vera la matematica mentre invece è un suo imbroglio.
Come si può notare, lo scopo di Cartesio è quello di trovare un principio, un
fondamento, una base del sapere e della conoscenza così evidente ed intuitiva,
così chiara e distinta, da escludere ogni e qualsiasi dubbio ci si possa immaginare,
anche il dubbio più fantasioso come quello che possa esistere un genio maligno.
81

Per tale motivo applica metodicamente e sistematicamente il dubbio ad ogni tipo di


conoscenza: da ciò il nome di dubbio sistematico, o metodico, da lui applicato ad
ogni tipo di conoscenza, non per scetticismo ma per verificare se è possibile
trovare un fondamento che sia assolutamente indubitabile. Si può addirittura
dubitare della matematica perché potrebbe essere l'inganno di un genio maligno. Il
dubbio di Cartesio è volutamente universale; si parla infatti di "dubbio iperbolico"
(=smisurato, esagerato) non perché Cartesio non creda possibile trovare una certezza
del tutto indubitabile, ma proprio perché vuole trovarla in modo più che sicuro.

Il "cogito, ergo sum": penso, quindi sono, cioè esisto come essere pensante.

Proprio quando il dubbio sembra non finire mai, Cartesio trova l'ispirazione e
scopre quella verità, quel principio assolutamente indubitabile che diventerà la base,
il fondamento del nuovo sapere. E gli osserva, infatti, che mentre si pensa di poter
dubitare di tutto, non si può tuttavia dubitare del fatto che si stia pensando,
ossia che vi è, che esiste un qualche cosa, un soggetto che pensa. Da qui la celebre
affermazione "cogito, ergo sum" (penso, quindi sono, esisto). Questa verità non può
essere messa in dubbio neppure dal genio maligno. Magari io come uomo, come
corpo, non esisto, perché posso essere un'illusione provocata proprio dal genio
maligno; altrettanto possono non essere reali le cose pensate e sentite, ma
nessuno, neppure il genio maligno, può farmi dubitare che, se come corpo, come
persona. posso anche non esistere, esisto almeno come soggetto pensante, come
"cosa che pensa", cioè, in latino, come "res cogitans", potendosi concludere così
che essa è indipendente dal corpo e dal mondo, che saranno chiamati "res extensa".
La scoperta che quantomeno il soggetto pensante esiste, cioè che esiste la
coscienza, l’"io", ossia il pensiero, anche se i contenuti del pensiero potrebbero essere
irreali, un'illusione, non è il risultato di una dimostrazione, cioè di un
ragionamento graduale e complesso, ma è il frutto proprio di quella intuizione
immediata, del tutto evidente, chiara e distinta, che Cartesio cercava come
fondamento e base di partenza certa del nuovo sapere.
La scoperta del "cogito", della "res extensa", ha un significato epocale, perché
segna lo spartiacque, la separazione-distinzione tra la filosofia antica, impostata
sulla metafisica dell'oggetto o dell'essere, cioè sull'ontologia, e la filosofia moderna,
fondata da Cartesio, la quale è impostata sulla metafisica del soggetto conoscente,
cioè sulla gnoseologia. La filosofia moderna non è più scienza dell'essere
(ontologia), rivolta a cercare l'essere, l'essenza delle cose e della realtà, ma diventa
soprattutto dottrina della conoscenza (gnoseologia). La metafisica antica trascurava il
ruolo del pensiero, cioè del soggetto pensante, per concentrare l'indagine intorno
all'essere, alla realtà. La nuova metafisica invece, quella moderna, riconosce che la
realtà si costituisce in primo luogo nel pensiero: la realtà è quella pensata. Il pensiero
non coincide con la realtà esterna ma solo nel pensiero essa può essere rappresentata
e conosciuta. Il primato passa dall'oggetto conosciuto al soggetto conoscente.
Viene affermata l'autonomia della coscienza rispetto all'essere (alla realtà esterna) e a
82

Dio, ossia l'oggettività della ragione: il carattere oggettivo della ragione è


riconosciuto nella sua capacità di formulare idee chiare e distinte.
L'umanesimo qui si compie totalmente: l'uomo come soggetto pensante è veramente
al centro del mondo ed egli è certo solo di ciò che si mostra in modo chiaro e distinto
alla sua mente. Vi è un riconoscimento ed una valorizzazione pieni della soggettività
umana. L'evidenza, che diviene la regola della ricerca, non è più fondata sull'essere
(le idee platoniche, la sostanza aristotelica, l'Uno neoplatonico o l'essere divino-Dio-
della filosofia scolastica). Neppure è fondata sui principi logici generali di identità e
di non contraddizione, ma sull'intuizione dell'esistenza del nostro io, della nostra
coscienza come realtà pensante, che si presenta con caratteri chiari e distinti.
Significa che il pensiero moderno abbandona il principio d'autorità e il suo
dogmatismo, ossia la sua indiscutibilità, per dare credito solo a ciò che nella mente
si presenta in modo chiaro ed evidente. La validità delle conoscenze non si fonda più
sull'autorità dei pensatori antichi ( l’"ipse dixit" di Aristotele), tant'è vero che la
filosofia di Cartesio e il suo metodo prescindono totalmente dalle concezioni espresse
nelle opere filosofiche antiche o nei loro commenti. Anzi per filosofare, dice Cartesio,
non è affatto necessario ricorrere ai filosofi del passato.
Il principio metodologico cartesiano del dubbio si ritrova anche in Agostino: "si
fallor, sum" (se sbaglio, sono). Ma il dubbio di Agostino è una forma di pensiero
ancora di tipo metafisico-ontologico: il pensiero sussiste solo dopo l'essere e per
virtù dell'Essere supremo che è Dio; ossia prima di poter pensare devo esistere ed
esistere come creatura di Dio, poiché secondo Agostino solo Dio infonde la verità
nella mia coscienza, nella mia anima, illuminandola. Il cogito di Cartesio ha invece
un fondamento gnoseologico, non ontologico: rivela che io esisto come coscienza
pensante, ma non necessariamente anche come realtà, come corpo esistente. Anche
Campanella era giunto alla scoperta del principio della coscienza ed autocoscienza,
però l’autocoscienza di Campanella non è pensiero ma sensibilità e come tale è
propria non solo dell'uomo ma di tutti gli esseri della natura. Quello di Campanella è
il concetto di "anima senziente" in quanto coscienza delle proprie modificazioni a
seguito degli stimoli ricevuti dai sensi al contatto con le cose. Il cogito,
l'autocoscienza di Cartesio, è invece la scoperta dell'esistenza, chiara ed evidente,
della "res cogitans" quale autonoma capacità di pensare.

Le obiezioni al "cogito" dei contemporanei di Cartesio.

La scoperta del cogito ha comportato il sorgere di ampie dispute ed obiezioni già fin
dai contemporanei di Cartesio.
Taluni affermano che la dottrina del cogito è un circolo vizioso: Cartesio accetta il
principio del cogito perché evidente, ma fonda a sua volta il principio dell'evidenza
sul cogito. Cartesio risponde che non è vero che il cogito risulta evidente perché
conforme alla regola dell'evidenza, in quanto il cogito è la prima autocoscienza
intuitiva, la prima consapevolezza che il soggetto ha di se stesso, pertanto il criterio
dell'evidenza non è affatto anteriore al cogito.
83

Per Gassendi, filosofo francese di orientamento empiristico-scettico (suo


intendimento era di conciliare il materialismo epicureo col cristianesimo), il cogito è
una forma di sillogismo abbreviato del tipo: "Tutto ciò che pensa esiste. Io penso,
dunque esisto", ma allora, obietta Gassendi, il ragionamento è infondato perché la
premessa "Tutto ciò che pensa esiste" cade sotto il dubbio del genio maligno.
Cartesio risponde che il cogito non è un ragionamento, ma un'intuizione immediata
della mente.
Più insidiosa è l'obiezione di Hobbes, secondo il quale Cartesio ha ragione nel dire
che l'io, in quanto pensa, esiste, ma sbaglia nel definirlo uno spirito, puro pensiero,
perché potrebbe essere benissimo il corpo, il cervello o qualcosa di materiale, per
cui il principio di Cartesio sarebbe simile a quello che dice: "io sto passeggiando,
quindi sono una passeggiata", saltando con ciò indebitamento da uno stato corporeo
ad un concetto mentale, passando cioè dal piano reale a quello delle idee, del
pensiero. Cartesio risponde che l'uomo non passeggia costantemente, però pensa
sempre. Inoltre il concetto di pensiero indica talora l'atto del pensiero, talvolta la
facoltà del pensare e talaltra il contenuto del pensiero, per cui il cogito non è sempre
e necessariamente un pensato, il contenuto di un concetto, in quanto può essere
legittimamente concepitosolo come sostanza pensante, rimanendo quindi, come tale,
pura essenza ideale senza indebiti passaggi al piano reale.

La conoscenza è conoscenza delle idee e non delle cose direttamente.

La filosofia antica non dubitava della possibilità di conoscere e cogliere direttamente


la realtà esterna alla coscienza e di spiegarla sulla base di principi metafisici derivanti
dall'assoluto, da un principio primo, o da Dio. La filosofia moderna invece, e con
essa Cartesio, si rende conto che noi non siamo in grado di cogliere direttamente
le cose, la realtà esterna. Non abbiamo cioè conoscenza diretta delle cose
(dell'essere), ma solo di come le cose appaiono e sono percepite dalla nostra
coscienza, dalla nostra mente. Noi conosciamo solo i fenomeni, cioè le
rappresentazioni mentali delle cose, che Cartesio chiama "idee". Fenomeno è un
termine che deriva dal greco e che significa, alla lettera, "ciò che ci appare". Però,
a causa della natura limitata del nostro intelletto, non possiamo sapere se le cose
così come ci appaiono sono effettivamente tali anche in se stesse, nella realtà. Per
Cartesio dunque i fenomeni o "idee" non sono la realtà come le idee di Platone, ma
sono soltanto le nostre rappresentazioni o immagini mentali della realtà, sono il modo
in cui la nostra coscienza percepisce la realtà.
In effetti, la scoperta del cogito come res cogitans mi rende sicuro della mia esistenza
soltanto come soggetto pensante che ha idee. Sono cioè sicuro che tali idee esistono
nel mio spirito, nel mio pensiero, perché esse, come atti del mio pensiero, fanno parte
di me come soggetto che pensa. Ma non sono per niente sicuro invece se a queste
idee corrispondono realtà effettive fuori di me. Addirittura non sono nemmeno sicuro
se io stesso esisto come corpo.
84

Dio come garante della verità delle nostre conoscenze.

Come già detto, Cartesio chiama "idee" le nostre rappresentazioni mentali o


immagini delle cose. Qui la parola "idee" non significa "concetti", ma appunto
rappresentazioni mentali o immagini delle cose.
Abbiamo pure visto che la conoscenza sensibile, per i limiti del nostro intelletto,
non ci permette di andare oltre le immagini delle cose, oltre la loro apparenza
fenomenica, e di scoprire ciò che sta sotto ai fenomeni, ossia ciò che sta sotto
all'apparenza esteriore delle cose così come le percepiamo: non ci è concesso cioè di
conoscere direttamente la sostanza o il sostrato che sta sotto le cose. Ma per la
metafisica, ed anche per la moderna metafisica razionalistica, ciò che qualifica e
distingue essenzialmente le cose non è la loro apparenza esteriore, fenomenica,
ma proprio la loro essenza o sostanza o sostrato. Ad esempio, l'essenza dell'uomo
non è il suo aspetto esteriore bensì è la sua coscienza, la sua razionalità. E solo la
ragione, e non i sensi, è in grado di cogliere le essenze, le sostanze della realtà.
Poiché, a causa dei limiti dell'intelletto, non vi è certezza che alle nostre
rappresentazioni mentali, alle nostre idee corrispondano effettivamente la realtà e
le cose in se stesse così come le percepiamo, ed addirittura neppure sappiamo se noi
esistiamo anche come corpo, si pone allora il seguente problema fondamentale:
chi ci assicura che alle nostre idee corrisponda una realtà esterna al nostro
pensiero e che essa sia proprio come ci appare? Vedremo che Cartesio individua
nell'esistenza di un Dio buono, che non ci inganna, il fondamento di questa
garanzia.
Si tratta quindi di dimostrare l'esistenza di Dio. Cartesio ci arriva partendo
dall'analisi delle idee, che distingue in tre categorie, in tre tipi:
1. Le idee avventizie, che provengono dall'esperienza sensibile, cioè dalla
percezione, mediante i sensi, delle cose esterne a noi e colte come fenomeni.
2. Le idee fattizie, che sono prodotte (fatte) dalla nostra immaginazione e
fantasia: sono le nostre fantasie, i nostri sogni, ecc.
3. Le idee innate che, come già abbiamo visto, sono presenti fin dalla nascita
nella nostra mente e che sono a priori, cioè vengono prima dell'esperienza
sensibile e sono indipendenti da essa.
Ebbene, le idee avventizie non garantiscono una conoscenza certa ed evidente
perché derivano dai sensi che ci possono ingannare e comunque si fermano ai soli
aspetti esteriori delle cose. Tanto meno sono certe le idee fattizie perché sono il
frutto delle nostre fantasie. Non resta allora che prendere in esame le idee innate
come possibile fondamento primo della validità delle nostre conoscenze.
Cartesio osserva che tra le idee innate che noi possediamo vi è anche l'idea di
perfezione assoluta come pure l'idea di infinito. Tali idee sono in noi ma non
possono provenire da noi perché siamo imperfetti e siamo finiti. Queste idee
pertanto devono avere come loro causa solo un essere perfetto ed infinito: questo
essere altri non è che Dio. In tale modo Cartesio dimostra l'esistenza di Dio, in
maniera simile alla prova ontologica di Sant'Anselmo.
85

Allora, proseguo Cartesio, se Dio esiste ed è perfetto, deve essere per forza anche
buono e quindi non può ingannarci, come potrebbe fare invece un genio maligno. E
poiché Dio ci ha dato la ragione, di conseguenza tutto ciò che alla nostra ragione
si presenta in modo chiaro e distinto è senz'altro vero. Perciò sono vere le nostre
idee innate e vera è anche la realtà esterna, ossia vi è corrispondenza fra le nostre
idee avventizie circa le cose esterne e le cose medesime, così come vera è anche
l'esistenza del nostro corpo, allorquando tali idee si presentino in modo chiaro e
distinto alla nostra mente.
Dio è quindi il garante della verità delle nostre conoscenze. Come si può notare,
Cartesio ha una concezione di Dio essenzialmente strumentale e funzionale ai fini
della conoscenza che, in quanto tale, ha ben poco di religioso. Dio è semplicemente
lo strumento che assicura la verità delle conoscenze umane. Dunque Dio non è
Provvidenza, non si prende cura degli uomini: sarà semmai la religione a rivelarlo
anche come tale e a porlo come oggetto di fede.
Il problema dell'errore.
Ma se Dio è colui che garantisce la verità delle nostre conoscenze (purché siano
chiare e distinte) sorge allora un problema: come mai allora noi talvolta
sbagliamo? come mai è possibile l'errore? Per Cartesio l'errore non è imputabile
a Dio, che è essere perfetto, né è imputabile alla nostra ragione, che ci è stata
donata da Dio. L'errore è piuttosto imputabile alla nostra volontà, che ci può
rendere impazienti e frettolosi e quindi indurci a ritenere chiare e distinte idee che
sono invece ancora confuse ed oscure. L'intelletto umano è limitato, ma la volontà
umana è libera. Essa consiste nella possibilità di fare o non fare, di affermare o
negare, e quindi di affermare come vero anche ciò che all'intelletto risulta confuso ed
oscuro.

La fisica cartesiana. Il mondo è una macchina.

Dio, abbiamo visto, garantisce la verità delle idee avventizie. Possiamo pertanto
essere certi dell'esistenza non solo dei nostri pensieri ma altresì della realtà esterna
fisico-naturale e delle cose corporee, materiali. Le cose corporee sono tutte diverse
fra di esse e si trasformano continuamente. Vi è però un aspetto comune a tutti i
corpi materiali che è immutabile: l'estensione, termine con cui si vuole significare
che, per quanto diverso da qualsiasi altro, ogni corpo materiale occupa spazio.
L'estensione, l'occupare spazio, proprietà comune di tutti i corpi, è chiamata da
Cartesio "res extensa", che vuol dire appunto cosa, sostanza, estesa. Oltre che
dall'estensione, i corpi materiali sono caratterizzati anche dal movimento, ossia
dal loro continuo divenire e trasformarsi. Causa prima del movimento è Dio, che ha
impresso al mondo fisico il moto iniziale e ha quindi stabilito le leggi naturali del
movimento dei corpi, che sono cause seconde.
Poiché per Cartesio vale dunque l'equivalenza: cose corporee=materia, materia=
estensione, estensione=spazio (tutto lo spazio), ciò significa allora che il vuoto non
esiste perché l'intero spazio, consistendo nell'estensione, è quindi integralmente
86

occupato dalla materia, anche là dove i corpi ci appaiono spazialmente separati. Per
Cartesio non esiste alcun vuoto tra un corpo e l'altro in quanto ogni intervallo di
spazio sussistente fra i corpi è composto anch'esso di corpuscoli materiali, ossia di
frammenti piccolissimi ed invisibili di materia estesa. Tali corpuscoli, costituiti di
materia sottile o etere, riempiono totalmente ciò che viene impropriamente
chiamato il vuoto.
Lo spazio inoltre, secondo la concezione euclidea, è infinito; dunque anche
l'estensione, che è materia estesa in tutto lo spazio, è infinita e, in quanto infinita,
l'estensione (cioè la materia, i corpi) è infinitamente divisibile, come lo spazio
geometrico. Per Cartesio non vi sono quindi atomi, ovverosia particelle indivisibili
di materia, come sosteneva Democrito: tutto lo spazio è concepito come spazio
matematico continuo.
Le cose del mondo fisico ed il loro trasformarsi traggono origine dall'urto
meccanico, fra di essi, dei corpi o dei corpuscoli, cioè di quelle particelle
piccolissime di materia che, muovendosi continuamente, si scontrano aggregandosi o
disaggregandosi, costituendo in tal modo i corpi come anche la loro dissoluzione.
Ne deriva una concezione del mondo fisico di tipo meccanicistico. Il mondo fisico-
naturale non è un sistema di forme o di essenze come nell'antica metafisica; non è
neppure un organismo vivente, animistico-magico, come pensato dalla filosofia
naturalistica rinascimentale. Il mondo è invece una macchina, regolato da due
leggi fondamentali di carattere dinamico e meccanico:
1. il principio di inerzia, che Cartesio formula per primo in maniera adeguata;
2. il principio di conservazione della quantità di moto o di energia, principio
posto da Dio quale causa prima del movimento dei corpi, secondo cui, pur nel
variare dei movimenti e della loro intensità, si conserva costantemente e
complessivamente nell'universo la medesima quantità di movimento.
Viene dunque negata da Cartesio ogni forza, attrattiva o repulsiva, capace di agire a
distanza, come la gravitazione o le forze elettriche o magnetiche. Il movimento, e
con esso il sorgere o il perire delle cose, deriva solo dagli urti meccanici, dai contatti
diretti tra le cose corporee o tra i corpuscoli, concepiti tuttavia, come abbiamo visto,
infinitamente divisibili e non già indivisibili come gli atomi.
Deriva altresì una concezione antifinalistica del mondo: i corpi non si muovono,
non nascono, non si trasformano e non periscono in vista di un fine, di uno scopo,
ma soltanto in base a pure leggi meccaniche e necessarie, ossia sempre costanti ed
uniformi, per cui ad una certa causa consegue necessariamente un preciso e
determinato effetto.
Non solo le cose inanimate ma anche il corpo sia degli animali che degli uomini
è una macchina. L'anima non è negata ma per Cartesio essa è solo pensiero, è solo
res cogitans inestesa, separato dal mondo fisico. Non esistono invece né l'anima
vegetativa né quella sensitiva. Pertanto il movimento dei corpi, che sono res
extensa, materia, non dipende dall'anima ma da cause meccaniche o fisiologiche.
Anche la morte è provocata da cause fisiche, materiali, e non dalla separazione
dell'anima dal corpo. Lo stesso corpo dell'uomo è una macchina di cui l'anima, la res
87

cogitans, si serve come proprio strumento e che con la morte del corpo è
abbandonato.
Conformemente alla filosofia razionalistica, non solo la metafisica ma anche la
fisica di Cartesio è di tipo deduttivo, poiché pretende di spiegare l'infinita
varietà dei fenomeni partendo da due soli principi, o idee generali, quello
dell'estensione e del movimento. Entrambi hanno origine da Dio. Dio ha creato
non solo la res extensa, cioè il mondo fisico, ma ha altresì impresso al mondo fisico
il movimento iniziale secondo una determinata quantità di moto che si conserva
costantemente. Ma dopo aver ricevuto da Dio il moto iniziale, il mondo fisico
procede in base alle sue proprie leggi naturali del movimento, che sono, come
anzidetto, cause seconde. Sicché è comprensibile il commento espresso in proposito
dal filosofo Pascal, secondo cui "al Dio di Cartesio basta aver dato il primo
calcio al mondo, perché il resto va da sé". Da Cartesio infatti, oltre all'atto della
creazione del mondo e del conferimento del primo iniziale movimento, non è
richiesto a Dio nessun altro intervento, né finalistico né provvidenziale.
La concezione meccanicistica ed anifinalistica del mondo è conforme alla
mentalità fisico-matematica risultante dalla rivoluzione scientifica: se tutti i
movimenti delle cose corporee che compongono il mondo fisico sono di tipo
meccanico, allora essi possono essere calcolati, previsti e studiati col metodo
matematico.
Nel razionalismo di Cartesio peraltro, come pure negli altri filosofi razionalisti,
prevale un'eccessiva fiducia nella deduzione logico-matematica di tutta la realtà da
pochi principi (intuizioni) metafisici innati, che induce a saltare, spesso in modo
indebito, dall'ordine logico e delle idee a quello ontologico della realtà, a prescindere
dalla verifica sperimentale. Dall'altro lato, la concezione razionalistico-meccanica
cartesiana del mondo fisico agevola l'affermazione della tecnica ed il collegamento
tra scienza teorica ed applicazione pratica.

La morale e le passioni.

Nell'opera "Le passioni dell'anima" Cartesio ci presenta la sua filosofia morale o


etica.
Anche le passioni e i sentimenti sono per Cartesio res extensa, cioè materiali e non
spirituali, perché anch'essi derivano da cause fisiologiche-meccaniche. Ad esempio
l'amore deriva da sensazioni piacevoli e l'odio da sensazioni spiacevoli, così come la
gioia deriva da sensazioni benefiche e la tristezza da sensazioni malefiche. Al
riguardo Cartesio distingue tra volontà, che è libera, e passioni, che sono
involontarie. Essendo involontarie, non vi sono allora passioni buone, rivolte ad
un fine meritevole, né passioni cattive, rivolte ad un fine malvagio. Inoltre, proprio
in quanto involontarie, le passioni non possono essere eliminate. È invece possibile
evitare gli eccessi delle passioni sottomettendole alla guida della ragione e della
volontà. Il vizio non è nelle passioni poiché sono involontarie (non possiamo
eliminare la paura o il piacere), deriva invece dal prevalere di una nostra cattiva
88

volontà, che è libera di scegliere se controllare o meno le passioni. Il vizio e il male


sono dunque imputabili alla responsabilità umana, cioè alla scelta che compie la
nostra libera volontà.
Nel campo della conoscenza, come abbiamo visto, la volontà ha l'obbligo di non
decidere, ossia di seguitare a dubitare, finché l'intelletto non giunga ad idee
evidenti, chiare e distinte. Però nel campo della vita pratica, ossia della morale
(la morale infatti non riguarda la conoscenza ma la vita pratica dell'uomo), la
volontà si trova talvolta costretta a decidere anche se non ha raggiunto
un'evidenza certa circa il comportamento da assumere, accontentandosi perciò di
scelte solo probabili, di carattere pratico.
Di conseguenza Cartesio elenca quattro fondamentali regole morali per guidare
il saggio nel controllo delle passioni e sottometterle alla guida della ragione. Sono
regole che Cartesio aveva enumerato già nel "Discorso sul metodo" e perciò
chiamate, allora, "morale provvisoria", ma che ha pubblicato solo in seguito per
evitare l'accusa di eresia o di essere senza fede religiosa. Sono definite regole di
morale provvisoria anche perché non hanno un valore di certezza evidente, bensì
prevalentemente pratico. Si tratta della regole seguenti:
1. obbedire sempre alle leggi, ai costumi e alla religione del proprio Paese;
2. rimanere risoluto e coerente nelle proprie azioni, senza incertezze e
ripensamenti una volta che sia stata consapevolmente presa una decisione;
3. cercare di vincere (controllare) piuttosto se stessi che la fortuna (la sorte) e di
cambiare i propri pensieri anziché l'ordine del mondo; ossia non voler sfidare
la sorte e non intestardirsi nelle proprie convinzioni se si dimostrano
irrazionali;
4. coltivare sempre la ragione e agire in modo razionale.
Come si può notare, sono regole, specialmente la prima, che mostrano un certo
conformismo e conservatorismo anziché spirito critico. Ma più che di una personale
convinzione può trattarsi di una tattica, messa in atto da Cartesio, per evitare ostilità
e reazioni contro il suo pensiero da parte dei tradizionalisti.

Il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa.

Nell'opera "I principi della filosofia" Cartesio presenta le sue idee sulla funzione
della filosofia e sul modo in cui organizzare il sapere e la conoscenza. Indica le parti
della filosofia paragonandola ad un albero, di cui la metafisica costituisce le radici,
la fisica il tronco e le altre scienze (medicina, meccanica e morale) costituiscono i
rami. Due sono le principali funzioni della filosofia da Cartesio evidenziate:
1. farci progredire nella conoscenza e nella morale;
2. consentire la conoscenza dei principi fondamentali, individuati nella res
cogitans e nella res extensa, a partire dai quali sia possibile dedurre la
spiegazione dell'intera realtà, sia spirituale (il pensiero) sia fisica (la natura).
Quindi Cartesio procede a definire il concetto di sostanza: essa è ciò che per
esistere non ha bisogno che di se stessa, ossia la sostanza non deriva da
89

nessun'altra cosa. In questo senso assoluto la sostanza non può essere che Dio.
Solo Dio infatti non deriva la propria esistenza da alcunché; non è creato o prodotto
da nessun'altra cosa se non da se stesso. Ma Dio appartiene al mondo dell'infinito,
distinto e trascendente da quello finito in cui viviamo. Perciò, nell'universo e nel
mondo finito Cartesio ammette l'esistenza di due sostanze per così dire
secondarie, le quali tuttavia non derivano da nessun'altra cosa finita, essendo esse
invece il principio e la causa generale di tutte le cose finite: sono per l'appunto la
res cogitans e la res extensa.
Si tratta però di due sostanze tra di esse assolutamente diverse e contrapposte,
che non hanno niente in comune perché ciascuna è regolata e funziona in base a
modi e a leggi del tutto differenti: la res cogitans (il pensiero, lo spirito) agisce
secondo le leggi della libertà e della volontà (libertà di pensare e libertà di volere);
invece la res extensa (la materia, i corpi fisici) opera in base a leggi naturali
meccaniche e necessarie, non libere di mutare ma necessariamente sempre costanti,
sempre uguali. Il pensiero è il regno della libertà, la materia è quello della
necessità.
La concezione della realtà di Cartesio è dunque caratterizzata da un dualismo
(contrapposizione) radicale, estremo (dualismo cartesiano). Le due sostanze
costitutive della realtà sono del tutto contrapposte fra di esse: il pensiero non può
essere esteso (non occupa spazio) e la materia non può pensare (non ha in sé
niente di spirituale). Circa l’anima (res cogitans), sembra che essa, in quanto
considerata indipendente dal corpo (res extensa), sia immortale, ma Cartesio
dimostra solo l’immaterialità dell'anima e non l'immortalità.
Queste due sostanze non hanno dunque niente in comune. Eppure l'esperienza ci
mostra che tra res cogitans e res extensa vi sono invece continui collegamenti ed
interscambi: ricevendo una sensazione da un oggetto materiale io reagisco con un
corrispondente pensiero od emozione e, d'altra parte, quando penso e decido di
alzare un braccio od una gamba (che sono corpi, parti del mio corpo), il braccio e la
gamba si alzano; insomma vedo ogni giorno che i miei pensieri influenzano il mio
corpo e che il mio corpo influenza i miei pensieri.
Sorge allora la grossa domanda: come possono comunicare ed influenzarsi a
vicenda queste due sostanze che sono tra di esse distinte, separate, ognuna
regolata da leggi del tutto diverse? Come si spiega il rapporto fra pensiero e
corpo? Cartesio cerca di risolvere il problema individuando nella "ghiandola
pineale" (oggi chiamata ipofisi), che sta nel cervello, l'unica parte del corpo che
mette in comunicazione e collega le due sostanze. Ma questa spiegazione rimane il
punto debole della teoria filosofica di Cartesio e farà sorgere molte discussioni tra
i filosofi contemporanei e successivi. Appare infatti contraddittorio affermare
dapprima che le due sostanze non hanno niente in comune e asserire poi che nella
ghiandola pineale hanno qualche cosa in comune o, meglio, un luogo di
interscambio.
90

Conclusioni.

Con Cartesio prende avvio la filosofia moderna, la quale proclama il primato del
soggetto sull'oggetto spostando il centro degli interessi dall'ontologia alla
gnoseologia. Viene meno la convinzione di poter direttamente conoscere la realtà e
gli oggetti esterni all'intelletto, alla coscienza soggettiva, come invece riteneva
l’ontologia antica, e subentra la persuasione che il mondo è ciò che appare al
soggetto: è l’insieme dei fenomeni quali rappresenti dal soggetto ed interpretati
dalla sua ragione. Come il mondo sia realmente in sé diventa questione secondaria
e ciò che prevale è la visione soggettiva del mondo. Tale visione, al posto della
ragione e gnoseologia concepite come oggettive dalla precedente tradizione
filosofica, subordina l'essere (ossia la realtà ontologica) alla ragione e alla
gnoseologia soggettive. Diventa centrale il soggetto conoscente anziché l'oggetto
conosciuto. Smarrita l'idea di poter direttamente conoscere la realtà, essa viene
giudicata, per contro, interpretabile soltanto sulla base di principi metafisici
intellegibili (=sostanze, concetti) che si possono cogliere con la ragione e non con i
sensi.
Ma la filosofia moderna, trascurando l'oggetto, cioè gli enti esterni, ed
incentrandosi invece sul soggetto conoscente, favorirà il sorgere del "nichilismo",
concezione secondo cui l'ente esterno all'intelletto è sottovalutato fino ad essere
ridotto a niente: da ciò appunto il termine di nichilismo, dal latino nihil=niente.
L'essere degli enti, la loro realtà, non è più un fatto oggettivo, diventando piuttosto
interpretazione del soggetto conoscente, che riduce a se stesso tutta la realtà, per
cui ne esce esaltata la volontà soggettiva come la sola in grado di controllare e
dominare tutto l'esistente. È questo un processo che comincia con il "cogito"
cartesiano e termina con la dottrina della "volontà di potenza" di Nietzsche, in cui
l'essere, la realtà oggettiva degli enti, è nullificata. Dirà Nietzsche "non esistono i
fatti (non prevale la considerazione dei fatti oggettivi esterni) ma solo
interpretazioni (prevale la valutazione soggettiva circa gli eventi e la consistenza
degli enti). Dalla nullificazione dell'essere emerge il trionfo della tecnica, come
volontà di potenza e strumento del progetto umano di dominio sulla natura. La
natura è costretta e sottomessa all'opera della ragione pianificatrice e calcolatrice.
La volontà di dominio e la tecnica, da mezzo per raggiungere gli ideali inseguiti,
diventa fine a se stessa, rivolgendosi al continuo autopotenziamento di sé che si
impone sui valori e sulle ideologie.
91

L’Occasionalismo. Geulincx e Malebranche.

La seconda metà del Seicento è quasi interamente dominata dal dibattito fra
sostenitori e critici della filosofia cartesiana, quali Hobbes, Gassendi e Pascal, che
peraltro risentano essi stessi dell'influenza di Cartesio.
Il principale problema lasciato irrisolto da Cartesio, a giudizio dei suoi stessi
sostenitori, era quello del rapporto tra anima e corpo, tra res cogitans e res
extensa. Pur rimarcando l'assoluta differenza e distinzione tra di esse, Cartesio
ammette tuttavia un contatto tra anima e corpo nella ghiandola pineale. Tale
soluzione è stata considerata insufficiente dagli stessi seguaci di Cartesio, non
ritenendo possibile che l'anima, essendo immateriale, abbia un contatto con una
realtà materiale quale è il corpo.
È stata pertanto elaborata una soluzione diversa, nota col nome di
"occasionalismo". Secondo l'occasionalismo le modificazioni ed influenze
reciproche tra anima e corpo non sono causate né dalle idee né dalle sensazioni
corporee né, tanto meno, sono rese possibili da un comune punto di contatto
costituito dalla ghiandola pineale, data l'insormontabile separatezza delle due
sostanze. La causa della rispettiva influenza tra anima e corpo è invece rinvenuta in
Dio stesso, il quale interviene direttamente ogni volta in occasione di ciascuna
sensazione, producendo nell'anima la corrispondente idea, nonché in occasione di
ciascuna volizione dell'anima, cioè di una decisione della volontà, producendo il
corrispondente movimento corporeo. In altri termini, la volontà e il pensiero umano
non agiscono direttamente sui corpi, sugli oggetti materiali, ma sono l'occasione
perché Dio intervenga a produrre i corrispondenti effetti corporei; altrettanto, i
contatti e i movimenti dei corpi sono pure l'occasione perché Dio intervenga a
produrre le corrispondenti idee. Del resto, pure Cartesio era ricorso a Dio per
garantire la verità delle idee innate. In tal modo si ipotizzano però continui ed
innumerevoli interventi divini nella vita dell'uomo, che finiscono da un lato con lo
svalutare qualsiasi libera iniziativa umana e che, dall'altro lato, finiscono col
considerare Dio una specie di "valletto" al servizio dell'uomo, che invece, per fede
religiosa, è sua creatura.
In tal senso l'occasionalismo appare una specie di filosofia scolastica cartesiana,
che utilizza la filosofia di Cartesio allo scopo di difendere non la ragione ma la fede
religiosa, analogamente alla Scolastica medioevale che, per il medesimo scopo,
aveva utilizzato la filosofia platonica e neoplatonica (Agostino) e quella aristotelica
(Tommaso).
Maggiori esponenti dell'occasionalismo sono al Arnold Geulincx (olandese) e
Nicolas Malebranche (francese).

Arnold Geulincx (1624-1669).

Di nazionalità olandese e calvinista, Geulincx parte dalla tesi della radicale


impotenza della natura umana, sia in relazione alla salvezza che alla conoscenza,
92

accentuando la separazione tra anima e corpo affermata da Cartesio e negando


qualsiasi possibilità di comunicazione e contatto fra di essi.
In base al principio che non è possibile fare una cosa senza sapere come farla,
Geulincx conclude che noi non compiamo nessuna azione fisica perché non
sappiamo in quale modo tali azioni si producano, essendo impossibile che l'anima,
sostanza spirituale, entri in contatto col corpo, sostanza materiale, e lo influenzi,
producendo ed essendo essa stessa causa delle azioni fisiche. Allo stesso modo vale
il viceversa. Per tale motivo dunque Geulincx aderisce e promuove la teoria
dell'occasionalismo.
La separazione totale concepita tra materia e spirito (il pensiero) induce Geulincx
ad avversare qualunque metafisica che pretenda di conoscere le cose al di fuori del
pensiero, nella loro realtà concreta e materiale. Esiste un solo ambito, afferma
Geulincx, nel quale l'uomo conosce il modo in cui si compiano le azioni, quello
della sua volontà, ossia della morale, per cui è possibile costruire un'etica intesa
come scienza del tutto spirituale e razionale. Tale concezione si risolve però nel
riconoscimento dell'impotenza dell'uomo nei confronti di tutto ciò che egli, secondo
Geulincx, non conosce, ossia nei confronti del mondo materiale. Di conseguenza la
virtù fondamentale è l'umiltà, atteggiamento morale che in seguito sarà chiamato
"quietismo".

Nicolas Malebranche (1638-1715).

Francese e prete della Congregazione dell'oratorio, nella sua dottrina della


conoscenza Malebranche parte dalla concezione cartesiana secondo cui la causa
dell'errore è la volontà, da lui interpretata però, alla maniera di Sant'Agostino,
come indebolita dal peccato originale, per cui l'unico mezzo per conoscere la verità
è di evitare il peccato, cioè vivere cristianamente. Di conseguenza, non si può avere
alcuna fiducia nella ragione ma è necessario basarsi unicamente sulla fede
(fideismo).
Tuttavia Malebranche riconosce che la ragione possiede ugualmente idee chiare e
distinte, come ha mostrato Cartesio, ponendosi quindi il problema di spiegarne
l'origine. Anche per Malebranche, secondo il nuovo orientamento gnoseologico-
soggettivo della filosofia moderna, l'anima (la coscienza, l'intelletto) non può mai
conoscere direttamente le realtà materiali (i singoli oggetti) ma ne conosce soltanto
le idee, cioè le rappresentazioni, le immagini mentali, ossia i fenomeni. Perciò le
idee chiare e distinte non possono derivare dal mondo materiale che non è
direttamente conoscibile. Neppure possono derivare dall'anima stessa, cioè essere
innate come riteneva Cartesio, ad eccezione della evidente idea di estensione,
perché secondo Malebranche della nostra anima invece noi non possediamo un'idea
evidente, ma ne abbiamo solo un "sentimento interno" che è la percezione della
nostra esistenza. A questo punto per Malebranche, come per gli occasionalisti, non
resta che il ricorso a Dio, tuttavia mentre gli occasionalisti ammettevano
l'intervento diretto di Dio quale causa suscitatrice delle idee nell'anima,
Malebranche ammette più semplicemente, e addirittura, che l'anima veda
93

direttamente le idee in Dio, poiché essa ha con Dio un'unione diretta ed immediata.
Le idee che l'anima vede in Dio sono le stesse idee che Dio ha delle cose, sono i
modelli eterni che Dio usa per creare le realtà materiali. La mente di Dio è pertanto
il "luogo delle idee", similmente al mondo delle idee di Platone.
Spiegata così la conoscenza, in modo da rendere del tutto superfluo il corpo (le
sensazioni corporee), resta da spiegare come il corpo possa muoversi secondo le
decisioni dell'anima, cioè quale sia la causa dei movimenti corporei. È a questo
punto che anche Malebranche ricorre all'occasionalismo: la vera causa di tutti i
movimenti è Dio, il cui intervento si manifesta in occasione dei nostri atti di
volontà. Anzi, Malebranche va oltre: non solo la nostra volontà è occasione
dell'intervento divino, ma gli stessi urti tra i corpi, in cui la nostra volontà non
c'entra per nulla, sono altrettante occasioni di interventi divini e le azioni che noi
crediamo esercitate dai corpi sui nostri sensi altro non sono che impressioni, cioè
idee che noi vediamo in Dio ogni qualvolta Dio determina il movimento di tali
corpi.
A questo proposito Malebranche sviluppa un'interessante dottrina che sarà ripresa
da Hume: noi non vediamo mai che una causa produce un certo effetto; noi
vediamo solo i movimenti (dapprima vediamo il lampo e poi vediamo il tuono, ma
non vediamo il lampo causare l'effetto del tuono), i quali a loro volta sono prodotti
direttamente da Dio anche se, una volta ammesso ciò, tali movimenti possono
essere poi spiegati perfettamente secondo il più rigoroso meccanicismo. Partendo
dall'idea chiara e distinta dell'estensione, l’unica da Malebranche ammessa, è
possibile dedurre matematicamente, secondo Malebranche, tutte le proprietà dei
corpi.
Malebranche, analogamente a Spinoza, tenta anche di costruire un'etica come
scienza rigorosamente matematica: l'uomo, vedendo tutte le idee in Dio, vede in Lui
anche e particolarmente i principi generali della verità e della perfezione, perciò
sarebbe in grado, seguendo la pura ragione, di comportarsi nel modo più retto.
Tuttavia la natura umana è stata corrotta dal peccato originale e di conseguenza la
ragione è diventata schiava delle passioni. Da qui la necessità dell'intervento
divino, cioè della grazia, sola condizione efficace di salvezza, la quale è però da
Dio concessa anch'essa in occasione di un atto volontario umano, quello per cui
l'uomo si sforza di agire bene, cioè la virtù.
Un contemporaneo di Malebranche, Dortous de Mairon, obiettò che la sua dottrina
della diretta visione di tutto in Dio conduceva alla visione panteistica di Spinoza,
per il quale tutte le cose sono modi, manifestazioni della sostanza divina,
immanente nel mondo. Malebranche rispose che noi non vediamo in Dio le cose,
che restano da Dio distinte, bensì le idee delle cose, cioè i loro modelli, rimanendo
con ciò la sostanza divina separata e trascendente rispetto alle cose e al mondo.
94

BARUCH (Benedetto) SPINOZA (1632-1677).

Olandese di nazionalità, nasce ad Amsterdam. È ebreo ma viene scomunicato dalla


comunità ebraica per il suo pensiero giudicato eretico. Conduce una vita appartata,
da emarginato, facendo il levigatore di lenti.
Opere principali: Trattato sull'emendazione dell'intelletto umano; Trattato
teologico-politico; e, soprattutto, l'Etica, ordine geometrico demonstrata.

La ricerca del vero bene: il Trattato sull'emendazione dell'intelletto umano.

Il prevalente interesse di Spinoza non è gnoseologico, volto a comprendere i


principi, i modi e le regole del conoscere, bensì etico, volto alla ricerca delle verità
capaci di dare senso e valore alla vita umana.
Cartesio manteneva distinti intelletto e volontà. Spinoza ritiene che il conoscere sia
sempre anche un volere ciò che si conosce e che, anche secondo la tradizione
filosofica antica e medievale, verità e bene coincidano. La filosofia è considerata
lo strumento per giungere al vero e al bene tenendo conto peraltro, rispetto alla
filosofia antica, della nuova cultura maturata con la rivoluzione scientifica.
Intendimento fondamentale di Spinoza è di realizzare la sintesi e conciliare la
tradizionale visione metafisico-teologica del mondo con le novità concettuali e
culturali recate dalla rivoluzione scientifica e dalla nuova scienza, secondo il
concetto di base “Dio=Natura=Ordine geometrico del mondo”, che esprime una
visione panteistica della divinità.
Con Spinoza infatti l'Occidente, dopo tanti secoli, cessa di essere soltanto
cristiano. Spinoza è il primo filosofo dell'età moderna che respinge in modo
esplicito la concezione biblico-cristiana di Dio inteso come persona e creatore del
mondo mediante un libero atto di volontà mosso da amore, per adottare invece una
concezione panteistica, secondo cui Dio non è trascendente, distinto e al di sopra del
mondo, bensì è diffuso e si trova in tutte le cose della natura, per cui tutta la natura è
divina (panteismo significa infatti che in tutto c’è Dio) e per cui Dio è dentro e non
al di sopra della natura stessa, immanente in essa (immanentismo), dal latino in-
manere che significa appunto stare dentro.
Nel "Trattato sull'emendazione (purificazione) dell'intelletto umano" Spinoza
afferma che lo scopo principale della filosofia è quello etico-morale. Spetta ad
essa di trovare quella verità che coincide col bene, in modo che l'uomo possa
acquisire quell'umana beatitudine e perfezione che, come vedremo, si raggiunge
con l’"Amor Dei intellectualis" (l'amore intellettuale -attraverso l'intelletto- di
Dio), ossia comprendendo che Dio, la divinità, è l'ordine geometrico del mondo, da
cui il mondo è costituito e regolato, ed amando tale ordine divino per la sua
perfezione.
L'uomo aspira alla felicità ed essa non consiste nella sola conoscenza, come per la
filosofia greca antica, e socratica in particolare, ma soprattutto nella vita etica che
aiuta a trovare e comprendere il senso del vivere e del mondo. Il bene autentico per
95

Spinoza non è l'essere attratti dalle cose terrene (ricchezze, onori, piaceri), che sono
finite, provvisorie e spesso deludenti, bensì l'essere attratti da ciò che è infinito ed
eterno. L'infinito e l’eterno si identificano con il cosmo e con il suo ordine divino e
la felicità suprema per l'uomo è l'unione della mente con la divina natura del cosmo
(misticismo).

L'Ethica, ordine geometrico demonstrata (l'Etica dimostrata attraverso la


conoscenza e la comprensione dell'ordine geometrico della natura e del mondo).

Quest'opera è il capolavoro di Spinoza ed il tema di fondo trattato è quello del bene


supremo, dell'unione della mente con la natura. Non si tratta però di un'opera
solamente etica ma anche metafisica e gnoseologica. L'opera è divisa in cinque
parti: Dio; la mente; gli affetti (le passioni); la servitù dell'uomo (la schiavitù delle
passioni); la libertà dell'uomo.
Nel dimostrare i propri concetti Spinoza procede secondo il metodo con cui sono
dimostrati i teoremi geometrici (da ciò il titolo dato all'opera), partendo da
postulati e quindi proseguendo attraverso ragionamenti e dimostrazioni deduttivi.
Lo stile adottato è influenzato non solo dalla moda dell'epoca di celebrazione della
matematica, ma anche e soprattutto dalla convinzione di Spinoza per cui la realtà
tutta è costituita secondo una rigorosa struttura di tipo geometrico.

La sostanza. "Deus sive natura".

Senza preamboli, l'opera si apre con una serie di definizioni sull'essere, cioè sulla
realtà in generale, vale a dire sulla sostanza di fondo della realtà. Proprio la
definizione di sostanza è il punto di partenza.
Per la filosofia greca classica esiste una molteplicità di sostanze gerarchicamente
ordinate: il mondo sovrasensibile delle idee e quello sensibile delle cose in Platone,
oppure le forme, cioè il sostrato invisibile che sta al di sotto delle qualità apparenti
(visibili) delle cose, sul quale le cose poggiano ed in base al quale ogni cosa è
contraddistinta rispetto alle altre. Per Cartesio le sostanze sono realtà autonome, nel
senso che non derivano da qualcosa d'altro e, in questo senso, per Cartesio le
sostanze sono tre: Dio come sostanza prima ed il pensiero (res cogitans) e
l'estensione (res extensa) come sostanze seconde.
Spinoza è assai più rigoroso e radicale: non accetta la triplicità cartesiana delle
sostanze ed il derivante dualismo tra res extensa e res cogitans, ma afferma che la
sostanza è solamente ciò che è esclusivamente causa di sé (“causa sui”) e che non
deriva da niente altro. La sostanza è essa stessa la causa della propria esistenza,
dei suoi attributi e delle sue proprietà e per esistere non ha bisogno di altri esseri. La
sostanza gode pertanto di una completa autonomia ontologica e concettuale.
Dalla definizione di sostanza Spinoza ricava una serie di proprietà fondamentali
che la contraddistinguono:
1. la sostanza è increata: poiché essa esclusivamente è l'unica causa di se
medesima, allora la sua essenza (cioè il suo essere e significato profondo)
96

implica per definizione e necessariamente anche la sua esistenza (come per la


prova ontologica dell'esistenza di Dio di Anselmo d'Aosta);
2. poiché è increata, la sostanza quindi è anche eterna;
3. è infinita, perché se fosse finita, se avesse cioè dei limiti, sarebbe
condizionata e dipenderebbe da tali limiti, mentre la sostanza, per definizione,
non deriva e non dipende da niente altro;
4. è unica, poiché essendo infinita, senza limiti, è ovunque e quindi non c'è
spazio od occasione per altre sostanze.
Allora questa sostanza increata, eterna, infinita ed unica, e pertanto anche
indivisibile, non può essere che l'Ente supremo, cioè Dio o l'Assoluto (da "ab-
solutus"= che è sciolto da legami di dipendenza, che non dipende da niente).
Fin qui Spinoza sembra poco originale rispetto ai pensatori precedenti. In realtà si
differenzia nettamente da gran parte della vecchia metafisica, in particolare dalla
concezione ebraico-cristiana, in quanto egli ritiene, e qui sta la sua originalità, che
Dio e mondo non costituiscono due realtà, due entità separate ma uno stesso ente,
una medesima realtà perché, secondo Spinoza, Dio non è fuori e al di sopra del
mondo, ossia non è trascendente, ma è dentro il mondo, ossia è immanente, e Dio e
mondo costituiscono quell'unica realtà globale che è la Natura. Cosicché
Spinoza usa l'espressione "Deus sive Natura", che significa "Dio cioè la Natura",
"Dio=Natura". Se la sostanza è unica, la medesima sostanza divina si ritrova
pertanto anche in tutte le cose del mondo, che sono la manifestazione in atto di tale
sostanza. In tal senso la concezione della realtà in Spinoza non solo è
immanentistica (Dio è dentro il mondo) ma anche panteistica (Dio è in tutto; la
sostanza divina è diffusa in tutte le cose). Dio non è dunque persona trascendente,
che ha liberamente creato il mondo per un atto d'amore secondo la concezione
cristiana, ma Dio, coincidendo con la natura, è l'ordine geometrico del mondo, è
il principio, la legge universale che regola e dà ordine al mondo, il quale tutto è
costituito della medesima sostanza divina. Vale l'equivalenza: Sostanza=Dio=
Natura= Ordine geometrico. Il Dio-Natura è principio ed origine prima del mondo e
da esso tutte le cose dipendono e derivano, ma non per creazione poiché l'atto
creativo presuppone un Dio-Persona trascendente, mentre il Dio di Spinoza è
immanente ed impersonale. Inoltre, la creazione è un atto libero, nel senso che
Dio potrebbe anche non compierla, mentre per Spinoza Dio è libero solamente nel
senso che non è condizionato da niente altro; è libero da coazione (costrizione), però
non possiede la "libertà da necessità": egli infatti, coincidendo con la Natura, causa
e produce le cose necessariamente, per cui le cose non possono stare senza Dio e
Dio non può stare senza le cose. Ogni cosa è rigidamente necessitata e determinata
dal Dio-natura ad essere ciò che è (determinismo). Non vi è alcuna contingenza (=
che c'è ma potrebbe anche non essere) ma regna ovunque la più rigida necessità.
Per Spinoza il Dio-Natura non è una forza, un'energia che genera il mondo e le
cose, ma è l'ordine razionale e necessario del cosmo, è l'insieme delle sue leggi
universali da cui derivano le singole cose e idee, le quali non risultano da una
forza generatrice ma provengono dall'ordine geometrico del mondo per rigorosa
concatenazione causale di causa-effetto. Pur usando il linguaggio metafisico-
97

teologico tradizionale (sostanza, attributi, modi, essenza, ecc.) il pensiero di Spinoza


si inquadra pur sempre nel contesto della rivoluzione scientifica. Di conseguenza il
suo panteismo (Dio è in tutto) è una forma rigorosa, matematizzata e geometrizzata,
di naturalismo (visione matematico-geometrica della natura). La sostanza, cioè il
Dio-Natura, è come un teorema eterno da cui le cose scaturiscono in modo
necessario, così come dalla definizione di triangolo segue necessariamente che la
somma dei suoi angoli interni è uguale a due angoli retti (matematismo e
meccanicismo). Perciò, circa il problema dei rapporti fra la sostanza e le cose da
essa prodotte, Spinoza respinge, oltre che la dottrina della creazione, anche quella
dell'emanazione di Plotino: la sostanza non è l'Uno ineffabile che per emanazione e
sovrabbondanza di potenza genera il mondo.

Gli attributi e i modi della sostanza.

Tutto ciò che non è sostanza, dice Spinoza, è attributo o modo della sostanza.
Dio, in quanto sostanza infinita, si manifesta nella natura secondo infiniti attributi.
Gli attributi sono le qualità, gli aspetti o proprietà essenziali (le essenze) della
sostanza. Degli infiniti attributi di Dio-Natura, ossia della sostanza, la mente
umana ne conosce però soltanto due: il pensiero e l'estensione. Il perché Spinoza
non lo dice: si limita ad affermare che essi sono riconosciuti dalla mente umana in
base all'esperienza, la quale mostra che il mondo non è tutto spirito, ossia pensiero,
ma anche estensione, ossia materia, e che, viceversa, esso non è solo estensione ma
anche pensiero.
Pensiero ed estensione (res cogitans e res extensa) dunque, diversamente da
Cartesio, non sono considerati come sostanza ma come attributi (cioè qualità ed
aspetti) della sostanza. Qui per pensiero si intende pensiero divino, ossia l'insieme
delle leggi universali che regolano il mondo, e per estensione non si intendono le
singole cose, i singoli corpi, ma lo spazio, l'ordine geometrico del mondo.
Oltre agli attributi, vi sono poi i modi della sostanza, ossia i suoi modi di essere, le
determinazioni ed aspetti particolari che gli attributi assumono nei singoli corpi e
nelle singole idee che noi percepiamo e pensiamo.Vi sono modi infiniti e finiti
della sostanza.
I modi infiniti derivano direttamente dagli attributi, modi che, appunto, sono infiniti
come lo sono gli attributi. Dall'attributo infinito del pensiero derivano i modi
infiniti dell'intelletto e della volontà concepiti in termini generali, quindi non il
pensiero e la volontà individuali che sono finiti, bensì il pensiero e la volontà in
generale dell'umanità. Altrettanto, dall'attributo infinito dell'estensione derivano i
modi infiniti del movimento o della quiete di tutte le cose corporee.
I modi finiti sono gli esseri particolari: questa idea qui, questo corpo o cosa qui, e
derivano dai modi infiniti. Pure qui Spinoza non spiega come ad un certo punto
l'infinito si finitizza, diventa finito, come mai cioè l'estensione infinita si concretizza
in una serie (seppur infinita) di corpi finiti e come mai il pensiero infinito si
concretizza in una serie (seppur infinita) di pensieri finiti. Anche in questo caso
98

Spinoza abbandona il procedimento delle pure deduzioni logiche, limitandosi a


ricorrere alle attestazioni dell'esperienza.

L'universo spinoziano: necessità contro finalismo.

Come si è visto, secondo Spinoza nell'universo non vi è nulla di contingente (di


casuale e imprevisto), ma tutto si svolge e si attua necessariamente, per
matematica concatenazione causale, dall'ordine geometrico insito nella sostanza, nel
Dio-Natura: nel mondo dunque non vi è alcun finalismo.
Spinoza respinge anche il vitalismo-animismo rinascimentale, perché la sostanza,
il Dio-Natura, è da Spinoza concepita come struttura costituita da relazioni
geometrico-matematiche e non come forza o energia generatrice.
Per Spinoza, data una determinata causa, l'effetto segue necessariamente. Consegue
che dall'unica Sostanza ammessa, ossia dal Dio-natura, i suoi attributi e i suoi modi
infiniti e finiti derivano da essa necessariamente, attraverso una predeterminata serie
di cause-effetti.
Spinoza distingue tra:
1. Natura naturante (Natura naturans), che è la Sostanza, il Dio-natura, l'ordine
geometrico insito nella Sostanza intesa come causa dei modi infiniti (il
pensiero e la volontà in generale dell'umanità nonché il movimento o la quiete
in generale dei corpi) e come causa anche dei modi finiti (le singole e
particolari idee e i singoli e particolari corpi), ossia intesa come ciò da cui
deriva il mondo e il pensiero.
2. Natura naturata (Natura naturata), che è il mondo e l'insieme delle idee e
delle cose particolari del mondo, ossia l'insieme dei modi infiniti e finiti della
sostanza, intesi come l'effetto necessario derivante dalla causa, cioè dalla
Natura naturante.
La Natura naturante è dunque la causa del mondo e la Natura naturata è l'effetto
derivante. Ma questa è una distinzione solo concettuale, logica e non sostanziale,
reale, perché Natura naturante e Natura naturata sono due facce della stessa
medaglia, sono due punti di vista della medesima Sostanza. Nella realtà c'è il Dio
che è Natura e la Natura che è Dio.
La concezione del Dio-Natura come ordine geometrico necessario dell'universo
è completamente contrapposta alla millenaria concezione finalistica del mondo,
espressa nella filosofia greca e nella dottrina ebraico-cristiana, secondo cui lo
sviluppo del mondo è diretto verso fine, uno scopo ultimo stabilito dal Dio creatore
(per il cristianesimo) o comunque presente nei principi e nelle cause prime del
mondo e del suo sviluppo (per la filosofia greca).
Si ritiene spesso che l'antifinalismo sia un risultato della rivoluzione scientifica. Ma
ciò è vero solo in parte perché Spinoza va oltre sia a Galileo che a Cartesio. Infatti
Galileo non aveva escluso le cause finali, limitandosi a sostenere che noi non
possiamo conoscerle. E Cartesio faceva comunque derivare il suo universo
meccanicistico dalla libera volontà creatrice di Dio. Invece Spinoza afferma che le
cause finali non esistono né in natura né in Dio. La credenza in cause finali è per
99

Spinoza un pregiudizio (un ragionamento sbagliato) dovuto al modo di intendere


dell'intelletto umano: gli uomini infatti ritengono di agire in vista di un fine, cioè di
un vantaggio o di un bene che desiderano conseguire, e considerano le cose
naturali come mezzi a disposizione per i loro fini.
Poiché l'ordine geometrico costituisce per Spinoza la struttura (il modo in cui è
fatta) della realtà, allora la matematica mostra che il finalismo è solo
un'impressione errata: tutte le cose accadono e derivano necessariamente dalla
Sostanza, dal Dio-Natura, proprio come in matematica deriva necessariamente che 2
+ 2 = 4. Il finalismo inoltre toglierebbe perfezione a Dio. Infatti, se Dio agisse in
vista di un fine significa che vorrebbe qualcosa di cui manca.
La critica al finalismo è accompagnata in Spinoza anche dalla critica
all'antropomorfismo religioso (=considerare Dio come simile all'uomo, tuttavia
più potente). La concezione biblica di Dio, raffigurato come una specie di super-
uomo ma con sentimenti e passioni umane, ora adirato ed ora misericordioso, è
soltanto il prodotto di una immaginazione superstiziosa. All'antropomorfismo
religioso Spinoza contrappone la propria idea di un Dio impersonale coincidente con
l'ordine del cosmo.
Nel Dio-Natura di Spinoza coincidono altresì libertà e necessità. Dio è libero nel
senso che non dipende da niente. Ma, in quanto ordine geometrico dell'universo,
egli non agisce liberamente bensì necessariamente (=che non può agire in modo
diverso) in base alle leggi matematiche che costituiscono la sua natura.

Parallelismo tra mente e corpo: corrispondenza tra "ordo idearum" e "ordo


rerum" (tra l'ordine e la serie delle idee e l'ordine e la serie delle cose).

Abbiamo visto che pensiero ed estensione sono due attributi della sostanza però
fra di essi distinti, completamente differenti: infatti la causa di un'idea è sempre
un'altra idea, come la causa di un corpo è sempre un altro corpo. Non si
influenzano a vicenda. Ma allora come spiega Spinoza il reciproco collegamento
tra pensiero ed estensione, tra mente e corpo, quale invece appare in base
all'esperienza?
Spinoza non ricorre alle idee platoniche concepite come causa delle cose né al
rapporto di causa-effetto fra idee e cose. Non è platonico perché il concetto
spinoziano di uomo, inteso come unione di anima e corpo, è antiplatonico. Per
Spinoza l'anima umana non è altro che un'idea avente per oggetto il proprio corpo;
l'anima è cioè "l'idea del corpo". L'uomo non è sostanza né attributo; egli è
costituito da "modi del pensare", specialmente quel modo che è l'idea, e da "modi
dell'estensione", ossia dal corpo che costituisce l'oggetto della mente. Attraverso
l'idea si perviene alla conoscenza del corpo. Spinoza non è neppure aristotelico,
perché rifiuta la supremazia dell'anima come "forma" (essenza) del corpo. La sua
preoccupazione semmai è di segno opposto: vuole evitare conclusioni
spiritualistiche poiché per Spinoza l'anima è sempre incarnata, insita, nella natura
e non è un'entità superiore.
100

Al riguardo si differenza da Cartesio, che aveva affrontato il problema del


rapporto mente-corpo ricorrendo alla ghiandola pineale quale elemento di reciproco
collegamento. Altrettanto, si differenzia dall’ occasionalismo nonché, come si vedrà,
dalla concezione materialistica di Hobbes.
Spiega Spinoza: pur non influenzandosi a vicenda, ossia pur non trovandosi mai
in un rapporto scambievole di causa-effetto, pensiero ed estensione, cioè mente e
corpo, sono comunque attributi della medesima ed unica sostanza divina, vale a
dire del Dio-Natura, che è il principio e il fondamento dell'ordine geometrico del
mondo. Il Dio-Natura, prosegue Spinoza, poiché è dotato dell'attributo del pensiero
è sostanza pensante, ossia possiede le idee di tutte le cose disposte secondo un
ordine rigoroso e necessario. Lo stesso Dio-Natura, poiché è anche dotato
dell'attributo dell'estensione, è altresì sostanza estesa, ossia contiene in sé tutti i
corpi con lo stesso rigoroso ordine in cui stanno le idee. Pertanto, conclude
Spinoza, fra la serie (l'ordine) delle idee e la serie (l'ordine) dei corpi vi è una
perfetta corrispondenza biunivoca garantita dalla comune sostanza d'origine,
per cui ad ogni idea corrisponde un determinato moto dal corpo e viceversa. Infatti il
corpo non è niente altro che l'aspetto esteriore della mente e la mente è l'aspetto
interiore del corpo. La medesima situazione di vita o una medesima sensazione si
può descrivere contemporaneamente sia in termini fisiologici (battito del cuore,
pallore, rossore, ecc.) sia in termini psichici (piacere, paura, ecc.). Vi è quindi un
perfetto parallelismo tra idee e corpi: ad ogni pensiero corrisponde una precisa
ed una sola cosa corporea o un suo movimento, come pure ad ogni cosa corporea
o al suo movimento corrisponde una precisa ed una sola idea percepiente la cosa
o il suo movimento. Questa corrispondenza non è dovuta al fatto che l'ordine delle
idee è prodotto dall'ordine delle cose o viceversa, ma al fatto che entrambi gli ordini
sono prodotti dal medesimo Dio-natura, autore dell'ordine geometrico complessivo
della realtà, rimanendo peraltro le idee e le cose reciprocamente indipendenti tra di
esse. In tal senso Spinoza pronuncia la sua celebre frase "ordo et connexio idearum
idem est ac ordo et connexio rerum": l'ordine e il collegamento delle idee è il
medesimo dell’ordine e del collegamento delle cose.
In tal modo è superato per Spinoza il dualismo cartesiano ed è risolto il
problema del rapporto mente-corpo. In tal modo è pure garantita, secondo
Spinoza, la validità della nostra conoscenza; non di qualunque conoscenza, ma
soltanto di quella che Spinoza chiama "conoscenza adeguata", cioè quella
conoscenza che sa scorgere e scoprire l'ordine geometrico del mondo, quella
conoscenza che sa comprendere come tutto derivi dall'unica Sostanza che è il Dio-
Natura, diffuso e presente in tutte le cose e che tutte ordina.

La conoscenza.

Poiché dunque ogni idea ha il proprio corrispettivo nell'ordine delle cose, poiché ad
ogni idea corrisponde una cosa e viceversa, non vi sono allora idee false, come
invece ammetteva Cartesio; vi sono piuttosto idee e conoscenze più o meno
101

adeguate, cioè chiare e distinte. Le idee sono più o meno adeguate rispetto agli
oggetti corrispondenti non in base all'esperienza, bensì solo qualora vengano
correttamente dedotte e ricavate dall'ordine geometrico e necessario del mondo, che
è la Sostanza, il Dio-Natura.
Dopo averla definita come visto sopra, Spinoza distingue tre gradi o generi di
conoscenza, a ciascuno dei quali corrisponde anche una diversa maniera di
concepire la realtà ed un diverso tipo di vita morale, collegando pertanto la
conoscenza con la morale: il progresso nella conoscenza, il passaggio da un grado
inferiore a quello superiore, comporta anche un corrispondente progresso morale.
I tre gradi della conoscenza sono i seguenti:
1) L'immaginazione (=facoltà di produrre immagini) o conoscenza sensibile. È
una forma primitiva, non scientifica, di conoscenza, la quale non si rende conto che
le varie realtà, le varie idee da un lato e le varie cose dall’altro, sono fra di esse
rispettivamente collegate secondo un ordine, un sistema complessivo rigoroso di
rapporti di causa-effetto. Questa forma di conoscenza si limita a percepire le cose
isolatamente, unificandole tutt'al più in nomi collettivi (in concetti, i cosiddetti
"universali": uomo, cavallo, ecc.). Non essendo collegati in un ordine generale, le
varie realtà sono percepite come contingenti (=non necessarie, ossia che ci sono ma
che potrebbero anche non esserci) e provvisorie. Si tratta dunque di una conoscenza
di grado confuso e vago, fatta di idee inadeguate, che colloca in un tempo limitato e
provvisorio l'esistenza delle varie realtà e non comprende l'eternità, la Sostanza
eterna, il Dio-Natura, da cui tutto eternamente e necessariamente deriva. È un modo
di vedere la realtà, dice Spinoza, dal punto di vista limitato del tempo (sub specie
temporis) e non dal punto di vista dell'eternità (sub specie aeternitatis). Perciò è una
conoscenza costituita da semplici opinioni, credenze e immaginazioni del tutto
soggettive, relative e mutevoli. Nel campo morale corrisponde a questo grado di
conoscenza una vita basata sulla schiavitù delle passioni: l'uomo si lascia dominare
da esse.
2) La conoscenza razionale. Si basa sui concetti, ricavati dalla capacità della mente
di compiere ragionamenti attraverso cui riesce gradualmente a comprendere il
rapporto di causa-effetto che collega, secondo leggi generali, le varie realtà, che non
vengono più considerate quindi isolatamente in se stesse. È una forma di conoscenza
che sa produrre idee adeguate, cioè chiare e distinte, e che consente la conoscenza
scientifica del mondo. Nel campo morale corrisponde a questo grado di conoscenza
la vita secondo ragione o virtù: l'uomo regola in modo intelligente il proprio
comportamento.
3) La conoscenza intuitiva. Mentre la conoscenza razionale procede gradualmente,
di causa in causa, senza mai giungere tuttavia alla causa prima ed alla totale
comprensione della serie delle cause ed effetti, la conoscenza intuitiva è quella
dell'intelletto che riesce a cogliere immediatamente ed intuitivamente, in un colpo
solo, come tutte le cose derivino necessariamente dal Dio-Natura, dall'ordine
geometrico del cosmo che collega la totalità delle cose, comprendendo altresì la
legge universale che governa tale ordine. Nella mente umana, pur essendo essa un
modo finito, si manifesta tuttavia la mente divina ed è perciò in grado di conoscere
102

direttamente l'idea e l'essenza del Dio-natura. Anzi, questa è per Spinoza l'idea più
chiara e distinta, perfettamente adeguata, che sta alla base di tutte le altre
conoscenze. È un modo di vedere la realtà dal punto di vista dell'eternità e che
riconosce la totalità infinita e necessaria della realtà stessa. La conoscenza intuitiva
è il campo della filosofia. Dal punto di vista morale ad essa corrisponde il
raggiungimento del bene supremo, la beatitudine, che per Spinoza è l'unione della
mente col Dio-Natura (ascesi; misticismo). È questo un traguardo che conferma il
prevalente fine etico della filosofia di Spinoza.

L'amore intellettuale di Dio (amor Dei intellectualis).

Giungendo alla conoscenza intuitiva, forma suprema della conoscenza e della


morale, l'uomo supera i limiti del tempo, la sua condizione di essere finito, ed
acquista consapevolezza di essere parte del Dio-Natura, di derivare da Dio come
parte dell'infinito intelletto divino: è questo "l'amore intellettuale di Dio" cui il
sapiente può arrivare. In tale forma di amore la somma conoscenza coincide col
sommo bene e la somma virtù. È un amore cui non si giunge attraverso la fede
ma attraverso l'intelletto, che conduce la mente ad una unione mistica col Dio-
Natura e conduce l'uomo alla somma virtù, la quale è premio a se stessa e non ha
bisogno di compensi né terreni né ultraterreni. È un'unione mistica che tuttavia
non ha nulla di soprannaturale (come invece nella mistica cristiana) giacché è il
frutto dell'esercizio dell'intelletto, della riflessione intellettuale. Da ciò appunto la
definizione "amore intellettuale di Dio". Si ritrova il concetto socratico della
coincidenza tra conoscenza, bene e virtù. L'amore di ciascuno per Dio è altresì parte
dell'amore con cui Dio ama in se stesso tutti gli uomini, che sono suoi "modi di
essere"; di conseguenza, è anche amore di ciascuno verso tutti gli altri uomini
poiché tutti sono "modi di essere" di Dio stesso, in cui Dio si manifesta ed è diffuso.

L'etica. La concezione "geometrica" dell'uomo. La libertà.

Se tutto accade per necessità, se la concezione di Spinoza è quella di un


determinismo assoluto, come è possibile un'etica, una morale? La morale infatti,
per generale convinzione, può sorgere solo se vi è libertà di scelta tra bene e
male, condizione indispensabile questa perché vi sia merito nel scegliere il bene.
Ma quale spazio ha la libertà dell'uomo nella concezione deterministica di
Spinoza?
Contro l'antropologia (=concezione dell'uomo) tradizionale dei filosofi, che hanno
considerato l'uomo come essere privilegiato fra gli altri esseri della natura, Spinoza
afferma che la specie umana non è affatto superiore ma è come tutte le altre
specie, sottoposta alle comuni leggi dell'universo. Infatti, la medesima Sostanza
divina, il Dio-Natura è diffuso sia nell'uomo come in tutte le altre cose ed esseri.
Così come la nuova astronomia aveva tolto alla Terra la sua posizione privilegiata e
103

centrale nello spazio, Spinoza toglie all'uomo la pretesa di considerarsi quale


essere superiore rispetto tutti gli altri. Le azioni umane non sono niente altro che
casi particolari di leggi universali comuni sia agli uomini che alle cose. Anche le
azioni umane sono sottoposte a regole fisse e necessarie e possono essere
studiate con matematica obiettività e precisione. Anche tutto ciò che riguarda la
vita morale umana va trattato scientificamente e non attraverso esortazioni o
condanne. Non esiste quindi la libertà umana quale è comunemente intesa.
Il bene e il male, conseguentemente, non esistono perché tutto accade per
necessità. Il male e il bene sono solo modi umani (perciò limitati e confusi) di
pensare, paragonando tra loro le cose. Noi chiamiamo bene le cose che ci
soddisfano e chiamiamo male le cose che non sono gradite.
Altrettanto vale per le passioni, che Spinoza chiama "affetti": non ci sono
passioni buone o cattive perché anch'esse derivano necessariamente dalla
medesima legge generale dell'universo, dal suo ordine geometrico. Pertanto le
passioni non vanno condannate ma solo comprese; tutt'al più possono essere
indirizzate e guidate dalla ragione.
Similmente a Machiavelli in politica, Spinoza critica quei moralisti che
concepiscono l'uomo non come è ma come vorrebbero che fosse. Per Spinoza la
morale non è prescrittiva ma invece descrittiva. In tal senso Spinoza elabora la
sua teoria delle passioni, chiamata "geometria delle passioni", poiché esse
possono essere studiate matematicamente, proponendosi di individuare le leggi che
reggono la condotta pratica dell'uomo.
Nella sua "geometria delle passioni" Spinoza esordisce affermando che ogni cosa
tende istintivamente alla propria conservazione. Quando questo istinto di
autoconservazione si riferisce solo alla mente si chiama volontà; quando si riferisce
contemporaneamente alla mente e al corpo si chiama appetito; quando l'appetito è
cosciente di sé si chiama cupidità. Dall'istinto di autoconservazione segue la gioia, o
letizia, quando si passa da una condizione inferiore ad una superiore, oppure segue il
dolore, o tristezza, nel caso contrario. L'istinto di autoconservazione, la gioia e il
dolore sono dunque le tre passioni fondamentali; da esse derivano tutte le altre
passioni secondarie con geometrica necessità. Da ciò, per l'appunto, le
denominazioni spinoziane di "concezione geometrica dell'uomo" e di "geometria
delle passioni". Le passioni secondarie, infatti, derivano sempre
meccanicamente da cause esterne: si ama ciò che è causa di gioia e si odia ciò che
è causa di dolore. Sia tutto ciò che accade agli uomini sia tutto ciò che riguarda le
cose è regolato da un determinismo naturale da cui è impossibile sottrarsi.
Di conseguenza il libero arbitrio, la libertà umana, di cui hanno favoleggiato i
filosofi, è per Spinoza solo un'illusione. Gli uomini si credono liberi solo perché
sono consapevoli dei loro desideri, ma in realtà ignorano le cause da cui questi
desideri sono determinati, cause che non dipendono da una libera scelta della
volontà, ma dal meccanismo di cause ed effetti, necessari ed esterni alla volontà
umana, derivante dall'ordine geometrico del mondo.
A questo punto Spinoza si domanda se l'uomo, pur non potendo eliminare le
passioni ed emozioni, non sia tuttavia in grado di guidarle e controllarle per
104

mezzo della ragione, giungendo così ad una qualche forma di libertà: qui sta
l'originalità della sua etica.
Spinoza definisce come schiavitù delle passioni l'incapacità di controllarle e
moderarle in qualche maniera. L'uomo però non è fatto solo di passioni, ma
anche di ragione, cioè di conoscenza, ed usando la ragione egli, anziché limitarsi a
subire passivamente l'istinto di conservazione, può anche manovrarlo e dirigerlo. È
vero che l'uomo, spinto dall'istinto di conservazione, agisce sempre in vista della
propria utilità, del proprio vantaggio, ed in questo senso l'uomo non è libero ma è
determinato, condizionato. Tuttavia l'uomo ha un'alternativa, una possibilità di
scelta fra l'agire per la propria utilità in modo istintivo ed emozionale, subendo la
schiavitù delle passioni, oppure l'agire per la propria utilità in modo intelligente e
lungimirante, previdente, conquistando così una certa libertà dalle passioni. Questa è
per Spinoza l'unica forma possibile di libertà per l'uomo: non la pretesa di
sopprimere la propria tendenza all'autoconservazione e alla ricerca dell'utile, bensì
di guidare mediante la ragione il proprio istinto di conservazione e le proprie
passioni, per conseguire non vantaggi immediati tuttavia di poco valore ed illusori,
bensì vantaggi più duraturi e profondi. In tal modo l'uomo che vive secondo ragione
non risponde all'odio con l'odio perché sa che, al contrario, l'odio può essere vinto
solo con l'amore. Quando la nostra conoscenza riesce ad innalzarsi e diventare
adeguata, cioè chiara e distinta, intelligente e lungimirante, allora il saggio sa
scegliere tra le passioni (non eliminarle perché è impossibile) e riesce a respingere
quelle passioni egoistiche che a prima vista possono attrarre ma che invece gli
impediscono la migliore e più solida autoconservazione ed il miglior
perfezionamento di se stesso.
Si ritrova ancora la dottrina socratica secondo cui la virtù si raggiunge con la
conoscenza, in quanto, come visto nella teoria spinoziana della conoscenza, vi è
corrispondenza fra i gradi del progresso conoscitivo e i gradi del progresso morale:
chi veramente conosce sa allora anche comportarsi virtuosamente. Però, come
Socrate, anche Spinoza trascura la pari importanza della volontà, essendo la
sola ragione insufficiente ai fini della virtù: per fare il bene non basta conoscerlo,
bisogna anche volerlo.
Contrariamente al carattere individualistico di certa etica greca, soprattutto
ellenistica, per Spinoza inoltre la più vera virtù e la ricerca dell'utile non è quella
che vale solo per il singolo individuo ma anche per la società, seppur concepita
non già in termini di amore per il prossimo bensì di maggiore utilità. L'uomo morale
ha cura non solo di se stesso ma anche della società, poiché la ragione spinge l'uomo
ad unirsi ai suoi simili per conseguire un utile ulteriore, che in tal modo diventa un
utile collettivo.
La capacità di scegliere tra le passioni e controllarle per vivere una vita
intelligente moderata non è ancora, però, l'ultimo e più alto gradino della
conoscenza e della morale. Esso si raggiunge, come si è visto, con l’amore
intellettuale di Dio, che attraverso la conoscenza intuitiva ci consente di
contemplare e comprendere, nell'unione mistica, il Dio-Natura, innalzandoci alla
vera beatitudine.
105

Nell'amore intellettuale di Dio si raggiunge anche la vera libertà per l'uomo, che
consiste nel comprendere e nell'accettare serenamente tutto ciò che accade
poiché accade necessariamente secondo un rigoroso ordine geometrico. Ciò rende
l'animo tranquillo, perché comprendiamo che la fortuna e il caso non esistono.
Ai sensi e all'immaginazione (il primo grado della conoscenza) il mondo appare
molteplice, diviso, contingente e provvisorio; con la conoscenza intuitiva (il terzo e
più alto grado della conoscenza) il mondo appare invece unitario, necessario ed
eterno e ci sentiamo parte di quell'eternità. Il mondo non è più guardato dal punto di
vista del tempo ma dal punto di vista dell'eternità. Quando tutte le cose si pensano
come necessarie si soffre di meno: ogni cosa non appare più isolata, provvisoria
precaria, ma come elemento di una serie infinita di cause che derivano
necessariamente dall'ordine geometrico divino dell'universo. Superando ogni
dipendenza dalle cose e dagli eventi, il saggio conquista la piena libertà e si
immedesima in Dio, in una dimensione in qualche modo mistica.

La religione (dal "Trattato teologico-politico").

Spinoza analizza criticamente l'intero contenuto della Bibbia ed osserva che ciò che
essa insegna riguarda la vita pratica (morale) e l'esercizio della virtù, ma non
l'insegnamento della verità. Dà quindi una definizione della fede secondo cui il suo
scopo non è affatto l'insegnamento del vero e del falso, bensì l'insegnamento della
virtù dell'obbedienza.
La religione appartiene per Spinoza al primo grado della conoscenza, quello
dell'immaginazione: i contenuti religiosi non sono concetti razionali, ma solo
immagini suggestive. La religione non tende alla verità ma invece ad ottenere
l'obbedienza. Per tale motivo essa è utilizzata dai governanti. In effetti è più
conveniente e realistico ridurre la fede a pochi comandamenti riguardanti
l'obbedienza a Dio attraverso l'amore per il prossimo, poiché si elimina tal
modo ogni pericolo di lotta e di conflitto religioso. Infatti, in quanto tutte
tendono ad ottenere obbedienza allora, pur nelle loro differenze storiche, tutte le
religioni sono simili. Per Spinoza la religione è una specie di sentimento naturale,
quindi la religione originaria è quella naturale, fondata sulla sola ragione nonché
su modi di sentire validi per tutti gli uomini e dimostrabili razionalmente, mentre le
religioni positive, quelle rivelate, non sono originarie ma derivate. Tale concezione,
che si ritroverà ampiamente diffusa nell’Illuminismo, è definita deismo(=non
credere nelle religioni rivelate e in un Dio-persona trascendente, ma in una specie di
“religione naturale”, per cui ogni uomo sente istintivamente e ritiene ragionevole
pensare che esista un'entità superiore che non è pero il Dio creatore bensì
l’intelligenza, l’ordine e l’armonia che governa il mondo naturale ed orienta la
morale).
106

Lo Stato e la politica.

Spinoza, similmente ad Hobbes come si vedrà, concepisce lo Stato in termini di


netto realismo politico. Anche per Spinoza nello stato di natura ogni uomo
considera suo proprio diritto prevalere sugli altri anche con la forza. Ma,
analogamente a quanto afferma Hobbes, tale stato di cose determina la guerra di
tutti contro tutti e mette a rischio la vita di ciascuno. Gli uomini, accorgendosi di
non poter difendersi da soli e di non poter provvedere ai loro bisogni senza l'aiuto
reciproco, sono perciò indotti a mettersi d'accordo ed organizzarsi in società. In
conseguenza di tale accordo o patto sociale sorge quindi lo Stato.
A differenza di Hobbes, però, Spinoza non concepisce uno Stato assoluto. Certo,
il diritto dello Stato, cioè la legge, limita il potere dei singoli individui, tuttavia non
deve annullare i loro diritti naturali, non solo alla vita e alla sicurezza ma anche
alla libertà di pensiero, di critica e di espressione, nonché alla libertà di
religione. Se lo Stato non assicura queste libertà, i cittadini non sono più tenuti ad
obbedire alle leggi dello Stato, la cui forma ideale, per Spinoza, è la repubblica.
Così Spinoza, il filosofo della necessità nel mondo naturale, è il difensore della
libertà politica e religiosa nella vita sociale. Come mai proprio il filosofo
dell'assoluta necessità e determinismo della realtà si presenti, per altro aspetto, come
il teorico della libertà politica e religiosa è una contraddizione che molti hanno
rilevato. Ma la difesa della libertà religiosa e dello Stato liberale ha radici nelle
condizioni stesse dell'esistenza di Spinoza: bandito dalla comunità degli Ebrei,
allontanato dal mondo cui era appartenuto e privo di agganci di ogni genere, non
restava Spinoza se non quello Stato che gli lasciò la libertà di vivere e di pensare. E
appunto quello Stato egli teorizza.
107

GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ (Lipsia1646 – Hannover 1716).

Di nazionalità germanica, è stato non solo filosofo ma anche scienziato. Diventa


consigliere dei duchi di Hannover. Fonda a Berlino l'Accademia delle scienze. Entra
in polemica con Newton e con la Società reale di Londra per il primato sulla scoperta
del calcolo infinitesimale.
Opere principali: Discorso di metafisica; Monadologia; Nuovi saggi sull'intelletto
umano; Teodicea.

L'ordine contingente del mondo. Conciliazione tra la nuova scienza e la


metafisica tradizionale.

Quella di Spinoza è una filosofia dell'ordine geometrico e necessario del mondo. Per
Leibniz invece l'ordine del mondo non è geometricamente determinato, e quindi
necessario, ma è un ordine che si è organizzato in modo spontaneo e libero. È un
ordine contingente (=non necessario) che, rispetto alle infinite possibilità di
costituzione, è frutto di una libera scelta non solo divina ma anche umana.
L'intento di Leibniz, pur riconoscendo l'importanza della nuova scienza filosofica e
scientifica, è di evitare sia il dualismo cartesiano (la contrapposizione tra pensiero e
corpo, tra spirito e materia), sia il materialismo di Hobbes (per il quale anche il
pensiero è cosa corporea, materiale, cioè fisiologica), sia il determinismo di Spinoza
(per il quale tutto accade per predeterminata necessità). Scopo di Leibniz è di
sostenere invece una concezione metafisica e finalistica del mondo (il mondo si
sviluppa secondo un fine ultimo cui tende) per evitare il rischio del materialismo e
dell'ateismo. Leibniz, grande scienziato oltre che filosofo, non rifiuta una concezione
anche meccanicistica della realtà, regolata da rapporti meccanici e necessari di causa-
effetto, tuttavia il suo proposito è quello di conciliare meccanicismo e finalismo,
materialismo e spiritualismo, scienza e filosofia metafisica moderna con la
metafisica antica. La metafisica, afferma Leibniz, serve per conoscere i principi
primi della realtà; la spiegazione meccanicistica serve per chiarire i particolari
fenomeni fisici e il modo di operare dei corpi.
Tale intendimento di Leibniz è presente in tutte le sue varie opere, di filosofia ma
altresì di logica, di scienza e di politica. Si trova ad esempio nella sua opera di logica
intitolata "Arte combinatoria", nella quale si propone la creazione di una scienza
universale attraverso la riduzione di tutte le proposizioni vere, dette “verità”, ad
alcune proposizioni elementari o primitive, dette "verità prime", da combinare poi in
tutti i modi non implicanti contraddizione così da ottenere tutte le verità possibili. E si
trova anche nei suoi ideali di pace politica e di conciliazione, fallita, tra cattolicesimo
e protestantesimo nonché di organizzazione di una Repubblica delle scienze.
Con la rivoluzione scientifica e l'avvento della nuova scienza i concetti di sostanza e
di finalismo della vecchia metafisica sembravano superati. Leibniz cerca di
riaffermare la loro verità, distinguendo il campo della filosofia da quello della
108

scienza. Intorno alla natura, dice Leibniz, vi sono due distinti tipi di sapere,
entrambi validi:
1. quello filosofico e finalistico, che indaga i principi primi, più universali, e la
morale;
2. quello scientifico, meccanicistico, che indaga i fenomeni naturali particolari.

La logica.

Nel campo della logica i maggiori contributi di Leibniz riguardano la distinzione tra
verità di ragione e verità di fatto e la definizione del principio di ragion sufficiente.

Verità di ragione e verità di fatto.

Per Leibniz ordine del mondo non significa esclusivamente necessità di tutto ciò che
accade. La necessità si trova solo nella logica e nella matematica, ma non nel
mondo naturale. Si tratta allora di distinguere ciò che è necessario da ciò che è
contingente, ossia possibile, anche al fine di salvare la libertà umana.
Vi sono infatti, afferma Leibniz, due tipi di verità: le verità di ragione e le verità di
fatto.
1) Le verità di ragione sono verità necessarie ma non riguardano la realtà naturale.
Sono quelle il cui opposto è impossibile. Si riferiscono a tutto ciò che può essere
pensato senza contraddizione, cioè a tutti gli eventi possibili. Le possibilità sono
infinite ma il determinarsi di una possibilità esclude le altre perché non tutto ciò che è
possibile si realizza concretamente. Sono verità innate, a priori, che non derivano cioè
dall'esperienza. Coincidono per lo più con i principi della logica (quello di identità, di
non contraddizione, del terzo escluso). Le verità di ragione riguardano il mondo delle
pure possibilità, che è assai più vasto di quello della realtà. Per esempio tanti mondi
diversi da quello attuale sarebbero in teoria possibili, ma uno solo è il mondo reale.
Le verità di ragione sono tautologiche, cioè il predicato è implicito nel soggetto: sono
identici.
2) Le verità di fatto sono invece verità contingenti (=che ci sono ma potrebbero
anche non esserci) e riguardano la realtà effettiva, il mondo concreto, ossia ciò che
effettivamente esiste e si è realizzato fra le tante diverse possibilità. Sono quelle
verità il cui opposto non è impossibile (ci potrebbe anche essere un mondo diverso da
quello che c'è) e sono verità a posteriori, che derivano cioè dall'esperienza (ad
esempio Cesare che attraversò il Rubicone).

Il principio di ragion sufficiente.

Le verità di fatto non sono fondate dunque sui principi logici di identità e di non
contraddizione, tant'è che il loro contrario è possibile. Ma se un avvenimento
contingente, cioè una verità di fatto, accade, deve pur esserci un motivo, una
plausibile e sufficiente ragione di tale accadere (ad esempio, Cesare attraversò il
109

Rubicone per abbattere la Repubblica romana corrotta): questo principio è chiamato


da Leibniz "principio di ragion sufficiente". Esso non va confuso col principio di
causa, o principio di causalità, perché tale ultimo principio è deterministico (ogni
causa determina necessariamente un preciso effetto), mentre il principio di ragion
sufficiente implica una causa finale, un scopo per cui un dato comportamento viene
compiuto o un certo fatto o evento accade.
Su questo punto Leibniz si differenzia da Cartesio e da Spinoza e si avvicina alla
metafisica tradizionale: degli scopi di un fatto, di un evento, possiamo e dobbiamo
pur sempre dare una spiegazione, anche se non completa ma, appunto, sufficiente. Le
cose che accadono nel mondo reale, pur essendo collegate e dipendendo l'una
dall'altra, non accadono necessariamente, non formano una concatenazione
necessaria, ma derivano da un atto di libera scelta volto ad un fine, atto che avrebbe
potuto anche non essere compiuto (ad esempio Dio avrebbe anche non potuto creare
il mondo).
Il principio di causa è invece impersonale, esclude ogni intervento di libera volontà
nel senso che ciò che accade è indipendente dalla nostra volontà e dalle nostre scelte
e decisioni. Spiega il mondo in base a leggi generali e a rapporti meccanici di causa-
effetto, ma non spiega il perché e il fine dei singoli fatti e fenomeni concreti, come
pure dei singoli comportamenti individuali o collettivi. Fondandosi solamente sul
principio di causa si finisce col trascurare l’importanza del principio di
responsabilità individuale e morale di ciò che si fa. Questo, dice Leibniz, è anche il
difetto della scienza.

La sostanza individuale.

Il principio di ragion sufficiente induce Leibniz a formulare un altro concetto


centrale della sua metafisica, quello di "sostanza individuale".
Nella realtà, dichiara Leibniz, esistono molte sostanze, come affermava Aristotele, e
non una sola come per Spinoza. Ciò per Leibniz è del tutto evidente e non ha bisogno
di essere dimostrato. È confermato anche dal "cogito" cartesiano, poiché è evidente
non solo che noi pensiamo ma altresì che pensiamo molte cose tra di esse diverse.
Rispetto alle diverse sostanze Leibniz si sofferma quindi sulle sostanze di base, che
sono quelle semplici, non aggregate fra loro, e che sono appunto chiamate col nome
di "sostanze individuali". Leibniz definisce aristotelicamente la sostanza come "ciò
che è soggetto di più predicati e non è a sua volta predicato di altro" (predicato di un
soggetto= ciò che si dice, che si specifica, che si spiega intorno a quel soggetto). Ma,
in base al principio di identità, Leibniz aggiunge che i predicati, per poter essere
attribuiti con verità al soggetto, devono essere identici a questo (identità totale come
nelle verità di ragione) o devono essere almeno contenuti nella sua essenza, cioè
nella sua natura o nel suo destino (identità parziale come nelle verità di fatto). Con
tale precisazione Leibniz va oltre ad Aristotele, non considerando necessario che
tutti gli accidenti (i predicati) debbano essere deducibili dalla nozione (dal concetto)
di sostanza come invece aveva dichiarato Aristotele: la deducibilità di tutti gli
accidenti vale per le verità di ragione ma non per le verità di fatto.
110

Come si è visto, una verità di ragione è quella in cui il predicato è implicito nel
soggetto: identità totale (ad esempio, il triangolo ha tre angoli). Invece nelle verità di
fatto il predicato non è implicito e non è identico al soggetto, tant’è che può essere
anche negato, cioè potrebbe anche non riguardare il soggetto (ad esempio, nel caso
di Cesare che attraversò il Rubicone, Cesare e il Rubicone non sono identici bensì
diversi e Cesare avrebbe potuto anche non attraversarlo). Il predicato di una verità
di fatto non è cioè necessario, non è necessariamente deducibile dal soggetto. Però,
se effettivamente si riferisce al soggetto, esso deve essere almeno contenuto nella sua
essenza (identità parziale), ossia deve esserci una ragione sufficiente, attestata
dall'esperienza e spiegabile attraverso uno specifico motivo, affinché un certo
predicato possa essere davvero attribuito ad un certo soggetto.
Il soggetto di una verità di fatto è sempre reale o esistente, è cioè una sostanza (=
che sussiste) ed è sempre una cosa specifica, uno specifico individuo ( o ente): da ciò
appunto il nome di "sostanza individuale".
La sostanza individuale, insomma, è ciò che caratterizza e fa comprendere la
specificità di una cosa, di un individuo, di un singolo fatto o evento reale in base alla
conoscenza della ragion sufficiente, cioè del motivo in grado di spiegare il perché di
ciò che gli è accaduto e gli accadrà. Ad esempio, Alessandro Magno è una sostanza
individuale specificatamente conoscibile in base a ciò che ha fatto e gli è accaduto e
in base a quanto farà e gli capiterà. Tuttavia non è possibile per gli uomini giungere
ad una conoscenza piena e completa di una sostanza individuale, non essendo in
grado di conoscere la totalità delle ragioni sufficienti (di tutti i fatti e i motivi), anche
quelle più intime e particolari, attribuibili ad una determinata sostanza individuale.
Infatti noi non sappiamo se Alessandro Magno morì di morte naturale o perché
avvelenato. Ciò è possibile solo a Dio. Solo Dio infatti ha una conoscenza completa
dell'essenza di una sostanza individuale; soltanto Lui ne conosce tutti i predicati
(tutto ciò che gli è accaduto e tutto ciò che gli capiterà), per cui è in grado di dedurre
tutte le proprietà e tutti comportamenti, passati futuri, di ciascuna sostanza
individuale.
Ciò non significa che la sostanza individuale sia necessitata ad agire in un certo
modo. Per esempio, Alessandro avrebbe anche non potuto vincere l'imperatore Dario
e conquistare la Persia, in quanto il non farlo non implica contraddizione. Ma in
realtà era certissimo che lo avrebbe fatto perché quello era il suo destino,
corrispondente all'ordine generale dell'universo voluto liberamente da Dio.
In effetti, anche le verità di fatto, cioè tutti i fatti e gli avvenimenti di una sostanza
individuale, sarebbero già contenute ed implicite nel soggetto (nel suo fine, nel suo
destino) come per le verità di ragione, e sarebbero da esso derivabili a priori
qualora si potesse conoscerlo pienamente, cosa invece possibile solo per Dio ma non
per gli uomini. In tal senso e a tali condizioni le verità di fatto sarebbero riducibili a
quelle di ragione, e quindi integralmente prevedibili in modo infallibile e necessario,
per cui il risultante concetto di sostanza verrebbe ad avvicinarsi proprio a quello di
Cartesio e di Spinoza, da cui Leibniz voleva invece differenziarsi.
Di fatto la sostanza, anche quella individuale, comprende in sé già dall'inizio, nel suo
destino, tutti i propri predicati, ossia tutto ciò che le accadrà e la caratterizzerà. Il
111

concetto di sostanza individuale è già di per sé un concetto completo e qualora si


potesse analizzarlo e conoscerlo pienamente, il che tuttavia si è visto impossibile per
gli uomini, si scoprirebbe che in sé ha già tutto ciò che diverrà e farà e che nulla può
aggiungersi dall'esterno o in modo casuale. Inoltre, essendo una determinata
sostanza individuale collegata con tutte le altre sostanze da essa percepite, la sua
analisi, e quindi il relativo concetto, tende ad estendersi all'universo nella sua
totalità. Con ciò Leibniz finisce col preludere alla propria e successiva teoria delle
monadi, secondo cui ognuna rispecchia, percepisce, l'intero universo.

Critica del meccanicismo e del concetto di estensione.

Come premesso, non solo il pensiero ma anche la natura rientra per Leibniz nel
carattere non necessario dell'ordine universale: i fenomeni naturali e i loro movimenti
avvengono meccanicamente, ma le leggi della meccanica e del movimento nascono a
loro volta, per Leibniz, da qualcosa di superiore, da principi di natura metafisica
anziché fisica e geometrico-meccanica.
In un primo tempo Leibniz condivide la dottrina di Cartesio che considera
l'estensione (res extensa) e il movimento quali elementi originari, di base, del
mondo fisico-naturale. Giunge però ad una conclusione opposta dopo essersi
convinto che il principio affermato da Cartesio circa l'immutabilità della quantità di
movimento era sbagliato. Infatti Leibniz osserva che ciò che rimane costante nei
corpi che si trovano in un sistema chiuso non è la quantità di movimento ma la
quantità di azione motrice o "forza viva", ossia, come oggi è chiamata, l'energia
cinetica presente nell'universo. Ciò che si conserva non è il movimento ma la forza,
che è uguale al prodotto della massa per il quadrato della velocità diviso due e non
già al semplice prodotto della massa per la velocità come per Cartesio. È la forza viva
cioè che ha la capacità di produrre un determinato effetto (per esempio il
sollevamento di un peso) ed essa non va confuso col movimento, che è il semplice
spostamento di un corpo nello spazio. La vera e profonda realtà dei corpi che
costituiscono la natura, il mondo fisico, non è dunque la res extensa e il
movimento ma è la forza, l'energia cinetica, che spiega la quiete o il movimento
dei corpi.
La materia pertanto non è solo estensione come affermato da Cartesio, perché
l'estensione che caratterizza i corpi presuppone dapprima l'esistenza di una
forza che ne attui il movimento. È questa forza perciò la vera sostanza, la quale
ha in sé la propria interiore finalità. L'estensione e il movimento sono soltanto
fenomeni, sono ciò che noi esteriormente vediamo, ma non sorgono da soli bensì
dall'azione di una forza che sta sotto a ciò che ci appare e che ha in se stessa il
principio e il fine del proprio agire. Per tale motivo Leibniz paragona questa forza
alla"entelechia" (grado di perfezione di un ente) aristotelica.
Al di sotto dei vari corpi materiali quali noi vediamo si trova dunque una forza,
un'energia (l'energia cinetica), che è la vera sostanza invisibile costitutiva dei
corpi stessi e del loro movimento, corpi che sono mossi da tale energia secondo
112

uno sviluppo finalisticamente indirizzato verso un ordine ed una perfezione


sempre superiori. Questa forza, questa energia, non ha più nulla di corporeo e di
materiale, ma va oltre gli elementi fisici (materia e corpi) e costituisce invece una
realtà, un principio metafisico immateriale, spirituale: alla base dei corpi e della
materia non c'è dunque alcuna sostanza materiale, non c'è la res extensa, bensì
un'unica sostanza immateriale orientata finalisticamente verso uno sviluppo e una
perfezione sempre maggiori. Viene così superato da Leibniz il meccanicismo (la
concezione meccanica della natura) ed anche il dualismo cartesiano tra sostanza
estesa (materia) e sostanza pensante (spirito): nel profondo dell'universo non esiste
né materia (estensione) né corporeità, ma tutto è spirito e vita perché tutto è forza, è
energia immateriale.

Le monadi.

La vera realtà dunque è costituita dalla forza viva, dall'energia immateriale,


ossia da "centri di forza" che Leibniz, dopo averli dapprima chiamati "sostanze
individuali", chiama "monadi" (dal greco "monas"=elementi semplici, non
scomponibili). Le monadi sono quindi gli elementi di base immateriali, metafisici,
spirituali, invisibili ed indivisibili (nel senso di non scomponibili perché già sostanze
semplici), nonché senza dimensioni ed inestesi, che sottostanno a tutte le cose e a tutti
i corpi. Le monadi sono, si può dire, gli "atomi metafisici", immateriali e non
materiali come in Democrito, costitutivi della realtà. Poiché spirituale e vitale
(forza viva), ogni monade ha già in sé la propria finalità e perfezione. Tutto ciò
che esiste o è una semplice monade o è un complesso, un aggregato, di monadi.
Il meccanicismo perde quindi per Leibniz il carattere di verità esclusiva e diventa più
semplicemente una legge di convenienza, utile per lo studio dei fenomeni ma non
della realtà più profonda. Il meccanicismo altro non è che il modo, l'apparenza
attraverso cui si realizza il finalismo.
Due sono le attività delle monadi, analoghe alle attività della nostra mente:
1. la percezione, ossia la capacità di percepire e rappresentare in se stesse il
mondo, l'universo intero; ogni monade è un distinto punto di vista
sull'universo ed ognuna lo vede secondo il proprio angolo di visuale in cui si
trova o si colloca;
2. l’appetizione, che è la tendenza a passare da una percezione all'altra.
Alcune monadi poi, cioè le menti, le intelligenze, possiedono anche
l’appercezione, che è la percezione cosciente, l'autocoscienza, ossia il rendersi conto
di saper percepire; le altre monadi percepiscono invece in modo inconscio,
inconsapevole.
Cosa percepisce la monade? Percepisce tutte le altre monadi, cioè tutto il mondo
perché le monadi sono l'elemento di base costitutivo del mondo intero. Ogni
monade è quindi un microcosmo, che rappresenta e percepisce in sé tutto il
mondo, ciascuna peraltro secondo una differente angolazione o punto di vista e
con un diverso grado di chiarezza e distinzione.
113

La sostanza di ogni monade è uguale a quella di tutte le altre, poiché la forza


viva, l'energia di cui è costituita è uguale per tutte. Sono invece diverse dalle altre
secondo l'angolazione in cui ciascuna si trova e secondo il diverso grado di
distinzione delle proprie percezioni. Ogni monade è come una mente umana, in
quanto tale distinta, non confusa e mescolata alle altre ma in grado di percepire, in
modo più o meno chiaro o confuso, tutto l'universo. Sotto una parvenza corporea
esteriore (fenomenica), l'universo è perciò immaginabile come una sfera
brulicante e luccicante di monadi, ognuna secondo un diverso punto di vista e
prospettiva.
Ogni monade non comunica con le altre monadi, proprio come ogni anima, ogni
mente umana, è indipendente dalle altre. Infatti ogni monade, essendo in se stessa
pienamente compiuta ed autonoma, non può essere influenzata dalle altre. In tal
senso Leibniz dice che le monadi sono "senza finestre". Nel loro insieme le
monadi costituiscono infiniti e differenti punti di vista sul mondo, similmente
all’infinita varietà delle cose del mondo, giacché ciascuna percepisce il mondo
secondo il proprio e distinto angolo di visuale.
Da ciò l'ulteriore ed importante principio di logica formulato dal Leibniz, ossia il
"principio dell'identità degli indiscernibili", secondo cui al mondo non ci sono
cose assolutamente identiche, né localmente né temporalmente né intrinsecamente.
Neppure due gocce d'acqua sono identiche tra di esse: se infatti fossero identiche,
cioè indiscernibili (=che non si possono discernere, ossia distinguere), tra di esse
coinciderebbero e sarebbero una cosa sola. È questo un principio che vuole
spiegare sia la specificità di ogni ente (cosa), differente da ogni altro, sia l'infinita
varietà dell'universo. Ed è proprio la specificità, il finalismo e la libertà di
ciascun ente che la filosofia di Leibniz vuole difendere ricorrendo al complesso
sistema delle monadi.
Ogni monade, si è visto, è diversa da tutte le altre non per la sostanza ma per il
diverso grado di percezione e di perfezione. Pertanto vi è una gerarchia delle
monadi: al grado più basso ci sono le monadi che hanno percezioni assolutamente
confuse ed oscure; poi ci sono le monadi che hanno percezioni più chiare fino
all’appercezione (=la percezione consapevole, cosciente); al grado più alto c'è Dio, la
monade suprema, in cui l’appercezione è completamente chiara e totale. Anche Dio
è una monade. Si differenzia però dalle altre, da lui create, perché queste ultime
percepiscono il mondo da un determinato punto di vista, mentre Dio lo percepisce da
tutti i possibili punti di vista ed è, in questo senso, la monade delle monadi.
Le cose inanimate sono composte da monadi che posseggono soltanto percezioni
del tutto confuse, mentre le monadi fornite di memoria (appercezione) sono quelle
che costituiscono le anime degli animali; infine, quelle fornite di ragione
costituiscono gli spiriti (le menti) umani. A differenza di Cartesio, Leibniz ammette
quindi che anche gli animali hanno un'anima sensitiva, sebbene non identica a quella
degli uomini.
114

Il mondo fisico: la materia, lo spazio, il tempo, i corpi.

Poiché le monadi sono l'elemento di fondo costitutivo di tutta la realtà, allora anche
la stessa materia e i corpi (le cose concrete) sono costituiti da monadi. Infatti si è
visto che per Leibniz i corpi (la materia) non sono sostanza estesa (res extensa) come
per Cartesio, ma sono invece un aggregato di monadi, ossia di sostanze
immateriali, di forze e di energia pura. Proprio per questo, secondo Leibniz, la
materia e i corpi sono infinitamente divisibili, giacché il loro elemento costitutivo di
fondo non ha nulla di materiale e corporeo. Pertanto la materia e i corpi sono
soltanto apparenza, sono cioè fenomeni, ma tuttavia, dice Leibniz, sono
"fenomeni ben fondati", nel senso che non sono pure illusioni, bensì i modi della
nostra percezione (il modo in cui noi percepiamo le cose).
L'attività della monade è piena e perfetta solo in Dio, mentre in tutte le altre è
limitata ed imperfetta, il che determina la materialità.
Leibniz distingue tra:
1. materia prima, ossia la materia in generale intesa come energia passiva
(forza di inerzia o di resistenza), le cui monadi costitutive occupano il grado
più basso e confuso di percezione;
2. materia seconda, che costituisce i corpi fisici sia degli animali sia degli
uomini, intesa come aggregato di monadi.
Al fondo della materia, tuttavia, ci sono pur sempre le monadi che sono sostanze
immateriali, pura energia. È una concezione, questa di Leibniz, anticipatrice della
contemporanea teoria della materia considerata come risultato del decadimento (del
venir meno e del consolidarsi) dell'energia. Anche per Einstein vi è un rapporto tra
energia e massa (quantità di materia), espresso dalla sua celebre formula: e=mv al
quadrato.
La materia dunque, conclude Leibniz, non ha consistenza ontologica, non è vera
realtà. Anche i corpi non hanno consistenza ontologica, non sono sostanza, non
sono vera realtà. Essi sono invece, come abbiamo visto, aggregati di monadi,
organizzati e coordinati da una monade superiore che è l'anima (vegetativa,
sensitiva o umana), chiamata da Leibniz monade dominante. L'anima funge da
principio di vita (anima i corpi) che organizza finalisticamente le altre monadi del
corpo verso gradi di maggior perfezione (entelechia).
Questa di Leibniz è una concezione vitalistica ed organicistica dei corpi (i corpi
sono organismi viventi e non macchine), per cui non si può parlare di nascita e di
morte assolute ma solo di accrescimento e di involuzione (regresso) perché le
monadi, che sono la sostanza, l'elemento ultimo di tutti i corpi, una volta create da
Dio sono immortali, non possono perire se non per annichilazione (=annullamento)
divina. Essendo immateriali, le monadi non sono soggette né a generazione né a
corruzione. A maggior ragione quindi, dichiara Leibniz, è innanzitutto immortale
l'anima.
Se le monadi sono inestese (non hanno dimensione) e sono immortali, esse allora
non sono limitate né dallo spazio né dal tempo. Anche lo spazio e il tempo, come
la materia dei corpi, non hanno consistenza ontologica, non sono qualcosa di reale,
115

ma sono modi in cui la realtà ci appare, sono fenomeni. Tuttavia essi pure sono
"fenomeni bene fondati": lo spazio è un fenomeno che nasce dalla coesistenza delle
cose (dal fatto che vediamo le cose una accanto all'altra, per cui ricaviamo
l'impressione dello spazio); il tempo è un fenomeno che nasce dalla successione
delle cose (dal fatto che vediamo le cose una dopo l'altra, per cui ricaviamo
l'impressione del tempo). Spazio e tempo, insomma, non esistono in sé, ma sono
semplici relazioni di coesistenza e successione tra i corpi.

I rapporti fra le monadi e l' “armonia prestabilita”.

Tra il corpo, che è aggregato di monadi, e l'anima, che è la monade dominante, non
c'è diversità di sostanza: è la medesima. Vi è invece diversità nei gradi di distinzione
delle rispettive percezioni, che per l'anima (la mente) sono assai più chiare.
Anche Leibniz ammette, come in generale la nuova scienza del Seicento, che il
corpo e l'anima (o mente) seguono leggi indipendenti, si comportano secondo
regole diverse. I corpi agiscono fra loro secondo leggi meccaniche, mentre le anime
agiscono secondo principi finalistici, cioè in vista di uno scopo. In nessun modo
comunque l'anima può agire sul corpo o viceversa, perché non si può spiegare in
nessuna maniera come le modificazioni del corpo, che sono processi meccanici,
facciano sorgere una percezione, che è un processo mentale, oppure come dalle
percezioni possa derivare un cambiamento meccanico di velocità o di direzione dei
corpi. Inoltre, come abbiamo visto, le monadi, di cui anche l'anima e il corpo sono
costituiti, non comunicano fra di loro, non hanno finestre attraverso le quali qualcosa
possa entrare od uscire: nessuna monade, essendo immateriale, può agire
fisicamente su di un'altra.
Eppure un qualche rapporto tra le monadi sussiste, perché ogni monade è una
rappresentazione (un punto di vista) più o meno chiara dell'intero e medesimo
universo, cioè di tutte le altre monadi in ognuna delle quali l'universo si rispecchia.
Ma allora come si spiega la relazione tra le monadi e soprattutto il collegamento, la
reciproca influenza tra anima e corpo mostrata dall'esperienza?
Leibniz prospetta al riguardo tre possibili ipotesi di soluzione:
1) Esiste un'influenza reciproca tra le monadi, cioè tra le monadi del corpo e
quelle dell'anima. Ma questa è un'ipotesi rifiutata perché in contraddizione con
l'incomunicabilità delle monadi.
2) Vi è un continuo intervento divino che, in occasione di ciascuna percezione o
decisione dell'anima, assicura il verificarsi del corrispondente movimento del corpo e
viceversa. È questa la soluzione "occasionalistica", tuttavia scartata anch'essa perché
dispendiosa e presuntuosa: Dio non può essere il valletto al servizio degli uomini.
3) Esiste un'armonia prestabilita da Dio tra le monadi dell'anima e quelle del
corpo. Dio, creando tanto l'anima quanto il corpo, si è preoccupato di sincronizzarli
una volta per sempre fin dall'inizio della creazione e di far sì che ad ogni decisione
presa dall'anima, dalla mente, corrisponda sempre il rispettivo movimento del corpo
e che ad ogni modificazione o movimento del corpo corrisponda sempre la rispettiva
116

percezione (sensazione) da parte dell'anima. È questa la soluzione accettata da


Leibniz.
Tale soluzione sembra assomigliare al parallelismo mente-corpo di Spinoza. Però per
Spinoza esso è la conseguenza meccanica dell'ordine geometrico del mondo stabilito
dal Dio-Natura, ossia la mente e il corpo, in quanto due attributi della medesima
sostanza, il Dio-Natura, sono fra di essi necessariamente e matematicamente
precoordinati. Per Leibniz invece l'armonia mente-corpo è prestabilita dalla libera
volontà di Dio e non deriva dall'ordine necessario dell'universo e delle sue leggi.

La conoscenza.

Leibniz critica Locke che nega l'esistenza di idee innate. Per Leibniz invece
nell'anima sono certamente presenti idee che non derivano dall'esperienza,
come le idee matematiche, i principi della logica, nonché la stessa idea di Dio.
Piuttosto tali idee innate sono presenti nella mente solo in forma virtuale, in
forma di inclinazioni e tendenze e non in modo pieno e concreto come per Cartesio.
Vale a dire che le idee innate, per Leibniz, non sono chiare e distinte, pienamente
consapevoli, bensì confuse ed inconsce. Però l'intelletto, quando fa esperienza
delle cose, ha in sé la capacità di rendere più chiari e logici i dati sensibili (ciò
che è visto, toccato e sentito con i sensi) grazie alla riflessione e mediante un
graduale e continuo processo di astrazione, che consente di pervenire alla
formazione dei concetti. Quando, a causa dell'esperienza, l'intelletto ha l'occasione di
pensare e di riflettere, porta le idee innate presenti in lui dallo stato virtuale,
inconscio, a quello reale, concreto. Come ogni altra monade infatti l'intelletto, cioè
l'anima, ed anzi in misura maggiore in quanto monade dominante, ha già presente in
sé, in modo tendenziale ed inconscio, l'idea di tutte le essenze ed esistenze dell'intero
universo, idee che vengono risvegliate e rese più chiare a seguito dell'esperienza
sensibile.
Comunque mai, in ogni caso, le idee innate potrebbero derivare dall'esperienza
perché possiedono una verità assoluta, similmente alle verità di ragione, che le
conoscenze empiriche non hanno. La monade infatti è tutta innata a se stessa giacché
nulla può ricevere dall'esterno (non ha finestre). Si tratta di un innatismo totale: la
monade, e quindi anche l’anima, monade dominante, è creata da Dio già
completamente determinata e completa nella sua natura, nella sua essenza, sebbene
non in tutti i suoi singoli e specifici pensieri ed azioni, che sono allo stato inconscio e
si risvegliano a seguito delle esperienze sensibili. La teoria della conoscenza di
Leibniz si colloca dunque in una via di mezzo tra quella di Cartesio e quella di
Spinoza.

Dio. Il migliore dei mondi possibili. Il male. La libertà umana.

Dalla teoria dell’armonia prestabilita deriva una visione armoniosa e ottimistica


dell'universo, secondo un principio di progressiva continuità che consente
117

gradualmente il passaggio da percezioni più confuse a percezioni più chiare, per cui
"la natura non fa mai salti". Il principio di continuità è complementare (collegato) a
quello della identità degli indiscernibili ed afferma, in sostanza, che per passare dal
piccolo al grande e viceversa bisogna passare attraverso infiniti gradi intermedi. Di
conseguenza il processo di divisione della materia procede all'infinito e non può
fermarsi ad elementi materiali indivisibili quali gli atomi di Democrito che Leibniz,
si è visto, respinge. Proprio tale concezione dell'infinita divisibilità dei corpi è stata
alla base della scoperta del calcolo infinitesimale da parte di Leibniz stesso.
Con la dottrina dell'armonia prestabilita la filosofia di Leibniz passa alla riflessione
sui temi tradizionali della teologia, a cominciare dalle prove dell'esistenza di Dio
ed affrontando quindi il problema della libertà e della predestinazione e quello del
male.
Dio è la monade originaria, la monade delle monadi. Tutte le altre sono
fulgurazioni (creazioni) continue della divinità.
Leibniz riformula in particolare due delle tradizionali prove dell'esistenza di
Dio.
1) La prima, corrispondente alla terza delle prove di Tommaso d'Aquino
concernente il rapporto tra il possibile e il necessario, è riformulata da Leibniz
sulla base del suo principio di ragion sufficiente. Dio, dice Leibniz, è la prima
ragione, la prima causa delle cose, giacché tutte le cose che vediamo e
sperimentiamo (e quindi il mondo intero) sono contingenti, limitate, e non hanno
nulla in sé che renda necessaria la loro esistenza. Ogni cosa è l'effetto, la ragion
sufficiente di altre cose che pure, a loro volta, sono contingenti: ci sono ma
potrebbero anche non esserci. Dunque, non potendosi risalire all'infinito nella ricerca
delle ragioni sufficienti, del perché quelle cose ci sono, bisogna cercare la ragione, la
spiegazione dell'esistenza del mondo e delle cose del mondo in una realtà che non
può essere a sua volta contingente ma deve essere necessaria, cioè implicare
necessariamente la propria esistenza, ed essere eterna. Questa realtà necessaria ed
eterna, che è ragione sufficiente dell'esistenza del mondo e di tutte le cose del
mondo, è Dio.
A questo punto Leibniz formula la sua celebre domanda: "Perché esiste
qualcosa (l'essere, cioè la realtà, il mondo) anziché il nulla?" Gli antichi si
limitavano a chiedersi che cosa è l'essere, ma dopo il creazionismo, ossia dopo la
teoria della creazione del mondo da parte di Dio, la domanda, che anche Leibniz si
pone, diventa "Perché c'è l'essere (il mondo) e non piuttosto il nulla? Perché il
mondo è stato creato? Risponde Leibniz: se c'è il mondo e la realtà delle cose così
come li vediamo, tutto ciò non può che trovare la propria ragione sufficiente (la
propria spiegazione) in Dio, che ha voluto creare il mondo e le cose proprio così
come sono. Dio avrebbe anche potuto creare infiniti mondi diversi dal nostro tra
quelli possibili. Se ha scelto questo mondo, ci deve essere una ragione sufficiente, un
preciso motivo, un perché (finalismo). Dio è bontà infinita, agisce in vista del bene,
perciò se ha scelto questo mondo significa che lo ha scelto perché è il miglior mondo
possibile rispetto ad ogni altro. Tale spiegazione rivela l'ottimismo di fondo della
filosofia di Leibniz.
118

Dio è la fonte di ogni realtà, sia del mondo e delle cose create sia degli altri mondi e
delle cose possibili, non creati ma presenti essi pure nell'intelletto divino e di cui
Dio ha conoscenza. Nell'intelletto divino sono cioè presenti tutte le essenze e verità
eterne possibili e alternative, ancorché non create. Queste ultime tuttavia non
dipendono dalla volontà divina, come per Cartesio, ma invece dall'intelletto divino
perché note ad esso, che Dio non ha però voluto attuare. Dalla volontà divina
dipendono invece le verità di fatto, che riguardano le esistenze reali volute da Dio.
2) La seconda prova dell'esistenza di Dio consiste in una riformulazione della
prova ontologica di Anselmo d'Aosta, che Leibniz presenta sulla base del suo
concetto di possibilità. Leibniz afferma che dal concetto di un essere che possegga
tutte le perfezioni è possibile dedurre anche la stessa esistenza dell'entità concepita
solo dopo che si è dimostrato che il concetto di tale essere è effettivamente possibile,
cioè privo di contraddizioni interne. Poiché il concetto di Dio è quello di essere
illimitato, allora non ci sono limiti né contraddizioni che impediscano di dichiararlo
possibile. E se il concetto di un essere che possiede tutte le perfezioni è possibile ciò
significa altresì, allora, che tale essere esiste perché altrimenti mancherebbe di una
perfezione, quella dell'esistenza. In Dio dunque possibilità e reale esistenza
coincidono.
Leibniz presenta anche una terza prova dell'esistenza di Dio, riformulata sulla base
della prova agostiniana fondata sull'esistenza della verità eterna e assoluta.
Esistono, dice Leibniz, delle essenze, delle verità eterne, espresse dalle verità di
ragione, le quali sono soltanto possibili, cioè pensabili ma che non esistono in realtà
(ad esempio i postulati della matematica, i principi della logica). Però proprio per
questo esigono l'esistenza di un intelletto eterno che le pensi, il quale non può essere
che l'intelletto divino.
Dalla concezione ottimistica del miglior mondo possibile, quale è quello creato da
Dio, Leibniz ricava anche la sua soluzione del problema del male, ossia di come sia
possibile il male nel mondo se esso è stato creato da Dio che è somma bontà. Al
riguardo Leibniz dedica l'opera intitolata "Teodicea", che alla lettera, dal greco,
significa "giustizia di Dio", ossia "giustificazione di Dio", nel senso che Dio è
giusto e quindi non colpevole della presenza del male nel mondo.
Rifacendosi in parte al ragionamento agostiniano, Leibniz distingue tra:
1. male metafisico (il Male in assoluto, quello con la M maiuscola) che però in
realtà non esiste perché esso esprime soltanto la condizione di limitatezza e di
imperfezione del mondo e delle sue creature che, in quanto tali, non possono
essere illimitati e perfetti come Dio, altrimenti sarebbero un doppione di Dio
stesso il che è assurdo; questo non è perciò un vero male, ma è solo una forma
di non-essere illimitato, eterno e perfetto perché sennò le creature si
confonderebbero con Dio;
2. male morale, che consiste nel peccato ed è colpa non di Dio ma dell'uomo e
della libertà umana quando sceglie di non osservare la legge di Dio e i suoi
comandamenti morali;
3. male fisico (dolore, morte, catastrofi naturali), il quale altro non è che una
conseguenza del male morale: è la pena per una colpa commessa oppure un
119

mezzo per raggiungere un bene superiore o per impedire mali maggiori; il


male fisico serve spesso a far gustare meglio il bene; può essere di
ammonimento morale o può migliorare chi soffre.
L'ulteriore problema affrontato dal Leibniz è quello della libertà umana, che
sembrerebbe in contrasto con la teoria dell'armonia prestabilita, secondo cui tutto
ciò che un individuo farà o subirà è già prestabilito e predeterminato da Dio fin dal
momento della creazione. Ma allora dove starebbe la libertà umana?
Leibniz non ritiene che la libertà umana venga annullata dalla prescienza (=
conoscere anticipatamente tutto ciò che accadrà) e dalla predeterminazione e
predestinazione divina. Per lui vale il principio fondamentale secondo cui l'ordine
dell'universo è contingente e libero, liberamente creato da Dio e finalisticamente
indirizzato al meglio. Per Leibniz la predeterminazione divina non è necessitante
ma solo inclinante (non si impone necessariamente agli uomini ma si limita ad
ispirarli, ad orientarli, al fine di inclinarli verso il bene), per cui la scelta o meno del
meglio e del bene da parte delle creature rimane libera e responsabile. Del resto, se
Dio impedisse il peccato (il male morale) non solo verrebbe meno la libertà
dell'uomo ma anche il bene stesso, il quale sussiste solo se, in alternativa, può essere
per contro scelto il male, così come verrebbe meno anche la stessa responsabilità
morale, poiché non c'è morale se non c'è libertà di scelta tra bene e male. Inoltre, la
colpa del singolo può essere la ragione di un bene maggiore per il tutto: ad esempio,
il peccato di Giuda era necessario perché si compisse il sacrificio di Cristo e quindi
la stessa redenzione dell'umanità.
Leibniz insomma assume una via di mezzo tra la posizione di Spinoza, sostenitore
della necessità e della predeterminazione, e la concezione classica di un libero
arbitrio pieno. La libertà di scelta, dice Leibniz, non è completa perché la prescienza
e predeterminazione divina se non necessita, se non costringe, suscita tuttavia
un’inclinazione al bene che però non obbliga, poiché Dio non vuole condizionare la
spontaneità e libertà delle monadi, ed in particolare di quelle monadi spirituali che
sono le anime e le menti umane. Ogni monade ha in sé la sua finalità e perfezione.
Le conclusioni di Leibniz circa il problema del male rimangono tuttavia
ambigue, poco chiare, ed hanno suscitato numerose critiche. Infatti, poiché ogni
monade già contiene in sé, stampato in essa da Dio, tutto ciò che le accadrà e farà,
Leibniz cerca di risolvere il problema della libertà umana distinguendo tra certo e
necessario. Ciò che ogni monade compie è certo perché preordinato e previsto da
Dio nell'ambito del mondo da Lui creato fra tutti quelli possibili. Però Dio, prosegue
Leibniz, avrebbe potuto anche preordinare nella monade eventi diversi e creare un
diverso tipo di mondo: quindi, conclude Leibniz, è vero che ciò che compie ogni
monade è certo, ma non è necessario poiché sarebbe stato possibile preordinarlo in
modo diverso e pertanto vi è libertà. Ma tale distinzione tuttavia è più di tipo logico
che di fatto (reale).
La teologia comunque non è la parte centrale della filosofia di Leibniz, che consiste
invece nella difesa dell'ordine contingente e libero del mondo e nel principio di
ragion sufficiente che implica finalità e libertà.
120

TOMMASO HOBBES (1588-1679).

Di nazionalità inglese, studia ad Oxford. Diventa precettore dei conti di Devonshire


e anche del futuro re Carlo II Stuart allorquando era in esilio a Parigi, dove Hobbes
dimora a lungo. Compie frequenti viaggi in Europa dove conosce Cartesio e diventa
amico di Galilei. Muore a Londra.
Opere principali: la trilogia: "De corpore" (Il corpo); "De homine" (L'uomo); "De
cive" (Il cittadino) e soprattutto "Il Leviatano".

Caratteri della filosofia di Hobbes e la sua finalità politica.

Hobbes è l'iniziatore dell'empirismo ed il maggior teorico dello Stato assoluto.


La sua filosofia è nominalistica nella logica, materialistica e meccanicistica
nella fisica (nella filosofia della natura) e nella gnoseologia, utilitaristica nella
morale e nella politica.
Hobbes vive durante un periodo assai tormentato della storia dell'Inghilterra,
sconvolta dalla guerra contro la Spagna, dalla guerra civile, dalla dittatura di
Cromwell. La sua aspirazione è che finalmente ritorni la pace. A tal fine egli
considera lo Stato assoluto, autoritario e dotato di immane potere sui sudditi,
l'unico rimedio contro la guerra e la violenza e l'unica garanzia di pace, anche se
comporta la rinuncia alla libertà e ai diritti individuali.
Il fine prevalente della filosofia di Hobbes è dunque politico. Scopo della
filosofia è di essere utile, capace di trovare le regole in base a cui fondare una
comunità ordinata e pacifica. Una filosofia prevalentemente metafisica, come quella
di Aristotele e della Scolastica medievale, è ritenuta da Hobbes incapace di fornire
indicazioni per fondare una comunità civile. Egli intende invece costruire una
filosofia puramente naturale e razionale, antimetafisica ed antispiritualistica, ed
inoltre tale da escludere qualsiasi valore all'autorità dei libri e degli autori antichi.
La filosofia di Hobbes respinge la pura teoria che si ritrova nella filosofia antica,
specie in Aristotele, nella quale Hobbes scorge solo un amore del sapere ma non
ancora un sapere. Gli autori cui si deve attingere sono piuttosto Cartesio, Bacone,
Galilei. Anzi, Hobbes vuole essere il Galilei della scienza politica. Affinché sia
davvero un utile, bisogna applicare alla filosofia le medesime regole del metodo
scientifico, sviluppando in particolare la filosofia morale e politica per trovare
criteri sicuri di spiegazione delle azioni umane, così da poter distinguere quelle
giuste da quelle ingiuste. La concezione filosofica di Hobbes è di sapore
illuministico per l'esaltazione della "luce della ragione": la filosofia è il frutto di una
ragione prettamente umana e non di riflessioni metafisiche. Ne consegue altresì una
rigorosa separazione tra scienza e religione, tra ragione e fede.
121

La logica. Il nominalismo. Il ragionamento come calcolo.

Come di consueto nella filosofia ellenistica, anche Hobbes, prima di esporre la sua
filosofia, espone le sue concezioni sulla logica in quanto preliminare alla filosofia
poiché studia le regole del corretto modo di pensare.
Dapprima Hobbes intende definire che cos'è il nome dal punto di vista logico. I
nomi (le parole), egli afferma, sono segni convenzionali prodotti dall'uomo allo
scopo di indicare le cose o i concetti delle cose. Diversamente dalla logica
aristotelica ma anche da quella dei filosofi razionalisti, che si propongono di definire
l'essenza o sostanza della realtà e delle cose, per Hobbes definire una cosa vuol
dire soltanto spiegare il significato del vocabolo usato per indicare quella cosa
stessa.
Trattando dei concetti, Hobbes dichiara che essi sono soltanto "nomi di nomi",
cioè solamente nomi collettivi, soltanto nostri modi di pensare che tuttavia non
esistono nella realtà, perché in essa vi sono solo le singole cose concrete e
individuali (non c'è "l'albero" ma solo i singoli alberi concreti). È una evidente
concezione nominalistica. I concetti peraltro sono utili poiché consentono le
generalizzazioni, ossia consentono, con una sola parola di carattere generale (il
concetto), di indicare tutte le cose particolari che appartengono alla medesima
specie o genere indicati dal concetto. In altri termini, il concetto permette
l’economicità del linguaggio (mediante il solo concetto di triangolo sono indicati
tutti i triangoli particolari).
Infine, l'insieme dei segni, cioè di nomi, forma il linguaggio. Ed è il linguaggio, più
che la ragione, che differenzia l'uomo dagli animali perché anch'essi possiedono un
certo grado di ragione e sanno imparare dall'esperienza passata. Però l'uomo,
diversamente dagli animali, può prevedere e progettare a lunga scadenza i suoi
comportamenti nonché i mezzi più idonei per raggiungere i propri fini grazie
proprio al linguaggio, che invece gli animali non possiedono.
Due sono le principali funzioni del linguaggio:
1. permette di comunicare;
2. ma soprattutto permette il ragionamento in virtù di quelle generalizzazioni
che sono i concetti.
Il ragionamento è per Hobbes "un calcolare", ossia un sommare o sottrarre tra
loro più nomi o concetti. Ad esempio: uomo=corpo+animato+razionale; animale=
corpo+animato-(meno) razionale.
È possibile sommare un nome o un concetto ad un altro per induzione (dal
particolare al generale; dall'effetto alla causa) oppure sottrarlo per deduzione (dal
generale al particolare; dalla causa l'effetto).
La forma generale del ragionamento per Hobbes è il sillogismo ipotetico. Ad
esempio: se qualcosa è uomo è anche animale; se qualcosa è animale è anche corpo;
allora se qualcosa è uomo è anche corpo.
Il ragionamento (o sillogismo ipotetico) deduttivo consente una dimostrazione
scientifica, ossia certa, perché è un ragionamento a priori, che parte dalla causa
per spiegarne gli effetti. È però applicabile solo quando la causa o le cause siano
122

note. Le cause sono davvero note solo quando esse sono prodotte direttamente
dall'uomo: noi possiamo veramente conoscere solo ciò che produciamo
direttamente (un simile concetto, come si vedrà, si ritrova anche in Vico), ma
l'uomo produce direttamente soltanto la matematica oppure la propria storia politica
e sociale ed il proprio comportamento morale. Perciò le dimostrazioni scientifiche
certe sono possibile unicamente nelle scienze matematiche, nelle scienze
storiche e politiche e nelle scienze morali.
Le cose naturali invece sono prodotte da Dio e non dagli uomini; perciò gli
uomini non ne conoscono le cause, cioè il modo in cui esse sono generate o
prodotte. Per le cose naturali dunque non è possibile una dimostrazione scientifica
deduttiva a priori, ma soltanto una spiegazione induttiva a posteriori, che parte
cioè dall'effetto per scoprirne la causa, vale a dire che parte dai fenomeni naturali
osservati per cercarne l'origine. Tuttavia la dimostrazione induttiva a posteriori
non è certa ma solo probabile, perché uno stesso effetto può essere prodotto da
cause diverse.
Anche Hobbes quindi, pur differenziandosi in molti punti da Cartesio, conviene con
lui nel ritenere più importante e certo il ragionamento e il metodo deduttivo.

Il materialismo meccanicistico.

Mentre la concezione del mondo di Cartesio è materialistica e meccanicistica per


quanto riguarda la natura fisica (la res extensa) ed invece spiritualistica per quanto
riguarda il pensiero (la res cogitans), la concezione del mondo di Hobbes è invece
totalmente materialistica e meccanicistica, anche per quanto riguarda il
pensiero e i processi conoscitivi, ossia i modi in cui avviene la conoscenza.
Nella realtà del mondo, secondo Hobbes, esistono solo i corpi materiali e i loro
movimenti.
Conoscere una cosa significa individuarne la causa, ma la ragione può conoscere
le cause solamente dei corpi: le conosce a priori se si tratta di enti matematici e di
eventi umani e storici; le conosce a posteriori se si tratta di corpi naturali. Tutto ciò
che è sostanza spirituale, o comunque non è materia corporea, non è oggetto della
filosofia. Di Dio e delle sostanze spirituali potranno occuparsi semmai la religione e
la teologia. La filosofia è scienza dei corpi: per essa esistono solo corpi materiali
(materialismo) e tutto ciò che accade, ossia le trasformazioni dei corpi, che si
generano, si sviluppano e periscono, è effetto del movimento meccanico dei corpi
stessi (meccanicismo). Il corpo, la materia, è l'unica realtà ed il movimento dei
corpi è l'unica causa e principio di spiegazione di tutti i fenomeni naturali.
I corpi si dividono in corpi naturali (gli oggetti fisici, gli animali, le piante, gli
stessi uomini) e in corpi artificiali, costruiti dall'uomo (la società civile, lo Stato).
In corrispondenza vi sono due tipi di filosofie: la filosofia naturale e la filosofia
civile. Quest'ultima si divide a sua volta in etica, che studia le emozioni, i bisogni
e i costumi degli uomini, e in politica, che studia i doveri civili degli uomini e le
forme della convivenza sociale.
123

Senonché, come abbiamo osservato, le conoscenze della filosofia naturale sono


limitate, in quanto essa studia i fenomeni naturali i quali non sono prodotti dagli
uomini bensì da Dio. Più certe sono le dimostrazioni della matematica e della
filosofia civile, perché le cause delle teorie matematiche e degli avvenimenti civili
sono direttamente determinate dagli uomini e sono quindi note.
Poiché per Hobbes i corpi materiali sono l'unica realtà, l'unica sostanza, allora
anche l'anima, la coscienza umana, è corporea e non incorporea o spirituale.
Anche i processi conoscitivi hanno natura materiale e si svolgono in modo
meccanico. La conoscenza per Hobbes deriva esclusivamente dalla sensazione, la
quale non è qualcosa di spirituale ma invece è un movimento materiale e meccanico
prodotto dall'oggetto (dalla cosa che viene percepita) che modifica i sensi del
soggetto (di colui che percepisce), il quale reagisce alla sensazione con un altro
movimento, ossia si costruisce nella mente l'immagine dell'oggetto percepito (la
rappresentazione mentale).
Gli stessi sentimenti sono altresì movimenti corporei e materiali (piacere,
dolore, desiderio, amore, odio, ecc.), perché sono causati anch'essi dal movimento
di corpi esterni (la paura, ad esempio, è causata dal movimento di una cosa
spaventosa che si muove verso di noi e che ci troviamo davanti).
Diversamente da Cartesio, per Hobbes è corpo (e non spirito) anche la stessa anima
pensante (la coscienza, il pensiero), cioè la res cogitans. Giudica infatti sbagliato il
passaggio, compiuto da Cartesio, dall'affermazione "io sono una cosa che pensa" (su
cui pure Hobbes conviene) all'altra affermazione che dice "perciò io sono una
sostanza pensante" e quindi immateriale, spirituale (sul che invece Hobbes non è
d'accordo), in quanto non è affatto necessario che il pensiero sia immateriale. Per
Hobbes infatti anche il pensiero è una funzione materiale, biologica e fisiologica,
del corpo, ed in particolare di quella parte del corpo che è il cervello. Pertanto
l'anima umana è materiale: non c'è res cogitans, cioè il pensiero come sostanza
spirituale, ma c'è solo la res extensa, ossia solo la materia e i corpi materiali.

Il materialismo etico.

Altrettanto materialistica e meccanicistica in Hobbes è la concezione dell'etica


(o della morale).
Per Hobbes le valutazioni morali di ciò che è bene e ciò che è male sono
puramente soggettive: cambiano da persona a persona. Viene chiamato bene ciò
che si desidera e viene chiamato male ciò che si odia, ma ognuno può desiderare od
odiare cose diverse. Allora non c'è una norma in grado di distinguere in modo
assoluto (ossia valido per tutti) il bene dal male. Non esistono il bene e il male in
sé, come entità autonome, ma sono soltanto relativi, come sostenevano altresì i
sofisti. Non esiste insomma un'etica oggettiva che prescinda dalle inclinazioni
soggettive.
Non c'è neppure la libera volontà, il libero arbitrio. Infatti, se tutta la realtà è
costituita da corpi materiali (contrariamente a Spinoza per cui tutta la realtà è
invece costituita dalla medesima ed unica sostanza divina) ed il movimento è
124

l'unico principio di spiegazione dei corpi, anche la nostra volontà allora non è libera
ma determinata e causata dal movimento di un altro corpo su di essa. Ad esempio,
se mi viene voglia di mangiare non è per una mia libera scelta, ma perché il
movimento dello stomaco produce in me lo stimolo della fame. La nostra volontà, i
nostri desideri non nascono liberamente da noi ma sono sempre determinati
meccanicamente dai fatti esterni che ci capitano. Quindi non c'è libera volontà, non
c'è libertà di volere, semmai vi può essere una certa libertà di fare, ossia una
certa libertà di azione, perché quando una causa esterna determina in me una
volontà (la voglia di fare qualcosa) ho la possibilità di decidere se soddisfare o no la
mia volontà (se fare o non fare quella determinata cosa). Non ci accorgiamo
dell’inesistenza della libera volontà solo perché, di solito, si ignora tutta la
concatenazione delle cause esterne che finisce col predeterminare necessariamente
la volontà stessa.

La politica. Lo stato originario di natura dell'uomo.

Se per Hobbes le valutazioni morali su ciò che è bene e male sono soggettive e
relative e non vi sono regole morali e sociali assolute, come è possibile allora
realizzare una società civile, uno Stato pacifico e ordinato in cui ognuno senta il
dovere morale di rispettare gli altri?
Hobbes risponde che le regole morali e sociali non derivano da leggi o principi
morali oggettivi esterni, insiti nella natura umana, bensì da un calcolo di
convenienza puramente artificioso, in base al quale gli uomini sono indotti a
stipulare fra di essi un patto o contratto sociale per salvaguardare il loro
primo bene che è quello della vita e della sua conservazione. Non è la natura
umana (come è fatto l'uomo) ma la ragione umana che convince gli uomini a
mettersi d'accordo per costituire uno Stato che, con le sue leggi, garantisca
un'esistenza pacifica. Quindi non c'è, come diceva Aristotele, una legge naturale,
ossia un istinto naturale degli uomini a stare e a vivere pacificamente insieme.
L'uomo non è, per Hobbes, un animale sociale per sua propria natura, per suo
istinto.
Hobbes, si è già osservato, ha voluto costruire la sua filosofia politica come
scienza analoga alla geometria, fondata anch'essa su pochi principi, pochi
postulati, dai quali dedurre necessariamente l'intero sistema politico, ossia il tipo di
organizzazione politica. Abbiamo visto che per Hobbes la volontà umana non è
libera ma predeterminata dal movimento dei corpi che agiscono su di essa (dai
fatti esterni che ci accadono). Altrettanto predeterminata è perciò la volontà
politica, per cui si possono allora scoprire i principi generali (i postulati) che
stanno alla base dell'agire politico, dai quali dedurre con certezza tutta la scienza
politica.
Due sono per Hobbes i principi e le condizioni che predeterminano la volontà
politica:
1. la bramosia (la prepotenza) naturale, per la quale ogni uomo pretende tutto
per sé a discapito degli altri;
125

2. la ragione umana (l'istinto di conservazione), per la quale ognuno teme la


morte violenta come il peggiore dei mali naturali.
Per Hobbes l'originario stato di natura dell'uomo, ossia la condizione
caratterizzante l'uomo primitivo, è appunto la bramosia, l'egoismo, cioè la pretesa
di aver diritto a tutto; da ciò deriva la sopraffazione, la prepotenza e quindi una
continua lotta per prevalere, una continua guerra di tutti contro tutti (bellum
omnium contra omnes). L'uomo non è naturalmente buono ma aggressivo come
un lupo, si comporta come un lupo nei confronti degli altri uomini (homo homini
lupus). Non c'è una giustizia naturale, un amore spontaneo dell'uomo verso gli altri
uomini. Questo potrà semmai venire in seguito, col progredire della civiltà e
dell'educazione sociale.
Insomma, lo stato originario di natura dell'uomo è quello della legge del più forte,
ma anche il più forte troverà, prima o poi, un altro più forti di lui. In questa
situazione è costantemente messa a rischio la vita, la sopravvivenza. Diventa
altresì sempre più impraticabile e difficile la vita lavorativa per procurarsi ciò di cui
si ha bisogno, perché i frutti del lavoro possono essere derubati a causa della
prepotenza altrui.
Da questo stato di cose si può uscire solo facendo ricorso all'istinto di
conservazione e alla ragione, unico strumento capace di calcolare i vantaggi e gli
svantaggi che derivano dalla condizione di guerra permanente dello stato originario
di natura e di indicare quindi la scelta più conveniente. La ragione calcola e fa
comprendere che è più conveniente limitare l'egoismo individuale naturale,
rinunciare alla pretesa di aver diritto a tutto, per conservare la vita e non essere
soppresso dal più forte, scegliendo tutti di osservare alcune precise regole
(Hobbes ne indica 19), di cui tre sono le più importanti:
1. occorre sempre cercare la pace e, quando non è possibile, difendersi con tutti
i mezzi perché la difesa della vita, questo sì, è un diritto naturale, tale cioè
che non deriva dalla ragione umana ma fa parte della condizione naturale
dell'uomo, mentre alla ragione spetta di trovare i mezzi per garantirlo;
2. l'uomo deve spontaneamente rinunciare alla pretesa di aver diritto a
qualunque cosa ed accontentarsi di aver tanta libertà quanta egli stesso ne
riconosce agli altri; questa, dice Hobbes, è la "legge del Vangelo" applicata
alla politica, alla società civile: non fare agli altri quello che non vorresti
fosse fatto a te;
3. bisogna stare ai patti, rispettarli: questa è la condizione necessaria per la
convivenza pacifica, per entrare nella società civile e nello Stato; da questa
regola nasce il diritto, la legge, la giustizia civile.
Sulla base di queste regole fondamentali gli uomini stipulano fra di loro quel
contratto o patto sociale da cui sorge lo Stato. Lo Stato quindi non ha
un'origine divina o naturale, come si credeva o si voleva far credere, bensì
un'origine artificiale; è un prodotto degli uomini. Se è un prodotto umano e
dunque sono note le cause, i motivi, per cui lo Stato è realizzato, allora, applicando
il metodo deduttivo a priori, è possibile passare dalle cause generali circa l'origine
dello Stato (le tre regole di cui sopra) alla spiegazione certa degli effetti particolari
126

che ne derivano, alla spiegazione cioè della struttura e delle caratteristiche


particolari dello Stato. Ecco perché in tal senso, nella concezione di Hobbes, la
politica è una scienza.

Lo Stato assoluto: il Leviatano.

Però non può costituirsi uno Stato e perdurare solo in virtù di un patto sociale se
non viene creato anche un "potere" che costringa ogni uomo a rispettare le
regole del patto stesso. Con il patto sociale gli uomini di una comunità
rinunciano ai loro diritti (alla loro pretesa su tutto), tranne il diritto della difesa
della vita, e li cedono ad un sovrano: un re o una Assemblea come il Parlamento.
In tal modo, osserva Hobbes, il patto sociale è stipulato fra i sudditi tra loro e
non tra i sudditi ed il sovrano, il quale dunque è al di sopra delle regole del
patto sociale, è al di sopra delle leggi dello Stato. Il sovrano è l'unico a mantenere
gli originari diritti dello stato di natura, il diritto su tutto, eccetto il diritto sulla
vita altrui. Pertanto lo Stato sorto dal contratto sociale riunisce su di sé un
potere enorme. Solo nel caso in cui lo Stato non difenda e non rispetti la vita dei
sudditi essi hanno, allora, il diritto di ribellarsi.
Hobbes è quindi il massimo teorico dello Stato assoluto, da lui definito "per
metà uomo e per metà Dio mortale", per il suo mostruoso potere e perché è subito
al di sotto del Dio immortale e quasi altrettanto potente. Lo Stato assoluto, così
mostruosamente potente, è paragonato da Hobbes al Leviatano, cioè al mostro
invincibile di cui narra la Bibbia.
Lo Stato assoluto possiede un potere veramente smisurato poiché:
1. il patto sociale è irreversibile (non si può tornare indietro) ed unilaterale,
perché è stipulato tra i sudditi e non tra i sudditi e il sovrano, che è quindi al
di sopra del patto medesimo, al di sopra della legge;
2. il potere del sovrano è indivisibile (non ammette la separazione fra potere
legislativo, esecutivo e giudiziario: tutti i poteri rimangono nelle mani del
sovrano) perché, altrimenti, lo Stato verrebbe indebolito e i sudditi avrebbero
una minor difesa della vita;
3. il bene e il male, il giusto e l'ingiusto sono stabiliti dalla legge emanata
dal sovrano: con ciò Hobbes riconferma che per lui non esiste una morale
naturale, non c'è il bene e il male in sé, ma bene o male è solo ciò che è
stabilito dalla legge dello Stato;
4. la sovranità dello Stato deve pretendere l'obbedienza assoluta dei propri
sudditi, anche per gli ordini ritenuti ingiusti, tranne il caso in cui ne sia messa
in pericolo la vita; la stessa Chiesa è sottomessa allo Stato, che ha il diritto
di intervenire anche in materia religiosa: la religione diventa religione di
Stato e la Chiesa è al servizio dello Stato.

Bisognerà attendere l'avvento delle monarchie costituzionali e la filosofia di Locke,


che sarà il teorico dello Stato costituzionale, perché lo Stato assoluto venga
127

superato e nascano forme più democratiche di governo. Ma il periodo in cui visse


Hobbes era così pieno di guerre e di lotte che per lui l'unico rimedio in grado di
consentire la pace e la difesa della vita poteva essere solo uno Stato potentissimo ed
autoritario, ossia, appunto, lo Stato assoluto.
128

JOHN LOCKE (1632 – 1704).

Anch'egli di nazionalità inglese, come Hobbes, studia pure lui ad Oxford e ne diviene
in seguito docente. Si occupa di politica attiva e diventa segretario del Cancelliere
d'Inghilterra. Vive per un certo periodo in Francia e per qualche anno si ritira in
volontario esilio in Olanda, dopodiché ritorna a Londra, diventando il maggior
filosofo inglese del suo tempo. Muore ad Essex, vicino a Londra.
Opere principali: "Saggio sull'intelletto umano"; i "Due trattati sul governo";
l’"Epistola sulla tolleranza".
È considerato il maggior esponente della filosofia empirista ed il maggior teorico
dello Stato costituzionale.

La conoscenza umana (gnoseologia). Rapporti tra ragione ed esperienza.

Il problema della conoscenza è trattato principalmente nell'opera "Saggio


sull'intelletto umano".
Per Locke, che in questo si ispira ad Hobbes, la ragione umana non possiede
nessuno di quei caratteri (res cogitans intesa come sostanza universale, unica e
infallibile) che Cartesio le aveva attribuito:
1. non è unica o uguale in tutti gli uomini, perché alcuni ne possiedono in grado
maggiore ed altri in grado minore;
2. non è infallibile, perché spesso le singole idee o sono in numero troppo
limitato o sono oscure;
3. soprattutto, la ragione non può ricavare da se stessa idee e principi, non ci sono
idee innate, ma le ricava dall'esperienza, la quale è sempre limitata e non
universale (non si può fare esperienza di tutte le cose).
Ciò nonostante, anche se debole e imperfetta, la ragione è l'unica guida efficace di cui
l'uomo dispone. Perciò è importante conoscere quanto valgono la ragione e la
conoscenza umana ma bisogna essere consapevoli altresì dei loro limiti, per non
prendere abbagli e per non trattare problemi che sono al di là delle capacità della
ragione, come ad esempio i problemi della metafisica (atteggiamento
antimetafisico).
I limiti della ragione e della conoscenza dipendono sostanzialmente dal fatto che essa
può cominciare solo partendo dall'esperienza, ma l'esperienza, si è visto, è sempre
limitata ed inoltre il ragionamento induttivo, l'unico che la ragione può svolgere
partendo dai dati sensibili, non conduce sempre a conclusioni certe. In tal senso,
Locke è il primo filosofo della filosofia moderna che compie un'effettiva indagine
"critica" sulla ragione per stabilirne le possibilità ma riconoscerne anche i limiti. La
ragione umana (l'intelletto), dice Locke, è finita e limitata, ma dobbiamo
accontentarci: le sue capacità possono essere sufficienti per gli scopi umani.
Anzi, prosegue Locke, per non fare discorsi sbagliati e fantasiosi è assolutamente
importante analizzare ed esaminare le nostre effettive capacità di conoscere ancor
129

prima di affrontare i problemi che magari ci stanno più a cuore, come la morale, la
politica e la religione.

Le idee e la mente.

Anche per Locke, come per Cartesio e per la filosofia moderna in genere, noi non
conosciamo direttamente le cose, gli oggetti, ma le idee delle cose, le loro
rappresentazioni mentali, ossia come le cose appaiono ai nostri sensi, vale a dire che
conosciamo solo i fenomeni.
Le idee, precisa Locke, derivano esclusivamente dall'esperienza (empirismo); non
sono create dall'intelletto umano, il quale anzi, nel ricevere le idee dall'esperienza,
è passivo. L'empirismo di Locke non va confuso con la dottrina aristotelica secondo
cui, anche per Aristotele, tutte le conoscenze derivano dall'esperienza, perché Locke
concepisce l'esperienza solo come conoscenza di qualità particolari, come si vedrà
subito di seguito, e non di sostanze o forme od essenze come per Aristotele.
Poiché per l'uomo la realtà o è esterna (le cose naturali) o è interna (la sua coscienza),
allora vi è già una prima distinzione tra:
1. le idee di sensazione, che derivano dalle nostre esperienze, dalle sensazioni, e
che riguardano gli oggetti esterni, le cose naturali (ad esempio il giallo, il
caldo, il duro, l'amaro);
2. le idee di riflessione, quando attraverso la riflessione avvertiamo i nostri stati
d'animo, i nostri pensieri e sentimenti (ad esempio il dubbio, il ragionamento,
la gioia, la tristezza, ecc.).
Derivando tutte le idee della mente (dell'intelletto) dall'esperienza esterna o interna,
non esistono allora idee innate. Se ci fossero dovrebbero esistere in tutti gli uomini,
quindi anche nei bambini, negli idioti e nei selvaggi. Ma possiamo invece constatare
che costoro non pensano e non possiedono idee innate: si può quindi concludere che
non esistono per nessuno. Inoltre le idee esistono solo se sono pensate, mentre le idee
innate dovrebbero sussistere anche indipendentemente dal loro essere pensate, il che
non è concepibile. Privo di idee innate, l'intelletto è allora simile ad un foglio
bianco (tabula rasa) e tutto il suo materiale è ricevuto dall'esperienza.
Le idee che l'intelletto riceve dall'esperienza sono chiamate da Locke idee semplici,
tali cioè che non sono ulteriormente scomponibili e divisibili in parti più piccole.
Sono le idee di sensazione e di riflessione che già abbiamo visto.
D'altra parte, poiché le idee derivano dall'esperienza, ciò significa allora che al di
fuori della nostra mente c'è una realtà esterna (le cose, gli oggetti) che ha il
potere di produrre in noi queste idee. Tale potere delle cose esterne di produrre
idee nella nostra mente è chiamato "qualità".
Come anticipato da Democrito e ripreso da Galilei e Cartesio, Locke distingue tra:
1. qualità primarie, che sono oggettive, sono proprie delle cose esterne, dei
corpi, e vengono percepite in modo uguale da tutti (sono, ad esempio, le idee
semplici di solidità, estensione, figura, movimento, quiete, numero);
2. qualità secondarie, che sono soggettive, non appartengono alle cose esterne
pur derivando da esse, e possono essere percepite in maniera diversa da
130

individuo a individuo (sono, ad esempio, le idee semplici di colori, suoni,


sapori, odori: ciò che percepisco come dolce può essere amaro per un altro).
Nel ricevere le idee semplici l'intelletto è passivo; una volta ricevute, però,
l'intelletto diventa attivo perché riunisce, elabora ed organizza in vario modo le idee
semplici ricevute dall'esperienza, producendo così le idee complesse e le idee
generali.
Le idee complesse sono costruzioni del nostro intelletto e consistono nella
combinazione, nell'unione di più idee semplici, che l'intelletto mette insieme. Le idee
complesse non hanno quindi oggetti corrispondenti nella realtà esterna all'intelletto.
In essa esistono solo cose individuali che producono idee semplici. Le idee complesse
sono in numero infinito perché infinite sono le combinazioni di idee semplici che
l'intelletto può operare. Esse tuttavia possono essere classificate e distinte secondo tre
categorie fondamentali:
1. le idee complesse di modo: sono quelle che non hanno fondamento in se
stesse ma derivano da altre (ad esempio l'idea di gratitudine, che deriva
dall'idea di un benefattore, oppure l'idea di delitto, che deriva dall'idea di chi
lo ha commesso);
2. le idee complesse di sostanza, o sostrato: sono quelle che vengono
considerate sussistenti in se stesse, non derivanti cioè da altre idee (ad esempio
l'idea di uomo, di ferro, di pecora, eccetera);
3. le idee complesse di relazione: sono quelle che l'intelletto forma
confrontando un'idea semplice con un'altra (ad esempio l'idea di identità, di
diversità, di causa-effetto).
Le idee complesse di modo e di relazione, quando si riferiscono a cose fuori di noi,
esterne, non sono mai chiare e distinte, ma hanno bisogno di essere verificate
attraverso l'esperienza. Perciò le scienze fisiche e della natura hanno valore solo
sperimentale e non assoluto. Solo le idee di relazione a noi perfettamente note, come
le relazioni matematiche o quelle stabilite dalle leggi morali, rivelate da Dio o poste
dagli uomini, possono essere conosciuto con chiarezza. Pertanto solo la matematica e
la morale, per Locke, sono scienze dotate di necessità assoluta.
Oltre all'idee complesse, che sono combinazioni di idee semplici, l'intelletto produce
anche idee generali o astratte, che vengono ricavate per astrazione, astraendo
alcune idee da altre e formando così i concetti. Ad esempio astraggo (estraggo) dalle
percezioni o idee dei vari uomini particolari tutte le caratteristiche in comune (due
gambe, due braccia, parla, sente, si muove, ecc.), formando in tal modo il concetto di
uomo. Le idee generali o concetti sono generalizzazioni che non esistono nella
realtà, non appartengono alle cose: il concetto è solo un nome astratto costruito
dall'intelletto (nominalismo). I concetti svolgono però un utile funzione di
economicità del linguaggio: con una sola parola indico tutti i casi particolari ad essa
relativi; ad esempio con la parola-concetto "l'uomo" indico tutti i singoli uomini
particolari e concreti.
131

La critica all'idea complessa di sostanza o sostrato.

Quando vediamo un oggetto (ad esempio un cavallo o un bicchiere) non vediamo


la sua sostanza ma vediamo solo le sue qualità primarie e secondarie, che sono
idee semplici; vediamo cioè la sua forma, la sua figura, la sua grandezza, se è solido
o liquido, il suo colore, il suo sapore, ecc. Ma allora, si domanda Locke, come
nasce l'idea di sostanza? Da dove deriva? Deriva dall'abitudine, risponde Locke,
dalla ripetizione di percezioni costanti. Quando osserviamo che un certo numero di
idee semplici, o qualità, sono costantemente unite tra di loro, la mente, abituandosi a
vederle sempre insieme, comincia a ritenere che quelle idee o qualità appartengano
ad una cosa unica, ad un'unica idea semplice, che cioè derivino e si appoggino tutte
su di un'unica base che chiamiamo sostrato o sostanza. Ossia, per quanto riguarda
l'esempio del cavallo o del bicchiere, la nostra mente si abitua a vedere in essi
sempre riunite insieme, più o meno, le medesime qualità primarie e secondarie. La
mente è allora indotta a pensare che tali qualità non sussistono di per sé, da sole, ma
che tutte si appoggino ad una base, ad una sostanza o sostrato che invisibilmente sta
al di sotto di esse.
Se vede sempre unite fra loro qualità o idee semplici di sensazione, la nostra mente
suppone che al di sotto di esse vi sia una sostanza corporea; se vede invece sempre
unite fra loro qualità o idee semplici di riflessione, la nostra mente suppone che al di
sotto di esse vi sia una sostanza spirituale.
Locke non nega che, al limite, possa sussistere una sostanza al di sotto delle
qualità primarie e secondarie delle cose che noi percepiamo, ma nega che noi
possiamo conoscerla, poiché l'idea di sostanza non è un'idea semplice ma
complessa, erroneamente costruita dal nostro intelletto e perciò inesistente,
comunque inconoscibile e quantomeno assai dubbia come realtà in sè.
Criticando l'idea di sostanza, Locke mette in dubbio uno dei fondamenti della
metafisica sia tradizionale (ad esempio quella di Aristotele) sia moderna (ad
esempio quella di Cartesio), metafisica che proprio sulla conoscibilità della sostanza
basa molte delle sue teorie.

La conoscenza e le sue forme.

L'esperienza è il punto di partenza della conoscenza, fornisce il materiale della


conoscenza, ma non è ancora la conoscenza. La conoscenza riguarda sempre le
idee ma essa consiste, precisamente, nel percepire l'accordo o il disaccordo tra le
idee ricevute dall'esperienza, se cioè le idee ricevute sono fra di esse in accordo o
in contrasto. Tipi di accordo-disaccordo tra le idee sono: l’identità e la diversità, la
relazione, la connessione (collegamento) necessaria o contingente, l'esistenza reale o
l’immaginazione, ecc.
L'accordo o disaccordo tra le idee può essere percepito in due modi diversi, per cui vi
sono due specie di conoscenza:
132

1) la conoscenza intuitiva, quando l'accordo o disaccordo fra due o più idee è


percepito immediatamente, in un colpo solo, senza che l'intelletto senta l'esigenza di
prove e di dimostrazione (ad esempio il bianco non è nero; tre è più di due, eccetera);
2) la conoscenza dimostrativa, quando l'accordo o disaccordo tra due o più idee
non viene percepito immediatamente ma gradualmente attraverso il ragionamento,
scomponendo le idee nelle loro parti e individuando le idee intermedie (chiamate
prove) che collegano le varie parti. Ad esempio, l'idea di "uomo" e l'idea di
"mortale" sono in accordo o no? Scompongo l'idea di uomo e vedo che è un essere
naturale animato; scompongo l'idea di mortale e vedo che tutti gli esseri naturali
animati muoiono; perciò concludo che l'idea di uomo e l'idea di mortale sono in
accordo. La conoscenza dimostrativa può comportare una serie di ragionamenti e di
scomposizioni molto lunghe, per cui è possibile sbagliare; perciò la conoscenza
dimostrativa è meno sicura di quella intuitiva.
Nel campo della teoria della conoscenza (la gnoseologia) vi è però anche un altro
tipo di problema, ossia quello della possibile conoscenza effettiva delle cose
esistenti al di fuori di noi, fuori dalla nostra mente, poiché, come già visto più volte,
la nostra mente non conosce direttamente le cose ma i fenomeni, cioè le immagini
delle cose, come le cose appaiono a noi, ai nostri sensi. Infatti la conoscenza è vera
solo se le nostre idee delle cose corrispondono per davvero alle cose reali in se
stesse.
Cartesio aveva risolto questo problema con la prova dell'esistenza di Dio:
dimostrando che Dio esiste e che è buono, e quindi non può ingannarci, egli allora ci
garantisce che le nostre sensazioni, le nostre idee e le nostre facoltà di conoscere, che
Dio stesso ci ha donato, corrispondono davvero alle cose esterne. Ma Locke, essendo
un filosofo empirista, risolve il problema in un altro modo.
Nel risolvere questo problema, Locke osserva che ci sono tre tipi di realtà e che
ci sono tre modi diversi per giungere alla conoscenza di queste tre realtà:
1. c'è la realtà dell’"io", ossia della nostra coscienza, del quale abbiamo una
conoscenza intuitiva, a cui si giunge in maniera simile a quanto detto da
Cartesio: io penso, quindi sono, ossia intuisco l'esistenza del mio "io" come
fatto indubitabile ( tuttavia per Locke si ha coscienza intuitiva dell'io non già
perché sia una sostanza, dato che le sostanze non esistono, ma perché permane
nell'io, nella coscienza, la memoria individuale delle esperienze, dei pensieri e
dei sentimento provati);
2. c'è la realtà di Dio, di cui abbiamo una conoscenza dimostrativa, a cui si
giunge con un ragionamento simile a quello di Aristotele per dimostrare
l'esistenza di Dio; in particolare, tra le prove di Aristotele dell'esistenza di Dio
Locke predilige la prova causale: poiché nulla nasce dal nulla, vuol dire che le
cose esistenti nel mondo sono state prodotte da un'altra cosa, e questa da
un'altra ancora e così via; ma poiché non si può risalire all'infinito nella ricerca
della causa delle cose, si deve allora ammettere che esiste un essere eterno e
onnipotente che ha prodotto e creato ogni cosa: questo essere è Dio;
3. c'è la realtà delle cose esterne, di cui abbiamo una conoscenza per
sensazione. È vero, dice Locke, che noi non conosciamo direttamente le
133

cose esterne ma solo le loro idee, le loro immagini fenomeniche, però se


riceviamo queste idee dall'esterno vuol dire che al di fuori della nostra
mente ci deve essere qualcosa, una realtà, che ci trasmette tali idee.
Dunque le cose esterne esistono, tant'è vero che il nostro intelletto riceve le
idee delle cose esterne senza poterlo evitare, anche se non lo volesse; perciò
non possono essere create dall'intelletto stesso. Nel momento in cui noi
riceviamo una sensazione siamo quindi certi che fuori di noi esiste una cosa
che la produce in noi stessi; questa certezza è sufficiente, secondo Locke, a
garantire la realtà delle cose esterne: come dirà Kant, le cose esterne, le cose in
sé, debbono esistere in quanto causa dei fenomeni, che altrimenti non
potrebbero essere spiegabili. Da empirista coerente, Locke ha fiducia nelle
nostre facoltà sensitive: non ritiene possibile che i sensi ci ingannino al punto
di smentire questa nostra convinzione.
Senonché, precisa Locke, la sensazione circa l'esistenza di cose esterne quali
causa delle nostre idee è certa solo quando questa sensazione è attuale, ossia solo
finché dura la relativa percezione, fin tanto che la sensazione viene ricevuta (fin
tanto che si vede, ad esempio, questo tavolo qui e adesso). Ma quando una
sensazione non è più attuale perché non viene più ricevuta (quando ad esempio
uscendo dalla stanza non vedo più il tavolo che vedevo prima) o perché riguarda
una previsione futura (ad esempio la previsione che il tavolo continuerà ad esserci
anche se in questo momento sono lontano e non lo vedo più), allora la nostra
conoscenza per sensazione, cioè la nostra conoscenza sensibile non è certa ma solo
probabile; è però comunque bastevole per gli scopi pratici della vita. È
ragionevole pensare che le cose e gli uomini continuino ad esistere anche quando
non se ne ha percezione attuale.
Locke giunge quindi a questa singolare conclusione: dell'esistenza delle cose
sensibili esterne non attuali siamo meno certi dell'esistenza di Dio, del quale
abbiamo una conoscenza per dimostrazione.
Di conseguenza, con riferimento al grado di certezza, Locke distingue tra:
1. conoscenza certa, che è quella dell'intuizione dell’"io", nonché quella della
dimostrazione dell'esistenza di Dio e dell'esistenza delle cose esterne di cui si
ha una sensazione attuale;
2. conoscenza probabile, che è quella dell'esistenza delle cose esterne di cui si
ha una sensazione non attuale, ma passata o che si suppone si potrà avere in
futuro.
In ogni caso, sia la conoscenza certa sia quella probabile si basano entrambe sulla
ragione. Dalla ragione va tenuta distinta la fede, in quanto basata non già sulla
ragione ma sulla rivelazione divina. Tuttavia, seppur non dimostrabili, può essere
riconosciuto valore anche alla fede e alla religione purché non siano
irragionevoli, cioè non risultino assurde e contrarie alla ragione.
134

L'etica e la politica.

Dopo le indagini sull'intelletto, Locke si dedica ai problemi che più gli stanno a
cuore, cioè quelli etici e politici, esposti nell'opera "Due trattati sul governo".
L'etica di Locke ha un carattere utilitaristico. Non si ispira cioè all'idea del bene
in sé, del bene in assoluto, poiché è un'idea astratta e quindi non conoscibile nella
sua essenza, ma si ispira al criterio, al concetto, di utilità: la morale consiste in
comportamenti che siano utili a noi e alla società. Ed è la ragione che stabilisce e
giudica quali sono i comportamenti e le azioni utili. La morale si basa pertanto
sulla ragione e non deriva dalla religione, da cui è giudicata autonoma.
Nel contesto della morale la libertà non è più concepito da Locke come "libero
arbitrio", poiché trattasi di un concetto che implica considerazioni metafisiche sul
bene e sul male in se stessi, estranee al suo empirismo. Di conseguenza, la libertà
non sta nel "volere", ma nel poter agire o astenersi dall'azione o anche nel
tenerla in sospeso. Il bene e il male in assoluto sono inconoscibili; per la morale di
Locke il bene è piuttosto ciò che procura piacere ed il male è ciò che procura
dolore.
In politica Locke respinge, in primo luogo, la teoria medievale dell'origine
divina della sovranità, concessa da Dio ad Adamo e da questi ai patriarchi e ai re.
La sovranità invece è di origine umana e deriva dal popolo.
In merito all'origine dello Stato, rifiuta la concezione di Hobbes, secondo cui la
condizione originaria (primitiva) di natura degli uomini è quella dell'egoismo, della
prepotenza e della guerra di tutti contro tutti. Nello stato originario di natura, per
Locke, gli uomini si sentono invece tutti uguali, riconoscendo che ciascuno
possiede irrinunciabili diritti naturali, derivanti dalla stessa natura umana ed
impressi in essa da Dio, diritti che ognuno ha il diritto di godere e che sono quelli
alla vita, alla libertà, alla proprietà dei frutti del proprio lavoro nonché il diritto alla
difesa di tutti questi diritti.
Tuttavia, poiché vi può essere sempre qualche prepotente che non rispetta tali
diritti naturali, gli uomini allora si mettono d'accordo e stipulano un patto sociale
per creare uno Stato, ma non per cedere ad esso, rinunciandovi, ogni diritto fatta
solo eccezione per il diritto alla vita, ma invece per affidare allo Stato la difesa di
tutti i loro diritti naturali, che individualmente ognuno seguita a conservare.
Formando uno Stato, gli uomini rinunciano solo al diritto di farsi giustizia da sé,
ma soltanto per difendere e garantire meglio tutti gli altri diritti.
In questo senso, diversamente da Hobbes, il patto o contratto sociale da cui nasce lo
Stato non è fra i sudditi tra loro bensì tra i cittadini e il sovrano (il re o
un'assemblea quale il Parlamento), che allora non è più al di sopra della legge e
delle regole del patto ma è tenuto anch'egli a rispettarle. Il sovrano rimane
sottoposto al giudizio dei cittadini, i quali hanno il diritto di ribellarsi se il sovrano
non rispetta i loro diritti naturali.
Lo Stato di Locke dunque non è più uno Stato assoluto: egli è invece il teorico
dello Stato costituzionale e del liberalismo politico. I limiti del potere dello
Stato sono stabiliti dalla costituzione e dal principio della divisione dei poteri
135

tra potere legislativo (Parlamento), potere esecutivo (re e governo) e potere


federativo o giudiziario (federativo dal latino "foedera", che significa far rispettare i
patti), potere affidato al re o ai magistrati quali suoi rappresentanti).

Tolleranza e religione.

L'opera di Locke "Epistola sulla tolleranza" è uno degli scritti più celebri sulla
libertà di coscienza religiosa, valido ancora oggi.
Locke giunge al concetto di tolleranza religiosa confrontando tra di essi lo Stato
e la Chiesa. Lo Stato, afferma Locke, è stato costituito dagli uomini per garantire
i beni civili, ossia i diritti naturali di ogni uomo, che diventano beni civili quando
la loro difesa è affidata allo Stato. È questo il compito dello Stato e non altro; la
salvezza dell'anima è chiaramente al di fuori di tale compito. Infatti, l'unico
strumento che lo Stato possiede per difendere i diritti civili-naturali dei
cittadini è la costrizione, in base alla forza della legge e della condanna penale nei
confronti di coloro che non rispettano le norme stabilite. Ma la costrizione,
l'imposizione con la forza, non può condurre alla salvezza dell'anima perché
nessuno può essere salvato per forza se non lo vuole e non ne è persuaso. La
salvezza dell'anima dipende dalla fede e la fede non può essere imposta: nessuna
costrizione, nessuna minaccia, sarà mai in grado di imporre la fede a qualcuno se
non ce l’ha e non è personalmente convinto. La Chiesa o anche i cittadini non
possono chiedere l'intervento e la forza della legge per costringere a credere in una
religione. La Chiesa, dice Locke, è una libera associazione (comunità) di uomini che
si riuniscono spontaneamente per venerare Dio e ottenere la salvezza dell'anima.
Come associazione libera e volontaria, la Chiesa non può usare la forza della legge e
delle pene perché esse sono riservate allo Stato. Del resto, anche se la Chiesa usasse
la forza per costringere a credere, gli esiti sarebbero inutili e dannosi perché nessuno
può essere convinto ad aver fede per forza. Certo, la Chiesa ha il diritto di
scomunicare coloro che non osservano più i suoi precetti. Ma in ogni caso gli stessi
scomunicati non possono perdere i loro diritti civili e la loro cittadinanza.
Svolgendo compiti diversi, che però non entrano in contrasto fra di essi, Stato e
Chiesa sono autonomi: lo Stato non deve intervenire nelle questioni religiose e di
fede e la Chiesa non deve intervenire nelle questioni politiche e civili. E ciò vale
per qualsiasi Chiesa e per qualsiasi religione. Perciò deve esserci tolleranza per
qualunque religione. La religione però non deve essere dogmatica e fanatica;
essa si basa sulla rivelazione divina e non sulla ragione (Dio non può essere
dimostrato), ma non deve essere irragionevole, ossia assurda e in contrasto con la
ragione. In tal senso, Locke ritiene il cristianesimo protestante la più ragionevole tra
le varie religioni, mentre critica invece il cattolicesimo e il papato perché, a causa
del potere temporale della Chiesa cattolica, essa non si occupa solamente della cura
delle anime, in contrasto col principio dell’autonomia tra religione e politica.
In due casi Locke nega il principio della tolleranza religiosa, ritenendo anzi
necessaria l'intolleranza:
136

1. nei confronti dei cattolici, perché sono sudditi di un altro sovrano, cioè il
Papa, e pertanto sono potenziali traditori dello Stato;
2. anche nei confronti degli atei poiché, non riconoscendo Dio, non riconoscono
neppure la legge naturale da Dio istituita e perciò non possono pretendere
nessun diritto in base ad essa.

Conclusioni.

Locke è uno spirito sostanzialmente moderato e di buon senso. È empirista in


quanto afferma che tutto il materiale della nostra conoscenza è fornito dalla
percezione sensibile e dalla riflessione, ma non è un empirista estremo. In un certo
senso è anche un razionalista, in quanto non pensa che noi conosciamo soltanto
attraverso i sensi, ammettendo invece la conoscenza intuitiva dell’"io" e quella
dimostrativa di Dio. È convinto del prevalere del giudizio razionale rispetto ad ogni
opinione, emozione o sentimento. Contrasta il principio di autorità sia nel campo
intellettuale sia in quello politico. È tra i maggiori esponenti del principio di
tolleranza ma è contrario all'anarchia. È stato anche di indole religiosa, ma lontano
dal fanatismo o dallo zelo eccessivo.
137

GEORGE BERKELEY (1685-1753).

Irlandese di nazionalità, è stato prete e vescovo anglicano nella cattolica Irlanda.


Opera principale: Trattato sui principi della conoscenza umana.

La critica al meccanicismo, al materialismo e all'ateismo.

L'intento di Berkeley è di demolire il meccanicismo, il materialismo ed il


derivante ateismo dei nuovi filosofi del suo tempo. Ma la novità è che a tal fine
Berkeley non si serve della teologia bensì dei medesimi ragionamenti filosofici
usati dai filosofi che vuole combattere. Parte infatti dalla filosofia empirica di
Locke, per il quale la base prima della conoscenza consiste nelle sensazioni
empiriche.
I materialisti e gli atei, afferma Berkeley, sono pericolosi perché credono
nell'esistenza della materia intesa come estensione, ossia come materia inerte e
sostanza generale, o sostrato invisibile nei corpi fisici visibili, infinita, immutabile
ed eterna, sussistente al di fuori della mente. Ciò significa, allora, pensare come
esistente un'ulteriore sostanza eterna accanto e contrapposta a Dio, regolata solo
da leggi meccaniche (meccanicismo), tali da escludere quindi ogni necessità di
intervento divino nei fenomeni naturali del mondo ed escludendo pertanto anche la
presenza di qualsiasi finalismo, libertà e provvidenza nel mondo.
Al materialismo bisogna invece contrapporre l'immaterialismo, cioè lo
spiritualismo, secondo cui tutto è spirito e niente esiste al di fuori della mente, che è
sostanza spirituale.

Le idee.

Come Cartesio e Locke, anche Berkeley ritiene che tutta la nostra conoscenza
abbia come oggetto le idee, ossia i fenomeni, le immagini, le rappresentazioni
mentali delle cose e non le cose stesse. E le idee provengono dai sensi, dal nostro
modo di percepire, e non dalle cose. Esse sono cioè sensazioni e percezioni che
stanno solo nella nostra mente e non al di fuori. Dire che conosciamo solo le idee
delle cose significa dire dunque che noi non conosciamo direttamente le cose in se
stesse, ma la loro immagine, ossia i fenomeni e le qualità delle cose quali ci appaiono
(fenomeno=ciò che ci appare), ma non sappiamo se le cose sono davvero come ci
appaiono.
Locke, come abbiamo visto, distingue le qualità primarie delle cose, considerate
come appartenenti alle cose stesse, cioè oggettive, per cui ammette l'esistenza delle
cose al di fuori della nostra mente, dalle qualità secondarie delle cose, considerate
dipendenti dalle nostre sensazioni e quindi del tutto soggettive, non esistenti nelle
cose e variabili da individuo a individuo. Berkeley va oltre e dichiara che non c'è
alcuna distinzione e differenza tra qualità primarie e secondarie, perché le prime
non possono esistere senza le seconde. Infatti, non ci sono grandezze, posizioni,
movimento, consistenza delle cose (qualità primarie) che non siano anche colorate,
138

saporite o meno, che emettano o no certi suoni, ecc. (qualità secondarie). Anche le
qualità primarie sono per Berkeley solo sensazioni e percezioni che stanno soltanto
nella nostra mente e non dimostrano affatto l'esistenza di sostanze al di fuori di essa.
L'esistenza di oggetti esterni alla mente è una nostra illusione e deriva dalla
nostra abitudine, nel senso che quando percepiamo idee, ossia qualità delle cose
costantemente combinate, unite, tra di esse, siamo portati ad attribuirle e riferirle ad
una sostanza materiale esterna o sostrato, peraltro invisibile, che regge tutte queste
qualità, sulle quali cioè queste qualità si appoggiano. Ad esempio di una mela noi
vediamo solo le sue qualità, cioè la grandezza, la posizione, se è solida o no, il colore,
il sapore, ma non vediamo alcuna sostanza materiale sottostante alle qualità che
percepiamo.

La realtà è solo quella che è percepita: "esse est percipi".

Berkeley giunge così al punto centrale della sua filosofia, secondo cui non c'è nulla
che dimostri l'esistenza di corpi materiali, ossia delle cose, al di fuori della nostra
mente, al di fuori delle nostre percezioni che dalla mente dipendono e non sono
esterne ad essa.
Tutta la nostra conoscenza consiste in sensazioni, in percezioni. Quindi per noi una
cosa esiste ed è conoscibile solo se viene percepita. Da ciò il celebre detto di
Berkeley "esse est percipi": l'essere, la realtà, consiste soltanto in ciò che è
percepito; l'essere è l'essere percepito. Le cose non possono esistere che in una mente
che le percepisca.
Con questa concezione Berkeley non nega l'esistenza del mondo esterno, come
gli rimproveravano i suoi critici, alcuni dei quali lo consideravano addirittura pazzo.
Egli nega solo l'esistenza della materia inerte, ossia di quella supposta sostanza
metafisica, o sostrato delle cose, diversa dalle loro qualità ed esistente al di fuori della
mente. Berkeley nega l'esistenza della materia ma non nega la percezione della
materia, dei corpi materiali. Anzi, egli dichiara, non è tolto nulla al mondo; il
mondo non cambia, non ne risulta impoverito, tutto resta come prima; ciò che
cambia è solo il nostro modo di considerare il mondo, la realtà. Insomma, anche
per Berkeley esistono i tavoli, le case, le piazze, i fiumi e le montagne, ecc. Ciò che
invece non esiste, a suo avviso, è quella che i filosofi chiamano materia o sostanza
corporea.
Per Berkeley infatti l'unica vera realtà, considerata come condizione
indispensabile per la nostra percezione, è l'esistenza della mente, cioè della
sostanza spirituale costituita dalle percezioni e dai pensieri, mentre la sostanza
materiale (la res extensa di Cartesio) non esiste affatto. Questa di Berkeley è una
concezione ancor più radicale rispetto a Locke, il quale si limita a dichiarare
l’inconoscibilità della sostanza dei corpi, delle cose, non escludendola peraltro come
ipotesi.
In tal modo Berkeley è persuaso di aver definitivamente sconfitto il meccanicismo e
il materialismo nonché il conseguente ateismo.
139

La fisica e la logica.

Se al di fuori della mente non c'è nulla, ossia se non vi sono cose qualora non siano
percepite, se non c'è alcuna sostanza materiale ma soltanto una sostanza
spirituale, immateriale, cioè il pensiero e le percezioni della mente, allora, per
Berkeley , di conseguenza:
1. il tempo in sé non esiste: è solo una nostra sensazione e quindi è soggettivo
(quando siamo felici passa in fretta e quando soffriamo non passa mai);
2. anche lo spazio, l'estensione, e il moto sono sensazioni, percezioni: noi non
abbiamo alcuna percezione dello spazio o del movimento in se stessi, ma solo e
sempre di corpi estesi (= con certe dimensioni) in quiete o in movimento.
Berkeley critica dunque la concezione di Newton circa l'esistenza del tempo e
dello spazio assoluti, ossia del tempo e dello spazio in se stessi.
Dal punto di vista della logica non esistono per Berkeley le idee astratte e generali
di cui parla Locke, cioè i concetti, poiché le percezioni sono sempre e solo particolari
e, per contro, non percepiamo nulla di universale, di generale. Infatti non percepiamo
l'uomo in generale ma solo "quest'uomo". Quando pensiamo “l’uomo” non riusciamo
in effetti a formularne un’idea davvero astratta, ma abbiamo sempre in mente
l’immagine di uomini particolari. I concetti pertanto non esistono neppure come
astratte generalizzazioni, come idee generali: sono solo nomi di comodo che, per
brevità di linguaggio, usiamo per indicare con un solo termine un'intera categoria di
cose o, meglio, un insieme di percezioni che si assomigliano (nominalismo
estremo).

Dio e le leggi di natura.

La mente umana, precisa Berkeley, nella maggior parte dei casi è solo la
condizione e non la causa delle nostre percezioni, poiché gran parte delle
percezioni non sono prodotte da noi ma sono da noi soltanto ricevute. Poiché tali
percezioni, o idee, non ci possono pervenire da una materia esterna, ossia dalle cose
esterne che non esistono allorché non siano percepite, ed in tal caso non sono esterne
ma dentro la mente, si deve allora necessariamente concludere che esse ci
provengono direttamente da Dio, ci sono date da Dio a completamento
dell'uomo, sua creatura, e della sua capacità di conoscere e di sentire.
Infatti la materia non può produrre un qualcosa di immateriale quali sono le
percezioni; né sono prodotte la mente umana poiché essa produce soltanto quelle
idee che sono le nostre immaginazioni e i nostri sogni. Le idee o percezioni delle
cose, quindi, non possono che essere ricevute da Dio, dalla mente divina, che tutte le
contiene. Dio produce in noi le idee delle cose secondo regole fisse ed ordinate,
che costituiscono quelle che noi chiamiamo le leggi di natura, in base alle quali
possiamo conoscere e prevedere i fenomeni fisici e regolarci nella vita. In tal senso
Berkeley ammette dunque la validità delle scienze fisiche e naturali.
Sorgono allora due problemi:
140

1. come possiamo distinguere le idee delle cose dalle nostre immaginazioni e dai
nostri sogni?
2. quando noi non percepiamo più una certa cosa perché ci siamo allontanati,
come possiamo essere sicuri che quella cosa continui ad esistere anziché
scomparire, dal momento che esiste solo ciò che è percepito?
È del tutto naturale, risponde Berkeley, poter distinguere le nostre fantasie e i
nostri sogni dalle idee delle cose percepite dai nostri sensi. Infatti siamo benissimo
in grado di accorgerci che le idee percepite dai sensi non dipendono dalle fantasie e
dai sogni della nostra mente. Quando la mattina mi sveglio e apro gli occhi non
possono scegliere di vedere o non vedere, ma vedo necessariamente,
indipendentemente dalla mia mente e dalla mia volontà, tutti gli oggetti che si
presentano alla mia vista. Inoltre, le idee percepite dai sensi sono sempre più forti e
marcate di quelle della fantasia e dei sogni: hanno maggior stabilità ed un ordine
preciso.
Altrettanto, le cose (o, meglio, le idee delle cose, i fenomeni) continuano ad
esistere anche quando non le percepiamo in quanto sono tutte e sempre
percepite da Dio. Gli oggetti infatti non hanno una vita a sprazzi, che cessa quando
non li percepiamo e ritorna quando li percepiamo di nuovo, perché c'è un essere
eterno, cioè Dio, che li vede e li percepisce continuativamente. Le idee percepite dai
sensi, spiega Berkeley, non dipendono dalla nostra volontà e dal nostro arbitrio come
le idee di immaginazione; esse ci sono date, ma non dalla materia che, come lo
spazio o il movimento, è solo una incomprensibile finzione, un'idea astratta, bensì
sono ricevute e garantite da Dio stesso. Similmente a Cartesio, secondo cui Dio è il
garante della conoscibilità degli oggetti esterni e dei fenomeni fisici, per Berkeley
Dio ci garantisce la sussistenza delle cose anche quando non sono percepite dai
sensi.
Le conclusioni cui Berkeley perviene, nell'intento di combattere il meccanicismo, il
materialismo e l'ateismo, possono sembrare, secondo i punti di vista, forzate o
ingenue. Peraltro Berkeley, secondo lo stesso parere di numerosi scienziati, nella sua
critica dello spazio e del tempo assoluti di Newton come anche del moto assoluto è
significativo anticipatore della contemporanea fisica relativistica.
141

DAVID HUME (1711 – 1776).

Nasce a Edimburgo in Scozia. È stato bibliotecario presso la locale università nonché


precettore e segretario di personaggi militari e politici.
Opera principale: Trattato sulla natura umana.
È l'ultimo, in ordine di tempo, dei grandi filosofi empiristi del Seicento-Settecento.
Sviluppa ed approfondisce le teorie filosofico-empiristiche di Locke, di cui mostra
anche quelli che, a suo avviso, sono i problemi e i limiti derivanti.
L'interesse prevalente di Hume è lo studio della natura umana, studiare cioè come
è veramente fatto l'uomo sia per quanto riguarda la conoscenza ma anche i
sentimenti, la morale, la società. Intende studiare la natura umana in modo
scientifico, applicando a tale studio il metodo scientifico-sperimentale di Newton. Lo
studio sulla natura umana ha per Hume un valore preliminare, perché da esso
dipendono anche i progressi di tutte le altre scienze (quelle fisiche, politiche, morali,
ecc.). Le scienze infatti non sono neutrali; il loro sviluppo è condizionato dal modo di
pensare, di conoscere, di sentire e di credere degli uomini.
Per Hume la filosofia non deve essere solo dei filosofi ma di tutti; deve occuparsi
anche della vita comune. Deve usare perciò un linguaggio meno specialistico ma più
semplice e comprensibile.

La conoscenza umana: impressioni e idee.

Se indubbiamente sono interessanti le concezioni filosofiche di Hume per quanto


riguarda la morale, la società, la politica e la religione, tuttavia l'importanza maggiore
di Hume nella storia della filosofia sta nella sua teoria della conoscenza e, soprattutto,
nella sua critica del principio di causalità (principio di causa-effetto).
In quanto empirista, anche Hume afferma che i contenuti della mente sono solo
quelli che essa riceve dall'esperienza esterna o interna.
Due sono, precisamente, i contenuti della mente:
1. le impressioni, ossia le percezioni attuali (fin tanto che sono in atto e
perdurano), le quali raggiungono la mente con maggior forza ed intensità (ad
esempio le sensazioni, le passioni, le emozioni);
2. le idee, che sono immagini indebolite delle impressioni quando esse non sono
più attuali: sono costituite cioè dai ricordi, dalla memoria.
In sintesi, per Hume pensare vuol dire sentire impressioni e idee.
Il nostro intelletto dapprima riceve le impressioni e poi, quando esse diventano un
ricordo, le trasforma in idee. Le idee pertanto derivano dalle impressioni. Al di fuori
delle impressioni e delle idee l’intelletto non contiene niente altro. Anche per
Hume quindi non ci sono idee innate né concetti universali, che sono solamente
nomi astratti collettivi (nominalismo).
Locke aveva riconosciuto, al di là delle idee, l'esistenza di realtà esterne (la realtà
dell’"io", cioè della coscienza; la realtà di Dio; la realtà delle cose naturali),
ammettendo la possibilità di conoscerle mediante l'intuizione o la dimostrazione o
142

attraverso la sensazione attuale. Hume è più radicale: anche se vi fossero, tali


realtà sono comunque inconoscibili; noi conosciamo unicamente le nostre
impressioni e idee. Non siamo altro che, egli dice, "un fascio di impressioni e di
idee". Non siamo assolutamente in grado di sapere e di conoscere se al di fuori delle
nostre impressioni e idee vi siano realtà esterne ad esse corrispondenti, costituenti la
causa delle nostre impressioni.

Il principio di associazione.

L'intelletto dunque non funziona stabilendo connessioni e collegamenti tra le idee


della nostra mente e le cose esterne, essendo la realtà esterna in conoscibile;
funziona stabilendo invece connessioni tra le idee fra di esse. Tale facoltà di
stabilire connessioni è chiamata da Hume immaginazione. L'immaginazione non
associa, non collega, le idee a caso, ma realizza l'associazione di un'idea ad
un'altra secondo tre criteri:
1. per somiglianza;
2. per contiguità (vicinanza, accostamento) nello spazio o nel tempo;
3. per relazione di causa-effetto, quando si suppone che un'idea sia causa di
un'altra o si ritiene che un'idea sia l'effetto di un'altra.
L'associazione tra due o più idee produce le idee complesse, analoghe a quelle di
Locke, ossia produce concetti astratti, di cui i più importanti sono le idee di spazio,
di tempo e di causalità che noi, sbagliando, come rileva il Hume, siamo abituati a
pensare come realtà esterne oggettive, vere, mentre sono soltanto associazioni di
idee: lo spazio consiste semplicemente nella contiguità tra idee; il tempo nella
successione di idee e la causalità nella relazione fra idee.

Relazioni tra idee e dati di fatto.

Hume distingue tra:


1. relazioni fra idee, che sono quelle proposizioni (affermazioni, giudizi)
ricavate non dall'esperienza ma da principi logico-matematici (identità, non
contraddizione) e che Kant chiamerà giudizi analitici a priori; essendo basate
sulla logica e non sull'esperienza, le relazioni tra idee sono sempre valide e
necessarie (sono necessariamente così e non possono essere diversamente), ma
non aumentano la nostra conoscenza perché il predicato è implicito nel
soggetto. Ad esempio, quando si dice "il triangolo ha tre angoli" questa è
certamente una proposizione vera ma non ci fa conoscere alcunché di nuovo
perché il predicato "ha tre angoli" è già implicito nel soggetto "triangolo";
2. dati di fatto, che sono quelle proposizioni (ad esempio, domani pioverà o non
pioverà) il cui contrario è sempre possibile, perché non sono fondate sulla
logica ma sull'esperienza, che può essere di un tipo o del tipo contrario; Kant
chiamerà i dati di fatto giudizi sintetici a posteriori, i quali aumentano la nostra
conoscenza (il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto, come quando
si dice questo "quadro è bello o è brutto") però non garantiscono che la nostra
143

conoscenza sia certa poiché non si può fare esperienza di tutto ed in futuro,
inoltre, le cose potrebbero andare diversamente da come la passata esperienza
le ha mostrate.
La distinzione tra relazioni fra idee e dati di fatto, le prime basate sul principio di non
contraddizione e i secondi su quello di causalità dedotto dall'esperienza di una
ripetuta associazione di idee, è analoga a quella di Leibniz tra verità di ragione verità
di fatto, tuttavia, come vedremo, è diversa rispetto a Leibniz la valutazione che
Hume dà della legge di causalità la quale, a suo avviso, non è affatto un principio
evidente e valido in assoluto come invece ritenuto da Leibniz con riguardo al
principio di ragion sufficiente.
Da coerente empirista, Hume procede quindi a criticare come inconsistenti, in
maniera ancora più estrema degli altri filosofi empiristi, le varie idee metafisiche di
spazio, di tempo, di causalità, di mondo, di sostanza materiale e di sostanza spirituale
quali sostenute invece dalla filosofia razionalistica.

Critica delle idee di spazio e di tempo.

Come si è visto, per Hume le idee di spazio e di tempo sono soltanto idee complesse,
cioè associazioni fra due o più idee. Vuol dire allora che, contrariamente a quanto
pensava Newton, lo spazio e il tempo non esistono nella realtà, ma sono
semplicemente nostre percezioni, soltanto nostri modi di pensare e di vedere, frutto
della nostra immaginazione: quando abbiamo l'impressione di due o più idee l'una
accanto all'altra, siamo portati a pensare che esse stiano in un certo spazio; quando
abbiamo l'impressione di due o più idee l'una dopo l'altra, pensiamo che si succedano
tra di esse in un certo tempo: spazio e tempo dunque sono unicamente
immaginazioni mentali.

Critica dell'idea o del principio di causa.

È la critica più nota e dirompente di Hume, poiché mette in discussione il fondamento


stesso su cui si basa la scienza.
Anche la causalità, cioè la relazione di causa-effetto, è per Hume un'idea complessa
frutto della nostra immaginazione, la quale suppone l'esistenza di un rapporto
costante tra un certo effetto e una predeterminata causa. Però, afferma Hume, non vi
è una connessione, un collegamento necessario tra causa ed effetto per cui, data
una certa causa consegue sempre quel certo effetto per necessità logica. Non è
infatti contraddittorio supporre che da una medesima causa derivino effetti differenti
o nessun effetto. Nessuna analisi della causa può farci scoprire a priori (prima di
farne esperienza) l'effetto che necessariamente derivi.
L'idea di causalità, infatti, appartiene alla categoria dei dati di fatto, che sono basati
sull'esperienza. Però l'esperienza mostra semplicemente la contiguità spaziale tra le
cose come rappresentate dalle idee o la successione temporale fra di esse. Non
dimostra affatto, invece, una connessione necessaria tra le medesime. Va sottolineato
che la concezione del rapporto di causalità di Hume è diversa da quella del principio
144

di ragion sufficiente di Leibniz. Hume si riferisce infatti alla connessione tra due
determinati eventi entrambi oggetto di esperienza, mentre il principio di Leibniz
sostiene la necessità che ogni evento abbia una causa o, meglio, una ragion
sufficiente qualunque essa sia, anche se al momento può non essere nota ovvero non
ne sia stata fatta esperienza. L'eventuale scoperta di tale causa spetta alla fisica ma,
precisa Leibniz, l'affermazione dell'esistenza di un principio di ragion sufficiente
universale spetta alla metafisica. Hume però non condivide il principio metafisico di
ragion sufficiente, da lui invece considerato una semplice generalizzazione per
induzione, escludendo pertanto che esso abbia un valore universale, così come
esclude altresì l'esistenza di qualsiasi idea universale.
Hume si pone allora la domanda: da dove deriva questa nostra immaginazione di
una connessione sempre costante e necessaria fra una certa causa un certo
effetto? Non deriva certo dalle impressioni, ossia dai dati di fatto di cui si faccia
esperienza, risponde che Hume, poiché non è logicamente contraddittorio che un
certo fenomeno di causa-effetto possa nel corso del tempo non verificarsi; non è
affatto certo infatti che le esperienze passate possano valere ed essere sempre
confermate anche per il futuro. Il fatto di aver sempre constatato, per esperienza, che
il Sole illumina la Terra, considerandolo in tal senso causa dell'illuminazione, non
autorizza a concludere con assoluta certezza logica che sarà sempre così anche in
futuro: non vi è contraddizione qualora si pensi che, magari in un tempo lontano, ciò
potrebbe non più accadere.
L'immaginazione di un rapporto necessario di causa-effetto non deriva dunque
dall'esperienza ma, conclude Hume, deriva invece dall'abitudine. Poiché mi sono
abituato a vedere sempre che col sorgere del Sole la Terra si illumina, sono allora
portato a supporre che il Sole sia e sarà costantemente la causa necessaria della luce
sulla Terra e che, viceversa, la luce sulla Terra sia e sarà costantemente l'effetto
necessario del sorgere del Sole. Ma questa non è una verità logica, universale e
necessaria (come il principio di identità o di non contraddizione); è semplicemente
una nostra credenza, una semplice aspettativa derivante da una abitudine acquisita.
Insomma non vi è alcuna dimostrazione scientifica della verità del principio di
causalità. Tale principio, su cui finora si è sempre fondata la conoscenza e la scienza
(secondo la convinzione che conoscere una cosa vuol dire scoprirne la causa) non ha
pertanto valore scientifico. Tuttavia, ammette Hume, l'abitudine non va
disprezzata perché è comunque una guida valida per la vita pratica, anche se non
è un principio certo di spiegazione razionale.

Critica dell'idea di sostanza materiale.

L'intelletto dunque è fatto solo di impressioni (percezioni) e di idee. Di conseguenza


non conosciamo direttamente le cose esterne, al di fuori dell'intelletto, che Hume
chiama sostanze materiali. Anzi, non siamo addirittura nemmeno sicuri se le
cose esterne esistano o no. Criticare e mettere in dubbio l'esistenza delle cose esterne
significa mettere in dubbio l'esistenza stessa della materia come sostanza generale
e quindi mettere in dubbio l'esistenza dell'intero mondo materiale fisico al di
145

fuori della nostra mente, in quanto composto da quella medesima sostanza


materiale di cui si finisce col dubitare. Se le cose esterne, cioè le sostanze materiali,
non ci sono o non sono conoscibili, allora anche lo stesso mondo fisico esterno non
c'è o non è conoscibile. Tutto dipende quindi dalla possibilità di dimostrare se le
sostanze materiali o sostrati, su cui si appoggiano le qualità primarie e secondarie
delle cose percepite, esistono o no al di fuori della nostra mente. In proposito
Hume afferma che, quando noi pensiamo che le sostanze materiali, cioè i sostrati
delle cose, esistano al di fuori di noi, questa non è affatto una conoscenza ma è
anch'essa, come il principio di causa, una credenza soggettiva, poiché non è
possibile vedere e sperimentare la sostanza interna delle cose e quindi non è
possibile dimostrare scientificamente, in modo oggettivo, se le sostanze materiali
esistono o no. Ad esempio, noi non facciamo esperienza e non vediamo la sostanza o
sostrato della penna, ma percepiamo solo impressioni, qualità o idee, di un cilindro
che scrive, liscio, sottile, colorato, ecc. Siamo allora indotti a pensare che al di sotto
di tali impressioni vi sia una sostanza, un sostrato, ossia una base che le sorregga.
Chiamiamo appunto "penna" questa sostanza, che rimane però invisibile e quindi non
sperimentabile e non dimostrabile scientificamente.

Critica dell'idea di sostanza spirituale o coscienza o "io".

Non soltanto Hume critica e mette in dubbio l'idea dell'esistenza delle sostanze
materiali, cioè delle cose, al di fuori della nostra mente, ma egli critica e mette in
dubbio la stessa idea di esistenza di quella sostanza spirituale che noi chiamiamo
coscienza o "io" o anima, intesa come base unitaria, cioè come sostrato o sostanza, su
cui poggiano tutte le nostre impressioni, le nostre idee, i nostri pensieri. Infatti, dice
Hume, neppure del nostro "io", della nostra coscienza, abbiamo una conoscenza
ed un'esperienza diretta. Perciò non è possibile dimostrare scientificamente
l'esistenza della nostra coscienza, di questa sostanza spirituale, dal momento che
abbiamo esperienza soltanto dei nostri singoli e successivi stati d'animo o idee o
sensazioni (gioia, dolore, piacere, tristezza, specifiche riflessioni, eccetera), ma non
già della nostra intera coscienza. Anche l'idea di coscienza è dunque una semplice
credenza e frutto dell'abitudine: poiché siamo abituati a riferire certe impressioni a
noi stessi anziché ad un corpo esterno, finiamo col credere di essere un soggetto
distinto dalle nostre impressioni. In realtà, la nostra coscienza non è pensabile come
sostanza, in quanto tale immutabile e sempre identica a se stessa, perché siamo invece
un "fascio di impressioni" variabili e mutevoli.
A questo punto Hume, dopo aver negato l'esistenza reale dello spazio e del tempo,
nonché il valore scientifico del principio di causa, la conoscibilità stessa delle cose
materiali al di fuori di noi, la cui esistenza è addirittura messa in dubbio insieme con
l'intero mondo fisico, ed altresì dopo aver negato altresì la possibilità di conoscere la
coscienza come sostanza spirituale, giunge col dubitare non solo dei concetti
fondamentali della filosofia metafisica ma anche della stessa scienza. Il suo
pensiero perviene quindi a conclusioni di esplicito scetticismo conoscitivo (è posta in
dubbio la complessiva capacità conoscitiva dell'uomo). Meno scettico Hume è
146

invece sul piano pratico, ed in questo senso si parla di scetticismo moderato di


Hume, poiché giudica le nostre credenze ed abitudini comunque sufficienti per
guidare e regolare la nostra vita pratica quotidiana. Alla fin fine la natura umana è
per Hume più istinto pratico che ragione, quindi la pratica vale di più della
teoria. Nelle credenze e nelle abitudini Hume ritiene infatti di individuare le comuni
caratteristiche di base della natura umana, spiegata scientificamente.

La morale e l’estetica.

Ad Hume non interessa più di tanto stabilire se le regole morali derivino


principalmente dalla ragione o dal sentimento, pur tendendo a farle derivare
maggiormente dal sentimento di piacere e di dolore piuttosto che dalla ragione,
nel senso che è giudicato bene ciò che dà piacere e male ciò che dà dolore. La ragione
infatti si occupa soprattutto di ciò che è vero o falso più che di ciò che è bene o male,
anche se essa può aiutarci a dirigere verso il bene le nostre passioni, che non può
tuttavia eliminare perché fanno parte della natura umana e sono dalla ragione
indipendenti. Come facoltà di conoscere i fatti, la ragione può dire soltanto come una
cosa è e non come dovrebbe essere, perciò non può suscitare una passione né opporsi
ad una passione, in quanto solo un'altra passione può farlo. Per tale motivo la morale
si fonda in maggior misura sul sentimento di approvazione delle azioni virtuose e di
disapprovazione di quelle malvagie.
A Hume interessa assai di più analizzare empiricamente da quali elementi la
morale è costituita e quali sono le abitudini, i sentimenti e i meriti che rendono
un uomo degno di stima o di disprezzo. La stima o il disprezzo dipendono
soprattutto dall'utilità sociale o meno delle singole azioni morali individuali.
Sono morali i comportamenti socialmente approvati e sono immorali quelli
socialmente disapprovati. Per Hume morale e società sono sempre collegate.
Tuttavia non vi sono regole morali universali, individualmente e socialmente
valide in ogni tempo e in ogni luogo, perché esse cambiano col mutare delle
condizioni e situazioni soggettive, sociali e storiche in cui si vive.
Le regole morali socialmente utili sono quelle della giustizia sociale, che
impongono limiti, obblighi e divieti. Ma essi variano a seconda che i beni materiali
a disposizione siano abbondanti o rari. Per esempio, non è un furto consumare
l'aria e quindi non si commette ingiustizia perché l'aria è abbondante, mentre è
ingiustizia rubare denaro o altre cose presenti in quantità limitata.
Non è vero per Hume, a differenza di Hobbes, che le azioni individuali siano
causate solo dall'egoismo, perché molte sono invece prodotte dal sentimento di
simpatia verso gli altri uomini, il quale aiuta a superare gli egoismi. Per Hume è
proprio il sentimento di simpatia, e non l’hobbesiana convenienza o il timore di
mettere a rischio la vita, che unisce gli uomini in società per formare uno Stato.
Occupandosi anche di estetica, Hume pone alla base delle valutazioni artistiche non
la ragione ma il sentimento del gusto e della bellezza. È vero che il senso di ciò che è
bello varia da individuo a individuo, ma alla base esiste per Hume una specie di
comune sentire circa il bello.
147

La religione.

Hume critica le prove variamente fornite dalla filosofia circa l'esistenza di Dio poiché
per affermare l'esistenza di qualcosa è necessario farne esperienza e non bastano
ragionamenti puramente logici. Ma di Dio non si può avere esperienza, perciò la
religione non ha un fondamento razionale. Essa non ha neppure un fondamento
morale, perché, come abbiamo visto, per Hume la morale non si basa sull'idea di Dio
ma sul sentimento del piacere, della simpatia e dell'utilità sociale.
Esclusa pertanto la possibilità di spiegare la religione su base razionale o morale,
essa può essere piuttosto utilmente studiata come storia delle religioni per
comprendere quanto e come abbia influenzato la vita degli uomini.
Le idee religiose non sorgono secondo Hume dalla contemplazione delle meraviglie
della natura, ma dal sentimento istintivo di paura della morte e dalla speranza in una
vita ultraterrena. Anticamente i timori e le speranze della vita, gli eventi lieti o tragici,
erano attribuiti a molteplici divinità, a volte benigne, a volte maligne. Inizialmente la
religione era dunque politeistica e basata sull'idolatria (sull'adorazione di molti
idoli). In seguito la religione è diventata monoteista, recando il pregio di aver
superato l'idolatria ma comportando il grave difetto dell'intolleranza verso le altre
religioni.

La politica.

Hume esamina le due tesi opposte, quella dell'origine divina del potere politico e
quella del contratto sociale, affermando che sono entrambe giuste ma ognuna solo
in un senso particolare e non generale.
La teoria secondo cui il re è tale per diritto divino, cioè perché prescelto da Dio, è
giusta nel senso che tutto ciò che accade nel mondo, e quindi anche l'incoronazione
dei re, è frutto della provvidenza e dei progetti divini. Però questa teoria finisce col
giustificare al tempo stesso ogni sorta di autorità politica, legittima o anche
illegittima, come quella dell’usurpatore.
La teoria del contratto sociale è anch'essa giusta, poiché afferma che il popolo è
l'origine di ogni potere e del patto che lo istituisce. Però questa teoria non si trova
verificata dappertutto perché i governi e gli Stati nascono spesso da rivoluzioni, da
conquiste e congiure e non dalla volontà popolare.
Hume distingue quindi i doveri umani in due classi: quelli derivanti dall'istinto
naturale, come l'amore per i figli, la gratitudine per i benefattori, la pietà per gli
sfortunati, e quelli derivanti dagli obblighi e dalle leggi sociali, come il rispetto
della vita e della proprietà altrui, il mantenere le promesse e gli impegni presi,
l'obbedienza civile e politica. Al riguardo conclude affermando che il dovere
dell'obbedienza civile, ossia il dovere di rispettare le leggi, non deriva
principalmente dall'obbligo di rimanere fedeli al contratto sociale originario col quale
è stato fondato lo Stato, ma deriva soprattutto dalla necessità di mantenere
costantemente in vita la società stessa, poiché senza obbedienza civile non vi
potrebbe essere società alcuna.
148

Conclusioni: la parabola dell'empirismo.

Restringendo la conoscenza umana nei limiti dell'esperienza, Locke non aveva inteso
diminuirne il valore; le aveva anzi riconosciuto, in quei limiti, una piena validità.
Dopo aver ammesso che l'unico oggetto della conoscenza umana è l'idea, Locke
aveva riconosciuto, al di là dell'idea, la realtà dell'io, di Dio e delle cose. Berkeley,
pur negando la materia, aveva ammesso le realtà degli spiriti finiti e dello spirito
infinito di Dio, entrambi irriducibili alle idee ma distinti ed autonomi da esse.
Hume conduce l'empirismo ad una conclusione scettica: l'esperienza non è in grado
di fondare la piena validità della conoscenza la quale, ricondotta nei suoi limiti, non
è certa ma soltanto probabile. Hume si tiene rigidamente fedele al principio secondo
cui ogni idea deriva dalla corrispondente impressione e non esistono idee o pensieri
di cui precedentemente non si sia avuta sensazione. Egli risolve totalmente l'intera
realtà nella molteplicità delle impressioni per cui nulla ammette al di là di esse. Per
spiegare la realtà del mondo e dell'io Hume non ha a disposizione se non le
impressioni, le idee e i loro rapporti. È un orientamento che, per propria
impostazione, non individua fondamenti alle realtà prese in esame, limitandosi
invece ad analizzarle nei loro elementi costitutivi.
Il primato che la filosofia moderna, inaugurata da Cartesio, ha all’inizio
legittimamente attribuito alla gnoseologia (invero dapprima trascurata) al posto
dell'ontologia, ovverosia al soggetto conoscente piuttosto che all'oggetto conosciuto,
finisce però, nelle concezioni più estreme, col porre in dubbio la sussistenza stessa
delle cose e della realtà esterna e finanche del mondo intero. Il soggetto diventa
l'unico centro di riferimento; la vera realtà è solo quella che si trova e viene
percepita dentro la mente soggettiva, nelle percezioni ed impressioni, posta
l'inconoscibilità se non addirittura l’esistenza della realtà esteriore: la soggettività
diventa soggettivismo e scetticismo nei confronti del mondo e delle possibilità
conoscitive. Bisognerà attendere Kant perché, sia pur nell'ambito di una visione pur
sempre soggettiva, venga restituito spessore alla realtà fisica oggettiva.
Con Hume l'empirismo giunge ai suoi limiti estremi oltre i quali non è più possibile
spingersi. Spogliatosi degli elementi ontologici, corporei e materialisti presenti in
Hobbes, nonché della componente razionalistico-cartesiana presente in Locke, degli
interessi spiritualisti e religiosi presenti in Berkeley e di ogni residuo di pensiero
proveniente dalla tradizione metafisica, l'empirismo finisce col svuotare la filosofia
stessa dei suoi contenuti specifici e col dare partita vinta al dubbio scettico. Sulla
ragione ha la meglio la natura umana, quella biologico-animale. Questo è il nuovo
"colpo di scena" del pensiero: la natura umana, costretta negli ambiti circoscritti del
metodo sperimentale, viene a perdere gran parte della sua specificità razionale e
spirituale a tutto vantaggio dell'istinto, dell'emozione e del sentimento, fin quasi a
ridursi a sola "natura animale".
149

DUE FILOSOFI CONTROCORRENTE.

Nel corso del Seicento e Settecento va annoverata la rilevanza anche di due altri
filosofi, Blaise Pascal e Giambattista Vico, i quali però, differenziandosi dal
prevalente indirizzo razionalistico od empiristico dell'epoca, incentrano i loro
interessi su temi affatto diversi.

BLAISE PASCAL (1623-1662).

Dimostra fin da giovane una grande intelligenza matematico-scientifica: inventa le


prime macchine calcolatrici, chiamate dal suo nome "Pascaline"; elabora il calcolo
delle probabilità; compie l'esperimento del vuoto.
Si converte al giansenismo e frequenta assiduamente Port Royal, centro giansenista.
Il giansenismo, dal nome del vescovo olandese Giansenio, è una dottrina religiosa
cristiana, sviluppatasi soprattutto in Francia nel secolo XVII, che ha in Arnauld il più
grande teologo e in Pascal un illustre difensore. Condannato dal papa Innocenzo X
nel 1653, il giansenismo contrapponeva alla teoria scolastica e all'umanesimo
moderno, penetrato nella Chiesa attraverso i gesuiti, la dottrina di Agostino sulla
predestinazione e la grazia, avvicinandosi in ciò alle posizioni protestanti. Nel
giansenismo, infatti, è radicato il tema del peccato originale che ha reso l'uomo
inclinato al male ed incapace del bene senza la grazia; solo la grazia che Dio dona
agli eletti conduce alla salvezza.
Opere principali:
Le Provinciali: si tratta di 18 lettere indirizzate al Padre provinciale dei gesuiti in
difesa della dottrina giansenista ed in polemica contro i gesuiti stessi ed il loro
teologo Molina.
I Pensieri, pubblicato postumo, che raccoglie il materiale dell'opera incompiuta
"Apologia della religione cristiana" contro i libertini e gli atei.

Le Provinciali e la difesa della dottrina giansenista.

È un'opera polemica contro il malcostume della Chiesa e contro la pratica di una


religiosità solamente esteriore nell'accostarsi ai sacramenti.
Ancor più aspra è la polemica contro i gesuiti ed il loro teologo Molina, per il quale
il cristiano attraverso la volontà e le buone opere è in grado di ottenere una grazia
sufficiente per salvarsi. Per contro Pascal, insieme a Giansenio, afferma che le buone
opere da sole non sono sufficienti senza la grazia di Dio che, soprattutto, non si può
ottenere con la sola e comoda pratica esteriore dei sacramenti. Critica altresì il
lassismo dei gesuiti ed il loro atteggiamento accomodante e permissivo, non
abbastanza severo contro i peccati, per cui il sacramento della confessione, anche
solo superficiale e magari ipocrita, era ritenuto bastevole per l’assoluzione.
150

Grandezza e miseria dell'uomo.

Per Pascal il problema centrale non è quello gnoseologico come nel razionalismo o
nell'empirismo, bensì quello del senso e del mistero della vita umana: "l'enigma
dell'uomo, dice Pascal, non ha possibili soluzioni al di fuori della fede". Pascal aveva
letto i "Discorsi" dello stoico Epitteto e i "Saggi" di Montaigne. Epitteto glorifica la
grandezza dell'uomo, ma ne trascura la natura corruttibile e imperfetta. Montaigne, al
contrario, vede soltanto la miseria dell'uomo.
Invece, afferma Pascal, la nostra natura ha carattere mediano (sta nel mezzo fra
grandezza e miseria) e perciò ambiguo perché siamo collocati fra il grande e il
piccolo, tra il tutto e il nulla, tra il conoscere qualcosa ma non il tutto. Sono divenute
celebri le massime con cui Pascal, nelle sue opere, esprime questo concetto, per
cui vale la pena citarne direttamente alcune delle più significative: "L'uomo non è
che una canna, ma è una canna che pensa. L'universo è assai più potente, ma non sa
pensare. È pericoloso mostrare troppo all'uomo sia la sua grandezza sia la sua
bassezza. Di fronte a un uomo, se si vanta l’abbasso se si abbassa lo vanto".
Quello di Pascal è un realismo fatto di buon senso. Lo sbaglio dei filosofi, egli
afferma, è quello di oscillare fra dogmatismo (enunciazione di teorie presentate come
dogmatiche, indiscutibili) e scetticismo (sfiducia nelle possibilità conoscitive e morali
dell'uomo). La filosofia non ha saputo trovare nemmeno un'etica universale.

Esprit de geometrie e Esprit de finesse.

Pascal distingue fra Esprit de geometrie ed Esprit de finesse.


L'Esprit de geometrie è lo spirito scientifico che ragiona discorsivamente, ossia per
dimostrazioni progressive. L'Esprit de finesse è la finezza di spirito, la sensibilità,
che sa comprendere intuitivamente.
La scienza (Esprit de geometrie), commenta Pascal, rivela tutti i suoi limiti nel
comprendere veramente chi siamo, in quanto coglie solo gli aspetti esteriori,
quantitativi e meccanicistici, dell'uomo. Va riconosciuto il valore della scienza ma
essa non è in grado di spiegare tutto: possiede limiti strutturali costituiti, da un lato,
dall'esperienza, che è un punto di forza ma limita i poteri della ragione poiché non
può andare oltre l'esperienza e dunque non è assoluta, nonché costituiti, dall'altro lato,
dai principi primi della scienza medesima, quali i concetti di spazio, tempo e
movimento, ed altresì dai suoi postulati, tutti indimostrabili in quanto non è possibile
regredire all'infinito nella ricerca delle cause. Le formulazioni di cause e principi
primi altro non sono che ipotesi. I postulati sono frutto più di intuizione che di
ragione.
Gli aspetti più profondi, l'essenza vera della natura umana, il senso delle cose e
del mondo, possono essere intuitivamente colti, invece, solo con il cuore, con il
sentimento, cioè con l’Esprit de finesse e non con la superbia della scienza. La fede,
il senso delle cose e dell'esistenza non possono essere dimostrati ma solo sentiti.
151

Pur essendo la scienza autonoma rispetto alla teologia e ai sentimenti, l’Esprit de


finesse è alla fin fine necessario alla scienza stessa. Infatti è grazie all'intuizione
che sono colti i principi primi ed è grazie alla creatività che lo scienziato costruisce le
proprie ipotesi.

La scelta dell'uomo tra "divertissement" e la fede.

La scienza dunque non copre tutte le verità. Ad essa sfuggono le verità dell'esistenza
e quelle etiche e religiose, da cui dipende il senso della nostra vita. Nell'opera "I
pensieri" Pascal esplicita che di fronte ai problemi dell'esistenza, della sua
condizione di essere finito e limitato, l'uomo assume due atteggiamenti:
1. l'atteggiamento del "divertissement", ossia della distrazione, dello
stordimento, della fuga da sé e dell'indifferenza verso gli altri uomini: non
avendo potuto guarire l'infelicità, la morte, la miseria e l'ignoranza, l'uomo ha
creduto meglio, per essere felice, di non pensarci per dedicarsi alle cose e ai
piaceri del mondo; ma si tratta di una felicità superficiale e inconsistente, che si
traduce in noia se non in disperazione;
2. l'altro atteggiamento è quello della fede, che parte dall'accettazione della
nostra condizione e dei nostri limiti e che nella fede trova la vera risposta.
Senza la fede lo scetticismo è inevitabile. L'unica vera filosofia è quella
consapevole dei suoi limiti e tale consapevolezza spinge alla fede nella
rivelazione divina e a ricercare nella religione le risposte fondamentali. Solo il
cristianesimo, con la dottrina del peccato originale, risulta in grado di spiegare
simultaneamente le miserie e la grandezza dell'uomo, che avverte i suoi limiti
ma anche la propria aspirazione alla verità, alla felicità e al bene.

Il Dio della fede non è il Dio dei filosofi.

La salvezza dell'uomo, dunque, non è il frutto né della scienza né della filosofia.


Già abbiamo visto i limiti della scienza quali indicati da Pascal: la ragione deve
infatti riconoscere che vi è un'infinità di cose che non riesce a comprendere. Prova ne
sia la sua impotenza nel dimostrare l'esistenza di Dio.
Al riguardo Pascal entra in polemica contro i deisti, ovverosia contro quei filosofi
per i quali Dio, anche se fossero in grado di darne dimostrazione, rimane tuttavia un
Dio impersonale, puramente astratto e filosofico, mentre il Dio della fede è persona, è
amore e consolazione.
In tal senso polemizza anche contro Cartesio, che si è preoccupato di tentare di
dimostrare l'esistenza di Dio solo per servirsene come garante della verità della
conoscenza umana, rimanendo per il resto indifferente nei confronti di Dio stesso.
La fede non solo ci fa conoscere Dio ma ci porta comprendere noi stessi: la
nostra miseria a causa del peccato originale, ma anche la nostra grandezza perché
ci consente la salvezza. La conoscenza di Dio senza la conoscenza della nostra
miseria genera la superbia dei filosofi; la conoscenza della nostra miseria senza
quella di Dio redentore genera la disperazione degli atei.
152

La scommessa su Dio.

Quello della scommessa è il celebre argomento di cui Pascal si avvale contro gli
atei, i miscredenti, i libertini, i liberi pensatori, sostenendo che, anche qualora si
ignori o si dubiti di Dio, conviene pensare e comportarsi "come se Dio ci fosse".
La ragione è impotente a dimostrare Dio, però può mostrarci che non è
irragionevole né irrazionale credervi. Noi non conosciamo né l'esistenza né la natura
di Dio giacché è privo sia di estensione sia di limiti. Pur tuttavia ci troviamo di
fronte ad una scelta (credere o non credere in Dio) cui non possiamo sottrarci.
Tanto vale considerare allora quale sia la scelta più conveniente: se scommettiamo
sull'esistenza di Dio e vinciamo, allora vinciamo tutto; se invece perdiamo, non
perdiamo nulla, solo i beni mondani che sono esteriori e passeggeri. Scommettere su
Dio è quindi una scelta ragionevole, niente affatto contraria alla ragione.
Nonostante il carattere utilitaristico e di mera convenienza di questa scommessa, che
anche per Pascal è insufficiente ai fini della vera fede, è stata comunque recepita dalla
filosofia moderna la tesi di fondo sull'obbligo di scommettere, cioè di "decidersi" per
il sì o per il no perché anche il non scegliere è già una scelta.
153

GIAMBATTISTA VICO (1668-1744).

Napoletano, svolge dapprima la professione di precettore e poi ottiene la cattedra di


retorica all'università di Napoli.
Opera principale: La scienza nuova.
Con Vico la filosofia moderna affronta per la prima volta il tema della storia
umana in maniera sistematica e originale. Precorre i temi del progresso umano e
storico dibattuti nel 1700-1800.

La polemica contro Cartesio. Il vero è identico al fatto.

Contro la filosofia cartesiana, e contro la scienza moderna in generale, Vico rifiuta la


pretesa di ridurre la natura entro gli schemi della matematica. Celebra piuttosto
il valore creativo della fantasia e la cultura umanistica contro il razionalismo e contro
la visione quantitativa della realtà. In particolare considera la storia delle vicende
umane come la più importante e più vera forma di conoscenza e di formazione
dell'uomo.
Anche per Vico la scienza è conoscenza delle cause ma, similmente a quanto in
parte sostenuto pure da Hobbes, le cause che davvero possiamo conoscere sono
soltanto quelle che noi stessi produciamo.
Critica perciò la filosofia cartesiana poiché pretende di dedurre dal concetto di
pensiero (res cogitans) e di estensione (res extensa) la comprensione dell'intera realtà.
Solamente a Dio appartiene la conoscenza perfetta e completa. All'uomo appartiene
solo il pensare che è discorsivo, ossia graduale, e parziale. Il "cogito" di Cartesio non
è la causa della mia esistenza e tanto meno della realtà in generale ma ne è solo un
indizio, un segno, e comunque la realtà del mondo e delle cose naturali non è prodotta
da noi stessi. Quindi non può essere scientificamente conosciuta. Cartesio non può
giungere alla scienza perché il cogito è solo un'aver coscienza (consapevolezza) della
propria esistenza ma non è un sapere per causa (non è conoscenza basata sulle cause).
Cartesio parte dalle idee e non dai fatti, dalla realtà.
Solo Dio ha conoscenza piena del mondo, della natura e dei suoi principi primi
perché creati direttamente da lui. Pertanto la conoscenza umana della realtà
metafisica e fisica è solo parziale e verosimile e non totale e vera. Vico osserva che
nell'antica lingua latina le parole "verum" e "factum", inteso come fatto prodotto da
qualcuno, hanno un medesimo significato. Da ciò egli ricava la sua celebre
affermazione: "il vero è identico al fatto" (verum ipsum factum), ossia si può
veramente conoscere solo ciò che si fa, che si produce direttamente. È questo il
principio gnoseologico (il principio esplicativo della vera conoscenza) da cui Vico
parte.
Le conseguenze di tale principio sono allora che:
1. della fisica solo Dio ha scienza, in quanto solo da lui il mondo della natura è
stato creato (prodotto); quindi Cartesio sbaglia nel sostenere una scienza
deduttiva della natura;
154

2. della matematica abbiamo scienza perché da noi stessi sono stati prodotti i
concetti matematici, che però sono astratti, vuoti di contenuti e non
riguardano oggetti reali o fatti;
3. soltanto della storia umana abbiamo una vera scienza perché i fatti storici
sono prodotti dagli uomini; solo nella storia il vero coincide col fatto.
Dunque solo la storia può essere vera scienza, che invece è stata trascurata da
Cartesio e dai razionalisti, i quali erroneamente ritenevano, secondo Vico, essere
scienza solamente quella basata sulla matematica e sulla quantificazione
(misurazione) anziché su elementi ed eventi qualitativi. Per Vico, al contrario, si ha
scienza quando si capisce il perché e il senso delle cose, cioè le loro qualità e non le
loro quantità.

La scienza nuova.

Vico intende quindi sviluppare la scienza della storia che chiama "la scienza
nuova"; in seguito sarà denominata "filosofia della storia".
Affinché tale scienza si costituisca è necessario anzitutto conoscere i concreti fatti
storici di cui si vogliono cercare le cause: questo è il compito della filologia, che
per Vico non è solo lo studio delle parole e del linguaggio ma lo studio, attraverso il
linguaggio, della vita dei vari popoli e delle nazioni, cioè dei loro costumi, delle
loro tradizioni e delle loro istituzioni (organizzazioni sociali), che devono essere
conosciuti in modo certo attraverso l'esperienza diretta o attraverso l’esame dei
documenti e delle testimonianze. Però i fatti devono essere anche interpretati; è
necessario spiegarli indicandone le cause e il perché. Questo è il compito della
filosofia, cioè della riflessione razionale, alla quale spetta di individuare le leggi
generali che regolano lo svolgimento dei fatti.
La scienza nuova, la storia, deve dunque basarsi sia sulla filologia che sulla
filosofia. Vico precisa che bisogna "inverare" (far diventare vero) il certo, ossia
ricondurre i fatti particolari alle leggi generali che li spiegano, e bisogna
"accertare" (far diventare certo) il vero, cioè conoscere esattamente i fatti
particolari cui tali leggi si applicano.
L'unione di filologia e filosofia è collocata da Vico in quelle che lui chiama
"degnità" della scienza nuova; "degnità" significa principi guida cui ispirarsi,
degni di essere accettati da tutti poiché evidenti per se stessi come i postulati della
matematica. Altre degnità assunte sono, come già visto, l'attenzione alle tradizioni,
al linguaggio, ai modi di pensare e ai documenti scritti e non scritti dei vari popoli
di cui studiare la storia.
Per Vico la storia, come espressa nel suo tempo, non è ancora scienza ma può
diventarlo. Occorre però liberarsi:
1. della boria (superbia) delle nazioni, che è il pregiudizio che consiste
nell'immaginare origini illustri per ogni Stato e nazione;
2. della boria dei dotti, che è il pregiudizio che consiste nel ritenere mitici i fatti
storici e i modi di pensare delle epoche lontane, giudicando pertanto la storia
antica più illustre di quella attuale.
155

Vico insomma critica il modo di fare storia da parte degli storici del suo tempo.
Prende invece a modello quattro autori:
1. Platone, che descrive l'uomo come deve essere;
2. Tacito, che descrive l'uomo quale è, con crudo realismo;
3. Bacone, che persegue il progetto di una unificazione enciclopedica del
sapere, ossia l'ideale di una conoscenza e di un sapere generale sopra quelli
particolari, individuando le leggi e gli aspetti culturali comuni ai vari popoli;
4. Grozio, filologo attento alla meticolosa analisi dei fatti.

La storia ideale eterna.

La storia non è un succedersi slegato di avvenimenti, non procede a casaccio ma


possiede un suo ordine di fondo. Il compito dello storico è appunto quello di
scoprire tale ordine, ossia le leggi generali secondo cui si svolgono le storie reali
dei singoli popoli. Infatti, pur nelle rispettive diversità nel tempo e nello spazio,
vi è nei vari popoli un comune modo di sentire e di pensare (il matrimonio, la
famiglia, il culto dei morti, eccetera) cui si tratta di risalire e mettere in luce. Va
insomma scoperto il senso e il fine generale della storia, ossia il modello
generale, l'ordine di fondo entro il quale si svolgono le storie particolari dei singoli
popoli. Vico chiama all'ordine generale di fondo della storia col nome di "storia
ideale eterna": ideale perché è un modello generale teorico, che però ci aiuta a
comprendere meglio le storie particolari; eterna perché il fine della storia è al di
sopra dei tempi e delle singole epoche storiche.
Il fine eterno della storia, precisa inoltre Vico, non è quello della teologia poiché
non si basa sulla rivelazione ma va conosciuto attraverso la ragione e la filosofia.

Le tre età della storia. I corsi e i ricorsi storici.

Vico ritiene che la storia ideale eterna si sviluppi lungo tre "età" (epoche,
periodi), analogamente allo sviluppo della mente umana che passa dalla
fanciullezza, dominata dal senso, alla giovinezza, dominata dalla fantasia, e alla
maturità, dominata dalla ragione. Un'altra sua celebre "degnità" recita infatti:
"Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo
perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura".
Le tre età della storia descritte da Vico sono:
1) L'età degli dei, dominata dalla sensibilità. È l'età degli uomini primitivi, ancora
rozzi e ignoranti, che si fanno guidare solo dai sensi, da sensazioni primordiali e
istintive. Non esistono ancora istituzioni sociali e nemmeno la famiglia. È chiamata
"età degli dei" perché gli uomini di tale epoca, temendo le forze della natura, le
trasformavano in divinità da adorare e supplicare nella speranza di placarne
l’impeto.In tale età il potere è esercitato dai sacerdoti, dagli stregoni, e la vita
umana è regolata dagli oracoli (teocrazia). Il linguaggio è pertanto oracolare,
156

espressione della potenza divina. L'avvento della religione consente, secondo Vico,
il costituirsi delle prime forme di civiltà. Si passa così alla seconda età della storia.
2) L'età degli eroi, dominata dalla fantasia. Nascono le prime forme di società e
sorgono le città, governate da personalità eccezionali, da eroi ritenuti superiori agli
altri, che costituiscono una classe aristocratica la cui origine è fatta derivare dagli
dei. È il mondo eroico, religioso e poetico, animato da forti passioni e robusta
fantasia, cantato ad esempio da Omero. Nell'età degli eroi i miti, le leggende e i
canti poetici propri dei popoli primitivi sono ulteriormente sviluppati; si sviluppa
quella che Vico chiama la "sapienza poetica". La scoperta del valore creativo della
fantasia, del mito e della poesia è una delle più grandi intuizioni di Vico, che
anticipa il Romanticismo. La poesia per Vico non è solo un linguaggio utile a
procurare piacere o per abbellire un discorso, ma contiene invece una propria verità,
è espressione di una visione del mondo (del modo di considerare il mondo e la vita)
sia pure per mezzo di immagini. Il linguaggio poetico è spontaneo, intuitivo,
fantastico; predominano la metafora e la similitudine ed è nato prima del linguaggio
in prosa. In tal senso Vico afferma l'autonomia della poesia rispetto al
ragionamento, tesi che è stata ripresa e sostenuta dall'estetica moderna. Medesimo
valore hanno i miti, che non sono stravaganze ma espressione dei costumi e della
sensibilità dei popoli antichi: Achille, ad esempio, è il mito e il simbolo del
coraggio.
Dall'interesse per il linguaggio poetico Vico passa quindi ad interessarsi del
linguaggio in generale, che non considera un'invenzione arbitraria, convenzionale,
poiché esso nasce naturalmente dall'esigenza degli uomini di intendersi. Come mai,
si domanda Vico, lo studio del linguaggio, così importante per gli uomini e per
capire il loro modo di pensare, è stato invece trascurato? Proprio perché, egli
risponde, ci è troppo familiare, talmente quotidiano e praticato che, di conseguenza,
solo poche volte ci soffermiamo a rifletterci.
La sapienza poetica è un modo attraverso cui comprendere l'ordine e la direzione
di fondo della storia ideale eterna, tuttavia si tratta di una comprensione per lo più
vaga e fantastica. La comprensione più piena, piuttosto, è possibile attraverso la
ragione e la riflessione filosofica, che caratterizzano la terza età della storia.
3) L'età degli uomini, caratterizzata dal pieno sviluppo della ragione. Gli uomini si
rendono conto di essere uguali e al posto dei governi aristocratici sorgono quelli
democratici, in cui il potere è distribuito secondo il merito e il censo. Sorgono le
leggi scritte e la prosa sostituisce il linguaggio poetico. Nascono la filosofia e le
scienze. Esempi dell'età degli eroi sono la Grecia omerica, la Roma più antica ed
altresì, secondo Vico, il Medioevo; sono invece esempi dell'età degli uomini la
Grecia del periodo classico (quello dell'egemonia ateniese), la Roma repubblicana e
la civiltà moderna.
Tuttavia, quando le scoperte ed invenzioni della scienza e della tecnica
producono eccessive comodità, raffinatezze e lusso, oppure quando la ragione
diventa troppo astratta e si allontana dalla tradizione e dai buoni costumi, accade
allora, secondo Vico, che i costumi degli uomini si corrompano e che la civiltà si
avvii verso la decadenza. Ciò può determinare la fine dell'età degli uomini e un
157

ritorno alla barbarie primitiva attraverso un processo di successivi corsi e ricorsi


della storia: ad un "corso", cioè allo sviluppo unitario di un popolo attraverso le tre
età della storia, può succedere un "ricorso", ossia il ritorno del medesimo popolo
allo stadio primitivo iniziale, per cui è costretto a ricominciare da principio il
proprio sviluppo. La teoria dei corsi e ricorsi della storia sembra indicare un
andamento ciclico della storia umana similmente a certe antiche concezioni greche,
ma non viene intesa da Vico come deterministica, inevitabile, bensì
semplicemente come possibile.
Con la teoria della storia ideale eterna e delle tre età della storia Vico si propone di
individuare l'ordine e le leggi generali dell'essere (della realtà), tentativo che
giudica vano in natura ma possibile invece nel mondo della storia. In tal senso Vico
si presenta come il Bacone del mondo storico.

L'eterogenesi dei fini e la Provvidenza nella storia.

Vico rifiuta la tesi della storia come risultato della necessità o del destino,
similmente agli stoici (determinismo storico), così come rifiuta una concezione
della storia come risultato del caso, similmente agli epicurei. Per Vico la storia
si fonda sulla libera opera e produzione dell'uomo.
Però capita con una certa frequenza che gli uomini, quando nelle loro vicende
storiche perseguono certi fini, ne raggiungano invece altri e diversi dalle loro
intenzioni, che tuttavia, a loro insaputa, possono spesso portare ad un progresso: ad
esempio, dall'impulso sessuale è nata la famiglia; dal desiderio di potere sono sorte
le città; dallo sfrenato desiderio di libertà sono nate le leggi. È questa, così come
chiamata da Vico, "l'eterogenesi dei fini", ossia il conseguimento di obiettivi e di
fini diversi da quelli proposti, la quale dimostra che la storia è fatta sì dagli
uomini ma anche da un'intelligenza superiore, che persegue fini più elevati,
indirizzando la storia stessa verso un maggior progresso.
Questa intelligenza superiore non può essere che la Provvidenza divina (cioè
un'influenza esercitata da Dio sulla storia per amore verso gli uomini), la quale
orienta la storia, anche al di là delle intenzioni umane, nella direzione che per gli
uomini è la migliore.
Sorge allora il problema: se nella storia agisce ed interviene la Provvidenza
divina, allora la libertà degli uomini come produttori di storia rimane salva oppure
no?
In generale tre sono le principali interpretazioni sulla provvidenza:
1. quella teologica tradizionale, che sottolinea il carattere trascendente ed in
nessun modo immanente e secolarizzato della provvidenza;
2. quella idealistica di Hegel e ripresa da Croce, che accentua l'immanenza
della provvidenza, la quale viene perciò a coincidere col corso razionale
della storia: la provvidenza cioè non è un intervento divino ma è il pensiero
in generale, la complessiva intelligenza che è dentro il mondo; è
l'intelligenza dello spirito dell'umanità che governa la realtà;
158

3. quella marxista-materialista, che fa coincidere e riduce la provvidenza alla


natura, ossia alle condizioni materiali di esistenza in cui l'uomo si trova a
vivere e che sono il fattore della storia mediante la lotta di classe.
Per Vico la Provvidenza è trascendente e immanente al tempo stesso; essa
ispira gli uomini ma non ne limita la libertà. Tant'è vero che la storia non procede
sempre lungo un percorso lineare di continuo progresso ma subisce anche regressi,
ritorni a precedenti età di maggior barbarie e di minor civiltà, come ad esempio
l'avvento dei regni romano-barbarici dopo la caduta dell'Impero romano.
La Provvidenza per Vico è dunque universale ma non necessitante, non
costringe la libertà umana. È uno stimolo onnipresente che spinge gli uomini ad
agire in vista di valori ideali eterni, ma non li obbliga. Essa è presente all'uomo
dapprima nella forma della sapienza poetica e poi nella forma della sapienza
riflessa, ragionata, cioè della filosofia, rivestendo in ogni caso i caratteri della
religiosità. Per Vico infatti, si è visto, la religione ha una funzione civilizzatrice in
quanto orienta gli uomini verso forme di maggior civiltà.
La religione non è intesa da Vico nella forma di un cristianesimo ortodosso,
ossia fedele e corretto secondo l'insegnamento della Chiesa, bensì è intesa come
religione naturale, generalmente concepita non già come religione positiva e
rivelazione divina ma come sentimento istintivo e comune in tutte le genti fin
dall'origine della storia dell'umanità: è una forma di deismo storicistico comune a
tutti gli uomini derivante dalla natura umana e non da una religione rivelata. Per
Vico tuttavia il deismo deriva soprattutto dalla storia umana, dal progresso civile,
piuttosto che dalla natura dell'uomo.
159

L’ILLUMINISMO.

L'Illuminismo è un movimento non solo filosofico ma più generalmente culturale


(letterario, artistico, sociale, politico, scientifico) che si sviluppa in Europa nel
diciottesimo secolo.
Sua caratteristica principale è la fiducia e la celebrazione della ragione umana,
più in particolare, metaforicamente, dei "lumi" della ragione, perché capace di
guidare e di "illuminare" tutti gli aspetti della conoscenza e del comportamento
umano. Da qui, appunto, il termini di "Illuminismo", per significare la capacità
della ragione di illuminare il sapere e la condotta umana.
Il movimento illuminista si diffonde nei più avanzati paesi europei: Gran
Bretagna, Francia, alcuni Stati italiani e tedeschi. Ha i suoi primi inizi in
Inghilterra, dove ormai la borghesia aveva definitivamente superato l'aristocrazia
agraria nella produzione della ricchezza, affermandosi come classe sociale
prevalente nell'economia. Ma è in Francia che l’Illuminismo ha il massimo
sviluppo, dove era forte il contrasto tra la borghesia, che stava diventando sempre
più importante dal punto di vista economico, ed il sussistente sistema politico,
ancora di carattere aristocratico e feudale. Tant'è che verso la fine del Settecento gli
interessi della borghesia e le idee di libertà e di uguaglianza civile dell'Illuminismo
portarono allo scoppio della Rivoluzione francese, che comportò la fine del
vecchio regime monarchico, assoluto e aristocratico.
In Italia e in Germania l'Illuminismo non fu il frutto soprattutto della classe
borghese, che era meno progredita rispetto all'Inghilterra e alla Francia, bensì di
taluni principi "illuminati", cioè di taluni sovrani di idee avanzate, che vollero
governare secondo una mentalità moderna e progressista.
In generale si può dire che l'Illuminismo è stato l'ideologia (la forma di
pensiero) della borghesia in ascesa, destinata a diventare la classe sociale
prevalente.
Caratteristiche principali dell'Illuminismo sono:
1. la fiducia nella ragione umana, nella riflessione razionale controllata e
verificata in base all'esperienza, cui è affidato il progresso umano;
2. la liberazione dell'uomo, mediante la diffusione del sapere, dalle concezioni
assurde della tradizione, dall’ignoranza e dall’oppressione;
3. l'avvento di una nuova concezione di società tollerante, in cui garantire i
diritti naturali e la convivenza sociale abbattendo i privilegi sociali di origine
feudale;
4. lo sviluppo di una nuova religione, non rivelata e trascendente, ma basata su
principi razionali naturali, vale a dire quelli del deismo (la Dea ragione) e
del giusnaturalismo (il diritto naturale).

La cultura illuminista è laica, terrena, pubblica, progressista e critica.


È laica perché crede nella separazione tra Chiesa e Stato e condanna ogni
fanatismo e superstizione religiosa.
160

È terrena perché l'uomo non si sente più un pellegrino in esilio sulla terra,
considerata una "valle di lacrime", un luogo di passaggio in attesa della vita
ultraterrena. Anzi, è orgoglioso della sua condizione di essere terreno, unico luogo
in cui gli è concesso di vivere. Pertanto, pur essendo consapevole dei limiti delle
capacità umane, l'illuminista si impegna per il benessere e la felicità sua e della
società. Il male non è più concepito come conseguenza del peccato originale e
soltanto come debolezza e colpa individuale, ma soprattutto come conseguenza
dell'ignoranza, per cui diventa importante l'istruzione e l'educazione.
È pubblica perché il sapere e la conoscenza non devono essere il privilegio solo di
pochi fortunati ma essere diffusi ed estesi al più ampio numero possibile di
persone. Sorgono nuovi luoghi e occasioni di cultura, quali le Accademie, la
Massoneria (ispirata ad ideali di pace e tolleranza, di carattere filantropico, che
peraltro sviluppa altresì motivi anticlericali e antidogmatici), i salotti letterari,
nuove forme letterarie quali l'epistolario nonché i saggi, spesso nella forma del
pamphlet. Ai fini della diffusione del sapere è stato particolarmente rilevante il
progetto dell’"Enciclopedia" perseguito dagli illuministi francesi Diderot e
D’Alembert, ossia la creazione di un'opera che, come le enciclopedie
contemporanee, contenga e descriva, in maniera comprensibile per il pubblico
mediamente istruito, i concetti, le teorie, le conoscenze raggiunte dalle varie
scienze, perché tutti possano apprendere ed aumentare il loro sapere.
È progressista perché gli illuministi hanno fiducia nella ragione umana e nella
diffusione del sapere per far progredire la libertà e la società. L'idea di progresso
è un'idea fondamentale dell'Illuminismo. Per gli illuministi la storia e la
conoscenza umana, come pure le condizioni sociali ed economiche degli uomini e
dei popoli, anche se potranno avere momenti di arresto o di regresso sono tuttavia
tendenzialmente destinate a progredire e migliorare sempre di più.
È critica perché la cultura illuminista non dà niente per scontato: nessuna
spiegazione deve essere accettata solo perché fornita da pensatori antichi ritenuti
autorevoli e indiscutibili. Anche l'Illuminismo combatte il "principio di autorità".
Ogni spiegazione può essere invece accettata solo dopo essere stata analizzata e
"criticata" dalla ragione nonché, ogni qualvolta possibile, verificata sulla base
dell'esperienza.
Nel complesso dunque la cultura e la filosofia dell'Illuminismo sono ottimiste.
Nel corso dell'Illuminismo si afferma un nuovo tipo di intellettuale, che non è più
il pensatore solitario e astratto del passato, ma è impegnato sia cambiare in meglio
la società sia a diffondere il sapere, facendo uso di un linguaggio divulgativo
(comprensibile) perché anche i non specialisti possano aumentare le loro
conoscenze.
L'uso della ragione, oltre che critico, deve essere assolutamente libero: viene
difesa la libertà di parola, di scrivere e di pensare senza vincoli e pregiudizi
imposti dagli altri.
Scrive Kant, il maggiore dei filosofi illuministi, che l'Illuminismo è quel
movimento culturale e di pensiero il quale crede che ciascun uomo possa
conoscere e agire avendo fiducia nelle capacità della propria ragione, del proprio
161

intelletto. Pur rispettando le leggi dello Stato, deve essere possibile la pubblica e
libera discussione delle idee e delle opinioni di ciascun cittadino: ciò permetterà di
superare errori ed ostacoli e di migliorare la vita della collettività. Il motto di Kant
è "sapere aude" cioè "osa sapere", abbi il coraggio di servirti della tua propria
intelligenza, senza subire per forza la guida di un altro, senza farti intimidire
dall'autorità degli antichi maestri.

Le teorie politiche dell'Illuminismo.

Pur constatando la grande varietà dei costumi, l'Illuminismo crede


nell'immutabilità di fondo della natura umana, in base a cui costruire una
legislazione di valore universale. Vede così la luce nel 1789 la "Dichiarazione
dei diritti dell'uomo e del cittadino", in cui vengono riconosciuti come diritti
naturali la libertà, l’uguaglianza, la sicurezza individuale, la proprietà nonché
il diritto alla felicità, intesa non come edonismo materialistico bensì come
utilitarismo individuale ma anche sociale.
L'Illuminismo si ispira per lo più ad un riformismo tendente a trasformare,
piuttosto che abbattere, il sistema sociale esistente, richiamandosi in ciò alle idee di
Locke e dei giusnaturalistici (i teorici del diritto naturale). In ogni caso vanno
rifiutati e combattuti con forza il dispotismo, sia politico che ecclesiastico, ed il
fanatismo, come retaggi barbarici e antirazionali. L'ideale è quello dello Stato
laico, con netta separazione della politica dalla religione.
Tre sono le principali teorie politiche della cultura illuministica:
1. la teoria del dispotismo illuminato (contro quello tirannico): il potere è
esercitato da sovrani-filosofi o che, in alternativa, abbiano validi
collaboratori; si tratta di un paternalismo monarchico giustificabile
allorquando i popoli, ancora immaturi, abbiano bisogno di guida: ne sono un
esempio Federico II di Prussica e Caterina II di Russia;
2. la teoria della divisione dei poteri (potere legislativo, esecutivo e
giudiziario) a garanzia della libertà;
3. le teorie utopistiche radicali, di tendenza comunistica e anarchica, che
hanno ispirato le frange più estremistiche della Rivoluzione francese e che
hanno in Condorcet e Rousseau i principali esponenti.

Le principali teorie economiche.

Sono sostanzialmente due:


1. la teoria liberista di Adam Smith (economista inglese, la cui opera
principale, del 1776, è intitolata "La ricchezza delle nazioni"): è una teoria
che si contrappone al mercantilismo o protezionismo e si basa sulla libertà di
iniziativa economica dei cittadini, senza che lo Stato abbia ad intervenire. Vi
è alla base la concezione di un ordine naturale, di origine provvidenziale,
162

che garantisce la coincidenza dell'interesse del singolo con l'interesse della


collettività: è raffigurato come "mano invisibile" che trasforma gli egoismi
individuali in virtù e benessere sociale;
2. la teoria fisiocratica, esposta per la prima volta dall'economista francese
Quesnay nel 1758: anche questa teoria si contrappone al mercantilismo e
considera l'agricoltura come la sola attività economica di base capace di
moltiplicare la ricchezza, mentre il commercio si limita a trasferire la
ricchezza già prodotta e l'industria a trasformare i beni offerti dalla terra; a
questa teoria vanno ascritti i meriti dell'abbattimento dei vincoli feudali
(pedaggi, corvés, ecc.) e dell'impulso verso forme di agricoltura più
moderne.

L'Illuminismo e la storia.

Critica la visione cristiana della storia, in cui interviene la Provvidenza divina:


Dio non interviene nel mondo ma è soltanto il garante dell'ordine dell'universo.
Unico protagonista della storia è l'uomo. Ma quello della storia è un cammino
problematico poiché esposto all'errore (il Medioevo, ad esempio, è interpretato come
ritorno alla barbarie e all'oscurantismo). Peraltro, se l'Illuminismo è caratterizzato
dal pessimismo storico nei confronti del passato, tuttavia nei confronti del futuro
si contraddistingue per la fiducia di fondo nel progresso della storia.
L'Illuminismo non è antistorico, semmai è antitradizionalista.
Si deve all'Illuminismo, grazie soprattutto a Pierre Bayle, la prima formulazione di
rigorosi criteri metodologici per una storiografia scientifica.

Gli aspetti più filosofici dell'Illuminismo.

La filosofia illuminista non presenta particolari caratteri originali. Prende a


modelli soprattutto il meccanicismo di Newton e l'empirismo di Locke.
Newton è considerato il massimo esponente della conoscenza scientifica della
natura. Locke è considerato un maestro nella filosofia della conoscenza
(gnoseologia) e nella filosofia politica, quale teorico dello Stato costituzionale
fondato sulla libertà dei cittadini. Entrambi influenzano la filosofia illuminista
che è di impostazione empirica ed induttiva.
Anche per gli illuministi, come per gli empiristi, non esistono idee innate, cioè
principi a priori, indipendenti dall'esperienza, dai quali dedurre tutte le spiegazioni
della realtà e dei fenomeni particolari. La ragione è lo strumento principale della
conoscenza, però ogni conoscenza, teoria e spiegazione deve essere verificata in
base all'esperienza. Ciò che non è verificabile non è scientifico e pertanto va
rifiutato.
La filosofia illuminista è perciò antimetafisica, proprio perché i concetti della
metafisica (le essenze, le sostanze, l'essenza di Dio, il fine e lo scopo del mondo,
163

l'essenza dell'anima) non possono essere verificati mediante l'esperienza (le


essenze e le sostanze non si vedono e non si toccano). La metafisica è vaga ed
astratta, mentre le cose della natura, compresa la natura umana, possono essere
conosciute non già in base ad ipotesi astratte, ma studiando e analizzando i
fenomeni secondo il metodo induttivo per giungere a formulare leggi e teorie
generali, capaci di spiegare ciascuna un ampio insieme di fenomeni (la legge di
inerzia, le leggi della meccanica, la legge di gravitazione universale, ma anche le
leggi della morale e della politica). Gli illuministi sono tuttavia consapevoli che
la ragione e la conoscenza umane sono limitate. Non è possibile pervenire a
verità assolute e definitive, ma solo a verità provvisorie e storiche, destinate cioè
a mutare, anche in meglio, col progredire storico della conoscenza e della scienza.
L'Illuminismo privilegia il valore pratico della conoscenza: non il sapere per il
sapere ma un sapere pratico, il sapere per il fare.
In questo senso, molteplici sono gli interessi dell'Illuminismo: non solo lo studio
della natura e della conoscenza umana, ma anche dell'economia, dell'estetica, del
linguaggio, delle scienze umane e sociali, della morale e della storia umana. Come
si è sottolineato, sono interessi enciclopedici.
Il filosofo illuminista non vive isolato, non si dedica ad uno studio solitario e
solamente teorico, ma gli piace vivere in mezzo agli altri uomini e si dedica a un
sapere che sia soprattutto utile per migliorare la società.
In quanto espressione della cultura borghese e per la sua fiducia nell'uomo e nella
ragione umana e laica (l'uomo vale anche per se stesso e non solo come creatura di
Dio), l'Illuminismo si presenta come continuazione ideale dell'Umanesimo e
del Rinascimento, tuttavia senza quegli aspetti magico-religiosi diffusi nella
cultura umanistico-rinascimentale. Altrettanto, si presenta come continuazione
della rivoluzione scientifica poiché celebra ed esalta il valore della scienza e della
tecnica.

Illuminismo e religione: il deismo e il principio di tolleranza.

L'Illuminismo, particolarmente in seguito alle sanguinose guerre di religione,


rivolge vigorose critiche alle religioni positive (positive=scritte, in riferimento
alle sacre scritture rivelate direttamente da Dio attraverso i profeti), in quanto
superstiziose, fanatiche e intolleranti, poiché ognuna pretende di essere la sola vera
religione.
Si distingue tra:
1. teismo: credere in un Dio persona creatore del mondo, che ama le sue
creature e gli uomini in particolare, che vuole condurre alla salvezza eterna,
e che interviene nella storia del mondo e degli uomini come Provvidenza; si
tratta, appunto, del Dio delle religioni positive: il cristianesimo, l'islamismo,
ecc.;
2. deismo: non credere nelle religioni positive e in un Dio persona bensì in una
specie di "religione naturale", cioè terrena e umana, non basata sulla
rivelazione di un Dio trascendente (distinto e al di sopra del mondo), ma
164

fondata sui sentimenti e sulla ragione umana, per cui ogni uomo sente
istintivamente e ritiene ragionevole pensare che esista una realtà, una
ragione, un'intelligenza superiore immanente, coincidente con l'ordine e
l'armonia che governa il mondo della natura e il mondo morale degli uomini;
3. ateismo: non credere in nessun Dio soprannaturale né in nessuna religione
naturale; è questo, in particolare, l'atteggiamento dei pensatori materialisti
(come Hobbes), i quali sostengono che solo la materia e i movimenti dei
corpi materiali sono l'unica causa della realtà.
Anche se taluni filosofi illuministi si sono proclamati atei, ritenendo la religione
un fenomeno irrazionale, nato dalla paura e dall'astuzia della politica, la maggior
parte peraltro aderisce al deismo, tant'è che gli illuministi si appellano alla "Dea
ragione".
In sostanza, i filosofi deisti affermano che se noi eliminiamo da ogni religione
positiva tutti i dogmi, i misteri, le superstizioni, i miracoli, quel che resta è una
base comune a tutte le religioni, che esprime principi e precetti non di carattere
soprannaturale bensì naturale (terreno) e razionale, come l'amore per il prossimo, il
rispetto degli altri, la libertà di ognuno, l'uguaglianza tra gli uomini (religione
naturale e morale naturale).
Il deismo favorisce l'affermazione del principio di tolleranza, sia religiosa che
civile, anticipato da Locke. Non solo contro le sciagure delle guerre di religione,
ma anche per avvantaggiare lo sviluppo dei commerci e l'ascesa della borghesia,
gli illuministi comprendono come sia importante la tolleranza nei confronti di tutte
le religioni e dei vari sistemi politici purché non siano fanatici. L'intolleranza
religiosa e civile, infatti, oltre a provocare continue guerre, impedisce altresì il
libero svolgimento dei traffici commerciali, mentre i commercianti vogliono
invece essere liberi di fare affari anche con chi ha una fede e idee politiche diverse
dalle loro.

GLI ILLUMINISTI FRANCESI.

Come già premesso, l'Illuminismo si diffonde in tutta Europa ma si sviluppa


particolarmente in Francia. Tra i principali illuministi francesi possiamo
annoverare Montesquieu, Voltaire, gli enciclopedisti Diderot e D'Alembert,
Condillac, i materialisti La Mettrie, d'Holbach ed Helvètius, ed infine quell’
illuminista atipico che è stato Rousseau.

Charles de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755).

È stato parlamentare a Bordeaux e ha compiuto numerosi viaggi in Europa.


Opere principali: Lettere persiane; Considerazioni sulle cause della grandezza dei
Romani e della loro decadenza; lo Spirito delle leggi.
165

Si propone di estendere allo studio della società umana il metodo sperimentale


e di fissare taluni principi universali atti ad organizzare in spiegazioni
generali ed unitarie l'infinita molteplicità delle usanze, delle norme giuridiche,
delle credenze religiose e delle forme politiche dei diversi popoli.
Condivide la concezione machiavellica della politica come "forza", ma la integra
prendendo in considerazione, con riguardo alla genesi e struttura dei sistemi
politici, numerose altre cause, storiche, politiche, fisiche, geografiche e morali.
Considera illusoria la rappresentazione di un modello di Stato ideale, cara agli
utopisti; cerca piuttosto di stabilire in concreto le condizioni che nei diversi regimi
politici possono garantire il meglio per la convivenza civile, vale a dire le
condizioni per la libertà. Giudicando i sistemi politici relativi e mutevoli, il suo è
un realismo e relativismo politico sorretto tuttavia dalla fiducia circa la possibilità
della razionalizzazione e miglioramento delle leggi e delle istituzioni.
Nell’opera "Lettere persiane", redatta in forma di lettere-diario di un giovane
persiano in viaggio per l'Europa, Montesquieu fa la satira della civiltà occidentale
del tempo, dei vizi delle classi dirigenti, della vanità delle dispute teologiche, della
corruzione delle corti e soprattutto dell'assolutismo politico e religioso.
Nell'opera sulla civiltà romana Montesquieu riconosce le cause della grandezza dei
Romani nell'amore per la libertà, per il lavoro e per la patria, nonché le cause della
decadenza nell'eccessivo ingrandimento dello Stato, nell'estensione del diritto di
cittadinanza anche ai popoli conquistati, nelle numerose guerre condotte in terre
lontane, nella corruzione recata dall'introduzione del lusso asiatico ed infine nella
perdita di libertà sotto l'Impero.
Lo "Spirito delle leggi" è la sua opera principale. Per legge Montesquieu intende il
modo di essere necessario, la struttura naturale, che caratterizza ogni cosa. Ogni
essere ha la sua legge e quindi anche l'uomo. Ma le leggi dell'uomo non hanno
nulla di necessitante. Dovrebbero tutte ispirarsi al medesimo principio e criterio di
razionalità; se però l'uomo come essere fisico è governato da leggi necessarie e
immutabili al pari degli altri corpi, come essere intelligente, tuttavia limitato e
finito, è peraltro soggetto all'ignoranza, all'errore e a mille passioni. Lo spirito
delle leggi umane dovrebbe costituire il dover essere, la razionalità dell'uomo
e della società, ma spesso nella realtà non è così. La razionalità resta comunque il
criterio guida e le leggi politiche e civili di ogni nazione non dovrebbero essere
altro che casi particolari del principio generale. Le leggi di ciascun popolo devono
inoltre saper adattarsi alle particolari condizioni di ogni singolo popolo: condizioni
fisico-geografiche, climatiche, di estensione territoriale, di tipo di economia
prevalente (agricoltura, caccia, pastorizia), di tipo di costumi e tradizioni, di tipo di
religione, di grado di libertà e di ricchezza.
Le leggi particolari sono pertanto diverse da popolo a popolo, tuttavia è
possibile individuare alcuni principi generali e comuni di classificazione e di
organizzazione dei sistemi politici. Esistono tre fondamentali tipi di governo: la
repubblica, fondata sulla sovranità popolare, il cui principio sta nella virtù intesa
come virtù politica, cioè amor di patria ed uguaglianza sociale; la monarchia,
ossia il governo di uno solo tuttavia in base alla legge, il cui principio sta
166

nell'onore; il dispotismo, ossia il governo di uno solo secondo il capriccio e


l'arbitrio al di sopra della legge, il cui principio sta nel timore imposto. Queste tre
forme di governo ciclicamente si possono corrompere allorquando si corrompa
il rispettivo principio di base: quando lo spirito di uguaglianza diviene estremo la
repubblica diventa anarchia; quando l'onore si trasforma in ricerca e desiderio di
onori la monarchia si degenera in potere ambizioso e autoritario; il governo
dispotico, dal canto suo, è incessantemente corrotto per propria natura. Sta però
allo spirito di libertà degli uomini il potere di reagire a tali corruzioni per
migliorare la convivenza e le condizioni sociali.
In tal senso Montesquieu si propone di evidenziare le condizioni che
garantiscono la libertà politica del cittadino, ravvisate nella sua celebre
dottrina della divisione dei poteri. La libertà politica, precisa Montesquieu, non
deriva tanto dalle forme di governo, essendo possibile anche nell'ambito di forme
di governo diverse. Deriva piuttosto da regimi moderati di governo, cioè da
governi in cui ogni potere trova limiti che gli impediscono di prevaricare.
Richiamandosi alla costituzione inglese, Montesquieu dichiara che la libertà
politica è assicurata dalla separazione dei tre poteri, quello legislativo, quello
esecutivo e quello giudiziario, poiché la concentrazione dei tre poteri, o anche di
due, nelle stesse mani, in una medesima autorità, annulla la libertà del cittadino e
rende possibile l'abuso. La teoria della divisione dei poteri è divenuta in effetti il
fulcro dello Stato di diritto e della democrazia.

François-Marie Arouet Voltaire (1694-1778).

Compie i suoi studi in un collegio di gesuiti e quindi a Parigi. Il padre voleva che
diventasse un avvocato, ma Voltaire preferisce dedicarsi alla letteratura, alla
filosofia e soprattutto alla critica sociale contro i pregiudizi, l'intolleranza, la
vecchia cultura e la vecchia filosofia. Conduce una vita irrequieta, svolgendo il
ruolo dell'intellettuale nei centri culturali parigini ma anche in qualità di
consigliere di principi e di re, tra cui Luigi XV di Francia e Federico II di Prussia.
Per le sue idee anticonformiste ed antitradizionali viene pure incarcerato e trascorre
periodi di esilio, prima in Inghilterra di cui apprezza la mentalità più libera e
moderna, e poi in Svizzera.
Opere principali: in qualità di intellettuale con molteplici ed enciclopedici interessi
scrive poemi, tragedie, opere di storia, romanzi, saggi di fisica e di filosofia tra cui,
in particolare, "Lettere filosofiche"; "Elementi della filosofia di Newton"; il
"Dizionario filosofico" nonché, in forma di romanzo, il "Candido".
Il suo intento è di diffondere e divulgare la nuova mentalità e le idee illuministe,
usando anche un linguaggio ironico, satirico e sarcastico per prendere in giro e
provocare i superstiziosi, i conformisti e gli ignoranti. Più che per l'originalità, la
filosofia di Voltaire si contraddistingue proprio per lo spirito polemico e
critico, in particolare contro Leibniz, contro Pascal, contro il fanatismo, contro il
167

dispotismo ed anche, a modo suo, contro l'ateismo. In questo senso è tra i maggiori
esponenti dell'Illuminismo francese, contribuendo notevolmente alla sua
affermazione.
Nella sua opera il "Candido" ridicolizza la concezione ottimistica di Leibniz
sul mondo quale il migliore dei mondi possibili, rispetto a cui il terribile terremoto
accaduto a Lisbona nel 1755 gli appare la più recente smentita storica. Candido,
spirito semplice, è vittima di una serie interminabile di disgrazie. Si domanda
allora ironicamente Voltaire: come potrebbe ciascuna di tali disgrazie avere la
propria ragion sufficiente e giustificazione in quello che Leibniz rappresenta come
il migliore dei mondi? Deride pure la credenza della vecchia metafisica secondo
cui l'uomo è il centro e il fine dell'universo. Il bene, come il male, è una realtà del
mondo inspiegabile con i lumi della ragione. Il potere dell'uomo, ribadisce
Voltaire, è relativo e ha ragione Pierre Bayle (filosofo francese illuminista
contemporaneo di Voltaire) nell'affermare l'impossibilità di risolvere problema del
male, come invece preteso da Leibniz.
Nei confronti di Pascal giudica il suo pessimismo, quale espresso nel
"divertissement", un'ingiuria contro l'umanità, da Pascal dipinta come enigma e
sopraffatta dalla paura di vivere. Per Voltaire è invece nell'azione, nonché nella
accettazione delle proprie condizioni e passioni, che l'uomo è in grado di
riconoscere le sue capacità nel bandire le superstizioni, le intolleranze e "le
crudeltà delle religioni dei preti".
Voltaire attacca il fanatismo delle religioni, e in particolare del cristianesimo, che
"ci ha fatti persecutori, carnefici e assassini dei nostri fratelli". Alle religioni
positive contrappone la religione razionale e naturale del deismo, a cui Voltaire
aderisce. Tutte le religioni positive e i loro dogmi sono per Voltaire frutto
dell'ignoranza e dell'inganno, in quanto sono religioni fanatiche ed intolleranti.
Esclude che si possano accogliere per fede verità che appaiono assurde alla
ragione. “Dio vuole che noi siamo virtuosi ma non che siamo assurdi”.
Come deista Voltaire crede in una Intelligenza superiore da cui deriva l'ordine
razionale dell'universo: è un Dio più filosofico che religioso. Dalla ragione deriva
il principio di tolleranza sia religiosa che politica: poiché noi tutti siamo soggetti
all'errore, proprio qui sta il fondamento della tolleranza reciproca.
Peraltro, sempre in base alla ragione e alla fiducia in una religione naturale,
Voltaire proclama insostenibile l'ateismo: "se Dio non esistesse bisognerebbe
inventarlo", afferma Voltaire. L'esistenza di Dio non è materia di fede ma il
risultato della ragione, in forza del principio che dal nulla non può venire nulla.
Tuttavia il Dio di Voltaire non è il Dio persona concepito antropomorficamente
bensì un Dio inteso come principio ordinatore del mondo.
Voltaire dubita invece dell'esistenza di un Dio che premi i buoni e punisca i
malvagi dopo la morte, perché ciò comporta l'immortalità dell'anima, la qual cosa
non è affatto certa e dimostrabile. Ritiene tuttavia opportuna e conveniente per le
persone semplici una religione popolare che faccia credere nell'esistenza di un Dio
che punisca, perché così il popolo sarà più rispettoso ed onesto.
168

Durante il suo esilio in Inghilterra Voltaire conosce e ammira la filosofia inglese;


in particolare il metodo sperimentale induttivo di Bacone, la filosofia della
conoscenza di Locke e la filosofia e le scoperte scientifiche di Newton.
Viceversa, mentre riconosce i meriti di Cartesio nella matematica e nella
definizione del nuovo metodo filosofico, non ne accetta invece la metafisica
basata sulle idee innate e sul metodo deduttivo poiché non è un metodo
sperimentale. Di Cartesio critica in particolare le prove dell'esistenza di Dio e le
teorie sul carattere spirituale dell'anima (la res cogitans) e sulla sostanza estesa (la
res extensa) perché non verificabili e scientificamente non dimostrabili.
In politica combatte il dispotismo assolutista e simpatizza per un dispotismo
illuminato, garante della libertà civile dell'individuo, non dallo Stato ma in uno
Stato che sia difensore delle leggi contro l'arbitrio e il privilegio. Nel dispotismo
illuminato vede il superamento del regime feudale grazie ad una nuova alleanza tra
sovrani e filosofi, elevati a consiglieri del re. La concezione politica di Voltaire
rispecchia l'ideologia borghese. Considera una chimera,un’illusione,
l'uguaglianza naturale (non quella civile) fra tutti gli uomini: ve ne sono invece
di più bravi e meritevoli ed altri meno bravi e meno meritevoli. Accetta anche la
differenza tra ricchi e poveri perché i ricchi, comprando i prodotti dei contadini e
degli artigiani, li aiutano a mantenersi. La libertà dei contadini e degli artigiani è
quella di vendere i prodotti del loro lavoro a chi li paga meglio.
Nei riguardi della storia Voltaire non crede nell'intervento della Provvidenza
divina e non crede nemmeno che la sola storia importante sia quella europea.
Considera altrettanto importanti le storie degli altri popoli: il suo è un concetto di
storia universale. Parimenti, Voltaire critica la storia tradizionale che si occupa
solo dei sovrani, delle loro conquiste e dei loro trattati. La storia deve essere quella
di tutti gli uomini, perciò essa deve occuparsi anche dell'economia, dei modi di
pensare e degli usi e costumi delle genti. Come gli illuministi in generale, anche
Voltaire ha fiducia nel progresso della storia verso il meglio.

Gli enciclopedisti: Diderot e D'Alembert.

L’"Enciclopedia", o "Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei


mestieri", è stato il massimo strumento di diffusione delle dottrine
illuministiche. È nata da un'idea del libraio parigino Le Breton di tradurre in
francese un'analoga opera inglese. Diderot, assunto il compito di direttore
dell'opera, si circonda di numerosi collaboratori e rende più ampio ed ambizioso
il piano originario. L'impresa inizia nel 1751 e viene ultimata nel 1772, non senza
dover superare, grazie anche all'appoggio di Madame de Pompadour, resistenza ed
opposizioni da parte degli ambienti religiosi. Anche in considerazione delle più
limitate conoscenze dell'epoca, l'Enciclopedia non è priva di incongruenze ed
errori, ma la sua efficacia è stata immensa e ad essa si deve in buona parte uno dei
più vasti rinnovamenti della cultura europea.
169

Denis Diderot (1731-1784).


Come Voltaire, è stato intellettuale di molteplici interessi. Le sue dottrine illustrano
i temi fondamentali dell'Illuminismo, in particolare la fiducia nella ragione umana,
non senza la consapevolezza però dei suoi limiti contro ogni presunzione della
metafisica.
Diderot comunque non rifiuta la possibilità di formulare ipotesi generali, una
fondamentale visione del mondo similmente a Spinoza: il mondo è concepito come
un immenso organismo e Dio come l'anima di esso. Come anima del mondo Dio è
una sensibilità diffusa nelle cose della natura secondo gradi diversi. Il pensiero di
Diderot oscilla fra deismo e panteismo. Tutti gli elementi dell'universo sono
animati, cioè provvisti di una certa sensibilità, più o meno grande, che li spinge a
trovare le combinazioni o le coordinazioni più adatte. Gli organismi viventi si
sviluppano gradualmente e si trasformano gli uni negli altri (anticipazione
dell'evoluzionismo biologico). Però tutte queste sono per Diderot semplice ipotesi
di carattere problematico ed anzi rimprovera ai materialisti di trasformarle in
dottrine dogmatiche, indiscutibili.

Jean Le Ronde D'Alembert (1717-1783).

È l'altro grande protagonista dell'Enciclopedia anche se a un certo punto, per


discordie interne, ritira la propria collaborazione.
Crea una propria classificazione delle facoltà del pensiero e delle discipline
fondamentali. Individua tre diversi modi in cui il pensiero opera sugli oggetti:
1. la memoria, che è la conservazione passiva e meccanica delle conoscenze, a
cui corrisponde la storia;
2. la ragione, che consiste nell'esercizio della riflessione sulle conoscenze
acquisite, cui corrisponde la filosofia;
3. l'immaginazione, che consiste nell'imitazione libera e creativa della realtà,
cui corrispondono le belle arti.
Sull'esempio della "filosofia prima" di Bacone, D’Alembert ammette inoltre una
metafisica generale in grado di analizzare i principi e le proprietà generali comuni
sia a tutti gli esseri che a tutte le scienze, quali l'esistenza, la possibilità, la durata, i
principi della logica e i postulati scientifici. Da tale metafisica è esclusa tuttavia la
trattazione dei problemi della metafisica tradizionale (l'essenza di Dio, dell'anima
e del mondo), dichiarati insolubili.
Anche D’Alembert è un deista: Dio è soltanto l'autore dell'ordine del mondo
secondo le leggi immutabili della natura, ma è totalmente estraneo all'uomo e ai
problemi umani. Di conseguenza la vita morale dell'umanità non dipende dalla
religione.

Étienne Bonnot Condillac (1714-1780).

È un illuminista teorico del sensismo, ossia di una gnoseologia fondata


esclusivamente sui sensi. Parte dal principio di Locke secondo cui tutte le
170

conoscenze derivano dall'esperienza, ma la sua teoria è ancora più radicale perché


respinge la distinzione, operata da Locke, fra sensazioni e riflessioni,
riconoscendo soltanto nella sensazione il principio che determina lo sviluppo di
tutte le altre facoltà umane, ivi comprese quelle cosiddette spirituale, quali
l'attenzione, la memoria, l'autocoscienza. I sentimenti, intesi come percezioni, e le
idee altro non sono che sviluppi delle sensazioni: le sensazioni si sdoppiano in
sentimento, che è autocoscienza (autopercezione) delle modificazioni dell’io
prodotte dalle sensazioni stesse, e in idea, che è la sensazione del rapporto che la
coscienza ha con qualcosa di esterno, con gli altri esseri. Le idee non ci fanno
conoscere però ciò che gli esseri sono in se stessi, ma solo i rapporti che hanno
con noi. Ciò dimostra per Condillac quanto siano vani e superflui gli sforzi dei
filosofi che pretendono di cogliere la natura metafisica e l'essenza delle cose.

Gli illuministi materialisti: La Mettrie, d'Holbach, Helvètius.

Nessuno dei maggiori filosofi e scienziati dell'Illuminismo francese professa il


materialismo, ossia la dipendenza dalla materia anche dell'attività mentale. Il loro
intendimento è piuttosto quello di una descrizione del mondo naturale che si
attenga ai fatti, ai fenomeni, respingendo le ipotesi metafisiche.
Peraltro la medicina settecentesca è venuta ad accumulare numerose osservazioni
che mostrano come le facoltà mentali, non solo le sensazioni ed emozioni ma
anche l'immaginazione, la memoria e l' intelligenza, siano condizionate dagli stati
materiali sensitivi e corporei (l'età, la salute, la nutrizione, ecc.). Su questi fatti fa
leva il materialismo, secondo cui sull'uomo agiscono solo cause e fattori materiali.
Questa tesi è assunta non solo contro le concezioni metafisiche e religiose
tradizionali ma anche contro le concezioni morali e politiche, estendendo altresì il
materialismo al campo della condotta umana e della politica, concepite come
condizionate anch’esse da fattori materiali.
Principali esponenti dell'Illuminismo materialista sono La Mettrie, d'Holbach ed
Helvètius, che in quanto tali si professano altresì ateisti rispetto al prevalente
deismo illuminista.
Per La Mettrie (1709-1751) l'uomo è una macchina e in tutto l'universo non c'è
che una sola sostanza e una sola causa, quella materiale, corporea, sia pur in
sembianze diverse. Tutte le attività psichiche umane sono prodotte e determinate
dai movimenti corporei. L'anima è una semplice parola di cui non si ha idea: serve
soltanto a denominare la parte corporea che in noi pensa, tuttavia per effetto di
cause fisiologiche e non spirituali. La condotta dell'uomo è regolata dagli istinti
posti dalla natura nell'organizzazione dei corpi. L'istinto ci insegna ciò che non
dobbiamo fare mediante ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Perciò non
valgono più di tanto né l'educazione, né la rivelazione divina, né i legislatori.
Violenta è la polemica con tutte le forme inibitive della morale tradizionale.

D'Holbach (1723-1789) parte dal principio che l'uomo è un essere puramente


fisico. Anche la morale è ridotta a condotta fisica, intesa come modo di agire
171

condizionato dalle leggi fisiche di causa ed effetto. La libertà umana è una pura
illusione. L'uomo è necessitato a desiderare esclusivamente ciò che è o sembra
utile al suo benessere. I principi tradizionali della religione, come l'esistenza di
Dio, l'immaterialità dell'anima, la vita ultraterrena, sono perciò soltanto
superstizioni.
Peraltro, mentre il materialismo di La Mettrie è di tipo individualistico (la ricerca
individuale del piacere), il materialismo di d'Holbach, come anche in Helvètius, è
ispirato ad una morale etico-politica. Anche per d'Holbach vale la legge della
ricerca del piacere, ma il piacere è ragionevole quando non nuoce agli altri ed è
indirizzato alla pacifica, e perciò gratificante, convivenza sociale.

In Helvètius (1715-1771) il materialismo è ancora più radicale: esso non solo


condiziona ma determina anche la vita morale. Dalla tesi che la sensibilità fisica è
l'unica origine delle idee e che anche giudicare o valutare significa sentire,
Helvètius deduce il principio secondo cui l'unico movente dell'uomo è l'amor
proprio, il proprio interesse, non solo individuale ma anche sociale per non
incorrere nell’emarginazione dalla società. Le nazioni più forti e virtuose, come ad
esempio l'antica Sparta, sono quelle in cui i legislatori hanno saputo conciliare
l'interesse individuale con quello pubblico, incoraggiando le virtù civili con
ricompense e piaceri sensibili.
172

Jean Jacques Rousseau (1712-1778).

Nasce a Ginevra in Svizzera. È stato calvinista e, per breve tempo, cattolico. Vive
un'esistenza travagliata ed errabonda, a Londra, a Parigi e poi soprattutto a
Montmorency in Lussemburgo. Di carattere timido e scontroso, si è sempre sentito un
diverso.
Opere principali: Discorso sull'ineguaglianza; Il contratto sociale; L'Emilio.
È definito un illuminista atipico: è illuminista nella critica alla tradizione e alla
società, ma è già romantico o preromantico nell'esaltazione della spontaneità del
sentimento. In effetti, il rapporto tra Rousseau e l'Illuminismo costituisce un
autentico problema storiografico rispetto al quale sussistono interpretazioni
divergenti. Per alcuni studiosi Rousseau non appartiene all'Illuminismo ma piuttosto
precorre il Romanticismo. Per altri, che oggi sono la maggioranza, Rousseau, pur
nella sua diversità, esprime comunque temi di fondo che rientrano nello spirito
dell'Illuminismo: l'atteggiamento critico e riformatore nei confronti della società e dei
suoi pregiudizi; la difesa della religione naturale ed il rifiuto delle religioni storiche
rivelate, l'importanza attribuita all'educazione e alla perfettibilità dell'uomo. Rousseau
infatti, pur rivendicando il valore dell'istinto, della natura e del sentimento, finisce
anch'egli per affidare alla ragione il compito della trasformazione del mondo.
Rousseau è contro gli illuministi ma non contro l'Illuminismo. La sua polemica non è
contro la ragione, ma contro quella ragione astratta e artificiale che pretende di
annullare gli istinti e le passioni. La ragione non deve sopprimerli, ma guidarli ed
armonizzarli. Il suo ideale è quello di riconciliare l'uomo con la natura, ossia di
rendere più naturale, spontanea e solidale la società moderna, divenuta troppo
artificiosa e calcolatrice.

La civiltà come decadenza.

La riflessione sullo stato della civiltà moderna è occasionata in Rousseau da un


quesito proposto dall'Accademia di Digione, la quale si chiedeva "se davvero il
progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a purificare i costumi". Nel
suo "Discorso sulle scienze e le arti" Rousseau risponde che esse, anziché
purificare i costumi, hanno invece contribuito a corromperli: le arti e le scienze
sono state per lo più utilizzate come ornamenti superflui, per abbellire la realtà delle
cose ed indurre gli uomini ad agire secondo "buone maniere", abituandoli così più ad
"apparire", inseguendo mode e comportamenti conformistici, anziché "essere"
spontaneamente se stessi. Prima, dice Rousseau, i nostri costumi erano rozzi ma
naturali. Oggi non si osa più mostrarsi come si è, prevale l'ipocrisia. In tal modo
non si saprà mai bene con chi si ha a che fare; alla verità e alla virtù subentra la
menzogna e il vizio. Ai vizi della raffinata Atene Rousseau contrappone la virtù della
ruvida Sparta.
Rousseau non condivide dunque l'ottimismo e l'idea di progresso degli
illuministi. Per lui "tutto degenera nelle mani dell'uomo". La civilizzazione ha
173

comportato conformismo e perdita dell'originaria libertà di natura. È subentrato


un radicale contrasto tra natura e civiltà.
Le scienze, anziché scaturire dalle virtù, sono nate da altrettanti vizi: l'astronomia
dalla superstizione, l'eloquenza dall'ambizione, la geometria dall'avarizia, la fisica
dalla curiosità.
Questa concezione di Rousseau provoca forti reazioni, poiché giudicato eccessivo
e fuori tema attribuire alle scienze e alle arti i guasti della civiltà. In particolare
Rousseau è colpito dall'obiezione del re Stanislao di Polonia, per il quale invece sono
state le ricchezze e non la scienza la fonte originaria dei mali sociali. A causa di
tutto ciò Rousseau, nel "Discorso sulla disuguaglianza", modifica ed integra il suo
pensiero sulle cause della decadenza della civiltà.

Lo stato di natura.

Per comprendere l'origine della decadenza della civiltà e dell'ingiustizia sociale


Rousseau afferma che bisogna prima conoscere l'uomo quale era nell'originario
e primitivo stato di natura, rovesciando in proposito la concezione di Hobbes:
l'uomo, sostiene Rousseau, era originariamente una creatura innocente, un
"buon selvaggio", non ancora colpito dai vizi derivanti dalla civiltà e dal
progresso. Più precisamente, non sostiene che l'uomo primitivo fosse effettivamente
buono ma piuttosto che non era né buono né cattivo, bensì semplicemente innocente
giacché si limitava a seguire il proprio istinto. Ciò che qualificava l'uomo allo stato
di natura era la perfetta corrispondenza tra i bisogni e le risorse di cui disponeva: i
suoi soli bisogni erano il cibo, un rifugio per ripararsi e la riproduzione. Erano
bisogni minimi, facili da soddisfare ed ognuno bastava se stesso.
Rousseau è consapevole che tale stato di natura, come da lui raffigurato, non
indica necessariamente quello effettivo dell'uomo primitivo e che anzi,
probabilmente, non è mai esistito così come egli lo ha descritto. Lo ritiene tuttavia
utile come modello e ipotesi di ricerca per spiegare la natura umana e la sua attuale
decadenza e corruzione.
Proseguendo nella sua indagine, Rousseau osserva però che non sempre la natura
provvedeva a soddisfare i bisogni dell'uomo primitivo, che doveva affrontare
anche periodi di carestia, inverni rigidi, estati torride e la ferocia degli animali.
L'uomo primitivo si trovò quindi costretto a sviluppare lo sfruttamento
minerario, la metallurgia (la lavorazione del ferro) e l'agricoltura. Senonché
all'attività mineraria e alla coltivazione delle terre ha fatto seguito la loro spartizione
e quindi l'avvento della proprietà privata, causa fondamentale dell'ingiustizia,
dei conflitti e del decadimento sociale. Rousseau commenta questo trapasso con la
celebre frase: "il primo uomo che, recintato un terreno, pensò di affermare "questo è
mio" e trovò persone abbastanza ingenue da credergli, fu il vero fondatore della
società civile" e, conseguentemente, di tutti i delitti, le guerre, le miserie e gli orrori
che derivarono per il genere umano. Con l'avvento della proprietà privata si consolida
in modo definitivo, per Rousseau, la disuguaglianza morale e politica; si afferma la
174

prima grande divisione tra gli uomini, quella fra ricchi e poveri, che ha condotto ad
una guerra permanente all'insegna della rapina e della violenza: la sopraffazione dei
ricchi e il brigantaggio dei poveri. Quindi non nello stato di natura, come per
Hobbes, ma col processo di civilizzazione, col sorgere delle società civili, si
giunge per Rousseau ad una condizione di guerra di tutti contro tutti.
In questa situazione erano i ricchi a rischiare di più perché avevano di più da
perdere e proprio loro hanno imposto, afferma Rousseau, quella specie di patto
sociale, da lui definito iniquo, che ha condotto alla costituzione dello Stato,
concepito come strumento dei ricchi per sottomettere i poveri. La nascita dello Stato
moderno così come si è sviluppato, descrive Rousseau, ha accelerato il processo di
decadimento civile attraverso tre tappe:
1. la fondazione delle leggi e del diritto di proprietà, che sanciscono la distinzione
tra ricchi e poveri;
2. l'istituzione della magistratura, che sancisce la distinzione tra potenti e deboli;
3. l'avvento dello Stato assoluto, che sancisce il dispotismo.
Si afferma una disuguaglianza civile autorizzata dalla legge imposta, assolutamente
contraria al diritto naturale.

Il contratto sociale.

Poiché la causa del male e della corruzione è attribuita da Rousseau esclusivamente


all'uomo, e non a Dio o alla natura, la possibilità di un riscatto spetta allora all'uomo
stesso mediante un nuovo modo di intendere e di orientare la ragione umana. Alla
teodicea religiosa (la soluzione religiosa e ultraterrena del problema del male)
Rousseau contrappone una teodicea laica: se l'uomo ha distrutto l'innocenza dello
stato di natura originaria attraverso una civilizzazione artificiosa e socialmente
ingiusta, l'uomo stesso può e deve porvi rimedio attraverso l'educazione e la
politica.
Non si tratta di tornare ad un primitivo stato di natura, più ideale che reale,
rinunciando a quei sani principi che la civilizzazione, pur nel suo progressivo
decadimento, ha comunque recato con sé: la giustizia e la moralità al posto
dell'istinto; il senso del dovere e la legge al posto degli impulsi e delle passioni
sfrenate. Si tratta piuttosto di stipulare un nuovo contratto sociale, diverso da
quello ingiusto imposto dai gruppi privilegiati e dai ricchi per conservare il loro
potere. Il nuovo contratto sociale deve essere capace di trasformare l'uomo in
cittadino, ossia in un individuo che passi dall'egoismo alla solidarietà e all'amore per
il bene della comunità, ritornando così, questa volta in modo consapevole e razionale,
a quella libertà ed uguaglianza di cui godeva nello stato di natura in modo istintivo.
A differenza di Montesquieu, che si era limitato a descrivere le sussistenti forme di
governo e sistemi legislativi, Rousseau si propone di individuare il fondamento
autentico dell'autorità politica, che per lui non deriva né da Dio né dal diritto
ereditario né dall'imposizione con la forza. Anche per Rousseau, come per i filosofi
contrattualisti (Hobbes, Locke, Voltaire, ecc.) l'autorità non può derivare che da
175

un patto sociale. Tuttavia, mentre i contrattualisti, accanto al patto di unione in


società, ammettono anche un patto di sottomissione ad un sovrano al di sopra dei
sudditi, Rousseau ritiene inammissibile rinunciare alla libertà ed accettare la
sottomissione perché ciò significa rinunciare alla propria qualità di uomo.
La soluzione per Rousseau sta nel cedere i propri diritti non ad un sovrano ma
alla comunità nel suo complesso, di cui ciascun cittadino entra a far parte. In tal
modo ogni cittadino accetta volontariamente una comune autorità poiché riconosciuta
come autorità e volontà anche propria, che non solo protegga la sicurezza ma
consenta altresì la libertà e l'uguaglianza. Rousseau chiama questa autorità comune
col nome di "volontà generale", la quale non è la somma delle volontà di ciascuno
bensì la volontà dell'intera comunità. È la volontà di tutti che persegue il solo bene ed
interesse comune, mentre la somma delle volontà di ognuno può comportare conflitti
e finire col perseguire gli interessi particolari e privati che si intendono far prevalere.
Alla volontà generale tutti devono essere sottomessi giacché ciascuno, obbedendo
ad essa, è come se obbedisse a se stesso: in ciò consiste la vera libertà.
La volontà generale è dunque quella di tutto il popolo, il quale soltanto è titolare
della sovranità, solo il popolo può detenere il potere. Rousseau è perciò contrario al
regime parlamentare, in cui cittadini delegano i loro diritti ai parlamentari che
eleggono, perché ciò significa rinunciare o limitare i propri diritti. Rousseau propone
invece una forma di democrazia diretta, assembleare, a cui tutti i cittadini
partecipino assumendo insieme le decisioni politiche. Per tale motivo Rousseau
rifiuta anche la teoria della divisione dei poteri di Montesquieu, considerando
piuttosto il Governo e la Magistratura come semplici esecutori delle leggi emanate
dall'Assemblea popolare. Senonché la democrazia diretta è possibile in concreto solo
negli Stati molto piccoli, come nei cantoni della Svizzera in cui Rousseau è nato.
In ogni caso, riconosce Rousseau, anche nell'Assemblea popolare è inevitabile il
formarsi di una maggioranza e di una minoranza, per cui la volontà generale
diventa di fatto la volontà della maggioranza. Pur considerando la volontà generale
sempre giusta, indivisibile e infallibile, Rousseau è altresì costretto ad ammettere
che il popolo può anche ingannarsi e non perseguire sempre il bene comune. In tale
circostanza, ribatte Rousseau, non è la volontà generale che sbaglia bensì l'opinione
popolare. È allora necessaria una guida, un legislatore, un capo che sappia
indirizzare cittadini.

Le ambiguità della concezione politica di Rousseau.

Dunque, l'ideale politico di Rousseau è quello di una socializzazione radicale


dell'uomo per impedire che prevalgano gli interessi privati, che devono essere invece
sottomessi agli interessi collettivi. Anche la morale, le scienze, le arti, le lettere, e
pure la religione, devono contribuire a realizzare il comune spirito collettivo. Per
indirizzare il popolo immaturo, Rousseau indica inoltre l'esigenza di un capo
carismatico, capace di affascinare e orientare i comportamenti. Avviene così che, da
una parte, Rousseau appare un sostenitore della democrazia e della libertà, in
176

base alla concezione secondo cui la sovranità risiede nel popolo formato da cittadini
tra di loro uguali, mentre, dall'altra parte, subordinando alla collettività e alla
volontà generale sia le libertà individuali, sia la morale che la cultura e la religione,
appare per contro il precursore dello Stato etico e totalitario (quali, ad esempio, il
regime nazista o il comunismo sovietico), di quello Stato cioè che non si limita a
regolare la vita pubblica ma che pretende di imporsi anche nella vita privata dei
cittadini, nel loro modo di pensare e nella loro condotta morale individuale.
Vi è insomma in Rousseau un'ambiguità di fondo. Di per sé il concetto di volontà
generale, di bene comune, è un concetto nobile, ma in concreto la volontà generale
non può che essere di volta in volta incarnata da qualcuno che ritiene o pretende di
rappresentarla, magari in buona fede. Però questo qualcuno è sempre una persona
particolare, tutt'al più è l'esponente di un gruppo, di un partito e di una ideologia. Non
vi è pertanto garanzia che, facendoli passare come interessi generali, non imponga
invece interessi di parte. Secondo Rousseau, quando il volere del singolo si trovi in
conflitto con la volontà prevalente, egli deve essere allora obbligato a riconoscere di
essersi "sbagliato".
Non era certo nelle intenzioni di Rousseau giungere a questi esiti ambigui in quanto
animato da un sincero ideale. Ma è un fatto che il suo pensiero ha influenzato le
correnti radicali della politica e della filosofia moderna, dall'estremismo dei
Giacobini e di Robespierre ai regimi politici totalitari del Novecento (fascismo,
nazismo, comunismo sovietico).
Peraltro, va precisato che Rousseau insiste soprattutto sull'uguaglianza dei
diritti piuttosto che su forme di comunismo o di regimi estremisti ed utopistici.
Anche la sua condanna della proprietà privata non è radicale. Poiché
"distruggere completamente la proprietà è impossibile", scrive Rousseau, egli
riconosce il diritto di proprietà ma ritiene che essa debba essere subordinata al bene
pubblico e contenuta in limiti ristretti, nelle mani di piccoli proprietari, poiché "lo
Stato sociale è vantaggioso agli uomini solo in quanto essi abbiano tutti qualcosa e
nessuno di loro abbia troppo".

L'educazione.

Come premesso, secondo Rousseau l'uomo può risollevarsi dalla condizione di


decadenza e di ingiustizia cui lo ha condotto la civiltà moderna sia attraverso la
politica, mediante la stipula di un nuovo contratto sociale, ma sia anche attraverso
l'educazione.
Nella sua opera "L’Emilio" descrive appunto quale debba essere l'educazione
dei cittadini dalla nascita fino all'età adulta. Contro l'educazione tradizionale, che
opprime e distrugge l'originaria spontaneità della natura umana con le sue regole
artificiali, l'ideale educativo di Rousseau è quello del più idoneo sviluppo della
persona umana secondo la sua propria natura, superando ed armonizzando il
contrasto instauratosi tra natura e cultura, tra natura e civiltà.
177

Rousseau parte dalla fondamentale convinzione secondo cui l'uomo è per natura
buono, o per lo meno innocente, e perciò l'educazione non deve limitare la libera e
spontanea espressione della natura umana. Il bambino quindi non deve essere trattato
come un adulto, ma deve essere rispettata la sua personalità e particolarità. I maestri
devono solo limitarsi ad aiutarlo a sviluppare naturalmente e spontaneamente il suo
carattere.
Fino a 12 anni va coltivato lo sviluppo della naturale sensibilità del bambino. Fino a
15 anni va curata l'educazione intellettuale, fondata sul contatto diretto con le cose e
sull'attività manuale, in modo da stimolare l'invenzione e la creatività. A 15 anni, età
che coincide col nascere delle passioni, inizia l'educazione morale e religiosa.
L'amore di sé deve diventare amore verso il prossimo e verso la comunità. L'obiettivo
educativo consiste nel raggiungimento di un armonioso equilibrio tra istinto e
ragione, che deve assumere una funzione di guida della condotta. Ciò spiega come
Kant si sia ispirato a Rousseau nella sua dottrina morale ed abbia riconosciuto in lui il
"Newton" del mondo morale.

La religione naturale.

Come appreso, la preoccupazione principale di Rousseau è la garanzia della


convivenza sociale secondo il concetto di volontà generale e di bene comune. La
religione deve concorrere al perseguimento di questo traguardo mediante un
collegamento stretto con la vita politica (concezione della religione finalizzata alla
politica).
La religione cui si riferisce Rousseau è quella del deismo, cioè la religione
naturale intesa come sentimento spontaneo della coscienza individuale che avverte
l'esistenza di un'entità superiore ordinatrice dell'universo.
Tre sono in particolare le verità colte dalla religione naturale:
1. l'esistenza di Dio come autore del movimento dei corpi e dell'ordine
universale;
2. l'immortalità dell'anima, quale garanzia che, almeno nell’al di là, il malvagio
non prevalga sul giusto giacché tale eventualità si porrebbe altrimenti in un
contrasto inaccettabile con l'ordine del mondo;
3. che esiste nella natura un senso e un fine ultimo.
La religione naturale però non si può imporre a nessuno: il principio di tolleranza
deve valere anche per gli atei. Ma oltre a questa c'è la religione del cittadino, che
stabilisce il comandamento della santità dello Stato e del carattere sacro del contratto
sociale e delle leggi (Stato etico). Per Rousseau non è tanto la Chiesa ma lo Stato
quale unico organo della salvezza individuale e collettiva. Senza l'osservanza dei
precetti della religione del cittadino è impossibile essere cittadini buoni e fedeli. Lo
Stato non può obbligare ad obbedire ai suoi comandamenti, ma può mandare in
esilio chi non li rispetta, non come persona empia ma come persona antisociale.
Rousseau definisce in tal modo una sorta di principio negativo della tolleranza
religiosa: vanno tollerate tutte le religioni i cui dogmi non siano contrari al dovere del
178

cittadino; in caso contrario l'intolleranza è giustificata. La disobbedienza alla


religione del cittadino è per Rousseau il crimine peggiore.

Conclusioni.

Il pensiero di Rousseau si è imposto per motivi contrastanti. Per alcuni è il teorico del
sentimento interiore come unica guida della vita, per altri è il difensore della
sottomissione totale dell'individuo alla collettività; per alcuni è un democratico, per
altri è il primo teorico del socialismo; per alcuni è un illuminista, per altri è un
antiilluminista; per tutti è il primo teorico della pedagogia moderna. In effetti, se
Rousseau esprime temi profondi dell'Illuminismo, preannuncia altresì i germi del
Romanticismo. È promotore, al tempo stesso, di esigenze innovatrici e di reazioni
conservatrici: è mosso dal desiderio ma insieme dal timore di una rivoluzione
radicale, dalla nostalgia della vita primitiva e dalla paura che, a causa di lotte
insensate, si possa cadere nella barbarie. Rousseau affascina per la complessità dei
sentimenti che descrive, per il tormento delle sue oscillazioni tra divergenti punti di
vista, ma soprattutto per la chiara denuncia, in pieno Settecento, il secolo dei lumi
della ragione, dei pericoli che possono derivare, per contro, da un razionalismo
esasperato. È infatti persuaso che la ragione, senza gli istinti e le passioni, diventi
sterile, accademica e innaturale e che le passioni e gli istinti, senza la disciplina della
ragione, portino al caos individuale e all'anarchia sociale.
179

L’ILLUMINISMO INGLESE, ITALIANO E TEDESCO.

Illuminismo inglese.

Nel Settecento l'Inghilterra si trova già in epoca post-rivoluzionaria. Due sono i temi
principali: il primato della religione naturale su quella rivelata e l'autonomia della
morale dalla religione, che si può fondare esclusivamente sulla coscienza umana: non
la religione, ma basta la coscienza a distinguere fra bene e male.

Illuminismo italiano.

Due sono i centri principali, Napoli e Milano.


A Napoli l'attenzione si rivolge soprattutto ai temi storici e giuridici. La Chiesa è
considerata causa dell'indebolimento politico. Maggiori esponenti sono: Muratori,
Galiani, Filangieri.
A Milano l'Illuminismo si sviluppa attorno alla rivista "Il Caffè". Prevalgono i temi
economici e di riflessione civile. Maggiori esponenti sono: Pietro e Alessandro Verri
e Cesare Beccaria, celebre per il suo programma di abolizione della tortura e della
pena di morte.

Illuminismo tedesco.

È caratterizzato da una minore radicalità e politicità e da una maggior attenzione ai


problemi del metodo e dell'analisi logico-razionale delle teorie. Due sono i principali
orientamenti: quello razionalistico-accademico (Wolff) e quello religioso-storico
(Lessing).
180

IMMANUEL KANT (1724-1804).

Nasce a Koenigsberg (Prussia orientale) da una famiglia numerosa e di modeste


condizioni; il padre è un artigiano. Frequenta dapprima un collegio protestante e poi
l'università di Koenigsberg, mantenendosi col dare lezioni private. Studia
matematica, scienze naturali, letteratura latina, teologia e filosofia.
I suoi interessi iniziali sono soprattutto di natura scientifica; solo in seguito si volge
alla filosofia.
Insegna come libero docente e poi come ordinario di logica e metafisica presso
l'università di Koenigsberg.
Vive da celibe ma è molto aperto alla vita sociale e con uno spirito cosmopolitico. La
sua giornata è scandita secondo ritmi estremamente regolari.
Scrive le sue opere principali nel periodo della maturità, in cui acquista notorietà.
Nell'ultimo periodo della vita si dedica a riflessioni sulla politica, sul diritto e sulla
religione. Muore compianto dai concittadini.

Opere principali: Critica della ragion pura; Critica della ragion pratica; Critica del
giudizio.

Periodi e sviluppo della produzione filosofica kantiana.

Nella produzione filosofica kantiana si distinguono tre periodi: i primi due


chiamati precritici ed il terzo definito come il periodo critico.
1) nel primo periodo nutre interessi prevalentemente scientifici, specie in ambito
fisico, astronomico e metereologico.
2) nel secondo periodo si interessa di filosofia, in particolare delle concezioni
filosofiche di Newton, nonché di filosofia metafisica, specialmente della metafisica di
Leibniz e della critica che Leibniz muove contro Cartesio, allorché fa presente la
necessità di considerare come necessario fattore preliminare al principio
dell'estensione l'esistenza e l'azione delle monadi, ossia di una forza viva (l’energia
cinetica) che tale estensione sia in grado di produrre.
Ma la lettura delle opere di Hume sveglia Kant dal "sonno dogmatico", come da
lui chiamato, ossia lo risveglia dalle illusioni della metafisica. Kant si persuade che
la logica e la metafisica tradizionali non sono una logica e una metafisica della realtà
perché restano chiuse in principi astratti che non colgono l'essere, la realtà autentica.
Il principio di identità e di non contraddizione non sono in grado di spiegare il
fondamento reale delle cose. L'intelletto non deve superare i limiti dell'esperienza se
non vuole perdersi in astrattezze. Ne consegue una profonda critica alla metafisica:
quando pretende di conoscere la profondità delle cose allora essa, Kant scrive, "è un
abisso senza fondo, un oceano inesplorato"; la metafisica invece è utile quando
indaga sui limiti della ragione e della conoscenza umana.
Kant è altresì influenzato dalla filosofia di Rousseau, secondo cui l'etica è
autonoma rispetto alla metafisica: l'intelletto è la facoltà che può cogliere il vero
181

ma non il bene, che semmai può essere colto da quell'altra facoltà che è la volontà.
Vero e bene non coincidono.
3) il terzo periodo è quello più propriamente critico. Si parla in proposito di filosofia
critica o criticismo perché contrapposta sia al dogmatismo metafisico (che
presenta le sue concezioni come dogmi indiscutibili) sia allo scetticismo in cui ha
finito col cadere l'empirismo di Hume (il quale dubita della possibilità di giungere
a conoscenze universali e necessarie).
La critica deve essere lo strumento della filosofia e criticare vuol dire giudicare
sulla validità ma anche sui limiti dell'esperienza e della conoscenza umana.
Con le sue tre celebri "Critiche", della ragione pura, della ragione pratica e del
giudizio, Kant opera una sintesi formidabile tra razionalismo ed empirismo,
collocando illuministicamente la ragione a fondamento di ogni indagine, insieme
tuttavia alla consapevolezza dei limiti della ragione umana medesima.

LA CRITICA DELLA RAGIONE PURA.

Spiegazione dei termini: critica=analisi, esame, giudizio; ragione=conoscenza,


intesa come modi del conoscere; pura=indipendente dall'esperienza, che si applica ai
contenuti dell'esperienza ma è indipendente da essa: i modi di funzionare della
conoscenza, cioè, precedono l'esperienza e non dipendono da essa.
Quindi il titolo "Critica della ragione pura" significa nel complesso: analisi, esame
della conoscenza, ossia dei modi del conoscere non limitati ma indipendenti
dall'esperienza.
Kant conviene con l'empirismo nell'affermare che ogni nostra conoscenza comincia
con l'esperienza e quindi critica il razionalismo ma, preciserà, ciò non significa che la
conoscenza stessa derivi interamente dall'esperienza e pertanto, in questo senso,
critica anche l'empirismo e i suoi esiti scettici cui è giunto con Hume.
Kant non si rassegna a ritenere, come Hume, dubitabile ogni tipo di conoscenza;
si propone invece di verificare in modo approfondito se vi siano, e quali,
conoscenze valide; in particolare intende verificare la validità della conoscenza
matematica e fisica, se cioè la matematica e la fisica sono valide come scienze,
nonché la validità della conoscenza metafisica, se cioè la metafisica è valida
anch'essa come scienza.

La teoria dei giudizi.

Per giudizi si intendono qui le proposizioni dichiarative, cioè quelle che affermano o
negano qualcosa. In particolare il termine "giudizio" significa attribuire un
predicato (una proprietà) al soggetto della proposizione.
Per essere autentica, dice Kant, la conoscenza scientifica deve consistere di
proposizioni, cioè di giudizi, universali e necessarie ma collegate anche
all'esperienza, perché solo la possibilità di fare sempre nuove esperienze può
incrementare la conoscenza.
182

Di quali giudizi si avvale allora la scienza? Kant rammenta che, solitamente, si


distinguono due categorie di giudizi: i giudizi analitici e i giudizi sintetici.
Si ha un giudizio analitico (che opera un’analisi) quando il predicato è implicito nel
soggetto, che si limita cioè ad analizzare, scomporre ed esplicitare quanto è già
contenuto nel soggetto. Ad esempio la proposizione "ogni corpo è esteso" è un
giudizio analitico perché il soggetto di essa, cioè corpo, è già sinonimo di estensione;
il predicato, ossia la proprietà dell'estensione, è già implicita e contenuta nel concetto
di corpo, per cui questa proposizione, o giudizio, non ci dice niente di nuovo
limitandosi ad esplicitare ciò che già il soggetto significa di per sé (come dire che "il
triangolo ha tre angoli"). Il giudizio analitico è basato sul principio di identità: A=A,
ossia il soggetto e il suo predicato hanno il medesimo significato, nonché sul
principio di non contraddizione: A non può essere contemporaneamente anche B. Il
giudizio analitico è "a priori": significa che precede ed è indipendente
dall'esperienza, si formula cioè senza il bisogno di ricorrere all'esperienza poiché
basato unicamente su principi e regole logiche. Pertanto il giudizio analitico è
sempre universale e necessario (universale=valido per tutti in ogni tempo e in ogni
luogo; necessario=non può che essere così in ogni caso), però non aggiunge niente
di nuovo a quanto già sappiamo, non è in grado di aumentare la nostra conoscenza.
Si ha invece un giudizio sintetico quando il predicato aggiunge al soggetto qualcosa
di nuovo, non ricavabile da una semplice analisi e deduzione logica; sintetico
significa che fa sintesi, che unisce, che aggiunge ad una cosa, il soggetto, un'altra
cosa nuova e diversa, cioè un predicato, una proprietà, che non è già implicito nel
soggetto stesso. Ad esempio il giudizio "questo corpo è pesante" è un giudizio
sintetico perché aggiunge al soggetto (questo corpo) un predicato, una proprietà, ossia
il fatto di essere pesante, che non è implicita nel soggetto medesimo. Se l'estensione è
un predicato implicito di ogni corpo, poiché tutti i corpi sono estesi, non è così per la
pesantezza perché vi sono corpi pesanti ma anche leggeri. Mentre il giudizio analitico
è "a priori", il giudizio sintetico è invece "a posteriori"; vuol dire che viene dopo
l'esperienza, che è basato sull'esperienza e che deriva da essa. Infatti, per dire che un
certo corpo è pesante devo prima vederlo, devo farne esperienza. Derivando
dall'esperienza, da esperienze sempre nuove, il giudizio sintetico allora aumenta ed
estende la mia conoscenza, però non è né universale né necessario, perché non
posso fare esperienza di tutto e non posso essere sicuro che le mie esperienze saranno
necessariamente sempre uguali in ogni caso, ora e nel futuro.
Sul giudizio analitico è basato in particolare il razionalismo, che ritiene possibile
una conoscenza a priori dei fondamenti delle cose e dei principi della realtà tramite le
idee innate, da cui dedurre poi le spiegazioni particolari, sottovalutando peraltro il
ruolo dell'esperienza ai fini dell'aumento delle conoscenze.
Sul giudizio sintetico è invece basato l'empirismo, per il quale le conoscenze sono
solo posteriori, giungendo però a dubitare sulla possibilità di pervenire a
conoscenze universali e necessarie, cioè autenticamente scientifiche.
È chiaro allora che la vera scienza non può basarsi né su giudizi analitici né
sintetici, bensì su "giudizi sintetici a priori", che siano cioè universali e necessari
ma anche capaci di incrementare la conoscenza per effetto dell'accumularsi delle
183

esperienze. Ad esempio giudizi sintetici a priori del tipo "tutto ciò che accade ha una
causa", il quale, in tal senso, attribuisce al principio di causa il valore di strumento
certo di conoscenza scientifica.
Ma, si chiede Kant, sono possibili giudizi sintetici a priori? Quale è il loro
fondamento, la loro validità? Abbiamo visto che i giudizi analitici a priori si fondano
sul principio di identità e di non contraddizione e che i giudizi sintetici a posteriori si
fondano sull'esperienza. Ma quale è il fondamento dei giudizi sintetici a priori?
Vedremo che Kant risponde positivamente a questa domanda attraverso quella che è
stata definita e celebrata come "la rivoluzione copernicana di Kant nel campo della
gnoseologia".

La rivoluzione copernicana di Kant nella gnoseologia.

Prima di Kant la conoscenza veniva spiegata supponendo che fosse il soggetto


conoscente a doversi adeguare agli oggetti da conoscere, ossia a doversi regolare
su di essi, ritenendo ad esempio che l'occupare un certo spazio, il trovarsi collocati in
un certo tempo, il derivare da una certa causa o produrre certi effetti, od avere altre
proprietà, fossero caratteristiche proprie e dirette degli oggetti stessi cui il soggetto
doveva adeguarsi, ovvero cercare di capire per poterli conoscere. Kant scopre che la
conoscenza invece non funziona in questo modo ma anzi in modo esattamente
contrario: non è il soggetto conoscente che deve adeguarsi all'oggetto (che deve
cioè far corrispondere le sue percezioni alle presunte proprietà e caratteristiche
dell'oggetto) ma è l'oggetto che viene regolato, organizzato dal soggetto e che, in
tale maniera, viene conosciuto. Così come in astronomia Copernico inverte,
rovescia la posizione della Terra e del Sole, ponendo il Sole al centro dell'universo
e non più la Terra, altrettanto, nella gnoseologia, Kant inverte il ruolo fra oggetto
e soggetto: la conoscenza non si basa nel comprendere quali sono le effettive
proprietà e caratteristiche dell'oggetto che si vuol conoscere, ma deriva dai modi in
cui il soggetto organizza i dati sensibili percepiti nell'oggetto, deriva dai modi di
funzionare del suo intelletto, ossia dai modi in cui il suo intelletto classifica ed
interpreta le sensazioni ricevute a contatto con l’oggetto. Si tratta di una rivoluzione
del modo di intendere il processo conoscitivo paragonabile alla rivoluzione operata
da Copernico in astronomia: perciò si parla di "rivoluzione copernicana" di Kant
compiuta nel campo della gnoseologia, cioè nel campo dello studio e della
spiegazione dei modi e della validità della conoscenza umana.
Detto in altri termini, non sono gli oggetti, le loro proprietà e caratteristiche che,
percepite da noi, producono e causano la nostra conoscenza, ma la possibilità di
conoscere ci è data dai modi di funzionare del nostro intelletto, della nostra mente.
Non possiamo conoscere se e come le cose stanno in un certo spazio, in un certo
tempo, in un certo rapporto di causa ed effetto, se sono o non sono in relazione fra di
esse, se hanno una certa sostanza o ne hanno un'altra, ecc., perché noi non
conosciamo direttamente le cose, bensì solo i "fenomeni" delle cose, cioè come le
cose ci appaiono, ma non sappiamo se le cose in realtà sono proprio così come le
vediamo. E’ invece il nostro intelletto, il suo modo di funzionare, che colloca ed
184

organizza le cose percepite in un certo spazio, in un certo tempo, in un certo rapporto


di causa-effetto, in collegamento o no fra di esse, che attribuisce loro una certa
sostanza o un'altra.
Se la possibilità del conoscere le cose non dipende dalle cose stesse, cioè dalla
preliminare esperienza di esse, ma deriva dai modi di funzionare dell'intelletto,
dai meccanismi con cui l'intelletto classifica ed organizza le sensazioni, modi e
meccanismi che sono costanti e uguali in tutti gli uomini, allora questi modi di
funzionare sono "a priori", sono cioè indipendenti dall'esperienza e quindi
universali e necessari come i giudizi analitici.
D'altro canto, i modi di funzionare dell'intelletto non sono fini a se stessi ma la
loro funzione, pur essendo indipendenti dall'esperienza, è tuttavia quella di
essere applicati all'esperienza, alle varie cose che progressivamente percepiamo;
perciò consentono altresì di aumentare la nostra conoscenza, facendo esperienze
nuove, come nel caso dei giudizi sintetici.
Si può allora concludere che, in virtù di tali modi del conoscere, sono davvero
possibili i giudizi sintetici a priori su cui si fonda la scienza autentica.
Kant chiama i modi di funzionare della sensibilità (delle nostre sensazioni) e
dell'intelletto "forme pure" o "forme a priori", cioè, appunto, indipendenti
dall’esperienza, e poiché vi sono tre tipi di conoscenza, ossia la conoscenza
sensibile (le sensazioni), la conoscenza intellettiva (quella che avviene mediante
l'intelletto) e la conoscenza tramite la ragione, Kant distingue pertanto tra: 1)
forme della sensibilità; 2) forme dell'intelletto; 3) idee della ragione.
Fatta questa scoperta, questa rivoluzione circa il modo in cui avviene la conoscenza
umana, Kant sviluppa conseguentemente l'argomento nella sua "Critica della
ragione pura". Quest'opera è suddivisa in due parti, di cui la seconda è a sua
volta divisa in altre due parti:
1. estetica trascendentale, che studia i modi, cioè le forme della conoscenza
sensibile;
2. logica trascendentale, che studia i modi, le regole del pensiero in generale.
La logica trascendentale è a sua volta divisa in:
1. analitica trascendentale, che studia i modi, cioè le forme della conoscenza
intellettiva;
2. dialettica trascendentale, che studia le idee della ragione.
Il termine "trascendentale", come impiegato da Kant, è sinonimo di "a priori" e
significa che trascende l'esperienza, che è al di là dell'esperienza, nel senso che il
fondamento di validità delle nostre conoscenze, pur collegate all'esperienza, sta nei
modi di funzionare della nostra sensibilità (conoscenza sensibile) e del nostro
intelletto (conoscenza intellettiva), modi che, in quanto tali, trascendono appunto
l'esperienza, sono al di là e indipendenti dall'esperienza, e quindi sono universali e
necessari perché tali modi di funzionare appartengono universalmente e
necessariamente (costantemente) al soggetto conoscente e non all'oggetto conosciuto
del quale si fa esperienza.
Si procede ora ad esaminare di seguito, una per una, le parti in cui è suddivisa la
"Critica della ragione pura".
185

L'estetica trascendentale.

In questo contesto il termine estetica non va interpretato, secondo l'uso corrente,


come teoria dell'arte, bensì in senso etimologico, che significa sensazione, sulla
quale si fonda per l’appunto la conoscenza sensibile. Estetica trascendentale
significa quindi "teoria che tratta delle forme trascendentali della conoscenza
sensibile", ossia teoria che tratta dei modi a priori (indipendenti dall'esperienza) di
funzionare della conoscenza sensibile.
Ogni conoscenza sensibile, dice Kant, cioè ogni conoscenza estetica, avviene nello
spazio e nel tempo. Infatti non è possibile avere alcuna sensazione che non sia
collocata in un dato spazio e in un dato tempo. Quando vedo un oggetto, la prima
cosa che fa il modo di funzionare della mia sensibilità è di collocarlo in un certo
spazio e in un certo tempo.
La conoscenza sensibile, a differenza della conoscenza intellettuale come vedremo,
è intuitiva, cioè immediata e non legata ai concetti. Oggetto della conoscenza
sensibile è il fenomeno, ossia non l'oggetto in sé, direttamente, ma ciò che a noi
appare dell'oggetto, la sua immagine. In altri termini, oggetti della conoscenza
sensibile sono le modificazioni che le cose, vale a dire i fenomeni percepiti,
provocano nei nostri sensi. Per questo motivo la conoscenza sensibile è intuitiva
e conforme alle percezioni stesse. Le sensazioni e percezioni sono immediate: non
occorre ragionarci su per trasformarle in concetti.
Però, come abbiamo visto, ogni conoscenza, e quindi pure la conoscenza sensibile,
chiamata anche intuizione sensibile, per essere veramente valida deve essere
trascendentale, cioè a priori, vale a dire applicata all'esperienza ma indipendente da
essa per quanto riguarda i modi del conoscere, i quali dipendono dal soggetto e non
dalle esperienze compiute.
Ebbene, in ogni fenomeno si distingue una materia, che si ricava a posteriori in
base all'esperienza e che riguarda i dati sensibili percepiti nell'oggetto (ciò che si
vede, si sente, si tocca, si odora), ma si distingue anche una forma, ossia un modo
di funzionare della nostra sensibilità che, in quanto tale, è appunto,
trascendentale, a priori. La forma è cioè il modo in cui il soggetto ordina e
organizza i molteplici dati sensibili che riceve nel percepire gli oggetti per dare ad
essi un senso, un significato. E noi organizziamo i dati sensibili sempre in un dato
spazio e un dato tempo. Perciò sono due le "forme della sensibilità", chiamate
anche "intuizioni pure", in base a cui funziona la conoscenza sensibile: lo spazio e il
tempo. Sono forme o intuizioni che si applicano ai dati sensibili derivati
dall'esperienza ma che di per sé sono "pure", ossia a priori, trascendentali,
indipendenti dall'esperienza, e quindi universali e necessarie.
Ciò significa che lo spazio e il tempo non hanno realtà ontologica, ossia non
esistono di per se stessi, non sono proprietà degli oggetti e caratteristiche del mondo
fisico, non derivano dall'esperienza ma esistono invece solo nella nostra mente, nella
nostra sensibilità, perché sono i modi, le funzioni mediante cui il soggetto colloca i
dati sensibili percepiti. Non sono gli oggetti che stanno in un certo spazio e in un
certo tempo ma siamo noi che li collochiamo nello spazio e nel tempo perché questo
186

è il primo modo (la prima forma) con cui percepiamo e facciamo esperienza degli
oggetti in quanto fenomeni. Spazio e tempo dunque non sono sostanze, non sono idee
innate, bensì sono modi di funzionare della nostra sensibilità, universalmente presenti
e uguali in tutti gli uomini perché hanno per tutti la medesima struttura.
Peraltro, è opportuno precisare che, dopo Darwin, lo spazio e il tempo rimangono a
priori per l'individuo ma sono invece a posteriori per la specie. Vale a dire che le
condizioni che rendono possibile l'esperienza individuale sono un prodotto
dell'evoluzione umana e fanno parte delle caratteristiche della specie cui noi
apparteniamo. Di conseguenza un essere extraterrestre che abbia una natura diversa
dalla nostra percepirebbe il mondo in maniera diversa, con altre nozioni di spazio e
di tempo e con forme a priori alternative.
In particolare, dice Kant, lo spazio è la forma (il modo di funzionare) del nostro senso
esterno (la sensazione): noi abbiamo sensazione delle cose una accanto all'altra. Il
tempo è la forma del nostro senso interno (la percezione, la coscienza): noi
percepiamo le cose e abbiamo coscienza dei nostri stati d'animo l' uno dopo l'altro.
E poiché, conclude Kant, la geometria si fonda sull'intuizione pura dello spazio
(gli enti geometrici hanno dimensioni spaziali) e l'aritmetica si fonda
sull'intuizione pura del tempo (sommare, moltiplicare, sottrarre, dividere sono
operazioni che si distribuiscono sempre nel tempo: ad esempio prima c’è 5, poi c'è +2
e poi c'è=7) e poiché come intuizioni "pure" spazio e tempo sono forme a priori,
universali e necessarie, allora significa che geometria e aritmetica (cioè la
matematica) sono senz'altro valide come scienze.

La logica trascendentale.

La logica trascendentale è per Kant la scienza concernente le regole del pensiero in


generale. Tuttavia, a differenza della logica tradizionale che riguarda i principi in
base a cui si pensa e si ragiona (principio di identità, di non contraddizione, ecc.) a
prescindere dagli oggetti o argomenti cui tali principi vengono applicati, la logica
trascendentale riguarda invece, per Kant, i rapporti tra il pensiero e i suoi oggetti, i
suoi contenuti.
Abbiamo visto che Kant suddivide la logica trascendentale in analitica
trascendentale e in dialettica trascendentale, di seguito distintamente prese in
esame.

L'analitica trascendentale.

L'analitica trascendentale è la scienza (la filosofia) che studia i modi, cioè le


forme a priori della conoscenza intellettiva, quella che avviene tramite l'intelletto e
che è successiva alla conoscenza sensibile.
Nella conoscenza sensibile le singole sensazioni non sono ancora collegate fra di
esse: c'è ad esempio la sensazione del marrone, del liscio, del duro, del quadrato o del
187

rotondo, ma non vi è ancora niente che colleghi fra di esse queste sensazioni
formando il concetto di tavolo. La funzione di collegare fra di esse le diverse
sensazioni formando i concetti, che ci permettono una conoscenza più completa
delle cose, è svolta dal secondo tipo di conoscenza, cioè dalla conoscenza
intellettiva, dall'intelletto, il quale organizza le sensazioni, le collega e le unifica fra
di esse trasformandole in concetti. Le sensazioni sono cioè trasformate dall'intelletto
in pensieri. Per Kant pensare equivale appunto a connettere tra loro le sensazioni, i
dati sensibili e intuitivi dell'esperienza. Le sensazioni in se stesse non possono infatti
essere pensate, essere oggetto di pensieri, perché esse, per loro natura, sono intuitive
e immediate, mentre i pensieri sorgono solo quando le sensazioni vengono tra loro
collegate.
L'intelletto, a differenza dell'intuizione, è una facoltà discorsiva, vuol dire cioè che
procede gradualmente, per connessioni e collegamenti successivi, da una conoscenza
parziale ad un'altra meno parziale però mai completa, percorrendo incessantemente
la catena dei rapporti di causa-effetto ma non sino all'infinito. L'intelletto non è in
grado di cogliere l'intera serie causale nella sua infinità, né il punto di partenza
primo né il punto di arrivo ultimo. Arriverà sempre ad un punto che considererà
come punto di arrivo o di partenza momentaneo e provvisorio. L'intelletto infatti, in
quanto facoltà finita e limitata, è condizionato a procedere sempre da un certo effetto
alla relativa causa e così via, tuttavia senza mai cogliere l'elemento primo e quello
ultimo di una serie causale infinita, ossia senza mai coglierne la totalità. In altre
parole, l'intelletto opera solo nell'ambito delle cose finite e limitate ma non riesce a
cogliere l'infinito. In tal senso l'Idealismo, ossia quella corrente filosofica che si
manifesterà nel corso del Romanticismo, criticherà Kant sostenendo che la sua è solo
una "filosofia del finito", che rinuncia all'aspirazione e alla possibilità di cogliere
"l'infinito", la "totalità" della realtà.
Ma anche la conoscenza intellettiva per essere valida deve essere trascendentale,
cioè a priori, applicata all'esperienza, alle sensazioni, per quanto riguarda il suo
contenuto ma indipendente da essa per quanto riguarda la forma, cioè il modo di
funzionare dell'intelletto che, in quanto tale, non dipende dall'esperienza bensì, come
abbiamo visto, dipende dal soggetto. Insomma anche la conoscenza intellettiva
deve assumere il valore di conoscenza trascendentale, universale e necessaria,
basata su giudizi sintetici a priori. Ciò è possibile proprio per il modo di
funzionare dell'intelletto.
Infatti, così come il modo di funzionare della conoscenza sensibile è quello di
organizzare e collocare le sensazioni nello spazio e nel tempo attraverso le relative
forme a priori, o intuizioni pure, della sensibilità, alla stessa maniera il modo di
funzionare della conoscenza intellettiva, dell'intelletto, è quello di organizzare,
collegare e trasformare in concetti i molteplici dati empirici, ossia le sensazioni,
attraverso le forme a priori, i modi, in base a cui l'intelletto stesso funziona.
In verità, precisa Kant, l'intelletto per essere veramente trascendentale non può
limitarsi a collegare tra di esse le sensazioni trasformandole in normali concetti,
perché i concetti sono astrazioni ricavate dall'esperienza e quindi non sono
indipendenti da essa. L'intelletto infatti fa di più: collega le sensazioni e le
188

trasforma non in concetti ordinari ma in "concetti puri", cioè indipendenti


dall'esperienza e quindi universali e necessari. Kant chiama "categorie" i concetti
puri. Ad esempio, mentre quello di "uomo" è un concetto ordinario, perché astraggo,
ricavo dall'esperienza dei vari uomini concreti le caratteristiche comuni, le categorie
riguardano invece solo i modi del conoscere, i modi di funzionare dell'intelletto a
prescindere dai contenuti empirici; quindi non derivano dall'esperienza, non sono
nelle cose, negli oggetti, ma nel soggetto, nella mente, e sono pertanto effettivamente
trascendentali, universali e necessarie.
Le categorie sono, appunto, le forme a priori dell'intelletto. Esse sono dodici e
corrispondono alle categorie già indicate da Aristotele. Le categorie più
importanti sono quelle di sostanza, di causa-effetto (causalità), di relazione
reciproca, di unità, di pluralità, di possibilità, di necessità, di contingenza (che c'è ma
potrebbe anche non esserci o essere diverso). Come si può notare, queste categorie
non riguardano dati ricavati dall'esperienza, non sono nemmeno normali concetti
ma sono invece concetti puri, riguardano cioè i modi in cui l'intelletto organizza i
dati delle sensazioni per riflettervi e validamente conoscere. Ad esempio, il nostro
intelletto funziona in modo tale da riferire e far corrispondere tutte le caratteristiche
di un uomo (altezza, colore, occhi, peso, ecc.) ad un'unica sostanza (a quell'uomo lì e
non ad un altro); altrettanto, fa corrispondere l'arrivo della luce del giorno ad una
causa che è il sorgere del Sole, e così via. Tali categorie, si ribadisce, ossia la
sostanza, la causa o l'effetto, l'unità o la pluralità, ecc., non sono nelle cose e quindi
non derivano dall'esperienza, sono invece nel soggetto, sono i modi di funzionare
dell'intelletto, perciò sono indipendenti dall'esperienza, sono trascendentali, a
priori, e quindi universali e necessarie. Pertanto la conoscenza cui in questa
maniera si giunge è una conoscenza valida.
Per Aristotele, a differenza di Kant, le categorie non hanno un valore solo
gnoseologico ma anche ontologico, cioè per Aristotele esse sono anche nelle cose,
esistono nella realtà. Con Kant invece le categorie perdono ogni consistenza
ontologica e metafisica. In tal senso, ne risulta riformulato altresì il concetto di
sostanza, considerata non più come realtà oggettiva, analogamente ai filosofi
empiristi, bensì come categoria mentale a priori, cioè come schema di funzionamento
dell'intelletto. Similmente a Hume, anche Kant afferma che sia la sostanza sia il
concetto di causa non derivano dall'esperienza, aggiungendo però che ciò non è
tuttavia senza alcun valore poiché esse, anzi, sono le condizioni (le forme) necessarie
ed universali della stessa esperienza.
Ebbene, poiché le scienze fisiche e naturali si fondano proprio sulle categorie (in
particolare sulle categorie di causa-effetto, di quantità, di relazione, di unità o
pluralità) e poiché le categorie sono a priori, indipendenti dall'esperienza anche se
applicate ad essa, e sono pertanto universali e necessarie, allora, conclude Kant,
anche le scienze fisiche e naturali sono valide come scienza, sia pur
limitatamente alla conoscenza dei fenomeni e non per quanto concerne la
conoscenza diretta delle cose in se stesse. Anche la fisica e le scienze naturali si
fondano dunque su giudizi sintetici a priori.
189

L'Io-penso o Appercezione trascendentale.

Attraverso le categorie si conoscono i fenomeni. Ogni oggetto, o fenomeno, viene


conosciuto nei suoi vari aspetti applicandovi l'insieme delle categorie (ad esempio di
che sostanza si tratta? cioè che cos'è? di quale causa è l’effetto? quali quantità e
qualità possiede? si presenta da solo o insieme ad altri oggetti? è contingente o è
necessario?).
Ora, mentre per le intuizioni pure della sensibilità (spazio e tempo) il loro riferimento
ad un oggetto è immediato ed evidente, poiché tale oggetto non può che apparirci se
non in un certo spazio e in un certo tempo, per quanto riguarda invece le categorie
Kant si trova, questo punto, ad affrontare quello che lui chiama il problema della
deduzione trascendentale, il che significa: come si può dedurre e dimostrare la
legittimità dell'applicazione delle categorie, che sono trascendentali cioè indipendenti
dall'esperienza, agli oggetti o fenomeni della natura, che sono al di fuori della nostra
mente e non sono forme o modi di funzionare dell'intelletto? Ossia, qual è la funzione
che collega e unifica fra di esse le dodici differenti categorie in capo ad un soggetto
conoscente e le rende applicabili agli oggetti esterni? In altri termini, cosa fa sì che la
conoscenza dei molteplici fenomeni non si disperda qua e là, ma venga collegata
e unificata ordinatamente in un soggetto conoscente di modo che si abbia chiara
coscienza che essi si riferiscono unitariamente a tale soggetto?
Per Kant nel soggetto conoscente, cioè nell'intelletto, funziona un centro
complessivo di coordinamento e di unificazione di tutte le sensazioni percepite e di
tutte le conoscenze acquisite circa gli oggetti (i fenomeni) tramite le categorie.
Questo centro è la coscienza, o autocoscienza, che Kant chiama "io-penso" perché
ogni nostra conoscenza è un nostro pensiero, oppure chiama "appercezione
trascendentale", cioè autocoscienza indipendente dall'esperienza. È l'io-penso che
unifica tutte le varie sensazioni e conoscenze e dà consapevolezza che esse non sono
disordinate e scollegate ma appartengono tutte al mio "io". Tutti i pensieri (le idee, le
conoscenze) presuppongono l'io-penso, cioè un soggetto (una mente, un intelletto)
che le pensi, altrimenti sarebbero impossibili. Ma l'io-penso pensa attraverso le
categorie. Le categorie sono infatti il modo in cui i fenomeni sono pensati, vale a
dire che il modo di funzionare dell'intelletto ci induce a pensare i fenomeni come
composti di una certa sostanza, di una certa quantità o qualità, di un certo rapporto di
causa-effetto, ecc.). Allora, se tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie
ciò significa, dunque, che è legittimo applicare le categorie agli oggetti, ai
fenomeni della natura.
Va sottolineato che l'io-penso non è l'anima (la quale, come vedremo, è in se
inconoscibile), cioè non è sostanza, realtà statica ma è attività, è funzione: è il più
elevato modo di funzionare dell'intelletto, costante e comune in tutti gli uomini e
perciò universale e necessario. L'intelletto dapprima collega le varie sensazioni e le
trasforma nelle varie categorie e poi collega tutte le diverse conoscenze acquisite
attraverso le categorie in una conoscenza complessiva e coordinata dall'io-penso.
Ancora una volta, l'unificazione di tutte le conoscenze in capo ad un medesimo
190

soggetto conoscente non proviene dagli oggetti ma è opera del soggetto, dell'io-
penso, il che conferma al più alto grado la rivoluzione copernicana di Kant.
Quindi il complessivo ordine universale e necessario che ognuno vede nel mondo
e nella natura non deriva dall'esperienza ma dall'io-penso; è il modo supremo in
cui l'io-penso classifica, organizza e collega fra di esse le varie conoscenze
fenomeniche.
Perciò Kant definisce l’io-penso come il legislatore della natura, cioè come quella
attività, quella funzione suprema dell'intelletto che ci consente di attribuire
precise leggi e regole circa il modo in cui accadono i diversi fenomeni naturali ed
altresì i fatti umani e della storia umana.
In tal senso l’io-penso non è costituito dalla sola autocoscienza individuale ma
anche da quella collettiva: costituisce il sapere in generale. Poiché è il fondamento
dei modi di pensare la natura, l’io-penso è anche il fondamento della scienza che la
studia. Infatti i principi fondamentali della fisica poggiano su giudizi sintetici a priori
della mente, che a loro volta derivano dalle intuizioni pure di spazio e di tempo e
dalle dodici categorie. Con ciò Kant supera lo scetticismo di Hume. Questi riteneva
che l'esperienza potesse prima o poi smentire la verità su cui si regge la scienza. Kant
sostiene invece che tale possibilità non sussiste poiché l'esperienza, divenendo
oggetto di conoscenza attraverso la costante e stabile struttura formata dalle categorie
dell'intelletto e dall'io-penso, non può mai smentire i principi scientifici che ne
derivano. In tal modo le leggi della natura risultano giustificate nella loro validità.

Lo schematismo trascendentale.

La teoria dello schematismo trascendentale è uno sviluppo di quella dell'io-penso, in


quanto rivolta all'analogo intento di dare giustificazione della legittimità e validità
delle categorie applicate ai fenomeni. Lo schematismo trascendentale studia infatti i
rapporti tra le categorie e i fenomeni per rispondere alla cruciale domanda già
considerata: "Come possono le categorie e i fenomeni avere fra di essi un rapporto
se sono eterogenei?" Come è possibile applicare le categorie, che sono universali e
necessarie, ai fenomeni, che sono invece molteplici, particolari e contingenti? E poi
ancora: quale è l'elemento mediatore, di collegamento, che fa sì che l'intelletto possa
applicare i propri concetti puri, a priori (cioè le categorie), alle intuizioni sensibili e
ai fenomeni?
Per Kant tale elemento mediatore è il tempo, il quale è sia intuizione sensibile a
priori ma sia anche criterio di immaginazione e concepimento delle categorie: è cioè
il modo in cui le categorie sono pensate. L'intelletto e la sua funzione superiore, l'io-
penso, opera nel tempo grazie ad una facoltà specifica che Kant chiama
"immaginazione produttiva" per significare il modo in cui l'io-penso immagina,
producendole, le categorie; è definita immaginazione perché non è una facoltà
puramente intellettuale ma ha pure a che fare con la sensibilità, ossia è funzione
intermedia tra la sensibilità e l'intelletto; è definita produttiva perché produce
spontaneamente i modi di pensare le categorie. Infatti la sostanza, come categoria, è
immaginata (immaginazione produttiva) come permanenza nel tempo (la sostanza di
191

ogni cosa è appunto ciò che permane pur nel divenire del suo stesso aspetto
esteriore); altrettanto la causalità è immaginata come successione nel tempo; la
realtà come esistenza in un determinato tempo; la necessità come esistenza in ogni
tempo; la quantità come numero che si distribuisce nel tempo; la qualità come
presenza o assenza o intensità dei fenomeni nel tempo.
Abbiamo visto che Kant definisce il tempo come la forma del senso interno (della
coscienza). Ma poiché tutti i dati del senso esterno ci giungono attraverso il senso
interno, il tempo si configura quindi, indirettamente, anche come la forma del senso
esterno, cioè come la maniera universale attraverso la quale percepiamo tutti gli
oggetti: il tempo è forma universale dell'esperienza. Consegue che, se non ogni cosa
è nello spazio, come ad esempio i sentimenti, ogni cosa è però nel tempo in quanto è
nel tempo che accade. L'intelletto, non potendo agire direttamente sugli oggetti della
sensibilità poiché in se stessi inconoscibili, agisce indirettamente su di essi tramite il
tempo, collocandoli cioè nel tempo.
Si spiega così la denominazione di “schematismo trascendentale”assunta da Kant.
Rispetto ad ogni categoria, o concetto puro, l'immaginazione produttiva produce,
ponendolo nel tempo, il relativo schema trascendentale (la relativa immagine in
generale). Per esempio lo schema del cane non coincide con l'immagine sensibile e
particolare di questo o quel cane, ma consiste in una regola, per l’appunto uno
schema generale, in base a cui la mia immaginazione è in grado di delineare e
concettualizzare, secondo diverse modalità e collocazioni temporali, la figura del
quadrupede cane al di fuori delle singole esperienze concrete. Per tale motivo lo
schema è definito "trascendentale" (indipendente dall’esperienza): gli schemi
trascendentali sono le categorie calate nel tempo.

I principi dell'intelletto puro e l'io-penso " legislatore della natura".

Lo schematismo trascendentale e l'immaginazione produttiva, attraverso l'elemento


mediatore del tempo, consentono dunque di collegare e di applicare le categorie
all'intuizione pura, sensibile, degli oggetti fenomenici collocati nello spazio e nel
tempo. Quattro sono i modi o i principi dell'intelletto puro, ovvero le regole di fondo
tramite cui avviene l'applicazione delle categorie agli oggetti. Tali modi
costituiscono i postulati o assiomi, cioè le concezioni generali di base, mediante cui
pensiamo il mondo dei fenomeni naturali. In particolare essi sono:
1. gli assiomi dell'intuizione, corrispondenti alla categoria della quantità, i quali
affermano a priori che tutti i fenomeni intuiti costituiscono delle quantità
estensive; in base al principio secondo cui ogni quantità è composta di parti,
in quanto tali calcolabili, questi assiomi giustificano l'applicazione della
matematica all'intero mondo dell'esperienza;
2. le anticipazioni della percezione, corrispondenti alla categoria della qualità,
le quali affermano che ogni fenomeno percepito ha una propria "qualità
intensiva", cioè un proprio grado di intensità (ad esempio il grado di intensità
della luce o del calore) che può essere indefinitamente suddiviso secondo
gradi maggiori o minori; il termine "anticipazioni" indica appunto che, mentre
192

tutte le sensazioni sono date come tali solo a posteriori, tuttavia è lecito
assumere a priori (anticipare) il postulato secondo cui una loro qualità
peculiare è di avere comunque un certo grado di intensità, pur non sapendo di
quale grado specifico si tratti poiché può essere individuato solo con
l'esperienza;
3. le analogie dell'esperienza, corrispondenti alla categoria della relazione, le
quali affermano a priori che l'esperienza costituisce un intreccio necessario di
rapporti basato sui principi della persistenza della sostanza, della causalità e
dell'azione reciproca; qui analogia significa che tali principi non si riferiscono
ai singoli oggetti, ma alle regole generali e formali ( le forme dell'intelletto)
secondo cui organizziamo e definiamo il contesto dell’accadere dei fenomeni
(ad esempio, in presenza di un evento noi sappiamo a priori, grazie al
principio di causalità, che esso deve avere una causa pur non conoscendo
ancora la causa specifica, che va cercata nell'esperienza);
4. i postulati del pensiero empirico in generale, corrispondenti alla categoria
della modalità, i quali stabiliscono che ciò che è in accordo e connesso con le
condizioni formali e materiali dell'esperienza è, rispettivamente, possibile e
reale.
Questa dottrina dei principi coincide con la teoria dell'io-penso come "legislatore
della natura", intendendo per natura, qui concepita in senso formale, la conformità
dei fenomeni alle leggi fisiche generali (cioè ai principi della fisica, o postulati o
assiomi) nonché il loro ordine necessario ed universale. Tale ordine infatti non
deriva dall'esperienza bensì dall'io-penso e dalle sue forme a priori. Invece le leggi
particolari nelle quali questo ordine si esprime non possono essere desunte dalle
categorie, pur sottostando ad esse, ma soltanto dall'esperienza.

Critica dello schematismo trascendentale dal punto di vista del realismo.

Pur non disconoscendo i meriti della gnoseologia kantiana, può essere peraltro
interessante, prendendo in esame un altro punto di vista, considerare le critiche ad
essa rivolte dai filosofi sostenitori di una impostazione realista. Per realismo si
intende quella visione del mondo, quella concezione di base, secondo cui vi è
corrispondenza tra le rappresentazioni mentali o immagini o idee delle cose (cioè i
fenomeni) e le cose medesime in sé. Vale a dire che il realismo si regge quantomeno
sul postulato che le nostre sensazioni e idee siano conformi alla realtà delle cose che
ci troviamo di fronte, per cui la nostra conoscenza non è allora puramente
fenomenica, limitata all'apparenza esteriore delle cose, nel dubbio che esse, in
concreto, possano essere diverse da come ci appaiono. Il realismo rivaluta in tal
modo l'ontologia dell’oggetto che era stata soppiantata dal primato che la filosofia
moderna, a partire da Cartesio, aveva per contro conferito alla gnoseologia del
soggetto.
I filosofi realisti osservano che nella gnoseologia kantiana, come del resto nella
gnoseologia della filosofia moderna e specialmente nel razionalismo, sussiste un
193

pregiudizio di fondo nei confronti dell'esperienza, considerata come una fonte di


dubbio piuttosto che di certezza, ritenendo che la certezza consista piuttosto nella
necessità logica o nella scienza ovvero, per Kant, nelle intuizioni pure e nelle
categorie dell'intelletto. Secondo il realismo molte delle proprietà solitamente riferite
ai concetti, alle categorie, alla logica o al linguaggio vanno invece riferite a
proprietà degli oggetti, secondo l'idea che, al di là dei concetti e della logica,
sussista una vera e propria "necessità materiale", ossia l'esigenza di misurarsi e fare
i conti con gli oggetti concreti, proclamando così una sorta di controrivoluzione
copernicana al posto della rivoluzione copernicana di Kant. Se Kant suggerisce che
il fondamento della comprensione del mondo (dei fenomeni) dipende dalla stabilità
universale e necessaria degli schemi concettuali (intuizioni, categorie, io-penso)
attraverso cui lo conosciamo, l'idea di una necessità materiale consiste,
diversamente, nella circostanza per cui, indipendentemente da schemi concettuali di
sorta, il mondo ha le sue regole e le fa rispettare. Per i realisti il razionalismo va
corretto concependo la sussistenza di un "a priori materiale", ossia assumendo come
postulato di base, indipendente dall'esperienza, l'esigenza di un confronto con la
realtà materiale oggettiva, così da superare la distinzione tra analitico e sintetico,
tra a priori e a posteriori, criteri, questi, adottati dai razionalisti per distinguere il
necessario dal contingente. Nel razionalismo, osservano i realisti, vi è una
fondamentale confusione tra ontologia (quello che c'è) e gnoseologia (quello che so)
così come tra esperienza e scienza. Se siamo d'accordo sul fatto che un conto è
pensare una cosa ed un altro è conoscerla, si dovrà anche ammettere che un conto è
conoscere una cosa ed un altro incontrarla, farne esperienza; per esempio sbattere al
buio contro una sedia. Il fatto che i sensi possono talora ingannare è rilevante
gnoseologicamente, ma da un punto di vista ontologico non c'è dubbio che solo i
sensi consentono un accesso e un contatto diretto con la realtà fisica. Per i realisti
Kant non riesce a collegare in modo convincente i giudizi sintetici a priori (le
categorie, l'io-penso) con l'esperienza. Le sue teorie sullo schematismo e sulla
deduzione trascendentale e sull'immaginazione produttiva sono considerate ipotesi
formulate nel buio, come del resto, ad avviso dei realisti, finisce per ammettere lo
stesso Kant quando riconosce che l'immaginazione trascendentale (la funzione
deputata a collegare i giudizi sintetici a priori all'esperienza) è un mistero depositato
nell'animo umano. Qui è proprio la distinzione tra soggettivo ed oggettivo che viene
meno. Se per Kant "soggettivo" equivale a "contingente" e "oggettivo" equivale a
"necessario", allora i giudizi sintetici a priori non garantiscono la distinzione tra
"necessario" e "contingente". Decidere che il mondo è costruito interamente dai
concetti, come soprattutto sarà in età romantica nell'idealismo tedesco, vuol dire
assorbire interamente l'ontologia nella gnoseologia, tendenza questa che si risolverà
nell’immaterialismo postmoderno. Per gli antikantiani anche i concetti, i pensieri,
sono oggetti, sono realtà. Noi disponiamo di un mondo di oggetti regolari e
intimamente necessari che esistono indipendentemente da qualunque "io" che li
pensi. Dal punto di vista gnoseologico la certezza è solo ciò che è provato al 100% e,
visto che nel mondo fisico nulla è provato al 100%, allora tutto è contingente. Ma
sotto il profilo ontologico ed empirico non ho bisogno di sapere con necessità se e
194

quando una lampadina sarà accesa o spenta per stabilire se, nel momento in cui la
guardo, è accesa o spenta. Il contingente quando si realizza diventa necessario e
fonda giudizi analitici (necessari) a posteriori, smentendo in tal senso la supposta ed
esclusiva esistenza di giudizi analitici a priori. Per esempio, il concetto di causa è
per Kant un giudizio sintetico a priori, il quale afferma che ogni cambiamento ha una
causa secondo l'assunto che A determina B, un assunto logico-formale che precede
l'esperienza anziché derivarne e pertanto giudicato necessario e sintetico a priori.
Ma, obiettano i realisti, sta di fatto che la parte materiale dell'assunto, ossia il farne
concreta esperienza, non è per Kant e per i razionalisti dotata di necessità, solo
quella concettuale lo è.
Se Kant, per i realisti, non riesce a distinguere l'ontologia dalla gnoseologia, sono
dai realisti parimenti criticati, dall'altro verso, i filosofi del linguaggio, cioè gli
esponenti di quella che sarà chiamata la "filosofia analitica", i quali , posto che la
realtà è esclusivamente espressa attraverso il linguaggio, finiscono col far coincidere
ed assorbire la realtà entro il linguaggio medesimo, non riuscendo in tal modo a
differenziare, a loro volta, la logica e il linguaggio dall'ontologia. È vero che anche i
concetti, i pensieri, sono oggetti, ma se gli oggetti fisici sono così appariscenti, solidi
e incisivi alla nostra intuizione ciò non appare casuale. Quando mi riferisco ai
pensieri mi riferisco certo a qualcosa, ma se mi riferisco ad un uomo vivo o morto la
realtà cambia molto e linguaggio da solo non è in grado di definire questa differenza.
Il che rappresenta una difficoltà insormontabile per chi vuole identificare linguaggio
e ontologia, concezione, questa, invece diffusa nella filosofia del Novecento e che,
non a caso, ha spesso coinciso con un progetto di eliminazione dell'ontologia
medesima.
Ma si può fare logica senza ontologia? Aristotele sostiene che il principio di non
contraddizione non è solo logico ma anche ontologico, ossia riguarda non soltanto il
ragionamento o il linguaggio bensì il modo in cui è fatto il mondo. Io non penso mai
il principio di non contraddizione in astratto, afferma Aristotele, ma lo penso sempre
in casi singoli e sulla base di immagini e rappresentazioni che, in ultima istanza,
rinviano a cose esistenti nel mondo.

La distinzione tra fenomeno e "noumeno" o "cosa in sé".

Nell'avviarsi a concludere la sua "Critica della ragion pura", Kant mostra dunque
che, grazie alle forme a priori della sensibilità (le intuizioni pure di spazio di tempo) e
a quelle dell'intelletto (le categorie o concetti puri), la conoscenza scientifica è
valida, universale e necessaria. Però, ci avverte Kant, è una conoscenza solo
fenomenica: non conosciamo direttamente le cose in se stesse ma solo i loro
fenomeni, ossia come le cose appaiono, senza sapere se esse in realtà sono proprio
come appaiono a noi o sono diverse. Ma proprio perché è fenomenica la
conoscenza scientifica è universale e necessaria, in quanto l'universalità e la
necessità non possono derivare dalle cose, che ci sono e non ci sono, derivando
invece solo dal soggetto, cioè dai modi di funzionare della sensibilità (conoscenza
195

sensibile) e dell'intelletto (conoscenza intellettiva), i quali sono a priori, costanti e i


medesimi in tutti gli uomini. Se viceversa gli oggetti fossero conoscibili, se cioè fosse
possibile conoscere e cogliere direttamente le "cose in sé", la nostra conoscenza
sarebbe allora solo a posteriori, derivata dall'esperienza e quindi non universale né
necessaria poiché non è possibile fare esperienza di tutto.
Tuttavia Kant non nega l'esistenza delle "cose in sé", cioè di oggetti esterni alla
nostra mente e ai suoi modi di funzionare. Le "cose in sé", dice Kant, devono esistere
perché esse sono la causa dei fenomeni: senza oggetti, senza cose in sé, non
esisterebbero nemmeno i fenomeni. Le cose in sé sono quindi pensabili come causa
dei fenomeni ma non sono conoscibili. Infatti Kant chiama la cosa in sé col nome
di "noumeno", parola greca che significa, appunto, pensabile. Il nostro intelletto,
ribadisce Kant, non può mai sorpassare i limiti dell'esperienza, cioè andare oltre i
fenomeni e arrivare alle cose in sé, ai noumeni, perché l'intelletto riceve i suoi
contenuti (quel che conosce, l'oggetto della conoscenza) soltanto dall'esperienza.
Al di fuori dell'esperienza operano nell'intelletto solo le forme a priori, che non
sono però contenuti dell'intelletto, ossia non sono ciò che si conosce ma il modo
in cui si conosce, vale a dire i modi di funzionare della sensibilità e dell'intelletto
medesimo. Senza l’esperienza l'intelletto sarebbe vuoto, privo di contenuti, così come
senza forme a priori sarebbe cieco, incapace di conoscenze universali e necessarie.

La dialettica trascendentale e le idee della ragione.

Spiegazione dei termini: qui dialettica=analisi, esame dei ragionamenti;


trascendentale=a priori, che precede l'esperienza ed è indipendente da essa. Perciò
dialettica trascendentale significa analisi dei ragionamenti a priori svolti dalla
ragione che, come vedremo, Kant definirà errati.
La dialettica trascendentale è l'ultima parte della "Critica della ragione pura". Essa
non studia più l'intelletto e le sue forme a priori (i suoi modi di funzionare),
esaminati nella analitica trascendentale, ma studia invece la ragione e le forme a
priori di quest'ultima, chiamate da Kant "idee della ragione", per verificare se
anch'esse sono valide o no.
Kant distingue nettamente tra intelletto e ragione: l'intelletto ha come oggetto i
fenomeni, che sono realtà finite e limitate, ed inoltre procede gradualmente,
"discorsivamente", una conoscenza dopo l'altra, senza mai arrivare però alla
conoscenza piena e totale; la ragione ha invece come oggetto non il finito ma
l'infinito e l'assoluto (=che non è condizionato e non dipende da niente altro) della
metafisica: essa aspira cioè a conoscere le cose in sé, per Kant non conoscibili,
nonché a cogliere direttamente, intuitivamente, in un colpo solo, i principi primi e le
cause ultime di tutta la realtà nella sua globalità infinita.
L'ambito della ragione è per Kant più ampio di quello dell'intelletto perché essa
aspira ad andare al di là dei fenomeni per cogliere non solo le cose in sé ma altresì
l'infinito: l'infinità di Dio e/o della totalità dell'universo materiale e spirituale. La
tendenza della ragione umana di andare oltre l'esperienza, oltre i limiti fenomenici
196

della conoscenza umana, verso l'infinito e verso i noumeni (le cose in sé), riconosce
Kant, è irresistibile ed insopprimibile, è un preciso bisogno dello spirito umano;
però questa tendenza è un illusione ed un errore perché i noumeni sono
inconoscibili. Perciò Kant chiama questa tendenza "illusione trascendentale" in
quanto vuole superare i limiti dell'esperienza.
La dialettica trascendentale è per l'appunto la critica degli errori e delle illusioni
della ragione. Tali errori sono chiamati da Kant "paralogismi", termine che significa
ragionamenti difettosi, idee sbagliate della ragione.
Tre sono le principali idee sbagliate della ragione, che essa pretende di saper
cogliere e comprendere come cose in sé nella loro essenza di fondo:
1. l'idea dell'anima, ossia la pretesa della ragione di conoscere direttamente la
natura dell'anima, idea sulla quale è basata la psicologia razionale;
2. l'idea del mondo, ossia la pretesa di conoscere la totalità del mondo, la sua
essenza, il fine e il senso del mondo, idea su cui è basata la cosmologia
razionale;
3. l'idea di Dio, ossia la pretesa di dimostrare e di conoscere direttamente la
realtà e la natura di Dio, idea su cui è basata la teologia razionale.
Queste tre idee, che riguardano l'anima, Dio, il mondo (cioè il cosmo),
corrispondono alle tre parti in cui è suddivisa la metafisica tradizionale, per cui
la critica delle idee errate della ragione costituisce nel complesso la critica della
metafisica in sé. Di seguito si passa quindi ad esaminarle una per una.

L'idea dell'anima.

L'errore della ragione metafisica sta nel concepire l'anima (cioè la coscienza, l'io-
penso) non già come attività, come modo di funzionare dell'intelletto e come "io-
penso", quale funzione unificatrice e di collegamento delle sensazioni e delle
categorie, bensì come "sostanza" realmente esistente, spirituale ed immortale,
ossia come "cosa in sé". Ma per Kant, come abbiamo visto, la sostanza non è una
realtà esistente, non è una cosa in sé, bensì è una categoria, ossia un modo di
funzionare dell'intelletto per organizzare e ordinare i dati dell'esperienza: la sostanza
come categoria non è una cosa in sé ma uno strumento di conoscenza. È vero,
riconosce Kant similmente a Cartesio, che noi siamo coscienti di noi stessi come
esseri pensanti ma, diversamente da Cartesio, noi non conosciamo la sostanza,
l'essenza della nostra coscienza o anima, la quale come noumeno o cosa in sé è
inconoscibile. Noi ci conosciamo solo come fenomeni, ossia soltanto come ci
vediamo e ci sentiamo, ma non conosciamo la sostanza dell'anima: potrebbe anche
esserci però non è conoscibile. Per Kant il "cogito" di Cartesio è soltanto coscienza di
noi stessi ma non è conoscenza dell'anima. Di conseguenza né lo spiritualismo
(l'anima è sostanza spirituale) né il materialismo (l'anima è sostanza materiale) hanno
valore di scienza: sono soltanto concezioni metafisiche, posta l'impossibilità di
conoscere se e quale possa essere l'essenza dell'anima.
197

L'idea del mondo.

Anche qui, l'errore della ragione sta nel concepire il mondo non già come un
semplice insieme di fenomeni e di fatti quali ci appaiono, ma invece come sostanza
nella sua totalità. È sbagliata la pretesa della ragione di non limitarsi a conoscere
soltanto i fenomeni, ritenendo invece di poter conoscere il Mondo con la M
maiuscola, ossia la sua totalità intesa come entità metafisica, come cosa in sé, di cui
saper cogliere il fine fondamentale, i principi primi e le cause ultime. Invece non
solo è impossibile fare esperienza della totalità dei fenomeni del mondo ma inoltre,
quando si pretende di passare dalla conoscenza fenomenica del mondo alla
conoscenza della totalità delle cose in sé del mondo, nella ricerca del fondamento e
del senso dell’universo, si incorre, fa presente Kant, in una serie di antinomie, cioè
di contraddizioni insanabili, le cui opposte affermazioni od opinioni, poiché non
conoscibili, possono essere ugualmente vere od ugualmente false, possono essere
ugualmente affermate o negate.
Le principali antinomie (contrapposizione insolubili) sono del tipo:
Il mondo è finito o infinito?
Il mondo e le parti che lo costituiscono sono divisibili all'infinito, cioè
scomponibili e riducibili infinitamente in parti sempre più semplici, oppure
non sono divisibili all'infinito in quanto si finisce col giungere a parti semplici
(ad esempio gli atomi) che non possono essere ulteriormente divisibili, cioè
rimpicciolite?
Nel mondo vi è finalismo e libertà (c'è un fine, uno scopo generale
liberamente perseguito e perseguibile) oppure vi è solo meccanicismo e
necessità (solo determinismo)?
Nel mondo c'è o non c'è un essere assolutamente necessario, Dio, quale causa
esterna di esso (trascendenza divina) o come sostanza e principio interno
animatore del mondo (panteismo e immanentismo)?
Poiché queste domande riguardano sostanze, essenze, cioè noumeni o cose in sé
che non possiamo conoscere, ad ognuna di esse si può rispondere sia
positivamente che negativamente. Quindi non ci può essere risposta certa; sono
domande metafisiche ma non scientifiche.

L'idea di Dio.

Più che un'idea, dice Kant, questo è un ideale, anzi è l'ideale per eccellenza,
mediante il quale viene concepito l'Essere (il Noumeno) supremo, che ha
completamente in se stesso la propria causa e la propria determinazione (coincidenza
di essenza ed esistenza). Ma anche l'idea di Dio che formiamo con la ragione ci
lascia nella totale ignoranza circa l'esistenza di tale Essere supremo.
Per Kant le prove dell'esistenza di Dio elaborata dalla metafisica classica sono
principalmente tre:
198

1. la prova cosmologica, che parte dall'esperienza e dall'esistenza del mondo e


risale a dimostrare Dio come causa del mondo, come principio creatore e
animatore del mondo;
2. la prova fisico-teleologica (teleologica=finalistica), che parte dalla visione
dell'armonia e della bellezza del mondo per risalire e giungere a dimostrare
Dio come fine del mondo, come il fine ultimo, causa finale del mondo;
3. la prova ontologica (quella di Sant'Anselmo), che è una prova a priori,
mentre le prime due sono a posteriori perché partono dall'esperienza e dalla
visione del mondo; invece la prova ontologica parte dall'idea (dal concetto) di
Dio come essere assolutamente perfetto, per cui allora, se perfettissimo, deve
per forza possedere tutte le perfezioni e quindi, necessariamente, deve
possedere anche l'esistenza.
Le prime due prove sono però riconducibili, secondo Kant, alla terza, per cui se
si mostra che quest'ultima è errata risultano sbagliate anche le prime due.
Infatti, dice Kant, anche quando si concepisce Dio come causa del mondo (prima
prova) o come fine del mondo (seconda prova), bisogna poi dimostrare che a queste
idee di Dio (come causa o fine del mondo) corrisponde effettivamente anche
l'esistenza di Dio, come ritiene di mostrare la terza prova. Ma la terza prova cade
nell'errore perché un conto è avere l'idea di un essere perfettissimo, un altro
conto è che questo essere sia anche davvero esistente. Infatti dall'idea di Dio,
seppur inteso come essere perfettissimo, non si può automaticamente e sicuramente
ricavare anche la sua esistenza reale, perché la proposizione (o giudizio) che
afferma l'esistenza di una cosa non è analitica e quindi necessaria (in effetti il
predicato, cioè l'esistenza di Dio in questo caso, non è implicito nel soggetto, ossia
nell'idea di Dio) ma è invece una proposizione sintetica a posteriori, per cui il
predicato (l'esistenza di Dio) può essere ricavato solo dall'esperienza; ma non
possiamo fare esperienza di Dio. L'esperienza, precisa Kant, è possibile solo nel
campo dei fenomeni e non nel campo dei noumeni, che sono in conoscibili, mentre
Dio è appunto pensato come Noumeno supremo. In altre parole, ci fa intendere Kant,
non è possibile saltare e passare automaticamente dal piano logico, da quello del
pensiero (cioè dall'idea di Dio), a quello reale, ontologico (cioè all'esistenza di Dio).
La pensabilità di un ente, di un oggetto, non implica necessariamente anche la sua
esistenza: l'idea di una cosa non implica che per forza esista.
Con ciò Kant non nega l'esistenza di Dio: si limita piuttosto a dichiarare che
non si può pretendere di dimostrarne l'esistenza e di conoscerlo razionalmente.
Dio è semmai oggetto di fede, non di ragione.
Se dunque tutte e tre le idee della ragione (anima, mondo e Dio) sono sbagliate,
idee che corrispondono alle tre parti in cui è suddivisa la metafisica, allora a
Kant non rimane da concludere che la metafisica non è valida come scienza.
Mentre le conoscenze matematiche e fisiche sono valide come scienze, limitatamente
però ai fenomeni, la metafisica si rivolge invece non ai fenomeni ma ai noumeni, di
per sé inconoscibili. In essa pertanto non sono possibili giudizi sintetici a priori, in
quanto per essere sintetici i giudizi devono ricavare il loro contenuto, il loro oggetto,
199

dall'esperienza, devono cioè essere applicabili all'esperienza, ma non si può avere


esperienza dei noumeni perché sono solamente pensabili e non conoscibili.
Contro lo scetticismo di Hume, che dubita della validità del principio di causa che
è il principio basilare della scienza, Kant mostra invece che la matematica, la
fisica e le scienze naturali sono scienze valide. Ma Kant è anche consapevole, e
questa è la caratteristica di fondo della sua filosofia, che la conoscenza e le scienze
umane non sono illimitate, che la pretesa di conoscere l'infinito, i noumeni, le
essenze e i principi fondamentali della realtà al di là della nostra esperienza, è
un'illusione, è un atto di superbia. La nostra, dice Kant, è solo conoscenza e
filosofia del finito, dei fenomeni, e la filosofia deve accontentarsi: non può
aspirare alla conoscenza metafisica dell'infinito.
Con ciò si conclude la "Critica della ragione pura".

Il valore regolativo delle idee della ragione.

Dunque le idee della ragione, quella di anima, di mondo e di Dio, producono solo
illusioni e non hanno un valore conoscitivo scientifico. Eppure sono strutture,
modi di essere della ragione, sono bisogni naturali e insopprimibili della ragione.
In quanto tali, ammette Kant, anch’esse debbono avere un qualche senso, un
qualche valore. Kant risponde che esse non hanno un valore conoscitivo, ma hanno
invece un preciso valore e uso regolativo: diventano regole non della nostra
conoscenza ma dei nostri comportamenti, della nostra condotta morale nonché
diventano criteri della nostra visione del mondo.
Da una parte, infatti, la continua ricerca e aspirazione all'infinito, benché
inconoscibile, cui tende lo spirito umano ci spinge ad estendere sempre di più il
campo delle nostre conoscenze possibili. Dall'altra parte, sulla base delle idee della
ragione è possibile regolare la vita pratica e morale dell'uomo, conformando su
queste idee la volontà umana. Sarà questo l'oggetto e l'argomento della seconda
grande opera di Kant: "La Critica della ragione pratica".
L'intelletto ha funzione unificante: connette e collega le intuizioni e sensazioni alle
categorie e le categorie all'io-penso; la ragione ha invece funzione normativa:
sollecita il continuo avanzamento della conoscenza ed orienta le posizioni soggettive
dei singoli, suggerendo le individuali visioni del mondo e la ricerca del nostro senso
nel mondo.
Dopo aver smantellato la metafisica nella "Critica della ragione pura", Kant
viene a recuperarla nella "Critica della ragione pratica", tuttavia non su basi
razionali, teoretiche, bensì pratiche, cioè morali.
200

LA CRITICA DELLA RAGIONE PRATICA.

L'uomo, dice Kant, non è fatto solo di ragione pura (intelletto), ma anche di
volontà (ragione pratica). L'intelletto dirige la conoscenza, mentre la ragione
pratica, proprio in base alle tre idee della ragione (anima, mondo e Dio), ancorché
sbagliate dal punto di vista conoscitivo, è in grado di regolare la volontà dell'uomo,
cioè la vita pratica e la morale. Di tale facoltà della ragione pratica di orientare il
comportamento e la morale dell'uomo si occupa la seconda grande opera di Kant,
"La Critica della ragion pratica", che significa analisi, esame, di come la ragione,
dal punto di vista pratico, può regolare la condotta e la morale dell'uomo. La morale,
o etica, è la scienza che studia il comportamento pratico dell'uomo al fine di
indirizzarlo verso ciò che è giusto, per cui ragione pratica=la volontà regolata
dalla ragione.
L'opera è divisa in due parti fondamentali:
1. l'analitica della ragione pratica, che tratta dei principi della ragione pratica
(le massime e gli imperativi morali), che della ragione pratica sono l'oggetto, e
che esamina inoltre i moventi, le motivazioni, della ragione pratica medesima;
2. la dialettica della ragione pratica, che tratta dell'antinomia
(contrapposizione) che esiste tra virtù e felicità nonché del suo superamento
attraverso tre postulati che vedremo essere posti a fondamento della ragione
pratica stessa.

L'analitica della ragione pratica.

Kant chiama principi pratici (norme pratiche) quelli che influenzano e regolano la
volontà. Essi si dividono in massime e imperativi.
Le massime (=prescrizioni, suggerimenti, consigli) sono principi pratici che valgono
solo per i singoli soggetti, per i singoli individui, che se le propongono: quindi sono
soggettive (cambiano da soggetto a soggetto, da persona a persona); sono massime,
ad esempio, quelle del tipo: "reagisci alle offese"; "non tollerare l'ignoranza altrui".
Gli imperativi (=comandi) sono invece principi pratici oggettivi; sono comandi o
doveri che valgono per tutti. Ciò non significa che necessariamente, di fatto, tutti si
comportino secondo questi comandi, perché possono non essere rispettati se non si
segue la ragione ma ci si fa dominare dalle passioni; significa piuttosto che tali
comandi si imporrebbero a tutti se tutti obbedissero alla ragione pratica, che è in
grado di regolare e determinare la volontà.
Gli imperativi si distinguono, a loro volta, in imperativi ipotetici ed imperativi
categorici.
Gli imperativi ipotetici esprimono un comando subordinatamente al perseguimento
di uno scopo particolare, in vista di fini particolari, ed hanno la forma del "se…
devi"; ad esempio: "se vuoi essere promosso (ipotesi) devi studiare". Quindi hanno sì
un valore oggettivo (che vale per tutti), ma valido solo per tutti coloro che vogliono
conseguire quel medesimo scopo predeterminato.
201

Gli imperativi categorici (categorico=assoluto, indiscutibile) sono invece comandi


che regolano la volontà a prescindere dal raggiungimento di scopi determinati, ma
comandano di agire sempre con razionalità, razionalmente, perché tale è il dovere di
tutti, senza essere subordinati ad alcun fine. Sono quindi oggettivi non in senso
ipotetico, subordinato, ma in senso assoluto. Non hanno la forma del "se… devi", ma
del " devi" puro e semplice; devi e basta: comandano il dovere per il dovere,
perché è così che si deve fare, è così che si deve agire e comportarsi, in quanto così è
giusto e non già per ottenere un qualche scopo o vantaggio.
Quindi solo l'imperativo categorico ha valore di legge morale (di norma, di
principio morale) che vale incondizionatamente per l'essere razionale (per l'uomo)
indipendentemente dagli scopi e dalle circostanze occasionali: un'azione è morale
solo se è disinteressata, se non persegue scopi particolari ma si compie solo perché
si deve, perché è giusto così. Soltanto l'imperativo categorico dunque ha un valore
universale necessario perché è a priori, è indipendente cioè da qualsiasi interesse o
passione derivanti dall'esperienza.
Mentre nella "Critica della ragion pura", che tratta del problema della conoscenza,
Kant ci avverte che la ragione è limitata e che non può oltrepassare la conoscenza
fenomenica per cogliere i noumeni (le cose in sé), nella "Critica della ragion pratica",
che tratta della morale, Kant afferma che, proprio per regolare la volontà e il
comportamento umano, la ragione pratica, al contrario, non deve rimanere entro i
limiti dell'esperienza sensibile ma deve andare oltre, porsi al di sopra di essa, deve
essere indipendente dall'esperienza per non essere condizionata ed influenzata dalle
passioni e dagli istinti che dall'esperienza sensibile derivano.
L'imperativo categorico, ossia il principio morale fondamentale, è valido solo in sé,
nella sua forma e non per il suo contenuto. Ciò che importa non è ciò che devo
volere ma come devo volerlo. Conta cioè l'intenzione di compiere sempre ciò che si
deve (il dovere per il dovere), qualsiasi sia l'oggetto e il contenuto dell'azione, del
comportamento morale. Se mi comporto bene perché sono influenzato
dall'esperienza o spero in un premio oppure temo una punizione, questo mio
comportamento non è allora un'azione moralmente valida. Solo se la ragione
pratica (la mia volontà) è libera, cioè indipendente da qualsiasi condizionamento ed
influenza esterna, possono allora esistere principi morali validi per tutti gli uomini,
ossia universali e necessarie. La libertà dalle passioni e dagli istinti derivanti
dall'esperienza è dunque la condizione dell'azione autenticamente morale: il
dovere per il dovere e non l'agire perché condizionati dalle passioni o dalla speranza
di ben meritare.
Così come i modi di funzionare dell'intelletto devono essere a priori, ossia
indipendenti dall'esperienza, per essere universali e necessari, anche i principi della
morale devono essere a priori, cioè non condizionati ed influenzati dall'esperienza
ma indipendenti da essa. Tuttavia la differenza rispetto alla "Critica della ragione
pura" è che, mentre i modi dell'intelletto sono sì a priori ma si applicano
all'esperienza, i principi morali invece non si applicano e non devono applicarsi
all'esperienza, devono oltrepassare l'esperienza per regolare la volontà e il
202

comportamento a prescindere dai condizionamenti provenienti dalle passioni e dalla


esperienze medesima.
Kant compie dunque una rivoluzione copernicana anche nel campo della morale,
oltre che della conoscenza, perché capovolge le precedenti dottrine etiche, definite
"eteronome" (=che derivano le loro norme dall'esterno e non da dentro se stesse), le
quali infatti facevano dipendere le regole del comportamento morale da qualcosa di
esterno alla ragione, ossia dai buoni sentimenti, dall'autorità civile o religiosa, dalla
speranza di un premio o dalla paura di una punizione. La morale invece, ribadisce
Kant, è autonoma. Non sono i concetti di bene e di male a fondare la morale,
bensì il contrario: è il principio del dovere per il dovere che distingue il bene dal
male. I vari uomini infatti possono avere concetti differenti di bene e di male, mentre
il principio del dovere per il dovere (l'imperativo categorico), cioè il compiere
un'azione perché così si deve ed è giusto, è universale e necessario.
In questo senso Kant distingue tra ragione pratica empirica (le massime e gli
imperativi ipotetici) e ragione pratica "pura" (l'imperativo categorico), facendo di
quest'ultima il principio fondante della morale. Infatti la ragione pratica basta da sola
alla determinazione della volontà solo se è pura, ossia al di fuori da condizionamenti
empirici o trascendenti, metafisici o religiosi, cioè solo se effettivamente le azioni
umane possiedono autonoma libertà, libertà che non possiamo conoscere
intellettualmente, perché non accertabile empiricamente, ma i cui effetti possono
essere immediatamente avvertiti in noi.
La rivoluzione copernicana compiuta da Kant anche nel campo della morale fa
dell'uomo l'unico legislatore non solo della natura (ragione pura) ma anche del
suo comportamento (ragione pratica). Così come non sono i concetti di bene e di
male a fondare la legge morale, bensì il contrario, non sono neppure le verità
religiose a fondare la morale, bensì è la morale, sia pur sotto forma di postulati
come vedremo, a fondare le verità religiose. Dio non sta all'inizio e alla base della
morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile completamento, ossia come
colui che può donarci, quantomeno nell'aldilà, quel sommo bene che è la felicità
derivante dalla virtù, virtù che la legge morale indica invece come un dovere senza
doverci aspettare alcuna ricompensa.
Poiché la ragione pratica si costituisce in base alle idee della ragione pura, che hanno
appunto una funzione regolativa dal punto di vista pratico-morale, sono allora proprio
tali idee, empiricamente non condizionate e perciò libere, che garantiscono la libertà
delle azioni e della volontà umana.
Il modello etico di Kant, dunque, si distingue nettamente dai precedenti sistemi
morali, sia del razionalismo sia dell'empirismo sia dello stesso illuminismo. Il
razionalismo, pur fondando la morale sulla ragione, l'aveva fatta dipendere dalla
metafisica, fondandola ad esempio su Dio o sull'ordine del mondo. L'empirismo, pur
slegando la morale dalla metafisica, l'aveva associata al sentimento (la simpatia di
Hume) o all'utilità (l'utilitarismo). L'illuminismo l'aveva a sua volta connessa ad
ideali razionali e civili, quali il governo civile, il sentimento morale, la perfezione.
Esistono invece per Kant comportamenti che la coscienza riconosce giusti o
sbagliati in sé, indipendentemente dalle conseguenze e dalla situazione specifica in
203

cui si esplicano. L'azione doverosa trova il proprio fine in se stessa e null'altro. È un


errore credere che Kant restauri nel campo della morale l'assolutezza della metafisica.
La ragione morale è pur sempre la ragione di un essere pensante finito e quindi
condizionato dalla sua finitudine umana, dalle resistenze della propria natura
sensibile. Sono proprio tali resistenze che obbligano la legge morale ad assumere la
forma del "dovere".
La formula dell' imperativo categorico.
Dopo averne illustrato le caratteristiche e le proprietà fondamentali, Kant elenca la
formula dettagliata dell'imperativo categorico. Essa consiste in tre regole
specifiche:
1. agisci in modo che la massima (l'intento) della tua volontà possa valere sempre
come principio di una legislazione universale: ossia agisci come ogni essere
razionale dovrebbe se si trovasse nelle tue condizioni; agisci in modo che la tua
azione morale abbia valore di legge non solo per te ma per tutti;
2. agisci trattando gli altri sempre come fine, mai come mezzo: ossia rispetta la
dignità umana;
3. agisci in modo da avere la convinzione che la tua azione sia in applicazione
della legge morale universale che è presente nella tua coscienza come in quella
di tutti gli altri.
Queste tre formule o regole si possono riassumere nella seguente: "agisci sempre
come vorresti che anche gli altri, nella medesima situazione, agissero nei tuoi
confronti".
La libertà come condizione dell'agire morale.
Se l'imperativo categorico, cioè la legge morale, è tale quando può determinare la
volontà senza condizionamenti derivanti dall'esperienza sensibile o dalle leggi
meccaniche e necessarie della natura, ciò significa allora, come si è visto, che la
libertà è la condizione e il fondamento della legge morale. Se scelgo il bene non
perché liberamente lo voglio, ma perché non sono libero di scegliere tra il bene e il
male, allora tutte le mie azioni e i miei comportamenti non hanno valore morale
perché non sono liberi ma sono azioni meccaniche, predeterminate ed istintive come
per gli animali. L'imperativo categorico si basa essenzialmente sulla libertà: io posso
darmi (stabilire per me) un dovere solo se sono libero di darmelo, soltanto se sono
libero di seguire o non seguire le prescrizioni, le norme, della ragione. Solo se sono
libero di fare anche il male, sarà un mio merito decidere e scegliere di fare invece il
bene, il giusto. Insomma, dice Kant: "io devo, dunque posso", cioè devo essere libero
di fare quel che devo.
Ciò non significa che i contenuti, gli scopi delle mie azioni (ad esempio aiutare i
deboli) non abbiano alcun valore, ma vuol dire che i contenuti della mia azione non
possono mai essere motivazioni prevalenti rispetto alla forma della legge che non è,
come nell'esempio riferito, "agisci per aiutare i deboli", ma è "compi il dovere non
per questo o per quello ma per il dovere stesso".
Affinché la nostra azione sia veramente morale noi non dobbiamo agire per
ottenere la felicità o per qualsiasi altro scopo, ma invece dobbiamo agire
unicamente per il puro dovere.
204

La dialettica della ragione pratica: i tre postulati della ragione pratica.

Dunque la morale di Kant è molto rigorosa; si parla di rigorismo kantiano: bisogna


agire solo per il dovere, solo perché è giusto agire in un certo modo senza
aspettarsi, di conseguenza, riconoscimenti, premi o gratitudine. Ma, oltre che
rigoroso, Kant è anche realista, è uomo di buon senso. Egli sa benissimo che
l'agire solo in base al dovere per il dovere, senza aspettarsi niente in cambio, è una
virtù così alta e così rara che solo i santi possiedono. Gli uomini comuni possono
invece possedere non una volontà santa ma una volontà buona, per cui, compiendo
il loro dovere, si aspettano anche la felicità, se non in questo mondo almeno in
quello ultraterreno. L'uomo che agisce secondo il dovere si sente e diventa degno
di felicità; ed essere degni di felicità e non goderne è un assurdo, è cioè una
situazione contraria alla ragione.
Perciò, per poter confidare nella felicità, è giustificato e plausibile ammettere la
sussistenza di tre postulati (che non possono essere dimostrati razionalmente ma ai
quali è ragionevole credere) che garantiscano comunque il godimento della
felicità, se non nella vita terrena (perché ciò non è sempre possibile) almeno
nell'aldilà. È nella natura umana postulare un mondo dell'aldilà in cui la felicità possa
effettivamente realizzarsi. I tre postulati ammessi dalla ragione pratica sono: la
libertà del soggetto (dell'uomo), cioè il libero arbitrio; l'immortalità dell'anima;
l'esistenza di Dio.
L'uomo infatti è stimolato ad agire secondo la legge morale solo se:
1. si sente libero nella scelta delle sue azioni: libero di poter scegliere questo o
quello, il bene o il male, perché non c'è alcun merito nel fare il bene se non si
potesse anche scegliere di fare il male;
2. può nutrire la ragionevole speranza che la sua anima sia immortale, cosicché
possa essere premiata almeno nella vita ultraterrena;
3. può aver fiducia nell'esistenza di Dio affinché conceda all'uomo il premio della
felicità.
Tra virtù, che è solo dei santi e basta a se stessa e non si aspetta niente altro, e
felicità, che è la tendenza naturale dell'uomo comune di buona volontà, vi è quindi
antinomia, cioè dialettica, ossia contrapposizione: da qui il titolo del tema trattato:
"dialettica della ragione pratica". L'unico modo per uscire da tale contrapposizione,
per superare tale dialettica, è proprio quello di postulare un mondo dell'aldilà in cui
possa realizzarsi ciò che nell'aldiquà risulta impossibile, ossia la coincidenza e
l'unione di virtù e felicità.
Va osservato che i tre postulati della ragione pratica coincidono con le tre idee
della ragione pura (il mondo, l'anima, Dio): il postulato della libertà dell'uomo
coincide con l'idea di mondo inteso anche come luogo della libertà e del finalismo e
non solo della necessità fenomenica e del meccanicismo delle leggi fisiche e naturali;
il postulato dell'immortalità dell'anima coincide con l'idea dell'anima; il postulato
dell'esistenza di Dio coincide con l'idea di Dio. Come idee della ragione sappiamo
che esse sono idee metafisiche errate (paralogismi), inconoscibili perché sono
noumeni e non fenomeni dei quali si possa fare esperienza. Però queste idee
205

vengono recuperate e diventano giustificabili dal punto di vista della ragione


pratica: sono bisogni pratici che ci aiutano e ci sospingono nella condotta morale.
Si parla in tal senso di "primato della ragione pratica", ossia di prevalenza
dell'interesse pratico su quello teoretico (conoscitivo), poiché la ragione pratica
ammette postulati (che non potrebbe ammettere come ragione pura) che sono al di là
dei fenomeni e li superano, giungendo non già a conoscere ma a convivere con i
noumeni, ad avvertirli, specie con riguardo a quei noumeni supremi quali la felicità,
la virtù, la libertà, il finalismo, Dio e la provvidenza divina.
L'uomo può essere condizionato da mille fattori esterni ed interni, fisici e psichici, a
compiere o meno una certa azione; può anche essere costretto con la forza a fare o a
non fare una certa cosa. Ma nessuna forza al mondo può costringerlo a volere o non
volere una certa cosa. In tal modo la ragione pratica (la volontà) giunge alla soglia
di una realtà noumenica quale è l'uomo inteso come libera causa delle proprie
volizioni, cui attribuire in quanto sostanza noumenica la categoria della causalità. È
per questo motivo che Kant afferma il primato della ragione pratica rispetto a quella
pura, poiché capace di accostarsi al noumeno, alla cosa in sé. L'uomo quale causa
delle proprie volizioni è appunto la sua essenza noumenica.
206

LA CRITICA DEL GIUDIZIO.

È la terza grande opera di Kant.


La "Critica della ragione pura" si è occupata delle facoltà conoscitive dell'intelletto,
concludendo che l'ambito e il limite di tali facoltà è quello dell'esperienza sensibile,
quello dei fenomeni, i quali costituiscono il mondo fisico della natura. Tale mondo è
caratterizzato dalle leggi della causalità meccanica e della necessità.
La "Critica della ragione pratica" si è occupata invece delle facoltà pratiche della
ragione nel regolare e determinare la volontà e il comportamento morale dell'uomo,
caratterizzati non dalla causalità meccanica e dalla necessità ma dalla libertà e
dall'autonomia.
L'ambito della ragione pura non consente di cogliere le cose in sé, i noumeni, ma solo
i fenomeni. Anche la ragione pratica non conosce i noumeni, però è in grado di
postularne tre, quelli fondamentali: la libertà dell'uomo, l'immortalità dell'anima e
Dio.
Abbiamo visto che nella filosofia di Kant c'è un dualismo, ossia una
contrapposizione, tra "fenomeno" e "noumeno" (o cosa in sé). I fenomeni
costituiscono il mondo fisico-naturale sensibile, che è caratterizzato dalle leggi
della causalità meccanica e della necessità (ogni causa produce necessariamente e
meccanicamente un determinato effetto e ogni effetto deriva necessariamente e
meccanicamente da una determinata causa). Invece i tre noumeni fondamentali
postulati (ma non dimostrabili e conoscibili) dalla ragione pratica, ossia la libertà
dell'uomo, l'immortalità dell'anima e Dio, poiché sono bisogni pratici che concorrono
a regolare e a realizzare la pratica morale, sono caratterizzati non dalla causalità
meccanica e dalla necessità, ma dalla libertà e autonomia dai condizionamenti del
mondo fisico, dell'esperienza e delle passioni (non c'è merito morale nel fare il bene
se non sono libero di scegliere tra bene e male). Il dualismo tra fenomeno e
noumeno è quindi quello fra la necessità del mondo fisico della natura e la
libertà del mondo dell'azione e del comportamento morale.
Nella "Critica del giudizio" Kant tenta di operare una conciliazione, un
collegamento fra questi due mondi contrapposti, per coglierne in qualche modo
una base e un fondamento comune, pur ribadendo che questo collegamento non
potrà essere di carattere conoscitivo o teoretico (non potrà cioè essere dimostrato)
né potrà essere di carattere pratico perché tale collegamento non è finalizzato a
regolare la volontà e la morale. Vedremo che tale base comune sarà individuata da
Kant nel sentimento, ossia nel modo di sentire la natura e la morale da parte degli
uomini, come se, anziché essere contrapposte (dualismo), fossero fra di esse in
armonia e in accordo.
Infatti, dice Kant, il mondo della morale e della libertà, che risiede nei tre
postulati della ragione pratica, deve pur avere un influsso sul mondo dei fenomeni
e della necessità (il mondo fisico della natura). Quantomeno, la natura deve poter
essere pensata in modo che le sue leggi meccaniche possano in qualche maniera
accordarsi e non essere in contrasto con gli scopi e i fini (la virtù e la felicità)
postulati dalla ragione pratica, dalla morale, basata sulla libertà.
207

Può essere quindi preso in considerazione un fondamento comune tra il mondo


sensibile della natura e quello ultrasensibile della libertà della morale e dello spirito,
consistente nel pensare e sentire che esistono scopi e fini nella natura (finalismo)
anche se le leggi naturali che conosciamo sono meccaniche e necessarie
(determinismo). Si tratta, avverte Kant, di un fondamento pur sempre insufficiente a
consentire una conoscenza scientifica del collegamento tra i due mondi, ma tale
comunque da permettere la possibilità di supporre che all'interno dei meccanismi del
mondo della natura esista anche un senso ed uno scopo finalistico.
Questo fondamento è una terza facoltà, intermedia tra la facoltà dell'intelletto
(ragione pura) e quella della ragione pratica (la volontà), che Kant chiama "facoltà
del giudizio", basata sul sentimento, sul modo di sentire. Qui il termine giudizio
non è più inteso consistere, come nella "Critica della ragione pura", nell'attribuire un
predicato al soggetto, ma è inteso come modo di sentire e di giudicare, in grado di
collegare le sensazioni percepite dal soggetto ai suoi sentimenti. In tal modo Kant
completa la sua immagine dell'uomo che, egli dice, è fatto non solo di intelletto
(ragione pura) e non solo di volontà (ragione pratica) ma anche di sentimento
(modo di sentire e di giudicare).

Giudizio determinante e giudizio riflettente.

Diversamente dalla definizione data nella "Critica della ragion pura", nella "Critica
del giudizio" Kant definisce il giudizio come la facoltà o propensione ad attribuire
una proprietà particolare ad una specie o genere di cose o di eventi più generali. In tal
senso distingue due tipi di giudizio: il giudizio determinante; il giudizio
riflettente.
Si ha un giudizio determinante quando sono dati, o noti, sia il caso particolare sia la
regola o la legge generale. Il giudizio determinante è quello che, disponendo di tutti i
dati necessari, generali e particolari, determina conoscitivamente (sa spiegare)
l'oggetto, il fenomeno, al quale è rivolto. Tutti i giudizi della "Critica della ragion
pura" sono determinanti perché sono dati sia il particolare (i dati sensibili) sia
l'universale (le forme a priori).
Si ha un giudizio riflettente quando è dato o è noto solo il particolare, mentre
l'aspetto universale è da ricercare. Si chiama riflettente perché l'universale che si deve
cercare non è una legge, una forma a priori dell'intelletto, ma deriva da una
riflessione sugli oggetti considerati (“riflessione” è qui intesa nel senso comparare,
mettere in relazione), pur in assenza di una legge esplicativa, di una forma a priori. In
altri termini, il giudizio riflettente è quello che riflette sugli oggetti, sui fenomeni
presi in considerazione, non per conoscerli scientificamente, secondo le forme a
priori dell'intelletto, ma per cercare e trovare in essi l'accordo, la corrispondenza, con
i sentimenti di finalismo e di armonia che sono nel soggetto, negli uomini.
Dunque, l'uomo pensa il mondo non solo attraverso l'intelletto (giudizio
determinante), ma anche attraverso il sentimento (giudizio riflettente). Per poter
risalire dal particolare all'universale che è da trovare, ossia per trovare un
208

fondamento comune tra le leggi meccaniche e necessarie della natura e il sentimento


di libertà e di finalismo dell'uomo, il giudizio riflettente ha bisogno di un
principio-guida a priori, che è l'ipotesi che vi sia una finalità nella natura.
Il giudizio riflettente non è valido dal punto di vista scientifico o morale: esso è
fondato sul sentimento, mentre sia le scienze che la morale sono fondate sulla
razionalità (ragione pura o ragione pratica), e nasce dal bisogno tutto umano di
trovare un accordo tra i fenomeni della natura e il nostro sentimento di libertà e
di finalismo. Esso si basa e deriva da un'ipotesi a priori (indipendente
dall'esperienza e non dimostrata in base ad essa) che non ha validità scientifica, ma
secondo la quale siamo portati a pensare e a sentire i fenomeni naturali "come
se" in essi vi fosse un fine e un senso, non solo scientifico ma anche spirituale,
emotivo, sentimentale.
Tutti i giudizi della "Critica del giudizio" sono giudizi riflettenti. La ricerca e
l'ipotesi che vi sia un fine nella natura fa perdere alla natura la sua rigidità e necessità
meccanicistica e rende possibile il suo accordo con il postulato della libertà e del
finalismo ammesso dalla ragione pratica.
Il finalismo nella natura si può ricercare in due modi diversi: 1) riflettendo sulla
bellezza della natura o dell'arte in base al sentimento del bello; 2) riflettendo
sull'armonia e sull'ordine della natura. Derivano da ciò, allora, due tipi di giudizi
riflettenti: 1) il giudizio estetico, che riguarda e riflette sulla bellezza; 2) il giudizio
teleologico, che riguarda e riflette sui fini e sull'armonia della natura (teleologia=
ricerca e riflessione sui fini, sull'armonia).
Il giudizio estetico e il giudizio teleologico sono entrambi giudizi "puri", cioè
derivanti a priori dai nostri sentimenti e quindi suscettibili di analisi critico-
trascendentale. Entrambi sono accomunati dal bisogno sentimentale di individuare un
fine o dei fini. Si distinguono peraltro tra loro per il diverso punto di vista secondo
cui ciascuno rappresenta il finalismo. Il giudizio estetico riguarda il rapporto di
armonia che si instaura tra il soggetto e la rappresentazione dell'oggetto, per cui Kant
parla di finalità soggettiva o formale. Il giudizio teleologico riguarda invece un
presunto ordine finalistico interno alla natura, per cui Kant parla di finalità oggettiva
o reale, reale non però in senso determinante, ontologico, perché esprime comunque
un bisogno soggettivo del nostro sentimento, quello di rappresentarsi in modo
finalistico l'ordine delle cose.

Il giudizio estetico.

Il giudizio estetico riguarda il bello, la bellezza. Il bello non è una proprietà


oggettiva delle cose e neppure è un giudizio di tipo conoscitivo (determinante), non è
cioè un dato scientifico ma è un sentimento di piacere e di gusto che è dentro di
noi e che si produce quando si instaura tra noi e gli oggetti contemplati un senso di
armonia.
Kant distingue quattro generi di bello:
209

1. per qualità: il bello è ciò che piace in modo disinteressato; non è legato al
piacere dei sensi e nemmeno al bene morale o all'utile economico, ma è solo
contemplazione e ammirazione;
2. per quantità: il bello è ciò che piace universalmente, che vale per tutti gli
uomini; ognuno può trovare belle cose diverse ma il sentimento di piacere che
si prova è comune e uguale in tutti;
3. per relazione: la bellezza vale in se stessa e non in rapporto, in relazione a
scopi particolari;
4. per modalità: il bello è un piacere necessario, nel senso che si impone nello
stesso modo, nella stessa modalità, a tutti gli uomini.
Anche nel campo dell'estetica (oltreché della conoscenza e della morale) Kant
compie una rivoluzione copernicana, un capovolgimento dei punti di vista: il
bello non è nelle cose, negli oggetti, ma è in noi, non è oggettivo ma soggettivo, è
un nostro sentimento. E se è in noi, se è un modo di funzionare, un modo di essere
dei nostri sentimenti, vuol dire allora che anche il sentimento del bello (come le
forme dell'intelletto e come l'imperativo categorico) è a priori, cioè universale e
necessario: il piacere del bello non deriva dalle cose contemplate, cioè
dall'esperienza, perché ognuno può trovare belle cose fra di esse diverse, ma quando
una cosa suscita in noi un sentimento di bellezza, quel sentimento è identico e
universale per tutti, è uno schema universale.
Anche nel campo estetico Kant prende le distanze e si differenzia dalle estetiche di
tipo empiristico o razionalistico (qui il termine estetico, a differenza della "estetica
trascendentale" è usato nel significato ordinario di "concernente l'arte, la bellezza").
Contro gli empiristi e i sensisti, che avevano ricondotto la percezione del bello ai
sensi, Kant rivendica l'esistenza e l'universalità di giudizi estetici a priori. Contro il
razionalismo estetico tradizionale, che considerava la bellezza come una conoscenza
"confusa" della perfezione degli oggetti, Kant sostiene invece che l'esperienza
estetica è fondata sul sentimento di armonia e sulla spontaneità e non già sulla
conoscenza o sui concetti. Si intende che anche per Kant non ogni piacere che
un'immagine può provocare in noi ha un valore estetico, ma solo quel piacere che
non è legato a pure attrattive fisiche né ad interessi pratici né a valutazioni morali e
conoscitive degli oggetti e che, quindi, è disinteressato, comunicabile a tutti e non
dipendente dai mutevoli stati d'animo dell'individuo. Kant costituisce un momento
basilare di quel processo di autonomizzazione dell'estetica che si approfondirà
ulteriormente col Romanticismo e che troverà una delle sue maggiori espressioni in
Benedetto Croce.
Affine al sentimento del bello è il sentimento del sublime, rientrante anch'esso
nell'ambito del giudizio estetico. Mentre il sentimento del bello sorge dall'armonia
che viene sentita tra soggetto ed oggetto contemplato, quello del sublime scaturisce
da una sproporzione straordinaria avvertita tra l'oggetto contemplato e l'animo
del soggetto: è il sentimento dell'illimitato, dell'infinito, che allo stesso tempo
inquieta e meraviglia. Anche il sentimento del sublime non è nelle cose, negli oggetti,
ma nell'animo dell'uomo.
Il sentimento del sublime è di due specie:
210

1. il sublime matematico, che è suscitato in noi dallo spettacolo di ciò che è


infinitamente, immensamente grande (ad esempio l'immensità dell'oceano);
2. il sublime dinamico, che è suscitato dallo spettacolo di ciò che è
infinitamente, immensamente potente (ad esempio l'uragano, il terremoto).
Di fronte al sublime (matematico o dinamico) l'uomo si sente piccolo, schiacciato, ma
scopre anche di essere superiore in quanto sa pensarlo ed è consapevole della sua
libertà morale. Dinnanzi al sublime l'uomo riconosce la superiorità del suo fine
ultraterreno.

Il giudizio teleologico.

Il giudizio (sentimento) teleologico (rivolto ad un fine) sorge quando il soggetto


riflette sulla finalità della natura, quando cioè è indotto a ritenere che nella natura,
nel mondo, vi sia un fine, uno scopo generale. In verità noi non conosciamo come
sia la natura in se stessa, cioè dal punto di vista noumenico, poiché la conosciamo
solo dal punto di vista fenomenico (la conosciamo solo come ci appare senza la
certezza che essa sia proprio come si mostra). Tuttavia il nostro sentimento, il
nostro modo di sentire, ci induce a considerare e a ritenere che la natura sia
organizzata anche secondo un fine e non solo secondo leggi meccaniche e
necessarie. Siamo indotti a credere che nella natura agisca anche un principio
soprasensibile, spirituale, che dia un senso e un significato al tutto e che vi sia un
autore, un artefice intelligente provvidenziale, ossia Dio, un Dio filosofico,
immanente o trascendente, che governa il mondo della natura in vista di uno scopo
superiore.
L'antitesi (la contrapposizione) tra il mondo naturale retto da leggi meccaniche e
necessarie e il mondo della libertà e della morale umana viene così superata
dall'idea di una finalità presente anche nella natura: è un'idea che non è valida
dal punto di vista conoscitivo e scientifico, ma che nasce in modo insopprimibile
nel nostro sentimento, nel nostro modo di sentire il mondo.
Il fine ultimo che il sentimento dell'uomo è portato a ravvisare nella natura è
quello della propria e piena realizzazione morale, tramite l'affermazione della
propria libertà e del senso dell'umano dovere. Nel concludere la Critica del giudizio
Kant giunge a sostenere che, per il giudizio riflettente, vi sono motivi sufficienti per
considerare l'uomo non soltanto come fine della natura ma come scopo ultimo di essa
sulla terra: senza l'uomo il mondo sarebbe un deserto vuoto e solo "la volontà buona"
costituisce uno scopo ultimativo.
È stata proprio questa l'opera che ha avuto maggior influsso sui contemporanei
di Kant e anche sulla generazione successiva: per Goethe, per Schiller e per i poeti
romantici Kant è stato soprattutto l'autore della terza Critica.
211

Religione, politica e storia in Kant.

Nell'opera "La religione nei limiti della semplice ragione" Kant affronta il
problema della natura dell'uomo e del suo destino ultimo. Kant si guarda bene
dal considerare la natura umana in termini di semplice istinto naturale che, in
quanto tale, escluderebbe la libertà. Se la natura dell'uomo fosse determinata
dall'istinto, egli non potrebbe essere né buono né cattivo, poiché buona o cattiva è
soltanto la volontà libera nella misura in cui si conforma alla legge morale o la
contravviene. La natura dell'uomo consiste invece, per Kant, nella libertà, nella
libertà di scelta tra bene e male, tra razionale e irrazionale, e rispetto a questa
libertà deve essere spiegata l'inclinazione al male.
Il male radicale consiste per Kant nell'allontanarsi deliberatamente dell'uomo dalla
legge morale pur avendone coscienza. Il male radicale non consiste nella sensibilità e
nelle inclinazioni naturali dell'uomo poiché di esse non è responsabile; non è neppure
un pervertimento della ragione ma piuttosto della volontà umana, allorché l'uomo
deliberatamente si sottrae alle massime morali; in ciò sta il male radicale: è, per
l'appunto, un’inclinazione deliberata di cui l'uomo, di conseguenza, si rende
responsabile.
Dal rapporto tra male e libertà sorge il diritto, cioè la legge, di cui la società si
serve per regolare i contrasti tra libertà e cattivo uso di essa. La legge deve trovare il
proprio fondamento nei diritti naturali e nella religione naturale, la quale
consiste essenzialmente nel culto della vita morale. La religione rivelata adotta
invece come culto divino un insieme di riti che in sé non hanno valore morale:
Dio non può essere pregato se non con l'azione morale; ogni altra forma di preghiera
o attività religiosa è superstizione.
Per ciò che riguarda la storia, Kant condivide il punto di vista illuministico sulla
civiltà come sforzo e cammino verso una società umana cosmopolita. Tre sono le
tappe per giungere a questo traguardo di pace e convivenza civile fra tutti gli
uomini:
1. l'adozione di una costituzione repubblicana in ogni singolo Stato;
2. la federazione (alleanza) degli Stati fra di loro;
3. l'avvento del diritto cosmopolitico, cioè del diritto di uno straniero a non essere
trattato da nemico nel territorio di un altro Stato.
Soprattutto, Kant vede la massima garanzia di pace nell'accordo tra politica e
morale.
L'idea razionale di una comunità pacifica di tutti i popoli della terra è, secondo
Kant, lo scopo che deve orientare gli uomini nelle vicende della loro storia.
Tuttavia Kant non ritiene che la storia si sviluppi necessariamente sempre secondo un
piano preordinato e infallibile. Non c'è nella storia un ordine armonico e
progressivo che si sviluppi naturalmente: il progresso della storia sta nella
volontà e nell'impegno degli uomini. La società pacifica e cosmopolita non è
(ancora e chissà quando mai) una realtà, ma piuttosto un ideale orientativo al quale
gli uomini devono ispirare le loro azioni, vincendo le tendenze antisociali. In tutti gli
uomini vi è un contrasto tra la loro tendenza alla socievolezza e la tendenza
212

all'isolamento. È un contrasto che spinge gli uomini all'attività e al lavoro, anche


senza proporselo espressamente, e del quale si serve la natura per raggiungere i suoi
scopi. Ma il fine di una società politica universale e pacifica, sotto una medesima
legislazione, non è conseguibile solo in via spontanea e naturale, ma va piuttosto
perseguito dalla ragione e dalla volontà.
Il razionalismo critico di Kant, che valorizza la razionalità umana ma ne individua
anche i limiti, non può portarlo a credere nell’inevitabilità del progresso della ragione
e della storia, ma lo conduce ad affermare il dovere di operare per esso.

Conclusioni.

La filosofia di Kant è definita "criticismo" per il costante impegno volto ad


analizzare criticamente la validità ma anche i limiti dell'intelletto e della ragione. La
filosofia kantiana si regge sulla tensione permanente tra consapevolezza della mera
portata fenomenica della conoscenza, rivendicazione della libertà-dovere nei
confronti della legge morale ed aspirazione al noumeno e all'infinito nel sentimento
finalistico riposto nel mondo della natura.
Scrive Kant, a conclusione della “Critica della ragione pura”: "due cose
riempiono l'animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti: il cielo
stellato sopra di me e la legge morale in me". Il cielo stellato è la natura,
scientificamente conoscibile ma nei limiti dei fenomeni, tuttavia è anche quella
natura preordinata alla libera volontà, attuativa della legge morale, che rende l'uomo
degno fra tutti gli altri esseri, così come in quella natura l'uomo avverte altresì il
proprio destino votato all'infinito, in unione con l’infinita eternità delle stelle celesti.
In questo slancio Kant si accinge ormai a trascendere gli orizzonti dell'Illuminismo
per giungere alle soglie del Romanticismo che sarà tutto proteso, nella sua poesia e
nella sua filosofia, a varcare i confini del finito per immergersi nell'infinità del Tutto.
213

INDICE

Introduzione. 1
Umanesimo e Rinascimento. 3
Leon Battista Alberti 8
Nicolò Cusano. 9
Marsilio Ficino. 12
Pico della Mirandola. 14
Pietro Pomponazzi. 15
La filosofia della natura rinascimentale. 18
Bernardino Telesio. 21
Giordano Bruno. 25
Tommaso Campanella. 32
Rinascimento e politica: Machiavelli, Guicciardini, Botero,
Tommaso Moro, Jean Bodin, Ugo Grozio. 36
Il Rinascimento europeo: Montaigne, Erasmo da Rotterdam. 41
La riforma protestante e la controriforma cattolica: Lutero, Calvino. 44
La rivoluzione scientifica. 51
Copernico e Keplero. 52
Galileo Galilei. 60
Francesco Bacone. 66
Isaac Newton. 71
Razionalismo ed empirismo. 76
Cartesio. 79
L'occasionalismo. 91
Spinoza. 94
Leibniz. 107
Hobbes. 120
Locke. 128
Berkeley. 137
Hume. 141
Pascal. 149
Vico. 153
L'Illuminismo. 159
Montesquieu. 164
Voltaire. 166
Rousseau. 172
Kant. 180
1

CORSO DI STORIA DELLA FILOSOFIA PER I LICEI E PER GLI ADULTI


CHE DESIDERANO CONOSCERLA: DALLA FILOSOFIA ANTICA A
QUELLA CONTEMPORANEA.

A cura di Francesco Lorenzoni

Anno di stesura: 2012

VOLUME TERZO

DALLA FILOSOFIA DEL ROMANTICISMO ALLA FILOSOFIA


DEL PRIMO NOVECENTO

INTRODUZIONE.

Ho osservato che, in merito al pensiero di ciascun filosofo, l'esposizione di un


manuale è chiara in alcuni tratti mentre, a causa di un linguaggio troppo tecnico o
poiché sono saltati taluni passaggi logico-descrittivi, diventa per i principianti poco
comprensibile in altri aspetti, i quali tuttavia, a loro volta, sono esposti più
chiaramente in un ulteriore manuale. Questo corso è stato ricavato dai più accreditati
manuali scolastici di storia della filosofia, tra cui quelli di Nicola Abbagnano e
Giovanni Fornero; Giovanni Reale e Dario Antiseri; Enrico Berti; Sergio Moravia;
L.Tornatore, G. Polizzi, E. Ruffaldi; V. e A. Perrone, G. Ferretti, C. Ciancio; G.
Fornero e S. Tassinari; F. Adorno, T. Gregory , V. Verra; ecc.

Pertanto, nell'obiettivo di pervenire alla maggior chiarezza possibile, pur senza


banalizzare, nell'illustrazione del pensiero di ciascun filosofo o tema filosofico, ho
operato una cernita fra tutti i manuali presi in considerazione, estraendo i tratti
espositivi più chiari ora da un manuale ora da un altro, talvolta riportando pari pari
intere frasi e talaltra, frequentemente, cambiando e semplificando a mia volta il testo,
rielaborando e collegando quindi il tutto secondo un criterio logico-consecutivo.
Per contro ho riservato, per economia di scrittura, solo brevi cenni alla biografia dei
vari filosofi, poiché rinvenibile in qualsiasi manuale senza particolari difficoltà di
comprensione. Parimenti, non mi sono inoltrato in analisi tecnico-erudite, di tipo
specialistico, non necessarie ad una comprensione comunque idonea dei filosofi ed
2

argomenti filosofici di volta in volta illustrati. Peraltro, e con valore facoltativo per il
lettore, ho trascritto in corsivo una serie di argomentazioni integrative, se qualcuno
avesse eventualmente intenzione di prendere conoscenza anche di esse.
Sono convinto che la chiarezza espositiva è il sistema migliore per attirare gli studenti
allo studio della filosofia, come anche coloro che, ormai adulti, intendano accostarsi
ad essa per la prima volta ovvero rispolverare le conoscenze filosofiche apprese a
scuola.
Dalla comprensibilità espositiva può nascere inoltre il piacere e il gusto stesso per la
filosofia ed il desiderio di personali ulteriori approfondimenti. Ciò sarebbe il risultato
più lusinghiero derivante da questa mia fatica, dedicata a tutti coloro che abbiano
occasione e voglia di approfittarne, essendomi preoccupato di inserire il presente
corso nella rete Web.
Dell'importanza di una chiara narrazione ho fatto personale esperienza per via di
lezioni di filosofia che ho avuto modo di impartire a giovani studenti, con risultati, mi
sia consentito dire, più che soddisfacenti.

Francesco Lorenzoni
3

IL ROMANTICISMO.

I caratteri generali del Romanticismo.

Il Romanticismo è un vasto movimento storico-culturale, sorto negli ultimi anni del


Settecento in Germania e che si diffonde in tutta Europa nei primi decenni
dell'Ottocento fino alla metà del secolo.
Il movimento romantico coinvolge vari ambiti della cultura, dalla letteratura alle
arti oltre che la filosofia. Valorizza temi diversi e, secondo gli esponenti, anche
divergenti, come ad esempio quelli del primato dell'individuo o della società,
dell'esaltazione del passato o dell'attesa di un futuro di speranza, del sentimentalismo
e dell'evasione nel fantastico o del razionalismo idealistico, del titanismo (degli
ardimenti eroici) o del vittimismo.
Nondimeno è possibile rintracciare i tratti di fondo, o quanto meno le principali
tendenze, che caratterizzano il Romanticismo nel suo complesso.
Il termine "Romanticismo" faceva inizialmente riferimento al romanzo cavalleresco,
ricco di avventure, di amori e di sentimenti. Storicamente sorge in Germania, nel
cosiddetto "Circolo di Jena", con Von Schlegel e Novalis, e quindi si diffonde
nell'intera Germania, avendo quali suoi maggiori esponenti Schleiermarcher,
Hoelderlin, Schiller e Goethe. Si sviluppa quindi nel resto d'Europa. Per quanto
concerne l'Italia si possono citare Leopardi e Manzoni.
Trova il suo ambiente di origine nel movimento artistico-letterario dello "Sturm und
Drang" (Tempesta e Impeto), che esalta la forza disordinata dei sentimenti ed il
primato tempestoso ed impetuoso delle passioni. In seguito, specie con Schiller e
Goethe, il Romanticismo assume toni neoclassici, più misurati ed equilibrati,
riconoscendo il ruolo anche della ragione nella comprensione di ciò che ragione non
è, ossia il sentimento, l'arte e la natura. All'Illuminismo, con il suo laicismo e
materialismo, imputa in particolare la responsabilità degli eccessi e crudeltà della
rivoluzione francese e dell'opprimente dominazione napoleonica. In tal modo però,
pur senza averne l'intenzione, il Romanticismo ha contribuito a fornire
giustificazione ideologica e culturale alla restaurazione delle antiche monarchie in
Europa. Ma per altro verso ha contribuito allo sviluppo del pensiero liberale e
alla nascita dell'idea di nazione, che ha sostenuto la riscossa patriottica
dell'Ottocento.
Le tendenze generali del Romanticismo sono le seguenti:
1. La critica e contestazione del razionalismo illuministico, sia nella versione
empirico-scientifica che critico-kantiana, considerato astratto ed incapace di
superare i limiti della ragione formale per penetrare nella profonda essenza
delle cose e della natura, non più concepita meccanicamente e
deterministicamente, ma come organismo vivente e finalisticamente ispirato
4

da un'entità superiore, immanente o trascendente. Vi è un ritorno ad una


visione qualitativa anziché quantitativa della natura, verso cui sorgono
nuovi sentimenti di fascino ed attrazione, con un recupero della filosofia di
Spinoza.
2. Il primato del sentimento sulla fredda ragione e sull'intellettualismo.
3. La rivalutazione dell'arte e della religione, in senso panteistico o teistico
(trascendente), che vengono considerate manifestazioni del pensiero, dello
spirito dell'umanità, capaci di cogliere, grazie al sentimento del bello e alla
fede, il senso profondo delle cose e del mondo. Si alimenta una sensibilità
spiritualistica che mette in rapporto di unione l'uomo con la totalità della
natura e del soprasensibile, in contrapposizione ai rigidi e meccanici schemi
concettuali dell'intelletto. L'arte non è più concepita come imitazione o come
armonia e misura, ma come creatività spontanea ed infinita, sempre libera da
schemi precostituiti (anticlassicismo). La religione tradizionale viene criticata
perché non riesce a cogliere il Tutto nelle parti, l'Assoluto nel relativo,
l'incondizionato nel contingente, l'infinito nel finito, Dio nel mondo. Ad una
concezione trascendente della religione viene per lo più preferita una
concezione immanente (Dio è dentro il mondo, è lo spirito assoluto nel
mondo).
4. Il senso e la brama dell'infinito, contro la filosofia del finito di Kant. La
realtà non è schematicamente considerata nelle sue parti componenti ma nella
sua totalità organica, in continuo illimitato sviluppo e in continua tensione
(slancio) verso l'infinito pur senza mai raggiungerlo. L'uomo romantico vive
in uno stato di irrequietezza e di aspirazione struggente, lacerato tra il
desiderio di raggiungere una perfezione che si rivela irrealizzabile (l'ebbrezza
dell'infinito) e l'insoddisfazione verso tutti i limiti dell'esistenza. Mentre tutti i
romantici concordano sul ruolo primario della tensione all'infinito,
divergono invece per il diverso modo di intendere l'infinito stesso e di
concepirne i rapporti con il finito (con l'uomo, con la natura, con la storia,
ecc.). Il modello più seguito è quello panteistico, cioè quello della
coincidenza tra infinito e finito, quello che concepisce il finito come la
realizzazione vivente (nel mondo e nella storia) dell'infinito, sia esso inteso
come panteismo naturalistico (Spinoza, Goethe, Schelling), che identifica
l'infinito col ciclo eterno della natura, oppure sia esso inteso come panteismo
idealistico, che identifica l'infinito con lo spirito dell'umanità, che nella natura
e nella storia si realizza. Minoritario ma presente è anche il modello
trascendente, per cui l'infinito rimane distinto e al di sopra del finito, pur
intervenendo in esso attraverso la Provvidenza divina.
5. L'ironia e il titanismo (dai "Titani", i mitici giganti della leggenda). La
frustrazione e delusione per l'irrealizzabilità dell'aspirazione all'infinito e alla
perfezione si risolve talora nell'ironia, che prende atto dei limiti dell'esistenza
e che amaramente ironizza sull'ebbrezza dell'uomo verso l'infinità assoluta;
oppure si risolve nel titanismo, cioè in quell'atteggiamento eroico di sfida e di
5

ribellione contro i limiti della finitudine umana attraverso la ricerca di imprese


eccezionali.
6. La celebrazione della dialettica. La teoria del primato dell'arte, o della fede,
pur quanto prevalente non è l'unica, poiché nel Romanticismo troviamo anche
filosofi che, come Hegel, pur condividendo le critiche alla fredda ragione
astratta dell'Illuminismo, ritengono tuttavia che solo un nuovo e diverso
esercizio della ragione possa fornire quelle spiegazioni dell'essere (della
realtà) e dell'assoluto (dell'infinito illimitato) che la sola intuizione estetica ed
il rapimento mistico non possono di per sé cogliere, contrariamente a quanto,
invece, la predominante sensibilità romantica vorrebbe. Contro le varie
filosofie romantiche del sentimento e della fede, si afferma per altro verso che
solo mediante la logica e la ragione è possibile intendere l'infinito, spiegando
le parti (i singoli fatti) nel loro collegamento e nella relazione dialettica fra di
esse e col Tutto (ossia nel collegamento costituentesi in base alla loro
reciproca contrapposizione e conseguente sintesi), relazione dialettica che si
esprime e si manifesta nel progredire storico della realtà. L'idealismo e la
dialettica costituiranno infatti la principale produzione filosofica del
Romanticismo.
7. Il provvidenzialismo e lo storicismo. Si afferma una nuova concezione della
storia che considera tutti i periodi e le epoche come necessarie e progressive,
perché lo sviluppo delle vicende umane e storiche corrisponde ad un progetto,
ad un disegno provvidenziale che agisce in vista di un fine superiore. Per
l'Illuminismo il protagonista della storia è l'uomo, cioè la società, il popolo, la
volontà generale; per il Romanticismo è la provvidenza, cioè lo spirito
dell'umanità (immanente) o Dio (trascendente). Allora, se ogni epoca storica è
necessaria e costituisce un progresso, il Romanticismo valorizza anche il
Medioevo, perché ricco di valori religiosi e di tradizioni popolari, mentre
dall'Illuminismo era invece giudicato oscuro periodo di regresso. Altrettanto,
similmente a Rousseau, si diffonde un sentimento di nostalgia nei confronti
del "passato felice" dell'umanità primitiva, capace di vivere in armonia con la
natura.
8. Il concetto di nazione. Contro il cosmopolitismo teorizzato dall'Illuminismo,
con il Romanticismo, inizialmente individualista, libertario e talora anarchico,
si afferma in seguito il concetto e l'ideale di nazione, intesa come organismo
ed entità collettiva vivente, fondata sulla comunanza di lingua, di religione, di
costumi e tradizioni. Da ciò anche la valorizzazione dello Stato nazionale.
9. Pessimismo ed ottimismo romantico. Sotto certi punti di vista sembrano
prevalere nel Romanticismo sentimenti pessimistici di tristezza, malinconia,
inquietudine e delusione nella ricerca di una felicità sempre sognata e mai
raggiunta. Nasce persino la "voluptas dolendi", ossia l'autocompiacimento, il
piacere della sofferenza e dell'infelicità, intese come il prezzo che deve pagare
ogni individuo per entrare nella schiera dei grandi. In realtà il pessimismo
romantico riguarda per lo più i singoli stati d'animo individuali ed è un
pessimismo più letterario che filosofico. Infatti, nella complessiva visione
6

filosofica del mondo prevale, nel Romanticismo, un atteggiamento ottimistico,


coerentemente con la concezione della storia come progresso e provvidenza ed
altresì con la mentalità a sfondo spirituale-religioso che presuppone, in vario
modo, una fiducia di fondo nella realtà. Ed anche quando manchi uno spirito
religioso, i romantici tendono a sublimare (elevare) il negativo nell'arte, nella
storia o nella politica. Al di la delle sofferenze e dei dolori individuali, sono
portati a ricercare un senso complessivo della vita e della comunità nazionale,
capace di riscattare il male e di trasformarlo in una tappa provvisoria per la
realizzazione di un bene maggiore. Il dolore, l'infelicità, il male sono
manifestazioni parziali e necessarie di un Tutto, di una realtà globale che
procede sempre verso il meglio. È celebre la massima che vedremo
pronunciare da Hegel: "tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è
razionale è reale", la quale esprime in modo manifesto l'ottimismo romantico:
la realtà è sempre ciò che deve essere, ossia razionalità e perfezione. Nella
concezione idealistico-dialettica hegeliana l'essere coincide sempre col dover
essere.

In campo strettamente filosofico, l'indirizzo prevalente è quello dell’"idealismo


tedesco", che inaugura una nuova metafisica dell'infinito e supera così il duplice
dualismo della filosofia kantiana, ovverosia la contrapposizione tra fenomeno e
noumeno da un lato e quella tra necessità meccanica della natura ed autonomia e
libertà del mondo morale dall'altro lato, abolendo la divisione tra fenomeno e
noumeno e considerando tutta la realtà prodotta dal pensiero umano nonché
attribuendo anche alla conoscenza umana i caratteri della libertà che Kant aveva
riconosciuto solo alla morale.
L'idealismo è peraltro preceduto e preparato dal dibattito instauratosi tra i
seguaci di Kant i quali, insoddisfatti del dualismo fenomeno-noumeno, ne
cercano il superamento tentando di trovare un principio unico (monismo) su cui
fondare la filosofia.
7

DAL KANTISMO ALL’IDEALISMO: LA CRITICA DELLA “COSA IN SE”.

Il dualismo lasciato in eredità da Kant tra fenomeno, quale unico contenuto valido
della conoscenza scientifica, e noumeno, o cosa in sé, solamente pensabile ma non
conoscibile, scontenta numerosi seguaci di Kant stesso, in particolare Reinold,
Schulze, Maimon e Beck, e dà luogo ad un intenso dibattito volto al superamento
della contrapposizione.
Al di là delle specifiche ed individuali considerazioni, il loro comune ragionamento
è che non vi può essere distinzione tra pensabilità e conoscibilità della cosa in sé, in
quanto pensare è già conoscere: ogni realtà concepita sussiste immediatamente e
necessariamente nella coscienza come rappresentazione ed immagine mentale, per
cui non ha senso distinguere tra fenomeno interno alla coscienza e noumeno
esterno ad essa, dal momento che ciò che eventualmente fosse al di fuori della
nostra coscienza non è nemmeno pensabile. In tal senso il noumeno è solo un
concetto vuoto ed astratto che, in quanto tale, non è parte costitutiva del processo
conoscitivo e dunque non vi è alcun motivo neppure per pensarlo. Inoltre, obiettano
ancora, Kant si sarebbe contraddetto asserendo l'esistenza della cosa in sé come causa
delle nostre sensazioni poiché, in tal modo, il concetto di causa-effetto risulterebbe
applicato al noumeno stesso mentre, secondo Kant medesimo, può essere
validamente applicato soltanto ai fenomeni.
In realtà tali critiche a Kant intendono il fenomeno già come rappresentazione, come
immediato fatto di coscienza. Invece Kant non identifica il fenomeno con la
rappresentazione ma con l’"oggetto" della rappresentazione per cui, in quanto
tale, non è ancora una rappresentazione o un'idea che giace dentro la coscienza bensì
è un oggetto reale (cioè dietro ad esso vi è un oggetto concreto), anche se appreso
attraverso le forme a priori della sensibilità e dell'intelletto. Vale a dire che il
fenomeno come oggetto della rappresentazione non è per Kant direttamente
riducibile alla coscienza del soggetto.

Karl Leonhard Reinold (1758-1823).

Il suo intento è di trovare una mediazione fra criticismo kantiano (la filosofia di Kant)
e idealismo, mediazione che individua nella rappresentazione, cioè nell'atto
conoscitivo. La rappresentazione in quanto tale è distinta dal rappresentante e dal
rappresentato ed è riferita ad entrambi. Il rappresentante è il soggetto e quindi è la
forma, l’a priori; il rappresentato è l'oggetto e quindi è la materia, le sensazioni; la
rappresentazione è la loro unificazione. In tal senso, prosegue Reinold, la coscienza
nell'atto della rappresentazione supera il dualismo kantiano tra fenomeno e noumeno:
la forma (il soggetto) coincide con l'attività e spontaneità della coscienza, mentre la
materia coincide con la recettività sensoriale. Se il soggetto subisce la sensazione ciò
significa che essa non deriva dal soggetto ma dalla cosa in sé. Però la cosa in sé è per
8

sua natura non rappresentabile. Ad essa si può fare riferimento solo negativamente
(rimane cioè indeterminata), affermando solo ciò che di essa non si può predicare,
non si può dire. Il noumeno è quindi ridotto ad un negativo indeterminato, tuttavia in
Reinold la cosa in sé non è ancora totalmente eliminata.

Ernst Schulze (1761-1833).

Sottolinea nel kantismo la contraddizione seguente: o la cosa in sé è causa della


sensazione, ma non essendo conoscibile devo solo supporla, accettarla
dogmaticamente (indiscutibilmente), cadendo così in una sorta di scetticismo poiché
nulla mi assicura che al fenomeno corrisponda il noumeno; oppure la cosa in sé non è
causa delle sensazioni e quindi non esiste; esiste solo la coscienza e i fenomeni da
essa percepiti e perciò, si può dire, dalla medesima coscienza prodotti.

Salomon Maimon (1754-1800).

La cosa in sé non può essere considerata fuori della conoscenza perché allora sarebbe
una non-cosa. Infatti, l'oggetto è tale solo nel momento in cui è conosciuto (ciò che
non si pensa e quindi non si consce è come non esistesse), così come il soggetto è
soggetto conoscente solo nel momento in cui conosce. Al di fuori dell'atto del
conoscere, della rappresentazione, non esiste né una coscienza in sé ne una cosa in
sé. Al di fuori della coscienza non possiamo pensare nulla. La cosa in sé, tutt'al più,
potrebbe costituire un valore limite, cui ci si approssima all'infinito ma senza
raggiungere. La nostra attività mentale è limitata, non riusciamo mai ad esaurire tutta
la realtà. Esisteranno sempre dei residui, dei dati empirici che non potranno essere del
tutto inglobati nella conoscenza. A questi residui si riduce di fatto la cosa in sé: è un
limite intrinseco alla conoscenza, senza alcun valore oggettivo; è una frontiera che il
nostro conoscere sposta sempre più avanti.

Sigismund Beck (1761-1840).

Elimina la cosa in sé ed interpreta l'oggetto della conoscenza come prodotto della


rappresentazione, dell'atto conoscitivo. Il fondamento non va individuato nel
contenuto (nell’oggetto) della rappresentazione ma consiste nell'attività stessa del
rappresentare, la quale nell'atto della rappresentazione produce da sé i propri
contenuti. Siamo ormai alle soglie dell'idealismo.
9

L’IDEALISMO ROMANTICO TEDESCO.

Caratteri generali.

Il termine "idealismo" presenta una varietà di significati. Nel linguaggio comune è


chiamato idealista colui che è attratto da determinati ideali o valori, etici, religiosi,
conoscitivi, politici, eccetera e che sacrifica o comunque dedica ad essi la propria
vita.
In filosofia si parla di idealismo in senso lato a proposito di quelle visioni del mondo
(come il platonismo o il cristianesimo) che privilegiano la dimensione ideale a quella
materiale e che affermano il carattere "spirituali" della vera realtà.
In termini più specifici, si parla di idealismo in filosofia nel senso di idealismo
gnoseologico oppure di Idealismo romantico o assoluto.
Per idealismo gnoseologico si intendono tutte quelle concezioni secondo cui la
conoscenza non è conoscenza diretta degli oggetti, ma è la loro idea o
rappresentazione, è cioè conoscenza fenomenica secondo la posizione inaugurata da
Cartesio e che prosegue fino a Kant ed oltre.
Per Idealismo romantico o assoluto si intende quella grande corrente filosofica
post-kantiana che ha origine in Germania in epoca romantica, iniziata da Fichte,
proseguita da Schelling e sviluppata da Hegel, e che ha avuto numerose
ramificazioni nella filosofia moderna e contemporanea di tutti i Paesi. Dai suoi stessi
fondatori questo idealismo è stato altresì chiamato trascendentale, in quanto la
coscienza e la conoscenza sono indipendenti dall'esperienza e dalla realtà empirica,
che anzi è in qualche modo prodotta dalla coscienza medesima; è stato chiamato
anche idealismo soggettivo in contrapposizione all'idealismo oggettivo- naturalistico
di Spinoza, il quale aveva bensì ridotto tutta la realtà ad un unico principio, ad una
medesima sostanza, intesa però come oggetto o natura; è stato infine chiamato
idealismo assoluto per intendere che l'io o lo spirito è il principio unico e
assoluto del tutto e che fuori di esso non c'è nulla. Col termine "spirito" gli
idealisti intendono sostanzialmente l'umanità, lo spirito, l’intelligenza, il
pensiero dell'umanità, concepito come attività infinita e inesauribile che si autocrea
liberamente superando di continuo gli ostacoli che trova di fronte.
L'Idealismo tedesco nasce per reazione al pensiero di Kant, che distingueva tra
"fenomeni" (=le cose come ci appaiono), i quali sono per Kant l'unico possibile
oggetto della conoscenza umana, e "noumeni" o cose in sé, che sono concreti, reali
ed esterni alla nostra mente e che però sono solo pensabili come causa dei fenomeni
ma non sono conoscibili. L'idealismo non accetta questo dualismo (contrapposizione)
kantiano. Per i filosofi idealisti non si può ritenere che esistano degli esseri, degli
enti, ossia delle cose al di fuori della nostra mente, al di fuori del nostro pensiero o
della nostra coscienza, perché non appena una cosa è pensata non è più
all'esterno, al di fuori. Bisogna dunque concludere che le cose in sé, i noumeni
esterni e indipendenti dalla nostra coscienza non esistono. Ciò significa allora che
10

l'unica autentica realtà è quella interna al pensiero, alla coscienza, chiamata


anche "Io" o "Spirito" o "Idea", da cui è derivato il termine "idealismo".
Insomma, per l'Idealismo tedesco non esiste per noi nessuna realtà se dapprima
non è pensata, percepita e presente nella nostra coscienza. Anche se vi fossero
cose esterne alla coscienza, se esse non sono pensate e rappresentate nella
coscienza sarebbe come se non ci fossero, sarebbero comunque del tutto
ignorate; ignorando la loro esistenza sono allora un puro nulla. Si può dire
quindi, in senso figurato, che è la stessa coscienza o idea o spirito che produce la
realtà e le cose del mondo nel momento in cui vengono pensate e percepite. Il
principio base dell'idealismo, dunque, è che prima di tutto c'è un'intelligenza, ossia
l'Io o l'Idea o la Coscienza, che dapprima pensa e progetta la realtà e che poi,
pensandola, la produce in base a tale progetto. Pertanto, mentre per Kant la
coscienza, cioè l'Io-penso, è solo il legislatore della realtà, che organizza i dati
sensibili percepiti e trova le leggi di spiegazione dei fenomeni, per l'Idealismo
invece la coscienza o Idea è il principio "creatore" della realtà. Il cambiamento di
impostazione è radicale.
Inoltre l’Idea o Spirito, diversamente da Spinoza, non è concepita come sostanza
statica, bensì come processo continuo, come continuo movimento e attività
creatrice della realtà: è il principio del divenire della realtà.
L'Idealismo dunque non solo sostituisce al primato dell'essere (della realtà
concreta) quello del pensiero, ma altresì il divenire (il continuo processo di
produzione della realtà da parte dello Spirito) precede il conoscere: prima c'è lo
Spirito, l'Io, l'Idea (il pensiero, l'intelligenza), che è movimento e divenire incessante,
e solo in un secondo momento vi è la produzione della realtà, dell'essere, da parte
dello Spirito. Il divenire precede l'essere e non viceversa ed il divenire precede in tal
modo anche la conoscenza dell'essere, cioè della realtà essendo essa prodotta
dapprima dal divenire dello Spirito medesimo, per cui il farne conoscenza non può
che seguire.
L'idea o spirito che produce la realtà non è la coscienza, la mente individuale
empirica, che in quanto tale è finita, ma è la coscienza collettiva, lo spirito
dell'umanità, ossia, poiché il mondo non è caotico e disordinato, è un'intelligenza,
una forza che si trova ed agisce dentro il mondo e dentro la storia umana
guidandone lo sviluppo. Essendo tale spirito dell'umanità una continua e illimitata
attività creatrice del mondo e della storia, esso allora è anche infinito ed assoluto, in
quanto unico ed esclusivo principio di tutta la realtà (monismo= vi è un unico
principio di fondo della realtà, diversamente ad esempio da Cartesio, secondo cui i
principi di base erano due: la res cogitans e la res extensa): tutto è spirito; la materia,
la natura è solo una provvisoria manifestazione e produzione dello spirito ed è
da esso continuamente trasformata e sviluppata.
In particolare, in quale modo lo Spirito, l'Io, è la fonte creatrice di tutto ciò che
esiste? E che cos'è nello specifico la natura per gli idealisti? La risposta a questi
due problemi è data mediante il concetto di dialettica, ossia mediante quella
concezione secondo cui nella realtà non c'è mai il positivo senza il negativo, non c'è
mai la tesi senza l'antitesi. Dialettica significa rapporto, contrapposizione e,
11

secondo la dialettica, la realtà è appunto costituita dal rapporto e dalla


contrapposizione degli opposti. Perciò lo Spirito (tesi), proprio per essere tale ed in
quanto attività incessante, ha bisogno del suo opposto, cioè della natura, della
materia (antitesi). Infatti un soggetto senza oggetto, un io senza non-io, un'attività
senza un ostacolo da superare, sarebbero entità vuote ed astratte e quindi impossibili.
Di conseguenza, mentre le filosofie realistiche, naturalistiche e materialistiche
concepiscono la natura come causa dello spirito, che è ricettivo, Fichte, che
inaugura l'Idealismo, capovolge i termini e, come vedremo, dichiara che è invece lo
spirito ad essere causa della natura, a produrla, poiché la natura esiste solo per l'Io,
per la coscienza e in funzione di essa, essendo la natura semplicemente il materiale,
la scena e lo sfondo dell'attività dell'Io o Spirito.

Come Spirito dell'umanità esso è altresì immanente (=dentro) nel mondo e


nell'umanità e non trascendente (=al di fuori e al di sopra) come il Dio delle
religioni positive. Infine, poiché lo Spirito dell'umanità è infinito ed assoluto, allora
anche l'umanità stessa, ossia la storia umana e del mondo, coincide con l'infinito
e con l'assoluto.
L'Idealismo si presenta quindi come una concezione filosofica:
1. immanentistica (non c'è un Dio trascendente ma Dio è piuttosto lo Spirito che
è dentro l'umanità e dentro il mondo);
2. panteistica (Dio non è separato dal mondo ma il Dio dell'Idealismo, cioè lo
Spirito dell'umanità, è diffuso in tutto il mondo e in tutta l'umanità).
L'Idealismo si presenta anche come "filosofia dell'infinito", che ritiene cioè di
poter cogliere e comprendere l'infinito, mentre la filosofia di Kant è una "filosofia
del finito", secondo cui possiamo conoscere solo le cose finite, i fenomeni.
L'infinito è costantemente inteso dai romantici come attività e libertà illimitata,
come capacità di creazione incessante. Tuttavia questo principio viene interpretato
in due fondamentali modi diversi: 1) infinito come sentimento, cioè come attività
libera, priva di determinazioni e limiti, che si rivela all'uomo nell'arte e nella
religione; 2) infinito inteso come Ragione assoluta, che si muove con necessità
rigorosa da una determinazione (da un grado e da un tipo di essere) all'altra, sicché
ogni determinazione può essere dedotta dall'altra necessariamente e a priori: è
questa l'interpretazione dell'Idealismo tedesco di Fichte, Schelling e Hegel, per
quanto Schelling insista sulla presenza, nel principio infinito, di un aspetto
inconsapevole che si manifesta come natura.
12

JOHANN GOTTLIEB FICHTE (1762-1814).

Nasce in Sassonia (Germania). Diventa docente presso l'università di Jena. Accusato


di ateismo, si dimette e si trasferisce a Berlino. Dopo l'occupazione napoleonica si
dedica ad attività patriottiche.
Opere principali: Discorso alla nazione tedesca; Fondamenti dell'intera dottrina
della scienza; La missione del dotto; Il sistema della dottrina morale.
È l'iniziatore dell'Idealismo tedesco.

Dogmatismo e idealismo.

Fichte parte dall'analisi della filosofia di Kant per cercare un principio, un


fondamento in grado di superare il dualismo kantiano tra fenomeno e noumeno,
tra necessità delle leggi meccaniche della natura e libertà della condotta della morale
umana, tra ragione pura (conoscenza) e ragione pratica (morale).
Al riguardo Fichte ritiene che due siano gli unici sistemi filosofici possibili: il
dogmatismo e l'idealismo.
Il dogmatismo pensa che la coscienza del soggetto (il pensiero e i sentimenti) da una
parte e le cose concrete del mondo e della natura, dall'altra, siano due realtà distinte e
separate. In questo caso, allora, l'attività della coscienza è limitata e condizionata
dalle cose in sé della natura che la coscienza si trova davanti e che non può
liberamente mutare (non può farci niente; è solamente costretta a prenderne atto). Il
dualismo fra fenomeno e noumeno rimane e non viene superato: le cose in sé, i
noumeni, sono "dogmi" indiscutibili e insuperabili.
L'idealismo invece pensa che non c'è niente che limiti la libertà della coscienza e del
pensiero, neppure la cosa in sé. Se è così, tutta la realtà allora deve essere per forza
dedotta e prodotta dall'attività del pensiero, che in tal senso è l'unico principio
creatore non solo delle idee ma anche delle cose stesse, nel senso che non esiste
nessuna cosa se essa non è dapprima pensata e presente nella coscienza. Nessuna
realtà esiste al di fuori della coscienza.
Ebbene, dice Fichte, questi due sistemi filosofici sembrano entrambi possibili,
perché non si trovano conclusioni certe in favore dell'uno o dell'altro. La scelta fra
dogmatismo o idealismo dipende quindi dal carattere e dalle inclinazioni del
soggetto (di ciascuna persona). Chi crede in un mondo della natura dominato da leggi
meccaniche e necessarie che limitano la libertà dello spirito umano, chi è di animo
debole, attaccato alle cose ed è quindi passivo ricettore di rappresentazioni (i
fenomeni) causate da cose in sé inconoscibili, sceglierà il dogmatismo. Invece un
animo libero, che non si arrende di fronte agli ostacoli e ai limiti, neppure ai limiti
che le cose in se comportano, limiti che vuole anzi superare e controllare, sceglierà
l'idealismo. Quest'ultima è appunto la scelta compiuta da Fichte, che dell'idealismo è
l'iniziatore.
13

Poiché la scelta a favore dell'idealismo avviene sulla base di ideali morali e di libertà,
intesa come forza d'animo rivolta a superare i limiti che via via si incontrano, quello
di Fichte è definito anche idealismo etico, in quanto più che alla conoscenza dà
importanza all'azione, all'attività pratica, cioè allo sforzo di continuo superamento
degli ostacoli. "La vera gioia, scrive Fichte, è nell'attività".

La dottrina della scienza e la struttura dell'idealismo fichtiano.

Abbiamo visto che per l'idealismo è la coscienza che produce la realtà. Fichte
chiama la coscienza, cioè il soggetto, "Io puro" o semplicemente "Io".
L'Io di Fichte e dell'idealismo in genere non va confuso con l'Io-penso di Kant.
L'Io-penso di Kant non è la realtà, la quale è costituita dai fenomeni e dai noumeni,
ma è il modo più elevato di funzionare dell'intelletto, che organizza e collega
unitariamente nel soggetto i dati sensibili percepiti (le intuizioni pure di spazio e di
tempo) e le categorie. L'Io-penso di Kant dunque non produce la realtà, bensì la
regola, l'organizza e ne consente la conoscenza scoprendone le leggi: per tale motivo
è definito "il legislatore della natura". L'Io di Fichte, e per l'idealismo in genere, è
invece il principio "creatore" della realtà, prodotta dall'Io nel momento in cui è da
esso pensata.
Inoltre, l'Io non è la coscienza empirico-individuale, che in quanto tale è finita
(nasce e muore) ma è la coscienza universale, è lo "spirito dell'umanità", è
l'intelligenza che c'è nel mondo e lo guida verso un fine, uno scopo liberamente
prescelto.
Ed ancora, mentre l'Io-penso di Kant è limitato dalle cose in sé che l'intelletto non
può conoscere, l'Io di Fichte è invece infinito perché tutta la realtà, sia finita che
infinita, deriva da lui, è da lui stesso prodotta. Per Kant la principale facoltà
conoscitiva è l'intelletto, il quale consente però una conoscenza solo fenomenica,
invece per Fichte e per l'Idealismo la principale facoltà conoscitiva è la ragione,
che è in grado di cogliere l'infinito, cioè la Totalità della realtà per deduzione da un
principio primo che non è dimostrabile, ma è intuitivo, autoevidente. Infatti un
principio, se è principio primo, non può essere dimostrato perché se lo fosse sarebbe
allora deducibile da qualcosa d'altro come sua causa e quindi non sarebbe più
"primo".
Se tutta la realtà proviene ed è prodotta dall'Io, consegue che esso è allora il
principio primo della realtà, in quanto non causato da qualcosa d'altro essendo
invece lui medesimo causa di se stesso.
L'Io, il principio primo, non è concepito come sostanza, ossia come entità statica
alla maniera di Spinoza, è concepito invece come attività, come continuo processo e
forza produttrice della realtà all'infinito. Producendo all'infinito nuove realtà e
nuove conoscenze, l'Io è pertanto infinito, è attività infinita e, nel momento in cui
pensa la realtà prodotta, l'Io la conosce. Poiché l'Io è pensiero, ciò significa allora
che al primato dell'essere, al quale dapprima si era creduto, si sostituisce il primato
del pensiero: prima c'è l'Io (il pensiero) che produce la realtà, la quale solo
14

successivamente è conosciuta dall’Io medesimo che l’ha prodotta. Ciò vuol dire
anche che l'Io non soltanto precede la realtà, cioè l'essere, ma precede anche la
conoscenza della realtà: prima c'è il conoscente (l'Io) poi c'è il conosciuto (la realtà).
Dunque l'Io di Fichte non solo supera il dualismo kantiano tra fenomeno e
noumeno, o cosa in sé (poiché nessuna cosa esiste in sé al di fuori e
indipendentemente dalla coscienza, nel senso che quando una cosa è pensata è con
ciò stesso immediatamente già conosciuta e presente nella mente e non esterna ad
essa) ma, in quanto è attività che precede la conoscenza, supera anche l'altra
distinzione kantiana tra ragione pura o teoretica, conoscitiva, e ragione pratica
(la morale): l'Io di Fichte supera cioè la distinzione tra conoscere e fare, poiché nel
fare, nel produrre la realtà, l'Io viene in tal modo anche a conoscerla.

I tre principi o momenti di sviluppo della realtà.

L'Io produce la realtà attraverso un processo composto da tre principi o


momenti o fasi, che si sviluppano in modo dialettico, ossia mediante
contrapposizione fra tesi e antitesi per giungere poi alla loro sintesi (unificazione).

Primo momento-tesi-: l'Io pone se stesso.

L'io pone se stesso come fondamento di tutta la realtà conoscitiva e pratica; pone
se stesso nel senso che si presenta e si riconosce come costitutivo di tale
fondamento. Questa è la tesi, ossia il momento positivo del processo dialettico di
produzione della realtà; è, si può dire, il punto di partenza. L'Io, cioè il pensiero, la
coscienza, non può pronunciare nessuna valutazione, nessun giudizio, se dapprima
non riconosce se stesso come capacità di pensare (autocoscienza). Quindi l'Io,
pensando la realtà, la produce. La realtà viene ad esistere solo nel momento in cui è
pensata: è frutto dell'attività produttrice dell'Io.

Secondo momento-antitesi-: l'Io oppone a se un non-Io.

È il momento negativo del processo dialettico, quello dell'opposizione. Essendo


attività, l'Io non può fare a meno di esercitarla e la esercita producendo. Tutto ciò
che produce è evidentemente distinto dall'Io produttore e, in quanto distinto, ciò che
produce è il non-Io, ossia ciò che è distinto e diverso dall'Io. Se l'Io è coscienza, è
pensiero, allora il non-Io prodotto non può essere che il suo opposto, cioè la
materia, ossia la natura come insieme di minerali, piante, animali e uomini nella
loro corporeità. Il non-Io è tutto ciò che non è l'Io.
Se il primo momento (tesi) è quello della libertà dell'Io che produce liberamente la
realtà, il secondo momento (antitesi) è quello della necessità dei meccanismi e delle
leggi della natura prodotta, da cui consegue il rapporto di reciproco condizionamento
tra Io e non-Io (l'Io si trova condizionato e limitato dal non-Io, cioè dalle cose della
natura che si trova davanti).
15

Inizialmente la realtà prodotta dall'Io gli appare esterna e indipendente da lui.


L'Io ancora non si accorge che la realtà è invece un suo prodotto. Se ne accorgerà
solo in seguito, attraverso la riflessione filosofica. Ma dapprima l'Io non se ne
avvede, perché produce la realtà in modo inconsapevole, inconscio. Fichte chiama
tale produzione inconsapevole della realtà "immaginazione produttiva" (l'Io,
immaginando e pensando la realtà, inconsciamente la produce).
La produzione inconsapevole della realtà esterna, cioè del non-Io, è un'attività in
qualche modo automatica e necessaria dell'Io e ciò per due motivi:
1. poiché una cosa si distingue e si conosce in contrapposizione a ciò che non è,
specialmente rispetto al suo opposto, l'Io per poter riconoscersi oppone a sé
e produce il non-Io; è questa una necessità teoretica, ossia conoscitiva;
2. ma l'opposizione-produzione del non-Io corrisponde anche ad una
necessità e ad uno scopo pratico-morale; infatti il non-Io, opponendosi e
delimitando l'Io, costituisce un insieme di ostacoli che l'Io si trova di fronte
e che si presentano come limiti alla sua libertà; l'Io è però attività produttiva
continuativa che affronta e supera all'infinito ogni ostacolo; superando
incessantemente gli ostacoli posti dal non-Io, allora l'Io realizza il proprio
scopo pratico-morale, che è quello del suo continuo perfezionamento;
realizza la sua libertà non solo nel conoscere ma anche e soprattutto nel
modificare ed utilizzare il mondo, la natura, cioè il non-Io.

Terzo momento-sintesi-: l'Io oppone, nell'Io, all'Io divisibile un non-Io divisibile


(divisibile= finito, limitato, diviso e distinto dall'Io).

L'Io e il non-Io sono due principi, due concetti astratti, utili a spiegare la dinamica
di fondo della realtà: sono il pensiero in generale e la natura in generale, ma in quanto
tali non costituiscono la realtà concreta (non si vedono né si toccano). Nel mondo
concreto e sensibile, in cui vivono i singoli individui, non c'è l'Io-puro, assoluto e
infinito, da una parte, e il non-Io, cioè la natura, il mondo, anch'esso illimitato,
dall'altra parte. Nella realtà concreta vi sono invece molteplici io-finiti (ossia
molteplici coscienze individuali), delimitati e quindi divisibili, che trovano di fronte
ed opposti ad essi stessi una molteplicità di non-io finiti (gli oggetti della natura),
anch'essi finiti e divisibili. Sono divisibili nel senso che sono divisi, distinti uno
dall'altro.
In Fichte l'Io risulta finito e infinito al tempo stesso: finito perché è limitato dal non-
Io; infinito perché, tuttavia, l'Io-puro non perde il suo carattere di infinità. Mentre i
singoli io-finiti nascono e muoiono, l'Io-puro, come principio primo da cui deriva
tutta la realtà, perdura nel tempo; è totalità infinita e nel tutto infinito sono
concettualmente ricompresi e assorbiti tutti gli io-finiti.
Il singolo io-finito, la singola coscienza individuale, supera progressivamente i
vari non-io finiti, costituiti dagli oggetti della natura che si oppongono e stanno
dinanzi ad esso. In tal modo l'io-finito estende sempre di più la sua conoscenza
sugli oggetti (attività teoretica, conoscitiva) ed estende altresì sempre di più la sua
16

libertà di azione su tali oggetti, cioè la sua capacità di modificarli ed utilizzarli


(attività pratica ma anche morale perché devono essere utilizzati bene).
Il superamento degli ostacoli è continuativo, senza termine, poiché l'Io produce in
continuità, all'infinito, sempre altri non-Io. Tuttavia l'Io-puro, essendo produzione
infinita del non-Io, non giunge mai a superarlo, ad assorbirlo e ricomprenderlo
totalmente in sé. Il non-Io costituisce quindi un limite, cui ci si avvicina sempre di
più ma non si raggiunge mai.
L'infinito di Fichte, insomma, rimane un'attività, seppur infinita, che tuttavia
presuppone un limite irraggiungibile; è un'attività che si svolge soltanto attraverso
un infinito superamento del finito. Non a caso l'Io di Fichte è fondamentalmente
compito morale e la morale, anche secondo il concetto kantiano, implica una volontà
e uno sforzo costanti e perciò implica la presenza di un limite insuperabile, poiché
nel caso contrario l'azione morale non avrebbe più occasione di proseguire. Invece
la scuola romantica (Schlegel, Novalis, Hoelderlin, eccetera) trasferisce il principio
dell'attività infinita dal piano etico a quello estetico, facendo sparire il limite poiché,
inteso come principio della creazione estetica e non di produzione della realtà quale
è l'Io di Fichte, l'infinito non può allora sopportare limiti irraggiungibili, ostacoli e
resistenze di sorta alle manifestazioni della sua attività. Lo spirito infinito in Fichte è
attività costretta ad un inesauribile superamento di ostacoli; lo spirito infinito nei
poeti romantici non è ragione ma sentimento ed è assolutamente libero da ogni
limite. Rispetto all'idealismo etico di Fichte, quello dei poeti romantici è idealismo
estetico e magico: "tutto è fiaba, tutto è sogno" (Novalis).
In effetti, rimane in Fichte un residuo realistico perché l'Io non giunge mai ad
assorbire totalmente il non-Io. Nonostante il radicale cambiamento di impostazione,
che sostituisce all'Io-penso kantiano legislatore della natura l'Io quale creatore della
natura, la produzione del non-Io, e quindi il processo di conoscenza del non-Io stesso
da parte dell'Io, obbedisce ancora ad uno schema kantiano in quanto si tratta di un
processo discorsivo e non intuitivo. Fichte rimane un po' a metà del guado e ciò gli
sarà rimproverato da Hegel. Per Fichte l'Io è realtà-attività assoluta e non più, come
in Kant, funzione unificatrice delle categorie in capo al soggetto. Eppure per Fichte
la conoscenza procede ancora kantianamente: la realtà sensibile non viene colta per
intuizione istantanea ma discorsivamente, attraverso successive e graduali
connessioni di singole conoscenze. Da ogni sintesi, cioè da ogni nuova conoscenza
acquisita od ostacolo superato, scaturisce indefinitamente e discorsivamente una
nuova tesi, ossia una nuova conoscenza ancora da acquisire e un nuovo ostacolo
ancora da superare, e alla nuova tesi si contrappone una nuova antitesi che si risolve
in una nuova sintesi ulteriore e così via all'infinito. Per Fichte le cose in sé non
esistono, esistono i non-io finiti; essi vengono però conosciuti e superati mediante un
procedimento discorsivo pur essendo prodotti dall'Io. Infatti, essendo gli io-finiti un
prodotto inconsapevole dell'Io (immaginazione produttiva), essi non sono suscettibili
di un superamento e di una conoscenza immediata ed intuitiva, bensì discorsiva e
graduale, secondo il principio che si conosce davvero solo ciò che consapevolmente
e gradualmente di volta in volta si fa.
17

I tre principi fichtiani dello sviluppo della realtà non vanno interpretati in modo
cronologico bensì logico. Fichte non intende dire che prima esiste l'Io infinito, poi
che l'Io oppone a sé il non-Io e che infine oppone l'io finito, ma semplicemente che
esiste un Io che, per poter essere tale, implica e deve presupporre di fronte a sé il
non-Io, trovandosi in tal modo ad esistere concretamente sotto forma di io finito.
Questa non è una novità. Ciò che Fichte vuole mettere in luce è che la natura non è
una realtà autonoma che procede indipendentemente dallo spirito, ma che esiste solo
in relazione allo spirito e quindi per l’Io e nell'Io, il quale soltanto è in grado di dare
senso alla vita e alla natura stessa, superando il limitante determinismo delle sue
leggi.

Il carattere etico dell'idealismo di Fichte. Il primato della ragione pratica e della


morale sulla ragione teoretica, conoscitiva.

Dei due motivi, visti sopra, della produzione inconsapevole del non-Io, il più
importante per Fichte non è quello teoretico (conoscitivo) ma quello pratico-
morale: noi esistiamo soprattutto per agire nel mondo insieme agli altri uomini (cioè
per agire sul non-Io) al fine di far trionfare la libertà dello spirito sulla necessità della
materia e dei corpi materiali (regolati da leggi meccaniche e necessarie di causa-
effetto), superando progressivamente gli ostacoli che ci troviamo di fronte posti dal
non-Io. Fichte incarna in tal modo gli ideali romantici in virtù della sua filosofia
dell'infinito, dell'azione e della libertà. "Essere liberi -dice Fichte- è niente,
diventarlo è il cielo". Proprio per tale motivo, a proposito della filosofia di Fichte, si
parla di primato della ragione pratica (la morale) sulla ragione teoretica (la
conoscenza) e di idealismo etico.
Nel superare continuamente gli ostacoli che si trova davanti (gli oggetti della
natura cioè il non-Io), l'io-finito (il singolo uomo), tende sempre più verso
l'infinito, ossia verso l'Io-puro, e tanto più diventa libero, cioè indipendente dalle
tentazioni delle cose materiali e dagli egoismi nei confronti degli altri uomini,
realizzando in tal maniera se stesso. Senza ostacoli e limiti non c'è libertà, essa
consiste nel superarli.
L'Io-puro infinito, piuttosto che sostanza metafisica degli io finiti, è la méta ideale
alla quale essi tendono. L'infinito cioè, anziché consistere in una "essenza" già data e
statica è in fondo un dover essere, una missione. L'Io infinito è infatti per Fichte un
Io libero, ossia uno spirito vittorioso sui propri ostacoli e quindi privo (puro) di
limiti. È una situazione che per l'uomo rappresenta un ideale: la missione dell'io
finito, dell'uomo, è uno sforzo infinito verso la libertà, ovvero una lotta inesauribile
contro i limiti esterni della natura (gli ostacoli costituiti dalle cose che gli si
presentano davanti) e contro i limiti interni (gli istinti irrazionali e l'egoismo). È
questo il messaggio tipico della modernità: l'umanizzazione del mondo e di noi stessi.
Ovviamente questo è un compito, una missione mai conclusa, poiché se l'io-finito
(l’uomo) riuscisse d'un balzo a superare tutti gli ostacoli, non gli rimarrebbe alcun
18

compito morale da compiere e al posto della vita, che è lotta e sforzo di continuo
miglioramento, subentrerebbe la morte morale.

La dottrina della conoscenza.

Abbiamo visto che l'immaginazione produttiva produce inconsapevolmente gli


oggetti del nostro conoscere, ossia il non-io, immaginandoli. Benché il non-Io non
abbia una consistenza autonoma poiché prodotto dall'Io, esso non è semplice
apparenza ed illusione ma una realtà di fronte a cui si trova ogni io empirico. La
conoscenza pertanto, sul piano teoretico, procede mediante una serie di gradi
attraverso i quali il soggetto giunge progressivamente a comprendere, in modo
sempre più ampio, gli oggetti.
Tre sono per Fichte i principali gradi della conoscenza, che sono quelli consueti:
1. la sensazione, quando l'io empirico finito riceve attraverso i sensi gli stimoli
degli oggetti che si trova di fronte e ne viene modificato;
2. l'intelletto che, come per Kant, organizza e trasforma i dati sensibili ricevuti in
concetti pure o categorie;
3. la ragione la quale, riflettendo, giunge a comprendere che gli oggetti,
dapprima percepiti come esterni, sono invece un prodotto dell'Io, della
coscienza o ragione stessa.
Mentre il processo conoscitivo è un cammino a ritroso, una "conquista dal basso",
poiché solo alla fine la coscienza si riconosce produttrice essa stessa degli oggetti,
nell'attività pratico-morale, cioè nell'agire, avviene l'inverso, ossia è il soggetto che
modifica ed utilizza l'oggetto in un cammino in avanti, superando gli ostacoli
costituiti dagli oggetti stessi: l'Io assume il valore di tendenza infinita volta a
realizzare il mondo umano e naturale conformemente alla ragione.

La morale, il diritto e lo Stato.

Nelle opere successive alla "Dottrina della scienza" Fichte tratta della morale, del
diritto e dello Stato, sviluppando il tema della libertà e dell'agire umano.
L'etica (la morale) e il diritto sorgono quando il singolo riconosce di avere di
fronte a se altri soggetti con i quali interagire per diventare egli stesso
pienamente uomo: per diventare tale ciascuno ha bisogno degli altri. Scrive Fichte
"un essere razionale non lo diventa nell'isolamento"; nell'isolamento non può elevarsi
alla libertà.
La morale, ossia il dover confrontarci con gli altri, e la libertà, consistente nel
superare gli ostacoli costituiti dagli altri e che essi ci pongono, sono un perenne
invito all'azione, al non accontentarci mai di ciò che si è e si ha. L'inattività è il
male, da cui derivano i vizi peggiori come la viltà e la falsità. In questo senso l'agire
è più importante del conoscere: la sola conoscenza non è morale. Il bene si fa, non
basta conoscerlo. È con ciò ribadito l'idealismo etico della filosofia di Fichte ed il
19

primato dell'agire sul conoscere, della ragione pratica su quella pura, teoretica.
Proprio nel progressivo superamento degli ostacoli costituiti dagli io-finiti e dai non-
io finiti consiste l'autentica libertà, poiché è in tal modo che l'uomo migliora e si
perfeziona.
La prima missione dell'uomo, e del dotto in particolare, è appunto il continuo
superamento dei limiti e degli ostacoli che la coscienza, l'Io si trova di fronte, non
solo per conoscerli e far progredire la conoscenza, ma soprattutto per estendere
sempre più la libertà della coscienza stessa sul mondo della natura e nella società. Il
dotto non devi isolarsi in una torre d'avorio e disinteressarsi di ciò che accade agli
altri e nel mondo.
Tuttavia la libertà del singolo presuppone il riconoscimento anche della libertà
degli altri, chiamati anch'essi al medesimo dovere morale che vale per il singolo.
Nasce così il diritto (le leggi) allo scopo di regolare la società e per garantire ad
ognuno la libertà nel rispetto di quella altrui e la proprietà privata. Scrive Fichte:
"Così come non posso pensarmi individuo senza contrapporre a me stesso un altro
individuo, allo stesso modo non posso pensare nulla come mia proprietà senza
contemporaneamente pensare qualcosa come proprietà di un altro"; anche il mio
diritto di proprietà, cioè, vale solo nel rispetto della proprietà altrui.
Il diritto alla libertà e alla proprietà sono per Fichte diritti naturali dell'uomo,
insiti nella stessa natura umana, che precedono in quanto tali la legge e lo Stato e che
la legge e lo Stato non possono violare.
Lo Stato è, appunto, la forza che controlla il rispetto dei diritti e dei doveri
individuali. In tal senso lo Stato non è il fine ma è il mezzo per dar vita ad una società
libera, formata da individui responsabili, e per aiutare gli uomini a socializzare, fino
al punto in cui lo Stato stesso potrebbe scomparire qualora tutti agissero moralmente.
Prioritaria è la società civile, non lo Stato.
Come si può notare, si tratta di una concezione liberale dello Stato (lo Stato come
garante della libertà dei cittadini), ispirata anche ai principi della rivoluzione
francese. Fichte condivide altresì la teoria dell'origine contrattualistica dello
Stato: lo Stato sorge in base ad un accordo, ad un contratto dei cittadini ed il suo
scopo è di educarli alla libertà.
Però, dopo la battaglia di Jena e l'occupazione napoleonica della Prussia, la
concezione dello Stato di Fichte diventa nazionalistica e autarchica (autarchia=
raggiungimento dell'autosufficienza non solo politica ma anche economica dello
Stato).
È in questa circostanza che Fichte proclama il primato della nazione tedesca, in
quanto la sua cultura e la sua lingua sono rimaste incontaminate, non mescolate con
altre culture e altre lingue.
Per salvaguardare l’autarchia dello Stato, qualora esso fosse privo di materie prime
fondamentali, allora diventa compito dello Stato medesimo svolgere direttamente il
commercio estero e non lasciarlo in mano ai singoli cittadini privati, al fine di evitare
contaminazioni dei cittadini con altri popoli e razze e di evitare anche scontri e guerre
tra gli Stati, che nascono quasi sempre a causa di contrasti tra i commercianti privati.
20

Conclusioni.

La "Dottrina della scienza" di Fichte ebbe largo successo presso i romantici perché in
quell'opera ritrovavano molte delle loro aspirazioni: l'incessante tendere all'infinito; la
riduzione del non-Io a una produzione dell'Io e quindi il predominio del soggetto; la
proclamazione della libertà come significato ultimo dell'uomo e delle cose;
l'assimilazione al divino dell'agire umano (il primato del fare sul conoscere).
L'idealismo fichtiano è idealismo etico o morale non solo perché la legge morale e la
libertà sono al fondamento del suo sistema, ma anche perché sono l'elemento che
spiega la scelta che ogni uomo singolo fa delle cose e della stessa filosofia: sceglie
l'idealismo chi è libero, sceglie il dogmatismo chi dà la preminenza alle cose rispetto
al soggetto e quindi non è spiritualmente libero.
Fichte ha compiuto una svolta epocale: contro la vecchia metafisica dell'essere o
dell'oggetto ha proposto una nuova metafisica del soggetto e dello spirito libero,
capace di trovare in se stesso, assecondando le proprie migliori inclinazioni, il
significato dell'esistenza e la propria missione nel mondo: la missione del dotto vuole
essere esemplare per ogni uomo.
21

FRIEDRICH WILHELM SHELLING (1775 – 1854).

Studia teologia Tubinga, dove diventa amico Hoelderlin e di Hegel, col quale in
seguito entrerà però in polemica. Si reca a Jena per seguire le lezioni di Fichte. Entra
in rapporto con Goethe. Nel 1814 occupa a Berlino la cattedra che era stata di Hegel
per guidare l'opposizione alla filosofia hegeliana. Muore in Svizzera dove si era
trasferito per motivi di salute.
Opere principali: Idee per una filosofia della natura; Sistema dell'idealismo
trascendentale; Bruno o il principio divino e naturale delle cose.
Lo sviluppo del pensiero di Schelling può essere suddiviso in sei fasi:
1. l'iniziale momento fichtiano;
2. la fase della "filosofia della natura";
3. periodo dell’"idealismo trascendentale";
4. lo stadio della "filosofia dell'identità";
5. il periodo "teosofico" e della "filosofia della libertà";
6. la fase della "filosofia positiva" e della "filosofia della religione".

Le critiche a Fichte. L'Assoluto come indifferenza di spirito e natura.

Schelling aderisce all'idealismo inaugurato da Fichte, convinto anch'egli della tesi


secondo cui nessuna realtà esiste se dapprima non è pensata e presente nella
coscienza, o pensiero, Io, spirito, idea, per cui la realtà è il prodotto della coscienza
intesa come principio primo della realtà e come sostanza spirituale non statica bensì
dinamica, ossia come incessante, infinita e libera attività produttrice del reale.
Tuttavia gli interessi di Schelling non sono soltanto idealistici ma anche, secondo la
sensibilità romantica, naturalistici ed estetici. Egli perciò critica la concezione che
Fichte ha della natura, considerata semplice non-Io, priva di autonomia e
specificità. Per Schelling la natura non è un semplice ostacolo che l'Io si trova
davanti e che deve superare, ma è una realtà autonoma; certamente è una realtà
inferiore allo spirito ma solo per grado e non per essenza, poiché, sostiene Schelling,
essa ha la medesima essenza dello spirito. Se la natura infatti è stata prodotta dallo
spirito, cioè dall'Io che oppone a se stesso il non-Io (ossia, per l'appunto, la natura),
significa allora che la natura ha in fondo la stessa essenza dello spirito; è lo stesso
spirito che si manifesta in modo diverso. La natura pertanto non è materia inerte;
possiamo infatti osservare che non è un insieme caotico e disordinato di cose,
essendo invece riscontrabile in essa un'organizzazione generale ed uno sviluppo
secondo un progetto razionale. La natura non è un limite, un ostacolo, come per
Fichte, ma anch'essa è forza dinamica che si sviluppa progressivamente: quindi
anche la natura ha carattere spirituale.
Allora quale rapporto sussiste tra natura e spirito, tra una realtà inconscia quale
appare essere la natura e la realtà cosciente dello spirito? Che rapporto c'è fra oggetto
(la natura) e soggetto (lo spirito)? In effetti, prosegue Schelling, sembra difficile
22

scorgere a prima vista nella natura, nella materia, una essenza spirituale, ma se si
riflette in profondità ci rendiamo conto che anche la natura possiede una propria
autonomia, razionalità e creatività; ci rendiamo conto che la natura è un
organismo vivente dotato di spiritualità.
Dunque il principio primo non può essere l'Io di Fichte, che riduce la natura
soltanto a proprio prodotto passivo.
Fichte delimita il principio primo esclusivamente all'Io soggettivo, ma tale
soggettivismo non può essere assoluto perché bisogna che vi sia anche un oggetto.
Anche per Schelling il principio primo è spirito, tuttavia non può manifestarsi
esclusivamente nel soggetto poiché permea, riveste di sé anche l'oggetto prodotto.
D'altro canto, neppure la sostanza oggettiva di Spinoza può spiegare da sola
l'origine dell'intelligenza e dell'Io. Per Spinoza la sostanza è l'infinito, il Tutto che
contiene e rende comprensibile ogni realtà individuale. Ma la sostanza infinita di
Spinoza è realtà oggettiva, è cioè cosa in sé, è principio ed entità esterna al
pensiero, non è il pensiero il quale, come res cogitans, è solo un attributo della
sostanza che comprende anche, quale ulteriore attributo, la res extensa, ossia la
materia. Quella spinoziana è una concezione che l'idealismo non può accettare in
quanto, per esso, la sostanza non può essere statica, bensì infinita attività creatrice e
spirituale, senza attributi di carattere materiale nonché interna alla coscienza e non
già cosa in sé esterna, dall'idealismo superata.
Né l'Io come spirito puramente soggettivo né la natura possono essere il
principio primo: esso deve essere piuttosto individuato in una realtà, che
Schelling chiama l’"Assoluto" (dal latino ab-solutus, che significa sciolto da
legami e da condizionamenti, che è cioè al di sopra di qualsiasi limite e quindi è
principio e causa prima). Dall'Assoluto derivano sia lo spirito sia la natura, sia il
soggetto (il pensiero) sia l'oggetto (la natura). Essendo costituiti della medesima
essenza, spirito e natura hanno pari dignità, pari valore: anche la natura è essa
stessa intelligente, pur se in modo inconsapevole ed inconscio. Essendo sia lo
spirito che la natura, entrambi, sua manifestazione, l'Assoluto è perciò definito come
"identità indifferenziata di spirito e natura", di soggetto e oggetto, di ideale e di
reale, di conscio e di inconscio. Di per sé dunque l'Assoluto non è né ideale né reale
(materiale), ma spirito e natura, idealità e realtà, sono aspetti particolari della totalità
indifferenziata dell'Assoluto. Esso è il principio primo che spiega sia i fenomeni
dello spirito sia quelli della natura e della materia. Contrariamente a Cartesio e
secondo l'impostazione idealistica, la materia (la natura) non è definita in
contrapposizione allo spirito (res extensa contro res cogitans), in quanto è essa
stessa, inconsapevolmente, intelligente. Quale principio primo l'Assoluto è
intuibile ma non dimostrabile, poiché, come più volte già rilevato, se fosse
dimostrabile deriverebbe da una causa preesistente ed allora non sarebbe più causa
prima e principio primo.
Il riconoscimento del valore autonomo della natura e la tesi dell'Assoluto come
unità-identità indifferenziata di natura e spirito, conducono Schelling a individuare
due ambiti di ricerca filosofica:
23

1. La filosofia della natura, che intende mostrare come la natura, attraverso i


suoi vari livelli, diventa man mano spirito sempre più elevato: quando la
natura arriva al livello degli animali giunge alla sensibilità, che è già una
prima forma di spiritualità; quando arriva all'uomo giunge alla coscienza e
quindi allo spirito. In tal senso la natura è concepita come "spirito visibile":
infatti la natura, che è anche spirito, che ha una propria spiritualità e una
propria intelligenza, è qualcosa che si vede.
2. La filosofia trascendentale o idealismo trascendentale, che intende
mostrare come lo spirito, in particolare la coscienza o Io, diventa natura nel
senso che lo spirito giunge a comprendere di essere analogo allo spirito della
natura. Pertanto lo spirito è concepito come "natura invisibile": infatti lo
spirito, che pure è presente nella natura, non si vede nelle cose naturali.
Trascendentale significa che il soggetto (la coscienza, il pensiero) trova di
fronte a sé gli oggetti (le cose della natura) inizialmente avvertiti come distinti
e indipendenti da essa, ma che poi egli trascende, cioè supera arrivando a
comprendere che anche gli oggetti della natura e la natura tutta nel suo
insieme sono costituiti dalla medesima essenza spirituale di cui anche il
soggetto è costituito, derivando sia lo spirito della coscienza sia lo spirito della
natura dal medesimo principio primo che è l'Assoluto.
Dal principio primo costituito dall'Assoluto come unità indifferenziata di spirito e
natura deriva allora, da un lato, che non c'è una natura che sia puramente natura, cioè
pura oggettività senza nessuna soggettività, ossia senza nessuna spiritualità e,
dall'altro lato, che non c'è uno spirito che sia puramente spirito, cioè pura soggettività
perché lo spirito è presente anche nell'oggettività, ossia nella natura. Di conseguenza,
secondo i due ambiti di ricerca, una ricerca filosofica sulla natura giunge a
comprendere lo spirito che c'è anche nella natura stessa e una ricerca filosofica
sullo spirito giunge a comprendere che esso si trova anche nella natura.
Schelling distingue un' attività inconscia e un'attività cosciente dell'Assoluto. Natura
e spirito, oggetto e soggetto costituiscono un sistema unitario e continuo. Tra essi
esiste solo un diverso grado di coscienza: la natura è spirito inconscio, lo spirito è
natura autocosciente. Dall'attività inconscia, definita anche "reale", deriva la
produzione del mondo; dall'attività cosciente, che è "ideale", deriva la ricostruzione
consapevole del mondo, cioè il sapere, la comprensione del mondo. Scopo della
filosofia è riportare il reale all'ideale, ossia riconoscere la razionalità e la
spiritualità del reale. La regolarità e l'ordine della natura vengono in tale
prospettiva spiegati mediante una razionalità presente in modo inconscio nella
natura stessa, la quale poi, mediante il sapere, diviene cosciente di sé come spirito.
Abbiamo allora due momenti: la filosofia della natura, che parte dal reale per
spiegare l'ideale e la filosofia trascendentale che spiega il reale a partire dall'ideale.
I commentatori hanno peraltro osservato che nel concetto shellinghiano di Assoluto
si rileva una contraddizione. L'Assoluto è originariamente concepito come unità
indifferenziata di natura e spirito; però nel suo svilupparsi, nel suo manifestarsi
nella realtà e nel suo farsi esistente esso nega e contraddice se stesso perché si
differenzia in natura e spirito. L'indifferenza realizzandosi diventa differenza. La
24

contraddizione sarà superata da Hegel, il quale afferma che l'Io e il non-Io, cioè lo
spirito e la natura sono reali, ossia si realizzano ed esistono, solo nelle loro sintesi
specifiche, nelle loro determinazione finite, vale a dire nei singoli pensieri e nelle
singole cose. Al di fuori delle loro sintesi specifiche e determinazioni finite, l'Io e il
non-Io, lo spirito e la natura hanno valore puramente ideale, astratto e logico-
concettuale, conservando quindi in tal modo, in opposizione al finito, la dimensione
dell'infinito, in quanto tale distinto e perciò senza contraddizioni rispetto ai singoli
pensieri e cose reali, che dell'infinito sono manifestazioni ma non differenziazioni.

La filosofia della natura.

Intendere la natura come organismo vivente, dotato di propria autonomia e capacità


di autoproduzione, è concezione tipicamente romantica. La concezione romantica
dell'animismo della natura è rafforzata altresì dalle scoperte e teorie scientifiche sul
magnetismo, sull'elettricità e sul chimismo (sulle forze e sulle reazioni chimiche).
Nel concepire la natura come animata, come organismo vivente, Schelling rifiuta
pertanto i due tradizionali modelli esplicativi del mondo naturale: quello
scientifico-meccanicistico e quello finalistico-teologico.
Il meccanicismo infatti, osserva Schelling, spiegando la natura solo come insieme di
fenomeni materiali, di movimenti e di cause meccaniche, non riesce a spiegare in
modo completo gli organismi viventi, perché essi agiscono non solo in base a cause e
a leggi puramente meccaniche, ma anche attraverso particolari sensibilità biologiche
negli animali e attraverso libere scelte negli uomini.
Dall'altra parte il finalismo teologico, pensando che i fenomeni della natura si
sviluppino e siano guidati da un'intelligenza divina trascendente rivolte ad un fine,
non si accorge che i processi e i fatti naturali sono autonomi, che si regolano da se
stessi.
Il modello della natura per Schelling è invece quello organicistico: la natura è un
organismo vivente che è sì finalistico, orientato verso un fine, che però non è
trascendente bensì immanente, ossia i fini della natura non sono determinati da una
divinità esterna ma sono dentro la natura medesima: autofinalismo della natura.
Infatti, possedendo la natura una sua propria spiritualità e non dipendendo solo da
cause e da leggi meccaniche, persegue una propria programmazione intelligente,
seppur in modo inconsapevole: la natura come materia non può essere consapevole
dei propri sviluppi, in quanto essi sono guidati dallo spirito, tuttavia interno ed
immanente anche alla natura medesima. Come i filosofi rinascimentali, in
particolare Giordano Bruno, Schelling chiama "anima del mondo" lo spirito
inconscio (nel senso che la natura non se ne accorge) che agisce dentro la natura.
In una concezione organicistica il rapporto meccanico di causa-effetto viene meno:
l'organismo produce se stesso e dunque causa ed effetto coincidono; non c'è una
causa esterna all'organismo medesimo.
25

Anche la natura, come l'Io di Fichte, è attività continua e spontanea (libera), che
realizza se stessa producendo una serie infinita di creature. Così come l’Io di Fichte si
realizza opponendo il non-Io a se stesso, anche la natura realizza e sviluppa se stessa
in base a due forze contrapposte: la forza di attrazione e la forza di repulsione.
I fenomeni naturali avvengono per attrazione, cioè per combinazione fra di essi di
elementi diversi: nella fisica l'attrazione tra elementi diversi è la forza o legge di
gravitazione universale; nella chimica l'attrazione tra elementi diversi è l'affinità (la
somiglianza) fra elementi.
Per converso, i fenomeni naturali cessano a causa della forza di repulsione che
separa gli elementi che prima erano uniti.
Considerando la lotta tra le opposte forze di attrazione e di repulsione dal punto di
vista del rispettivo prodotto, sono possibili tre casi: che le forze siano in equilibrio e
si hanno allora i corpi non viventi; che l'equilibrio venga rotto e sia ristabilito e si ha
allora il fenomeno chimico; che l'equilibrio non venga ristabilito e che la lotta delle
forze sia permanente e si ha allora la vita (in natura la vita e la morte si succedono
ciclicamente).
Schelling descrive lo sviluppo della storia della natura secondo tre livelli
chiamati "potenze":
1. il livello del mondo inorganico, costituito dalla materia primitiva ancora
oscura;
2. il livello della luce, in cui la natura si rende visibile a se stessa;
3. il livello del mondo organico, in cui si trovano le piante e gli animali, che sono
dotati di sensibilità che è già una prima forma di spiritualità e di autocoscienza,
ed in cui si trovano anche gli uomini, nei quali la spiritualità e l'autocoscienza
raggiunge il grado più alto.
I tre livelli o potenze non vanno considerati in senso cronologico come successivi uno
all'altro, bensì in senso logico-ideale come coesistenti e simultanei nella complessiva
organizzazione della natura.
Complessivamente, la natura si configura quindi come uno spirito inconscio,
pietrificato, in moto verso la coscienza, cioè come un processo in cui si ha una
progressiva smaterializzazione della materia e un progressivo emergere dello
spirito. Lungo il percorso che va dai minerali all'uomo la natura appare, dice
Schelling, come la "preistoria dello spirito".
Schelling definisce la propria filosofia della natura come "fisica speculativa" o
"a priori". Intende dire che, mentre i singoli fenomeni naturali si conoscono solo a
posteriori, cioè in base all'esperienza, invece la spiritualità e il finalismo immanenti
nella natura non si conoscono a posteriori bensì a priori, indipendentemente
dall'esperienza, mediante la speculazione (il ragionamento) filosofica e la deduzione,
che fanno derivare la natura dal medesimo Assoluto da cui deriva anche lo spirito.
Fichte fa sorgere la natura immediatamente dall'Io, dall'immaginazione produttiva,
vale a dire dalla forza inconscia dell'Io. Schelling condivide questo operare privo di
coscienza ma lo trasferisce nella realtà oggettiva: il principio che opera nella natura
non è l'Io ma viene a trovarsi fuori di esso, è esterno alla coscienza derivando
direttamente dall'Assoluto. Si tratta tuttavia di un principio pur sempre spirituale e, in
26

tal modo, anche di un principio ideale ma non soggettivo: è contemporaneamente


ideale e reale, ossia è anche oggettivo in quanto si oggettivizza nella natura
producendo gli oggetti e regolando i fenomeni naturali e il loro sviluppo.
Per amor di critica occorre tuttavia rilevare come nella fisica speculativa di
Schelling, che in quanto tale rifiuta il metodo scientifico sperimentale di Galilei e di
Newton, sia presente il rischio di un uso arbitrario dei dati e dei fenomeni, che non
vengono trattati in modo scientifico bensì in modo ideale, costruendo così una sorta
di "romanzo della natura" anziché fare scienza della natura. Peraltro la fisica
speculativa di Schelling ha avuto importanti meriti storici: ha stimolato l'interesse
romantico per la natura e ha mostrato i limiti e l'insufficienza di una spiegazione
esclusivamente meccanicistica. Ha anche preparato l'avvento di una mentalità
evoluzionistica, anche se l'evoluzionismo di Schelling non è quello di Darwin poiché
secondo Schelling, come abbiamo visto, i tre livelli in cui si sviluppa la natura non
sono fasi successive una all'altra, ma sono momenti ideali e quindi simultanei nella
complessiva organizzazione del mondo naturale. Infine, l'idea di una finalità
immanente nella natura, quantunque inconscia, continua a suscitare l'interesse di
quei filosofi e di quegli scienziati che, pur rifiutando una concezione esclusivamente
meccanicistica, non accettano però il finalismo teologico tradizionale attribuito alla
trascendenza divina.

L'idealismo trascendentale o filosofia trascendentale.

Nella filosofia della natura Schelling ha mostrato come la natura diventa spirito, cioè
come l'intelligenza inconsapevole che agisce dentro la natura stessa, attraverso livelli
o "potenze" sempre più elevati (mondo inorganico, mondo della luce e mondo
organico), diventa gradualmente nell'uomo intelligenza consapevole, ossia spirito
cosciente o coscienza (natura come spirito visibile).
L'idealismo trascendentale è il reciproco della filosofia della natura; è l'altra
faccia della stessa medaglia. In esso Schelling mostra come lo spirito diventa
natura, ovviamente non in senso materiale ed effettivo bensì figurato, ossia nel
senso che lo spirito cosciente giungere a scoprire come la propria essenza
spirituale sia la medesima di quella della natura (spirito come natura invisibile).
Punto di partenza dell'idealismo trascendentale o filosofia trascendentale è
l'autocoscienza dell'Io, ossia la coscienza che l'Io ha di se stesso; è il proprio sentirsi
e riconoscersi da parte dell'Io che, in quanto tale, è atto di intuizione immediata e
non di dimostrazione; è un sentire e non comprendere dimostrativo.
Nell'idealismo trascendentale Schelling traccia una specie di storia dell'Io, cioè del
soggetto, per mostrare come esso, attraverso tre fasi o "epoche" di sviluppo,
diventa gradualmente consapevole (la coscienza dell'Io diventa autocoscienza) che
esso è anche natura, cioè che la propria spiritualità ha la medesima essenza della
spiritualità della natura.
Le tre fasi o "epoche" di sviluppo dell'Io (della coscienza) sono:
27

1. la sensazione, in cui l'Io considera la natura come una realtà che appare ancora
distinta, separata e indipendente dall'Io stesso;
2. la riflessione, in cui l'Io giunge a capire, riflettendo, che la realtà e le cose
della natura diventano comprensibili e conoscibili in quanto diventano
l'oggetto della sua propria coscienza; mentre nella sensazione l'Io sta da una
parte e le cose sono dall'altra, con la riflessione si stabilisce un rapporto fra la
coscienza dell'Io e le cose della natura che, come in Kant, vengono conosciute
attraverso le forme a priori della sensibilità (tempo e spazio) e dell'intelletto (le
dodici categorie);
3. la volontà, in cui l'Io diventa autocoscienza, ossia si rende conto che tutta la
natura è il prodotto della volontà di un'intelligenza, di uno spirito
inconsapevole che è dentro la natura stessa e la cui essenza spirituale è pari alla
sua, per cui si può dire allora che lo spirito diventa natura.
Si può notare che le tre fasi o "epoche" di sviluppo dell'Io (della coscienza)
corrispondono ai tre livelli o "potenze" dello sviluppo della natura:
1. la sensazione corrisponde al livello del mondo inorganico;
2. la riflessione corrisponde al livello del mondo della luce;
3. la volontà corrisponde al livello del mondo organico ed in particolare a quello
dell'autocoscienza dell'essere più elevato della natura che è l'uomo.
Si è già precisato che nella denominazione di "idealismo trascendentale" il termine
trascendentale significa che l'Io (la coscienza) si trova davanti gli oggetti della
natura, inconsciamente prodotti dall'Io stesso, i quali sono inizialmente avvertiti come
distinti e separati da esso e costituiscono quindi un limite, un ostacolo, che però l'Io
poi trascende, ossia supera, sia dal punto di vista teoretico (conoscitivo) nel senso che
giunge a conoscerli, sia dal punto di vista pratico nel senso che li utilizza e li
modifica a proprio vantaggio (le cose della natura sono oggetti di cui l'uomo si
serve); in tal modo l'Io realizza sempre più pienamente se stesso.
Nell'epoca della "volontà" l'Io si riconosce come a priori in quanto giunge a
comprendere che le cose della natura sono prodotte indipendentemente
dall'esperienza, sia pur in maniera inconscia, dal proprio spirito medesimo la cui
essenza è la stessa dello spirito della natura. Ma nulla in noi, quali io finiti, è a
priori, bensì solo a posteriori poiché siamo inconsapevoli dell'attività produttiva
dello spirito. Solo con l'astrazione trascendentale, cioè con la filosofia, diveniamo
consapevoli della a priorità dell’Io e prendiamo coscienza dell'idealità del limite,
ossia che il limite (la natura) quale l'Io cosciente trova davanti a sé è un prodotto
dello spirito, dell'Io medesimo.
Dunque, nell'Io esistono due attività: una reale e una ideale. L'attività reale è
inconscia e consiste nel fatto che l'Io, quale infinita attività produttrice, si realizza
producendo la natura, ossia opponendo a sé il non-Io, vale a dire che oppone a se
stesso gli oggetti della natura i quali rappresentano per esso altrettanti limiti e
ostacoli: in tal senso l'attività reale dell'Io, definisce Schelling, è "limitabile"
(limitata dagli oggetti). L'attività ideale è invece consapevole e consiste nella
conoscenza e nella pratica, cioè nel conoscere e nel modificare ed utilizzare
indefinitamente sempre di più gli oggetti della natura che l'Io si trova di fronte: in tal
28

senso, definisce Schelling, l'attività ideale dell'Io è "illimitabile" (supera


illimitatamente ed infinitamente i limiti, gli ostacoli costituiti dagli oggetti della
natura, conoscendoli ed utilizzandoli). Le due attività si implicano a vicenda, in
quanto l'Io si configura come ideale (illimitabile) solo in quanto è reale (limitabile) e
viceversa: l'Io cioè è un'attività non limitabile che esiste soltanto in presenza di un
limite che esso stesso pone inconsciamente, altrimenti, da un lato, l' Io non potrebbe
distinguersi e riconoscersi (il soggetto si può identificare e riconoscere solo in
presenza dell'oggetto, ossia di qualcosa distinto da sé) e, dall'altro lato, l'Io non
potrebbe realizzarsi sempre di più qualora non oltrepassasse indefinitamente il limite
posto di volta in volta.
Perciò, come nel caso del dualismo (contrapposizione) dialettico della natura tra
forza di attrazione e forza di repulsione, anche la vita dell'Io è riconducibile ad un
dualismo dialettico fra una tendenza continua alla produzione del finito, degli oggetti
della natura (attività reale) ed una opposta tendenza al superamento continuo di tale
finito, cioè del limite prodotto (attività ideale). Se si riflette unicamente sull'attività
ideale, nasce l'idealismo (il limite posto viene compreso come prodotto dall'Io stesso
e dall'Io è infinitamente oltrepassato); se si riflette unicamente sull'attività reale
nasce il realismo (il limite, l'oggetto della natura appare indipendente dall'Io). Ma se
si riflette sulle due attività insieme, in quanto si implicano reciprocamente, ecco
nascere allora l'ideal-realismo, come appunto è altresì definito l'idealismo
trascendentale di Schelling. L'ideal-realismo valorizza entrambe le attività dell'Io,
articolandosi in una filosofia teoretica (conoscitiva), che spiega il superamento degli
oggetti naturali mediante la conoscenza, e in una filosofia pratica, che spiega il
superamento degli oggetti mediante la loro modificazione ed utilizzazione secondo
gli scopi prefissati.

La filosofia pratica e la filosofia della storia.

Dopo la parte teoretica (conoscitiva) e metafisica, costituita dalla "Filosofia della


natura" e dalla "Filosofia trascendentale" o "Idealismo trascendentale", Schelling si
occupa di filosofia pratica e di teoria dell'arte, proponendo infine un ulteriore
sviluppo del suo pensiero con quella che egli chiama "Filosofia dell'identità" e
"Filosofia positiva".
La filosofia pratica inizia a partire dalla terza fase o "epoca" di sviluppo dell'Io,
l'epoca della volontà. Dopo aver compreso l'equivalenza dell'essenza spirituale della
natura con quella della coscienza per effetto della comune derivazione dal medesimo
principio primo, l'Assoluto, l'Io si libera dalla dipendenza e dal condizionamento
degli oggetti della natura, nonché dalle leggi della necessità meccanica che regolano
i fenomeni naturali, e si qualifica come spontanea volontà di agire nel mondo per
modificarlo e, in tal modo, realizzarsi liberamente.
Ogni coscienza individuale vuole agire in piena libertà nel mondo e nella società per
realizzare lo scopo del perfezionamento di se stessa: l'azione della coscienza è
quindi teleologica, cioè indirizzata al raggiungimento di un fine secondo l'idea del
29

bene. Pertanto l'attività pratica consiste inizialmente nella morale, caratterizzata


dalla libertà dell'agire per il raggiungimento dei fini perseguiti.
La morale opera tuttavia in una società in cui agisce una pluralità di soggetti coscienti
(di coscienze umane), fra i quali bisogna trovare un accordo ed un insieme di leggi e
di regole per impedire prepotenze: sorge allora il diritto, caratterizzato dalla legalità
e dalla necessità (di obbedire alle leggi).
Conseguentemente deriva però un contrasto tra la libertà della morale e la
necessità del diritto, contrasto che, sostiene Schelling, trova la propria sintesi e
soluzione nella storia.
Lo svolgimento dell'attività pratica segue dunque un andamento dialettico secondo la
seguente sequenza, o triade:
1. la morale, che è il regno della libertà, è la tesi;
2. il diritto, che è il regno della necessità, è l'antitesi;
3. la storia, che è la sintesi tra morale, cioè libertà, e diritto, cioè necessità.
La filosofia ovvero la concezione della storia di Schelling parte dal presupposto
secondo cui, essendo unico il principio primo, ossia l'Assoluto, che agisce
inconsapevolmente nella natura e consapevolmente nello spirito, cioè nella coscienza
collettiva che è quindi anche coscienza storica, allora anche nella storia si ritrova il
medesimo intreccio di attività consapevole e inconsapevole sussistente nello
spirito e nella natura. Infatti, osserva Schelling, la storia è sintesi di libertà, che è
consapevolezza, e di necessità, che è inconsapevolezza, perché, mentre gli uomini
credono di operare consapevolmente e liberamente, nella storia accadono invece
eventi imprevedibili, non progettati dagli uomini, per effetto di una forza immanente
nella storia stessa che, lungo i periodi storici, si presenta o come destino o come
natura o come provvidenza secondo il disegno e i fini dell'Assoluto, che si realizza
gradualmente nel tempo storico. L'Assoluto tuttavia non è del tutto indipendente
dall'azione degli uomini, poiché anch'essa concorre alla realizzazione del suo
progetto sicché, secondo una concezione tipicamente romantica, nel farsi della storia
gli uomini sono "collaboratori dell'Assoluto".
L'Assoluto agisce nella storia e ne ha guidato e ne guida lo sviluppo come forza
superiore immanente lungo tre periodi:
1. nel primo periodo l'agire nella storia dell'Assoluto appare come destino
inesorabile: è il periodo tragico del crollo delle antiche civiltà;
2. nel secondo periodo l'Assoluto appare come natura, ossia come necessità
meccanica, quella secondo cui si svolgono i fenomeni naturali, ed appare come
legalità, cioè, anche in questo caso, come necessità ed obbligo imposto dal diritto
e dalle leggi;
3. nel terzo periodo, ancora da venire, l'Assoluto apparirà come provvidenza
finalistica operante nella storia, con la quale l'uomo collabora; si attua la piena
sintesi (accordo) fra la libertà della morale e la necessità del diritto, tra la
consapevolezza che gli uomini hanno delle loro azioni storiche e
l’inconsapevolezza di quanto invece, nello sviluppo storico, è dovuto
all'intervento della forza immanente dell'Assoluto.
30

La teoria dell'arte: l'idealismo estetico.

Se la composizione del contrasto tra libertà e necessità che si determina nello spirito
o coscienza collettiva avviene nella storia, la storia non è però in grado di
comporre (risolvere) l'opposizione fondamentale tra spirito e natura. Tale facoltà
è invece individuata da Schelling nell'arte, la quale indica come al fondo dello
spirito e della natura operi un medesimo principio, quello della bellezza. La bellezza
rappresenta la conciliazione tra spirito e natura, tra infinito e finito, tra conscio e
inconscio. L'intuizione estetica propria dell'arte porta a compimento la speculazione
filosofica.
Si è visto che l'Assoluto è per Schelling unita indifferenziata di natura inconscia e di
spirito conscio e consapevole. Non è perciò possibile cogliere l'Assoluto né mediante
l'inconscio (l'istinto), il mistico o l'irrazionale, né attraverso la pura razionalità (la
filosofia). Per cogliere l'Assoluto occorre un'attività in cui i due aspetti dell'Assoluto
stesso, natura e spirito, siano presenti e al tempo stesso superati, cioè ricondotti a
sintesi: tale attività è l'arte.
La natura è prodotta in modo inconscio dallo spirito; lo spirito, o coscienza, conosce
attraverso il sapere (la scienza e la filosofia) ciò che lo spirito ha inconsciamente
prodotto come natura: l'arte supera la stessa filosofia nel cogliere l'Assoluto e la
sua essenza profonda di unione indifferenziata di spirito e natura.
Infatti, fa presente Schelling: l'artista opera consapevolmente, ma
contemporaneamente l'ispirazione artistica sorge dall'inconscio, sembra
provenire dall'esterno, dalla natura stessa. Perciò l'opera d'arte è effettivamente
sintesi di conscio e inconscio, cioè di spirito e natura. In essa, assai più che nella
natura o nell'attività dello spirito (cioè nel sapere e nella conoscenza), si rivela ed è
presente l'Assoluto infinito.
In tal modo è anche superato il residuo noumenico che permaneva in Fichte, in
quanto rappresentava l'Io-puro infinito come un limite al quale, mediante il
superamento degli ostacoli costituiti dal non-Io-natura, ci si avvicina sempre di più
ma non si raggiunge mai. L'arte coglie invece completamente l'Assoluto e il suo
carattere infinito.
L'arte è un produrre naturale in modo spirituale o un produrre spirituale in modo
naturale. È funzione conoscitiva superiore a quella della stessa filosofia poiché
coglie ed esprime anche il lato inconscio, mentre il filosofo non può che esprimere
quello cosciente, per cui Schelling auspica che sia la filosofia e sia le scienze, una
volta raggiunta la loro pienezza, possano ritornare alla poesia da cui erano uscite,
facendosi di nuovo mito come erano nell'antichità.
Per la prima volta l'arte, in conformità al sentimento romantico, viene così ad
assumere un significato centrale nella storia della filosofia: l'arte è posta al
vertice della conoscenza e l'idealismo di Schelling si configura anche come
idealismo estetico.
31

La filosofia dell'identità: il passaggio dall'infinito al finito. La fase teosofica.

Mentre in precedenza Schelling era partito dalla natura e dallo spirito presenti nel
mondo in modo finito e relativo per giungere poi, mediante la speculazione (il
ragionamento) filosofica a risalire all'Assoluto concepito come infinito e quale
origine stessa della natura come dello spirito, nell'ultimo periodo della sua
produzione filosofica parte invece dall'Assoluto per poi ridiscendere e cercare di
spiegare come dall'unità infinita e indifferenziata dell'Assoluto derivino gli enti
spirituali del mondo (cioè il sapere e le conoscenze umane) e le cose della natura
che, al contrario, sono entrambi finiti e fra di essi differenziati.
La vera difficoltà per Schelling non è comprendere l'infinito e la totalità unitaria
dell'Assoluto (se l'Assoluto è il Tutto da cui deriva ogni cosa, allora in esso tutto è
unitariamente ed infinitamente presente in potenza: il passato, il presente e il futuro
ed ogni cosa). La vera difficoltà è quella di capire e di spiegare come mai
dall'Assoluto, che è uno, indifferenziato e infinito, ossia, si può dire, è Dio
(peraltro un Dio filosofico immanente e non trascendente e non già il Dio delle
religioni positive), possano nascere derivare le cose e il sapere del mondo, che
sono invece molteplici, diversi e finiti, e come mai dall'Assoluto, che è eterno,
possa sorgere il tempo in cui è collocato il mondo e che, in quanto tale, non è eterno
avendo avuto un inizio ed essendo destinato ad avere una fine. In altri termini,
Schelling affronta il problema, che da sempre ha interessato la filosofia, di come
mai da Dio, che è tradizionalmente pensato come perfezione assolutamente completa
in sé, che non abbisogna di nulla, e che è concepito altresì come assoluto bene, derivi
il mondo ed anche il male che c’è nel mondo.
A questo problema cerca di rispondere nell'opera "Bruno (il filosofo del
Rinascimento) o il principio divino e naturale delle cose". In quest'opera Schelling
tratta della "filosofia dell'identità" perché il punto di partenza, come già detto, è
l'identità indifferenziata di spirito e natura che caratterizza l'Assoluto. Con tale
opera inoltre inizia la cosiddetta fase "teosofica" o della "filosofia della libertà"
di Schelling. Teosofia significa la filosofia su Dio considerato come immanente che
si distingue perciò dalla teologia che è la filosofia su Dio considerato come
trascendente.
Per spiegare come il mondo derivi da Dio-l'Assoluto Schelling, data la sua
concezione di Assoluto, non può accettare le spiegazioni tradizionali quali il
creazionismo cristiano, l' emanazionismo neoplatonico, il panteismo tradizionale.
Non accetta il creazionismo cristiano, ossia la tesi di un Dio-persona creatore del
mondo, perché il creazionismo, pensando Dio come entità da sempre perfetta, non
riesce a spiegare come e per quale motivo il Dio-Assoluto e perfetto possa sentire il
bisogno di creare il mondo e le cose del mondo imperfette e finite. Il creazionismo
inoltre non può attribuire il male del mondo a Dio in quanto perfetto e perfettamente
buono, perciò considera il male nel mondo come non-essere, come semplice
mancanza di essere, cioè come mancanza di qualcosa, vale a dire come mancanza di
perfezione .Ma considerare il male come semplice mancanza di essere non
32

costituisce per Schelling una spiegazione sufficiente dell'esistenza del male nel
mondo e della possibilità-libertà dell'uomo di scegliere tra il male e il bene.
Non accetta l'emanazionismo neoplatonico (ad esempio quello di Plotino), ossia la
tesi di un Dio che è così sovrabbondante e pieno di essere al punto tale che non può
essere contenuto, per cui il mondo sorge a causa dell'eccesso di essere che sfugge dal
centro divino, in quanto anche l' emanazionismo non riesce a spiegare, per Schelling,
come dal Dio perfetto possa derivare il mondo imperfetto.
Non può accettare neppure il panteismo tradizionale, come quello di Spinoza, ossia
la tesi dell'identità Dio-mondo (Dio è dentro il mondo e lo anima dal di dentro, per
cui tutto il mondo è, nel fondo, Dio stesso) perché il panteismo classico è basato su di
un concetto di Dio inteso come sostanza statica, come entità da sempre perfetta e
quindi immutabile, e non invece come attività e slancio creativo, per cui nemmeno il
panteismo tradizionale riesce a spiegare il passaggio dal Dio infinito al mondo finito,
né spiega l'esistenza del male, che infatti riduce ad apparenza.
Il passaggio dall'infinito al finito, cioè del perché e del modo in cui da Dio infinito e
perfetto possa derivare il mondo finito, imperfetto ed in cui vi è anche il male, è
spiegato da Schelling secondo una tesi nuova e originale, in base a cui l’origine
del mondo finito e del male non sono il risultato di un passaggio bensì (come per
altro verso inteso nell’antica concezione gnostico- mistica) di una “caduta”, di una
rottura e di un salto dall’Assoluto infinito, o Dio, nel mondo della finitezza.
Ogni essere, rammenta Schelling, può rivelarsi e distinguersi dagli altri esseri
solo per mezzo del suo contrario: l'amore solo per mezzo dell'odio, la giustizia per
mezzo dell'ingiustizia, ecc.
Quindi anche l'infinito, cioè l'Assoluto-Dio, può rivelarsi e distinguersi solo per
mezzo del suo contrario, per mezzo del finito, cioè il mondo, precisando peraltro che
dall'infinito al finito non vi è passaggio se non a patto di ammettere che il finito, in
qualche modo, è già in Dio. Ma il finito può essere nell'Assoluto, in Dio, solo a
patto di esservi in modo infinito ed eterno, ossia al di fuori dello spazio e del
tempo. Di conseguenza anche in Dio, ossia nell'Assoluto, convivono eternamente
e da sempre, i contrari; anche l'essenza di Dio è costituita dall’opposizione di
infinito e finito, positivo e negativo.Il positivo è razionalità, libertà, amore; il
negativo è irrazionalità, necessità, egoismo.Il negativo e il finito costituiscono una
sorta di fondo oscuro ed inconscio presente in Dio.
Altrettanto Dio, che è sommo bene, può rivelarsi e distinguersi solo per mezzo
del male. Perciò in Dio coesiste anche il male.
Schelling respinge le concezioni astratte di Dio, come quelle di "essere purissimo" o
come quella moralistica kantiana e fichtiana, che vede in lui solamente l'ordinamento
morale del mondo. Per Schelling Dio è ben di più: è persona e vita. Pertanto deve
avere in sé anche i caratteri contraddittori della vita e della personalità, essendo la
vita contrasto di istinto egoistico e volontà razionale ed implicando la personalità
un'origine e un divenire, ossia uno sviluppo. In quanto vita, cioè essere vivente, Dio
non è solo bene e razionalità ma anche volontà oscura, anche male; ed in quanto
personalità, Dio non è solo spirito statico da sempre perfetto, ma è un Dio dinamico,
33

che si perfeziona nel divenire, che ha una sua storia e un suo sviluppo insieme con lo
sviluppo del mondo.
In questo quadro Dio non è dunque un'entità statica e perfetta da sempre ma è
una realtà in divenire, in progressivo sviluppo, in origine anche imperfetta, che
si perfeziona e si realizza gradualmente. Lottando contro il suo lato oscuro,
contro il suo fondo maligno (cioè contro l'irrazionalità, l'egoismo e il male
coesistenti in lui), Dio si oppone ad esso, lo fa cadere (il tema della “caduta”) e lo
respinge “inconsciamente” nel mondo creando il mondo stesso, ossia il finito. Il
finito, cioè il mondo, è il mezzo della purificazione divina. Dio si realizza, si
purifica del fondo oscuro e si perfeziona man mano che si sviluppa la natura, il
mondo e la storia del mondo. In particolare, Dio si purifica purificando il
mondo, agendo sulla materia che costituisce il mondo per organizzarla e
purificarla sempre di più e condurla alla coscienza (abbiamo infatti visto come il
mondo, ossia la natura, giunga attraverso i suoi tre livelli di sviluppo dalla materia
inorganica a quello organica e quindi, con l'uomo, giunga infine alla coscienza e
all'autocoscienza), creando così le condizioni per la progressiva affermazione,
anche nel finito e nel mondo, della libertà sulla necessità, della razionalità
sull'irrazionalità, dell'amore sull'egoismo, del bene sul male.
Secondo Schelling, solo questa concezione dinamica di Dio può spiegare l'origine
del mondo e del finito dall'infinito. Infatti la produzione del finito e del mondo
sgorga dall'inconscia volontà di Dio di purificarsi del suo fondo oscuro e rappresenta
un momento necessario della vita di Dio medesimo (dell’Assoluto), che non può
perfezionare se stesso se non attraverso la derivazione e la “caduta” del finito e del
mondo dall'infinito divino. Dio, purificandosi, getta continuativamente ed
inconsciamente nel finito e nel mondo il suo fondo oscuro e maligno (giacché, si è
visto sopra, esso è eternamente coesistente in lui), predisponendo peraltro anche le
condizioni per la progressiva purificazione del mondo e del finito medesimi
(rappresentando il finito l'imperfezione e il male che c'è nel mondo).
Pertanto Dio è al tempo stesso origine del bene e radice del male. Il male radicale,
che Kant aveva dichiarato inesplicabile, è da Schelling ancorato metafisicamente alla
stessa essenza di Dio: strettamente connesso al bene, ne diviene la condizione di
possibilità, in quanto il bene può realizzarsi solo nella vittoria sul male e tale lotta
si sviluppa già nella vita stessa di Dio.
Il male viene eternamente superato e vinto da Dio, viene cacciato fuori da lui nel
mondo in un processo senza fine. L'imperfezione, il male non è dunque qualcosa
di assolutamente negativo e insuperabile: nel combatterlo e nel superarlo, il
male diventa strumento di purificazione e di redenzione. Così è in Dio e così può
essere anche per l'uomo:dipende dalla sua libertà e volontà di scelta.
Anche l'uomo è fatto contemporaneamente di attività conscia e inconscia. Anche
nell'uomo vi è un fondo oscuro e maligno, anche la sua vita è lotta per raggiungere
un grado sempre più elevato di coscienza.
Tuttavia, mentre la volontà di purificazione è elemento costititivo ed imprescindibile
dell'essenza di Dio, nell'uomo invece la compresenza di perfettibilità ed imperfezione,
di bene e male non sono fattori di imprescindibile volontà di purificazione. In Dio
34

bene e male sono strettamente uniti poiché la lotta contro il male e la vittoria su di
esso compongono la stessa essenza divina; nell'uomo invece perfettibilità ed
imperfezione, bene e male sono separabili, in quanto la libertà umana è altresì
capacità di opporsi alla scienza e alla conoscenza così come alla perfezione e al
bene.
Anche per l'uomo il male, se viene combattuto e superato, diventa strumento ed
occasione di redenzione e purificazione. Se invece non viene contrastato o
addirittura viene prescelto, il male è allora responsabilità dell'uomo e diventa
sua colpa.

La filosofia positiva.

L'ultimo indirizzo della sua filosofia è chiamato da Schelling "filosofia positiva".


Schelling non accetta l'identità di reale e razionale sostenuta da Hegel. Infatti per
Schelling l'Assoluto non è identità ma indifferenza di reale (natura) e di razionale
(spirito): significa che dall'Assoluto derivano sia la natura ( il reale) che lo spirito (il
razionale) ma che non sono fra essi identici.
La dottrina di Hegel gli appare un'esagerazione. Hegel, afferma Schelling, ha
distrutto la distinzione tra ciò che è razionale e logico e ciò che è reale, perché ha
collocato il razionale al posto del reale e ha ridotto tutta la realtà a concetti logici
astratti, pretendendo di dedurre da essi l'intera realtà concreta. Invece bisogna
distinguere tra una "filosofia negativa", che si limita a studiare l'essenza o la
possibilità logica delle cose (ossia quali sono le condizioni logiche che rendono
possibile l'accadere delle cose e consentono di comprenderle), e che è perciò negativa
in quanto nega e si oppone alle contraddizioni, e una "filosofia positiva" (da ciò la
denominazione del nuovo ultimo indirizzo), che studia per converso la realtà e
l'esistenza effettiva delle cose (infatti non tutte le cose possibili accadono
effettivamente). L'identità tra razionale e reale vale semmai per le essenze, o
possibilità logica delle cose, ma non per le esistenze.
L'esistenza delle cose è un fatto contingente (possono o non possono accadere)
perché esse derivano dalla libera e imprevedibile volontà dell'Assoluto. Quindi le
cose che effettivamente esistono non possono essere logicamente, necessariamente
ed integralmente dedotte da un principio generale astratto, ovvero dall'Idea o
dallo Spirito come pretende di Hegel. L'esistenza delle cose può essere solo
accertata nei fatti: a ciò si deve limitare il filosofo. Le cose esistono non perché
sono logicamente possibili ma perché Dio-l'Assoluto ha voluto farle esistere e
produrre. In tal senso le cose esistenti sono manifestazione e produzione di Dio
(l'Assoluto).
Dio, prosegue Schelling, si manifesta in due modi.
Dapprima si manifesta nella natura (producendo la natura) e nelle leggi
meccaniche e necessarie che caratterizzano i fenomeni naturali. Sorge allora la
religione o mitologia naturale: sorgono l'idea di Dio, della creazione del mondo da
35

parte di Dio, l'idea che il mondo ha un ordine, ecc., ossia tutte idee cui la ragione può
giungere naturalmente senza bisogno di una rivelazione divina.
Poi Dio non si manifesta più nella natura ma in se stesso, nella sua libertà creatrice e
specifica personalità, costituita da bontà, onnipotenza, onniscienza, ecc. Sorge allora
la religione rivelata: Dio rivela gli uomini, attraverso i profeti, chi egli sia, quali
siano i suoi attributi e quale sia il destino degli uomini.
Schelling pertanto distingue tra una "filosofia della mitologia" e una "filosofia
della rivelazione". Quando Dio si manifesta nella natura (filosofia della mitologia) si
manifesta come necessità: la necessità delle leggi della natura. Quando si manifesta e
si rivela in se stesso (filosofia della rivelazione) si manifesta come libertà, come
essere che produce liberamente il mondo e lo indirizza verso un fine.
In tal modo Schelling vuole conciliare la libertà e la necessità che sussistono nel
mondo.
Quest'ultimo intento di Schelling non è tuttavia interpretabile come recupero del
teismo e della trascendenza del Dio-persona delle religioni positive, bensì come
sforzo di conciliare l'umano e tradizionale sentimento religioso-finalistico della
trascendenza divina con l'atteggiamento idealistico della derivazione del mondo
dall'Assoluto e dell'immanenza della divinità nel mondo. Il suo sforzo è quello di
mediare ragione e libertà, necessità e finalità, però non in termini dualistici (come in
Kant) ma come due aspetti di una medesima realtà che è articolata sull'alternarsi di
momenti liberi e momenti necessari. Non uno o l'altro, ma lo sforzo di integrazione
tra filosofia negativa, costruita per intero sulla ragione e sulla necessità delle sue
leggi logiche, e filosofia positiva, costruita, oltre che sulla ragione, sul mito, sulla
religione e sulla rivelazione, quali dall'Assoluto stesso fatti presentire.

Conclusioni.

Un giudizio sulla filosofia di Schelling non è facile a causa dei frequenti mutamenti
di indirizzo e di interessi. La sua filosofia della natura fu prontamente e largamente
recepita dai romantici, come pure fu accolta con favore la sua filosofia estetica.
Minor considerazione ebbe invece il suo pensiero più maturo e tardivo. La fortuna di
Schelling andò via via declinando mentre saliva l'astro di Hegel. Forse Schelling è
stato il pensatore che meglio di tutti ha dato voce alle inquietudini romantiche, a quel
tendere senza posa, a quel continuo "sorpassarsi", a quella incessante mutevolezza di
temi, tralasciando i prodotti delle concezioni via via elaborate per cercarne sempre di
nuove.
36

GEORG WILHELM HEGEL (Stoccarda 1770 - Berlino 1831).


È il maggior esponente dell'idealismo tedesco. È stato docente di filosofia prima
all'università di Heidelberg e poi di Berlino.
Opere principali: Fenomenologia dello spirito; L'enciclopedia delle scienze
filosofiche; Scienza della logica; La filosofia della storia.

Le opere giovanili.

Negli scritti giovanili prevalgono in Hegel interessi di ordine religioso-politico. Si


dimostra insoddisfatto dell'opposizione stabilita dall'Illuminismo tra fede e religione
razionale o naturale. Si preoccupa invece di stabilire una continuità nello sviluppo
religioso dell'umanità, dalle forme religiose primitive a quelle del suo tempo. Vede i
germi del sorgere della religione nella religione di popolo, che è fondata sull'amore,
capace in quanto tale di costituire l'unità di un popolo, configurando in tal modo una
sorta di "anima dello Stato".
Gradatamente il pensiero religioso di Hegel si orienta verso il panteismo, in
termini di unità fra Dio e uomo. Coglie tale unità nell'amore, quale espresso dal
cristianesimo. L'amore è la vita stessa di Dio nell'uomo e nella comunità umana. È
l'amore che unifica Dio e l'uomo. L'unità del divino e del umano non si è realizzata
una sola volta nella persona di Gesù, ma si realizza continuamente nello spirito
umano tutte le volte che esso si solleva all'amore, poiché sull'amore è fondato il
sacro, la religione. La religione è la stessa unità dello spirito divino e dell'umano. La
fede del divino è possibile in quanto il divino è nel credente stesso.
Per Hegel tuttavia l'unità del divino e dell’umano è reale solo nella forma del
sentimento e non è esprimibile nel linguaggio filosofico. In luogo
dell'argomentazione filosofica ricorre pertanto all'esortazione, ponendo il tema del
rinnovamento morale e religioso dell'uomo come fondamento della
rinnovamento politico. Non ritiene possibile alcuna rivoluzione o trasformazione
politica se non basata su una rivoluzione del cuore e dell'animo. Per le particolari
condizioni della Germania, poi, religione e politica avevano una connessione
profonda. I paesi tedeschi erano stati al centro della Riforma protestante, sicché le
Chiese riformate e i principi tedeschi costituivano un insieme politico-religioso
omogeneo.
L'aspirazione dei popoli a una vita migliore e alla libertà deve diventare realtà vivente
attraverso progetti di riforma che spazzino via il vecchio ordine sociale, fondato
sulla rigidità delle classi e sulla supremazia del potere nobiliare. Il nuovo ordine deve
scaturire da una nuova forma di religione che ispiri un diffuso sentimento
comunitario, incarnato in istituzioni sociali nuove fondate sulla libertà e
sull'uguaglianza, sentimento che può sorgere solo da una rinnovata libertà interiore.
Hegel critica duramente le strutture delle Chiese cristiane storicamente
affermatesi dopo la morte di Gesù. Gesù ha predicato l'amore e la fratellanza come
progetto di vita e superamento della vecchia legge esteriore, fatta di precetti e
comandi, attraverso la nuova legge dell'amore, fatta di intensa vita interiore. Le
37

Chiese hanno invece costruito una religione positiva dominata da dogmi rigidamente
fissati e da precetti del tutto esteriori, facendo sparire così il sentimento religioso
profondo del divino, che non può essere vissuto se non soggettivamente
nell'interiorità di ciascuno.
Alle origini dello spirito del cristianesimo gli Ebrei hanno pensato Dio
contrapponendolo alla natura: Dio è tutto, l'uomo e la natura sono niente. Per tale
motivo gli Ebrei hanno scelto di vivere in inimicizia con la natura e in ostilità con gli
altri popoli. Il loro Dio è "geloso": ogni rapporto di amicizia con gli altri uomini è
giudicato in contrasto con il rapporto di fedeltà esclusiva dovuta al loro Dio,
implicando inoltre un'indebita commistione con gli dei di altri popoli. Il popolo
eletto è solo quello ebreo.
Gesù ha rifiutato, col suo avvento, la scelta esclusivista del suo popolo e ha
predicato la legge dell'amore universale. La figura di Gesù appare a Hegel
vicina al mondo greco, che ha fatto una scelta diametralmente opposta a quella
ebraica. I Greci hanno vissuto il loro rapporto con la natura in spirito di bellezza,
in sereno accordo con essa.
Tuttavia tanti i Greci quanto Gesù sono stati storicamente sconfitti. Le Chiese
moderne, anche quelle nate dalla riforma protestante, sono condannate perché
pensano di Dio come lo pensavano gli Ebrei. Occorre quindi una nuova religione e
un nuovo messaggio d'amore.
In seguito, peraltro, Hegel non si attende più che il rinnovamento dello spirito e dei
popoli nasca dalla religione, ma dall'evoluzione storica e dalla filosofia, in quanto
capace di pensare razionalmente il corso del mondo.

I presupposti della filosofia di Hegel.

Tre sono i presupposti, ossia le concezioni fondamentali, che stanno alla base della
filosofia di Hegel:
1. il carattere globale della realtà e la risoluzione (l'assorbimento) del finito
nell'infinito;
2. la dialettica, che è sia il metodo, la legge con cui spiegare la realtà, ma è
anche la struttura stessa della realtà, il modo in cui la realtà è costituita;
3. il principio dell'identità tra razionale e reale.

La realtà come totalità, come sistema globale. La risoluzione del finito


nell'infinito.

La realtà, afferma Hegel, non è fatta di sostanze (enti, cose) tra di esse distinte e
separate, ma è costituita dalla totalità degli enti, i quali tutti insieme costituiscono
un organismo ed un sistema globale unitario. Nessuna cosa è definibile e
conoscibile solo in se stessa bensì in relazione con tutte le altre cose e soprattutto
con il loro opposto. Ad esempio, il bene si definisce in contrapposizione al male; il
38

bello in opposizione al brutto; il giusto per differenza dall'ingiusto. Più in generale,


ogni ente è collegato almeno ad un altro e quest'altro ad altri ancora, cosicché, alla
fine, tutti gli enti, tutte le cose sono direttamente o indirettamente collegate fra loro:
il seme è collegato al fiore, il fiore al frutto, il frutto all'albero, l'albero alla terra, la
terra agli uomini che ci vivono, ogni uomo è collegato ai suoi genitori, ai parenti,
agli amici e ai conoscenti, ogni azione umana è collegata con quelle precedenti e con
quelle successive, eccetera. Consegue che gli enti finiti del mondo, della realtà,
sono fra di essi, direttamente o indirettamente, totalmente collegati. E poiché
ogni ente o categoria di enti è in particolare collegato col proprio opposto, deriva
che tutti gli enti finiti sono collegati con l'infinito: non è possibile definire ciò che
è finito se non si ha l'idea di infinito e viceversa. Pertanto finito e infinito
coincidono, nel senso che ogni ente finito quando cessa non scompare nel nulla ma
viene assorbito nell'infinito di cui fa parte. La coincidenza e l'unità di finito e infinito
non va intesa come un aggiungersi al finito dell'infinito, che di per sé sta al di là,
bensì nel senso che l'infinito assorbe, supera e annulla continuamente il finito entro
di sé nel movimento di sviluppo della realtà. Significa che la vera realtà è dunque
quella dell'infinito, chiamato anche "Spirito assoluto", poiché i vari enti finiti sono
soltanto manifestazioni e realizzazioni provvisorie dell'infinito. Il finito di per sé
non esiste, in quanto, essendo parte dell'infinito, esiste solo in collegamento con
l'infinito stesso; il finito come parte non può esistere se non in connessione col Tutto,
soltanto in rapporto al quale ha vita e senso: la realtà del finito è quella di diventare
infinito, di esserne assorbito, cosicché l'Assoluto è sia l'artefice ma anche il
contenuto, l'oggetto stesso del mondo. L'infinito è la Totalità che tutto contiene in
sé, ogni ente presente così come, altresì, l'intero passato e futuro, e che nulla ha
fuori di sé (se l'infinito è il Tutto, la Totalità, in esso sono quindi contenuti tutti gli
enti finiti, passati, presenti e futuri). "Il vero, dice Hegel, sta nell'intero", nella
globalità o totalità dell'infinito.
Ogni ente esistente, come pure ogni pensiero e sapere, è parte dell'infinito di cui
è provvisoria manifestazione. Infatti la realtà, quella autentica e cioè l'infinito, lo
Spirito assoluto, non è una sostanza statica e immutabile, quale è stata concepita ad
esempio da Spinoza, ma è attività, continuo movimento e processo mediante il
quale lo Spirito realizza progressivamente se stesso, trasformando ed
assorbendo continuamente in sé gli enti finiti.
Tuttavia la comprensione dell'infinito, ossia la comprensione che tutti gli enti finiti
sono prodotti, sviluppati e quindi assorbiti dall'unico e medesimo Spirito assoluto,
principio e causa prima della realtà, non si raggiunge, obietta Hegel, in modo
immediato, ossia per intuizione diretta, come perlopiù ingenuamente ritenuto
secondo la sensibilità romantica, ma solo gradualmente e passando attraverso
tutti gli stadi, le fasi e le tappe, mediante i quali gradatamente lo Spirito assoluto
si realizza nel mondo e col mondo. L'Assoluto come puro spirito è indeterminato
e quindi non si può distinguere se non assume specifiche determinazioni e
caratteristiche che, in via preliminare, devono essere singolarmente e
consecutivamente conosciute. In quanto movimento e attività che perpetuamente dà
luogo alla realtà, lo spirito produce il finito, il determinato, ma poi nel suo incessante
39

moto lo supera producendo una nuova determinazione, una nuova entità. Ogni ente è
così solo un momento, una tappa della totalità della realtà e del suo sviluppo. Per ciò
stesso, appunto, l'ente finito di per sé non esiste, è provvisorio, instabile, giacché è
continuamente trasformato nel corso dell'ininterrotto processo di produzione della
realtà nella quale lo Spirito assoluto progressivamente si manifesta.
Anche per Hegel, come per i filosofi dell'idealismo tedesco in generale, lo Spirito
assoluto infinito non è trascendente bensì immanente nel mondo: è, si può dire, lo
Spirito dell'umanità, il suo sapere ed il suo fare complessivi; è l'Intelligenza
complessiva che sta dentro il mondo e ne guida lo sviluppo per realizzare in tal modo
anche se stessa.
Se la realtà vera è l'intero, la totalità, l'unione di finito e infinito, allora la filosofia
non deve occuparsi di aspetti particolari ma deve essere un sistema globale,
capace di ricomprendere ogni aspetto, finito e infinito, della realtà. Quindi i
fenomeni contingenti (che possono o non possono sussistere o accadere) e
accidentali (secondari) non possono essere oggetto della filosofia, essendo solo
illusione e apparenza, fugace caducità. La filosofia deve invece giungere a
comprendere ciò che è essenziale, fondamentale; deve saper cogliere l'assoluto,
ciò che è sostanziale, immutabile ed eterno quale viene a manifestarsi, attraverso una
serie infinita di forme e di gradi, in ciò che è temporale e transitorio. Ossia deve
comprendere che il fondamento e il principio della realtà è lo Spirito assoluto,
che è attività incessante che si realizza e si manifesta producendo, trasformando ed
assorbendo continuamente in sé gli enti finiti, tutti collegati fra di essi e tutti
partecipi dello Spirito assoluto medesimo.
Per Hegel quindi l'infinito (lo Spirito assoluto) non è inconoscibile come per Kant,
ma anzi è l'unica autentica realtà che la ragione, cioè la filosofia, è in grado di
cogliere. Sappiamo che per Kant, invece, la facoltà che presiede la conoscenza è
l'intelletto e non la ragione perché essa pretende di andare oltre la conoscenza
fenomenica per cogliere le realtà assolute e l'infinito. La logica kantiana
dell'intelletto, ovvero il suo modo di procedere, consiste nell'applicazione delle
categorie ai dati sensibili per giungere discorsivamente, cioè in modo graduale ma
progressivo, mai comunque totale e definitivo, ad allargare sempre di più le
conoscenze fenomeniche e i concetti appresi, singolarmente e separatamente
considerati. Tale logica, secondo Hegel, ha valore negativo a causa del carattere
rigido, isolato e separato dei concetti, inadeguati in quanto tali ad esprimere la
totalità e l'essenza infinita della realtà. Convinto, contrariamente a Kant, che la
ragione sia in grado di conoscere scientificamente l'Assoluto, cioè la totalità del
reale, per Hegel allora la filosofia non può che avere la forma del sistema, ossia di
una trattazione globale in tutte le sue articolazioni.
In tal senso Hegel critica le filosofie precedenti.
Critica l'Illuminismo e il razionalismo di Kant, perché basano la conoscenza non
sulla ragione ma sull'intelletto, il quale però non coglie, non riesce a comprendere la
totalità infinita della realtà, la coincidenza e l'unità del finito con l'infinito, in quanto
l'intelletto procede per concetti rigidi, che distinguono e separano gli enti finiti, i
fenomeni, e non si accorge che essi sono invece tutti collegati fra loro e sono infine
40

collegati con l'infinito. Solo quella dell’Assoluto, della Totalità, è per Hegel la
realtà autentica (e non la semplice realtà fenomenica come per Kant): niente vi è al
di fuori di essa e della coscienza assoluta. La filosofia illuministica e kantiana è
valutata come filosofia del finito mentre quella di Hegel vuole essere filosofia
dell'infinito.
Critica anche i romantici, i quali hanno sì avvertito l'esigenza di pensare la realtà
come assoluta, come totalità e quindi come infinita, ma però hanno ingenuamente
ritenuto di poter cogliere l'infinito per intuizione immediata, in un colpo solo, e non
gradualmente, seguendo passo per passo tutte le tappe attraverso cui l'infinito, lo
Spirito assoluto, si manifesta e si realizza.
Accusa Fichte perché concepisce l'infinito come méta ideale, come limite al quale
progressivamente ci si avvicina sempre di più però senza mai raggiungerlo e
coglierlo pienamente. In particolare, dice Hegel, Fichte non ha capito l'unità che
sussiste tra finito e infinito; non ha capito che l'infinito non è al di là, oltre il finito,
ma che invece è quella totalità nella quale stanno anche gli enti finiti, i quali sono
continuamente in essa assorbiti. Perciò, commenta Hegel, quello di Fichte è un
"cattivo infinito".
Critica altresì Schelling, perché ha concepito l'infinito (l'Assoluto) come unità
indifferenziata di spirito e natura, di ideale e reale, di soggetto e oggetto, per cui non
si capisce come da questa unità indifferenziata possano derivare gli enti finiti, cioè le
cose del mondo che sono invece molteplici e fra di esse differenziate. L'Assoluto
indifferenziato di Schelling, dice Hegel, è un concetto oscuro, buio come la notte,
nella quale "tutte le vacche sono nere" e non cosente, perciò, di cogliere le
differenze. Anche Schelling non ha capito che l'unità di fondo della realtà non è tra
spirito e natura ma tra finito e infinito e che questa unità va individuata nei singoli
enti finiti in cui l'infinito si manifesta e si realizza e che continuamente riassorbe in
sé. Per Hegel il vero, cioè la realtà autentica, il fondamento, non è l'Assoluto in
sé, tantomeno quello indifferenziato di Schelling, ma è l'Assoluto nel suo divenire,
nel suo sviluppo. Affermare che il vero è l'intero, che cioè la realtà va considerata nel
suo sviluppo, significa allora che l'Assoluto è il risultato e non il principio di tale
sviluppo. In tal senso l'Assoluto non è unità indifferenziata, al contrario contiene in
sé tutto le differenze, cioè tutte le serie dei singoli eventi e delle singole cose
concrete e particolari attraverso cui l'intera realtà si è sviluppata e viene a
svilupparsi. L'assoluto indifferente di Schelling invece, obietta Hegel, annulla le
determinazioni (le specifiche differenze) e la ricchezza della realtà. Per conoscere lo
Spirito assoluto è dunque necessario procedere per gradi, seguendo i successivi
passaggi e momenti in cui lo Spirito, l'infinito, si realizza sempre di più producendo
gli enti finiti e riassorbendoli in sé: a tale scopo è necessario un metodo conoscitivo
e questo metodo è la dialettica.
41

Il metodo e il processo dialettico.

Tradizionalmente la dialettica è stata intesa come arte del ragionamento tramite


l'intelletto, come metodo per giungere alla conoscenza attraverso la deduzione e
l'induzione. Ma tale modo di intendere la dialettica presuppone di considerare gli
enti (le cose) della realtà come statici. L'intelletto infatti, in base al principio di
identità e di non contraddizione, procede per astrazioni e per connessioni (di causa-
effetto o di relazione) successive una all'altra, creando definizioni, cioè concetti
rigidi e fissi per ogni ente, concepito staticamente e separatamente da ogni altro.
Però, come già sottolineato, per Hegel l'intelletto non è la principale facoltà
conoscitiva, bensì è la ragione. È la ragione che per Hegel sa andare oltre i
singoli concetti rigidi e isolati e sa comprendere che la vera realtà è divenire, è
movimento e sviluppo continuo, in cui tutti gli enti sono collegati ed in relazione.
Hegel prende atto altresì che il divenire (lo sviluppo) della realtà non è caotico e
disordinato, ma segue determinate regole nel processo di trasformazione dei vari
enti, destinati a diventare qualcosa d'altro (ad esempio, il seme diventa fiore e poi
frutto). Se ogni cosa è destinata a diventare qualche altra cosa diversa, si può
anche dire che ogni cosa è dunque destinata a negare se stessa, ad opporsi a sé,
ad uscire fuori di sé per diventare qualche cosa d'altro (il seme, diventando fiore,
nega se stesso come seme, esce fuori di sé e diventa un'altra cosa): questa è la
dialettica. La dialettica, cioè, è il processo, il modo in cui tutta la realtà diviene,
ossia si trasforma e si sviluppa continuamente. L'Assoluto per Hegel è
fondamentalmente divenire, sviluppo della realtà e la legge che regola tale divenire è
la dialettica: il processo dialettico è il metodo per superare la rigidità dei concetti
posti dall'intelletto.
Hegel individua tre momenti nello sviluppo di tale processo:
1. ogni ente si presenta dapprima in se stesso, si dice che "pone se stesso" (ad
esempio, il seme si presenta come tale, si pone come seme); questo primo
momento della dialettica è chiamato "tesi";
2. ogni ente poi nega se stesso, si oppone a sé, esce fuori di sé per diventare
qualcosa d'altro (il seme, prima di diventare fiore, deve negare se stesso come
seme, deve uscire fuori di sé); questo secondo momento della dialettica è
chiamato "antitesi";
3. infine, dall'unione degli opposti, cioè dall'unione fra tesi e antitesi, emerge
una nuova cosa, un nuovo ente; questo terzo momento della dialettica è
chiamato "sintesi".
Quindi la dialettica è il processo, lo sviluppo della realtà che avviene in tre
momenti, la tesi, antitesi e la sintesi, chiamati anche triade o serie triadica o
schema triadico.
In particolare, dal punto di vista logico-gnoseologico (conoscitivo):
1. la tesi è il momento intellettuale: una certa cosa si presenta davanti
all'intelletto, si "pone" davanti all'intelletto, il quale la definisce in se stessa, la
riferisce cioè ad un concetto fisso, separatamente dalle altre cose e dagli altri
concetti;
42

2. l'antitesi è il momento negativo: ogni cosa individuata e definita dall'intelletto


(ossia gli stati delle singole cose, dei singoli enti quali individuati e definiti
dall'intelletto, che sono tecnicamente chiamati "determinazioni") è messa in
relazione con le altre e specialmente con quella opposta, venendo così negata
e superata;
3. la sintesi produce un nuovo ente, una nuova cosa, come risultato dell'unione,
della combinazione fra tesi e antitesi. Grazie alla sintesi ci si rende conto che
le singole cose (le singole determinazioni) non sono rinchiuse ed isolate in se
stesse ma che sono aspetti e fanno parte di una realtà più ampia a cui la sintesi
giunge unificando e sintetizzando gli opposti (tesi e antitesi) in una nuova e
superiore entità, in una nuova cosa o determinazione.
Ogni sintesi poi diventa a sua volta una nuova tesi a cui si contrappone una
nuova antitesi; dall'unione fra la nuova tesi e la nuova antitesi deriva una
nuova sintesi e, così via, il processo dialettico triadico continua, per cui si
realizzano sintesi di grado sempre più elevato, che unificano (collegano) un
numero sempre maggiore di enti, fino a quella sintesi che unifica, che collega
fra di loro tutti gli enti finiti e fino alla successiva sintesi suprema che collega il
finito con l'infinito, mostrando che il finito (gli enti finiti) fa parte dell'infinito.
La tesi l'antitesi e non hanno in se stesse realtà concreta (non sono enti reali che
si vedono e si toccano); sono soltanto momenti, passaggi logici astratti. Nella
realtà concreta ci sono solo le singole sintesi ed il passaggio da una sintesi ad
un'altra.
La dialettica ci fa comprendere due cose:
1. che gli enti della realtà non sono statici ed isolati ma sono in continuo
movimento, si trasformano continuamente e sono tutti collegati fra di essi;
2. che il divenire (lo sviluppo) della realtà avviene secondo una legge precisa,
cioè secondo i tre successivi momenti della tesi, dell'antitesi della sintesi.
Allora la dialettica non è soltanto il metodo con cui conoscere la realtà, ma essa
corrisponde ed indica contemporaneamente la struttura stessa della realtà
(come la realtà è fatta), che è continuo divenire, continua trasformazione e continuo
sviluppo delle cose.
La dialettica, come legge di sviluppo della realtà e come metodo di conoscenza
della realtà, non riguarda solo la realtà naturale (la natura), ma anche la realtà
storica (la storia umana) ed altresì quella del pensiero (i modi in cui il pensiero si
sviluppa e si arricchisce).
Ma se la dialettica è processo continuo, continuo sviluppo della realtà, essa
procede all'infinito o ha un termine? Per Hegel il movimento, il processo
dialettico della realtà non procede infinitamente perché allora l'infinito sarebbe un
punto limite al quale, come per Fichte, ci si avvicina sempre di più ma che non si
raggiunge mai. Per Hegel il processo dialettico ha invece un andamento circolare, o
a spirale, per cui, quando si giunge alla sintesi suprema che unifica (collega) il finito
con l'infinito, il processo termina e ricomincia da capo ad un livello superiore.
43

E poiché la dialettica, nella sintesi, unifica e concilia gli opposti, ed è destinata a


svilupparsi fino a collegare il finito con l'infinito, essa rappresenta allora una
visione ottimistica che Hegel ha della realtà.

L'identità di razionale e reale.

È il terzo presupposto della filosofia di Hegel che egli esprime con la celebre frase:
"Tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale".
Questa espressione non significa semplicemente che la realtà può essere spiegata
con la ragione ma significa molto di più: ossia che la ragione non è solo una
facoltà conoscitiva con la quale si cerca di comprendere la realtà, ma che è altresì
l'essenza della realtà, cioè la forma stessa della realtà, la struttura della realtà.
Ciò vuol dire che la realtà, quale essa è, è proprio come dovrebbe essere: non vi
è differenza fra essere e dover essere della realtà. Perciò, conclude Hegel, la
realtà va compresa così come è e non servono né le arti né i sentimenti né le morali
che ci dicano come invece la realtà dovrebbe essere.
Pertanto il compito della filosofia non è di cambiare e trasformare la realtà, il
mondo, bensì di comprenderlo nella sua razionalità di fondo. Anzi, afferma Hegel,
la filosofia arriva sempre troppo tardi, quando ormai la realtà è già compiuta,
per cui non resta che prenderne atto. Dice Hegel con un paragone famoso, "La
filosofia è come la nottola (la civetta) di Minerva che si alza in volo la sera,
quando la giornata è ormai finita".
Affermando che il reale è sempre razionale, la filosofia di Hegel può apparire
come una giustificazione di fatto, programmatica, della realtà, anche negli
aspetti più crudeli, dolorosi e ingiusti. In tal senso è stato anche criticato ed
accusato di essere un conservatore, giustificando ogni aspetto della realtà.
Bisogna tuttavia precisare che per Hegel non tutti gli aspetti della realtà sono da
accettare e da giustificare. I fatti accidentali e contingenti non rientrano nel
principio dell'identità tra razionale e reale, non rientrano nella razionalità perché
tali fatti non modificano la struttura di fondo della realtà. La struttura di fondo della
realtà è invece costituita dalla sua essenza di fondo, dal suo processo dialettico di
sviluppo nonché dai suoi aspetti logici e sostanziali costitutivi: sono questi gli
elementi che Hegel identifica come sempre razionali (ad esempio le istituzioni
sociali, lo Stato, ecc.), mentre i fatti accidentali e contingenti possono benissimo
essere anche irrazionali.

I due modi hegeliani di descrizione della realtà.

Hegel è consapevole che la conoscenza non può partire dall'Assoluto, dalla causa e
principio primo, in quanto non è immediatamente conoscibile; alla conoscenza
dell'Assoluto si deve giungere invece gradatamente, partendo dalle conoscenze più
immediate, finite e particolari.
44

I fondamentali aspetti della realtà, vale a dire quelli della globalità del reale,
dell'unità e coincidenza tra finito e infinito, della struttura e dello sviluppo dialettico
della realtà, dell'identità di razionale e reale, sono descritti da Hegel in due modi:
1. Come storia romanzata dello sviluppo (del cammino) della coscienza e
della conoscenza umana, che attraverso tappe successive, chiamate anche
"figure", da coscienza individuale primitiva ed empirica giunge a diventare
autocoscienza e poi ragione, cioè coscienza assoluta, la quale arriva a
comprendere che la realtà non è fatta di enti fra di essi separati ed esterni alla
coscienza, ma che sono invece tutti collegati in un'unica totalità, non estranea
ma interna alla coscienza stessa, nel senso che la realtà e gli enti della realtà
non sono veramente qualcosa d'altro (antitesi) rispetto alla coscienza bensì
(nella sintesi) sono sue manifestazioni e realizzazioni, sono un suo prodotto
(non esiste alcuna realtà al di fuori della coscienza; ogni cosa esiste solo se è
pensata e presente nella coscienza); questo primo modo di descrivere la
realtà è quello che Hegel ha seguito nell'opera "La fenomenologia dello
spirito".
2. Come descrizione e rappresentazione sistematica, articolata in tutte le sue
parti, della complessiva struttura della realtà, costituita da successivi
schemi triadici (viene cioè descritta la struttura della realtà secondo le
fondamentali e principali successioni di tesi, antitesi e sintesi conseguenti una
all'altra); questo secondo modo di descrivere la realtà è quello che Hegel ha
seguito nell'opera "L'enciclopedia delle scienze filosofiche".
Il primo modo è di tipo storico: Hegel descrive la storia, lo sviluppo storico della
coscienza e della conoscenza umana; il secondo modo è di tipo sistematico: Hegel
descrive il sistema complessivo, cioè la complessiva struttura secondo cui la realtà è
costituita.
45

La fenomenologia dello spirito.

Fenomenologia dello spirito significa letteralmente lo studio dei modi e dei


fenomeni attraverso cui, dialetticamente, lo Spirito assoluto è venuto a manifestarsi
alla coscienza e a realizzarsi nel corso della storia umana e lungo lo sviluppo della
conoscenza umana. Il termine "fenomenologia" significa infatti manifestazione.
La triade iniziale è costituita dalla coscienza, tesi, dall’autocoscienza, antitesi, e
dalla ragione, sintesi.
1) Punto di partenza della Fenomenologia dello spirito è la coscienza, che Hegel
colloca come tesi iniziale. La coscienza, come nella Fenomenologia è chiamato lo
Spirito o l'Idea, è la prima evidenza, la prima certezza. Agli inizi della sua storia e
della sua evoluzione, così come agli inizi dell'esistenza individuale, la coscienza è
primitiva, rozza, fatta soprattutto di sensazioni superficiali e non ancora capace di
riflessione. È una coscienza confusa, percepisce che c'è un mondo, che ci sono
delle cose che le appaiono esterne a se stessa, ma che non sa ancora conoscere
in modo chiaro e sulle quali non sa ancora riflettere, così come non sa ancora
riflettere su se stessa e diventare quindi autocoscienza. L'attenzione della
coscienza primitiva è rivolta essenzialmente verso le cose sensibili, verso i
fenomeni naturali.
2) Un po' alla volta, nel corso della sua storia, la coscienza impara a conoscere i
fenomeni e, come ha spiegato Kant, impara che essa sa conoscere i fenomeni
grazie al modo di funzionare dell'intelletto, che classifica ed organizza i fenomeni (i
dati sensibili, le sensazioni) trasformandoli in concetti. La coscienza impara
quindi a riflettere su se stessa, sulle sue facoltà conoscitive e diventa allora
autocoscienza. L'autocoscienza è l'antitesi della coscienza perché, mentre la
coscienza (primitiva) è interessata soprattutto alle cose sensibili, l'autocoscienza è
invece interessata a conoscere se stessa e le coscienze degli altri uomini. L'interesse
principale quindi non è più verso la natura, verso il mondo naturale, ma verso gli
uomini, verso la società e la storia umana.
3) Quando infine l'autocoscienza giunge a concepire l'infinito, cioè si rende
conto di saper pensare l'infinito, e poi comprende l'unità di finito e infinito e
comprende che tutta la realtà (la totalità) è dentro di sé, è cioè una sua
manifestazione, è il suo modo di realizzarsi, allora l'autocoscienza diventa ragione,
cioè coscienza assoluta, che è la sintesi di coscienza e a autocoscienza.
Qui si chiude la prima parte della Fenomenologia dello spirito, nella quale la
coscienza, l'autocoscienza e la ragione prese in considerazione sono ancora
quelle individuali.
Coscienza, autocoscienza e ragione sono la tesi, l'antitesi e la sintesi
fondamentali, ma ognuna di esse si sviluppa in molteplici serie triadiche
particolari, cioè in molteplici tappe lungo tutto lo sviluppo storico della
coscienza. Le tappe dello sviluppo storico della conoscenza sono chiamate da
Hegel anche "figure".
Esaminiamo brevemente, di seguito, le principali serie triadiche in cui la
Fenomenologia dello spirito è articolata.
46

La coscienza si sviluppa a sua volta secondo la seguente serie triadica:


1. la sensazione, tesi, che è la generale capacità di percepire;
2. la percezione, antitesi, per cui l'oggetto è percepito con molte proprietà
(grande, piccolo, duro, morbido, eccetera) ma confuse tra di esse; appare
come molte cose una sull'altra;
3. l'intelletto, sintesi, che organizza tutte le proprietà dell'oggetto percepito in
modo unitario; in questa tappa l'oggetto è percepito e conosciuto solo come
fenomeno e non come cosa in sé, tuttavia riconoscendo che l'unificazione
delle proprietà dell'oggetto è opera sua, allora l'intelletto riflette su di sé e
diventa autocoscienza.
La serie triadica di sviluppo dell'autocoscienza è la seguente:
1. l’autocoscieza, cioè la coscienza di sé e dell'altro, in particolare degli altri
uomini, delle altre coscienze, è la tesi: non avviene in base ad un sentimento
di amore e di fratellanza, ma gli altri sono inizialmente percepiti in
contrapposizione a sé, considerati come esseri che minacciano la supremazia
individuale; in questa tappa si ha la celebre figura del "rapporto servo-
padrone";
2. la liberazione della coscienza dalla dipendenza dalle cose sensibili e
materiali è l’antitesi; tale fase si sviluppa attraverso un’ulteriore serie
triadica: lo stoicismo, tesi, che cerca la virtù in luogo del piacere materiale,
perseguendo uno scopo di autosufficienza e libertà; ma si tratta di una libertà
interiore, astratta, perché la natura seguita ad essere concepita come realtà
esterna indipendente, rimanendone di conseguenza condizionati; lo
scetticismo, antitesi, per cui niente è certo, neppure la virtù; la coscienza
infelice, sintesi, altra celebre figura, che esprime il contrasto sentito tra
l’infinito (Dio) da una parte ed il finito (l'uomo) dall'altra;
3. l’autonomia e l’indipendenza della coscienza è la sintesi: l'aspirazione
inappagata verso l'infinito e verso Dio (ascetismo) consente alla coscienza di
riconoscere tuttavia il suo valore poiché è in grado di concepire l'infinito
indipendentemente dalla sua subordinazione a Dio; tale tappa è storicamente
rappresentata dall'avvento dell'Umanesimo e del Rinascimento, che
attribuiscono all'uomo dignità in se stesso e non più solo in quanto creatura di
Dio.
La ragione infine ha il seguente sviluppo triadico:
1. ragione osservativa, tesi: osserva e studia la natura e comprende che essa è
razionale e comprensibile (naturalismo rinascimentale);
2. ragione attiva, antitesi: comprende che l'unità di soggetto e oggetto, cioè di
uomo e natura, non è una cosa data ma da realizzare; agisce sulla natura per
trasformarla e utilizzarla (rivoluzione scientifica); delusa dalla scienza cerca
poi il piacere (materialismo), che delude anch'esso; cerca allora la virtù e il
benessere sociale, la solidarietà e la fratellanza umana uscendo dagli egoismi
individuali; ma ciò che è bene è giudicato in modo ancor individualista,
diverso da persona a persona (Romanticismo);
47

3. ragione in sé e per sé, sintesi: scopre l'armonia e l'unità fra uomo e natura e
scopre le leggi dialettiche della realtà; scopre che la coscienza è artefice,
contenitore e contenuto di tutta la realtà, in quanto niente esiste al di fuori
della coscienza stessa; realizza in tal modo l'unità tra finito e infinito e diventa
coscienza assoluta assumendo in sé ogni realtà; rimane tuttavia una coscienza
individuale e perciò inadeguata, che non riesce ad uscire da se stessa e
diventare oggettiva, cioè coscienza sociale, collettiva.
Nella prima parte della Fenomenologia la coscienza, ancorché divenuta
ragione, seguita ad esprimere punti di vista sulla realtà che rimangono
prevalentemente individuali, quindi relativi e non ancora universali, oggettivi.
Se ci si pone dal punto di vista dell'individuo si è inevitabilmente condannati a non
raggiungere mai l'universale; esso si trova solo nella fase dello "spirito", cioè in
quella che, nella Enciclopedia delle scienze filosofiche, Hegel e nominerà "Spirito
oggettivo", intendendo che la ragione si realizza concretamente nelle istituzioni
storico-politiche di un popolo e soprattutto nello Stato. La ragione autentica non è
per Hegel quella dell'individuo, ma quella dello spirito oggettivo, in particolare
dello Stato, che dello spirito oggettivo è la più alta manifestazione storica.
L'oggettivazione della coscienza, ossia il passaggio da coscienza individuale a
coscienza collettiva, viene descritto nella seconda parte della Fenomenologia
dello spirito, in base alla triade fondamentale: 1) spirito, tesi (coscienza sociale,
collettiva, che si identifica quindi con la storia dell'umanità); 2) religione, antitesi; 3)
sapere assoluto. L'oggettivazione della coscienza ed il suo successivo divenire
coscienza e conoscenza dell'Assoluto è peraltro meglio descritto nella
Enciclopedia delle scienze filosofiche, alla cui relativa esposizione si fa pertanto
rinvio.
Per una configurazione schematica generale delle fasi o figure in cui si svolgono le
principali serie triadiche di tesi, antitesi e sintesi, attraverso le quali procede la storia
della coscienza e della conoscenza umana, si può ricorrere ad un qualsiasi manuale
scolastico.
Le più importanti e famose figure della Fenomenologia dello spirito sono, come
preannunciato, quelle del "rapporto servo-padrone" e della "coscienza infelice".
Entrambe sono tappe dello sviluppo dell'autocoscienza.

La figura del "rapporto servo-padrone".

Si è visto che, allorquando la coscienza diventa consapevole di sé e degli altri, ossia


delle altre coscienze, vale a dire degli altri uomini, li concepisce inizialmente come
una minaccia contro la propria volontà di prevalere, per cui si instaura uno stato di
conflitto e di contrapposizione. Tale stato di iniziale conflitto tra sé e gli altri è
simboleggiato dalla figura del "rapporto servo-padrone". Questo rapporto
caratterizza la società del mondo antico. Nella lotta primitiva per la sopravvivenza
e la supremazia, il padrone è colui che è riuscito ad imporsi. Il servo, per paura di
essere ucciso, si sottomette al padrone e ne diventa schiavo in cambio della
48

protezione della vita. Il servo si riconosce (autocoscienza) come dipendente dal


padrone, ma anche il padrone si riconosce (autocoscienza) come dipendente dal servo
dal cui lavoro è mantenuto. Attraverso il lavoro, poi, il servo acquista consapevolezza
e si rende conto del suo valore e quindi si emancipa, diventa indipendente, mentre il
padrone, dipendendo dal lavoro del servo, perde sempre più la propria autonomia e
superiorità. Il rapporto così si capovolge: il servo diventa padrone e il padrone
diventa servo.
Va precisato che dal punto di vista oggettivo ed esteriore il padrone seguita a
rimanere tale così come il servo; ciò che nel rapporto si modifica e si capovolge è
piuttosto la coscienza, la consapevolezza soggettiva interiore relativamente al
rapporto stesso: è un “sentirsi”, più che un essere, emancipato da parte del servo ed è
un “sentirsi” dipendente e condizionato dal servo per quanto concerne il padrone.
Questa figura ha esercitato una grande influenza sulla filosofia di Marx con riguardo
alla sua concezione circa il valore del lavoro e della lotta di classe.

La coscienza infelice.

Quando nel prosieguo del suo cammino storico la coscienza giunge a concepire
l'infinito, che identifica in Dio, si rende conto che essa è invece finita, mortale e
imperfetta. Aspira all'infinito ma sente che ciò è impossibile. La coscienza avverte
che c'è un insuperabile contrasto tra Dio, infinito, ed essa stessa, finita ed imperfetta.
È questa la figura della "coscienza infelice": è infelice perché si sente limitata,
inadeguata, imperfetta. Questa figura caratterizza in particolare il mondo
medievale, in cui l'uomo è considerato un peccatore che deve espiare i propri peccati
nella fatica e nella sofferenza in questa terra, concepita come una "valle di lacrime".
Ma, si può dire, la coscienza infelice simboleggia e riassume il senso di tutta la
Fenomenologia dello spirito: è infelice perché nella maggior parte dei casi, ed
ancor oggi, la coscienza non è capace di diventare ragione; si sente limitata e non
sa ancora comprendere di essere tutta la realtà e di coincidere quindi con Dio e con
l'infinito. Solo la coscienza di chi sa pensare filosoficamente può diventare
ragione e comprendere di essere stessa, come Spirito dell'umanità, la vera realtà
infinita.
Mentre la figura del servo-padrone ha particolarmente ispirato la filosofia di Marx e
dei marxisti, la figura della coscienza infelice ha soprattutto ispirato gli esistenzialisti
e la loro filosofia (l'esistenzialismo), volta a riflettere sulla condizione finita e limitata
dell'esistenza umana.
49

L'Enciclopedia delle scienze filosofiche.

In quest'opera viene descritto il sistema dialettico generale di Hegel. Come si è detto,


per Hegel la filosofia deve essere un sistema globale di spiegazione della totalità della
realtà e non limitarsi ad aspetti particolari. La filosofia deve spiegare la completa e
sistematica costituzione della realtà in tutte le sue articolazioni, in tutte le sue
parti. In questo senso, la stessa "Fenomenologia dello spirito" è parte del
sistema generale della realtà, di cui può essere considerata un'introduzione.
La "Fenomenologia" riguarda figure, cioè tappe, fasi storiche e culturali di sviluppo
della coscienza; "l'Enciclopedia delle scienze filosofiche" riguarda appunto la
descrizione della struttura dialettica complessiva della realtà, che coincide con la
razionalità.

La triade di base dell'Enciclopedia è costituita:


1. dall'Idea in sé, tesi, che è studiata dalla logica;
2. dall'Idea fuori di sé, antitesi, che è studiata dalla filosofia della natura;
3. dall'Idea che ritorna in sé e si fa Spirito, sintesi, che è studiata dalla
filosofia dello Spirito.
Questi tre momenti non sono da intendersi in senso cronologico ma concettuale,
ideale; sono tre diversi punti di vista che riguardano tuttavia la medesima realtà.
Come sappiamo, per Hegel ciò che esiste concretamente nella realtà sono soltanto le
sintesi, ovvero soltanto la serie delle diverse sintesi, fino alla sintesi suprema che è
appunto lo Spirito, ossia l'Idea che ritorna in sé, mentre la tesi e l'antitesi sono solo
momenti logici e presupposti astratti del processo dialettico della realtà.
La sintesi, ossia l'insieme di questi tre momenti costituisce l'Assoluto, cioè la
totalità della realtà.

1) Il punto di partenza della dialettica (o del processo dialettico) dell'Enciclopedia,


cioè la prima tesi, è il presentarsi, ossia il "porsi" del pensiero, della facoltà di
pensare, che Hegel chiama l'Idea in sé: prima di tutto, ancor prima della realtà, c'è il
pensiero, la capacità di pensare, cioè l'Intelligenza, lo Spirito che è dentro il mondo, il
quale dapprima pensa e progetta il mondo e poi lo realizza come sua manifestazione
secondo il proprio progetto. Qui Idea significa razionalità, ossia ciò che rimane di
eterno, sostanziale e immutabile pur nel divenire e continuo trasformarsi degli
enti finiti; l'Idea è il "logos", quindi è il momento della logica con i suoi
fondamentali principi di identità e di non contraddizione. L'Idea in sé è il mondo delle
idee, degli intellegibili (dei concetti). Con una frase suggestiva, Hegel dice che l'Idea
in sé "è Dio (l'Assoluto) prima della creazione", come egli è nella sua eterna
essenza, prima della creazione della natura e di uno spirito finito (l'uomo).
Dio, l'Idea, è insomma l'impalcatura logica del mondo. Essa costituisce una sorta di
progetto: il mondo pensato prima della sua realizzazione. E questo progetto, in
quanto tale, prima di diventare realtà ha un proprio sviluppo che ne determina tutte
le articolazioni interne, le quali si traducono nelle strutture ideali del reale. La
logica, scienza del pensiero, è in Hegel lo studio del definirsi dell'Idea che diverrà
50

mondo, per cui tutti i momenti della logica sono anche elementi della metafisica
dell'ontologia.
2) Ma l'Idea in sé, cioè la pura capacità di pensare, essendo attività deve poter agire,
deve cioè pensare qualcosa, ossia opporre a se stessa qualcosa di diverso da sé per
farne oggetto del proprio pensiero. Si ha così la fondamentale antitesi che è l'Idea
fuori di sé, la quale produce e si manifesta nella natura, fatta oggetto del suo
pensiero. L'Idea produce il mondo acquisendone coscienza. Il mondo dunque sta
sempre dentro la coscienza, quindi non è realtà autentica ma apparenza, è ciò che
appare alla coscienza ed è da essa prodotto ("prodotto", si rammenta, da intendersi in
senso figurato più che materiale).
3) Quando infine l'Idea si accorge che la natura non è veramente qualcosa di diverso e
di distinto da se stessa, ma costituisce invece insieme con essa una totalità infinita, si
giunge alla sintesi suprema che è l'Idea che ritorna a sé: l'idea, dopo essere uscita
fuori di sé nella natura, negli enti finiti, ritorna a se stessa come coscienza e spirito
dell'umanità: dapprima nello Spirito soggettivo, cioè la coscienza individuale; poi
nello Spirito oggettivo, cioè la coscienza collettiva, che si realizza nella società e
nella storia umana e soprattutto nello Stato; infine diventa Spirito assoluto, che
contiene in sé tutta la realtà, scoprendo che tutti gli enti finiti, quelli della natura ma
anche della storia, del pensiero e della conoscenza umana, sono collegati tra loro e
con l'infinito stesso di cui fanno parte. A questo punto il processo dialettico termina
per ricominciare da capo ad un livello superiore.
L'idea in sé, l'idea fuori di sé e l'idea che ritorna a sé sono, rispettivamente, la
tesi, l'antitesi e la sintesi fondamentali, quelle di base, ma ognuna si suddivide a
sua volta in innumerevoli tesi, antitesi e sintesi particolari.

L'Idea in sé: la logica.

Costituisce il processo dialettico attraverso cui si sviluppa il pensiero, studiato


dalla logica.
La logica di Hegel si differenzia in modo marcato dalle logiche precedenti, sottoposte
critica.
Il primo tipo di logica criticata è quella del pensiero comune, definito ingenuo
perché ritiene che da una parte vi sia il pensiero, la mente, e dall'altra parte la realtà
(le cose della realtà) indipendente dal pensiero, dalla mente, mentre, come sappiamo,
per Hegel, come per l'idealismo in genere, non esiste una realtà esterna e
indipendente dal pensiero, dalla mente, bensì la realtà è solo quella pensata e
presente nella coscienza. Questo primo tipo di logica criticata è quello della
metafisica antica, che considera le determinazioni del pensiero come corrispondenti
alle determinazione della realtà delle cose, considera cioè che vi sia corrispondenza,
e non identità, tra pensiero e realtà.
Il secondo tipo di logica criticata è quella dell'empirismo e del criticismo (della
filosofia critica) di Kant. All'empirismo Hegel rimprovera che, avendo basato il
punto di partenza della conoscenza sulle sensazioni e percezioni soggettive, giunge in
tal modo allo scetticismo (con Hume). A Kant e al criticismo kantiano, che costituisce
51

uno svolgimento più profondo dell'empirismo, rimprovera che, dopo aver fatto
dell'Io-penso (la coscienza) il legislatore della natura, lascia tuttavia sussistere sullo
sfondo il mistero della cosa in sé, ritenuta inconoscibile. La logica inoltre non ha per
Hegel una funzione critica, cioè di analisi, come in Kant, ossia non è un metodo
bensì è scienza e conoscenza dell'Assoluto.
Il terzo tipo di logica criticata è quella della filosofia della fede (il fideismo
romantico) che ha il merito, contro ogni scetticismo, di "saltare dal pensiero
all'essere", cioè di voler cogliere e comprendere l'essenza infinita di fondo della
realtà, ma ha il demerito di ritenere che ciò sia possibile per intuizioni immediata, in
un colpo solo, mediante il sentimento o la fede. Per Hegel invece, come si è visto,
l'infinito è colto dalla ragione non per intuizioni immediata ma solo gradualmente,
ripercorrendo tutti i passaggi, ogni singola manifestazione con cui lo Spirito si
realizza nel mondo e nella storia umana. Inoltre, per Hegel il pensiero non è distinto
dalle cose ma si identifica con la struttura stessa della realtà (identità di razionale e
reale), la quale non può essere oggetto di fede o sentimento ma di conoscenza
razionale, filosofica.
Per Hegel la logica non può limitarsi solo allo studio delle leggi del pensiero: non è
soltanto metodo. Invece, posta l'identità di razionale e di reale, cioè di pensiero ed
essere, la logica è sia la legge del pensiero ma sia anche il contenuto del pensiero. I
concetti non sono soltanto regole del pensiero o suoi modi di funzionare (come le
forme a priori di Kant), ma hanno carattere di realtà, sono entità, essenze, sostanze
reali costitutive di tutti gli enti. Quindi la logica è anche metafisica, o meglio
ontologia (scienza dell'essere, cioè della realtà). Possedendo identica struttura,
pensare ed essere coincidono ed altrettanto vi è coincidenza tra metafisica-ontologia
e logica: il pensiero, cioè la coscienza, è in tal senso il luogo, l'orizzonte in cui
l'essere (lo Spirito) si rivela e si manifesta. Il pensiero, realizzando se stesso, realizza
per ciò stesso il proprio contenuto, per gradi e livelli sempre più elevati lungo i
movimenti dialettici triadici, fino all'unità con l'infinito, con l'Assoluto.
Per Kant la struttura dell'oggetto della conoscenza (il fenomeno) dipende dal
soggetto, ossia dai modi di funzionare dell'intelletto che sono costanti in ogni
soggetto. Hegel ritorna alla metafisica-ontologia classica, alla corrispondenza, anzi
all'identità tra pensiero e realtà. Ma, tenendo conto degli sviluppi kantiani, si rifiuta
di fondare la corrispondenza di pensiero ed essere (realtà) sul primato dell'essere
(per cui, come diceva Tommaso, sarebbe il pensiero ad adeguarsi alla realtà:
"veritas est adaequatio rei ad intellectus"). Altrettanto si rifiuta di fondare la
corrispondenza di pensiero ed essere sulla priorità del pensiero: riconosce piuttosto
tra pensiero ed essere un'identità perfetta.

È stato già sottolineato che per Hegel, posta l'identità di reale e razionale, la logica
non è solo un metodo per studiar la realtà ma è anche il modo in cui, nella
propria essenza di fondo, la realtà è fatta, è strutturata, perciò coincide con la
metafisica sia come ontologia (scienza dell'essere) sia come teologia, tuttavia non
trascendente bensì immanente.
52

La logica è la struttura razionale dell'esistente mentre il reale è la realizzazione della


razionalità del pensiero: pensiero e realtà coincidono. La logica è il mondo della
verità senza gli accidenti e la contingenza del mondo; è il mondo in quanto pensato e
progettato. Pensiero e mondo si identificano in quanto il reale è lo sviluppo del
razionale, cioè dell'Idea. Ovviamente per reale si deve intendere non l'esistente in
quanto tale, che comprende anche l'accidentale ed il contingente, ma gli aspetti
strutturali della realtà, quelli che hanno continuità storica e che, nonostante il
divenire, permangono.
La triade di base dello sviluppo dell'idea in sé è la seguente:
1. l'essere, tesi;
2. l'essenza, antitesi;
3. il concetto, sintesi.
L'essere, quale tesi iniziale dello sviluppo della logica, è l'essere puro, il puro
pensiero, la sola capacità di pensare che però non contiene ancora alcun pensiero: è
il principio più vuoto ed astratto. In tal senso è diverso dal concetto di essere di
Aristotele, secondo cui l'essere si presenta in molti modi, comprende cioè tutte le
determinazioni (tutte le specifiche particolarità), mentre qui l'essere di Hegel è
assolutamente indeterminato e si presenta in un modo solo.
L'essere si sviluppa a sua volta in:
1. essere puro, tesi;
2. non essere, antitesi;
3. divenire, sintesi.
L'essere puro (tesi) è ancora vuoto di pensiero, è del tutto indeterminato, per ciò
stesso trapassa nel non essere (antitesi), cioè nel nulla, nel non essere ancora il
pensiero di qualcosa. Dalla sintesi tra essere puro e non essere scaturisce il divenire,
che già gli antichi definivano come passaggio dall'essere al nulla e viceversa (le cose
prima ci sono e poi non ci sono più, diventano nulla e, viceversa, prima non c'erano,
erano nulla, e poi ci sono). In questo contesto l'essere e il divenire sono
considerati ancora nel loro isolamento, al di fuori di ogni relazione.
L'essere inizia ad entrare in relazione con gli altri enti allorché diviene essenza
(antitesi). Infatti, l'essere come pura possibilità e potenzialità di pensiero è attività,
è movimento che, per realizzarsi e conoscersi, si determina, si attua e si realizza, per
effetto del divenire, nei singoli fenomeni, producendo la realtà: diventa concreta
esistenza fenomenica. Tuttavia l'Idea in sé non si accontenta dell'apparenza
fenomenica (non si accontenta dei fenomeni nella loro esteriorità, non si accontenta
cioè delle cose come ci appaiono); invece studia e analizza il pensiero e vuole vedere
cosa c'è sotto la superficie dei singoli fenomeni, arrivare al fondo di essi, cioè
giungere alle loro essenze. Giunge all'essenza (antitesi) quando l'essere, riflettendo
su se stesso, prende coscienza non solo di sé ma scorge anche le proprie relazioni
di qualità, quantità, causalità, ecc. con l'altro da sé, con gli altri enti, determinandosi
(diventando) come esistenza concreta. Dunque, mentre nella logica dell'essere puro
sono studiati i concetti più generali e astratti di essere, di non essere e di divenire,
nella logica dell'essenza sono studiati i concetti più concreti di sostanza (l'essere
dapprima "pare", determinandosi nell'esistenza), di causa (l'essenza poi "ap-pare"
53

come fenomeno e si determina come rapporto di causa-effetto tra un fenomeno e


l'altro) e di relazione (si scorgono e si studiano le relazioni che sussistono tra
essenza ed esistenza e tra sostanza e accidente). La logica dell'essenza è tuttavia,
ancora, la logica dell'intelletto, che esamina una realtà (quella fenomenica) che
appare distinta ed opposta ad esso.
L'essenza diventa concetto (sintesi) quando l'Idea in sé, mediante la ragione,
comprende il collegamento che esiste fra tutti gli enti finiti, e le loro essenze, e
comprende che essi esistono solo in quanto sono pensati e presenti nell'Idea
(coscienza) stessa, comprendendo altresì la loro unità con l'infinito, con la totalità
della realtà, ossia con lo "Spirito vivente della realtà".
Il concetto è quindi sintesi (unità) di soggetto ed oggetto, di finito ed infinito , di
reale e ideale. Giungendo al concetto, la ragione (l'Idea) si scopre non come
semplice legislatrice della realtà (Kant) ma come produttrice della realtà: la realtà è
nel concetto, cioè nel soggetto-ragione che la concepisce e così la produce. Come
Idea (unità di ideale e reale, di finito e infinito) il concetto non è allora qualcosa di
astratto o una categoria (kantiana) che organizza i dati sensibili e la conoscenza
fenomenica della realtà, ma è la capacità della ragione di cogliere l'Assoluto infinito
che ricomprende in sé tutta la realtà, la totalità vivente ed autoproducentesi. Il
concetto è quindi l'assolutamente vivente concreto.
Riassumendo, l'essere è puro essere (tesi), è il puro pensiero ancora vuoto, senza
determinazioni, senza "pensati", che coincide perciò col nulla, col non essere ancora
qualcosa di determinato ma solo pura possibilità di essere, di esistere. Il non essere,
il nulla, contrapponendosi all'essere consente il divenire, quale sintesi tra essere e
non essere (tra essere e nulla). In questo senso l'essere è potenzialità e possibilità
dell'esistenza e del suo divenire. L'essenza (antitesi) è l'attuarsi dell'essere come
esistenza, come fenomeno ma anche come sostanza e quindi, per l'appunto, come
essenza che collega causa ed effetto, sostanza e accidente, essenza ed esistenza.
L'essenza diventa poi concetto (sintesi), inteso come ragione capace di cogliere il
collegamento fra tutti gli enti ed essenze finite nonché la loro unità con l'infinito, con
lo Spirito.

L'Idea fuori di sé: la filosofia della natura.

Costituisce il processo dialettico secondo cui si sviluppa il mondo naturale.


Come si è visto, lo Spirito, coincidendo con la realtà autentica, non ha niente fuori di
sé. Però lo Spirito, cioè il pensiero, l'Idea, deve pur sempre essere pensiero di
qualcosa. Per realizzarsi e non rimanere essere puro e vuoto, così come per
conoscersi, l'Idea deve uscire da sé, deve determinarsi e specificarsi nei "pensati",
deve cioè produrre e contrapporre a se stessa cose ed enti per farne l'oggetto del
suo pensiero, ossia deve "porre" e produrre la Natura, in cui l'Idea viene a
manifestarsi e determinarsi, diventando per l'appunto "Idea fuori di se" (antitesi).
Gli enti della natura mediante cui l'Idea, contrapponendoli a se stessa, viene via via
a conoscersi e realizzarsi sono enti finiti, continuamente trasformati in nuovi enti
54

(nuove sintesi) dall'incessante attività dello Spirito. Proprio perché sono finiti,
contingenti e provvisori, cioè sono fenomeni, tali enti finiti, benché necessari nel
processo dialettico come indispensabile antitesi, non costituiscono la realtà
autentica e non possono essere l'oggetto autentico della filosofia: sono soltanto
illusione e apparenza, anche se, sia pur come apparenza, la natura è comunque
anch'essa una realtà. La natura, il finito, è un insieme di puri accidenti (aspetti
secondari) passeggeri, mentre la realtà autentica è lo Spirito assoluto, la Totalità, che
di volta in volta assorbe e ricomprende in sé tutti gli enti finiti (la vera realtà è l'unità
di finito e infinito).
La caratteristica fondamentale della natura è l'esteriorità, l'apparenza esteriore,
l'essere "altra cosa" rispetto all'Idea. La natura è la realtà più lontana dal pensiero, di
cui è negazione-contrapposizione (antitesi). La natura come materia è in qualche
misura una sorta di decadenza dell'Idea, ciò in analogia altresì con l'attuale teoria
della materia come decadimento dell'energia che all'Idea può per taluni aspetti essere
assimilata. Hegel (e l'idealismo in genere) non nega l'esistenza della materia (la
natura è realtà apparente ma è comunque una realtà), nega però l'autonomia della
materia, della natura, che è esteriorità, un derivato dello Spirito. Hegel non dimostra
un particolare interesse per la natura, come invece Schelling e la gran parte dei
romantici. Proprio perché è il regno dell'accidentale e del contingente, la natura non
è da divinizzare e nemmeno da considerare una via privilegiata per la conoscenza
della realtà più autentica. Per Hegel è assurdo voler conoscere Dio dalle opere
naturali, in quanto le più basse manifestazione dello Spirito servono meglio allo
scopo. Anche i fenomeni più grandiosi della natura sono frutto di una necessità
inconsapevole, di cui la natura non ha coscienza. Rispetto ad essi anche le più misere
azioni degli uomini sono superiori, perché derivano da atti coscienti e liberi. Persino
il male degli uomini è superiore agli eventi naturali perché è un atto di libertà, di
libera scelta, anche se sbagliata e colpevole.
Hegel non pone la natura allo stesso livello dello Spirito ma la considera nettamente
inferiore. Essa infatti, per Hegel, è una manifestazione puramente esteriore
dell'Idea, caratterizzata dalla dispersione e dall'accidentalità. Tant'è vero che i suoi
momenti dialettici non trapassano uno nell'altro ma permangono uno accanto
all'altro, pur disponendosi in una gerarchia di gradi di perfezione sempre maggiore.
Nella natura dunque, secondo Hegel, non c'è evoluzione, cioè passaggio
dall'inferiore al superiore, ma solo gradualità come in Aristotele. Tra i diversi gradi
della natura non esiste evoluzione sul piano dell'essere (passaggio al grado
superiore): ogni specie è in sé fissa e immodificabile come tutto ciò che è nella
spazialità, e la natura è lo spazializzarsi dell'Idea.
Similmente ad Aristotele, Hegel nella sua filosofia della natura non si limita a tener
conto dei risultati delle scienze naturali, ma va oltre perché pretende di giungere a
conoscere l'essenza, il significato, il senso intimo delle realtà naturali, non
accontentandosi della concezione galileiana, cartesiana e newtoniana della natura,
matematico-quantitativa e meccanicistica. Anziché quantitativa, la fisica di Hegel,
come appunto in Aristotele, è soprattutto qualitativa e teleologico-finalistica.
55

Lo sviluppo dialettico di base dell'Idea fuori di se o natura è il seguente:


1. meccanica, tesi;
2. fisica, antitesi;
3. fisica organica, sintesi.
La meccanica considera l'esteriorità, che è l'essenza propria della natura, nei suoi
elementi fisici più generali: spazio e tempo; materia e movimento.
La meccanica si sviluppa poi come fisica, che considera i fenomeni fisici specifici: il
peso specifico, il suono, il calore, quali derivano dalla combinazione di materia e
movimento.
La sintesi fra meccanica e fisica è costituita dalla fisica organica, che considera il
passaggio dalla materia inorganica a quello organica e alla biologia (natura vegetale
e animale).
Quantunque realtà inautentica e finita, caratterizzata dall'esteriorità, dal
contingente e dall'accidentale, appare nel suo sviluppo complessivo un finalismo
della natura che, muovendo dagli organismi più semplici, ha come punto di arrivo
la produzione dell'uomo, nel quale l'Idea torna ad emergere e attraverso il quale può
intraprendere il cammino verso il ritorno a se stessa come Idea autocosciente, cioè
come Spirito.

L'Idea che ritorna in sé: la filosofia dello spirito.

È il processo dialettico attraverso il quale si sviluppa la consapevolezza piena che


l'Assoluto giunge ad avere di sé.
Attraverso i suoi vari gradi (meccanica, fisica, fisica organica o biologia) la
natura produce organismi sempre più complessi fino all'uomo, attraverso il
quale l'Idea, uscita fuori di sé per diventare natura, ritorna in sé diventando
Spirito, cioè autocoscienza e autoconsapevolezza piena e completa di sé.
Diventando Spirito l'Idea acquista coscienza che la natura non è realtà distinta e
contrapposta a sé, ma che deriva da sé medesima; comprende che la natura esiste
solo in quanto è pensata e quindi, in qualche modo, prodotta dall'Idea stessa. In tal
modo l'Idea si riconosce come Spirito assoluto che ricomprende in sé tutta la
realtà, la totalità.
La triade di base dell'Idea che ritorna in se è la seguente:
1. Spirito soggettivo, tesi, che si presenta come coscienza individuale;
2. Spirito oggettivo, antitesi, che si presenta come coscienza sociale o
collettiva;
3. Spirito assoluto, sintesi, che compie il passaggio dal finito all'infinito e
diventa consapevole di ricomprendere in sé il Tutto, la Totalità, cioè sia i
pensieri (la logica) sia i pensati (la natura).
A differenza della natura, la cui essenza è l'esteriorità e la necessità delle leggi
meccaniche che la governano, l'essenza dello Spirito è la libertà dei modi che
esso sceglie per realizzarsi e svilupparsi.
Lo Spirito è il momento della consapevolezza ed emerge dalla natura attraverso
l'uomo, che comincia a diventare cosciente prima a livello particolare, come Spirito
56

soggettivo, poi nell'unità con gli altri, nelle istituzioni sociali e nello Stato, come
Spirito oggettivo, infine, quale sintesi di questi due momenti, come Spirito assoluto,
che è la consapevolezza complessiva dell’umanatà, l'insieme della conoscenza
umana; è l'Idea che si riconosce come tale e conosce tutto l'esistente (tutta la realtà)
nel suo svolgimento e nel suo percorso (nel suo divenire) avendone consapevolezza.
Secondo le espressione variamente usate da Hegel, Spirito oggettivo e umanità
sembrano coincidere, però in termini solo esemplificativo-figurativi: in effetti, se lo
Spirito si manifesta nelle istituzioni sociali e nella storia e si rivela nell'umanità,
tuttavia non coincide con essa.
Lo Spirito soggettivo ed oggettivo costituiscono lo Spirito finito; lo Spirito
assoluto costituisce lo Spirito infinito, che scopre l'unità, la coincidenza di finito e
infinito.
Di seguito sono brevemente illustrati, uno per uno, lo Spirito soggettivo, lo Spirito
oggettivo e lo Spirito assoluto.

Lo Spirito soggettivo: la coscienza individuale.

Lo Spirito soggettivo è quello della coscienza individuale, considerata nel suo


lento e progressivo emergere e superamento della natura, attraverso un processo che
va dalle forme più primitive di coscienza alle più elevate attività conoscitive e
pratiche.
L'articolazione dialettica dello spirito soggettivo è la seguente:
1. antropologia, tesi, che considera l'uomo ancora condizionato dalla natura e
dalle proprie passioni ed istinti, dalle sensazioni e abitudini acquisite
nell'ambiente in cui si trova a vivere;
2. fenomenologia, antitesi, che considera l'emergere della coscienza ed
autocoscienza dell'uomo allorquando la coscienza individuale riflette su se
stessa (secondo il percorso visto nella Fenomenologia dello spirito) ed
acquisisce una conoscenza fenomenica, da cui appunto la denominazione di
"fenomenologia", che Hegel chiama anche "sapere apparente";
3. psicologia, sintesi, che considera e studia l'attività teoretica e pratica,
attraverso le quali l'uomo acquista la propria libertà e si emancipa dai
condizionamenti della natura e dell'ambiente.
Acquistando la libertà dai condizionamenti della natura, l'uomo diventa
consapevole dell'esistenza anche delle altre coscienze, cioè degli altri individui e
dell'organizzazione degli stessi nella società: lo Spirito soggettivo diventa quindi
Spirito oggettivo.

Lo Spirito oggettivo: la coscienza collettiva o coscienza sociale.

L'individuo e la libertà individuale si realizzano pienamente solo entro lo


Spirito oggettivo, cioè solo nella società e nel rapporto con gli altri individui. Nella
57

società lo Spirito si attua attraverso le istituzioni sociali concrete, individuate


nella famiglia, nella società civile e nello Stato.
Lo Spirito oggettivo è realtà visibile però spirituale, che non si riduce a natura
perché ha una propria storia coincidente con la storia umana.
La filosofia hegeliana dello Spirito oggettivo ha avuto grande influenza sulla cultura
e sulla filosofia posteriori, specie per le concezioni sullo Stato e sulla storia.
Lo Spirito oggettivo rappresenta la piena realizzazione della libertà del singolo, che
è possibile solo grazie all'inserimento e alla sua partecipazione entro le strutture
giuridiche, sociali e politiche. Hegel, come poi anche Comte pur nella diversità
dell'impostazione, sottolinea l'esistenza di realtà sociali prodotte da individui ma
che non si identificano con essi, di istituzioni che hanno proprie caratteristiche, una
propria storia, che possono essere considerate e studiate di per sé e che
sopravvivono alla morte dei singoli soggetti (Spirito oggettivo come realtà
metaindividuale, ossia ultraindividuale).
I tre momenti dialettici di suddivisione dello Spirito oggettivo sono i seguenti:
1. il diritto, tesi: consente che la libertà dei singoli trovi il suo equilibrio nel
riconoscimento della libertà e dei diritti anche degli altri (sono libero purché
la mia libertà rispetti anche la libertà altrui); il diritto si esprime e si attua
attraverso le sue leggi, che però, in un primo momento, il singolo individuo
avverte come limiti imposti dall'esterno alla propria libertà;
Compito della filosofia del diritto è la comprensione della razionalità dell'esistente,
cioè del diritto quale storicamente determinatosi e non l'individuazione di un dover
essere astratto. Il diritto è oggettivazione dello Spirito, sua realizzazione nella
storia. Ne consegue un ribaltamento del rapporto tra diritto e moralità quale era
stato invece stabilito da Kant e da Fichte: il diritto non è più considerato come
l'insieme delle istituzioni che permettono la moralità, ma precede la moralità stessa,
che si caratterizza, piuttosto, come adesione interiore al diritto e alle sue leggi.
2. la moralità, antitesi: l'individuo riconosce che il fondamento di un
comportamento giusto non sta solo nella legge ma soprattutto nel sentimento
morale di ciò che è bene e ciò che è male; ma si tratta di un sentimento, di un
modo di sentire, che è ancora soggettivo e variabile da individuo ad
individuo;
3. l'eticità, sintesi: con il passaggio all'eticità, la morale individuale soggettiva
diventa morale sociale oggettiva, riconosciuta cioè da tutti nello stesso modo;
il bene e il dovere morale non sono più solo un sentimento individuale ma
collettivo e condiviso: diventano bene e dovere sociali, perseguiti dalle
istituzioni sociali nell'ambito dei costumi del popolo cui l'individuo
appartiene, costituenti tutte altrettante realizzazioni dello Spirito nella storia
umana.
L'eticità infatti si sviluppa secondo l'ulteriore e seguente schema dialettico
triadico:
1. famiglia, tesi;
2. società civile, antitesi;
3. Stato, sintesi.
58

La famiglia è l'istituzione in cui l'individuo vive una prima forma di eticità, ossia di
vita e di morale collettiva, annullando a favore della famiglia stessa e l'egoismo
personale. Valore fondamentale assume l'educazione dei figli, che garantiscono, nel
diventare adulti, la fondazione di nuove famiglie.
L'insieme delle famiglie degli individui costituisce la società civile. In essa si
attua però anche lo scontro, la contrapposizione di opposti interessi particolari,
che provocano conflitti economici e di classe sociale. Nella società la convivenza
non deriva da un sentire comune, da una socievolezza naturale, ma dalla
convenienza.
I conflitti economici di classe sociale trovano soluzione nello Stato, concepito
come una grande famiglia allargata.
Il passaggio dalla società civile allo Stato avviene attraverso un processo di
formazione dell'individuo che in un certo senso ne cambia la natura. Nonostante il
prevalere dei particolarismi, nella società civile il singolo avverte che tutti i settori
sociali sono comunque in rapporto reciproco e oggettivo. Questo sentire si presenta
in un primo tempo come semplice mezzo per il soddisfacimento di bisogni
individuali, ma in seguito questo sentimento si eleva e diventa un sentire comune.
Lo Stato è il regolatore della convivenza sociale, indirizza gli interessi particolari,
spesso contrapposti, verso il bene comune. Per Hegel lo Stato non nasce per
garantire i diritti, spesso egoistici, degli individui: quindi non è fondato sul
"contratto sociale", come per le teorie contrattualistiche; non è uno strumento al
servizio dei cittadini, ma al contrario sono i cittadini ad essere al servizio dello
Stato. Al di fuori dello Stato i cittadini sono soltanto una realtà caotica e disordinata.
Per Hegel dunque la sovranità dello Stato non deriva dal popolo (contratto sociale)
o dalla volontà generale di Rousseau, ma deriva dallo Stato medesimo, poiché,
secondo Hegel, lo Stato è la più alta manifestazione dello Spirito oggettivo nella
storia umana che, proprio attraverso lo Stato, persegue il bene universale. Come
manifestazione più elevata dello Spirito nella storia, lo Stato incarna lo spirito (la
cultura) di un popolo e della sua storia.
Coerentemente con la tesi dell'identità di reale e di razionale, Hegel definisce lo
Stato come "cosa razionale in sé ". La filosofia non deve porsi nella prospettiva di
delineare uno Stato ideale, bensì considerare lo Stato come effettivamente è per
coglierne la razionalità e la ragion d'essere. Solo lo Stato infatti, e non improbabili
utopie, rappresenta l'oggettivazione dello Spirito e la razionalità dell'Idea che si fa
storia.
Non ha senso chiedersi chi debba fare la costituzione (il contratto sociale). Una
costituzione non è mai stata fatta da nessuno, ma è solo il risultato dello
svolgimento dello Spirito; è il risultato storico di un popolo perché in essa si
manifesta lo spirito di quel popolo. Il contratto vale solo nell'ambito del diritto
privato. Se la costituzione fosse l'espressione di un contratto, di un patto tra
individui, avrebbe un carattere convenzionale, contingente. Essa deriva invece in
modo necessario dallo sviluppo storico del popolo. Non esprime un accordo bensì
una totalità etica ( Stato etico).
59

Non esistono per Hegel diritti naturali di cui i singoli individui siano portatori. Il
diritto si costituisce solo nell'ambito della società o, più precisamente, nell'ambito
dell'eticità. Si tratta chiaramente di una posizione antigiusnaturalista, contraria
cioè alla teoria dei diritti naturali. Peraltro, Hegel è molto più attento dei
giusnaturalisti al diritto consuetudinario, cioè non scritto ma derivante dai costumi.
I giusnaturalisti negavano che i costumi fossero una fonte del diritto in quanto a-
razionali, non razionali. Per Hegel invece anche il costume è espressione dello
spirito di un popolo nel quale, come pure nei relativi costumi, lo Spirito viene a
manifestarsi.
Diversa dai giusnaturalisti è anche la concezione hegeliana del rapporto tra
individuo e società. Nei primi prevale una concezione individual-liberale della
società, intesa come aggregato di individui che hanno in sé, indipendentemente
dalla sussistenza o meno di istituzioni sociali e di un diritto positivo, inviolabili
diritti naturali e valori morali individuali. In Hegel, vicino in ciò al concetto di
volontà generale di Rousseau, prevale invece una concezione organicistica: lo
Stato, in quanto totalità, è la vera realtà dell'eticità e i singoli individui ricevono
diritti e possiedono valori soltanto in quanto membri di esso. La dottrina dello Stato
di Hegel da un lato pone le basi per il riconoscimento della forza della "cultura"
sociale e popolare, dall'altro per interpretazioni totalitaristiche.
Come si può notare, il modello di stato presentato da Hegel non è un modello di
Stato liberale o democratico come oggi si intende poiché, in quanto manifestazione
dello Spirito, la sovranità dello Stato non può provenire dal popolo. Però, secondo
Hegel, lo Stato, pur ricevendo la propria sovranità non dal popolo ma direttamente
dallo Spirito, proprio per questo non è uno Stato dispotico perché agisce ed opera in
base alla legge (Stato di diritto), legge che, se non è l'espressione (il prodotto) della
volontà popolare, è assai di più espressione dello Spirito medesimo, da cui deriva
l'autentica "anima" del popolo.
Per Hegel la forma migliore di Stato è la monarchia costituzionale, che prevede la
divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) ma non una partecipazione
dei cittadini al potere se non indirettamente, attraverso le associazioni sociali e le
corporazioni.
Lo Stato è autonomo e non può esistere per Hegel un organismo sovranazionale
(come ad esempio, oggi, l'O.N.U.) che possa giudicare uno Stato e i conflitti fra
gli Stati. Infatti per Hegel lo Stato, essendo una diretta realizzazione dello Spirito,
che già di per sé è quindi razionale, non può essere sottoposto a giudizio da nessuno.
Solo la storia, in cui lo Spirito si realizza, seleziona i popoli e gli Stati attraverso
la guerra: lo Stato che prevale dimostra la propria superiorità su quello che perde;
le guerre sono perciò considerate il motore della storia perché la rendono dinamica,
ne consentono lo sviluppo.
I rapporti esterni tra gli Stati non possono dunque essere regolati, secondo Hegel, da
un diritto internazionale fondato sul diritto naturale, perché non esiste alcun diritto
se non quello interno dello Stato.
Il vero protagonista della storia è lo Spirito oggettivo, concepito come "Spirito
del mondo", che si incarna di volta in volta in un popolo il quale, anche
60

attraverso la guerra, prevale e domina sugli altri. Quando tale popolo avrà compiuto
la propria missione, ossia sarà giunto al suo declino, allora lo Spirito del mondo lo
abbandonerà e si incarnerà in un altro popolo e così via.
La teoria hegeliana dello Stato è la massima esaltazione dello Stato nazionale
(nazionalismo) ed è stata perciò anche criticata, specialmente quando Hegel
afferma sia l'indipendenza dello Stato dai principi della morale, sia l'inesistenza di
un diritto internazionale, sia la giustificazione della guerra come fattore di sviluppo
sociale e storico.
Inoltre lo Stato, come realizzazione dello Spirito nella storia dei popoli, che in
quanto tale esprime e rappresenta il carattere e la mentalità di un popolo, ha il
compito di regolare non solo la convivenza pubblica, la vita sociale, ma anche la
stessa vita individuale, anche i pensieri e le opinioni dei singoli individui. In tal
senso assume la forma di "Stato etico", che pretende di dirigere anche gli
atteggiamenti e comportamenti privati (come lo Stato ideale di Platone o come gli
Stati di tanti filosofi utopisti). Ma il rischio di uno Stato etico è quello di
diventare uno Stato totalitario, che vuole regolare tutto, sia la vita pubblica sia la
vita privata degli individui, limitando la stessa libertà individuale di pensiero e di
parola.
D'altronde Hegel non poteva concepire lo Stato in modo diverso poiché esso, quale
più elevata manifestazione dello Spirito razionale, non può avere limiti né l'obbligo
di rispettare le idee dei singoli individui o dei singoli gruppi sociali.

La concezione della storia e della filosofia come storia della filosofia.

La storia umana, per Hegel, è sempre guidata dallo Spirito, anzi è il luogo e lo
strumento mediante cui lo Spirito oggettivo realizza se stesso. Hegel ha dunque una
concezione finalistica della storia: la storia non è uno svolgersi casuale di
avvenimenti ma ha uno scopo, un fine preciso, ossia quello della piena realizzazione
dello Spirito oggettivo nello Stato. La storia pertanto è un processo razionale
anche se non si tratta di un progresso lineare, come per gli illuministi, bensì di
un progresso dialettico, comprendente cioè momenti negativi (le antitesi). Questi
sono ciò che comunemente chiamiamo male, che però è solo apparente poiché è in
realtà finalizzato alla realizzazione di un bene maggiore.
Lo Spirito oggettivo, operando nella storia, si serve di individui eccezionali (ad
esempio Alessandro Magno, Cesare, Napoleone, ecc.) attraverso i quali realizza se
stesso. Tali individui credono con le loro azioni di realizzare i propri progetti, ma in
realtà sono strumenti di cui lo Spirito si serve per realizzare il suo proprio progetto:
in questo senso Hegel parla di "astuzia della ragione" (dello Spirito).
Il fine ultimo della storia, si è detto, è la piena realizzazione della libertà dello
Spirito, nel senso che sceglie liberamente i modi in cui realizzarsi nella storia, e tale
libertà si realizza essenzialmente nello Stato.
61

Da questo punto di vista la storia umana è la successione di diverse forme di


Stato, le quali costituiscono momenti progressivi del divenire dello Spirito:
1. il mondo orientale, l'antico oriente, in cui lo Stato ha assunto la forma dello
Stato dispotico: solo il sovrano è libero;
2. il mondo greco-romano, in cui lo Stato riserva la libertà solo ad alcuni
(non agli schiavi e ai plebei);
3. il mondo cristiano-germanico, in cui tutti gli uomini sanno di essere liberi
(uguaglianza di diritti), dopo che la monarchia è giunta ad abolire i privilegi
dei nobili a seguito dell'ascesa della borghesia e dell'avvento della monarchia
moderna.
La libertà acquisita da tutti cittadini nella monarchia moderna (in verità acquisita
pressoché esclusivamente dalla borghesia) si può realizzare, secondo Hegel, solo
nello Stato etico, in cui il bene dello Stato prevale sugli interessi del singolo
individuo, e non in uno Stato liberale, come quello sorto in Inghilterra, nel quale,
sempre secondo Hegel, il singolo pretende di far prevalere i propri interessi e i
propri bisogni particolari.
Conformemente alla propria ispirazione nazionalistica, la più completa realizzazione
dello Stato e della libertà si è attuata, per Hegel, nello Stato prussiano, visto come
la sintesi più alta dello sviluppo storico dello Spirito.
Così come la storia è continuo ma graduale progresso in termini di
manifestazione dello Spirito, anche il sapere e la filosofia procedono
gradualmente, progredendo col progredire storico, per cui non sono immutabili e
non possono essere acquisiti una volta per tutte. Pertanto le filosofie che nel
tempo vengono dopo sono sempre più progredite di quelle precedenti. La
filosofia progredisce sempre di più man mano che procede la sua storia. Cosicché,
per Hegel, la filosofia in effetti è e coincide con la storia della filosofia.

Lo Spirito assoluto.

Lo Spirito, dopo essersi manifestato dapprima nella coscienza soggettiva


individuale (Spirito soggettivo) e poi nella coscienza sociale oggettiva e nello Stato
(Spirito oggettivo) diventa Spirito assoluto allorché giunge alla piena coscienza
di sé: l'Idea ritorna completamente a se stessa e comprende che tutta la realtà è
entro di sé, scoprendo che tutti gli enti finiti sono collegati fra di essi e sono
collegati a loro volta all'infinito, cioè allo stesso Spirito assoluto di cui fanno
parte; l'Assoluto riconosce se stesso come attività puramente spirituale.
L'acquisizione di tale consapevolezza non è immediata ma, anche qui, è il risultato
di un processo dialettico.
Lo sviluppo dialettico dello Spirito assoluto è il seguente:
1. arte, tesi;
2. religione, antitesi;
3. filosofia, sintesi.
62

Questi tre momenti dialettici non si differenziano per il loro contenuto, per il loro
oggetto, poiché tutti e tre hanno per oggetto l'Assoluto, cioè l'Infinito, ma si
differenziano per il modo in cui ognuno rappresenta l'Assoluto: l'arte lo
rappresenta come intuizione sensibile; la religione come rappresentazione; la
filosofia come puro concetto.

L'arte.

L'arte è rivelazione dello Spirito assoluto nella forma dell'intuizione sensibile,


dell'esteriorità, attraverso colori, suoni, musica, parole. Consente all'uomo di
superare la contrapposizione tra natura e spirito, tra materia e libertà. L'arte è
capace di conciliare il finito e l'infinito perché l'opera d'arte mostra significati
profondi, eterni, che vanno oltre l'apparenza sensibile ed il tempo momentaneo.
L'intuizione artistica è capace di esprimere il senso dell'infinito.

Hegel distingue tre momenti dialettici nella storia dell'arte:


1. l'arte simbolica, tesi: è tipica del mondo orientale antico, caratterizzata
dall'inadeguatezza e dall'insufficienza dei mezzi espressivi, ossia del
contenuto, ancora primitivo, rispetto all'ispirazione artistica, ossia rispetto alla
forma (l'artista non sa ancora rappresentare adeguatamente nelle sue opere le
sue emozioni e sentimenti); da ciò deriva il continuo ricorso a simboli, che
esprimono però in modo inadeguato l'ispirazione artistica;
2. l'arte classica, antitesi: è tipica del mondo greco-romano, caratterizzata
dall'equilibrio tra ispirazione artistica (forma) e rappresentazione, ossia
capacità tecnico-espressiva (contenuto);
3. l'arte romantica, sintesi: è caratterizzata, questa volta, dall'insufficienza della
capacità tecnico-espressiva rispetto all'ispirazione artistica, perché ormai lo
Spirito ha pienamente compreso l'Assoluto, l'Infinito, e si rende conto che
nessuna forma e tecnica artistica può essere capace di esprimerlo pienamente.
Perciò Hegel è indotto a ritenere e a teorizzare la morte dell'arte.

La religione.

La religione è rivelazione dello Spirito assoluto nella forma della


rappresentazione, cioè della raffigurazione di Dio e degli attributi divini,
rappresentazione che deve essere comunque fondata su basi razionali. Da ciò il
rifiuto di una religione intesa come puro sentimento, soltanto come fede, ed invece
la simpatia per la teologia scolastica, caratterizzata dalla compatibilità tra ragione e
fede. Ma la rappresentazione concepisce Dio, ossia l'Assoluto, ancora come
trascendente e non come immanente e identico al Soggetto, cioè al mondo e
all'umanità.
Anche per la religione Hegel distingue tre momenti dialettici di relativo sviluppo
storico:
63

1. le religioni orientali (feticismo e panteismo), caratterizzate dalla confusione


tra naturale e divino;
2. le religioni ebraica e greco-romana, caratterizzate dalla trascendenza: Dio non
è più confuso con i fenomeni della natura, ma è concepito come persona
distinta e al di sopra della natura;
3. il cristianesimo, considerato come la religione più perfetta, in cui Dio si
manifesta come puro Spirito, simile allo Spirito assoluto, con la differenza
però che il Dio del cristianesimo è trascendente, mentre lo Spirito assoluto di
Hegel è immanente. Comunque il dogma della trinità, per Hegel, è già una
sorta di rappresentazione della dialettica e Cristo, l'uomo-Dio, già esprime in
qualche modo l'identità di finito e infinito.
Però nella religione Dio è oggetto solo di fede e non di spiegazione razionale.
Nella religione la verità è conosciuta nella forma della rivelazione, che è ancora
inadeguata, e non nella forma del concetto, cioè della comprensione razionale.
Pertanto la religione deve essere superata dalla filosofia.

La filosofia.

Solo la filosofia giunge alla comprensione adeguata e razionale dell'Assoluto. La


filosofia è l'Idea che, ritornando a se, pensa se stessa e diventa consapevole che
tutto è Spirito, che non vi è nulla al di fuori di esso; è la totalità autentica che
contiene in sé ogni realtà. La filosofia è conoscenza dell'identità di soggetto ed
oggetto, di razionale e reale.
Anche la filosofia, come l'arte e la religione, passa attraverso fasi e momenti
dialettici di continuo perfezionamento e progresso. La storia della filosofia non è
un susseguirsi disordinato di sistemi filosofici tra di essi differenti e senza
continuità, ma la filosofia rappresenta il continuativo progresso della conoscenza
umana. Le differenti filosofie del passato sono in realtà, ad uno sguardo più
approfondito, un'unica filosofia secondo diversi gradi di svolgimento. Da ciò, come
si è visto, l'affermazione dell'identità tra filosofia e storia della filosofia. Da tale
affermazione deriva altresì l'identità di filosofia e di storia. La storia infatti è lo
sviluppo dello Spirito nelle sue manifestazioni finite, cioè nel mondo; la filosofia
è la comprensione razionale di questo sviluppo, la quale comprende come la
progressione dei vari sistemi filosofici sia un processo necessario verso la verità. La
successione dei sistemi filosofici che si manifesta nella storia è identica alla
successione dei momenti in cui si sviluppa l'Idea fino a diventare Spirito assoluto.

Conclusioni. Hegel nel pensiero contemporaneo.

Quello di Hegel è stato l'ultimo grande sistema filosofico. Dopo di lui le


produzioni filosofiche sono state per lo più di carattere settoriale.
L'influenza di Hegel nella cultura moderna e contemporanea è profonda e
radicata. I temi hegeliani più dibattuti dalla cultura e dalla filosofia
64

contemporanea sono quelli relativi alla dialettica (la realtà concepita come
continuo movimento, come continuo divenire e sviluppo triadico di tesi, antitesi e
sintesi), alla razionalità della realtà e della storia, alla conciliazione e unità
dell'uomo con la Totalità e l'Infinito attraverso i momenti e le forme di sviluppo
dell'eticità.
Oltre che sui discepoli (destra e sinistra hegeliana) l'influenza di Hegel è stata
profonda su Marx, sul neo-idealismo italiano (Croce e Gentile) sul neo-marxismo,
sulla cosiddetta "Scuola di Francoforte".
Per reazione, Hegel influenzò anche quanti ne contestarono il sistema e che,
rovesciandone i principi razionali e dialettici, hanno dato origine all'irrazionalismo,
come Schopenhauer e Kierkegaard.
65

LA REAZIONE ANTIHEGELIANA. SCHOPENHAUER E KIERKEGAARD.

Nel primo Ottocento la filosofia di Hegel diventa quella prevalente. Non mancano
tuttavia, seppur minoritari, filosofi contemporanei ad Hegel, in particolare
Schopenhauer e Kierkegaard, che reagiscono e si oppongono alla filosofia hegeliana.
A differenza di Hegel, tali filosofi sostengono che non è vero che lo sviluppo e il
divenire e della realtà sia sempre razionale, poiché spesso è invece irrazionale ed
ingiusto. Perciò la realtà non va sempre giustificata ma bisogna anche cambiarla e
migliorarla. L'ottimismo e la visione finalistica di Hegel circa la storia come continuo
progresso non corrisponde sovente alla realtà effettiva.
Affermano che la filosofia non deve occuparsi di concetti generali ed astratti, quali i
concetti hegeliani di Idea o Spirito, ma che deve occuparsi soprattutto delle
condizioni di vita dei singoli individui concreti, degli uomini reali e non della
generica umanità. L'Idealismo, con la sua concezione astratta di unità tra finito ed
infinito, non riuscirà mai a spiegare la vita, l'ansia e l'angoscia, l'insicurezza e la
sofferenza del singolo e concreto individuo finito esistente. Al contrario di Hegel, il
finito non è considerato connesso all'infinito: tra finito ed infinito permane una
differenza, un contrasto insuperabile.
66

ARTHUR SCHOPENHAUER (1788-1860).

Nasce a Danzica. Studia filosofia e segue le lezioni di Fichte. Insegna presso


l'università di Berlino, conducendo corsi di studio in aperta polemica con Hegel ma
con poco successo di pubblico. Viaggia in Italia ed infine si stabilisce a Francoforte
dove muore.
Opera principale: Il mondo come volontà e rappresentazione.
La filosofia di Schopenhauer è influenzata soprattutto dalla filosofia di Kant ma
anche dalla filosofia di Platone (che contrappone il mondo delle idee, considerato
come l'autentica realtà, al mondo della natura, considerato come imitazioni delle idee
e quindi come apparenza, come realtà illusoria) ed inoltre dalla filosofia orientale,
indiana e buddista.
Animato da forti sentimenti romantici, Schopenhauer non si occupa, come Hegel, di
questioni logico-metafisiche generali ed astratte, bensì dei problemi concreti
dell'esistenza individuale, della sofferenza e del dolore dei singoli uomini,
dell'insicurezza e precarietà della vita. Considera un'illusione l'idea del continuo
progresso della storia. Contrappone all'ottimismo di Hegel (tutto ciò che è reale è
razionale) un profondo pessimismo, un pessimismo "cosmico", come Leopardi.
Accusa Hegel di essere un'"sofista", cioè di fare filosofia al solo scopo di successo
e di guadagno personale. Compito della filosofia non è di illudere l'uomo con false
concezioni ottimistiche, ma di comprendere il male dell'esistenza per offrire all'uomo
consolazione e liberazione dal dolore.

Il mondo come volontà e rappresentazione.

Il mondo, afferma Schopenhauer, è come noi lo vediamo, come ce lo


rappresentiamo. Il mondo quindi è una nostra rappresentazione e non possiamo
sapere se esso, in realtà, è proprio così come lo vediamo e lo rappresentiamo
oppure se diverso: nessuno di noi può uscire da se stesso, cioè dal modo in cui vede
le cose per osservare come sono in realtà, per cogliere le cose in sé.
La rappresentazione nasce dal rapporto fra soggetto della rappresentazione (colui
che vede, che rappresenta) ed oggetto della rappresentazione (ciò che è visto, che è
rappresentato). Per impostare in modo corretto il problema della conoscenza si deve
dunque ritornare, ad avviso di Schopenhauer, al dualismo di soggetto-oggetto della
filosofia kantiana. L'oggetto della rappresentazione è condizionato dalle forme a
priori dello spazio e del tempo e della causalità, che sono i modi in cui funziona la
sensibilità e l'intelletto umano. Dalle forme a priori deriva la pluralità: ogni cosa
esiste nello spazio e nel tempo suo proprio. Conseguono quindi rappresentazioni di
cose molteplici e fra di esse distinte. Il soggetto invece è intero ed unico; è fuori dello
spazio del tempo, che sono soltanto sue categorie mentali, suoi modi di
rappresentarsi la realtà. Lo svanire del soggetto porterebbe con sé lo svanire del
mondo come rappresentazione. Soggetto ed oggetto sono dunque inseparabili:
ognuno dei due terminei non ha senso né esiste in sè se non attraverso l'altro. Si
67

tratta della gnoseologia kantiana che Schopenhauer, ammiratore di Kant, accoglie e


fa sua, sia pur riducendo le dodici categorie a quella di causalità, ritenuta la
principale.
Perciò Schopenhauer critica sia il materialismo, perché non riconosce l'autonomia
del soggetto (i modi di funzionare della sensibilità e dell'intelletto che sono propri del
soggetto) riducendolo a materia, a puri meccanismi fisiologici, sia l'idealismo,
perché non riconosce l'autonomia dell'oggetto (cioè l'esistenza di cose esterne ed
indipendenti dalla nostra mente e coscienza) riconducendolo al soggetto (non c'è una
realtà esterna e indipendente dalla coscienza, ma invece tutta la realtà, anche la
natura, è un prodotto, cioè una manifestazione e realizzazione, della coscienza).
Critica anche il realismo, perché ritiene che la realtà sia proprio così come la
vediamo e ce la rappresentiamo, mentre invece non possiamo sapere se è davvero
tale.
Il mondo inteso come rappresentazione è pertanto un mondo di fenomeni
(vediamo e ci rappresentiamo le cose così come ci appaiono, senza sapere se in realtà
sono proprio così o diverse). Ma per Schopenhauer il fenomeno non è, come per
Kant, l'unico aspetto conoscibile della realtà perché, egli dice, può essere anche
colto, intuito il noumeno fondamentale, cioè la cosa in sé, l'essenza fondamentale
del mondo e delle cose del mondo, anche se le cose in sé particolari e specifiche
possono rimanere inconoscibili. I fenomeni sono come ricoperti da un velo, che
Schopenhauer indica come il "velo di Maya", un velo ingannatore di cui parla la
filosofia indiana, velo che nasconde l'essenza fondamentale della realtà che sottostà ai
fenomeni . Ma questo velo può essere squarciato e sollevato e l'essenza del mondo,
il noumeno o la cosa in sé fondamentale, può essere colta e avvertita, non già in
termini di conoscenza razionale bensì mediante un'intuizione diretta e immediata.
Per Kant il fenomeno è l'unica realtà accessibile alla mente umana, mentre il
noumeno è un concetto limite che ci rammenta i limiti della conoscenza, la quale è
solo fenomenica. Per Schopenhauer invece il fenomeno è parvenza, illusione, sogno,
ovvero ciò che nell'antica sapienza umana è detto "velo di Maya", mentre il noumeno
è una realtà che si nasconde dietro l'apparenza dei fenomeni e che il filosofo ha il
compito di scoprire. Per Kant il fenomeno è l'oggetto della rappresentazione
riguardante la cosa in sé, la quale esiste fuori della coscienza, anche se viene
appreso tramite l'apparato delle forme a priori. Per Schopenhauer invece il
fenomeno è una rappresentazione che esiste solo dentro la coscienza: "il mondo è la
mia rappresentazione". È un principio che per Schopenhauer è simile agli assiomi di
Euclide. Schopenhauer rappresenta la sua filosofia come integrazione necessaria di
quella di Kant, in quanto individua una via di accesso al noumeno.
Per scoprire l'essenza della realtà e scoprire cosa c'è dietro le nostre
rappresentazioni, cosa c'è al di là e al di sotto dei fenomeni, dobbiamo partire,
dice Schopenhauer, dal soggetto conoscente, cioè da noi stessi, dall'uomo.
L'uomo inizialmente conosce se stesso come corpo. Il corpo può essere percepito e
conosciuto come fenomeno, così come tutti gli altri oggetti, quando ci fermiamo agli
aspetti fisiologici del corpo stesso. Ma il corpo, precisa Schopenhauer, non è solo
fenomeno, non è solo rappresentazione fenomenica. Del corpo, del "mio" corpo ho
68

anche un'intuizione immediata, ne ho diretta coscienza, che non è conoscenza


razionale fenomenica acquisita attraverso le forme a priori kantiane della sensibilità e
dell'intelletto. Noi possiamo guardare al nostro corpo e parlarne come di un qualsiasi
altro oggetto, ed in questo caso esso è fenomeno. Ma ascoltando noi stessi,
riflettendo dentro di noi, sentiamo che esiste nel nostro corpo una forza
profonda che guida tutti i nostri atti e comportamenti, sentiamo in noi una spinta
ad esistere, a desiderare e a volere. Avvertiamo che dentro di noi agisce ed opera
una volontà che è volontà di vivere, di affermarci e di realizzarci sempre di più; è
una volontà tesa ad imporre la nostra superiorità sugli altri uomini, sulle cose e sul
mondo: è quindi una volontà di vivere e di realizzarci che è volontà di dominio.
Questa volontà non è conosciuta da noi nello stesso modo in cui conosciamo i
fenomeni, ma è colta ed avvertita per intuizione immediata. Avvertiamo che
l'essenza di fondo del nostro essere, più che l'intelletto e la conoscenza, è proprio
questa volontà, che siamo capaci di sentire e cogliere come cosa in sé, come
noumeno fondamentale facendoci intuire la vera essenza di tutta la realtà e
squarciando in tal modo "il velo di Maya", che nasconde ciò che vi è al di sotto
della molteplicità delle rappresentazioni fenomeniche. Scopriamo che questa
volontà di vivere e di dominio (il voler prevalere su ogni cosa) è l'essenza che
caratterizza non solo l'uomo ma tutta la realtà, cioè tutti gli esseri viventi (uomini,
animali e piante) ed anche tutti gli esseri non viventi (la materia inorganica: i
minerali, le pietre). Riusciamo a scoprire e sentire che noi siamo parte di un'unica
volontà universale, che sta sotto ai fenomeni e che è la vera causa del loro accadere
e del loro divenire. È questa volontà universale che costituisce il principio noumenico
e metafisico di tutta la realtà, perché ogni essere, animato ed inanimato, è mosso e si
trasforma per effetto proprio di questa volontà di affermarsi ed imporsi. Si comprende
così il titolo dell'opera "Il mondo come volontà e rappresentazione". Come
fenomeno e apparenza il mondo è rappresentazione; come cosa in sé, nella sua
essenza di fondo, esso è volontà costitutiva del principio metafisico del mondo.
Come cosa in sé, come noumeno, l'universale volontà di vivere e di dominio è al di
là dei fenomeni ed è anche al di fuori delle forme a priori di spazio, tempo e causalità
attraverso cui i fenomeni sono conosciuti. Essendo al di la dello spazio, questa
volontà è quindi infinita; essendo oltre il tempo è eterna, immutabile e perciò unica;
essendo al di là del principio di causalità è anche incausata, cioè priva di una causa,
di un'origine. È altresì una volontà inconscia, colta con un'intuizione ma di cui
l'intelletto non ha coscienza e conoscenza razionale. Essa è insomma impulso
inconsapevole, energia universale che sospinge tutte le cose.
La volontà di vivere e di dominio non ha alcun fine. Il suo unico scopo è solo di
affermare e di imporre se stessa, di espandersi sempre di più. Perciò è una forza
cieca, irrazionale, insaziabile, crudele, che permea ed è diffusa in tutto l'universo.
Da qui il pessimismo cosmico di Schopenhauer. La natura non possiede quella
struttura razionale concepita dai filosofi platonici e poi dall'idealismo; è piuttosto una
natura matrigna, così come concepita da Leopardi: la vita è dolore ed il piacere è
solo la momentanea scomparsa del dolore.
69

Questa volontà si manifesta nella natura in gradi diversi, da quelli inferiori a


quello superiore costituito dall'uomo. Dapprima si manifesta nel mondo inorganico
come forza di gravità e come forza di attrazione e repulsione, cioè come magnetismo;
nel mondo vegetale si manifesta come istinto di nutrizione e di crescita; nel mondo
animale si manifesta come istinto e sensibilità; infine nell'uomo si manifesta come
consapevolezza ma non contrastabile (l'uomo riesce a comprendere l'esistenza di
questa volontà universale, irrazionale e crudele, ma non riesce a controbatterla, a
vincerla). È questa volontà universale, irrazionale e crudele, che ha comportato
l'avvento del male nel mondo. Il male non è solo nel mondo, ma nel principio stesso
da cui esso dipende (la cieca e crudele volontà di vivere e di prevalere). L'unico fine
della natura è di perpetuare la vita, anche attraverso il dolore e la prepotenza. Unico
scopo è la sopravvivenza della specie.
Tale volontà universale ed infinita di vivere ed affermarsi è per Schopenhauer il
principio metafisico di fondo, in grado di spiegare l'essenza della realtà, mentre per
Hegel il principio metafisico fondamentale è lo Spirito. Anche la filosofia di
Schopenhauer quindi, come in Hegel e secondo la sensibilità romantica, nonché
questa volta a differenza di Kant, mantiene un'impostazione metafisica volta a
cogliere il principio infinito della realtà. Sia lo Spirito di Hegel sia la volontà
universale di Schopenhauer sono principi immanenti, che escludono l'esistenza di un
principio assoluto divino trascendente. Tuttavia, mentre per Hegel lo Spirito è
razionalità suprema che coincide con la realtà, per Schopenhauer invece la volontà
universale è principio irrazionale e privo di finalismo.

La vita umana tra noia e dolore.

Nell'uomo la volontà universale si fa cosciente (l'uomo comprende l'essenza


irrazionale e crudele della volontà) e si manifesta come dolore (la vita è dolore). Essa
suscita infatti continui desideri di affermazione e di dominio. Ogni desiderio si
presenta come mancanza di qualcosa e ciò produce sofferenza. La sofferenza
cesserà con la soddisfazione del desiderio, ma l'appagamento sarà di breve
durata. Non appena il desiderio viene soddisfatto subentra la noia,
l'insoddisfazione, e sorgono ulteriori desideri, e quindi nuove sofferenze, finché non
vengano anch'essi realizzati e così via in un ciclo continuo perché, essendo infinita
la volontà di vivere e di possesso, saranno infiniti anche i desideri che essa suscita.
Così tutta la vita, dice Schopenhauer, è come un pendolo che oscilla tra noia e
dolore. Anche nel mondo della natura non vi è pace e felicità: ogni animale, ogni
pianta, ogni cosa è spinta dalla medesima volontà universale a desiderare e a volere
sempre di più. Anche ogni essere della natura lotta continuamente contro gli altri per
la propria sopravvivenza e per prevalere; ovunque è conflitto e prepotenza.

Le forme di liberazione dalla volontà.

Scopo della filosofia deve essere allora quello di rendere l'uomo consapevole
dell'infelicità dell'esistenza ed indicargli le vie, i modi della salvezza, cioè i modi in
70

cui potersi liberare dalla dipendenza dall'irrazionale e crudele volontà universale del
mondo.
Se l'essenza della realtà e dell'esistenza è tale volontà irrazionale e crudele, allora il
suicidio potrebbe sembrare il rimedio al male della vita. Però il suicidio, in questo
caso, non è la negazione della vita, non è il desiderio di non vivere più ma il desiderio
di vivere invece una vita diversa, senza noia e senza dolore: quindi il suicidio non
sconfigge l'irrazionale volontà di vivere.
La salvezza, cioè il rimedio, può avvenire in altri modi: ci si può liberare dal dolore
della vita causato dall’irrazionale e crudele volontà di vivere e di dominio solo
con la negazione della volontà di vivere, passando dalla volontà alla "nolontà"
(in latino "noluntas"), come chiamata da Schopenhauer, ossia al rifiuto di una vita
basata sull'impulso, sulla forza irrazionale e malvagia della volontà universale. Tale
salvezza è possibile per tre vie, per tre modi diversi: 1) attraverso l'arte; 2) attraverso
la pietà, che Schopenhauer chiama l'etica della compassione; 3) attraverso l'ascesi o,
appunto, la nolontà (non volontà).

L'arte.

L'arte è per Schopenhauer un'espressione libera e disinteressata di sentimenti,


capace di liberare l'individuo dai suoi desideri e dai suoi egoismi e quindi capace
di liberarlo dalla crudele ed irrazionale volontà di vivere e di prevalere.
La contemplazione artistica intuisce le idee eterne, che sono i modelli, le essenze
delle cose (si nota l'influsso della filosofia di Platone), e quindi oltrepassa i limiti
della vita terrena dominata dalla volontà di vivere che rimane come annullata.
Schopenhauer concepisce una gerarchia delle arti in base alla loro capacità di
distaccarci dalla volontà di vivere. Si passa così dall'architettura alla scultura e poi
alla pittura e alla poesia. Al di sopra di tutte c'è la musica, che è l'arte più universale.
Ma l'arte permette una liberazione solamente momentanea e provvisoria dalla
volontà. Si passa così al secondo grado, al secondo modo di salvezza e di liberazione.

La pietà o etica della compassione.


L'arte, in fondo, è un estraniarsi dal mondo concreto. Invece la morale
rappresenta un impegno nel mondo; è un darsi da fare per migliorare il mondo.
Quando noi ci rivolgiamo verso il nostro prossimo, comprendiamo che anche gli
altri uomini sono come noi vittime della medesima irrazionale e crudele volontà di
vivere. Sentiamo che le loro sofferenze sono simili alle nostre e sorge in noi un
sentimento di compassione, di pietà verso gli altri, grazie al quale possiamo
superare e liberarci dell'egoismo che ci deriva dall'universale volontà di vivere e di
prevalere.
A differenza di Kant, per Schopenhauer la morale non nasce dalla ragione pratica,
cioè dalla volontà, ma dal sentimento di pietà.
La morale, o etica, si pone in contrasto con l'egoismo e quindi con l'universale
volontà di vivere in due modi:
1. attraverso la giustizia, intesa come non fare il male;
71

2. attraverso la carità, intesa, ad un livello più alto, come volontà di fare il bene
degli altri, che è il contrario dell'egoismo che caratterizza la volontà di vivere.
Ma anche nella compassione, nella giustizia e nella carità rimane ancora un
attaccamento alla vita, se non alla nostra a quella altrui, attaccamento che va
eliminato per non offrire alcuna occasione di rivincita alla volontà di vivere. Il
traguardo vero non è solo quello della liberazione dall'egoismo e dall'ingiustizia
della vita, ma quello della totale liberazione e distacco dalla stessa volontà di
vivere. Si passa perciò alla terza via, al terzo modo di salvezza.

L'ascesi o nolontà.
Il vero distacco dalla volontà di vivere, cieca e prevaricatrice, si raggiunge solo
con l'ascesi (elevarsi al cielo), intesa come rinuncia ad ogni desiderio, ad ogni
egoismo, ad ogni volontà. L’asceta è colui che vive senza desiderare di vivere,
distaccato completamente dalla vita terrena. Secondo le filosofie orientali, che
hanno influenzato Schopenhauer, si giunge all'ascesi attraverso la meditazione, la
povertà, la castità ed attraverso il rifiuto di ogni piacere della vita. Ebbene, quando
l'uomo non vuole più niente, e giunge dunque alla nolontà, allora avrà sconfitto
la volontà di vivere. Quando l'asceta giunge a contemplare il mondo come un puro
nulla (il nirvana delle filosofie orientali), allora la volontà di vivere viene annullata.
Per Schopenhauer dunque l'ascesi non è immedesimarsi in Dio ma è totale negazione
del mondo; il suo è un misticismo ateo.
Se infatti la volontà di vivere si manifesta nel mondo, di cui essa è l'essenza, ad essa è
allora impedita ogni manifestazione qualora il mondo sia concepito come un nulla. Il
pessimismo di Schopenhauer giunge così a conclusioni di "nichilismo" (dal latino
"nihil" che significa nulla: il mondo non è niente, non è nulla, cioè non vale niente),
nichilismo che sarà poi ripreso, in forma diversa, dal suo discepolo Nietzsche.
In verità, la teoria orientalista dell'ascesi costituisce la parte più debole del pensiero
di Schopenhauer. Infatti, se la volontà di vivere si identifica con la struttura
metafisica (l'essenza) del reale, anzi con l'assoluto infinito stesso, come si può
ipotizzare il suo annullamento da parte dell'asceta? In che modo la volontà, la cui
essenza è appunto il volere, ad un certo momento può essere in grado di non volere e
di non far più prevalere se stessa? Inoltre, la fuga ascetica dalla vita è sempre un
atto individuale che contrasta con l'ideale etico della compassione verso il prossimo.

Conclusioni.
Il pessimismo e la filosofia di Schopenhauer non furono accettati ed ebbero poco
successo nella prima metà dell'Ottocento, allorquando prevaleva l'ottimismo della
filosofia idealistica. La sua influenza si fece sentire dopo, con la caduta delle illusioni
che avevano fatto sperare nelle rivoluzioni del 1848 e col diffondersi di un nuovo
clima culturale.
In campo filosofico l'influenza di Schopenhauer è presente in Kierkegaard ed ancor
più in Nietzsche per quanto riguarda la tematica del nichilismo. Influenzò anche
Bergson, Wittgenstein, Heidegger e Horkheimer. Ma la sua influenza si estese anche
alla letteratura e all'arte con Thomas Mann e Wagner.
72

SOREN KIERKEGAARD (1813-1855).

Nasce a Copenhagen. Studia teologia e diviene pastore protestante ma non ne


intraprende la carriera, ponendosi in polemica con l'ambiente teologico del tempo. Si
trasferisce per un breve periodo a Berlino dove segue le lezioni universitarie di
Schelling. Torna quindi a Copenhagen e si dedica unicamente agli studi.
Il pensiero di Kierkegaard è caratterizzato da una forte impostazione religiosa. Egli
avverte in modo drammatico la contrapposizione tra esperienza mondana ed
esperienza religiosa. La visione del mondo si incentra intorno al rapporto uomo-Dio
nonché sui temi della salvezza e della grazia, ponendosi in contrasto con le risposte
date al riguardo dalla scienza e dalla filosofia, soprattutto hegeliana.
Opere principali: Aut-Aut; Timore e tremore; Il concetto dell'angoscia.

Critica alla filosofia razionalistica e a quella idealistica hegeliana.

Per Kierkegaard l'errore fondamentale della filosofia razionalistica (da Cartesio a


Kant), così come della scienza, è stato quello di considerare soprattutto il pensiero
e la conoscenza in astratto, cioè soprattutto il concetto e l'oggetto del pensiero,
trascurando il soggetto che pensa, ossia il singolo individuo concreto nella
particolarità della sua esistenza. In questo senso Kierkegaard è considerato
precursore dell'esistenzialismo, corrente filosofica del primo Novecento.
È assurdo, dice Kierkegaard, pretendere di costruire, come Hegel, un sistema
filosofico globale ma astratto, che dia una risposta metafisica complessiva a tutti i
problemi della realtà, quando poi non è capace e si dimentica di spiegare qual è il
senso, il significato che l'esistenza ha per il singolo individuo concreto.
La filosofia razionalistica moderna, come anche la filosofia greca antica, afferma
Kierkegaard, si basa sulle essenze, ossia su concetti generali ed astratti, ma non si
preoccupa di capire quale senso abbia l'esistenza per ciascun uomo. L'esistenza
concreta del singolo individuo non coincide col concetto generale e astratto di
uomo e di umanità. Le essenze, i concetti astratti, sono schemi mentali fissi che si
pretende siano immutabili e necessari, sempre costanti ed uguali. Invece l'esistenza
del singolo individuo concreto non si può ricondurre e spiegare in base a schemi
fissi e necessari. Essa è sempre imprevedibile, quindi non può essere
necessariamente predeterminata e predeterminabile. È in tal senso ridicola, prosegue
Kierkegaard, la pretesa di Hegel di poter dedurre la conoscenza dell'uomo singolo dal
concetto e dall'essenza universale ed astratta di Umanità e di Spirito dell'umanità e
del mondo. L’esistenza del singolo non coincide col concetto; la sua non è certo
un’esistenza concettuale. Hegel presume di parlarci dell’Assoluto ma non comprende
l’esistenza umana.
Kierkegaard distingue tra "essenza" e "esistenza". L'essenza è l'oggetto del concetto,
cioè l'universale, il necessario, ciò su cui verte la filosofia di Hegel, che è
essenzialmente una logica e riduce appunto l'intera realtà ad essenze. L'esistenza è
invece la condizione in cui si trova l'individuo, il particolare, ed è questa per
73

Kierkegaard la vera realtà. Se infatti, come diceva lo stesso Hegel, la realtà è


intrinsecamente movimento (il processo dialettico), esso non può essere prodotto
dalle pure essenze ma deve avere come soggetto l'individuo, anzi il singolo, come lo
definisce Kierkegaard.
Le essenze sono il regno della necessità, le singole esistenze degli uomini sono il
regno della libertà. L'esistenza dei singoli individui, infatti, non ha un senso e un
itinerario già prestabilito e ricavabile, deducibile da concetti generali. Invece, ogni
singolo individuo è libero di scegliere quale tipo di esistenza vuole vivere e
diverse e varie sono le possibilità di scelta. L'individuo è solo con se stesso in questa
scelta, alla fine spetta solo a lui decidere quale vita scegliere e condurre: è una scelta
libera ma, in quanto scelta di vita, è rischiosa.
Esistere (dal latino ex-sistere) significa emergere, venir fuori dal nulla (prima di
esistere l'individuo è nulla), quindi l'esistenza arriva per caso e non da un progetto
predefinito che stabilisca in anticipo quale tipo di esistenza condurre. L'individuo si
trova a dover scegliere il proprio tipo di esistenza fra innumerevoli e differenti
possibilità.
L'uomo è libero di scegliere fra le diverse possibilità, ma poiché sceglierne una
significa dover rinunciare alle altre, la sua libertà di scelta diventa angosciosa: la
scelta dell'esistenza provoca angoscia. D'altra parte l'individuo non può fare a
meno di scegliere: anche il rifiutarsi di scegliere è una scelta di vita.
Le pietre, le piante, gli animali non scelgono quale tipo di esistenza condurre; la loro
esistenza si muove nel regno della necessità, cioè all'interno delle leggi naturali
predeterminate che reggono la specie cui appartengono. Per essi la specie è dunque
più importante dell'individuo singolo. L'esistenza umana è invece il regno della
libertà e della possibilità di scelta, ossia è il regno del divenire e del contingente,
quindi è il regno della storia. L'uomo è ciò che sceglie di essere: per questo motivo,
nel caso dell'uomo e diversamente dall'animale e dalle piante, l'individuo è più
importante della specie: "l'uomo è spirito che sceglie ".
Kierkegaard respinge in particolare la dialettica hegeliana, cioè l'idea che la
realtà si sviluppi attraverso la contrapposizione fra una tesi e la sua antitesi per poi
armonizzarsi e trovare l'accordo nella sintesi. Spesso, obietta Kierkegaard, nella vita e
nella storia non è affatto così; spesso le contrapposizione e i conflitti rimangono e
non si conciliano nella sintesi. Hegel crede ottimisticamente che le
contrapposizioni, cioè sia la tesi che l'antitesi, "et - et", l'una e l'altra, vengano
superate nella sintesi. Kierkegaard invece afferma che spesso gli opposti, tesi e
antitesi, non si risolvono in una sintesi che li metta d'accordo; spesso prevale uno
o prevale l'altro, non "Et-Et" ma "Aut-Aut", o questo o quello, secondo il titolo
di una delle sue opere più importanti, e non si può sperare nella loro sintesi. È per
questo che l'individuo si trova di fronte a scelte, e a scelte di vita, angosciose,
proprio perché sono scelte radicali, assolutamente alternative ed opposte una
all'altra: o si scegli una cosa o se ne sceglie un'altra, ma non possono essere scelte
tutte due.
74

Possibilità, angoscia e disperazione (dall'opera Timore e tremore).

L'esistenza è dunque libertà, è poter essere, ossia possibilità di scegliere il modo


di vivere la propria esistenza tra le diverse alternative. Ma questa libertà di scelta
costituisce un peso grave dell'uomo poiché è rischiosa, tremenda, piena di
incertezze e scegliere una possibilità significa rinunciare alle altre che magari
avrebbero potuto rivelarsi migliori. L'esistenza è anche possibilità di non
scegliere, di non decidere, di restare nella paralisi e perdersi nel nulla, di condurre
un'esistenza senza senso, anche se questa non scelta è essa stessa una forma di
scelta.
Il rischio e l'incertezza insiti nella scelta dell'esistenza conducono l'uomo
all'angoscia: la libertà di scelta è angoscia. Ma l'angoscia è anche formativa:
riflettendo, possiamo capire che ogni nostra scelta di vita rimane pur sempre una
scelta compiuta nel mondo delle cose finite e delle illusioni. Solo il salto verso la
trascendenza e l'affidarsi ad essa può essere fonte di salvezza ma, come vedremo, non
senza contraddizioni e paradossi.
Accanto all'angoscia c'è la disperazione. L'angoscia sorge nell'uomo in rapporto
al mondo, per effetto dell'incertezza di fronte alle diverse possibilità di scelta
offerte dal mondo. La disperazione nasce nell'uomo in rapporto a se stesso: essa
è assenza di speranza di poter essere e realizzare autenticamente se stesso, il
proprio fine. Infatti, se l'uomo vuole realizzare completamente se stesso e quindi
superare i suoi limiti, scopre che ciò è impossibile a causa della sua condizione di
essere imperfetto. Ma anche quando l'uomo non vuole realizzare se stesso, quando
cioè vuole essere altro da sé, scopre che pure ciò è impossibile perché non può essere
comunque diverso da come è. L'uomo non è capace di realizzare ciò che vorrebbe
e non è neppure capace, d'altra parte, di sopprimere le sue aspirazioni: da ciò la
sua disperazione. L'angoscia è il sentimento che si prova di fronte all'ignoto, quando
non si sa cosa accadrà; è la condizione dell'uomo di fronte al problema della scelta.
La disperazione è invece la perdita di qualsiasi speranza di salvarsi, è la certezza di
perdersi, la negazione delle possibilità, cioè della libertà: è, come da Kierkegaard
definita, "malattia mortale".
La disperazione è la colpa dell'uomo che non sa accettare se stesso, la sua
condizione di essere limitato e imperfetto. La salvezza, il rimedio sta invece
nell'accettare ciò che si è, nell'accettare i propri limiti. L'uomo può sperare nella
propria realizzazione quando smette di credere in se stesso, rinunciando cioè alla
propria superbia ed offrendosi totalmente a Dio, riconoscendo la sua integrale
dipendenza da Dio perché, secondo Kierkegaard, in Dio tutto è possibile.

I tre stadi dell'esistenza.


L'uomo, si è visto, non può evitare di scegliere il proprio tipo di esistenza.
Kierkegaard considera tre fondamentali e possibili scelte di vita che egli chiama
stadi: 1) lo stadio estetico; 2) lo stadio etico; 3) lo stadio religioso.
75

Questi tre stadi dell'esistenza non sono consecutivi (non si succedono uno dopo
l'altro), ma sono invece del tutto alternativi (o se ne sceglie uno oppure un altro: aut
- aut e non et - et). Si può passare da uno stadio all'altro non in base ad una
progressione continuativa (prima uno, poi il secondo e quindi il terzo), ma solo
attraverso un salto, una rottura, cioè solo attraverso una scelta completamente
diversa ed opposta alla precedente. Oppure si può rimanere fermi in uno stadio
per sempre.

Lo stadio estetico rappresenta la scelta di vita di coloro che, come appunto l'esteta,
simboleggiato dal Don Giovanni, fanno del piacere lo scopo principale dell'esistenza
e sfuggono l'impegno della famiglia e del lavoro. Vivono nell'istante, senza fini e
progetti prestabiliti, e sono sempre alla ricerca di novità piacevoli. Ma alla fine la
continua ricerca del piacere diventa monotona, ripetitiva e si trasforma in noia.

Lo stadio etico è caratterizzato dall'impegno, dal senso di responsabilità e del dovere.


Simbolo di questo stadio è la figura del "marito". L'uomo sceglie di realizzarsi nella
famiglia, nel lavoro, nella società e sente di dover dare il proprio contributo allo
sviluppo del bene comune. Ma proprio in questo suo impegno e darsi da fare per
l'umanità l'individuo avverte quanto è grande la sofferenza e l'ingiustizia umana e si
sente impotente. Ne deriva un senso di colpa per la propria incapacità e i propri
limiti: si rende conto che l'impegno personale non basta per liberare gli uomini
dall'ingiustizia e dal male. Si presenta quindi la possibilità, non la necessità, di
compiere un salto nello stadio religioso, che è pentimento e riconoscimento della
limitatezza e colpevolezza umana derivante dal peccato originale, che è peccato di
superbia.

Lo stadio religioso è quello in cui l'uomo sceglie un'esistenza rivolta verso Dio,
verso la trascendenza. Avverte che il male dell'umanità non può trovare rimedio se
non in una visione religiosa ed ultraterrena. Simbolo di questo stadio è Abramo, che
riceve da Dio l'ordine, contrario ad ogni legge morale, di uccidere il figlio Isacco.
Abramo si trova così di fronte ad un contrasto estremo tra il principio religioso
(l'obbedienza a Dio) ed il principio morale umano (l'amore per il figlio). Abramo
sceglie Dio, sceglie di obbedire a Dio e questa sua scelta lo salva, in quanto Dio invia
un angelo a fermare il sacrificio del figlio.

La contraddizione e il paradosso della fede (dall'opera Timore e tremore).

Lo stadio religioso è dunque per Kierkegaard l'unica scelta di esistenza che


consente la salvezza dell'uomo. Ma la fede religiosa è sempre, per la Chiesa
protestante, una scelta tormentata che Kierkegaard, pastore protestante, esprime
con particolare forza.
La fede consiste nel rapporto tra il singolo individuo e Dio. Tuttavia, mentre per il
cattolicesimo la Chiesa è il tramite principale tra l'uomo e Dio, per il protestantesimo
76

invece tra l'uomo e Dio vi è un rapporto diretto, immediato, privato: la Chiesa tutt'al
più può svolgere una funzione di solo orientamento nei confronti della divinità.
Il credere in Dio, peraltro, può apparire una scelta contraddittoria e
paradossale, assurda, perché la fede in Dio e nei comandamenti divini implica la
capacità di andare oltre e contro le regole della morale umana, come
esemplificato nella vicenda di Abramo. La fede impone un salto: non può derivare né
dai sentimenti né dalla ragione umana. A differenza di ciò che affermava la filosofia
medievale e di ciò che ancora oggi afferma la Chiesa cattolica, per Kierkegaard,
come per gran parte della Chiesa protestante, non ci può essere accordo tra ragione
e fede (la fede non può essere spiegata e dimostrata razionalmente) né ci può essere
accordo tra sentimenti umani e fede (non sempre la fede coincide con l'umano
sentire).
L'uomo si trova quindi solo e disperato di fronte alla fede e di fronte a Dio,
poiché comprende che aver fede significa che l'uomo non può contare in se stesso
per la propria salvezza, ma può soltanto sperare di essere scelto da Dio, secondo
la teoria protestante della predestinazione. È questo l'aspetto paradossale della
fede: finché l'uomo non crede, può pensare di essere lui stesso in grado di scegliere
liberamente; ma non appena sceglie di credere, l'uomo sente che non è stato
veramente lui ad aver scelto la fede ma che è stato Dio a concederla attraverso il dono
della grazia.
Di fronte a Dio l'uomo avverte che vi è un'enorme distanza tra l'infinità divina e la
finitezza umana; avverte che l'uomo non vale nulla e che solo Dio può tutto e può
dare all'uomo la fede e la salvezza. Il paradosso della fede consiste dunque anche
nell'affidarsi completamente e ciecamente a Dio benché la ragione umana non
sia capace di comprenderlo. La fede è un abbandonarsi completo a Dio correndo il
rischio di un tale abbandono incomprensibile per la ragione. È insensata, dichiara
Kierkegaard, ogni teologia "scientifica" che voglia spacciarsi per scienza e spiegare
razionalmente il mistero di Dio e della fede.
Tutto ciò è ulteriore fonte di angoscia, poiché l'assurdo della fede spinge l'uomo a
credere in un Essere del quale non si conosce assolutamente nulla ma solo nel quale
tuttavia l'uomo può trovare la salvezza e il senso della propria esistenza, che non sta
nella vita terrena ma in quella ultraterrena. La scelta della fede è, paradossalmente,
il rifiuto della razionalità.
Dio ha creato l'uomo libero e innocente. Innocente è colui che ignora la differenza
tra il bene e il male. L'uomo si mantiene nello stato dell'innocenza finché permane la
sua assoluta dipendenza da Dio. Adamo non conosce la differenza tra bene e male,
non deve lottare contro nulla ed è proprio il nulla che ha di fronte ad angosciarlo,
spingendolo verso qualcosa che non conosce. Nel momento in cui Adamo
trasgredisce il divieto divino e mangia la mela proibita, cioè nel momento in cui
l'uomo, esercitando la sua libertà, afferma se stesso di fronte a Dio e rivendica la sua
autonomia, egli perde l'innocenza. Ottiene la conoscenza ma diventa peccatore.
Questo è il dramma della vita umana: l'uomo non può esistere se non peccando e per
esistere non può non peccare. Ogni atto con cui l'uomo intenda affermare se stesso
implica la negazione di Dio, la trasgressione, il peccato. Da ciò deriva l'angoscia.
77

L'angoscia dell'uomo è la percezione di una carenza del proprio essere, è soprattutto


la sconvolgente scoperta della propria libertà. Ma, esercitando la propria libertà per
affermare la sua autonomia, l'uomo ha spezzato i legami di dipendenza assoluta da
Dio, ha rinunciato alla diretta guida divina e si è trovato solo con se stesso, senza
più direttrici e traguardi sicuri. In questo senso la libertà dell'uomo si identifica col
nulla, poiché l'uomo vive la propria libertà come regno del possibile, ossia del
contingente, dell'assoluta imprevedibilità, del nulla di certo e di garantito.
Per Hegel la religione è solo una rappresentazione, cioè un contenuto di verità (la
verità dell’Assoluto) espresso per mezzo di una forma inadeguata. Per Kierkegaard
la religione è essenzialmente fede pura, non riducibile ad una filosofia (a
razionalità), anzi del tutto indipendente da qualsiasi filosofia.
La storia per Kierkegaard non è affatto, come per Hegel, il luogo della
manifestazione dell'Assoluto, di quell'Assoluto infinito che è il Dio hegeliano: il
rapporto tra l'uomo e Dio non si verifica nella storia ma piuttosto nell'attimo, inteso
come improvvisa inserzione e apparire della verità divina nell'uomo. Ma ciò, al
contrario della fiducia di Socrate nella ricerca della verità, vuol dire che l'uomo per
suo conto vive nella non-verità: in questa condizione sta il presupposto del peccato.
L'attimo è l'avvento, paradossale e incomprensibile, dell'eternità nel tempo e realizza
il paradosso del cristianesimo, che è la venuta di Dio nel mondo, il quale muore
come uomo mentre parla e agisce come Dio.
78

DESTRA E SINISTRA HEGELIANA.

I discepoli di Hegel, specialmente dopo la sua morte, si separano in due gruppi, fra di
essi in contrasto, denominati rispettivamente "Destra hegeliana" e "Sinistra
hegeliana".
I due gruppi sono in disaccordo soprattutto nell'interpretazione di due ambiti
della filosofia di Hegel: la religione e la politica.
Circa la politica, la celebre frase di Hegel secondo cui "tutto ciò che è reale è
razionale e tutto ciò che è razionale è reale" è interpretata dalla Destra hegeliana nel
senso che la realtà sociale e politica esistente, essendo razionale, è da intendersi allora
sempre giustificata, considerata giusta. Si tratta di una visione conservatrice che,
giustificando lo "status quo" (la situazione socio-politica esistente), difende quindi
l'assolutismo dello Stato prussiano.
La Sinistra hegeliana interpreta invece la frase di Hegel sopracitata nel senso che
tutto ciò che nella realtà sociale e politica non è razionale, bensì ingiusto, è destinato
nel processo dialettico ad essere superato, ossia deve essere trasformato dalla politica
in razionalità e giustizia sociale. È una visione progressista, che non accetta la
situazione esistente e lo Stato assoluto prussiano nell'intento di pervenire a forme di
liberalismo radicale.
Circa la religione, Hegel aveva sostenuto che sia la religione sia la filosofia hanno il
medesimo contenuto, hanno entrambe per oggetto l'Infinito, lo Spirito assoluto, salvo
che la religione è espressione dell'Assoluto in forma di rivelazione e
rappresentazione, mentre la filosofia esprime l'Assoluto in forma di concetto, ossia di
spiegazione e comprensione razionale.
In tal senso, la Destra hegeliana sostiene che religione e filosofia, avendo entrambe
il medesimo contenuto, sono allora fra di esse compatibili, per cui la filosofia è
perfettamente conciliabile con la religione (accordo tra ragione e fede). La Sinistra
hegeliana invece afferma che, essendo la filosofia l'unica forma di spiegazione
razionale dell'Assoluto, essa di conseguenza supera la religione che, pertanto, non ha
più alcun motivo di sussistere, riducendosi la rivelazione religiosa divina ad
invenzione essenzialmente umana (ateismo).
La Destra hegeliana, denominata anche gruppo dei "vecchi hegeliani", più
moderata e conformista, era composta soprattutto da professori universitari e da
teologi protestanti che volevano mostrare l'accordo tra filosofia hegeliana e
religione cristiana da una parte e tra filosofia hegeliana e Stato prussiano dall'altra.
La Sinistra hegeliana, denominata anche gruppo dei "giovani hegeliani", rovescia
invece l'idealismo di Hegel in un ateismo materialistico che avrebbe avuto come
maggiori esponenti Feuerbach e Marx.
79

LUDWIG FEUERBACH (1804-1872).

Nasce in Baviera. È stato inizialmente allievo di Hegel e poi libero docente


all'università di Erlangen. Costretto a rinunciare alla carriera universitaria per le sue
concezioni antireligiose, è vissuto in seguito sempre più appartato e isolato.
È il fondatore dell'ateismo filosofico dell'Ottocento.
Opere principali: L'essenza del cristianesimo; L'essenza della religione.

La critica a Hegel.

Hegel, dice Feuerbach, incomincia la sua filosofia con l'essere, cioè con il concetto
astratto di essere, di Idea, di Spirito, che non soltanto pone se stesso come causa di
sé, ma si illude e pretende altresì di essere all'origine, quale principio produttore,
della stessa natura (Idea fuori di se). La filosofia deve invece cominciare con
l'essere reale, per cui la filosofia hegeliana deve essere rovesciata: ciò che nel
sistema di Hegel è considerato soggetto (il pensiero, l'Idea, lo Spirito) in realtà è solo
il predicato (attributo); viceversa è il predicato (l'essere e la realtà sensibile) che deve
essere considerato come il vero soggetto: prima c'è il mondo, la natura, gli uomini
concreti e solo da questi deriva poi il pensiero. La filosofia di Hegel assume l'idea
di una cosa per la cosa stessa e da questa deduce poi la cosa realmente esistente.
Seguendo in tal senso una tendenza inaugurata da Cartesio (il primato del soggetto
incentrato sulla "res cogitans") e seguita poi da Spinoza, Leibniz, dallo stesso Kant ed
infine da Hegel, l'idea pone in primo piano se stessa, attribuendosi un carattere di
infinito, e riduce a predicato finito la realtà e gli eventi concreti, supposti come sue
manifestazioni e produzioni. Al contrario, Feuerbach ribadisce l'autonomia e la
centralità della realtà sensibile, della natura.
Hegel aveva eliminato il Dio trascendente della tradizione e ad esso aveva
sostituito lo Spirito immanente, concepito come Spirito dell'umanità, come
umanità astratta. A Feuerbach non interessa l'umanità in astratto ma invece
l'uomo reale, che è innanzitutto natura, corporeità, sensibilità. "Verità è l'uomo e
non la ragione astratta; verità è la vita e non il pensiero". Occorre quindi negare
l'Idealismo che nasconde l'uomo concreto. A maggior ragione bisogna negare la
religione, giacché, afferma Feuerbach, non è Dio che crea l'uomo, bensì è l'uomo
che crea Dio.

La teologia è antropologia.

La filosofia hegeliana, secondo la quale la realtà è posta e creata dall'Idea, dallo


Spirito, altro non è, per Feuerbach, che una teologia mascherata. Infatti, così come
per la religione il mondo è la creazione di uno Spirito supremo chiamato Dio, anche
per Hegel la realtà, il mondo, è il prodotto di uno Spirito assoluto: l'unica differenza è
che il Dio della religione è trascendente mentre lo Spirito di Hegel è immanente.
Invece non è lo Spirito ad aver creato la realtà naturale ed umana bensì il contrario:
80

prima c'è la realtà, ci sono le cose, e solo dopo c'è il pensiero (lo spirito) della realtà e
delle cose La filosofia di Hegel dunque è, alla fin fine, la più grande teologia.
Se la realtà dunque non è creazione del pensiero e la filosofia vuole essere davvero
scienza di questa realtà, occorre allora ristabilire la prevalenza e il primato del
finito sull'infinito. Feuerbach ammette l'unità dell'infinito col finito ma
capovolge i termini: l'infinito sta nel pensiero dell'uomo finito. Dapprima ci sono
gli enti finiti e solo dopo vi è il pensiero relativamente ad essi, pensiero che, per sua
natura, è illimitato, infinito, nel senso che ad ogni pensiero possono sopraggiungere
pensieri ulteriori (nonché sentimenti ed emozioni) indefinitamente. Gli enti finiti
sono in sé autosufficienti. È solo a causa dei nostri meccanismi psicologici che
sentiamo il bisogno di far derivare gli enti finiti, che sono provvisori e
contingenti, da un principio e da un'entità infinita (sia questa il Dio trascendente o
lo Spirito immanente). Va quindi respinta l'idea della filosofia come scienza
dell'infinito. Bisogna piuttosto riportare la filosofia ad essere scienza del finito.
Ciò significa ricondurre la filosofia ad essere scienza dell'uomo, fare cioè di essa
un'antropologia (antropologia significa appunto scienza dell'uomo). Altrettanto
vale e specialmente per la religione, ossia per la teologia: la teologia è in effetti
antropologia.

L'alienazione religiosa.

Se il mondo e l'uomo non sono creati da un'entità infinita, come sorge allora l'idea di
Dio onnipotente e creatore del mondo? Come nasce la religione? Per Feuerbach
essa è una forma di "alienazione" (alienazione=estraniazione, cioè l'uomo si
estrania, esce fuori da se stesso, perde la coscienza di se stesso e/o perde la fiducia in
se stesso). L'uomo, spiega Feuerbach, si rende conto che non sempre nella vita
terrena riesce a realizzare le sue più nobili aspirazioni di bene, di giustizia, di
libertà, di infinito. Allora l'uomo si aliena, esce fuori da se stesso e proietta le sue
aspirazioni in un essere supremo, Dio, infinito, onnipotente, trascendente e creatore
del mondo, che però è in realtà immaginato e creato dall'uomo stesso come colui
che garantisce che tali aspirazioni saranno alla fine realizzate quantomeno in
una vita ultraterrena. Ecco perché, conclude Feuerbach, non è Dio ad aver creato
l'uomo ma è l'uomo che ha creato Dio. Tutti gli attributi dell'essere divino sono in
effetti gli attributi e le qualità migliori dell'essere umano che l'uomo, alienato e privo
di fiducia in se stesso, proietta in Dio. La religione e la teologia sono fatti e creazioni
totalmente umani. Perciò, ribadisce Feuerbach, la teologia non è in verità scienza di
Dio ma è invece antropologia, ossia è scienza dell'uomo.
L'uomo trova una natura insensibile alle sue sofferenze, trova un mondo ostile e
perciò placa la sua inquietudine, il suo dolore, il suo smarrimento nella religione,
costruendosi una divinità che sia garanzia di salvezza. Ogni credente è certo
dell'esistenza di Dio perché Dio è un sua proiezione.
81

Il nuovo umanesimo e il compito della filosofia.

Solo dopo aver preso piena coscienza di sé, delle proprie capacità e delle sue
qualità migliori, cioè solo dopo essersi "disalienato", l'uomo può stabilire un
diverso rapporto, un diverso punto di vista nei confronti di se stesso e degli altri e
progettare una felicità che prima riteneva possibile solo come ultraterrena.
Uscendo dalla alienazione religiosa, l'uomo comprende che tutta le qualità ed attributi
dell'essere divino sono invece le qualità e gli attributi più nobili dell'uomo stesso.
Alla morale tradizionale, che raccomandava l'amore di Dio, Feuerbach
sostituisce una morale che raccomanda l'amore dell'uomo in nome dell'uomo. È
questo il nuovo umanesimo della filosofia di Feuerbach: trasformare gli uomini
da amici di Dio in amici degli uomini.
Feuerbach incita ad una nuova convivenza con gli altri, non più basata sulla
prepotenza. L'uomo è determinato dai bisogni, ma il vero e più grande bisogno è
l'amore dei suoi simili. L'essenza e il fine dell'uomo è quello di sviluppare il valore
fondamentale della solidarietà sociale nella vita di comunità. L'uomo non è fatto per
vivere da solo o in conflitto con gli altri.
Compito della filosofia è proprio quello di liberare l'uomo dall'alienazione
religiosa e fargli riacquistare coscienza di sé e fiducia nelle sue qualità migliori.
Dopo aver compreso l'origine puramente umana della religione, l'uomo può
impegnarsi a diventare lui stesso Dio per l'altro uomo. Al posto della religione e
delle superstizioni, l'uomo potrà dimostrare il proprio valore e la propria libertà
col lavoro, con l'arte e con la partecipazione alla vita sociale e politica
(socialismo umanistico). Compito della filosofia è di porre l'infinito nel finito, cioè
di risolvere Dio nell'uomo. Dall'amore per Dio all'amore per l'uomo, dalla fede in Dio
alla fede nell'uomo.
82

IL SOCIALISMO UTOPISTICO.

Si sviluppa soprattutto in Francia a partire dal 1830. Principali esponenti sono:


Saint-Simon, Fourier e Proudhon. In Inghilterra si può citare Robert Owen. Si chiama
"utopistico" perché i suoi esponenti propongono un modello di società ideale,
immaginaria, come il modello di Stato ideale proposto da Platone. "Utopia" infatti
significa qualcosa che non sta in alcun posto reale.
Il socialismo utopistico si pone il fine di realizzare una società che abbia come
obiettivo la felicità e il benessere generale sulla base, più che della politica, della
cooperazione e collaborazione fra i gruppi sociali, nonché sulla base di una più equa
produzione e distribuzione della ricchezza e del rafforzamento dell'educazione sociale
dei cittadini. Viene privilegiato il principio della cooperazione tra gli uomini e
quello associativo (le associazioni sociali), considerati più importanti del
principio della concorrenza e dell'individualismo in economia e nella società.
La felicità e il benessere della collettività, sostengono i socialisti utopisti, non
possono essere raggiunti in una società basata sulla competizione economica,
nell'illusione che la libera concorrenza possa condurre da sola ad una naturale e più
ampia distribuzione della ricchezza accumulata da pochi. È pertanto necessaria una
regolamentazione sociale dell'economia.
Dal punto di vista economico-politico, la concezione dei socialisti utopisti è stata più
di tipo riformatrice che rivoluzionaria. Essi infatti non contestavano i principi
fondamentali del liberalismo economico, quali la proprietà privata, ivi comprese la
proprietà delle imprese e del capitale nonché la divisione sociale del lavoro (fra
dirigenti e dipendenti e fra lavoro intellettuale e manuale) e quindi la divisione in
classi sociali. Il loro obiettivo era piuttosto quello di un controllo sociale dei fattori
economici per contrastare gli effetti più aspri e disumani della rivoluzione industriale.
Più che una rivoluzione politico-sociale, si proponevano soprattutto l'eliminazione
dello sfruttamento più duro dei lavoratori (gli operai lavoravano fino a quattordici
ore al giorno; erano indotti al lavoro anche le donne e i bambini; era diffusa la
delinquenza e l'alcolismo) ed una distribuzione più equa dei beni e della
ricchezza. Non si opponevano tanto alla società capitalistica quanto ai suoi
eccessi.
Considerando più importanti gli aspetti sociali ed economici, i socialisti utopisti
erano spesso diffidenti nei confronti della politica.
Nell'intento di migliorare la vita economica e sociale della popolazione, i socialisti
utopisti propongono, come si è detto, modelli ideali di società: Fourier e Owen
propongono una nuova società basata su istituzioni sociali nuove, chiamati
"Falansteri", gestite in comune. Saint-Simon propone governi guidati da scienziati e
tecnici.
83

KARL MARX (1818-1883).

Nasce a Treviri e studia a Bonn e a Berlino, dove si laurea in filosofia. Tra il 1843 e il
1845 vive a Parigi dove conosce Engels. Dopo i moti del 1848 è costretto all'esilio e
si rifugia in Inghilterra, a Londra, diventando punto di riferimento del movimento
operaio europeo.
Opere principali: Il manifesto del partito comunista, scritto insieme ad Engels; Il
Capitale.
La sua opera non è strettamente filosofica, ma la sua analisi sulla società e sulla
storia, oltre che dal punto di vista sociologico ed economico, è per molti versi
importante anche da quello filosofico.
Marx sviluppa il suo pensiero in parte accogliendo ed in parte criticando la
filosofia di Hegel e della Sinistra hegeliana. Critica inoltre gli economisti classici,
i socialisti utopisti e Feuerbach.

La critica a Hegel.

Marx riconosce ad Hegel il merito della concezione dialettica della realtà,


secondo cui la realtà si sviluppa attraverso continue contrapposizioni dei contrari (tesi
e antitesi) che trovano poi l'accordo nella sintesi. Ma il modo in cui Marx considera
la dialettica è diverso rispetto ad Hegel. Per Marx il momento prevalente che
spiega il divenire e lo sviluppo della realtà non è quello della sintesi, come in Hegel,
ma è proprio quello della contrapposizione, del conflitto tra gli elementi della
realtà. Per Marx la lotta è la vera molla e causa della storia e la dialettica non ha,
come in Hegel, valore giustificativo della realtà (secondo il principio dell'identità di
reale e razionale), ma è uno strumento rivoluzionario.
Secondo Marx, e come sostiene anche Feuerbach, l'errore principale di Hegel è
quello di interpretare il mondo alla rovescia, di invertire il corretto rapporto tra
soggetto e predicato: invece di partire dagli uomini concreti, dalle loro azioni e dai
loro bisogni, ed assumerli quindi come il soggetto da cui si sviluppa tutto il resto,
Hegel parte dallo Spirito, cioè dall'Idea e dal pensiero astratto, che considera il
vero soggetto, facendo derivare dallo Spirito gli uomini reali, la famiglia, la società e
lo Stato, come se, dice Marx, prima venisse l'idea della pera e solo dopo venisse la
pera reale. Ma si tratta di una mistificazione, ossia di un'interpretazione falsa della
realtà. Altrettanto, prosegue Marx, invece di partire dalle persone concrete e
considerare lo Stato un loro prodotto, frutto quindi di precise condizioni materiali e
storiche, Hegel fa esattamente l'opposto e considera i cittadini un prodotto dello
Stato. E poiché per Hegel ciò che è reale è sempre anche razionale, allora per
Hegel ogni tipo di Stato è sempre giusto e deve essere sempre giustificato, mentre
invece lo Stato, in realtà, non è un prodotto dello Spirito razionale ed infallibile, ma è
un prodotto degli uomini i quali possono sbagliare, per cui lo Stato può essere anche
ingiusto. Quella di Hegel, afferma Marx, è "ideologia", cioè un pensiero che
giustifica sempre, per principio preso, l'ordine esistente.
84

L'errore di Hegel, commenta ancora Marx, nasce dalla separazione che egli opera
fra teoria e prassi (=l'azione concreta degli uomini). Ma la teoria separata dalla
prassi diventa vuota, diventa ideologia. La teoria invece deve essere sempre unita
alla prassi, il conoscere cioè non deve valere in se stesso ma deve valere per
guidare l'azione e l'attività umana. L'unione di teoria e prassi è il primo
importante principio della filosofia di Marx.

La critica alla Sinistra hegeliana.

Marx giudica la Sinistra hegeliana incapace di comprendere le vere cause del


malessere e delle ingiustizie sociali. Riconosce che la Sinistra ha trasformato
l'idealismo in materialismo, che ha saputo considerare la religione un fatto ed
un'invenzione puramente umani e che si è sforzata di combattere il sistema politico
conservatore esistente, nell'obiettivo di conseguire profonde riforme democratiche,
ma considera tutto ciò insufficiente.
Infatti, sostiene Marx, la Sinistra hegeliana era convinta che le cause delle
ingiustizie sociali consistessero nelle idee sbagliate degli uomini, per cui pensava
di poter trasformare e migliorare il mondo trasformando le idee e le coscienze.
Però, fa presente Marx, le idee non si modificano sostituendole con altre idee,
poiché le concezioni degli uomini non sono la causa ma l'effetto, sono il prodotto
delle condizioni materiali di vita in cui ci si trova (libertà e benessere o servitù e
povertà) e quindi le idee possono essere modificate solo cambiando radicalmente
le sussistenti condizioni materiali.
Non c'è dapprima la coscienza, le idee, e poi, di conseguenza, un certo tipo e certe
condizioni di vita, ma il tipo di coscienza acquisita deriva, al contrario, dalle
condizioni individuali e storiche in cui si vive; deriva dai modi vigenti di
produzione del lavoro (dai modi in cui il lavoro viene svolto ed organizzato) e dai
modi di divisione del lavoro (direttivo o dipendente, manuale o intellettuale).
Non è la coscienza (il modo di pensare) che determina la vita (le condizioni di
vita), ma è la vita che determina la coscienza: è questo un ulteriore importante
principio della filosofia di Marx.
La critica che la Sinistra hegeliana rivolge contro le ingiustizie sociali è puramente
ideale. Invece, precisa Marx, non è con la semplice critica ma con la rivoluzione
che si fa e si cambia la storia. Soltanto attraverso una prassi rivoluzionaria che
modifichi le condizioni materiali di vita si può mutare la realtà e quindi anche le
coscienze, cioè il modo di pensare degli uomini (unione di teoria e prassi).
L'uguaglianza puramente giuridica, cioè solo formale, sul semplice piano dei
diritti, proclamata dall'Illuminismo e dalla società liberale è insufficiente se
permane la disuguaglianza economica.

La critica agli economisti classici.

Marx riconosce che gli economisti classici borghesi, in particolare Adam Smith e
David Ricardo, hanno correttamente elaborato la teoria secondo cui il valore di
85

ogni merce è determinato dalla quantità di lavoro necessario per produrla


(quanto maggiore è il lavoro che una merce richiede tanto più essa vale, cioè costa).
Ma, prosegue Marx, essi vedevano nell'economia solo rapporti tra oggetti, ossia lo
scambio di una merce con l'altra tramite la moneta, mentre invece l'economia è
fatta soprattutto di rapporti tra uomini (padroni e lavoratori). L'economia classica
considera come permanenti le proprie leggi economiche, giustificando in questo
modo il sistema economico esistente anche se ingiusto. L'economia classica ci dice
come vanno le cose ma non spiega il perché; considera la proprietà privata come
un fatto naturale, ma non spiega come nasce. Per Marx invece la proprietà
privata non è una legge assoluta, un fatto naturale e immodificabile, bensì la
conseguenza di una certa evoluzione storica, la quale può allora essere cambiata.
Tanto più che nella società capitalistica la proprietà privata per eccellenza è
quella sui prodotti del lavoro altrui, cioè dei lavoratori: il capitalista espropria
(deruba) il lavoratore del suo prodotto e da ciò consegue la condizione di
alienazione del lavoro umano, come in seguito sarà illustrato.

La critica del socialismo utopistico.

La critica di Marx si estende anche al socialismo utopistico perché, egli dice, se i


socialisti utopisti hanno avuto il merito di aver individuato gli aspetti negativi
dell'industrializzazione (lo sfruttamento dei lavoratori), essi però non hanno
compreso le leggi scientifiche e le vere cause del sistema capitalistico industriale.
Essi si illudevano di eliminare le ingiustizie della società borghese senza far ricorso
alla lotta di classe, ma confidando semplicemente nei buoni sentimenti e negli ideali
di solidarietà umana. Ma questo, dichiara Marx, è un moralismo che non serve.
Al socialismo utopistico Marx contrappone il proprio socialismo, definito
"scientifico" perché basato sulla scoperta delle leggi scientifiche del capitalismo e,
quindi, dei modi più efficaci per superarlo e cambiarlo.

La critica alla religione e a Feuerbach.

Marx condivide la tesi di Feuerbach circa l'inesistenza di Dio e l'invenzione


puramente umana della religione. Tuttavia, secondo Marx, Feuerbach non ha
spiegato adeguatamente perché l'uomo crea la religione. A differenza di
Feuerbach, Marx sostiene che non è vero che gli uomini si alienano, escono fuori da
se stessi e proiettano in un Dio immaginario i loro più nobili ideali, per un semplice
meccanismo psicologico e di coscienza. Essi invece si alienano in Dio e nella
religione quando le loro condizioni materiali e sociali di vita sono opprimenti, di
sottomissione e mancanza di libertà tali da impedire la libera realizzazione di se stessi
e delle loro aspirazioni.
La religione, proclama Marx, è l'oppio dei popoli. Per superare e vincere
l'alienazione religiosa non basta criticarla dal punto di vista filosofico, come ha
fatto Feuerbach. Anche in questo caso bisogna unire la teoria (la critica filosofica)
alla prassi (l'azione): bisogna cioè cambiare le condizioni materiali di vita e di
86

sfruttamento che provocano l'infelicità dell'uomo e lo costringono a crearsi illusioni


religiose, cioè l'illusione di un Dio che premierà le sofferenze in una vita ultraterrena.
Mentre per Feuerbach l'alienazione religiosa è prevalentemente un fatto di
coscienza individuale, per Marx è invece un prodotto di natura socio-economica
ed altresì l'imposizione della religione è un fatto storico determinato dalla classe
dominante al fine di ottenere l'obbedienza della classe dominata. In una nuova
società più umana, realizzata attraverso la rivoluzione, la religione è destinata a
scomparire naturalmente, perché non esisteranno più le condizioni dell'infelicità degli
uomini.

L'alienazione del lavoro.

Alienazione (dal latino “alienus”) in generale significa estraniarsi da sé, diventare


estraneo e straniero a se stesso; uscire fuori da sé; perdere la coscienza e la fiducia di
sé; non credere in se stessi ma in qualche cosa d'altro di diverso.
Per alienazione del lavoro Marx intende la perdita del possesso dei prodotti del
proprio lavoro subita dal lavoratore poiché di tali prodotti si impossessa il capitalista.
Di alienazione avevano parlato Hegel, che vedeva la natura come alienazione
dell'Idea (l'Idea fuori di sé), e Feuerbach, che considerava la religione come una
forma di alienazione, poiché l'uomo con la religione esce da se stesso, perde la
fiducia nelle sue capacità e nei suoi migliori ideali che attribuisce, anziché a se stesso,
ad un Dio immaginario.
Per Marx l'alienazione si verifica all'interno e a causa del sistema capitalistico di
produzione e delle relative condizioni di lavoro. Il lavoro, per Marx, è l'essenza
dell'uomo: attraverso il lavoro l'uomo dovrebbe poter realizzare pienamente se
stesso, dimostrare la propria capacità e creatività. Invece, il sistema capitalistico di
produzione e la proprietà privata (la proprietà dei mezzi di produzione, cioè degli
impianti, dei macchinari, delle tecnologie e della stessa attività dei lavoratori) non
rendono libero il lavoro bensì costrittivo (il lavoratore è costretto a lavorare
secondo il modo di organizzazione del lavoro stabilito dal capitalista e a lui deve
cedere ciò che produce). Anziché lavorare per utilizzare i frutti della natura e per
soddisfazione personale, il lavoratore lavora per la pura sussistenza. L'operaio è
costretto a vendere il proprio lavoro in cambio del salario. Il lavoro è quindi
trattato come merce e non come realizzazione e creatività umana. In cambio del
salario l'operaio viene espropriato, privato degli stessi prodotti del suo lavoro,
che finiscono nelle mani del capitalista. Dunque, nel lavoro salariato dipendente
l'operaio è costretto ad alienarsi, ad estraniarsi dai prodotti del suo lavoro che
non appartengono a lui. È costretto altresì ad un lavoro ripetitivo, organizzato e
imposto dal capitalista a suo proprio vantaggio, che non consente creatività e
libertà: è questa l'alienazione del lavoro che caratterizza il sistema capitalistico di
produzione. Ed è da questa alienazione che per Marx derivano tutte le altre
forme di alienazione, quella religiosa e quella politica.
Il superamento di questa situazione può avvenire solo attraverso la lotta di classe e la
rivoluzione, che eliminerà la proprietà privata e quindi anche il lavoro alienato.
87

Il materialismo storico.

La teoria dell'alienazione del lavoro conduce Marx a formulare l’altra sua


fondamentale teoria che è quella del "materialismo storico" (qui materialismo
significa la prevalenza dell'economia, che è materiale, sulle idee, che sono spirituali).
La teoria dell'alienazione segna il passaggio dal cosiddetto umanesimo di Marx (cioè
dalla sua filosofia ispirata a valori umanistici) al suo materialismo storico (cioè alla
sua filosofia ispirata all'analisi storico-economica della società), che in quanto tale si
contrappone all'idealismo storico.
Abbiamo visto che per Marx non è la coscienza degli uomini che determina il loro
essere, il loro tipo di vita bensì il contrario. Ciò consente di specificare il rapporto
che esiste tra struttura economica della società e quella che Marx chiama la
"sovrastruttura ideologica" della società stessa.
Marx definisce come "ideologia" l'insieme delle idee (del tipo di mentalità e
cultura) prodotte dalla classe dominante al fine di garantire il mantenimento del
proprio potere.
Per struttura economica Marx intende l'insieme delle forze produttive, dei rapporti
di produzione e dei modi di produzione sussistenti.
Le forze produttive sono costituite dai lavoratori, dagli impianti, dai macchinari e
dalla tecnologia, cioè dalle conoscenze tecniche e scientifiche applicate alla
produzione lavorativa. I rapporti di produzione sono quelli che stabiliscono il
possesso dei mezzi di produzione (delle attrezzature, degli impianti e macchinari),
che nel sistema capitalistico sono proprietà privata del capitalista, nonché sono quelli
che stabiliscono la ripartizione (la proprietà) del prodotto, che nel sistema
capitalistico resta in mano al capitalista. La combinazione tra il tipo di forze
produttive e il tipo di rapporti di produzione sussistenti costituisce i modi di
produzione che caratterizzano il sistema economico in un dato periodo storico.
Per "sovrastruttura ideologica" Marx intende l'insieme delle idee, delle
concezioni di vita, dei saperi, della morale, della mentalità, della politica e della
cultura di una società.
La tesi di Marx è che la vera base reale della società in un determinato periodo
storico è costituita dal tipo di struttura economica esistente, la quale condiziona non
solo la coscienza, cioè la mentalità, la cultura, il modo di pensare, le idee, ma anche
la stessa politica, la morale, la religione e la filosofia: condiziona cioè quella che è
stata definita la "sovrastruttura ideologica", che non è autonoma ma dipende dalla
struttura economica e dalla classe sociale dominante: la struttura economica
condiziona la sovrastruttura ideologica. Gli uomini, secondo il tipo di struttura
economica esistente, entrano in rapporto tra di loro in modo predeterminato e
necessario, indipendente dalla loro volontà ma dipendente dai rapporti di produzione
vigenti in corrispondenza al grado di sviluppo storico-economico della società.
Il materialismo storico è quindi la teoria secondo cui le idee morali, filosofiche,
religiose, politiche, ecc. sono condizionate dalla struttura economica sussistente. Nel
loro insieme queste idee sono soltanto una sovrastruttura che deriva dalla struttura
economica stessa. In sostanza, sostiene Marx, la coscienza e la cultura sociali non
88

sono indipendenti e tanto meno sono prevalenti, anzi sono condizionate se non
determinate dalla base economica, dalla struttura economica materiale di base
esistente nella società, organizzata secondo gli interessi imposti dalla classe sociale
dominante. Non sono le idee che determinano le condizioni materiali di vita, ma è
l'attività pratica, la base economica sussistente e la classe dominante al potere
che condizionano o determinano le idee. Le idee dominanti di un'epoca sono
sempre state le idee della classe in quel momento dominante: queste idee sono,
appunto, "ideologia". Soltanto il cambiamento della struttura economica, anche
attraverso una rivoluzione sociale, può comportare il cambiamento della
sovrastruttura ideologica, e quindi delle idee, della società.
Il materialismo di cui si tratta è definito "storico" perché nei vari periodi storici la
sovrastruttura ideologica di una società è determinata dalla struttura economica
sussistente in ciascuno di tali periodi. Quando muta la struttura economica si ha un
corrispondente cambiamento del sistema di idee, cioè della sovrastruttura ideologica.
A grandi linee, le diverse epoche storiche che si sono succedute, caratterizzate
ciascuna da una propria struttura economica materiale che ha determinato una
corrispondente sovrastruttura ideologica, sono:
1. il modo di produzione asiatico, caratterizzato da una società di tipo tribale
(formata da un insieme di tribù) nella quale non esistevano ancora distinzioni
di classe sociale, ma soltanto un sistema di divisione del lavoro secondo il
sesso (alcuni lavori erano maschili ed altri femminili);
2. il modo di produzione antico, caratterizzato dalla distinzione e lotta di classe
fra uomini liberi e schiavi;
3. il modo di produzione feudale, caratterizzato dalla distinzione e lotta di classe
fra padroni (nobili) e servi della gleba (contadini);
4. il modo di produzione borghese-capitalistico, caratterizzato dalla distinzione e
lotta di classe tra borghesi-capitalisti e proletari (operai).
Il rapporto tra struttura economica e sovrastruttura ideologica o sociale è uno
dei punti più dibattuti e discussi della filosofia di Marx. Per alcuni questo
rapporto è assolutamente rigido, nel senso che la cultura e le idee della società
rimangono sempre meccanicamente ed esclusivamente determinate dal tipo di
struttura economica materiale che le ha prodotte. Per altri invece questo rapporto è
reciproco, nel senso che la sovrastruttura sociale o ideologica torna poi, a sua volta,
a incidere sulla struttura economica, per cui struttura e sovrastruttura si influenzano a
vicenda.

Il materialismo dialettico.

Il materialismo di Marx, oltre che storico, è anche dialettico. Marx accetta la


dialettica di Hegel ma in maniera capovolta. Per Hegel la dialettica è il continuo
mutamento della realtà a seconda del modo in cui l'Idea, lo Spirito, si manifesta e si
realizza nella realtà stessa. Per Marx invece la dialettica è il continuo cambiamento
della realtà, in particolare della realtà sociale e storica, non a causa dell'Idea ma a
causa del succedersi nella storia di differenti strutture economiche e sociali.
89

Ogni struttura economico-sociale, teorizza Marx, lungo la sua storia produce


dentro di sé delle contraddizioni, dei conflitti, destinati prima o poi a provocarne
il mutamento con la nascita, conseguentemente, di una nuova struttura economico-
sociale. In ogni struttura economico-sociale c'è una classe sociale dominante e
un certo tipo di produzione economica, le quali costituiscono la tesi. Ad esse si
contrappone la classe sociale dominata, che costituisce l'antitesi. La vittoria della
classe sociale dominata comporta la nascita di una nuova struttura economico-
sociale e di un nuovo tipo o modo di produzione economica, che costituiscono la
sintesi. A sua volta la sintesi diventa una nuova tesi, cui si contrappone una nuova
antitesi, conducendo insieme ad una nuova sintesi e così via. Sono proprio le
contraddizioni che si generano in ogni epoca storica e in ogni struttura socio-
economica le molle autentiche dello sviluppo storico che danno luogo a nuove forme
sociali.
In tal senso, nelle società tribali la lotta fra le tribù ha comportato la vittoria di
talune di esse e la riduzione in schiavitù delle altre. Nella società antica gli schiavi, i
barbari, si sono ribellati e sono prevalsi sui patrizi, diventando signori feudali. Nella
società feudale i servi della gleba sono riusciti infine a liberarsi e a diventare classe
borghese dominante. Nella società capitalistica sorge la classe dei proletari (gli
operai) destinati a contrapporsi e a superare la classe borghese.
Il materialismo dialettico è quindi la teoria secondo cui il divenire storico, la storia,
si svolge in base ad un processo dialettico, cioè in base a contrapposizioni e conflitti
tra classi sociali, per effetto non già dei diversi modi in cui lo Spirito si manifesta e si
realizza, come in Hegel, ma per effetto delle contraddizioni interne alla struttura
materiale economico-sociale di volta in volta dominante. Capovolta rispetto ad
Hegel, la dialettica è per Marx la legge dello sviluppo della realtà storica. Tale
legge mostra l'inevitabile passaggio dalla società capitalistica al comunismo, con
la conseguente fine dello sfruttamento e dell'alienazione del lavoro.

La lotta di classe.

La storia di ogni società è dunque storia di lotta di classe. Così è anche per la
società capitalistica, in cui si trovano in lotta, da una parte, la borghesia, cioè i
capitalisti proprietari dei mezzi di produzione, e, dall'altra, il proletariato, cioè i
lavoratori salariati, costretti a vendere la loro forza-lavoro per procurarsi i mezzi di
sussistenza.
La classe borghese sorge all'interno della società feudale, evolvendosi dalla
società delle gleba. Essa ha avuto il merito, che Marx riconosce, di abbattere e
superare la classe dei signori feudatari (i nobili) e di aver favorito lo sviluppo
della scienza e della tecnica. Tuttavia, proprio per la legge del materialismo
dialettico, così come la borghesia è stata l'antitesi dei signori feudali, altrettanto il
proletariato è l'antitesi della borghesia, cioè la borghesia si trova opposto a sé,
come antitesi, il proletariato.
Infatti, spiega Marx, dalla classe borghese sorgono i capitalisti. La loro avidità, la
continua ricerca del profitto, induce i capitalisti ad ingrandire sempre di più le
90

loro imprese e quindi ad aumentare sempre di più gli operai alle loro
dipendenze, cioè i proletari, e a sfruttarli sempre di più. Ma più diventano
numerosi e sono sfruttati, tanto più i proletari si organizzano e diventano forza
e classe sociale rivoluzionaria. La borghesia dunque produce dentro di sé la
propria contraddizione a causa dell'aumento della classe proletaria che ne causerà
la caduta.
Come la borghesia sia destinata a cadere ed il proletariato a vincere viene
spiegato da Marx nella sua celebre opera "Il capitale".

"Il Capitale".

I temi finora esaminati sono stati esposti da Marx nell'opera il "Manifesto del
partito comunista", ossia i temi concernenti la critica al socialismo utopistico,
l'analisi della funzione storica della borghesia, il concetto di storia come lotta di
classe, il rapporto e il conflitto tra borghesia e proletariato. Nell'opera "Il Capitale"
Marx critica in particolare l'economia borghese-capitalistica ed espone i
principi dell'economia comunista.
L'opera "Il Capitale" inizia con l'analisi della merce. Essa ha un duplice valore:
1. un valore d'uso, ossia l'utilità della merce, del prodotto, vale a dire quanto è
utile ed è richiesta;
2. un valore di scambio, ossia la capacità di ogni merce di essere scambiata con
un'altra merce, salvo che, per maggior comodità, lo scambio non è diretto, non
è in forma di baratto, ma è indiretto ed avviene tramite la moneta.
Il valore di scambio di una merce (quanto essa vale) dipende secondo Marx dalla
quantità di lavoro necessario per produrla, cioè dal tempo medio di lavoro
impiegato nella produzione della merce. Ebbene, critica Marx, il capitalismo
considera ogni merce come avente valore di per se stessa, ma si dimentica invece
che essa è il frutto del lavoro umano. Lo scambio delle merci, pertanto, non è un
semplice rapporto tra cose, ossia tra le merci (feticismo delle merci), ma è soprattutto
un rapporto tra uomini (i produttori e consumatori). Lo stesso lavoro del proletario
(operaio o contadino che sia), che Marx chiama forza-lavoro, è considerato
anch'esso una semplice merce dall'economia capitalista: il lavoro del proletario è
cioè considerato come una merce che egli vende al capitalista in cambio del salario.
Ma la forza-lavoro (il lavoro del proletario) è una merce particolare, dice Marx,
perché il suo valore è superiore al valore di scambio, cioè il lavoro del proletario
produce di più e vale di più di quanto riceve come salario, stabilito in quantità
appena sufficiente per il suo mantenimento. Ad esempio, se l'operaio è obbligato a
lavorare dieci ore al giorno e se il salario percepito vale invece sei ore di lavoro,
l'operaio produce nelle quattro ore rimanenti un prodotto aggiuntivo che il capitalista
non paga, ma di cui si appropria e che intasca. La produzione aggiuntiva non pagata
all'operaio e che il capitalista fa propria è chiamata da Marx plus-valore.
Il plus-valore che il capitalista si mette in tasca rende possibile l'accumulazione,
cioè l'accrescimento del capitale: infatti, caratteristica del capitalismo non è il
91

consumo ma proprio l'accumulazione. Il plus-valore cioè viene solitamente


consumato dal capitalista solo in parte per i suoi bisogni e i suoi capricci. La
maggior parte viene invece reinvestita ed utilizzata per aumentare il capitale (le
dimensioni dell'impresa, la quantità dei macchinari ed attrezzature, il numero degli
operai) allo scopo di vincere la concorrenza. In tal modo l'impresa capitalistica
diventa sempre più grande a danno di quelle più deboli che falliscono. I
capitalisti che falliscono diventano proletari e così la proprietà dei capitali e
delle imprese, e quindi la ricchezza, si concentra nelle mani di un numero sempre
minore di capitalisti. Ma più l'impresa diventa grande e quanto più essa produce,
tanto più facili sono le crisi di sovraproduzione: molte merci rimangono invendute
ed il profitto diminuisce. Per evitare o limitare la diminuzione del profitto, il
capitalista allora da un lato comprime, cioè diminuisce i salari e, dall'altro lato,
al posto dei salariati, aumenta l'uso dei macchinari, che sono meno costosi degli
operai, parte dei quali viene perciò licenziata ed espulsa dal lavoro. Cresce in tal
modo la massa dei miserabili.
Prima o poi però tutte queste contraddizioni, questi contrasti, scoppiano e
provocano la rivoluzione dei proletari contro i capitalisti, la quale farà cadere il
capitalismo e farà nascere una nuova società senza più classi sociali, farà nascere
cioè il comunismo, la società comunista, nuova sintesi dello sviluppo dialettico della
storia. In mancanza di classi sociali non ci sarà più lotta di classe, quindi lo
sviluppo dialettico-conflittuale della società si arresterà, non seguiranno più nuove
strutture economico-sociali e il comunismo diverrà la forma permanente della
società.

L'avvento del comunismo.

Il comunismo tuttavia, spiega Marx, non si realizzerà subito, in un colpo solo.


Prima vi sarà il periodo della "dittatura del proletariato", che abolirà la proprietà
privata e trasferirà la proprietà di tutti i mezzi di produzione (di tutti i capitali) allo
Stato, il quale è autorizzato ad impiegare anche una forza di tipo dispotico, con la
soppressione delle libertà civili, per completare l'eliminazione di tutti i rimanenti
nemici interni ed esterni del comunismo.
Successivamente, confida Marx, quando la dittatura del proletariato avrà
terminato il suo compito si realizzerà allora il comunismo vero e proprio, con
l'abolizione non solo della proprietà privata ma anche di quella collettiva (la
proprietà statale) e con il ritorno della libertà di tutti e del benessere di tutti secondo
il motto: "Ognuno contribuirà secondo le sue capacità ed ognuno riceverà secondo i
suoi bisogni". Nella società comunista cessa l'alienazione del lavoro e l'uomo si
riconcilia con gli altri uomini.
92

Commento e problemi aperti.

La filosofia di Marx ha esercitato forti influenze di tipo sociale e politico ed ha


avuto numerosi seguaci da una parte e numerosi oppositori dall'altra. Da un lato
fanno male coloro che, anziché studiare e magari anche criticare Marx, si limitano a
condannarlo pregiudizialmente (prima di conoscere il suo pensiero); dall'altro fanno
male quei marxisti che, senza alcun spirito critico, trattano le teorie di Marx come
dogmi religiosi da accettare integralmente senza discutere.
Va innanzitutto riconosciuto che dopo Marx è ormai impossibile concepire la
scienza sociale (la sociologia) quale era in precedenza. Egli ha fornito spiegazioni
e teorie che non possono più essere ignorate: fondamentale è la teoria
dell'influenza della struttura economica sulla sovrastruttura ideologico-sociale,
cioè sui fatti umani, culturali e storici. Magari si potrà ritenere che questa
influenza non sia determinante bensì reciproca, però non si potrà mai più
escluderla.
Tuttavia la teoria del materialismo storico, cioè della prevalenza determinante
della struttura economica sullo sviluppo della cultura e delle idee (sovrastruttura),
non è una teoria scientifica ma rimane piuttosto una teoria filosofico-metafisica,
perché trasforma in dogmi metafisici indiscutibili fatti che sono di carattere storico-
empirico e che, in quanto tali, non sono rigidamente predeterminabili ma invece
possono anche mutare contro le aspettative.
Altrettanto può dirsi per la teoria del materialismo dialettico, cioè di uno
sviluppo immancabilmente dialettico (per tesi, antitesi e sintesi) e conflittuale
(basato sulla lotta di classe) dei fatti storici. Anch'essa non è una teoria scientifica
ma è una filosofia della storia, un punto di vista, una specie di fede, seppur di tipo
laico e non religioso, che esprime una concezione finalistica e provvidenziale
della storia, destinata ad una soluzione ottimistica.
Altresì molte delle previsioni di Marx non si sono avverate. Egli aveva predetto
che il capitalismo avrebbe condotto la classe proletaria ad una miseria sempre
maggiore, che vi sarebbe stata una rivoluzione che avrebbe portato al comunismo e
che la rivoluzione sarebbe cominciata dapprima nei paesi più industrializzati. Ma
questi eventi non si sono realizzati: gli operai non sono diventati sempre più poveri
ma hanno migliorato il tenore di vita; la rivoluzione è scoppiata in Russia, che non
era il Paese più industrializzato bensì il Paese europeo più arretrato; anche là dove è
stato realizzato, il comunismo non è mai diventato comunismo vero come inteso da
Marx e non è mai uscito dalla fase della dittatura del proletariato. Tutte queste
previsioni non si sono verificate ma, anziché prenderle in debita considerazione,
molti marxisti si sono ostinati ad adattare continuamente le teorie di Marx piuttosto
che cambiarle tenendo conto che la realtà si è sviluppata in maniera diversa.
Una filosofia della prassi come è il marxismo non può non badare ai risultati pratici
delle politiche che al marxismo si sono ispirate. L'apparato statale anziché
scomparire è diventato sempre più invadente, con leggi e regolamenti sempre più
rigidi, schiacciando la libertà dei singoli cittadini. Anche le classi sociali non
sono scomparse: negli Stati dove si è realizzato il comunismo la classe dei
93

capitalisti è stata semplicemente sostituita dalla classe dei burocrati e dei capi e
capetti del Partito comunista, anche loro privilegiati, come i capitalisti, rispetto al
resto della popolazione.
Mentre per molti aspetti la teoria sociologica di Marx conserva ancor oggi una
sua validità ed ha fortemente influenzato le scienze sociali, la teoria economica di
Marx è invece considerata dalla maggior parte degli economisti sostanzialmente
non valida. Essa infatti non è in grado di spiegare ciò che è più importante, ossia
l'andamento dei prezzi delle merci (come si determinano e come variano). In
effetti, ciò che determina il valore delle merci non è tanto la quantità di lavoro
richiesto per produrrle, come riteneva Marx, quanto invece la loro rarità rispetto
alla domanda: più una merce è rara e quanto maggiore è la domanda, ossia la
richiesta di tale merce rispetto all'offerta, tanto più essa vale e viceversa.
Marx considerava inoltre i capitalisti altrettanti parassiti (che guadagnano senza
far nulla) ed il plus-valore da essi intascato era giudicato un furto. Ma,
obiettivamente, ciò può valere per quei capitalisti che si limitano a sprecare per i
loro capricci la ricchezza prodotta dalle loro imprese, peraltro andando spesso
incontro al fallimento, mentre non si può pensare che quei capitalisti che
inventano e progettano le merci e che organizzano e dirigono la produzione e
distribuzione (la vendita) delle merci stesse non facciano nulla e non rechino alcun
contributo nella determinazione del valore delle merci medesime.
Non vanno infine dimenticati i rischi di una organizzazione sociale e statale
autoritaria insiti nella teoria di Marx. Certamente, uno Stato autoritario che
concentri su di sé la proprietà di tutti i mezzi di produzione e distribuzione delle
merci può mantenere stabile il prezzo delle merci stesse. Se il prezzo non aumenta
può sembrare una buona cosa. Ma la conseguenza è che, in tal modo, non si è in
grado di tener conto del cambiamento delle preferenze dei consumatori, per cui
molte merci, che pure sarebbero gradite, non sono disponibili o lo sono in quantità
inferiore alla domanda. Se la produzione e i prezzi delle merci sono esclusivamente
determinati dallo Stato e dalla burocrazia statale che è al potere, i consumatori non
hanno alcuna possibilità di scelta o, perlomeno, di orientare diversamente la
produzione. Solo lo Stato decide che cosa e quanto i cittadini possono o non possono
comprare: si realizza così una dittatura burocratica contro la libertà individuale.
94

LA FILOSOFIA ITALIANA DEL PRIMO OTTOCENTO.

Nell'Ottocento l'Italia risente di una certa arretratezza anche culturale rispetto


agli altri Paesi europei. La mancanza di un forte sviluppo della borghesia fa sì che la
nostra più importante tradizione di pensiero derivata da Galileo non riesca ad
assumere le caratteristiche di sistema filosofico.
La filosofia italiana del periodo, pur non producendo correnti filosofiche originali
ed autonome, si interessa tuttavia dei grandi problemi dibattuti in Europa; si
confronta in particolare con l'Illuminismo, con l'Idealismo e con il sensismo
materialista di Condillac.
Il sensismo è una corrente filosofica che riduce il processo conoscitivo alle
sensazioni elementari senza ricorrere ad altri principi o facoltà non sensibili: la base
della conoscenza è costituita esclusivamente dalle sensazioni. Suoi precursori sono
Campanella, Hobbes e Gassendi. Maggior esponente è Condillac, vissuto nel
Settecento nell'ambito dell'Illuminismo, il quale sostiene che la memoria, l'attenzione,
il giudizio, la valutazione, il desiderio e la volontà altro non siano che trasformazioni
ed elaborazioni di sensazioni. A Condillac si riferisce il materialismo illuminista.
Gli intenti filosofici italiani dell'epoca sono di rinnovamento e sprovincializzazione,
volti ad inserire e adeguare le teorie filosofiche europee alla tradizione culturale
italiana ereditata, tra gli altri, da Vico. Linea di fondo è l'avversione contro il
pensiero illuminista e sensista per proporre un ritorno alla metafisica e allo
spiritualismo. Per spiritualismo qui si intende quella corrente antimaterialista che si
richiama al pensiero di sant'Agostino e che è caratterizzata da una forte impostazione
metafisica.
Si distinguono due filoni: lo spiritualismo cattolico e quello laico.
Lo spiritualismo cattolico, senza più chiudersi in un atteggiamento di rifiuto del
mondo moderno, persegue come scopo la conciliazione tra filosofia moderna e verità
cattolica. È caratterizzato da una concezione ontologica (ontologia=filosofia
dell'essere, di ciò che è, ossia della realtà) che privilegia l'essere rispetto al pensiero e
l'oggetto rispetto al soggetto conoscente. Individua in Dio l'Essere trascendente
assolutamente necessario (causa necessaria di tutti gli esseri particolari) mentre il
mondo, pur concepito realisticamente e non idealisticamente, è considerato come
realtà contingente (potrebbe anche non esserci e se c'è deriva da un essere primo
assoluto, Dio). Politicamente assume atteggiamenti favorevoli verso il movimento
risorgimentale. Maggiori esponenti sono: Romagnosi, Rosmini, Gioberti.
Lo spiritualismo laico riconosce il valore storico della tradizione cattolica che
tuttavia non ritiene più attuale. Prescinde da ogni religione rivelata e concepisce una
divinità immanente identificata nella storia. Maggiori esponenti sono: Cattaneo e
Mazzini.
95

GIANDOMENICO ROMAGNOSI (Salsomaggiore 1761-Milano 1835).

Trascorrere alcuni anni a Trento.


Persegue due indirizzi: uno metodologico ed uno etico-politico.
Il suo intento è di costruire una forte filosofia civile. La morale, il diritto, la politica
necessitano di solidi fondamenti, cioè di leggi sicure sulla natura umana.
Metodologicamente, bisogna smetterla di essere dei "visionari" e di correre dietro alle
immagini fantastiche dei filosofi: occorre essere "sperimentali induttivi", cioè usare il
metodo empirico. Esso però non equivale al sensismo, accusato di perdersi nel
caos delle sensazioni. La mente umana procede dalla sintesi all'analisi, formulando
ipotesi da verificare. La conoscenza quindi non è mera passività, non si riduce alle
sensazioni; c'è la partecipazione attiva del soggetto, che elabora e coordina i dati
sensibili. Le sensazioni non sono conoscenza bensì strumenti di conoscenza.
Scopo della filosofia civile, etico-politica, di Romagnosi è quello di conoscere
"l'uomo fatto", vale a dire l'uomo sociale. Ottengo di conoscere l'uomo non
discorrendo in astratto di questa o quella sua facoltà spirituale, ma analizzando la sua
storia e la storia dei suoi prodotti culturali: è dal prodotto che conosciamo il
produttore. Non esiste una legge inarrestabile di progresso; la decadenza può
avvenire in ogni stadio. Sostiene un'origine naturale della società contro le teorie del
contrattualismo, secondo cui invece la società, o meglio lo Stato, sorge da un
contratto, da un patto sociale tra i cittadini.
96

ANTONIO ROSMINI (Rovereto 1797-Stresa 1855).

Sacerdote, fonda l'Istituto dei Rosminiani. Frequenta gli ambienti liberali ed è amico
di Manzoni. Una sua opera è stata messa all'indice dalla Chiesa.

Critica al sensismo, all'apriorismo di Kant e all'idealismo.

L'errore filosofico fondamentale sia del sensismo e dell'empirismo, sia dell'a-


priori di Kant e dell'idealismo, è individuato da Rosmini nel soggettivismo,
secondo cui la conoscenza non si basa su idee innate ma su funzioni proprie della
mente del soggetto, sui modi di funzionare dell'intelletto. Rosmini crede invece
nell'esistenza di idee innate, rifiutando peraltro un innatismo eccessivo.
Critica il sensismo illuminista perché fa derivare tutta la conoscenza umana
soltanto dalle sensazioni e pertanto non conferisce alla conoscenza il carattere
dell'oggettività e universalità, dato che le sensazioni sono essenzialmente soggettive,
variabili da soggetto a soggetto.
Critica Kant perché fonda la validità della conoscenza sulle forme a priori e sulle
categorie che, non essendo innate, sono vuote di contenuto e perciò soggettive e
quindi, contrariamente a quanto sostenuto da Kant, non sono né universali né
necessarie.
Critica l'idealismo perché, pur fondandosi sul riconoscimento di idee innate,
intuitive (l'Assoluto, lo Spirito), esse sono tuttavia prive di oggettività (non esiste per
l’idealismo un’autentica realtà oggettiva esterna alla coscienza).

L'idea dell'essere.

Contro Kant, Rosmini afferma che la nostra conoscenza per essere veramente
oggettiva deve fondarsi su qualcosa che non sia semplicemente una forma a
priori, una funzione del soggetto, ma su qualcosa di innato, almeno su di un
principio innato che sia indipendente dal modo di funzionare dell'intelletto.
Rosmini chiama questo fondamento "l'idea dell'essere".
Anche per Rosmini, come per Kant, conoscere significa giudicare, cioè attribuire un
predicato al soggetto. Però, mentre per Kant la condizione di validità della
conoscenza è costituita dalle intuizioni pure di spazio e di tempo e dalle categorie
dell'intelletto, per Rosmini invece la condizione è l'idea dell'essere. Ogni individuo,
sostiene Rosmini, possiede un sentimento fondamentale attraverso il quale si
rende conto che prima di conoscere qualcosa ne avverte l'esistenza come ente
che è. È appunto l'idea dell'essere che precede ogni giudizio ed anzi ne è il
presupposto. L'idea dell'essere non è un giudizio ma un'intuizione originaria.
Il pensiero è sempre e innanzitutto pensiero dell'essere: qualunque cosa pensiamo, la
pensiamo dapprima come esistente, come ente. Non possiamo conoscere alcunché
se ad esso non attribuiamo dapprima l'essere, l'esistenza: l'idea dell'essere fonda
ogni nostro atto conoscitivo. Qualunque conoscenza noi abbiamo, dobbiamo sempre
97

attribuire al suo oggetto una qualche esistenza, fosse anche soltanto mentale, il che
mostra che ogni nostra conoscenza presuppone in noi la nozione di esistenza, ovvero
di essere.
In sé l'idea dell'essere è indeterminata, non si riferisce e non specifica una cosa, un
ente nei suoi particolari concreti, ma è un'idea generale che esprime la pura
possibilità dell'esistenza di enti. Ha perciò carattere intuitivo e immediato. Non è
prodotta dal soggetto, dal suo intelletto, ma è un'idea innata. La sensazione da
sola non dà infatti conoscenza. Ogni nostra sensazione è preceduta e accompagnata
dall'idea, indeterminata e non derivanti dai sensi, che prima di conoscere qualsiasi
cosa nei suoi elementi specifici devo concepire quella cosa come essere possibile,
come ente che può sussistere. Solo dopo l'essere possibile viene determinato e
specificato nelle sue caratteristiche particolari in base ai dati sensibili (peso,
grandezza, colore, ecc.), i quali costituiscono la "materia" della conoscenza. Prima
ho l'idea innata di un essere, di un ente possibile; poi questo si determina e si
specifica nei suoi elementi caratteristici e particolari attraverso la sensazione.
Prima delle varie qualità primarie e secondarie di un ente vi è una qualità
indeterminata comune a tutti, cioè l'idea dell'essere, vale a dire l'idea che
quell'ente può esistere, che è possibile come ente. Prima di conoscerle nei loro
elementi particolari, tutte le qualità di una cosa ci sono sconosciute ad eccezione del
suo "essere". L'idea dell'essere precede dunque ogni sensazione: non è un'idea
derivata dall'esperienza; essa è il vero a-priori; è la capacità di cogliere l'essere
dovunque sia. È una capacità costitutiva della coscienza di tutti gli uomini ed è
condizione necessaria e presupposto della conoscenza: perciò l'idea dell'essere è
universale e necessaria.
In quanto universale e necessaria, Rosmini mostra per via di esclusione che l'idea
dell'essere è anche innata:
1. non può derivare dalle sensazioni e dall'esperienza, perché esse riguardano
cose contingenti e particolari;
2. non può derivare dall'idea dell'Io, della coscienza individuale, perché anch'essa
è l'idea di un essere particolare;
3. non può essere prodotta dalla riflessione o dal processo mentale dell'astrazione,
perché tali operazioni non fanno altro che analizzare e distinguere aspetti
particolari di cose che già sono;
4. non proviene dallo spirito di un soggetto finito, perché non può produrre un
oggetto, un’idea universale;
5. non è creata da Dio ogni qualvolta noi abbiamo percezioni e sensazioni perché
Dio non può essere ridotto a servitore degli uomini, ma è un'idea innata che
tutti gli uomini possiedono una volta per tutte per disposizione "ab aeterno"
di Dio.
Rosmini chiama l'idea dell'essere anche "essere ideale", cioè esistente come idea
nella nostra mente. In questo senso l'essere ideale non è Dio, che è invece l'essere
reale per eccellenza, però partecipa del divino perché ha i caratteri della necessità ed
universalità che solo Dio possiede in modo completo e che da lui derivano.
98

In questo modo Rosmini, considerando innata l'idea dell'essere, recupera contro


Kant la validità della metafisica, coerentemente col pensiero cristiano.

La realtà del mondo e della materia. I gradi dell'essere.

Per Rosmini la materia è reale, e non un fenomeno, e l'idea dell'essere, cioè la


forma e i modi della conoscenza, è oggettiva: essa non solo sta alla base del nostro
pensare, ma costituisce la struttura (il modo in cui è fatta) stessa della realtà ed ha
quindi, altresì, un valore ontologico (ontologia=filosofia dell'essere, cioè della realtà).
Quando noi diciamo che "il vino è rosso", attribuiamo l'essere in una determinata
maniera (l'essere rosso) ad una materia o soggetto (il vino). Così accade per ogni
giudizio (ogni conoscenza), i cui aspetti ed elementi particolari non sono che
variazioni dell'idea dell'essere.
Dall'idea generale dell'essere derivano, secondo Rosmini, i principi fondamentali
della conoscenza, che egli chiama "idee pure" (ad esempio il principio di identità,
di non contraddizione, di sostanza, di causa, di unità, di numero, di possibilità, di
necessità, di immutabilità, ecc.).
Tali idee pure costituiscono i primi principi quali:
1. il principio di cognizione: l'oggetto del pensiero è l'essere;
2. il principio di non contraddizione: ciò che è, ossia l'essere, non può non
essere;
3. il principio di sostanza: non si può pensare un accidente, ossia una particolare
qualità o proprietà, senza attribuirla ad una sostanza, ad un ente (non si può
pensare al "rosso" in generale se non è attribuito, ad esempio, al vino
(sostanza);
4. il principio di causalità: non si può pensare un nuovo essere, un nuovo ente,
senza una causa.
Questi principi, afferma Rosmini, non possono venir negati senza contraddizione.
Perciò, avendo concepito l'essere (l'idea dell'essere) come realtà oggettiva, Rosmini
dichiara che Hume sbaglia quando mette in dubbio il principio di causalità poiché,
precisa Rosmini, tale principio riguarda i fenomeni ma non riguarda l'essere, che è
la realtà oggettiva di tutte le cose, di tutti gli enti.
Per Rosmini è in errore anche Berkeley, che nega l'esistenza della sostanza corporea
e del mondo esterno. Infatti, dice Rosmini, oltre alle idee pure vi sono anche le idee
non pure, quali quelle di corpo, di tempo, di movimento, di spazio e di realtà esterna
(di cose esterne a noi), che non possono essere ottenute senza il contributo delle
sensazioni. E le sensazioni presuppongono il nostro corpo o, meglio, "il sentimento
fondamentale corporeo", ossia il sentirci corporei. Le sensazioni sono appunto
modificazioni del nostro sentire corporeo. Quindi la coscienza (il sentimento
corporeo) ci dice:
1. che siamo modificati;
2. che questa modificazione è prodotta in noi, ma non da noi;
3. che quindi, in base al principio di sostanza (non si può pensare l'accidente
senza la sostanza), ogni qualvolta avverto una modificazione (che in quanto
99

tale è un accidente) del mio sentimento fondamentale corporeo, essa va allora


attribuita ad una sostanza materiale corporea esterna a noi.
Il contenuto del conoscere non può essere solo una semplice rappresentazione,
un'immagine mentale, cioè un fenomeno: è innanzitutto necessario percepire
l'oggetto per poter affermare che qualche cosa è una sua rappresentazione. Se il
pensiero non è pensiero dell'essere non è nemmeno pensiero, è pensiero del nulla
perché non si può pensare ciò che è non essere, ossia ciò che è un non-ente, cioè un
niente. Per Rosmini occorre tenersi al di fuori del soggettivismo, per il quale invece
il contenuto del pensiero è qualcosa di relativo al soggetto e quindi qualcosa di
diverso dall'ente in se stesso. Affermando all'opposto l'essere delle cose, cioè che le
cose sono enti reali, il pensiero le vede come sono in sé, con quei gradi di essere che
esse possiedono. Il pensare dunque non è un produrre il pensato (come per
l'Idealismo) ma è una riferirsi ad esso, un "intenzionarsi" ad esso. Qui Rosmini
recupera il concetto scolastico dell’“intenzionalità” del pensiero, che sarà poi
ripreso da Franz Brentano, da Husserl e, in genere, dalla fenomenologia e
dall'esistenzialismo (correnti filosofiche del primo Novecento): il pensare è un avere
"intenzionalmente" (cioè mentalmente) presente l'oggetto.
L'idea dell'essere è avvertita, intuita, secondo una gerarchia composta da tre gradi:
1. l'idea di Dio: poiché l'idea dell'essere è innata, non può che derivare da un
essere necessario, ossia Dio che è necessariamente causa di se stesso e non
deriva da qualcosa d’altro;
2. l'idea di uomo, di coscienza, di anima, creata da Dio e che è immortale poiché,
in base al principio di non contraddizione, è l'idea di un essere (l'anima) che in
quanto tale (essendo cioè essere) non può non essere, ossia non può cessare di
essere; in questo senso l'uomo partecipa del divino e tende ad esso, pur essendo
condizionato dalla sua natura finita; l'uomo ha dunque valore di fine;
3. l'idea delle cose, che non hanno coscienza e sono solo oggetti e hanno solo
valore di mezzi.
L'uomo, per Rosmini, è il centro del creato e dà senso e significato alle cose.

La morale, lo Stato, la Chiesa.

Anche nella morale l'uomo deve tendere alla realizzazione dell'idea dell'essere,
data la coincidenza, secondo la tradizione teologica cristiana, del bene con
l'essere e, in particolare, con Dio, l'essere reale supremo. Per il cristianesimo
ogni ente, ogni creatura, per il solo fatto di essere, cioè di esistere, è già un bene.
L'idea dell'essere, oltre a spiegare l'origine delle idee pure viste in precedenza,
chiamate anche idee universali, cioè oltre a garantire l'oggettività della conoscenza, è
in grado per Rosmini di garantire anche l'oggettività della morale contro ogni forma
di relativismo e di edonismo (= morale ridotta a pura ricerca del piacere). La morale
infatti non ha per oggetto la felicità, che è una realtà puramente soggettiva (e
quindi variabile da soggetto a soggetto), bensì il bene, che è una realtà oggettiva. E
il bene altro non è che l’essere, l’esistere; in quanto tale, non solo è oggetto di
100

conoscenza da parte dell'intelletto ma anche oggetto d'amore da parte della


volontà.
L'essere è bene ed è oggetto d'amore poiché è fornito di ordine. L'ordine è una
forma di perfezione e la visione di una perfezione produce godimento,
soddisfazione morale. La massima morale di Rosmini è: "Ama l'essere ovunque lo
conosci" (ama tutti gli enti, tutte le creature). Essa ha il vantaggio, rispetto alla
massima kantiana, di fondarsi su una legge morale oggettiva, costituita non dalla
ragione umana, ma da un oggetto dato alla ragione dall'esterno (cioè da Dio) e perciò
fornito di valore oggettivo. Anche per Rosmini, come per Kant, la morale
presuppone in ogni caso la libertà (di scelta e di coscienza).
Circa il diritto, esso deriva per Rosmini dalla legge morale, la quale riconosce una
gerarchia di valori corrispondenti alla gerarchia del creato: Dio, uomo, natura. Se
Dio è il fine supremo, anche l'uomo, come si è visto, partecipa della divinità. In
questo senso il rispetto della persona umana è il principio base della concezione
etica, giuridica e politica di Rosmini. Diversamente dal termine "individuo", che
concepisce l'uomo isolato in se stesso, il termine "persona" qualifica l'uomo in quanto
è in relazione con gli altri (essere persona significa essere in relazione). Rosmini si
basa proprio sul concetto di persona per accusare sia l'individualismo, il
soggettivismo e l'utilitarismo degli empiristi e degli illuministi, sia anche
l'idealismo di tipo hegeliano che, affermando l'eticità come situata essenzialmente
nella storia e nello Stato, ignorava la persona immergendola nell'Assoluto.
Rosmini fa valere una concezione spiritualistica della persona, secondo cui l'uomo è
concepito come portatore di valori etico-religiosi. La persona ha valore morale: in
quanto esistente è un bene in sé e, in quanto collocata ad un grado superiore nella
gerarchia delle creature, è più delle altre oggetto d'amore. Da tale valore della
persona discende il dovere di rispettare gli altri in quanto anch'essi persone.
Rosmini capovolge i termini: dal diritto non deriva il dovere bensì dal dovere (di
rispettare gli altri) deriva il diritto.
In nome della persona Rosmini difende anche la libertà religiosa: una fede
religiosa non si può imporre con la forza.
Ed ancora in nome della persona, e contro la teoria statalista di Hegel, Rosmini
delimita la sfera dei potere dello Stato. Lo Stato non può violare i diritti della
persona ma deve esserne anzi il garante (concezione politica di tipo liberale).
Garantendo il rispetto dei diritti della persona, lo Stato realizza l'ordine divino e
persegue con ciò il fine del bene.
Lo Stato è quindi subordinato al bene e il giudice del bene può essere solo
un'autorità di origine divina come la Chiesa. La Chiesa è l'unico rimedio contro la
tirannide dello Stato. Essa esercita quindi un ruolo egemone.
Tuttavia, secondo l'impostazione cattolico-liberale di Rosmini, la Chiesa necessita
di un profondo rinnovamento interiore e di una decisa riforma, soprattutto
contro le piaghe della separazione tra popolo e clero e delle tentazioni del potere
temporale, come da Rosmini accusato nella sua opera "Delle cinque piaghe della
Chiesa", opera che, per la reazione dei gesuiti, fu messa all'indice.
101

VINCENZO GIOBERTI (Torino 1801-Parigi 1852).

Sacerdote, fu sostenitore degli ideali liberali e promotore di un programma politico


definito "neo-guelfismo", basato sulla creazione di una federazione di Stati italiani
sotto la direzione del Papa. Fu anche ministro e poi Presidente del Consiglio nel
governo piemontese.

L'essere reale.

Gioberti critica il soggettivismo e lo psicologismo, che considera una degenerazione


della filosofia a partire da Cartesio fino a Kant ed altresì fino all'Idealismo, poiché
incentrato sul primato del soggetto, dell'intelletto o della ragione umana, sull'oggetto,
cioè sugli enti reali. Non ci deve essere subordinazione dell'oggetto rispetto al
soggetto bensì parità, altrimenti, se si accetta l'autonomia della ragione rispetto agli
enti, è inevitabile l'anarchia delle idee. Se gli oggetti esterni, le sostanze, le cause, la
stessa morale, dovessero essere tutti raggiunti a partire dal soggetto, come
sostenuto dalle filosofie soggettivistiche e psicologistiche, tale punto di partenza,
osserva Gioberti, sarebbe assai fragile poiché si perde la dimensione oggettiva
della realtà, che è paritaria e non subordinata al soggetto, ossia all'intelletto o ragione
umana. La realtà, cioè l'essere, non è una nostra rappresentazione, non è un
fenomeno, un nostro modo soggettivo di vedere, ma è oggettiva, autonoma in sé,
è realtà che si rivela alla mente.
Al soggettivismo, secondo Gioberti, non sfugge nemmeno Rosmini. Infatti, l'idea
dell'essere di Rosmini, pur essendo innata, rimane ancora troppo soggettiva
perché intesa come "sentimento" fondamentale (in quanto tale soggettivo) e
perciò non garantisce la corrispondenza all'oggetto reale, alla realtà oggettiva
indipendentemente dalla mente e dalle sue rappresentazioni. Inoltre l'idea dell'essere
di Rosmini è troppo astratta poiché indeterminata. Su queste basi non è possibile
per Gioberti spiegare il passaggio dall'idea di essere possibile (potenzialità)
all'essere reale e, soprattutto, all'essere reale supremo che è Dio. È una pretesa
assurda pensare di risalire a Dio considerandolo come una rappresentazione della
nostra mente, cioè un nostro concetto, un nostro sentimento anche se fondamentale.
Bisogna invece recuperare la dottrina platonica e la realtà oggettiva,
soprasensibile, del mondo delle idee. L'essere (la realtà), e in particolare l'Essere
supremo, cioè Dio, non è un'idea costruita dalla mente ma al contrario è l'essere,
ed in primo luogo l'Essere supremo, che si rivela alla mente. L'essere richiede
oggettività, deve cioè esistere indipendentemente dalla mente umana, proprio
come le idee platoniche, altrimenti si finisce nello scetticismo e nel "nullismo".
L'essere supremo, Dio, è conosciuto direttamente ed è colto immediatamente dalla
mente dell'uomo come Essere reale oggettivo. Dunque per Gioberti il principio
sta nell'Essere reale (che è principio ontologico) e non nell'idea dell'essere di
Rosmini (che è principio psicologico e soggettivo). Non è il sapere umano a
fondare e scoprire Dio ma è Dio, l'Essere reale e assoluto, a costituire il
fondamento e la validità delle nostre conoscenze.
102

Il fondamento del conoscere ha dunque natura reale, oggettiva, esterna al


soggetto: è questo il nucleo essenziale della concezione ontologica di Gioberti: il
pensiero coglie direttamente l'Essere reale.
Anche per l'Idealismo, riconosce Gioberti, l'Idea, lo Spirito assoluto, non è una
rappresentazione o un concetto della mente umana ma è la stessa realtà oggettiva, la
verità assoluta ed eterna che si rivela e si presenta al pensiero. Però l'Idealismo
assume la forma dell'immanentismo, mentre Gioberti intende affermare la
trascendenza assoluta di Dio rispetto all'uomo e al mondo.

Le "formule ideali": la dinamica della realtà e della conoscenza.

Gioberti spiega l'origine e lo sviluppo della realtà secondo tre principi che egli
chiama "formule ideali":
1. La prima formula ideale è: "l'Ente (Dio) è necessariamente". Dio, l'Essere
reale e assoluto, si rivela intuitivamente alla mente umana. L'evidenza di Dio
è oggettiva e non soggettiva: l'uomo la riceve, non la produce; ne è
partecipe ma non autore. La filosofia cerca di tradurre in parole, mediante la
riflessione, questa originaria rivelazione di Dio alla nostra mente; vale a dire
che Dio rivela se stesso e dichiara la propria realtà al nostro pensiero. L'Ente
(Dio) è e non può non essere.
2. La seconda formula è: "l'Ente crea l'esistente". Intuendo l'essere (Dio),
l'uomo intuisce la realtà e le cose che da Esso derivano. Intuisce che Dio è
sostanza o causa prima e, in quanto tale, crea l'esistente o causa seconda, crea
cioè il mondo e gli uomini, scegliendolo tra infinite possibilità. Le realtà
esistenti trovano la loro ragione di essere nella causa prima che è Dio.
L'identificazione tra Dio e le cose, cioè il panteismo, è così evitata in quanto
l'intuizione coglie Dio come creatore delle cose, senza quindi identificarsi in
esse.
3. La terza formula è: "l'esistente ritorna all'Ente". L'uomo non è solo
spettatore passivo della creazione, ma attraverso la vita morale, con l'esercizio
della virtù, tende a realizzare il suo fine che è quello di tornare, dopo la vita
terrena, alla beatitudine divina, tornare a Dio. Anzi, tutta la storia degli uomini
è, secondo Gioberti, avvicinamento a Dio: la tensione al bene, alla verità, al
progresso non sono altro che dimostrazioni della tensione verso l'Ente
supremo. Gioberti riprende lo schema neoplatonico della circolarità dell'essere,
cioè dell'emanazione e del ritorno all'origine.
La dinamica della realtà si svolge in tal modo secondo un "ciclo dialettico".
Gioberti riprende la dialettica di Hegel ma la riserva unicamente al creato, cioè
al finito, e non al Creatore, cioè all'infinito. Il Creatore per Gioberti è immutabile
nella sua eterna perfezione, mentre per Hegel anche lo Spirito assoluto diviene, cioè
si sviluppa progressivamente secondo un andamento dialettico, manifestandosi
gradatamente nella realtà degli enti finiti e delle istituzioni, destinati peraltro a
103

confluire successivamente nello Spirito, secondo il principio hegeliano dell'unità di


finito e infinito.

La dottrina politica. Il "primato morale e civile degli italiani".

Contro l'esaltazione dell'egemonia culturale francese in Europa, Gioberti proclama


il primato della nazione italiana, destinata a guidare il rinnovamento dell'Europa.
Se applichiamo alla società umana la formula ideale "l'Ente crea l'esistente", essa
significa che la religione crea la moralità e la civiltà del genere umano. La
religione per eccellenza, in cui si è conservata intatta la rivelazione di Dio all'uomo,
è per Gioberti il cristianesimo. Il cristianesimo ha il suo centro di diffusione in
Italia ed è a Roma che sta il Papa. Quindi è "l'Italia che crea l'Europa".
Ma l'Europa, dopo Lutero, Cartesio e le aberrazioni della rivoluzione francese, si è
sempre più allontanata dalla verità rivelata da Dio, per fidarsi e fondarsi
sull'uomo (soggettivismo) e così è caduta nel caos e nell'arbitrio. L'Europa
tornerà sulla giusta strada solo a patto che essa torni all'Italia, la quale deve
quindi riprendere la sua missione di civiltà all'interno della storia dell'umanità
attraverso la guida del Papa.
104

CARLO CATTANEO (Milano 1801-Lugano 1869).

È stato pensatore legato alla tradizione illuministica europea e lombarda. Ha fondato


l'importante rivista "Il politecnico".

La filosofia è impegno.

Compito della filosofia non è la speculazione e la contemplazione bensì la militanza e


l'impegno sociale e politico. Deve mirare a trasformare il mondo, liberarsi dalle
fantasticherie della metafisica ed occuparsi dei fatti positivi, cioè concreti, sia naturali
che sociali. Cattaneo critica perciò sia la filosofia tradizionale sia quella idealistica,
come pure lo spiritualismo cattolico di Rosmini e di Gioberti. Cattaneo è pensatore
rigorosamente laico, influenzato dal positivismo di Comte.
La metafisica, afferma Cattaneo, è fatta di idee pure a-priori, senza contatti con
l'esperienza. Mentre le scienze uniscono, le metafisiche dividono per il loro carattere
settoriale, che suscita dispute. Invece, è nella storia delle lingue, delle scienze e delle
arti che si riuscirà a conoscere lo spirito umano e non nelle speculazioni astratte della
filosofia metafisica che pretendono di cogliere l'essenza della realtà.
Proprio la storia, la linguistica e l'economia sono i principali campi di indagine di
Cattaneo. Tali indagini mostrano che l'uomo singolo resta incomprensibile se le sue
idee e le sue azioni non vengono studiate nel contesto sociale in cui vive ed opera.
Rilevante è in tal senso il contributo di Cattaneo alla psicologia sociale. Egli sostiene
che occorre passare dallo studio della "mente solitaria" a quello delle "menti sociali".

Il pensiero politico.

Antirivoluzionario e riformista, Cattaneo intende la libertà come "esercizio della


ragione", come graduale liberazione dai legami della barbarie e dell'ignoranza. Per
tale motivo, contrariamente alla tesi vichiana dei corsi e ricorsi storici, Cattaneo
pensa ad un progresso indefinito dell'umanità, seppur siano possibili fasi di
momentaneo regresso.
Politicamente è di idee liberali: è favorevole al libero scambio in economia contro il
protezionismo ed è favorevole alla proprietà privata contro il comunismo che, per
Cattaneo, "demolirebbe la ricchezza senza riparare alla povertà".
In materia religiosa Cattaneo afferma la tolleranza di tutte le fedi e difende il
matrimonio civile.
In politica il suo liberalismo diventa lotta contro ogni dispotismo e autoritarismo
statale. Perciò diffida dello statalismo di Mazzini. Alla monarchia preferisce la
Repubblica.
La sua teoria politica di maggior rilievo è quella del federalismo, sia italiano che
europeo. Il federalismo è la forma di Stato che meglio si concilia con la libertà. Uno
Stato unitario, rigidamente accentrato, soffoca ed ostacola l'autonomia e lo sviluppo
delle singole regioni, la cui varietà è sempre stata fattore storico da valorizzare.
Propone quindi gli Stati Uniti d'Italia ma altresì gli Stati Uniti d'Europa.
105

GIUSEPPE MAZZINI (Genova 1805-Pisa 1872).

La sua formazione culturale si svolge in ambiente giansenista. Il giansenismo è stato


un movimento religioso, sorto verso la metà del 17º secolo, secondo cui il peccato
originale ha irrimediabilmente compromesso l'umanità, per cui la grazia è l'unica
possibilità di salvezza ed è concessa imperscrutabilmente da Dio. Il giansenismo ha
saputo attirare a sé molti intellettuali per il suo razionalismo e rigorismo morale. A
causa di tale formazione, il pensiero di Mazzini è ispirato ad una profonda
concezione religiosa e spirituale della vita, concepita tuttavia in termini di religiosità
laica.
Fin da giovane si accosta alle idee democratiche e viene influenzato dalle idee
romantiche del tempo. Ne deriva un'impostazione filosofica personalissima, in cui
l'ispirazione democratica si fonde con quella religiosa, basata sul principio di unità di
pensiero e azione. È importante non solo rivendicare i diritti, ma determinare anche i
doveri dell'uomo: famiglia, patria, umanità.
Punti fondamentali del pensiero di Mazzini sono:
1. Dio è popolo. Dio non è essere trascendente rispetto al mondo ma immanente
e si identifica con lo spirito della storia e, in ultima analisi, col popolo stesso
che, aspirando alla libertà e al progresso, realizza il disegno di Dio.
2. L'idea di nazione. La nazione, prima ancora che entità etnica e territoriale, è
concepita come entità spirituale e culturale e come unità di intenti. La libertà
dell'uomo e delle nazioni si fonda non solo sulla rivendicazione dei diritti, ma
sulla consapevolezza dei doveri e della missione spettante al popolo quale
strumento di un disegno divino. L'unità di intenti cui si ispira l'idea di nazione
dà origine a una concezione interclassista del popolo contraria alla lotta di
classe. Il popolo è sovrano non perché esprime una volontà generale, ma
perché è portatore di una missione etica, ideale.
3. La missione dell'Italia. La rinascita nazionale può aver successo solo
attraverso un'insurrezione di tutto il popolo unito, al di là delle società segrete
e dell'intervento dei sovrani. La libertà e l'indipendenza non si acquistano
dall'esterno, grazie all'intervento di potenze straniere o di principi. La forma di
Stato indicata è quello repubblicano e unitario, non federato.
4. L'azione educatrice. Mazzini crede nell'importanza della divulgazione
culturale per contribuire alla presa di coscienza del popolo riguardo alla sua
missione.
5. Nei confronti del marxismo Mazzini è favorevole a riforme anche molto
avanzate, ma considera pericolosa ogni ideologia che concepisca il popolo
diviso in classi sociali in lotta tra di esse. Considera il diritto di proprietà come
base dell'ordine sociale.
106

IL POSITIVISMO E L’EVOLUZIONISMO.

Il positivismo è un movimento di pensiero che si è sviluppato in Europa dal 1840


sino alla fine del secolo e che ha dominato la filosofia, la storiografia e la letteratura
dell'epoca. Per positivismo, scrive Comte, uno dei suoi maggiori esponenti, si
intende porre a fondamento della conoscenza il fatto reale e concreto, contrapposto
all'immaginario, derivante dall'esperienza e scientificamente analizzabile. Perciò
positivo significa fatto reale e scientifico.
Il positivismo si espande nel contesto storico della seconda rivoluzione industriale
e del cambiamento dei metodi di produzione per effetto delle grandi scoperte ed
invenzioni della macchina a vapore, dell'elettricità, del telegrafo senza fili. Come
conseguenza si ha in Europa lo sviluppo delle grandi città: la vita urbana prevale
sulla vita rurale.
Il positivismo costituisce, per l'appunto, la filosofia della società industriale
moderna tecnico-scientifica e diventa l'ideologia (il modo di pensare) tipica della
borghesia liberale dell'Occidente. Il positivismo segue all'idealismo e lo soppianta.
L'idealismo e il positivismo sono stati i maggiori indirizzi filosofici dell'Ottocento.
Entrambi sono accomunati dalla fondamentale idea di una realtà infinita che si
evolve incessantemente; ma per l'idealismo questa realtà è spirito e coscienza, per il
positivismo è invece materia e forze.
I successi della scienza e della tecnica sono alla base della nascita del positivismo e
suscitano l'idea di un progresso inarrestabile, segno del quale è stata interpretata
l'apertura del Canale di Suez e la Tour Eiffel a Parigi.
Il positivismo si presenta come movimento di pensiero che esalta le conquiste della
tecnica, mirando in campo politico al mantenimento di un sistema stabile,
sostanzialmente conservatore ed ispirato ad un cauto riformismo. Certo, i mali
della società industriale sono sotto gli occhi di tutti: squilibri sociali fra ricchi e
poveri, miseria del proletariato, sfruttamento dei lavoratori. Tuttavia i positivisti
sono convinti che tali mali siano progressivamente destinati a scomparire con
l'ulteriore sviluppo della società, della scienza e della tecnica, nonché per effetto del
diffondersi dell'istruzione popolare e di un generale miglioramento delle condizioni
di vita. Per i positivisti si tratta di lasciar fare all'evoluzione sociale e il
miglioramento avverrà spontaneamente, evitando tentazioni rivoluzionarie,
facilmente degenerabili come quella francese.
Gli aspetti generali e comuni del positivismo europeo sono:
1. il primato della scienza, considerata come l'unica forma di autentica
conoscenza;
2. l'obiettivo di estendere anche allo studio della società e delle scienze sociali il
metodo delle scienze fisiche e naturali, basato sul principio di causalità;
3. la nascita, quindi, della sociologia come scienza che intende studiare i fatti e i
rapporti umani e sociali come se fossero "fatti naturali", di cui scoprire le leggi
causali; trasformando e riducendo la qualità e la varietà dei fatti sociali in
quantità, cioè in dati statistici, derivava la convinzione di poter ricondurre la
pluralità e diversità dei dati osservati a poche leggi generali esplicative;
107

4. la svalutazione della metafisica (conseguente all'esaltazione della scienza)


considerata come sapere non basato su dati positivi (cioè sui dati di fatto
dell'esperienza scientificamente osservabili), accompagnata ad una minor
considerazione della filosofia, posta al servizio della scienza ed intesa come
riflessione sui risultati particolari raggiunti dalle singole scienze: tutt'al più la
filosofia è concepita come enunciazione dei principi generali comuni alle varie
scienze; in questo contesto viene progressivamente perdendosi il concetto di
filosofia quale sapere complessivo e sistematico, come invece per Kant ed
Hegel: l'uomo e il suo mondo spirituale (l'arte, la religione, la moralità) non
sono più considerati autonomi nei confronti della natura, ma anch'essi, viene
ritenuto, devono ridursi ad una collezione di fatti determinati da leggi
causali che escludono la libertà;
5. un diffuso ottimismo nel progresso scientifico e tecnologico e nella sua
capacità di portare condizioni di vita migliori per tutti.

Illuminismo e Positivismo.

Fra questi due indirizzi filosofici vi è da un lato continuità di sviluppo su alcuni


aspetti comuni ad entrambi e, dall'altro lato, vi sono punti di divergenza. Hanno
in comune la concezione del fondamento empirico della conoscenza (la
conoscenza deriva dall'analisi e dallo studio delle esperienze); la fiducia nella
scienza e nel progresso scientifico e sociale; la concezione laica (non religiosa)
della vita. Tuttavia, mentre l'illuminismo si presentava come movimento critico
ed innovatore rispetto alla cultura e alla società dominanti del tempo, quale
espressione di una classe borghese ancora in lotta contro l’"ancien regime",
contro i privilegi dei nobili, il positivismo ha invece carattere meno critico e più
conservatore in quanto ideologia della borghesia divenuta ormai classe egemone
e prevalente.
L'illuminismo si è servito della scienza per distruggere la metafisica; il
positivismo, pur svalutando la metafisica in sé, assume esso stesso un
atteggiamento in qualche modo metafisico poiché assolutizza e trasforma in
dogma la scienza, che diventa una nuova religione.

Romanticismo e positivismo.

Il positivismo si contrappone al romanticismo e all'idealismo. Per taluni aspetti


ha tuttavia con essi punti in comune: sostituisce l'assoluto della scienza (la
scienza è tutto) all'assoluto del sentimento di infinito e all'assoluto dello Spirito;
rimane quindi presente anche nel positivismo una concezione assolutistica e non
pluralistica della realtà. Comune è pure la concezione ottimistica dello sviluppo
della realtà e della società.
108

Il positivismo si sviluppa nei vari paesi europei con ovvie differenze dovute
alle diverse tradizioni culturali. In Francia (Comte) si inserisce all'interno della
tradizione razionalistica iniziata da Cartesio. In Inghilterra (Stuart Mill) si
sviluppa sulla scia della tradizione empirista ed utilitaristica. In Germania
assume le caratteristiche di un rigido monismo (concezione secondo cui uno solo
è il principio della realtà) materialistico. In Italia (Ardigò) si ricollega al
naturalismo rinascimentale.
All'interno del positivismo si distinguono due grandi filoni:
1. un positivismo sociale (Comte e Mill), che pone il sapere scientifico a
fondamento anche dell'organizzazione sociale e politica;
2. un positivismo evoluzionistico (Darwin e Spencer), che afferma
l'esistenza di una legge universale dell'evoluzione valida sia in natura che
nella società, nella storia e nell'uomo.
109

AUGUSTE COMTE (Montpellier 1798-Parigi 1857).

Di nazionalità francese, si interessa di matematica e di filosofia, in particolare degli


empiristi inglesi e degli illuministi. Intraprende la carriera di docente universitario.
Opera principale: Corso di filosofia positiva.

La riorganizzazione della società.

Influenzato dalla filosofia di Saint-Simon, che aveva diviso lo sviluppo dell'umanità


in epoche critiche ed epoche organiche, l'interesse fondamentale di Comte è di
promuovere una profonda riorganizzazione della società. Secondo Comte infatti
dopo la rivoluzione francese si è aperta in Europa un'epoca critica, portatrice di
pericolosi turbamenti.
La soluzione è da vedere nella sua nuova filosofia "positiva"(=che non si occupa di
concetti astratti ma di fatti positivi, cioè oggettivi, concreti), sostenitrice di una
morale altrettanto "positiva", che abbia come oggetto la vita reale inserita nel
contesto sociale. Tale nuova filosofia potrà realizzare una conciliazione organica
degli uomini in un ordinamento sociale razionale e morale insieme. Il progresso
scientifico deve essere la base anche dell'ordine e della stabilità sociale.

La legge dei tre stadi.

Comte considera elemento centrale della sua ricerca la cosiddetta "legge dei tre
stadi", che è posta a spiegazione, contemporaneamente, dello sviluppo sia della
personalità di ogni singolo uomo sia della storia e della cultura dell'umanità (filosofia
della storia).
A livello individuale, osserva Comte, ogni singolo uomo passa nella sua vita
dall'infanzia, caratterizzata dalla fantasia, all'adolescenza, che sviluppa il pensiero
astratto (i concetti), fino alla maturità, in cui domina la ragione e l'interesse si
concentra per i fatti positivi e per la scienza.
Analogamente, la storia umana si è sviluppata secondo tre stadi consecutivi:
1. Lo stadio teologico: l'umanità è ancora in una fase prescientifica e ricerca le
cause misteriose dei fenomeni naturali attribuendole all'azione di esseri
soprannaturali, creando la divinità come causa della realtà. A livello di
atteggiamento mentale prevale la fantasia e in campo politico si formano
grandi monarchie in cui prevale la classe sacerdotale e militare (monarchie
teocratiche e militari).
2. Lo stadio metafisico o astratto: si passa dalla fantasia alla ragione, anche se
di tipo prevalentemente astratto. Rappresenta comunque una fase di progresso
perché gli uomini abbandonano l'idea di un principio primo magico e divino
come causa di tutti i fenomeni. Però sono ancora indotti alla ricerca di cause
metafisiche ultime ed assolute, che vengono identificate in astrazioni o
essenze. In campo politico corrispondono ordinamenti (organizzazioni sociali e
110

statuali) fondati sul principio della sovranità popolare e sul prevalere di una
mentalità giuridico-formale analitica, cioè logico-metafisica.
3. Lo stadio positivo o scientifico: è caratterizzato dal prevalere della scienza e
dalla rinuncia a cercare le cause prime e assolute delle cose ed il destino
dell'universo. L'indagine è rivolta ai fenomeni e alle relazioni intercorrenti fra
di essi, con lo scopo di formulare leggi scientifiche che spieghino lo sviluppo
della realtà. In campo socio-politico si afferma la società industriale, favorita
anche dal progresso tecnico-scientifico (organizzazione scientifica della società
industriale).

La classificazione delle scienze e la sociologia.

Secondo Comte molte scienze sono ormai arrivate allo stadio positivo, cioè
scientifico, ma lo studio dell'uomo e della società è rimasto ancorato ad una
cultura teologica e metafisica.
Pertanto compito principale della filosofia è di attuare una riforma del sapere
mediante il passaggio anche delle scienze umane e sociali allo stadio positivo ed
estendendo anche ad esse il metodo delle scienze fisiche e naturali, basato
sull'osservazione empirica dei fatti e sulla scoperta delle leggi in grado di spiegarli.
Deve essere quindi impostato un programma di riforme sociali e politiche secondo lo
spirito e la cultura positivista.
Una volta che siano venute meno le false unificazioni e sintesi del sapere operate
dalla teologia e dalla metafisica, l'intento di Comte è di giungere ad una moderna
visione unitaria delle scienze sulla base di una nuova classificazione delle scienze
stesse per evitare il pericolo di una loro specializzazione troppo spinta e settoriale. La
classificazione delle scienze è condotta in base al criterio della loro generalità e
semplicità, dalle più semplici e generali si procede verso le più complesse e
particolari (specialistiche) secondo l'ordine seguente: matematica, astronomia,
fisica, chimica, biologia, sociologia. Questa classificazione esprime non solo l'ordine
con cui le varie discipline devono essere studiate, ma anche l'ordine con cui esse sono
giunte allo stadio positivo dopo quello teologico e metafisico. Dalla sua
classificazione Comte esclude la logica e la psicologia, perché la prima è la base di
tutte le scienze (la logica vale come metodo di fondo di ogni singola scienza ma non
è scienza in sé), mentre la psicologia, ossia la riflessione e l'osservazione interiore,
non è scientifica.
Poiché le scienze sociali, ossia la sociologia come da Comte denominate, sono ancora
legate a principi metafisici religiosi e astratti, si tratta di operare il passaggio della
sociologia allo stadio positivo-scientifico. Fondata su queste nuove basi la
sociologia diventa "fisica sociale", in quanto adotta nello studio dell'uomo e dei
rapporti sociali il metodo scientifico delle scienze fisiche (osservazione dei fatti,
metodo comparativo, sperimentazione ove possibile), nell'obiettivo di individuare le
leggi costanti e generali dell'agire umano.
111

La sociologia, o fisica sociale, si divide in statica sociale, che ha per oggetto le


strutture stabili e costanti della società, e in dinamica sociale, che ha per oggetto le
trasformazioni sociali ed è finalizzata alla previsione razionale dei fenomeni sociali,
per evitare sconvolgimenti nella società e rendere stabile l'ordinamento sociale. La
sociologia è quindi il fondamento di una politica razionale che, chiudendo il
periodo di disordine derivato dalla rivoluzione francese, dia origine al nuovo ordine
positivo della società.
A commento, si può rilevare in Comte una fiducia eccessiva e talora ingenua nella
capacità delle scienze sociali e sociologiche di fornire criteri certi di previsione e di
regolazione sociale, anche perché i suggerimenti delle scienze da soli non bastano se
non c'è la volontà politica di farli propri. Quello di Comte appare un dispotismo
scientifico che contrappone la sociocrazia alla teocrazia nonché l'assolutismo della
scienza al posto di quello religioso e politico.

La religione positiva.

Nelle sue ultime opere Comte elabora nuove concezioni che portano ad un
cambiamento del suo pensiero in senso religioso. Ritiene infatti che il sentimento
religioso sia ineliminabile dalla vita dell'uomo. Quindi nello stadio positivo
occorrerà educare l'uomo ad un nuovo tipo di religione che sostituisca il culto di
Dio e del divino creato dalla fantasia umana e che si fondi invece sulla venerazione
dell'Umanità elevata a "Grande Essere", inteso come l'insieme degli esseri passati,
presenti e futuri e della loro storia trascorsa e a venire: si tratta di una sorta di
"divinizzazione della storia". L'Umanità, il "Grande Essere", pone l'altruismo come
principio morale e si identifica con le più eccellenti opere realizzate dall'ingegno
umano, offrendo nuovi modelli di vita all'individuo ed esaudendo il desiderio di
immortalità dell'uomo che, grazie alle proprie opere, può sopravvivere nella memoria
degli altri. Sacerdoti di questa nuova religione saranno gli scienziati e i filosofi.
112

JOHN STUART MILL (Londra 1806-Avignone 1873).

Sviluppa la filosofia dell'empirismo ed utilitarismo inglesi e del liberalismo ed


elabora teorie logiche ed etico-politiche che hanno ispirato la seconda metà
dell'Ottocento inglese e che sono tutt'oggi punto di riferimento.
Comte è un positivista il cui razionalismo è radicale: parte sì dai fatti ma per giungere
ad una legge esplicativa che viene dogmatizzata; Mill è un positivista-empirista
radicale: il richiamo ai fatti è continuo e non ritiene mai possibile trasformare in
dogmi i risultati della scienza (si può rilevare una certa influenza dello scetticismo di
Hume).
Opere principali: Sistema di logica ragionativa e induttiva; Saggio sulla libertà;
L'utilitarismo; Principi di economia politica.

La logica come base del sapere. Critica del sillogismo. L'induzione.

Per fondare una teoria etico-politica occorre partire dalla logica in quanto essa,
scrive Mill, è non solo una "dottrina della coerenza ma anche della verità", ossia è
metodo atto non solo ad evitare contraddizioni ma altresì a guidare la conoscenza.
Partendo dall'empirismo di Hume, Mill sostiene la teoria, come del resto Comte,
secondo cui tutte le nostre conoscenze derivano dall'esperienza. Tuttavia, mentre
il positivismo di Comte è realistico (gli oggetti di cui si fa esperienza esistono
realmente), quello di Mill è invece fenomenico (l'unica realtà di cui possiamo fare
conoscenza è la percezione che abbiamo delle cose; non conosciamo direttamente le
cose in sé ma solo i fenomeni, solo ciò che ci appare delle cose).
La conclusione è che la logica del sillogismo è falsa in quanto basata sulla
deduzione da idee e concetti universali. Ma, sottolinea Mill, noi non possiamo avere
conoscenza dell'universale, delle essenze, poiché la nostra conoscenza deriva solo
dall'esperienza di casi particolari e non è concepibile l'esperienza dell'universale,
della totalità delle cose. Anche lo stesso principio di non contraddizione deriva per
Mill dall'osservazione e viene formulato per generalizzazione a seguito di
osservazioni ripetute.
La vera logica deve invece basarsi sull'induzione, non però nel passaggio dal
particolare all'universale, poiché quest’ultimo in quanto tale non è mai
esperibile, bensì nel passaggio da particolare a particolare. Le proposizioni
generali, relative ad intere categorie, ad interi insiemi, sono solo espedienti, criteri
pratici di economicità del linguaggio, che adottiamo per analogia al fine di conservare
e sintetizzare nella memoria molti fatti particolari nonché di regolare i nostri
comportamenti anche per il futuro sulla base del carattere ripetitivo delle osservazioni
effettuate. Il concetto quindi ha soltanto un valore pratico ma non conoscitivo. Le
essenze in sé non esistono.
Ogni disciplina scientifica deve dunque fondarsi sul processo di induzione.
L'induzione è infatti il processo di generalizzazione con cui concludiamo che
quello che è vero per un numero sufficientemente ampio di fenomeni è vero
probabilmente per l'intero insieme di fenomeni a cui quelli osservati
113

appartengono. Tuttavia tale processo rimane una generalizzazione dell'esperienza e


non costituisce una conoscenza che possieda i caratteri logici (indiscutibili) della
certezza. In teoria sono sempre possibili imprevisti. Gli stessi principi o postulati
della matematica non sono altro che, in realtà, generalizzazioni tratte dall'esperienza.
La logica di Mill sostiene dunque l'origine empirica delle conoscenze pratiche ed
anche teoriche posseduto dall'individuo. Il processo di astrazione, le leggi di natura,
gli assiomi logici e matematici derivano tutti dall'associazione e generalizzazione di
singole percezioni.

Il principio dell'uniformità della natura.

È un principio che consente a Mill di non giungere alle conclusioni scettiche di


Hume.
Mill indica quattro metodi in base a cui, data una serie di fenomeni, poter
indurre che uno di essi è causa o effetto degli altri: il metodo dell'accordo, della
differenza, delle variazioni concomitanti e il metodo dei residui.
Ma la questione più rilevante è quella della validità dell'induzione su cui si fonda
la scienza e quindi la validità delle nostre conoscenze. Il motivo per cui possiamo
affidarci al principio di induzione, limitandoci a considerare un numero
sufficientemente ampio di osservazioni e non certo, poiché impraticabile, tutte quelle
possibili, consiste secondo Mill nel principio dell'uniformità delle leggi di natura,
secondo il quale in natura vi sarebbero leggi e principi costanti (ad esempio la
gravitazione universale) per cui, almeno in via pratica, possiamo presumere che i
fenomeni osservati nel passato si svolgeranno allo stesso modo anche nel futuro.
In tal senso il principio dell'uniformità della natura coincide o tutt'al più conferisce
valore pratico al principio di causalità. Ma qual è il valore del principio
dell'uniformità della natura? Valgono in proposito tre considerazioni:
1. non è un principio astratto o comunque razionale, ma è un dato di fatto
riconducibile all'esperienza. Anch'esso non è altro che un processo di
generalizzazione dell'esperienza: le più ovvie generalità (constatazioni
condivise in generale) scoperte all'inizio della vita umana (il fuoco brucia,
l'acqua bagna, ecc.) suggeriscono il principio dell'uniformità della natura. Si
tratta di una generalizzazione cui siamo stati indotti fin dalle esperienze più
elementari ed in base a cui siamo portati ad ammettere che se una determinata
causa precede un determinato effetto, tutte le volte che tale causa si verifica
sarà ancora seguita dal medesimo effetto.
2. Il principio di uniformità della natura, posto a fondamento dell'induzione, è
quindi anch'esso un induzione a sua volta. Ha valore probabilistico e
pratico, non di certezza assoluta. Ha natura empirica e non è dunque una
condizione o forma a-priori, indipendente dall'esperienza, come pensava
Kant. È piuttosto un'ampia generalizzazione fondata essa stessa su
generalizzazioni precedenti.
3. Infine, l'induzione che ci porta a definire il principio di uniformità della natura
ci fa soltanto conoscere come certi fatti, che chiamiamo effetti, seguano
114

generalmente ad altri, che chiamiamo cause, ma non ci fa conoscere il perché


gli uni seguano gli altri: conformemente all'indirizzo positivistico anche Mill,
come Comte, esclude la metafisica.

Le scienze morali, l'economia e la politica.

Poiché le leggi logiche non sono costituite da concetti o idee realmente esistenti,
magari in un mondo ultrasensibile come per Platone, ma derivano invece da
processi di associazione e generalizzazione presenti nella nostra mente, consegue
che la logica stessa diventa una branca della psicologia. Nasce così con Mill
quella concezione psicologistica della logica che, nel Novecento, sarà combattuta da
Husserl e dalla fenomenologia. Anche l'idea di coscienza (l'Io) e l'idea del mondo
non sono realmente esistenti in sé, ma derivano anch'esse da un processo di
associazione e generalizzazione delle nostre percezioni. Per Mill infatti il processo di
associazione e generalizzazione spiega gli stessi problemi dell'esistenza dell'Io (che
deriva da un processo di associazione di tutte le percezioni interiori) e dell'esistenza
del mondo esterno (che deriva dalla costanza e regolarità con cui abbiamo constatato
essersi susseguite in passato le nostre percezioni). Se noi potessimo conoscere tutti i
moventi delle azioni di una persona e tutti i meccanismi della sua mente, si potrebbe
prevederne i comportamenti con la medesima certezza con cui prevediamo un
qualsiasi fatto fisico.
Per tali motivi Mill considera la psicologia la disciplina più importante delle
scienze morali ed umane. Essa ha per oggetto le uniformità e le leggi in base a cui
uno stato della mente segue ad un altro o è da esso causato. Tuttavia non si tratta di
una necessità logica necessaria e immutabile né di una fatalità poiché, se conosciamo
la causa di un'azione umana, possiamo agire su di essa e quindi modificare o orientare
la nostra condotta.
Non vi è quindi contrasto tra libertà dell'individuo e scienze della natura umana.
Dopo la psicologia Mill considera l'etologia, che studia invece la formazione del
carattere sulla base delle leggi generali della mente e dell'influenza dell'ambiente.
Più complessa è la sociologia, che studia il comportamento sociale dell'uomo. A
differenza di Comte, Mill non ritiene che la sociologia sia in grado di fare
previsioni esatte, ma piuttosto di individuare linee di tendenza nello sviluppo
della società. Perciò la sociologia non può di per sé permettere di migliorare la
società; questo è invece compito di una politica attenta e vigile.
Sempre in campo morale, Mill aderisce alla dottrina dell'utilitarismo e accetta il
principio di Jeremiah Bentham secondo cui l'utilità, o il principio della massima
felicità, è il fondamento della morale ed il piacere è la regola delle azioni umane. Ma,
a differenza di Bentham, afferma che si deve tener conto non solo della quantità
del piacere ma anche della qualità per cui, in una gerarchia dei piaceri, sono
migliori quelli che soddisfano facoltà e desideri più nobili. Scrive Mill: "È preferibile
essere un Socrate malato che un maiale soddisfatto". L'accrescimento della felicità
individuale, prosegue Mill, poggia sulla felicità collettiva: non è una tendenza
115

automatica ma il risultato, non scontato, di un processo educativo che deve essere


intrapreso dalle istituzioni.
In campo religioso afferma che l'ordine del mondo attesta un'Intelligenza divina,
però più come ordinatrice che creatrice della materia: Dio non è creatore
onnipotente, perché se lo fosse non ricorrerebbe alle leggi della natura che sono un
modo indiretto di realizzazione del proprio scopo e non tollererebbe la presenza del
male nel mondo.
In campo economico distingue tra leggi della produzione della ricchezza, che
hanno le caratteristiche di leggi di natura, cioè meccaniche e predeterminate in se
stesse, e leggi della distribuzione della ricchezza, che non sono indipendenti ma
dipendono dalla volontà umana e dai costumi della società: la ricchezza può essere
distribuita come si vuole. Rifiuta perciò la teoria "della dipendenza e della
protezione", secondo cui la vita e le condizioni dei lavoratori e dei poveri devono
essere regolate nel loro interesse ma non da loro. Sostiene invece la teoria
"dell'indipendenza" dei lavoratori, che debbono poter regolarsi autonomamente
mediante l'autogoverno e la giustizia sociale anziché essere regolati dalle classi
privilegiate, sempre tentate dagli egoismi. Preoccupazione fondamentale di Mill è
di conciliare la giustizia sociale con la libertà dell'individuo che il socialismo, a
suo avviso, mette invece in pericolo.
In campo politico è fautore di un liberalismo riformatore, però non invasivo della
libertà individuale. Occorre impedire che la classe in maggioranza sia in condizione
di costringere le altre a vivere ai margini della vita politica. Sostiene una democrazia
rappresentativa in cui tutti vengano rappresentati e non solamente la maggioranza.
Occorre evitare sia la minaccia del dispotismo e dell'autoritarismo politico, sia la
minaccia della "tirannia dell'opinione prevalente", della moralità dei benpensanti e
del conformismo di massa, che spesso si accanisce contro tutto ciò che non
comprende. L'ideale è quello della più grande libertà possibile di ognuno per il
benessere di tutti. Lo Stato deve accorgersi che "non si possono realizzare grandi cose
con piccoli uomini", soffocati nel loro spirito d'iniziativa dal peso dell'autoritarismo e
dalla burocrazia statale.
116

TEORIA DELL’EVOLUZIONE ED EVOLUZIONISMO.

Il positivismo inglese si intreccia nel suo sviluppo con le dottrine evoluzionistiche


che, nate in ambito naturalistico e biologico, hanno prodotto vere e proprie
rivoluzioni culturali per le implicazioni di carattere etico e religioso derivanti.
L'evoluzionismo si contrappone alla teoria del "fissismo morfologico", secondo
cui la struttura dei vari organismi è rimasta sempre fissa ed inalterata nel tempo,
conservando costantemente la forma in cui tali organismi attualmente appaiono
poiché così costituiti fin dall'origine. È una teoria che maggiormente si concilia con la
concezione tradizionale del creazionismo (=della creazione del mondo da parte di
Dio). L'evoluzionismo sostiene invece che gli organismi viventi hanno subito nel
corso dei millenni e seguitano a subire continui cambiamenti o mutazioni a causa dei
condizionamenti prodotti dall'ambiente a cui i vari organismi si vengono
progressivamente adattando.
Principali esponenti della teoria evoluzionistica sono stati in campo scientifico
Darwin e in campo filosofico-sociale Spencer.
Tra i precursori va ricordato Jean Baptiste Lamarck (1774-1829) che, contro il
creazionismo ed il fissismo, sostiene che le forme viventi sono il risultato di una
progressiva trasformazione verificatasi negli organi animali prodotta dalla necessità
di un miglior adattamento all'ambiente.
Lamarck formula due leggi dell'evoluzione:
1. la legge dell'uso o non uso degli organi in dipendenza dell'ambiente, che ne
produce corrispondentemente lo sviluppo o l'atrofizzazione;
2. la legge dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, che si trasmettono ai
discendenti della specie.
Presupposti filosofici dell'evoluzionismo sono individuabili nell'idealismo
romantico (in particolare Schelling), che considera la natura come un complessivo
organismo vitale che si sviluppa e si perfeziona nel tempo, e ciò in contrapposizione
con una concezione di rigido determinismo di causa-effetto, nonché con la
concezione di Hobbes della guerra di tutti contro tutti, che Darwin riprende con
il concetto di "lotta per la vita".
In campo filosofico-teologico l'evoluzionismo ribalta la concezione creazionistica
e finalistica del mondo e dell'uomo:
1. l'uomo non è più al centro della natura (così come, a seguito della
rivoluzione copernicana, la Terra non è più al centro dell'universo);
2. le facoltà mentali dell'uomo non sono originarie, create da Dio già
completamente sviluppate, ma derivano da quelle animali per sviluppi
successivi;
3. l'evoluzione non è teleologica (finalistica, indirizzata ad un fine superiore) ma
è il risultato di processi naturali e casuali a seconda dell'ambiente.
Solo nel Novecento alcuni teologi (Teilhard de Chardin) si orienteranno verso
un'interpretazione dell'evoluzione come disegno provvidenziale, cioè come progetto
della stessa Provvidenza divina.
117

La teoria dell'evoluzione di Charles Darwin (1809-1882).

Di nazionalità inglese, studia medicina e soprattutto scienze naturali. Partecipa a


spedizioni scientifiche, arrivando nel 1835 alle isole Galapagos, nel Pacifico, dove
raccoglie le documentazioni più originali e significative per le sue ipotesi
scientifiche.
Opere principali: L'origine della specie; L'origine dell'uomo.

Darwin giunge alle sue più importanti scoperte non in seguito a riflessioni filosofiche
ma grazie ad una serie di ricerche scientifiche e osservazioni sul campo. Dall'esame
delle tecniche agricole e dell'allevamento ricava la tesi della selezione
dell'organismo più forte, cioè della selezione dei migliori, dei più adattabili; dalla
teoria della sovrapopolazione rispetto alle risorse disponibili di Robert Malthus ricava
la tesi della lotta per l'esistenza.
Ne consegue una teoria dell'evoluzione diversa da quella di Lamarck. Per
Lamarck l'evoluzione dipendeva dall'adattamento all'ambiente dell'intera specie. Per
Darwin essa risulta invece dalla selezione naturale dei soli individui più forti nei
confronti dell'ambiente, che per la scarsità delle risorse disponibili costringe ad una
continua lotta per la vita. Mentre per Lamarck è l'intera specie che si adatta
progressivamente all'ambiente secondo un processo finalistico naturale, per Darwin
soltanto i singoli individui più resistenti riescono ad adattarsi e a sopravvivere, con la
precisazione che il sorgere degli individui più forti e adattabili non è
predeterminato nella specie ma è dovuto solo al caso (antifinalismo).
In altri termini:
1. la specie è formata da individui con caratteristiche diverse e questa diversità è
casuale e non finalizzata;
2. la quantità di individui procreati è superiore alla quantità di individui che
riescono a sopravvivere;
3. la lotta per la vita contro l'ambiente e le scarse risorse ambientali determinano
la selezione la sopravvivenza solo degli individui più forti e più adattabili;
4. i caratteri acquisiti dagli individui più forti a seguito della selezione naturale
vengono trasmessi alle generazioni successive, ma soltanto a quelle di
derivazione diretta e non anche ai discendenti degli individui inadatti, destinati
a perire.
Quindi, diversamente da Lamarck, le trasformazioni delle specie sono solamente ad
opera degli individui più adattabili e non sono da attribuire direttamente all'ambiente
ma alla lotta per la sopravvivenza.
La teoria evoluzionistica delle specie vegetali e animali spiega anche l'origine
dell'uomo. La specie umana, precisa Darwin, è solo una delle varie specie di primati
(=le scimmie primitive): l'uomo deriva dagli stessi antenati che hanno dato
origine da una parte al ramo delle scimmie contemporanee e, dall'altra, al ramo
della razza umana. Gli uomini da un lato e le scimmie dall'altro derivano dai
medesimi antenati. Quindi tra l'uomo e gli animali esiste solo una differenza di
grado relativa al maggior sviluppo nell'uomo delle facoltà mentali.
118

All'epoca questa tesi di Darwin scatenò le più violenti reazioni e polemiche da


parte dei teologi ed umanisti. Oggi l'evoluzionismo non costituisce più un
problema per la filosofia e la teologia, ma è invece comunemente accettato, avendo
la stessa teologia riconosciuto che la tesi della discendenza dell'uomo dalla scimmia
non è inconciliabile con la tesi della creazione divina. Lo stesso Darwin del resto ha
assunto in campo religioso una posizione agnostica, sostenendo l'impossibilità di
trovare in sede scientifica conferme o smentite delle concezioni religiose tradizionali.
Piuttosto, soprattutto agli inizi del Novecento, la teoria della lotta per la vita e
della sopravvivenza del più forte fu strumentalizzata da sostenitori di ideologie
razziste, denominate "darwinismo sociale", che tentarono di giustificare la
legittimità del predominio dei popoli e delle razze più forti e superiori su quelli
considerati più deboli.
119

HERBERT SPENCER (1820-1903).

Di nazionalità inglese, diviene ingegnere delle ferrovie a Londra ma abbandona la


professione, dopo avere ricevuto una piccola eredità, per dedicarsi alla sua vocazione
filosofica.
Opera principale: Primi principi.

La teoria di Spencer si distingue nettamente da quella di Darwin per il suo carattere


filosofico e non sperimentale. Spencer si rende conto che tra la concezione della
natura di tipo meccanicistico e quella evoluzionistica vi è un profondo contrasto.
Cerca però una sintesi, considerando l'universo come un meccanismo che si evolve.
L'impronta è comunque di tipo evoluzionistico, concezione che anzi Spencer estende
a tutti i campi dell'esperienza umana e non solo a quello scientifico: interpreta infatti
in senso evoluzionistico tutta la realtà naturale ma anche sociale.

Religione e scienza. L'inconoscibile.

Spencer entra nel merito del problema aperto da Darwin circa il rapporto tra
scienza e religione, cercando una conciliazione. Non considera infatti in contrasto
tra loro scienza e religione in quanto entrambe devono ammettere di non essere in
grado di pervenire alla conoscenza ultima della realtà: da un lato tutte le religioni
hanno a che fare e attestano il mistero circa la natura del creatore (il senso del
mistero, per Spencer, è insopprimibile nell'uomo ed è all'origine di ogni concezione
religiosa); dall'altro lato, anche la scienza si arresta di fronte alle verità fondamentali
che rimangono inaccessibili (nulla può essere conosciuto nella sua intima essenza;
rimarrà sempre una realtà ultima inspiegabile).
Perciò scienza e religione hanno in comune, nello sfondo, l’"inconoscibile". Le
religioni si trovano di fronte al mistero della natura divina, mentre le scienze non
sono altro che il successivo inserimento di verità speciali in verità più generali,
peraltro sempre relative poiché la verità generale, non potendo essere inclusa in
nessuna altra, non può essere spiegata. Per tali motivi religione e scienza sono
conciliabili: ambedue riconoscono l'assoluto e l'incondizionato (i principi primi e le
cause ultime) come verità irraggiungibili dalla nostra esperienza. Ma in ciò sta anche
la loro diversità, ciascuna nel proprio campo, senza che siano ammissibili
interferenze e senza confondere l'oggetto dell'una con l'oggetto dell'altra.
Con tali pensieri e col concetto dell’"inconoscibile" Spencer manifesta il valore
infinito, e quindi religioso, del progresso. Il suo positivismo filosofico evoluzionista
appare fondarsi sul presupposto romantico secondo cui il finito è la manifestazione
dell'infinito, in virtù del quale i singoli e frammentari processi evolutivi sono
ricondotti ad un processo unico, universale e progressivo: viene esteso al mondo della
natura il concetto della storia elaborato dall'idealismo romantico.
120

La teoria generale dell'evoluzione.

Mentre Darwin limita agli esseri viventi la sua teoria dell'evoluzione, Spencer
estende il principio dell'evoluzione a tutto l'universo, a tutta la realtà, non solo
biologica ma anche fisica, sociale, artistica e morale.
In linea generale, Spencer definisce l'evoluzione come passaggio dall'incoerente al
coerente (ad esempio il sistema solare sorto da una nebulosa), come passaggio
dall'omogeneo all'eterogeneo (le piante e gli animali si sviluppano differenziandosi
secondo organi e tessuti diversi) e come passaggio dall'indefinito al definito (dalla
tribù selvaggia ad un popolo civile con più definita specificazione dei compiti e delle
funzioni). In tal senso l'evoluzione, pur essendo un processo naturale, quindi
inevitabile e necessario, è interpretata in termini ottimistici di progressivo
perfezionamento, almeno come linea di tendenza, di tutta la realtà.

La classificazione delle scienze.

Spencer applica la legge evolutiva anche ai singoli campi ed ambiti scientifici.


In riferimento alla biologia cerca di conciliare le teorie di Lamarck con quelle di
Darwin: tutti gli organismi sono condizionati dall'ambiente e differenziano
gradualmente i loro organi e funzioni (Lamarck) ma, rispetto a tali differenziazioni
prodotte dall'ambiente, la selezione naturale favorisce la sopravvivenza soltanto o
prevalentemente degli organismi più forti e più adatti.
Diversamente da Comte e similmente a Mill, Spencer pensa che la psicologia come
scienza autonoma e positiva sia possibile. Essa ha per oggetto lo studio dei
comportamenti individuali condizionati dall'ambiente (psicologia oggettiva), nonché
lo studio introspettivo dei processi mentali dell'istinto, della memoria, della
riflessione e della ragione. In tal senso la psicologia diviene presupposto della logica.
Spencer riconosce altresì nella coscienza umana la presenza di funzioni a-priori
indipendenti dall'esperienza individuale. Ma, aggiunge, ciò che è a-priori per
l'individuo è a-posteriori per la specie, nel senso che i modi di funzionare
dell'intelletto individuale, uniformi e costanti, sono il prodotto dell'esperienza
accumulata dalla specie nel suo sviluppo e trasmessi per ereditarietà nella struttura
organica del sistema nervoso. Quindi, diversamente da Kant, "a-priori" non
equivale a valido: gli schemi mentali fissati ed ereditati possono anche essere errati e
possono mutare.
Contrariamente a Comte, Spencer concepisce una sociologia orientata non già a
fornire regole per lo Stato ma a difendere l'individuo. Coerentemente col suo spirito
liberale, secondo Spencer la società esiste per gli individui e non viceversa: primato
dell'individuo rispetto al gruppo sociale.
Ed ancora, secondo l'ottica evoluzionistica, Spencer concepisce il progresso della
società secondo tempi lenti e graduali, per cui è contrario a coloro che pensano di
cambiare il mondo o accelerare il corso della storia con la rivoluzione o con radicali
mutamenti. Allo stesso modo in cui non si può abbreviare il passaggio dall'infanzia
alla maturità, non è possibile che le forme sociali più basse divengano più elevate se
121

non attraverso piccole modificazioni successive. Spencer è portatore quindi di un


atteggiamento di cauto riformismo.
Definisce lo sviluppo graduale della società come passaggio da "società militari",
in cui il potere dello Stato domina sugli individui, a "società industriali",
caratterizzate da maggiore autonomia individuale.
La filosofia è definita come conoscenza al più alto grado di generalità: è
generalizzazione massima di principi generali quali l'indistruttibilità della materia, la
continuità del movimento, la persistenza della forza e soprattutto la legge universale
dell'evoluzione.

L'etica.

Quella di Spencer è un'etica naturalistico-biologica che non sempre si accorda


con quella utilitaristica ed esclude uno sfrenato individualismo.
Premesso che lo scopo dell'attività umana è il piacere o l'utile, Spencer tuttavia
osserva che l'agire umano, il quale deve pur tener conto degli interessi altrui, rientra
nell'ambito dell'evoluzione biologica, con conseguenze di reciproca
valorizzazione e rispetto sia della specie che dell'individuo.
Come per Kant, le norme etiche devono basarsi sul concetto di dovere. Tuttavia,
Spencer afferma che con la progressiva evoluzione morale della specie umana gli
impulsi stessi spingeranno direttamente l'individuo al bene, per cui ad una
morale del dovere subentrerà una morale organica: il comportamento morale
diverrà naturale e spontaneo. La morale non ha quindi nessun rapporto con valori
trascendenti e religiosi ma si fonda sulla naturalità dell'uomo ed è invece in rapporto
con l'evoluzione. Non esiste contrapposizione insuperabile tra altruismo ed egoismo.
L'uomo è morale nella misura in cui, a seconda del suo livello evolutivo, sa regolare i
suoi istinti in base alle reali necessità sociali. Così come per la conoscenza,
l'evoluzione fornisce all'individuo anche degli a-priori morali, che sono a-priori
per l'individuo ma a-posteriori per la specie (carattere "acquisito" del dovere).
122

ROBERTO ARDIGO (1828-1920).

È il maggior esponente del positivismo italiano. Dapprima prete e canonico,


abbandona poi l'abito talare. È professore di liceo e poi docente all'Università di
Padova. Quello di Ardigò è un positivismo di tipo evoluzionista.
Il positivismo in Italia fu favorito dalla caduta della destra storica e dalla diffusione
di un clima anticattolico ed anticonservatore. Il positivismo italiano trova i propri
presupposti culturali in quella tradizione filosofico-scientifica che anteponeva la
"realtà effettuale" dell'esperienza alle speculazioni della metafisica, quale espressa da
Machiavelli e Guicciardini in politica, da Galileo nella scienza e da Vico in ambito
storico e politico.

Dalla sacralità della religione alla sacralità del fatto.

Il positivismo di Ardigò si ricollega a Spencer ma affonda le sue radici nel


naturalismo italiano del Cinquecento (Pomponazzi e Bruno). Si richiama al
principio vichiano secondo cui "verum ipsum factum" (il vero è il fatto stesso) e
ne fa il fondamento della propria filosofia, sviluppandolo ulteriormente. Il fatto,
scrive Ardigò, ha una propria realtà per sé, inalterabile, che noi siamo costretti ad
accettare quale data, con l'assoluta impossibilità di togliervi ed aggiungervi nulla.
Invece i principi, le idee, le teorie sono astrazioni e costruzioni umane. Il fatto è
sempre il punto di partenza, mentre il principio è un punto di arrivo che può essere
anche abbandonato, corretto od oltrepassato. La scienza deve quindi basarsi sulla
raccolta e l'accertamento di una serie di fatti, secondo il metodo induttivo.

La sostanza psicofisica, l'evoluzione e l'ignoto.

Il primo fatto da cui è lecito partire per interpretare la realtà è ciò che Ardigò
definisce sostanza o, meglio, “indistinto psicofisico”. L'indistinto psicofisico, che
ha come precedenti la "natura naturans" di Spinoza e l'Assoluto indifferenziato di
Schelling, consiste nel dato originario della sensazione. L'indistinto, precisa
Ardigò, è un qualcosa non ancora noto ma avvertito confusamente, che sollecita
il pensiero verso l'analisi e la conoscenza per giungere al distinto. Tuttavia il
distinto non esaurisce mai l'indistinto che permane al di sotto: il distinto è finito e
l'indistinto è infinito. L'indistinto psicofisico è una sostanza senziente, è il "sentire
organico". La sensazione è l'indistinto psicofisico originario: nella sensazione non
c'è antitesi e distinzione tra soggetto e oggetto, esterno ed interno, io e non-io. La
distinzione tra spirito e materia, io e non-io, soggetto e oggetto sono risultati che
derivano dall'associazione delle sensazioni, secondo un processo in cui la sostanza
senziente, il sentire, riflette su se stesso e prende coscienza di sé e quindi riconosce la
materia come altro da sé in base al principio di causalità (gli oggetti sono sentiti come
causa delle sensazioni), per cui ogni realtà deriva inevitabilmente da un'altra secondo
un rapporto che Ardigò spiega aristotelicamente come passaggio da potenza ad atto.
123

"Datemi le sensazioni e la loro associabilità -scrive Ardigò- ed io vi spiego tutti i


fenomeni".
Come nel caso della sensazione, anche l'intera realtà si sviluppa mediante un
processo di evoluzione. Mentre l'evoluzionismo di Spencer è di tipo biologico e
procede per cause organiche esterne, quello di Ardigò è un evoluzionismo di cui è
messo in evidenza soprattutto l'elemento psicologico. L'indistinto è tale solo
relativamente ad un distinto che ne deriva, che viene successivamente conosciuto, il
quale a sua volta è un indistinto per il distinto successivo, secondo un processo
psicologico incessante.
Ma l'evoluzione della realtà nella sua prodigiosa varietà è spiegata da Ardigò
anche in base al principio di causalità. La diversità infinita delle cose non è l'esito
di un progetto provvidenziale né di una razionalità superiore: essa è piuttosto il
risultato di un semplice sviluppo meccanico, causale, in cui però gioca un ruolo
fondamentale anche il caso, poiché le serie causali -ognuna necessaria e
determinata- possono incontrarsi casualmente fra di esse dando luogo ad eventi
imprevedibili. Il pensiero umano, afferma Ardigò, è uno di questi prodotti casuali
dell'evoluzione cosmica, formatosi accidentalmente.
L'unica conoscenza valida, per Ardigò, è quella scientifica e tutta la realtà è
natura. Nulla vi è di soprannaturale; nulla vi è al di fuori della natura e con essa
coincide quindi l'infinito (l'infinito dei positivisti è essenzialmente non religioso ed è
piuttosto concepito come la totalità illimitata della realtà). Tutta la realtà è natura
che cerchiamo di conoscere con le diverse scienze particolari, mentre la filosofia
o "scienza generale" non è la scienza dei primi principi, come in Spencer, ma la
scienza del limite, nel senso che supera i limiti delle scienze particolari per
attingere mediante un'intuizione (che è sensazione e pensiero) la totalità della
natura, che tutto abbraccia e funge da matrice (da causa) indeterminata ma reale di
tutte le determinazioni, cioè di tutte le cose concrete, specifiche e determinate, da
essa derivanti.
Però, essendo tutta la realtà natura, non si può accettare il concetto di
"inconoscibile" di Spencer, che esprime un ambito di per sé esorbitante dalle
nostre possibilità conoscitive. Se tutto è natura, l'inconoscibile non può esistere in
quanto esiste solo ciò che accade nell'ambito dell'esperienza. Bisogna invece parlare
di "ignoto", cioè di ciò che non è ancora diventato oggetto di conoscenza ma che, di
principio, lo può diventare. L'ignoto è il limite sempre spostabile in avanti della
conoscenza umana. Non c'è nulla per Ardigò che possa trascendere, oltrepassare
l'esperienza: la sua è una forma di immanentismo intransigente.

Morale e società.

L'uomo non sfugge all'universale legge dell'evoluzione. L'imprevedibilità degli


eventi non significa affatto che l'uomo sia libero. La libertà dell'uomo è solo
apparente: è invece l'effetto della pluralità delle concatenazioni psicofisiche o degli
istinti. Dunque l'uomo è natura; il pensiero è frutto dell'evoluzione della natura;
la volontà umana non possiede maggior libertà rispetto a qualsiasi altro evento
124

naturale, evolvendosi tutta la realtà, compresa quella umana, secondo processi


necessari di causalità oppure secondo processi casuali. Da ciò la critica ad ogni
morale di tipo religioso, spiritualistico, metafisico. La coscienza morale, giuridica
e sociale è invece il risultato dell'evoluzione causale o casuale dell'umanità,
caratterizzata dalla più assoluta naturalità. Le norme morali sono nate, in origine,
come reazione della società contro coloro che volevano mettere in pericolo
l'esistenza. Queste forme di difesa si sono poi interiorizzate col passare delle
generazioni, diventando morale e patrimonio comune dell'umanità.
Anche per quanto riguarda le leggi dello Stato, esse furono in origine una sorta di
prepotenza esercitata dal potere sui cittadini. Successivamente, attraverso una lenta
evoluzione, si sono trasformate in norme indispensabili alla pacifica convivenza. La
prepotenza è stata quindi la prima forma del diritto. La prima forma di giustizia è il
diritto positivo (scritto). Ad ogni diritto positivo si contrappone sempre, per
riformarlo, una forma di diritto naturale: in tal modo Ardigò definisce l'evoluzione
della giustizia.
In politica Ardigò è un liberale e antimassone. Critica il marxismo nella sua
concezione materialistica della storia giacché assolutizza (trasforma in dogma
assoluto) il fattore economico. Guarda invece con interesse al socialismo, contro
l'idealismo che stava ritornando prepotentemente di moda e contro la brillante ma
evanescente filosofia di Bergson.
125

FRIEDRICH NIETZSCHE (1844 1900).

Di nazionalità tedesca, è stato docente di filosofia classica all'università di Basilea, da


cui tuttavia dopo qualche anno si dimette per motivi di salute e soprattutto di
carattere, vivendo un'esistenza errabonda tra Svizzera, Italia e Francia meridionale. È
stato colpito anche da episodi di malattia mentale che alla fine si è inesorabilmente
aggravata.
Di temperamento irrequieto, non stabilisce legami costanti né con persone né con
luoghi. Agli inizi ammira la filosofia di Schopenhauer, ma in seguito la respinge.
Stringe amicizia col musicista Richard Wagner, nella cui arte vede uno strumento di
rigenerazione, ma successivamente ne rimane deluso poiché rivelatosi ai suoi occhi
un istrione desideroso solo di successo mondano.
Opere principali: Nascita della tragedia; La genealogia della morale; Umano, troppo
umano; La Gaia scienza; Così parlò Zarathustra.
Lo stile è volutamente asistematico e il linguaggio metaforico e aforistico (aforisma=
massima, linguaggio figurato e simbolico).

Premessa.

Il pensiero di Nietzsche è del tutto particolare ed originale per cui non è facilmente
collocabile all'interno di una corrente filosofica: per alcuni aspetti è antipositivista e
per altri anticipa temi che saranno sviluppati dalla filosofia esistenzialista. In generale
persegue un'impostazione antidealistica, come Schopenhauer e Kierkegaard,
definita "irrazionalistica" in opposizione alla razionalità dell'idealismo.
L'irrazionalismo è una corrente di pensiero ancor oggi condivisa da taluni filosofi
che parlano di "crisi della ragione". In verità non sono concezioni contro la funzione
e l'importanza della ragione in sé, quanto piuttosto contro un certo tipo di
razionalismo che considera importante soltanto la ragione trascurando l'importanza
anche delle passioni, degli istinti, dell'inconscio.
Tutta l'opera di Nietzsche è un tentativo di comprendere e descrivere l'epoca
moderna, per giungere alla drammatica constatazione della scomparsa di tutti i
principi e valori morali, religiosi ed estetici tradizionali: si tratta di principi e di
valori, osserva Nietzsche, che non valgono niente. Da ciò il termine di "nichilismo"
(dal latino nihil= niente, nulla) attribuito a questo tipo di filosofia.
Di conseguenza, Nietzsche propone una nuova cultura "eroica" e un nuovo
modello di uomo: il superuomo. L'uomo, come descritto e pensato dalla metafisica
e dalla morale tradizionali, proclama Nietzsche, deve essere superato, deve acquistare
una nuova fede in se stesso ed essere liberato dalle vecchie norme metafisiche e
morali. L'uomo deve oltrepassare da sé e procedere verso il proprio destino: il
superuomo, l'oltre-uomo.
Già Schopenhauer aveva affermato che la vita è cieca irrazionalità, priva di senso e di
qualsiasi fine e che pertanto l'unica soluzione per l'uomo era il distacco dalle cose e
dalle passioni della vita, la rinuncia e la fuga dal mondo, cioè l'ascesi. Nietzsche
condivide questa concezione ma non la conclusione ascetica: la vita non deve essere
126

rifiutata ma amata e vissuta nella sua immediatezza, anche nei suoi aspetti irrazionali,
più tragici e crudeli, contro tutti i modelli imposti dalla morale borghese e cristiana.

Spirito dionisiaco e spirito apollineo: le origini e la critica della cultura


contemporanea.

Nietzsche è insoddisfatto della cultura del suo tempo, che giudica falsa ed illusoria.
Perciò compie un'analisi della storia della cultura, fin dalle sue origini, per
comprendere come è nata e come si è via via deformata e corrotta nel tempo.
Il punto di partenza è per Nietzsche l'analisi della cultura greca ed in particolare
l'analisi della nascita della tragedia greca antica, in quanto forma d'arte principale
di quell'epoca. La tragedia greca antica non nasce nel periodo classico della civiltà
greca, quello della civiltà ateniese e della filosofia socratica e platonica, ma sorge
prima, nel periodo presocratico del VI secolo a. C. A questo periodo Nietzsche
rivolge la sua iniziale analisi.
Nietzsche ammira l'atteggiamento che i greci dell'età presocratica avevano nei
confronti della vita. Essi sapevano che la vita è gioia ma anche dolore e
tormento. Soprattutto sapevano che la vita non ha alcun senso, alcuna
giustificazione razionale o teologico-religiosa, ma che è anzi un continuo divenire, un
incessante svolgimento di vicende, dominato da una volontà, da un destino cieco e
crudele (come affermato da Schopenhauer), che non ha altro scopo se non la
realizzazione e l'accrescimento della sua potenza.
Eppure, constata Nietzsche, i greci di quel tempo vivevano pienamente la loro
esistenza. Questo modo di concepire e di vivere la vita è espresso soprattutto dalla
tragedia greca antica. In essa sono rappresentate tutte e due le caratteristiche che
contraddistinguono la vita e la cultura. Nietzsche chiama queste due caratteristiche,
rispettivamente, "spirito dionisiaco" e "spirito apollineo".
Lo spirito dionisiaco (dal dio greco Dioniso, cioè Bacco) è quello che deriva dagli
istinti irrazionali, dalle passioni sfrenate, dalle forze oscure della vita, come espressi
nei riti orgiastici, nelle danze passionali, nei miti terribili che parlano di morte e
distruzione, di maledizione e persecuzione, e che ha la sua massima esaltazione nella
musica, ritenuta l'arte più capace di suscitare passioni.
Lo spirito apollineo (dal dio delle arti Apollo) deriva invece da un sentimento di
serenità, di armonia, di equilibrio provato nei confronti della vita ed ha nella scultura
e nella poesia le sue maggiori espressioni.
Ebbene, entrambi questi spiriti, fra di essi contrapposti, sono rappresentati nella
tragedia greca presocratica di Eschilo e Sofocle. Anzi, lo spirito dionisiaco
assume maggior rilievo, in quanto la tragedia antica ha come elemento
fondamentale il coro, composto dai seguaci di Dioniso mascherati da capri. Lo stesso
eroe tragico, il protagonista, è una maschera, una raffigurazione del dio Dioniso e del
derivante senso di accettazione ebbra della vita, di esaltazione degli istinti e di
coraggio di fronte a un fato, a un destino crudele.
127

La contrapposizione tra spirito dionisiaco e spirito apollineo presente all'origine


della tragedia greca viene però meno, secondo Nietzsche, col sorgere della
filosofia socratica e platonica, che comporta il prevalere dello spirito apollineo,
ossia una concezione idealizzata della vita e della cultura, fatta di armonia e di
equilibrio, mentre lo spirito dionisiaco viene svalutato. Socrate infatti, commenta
Nietzsche, pretende di capire e di controllare la vita con la ragione e con la morale,
nell'illusione che la vita e il mondo siano razionali e quindi spiegabili. Platone, col
suo mondo delle idee, ci presenta addirittura l'esistenza di un mondo ideale
soprasensibile, sovrannaturale, superiore al mondo terreno. Ma in realtà quella di
Socrate e di Platone è per Nietzsche una rinuncia alla vita vera che è quella degli
istinti. Con loro, prosegue Nietzsche, comincia la decadenza della cultura e la
morte dello spirito dionisiaco a causa della superiorità che si è voluta attribuire allo
spirito apollineo. Nella contrapposizione tra istinto e ragione si è voluto far prevalere
quest'ultima ma, avverte Nietzsche, questa è una concezione idealizzata e non vera
della vita e della cultura.
Euripide (il terzo grande tragediografo greco) trasferisce infatti nel teatro le nuove
ed idealizzate concezioni moralistiche. Il protagonista delle sue tragedie, ormai
annacquate e svigorite, non è più l'eroe tragico e tormentato ma l'uomo comune,
mediocre ed ingenuo, il quale si illude di trovare la verità in una morale meschina,
che suppone capace di distinguere il bene dal male, mentre invece non sa più
comprendere che l'esistenza è piena di contraddizioni.

La saturazione (l'eccesso) di storia.

Alla critica contro la cultura del suo tempo Nietzsche fa seguire una critica contro lo
storicismo, cioè contro quelle filosofie della storia le quali credono che la storia si
svolga in modo razionale e finalistico nel perseguimento di uno scopo superiore. Ma
la pretesa di poter comprendere razionalmente la profonda ed oscura realtà della
storia e del mondo è per Nietzsche un'illusione. Non che Nietzsche neghi
l'importanza della storia, piuttosto combatte sia contro l'idolatria, il culto
positivistico, dei soli fatti, compresi quelli storici, sia contro le interpretazioni
storicistiche finalistico-provvidenziali.
Innanzitutto, afferma Nietzsche, i fatti sono sempre stupidi perché devono essere
sempre interpretati. Inoltre, chi crede ciecamente nella potenza della storia e nella
razionalità del divenire storico si sottomette ad un eccessivo attaccamento al
passato, che spegne la volontà di agire nel presente e di progettare il futuro, perché
gli appare incerto e precario rispetto alla supposta grandezza del passato.
La saturazione di storia, l'eccessivo attaccamento al passato, sostiene Nietzsche, è
la malattia dell'Ottocento. Fa credere all'uomo di essere il risultato di un lungo
processo, di una lunga catena di eventi e quindi di dover ricercare nel passato il
proprio senso, distogliendolo dal presente ed indebolendo il suo interesse per il
futuro. A causa poi dell'identificazione hegeliana del reale col razionale, la cultura
moderna è arrivata a giustificare ogni evento storico e a collocarlo all'interno di uno
128

svolgimento finalistico. Il rischio grave è quello del conformismo: quando si è


abituati a vedere tutti i fatti storici sempre come razionali e necessari, si rinuncia ad
ogni volontà di rinnovamento. Invece ogni vera realizzazione, umana e storica, deve
essere "nuova", deve essere una rottura col passato. È evidente l'intento
antitradizionalista di Nietzsche.
Nei confronti della storia Nietzsche distingue tre atteggiamenti (tre modi di
pensare) e tre tipi di storiografia (di scrivere la storia):
1. la storia monumentale, che cerca solo nel passato i modelli e i maestri di vita;
2. la storia antiquaria, che basa la vita del presente sulle tradizioni del passato;
3. la storia critica, che guarda al passato anche con senso critico e sa condannare
tutti quei fatti storici che sono di ostacolo alla realizzazione di valori nuovi, a
nuovi modi di vedere e di concepire la realtà del presente e del futuro.
Per Nietzsche solo il terzo è l'atteggiamento corretto nei confronti della storia. La
concezione della storia di Nietzsche si sposta quindi dalla teoria alla prassi: la storia
del passato è valida solo se ci insegna ad agire nel futuro e non se ci fa rimanere
attaccati alle passate vicende.

La critica alla filosofia e all'arte del passato e la successiva critica alla scienza.

Sono critiche espresse particolarmente nelle opere "Umano, troppo umano" e "La
Gaia scienza".
Due sono i tipi di pessimismo, dice Nietzsche. Il primo è il pessimismo romantico,
cioè il pessimismo dei rinunciatari, dei falliti e dei vinti, caratterizzato da un
nichilismo inteso come desiderio del nulla. Questo è ad esempio il pessimismo di
Schopenhauer, che è di rassegnazione, di paura e di fuga dalla vita. Ma c'è un
secondo e miglior tipo di pessimismo, di chi eroicamente accetta la vita pur nella
sua dolorosa tragicità e vuole viverla pienamente.
Se critica il pessimismo della filosofia romantica, Nietzsche critica anche
l'ottimismo della metafisica sia tradizionale sia della filosofia idealista le quali,
illudendosi, credono nell'esistenza di essenze e di entità supreme (trascendenti o
immanenti) in grado di garantire lo sviluppo razionale e finalistico della realtà.
Altrettanto criticabile è l'arte quando pretende di rappresentare ideali eterni ed
assoluti.
Inizialmente Nietzsche aveva ritenuto la metafisica e l'arte valori superiori, poi
scopre invece che esse sono debolezze irrimediabilmente "umane, troppo
umane", perché bisogna rendersi conto che il mondo non ha un senso, un fine, e che
è vano ogni intento di attribuirvi un significato nella pretesa di andare oltre la realtà
fenomenica, oltre i fenomeni, per comprendere essenze che invece non sussistono.
Occorre eliminare ogni atteggiamento metafisico ed estetico di tipo dogmatico
(=assoluto, cioè definitivo e indiscutibile) e riconoscere invece i limiti e la finitezza
umana.
Questa fase del pensiero di Nietzsche è stata definita "la fase illuministica", perché
Nietzsche ha avuto in comune con l'Illuminismo la critica della metafisica da una
129

parte e, dall'altra, il valore attribuito per contro alla scienza, definita "gaia" poiché
capace di liberare l'uomo sia dai dogmi e dalle illusorie certezze della metafisica sia
dalle false idealizzazioni dell'arte contemplativa.
Nietzsche critica altresì il positivismo, perché giudica ridicola e assurda la sua
pretesa di spiegare razionalmente l'enorme varietà della realtà e dei suoi misteri.
Critica anche il socialismo e il comunismo, giudicati pura utopia, poiché hanno
fiducia nelle masse che sono invece inaffidabili.
Ancora, critica l'evoluzionismo perché, secondo Nietzsche, le specie non si
sviluppano perfezionandosi sempre di più ed inoltre, nella realtà della vita e del
mondo, non è vero che l'evoluzione procede selezionando sempre i più forti, i
migliori, ma spesso invece, nella società, la massa dei deboli e dei mediocri prevale
sui più forti d'animo e di carattere.
In generale, Nietzsche critica ogni filosofia che pretenda di scoprire verità
oggettive, universali ed assolute, trascurando per contro i problemi concreti
dell'esistenza. La filosofia deve essere invece strettamente intrecciata con la vita.
Successivamente, la critica di Nietzsche si rivolge anche contro il culto e
l'esaltazione della scienza e della tecnica, che dapprima aveva invece ammirato. La
scienza e la tecnica, sostiene Nietzsche, propongono i falsi valori dell'uguaglianza di
tutti gli uomini e credono nell'ordine razionale del mondo, mentre ciò che caratterizza
l'esistenza dell'uomo è invece il caos, il disordine, il tragico e il contraddittorio. Così
come sono stupidi i fatti storici, lo sono anche quelli fisici studiati dalla scienza.
Ciò che noi chiamiamo verità scientifica è infatti solo un insieme di opinioni che in
un certo momento, per determinate circostanze storiche o di interessi, vengono
considerate verità assolute, indiscutibili. Anche per la scienza non vi sono fatti
oggettivi, certi, ma solo interpretazioni, punti di vista. Non esistono verità o falsità
definitivamente accertate. Conoscere significa sempre valutare (selezionare,
preferire) e pertanto sono le idee dominanti all'interno della società a stabilire ciò
che si ritiene vero. È interessante notare come alcuni filosofi della scienza
contemporanea, ad esempio Popper, siano stati influenzati da tale posizione.
Di conseguenza è messo in discussione anche il tradizionale concetto di soggetto
conoscente, che diventa un semplice modo di vedere, un punto di vista, un'opinione
rispetto alla certezza della conoscenza che la filosofia, da Cartesio a Kant, aveva
invece sempre attribuito all'io, al soggetto stesso. Nietzsche è peraltro estraneo, non
interessato, ad ogni indagine sulla conoscenza. Per lui il problema della conoscenza
(se sia possibile e valida e come avvenga) non coinvolge direttamente la vita
dell'individuo e quindi è un tema considerato secondario. Ciò che interessa Nietzsche
(come in Schopenhauer e Kierkegaard) è soprattutto l'esistenza concreta del singolo
individuo ed il senso di tale esistenza.
Insomma, la critica di Nietzsche è particolarmente rivolta contro l'idealismo ed il
positivismo della filosofia ottocentesca, i quali hanno finito col trascendere e
trascurare la materialità del mondo, sia perché, da un lato, si è creduto in uno Spirito
assoluto e razionale, lontano dalla condizione terrena e concreta dell'uomo, sia
perché, dall'altro lato, è stato attribuito un valore assoluto, quasi sacro, ai metodi e ai
risultati delle scienze (la scienza come nuova religione).
130

La critica alla morale e alla religione.

Si è visto che per Nietzsche la filosofia di Socrate e Platone, avendo criticato gli
istinti e le passioni umane in nome dell'armonia e dell'equilibrio, ha fatto prevalere,
quale guida di vita, lo spirito apollineo su quello dionisiaco rovesciando l'ordine delle
cose: la vita reale invece non è fatta solo di equilibrio e compostezza, ma anche di
passionalità e di sofferta tragedia.
Ebbene, afferma Nietzsche, il cristianesimo e la sua morale hanno accresciuto la
tendenza alla rinuncia degli istinti vitali e degli impulsi delle passioni avviata con
l'etica socratica e platonica. Cos'ha fatto il cristianesimo, si chiede Nietzsche, se
non difendere tutto ciò che è nocivo all'uomo? Esso ha considerato peccato tutti quelli
che sono i valori, i piaceri terreni, mettendosi dalla parte di tutto quanto è debole,
abbietto e mal riuscito. Il cristianesimo è la religione della compassione, ma si
perde forza quando si ha compassione, poiché ostacola il trionfo e la supremazia
degli uomini migliori e più forti in favore degli uomini mediocri. La morale
cristiana è, per Nietzsche, il prodotto del risentimento e dell'invidia degli uomini
deboli i quali, timorosi del dominio dei forti e considerandoli causa della loro
infelicità, hanno prodotto una cultura ed hanno sostenuto una morale ed una
religione che mortifica le forze vitali e passionali dell'esistenza, per esaltare
invece tutto ciò che avvilisce la vita, come la pietà, l'umiltà, la compassione, la
castità, ecc. Quella cristiana è per Nietzsche la morale degli schiavi, basata sulla
rinuncia delle passioni e dei piaceri terreni, che ha dominato la storia dell'umanità.
Nel nome di Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere. In
Dio è divinizzato il nulla (il nulla di ciò che è terreno e di ciò che è vita e passione
terrena). Si tratta dunque di una concezione decisamente nichilistica nei confronti
della morale e della cultura (che non valgono nulla, niente), quali sono state
imposte dalla massa dei mediocri e dei deboli. Quando si scopre che esse sono solo
illusione, allora ciò che resta è niente. Il nichilismo, come stato d'animo, subentra
necessariamente quando si vuole cercare un senso in tutto ciò che accade e ci si
accorge che invece non c'è. Così dicasi anche quando si crede che in tutto ciò che
accade vi sia un ordine e un principio fondamentale che tutto può spiegare. Ma non
c'è un fine nell'universo, né una provvidenza divina, né un ordine razionale delle
cose e neppure una verità assoluta ed immutabile. Il mondo non ha un senso, la sua
condizione, il suo modo di essere, è il caos.
Questa critica radicale di Nietzsche alla cultura e alla morale dominanti è stata
chiamata "filosofia del martello" perché distrugge, come se colpisse con tante
martellate, la tradizione culturale e morale dell'Occidente.
Tutto ciò non significa che per Nietzsche non esista alcun valore etico. Egli
condanna invece la cultura e la morale prevalenti del suo tempo quali si sono
storicamente formate.
Nell'opera "La genealogia della morale" Nietzsche analizza appunto l'origine
della morale e i modi in cui si è sviluppata nel corso della storia. I valori della
morale e della cultura non derivano da principi assoluti e trascendenti (come quelli
posti nel Dio delle religioni) e neppure da sentimenti innati ed immanenti nello spirito
131

umano (come sostiene la filosofia idealista). Essi invece derivano e sono imposti dal
dominio di alcuni uomini sugli altri.
In realtà, dice Nietzsche, vi sono due morali: la morale dei signori e la morale
degli schiavi.
La morale dei signori è quella basata sui valori e sulla forza delle passioni eroiche,
dell'intelligenza superiore, dell'individualismo.
La morale degli schiavi, che ha finito col prevalere, è la morale dei deboli, del loro
rancore e della loro invidia nei confronti degli uomini superiori. La massa dei deboli,
non possedendo la forza per emergere ed affermarsi come insieme di individui
superiori, ha imposto una morale che, anziché esaltare i meriti degli uomini migliori,
parla invece di sacrificio, di altruismo, di idealismo, per sottomettere in questo modo
i più forti. È questa per Nietzsche la morale del cristianesimo ma anche quella
della democrazia, del socialismo e del comunismo.
Perciò Nietzsche prende le difese e sostiene la morale dei signori, la quale implica
l'inversione, il rovesciamento di tutti i valori della vecchia morale a favore dei
valori della volontà e della forza d'animo individuali, della gioia degli istinti e delle
passioni, dell'orgoglio di sé. La nuova morale indicata è una morale aristocratica;
ma qui aristocrazia non è intesa come privilegio ereditario dei nobili, bensì come
supremazia degli uomini migliori per intelligenza, per carattere e forza d'animo.
Questa è per Nietzsche l'etica del futuro: alla rinuncia al mondo e agli istinti vitali
essa contrappone l'affermazione di tutto ciò che è terreno e corporeo.

La morte di Dio.

Nietzsche è tra i maggiori interpreti della secolarizzazione (=il distacco della


mentalità moderna dalla mentalità religiosa). Con l'avvento della società moderna e
delle nuove conoscenze l'uomo comincia a rendersi conto che la metafisica, la morale
e la religione tradizionali sono tutte illusioni: non c'è alcun essere supremo, nessun
Dio in cui confidare quale garante di una verità e di una morale assolute e universali.
Il Dio della vecchia morale e della vecchia religione non c'è. Bisogna dunque avere il
coraggio di annunciare che "Dio è morto". Nietzsche ritiene superflua, nel mondo
moderno secolarizzato, ogni dimostrazione della non esistenza di Dio. Per lui è la
stessa presenza del male e del caos nel mondo che smentisce l'esistenza di Dio, il
quale si rivela invece come mera invenzione degli uomini nell'illusione di trovare in
una vita ultraterrena il rimedio contro le incertezze e l'infelicità della vita terrena.
Così, prima da parte dell'uomo folle, che è tra i protagonisti dell'opera "La Gaia
scienza", e poi nell'opera "Così parlò Zaratustra, da parte di Zaratustra stesso,
l'antico riformatore religioso persiano, Nietzsche fa annunciare che Dio è morto.
L'annuncio della morte di Dio non riguarda soltanto la fine del Dio della
religione cristiana e di ogni altra religione, ma il venir meno altresì di tutte le
certezze delle filosofie metafisiche nell'esistenza di principi e di verità assoluti e
immutabili, da cui dedurre la spiegazione e la comprensione del senso e del fine
di tutta la realtà.
132

L'ateismo di Nietzsche non è quindi superficiale e semplicemente anticlericale, che è


in fondo indifferenza circa l'esistenza o meno di Dio; al contrario, Nietzsche è
consapevole delle terribili implicazioni che la negazione di Dio e dell'esistenza di
verità assolute comporta. La scomparsa di Dio e della verità salda e stabile è per
Nietzsche un'ammissione dolorosa e tragica perché significa comprendere che non
vi sono più certezze, punti fermi e sicuri. Si tratta di una constatazione amara
che lascia l'uomo solo, senza più entità supreme nelle quali sperare.
Perciò, accorgendosi che Dio non c'è e che non ci sono più verità sicure, l'uomo
allora, per non precipitare nell'angoscia e nella disperazione, deve diventare Dio
lui stesso. È necessario che l'uomo oltrepassi se stesso per diventare superuomo,
oltre-uomo.
L'ateismo di Nietzsche è dunque contrassegnato da un senso di fortissima nostalgia e
rimpianto per la perdita di ogni fede in esseri e verità supremi. "Cristo, esclama
Nietzsche, è l'uomo più nobile e la morte di Dio è l'evento più tragico". La morte di
Dio, cioè la scomparsa di ogni fede in un essere e in verità e principi assoluti, è sì
una liberazione dell'uomo dai dogmi e dalle illusioni, ma porta nell'uomo un
vuoto radicale. L'uomo si sente abbandonato; non sa più a quale essere e a quali
verità superiori rivolgersi. Questo vuoto dovrà essere colmato fuggendo il pericolo
di creare nuovi idoli e nuove religioni, siano questi la scienza (positivismo), lo
Stato (nazionalismo) o il popolo (socialismo e comunismo). Sarà compito
dell'uomo diventare Dio lui stesso, ma questo, dice Nietzsche, è un traguardo
ancora lontano ed il cammino sarà lungo.

Il superuomo. L’"amor fati" e la "volontà di potenza".

Spetta all'uomo divenire Dio lui stesso, cioè divenire superuomo perché, scrive
Nietzsche, "l'uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo". L'uomo è cioè
un essere transitorio, si trova a metà strada rispetto alla bestia (la scimmia) da cui
discende e al superuomo nel quale trasformarsi. Il valore dell'uomo non sta in ciò che
esso è, ma nella sua capacità di oltrepassare se stesso e divenire superuomo. Perciò
non deve rimpiangere il suo destino, che è quello di tramontare come uomo per
diventare superuomo.
Il superuomo è colui che non si aspetta più di trovare il proprio destino e la propria
felicità in una vita ultraterrena, sacrificando e disprezzando la sua vita terrena. Deve
anzi amare e rimanere fedele alla terra, al suo essere terreno, pur nei limiti e nella
tragicità della sua esistenza.
Scrive Nietzsche: "Il superuomo è il senso della terra (la consapevolezza di essere
creatura terrena e non una creatura destinata ad una vita ultraterrena). Un tempo il
sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio. Ma Dio è morto. Commettere
sacrilegio contro la terra (disprezzare la propria condizione di essere terreno), questa
è oggi la cosa più orribile. Chieda quindi l'uomo di essere e di diventare fino in fondo
ciò che è nella sua essenza (nella sua natura): una creatura che ama gioiosamente la
propria vita terrena anche quando è tragedia, che non si vergogna dei propri sensi e
133

ha il coraggio di accettare il caos dell'esistenza, nella consapevolezza che nulla c'è al


di fuori della vita terrena, trasformando il peso della necessità e dei limiti della
condizione umana nella propria volontà. L'uomo faccia posto al superuomo che dice:
la vita è enigma, è caos spaventevole, ma così volevo che fosse, così come voglio e
vorrò che sia".
Nietzsche introduce in tal modo le sue teorie del’"amor fati" (amore per il proprio
destino) e della "volontà di potenza".
Il superuomo sa amare il proprio fato, il proprio destino, anche se tragico: non solo
sa accettarlo coraggiosamente ma anzi sa amarlo e, ancor di più, volerlo, volere che
si compi fino in fondo pur se pieno di contrasti. L' amor fati non è quindi
accettazione passiva delle cose. Il destino si vince non opponendo ad esso un'inutile
resistenza ma accettandolo e volendolo, anche se caotico e assurdo.
In tal modo la volontà del superuomo (volere che il proprio destino si compi anche se
tragico) si identifica con la volontà del mondo di Schopenhauer, che è forza cieca ed
irrazionale, volta ad affermare ed accrescere solo se stessa. Nella stessa maniera il
superuomo è proteso all'affermazione di sé, amando la tragicità del proprio stato e
della propria sorte.
Accettando, amando e volendo che il proprio destino si compi, pur se caotico e
assurdo, il superuomo manifesta in tal modo anche la propria "volontà di potenza",
che non significa volontà di dominio, di diventare padrone assoluto delle cose e
degli altri, ma significa capacità di vivere pienamente e liberamente la propria vita,
di realizzare e di trovare il senso della propria esistenza attraverso la gioiosa ed eroica
accettazione del proprio destino. Altre forme di libertà non esistono: volontà di
potenza è libertà di sfogare senza limiti le passioni terrene e gli istinti vitali; è
libertà di produrre nuovi valori, nuovi ideali e una nuova morale, realizzando
così in modo pieno la propria natura e le proprie capacità.
Persino Dio e la metafisica devono morire (venir meno) per non costituire, con le
loro regole, un limite a tale libertà. Persino la vecchia morale deve essere
superata e capovolta, perché la volontà di potenza sta "al di là del bene e del
male", in cui, come tradizionalmente intesi, il superuomo si colloca. Egli non
riconosce limiti (volontà di potenza) e si eleva al di sopra della massa degli
uomini mediocri. Egli è il nuovo tipo di umanità che deve nascere dal superamento
dell'uomo mediante una sorta di salto, di mutazione genetica, così come l'uomo è
stato il risultato del superamento dell'animale (della scimmia da cui l'uomo discende).

L'eterno ritorno.

La teoria dell'eterno ritorno è, secondo lo stesso Nietzsche, il più abissale dei suoi
pensieri. Questa teoria dice che la storia, cioè il divenire, il tempo, non ha un
andamento lineare e progressivo, non è una linea diritta che si allunga sempre di più
attraverso il continuo susseguirsi dei fatti e delle vicende storiche, ma ha invece un
andamento circolare (come si pensava nell'antichità greca), per cui al compimento del
134

circolo le vicende del mondo sono destinate ogni volta ripetersi in eterno allo stesso
modo: eterno ritorno delle passate vicende storiche.
Si tratta di una teoria di difficile interpretazione.
Da alcuni è interpretata come una teoria scientifica cosmologica ed astronomica:
l'universo, per quanto grande, è finito, mentre il tempo è infinito; perciò prima o poi il
mondo arriverà nel tempo ad esaurire e a completare tutte le sue possibili
combinazioni, tutte le sue possibilità di mutamento e di sviluppo, e quindi non potrà
allora che ripetere il proprio ciclo.
Per altri invece questa teoria esprime uno stato d'animo, un sentimento dell'uomo
che sceglie di vivere "come se" tutto dovesse ripetersi. In questo senso due sono
le principali interpretazioni:
1. Nietzsche rifiuta la tesi di un andamento lineare della storia e del tempo
perché altrimenti ciascun momento, ciascun attimo, non verrebbe vissuto
pienamente in sé, ma solo in conseguenza ed in relazione all'attimo che lo ha
preceduto nonché nell'attesa dell'attimo successivo. Nessun momento
verrebbe cioè vissuto in sé, per quello che è, ma ognuno acquisterebbe
senso da quelli precedenti e da quelli successivi attesi. Il superuomo è
invece colui che sa amare e vivere intensamente l'attimo presente,
qualunque esso sia, anche tragico e drammatico, realizzando in tal modo la
sua piena libertà, liberandosi così dai vincoli e condizionamenti degli eventi
passati e dalle aspettative, spesso illusorie, del futuro. Ciò significa vivere
senza voler imporre alla vita un qualsiasi ordine e fine predeterminati.
2. Nietzsche respinge la tesi di un andamento lineare della storia e di un suo
continuo progresso verso un fine, uno scopo ultimo perché, secondo Nietzsche,
non c'è alcun finalismo o provvidenza nel mondo e nella storia. Accoglie
perciò la tesi della storia come eterno ritorno delle vicende storiche, che
ciclicamente si ripetono, poiché ciò significa escludere che la storia e la vita
abbiano una qualsiasi direzione, un qualsiasi fine e senso ultimi, come
invece predicato dalla metafisica, dalla morale e dalla religione tradizionali. Il
superuomo è colui che ha il coraggio di accettare e di volere questa
assoluta mancanza di senso della vita e della storia, poiché se la vita avesse
uno scopo determinato da una entità o da un essere superiore, ne
risulterebbe di conseguenza menomata e verrebbe meno la sua propria
libertà e volontà di potenza.
Vi è anche una terza e più sottile interpretazione. La dissoluzione della metafisica,
della morale e della religione ribadita da Nietzsche significa rendersi conto che non ci
sono più verità assolute ed immutabili al di sopra dell'uomo e tali da limitare la sua
libertà. Il superuomo infatti è colui che non è condizionato da entità superiori. Però,
se venisse accettata una concezione lineare della storia e del tempo rimarrebbe ancora
un'ultima condizione immutabile ed insuperabile, tale da limitare la libertà e la
volontà di potenza del superuomo, rimarrebbe cioè l'immutabilità ed immodificabilità
del passato, delle vicende trascorse. Nietzsche accoglie pertanto la tesi
dell'andamento circolare della storia poiché in tal modo il passato è destinato a
ritornare e, ritornando, allora non è più immutabile perché può essere rivissuto dal
135

superuomo in modo e con spirito diverso. In tale maniera il superuomo può trionfare
anche sul tempo passato.

La pluralità delle interpretazioni e delle strumentalizzazioni del pensiero di


Nietzsche.

A causa dei temi trattati sovente in modo oscuro, dello stile provocatorio e
paradossale, nonché del linguaggio usato, metaforico e pieno di simboli, sono
derivate disparate interpretazioni ed altresì strumentalizzazioni del pensiero di
Nietzsche.
Nietzsche è stato variamente considerato come esponente o dell'antipositivismo
oppure dell'irrazionalismo o, addirittura, come precursore delle ideologie
antidemocratiche e totalitarie del Novecento, del nazismo in particolare.
Anche sul piano letterario, Gabriele D'Annunzio ci ha dato un'interpretazione
superficiale e falsa del superuomo: si è fermato infatti ai soli aspetti esteriori e non
ha saputo comprendere il senso di eroica tragicità del superuomo di Nietzsche. Per
Nietzsche il superuomo è colui che accetta ed ama anche la condizione tragica
dell'esistenza, mentre il superuomo di D'Annunzio si illude di vincere la tragedia
della vita attraverso il piacere sensuale, il godimento della bellezza e la fama che
deriva da imprese eroiche. Per Nietzsche, ancora, il superuomo è il possibile destino
di tutta l'umanità, anche se soltanto i migliori sono in grado di realizzarlo; per
D'Annunzio invece è il privilegio di pochi raffinati. Più che altro, il superuomo
dannunziano è un esteta velleitario.
Il movimento nazista-hitleriano, a sua volta, non ha esitato ad usare
strumentalmente gli ideali nietzschiani di superuomo, di volontà di potenza e di una
nuova e "pura" razza umana a fini di propaganda e per dare giustificazione ideologica
e culturale al proprio programma di razzismo, di dominio e di statalismo autoritario.
A lungo è durata l'immagine di Nietzsche quale "profeta del nazismo". A questa
interpretazione ha contribuito per prima la sorella di Nietzsche, di sentimenti filo-
nazisti, che ha deformato i manoscritti postumi del fratello. Ma il superuomo di
Nietzsche non ha nulla a che fare con l'ideologia nazista: non è certo l' ariano puro,
perché il superuomo di Nietzsche non fa nessuna distinzione di razza, essendo invece
un traguardo ideale proposto a tutti gli uomini mentalmente superiori di qualunque
razza ed etnia. Il superuomo di Nietzsche non è neppure il nazista che celebra lo Stato
tedesco, il Reich, ma è il filosofo che annuncia una nuova umanità liberata dalle
antiche catene, ivi compresa l'idolatria dello Stato, che è invece centrale
nell'ideologia nazista. "Lo Stato, avverte Nietzsche, è il più freddo di tutti i mostri. È
un idolo che puzza".
In effetti, la filosofia di Nietzsche, pur nelle sue ambiguità, non può essere
strumentalizzata e messa al servizio di nessuna ideologia. Occorre piuttosto
considerare la rilevante influenza del pensiero di Nietzsche sulle principali correnti
filosofiche e culturali di tutto il Novecento, dall'esistenzialismo alla psicoanalisi,
dallo strutturalismo al pensiero critico-utopico.
136

LA FILOSOFIA TRA FINE OTTOCENTO E NOVECENTO.

Tutte le più importanti filosofie di fine Ottocento e Novecento sono critiche nei
confronti del Positivismo a causa dell'eccessivo entusiasmo manifestato per la
scienza, le cui verità sono ritenute assolute ed esclusive, quando invece anche la
scienza commette errori ed inoltre, se sa spiegare il come delle cose, dei fenomeni,
non sa però spiegrne il perché. Il Positivismo è accusato di aver trasformato il culto
della scienza in un culto dogmatico e di aver concepito la scienza come una nuova
metafisica costituita da certezze indubitabili.
Per reazione al Positivismo sorgono tra Ottocento e Novecento nuove filosofie e
nuovi indirizzi filosofici, volti ad indagare soprattutto gli aspetti della realtà non
ricompresi nel campo delle conoscenze scientifiche fisiche e naturali, sulle quali
invece il Positivismo era particolarmente incentrato.
Sorgono così:
1. La Psicoanalisi, che scopre la realtà e la forza dell'inconscio.
2. Il Neocriticismo, che invita ad un ritorno, seppur rinnovato, alla filosofia di
Kant, vale a dire all’analisi delle condizioni di validità delle scienze e degli
altri prodotti umani come l'arte, la morale o la religione.
3. Lo Spiritualismo, contro il materialismo ed il naturalismo meccanicistico.
4. Lo Storicismo tedesco, volto ad analizzare la natura e la validità del sapere
storico nonché gli elementi di distinzione rispetto alle scienze fisiche e naturali.
5. Il Neoidealismo, sui temi del soggetto conoscente e della storia.
6. La Fenomenologia, fondata sull'esigenza di cogliere l'essenza dei fenomeni
nell'obiettivo di individuarne il senso.
7. L'Esistenzialismo, che indaga i problemi e il senso dell'esistenza umana.
137

LA PSICOANALISI E IL SUO SVILUPPO.

La psicologia.

La psicoanalisi nasce all'interno della psicologia contemporanea di cui può essere


opportuno, pertanto, farne molto sinteticamente la storia.
La psicologia scientifica nasce nella seconda metà dell'Ottocento. Prima di allora
essa si identificava con la metafisica e, specialmente, con la trattazione del problema
dell'anima. Solo in ambiente positivistico inglese tramonta l'idea della psicologia
come branca della metafisica e gli studi psicologici si indirizzano verso
l'osservazione e il rilevamento dei dati di fatto.
In Germania si sviluppa la psicologia sperimentale ad opera di Gustav Fechner
(1801-1887) e soprattutto di Wilhelm Wundt (1832-1920), che organizza con metodo
rigoroso le osservazioni sperimentali utilizzando anche i progressi compiuti dalle
scienze dell'anatomia, della fisiologia, della neurologia e della frenologia.
I principi cui la psicologia sperimentale si ispira sono i seguenti:
1. la psicologia si interessa dei fatti di coscienza, dei fenomeni interni, la cui
conoscenza è possibile attraverso l'introspezione e la riflessione;
2. i fatti interni sono in rapporto diretto con i fenomeni fisici e fisiologici;
3. lo sviluppo della vita psichica viene studiato riconducendolo ai suoi elementi
semplici, vale a dire alle sensazioni, alle emozioni ed alla loro combinazione, tutte
singolarmente e distintamente considerate;
4. la psicologia ha carattere scientifico in quanto usa l'esperimento, l'induzione e il
calcolo matematico.
Nel corso del Novecento nascono nell'ambito della psicologia nuove scuole di
pensiero. Esse si oppongono ai principi della psicologia sperimentale, sia a causa
della generale reazione contro la cultura positivista, sia a causa dell'influenza
esercitata dal pragmatismo e dall'evoluzionismo sviluppati negli Stati Uniti
d'America, centro propulsore di queste nuove scuole.
I nuovi indirizzi in campo psicologico sono:
1. Il comportamentismo, fondato da John Watson (1878-1958) in America, che
contesta il primo fondamento della psicologia sperimentale ( di cui al numero
1 in precedenza riportato) e si basa invece sullo studio del comportamento e
sulla ricerca delle leggi causali che lo determinano in rapporto all'ambiente.
2. La psicologia della forma, che riformula il terzo fondamento della psicologia
sperimentale (di cui al numero 3 in precedenza riportato), i cui esponenti
principali sono Kurt Koffka (1886-1941), Marx Wertheimer (1888-1941) e
Wolfgang Kohler (1887-1967). Tale scuola sostiene che l'oggetto della
psicologia è la forma, cioè la struttura, l'insieme totale dei fatti di coscienza,
che non sono la somma di singoli elementi riconducibili alle sensazioni
elementari, ma si presentano come percezione globale da cui solo
successivamente si possono ricavare e quindi interpretare le singole e
specifiche sensazioni.
138

3. Il funzionalismo, che riformula il primo, il secondo e il terzo fondamento della


psicologia sperimentale ( di cui ai numeri 1,2 e 3 in precedenza riportati) e
sostiene che oggetto della psicologia non sono i fatti della coscienza ma le
funzioni che svolge l'organismo vivente nel suo processo di adattamento
all'ambiente; pertanto non vengono analizzati i processi mentali bensì come
funzionano e a cosa servono.
4. La psicoanalisi, che riformula il quarto fondamento della psicologia
sperimentale (di cui al numero 4 in precedenza riportato) a seguito della
scoperta dell'inconscio e della predisposizione di nuovi metodi di indagine.
5. La psicologia genetica, il cui fondatore è Jean Piaget (1896-1980), che studia
lo sviluppo psichico dell'individuo nei suoi passaggi dalle sensazioni alle
concettualizzazioni ed ai ragionamenti logici formali. Tali passaggi avvengono
attraverso "crisi" del soggetto, nelle quali l'acquisizione del nuovo sviluppo
implica la trasformazione più o meno rapida delle precedenti modalità di
pensiero.
6. L'antropoanalisi, inaugurata da Ludwig Binswanger (1881-1966), che
recepisce l'influenza delle filosofie esistenzialistiche e fenomenologiche
adottando, secondo le tesi di Husserl e Heidegger, il metodo fenomenologico
in ambito psicologico. Tale concezione si basa sul presupposto non già del
dualismo ma dell'unità tra io (coscienza) e mondo e concepisce la vita mentale
come espressione di intenzionalità e di progettualità della coscienza. La
patologia della vita mentale sorge quando l'individuo si trova rinchiuso in un
progetto di mondo (in un progetto di vita nel mondo) ristretto a pochi temi o
addirittura ad uno solo. La terapia ha come intento il recupero del progetto
esistenziale specifico dell'individuo ed è fondata su un incontro tra il medico e
il paziente basato sulla centralità del paziente stesso.
Contemporaneamente a queste nuove scuole e indirizzi, la psicologia contemporanea
vede svilupparsi nel suo interno questioni teoriche e problemi che assumono sempre
più spesso rilevanza filosofica. Ad esempio si dibatte su quale sia il metodo corretto
per studiare la realtà psichica e se la psiche umana sia una realtà naturale oppure
un prodotto della società e della storia. Si discute inoltre sul concetto di normalità o
meno dei fatti psichici e se sia possibile tracciare i confini tra sanità mentale e
comportamento patologico o deviante. Altro problema presente è quello relativo ai
legami tra lo psichico e il somatico (il corporeo), legato alla fisiologia del corpo
umano e alla misurabilità o meno dei fatti psichici. Si discute sul rapporto tra
individuo e ambiente, sulla presenza o meno di forme di innatismo (di idee innate) e
sulla ereditarietà delle strutture (dei modi tipici) comportamentali. Ulteriore grande
problema è quello relativo alla libertà: la libertà è possibile ed in quale misura? Si
può quindi affermare che allo stato attuale la psicologia, che era nata nella seconda
metà dell'Ottocento staccandosi dalla filosofia, è coinvolta a livello profondo con
tutte le più rilevanti questioni filosofiche.
139

La psicoanalisi.

La psicoanalisi è innanzitutto una teoria dell'inconscio: nell'indagine dell'attività


mentale umana essa si rivolge soprattutto a quei fenomeni psichici che si svolgono al
di fuori del livello della coscienza. Viene quindi recuperato il concetto di inconscio,
già introdotto nella riflessione filosofica, sia pur con significati e scopi differenti, da
Cartesio, Locke e Leibniz e che Freud adeguerà e approfondirà da un punto di vista
descrittivo e clinico.
In secondo luogo la psicanalisi è un metodo psicoterapeutico: nello specifico come
cura dei disturbi mentali e, all'origine, come cura dell'isteria nonché, in seguito, come
cura dei fenomeni psicopatologici chiamati nevrosi e psicosi. Il suo uso è stato inoltre
esteso allo studio e trattamento di altri tipi di psicopatologie.
Successivamente, a livello culturale più generale, l'influenza della psicoanalisi si è
esercitata anche nella filosofia e nelle scienze sociali.
La validità clinico-scientifica della psicoanalisi è stata lungamente dibattuta ed
anche criticata, in corrispondenza altresì ai suoi diversi sviluppi teorici e
metodologici. Mentre in un primo tempo le considerazioni sulla sua scarsa
verificabilità scientifica avevano condotto ad una visione piuttosto critica della
psicanalisi, a partire dagli anni ‘80 e ‘90 del XX secolo si è giunti ad una visione più
articolata e positiva di tale disciplina, grazie anche alla verifica a posteriori dei suoi
risultati clinici, all'integrazione della sua impostazione teorica e metodologica con
altri ambiti di ricerca psicologica e psichiatrica ed altresì ai suoi collegamenti con le
neuroscienze. L'impossibilità di verifiche sperimentali dirette ne fanno comunque una
disciplina certamente plausibile, tuttavia caratterizzata dall'impossibilità di accertare
se i suoi successi sono effettivamente dovuti alle ipotesi e diagnosi formulate, oppure
se sono dovuti ad altre cause non prese in considerazione ed intervenute ad insaputa.
Fondatore della psicoanalisi è stato Sigmund Freud. Altri illustri esponenti sono
Carl Gustav Jung e Alfred Adler.
140

SIGMUND FREUD (1856-1939).

Nasce a Freiberg in Moravia. Si laurea in medicina a Vienna, compie studi di


neurologia e successivamente si dedica alla psichiatria. Si reca a Parigi con una borsa
di studio e si applica a studi sull'isteria.
Tornato a Vienna giunge alla scoperta dell'inconscio e alla fondazione della
psicoanalisi, concepita come un metodo scientifico per l'analisi dei processi
psichici inconsci. Come tale la psicanalisi è rivolta soprattutto alla cura delle
malattie mentali, ma offre anche molti spunti per la comprensione del
comportamento umano in generale. Ha avuto perciò molta influenza sulle
scienze umane, antropologia e sociologia in particolare.
Perseguitato dai nazisti in quanto ebreo, Freud ripara Londra nel 1938 come esule,
dove muore.
Opere principali: L'interpretazione dei sogni; Tre saggi sulla teoria sessuale; Al di là
del principio del piacere; Il disagio della civiltà; Totem e tabù.

La scoperta dell'inconscio.

La scoperta dell'inconscio è la novità più importante della psicoanalisi, cui Freud


giunge in seguito agli studi sull'isteria. Prima di Freud le malattie mentali, secondo
la concezione positivistico-materialistica divenuta prevalente, erano considerate
alterazioni del sistema nervoso su base organica, dovute cioè a lesioni organiche del
cervello, e non venivano presi in considerazione gli stati psiconevrotici in cui tali
lesioni non fossero rintracciabili. Freud elabora una diversa interpretazione dei
disturbi mentali. Gli studi sull'isteria avevano infatti dimostrato che la guarigione
del paziente era possibile facendo riemergere alla coscienza episodi sgradevoli
dell'infanzia dimenticati a livello cosciente. Freud scopre cioè disturbi mentali che
non hanno niente di organico. Ciò lo induce a mettere in luce un fatto
fondamentale, ossia che al di sotto della coscienza esiste un mondo di desideri, di
fantasie, di istinti e di impulsi, cioè l'inconscio, di cui il soggetto non è consapevole
ma che è causa di numerose nostre azioni e condiziona tutta la nostra vita psichica.
Per poter conoscere l'uomo bisogna quindi esplorare l'inconscio, questa zona
oscura, questo agglomerato di pulsioni. Al riguardo, dapprima Freud ricorre al
metodo dell'ipnosi, che poi abbandona perché insoddisfacente, e adotta quindi il
metodo delle associazioni libere: facendo parlare liberamente il paziente, le sue idee
e parole si associano e si sviluppano secondo criteri apparentemente illogici che
possono invece rivelare gli stati d'animo e le tensioni profonde dell'inconscio.
Cogliendo ed interpretando i lapsus, i blocchi improvvisi, le esitazioni, diviene
possibile per il medico far emergere il contenuto dell'inconscio bloccato dalla
coscienza e condurre il paziente alla guarigione. Si afferma così la concezione per
cui in molti casi la causa dei disturbi nervosi, specie per le isterie, non è di natura
fisiologica ed organica ma psichica, determinata dalle tensioni esistenti all'interno
141

dell'inconscio tra pulsioni sepolte nel profondo, avvertite come contrastanti con la
coscienza e per le quali a livello cosciente si prova vergogna.
Poiché l'inconscio agisce non solo sui soggetti malati ma è presente in tutti gli
uomini e ne influenza i comportamenti, dalla scoperta della forza condizionante
dell'inconscio deriva una nuova e rivoluzionaria visione della natura umana. Ne
risulta sconvolta la tradizionale concezione di coscienza, intesa come lucida
espressione della razionalità. La maggior parte della vita mentale si svolge
nell'inconscio, al di fuori della coscienza. Il conscio è solo la manifestazione
consapevole e visibile della vita mentale, della psiche, di cui anzi occupa solo la
superficie. La scoperta dell'inconscio ha rivoluzionato la tradizionale idea di
uomo, tant'è che la psicoanalisi ha potentemente influenzato tutte le discipline
umane, non solo la psicologia ma anche la letteratura, la filosofia, la sociologia,
l'antropologia, la pedagogia. Ha influenzato, in poche parole, tutta la cultura del
nostro secolo.

I fattori della vita psichica e la struttura della personalità.

In una prima sistemazione teorica della sua dottrina chiamata la prima topica, che
significa i luoghi della psiche, Freud individua tre fattori, o sistemi, che operano
nella vita psichica dell'uomo:
1. il conscio, ovvero tutto ciò di cui siamo consapevoli;
2. il preconscio, ovvero tutto ciò che non è presente a livello cosciente in noi, ma
che può essere facilmente richiamato alla coscienza;
3. l'inconscio, ovvero tutto ciò che è nel profondo della psiche umana su cui nulla
può la coscienza.
Più importante è la sua seconda sistemazione teorica, la seconda topica, in cui
Freud distingue tre diverse componenti della psiche o struttura della
personalità:
1. l'Es, cioè l'inconscio, ossia il "calderone degli istinti ribollenti", cioè la forza
caotica dell'inconscio che costituisce la materia originaria della nostra psiche,
la quale non conosce né il bene né il male né la morale, ma ubbidisce
unicamente al principio del piacere ed ignora le leggi della logica, a cominciare
dal principio di non contraddizione: è perciò un calderone di impulsi
contraddittori;
2. il Super-io o Super-ego, che è ciò che comunemente è chiamato la "coscienza
morale", ossia l'insieme delle norme, dei valori, dei simboli, dei divieti e delle
proibizioni interiorizzati e appresi dall'individuo fin dai primi anni di vita
attraverso l'educazione ed il suo inserimento nella società; il Super-io è quindi
un censore severo che punisce, sviluppando un senso di colpa, ogni
trasgressione, ogni desiderio che sia in contrasto con i valori, i costumi e le
consuetudini della società;
3. l'Io, o l'Ego, che rappresenta il livello conscio, ma non coincide pienamente
con il conscio stesso perché è condizionato dalle sollecitazioni e tensioni che
142

provengono sia dal mondo esterno sia dal inconscio sia dal Super-io; l'Io si
trova in mezzo a queste spinte contrastanti, le tentazioni dell'Es da una
parte e i richiami del Super-io dall'altra, contrasti che si trova quindi a
dover mediare, ad equilibrare mediante opportuni compromessi.
Nell'individuo normale l'Io riesce abbastanza bene a controllare la situazione.
Agendo secondo il principio della realtà (il buon senso) concede parziali
soddisfazioni all'Es senza violare in forma vistosa i precetti del Super-io.
Ma se l'Es è troppo forte o il Super-io è troppo debole o troppo rigoroso, l'Io non
riesce ad equilibrare le spinte contrastanti e la sua impotenza produce angoscia.
Se l'Es ha il sopravvento e il Super-io è troppo debole, l'Io è allora condotto a
comportamenti asociali, delinquenziali o perversi.
Quando invece il Super-io è troppo rigido esso provoca la rimozione, cioè la
cancellazione e la soppressione forzata dal livello della coscienza, delle pulsioni
(istinti) e dei desideri dell'Es e possono allora derivare stati di nevrosi e di psicosi (le
psicosi sono disturbi mentali più gravi delle nevrosi: costituiscono ciò che è
comunemente chiamato pazzia). Essi possono guarire quando il malato prende
coscienza, mediante la psicoanalisi, del conflitto che subisce e lo supera anche
attraverso il delicatissimo rapporto detto "transfert", ossia il trasferimento sulla
persona del medico di stati d'animo ambivalenti e contrastanti di amore e odio,
provati dal paziente durante l'infanzia nei confronti dei genitori.
Oltre alla rimozione degli istinti, che più di talvolta può essere abbastanza dannosa,
un meccanismo più equilibrato di difesa nei confronti dell'Es è quello della
"sublimazione", mediante cui l'Io trasferisce gli istinti dell'Es verso méte ed obiettivi
socialmente accettabili, ad esempio l'impegno e la gratificazione del lavoro, dell'arte,
della religione.

L'interpretazione dei sogni.

Dunque l'inconscio condiziona la vita ma esso rimane inaccessibile a livello di


coscienza. Oltre alle libere associazioni, un metodo efficace per giungere
all'inconscio ed esplorarlo consiste per Freud nell'interpretazione dei sogni. Egli
infatti ritiene che i sogni siano l'appagamento camuffato, mascherato, di un
desiderio rimosso.
Freud distingue fra contenuto manifesto e contenuto latente (nascosto) del sogno.
Ma perché i sogni, se richiamano e sono espressione di desideri e istinti inconsci,
non lo fanno in forma diretta ma nascosta? Perché, risponde Freud, si tratta di
desideri inaccettabili e vergognosi per il soggetto, che vengono quindi censurati
dal Super-io, cioè camuffati. Il contenuto manifesto dei sogni non è altro che il
travestimento in cui si presentano i desideri latenti. Le immagini che appaiono nel
sogno e/o quelle di cui ci si ricorda non corrispondono ad un effettivo contenuto
dell'Es quale esso vorrebbe manifestare e che rimane invece latente, nascosto, poiché
anche nel sogno, interviene la censura del Super-io, che trasforma le immagini
oniriche (del sogno) in forme meno scandalose. L'interpretazione psicoanalitica dei
143

sogni intende appunto svelare questo contenuto latente, farlo emergere a livello di
coscienza e guarire così dalle nevrosi o psicosi.
I travestimenti in cui nei sogni si presentano i desideri latenti si svolgono secondo
Freud nei modi seguenti:
1. la condensazione: ogni singolo elemento del sogno concentra su se stesso più
significati, quelli manifesti e quelli latenti;
2. lo spostamento: un certo significato è trasportato da un elemento ad un altro
del sogno, l'elemento latente è trasportato in quello manifesto;
3. la simbolizzazione: ogni elemento del sogno non rappresenta effettivamente se
stesso, quale è nell'inconscio a livello latente, ma assume a livello manifesto
una forma simbolica, individualmente e socialmente più accettabile.

La teoria della sessualità.

Gli impulsi rimossi (respinti e cancellati a livello di coscienza) che stanno alla base
delle nevrosi e psicosi sono sempre o quasi sempre per Freud di natura sessuale,
legati ad istinti sessuali dell'infanzia che sono state dimenticati.
La teoria della sessualità costituisce un altro aspetto fino ad allora inconcepibile.
Si riteneva infatti la sessualità come sostanzialmente coincidente col rapporto
sessuale. Ma in tal modo non veniva spiegata né la sessualità infantile, né la
sublimazione (il trasferimento di un desiderio sessuale in passioni socialmente nobili
come il lavoro, l'arte, la scienza, ecc.), né la perversione (intesa come attività
sessuale insana).
Freud amplia il concetto di sessualità, concepita come energia istintiva chiamata
"libido", rivolta non solo al rapporto sessuale ma alla ricerca del piacere dei sensi più
in generale. Freud scopre che la libido domina l'inconscio fin dall'infanzia. La
scoperta della sessualità infantile provoca così un altro profondo sconvolgimento
rispetto alla cultura tradizionale, che da sempre aveva visto l'infanzia come stato di
innocenza e purezza, mentre la libido è invece presente anche nel bambino e lo
spinge a trarre piacere dal proprio corpo.
La sessualità infantile si sviluppa, per Freud, attraverso tre fasi, corrispondenti ad
altrettante zone erogene:
1. la fase orale, consistente nel piacere del poppare;
2. la fase anale, consistente nel piacere dell'evacuazione;
3. la fase fallica, consistente nella scoperta del pene come oggetto di attrazione
sia per il bambino che per la bambina, i quali soffrono entrambi di un
"complesso di castrazione": il bambino per la paura di una possibile
evirazione (il taglio del pene), la bambina perché si sente di fatto evirata e
prova "l'invidia del pene".
In connessione alla sessualità infantile Freud elabora la nota teoria del "complesso
di Edipo" (dal mito di Edipo, costretto dal destino a uccidere il padre e a sposare,
anche se inconsapevolmente, la madre). Nel caso della bambina si parla anche, in
corrispondenza, di "complesso di Elettra" (dal nome della madre
144

inconsapevolmente sposata da Edipo). Questo complesso consiste in un


attaccamento "libidico" (sessuale) del bambino verso il genitore del sesso opposto e
in un atteggiamento ambivalente di affetto e gelosia verso il genitore di ugual sesso.
Dalla risoluzione positiva o meno di questo complesso, dopo aver superato l'età
infantile, dipende lo sviluppo equilibrato o squilibrato della sessualità adulta e
della struttura della personalità in generale.

Il disagio della civiltà e la religione.

L'inserimento dell'uomo nella società ed il riconoscimento delle esigenze degli


altri comporta il sacrificio delle pulsioni (istinti) originarie e degli egoismi. La
civiltà implica un "costo" in termini libidici, essendo costretti a deviare la ricerca
del piacere in prestazioni sociali e lavorative: il mancato adeguarsi viene punito
con il senso di colpa e l'angoscia morale.
Ciò non significa che Freud sia contro la civiltà ed aspiri ad un'umanità primitiva.
L'antropologia (la concezione dell'uomo) dell'ultimo Freud, ispirata a quella di
Schopenhauer, è piuttosto crudamente realista se non pessimista. Per Freud la
sofferenza è una componente strutturale della vita e, contro coloro che credono che
l'uomo sia "una creatura gentile", ribatte che esso è al contrario una creatura con un
elevato tasso di aggressività. Tuttavia, anche se costringe a reprimere gli istinti, la
civiltà è un male minore rispetto ad un'umanità senza un'organizzazione sociale e
senza regole. Si tratta, semmai, di dar vita ad uno Stato che riduca il più possibile gli
interventi di regolazione sociale che causano repressione. La civiltà è un male che
produce comunque vantaggi perché costringe gli uomini ad una disciplina e,
attraverso la sublimazione, orienta le pulsioni istintive verso obiettivi superiori, quali
la solidarietà, il lavoro, lo studio, da cui derivano le grandi conquiste del genere
umano.
Freud distingue le pulsioni in due specie, quelle che tendono a conservare ed unire,
e sono quindi erotiche in senso etimologico (erotico etimologicamente=che unisce),
chiamate perciò "Eros", e quelle che invece tendono a distruggere e uccidere,
chiamate "Thanatos" (che in greco significa morte). La storia del genere umano,
conclude Freud, si dibatte continuamente tra Eros e Thanatos, tra periodi di pace e
periodi di guerra. In quest'ultima fase del suo pensiero, dunque, Freud non considera
più, come in precedenza, il principio del piacere come quello fondamentale della vita
psichica, attribuendo invece più rilevante importanza ai due contrapposti principi di
Eros e Thanatos.
Circa le "rappresentazioni religiose", come da Freud definite, esse non sono che
illusioni, appagamenti dei desideri più antichi e più intensi dell'umanità, nonché più
tipicamente infantili, di sentirsi cioè protetti contro i pericoli della vita. Così, l'amato
e temuto Padre celeste (Dio) non sarebbe altro che la proiezione psichica dei rapporti
ambivalenti (di amore e gelosia) col padre terreno.
145

Carl Gustav Jung (1875-1961).

Di nazionalità svizzera, aderisce alla psicoanalisi di Freud, da cui si allontana


definendo la propria teoria "psicologia analitica".
Jung contesta l'eccessiva importanza attribuita alla sessualità dalla psicoanalisi di
Freud e concepisce l'inconscio individuale come slancio vitale e spinta verso la vita,
facente parte di un inconscio più vasto che coinvolge tutto il gruppo cui l'individuo
appartiene e che Jung definisce inconscio collettivo.
L'inconscio collettivo è ricco di modelli culturali (mentalità e credenze) che bisogna
tener presenti nell'indagine dei disturbi mentali causati, secondo Jung, da squilibri tra
questi modelli e la coscienza del soggetto. Si tratta di modelli culturali originari,
primordiali, (vecchio, madre, bambino, amore, Dio, nascita, morte, ecc.) che sono
presenti in tutte le culture umane e che vengono trasmessi per via ereditaria ai singoli
individui. Essi costituiscono la memoria del gruppo, fatta di miti, fantasie e di storia.
Gli studi di Jung sono pertanto rivolti all'indagine dei modelli primordiali
(denominati in senso tecnico "archetipi") che hanno accompagnato lo sviluppo di una
data civiltà e che hanno fornito notevoli contributi anche allo sviluppo di altre scienze
quali l'etnologia, l'antropologia, la sociologia.

Alfred Adler (1870-1937).

Di nazionalità austriaca, collabora inizialmente con Freud da cui in seguito si


allontana per insanabili contrasti teorici.
Anche Adler considera la psicoanalisi di Freud riduttiva (limitata) per il carattere
esclusivamente sessuale della libido e ritiene che la spinta proveniente dall'inconscio
non sia solo di natura sessuale ma molto più ampia e simile alla volontà di potenza di
Nietzsche, che deve poi confrontarsi con la realtà esterna.
Per Adler la nevrosi e psicosi hanno quindi origine dalla sproporzione che viene a
determinarsi, nei soggetti più deboli, tra la volontà di autoaffermazione del singolo e
le difficoltà che la realtà oggettiva oppone a tale desiderio. Da ciò deriva "il
complesso di inferiorità", che costituisce il motore, la molla della vita psichica. In
taluni casi esso può essere di forte stimolo per quegli individui che si impegnano con
tutte le energie per superare gli ostacoli e raggiungere situazioni gratificanti. In altri
casi le difficoltà da superare sono talmente grandi che l'individuo sofferente di questo
complesso si chiude in se stesso e compensa i suoi insuccessi con comportamenti
anche anomali ma che attirino su di sé l'attenzione.
Adler non riconosce come fondamentale l'ereditarietà genetica e considera invece
importante il ruolo che svolge l'educazione nel processo di formazione dell'individuo.
Infatti un bambino male educato è destinato a diventare un adulto nevrotico.
L'educazione deve evitare i rischi del permissivismo e quelli della severità eccessiva.
Psicologia e pedagogia devono collaborare per la formazione dell'individuo.
146

IL NEOCRITICISMO.

Fra Ottocento e Novecento si assiste, soprattutto in Germania ma anche altrove, ad


una ripresa della filosofia kantiana, definita "Neocriticismo" o "Neokantismo", nel
senso di una ripresa e sviluppo della filosofia di Kant in termini di analisi delle
condizioni di validità delle scienze ma anche degli altri prodotti dell'attività umana
quali la storia, la morale, l'arte, il mito, la religione, il linguaggio.
Come tutti i vari indirizzi filosofici sorti, tra l'altro, per reazione al positivismo,
anche il criticismo combatte il culto positivistico della scienza, trasformata in sapere
assoluto e dogmatico al pari della più ostinata metafisica. Ma il neocriticismo
respinge altresì ogni altra forma di metafisica, sia di tipo spiritualistico che
idealistico, così come si oppone ad ogni riduzione della filosofia alla scienza
empirica.
Per il Neocriticismo alla filosofia non devono interessare tanto i fatti, le teorie delle
varie discipline o ambiti culturali, quanto le questioni di validità dei fondamenti della
conoscenza e dei prodotti dell'intelletto. Come ha commentato Léon Brunschvicg,
non spetta alla filosofia aumentare la quantità del sapere ma riflettere sulla qualità
del sapere. È dunque una filosofia in cui prevalgono i problemi gnoseologici rispetto
a quelli empirico-fattuali o metafisici. Critica pure la metafisica marxista, seppur
alcuni esponenti siano stati propugnatori del socialismo, visto però non come esito
del materialismo dialettico ma, piuttosto, come fondato su quell'imperativo morale
che comanda di trattare gli altri sempre come fine, mai come mezzo (Kant).
Inoltre, poiché anche antipsicologista, obiettivo del Neocriticismo è di considerare la
validità della conoscenza indipendentemente dalle condizioni soggettive psicologiche
in cui essa avviene.
Due sono stati in Germania i principali centri di elaborazione del Neocriticismo: la
Scuola di Marburgo, i cui maggiori esponenti sono stati Cohen, Natorp e Cassirer,
orientata verso l'analisi critica sulla validità del conoscere, e la Scuola di
Heidelberg, che ha avuto per esponenti Windelband e Rickert, orientata verso la
teoria dei valori, considerati indipendenti dagli stati soggettivi e dai fatti psichici.
In Italia esponenti del Neocriticismo sono stati Antonio Banfi e Carlo Cantoni.

Hermann Cohen (1842-1918).

È stato difensore di un socialismo non materialista.


Per il positivismo l'oggettività sta nei fatti, nelle sensazioni, cioè nell'a-posteriori;
Cohen ritorna a Kant e pone nell'a-priori il fondamento dell'oggettività della scienza.
La scienza si è costituita non già per accumulazione di fatti, quanto piuttosto
attraverso l'unificazione e spiegazione dei fatti per mezzo di leggi e teorie: esse non
sono ricavate dai fatti bensì sono applicate ai fatti; sono l'a-priori.
In questo senso la filosofia, cui spetta di indagare sugli elementi "puri" o a-priori
della conoscenza scientifica, è metodologia, cioè critica metodologica della scienza,
147

volta alla ricerca di puri concetti, ovverosia di contenuti logici dotati di una loro
validità specifica e autonoma.
Di Kant peraltro Cohen rifiuta due punti:
1. il riferimento alla cosa in sé a motivo del suo rifiuto di ogni realismo, cosa in sé
che egli reinterpreta piuttosto come un concetto-limite dell'esperienza e della
conoscenza che sempre si sposta in avanti;
2. la distinzione tra forme della sensibilità (spazio tempo) e forme dell'intelletto (le
categorie), che invece Cohen assimila: il tempo è la condizione della pluralità dei
fenomeni, cioè del loro succedersi, mentre lo spazio è la condizione della loro
esteriorità, cioè dei luoghi in cui si manifestano.

Paul Natorp (1854-1924).

Come Cohen, Natorp afferma che la filosofia non è scienza delle cose, delle quali si
occupano le scienze, ma è teoria della conoscenza. La filosofia però non studia il
soggetto conoscente, non è cioè un'attività psichica, ma indaga sui contenuti logici,
assimilati ad una sorta di idee platoniche che però non sono considerate oggetti,
super-cose fisse, ma piuttosto un fine, un ideale regolativo. Mediante i contenuti (i
principi) logici si giunge a progressive determinazioni dell'oggetto (si giunge
progressivamente a comprendere gli oggetti negli aspetti e caratteristiche specifici).
La conoscenza è sintesi e l'analisi consiste nel continuo controllo e rielaborazione
delle sintesi già effettuate, in modo da perfezionare sempre di più le determinazioni
degli oggetti. L'oggetto perciò non è un punto di partenza ma un punto di arrivo che
si sposta sempre in là: l'oggetto è sempre in divenire, è un compito infinito. Ciò che
conta, dunque, è il processo della progressiva determinazioni degli oggetti: il
processo, il metodo è tutto.
A differenza di Cohen, Natorp non restringe la riflessione critica all'esperienza
fisico-naturale ma l'estende anche all'esperienza morale, estetica e religiosa. Tale
estensione di interessi sarà portato avanti soprattutto da Cassirer.

Ernst Cassirer (1874-1945).

È stato docente all'università di Berlino, di Amburgo e di Yale.


Nell'opera "Il concetto di sostanza e il concetto di funzione", Cassirer sottolinea che
la conoscenza matematica, fisica e chimica non cerca tanto gli elementi comuni
delle cose, ossia le sostanze, quanto la legge e le relazioni, cioè le funzioni. La
metafisica di Aristotele parlava di un mondo delle cose da cui astrarre i caratteri
comuni, l'essenza. Ma, dice Cassirer, non c'è garanzia alcuna che gli elementi in
comune siano l'essenziale. Si è visto invece che le scienze sono progredite perché si
sono matematizzate e la matematica non è basata sul concetto di sostanza bensì,
appunto, di funzione; sono progredite proprio perché hanno smesso di cercare
148

sostanze e, in una visione fenomenica e non sostanziale della realtà, si sono rivolte
alla ricerca delle relazioni funzionali tra gli oggetti. Le funzioni non si ricavano
dalle cose per astrazione ma sono costruite dall'intelletto, sono l'a-priori.
Abbandonando il concetto di sostanza viene abbandonata con ciò la nozione di
scienza come immagine o rispecchiamento delle sostanze naturali. Con la prevalenza
del concetto di funzione acquista importanza il valore del segno (dei modi di
denominazione o indicazione degli oggetti) ed appare decisiva la funzione
costitutiva del linguaggio rispetto agli oggetti di cui si occupa la scienza (il
linguaggio non è solo mezzo di comunicazione ma condiziona altresì la stessa visione
e comprensione del mondo e dei fenomeni, tant'è che in ogni linguaggio esistono
termini, cioè modi di pensare, sconosciuti in altri linguaggi).
Gli interessi di Cassirer non sono tuttavia rivolti al solo ambito scientifico ma, come
preannunciato, estende la sua analisi anche ad altri ambiti, vale a dire alle altre
forme fondamentali della "comprensione" del mondo, definite "forme simboliche".
Sono le forme mentali attraverso cui gli individui e i gruppi producono significati,
interpretazioni e schemi della loro esperienza della realtà. Sono tali forme
simboliche che danno "forma e senso" al modo di vedere il mondo, che
organizzano l'esperienza e la rivestono di significati. Inserito tra il sistema nervoso
ricettivo e quello reattivo, ritrovabili in tutte le specie animali, nell'uomo, afferma
Cassirer, vi è un terzo sistema che si può chiamare "sistema simbolico". L'uomo è un
animale culturale anzi, precisa Cassirer, l'uomo è animale simbolico e mediante esso
supera i limiti della sola vita organica. L'uomo non vive in un universo solamente
fisico bensì in un universo simbolico, il cui tessuto è costituito dal linguaggio, dai
miti, dall'arte, dalla religione, oltre che dalla stessa scienza e conoscenza. L'uomo
non si trova direttamente di fronte alla realtà, bensì vede e conosce la realtà
attraverso le proprie teorie concettuali ma anche attraverso le proprie forme
linguistiche, le immagini artistiche, i simboli mitici, i riti religiosi. Anche nel campo
pratico l'uomo non vive in un mondo di puri fatti; egli piuttosto "vive fra emozioni
suscitate dall'immaginazione, fra paure e speranze, fra illusioni e disillusioni, fra
fantasie e sogni".
In Cassirer i simboli rivestono la medesima funzione delle categorie kantiane, in
quanto rappresentano altrettante forme che organizzano l'esperienza e altrettanti
modi di "vedere la realtà". Tuttavia, a differenza delle categorie di Kant, i simboli
sono storicamente e culturalmente condizionati; non sono quindi stabili e costanti
bensì mutevoli secondo le diverse epoche storiche e ambienti culturali.
Cassirer è quindi dell'idea che si possa e si debba correggere la definizione
tradizionale di uomo. Certo, la definizione di uomo come animale razionale
mantiene il suo valore ma pretende di scambiare la parte con il tutto, perché oltre al
linguaggio concettuale esiste un linguaggio dei sentimenti e delle emozioni. È
limitante considerare la sola ragione se si vogliono abbracciare in tutta la loro
ricchezza e varietà le forme della vita culturale ed emozionale dell'uomo. È
soprattutto attraverso le proprie forme simboliche che l'uomo dimostra un nuovo
potere, il potere di costruirsi un proprio mondo ideale in un processo di progressiva
autoliberazione (libertà di costruirsi i propri significati e ideali).
149

Wilhelm Windelband (1848-1915).

Si ispira alla cosiddetta "filosofia dei valori". Windelband attribuisce certo alla
filosofia il compito di cercare i principi a-priori che garantiscono la validità della
conoscenza ma non si limita all'ambito scientifico. La filosofia non è solo ricerca se
ci sia una scienza, vale a dire un pensiero che possegga con validità universale e
necessaria il valore della verità, ma è anche ricerca se ci sia una morale, cioè un
volere e un agire che posseggano con validità universale e necessaria il valore di
bene; è pure ricerca se ci sia un'arte, vale a dire un intuire e un sentire che abbiano
con validità universale e necessaria il valore di bellezza. Gli a-priori kantiani non
organizzano solo la conoscenza ma anche l'etica e l'estetica. Non vi sono solo norme
teoretiche ma anche estetiche e morali.
La filosofia quindi non ha per oggetto giudizi di fatto ma giudizi valutativi del tipo:
questa cosa è vera; è buona; è bella. I giudizi valutativi della filosofia si riferiscono a
valori che hanno validità normativa e si distinguono pertanto dalle leggi naturali che
hanno invece validità empirica e necessariamente predeterminata, nel senso che non
possono essere altrimenti. La validità empirica è quella dell'essere, mentre la validità
normativa è quella del dover essere. Da qui la distinzione tra scienze nomotetiche (le
scienze fisiche e naturali, dal greco “nomos”=legge), che stabiliscono leggi
necessarie e meccaniche, e scienze ideografiche (dal greco=le scienze del
particolare, cioè le scienze storiche e dello spirito), che indagano ciò che di
individuale, di specifico ed irripetibile è in ogni evento.

Heinrich Rickert (1863-1936).

Rickert riprende la concezione della filosofia come teoria dei valori, sulla scia di
Windelband, tuttavia nell'ambito di un'impostazione più organica e sistematica della
teoria della conoscenza e nell'obiettivo di fondare l'autonomia della conoscenza
storica. In tal senso il neocriticismo di Rickert si ricollega allo storicismo tedesco.
Rickert considera tre tipi di rapporto tra soggetto ed oggetto in campo gnoseologico:
1. il rapporto individuo-ambiente;
2. il rapporto coscienza e realtà esterna;
3. il rapporto coscienza e i suoi contenuti.
Per Rickert quello che conta è il terzo tipo di rapporto. Egli critica infatti la
gnoseologia di stampo realistico, nel senso che nega la conoscenza come rapporto
del soggetto con un oggetto da esso indipendente. Per Rickert invece la
rappresentazione (la percezione) e la cosa rappresentata (la cosa percepita) sono
ambedue oggetti e contenuti di coscienza e perciò il loro rapporto è quello tra due
oggetti di pensiero interni alla coscienza. Di conseguenza la garanzia della validità
della conoscenza non risiede nell'essere ma nel dover essere nel senso di
150

Windelband. Infatti conoscere vuol dire giudicare, cioè accettare o rifiutare e ciò
implica il riconoscimento di un valore, ossia di un dover essere ed è questo il
fondamento della conoscenza. Un giudizio non è vero perché esprime ciò che è;
piuttosto si può affermare che qualcosa è soltanto se il giudizio che la esprime è vero
in forza del suo dover essere.
Il dover essere (cioè i valori, le norme) è trascendente rispetto ad ogni singola
coscienza empirica. La coscienza per Rickert è appunto il soggetto trascendentale, al
di là di qualsiasi condizionamento di spazio e di tempo: è "la coscienza in
generale", la coscienza collettiva, che ha valore duraturo e permanente al di là della
soggettività individuale. Non è soltanto logica ma anche etica ed estetica.
Poiché i valori trascendono le coscienze singole, le indagini di Rickert, diversamente
da Max Weber (come si vedrà), fanno completa astrazione, esulano dalle condizioni
e dai problemi effettivi inerenti ai processi di ricerca. Compito della filosofia è di
stabilire in che modo le scienze generalizzanti (le scienze fisiche e naturali) e quelle
individualizzanti (le scienze storiche e psichiche) trovino, nel riferimento ai valori
che ne costituiscono i principi a-priori, il fondamento e la garanzia della loro
validità universale e necessaria.
Rickert distingue sei domìni (ambiti) del valore:
1. la logica, che è il dominio del valore di verità;
2. l'estetica, che è il dominio del valore di bellezza;
3. la mistica, che è il dominio del valore di santità impersonale;
4. l'etica, che è il dominio del valore della moralità;
5. l'erotica, che è il dominio del valore di felicità;
6. la filosofia religiosa, che è il dominio del valore di santità personale.
Diversamente da Cassirer, tutti i valori sono assoluti, universali ed eterni, non sono
cioè condizionati né storicamente né culturalmente.
La disputa sui valori si manifesta particolarmente nella seconda metà
dell'Ottocento. Nietzsche aveva negato i valori tradizionali proclamando nuovi
valori desunti dall'esaltazione della vita e della potenza. Altri filosofi, come Georg
Simmel e lo stesso Cassirer, a differenza di Rickert, insistono invece sulla relatività
dei valori, cioè sul fatto che mutano con i tempi e con le circostanze.
Rickert riprende dal Windelband la distinzione tra scienze nomotetiche e scienze
ideografiche, ma per lui la distinzione è solo di metodo, di punto di vista, e non di
contenuto, di oggetto. Coerentemente con l'obiettivo di dimostrare l'autonomia della
coscienza storica, le scienze nomotetiche si contraddistinguono perché il loro
orientamento, il loro punto di vista, è generalizzante (mirano a ricavare concetti e
leggi generali). Da questo punto di vista esse si applicano sia al mondo fisico ma
anche a quello psichico. Però, precisa Rickert, le scienze generalizzanti lasciano
fuori di sé l'intero mondo dell'individualità. Difatti ogni processo ed evento, fisico o
spirituale, è qualcosa di unico e di irripetibile, è un individuo. Se si vuole cogliere la
specificità degli eventi, e non le loro caratteristiche comuni di generalità, bisogna
ricorrere allora a una forma di conoscenza diversa da quella generalizzante. Questo
diverso tipo di conoscenza è la storia, che rappresenta la realtà non in riferimento al
generale ma solamente in riferimento al particolare.
151

LO SPIRITUALISMO FRANCESE.

Lo spiritualismo si sviluppa soprattutto in Francia tra fine Ottocento e Novecento in


contrapposizione alla pretesa positivistica di ridurre la vita spirituale a fatti "naturali",
analizzabili col metodo scientifico e spiegabili con leggi deterministiche simili a
quelle della natura.
Non che il positivismo negassi i fatti umani. Piuttosto li riduceva a fatti di
natura, a prodotti giuridici, morali, economici, estetici e religiosi della natura umana,
da studiarsi secondo il medesimo metodo deterministico delle scienze naturali,
abbandonando ogni pretesa metafisica. Ma in tal modo il positivismo, secondo cui
nulla esiste al di fuori dei fatti positivi (oggettivi) di cui trovare le leggi che li
determinano, negava proprio quei fatti, quali la libertà della persona umana,
l'interiorità della coscienza, l'irriducibilità dei valori ai fatti e la trascendenza divina,
che per lo spiritualismo sono altrettanto reali di quelli naturali e fisici.
Lo spiritualismo trova i suoi precedenti antichi in Plotino e in Agostino (la verità
abita nell'interiorità dell'anima) e quelli più recenti in Montaigne, in Cartesio (il
cogito), in Pascal (l'esprit de finesse) e nella coscienza dei romantici.
Concezione di fondo dello spiritualismo è l'assoluta irriducibilità dell'uomo alla
natura, la sua assoluta differenza rispetto i fatti naturali. Esiste una fondamentale
contrapposizione tra mondo dello spirito, dove domina la libertà e il finalismo, e
mondo della natura, dove esiste determinismo e necessità (le leggi meccaniche e
necessarie di spiegazione dei fenomeni fisici).
Lo spiritualismo ha a che fare con l'interiorità della coscienza, indagabile
attraverso l'introspezione e l'intuizione; il mondo ha a che fare, invece, con
l'esteriorità della natura, indagabile col metodo scientifico. Eredita dal romanticismo
il concetto di coscienza, con i valori morali ed estetici ad essa connessi, considerata
espressione centrale dell'uomo al posto della fredda ragione nonché luogo di
manifestazione del divino. Ma, contrariamente al romanticismo, accentua il carattere
trascendente del divino e rifiuta l'identificazione tra finito e infinito teorizzata da
Hegel. Lo spiritualismo infatti ha in genere sbocchi religiosi e coltiva interessi
morali.
In sintesi, tratti salienti dello spiritualismo sono:
1. la filosofia non può in alcun modo venir assorbita dalla scienza;
2. l'uomo è caratterizzato da una irriducibile diversità rispetto a tutta la natura:
esso è soprattutto interiorità, riflessione, coscienza, libertà (non soggiace al
determinismo);
3. l'uomo deve essere dunque indagato mediante uno strumento di analisi
sconosciuta i positivisti, vale a dire dando ascolto alle voci della coscienza
attraverso l'introspezione;
4. l'uomo è soprattutto spirito; mentre ogni altro fenomeno naturale è causato e
subìto, l'uomo è attività causante e agente; lo spirito quindi è sempre libera
iniziativa; esso si crea e si sviluppa da sé e, producendo se stesso, produce
anche non le cose (come invece per l'idealismo) ma il senso delle cose;
152

5. la coscienza umana è essenzialmente movimento, sforzo e tendenza verso un


fine; perciò non può essere indagata col metodo delle scienze fisiche e naturali.

Maggiori esponenti dello spiritualismo sono stati Boutroux, Blondel, il movimento


cosiddetto della "filosofia dell'azione", quello del "modernismo" e soprattutto
Bergson. Legato alla filosofia dell'azione, tuttavia con interessi politico-sociali
anziché spiritualistici, è George Sorel.

Emile Boutroux (1845-1921).

È stato professore alla Sorbona di Parigi ed è divenuto punto di riferimento della


polemica antipositivistica in nome dello spiritualismo.
Giunge allo spiritualismo in maniera originale, tenendo conto e partendo proprio
dalle novità della scienza. Boutroux accetta la classificazione delle scienze proposta
da Comte, ma la corregge introducendo la "teoria del contingentismo" da lui
fondata.
Per Boutroux infatti le scienze non derivano una dall'altra secondo uno sviluppo
progressivo in base al criterio della maggiore complessità, come per Comte, bensì
ogni scienza ci rivela un ordine (un settore) della realtà irriducibile agli altri
ordini. La materia, il mondo organico e l'uomo sono ordini di realtà ciascuno dei
quali non è spiegabili in base al precedente poiché contiene elementi originali, nuovi
e pertanto "contingenti", nel senso che non derivano necessariamente dai gradi
inferiori. Tra grado inferiore della realtà e grado superiore non vi è un processo di
continuità ma invece un salto, per cui le leggi di una scienza quantitativa (ad
esempio la chimica) non valgono più per una scienza qualitativa (ad esempio la
psicologia). Non è quindi possibile un unico metodo scientifico ed un'unificazione
metodologica e concettuale di tutte le scienze secondo principi comuni.
Più si sale verso gradi superiori di realtà, più le relative leggi diventano sempre
meno necessarie ed includono larghi margini di contingenza, cioè di libertà. Da
ciò appunto il nome di "contingentismo" attribuito alla filosofia di Boutroux. Allora,
così come la biologia, cioè la vita organica, non è riducibile alla fisica o alla
chimica, cioè al mondo inorganico, altrettanto la vita spirituale, lo spirito
dell'uomo, è irriducibile alla vita organica. Nello spirito c'è qualcosa di più, di
nuovo, di contingente: i moti dello spirito non possono essere spiegate in base ai
processi della fisiologia, come testimonia l'originalità della vita spirituale che si fonda
su valori morali e religiosi. Non vi è quindi contrasto tra scienza e fede religiosa,
poiché la religione ha un oggetto diverso dalla scienza. Lo spirito opera secondo
valori che il meccanicismo e i rapporti di causa-effetto della scienza non possono
spiegare. Le schematizzazioni delle leggi scientifiche possono essere utili per la
vita pratica ma non sono vere rispetto alla vita più autentica che è quella
spirituale. L'uomo non è solo una macchina ma prima di tutto è coscienza, che
non vuole limitarsi a spiegare il "come" dei fenomeni ma vuole capirne anche il
153

"perché" e il senso. La religione infatti non vuole essere spiegazione dei fenomeni e
perciò non può sentirsi toccata dalle scoperte scientifiche concernenti la natura delle
cose. Per la religione i fenomeni valgono invece per il loro significato morale e per i
sentimenti che suggeriscono.

La filosofia dell'azione e Maurice Blondel (1861-1949).

Blondel è esponente della cosiddetta "filosofia dell'azione", che costituisce una


variante dello spiritualismo. Al pari dello spiritualismo, anche la filosofia
dell'azione giunge a conclusioni decisamente religiose e anch'essa pone quale
concetto di base la coscienza. Tuttavia, diversamente dagli altri spiritualisti, la
coscienza dei filosofi dell'azione non è contemplazione teoretica ed introspezione
quanto piuttosto volontà ed azione: quando un'idea è veramente viva non è una pura
e semplice questione intellettuale ma coinvolge altresì la volontà e l'agire umano. Il
cristianesimo, per Blondel, è una di queste grandi idee.
Blondel comincia il suo pensiero col chiedersi: "La vita umana ha si o no un senso?
L'uomo ha si o no un destino?" Per rispondere, dice Blondel, dobbiamo interrogare
la vita stessa e tentare di descriverla. Così facendo possiamo allora renderci conto che
ciò che qualifica la vita è l'azione, la spinta, la volontà di agire. Nell'azione
l'uomo esprime la sua capacità creativa in campo morale, sociale e religioso. È
affermato il primato dell'azione rispetto a quello della ragione.
L'azione è spiegata da Blondel in termini di "dialettica della volontà" anziché in
termini di dialettica della ragione. Vi è infatti sempre un contrasto tra ciò che l'uomo
vuole realizzare e ciò che di fatto riesce a realizzare, il che altro non è che il contrasto
tra l'ideale e il reale. Si crea quindi una tensione ed una contrapposizione continua
tra la "volontà volente" (le intenzioni) e la "volontà voluta" (i risultati
effettivamente raggiunti). I traguardi raggiunti sono sempre inadeguati. Ne deriva
un continuo tendere verso nuovi obiettivi. Dapprima puntiamo a chiarire le nostre
sensazioni; poi ci accorgiamo che le sensazioni devono essere interpretate e
trasformate in concetti, in categorie generali, producendo in tal modo le scienze. Ma
in prosieguo ci accorgiamo che neppure la scienza è in grado di appagarci, di
dirci con certezza come stanno davvero le cose. Anche nella scienza vi sono continui
dissidi tra teorie contrastanti. Ma soprattutto la scienza non è in grado di risolvere
l'enigma del destino umano. La coscienza, e quindi l'azione che ne è elemento
caratterizzante, sfugge alla scienza. Anzi, spesso è proprio la coscienza che orienta la
ricerca scientifica in una direzione piuttosto che in un'altra, secondo le soggettive
intuizioni ed inclinazioni. Dal contrasto tra volontà volente e volontà voluta si giunge
così a renderci conto dell'inadeguatezza delle sensazioni e della stessa scienza, che ha
semmai un valore più che altro pratico, divenendo per contro consapevoli della
priorità della coscienza e dell'interiorità.
In particolare l'azione, attraverso cui la coscienza si esprime, è considerata da
Blondel funzione sociale per eccellenza: si agisce per gli altri e nei confronti degli
154

altri. Dall'impulso all'azione sociale deriva la realizzazione delle forme e


organizzazioni sociali, quali la famiglia, la patria, il sentimento di appartenenza
all'umanità e il senso morale. Si tenta in tal modo di soddisfare la spinta ad agire che
sta nella nostra coscienza, che è volontà di espandersi ed accrescersi. Ma il contrasto
tra volontà volente e voluta non si spegne, anzi si accentua sempre più quanto
più sono alti i nostri obiettivi, perché noi operiamo pur sempre sul piano del finito,
sul piano umano che è imperfetto e non siamo in grado di realizzare pienamente i
nostri ideali; non ci è concessa la perfezione nelle nostre realizzazioni. Per superare
tale contrasto è necessario trascendere, oltrepassare, il piano del finito, il piano
umano, per arrivare a concepire, attraverso la religione, il Dio trascendente, nel
quale soltanto il contrasto può cessare e solo dal quale può essere garantito un senso
alla vita. Ciò non significa che la fede potrà consentirci, nella vita terrena, di
realizzare pienamente e senza inadeguatezza la volontà volente. Significa invece che,
riconoscendosi finito e inadeguato, l'uomo si mette nella condizione di riconoscere e
ricevere Dio. È questo, come chiamato da Blondel, il metodo dell'immanenza. Qui
il termine immanenza non significa negazione della trascendenza divina, ma
consiste invece nel riconoscere il soprannaturale che è in qualche modo
immanente nell'uomo, consiste nel riconoscere, dalla natura finita dell'uomo,
l'esigenza di Dio: dall'inadeguatezza dell'ordine naturale scaturisce la necessità e la
scoperta del soprannaturale e di Dio. L'esistenza di Dio è attestata proprio dalla
limitatezza (contingenza) della natura umana che, passo dopo passo secondo la
dialettica della volontà, diviene consapevole della propria inadeguatezza. Solo
l'intervento soprannaturale, la grazia di Dio, può sottrarre la volontà alla sua
insoddisfazione, ai suoi contrasti. Il soprannaturale non giunge all'uomo dall'esterno
ma da una propria intrinseca esigenza.
Pertanto, Dio è scoperto non nella fissità del dogma e della rivelazione, ricevuta
una volta per tutte, ma in una progressiva rivelazione storica: l'andare oltre è una
necessità perché Dio è sempre al di là. Dunque anche la rivelazione divina (le sacre
scritture) e i dogmi non sono verità prefissate e immutabili ma si adeguano e si
evolvono con lo sviluppo e il divenire storico della coscienza. Qui sta, in nuce (in
breve), la tesi del Modernismo.

Il Modernismo.

Legato alla filosofia dell'azione di Blondel e al metodo dell'immanenza è il


"Modernismo", movimento di pensiero religioso sorto in Francia agli inizi del
Novecento e diffuso anche in Italia (Fogazzaro, Murri, Bonaiuti) nonché negli Stati
Uniti.
Principali caratteristiche del Modernismo sono:
1. la fede religiosa è un bisogno insito nella natura dell'uomo; perciò tutte le
religioni (non solo il cristianesimo) appagano l'aspirazione universale a
trascendere i limiti imposti all'uomo dalla natura;
155

2. il modernismo è volto a colmare il fossato, la separazione, tra l'anacronismo


della cultura ecclesiastica ufficiale e la mentalità scientifica del mondo
moderno;
3. considera i dogmi non immutabili; poiché si tratta di chiarificazioni operate
dall'intelletto circa il sentimento religioso, i dogmi stessi non sono
immodificabili ma hanno una storia; essi si adeguano all'evolversi e alla
maturazione storica del sentimento religioso in rapporto all'ambiente ed allo
stato delle conoscenze umane;
4. la volontà e l'azione sono prioritarie rispetto alla ragione; vale quindi il metodo
dell'immanenza, che spiega il bisogno immanente nell'uomo di operare in
campo morale e religioso per giungere a concepire la trascendenza divina e
superare quindi l'inadeguatezza umana;
5. critica la Chiesa ufficiale che ha spesso tradito lo spirito originario di Gesù.
Considerato eretico, il Modernismo è stato condannato dal papa Pio X nel 1907.

George Sorel (1847-1922).

È anch'egli esponente della filosofia dell'azione, peraltro secondo interessi


politico-sociali anziché religiosi e morali.
Accetta da Marx il principio della lotta di classe e quindi il rifiuto della società
capitalista. Ma fonda questo principio su una filosofia della storia desunta da
Bergson. La storia umana è divenire incessante, movimento, azione: come tale è
libertà. Ma la libertà si realizza solo mediante un contrasto radicale e violento con la
realtà storica determinatasi. L'azione libera contrappone a questa realtà storica un
"mondo fantastico", capace di negare la realtà esistente; contrappone cioè un
complesso di immagini capaci di evocare con la forza dell'istinto un sentimento di
rivolta socialista contro la società capitalista. Quando questo mondo fantastico
diventa un patrimonio di massa, diviene un mito sociale. Il mito sociale non è
un'utopia, la quale è piuttosto un modello ideale cui ispirare l'azione. È invece una
forza capace di cambiare la storia e distruggere ciò che esiste.
In particolare, l'arma che può essere in grado di produrre il mito necessario per
realizzare la rivoluzione socialista (altrimenti destinata a restare pura utopia) è un
sindacalismo attivo e violento nonché lo sciopero generale. In tal senso concepisce
il mito del passaggio dal capitalismo al socialismo come evento catastrofico,
distruttivo, il cui svolgimento sfugge a qualsiasi descrizione.
Ai politici del compromesso e della ricerca del giusto mezzo, Sorel contrappone la
figura del sindacalista tutto votato alla sua missione, una sorta di superuomo
nietzschiano. Il marxismo non è quindi, per Sorel, un'analisi scientifica della società,
ma un incitamento e una prassi utili all'azione. Infatti, per Sorel i fattori che muovono
la storia sono irrazionali ed istintivi.
Il pensiero di Sorel ha influenzato lo sviluppo del sindacalismo rivoluzionario che
rivendica lo sciopero come strumento di lotta per eccellenza.
156

Tuttavia il socialismo di Sorel è un ibrido (una mescolanza eterogenea) di marxismo,


di fascismo (quello di ispirazione socialista degli inizi) e di superomismo
nietzschiano. Dopo aver aderito al partito socialista, Sorel se ne allontana, accusando
il socialismo di essersi alleato con il positivismo e di credere al progresso scientifico
anziché alla volontà e alla forza morale, al mondo fantastico e al mito sociale, i soli
capaci di operare la trasformazione radicale del mondo. Il socialcomunismo di Sorel
è, insomma, idealismo passionale piuttosto che programma politico.
157

HENRI BERGSON (1859-1941).

Parigino, di origine ebraica, si laurea in lettere e in matematica e si dedica alla


filosofia riscuotendo anche grande successo di pubblico. È stato docente di liceo e poi
nel College de France. Ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 1928. Ha
condotto una vita appartata, accostandosi sempre più al cattolicesimo ma senza
convertirsi per non abbandonare i suoi correligionari ebrei perseguitati dal nazismo.
Opere principali: Saggio sui dati immediati della coscienza; Materia e memoria;
Introduzione alla metafisica; L'evoluzione creatrice.

È considerato il filosofo più importante del suo tempo. La sua filosofia accoglie
elementi provenienti dalla tradizione mistico-religioso di Agostino, di Malebranche e
di Pascal, rielaborati alla luce dello spiritualismo e della reazione antipositivistica.
Notevole è stato l'influsso del suo pensiero non solo sul pragmatismo americano
ma anche sulla scienza, sull'arte, sulla letteratura, sulla società e sulla religione.
La filosofia di Bergson è una sintesi ricca e originale tra evoluzionismo spenceriano e
critica al culto positivistico della scienza.
L'intento di fondo è la difesa della creatività e della irriducibilità della coscienza,
o spirito, al mondo della natura, indagato col metodo scientifico. La coscienza, o
spirito, è in fondo la vita e il senso della vita di ognuno. Ma l'originalità e peculiarità
di Bergson è che persegue il proprio intento proprio sulla base e facendo suoi i
risultati della scienza, senza minimizzare affatto i fenomeni fisici e l'universo
materiale, grosso errore, questo, che Bergson addebita alle dottrine spiritualiste alle
quali pur appartiene. Bergson intende essere fedele alla realtà, anche a quella fisica,
tuttavia non stravolta e ridotta al culto ingenuo dei "fatti" del positivismo, di cui
critica lo schematismo scientifico. Egli costruisce un nuovo modello di sapere che
però non si identifica con la metafisica tradizionale basata su "essenze immobili". La
nuova metafisica bergsoniana si basa piuttosto sul concetto di centralità della
coscienza.

Il tempo della scienza e quello della coscienza.

Proprio per la sua fedeltà alla realtà, Bergson da giovane si entusiasma per la teoria
positivistico-evoluzionistica di Spencer. Ma si accorge che il positivismo non
mantiene affatto la sua promessa di fedeltà ai fatti, come nel caso della trattazione
del problema del tempo. Bergson procede così alla sua celebre distinzione tra
tempo della scienza e tempo della coscienza.
Osserva che il tempo della scienza e della meccanica è concepito come una serie di
istanti (di unità di misura) uno accanto all'altro ed ognuno uguale all'altro. È un
tempo spazializzato, espresso in termini di movimento di un oggetto in un certo
spazio (le lancette dell'orologio). È altresì un tempo reversibile, perché possiamo
tornare indietro e ripetere infinitamente la misurazione temporale. Ma queste
158

caratteristiche di spazialità e reversibilità del tempo della scienza non riescono


minimamente rendere conto del tempo della coscienza.
Il tempo della coscienza, la cui caratteristica è da Bergson definita "durata", è ben
altro rispetto al tempo della scienza: è il tempo concreto, interiore, che sentiamo
dentro di noi come continuo fluire e scorrere di istanti, di momenti, che non sono
uguali ma diversi fra loro (un'ora di sofferenza dura per noi molto di più di un'ora di
piacere) e che non sono separabili e divisibili gli uni dagli altri, ma anzi si
compenetrano e crescono uno sull'altro. Questo è un tempo irreversibile, non si
può tornare indietro perché è tutt’uno con la storia della nostra coscienza che procede
incessantemente in avanti. Viene avvertito come continua successione dei nostri
stati d'animo che si fondono tra loro e plasmano la coscienza stessa, la quale si
forma, cresce e cambia in base alle diverse esperienze maturate nel succedersi degli
istanti temporali. Il tempo della coscienza è quindi durata che conserva tutti gli stati
di coscienza (non solo quelli che al momento non sono più presenti ma anche quelli
inconsci) e che contemporaneamente cresce continuamente su di sé. È come un
gomitolo di filo, mentre il tempo della scienza e della meccanica è come una
collana di perle.
Certo, il tempo spazializzo della scienza, quantitativo e misurabile, funziona bene
per le finalità pratiche della scienza medesima, ma la scienza della natura e i suoi
metodi sono del tutto inadeguati per la comprensione dei dati della coscienza.
Sull'idea di durata, quale peculiare caratteristica della coscienza, Bergson fonda la
libertà della coscienza stessa nonché la sua critica al determinismo per la
presunzione di spiegare la vita della coscienza. Bergson affronta cioè il problema del
rapporto tra libertà della coscienza e necessità predeterminata dei
comportamenti, chiedendosi se l'uomo è libero oppure se le sue azioni sono il
risultato di condizionamenti e meccanismi vincolanti e necessitati.
Bergson respinge sia il determinismo ma anche la dottrina del libero arbitrio,
secondo cui ogni scelta deriva da un libero e consapevole atto di volontà. Entrambe le
concezioni sono in errore perché applicano alla coscienza i concetti tipici di ciò che
invece è esterno alla coscienza. I deterministi cercano le cause determinanti
dell'azione negli eventi passati; i sostenitori del libero arbitrio pongono la volontà
come causa della libertà. Ma entrambi presuppongono un'idea di coscienza come
somma di atti distinti ed irrigiditi, siano questi i condizionamenti degli
avvenimenti trascorsi oppure i singoli atti di volontà. Invece la coscienza non è
fissa e cristallizzata; è puro scorrere creativo che si rinnova continuamente e
imprevedibilmente. La coscienza conserva tutte le tracce del proprio passato, in base
al quale storicamente viene a costruirsi e a definirsi, però cambia e cresce
continuamente su se stessa: in essa non esistono mai eventi identici derivanti
dall'esterno o da una specifica scelta della volontà. L'azione e il comportamento
umani derivano dallo stato complessivo in cui la coscienza è venuta a maturarsi,
derivano dall'intera storia interiore di ciascuno che, in quanto tale, non è
predeterminabile.
Di conseguenza, siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra intera
personalità, quando esprimono la totalità profonda della coscienza.
159

È vero che spesso i nostri atti sono abitudinari, per cui in questo senso sono
meccanici, analizzabili e prevedibili come i fenomeni esterni: in essi quindi non
siamo liberi. Ma quando l'atto di volontà deriva dallo sciolto fluire della
coscienza, esso si presenta come qualcosa di continuamente nuovo e creativo: in
questo senso è libero, di una libertà imprevedibile e indefinibile, perché dipende
di volta in volta da come in quel momento l'intera coscienza è venuta a svilupparsi.
La libertà è dunque indefinibile, perché il definirla significherebbe analizzarla e
irrigidirla, cioè cristallizzarne lo slancio per sottoporlo a criteri rigidi di misurazione e
a parametri di confronto. Ma la coscienza se è imprigionata cessa di essere vita per
diventare morte e il divenire si trasforma in divenuto, cioè muta natura non appena è
sottoposto ad indagine.

Materia e memoria, corpo e spirito.

Dopo aver affrontato il problema del rapporto tra libertà e necessità nell'agire
dell'uomo, Bergson propone una soluzione anche per il problema del rapporto o,
meglio, del dualismo tra corpo (materia) e spirito, vale a dire il problema della
contrapposizione tra la realtà esterna o corporea, che è meccanica, mai nuova e
ripetitiva, e la realtà interna, quella della coscienza, dello spirito, che è sempre
creativamente nuova. In che termini sta, si chiede Bergson, il problema del rapporto e
anzi del passaggio tra le due realtà?
In proposito Bergson rifiuta sia il materialismo, secondo cui l'attività spirituale
deriva ed è spiegabile in base alla fisiologia del cervello, sia l'idealismo, secondo cui
la materia, i corpi, sono produzione del pensiero. Critica specialmente la riduzione
positivistica dello spirito a materia. Bergson ribadisce l'idea che il cervello non
spiega lo spirito e che "in una coscienza umana c'è infinitamente di più che nel
cervello" corrispondente. Il cervello è solo un mezzo che stabilisce un rapporto tra la
coscienza, cioè la realtà interna, e la materia, cioè la realtà esterna.
Per spiegare il rapporto tra corpo e spirito, o coscienza, Bergson distingue tra
memoria, ricordo e percezione.
La memoria coincide con la coscienza stessa, con la durata della coscienza, e
contiene tutto ciò che ci è accaduto e ci accade, anche ciò di cui al momento non
siamo consapevoli (l'inconscio).
Il ricordo è una funzione del cervello che, per effetto di una nostra percezione, estrae
dalla memoria quel dato o quei dati che ci sono utili in vista dell'azione cui la
percezione ci induce.
La percezione è il modo in cui noi entriamo in relazione col mondo esterno;
attraverso la percezione infatti noi entriamo in contatto con i corpi e la materia
esterna a noi.
La percezione, ossia il contatto con le cose esterne, spinge ad agire o reagire
contro di esse. A tal fine la percezione mette in funzione il cervello che estrapola
dalla memoria quei ricordi, quelle esperienze passate, che sono i più idonei per
160

agire. I ricordi di analoghe esperienze trascorse ci suggerisco infatti l'azione più utile
di fronte alla situazione che al presente è percepita.
La materia per Bergson si può considerare come quell'insieme di immagini (non di
immaginazioni) quali noi percepiamo: è ciò che noi percepiamo delle cose (la forma
degli oggetti, la consistenza, il suono, il colore, l'odore, ecc.).
La percezione quindi corrisponde alla materia, mentre la memoria, cioè la
coscienza, corrisponde allo spirito. La percezione che noi abbiamo della realtà
materiale ha carattere reattivo, nel senso che induce il cervello ad estrarre dalla
memoria i ricordi che ci sono utili in vista dell'azione. I ricordi fanno parte della
memoria, cioè dello spirito, ma, tramite il cervello, sono evocati dalla percezione,
cioè dal nostro entrare in contatto con la realtà materiale. Pertanto i ricordi sono il
collegamento, il passaggio dalla realtà spirituale a quella materiale. In tal modo
è superato il dualismo tra spirito e materia. Le percezioni infatti diventano poi a
loro volta memoria, nel senso che vengono successivamente assorbite nella
coscienza accrescendo il suo bagaglio. Dunque tra spirito e materia non c'è
dualismo ma un circolo di continuo scambio reciproco.

L'evoluzione creatrice e lo slancio vitale.

Bergson non vede l'universo alla maniera di Cartesio, diviso tra spirito (res cogitans)
e materia (res extensa). Per Bergson, come abbiamo visto, spirito e materia, anima e
corpo, sono due aspetti della medesima realtà. Materia e spirito non sono distinti
ma, prosegue Bergson, derivano entrambi dalla medesima evoluzione della
realtà. Nella sua opera "L'evoluzione creatrice" Bergson passa dall'analisi della
coscienza all'elaborazione di una concezione cosmologica della vita dell'universo,
proponendo l'idea di un evoluzionismo globale che coinvolge sia la materia sia lo
spirito (il pensiero, i sentimenti, le emozioni).
Le teorie dell'evoluzione si distinguono in due grandi classi:
1. le teorie meccanicistiche dell'evoluzione, come quella di Darwin, secondo cui
una mutazione del tutto casuale favorisce, nella lotta per la sopravvivenza, un
individuo piuttosto che altri, il quale poi trasmette per ereditarietà la propria
mutazione vantaggiosa ai discendenti diretti permettendo la sopravvivenza del
più adatti;
2. le teorie finalistiche dell'evoluzione, come quella di Spencer, secondo cui
l'evoluzione segue un piano determinato e funzionale al raggiungimento di un
fine.
Bergson respinge sia l'evoluzionismo meccanicistico sia quello finalistico perché
sono entrambi deterministici. Infatti il primo spiega l'evoluzione in base ad un
principio deterministico di causa-effetto, ma anche il secondo spiega la realtà come
determinata dalla causa finale, predeterminata cioè dal fine perseguito.
Proprio perché deterministici, l'evoluzionismo meccanicistico e quello finalistico si
lasciano sfuggire la realtà autentica e profonda dell'evoluzione, che per Bergson
non è né meccanicistica né finalistica bensì è "evoluzione creatrice".
161

Al pari della vita della coscienza, anche la vita biologica e quella dell'intero
universo non è una macchina che si ripete sempre identica a se stessa; non è neppure
integralmente e uniformemente diretta ad un fine, ma è anch'essa continua
evoluzione creatrice, sempre nuova, imprevedibile e libera: è, come Bergson
definisce l'evoluzione creatrice, "slancio vitale" che si espande incessantemente.
Come abbiamo visto, la durata è per Bergson l'essenza non solo della coscienza, dello
spirito, ma anche della materia, rigettando con ciò ogni dualismo che contrappone
l'anima al corpo. In base ai risultati delle scienze l'universo sembra invece senza
durata, caratterizzato cioè da una evoluzione meccanica ed inconsapevole, non libera.
Tuttavia, dice Bergson, le scienze si fermano alla superficie della realtà, che
scompongono e frazionano con l'analisi perdendone di vista il carattere di profonda
unitarietà, ma la verità è un'altra.
Anche l'universo è durata, ossia evoluzione libera e imprevedibile: libera e
imprevedibile perché l'evoluzione avrebbe potuto o potrà essere diversa: rimane
quindi escluso sia il determinismo meccanicistico sia il finalismo predeterminato.
Sia i corpi organici sia quelli inorganici derivano tutti da un unico e medesimo
principio, cioè dal medesimo slancio vitale e dalla medesima incessante evoluzione
creatrice. Ma come procede questa evoluzione creatrice libera, non
meccanicistica o finalistica?
L'evoluzione creatrice come sviluppo e creazione continua, come azione ed energia
che si espande continuamente, risponde Bergson, è una forza impressa una volta
per tutte all'origine dell'universo ed è forza dinamica, incessante, dal momento
che una forza statica non ha senso.
Pur non avendo un fine o un procedere meccanicistico, ma essendo invece azione
e movimento sempre nuovo ed imprevedibile, l'evoluzione creatrice o slancio vitale
ha comunque non solo la tendenza ad espandersi ma altresì di procedere dal
maggior disordine a stati di maggior ordine. Lo slancio vitale non procede
tuttavia uniformemente, ma secondo differenti linee evolutive. Si espande a
raggiera: è come un fascio di steli che partendo dalla medesima origine si protende
in tante direzioni diverse. Ebbene, solo una di queste linee evolutive è progredita
conservando sempre inalterato il flusso vitale e spirituale (cioè la coscienza) che
si è sviluppato fino a giungere all'uomo. Lungo le altre linee evolutive, invece, il
flusso dello slancio vitale, dello spirito, si è prima o poi arrestato ed arrestandosi
si è degradato, si è come solidificato, dando origine ai diversi livelli della materia
inorganica ed organica.
Appare in tale spiegazione il concetto moderno di materia come degradazione
dell'energia. Come attestato dal secondo principio della termodinamica, la materia è
energia che progressivamente si depotenzia e si degrada. Così, mentre lo spirito, lo
slancio vitale, è passaggio dal maggior disordine al maggior ordine, la materia
procede da un ordine relativo ad un disordine sempre maggiore (entropia).
Le altre linee evolutive, arrestandosi, danno origine una al regno minerale,
un'altra al regno vegetale ed un'altra ancora al regno animale. In questi regni
inferiori di livello materiale si esaurisce la libertà della durata, la libertà dello
162

slancio vitale, essendo la materia regolata da leggi deterministiche e necessarie


di causa-effetto (fisica, chimica, biologia, fisiologia).
Solo lungo la linea evolutiva che è arrivata a radicare (collocare) la coscienza
nell'uomo prosegue il processo evolutivo libero ed imprevedibile che si è invece
arrestato nella materia inorganica e in quella vegetale e animale. Ma anche nei corpi
inorganici ed organici rimane un soffio di vita, di spirito, che attraverso processi
chimici e biologici, ossia attraverso la catena della nutrizione e dell'alimentazione,
raggiunge infine l'uomo, diventando base nutritiva della sua coscienza. Si ripristina
così il circolo, lo scambio, tra materia e spirito. Il rapporto tra slancio vitale
(evoluzione creativa) e materia è quindi analogo a quello che esiste tra memoria e
percezione.

La teoria della conoscenza: istinto, intelligenza, intuizione.

Nelle linee evolutive di natura biologica sussistono, diversamente da quelle


inorganiche, differenti facoltà conoscitive, pur correlate tra loro, che Bergson
distingue in istinto, intelligenza ed intuizione. Sono distinte ma correlate, connesse,
nel senso che non c'è istinto che non manifesti una qualche forma di intelligenza e
non esiste intelligenza che non abbia alla sua base un qualche elemento intuitivo.
L'istinto è attività inconsapevole; è lo strumento utilizzato dagli animali che
agiscono per la loro sopravvivenza senza averne consapevolezza. Funziona per
mezzo di organi naturali. È ripetitivo, ereditario e rigido; è abitudine.
L'intelligenza è attività consapevole e caratterizza l'uomo che produce gli strumenti
necessari per risolvere i problemi della vita. Mentre l'istinto si rivolge alle cose,
l'intelligenza non conosce le cose ma i rapporti tra di esse. L'intelligenza non è
ereditaria, non è ripetitiva ma creativa. Poiché è conoscenza dei rapporti tra le cose,
l'intelligenza conosce attraverso i concetti e, distaccandosi in tal modo dalla realtà
immediata, può prevedere quella futura. Su di essa si basa la scienza. Per ragioni
pratiche l'intelligenza, dunque, astrae, classifica e distingue tra le diverse cose, cioè
frantuma la durata del reale in una serie di stati, di spezzoni, come i singoli
fotogrammi di una pellicola cinematografica. Perciò è incapace di conoscere la vera
natura delle cose, di cogliere lo slancio vitale della realtà autentica che è movimento
non irrigidito in segmenti statici. Sta qui, secondo Bergson, la ragione dei paradossi
di Zenone sul movimento.
Pertanto né l'istinto né l'intelligenza ci danno la realtà: "ci sono cose che soltanto
l'intelligenza è capace di cercare, ma che da sé non troverà mai; soltanto l'istinto
potrebbe scoprirle, ma esso non le cercherà mai". Tuttavia la situazione non è
disperata, perché l'intelligenza, che non è mai separata completamente dall'istinto,
può tornare consapevolmente all'istinto. Quando ciò accade si ha allora
l'intuizione, che è consapevole ritorno dell'intelligenza all'istinto, la quale coglie
immediatamente il suo oggetto ed opera su di esso in modo consapevole.
L'intelligenza gira intorno all'oggetto; l'intuizione entra in esso, ci conduce
"all'interno della vita". L'intelligenza opera per analisi, per concetti rigidi, distinti e
163

separati; spezza il divenire e spazializza la realtà. L'intuizione procede attraverso


la simpatia; ci conduce all'interno dell'oggetto (all'interno delle cose del mondo e
degli uomini) per cogliere ciò che ha di unico e di inesprimibile. L'intuizione è
immediata come l'istinto e consapevole come l'intelligenza. Che l'intuizione sia un
processo reale è dimostrato per Bergson dall'intuizione estetica, dall'arte, dove le cose
appaiono prive di legami con i bisogni quotidiani e pratici. Essa ci svela la durata
della coscienza, il suo continuo fluire, e ci rende consapevoli dello slancio vitale e
di quella libertà che siamo noi stessi. L'intuizione è lo strumento della metafisica.
La scienza analizza; la metafisica intuisce e così ci fa entrare in contatto diretto con
le cose e con quell'essenza della vita che è la durata, l'incessante slancio vitale della
realtà. Dappertutto, fuorché nell'uomo, la linea evolutiva della coscienza ha finito con
l'arrestarsi in un vicolo cieco; soltanto nell'uomo ha proseguito il suo cammino;
l'uomo pertanto continua indefinitamente il movimento vitale. È sempre grazie
all'intuizione che comprendiamo che tutti gli esseri viventi sono congiunti insieme e
tutti obbediscono al medesimo formidabile impulso, alla medesima evoluzione
creatrice.

Morale e religione. Società chiusa e società aperta. La religione statica e


religione dinamica.

L'opposizione tra intelligenza e istinto, trovata in ambito gnoseologico (=nella teoria


della conoscenza) si ripropone anche nell'ambito della morale e della religione. Lo
slancio vitale, colto dall'intuizione, che si arresta nelle altre linee evolutive, nelle altre
specie inorganiche e viventi, perdura invece nella linea evolutiva che giunge
all'uomo, esprimendosi nell'umana attività creatrice: arte, filosofia, morale e
religione.
Secondo Bergson, le norme morali hanno due fonti, due origini: la pressione
sociale e lo slancio d'amore.
La morale che deriva dalla pressione sociale è quella della società chiusa, che di
fatto corrisponde al tipo di società che si è realizzata nella storia in cui l'ordine sociale
è modellato (impostato) su quello fisico. Le norme morali, frutto della pressione
sociale, esprimono le esigenze della vita associata, sono funzionali alla
salvaguardia della società contro gli egoismi dei singoli e dei gruppi. L'individuo
segue in genere la linea di condotta stabilita dalle norme sociali e morali. La morale
è di tipo conformistico; è una morale dell'obbligo fondata sull'abitudine. La vita
sociale è un sistema di abitudini che rispondono ai bisogni della comunità e che
danno luogo a comportamenti conformistici, statici e ripetitivi, senza slanci.
L'individuo agisce come parte del tutto, sia questo la famiglia, il gruppo o la nazione.
A questa morale e alla società chiusa corrisponde una religione statica, basata sui
riti e sulle credenze e rivolta a fornire consolazione e protezione agli uomini nei
confronti della paura della morte. È una religione che in realtà rafforza gli obblighi
morali e le convenzioni sociali. In questo senso è una religione naturale, frutto e
funzione dell'evoluzione naturale.
164

La morale che deriva dallo slancio d'amore è quella della società aperta, ancora
da costruire, fondata sullo slancio creativo. È questa la morale che in nuce, anche
se non pienamente liberata, si trova nel cristianesimo, nei saggi dell'antica Grecia, nei
profeti d'Israele. È una morale e una società che sa esprimere esigenze spirituali e di
libertà, anche attraverso trasformazioni radicali degli ordinamenti sociali. Spinge
l'umanità a progredire, pertanto è dinamica e promuove l'iniziativa individuale e
la novità. È una morale assoluta, creatrice di valori universali, di eroi morali
(quali Socrate e Gesù) che vanno oltre i valori del gruppo o della società di
appartenenza per guardare all'intera umanità. È una morale e una società dinamica
che fa appello all'originalità e alla profondità della persona. È una morale che non si
insegna; è la morale dei grandi mistici e profeti. Vi corrisponde una religione
dinamica, che rifiuta i dogmi della religione statica e si fonda sul rapporto
personale e diretto con Dio. I dogmi sono cristallizzazioni, principi rigidi, che
vanno superati col misticismo. Tuttavia non un misticismo contemplativo, come
quello neo-platonico od orientale, ma attivo e dinamico, come in San Paolo, San
Francesco, Giovanna d'Arco. In effetti, solo l'esperienza mistica è in grado di fornire
la vera prova dell'esistenza di Dio. La rinascita del misticismo potrebbe porsi come
rimedio contro i grandi mali sociali e morali di cui soffre l'umanità nonché contro il
predominio tirannico della tecnica, che esige un "supplemento d'anima", vale a dire,
appunto, una mistica.
165

IL PRAGMATISMO AMERICANO.

L'ispirazione all'azione, che nell'ambito dello spiritualismo si trova nella cosiddetta


"filosofia dell'azione", si ritrova altresì nel movimento filosofico denominato come
"pragmatismo americano". L'azione peraltro è qui concepita non già come capacità
creatrice di valori estetici, sociali, morali e religiosi, bensì in termini pratici,
pragmatici: è un fare piuttosto che un creare.
La cultura americana alle sue origini è fortemente influenzata dalle concezioni
filosofiche provenienti dall'Europa, soprattutto dall'Illuminismo che ha costituito il
presupposto ideologico della rivoluzione americana. Successivamente i temi filosofici
europei che si diffondono in America vengono interpretati alla luce della tradizione
religiosa puritana, determinando un orientamento progressista che riesce ad esprimere
i valori di fiducia nell'uomo e nel progresso nonché un ottimismo di fondo che esalta
le capacità e le libertà individuali e ciò anche in rapporto al grande sviluppo
economico ed industriale americano sorto nella seconda metà dell'Ottocento.
Verso la fine dell'Ottocento la filosofia americana incomincia ad assumere una
dimensione propria, nascono riviste specifiche e l'insegnamento della filosofia viene
introdotto a livello universitario. In questo contesto si sviluppa il "Pragmatismo",
movimento di pensiero che si diffonde poi anche in Europa e che rappresenta il
primo contributo specifico della cultura americana al dibattito filosofico.
Il termine pragmatismo è coniato da Peirce, che riprende la distinzione kantiana tra
pratico (ciò che riguarda la morale e la libertà) e pragmatico (ciò che indica un
rapporto tra mezzi e fini).
Plurime sono le fonti del pragmatismo, anche a motivo dello spirito americano per
sua natura sincretistico (multiforme):
1. l'empirismo inglese, in particolare quello di Hume che, ponendo in
discussione il concetto di causalità, respinge la pretesa di leggi scientifiche
dotate di certezza matematica per limitarsi invece alle credenze e ad una
concezione probabilistica; con Dewey il pragmatismo estende la dottrina
empiristica non solo alla sfera chiara e distinta della conoscenza ma anche agli
aspetti oscuri e confusi dell'esperienza; peraltro, mentre l'empirismo classico
mantiene la nozione di una verità oggettiva, per il pragmatismo invece la verità
non è unica e universale, ma è un processo che si sviluppa nel tempo ed è
sempre soggetta a verifica;
2. il positivismo, considerato tuttavia un'ideologia di retroguardia: mentre il
positivismo è retrospettivo, cioè considera l'accumulazione delle osservazioni e
dei dati sensibili raccolti nel passato come base per i programmi scientifici del
futuro, il pragmatismo è invece prospettivo, ossia fonda il valore della
conoscenza sulla sua capacità di previsione e quindi di regolare la condotta in
vista dell'azione prossima e futura;
3. l'evoluzionismo, inteso come adattamento dell'organismo all'ambiente, da cui
è dedotto (Dewey) il concetto di conoscenza come processo evolutivo di
adattamento al contesto ambientale;
166

4. la filosofia marxista della prassi, nella parte in cui assegna alla filosofia non
più il compito di interpretare il mondo ma di cambiarlo.
Caratteristiche generali del pragmatismo americano sono:
1. le idee, le conoscenze sono valide non tanto in sé, sotto il profilo teoretico
(conoscitivo) ma solo nella misura in cui producono "credenze", cioè regole di
azione rispetto alle evenienze future: carattere strumentale della conoscenza;
2. la validità della conoscenza sta nei risultati e nei successi pratici che ci
permette di conseguire;
3. non esistono dunque verità assolute, né filosofiche, né religiose, né
scientifiche; ogni tipo di conoscenza dipende dagli effetti positivi dell'azione
che essa ci suggerisce; le dottrine valgono quindi per la loro utilità e per la
loro influenza benefica sulla vita dell'uomo; in questo senso, se produce effetti
benefici, è riconosciuta validità anche alla fede in Dio.
È falsa peraltro l'interpretazione del pragmatismo come "filosofia del successo"
o "degli affari", perché il concetto di base di utilità è inteso in senso ampio, tale da
ricomprendere anche l'utilità sociale, morale, religiosa e scientifica.
Anche per il pragmatismo la conoscenza si basa sull'esperienza ma,
contrariamente all'empirismo classico, l'esperienza non è tanto la somma delle
conoscenze acquisite bensì anticipazione degli effetti delle azioni che le conoscenze
passate ci suggeriscono. L'esperienza, cioè la conoscenza, è capacità soprattutto di
previsione.
Principali esponenti del pragmatismo americano sono Peirce, James, e Dewey.
Pur nelle comuni caratteristiche di fondo, diverse sono le forme di pragmatismo
praticate: quello di Pierce è un pragmatismo logico e metodologico; quello di James
è un pragmatismo morale e religioso o metafisico, che ricomprende nell'esperienza
anche e particolarmente quegli elementi irrazionali che sono le fedi, i sentimenti, le
pulsioni (istinti); quello di Dewey è un pragmatismo biologico-organicistico ed
evoluzionistico. Il pragmatismo metodologico si fonda su un'impostazione
razionalistica, sperimentalistica, verificazionistica; quello metafisico sfocia in un
irrazionalismo a sfondo mistico-religioso e talora politico.

CHARLES PEIRCE (1839-1914).

La conoscenza e il concetto di "credenze".

Critica la metafisica perché è fonte di infinite discussioni ed incapace di conclusioni


certe ed utili. Contro Cartesio, Pierce afferma che la conoscenza non è intuizione (il
cogito); ma anche contro la filosofia del senso comune degli scozzesi sostiene che la
conoscenza non è assunzione acritica delle opinioni del senso comune; e contro
Kant dice che la conoscenza non è sintesi a-priori.
167

Il sapere, la conoscenza umana è per Pierce attività progettuale di ricerca aperta al


nuovo e sottoposta a controllo e verifica, orientata a indicare le regole di azione da
porre in atto sulla base delle conoscenze acquisite. La conoscenza è essenzialmente
ricerca e la ricerca inizia dalla lotta contro il dubbio per giungere ad una
credenza. La credenza è un'opinione convinta e una regola di azione da mettere in
atto per superare il dubbio e raggiungere uno stato di calma e di soddisfazione. Di
solito la credenza non ci fa agire immediatamente, ma ci pone in condizione di
comportarci in una certa maniera, secondo quanto le conoscenze acquisite ci
suggeriscono allorquando sorge l'occasione.
Per Pierce ci sono quattro metodi per passare dal dubbio alla credenza, cioè al
convincimento ad agire in un certo modo al presentarsi di una data circostanza:
1. il metodo della tenacia o dell'ostinazione, tipico di chi non mette mai in
discussione le proprie idee, nemmeno di fronte al sorgere di evidenze
chiaramente contrarie; è un atteggiamento di sicurezza nei propri
convincimenti solo apparente, che in realtà nasconde l'incertezza del nuovo;
2. il metodo dell'autorità, che è proprio dello Stato, della Chiesa o delle
istituzioni sociali, che impongono concezioni che non possono essere messe in
discussione e vengono sostenute con intimidazioni o con la minaccia della
pena;
3. il metodo dell'a-priori, che è proprio dei metafisici, che considerano verità
tutte quelle idee che sono in accordo con la ragione, salvo che quegli stessi
filosofi metafisici non danno tutti lo stesso significato alla ragione e discordano
tra loro;
4. il metodo della scienza, secondo Pierce l'unico valido perché è capace di
correggere non solo le conoscenze errate ma anche se stesso, aggiornando le
proprie impostazioni e conclusioni e rinunciando a pretese di infallibilità; è il
metodo che per Pierce bisogna adottare anche nella filosofia.

Tre sono i procedimenti del metodo scientifico:


1. la deduzione, che però presuppone quale punto di partenza il possesso di
premesse generali già accertate come vere;
2. l'induzione, che tuttavia classifica più che spiegare;
3. il procedimento di abduzione, così chiamato da Pierce, il quale si basa sulla
formulazione, di fronte ad un fatto problematico, di ipotesi di lavoro ai fini
della spiegazione, da sottoporre quindi a sperimentazione e verifica applicando
l'induzione e la deduzione all'ipotesi di lavoro formulata e alle risultanze
sperimentali.
La verifica delle ipotesi di lavoro può anche dare risultati negativi. Perciò
Pierce, contro ogni determinismo, parla di "fallibilità" (possibilità di errore) della
ragione e delle credenze scientifiche. Chi usa il metodo scientifico verifica le
conseguenze pratiche dell'ipotesi di lavoro ed è disposto a correggere e modificare la
credenza (il convincimento) stessa. Il dubbio non è allontanato ma costituisce
elemento importante di una concezione non dogmatica della scienza.
168

Il pragmatismo di Pierce non intende dunque ridurre la verità a mera utilità, ma si


presenta piuttosto come una logica della ricerca e come una regola metodologica che
vede la verità come processo in divenire, nel senso di considerare vere quelle idee i
cui effetti vengono confortati dal successo pratico; un successo peraltro mai
definitivo e assoluto.

La semiotica o teoria dei segni.

Accanto alle concezioni sulla conoscenza Pierce ha sviluppato una teoria dei segni.
In questo senso può essere considerato il fondatore della semiotica moderna, come è
appunto denominata la teoria generale dei segni. I segni sono i nomi attribuiti alle
cose, ma anche le immagini grafiche delle cose, le loro sensazioni tattili, olfattive,
ecc.
Pierce è convinto che non può esserci comunicazione e rapporto immediati tra il
mondo delle cose e la mente umana. Tra la mente umana e le cose si interpone il
segno, che attribuisce significato alle varie cose. La conoscenza è pertanto
interpretazioni di segni. Ogni pensiero è un segno; non è possibile pensare senza
segni e i segni si identificano soprattutto col linguaggio verbale o scritto ma anche
con il linguaggio mimico, visivo, eccetera. Il segno è qualcosa che sta al posto di
un'altra cosa e la rappresenta. La struttura (composizione) di ogni comunicazione è a
tre termini:
1. l'oggetto (la cosa);
2. il segno, che denomina e/o rappresenta l'oggetto;
3. il soggetto, che è l'interprete del segno.
Pierce concepisce la logica con lo stesso atteggiamento pragmatico manifestato nei
confronti della conoscenza. La logica è strumento di immediata utilizzazione pratica.
Si tratta di liberare il campo da tutti i concetti più oscuri e indefiniti e di fare della
logica un complesso di regole per il buon funzionamento del pensiero e quindi per
una efficace azione nella realtà.
Oltre alla dottrina dei segni, Pierce elabora anche una dottrina delle categorie sui
caratteri logici essenziali del fenomeno e dell'esperienza fenomenica. Rispetto alle
dodici categorie di Kant, egli ne individua tre di portata assai più ampia. Si tratta,
dice Pierce, di tre concetti "perpetuamente presenti in qualsiasi punto della teoria
della logica":
1. il concetto di essere o esistere indipendentemente da qualsiasi altra cosa; è la pura
presenza del fenomeno; è un sentire immediato;
2. il fatto bruto, cioè fare esperienza della presenza di un un universo di cose in cui
ogni esistente è in rapporto di reazione dinamica con le altre cose dell'universo; il
fatto lotta per venire all'esistenza combattendo contro le altre realtà;
3. l'aspetto intellegibile della realtà (ossia le condizioni per la sua comprensione), il
quale è il regno della legge che vince la moltitudine caotica della realtà; è
l'abitudine ad acquisire abitudini e credenze in un universo in continuo sviluppo.
169

La cosmologia.

Le conclusioni tratte dalla sua dottrina delle categorie inducono Pierce a giungere alla
cosmologia. Nell'universo egli vede la tendenza ad un graduale passaggio dal caos e
dal disordine verso stati ordinati e razionali e contesta ogni forma di meccanicismo e
di determinismo nell'evoluzione. Nel passato remoto dell'universo non c'era alcuna
legge ma solo indeterminatezza. Si può presagire nel lontano futuro uno stadio in cui
non sussisterà più alcuna indeterminatezza, non esisterà più il caos ma il regno della
legge e della spiegazione razionale.
Secondo Pierce tutte le cose tendono ad acquisire abitudini, cioè comportamenti
ordinati e più prevedibili, anche se in natura ci sarà sempre la discontinuità, cioè
l'irregolarità e l'imprevedibile. L'universo tuttavia avanza e si evolve. L'evoluzione
appare rivolta verso un fine grazie alla presenza di una forza, l'amore, per cui le cose,
interagendo le une sulle altre, progrediscono nell'ordine e nella razionalità (dottrina
dell'amore evolutivo). L'uomo fa parte di questo processo evolutivo e vi contribuisce
con la sua intelligenza.

WILLIAM JAMES (1842-1910).

Il pragmatismo è soltanto un metodo.

Se con Pierce abbiamo la versione logica del pragmatismo, con James abbiamo quella
metafisico-spiritualistica, morale e religiosa. Il pragmatismo, dice James, è una
versione più moderna e meno criticabile dell'empirismo. Il pragmatismo rifugge
dall'astrazione, dalle cattive ragioni a-priori, dai principi fissi e assoluti, dai sistemi
chiusi. Si rivolge invece alla concretezza, ai fatti e all'azione. Né il pragmatismo
prende posizione per qualche risultato particolare: esso è soltanto un metodo di
ricerca; non guarda alle cause prime e ai fini ultimi ma ai risultati e alle
conseguenze dei fatti.
La filosofia è per James un bisogno dell'esistenza umana. L'uomo, a differenza degli
altri esseri, si fa domande sul futuro dal quale è attirato ma al tempo stesso intimorito.
Alla filosofia è demandato il compito di rendere l'uomo consapevole delle proprie
potenzialità e quindi della possibilità di essere artefice del proprio destino.

Il valore strumentale della verità.

Per Pierce, come abbiamo visto, la verità o, meglio, le credenze, pur sempre
transitorie e verificabili, sono il risultato di un metodo di ricerca: il metodo della
scienza. Per James invece le idee e le credenze non sono l'elemento essenziale della
nostra esperienza, ma solo una parte poiché l'esperienza, la coscienza, è fatta anche
di componenti non logiche e razionali quali sono i sentimenti, le fedi, le emozioni.
170

Gli elementi logici dell'esperienza diventano veri nella misura in cui ci aiutano ad
ottenere una soddisfacente relazione con le altre parti non logiche e non razionali
della nostra esperienza, coordinandole per operare con sicurezza ed economizzare la
fatica. È questa per James la concezione strumentale della verità: la verità delle
nostre idee consiste nella loro capacità di operare, di fornire regole di azione, e nella
loro utilità ai fini del miglioramento delle condizioni di vita.
Alla critica secondo cui la soddisfazione immediata del soggetto non garantisce la
verità dell'idea, James risponde che un'idea è resa vera dagli eventi. La verità è per lui
un processo, il processo della sua verificazione. Le idee o teorie oggi ritenute vere
sono spiegazioni approssimative migliori delle idee precedenti, ma il possesso della
verità è ben lungi dall'essere un fine, è solo un mezzo per altre soddisfazioni
esistenziali, di vita. La verità dunque non è fine a se stessa: la verità, intesa come
credenza, convincimento, è un mezzo mediante cui l'individuo opera per adattarsi
all'ambiente non solo fisico-naturale ma anche sociale e relazionale. Questa
concezione, secondo cui la verità di un'idea sta nella sua capacità di adattarsi alla
realtà, è un'applicazione della teoria evoluzionistica alla psicologia.

I principi della psicologia. La coscienza.

James condivide la formula di Spencer secondo cui "l'essenza della vita mentale e
l'essenza della vita corporale sono identiche", condivide cioè la formula
"dell'adattamento delle relazioni interne alle esterne". Questa formula, dice James,
considera il fatto che le menti, ossia le coscienze, si trovano in ambienti che agiscono
su di esse e a cui reagiscono a loro volta. Concepire la coscienza nel contesto delle
sue relazioni è più fertile della vecchia psicologia razionale, che riteneva l'anima
entità separata e autosufficiente. La coscienza per James è una corrente che scorre
ininterrottamente in noi. Le idee non compaiono nella coscienza ad intervalli
intermittenti ma sono sempre presenti, almeno a livello potenziale.
Secondo James, le idee e sensazioni presenti alla coscienza non sono, come per la
psicologia cartesiana, rappresentazioni chiare e distinte. Sono sempre circondate da
un alone (uno sfondo) di indeterminato. I sensi non sono meramente passivi e
recettivi della realtà ma esercitano una funzione attiva sulla realtà stessa: accentuano
taluni aspetti e ne ignorano altri di una realtà brulicante, ossia, per intervento della
coscienza, non recepiscono la realtà così com'è ma operano un'azione selettiva
rispetto alle sensazioni complessive. Non esistono quindi sostanze (chiare e distinte)
in senso tradizionale. La realtà che ci circonda è un caotico e indeterminato magma di
qualità sensibili e la nostra coscienza individua e si sofferma su quelle che più
interessano dal punto di vista pratico ed estetico. La mente o coscienza è dunque
uno strumento dinamico e funzionale all'adattamento all'ambiente.
James non critica solo la vecchia nozione di anima, separata dall'ambiente e
autosufficiente, ma anche gli associazionisti, che riducono la vita psichica alla
combinazione di sensazioni elementari; critica altresì i materialisti per la pretesa di
171

identificare i fenomeni psichici con la fisiologia: la coscienza è ben di più che


fisiologia, è corrente continua di pensieri diversi che tutti assorbe in sé.
Il concepire la mente come uno strumento di adattamento all'ambiente conduce James
ad ampliare il proprio concetto circa l'ambito della psicologia, che non si limita ai soli
fenomeni percettivi ed intellettivi, ma deve estendersi anche ai condizionamenti
sociali o a fenomeni quali il subconscio, l'ipnotismo, la dissociazione, anticipando
nelle sue analisi la psicologia della gestalt, il comportamentismo e la psicanalisi.

La volontà di credere e la questione morale.

James riconosce che esistono idee e valori che non possono essere verificati
secondo criteri scientifici ma che hanno comunque grande importanza per
l'uomo e per la sua vita pratica: sono le idee e i valori dell'etica e della religione.
Le questioni morali non possono trovare la loro soluzione mediante una prova
sensibile. Quella morale non è infatti una questione concernente ciò che esiste ma ciò
che è bene. Per le questioni morali dobbiamo consultare le "ragioni del cuore", i
sentimenti. Ci sono decisioni che ogni uomo non può non prendere: riguardano il
senso ultimo della vita, il problema della libertà umana o meno, della dipendenza o
meno del mondo da una intelligenza ordinatrice e creatrice, del senso e dell'essenza
del mondo. L'unica scelta possibile in merito è quella pragmatica, quella che
individualmente e socialmente convince di più, perché sono questioni teoreticamente
(conoscitivamente) irrisolvibili.
I fatti fisici come tali non sono né buoni né cattivi. Il bene e il male non sono fatti
fisici ma esistono in quanto soddisfano o deludono le esigenze degli individui.
Queste esigenze generano un insieme di valori spesso in contrasto tra loro. Ma
allora come unificare e ordinare gerarchicamente tale varietà di valori? In
quest'ambito l'uomo ha il diritto di scegliere le concezioni che gli consentono di
dare risposte ai suoi problemi, anche se non ha le prove della loro verità.
L'uomo deve osare credere, correndo il rischio della fede e deve agire come se
credesse. Fra i tanti valori e ideali contrastanti, James risponde che saranno da
preferire quelli che comporteranno, se realizzati, la distruzione del minor numero di
altri ideali e la conservazione di un universo ricco di possibilità.
James esalta l'energia, la libertà e la potenzialità dell'individuo contro ogni forma
di autoritarismo e di assolutismo ideologico. Anche contro Spencer, che parlava di
un'evoluzione progressiva e di un ordine morale indifferente alle iniziative
dell'individuo, James mette in luce, invece, l'iniziativa e l'originalità dell'individuo,
che l'ambiente può accettare o respingere. Ma senza l'impulso innovatore e creativo
degli individui le comunità avvizziscono, così come gli impulsi individuali muoiono
senza la simpatia delle comunità.

L'uomo dunque deve osare credere. La volontà di credere rende vere le credenze che
non sono fondate sui fatti e tuttavia esercitano una influenza positiva nella vita
sociale. In tal senso James apprezza ed attribuisce utilità anche sociale al rispetto
172

degli altri, alla tolleranza, all'amicizia, all'amore e alle occasioni che consentono ai
talenti migliori di affermarsi.
Utile in quanto soddisfi le esigenze individuali e sociali è pure l'esperienza
religiosa. L'esperienza religiosa è caratterizzata da un'ampia varietà e James ne
propone una ricca fenomenologia (esemplificazione). È contrario ai positivisti che
legavano la religione a fenomeni degenerativi. Invece per James anche la religione
può concorrere alla ricchezza delle esperienze umane. La vita religiosa mette gli
uomini in contatto con un ordine invisibile e ne muta l'esistenza. Lo stato mistico è,
secondo James, il momento più intenso della vita religiosa e apre possibilità
sconosciute al controllo razionale. Ma l'atteggiamento mistico non può diventare
garanzia e base di una particolare teologia: resta, tra i tanti, una libera scelta di valore
dell'individuo secondo le sue inclinazioni.

L'universo pluralistico.

Dalla valutazione dell'esperienza mistica come accesso privilegiato a un Dio che


potenzia le nostre azioni, James passa ad una concezione pluralistica dell'universo,
non meccanicistica o monistica (monismo=teoria che concepisce l'esistenza di un
solo e unico principio a fondamento della realtà e del mondo). Il mondo è composto
da una totalità di individui indipendenti, che sono tra di loro in rapporto di azione e
reazione ma non subordinati ad un progetto universale assoluto, unico e necessario. Il
Dio di James è concepibile solo all'interno di un universo pluralistico e non
monistico. Infatti, in un universo monistico è presente "la vecchia concezione
monarchica della divinità, come una specie di Luigi XIV dei cieli". In un universo
monistico (che consideri Dio unico ed esclusivo principio) Dio, detenendo il potere
assoluto, fornisce certamente un senso di sicurezza alle anime tristi e incerte, che
sentono il peso di dover essere esse stesse artefici del loro destino e si smarriscono a
causa dell'angoscia causata da tale scelta; tuttavia la concezione teologica monistica
non elimina, anzi acuisce lo scandalo rappresentato dal male: se Dio è potenza
assoluta e non può volere il male, come si può allora giustificare l'esistenza del male
nel mondo?
L'universo pluralistico, invece, non è una massa compatta in cui tutto è
predeterminato, nel bene come nel male, e nel quale dunque è assente la libertà.
Anziché ad una monarchia assoluta, l'universo pluralistico è paragonabile ad una
repubblica federale, nella quale gli individui, pur solidali tra loro, mantengono
tuttavia la loro autonomia. Nell'universo pluralistico Dio stesso è un'entità finita,
non onnipotente, e dunque spetterebbe all'uomo e al suo impegno pratico, alla
sua responsabilità e libertà di fare, eliminare i mali che offuscano l'armonia del tutto.
In effetti James tenta di liberare l'esperienza religiosa dall'angoscia del peccato,
radicata nella tradizione puritana della Nuova Inghilterra (gli Stati Uniti prima della
loro indipendenza e costituzione). Perciò Dio è concepito come essere finito: non è
l'assoluto, non è la totalità dell'universo ma ne è una parte, quella ideale. Dio è
persona sovrumana ma non è entità infinita bensì è tendenza ideale che chiama gli
173

uomini a cooperare per il bene e contro il male, il quale pure è parte


dell'universo ma distinto da Dio e da lui non derivante. Dio non è il tutto ma è un
Dio-compagno. Dio non ha cioè un fondamento ontologico (reale) trascendente,
ma è una credenza utile per incrementare l'azione, in quanto accettando l'ipotesi
di Dio le cose diventano solide e piene di significati, mentre respingendola "un
terribile freddo di morte scenderebbe nel mondo".

JOHN DEWEY (1859-1952).

È stato docente universitario. Ha viaggiato molto in Europa, in Cina, in Giappone, in


Turchia, nel Messico, in Russia.
Opere principali: Esperienza e natura; La ricerca della certezza; Logica, teoria
dell'indagine; Teoria della valutazione.
La filosofia di Dewey è stata definita come "naturalismo": si muove infatti
nell'ambito di un pragmatismo naturalistico-organicistico ed evoluzionistico e si
colloca all'interno della tradizione empirista. Il suo pensiero è inizialmente
influenzato dalla filosofia di Hegel, da cui deriva la concezione della realtà come di
un unico organismo, ossia come unione uomo-natura. Questo organicismo-
naturalismo di impronta idealista favorisce l'accostamento di Dewey
all'evoluzionismo di Spencer, inteso come processo progressivo che va dal semplice
al complesso e che coinvolge la realtà fisica ma anche quella psichica e spirituale. In
tal modo le concezioni evoluzionistiche di Dewey assumono altresì connotazioni
spiritualistiche. Ha intrapreso lo studio di Hegel in un certo senso
"americanizzandolo", ossia fondendo il pragmatismo col razionalismo hegeliano: la
dialettica di Hegel è presentata come processo di passaggio degli egoismi umani
verso il bene comune.
Dopo aver letto le opere di James, si rivolge più decisamente verso un pragmatismo
umanistico di stampo democratico-progressista. Contro il vecchio liberalismo
individualistico sostiene un liberalismo che non esclude interventi regolatori dello
Stato in campo economico, pur riconoscendo la libera iniziativa dell'individuo.
Auspica la trasformazione della società industriale individualistica ed egoista in una
"socialismo di pubblico interesse", basato tuttavia non sulla rivoluzione e sulla lotta
di classe ma sull'integrazione tra le classi sociali nonché su di un sistema di
pianificazione economica.

Il concetto di esperienza e la realtà come evoluzione.

Pur essendo di impostazione pragmatistica, Dewey sceglie di chiamare


"strumentalismo" la sua filosofia, che in particolare si differenzia dall'empirismo
classico sul fondamentale concetto di esperienza. L'esperienza per di Dewey è
174

qualcosa di assai più vasto della conoscenza dato che l'ignoranza è uno dei
principali aspetti dell'esperienza stessa. Certo, la conoscenza fa parte
dell'esperienza ma in quest’ultima confluiscono tutti gli aspetti dell'esistenza,
anche quelli oscuri e confusi, e comprende abitudini, desideri, errori, follia,
credenze, incertezze. Include altresì i sistemi filosofici, siano essi trascendentali o
empirici, nonché la scienza ma pure la magia e la superstizione. L'esperienza per
Dewey non è la coscienza individuale bensì la coscienza collettiva, nel senso che è
l'insieme delle memorie, delle valutazioni e dei giudizi che si sono accumulati nel
corso dell'evoluzione storica della specie umana e quindi è al di sopra del singolo
individuo. Essa comprende l'intero mondo dell'uomo e non è semplice recezione
passiva dell'oggetto, come per gli empiristi, ma azione scambievole o "interazione"
tra uomo e natura, tra spirito e materia, tra soggetto e oggetto, che si influenzano
reciprocamente.
In polemica con le concezioni deterministiche, Dewey sottolinea il carattere attivo
dell'esperienza in quanto l'uomo, pur inserito nella natura, è tuttavia teso a
modificarla. Critica altresì il razionalismo perché ha dell'esperienza una concezione
unilaterale: è vero che anch'esso concepisce l'esperienza come una forma di
conoscenza attiva, ma soltanto di quegli aspetti della realtà che sono razionali, che
possono essere inquadrati entro schemi logici, mentre tutto il resto è ignorato e
attribuito alla finitezza e inadeguatezza della natura umana. Ma soprattutto di questo
"resto", afferma Dewey, è fatta per lo più l'esperienza.
Più vasta della conoscenza e al di sopra della coscienza individuale, l'esperienza
è dunque storia, è storia dell'uomo, la quale altro non è che lo sforzo che egli compie
per modificare la situazione in cui si trova. La storia dell'uomo si svolge nella
natura, dentro l'ambiente che lo circonda, con il quale si stabilisce un processo di
interazione e interscambio in termini sia di azione reciproca che di adattamento.
La realtà è concepita come evoluzione lungo la quale, attraverso un processo
unitario, dal mondo fisico emerge quello spirituale, la coscienza.
Tre sono i principali livelli attraverso cui il mondo spirituale emerge da quello
fisico, livelli che non sono tra loro irriducibili (distinti e separati) ma coesistenti:
1. il livello della vita fisico-chimica, che ha le caratteristiche di un sistema
meccanico; tale sistema, pur interagendo con la natura, ancora non la modifica
in profondità ma tende ad adattarsi ad essa;
2. il livello della vita psico-fisica, che è quello degli organismi viventi; in esso
l'esperienza, pur non essendo ancora cosciente di se, è caratterizzata
dall'attitudine a ristabilire rapporti di equilibrio con l'ambiente qualora essi
vengano interrotti;
3. il livello della vita spirituale, che è quello più alto dell'evoluzione;
l'esperienza diventa consapevole di se stessa e del rapporto che la lega alla
natura; a questo livello l'esperienza coglie ed esprime in termini spirituali il
rapporto uomo-natura come libertà creativa.

Questo fluire continuo che è la realtà come evoluzione, così come non ha
carattere deterministico né razionalistico, non ha neppure carattere
175

meccanicistico o finalistico. Il meccanicismo infatti ritiene che il passaggio dalla


fase o dal livello precedente a quello seguente sia determinato da una causa
meccanica. Il finalismo, per parte sua, sostiene che tutto il processo si muove in vista
di un fine superiore. Però, afferma Dewey, la fase precedente è solo condizione di
quella seguente e, in quanto condizione, non è né un fine né una causa, bensì è solo
un momento cronologicamente necessario allo sviluppo evolutivo, tanto più che fase
precedente e seguente possono coesistere e spesso coesistono (il mondo inorganico,
quello organico e quello spirituale sussistono infatti contemporaneamente).

Precarietà e rischiosità dell'esistenza e fallacia della filosofia.

Come si è visto, per Dewey l'esperienza è storia, una storia che, mediante
l'interazione uomo-ambiente, è rivolta al futuro a causa del carattere attivo
dell'esperienza stessa, tesa a modificare la natura e le situazioni dell'esistenza.
La non identificazione di conoscenza e di esperienza (che è più vasta) permette a
Dewey di avanzare un tentativo di soluzione del problema gnoseologico. Vi sono,
egli afferma, due aspetti, due modi di fare esperienza delle cose: 1) coglierle come
oggetto di generica esperienza; 2) conoscerle e assorbirle nell'esperienza in modo più
significativo e sicuro. In questo secondo aspetto sta il problema della conoscenza, il
problema gnoseologico, e in tale ambito può anche manifestarsi lo scetticismo
rispetto alle conclusioni formulate. Però lo scetticismo è impossibile rispetto al primo
modo di fare esperienza delle cose, ossia rispetto alle cose che sono oggetto solo di
esperienza generica e non di conoscenza poiché esse, appunto, non sono materia di
conoscenza ma soltanto di esistenza: posso dubitare dei concetti ma non di ciò che
empiricamente ho colto o sono.
L'esistenza peraltro, in tutte le sue forme, dalle più elementari alle più sviluppate,
presenta comuni tratti caratteristici che sono la precarietà, il rischio,
l'incertezza. A queste inquietudini l'uomo ha sempre cercato di porre rimedio:
inizialmente, riponendo fiducia nelle forze magiche o soprannaturali e nella
superstizione; successivamente, rifugiandosi nella religione e nella filosofia
metafisica, che lo spingono a credere nell'immutabilità dell'essere (cioè del
fondamento della realtà) nonché nell'uniformità della natura, nel progresso universale
e nella razionalità del reale. Ma sia le filosofie dell'essere (ad esempio Parmenide e
Spinoza) sia le filosofie del divenire (ad esempio Eraclito, Hegel, Bergson) sono per
Dewey concezioni e filosofie illusorie e fallaci, perché tendono a divinizzare la
staticità o il mutamento per farne un principio assoluto di garanzia e ordine
nell'esistenza umana. Sono per Dewey filosofie della paura, ipersemplificatorie e
deresponsabilizzanti. Trasformano un elemento della realtà, ossia la razionalità, nella
totalità della realtà, relegando in tal modo come apparenza erronea tutto ciò che non
risulta compatibile con lo schema razionale di immutabilità, di ordine, di armonia.
Occorre dunque avere il coraggio di denunciare la fallacia di queste filosofie
metafisiche, consolatorie ed illusorie, che trattano come semplice apparenza
l'irrazionalità, il disordine, l'errore, il male, che invece apparenza non sono ma sono
176

realtà che bisogna sperare di dominare e controllare, pur nella consapevolezza della
precarietà della vita, contando sull'impegno umano e non su infondati principi e
garanzie trascendenti.
Il compito dell'uomo e dell'autentica filosofia è quello di adoperarsi per far
prevalere la razionalità sull'irrazionalità, la stabilità sull'instabilità e l'ordine sul
disordine, seppur nei limiti dell'intelligenza umana, poiché non vi è alcuna
garanzia e principio superiore. Attraverso la scienza ci siamo assicurati un certo
grado di controllo, ma il carattere fondamentalmente rischioso del mondo non è
seriamente modificato.

Lo strumentalismo e la teoria dell'indagine.

La concezione che Dewey ha dell'esperienza, della natura e dell'esistenza non è


dunque idilliaca, sebbene su di lui si sia fatto sentire l'influsso dell'evoluzionismo
che è tendenzialmente più ottimista. In ogni caso Dewey è realista: non rinuncia
alla lotta per combattere un mondo e un'esistenza così difficili, consapevole tuttavia
che esige comportamenti intelligenti e responsabili nonché strumenti scientifici,
di indagine e ricerca, adeguati. In ciò consiste, per l'appunto, lo "strumentalismo"
di Dewey e la sua derivante "teoria dell'indagine".
Come in Peirce, il valore della conoscenza per Dewey consiste nel risolvere i
problemi. Come esposto, la conoscenza non esaurisce l'esperienza ma ne è solo un
aspetto particolare. Inoltre il conoscere non è un pensiero puro, svincolato dalla sua
matrice biologica, non è solo attività mentale e spirituale ma è anche attività
biologica e fisiologica perché è condizionato dai sensi. Anzi, la conoscenza e il
pensiero derivano proprio dalla struttura biologica dell'uomo e si configurano,
nell'interazione uomo-natura, come ricerca e ricostituzione di un equilibrio che sia
stato infranto. Il pensiero puro non esiste, quindi l'attività logica non è mai fine a se
stessa ma nasce da un'esigenza biologica, comune a tutti gli organismi viventi, di
restaurare l'equilibrio (l'adattamento) con l'ambiente. La logica si configura in
effetti come piano operativo in vista dell'azione. Il pensiero e la logica non sono
meramente contemplativi ma indirizzati a scopi operativi (strumentalismo).
Certo, la contemplazione è essa stessa un'esperienza ma costituisce solo la parte
finale, nella quale l'uomo gode dello spettacolo delle sue azioni e dei suoi processi.
Il metodo sperimentale come da ultimo scientificamente organizzato, commenta
Dewey, è nuovo come risorsa, tuttavia come espediente pratico esso è vecchio come
la vita stessa. Per tale ragione Dewey insiste sulla continuità tra conoscenza
comune (che non è quindi banale) e conoscenza scientifica. La scienza specialistica
odierna altro non è che un'elaborazione sofisticata di operazioni quotidiane. Ciò che
importa è proprio che la scienza non diventi astratta ma resti legata alla pratica,
perché è sempre la pratica a decidere del valore di un'idea o di una teoria. Come
già sottolineato, le idee (comprese quelle scientifiche) sono strumenti per risolvere
problemi e fronteggiare un mondo minaccioso ed un'esistenza precaria. In quanto
strumenti, ha ben poco senso discutere della verità o falsità delle idee, quanto
177

piuttosto della loro efficacia o inefficacia. Qui sta il significato più genuino dello
strumentalismo di Dewey: la verità non è più l'adeguarsi del pensiero all'essere (alla
realtà) come nella vecchia metafisica, o l'adeguarsi dell'essere al pensiero, come in
Kant, ma consiste nell'efficacia delle idee come strumenti e regole di azione. La
verità non è di natura metafisico-ontologica, cioè non individua essenze immutabili
presenti nella realtà, ma è di natura operativo-pratica.
La verità secondo la maggior parte dei sistemi filosofici tradizionali è statica e
definitiva, assoluta ed eterna; per Dewey è invece un processo evolutivo consistente
in indagini metodologicamente impostate con rigore e controllabili scientificamente.
Ogni indagine consiste, in sostanza, in una forma di adattamento all'ambiente e di
ricostituzione dell'equilibrio uomo-natura e uomo-altri uomini (che pure sono natura).
Poiché, secondo Dewey, nella conoscenza non si può mai separare l'aspetto
teorico da quello pratico, egli fa consistere la conoscenza nell'indagine, che in
termini operativi (ossia di regole di azione) definisce come "trasformazione
controllata di una situazione indeterminata (caratterizzata cioè da esperienze
oscure o contrastanti) in una situazione determinata (cioè chiara e coerente) nelle
sue distinzioni e nelle relazioni tra le sue parti costitutive".
Metodologicamente, Dewey propone quindi una teoria dell'indagine articolata in
cinque fasi:
1. il problema: ogni indagine parte da un problema, cioè dal turbamento di un
equilibrio o da un disagio;
2. il ragionamento, in cui rispetto al problema sorto si sviluppa un'ipotesi guida,
un'ipotesi di lavoro per la ricerca;
3. l'osservazione e l'esperimento, in cui si sottopongono a verifica le ipotesi
teoriche precedentemente formulate;
4. la rielaborazione intellettuale, in cui si analizzano con criteri di sistematicità
tutte le ipotesi sottoposte a verifica per appurare se esse risolvono i fatti
problematici indagati; a tale proposito Dewey, diversamente dal vecchio
empirismo, fa presente che i fatti non esistono in se stessi ma solo in relazione
ad un'idea o programma operativo;
5. il giudizio finale, il quale conclude la ricerca con garanzia di scientificità,
anche se tale garanzia non è da considerare né assoluta né eterna.

La teoria dei valori.

Il concepire la conoscenza soprattutto in vista dell'attività pratica e della


risoluzione di problemi, induce Dewey a considerare il tema del sorgere dei
valori e dell'attribuzione di valore a talune idee e comportamenti piuttosto che
ad altri. Il suo interesse non è volto a stabilire la natura dei valori in sé, quanto
invece a chiarire i motivi per cui i valori esercitano tanta attrattiva per gli uomini.
Per Dewey vi è analogia tra i giudizi logici e i giudizi di valore: entrambi sono
strumenti per risolvere problemi in via pratica; di tipo conoscitivo i primi, di tipo
morale-esistenziale i secondi. I giudizi logici nascono da una situazione di crisi
178

gnoseologica e mirano a ristabilire un equilibrio conoscitivo e di riconoscimento con


l'ambiente. I giudizi di valore nascono da una situazione di insoddisfazione
esistenziale e perciò sono proiettati verso il futuro in cui si confida di realizzare uno
stato di benessere. Da ciò l'attrattiva che i valori esercitano. L'uomo, deluso dal
presente, colloca nel futuro la sua aspirazione alla felicità e chiama valore tutto ciò
che gli permette di realizzarla.
Ma Dewey è un relativista: non ritiene possibile fondare valori assoluti o una
gerarchia fissa di valori; i valori, così come i fini dai valori perseguiti, sono storici
(mutano col variare delle epoche storiche e delle mentalità) e non sono stabilmente
predeterminabili una volta per tutte.
Inoltre, dato il carattere pratico dell'esperienza e del conoscere, consistente
nell'efficacia dei mezzi prescelti rispetto ai risultati mirati, Dewey sostiene
l’indistinguibilità dei mezzi dai fini: ogni fine è anche un mezzo e ogni mezzo che
raggiunga il fine viene goduto come fine esso stesso. Tra mezzi e fini vi è continua
relazione, un reciproco scambio. Le cose che appaiono fini sono unicamente
anticipazioni o previsioni di ciò che può essere realizzato in determinate condizioni.
La valutazione dei valori può avvenire solo nell'ambito della relazione tra mezzi e
fini. Ciò vale non solo per l'etica, ma anche per l'arte e la religione.
Tutt'al più Dewey distingue tra valori di fatto (cioè le cose capaci di soddisfare
immediatamente una nostra esigenza) e valori di diritto (cioè idee guida, regole di
azione per migliorare la qualità della vita e la convivenza sociale). Ma
sostanzialmente tutti i valori sono mezzi per raggiungere il benessere: quindi
sono tutti sullo stesso piano. Anche l'arte, la religione, la filosofia sono valori che
hanno carattere strumentale.
Lo scopo dell'arte è prevalentemente educativo e serve ad aprire la mente a nuovi
modi di percepire la realtà, a nuovi oggetti di osservazione. Il sentimento estetico si
produce ogni volta che l'organismo avverte di aver superato un ostacolo e di averne
tratto godimento. Non c'è quindi una definizione aprioristica (sempre valida in via
preliminare) del fenomeno artistico, che può realizzarsi anche attraverso le forme del
gioco. Dewey critica di conseguenza la concezione neo-idealistica, specie quella di
Croce, secondo cui l'arte è solo forma espressiva di una intuizione.
Pur negando l'esistenza di un Dio persona e trascendente, e quindi ogni tipo di
dogma e di verità rivelate, Dewey ritiene comunque che la religione possegga un
duplice valore: riguardo al passato essa assicura la tradizione, la conservazione e
quindi il ricordo delle pratiche e delle sofferenze delle comunità umane, che hanno
cercato rassicurazione e conforto nell'esperienza religiosa, divenendo essa stessa,
perciò, elemento di ordine e di stabilità sociale; riguardo al futuro la religione
propone valori quali la giustizia, la pace, la fratellanza che, pur se privi della
prospettiva ultraterrena, sono comunque validi come obiettivi anche in una
dimensione puramente umana.
A sua volta la filosofia ha nei confronti dei valori, e come valore essa stessa, un
duplice ruolo: 1) poietico, cioè creativo di nuovi valori in armonia con il livello
raggiunto dall'interazione uomo-ambiente; 2) critico, in quanto è compito della
filosofia operare una scelta tra i valori al fine di respingere quelli che risultino
179

inefficaci rispetto alla crescita civile della società. Dewey si contrappone pertanto ai
filosofi utopisti che non si preoccupano di dedicare un'indagine accurata circa i mezzi
necessari e possibili per la realizzazione della loro visione ideale. Anzi è dubitabile lo
stesso valore dell'utopia perché essa normalmente genera o lo scetticismo o il
fanatismo. In tal senso Dewey motiva la sua critica nei confronti della società
totalitaria e dello Stato etico in quanto, nella supposizione di servire un fine
superiore, troncano la discussione. Il suo favore va invece alla società democratica, in
quanto la democrazia è discussione del tutto libera, fatta di partecipazione e
collaborazione.
La filosofia di Dewey, così ancorata all'esperienza biologica dell'essere umano, fu
considerata nella prima metà del Novecento una valida alternativa sia allo
spiritualismo francese sia al neoidealismo italiano. Tuttavia il ridurre l'essere umano
al rapporto con l'ambiente rischia in ultima analisi di privare la vita spirituale della
sua autonomia. Cultura e civiltà si riducono in tal modo a semplici manifestazioni
della natura nel suo divenire.

La pedagogia.

Dewey applica le sue idee filosofiche anche alla pedagogia. Anzi, in campo
pedagogico ha dato una duratura impronta al sistema scolastico. Sostiene la
validità di un'educazione democratica non semplicemente informativa ma formativa,
in grado cioè di sviluppare e potenziare le capacità dell'alunno. Anche il suo
programma pedagogico ha un orientamento strumentalista, volto allo scopo di
adattare l'alunno alla società e quindi renderlo, per così dire, competitivo per quanto
riguarda il lavoro, l'iniziativa pratica, l’impegno per il successo.
Principi fondamentali della sua pedagogia sono:
1. il rispetto per la personalità dell'allievo, che non deve essere forzata;
2. il ruolo attivo e dinamico dell'apprendimento, da fondare sia sulla centralità
dell'allievo, che non deve essere soverchiato dall'insegnante, sia su di un sapere
da acquisire soprattutto affrontando problemi reali e pratici;
3. lo sviluppo della socialità dell'alunno grazie anche all'introduzione del lavoro
manuale.
Lo strumentalismo pedagogico di Dewey ha contribuito ad imprimere alle nuove
generazioni americane quel senso di concretezza e di volitività che le ha
contraddistinte. D'altra parte, la pedagogia di Dewey ha standardizzato il modo di
pensare americano, creando una cultura di massa dominata dagli "slogan".
180

LO STORICISMO TEDESCO.

L'Ottocento è stato il secolo dei grandi storici tedeschi della politica, dell'arte, della
filologia, della filosofia. In tale interesse per la storia si riscontra certamente l'influsso
del Romanticismo (il culto della tradizione, della coscienza collettiva dei popoli) e
della filosofia della storia di Hegel, concepita come manifestazione dello Spirito
assoluto nel mondo.
Lo Storicismo è un movimento culturale-filosofico sorto in Germania negli ultimi
due decenni dell'Ottocento e sviluppatosi sino alle soglie della seconda guerra
mondiale. È volto ad analizzare la natura, la validità e i limiti del sapere storico,
anche alla luce, in genere, di una teoria dei valori impostata come rapporto tra fini
ideali dell'umanità ed effettive realizzazioni storiche. Si propone di definire,
ovviamente secondo i diversi punti di vista degli studiosi, le caratteristiche di
scientificità della storia in quanto disciplina: quali sono le peculiarità dell'oggetto
di indagine? quali gli strumenti di indagine propri ? in che rapporto stanno metodi e
contenuti con i valori e gli interessi propri dello studioso?
Comune è la tendenza a rifiutare una filosofia della storia in senso hegeliano: per
gli storicisti la storia non è la realizzazione di un principio spirituale infinito (lo
Spirito assoluto di Hegel) ma è opera degli uomini ed è condizionata dal contesto
ambientale e temporale. La filosofia della storia diviene così scienza della storia. È
altresì rifiutata la pretesa del positivismo di ridurre le scienze storiche al
modello delle scienze naturali.
In analogia al neocriticismo riguardo alla conoscenza in generale, gli storicisti
assegnano alla filosofia il compito critico di determinare i fondamenti, vale a dire le
condizioni di possibilità e di validità, del conoscere storico. Si propongono cioè di
estendere il metodo dell'analisi critica kantiana sulle possibilità e validità della
conoscenza scientifica a tutto il complesso delle scienze storico-sociali che Kant non
aveva considerato. Tuttavia, soggetto e condizione della conoscenza storica non sono
per gli storicisti le forme a-priori trascendentali, indipendenti dall'esperienza, bensì
gli uomini concreti, condizionati dal contesto storico in cui si trovano a vivere nonché
dall'individuale sistema di valori.
Fondamentale è giudicata la distinzione tra storia e natura, tra scienze storico-
sociali e scienze fisico-naturali. L'oggetto della storia è solitamente individuato nel
carattere di individualità, specificità ed irripetibilità degli eventi storici e dei prodotti
dell'umana cultura in genere ( miti, costumi, leggi, valori, opere d'arte, filosofie, ecc.).
L'oggetto delle scienze fisico-naturali è individuato invece nel carattere di
uniformità e ripetibilità dei fenomeni indagati. Lo strumento di conoscenza dei
fenomeni fisico-naturali è la spiegazione causale, mentre quello della conoscenza
storica è la comprensione. Le azioni umane tendono a predeterminati fini; è quindi
importante capire a quali motivazioni e valori si siano ispirate le diverse vicende
storiche (capire e non giudicare, essendo i giudizi di valore demandati invece alla
morale e alla politica).
Tra gli iniziatori dello storicismo si annovera Dilthey, che sostiene posizioni di
relativismo storico tra le varie civiltà (ogni civiltà è caratterizzata da uno sviluppo
181

storico suo proprio distinto da quello di ogni altra civiltà), per cui le differenti civiltà
sono fra di esse irriducibili e non comparabili. Ulteriore esponente, che tratta lo
storicismo secondo gradi di maggior organicità e sistematicità (ciò non significa in
termini di maggior profondità) nonché di completezza metodologica, è ritenuto Max
Weber. Fra i due si situa una serie di pensatori che, o introducono peculiari novità
metodologiche, come Windelband e Rickert, oppure portano alle estreme
conseguenze il relativismo di Dilthey, come Simmel e Spengler, ovvero reagiscono a
tale relativismo proponendo valori assoluti, come Troeltsch e Meinecke.

WILHELM DILTHEY (1833-1911).

Così come Kant si era posto l'obiettivo di una critica della ragione per individuare le
condizioni e i fondamenti di validità della conoscenza in generale e della conoscenza
scientifica in particolare, Dilthey si propone l'obiettivo di una "critica della ragione
storica" per accertare la validità delle scienze storico-sociali o, come da lui
definite, delle "scienze dello spirito". Contrario sia alla filosofia della storia di
Hegel sia al positivismo, è d'accordo con i neocriticisti sul "ritorno a Kant",
sostenendo tuttavia che il primato delle scienze naturali proposto da Kant e dal neo
kantismo è sbagliato, poiché le scienze dello spirito sono in accordo con la struttura
della ragione umana molto più del metodo matematico-sperimentale. Altresì, i modi
del conoscere storico non devono essere confusi con le forme a-priori kantiane
dell'intelletto, essendo invece incarnati nello spirito e nella mentalità delle varie
epoche storiche nonché condizionati dai diversi contesti ambientali e temporali.
Innanzitutto Dilthey si preoccupa di definire i criteri di distinzione tra scienze della
natura e scienze dello spirito, individuandone l'elemento di differenziazione
soprattutto nel rispettivo oggetto, il che comporta una differenza gnoseologica (cioè
nei modi del processo conoscitivo): i dati delle scienze naturali sono colti
dall'osservazione esterna, mentre quelli delle scienze dello spirito sono colti
dall'esperienza interna ossia, in tedesco, dall'“Erlebnis” (l’esperienza vissuta);
comprendiamo i fatti sociali dall'interno, intendendoli e rivivendoli, cercando di
immedesimarci nel contesto storico in cui si sono sviluppati. Inoltre, mentre oggetto
e scopo delle scienze naturali è di pervenire a una spiegazione dei fenomeni fondata
sulla causalità, sull'osservazione, sulla generalizzazione, ovvero sulla ricerca di
uniformità (modi uniformi di sviluppo di ogni singolo fenomeno) traducibili in leggi
e teorie scientifiche; le scienze dello spirito hanno invece come oggetto e scopo la
comprensione dei fenomeni storici che sono all'interno di uno sviluppo storico e che
perciò sono unici, irripetibili e collegabili a concetti e valori, quali il significato, lo
scopo, le finalità, i quali sono anch'essi frutto di uno sviluppo umano e storico e
quindi sono mutevoli e non già uniformi e costanti. Nell'ambito delle scienze dello
spirito (le scienze storico-sociali e umane) non c'è una distinzione netta tra
oggetto e soggetto come nelle scienze naturali, perché il soggetto, lo studioso, fa
182

parte egli stesso del mondo storico-sociale descritto. In aggiunta, non si può operare
con il concetto di causa in senso fisico-meccanico, bensì con quelli di motivo, scopo
e valore dei fatti storico-sociali considerati.
Dilthey distingue, nella storia del pensiero, tre forme tipiche di visione del mondo
(modi di concepire il mondo e l'umanità):
1. il naturalismo materialistico, che si fonda sul concetto di causa (Democrito,
Lucrezio, Epicuro, Hobbes, gli enciclopedisti dell'Illuminismo, Comte);
2. l'idealismo oggettivo, per il quale l'intera realtà deriva da un principio
immanente, interno alla realtà stessa (Eraclito, gli stoici, Spinoza, Leibniz,
Schelling, Hegel);
3. l'idealismo della libertà, che interpreta il mondo in termini di volontà e finalità
umana e che distingue lo spirito dalla natura (Platone, la filosofia ellenistico-
romana, Cicerone, la filosofia cristiana, Kant, Fichte).
Tuttavia, secondo Dilthey, la pretesa della metafisica di offrire una spiegazione
assoluta, unica e globale della realtà è illegittima. Egli sostiene invece una
concezione di "relativismo storico". Anche le metafisiche sono prodotti storici.
Non vi sono filosofie e valori che valgono in tutte le nazioni e in tutti i tempi, ma
ogni avvenimento storico, in quanto finito, ambientalmente e temporalmente
delimitato, è relativo e differente da qualsiasi altro. Tuttavia, aggiunge Dilthey, "la
coscienza storica della finitudine" di ogni fenomeno storico è l'ultimo passo verso la
liberazione dell'uomo dai vincoli di sistemi filosofici o religiosi totalizzanti e
integralisti. Di fronte alla relatività vale la continua forza creatrice del divenire della
storia. Il senso e il significato dei fatti storici sorgono soltanto nell'uomo, non
nell'uomo singolo bensì nell'uomo storico (nello svolgersi della storia umana). Nella
comprensione di ciò sta la funzione fondamentale della filosofia.

Wilhelm Windelband (1848-1915) e Heinrich Rickert (1863-1936).

Di Windelband e di Rickert si è già parlato a proposito del Neocriticismo. Ma essi,


come neocriticisti e secondo l'intento di estendere l'analisi critica, di derivazione
kantiana, sul fondamento di validità della conoscenza e della scienza anche agli altri
ambiti dei prodotti umani, affrontano altresì il problema della conoscenza storica.
Windelband respinge la distinzione di Dilthey tra scienze della natura e scienze
dello spirito perché fondata su una supposta diversità di oggetto e contenuti,
mentre per lui la diversità è invece di metodo e non di contenuto.
Windelband distingue piuttosto le discipline scientifiche (tutte, sia quelle fisiche e
naturali sia quelle storiche e umane) tra scienze nomotetiche e scienze
ideografiche. Le prime sono quelle che cercano di determinare le leggi generali di
spiegazione di una complessiva categoria di fenomeni; le seconde invece pongono
l'attenzione al fenomeno singolo per comprenderne la specificità e univocità.
Entrambi i metodi, nomotetico e ideografico, possono essere applicati sia alle
scienze naturali che a quelle dello spirito, secondo il punto di vista e
183

l'orientamento della ricerca: infatti qualsiasi fenomeno o evento, fisico o storico-


sociale, può venire studiato o nei suoi aspetti uniformi e comuni nell'ambito della
categoria di appartenenza oppure nei suoi aspetti tipici e specifici per comprenderne
la singolarità.
Con riguardo a Rickert, il suo problema di fondo è quello dell'autonomia della
conoscenza storica. Condivide la distinzione di Windelband tra scienze nomotetiche
e scienze ideografiche, senonché, egli prosegue, sorge a questo punto un altro
problema: non tutti gli eventi singoli e specifici (di tipo ideografico) suscitano
l'interesse dello storico ma solo quelli che per lui hanno particolare importanza
o significato. Ma in base a quale criterio? Per Rickert il criterio sta nel valore
storico dell'evento preso in considerazione. Tutto ciò che non ha valore storico può
essere trascurato. Ciò non significa che lo storico debba pronunciare giudizi di valore
(di approvazione o di condanna) su ciò che indaga. Deve piuttosto prescegliere i fatti
che siano dotati di particolare valore nell'ambito della cultura del periodo storico
indagato. È però inevitabile che la scelta in base ai valori sia relativa non solo a
quelli più importanti all'interno del contesto storico esaminato ma che sia relativa, e
perciò influenzata, anche dai valori della civiltà e della cultura cui lo storico stesso
appartiene e dal medesimo condivisi; è cioè inevitabile che lo storico sia di sovente
influenzato, nella scelta e sul giudizio circa gli eventi da indagare, dai suoi
personali valori e punti di vista, a discapito dell'oggettività, imparzialità e
autonomia della narrazione storica, non facilmente perseguibili. Su tale problema si
pronuncerà particolarmente, proponendo una soluzione, Max Weber.

GEORG SIMMEL (1858-1918).

È uno storicista esponente altresì, assieme ad Oswald Spengler, della cosiddetta


"filosofia della vita", di derivazione nietzschiana, la quale esalta la realtà e gli istinti
vitali (lo spirito dionisiaco), da cogliersi nei loro caratteri spontanei ed originari
contro le pretese razionalistiche della filosofia di ingabbiare la natura entro forme,
concetti e schemi teoretici rigidi e fissi (lo spirito apollineo). Nel contrasto tra vita e
spirito, tra natura e cultura, la filosofia della vita prende decisamente posizione a
favore degli aspetti vitalistici e naturali.
Quella di Simmel è una filosofia che esprime la tragedia della cultura, perché la
vita manifesta avversione per le forme concettuali e le istituzioni sociali
irrigidite, dalle quali deriva un continuo conflitto sociale. Il vero soggetto della
storia è la spontaneità e lo slancio istintivo della vita, simile in tal senso al processo
vitale di cui parla Bergson.
Gli inizi della filosofia di Simmel sono neocriticisti: pone il problema della storia in
termini kantiani, vale a dire come analisi delle condizioni che rendono possibile e
fondano la validità delle scienze storico-sociali. Ma gli esiti sono di relativismo
storico, di grado anzi maggiore rispetto a quello di Dilthey. Contro Kant, infatti,
184

afferma che le categorie (i presupposti) della conoscenza storica si ritrovano


nell'esperienza e non in condizioni a-priori indipendenti dall'esperienza. I criteri e i
concetti della ricerca storica sono essi stessi prodotti storici e mutano con il divenire
della storia. Non ha senso perciò parlare di fatti storici "oggettivamente"
importanti; un fatto è importante solo per chi lo considera tale. Anche per
Simmel sono i valori, i punti di vista, che agiscono come criterio di scelta ed essi non
sono inerenti ai fatti ma sono i valori dello storico.
Dalla storia, influenzata dai valori ambientali e culturali e da quelli individuali del
ricercatore, Simmel distingue la sociologia, cui attribuisce un compito descrittivo
dei fatti sociali caratterizzato da maggior autonomia e oggettività. Diversamente
dalla storia, cui spetta la comprensione dei singoli avvenimenti storici rivivendoli in
relazione ai valori, frequentemente intrecciati fra quelli effettivi e quelli individuali
della storico ed altresì dell'epoca in cui egli si trova a vivere, la sociologia deve
unicamente capire, in termini più neutrali e generali (si potrebbe dire attraverso
procedimenti statistici e medie statistiche), i modi e le forme di associazione ed
aggregazione sociale, prescindendo dagli elementi specifici e particolari, rilevanti
invece nella ricostruzione storica.

Oswald Spengler (1880-1936).

Spinge all'estremo il relativismo di Dilthey e considera in termini radicali la


distinzione tra natura e storia, la prima dominata da una necessità meccanica e la
seconda da una necessità organica (biologica). Per Spengler sono come due realtà
metafisiche incommensurabili. Il mondo della natura è un insieme di fenomeni
legati da rapporti causali che si sviluppano nello spazio. Il mondo della storia si
manifesta attraverso fenomeni unici ed irripetibili, soggetti al tempo e tendenti a
formare un destino (un destino storico). La natura è il mondo del divenuto, ossia è il
prodotto della vita che si è staccato dalla vita stessa, non più dinamico ma irrigidito
perché ormai compiuto; la storia è invece il mondo del divenire, cioè della vita che
crea incessantemente nuove forme.
Spengler non crede nella storia intesa come progresso continuo. Assimila la
storia ad un organismo biologico e le attribuisce un andamento ciclico come gli
organismi viventi. Non crede nemmeno nel concetto di umanità intesa come
caratteristica omogenea e comune di tutti gli uomini. Per Spengler l'umanità è
semplicemente un concetto zoologico oppure è una parola priva di senso. L'umanità
non ha, come totalità degli uomini, nessun fine, nessuna idea, nessun piano. Al
posto di una umanità unitaria esiste invece una pluralità di civiltà ognuna delle
quali, come gli organismi biologici, sorge, matura, appassisce e tramonta per
sempre. Ogni civiltà è chiusa in se stessa e non è paragonabile a nessun'altra:
ciascuna ha una propria morale, una propria scienza, una propria filosofia, un proprio
diritto, senza interscambi e comunicazione alcuna tra le civiltà. Ognuna è
contraddistinta da un suo proprio inesorabile destino che si impone a tutti gli uomini
che vi appartengono.
185

Quando una civiltà raggiunge il culmine, il suo fine, si irrigidisce e tramonta. Al


tramonto appare ormai, agli occhi di Spengler, anche la civiltà occidentale, a
causa delle crisi della morale e della religione, del prevalere della democrazia e del
socialismo che sovvertono i rapporti naturali di potere, nonché per la degenerazione
di tutti i valori autentici quale già denunciata da Nietzsche e ravvisabile nel culto del
denaro, nel trionfo della tecnica, nella decadenza delle élites (della classe dirigente),
nella rivolta delle masse.
Dopo il crollo della Germania col termine della prima guerra mondiale, evento
che suggerisce appunto a Spengler il tramonto della civiltà occidentale, egli si illude
di trovare un rimedio nel nazionalsocialismo, contro la democrazia, il capitalismo
e il socialismo.
Indubbiamente Spengler descrive le civiltà con toni catastrofici; occorre tuttavia
riconoscergli una lucidità non comune nell'indagare i mali della società di massa.

Ernst Troeltsch (1865-1923) e Friedrich Meinecke (1862-1954).

All'opposto dei sostenitori del relativismo storico nonché dei valori, difendono
invece l'assolutismo dei valori: affermano la sussistenza di valori perenni,
specialmente i valori eterni della religione.
Per Troeltsch il problema fondamentale è quello che scaturisce, per un verso, da una
coscienza storica che ci mostra il condizionamento, dipendente da fattori culturali e
ambientali, esercitato da ogni forma di religione e, per l'altro, dalla pretesa di
ciascuna religione di possedere una validità assoluta. Troeltsch respinge sia la
soluzione positivistica, che faceva della religione uno stadio primitivo dell'umanità,
sia quella romantico-idealistica, che vedeva nelle diverse religioni la realizzazione di
un'essenza, di uno spirito universale, per lo più immanente piuttosto che trascendente.
Per Troeltsch le religioni sono fatti storici e non soprannaturali e tale è anche il
cristianesimo. Ma il carattere storico del fenomeno religioso(=che muta col divenire
storico) non lo priva di validità. Certamente, la religione è storicamente condizionata
e tuttavia essa mostra, in fenomeni come il sorgere del cristianesimo e della riforma
protestante, una causalità autonoma, nel senso che certi fenomeni ed eventi religiosi
sono prodotti da fattori parimenti religiosi anch'essi. Troeltsch individua così
un'indipendenza della religione dalle cause naturali, che interpreta come presenza di
Dio nel mondo finito. Per tale motivo la relatività dei valori non vuol dire per
Troeltsch relativismo e anarchia perché scorge nel relativo qualcosa di assoluto:
l'impulso divino che dona agli spiriti finiti (agli uomini) volontà di creazione storica
secondo un fine.
Meinecke vede nella ragion di Stato come il ponte, il collegamento, che nella lotta
politica sta tra l'impulso della forza e della prepotenza, da un lato, e la responsabilità
morale, dall'altro. Contro il relativismo storico, egli afferma, esistono tre vie:
1. la fuga romantica nel passato, in epoche trascorse e idealizzate;
2. la fuga nel futuro, spinti da una concezione ottimistica nel progresso;
3. la via verticale, cioè il guardare la storia dall'alto, intesa come realizzazione di
valori assoluti riconducibili a Dio e da lui derivanti.
186

MAX WEBER (1864-1920).

Per organicità, sistematicità ed attualità, il pensiero di Weber occupa un posto a parte


sia nell'ambito dello storicismo tedesco sia nel campo della sociologia. È considerato
il filosofo e il sociologo della modernità per eccellenza.
Weber, pur accettando una distinzione di metodo tra scienze della natura e
scienze dello spirito, giunge ad assegnare anche alle discipline storico-sociali, sia
pur nella specificità del metodo, i requisiti propri della scientificità, ossia la
capacità di elaborare le leggi generali o comunque di individuare tendenze, ricavabili
dalle regolarità riscontrabili nei comportamenti umani e sociali.
Contro l'idealismo, Weber rivendica l'autonomia logica e teorica della scienza,
sia fisica che sociale, la quale non può sottostare, al modo di Hegel, ad entità
metafisiche astratte come "lo spirito del popolo". Per Weber lo spirito del popolo è un
prodotto storico costituito da innumerevoli variabili culturali e non già un principio
metafisico posto a fondamento di tutti i fenomeni culturali di un popolo. Critica
altresì il materialismo storico di Marx, che del primato della struttura sulla
sovrastruttura, cioè dell'economia sulla cultura, aveva fatto un dogma.
Pur collocandosi nell'ambito dello storicismo, Weber non condivide la distinzione
tra scienze dello spirito e scienze della natura fondata su una supposta
differenza nel rispettivo oggetto. Adotta invece la distinzione tra metodo
generalizzante (attribuito alle scienze della natura) e metodo individualizzante
(attribuito alle scienze storico-sociali), ma non perché concordi con la concezione
secondo cui l'oggetto della ricerca storico-sociale è unico e irripetibile per cui non
può consentire generalizzazioni (leggi o teorie generali), bensì solo perché il metodo
individualizzante è frutto di una scelta, allorché il ricercatore intenda isolare l'oggetto
prescelto dagli altri ritenuti meno significanti.
Rifiuta inoltre la pretesa, come in Dilthey, di porre la psicologia a base della
sociologia per il solo fatto che quest'ultima si trova prima poi nella necessità di
affrontare fenomeni psichici, come se, fa presente Weber, la sociologia non si
trovasse a dover affrontare anche fenomeni geografici, economici, artistici, ecc. In
effetti per Weber non esistono scienze privilegiate. La conoscenza e la scienza, per
Weber come già per Kant, non sarà mai una riproduzione integrale e definitiva della
realtà.
Opere principali: L'etica protestante e lo spirito del capitalismo; Il significato della
avalutatività delle scienze sociologiche ed economiche; Economia e società.

Scopo e oggetto delle scienze storico-sociali.

Scopo della scienza per Weber è di descrivere e spiegare i fenomeni presi in


considerazione. Tale è anche lo scopo della storiografia (delle scienze storiche), il
cui interesse è peraltro maggiormente puntato sulla specificità individuale e singolare
dei fatti indagati. Tale è altresì lo scopo della sociologia, il cui interesse è invece
maggiormente rivolto alle uniformità (ai comportamenti uniformi, più generali e
187

comuni) riscontrabili nell'agire sociale degli uomini che, in quanto tale, è un agire
determinato dal costante riferimento all'atteggiamento degli altri ed è quindi, in
questo senso, suscettibile di generalizzazioni, si presta cioè alla formulazione di leggi
o, per lo meno, di linee di tendenza generali di comportamento.
Weber distingue quattro tipi di agire sociale:
1. l'agire razionale rispetto allo scopo, definito anche "etica della
responsabilità", in cui è soprattutto rilevante la ricerca di mezzi adeguati al
raggiungimento dello scopo proposto;
2. l'agire razionale rispetto al valore, definito anche "etica delle intenzioni",
in cui è maggiormente rilevante operare in base alle proprie convinzioni, ideali
e valori, coerentemente con essi, anche a prescindere e al di là delle
conseguenze pratiche del proprio agire;
3. l'agire affettivo, in cui si opera in base ad impulsi, emozioni o sentimenti;
4. l'agire tradizionale, in cui si agisce in base a consuetudini, abitudini, costumi
e credenze del gruppo cui si appartiene.
Ovviamente, tale classificazione circa i tipi dell'agire sociale è uno schema teorico-
interpretativo ricavato dall'osservazione empirica, tipi e modi che nella realtà non si
troveranno mai allo stato puro bensì intrecciati fra di essi.
L'agire razionale rispetto allo scopo è per Weber quello prevalente nelle società
moderne, soprattutto nel mondo economico-capitalista.
L'agire sociale è dunque l'oggetto della sociologia, cui spetta il compito di
spiegarlo nelle sue cause e nelle sue regolarità o linee di tendenza.
A fondamento delle scienze storico-sociali, e contro una tentazione frequente negli
storicisti, non possiamo invece mettere l'intuizione, cioè la comprensione basata sulla
simpatia, vale a dire su atteggiamenti volti a rivivere le esperienze degli altri, poiché
l'intuizione appartiene all'ambito del sentimento e non a quello della scienza
controllata e verificata.

La questione del "riferimento ai valori" e la disputa sulla "avalutatività" delle


scienze, in particolare delle scienze storico-sociali.

Per Weber si ha scienza, cioè oggettività del sapere, quando si produce un sistema
di spiegazioni causali, ossia quando si stabiliscono connessioni logiche tra cause ed
effetti ovvero, per quanto riguarda l'agire umano, tra mezzi e scopi. Ciò vale,
parimenti, sia per le scienze fisico-naturali sia per quelle storico-sociali. Peraltro
nelle scienze naturali, attraverso la spiegazione causale, i fenomeni vengono visti
nelle loro caratteristiche e leggi generali e comuni, mentre nelle scienze storico-
sociali gli eventi sono visti soprattutto nella loro particolarità, specificità e peculiare
motivazione. Lo sviluppo dei fenomeni storico sociali non può cioè essere
descritto mediante una spiegazione causale meccanica, bensì mediante una
spiegazione causale volta a comprendere i motivi e il senso dei comportamenti.
Perciò Weber definisce la propria sociologia come "sociologia comprendente".
188

Tuttavia ogni spiegazione causale è soltanto una visione parziale della realtà
poiché, essendo la realtà smisurata, è impossibile indagarla integralmente. Ci
dobbiamo quindi accontentare di studiare alcuni determinati fenomeni e non
tutti: operiamo cioè una selezione dei fenomeni da studiare secondo i personali
punti di vista e di interesse che ci inducono a presceglierli.
Ma come si attua e come funziona tale selezione? In analogia a Rickert, Weber
risponde che la selezione si opera in riferimento ai valori, ossia secondo gli ideali,
le motivazioni e i punti di vista del ricercatore. Il riferimento ai valori di cui parla
Weber non ha però nulla a che fare con un giudizio di valore, cioè con un
apprezzamento di natura morale; non equivale a giudicare un fenomeno come
positivo e giusto o negativo ed iniquo; né il riferimento ai valori implica il
riconoscimento di valori assoluti e indiscutibili. Non vi è un sistema universale di
valori gerarchicamente ordinati ma vi è una pluralità alternativa di valori, tutti
sullo stesso piano e quindi in conflitto tra loro. Anche Weber dunque aderisce alla
concezione del relativismo storico e spaziale dei valori. La pluralità di valori
contrapposti è per Weber una condizione ineliminabile della situazione umana
(ad esempio: è preferibile l'ordine o il cambiamento sociale? è più importante
l'individuo o la società? vale di più la ragione o il sentimento?, ecc.) Alla fine si
dovrà pur scegliere tra valori fra di essi opposti: si tratta di una scelta condizionata
per ciascuno dalle proprie inclinazioni e dalle esperienze vissute.
Nel passato tale situazione di contrapposizione tra i valori era nascosta perché non
era consentita una scelta libera: il peso della tradizione e delle norme imponevano un
unico sistema di valori, che si credeva garantito da Dio o da una qualche potenza
soprannaturale oppure da un supposto principio metafisico. Oggi, per effetto del
processo di razionalizzazione (cioè della progressiva azione critica svolta dalla
ragione) siamo in quella che è chiamata "fase di disincanto del mondo": gli
uomini cioè, per spiegare la realtà o per vincere la paura dell'ignoto, non ricorrono
più agli incanti, alla magia, ai miti, alle potenze divine o a principi metafisici; prevale
invece la fiducia, senza più incantamenti, di poter conoscere e dominare il mondo
attraverso la ragione, la scienza e la tecnica.
Ma allora, per tornare alla domanda iniziale, in che modo il ricercatore seleziona i
fenomeni da studiare? In base a quali valori opera la propria scelta? I campi di
ricerca sono sconfinati. Inevitabilmente quindi il ricercatore (il sociologo, lo storico)
finirà con lo scegliere quali oggetti della sua indagine i fenomeni che lui trova e
ritiene interessanti. I fenomeni sono quindi interessanti non per una loro qualità
intrinseca ma solo in riferimento ai valori del ricercatore, cioè alla sua visione del
mondo, ai suoi orientamenti, ai suoi punti di vista. E i punti di vista, i valori, non
sono dati una volta per tutte, ma variano lungo il divenire storico. Unico parziale
elemento di oggettività possibile nella scelta dei fenomeni da indagare in base ai
propri punti di vista e interessi può consistere nella circostanza che i medesimi
interessi siano condivisi da una pluralità di ricercatori, venendo così a coincidere con
un più vasto riconoscimento sociale della loro importanza. Ciò detto, precisa Weber,
è bene peraltro che il ricercatore espliciti per correttezza, fin dall'inizio, in base
189

a quali valori ha scelto e ritenuto interessanti i fenomeni fatti oggetto della propria
indagine, per non contrabbandare come oggettive scelte che sono invece soggettive.
Il fatto che la scelta dell'indagine storico-sociale sia condizionata dai valori del
ricercatore, non significa che l'intera ricerca diventi necessariamente soggettiva e
arbitraria. I risultati della ricerca devono avere invece una loro validità
oggettiva, possibile col rispetto di due condizioni: la avalutatività e la
spiegazione causale.
Una volta scelto l'oggetto della propria indagine, il ricercatore corretto dovrà seguire
scrupolosamente il criterio della avalutatività, dovrà cioè astenersi dal pronunciare
sui fenomeni indagati giudizi di valore, di lode o di condanna. Weber distingue
nettamente tra conoscere e valutare (=giudicare), tra giudizi di fatto e giudizi di
valore, tra "ciò che è" e "ciò che deve essere". Per lui la scienza sociale deve essere
avalutativa: la scienza spiega, non valuta. Formulare valutazioni e giudizi non è
compito dello scienziato ma del politico. Tale presa di posizione ha per Weber due
significati: uno epistemologico (scientifico), di difesa della libertà della scienza da
valutazioni etiche, politiche, religiose; l'altro di tipo etico-pedagogico, di difesa della
scienza da strumentalizzazioni demagogiche, contro quei maestri che si servono ed
abusano della cattedra per propagandare le proprie ideologie etico-politiche anziché
spiegare obiettivamente i concetti e le teorie.
La seconda condizione per mirare all'oggettività dei risultati della ricerca storico-
sociale è, come per le scienze fisico-naturali, quella della spiegazione causale.
Significa che per Weber non vi è contrasto tra scienze naturali e scienze storico-
sociali perché ambedue si fondano sul principio di causalità ed hanno come fine la
descrizione dei fenomeni e non il giudizio su di essi.

La possibile oggettività delle scienze storico-sociali.

Nelle scienze sociali e storiche la spiegazione causale non mira a ricavare leggi
generali, ma si presta comunque a spiegare la causa di un fenomeno analogamente al
principio di ragion sufficiente di Leibniz, che spiega senza necessitare (ossia,
diversamente dalle scienze fisiche, senza che, data una certa causa, derivi
necessariamente un determinato effetto o viceversa).
Si pone allora la seguente domanda: come è possibile l'oggettività nelle scienze
storico-sociali che riguardano fenomeni specifici i quali possono essere effetto di una
pluralità di cause, alcune più importanti ed altre meno? A differenza delle scienze
naturali, non esiste nella storia una relazione necessaria di causa-effetto. Ad
esempio la prima guerra mondiale è scoppiata anche per le cause descritte nei libri di
storia, ma non necessariamente per quelle: poteva anche non scoppiare o scoppiare
per cause diverse.
È vero, dice peraltro Weber, che la ricerca storica riguarda fatti specifici, non
uniformi, non costanti e non ripetibili. Ma è anche vero che per spiegare questi fatti
c'è bisogno di concetti generali, occorre ricavare regole generali di spiegazione, cioè
leggi o tendenze esplicative. A tal fine, soggiunge Weber, nel soccorrere lo storico
190

interviene la sociologia, che è in grado di scoprire connessioni, collegamenti e


regolarità nell'agire sociale.
Quando lo storico spiega un fatto lo fa riferendosi in genere ad un insieme di
concause. Ma non tutte le cause hanno per lo storico ugual peso ed importanza. Ecco
quindi il problema: come può lo storico determinare il maggiore o minor peso di
una causa rispetto ad un'altra? Al riguardo Weber indica il ricorso al metodo
dell'esclusione. Si considerino cioè tutte le concause possibili di un evento quali
individuate dallo storico in base alle conoscenze, ai documenti e alle fonti a sua
disposizione. Il metodo dell'esclusione consiste nel procedere poi a isolare ognuna di
queste cause e a domandarsi se senza tale causa il corso degli avvenimenti sarebbe
stato il medesimo o diverso. Se il corso degli avvenimenti sarebbe stato lo stesso,
quella causa non è allora determinante ma solo accidentale. Se invece sarebbe stato
diverso, quella causa va assunta come essenziale. Ad esempio se i Persiani, anziché
perdere, avessero vinto i Greci nella battaglia di Maratona, è allora verosimile
pensare che il corso della storia sarebbe cambiato, perché sarebbe tramontata la
civiltà greca, che ha dato origine alla civiltà occidentale, e al suo posto si sarebbe
affermata la civiltà orientale, di tipo teocratico-religioso anziché razionale. Invece,
anche escludendo le fucilate che nel marzo del 1848 furono causa occasionale della
rivoluzione a Berlino, è verosimile pensare che, stante la situazione generale, la
rivoluzione sarebbe ugualmente scoppiata essendo sufficiente in proposito una
qualsiasi altra causa occasionale. Dunque le fucilate a Berlino nel 1848 non furono
causa determinante.

La teoria del "tipo ideale".

Un altro strumento metodologico proposto da Weber per dare più rigore e oggettività
alle indagini storico-sociali è la cosiddetta teoria del "tipo ideale". Il tipo ideale è
un modello euristico (=di ricerca), uno strumento metodologico, che si ottiene
ricavando, astraendo ed accentuando da un insieme di fenomeni simili le
caratteristiche e i tratti comuni, più significativi e tipici, nonché le connessioni più
rilevanti ed espressive, giungendo quindi ad una descrizione e spiegazione tipica ed
ideale, cioè allo stato puro, di quella categoria di fenomeni. È definito ideale perché
a questo modello concettuale di riferimento, così ricavato, non corrispondono
effettive situazioni empiriche nella realtà, che non si trovano mai allo stato puro
essendo le situazioni reali sempre intrecciate e mescolate con altri tipi più o meno
analoghi di fenomeni. Però è un utile strumento metodologico in base al quale
confrontare i fenomeni studiati per verificare il grado di approssimazione o di
scostamento del fenomeno esaminato rispetto al tipo ideale (modello) preso a
riferimento e poter quindi stabilire se il fenomeno indagato appartiene maggiormente
ad un genere o ad un altro. Così, categorie (concetti) come il capitalismo, il
liberalismo, la Chiesa, lo Stato, il feudalesimo, il cristianesimo, ecc. sono tutte
riconducibili ad altrettanti tipi ideali in base a cui misurare e comparare poi i
fenomeni empirici effettivi.
191

L'analisi del potere.

Un altro importante contributo recato da Weber, anche attraverso l'uso metodologico


del "tipo ideale", è la sua analisi del potere nella società. Ogni società organizzata si
basa su di un insieme di regole e norme sociali e su di un potere che abbia la
capacità di stabilirle e di farle rispettare. Traducendoli in "tipi ideali", Weber
classifica tre tipi di potere:
1. il potere legale, basato su una concezione di legalità-legittimità degli
ordinamenti e delle leggi che regolano l'esercizio del potere stesso; in questo
caso l'obbedienza viene data non alla singola persona che esercita il potere ma
alla legge che si esprime attraverso gli organi e le persone preposte ad
applicarla;
2. il potere tradizionale, basato sulla credenza nella sacralità delle consuetudini
e delle tradizioni, che legittimano colui che di quelle tradizioni è depositario e
custode e nei confronti del quale l'obbedienza deriva da un senso di rispetto e
di reverenza;
3. il potere carismatico, per cui chi esercita il potere è dotato di un particolare
carisma, cioè di un fascino e un'attrattiva sulle persone tali che le induce alla
devozione e ad una obbedienza che non è determinata da leggi o tradizioni; un
esempio di potere carismatico nelle società antiche è quello esercitato da Gesù
nei confronti dei suoi seguaci oppure, in società più moderne, quello esercitato
da un leader politico particolarmente influente, dotato di una particolare
ascendenza personale.
Nella società occidentale contemporanea la forma prevalente di potere è quella
del potere legale.

L'etica protestante e lo spirito del capitalismo.

Weber è stato tormentato a lungo da una domanda inquietante: "E se Marx avesse
ragione?". Se davvero, cioè, la struttura economica fosse causa determinante di tutte
le forme di cultura, delle idee, della morale, del diritto, che ne sarebbe allora del
valore autonomo della vita spirituale? È davvero possibile che la cultura e lo
spirito degli uomini e delle società siano assolutamente condizionati, anzi
dominati, dai fattori materiali economici, dai modi di produzione?
Per rispondere a questa assillante domanda Weber decide di fare una
controprova. Prende cioè in esame un fenomeno, non culturale ma economico vero
e proprio, anzi il fenomeno economico più rilevante per Marx, vale a dire il
capitalismo, e studia le origini del fenomeno capitalistico per verificare se esse
sono davvero di esclusiva causa economica oppure se abbiano concorso alla
nascita del capitalismo anche fattori culturali. Ebbene, a conclusione della sua
analisi, riportata nell'opera "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", Weber
scopre che le effettive origini di un fenomeno economico addirittura tra i più
192

rilevanti, ossia del capitalismo, sono rintracciabili in fattori non già strutturali-
economici ma culturali-religiosi.
Il capitalismo, dice Weber, consiste essenzialmente nello sviluppo di imprese
economiche che hanno come scopo il massimo profitto da raggiungere attraverso
l'organizzazione razionale del lavoro, resa possibile in Occidente dai progressi della
matematica, della scienza, della tecnica, delle istituzioni amministrative e
dell'organizzazione burocratica. Ciò premesso, Weber è convinto che l'origine e lo
sviluppo del capitalismo sia da attribuire soprattutto all'etica (religione)
protestante e specialmente allo spirito calvinista. Egli sviluppa infatti il seguente
ragionamento. Fondamentale nella religione protestante, e particolarmente nel
calvinismo, è la teoria della predestinazione: è Dio che sceglie, attraverso il dono
della grazia, quali uomini destinare alla salvezza e quali destinare alla dannazione.
Questa scelta di Dio è misteriosa. Tuttavia i calvinisti credevano che Dio desse segni
tangibili della sua scelta, nel senso che il successo nelle attività economiche e nelle
professioni era ritenuto indice della grazia divina. Ciò induceva allora al massimo
impegno nel lavoro e nelle attività economiche, in quanto il successo in tali attività
poteva essere la prova di una benevola predestinazione divina. L'etica protestante e il
calvinismo, inoltre, comandavano ai credenti di diffidare dei beni di questo mondo e
di praticare una condotta ascetica, sobria e austera. I credenti erano quindi spinti a
lavorare intensamente per trarne profitto, segno della grazia divina, tuttavia senza
spendere e sprecare il profitto ricavato ma invece reinvestirlo per un ulteriore
sviluppo dell'impresa economica. Da ciò è appunto derivata l'accumulazione dei
capitali che ha determinato la nascita e la diffusione del capitalismo.
Weber critica dunque il materialismo storico di Marx, vale a dire la tesi di una
esclusiva determinazione della sovrastruttura e della cultura sociale ad opera della
struttura economica e dei vigenti modi di produzione. Critica cioè il carattere
dogmatico di questa generale interpretazione marxista della storia.
Non che Weber trascuri l'importanza anche dei fattori economici nella spiegazione
dell'evolversi della storia ma, avverte, i fattori e le cause del divenire storico non
possono essere unilaterali bensì vari e molteplici, di natura economica ma altresì
culturale e spirituale.

L'etica delle intenzioni e l'etica della responsabilità. Il disincantamento del


mondo.

Weber distingue due grandi modelli etici, già anticipati parlando dei tipi dell'agire
sociale:
1. l'etica dell'intenzione o della convinzione, che nel comportamento prescrive
l'ossequio e l'obbedienza incondizionata a determinati principi e ideologie
quali prescelti a prescindere dalle conseguenze (magari anche con effetti
collaterali negativi) che la loro attuazione comporti;
2. l'etica della responsabilità, che si preoccupa sia dei mezzi idonei ad ottenere
determinati scopi, ma sia anche degli effetti connessi al proprio agire.
193

Riflettendo più in generale sulla spinta alla razionalizzazione tecnico-scientifica che


caratterizza il mondo moderno, Weber aderisce, come sopraddetto, alla dottrina del
disincantamento del mondo, intesa come quel processo tramite cui il progredire
della spiegazione razionale della realtà fa perdere al mondo il significato magico-
sacrale, l’incanto, rivestito nelle interpretazioni primitive, per cui il mondo diventa
semplicemente il luogo dell'azione dell'uomo, caratterizzato da pluralità anche
contrapposte di valori e di fedi.
Questo processo avviene attraverso tre grandi tappe:
1. trapasso dalla religiosità magica a quella etico-profetica (rivelata) delle
religioni storiche universali, (cristianesimo, ebraismo, islamismo, buddismo,
ecc.);
2. progressiva secolarizzazione e autonomizzazione delle varie attività umane
(secolarizzazione= diventare autonomi e indipendenti dalla credenza che ogni
fatto, ogni sviluppo, dipenda da Dio e venga spiegato dalla religione);
3. progressiva intellettualizzazione del mondo operata dalla scienza e dalla
tecnica.
A causa del crescente processo di razionalizzazione (l’espandersi della scienza e
della tecnica), che rende il mondo sempre più complesso, tale da richiedere azioni
attente anche alle possibili conseguenze ed effetti, Weber raccomanda pertanto di
dirigere i comportamenti secondo l'etica della responsabilità anziché secondo
quella dell'intenzione.
194

IL NEOIDEALISMO ITALIANO. CROCE E GENTILE.

Per idealismo, contrapposto al realismo, si intende ogni concezione secondo cui non
esiste alcuna realtà esterna e indipendente dal pensiero o idea (da cui il termine
"idealismo"), poiché per l'idealismo non c'è alcuna realtà, nessuna cosa, se essa non è
dapprima pensata e presente nella coscienza: le cose esistono solo quando se ne abbia
l'idea, cioè solo se sono percepite e pensate. Anche se vi fossero, ma non fossero
percepite e pensate, per noi comunque non esisterebbero. In questo senso generale
rientrano nell'idealismo varie e diverse concezioni della filosofia passata (in
particolare l’Idealismo Tedesco di Fichte, Schelling ed Hegel), ma anche di quella
contemporanea (Spiritualismo, Filosofia dell'azione, buona parte della
Fenomenologia e Neoidealismo italiano).
Il Neoidealismo Italiano sorge nel primo Novecento e ha in Benedetto Croce e
Giovanni Gentile i maggiori esponenti. Tale movimento è caratterizzato dalla
ripresa della filosofia hegeliana, peraltro riformulata, nonché da una critica radicale al
positivismo ed altresì da una critica ma anche da una riflessione sul marxismo, oltre
che da una concomitante svalutazione delle scienze.
Il neoidealismo Italiano giunge all'identità del finito e dell'infinito per via positiva,
mostrando cioè che la caratteristica essenziale del finito (le cose finite) è quella di
essere partecipe e ricompreso nella totalità dell'infinito.
Contemporaneamente si sviluppa un neoidealismo inglese (Green, Bradley, Royce)
che giunge all'identità del finito e dell'infinito per via negativa, mostrando cioè che il
finito, in quanto tale irrazionale, non è reale e che diventa reale solo in quanto
manifestazione dell'infinito, che è l'unica vera realtà.
195

BENEDETTO CROCE (1866-1952).

Di famiglia agiata, può dedicarsi tranquillamente ai suoi studi. Fonda insieme a


Gentile la rivista "La critica". È stato senatore e anche Ministro dell'istruzione.
Antifascista e antimarxista, dopo la guerra è stato Presidente del partito liberale e ha
partecipato all'Assemblea costituente.
Opere principali: Logica come scienza del concetto puro; Estetica come scienza
dell'espressione e linguistica generale; Teoria della storia e storiografia; La storia
come pensiero e come azione.

La filosofia dello Spirito. Aspetti accettati e rifiutati della filosofia di Hegel.

Inizialmente Croce, nell'opera "Materialismo storico ed economia marxista", si


interessa alla filosofia marxista giungendo a conclusioni critiche. Individua come
errate le tesi fondamentali della filosofia marxista: la teoria del plus-valore, che non
tiene conto della domanda e dell'offerta del mercato quali fattori determinanti nella
formazione dei prezzi delle merci; il materialismo storico (la struttura economica
determina la sovrastruttura ideologico-culturale della società), che giudica non già
una vera filosofia della storia ma una semplice interpretazione della storia dal punto
di vista economico; i limiti dell'analisi economica marxista, che si è occupata di una
sola forma economica, cioè del capitalismo, e non del fatto economico in sé.
Riconosce invece l'importanza, ma non esclusiva, dei fattori economici nello sviluppo
della storia. Negativa è comunque, nel complesso, la valutazione che Croce dà
dell'azione politica di Marx, visto come un "Machiavelli del proletariato".
Dopo l'iniziale interesse per il marxismo e le critiche espresse in merito, Croce,
nell'opera "Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel", sente il bisogno
di risalire alle fonti della sinistra hegeliana e quindi si interessa della filosofia di
Hegel, accettandone alcune tesi e rifiutando e modificandone altre.
Di Hegel condivide la concezione idealistico-immanentistica, secondo cui la realtà
più autentica e profonda è lo Spirito (il pensiero in generale), mentre gli enti finiti
(gli oggetti, le cose, i singoli uomini ed eventi storici) sono solo manifestazioni dello
Spirito e da esso derivano. Lo Spirito è continuo movimento e attività; è continuo
processo che, come tale, produce gli enti finiti, i quali sono poi superati e riassorbiti
nello Spirito medesimo, che è totalità infinita e assoluta (assoluta=che tutto
ricomprende e che niente lascia fuori da sé). Ogni ente finito è così solo un momento
della totalità, dello Spirito, ed è parte dello Spirito stesso in collegamento con tutti gli
altri enti finiti. Di conseguenza, il finito in sé non esiste perché è solo realizzazione
provvisoria dello Spirito infinito ed è destinato ad essere riassorbito in esso: unità di
infinito e finito. La realtà è dunque il prodotto dell'incessante movimento e processo
dello Spirito.
Di Hegel Croce apprezza anche il principio secondo cui lo Spirito è colto, compreso,
dalla riflessione filosofica attraverso il concetto puro, universale e concreto:
196

1. il concetto è puro perché non è intuizione o sentimento, ma è fondato sulla


logica;
2. è universale perché trascende, supera, le singole percezioni e non coincide
nemmeno con i concetti ordinari, che sono semplici generalizzazioni e
astrazioni da un complesso di percezioni e sensazioni simili; il concetto
universale si identifica invece direttamente con l'Idea, con la razionalità;
3. è concreto perché coglie la realtà nelle sue singole determinazioni empiriche
(nelle singole cose), che successivamente lo Spirito comprende essere non
esterne e indipendenti bensì destinate ad essere riassorbite nella totalità e
nella realtà infinita dello Spirito assoluto medesimo, da cui derivano e del
quale fanno parte.
Con questa tesi Hegel superava sia la concezione sia di quanti riducevano gli opposti
ad una semplice "coincidentia oppositorum" (interpretando il puro essere come un
puro nulla), opposti che in tal modo venivano appiattiti e soppressi, sia di quanti li
mantenevano dualisticamente contrapposti e separati senza alcuna possibilità di
sintesi. La scoperta di Hegel è invece quella per cui la realtà deriva sempre da una
sintesi di opposti e che proprio per questo non si sfascia, sviluppandosi anzi
eternamente nella serie delle sintesi. L'universale-concreto, l'unità e la sintesi degli
opposti, diventa per Hegel il nuovo e vero principio di identità.
Come per Hegel, anche per Croce dunque la filosofia è filosofia idealistica dello
Spirito, perché né le cose materiali né gli spiriti finiti, cioè le singole coscienze
umane, hanno realtà propria in quanto entrambi derivano e sono realizzazioni dello
Spirito assoluto infinito. Quella di Croce è anche filosofia dello Spirito
immanentistica, perché lo Spirito assoluto, come in Hegel, non è trascendente,
distinto e separato dal mondo delle cose e degli uomini, ma è dentro tale mondo; è
attività e processo che si realizza e si manifesta nel mondo animandolo e
sviluppandolo. Infine, è anche filosofia dello Spirito storicistica, perché la realtà
dei fatti umani è considerata prodotto dello Spirito, il quale si manifesta e si evolve
attraverso la storia umana.
Da questa concezione immanentistica e storicistica della sua filosofia dello spirito
deriva conseguentemente la critica che Croce rivolge ad ogni filosofia fondata sia
sulla trascendenza (che afferma cioè l'esistenza di due realtà, di due mondi distinti,
uno soprasensibile ed ultraterreno e l'altro sensibile e terreno) sia su essenze o
sostanze prime statiche e precostituite, anche se immanenti (come il concetto di
sostanza di Spinoza), poiché lo Spirito (o Idea o pensiero) della filosofia idealistica
non è sostanza statica ma è continuo movimento, attività e processo che si realizza e
si sviluppa storicamente nel mondo. Croce non tratta i grandi problemi della
metafisica tradizionale: l'essere, l'anima, Dio. Tratta invece dell'identità tra
filosofia e storia, perché la realtà autentica è il divenire (lo sviluppo) dello Spirito
che si manifesta e si realizza nella storia del mondo e degli uomini. In questo senso
la filosofia di Croce è definita anche come "storicismo assoluto", secondo quanto
si vedrà in seguito.
Croce invece non accetta bensì riformula la dialettica hegeliana, per la quale ogni
aspetto della realtà è concepito come il prodotto del movimento e del processo dello
197

Spirito, che avviene secondo i tre momenti (schema triadico) della tesi, dell’antitesi e,
sempre, della relatva sintesi. Secondo Croce, invece, l'errore di Hegel è di non aver
capito che la realtà non è fatta solo di opposti (che poi trovano la loro sintesi)
bensì è fatta anche di "distinti", cioè di ambiti fra di essi non contrapposti ma
distinti seppur collegati. Da tale spunto Croce sviluppa quindi la sua teoria definita,
appunto, “dialettica o nesso (collegamento) dei distinti”.

La dialettica o nesso dei distinti.

Croce sostiene dunque che la realtà non è fatta solo di opposti ma anche di distinti,
che Hegel invece non ha riconosciuto ed ha trattato come se fossero degli opposti. Per
Croce non è l'opposizione che bisogna principalmente scoprire nella vita dello Spirito
ma è piuttosto la distinzione. Infatti la vita e lo sviluppo dello spirito si svolge in
primo luogo secondo forme o categorie (generi) fra di esse distinte e autonome,
che non si contrappongono per giungere poi ad una sintesi. La contrapposizione
dialettica si sviluppa invece all'interno di ciascuna forma.
In particolare, la vita dello Spirito si compone per Croce di due attività
fondamentali, anch'esse distinte e non contrapposte:
1. l'attività conoscitiva o teoretica;
2. l'attività volitiva o pratica (basata sulla volontà di fare).
I quattro “distinti” di Croce.
Le due attività anzidette, a seconda che riguardino aspetti particolari o
universali, danno origine ai seguenti quattro distinti, chiamati anche categorie:
1. l'arte o estetica, che è intuizione del particolare;
2. la logica o filosofia, che è conoscenza dell'universale;
3. l'economia, che è volizione dell'utile particolare;
4. la morale o etica, che è volizione del bene universale.
Le contrapposizioni dialettiche, come si è detto, non si sviluppano tra i distinti
ma all'interno di ciascun distinto, ossia si hanno i seguenti opposti:
1. nell'arte o estetica valgono gli opposti bello o brutto;
2. nella logica o filosofia valgono gli opposti vero o falso;
3. nell'economia valgono gli opposti utile o dannoso;
4. nella morale o etica valgono gli opposti bene o male.
Le quattro forme o categorie dello Spirito sono tra loro distinte ma, pur nella
distinzione, sono anche connesse, collegate (nesso dei distinti), nel senso che
ognuna è il presupposto, la condizione, della forma successiva.
La vita dello Spirito è unitaria nel suo profondo, però si svolge passando, non
consecutivamente ma contestualmente, da una categoria all'altra. In tal senso
l'attività conoscitiva è presupposto di quella pratica: prima di agire bisogna
conoscere; l'arte, che è intuizione, è presupposto della filosofia: alla base di ogni
conoscenza c'è sempre un'intuizione; la filosofia è presupposto dell'attività
economica: l'attività conoscitiva guida infatti l'attività pratica a cui l'economia
198

appartiene; infine l'attività economica quando si rivolge all'utile universale è


presupposto della morale.
Mentre i distinti sono uno il presupposto dell'altro, gli opposti invece si
implicano a vicenda: non c'è il bello senza il brutto; il bene senza il male, ecc.

La circolarità dello Spirito.

La vita dello Spirito si sviluppa dunque secondo i quattro distinti, o categorie,


crescendo ed arricchendosi indefinitamente. Croce dice che è "una storia ideale
eterna", è come un circolo, in cui però nessuna delle quattro categorie è il punto
primo di partenza perché tutte hanno pari funzione. Lo Spirito è come un
organismo i cui organi (i distinti) sono tutti ugualmente essenziale. Così ogni distinto
o categoria è reciprocamente primo e ultimo. Infatti il fine dello Spirito è, nello stesso
modo e con pari importanza, sia il conoscere (l'attività conoscitiva) sia l'operare
(l'attività pratica); è sia l'arte sia la filosofia sia l'attività economica sia l'attività
morale, perché nessuna di queste forme di distinti è il fine fondamentale; esso sta
piuttosto nella loro totalità: il fine dello Spirito è cioè lo Spirito stesso nella totalità
delle sue quattro forme.
La vita dello Spirito ha quindi uno svolgimento circolare ma non ritorna mai al
punto iniziale di partenza, perché ogni ritorno dei corsi e ricorsi della "storia
ideale eterna" dello Spirito si colloca su un grado più alto in quanto arricchito
dall'esperienza precedente. L'andamento della vita dello Spirito è dunque di tipo
circolare a spirale.
Alle quattro categorie, o distinti, dello Spirito corrispondono le parti in cui si
suddivide la filosofia di Croce: 1) l'estetica; 2) la logica o filosofia; 3) l'economia;
4) l'etica o morale.
Per quanto riguarda la religione, Croce nega che essa sia una forma o categoria dello
Spirito. La ritiene invece un miscuglio impuro di elementi estetico-intuitivi, logico-
intellettivi, pratico-economici e pratico-morali. Croce nega l'esistenza di un Assoluto
trascendente rispetto allo Spirito immanente (lo spirito dell'umanità) che si esplica
nella storia.

L'estetica e il concetto di arte.

L'arte è definita da Croce come conoscenza intuitiva e creativa. Ciò significa


che:
1. l'arte innanzitutto è attività teoretica, è cioè un modo di conoscere la realtà
anche se elementare e non ancora logico;
2. l'arte è intuizione (ispirazione) che si rivolge ad aspetti particolari e sensibili
della realtà ed esprime stati d'animo, sentimenti; ciò non vuol dire che
l'intuizione si identifichi con la sensazione, che è funzione puramente passiva
199

dei sensi; l'intuizione artistica è invece facoltà non passiva bensì creatrice di
immagini;
3. in quanto attività teoretica (conoscitiva), l'arte non può essere confusa con le
forme dell'attività pratica (economia e morale); essa pertanto non ha scopi
morali o di ricerca del piacere o di interessi e vantaggi pratici; neppure può
essere confusa con la conoscenza concettuale che è propria della logica o
filosofia; l'arte cioè non ha il compito né di istruire né di educare, ma ha valore
autonomo in sé; è fine a se stessa.
L'arte è dunque autonoma sia dalla sensazione (dal piacere dei sensi), sia
dall'economia (dagli interessi materiali), sia dalla morale (dall'indirizzare verso il
bene) come anche dalla filosofia, la quale è conoscenza attraverso concetti
universali e non attraverso intuizioni particolari della realtà come nel caso dell'arte.
Proprio perché caratterizzata da questa assoluta autonomia e indipendenza l'arte è
definita intuizione pura.
Inoltre nell'arte non ha nessuna importanza che le immagini rappresentate siano
reali o irreali (fantastiche); nell'intuizione artistica contano le nostre impressioni ed
emozioni.
Originale è la concezione di Croce secondo cui ogni intuizione (ispirazione)
artistica è contemporaneamente anche espressione artistica: quando si ha
un'intuizione in qualche modo si è in grado anche di esprimerla. Per Croce tutti gli
uomini intuiscono, sono capaci di intuizioni e quindi sono capaci di esprimerle in
vario modo. Non bisogna confondere l'intuizione-espressione artistica con
l'estrinsecazione, cioè con la riproduzione o realizzazione tecnica dell'espressione
secondo i vari generi di opere d'arte (pittura, scultura, letteratura, ecc.), la cui
distinzione oltretutto è da Croce disconosciuta. Le tecniche artistiche sono attività
pratica, mentre l'intuizione-espressione artistica è attività conoscitiva e tutti
hanno momenti di intuizione e di ispirazione artistica anche se non tecnicamente
riprodotta in un'opera d'arte. La differenza tra l'uomo comune e l'artista non è
quindi di qualità ma solo di grado, in termini di maggior intensità e profondità
dell'intuizione e di maggior capacità tecnica riproduttiva. Si può essere anche grande
artista (avere cioè un'alta ispirazione) e cattivo tecnico (non essere cioè capaci di
riprodurla tecnicamente in modo adeguato).
Croce critica la teoria della "morte dell'arte" di Hegel, secondo cui la filosofia è un
modo più alto e superiore attraverso cui lo Spirito si rivela e si manifesta. Abbiamo
visto infatti che per Croce l'arte è una forma permanente dello Spirito con pari valore
rispetto alle altre.
Circa il rapporto tra forma e contenuto nell'arte, cioè il rapporto tra immagine o
riproduzione artistica ed intuizione-ispirazione artistica, Croce afferma che l'arte non
è un contenuto riprodotto in forma artistica ma che è sintesi a priori, di tipo kantiano,
di forma e contenuto. Ciò significa che l'immagine è la forma a priori che rende il
contenuto (cioè l'intuizione o ispirazione) comunicabile e fruibile da tutti gli uomini
di ogni tempo e di ogni paese. Ma la forma senza il contenuto è vuota. Ne deriva che
l'arte, se come intuizione-ispirazione esprime aspetti particolari, come sintesi a priori
di forma e contenuto ha invece un carattere di universalità.
200

Per Croce non esistono generi artistici distinti (pittura, scultura, musica,
letteratura, poesia, ecc.): l'arte è sempre unica in tutte le manifestazioni. Le
distinzioni per genere sono semplici schemi pratici e classificazioni di comodo. Il
bello cioè non è nelle cose, non esiste in natura, e non vi sono diversi generi di bello
(pittorico, musicale, letterario, ecc.); il bello sta invece nell'arte in sé, ossia nello
Spirito in quella sua forma che è quella estetica, ed è il medesimo per qualunque
genere.
Dall'identità crociana tra intuizione ed espressione artistica (ogni intuizione
artistica è contemporaneamente anche espressione -non riproduzione- artistica)
deriva altresì l'identità tra arte e linguaggio: l'arte, soprattutto quella poetica, e il
linguaggio sono identici. Il linguaggio è cioè, in se stesso, creazione continua di
significati, di visioni delle cose (è il modo di interpretare e di vedere le cose), proprio
come l'arte e la poesia in particolare. Invece le regole grammaticali e sintattiche del
linguaggio non sono linguaggio vivo, ma soltanto sistemazioni del linguaggio
introdotte dall'intelletto.
L'estetica di Croce ha influenzato notevolmente la critica letteraria e poetica.

La logica o filosofia ossia la conoscenza dell'universale.

Come si è visto, la logica o filosofia è conoscenza dell'universale. Ha come


presupposto le intuizioni e il linguaggio estetici ed ha come suo oggetto i concetti
puri, universali e concreti nel senso in precedenza definito e come di seguito
precisato:
1. puri perché non sono intuizioni o sentimenti;
2. concreti perché si riferiscono a singole determinazioni empiriche, a singole
cose o eventi;
3. universali perché nelle singole cose cui si riferiscono colgono non tanto le
caratteristiche specifiche ma le categorie o forme universali dello Spirito (il
bello, il vero, l'utile, il bene) a cui le singole cose appartengono e che le
qualificano.
Mentre l'arte è conoscenza del particolare e si basa sull'intuizione, i concetti puri,
universali e concreti, della logica o filosofia non sono invece strumento di
conoscenza degli oggetti particolari bensì delle forme dello Spirito o categorie che in
quegli oggetti si manifestano. Oggetto della logica o filosofia è perciò lo studio non
degli oggetti particolari ma lo studio dello Spirito e delle sue forme in continuo
divenire (nel loro continuo svilupparsi e manifestarsi).
I concetti puri, universali e concreti si distinguono pertanto dai concetti del
pensiero comune ed anche dai concetti stessi della scienza, entrambi chiamati da
Croce "pseudoconcetti" (falsi concetti). Infatti gli pseudoconcetti del pensiero
comune, come "casa", "gatto", "rosa", sono concreti ma non sono universali, mentre
gli pseudoconcetti astratti delle scienze, come "triangolo", "movimento", sono
universali ma non sono concreti (il triangolo come forma geometrica non esiste nella
realtà: vi sono oggetti a forma di triangolo ma non c'è il "triangolo"). Gli
201

pseudoconcetti delle scienze, o concetti astratti, sono semplici generalizzazioni ed


astrazioni ricavate dalla ripetizione di esperienze analoghe. Non ci consentono di
conoscere la vera realtà che è quella dello Spirito e delle sue forme in continuo
divenire. Però sono schemi di comodo utili dal punto di vista pratico. Non hanno
cioè valore teoretico-conoscitiva, bensì di attività pratica. E poiché si basano
sull'utile, allora per Croce gli pseudoconcetti delle scienze e le scienze stesse non
appartengono alla sfera della logica ma a quella dell'economia. In Croce, come
nell'idealismo in genere, è quindi presente un atteggiamento di svalutazione delle
scienze rispetto alla filosofia.
Se le scienze hanno valore pratico e non conoscitivo, gli errori nelle scienze sono
allora soltanto errori nell'attività pratica e non nella conoscenza. La vera
conoscenza è solo quella dello Spirito, o Pensiero, il quale è invece sempre verità
assoluta, perché non siamo noi in effetti a conoscere il Pensiero ma è il Pensiero
che si rivela a noi, si manifesta in noi (non il pensiero dei singoli ma il Pensiero in
generale).
Il risultato fondamentale della logica o filosofia è l'identità tra filosofia e storia,
cui Croce giunge mostrando l'identità tra il giudizio definitorio e il giudizio
individuale.
Giudizio, in termini logici, significa attribuire un predicato al soggetto (ad esempio,
il mare è grande). Il giudizio definitorio, che esprime un'essenza universale, è
quello in cui sia il soggetto che il predicato sono universali (ad esempio, il reale è
razionale; l'arte è intuizione). Il giudizio individuale, o di esistenza, è quello in cui il
soggetto è particolare, è riferito ad una specifica realtà concreta (ad esempio
Leopardi è un poeta). Però, come si vede, il predicato sia del giudizio definitorio
che del giudizio individuale sono sempre universali (infatti, "razionale",
"intuizione", "poeta" sono termini che hanno valore universale in quanto si possono
riferire a una pluralità di soggetti), per cui sostanzialmente coincidono. Quindi, in
generale, il giudizio è sempre sintesi di universale e di particolare o individuale,
giacché anche il giudizio definitorio, in cui non solo il predicato ma altresì il
soggetto ha valore universale, viene poi comunque applicato a fatti particolari e
individuali, mentre a sua volta il giudizio individuale attribuisce al soggetto, pur se
particolare e individuale, un predicato che ha sempre valore universale.
Ebbene, il giudizio definitorio è sempre filosofico, perché la filosofia è conoscenza
dell'universale, ed il giudizio individuale è sempre storico, perché si riferisce a
fatti, ad avvenimenti concreti, che cambiano col cambiar della storia. Ma poiché,
come abbiamo visto, il giudizio definitorio, che è filosofico, ed il giudizio
individuale, che è storico, coincidono, si conclude allora che pure filosofia e storia
coincidono: identità di filosofia e storia. Infatti ogni concetto filosofico ci aiuta a
comprendere i fatti storici ed ogni fatto storico che accade e ci aiuta formulare
concetti filosofici.
202

L'economia.

L'economia rientra nell'ambito dell'attività pratica o volitiva (agire è volere)


dello Spirito. Nell'attività pratica il singolo, il soggetto, produce azioni e non
conoscenze e pertanto è mosso dalla volontà (di compiere o meno una determinata
azione). Perciò l'attività pratica è chiamata anche attività volitiva. Quando la
volontà ha come fine interessi individuali o particolari si ha l'economia, che
riguarda l'utile personale. Quando invece, come vedremo, la volontà ha come fine
l'interesse e il benessere universale si ha la morale o etica, che riguarda il bene
universale. L'attività economica intende realizzare ciò che è utile e non già,
direttamente, ciò che è bene; quindi, in quanto distinta dalla morale, l'attività
economica non è valutabile con i criteri di bene e di male ma di utile o dannoso.
Per Croce l'attività economica è intesa in senso molto ampio: comprende non
solo l'attività produttiva ma anche, come già abbiamo osservato, tutte le scienze ed
inoltre le leggi, il diritto, la politica e quindi anche lo Stato, poiché tutti questi settori
hanno come finalità l'utile, individuale o collettivo; non possono pertanto essere
valutati dal punto di vista morale essendo invece autonomi rispetto ad essa. Lo Stato
perde, per Croce, il carattere etico che Hegel gli aveva attribuito quale più alta
manifestazione dello Spirito nel mondo e nella storia. In quanto l'economia è una
forma distinta dello Spirito rispetto alla morale e poiché all'economia
appartiene anche la politica, essa pure è allora indipendente dalla morale, come
per Machiavelli. È questa una concezione realistica e non etica della politica e
dello Stato, perché Croce sa bene che lo Stato non può basarsi solo sui buoni
sentimenti morali, ma deve ricorrere anche alla forza per imporre le sue leggi
all'interno e per difendersi dai nemici e dalle minacce esterni. Lo Stato però non
deve essere dispotico, tirannico od autoritario ma deve essere uno Stato liberale.
Quella liberale è per Croce la forma superiore di Stato, perché solo lo Stato liberale è
in grado di garantire non solo la libertà dei cittadini ma anche di difenderli dalle
minacce di degenerazioni autoritarie e dittatoriali dello Stato stesso. Croce è stato un
convinto antifascista.

L'etica o morale.

È la seconda forma, o categoria o distinto, dell'attività pratica dello Spirito e si


realizza quando si indirizza ed ha come fine il bene universale, il bene per tutti, e
vengono dunque superati gli egoismi individuali. L'economia invece, come abbiamo
visto, ha come fine l'utile ed è possibile volere l'utile individuale senza volere anche
il bene. Però l'economia, secondo il nesso (collegamento) dei distinti, è pur
sempre il presupposto, la condizione che rende possibile la morale perché non si
può volere il bene per tutti senza volere anche l'utile per tutti.
Perciò Croce respinge sia l'etica materialistica, che identifica il bene con l'utile,
perché l'utile se è presupposto del bene è comunque distinto da esso, sia le morali
formali, come quella di Kant che ha la forma disinteressata del "dovere per il
203

dovere", perché troppo astratte e perché separano completamente il bene dall'utile, il


quale invece, seppur distinto, è comunque condizione della morale.
Realisticamente, Croce ritiene impossibile che l'azione morale degli uomini sia
completamente disinteressata, poiché quando si agisce moralmente è inevitabile
che ci si aspetti anche una qualche utilità, cioè un premio per i meriti individuali.
Pur tuttavia Croce attribuisce alla morale la funzione e il compito più rilevanti.
Scopo fondamentale della morale, scrive Croce, è quello di promuovere e favorire la
vita e tutte le forme spirituali della vita, ossia la bellezza (estetica), la verità
(filosofia), l'ingegno e le attività pratiche (economia, scienze, tecniche, politica). In
tal senso la morale si identifica con lo Spirito medesimo, che si realizza nel
mondo e nella storia degli uomini attraverso le sue forme spirituali che proprio la
morale favorisce e potenzia.

La teoria della storia.

Nella logica o filosofia abbiamo visto che per Croce storia e filosofia coincidono.
Lo Spirito infatti non è entità statica ma è attività, processo che diviene e si realizza
storicamente. Quindi lo Spirito è la storia dello Spirito che si svolge attraverso la
storia del mondo e la storia degli uomini. E poiché la filosofia ha come suo oggetto
lo Spirito, che è storia, allora filosofia e storia coincidono.
Ogni fatto della realtà, scrive Croce nell'opera "Teoria e storia della storiografia", è
sempre un fatto storico, perché la realtà non è statica ma è continuo divenire e
sviluppo della storia dello Spirito. Non è possibile nessuna distinzione tra fatti
storici e non storici. Anche il sasso si trasforma nel tempo e quindi anch'esso è un
fatto storico. Di conseguenza ogni giudizio, ogni valutazione e conoscenza sulla
realtà, è sempre giudizio storico, conoscenza storica.
Ed ogni storia, prosegue Croce, è sempre storia contemporanea, poiché per
quanto remoti siano i fatti considerati essi sono sempre rivissuti con riferimento e per
rispondere ai bisogni ed alle domande della situazione presente. Noi operiamo il
giudizio storico sempre per un bisogno pratico: per capire meglio il presente. Da ciò
la distinzione tra storia e cronaca: la prima è studio e ricerca che fa rivivere i fatti
del passato per meglio comprendere la situazione presente, mentre la cronaca invece
non ha alcun interesse a far rivivere come attuali i fatti del passato, che tratta come
cose morte. La storia è la storia viva; la cronaca è la storia morta.
Dato che filosofia e storia coincidono, deve essere allora rifiutata ogni filosofia
che pretenda di occuparsi di problemi universali, eterni e non storici, quali i
problemi di Dio, dell'anima, dell'essere (cioè della realtà astratta). Ogni problema
filosofico si risolve unicamente quando sia trattato e considerato in rapporto e sulla
base dei fatti storici che lo hanno fatto sorgere.
In questo senso quindi la filosofia deve essere intesa come metodologia della
storia, cioè come elaborazione del metodo e dei concetti di base di cui si serve lo
storico. È proprio per tale concezione, come si diceva in premessa, che la filosofia di
Croce è definita anche come "storicismo assoluto", perché considera che la vita e la
204

realtà sono essenzialmente storia e perché considera ogni conoscenza una


conoscenza storica attualizzata, cioè rivissuta nel presente. Croce riprende la
concezione di Vico secondo cui l'unica realtà che l'uomo possa davvero conoscere è
proprio la storia, tuttavia essa, benché riferita agli uomini, è per Croce il prodotto
dello stesso Spirito assoluto che si realizza nel tempo, e ciò a differenza di Vico per
il quale la storia è invece prodotto umano. La concezione crociana attribuisce per
contro alla storia un più elevato valore di unica realtà esistente: la realtà è storia.
La conoscenza storica non è semplice riproduzione e narrazione passiva dei fatti del
passato, ma per Croce si ha vera conoscenza storica allorché giunga anch’essa ai
concetti puri, universali e concreti, quando cioè i singoli fatti storici concreti
vengano riferiti e collegati con le forme universali o categorie dello Spirito
(estetica, logica, economia, morale) di cui essi sono manifestazioni. Si ha autentica
conoscenza storica quando si perviene a comprendere che la storia è la libera
manifestazione e realizzazione dello Spirito nel mondo. Lo Spirito è libertà perché
è assoluto, non è condizionato da niente, da alcunché. Per tale ragione, appunto, la
realizzazione della storia da parte dello Spirito è sempre libera. Significa che
Croce non crede ad una concezione deterministica e meccanicistica dello
svolgimento dei fatti storici. Ma neppure crede che la storia sia guidata da una
provvidenza divina trascendente, poiché lo Spirito è il Pensiero, l'Intelligenza del
mondo immanente in esso. Lo Spirito, oltre che sempre libero, è anche sempre
razionale. Di conseguenza pure la storia, in quanto libera e razionale realizzazione
dello Spirito, è essa stessa razionale. I fatti storici non possono pertanto essere
giudicati in termini di lode o condanna. La lode o condanna per le azioni compiute
possono riguardare i singoli uomini nel momento in cui agiscono, ma quando le loro
azioni sono divenute eventi, fatti storici, essi non possono essere giudicati una
seconda volta. La conoscenza storica non ha il compito né di assolvere né di
condannare bensì di descrivere e comprendere. Tutto ciò che è accaduto ha una sua
giustificazione logica poiché è un prodotto dello Spirito. I fatti che risultino
degenerazione o decadenza storica sono tali solo in apparenza perché riguardano
situazioni specifiche le quali, se sembrano costituire un regresso, sono in realtà fasi
di preparazione e formazione di un nuovo progresso.
L'ottimismo di Croce però si attenua di fronte alle gravi situazioni provocate
dal fascismo e dal nazismo, che non si sente di giustificare come fatti storici
anch'essi razionali, i quali fanno perciò dubitare dell'idea di storia concepita
sempre come sviluppo della razionalità e della libertà. Allora Croce, nell'opera
"La storia come pensiero come azione", distingue, da un lato, tra storia come
oggetto di studio, cioè come storia pensata, in quanto tale logicamente e
razionalmente sempre giustificata poiché realizzazione dello Spirito, e, dall'altro lato,
storia come azione, cioè agita nell'attività pratica nel momento in cui gli uomini si
accingono a compiere azioni storiche: in tal caso il tipo di azioni storiche, politiche e
sociali prescelte non sono necessariamente e razionalmente sempre giustificabili ma
diventano responsabilità personali che, come tali, sono condannabili se non si
ispirano ai valori di libertà, di bene universale, di moralità.
205

GIOVANNI GENTILE (1875-1944).

Studente alla Scuola Normale di Pisa, è divenuto poi docente all'università di


Palermo, di Pisa e di Roma. È stato senatore e Ministro dell'istruzione, portando a
termine la riforma della scuola iniziata da Croce. Aderisce al fascismo, considerato
come realizzazione, da parte dello Spirito, dello Stato etico e del conseguente
superamento dell'individualismo. Per coerenza, dopo la caduta del fascismo aderisce
anche alla ricostituita Repubblica Sociale di Salò. Ciò gli è costato probabilmente la
vita: è stato infatti ucciso a Firenze da un'azione partigiana.
Opere principali: L'atto del pensare come atto puro; La riforma della dialettica
hegeliana; La teoria generale dello spirito come atto puro; Il sistema della logica.

L'attualismo.

La filosofia di Gentile è definita come "attualismo", caratterizzata da


un'impostazione, come vedremo, di soggettivismo assoluto ed immanentismo
assoluto.
Gentile si ispira alla dialettica di Hegel tuttavia riformulata e corretta. Per Gentile vi
sono due forme di dialettica:
1. quella antica, di tipo platonico, che può essere definita come la dialettica
del passato, perché considera le idee, i concetti puri come già dati e
predeterminati, esterni e indipendenti dal pensiero (sussistenti per loro conto
nel mondo delle idee), cosicché il pensiero deriva da tali idee o concetti puri e
quindi non è un pensare originale ma derivato, è cioè un pensato, una
dialettica del pensato, condizionato da idee esterne al pensiero;
2. la dialettica del pensare o dialettica moderna, per la quale non esistono
concetti, idee, realtà e verità già dati e predeterminati, esterni e indipendenti
dal pensiero, cioè dal soggetto che pensa o coscienza.
Gentile riconosce ad Hegel il merito di essere stato l'iniziatore della dialettica
moderna del pensare e di aver compreso che la realtà non si fonda su una sostanza
o su principi statici, essendo invece continuo divenire e sviluppo. Tuttavia, dice
Gentile, la dialettica di Hegel non è ancora giunta alla sua perfezione perché in essa
rimangono ancora residui della vecchia dialettica, elementi di staticità che
contraddicono la concezione della realtà come libero e continuo sviluppo. L'errore
di Hegel è di aver concepito la dialettica ancora come dialettica del pensato, cioè
come un insieme di regole (la tesi, l'antitesi e la sintesi che spiegano lo sviluppo
della realtà come contrapposizione di elementi contrari i quali trovano poi loro
accordo) che sussistono prima del pensare e che anzi regolano e predeterminano
dall'esterno il pensare stesso (i modi in cui si pensa). Invece per Gentile il pensare
non si svolge secondo regole predeterminate ma è esso stesso che, nell’"atto" in
cui pensa, cioè nel momento in cui pensa, crea le proprie regole, che può anche
cambiare e che non sono dunque predeterminate. Anche la verità non è qualcosa
di statico, di predeterminato e preesistente al pensiero, che il pensiero debba
206

cogliere come tale. La verità invece è quella che crea il pensiero nell'atto del
pensare, nel momento in cui pensa.
Insomma, per Gentile l'atto del pensare è l'unica realtà perché nessun oggetto
esiste se non nell'atto (nel momento) in cui viene pensato. Da ciò il nome di
"attualismo" dato alla filosofia di Gentile.
Perciò, pur dichiarandosi hegeliano, Gentile afferma la necessità di una riforma della
dialettica hegeliana che elimini, da un lato, la Logica perché essa è soltanto dialettica
del pensato e che, dall'altro lato, elimini anche la Filosofia della natura, la quale non
è affatto dialettica intesa come dialettica del pensare. Ciò che Gentile salva della
dialettica di Hegel è la sola Filosofia dello Spirito in quanto dialettica del pensare,
del pensiero pensante, quale è appunto lo Spirito inteso come atto puro del pensare o
pensiero in atto, l'unica e sola realtà.
Dunque ciò che autenticamente esiste nella realtà è solo l'atto del pensare, il
pensiero in generale nel momento in cui pensa, il quale è unico e indistinto: non
solo non ci sono oggetti esterni ma non ci sono nemmeno altri soggetti pensanti di
sorta, dato che questi possono essere riconosciuti come "altri" solo nell'atto in cui
sono pensati, ma subito, nel momento in cui sono pensati, sono posti anch'essi
all'interno dell'unico e indistinto atto del pensare (inteso come pensiero in generale
e non come pensiero del singolo soggetto empirico).
Non solo, come per Hegel, la realtà autentica e la verità esistono esclusivamente
nel pensiero, nella coscienza o Spirito, non essendoci nulla al di fuori di esso ma
inoltre, a differenza di Hegel, esse esistono per Gentile soltanto nell'atto del
pensare, nel momento in cui si pensa perché ciò che è già stato pensato è ormai
superato dato che la realtà cambia in ogni nuovo atto del pensare, ossia in ogni
nuovo momento in cui è pensata. Al di fuori dell'atto, del momento, in cui si pensa,
ossia dell'atto del pensare, non è colta e avvertita nessuna realtà; quindi non esiste
alcuna realtà esterna all'atto del pensare (si ribadisce, ancora una volta, che Gentile
intende l'atto del pensare non come quello del singolo soggetto empirico pensante
bensì come quello del pensiero in generale, il pensiero collettivo).
L'atto del pensare o pensiero in atto è chiamato da Gentile il "Soggetto
trascendentale" o l’"Io universale e assoluto": soggetto in quanto è la coscienza
generale dell'umanità nella sua complessiva facoltà di pensare e di conoscere;
trascendentale perché il pensiero in atto non è quello del singolo soggetto empirico
ma quello dello Spirito, della coscienza dell'umanità, che in quanto tale trascende, è
oltre a tutti i singoli soggetti empirici, ai singoli individui e alle singole coscienze
individuali, che sono essi stessi un prodotto del Soggetto trascendentale ovvero dello
Spirito assoluto. Non ci sono dapprima gli oggetti i quali solo dopo vengono
pensati dal soggetto ma anzi, al contrario, essi sono il prodotto dell'atto del
pensare o pensiero in atto, cioè del Soggetto trascendentale: gli oggetti esistono
solo nel momento in cui sono pensati. Per tale proprio carattere assoluto e a priori del
Soggetto trascendentale la filosofia di Gentile è chiamata altresì"soggettivismo
assoluto": l’unica autentica ed assoluta realtà è quella del Soggetto, o Io
trascendentale, che crea il proprio oggetto nell'atto in cui lo pensa e, nel
pensarlo, crea anche se stesso come atto del pensare (autocreazione).
207

Lo Spirito è Soggetto trascendentale nel senso che trascende, cioè sovrasta e


ricomprende tutti i singoli oggetti ed i singoli soggetti empirici (i singoli uomini),
però non è trascendente, ossia non è distinto e al di sopra del mondo e degli
uomini, ma è immanente nel mondo e nell'umanità. Non è il mondo ultrasensibile e
ultraterreno delle idee come in Platone e non è neppure il Dio creatore delle
religioni. Perciò la filosofia di Gentile è definita anche come "immanentismo
assoluto".
Il Soggetto trascendentale, ossia lo Spirito, è la forza, l'Intelligenza, il Pensiero che
agisce dentro il mondo e nella storia, che si realizza nel mondo e che si manifesta e
vive nei soggetti empirici, negli uomini. Nel produrre la realtà pensandola, il
pensiero in atto, o Spirito o Soggetto trascendentale, è del tutto libero in quanto
Spirito assoluto, nel senso che non è condizionato da alcunché, da niente. Invece, i
singoli oggetti e le singole idee prodotte non sono liberi ma necessari perché, una
volta che siano stati prodotti dal Pensiero, essi diventano dei pensati, cioè entità
statiche che non possono essere diverse da quelle che sono. Però il Pensiero nell'atto
in cui le produce è assolutamente libero: potrebbe anche non produrle o produrle in
modo diverso.

I momenti dialettici dello Spirito.

Secondo la concezione idealistica, lo Spirito è movimento, è processo di sviluppo


dialettico della realtà. Gentile individua peraltro i momenti dialettici in termini
diversi rispetto ad Hegel:
1. la tesi è costituita dal soggetto pensante, il puro pensiero, la pura facoltà di
pensare;
2. l'antitesi è costituita dall'oggetto, che il soggetto contrappone a sé come
coscienza di qualche cosa d'altro da sé: non è il pensiero ma il pensato, ossia
gli oggetti empirici;
3. la sintesi è il momento in cui il soggetto pensante riconosce (autocoscienza) i
pensati, cioè gli oggetti empirici, e tutta la realtà come propri, ossia prodotti da
se stesso: è unità di soggetto e oggetto.
In altre parole, il soggetto pensante (tesi) contrappone a sé l'oggetto (antitesi) e
quindi riconosce l'oggetto come posto da sé (sintesi).
Come nella dialettica idealistica in genere, anche qui la tesi e l'antitesi non
hanno valore reale bensì solo ideale, logico e concettuale.
La vera realtà è solo quella della sintesi di pensiero pensante (soggetto) e di
pensiero pensato (oggetto). È vero che il soggetto, poiché pensa, deve pensare
necessariamente qualcosa che concettualmente contrappone a sé come oggetto, ma
l'oggetto del pensiero (sia esso la natura, la propria coscienza o quella degli altri
uomini) non esiste al di fuori dell'atto del pensiero anzi è dal soggetto stesso
prodotto nel momento in cui lo pensa: l'oggetto pensato, e con ciò prodotto, è dentro
ed unito al soggetto pensante (sintesi).
208

Il processo dialettico è la spiritualizzazione (il diventare spirito) della realtà, che


cessa allora di apparire come un insieme di oggetti opposti al soggetto, ma viene
riconosciuta (autocoscienza) come un prodotto del soggetto stesso e viene
riassorbita in esso. Tutto è riportato nell'autocoscienza: il pensiero pensa se stesso,
riflette su di sè e si riconosce come creatore della realtà. Non esistono perciò
fenomeni e cose in sè esterni all'atto del pensare: nel momento in cui vengono
spiritualizzati, cioè nel momento in cui vengono pensati, diventano partecipi dello
Spirito.
Lo Spirito è processo (dialettico) che crea al proprio interno la molteplicità degli
oggetti e continuamente li oltrepassa mediante incessanti sintesi e unificazioni tra
soggetto ed oggetto. In questo senso la dialettica di Gentile è più simile a quella di
Fichte che a quella di Hegel. Infatti per Gentile, come per Fichte, la realtà autentica
è il movimento del pensiero che tuttavia non giunge mai a termine perché il processo
procede indefinitamente secondo un andamento lineare o a spirale infinito, anziché
secondo un andamento circolare come in Hegel.
La dialettica di Gentile spiega anche l'errore e il male. Non sono intesi come reali
in quanto l'unica realtà, si è visto, è il pensiero in atto. Sono concepiti, piuttosto, solo
come momenti dialettici, cioè come condizioni, come antitesi, da superare per
raggiungere la verità e il bene. In sè il pensiero in atto è sempre verità, bene,
positività. L'errore, il male, il dolore sussistono nel pensiero in atto soltanto come
suoi momenti superati. Vengono riconosciuti come tali solo dopo essere stati
oltrepassati, ma allora, in quanto superati, non sono più qualcosa di negativo poiché
la conoscenza dell'errore e del male è sempre verità e bene. L'errore è solo un
momento dialettico ai fini della conoscenza del vero ed il male è solo un momento
necessario alla realizzazione del bene. Neppure la morte esiste propriamente, in
quanto riguarda solo l'io empirico per cui essa, in realtà, è piuttosto un ritorno all'Io
trascendentale.

Logica astratta e logica concreta.

Gentile considera un errore la logica astratta, tradizionalmente concepita come


sistema di principi (di identità, di non contraddizione, ecc.), di sillogismi e di regole
del pensare predeterminati, statici e immobili, che precedono il pensiero stesso e si
propongono di spiegare in modo fisso e immutabile i modi in cui il pensiero si
svolge. È un errore perché, come abbiamo visto, per Gentile il pensiero in atto non è
sottoposto a regole predefinite, ma è esso stesso che crea e può anche cambiare
liberamente le sue regole nel momento in cui pensa.
La logica del pensiero in atto non è quella astratta ma è una logica concreta che si
costituisce e può variare nell'atto concreto del pensare. Però, dice Gentile, gli errori
della logica astratta sono errori necessari perché derivano dal secondo momento del
processo dialettico dello Spirito, cioè dall'antitesi, in cui il pensiero, il soggetto
pensante, si oggettivizza nel senso che, per poter pensare, produce qualcosa che per
lui, in un primo momento, è un oggetto, ossia l'oggetto del suo pensiero. La logica
209

astratta è quella che si presta a spiegare l'oggettività della natura, cioè gli oggetti
empirici che costituiscono il momento negativo, vale a dire l'antitesi del processo
dialettico. Poiché negatività, è un errore limitarsiad essa. Tale errore è risolvibile e
superabile solo nel terzo momento del processo dialettico, quello della sintesi fra
soggetto e oggetto, recuperando così la logica concreta.

Arte, religione, filosofia e scienza.

Gentile stabilisce una corrispondenza fra i tre momenti del processo dialettico
dello Spirito con gli ambiti, i settori, della cultura:
1. al momento del soggetto (la tesi) corrisponde l'arte;
2. al momento dell'oggetto (l'antitesi) corrisponde la religione;
3. al momento dell'unità di soggetto ed oggetto (la sintesi) corrisponde la
filosofia.
Così come la tesi è il momento del soggetto pensante, anche l'arte è il momento e
l'ambito della pura soggettività, è l'ambito in cui prevale il soggetto poiché il
mondo dell'arte è un mondo fantastico che vale solo come stato d'animo
soggettivo e non possiede realtà oggettiva. Per Gentile, a differenza di Croce,
l'arte non è mai intuizione, ossia attività conoscitiva rivolta ad aspetti particolari
della realtà, ma è sentimento, il sentimento di quel soggetto che è l'artista e il
sentimento di quegli altri soggetti che sono le persone che fruiscono e ammirano le
opere d'arte. Anzi, precisa Gentile, l'arte non è un qualunque sentimento ma è quel
sentimento di infinito che è l'amore. Come l'amore, l'arte è tensione, slancio,
attrazione verso ogni forma di realtà ma soprattutto verso lo Spirito. Come
sentimento soggettivo, cioè come manifestazione individuale derivante dalla
creatività del pensiero dell'artista, l'arte è autonoma sia dalla morale sia da ogni
condizionamento storico-culturale.
La religione è l'antitesi dell'arte; come nell'antitesi del processo dialettico dello
Spirito, essa è l'ambito in cui prevale l'oggetto. Infatti nella religione il Pensiero, lo
Spirito, non è avvertito come forza e attività immanente nel soggetto, cioè nella
coscienza collettiva; il soggetto invece dimentica se stesso e si annulla in un oggetto
concepito come assoluto e trascendente ed adorato come Dio. La religione è pertanto
considerata negazione della libertà e della creatività del Pensiero ed è intesa come
misticismo, ossia come annullamento dell'uomo in un oggetto assoluto esterno. Nella
religione il soggetto, ossia il Pensiero, concepisce la creazione non come propria
autocreazione ma come opera di un entità esterna, ossia Dio. Altrettanto, concepisce
la conoscenza non come produzione-comprensione dell'oggetto da parte del soggetto
(del Pensiero, o Soggetto trascendentale, che giunge all'autocoscienza), ma come
rivelazione che l'oggetto, cioè Dio, fa di se stesso al soggetto, ossia al pensiero
umano, all'uomo. Parimenti, concepisce il bene non come realizzazione della volontà
del soggetto ma come grazia che l'oggetto-Dio dona al soggetto. Tuttavia la
religione, aggiunge Gentile, pur spingendo l'uomo ad annullarsi di fronte al suo Dio,
ha il merito di fargli sentire dentro di sé il senso dell'eterno. Si può notare l'analogia
210

con Feuerbach: per entrambi è l'uomo ad aver creato Dio e non viceversa; per
entrambi Dio va ricercato nell'uomo: per Gentile nella sfera teoretica (della
conoscenza umana), per Feuerbach in quella antropologica (della natura umana).
Così come nella sintesi del processo dialettico dello Spirito, anche la filosofia è
l'ambito della sintesi di soggetto e oggetto. La filosofia scopre che tutta la realtà è
creata dal pensiero in atto, che cioè scorre e si svolge nel pensiero nel momento in cui
viene pensata e che nulla vi è fuori di esso. Di conseguenza non ha senso parlare di
un soggetto (il pensiero) e di un oggetto (il pensato) separati, perché il soggetto è il
pensiero nell’atto in cui pensa e che, con ciò, crea l'oggetto. La filosofia pertanto
supera sia l'individualismo eccessivo dell'arte, cioè la prevalenza del soggetto, sia la
prevalenza e la separazione dell'oggetto (Dio) dal soggetto quale si ritrova nella
religione. La filosofia riconosce che la realtà autentica e assoluta è invece il solo
soggetto pensante, il Soggetto trascendentale, ossia lo spirito umano.
La scienza, a sua volta, è collocata da Gentile in una posizione intermedia tra
l'arte e la religione. Oscilla tra la soggettività dell'arte (prevalenza del soggetto),
poiché il punto di vista dello scienziato è sempre soggettivo (individuale), e
l'oggettività della religione (prevalenza dell'oggetto), poiché le teorie e le leggi della
scienza si ritiene possiedano un valore oggettivo. Insomma per Gentile la scienza non
ha neppure quella validità parziale attribuita all'arte e alla religione, perché di esse
possiede i limiti senza condividerne le qualità. La sottovalutazione della scienza da
parte di Gentile, come anche da parte di Croce, ha condizionato a lungo la cultura
italiana, che ha privilegiato le discipline umanistiche rispetto a quelle scientifiche.

Inattualità dell'arte e della religione.

Inattualità dell'arte e della religione significa che non sono pensiero in atto.
Abbiamo visto che per Gentile solo la filosofia scopre che tutta la realtà è sintesi di
soggetto e oggetto e che essa è creata dal pensiero in atto, cioè dal pensiero nel
momento in cui pensa la realtà stessa. Anzi la filosofia, soggiunge Gentile, ancor
prima di coincidere con la filosofia dei filosofi, coincide con la vita stessa, coincide
col pensiero concreto dell'uomo, con la sua intelligenza che pone e risolve problemi.
L'arte e la religione sono invece inattuali perché non sono pensiero in atto; sono
momenti astratti che diventano concreti solo quando diventano pensiero in atto, ossia
quanto diventano filosofia. "Ogni uomo, scrive Gentile, non può mai né poetare
(essere artista) né adorare (credere in Dio) senza pensare". Infatti l'arte nella sua
purezza (in se stessa) è inafferrabile, tant'è che nel momento in cui il sentimento
artistico si esprime cessa di essere arte per diventare pensiero e quindi filosofia.
Anche la religione nella sua purezza è inafferrabile perché il suo oggetto (Dio) esiste
solo se c'è il soggetto (l’uomo) che la pensa e quindi fa filosofia. Pertanto l'attualità
dell'arte e della religione coincide con la loro morte nella filosofia, ossia l'arte e la
religione diventano attuali solo morendo come tali e diventando filosofia.
211

L'unità indistinta dello Spirito: la polemica con Croce.

Anche Croce similmente a Gentile considera come realtà autentica solo quella che
deriva dal processo dialettico dello Spirito, allorquando nella sintesi si realizza l'unità
di soggetto e oggetto. Tuttavia Croce, all'interno dello Spirito, distingue l'attività
teoretica (conoscitiva) da quella pratica, affermando inoltre la presenza nello Spirito
di quattro categorie o forme distinte, seppur collegate nel senso che ognuna è il
presupposto della seguente (l'arte, la logica o filosofia, l'economia e la morale).
Gentile, per contro, non accetta la teoria dei "distinti" di Croce. Su tale questione
sorge anzi un'accesa polemica fra i due filosofi che prima avevano collaborato a
lungo insieme.
Per Gentile invece lo Spirito è unico, è un'unità indistinta: non esistono in esso
attività e categorie distinte perché unico è lo Spirito che pensa (attività teoretica) e
che agisce (attività pratica); infatti quando pensa agisce e quando agisce pensa. Esiste
solo un'unica categoria che è l'atto del pensare, poiché non ci sono realtà
molteplici da comprendere ma una sola, cioè il pensiero in atto, il pensiero che pensa
e riflette su stesso e si autoriconosce come realtà unica e assoluta. Scrive Gentile: "Io
non sono mai io senza essere tutto quello che penso; e quello che penso è sempre
unico perché unico sono io". Le varie esperienze (conoscitiva e pratica, artistica e
filosofica, economica e morale) sono sempre assorbite nell'unità dell'io, cioè della
coscienza: la Coscienza, il Pensiero, come Spirito dell'umanità, è uno solo; non vi
sono Spiriti dell'umanità plurimi perché unica è l'umanità stessa.

Filosofia, storia della filosofia e storia.

Croce e Gentile, come pure Hegel, sono invece d'accordo sull'identità di storia e
filosofia e sull'identità della filosofia con la storia della filosofia.
Infatti, se tutta la storia della realtà è il prodotto della storia del pensiero, cioè dello
Spirito, e se la storia del pensiero è la filosofia, allora storia e filosofia coincidono,
sono identiche: lo Spirito si realizza nella storia e la storia è la realizzazione dello
Spirito.
Altrettanto, se la filosofia è lo studio della storia dello Spirito man mano che esso
diviene e si sviluppa, allora la filosofia coincide con la storia della filosofia. Non c'è
un filosofo che abbia prodotto una filosofia definitiva poiché la filosofia progredisce
continuamente lungo la sua storia.
Gentile divide la storia della filosofia in due grandi epoche:
1. quella antica, che è una filosofia dell'oggettività: la realtà è intesa come
insieme di oggetti esterni e indipendenti dallo Spirito e non come suo
prodotto;
2. quella moderna, che per Gentile inizia col Rinascimento italiano, la quale
comincia a divenire e poi diventa una filosofia della soggettività: dapprima,
fino a Kant compreso, la conoscenza della realtà viene fondata sulla capacità
del soggetto pensante di organizzare i dati fenomenici della realtà; poi si
212

comprende che la realtà è il prodotto e la realizzazione del Soggetto


trascendentale (lo Spirito, il Pensiero) nel mondo e nella storia.
Gentile concepisce peraltro l'identità di storia e filosofia in maniera ancor più
estrema di Croce. Egli infatti non distingue, come in seguito ha fatto Croce, tra
storia come pensiero (storiografia, studio della storia) e storia come azione (le azioni
storiche nel momento in cui sono compiute dagli uomini), perché è convinto che i
fatti storici sono reali solo nel pensiero che li pensa, solo in quanto sono pensati. A
chi gli obietta che c'è una contraddizione quando, da un lato, si considera che lo
Spirito è storia perché si realizza nella storia e quando, dall'altro lato, si considera
invece che lo Spirito non è storia perché è eterno, Gentile risponde che è vero che lo
Spirito si realizza nella storia, ma è altrettanto vero che il tempo della storia, ogni
tempo, passato, presente e futuro, è ugualmente presente nell'eternità dello Spirito.
Nell'eternità infatti non c'è passato e futuro, ma ogni tempo è in essa
contemporaneamente presente: è un presente eterno.
Il concetto secondo cui la storia è sempre storia contemporanea, già formulato da
Croce, assume di conseguenza in Gentile un senso ancora più forte: allorquando i
fatti storici sono pensati, essi sono, per Gentile, sempre rivissuti dal pensiero che li
pensa come attuali, sono attualizzati, vale a dire che sono sempre considerati e
interpretati secondo i bisogni, le domande e le aspettative della situazione
contemporanea. Ad esempio Dante risulta vivo ancor oggi perché, leggendo e quindi
pensando il suo poema, lo facciamo nostro e lo interpretiamo in base alla nostra
presente sensibilità.

Lo Stato etico.

Nelle opere "Fondamenti della filosofia del diritto" e "Genesi e struttura della
società", Gentile affronta i temi della morale, del diritto, della politica, della
società e dello Stato.
Spiega la morale e il diritto non già in termini di prodotti dell’attività pratica, come
in Croce, bensì attraverso la dialettica (contrapposizione) di volente e voluto, che
è perfettamente corrispondente a quella di pensante e pensato, avendo visto che per
Gentile nessuna distinzione è possibile tra pensiero e volontà, tra attività teoretica e
attività pratica: il pensiero come attività creatrice infinita è volontà infinita creatrice.
La moralità è il volente, è volontà del bene, cioè creazione del bene nell'atto di
volerlo; il diritto è il voluto, cioè non è più volontà del bene in atto (il volere il
bene) ma è volontà passata, è ciò che è divenuta la volontà del bene quando è
realizzata; il diritto infatti è l'insieme delle norme che regolano il bene sociale che si
è voluto. La moralità (il volere il bene) si basa sulla libertà; il diritto (le norme
volute) si basa sull'obbligo di rispettarlo, anche con l'uso della forza. Ma tale
contrasto è per Gentile più apparente che reale, perché il voluto, cioè il diritto, è
proprio ciò che vuole il volente, ossia la moralità, che non è quella individuale
egoistica ma quella sociale altruistica.
213

Gentile rifiuta perciò la distinzione tra privato e pubblico e la conseguente


possibilità di porre limiti all'azione dello Stato. Tale distinzione non può in effetti
sussistere se l'unica autentica realtà non è quella dei singoli individui empirici ma è
lo Spirito trascendentale, cioè lo spirito dell'umanità. La vera democrazia quindi è
quella che non pone limiti allo Stato ma che riconosce la superiorità dello Stato
sui singoli cittadini: lo Stato non è al servizio dei cittadini ma vale il contrario. In tal
modo Gentile teorizza e sostiene, ancor più di Hegel, lo "Stato etico". Viene
chiamato etico perché intende regolare non solo la vita pubblica ma anche la vita
etica, la morale privata dei cittadini, proprio in forza della superiorità dello Stato
sugli individui. Lo Stato etico è per Gentile, come per Hegel ed anche per Rousseau,
la realizzazione della volontà universale dello Spirito. Pertanto esso non ha limiti al
di sopra o al di fuori di sè e pretende dunque obbedienza da parte dei cittadini. Tale
obbedienza non è in contrasto con la libertà perché, secondo Gentile, la libertà non
risiede negli egoismi particolari degli individui bensì nello Stato, che è sintesi di
moralità, basata sulla libertà, e di diritto (le leggi dello Stato) basato sull'obbligo
di rispettarlo. Solo lo Stato garantisce la sintesi tra gli interessi individuali e i doveri
che impone la società. Lo Stato costituisce la realizzazione della moralità pubblica
perché in esso i singoli cittadini superano gli egoismi individuali e sono condotti ad
attuare la volontà universale, il bene universale.
Lo Stato etico di Gentile ha una struttura corporativa, è cioè basato sull'insieme
delle varie corporazioni (categorie) di lavoratori. Infatti, osserva Gentile, non è vero
che tutti i lavori sono uguali: il lavoro dello spazzino è assai diverso da quello
dell'artista o dell'ingegnere. Ogni lavoratore appartiene ad una sua propria e distinta
categoria o corporazione. Ogni corporazione ha interessi specifici, diversi da quelli
delle altre, ma nel loro insieme le diverse corporazioni trovano un'intesa, un
accordo, nel superiore interesse dello Stato; lo Stato tiene conto dei diversi
interessi delle varie categorie di lavoratori tuttavia equilibrandoli, stabilendo un
equilibrato e proporzionato riconoscimento per ognuna. Gentile è contrario sia allo
Stato liberale, per il quale le libertà individuali del cittadino non possono mai essere
violate ma devono sempre essere rispettate, sia al socialismo-comunismo, come al
sindacalismo. Il cittadino non partecipa direttamente alla vita dello Stato, alla
politica, ma vi partecipa indirettamente attraverso la corporazione lavorativa cui
appartiene.
Proprio in base a tali concezioni Gentile aderisce al fascismo, fornendo ad esso
una giustificazione ideologica. Giudicando altresì la società italiana troppo
individualista, nutre fiducia nel fascismo in quanto sostenitore di un ideale collettivo.
L'ideologia fascista si basava infatti non sui diritti individuali ma proprio sulle
corporazioni. Perciò Gentile considera il fascismo superiore al sindacalismo
perché in grado di eliminare la contrapposizione tra Stato e sindacati; considera il
fascismo superiore anche al socialismo e al comunismo poiché intende far leva sul
comune interesse nazionale e non sulla lotta di classe. Considera il fascismo
superiore altresì al liberalismo (allo Stato liberale), giudicando del tutto astratte e
formali le libertà individuali sostenute dall'ideologia liberale: la vera libertà consiste
per Gentile, come già visto, nella moralità pubblica.
214

La pedagogia e la riforma della scuola.

In conformità alla sua filosofia, che afferma la sintesi e l'unità di soggetto e oggetto
all'interno dello Spirito, nel pensiero in atto, anche per quanto riguarda la
pedagogia Gentile afferma, altrettanto, l'identità tra educatore ed educando,
similmente a Sant'Agostino. Ogni forma di insegnamento deve perciò comportare
una profonda e reciproca intesa tra insegnante e allievo. L'insegnante deve di volta in
volta adattarsi all'allievo e l'allievo all'insegnante. Non esiste dunque per Gentile un
metodo didattico generale, unico e predeterminato per ogni materia e per ogni
insegnante. Rifiuta il metodo d'insegnamento di origine anglo-americana, che
riduce il processo educativo a tecniche didattiche.
Sempre in conformità con la sua filosofia, che afferma l'identità della filosofia con la
storia della filosofia, mediante la sua riforma della scuola del 1923 Gentile
sostituisce lo studio della filosofia per problemi (per singoli temi omogenei) con
quello della storia della filosofia (ancora attuale). Altrettanto dicasi per le altre
discipline, che basa anch'esse sullo studio della relativa storia (storia della
letteratura, dell'arte, della lingua, ecc.).
Secondo la sua mentalità idealistica, che sottovaluta le scienze, considera il Liceo
classico come istituto scolastico riservato ai più intelligenti e superiore alle altre
scuole tecniche e scientifiche.
215

LA FENOMENOLOGIA.

Fra le correnti filosofiche in polemica col Positivismo (cioè contro la concezione


deterministica e dogmatica della scienza e contro l'assoluta fiducia positivistica nei
"fatti", indotta ad igorare che i fatti in sé non significano niente ma che è la nostra
coscienza che interpreta e attribuisce significato ai fatti) si colloca anche la
"Fenomenologia", la quale si oppone altresì allo psicologismo (ritenere cioè che la
logica derivi dalla psicologia, ossia che i concetti logici derivino da processi psichici
e dalla struttura psicologica dell'uomo), nonché all'idealismo e al neoidealismo.
Letteralmente fenomenologia significa scienza dei fenomeni che costituiscono e
sono l'oggetto dell'esperienza. Ma i fenomeni di cui si occupa la fenomenologia
non sono quelli fisici bensì quelli psichici (le credenze, le persuasioni, le opinioni, i
punti di vista, le emozioni, i sentimenti) che avvengono nella coscienza per effetto
delle sensazioni ed esperienze effettuate e vissute. Inoltre, la fenomenologia studia i
fenomeni psichici non nei loro aspetti particolari, esteriori e fisiologici, come fa la
scienza, ma per cogliere quelle che sono definite le essenze dei fenomeni psichici,
ossia il loro significato, il loro senso essenziale quale è avvertito dalla coscienza nel
fare esperienza di tali fenomeni: il motto della fenomenologia è infatti quello di
"tornare alle cose", cioè al senso che le cose hanno per noi, per la nostra
coscienza.
Più che una teoria, ossia una spiegazione della realtà, la fenomenologia è
soprattutto un metodo di indagine, con obiettivi di tipo descrittivo piuttosto che
esplicativo. È cioè scienza dei fenomeni psichici che intende descrivere i modi
tipici, ossia il senso e il significato essenziale, con cui le cose, vale a dire i fenomeni,
si presentano e sono colte dalla coscienza, depurate dai loro aspetti particolari.
Quindi è scienza delle essenze ricavabili dai fenomeni oggetto di esperienza e non
scienza dei dati di fatto fenomenici, come inteso dalle scienze fisiche, fisiologiche e
psicologiche meccanicistiche.
La fenomenologia dunque analizza e descrive non i dati di fatto, gli aspetti
particolari ed esteriori dei fenomeni, ma la loro essenza, il senso e significato
essenziale, complessivo, che essi assumono per la coscienza, la quale soltanto
attribuisce un senso ai fenomeni poiché volta a rintracciare, nelle particolarità dei
fenomeni dell'esperienza, la specie generale cui ognuno di essi appartiene, ossia il
significato essenziale al di là delle caratteristiche particolari specifiche. Ad esempio,
alla fenomenologia non interessa la descrizione delle pratiche e modalità specifiche
con cui è celebrato un determinato rito religioso o che caratterizzano un determinato
comportamento morale, ma invece ad essa interessa descrivere e capire in che modo
la coscienza riconosce e attribuisce a quel rito particolare il significato generale ed
essenziale della religiosità o riconosce e attribuisce a quel comportamento il
significato generale ed essenziale della moralità.
La coscienza non è vuota ma è necessariamente coscienza (consapevolezza,
sentire) di qualcosa, ossia dei fenomeni: in termini tecnici è definita "coscienza
intenzionale", ossia “intenzionata”, vale a dire “rivolta”, “indirizzata” ai fenomeni. I
singoli fenomeni sono in se stessi casuali e contingenti ed è solo la coscienza che li
216

interpreta e attribuisce loro un senso, un significato essenziale, universale e


oggettivo. Universale e oggettivo perché la coscienza di cui tratta la
fenomenologia non è la coscienza soggettiva dei singoli individui ma è la coscienza
in generale, che è comune facoltà di tutti gli uomini, in quanto tale stabile e costante.
Le essenze dei fenomeni sono definite dalla fenomenologia come strutture (modi
di essere) invarianti (che non variano ma sono costanti) e trascendentali perché non
derivano dai singoli fenomeni particolari ma li trascendono, li superano, in quanto la
coscienza attribuisce ai diversi e singoli fenomeni particolari appartenenti ad una
medesima specie (la religiosità, la moralità, la giustizia, la bellezza, ecc.) un
medesimo e comune significato essenziale.
Come si può notare, la fenomenologia risulta in parte somigliante ed in parte
differente rispetto sia al kantismo che all'idealismo. La coscienza fenomenologica
organizza, interpreta e conferisce senso ai dati dell'esperienza, ossia ai fenomeni,
analogamente alle forme a priori della sensibilità (spazio tempo) e alle categorie
dell'intelletto su cui Kant fonda la validità della matematica e della fisica. Ma,
diversamente da Kant, la coscienza fenomenologica abbraccia la totalità delle facoltà
umane: non è solo intelletto (ragion pura) ma è anche volontà (ragion pratica) e
sentimento (critica del giudizio). La coscienza fenomenologica è inoltre la coscienza
in generale, come l'Io, l'Idea o lo Spirito dell'Idealismo (lo spirito dell'umanità di cui
tratta Hegel) ma, diversamente dall'Idealismo, non è produttrice della realtà bensì si
pone in rapporto, si confronta, con la realtà fenomenica.
Fondatore e maggior esponente della fenomenologia è Husserl. Altri importanti
esponenti sono Scheler, Hartmann e in parte Heidegger.
Come scienza del rapporto tra coscienza e fatti fenomenici e quindi come scienza
delle essenze, ossia del senso che la coscienza attribuisce ai fatti, alle "cose"
dell'esperienza, la fenomenologia si sviluppa al suo interno in due direzioni od
orientamenti: uno idealistico, l'altro realistico.
Secondo l'orientamento idealistico, assunto da Husserl, i significati o essenze dei
fenomeni, comprensivi sia degli oggetti dell'esperienza, sia delle istituzioni sociali
(ad esempio la Chiesa, la famiglia, le organizzazioni sociali, ecc.) e sia anche dei
valori (gli ideali), sono prodotti e costituiti dalla coscienza stessa.
Secondo l'orientamento realista, assunto da Scheler, i significati o essenze hanno
una reale esistenza in sé, come le idee matematiche, che la coscienza coglie ed
intuisce.
Hartmann, a sua volta, dà alla fenomenologia un'impostazione prevalentemente
ontologica, considerando la fenomenologia soprattutto come analisi dell'essere (della
realtà in generale) piuttosto che come analisi della coscienza.
Notevole è stato l'influsso della fenomenologia non solo su taluni ulteriori sviluppi
della filosofia come l'esistenzialismo, ma anche sulla psicologia, sull'antropologia,
sulla psichiatria, sulla filosofia morale e sulla religione.
217

EDMUND HUSSERL (1859-1938).

Tedesco di origine ebraica, studia matematica, poi psicologia e filosofia. È stato


allievo di Brentano e quindi docente universitario ad Halle, a Gottinga e a Friburgo.
Poiché ebreo, è stato perseguitato dal nazismo.
Opere principali: Le ricerche logiche; Idee per una fenomenologia pura e per una
filosofia fenomenologica; La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale.

La polemica contro lo psicologismo.

Ai suoi esordi Husserl partecipa con interesse al vivace dibattito sviluppatosi tra
psicologisti e logicisti.
Gli psicologisti, e tra questi Brentano maestro di Husserl, sostengono che la logica
deriva dalla psicologia: i concetti logici e lo stesso concetto matematico di numero
derivano dai processi psichici e dalla struttura psicologica dell'uomo, che
istintivamente è indotto, davanti ai fenomeni, ad astrarre da essi generalizzazioni e
regole di organizzazione nonché a sviluppare la tendenza al contare.
I logicisti (Bolzano, Cantor, Frege) sostengono, per contro, che i concetti logici e
matematici non si possono ridurre a funzioni e processi psichici, poiché essi
possiedono una verità e validità in sé, universale e necessaria, indipendentemente
dalla coscienza soggettiva e dall'esperienza. Le proposizioni logiche e i concetti
matematici sussistono e sono validi sia che vengano o non vengano pensati. Così è,
ad esempio, per il principio di non contraddizione, per il concetto di triangolo, per
quello di numero. Non solo essi non derivano dai processi psichici, ma ne sono la
condizione. Bisogna distinguere tra giudizi di fatto, che procedono per via intuitiva e
che in quanto tali non sono affatto necessari, e i principi universali e necessarie della
logica e della matematica che, applicati all'osservazione, alla conoscenza e alla
scienza, garantiscono la correttezza delle deduzioni. Le leggi logiche e matematiche
non possono dipendere dai processi psicologici. La rappresentazione psicologica è
particolare, empirica e soggettiva, per cui non può darci altro che giudizi di fatto, non
universali né oggettivi. Siamo in tal senso di fronte all'idea di una logica pura.
Husserl inizialmente aderisce alle tesi dello psicologismo e, in particolare, a quelle
di Brentano. Successivamente, convinto dalle critiche di Frege, abbandona lo
psicologismo riconoscendo l'autonomia della logica e della matematica dai processi
psicologici. Tuttavia Husserl non assolutizza la logica (non la considera prioritaria,
assoluta ed esclusiva) e non la colloca in un mondo astratto senza alcun rapporto con
la vita psichica del soggetto. Per Husserl non deve essere, in ogni caso, ignorato il
ruolo della coscienza che è quello del conferimento di senso ai fenomeni, per cui
si preoccupa di stabilire una serie di connessioni tra la logica e l'esperienza
psichica.
218

La logica e la matematica sono le condizioni che rendono possibile una teoria, ma


non possono essere meccanicamente applicate ai fenomeni, soprattutto ai fenomeni
psichici, dimenticando, come i positivisti, la funzione che svolge la coscienza nel
dare un senso ai fenomeni particolari. Dunque è necessario un rivolgimento del
modello scientifico-conoscitivo del positivismo, che Hegel definisce naturalistico
poiché tutto è ridotto a natura; gli oggetti dell'indagine sono esclusivamente
considerati enti fisici da studiare solo attraverso la fisica e la matematica. Nel
processo conoscitivo interviene invece anche la coscienza interpretando i fatti, a
maggior ragione se si tratta di fatti umani, i quali hanno a che fare con gli ideali, con i
valori, col sentimento e con la volontà. Da qui il proclama di Husserl: "Bisogna
tornare alle cose concrete", cioè tornare al senso e al significato delle cose quale
esse assumono non come puri e semplici dati fisici ma in rapporto col soggetto,
ossia con la coscienza, che acquisisce i fenomeni e che, al tempo stesso, essa soltanto
attribuisce loro senso.

La nozione di "essenza" e l'intuizione "eidetica".

Sulla base della distinzione tra proposizioni scientifiche, basate sui principi della
logica e della matematica, e proposizioni (o giudizi) ricavate induttivamente
dall'esperienza, Husserl distingue tra intuizione di un dato di fatto e intuizione di
un'essenza. Husserl è persuaso che la nostra conoscenza comincia con
l'esperienza: con l'esperienza di cose esistenti, cioè di fenomeni, di fatti.
L'esperienza ci offre di continuo dati di fatto con i quali siamo alle prese nella vita
quotidiana e dei quali si occupa pure la scienza. Un fatto è ciò che accade qui e ora
ed è contingente (potrebbe esserci o non esserci). Ma quando un fatto (ad esempio
questo suono di violino, questo colore) si presenta alla coscienza, insieme al fatto
noi cogliamo anche l'essenza di quel fatto, cioè la specie universale, il modo tipico
che caratterizza ogni dato o fatto particolare appartenente a quella data specie, ossia
ad una certa categoria, ad un certo gruppo omogeneo (ad esempio, non cogliamo
soltanto il suono di questo violino ma "il suono", cioè l'essenza del suono, l'idea
universale del suono; altrettanto, non cogliamo solo questo colore, ma anche "il
colore"). Nelle occasioni più disparate noi possiamo udire i suoni più diversi (violino,
clarino, pianoforte, ecc.) ma in essi noi riconosciamo qualcosa di comune, un'essenza
comune. In ogni fatto particolare si coglie sempre un'essenza o idea universale:
ogni esperienza particolare si presenta sempre come tale rispetto ad una idea generale
e universale. Quando la coscienza coglie un fatto qui ed ora, essa coglie anche
l'essenza di cui quel fatto specifico e contingente è un caso particolare: questo colore
è un caso particolare dell'essenza "colore"; questo suono è un caso particolare
dell'essenza "suono"; questo rumore è un caso particolare delle essenza "rumore", e
così via.
Le essenze sono quindi i modi tipici con cui i fenomeni si manifestano alla
coscienza; sono una specie generale ed universale cui appartiene un fatto particolare,
un dato di coscienza. Ma l'essenza non è un concetto: l'essenza cioè non scaturisce
219

dall'astrazione di ciò che è comune nei casi particolari o dalla comparazione tra cose
simili, come sostengono gli empiristi, poiché la somiglianza è già un'essenza. Non
astraiamo l'idea o essenza di triangolo dalla comparazione di più triangoli, ma
piuttosto riconosciamo che questo, quello e quell'altro sono tutti i triangoli perché
sono casi particolari dell'idea di triangolo. La conoscenza delle essenze non è cioè
una conoscenza mediata, ottenuta attraverso l'astrazione o la comparazione di più fatti
particolari: per comparare più fatti bisogna aver colto già un'essenza, ossia un aspetto
tipico per cui sono simili. Invece, la conoscenza delle essenze è un'intuizione
immediata, poiché in ogni singolo dato noi cogliamo intuitivamente la presenza di
un'idea, di un'essenza universale.
L'intuizione delle essenze è chiamata da Husserl "intuizione eidetica" (dal greco
"eidos" che significa idea, essenza). I fatti singoli sono casi particolari di essenze
eidetiche (ideali). È vero che sono reali solo i casi singoli mentre le essenze
eidetiche non lo sono, ma solo l'intuizione delle essenze eidetiche, delle essenze
ideali, ci permette di classificare, di riconoscere e distinguere i fatti particolari.
Si può notare l'analogia della dottrina delle essenze eidetiche con la teoria del
mondo delle idee di Platone (con la differenza però che le essenze non hanno una
loro collocazione indipendente nell'Iperuranio, ma sono il modo tipico dell'apparire
dei fenomeni alla coscienza) nonché con le forme a priori e le categorie
trascendentali della ragion pura di Kant (con la differenza però che le essenze non
regolano soltanto i fenomeni oggetto della conoscenza fisica e scientifica ma anche
quelli che riguardano l'attività pratica, il sentimento, i valori, le emozioni).
La fenomenologia ha quindi il compito di descrivere la tipologia (i vari tipi) delle
essenze e di individuare il metodo attraverso cui i fatti particolari possono essere
correttamente ridotti e ricondotti alle essenze, ovverossia come nei fatti particolari
si colgono le essenze. A tal fine occorre osservare due condizioni fondamentali:
1. la "riduzione eidetica", che sostituisce alla considerazione dei fatti particolari
o delle cose naturali l'intuizione delle essenze;
2. l’"epoché", che sospende il giudizio e le tesi che derivano da credenze
ingenue, dai preconcetti e dal senso comune.

La riduzione eidetica e l'epoché.

Per riduzione eidetica Husserl intende il processo, il modo, attraverso cui, con
un'opera di depurazione (purificazione) o, appunto, di riduzione, si sostituisce alla
percezione dei fenomeni empirico-particolari l'intuizione delle essenze. In altri
termini, mediante la riduzione eidetica la fenomenologia, partendo dai fenomeni, si
propone di descrivere i modi tipici con cui questi si presentano alla coscienza,
rintracciando così le essenze dei fatti, ossia le idee universali che la coscienza
intuisce esserci all'interno dei dati individuali e particolari. L'obiettivo è di fondare la
fenomenologia come scienza rigorosa che guarda alle cose al fine di trovare, al di là
dei fenomeni particolari e contingenti, punti solidi e dati indubitabili, tali da non poter
venir messi in dubbio.
220

Per giungere alle riduzioni eidetiche Husserl propone il ricorso al metodo


dell'epoché, che alla lettera significa sospensione del giudizio.
Dunque, la riduzione eidetica è un processo, una procedura, mentre l'epoché è
un metodo.
L'epoché presenta analogie col dubbio metodico cartesiano. Tuttavia praticare
l'epoché non significa propriamente dubitare; vuol dire piuttosto sospendere il
giudizio su tutto quello che innanzitutto ci dicono le dottrine filosofiche, con i loro
inconcludenti dibattiti metafisici, ma anche su quanto dicono le scienze, nonché sulle
nostre opinioni di vita quotidiana, sulle nostre credenze, sui preconcetti, ossia su
quello che Husserl chiama l’"atteggiamento naturale", ossia il senso comune.
L'atteggiamento naturale dell'uomo è fatto di svariate persuasioni, utili e
necessarie alla vita pratica quotidiana, e la prima di queste persuasioni è che si viva
in un mondo di cose esistenti. Però queste persuasioni non posseggono
un'evidenza manifesta e cogente (necessaria) e di conseguenza vanno messe tra
parentesi. Il filosofo non deve cioè utilizzarle come fondamento della sua filosofia,
poiché la filosofia, se vuole essere scienza rigorosa, deve porre a suo fondamento
solo ciò che è indubitabilmente evidente.
Quindi dalla mia persuasione che il mondo esiste non debbo dedurre nessuna
proposizione ed elaborazione filosofica perché l'esistenza del mondo, al di fuori
della coscienza che l'avverte, non è affatto certa e indubitabile. Il mondo esiste
indubitabilmente come dato di coscienza, ma al di fuori di essa non posso affermarne
con certezza l'esistenza. Come uomo il filosofo crede nell'esistenza del mondo e non
può farne a meno nella vita pratica, così come di molte altre credenze, ma come
filosofo non può partire da esse. Non può partire nemmeno dai risultati della ricerca
scientifica perché le scienze, pur procedendo secondo un metodo rigoroso,
interpretano i dati dell'esperienza comune accentuandoli "ingenuamente", senza
chiedersi se questi siano in realtà indubitabili, logicamente universali e necessari. In
realtà l’epoché nemmeno si pone il problema dell’esistenza oggettiva o meno del
mondo. Il problema che l'epoché vuole risolvere è piuttosto quello del significato e
del fine del mondo.
La domanda iniziale della filosofia alla ricerca del proprio fondamento è quella che
molti filosofi hanno posto: “esiste qualcosa di cui non si può dubitare e che non si
lascia mettere tra parentesi?” Husserl risponde positivamente: questo qualcosa è
la coscienza, o soggettività, alla quale si manifesta tutto ciò che appare (apparire non
significa anche esistere oggettivamente, realmente). La coscienza è in tal senso
definita da Husserl "residuo fenomenologico", ossia ciò che resta dopo aver
applicato l'epoché su ogni cosa, su ogni tesi e teoria.
Dunque, grazie all'epoché, cioè grazie alla sospensione del giudizio e alla messa tra
parentesi dei dati sensibili del mondo, emerge il carattere assoluto e fondante della
coscienza, della coscienza come fondamento di ogni realtà. Poiché nessun oggetto,
reale o ideale, è autosufficiente in quanto è la coscienza che gli conferisce senso, ne
deriva come conseguenza che la coscienza è invece un essere assoluto che non ha
bisogno di altro per esistere, mentre gli oggetti hanno bisogno della coscienza per
essere esperiti e conosciuti, cioè per poter esistere per noi: la coscienza è quindi
221

l'elemento "trascendentale" (kantianamente inteso come indipendente dalla sensibilità


e dall'esperienza) che rende possibile (per noi) l'esistenza del mondo. L'esperienza di
un oggetto non garantisce infallibilmente la realtà dell'oggetto, ma come
esperienza (sentire, avvertire) della coscienza non può non esistere.

L'intenzionalità della coscienza.

Queste conclusioni cui Husserl è giunto hanno comportato interpretazioni della


fenomenologia come una nuova forma di idealismo, nel senso che, data la
posizione privilegiata e assoluta attribuita alla coscienza, essa sarebbe allora
idealisticamente concepibile come creatrice e produttrice del mondo e della realtà.
Husserl controbatte a questa accusa attraverso la teoria dell’"intenzionalità della
coscienza", precisando in base a tale teoria che la fenomenologia non è paragonabile
all'idealismo e che si configura invece come una filosofia della relazione, nella
quale l'oggetto (magari solo in forma di rappresentazione o di concetto) è
altrettanto necessario quanto il soggetto ed è ad esso irriducibile (non coincidete).
La dottrina dell'intenzionalità della coscienza risale alla filosofia scolastica medievale
ed è stata ripresa in chiave moderna da Brentano, maestro di Husserl. Husserl la fa
propria e la sviluppa ulteriormente.
Intenzionalità vuol dire, etimologicamente, riferirsi a qualcosaltro di diverso da sé.
In tal senso, intenzionalità della coscienza significa che la coscienza è sempre
coscienza di qualcosa di diverso da se stessa, di qualcosa che non è coscienza.
Quando percepisco o immagino o penso o ricordo, io percepisco, immagino, penso o
ricordo qualche cosa che non è me stesso e che neppure è la coscienza come spirito
generale in sè. Risulta chiaro allora che vi è distinzione tra soggetto che conosce e
oggetto conosciuto, e ciò contrariamente all'idealismo che negava tale
distinzione.
Husserl chiama "noesi" l'aver coscienza di qualcosa (il soggetto) e chiama "noema"
ciò di cui si ha coscienza (l'oggetto). Gli atti della coscienza hanno la caratteristica
di riferirsi sempre ad un oggetto distinto da essa; essi fanno sempre apparire o,
meglio, vedere e sentire degli oggetti. "Non vedo -scrive Husserl- sensazioni di
colore (che in quanto tali sarebbero interne ed indistinte dalla coscienza), ma cose
colorate, non odo sensazioni di suono, ma la canzone della cantante". Il fenomeno di
cui io ho coscienza non è l'apparenza contrapposta alla "cosa in sé": io sento la
musica, un profumo, non la loro apparenza. In quanto intenzionale, cioè sempre
rivolta ad oggetti diversi da sé, la coscienza non è quindi produzione o creazione
delle cose, come per l'idealismo, ma è il luogo, l'ambito, il modo in cui le cose si
lasciano vedere, in cui appaiono.
Il carattere intenzionale della coscienza, per Husserl, non comporta tuttavia, di
per sé, una concezione realistica, ossia la certezza dell'esistenza reale del mondo e
delle cose. È vero che la coscienza si riferisce sempre ad altro da sé, ma non è
dimostrato che questo altro esista davvero fuori di me. L'apparire di un fenomeno
alla coscienza non garantisce automaticamente e indubitabilmente anche l'essere reale
222

di quel fenomeno al di fuori della coscienza: l'alternativa e la controversia fra


realismo e idealismo restano irrisolte in Husserl.
Del resto ad Husserl non interessa porre questo problema, non intende cioè
risolvere la contrapposizione filosofica tra idealismo e realismo. Ciò che ad Husserl
interessa è di concludere che ogni cosa, ogni fenomeno che sia colto dalla
coscienza è comunque sentito come esistente per la coscienza, sia che esista o non
esista anche nella realtà esterna, e che è inoltre sentito come distinto dalla
coscienza medesima, come diverso da essa. In tal modo è sottolineata l'autonomia
dell'oggetto dalla coscienza. Scrive Husserl: "tutto ciò che si presenta alla coscienza
è di diritto fonte di conoscenza: deve essere assunto così come si offre, ma anche
soltanto nei limiti in cui si offre".
In verità, nelle opere posteriori Husserl finisce col concepire la coscienza come
del tutto assoluta, come un Io trascendentale (come fondamento e artefice della
totalità della realtà) che non ha più niente a che fare con l'io empirico e naturale
dell'uomo. Difatti l'io empirico è già parte del mondo e di fronte a lui esiste già il
mondo come esistono gli altri io. Invece, l'Io trascendentale diventa tutta la realtà (la
natura, la cultura, il mondo in generale) poiché in esso è racchiusa la possibilità, il
fondamento, di tutto ciò che esiste. Esso è quindi una coscienza che non ha più una
vera e propria intenzionalità, in quanto l'intenzionalità è sempre il rapporto con
un oggetto distinto, mentre non c'è alcun oggetto che sia distinto e trascendente
rispetto all'Io trascendentale. Così, nell'ultimo Husserl si manifesta il prevalere
di una tendenza idealistica. L'Io trascendentale dell'ultimo Husserl non è più quello
kantiano indipendente dall'esperienza, e quindi a priori ma funzionalmente applicato
ed ordinato ad organizzare l'esperienza, bensì viene piuttosto ad assomigliare allo
Spirito assoluto dell'idealismo.

Le ontologie regionali e ontologia formale.

Abbiamo visto che scopo della fenomenologia è di descrivere i modi tipici, di specie,
con cui i fenomeni si presentano alla coscienza nel loro significato essenziale. Le
essenze sono i significati universali e invarianti cui, attraverso la riduzione eidetica,
sono ricondotti i fatti, i fenomeni particolari. La distinzione tra il fatto e l'essenza
consente di giustificare la validità della logica e della matematica: queste due
scienze sono universali e necessarie perché hanno come oggetto i rapporti fra le
essenze (quali sono i principi logici e le essenze geometriche e aritmetiche: triangolo,
numero, ecc.) e non ricorrono all'esperienza come fondamento della loro validità.
La proposizione "i corpi cadono con un moto uniformemente accelerato" è
un'asserzione di fatto e quindi ha bisogno di esperienze per confermarne la validità,
mentre la proposizione "la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180 gradi"
non ha bisogno dell'esperienza per la sua validità; essa esprime infatti un rapporto tra
essenze.
Ma il fatto che la coscienza si riferisca ad essenze ideali, universali e invarianti,
rende possibile alla fenomenologia altre indagini oltre al campo matematico e
223

logico. Questi altri campi di indagine sono chiamati da Husserl "ontologie


regionali", dove "ontologie" significa lo studio delle diverse essenze, che hanno
consistenza ontologica (cioè reale, quanto meno all'interno e per la coscienza), mentre
"regionali" significa le diverse regioni, cioè i diversi settori di indagine
dell'esperienza umana. In tal senso le ontologia regionali indicate da Husserl sono la
natura, la società, la morale, la religione, ecc. Lo studio di queste ontologie
regionali si propone di cogliere e descrivere le essenze, cioè le modalità tipiche,
essenziali, con cui appaiono alla coscienza i fenomeni religiosi o morali, ecc., nella
ricerca di ciò che li caratterizza in senso universale al di là delle manifestazioni
particolari.
Su questa linea altri fenomenologi daranno contributi importanti: Max Scheler sulla
fenomenologia dei valori; Rudolf Otto sulla fenomenologia dell'esperienza religiosa o
del sacro.
Alle ontologie regionali Husserl contrappone l’"ontologia formale", identificata con
la logica.

La crisi delle scienze europee e il "mondo della vita".

Nelle ultime opere Husserl affronta il problema della crisi della scienza moderna,
di cui non mette in dubbio il valore scientifico ma sottopone invece a critica
l'esclusivo indirizzo naturalistico ed oggettivistico del sapere scientifico, che
pretende di essere l'unico modello valido di conoscenza a cui tutte le altre discipline
devono adeguarsi. Questa presunzione sorge fin da Galileo ed ha nel Positivismo la
sua più arrogante espressione. Ma tale modello di sapere scientifico non prende in
considerazione tutte le questioni più importanti per la vita dell'uomo, non
considera il mondo della vita umana e nulla dice sul senso e sul significato delle
cose, sulle possibilità dell'esistenza e della libertà di scelta nelle azioni umane. È un
modello estraneo al mondo della vita. Dietro questo modello fisico-matematico
esiste invece un mondo umano di bisogni, di sentimenti, di intenzioni che rimane
inesplorato dalle scienze, anche dalle scienze umane. Lo storico infatti si rinchiude
nell'esame tecnico dei suoi documenti, così come il giurista lavora scientificamente
sui codici, ma ignorano la dimensione umana delle esigenze e delle finalità. La
filosofia deve perciò rivolgersi a nuovi orizzonti e liberare il mondo dall'impostazione
esclusivamente fisico-matematica delle scienze e della tecnica, che considerano solo
le leggi quantitative e della necessità meccanica. La filosofia può mostrare che non
esistono leggi meccaniche e necessarie insuperabili e che la visione del mondo può
scorgere e aprirsi alla dimensione dell'umanità e della libertà: l'attività e la
creatività dell'uomo si muovono in un ambito di libertà e non possono essere
spiegate e rinchiuse nei rigidi schemi della scienza. Ai filosofi spetta il compito di
divenire "funzionari dell'umanità", cioè di rendere gli uomini consapevoli del
ruolo attivo che essi svolgono nel continuo sviluppo della storia.
224

MAX SCHELER (1875-1928).

Di nazionalità tedesca, è esponente della fenomenologia di indirizzo realista.


Opera principale: Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori.
Estende l'applicazione del metodo fenomenologico al campo dell'attività morale.
Critica la concezione etica kantiana, basata sulla distinzione tra piacere e
dovere. Kant sostiene che si vuole qualcosa o perché lo esige la legge morale (il
dovere) ovvero perché piace. Ma in quest'ultimo caso viene a mancare nel
comportamento il valore di universalità e necessità attribuito alla legge morale del
dovere per il dovere. Secondo Scheler questa è però un'etica imperativa e del
risentimento, che in nome del dovere irrigidisce e limita la pienezza e la gioia
della vita. Per Scheler non è il dovere a costituire il presupposto dell'etica bensì
il valore. Kant non ha distinto i beni dai valori. I beni sono le cose che hanno
valore; i valori sono essenze in senso husserliano, cioè quelle qualità per cui sono
beni le cose buone: bene, per esempio, è un dipinto ma il suo valore sta nella
bellezza; bene è una macchina, il valore è la sua utilità; bene è una legge, ma lo è per
il valore della giustizia che sappia esprimere. I beni in sostanza sono fatti, i valori
sono essenze (nel nostro esempio: la bellezza, l'utilità, la giustizia). Scheler riconosce
a Kant il merito di non derivare la morale dai fatti empirici mediante induzione e di
aver cercato invece di costruire una legge morale a priori, universale. Ma per Scheler
la validità universale e a priori della norma morale non sta nella forma (nel modo di
funzionare) dell'intelletto in quanto egli sostiene, per contro, l'esistenza di
proposizioni a priori (universali e necessarie) non formali (come in Kant) bensì
materiali (realismo), giacché non si riferiscono a fatti ma a valori, che sono essenze,
cioè strutture universali oggettive, principi autonomi oggettivi, anche nel caso in cui
non esistessero al di fuori della coscienza. In tal modo perviene alla fondazione di
un'etica apriori materiale dei valori e non dei beni.
I valori si rivelano all'uomo non mediante deduzione da principi metafisici o
attraverso l'esperienza sensibile, bensì attraverso un'intuizione eidetica
emozionale, cioè sentimentale. Ciò che manca alla morale di Kant è il
riconoscimento dei "valori materiali", cioè la consapevolezza che l'uomo si trova
circondato da un cosmo, da un sistema ordinato di valori, che egli non produce ma
deve solo riconoscere e scoprire. Pretendere di cogliere i valori con l'intelletto
equivarrebbe alla pretesa di vedere un suono. L'intenzionalità non è solo una
proprietà della coscienza, dell'intelletto, ma anche del sentimento, che è capace di
vedere e cogliere valori-essenze. È innata in noi l'intuizione sentimentale, che coglie i
valori oggettivi che sono nei beni, nelle cose (nel dipinto, nella legge, nella macchina,
ecc.).
L'intuizione emozionale o sentimentale scopre inoltre l'esistenza di una gerarchia dei
valori, costituita da quattro gradi partendo dal basso verso l'alto:
1. i valori dei sensi, del gradevole e dello sgradevole, legati al sentire sensibile
del godimento o della sofferenza;
2. i valori vitali del nobile e del volgare, legati agli stati di salute o malattia e ai
modi dell'esuberanza o dell'esaurimento;
225

3. i valori spirituali, cui appartengono il bello e il brutto (valori estetici); il giusto


e l'ingiusto (valori giuridici), che costituiscono il fondamento di ogni
ordinamento giuridico, indipendente da ogni legge positiva dello Stato o della
comunità; vi appartengono altresì i valori del vero e falso, cioè i valori della
conoscenza pura o filosofica, che a differenza della scienza non si pone lo
scopo di dominare i fatti naturali;
4. i valori religiosi del sacro e del profano, cui corrispondono i sentimenti della
beatitudine e della disperazione.
Diversamente da Kant, i valori non sono concepiti come fini ma come oggetti
materiali intuiti nel loro ordine gerarchico. Da ciò deriva l'universalità e l'autonomia
dell'etica, le quali altrimenti non sarebbero garantite se i valori fossero intesi come
fini.
In base alla sua teoria dei valori ed alla loro gerarchia, Scheler elabora
un'interessante interpretazione del concetto di "persona", intesa come soggetto
portatore di valori, nonché un'originale analisi del soggettivismo etico nel mondo
moderno. Scheler concepisce la persona come essenza originaria, unità spirituale che
è presente in ciascun atto, senza esaurirsi in esso. La persona nella sua individualità
entra in rapporto con gli altri, stabilendo legami basati sulla simpatia e costituendo
comunità sociali storicamente determinate secondo un ordine gerarchico culminante
nella comunità religiosa. L'uomo è capace di domandarsi che cosa sia una cosa in se
stessa, è capace di cogliere le essenze a prescindere dagli interessi vitali derivanti
dagli impulsi e dall'ambiente. In quanto persona l'uomo è centro di atti intenzionali.
La persona non è l'Io trascendentale ma un individuo concreto che si serve del corpo
come di uno strumento per attuare valori. Da tale concezione di persona deriva per
Scheler l'idea di ascesi mondana, che va al di là dell'edonismo e del solipsismo
(isolamento in se stessi), ma instaura una triplice apertura e disponibilità dell'uomo
alla natura, al prossimo, a Dio.
Circa il rapporto della persona col prossimo e quindi con la comunità, nonché in
corrispondenza alla quadruplice gerarchia dei valori sopra considerata, quadruplice è
pure, secondo Scheler, l'ordine gerarchico costitutivo delle comunità sociali:
1. la massa, che nasce dal contagio emotivo;
2. la società, che nasce dal contratto, originando la comunità vitale o nazione;
3. la comunità giuridico-culturale, cioè lo Stato;
4. la comunità d'amore, ossia la Chiesa.
In merito al rapporto con Dio la prima evidenza filosofica, dice Scheler, è che c'è
qualcosa (il mondo) e che non c'è il nulla: da ciò nasce lo stupore di fronte all'essere
(alla realtà). Dopo questa prima evidenza si presenta immediata l'evidenza-intuizione
che vi è un essere assoluto, in sé e per sé, sacro e onnipotente, cui corrisponde un
sentimento di creaturalità (un sentirsi creatura). Alla rivelazione di Dio l'uomo
risponde con la fede. Dio è avvertito e vive esclusivamente nella coscienza religiosa e
non nel pensiero metafisico razionale.
Significativo è il contributo dato da Scheler alla sociologia della conoscenza
(studio dell'influenza dei fattori sociali, quali le classi, i ceti, la Chiesa, ecc., sulle
produzioni mentali quali la filosofia, la morale, il diritto, ecc.), tenendosi lontano sia
226

dallo spiritualismo astratto sia dal determinismo materialistico. Il condizionamento


sociale del sapere riguarda in primo luogo le forme del sapere. Rifacendosi alla legge
dei tre stadi di Comte, Scheler distingue tre forme di sapere, che tuttavia non si
susseguono ma sono compresenti in ogni epoca, pur prevalendo in ciascuna epoca
una forma di sapere sulle altre:
1. il sapere religioso, che è un sapere di salvezza concernente il rapporto con
l'Essere supremo;
2. il sapere metafisico o pedagogico, che è un sapere formativo concernente il
rapporto dell'uomo con la verità e i valori;
3. il sapere tecnico-scientifico, che è un sapere pratico concernente il rapporto
dell'uomo con la natura.
Rilevante per Scheler è il rapporto interfunzionale che si stabilisce tra ognuna di
queste forme di sapere con determinate strutture sociali, come ad esempio tra
realismo filosofico e società feudale; tra nominalismo e crisi del feudalesimo; tra
trionfo della borghesia e razionalismo meccanicistico; tra capitalismo e positivismo.
Scheler analizza anche i legami interfunzionali tra le diverse forme di sapere, ad
esempio fra monoteismo giudaico-cristiano (sapere religioso) e scienza (sapere
tecnico). La religione, afferma Scheler, non ha nulla da temere dalla scienza. Una
religione può entrare in contrasto solo con un'altra religione o con una metafisica, ma
non con la scienza. La vittoria del monoteismo creazionistico giudaico-cristiano sulla
religione e sulla metafisica del mondo antico, che hanno divinizzato gli astri e le
forze misteriose della natura, è stata la prima fondamentale condizione che ha
consentito la libertà della ricerca scientifica della natura.
Il marxismo, che tanta lotta ha intrapreso contro il pensiero ideologico borghese, è
da Scheler definito anch'esso ideologia (del proletariato): dovunque c'è interesse di
classe vi è anche ideologia.
227

NICOLAI HARTMANN (1887-1950).

Di nazionalità tedesca, è professore universitario a Marburgo, Colonia, Berlino e


Gottinga.
Rappresenta, insieme a Scheler, l'orientamento realista della fenomenologia in
contrapposizione all'indirizzo soggettivistico sviluppato da Husserl. Hartmann
respinge di conseguenza l'impostazione idealistica (produzione del mondo da parte
della coscienza) ed afferma che la conoscenza ha sempre a che fare con un oggetto
che è del tutto autonomo rispetto al pensiero: il soggetto si trova l'oggetto "di
contro" (l'oggetto esiste indipendentemente dalla coscienza e la realtà rimane sempre
al di là di essa); sorge da qui la necessità di assumere un atteggiamento conoscitivo
fenomenologico puramente descrittivo anziché esplicativo.
Rovescia il primato del conoscere sull'essere inaugurato dal razionalismo. Il
problema del conoscere non è ritenuto né psicologico né logico, bensì ontologico.
Per questa via, andando oltre la fenomenologia, Hartmann perviene ad una più
maarcata posizione realistica. L'analisi fenomenologia va rivolta all'essere (alla
realtà) come tale e non al puro rapporto intenzionale, il quale di per sé è invece
interno alla coscienza e prescinde dall'esistenza o meno di una realtà esterna (nel
rapporto intenzionale, infatti, la coscienza è sempre coscienza di qualcosa di diverso
da sé, ma non è detto che questo qualcosa sia esterno alla coscienza stessa). Ciò
significa, allora, che la conoscenza non realizza mai completamente la padronanza
del suo oggetto: rimane sempre un residuo inconoscibile. Il limite di conoscibilità si
può spostare indefinitamente ma permane. Nel riconoscimento di questo residuo di
inconoscibile (che Hartmann chiama "transobiettivo") sta l'originalità dell'ontologia
di Hartmann rispetto a quella antica, che pretendeva di essere una "logica
dell'essere", identificando così la sfera del pensiero con quella dell'essere reale senza
ammettere limiti e residui.
Condivide la critica di Scheler contro l'identificazione di "apriori" e di "formale",
sostenendo che l'universalità dell'apriori non va individuata nella forma (del
conoscere o del volere) bensì ha una propria "materia", un proprio contenuto
determinato, pur essendo in sé elemento ideale. Con ciò Hartmann, dopo essersi
distaccato dal soggettivismo e dall'idealismo, prende le distanze anche dal
neocriticismo kantiano sia pur in termini circoscritti: ciò che viene abbandonato è il
formalismo trascendentale di Kant, per cui l'essere è sempre essere pensato.
Hartmann recupera invece la tradizione ontologica di derivazione aristotelica e
ripropone una teoria della conoscenza come rispecchiamento (la conoscenza e le
idee rispecchiano e si riferiscono ad una corrispondente realtà esterna indipendente
dalla mente). Pur negando, come visto sopra, l'identità tra apriori e formale, nel
senso che per Hartmann la condizione della conoscenza non consiste nelle forme a
priori della sensibilità e dell'intelletto poiché è invece relazione tra un soggetto e un
oggetto esterno, egli fa salva peraltro la concezione kantiana trascendentale della
conoscenza, vale a dire che la conoscenza trascende e si estende sempre verso la
realtà indipendente che costituisce il suo oggetto. In proposito Hartmann parla di
"obiettazione", cioè del trovarsi del soggetto gettato contro l'oggetto, in
228

contrapposizione all’"obiettivazione", che è invece il processo opposto, per cui


qualcosa di soggettivo diventa oggettivo.
La filosofia non è "pensiero-sistema", ma "pensiero-problema". Considera
terminata l'epoca dei grandi sistemi filosofici onnicomprensivi. Compito della
filosofia non è la sistematicità bensì quello di evidenziare le problematiche. Tale
compito è articolato in tre momenti:
1. il momento fenomenologico, consistente nell'analisi descrittiva dell'essere in
quanto tale e non del rapportarsi intenzionale del conoscere ad esso;
2. il momento aporetico (aporia=contraddizione), che rintraccia e sviluppa le
contraddizioni insite nei fenomeni;
3. il momento teoretico (conoscitivo), che prospetta ipotesi di soluzione.
Nell'opera "Per la fondazione dell'ontologia", Hartmann sviluppa il momento
teoretico proponendo il programma di un'ontologia critica concepita, con riferimento
ad Aristotele, come "filosofia prima", alla quale però Hartmann non intende dare un
fondamento a priori, a partire da principi primi, bensì un fondamento fenomenologico
(descrittivo).
Hartmann distingue due sfere (due specie) fondamentali dell'essere: l'essere reale
e l'essere ideale, composto ognuno da strati.
L'essere reale si articola negli strati: inorganico, organico, psichico (la coscienza) e
spirituale. Di quest'ultimo, nell'opera "Il problema dell'essere spirituale", esamina le
tre forme: spirito personale (soggettivo); spirito oggettivo; spirito oggettivato. Lo
spirito oggettivato è uno strato impersonale e universale, che in quanto tale non
coincide con le coscienze individuali ma con la vita spirituale nelle sue varie
manifestazioni storiche, artistiche, religiose, filosofiche, ecc.
L'essere ideale è costituito dagli strati della logica, della matematica e dei valori.
Nella struttura stratificata dell'essere, lo strato superiore presuppone quello inferiore
come condizione necessaria, ma presenta al tempo stesso elementi e caratterizzazioni
nuove: senza natura materiale non esiste la vita; senza vita non esiste coscienza;
senza coscienza non esiste spirito. Cosicché il mondo spirituale è sì sorretto da tutti
gli strati inferiori ma ciò non significa che esso derivi da questi.
Circa la morale, nell'opera "Etica" anche Hartmann, come Scheler, propone
un'etica materiale dei valori. Egli intende congiungere e accordare la concezione
nietzscheana della pluralità dei valori con l'esigenza kantiana di salvaguardare la loro
apriorità, universalità e oggettività.
A differenza di Scheler, però, l'etica di Hartmann non è teistica (religiosa). Anzi
egli ritiene che vi sia un contrasto insolubile tra etica e religione. Per lui è necessario
postulare un ateismo di principio affinché l'etica sia veramente autonoma. L'etica,
dice Hartmann, poiché riguarda il comportamento dell'uomo in questo mondo nei
confronti degli uomini di questo mondo è una "questione dell'aldiquà".
I valori in se stessi sono del tutto oggettivi ed esistono al di sopra della storia;
quel che nella storia nasce e decade è solo la coscienza di tali valori, che dunque
si rivelano al sentimento dell'uomo in maniere mutevoli lungo il corso storico.
La concezione kantiana dell'imperativo categorico ha per Hartmann il merito di aver
mostrato l'insufficienza delle concezioni materialistiche,edonistiche o eudemonistiche
229

(ispirate al criterio della felicità) delle norme etiche. Anche per Hartmann le norme
etiche sono a priori, tuttavia, a suo avviso, la concezione kantiana dell'apriori va
corretta e depurata dell'aspetto formale, come del resto si è visto nel caso della
teoria della conoscenza. Per Hartmann l'universalità dell'apriori non si identifica
con la forma: la norma morale può avere un contenuto, una "materia", senza perdere
l'apriorità. Vale a dire che i valori non sono creati dalla soggettività (la coscienza),
la quale ha invece soltanto la funzione di manifestarli giacché essi posseggono un
essere ideale in sé, come gli enti matematici e le essenze in generale, e come quelli
sono universali. Il compito dell'etica pertanto è di descrivere ed analizzare i valori
morali anziché prescriverli. Come per Scheler, anche per Hartmann la persona è già
di per sé portatrice di valori: la vita dello spirito inizia con la realizzazione morale
della persona (spirito personale), si svolge nella storia (spirito oggettivo) e si
consolida e si perpetua nelle istituzioni giuridiche e nelle opere concrete dell'arte,
della scienza e della cultura in genere (spirito oggettivato).
Per Hartmann l'essenza della realtà non sta nella necessità, per cui essa non può
non essere (come in Parmenide, o nel creazionismo cristiano, o nello Spirito
dell'idealismo), e neppure nella possibilità, intesa come possibilità di agire o di
subire un'azione (come in Ockham, negli stoici, negli empiristi o negli esistenzialisti),
ma consiste invece nell'effettualità, cioè nella realtà di fatto, nell'essere
semplicemente così e non altrimenti, ossia nell'esistere come pura attualità, come
puro fatto che accade. L'effettualità è il modo fondamentale dell'essere (della
realtà) anche in ambito morale. Hartmann definisce il "bene etico" come "un
insieme di valori che si rivelano tutti all'uomo con la pretesa di venir realizzati" e che,
dunque, non sono oggetto di conoscenza disinteressata ma implicano una relazione
emozionale con essi. Ne consegue che ogni morale positiva, in vigore in una data
società sarà sempre e necessariamente unilaterale, dato che non è possibile conoscere
una volta per tutte cosa sia il bene: il bene e i valori sono storicamente determinati e
quindi mutevoli lungo la storia.
Tuttavia, considerando i valori entità esterne oggettive, che si rivelano all'uomo
lungo la storia, anziché consistere in prodotti ideali dell'umana coscienza, non resta
allora ad Hartmann che proporre di fondare l'etica su di uno spiritualismo
oggettivo (il diritto, la moralità, l'eticità) di per sé impersonale, operante nella storia
similmente alla concezione hegeliana, con la differenza che, mentre per Hegel il
divenire della realtà e della morale nella storia è opera dell'intrinseca razionalità dello
Spirito, per Hartmann invece la realtà effettuale non si giustifica razionalmente ma si
pone e si presenta così come accade. Deriva allora, però, una contraddizione nell'etica
di Hartmann, giacché il determinismo (il presentarsi e porsi) rigoroso ed impersonale
dell'accadere della realtà effettuale non sembra compatibile con l'affermazione della
libertà dell'uomo, anch'essa sostenuta d'altro canto dallo stesso Hartmann. Sia l'essere
(la realtà) che la morale appaiono dunque rinviate ad un Assoluto del tutto casuale,
quindi in sé irrazionale ed altresì contingente, nel senso che effettualmente è ma
potrebbero anche non essere.
230

L’ESISTENZIALISMO.

Oltre che essere una corrente filosofica, l'esistenzialismo ha ispirato altresì le più
diverse forme di cultura nel periodo compreso fra le due guerre mondiali ed oltre
fino agli anni del dopoguerra. Come fenomeno culturale più ampio ha influenzato
la letteratura, l'arte, la psicologia, la stessa religione, sino a proporsi come
concezione e stile di vita.
In generale, l'esistenzialismo è contraddistinto da un'intensa sensibilità nei
confronti della finitudine umana e delle condizioni che la caratterizzano: la
nascita, la morte, la sofferenza, la lotta, il passare del tempo, tutti aspetti cioè che
limitano l'esistenza dell'uomo.
Storicamente, esso sorge dall'esperienza drammatica di orrore e distruzioni derivante
dai due terribili conflitti mondiali. Ha parimenti concorso a formare la sensibilità
esistenzialista la delusione nei confronti delle concezioni filosofico-culturali
ottimistiche dell'Ottocento, in particolare l'idealismo e il positivismo.
In ambito letterario, lo spirito esistenzialista è rinvenibile nei romanzi di
Dostojevskij, incentrati sul problema del peso e delle responsabilità dell'uomo
rispetto alle scelte di vita per quanto dolorose esse siano, nonché nelle opere di
Kafka, dove è narrato il tema dell'insicurezza della vita e il senso di sconfitta
dell'uomo di fronte ad una realtà che lo opprime oppure, come anche in Pirandello, è
trattato il problema della banalità quotidiana dell'esistenza, priva di senso e di
significati. Dopo la seconda guerra mondiale la letteratura esistenzialistica trova
espressione nell'opera di Simone de Beauvoir, sul tema dell'ambiguità del bene, e di
Albert Camus, sul tema dell'assurdità dell'esistenza umana tormentata dalla
contraddizione tra l'infinità delle aspirazioni e la finitezza delle possibilità.
Nella poesia si trovano espressi motivi esistenzialisti nell'ambito del decadentismo e
dell'ermetismo (Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, per citare autori italiani), con
riguardo ai temi della solitudine, dell'illusione del vivere, della precarietà
dell'esistenza umana, della sofferenza della vita, delle condizioni limitate dell'essere
umano.
La cultura esistenzialista si manifesta anche nel campo della moda, del costume,
del cinema e della canzone, in termini espressivi di inquieti o malinconici stati
sentimentali oppure di protesta contro il conformismo e le false sicurezze.
In ambito più strettamente filosofico, l'esistenzialismo si è espresso in varie
forme: esistenzialismo ontologico, religioso, umanistico, ateo, negativo-nichilistico
(la vanità e il nulla dell'esistenza). Comunque, al di la delle specifiche differenze di
forma, sono rintracciabili nella filosofia esistenzialistica determinati tratti comuni:
1. la concezione dell'esistenza come modo di essere proprio dell'uomo, segnata
da caratteristiche peculiari e differenti da tutti gli altri enti del mondo, definiti
semplice presenza (Heidegger);
2. la riflessione sul rapporto tra l'uomo e l'essere (il mondo e gli altri), essere che
per Sartre è la totalità dell'esperienza; per Heidegger è lo sfondo, l'orizzonte,
che lascia apparire gli enti illuminandoli; per Jaspers e Marcel è un assoluto
divino (la trascendenza, Dio, la verità);
231

3. il problema delle scelte e del progetto di vita cui è chiamato l'uomo,


coinvolgendone la libertà e la responsabilità, peraltro nei limiti della natura
finita della condizione umana;
4. gli stati di paura, di angoscia, di attesa, di nausea, che derivano all'uomo posto
davanti alla necessità di compiere scelte drammatiche.
Di conseguenza, ben si comprende come l'esistenzialismo abbia preso posizione
contro tutte quelle filosofie ottocentesche e novecentesche che:
1. misconoscono la finitezza dell'esistenza, identificando l'uomo con l'Assoluto;
2. non considerano l'individuo singolo per abbracciare invece una concezione
impersonale e astratta dell'umanità (lo Spirito, la dialettica della storia);
3. trascurano la rilevanza delle situazioni limite, estreme, dell'esistenza (nascita,
morte, solitudine) e degli stati d'animo che le accompagnano (angoscia, paura,
speranza);
4. negano l'iniziativa e la scelta individuali, ritenendo l'esistenza un fatto
ricostruibile deterministicamente ovvero un complesso di impulsi e di strutture
di cui l'uomo è soggetto passivo.
L'esistenzialismo è manifestazione della crisi dell'ottimismo romantico che, in
nome della Ragione, dell'Assoluto, dell'Idea, dell'Umanità, del senso della storia,
"fondava" valori stabili nella convinzione di un progresso sicuro e inarrestabile. Per
l'esistenzialismo la realtà non si identifica con la razionalità; l'uomo è invece
considerato un essere finito, "gettato" nel mondo e continuamente colpito da
situazioni assurde o quanto meno problematiche. Ed è proprio dell'uomo nella
sua singolarità e non dell'umanità in astratto che l'esistenzialismo si interessa.
Concetto fondante per l'esistenzialismo è quello di "esistenza", considerata come
modalità costitutiva del soggetto che filosofa (che pensa). L'unico soggetto che
filosofa è l'uomo, perciò l'esistenza è tipica in modo esclusivo dell'uomo. È inoltre
un modo di essere finito ed è possibilità, cioè un potere-essere. L'esistenza non è
un'essenza, una cosa data per natura, una realtà predeterminata e non modificabile.
Le cose e gli animali restano quel che sono e in tal senso sono semplice presenza.
L'uomo sarà quello che ha deciso di essere e in tal senso è, appunto, "esistenza".
Quindi l'esistenza è incertezza, problematicità, decisione, rischio (perché decidere
è rischioso: si può sbagliare) slancio in avanti. Ma slancio verso che cosa? Proprio
qui cominciano a dividersi le varie correnti dell'esistenzialismo a seconda delle
risposte che sono: Dio, il mondo, se stesso, la libertà, il nulla.
Filosoficamente, l'esistenzialismo ha il proprio percussore in Kierkegaard (e, in
parte, in Schopenhauer e Nietzsche) per la sua rivalutazione dell'uomo singolo
contro la filosofia di impostazione astratta. L'esistenzialismo si presenta anche,
soprattutto in Germania, come sviluppo della fenomenologia, da cui eredita la
tendenza a considerare con particolare attenzione il mondo della vita (Erlebnis) e
dell'esistenza quotidiana. Ha i propri principali esponenti in Jaspers, Sartre,
Marcel e, in parte, Heidegger. In Italia aderiscono a tematiche esistenzialistiche
Abbagnano, Paci e Pareyson. In Francia un'altra figura che si è mossa tra
fenomenologia ed esistenzialismo è Merleau-Ponty. Ultimamente è stata rivalutata
anche l'opera di Albert Camus.
232

KARL JASPERS (1883-1969).

Laureatosi in medicina, dopo la lettura di Kierkegaard e Nietzsche si converte alla


filosofia, insegnando prima ad Heidelberg, da cui fu allontanato per la sua
opposizione al nazismo, e poi a Basilea.
Opera principale: Filosofia, in tre volumi: Orientamento filosofico nel mondo;
Chiarificazione dell'esistenza; Metafisica.
Jaspers giunge alla filosofia partendo dalla medicina. In lui è stato sempre presente
l'interesse per la scienza, tanto da arrivare a dire che la filosofia e la scienza non sono
possibili l'una senza l'altra: la scienza impedisce alla filosofia la pretesa di costituire
una conoscenza assoluta (definitiva) del mondo e delle cose; la filosofia evita la
pretesa della scienza di costituire l'unica forma razionale e concreta di conoscenza e
induce la scienza stessa ad interrogarsi criticamente sui propri scopi.

Mondo, esistenza e trascendenza.

L'opera principale di Jaspers, "Filosofia", in tre volumi, considera tre concetti


fondamentali: 1) il mondo, cui è dedicato il primo volume intitolato "Orientamento
filosofico del mondo"; 2) l'esistenza, cui è dedicato il secondo volume intitolato
"Chiarificazione dell'esistenza"; 3) la trascendenza, cui è dedicato il terzo volume
intitolato "Metafisica".
La successione di questi tre concetti indica la direzione secondo cui, per Jaspers,
procede la filosofia, la quale dapprima, attraverso le scienze, indaga il mondo degli
oggetti, poi si interroga sulle caratteristiche essenziali dell'esistenza ed infine
riconosce la trascendenza, cioè la totalità infinita dell'Essere come fondamento da cui
ogni ente ha la sua origine. L'esistenza è il momento, lo stato intermedio, la cui
chiarificazione svela il rapporto sussistente tra gli esseri esistenti consapevoli del
proprio esistere, cioè gli uomini, ed il mondo degli oggetti da una parte, nonché con
l'Essere infinito, illimitato e trascendente dall'altra.

Il mondo.

Il mondo è costituito dalla totalità degli oggetti e dei fenomeni che, in quanto tali,
sono particolarmente indagati dalle scienze. La conoscenza scientifica si estende
sempre di più ma non può mai superare il proprio limite, costituito dal fatto che
la scienza scopre soltanto un determinato aspetto del mondo, si rivolge sempre cioè
verso oggetti determinati ma non giunge mai ad una conoscenza complessiva e
definitiva della totalità del mondo. La conoscenza scientifica è chiamata da Jaspers
"orientamento nel mondo" perché ci aiuta ad orientarci nel mondo delle cose e
degli oggetti. Però non può dare nessuna risposta alla domanda sul senso del
mondo e sul perché delle cose e dei fatti che accadono. Inoltre non è in grado di
dare nessun orientamento per la vita, non stabilisce valori, ossia ideali e principi
guida.
233

La totalità del mondo e il senso complessivo del mondo e delle cose del mondo
rimane un orizzonte, un confine irraggiungibile e trascendente (insuperabile). Il
mondo come totalità rimane sempre al di là della nostra conoscenza. Tutt'al più
è possibile costruire una propria e personale immagine del mondo, che non è tuttavia
il mondo ma piuttosto un punto di vista singolo fra i tanti possibili. Il mondo come
totalità e nel suo senso complessivo è chiamato da Jaspers "orizzonte
conglobante", che tutto ingloba, tutto abbraccia e ricomprende, il quale si estende
con l'estendersi della nostra conoscenza ma si sposta continuamente in avanti e
rimane, per l’appunto, irraggiungibile, trascendente, insuperabile.
La pretesa di conoscere l'orizzonte conglobante (il mondo nella sua totalità e nel
suo significato complessivo) determina lo "scacco" (la sconfitta)
dell'orientamento scientifico nel mondo, cioè del sapere scientifico. Ciò che si
cerca è la comprensione del mondo come totalità assoluta e onnicomprensiva che
"tutto abbraccia"; quello che si raggiunge è invece un mondo legato ad un particolare
punto di vista. Il mondo si rompe nella molteplicità delle prospettive (dei punti di
vista), ognuna delle quali ha la pretesa di valere in assoluto, mentre sono invece tutte
relative. Lo scacco mostra la rottura del mondo come totalità e unità. La volontà di
afferrare l'Essere (del mondo) nella sua totalità infinita e illimitata è destinata al
"naufragio".

L'esistenza.

Non solo la conoscenza scientifica è incapace di cogliere l'orizzonte conglobante, la


totalità dell'essere, ma le è impedita altresì la conoscenza del singolo essere
concreto, ossia dell'esistenza.
È compito dell'orientamento filosofico nel mondo, ossia della filosofia, procedere
alla "chiarificazione dell'esistenza", per riconoscerne l'essenza, le contraddizioni e
i limiti.
Esistenza (dal latino ex-stare) significa anzitutto "situazione", nel senso che la
condizione di ogni esistente, cioè di ogni uomo, è quella di scegliere le proprie
situazioni di vita.
Oltre all'intelletto, cioè alla scienza, c'è la ragione, concepita da Jaspers come
comprensione dell'esistenza. La ragione è un tipo di pensiero a cui Jaspers non
riconosce valore oggettivo e universale, quale invece da molti erroneamente
attribuito alla scienza, bensì è concepita come forma di sapere capace di fornire
valori, ideali, significati e norme di vita benché relativi. Jaspers fa sua la distinzione
hegeliana tra intelletto e ragione, differenziandosi quindi sia dai razionalisti, i quali
in nome della filosofia razionale e della scienza rifiutano tutto il resto (religione,
morale, ecc.), giudicato come soggettività emotiva, sia dagli irrazionalisti, di cui è
rimproverata l'estrema esaltazione degli istinti e l'ebbrezza vitalistica.
La verità, sostiene Jaspers, è qualcosa di infinitamente di più della scienza, che
non riesce a comprendere l'orizzonte conglobante, la totalità dell'Essere che tutto
abbraccia. Anche l'uomo, attraverso la biologia, la fisiologia e la psicologia, può
essere studiato scientificamente, come un qualsiasi determinato oggetto del mondo,
234

ma questo studio scientifico dell'uomo non potrà mai comprendere l'esistenza.


L'esistenza individuale concreta è per ognuno diversa; è irripetibile e non può essere
oggetto di teorie scientifiche oggettivi e generali o di discorsi filosofici universali.
La singola esistenza è "inoggettivabile" (non può essere ridotto ad oggetto di
studio né scientifico né filosofico). Io non sono mai oggetto a me stesso. Io sono la
mia stessa esistenza, la mia personale visione e intuizione del mondo. La mia
esistenza coincide con me stesso, con la mia coscienza e non posso separarla da me
per farne oggetto di studio dall'esterno.
La mia esistenza è ciò che scelgo di essere, è la situazione che io decido. A prima
vista questa appare una filosofia della libertà: l'uomo è ciò che vuole e sceglie di
essere, anche se pure Jaspers, come Kierkegaard, sottolinea l'inevitabile rischio
connesso ad ogni scelta, potendo essere sempre implicito l'errore. Ma la libertà di
scelta, questo è il punto, è più apparente che reale, perché è condizionata dalle
situazioni storiche e ambientali in cui la mia esistenza si trova essere "gettata".
Scrive Jaspers: "Io sono gettato in una determinata situazione storica, posso
appartenere soltanto ad un unico popolo, posso avere questi genitori e non altri,
posso amare questa donna". Certo, io posso tradire, cioè non riconoscere il mio
popolo, i miei genitori, la mia donna, per cercare nuove possibilità, ma ciò
significa tradire se stessi. L'unico modo di essere se stesso, l'unica scelta
autentica, consiste nell'accettare la situazione di fatto cui ognuno appartiene, in
cui ognuno si trova.
Dunque l'esistenza è al tempo stesso colpa e libertà ed è in tal senso un
paradosso: è colpa in quanto non può superare i condizionamenti storici e
ambientali della situazione in cui si trova ad essere; è libertà in quanto è possibile la
scelta del progetto di vita, pur nei limiti della situazione storico-ambientale data, che
non resta che accettare e fare propria.
In conclusione, la chiarificazione filosofica dell'esistenza giunge a comprendere che:
1. l'esistenza è la situazione in cui mi trovo a vivere ed entro cui scegliere il
progetto di vita;
2. l'esistenza non è riducibile ad oggetto di studio scientifico;
3. l'esistenza e la scelta del progetto di vita sono condizionate dal tempo storico e
dall'ambiente in cui ci si trova a vivere.

La trascendenza.

È tuttavia insopprimibile nell'esistenza (nell'uomo) l'aspirazione alla


trascendenza, cioè la ricerca dell'Essere come totalità infinita della realtà e
come comprensione del senso e significato ultimo del mondo e delle cose, ossia è
insopprimibile l'aspirazione a cogliere l’orizzonte conglobante, che tutto abbraccia
e ricomprende rimanendo però irraggiungibile perché tutto trascende, è sempre al
di là della conoscenza e delle aspirazioni. Difatti l'esistenza consapevole (quella
dell'uomo che è l'unico essere finito che ha consapevolezza della propria esistenza) si
accorge che ogni cosa è destinata a finire, che nessun fatto è eterno. Ciò nonostante
il bisogno dell'infinito e della trascendenza è inevitabile; è inevitabile, in tal
235

senso, il bisogno della metafisica, che è appunto ricerca di ciò che trascende, che
sta oltre il mondo fisico.
Siamo di fronte ad un'altra contraddizione dell'esistenza: l'esistenza umana, in quanto
destinata a finire, si rivela da ultimo come radicale impossibilità di esistere, mentre
l'Essere trascendente e infinito non è una possibilità dell'esistenza perché trascende le
cose del mondo e l'esistenza stessa. Alla fine dell'esistenza non c'è che il naufragio.
In quanto trascendente, al di là degli oggetti ma anche dei pensieri, la trascendenza
non è scientificamente conoscibile e razionalmente dimostrabile. Vi è tuttavia un
modo in cui può essere colta e intuita e cioè nei simboli, che Jaspers chiama
"cifre", nei quali essa si manifesta. Tali cifre sono di due tipi:
1. quelle di cui si può fare esperienza nel modo di guardare e interpretare le cose
della natura, i miti religiosi o i sistemi e teorie metafisiche appartenenti alla
sfera oggettiva, al di fuori della coscienza;
2. quelle che rientrano nel modo in cui noi sentiamo e avvertiamo l'essenza della
nostra esistenza, ossia come libertà ma anche scacco e naufragio dell'esistenza
stessa.
La trascendenza si rivela soprattutto in quelle che Jaspers chiama "situazioni
limite", quali la storicità dell'esistenza (il trovarci a vivere sempre in una
situazione storica e ambientale determinata che non si può mutare) ed anche la lotta,
il peccato, il dolore, la morte. Le situazioni limite sono quelle in cui il termine
"limite" indica qualcosa che appunto trascende l'esistenza e che hanno perciò il
carattere dell'immutabilità e dell'incomprensibilità. Noi non possiamo modificarle,
ogni ribellione contro di esse è insensata; possiamo solo constatarle, prenderne atto
ma non comprendere il perché non sia possibile vivere senza lotta, senza peccato,
senza dolore, in un altro ambiente e tempo storico o senza morire. Di fronte a tali
situazioni non resta che la rassegnazione.
Ma proprio l'impotenza di fronte alle situazioni limite induce l'uomo a credere
nella presenza di un Essere trascendente, ossia Dio, cui rivolgerle la propria fede.
Ci sentiamo impotenti ma proprio per questo siamo indotti a ritenere che il carattere
finito delle cose del mondo, della nostra esistenza, delle nostre conoscenze si regga
su di un Essere supremo, infinito, illimitato e trascendente oltre tutti i nostri limiti.
Anzi, per Jaspers la trascendenza è la condizione indispensabile dell'esistenza. È
vero che la trascendenza è il naufragio dell'ente e dell'esistenza perché è lo
sfondo, l'orizzonte conglobante irraggiungibile in cui tutte le cose finite e
contingenti si annullano. Ma è anche vero che la trascendenza è la condizione del
divenire della realtà: il divenire è possibile solo se l'orizzonte e i limiti del mondo
(cioè la trascendenza) non restano fermi ma si spostano continuamente in avanti.
L'ente (le cose) per divenire deve essere necessariamente in rapporto con la
trascendenza, con l'assolutamente altro e nascosto.
Di fronte al naufragio e allo scacco dell'esistenza, la via d'accesso all'Essere
trascendente (Dio) consiste allora nella fede. Jaspers parla di "fede filosofica", che
deve essere aperta, tollerante e non fanatica, nonché incessante ricerca della
trascendenza al di fuori dei dogmi rigidi di qualunque religione rivelata.
236

La comunicazione della verità.

Dunque la trascendenza non è raggiungibile dalla conoscenza scientifica; si rivela


invece nelle "cifre" (simboli) delle situazioni limite. Ma tale linguaggio cifrato
deve essere interpretato, letto. Questo è il compito della filosofia: mentre la verità
scientifica è oggettiva e anonima, impersonale, quella filosofica è esistenziale, è
singola, individuale. "Dio è sempre il mio Dio (come io me lo immagino) ed io non
l'ho in comune con gli altri uomini".
Jaspers profetizza una nuova epoca storica di trionfo della fede, il cui avvento
però ritiene lontano. Nel frattempo l'umanità dovrebbe tendere a realizzare la sua
unione (solidarietà) attraverso la comunicazione, lo scambio delle diverse verità in
cui si crede. Ma il problema è: se la verità filosofica si trova nel profondo della
singola ed individuale esistenza, allora ognuno non ha forse una sua propria e diversa
verità, per cui non c'è una verità unica? Jaspers risponde che se la verità è unica,
essa è anche molteplice: la verità altrui non è tanto una verità opposta alla mia
quanto piuttosto la verità di un'altra esistenza che, insieme alla mia, cerca quell'unica
verità che è al di là di tutte le verità: essa è l'orizzonte che trascende tutte le verità
individuali e verso il quale tutti si muovono.
Di conseguenza, va respinto sia il dogmatismo e il fanatismo di chi afferma essere la
propria l'unica verità, sia il relativismo e lo scetticismo di chi sostiene che esistono
tante verità quante sono le esistenze. Quello che la filosofia offre non è una verità
definitiva; deve invece difendere la possibilità della comunicazione tra le verità
delle singole esistenze. Proprio a partire da tali critiche Jaspers condanna i sistemi
sociali e politici totalitari, come quello nazista e marxista, e si schiera per il mondo
libero.
237

JEAN-PAUL SARTRE (1905-1980).

È il maggior esponente dell'esistenzialismo francese.


Compie gli studi di filosofia all' Ecole Normal. Insegna al liceo di Le Havre a Parigi
e poi, per il periodo di un anno, soggiorna presso l'Istituto Francese di Berlino,
venendo a contatto con il pensiero di Husserl, Jaspers, Heidegger. Durante la
seconda guerra mondiale è internato per nove mesi nel campo di concentramento di
Treviri, dove matura la propria vocazione non solo politica ma anche letteraria.
Liberato, prende parte attiva alla resistenza. Nel 1946 fonda la rivista "Les temps
modernes". Per il suo impegno sociale si accosta al marxismo. Prende posizione a
favore della contestazione studentesca del ‘68 e dei gruppi extraparlamentari di
ispirazione cinese contro il comunismo ufficiale e contro il capitalismo borghese. Per
questioni di principio e poiché contrario ad onorificenze ufficiali, rifiuta il premio
Nobel per la letteratura assegnatogli nel 1964.
Opere: è autore poliedrico di romanzi (La nausea), di teatro (Le mosche; I sequestrati
di Altona), di pamphlet (saggi critici) politici (I comunisti e la pace).
Principali opere di filosofia: L'essere e il nulla (1943); L'esistenzialismo è un
umanesimo (1946); Critica della ragione dialettica (1960).

L'essere e il nulla. L'essere in sé e l'essere per sé.

Argomento centrale dell'opera "L'essere e il nulla" è la contrapposizione, che Sartre


rileva, tra il modo di essere della coscienza, che è libertà, e il modo di essere del
mondo, che è il sostrato, la base bruta e opaca su cui la coscienza esplica la sua
attività intenzionale di riflessione, di interpretazione e di attribuzione di significato ai
dati sensibili percepiti.
Inizialmente Sartre aderisce alla fenomenologia, in particolare a quella di Husserl
di cui condivide la critica allo psicologismo. Anche Sartre accoglie il concetto
dell'intenzionalità della coscienza (la coscienza è sempre intenzionata, cioè rivolta
a qualcosa d'altro, non importa se reale o immaginario, che non è la coscienza ma è
distinta da sé), però respinge la concezione di Husserl il quale riduce l'io alla
coscienza. L'io, cioè l'esistenza del singolo individuo, non è rinchiuso nella
coscienza ma è fuori, nel mondo. Va perciò rifiutato l'idealismo e il solipsismo (la
coscienza rinchiusa e isolata in se stessa) in cui è caduto Husserl. Un tavolo non è
nella coscienza, neppure come rappresentazione, ma è nello spazio, nel mondo. L'io
è sempre concepito da Sartre come struttura relazionale, cioè aperta, in relazione col
mondo e con gli altri. L'io è "essere nel mondo", essere in relazione con le cose del
mondo e con gli altri io. La realtà non si riduce al "cogito". Non è possibile negare
la presenza di un essere (di una realtà) esterno a noi.
L'io vive emotivamente i propri rapporti con la realtà attraverso atti definiti di
"modificazione magica del mondo". In tale modificazione magica svolge un
ruolo importante l'immaginazione. Se l'esistenza deve accettare il mondo così
com'è, l'immaginazione è invece costitutiva di un altro mondo, un mondo magico,
238

quello della fantasia e dell'arte. Non è possibile negare la presenza di un mondo


indipendente ed esterno a noi, però attraverso l'immaginazione è possibile creare un
altro mondo, un'altra realtà, che sta al di là di quello reale. L'immaginazione è
perciò "la condizione necessaria della libertà dell'uomo empirico (dell'individuo
concreto) in mezzo al mondo": essa esprime cioè la capacità umana di negare
liberamente il mondo reale in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione.
L'immaginazione consente dunque di annullare il mondo, ossia l'essere reale,
attraverso l'immagine che di esso elabora. L'immaginazione è un modo attraverso cui
la coscienza trascende (supera) la realtà. Da ciò il titolo dell'opera fondamentale:
"L'essere e il nulla": l'immaginazione (ossia i personali punti di vista nel
guardare, nell'interpretare e nell'attribuire nostri significati alle cose) fa diventare
nulla il mondo reale che sta davanti a noi. È a questo punto che Sartre scopre
l'esistenzialismo di Jaspers e Heidegger.
Nella nuova concezione esistenzialistica Sartre rovescia il rapporto stabilito dalla
metafisica tradizionale tra essenza ed esistenza: diversamente dalla metafisica, per
Sartre l'uomo è l'unico essere nel quale l'esistenza precede l'essenza. Ciò significa
che l'uomo, a differenza degli altri esseri (minerali, piante e animali) non è
predeterminato come essenza (non è cioè predefinita la sua essenza, ad esempio di
animale dotato di ragione, o quella di persona o di spirito); invece l'uomo esiste
prima di essere definito da un concetto (l'essenza) ed è ciò che diventa, vale a dire la
sua essenza si costituisce in seguito, in base a ciò che vuole e sceglie di essere:
dapprima l'uomo, senza sceglierlo, si trova " gettato" nel mondo e solo dopo
costruisce la sua essenza, ossia ciò che vuole diventare secondo le scelte di vita che
intende compiere. In tal senso l'uomo è libero, ma la sua libertà è al tempo stesso
una condanna, poiché gli impone ad ogni istante di inventare se stesso, di scegliere
ciò che vuole essere e, di volta in volta, diventare.
Tale concezione dell'esistenza umana comporta la negazione dell'esistenza di Dio
(esistenzialismo ateo). Infatti, se Dio esistesse ci sarebbe prima e al di sopra
dell'uomo un essere superiore che determinerebbe la natura (l'essenza) umana. In
tal caso l'essenza dell'uomo sarebbe anteriore alla sua esistenza e ne verrebbe
quindi condizionato. In tal caso l'uomo non sarebbe realmente libero: o Dio o la
libertà umana; le due cose non possono coesistere.
Dunque l'immaginazione, ossia la possibilità di creare liberamente una propria
personale visione e interpretazione del mondo al di là (trascendente) del mondo reale
davanti a noi, è la condizione che consente la libertà umana. Ma la libertà umana
non è autonoma e assoluta, perché l'uomo viene sempre ad esistere nel mondo in
una predeterminata situazione storica e ambientale non scelta da lui. Bisogna
allora capire la struttura dell'essere, cioè la natura del mondo in cui l'uomo si
trova ad essere, se si vuol capire l'esistenza umana.
Il mondo è l'insieme dei fenomeni; è costituito da tutto ciò che accade; è la prima
percezione colta dalla coscienza ma che non deriva da essa. Interrogandosi sulla
struttura dell'essere (della realtà), Sartre afferma che l'essere si manifesta in due
maniere fondamentali: 1) come essere in sé, definito più brevemente "l'in-sé"; 2)
come essere per sé, definito più brevemente "il per-sé".
239

L'essere in sé, l'in sé, è l'insieme dei fenomeni, dei dati sensibili (delle cose che si
vedono, si toccano, si sentono) nudi e crudi che vengono percepiti, del tutto
contingenti, casuali e assurdi, nel senso che non si comprende il loro perché. L'essere
in sé è costituito da tutto ciò che non è coscienza; consiste cioè nel mondo e nelle
cose del mondo, con cui però la coscienza entra in rapporto. Esso è dappertutto
"intorno a me e contro di me", che la coscienza trova costantemente davanti a se e
contro di sé.
Nella filosofia esistenzialistica di Sartre, e anche di molta filosofia contemporanea, i
fenomeni non significano più ciò che ci appare delle cose in sè, come in Kant.
Piuttosto, ogni fenomeno rimanda semplicemente a se stesso, senza presupporre un
noumeno (una cosa in sè) ad esso sottostante. Pertanto il complesso dei fenomeni è
già il complesso della realtà: non ci sono sostanze, sostrati, sotto i fenomeni.
L'essere in sé è definito appunto da Sartre come l'insieme dei fenomeni in quanto il
suo esistere non è causato da nulla se non da se stesso (assoluta casualità). Si tratta
quindi di un esistente(di un insieme di fenomeni esistenti) constatabile ma di cui non
si dà ragione, quindi assurdo. Questo essere in sé è perciò una realtà compatta,
opaca e oscura, nonché impenetrabile poiché non si scorge se e cosa c'è al di sotto.
L'essere per sé, il per-sé, è invece la coscienza che, trovandosi di fronte alle cose,
ha la capacità, grazie all'immaginazione, di attribuire ad esse, liberamente, dei
significati e un senso. La coscienza non può chiudersi in se stessa in quanto è
costitutivamente in relazione con l'essere in sé, con le cose (intenzionalità della
coscienza). Essa intenziona, ossia si pone in relazione con la realtà fuori di sé
annullandola per attribuirvi un suo proprio senso e significato, annullando con ciò
anche se stessa. Per la sua proprietà di non essere un dato sensibile bensì di dare
ad esso dei significati allora, come visto sopra, l'essere per sé, la coscienza,
coincide col nulla: sia col nulla del mondo e delle cose, perché li annulla in se
stessa rivestendoli di propri significati, sia col nulla della coscienza stessa, poiché
la conoscenza non è un dato, una realtà, ma è attività che inventa continuamente
nuovi significati da conferire alle cose, negando quindi continuamente se stessa nel
senso che non è irrigidita in forme predeterminate, esprimendo contestualmente, in
tal modo, la libertà dell'uomo. Ad esempio, quando entra in contatto con una
persona, la mia coscienza attribuisce liberamente ad essa una pluralità di significati e
di valori: bella, brutta, simpatica, antipatica, divertente, noiosa, ecc. La libertà
costituisce la struttura, l'essenza stessa della coscienza, o del per-sé, e
dell'esistenza umana: l'esistenza infatti non è presenza, cioè non è oggetto ma è
possibilità e libertà. Per costituzione ontologica, ossia per sua natura, "l'uomo è
condannato ad essere libero": è una libertà a cui non può sottrarsi. L'essere in sé (le
cose) è ciò che è; è un oggetto, o un'insieme di oggetti determinati, ma in sé senza
senso; non ci dice il perché delle cose o dei fatti che accadono. La coscienza, ossia
l'esistenza e cioè l'uomo, non è invece un oggetto; essa è vuoto di essere ma è
possibilità di attribuire liberamente suoi propri significati all'essere in sé, ed in
quanto possibilità la coscienza non è una realtà precostituita ma è libertà.
Il corpo dell'uomo è essere in sé, cioè oggetto contingente (casuale) e assurdo (di
per sé senza senso, senza perché) in mezzo a tutti gli altri oggetti, altrettanto
240

contingenti e assurdi. Per contro, l'uomo come essere per sé è coscienza e libertà
che trascende il mondo e le cose del mondo ma che al, tempo stesso, è sempre
riferito ad esse. L'uomo come essere per sé non si riduce al suo passato, in quanto
esso è quella parte di sé che è già compiuta, e neppure si riduce al presente perché
continuamente lo trascende.
L'essere in sé (il mondo), ivi compreso il corpo dell'uomo, è pieno (è pieno di
oggetti concreti) ma opaco (in sé senza senso e significati), mentre l'essere per sé
(la coscienza) è vuoto (è assenza di essere in quanto la coscienza non è un essere, un
oggetto) e come tale è il nulla (nullifica la realtà), ma è possibilità, cioè libertà e
responsabilità di dare infiniti significati all'essere in sé, tuttavia infondati, cioè
di carattere soggettivo e non oggettivo: la libertà della coscienza si fonda infatti
proprio sul suo non essere realtà oggettiva (la coscienza non è un oggetto).
Vi è nella libertà della coscienza, cioè nell'uomo, un'intrinseca contraddizione:
io non sono libero di decidere della mia esistenza ma "sono condannato ad
esistere", nel senso che mi trovo "gettato" nel mondo non per mia libera scelta; ma
dopo essere divenuto esistenza, cioè dopo essere venuto al mondo, sono di
conseguenza condannato ad essere libero, perché come coscienza mi ritrovo
inevitabilmente a dare liberi significati e senso all'essere in sé, ossia alle cose del
mondo con cui vengo in contatto. Ciò implica allora che l'uomo, una volta gettato
nella vita, è responsabile di tutto ciò che fa, cioè del progetto della sua vita.
Nessuno può cercare scuse: se si fallisce è perché si è scelto di fare fallimento.
Qualunque evento mi accada è qualcosa a cui posso sempre sottrarmi, se necessario
anche in forma estrema, con la fuga o con la morte.

L'essere per gli altri.

Non esiste però soltanto un unico essere per sé, un'unica coscienza individuale ma
esistono anche gli altri uomini e quindi esiste un "essere per gli altri" con i quali
si viene in contatto, di cui si fa esperienza, e che da coscienza individuale mi
trasformano in oggetto delle loro coscienze. Il rapporto con l'altro (gli altri
uomini) è costituito, per Sartre, da un duplice processo di reificazione (=di
trasformazione del soggetto ad oggetto, ossia a cosa, dal latino "res" che significa
appunto cosa). Infatti:
1. dal mio punto di vista l'altro, pur essendo in se stesso una coscienza e quindi
non un oggetto, diviene però oggetto per me e dunque uno strumento da
utilizzare a mio vantaggio;
2. dal punto di vista dell'altro, egli a sua volta fa di me una cosa veduta e quindi
un oggetto da usare a suo vantaggio.
Quando entro in contatto con l'altro nasce pertanto il conflitto. Il conflitto è per
Sartre la caratteristica fondamentale dell’"essere per gli altri". Gli uomini
tendono a sottomettere gli altri per non restare sottomessi. Il conflitto è un dato
strutturale della condizione umana.
241

Sartre scorge due modi, due vie per superare il conflitto con gli altri ma,
aggiunge, sono due vie apparenti:
1. la via dell'amore, che consiste nel rispettare e valorizzare la soggettività, la
personalità dell'altro; ma così facendo io mi riducono ad oggetto dell'altro e
mi accetto come tale nei suoi confronti;
2. la via del desiderio, che consiste nel fare dell'altro il proprio oggetto da usare
a proprio piacere.
Si tratta di una visione chiaramente pessimistica del rapporto con gli altri,
dell'essere per gli altri. Sartre sembra ignorare l'amore reciproco, che è reciproca
donazione di sé. Sartre invece dice "L'inferno sono gli altri".

L'assurdo dell'esistenza. La nausea. L'uomo come Dio mancato.

Per Sartre la condizione umana è assurda, paradossale. Infatti, come si è visto,


l'uomo, pur essendo libero di fronte alle cose del mondo, in quanto le riveste
liberamente di suoi propri significati, non è libero di scegliere il suo essere, il suo
venire al mondo né è libero di rifiutare la propria libertà e la connessa
responsabilità. Il fatto di trovarsi al mondo è quindi per l'uomo, come per tutti gli
altri enti, qualcosa di assurdo, che non ha spiegazione. Gli scopi e i fini
dell'esistenza non sono nell'esistenza stessa ma, dopo essere gettati nell'esistenza,
nascono soltanto nella coscienza dell'uomo, la quale soltanto dà un senso a ciò che
non ha senso.
Il sentimento che caratterizza l'assurdità dell'esistenza è la "nausea", che sorge
quando l'uomo scopre l'assoluta contingenza e casualità dell'esistenza e la sua
mancanza di senso. Per non rassegnarsi all'insensatezza dell'esistenza, la
coscienza dell'uomo si costruisce una serie artificiosa di valori metafisici: Dio,
la religione, l'Assoluto, i doveri morali, le leggi, i miti, ecc. Ma quando si accorge
che non c'è nulla, nessun essere superiore e necessario in grado di determinare i
fini e gli scopi dell'esistenza e del mondo, deriva allora la nausea e lo stomaco si
rivolta.
Consegue da ciò il progetto dell'uomo di farsi Dio, ossia di diventare un essere in
grado di dare da se stesso un fondamento e un senso alla propria esistenza. Ma
questo è impossibile perché l'esistenza (il venire al mondo) non ha una spiegazione
e un senso in se stessa. Solo la coscienza attribuisce senso e significati
all'esistenza, i quali sono però soltanto soggettivi e relativi, non oggettivi né
universali. Per di più, la coscienza sorge solo dopo l'esistenza e quindi non può
essere il fondamento, la base di spiegazione dell'esistenza stessa. L'esistenza rimane
una condizione del tutto assurda, casuale, indeterminabile. Non c'è alcun fine né
determinismo nell'esistenza ma solo imprevedibilità. La ragione e gli scopi
dell'esistenza sono qualcosa che noi arbitrariamente inventiamo solo dopo che siamo
già venuti al mondo.
Nel suo sforzo di farsi Dio l'uomo è dunque destinato allo scacco, al fallimento.
"L'uomo, dice Sartre, è un Dio mancato, una passione (un'aspirazione) inutile".
242

Prigioniero della casualità della propria esistenza, l'uomo si accorge che il tentativo
di diventare "essere causa di se stesso"(si tratta della definizione di Dio della
scolastica medievale) è destinato a fallire.
Se Dio non esiste e se lo stesso tentativo dell'uomo di farsi Dio si rivela un
fallimento, allora anche i valori morali perdono qualsiasi senso o, meglio, non
esistono norme morali a priori, assolute e immutabili. Tutti i comportamenti
umani sono quindi sullo stesso piano, si equivalgono e sono tutti ugualmente
fallibili. Da ciò il relativismo etico di Sartre: non ci sono valori morali universali e
necessari, validi per tutti e per sempre. Gli uomini sono assolutamente liberi nella
scelta dei loro comportamenti ma proprio per questo, come abbiamo visto, sono
altresì, d’altro canto, assolutamente responsabili di ciò che fanno e non possono
cercare scuse se si comportano in modo errato.

L'umanesimo esistenzialistico di Sartre.

Nel corso della sua vita Sartre tuttavia non rimane chiuso nei suoi pensieri
filosofici e produzioni letterarie ma ritiene doveroso anche un suo impegno
sociale e politico, specie nella resistenza francese contro l'occupazione nazista,
nonché nella ricostruzione post-bellica e nel socialismo. Perciò nella conferenza
"L'esistenzialismo è un umanismo" Sartre attenua il carattere pessimistico della
sua prima filosofia, sottolineando che la libertà dell'esistenza, ossia della scelta
di vita, non è da considerare assolutamente arbitraria perché comporta anche
una precisa responsabilità sociale: la libertà di ciascuno trova un limite nella
libertà degli altri. Elaborando una teoria della libertà e responsabilità individuale e
sociale dell'uomo, Sartre smorza le concezioni iniziali circa l'assurdo e il nulla
dell'esistenza e della coscienza, reinterpretando l'esistenzialismo nei termini di
una filosofia dell'impegno per l'uomo e per la sua emancipazione materiale, sociale
e spirituale. Il destino dell'uomo è nell'uomo stesso, nelle sue scelte responsabili. In
tal senso l'esistenzialismo si presenta come un umanismo, in quanto l'uomo viene
considerato responsabile del proprio progetto di vita, che si proietta costantemente
fuori di se stesso a favore degli altri e che è quindi trascendenza, ossia
oltrepassamento, un andare al di là da sé verso gli altri.

La critica della ragione dialettica.

L'interesse per l'impegno sociale favorisce l'adesione di Sartre al marxismo,


armonizzato però con la filosofia esistenzialista e non senza critiche nei
confronti del marxismo ufficiale sovietico. In particolare Sartre esamina i rapporti
tra il suo esistenzialismo e il marxismo.
La libertà individuale, osserva Sartre, non dipende solo da quella degli altri ma
essa, secondo la teoria marxista, è condizionata anche dalle sussistenti
condizioni storico-sociali ed economiche. Tali condizioni, infatti, possono limitare
243

le possibilità di progettare in piena libertà i modi della propria esistenza. Sartre


condivide dunque la teoria marxista del materialismo storico, secondo cui il
corso della storia è condizionato dalla continua dialettica (contrapposizione,
conflitto) sociale ed economica fra gruppi e classi sociali. Tuttavia per Sartre, a
differenza di Marx, se è vero che la dialettica socio-economica condiziona il corso
della storia, però non lo determina in modo esclusivo, poiché la filosofia
esistenzialistica mostra che le passioni e i bisogni dei singoli individui non sono
meno importanti dei conflitti di classe nell'influenzare lo svolgimento della storia.
La storia è determinata non solo dalla struttura economica esistente ma anche
dalla sussistente cultura e mentalità sia sociale che individuale.
Sartre respinge invece il materialismo dialettico di Marx e soprattutto di Engels,
secondo cui il processo dialettico (la continua contrapposizione di elementi contrari)
caratterizza anche la stessa evoluzione della natura. Scoprire una dialettica anche
nella natura appare soprattutto un'illusione metafisica. Essa potrebbe anche esistere
ma non ne abbiamo la benché minima prova.
Per Sartre dunque la dialettica (lo sviluppo della società attraverso la
contrapposizione di elementi contrari) è un processo esclusivamente storico e
umano. Ma esso, diversamente da quanto pensava Marx, non è destinato a
concludersi con l'avvento di una società senza classi e quindi senza più lotta di
classe, poiché è un processo incessante, destinato a non concludersi mai, per cui ad
una fase di progresso si contrappone prima o poi una fase di regresso, la quale sarà
poi superata da una nuova fase di progresso e così via.
Ciò vale anche nelle società e regimi comunisti, nel senso che la stessa
rivoluzione socialista o comunista è prima o poi destinata a perdere slancio ed
irrigidirsi in forme burocratiche ed autoritarie. In proposito Sartre elabora una
propria fenomenologia (descrizione) della dinamica rivoluzionaria,
distinguendo tra il concetto di "serie" e quello di "gruppo".
La serie è costituita dalla massa disorganizzata e anonima degli individui, tra di loro
indifferenti se non ostili.
Il gruppo è invece un insieme organizzato di individui che hanno un comune scopo.
Il gruppo tende a costituirsi di fronte ad un pericolo o ad un comune avversario e
trova la sua massima unione nella lotta rivoluzionaria. Tuttavia, passata la fase
"eroica" della rivoluzione, il gruppo perde la propria forza e capacità di unione, di
aggregazione, e decade nella "serie", nella massa disorganizzata. Lo slancio
rivoluzionario si esaurisce e chi è al potere riesce a mantenerlo solo attraverso un
rigido regime dispotico e di obbedienza imposta con la forza. Il potere degenera in
potere burocratico, gerarchico e poliziesco, concentrato nelle mani di un solo
capo carismatico o di un gruppo oligarchico di pochi privilegiati. Gli individui
tornano ad essere "serie" e si sentono di nuovo alienati, cioè estranei uno all'altro e
all'intera comunità.
Da tale constatazione deriva appunto la critica di Sartre contro il marxismo
ufficiale, che nel sistema comunista sovietico è divenuto un regime autoritario e
dispotico, interessato esclusivamente a conservare il potere e i privilegi
dell'oligarchia dominante. Il marxismo è degenerato in dogma (in potere
244

indiscutibile, che non può essere criticato), incapace di tener conto dei cambiamenti
sociali.
È allora necessario condannare questo marxismo ufficiale e dogmatico per
ritornare ad un marxismo umano, capace di concedere maggior libertà agli
individui e disponibile ad adeguarsi continuamente ai nuovi bisogni dei cittadini e ai
nuovi mutamenti della società, attribuendo pari importanza sia ai valori e fattori
sociali, proclamati dal marxismo, sia ai valori e fattori individuali, proclamati
dall'esistenzialismo.
245

GABRIEL MARCEL (1889-1973).

Pensatore francese di duplice vocazione, letteraria e filosofica, rivolge la propria


indagine soprattutto a quegli stati esistenziali che si pongono a mezza strada tra
conscio e di inconscio.
Opere principali: Il mistero dell'essere; Essere e avere.

Problema e mistero.

La filosofia di Marcel si ispira da un lato allo spiritualismo e dall’altro


all’esistenzialismo. Dallo spiritualismo coglie in particolare il concetto di
"coscienza", posta quale oggetto privilegiato di indagine rispetto alla natura e
all'esteriorità. Alla filosofia attribuisce infatti il compito di descrivere e spiegare i dati
della coscienza, non solo quelli dell'esperienza interna o riflessione, ma anche i "dati
immediati" dei sentimenti e dei valori morali e religiosi quali la libertà, la
trascendenza, la manifestazione del divino. Per la sua adesione allo spiritualismo e
per la sua riflessione sull'interiorità dell'uomo (come in Socrate) contro il carattere
astratto delle scienze, Marcel definisce il proprio pensiero come "neo-socratismo".
Dall'esistenzialismo deriva i temi della critica della conoscenza razionale od
"oggettiva", della distinzione tra essere ed esistenza, della rischiosità del rapporto tra
uomo e mondo, vale a dire la rischiosità del progetto di esistenza, nonché del
conseguente sentimento di angoscia o inquietudine.
Marcel chiama la scienza "riflessione primaria", di cui critica la pretesa di
organizzare un sapere oggettivo e sistematico. Individua infatti quali
caratteristiche della scienza:
1. l'astrattezza, che riduce la scienza al solo aspetto quantitativo, misurabile,
mentre ignora la dimensione qualitativa dell'esistenza e del senso del mondo;
2. la concupiscenza, cioè la frenetica volontà di manipolare e modificare la natura
solo per poter meglio disporne, da cui la prevalenza dell'avere (del possesso)
rispetto all'essere (alla spontaneità e all'amore);
3. la separazione tra il pensiero e l'essere, atteggiamento che risale al
razionalismo a partire da Cartesio, per cui il pensiero astratto diventa
l'elemento fondamentale a discapito della conoscenza oscura (psicosomatica)
che abbiamo di noi stessi.
Per Marcel invece la ricerca filosofica deve partire proprio dalla conoscenza
oscura e globale che ciascuno sente in sé come corpo. È questo l'elemento
veramente fondamentale: "Nulla esiste per me, scrive Marcel, se non è in qualche
modo unito a me come il mio corpo".
Alla riflessione primaria (la scienza) Marcel antepone quindi quella che chiama
"riflessione secondaria", cioè, per l'appunto, la conoscenza oscura, psicosomatica,
dei dati immediati della coscienza, riflessione che, se non è un procedimento
scientifico, è tuttavia un procedimento razionale. Infatti, caratteristiche della
riflessione secondaria sono:
246

1. la socraticità, che è propria non dello scienziato ma del filosofo, il quale mira
non alla coscienza bensì alla saggezza;
2. il senso di appartenenza ad una realtà cosmica, ossia il riconoscersi
innanzitutto come entità psicosomatica che spinge a non rinchiudersi nel
proprio antropocentrismo, ma che anzi infonde la coscienza di far parte di un
universo in cui si è generati e da cui si è quindi creati;
3. il senso della trascendenza, dato che la riflessione secondaria induce l'uomo a
riconoscersi al tempo stesso sia come interiorità sia come alterità: l'uomo è in
sé nella sua intimità ma contemporaneamente è proiettato fuori di sé, verso
l'essere (il cosmo) che lo circonda.
Anche Marcel dunque, come Jaspers, Sartre, Heidegger, si pone il problema
dell'essere, ossia della modalità od essenza primaria e fondamentale dell'ente (delle
cose e degli uomini), da cui dipendono tutte le sue manifestazioni e i suoi significati
od insignificanze. Anzi, l'essere ha per Marcel un carattere ancor più universale in
quanto la domanda (l'interrogarsi) sull'essere è rivolta non solo alla realtà esteriore,
ma anche e soprattutto nei confronti di colui che tale domanda si pone (l'uomo). Così
concepito, per Marcel allora quello dell'essere non è un problema bensì un
mistero.
Secondo Marcel, il problema è qualcosa che si incontra e che si pone davanti a me.
Si presenta cioè come una difficoltà di ordine più teoretico (conoscitivo) che
esistenziale. È una difficoltà risolvibile sul piano oggettivo attraverso l'analisi o la
dimostrazione razionale, ma che non coinvolge l'uomo come persona.
Il mistero, al contrario, è qualcosa in cui io mi trovo implicato, la cui essenza è di
non essere un qualcosa d'altro davanti a me. L'unione di anima e corpo, ad esempio,
che è costitutiva dell'io, è un mistero perché rimane al di là dell'analisi. Essa non è un
dato predeterminato, ma un processo continuo di reciproca interazione mai
predeterminabile.

Il mistero dell'essere.

Il problema dell'essere non è quindi risolvibile sul piano oggettivo proprio perché
l'essere non è un ente, un oggetto. Quando ci poniamo il problema dell'essere, cioè
del senso della realtà e di noi stessi, non troviamo più davanti a noi dati oggettivi
analizzabili perché siamo noi che attribuiamo un senso alle cose, agli oggetti, ed
inoltre siamo noi stessi che ci interroghiamo sull'essere (il ricercatore si confonde con
ciò che è ricercato), non sapendo inizialmente se noi siamo né che cosa siamo. La
riflessione sul problema ontologico (il problema dell'essere) si apre sopra un abisso: il
problema si trasforma in mistero, cioè, come dice Marcel, in un "metaproblema":
al di là del problema che noi comprendiamo c'è il mistero che ci comprende. A questo
punto l'uomo è chiamato non più a domandare ma a rispondere, non più a chiedere
ma, attraverso una totale disponibilità e apertura, ad accogliere un essere che, in
quanto trascendente, non si manifesterà mai in modo totale. Questa apertura e
disponibilità si traduce in una invocazione (l'essere non può essere compreso ma
247

invocato) verso quell'essere che in Marcel acquista le caratteristiche del Dio


personale del cristianesimo.
Tuttavia Marcel nega la possibilità di giungere a Dio attraverso "l'itinerarium mentis
in Deum" di medioevale memoria (San Bonaventura), nel senso che
l'approssimazione a Dio non ha nulla di razionale, ovvero non muove dall'esperienza
del mondo e della natura per risalire dal causato alla causa. Il mistero dell'essere,
dell'essere degli enti come anche dell'essere di Dio, non possiamo comprenderlo e
dominarlo. Dio non si dimostra ma si invoca. L'unico modo di avvicinarci a Dio è
l'invocazione, cioè parlare a Dio e accoglierlo. Quel che possiamo fare, allora, non
è che compiere l'analisi dei nostri modi di partecipazione a tale mistero, che sono
quelli della fedeltà, della speranza e dell'amore.
La fedeltà non deve essere intesa come mantenimento della parola data, in quanto si
ridurrebbe, in tal caso, ad una autoglorificazione di chi tale impegno ha rispettato.
Essa è invece la cosciente accettazione di un totale affidarsi ad un Altro che ci
trascende, per cui una fedeltà assoluta presuppone una persona assoluta che ci crea e
ci chiama ad essere persona, che ci dà la responsabilità di essere fedeli o di tradire.
La speranza, a sua volta, non è mai ostinata fiducia nel futuro "contro ogni
speranza", poiché si tradurrebbe anch'essa nell'autoglorificazione di una volontà che
non cessa di sperare. La speranza autentica è invece una richiesta di aiuto e che,
deposto ogni orgoglio, si affida a un Tu, ad un essere assoluto.
L'amore, infine, congiunge insieme la fedeltà e la speranza: si è fedeli e si spera
perché si ama e l'amore assoluto non può che indirizzarsi verso una Persona assoluta.

L'avere e l'essere.

Affinché la persona si renda disponibile al mistero dell'essere, deve capovolgere il


rapporto che il mondo moderno ha fissato tra la categoria dell'avere e quella
dell'essere.
Secondo la mentalità dell'avere, si vale per quel che si ha e non per quello che si è:
il mondo e gli altri sono unicamente oggetti di un possesso sempre più vasto. Lo
stesso razionalismo scientifico e tecnico rientra nella categoria dell'avere, per cui il
mondo e le cose si presentano come problemi (e non come mistero) risolvibili,
dominabili e sfruttabili. Ma la categoria dell'avere è in realtà la categoria della servitù
dell'uomo rispetto al mondo, giacché il dominio sulla cosa posseduta tende a
capovolgersi e a diventare quello della cosa posseduta sul possessore.
Nell'attaccamento alle cose l'uomo ne diventa succube ed è da esse dominato e
alienato.
Contro l'alienazione e la schiavitù dell'avere, la metafisica deve allora prendere
posizione per renderci invece disponibili all'essere e al suo mistero, liberandoci
dalla cupidigia del possesso delle cose attraverso, come già visto, l'atteggiamento
della fedeltà, della speranza e dell'amore per l'essere.
248

MAURICE MERLEAU-PONTY (1908-1961).

È stato docente di filosofia alla Sorbona e alla Normale di Parigi.


Opere principali: La struttura del comportamento; La fenomenologia della
percezione.

Rapporto tra coscienza e corpo e tra uomo e mondo.

È un filosofo esistenzialista che tuttavia non si distacca totalmente dalla


fenomenologia e neppure dalla psicologia scientifica e dalla biologia, contro cui
invece l'esistenzialismo ha sovente polemizzato. Tener conto della psicologia e della
biologia non significa per Merleau Ponty limitare ad esse l'analisi, ma essere
consapevoli che l'analisi passa anche attraverso di loro e si arricchisce dei derivanti
risultati, evitando così il pericolo di discorsi campati in aria.
Secondo tale ottica, il tema di fondo della filosofia di Merleau Ponty è quello del
rapporto tra coscienza e mondo, espresso in termini di incontro fecondo tra
esistenzialismo, da un lato, e comportamentismo e psicologia della forma, dall'altro.
Anche per Merleau Ponty l'esistenza è essere nel mondo, è cioè "una certa maniera
di affrontare il mondo". Ma questo essere nel mondo precede, è anteriore alla
contrapposizione tra anima e corpo, tra lo psichico e il fisico, risultando in tal
modo respinta l'interpretazione causale dei rapporti tra anima (o coscienza) e corpo.
Merleau Ponty vede piuttosto in tale rapporto una dualità dialettica di
comportamenti o, meglio, anima e corpo indicano livelli di comportamento
dell'uomo dotati di diverso significato. Fra anima e corpo vi è un'opposizione
funzionale che non può venire trasformata in opposizione sostanziale. Nella
rappresentazione delle relazioni tra anima e corpo Merleau Ponty non accetta alcun
modello materialista ma neppure alcun modello spiritualista. Non si può paragonare
l'organo (il corpo) ad uno strumento (dell'anima) né si può paragonare lo spirito
(l'anima) ad un artigiano che lo usi: l'anima non utilizza il corpo ma si fa, si
manifesta mediante esso.
Circa i rapporti tra uomo e mondo, Merleau Ponty sostiene che "la verità non
abita soltanto l'uomo interiore" o, meglio, non c’è l’uomo interiore: l'uomo è nel
mondo e nel mondo egli si conosce. Il mondo delle cose e dei fenomeni non è,
d'altra parte, realtà piena ma riceve senso solo dal punto di vista derivante
dalle mie esperienze e da quelle altrui. Il mondo quindi è a sua volta inseparabile
dalla soggettività e dall'intersoggettività. Da ciò ben si comprende come il tema
della percezione diventi fondamentale per Merleau Ponty, ed altresì la ragione
per cui egli utilizza la fenomenologia come maniera di praticare la filosofia. La
fenomenologia è sì lo studio delle essenze (per esempio l'essenza della percezione è
quella della coscienza) ma è anche una filosofia che ricolloca le essenze
nell'esistenza e non ne fa entità metafisiche fisse e trascendenti.
Tutte le scienze si propongono una spiegazione del mondo completa e reale ma
non si rendono conto che il ricercatore è influenzato nella sua ricerca dalla
propria esperienza percettiva, dal proprio modo di vedere: l'esperienza percettiva
249

ha un valore costitutivo nei riguardi di questo mondo. Nell'interazione tra esperienza


percettiva e mondo diventa centrale il concetto di corpo, giacché "il mio corpo è il
mio punto di vista sul mondo". La percezione è l'inserzione del corpo nel mondo.
Se da una parte la percezione ha il carattere della totalità (psicologia della forma),
dall'altra essa rinvia sempre ad un aldilà delle singole rappresentazioni, promette
sempre altri angoli di visuale. Il significato delle cose nel mondo rimane
pertanto aperto o, come dice Merleau Ponty, ambiguo. Tale ambiguità o
apertura è elemento costitutivo dell'esistenza: le cose possono anche considerarsi
inesistenti sotto il profilo cognitivo (idealismo), ma devo sempre fare i conti con
esse sotto il profilo pratico ed esistenziale. Posso non conoscere le cose ma esse
condizionano la mia azione e la mia esistenza.

La libertà condizionata.

Se è sbagliato concepire il rapporto tra coscienza e corpo come un rapporto causale


tra due sostanze e se è parimente sbagliata una concezione causale nel rapporto
uomo e mondo, per Merleau Ponty è errato altresì concepire un rapporto di
causalità tra l'uomo e la società. Perciò critica Sartre per la sua idea di libertà
assoluta dell'individuo una volta che sia gettato nell'esistenza, così come critica
anche il marxismo per il primato causale attribuito all'economia. Per Merleau
Ponty l'uomo è costitutivamente libero e non c'è alcuna struttura, come quella
economica, che possa annullare la sua libertà. Tuttavia quella dell'uomo è una
libertà condizionata dal mondo in cui vive e dal passato che ha vissuto. Non c'è
mai determinismo così come non c'è mai scelta assolutamente libera.
Così come la psicoanalisi ha gonfiato la nozione di sessualità, il marxismo ha
gonfiato quella di economia. Merleau Ponty non scarta le motivazioni economiche,
soltanto non le assolutizza. "Sarebbe assurdo considerare la poesia come semplice
episodio dell'alienazione economica: la poesia pura può avere un senso eterno". Ma
non è neppure assurdo cercare anche nel dramma sociale ed economico un motivo
dell'ispirazione poetica. Per Merleau Ponty cultura ed economia, sovrastruttura e
struttura, si influenzano a vicenda. Anche la storia umana non è affatto
determinata da una inviolabile legge dialettica: "Il mondo umano è un sistema
aperto e incompiuto", fondamentalmente contingente. Il marxismo quindi non solo
è sbagliato nella teoria del materialismo storico, poiché il divenire storico è
contingente, ma anche nella teoria dialettica, giacché il divenire storico non è
sempre causato dal conflitto tra situazioni contrapposte. È vero, riconosce Merleau
Ponty, che non c'è dialettica senza opposizione e senza libertà di opporsi, ma
esse non durano a lungo in una rivoluzione. Che tutte le rivoluzioni conosciute
degenerino non è frutto del caso: quando diventano regime non possono più essere
ciò che erano come movimento e slancio iniziale. Alla rivoluzione è preferibile il
riformismo.
250

NICOLA ABBAGNANO (1901-1990).

È stato docente di filosofia all'università di Torino.


Opere principali: Esistenzialismo positivo; Possibilità e libertà.

Abbagnano è stato il maggior esponente dell'esistenzialismo italiano, peraltro


secondo un indirizzo di maggior positività, volto cioè ad evitare il prevalente
orientamento pessimistico dell'esistenzialismo tedesco e francese i quali, dopo averli
affermati, giungono a negare valori positivi all'esistenza e alla libertà.
Tre sono i temi fondamentali della filosofia di Abbagnano: 1) la polemica
antiromantica; 2) la riflessione sulla scienza; 3) l'interpretazione della filosofia come
tentativo di esplorare il mondo con occhi umano.
Per Abbagnano l'atteggiamento antiromantico e la considerazione del valore della
scienza sono le condizioni essenziali di una filosofia che intenda essere
chiarificazione del mondo umano. Critica dunque gli esiti di negatività
dell'esistenzialismo di Heidegger (l'essere per la morte), di Jaspers (lo scacco) e di
Sartre (la nausea). Il loro pessimismo dipende per Abbagnano dal fatto che detti
pensatori, nonostante le loro polemiche antidealistiche, hanno continuato a muoversi
in un sistema di concetti tipici dell'idealismo romantico, quali i concetti di
inesorabile destino e di assurdità dell'esistenza, da cui è dipesa altresì la
svalutazione delle scienze e del loro apporto oggettivo e metodologico alla
costruzione filosofica di un mondo umano.
Da qui le due direzioni in cui Abbagnano ha proceduto nell'elaborazione di un
esistenzialismo positivo: 1) il chiarimento del concetto nonché dell'ambito di
un'effettiva possibilità di scelta dell'esistenza; 2) l'analisi metodologica delle
procedure della scienza quale unico strumento capace di consentire soddisfacenti
rapporti di comprensione del mondo da parte dell'uomo.
Nella prima direzione (l'effettiva possibilità di scelta dell'esistenza) Abbagnano
polemizza tanto contro l'idealismo quanto contro il positivismo, perché entrambi
assumono l'idea della necessità a fondamento di un sapere ritenuto assoluto (ossia di
un necessario sviluppo dialettico della realtà nel caso dell'idealismo oppure di un
necessario sistema di rapporti di causa-effetto nel caso del positivismo). A tali
filosofie Abbagnano contrappone le filosofie della possibilità, impersonate da
Kant e Kierkegaard, le quali sostengono un concetto di esistenza e di ragione
possibili, recuperando il significato realistico di possibilità intesa come effettiva
alternativa tra un sì o un no, cioè tra una scelta o una altra, senza alcuna
predeterminazione necessaria al fallimento (esistenzialismo negativo) o al successo
(idealismo romantico).
Nella seconda direzione Abbagnano sottolinea che un concetto di ragione
possibile inteso come sopra risulta allora corrispondente a quello della stessa
scienza moderna, che ha abbandonato le presunzioni positivistiche di una
conoscenza definitiva, basandosi invece sull'elaborazione di ipotesi scientifiche da
sottoporre a verifica.
251

Contro l'involuzione romantica dell'esistenzialismo negativo, confinato nel


limbo di sterili lamentazioni antitecniche e antirazionalistiche nella nostalgia di un
un mitico stato primordiale, l'esistenzialismo positivo italiano, e di Abbagnano in
particolare, si orienta in tal modo verso un programma neoilluministico (di
nuovo razionalismo). Il richiamarsi dell'esistenzialismo positivo alla ragione
possibile non rifiuta infatti il ricorso a tecniche razionali specifiche, consapevole
peraltro dei propri limiti e perciò disponibile e sempre aperto a verifiche di validità.
La rivalutazione delle scienze, ed in particolare delle scienze umane e sociali,
vuole essere per Abbagnano rottura dell'assolutismo metafisico e strumento utile di
chiarimento dei problemi morali, sociali e politici.
252

MARTIN HEIDEGGER (1889-1976).

Ha compiuto studi di teologia, scienze matematiche e naturali e di filosofia. Nel 1919


abbandona la Chiesa cattolica per inconciliabilità con le proprie teorie filosofiche. È
docente universitario a Marburgo e poi a Friburgo come successore di Husserl. Nel
1933 aderisce al nazismo ma dopo breve tempo se ne allontana e si ritira dalla vita
politica.
Opere principali: Essere e tempo; Dell'essenza del fondamento; Lettera
sull'umanismo; Che cos'è la metafisica; Dell'essenza della verità.

Orientamenti e interessi filosofici.

La filosofia di Heidegger può essere suddivisa in due periodi: 1) quello del


cosiddetto "primo Heidegger", di impostazione più vicina alla fenomenologia e
all’esistenzialismo; quello del "secondo Heidegger", di impostazione più
ontologico-metafisica, però su basi nuove e contrapposte rispetto alla metafisica
classica. Heidegger è quindi collocabile solo in parte nell'ambito della filosofia
fenomenologica ed esistenzialista, con riguardo al primo periodo della sua
produzione.
Nella formazione filosofica di Heidegger confluiscono diverse tendenze: il
cattolicesimo conservatore agli inizi; la filosofia di Kierkegaard; la fenomenologia di
Husserl; il nichilismo di Nietzsche.
Secondo una concezione diffusa nella cultura tedesca dell'epoca, condivide la critica
della civiltà tecnico-industriale e ne rielabora l'interpretazione sulla base della
dottrina aristotelica e del metodo fenomenologico. In Aristotele riscopre un insieme
di verità metafisiche oggettive, che il pensiero moderno, tutto incentrato sul primato
del soggetto, ha deformato. Per il pensiero moderno infatti (vedasi il cogito di
Cartesio, l'Io trascendentale di Kant, l'Assoluto dell'idealismo) la conoscenza è
soprattutto il risultato delle operazioni del soggetto o della coscienza soggettiva
anziché essere conoscenza diretta degli oggetti in sé.
Agli inizi del suo pensiero filosofico Heidegger si oppone allo psicologismo, che
riduce e fa derivare i principi e le leggi logiche dai meccanismi e dalle leggi
psicologiche. Per Heidegger invece gli stati psichici sono mutevoli e non possono
essere all'origine dei principi logici che sono, per contro, stabili, immutevoli e
intemporali. Mediante una nuova impostazione metafisico-ontologica, Heidegger
avverte l'esigenza di confrontare la logica con il mondo storico: non tutto è
divenire storico contingente, mutevole e spesso imprevedibile. La filosofia pertanto
non può, alla lunga, fare a meno dell'ottica che le è propria, cioè della metafisica,
anche se rinnovata.
Sulla base dei predetti orientamenti affronta quello che per lui è il problema
fondamentale, cioè il problema dell'essere e del senso dell'essere (ossia il problema
dell'essenza e del significato profondo della realtà e dell'esistenza umana). Nel primo
periodo della sua filosofia applica allo studio di tale problema il metodo
253

fenomenologico, per la capacità scorta nella fenomenologia di "giungere alle cose


stesse", ossia di fornire un metodo per interpretare il mondo e la storia degli uomini
cogliendone, al di là dei fatti particolari, le essenze invarianti, immutevoli. L'interesse
per la filosofia rivolta ai fenomeni essenziali (colti nella loro essenza) che si rivelano
alla coscienza spiega la critica di Heidegger nei confronti del sapere di tipo
matematico, cioè meccanico-quantitativo delle scienze fisiche, derivante da Galileo
Galilei, al quale contrappone il valore della conoscenza fondata sull'intuizione
anziché sull'analisi matematica e concettuale.
Altro interesse di Heidegger è quello teologico. Ma per lui la concezione
dell'essere, della vita e del tempo quale indicata dal cristianesimo è stata tradita
poiché basata su una metafisica di tipo classico che Heidegger respinge.

Essere e tempo.

Scopo dichiarato dell'opera "Essere e tempo" è di giungere alla comprensione


dell'essere degli enti (delle cose), ossia comprendere da dove derivano e quali sono
le loro fondamentali caratteristiche. L'essere è la proprietà e la caratteristica
comune di tutti gli enti: ogni ente, prima di essere qualcosa di determinato (uno
specifico oggetto) deve innanzitutto "essere", cioè esistere.
Allora qual è il senso dell'essere? L'unico tra i vari enti che è in grado di porsi la
domanda sull'essere per cercarne il senso è l'uomo. Perciò prima di cercare il
senso dell'essere in generale bisogna cercare quale è il modo di essere (le
caratteristiche) fondamentale dell'uomo.
L'uomo è chiamato da Heidegger "esserci", dove il "ci" sta ad indicare che l'uomo
è sempre in una situazione nella quale si trova gettato (la nascita non dipende dalla
volontà individuale e tuttavia, con la nascita, l'uomo si trova fatalmente gettato nel
mondo). Mentre tutti gli altri enti sono trattati e considerati come "presenza",
ossia come oggetti stabili in sé e presenti a chi li osserva, senza collegamenti né col
passato né col futuro, e quindi manipolabili e utilizzabili dall'uomo, il modo
fondamentale dell'essere dell'esserci (dell'uomo) è invece l’"esistenza", la quale
non è solo nel presente ma è sviluppo, è cammino dal passato verso il futuro.
Esistenza significa infatti "poter essere" ed il poter essere riguarda il futuro, è
progetto per il futuro, sulla base anche delle esperienze e dei vissuti del passato.
La metafisica tradizionale dell'Occidente, da Platone in poi, non ha mai concepito
l'essere nel suo rapporto col tempo, ossia secondo le dimensioni del passato, del
presente e del futuro. Anziché considerare l’essere come l'essere (l'origine e
l'essenza) degli enti, ha per lo più ridotto l’essere stesso ad ente, pensandolo solo
come "presenza", ossia come ente fisso, stabile, non mutevole nel tempo: da qui
appunto il titolo dell'opera "Essere e tempo".
Heidegger chiama la sua preliminare analisi sull'esserci (sull'uomo) "analitica
esistenziale", da condurre secondo il metodo indicato dalla fenomenologia. La
fenomenologia considera infatti i fenomeni (gli enti) non nei loro aspetti esterni e
particolari ma nella loro essenza, ossia secondo i modi fondamentali e profondi con
254

cui sono colti dalla coscienza. Mediante l'analitica esistenziale Heidegger intende,
appunto, evidenziare i modi possibili, fondamentali ed essenziali di essere
dell'uomo, modi chiamati da Heidegger "esistenziali". Mentre per esempio le
categorie di Aristotele e di Kant (sostanza, causa-effetto, quantità, qualità, relazione,
ecc.) indicano i modi più generale di essere degli enti, intesi come semplice
"presenza", gli "esistenziali" indicano le caratteristiche strutturali fondamentali
dell'esserci, inteso come esistenza e non come presenza.
Quale preliminare presupposto degli esistenziali, Heidegger individua nell’uomo
tre caratteristiche essenziali dell'esistenza, che lo differenziano dagli altri enti:
1. la capacità di porre il problema e di interrogarsi sull'essere e sul senso
dell'essere, cioè di mettersi in rapporto sia col singolo essere individuale che
con l'essere in generale;
2. l'esistenza (ossia l'esserci o l'uomo) è essenzialmente possibilità di essere,
cioè di progettare il proprio modo futuro di essere, a differenza degli altri enti
che sono semplici presenze predeterminate e fisse; sono oggetti che si pongono
davanti mentre l'esistenza non è fissa e predeterminata, ma è un insieme di
diverse possibilità di essere (di progettare la propria vita) tra cui l'uomo deve
scegliere. Anche etimologicamente la parola esistenza deriva dal latino ex-
stare, che significa stare in un posto, ossia in un certo modo di essere quale si è
prescelto, venendo "da" (ex), venendo cioè dal di fuori della realtà
momentanea in cui ci si trova. Dire che l'esistenza, cioè l'uomo, è "poter
essere", ossia possibilità di cambiare, vale a dire progetto (etimologicamente
"pro-getto"=gettarsi in avanti), significa dire che non c'è una natura od una
essenza di fondo immutabile nell'uomo;
3. come progetto l'esistenza (l'uomo) è dunque possibilità di portarsi e andare
oltre la realtà del momento per scegliere il tipo di vita futura; allora, poiché
l'esistenza trascende, ossia va oltre la realtà momentanea e presente, la terza
caratteristica fondamentale o modo di essere dell'uomo è la trascendenza,
concettualmente intesa in maniera nuova rispetto alla metafisica tradizionale.

Gli "esistenziali".

Dopo aver delineato le caratteristiche essenziali dell’esistenza in generale, Heidegger,


proseguendo nell'analisi dell'esserci (l'uomo), esamina quindi i modi fondamentali
“possibili” di essere dell'uomo, chiamati, come abbiamo visto, gli "esistenziali".
Heidegger distingue tre categorie (gruppi) di esistenziali fondamentali:
1. "essere nel mondo";
2. "essere fra gli altri";
3. "essere per la morte".
Ciascuna categoria è a sua volta caratterizzata da ulteriori propri e specifici
esistenziali.
255

"Essere nel mondo".


Nell'analisi degli esistenziali Heidegger parte dall'esame dell'uomo quale esso
mediamente è nella quotidianità della sua esistenza, ossia esamina l'uomo nelle
situazioni in cui per lo più si trova e ciò proprio per considerare (e non farsi sfuggire)
il maggior numero delle varie possibilità di progetto e di scelta di vita dell'uomo. Di
seguito sono illustrati i relativi esistenziali principali.
1) L'uomo è prima di tutto un essere nel mondo, un trovarsi nel mondo.
2) Nel suo essere nel mondo l'uomo è soprattutto un "prendersi cura delle cose" di
cui ha bisogno per trasformarle e utilizzarle secondo le sue esigenze e i suoi scopi.
3) Nell'esistenza pratica e quotidiana ogni cosa esiste in primo luogo come
strumento per qualcosa d'altro, ogni cosa assume un significato in vista di qualcosa
d'altro: la casa per abitare, il sentiero per camminare, la stella per orientarsi, ecc.
4) Poiché ogni cosa rimanda (si collega) a qualcosa d'altro e così via, l'uomo nella
sua vita pratica e concreta si trova dentro ad una serie di rimandi (collegamenti)
che nel suo insieme costituisce una forma di pre-comprensione del mondo,
chiamata da Heidegger "visione ambientale preveggente". Questa pre-
comprensione del mondo è un modo di dare significato al mondo in maniera pratica e
strumentale: è il senso comune, il comune modo di vedere e di sentire le cose del
mondo. Con ciò Heidegger vuol dire che la pre-comprensione pratica e
strumentale del mondo (il mondo è un insieme di cose usate come strumenti)
precede la conoscenza teorica del mondo stesso, nonostante la superbia di certe
teorie filosofiche che pretendono di essere al primo posto. Per Heidegger invece si
può indagare teoricamente il senso dell'essere (del mondo e dell'uomo) solo perché
già si possiede di esso una pre-comprensione pratica, anche se indeterminata.
5) Infatti, prosegue Heidegger, l'uomo innanzitutto e per lo più non si trova nel
mondo secondo la "modalità della conoscenza", cioè in primo luogo per
conoscerlo, ma secondo la "modalità del commercio", ossia per utilizzare e
sfruttare a suo vantaggio le cose: la pratica precede la teoria.
6) Ma la pratica non è cieca perché è guidata dalla visione ambientale
preveggente, ossia dalla pre-comprensione strumentale del mondo. Tale pre-
comprensione viene prima della comprensione e della conoscenza teorica delle cose
del mondo e l'uomo, di conseguenza, viene addirittura ancor prima del mondo stesso,
nel senso che il mondo, senza la pre-comprensione, non avrebbe per l’uomo
alcun significato, è come se non esistesse. La conoscenza teorica è considerata da
Heidegger un modo secondario che deriva da quello primario del prendersi cura delle
cose, di tipo pratico-strumentale. Solo quando si interrompe la necessità pratica
strumentale del prendersi cura delle cose subentra la riflessione sulle cose e la
conoscenza teorica.
7) Poiché la pratica precede la teoria e l'uomo si trova già "gettatto" dentro il
mondo, non ha senso allora chiedersi se vi sia un mondo al di fuori della nostra
coscienza (come nel caso dell'idealismo secondo cui non c'è alcuna realtà esterna alla
coscienza) e se il suo essere (il suo fondamento e la sua essenza) possa venir
dimostrato: non ha senso dimostrare una cosa entro cui già ci si trova ad essere;
l'essere nel mondo è un dato di fatto esistenziale.
256

La comprensione è per Heidegger ciò che comunemente si intende come conoscenza.


Il processo gnoseologico (conoscitivo) per Heidegger non consiste:
-né in un atteggiamento puramente passivo e recettivo, in base a cui veniamo a
conoscenza di una realtà a noi esterna che poi cerchiamo di organizzare e
classificare mediante leggi generali (come per il positivismo);
-né in un atteggiamento del tutto attivo, per cui il soggetto, la coscienza, crea la
realtà (come per l'idealismo);
-ma consiste in un progressivo disvelarsi (manifestarsi) dei significati più reconditi
(profondi e nascosti) dell'essere stesso. Grazie alle progressive illuminazioni da
parte dell'essere, l'uomo è in grado di portare alla non-latenza (al non più nascosto)
quanto della realtà rimarrebbe invece latente senza l'intervento dell'essere, con cui
l'uomo è in rapporto. La gnoseologia di Heidegger è dunque ermeneutica (è
interpretazione della realtà) e la anticipa.

"Essere tra gli altri". Esistenza inautentica e esistenza autentica.

Un’altra fondamentale categoria di esistenziali, accanto all'essere nel mondo, è


"l'essere tra gli altri".
1) Essere fra gli altri significa che l'uomo non vive in un suo mondo isolato dagli
altri uomini. Il solipsismo (l'isolamento in se stesso) è quindi un falso problema,
come pure l'idealismo perché non c'è una coscienza, uno Spirito, senza mondo quale
oggetto della coscienza.
2) Il mondo e gli altri uomini non sono oggetto di conoscenza ma sono un fatto
esistenziale (è questa la nostra situazione esistenziale e non c'è niente da conoscere);
sono un dis-velarsi dell'essere (un manifestarsi, un togliersi il velo che nasconde);
sono il luogo dell’esistenza dell'uomo e dei suoi progetti di vita.
3) Se come "essere nel mondo" l'uomo è soprattutto un "prendersi cura delle cose",
nel suo "essere con gli altri" l'uomo è "aver cura degli altri".
4) L'aver cura degli altri può assumere due forme diverse: a) curarsi più delle
cose che degli altri uomini, e questa è una forma di vita inautentica, un'esistenza
inautentica che consiste in un semplice "essere (stare) insieme"; b) aiutare gli altri a
prendersi cura di se stessi e prendersi anche direttamente cura degli altri, e questa è
una forma di vita autentica, un'esistenza autentica in cui si ha un vero "coesistere"
(non stare ma vivere insieme).
Si vive un'esistenza inautentica quando si trattano le cose e gli altri uomini come
enti, in maniera strumentale, al solo scopo di utilizzarli a nostro vantaggio. La vita
inautentica è basata sul "si dice" e sul "si fa", cioè sul conformismo, sulle
convenienze. È un modo di essere anonimo e impersonale. Il linguaggio, che
dovrebbe essere il luogo del dis-velamento (dello svelarsi) dell'essere, è ridotto a
chiacchiera inconsistente: "le cose stanno così perché così si dice"; oppure: "bisogna
fare così perché così dicono che si fa". La "curiosità", allora, è un'ulteriore
caratteristica principale della vita inautentica; curiosità non per l'essere (per la
vera realtà) delle cose e degli altri uomini ma per le loro apparenze superficiali.
Nell'esistenza inautentica l'uomo si comporta e parla imitando semplicemente i più
257

(conformismo) e finisce col non sapere neppure di che cosa si parla. L'uomo cade e
si abbassa al livello delle cose, diventando un semplice fatto tra gli altri fatti; non è
più un "progetto", ma rinuncia a perseguire ed attuare sempre nuovi progetti di vita.
Questa caduta dell'uomo al livello delle cose viene chiamata da Heidegger
"deiezione" (= decadere a cosa).
La vita inautentica, come si vedrà altresì per la vita autentica, è accompagnata da
specifiche "situazioni emotive" (stati d'animo, sentimenti). Due in particolare:
1. il sentirsi condannato ad essere ciò che si è di fatto, incapaci di fare nuovi
progetti di vita (le cose e gli altri sono visti come oggetti e non come progetti);
2. la paura di perdere le cose che si hanno e dalle quali l'uomo inautentico non
riesce a distaccarsi.
Peraltro, Heidegger non intende fare il moralista; non pronuncia condanne morali
della vita inautentica e ciò per due motivi: 1) perché compito dell'analisi esistenziale
è quello di osservare e descrivere e non di esprimere giudizi di valore; 2) soprattutto
perché Heidegger riconosce che l'esistenza inautentica e la deiezione fanno parte
della struttura esistenziale dell'uomo, fanno parte della vita di tutti gli uomini. Anche
gli uomini che progettano e scelgono la vita autentica hanno inevitabilmente momenti
di vita inautentica, giacché essa caratterizza buona parte dell'esistenza quotidiana di
ciascuno. L'essere dell'uomo è contraddistinto da questa struttura circolare che
oscilla tra esistenza autentica ed inautentica. L'esistenza è di per se "poter essere",
cioè un progettare in avanti (vita autentica). Ma essa tende sovente, nella vita
quotidiana, a ricadere indietro, a ciò che di fatto originariamente l'uomo è, ossia un
essere gettato nel mondo (vita inautentica).
La stessa conoscenza scientifica e addirittura le norme morali e i valori appartengono
per Heidegger all'esistenza quotidiana inautentica perché i loro oggetti sono trattati
sempre come cose, in maniera strumentale con lo scopo di venire utilizzati per un
qualche fine, magari anche nobile ed elevato, ma in realtà, proprio in quanto oggetti,
non sono mai vissuti come progetti, i quali soltanto caratterizzano la vita autentica.
Heidegger non accetta la concezione filosofica classica di conoscenza considerata
come effetto di una riflessione neutrale e distaccata dalla realtà esterna da parte di un
soggetto. Non considera l'uomo come spettatore obiettivo della realtà, emotivamente
non coinvolto; fra realtà e uomo vi è sempre tensione continua che produce inevitabili
situazioni emotive le quali rendono impuro, non obiettivo né distaccato, il nostro
rapporto con le cose.
Nella moderna società di massa, ove il conformismo e la spersonalizzazione
dilagano, più frequente è la caduta nella vita inautentica e nella deiezione. Il
singolo rinuncia alla propria personalità e si adegua al comportamento della
maggioranza o alle mode. In tal modo si sottrae alla propria responsabilità, ossia alla
realizzazione del suo poter essere in progetti sempre nuovi.
Senonché c'è la "voce della coscienza" che invita l'uomo ad una esistenza
autentica, la quale si realizza quando l'uomo non si abbassa al livello delle cose,
degli enti, ma quando cerca invece il senso dell'essere degli enti, cioè il senso
dell'esistere delle cose. La voce della coscienza richiama l'uomo alle sue
responsabilità e gli rammenta ciò che egli è nel suo profondo, ossia "poter essere",
258

progetto. Tutti i progetti e le scelte dell'uomo sono in fondo equivalenti: posso


dedicare la mia vita al lavoro, allo studio, alla ricchezza o a qualsiasi altra cosa, ma
l'uomo è veramente tale e vive un'esistenza autentica quando non smette mai di
fare continui e nuovi progetti. Quando uno di questi progetti viene considerato
come quello ultimo e decisivo, e quindi l'uomo smette di perseguire progetti ulteriori,
allora l'uomo cade in una vita inautentica perché rinuncia al suo "poter essere"
realizzatore di progetti sempre nuovi.

Essere per la morte.

Tuttavia tra i vari progetti, tra le varie possibilità di scelta ce n'è una diversa dalle
altre, alla quale l'uomo non può sfuggire: la morte.
Con riguardo alle fondamentali categorie di esistenziali (i fondamentali modi
possibili di essere dell'uomo), l’"essere per la morte" è la terza ed anzi la
maggiore presa in esame da Heidegger accanto a quelle dell’"essere nel mondo" e
dell’"essere fra gli altri". L'uomo è infatti poter essere: è caratterizzato cioè dalla
possibilità, da qualcosa che può essere e quindi da qualcosa che ancora manca. Ciò
che invece all'uomo (all'esserci) non può mancare è la sua fine, la sua morte.
Come mai Heidegger definisce la morte come possibilità di ogni singolo uomo e
non come fatto certo, sperimentato? Perché, egli risponde, il singolo uomo non può
mai fare esperienza della propria morte, bensì solo della morte degli altri. Dunque
per il singolo, fintanto che rimane in vita, la morte non è un fatto, ma è una
possibilità. Però è una possibilità certa ed insuperabile. La morte è la fine
dell'esserci (dell'uomo). Se l'uomo è poter essere, cioè possibilità di realizzare sempre
nuovi progetti, con l'avvento della morte all'uomo non resta più alcun progetto da
attuare; perciò, dice Heidegger, la morte è la possibilità (certa) dell'impossibilità di
ogni ulteriore progetto di vita. Quella della morte è la possibilità più propria e
specifica dell'uomo singolo e concreto, perché ogni uomo, in quanto "essere nel
mondo" ed "essere tra gli altri", progetta la sua esistenza sempre con riguardo al
mondo e con riguardo agli altri. Quando muore, invece, muore sempre da solo,
isolato dalle cose del mondo e dagli altri.
Ma che significato ha per l'esistenza la consapevolezza della possibilità certa e
ultima della morte? Essa non deve portare alla disperazione, dice Heidegger, ma
anzi, consentendo all'uomo di conoscere fino in fondo se stesso come essere finito
e mortale, lo sospinge a vivere un'esistenza più autentica. Infatti, mentre la vita
inautentica cerca di allontanare e di far dimenticare la morte, oppure considera la
morte con paura, l'esistenza autentica si attua pienamente proprio quando l'uomo si
rende conto che è un "essere per la morte", destinato alla morte.
La consapevolezza della morte non implica, nella vita autentica, la disperazione e il
suicidio o l'attesa della morte (il vivere aspettando solo di morire). Comprendendo
che l'esistenza umana è finita, è destinata a terminare, la consapevolezza della morte
ha il merito di farci capire l'inutilità di fissarci ed intestardirci in una specifica
situazione, in uno specifico ed esclusivo desiderio e progetto, perché con la morte
259

ogni nostra progetto diventa nulla, più niente. La consapevolezza della morte ci
consente di conseguenza un sufficiente distacco dalla vita, grazie a cui essere in
grado di non farci dominare dai nostri desideri e passioni.
Heidegger chiama tale consapevolezza dell'inevitabilità della morte "decisione
anticipatrice", perché ci fa capire in anticipo che è un'illusione e del tutto inutile
affannarci nella cura delle cose (nell'attaccamento alle cose), cadendo in tal modo in
una esistenza in autentica e perdendo così di vista la vita autentica.
Dunque la morte:
1. da un punto di vista negativo è l'annullamento totale, per cui secondo Heidegger è
del tutto falso il principio per il quale dal nulla non nasce nulla; al contrario, è
proprio dal nulla che nasce l'esistenza e nel nulla finisce;
2. da un punto di vista positivo il pensiero della morte richiama l'uomo dalla
disperazione della vita inautentica alla piena e serena consapevolezza della propria
autentica condizione.
La comprensione del nostro "essere per la morte" è accompagnata, come tutte le
comprensioni, da una situazione emotiva (da un sentimento). Mentre, come già
visto, la situazione emotiva fondamentale della vita inautentica è la paura (di perdere
le cose che si hanno), quella della vita autentica, che comporta la consapevolezza di
"essere per la morte", è invece l'angoscia: l'angoscia per l'ignoto e per il nulla totale,
anche dei nostri progetti, che la morte comporta. L'uomo giunge all'esperienza
dell'angoscia non mediante l'intelletto, attraverso un'analisi razionale, ma in base ad
un preciso sentimento che egli avverte.
L'esistenza autentica implica tuttavia il coraggio di accettare il proprio "essere
per la morte" e di accettare la propria condizione di essere finito, mortale. Essere per
la morte provoca angoscia, ma la consapevolezza coraggiosa della morte, propria
della vita autentica, ha non solo la funzione di ricordarci che nessuno dei nostri
progetti di vita sarà mai definitivo, perché con la morte diventa un niente, ma ha
altresì e soprattutto il compito di farci accettare con forza d'animo la nostra
condizione strutturale di esseri finiti e limitati.
L'uomo (l'esserci), commenta Heidegger, è caratterizzato da una duplice negatività
(situazione negativa):
1. l'uomo è il fondamento dei suoi progetti, e quindi del suo "poter essere", perché
è l'uomo che sceglie i propri progetti fra i tanti possibili; però l'uomo non è il
fondamento di se stesso perché si trova gettato nell'esistenza a sua insaputa e
non avendolo scelto lui stesso; Heidegger respinge quindi la metafisica classica
che nei concetti di "essenza" e/o di "sostanza" presume di aver individuato il
fondamento dell'uomo;
2. l'uomo in sé è dunque assoluta assenza di un suo qualsiasi fondamento: è
nullità di fondo dell'esistenza (destinata al nulla con la morte), nullità che
oltretutto non deriva da colpe o mancanze sostanziali dell'uomo, ma è una
condizione originaria dell'uomo; è nullità (mancanza di un senso di fondo)
esistenziale strutturale.
260

Il tempo e la storia.

Come dice lo stesso titolo dell'opera "Essere e tempo", Heidegger sviluppa quindi
l'analisi del rapporto tra l'esserci (l'uomo) e il tempo, ossia il rapporto tra l’uomo e
la storia, individuandone nella "cura" ( il prendersi cura delle cose e l’aver cura
degli altri) il termine di collegamento (la "cura" collega l'uomo col tempo e con la
storia). Infatti le caratteristiche fondamentali dell'esistenza quali già esaminate
(l'esistenza come poter essere, come progetto, come trascendenza, nonché l'essere
gettati nel mondo, la deiezione, l'angoscia) si manifestano nella "cura". Ma qual è il
senso della "cura"; che cosa la rende comprensibile? Heidegger risponde che il
senso della cura è la temporalità. Ogni aspetto dell'esistenza è in effetti inserito
nel tempo, rimanda ad una dimensione temporale: l'essere gettato nel mondo fissa
l'esserci (l'uomo) nel passato; la deiezione lega l'uomo al presente inautentico
delle cose; il progetto proietta l'esserci verso il futuro, che per Heidegger è la
dimensione fondamentale del tempo poiché consente il "poter essere", consente la
progettualità che costituisce una struttura invariante (stabile) dell'esserci.
Nell'esistenza inautentica il tempo è semplice somma, accostamento di passato,
presente e futuro; nell'esistenza autentica il tempo è in sé dimensione unitaria,
incentrato non sul presente ma sul futuro. Ciò che Heidegger vuole significare è che
il tempo non è qualcosa di esterno che si aggiunge all'esistenza ma che l'esserci ha in
sé costitutivamente carattere temporale; l'esserci (l'uomo) è tempo, nel senso che
l'uomo sussiste ed è comprensibile solo come essere situato nel tempo, cioè come
essere storico, calato nella storia. Non ha senso per Heidegger il concetto astratto e
astorico di uomo.
Dall'analisi del tempo Heidegger trae alcune importanti conseguenze:
1. i significati di "tempo" usati nel pensiero comune ma anche nella scienza
(la misura scientifica del tempo) sono entrambi di tipo inautentico perché
sono significati abbassati al livello delle cose (deiezione), viste come enti,
come semplice presenza e come semplici strumenti;
2. il tempo autentico è invece quello dell'esistenza autentica ed angosciata,
che vede nell'essere per la morte l'insignificanza finale di tutti i progetti
dell'esistenza, ma che consente all'uomo di accettare con coraggio il proprio
tempo limitato, in una specie di "amor fati" verso il proprio destino, vivendo la
vita con distacco dalle passioni e dalla cura ossessiva delle cose;
3. la natura temporale e storica (delimitata un determinato periodo storico)
dell'esserci (dell'uomo) è il fondamento che consente la storiografia (la
scienza storica) perché la vita autentica, pur nella consapevolezza della nullità
finale dell'esistenza, non elimina il mondo e le vicende naturali e storiche nelle
quali ci troviamo, ma anzi ci rende liberi di accettare l'esistenza e il mondo così
come sono, finiti ed imperfetti, e quindi di raccontarne la storia con distacco,
senza pregiudizi.
261

IL “SECONDO HEIDEGGER”.

L'incompiutezza di "Essere e tempo".

Nell'opera "Essere e tempo" Heidegger ha condotto un'analisi fenomenologica


dell'esserci (l'uomo), unico tra gli enti che si pone il problema dell'essere e del senso
dell'essere, nell'intento di passare poi ad indagare l'essere e il senso dell'essere
vero e proprio in generale, ossia l'essenza e il senso del principio e del
fondamento della realtà. Ma questa seconda indagine non è stata svolta e l'opera
è rimasta incompleta. Ciò per due motivi:
1. perché Heidegger giunge alla convinzione che il linguaggio della metafisica
tradizionale è inadeguato a parlare dell'essere in quanto trattasi di linguaggio
rivolto e impostato sugli enti anziché sull'essere;
2. a causa dell'impostazione stessa dell'opera "Essere e tempo" la quale,
intendendo parlare dell'essere a partire dall'esserci, ha finito di fatto, secondo
taluni studiosi, con l'impedire di estendere l'analisi all'essere, avendo
Heidegger scorto nell’"essere per la morte" dell'uomo la nullità stessa
dell'esistenza piuttosto che la premessa per giungere al senso dell'essere.
Da ciò la svolta del proprio orientamento cui Heidegger è indotto. In tal senso si
parla appunto del "secondo Heidegger".
Intorno agli anni trenta Heidegger si persuade che per trattare il problema dell'essere
e del suo senso sia necessario capovolgere il punto di vista della metafisica
tradizionale (intesa come studio dell'essere, della realtà in generale). Infatti, mentre i
filosofi della metafisica tradizionale, partendo dal loro “esserci”, cioè dalle personali
concezioni e teorie, avevano sempre considerato l'essere come proprio "oggetto" di
studio, giungendo quindi a ridurlo, in quanto oggetto, ad ente, a semplice cosa da
conoscere, Heidegger si convince che non si debba più partire dall'esserci,
dall'esistenza e dalla riflessione umana per arrivare all'essere, ma ci si debba
porre invece dal punto di vista dell'essere stesso. Viene rovesciato il rapporto
uomo-essere: l'uomo non è più pensato come colui che assume l'iniziativa del
proprio svelamento, ossia della comprensione di sé, del suo essere ed altresì
dell'essere in generale, ma è invece l'essere che si rivela attraverso quell'ente
particolare che è l'uomo, il quale diventa quindi l'ambito e lo strumento
dell'iniziativa assunta dall'essere medesimo di autosvelarsi (di rivelarsi). Allora,
in questo capovolgimento della relazione uomo-essere, la comprensione dell'essere
non dipende più, come Heidegger dapprima pensava, da una preliminare
comprensione dell'esserci, ossia dell'esistenza umana (e degli esistenziali) bensì,
al contrario, la comprensione dell'esistenza dipende da una preliminare
comprensione dell'essere in generale, dal quale primariamente deriva l'essere
degli enti (cioè l'origine e l'essenza degli enti).
Rilevante conseguenza della nuova impostazione adottata è stata quella di
trasformare la concezione dell'uomo da soggetto attivo (tradizionalmente
concepito come colui al quale espressamente spetta di organizzare e rendere possibile
262

la conoscenza e la comprensione dell'essere, cioè della realtà) a soggetto passivo,


ossia a semplice destinatario di iniziative di svelamento (di rivelazione) assunte non
dall’uomo ma direttamente dall'essere nei confronti dell'uomo.
Peraltro questo capovolgimento del rapporto tra uomo e essere non deve essere
inteso in modo troppo rigido. In effetti non è esclusa una partecipazione ed un
coinvolgimento dell'uomo nell'iniziativa dell'essere di autosvelarsi poiché, come
vedremo, Heidegger presenta lo svelarsi dell'essere come "evento" e, quindi,
concepisce un rapporto di "coappartenenza originaria", cioè di implicazione
reciproca tra essere e uomo. Infatti, fra tutti gli enti, solo quel particolare ente che è
l'uomo è capace di pensare e quindi di comprendere che gli enti visibili dai quali il
mondo è costituito sono appunto visibili poiché è l'essere che, svelandosi ed
illuminando gli enti, li fa apparire. L'essere può svelarsi e rendersi visibile solo
nel pensiero dell'uomo: ecco perché Heidegger parla di coappartenenza e di
implicazione reciproca tra essere e uomo.
Contro la metafisica tradizionale Heidegger propone quindi una nuova metafisica.

La "differenza ontologica" e la verità.

Nell'opera "Che cos'è la metafisica" rigoroso è in Heidegger il rifiuto della metafisica


tradizionale che concepisce l'essere come semplice "presenza", cioè come ente.
L'essere per Heidegger non va assolutamente confuso con l'ente: tra essere ed
ente esiste una fondamentale differenza che Heidegger chiama "differenza
ontologica" (l'ontologia è quella parte della filosofia, della metafisica in particolare,
che studia appunto l'essere, cioè l’essenza ed il principio fondamentale della realtà).
L'essere non è l'ente, ma è invece pensato da Heidegger come la luce, l'orizzonte,
lo sfondo, l'evento che, tramite l'uomo (tramite il suo pensiero), rende visibili (e
comprensibili) gli enti (la realtà e le cose della realtà). In quanto distinto dall'ente,
l'essere è il non-essere (il nulla) dell'ente; è il "ni-ente", il non-ente, ossia è lo
sfondo, che rimane nascosto, entro il quale appare e si rende visibile quella parte di
enti illuminati dall'essere. Da ciò la conclusione, apparentemente paradossale e
assurda, che il ni-ente e l'essere sono la stessa cosa: l'essere va inteso come ciò che
non è ente (differenza ontologica) ma che rende visibile l'ente.
Nell'opera l’"Essenza della verità", Heidegger critica la tradizionale concezione
della verità intesa come corrispondenza tra pensiero (o linguaggio) e fatti, poiché
presuppone di considerare l'essere come presenza, cioè come ente che si rispecchia e
corrisponde al pensiero. Viceversa, sostiene Heidegger, la stessa parola greca con
cui in origine si indicava la verità, cioè "alethéia", significa "svelamento",
significa ciò che non è nascosto. Questo concetto originario di verità coincide per
Heidegger col concetto di libertà, intesa non nel senso (antropologico) di libero
arbitrio (libertà di scelta) ma in quello (ontologico) "del lasciar libero l'ente di
essere illuminato e reso visibile dall'essere". Si tratta infatti di una libertà che
l'uomo non può "scegliere" (per questo non è concepibile come libero arbitrio), ma
che è propria dell'essere stesso, che appartiene all'essere, al punto che non è l'uomo
263

che possieda la libertà ma è la libertà che possiede l'uomo. La libertà cioè non
deriva da una iniziativa (una scelta) umana, ma si configura, si presenta, come un
dono che l'essere fa all'uomo. Dono che permette all'uomo di avvertire la presenza
dell'essere e che permette agli enti di essere illuminati e resi visibili all'uomo
dall'essere medesimo. La verità è il disvelarsi (disvelare=togliere il velo che
nasconde) e manifestarsi dell'essere, essere paragonato da Heidegger ad una
"radura" in cui gli enti sono lasciati liberi di apparire, ossia di essere illuminati e
resi visibili.
Ma la verità intesa come disvelamento e illuminazione degli enti da parte
dell'essere è al tempo stesso disvelamento parziale degli enti e nascondimento
della totalità di tutti gli altri. L'essere non disvela, non illumina e non fa apparire
contemporaneamente tutti gli enti; mentre ne svela alcuni, tiene nascosti gli altri nella
loro totalità: in ciò consiste il mistero dell'essere (del principio e dell'essenza della
realtà). In tal senso Heidegger dice che la verità implica la non verità, proprio come la
luce (l'essere che illumina gli enti) implica l'oscurità.

La critica alla metafisica occidentale come oblio dell'essere.

Heidegger, si è visto, accusa la metafisica classica di aver commesso un errore


radicale per due principali motivi:
1. per aver concepito l'essere come proprio oggetto di studio, intendendo in tal
modo l'essere come presenza, cioè come ente, dimenticando la differenza e
distinzione ontologica tra essere e ente;
2. per aver concepito la verità come facoltà e proprietà del soggetto (dell'uomo) e
come corrispondenza tra pensiero e fatti.
La metafisica occidentale, prosegue Heidegger, pur essendosi posta il problema
dell'essere, lo ha subito ignorato e dimenticato poiché si è di fatto limitata ad
un'indagine sull'ente anziché sull'essere vero e proprio. Perciò Heidegger
definisce la metafisica classica, tradizionale, come "oblio dell'essere", cioè come
dimenticanza dell'essere.
Da Platone e Aristotele fino a Hegel e allo stesso Nietzsche, la metafisica ha preteso
l'impossibile, ossia di cercare il senso dell'essere indagando gli enti. In tal modo
essa non è una metafisica ma una "fisica", poiché si è limitata a studiare gli enti
dimenticando l'essere, ossia la differenza tra essere ed ente (oblio dell'essere).
Platone è stato, secondo Heidegger, il primo responsabile della degradazione della
metafisica a fisica. I primi filosofi (Anassimandro, Parmenide, Eraclito) avevano
correttamente concepito la verità come un dis-velarsi dell'essere, secondo il
significato etimologico di "alethéia", la parola greca che significa "verità".
Senonché Platone ha respinto il concetto di verità come non-nascondimento, cioè
come autosvelarsi dell'essere, e ha capovolto il rapporto tra essere e verità,
fondando e basando l'essere sulla verità intesa come mondo delle idee, ossia come
pensiero, mentre invece, al contrario, è la verità che si basa sull'essere che si svela e
si rivela al pensiero. Prima c'è l'essere (la realtà) e non già il pensiero (ad esempio il
264

mondo platonico delle idee o lo Spirito dell'idealismo) e solo dopo c'è il pensiero
dell'essere.
La metafisica classica, anziché concentrarsi sull'essere, si è concentrata sugli enti ed
allora è stata ontologia (scienza degli enti), oppure si è concentrata sull'ente
supremo, cioè Dio, ed allora è stata teologia (scienza di Dio). Anzi, dice Heidegger,
la metafisica tradizionale è sempre stata, a rigore,onto-teo-logia, cioè unità di
ontologia, teologia e logica. Ontologia perché considera gli enti come fondamento
della realtà (ad esempio le idee di Platone, le forme o essenze di Aristotele, la
sostanza di Cartesio o di Spinoza, ecc.); teologia perché considera che il fondamento
della realtà sia quell'ente supremo che è Dio; logica perché pensa all'ente come
subordinato al pensiero, cioè alla logica della ragione. Con l'idealismo ha
addirittura considerato il pensiero (l'Idea o lo Spirito) come produttore dell'essere
(della realtà). Il positivismo poi ha cancellato la metafisica dal campo della filosofia
e si è preoccupato unicamente del mondo naturale. Anche la scienza e la civiltà
tecnologica contemporanee hanno dimenticato l'essere e non sanno dare una
risposta al problema del senso dell'essere (del senso del mondo e dell'esistenza).
Essendo caratterizzata dall'oblio dell'essere, la metafisica si presenta come un tipo
di pensiero in cui dell'essere non vi è più nulla, non vi è più traccia. Da ciò
l’equazione tra metafisica e nichilismo (=nulla, dal latino "nihil"). Questo tipo di
metafisica ha condizionato la storia dell'intero Occidente (Occidente che alla
lettera, secondo il gusto per l'etimologia di Heidegger, deriva dal latino "occaso",
che significa tramonto, ossia il tramonto dell'essere); ha cioè condizionato il modo di
vedere il mondo, interpretato come rapporto tra uomo e enti che divengono e si
trasformano continuamente, manipolabili e sfruttabili dall'uomo, subordinati
all'uomo e quindi resi inconsistenti, senza fondamento e perciò nullificati (ridotti a
nulla): da ciò il nichilismo cui è giunta la metafisica, per la quale dell'essere non ne
è (non ne rimane) più niente.
La stessa filosofia di Nietzsche, che voleva essere la denuncia delle illusioni e della
nullità della metafisica, è invece per Heidegger l'ultima metafisica della storia,
l'ultimo estremo cui è giunta la storia della metafisica e la storia della civiltà
occidentale. Infatti, riducendo l'essere alla volontà di potenza, e quindi alla volontà
manipolatrice dell'uomo, Nietzsche non ha fatto altro che portare al massimo grado
l'oblio dell'essere che caratterizza l'Occidente, poiché egli considera come prevalente
e centrale l'uomo, anzi il superuomo e la sua volontà di potenza, e finisce con
l'ignorare completamente l'essere, che invece è oltre e di più dell'uomo. La volontà di
potenza non vuole che sé stessa; è volontà di volontà e non riconosce alcun essere,
niente altro oltre se stessa. La volontà di potenza rappresenta il definitivo trionfo del
soggetto sull'essere, ossia il predominio del pensiero sull'essere (mentre per
Heidegger è vero il contrario), nonché lo smarrimento completo della differenza che
invece esiste tra essere ed ente, giacché l'uomo è un ente e in quanto tale non può
predominare ma è subordinato all'essere. La volontà di potenza di Nietzsche trova la
sua concreta conclusione nella tecnica, intesa come volontà di dominio
incondizionato sul mondo. Quella di Nietzsche non è quindi una antimetafisica ma
l'estrema espressione della metafisica.
265

Essere, uomo e evento.

Se la metafisica tradizionale è oblio dell'essere, cosa intende Heidegger allora


per essere? Egli non dà una precisa definizione, alla maniera dell'ontologia
classica, ma soltanto una serie di concetti, espressi anche con metafore, con
similitudini e simboli.
1) L'essere non è l'ente o un ente (neppure l'ente supremo: Dio) ma è ciò che
entifica l'ente, ossia che lo fa diventare ente lasciandolo apparire e rendendolo
visibile. L'essere è lo svelamento, l'accadere e l'apparire dell'ente; è l'orizzonte, la
"radura" al cui interno gli enti, illuminati dall'essere, diventano visibili e
manifesti. La fenomenologia, a cui Heidegger in parte si ispira, è appunto il lasciar
vedere il fenomeno, ossia ciò che si manifesta in se stesso e da se stesso. E ciò che si
manifesta non è semplice apparenza di una cosa in sé inconoscibile, ma è ente che si
mostra all'intuizione fenomenologica. Perciò la fenomenologia è per Heidegger
ontologia e l'ontologia è possibile solo come fenomenologia. Ciò vuol dire che il
senso dell'essere (a cui mira l'ontologia) può emergere soltanto nel modo in cui si
manifestano gli enti e non può essere dedotto da principi metafisici che si pongano al
di fuori di questa manifestazione.
2) L'essere non è una statica presenza o una struttura stabile ma uno storico
accadere (è l'accadere delle cose e dei fatti nel corso della storia), perciò è un
"evento" (e-vento=ciò che viene da, ciò che accade); è un evento che "si dà", che
avviene di volta in volta in "destini" (modi) differenti. Dire che l'essere non è
presenza significa che non è un ente, cioè un oggetto fisso che può essere incontrato
e concepito come presenza oggettiva. Se l'essere fosse ente, ossia un'entità
predeterminata e fissa, ne risulterebbe irrigidito ed impossibile il divenire
storico (la storia), concepito invece da Heidegger come libero e imprevedibile in
corrispondenza alla varietà delle azioni umane. La metafisica classica, per contro,
concepisce l'essere proprio come presenza ed entità oggettiva, ossia come ente
stabile, come principio immutabile che sta alla base della realtà, oppure come
concetto generalissimo, ossia come ciò che è comune e stabile per tutti gli enti; e ciò
che è comune tra essi è appunto la loro presenza oggettiva e fissa. Ma se davvero la
realtà e la storia derivassero da un principio immutabile che ne predetermina il
corso, si finisce così col negare la storicità dell'esistenza e il divenire imprevedibile
della realtà. Affinché sia compatibile con il divenire storico, l'essere non deve quindi
essere pensato come ciò che è comune a tutti gli enti, ma come differenza da ogni
ente (differenza ontologica).
Il che significa, altresì, che l'essere non ha nulla a che vedere con Dio, che è
distinto anche da Dio, perché Dio è pur sempre inteso come ente, anzi come l'ente
supremo che determina nel fondamento il divenire della realtà e della storia,
impedendone quindi il libero svolgimento.
Ma in base a quali argomenti Heidegger sostiene con tanta convinzione la teoria
di un divenire libero e imprevedibile della realtà e della storia? Abbiamo visto
che per Heidegger l'essere è il non-ente, cioè il ni-ente. In tal senso è il nulla, è il
nulla dell'ente, inteso però non come nulla assoluto bensì come trascendenza rispetto
266

all'ente, ossia come ciò che è al di sopra degli enti e li illumina rendendoli visibili:
l'essere è appunto l'apparire degli enti, è il lasciar essere che gli enti si mostrino
in se stessi. Ciò significa che l'essere non costituisce il fondamento e il principio
immutabile degli enti, cioè della realtà; semplicemente li lascia essere, li lascia
apparire illuminandoli. Proprio perché non è il fondamento immutabile degli
enti l'essere consente il loro libero divenire ed è pertanto compatibile con la libertà
del divenire storico. La luce dell'essere infatti non solo è indipendente dagli enti che
illumina e rende visibili, ma essendo un evento è in quanto tale un puro fatto, un puro
accadere senza perché e senza fondamento, poiché ogni fondamento dovrebbe
innanzitutto "essere" ma allora, se già fosse essere, non può valere come fondamento
e causa dell'essere stesso. L'essere dunque è l'assolutamente casuale e non
predeterminato lasciar liberi gli enti di apparire. Il concetto di essere come evento
rafforza inoltre il rapporto tra essere e tempo, ossia rafforza il divenire storico, la
storia, poiché l'evento è appunto ciò che accade nel tempo: quindi l'essere è il farsi
della storia.
3) L'essere è un evento che si manifesta e si nasconde al tempo stesso. Infatti,
come abbiamo visto, illumina e rende visibili in volta in volta solo parte degli enti e
non la loro totalità che rimane nascosta.
4) L'essere come tempo non è la semplice somma e narrazione delle varie epoche
storiche ma, come da Heidegger definita, è "manifestazione epocale", nel senso che
l'essere non è semplicemente ciò che accade nella storia ma è anche il far accadere e
costituire le varie epoche, le varie culture storiche, tuttavia senza predeterminazione.
Rispetto agli enti ed agli avvenimenti storici che illumina e rende visibili, l'essere
infatti si ritira per far posto ad essi mentre permane e tiene nascosti quegli enti e
avvenimenti storici che di volta in volta non illumina e non rende visibili.
Per Heidegger il succedersi delle varie epoche nella storia del mondo non è opera
dell'uomo ma del manifestarsi o nascondersi dell'essere inteso come evento. Ai
diversi periodi di svolgimento di ciascuna epoca storica vi corrisponde una peculiare
interpretazione e determinazione di ciò che ne è ritenuto l'ente fondamentale. Con
riguardo a quella manifestazione epocale che è stata ed è la storia dell'Occidente,
l’ente fondamentale è stato di volta in volta determinato come idea (Platone), come
potenza e atto (Aristotele), come Dio creatore (cristianesimo), come soggetto
pensante (Cartesio), come monade (Leibniz), come Spirito (Hegel), come volontà di
potenza (Nietzsche), come tecnica nel periodo contemporaneo.
L'epoca che attualmente l'essere ha illuminato e ha reso visibile, ed ha fatto quindi
accadere, è quella della metafisica occidentale, di durata ormai bimillenaria,
caratterizzata dall'oblio dell'essere.
5) Uomo ed essere sono strettamente congiunti, sono coappartenenti, si
implicano a vicenda. Infatti, come abbiamo visto, solo quel particolare ente che è
l'uomo è capace di pensare l'essere e di comprendere che gli enti (le cose) visibili
sono tali perché, essendo illuminati dall'essere, esso li fa apparire. Ma d'altra parte
l'essere può svelarsi manifestarsi solo nel pensiero dell'uomo. Ecco perché essere e
uomo sono coappartenenti, si implicano a vicenda: ognuno ha bisogno dell'altro. Il
problema dell'essere esiste perché l'uomo se lo pone: significa che l'uomo deve
267

allora possedere una qualche pre-comprensione dell'essere, deve cioè possederne


una qualche idea anche se vaga e indeterminata. Perciò l'uomo sente il bisogno di
approfondire tale idea con una ricerca filosofica particolare.

La polemica antiumanistica ed antiesistenzialistica.

Nel "secondo Heidegger" si assiste ad un progressivo spostamento di interesse


dall'uomo all'essere: l'essere e non è più pensato a partire dal mondo e dall'uomo,
bensì il mondo e l'uomo sono pensati a partire dall'essere. Il problema centrale non
è più quello dell'essenza dell'uomo e degli esistenziali, trattato dal "primo
Heidegger", ma è quello dell'essere e del senso dell'essere. Si parla in tal senso di
impostazione antiumanistica del "secondo Heidegger", con particolare riferimento
alla sua opera "Lettera sull'umanismo".
Heidegger considera umanistica ogni teoria e concezione che subordina l'essere
(la realtà) all'uomo e che intende spiegare l'ente (il mondo e le cose del mondo) dal
punto di vista di una prevalente importanza attribuita all'uomo, al soggetto
conoscente, anziché all'essere, cioè alla realtà e al suo divenire ed accadere storico. In
tal senso l'umanismo, all'opposto di quanto si ritiene per il fatto che sostiene il
primato dell'uomo sull'essere, non è una dottrina antimetafisica ma anzi
corrisponde integralmente alla concezione metafisica classica dell'Occidente e al
suo oblio dell'essere al punto che, aggiunge Heidegger, una nuova metafisica è
possibile solo abbandonando tale concezione umanistica della priorità dell'uomo
sull'essere.
Contro l'umanismo Heidegger afferma che l'uomo non è "il padrone dell'ente"
(del mondo e delle cose) ma è invece "il pastore dell'essere" che, come il pastore
col suo gregge di pecore, ha il compito di custodire l'essere e il senso dell'essere il
quale, illuminando e rendendo visibili gli enti, si rivela in tal modo al pensiero
dell'uomo. Il senso dell'essere sta proprio nel suo disvelarsi, illuminando e
facendo apparire gli enti, ma se e come gli enti appaiono non è l'uomo a
deciderlo, come presume l'umanismo, bensì è l'essere stesso.
L'antiumanismo di Heidegger non significa però sostenere l'inumano e svalutare la
dignità dell'uomo. Semmai è l'umanismo che, trascurando l'essere cui l'uomo
appartiene, abbassa l'uomo.
Sartre, per contro, ha identificato il suo esistenzialismo con l'umanismo e,
dichiarando contro la metafisica classica che non è l'essenza che precede l'esistenza
ma che è l'opposto, ha considerato il suo esistenzialismo ed umanismo come
antimetafisico. Heidegger non è d'accordo ed afferma che Sartre è invece rimasto
nell'ambito della metafisica classica, in quanto il rovesciamento della tesi metafisica
operato da Sartre rimane pur sempre una tesi metafisica.
Contro l'indirizzo filosofico esistenzialistico del suo primo periodo, il "secondo
Heidegger" afferma che gli esistenziali (l'essere nel mondo e il prendersi cura delle
cose, l'essere fra gli altri e l'aver cura degli altri) non sono più le caratteristiche
fondamentali dell'esistenza umana ma sono opera e dono dell'essere all'uomo, offerti
268

in forme diverse in relazione alle diverse epoche storiche in cui l'uomo si trova a
vivere. In tal modo Heidegger storicizza quelle strutture fondamentali dell'esserci
(dell'uomo) che dapprima considerava in maniera statica, invariante. L'esistenza
umana non è più "poter essere", ossia progetto frutto dell'iniziativa umana,
bensì è il frutto e il dono di una iniziativa dell'essere. Nel progettare, scrive
Heidegger, non è l'uomo il fondamentale autore del suo progetto di vita ma è
l'essere stesso che indica e suggerisce all'uomo il suo "destino", il progetto di vita.
Ma questo destino indicato all'uomo dall'essere non significa cancellazione
dell'autonomia umana, non va interpretato come fato inesorabile imposto
all'uomo, bensì come un dono o un invito cui l'uomo può anche non adeguarsi e
non accogliere, scegliendo con ciò di vivere un'esistenza inautentica. Invece
l'esistenza autentica è l’e-statico stare dentro la verità dell'essere; consiste
nell'accogliere l'invito e il destino donati dall'essere.
Anche la storia cessa di essere esclusiva opera umana e diventa invito e storia
dell'essere. Se si comprende il senso dell'essere allora la storia può essere pensata
come un incarico, un destino ricevuto dall'essere per progettare in modo autentico
non solo l'esistenza individuale ma anche lo sviluppo storico dell'umanità.

Linguaggio, arte e poesia come linguaggio dell’essere.

Nel linguaggio, afferma Heidegger, "chi parla non è l'uomo ma il linguaggio


medesimo". L'uomo non crea il linguaggio ma trova il linguaggio. È il linguaggio
che possiede l'uomo e non viceversa. Il linguaggio non è un semplice strumento di
comunicazione ma è il modo in cui si vede il mondo. Il linguaggio di un popolo,
cioè, condiziona e costruisce la mentalità e la cultura di quel popolo e quindi il modo
di concepire la realtà. L'individuo non crea da sé il suo linguaggio, invece lo
eredita in base allo sviluppo storico-culturale vissuto dall’umanità. Ma poiché la
storia è "manifestazione epocale" dell’essere, è allora l'essere stesso che
costituisce e fa accadere le varie epoche e culture storiche, ciascuna col proprio
linguaggio. Ed è attraverso il linguaggio che, in particolare, l'essere si rivela
all'uomo, che si fa avvertire e sentire.
È certamente vero che sono gli uomini a "parlare il linguaggio", ma esso
tuttavia, con le sue regole e il suo patrimonio di parole, è inadeguato rispetto a tutto
quello che si potrebbe e si vorrebbe esprimere. Il linguaggio dell'uomo può parlare
degli enti ma non sa parlare dell'essere, non ne è all'altezza. Per tale motivo è
l'essere che invece si svela all'uomo mediante il linguaggio. L'uomo non può
svelare il senso dell'essere; egli ha da essere il pastore dell'essere e non il padrone
dell'ente. Perciò è necessario sollevare la filosofia dalla sua deformazione
umanistica e condurla sino al mistero dell'essere, al suo disvelarsi. Ma dove
avviene questo svelarsi dell'essere? L'essere, dichiara Heidegger, si svela nel
linguaggio, ma non nel linguaggio scientifico proprio degli enti o nel linguaggio
inautentico della chiacchiera, del "si dice", bensì nel linguaggio autentico
dell'arte e specialmente della poesia. Proprio perché la metafisica occidentale è la
269

storia dell'oblio dell'essere, Heidegger esclude la possibilità di riscoprire l'essere


attraverso le forme tradizionali della filosofia e della scienza Ritiene più idoneo,
piuttosto, riflettere sulla capacità del linguaggio e dell'arte di illuminarci e farci
intendere il senso dell'essere. Scrive Heidegger: "Il linguaggio è la casa dell'essere
(valore ontologico del linguaggio). In questa dimora abita l'uomo. I pensatori, gli
artisti, i poeti sono i guardiani di questa dimora."
Per Heidegger ogni opera d'arte è nella sua essenza poesia (dalla parola greca
“pòiesis” che significa produzione, creazione), ossia è un produrre in cui si
automanifesta l'essere. Come luogo della manifestazione dell'essere, la poesia in
senso stretto riveste una sorta di primato rispetto a tutte le altre forme
artistiche. La poesia dà nome alle cose e rivela l'essere: è un dono dell'essere che in
essa, particolarmente, si disvela. Il poeta più che l'artefice è il tramite dell'essere e
da esso è ispirato. Di conseguenza è investito di una responsabilità particolare,
quella di compiere un passo indietro rispetto alla filosofia e alle sue pretese di
comprendere l'essere. Pertanto il giusto atteggiamento dell'uomo nei confronti
dell'essere è quello del silenzio per meglio ascoltarlo: l'essere non va compreso
ma avvertito. L'uomo deve rendersi libero per la verità, concepita come
svelamento ed intuizione dell'essere. Libertà e verità allora si identificano.
Anche la libertà è un dono, un'iniziativa dell'essere. La verità è nell'essere che si
svela nel linguaggio. L'essere in quanto evento istituisce vocabolari, linguaggi,
culture. E la poesia è il linguaggio originario di un popolo, è il luogo privilegiato
dello svelamento dell'essere. Si pensi al significato epocale di certe grandi opere
d'arte. Sono il luogo in cui una certa epoca dell'essere si è costituita e aperta. Da ciò il
rifiuto del modello storicistico di interpretazione dell'opera d'arte: l'arte non
esprime né rispecchia un'epoca ma la plasma. La parola poetica, nominando le
cose, le fa apparire e le riveste di senso. L'ontologia diventa in tal modo
ermeneutica, cioè interpretazione e ascolto del linguaggio per scoprire l'essere che in
esso si rivela. Importante al riguardo è l'etimologia delle parole.

La tecnica e il mondo occidentale.

Sono dunque i "pensatori essenziali" e i poeti, i presocratici quali Anassimandro,


Parmenide ed Eraclito, ma anche Holderling, ad essere testimoni e ascoltatori della
voce dell'essere e non la metafisica occidentale. Questa mira a fare dell'uomo il
padrone dell'ente (colui che domina sulle cose), ma in quanto tale non può essere il
pastore dell'essere. La metafisica occidentale trova il proprio compimento nella
tecnica: essa è il modo in cui l'essere si svela nell'epoca presente. Il primato della
tecnica che segna il destino dell'Occidente non è un evento accidentale ma l'esito
inevitabile dello sviluppo della metafisica occidentale per cui l'uomo,
dimenticando l'essere, si è lasciato travolgere dalle cose, rendendo la realtà puro
oggetto da dominare e da sfruttare.
La tecnica era pensata dai greci in termini di pro-duzione ossia come un rendere
manifesto (o dis-velato) ciò che prima non era tale, vale a dire producendo oggetti
270

servendosi dei materiali offerti dalla natura ma nel rispetto della natura stessa. Anche
la tecnica moderna è un modo di disvelamento, che però non si svolge nella forma
della semplice produzione ma in quella della pro-vocazione, ossia del trarre fuori
dalla natura energia da accumulare e da impiegare. La tecnica moderna assume la
forma di una gigantesca macchina al servizio della volontà di potenza dell'uomo,
che tratta le cose e la natura come oggetto di dominio e di manipolazione. In tal
senso, nelle grandi dottrine politiche del Novecento (comunismo, fascismo,
democrazia) Heidegger scorge soltanto nomi diversi dell'universale volontà di
potenza e di dominio che manipola le cose e sfrutta la terra.
Nel mondo della tecnica Heidegger scorge un pericolo che peraltro non deriva
innanzitutto dagli effetti distruttivi che possono avere le macchine, ma dal fatto
che a causa della tecnica possono andare smarrite:
1. l'essenza dell'uomo perché, intrappolato nella manipolazione delle cose, non è
in grado di ascoltare l'essere (esistenza inautentica);
2. l'essenza della verità, quando l'uomo dà per scontata l'equivalenza essere=
tecnica e non si accorge che la tecnica è invece soltanto una modalità di
disvelamento dell'essere e precisamente la sua modalità nichilistica, in cui
dell'essere non è più nulla (oblio dell'essere).
Heidegger non affronta la questione della tecnica mediante la descrizione delle
cause e relativi effetti sul piano storico-sociale concreto. Egli mira piuttosto a
cogliere l'essenza filosofica, il significato profondo, della tecnica, considerata sia
come ultima manifestazione epocale dell'essere nell'ambito della storia della
metafisica occidentale, sia come storia della dimenticanza, dell'oblio dell'essere.
L'atteggiamento filosofico di Heidegger di fronte alla tecnica non è quindi la fuga ma
l'approfondimento, la comprensione.
Ebbene, l'essenza della tecnica non è una "macchinazione umana", il frutto
dell'iniziativa dell'uomo bensì, come già evidenziato, è la contemporanea modalità
di manifestazione epocale (storica) dell'essere; è l'inevitabile e necessaria
conclusione del destino derivante dall'oblio dell'essere che contrassegna la
metafisica occidentale. L'uomo provoca (sfrutta) la natura e la realtà attraverso la
tecnica perché, da un certo punto di vista, è lui stesso provocato, ossia perché si trova
ad esistere in quel dato modo di manifestazione epocale dell'essere costituito dalla
metafisica occidentale e dal relativo oblio dell'essere medesimo. Perciò Heidegger
non si pone contro la tecnica; non pensa all'utopia nostalgica di un paradiso terrestre
senza prodotti tecnici. Ma proprio dalla coscienza del pericolo insito nella tecnica
può conseguire un evento di salvezza, un nuovo modo di disvelamento
dell'essere. Nella tecnica sta la possibilità di un "altro inizio". Infatti, se con l'età
della tecnica la metafisica occidentale giunge al proprio compimento e quindi alla
propria fine, si apre allora la possibilità per il pensiero di ascoltare il richiamo
dell'essere e di corrispondervi: "Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più
chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva".
271

Il superamento della metafisica e la fine della filosofia.

Heidegger fa coincidere la fine della metafisica, giunta a compimento nell’età della


tecnica, con la fine della filosofia. La filosofia, egli dichiara, è giunta alla fine
poiché essa, nata come domanda sull'essere, si è poi specializzata nelle sue
indagini sino a smembrarsi nelle singole scienze, dimenticando l'essere e la
differenza ontologica, con la derivante confusione tra essere ed ente. Ma la fine
della filosofia implica l'avvento di un nuovo pensiero antitetico al pensiero
calcolante della scienza e della tecnica, il quale nuovo pensiero, anziché occuparsi
dell'ente per manipolarlo e dominarlo, tornerà ad interrogarsi sull'essere,
superando il lungo oblio che per secoli ha caratterizzato la metafisica. È un nuovo
pensiero post-metafisico e post-filosofico, capace di costituire una nuova ontologia
in grado di attuare un "salto" al di là della fissità logico-concettuale della filosofia
nonché di accordare pensare e poetare.
Ma il superamento della metafisica (e quindi della tecnica e del nichilismo, per cui
dell'essere non ne è più nulla) non potrà essere opera dell'uomo. Esso non potrà
che scaturire da un diverso accadere e disvelarsi dell'essere. Infatti l'oblio
dell'essere ed il conseguente nichilismo, spiega Heidegger, non derivano
dall'uomo bensì dall'essere, in quanto "l'essere stesso si è manifestato nella
storia in tale forma per cui di se medesimo non ne è niente ". L'oblio dell'essere è
esso stesso un evento dell'essere nel corso della storia; è un destino dell'essere
medesimo nel suo manifestarsi e sottrarsi epocale.
L'oblio bimillenario dell'essere nella metafisica occidentale si presenta come un
essere-abbandonati dall'essere: l'essere si sottrae e l'ente è abbandonato dall'essere. È
per questo che il superamento della metafisica non può essere il risultato di un
progetto umano ma qualcosa che accade a partire dall'essere stesso. Però come e
quando sia destino che accada, per opera dell'essere, il superamento della
metafisica e l'avvento del nuovo pensiero nessuno lo sa. L'uomo non può
esercitare nessuna forma di di dominio nei confronti dell'essere: l'unica cosa che
gli rimane è l'attesa. L'invito di Heidegger è quello di un fiducioso abbandono alle
cose e all'essere, in contrapposizione all'arrogante superbia che fa dell'uomo il centro
del mondo. Si tratta di tenersi aperti e disponibili per il mistero dell'essere affinché
venga a rivelarsi nel nuovo pensiero.
La fede di Heidegger nell'attesa di un nuovo avvento post-metafisico dell'essere
nonché la gratitudine per i doni offerti dall'essere, manifestati nel linguaggio e nella
poesia, spiega la sua vicinanza alla problematica religiosa. Si può infatti leggere
nel pensiero di Heidegger un'esigenza che da ultimo appare più religiosa che teoretica
(filosofica), giacché il pensiero dell'essere avrebbe la funzione di ridurre le pretese di
dominio dell'umanismo, della superbia della ragione, della scienza e della tecnica, per
porre le basi di una rinnovata pietà e umiltà dell'uomo, tanto da far dire ad
Heidegger che "ormai solo un Dio ci può salvare".
Il senso filosofico di tale espressione non è chiaro. Sappiamo che per Heidegger
l'essere non si identifica con Dio. L'essere non è né Dio né un fondamento del
mondo perché non predetermina ma lascia libero e casuale il divenire. Non è il Dio
272

dei filosofi, inteso come ordine e razionalità, né il Dio delle religioni. L'essere non
crea il mondo in senso biblico né lo plasma in senso platonico. Certo, l'essere non è
Dio tuttavia, puntualizza Heidegger, il manifestarsi di Dio può avvenire solo nella
dimensione dell'essere. Se l'assenza di Dio si accompagna all'assenza dell'essere,
l'avvento dell'essere si accompagna ad un possibile avvento di Dio ma esso, nel caso,
non può comunque, per Heidegger, attuarsi nelle forme tradizionali della teologia
metafisica e neppure nelle forme consuete delle religioni positive, le quali pure
riducono Dio ad un ente, sia pur ad ente supremo.
Nella teoria di Heidegger concernente il superamento della metafisica vi è peraltro
una certa ambiguità: da un lato Heidegger sostiene che l'essere non è mai afferrabile
come tale, cioè conoscibile in forma di presenza oggettiva; dall'altro ipotizza
l'avvento di una nuova età in cui l'essere può tornare a parlarci e quindi disvelarsi in
sé. Da ciò due letture di fondo del pensiero di Heidegger. Una lettura di destra (cui lo
stesso Heidegger sembra più vicino), che interpreta il superamento della metafisica
come ritorno o disvelamento dell'essere, e dunque come ritrovata comprensibilità
dell'essere, non importa se in maniera diretta e positiva o indiretta e negativa (nel
senso di comprendere quantomeno che cosa l'essere non è). E una lettura di sinistra,
che insiste sulla intrinseca impossibilità di comprendere in modo oggettivo l'essere,
per cui esso rimane sempre qualcosa d'altro, un mistero irrisolvibile, pena la replica di
una metafisica della presenza che torni a identificare l'essere con l'ente.
273

INDICE

Introduzione. 1
Il Romanticismo. 3
Dal kantismo all'idealismo. 7
L'Idealismo tedesco. 9
Fichte. 12
Schelling. 21
Hegel. 36
Schopenhauer. 66
Kierkegaard. 72
Destra e Sinistra hegeliana. 78
Feuerbach. 79
Il socialismo utopistico. 82
Marx. 83
La filosofia italiana del primo Ottocento: Romagnosi,
Rosmini, Gioberti, Cattaneo, Mazzini. 94
Il Positivismo e l'Evoluzionismo. 106
Comte. 109
Stuart Mill. 112
Darwin. 117
Spencer. 119
Ardigò. 122
Nietzsche. 125
La filosofia tra fine Ottocento e Novecento. 136
Freud. 140
Il neocriticismo. 146
Lo spiritualismo francese: Boutroux, Blondel,
il Modernismo, Sorel. 151
Bergson. 157
Il Pragmatismo americano: Pierce, James, Dewey. 165
Lo storicismo tedesco: Dilthey, Simmel, Spengler. 180
Max Weber. 186
Il neoidealismo italiano: Croce, Gentile. 194
La fenomenologia: Husserl, Scheler, Hartmann. 215
L'Esistenzialismo: Jaspers, Sartre, Marcel,
Merleau-Ponty, Abbagnano. 230
Heidegger. 252
1

CORSO DI STORIA DELLA FILOSOFIA PER I LICEI E PER GLI ADULTI


CHE DESIDERANO CONOSCERLA: DALLA FILOSOFIA ANTICA A
QUELLA CONTEMPORANEA.

A cura di Francesco Lorenzoni

Anno di stesura: 2012

VOLUME QUARTO

LA FILOSOFIA CONTEMPORANEA

INTRODUZIONE.

Ho osservato che, in merito al pensiero di ciascun filosofo, l'esposizione di un


manuale è chiara in alcuni tratti mentre, a causa di un linguaggio troppo tecnico o
poiché sono saltati taluni passaggi logico-descrittivi, diventa per i principianti poco
comprensibile in altri aspetti, i quali tuttavia, a loro volta, sono esposti più
chiaramente in un ulteriore manuale. Questo corso è stato ricavato dai più accreditati
manuali scolastici di storia della filosofia, tra cui quelli di Nicola Abbagnano e
Giovanni Fornero; Giovanni Reale e Dario Antiseri; Enrico Berti; Sergio Moravia;
L.Tornatore, G. Polizzi, E. Ruffaldi; V. e A. Perrone, G. Ferretti, C. Ciancio; G.
Fornero e S. Tassinari; F. Adorno, T. Gregory , V. Verra; ecc.

Pertanto, nell'obiettivo di pervenire alla maggior chiarezza possibile, pur senza


banalizzare, nell'illustrazione del pensiero di ciascun filosofo o tema filosofico, ho
operato una cernita fra tutti i manuali presi in considerazione, estraendo i tratti
espositivi più chiari ora da un manuale ora da un altro, talvolta riportando pari pari
intere frasi e talaltra, frequentemente, cambiando e semplificando a mia volta il testo,
rielaborando e collegando quindi il tutto secondo un criterio logico-consecutivo.
Per contro ho riservato, per economia di scrittura, solo brevi cenni alla biografia dei
vari filosofi, poiché rinvenibile in qualsiasi manuale senza particolari difficoltà di
comprensione. Parimenti, non mi sono inoltrato in analisi tecnico-erudite, di tipo
specialistico, non necessarie ad una comprensione comunque idonea dei filosofi ed
argomenti filosofici di volta in volta illustrati. Peraltro, e con valore facoltativo per il

1
2

lettore, ho trascritto in corsivo una serie di argomentazioni integrative, se qualcuno


avesse eventualmente intenzione di prendere conoscenza anche di esse.
Sono convinto che la chiarezza espositiva è il sistema migliore per attirare gli studenti
allo studio della filosofia, come anche coloro che, ormai adulti, intendano accostarsi
ad essa per la prima volta ovvero rispolverare le conoscenze filosofiche apprese a
scuola.
Dalla comprensibilità espositiva può nascere inoltre il piacere e il gusto stesso per la
filosofia ed il desiderio di personali ulteriori approfondimenti. Ciò sarebbe il risultato
più lusinghiero derivante da questa mia fatica, dedicata a tutti coloro che abbiano
occasione e voglia di approfittarne, essendomi preoccupato di inserire il presente
corso nella rete Web.
Dell'importanza di una chiara narrazione ho fatto personale esperienza per via di
lezioni di filosofia che ho avuto modo di impartire a giovani studenti, con risultati, mi
sia consentito dire, più che soddisfacenti.

Francesco Lorenzoni

2
3

L’EPISTEMOLOGIA

Così come fino all'avvento della rivoluzione scientifica (XVII secolo) la scienza non
era nettamente distinta dalla filosofia, altrettanto fino al Novecento non vi era netta
distinzione tra filosofia della conoscenza, cioè la gnoseologia, e filosofia della
scienza. Solo a fine Ottocento-inizi Novecento, grazie a uno sviluppo notevolissimo
della scienza e soprattutto delle specializzazioni scientifiche, la filosofia della
scienza si rende progressivamente autonoma e si separa dalla gnoseologia,
assumendo la denominazione di "epistemologia" (dal greco epistéme= scienza e
logos= discorso, studio).
Oggetto dell'epistemologia, o filosofia della scienza, non è più allora lo studio delle
condizioni (dei modi) e dei metodi che possono garantire validità alla conoscenza in
generale, bensì è lo studio delle condizioni e dei metodi che possono garantire
validità alla scienza in particolare e alle diverse discipline scientifiche.
Vari sono gli indirizzi che si sono sviluppati in ambito epistemologico:
1. l'empiriocriticismo, che antepone alla sperimentazione scientifica il primato
dell'esperienza sensibile, naturale, posta alla base del sapere scientifico
medesimo;
2. il convenzionalismo, secondo cui le leggi e teorie scientifiche hanno carattere
essenzialmente convenzionale;
3. il neopositivismo del cosiddetto "Circolo di Vienna", che indaga
prevalentemente gli aspetti logici del procedimento scientifico;
4. l'operazionismo, che indaga prevalentemente gli aspetti operativi del
procedimento scientifico;
5. l'epistemologia di Bachelard, che tiene conto anche della dimensione storico-
sociale della scienza;
6. il cosiddetto razionalismo critico di Popper;
7. l'epistemologia post-popperiana o post-positivistica.

3
4

L’EMPIRIOCRITICISMO.

L'empiriocriticismo è un indirizzo epistemologico, sorto a fine Ottocento, che


propone il ritorno all'esperienza sensibile, naturale, chiamata "esperienza
pura", considerata come l'unica davvero reale, mentre la sperimentazione scientifica
ha sempre un valore soggettivo perché dipende dagli strumenti di ricerca e dal punto
di vista dello scienziato.
L'esperienza pura è quella originaria, è la facoltà di fare esperienze che, in quanto
tale, precede la distinzione tra il fisico e lo psichico e che non può venire
interpretata né in maniera idealistica né in maniera materialistica. Alla lettera
empiriocriticismo significa critica, ossia analisi, dell'esperienza pura: esso
intende criticare il primato metodologico attribuito alla fisica su tutto il sapere,
proprio perché la prima forma di esperienza, che come tale sta alla base anche
del sapere scientifico, non è la sperimentazione fisico-scientifica ma è, appunto,
l'esperienza pura, che viene prima sia dell'esperienza fisica che di quella psichica.
Critica altresì le pretese del positivismo secondo cui la scienza è in grado di
scoprire le strutture definitive della realtà. Queste pretese portano la scienza stessa ad
una degenerazione metafisica nonché ad una contrapposizione dualistica tra
materialismo e spiritualismo mentre, come evidenziato, l'esperienza pura è
indifferenza di materialismo e spiritualismo, cioè di fisico e di psichico.
Maggiori esponenti dell'empiriocriticismo sono stati Avenarius e Mach.

Richard Avenarius (1843-1896).

Filosofo tedesco, è stato docente a Zurigo.

L'esperienza pura e il concetto naturale di mondo.

Avenarius vuole eliminare ogni metafisica dalla filosofia, la quale deve essere
invece scienza rigorosa e rifiutare i dualismi (contrapposizioni) metafisici come tra
soggetto e oggetto o tra pensiero e realtà.
Per Avenarius occorre ripensare il significato di esperienza su cui si basa la
conoscenza e la scienza. Reale è solo l'esperienza pura, ossia quella sensibile,
naturale, ordinaria, mentre tutto il resto è rielaborazione e concettualizzazione. Il
senso popolare chiama esperienze sia le percezioni di oggetti, sia il ricordo di questi
oggetti, sia le visioni immaginarie, sia le idee, i giudizi, le valutazioni. Se
l'esperienza è tutte queste cose, spetta allora alla critica filosofica dell'esperienza
pura analizzarle e distinguerle. Un'esperienza è analizzabile solo quando viene
asserita, comunicata, resa pubblica. L'esperienza per Avenarius è quindi tutto ciò che
viene asserito, a prescindere da chi formula l'asserzione, saggio o folle che sia.
Uno degli esiti più importanti dell'analisi dell'esperienza pura è il ritorno al
concetto naturale di mondo, cioè al concetto originario, popolare, prima delle
successive concezioni e ricostruzioni storiche, filosofiche e scientifiche circa il
4
5

mondo, fra di esse diverse ed includenti conoscenze, credenze ed esperienze


sviluppatesi in epoche e in ambiti sociali differenti. L'obiettivo è di individuare gli
elementi comuni tra i vari tipi di esperienza per pervenire ad un concetto naturale di
mondo valido per tutti, riportandolo a quello che l'uomo originariamente aveva
quando non era ancora stato ingabbiato nei miti o nelle teorie filosofiche.
Tre sono i fondamentali elementi di cui è composto il concetto naturale di mondo:
1) gli individui; 2) l'ambiente; 3) i rapporti tra gli individui e l'ambiente e tra i diversi
elementi dell'ambiente. L'esperienza è per l'appunto una continua reazione e
adattamento vitale dell'organismo all'ambiente. Ciò significa che non ha senso
esercitare la critica sui contenuti dell'esperienza poiché, se ricondotta agli elementi
fondamentali, medesima è la struttura con riguardo a tutti i vari tipi di esperienza. La
critica vale invece nei confronti delle asserzioni di esperienze, cioè dei modi in cui
esse sono comunicate, ossia la critica vale sul comportamento linguistico degli
individui.
Se l'esperienza è interazione tra ambiente e sistema nervoso dell'individuo, se cioè è
processo biologico e fisiologico, nell'esperienza pura allora individuo e ambiente
non sono due realtà opposte ma sono elementi di un'unica e medesima
esperienza. Quando dico che io vedo un albero, il mio io e l'albero sono il contenuto
di un'esperienza unitaria, di una medesima sensazione: ho la sensazione di me stesso
che ha la sensazione di un albero. Nell'esperienza pura dunque non c'è dualismo
tra il fisico e lo psichico, né vi è distinzione tra cosa pensiero, tra materia e spirito, tra
res cogitans e res extensa. Neppure si dà la possibilità di distinguere, come in Kant,
un io dotato di forme a priori contrapposto alle cose in sé. Ciò che l'analisi ci
consente di vedere è semplicemente l'adattamento del sistema nervoso all'ambiente.

Il principio di economicità del pensiero e il valore pratico della conoscenza e


della scienza.

In quanto progressivo adattamento degli individui all'ambiente, il principio


regolativo di ogni esperienza, e quindi anche del pensiero, è un principio di
economicità, tendente ad ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Tutti i
fenomeni tendono alla semplificazione. Perciò, contro i dualismi della metafisica, la
filosofia intesa come critica dell'esperienza pura assume il compito di purificare
l'ambiente culturale dalle diverse visioni del mondo di stampo dualistico, fonti di
perenni e sterili contrapposizioni che, in quanto tali, vanno oltre l'esperienza pura nel
senso che sono mere rielaborazioni concettuali.
Il principio del minimo sforzo si applica anche sul piano gnoseologico: da ciò
deriva il valore pratico, più che teoretico, sia della conoscenza che della scienza. I
concetti della scienza non riproducono la struttura autentica della realtà ma sono
piuttosto strumenti e schemi orientativi di carattere pratico-economico.
Per il carattere dirompente delle sue concezioni Avenarius fu attaccato da tutti ed
emarginato: Wundt lo accusò di materialismo a causa del suo biologismo; Husserl di
psicologismo e Lenin di idealismo. Peraltro Avenarius, in virtù della sua teoria

5
6

concernente la funzione biologico-adattativa delle concezioni filosofiche del mondo,


anticipa in parte la modellistica cibernetica e in parte la teoria generale dei sistemi.

Ernst Mach (1838-1910).

Fisico e filosofo austriaco.


La crisi della concezione meccanicistica newtoniana del mondo fisico, prodotta dalle
scoperte nel campo della termodinamica (entropia) e dell'elettromagnetismo (la luce è
un'onda elettromagnetica) inducono Mach a una critica generale, in senso
antipositivistico, delle teorie scientifiche.

L'analisi delle sensazioni e la conoscenza scientifica come evento biologico.

Anche Mach, come Avenarius, propone una concezione biologica della


conoscenza, considerata come progressivo adattamento ai fatti dell'esperienza. Per
Mach le cose e la natura di cui parla la scienza sono ben lontane dalla cosa in sé e
dalla struttura oggettiva del mondo (da come il mondo è effettivamente costituito).
Mach riprende i temi dell'empirismo e ritiene che la conoscenza sia basata sulle
sensazioni empiriche e sulla ricerca delle relazioni tra di esse esistenti, ma rifiuta
l'idea che tali relazioni siano oggettive. Anche per Mach non c'è distinzione, nelle
sensazioni, tra il fisico, il chimico e lo spirituale bensì continuità. I concetti di
corpo (le cose fisiche) e di soggetto pensante (l'io, lo spirito) sono semplici segni
convenzionali per indicare fasce di sensazioni più persistenti. La conoscenza è un
continuo adattamento all'ambiente fisico e/o culturale (è il nostro modo di adattarci
all'ambiente), provocato da bisogni biologici derivanti dalle esperienze compiute. I
fatti dell'esperienza sono il fondamento della conoscenza ma, contro il positivismo,
Mach ritiene che i fatti si risolvono nelle sensazioni: i fatti sono complessi di
sensazioni (bello, caldo, spiacevole, colorato, eccetera), sensazioni che, secondo il
punto di vista, possono essere psichiche e contemporaneamente fisiche (davanti ad
una fonte di calore si può avere al tempo stesso la sensazione di "piacevole", che è di
carattere psichico e la sensazione di "caldo" che è di carattere fisico). La sensazione
inoltre non è di natura esclusivamente individuale ma altresì è il risultato
dell'evoluzione della specie.
La scienza sorge sempre mediante un processo di adattamento delle idee a un
determinato ambito di esperienza. Il risultato di tale processo sono i pensieri che
rappresentano l'intero ambito. Se l'ambito di esperienza si amplia o si modifica, gli
elementi di pensiero abituali, quali ereditati, non sono più sufficienti a rappresentare
il nuovo ambito. Sorgono allora i problemi, che svaniranno una volta compiuto il
nuovo adattamento, e così via. Il problema è definito da Mach come il disaccordo
che, quando sorge, si manifesta tra i pensieri e gli ambiti o settori di esperienza
oppure il disaccordo tra i pensieri.
Di fronte ai problemi tentiamo di risolverli attraverso le ipotesi. Le ipotesi formulate
ci conducono a fare nuove osservazioni e nuove ricerche in grado di confermare o
6
7

contraddire le ipotesi stesse. Il ruolo delle ipotesi quindi è di ampliare il nostro settore
di esperienza per ripristinare, nei confronti del problema, l'adattamento al nuovo
ambiente. L'adattamento dei pensieri nei confronti di nuove esperienze è
l'osservazione; l'adattamento dei pensieri tra loro è la teoria.
Diversamente dal positivismo che riteneva la scienza capace di comprendere le
strutture ultime della realtà, per Mach ciò che la sperimentazione e la scienza
possono farci conoscere è solo l'interrelazione o l'indipendenza fra di loro dei
fenomeni osservati. Infatti, quando le scienze sono molto sviluppate sempre più
raramente esse impiegano i concetti di causa ed effetto, poiché sono provvisori,
incompleti ed imprecisi; ricorrono invece alla nozione di funzione che permette di
rappresentare assai meglio le relazioni degli elementi fenomenici tra di loro. Oltre al
concetto di causa, Mach critica anche il concetto di sostanza: ciò che noi chiamiamo
sostanza o materia non è nient'altro che la persistenza di un determinato complesso di
sensazioni.

Il carattere di economicità della conoscenza scientifica.

La conoscenza è dunque il progressivo adattamento delle esperienze all'ambiente.


Buona parte dell'adattamento avviene per l'individuo in modo inconscio, grazie ai
pensieri abituali tramandati dalla specie.
Anche per Mac siamo indotti a conseguire l'obiettivo dell'adattamento delle
esperienze all'ambiente con il minor sforzo intellettuale; anche per lui vale quindi il
carattere di economicità della scienza. Compito della scienza è di ricercare ciò che
è costante nei fenomeni, i loro elementi e le loro interrelazioni mediante descrizioni
sintetiche e generalizzazioni, allo scopo di rendere inutili e di evitare lo sforzo di
ricorrere a nuove sperimentazioni. Allorché si conosca la dipendenza reciproca di due
fenomeni, l'osservazione di uno rende superflua la dell'altro.
Anche il linguaggio è strutturato secondo criteri di economicità. Attraverso il
linguaggio noi non riproduciamo mai i fatti nella loro completezza ma solo in quei
loro aspetti che sono importanti per noi.
La conoscenza scientifica della natura, pur partendo dalle sensazioni, non è dunque
descrizione completa e perfetta di tutto ciò che costituisce la natura medesima, ma il
risultato di progressive astrazioni che nel tempo si sono rivelate utili alla
sopravvivenza della specie umana. Ne consegue che anche la scienza ha un suo
proprio sviluppo storico e che il suo valore, più che teoretico, è soprattutto di praticità
ed economicità, cioè di risparmio di esperienze e quindi di lavoro.
Con Mach si entra nella fase critica della fisica, che rinuncia ad attribuire alle leggi
valore assoluto bensì, più semplicemente, di strumento di previsione. Gli sviluppi
saranno la teoria della relatività e la meccanica quantistica. In ultima analisi, si
giunge alla consapevolezza dell'impossibilità di elaborare una scienza fisica unificata
basata sulla meccanica.

7
8

Henri Poincaré (1854-1912) e il convenzionalismo.

Per convenzionalismo della scienza si intende quella concezione secondo cui le


spiegazioni scientifiche dei fenomeni non corrispondono con sicura certezza alla
effettiva realtà e ai modi in cui i fenomeni stessi accadono, ma sono semplici
convenzioni adottate dalla comunità scientifica, vale a dire ipotesi e schemi
orientativi aventi validità pratica più che teorica e mantenuti fintanto che appaiono
utili.
Eduard Le Roy (1870-1954), spiritualista legato al modernismo, fu sostenitore di un
convenzionalismo esasperato nella teoria della scienza, asserendo che leggi e
teorie scientifiche hanno carattere essenzialmente convenzionale, tanto che è vana
ogni loro verifica o controllo per accertarne una presunta oggettività. La
rappresentazione di qualsiasi fatto scientifico è filtrata dagli schemi metodologici
utilizzati dallo scienziato ed è perciò di natura più soggettiva che oggettiva.
Contro tale convenzionalismo estremo Poincaré (matematico francese) ha proposto
un convenzionalismo più moderato. Riconosce cioè l'aspetto convenzionale della
scienza ma difende anche il carattere oggettivo e conoscitivo delle teorie scientifiche.
Per Le Roy, scrive Poincaré, la scienza non è che una regola d'azione allo stesso
modo delle regole del gioco. Ma la scienza, risponde Poincaré, è una regola
d'azione che funziona, almeno in linea generale, mentre la regola contraria non
risulterebbe funzionante, cosa invece possibile nelle regole di gioco. Pertanto se le
regole d'azione della scienza generalmente funzionano, vuol dire che qualcosa in
effetti si conosce e che dunque non è vero che non si può conoscere nulla. La
scienza può fare previsioni e proprio per questo può essere utile e servire come
regola d'azione, mentre non vale il contrario se fosse pura convenzione. Contesta
l'affermazione di Le Roy secondo cui è lo scienziato che crea il fatto precisando che,
se è vero che lo scienziato crea "il fatto scientifico" attraverso il linguaggio della
scienza, ossia mediante le proposizioni scientifiche nelle quali lo enuncia, tuttavia lo
scienziato non crea i fatti bruti. I fatti bruti esistono e lo scienziato fa diventare fatti
scientifici alcuni di essi, pur dovendo riconoscere che è lo scienziato che sceglie
quali fatti meritano di essere osservati, in particolare quelli che possono essere di
aiuto a predirne altri o a confermare una legge. Altrettanto, è vero che ogni legge è
solo una generalizzazioni, cioè un'ipotesi, ma è anche vero che l'ipotesi va
sottoposta a verifica sperimentale.
Le scienze sperimentali sono solo parzialmente convenzionali: la parte non
convenzionale è costituita dai fatti bruti che cogliamo attraverso i sensi; la parte
convenzionale è invece costituita dalle teorie e dalle formule attraverso cui si mira ad
esprimere una serie di fenomeni tramite una legge generale. Poincaré definisce la
legge scientifica come la traduzione del fatto bruto in un linguaggio "comodo".
L'intento delle scienze sperimentali è di fornire un'interpretazione dei fenomeni
la più economica possibile, tendendo ad inquadrare i fatti bruti nel minor numero
possibile di leggi. Ne è un esempio la teoria copernicana rispetto a quella tolemaica.
Anche quest'ultima era in grado di spiegare i fenomeni celesti, però ricorrendo ad un
enorme armamentario di leggi, sottoleggi ed eccezioni alle leggi. La teoria
8
9

copernicana-newtoniana invece funziona altrettanto bene servendosi di due sole


leggi: la gravitazione universale e il principio di inerzia. Più che vere o false le leggi
scientifiche sono comode o scomode.
Poincaré è invece più marcatamente convenzionalista nei confronti della
matematica e dei suoi assiomi e postulati. Rifiuta l'opinione secondo cui la
matematica avrebbe origine dall'esperienza, ravvisandone piuttosto l'origine
nell'intuizione. In particolare, dopo la scoperta delle geometrie non euclidee si poneva
il problema della natura dello spazio fisico, se cioè esso abbia una struttura euclidea o
non euclidea. Poincaré risponde che gli assiomi geometrici non sono né giudizi
sintetici a priori né fatti sperimentali, ma sono convenzioni. Pertanto non ha senso
interrogarsi se la geometria euclidea è più vera o meno di quella non euclidea: la
geometria e la matematica possono essere solamente più o meno comode.
L'epistemologia contemporanea, inaugurata dall'empiriocriticismo, segna la fine dello
scientismo (scienza intesa come verità indiscutibile, dogmatica) positivista e di una
presunta verità assoluta delle scienze fisico-matematiche.

9
10

IL NEOPOSITIVISMO E IL CIRCOLO DI VIENNA.

Il neopositivismo, o empirismo logico o positivismo logico, è un indirizzo


epistemologico secondo cui la conoscenza si fonda essenzialmente sulla scienza. Ha
inoltre teorizzato l'unità metodologica del sapere, basata su principi e procedure
derivanti dalla matematica, dalla logica e dalla fisica. È sorto a Vienna negli anni
venti del Novecento, da cui la denominazione de "Il circolo di Vienna", indicante
un'associazione di studiosi i cui principali esponenti sono stati Schlick, Neurath e
Carnap. Anche a Berlino, nel 1928, sorge un circolo analogo, chiamato "Società
per la filosofia empirica", fondato da Reichenbach e che ha avuto come esponenti
lo psicologo Kurt Lewin, il matematico ed epistemologo von Mises e il filosofo
Gustav Hempel.
Vienna costituiva un terreno particolarmente adatto allo sviluppo del neopositivismo,
per il prevalente orientamento liberale dell'epoca ed inoltre perché l'Università di
Vienna, a causa dell'influenza della Chiesa cattolica, si era mantenuta immune
dall'idealismo e più vicina alla tradizione scolastica medievale. In tal senso la
mentalità scolastica ha preparato la base per l'approccio logico alle questioni
filosofiche.
Dopo l'ascesa al potere del nazismo e l'annessione dell'Austria alla Germania, il
Circolo di Vienna cessa la propria attività e molti esponenti emigrano negli Stati
Uniti, dove si incontrano fruttuosamente col pragmatismo americano e con i logici ed
epistemologi americani come Morris, Nagel e Quine.
Nel 1929 viene pubblicato il manifesto programmatico del Circolo: "La concezione
scientifica del mondo", scritto da Hahen, Neurath e Carnap. Scopo dichiarato era
quello dell'unificazione delle varie scienze attraverso la creazione di un
linguaggio comune e di un unico complessivo metodo scientifico. Ciò ha
comportato la ricerca di un linguaggio capace di fare riferimento alla realtà dei fatti
(agli stati di cose) secondo regole logiche, ossia la ricerca di un linguaggio logico
privo delle ambiguità e imperfezioni del linguaggio ordinario. Da Mach e dal suo
concetto di fatto e di sensazione i neopositivisti derivano l'impronta realistica ed anti-
essenzialistica (i fatti sono fasce di sensazioni e non sono individuabili essenze
sottostanti), mentre da Frege, da Peano, dalla filosofia del linguaggio, dal primo
Wittgenstein e da Russell derivano il loro logicismo, cioè le basi logiche.
La tesi di fondo del neopositivismo è che, dato un qualunque problema, una
rigorosa analisi logica del linguaggio usato per esporlo, previa trasformazione delle
proposizioni del linguaggio ordinario in enunciati logici (enunciato= proposizione
con cui si afferma o si nega qualcosa), permette di distinguere un enunciato
scientificamente significativo da uno privo di senso, individuando chiaramente sia i
riferimenti diretti all'esperienza sia la coerenza delle connessioni (collegamenti)
logiche nelle proposizioni e tra di esse.
Con riguardo alla metafisica e secondo il procedimento sopra descritto, le
proposizioni metafisiche e teologiche risultano allora prive di qualsiasi
riferimento a stati di cose, ossia a fatti esperibili (suscettibili di esperienza), per cui
esse non possono nemmeno essere giudicate false ma semplicemente prive di
10
11

senso. Il senso di una proposizione, dirà Schlick, è il metodo della sua verifica; e
poiché le proposizioni metafisiche e teologiche non possono essere verificate esse
sono di conseguenza insensate. Per il neopositivismo la metafisica non ha dunque
valore conoscitivo; vale semmai come espressione di stati d'animo e di sentimenti di
fronte alla vita, sentimenti che trovano però, secondo i neopositivisti, più adeguata
espressione in un'opera d'arte anziché in una esposizione teorica.
Anche Kant aveva dimostrato che la pretesa della metafisica di trascendere (superare)
il mondo fenomenico è pura illusione. I neopositivisti si spingono oltre, affermando
che la metafisica non ha nemmeno senso alcuno, in quanto pretende di definire con
linguaggio che vorrebbe essere scientifico qualcosa che nulla ha in comune con la
scienza perché non verificabile.
Nel neopositivismo fondamentale è il principio di verificazione: un enunciato è
significativo (ha valore scientifico) solo se è possibile verificarlo, ossia se sono
conosciute o rese note quali osservazioni possono condurre, sotto certe condizioni
empiriche e logiche, ad accettare la proposizione enunciata come vera o a rifiutarla
come falsa. Si parla di significato e non di verità di un enunciato perché esso non è un
fatto ma è una proposizione linguistica.
La filosofia pertanto assume il ruolo di attività chiarificatrice basata sull'analisi
del linguaggio, come affermato altresì da Wittgenstein; la filosofia non è cioè una
disciplina produttrice di conoscenza (solo la scienza consente di conoscere), ma è uno
strumento in grado di individuare le proposizioni scientificamente sensate da quelle
che non lo sono.
Per i neopositivisti la realtà non ha nulla di profondo e misterioso: non ci sono
essenze e sostanze. Perciò non vi è necessità alcuna di una metafisica, di categorie a
priori, di una fenomenologia o altro. Il mondo reale può essere integralmente
conosciuto qualora venga concepito come insieme di fatti che siano direttamente
osservabili in modo empirico e verificabili secondo determinate procedure logiche,
oppure che siano comunque riconducibili a tali fatti attraverso rigorose connessioni
logiche anch'esse controllabili (concezione logico-fisica del mondo).

Moritz Schlick (1882-1936) e il principio di verificazione.

L'orientamento di Schlick è prevalentemente di tipo realistico (c'è una serie di fatti


oggettivi e un linguaggio che cerca di esprimerli). Egli si propone di fondare la
scienza sulla distinzione tra un conoscere soggettivo-intuitivo e un riconoscere
obiettivo-concettuale, ma sempre riferito a dati empirici: "le condizioni in cui una
proposizione è vera vanno trovate nel dato".
Successivamente modifica in senso meno realistico la sua posizione: al dato viene
attribuita una funzione significante che tuttavia non appare più esclusivamente
fondata sul piano empirico in quanto, si convince Schlick, noi esperiamo dati definiti
solo attraverso le "nostre" regole logico-linguistiche. Da qui la necessità di
individuare un criterio in grado di stabilire il significato di un enunciato
(principio di verificazione), senza ricorrere a ipotesi e postulati metafisici. Per
11
12

Schlick stabilire il significato di un enunciato vuol dire stabilire la maniera in cui


esso può essere verificato: il significato di una proposizione è il metodo della sua
verifica". Due sono i modi in base a cui trovare il senso di una proposizione e quindi
verificarla:
1. scomporre la proposizione attraverso l'introduzione di definizioni particolari
successive finché, da ultimo, ci troveremo di fronte a parole che non potranno
venir ulteriormente definite con altre parole ed il cui significato potrà allora
essere direttamente mostrato (funzione ostensiva);
2. scomporre la proposizione sino a giungere agli assiomi o postulati di base.
La verificabilità di una proposizione non è necessariamente una verificabilità di fatto
bensì di principio, nel senso che non necessita di essere sempre verificata ma deve
poterlo essere quando si intenda farlo.
Per la sua impostazione realistica Schlick non concorda con quella più
convenzionalistica di Neurath, e in parte anche di Carnap, di considerare
semplicemente valido ogni linguaggio non contraddittorio sotto il profilo logico; ciò
non è sufficiente per fare scienza ribatte Schlick: anche una favola ben congegnata
può essere non contraddittoria ma senza che per questo possa essere ritenuta
scientifica.

Otto Neurath (1882-1945) e il fisicalismo.

Neurath si colloca su posizione opposta al realismo di Schlick, sostenendo un


nominalismo radicale, tale da ridurre la scienza a puro linguaggio senza riferimento,
o quanto meno con un riferimento trascurabile, al dato di fatto empirico esterno al
linguaggio medesimo. Per Neurath soltanto nel linguaggio e non nel rapporto tra
linguaggio e mondo (la realtà fisica concreta) avvengono tutte le costruzioni teoriche
della scienza (panlinguismo= tutto è solo linguaggio). Il linguaggio infatti, prosegue
Neurath, risulta insuperabile: non si può uscire dal linguaggio perché non si può
giudicare una proposizione, un enunciato, se non formulando un'altra proposizione.
Conseguentemente, il principio di verificazione consiste per Neurath soprattutto
nella verifica della coerenza logica degli enunciati fra di loro più che nel
confronto tra enunciati e realtà. La possibilità di stabilire una corrispondenza tra
proposizioni e realtà viene giudicata un'affermazione metafisica perché non
verificabile: qualunque verifica infatti dovrebbe tradursi essa stessa in termini
linguistici.
Del resto, dice Neurath, il contatto con la realtà è minimo, trascurabile e comunque
mai diretto. La stessa sensazione di Mach, gli stati di cose o fatti di Wittgenstein, i
fatti atomici di Russell, l'esperienza vissuta di Carnap sono un modo soggettivo di
percepire la realtà: per essere descritti devono tradursi in linguaggio. Anche Mach
diceva che le sensazioni, cioè i dati fisici fattuali immediati, non sono esclusivamente
riferibili all'oggetto perché tra fisico e psichico (soggettivo) non c'è separazione ma
continuità.

12
13

Però, se i dati dell'esperienza sono modi del tutto soggettivi di vedere e sentire la
realtà, il rischio allora è quello dello solipsismo: ognuno, isolato dagli altri, sente e
vede una sua propria realtà in modi differenti e con accentuazioni diverse; ognuno
resta chiuso in se stesso nel suo contatto con la realtà. Per evitare questo pericolo
Neurath sviluppa la concezione cosiddetta "fisicalista". Per fisicalismo si intende
quell'indirizzo volto a ricondurre tutti i linguaggi al linguaggio della fisica, ritenuto
quello più valido perché pubblico, intersoggettivo, universale e pertanto
antisolipsistico. Il fisicalismo, appunto, ha come scopo sia di impedire nella scienza
affermazioni di tipo metafisico, ossia prive di senso, sia di superare il pericolo del
solipsismo e soggettivismo. Nella scienza sono accettabili solamente osservazioni
formulate in termini fisici o comunque ad essi riconducibili. Il sistema per
trasformare tutte le proposizioni nel linguaggio fisicalista consiste nel ridurle a
proposizioni protocollari, cioè a protocolli. I protocolli non sono le sensazioni in se
stesse ma le proposizioni con cui le sensazioni vengono espresse, tenuto conto che
esse sono espresse però in termini fisici, private cioè di ogni enunciato soggettivo,
riducendo ad esempio la proposizione del linguaggio ordinario "sento freddo" nella
proposizione protocollare "in un determinato punto spazio-temporale la temperatura è
di x gradi".
Le proposizioni protocollari di Neurath si contrappongono alle proposizioni
osservative, ostensive, sostenute invece da Schlick a motivo del suo realismo. Mentre
le proposizioni protocollari stanno per Neurath alla base del principio di
verificazione, per Schlick invece lo strumento del principio di verificazione è
costituito dalle proposizioni osservative. Queste infatti, a differenza delle
proposizioni protocollari, non sono passibili di ulteriore trascrizione o riduzione ma
sono pure e semplici constatazioni di dati elementari non ulteriormente riducibili;
sono cioè osservazioni immediate che verificano le ipotesi confermandole o
smentendole.
L'impossibilità di stabilire una corrispondenza tra linguaggio e realtà non
conduce tuttavia Neurath a negare la realtà concreta. Per Neurath l'uomo è
fondamentalmente un essere fisico concreto e reale, come altresì concreto e reale è
per Neurath anche il linguaggio. Il linguaggio, egli prosegue è un fatto fisico, anzi
linguaggio e realtà coincidono, essendo il linguaggio il modo in cui la realtà è
espressa e raffigurata. La realtà è la totalità delle proposizioni. In tale maniera tuttavia
Neurath valorizza soltanto la dimensione sintattica del linguaggio, concernente i
rapporti tra le proposizioni, a scapito della dimensione semantica, concernente il loro
significato. Da ciò la conseguente concezione della verità come coerenza (ossia come
non contraddizione) interna al discorso anziché come corrispondenza tra il discorso e
i fatti della realtà esterna.
Coerentemente con la teoria del fisicalismo, Neurath respinge la distinzione tra
scienze della natura e scienze dello spirito: sia le une che le altre possono e devono
essere formulate in termini fisici. Tant'è vero che abbraccia con entusiasmo il
comportamentismo psicologico, che riduce l'individuo a risultante di un sistema
fisico di interazione "stimolo-risposta".

13
14

Sempre sulla base del fisicalismo Neurath persegue l'ambizioso obiettivo, comune al
Circolo di Vienna, di unificare tutte le scienze in un medesimo linguaggio, per
giungere così all'unità del sapere grazie alla riduzione di tutti i linguaggi, anche
delle scienze umane e sociali, a quello della fisica (sociologia fisicalista). Così la
sociologia è riducibile alla psicologia, la psicologia alla biologia, la biologia alla
chimica e la chimica alla fisica. Questo progetto è stato sviluppato da Carnap ma è
stato avviato proprio da Neurath, il quale talvolta dà l'impressione di concepire
l'unificazione della scienza in termini addirittura sostanziali, mentre altre volte, più
cautamente, in termini soltanto metodologici.
Conformemente al principio di unitarietà della scienza, Neurath nega l'esistenza
di diversi tipi di causalità (causa materiale, causa formale, causa efficiente, causa
finale, come in Aristotele). Kantianamente asserisce che in tutte le scienze il
procedimento è lo stesso, un procedimento che la fisica ha espresso e reso rigoroso al
massimo grado con un esclusivo ricorso alla causa efficiente.

Rudolf Carnap (1891-1970).

Carnap è il maggior esponente del neopositivismo. Quattro sono i principali temi


del suo pensiero: la critica della metafisica; l'unità del sapere e della scienza
attraverso il riduzionismo e il fisicalismo; la "liberalizzazione" del neopositivismo e il
riesame del principio di verificazione; la sintassi logica.
Poiché il senso di una proposizione sta nel metodo della sua verifica, attraverso
l'analisi logica si può mostrare l'insensatezza di qualunque proposizione che, come
quelle della metafisica, voglia cogliere qualcosa che trascenda l'esperienza,
risultando perciò non verificabile. Nell'opera "Che cos'è la metafisica" Carnap
spiega che le proposizioni della metafisica sono pseudoproposizioni non tanto in
relazione al significato delle parole impiegate, ma perché costruite in modo
sintatticamente scorretto, attribuendo a certi oggetti predicati che non possono avere.
È il caso della parola "nulla", che per Carnap non è, come per Heidegger, il nome di
qualcosa, il predicato di un oggetto come per i metafisici, ma è una proposizione
esistenziale negativa, che cioè afferma l'inesistenza di qualcosa. Infatti, la banale
frase "fuori non c'è nulla" non equivale ad affermare l'esistenza del nulla ma equivale
all'affermazione, logicamente più corretta, "non esiste qualcosa che sia fuori". Un
errore comune e fondamentale delle teorie metafisiche risulta l'uso della parola
"essere", parola che nel linguaggio ordinario viene usata sia come copula, cioè come
congiunzione verbale (il libro è sul tavolo, in cui il verbo essere è usato come
predicato per indicare proprietà) oppure viene usata in significato esistenziale, come
predicato esistenziale che afferma il sussistere di qualcosa (c'è un libro sul tavolo).
Ma anche in quest'ultimo caso l'analisi logica ci mostra che la frase non afferma
affatto l'esistenza della cosa in sé, ma di qualcosa che ha la proprietà di "essere sul
tavolo", riconducendo quindi al significato copulativo. Per Carnap l'esistenza può
essere asserita solo in connessione ad un predicato e non ad un singolo nome:
14
15

non posso dire "A esiste" ma posso dire "esiste un A tale che possiede la proprietà P".
Quindi, l'essere in sé non esiste: è una proposizione insensata, una pseudo
proposizione.
L'analisi logica rivela non soltanto l'insensatezza delle teorie metafisiche, ma anche di
ogni teoria che pretenda di cogliere, attraverso la sola ragione, qualcosa che vada
oltre l'esperienza, come ad esempio nel caso dell'etica, poiché i valori etici (buono,
bello, giusto) non possono essere verificati o dedotti dall'esperienza. Per Carnap,
come in Wittgenstein, anche le espressioni etiche non hanno valore conoscitivo
poiché sono soltanto frutto di sentimenti: svolgono l'importante funzione di esprimere
il nostro atteggiamento verso la vita e di suscitare altri sentimenti e volizioni che
spingono all'azione, ma non possiedono validità teoretica.
Carnap ha creduto a lungo nel principio dell'unità del sapere, obiettivo
considerato realizzabile attraverso la procedura del riduzionismo, vale a dire
attraverso la possibilità di ridurre i concetti di tutte le scienze ad alcuni pochi e
fondamentali concetti comuni. Anche Carnap ritiene il linguaggio della fisica come
quello più valido e rigoroso dal punto di vista scientifico, perché privo di ambiguità e
di elementi qualitativi e perché intersoggettivo e universale. I linguaggi di tutte le
varie discipline si possono ricondurre al linguaggio della fisica poiché ogni
enunciato è traducibile in termini di fisicalismo. È questo un atteggiamento che
Carnap ha definito di "materialismo metodico".
In tal senso Carnap, utilizzando anche le sofisticate teorie logiche di Russell e
Whitehead, cerca di elaborare un sistema di pochi concetti fondamentali e unitari
in grado di spiegare scientificamente il mondo e, con ciò stesso, di fondarlo e
giustificarlo. Tali concetti non devono essere scollegati ma essere invece
gradualmente derivati dalle classi di oggetti più elevate fino alla classe degli oggetti
di base. Costruisce così un albero genealogico dei concetti, una piramide
epistemologica, in cui le classi di oggetti superiori sono presupposte da quelle
inferiori:
1. gli oggetti spirituali, cioè i valori quali l'arte, la religione, la morale;
2. gli oggetti psichici altrui, cioè le esperienze degli altri uomini, da essi
comunicate o indirettamente comprese per similitudine;
3. gli oggetti fisici, cioè i dati della scienza;
4. gli oggetti psichici propri, cioè le esperienze immediate del nostro vissuto
quotidiano.
La costruzione del sistema di unificazione del sapere conduce Carnap ad affrontare la
questione del rapporto e corrispondenza tra linguaggio e mondo, cioè tra
linguaggio e realtà, assumendo una posizione intermedia tra il realismo di Schlick
e il nominalismo di Neurath. Per Carnap i concetti/oggetti fondamentali della
scienza vengono ricavati da certi dati originali ed elementari, che egli chiama
"esperienze vissute elementari", che non sono direttamente di natura logica, come
per Neurath, né direttamente realistico-fattuali, come per Schlick e come le
sensazioni in Mach, ma che sono comunque extralinguistiche, extralogiche e che
hanno una base psicologica, per cui la realtà non è mai colta direttamente ma è
filtrata dalla psiche individuale. Per Carnap le sensazioni di Mach non sono
15
16

direttamente dati o fatti oggettivi ma già in origine sono astrazioni da dati: perciò
parla di "esperienze vissute elementari". Le esperienze vissute elementari sono per
Carnap sufficientemente neutre (cioè né fisiche né psichiche o completamente
psicologiche), tali da consentire fra di esse relazioni fondamentali oggettive a partire
dalle quali, attraverso l'uso dei protocolli (cioè attraverso la riduzione delle
proposizioni che esprimono le esperienze vissute a proposizioni tradotte in termini
fisici) e tramite l'impiego delle regole logiche dell'inferenza e della coerente
connessione tra le proposizioni protocollari, diventa possibile la ricostruzione
scientifica della conoscenza. Quale relazione fondamentale tra le esperienze
elementari vissute Carnap considera soprattutto quella del "ricordo di somiglianza",
in base a cui due esperienze sono riconosciute parzialmente simili per mezzo del
confronto tra una di esse e il ricordo dell'altra. Quindi si possono ricavare delle
costanti sufficientemente oggettive, traducibili in protocolli intersoggettivi,
comprensibili cioè non solo dal soggetto senziente ma anche dagli altri. In tal modo è
possibile, secondo Carnap, ricostruire il mondo psichico e fisico indipendentemente
dai concetti di sostanza e di causa. Lo stesso concetto di essenza viene ritradotto e
semplicemente inteso come il significato della parola che indica l'oggetto. Cosicché
l'io non è un'essenza ma soltanto la classe (il luogo) delle esperienze elementari.
L'unificazione del sapere è intesa da Carnap anche come obiettivo da
contrapporre all'immagine di una realtà dispersa, caotica e incoerente quale
delineata dalle filosofie irrazionalistiche, dalla filosofia dell'azione e
dall'esistenzialismo. Raggiungendo l'unificazione del sapere "gli oggetti non si
frantumano in campi diversi e senza connessione, ma esiste soltanto un campo unico
di oggetti e pertanto solo un'unica scienza": la fisica e il fisicalismo. Peraltro, di lì a
non molto apparirà agli studiosi più attenti quanto complesso e in fondo
discutibile sia il progetto di unificazione del sapere. Infatti, essi osservano, dietro
tale convinzione si nasconde la concezione "monistica" (esiste un unico e solo
principio) di una natura fondamentalmente unitaria della realtà oppure, in alternativa,
si nasconde la concezione kantiana secondo cui, indipendentemente dalla natura della
realtà, la conoscenza che voglia essere scientifica deve seguire in qualsiasi campo
un'unica metodologia. Ma invece, ribattono i critici dell’unità del sapere, molti
aspetti dell'umano e del sociale restano inesplorati o addirittura ignorati nel
quadro di questo orientamento teorico tendente all'unificazione delle conoscenze.
Successivamente, anche allo stesso Carnap il fisicalismo comincia ad apparire
troppo chiuso e rigido, basato su di un principio di verificazione che per lo più
prescinde dai dati di fatto e si risolve nella verifica della coerenza soprattutto
logica (e non anche fattuale) delle proposizioni. Da un lato, infatti, il principio di
verificazione non garantisce che i protocolli siano assolutamente chiari, poiché
lasciano libera l'interpretazione della natura del mondo (che può essere cosa materiale
o processo psichico) e poiché possono essere redatti in modo difforme pur se riferiti
al medesimo fatto. Dall'altro lato, e soprattutto, risultava ormai evidente
l'impossibilità di sottoporre una teoria ad una verifica completa, considerandone
tutti gli innumerevoli casi possibili. Per di più lo stesso principio di verificazione

16
17

non è a sua volta verificabile empiricamente e logicamente, assumendo


paradossalmente, in qualche modo, una veste di tipo metafisico.
Carnap di conseguenza giunge a quella che è stata definita una sorta di
"liberalizzazione" (apertura) del neopositivismo, rivedendo il principio di
verificazione ed elaborando una logica non esclusivamente fisicalistica ma più aperta
a considerare la molteplicità dei linguaggi. Sostituisce il principio di verificazione
con quello di confermabilità, che è più elastico e svincolato dall'esigenza di una
diretta verificabilità empirica delle proposizioni scientifiche. Infatti, secondo il
principio di confermabilità non è più necessario verificare empiricamente tutti i
casi di una legge o di una proposizione scientifica, ma è sufficiente controllarla
attraverso esperimenti condotti su enunciati particolari (non su tutti i casi) che
derivano dalla legge o proposizione stessa. Se attraverso più esperimenti di controllo i
casi positivi (ossia di conferma della legge o proposizione) aumentano, allora
aumenterà anche il grado di confermabilità della stessa legge o proposizione.
Insomma, le teorie scientifiche vengono a perdere la pretesa di una validità
assoluta, per acquistare invece il carattere di ipotesi soggette a un certo grado di
conferma e quindi di validità relativa.
Tale processo di liberalizzazione è parallelo a quello percorso dal "secondo
Wittgenstein" nonché in linea con le critiche che Popper muoverà al principio di
verificazione.
Ulteriore liberalizzazione del neopositivismo è operata da Carnap mediante
l'elaborazione di una innovativa sintassi logica (sintassi= studio delle relazioni
esistenti tra le parti di una frase o tra le frasi). Mentre Wittgenstein, come vedremo,
insiste sull'atomismo del linguaggio, secondo cui ogni proposizione è riducibile a
elementi (atomi) non più ulteriormente riducibili, divisibili, e che in quanto tali sono
a se stanti, non più in relazione con altri elementi, Carnap sottolinea la natura
sintattica del linguaggio, vale a dire che le proposizioni non sono a se stanti ma fra
di esse in relazione. Definendo il linguaggio come un contesto di relazioni, Carnap
riconosce conseguentemente il carattere arbitrario e convenzionale del sistema di
relazioni (cioè della logica stessa) in cui il linguaggio consiste. Nell'opera "La
sintassi logica del linguaggio" Carnap espone due tesi fondamentali.
La prima tesi prende atto che esiste una molteplicità di linguaggi, i quali sono quindi
relativi, attenuando in tal modo il primato del linguaggio fisicalista che comunque
permane. Carnap esprime questa tesi sotto forma di "principio di tolleranza": "Non è
nostro compito stabilire proibizioni ma soltanto giungere a convenzioni … In logica
non c'è morale. Ognuno può costruire come vuole la sua propria logica, cioè la sua
forma di linguaggio. Se vuole comunicare con gli altri basta solo che indichi quali
sono le regole sintattiche che ha adottato". Da questo punto di vista allora non esiste
un linguaggio unico o privilegiato, ma per ogni linguaggio esistono determinate
regole proprie.
La seconda tesi è che le regole proprie di ciascun linguaggio sono comunque, tutte,
di natura sintattica: esprimono cioè quali sono le possibilità di combinazione dei
termini linguistici all'interno degli enunciati (proposizioni) e tra gli enunciati. Si
tratta quindi di un'arte combinatoria nel senso di Leibniz o, secondo la definizione di
17
18

Carnap, di un calcolo le cui regole determinano in primo luogo le condizioni


secondo cui un'espressione risulta appartenente ad una certa categoria e, in secondo
luogo, le condizioni in base a cui è lecita la trasformazione di una o più espressioni
in un'altra (riduzionismo). Ciò che rileva è che questo calcolo prescinde
completamente dal significato dei termini e non presuppone alcun riferimento a fatti
o a realtà di qualsiasi genere. Per determinare se una proposizione è conseguenza di
un'altra o no non occorre fare riferimento ai rispettivi significati, basta che sia data
(che sia nota) la regola sintattica assunta. Per Carnap quindi la logica è logica
formale ed è sintassi.
Trasferitosi negli Stati Uniti dopo l'avvento del nazismo, Carnap estende
ulteriormente i propri interessi e l'ambito della ricerca filosofica. Compito della
filosofia non è più solo quello di costruire una sintassi logica del linguaggio ma
anche di interpretare, mediante la semantica, il significato delle proposizioni
sintatticamente costruite. Il linguaggio viene considerato secondo una
dimensione/funzione più complessa e viene ora definito come sistema di atti o
comportamenti che si propongono in primo luogo la "comunicazione" tra i membri di
una data comunità. In tal senso il linguaggio può e deve essere studiato in tre modi
diversi:
1. in modo pragmatico, quando ci si propone di analizzare i segni e gli enunciati
di un linguaggio in relazione al soggetto che li usa e al contesto sociale (i fini
e i motivi del soggetto);
2. in modo semantico, quando ci si propone di analizzare i segni e gli enunciati
non in relazione al soggetto ma ai contenuti (il significato degli enunciati);
3. in modo sintattico, quando ci si propone di analizzare i segni e gli enunciati a
prescindere dai soggetti e dai contenuti ma solo nelle loro relazioni e nella
struttura logica delle connessioni formali.

Hans Reichenbach (1891- 1953).

È il principale esponente della "Società per la filosofia empirica" di Berlino, di


indirizzo neopositivista analogo a quello del Circolo di Vienna, impegnata tuttavia in
ricerche e temi più specifici.
Reichenbach è sostenitore di un assoluto empirismo, secondo cui l'esperienza è
l'unico criterio e fondamento possibile della scientificità del linguaggio. Applica tale
empirismo anzitutto alla concezione dello spazio del tempo negando, contro Kant,
che questi siano forme a priori ed affermando che essi sono piuttosto schemi
descrittivi dell'esperienza concernenti successioni causali (successioni per l'appunto
nello spazio e nel tempo).
Applica quindi l'empirismo alla stessa legge di causalità, affermando che essa non ha
nessun carattere a priori, ma si fonda solo sull'induzione empirica. Questa però, pur
essendo necessaria, non è sufficiente ad assicurare la verità assoluta delle leggi
causali che hanno valore solo probabile.

18
19

Condivide la distinzione di tutte le proposizioni, tipica del neopositivismo, in


proposizioni analitiche (necessarie ma vuote di informazioni) e in proposizioni
fattuali (informative ma soltanto probabili). Di conseguenza non ha alcun carattere
conoscitivo qualunque discorso che non si serva né delle une né delle altre, come ad
esempio il linguaggio dell'etica. Le asserzioni dell'etica sono soltanto comandi o
divieti, sono delle direttive, delle prescrizioni, e come tali non sono né vere né false
ma hanno solo valore pratico, individuale o sociale.

Osservazioni generali sul neopositivismo.

Uno dei principali ostacoli incontrati dal neopositivismo è quello del solipsismo
linguistico. Infatti, negare l'esistenza di altri soggetti in grado di conoscere in modo
conforme a quello soggettivo proprio o negare l'esistenza di un mondo comune ad
altri soggetti equivale a mettere in questione la stessa oggettività scientifica.
Il neopositivismo eredita dall'empirismo di Hume la teoria in base alla quale, per
conservare la maggior oggettività possibile, occorre attenersi al dato costituito dalla
sensazione. In tal senso, il neopositivismo ricorre al linguaggio protocollare, che è
costituito dalle proposizioni che tali sensazioni esprimono. Il linguaggio protocollare
è collocato alla base di ogni altro linguaggio.
In proposito si può osservare che la sensazione in se stessa non è altro che oscura e
confusa impressione. Per darle un senso occorre interpretarla, cioè inserirla in una
struttura logica spazio-temporale, causale, relazionale, ecc. Anche dal punto di vista
fisiologico, la sensazione non è un dato ma un prodotto. Non proviene da
un'esperienza originale ma è il risultato di un complesso processo psico-fisico che
coinvolge, ad esempio, pupille, retina, sistema nervoso, strutture cerebrali. In
definitiva, la sensazione è ben lontana dall'essere quella realtà prima, assolutamente
incontestabile, sulla quale è possibile costruire un sistema scientifico del tutto
oggettivo.
Paradossalmente, la sensazione, o percezione, intesa come dato oggettivo primario,
nonché il solipsismo linguistico, che chiude il soggetto nell'ambito della propria
individuale esperienza, fanno sì che il neopositivismo rischi di trasformarsi in una
sorta di idealismo (o fenomenismo) sul tipo di quello sostenuto da Berkeley, il quale
affermava che "esse est percipi", ovvero che non esiste realtà se non quella colta dai
miei organi di senso, senza garanzia però che la realtà colta dai "miei" organi sia
conforme a quella colta dagli altri.

19
20

L’OPERAZIONISMO DI BRIDGMAN.

Operazionismo è definito l'indirizzo epistemologico secondo cui il significato di un


concetto scientifico consiste prevalentemente nell'insieme di operazioni e procedure
messe in atto per ricavarlo.
Esponente dell'operazionismo è il fisico americano e premio Nobel Percy William
Bridgman (1882-1961).
In parte Bridgman concorda su taluni principi del neopositivismo ma d'altra
parte ne respinge altri. Critica come astratta la tendenza riduzionistica del
neopositivismo mirante a trasformare e ridurre i vari tipi di linguaggio a quello
logico-fisico. Critica la pretesa di elaborare grandi e onnicomprensivi sistemi
epistemologici fondati su di un unico o pochi principi e giudica pericoloso anche il
principio dell'unità metodologica delle diverse scienze, poiché privilegia criteri
generali e formali rispetto alle concrete e varie esigenze euristico procedurali
(euristico= concernente la ricerca). Considera troppo ambiziosa e fuorviante
l'interpretazione della conoscenza e della verità come qualcosa che "coglie" la
realtà o le "corrisponde".
Bridgman è invece influenzato dal pragmatismo americano: le procedure e
operazioni scientifiche pratiche, concrete e funzionali, prevalgono sui principi
teorico-epistemologici generali. La scienza deve soprattutto occuparsi degli
specifici problemi incontrati dallo scienziato al di fuori delle grandi teorizzazioni
rigidamente precostituite.
Fermo restando il riferimento al "fatto", i rivoluzionari sviluppi della fisica
contemporanea (la teoria della relatività, il principio di indeterminazione, la fisica
quantistica) sono per Bridgman destinati a modificare gli atteggiamenti. Contro ogni
rigida teoria, Bridgman, in particolare, è convinto della possibilità di esperienze
sempre nuove e inaspettate, per cui nessun elemento di una situazione fisica, per
quanto irrilevante o banale, va trascurato fino a che gli esperimenti non
proveranno effettivamente la mancanza di effetti. Perciò l'atteggiamento del fisico
deve essere di puro empirismo; non deve ammettere nessun principio generale a
priori che determini o limiti le possibilità di nuove esperienze. Ciò significa che
dobbiamo rinunciare alla pretesa che tutta la natura possa essere spiegata in una
formula.
Invece, il contenuto e il significato dei concetti scientifici coincide con le
"operazioni" che vengono elaborate per ottenerli: si tratta di ridurre il significato
dei concetti scientifici ad una operazione empirica o ad un insieme di operazioni. Per
illustrare questa tesi Bridgman prende in considerazione il concetto di lunghezza: il
concetto di lunghezza è definito quando sono fissate le operazioni mediante cui la
lunghezza si misura. Il concetto si definisce semplicemente in base alle operazioni
compiute per costruirlo: in tal caso si può presumere che vi sia corrispondenza tra
l'esperienza e la descrizione di essa.
L'adozione della criterio operativo consente altresì di comprendere come tutta
una serie di problemi e di concetti risulti priva di significato. Se una questione ha
senso, deve essere possibile trovare operazioni mediante cui ad essa si può dare una
20
21

risposta. Quando tali operazioni non possono essere trovate non resta che ritenere la
questione priva di senso. L'intento di Bridgman è quello di evitare spreco di tempo e
di energia per generalizzazioni e idealizzazioni insensate.
Oltre a privilegiare i procedimenti operativi ai fini della formulazione delle teorie,
anziché il criterio razionalistico-metafisico della deduzione/induzione pura,
Bridgman accentua anche l'aspetto costruttivo nella definizione dei concetti. I
concetti non si scoprono mediante la pura ragione induttiva/deduttiva ma si
costruiscono mediante un gruppo sperimentato di operazioni. La scienza è anzitutto
costruzione di concetti che servono come modelli di indagine. Tali concetti-
modelli per quanto riferiti a fatti reali non vi corrispondono realisticamente: essi
sono, appunto, costrutti teorici che hanno valore essenzialmente euristico (di
guida alla ricerca).
I concetti scientifici inoltre, ben lungi dall'essere un rigidi, mutano col mutare
delle operazioni compiute per costruirli. Ad esempio il concetto di lunghezza varia
a seconda che si riferisca alla misurazione di una particella subatomica, di un corpo
visivamente percepibile o di una distanza interstellare.
Infine Bridgman individua nell'operazionismo un criterio di controllo
epistemologico migliore e più valido dei criteri proposti dalla filosofia
neopositivista (principio di verificazione o confermabilità) o da quella, come
vedremo, di Popper (principio di falsificazione).
Molti sono i concetti analizzati operativamente da Bridgman quali: lunghezza, tempo,
energia, campo.
Nonostante il rilievo delle sue concezioni, numerose sono state anche le obiezioni
rivolte a Bridgman. Tra le principali, quella di "solipsismo": viene osservato che
riducendo la scienza alle operazioni compiute dallo scienziato, queste rimangono
chiuse nel soggetto (nello scienziato) e ne esce svalutato l'aspetto scientifico
oggettivo. Bridgman risponde che la scienza ha sempre una genesi "privata", ma che
poi la comunicazione pubblica delle scoperte e teorie scientifiche aggiunge ad esse
valore intersoggettivo.
Criticato è stato anche il "particolarismo" di Bridgman, per la sua avversione
contro i principi generali nonché per la sua enfasi sulla pluralità e mutevolezza dei
concetti scientifici a seconda delle operazioni adottate. A Bridgman viene
rimproverato di disconoscere la tendenza a spiegazioni sistematiche e unificanti dei
fenomeni (unificanti= unificare in una teoria o in una formula la spiegazione di molti
fenomeni diversi). La concezione di Bridgman è stata in effetti accusata di implicare
una proliferazione di concetti poco maneggevole e teoricamente senza termine.
Invece, spesso è proprio lo sviluppo delle teorie generali che introduce modifiche
anche dei criteri operativi originariamente adottati. Al riguardo, e tra gli altri, anche
Popper afferma che è ineliminabile il bisogno di termini universali.

21
22

GASTON BACHELARD (1884-1962).

Contro l'impostazione logico-formale e astratta del neopositivismo, Bachelard,


filosofo francese, rivendica il ruolo anche storico e sociale del pensiero
scientifico. "La scienza, dice Bachelard, non ha la filosofia che si merita", nel senso
che lo sviluppo dell'epistemologia è sempre in ritardo rispetto allo sviluppo della
scienza. In particolare, Bachelard critica la "filosofia dei filosofi", perché chiusa,
immobile e dogmatica nell'enunciazione di principi assoluti. Vi contrappone "la
filosofia prodotta dalla scienza", cioè una nuova epistemologia aperta, pluralistica,
sperimentale e applicata: una filosofia non rinchiusa nella presunzione di un sapere
unitario, generale e integrale, ma distribuita su saperi differenziati, "locali", dotati di
logiche diverse e di una pluralità di punti di vista secondo i vari settori, pur non
escludendo la ricerca di possibili integrazioni e sintesi interdisciplinari tra i diversi
settori di indagine.
Bachelard polemizza sia contro l'empirismo ingenuo, di cui denuncia il culto
acritico del fatto bruto, sia contro il razionalismo astratto, di cui denuncia il culto
della ragione pura, considerata strumento autosufficiente della conoscenza. Il sapere,
afferma Bachelard, non è né fattualistico né razionalistico puro. La scienza deve
rifuggire l'astrattezza ed essere invece applicata a campi di indagine e a problemi
concreti.
L'epistemologia deve quindi stare al passo con la scienza; ma perché sia aperta e
pluralistica è necessario entrare dentro le pratiche scientifiche e non giudicarle
dall'esterno. Occorre insomma che il filosofo sia egli stesso scienziato prima che
filosofo. Mentre i neopositivisti sono andati alla ricerca di un principio rigido (il
principio di verificazione) in grado di dividere nettamente la scienza dalla non-
scienza, Bachelard non accetta che vi sia un criterio apriori che pretenda di cogliere
l'essenza della scientificità. Non c'è un principio logico apriori che caratterizza ciò
che è scienza, ma vi sono dapprima le varie scienze e solo dopo esse vanno
logicamente analizzate.
La scienza inoltre procede secondo uno sviluppo storico. Pertanto lo strumento
privilegiato per le indagini epistemologiche non è, come per i neopositivisti, la
logica bensì la storia della scienza e delle sue fasi di sviluppo.
Nell’ambito di un indirizzo storico-sociale, si può constatare che anche certe
metafisiche hanno positivamente influenzato l'evoluzione delle scienze. Bachelard
non reputa quindi la metafisica come insensata o, quantomeno, come indifferente per
la scienza. Non nutre pregiudizi antimetafisici, ma avversa invece quella filosofia che
non cammina di pari passo con la scienza e quei filosofi che "pensano prima di
studiare". Se è vero che "un po' di metafisica ci allontana dalla natura, molta
metafisica ci avvicina".
Lo scienziato, ben lungi dall'assumere in modo immediato i dati empirici,
"costruisce" l'oggetto della propria indagine, elaborando i dati secondo specifiche
ipotesi teoriche. Pertanto il dato scientifico non è immediato: bisogna che esso sia
collocato in un'ipotesi, in un sistema teorico. Lo scienziato non parte mai
dall'esperienza pura.
22
23

Lo sviluppo della scienza non avviene secondo un graduale processo di


continuità, ma ogni nuova autentica conoscenza implica un mutamento e uno
sconvolgimento radicale rispetto alle sussistenti concezioni e categorie di
riferimento. "Si conosce sempre contro una concezione anteriore, distruggendo
conoscenze malfatte". Ogni nuova consistente scoperta scientifica costituisce una
rottura rispetto alle teorie precedenti che Bachelard definisce "rottura
epistemologica". Si pensi alla teoria della relatività e alla teoria quantistica che,
mettendo in discussione i previgenti concetti di spazio, tempo e causalità,
costituiscono effettivi e clamorosi rivolgimenti nel quadro delle conoscenze
scientifiche. C'è rottura, prosegue Bachelard contrariamente a quanto ritenuto da
Popper, anche tra sapere comune conoscenza scientifica. Il senso comune ha
sempre più risposte che domande: è superficiale perché ritiene di saper molto. La
conoscenza scientifica invece ci proibisce di avere opinioni su questioni che non
comprendiamo o che non sappiamo formulare correttamente. Prima di tutto bisogna
saper porre i problemi. Ogni teoria è la risposta a una domanda.
In questa prospettiva diventano importanti gli stessi errori che ci permettono la
correzioni delle teorie, anche se non saranno mai definitive e complete poiché il
nostro sapere non è assoluto ma solo perfezionabile. Diversamente dall'esperienza
comune, la conoscenza scientifica avanza per successive rettifiche delle teorie
precedenti. "Non esiste una verità prima. Ci sono solo primi errori". Per progredire
bisogna avere il coraggio di sbagliare. Proprio dall'errore deriva il fatto nuovo e l'idea
nuova. Il dubbio deve stare davanti al metodo e non dietro, come in Cartesio. Per tale
motivo il pensiero scientifico è un pensiero impegnato: perché mette continuamente
in gioco la sua stessa organizzazione. È antiscientifico l'atteggiamento di colui che
trova sempre la maniera di verificare la propria teoria forzandola piuttosto che
mostrarla errata e quindi rettificarla. Bachelard avversa di conseguenza le pretese e la
pratica della divulgazione scientifica, posta l'inconciliabilità dei relativi linguaggi
(linguaggio generico contro linguaggio specialistico), pur ammettendo che la rottura
epistemologica tra conoscenza comune e scientifica pone grossi problemi nella
didattica delle scienze.
Poiché dunque ogni nuova conoscenza è una rottura della sussistente concezione
della realtà e una rettificazione degli errori cognitivi precedenti, accade che le rotture
epistemologiche si affermano con fatica, dovendo superare quelli che Bachelard
chiama "ostacoli epistemologici". Non si tratta tanto di ostacoli dipendenti dalla
complessità dei fenomeni quanto piuttosto di ostacoli di carattere storico-sociale,
individuabili nelle abitudini intellettuali incallite, nello spirito di inerzia, nelle teorie
scientifiche insegnate come dogmi. Il primo ostacolo da superare è l'opinione
comune, perché considera gli oggetti secondo la loro utilità impedendo di conoscerli.
Ulteriori ostacoli di grande rilievo sono l'ostacolo realista, imprigionato nell'idea di
sostanza, e l'ostacolo animista, che pretende di individuare nei fenomeni fisici
l'esistenza di principi vitalistici e spirituali.
Di fronte a questi ostacoli, il compito della filosofia è allora quello di proporsi come
una sorta di terapia psicoanalitica volta a liberarci da tali impedimenti. Rilevante
pertanto è la funzione della negazione all'interno della nostra attività conoscitiva e
23
24

della stessa filosofia, che deve configurarsi come una "filosofia del non", risoluta
nel respingere la pretesa dei vecchi sistemi di presentarsi come concezioni assolute e
totalizzanti della realtà. Non c'è alcun principio assoluto al di sopra e al di fuori della
pratica scientifica e della storia della scienza. Questa storia è frutto di lavoro
collettivo (in équipe) e va riscritta sempre diversamente ogni qual volta è soggetta a
trasformazione.
Bachelard è sensibile anche ai temi dell'immaginario, della fantasticheria e del
sogno. L'immaginario costituisce una forma di conoscenza che a volte è più profonda
di quella tecnico-scientifica e, soprattutto, l'immaginario è il fondamento intuitivo
delle concezioni che, razionalizzate ed elaborate, diventano poi conoscenza
scientifica.
L'epistemologia di Bachelard è ripresa in vario modo da Foucault e Althusser, il
primo esponente dello strutturalismo storico e il secondo di uno strutturalismo
epistemologico marxiano contrario all'interpretazione "umanistica" di Marx.

24
25

KARL RAIMOND POPPER (1902-1994).

Di origine austriaca, studia matematica, fisica e filosofia. Passa da una iniziale


adesione al marxismo a posizioni antimarxiste e si fa esponente di un liberalismo
progressista di carattere anglosassone.
È tra i maggiori esponenti dell'epistemologia contemporanea.
Opere principali: La logica della scoperta scientifica; Che cos'è la dialettica; Miseria
dello storicismo; La società aperta e i suoi nemici.
Così come Kant operò nella filosofia della conoscenza (gnoseologia) una rivoluzione
delle idee e corrispondente alla rivoluzione copernicana in astronomia e newtoniana
in fisica, Popper opera nella filosofia della scienza (epistemologia) una
rivoluzione dei concetti corrispondente alla rivoluzione scientifica di Einstein: le
teorie scientifiche, dice Popper, non sono verità assolute e verificate ma sono
congetture, ossia ipotesi; la scienza deve avere il coraggio di operare previsioni
"rischiose", organizzandosi in vista non di facili di verifiche ma di possibili
falsificazioni (smentite).

Il carattere non induttivo ma ipotetico-deduttivo della scienza. Le fasi del nuovo


metodo scientifico.

Popper critica il metodo induttivo nella scienza, su cui era invece basato il
neopositivismo, per concludere che "l'induzione non esiste", ovverosia negando che
essa costituisca il punto di partenza della ricerca scientifica.
Nel passato, sostiene Popper, il termine "induzione" (passaggio dal particolare,
ossia dal singolo fenomeno, al generale, ossia alla teoria) è stato usato soprattutto
in due sensi: 1) induzione per ripetizione o per enumerazione; 2) induzione per
eliminazione.
L'induzione per ripetizione consiste nell'accumulo di osservazioni ripetute su di un
medesimo fenomeno, in base a cui giungere a conclusioni teoriche generali, cioè ad
una teoria generale di spiegazione del fenomeno osservato. Ma poiché la frequenza
di un fenomeno (il numero di volte in cui accade) è smisurata, anche un miliardo
di osservazioni confermative non garantisce la validità di una teoria, mentre
basta una sola osservazione difforme, contraria, per smentirla. Ad esempio, anche
di fronte a numerosissime osservazioni di cigni bianchi non si può stabilire con
certezza che tutti siano bianchi, mentre basta l'osservazione di un solo cigno nero per
confutare definitivamente la teoria che tutti siano bianchi.
L'induzione per eliminazione si basa, appunto, sul metodo dell'eliminazione, o della
confutazione, di tutte le teorie false per far valere la teoria vera. Tale è stata per
esempio la posizione di Bacone e di Stuart Mill nonché del neopositivismo. Ma le
teorie rivali e alternative a quella vera sono sempre innumerevoli, per cui è
impossibile esaminarle tutte per eliminarle o confermarle. Per ogni problema
teorico infatti esiste sempre un'infinità di soluzioni logicamente possibili.

25
26

Il tradizionale metodo induttivo impiegato nella scienza non è dunque valido,


non dà garanzia. Popper propone dunque un nuovo metodo scientifico articolato
in tre fasi:
1. sorge un problema;
2. viene formulata una teoria, cioè un'ipotesi o congettura per tentare di risolvere
il problema;
3. la teoria formulata è sottoposto a critica, a controllo e confutazione (si prova a
verificare se può essere smentita), imparando dagli eventuali errori.
Dunque una teoria scientifica non parte dall'induzione, ossia da una pura e
semplice osservazione dei fenomeni senza nessuna ipotesi guida, ma parte
dall'emergere di un problema. L'osservazione pura non esiste: infatti noi non
osserviamo a caso né possiamo osservare tutto. Invece, l'osservazione è sempre
guidata secondo le questioni e i problemi che riteniamo importanti, mentre
trascuriamo di osservare quelli che non ci interessano. L'osservazione scientifica
cioè, come del resto anche quella comune, è sempre indirizzata in base alle ipotesi o
congetture che sono formulate con riguardo ai problemi che vogliamo affrontare e
risolvere.
La scienza pertanto non può basarsi sul metodo induttivo bensì sul metodo
ipotetico-deduttivo: le ipotesi o teorie non vengono indotte (ricavate) dalle
osservazioni dei fenomeni ma, viceversa, è dalle ipotesi formulate nei confronti di un
problema che ci interessa che vengono dedotte (individuate) le osservazioni da
compiere.
Un nuovo problema scientifico sorge quando, in base ai fatti ed alle esperienze
che ci capitano, avvertiamo che una nostra aspettativa viene disattesa, non si
realizza. Infatti, spiega Popper, la nostra mente non è una "tabula rasa", un foglio
bianco che non contiene niente, come sosteneva l'empirismo tradizionale (Locke,
Hume) secondo cui ogni conoscenza parte esclusivamente da una sensazione
empirica. La nostra mente invece, dichiara Popper, è una "tabula plena", è cioè piena
di aspettative, che però non sono idee innate come affermava Cartesio, ma sono
ereditate dalla tradizione e dallo sviluppo culturale cui si è giunti (ogni epoca ha la
propria mentalità, le proprie idee, i propri punti di vista e le proprie aspettative circa
il mondo e i fenomeni del mondo). Insomma, noi ci aspettiamo che i fatti, i
fenomeni, si svolgano in un certo modo. Se le nostre aspettative non si
realizzano, se cioè i fatti non si svolgono come ci aspettiamo, sorgono allora i
problemi. È proprio dall'emergere dei problemi che inizia la ricerca scientifica.
Oppure può iniziare da una teoria in difficoltà, che ha fatto nascere aspettative
rimaste poi deluse.
Per risolvere i problemi che sorgono occorre un'immaginazione creatrice di idee
"nuove e buone", scrive Popper, ossia di ipotesi e congetture.
A questo punto, avverte Popper, bisogna distinguere tra "contesto della scoperta"
e "contesto della giustificazione", ossia tra la scoperta di un'idea, di un'ipotesi, e la
sua giustificazione scientifica, perché una cosa è avere e scoprire un'idea, altra cosa è
comprovarla e giustificarla. Le idee o ipotesi scientifiche formulate per risolvere i
problemi che si incontrano non hanno fonti privilegiate: possono scaturire anche
26
27

dal mito, dal sogno, dalla metafisica, dall'entusiasmo o dal caso, ma ciò che importa
è che vengano provate e controllate mediante il metodo per congetture e
confutazioni, ossia per prove ed errori.

Il criterio della falsificabilità delle teorie. Verosimiglianza e probabilità delle


teorie. La verità come ideale regolativo.

Per controllare e giustificare le teorie, cioè le ipotesi formulate dinnanzi ad un


problema in cui ci imbattiamo, Popper, abbiamo visto, non considera valida
l'induzione: infatti dovremmo prima verificare tutti i casi e le conseguenze derivanti
dalla teoria (ad esempio la teoria secondo cui il calore dilata i corpi), il che è
impossibile poiché i casi sono praticamente infiniti.
Di conseguenza Popper, quale nuovo criterio di demarcazione (distinzione) tra
scienza e non scienza sostituisce al principio di verificazione o di confermabilità
del neopositivismo, basato sull'induzione, il principio o criterio della
falsificabilità di una teoria o di un sistema scientifico (di un insieme di teorie).
In base al criterio della falsificabilità, le teorie o ipotesi vanno provate estraendo
da esse le conseguenze derivanti e controllando se tali conseguenze ci sono o no
(ad esempio se effettivamente con il caldo tutti i corpi si dilatano). Se queste
conseguenze vi sono, diciamo che per il momento la teoria è confermata, se
invece almeno una conseguenza non si riscontra, diciamo che la teoria è
falsificata. Una teoria non diventa dunque una teoria scientifica per il fatto di essere
stata verificata in senso positivo una volta per tutte (principio di verificazione),
perché una teoria non può mai essere verificata in modo definitivo. Ogni teoria
infatti è per definizione sempre smentibile, cioè falsificabile, se non altro in futuro
(non possiamo essere mai sicuri se la teoria sarà valida anche in un futuro più o
meno lontano). Non possiamo nemmeno verificare, perché assolutamente
innumerevoli, tutti i casi presenti che la teoria intende spiegare (non possiamo
esaminare tutti i corpi del mondo per verificare se ognuno col calore aumenta di
volume); tantomeno potremmo verificare i casi futuri.
Pertanto si dice che una teoria è una teoria scientifica, e che in tal senso si
distingue dalle teorie e ipotesi non scientifiche, solo se e perché essa, per principio,
può sempre essere confutata, falsificata dall'esperienza (da successive
esperienze).
Popper osserva che esiste una vera e propria asimmetria logica (=non
corrispondenza) tra verificazione e falsificazione di una teoria: miliardi di
conferme (presenti e future) non rendono certa una teoria, mentre un solo riscontro
negativo è sufficiente a falsificare l'intera teoria.
Essendo per definizione una teoria scientifica sempre falsificabile (nel senso che
permane e viene conservata fino a che, anche per un solo caso o fatto, non venga
falsificata e smentita) Popper allora riconosce l'importanza e la forza dell'errore:
"sbagliare non è triste, egli scrive, triste è non imparare dagli errori". Tanto prima si

27
28

trova un errore, tanto prima si potrà eliminarlo, formulando una teoria più corretta e
migliore.
Popper non parla quindi di teorie valide indefinitamente ma di teorie migliori
(rispetto ad altre) relativamente allo stato delle conoscenze dell'epoca in cui ci si
trova. Scopo della scienza è proprio la formulazione di teorie progressivamente
migliori, sempre più verosimili (vicine al vero). Una teoria T2 è migliore e più
verosimile di una teoria T1 quando possiede un maggior contenuto informativo,
ossia di conseguenze confermate (cioè quando spiega un maggior numero di
fenomeni controllati e confermati dall'esperienza), e quando invece T1 possiede un
maggior contenuto di falsità, cioè un minor contenuto informativo.
Secondo la concezione della maggior verosimiglianza di una teoria rispetto ad
un'altra, Popper conclude che però la teoria più verosimile è anche la teoria
meno probabile, perché quanto più è verosimile una teoria, ossia quanto più ampie
sono le informazioni e le spiegazioni che fornisce, maggiori diventano le possibilità
di sbagliare e, dunque, la teoria più verosimile è anche quella meno probabile. Ad
esempio, consideriamo le asserzioni: (a) "venerdì pioverà" e (b) "sabato sarà sereno"
e poi l'asserzione (a più b) "venerdì pioverà e sabato sarà sereno". È chiaro che
l'asserzione (a più b) ha maggior contenuto informativo sia di (a) che di (b), è cioè
più verosimile, ma è pure evidente che la probabilità che si verifichi (a più b) è
minore della probabilità di (a) o di (b). Di conseguenza, se ci proponiamo il
progresso della scienza e della conoscenza non dobbiamo essere superbi e
pretendere di formulare teorie che siano contemporaneamente altamente
verosimili e altamente probabili; dobbiamo accontentarci di procedere
gradualmente, un passo alla volta.

Scienza e verità: la verità come un ideale regolativo.

Abbiamo visto che per Popper:


1. la scienza non può giungere mai a verità definitive e assolute ma solo relative;
2. le verità della scienza e della conoscenza non riguardano i fatti ma le teorie,
che sono ipotesi provvisorie e sempre falsificabile.
La verità dunque non è mai una conquista definitiva ma solo un ideale
regolativo, cioè una regola, una linea di tendenza: non c'è quindi una definizione
assoluta di verità ma solo un criterio di verità, vale a dire la progressiva
accumulazione delle teorie, falsificando ed eliminando gli errori delle teorie
precedenti e sostituendo ad esse nuove teorie.
Altrettanto non c'è una legge di progresso continuo della scienza e della storia,
come ritenuto dal positivismo e dallo storicismo, poiché la scienza e la storia
possono subire fasi di arresto o anche di regresso a causa dei molti ostacoli che
possono intervenire, di tipo sia epistemologico (scientifico) che economico o
ideologico-culturale. Anche rispetto al progresso della scienza, così come per la
verità, non c'è una legge certa ma solo un ideale (un criterio) regolativo, fiducioso
nell'avvento di teorie migliori e più verosimili. La scienza, scrive Popper, non va
28
29

considerata come un edificio stabile, basato su solida roccia, ma come una


costruzione su palafitte e perciò precaria.
Occorre anche osservare che il principio di falsificabilità, mentre è semplice dal
punto di vista logico (secondo l'argomentazione: "se la teoria T è vera allora sarà
vera anche la sua conseguenza C; ma C è falsa, quindi anche T è falsa") è invece
assai complesso ed incerto dal punto di vista metodologico. Infatti la
falsificazione di una teoria, allorquando almeno una delle conseguenze (dei casi)
derivabili si sia dimostrata falsa (l'osservazione di un cigno nero dopo le precedenti
osservazioni di cigni tutti bianchi) non ci da una garanzia certa che davvero
quella teoria non sia valida perché è sempre possibile sbagliare nelle procedure
stesse di controllo e di falsificazione, eliminando una teoria di per sé invece
confermabile. Quindi non vi sono né teorie definitivamente certe né teorie
sicuramente falsificate.
Ma allora quale criterio o regola si può seguire? Popper risponde che al massimo
si può seguire una regola di preferenza (non di certezza), secondo cui una teoria è
migliore e preferibile ad un'altra se ha un maggior contenuto informativo, cioè se
spiega di più soprattutto dove l'altra ha fallito, e se sembra corrispondere meglio ai
fatti; le teorie non possono mai essere definitivamente dimostrate, ma tutt'al più
corroborate (rafforzate): è questa la tesi della preferenza e corroborazione delle
teorie.

Il rifiuto della concezione fondazionalista e giustificazionista del sapere.

La tesi secondo cui una teoria è scientifica solo se è falsificabile, se è cioè formulata
in modo tale che risulti possibile sottoporre a controllo le conseguenze che ne
derivano al fine di confermare o falsificare la teoria stessa, conduce Popper a
respingere il modello classico fondazionalista e giustificazionista del sapere,
condiviso sia dai razionalisti che dagli empiristi come pure da Kant, il quale
modello concepisce la scienza come un insieme di verità dotate di un fondamento
certo (fondazionalismo) che la filosofia ha il compito di scoprire e di giustificare
(giustificazionismo).
Al contrario, Popper afferma che:
1. il nostro sapere è sostanzialmente problematico e incerto;
2. la scienza è per definizione fallibile e autocorreggibile;
3. non ha senso la pretesa di giustificare in via definitiva la nostra conoscenza;
4. l'uomo non può possedere la verità ma solo cercarla in una ricerca mai
conclusa.
Questa concezione della verità e della scienza avvicina Popper a Socrate, il quale,
dicendo che "io so di non sapere", affermava come Popper che tutte le conoscenze
umane sono incerte e che la ricerca della verità non ha mai fine.

29
30

Il realismo di Popper contro l'essenzialismo e lo strumentalismo.

Per Popper, da un lato, la scienza non può pretendere di spiegare l'essenza certa,
ultima e definitiva della realtà (essenzialismo), ma neppure, dall'altro lato, è da
ritenersi un semplice e utile strumento di previsione, che ha valore pratico ma non
teorico, conoscitivo (strumentalismo).
Tra essenzialismo e strumentalismo Popper sceglie una terza via: quella del
"realismo oggettivo", basato sull'idea di una corrispondenza, all'interno di una
teoria, fra proposizioni (della teoria) e fatti (della realtà). La scienza non può mai
pervenire a spiegazioni essenziali (= del perché) dei fenomeni, ma le teorie
scientifiche non sono esclusivamente strumenti di previsione e di calcolo; sono
invece enunciati (affermazioni, spiegazioni) che ci informano, anche se in modo
incompleto, sulla realtà e che, rispetto ad essa, possono essere vere o false.
È vero, dice Popper, che le teorie scientifiche sono una costruzione della nostra
mente, ma non è vero che siano senza rapporto alcuno con la realtà, che siano
cioè del tutto convenzionali e relative, come vedremo sarà sostenuto dagli
epistemologi post-popperiani quali Khun, Lakatos e Feyerabend: le teorie
scientifiche, dichiara Popper, devono poter "cozzare" contro la realtà (confrontarsi
con la realtà). Solo in questo modo infatti le teorie possono essere dichiarate vere
o false, altrimenti tutto diventa relativo e inconsistente.
Certamente, ammette Popper, il realismo non è dimostrabile ( non si può
dimostrare che vi sia corrispondenza sicura fra teoria e realtà), però non è nemmeno
confutabile (non si può nemmeno dimostrare che è infondato). In ogni caso,
conclude Popper, a favore della realismo vi è una serie di argomenti che fanno di
esso l'ipotesi più credibile e ai quali non è stata contrapposta finora alcuna
alternativa valida.
Per corroborare (rafforzare) l'ipotesi realista, vale a dire che vi sia corrispondenza
fra teoria e realtà, Popper elabora la cosiddetta teoria dei tre mondi:
il mondo 1 è quello delle cose e dei fatti naturali; è il mondo fisico reale;
il mondo 2 è quello della coscienza individuale e delle esperienze soggettive,
ossia è il mondo dei pensieri, delle sensazioni e dei sentimenti individuali;
il mondo 3 è quello della conoscenza e delle teorie, non solo scientifiche ma
anche metafisiche, religiose, mitiche, ecc., le quali non dipendono dagli stati
d'animo soggettivi del mondo 2 ma hanno una loro oggettività poiché
trascendono (oltrepassano) gli individui: si tratta del carattere intersoggettivo e
storico delle idee e delle conoscenze che caratterizzano una società o un
gruppo sociale in ogni predeterminato periodo storico e che hanno quindi un
valore oggettivo.
L'ipotesi realista, ossia il realismo di Popper, si basa sul terzo mondo, poiché le
teorie del mondo 3, attraverso gli individui del mondo 2, possono agire sul mondo 1,
renderlo comprensibile, anche se non in modo completo e definitivo, ed anche
modificarlo, ossia utilizzarlo e sfruttarlo.
Il mondo 3, quello delle teorie, assomiglia al mondo delle idee di Platone perché sia
le teorie sia le idee platoniche sono indipendenti dal singolo individuo e dalla
30
31

coscienza soggettiva. Tuttavia, mentre le idee di Platone sono immutabili, le teorie


invece mutano col trascorrere delle epoche storiche e col progresso conoscitivo.

La riabilitazione della metafisica.

Abbiamo visto che per Popper la linea di demarcazione tra scienza e non
scienza non è costituita, come per i neopositivisti, dal principio di verificazione,
bensì dal criterio o principio di falsificabilità. Da questo punto di vista anche per
Popper la metafisica non è una scienza, in quanto le sue teorie non sono
falsificabili poiché derivano solo dal ragionamento e non possono essere controllate
sperimentalmente. Ma ciò non significa, precisa Popper, che le teorie metafisiche
siano insensate, come invece sostenevano i neopositivisti. Infatti noi
comprendiamo benissimo che cosa i metafisici vogliono dire, ossia quale è il senso
delle teorie metafisiche, anche se non siamo in grado di controllare attraverso
l'esperienza la loro validità. Molti grandi problemi filosofici, come quelli
cosmologici, etici, politici, ecc., sono problemi metafisici, ma non per questo si può
immaginare che si possano semplicemente scartare come privi di senso.
Oltretutto, prosegue Popper, non si può negare che, accanto alle idee metafisiche
che hanno ostacolato il cammino della scienza (come le idee di essenza, di
sostanza, ecc.) ve ne sono altre, come l'atomismo di Democrito, che hanno aiutato
il progresso scientifico e che addirittura si sono trasformate in teorie scientifiche.
Anzi, le grandi idee metafisiche del realismo (contro l'idealismo), dell'ordine e
quindi della conoscibilità e misurabilità dell'universo, nonché del principio di
causalità, hanno consentito quella visione razionale del mondo da cui è nata la stessa
scienza moderna. Le idee metafisiche possono contribuire tuttora a costruire le
ipotesi scientifiche che vengono formulate per risolvere i problemi che la scienza
incontra.
Certo, una teoria metafisica è più vaga e soprattutto incontrollabile di una teoria
scientifica, ma è pur sempre anch'essa criticabile razionalmente e discutibile al fine
di giudicare quanto efficacemente risolve i suoi problemi, se propone soluzioni più
nuove e migliori di una teoria rivale, ecc.

Mente e corpo. Nuvole e orologi. Determinismo e indeterminismo.

Nel libro "L'io e il suo cervello" Popper affronta il problema dei rapporti tra
mente e corpo, considerato il più difficile della filosofia. Tale problema, secondo
Popper, non può essere risolto né in modo esclusivamente spirituale o idealistico
né in modo esclusivamente materialistico perché, da un lato, non si può dubitare,
in quanto evidente, della coscienza e dell'autocoscienza (la mente) e, dall'altro lato,
non si può dubitare nemmeno della materia (corpo), in quanto altrettanto evidente.
Al riguardo Popper ha una concezione dualistica della realtà simile al dualismo di
Cartesio, che contrapponeva e faceva coesistere nella realtà sia lo spirito, il pensiero
31
32

(res cogitans), sia la materia (res extensa). A differenza di Cartesio, però, Popper non
concepisce lo spirito e la materia come sostanze, cioè ognuna come realtà in se
stessa, bensì come due modi di presentarsi della medesima realtà, due punti di vista
tra di essi interagenti, ossia in rapporto di azione reciproca. Infatti, pur non
conoscendo "come", tuttavia constatiamo che mente e corpo interagiscono fra
di loro: la mente influenza il corpo e viceversa. In conclusione, il problema del
rapporto fra anima e corpo non si spiega facilmente ma si può constatare in modo
evidente ed è giudicato da Popper non già in termini di rapporto tra due sostanze,
come in Cartesio, bensì in termini di rapporto interattivo tra due modi di essere della
realtà.
Popper interviene poi nella disputa tra deterministi (i quali sostengono che tutto
ciò che accade avviene necessariamente e che ogni fatto è predeterminato) e
indeterministi (i quali invece sostengono che tutto ciò che accade avviene per caso).
Popper parla di "nuvole" con riferimento alla concezione indeterministica,
secondo cui i sistemi (i fenomeni) fisici sono in prevalenza irregolari, disordinati,
imprevedibili e indeterminabili come il gas (nuvole), e parla di "orologi" con
riferimento alla concezione deterministica, secondo cui i sistemi (i fenomeni)
fisici sono in prevalenza regolari, ordinati, prevedibili e determinabili, come i
pendoli e il sistema solare. Con Newton è prevalsa la tesi deterministica, secondo
cui i fenomeni non sono come nuvole ma come orologi. Con il crollo della fisica
classica e col sorgere della teoria della relatività e della teoria dei quanti è
prevalsa invece la tesi indeterministica, secondo cui i fenomeni non sono come
orologi ma come nuvole.
Inoltre il determinismo, avverte Popper, sostenendo che tutti i fatti e gli eventi del
mondo fisico sono predeterminati, distrugge ogni idea di creatività e di libertà.
L'indeterminismo invece rappresenta una condizione preliminare necessaria, anche
se in sé non sufficiente, per ritenere che l'azione umana possieda una sua libertà. È
condizione necessaria ma non sufficiente perché l'indeterminismo, che attribuisce
al caso gli eventi che accadono, non garantisce ancora la credenza nella libertà
dell'agire umano. La condizione per poter pensare che il comportamento
umano sia libero e razionale è piuttosto qualcosa di intermedio tra
determinismo e indeterminismo, fra orologi e nuvole. Ciò che distingue la libertà
dell'agire umano dall'indeterminazione casuale (dal prodotto del caso) e dalla
predeterminazione necessitata (i fatti e gli eventi come conseguenza necessaria di
rapporti meccanici e predeterminati di causa-effetto) sta nel controllo dei
comportamenti tramite la razionalità critica, che è possibile in quei sistemi
organici complessi costituenti gli esseri umani. È libero chi non agisce a casaccio,
ma secondo progetti di soluzione dei problemi che incontra, controllando i
risultati e imparando dai propri errori.

32
33

La miseria dello storicismo.

Già nel saggio "Che cos'è la dialettica" Popper inizia ad interessarsi ai problemi di
filosofia sociale e, per primo, ai problemi della metodologia delle scienze sociali.
Dopo aver precisato che la contraddizione logica non deve essere confusa con la
contraddizione-opposizione dialettica, che è cosa ben diversa, Popper critica il
metodo dialettico applicato alle scienze sociali e allo studio della storia, dichiarando
che esso è un fraintendimento del metodo scientifico. Il metodo scientifico infatti
non è caratterizzato né dal compiersi necessario della sintesi fra tesi e antitesi né
dalla conservazione necessaria, nella sintesi, della tesi e dell'antitesi, come invece
pretendono i dialettici. La dialettica, conclude Popper, o è banale tautologia (non
dice niente di nuovo) oppure è teoria che permette di giustificare tutto ciò che accade
nella realtà, secondo il principio hegeliano dell'identità di reale e razionale, in quanto
non essendo falsificabile sfugge al controllo dell'esperienza.
Nell'opera "La miseria dello storicismo" Popper sviluppa ulteriormente
l'interesse per la filosofia sociale e politica. In tale opera Popper critica sia lo
storicismo sia l'olismo.
Lo storicismo è quella concezione e quel metodo, applicato alle scienze storiche e
sociali, che pretende di cogliere e individuare le leggi di fondo dello sviluppo della
storia umana in modo da prevederne gli accadimenti successivi. Invece, per Popper,
lo storicismo non si accorge che gli sviluppi della storia sono imprevedibili e
quindi è impossibile trovarne le leggi. Tutt'al più possono essere scorte talune
tendenze, che sono però cosa ben diversa da una legge. In realtà, dice Popper, la
storia umana non ha alcun senso eccetto quello che le diamo noi, ma ognuno lo dà
secondo i suoi punti di vista e la sua ideologia.
L'olismo (dall'inglese "all"= tutto) è quella concezione degli storicisti che pretende
di cogliere la totalità della realtà storica e sociale di una società o addirittura di tutta
l'umanità, sulla quale basare un corrispondente programma politico di
trasformazione o rivoluzione sociale. Ma è un grave errore, dice Popper, pensare di
poter cogliere la totalità non solo di tutto il mondo ma anche di un piccolo
insignificante pezzo di mondo, perché tutte le teorie possono cogliere soltanto aspetti
particolari della realtà e tutte sono, per principio, falsificabili (non sono definitive e
valide per sempre). In via di fatto poi l'olismo si trasforma quasi sempre
nell'utopismo (nell'elaborazione di utopie sociali) e nel totalitarismo (in un
programma di società autoritaria in cui lo Stato vuole controllare tutto, non solo la
vita pubblica ma anche quella privata e le idee dei cittadini). Ogni utopia diventa
prima o poi autoritaria e totalitaria: vuole cambiare completamente la società
perché crede di sapere quale sia la società perfetta e per far questo è disposta a
tutto, ad usare anche la forza e la costrizione, imprigionando o addirittura mandando
a morte chi la pensa diversamente. Ma niente ci assicura che la nuova società non
sia invece peggiore, perché non è possibile tenere sotto controllo "tutto" quando
si vuole cambiare "tutto" (totalitarismo). Per Popper invece il comportamento
politico razionale è quello del riformismo graduale, che permette di dosare gli

33
34

interventi, di provare la validità dei cambiamenti realizzati e di conservare quanto di


buono c'è e c'era nella società che si vuol riformare.

La società aperta e i suoi nemici.

Nell'opera "La società aperta e i suoi nemici" Popper passa dalla critica
metodologica (contro il metodo) a quella sostanziale (contro le concezioni) dello
storicismo, visto come filosofia reazionaria, conservatrice, perché difende la
"società chiusa" anziché favorire lo sviluppo della "società aperta".
La società chiusa è quella totalitaria, organizzata in modo autoritario e non
rispettosa dei diritti e delle libertà individuali.
La società aperta è invece la società democratica: una società è democratica quando
sono democratiche le sue istituzioni (Governo, Parlamento, Magistratura, ecc.). Essa
è basato sull'esercizio critico della ragione e favorisce la libertà dei singoli e dei vari
gruppi sociali allo scopo di risolvere i problemi mediante la graduale attuazione di
continue riforme.
Ciò che contraddistingue la democrazia non è tanto lo stabilire chi debba
comandare, se la maggioranza o una minoranza più o meno illuminata o una classe
sociale o una sola persona, quanto invece il modo in cui sono organizzate le
istituzioni politiche, che deve essere tale da consentire ai governati la possibilità
effettiva di criticare i governanti e di sostituire quelli incapaci e indegni senza
violenza e spargimento di sangue.
La maggioranza infatti, dice Popper, non è di per sé garanzia di democraticità
perché può anche decidere di governare dispoticamente, senza rispettare i
diritti della minoranza.
La società aperta, democratica, è una società tollerante, ma non è tenuta e non
deve essere tollerante fino all'eccesso, nel senso che è suo dovere difendere i
tolleranti ma combattere gli intolleranti per evitare che i primi siano distrutti.
Popper parla in proposito del "paradosso della tolleranza" quando è concepita
puramente fine a se stessa, senza se e senza ma. L'unico caso in cui è ammessa una
rivoluzione violenta è per abbattere un eventuale dittatura, rivoluzione che
comunque deve avere l'unico scopo di instaurare la democrazia. In tutti gli altri casi
la violenza genera sempre maggior violenza e le rivoluzioni violente uccidono i
rivoluzionari e corrompono i loro ideali.
In base alla sua concezione politica Popper distingue due soli tipi di governo: i
governi democratici e i governi non democratici. Egli è un sostenitore della
libertà individuale e collettiva contro lo strapotere dello Stato (contro lo
statalismo) e la prepotenza della burocrazia. Tuttavia riconosce che lo Stato è un
male necessario. Ciò che conta allora è la possibilità di risolvere razionalmente i
conflitti. Per Popper i più grandi ideali sociali e politici sono la giustizia e la
libertà, ma la libertà viene prima della giustizia, poiché in una società libera,
attraverso la critica ed il controllo dei governanti nonché attraverso riforme
34
35

tempestive, si potrà giungere anche alla giustizia, mentre in una società chiusa,
totalitaria e dittatoriale, dove la critica non è possibile, nemmeno la giustizia sarà
raggiunta perché ci sarà sempre la classe privilegiata dei capi e capetti politici, dei
burocrati e dei "servi del tiranno".
Alla base di questa difesa razionale e appassionata delle istituzioni democratiche c'è
la "fede nella ragione", nel razionalismo. Esso attribuisce valore al ragionamento e
al controllo dei fatti mediante l'esperienza, però il razionalismo è una decisione di
vita che non può essere a sua volta dimostrato, perché non è di carattere
puramente logico-intellettuale ma è soprattutto una scelta di carattere morale.
Tuttavia, argomenta Popper, il razionalismo corrisponde agli ideali umanitari meglio
dell'irrazionalismo che rifiuta e non riconosce l'uguaglianza dei diritti.
Quindi, dopo aver illustrato i pregi della società aperta, democratica, e del
razionalismo, Popper passa in rassegna quelli che egli chiama i principali nemici
della società aperta, cioè i sostenitori della società chiusa e dello storicismo.
Già in Eraclito, a causa della sua idea di un destino spietato e ferreo che domina la
vita e la storia umana, Popper vede emergere lo storicismo e la concezione di una
società chiusa, che non permette all'uomo di progettare programmi di razionale
organizzazione sociale e nemmeno sogni utopistici. Ma, secondo Popper, il
principale esponente dello storicismo e della società chiusa nel pensiero antico è
Platone. Il modello di Stato di Platone, scrive Popper, è quello di uno Stato rigido,
basato su di una ferrea divisione di classe (i governanti, i guerrieri, i contadini e gli
artigiani) che esclude ogni mutamento e affida il comando non agli eletti ma ai
filosofi che diventano dei re. La Repubblica di Platone è lo stato del razzismo e del
privilegio; preferisce la sicurezza alla libertà. Non era così con Socrate, umile
ricercatore della verità e quindi democratico. Nel pensiero moderno Popper
individua poi il ripresentarsi dell'ideologia storicista e dei nemici della società
aperta in Hegel e Marx.
È vero, riconosce Popper, che Hegel ha avuto il merito di farci capire che le idee e la
mentalità degli uomini sono in larga misura il prodotto dell'evoluzione storica e
sociale, ma la sua colpa è quella di avere identificato il reale col razionale,
giustificando quindi tutto ciò che accade nella storia, anche i fatti più ingiusti e
disumani, e finendo col considerare lo Stato prussiano come quello superiore a tutti.
È da questa concezione dello Stato, considerato non come istituzione umana, quindi
modificabile e migliorabile, ma come manifestazione dello Spirito, e quindi
immodificabile e non criticabile, che nascono i totalitarismi (fascismo, nazismo,
comunismo) che hanno tormentato il ventesimo secolo.
Marx, a sua volta, viene accusato di aver attribuito un'importanza assoluta ed
esagerata alla struttura economica della società rispetto alla sovrastruttura, cioè
rispetto alle idee, agli ideali e alla cultura, facendo in tal modo non della scienza ma
della metafisica dogmatica (non discutibile e non criticabile). I marxisti poi hanno
usato tutta una serie di stratagemmi artificiosi per giustificare le teorie e le previsioni
di Marx anche quando risultavano sbagliate e smentite dalla storia, pur di non
mettere in crisi e far crollare l'intero sistema e ideologia marxista. Ma in questo
modo hanno infranto la legge più importante della ricerca scientifica, cioè il
35
36

principio di falsificazione. Popper riconosce che Marx ci ha fatto capire molte cose e
molte ingiustizie della società del suo tempo nonché l'importanza, però non
determinante, della struttura economica nello sviluppo della storia sociale. Riconosce
anche gli ideali umanitari del marxismo e la sua critica agli eccessi del capitalismo.
Respinge però lo storicismo dialettico marxista (il materialismo storico e il
materialismo dialettico), che si è trasformato in determinismo economico (ciò che
conta ed è determinante è solo la struttura economica e non anche le idee e la
cultura) ed in utopia e, conseguentemente, in ideologia totalitaria (società chiusa).
Per tutto quanto sopra considerato, la filosofia di Popper è stata definita
"razionalismo critico": razionalismo per la fiducia nelle capacità della ragione
umana; critico perché esso deve sempre essere controllato in base all'esperienza e
perché, inoltre, non è possibile giustificare (spiegare) razionalmente la fiducia nella
ragione, la quale rimane un atto di fede per la mancanza di un concetto filosofico
univoco e generale di razionalità.
Riassumendo, i capisaldi del razionalismo critico di Popper possono essere
considerati quelli seguenti:
1. l'aver sostituito il principio della falsificazione a quello della verificazione;
2. l'aver elaborato il concetto della corroborazione delle teorie;
3. l'aver concepito la scienza come ricerca continua che però non giunge mai alla
fine, che non giunge mai a verità definitive ma sempre falsificabili;
4. l'aver lodato l'importanza dell'errore che, quando è compreso, ci consente di
correggere i nostri sbagli;
5. l'aver difeso la democrazia, il diritto individuale alla libertà e il riformismo
contro i totalitarismi.

36
37

L’EPISTEMOLOGIA POST-POPPERIANA O POST-POSITIVISTICA.

Per "epistemologia post-positivistica" o "epistemologia post-popperiana" si


intende quell'indirizzo epistemologico che ha assunto posizioni radicalmente critiche
sia nei confronti del neopositivismo sia della filosofia della scienza di Popper.
Tratti salienti di tale indirizzo sono:
1. l'antiempirismo e l'antifattualismo, ossia la convinzione che i "fatti" sono dati
(non sussistono in sé ma) solo all'interno di determinati quadri concettuali e
ipotesi teoriche (primato della teoria e della costruzione di ipotesi scientifiche
sui dati sensibili);
2. l'attenzione per la dimensione storico-concreta del sapere scientifico ("la
filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota", scrive Lakatos);
3. la messa in evidenza dei condizionamenti extra scientifici (sociali, pratici,
metafisici) cui è sottoposta la scienza, vista come attività "impura", che cioè
non vive esclusivamente nel mondo della "pura teoria" (concezione
pluralistica e talvolta relativistica del sapere);
4. l'esclusione di una base empirica neutrale in grado di fungere da criterio di
verificabilità o falsificabilità delle teorie;
5. la negazione di un presunto metodo unico e fisso del sapere e di ogni rigida
demarcazione della scienza rispetto alle altre attività umane extra scientifiche;
6. il rifiuto del mito della ragione e il ridimensionamento del valore conoscitivo
della scienza;
7. la propensione a considerare le teorie non in termini di verità bensì di
consenso;
8. la contestazione dell'epistemologia tradizionale e dei suoi classici interrogativi
(Che cos'è la scienza? Qual è il suo metodo? Quali sono i criteri per valutarne
il progresso?).
Tra i principali esponenti si possono citare Kuhn, Lakatos, Feyerabend, Quine,
Goodman.

Thomas Kuhn, statunitense (1922-1996).

Opera principale: La struttura delle rivoluzioni scientifiche.

Kuhn ha elaborato una concezione epistemologica originale, secondo cui le nuove


teorie non sorgono né dalle verificazioni né dalle falsificazioni ma dalla
sostituzione del modello esplicativo vigente o "paradigma" con uno nuovo.
Per Kuhn lo sviluppo storico della scienza si articola in "periodi di scienza
normale" e in "periodi di scienza rivoluzionaria", di rotture rivoluzionarie.
Per "paradigma" (visione scientifica del mondo) Kuhn intende un complesso
organizzato di teorie, di modelli di ricerca, di pratiche sperimentali ai quali una
particolare comunità scientifica per un certo periodo di tempo riconosce il valore di
fondamento della propria prassi. L'astronomia tolemaica e quella copernicana, la
37
38

dinamica di Aristotele e quella di Newton, l'ottica corpuscolare e quell'ondulatoria,


ecc. sono altrettanti esempi di paradigmi, di visioni della scienza.
Nel periodo di scienza normale gli scienziati sono rivolti a consolidare il modello o
paradigma vigente, risolvendo i problemi emergenti cercando comunque di
ricondurli entro il paradigma stesso. In tal senso, il fallimento di una soluzione è
visto per lo più non come fallimento del paradigma ma del ricercatore. Anziché
"falsificare" il paradigma, gli scienziati nel periodo di scienza normale cercano
piuttosto di riformularlo, di correggerlo e adeguarlo. La scienza normale è
cumulativa e lo scienziato normale non cerca la novità. Ma la novità prima poi
appare. Quanto più il paradigma viene sviluppato e aumenta il contenuto informativo
della teoria, tanto più essa è esposta al rischio della smentita.
Si producono periodi di scienza rivoluzionaria quando le anomalie all'interno del
paradigma superano una certa soglia, determinando una vera e propria crisi
rivoluzionaria all'interno del paradigma medesimo. Di fronte all'eccesso di anomalie
gli scienziati perdano la fiducia nella teoria che prima avevano abbracciato. La crisi
cessa con l'abbandono del vecchio paradigma e con l'accettazione di un nuovo
sistema, di un nuovo paradigma, col quale guardare al mondo in maniera
completamente diversa. Col nuovo paradigma gli scienziati adottano nuovi strumenti
e si indirizzano verso nuove direzioni. Durante le rivoluzioni scientifiche gli
scienziati vedono cose nuove e diverse anche guardando con gli strumenti
tradizionali; gli oggetti familiari sono visti sotto una luce differente e sono accostati
ad oggetti insoliti.
I vari paradigmi che si succedono nella storia della scienza rimandano a quadri
concettuali ( a concetti) e ad interpretazioni scientifiche del mondo completamente
diversi, fra i quali vige, secondo Kuhn, una sostanziale incommensurabilità
(impossibilità di confronto). Tale incommensurabilità impedisce il confronto critico
(nel senso di Popper) fra i vari paradigmi in competizione e quindi rende impossibile
ogni criterio di scelta, compresi possibili "esperimenti cruciali" capaci di metterli alla
prova (l'esperimento cruciale, dalle croci erette nei bivi per indicare la separazione
delle vie, è quell'esperimento che consente di scegliere l'ipotesi più vera o verosimile
tra le varie ipotesi possibili per la spiegazione di un fenomeno): ogni osservazione
empirica assume un significato diverso a seconda del contesto teorico in cui la si
interpreta, per cui non è disponibile un comune quadro comparativo.
Ma allora, posta l'incommensurabilità fra i vari paradigmi, in base a quali altri
motivi può avvenire l'accettazione di un nuovo paradigma? I singoli scienziati,
risponde Kuhn, abbracciano un nuovo paradigma per una serie svariata di ragioni.
Alcune di esse, come ad esempio il culto del sole che contribuì a convertire Keplero
alla copernicanesimo, si trovano completamente al di fuori della sfera della scienza.
Altre possono dipendere da idiosincrasie (inclinazioni particolari) personali. Persino
la nazionalità o la reputazione dell'innovatore e dei suoi maestri può talvolta svolgere
una funzione importante. In sostanza, il passaggio ad un nuovo paradigma è frutto,
più che di affinamento logico-scientifico razionale, di una "esperienza di
conversione", ossia di un trasferimento di maggior fiducia nel nuovo paradigma. È
una decisione basata più sulle promesse ed aspettative future che sulle conquiste e
38
39

acquisizioni realizzate; ciò che conta è la fede che il nuovo paradigma riuscirà in
futuro a risolvere maggiori problemi. Il passaggio ad un nuovo paradigma non è
tanto una conversione di gruppo, quanto un progressivo spostamento di fiducia degli
specialisti. Il progresso scientifico dunque non è graduale ma discontinuo. Come
è misurabile allora il progresso nel passaggio da un paradigma all'altro? E il
progresso verso che cosa è? Verso una maggiore verità? Kuhn risponde che nella
storia c'è progresso non perché ci si avvicina sempre di più a una qualche verità, ma
perché ci si allontana sempre di più da stadi primitivi e da pratiche meno adeguate di
ricerca. In altri termini, nella scienza non c'è progresso verso qualcosa ma a partire
da qualcosa.
L'epistemologia di Kuhn è stata accusata da più parti di irrazionalismo e di
misticismo. Ad esempio, Lakatos scrive che per Kuhn la rivoluzione scientifica è di
tipo irrazionale, è una questione di psicologia di massa. E Popper, a proposito
dell'incommensurabilità dei paradigmi, sostiene che Kuhn "esagera una difficoltà
facendola diventare un'impossibilità". Certo, puntualizza Popper, visioni del mondo
differenti possono essere incommensurabili, ma "teorie che offrono soluzioni agli
stessi problemi o a problemi analoghi sono di regola confrontabili. Per esempio,
l'astronomia di Tolomeo è ben lungi dall'essere incommensurabile con quella di
Aristarco e di Copernico".

Imre Lakatos, ungherese (1922-1974).

Da un lato si confronta con Kuhn e dall'altro con Popper. Vicino alle posizioni
razionalistiche di Popper, Lakatos contesta Kuhn per aver assimilato le rivoluzioni
scientifiche a delle "conversioni religiose" derivanti da un irrazionale (extra-
scientifico) cambiamento di fede. D'altro canto, corregge ed integra il principio di
falsificabilità di Popper . Lakatos distingue tra falsificazionismo dogmatico, che
considera infallibile il metodo falsificazionista senza tener conto che le proposizioni
empirico-osservative e le pratiche di falsificazione non sono in se stesse
assolutamente certe, per cui non si danno falsificazioni infallibili o incontrovertibili,
e falsificazionismo metodologico. Riconosce il carattere metodologico del
falsificazionismo di Popper, che considera tuttavia rimasto ad un livello ingenuo e
insoddisfacente, in quanto limitato ad esperimenti cruciali nonché al confronto fra
una teoria e le relative osservazioni empiriche. Per Lakatos invece lo sviluppo della
scienza non avviene attraverso successivi confronti tra una teoria e i fatti, poiché fra
teoria e fatti il confronto non è mai diretto ma indiretto. Non è a due ma avviene
sempre perlomeno fra tre termini di confronto: tra due teorie in competizione e i
fatti. Una teoria viene scartata non perché un'osservazione empirica la falsifica,
come dice Popper, ma solo quando alla comunità scientifica è presentata ed è
messa a disposizione una teoria migliore per maggior contenuto empirico ed
esplicativo. Per esempio, la meccanica di Newton venne respinta solo dopo essere
venuti in possesso della teoria di Einstein. Lakatos chiama questa sua integrazione

39
40

"falsificazionismo metodologico sofisticato" (e non ingenuo, quale attribuito


Popper).
All'idea popperiana di una storia della scienza che procede per congetture e
confutazioni rispetto a singole teorie rivali, oppure all'idea kuhniana di una storia
della scienza che procede per improvvise svolte e conversioni, Lakatos contrappone
la concezione secondo cui lo sviluppo della scienza procede invece attraverso il
confronto razionale tra programmi di ricerca rivali in competizione tra loro e
comunque sulla base di fattori scientifico-razionali e non anche extra scientifici
ed irrazionali, come sostenuto da Kuhn.
Per "programma di ricerca scientifico" Lakatos intende un complesso di teorie
scientifiche coerenti fra loro ed obbedienti ad alcune regole metodologiche fissata da
una determinata comunità scientifica. In particolare, un programma di ricerca è
costituito da un nucleo di ipotesi di base ritenuto inconfutabile per decisione
metodologica. Attorno a questo nucleo si trova una cintura protettiva, costituita da
ipotesi ausiliarie aventi la funzione di rappresentare uno "schermo" per la difesa del
nucleo. Questa cintura protettiva deve resistere all'attacco dei controlli, essere
adattata e riadattata o anche completamente sostituita, per difendere il nucleo così
consolidato. La cintura protettiva si articola a sua volta in una "euristica negativa",
che prescrive quali vie di ricerca evitare, e in una "euristica positiva", che prescrive
quali vie di ricerca seguire. Un programma di ricerca è valido finché si mantiene
progressivo, ovvero fin quando continua a prevedere fatti nuovi con un certo
successo. Viceversa è "regressivo" o "in stagnazione" se si limita a inventare
teorie solo al fine di giustificare casi noti e difendere il nucleo senza tuttavia riuscire
a predire fatti nuovi. Vale a dire che un programma di ricerca si mostra regressivo
quando le modificazioni della cintura protettiva di fronte all'emergere di un problema
non riescono più a predire nuovi elementi. La scienza, insomma, è un campo di
battaglia per programmi di ricerca piuttosto che per teorie isolate.

Paul Karl Feyerabend, austriaco (1924-1994).

Opera principale: Contro il metodo.

Feyerabend propone una "epistemologia anarchica" o "dadaista", basata sulla


convinzione secondo cui non esiste nessun metodo scientifico generale predefinito.
La storia, egli scrive, è sempre più ricca, varia e astuta di quanto si possa
immaginare. Gli uomini intelligenti non si lasciano limitare da norme, regole,
metodi, neppure da metodi razionali, ma sono opportunisti, utilizzano i mezzi
mentali e materiali che si rivelano più idonei al raggiungimento del proprio fine. In
tal senso vale il principio che "tutto può andar bene".
Questa tesi è stata attaccata da numerosi critici, definiti da Feyerabend
"benpensanti", i quali non si rendono conto, egli prosegue, che non esiste neppure
una regola, per quanto plausibile e logica possa sembrare, che non sia stata
spesso violata nello sviluppo delle singole scienze. Tali violazioni furono anzi
40
41

necessarie al progresso scientifico. Eventi come l'atomismo di Democrito


nell'antichità, la rivoluzione copernicana, la teoria atomica moderna, la teoria
quantistica, la teoria ondulatoria della luce, si verificano solo perché alcuni
ricercatori o si decisero a non seguire certe regole "ovvie" o perché le violarono
inconsciamente. Per Feyerabend difendere l'epistemologia anarchica ed il
conseguente pluralismo teorico e metodologico non mira tanto a distruggere regole e
criteri bensì a proclamare la libera inventività della scienza al di là di qualsiasi
metodologia prefissata. Quella di Feyerabend più che essere una lotta contro il
metodo è una lotta per la libertà del metodo, per un'epistemologia più umanitaria e
aperta.
Altro tema caratteristico di Feyerabend (spinto fino al limite) è quello della
cosiddetta "teoria dei quadri", secondo cui non esistono fatti nudi e crudi, al di
fuori delle teorie, ma soltanto nell'ambito di determinati quadri mentali e
concettuali. Da ciò l'impossibilità pratica di distinguere fra osservazione empirica e
teoria. Effetto della teoria dei quadri è che neppure le nozioni più semplici o
apparentemente neutrali possono venire considerate in modo oggettivo in quanto
assumono diverso significato secondo il contesto teorico entro cui sono formulate.
Per esempio, il termine "massa" assume accezioni diverse a seconda che si tratti
della fisica di Newton o di Einstein: per Newton la massa è una proprietà degli
oggetti fisici, per Einstein esprime invece una relazione tra oggetti fisici. Da ciò il
recupero, in termini ancor più radicali, della tesi di Kuhn circa
l'incommensurabilità delle teorie e il parallelo rifiuto della visione della scienza
come accumulazione progressiva di conoscenze o come approssimazione graduale
alla verità, per aderire invece ad una prospettiva che affida la preferenza fra teorie
in competizione a criteri di tipo pragmatico quali l'efficacia, il successo, la
capacità di persuasione, ecc.
La dottrina di Feyerabend intende essere deliberatamente provocatoria non
solo nei confronti del neopositivismo ma anche dello sforzo di Lakatos e
soprattutto di Popper di costruire un ordinato apparato di regole in grado di
guidare le procedure e le decisioni dello scienziato. Senonché Popper non è così
ingenuo come Feyerabend pensa e controbatte a sua volta.
Circa la teoria che i fatti non esistono nudi e crudi ma solo all'interno di determinati
quadri mentali, Popper, pur ammettendo anch'egli che i fatti sono "carichi di teoria",
ritiene comunque che le teorie siano semplici congetture obbligate a "cozzare" (a
confrontarsi) contro i fatti. Anzi, per sfuggire a conseguenze relativistiche Popper è
persuaso che "il mito del quadro mentale, nel nostro tempo, è il baluardo centrale
dell'irrazionalismo", facendo propria invece la teoria della verità come
"corrispondenza" tra pensiero e realtà. E ancora, Feyerabend afferma che vi sono
circostanze nelle quali è consigliabile introdurre e difendere ipotesi che
contraddicono risultati sperimentali acquisiti, e ciò contro la teoria popperiana
secondo cui una teoria dovrebbe ritenersi confutata solo se esistono dati sperimentali
che la contraddicono. Popper invece precisa che non bisogna confondere la
confutazione di una teoria con il suo rifiuto, dipendendo esso da quali teorie
alternative sono disponibili. Così, mentre Feyerabend sostiene l'incommensurabilità
41
42

delle teorie, Popper replica facendo rilevare che, mentre due differenti visioni
religiose o filosofiche del mondo possono effettivamente essere incommensurabili,
due teorie che tentano di risolvere un medesimo genere di problemi sono invece
sempre commensurabili come lo sono la teoria di Newton e di Einstein.
Il tratto e l'esito forse più caratteristico dell'epistemologia anarchica di
Feyerabend è che egli, oltre che alla distruzione del mito della ragione, della
razionalità (scrive Feyerabend: "La ragione si unisce alla sorte di tutti quegli altri
mostri astratti come l'obbligo, il dovere, la morale, la verità e i loro predecessori più
concreti, gli dei, che furono usati per incutere timore nell'uomo e limitarne il libero e
felice sviluppo), perviene altresì alla distruzione del mito della scienza.
Denunciando lo strapotere della scienza nel mondo d'oggi Feyerabend dichiara che
essa è solo uno dei molti strumenti inventati dall'uomo per far fronte al suo
ambiente e che, al di là della scienza, esistono i miti, esistono i dogmi della
teologia, esiste la metafisica e molti altri modi di costruire una concezione del
mondo. Uno scambio fecondo tra la scienza e tali concezioni "non scientifiche" del
mondo avrà bisogno dell'anarchismo ancor più di quanto ne ha bisogno la scienza.
L'anarchismo quindi è non soltanto possibile ma necessario tanto per il progresso
interno alla scienza quanto per lo sviluppo della nostra cultura nel suo complesso.
Il pluralismo antiautoritario e antidogmatico di Feyerabend si volge verso un
progetto di società non solo aperta, come in Popper, ma anche totalmente libera,
in cui vengono riconosciuti davvero uguali diritti e possibilità di accesso ai centri di
potere sia agli individui sia alle diverse tradizioni culturali. Sinora, anche nelle
società democratiche, il nero, l'indiano, l'uomo sessuale o la donna hanno potuto
partecipare alla vita sociale e alle decisioni collettive solo a patto di uniformarsi ai
modelli dominanti, accettando l'uomo di colore la tradizione dell'uomo bianco e la
donna di "maschilizzarsi". Il vero problema di una società libera, dichiara
Feyerabend, è quello di impedire che una o alcune tradizioni particolari seguitino ad
avere il sopravvento su tutte le altre.

Willard Van Orman Quine (1908-2000).

Statunitense, ha fornito fondamentali contributi teorici nel campo della logica e


della filosofia del linguaggio.
Così come Popper aveva attaccato due fondamentali principi del neopositivismo,
vale a dire l'induttivismo e il verificazionismo, Quine a sua volta ne demolisce altri
due: la tesi dell'analiticità e la tesi del riduzionismo.
Il principio dell'analiticità esprime un assunto logico e una credenza gnoseologica:
l'assunto è che esistano proposizioni autoevidenti e universalmente vere; la credenza
è che tale assunto e tali proposizioni possano essere impiegati nell'ambito della
conoscenza del mondo, giungendo ad un sapere assolutamente rigoroso attraverso
una progressiva traduzione delle proposizioni sintetiche, imperfette e impure, in
proposizioni analitiche certe e assolute. Quine, fatte salve le indubbie proprietà
delle proposizioni analitiche esclusivamente formali (A=A; A è diverso da B; se
42
43

A=B e B=C allora A=C), contesta tale assunto e tali credenze: non esiste un
linguaggio del tutto libero da riferimenti empirici e quindi in grado di consentire
enunciati e verità puri e assoluti. Ogni proposizione, anche quella apparentemente
più autoevidente e tautologica, è legata ad usi e regole condizionati dall'ambiente e
dai contesti storico-culturali. Gli analiticisti difendevano le loro posizioni citando
proposizioni del tipo "nessuno scapolo è sposato", che in apparenza sono del tutto
oggettive e autonome da qualsiasi controllo empirico. Quine confuta tale
interpretazione e afferma che la proposizione portata ad esempio non è assoluta,
ossia non è sciolta da legami e da condizionamenti. Essa non ha un significato
univoco, oggettivo e puro ma, distinguendo fra teoria del significato e teoria del
riferimento empirico, dipende invece da un'interpretazione extra-logica. Gli
analiticisti replicano che scapolo è sinonimo di non sposato e che la sinonimia
prova la verità analitica della proposizione. Ma, dice Quine, bisogna allora spiegare
che cosa sia la sinonimia. Ebbene, egli conclude, neppure il principio della
sinonimia può essere assunto in modo autonomo e assoluto. Infatti la sinonimia si
basa su una definizione: dico che "scapolo" è sinonimo di "non sposato" ma il
termine "non sposato" riguarda anche i bambini mentre ciò non vale per il termine
"scapolo". La sinonimia non è quindi assoluta; si tratta piuttosto di un circolo
vizioso che mette in crisi la presunta oggettività delle proposizioni analitiche non
formali, che hanno cioè un riferimento empirico. Dunque non sussistono
(contrariamente a Carnap) verità analitiche non formali che siano certe e oggettive.
In tutte le proposizioni riguardanti il mondo, ossia oggetti empirici, non vi sono
significati indipendenti e oggettivi (come nel caso delle idee platoniche), bensì "usi
correnti", convenzioni e comportamenti derivanti da abitudini e interessi di tipo
pragmatico, sociale e culturale: rifiuto del concetto di significato come entità a sé.
Circa il principio del riduzionismo (secondo cui tutte le proposizioni vere sono tali
in virtù della loro relazione all'esperienza, alla quale possono essere ridotte
scomponendole), Quine afferma che esso è fallito sul piano dei fatti ed è infondato
sul piano teorico-epistemologico. Precisa che ogni riduzione e riconduzione è nella
sostanza una traduzione dal linguaggio scientifico al linguaggio dei dati e delle
esperienze sensoriali (al linguaggio comune). Ma tale traduzione si rivela generica,
velleitaria e quindi impossibile. Lo stesso Carnap, massimo sostenitore del principio
del riduzionismo, "non ha offerto nessuna indicazione, dice Quine, di come una
proposizione formale, logico-matematica, possa venir tradotta nel linguaggio delle
esperienze empiriche". Inoltre, prosegue Quine, non si vede perché le esperienze
fisico-sensibili, o il linguaggio che le enuncia, dovrebbero avere quel ruolo
privilegiato ad esse attribuito dai neopositivisti. "Io credo, egli dice, negli oggetti
fisici e non nelle idee di Omero. Ma in quanto a fondamento ontologico essi
differiscono solo per grado e non per natura: il mito degli oggetti fisici è superiore
agli altri solo perché si è dimostrato più efficace degli altri miti". Respingendo sia la
soluzione platonica sia quella concettualistica e sia quella nominalistica (riproposte
peraltro anche nella contemporaneità con nomi diversi: il logicismo di Frege, Russel
e Carnap; l'intuizionismo di Poincaré; il formalismo di Hilbert), l'accettazione di
un'ontologia piuttosto che di un'altra, afferma Quine, è principalmente in funzione
43
44

dell'accettazione dello schema concettuale più semplice entro il quale ordinare le


nostre esperienze. Questa è una tesi battezzata da Quine di "relatività ontologica",
dipendente cioè dal contesto culturale e da un indirizzo pragmatico.
Contro il riduzionismo Quine procede quindi nel dire che è insostenibile l'assunto
della conferma empirica, ritenuto possibile per ogni proposizione isolatamente
ridotta al linguaggio sensoriale: gli esperimenti non confermano o non sconfessano
mai delle ipotesi isolate ma tutto un insieme teorico. La scienza non si presenta mai
in forma di singole proposizioni irrelate (senza relazioni tra di esse) ma come
sistema olistico (complessivo). È sbagliato privilegiare il fatto e la singola
osservazione rispetto al quadro teorico entro cui sono collocati: i fatti e le
osservazioni si leggono e si fondano sempre alla luce di determinate teorie. È quindi
improponibile la riduzione della teoria ad un insieme di singole proposizioni
isolatamente osservabili e verificabili empiricamente. La teoria non è scomponibile
al di fuori della base complessiva su cui si regge.
Oltretutto, i significati e le interpretazioni dei fatti e delle esperienze non si danno
mai al di fuori del contesto storico, culturale e concettuale di riferimento e del
linguaggio posseduto: non si danno cioè in modo oggettivo, esterno al sistema
concettuale e linguistico di chi parla. Deriva l'impossibilità di tradurre in modo
certo un enunciato appartenente a un dato sistema in un enunciato all'interno di un
altro sistema ogniqualvolta manchi un terzo termine di riferimento comune ad
entrambi i sistemi. Poiché ogni fatto è colto e detto attraverso un linguaggio (una
teoria), non è possibile una verifica oggettiva extralinguistica del significato di
termini appartenenti a sistemi linguistici differenti (incommensurabilità dei
linguaggi). Sono soltanto criteri di praticità, di eleganza, di economicità che ci
suggeriscono quali enunciati modificare o respingere.
Anche dinnanzi alla cosa apparentemente più semplice e univoca noi possiamo
produrre una serie assai estesa di enunciati (libertà delle teorie). Ciò accade perché
le enunciazioni, che pure si riferiscono a determinati oggetti e stati del mondo,
possono poi essere integrate ed organizzate in modo relativamente indipendente e
plurimo. In quanto relativamente indipendente rispetto ai fatti, il sapere appare
relativamente indipendente anche rispetto allo stesso metodo scientifico. In effetti,
per Quine il metodo scientifico è la via alla verità ma non offre alcuna definizione
unica di verità. Ciò non implica per Quine, a differenza di Feyerabend, un
abbandono del metodo ma invece una pluralizzazione della verità e della sua
ricerca. Pluralizzare la verità (ammettere l'esistenza di verità plurime) non significa
però rinunciare ad essa. Certo, non si può dare (ammettere) una verità oggettiva
assoluta, poiché la verità è solo il prodotto di un'elaborazione teorica in rapporto a
ben precise premesse, interessi e contesti. In questo senso Quine distingue tra il
proprio principio di relatività e quello, più pericoloso, del relativismo. "Ciò che ci
salva è la continua migliorabilità del metodo scientifico", secondo criteri di
convenienza e praticità.
Per effetto di tutte queste premesse, Quine assume una concezione antifondazionista
riguardo alla filosofia della scienza. Essa non ha nulla da dirci intorno alla realtà,
compito che spetta invece alle scienze, e neppure è da considerare base
44
45

metodologica delle scienze. Essa non ha cioè alcuna funzione prescrittiva o


fondazionistica. La derivazione dei concetti dall'esperienza mostra come noi li
possediamo, ma non c'è una filosofia che possa invece pretendere di offrirne la
giustificazione, quale era l'intento di Kant. Al contrario, sono le scienze che nel loro
autonomo progredire indicano il percorso alla filosofia. Essa deve solo spiegare
come dallo stimolo sensibile si passi all'enorme complessità della scienza.
L'epistemologia diventa così un ramo della psicologia ed è rivolta, secondo
un'impostazione comportamentistica, a studiare la genesi del linguaggio ed in
particolare del linguaggio scientifico. La filosofia si distingue di conseguenza dalle
discipline scientifiche soltanto per l'ampiezza dei suoi quesiti: la fisica e la biologia
considerano gli enti dal loro specifico punto di vista; la filosofia parla degli enti
nella loro massima generalità, ossia quali tipi di enti in genere esistano (problemi
ontologici) e quali domande possono venir legittimamente poste (problemi
predicativi). La vecchia metafisica sul senso della vita, sul fine dell'universo e via
dicendo è invece inconcludente e priva di significato. Non sono le teorie filosofiche
ma quelle scientifiche a dirci qualcosa intorno alla realtà. In quanto ricondotta ad
un settore della scienza naturale (a quello psicologico-linguistico) anche la filosofia
deve obbedire al principio dell'empirismo, che ci conduce a rigettare quegli
atteggiamenti conoscitivi che si mostrino scarsamente produttivi o che facciano
appello a principi empiricamente non verificabili.

Nelson Goodmann (1906-1998).

Statunitense, amico e collega di Quine, ne condivide i fondamentali principi, vale


a dire:
1. l'impostazione epistemologica empirista, depurata del principio di analiticità
e del riduzionismo;
2. l'esigenza di valorizzare in più modi l'aspetto teorico-costruttivo dell'attività
conoscitiva rispetto alla sua dimensione osservativo-fattuale;
3. l'obiettivo di "liberalizzare" e pluralizzare gli schemi concettuali con i quali
l'uomo conosce e "dice" il mondo;
4. il rifiuto, nell'ambito della filosofia del linguaggio e della logica, di ogni
concezione di tipo platonico-essenzialistico (non ci sono idee, essenze,
concetti e significati di tipo generale e astratto, ma solo le proprietà degli
oggetti fisici singoli: ci sono cose bianche, non c'è la bianchezza);
5. la matematica, considerata da molti, a cominciare da Russell, espressione e
prova di verità autonome e universali, viene invece interpretata come mero
"apparato" strumentale; le sue formule sono solo comodi mezzi per rendere
più facili i calcoli, ma non comportano questioni di verità.
Nell'opera "La struttura dell'apparenza", Goodman critica i principali punti di vista
del neopositivismo. In particolare:
1. respinge il mito del dato sensibile: non esistono dati dal significato unico,
oggettivo, in grado di costituire un fondamento empirico certo per la
45
46

conoscenza, indipendentemente dallo schema concettuale e dal linguaggio


usati;
2. critica la distinzione neopositivistica tra il piano dell'osservazione e quello
teorico: ogni atto è atto teorico in quanto si muove all'interno di un sistema di
concetti non di tipo empirico-fattuale bensì simbolico-concettuale;
3. critica l'ulteriore distinzione neopositivistica tra analitico e sintetico nonché
le concezioni sulla validità del metodo induttivo, sul principio riduzionistico,
sulle procedure protocollari.
Per Goodman il pensiero è una complessa e diversificata attività conferitrice di
senso. Anzi, esso è una costruzione simbolico-concettuale di forme e di significati. Il
pensiero (e la conoscenza del mondo) è una costruzione della mente. Il
"costruttivismo " di Goodman è di impostazione ancor più radicale rispetto a
Quine: non solo è privo di un fondamento prestabilito ma anche di un metodo
univoco e a priori. La realtà non è un dato, cioè non è colta come tale, ma una
costruzione simbolico-concettuale di forme e di significati operata dal nostro
pensiero, che agisce in modo estremamente libero e pluralistico. Esso costruisce i
propri concetti, le proprie "versioni del mondo" come le chiama Goodman, in
rapporto, da un lato, ai propri fini e interessi e, dall'altro lato, in rapporto ai propri
contesti e riferimenti concettuali-normativi. Ciò anche perché il suo obiettivo non è
tanto (o non necessariamente) la "costruzione" della verità quanto quella del senso.
La funzione di un sistema costruttivo di una versione del mondo non è quella di
ricreare l'esperienza ma di disegnarne una mappa. Quest'ultima rispetto alla realtà
è schematica, selettiva, convenzionale. Ma queste caratteristiche sono virtù piuttosto
che difetti. Una mappa uguale alla realtà sarebbe del tutto inutile, mentre proprio il
suo carattere riassuntivo non solo chiarisce e sistematizza, ma spesso rivela fatti che
difficilmente avrebbero potuto essere appresi mediante esplorazioni empiriche. La
mappa non deve essere un doppione della realtà ma deve presentare semplicemente
una certa corrispondenza strutturale con essa. Si può elaborare una molteplicità di
mappe (di versioni del mondo) a seconda del fine perseguito (pluralismo). "Ci sono
moltissime descrizioni diverse del mondo tutte ugualmente vere. Tutte implicano
delle convenzioni e nessuna delle differenti descrizioni è esclusivamente vera".
In base a tali presupposti Goodman riabilita fortemente il ruolo e la funzione
dell'arte. Essa non adempie solo una funzione puramente espressiva di sentimenti ed
emozioni, ma è capacità costitutivo-costruttiva di elaborare versioni e
interpretazioni di fenomeni dotate di una loro irriducibile significazione razionale.
Così come l'attività estetica consiste nel "trattare simboli", altrettanto vale per il
costruttivismo gnoseologico. Il termine "simbolo" è inteso in una accezione
generale che ricomprende: lettere, parole, testi, quadri, diagrammi, mappe, modelli,
ecc. Un sistema simbolico è uno strumento di cui ci serviamo per creare e
comprendere i mondi. I simboli sono metaforici, cioè non rinviano semplicemente a
realtà precostituite ma contribuiscono a farle sorgere, a costruirle. In secondo
luogo, i simboli sono contingenti: il loro valore simbolico può essere o non essere
presente e variare a seconda delle situazioni. Salta dunque la distinzione tra forma e
contenuto, a cui invece Quine era rimasto fedele.
46
47

Per Goodman il rifiuto da parte dei neopositivisti di tutto quanto è valutativo,


figurativo, non verbale, non descrittivo e denotativo, ha fatto perdere importanti
aspetti della realtà e non solo di quell'artistica. Ciò che è necessario è
l'individuazione rigorosa dei vari sistemi simbolici, senza esclusioni pregiudiziali,
nonché il loro confronto non più in base ad una nozione di corrispondenza di verità
tra fatti e pensiero, o linguaggio (non esistono fatti esterni al linguaggio
indipendenti e immutabili), bensì secondo criteri di adattamento e accordo reciproco
dei vari sistemi.
La teoria della verità come corrispondenza del linguaggio al mondo, alla realtà
(sostenuta da una parte del neopositivismo nonché dalla filosofia scientifica da
Russell a Popper), viene respinta da Goodman. L'obiettivo di tale teoria è per
Goodman irrealizzabile e fuorviante, non essendo il mondo qualcosa di definibile in
modo oggettivo, univoco ed extra linguistico. Ben altri sono i criteri di valutazione
delle "versioni del mondo", a cominciare da quello di appropriatezza o congruenza
(pragmatismo).
Questa impostazione pluralistica e convenzionalistica delle versioni del mondo non
spinge tuttavia Goodman a proclamare la loro assoluta incommensurabilità per la
mancanza di dati neutrali, oggettivi e universali di riferimento. Per Goodman questo
pluralismo non è privo di un generale criterio di valutazione, nel senso che vi è
comunque un certo isomorfismo (somiglianza di forme, punti d'accordo) fra le
diverse versioni della realtà che produciamo. Quello di Goodman è dunque un
relativismo parziale e non generalizzato. Tanto meno esso conduce agli esiti
anarchici di Feyerabend.
La tesi a prima vista antirealista di Goodman, secondo cui i dati non esistono e gli
oggetti sono piuttosto dei costrutti, cioè il risultato del nostro modo di organizzare i
dati medesimi, non significa che la realtà non esista: di per sé gli oggetti esistono,
anche se la loro immagine e interpretazione dipende dai nostri schemi concettuali.
Se Goodman respinge un realismo radicale, respinge altresì, peraltro, un radicale
idealismo, secondo cui la realtà sarebbe null'altro che una versione concettuale, un
prodotto della mente. Piuttosto, essendoci tanti modi di costruire la realtà, si danno
tante realtà quante sono le nostre versioni del mondo (pluralismo delle descrizioni
del mondo). Il riferimento anche al medesimo oggetto ha molteplici modalità: si può
denotare, descrivere, interpretare, metaforizzare, ecc. Non esiste una versione del
mondo oggettivamente più vera o più fondata rispetto alle altre, non essendo noi in
grado di cogliere oggettivamente la realtà. Il che non significa, dato l’isomorfismo
tra le diverse versioni del mondo, che sia a priori impossibile valutare quale sia la
versione più vera o comunque più conveniente, non già in assoluto bensì
relativamente a un determinato contesto, a un determinato fine, a un determinato
insieme di regole e di sistemi simbolici. Il criterio di valutazione delle versioni del
mondo non può né deve essere necessariamente solo quello vero/falso; oltre ad esso
ve ne sono altri, anche in sede cognitiva, spesso di importanza non minore, quali i
criteri di rilevanza, di efficacia, di semplicità (pragmatismo).

47
48

L’EPISTEMOLOGIA FRA REALISMO E ANTIREALISMO.

La disputa tra realismo e antirealismo è tra quelle più dibattute nell'epistemologia


contemporanea, intendendosi per realismo l'idea che vi sia corrispondenza tra
pensiero e realtà e per antirealismo l'idea che tale corrispondenza non sussista. È
una questione non semplice né unitaria poiché le posizioni assunte al riguardo sono
estremamente differenziate e soprattutto perché un filosofo può essere realista su
certe questioni e antirealista su altre.
Tuttavia circa il realismo si possono compiere due distinzione di fondo.
1. La prima distingue tra un "realismo ontologico", che si pone il problema di
che cosa esista realmente e riguarda quindi il mondo esterno, ed un "realismo
scientifico", che si pone invece il problema del valore conoscitivo delle teorie
scientifiche e del rapporto fra teoria e realtà.
2. La seconda distingue tra "realismo sulle teorie", secondo cui le teorie sono
vere e dunque parlano del mondo così com'è, cioè descrivendolo, e un
"realismo sulle entità", secondo cui le entità (gli oggetti) di cui parlano le
teorie esistono per davvero e non sono modelli o costrutti teorico-concettuali
della mente.
Simmetricamente, l'antirealismo epistemologico distingue tra:
1. un "antirealismo sulle entità", che nega l'esistenza delle entità di cui parla la
scienza;
2. un "antirealismo sulle teorie" che, più limitatamente, nega che la scienza
parli della realtà.
Si può osservare che mentre il realismo sulle entità è per forza di cose anche un
realismo sulle teorie, il realismo sulle teorie non comporta necessariamente il
realismo sulle entità.
Una delle più diffuse argomentazioni a favore del realismo è la cosiddetta
"inferenza (=il risalire a) alla miglior spiegazione" (adottata fra gli altri anche da
Popper), ovvero l'idea che il successo di una teoria, di una spiegazione, basata
sull'osservazione empirica non può essere dovuto al caso o un miracolo bensì
semplicemente al fatto che tale teoria o spiegazione è vera o comunque molto vicina
alla realtà delle cose.
Gli antirealisti, per contro, hanno obiettato che in molti casi storici la miglior
spiegazione disponibile in una certa epoca per un determinato problema si è poi
dimostrata falsa; inoltre obiettano che talora sono state presentate teorie tra esse
incompatibili e che tuttavia spiegano altrettanto bene la realtà.
Una delle posizioni realiste più interessanti è quella del filosofo statunitense
Hilary Putnam (nato nel 1926). Egli parte da una prospettiva da lui stesso definita
di "realismo metafisico", la quale confida, in maniera prossima al senso comune,
nell'esistenza reale e indipendente del mondo esterno. In particolare, difende il
cosiddetto "realismo empirico", fondato sulla citata inferenza alla miglior
spiegazione. Successivamente modifica la sua prospettiva in senso kantiano,
ribattezzata da Putnam come "realismo interno": "dell'esistenza (di una reltà e
delle cose esterne) non possiamo avere notizia se non all'interno delle nostre teorie".
48
49

Sul fronte dell'antirealismo e dello strumentalismo possiamo annoverare van


Fraassen, Cartwright, Hacking e Laudan.
Bas van Fraassen (olandese nato nel 1941) si definisce un antirealista scientifico,
sostenendo che le teorie scientifiche non possono essere valutate nei termini della
loro verità o falsità perché non sono descrizioni del mondo ma valgono piuttosto per
la loro ampiezza e accettabilità sul piano pragmatico. Le teorie scientifiche non
sono che modelli formalizzati con i quali fornire spiegazioni dei fenomeni osservati e
solo di essi: non riguardano le cose bensì riguardano il modo in cui noi
pragmaticamente organizziamo i fenomeni.
Circa la distinzione tra entità osservabili e non osservabili, introdotta dai
neopositivisti per salvaguardarsi dalla dissoluzione della scienza in pratica
esclusivamente linguistica, van Fraassen sostiene che è sempre possibile riconoscere
questi due tipi di entità. Già il senso comune coglie subito la differenza fra
l'osservabilità di una sedia e l'inosservabilità di un quark, ipotetica particella
elementare della materia. Se riconosciamo indubitabilmente le entità osservabili non
per questo dobbiamo negare le entità non osservabili. Giova piuttosto fermarsi ad
un prudente agnosticismo.
Il realismo sostiene che è legittimo inferire (desumere) la verità di una teoria dal
fatto che descrive nel miglior modo possibile l'osservazione (inferenza alla miglior
spiegazione). van Fraassen rileva invece che questa procedura estende
indebitamente al campo della fisica una pura e semplice abitudine dell'esperienza
quotidiana. Tuttavia ammette che una siffatta teoria può mostrarsi più adeguata da
un punto di vista empirico a rendere conto dei fenomeni osservabili (pragmatismo).
La scelta fra due o più teorie non può operarsi che in base a un criterio pragmatico:
quella meglio strutturata, più semplice o elegante, più funzionale a determinati
scopi.

Antirealista è anche l'americana Nancy Cartwright (nata nel 1959). A suo avviso
tutte le leggi teoriche poste dalla scienza sono idealizzazioni che non corrispondono
alla realtà poiché si riferiscono ad oggetti e a situazioni ideali che non ritroviamo
mai nella nostra esperienza, quali ad esempio un punto inesteso, un corpo
perfettamente sferico, ecc. Vere sono soltanto le leggi fenomenologiche, cioè quelle
che offrono spiegazioni di fatti particolari ma che sono prive dell'universalità delle
leggi fondamentali. Le teorie scientifiche spiegano la realtà ma da ciò non si può
inferire la loro verità; però hanno un'utilità irrinunciabile poiché consentono di
sistemare in forma rigorosa, matematica, la molteplicità eterogenea delle
esperienze.
A metà strada tra realismo e antirealismo si colloca il filosofo canadese Jean
Hacking: le teorie scientifiche sono una elaborazione teorica, ossia una
rappresentazione che deve offrire delle connessioni interne di coerenza e che solo in
un secondo momento viene confrontata con la realtà. I fenomeni fisici non sono
quasi mai a disposizione del ricercatore in modo immediato, ma vengono costituiti
all'interno dell'esperimento, per cui non siamo di fronte alla realtà in sé ma soltanto
alla rappresentazione che ce ne facciamo. Noi siamo autorizzati ad ammettere
49
50

l'esistenza solo delle entità che siamo in grado di manipolare. Tale realismo sulle
entità non implica tuttavia il realismo a proposito delle teorie, le quali più che vere
sono semmai efficaci. Della realtà noi riusciamo a conoscere solo quel tanto che ci
permettono i nostri esperimenti. Il realismo sulle entità sperimentabili vuol
significare che le proprietà di tali entità esistono prima e indipendentemente dalla
nostra coscienza e che non sono create dall'esperimento.

Più spinto è lo strumentalismo del filosofo statunitense Larry Laudan, per il quale
la scienza è uno strumento dimostratosi finora il più potente per risolvere problemi
empirici o concettuali. Questa posizione si distingue nettamente dal realismo di
Popper. Per Laudan infatti le teorie si possono misurare solo in termini di
adeguatezza relativamente ad altre teorie e non in termini di verità. Le teorie
vivono in un complesso unitario e non sono valutabili singolarmente, nel loro
isolamento.
Il progresso si muove all'interno delle tradizioni di ricerca (come ad esempio il
copernicanesimo, il darwinismo, la fisica quantistica). Esse sono concezioni globali
che forniscono due tipi di direttive:
1. metodologiche, che prescrivono gli strumenti concettuali con cui procedere
(ad esempio il metodo deduttivo per la tradizione aristotelica e newtoniana e
il comportamentismo per l'operazionismo);
2. ontologiche, che enunciano le entità ammesse all'interno della teoria (ad
esempio il cartesianesimo ammetteva solo la sostanza pensante e quella
estesa; il comportamentismo ammette solo gli atti fisici e fisiologici
empiricamente riscontrabili.
Tuttavia queste tradizioni non producono che risposte più o meno felici ai problemi
del loro tempo e non hanno nulla a che fare con la verità, obiettivo che, più che
irraggiungibile, è insensato.

50
51

LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO O FILOSOFIA ANALITICA.

La filosofia del linguaggio, detta anche filosofia analitica, è un indirizzo filosofico


che sorge all'inizio del Novecento nell'università inglese di Cambridge. Riprende, in
modo più moderno e attuale, la grande tradizione dell'empirismo inglese,
caratterizzata dal privilegiare il senso comune rispetto ai ragionamenti astratti,
dall'approccio empirico alla realtà, piuttosto che su base metafisica o di principi a
priori, nonché dall'interesse per gli aspetti logico-linguistici dei problemi filosofici e
scientifici (i problemi vanno tradotti e formulati in un linguaggio logico).
Rispetto ad indirizzi filosofici di tipo metafisico diffusi nel continente europeo (il
neoidealismo, lo spiritualismo, la filosofia della vita), che pongono l'accento
sull'aspetto soggettivo della coscienza nella visione e conoscenza della realtà, la
filosofia del linguaggio si ispira invece ad un atteggiamento di realismo, che
mette in rilievo il carattere oggettivo (anziché soggettivo) della conoscenza, ossia il
carattere oggettivo posseduto dai dati elementari dell'esperienza, cioè dalle
sensazioni in atto (nel momento in cui si percepiscono) prima della loro
rielaborazione intellettuale e concettuale.
È utile ricordare che la metafisica si basa sull'idea che i principi fondamentali della
realtà siano ultrasensibili, tali cioè da poter essere colti solo dalla ragione e non dai
sensi. Per l'empirismo invece ogni conoscenza parte dall'esperienza sensibile
esteriore (relativa agli oggetti) o interiore (relativa agli stati d'animo).
Per il prevalente carattere metafisico e soggettivo della filosofia europea continentale
e per quello invece prevalentemente empirico-realistico e logico-analitico (basato
sull'analisi logica del linguaggio, cioè di impostazione "analitica") della filosofia
anglosassone è stata elaborata la distinzione, divenuta nota, fra "analitici" (i
filosofi anglosassoni) e "continentali" (i filosofi del continente europeo).
L'impostazione empirico-realista della filosofia del linguaggio è però, come si è
detto, di carattere più moderno e attuale rispetto all'empirismo tradizionale ed
altresì al positivismo. Il positivismo credeva con assoluta fiducia nel valore
autonomo e oggettivo dei "fatti": basta soltanto raccoglierli, osservarli e classificarli
con metodo per giungere ad una conoscenza certa.
Ma la gnoseologia e l'epistemologia contemporanea si rendono conto che "i fatti"
cioè i dati e gli oggetti dell'esperienza, non sono colti direttamente in se stessi ma
solo indirettamente dalle nostre sensazioni e percezioni, che filtrano e selezionano i
fatti stessi. Fin dall'inizio i fatti sono perciò sottoposti ad una nostra interpretazione
soggettiva, venendo quindi a perdere quel carattere di oggettività assoluta quale
invece ritenuto dal positivismo e dall'empirismo ingenuo (superficiale), dato che vi
sono molti modi possibili di organizzare e interpretare i fatti medesimi,
differentemente da soggetto a soggetto. Con l'avvento delle geometrie non euclidee,
con la teoria della relatività e col principio di indeterminazione anche la stessa
conoscenza matematica e quella della fisica sono in crisi e non appaiono più certezze
assolute. Non solo aumenta la sensazione di distacco tra esperienza comune e
scienza ma si giunge altresì a dubitare che vi sia corrispondenza tra conoscenza
scientifica e realtà.
51
52

Nella nuova prospettiva la filosofia del linguaggio e il realismo contemporaneo


sono pertanto consapevoli che i fatti, ossia gli oggetti dell'esperienza, le sensazioni,
non sono completamente oggettivi, cioè indipendenti da qualsiasi interpretazione
(modo di vedere e di giudicare) e classificazione soggettiva. Ritengono però che
un'attenta analisi dei modi del conoscere e del linguaggio scientifico sia in grado
di mostrare l'esistenza di concetti e di principi logici che possiedono un loro
valore autonomo, oggettivo, indipendente dalle interpretazioni soggettive. In
particolare, si tenta di dimostrare la certezza della scienza attraverso, per
l'appunto, l'analisi del suo linguaggio, per evidenziare da un lato la validità delle
conoscenze acquisite mediante l'uso della matematica e della logica e per
rilevare, dall'altro lato, le contraddizioni e l'insensatezza della filosofia
tradizionale e della metafisica, a causa dell'ambiguità, dell'incoerenze e degli errori
logici presenti nel linguaggio da esse impiegato. L'analisi del linguaggio
rispettivamente usato sia nella scienza che nella filosofia è conseguentemente il
nuovo compito attribuito alla filosofia per chiarire la coerenza (=non contraddizione)
delle proposizioni formulate.
Caratteristiche generali della filosofia del linguaggio sono dunque:
1. l'analisi logica del linguaggio sia scientifico che filosofico e la chiarificazione
minuziosa degli enunciati (proposizioni) e dei concetti logici, scientifici ed
anche etici esaminati;
2. la tendenza ad impostare i problemi filosofici in modo il più possibile
oggettivo e comunque antimetafisico;
3. la propensione per indagini circoscritte ed il rifiuto di trattazioni sistematiche
globali;
4. l'uso di tecniche logiche rigorose nell'argomentazione ed esposizione dei temi
e delle questioni;
5. l'attenzione ai fatti e agli usi del linguaggio, sia scientifico e logico-formale sia
ordinario.
Principali esponenti della filosofia del linguaggio sono Bertrand Russell e
Ludwig Wittgenstein. Sono da citare anche Eduard Moore e Alfred Whitehead.
La filosofia del linguaggio in parte anticipa e in parte diviene importante
componente del neopositivismo sviluppatosi nel "Circolo di Vienna".
L'avvento della filosofia del linguaggio, con il suo accentuato interesse nei confronti
dell'analisi del linguaggio, è stato definito dai commentatori "svolta linguistica"
della filosofia, nel senso che viene privilegiata una concezione della filosofia il cui
compito essenziale è l'analisi e la chiarificazione del linguaggio. La convinzione di
fondo è che i problemi filosofici possono essere risolti attraverso l'ampliamento della
conoscenza del linguaggio usato e mediante la precisa chiarificazione degli usi e dei
tipi di linguaggio. Due sono i tipi di analisi linguistica perseguiti:
1. L'analisi del linguaggio scientifico, e in tal caso la filosofia è ridotta o
comunque assimilata alla logica, a cui è attribuito anche il compito di
determinare le condizioni generali che rendono possibile un linguaggio
qualsiasi. In questo filone si inserisce Bertrand Russell, lo stesso
neopositivismo già preso in esame ed il cosiddetto "primo Wittgenstein". Uno
52
53

dei principali obiettivi posti è quello, caraterizzante altresì il predetto


neopositivismo, dell'unificazione metodologica delle scienze (individuare un
unico e comune metodo di base) mediante la creazione di un comune
linguaggio logico-scientifico e di una comune metodologia scientifica. La
stessa matematica è ridotta e trasformata in logica, in formule logiche.
2. L'analisi del linguaggio comune od ordinario, e in tal caso il compito della
filosofia è l'interpretazione delle forme (dei modi) espressive proprie del
linguaggio comune nonché la ricerca del loro significato autentico, previa
eliminazione degli equivoci ai quali conduce l'uso improprio dei modi
espressivi del linguaggio ordinario stesso. In questo secondo filone si inserisce
Moore e il cosiddetto "secondo Wittgenstein".

53
54

BERTRAND RUSSEL (1872-1970).

Inglese e cultore di molti interessi: logica, matematica, filosofia, politica, morale


sociale. Al Trinity College è stato maestro di Wittgenstein, che in seguito si è
allontanato da lui per diversità di vedute. Politicamente di spirito libertario, radicale,
progressista e pacifista, si schiera contro ogni autoritarismo e dogmatismo politico e
religioso.
È stato per breve tempo hegeliano, influenzato dal filosofo neoidealista inglese
Bradley. Dopo aver letto le opere di Moore muta punto di vista e si avvicina al
realismo contemporaneo di Cambridge. Scrive in proposito Russell: "Bradley aveva
sostenuto che qualsiasi cosa in cui crede il senso comune è mera apparenza; noi
passammo all'estremo opposto e pensammo che reale è ogni cosa che il senso
comune, non influenzato dalla filosofia e dalla religione, suppone che sia reale".
Opera principale: I principi di matematica.

La logica.

Influenzato dai logici-matematici Peano e Frege, Russel ritiene che l'intera


filosofia, per essere rigorosa, debba adottare un linguaggio formalizzato, preciso
e non equivoco, simile a quello della matematica e della logica. Russell si propone
il programma di una completa riduzione e trasformazione delle formule
matematiche in formule logiche. Considera infatti la matematica una branca della
logica e la logica è intesa come scienza di oggetti (i principi e le regole logiche)
esistenti indipendentemente dalla mente umana nonché indipendenti l'uno
dall'altro, dotati cioè solo di relazioni esterne. Tali oggetti esistono a tutti i livelli
della realtà: ad esempio gli atomi di cui è costituita la materia; gli istanti di cui è
costituito il tempo; i punti di cui è costituito lo spazio, i numeri di cui si occupa la
matematica, i principi e le proposizioni di cui si occupa la logica. La concezione
della logica e della matematica di Russell è stata definita "realismo platonico"
proprio perché ritiene che gli enti logici e matematici esistano indipendentemente
dalla mente umana, cioè anche se non sono pensati, come appunto le idee di Platone.
Nell'opera "I principi di matematica" rilevante è la scoperta di Russell secondo cui
all'interno della stessa logica-matematica esistono paradossi, cioè contraddizioni
analoghe a quella del "mentitore" Epamenide, come già formulato dalla logica
antica, vale a dire la proposizione: "Epamenide, cretese, dice che tutti i cretesi
mentono". Questa è una proposizione vera o falsa? Presa di per sé è un'antinomia
(contraddizione) irrisolvibile, come il moderno paradosso delle classi formulato
dallo stesso Russell e cioè: "la classe (insieme) di tutte le classi che non contengono
se stesse come elemento contiene o non contiene se stessa come elemento?". Russell
giunge a risolvere questi paradossi o antinomie elaborando la cosiddetta "teoria dei
tipi", secondo cui bisogna stabilire una distinta tipologia gerarchica, cioè distinti
livelli tra le proposizioni secondo la regola seguente: un concetto non può mai
fungere da predicato in una proposizione in cui il soggetto sia di livello uguale o
54
55

maggiore del concetto stesso. Dunque, essendo quella del mentitore Epamenide (o la
classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elemento) proposizione di
livello superiore a quella asserita, allora essa è vera.
Due sono dunque le caratteristiche fondamentali della logica di Russell:
1. la riduzione della matematica alla logica, nel senso che per Russell la
matematica deriva dalla logica ed anzi consiste in quella parte della logica che
egli chiama la "logica delle relazioni": entrambe infatti hanno per oggetto la
teoria generale delle relazioni tra numeri o tra proposizioni;
2. l'impostazione realistica della logica, secondo cui i termini logici (i principi
e le regole della logica) e i numeri non sono una nostra creazione o intuizione,
ma esistono indipendentemente dalla nostra mente, sia che li pensiamo o no;
sono entità esistenti in se stesse, hanno cioè consistenza ontologica reale,
come le idee di Platone, con la differenza però che sono concepiti da Russell
non già come realtà soprasensibili ma come la struttura stessa (il modo
fondamentale di essere) del mondo. Anche la logica e la matematica, infatti, si
occupano del mondo reale, sia pure nei suoi aspetti più generali e astratti. La
matematica e la logica costituiscono in qualche modo la sostanza delle cose, in
quanto colgono e spiegano le relazioni tra le cose e si applicano agli oggetti
con cui siamo in contatto.
Russell non accetta pertanto la contemporanea logica formale, poiché slegata
dalla realtà, e neppure la logica antica, da Aristotele in poi, concepita solo come
"arte del pensare" riguardante soltanto il soggetto che pensa e non anche la realtà.
Respinge altresì la concezione secondo cui gli assiomi, ossia i postulati logici e
matematici, sono semplici convenzioni (anticonvenzionalismo).
Fondamentale per Russell, come abbiamo visto, è quella parte della logica chiamata
"la logica della relazione", sulla quale si fonda più direttamente la matematica e
che costituisce la principale differenza tra vecchia e nuova logica. Nella teoria
generale delle relazioni infatti, precisa Russell, oltre che la logica rientra in
particolare la matematica: contare significa stabilire una relazione tra la serie degli
oggetti contati e i numeri naturali, così come il ragionare logico significa stabilire
una relazione tra i termini logici e gli oggetti a cui sono applicati. La vecchia logica
considerava una sola forma di proposizione, cioè quella costituita dal soggetto e dal
predicato, fondata sul presupposto metafisico che nella realtà esistono solo le cose e i
loro predicati, cioè le loro qualità (ad esempio, Socrate è un uomo; l'arte è bella,
ecc.). Nella realtà, afferma Russell, esistono invece anche relazioni tra le cose e non
solo tra le cose in se stesse e i loro predicati. Le relazioni del tipo A è maggiore di B
oppure A è fratello di B sono il fondamento della nuova logica ed esse non si
possono ridurre alle qualità di una cosa, cioè al solo predicato. Vi sono relazioni
simmetriche (di corrispondenza), transitive o intransitive che possono anche
esprimere il possesso di qualità, ma le relazioni asimmetriche del tipo "prima, dopo,
più grande, più piccolo" non esprimono il possesso di alcuna qualità e quindi non
sono riducibili a qualità delle cose ma hanno invece una loro autonomia e sussistenza
ontologica reale, indipendentemente dall'esperienza.

55
56

La teoria delle descrizioni.

Allo scopo di realizzare anche nel linguaggio comune, ordinario, lo stesso rigore e
precisione della logica-matematica, Russell propone la cosiddetta "teoria delle
descrizioni". Essa afferma che solo i nomi propri di persona o di cosa (ad esempio
Francesco, il cavallo, la mela, ecc.) hanno una denotazione chiara, ossia si
riferiscono necessariamente ad un oggetto esistente e perciò possono fungere
(valere) da soggetti di proposizioni esistenziali (corrispondenti ad enti esistenti nella
realtà) vere o false. Ma le descrizioni usate nel linguaggio comune, fa presente
Russell, non si riferiscono sempre e necessariamente ad un oggetto esistente, come
nel caso delle espressioni "la montagna d'oro" o "il circolo quadrato", e perciò
finché tali espressioni restano formulate in questo modo impreciso esse non possono
valere come soggetto di proposizioni esistenziali vere o false. Per evitare tale
inconvenienti, prosegue Russell, simili descrizioni devono essere trasformate in
enunciati che indicano la relazione fra due predicati del tipo di quelli della logica
matematica. Per esempio, le espressioni "la montagna d'oro" o "il circolo quadrato"
non esistono, non sono proposizioni esistenziali, pertanto devono essere trasformate
nelle proposizioni corrette "nessuna entità è al tempo stesso una montagna ed è di
oro " o "nessuna cosa è al tempo stesso circolo e quadrato".

Proposizioni atomiche, proposizioni molecolari e proposizioni generali. I tipi di


verità.

La realtà per Russell è costituita da oggetti particolari che hanno proprietà e


relazioni semplici, le quali danno origine a fatti singoli, specifici e indivisibili, ossia
non ulteriormente divisibili o scomponibili in fatti ancor più particolari (ad esempio
"Napoleone era ambizioso" oppure "Napoleone diventò imperatore di Francia"),
chiamati perciò "fatti atomici" (atomico significa appunto indivisibile). Ogni fatto
atomico è espresso da una proposizione chiamata "proposizione atomica". È una
proposizione la quale esprime che una certa cosa possiede una certa qualità o una
certa relazione con un'altra (ad esempio "questa mela è rossa" oppure "Maria è mia
sorella"). La proposizione atomica è la forma più semplice ed elementare di
proposizione, formata da un singolo soggetto e da un singolo predicato e non è
ulteriormente scomponibile. La verità o falsità di una proposizione atomica è
verificabile solo in base all'esperienza, poiché essendo indivisibile non può essere
ricavata da altre proposizioni.
L'unione di più proposizioni atomiche per mezzo di congiunzioni del tipo "e", "o",
"se", dà luogo e forma le "proposizioni molecolari" (la molecola è infatti l'unione
di due o più atomi). La verità o falsità delle proposizioni molecolari dipende dalla
verità o falsità di quelle atomiche di cui sono costituite nonché dalla correttezza,
ossia dalla coerenza, delle congiunzioni con cui esse sono collegate. Queste
congiunzioni o connessioni non sono un fatto atomico di cui si possa fare esperienza
56
57

ma sono collegamenti logici fondati sulla correttezza o coerenza (ossia sulla non
contraddizione logica) anziché sulla verifica empirica del vero o falso. I collegamenti
logici sono quindi indipendenti dai fatti espressi dalle proposizioni atomiche ma
sono tuttavia ontologicamente fondati anch'essi sulla realtà.
Oltre alle proposizioni atomiche e molecolari, esistono proposizioni chiamate da
Russell "proposizioni generali", le quali si riferiscono invece alle classi, cioè agli
insiemi, come ad esempio: "tutti gli uomini (l'insieme degli uomini) sono mortali".
La verità delle proposizioni generali, diversamente da quella delle proposizioni
atomiche e in parte anche da quella delle proposizioni molecolari, è del tutto
indipendente dall'osservazione o esperienza sensibile, ma dipende invece
esclusivamente dalla correttezza-coerenza logica delle relazioni di implicazione o
di esclusione tra le classi o insiemi di cui sono costituite.
Esistono in tal modo due tipi di verità:
1. quella basata sui dati dei sensi, che riguarda le proposizioni atomiche e
molecolari, le quali sono sempre particolari e ci fanno conoscere il mondo
esterno; tali sono le proposizioni delle scienze empiriche;
2. quella basata sulla relazione tra le classi, che riguarda le proposizioni
generali (i principi della logica e i postulati della matematica-geometria), le
quali costituiscono l'oggetto della logica e della matematica, cioè di un mondo
ugualmente oggettivo, reale, nel senso di indipendente dalla nostra mente ma
tuttavia diverso dal mondo sensibile.
Allora compito della filosofia è, secondo Russell, di tradurre il linguaggio comune
in un linguaggio formalizzato, cioè rigoroso, non ambiguo, costituito o da
proposizioni particolari (atomiche o molecolari) o da proposizioni generali,
verificando la verità delle prime mediante il ricorso ai dati sensibili, all'osservazione
empirica, e verificando la verità delle seconde mediante l'analisi logica. In tal modo
si potrà eliminare una quantità di falsi problemi o di problemi insolubili, nati da un
uso scorretto del linguaggio, quali sono i problemi metafisici, e si potrà ricondurre
l'intero linguaggio comune al linguaggio scientifico, similmente a quello delle
scienze empiriche e matematiche.

La teoria della conoscenza.

La conoscenza, dice il Russell, comincia innanzitutto dall'esperienza, anzi


dall'esperienza individuale e concreta dell'uomo. Tuttavia Russell è anche
consapevole dei limiti dell'empirismo, cioè di un'idea di conoscenza
esclusivamente basata sull'osservazione e l'esperienza sensibile.
In effetti l'empirismo può essere definito come una concezione secondo cui tutta la
conoscenza scientifica è fondata sull'esperienza, ma tuttavia questo principio stesso
non è a sua volta fondato e non deriva dall'esperienza. Comunque, tra quelle
disponibili, l'empirismo è per Russell la teoria migliore. Contrario al pragmatismo,
Russell ha avversato anche quei neopositivisti (Neurath) i quali paiono aver
dimenticato che lo scopo delle parole è di occuparsi di cose diverse dalle parole
57
58

medesime. Accomuna in questo attacco anche il cosiddetto "secondo Wittgenstein"


per il vizio di certa filosofia analitica di occuparsi sterilmente del senso delle parole
anziché cercare il senso delle cose e della realtà descritta dalle parole.
Consapevole dunque dei limiti di una concezione esclusivamente empiristica della
conoscenza, Russell avverte che se la conoscenza parte dall'esperienza essa
consiste anche nel confronto, nella generalizzazione, nelle procedure di verifica
e di controllo dei dati dell'esperienza e soprattutto nella correttezza e coerenza
logica delle connessioni e collegamenti stabiliti tra i dati medesimi.
Russell distingue due tipi di conoscenza: 1) la conoscenza diretta o per
denotazione; 2) la conoscenza per descrizione o per connotazione.
La conoscenza diretta o per denotazione si ha quando si fa esperienza diretta degli
oggetti o quando questi ci vengono direttamente indicati (denotati), cosicché
possiamo vederli e toccarli. I contenuti di tale conoscenza sono anzitutto i dati
sensibili e poi i dati introspettivi, derivanti dalla riflessione sui nostri stati interni di
coscienza (i pensieri, i sentimenti, le emozioni) ma anche i dati della memoria e la
stessa coscienza del nostro io, cioè la consapevolezza di noi stessi come esseri
viventi e pensanti. Senza una conoscenza diretta della nostra identità (l'io-penso
kantiano) non potremmo neppure avere una conoscenza diretta dei dati sensibili.
Oggetto della conoscenza diretta sono anche, per Russell, gli "universali", cioè i
principi e le relazioni (le regole) fondamentali della logica (ad esempio il principio di
identità, di non contraddizione, del terzo escluso). In tal modo Russell fa rientrare
nell'impostazione empiristica della conoscenza anche una componente di tipo logico-
razionalistico: gli universali sussistono indipendentemente da ogni oggetto
particolare; sono modi e regole generali del pensare indipendenti dai contenuti del
pensiero e si applicano in ugual modo qualunque sia la cosa pensata. Oltre a fondare
le proposizioni della logica e della matematica, gli universali consentono le
procedure di deduzione o induzione e di controllo delle verità scientifiche che fanno
parte integrante della conoscenza. La natura di questi universali è particolare:
non sono né entità fisiche né psichiche. Sono cioè entità reali fuori dal tempo,
intemporali, non cambiano nel tempo (come le idee di Platone) e sono altresì
indipendenti dal loro essere pensati. Anzi, per Russell il mondo degli universali è
quello più autentico dell'essere (della realtà), distinto dall'esistere e quindi sottratto al
tempo. Poiché tali universali possono essere oggetto solo di intuizione diretta e non
di conoscenza mediante dimostrazione, essi sono assimilabili ai postulati della
geometria.
Relativamente alla conoscenza diretta, va rilevato che i dati sensibili che essa
coglie non coincidono espressamente con gli oggetti reali in quanto vengono
piuttosto a far parte dell'esperienza soggettiva. La questione è delicata poiché
coinvolge la stessa possibilità per l'uomo di accertare l'esistenza della realtà esterna e
degli altri esseri umani. Il rischio è quello del solipsismo (di rimanere chiusi in se
stessi, ossia di una conoscenza rinchiusa solo nell'individuo che percepisce: ognuno
vede e conosce a modo suo), perché in sede di conoscenza diretta "bisogna
ammettere che non potremo mai provare l'esistenza di cose indipendenti da noi e
dalle nostre percezioni".
58
59

Ma l'uomo dispone anche della conoscenza per descrizione o per connotazione,


che consente di conoscere un oggetto quando ci viene descritto anche se non se ne fa
esperienza diretta. Tale conoscenza ha il pregio di essere di carattere pubblico
poiché è comunicabile, intersoggettiva e quindi permette di superare il rischio
del solipsismo. Infatti la conoscenza per descrizione si avvale anch'essa, per via
analogica, di dati sensoriali (quando mi viene descritto un oggetto opero un'analogia
paragonandolo a sensazioni simili già da me percepite), però si avvale altresì di
procedure logiche, induttive e deduttive, mediante cui possiamo collegare insieme
determinati dati sensibili e accertare che, in rapporto a specifiche descrizioni, rimane
determinato un preciso oggetto reale ed uno solo. Ad esempio, osservando un tavolo,
o qualora mi venga descritto, io non arrivo certo a cogliere la cosa in sé, ma solo ciò
che mi appare di esso (il fenomeno). Giungo però a stabilire che i miei dati sensoriali
si producono in modi regolari e costanti. Tale inferenza (=deduzione/induzione) mi
porta perciò concludere che qualcosa come un tavolo esiste fuori di me.
Analogamente, posso cogliere anche l'esistenza degli altri esseri umani.

Etica, politica e religione.

Attribuendo valore di verità unicamente alla scienza, Russell non riconosce verità
alcuna all'etica, alla politica e alla religione, poiché non trattano di fatti o relazioni
logiche bensì del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, di Dio e del destino
dell'uomo. Questi sono valori che non possono essere oggetto di conoscenza in
quanto empiricamente non verificabili; di conseguenza non esistono valori assoluti e
universali.
L'etica perciò, afferma Russell, non si fonda sulla conoscenza del bene ma solo sul
desiderio, per cui è bene ciò che soddisfa il desiderio ed è male ciò che vi è di
contrario. I desideri tuttavia, benché in gran parte dipendano da inclinazioni naturali,
possono essere parzialmente modificati mediante l'educazione e la cultura sociale
accettata. Bisogna pertanto educare ciascuno a rispettare anche i desideri degli altri
in modo da ottenere la maggior felicità possibile per il maggior numero di persone.
Si tratta di una concezione etica di tipo utilitaristico. I desideri e le passioni umane
non vanno condannati in nome di principi morali dogmatici e repressivi, ma vanno
semmai moderati i desideri che possono creare conflitti con gli altri e/o conseguenti
infelicità, mentre vanno incoraggiati quelli che favoriscono la pacifica convivenza
sociale.
La concezione politica di Russell è di tipo liberal-democratico radicale, volta ad
assicurare a tutti la maggior libertà possibile, con l'unico limite di non impedire la
libertà altrui. Sostiene la libertà dell'individuo contro ogni dittatura e sopruso del
potere. Convinto pacifista, è stato avversario delle ingiustizie sociali, assai critico
contro le ingiustizie del capitalismo ed altrettanto duro contro i metodi dittatoriali del
comunismo sovietico.
Famose sono state le sue contestazioni alla guerra del Vietnam.

59
60

Rifiuta tutte le religioni perché si basano sulla fede e non sulla conoscenza e perché
sono considerate disumane dal punto di vista etico, in quanto reprimono i desideri
umani al di là di quanto richiesto dal rispetto dei desideri e della libertà degli altri.
Per le sue idee radicali, anche nel campo dei costumi sociali, ha pagato di persona:
gli è stata tolta la cattedra di filosofia al City College di New York ed è stato
imprigionato più volte.

GEORGE EDWARD MOORE (1873-1958).

Inglese, docente alle università di Edimburgo e di Cambridge, ha avuto come scolaro


Wittgenstein.

La teoria della conoscenza.

Mentre Russell attribuisce alla filosofia il compito di tradurre il linguaggio comune


nel linguaggio scientifico formalizzato, Moore, suo compagno di studi, concepisce
invece la filosofia come analisi del linguaggio comune, inaugurando con ciò un
nuovo indirizzo nell'ambito della filosofia analitica.
Nell'articolo "La natura del giudizio" Moore confuta l'idealismo, cui aveva
inizialmente aderito, osservando che i predicati (le qualità delle cose) comunemente
usati nei giudizi (nelle proposizioni) conservano sempre lo stesso significato anche
quando vengono usati in giudizi diversi. Ciò dimostra, a suo avviso, che i concetti
espressi dai predicati non dipendono dal nostro pensiero, come sostenuto
dall'idealismo, ma sono oggetti indipendenti. Moore analizza successivamente la
famosa affermazione di Berkeley "esse est percipi" (esistere significa essere
percepito), anch'essa a suo parere di impostazione idealistica, e dichiara che in realtà
la percezione degli oggetti va tenuta distinta dagli oggetti percepiti perché essa
ricomprende sempre anche caratteri e stati di coscienza che non appartengono agli
oggetti medesimi. Ad esempio, quando noi percepiamo il colore azzurro, siamo
consapevoli che la nostra percezione, in quanto tale, è diversa dall'azzurro. In tal
modo Moore non solo confuta l'idealismo, sviluppando una teoria della conoscenza
di tipo realistico, ma offre anche un esempio di come possa essere usata l'analisi del
linguaggio.
Negli scritti successivi Moore precisa ulteriormente la sua teoria della conoscenza,
affermando che esiste una realtà esterna, indipendente dal nostro pensiero, la
quale è esattamente come ce la presenta il "senso comune" e che perciò non è
riducibile né alle nostre percezioni né ai nostri concetti. Tale realtà è costituita dal
nostro corpo, dal corpo degli altri esseri viventi nonché dagli oggetti che questi
percepiscono, oggetti che sono distinti dalla corrispondente percezione.
Dell'esistenza di tale realtà tuttavia non c'è alcuna altra prova se non quella

60
61

dello stesso senso comune, per il quale l'esistenza di una realtà esterna è evidente, è
cioè una verità intuitiva.
Il senso comune è ciò che è espresso dal linguaggio ordinario. Perciò la filosofia
deve essere soprattutto analisi del linguaggio ordinario, ossia deve saper
distinguere che cosa effettivamente esso esprime nonché quali elementi insensati
siano stati in esso introdotti a causa di teorie filosofiche particolari e astratte,
eliminando quindi accuratamente tali teorie come origine di falsi problemi, di
equivoci e di fraintendimenti.

L'etica.

Per Moore l'analisi del linguaggio va applicata anche ai problemi morali. Egli
elabora così un'etica originale, diretta unicamente a chiarire che cosa noi intendiamo
dire quando affermiamo che una cosa è buona, che cioè è un bene. Il concetto di
bene per Moore è un concetto semplice, non composto da altri concetti, e perciò
non può essere definito, può essere solo intuito in virtù di un sentire immediato.
Rifiuta perciò tutte le dottrine che pretendono di definire il bene mediante
concezioni scientifiche o filosofico-metafisiche. Esse commettono tutte un unico
tipo di errore, definito "fallacia naturalistica", consistente nello scambiare il bene
per un oggetto appartenente alla natura, descrivibile dalla scienza o dalla filosofia.
Ma il bene non è un oggetto fisico, come può esserlo il piacere o l'utile secondo
l'utilitarismo, poiché non esiste nel tempo come invece tutti gli oggetti fisici. Esso
non è nemmeno un oggetto metafisico, inteso quale idea o valore trascendente come
nell'idealismo, poiché non è eterno come gli oggetti metafisici bensì è una nozione
umana che varia nel tempo.
L'etica insomma non può essere fondata né sulla conoscenza scientifica né
filosofica ma deriva da una semplice intuizione, cioè da una scelta. Ciò non
impedisce tuttavia a Moore di affermare che l'ideale da porre a guida delle nostre
azioni consiste negli affetti per le persone e nei piaceri di tipo estetico, ossia in
sentimenti entrambi disinteressati.
La concezione etica di Moore è stata definita "intuizionismo etico" ed ha esercitato
un vasta influenza su tutta la filosofia analitica anglo-americana. In particolare, è
stato commentato, la fallacia naturalistica denunciata da Moore costituisce una
violazione e un superamento della legge di Hume, secondo la quale è fatto divieto di
dedurre da proposizioni descrittive contenente il verbo "essere" proposizioni
prescrittive contenente il verbo "dovere". In effetti, contro Hume, Moore attribuisce
all'etica ideali regolativi.

61
62

Alfred North Whitehead (1871-1947).

Inglese, si occupa inizialmente di matematica e di logica. In seguito si interessa di


questioni cosmologiche.
Se il realismo contemporaneo inglese, sviluppatosi nell'università di Cambridge, ha
prevalente carattere analitico, volto a scomporre e separare, in base al modello
scientifico, i vari problemi filosofici per studiarli isolatamente, non sono mancati per
contro, come nel caso di Whitehead, tentativi arditi di spiegazione cosmologica della
realtà in continuità con la grande tradizione metafisica della filosofia occidentale.
Quello di Whitehead è stato in effetti il tentativo di costruire, sulla base dei risultati
più recenti della fisica, una cosmologia sistematica mediante cui ricercare una
spiegazione unitaria dei processi del mondo organico come pure della coscienza e
delle forme della vita delle forme umana.
Nel proprio sforzo di generalizzazione metafisica anche la filosofia deve però,
sostiene Whitehead, partire sempre dall'esperienza e ritornare all'esperienza. Non
potrà partire da fatti particolari osservati, come per lo scienziato, ma partirà da essi
per cogliere le nozioni generali che si applichino a tutti i fatti e che quindi, dopo
essere state generalizzate, possano essere messe alla prova nella misura in cui si
dimostrino capaci di illuminare campi nuovi e remoti del reale. Fare metafisica
quindi non significa per Whitehead trascendere l'esperienza ma attingere ad essa
ricavandone schemi metafisici.
Lo schema elaborato da Whitehead è quello di un universo pluralistico, costituito da
una molteplicità di entità chiamate "entità attuali", intese come le realtà di fondo di
cui il mondo è fatto. Non soltanto la vita umana bensì l'intera storia dell'universo è
concepita come processualità nello spazio e nel tempo, ossia continua creatività,
autoformazione, "concrescenza" (=crescere insieme alla crescita e allo sviluppo di
tutte le entità ed eventi del mondo). Ogni entità emerge nel mondo e si pone di fronte
alla molteplicità del mondo come punto di vista e come sintesi unificatrice (unifica
in una sintesi le diverse molteplicità con cui si trova in relazione). Tutte le entità
sono in relazione e le entità attuali presenti non modificano quelle passate ma sono
in qualche modo da esse modificate (il passato condiziona il presente). Concepire
l'universo come processualità (continuo sviluppo e mutamento) significa che noi non
sperimentiamo sostanze e qualità, fatte oggetto (come in Russel) della filosofia
meccanicistica e che in quanto tali sono statiche e chiuse in se stesse. Sperimentiamo
invece il verificarsi senza sosta di eventi in relazione uno con l'altro. Ogni evento è
in un rapporto di "prensione" o di intenzionalità con ogni altro, passato e presente,
e con tutto l'universo. La "prensione" è il sentirsi di ogni evento collegato e
condizionato da ogni altro. Non l'idea di sostanza, dunque, ma quella di evento è lo
strumento efficace per capire il mondo. L'idea di sostanza, ossia di materia inerte,
come quelle di spazio e di tempo assoluti erano i concetti della fisica newtoniana.
Ma la fisica contemporanea ci costringe ad abbandonare tali categorie per parlare
di eventi connessi dalle loro relazioni spazio-temporali. L'universo così inteso non è
più una macchina, una entità statica ma un processo, un organismo che "concresce"
e dove il soggetto non è, come pretendono gli idealisti, il punto di partenza del
62
63

processo ma un punto di arrivo, nel senso che l'autocoscienza è quell'evento,


piuttosto raro rispetto alle diverse potenzialità di sviluppo, che ha avuto luogo a
partire da un altro insieme di eventi che è il corpo umano. La coscienza non è che un
caso particolare di quelle relazioni che ogni evento ha con il resto dell'universo da
cui emerge e verso cui si muove.
Le entità, ossia gli eventi, divengano, si sviluppano, acquistando una forma di
esistenza rispetto alle altre varie forme potenziali che avrebbero potuto realizzarsi.
Perciò Whitehead chiama queste ultime forme "oggetti eterni" (simili alle idee di
Platone) poiché, in quanto potenzialità alternative, esse possono essere descritte
senza riferimento necessario alla dimensione temporale. L'entità reale in cui è
inclusa la potenzialità totale delle forme nella loro illimitatezza è Dio. Dio è entità
che è necessario ammettere per spiegare l'ordine, sia pur relativo, dell'universo.
In Dio Whitehad distingue una natura primordiale, originaria, e una natura
conseguente. Come natura originaria Dio include tutte le potenzialità di sviluppo di
ogni evento; stimola, senza però necessitare, ogni entità ad attuarsi nel proprio
evento secondo una processualità di crescente armonia. Come natura conseguente
Dio cresce o, meglio, concresce con l'universo (poiché ogni evento che viene al
mondo è realizzazione di Dio) in una armonia cosciente e infinitamente grande che
abbraccia tutte le entità ed eventi senza annullarne nessuno. Vi sono così due realtà:
una eterna (Dio come natura originaria) e una diveniente (Dio come natura
conseguente). La metafisica di Whitehead assume da ultimo un tono
fondamentalmente religioso e si pone come sentimento della presenza di un altro
ordine, al di là di quello mondano, in cui non c'è inquietudine ma pace.

63
64

LUDWIG WITTGENSTEIN (1889-1951).

Nasce a Vienna; studia di ingegneria e poi matematica e logica a Cambridge come


allievo di Russell. Partecipa alla prima guerra mondiale e viene fatto prigioniero a
Cassino. Dopo la pubblicazione del "Tractatus", pensando di non aver più nulla da
dire in filosofia va ad insegnare come maestro elementare. Ritorna poi a Cambridge
per ricoprire una cattedra di filosofia.
Opere principali: Tractatus logico-philosophicus; Ricerche filosofiche.
Come esponente, tra i maggiori, della filosofia del linguaggio, Wittgenstein indica
quale compito principale della filosofia l'analisi e la critica del linguaggio, per
rilevarne ed eliminarne le ambiguità e le antinomie (contraddizioni).
Ritenendo che vi sia corrispondenza tra struttura della realtà e struttura del
linguaggio, la sua iniziale concezione filosofica è vicina a quella del realismo
contemporaneo inglese. In seguito si allontana da questa concezione a causa di
prevalenti interessi sorti per la logica formale, avvicinandosi maggiormente,
quindi, al neopositivismo. Nella seconda fase della sua filosofia, quella chiamata
del "secondo Wittgenstein", ritorna ad una impostazione più realistica e
pragmatica.

Il "Tractatus logico-philosophicus".

Similmente allo stile dell’"Etica" di Spinoza, il Trattato non si presenta come


un'opera discorsiva, ma come un insieme di enunciati (affermazioni,
proposizioni), progressivamente numerati da quelli più generali a quelli più
particolari e formulati secondo un linguaggio spesso complesso, di difficile
interpretazione. È comprensibile pertanto che il Trattato sia stato variamente
interpretato, talora in senso kantiano, talora in senso antirazionalistico, mistico ed
etico, ma soprattutto in senso logico-epistemologico.
Punto di partenza del Trattato è la definizione del mondo. Il mondo, dice
Wittgenstein, è tutto ciò che accade. Ossia è l'insieme dei fatti che accadono, è la
totalità dei fatti. Il mondo è un dato di fatto, una constatazione. Ciò significa allora,
come vedremo, che non ha senso ricercare l'essenza, il fine del mondo, come
pretende di fare la metafisica.
Il fatto, precisa Wittgenstein, non è una cosa, un oggetto, invece ogni fatto è una
pluralità di cose, una combinazione di oggetti cioè, come da Wittgenstein
chiamato, è uno "stato di cose". I fatti sono distinti dagli oggetti perché questi ultimi
dipendono sempre dalle loro qualità e proprietà, mentre i fatti sono in se stessi
autonomi e indipendenti, nel senso che ogni fatto possiede in sé un significato
compiuto. Gli oggetti sono elementi semplici, non ulteriormente scomponibili,
mentre i fatti sono invece, ciascuno, un aggregato di oggetti. Soltanto dei fatti, in
quanto combinazione di oggetti aventi un determinato significato compiuto, si può

64
65

dire se sono veri o falsi, mentre non si può dirlo dei singoli oggetti: sono solo ciò
che si vede e si tocca.
A questo punto Wittgenstein si pone il problema del rapporto tra i fatti (cioè il
mondo) il pensiero e il linguaggio, che è espressione del pensiero. Come avviene il
passaggio dai fatti alla loro descrizione e conoscenza? Al riguardo Wittgenstein ha
una concezione antimentalistica ed antisoggettivistica. Nega cioè che il pensiero
abbia una realtà propria e autonoma, distinta dal linguaggio. Non esiste il pensiero, o
il soggetto pensante, come elemento di mediazione e collegamento tra i fatti e il
linguaggio, ma il linguaggio coincide col pensiero poiché non esiste alcun pensiero
se non è contemporaneamente espresso dal linguaggio: si può parlare solo pensando,
a voce alta, per iscritto o in silenzio. Il pensiero è l'immagine logica dei fatti nel senso
che attribuisce significato ai fatti stessi, è cioè linguaggio.
Allora, se pensiero e linguaggio coincidono, il problema del rapporto fra il
mondo (cioè l'insieme dei fatti), il pensiero e il linguaggio diventa il problema del
rapporto fra il mondo e il linguaggio o del rapporto tra i fatti e il linguaggio.
Wittgenstein risolve questo problema con la sua "teoria raffigurativa del
linguaggio", di tipo empirico-realista, diversa sia dall'idealismo e dal neoidealismo,
sia dalla teoria delle forme o funzioni mentali a priori di Kant, che Wittgenstein
ritiene poco verificabile. Il rapporto tra fatti e linguaggio veniva sentito come un
problema poiché si trattava di spiegare come mai dei fatti ben precisi quali i segni,
ossia le parole del linguaggio stesso, potessero esprimere altri fatti del tutto diversi
quali i fenomeni della realtà.
Abbiamo visto che per Wittgenstein il pensiero è l'immagine logica dei fatti (ossia del
mondo, della realtà) e che il pensiero è a sua volta linguaggio; quindi, per la proprietà
transitiva, il linguaggio è l'immagine della realtà: le proposizioni del linguaggio
sono cioè immagini, modelli, raffigurazioni della realtà. Per comprendere meglio
questa affermazione si può considerare che cos'è la proiezione. Noi sappiamo che un
oggetto reale tridimensionale (ad esempio una casa) può essere riprodotto,
raffigurato, mediante una proiezione prospettica bidimensionale (la pianta della casa).
Non vi è coincidenza ma la proiezione è un modello, una raffigurazione i cui elementi
stanno tra loro in relazione in modo corrispondente agli elementi dell'oggetto reale.
Non vi è dunque coincidenza ma c'è corrispondenza (la pianta della casa
corrisponde alla casa reale). Lo stesso avviene nel linguaggio: il segno linguistico (ad
esempio una frase, una proposizione) è caratterizzato da connessioni (collegamenti)
interne tra gli elementi che lo compongono (tra le parole) che sono corrispondenti
a quelle relative al fatto, all'oggetto reale.
Con riguardo alle proposizioni del linguaggio, Wittgenstein distingue, come
Russell, fra proposizioni atomiche e proposizioni molecolari. Le proposizioni
atomiche, chiamate anche elementari, sono quelle che descrivono un fatto singolo e
sono costituite nella forma più elementare, cioè soltanto dal soggetto e dal predicato.
La proposizione è un segno linguistico (un elemento del linguaggio) composto da più
elementi semplici, ossia il soggetto e il predicato, che stanno in un certo rapporto tra
loro. Gli elementi più semplici sono i nomi ed essi, nella proposizione, stanno al
posto degli oggetti che rappresentano. Una proposizione atomica descrive un fatto,
65
66

cioè uno stato di cose, quando i suoi elementi stanno nel medesimo rapporto in
cui stanno gli elementi del fatto reale che essa descrive. In questo caso la
proposizione è vera; in caso contrario è falsa. Ogni proposizione va quindi
verificata in termini di corrispondenza rispetto al fatto reale descritto. Infatti in sé e
per sé ogni proposizione, come immagine di un fatto, rappresenta soltanto un fatto
possibile ma non necessariamente reale e accaduto: per stabilirlo bisogna verificarlo.
Diverse dalle proposizioni vere o false sono le proposizioni sensate o insensate. Le
proposizioni sono sensate quando raffigurano un fatto, uno stato di cose,
effettivamente possibile. Nel caso contrario sono insensate. Ad esempio, la
proposizione "il quadrato è rotondo" non può essere verificata (non si potrà mai fare
esperienza di un quadrato rotondo), non si potrà mai stabilire cioè se è vera o falsa,
ma si potrà dire che è insensata poiché è incomprensibile e contraddittoria.
Le proposizioni molecolari (da molecola=aggregazione di più sostanze chimiche)
sono costituite dall'aggregazione di più proposizioni atomiche tra di esse connesse o
poste in connessione. La verità o falsità delle proposizioni molecolari dipende
dalla verità o falsità delle proposizioni atomiche che le costituiscono. Wittgenstein
dice che sono "funzioni di verità" (dipendono) delle proposizioni atomiche
costituenti.
Il pensiero o, meglio, il linguaggio in cui il pensiero si esprime è dunque
raffigurazione del mondo, cioè dei fatti, ed è costituito da proposizioni atomiche e
molecolari raffigurative dei fatti stessi. Vi sono inoltre, aggiunge Wittgenstein,
proposizioni generali che non raffigurano fatti ma fissano le condizioni della loro
possibilità, ossia della loro pensabilità; fissano cioè i principi, le regole, i modi in cui
noi pensiamo ed esprimiamo i fatti attraverso il linguaggio. Tali sono i principi,
della matematica e della logica a cui, anche per Wittgenstein come per Frege e
Russell, la matematica può essere ricondotta. Le proposizioni generali non ci dicono
nulla del mondo, ossia non ci informano su un particolare stato di cose ma
valgono per tutti i possibili stati di cose, poiché non fanno altro che esplicitare ciò
che è già contenuto nel soggetto: sono cioè proposizioni tautologiche, in cui il
predicato è implicito (ha il medesimo significato) nel soggetto. Sono i giudizi
analitici considerati da Kant. Le proposizioni generali sono necessariamente vere,
nel senso però che esprimono soltanto una condizione di possibilità, oppure, nel caso
delle contraddizioni, sono necessariamente false, nel senso che esprimono
un'impossibilità. In esse dunque la verità coincide con la loro sensatezza mentre la
falsità coincide con l'insensatezza.
Infine, la totalità delle proposizioni (atomiche, molecolari e generali) costituisce il
linguaggio, mentre la totalità delle proposizioni vere costituisce la scienza
naturale, la quale è, per Wittgenstein, l'unica forma di conoscenza autentica.

La logica.

La logica, secondo Wittgenstein, studia modi in cui le proposizioni atomiche si


aggregano formando proposizioni molecolari. I principi della logica, ossia le
66
67

proposizioni generali, riguardano appunto la correttezza (coerenza) formale delle


connessioni tra le proposizioni atomiche costituenti le proposizioni molecolari a
prescindere dal loro contenuto specifico, se vero o falso. La logica infatti ha per
oggetto l'analisi della forma dei collegamenti (connessioni) tra le proposizioni dal
punto di vista della coerenza (cioè della non contraddittorietà) fra di essi e non dal
punto di vista della verità o falsità dei relativi contenuti. Per tale ragione è appunto
chiamata logica formale; in quanto tale ha sostituito quella antica e tradizionale
fondata da Aristotele, la quale ha invece carattere non formale ma realistico poiché
direttamente posta a verifica con la realtà, verifica che per Wittgenstein è invece
limitata alle sole proposizioni atomiche. Quindi, non riguardando i contenuti di
verità o falsità delle proposizioni ma solo la forma, corretto o meno, delle
relative connessioni, i principi della logica sono sempre veri. Poiché sempre veri,
i principi della logica sono "tautologie", come altresì le proposizioni della
matematica. Sono sempre vere anche le proposizioni molecolari se sono vere le
proposizioni atomiche costituenti e se sono corrette le connessioni fra di esse. Ad
esempio, la proposizione molecolare "piove o non piove" è sempre vera senza
bisogno di verifica empirica. Invece, se in una proposizione molecolare non si
rispetta la forma, ossia la correttezza formale dei collegamenti, non siamo di fronte
a proposizioni false (quando siano vere le proposizioni atomiche costituenti) ma a
proposizioni insensate, prive di senso perché contraddittorie (ad esempio, la
proposizione molecolare "piove e non piove").

Il carattere delle teorie scientifiche.

Wittgenstein ha una concezione del principio di causa e di inferenza (inferenza=


induzione/deduzione) simile a quella di Hume. Wittgenstein infatti afferma che ogni
previsione da un fatto all'altro, da una proposizione atomica ad un'altra, può
avvenire solo a priori, indipendentemente dall'esperienza, tuttavia solo per effetto
dell'abitudine, in quanto non vi è alcuna possibilità di dimostrare che il passaggio
da un fatto presente (causa) a un predeterminato fatto futuro (effetto) costituisca uno
sviluppo, un processo logicamente necessario. Solo i principi della logica e della
matematica, in quanto tautologici, sono sempre necessari, uguali a loro stessi. Ma i
fatti del mondo fisico sono sempre accidentali (possono o non possono accadere)
poiché non vi è possibilità di dimostrare in termini di necessità logica che i fatti del
passato si ripeteranno sempre allo stesso modo anche nel futuro. Ad esempio, che il
sole sorga ogni mattina è solo un'ipotesi fondata sull'abitudine, ma non vi è alcuna
possibilità di dimostrare, su base logica, che sarà sempre e necessariamente così.
Le teorie scientifiche e le leggi della scienza sono quindi solo delle ipotesi e non
dimostrazioni necessarie e definitive: una nuova teoria può smentire quella
precedente. Ciò non vuol dire che per Wittgenstein le scienze siano poco
importanti ma che, piuttosto, le varie teorie scientifiche devono essere concepite
come sistemi di descrizione e non di spiegazione del mondo, sistemi che devono
rispettare criteri formali e principi logici interni rigorosi e coerenti, ma nessuno di
67
68

essi potrà essere detto più vero di un altro. Vere possono essere solo quelle
proposizioni atomiche che all'interno della teoria risultino corrispondenti
all'esperienza. Come si può notare, si tratta di una concezione delle teorie
scientifiche affine a quella del neopositivismo.

La metafisica e la teoria del "mistico". Il compito della filosofia.

Si è visto che Wittgenstein definisce insensate le proposizioni che sono


raffigurazione di fatti empiricamente non verificabili; in quanto non verificabili, di
esse non si può dire se sono vere o false; sono piuttosto prive di senso poiché
contraddittorie o incomprensibili. Da ciò consegue, similmente alla concezione
neopositivistica, l'insensatezza attribuita sia alla metafisica, sia allo scetticismo,
sia anche alla religione, all'etica e all'arte.
La metafisica non è falsa, dato che non si possono verificare empiricamente i
problemi di cui si occupa; è invece insensata e perciò non può essere oggetto di
conoscenza perché non si accontenta di proposizioni semplicemente tautologiche,
come la matematica e la logica, ma pretende di descrivere stati di cose inverificabili.
Insensato è anche lo scetticismo, ossia la concezione che nega o dubita della validità
della conoscenza, poiché contraddittoriamente fondato su di un presupposto
metafisico che, da un lato, intende mettere in discussione ma che, dall'altro lato, è in
sé non verificabile (lo scetticismo infatti dubita di tutto ma, contraddittoriamente, non
dubita di se stesso).
Parimenti insensate sono la religione, l'etica e l'arte poiché si occupano di valori
(ideali) e non di fatti che accadono, in quanto tali verificabili. Il mondo è costituito da
fatti e non da valori; riguarda l'essere e non il dover essere. L'etica pertanto non si
fonda sulla conoscenza ma rimane affidata, come per Moore, a scelte e decisioni
individuali e sociali. Anche la religione non è conoscenza, ma è invece oggetto di
intuizione mistica.
In conclusione, solo la scienza è oggetto di conoscenza perché si occupa di fatti
suscettibili di verifica.
Tuttavia Wittgenstein non esclude che vi sia qualcosa d'altro, anche di
importante, al di là di ciò che può essere conosciuto. Afferma soltanto che di esso
non è possibile parlare (farne oggetto di conoscenza) poiché questo qualcosa d'altro
non è esprimibile in un linguaggio verificabile. Questo qualcosa d'altro è il mondo
dell'ineffabile (=inesprimibile), chiamato da Wittgenstein "il mistico", ossia l'aspetto
mistico della realtà. Il mistico è l'insieme dei valori, degli ideali, delle aspirazioni che
non possono essere descritti e raffigurati dal linguaggio (scientifico). Ciò che
possiamo conoscere e di cui possiamo parlare è l'esistenza del mondo inteso come
insieme dei fatti che accadono. Non è invece conoscibile (e quindi non se ne può
parlare) l'essenza del mondo, il senso e il fine del mondo. Celebre è la frase
pronunciata in proposito da Wittgenstein: "Quanto può dirsi si può dire chiaro e su
ciò di cui non si può parlare si deve tacere".
68
69

Tuttavia il mistico, anche se non può essere oggetto di conoscenza, è presente e si


fa sentire in noi. A differenza del neopositivismo, secondo cui i fenomeni scientifici
e i principi della logica e della matematica sono tutto ciò che conta nella vita,
Wittgenstein non sottovaluta l'importanza del mistico, ossia del metafisico, del
religioso, dell’etico ed estetico. Non possiamo conoscerlo e quindi dobbiamo tacere
eppure, afferma Wittgenstein, il mistico contiene problemi decisivi per l'essere
umano. "Noi sentiamo, scrive, che anche quando tutte le possibili domande
scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure
toccati".
Vi è quindi nel "Tractatus" l'espressione di un tragico contrasto: da un lato vi è la
constatazione che può essere detto solo ciò che risulta formulabile in modo chiaro e
sensato, e questo vale anche per la filosofia, ma dall'altro vi è la sensazione che
l'indicibile, ciò che la scienza e la filosofia non possono dire, ha forse un valore
maggiore.
Compito della filosofia è quello di tracciare una linea di demarcazione tra ciò che è
conoscibile, e quindi può essere detto, è ciò che non è conoscibile, su cui quindi
tacere, anche se magari più importante. Come già in Kant, l'intento di Wittgenstein è
di stabilire i limiti del conoscibile: per Kant la metafisica non è valida come scienza
perché non è basata su giudizi sintetici a priori; per Wittgenstein non è valida perché
è insensata. La filosofia, prosegue Wittgenstein, non è una dottrina ma
un'attività. Essa cioè non può e non deve esprimere enunciati (spiegazioni) sui
fatti, poiché questo è compito della scienza, ma deve invece svolgere un'azione di
due tipi: negativo e terapeutico. Negativo perché la filosofia deve dire che cosa il
pensiero-linguaggio non può fare, denunciando in primo luogo l'insensatezza
dell'aspirazione a cogliere i principi assoluti e i fondamenti metafisici del mondo e
della realtà. Terapeutico perché la filosofia deve eliminare e guarire dalle false
credenze e ambiguità del linguaggio e procedere ad un'opera di chiarificazione logica
dei pensieri e dei concetti, riducendo ogni discorso a proposizioni fattuali verificabili
empiricamente oppure a proposizioni tautologiche.

Il "secondo Wittgenstein": la riabilitazione del linguaggio ordinario e la teoria


dei giochi linguistici.

Nel "Tractatus" Wittgenstein aveva attribuito importanza pressoché esclusiva al


linguaggio logico-scientifico. In seguito, anche per effetto di nuovi incontri con
pensatori di indirizzo pragmatico, nell'opera "Ricerche filosofiche" riconosce
l'importanza altresì del linguaggio ordinario, nonché di quello morale, religioso
ed estetico, modificando quindi l'impostazione originaria. Per tale mutamento di
pensiero si parla in proposito, per l'appunto, di "secondo Wittgenstein" per
differenziare questa diversa concezione rispetto a quella dapprima espressa.
Nel linguaggio ordinario, a differenza di quello logico-matematico e scientifico, le
parole non denotano (indicano) ciascuna un unico e preciso oggetto, regola
69
70

necessaria questa nel linguaggio scientifico e logico al fine di evitare ambiguità,


pluralità ed incertezze di significati. Tuttavia, pur presentando il linguaggio
ordinario una varietà di forme e di significati anche in riferimento al medesimo
oggetto, Wittgenstein si rende conto che esso è comunque normalmente usato e
compreso. Passando dall'analisi del linguaggio scientifico a quella del linguaggio
ordinario egli rileva che espressioni linguistiche di tipo esclamativo, come "Aiuto!",
"Via!", "No!", "Grazie!", ecc., non hanno una funzione denotativa-denominativa e
spesso non si riferiscono neppure in modo univoco a determinati oggetti. Inoltre
ciascuna di queste parole può assumere di volta in volta significati diversi a seconda
del contesto in cui viene usata.
Insomma, Wittgenstein osserva che le parole del linguaggio ordinario non hanno
una funzione esclusivamente denotativa (di precisa indicazione) come nel
linguaggio scientifico e logico, ma che invece il significato di una parola spesso
cambia in dipendenza del contesto e dell'uso che ne facciamo, un uso pur sempre
regolato, benché in modo elastico, da norme condivise, cioè reciprocamente
comprensibili dai parlanti. Egli elabora così la "teoria del significato d'uso dei
termini del linguaggio", chiamata anche "teoria dei giochi linguistici". Questa
teoria dice che il significato di una parola varia e dipende dall'uso che ne viene fatto
nonché dal contesto (ambito, situazione) entro il quale è pronunciata. Ogni contesto
(linguistico, musicale, artistico, morale, religioso, ecc.) ha sue proprie regole d'uso
delle parole, così come ogni gioco ha regole proprie: da ciò il nome altresì di teoria
dei giochi linguistici. Pur cambiando secondo il contesto in cui sono usate, noi
tuttavia riusciamo a distinguere e a comprendere i diversi significati che le
medesime parole possono assumere perché siamo abituati e addestrati a farlo. Così
come non esiste un solo tipo di gioco, ma plurimi, ognuno con regole diverse,
altrettanto il linguaggio è costituito da giochi (contesti) diversi, ognuno con regole
differenti: la denotazione (la funzione denotativa del linguaggio) non è l'unica e
principale regola. Per di più i giochi e contesti linguistici non sono fissi,
predeterminati ma variabili e mutevoli: possono esserne costruiti di nuovi ed altri
vengono a cessare. "Col linguaggio facciamo le cose più diverse".
In tal modo, da una concezione esclusivamente di tipo logico e scientifico del
linguaggio, Wittgenstein passa ad una concezione di tipo pragmatico, storico e
sociale: il linguaggio cioè non possiede più solo una base logica ma anche storica e
sociale. Di conseguenza, l'analisi del linguaggio e del significato delle proposizioni
non è unica e valida in tutti i casi, e pertanto l'obiettivo inizialmente perseguito di
individuare una forma generale e univoca della proposizione viene riconosciuto
come inattuabile. Non vi è un unico linguaggio del quale si possa ricercare la
struttura generale e universale, ma vi è una famiglia di linguaggi, che hanno delle
affinità, delle parentele uno con l'altro ma che nello specifico sono diversi. È solo a
motivo di questa affinità, ma non certo dell'univocità, che è possibile intendere la
varietà delle proposizioni e dei linguaggi poiché, se pur differenti, si possono
comunque intravedere fra di essi tratti omogenei, peraltro mai generalizzabili in
concetti o termini di riferimento universali e oggettivi.

70
71

Al tempo stesso Wittgenstein respinge, di conseguenza, la concezione mentalistica


del linguaggio, nel senso che la caratteristica di una funzione, come il comprendere,
il sapere o il volere, non va individuata in un processo psichico, mentale, o in una
attività spirituale, ma nel fatto pragmatico di seguire una regola comune, cioè nella
condivisione e uniformità delle abitudini, degli usi e delle modalità pratico-sociali.
Cambia allora anche il compito della filosofia. Ad essa non spetta più un'univoca
funzione chiarificatrice del linguaggio dal punto di vista logico bensì una funzione di
tipo puramente descrittivo, mediante cui illustrare i diversi gruppi di regole dei vari
contesti linguistici nonché le differenti grammatiche, le analogie e le diversità che
sussistono fra di essi. Questo compito descrittivo è pressoché inesauribile e non può
essere concluso e condensato una volta per tutte entro un sistema per cui, dice
Wittgenstein, "non ci saranno più forse grandi filosofi, ma potranno esserci filosofi
abili".
A seguito di queste molteplicità concettuali la filosofia analitica anglosassone si è
quindi sviluppata secondo filone plurimi, non più di esclusiva impostazione logica
come agli inizi. Pur mantenendo un atteggiamento rigorosamente antimetafisico ed
un orientamento empiristico attento al senso comune, la filosofia analitica è venuta ad
occuparsi altresì di analisi e di indagini di cui la filosofia già si era tradizionalmente
interessata, come l'analisi del linguaggio morale (Stevenson) e religioso (Ramsey).
Addirittura, diversamente da Wittgenstein che ne sottolineava l'inattuabilità, è giunta
a ritenere che pure in ordine al linguaggio ordinario sia possibile individuare un suo
proprio carattere normativo, potendosi definire anche in esso l'uso corretto (logico)
dei termini.

71
72

L’ERMENEUTICA E HANS GADAMER.

Per "ermeneutica" si intende la teoria dell'interpretazione e il metodo di analisi volti


alla comprensione di un testo, sia esso scritto, artistico, monumentale, ecc. Il termine
deriva da Hermes, il nome greco di Mercurio, il dio messaggero e interprete tra gli
dei e gli uomini. L'interpretazione dei testi come problema nasce col sorgere della
storia umana. Inizialmente riservata alla esegesi (= interpretazione) biblica e dei
testi sacri in genere, nonché alle analisi filologiche del Rinascimento, ne è stato
successivamente ampliato l'ambito di studio e di interesse fino a comprendere non
solo le tecniche e i processi interpretativi di ogni tipo di testo, ma altresì l'analisi del
processo produttivo dei testi, accentuando le formulazioni teoriche rispetto a quelle
prevalentemente metodologiche. In epoca moderna viene così a costituirsi
l'ermeneutica come disciplina autonoma.
Soprattutto col Romanticismo, e con Schleirmacher in particolare, l'ermeneutica
viene a significare interpretazione-comprensione di ogni testo il cui senso non sia
immediatamente evidente. Con Dilthey il processo ermeneutico viene esteso alla
totalità della conoscenza storico-spirituale. Per Heidegger, ancor più, il comprendere
si configura e si presenta come una delle strutture (modalità fondamentali) costitutive
dell'esserci, cioè dell'uomo, il cui "essere nel mondo" si accompagna sempre a una
pre-comprensione del mondo incentrata nel linguaggio. Poiché per Heidegger è
attraverso il linguaggio che l'essere stesso si manifesta, allora l'ascolto e
l'interpretazione del linguaggio è la via dell'incontro con l'essere.
Ad Heidegger si rifà Gadamer, maggior esponente dell'ermeneutica
contemporanea, facendone non solo una tecnica ma una teoria filosofica
generale sull'uomo e sull'essere.

Hans Georg Gadamer (1900-2002).

Di nazionalità tedesca, ha insegnato nelle università di Marburgo, Lipsia, Francoforte


e Heidelberg, succedendo nella cattedra di Jaspers. È stato allievo di Heidegger.
Opera fondamentale: Verità e metodo. Lineamenti di un'ermeneutica filosofica.

Gli scopi dell'ermeneutica. Distinzione tra verità e metodo.

Compito dell'ermeneutica è chiarire la struttura (i modi) della comprensione, intesa


non come semplice interpretazione ma come modo di essere tipico dell'esistenza
(umana). Tre sono in tal senso le caratteristiche e gli scopi dell'ermeneutica:
1. Non limitarsi a stabilire una serie di norme tecniche e metodologiche sui
modi di procedere nell'interpretazione dei testi, ma elaborare una teoria sulla
struttura e sulle condizioni del comprendere, cioè chiarire i modi costitutivi
72
73

della comprensione e analizzare le condizioni che rendono possibile la


comprensione stessa.
2. Mostrare come il comprendere non sia soltanto una delle possibili attività
dell'uomo, del soggetto, ma costituisca invece il modo fondamentale in cui si
realizza e si svolge l'esistenza: esistere significa essenzialmente
comprendere, interpretare, ossia attribuire significati alle esperienze di vita.
L'esistere, l'essere nel mondo e l'essere in rapporto con gli altri, implica sempre
costitutivamente l'interpretare, il comprendere. Da ciò il carattere universale
dell'ermeneutica. Esistere e comprendere coincidono. L'interprete non è
solo lo specialista ma ognuno di noi nell'attribuire senso e significati alle
proprie esperienze.
3. Mostrare come il comprendere sia un tipo di attribuzione di senso alle
esperienze vissute e quindi un tipo di verità di natura diversa ma di pari valore
rispetto all'applicazione del metodo scientifico, ossia quel tipo di sapere che
persegue e si propone l'ideale di una conoscenza oggettiva e neutrale
(imparziale) del mondo. Deriva da ciò una differenza e contrasto tra verità
(filosofica ed ermeneutica) e metodo (scientifico), da cui il titolo del
capolavoro di Gadamer. Non ci sono soltanto verità scientifiche
"metodiche" (derivanti dall'applicazione del metodo scientifico) ma, contro lo
scientismo moderno, ossia contro il presente predominio della scienza, vi sono
anche specifiche esperienze extrametodiche di verità, quali l'arte, la storia,
la filosofia, le quali, pur collocandosi al di fuori delle conoscenze scientifiche,
risultano fondamentali per l'uomo. Il comprendere è diverso dal conoscere
(scientifico), ma non meno importante.
La conoscenza scientifica si basa sulla netta separazione tra soggetto conoscente ed
oggetto da conoscere: concepisce il soggetto come neutrale, imparziale, libero da
pregiudizi e quindi capace di una conoscenza oggettiva e universale; concepisce
dall'altro lato l'oggetto come un "dato" inerte, passivo, analizzabile scientificamente.
Ma non tutti i processi conoscitivi sono di questo tipo, prosegue Gadamer.
L'esperienza esistenziale (l'esperienza di vita) si distingue nettamente dalla
conoscenza scientifica: anzi è nell'esperienza esistenziale che Gadamer colloca la
verità contro il metodo collocato nella scienza.
L'esperienza non viene intesa da Gadamer in senso empiristico (il vedere e toccare le
cose) o fenomenico-kantiano bensì in senso hegeliano. È vera esperienza per
Gadamer, ossia un'esperienza di verità, una comprensione ermeneutica, quella che
"modifica radicalmente chi la fa", che modifica il soggetto come pure l'oggetto,
unificandoli in una sintesi che entrambi assorbe. Diversamente dalla conoscenza
scientifica, per Gadamer la verità è il prodotto dell'incontro con qualcosa che si
autoimpone come tale, così come il bello si impone al soggetto quando lo incontra.
Questa verità non si coglie attraverso la scienza ma attraverso l'ermeneutica: quando
comprendiamo un testo, il suo significato si impone a noi proprio come si impone il
bello. La scienza è conoscenza metodica, mentre l'ermeneutica, la comprensione, è
un'esperienza extrametodica di verità. L'esperienza di vita non può mai essere
scienza, dar luogo a generalizzazioni stabili e universali, perché è mutevole e rimanda
73
74

sempre a nuove esperienze, però è l'esperienza che caratterizza l'esistenza e l'essenza


storica dell'uomo.

La teoria dell'arte.

Un caso tipico di esperienza di verità (cioè di comprensione ermeneutica distinta


dalla conoscenza scientifica) è quella dell'arte. Infatti l'esperienza estetica coinvolge
e modifica entrambi i poli della relazione, sia il soggetto che l'oggetto: il soggetto
trasforma la propria identità, la propria visione delle cose e diventa disponibile ad
altre possibilità di senso (ad acquisire nuovi significati); l'oggetto si presta a
mostrarsi sotto altre possibili prospettive e angolature e possibilità di
interpretazione.
Gadamer critica la tendenza moderna che, sulla scia della "Critica del giudizio" di
Kant, riduce l'arte a semplice espressione di sentimenti soggettivi, a solo fatto
estetico soggettivo, solo a "bella apparenza" scollegata però dalla realtà concreta
della vita e senza valore dal punto di vista conoscitivo del vero e del falso. La colpa
del distacco e dell'isolamento dell'arte dalla realtà è attribuita da Gadamer a ciò che
definisce "coscienza estetica", prodotta dalla società moderna e che prescinde dal
contesto originario dell'opera artistica, ad esempio dal contesto religioso che ne
spiegava la motivazione, il senso, e verso quali fruitori era particolarmente rivolta.
La moderna "coscienza estetica" è un modo di vedere il prodotto artistico come pura
fantasia, come sogno, come oggetto atemporale che non ha rapporto con la realtà.
Esempio dell'isolamento dell'arte sono i musei, le mostre, le gallerie d'arte, in cui
l'opera d'arte è separata dal suo contesto.
Per Gadamer invece (come in Croce) l'arte è una forma di conoscenza tra le altre. È
un'autentica esperienza di verità, un'esperienza del mondo e nel mondo che
"modifica radicalmente chi la fa", ampliando la comprensione che ha di se stesso e
della realtà che lo circonda. L'arte non deve quindi essere ridotta a "coscienza
estetica" ma recuperata ad "esperienza estetica", la quale è sempre interpretazione
della realtà, ossia comprensione, nel presente, del significato originario del prodotto
artistico del passato. L'estetica si risolve (si trasforma) quindi nell'ermeneutica.

Il circolo ermeneutico.

Nel procedimento ermeneutico (interpretativo) l'interprete si accosta all'interpretato


(al testo) tramite una serie di pre-comprensioni o di pre-giudizi, cioè di attese, di
aspettative. La mente dell'interprete non è affatto una tabula rasa ma invece è
colma di pre-comprensioni, ossia di supposizioni in base a cui l'interprete stesso
formula un preliminare significato del testo da interpretare. Poi, approfondendo
l'analisi del testo, queste pre-comprensioni si modificano, rivelando quasi sempre
errori e inadeguatezze che obbligano l'interprete a rivedere la sua preliminare ipotesi
interpretativa giungendo ad una maggior comprensione del significato. Vi è quindi
74
75

un incessante scambio, che non ha mai fine, fra l'interprete e il testo interpretato,
che Gadamer chiama "circolo ermeneutico", attraverso il quale, in rapporto al testo,
l'interprete verifica la validità delle sue pre-comprensioni (supposizioni),
sostituendole via via con concetti più adeguati.
Questi pre-giudizi o pre-comprensioni non costituiscono affatto un limite, ma sono la
naturale conseguenza del fatto che sia l'interprete sia l'interpretato partecipano e sono
accomunati dalla medesima tradizione culturale e storica, da una medesima cultura.
Sia le pre-comprensioni dell'interprete sia i contenuti del testo sono il frutto e l'eredità
di un medesimo sviluppo storico e culturale, dal quale deriva, da un lato, il punto di
vista e il senso che l'autore ha inteso attribuire al proprio testo e, dall'altro lato,
derivano le pre-comprensioni dell'interprete. Il circolo ermeneutico è quindi il modo
tipico in cui avviene l'interpretazione e la comprensione le quali, diversamente
dal metodo scientifico, si caratterizzano perché non c'è separazione tra soggetto
ed oggetto.
Gadamer sottolinea la descrizione che, in "Essere e tempo", Heidegger fa del circolo
ermeneutico, il quale "non deve essere degradato a circolo vizioso perché in esso si
nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario". Il problema non è
quello di sbarazzarsi del circolo ma di acquistarne coscienza, mettendo alla prova i
pre-giudizi degli interpreti che devono dimostrarsi disponibili, di fronte all’"urto"
(all'incontro) con i testi, ad adeguare le loro pre-supposizioni. L'interprete deve
lasciarsi mettere in discussione dal testo, deve essere disposto a lasciarsi dire
qualcosa, essere cioè sensibile alla "alterità" del testo.

Pregiudizi, autorità e tradizione.

Con la teoria del circolo ermeneutico Gadamer compie una vera e propria
riabilitazione dei pregiudizi, dell'autorità e delle tradizioni culturali.
Chiarisce innanzitutto come i pregiudizi non siano qualcosa di necessariamente
falso, secondo la concezione negativa dapprima di Bacone (contro gli "idola") e poi
dell'Illuminismo, che ha influenzato tutta la cultura moderna giungendo in sostanza
ad instaurare un "pregiudizio contro il pregiudizio". Accanto a pregiudizi falsi e
illegittimi, dice Gadamer, esistono pregiudizi veri e legittimi. Di per sé pregiudizio
significa solo un giudizio pronunciato prima di un esame completo di tutti gli
elementi rilevanti. Pertanto pregiudizio non significa affatto giudizio sbagliato bensì
giudizio preliminare, che può verificarsi falso ma anche vero.
In secondo luogo, Gadamer evidenzia come i pregiudizi facciano parte
integrante della nostra natura di esseri sociali e storici: essi sono, cioè, i modi di
pre-vedere e pre-interpretare il mondo, che ognuno eredita dalla propria cultura e
dalla sua storia, al punto che un'ipotetica eliminazione dei pregiudizi coinciderebbe di
fatto con l'annullamento della nostra concreta coscienza (modo di vedere e di
interpretare) storica e culturale.
Gli illuministi distinguevano fra pregiudizi derivanti dal rispetto dell'autorità e
pregiudizi dovuti alla precipitazione. Essi, contro il rispetto acritico dell'autorità,
75
76

proclamavano, come Kant, il coraggio e il dovere di servirsi e di usare la propria


ragione. Tuttavia, avverte Gadamer, se è vero che, quando il nostro giudizio deriva
esclusivamente dall'obbedienza all'autorità politica e culturale prevalenti, esso è
allora fonte di pregiudizi, non è però escluso che l'autorità possa essere anche
fonte di verità. La riabilitazione del pregiudizio si accompagna quindi in Gadamer
ad una riabilitazione anche dell'autorità, quando essa non implichi obbedienza cieca e
rinuncia ad usare la propria ragione e libertà di giudizio, ma consista invece nel
riconoscere sinceramente chi ci sia superiore per intelligenza.
Contro la critica degli illuministi nei confronti dell'autorità e della tradizione si è
schierato anche il Romanticismo, per il quale invece autorità e tradizione sono
concepite come modello, consacrato dalla storia e dall'uso, che deve ispirare le nostre
azioni. Ma Gadamer critica parimenti il culto romantico della tradizione allorquando
essa pretenda di essere accettata in maniera indiscutibile. L'uomo non può collocarsi
al di fuori della tradizione perché essa fa parte della sua storia, è la sua memoria, ma
la tradizione, per valere, non può essere imposta contro la ragione bensì ha bisogno di
essere razionalmente e liberamente accettata. In tal senso, contro gli illuministi
Gadamer fa valere i diritti della tradizione e contro i romantici fa valere i diritti della
ragione. Fra tradizione e ragione Gadamer non vede perciò un contrasto. Anzi la
giusta conservazione delle tradizioni è un atto della ragione che, nel mutamento di
tutte le cose, sa conservare del passato quanto non contrasta con la libertà e la
razionalità, conferendo così maggior significato al presente.

Le condizioni del comprendere.

Si è visto che per Gadamer compito dell'ermeneutica non è solo quello di fornire
un insieme di tecniche e di metodi per interpretare un testo, ma altresì quello di
elaborare una teoria in grado di spiegare quali sono le condizioni e le
caratteristiche del comprendere, che rendono cioè possibile la comprensione.
Gadamer elenca le seguenti cinque condizioni:
1. Il rapporto di lontananza/vicinanza fra interprete e testo interpretato.
L'interpretazione ermeneutica implica un rapporto che è sempre di lontananza e
insieme di vicinanza fra interprete ed interpretato. La lontananza è data dalla
"alterità" del testo, cioè dal fatto che il testo è qualcosa d'altro rispetto
all'interprete, sia per collocazione nello spazio e nel tempo, sia per il
linguaggio, il modo di pensare, ecc. La vicinanza è dovuta al fatto che
comunque interprete e interpretato fanno parte entrambi della medesima
tradizione culturale, del medesimo sviluppo storico. La distanza temporale
che separa l'interprete dal periodo di creazione del testo non è un ostacolo da
superare per la comprensione del testo; non si tratta di spogliarsi della propria
visione culturale (del proprio e attuale modo di pensare) per calarsi in quella
dell'epoca storica di produzione del testo e in quella del suo autore, come
ritiene lo storicismo. Anzi, un testo relativamente lontano in termini
cronologici ci consente una maggior comprensione perché siamo in grado di
76
77

scartare le interpretazioni meno adeguate fornite in precedenza. Ciò non


significa peraltro che un'interpretazione è più valida solo perché è quella più
recente. "Della verità non si chiede la data di nascita". Piuttosto,
un'interpretazione è valida finché non ne sopraggiungono di migliori.
2. La storia degli effetti. Il rapporto di lontananza e vicinanza fra interprete e
interpretato viene ulteriormente sviluppato da Gadamer attraverso
l'importante concetto di "storia degli effetti", ossia gli effetti che un testo ha
prodotto sulla storia e sulla cultura. Gadamer fa presente che l'autore di un
testo è, per certi aspetti, "un elemento occasionale". L'autore di un testo non è e
non coincide col testo prodotto e, una volta prodotto, un testo vive una sua
vita autonoma. Esso può infatti avere degli effetti sulla storia e sulla cultura
successiva che l'autore stesso non poteva prevedere né immaginare. Una volta
compiuto, il testo diventa indipendente e non è più indispensabile capire
unicamente ciò che l'autore avrebbe voluto dire, perché gli effetti che un testo
produce sullo sviluppo successivo della storia e della cultura hanno un loro
svolgimento, una loro storia anche separata dalle intenzioni dell'autore.
Tali effetti pertanto , nell'interpretazione ermeneutica, devono essere tenuti
presenti e compresi in se stessi. Anzi, la storia degli effetti di un testo ne
determina più pienamente il senso. Un autore non vede tutte le conseguenze
del testo che egli ha creato, non può vederne gli effetti storici. Ma un
interprete, posto a relativa distanza dal tempo di produzione del testo, vede di
più e meglio dell'autore stesso proprio perché vede e interpreta il testo anche in
base alla storia degli effetti del testo medesimo. La crescita del sapere nel corso
dello sviluppo culturale e storico può altresì rivalutare un'interpretazione
proposta nel passato e scartata perché ritenuta in tale epoca inadeguata, ma
rivelatasi invece, successivamente, come più idonea. La storia degli effetti
conferma che la distanza temporale non è affatto un impedimento, anzi è
una condizione positiva ai fini della possibilità del comprendere. Ciò si capisce
ancor meglio quando ci rendiamo conto di quanto sia invece difficile
interpretare opere contemporanee, che non hanno ancora avuto la loro storia
e di cui non conosciamo ancora gli effetti.
3. La coscienza della determinazione storica. Connesso al concetto di "storia
degli effetti" è il concetto di "coscienza della determinazione storica", col quale
Gadamer intende la consapevolezza che l'interprete deve avere di essere
anch'egli, a sua volta, sempre storicamente determinato, che cioè il suo
punto di vista, il suo modo di pensare, le sue aspettative e supposizioni sono
sempre condizionate dall'ambiente (contesto) storico-culturale del suo tempo.
L'interprete deve quindi riconoscere come sia impossibile la pretesa di
essere assolutamente imparziale, neutrale e oggettivo di fronte al testo.
L'interprete, come tutti noi, è sempre esposto al condizionamento culturale del
periodo storico in cui vive.
4. La fusione degli orizzonti. Si è visto come gli effetti e i condizionamenti della
storia agiscano sempre sia nei confronti del testo sia nei confronti
dell'interprete: da un lato, il testo ha una propria storia degli effetti, cioè un
77
78

proprio orizzonte, un proprio ambito di significatività; dall'altro, l'autore è un


soggetto, una coscienza, anch'egli storicamente determinato, collocato
anch'egli un suo proprio orizzonte, in una sua propria visione del mondo
ereditata dalla storia e dalla cultura vissute. Sia il testo ed il relativo autore
sia l'interprete si trovano sempre in un loro proprio orizzonte (ambito)
storicamente e culturalmente determinato. Nell'incontro e nel rapporto
fra testo e interprete avviene pertanto ciò che Gadamer chiama "la
fusione degli orizzonti". I reciproci orizzonti (ossia la storia degli effetti del
testo e la coscienza dell'autore storicamente sempre determinata) non sono
talmente separati e lontani al punto che l'interprete debba abbandonare il
proprio orizzonte (punto di vista) per far proprio esclusivamente quello del
testo e del suo autore, né deve avvenire il contrario: la storia degli effetti del
testo non deve essere ignorata per far prevalere solo la coscienza storica
dell'autore, cioè il suo punto di vista, neppure tale coscienza deve essere
ignorata nell'interpretazione ermeneutica; è necessario tener conto che lo
stesso interprete è condizionato dalla propria personale coscienza e punto di
vista. Si tratta piuttosto di un venirsi incontro a metà strada, ossia gli
orizzonti, i diversi punti di vista, devono per così dire fondersi: la coscienza
storica dell'interprete non è annullata ma posta al servizio della comprensione
dell'epoca culturale di produzione del testo e degli effetti della sua storia
nonché del punto di vista dell'autore. La comune tradizione storica, la comune
civiltà, è il collegamento fra il passato (il testo e il suo autore) e il presente
(l'interprete). L'ermeneutica, in tal modo, è un processo senza fine, perché
nuove interpretazioni si succedono a quelle vecchie. Nessuna interpretazione è
definitiva perché ogni testo offre sempre nuovi significati e nessun interprete, a
sua volta, è in grado di fornire interpretazioni conclusive. Gadamer
esemplifica il concetto di "fusione degli orizzonti" contrapponendo
Schleiermacher ed Hegel. Il primo, ispirandosi al principio della
"ricostruzione" pura del testo, dichiara la necessità di prescindere da qualsiasi
coscienza ed orientamento storico-culturale dell'interprete a favore di una
oggettiva riproduzione-ricostruzione del passato. Il secondo, ispirandosi al
principio dell'integrazione (sintesi) tra passato e presente, dichiara
l'impossibilità di un'esclusiva e oggettiva ricostruzione del passato, perché il
significato che vi possiamo attribuire rimane comunque condizionato dal
nostro punto di vista e dalla situazione storica presente in cui ci si trova a
vivere.
5. L'ermeneutica come dialogo di domanda e risposta. Ultima condizione del
comprendere, dice Gadamer, è il fatto che il procedimento ermeneutico
(interpretativo) assume sempre la forma di un dialogo fra passato (quello
del testo del suo autore) e presente (quello dell'interprete), come il dialogo
socratico e platonico e la "phrònesis" (la saggezza) aristotelica, che non è
sapere meramente descrittivo e oggettivo bensì pratico. Tale dialogo si svolge
secondo una continua dialettica (scambio) di domanda e risposta: noi
esaminiamo il testo sulla base di una nostra domanda, di una nostra aspettativa
78
79

e supposizione; l'analisi del testo ci fornisce risposte spesso diverse dalle nostre
aspettative e supposizioni e ci induce quindi a porre nuove domande, nuovi
interrogativi, secondo un processo infinito in cui ogni risposta si trasforma in
una nuova e contrapposta domanda.
Contro Hegel, Gadamer esclude, in una concezione ermeneutico-filosofica sull'uomo
e sull'essere, la possibilità di un sapere assoluto, per Hegel invece raggiungibile al
termine del processo dialettico (quantunque circolare) in forma di acquisizione
dell'assoluta autocoscienza espressa dallo Spirito assoluto. I concetti di "coscienza
della determinazione storica" e di "fusione degli orizzonti", a causa dei rispettivi
processi continuamente mutevoli, escludono programmaticamente l'assolutezza del
sapere. Gadamer è d'accordo con Hegel sul fatto che ogni esperienza ermeneutico-
interpretativa sorge costitutivamente dall'incontro tra soggetto ed oggetto, ossia
dalla "fusione degli orizzonti", vale a dire dalla storicità del nostro essere, ma è
invece d'accordo con Kant nel riconoscere la finitudine (i limiti) del nostro sapere.
L'uomo non può mai trascendere (superare) i propri limiti e la propria storicità in
direzione di un sapere totale e concluso, poiché il nostro sapere storico-ermeneutico
è e rimane strutturalmente parziale e costitutivamente aperto sempre a nuovi saperi e
a nuove esperienze.
L'esperienza ermeneutica e di vita, in quanto tale, non può mai essere scienza
(contrapposizione tra verità e metodo), tantomeno le esperienze compiute, ancorché
ripetute e temporalmente confermate, possono diventare generalizzazioni, cioè
concetti stabili e universali, poiché l'esperienza rimanda sempre a nuove esperienze.
L'esperienza ermeneutica e di vita è un elemento costitutivo dell'esistenza che
appartiene all'essenza storica, cioè mutevole, dell'uomo. In questo senso l'autentica
esperienza è quella in cui l'uomo diventa cosciente della propria finitezza. L'idea che
tutto si possa modificare, annullare o generalizzare e dare per immutabile è pura
apparenza. È pura illusione pensare che ogni momento sia quello giusto per
qualunque cosa, che tutto in qualche modo ritorni. Chi sta e agisce nella storia fa
invece continuamente l'esperienza del fatto che nulla ritorna e che nessuno è padrone
del tempo e del futuro.

Essere, linguaggio e verità. L'appartenenza alla verità e il gioco della verità.

Come da Gadamer già dichiarato, l'ermeneutica non è solo questione di specialisti,


di filologi, ma ognuno di noi in quanto fa esperienza della realtà
automaticamente la interpreta, vi attribuisce un significato; ognuno fa attività
ermeneutica.
Ogni esperienza, ogni interpretazione è possibile ed esiste solo attraverso il
linguaggio e come linguaggio. Il linguaggio non è un semplice strumento col quale
dare un nome alle cose, alla realtà che viene conosciuta. Anzi, afferma Gadamer,
non esiste alcuna realtà indipendentemente dal linguaggio, poiché non è possibile
conoscere niente se non mediante le parole, mediante il linguaggio con cui
chiamiamo le cose. Il linguaggio è fuso con la cosa che indica, per cui l'essere, cioè
79
80

la realtà, e il linguaggio coincidono. Ciò induce Gadamer a formulare la tesi


fondamentale della sua ontologia ermeneutica: l'essere che può venir compreso è il
linguaggio. Con tale formula Gadamer non intende solo evidenziare come all'uomo
risulti comprensibile solo ciò che è strutturato come linguaggio ma, più
profondamente, che l'essere è il linguaggio, cioè tutte le forme di realtà e di vita sono
linguaggio e solo come tali possono essere oggetto di esperienza e comprese.
Dire che l'essere (la realtà) umano in generale e l'essere in particolare è
linguaggio, sotto forma di discorsi, libri, opere d'arte, ecc., significa dire allora
che l'essere è interpretazione. Tale equivalenza suggerisce l'idea che il modo in cui
l'essere si svela e si manifesta è proprio attraverso il linguaggio e l'interpretazione,
secondo un processo interminabile.
L'esperienza ermeneutica di verità possiede per Gadamer la medesima struttura
ontologica dell'esperienza del bello; implica un tipo di incontro con i testi analogo a
quello con la bellezza. Ha il significato di un incontro con qualcosa che, come le cose
belle, si autoimpone da sé. Rifacendosi ad un antico concetto di verità, antitetico al
moderno metodo scientifico, Gadamer lascia intendere che la verità ermeneutica non
è il risultato di una conoscenza metodica oggettivamente accertabile come nella
scienza, bensì il frutto di una extrametodica automanifestazione dell'essere al
soggetto, analogamente alla concezione di Heidegger, per cui non è l'esserci, cioè
l'uomo, che coglie l'essere ma è l'essere che, attraverso il linguaggio, si rivela e si
manifesta ad esso.
La verità ermeneutica (l'esperienza di vita) che si presenta in maniera
extrametodica (in modo diverso da quanto si viene a conoscere mediante il metodo
scientifico) è un'eventualità, non è cioè una necessità predeterminata e
predeterminabile, che Gadamer descrive pertanto mediante i concetti di
appartenenza e di gioco.
Per appartenenza egli intende una situazione in cui non si ha tanto un agire del
soggetto sulla cosa (sull'essere), quanto un agire della cosa (la verità, la tradizione, il
linguaggio, l'opera d'arte, ecc.) sul soggetto. La comprensione, secondo la concezione
altresì di Heidegger (di impostazione antiumanistica, nel senso di antisoggettivista
che nega cioè il primato del soggetto), è una manifestazione dell'essere, un momento
in cui l'essere si rivela e non un'iniziativa del soggetto. Allora la verità, cioè la
comprensione, non è il prodotto dell'uomo, ma è un appartenere, una
appartenenza (un entrare a far parte) alla verità stessa da parte dell'uomo, che ad
esso si rivela. Non è l'uomo che scopre la verità ma è la verità (l'essere) che si
rivela all'uomo, per cui l'uomo non possiede la verità ma appartiene, entra a far parte
di essa. Viene con ciò superato il rischio di un'impostazione che riduca la verità
ad una serie di punti di vista relativi e soggettivi.
In tal senso il rivelarsi della verità è un'eventualità paragonabile al gioco: infatti
chi ha in mano il gioco non è l'uomo ma la verità (cioè l'essere), che all'uomo si rivela
attraverso il linguaggio quando e nei modi in cui essa vuole; la verità gioca con
l'uomo. Questa idea di gioco della verità è come una metafora, un simbolo dei nostri
rapporti col mondo, concepito come gioco infinito, ossia come incessante

80
81

automanifestazione della verità-essere mediante il linguaggio per cui, di conseguenza,


anche l'interpretazione si configura e si presenta come un compito senza fine.
Peraltro, pur ispirandosi all'antiumanismo e all'ontocentrismo di Heidegger, Gadamer
non ne segue gli sviluppi più esoterici, più mistici e antimoderni, quale
l'interpretazione della civiltà occidentale come luogo dell’"oblio dell'essere".
Gadamer, persuaso che la ragione non possa ridursi a pura razionalità tecnico-
strumentale ed efficientistica (in accordo su questo aspetto con gli esponenti della
Scuola di Francoforte) sottolinea peraltro la portata e il carattere pratico
dell'ermeneutica e del sapere in generale, giungendo ad una riabilitazione della
complessiva filosofia pratica (quella che indica regole di condotta e di
comportamento). Conseguentemente, Gadamer auspica l'avvento di una saggezza
in grado di affrontare i problemi politici ed etici connessi al moderno sviluppo
scientifico e tecnico: una saggezza responsabile, sensibile al valore della
solidarietà planetaria e del dialogo interculturale.

SVILUPPI DELL’ERMENEUTICA: PAREYSON E RICOEUR.

Luigi Pareyson (1918-1991).

Studia ed insegna Torino. Tra i suoi allievi si annoverano Gianni Vattimo e Umberto
Eco. È stato tra i primi in Italia ad occuparsi dell'esistenzialismo. Successivamente
svolge ricerche di estetica, di storia della filosofia e di teoretica.
Il pensiero di Pareyson parte da un ben preciso giudizio sull'esistenzialismo,
concepito come esito della dissoluzione della filosofia hegeliana e come ripresa di
interesse, dopo il suo affievolirsi col neopositivismo, per i problemi dell'uomo, sul
solco dei temi già affrontati da Feuerbach e Kierkegaard nella loro polemica contro
Hegel.
Pareyson tuttavia ritiene che la dissoluzione dell'hegelismo nell'esistenzialismo sia
rimasta impigliata nelle medesime categorie (concetti) di quel razionalismo
metafisico hegeliano di cui ha voluto essere la denuncia e l'antitesi. Da ciò
l'ambiguità costitutiva dell'esistenzialismo, antihegeliano ed hegeliano ad un tempo,
ed incapace quindi di un superamento definitivo dell'idealismo. Infatti
l'esistenzialismo, da un lato, ha voluto porsi, contro Hegel, come una rigorosa
filosofia del finito ovvero del finito di fronte all'infinito, ossia del finito che non si
risolve nell'infinito ma sta di fronte ad esso e ad esso tende: una filosofia dell'uomo
senza Dio o una filosofia dell'uomo di fronte a Dio. Ma, dall'altro lato,
l'esistenzialismo ha continuato a pensare il finito in termini negativi alla maniera di
Hegel: vale a dire che il finito di fronte all'infinito, cioè l'uomo di fronte a Dio, è
considerato peccatore, ma d’altro canto il finito concepito sufficiente a se stesso,
cioè l'uomo senza Dio, è considerato come manchevole e bisognoso. Insomma
81
82

l'esistenzialismo, proprio mentre intende rivalutare il finito, cioè il particolare e


l'individuale, si accontenta di dissociarlo dall'infinito in cui lo la filosofia hegeliana
lo assorbiva, seguitando ad attribuirgli lo stesso carattere di negatività come Hegel.
Pareyson reputa allora che l'esistenzialismo, per pensare in modo adeguato il finito e
superare in modo radicale l' hegelismo, dovrebbe assumere la forma di un
"personalismo ontologico", intendendo con questa formula una filosofia che
interpreti l'esistenza come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione, ossia
come coincidenza di rapporti con sé e rapporti con l'altro. In tal senso si può
affermare quindi che l'uomo non ha rapporto con l'essere (non c'è rapporto tra
negativo e positivo) ma che l'uomo "è" rapporto con l'essere (per cui il negativo si
trasforma in positività): il finito, pur seguitando a risultare insufficiente, risulta
tuttavia anche positivo; non tanto positivo da essere sufficiente, ma neppure tanto
insufficiente da essere negativo.
Questo personalismo ontologico, teso a salvaguardare sia i diritti della persona (il
finito) che quelli dell'essere (l'infinito), è un filosofare di valenza ermeneutica. Il
rapporto ontologico originario è di per sé ermeneutico: infatti dire che l'uomo è
rapporto con l'essere è come dire che l'uomo è interpretazione della verità. La
risposta alla domanda "che cos'è l'essere?" non consiste in una definizione oggettiva
e compiuta ma in una interpretazione personale continuativamente approfondibile.
Su questa base Pareyson ha esteso il concetto di interpretazione, inizialmente
elaborato nell'ambito dei suoi studi estetici, al campo esistenziale ed ontologico:
l'uomo è rapporto con l'essere in quanto lo interpreta ed è un rapporto che non è più
assimilabile al rapporto soggetto-oggetto. Ne deriva pertanto la natura soggettiva e
personale della verità (la verità è graduale appropriazione da parte dell'io), ma al
tempo stesso la natura "sovrastata" dell'io, che è sempre rapporto a sé e ad altro,
ossia ad un essere che ci supera e ci costituisce.
Secondo questa prospettiva, l'ermeneutica filosofica di Pareyson affronta quindi
grandi interrogativi del tipo: "Com'è possibile filosofare se la filosofia è sempre
storicamente condizionata? E’ ancora possibile riconoscere al pensiero filosofico un
valore di verità dopo che i demistificatori (Hegel, Marx, Nietzsche, Freud, Dilthey)
ne hanno dimostrato la condizionabilità storica, materiale, ideologica, psicologica,
culturale? Il riconoscimento di un'essenziale molteplicità della filosofia non
comprometterà irrimediabilmente l'unicità della verità? Come conciliare l'unità della
verità con la molteplicità delle sue formulazioni?".
Pareyson cerca di rispondere a queste domande sostenendo, al tempo stesso, l'unicità
della verità e la pluralità storica e personale delle sue interpretazioni. La verità è
colta solo in una interpretazione e dunque è inoggettivabile; è accessibile solo
all'interno di una formulazione personale o collettiva, cioè storica. Tuttavia questo
non significa che la verità sfugga alle forme in cui la cogliamo, ma solo che non tutta
la verità ci è data in esse: quello che incontriamo nell'interpretazione è una verità
autentica ma non definitiva. La verità è unica ma molteplici sono, di volta in volta, le
sue interpretazioni, le quali tuttavia si muovono tutte verso una ricerca di verità
ulteriore in un processo inesauribile. Questo processo è appunto chiamato da

82
83

Pareyson "ontologia dell'inesauribile" contrapposto al misticismo dell'ineffabile


(=inesprimibile), della indicibilità dell'essere, di stampo heideggeriano.
L'ontologia dell'inesauribile vuole evitare sia l'illusione di un'ontologia
dell'esplicitazione totale (Hegel), che pretenda di afferrare definitivamente la verità,
sia la vaghezza di un'ontologia dell'ineffabile (Heidegger), che si arena di fronte
all'ulteriorità (all'assoluta alterità che sta oltre) dell'essere. Non ci sarebbe
interpretazione se la verità fosse o tutta nascosta o tutta manifesta: un
nascondimento totale della verità ne rende impossibile qualsiasi interpretazione; una
manifestazione completa comporta la rinuncia a ricercare qualsiasi altra ulteriorità
che è la fonte del nuovo.
All'irrazionalismo dell'ineffabilità totale e al razionalismo dell'enunciazione
completa, Pareyson contrappone invece una filosofia dell'interpretazione o una
filosofia dell'implicito (ciò che rimane ancora implicito nella serie delle
interpretazioni), basata sulla consapevolezza che non si può possedere la verità se
non nella forma del doverla cercare ancora.
Parimenti, e a maggior ragione, il concetto della natura veritativa (della capacità di
cogliere la verità, sia pure in parte e gradualmente) del pensiero interpretante si
contrappone a quelle forme nichilistiche e nominalistiche di ermeneutica le quali,
privando l'interpretazione di ogni portata rivelativa, finiscono per ridurre la verità
ad una serie di punti di vista relativi e soggettivi.
Ben lungi dall'identificare la persona con la situazione e l'essere col tempo (o la
storia), come in Heidegger, Pareyson insiste invece sulla differenza tra pensiero
espressivo, che si limita ad esprimere la situazione storica e si chiude in se stesso, e
pensiero rivelativo il quale, insieme al proprio tempo (e quindi includendo in sé
anche il pensiero espressivo), rivela anche la verità, si apre alla verità. Mentre
Gadamer, preoccupato di cadere nella metafisica e nell'infinità, si muove in un
orizzonte finito e storicistico, Pareyson tenta di agganciare il finito all'infinito e di
salvaguardare, pur rimanendo all'interno di una teoria dell'interpretazione, lo
spessore ontologico e il carattere trascendente o metastorico della verità, tant'è che
essa viene concepita come "unica e intemporale all'interno delle molteplici e storiche
formulazioni che se ne danno". La verità è guardata come madre e non figlia del
tempo (della storia); come fonte e non come oggetto di interpretazione.
Inoltre, mentre Gadamer è più interessato a mettere in luce ciò che da sempre accade
al di là della nostra volontà e scelta (a causa della tradizione e dell'eredità culturale
e storica che ci condizionano) Pareyson, conformemente all'origine esistenzialistica
del suo pensiero (la libertà/responsabilità del progetto esistenziale), si mostra
particolarmente attento al valore della "libertà". Per Pareyson, a differenza di
Gadamer, la verità non è un gioco da cui si è "presi" o "giocati" e nemmeno una
sorta di dato ontologico auto-imponentesi al soggetto, ma un "appello" a cui l'uomo,
sintesi di attività e recettività, può liberamente rispondere o non rispondere.
Quella di Pareyson è quindi ontologia della persona (che è rapporto con l'essere), è
ontologia dell'inesauribile ma è anche "ontologia della libertà", perché la libertà
precede l'essere anche nell'essere stesso: in origine vi è dapprima la scelta di essere.

83
84

Contemporaneamente Pareyson ha manifestato una viva sensibilità sia per


l'ermeneutica del mito, concepito come interpretazione primordiale della verità, sia
per la problematica del male. Parte dall'idea che il male non è assenza di essere,
privazione di bene, mancanza di realtà, ma che male e dolore sono la parte negativa
della realtà. Pareyson mette in discussione tutte le teodicee del passato (le passate
spiegazioni-giustificazioni intorno al male): di fronte al male la filosofia o lo ha
interamente negato, come nel caso della concezione storica del fato o nei grandi
sistemi razionalistici come l'hegelismo, oppure ne ha attenuato se non eliminato la
distinzione dal bene, come nel diffuso empirismo moderno, ovvero lo ha minimizzato
interpretandolo come semplice privazione o mancanza o, ancora, lo ha inserito in un
ordine totale e armonico con una precisa funzione, secondo una dialettica che
considera lo stesso Satana collaboratore necessarie di Dio. La Teodicea non ha
compreso che Dio e il male (il male assoluto) si possono o cancellare entrambi (e
questa è la via dell'ateismo confortevole, del nichilismo consolatorio) oppure si
devono affermare entrambi e non presentarli come un dilemma (e questa è la via del
pensiero tragico). La tesi di Pareyson è che la presenza del male e la presenza di
Dio non sono incompatibili ma si richiamano a vicenda. Dio infatti è libertà che, pur
vincendo le tenebre, conserva in sé una traccia del male sconfitto. Che altro è Dio se
non la vittoria sul nulla e sul male? Ed è qui che si presenta un elemento
sconvolgente e conturbante: l'esistenza del male in Dio. Proprio perché è positività,
Dio ha dovuto conoscere la negatività e fare esperienza del negativo per debellarlo.
Proprio per scartare il male egli ha dovuto tenerlo presente. La figura di Cristo, la
sofferenza e il male patito, è il simbolo che serve a spiegare la parentele di Dio con il
dolore. Pareyson richiama la tesi di Pascal: "Solo nella conoscenza del Cristo si può
trovare tanto Dio quanto la nostra miseria".

Paul Ricoeur ( 1913-2005).

Insegna nei licei e poi all'università della Sorbona di Parigi, a Chicago e a Nanterre.
Nella sua formazione intervengono la fenomenologia di Husserl e l'esistenzialismo di
Jaspers e Marcel.
Il suo programma è di recuperare all'ermeneutica quel buon rapporto con la
scienza che Heidegger e Gadamer avevano pregiudicato: occorre definire la
"logica" dell'ermeneutica e chiarirne il rapporto con altre forme di conoscenza o di
esperienza. Lungo questa linea Ricoeur intende evidenziare la derivazione
dell'ermeneutica dalla fenomenologia. Heidegger infatti aveva tentato di
oltrepassare l'impostazione prevalentemente gnoseologica della fenomenologia in
una direzione ontologica e aveva interpretato la critica husserliana dell'oggettivismo
scientifico come rifiuto della stessa problematica scientifica. In questa direzione si
era mosso anche Gadamer. Ricoeur invece si propone di recuperare all'interno
dell'ermeneutica le tematiche gnoseologiche ma anche epistemologiche.
84
85

Le prime ricerche di Ricoeur sono incentrate su temi come la volontà, il male, la


colpa e rappresentano tentativi originali di applicare il metodo fenomenologico a
questi ambiti. Peraltro, l'interesse di Ricoeur è maggiormente rivolto verso la
molteplicità dei fenomeni espressivi e del loro significato di senso anziché verso il
loro aspetto teoretico-conoscitivo come in Husserl. Fin dall'inizio Ricoeur prende le
distanze dall'orientamento cartesiano di Husserl, mettendo in discussione la
fondamentalità del cogito (la coscienza, il pensiero) husserliano: non è il mondo che
è nel cogito ma è piuttosto il cogito che è nel mondo. Del resto, lo stesso Husserl
dichiarava il carattere intenzionale della coscienza, che Ricoeur in tal senso
accentua.
La riflessione di Ricoeur, più che in termini di impianto sistematico si sviluppa
secondo alcuni grandi cicli tematici. Vale prendere in esame quello dedicato a una
"filosofia della volontà", che occupa l’autore nel decennio dal 1950 al 1960, con
cui Ricoeur applica il metodo fenomenologico all'analisi della vita pratica, rimasta
in secondo piano in Husserl. Contro la riduzione della volontà ad atto di libertà
pura, Ricoeur intende mettere in luce la dinamica di volontario e involontario, di
conscio e inconscio che è sottesa a ogni decisione, focalizzando così il problema del
pre-razionale. In tale contesto tratta anche il problema della colpa e del male che
possono essere considerati come una evidenziazione dei limiti della volontà e della
visione meramente morale del mondo.
In questo percorso è comprensibile l'avvicinarsi di Ricoeur ad Heidegger e
all'ermeneutica e quindi al problema dell'interpretazione di senso e del linguaggio,
passando cioè dal piano di un'indagine descrittivo-analitica, che la fenomenologia
condivide con la filosofia del linguaggio anglosassone, al piano di una filosofia
ontologica dell'interpretazione ( una filosofia interpretativa della realtà), da cui ha
origine l' ermeneutica.
La fenomenologia infatti si caratterizza per una sospensione dell'atteggiamento
"naturale" (epoché), grazie a cui ciò che chiamiamo "mondo" si dilegua e si fa avanti
la cosa ovvero il "vissuto" (l'umano esperire e sentire). L'ambizione della
fenomenologia è appunto di andare alle "cose stesse", cioè alla manifestazione di ciò
che si mostra all'esperienza, privata di tutte le costruzioni ereditate dalla storia
culturale, filosofica, teologica. Il limite della fenomenologia tuttavia, dice Ricoeur, è
quello di essersi prevalentemente fermata ad una analitica (un'analisi) della
percezione. Invece l'analisi dei vissuti presuppone un'indagine più ampia che miri
anche alle esperienze del "senso" e che coinvolga una analitica dell'essere e
dell'azione. Da ciò l'approdo all'ermeneutica che pone maggiormente l'accento sulla
pluralità delle interpretazioni di senso. Ma anche l'ermeneutica sbaglia, prosegue
Ricoeur, perché si contrappone, in quanto filosofia ontologico-interpretativa,
all'impostazione analitico-descrittiva della fenomenologia, presentandosi in tal modo
come nuova versione della differenza teorizzata da Dilthey tra scienze della natura e
scienze umane. Tale contrapposizione non ha invece motivo di esistere poiché c'è una
consequenzialità naturale e un'integrabilità dei due indirizzi filosofici. Ricoeur si
propone pertanto una mediazione tra le esigenze epistemologiche della
fenomenologia, delle scienze umane a base strutturale e di taluni esiti delle filosofie
85
86

analitiche da un lato e, dall'altro lato, l'ermeneutica nei suoi risvolti ontologici ed


esistenzialisti. In tale prospettiva di integrazione si inquadra il punto di massima
divergenza tra Ricoeur e Gadamer.
Ricoeur si pone dunque l'obiettivo di una ontologia della comprensione che superi il
piano descrittivo-analitico entro cui si è fermata la fenomenologia senza però
negarlo, ma partendo da esso. L'ermeneutica non ha mai finito di "fare i conti" con
la fenomenologia perché ogni ermeneutica presuppone il problema intenzionale del
senso, proprio della fenomenologia, il quale è altresì presupposto fondamentale di
una filosofia dell'interpretazione poiché ogni interrogativo circa un qualsiasi ente è
un interrogativo circa il senso di tale ente. D'altra parte, ogni fenomenologia del
senso non può a sua volta non approdare a una teoria e a una pratica
dell'interpretazione, perché il senso dell'ente non si dà mai puro (non è una pura
autodatità, un puro presentarsi, della cosa) ma sempre in uno con la sua
interpretazione.
Due sono le vie indicate da Ricoeur per giungere ad una ontologia della
comprensione (una comprensione della realtà): la "via corta", praticata da
Heidegger ma non condivisa, e una "via lunga", più tortuosa e faticosa, fatta
propria da Ricoeur.
Ricoeur definisce "via corta" quella di Heidegger perché il filosofo tedesco si
colloca immediatamente sul piano ontologico. Alla domanda "a quale condizione un
soggetto conoscente può comprendere un testo o la storia?", sostituisce la domanda
"che cos'è un essere il cui essere consiste nel comprendere?". Ma così, dice Ricoeur,
il problema ermeneutico dell'interpretazione è saltato a piè pari ed è schiacciato
dall'immediata proposizione del problema ontologico, del problema dell'essere.
Invece, ribadisce, il senso dell'essere non si dà mai da solo, al di fuori di ogni
orizzonte (situazione) interpretativo.
Anche Ricoeur ha l'ambizione di portare la riflessione a livello ontologico, tuttavia
preferisce seguire una "via più lunga", più articolata, continuativa e senza salti tra
fenomenologia, ermeneutica ed ontologia. Una via che passa attraverso tre tappe: il
piano semantico; quello riflessivo-interpretativo; quello ontologico.
"Ciò contro cui mi oppongo, scrive Ricoeur, è un'ontologia separata che abbia rotto
il dialogo con le scienze umane. Ecco, è questo che mi ha colpito in Gadamer. Tra
verità (filosofia) e metodo (scienza) secondo me bisogna cercare un cammino (un
incontro) perché la filosofia è sempre morta tutte le volte che ha interrotto il suo
dialogo con le scienze".
Ricoeur coltiva la sua teoria dell'interpretazione con un'impressionante vastità di
riferimenti culturali, che spaziano dalla linguistica alla psicanalisi, dalla semiotica
all'antropologia strutturale, dal pensiero antico alla filosofia analitica. Da ciò la
rinuncia a una definizione univoca della verità e l'ideale di un "filosofare in
comune", di un dialogo filosofico, teso a far "coabitare" autori e movimenti
disparati.
Insistendo sulla sproporzione tra fragilità e fallibilità dell'uomo rispetto all'essere
infinito, Ricoeur sottolinea l'esigenza di un'ontologia diretta della realtà umana sullo
sfondo di uno ontologia dell'essere in generale. Il rapporto sproporzionato tra
86
87

finitezza e infinità costituisce il "luogo" ontologico tra "l'essere e il nulla" o, se si


preferisce, il "grado di essere" dell'uomo.
Per Ricoeur Freud avrebbe prodotto la crisi della filosofia del cogito ed avrebbe
stimolato una nuova filosofia dell'uomo in grado di fare della coscienza non più un
"dato" (l'essere conscio), bensì un "compito" (il divenire conscio). Dopo Freud
Ricoeur è convinto che si sia delineata la possibilità di una duplice lettura-
interpretazione della psiche: una dal punto di vista dell'archeologia (del passato) del
soggetto e l'altra dal punto di vista della teologia (del destino) del soggetto. La prima
si manifesta in un movimento analitico regressivo verso l'inconscio, inteso come
ordine del primordiale e dell'arcaico; la seconda si esprime con un movimento
(procedimento) sintetico (attraverso sintesi successive) e progressivo verso lo
"spirito", inteso come ordine del dover essere futuro. L'archeologia del soggetto si
propone di spiegare le figure (le fasi) successive con quelle anteriori, come ad
esempio nella tragedia l'Edipo di Sofocle. Il suo presupposto è che l'uomo sia l'essere
destinato a rimanere preda della sua infanzia (dei suoi istinti inconsci). La teologia
del soggetto trova il suo modello nella "Fenomenologia dello spirito" di Hegel e si
propone, al contrario, di spiegare le figure anteriori con quelle posteriori. Il suo
presupposto è la coscienza come compito, cioè come verità assicurata (acquisibile)
solo alla fine del processo. Queste due diverse letture della psiche non sono
contrapposte, secondo Ricoeur, ma complementari: devono essere articolate fra di
esse secondo un rapporto (dialettico) di complementarietà in grado di superare la
statica alternativa fra un’"ermeneutica demistificatrice", tipica dei "maestri del
sospetto" (Marx, Nietzsche e Freud) ed un’ "ermeneutica restauratrice", tipica dei
filosofi protese a salvare la portata rivelativa e veritativa dei singoli in relazione
all'esistenza e al sacro. Per Ricoeur non c'è contrapposizione fra interpretazione e
simbolo bensì connessione. Il simbolo si riferisce ad un senso letterale col quale si
designa un senso indiretto, figurato. L'interpretazione consiste nel decifrare il senso
nascosto, figurato, nel senso apparente. Simbolo e interpretazione divengono così
concetti correlativi; c'è interpretazione là dove c'è senso molteplice ed è
nell'interpretazione che la pluralità dei sensi è resa manifesta. Tuttavia, poiché
l'interpretazione si specifica in una molteplicità conflittuale di modelli
interpretativi, risulta indispensabile un'azione di "arbitraggio" volta a contrastare
le loro pretese totalitarie (unilaterali).
A questo punto Ricoeur perviene ad un secondo ciclo di temi (1960-1975)
consistente nello sviluppo di una filosofia ermeneutica consapevole del conflitto
delle interpretazioni, cioè del carattere conflittuale dell'ermeneutica stessa che le
impedisce di giungere allo stato di un "sapere unificato". È qui importante, per
Ricoeur, il confronto, da un lato, con i " tre maestri del sospetto", i quali col loro
insegnamento hanno suggerito l'idea, che ha tormentato la cultura contemporanea,
secondo cui il senso del vero e del falso, del bene del male (Nietzsche) della dinamica
sociale (Marx) e della vita cosciente (Freud) non sta alla superficie (in evidenza) ma
va "sospettato" ad un livello più profondo (la volontà di potenza, la struttura
economica, l'inconscio) in cui è da ricercare la vera spiegazione di ciò che accade in
superficie. Ma è importante, dall'altro lato, il contatto con le metodologie di ricerca
87
88

delle diverse discipline scientifiche, secondo il principio che tra verità e metodo non
vi è, come per Gadamer, un'opposizione ma una implicazione reciproca, in quanto
per Ricoeur la considerazione dell'oggettività scientifica è un passaggio obbligato
nella comprensione del senso.
Di conseguenza, Ricoeur prende posizione nei confronti della psicanalisi e dello
strutturalismo, i quali sono perfettamente legittimi quando operano nell'ambito
proprio (quello delle strutture inconsce), mentre diventano insostenibili quando
pretendono di invadere il settore dell'ermeneutica. Tra modello strutturale e modello
ermeneutico esistono infatti profonde differenze, in quanto la spiegazione strutturale
si basa su di un sistema inconscio indipendentemente dall'osservatore, mentre
l'interpretazione di senso si basa su di un processo attivo di presa di coscienza da
parte dell'interprete rispetto al fondo simbolico.
Un'analoga funzione di "arbitraggio" è pure indicata da Ricoeur nei confronti del
dibattito circa l'ermeneutica e la critica dell'ideologia, nell'intento di salvare quelli
che per lui sono gli irrinunciabili nuclei di verità presenti nelle rispettive istanze
(prospettive, modi di giudicare): da una parte, l'ineludibile appartenenza alla storia
e alla tradizione (Gadamer); dall'altra, l'impegno critico che presuppone un distacco
dalla situazione storica (Habermas).
A partire dagli anni Settanta Ricoeur si è concentrato sulle problematiche del testo,
delle metafore e del linguaggio. Si oppone alla dottrina strutturalista del linguaggio,
come insieme chiuso e formalizzato di segni, a favore di una concezione della
complessità del parlare umano, in grado di spiegare gli aspetti "creativi" del
linguaggio, come in particolare nella metafora, che apre nuove dimensioni e nuovi
orizzonti di significato, scoprendo e producendo al tempo stesso nuovi aspetti della
realtà. Alla metafora Ricoeur assegna una funzione conoscitiva importante, vale a
dire la produzione di "innovazioni semantiche" (di nuovi significati).
Per Ricoeur il linguaggio è anzitutto "discorso", cioè "un dire qualcosa su qualcosa
a qualcuno", formula che intende riassumere la triplice apertura (prospettiva) del
discorso: verso il soggetto parlante, verso il mondo, verso gli altri. Ricoeur obietta
tanto a Gadamer quanto allo strutturalismo che "il linguaggio non è in se stesso
mondo, ma è assoggettato a un mondo, rinvia ad un mondo". Viene quindi respinto il
"panlinguismo" di tanta cultura contemporanea. La vocazione (l'interesse)
ontologica di Ricoeur nasce proprio dal bisogno di procedere oltre il panlinguismo
per ritrovare il rapporto dell'uomo con l'essere e la trascendenza: il linguaggio non è
mai in se stesso ma sempre su qualche cosa (il linguaggio non è fine a se stesso, ma
trascende, supera se stesso per riferirsi a qualche cosa d'altro). Ricoeur propone una
nuova ontologia che dovrebbe innanzitutto attuare il passaggio da una "prima"
rivoluzione copernicana, fondata sul moderno primato della soggettività, ad una
"seconda" rivoluzione copernicana, in grado di riportare la soggettività all'essere,
senza ritornare per questo ad un mondo di oggetti ma collocando la soggettività nelle
debite proporzioni (in rapporto) con l'essere. Il permanente interesse di Ricoeur per
l'essere del soggetto (e per le sue opere) non esclude ma implica il permanente
interesse per l'essere, all'interno del quale (il mondo) o in dipendenza del quale (il
sacro e la trascendenza) il soggetto si trova concretamente ad esistere. Ricoeur
88
89

sviluppo in tal senso una "ermeneutica del sé", ossia una riflessione sul problema
dell'identità personale e sul suo costituirsi attraverso l'azione. È soprattutto
attraverso l'analisi dell'agire umano, quindi sulla base di una filosofia pratica, che
Ricoeur arriva a configurare la possibilità di una determinazione della persona
umana, non solo come mero soggetto agente ma anche nella prospettiva di
un'ontologia (di una concreta essenza) della persona.

89
90

LO STRUTTURALISMO.

Lo strutturalismo, più che un movimento, è una tendenza di pensiero nata


originariamente in ambito linguistico (con De Saussure) e che ben presto si è estesa
ad altri settori (dall'antropologia alla linguistica, alla critica letteraria, alla psicanalisi
ed anche alla biologia), dando luogo negli anni sessanta-settanta del Novecento ad
una specifica "atmosfera culturale" avente il suo centro di irradiazione in Francia.
Tale atmosfera non si è storicamente incarnata in un indirizzo omogeneo ma si è
caratterizzata attraverso una serie di dottrine tra di loro diverse. Pertanto, il
comune orientamento di fondo che qualifica lo strutturalismo è individuabile,
più che in specifici contenuti di pensiero, per una condivisa polemica:
1. contro l'atomismo e il sostanzialismo: la realtà non è il derivato di singoli
elementi concettuali o di singole sostanze, ma è un sistema di relazioni i cui
termini componenti non hanno valore di per se stessi ma solo in connessione
fra loro;
2. contro l'umanismo e il coscienzalismo: l'individuo non è il libero e
consapevole autore di se stesso (come dichiarato dall'esistenzialismo in ordine
al "progetto esistenziale"), bensì il risultato di strutture che agiscono perlopiù a
livello inconscio (Freud) o come condizionamenti materiali sulla coscienza
individuale (Marx); vale cioè il primato della struttura sull'uomo; da ciò, dopo
la morte nietzschiana di Dio, consegue la teoria della "dissoluzione" o della
"morte" dell'uomo, che rappresenta il tema filosoficamente più caratteristico e
provocatorio dell'intero atteggiamento strutturalista;
3. contro lo storicismo, ossia contro la visione ottocentesca di un divenire (uno
sviluppo storico) omogeneo e unilineare, immancabilmente diretto verso il
trionfo dell'uomo e dei suoi valori (libertà, giustizia, ecc.); la storia invece,
secondo la concezione strutturalistica, è un insieme discontinuo di processi
eterogenei retti da un sistema impersonale (indipendente dalle singole persone)
di strutture psico-antropologiche, culturali, economiche, ecc.; contro la
considerazione della realtà in termini di sviluppo e progresso, lo strutturalismo
difende la concezione della realtà come insieme relativamente costante e
uniforme di relazioni tra gli elementi componenti la struttura; di conseguenza
viene privilegiato, nello studio dei sistemi strutturali, il punto di vista
sincronico (statico, simultaneo) rispetto a quello diacronico (dinamico,
storico) nonché la propensione, da parte di alcuni autori, a considerare le
vicende storiche come qualcosa di superficiale e secondario nei confronti della
realtà profonda e primaria delle strutture;
4. contro l'empirismo e il soggettivismo: fare scienza significa procedere al di là
delle esperienze empiriche e dei vissuti personali per collocarsi in un punto di
vista assolutamente oggettivo; da ciò il progetto di studiare l'uomo "dal di
fuori" e il ripudio dei cosiddetti "dati immediati della coscienza" come via di
accesso alla verità.
Per il tentativo di proporre una nuova e più scientifica visione del mondo,
appoggiata dalle forze intellettuali e politiche avverse alle "vecchie" forme culturali
90
91

di tipo umanistico-retorico ma favorevoli ad una mentalità rigorosa, lo


strutturalismo viene pertanto a contrapporsi alle filosofie del primo Novecento
quali l'idealismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo, il pragmatismo, il
marxismo.
Fra le diverse nozioni di struttura concepite dallo strutturalismo, la più
qualificante appare quella di Lévi-Strauss, secondo cui la struttura è un sistema,
cioè un insieme di parti fra loro collegate secondo specifiche regole di relazione e
combinazione in base alle quali poterne comprendere le possibili trasformazioni.
Qui il concetto di trasformazione ha una valenza logico-matematica in quanto
descrittivo-esplicativo delle variazioni possibili del sistema, vale a dire in grado di
spiegare le possibili variazioni degli altri elementi del sistema alla variazione di
un suo elemento. Ogni struttura è autoregolata in quanto ha come fine il
funzionamento e la conservazione di sé medesima.
Come si può notare, questa nozione di struttura presenta una sua specificità rispetto a
quelle tradizionali di sistema, di organismo, ecc. Ai fini della comprensione delle
regole riguardanti la combinazione degli elementi della struttura e la previsionabilità
dei successivi relativi movimenti, può essere portato ad esempio il gioco degli
scacchi. Per tale insieme di caratteristiche la struttura può venire studiata
tramite modelli di tipo logico-matematico, capaci di esprimere, con formule e
simboli, le possibili combinazioni fra i suoi elementi costitutivi. Sorge a questo
punto un problema: il fatto che le strutture siano matematicamente concepibili
significa forse che esse sono semplicemente prodotte dalla nostra mente per rendere
comprensibile una realtà a prima vista caotica? In altri termini, le strutture (come i
concetti, gli "universali") hanno consistenza reale o solo mentale? In proposito lo
strutturalismo, a volte anche nell'opera di uno stesso autore, oscilla tra
un'interpretazione realistica e un'interpretazione metodologica della struttura.
Secondo la prima, la struttura è ciò che costituisce ontologicamente l'uomo, la società
e il mondo; per la seconda, la struttura è un modello ipotetico in grado di stabilire
relazioni controllabili tra gli elementi della struttura stessa e di formulare previsioni
statistiche delle loro trasformazioni.
Con lo strutturalismo dunque si avanzano soluzioni ben diverse rispetto alle filosofie
soggettivistiche e storicistiche. Al fine di rendere scientifiche le scienze umane, gli
strutturalisti hanno voluto invertire la direzione di marcia del sapere sull'uomo:
hanno inteso spodestare il soggetto (l'io, la coscienza, lo spirito) e le sue capacità di
libertà, di autodeterminazione, di creatività, ponendo a fondamento condizionante
del medesimo strutture profonde, inconscie, onnideterminanti. Scrive Lévi-
Strauss: "non esistono da un lato le scienze esatte e naturali e dall'altro le scienze
sociali e umane. C'è un solo modo di approccio che ha carattere scientifico. Le
scienze umane possono diventare scienze solo cessando di essere umane. L'immagine
dell'uomo costruita dei vari umanismi (esistenzialismo, idealismo, ecc.) è falsa".
In particolare, gli strutturalisti considerano che:
1. la linguistica strutturale ha mostrato i complessi meccanismi di quella struttura
che è il linguaggio (i meccanismi fonologici, sintattici, ecc.), all'interno delle
cui possibilità si muove il nostro pensiero;
91
92

2. l'etnolinguistica ci ha fatto vedere come la nostra visione del mondo dipenda


dal linguaggio che parliamo;
3. il marxismo ha posto in evidenza il peso della struttura economica sulla vita
dell'individuo, sulle sue idee e sui rapporti sociali;
4. la psicanalisi ha scoperto la struttura dell'inconscio che governa i
comportamenti consci dell'io;
5. l'antropologia pone in evidenza sistemi compatti di regole, di valori, di idee, di
miti che ci plasmano fin dalla nascita;
6. una storiografia rinnovata (ad esempio le "rotture epistemologiche) di
Bachelard) ci mette di fronte ad una storia del sapere come sviluppo
discontinuo di strutture che in-formano e condizionano il pensiero, la pratica e
le istituzioni.
Di fronte all'onnipotenza e onnipresenza di queste strutture psico-logiche,
economiche e sociali, seguitare a parlare di un soggetto libero, responsabile, creativo
e facitore di storia è un inganno: la libertà si assottiglia e si smarrisce in un mondo
sempre più "amministrato" e organizzato, fonte dei condizionamenti che l'uomo
scopre e degli ostacoli che egli stesso magari si è creato nel perseguire illusorie
iniziative libere e creative.
Per lo strutturalismo l'idea di fondo non è l'essere ma la relazione, non è il
soggetto ma la struttura. Gli uomini singoli, come i singoli pezzi nel gioco degli
scacchi, non hanno significato di per sé e non esistono al di fuori delle relazioni che li
costituiscono, dalle quali si trovano condizionati. Gli uomini sono elementi di una
struttura che li sovrasta e non sostanze. L'umanismo esalta l'uomo ma non lo
spiega. Lo strutturalismo intende invece spiegarlo, ma spiegandolo proclama,
dopo la morte di Dio, che anche l'uomo è morto (è morto in quanto è illusoria la
sua libertà e creatività). L'uomo è stato ucciso dalle scienze umane nell'averlo
concepito come produttore delle sue opere della sua storia. Anziché considerare gli
oggetti delle diverse scienze umane come produzioni storiche dell'uomo, inteso come
soggetto, lo strutturalismo li indaga invece dall'esterno per riconoscerne le strutture,
ossia le costanti e le relazioni sistematiche tra le parti costitutive (le strutture e le
combinazioni dei relativi elementi hanno carattere di stabilità e non sono soggette al
divenire, al continuo cambiamento storico). La scienza dell'uomo non è possibile
senza cancellare la coscienza dell'uomo. "Il fine ultimo delle scienze umane, scrive
Lévi-Strauss, non consiste nel costituire l'uomo ma nel dissolverlo". L'uomo non è
ente autonomo, ma è solo un elemento di molteplici strutture invarianti e
inconsce (strutture linguistiche, economiche, sociali, culturali), che si muovono
secondo regole logico-formali loro proprie e dalle quali l'uomo è governato.
Avendo avuto come precursore De Saussure, i maggiori esponenti dello
strutturalismo sono Lévi-Strauss, Foucault, Lacan e Althusser, definiti "i quattro
moschettieri dello strutturalismo". In una prospettiva di linguistica ormai post-
strutturalista si può citare anche Noam Chomsky.

92
93

Ferdinand De Saussure (1857-1913).

Di nazionalità svizzera, De Saussure, col suo celebre "Corso di linguistica generale",


ha prodotto negli studi di linguistica un'autentica rivoluzione decisiva anche per
l'avvento dello strutturalismo.
Secondo De Saussure la lingua è un "sistema di segni esprimenti delle idee". Se si
ipotizza l'esistenza di una scienza generale dei segni sociali, da De Saussure
chiamata "semiologia", la linguistica sarà allora una parte di quest'ultima e
precisamente la scienza che si occupa di quel tipo particolare di segno che è il
segno verbale (mentre la semiologia, disciplina più generale, studia anche i segni
non verbali quali la scrittura, i gesti, la mimica, i riti simbolici, le forme di cortesia, i
segnali militari, ecc.). L'oggetto specifico della linguistica non è tuttavia la totalità
del linguaggio, che in quanto tale può venire studiato da più punti di vista (fisico,
fisiologico, psichico, ecc.), bensì quella sua parte essenziale e costitutiva che è la
lingua. Il linguaggio è la generale facoltà di parlare; la lingua è un prodotto
sociale della facoltà del linguaggio. La lingua è un qualcosa di esterno all'individuo:
è un fatto istituzionale, è un'eredità che l'individuo apprende.
De Saussure opera quindi una prima fondamentale distinzione: quella fra lingua e
parola. La lingua è un prodotto sociale, cioè un sistema di segni, di regole e di
strutture che l'individuo apprende e assimila dalla comunità in cui vive senza poterla
inventare o mutare. La parola invece è il momento individuale, è un atto individuale
di costruzione anche di parole nuove; è atto mutevole e creativo del linguaggio; è il
modo in cui il soggetto parlante utilizza il sistema della lingua. Ed è la parola che fa
evolvere la lingua.
La seconda grande distinzione è fra sincronia e diacronia. La linguistica
sincronica (o statica) studia la lingua quale si presenta in un dato momento. La
linguistica diacronica (o dinamico-evolutiva) studia come la lingua si sviluppa nel
tempo. Secondo De Saussure il limite più grave della linguistica precedente è di aver
privilegiato la dimensione diacronica, evolutiva, della lingua rispetto a quella
sincronica, sistemica. Pur ammettendo che la sincronia non esclude la diacronia, De
Saussure il rivendica il primato del punto di vista sincronico poiché la lingua è un
sistema di "valori" determinato dallo stato momentaneo in cui si trovano i termini
linguistici. Detto altrimenti, sincronia (il valore attuale di un termine) ed
etimologia (la storia di un termine) sono due realtà distinte al punto che per la
comprensione della prima non è necessaria la comprensione della seconda. I segni
linguistici, le parole, valgono più per la loro forma (per il loro significato attuale) che
per la loro storia. Una linguistica pura può studiare soltanto la "lingua" e le sue
strutture quali si presentano in un dato momento, ossia in senso sincronico, e non in
base alla loro origine e sviluppo, ossia in senso diacronico.
Dal punto di vista sincronico De Saussure definisce la lingua come un sistema di
segni linguistici con i quali avviene il collegamento di un suono con una
rappresentazione, cioè con un concetto, vale a dire il collegamento di un elemento
significante (il segno linguistico, la parola, che in quanto tale è un suono) con un
93
94

significato (con la rappresentazione o concetto della cosa indicata). La novità qui


introdotta consiste nel fatto che De Saussure concepisce la funzione del linguaggio
non più come rappresentazione di cose o contenuti, come nella concezione linguistica
precedente, poiché ciò significherebbe ridurre la lingua a qualcosa di secondario
rispetto a ciò che essa designa. La funzione significante del linguaggio invece è
immanente (sta dentro) alla lingua stessa, poiché i segni linguistici (le parole) sono
significanti non in base ai vari oggetti significati ma per la differenza che li distingue
l'uno dall'altro.
Tre sono dunque le fondamentali concezioni che De Saussure ha lasciato in
eredità allo strutturalismo:
1. il carattere strutturale della lingua, in cui ogni elemento ha valore solo in
rapporto agli altri;
2. il primato della lingua sul parlante, sul soggetto;
3. il primato della sincronia sulla diacronia (contro lo storicismo linguistico).

Lévi-Strauss (1908-1991).

Antropologo strutturalista francese, intitola la sua opera principale "Tristi tropici". È


esponente quindi di uno strutturalismo antropologico.
Secondo la definizione di struttura data da Lévi-Strauss quale vista in
precedenza, egli considera le strutture come forme e categorie invarianti
(costanti) che governano sin dalla notte dei tempi le azioni degli individui e che
stanno alla base di ogni cultura, costituendo nel loro insieme ciò che Lévi-Strauss
chiama lo "spirito umano", vale a dire un inconscio collettivo, generale e costante,
di tutta l'umanità: in ogni cultura e società sussistono elementi di base costanti e
universali; in tutti gli uomini, passati e presenti, è riscontrabile una comune natura
culturale, un comune modo di pensare e di sentire. In tal senso Lévi-Strauss si
presenta come una sorta di "Kant dell'antropologia", in quanto per lui la cultura
sociale deriva da una sintesi fra le mutevoli esperienze individuali e gli immutabili
schemi formali che costituiscono lo spirito umano, vale a dire l'immutabile, comune e
naturale struttura psichica dell'umanità. Ricoeur parla in proposito di "kantismo senza
soggetto trascendente", ovvero di un kantismo antropologico in cui al posto dell'io-
penso, ossia della coscienza, troviamo l'inconscio, cioè un'organizzazione formale
inconscia.
Da ciò l'antiumanismo di Lévi-Strauss, secondo cui le scienze umane possono
diventare scienze sono cessando di essere umane, nonché l'antistoricismo, poiché
per Lévi-Strauss il divenire storico è solo un movimento superficiale che scorre sulle
sottostanti universali ed invariabili strutture di fondo dello spirito umano, che si
ritrovano in ogni cultura e che fanno dell'umanità qualcosa di sostanzialmente
immutabile (la natura dell'uomo è ed è rimasta sempre costante in ogni tempo e
in ogni società). Questo antistoricismo, controcorrente rispetto ad una delle
convinzioni più radicate della modernità, vale a dire quella di progresso, permette a
94
95

Lévi-Strauss di proporre l'antropologia come scienza universale, ossia come una


forma di sapere capace di cogliere ciò che sta alla base di tutte le culture.
Lévi-Strauss ha applicato la sua metodologia strutturalista soprattutto a due
ambiti di ricerca: i legami di parentela, trattati nell'opera "Le strutture elementari
della parentela", e i miti, trattati nell'opera "Mitologiche".
Egli ha mostrato come la logica dei rapporti di parentela obbedisca al concetto
di scambio delle donne, ossia alla necessità di assicurare la circolazione delle donne
in tutta la società, impedendo che ogni singolo clan familiare si isoli in se stesso,
chiudendosi ai rapporti di collaborazione con gli altri; in questo modo il gruppo si
amplia sempre di più, passando da uno stato di natura primitiva ad una cultura più
sviluppata. Da tale concezione egli ricava altresì la spiegazione del tabù (del
divieto) dell'incesto.
Analogamente, Lévi-Strauss ha cercato di mettere in luce la presenza di una
ferrea logica (caratteristica) strutturale anche nel mondo apparentemente arbitrario
dei miti, mostrando come le molteplici storie mitologiche non siano nient'altro che
variazioni di determinati temi e motivi sempre uguali nello spazio e nel tempo. Il
mito non è il luogo della fantasia o della arbitrarietà ma è il modo in cui la mente dei
primitivi ordinava, classificava e dava senso ai fenomeni. In tal senso il pensiero
"selvaggio" non è affatto meno logico di quello dell'uomo civile, perché medesimo è
l'obiettivo di catalogazione degli eventi. Scomposti nei loro elementi, l'ampia
varietà dei miti risulta riconducibile a fondamentali e costanti categorie
(schemi): il padre e la madre, l'eroe e la vittima, l'amico e il nemico, il crudo e il
cotto, ecc.
In base alla scoperta delle costanti culturali, Lévi-Strauss nega, contro lo storicismo,
che la mentalità moderna sia superiore a quella primitiva, essendo entrambe
ugualmente complesse. Soprattutto, contro la fenomenologia e l'esistenzialismo, e
contro Sartre in particolare, egli afferma che il giudizio dato dal soggetto circa la
propria cultura è fondamentalmente etnocentrico, vale a dire che la propria cultura è
sempre considerata quella superiore. È tale fatto che per lo più impedisce la
consapevolezza delle costanti culturali, tant'è vero che la produzione delle strutture
di fondo di una cultura, quali il sistema di relazioni sociali, i miti, la lingua, non è
opera di un'attività cosciente; l'io conscio è infatti un'apparizione molto tarda nella
storia dell'umanità.
Ulteriore caratteristica distinzione di Lévi-Strauss è quella tra "società fredde",
quelle primitive che hanno una conoscenza confusa del divenire della storia, e
"società calde", quelle evolute, che si fondono sul mutamento incessante dei modi di
vita. Le prime sono svantaggiate sul piano culturale poiché producono meno
progresso, ma sono avvantaggiate sul piano sociale in quanto generano meno conflitti
al proprio interno.
Infine, in Lévi-Strauss troviamo una delle più appassionate polemiche contro
l'etnocentrismo, ossia contro la tendenza a considerare la propria cultura superiore
rispetto tutte le altre. Anzi, i primitivi sono visti talora come l'incarnazione di
un'umanità più vergine e più pura, in antitesi alla civiltà sempre più alienata e
denaturalizzata dell'Occidente.
95
96

Michel Foucault (1926-1984).

È esponente francese di uno strutturalismo storico.


Opere principali: Storia della follia nell'età classica; Le parole e le cose; Una
archeologia delle scienze umane.
Influenzato da Nietzsche, alla base del pensiero di Foucault sta l'idea di una
"archeologia del sapere" (di una ricostruzione archeologica del sapere a partire dal
Cinquecento), volta a mettere in luce le motivazioni teorico-concettuali di alcune
pratiche di fondo dell'età moderna: tra queste la pratica nel trattare i casi di follia.
Foucault descrive il modo poco ragionevole con cui, per il timore di una ragione
diversa, anormale, le persone cosiddette "normali" e "razionali" dell'Europa
occidentale hanno relegato in strutture chiuse (i manicomi) i malati di mente,
stabilendo in maniera repressiva cosa è mentalmente normale e cosa è patologico.
Influenzato dallo strutturalismo, Foucault si propone di portare alla luce le
strutture mentali (le mentalità) di base inconsce e collettive, chiamate "epistemi",
che hanno informato (caratterizzato) la storia europea dal Cinquecento in poi.
Secondo il comune indirizzo antistoricista dello strutturalismo, per Foucault la storia
in generale, e quella della cultura e della scienza in particolare, non è progressiva
ma discontinua ed è in-formata o governata da strutture epistemiche, cioè da
epistemi, che agiscono a livello inconscio. La struttura epistemica o gli epistemi
(visioni del mondo) sono in particolare definiti come l'insieme di tutti i rapporti che si
sono stabiliti in una certa epoca fra i vari campi del sapere e della scienza (ad
esempio tra matematica e fisica, fra linguistica e biologia, tra evoluzione e
storiografia, ecc.). Questi rapporti sono rivelati dalle pratiche discorsive adottate, cioè
dai significati di volta in volta attribuita ai segni (alle parole o simili), significati che
talora sono di corrispondenza, talaltra di rappresentazione o di esteriorità o di latenza.
La scienza che studia tali discorsi e tali epistemi è quella che Foucault chiama, per
l'appunto, "archeologia del sapere".
Come si può osservare in proposito, l'argomentazione si fa talora più astratta. Non
sempre gli strutturalisti si sono limitati a concepire il loro indirizzo come un principio
euristico, ossia come un metodo di ricerca utile a evidenziare strutture e meccanismi
latenti (profondi, nascosti, inconsci) esplicativi di aspetti della realtà. In taluni casi
l'indirizzo strutturalista è stato trasformato in una teoria cui è stato attribuito un valore
assoluto, diventando una nuova metafisica, un idealismo soggettivo con risvolti
irrazionalistici: il passaggio da una struttura epistemica ad un'altra, in quanto
discontinuo, non è infatti razionalmente spiegabile.
Foucault distingue tre epistemi (modi inconsci di pensare e di considerare il
rapporto con la realtà succedutisi nella storia) fondamentali:
1. quello rinascimentale, caratterizzato dalla corrispondenza tra parole e cose;
2. quello classico, da Cartesio fino alla fine del 18º secolo, in cui le parole non
corrispondono alle cose ma le rappresentano come fenomeni;
3. quello moderno, in cui le parole, cioè il pensiero, il sapere, vanno oltre la
rappresentazione visibile per ricercare strutture nascoste, inconsce,
condizionanti.
96
97

Dei tre epistemi sopraindicati quello su cui maggiormente insiste Foucault è


l'ultimo, quello moderno, perché solo in epoca moderna si ha la "nascita"
dell'uomo, ossia la nascita delle scienze umane (psicologia, psicoanalisi, etnologia,
sociologia, linguistica, ecc.). Prima della fine del 18º secolo l'uomo non esisteva;
l'uomo è un'invenzione recente poiché in precedenza non esisteva la peculiare figura
dell'uomo come oggetto-soggetto di scienza. La nascita epistemica dell'uomo (volta
ad uno studio scientifico; episteme in greco=scienza) ha tuttavia qualcosa di
paradossale, scrive Foucault, poiché essa, mentre sorge con l’avvento delle presunte
scienze umane (che per Foucault, come per gli strutturalisti in genere, non sono
veramente "scientifiche"), non può fare a meno di presupporre una simultanea
"morte dell'uomo" (secondo la concezione vista nel paragrafo introduttivo dello
strutturalismo), se esso deve davvero diventare oggetto di scienza autentica, cioè di
tipo strutturalistico e non secondo l'impostazione delle scienze umane moderne. Per
lo strutturalismo infatti ogni esistenza e ogni conoscenza umana è concepibile e
conoscibile solo come risultante di strutture profonde, inconsce ed impersonali, che
l'uomo può scoprire e descrivere ma non condeterminare (non sono un prodotto
dell'uomo ma si impongono ad esso). L'uomo perciò cessa di essere soggetto, di
essere protagonista, ossia autonoma e libera coscienza creativa, per diventare
oggetto di scienza. Questa dissoluzione dell'uomo in quanto soggetto trova il suo
esito più significativo nel dominio (nel primato) attribuito al linguaggio, in cui per
Foucault appare finalmente chiaro (come in Heidegger e nella linguistica strutturale
in genere) che chi parla non è l'individuo ma la parola stessa (il linguaggio e le parole
non sono un prodotto individuale bensì storico-sociale ereditato dagli individui
ovvero, per Heidegger, sono il luogo in cui l'essere si rivela).
In una seconda fase del suo pensiero Foucault elabora una serie di teorie ormai
di stampo post-strutturalistico. Rilevante in tal senso è la teoria sulla genealogia
del potere e sui nessi (collegamenti) tra sapere e potere, intesa ad evidenziare la
dinamica dei microsistemi di potere operanti nella società. Tale filosofia del potere,
che si richiama a Nietzsche, manifesta la sua originalità soprattutto nei confronti di
quella marxista, allora prevalente tra gli intellettuali. In primo luogo, contro l'idea del
potere come sovrastruttura, Foucault ne rivendica invece un carattere espressamente
strutturale: tutto dipende dal potere, compresa l'economia. In secondo luogo, contro
l'impostazione macrofisica di Marx, che considera solo i grandi rapporti di forza (le
classi e lo Stato), Foucault fa valere un'impostazione microfisica, che scorge il potere
ovunque, in tutti gli angoli della società a cominciare dalle relazioni quotidiane fra gli
individui. Inoltre, a differenza del marxismo, Foucault dichiara che non sono possibili
divisioni meccaniche fra dominanti e dominati, poiché ogni individuo o gruppo
risulta simultaneamente l'uno e l'altro. Ma se il potere è ovunque (non solo nei
capitalisti), i punti di resistenza ad esso risiedono dappertutto (non solo nel
proletariato e negli emarginati). Ovviamente, tale resistenza "decentrata" contro il
potere non è destinata a concludersi ma dà vita ad un processo incessante.

97
98

Jacques Lacan (1901-1981).

È esponente francese di uno strutturalismo psicoanalitico. Due sono i maggiori


contributi di Lacan alla teoria e filosofia dello strutturalismo: il radicale
antiumanismo e l'interpretazione linguistica dell'Es (l'inconscio).
Per Lacan il centro dell'uomo non risiede affatto, come invece per la filosofia
tradizionale, nella coscienza, nel cogito (nel pensiero), nell'io, bensì nell'inconscio,
come per Freud, ossia nell’"altro" (l'inconscio come altro rispetto all'io) di fronte a
cui l'io (la coscienza) si trova in uno stato di dipendenza (dissoluzione-
destrutturazione dell'io). L’"altro" è strutturato come un linguaggio, l'inconscio è
linguaggio, prosegue Lacan riformulando con ciò il pensiero di Freud, secondo cui
l'inconscio è invece un luogo della mente. L'inconscio non è la sede degli istinti ma il
luogo privilegiato della parola. L'inconscio parla (attraverso i suoi impulsi) perché
soffre e più soffre più parla. Il compito della psicanalisi perciò non è quello di far
emergere e riportare l'inconscio al conscio, quanto piuttosto di lasciar parlare
l'inconscio e poterlo così comprendere. Ma il discorso dell'inconscio è indecifrabile
per il soggetto conoscente. Tuttavia se l'inconscio è linguaggio, si muove allora
secondo le leggi della linguistica. Ciò significa quindi che la psicanalisi, nella sua
opera di decifrazione dell'inconscio, potrà convenientemente utilizzare i metodi e le
scoperte della linguistica strutturale.
All'interno di questa concezione antiumanistica e strutturalistica della psicanalisi, si
collocano alcune delle tesi più significative di Lacan: "lo stadio dello specchio" e
"l'analisi del desiderio".
Sembra che il bambino non abbia inizialmente esperienza del suo corpo come di un
tutto unico. Anzi sembra prevalere in lui l'angoscia del corpo disgregato, poiché
vengono percepite solo parti del corpo fra di esse scollegate e non il corpo intero.
Con la teoria dello stadio dello specchio Lacan mostra che la ricostruzione unitaria
del corpo non deriva dalla sola maturazione delle percezioni ma richiede la
mediazione (la causa intermediaria) dell'immagine del corpo. Dapprima il bambino
percepisce la sua immagine allo specchio come qualcosa di reale e di distinto da lui
che tenta di afferrare. Poi capisce che si tratta di un'immagine e non di un altro essere
reale. Infine riconosce la sua immagine allo specchio come la propria. In questo
modo il bambino apprende la forma completa del suo corpo dapprima come
immagine esterna e simbolo di se stesso. L'immagine viene prima in quanto simbolo
perché solo i simboli, ossia il linguaggio, consentono in via preliminare la
consapevolezza di sé, degli altri e del mondo. Solo nel simbolico l'uomo si umanizza
o disumanizza. Al mondo reale e a quello immaginario si sovrappone il mondo dei
simboli che fonda l'uno e l'altro. Il mondo dei simboli è quello del linguaggio (non
solo il linguaggio parlato o scritto, ma anche mimico, gestuale, istintivo, inconscio)
ed il linguaggio è assai di più di un mezzo di comunicazione; esso condiziona il
nostro modo di vedere le cose e di pensare il mondo.
Circa l'analisi del desiderio, Lacan distingue tra desiderio, bisogno e domanda. Il
bisogno è essenzialmente un fatto fisiologico (bisogno di acqua, di aria, di zucchero).
Il bisogno è appagato dall'oggetto che si raggiunge. La domanda, a sua volta, è
98
99

domanda di una presenza o di una assenza. È prima di tutto una domanda d'amore, è
un appello rivolto all’"Altro" (alle altre persone o alle circostanze in cui ci si trova).
Tuttavia la domanda si presenta spesso mascherata dal bisogno. Chi non sa
riconoscere questo mascheramento risponde al bisogno ma non alla domanda. Così,
per esempio, quando un bambino chiede un dolce sembra che esprima un bisogno ma
spesso si tratta di una domanda d'amore. Il desiderio invece non è né una domanda
d'amore né un bisogno: è desiderio dell'altro, è desiderio di un altro desiderio,
desiderio di fare a riconoscere dall'altro il proprio desiderio.
Lacan conclude il suo pensiero con un lucido pessimismo: non ci sono ricette per la
vita. L'uomo è lacerato nella sua condizione e non c'è speranza di raggiungere una
teoria che assegni un posto preciso e definitivo a ciascuno degli elementi entro cui
l'uomo è lacerato.

Luis Althusser (1918-1990).

Di nazionalità francese, è esponente di uno strutturalismo marxista.


Opere principali: Per Marx; Leggere il capitale.
È radicalmente contrario all'interpretazione umanistica di Marx, quale suggerita
dai suoi scritti giovanili. Althusser si prefigge lo scopo di ridarci la specificità della
teoria marxista utilizzando il metodo strutturalista.
Nell'opera "Per Marx" Althusser fa presente che per lungo tempo la filosofia
marxista ha svolto in maniera esclusiva tre funzioni:
1. apologetica (celebrativa): per giustificare una ben determinata politica e
prassi;
2. esegetica (interpretativa): nel commento dei testi di Marx reputati come verità
definitive;
3. pratica: dividendo il mondo, con un taglio netto, in classi contrapposte e
dividendo la scienza in scienza borghese e scienza proletaria.
Althusser reagisce a queste riduzioni della filosofia marxista. Non distingue tra
scienza borghese e scienza proletaria poiché, egli afferma, la caratteristica
specifica del marxismo sta invece nella demarcazione-distinzione tra scienza e
ideologia. Per Althusser l'ideologia non è una teoria descrittiva della realtà quanto
piuttosto una volontà, una speranza o una nostalgia. L'ideologia è un sistema più o
meno organizzato di rappresentazioni (immagini, miti, idee, concetti) che esprimono
il rapporto vissuto degli uomini col mondo e rivelano desideri, speranze, modelli e
progetti di determinati gruppi sociali. La scienza consiste invece in una
ricostruzione-descrizione obiettiva della realtà nelle sue strutture effettive. Marx
stesso, dopo il periodo giovanile in cui è ancora un razionalista liberale seguace di
Kant e Fichte, e dopo il periodo razionalistico social-comunitario in cui Marx si
dichiara discepolo di Feuerbach, passa col "Capitale" dall'ideologia alla scienza.
Si tratta per Althusser di una vera e propria rottura epistemologica (nel senso di
Bachelard): Marx abbandona categorie e concetti filosofici come uomo, essenza
99
100

dell'uomo, alienazione, ecc. e li sostituisce con nuove categorie quali forze


produttive, rapporti di produzione, ecc. Sono proprio queste categorie, per Althusser,
a rendere possibile la conoscenza scientifica della storia.
In polemica con la cultura tradizionale della sinistra, Althusser sostiene dunque una
interpretazione antihegeliana, antiumanistica e antistoricistica del marxismo.
Marx non avrebbe compiuto un semplice rovesciamento della dialettica (dalla teoria
alla prassi), ma una sua radicale trasformazione. Infatti, mentre per Hegel la totalità è
una unità semplice(lo Spirito assoluto unitario che tutto assorbe in sé), per Marx la
totalità è un sistema complesso e articolato con l'economia in posizione dominante.
Ciò non significa che Althusser intenda ripetere letteralmente Marx. Infatti, al posto
della dicotomia (contrapposizione) marxiana tra struttura e sovrastruttura, Althusser
pone il concetto di una struttura globale (il modo di produzione) articolata nelle tre
strutture regionali (settoriali) dell'economia, della politica e dell'ideologia. Fra esse
determinante è quella economica, ma ciò non toglie che l'economia, in quanto
struttura regionale, sia a sua volta determinata, per il principio di causalità
strutturale, dalla struttura globale e quindi dalle altre strutture regionali. Althusser
parla in proposito di "surdeterminazione".
Considerando l'umanismo un'ideologia, anziché scienza, poiché dimentica che i
veri soggetti del processo sociale non sono gli individui ma i rapporti di produzione,
l'antiumanismo di Althusser si accompagna all'antistoricismo, ossia al rifiuto di
considerare la storia come processo omogeneo e unilineare avente alla base l'uomo e
i suoi valori. Gli individui adempiono a funzioni non autonome ma determinate dalla
struttura: sono portatori di forza-lavoro o rappresentanti del capitale. Per Althusser
non esiste la storia in generale ma vi sono solo dimensioni specifiche di storicità
corrispondenti alle diverse regioni o settori (vi è soltanto storia economica o politica
o delle ideologie); la storia inoltre non può venire spiegata mediante concetti
ideologici, quali l'uomo, il progresso, bensì solo tramite concetti scientifico-
strutturali, quali formazione sociale, forze produttive, rapporti di produzione, ecc. La
storia altresì non si sviluppa in modo lineare né inevitabilmente progressivo verso
una meta prefissata ma procede per successive rotture.
L'ideologia non è scienza e quindi non può essere fondamento della conoscenza
storica. Ma è anche vero che nessuna società umana può fare a meno dell'ideologia:
la morale, la religione, l'arte, la politica sono ideologie perché in esse la funzione
pratico-sociale prevale su quella teorica. È nell'ambito di tali pratiche ideologiche
che gli uomini modificano la loro visione del mondo, ma non è da pensare che siano
l'uomo o l'azione di una classe a fare la storia. La storia è piuttosto una serie
discontinua di congiunture (combinazioni casuali) di varie strutture e gli individui,
come le classi, non sono comprensibili al di fuori di esse.
Successivamente, peraltro, Althusser si è sottoposto ad un processo di
autocritica, accusando se stesso di " teoricismo", per aver esaltato troppo la teoria
rispetto alla pratica. In tal senso ha sottolineato in modo più marcato il ruolo politico
della filosofia e quello di una visione materialistica del mondo consona agli interessi
del proletariato.

100
101

Noam Chomsky (nato nel 1928).

Linguista statunitense di origine russa, Chomsky si muove in un ambito di pensiero


già di tipo post-strutturalistico. Egli rimprovera allo strutturalismo di essersi limitato
a descrivere la lingua senza essere però riuscito a spiegarla, ossia a mostrarne il
funzionamento nonché la capacità creativa di ogni parlante. La linguistica deve
invece partire dall'analisi delle capacità linguistiche del parlante e trovare le
regole su cui si basa la generazione delle frasi e non limitarsi a classificare gli
elementi strutturali della lingua.
Espone una teoria secondo cui la lingua è formata da frasi nucleari, chiamate
"struttura profonda", e da frasi complesse, chiamate "struttura superficiale". Queste
ultime sono derivabili dalle prime attraverso una serie di "trasformazioni" di tipo
logico-matematico. Da ciò l'idea e la teoria di una grammatica generativa
trasformazionale, in grado di spiegare la generazione delle frasi complesse di una
lingua (la struttura superficiale) in base alle trasformazioni delle frasi nucleari (la
struttura profonda, che sta nel significato non ambiguo di una frase). Ad esempio, la
frase complessa "Dio invisibile ha creato il mondo visibile" deriva dalla
trasformazione di una struttura profonda composta da tre giudizi presenti alla mente
quando la frase complessa viene formulata e che sono i seguenti: 1) "Dio ha creato il
mondo" (proposizione principale); 2) "Dio è invisibile"; 3) "Il mondo è visibile". La
seconda e la terza sono proposizioni incidentali alla principale.
Chomsky distingue tra competenza, che è l'insieme delle regole e delle strutture
linguistiche generali possedute dal soggetto, ed esecuzione (performance), che è la
realizzazione della competenza posseduta, cioè l'uso effettivo della lingua in
situazioni concrete. Tale distinzione ricorda quella di De Saussure tra lingua e
parola, con la differenza però che Chomsky evidenzia in grado massimo la creatività
del linguaggio, considerato come un meccanismo che, partendo da un numero
infinito di elementi a disposizione, è capace di produrre un numero infinito di frasi.
Osserva Chomsky che l'individuo parlante (non solo l'adulto ma anche il bambino)
ha la possibilità di generare un numero illimitato di frasi che pur non ha mai udito o
letto. Critica per contro il comportamentismo per la pretesa di spiegare
l'apprendimento e l'uso del linguaggio in base allo schema stimolo/risposta ed ai
processi di adattamento e ripetizione.
La valorizzazione del carattere creativo del linguaggio si accompagna ad una delle
tesi più note e discusse della linguistica generativo-trasformazionale, ossia la tesi,
cartesiana, dell'esistenza nell'uomo di strutture linguistiche innate e universali.
Vale a dire che una quantità estesa di conoscenze e regole linguistiche giunge a noi
come eredità linguistica trasmessa dal patrimonio della specie. Un bambino è
geneticamente capace di parlare; l'ambiente non fa altro che suscitare queste sue
capacità innate. Il contenuto di queste disposizioni innate è identificato in quegli
"universali linguistici" la cui scoperta è compito della grammatica universale. Se la
tesi innatistica allontana Chomsky dall'empirismo e dal comportamentismo, essa
d'altro canto lo avvicina al razionalismo classico e alla tradizione linguistica che
Chomsky chiama "cartesiana".
101
102

GLI SVILUPPI NOVECENTESCHI DELLA FILOSOFIA POLITICA.

Le teorie filosofiche del Novecento sulla politica e sulla società si sono sviluppate
lungo quattro principali filoni di pensiero:
1. Il primo filone è rappresentato dagli sviluppi della filosofia marxista nelle due
espressioni di base del marxismo sovietico e del marxismo occidentale. Il
marxismo sovietico si concretizza come interpretazione del mondo alla luce
soprattutto dei principi della dialettica, definendosi essenzialmente come
materialismo dialettico. Il marxismo occidentale (Lukàcs, Korsch, Bloch,
Gramsci) abbandona ogni dialettica della natura e si rivolge esclusivamente al
mondo storico-sociale.
2. Il secondo filone è rappresentato dal variegato gruppo di filosofi, economisti,
giuristi, politologi e psicologi raccolti presso l'Istituto per la ricerca sociale di
Francoforte, dagli anni ‘20 fino agli anni ‘70, denominato con l'appellativo di
"Scuola di Francoforte", che sul piano filosofico elabora una complessiva
"teoria critica della società", la quale, contro la civiltà illuministica
dell'Occidente, di cui è parte integrante la dittatura dei media e dell'industria
culturale, persegue l'ideale dialettico di un'umanità futura libera e disalienata.
In tale ideale si sono rispecchiate le generazione del ‘68. La Scuola ha in
Horkheimer, Adorno e Marcuse i maggiori esponenti.
3. Il terzo filone è rappresentato da autori come Schmitt, Anna Arendt e Weil i
quali, in un periodo segnato dalla crisi delle democrazie e dall'avvento dei
totalitarismi, tornano a riflettere sui concetti fondamentali della convivenza
sociale e approdano a una ridefinizione del concetto di politica di cui si cerca
di mettere in luce i tratti peculiari e, con la Arendt, i punti di connessione col
mondo classico, visto come modello alternativo alle degenerazioni della
modernità.
4. Il quarto filone è rappresentato dalla rinascita tardonovecentesca della filosofia
politica che, reagendo alla concezione puramente descrittiva della filosofia
politica seguita dalle correnti d'ispirazione scientista e neopositivista (filosofia
ridotta a semplice analisi di tipo linguistico-concettuale) torna a proporre un
modello normativo di filosofia politica in grado di prendere posizione, ossia di
indicare non solo i mezzi e i modi ma anche i valori e gli scopi che devono
guidare la vita associata, dando vita ad un intenso dibattito sui grandi temi
della libertà e della giustizia, considerata quest'ultima come il prerequisito di
ogni società bene ordinata. Esponenti di questo filone sono il filosofo
americano Rawls, fautore di un liberalismo egualitario e pluralista, von
Hayek e Nozick, sostenitori di un liberalismo individualistico ed antistatalista,
e Mac Intyre, teorico di un comunitarismo solidaristico.

102
103

GLI SVILUPPI DELLA FILOSOFIA MARXISTA NEL NOVECENTO.

La Prima, la Seconda e la Terza Internazionale.

Un criterio utile per seguire gli sviluppi della filosofia marxista nel Novecento è
quello di esaminare la storia delle Tre Internazionali Socialiste (organizzazioni
internazionali dei partiti di ispirazione socialista-comunista) che si sono succedute
nel tempo.
La Prima Internazionale (1864-1876) è stata fondata da Marx, è stata segnata dal
contrasto fra marxisti e anarchici seguaci di Bakunin e si è conclusa col
riconoscimento del marxismo come dottrina ufficiale del movimento operaio.
La Seconda Internazionale (1889-1917) svolge funzioni di dibattito sui problemi di
interesse comune (lo sciopero generale, la legislazione sul lavoro, il colonialismo, la
lotta contro la guerra e il militarismo capitalistico). Al suo interno si sviluppa un
importante dibattito di carattere ideologico che vede contrapposti i marxisti
ortodossi, capeggiati da Kautsky, e i marxisti revisionisti, rappresentati soprattutto da
Bernstein. Si conclude con la condanna della revisionismo, denunciato come eretico.
Lo scoppio della prima guerra mondiale pone in crisi la Seconda Internazionale, ove
la solidarietà di classe e il pacifismo internazionale non riescono ad imporsi
sull'emergere di interessi nazionali e nazionalistici.
La Terza Internazionale (1919-1943) ha come partito guida quello bolscevico. Sul
piano politico si pone l'obiettivo di creare una rete di partiti sul modello di quello
sovietico, fedeli alle direttive della Russia sovietica, con il riconoscimento della
leadership prima di Lenin e dopo di Stalin. Sul piano dottrinale si porta in primo
piano la tematica della dialettica (primato della struttura economica sulla
sovrastruttura e sviluppo della storia mediante la lotta di classe) contro le
interpretazioni positivistiche ed evoluzionistiche del marxismo da una parte e
revisionistiche dall'altra.

Il dibattito all'interno della Seconda Internazionale tra revisionismo e


ortodossia.

Eduard Bernstein (1850-1932), leader revisionista della socialdemocrazia tedesca


e vissuto lungamente in Inghilterra, collaborando con Engels, constata tutta una serie
di fatti che vanno in senso contrario all'analisi e alle previsioni di Marx: il
proletariato migliora le proprie condizioni di vita e il capitalismo dimostra nuovo
vigore; lo Stato borghese diventa sempre più democratico; gli strati intermedi non
scompaiono dalla scena sociale ma anzi allargano la loro base e i privilegi dei
capitalisti cedono terreno alle istituzioni democratiche. Queste constatazioni
inducono Bernstein a ritenere che l'obiettivo da perseguire non sia più la rivoluzione
ma piuttosto la trasformazione e la riforma graduale della società attraverso una
collaborazione del partito operaio con le forze progressiste della borghesia. Rifiuta la
103
104

dialettica, che ha proclamato l'avvento del comunismo e della società senza classi
come una necessità storica anziché come un valore ideale di giustizia e di
uguaglianza. Contro il primato della struttura economica sostiene l'imprescindibilità
dell'etica: l'analisi economica ci dice come stanno le cose, ma sono i nostri ideali
etici che ci indicano come creare la società del futuro. La morale è una potenza
capace di svolgere una funzione creatrice. Rifiuta anche la dittatura del proletariato a
favore della tesi di uno Stato sempre più democratico. Esso non è considerato solo
un organo di oppressione ma, sotto l'influenza della grande maggioranza del popolo
per mezzo del suffragio universale, lo Stato può essere trasformato in senso
democratico.
Ai revisionisti si contrappongono e prevalgono gli ortodossi, che hanno in Karl
Kautsky (1854-1938) il principale teorico. Influenzato dal clima di trionfo delle
scienze naturali del positivismo, Kautsky, che studia a Vienna e poi si trasferisce a
Zurigo, interpreta Marx mediante categorie (concetti, tesi) di tipo naturalistico,
economicistico ed evoluzionistico, abbandonando peraltro la dialettica come residuo
dell'hegelismo per abbracciare una concezione darwiniana di evoluzione naturale-
sociale. La primaria importanza attribuita al fattore economico ed evoluzionistico-
sociale comporta una visione fatalistica della storia, secondo cui il passaggio dal
capitalismo al comunismo è considerato uno sbocco automatico ed inevitabile
dell'evoluzione della società in conseguenza delle contraddizioni del sistema
capitalistico, ingenerante una miseria operaia sempre più vasta (determinismo
positivistico). Contro Bernstein, Kautsky ribadisce la teoria marxista. Non nega
l'analisi di Bernstein ma ne rifiuta le conclusioni, sostenendo invece che proprio lo
sviluppo del capitalismo attraverso la ricerca di nuovi mercati con il colonialismo
conferma, piuttosto che smentire, le previsioni di Marx, nel senso che la disperata
ricerca di nuovi mercati ribadisce la crisi del capitalismo stesso e mostra l'acuirsi
delle sue contraddizioni interne. Conferma quindi l'ineluttabilità della rivoluzione
contro ogni riformismo. Ma, compiendo tal operazione, Kautsky rivede a sua volta
alcuni punti fondamentali della teoria marxiana: a proposto del rapporto fra struttura
e sovrastruttura, più che di primato della prima sulla seconda parla piuttosto di
continua e reciproca interazione; a proposito del materialismo dialettico, più che di
sviluppo dialettico parla piuttosto di interazione tra organismo e ambiente. In ciò
consiste il naturalismo o social-darwinismo di Kautsky: la storia dell'umanità non è
che un caso particolare della storia degli esseri viventi, però con leggi specifiche
connesse alle leggi generali della natura umana. La revisione del marxismo, di fatto
operata anche dall'ortodosso Kautsky, non è dunque di poco conto e sul piano
operativo tende a coincidere con quella di Bernstein. Dopo la conquista del potere in
Russia, anche Kautsky si contrappone a Lenin e al bolscevismo, accusato di aver
buttato a mare, per conservare il potere, i principi socialisti originari. Al bolscevismo
viene rimproverato di aver soppresso l'Assemblea nazionale, di aver reintrodotto il
lavoro a cottimo, di aver istituito una nuova oligarchia burocratica, di aver dato vita a
una tirannia sanguinosa, con soppressione della libertà di stampa e di opinione. Alla
tirannia dello zar è stata sostituita la dittatura non del proletariato ma di un gruppo (i
capi del partito comunista).
104
105

L'Austromarxismo.

La concezione revisionistica di Bernstein è a sua volta ripresa, per taluni aspetti,


dal cosiddetto "Austromarxismo" (marxisti di nazionalità austriaca) di Max Adler
(1873-1937) e di Otto Bauer (1881-1938), che si propongono una fondazione etica,
anziché economico-materialistica, degli ideali marxisti su cui basare sostanzialmente
la lotta per il socialismo, altresì secondo l'imperativo kantiano di trattare l'umanità
come fine e non come mezzo.
Nella controversia sulla teoria marxista tra riformismo e totalitarismo, per gli
austromarxisti la tesi della necessità storica e ineluttabile della rivoluzione sociale
deve essere superata e il socialismo deve essere ricondotta a cause ideali di carattere
etico, nella convinzione che il riformismo parlamentare rappresenti il vero
presupposto del passaggio "civile" al socialismo, passaggio ben diverso dalla
"inciviltà" del bolscevismo. Il progresso sociale non è il frutto di leggi di natura
bensì dello spirito; esso non può quindi essere spiegato e dimostrato ma solo creduto
e creato dagli uomini, realizzando i valori in cui credono (giustizia, libertà,
uguaglianza, ecc.).
Max Adler respinge la metafisica del materialismo storico, inteso come teoria
secondo cui l'ideologia è prodotta dalla base economica (a suo avviso nemmeno
Marx l'ha sostenuto in modo così radicale). Il "materialismo" è di per se una
questione concernente l'essenza del mondo, è un modo di vedere e concepire il
mondo e quindi è una concezione metafisica e ontologica fin dall'origine. Ma per
Adler esso non va colto come metafisica della storia bensì come indicazione
programmatica a guardare, nell'analisi scientifica dei fatti storici, agli aspetti
economici.
Anche la dialettica, se concepita come "modo dell'essere", ossia come concezione
del divenire storico-sociale mediante la contrapposizione di elementi opposti, viene
ad indicare una "struttura essenziale" e di conseguenza è anch'essa metafisica. Adler
considera invece la dialettica un metodo, un principio di ricerca ai fini dello studio
della vita sociale, che non ha nulla a che fare con la natura dell'essere, limitandosi
semplicemente a constatare l'opposizione esistente fra l'interesse proprio
dell'individuo e le forme sociali in cui egli viene costretto.
Oltretutto, le condizioni materiali non creano l'ideale etico ma spiegano il modo in
cui si è o non si è realizzato. L'ideale etico del socialismo non deriva dalle basi
materiali. "Se dapprima non esistesse un ideale etico di giustizia, di libertà ed
uguaglianza, perché alla fin fine il proletariato non dovrebbe essere soddisfatto di un
sistema di feudalesimo industriale -che non è affatto escluso- di salari migliori, di
abitazioni pulite, di giornate lavorative più brevi e di sufficienti assicurazioni contro
la malattia, l'infortunio e la vecchiaia?". L'idea politica del socialismo è invece
eticamente motivata in quella versione dell'imperativo categorico che pretende che in
ognuno venga rispettata l'umanità e che nessuno venga considerato solo come mezzo
bensì come fine.

105
106

Rosa Luxemburg (1870-1919).

In contemporanea al revisionismo si costituiscono per contro correnti non soltanto


antirevisionistiche, ma tali che criticano da sinistra anche lo stesso marxismo
ortodosso nella versione di evoluzionismo fatalistico ad esso data da Kautsky. Tra i
maggiori esponenti di tali correnti si annovera Rosa Luxemburg, nata da
famiglia ebrea sulla frontiera russo-polacca e dirigente del partito socialista polacco.
Muore assassinata dagli oppositori politici.
Dichiara che il socialismo non è un esito ineluttabile dello sviluppo storico ma è
piuttosto una tendenza che unicamente l'azione di un proletariato organizzato e
cosciente può condurre a realizzazione. Se non accetta la tesi della inevitabilità del
socialismo, sostiene tuttavia la tesi del crollo inevitabile del capitalismo. Esso tende
ad espandersi conquistando attraverso il colonialismo sempre nuovi mercati: il
capitalismo diventa imperialismo. Ma i nuovi mercati sono comunque limitati e
pertanto il capitalismo è destinato a crollare. "L'imperialismo è tanto un metodo
storico per prolungare l'esistenza del capitale, quanto il più sicuro mezzo per
affrettarne la fine".
Allo scoppio della prima guerra mondiale denuncia il "socialpatriottismo" della
socialdemocrazia a favore di manifestazioni rivoluzionarie in tutti i paesi contro la
guerra e contro il sistema che la vuole e l'alimenta.
In un primo tempo saluta con entusiasmo la rivoluzione sovietica, ma poi critica
severamente la degenerazione dittatoriale del bolscevismo, che da dittatura del
proletariato è diventata dittatura sul proletariato. Anche la Luxemburg vuole la
dittatura, ma essa deve essere un modo per applicare la democrazia e non per
distruggerla; deve essere opera della classe e non di un'oligarchia che pretende di
dirigere in nome della classe. I Soviet invece hanno represso il dibattito e la libertà di
espressione nella vita pubblica. Quella sovietica è diventata una dittatura borghese di
tipo giacobino.

Il marxismo sovietico: Plechanov; Lenin; Stalin; Trotskij.

Georgij Valentinovic Plechanov (1856-1918).

In Russia è Plechanov a diffondere il marxismo, che concepisce in termini ortodossi


di materialismo storico e dialettico. In difesa della prospettiva ortodossa, combatte i
populisti poiché pensano che la rivoluzione in Russia possa compiersi senza passare
per la fase del capitalismo. La storia ha le sue leggi oggettive e immanenti e non si
possono ignorare. E male ha fatto Lenin, secondo Plechanov, a forzare l'andamento
della storia. Ortodosso per quanto riguarda il materialismo storico, Plechanov lo è
anche per quel che concerne il materialismo dialettico: non solo lo sviluppo della
storia ma anche quello della natura è di tipo dialettico (e non evoluzionistico). Il
corso delle idee si spiega col corso delle cose: le nostre rappresentazioni non sono
106
107

altro che il riflesso delle cose. Critica anche i cosiddetti "costruttori di Dio", che
pensavano di innestare il marxismo scientifico su di un misticismo religioso.
Nell'ultimo periodo di vita si distanzia dal partito giacobino e dittatoriale di Lenin e
rifiuta anche la "Rivoluzione di ottobre", che vede come un colpo di mano in una
situazione ancora non matura. Per tale motivo Plechanov viene accusato di
tradimento dalla maggioranza dei bolscevichi.

Vladimir Ilic Ulianov detto Lenin (1870-1924).

Critico contro il partito socialdemocratico russo, dà vita al partito bolscevico (da


"bolsci"=di più), mentre il gruppo avversario viene chiamato menscevico (da
"mensci"=di meno). È la figura di maggior spicco del marxismo teorico sovietico, cui
Lenin, in polemica con Mach e gli empiriocriticisti, dà un'impostazione decisamente
realista e dialettico-materialistica, sviluppata nell'opera "Materialismo ed
empiriocriticismo". Lenin giudica reazionario l'empiriocriticismo perché anti-
dialettico. Mach sosteneva che "il mondo consiste soltanto nelle mie sensazioni".
Lenin obietta che tale concezione non dice nulla di più di quanto già aveva teorizzato
Berkeley contro il materialismo. La filosofia di Mach pertanto, accusa Lenin, "è da
cima a fondo un plagio di Berkeley". Invece per Lenin la materia esiste
indipendentemente dalle nostre sensazioni e dalla coscienza. La sensazione è solo
strumento della conoscenza e non la realtà. La conoscenza umana non si sviluppa nel
modo inteso da Kant e dagli idealisti: la conoscenza è rispecchiamento, riflesso
della realtà oggettiva nel cervello dell'uomo (corrispondenza tra fenomeno percepito
e cosa in sé). Il rispecchiamento della realtà non avviene per Lenin una volta per
tutte, definitivamente, ma si approfondisce dialetticamente: "dialettico è non soltanto
il passaggio dalla materia alla coscienza, ma anche dalla sensazione al pensiero". La
dialettica materialista ammette la relatività delle nostre conoscenze, tuttavia non nel
senso della negazione della verità obiettiva ma nel senso della relatività storica e del
graduale ed incessante approssimarsi delle nostre conoscenze a questa verità.
Il materialismo realistico di Lenin si esprime in sostanza nelle tesi:
1. le cose esistono prima che l'uomo le conosca e sono indipendenti dalla
conoscenza stessa;
2. la conoscenza si sviluppa dialetticamente, secondo un processo per cui nasce
dall'ignoranza e da conoscenza vaga e incompleta diventa più adeguata e più
precisa;
3. l'esistenza della realtà materiale garantisce il valore oggettivo della scienza
che, per quanto non giunga mai in possesso della verità totale, progredisce
incessantemente verso di essa.
Così come la conoscenza, anche la storia si sviluppa dialetticamente in termini di
assoluta necessità, per cui dalle contrapposizioni dialettiche di lotta degli opposti
segue necessariamente la sintesi finale degli opposti nella società senza classi.
Questa concezione dialettica è applicata da Lenin anche alla teoria dello Stato,
nell'opera "Stato e rivoluzione". Lo Stato è il risultato dell'antagonismo tra le classi
107
108

sociali ed è lo strumento del dominio di una classe sull'altra. Nel passaggio dal
capitalismo al comunismo, costituito dal periodo della dittatura del proletariato, lo
Stato si fa strumento della classe proletaria, nel senso che la maggioranza degli
oppressi reprime la minoranza degli oppressori. Instaurato il comunismo, lo Stato si
avvia a diventare inutile e tende a scomparire, giacché il comunismo elimina
l'occasione stessa dei delitti e i reati individuali che potrebbero residualmente
verificarsi verrebbero repressi dagli stessi cittadini. Ciò in teoria, perché in pratica è
accaduto che il regime dittatoriale non venisse mai superato e che pure la
socializzazione dei mezzi di produzione e la scomparsa delle classi sociali non
venisse realizzata in quanto non si è mai oltrepassata la fase della statalizzazione dei
mezzi di produzione; quindi non è mai stato superato il regime statuale ed al posto
della classe borghese dominante si è sostituito il dominio del ceto burocratico e
quello dei quadri e dei dirigenti del partito sul proletariato.
Peraltro, nella dialettica della storia e a proposito dell'inevitabile avvento del
comunismo Lenin introduce, contro la tesi di uno sviluppo spontaneo, un elemento
volontaristico portato dall'esterno dello stesso proletariato. Nel 1902 Lenin pubblica
l'opera "Che fare", che è l'atto di nascita del bolscevismo. Da una parte egli attacca il
revisionismo, definito nient'altro che opportunismo e, dall'altra, contesta i teorici
della spontaneità rivoluzionaria della classe operaia. Costoro, seguaci ortodossi
del materialismo storico di Marx, riducevano la politica a riflesso e a derivato
dell'economia e pertanto sostenevano che la coscienza di classe e la rivoluzione
sarebbero state un prodotto spontaneo e automatico dello sviluppo del capitalismo e
delle sue contraddizioni. Ma Lenin afferma che il proletariato non è in grado da
solo di maturare una seria coscienza rivoluzionaria; da solo giunge unicamente a
delle rivendicazioni, non alla rivoluzione. Di conseguenza, la coscienza politica può
essere portata all'operaio solo dall'esterno della lotta economica tra operai e padroni;
in particolare può essere portata dagli intellettuali borghesi progressisti, come Marx
ed Engels, consapevoli del fine supremo della società comunista a cui tende
l'umanità. In questa teoria Lenin rivede il marxismo classico di Marx ed Engels,
secondo cui, essendo ogni pensiero, e quindi ogni concezione politica, frutto di
precisi interessi di classe, dovrebbe essere impossibile che intellettuali borghesi si
mettano a capo della classe operaia. Per Lenin invece il proletariato deve avere
una guida per abbattere la borghesia e questa guida è il Partito comunista, ossia una
élite intellettuale la cui professione sia l'azione rivoluzionaria. Il partito è
l'avanguardia armata del proletariato ed esso non può essere messo in discussione. Il
marxismo è posto come ideologia ufficiale del partito comunista, di per sé sottratta ad
ogni forma di critica. Assume in tal senso la veste di dogmatismo ideologico, una
specie di teologia laica assolutamente vincolante.

Joseph Stalin (1879-1963).

Prosegue e radicalizza la concezione autoritaria del Partito comunista, mentre


altri marxisti quali Plechanov, come già visto, e Trotskij dichiarano liberticida e
contrario al socialismo il centralismo partitico e statuale proposto da Lenin.
108
109

Plechanov ebbe a dire che se tale centralismo fosse stato realizzato la conseguenza
sarebbe stata "un uomo che avrebbe concentrato in se tutti i poteri". Anche Trotskij
aveva affermato che "il Partito sarebbe stato sostituito dall'organizzazione,
l'organizzazione dal Comitato centrale e il Comitato centrale dal dittatore". Tali
profezie si sono in effetti avverate. Con l'avvento al potere di Stalin vengono
condannati tutti i "deviazionisti" che non accettano il marxismo-leninismo integrale.

Lev Trotskij (1879-1940).

Già comandante dell'armata Rossa, scrive nell'ultimo periodo della vita l'opera "La
rivoluzione tradita", pronunciandosi a favore di un maggior pluralismo nel partito e di
una minor burocratizzazione nello Stato. Su mandato di Stalin viene assassinato in
Messico dove si era rifugiato.
Trotskij, contro la giustificazione staliniana dell'instaurazione del comunismo in un
solo paese, sostiene l'esigenza di una rivoluzione permanente che non si esaurisca
nella costituzione di un singolo Stato comunista. Dichiara pertanto l'impossibilità di
accettare la trasformazione del comunismo in nazionalismo dello Stato comunista.

Il marxismo occidentale: Lukàcs, Korsch e Bloch.

Si tratta di una forma di marxismo indipendente sia dalla socialdemocrazia che dal
comunismo sovietico. È opera di intellettuali al di fuori dei partiti.
Se il materialismo sovietico costituisce un'interpretazione del marxismo più vicina
alla concezione dialettica di Engels, il marxismo occidentale costituisce
un'interpretazione più vicina alla concezione dialettica di Hegel: è lasciata cadere
ogni dialettica della natura per rivolgersi esclusivamente al mondo storico-sociale.

Gyorgy Lukàcs (1885-1971).

Nasce in Ungheria, emigra nell'Unione Sovietica e nel 1949 torna in Ungheria. Dopo
la morte di Stalin è tra i promotori della destalinizzazione. Con l'invasione
dell'Ungheria nel 1956 viene deportato in Romania. È indotto ad una pubblica
autocritica. Rientrato in Ungheria, vive isolato fino alla morte.
Opere principali: Storia e coscienza di classe; La distruzione della ragione; L'estetica.
Lukàcs vuole recuperare il marxismo ortodosso che però, a suo avviso, non significa
accettazione acritica dei risultati teorici della ricerca marxiana, non significa un "atto
di fede". L'ortodossia che Lukàcs intende affermare si riferisce invece al metodo (il
marxismo è concepito essenzialmente come metodo dialettico), nella convinzione
che nel marxismo dialettico sia stato scoperto il corretto metodo di ricerca per
comprendere la storia umana. Il metodo dialettico ci proibisce di guardare a fatti
isolati e non connessi in una totalità, come invece è concepito dalla scienza
109
110

borghese. La società va studiata come un intero: non può essere compresa se ne


studiamo singoli aspetti ma è invece necessario scoprire le connessioni profonde che
legano dialetticamente fatti ed eventi tra di loro. Pertanto va riportato in primo piano
la categoria (concetto) della totalità, il che non significa sopprimere i singoli fatti ed
eventi ma considerarli quali i momenti dialettico-dinamici ed interconnessi di un
intero. Ad esempio, produzione, distribuzione, scambi e consumo non vanno
analizzati isolatamente ma nell'intero contesto delle reciproche inter-relazioni
dialettiche.
Lukàcs critica quindi la scienza positivistica, sia quella borghese ma anche quella
revisionistica della Seconda internazionale, che non applica il metodo dialettico e la
categoria della totalità. Tale scienza ritiene i fatti come qualcosa di dato e li
considera separatamente, dimenticandosi che essi sono invece, a loro volta, il
prodotto di determinate forze sociali. È una scienza reificante (dal latino "res"=
cosa) in quanto riduce a cose e a fatti di natura i prodotti sociali e storici,
assoggettandosi in tal modo ad un processo di feticismo (= di riduzione a feticcio,
cioè ad un culto fanatico dell'oggetto) e di alienazione (i rapporti sociali non sono
più visti come prodotti dell'uomo bensì come eventi naturali estraniati, privati della
loro valenza sociale). Spezza inltre la totalità del conoscere sociale in tanti settori
parziali (economia, diritto, sociologia) retti da leggi e metodi propri, assumendo una
mentalità analitica, astratta e antidialettica, incapace di cogliere la complessiva
organicità dei fatti. Tale mentalità deriva dalla logica stessa del capitalismo, che
concepisce una società scissa settorialmente a causa del modo di produzione, che
separa il produttore dall'oggetto e che è basato sulla divisione frazionata del lavoro e
sulla atomizzazione della società in individui e classi antagoniste (atomizzazione=
ridurre gli individui e i gruppi sociali ad atomi, a singole unità isolate, non collegate e
non interconnesse). Prigioniera del feticismo e dell'alienazione, la scienza borghese
non vede le contraddizioni del capitalismo e della società. Tutto ciò spiega perché il
marxismo della Seconda internazionale, ispirato alla scienza positivista, risulta
revisionista sul piano teorico e non rivoluzionario sul piano pratico. Occorre quindi
ritornare alla dialettica di Marx, il cui oggetto non è la natura, come sostiene
Engels, e con lui il materialismo sovietico, ma è invece la realtà storico-sociale
nella sua totalità: deve essere abbandonato il concetto di materialismo dialettico a
favore del concetto di materialismo storico.
In tal senso Lukàcs, nell'opera "Storia e coscienza di classe", perviene alla
soluzione del problema dei rapporti tra struttura e sovrastruttura che, a suo
avviso, non stanno fra di loro in rapporti di supremazia e subordinazione bensì in un
rapporto dialettico. Il primato dell'economia non è una costante storica (un fatto
storico immutabile) ma solo una caratteristica peculiare del capitalismo.
La società dunque va studiata come totalità, come intero, il che è possibile solo da
parte di un soggetto che sia esso stesso una totalità. Tale soggetto è "la coscienza di
classe", che mediante l'azione può comprendere e conoscere la realtà sociale nel suo
complesso, conoscendo per agire e agendo per conoscere in un nesso (collegamento)
inscindibile di teoria e prassi. Soggetto (protagonista) della storia è quindi la
coscienza di classe, che dapprima agisce in modo oscuro ed inconsapevole e poi
110
111

determina in modo chiaro e distinto gli eventi. La coscienza di classe non è né la


media né la somma di ciò che pensano e sentono gli individui che formano una
classe; essa è invece la comprensione del senso della situazione storica in cui ci si
trova; è consapevole presa di coscienza. Solo il proletariato può avere vera
coscienza di classe, poiché la borghesia, ancorché giunga alla chiara consapevolezza
delle contraddizioni della società capitalistica, non può eliminarle pena il rischio della
sua stessa scomparsa, dal momento che è proprio su tali contraddizioni che essa
fonda il suo dominio. La borghesia è perciò costretta a negare le contraddizioni
del capitalismo e a camuffarle con ideologie di comodo. La sua è pertanto una falsa
ed astratta coscienza di classe perché fondata sulla separazione fra teoria e prassi. Il
proletariato invece tende a negare e a superare se stesso per realizzare una
società senza classi: questa è coscienza autentica perché non difende gli interessi
di nessuno quanto piuttosto la libertà di tutti. È la coscienza di classe che, in
ultima analisi, determina il processo storico anziché la struttura economica. È
con ciò ridimensionato il primato della struttura sulla sovrastruttura culturale.
Non è dalla riorganizzazione economico-politica operata dal proletariato, e per esso
progettata in particolare dal partito guida, che in primo luogo deriva il processo
rivoluzionario, bensì è dalla presa di coscienza di classe proletaria che matura l'azione
e l'organizzazione rivoluzionaria. È la coscienza di classe il principale motore della
rivoluzione storica, allorquando il proletariato, nel suo insieme, ne giunga ad
autentica consapevolezza, piuttosto che l'iniziativa di un partito o di un gruppo
élitario (intellettualmente superiore) di individui, pur avendo il partito una funzione
di stimolo della coscienza proletaria.
La parte più interessante dell'opera è l'interpretazione che Lukàcs dà del
capitalismo, non solo come espressione dell'alienazione economica (la sottrazione
all'operaio del prodotto del suo lavoro), bensì come alienazione totale, cioè come
perdita da parte dell'uomo della propria complessiva essenza umana (reificazione
dell'uomo, ossia riduzione dell'uomo a cosa in tutte le sue attività). Tale è per Lukàcs
tutta la filosofia borghese, da Cartesio a Kant, così come la scienza moderna, che
studia i fenomeni isolatamente e non dialetticamente, e che perciò è valida solo come
conoscenza della natura perché nella natura non c'è dialettica in quanto non c'è
coscienza. Parimenti, Lukàcs respinge la concezione della verità come
rispecchiamento dell'essere (della realtà) da parte del pensiero (come
corrispondenza tra realtà e pensiero), concezione conseguente, in quanto tale, al
dualismo (contrapposizione) tra soggetto e oggetto nonchè fra teoria e prassi. La
verità per Lukàcs è data solo dalla prassi, anzi dalla prassi rivoluzionaria per cui,
come per Marx, la filosofia non deve più interpretare il mondo ma deve trasformarlo.
L'opera "Storia e coscienza di classe" viene tuttavia condannata dai dirigenti
della Terza internazionale in quanto accusata di soggettivismo (di primato
attribuito al soggetto e alla coscienza anziché alla realtà oggettiva) e di idealismo.
Lukàcs è costretto ad accettare la condanna e a fare autocritica. Si dedica quindi
a studi di storiografia filosofica e di estetica.
Nell'opera "La distruzione della ragione" Lukàcs critica il pensiero
irrazionalistico come si è storicamente sviluppato in Schelling, Schopenhauer,
111
112

Nietzsche, Dilthey, Simmel, Weber, Spengler, Heidegger e Jaspers. Lukàcs


contrappone da un lato il pensiero dialettico e marxista, razionalista e progressista, e,
dall'altro lato, il pensiero borghese, prevalentemente irrazionalista e conservatore, che
svaluta e distrugge il valore della ragione, sia affidandosi ad intuizioni sovra-
razionali sia rassegnandosi all'esistenza di realtà contraddittorie insuperabili. La
distruzione della ragione operata dall'irrazionalismo trova il suo ultimo sbocco,
secondo Lukàcs, nel nazifascismo.
Nell'opera "Estetica" Lukàcs elabora una vera e propria estetica marxista
secondo una concezione realistica dell'arte (realismo socialista). Concepisce l'arte
come riproduzione della realtà, teoria che in sé non è affatto nuova come riconosce lo
stesso Lukàcs. Tuttavia l'arte come rispecchiamento della realtà deve essere
recuperata sia contro il formalismo sia contro il naturalismo. L'arte infatti non va
intesa come rappresentazione di singoli oggetti e aspetti della realtà, bensì come
rappresentazione veritiera e fedele della realtà nella sua totalità e nelle sue
contraddizioni. Oggetto dell'arte in tal senso è il "tipo" o il "tipico", ossia la
rappresentazione dei tratti salienti e delle tendenze di fondo di una certa società,
mediante la raffigurazione di personaggi o situazioni emblematiche (esemplari). Il
tipo non è da confondersi con la "media", ossia con la quotidianità di tutti i giorni, né
col tipo astratto della tragedia classica o col soggetto idealistico e idealizzato del
romanticismo. In quanto capace di rappresentazioni "tipiche", l'arte assume un valore
autonomo rispetto alle stesse ideologie e all'appartenenza di classe dell'autore, come
testimonia Balzac che, pur essendo soggettivamente un borghese reazionario, giunge
tuttavia a rappresentare realisticamente il carattere profondo di un'epoca e ad essere
quindi oggettivamente progressista. La vera arte infatti, in quanto realista, è sempre
anche progressista poiché aiuta a promuovere l'evoluzione dell'umanità. La fantasia
non è proibita ma essa deve essere in grado di ricostruire il "tipo". Se grazie alla
teoria della "tipo", Lukàcs riesce a recuperare molta della grande arte del passato,
tuttavia, privilegiando l'arte realistica secondo l'equivalenza "realismo=socialismo" e,
per contro, "antirealismo= capitalismo", deriva da parte di Lukàcs una sostanziale
incomprensione nei confronti dei grandi scrittori del Novecento, come Proust, Joyce e
Kafka, che ai temi sociali hanno preferito quelli dell'inquietudine dello spirito e che
sono stati perciò accusati da Lukàcs di irrazionalismo e nichilismo, espressioni di una
classe borghese al tramonto.

Karl Korsch (1896-1961).

Come Lukàcs, valorizza sia la categoria della totalità, sia la dialettica hegeliana come
metodo piuttosto che come teoria. Il marxismo costituisce un'analisi globale del
mondo borghese nella totalità delle sue manifestazioni, delle sue strutture
economiche, delle sue istituzioni politiche e delle sue forme di coscienza (economia,
filosofia, storia, dottrina del diritto e teoria dello Stato: nessuno di questi campi è da
considerare separatamente). Conseguentemente il marxismo si presenta come
112
113

contestazione radicale della società di classe, proponendosi non già di sostituire la


classe e lo Stato dominanti bensì di superarli ed abbatterli per far posto alla società
senza classi. L'affinità tra Hegel e Marx consiste appunto nella visione globale della
realtà sociale e nella consapevolezza della stretta connessione tra pensiero e realtà, fra
teoria e prassi.
Apprezza maggiormente le opere giovanili di Marx, ispirate agli ideali umanistici
di liberazione, di giustizia, di solidarietà, mentre imputa alle opere successive,
soprattutto al "Capitale", un'eccessiva impostazione scientifico-economica, che ha
comportato una progressiva perdita della concezione dialettico-globale della realtà e
della compenetrazione fra struttura e sovrastruttura.
Critica non solo Kautsky e il marxismo ortodosso, ma anche Lenin, per aver
considerato la coscienza di classe come qualcosa che doveva venir portata
dall'esterno del proletariato (ossia da un partito guida costituito da intellettuali
progressisti) e per aver altresì instaurato non già una dittatura del proletariato ma sul
proletariato, cioè la dittatura del Partito comunista e dei vertici del partito.
Per tali concezioni Korsch viene condannato dalla Terza internazionale e radiato dal
Partito comunista tedesco.

Ernst Bloch (1885-1977).

Anche Bloch è condannato come eretico e costretto a lasciare la cattedra presso


l'università di Lipsia, dove insegnava, per aver criticato la dittatura sovietica ed il
materialismo dialettico. Si rifugia nella Germania occidentale, andando ad insegnare
presso l'università di Tubinga.
Nell'opera "Il principio speranza" elabora un originale "filosofia della speranza",
secondo cui l'universo è concepito come un processo incompiuto che tende
indefinitamente alla compiutezza in una continua tensione (slancio) verso il futuro, il
possibile, il non ancora compiuto. La tensione verso le novità del futuro è un impulso
che pervade tutta la realtà, non solo quella umana ma anche quella naturale. Bloch
chiama "fame" la dimensione cosmica di questo impulso e "speranza" le sue
manifestazioni nella vita umana. Perciò la speranza, e quindi l'utopia, il sogno,
l'attesa, costituiscono la dimensione fondamentale dell'essere uomo, "animale
utopico" per eccellenza.
In tal senso Bloch costruisce la sua ontologia del non-ancora-essere, del possibile,
dell'attesa e dell'apertura. Questa concezione ontologica spinge Bloch a delineare una
fenomenologia degli stati utopici, ovvero a descrivere le varie forme reali in cui si
manifesta la speranza utopica: dai sogni ad occhi aperti dell'individuo ai grandi miti
collettivi; dalle favole alla letteratura; dai film alle canzonette. L'utopia non è
l'impossibile ma ciò che non è ancora.
La filosofia della speranza trova nel marxismo l'espressione filosofica da Bloch
giudicata la più corrispondente. Più di ogni altro movimento, il marxismo ha
guardato alla speranza nel futuro stimolando l'uomo alla ricerca di un riscatto dalle
sofferenze e dall'alienazione. Poiché anche per Bloch, come per Marx, lo scopo della
113
114

filosofia non è di contemplare il mondo ma di trasformarlo, il marxismo è per ciò


stesso una filosofia rivolta al futuro, a ciò che ancora non è. Solo il sapere come
unione di teoria e prassi riguarda il divenire. Un sapere unicamente contemplativo,
invece, può solo riferirsi a ciò che è accaduto. La filosofia marxista della speranza
pone come proprio fondamento la tesi che l'uomo si trovi in uno stato di
alienazione. Però, mentre l'alienazione di cui parla Marx scaturisce da motivi
economici, Bloch fa risalire l'alienazione a ragioni più profonde e universali, a
ragioni ontologiche (costitutive della reale natura umana): l'uomo è alienato perché è
incompleto, incompiuto, come l'universo di cui fa parte. Il marxismo perciò deve
essere integrato: finora si è prevalentemente sviluppato come critica nei confronti
delle contraddizioni antiumanistiche dell'economia capitalista, mentre invece occorre
sviluppare il marxismo come progetto del "regno della libertà".
La filosofia della speranza, pur nel suo ateismo di fondo, deve inoltre prendere in
seria considerazione il fenomeno religioso in base al principio che "ove c'è speranza,
c'è religione". Infatti, sebbene nella religione vi sia la radice dell'alienazione, come
denunciato da Feuerbach e da Marx, in essa vi è pure, come dimostrano le eresie, la
protesta e la denuncia critica dell'esistente, la speranza nel futuro e il sentimento
dell'attesa. "C'è nella Bibbia, scrive Bloch, un potenziale rivoluzionario esplosivo".
Tale teoria ha assunto notevole importanza nell'avvicinamento tra cristianesimo e
marxismo in termini di cristianesimo ateo: il vero Dio non è quello della trascendenza
ma è la speranza del futuro.

In relazione agli sviluppi novecenteschi della filosofia marxista va annoverato anche


Louis Althusser, il cui pensiero peraltro è stato già considerato nell'illustrare lo
Strutturalismo.

Il neomarxismo in Italia: Labriola e Gramsci.

Il marxismo teorico italiano sorge solo negli ultimi anni dell'Ottocento per la
preesistente egemonia del neoidealismo di Croce e di Gentile da un lato e del
positivismo dall'altro. Inoltre il giovane Stato liberale italiano si è sempre mostrato
ostile alla diffusione delle teorie marxiste. Ciò nonostante la filosofia marxista riesce
ad introdursi negli ambienti universitari in seguito all'opera di Antonio Labriola,
allievo di Bertrando Spaventa e docente di filosofia presso l'università di Roma,
convertito al marxismo dopo una sua iniziale adesione all'hegelismo.

Antonio Labriola (1843-1904).

Labriola si interessa del materialismo storico in contrapposizione altresì al


positivismo-naturalismo ed all'idealismo.
Contro il positivismo e il darwinismo, che concepiscono la storia come un
prolungamento della natura, ossia su basi deterministiche e meccanicistiche, Labriola
114
115

sostiene che la storia è fatta dagli uomini e che gli uomini non sono solo natura ma
producono cultura. Pertanto, pur accettando il metodo scientifico, il divenire storico
non è un automatismo naturalistico ma si sviluppa secondo proprie peculiarità in base
al tipo di relazioni sociali e culturali ed ai rapporti di lavoro. Del positivismo Labriola
rifiuta la visione materialistica dell'universo, affermando che lo stesso concetto di
materia è di tipo metafisico, intendendo per materia il sostrato ultimo (l’essenza) dei
fenomeni. La cultura non è natura ma è storia, anche se i due momenti si intrecciano
continuamente.
Contro l'idealismo Labriola, conformemente alla teoria marxista, afferma che "le
idee non cascano dal cielo" e che le cose non sono il mero derivato del pensiero. Le
idee invece sono connesse a determinate situazioni socio-politiche. Ma ciò non
significa considerare la sovrastruttura come dipendente dalla struttura
economica. È indiscusso il principio per cui non è la coscienza che determina la vita
ma sono le condizioni dell'esistenza che determinano la coscienza. Tuttavia le forme
della coscienza sono anch'esse storia. La sovrastruttura non deriva meccanicamente
dalla struttura ma vi è reciproca interazione. Il materialismo storico, in questo
senso, non pretende di essere verità assoluta ma piuttosto metodo di ricerca, in base al
quale ricercare in ogni fatto storico anche le fondamentali cause economiche.

Antonio Gramsci (1891-1937).

È il maggior esponente del marxismo italiano. Nasce ad Ales (Cagliari). Nel 1919
fonda, insieme a Palmiro Togliatti, il giornale "Ordine nuovo". Nel 1921,
insoddisfatto del partito socialista, è tra i fondatori del Partito comunista italiano.
Inviato a Mosca, a partecipare ai lavori dell'Internazionale, conosce Lenin. Nel 1924
diventa direttore dell’"Unità". E’ condannato dal fascismo, nel 1928, a vent'anni di
carcere. Scarcerato nel 1937 per gravi motivi di salute, muore una settimana dopo.
Opere principali: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce; Quaderni
dal carcere.
Due sono gli scopi principali della sua attività: diffondere il marxismo in Italia
contro gli altri indirizzi filosofici prevalenti; analizzare i modi e le forme in cui può
avvenire la conquista del potere in Italia.
Ai fini della diffusione del marxismo polemizza contro il positivismo e il
naturalismo proclamando, come Labriola, che il marxismo è un sapere sociale non
riducibile a quello naturale. Ma polemizza soprattutto contro il neo-idealismo di
Croce, indirizzo filosofico allora prevalente. Riconosce a Croce il merito di aver
sottolineato il carattere storico, anziché astratto-concettuale, della realtà, e
specialmente del divenire sociale, nonché di aver combattuto contro le concezioni
metafisiche teologiche e trascendenti. Ma accusa Croce di non aver condotto sino in
fondo la lotta contro la religione e la metafisica poiché il suo concetto di "Spirito"
richiama ancora la vecchia figura di Dio e un'idea di trascendenza alla base dello
sviluppo della storia. Per Gramsci la storia è invece una vicenda assolutamente
115
116

immanente (immanentismo storicistico e umanesimo assoluto): nella storia non


agisce nessuna entità trascendente ma essa è esclusiva opera degli uomini, delle loro
lotte, della loro cultura, delle loro speranze e dei loro progetti. Né lo sviluppo della
storia è deterministico come sostenevano i positivisti. Rimprovera inoltre a Croce di
aver trascurato l'importanza dei fattori, delle strutture e degli interessi economici e di
aver privilegiato soprattutto una storia concepita come storia delle idee, della cultura,
dell'arte. La storia deve essere concepita invece in termini dialettici e studiata col
metodo dialettico in quanto è storia dei rapporti e dei contrasti sociali, destinati ad
essere superati dall'azione matura e consapevole degli uomini. In particolare la storia
va considerata secondo la prospettiva dialettica del marxismo in quanto filosofia della
prassi per eccellenza, in grado di meglio spiegare il carattere globale dell'azione
umana nel mondo nonché l'impegno, dispiegato anche attraverso la cultura, nella
trasformazione rivoluzionaria della realtà: combinazione della dialettica con la
prassi. Tale combinazione impedisce di applicare la dialettica alla realtà secondo
schemi teorici meccanici e deterministici, come nell'idealismo e nel positivismo ma
anche in un certo marxismo. Prova ne è la stessa "Rivoluzione di ottobre" scoppiata
in Russia, in un paese all'epoca poco industrializzato, e quindi contro la previsione
schematica dello stesso Marx espressa ne "Il capitale", secondo cui la rivoluzione
comunista può invece avvenire solo all'interno di un paese fortemente industrializzato
e con un forte proletariato operaio. Significa che il marxismo, più che dottrina, va
considerato soprattutto come attività e prassi rivoluzionaria e che le occasioni
storiche per la rivoluzione non possono essere teoricamente predeterminate, potendo
essere molteplici e diverse secondo le circostanze.
L'importanza della prassi rispetto alla teoria conduce Gramsci a riflettere sulle
dinamiche, ossia sui diversi modi della conquista del potere da parte del
proletariato. Inizialmente convinto che la presa del potere non possa comunque
prescindere dalla rivoluzione, in un secondo tempo egli ritiene che essa possa
avvenire, ad esempio in Italia, anche in seguito ad un processo non necessariamente
armato, bensì di crescita ed allargamento dell'influenza culturale degli intellettuali
progressisti, interpreti delle esigenze del proletariato. Deriva da ciò la teoria
gramsciana dell'egemonia culturale degli intellettuali "organici"(ossia
strumentali) al servizio degli interessi del popolo e del partito, così come i preti sono
organici al mondo cattolico contadino.
Pur aderendo al leninismo, Gramsci afferma la necessità di tener conto della
particolare situazione della società italiana, nella quale una rivoluzione come
quella sovietica non era immediatamente possibile a causa della resistenza opposta
dalla religione cattolica specialmente nel mondo contadino. Teorizza pertanto una
strategia rivoluzionaria diversa, chiamata poi "la via italiana al socialismo",
attraverso, per l'appunto, la preliminare conquista di un'egemonia culturale del
pensiero marxista nella società civile.
Il potere, afferma Gramsci, si realizza in due modi alternativi: o come dominio
esercitato mediante la forza degli apparati coercitivi dello Stato, oppure altresì
come capacità di direzione morale e intellettuale, ossia come capacità di indicare
la soluzione dei problemi attraverso e all'interno delle istituzioni della società civile:
116
117

la scuola, la chiesa, i partiti, i sindacati, la stampa, il cinema, la cultura in genere.


Gramsci rivaluta quindi l'importanza della cultura, cioè della sovrastruttura,
nei confronti del primato, sostenuto da Marx, della struttura economica, pur
rimanendo componente fondamentale della storia sociale.
Finora, prosegue Gramsci, la classe borghese ha mantenuto il suo potere perché ha
contemporanemente esercitato all'interno della società anche un ruolo di egemonia
culturale. Ma se gli intellettuali progressisti riescono a soppiantare e sostituire il
predominio culturale della borghesia, acquisendo una migliore capacità di direzione e
di soluzione dei problemi, allora il controllo degli apparati dello Stato da parte della
classe borghese non sarà più sufficiente, da solo, a conservare il potere, che dopo un
certo periodo potrà quindi passare nelle mani del proletariato.
Risulta quindi oltre modo valorizzata la funzione degli intellettuali progressisti,
visti non già come gruppo sociale autonomo e ristretto bensì integrati all'interno e
nell'insieme dei quadri dirigenti del partito, per elaborare e trasmettere, attraverso il
partito, le idee guida nei vari settori della produzione, dell'educazione, della politica,
della cultura e delle arti. Gli intellettuali, per Gramsci, non sono disinteressati
ricercatori culturali e scientifici ma assumono il ruolo di veri e propri "funzionari di
partito". Lo stesso partito comunista, fortemente centralizzato e organizzato in
senso gerarchico, si pone come l'intellettuale organico per eccellenza,
rappresentante della totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice
e sua guida politica, morale e ideale, al punto da paragonare e definire il partito
come "il moderno Principe" pur se, a differenza di Machiavelli, esso non si
identifica con una persona ma con un'organizzazione capace di esprimere la volontà
collettiva.
Coerentemente con la teoria dell'egemonia culturale, Gramsci definisce la
propria strategia rivoluzionaria, affermando che in Occidente lo scontro
rivoluzionario, più che frontale contro gli apparati dello Stato, deve opportunamente
realizzarsi attraverso una prolungata guerra di posizione per impadronirsi ed
assumere in primo luogo la supremazia nelle istituzioni della società civile e quindi,
successivamente, conquistare anche lo Stato. Questa strategia gramsciana è stata fatta
propria dal Partito comunista italiano, da Togliatti a Berlinguer, perseguendo l'idea di
una conquista dello Stato borghese dall'interno della società civile. È anche vero,
d'altra parte, che tale strategia è basata sulla concezione di un partito centralistico e
totalitario, che si ritiene interprete assoluto e dogmatico della volontà collettiva.
Gramsci affronta anche la questione meridionale, che ritiene di importanza
nazionale. Mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della
popolazione significa per Gramsci ottenere, in Italia, il consenso delle masse
contadine. Ad avviso di Gramsci la questione contadina in Italia è legata da un lato
con la questione vaticana, cioè con l'influenza conservatrice della Chiesa e, dall'altro,
con la divisione che si è instaurata tra la classe operaia del Nord e i contadini del Sud.
Da ciò la sua critica al Partito socialista, colpevole di non aver intuito il carattere
nazionale della questione meridionale e di avere isolato le rivendicazioni operaie del
settentrione da quelle contadine del meridione, lasciandosi sfuggire l'enorme
potenziale rivoluzionario delle masse sfruttate del Mezzogiorno.
117
118

LA SCUOLA DI FRANCOFORTE E LA TEORIA CRITICA DELLA SOCIETA’.

È una corrente di pensiero nata a partire dal 1922 presso il celebre Istituto per la
ricerca sociale di Francoforte e che ha come principali esponenti Horkheimer,
Adorno, Marcuse, Erich Fromm, Walter Benjamin e, in parte, Jurgen Habermas
quale erede più significativo della Scuola (che sarà trattato in un paragrafo
successivo). Con l'avvento del nazismo il gruppo è stato costretto ad emigrare, prima
a Ginevra, poi a Parigi e infine a New York. Con la caduta di Hitler parte degli
esponenti rientra in Germania.
Obiettivo programmatico è stata l'elaborazione di una teoria critica della società,
quella capitalistica ed industriale avanzata, secondo l'ideale rivoluzionario di
un'umanità futura libera e disalienata, sviluppando quindi una forma di pensiero
negativo (cioè critico), volto a smascherare le fondamentali contraddizioni sociali
sussistenti e proponendo un modello utopico in grado di fungere da pungolo
rivoluzionario per un mutamento radicale della società industriale, caratterizzata da
crescente autoritarismo, conformismo e alienazione. A questo modello si è ispirata la
contestazione giovanile del 1968.
Il pensiero della Scuola, oltre che da Nietzsche e Heidegger (nichilismo e
fenomenologia), è altresì influenzato da Hegel, Marx e Freud. Da Hegel e Marx
deriva l'impostazione assunta di un'analisi critica della società secondo un
principio dialettico e totalizzante: dialettico perché intesa ad evidenziare le
contraddizioni intrinseche della società industriale e totalizzante perché, nel
respingere un approccio di analisi sociale statistico-descrittivo, l'intento è di mettere
in discussione la società nella sua globalità e nella totalità non settoriale delle
interazioni, al fine di non limitarsi a descrivere come la società è ma pronunciarsi su
come dovrebbe essere. Da Freud assume (specialmente Marcuse) gli strumenti
analitici per lo studio della personalità e dei meccanismi di "introiezione"
dell'autorità (di condizionamento e subordinazione all'autorità) che
contraddistinguono l'individuo nella società di massa. Dalla psicoanalisi la Scuola
ricava anche i concetti di "ricerca del piacere" e di "libido", che interpreta come
istinti creativi che devono essere liberati dalle imposizioni autoritarie della società di
classe capitalistica. La famiglia è concepita (e criticata) come luogo privilegiato
per l'assimilazione (per l'accettazione) del principio di autorità e per la diffusione
di un consenso sociale conformistico.
I fattori storico-sociali che stanno alla base dell'origine e degli sviluppi della
Scuola di Francoforte sono individuabili nell'avvento del nazismo e del fascismo,
che stimolano analisi critiche sull'autoritarismo, nel trionfo della società tecnologica
opulenta, che favorisce originali riflessioni sul consumismo, sull'industria culturale e
sull'individuo etero-diretto (condizionato da pressioni esterne), nonché
nell'affermazione del comunismo sovietico, visto come esempio negativo di
"rivoluzione fallita" e di altra faccia del capitalismo sotto forma di capitalismo di
Stato.

118
119

Benché fortemente influenzata dal marxismo, la Scuola di Francoforte ha tuttavia


con esso un rapporto tormentato (critico) per motivi teorici e pratici, sia perché
respinge il concetto cardine marxista di progresso sociale storicamente
predeterminato, sia perché si oppone ai regimi totalitari del comunismo reale (quale si
è realmente e storicamente sviluppato) di ispirazione marxista.

MAX HORKHEIMER(1895-1973).

Opere principali: Autorità e famiglia; Dialettica dell'illuminismo (scritta insieme ad


Adorno); L'eclissi della ragione.

La società autoritaria.

Horkheimer tende ad evidenziare il rapporto esistente tra l'autoritarismo della


società borghese e la famiglia. Nei sistemi politici borghesi la libertà individuale è
garantita solo da un punto di vista formale ma di fatto è condizionata dalla situazione
economica e sociale. Sottolinea come il principio di autorità trovi la sua prima
realizzazione nella famiglia, la cui struttura riflette quella della società come hanno
dimostrato le ricerche psicoanalitiche.

L'eclissi della ragione.

Horkheimer esamina il concetto di razionalità che sta alla base del mondo
moderno e della civiltà industriale. Egli distingue tra una ragione oggettiva e una
ragione soggettiva. La prima è quella dei grandi sistemi filosofici (Platone,
Aristotele, la Scolastica, l'Idealismo), volta all'elaborazione di principi, di fini, di
ideali posti a fondamento della realtà e che fungono da criteri del nostro conoscere e
del nostro agire. La seconda è quella che si rifiuta di riconoscere uno scopo ultimo
nella realtà nonché di valutare i fini dell'azione, limitandosi unicamente a determinare
gli strumenti e i mezzi più efficienti per raggiungere i più diversi e qualsiasi fini,
senza più riflettere sugli stessi.
Questa ragione soggettiva e strumentale si è sviluppata soprattutto nella società
moderna, col crescente distacco dell'uomo dalla natura, ed è diventata una
caratteristica non contingente, provvisoria e storicamente delimitata, bensì strutturale
e costante della civiltà moderna, non solo borghese ma anche sovietica. È nata dal
bisogno umano di dominare la natura e, per assoggettarla, ha richiesto l'impianto di
una organizzazione burocratica e impersonale che è giunta a ridurre l'uomo a
semplice strumento per una manipolazione della natura fine a se stessa. La scienza e
il progresso tecnologico mettono a disposizione di tutti oggetti e beni dapprima non
immaginabili, ma per contro è diminuita l'autonomia dell'individuo, la forza della sua
immaginazione e la sua indipendenza di giudizio. Ne consegue un processo di
119
120

crescente disumanizzazione e la ragione (la coscienza critica), divenuta ragione


strumentale, si è incamminata in una direzione dialettica autodistruttiva in
quanto minaccia di distruggere proprio quello scopo che dovrebbe realizzare, cioè
l'emancipazione dell'uomo, il suo potere di critica e di creatività. La civiltà moderna
ha finito col sostituire i fini con i mezzi. La ragione è degradata unicamente a
capacità di calcolare e coordinare i mezzi adatti rispetto ad un fine qualsiasi,
rinunciando a stabilire quale fine sia più ragionevole di un altro. Il pensiero può
servire per qualunque scopo, buono o cattivo. È ridotto a solo strumento di azione e
la coscienza individuale è divenuta incapace di stabilire e prescegliere le norme
di vita, determinate ormai da altre forze. Gli scopi sono decisi dal "sistema",
cioè dal potere dominante. La ragione si è eclissata, avendo rinunciato alla propria
autonomia. Il sistema, perseguendo come unico scopo il dominio della natura e degli
uomini, riduce la razionalità a funzionalità, il sapere alla tecnica e la verità all'utilità,
generando un tipo di uomo asservito alle esigenze produttive. Un uomo che non si
interroga mai sui fini autentici della società e che abbassa la propria razionalità da
razionalità rispetto ai fini a razionalità rispetto ai mezzi, utilizzata come mero
strumento di calcolo tecnico di convenienza individualistica, in quanto tale funzionale
al potere dell'industria e del capitalismo.
Alla critica sull'eclisse della ragione si accompagna quella contro le filosofie che
la rispecchiano:
1. contro il neopositivismo, che risolve tutti gli interrogativi filosofici nelle
scienze particolari e trascura la dimensione della totalità (di una visione
globale e critica della realtà);
2. contro il pragmatismo, che trasforma la verità in utilità;
3. contro l'idealismo, perché la pur giusta prospettiva della totalità è andata in
fumo;
4. contro il neokantismo, che si è risolto in vuoti formalismi;
5. contro la fenomenologia, che resta un programma irrealizzabile;
6. contro l'esistenzialismo di Heidegger, che di fatto è primitivismo (esaltazione
del mondo e del pensiero primitivo) e irrazionalismo;
7. contro il positivismo, che si riduce ad una accettazione acritica dei fatti ma
non si accorge che i fatti non sono dati rigidi ma piuttosto dei problemi;
8. contro altresì tutte le forme dogmatiche che ha assunto il marxismo, che
pretende di sapere in quale casella sistemare un fenomeno senza però
conoscere nulla del fenomeno. Il comunismo reale è in effetti nient'altro che
capitalismo di Stato ed è una variante dello Stato autoritario. Anche le
organizzazioni proletarie di massa si sono date una struttura burocratica,
limitandosi a sostituire il principio della pianificazione economica a quello del
profitto, seguitando comunque a mantenere gli uomini assoggettati ad una
amministrazione e ad un controllo centralizzato e burocratizzato. Il profitto da
una parte ed il controllo pianificato dall'altra hanno generato sempre maggior
repressione;
9. parimenti, è condannata la sociologia di stampo positivistico ed empiristico a
favore di una sociologia critica.
120
121

La sociologia di Horkheimer si differenzia da quella di Weber perché non


intende essere "avalutativa", ossia semplicemente descrittiva ed esplicativa,
dovendo essere invece orientata secondo precisi valori e quindi critica nei
confronti delle situazioni sociali esistenti. Da qui la concezione della sociologia
come "teoria critica della società". Inoltre la sociologia non può essere
semplicemente una scienza particolare, limitandosi a considerare i comportamenti
sociali come se fossero una realtà separata da tutte le altre, ma deve inserire i fatti
sociali nella totalità della realtà storica, deve cioè coincidere con quella
considerazione generale della totalità della realtà che è la filosofia.

La dialettica dell'illuminismo.

I motivi che spiegano l'eclisse della ragione stanno alla base della celebre opera
"Dialettica dell'illuminismo". Qui per Illuminismo non viene inteso soltanto quel
movimento di pensiero che ha caratterizzato il Settecento. Viene inteso piuttosto
come linea di pensiero e percorso della ragione che, partendo già da Senofane e
poi soprattutto con Cartesio e Bacone, ha preteso di razionalizzare il mondo al
solo fine di renderlo manipolabile e sfruttabile, nell'obiettivo di togliere all'uomo
la paura e di renderlo padrone. Ma questo tipo di illuminismo va incontro
all'autodistruzione perché è rimasto paralizzato dalla paura della verità. In esso
è prevalsa l'idea che il sapere è tecnica anziché critica. Quel che importa non è la
verità delle teorie ma la loro funzionalità. La pretesa di accrescere sempre di più il
potere sulla natura e la separazione dell'uomo dalla natura hanno determinato il
prevalere dell'apparato tecnico e la perdita dell'autonomia del singolo individuo.
L'uomo è diventato un ingranaggio del sistema di cui sfruttare le capacità senza
nessuna gratificazione a livello personale. L'illuminismo prometteva libertà e
autonomia per l'uomo, liberato dai dogmi e dalle credenze della metafisica e della
religione, ma in realtà ha dato origine a nuove religioni, ai nuovi miti della scienza,
del progresso tecnologico, dell'efficienza, senza porsi il problema della felicità
umana. Da ciò il ribaltamento filosofico, ossia dialettico, dell'illuminismo: la
ragione produce ciò che inizialmente aveva negato, vale a dire il mito della tecnica,
l'accettazione passiva della realtà e infine la rinuncia alla razionalità stessa. La
volontà di un crescente dominio sulla natura si è rovesciata in un progressivo
dominio dell'uomo sull'uomo e in un generale asservimento dell'individuo
all'apparato tecnico e al sistema sociale. Di fronte alle potenze economiche il singolo
è ridotto a zero.
Simbolo della rovesciamento dialettico della ragione (da dominio sulla natura a
dominio sull'uomo) è Ulisse che, facendosi legare all'albero della nave e tappando le
orecchie con la cera, rifiuta di prestare ascolto e di accogliere i richiami al piacere e
alla felicità delle sirene. Prezzo del decadimento della razionalità è non solo la libertà
ma anche la felicità.
Il passaggio dalla ragione oggettiva alla ragione soggettiva non è avvenuto per caso,
commenta Horkheimer, e se ciò è accaduto significa che le filosofie della ragione
121
122

oggettiva avevano fondamenta troppo deboli. Oggi sono ormai solo "filosofie di
servizio". Nemmeno l'arte e la letteratura riescono a cogliere e a dare significato alla
realtà. Un tempo l'arte, la letteratura e la filosofia si sforzavano di esprimere il
significato delle cose e della vita. Oggi alla natura è stata tolta la facoltà di parlare e
la cultura della società industriale tace sui fini e, con ciò, sulle questioni che per un
uomo sono le più importanti.
In questa situazione di perdita della libertà di pensiero e di azione individuale,
anche a causa dell'industria culturale, diventa di nuovo fondamentale il ruolo della
filosofia, non come "sistema" ma come denuncia di ciò che viene comunemente
chiamata ragione, per tornare ad una ragione intesa come attività critica che
smascheri le illusioni e gli inganni della società industriale.

La nostalgia del "totalmente Altro".

Dopo l'iniziale adesione al marxismo, Horkheimer si rende progressivamente conto


che il marxismo stesso, inseguendo anch'esso l'ideale di un dominio sulla natura e di
un controllo sulla società, finisce per rientrare nella logica illuministico-
strumentale della nostra civiltà. Marx ha ottimisticamente ritenuto che giustizia e
libertà potessero stare in un rapporto di identità. Invece i fatti hanno
drammaticamente mostrato che stanno in un rapporto di esclusione. La solidarietà
del proletariato voluta da Marx non era forse la via migliore per giungere ad una
società giusta. Le illusioni di Marx sono presto venute a galla: la situazione sociale
del proletariato è migliorata senza rivoluzione e l'interesse comune non è più il
radicale mutamento della società bensì una migliore condizione materiale di vita.
Per Horkheimer vi è una solidarietà che va al di là della solidarietà di una
determinata classe: è la solidarietà fra tutti gli uomini, perché tutti devono
soffrire e devono morire. Abbiamo tutti un interesse in comune, quello di creare un
mondo in cui la vita sia più bella, più lunga, più affrancata dal dolore e più
favorevole allo sviluppo dello spirito. Ma noi uomini siamo essere finiti. Per questo
non possiamo pensare che qualcosa di storico -una politica, una teoria, uno Stato- sia
qualcosa di assoluto.
Si svela nell'ultimo Horkheimer una nostalgia per il divino, una nuova sensibilità
per la riflessione teologica. La nostra finitezza e precarietà non dimostra l'esistenza
di Dio. Tuttavia è avvertibile il bisogno di una teologia intesa non come scienza di
Dio ma come coscienza che il mondo è fenomeno, che non è la verità assoluta, la
quale soltanto è la realtà ultima. Dio non è certezza, ma esso è la speranza, la
nostalgia di un "totalmente Altro" per cui, "nonostante l'ingiustizia del mondo,
non possa avvenire che l'ingiustizia possa essere l'ultima parola". Questo Dio-
nostalgia è assolutamente indimostrabile e irrappresentabile, assumendo piuttosto, in
Horkheimer, il carattere di teologia negativa. Tuttavia esprime una nostalgia di
trascendenza in cui l'ingiustizia non possa trionfare. È la speranza di una perfetta
giustizia e ciò, ammette Horkheimer, non potrà mai essere realizzato nella
storia umana.
122
123

THEODOR WIESENGRUND ADORNO (1903-1969).

Opere principali: oltre alla "Dialettica dell'illuminismo", scritta insieme con


Horkheimer, si possono citare le opere "Dialettica negativa"; Minima morali; Teoria
estetica (postuma).

La dialettica negativa.

Quello della dialettica è un tema centrale in Adorno. Egli è influenzato da diverse


filosofie, da Marx a Nietzsche, ma è soprattutto la dialettica hegeliana a suscitare il
suo interesse. Contro la fenomenologia e l'esistenzialismo da un lato e contro il
neopositivismo e il logicismo dall'altro, Adorno difende la funzione primaria della
dialettica come strumento di comprensione del reale, ma respinge la concezione
hegeliana di dialettica che attraverso la messa in luce delle contraddizioni giunge poi
alla loro sintesi e conciliazione. Per Adorno invece la dialettica è sempre negativa,
una dialettica che nega cioè l'identità di reale e razionale, di essere e pensiero, e nega
quindi le pretese della filosofia di afferrare la totalità della realtà e di rivelarne il
senso nascosto e profondo. L'idea che l'essere sia assolutamente corrispondente
al pensiero e ad esso accessibile è un'illusione, come attestato dal fallimento delle
metafisiche tradizionali, in particolare della fenomenologia (poiché unicamente
descrittiva), dell'idealismo, del positivismo, dell'illuminismo e del marxismo
ufficiale. Allorché queste teorie si presentano come positive esse si trasformano in
ideologia. La filosofia oggi si manifesta come mascheramento e camuffamento della
realtà; nello sforzo di darne una spiegazione coerente e globale finisce col
giustificare la situazione di fatto e bloccare qualsiasi azione trasformatrice e
rivoluzionaria. Dopo Auschwitz, dichiara Adorno, le tradizionali e giustificazioniste
visioni del mondo sono divenute semplice "spazzatura".
Serve una dialettica negativa che, contestando l'identità di ragione e realtà,
sappia svelare le disarmonie e le contraddizioni, non conciliabili in sintesi, che
caratterizzano il mondo. La dialettica negativa non è una dialettica idealistica, che
mistifica la realtà in armonici schemi concettuali. Piuttosto è una dialettica
materialistica, per la quale la realtà non è affatto razionale. La realtà esiste in sé
indipendentemente dal pensiero, con contenuti non sempre interpretabili e
conoscibili. Va quindi riconosciuto il primato dell'oggetto: l'oggetto può essere
pensato solo dal soggetto ma resta sempre di fronte ad esso come "altro".
Adorno critica conseguentemente tutte le filosofie che tendono a costruire sistemi
totalizzanti, convinto che non sia possibile afferrare con la forza del pensiero la
totalità del reale. Nella realtà invece le contraddizioni permangono e non possono
essere mai completamente comprese dal pensiero e conciliate in una sintesi
pacificata. Alla filosofia non spetta quindi il compito di spiegare la realtà
mediante tentativi di teorie di conciliazione e di sintesi degli opposti, bensì il
compito di critica programmatica e rivoluzionaria delle contraddizioni del
mondo. La contraddizione è l'essenza della realtà ed investe lo stesso pensiero, ossia
123
124

la stessa dialettica, vale a dire la filosofia che deve perciò criticare anche se stessa e
divenire così autocritica.

L'industria culturale.

Il termine di "industria culturale" è stato coniato da Adorno insieme ad Horkheimer.


Uno degli aspetti più vistosi dell'odierna società tecnologica è la creazione di un
possente apparato chiamato "industria culturale", costituito essenzialmente dalla
pubblicità e dai mass-media (giornali, cinema, televisione, radio, dischi, ecc.),
mediante il quale il sistema è in grado di condizionare le coscienze e i
comportamenti individuali in maniera funzionale alla conservazione del proprio
potere. Il consumatore, in apparenza libero nelle sue scelte, diventa invece soggetto
passivo, destinatario dei messaggi dell'industria culturale, che suscita i bisogni e
determina i consumi degli individui, rendendoli passivi ed etero-diretti (diretti da
altro, non dalla loro coscienza ma da pressioni esterne). I mezzi di comunicazione di
massa dell'industria culturale contribuiscono ad un processo di estraniazione
dell'individuo, imponendo valori e modelli di comportamento uniformi e
conformistici poiché devono raggiungere e andar bene per tutti. L'individuo, così
condizionato, perde la sua autonomia e la sua capacità critica, come pure la sua
creatività. L'industria culturale ha plasmato l'uomo in maniera assolutamente
standard. Ognuno è del tutto fungibile e del tutto sostituibile. Nella società di massa
l'individuo perde la sua individualità e diventa un puro nulla.
La stessa democrazia diventa autoritaria: l'uomo viene sempre più controllato e
dominato sia nel mondo del lavoro che nella sfera privata della sua esistenza.
Anche il divertimento perde il suo carattere spontaneo di libera scelta creativa e si
trasforma in divertimento programmato, poiché è la stessa industria culturale e
del divertimento che ne stabilisce modalità e orari affinché siano funzionali al
tempo di lavoro e non giungano a comprometterlo.
L'industria culturale è, nel complesso, la più efficaci ideologia al servizio del
capitalismo, rivolta a creare sostanziale consenso nei confronti del sistema.

Il ruolo dell'arte nella società moderna.

Poiché valente critico letterario e musicologo, Adorno si è distinto anche nel campo
dell'estetica. Egli ritiene che l'arte contemporanea possa svolgere un'importante
funzione culturale e sociale per un duplice motivo:
1. l'arte contemporanea, avendo rotto i canoni classici della bellezza intesa come
armonia e perfezione, per esaltare invece i contrasti nonché raffigurazioni
astratte ed espressionistiche, svolge un ruolo di testimonianza della
disarmonia, delle contraddizioni e della frammentarietà del nostro mondo e
della società moderna, a conferma della tesi della dialettica negativa
concernente l'inconciliabilità degli opposti in una sintesi risolutrice;
124
125

2. l'arte, poiché esprime la sofferenza per le contraddizioni del mondo e la


mancanza di libertà nella società conformistica di massa, svolge una funzione
di protesta e liberatoria, come desiderio e anticipazione utopica di un mondo a
misura d'uomo.

HERBERT MARCUSE (1898-1979).

Il suo pensiero è stato un importante punto di riferimento della contestazione


giovanile del 1968.
Opere principali: Eros e civiltà; L'uomo a una dimensione; La fine dell'utopia.

"Eros e civiltà": per una civiltà non repressiva.

Marcuse riprende la posizione espressa da Freud nel "Disagio della civiltà",


secondo cui lo sviluppo della civiltà è basato sulla repressione della libido
dell'uomo e dei suoi istinti, in particolare l'istinto della ricerca del piacere (l'eros).
La società è riuscita ad accrescere la produttività e a mantenere l'ordine solo
impedendo all'individuo la libera soddisfazione delle sue pulsioni ed istinti, per
sublimarli ed innalzarli invece verso il lavoro e l'impegno. Però, a differenza di
Freud che riteneva la repressione un costo inevitabile di qualsiasi civiltà, Marcuse
ritiene che non sia la civiltà in generale ad essere repressiva bensì quel tipo
particolare di civiltà che è la società di classe, in particolare la società industriale
avanzata, ove il principio del piacere (la libido, gli istinti, l'eros) ha dovuto
soccombere di fronte al principio della realtà, imposto come principio di
prestazione, ossia come direttiva volta ad impiegare tutte le energie psicofisiche
dell'individuo per scopi produttivi e lavorativi, con conseguente restrizione della
componente erotica (sensuale ed emotiva) della natura umana e riduzione della
sessualità a puro fatto genitale e procreativo ("tirannide genitale").
Contro le pressioni repressive della sfera dei sensi, del piacere e degli impulsi, la
dimensione estetica e l'arte può allora divenire per Marcuse espressione del
desiderio umano di libertà e di creatività non alienata (non disumanizzata). La
dimensione estetica trova in Orfeo (la voce che non comanda ma canta) e in Narciso
(la sua è una vita di bellezza) le figure più caratteristiche, mentre Prometeo, simbolo
della fatica e della produttività, è l'eroe culturale dell'Occidente.
È mai possibile realizzare una civiltà non repressiva? Secondo Marcuse,
mediante un rovesciamento di prospettiva possono essere individuate proprio nel
progresso tecnologico le condizioni per una liberazione della società dall'ossessivo
principio di prestazione a favore di una dilatazione del tempo libero e di un
capovolgimento del rapporto fra tempo libero e tempo di lavoro socialmente
necessario, in modo che questo diventi solo un mezzo e non più un fine. Infatti la
maggior diffusione delle macchine nell'attività lavorativa rende possibile la
125
126

diminuzione delle ore di lavoro e l'aumento del tempo libero e, pertanto, un recupero
della libertà, della creatività e della finale trasformazione del lavoro in gioco, in una
nuova esistenza ri-orientata verso la felicità dell'eros liberato.

L'uomo a una dimensione e il "Grande rifiuto"; "La fine dell'utopia".

Ne "L'uomo a una dimensione" Marcuse radicalizza (esprime in modo radicale) i


vari motivi di critica della società tecnologica. L'uomo a una dimensione è il
soggetto alienato, consumista e privato della capacità di critica che abita la società
industriale avanzata, denunciata come fondamentalmente autoritaria e totalitaria.
Condizionato dal principio di prestazione e dall'industria culturale, l'individuo
alienato della contemporanea società di massa è colui che subisce e accetta
passivamente il sistema in cui vive, che non scorge più il distacco tra ciò che è e ciò
che deve essere e che non riesce a concepire altri possibili modi di esistere, altre
dimensioni della vita (da ciò appunto il titolo di "uomo a una dimensione"). Il
sistema tecnologico ha la capacità di far apparire razionale ciò che è irrazionale
e di stordire l'individuo in un frenetico universo consumistico. Il sistema si
riveste di forme pluralistiche e democratiche (partiti, giornali, poteri
controbilanciati), ma si tratta solo di apparenza e di illusione, poiché le decisioni di
fondo sono in realtà sempre nelle mani di pochi. L'apparato produttivo tende a
diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le
abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni
individuali (conformismo di massa).
Anche la tolleranza di cui si vanta l'attuale società avanzata è in effetti una
"tolleranza repressiva", perché il suo permissivismo si limita a ciò che non mette
in discussione il sistema. La stessa libertà sessuale della società avanzata è
un'illusione o un inganno, poiché in realtà si ha una semplice liberazione
"amministrata" e commercialmente redditizia del sesso ai fini di un adattamento
repressivo dell'individuo.
La società repressiva amministra globalmente la vita dell'uomo. In tale situazione
bisogna fare appello alle forze in grado di opporsi. Poiché tuttavia il ruolo
rivoluzionario del marxismo è ormai venuto meno (il marxismo non offre più una
visione alternativa della società) in quanto il mondo operaio si è integrato con
capitalismo, bisogna allora appellarsi ai gruppi del dissenso esterni al sistema,
vale a dire il sottoproletariato non ancora in integrato, gli studenti, gli emarginati, gli
sfruttati, i dannati del terzo mondo, i perseguitati di altre razze, i disoccupati e gli
inabili. Con qualche contraddizione rispetto alla precedente posizione di "Eros e
civiltà", che individuava la soluzione delle condizioni repressive all'interno della
società, ora sono questi gruppi del dissenso fuori sistema che possono incarnare
il "Grande rifiuto", ossia la contestazione globale al sistema e porre le basi per
l'avverarsi dell'utopia nella realtà.

126
127

Esistendo in tal senso le precondizioni materiali, tecniche e sociali (ossia i "luoghi")


che possono consentire la realizzazione delle utopie, Marcuse parla allora di "Fine
dell'utopia" perché in grado di concretizzarsi nella realtà.

ERICH FROMM (1900-1980).

Opere principali: Fuga dalla libertà; Avere o essere?

Fuga dalla libertà.

La civiltà moderna è caratterizzata da una crescente tendenza di fuga dalla


libertà, mentre la storia dell'umanità è stata soprattutto storia della libertà, che ha
avuto inizio quando l'uomo è riuscito a liberarsi dalla soggezione alla natura entro
cui rimane invece imprigionato l'animale. Lo sviluppo della storia ha determinato
una serie di conquiste quali il dominio sulla natura, la crescita della ragione rispetto
agli istinti, l'affermarsi di sentimenti di solidarietà verso gli altri uomini. Tuttavia il
distacco dalla natura ha causato anche isolamento, insicurezza e solitudine. È
derivato uno smarrimento del significato dell'esistenza: l'uomo si sente solo,
anonimo, impotente. Vive in modo spersonalizzato il lavoro e, ridotto al ruolo di
consumatore, avverte la propria limitatezza anche di fronte alle scelte politiche.
Per sfuggire a tale isolamento l'uomo tenta due vie diverse: 1) i meno cercano di
dominare gli altri; 2) i più si sottomettono ad un'autorità (sia questa una persona,
un governo, un'istituzione, una divinità). L'insicurezza e la precarietà determinano
cioè comportamenti di fuga dalla libertà, ossia di rinuncia alla responsabilità e
all'autonomia delle scelte, che favoriscono quindi lo sviluppo dei regimi totalitari
(fascismo, nazismo, stalinismo). Il totalitarismo per Fromm ha pertanto
spiegazioni di carattere non solo politico-sociale ma anche psicologico.
Anche il conformismo dilagante nella società moderna, cioè l'accettazione acritica
dei modelli di comportamento proposti dalla società, è in realtà un meccanismo
psicologico messo in atto per fuggire dalla paura e dalla solitudine e, in ultima
analisi, per fuggire dalla libertà. La fuga dalla libertà è l'effetto dell'alienazione
sussistente nella società contemporanea e dell'estraneità dell'uomo a se stesso,
allorquando non si riconosce come protagonista delle sue scelte ma concepisce se
stesso, nella società dominata dal denaro e dal consumo, come una cosa in vendita.
La soluzione per Fromm sta nell'affermazione di una libertà positiva, ovvero
nella realizzazione spontanea e completa della propria personalità in un lavoro
creativo e nella solidarietà con gli altri uomini. Il rimedio all'alienazione viene
prospettato nel costituirsi di un tipo di società organizzata secondo un "socialismo
comunitario", vicino alle posizioni dei socialisti utopisti e favorito da un
sindacalismo che miri alla partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione del mondo
del lavoro.

127
128

Per secoli, afferma Fromm, gli uomini al potere hanno proclamato l'obbedienza
una virtù e la disobbedienza un vizio. Ma la storia dell'uomo è cominciata con
un atto di disobbedienza ed è tutt'altro che probabile che si concluda con un atto di
obbedienza. Adamo ed Eva stavano dentro la natura. Il loro atto di disobbedienza ha
scisso il legame originario con la natura e li ha resi individui: il peccato originale,
lungi dal corrompere l'uomo, lo ha anzi reso libero; esso è stato l'inizio della sua
storia. L'uomo ha dovuto abbandonare il paradiso terrestre per imparare a dipendere
dalle proprie forze e diventare pienamente umano. E l'uomo ha continuato ad
evolversi mediante atti di disobbedienza contro i tentativi delle autorità volti a
reprimere nuove idee e ogni cambiamento. La capacità di disobbedire è pertanto la
condizione della libertà: "Se ho paura della libertà non posso avere il coraggio di
disobbedire". Quel che spaventa è il mondo contemporaneo, sia quello occidentale
ma anche quello sovietico, uniformemente coalizzato nel progetto di avversare la
capacità di disobbedire. "I leaders sovietici fanno un gran parlare di rivoluzione e
noi, nel "mondo libero", di libertà. Ma sia essi che noi scoraggiamo la
disobbedienza; nell'Unione Sovietica esplicitamente, con il ricorso alla forza, nel
mondo libero implicitamente, con i sottili metodi della persuasione".

Avere o essere?

Fromm individua due basilari modi di esistenza dell'uomo nella società.


Il primo è basato sull'avere, ed è il modello tipico della società industrializzata,
costruita sulla proprietà privata e sul profitto, che porta a identificare l'esistenza
umana con la categoria (la qualità) dell'avere, del possesso: io sono le cose che
possiedo e ciò che consumo; se non possiedo nulla la mia esistenza viene negata. In
tale condizione io possiedo le cose ma è anche vera la situazione inversa, cioè le cose
possiedono me.
Il secondo modo è basato sull'essere: l'essere se stesso, libero, autonomo, capace di
spirito critico. È un essere attivo, inteso non già nel senso di un'attività esterna,
nell'essere indaffarati, ma di un'attività interna, ossia di finalizzazione degli sforzi
alla crescita e all'arricchimento della propria interiorità.
La cultura tardo-medievale aveva come centro ispiratore la visione della Città di Dio;
la società moderna ha avuto come centro la Città terrena del progresso; nella società
contemporanea la Città terrena del progresso si è ridotta e deteriorata a Torre di
Babele, che ormai comincia a crollare e rischia di travolgere tutti. La Città di Dio e la
Città terrena costituiscono la tesi e l'antitesi. Solo una nuova sintesi può
rappresentare l'alternativa al caos: la sintesi tra spiritualità e sviluppo
razionale-scientifico. Questa sintesi è la Città dell'Essere, ossia una nuova società
fondata non sull'avere ma sull'essere, non più alienato bensì protagonista della
propria vita e solidale con gli altri; una società che garantisca a livello politico e
nell'ambito del lavoro la partecipazione democratica di tutti gli uomini.

128
129

WALTER BENJAMIN (1892-1940).

Opera principale: L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica.

In seguito alla lettura di Lukàcs si interessa del marxismo, impostando la propria


filosofia su prevalenti temi artistico-estetici.
Benjamin elabora il concetto dell’"auraticità" dell'opera d'arte: essa è il contesto
specifico (l'aura, ossia il momento nascente) in cui l'opera sorge e può essere fruita,
contesto che la rende un evento irripetibile. Tuttavia, nell'età contemporanea la
riproducibilità tecnica dell'opera artistica (dal museo al disco, alla fotografia, al
film) ha reso collettiva la possibilità della fruizione e ne ha fatto venir meno il
carattere originario ed esclusivo. L'arte diventa così uno dei tanti prodotti del
mondo capitalistico. Sorge una vera e propria industria culturale che contraddice il
carattere genuino dell'arte. Ciò distrugge l'auraticità ed inoltre fa sì che il fruitore sia
sempre più passivo, finendo col vedere l'opera d'arte sempre più come oggetto di
divertimento anziché di conoscenza. Così, se da un lato la riproducibilità tecnica
allarga positivamente la base dei fruitori, dall'altro essa è diventata, nel tardo
capitalismo, uno strumento per esercitare il dominio sulle masse da parte del
potere. Tale conclusione è fatta propria anche da Adorno.
Benjamin, di origine ebraica, si interessa anche di filosofia della storia,
coniugando marxismo e teologia messianica (di salvezza e redenzione). Il
marxismo, dice Benjamin, ha ragione nel condannare l'individualismo borghese e nel
privilegiare le dinamiche (gli sviluppi sociali) collettive. Però Benjamin vuol
continuare a tener vivo il carattere individuale del soggetto, anche se tale
conciliazione rimane irrisolta nella sua riflessione. Solo dalla coincidenza tra
momento collettivo e soggettivo può nascere per Benjamin una qualche fiducia nel
futuro. Ma tale coincidenza non è collocata e prevista in un tempo predeterminato,
bensì in un futuro messianico, ossia nell'attesa senza risposta della venuta di un
messia. La spinta messianica serve comunque ad eliminare gli elementi
deterministici del marxismo: la storia e il progresso hanno un andamento sempre
incerto.

129
130

TRA MODERNO E POSTMODERNO: NUOVI MODELLI FILOSOFICI ED


ETICI.

Tra i vari temi affrontati, il pensiero novecentesco si è soffermato altresì su


quelli concernenti:
1. la riflessione sulla modernità (Weber; i postkantiani);
2. i problemi etici e morali connessi alla sfera pratica dell'agire (neoaristotelismo
e postkantismo);
3. la filosofia del postmoderno o della postmodernità (Lyotard e Vattimo).
Il tentativo più noto di pensare la modernità è quello di Weber il quale, insieme
ad una metodologia delle scienze storico-sociali elaborata in stretto contatto con le
problematiche dello storicismo, ha cercato di individuare i tratti specifici della
civiltà moderna. Ha inoltre distinto due grandi modelli etici: 1) l'etica della
convinzione (o dei principi), che prescrive il perseguimento incondizionato di
determinati valori a prescindere dalle conseguenze che la loro attuazione comporta;
2) l'etica della responsabilità, che si preoccupa sia dei mezzi idonei ad ottenere
determinati scopi sia degli effetti connessi al proprio agire.
Una forma di etica della responsabilità, accompagnata dalla messa in discussione
della filosofia tradizionale, viene professata anche dal pensiero neoebraico di
Rosenzweig, Buber e, soprattutto, di Lévinas, il quale critica il pensiero occidentale
per aver tentato di costruire un'ontologia totalizzante, fondata su di un unico principio
costitutivo (monismo) che, nella sua pretesa di ridurre ogni diversità e alterità ad un
medesimo denominatore, risulta incapace di aprirsi a quel basilare evento esistenziale
che è l'incontro col prossimo, con gli altri e con l'Altro. È un evento questo che
comporta invece un mutamento radicale del nostro essere nel mondo. Infatti l'Altro,
che si manifesta nel volto altrui, non è mai è riducibile al nostro egocentrico io (al
soggettivismo inaugurato da Cartesio), ma ci coinvolge e ci mette in discussione
rendendoci responsabili nei suoi confronti.
L'appello alla responsabilità costituisce il fulcro anche della dottrina di Jonas, il
quale è convinto che l'etica tradizionale si trovi del tutto spiazzata di fronte ai
drammatici inconvenienti e potenziali minacce del progresso scientifico e tecnico
della modernità, per cui è urgente elaborare un'etica della responsabilità idonea ad
interrogarsi sugli effetti a lungo termine della tecnica e sulle sorti delle generazioni
future. Da ciò la proposta di un'etica a sfondo ecologico, tesa a salvaguardare le
condizioni che permettano all'umanità e al mondo, cioè all'essere, di continuare ad
esistere.
Negli anni Sessanta del Novecento, su iniziativa di alcuni autori preoccupati di
restituire alla filosofia l'originaria funzione normativa nei confronti delle questioni
pratiche, si sviluppa in Germania un movimento di idee finalizzato alla
riabilitazione della filosofia pratica, caratterizzato cioè da una ripresa di interesse
per i grandi temi della morale, del diritto, della politica. I fautori di questo
programma si rifanno alcuni ad Aristotele ed altri a Kant, dando origine alle due
correnti del "neoaristotelismo" e del "postkantismo": Aristotele, il filosofo della

130
131

"virtù" e della "felicità" riposta nella saggezza, e Kant, il filosofo del dovere e
dell'imperativo categorico.
Il neoaristotelismo è caratterizzato dalla ripresa della nozione aristotelica di
saggezza, intesa come un sapere pratico che si identifica con l'agire morale. È un
sapere che non si riferisce solo al comportamento individuale ma anche a quello
collettivo. Da ciò l'intreccio fra etica e politica: l'etica è concepita come spazio di vita
che ricomprende non solo gli usi, i costumi e le consuetudini sviluppatisi nella storia,
ma altresì le istituzioni che li sorreggono: la famiglia, gli amici, la comunità, le
cerimonie, la polis, lo Stato. L'originalità di Aristotele sta appunto nell'aver concepito
la vita morale in modo storico e concreto, a differenza di Platone che fondava la sua
Repubblica su principi scollegati alle consuetudini della città, nonché a differenza dei
moderni che separano la morale dalle istituzioni concrete della società. Ad Aristotele
va riconosciuto il merito di ricordarci che la ragione pratica (la morale) vive solo
all'interno di un mondo di consuetudini già precostituite. La sua filosofia può quindi
funzionare come una sorta di salutare antidoto contro il ripiegamento moderno nella
soggettività. Esponenti più noti del neoaristotelismo sono Anna Arendt, che per
taluni versi l'ha anticipato, e poi Gadamer, Ritter, Hoffe, Bubner in Germania
nonché Mac Intyre e Jonas fuori Germania.
Il postkantismo consiste in una riabilitazione e nuova valorizzazione di Kant,
indirizzata a scorgere nel "criticismo" kantiano un modello di razionalità pratica
tuttora valido, sia in alternativa ad Aristotele che in combinazione con esso. Tuttavia
a differenza dei neoaristotelici, che insistono sul fondamento storico-concreto della
morale, e perciò evolventesi nel tempo, i postkantiani hanno elaborato un'etica ideale
del dovere che, nei suoi criteri e principi di fondo, pretende di valere per tutti gli
uomini e per tutte le circostanze.
Di conseguenza il dibattito tra neoaristotelici e postkantiani ha preso la forma di un
dibattito tra "contestualisti" e "universalisti", ossia fra coloro che, da un lato,
considerano l'etica storicamente determinata ed evolventesi nel tempo secondo
mutevoli forme di vita (siano esse quelle della polis, dello Stato, o di una particolare
comunità sociale o religiosa) e coloro che, dall'altro lato, difendono la necessità di
un'etica che non si limiti a rispecchiare le visioni e i valori di una determinata cultura
o epoca ma che valga universalmente. Esponenti principali del postkantismo sono,
con la loro etica del discorso-dialogo intersoggettivo, Apel e Habermas.
Prediligendo il modello kantiano, essi teorizzano un'etica della comunicazione che
scorge nelle regole del discorso praticato dagli interlocutori (giustezza, verità,
veridicità-sincerità, comprensibilità), cui è attribuita una valenza universale, le regole
stesse di una società ideale in grado di fungere da modello della società reale. Tale
etica della comunicazione viene identificata come presupposto di democratica
convivenza costituita da uomini liberi e uguali che discutono fra loro intorno a
questioni di interesse comune, nella prospettiva di una "macroetica planetaria" (Apel)
che, procedendo al di là delle differenze locali di religione e costumi, sappia unire i
popoli in una comunità mondiale ispirata agli ideali del dialogo e della pace. In tali
ideali Apel e Habermas scorgono una tipica eredità moderna da salvaguardare. Da ciò

131
132

la polemica contro i postmoderni e l'idea secondo cui il progetto che sta alla base del
mondo moderno non sarebbe fallito ma soltanto incompiuto.
In senso filosofico, il concetto di postmoderno è entrato in circolazione alla fine
degli anni Settanta del Novecento ed è stato adoperato per indicare quella specifica
corrente filosofica (Lyotard e Vattimo) secondo cui la modernità, nei suoi tratti
essenziali, sarebbe finita. Alle idee-madri della modernità (vale a dire: credere in
visioni onnicomprensive del mondo, come l'idealismo, il marxismo, ecc.; pensare in
termini di innovazione e superamento, nella convinzione che ciò che è nuovo è
migliore di ciò che è vecchio e superato; concepire la storia come progresso ed
emancipazione; concepire l'uomo come dominatore della natura con la connessa
esaltazione della scienza e della tecnica) e al monismo filosofico che assorbe e
appiattisce le diversità (monismo=alla base della realtà vi è un unico complessivo
principio), i postmoderni contrappongono una costellazione di idee alternative,
ossia: la sfiducia nei "grandi racconti" (come quelli dell’idealismo, dell’illuminismo,
del marxismo); il rifiuto dell'enfasi (del culto) del nuovo; l'abbandono dell'idea di
progresso necessario e la condanna della mentalità scientista (di esclusiva esaltazione
della scienza); la predilizione della molteplicità e per una serie di pratiche incentrate
sulla differenza e sulla frammentazione (sulla variabilità e relatività delle situazioni).
Per quanto concerne la dimensione etica, i postmoderni, contro l'idea della modernità
concernente l'esistenza di valori universali, si sforzano di far valere invece i diritti
della pluralità e della differenza tra i valori e, quindi, della tolleranza.

132
133

JURGEN HABERMAS (nato nel1929).

Assistente di Adorno, ha insegnato ad Heidelberg e a Francoforte.


Opere principali: Teoria dell'agire comunicativo; Teoria e prassi; Conoscenza ed
interesse; Discorso filosofico della modernità; Il pensiero postmetafisico.

La riabilitazione pratica della filosofia.

Insieme con Karl Otto Apel concorre alla cosiddetta "svolta pratica" della
filosofia, ossia ad un'impostazione filosofica non esclusivamente teoretico-
conoscitiva ma innanzitutto pratico-normativa, in grado cioè di fornire orientamenti,
criteri e regole di condotta nel campo dell'agire umano.
In una prima fase aderisce alla Scuola di Francoforte e al suo programma neo-
marxista di una teoria critica della società. Negli anni ‘70 del Novecento cambia
impostazione e si orienta verso la cosiddetta "etica del discorso", o della
comunicazione, ossia verso una filosofia pratica e normativa, fondata sull'idea della
validità razionale della comunicazione e del dialogo intersoggettivo.
In tale ambito studia il rapporto fra teoria o riflessione filosofica e prassi politica-
sociale. Contro l'illusione di una scienza neutrale e oggettiva, cioè avalutativa, ivi
comprese le scienze sociali e la sociologia empirica, Habermas sostiene invece che vi
è sempre una connessione tra conoscenza ed interesse, ossia che non esiste un
conoscere puro, la conoscenza per la conoscenza. L'idea di una conoscenza pura è
un atteggiamento "ideologico" in senso marxiano, in quanto nasconde il fatto che
il conoscere è sempre rivolto a ciò che ci sta più a cuore, che ci interessa di più.
Habermas distingue tre tipi di conoscenze-interessi:
1. le scienze empirico-analitiche, che hanno interessi conoscitivi teorici;
2. le scienze storico-ermeneutiche, che hanno interessi pratici, di tipo
interpretativo-comprendente;
3. le scienze ad orientamento critico, ove prevale un interesse emancipativo, di
liberazione individuale e sociale dai condizionamenti della società.
Si sviluppa di conseguenza una controversia tra la concezione razionalistico-critica di
Popper, più propenso a credere nell'oggettività della scienza, ed il razionalismo
pratico sostenuto da Habermas. Habermas in particolare critica l'impostazione
esclusivamente scientifico-empirica, e cioè teoretica, che taluni hanno voluto
dare anche alle scienze sociali come nelle scienze naturali. Ciò significa rifiutare
l'idea che le scienze sociali possono offrire anche orientamenti pratico-critico-
emancipativi e concepire invece un'idea di scienza sociale ridotta a scienza dei
mezzi per raggiungere predeterminati fini che le restano estranei, considerati come
opzioni extrarazionali.
Habermas distingue fra giudizi (proposizioni) scientifici, che costituiscono la
conoscenza, e giudizi valutativi, che si fondano sulla connessione fra teoria e prassi
in una visione di centralità della politica. La scienza, prosegue Habermas, non può
risolvere i problemi pratici, che si riferiscono invece a questioni di senso e di
133
134

valore. Ma in ogni caso i problemi pratici non possono essere eliminati dalla
conoscenza e sottratti alla discussione razionale. Va superata la limitazione
positivistica imposta alle scienze sociali, da indirizzare invece anche a compiti di
guida normativa con l'aiuto di un'analisi storica globale. Pure i problemi pratici
richiedono una guida teoretica che indichi soluzioni, anche rivoluzionarie, di
cambiamento; essi richiedono però non solo prognosi (spiegazioni) ma anche
programmi. Fini e mezzi non sono separabili, a differenza di quanto ritengono i
pensatori analitici. Per il filosofo analitico, infatti, se mezzi e fini non sono separati
consegue una inderivabilità (indistinzione) logica delle prescrizioni dalle descrizioni.
Pure Habermas ritiene insuperabile tale inderivabilità sul piano logico-teoretico ma
non su quello della prassi, della decisione e della scelta politica.
Habermas insomma ritiene ancora valida la tesi di fondo sostenuta da Kant nella
sua "Critica della ragion pratica", la quale non va perciò abbandonata ma semmai
adeguata, secondo cui l'etica, ossia la condotta pratica, morale, non è relativa,
variabile da individuo a individuo e da epoca storica ad epoca storica, ma è invece
basata su di un principio (l'imperativo categorico del dovere per il dovere) che ha
valore universale, fondamentalmente valido per ogni individuo e in ogni epoca. In
effetti Habermas è uno dei maggiori esponenti della cosiddetta corrente
postkantiana, che vuole recuperare e salvare i valori dell'Illuminismo (il valore
della ragione, dell'analisi critica dei problemi e delle situazioni, la fiducia nel
progresso) contro il relativismo e il nichilismo del pensiero contemporaneo, per il
quale ogni verità è relativa o addirittura non vi è alcuna verità (nichilismo).
Ne deriva una polemica di fondo contro la concezione contemporanea del
sapere, che ha finito col prevalere, ossia contro quel modo di pensare che:
1. riduce la ragione, la razionalità, solo a quella di tipo scientifico e nega
l'esistenza di altre forme di razionalità, quale una razionalità pratica, capace di
indicare norme di condotta morale, individuali e sociali, razionalmente fondate
e condivisibili;
2. considera i valori e gli scopi dell'agire come scelte extrarazionali,
esclusivamente emotive o di interesse;
3. riduce la filosofia a semplice analisi descrittiva e avalutativa del linguaggio e
dei comportamenti etici, politici, giuridici, ecc., negando che essa possa
ancora insegnare e prescrivere valori ed orientamenti socialmente ed
individualmente validi;
4. tende a separare la sfera etica da quella politica, cosicché la politica degenera
in tecnica del potere per il potere anziché perseguire il bene comune.
Habermas per contro, e con lui i fautori della riabilitazione pratica della filosofia,
sostiene:
1. che l'ambito della ragione non si riduce a quello della scienza o della teoria (il
conoscere per il conoscere) ma ricomprende anche la prassi;
2. che gli scopi e i valori etico-politici non sono da considerare semplici
preferenze e scelte soggettive, ma possono venire razionalmente argomentati
(fatti oggetto di ragionamenti convincenti);

134
135

3. che la filosofia non ha una semplice funzione descrittiva ed esplicativa ma


anche normativa, in quanto serve ad orientare i comportamenti;
4. che etica e politica risultano strettamente connesse, poiché tenendole separate
si giunge soltanto ad una morale astratta e individualistica, cioè priva di valore
sociale, e ad una politica ridotta a tecnica rivolta al puro conseguimento e
mantenimento del potere.

Ragione ed emancipazione.

La filosofia di Habermas si propone dunque scopi di progresso e di cambiamento


sociale similmente a quella di Marx e del cosiddetto marxismo occidentale, tenuto
conto tuttavia che, ad oltre un secolo di distanza, taluni principi basilari del
marxismo sono da rivedere e rinnovare.
L'idea fondamentale di Habermas è quella di una ragione (filosofia) critica
posta al servizio dell'emancipazione (liberazione) umana. Come accennato,
Habermas aderisce inizialmente alla Scuola di Francoforte e alla "Teoria critica della
società", studiando soprattutto il modo in cui si forma l'opinione pubblica, intesa
come zona della vita sociale in cui vengono dibattute questioni di interesse
collettivo, non sulla base dell'autorità e della tradizione ma tramite il metodo
dell'argomentazione razionale (del ragionamento). Conclude però che, nella società
capitalistica dei media (stampa, cinema, televisione, pubblicità e propaganda),
l'opinione pubblica, pur avendo in sé significative potenzialità innovative, è
talmente condizionata al punto di aver perso la capacità di critica, finendo con
l'accettare o rassegnarsi forzatamente e in modo conformistico agli interessi e al
sistema di potere dominanti.
Tuttavia, pur condividendo l'analisi negativa della società elaborata dalla Scuola di
Francoforte, Habermas progressivamente si distacca dal suo pessimismo
radicale, estremo, nei confronti delle democrazie occidentali, valorizzando lo
Stato di diritto (regolato dalla legge) e democratico dell'Occidente concepito, pur
con tutti i suoi difetti, come quello che più si avvicina ad un tipo di società in grado
di risolvere i conflitti di interesse tra i cittadini e le classi sociali, adottando
opportuni criteri e rimedi in maniera consensuale e concorde. Tutto ciò a condizione
peraltro che l'analisi politica e sociologica non si limiti alla sola e semplice
descrizione e spiegazione dei fatti sociali, ritenendo di essere in tal senso oggettiva e
neutrale, ma si basi invece su di una razionalità critica, capace di evidenziare le
ingiustizie sociali per correggerle, contribuendo in tal modo all'emancipazione dei
cittadini dai condizionamenti sociali. Altrimenti, una scienza sociale che, per voler
essere oggettiva, non esprima anche giudizi critici, non farebbe altro che giustificare
tutti quei meccanismi della società capitalistica (pubblicità e propaganda) adottati dai
gruppi dominanti per mantenere il controllo sociale sulla massa dei cittadini. Ecco
perché, fra i tre tipi di conoscenza e di scienza sopra indicati, Habermas preferisce le
scienze di tipo critico, nelle quali è prevalente l'intento di una emancipazione-
liberazione individuale e sociale dai condizionamenti della società.
135
136

Il rifiuto di una scienza che, avendo la pretesa di presentarsi come oggettiva e


neutrale, tenga separati i fatti descritti dalla loro interpretazione critica sembra
avvicinare Habermas a Gadamer e alla filosofia ermeneutica. Ma Habermas
contesta gli aspetti idealistici e gli interessi pratici non emancipativi della filosofia
storico-ermeneutica, poiché sopravvaluta la tradizione e il linguaggio e sottovaluta i
fattori reali, sociali ed extralinguistici, che ne stanno alla base. Per Habermas
ridurre il tutto a linguaggio da interpretare nasconde il fatto che il linguaggio è
anche uno strumento di dominio e di potere sociale, ed è quindi "ideologico" in
senso marxiano, utilizzato per conservare l'organizzazione sociale prevalente.
L'ermeneutica deve pertanto trasformarsi in critica dell'ideologia e diventare
ermeneutica critica, non semplicemente descrittivo-interpretativa. Così come la
psicanalisi scava al di sotto della superficie della coscienza per giungere
all'inconscio e scoprirne le pulsioni profonde rimosse, altrettanto è compito
dell'ermeneutica smascherare ciò che sta sotto al puro livello del linguaggio e che
dà origine ad una comunicazione distorta.

L'etica del discorso e l'agire comunicativo.

Si tratta allora di definire un modello nuovo, più autentico e onesto, di scienza, di


conoscenza, di comunicazione sociale e di dialogo. Ciò implica il passaggio da
una impostazione soggettiva, o di filosofia della coscienza, ad una impostazione
intersoggettiva, o di filosofia della comunicazione, ossia il passaggio dall'idea di
soggetto conoscente, inteso come coscienza solitaria e autosufficiente che interagisce
con l'ambiente, all'idea di un soggetto pubblico, inteso come comunità linguistica
(gruppo sociale) in cui si costituisca una coscienza di gruppo e quindi, solo mediante
questa, si formi anche la coscienza individuale. Ciò che in sostanza Habermas
propone è il passaggio da un modello monologico ad un modello dialogico.
Nell'opera la "Teoria dell'agire comunicativo" Habermas mette a punto una teoria
pragmatica del linguaggio che non si limiti all'aspetto semantico (concernente il
significato dei segni o termini linguistici usati in rapporto alla realtà) o a quello
sintattico (concernente il corretto uso linguistico dei segni o termini fra di essi), ma
che prenda in considerazione soprattutto il rapporto fra il linguaggio e il soggetto che
ne fa uso. Propone una teoria del linguaggio non particolare e contingente bensì
universale, o formale, che studi le condizioni universali e necessarie che stanno alla
base di ogni possibile comunicazione linguistica (di ogni possibile dialogo) volta
raggiungere un'intesa, un accordo tra gli interlocutori. In ogni comunicazione
linguistica è sempre implicito un fine, uno scopo di intesa reciproca, altrimenti
sarebbe priva di senso. Per Habermas ogni dialogo che voglia essere razionale e
sensato presuppone implicitamente il rispetto di alcune precise condizioni
(regole) universali di validità, ossia valevoli per tutti e in ogni tempo, altrimenti
non sarebbe un vero dialogo. Esse sono:

136
137

1. la comprensibilità, secondo cui il dialogo, il discorso, deve essere


innanzitutto intersoggettivamente (reciprocamente) comprensibile a tutti gli
interlocutori (i protagonisti);
2. la verità, ossia la corrispondenza del discorso alla realtà esterna;
3. la veridicità, ossia il rispetto della sincerità da parte di ogni partecipante al
discorso (chi parla deve essere sincero e non deve proporsi di ingannare gli
altri);
4. la giustezza, che consiste nel rispetto di tutte le regole sopraddette da parte di
chi parla: ad esempio, ascoltare con attenzione le tesi degli altri e ritirare la
propria si è dimostrata falsa.
Chiunque pretendesse di non rispettare tali condizioni o requisiti, quali sopra
elencati, cadrebbe in una autocontraddizione non logica ma pragmatica, poiché
non avrebbe senso partecipare ad un discorso se non si rispettano le regole di base.
Chi lo facesse non riceverebbe dal discorso alcun beneficio, alcun chiarimento
perché in malafede già in partenza. Quelle indicate sono le condizioni di una
comunicazione (di un discorso, di un dialogo) onesta. Basta che una sola di esse
non sia rispettata perché derivi l'impossibilità di un'intesa tra gli interlocutori
e venga meno la possibilità di una discussione razionale. Inoltre, queste sono
condizioni che stanno alla base di qualsiasi altra regola successiva più specifica che
si convenga di stabilire nel discorrere ed implicano che la comunicazione avvenga
tra esseri uguali e liberi da condizionamenti interni o esterni, in maniera tale che
le opinioni espresse non dipendano da costrizioni, da interessi nascosti e particolari
o dall'autorità, ma siano formulate solo per un confronto sincero tra le ragioni e i
punti di vista più convincenti.
Quando il discorso soddisfa tutte queste condizioni e requisiti, che non hanno
solo un valore logico ma anche etico, al punto da far sorgere una vera e propria
"etica del discorso", si ha la situazione discorsiva ideale, ossia un modello di
società giusta, fondata sull'uguaglianza di tutti i partecipanti al dialogo, che coincide
col modello più autentico di comunità democratica.
Per queste caratteristiche l'etica del discorso in Habermas, come si vedrà altresì in
Apel, si presenta come:
1. un'etica deontologica (deontologia=scienza che si occupa dello studio e
analisi dei valori, degli ideali e dei doveri), che stabilisce e difende il carattere
vincolante dei principi, delle regole etiche di base e delle procedure da
rispettare nel discorso e nella comunità ai fini di un agire giusto e equo; è
un'etica che non stabilisce essa stessa i fini e gli scopi ma le corrette
condizioni e procedure per la loro realizzazione (non dice quale è la vita felice
o la società migliore mai indica i modi e i criteri per cercare di conseguirla);
2. un'etica cognitivistica poiché, ritenendo che i giudizi morali non scaturiscano
da desideri o decisioni irrazionali, indica e ci fa conoscere le condizioni e i
requisiti di base che il discorso, il dialogo e i rapporti sociali devono
possedere per essere razionali;
3. un'etica formalistica, perché non stabilisce norme specifiche o specifici
contenuti e scopi, ma soltanto i principi procedurali dell'agire comunicativo;
137
138

4. un'etica universalistica e postconvenzionale poiché, facendo scaturire la


morale da quelle che sono le condizioni universali dell'argomentazione (del
dialogo), non esprime soltanto il punto di vista o le convenzioni di una
determinata cultura o epoca ma vale per tutti gli esseri ragionevoli in qualsiasi
periodo storico;
5. un'etica postkantiana poiché, pur accettando, come in Kant, il valore
universale del principio morale di fondo (l'imperativo categorico del dovere
per il dovere), si differenzia tuttavia da Kant perché considera l'etica una
faccenda non individuale bensì pubblica, basata sul dialogo intersoggettivo.
Per Habermas le condizioni di base perché si realizzi un discorso e un dialogo
razionale hanno, come nella ragion pratica di Kant, un valore necessario e
universale in quanto non rappresentano il punto di vista di una determinata
cultura, mentalità od epoca storica, ma valgono in qualsiasi periodo storico per
tutti gli esseri che intendono essere ragionevoli. Tuttavia, ad ulteriore differenza
da Kant, l'etica postkantiana è spogliata di ogni contenuto metafisico (i postulati
della ragione pratica) al fine di mantenere un contenuto alto di universalità, ossia di
condivisibilità, in un'epoca di relativismo culturale come la nostra.
L’etica del discorso, in forza del suo valore universale quale concepito da
Habermas, prevede che le norme possano essere potenzialmente accettate e
"verificate" da tutti. In tal senso deve essere riformulato anche l'imperativo
categorico kantiano: una norma è valida quando le conseguenze e gli effetti
derivanti dalla sua "universale" osservanza per quel che riguarda la soddisfazione di
ciascun singolo vengano accettate altresì da tutti gli interessati, ossia una norma
etica è valida quando, dal punto di vista di chiunque, sia accettata da tutti.
Proprio in tale prospettiva si parla di postkantismo poiché l'etica del discorso,
procedendo oltre la rigida dicotomia (contrapposizione) tra etiche deontologiche (o
del dovere) ed etiche teleologiche (o dei fini e delle conseguenze), è presentata dai
suoi sostenitori anche come un'etica della responsabilità (Jonas), attenta non solo ai
principi ma anche alle conseguenze dell'agire.

Agire strumentale e agire comunicativo. Società come sistema e società come


mondo della vita.

Prendendo spunto da Popper ma procedendo oltre, Habermas, nell'ambito delle


situazioni linguistico-comunicative, distingue tre mondi, a ciascuno dei quali
corrisponde uno specifico tipo di sapere nonché differenti modalità di azione:
1. il mondo oggettivo dei fatti e degli eventi, ossia il mondo della natura e della
storia umana, cui corrisponde un tipo di sapere costituito da proposizioni
dichiarative concernenti il vero e il falso, il giusto e l'ingiusto nonché, quale
modalità di azione, l'agire teleologico, proprio di colui che persegue scopi
predeterminati nel mondo dei fatti;
2. il mondo sociale delle norme, inteso come l'insieme di tutti i rapporti
interpersonali riconosciuti come legittimi; vi corrisponde, come tipo di
138
139

sapere, la giustezza normativa e, come modalità di azione, l'agire regolato da


norme, che è proprio di colui che appartiene ad una comunità di cui condivide
valori e modelli di comportamento;
3. il mondo soggettivo dei parlanti, inteso come l'insieme delle esperienze cui di
volta in volta ha accesso il singolo soggetto, il singolo individuo; vi
corrisponde un tipo di sapere costituito dall'autenticità soggettiva (le personali
e sincere convinzioni) e una modalità di azione che è quella dell'agire
drammatico, propria di colui che si autorappresenta davanti agli altri e tipica
di certi ruoli sociali, quali ad esempio il pugile, il chirurgo, il violinista, il
poliziotto, ecc.
In base a questo quadro e partendo dalla teoria della razionalità di Weber,
Habermas distingue due tipi di agire razionale:
1. l'agire strumentale, motivato da interessi tecnico-strategici (volti a
prevedere le decisioni altrui) e finalizzato al successo ed alla
autoaffermazione;
2. l'agire comunicativo, motivato da interessi ermeneutici (interpretativi, volti a
capire le varie situazioni) e finalizzato alla reciproca comprensione ed intesa.
Ovviamente, questa distinzione tipologica non esclude che i due tipi di agire siano
nella realtà strettamente congiunti e reciprocamente condizionantisi.
A loro volta, agire strumentale e agire comunicativo definiscono due livelli
distinti ma complementari della società: 1) la società come sistema; 2) la società
come mondo della vita (la società civile, i movimenti sociali).
La società come sistema (l'organizzazione sociale) risulta caratterizzata dall'agire
tecnico-strumentale-strategico e trova i propri componenti negli elementi non
linguistici del denaro (economia) e del potere (politica, organizzazione burocratico-
amministrativa, Stato).
Il mondo della vita (concetto derivato da Husserl ma con nuovi significati) risulta
caratterizzato dall'agire comunicativo e trova i suoi elementi di coesione nelle forme
della cultura e nei valori condivisi. Nelle sue varie componenti (cultura, movimenti
sociali, associazioni, strutture della personalità, cioè tipi di mentalità) il mondo della
vita fa da sfondo dell'agire comunicativo, ossia da base e supporto di ogni agire
volto all'intesa.

Revisione del marxismo e integrazione della razionalità di weberiana.

Il mondo della vita e l'agire comunicativo inducono Habermas a rivedere da un lato


la teoria marxista e ad oltrepassare ed integrare, dall'altro lato, il concetto di
razionalità espresso da Weber.
Le teorie di Marx, osserva Habermas, risultano adeguate per spiegare i problemi
del primo capitalismo, caratterizzato da una libera concorrenza su cui non
interferiva l'apparato dello Stato, il cui compito era, in quell'epoca, limitato a
difendere gli interessi economici della classe sociale capitalistica dominante. Weber
139
140

ha saputo comprendere, per parte sua, le novità principali delle forme successive
di capitalismo, consistenti nell'intervento diretto dello Stato nell'economia e
nell'attività produttiva nonché nella compenetrazione di scienza e tecnica. Si è così
modificato il rapporto tra sistema economico e sistema di potere politico:
intervenendo direttamente nella produzione economica, lo Stato e la politica non
sono più elementi sovrastrutturali rispetto alla struttura economica, come invece
originariamente concepiti da Marx. Inoltre scienza e tecnica non sono più
separate, ma sono pervenute ad uno stretto collegamento e rappresentano il
principale elemento produttivo al posto del lavoro umano: la maggior parte
dell'attività produttiva è infatti svolta dalle macchine più che dagli uomini. Sono
venute meno quindi le condizioni che, al tempo di Marx, facevano del lavoro umano
l'elemento produttivo prevalente e facevano della lotta di classe il prevalente fattore
di mutamento e rivoluzione sociale. L'intervento dello Stato nell'economia
capitalistica blocca, secondo Habermas, il conflitto di classe, poiché ha
comportato una serie di leggi e di regole a difesa dei lavoratori e dei salari che
hanno reso più sopportabili e meno dure le loro condizioni di vita. Restano
emarginate in condizioni insopportabili non più la classe lavoratrice bensì le
cosiddette "sottoclassi", costituite dai sottoproletari disoccupati e dalle minoranze
razziali.
Quanto alla tematica della reificazione (il lavoro umano ridotto a cosa e
considerato come semplice merce che si vende e si compra anziché come creatività
e realizzazione umana), così cara al marxismo occidentale di Lukàcs fino ad
Adorno, non è espresso da Habermas un giudizio negativo sul capitalismo
relativamente alla maggiore ricchezza e maggior benessere prodotti. Certo, ha
comportato un enorme dissoluzione delle forme di vita tradizionali, ma il punto
centrale è un altro. Oggi la società come sistema (l'economia, la politica, l'apparato
dello Stato) interviene sempre di più in ambiti che non sono più soltanto quelli delle
attività economico-produttive bensì quelli della cultura, della mentalità, dei modi di
pensare. Invade sempre più la società come mondo della vita per assicurarsi un
maggior controllo sociale mediante la diffusione, grazie ai mezzi di comunicazione
di massa, di valori, di norme, di costumi e di mode funzionali al sistema politico-
economico dominante e comportando in tal modo risultati di maggior
massificazione, burocratizzazione, conformismo e consumismo nella società
civile, che diventa così sempre più colonizzata dalla società come sistema. Il
conflitto principale del nostro tempo, allora, non è più un conflitto di classe ma
quello derivante dal sempre maggior dominio e controllo sociale esercitato dal
sistema nei confronti del mondo della vita, cioè della cultura, della mentalità, dei
costumi sociali e comportamenti individuali.
Sono quindi inutilizzabili le teorie del vecchio marxismo ma, come si vedrà,
sono altresì inadeguate e criticabili per Habermas le recenti teorie sul
postmoderno e antimoderno, le quali negano che le idee di razionalità della
filosofia moderna (quella che inizia con Cartesio) e dell'Illuminismo abbiano ancora
valore, proponendo in alternativa un'immaginaria società del passato, la società dei
tempi antichi (neoconservatorismo), oppure utopistiche e irrealizzabili società senza
140
141

più differenze sociali interne (neoanarchismo). Piuttosto, Habermas considera con


simpatia i tentativi di lotta dei nuovi "movimenti" extrapartitici delle società
avanzate, i quali si battono in difesa dell'autonomia del mondo della vita contro il
dominio da parte del sistema politico-sociale. Pertanto, al posto della dialettica
(conflitto) marxiana tra proletariato e capitalismo va sostituita per Habermas, al
fine di comprendere la società odierna, la dialettica tra sistema e mondo della
vita.
Pur ammettendo di essere partito dal concetto weberiano di razionalità intesa come
agire razionale nella scelta dei mezzi più idonei ad un determinato fine (chiamata da
Habermas "agire strumentale"), tuttavia il limite di Weber è stato, secondo
Habermas, quello di aver sopravvalutato l'aspetto della razionalità strumentale dello
Stato contemporaneo e di non essersi accorto che lo Stato capitalistico odierno
soffoca la libertà e l'autonomia del mondo della vita, il quale vorrebbe invece far
nascere nuove forme di organizzazione comunicativa (nuove forme di cultura e di
dialogo) volte alla reciproca intesa. Il processo di razionalizzazione che
contraddistingue le società moderne è stato spiegato da Weber in modo solo
parziale, sostiene Habermas, perché non ha sufficientemente evidenziato l'agire
comunicativo e la razionalità comunicativa caratterizzante il mondo della vita.
Insomma, Weber avrebbe considerato assai di più il sistema sociale e trascurato
l'analisi del sistema culturale e del mondo della vita. Solo una concezione della
società a due livelli (quello del sistema e quello del mondo della vita) consente per
Habermas di spiegare ciò che in Weber resta inspiegato, ossia la complessità piena
di contraddizioni del mondo moderno. Da qui il progetto di Habermas di una
dialettica, ossia di un'analisi della razionalità, capace di utilizzare Weber oltre
Weber, correggendo Marx ma "senza buttarlo a mare".

Moderno e postmoderno.

Habermas difende la razionalità ed il valore tuttora emancipativo (di


liberazione) della modernità che caratterizza le società avanzate contemporanee
contro i teorici del postmoderno (accusati di neoconservatorismo o
neoanarchismo), ossia contro coloro secondo cui la modernità sarebbe
sostanzialmente finita. Il loro errore, secondo Habermas, è di avere identificato e
confuso la modernità con la razionalizzazione strumentale capitalistica. Ma,
prosegue Habermas, la modernità è un concetto assai più ampio di quello di
razionalità capitalistica e perciò la modernità non è affatto conclusa ma soltanto
incompiuta. Di conseguenza la modernità, con le sue idee fondamentali di ragione,
di spirito critico e di progresso, derivanti dall'Illuminismo, non va rifiutata bensì
adeguatamente realizzata. Habermas intende confutare i teorici del postmoderno
tramite una sorta di ri-narrazione (tramite una nuova e diversa interpretazione)
della storia della modernità.

141
142

A suo avviso la modernità nasce con l'Illuminismo di cui parlava Kant, inteso cioè
come processo di emancipazione dell'intelletto dai condizionamenti della tradizione
e dell'autorità politica e religiosa.
Da questo punto di vista, afferma Habermas, il maggior teorico della modernità
risulta Hegel, il quale non solo ha compreso i caratteri della modernità ma anche il
problema di fondo della modernità medesima, consistente nel fatto che la
soggettività (la coscienza) moderna dell'uomo, essendosi finalmente liberata dalla
tradizione e dalla religione, non ha saputo tuttavia trovare valori e principi
razionali altrettanto centrali, universali e validi per tutti come dapprima erano
quelli della religione. La razionalità illuministica ed hegeliana non è riuscita a
superare la scissione, prodottasi con l'avvento della modernità, tra ragione da un
lato ed amore e vita (cioè sentimento) dall'altro, nonché la scissione tra sapere e
fede. Hegel stesso si è limitato ad individuare il superamento di tali scissione in ciò
che egli ha chiamato lo Spirito assoluto, lo spirito dell'umanità, concepito come
Intelligenza (immanente) che governa il mondo e come entità che ricomprende la
stessa nuova morale della modernità. Con il concetto di "Assoluto" Hegel pensava
di superare il soggettivismo filosofico ma rimane invece, secondo Habermas, nei
limiti della filosofia del soggetto, ossia di una concezione soggettiva (mutevole
secondo le diverse coscienze e punti di vista) e non oggettiva o intersoggettiva della
razionalità. Hegel concepisce infatti la ragione come autocoscienza capace, nella
sintesi, di conciliare gli opposti. Tuttavia, se davvero la razionalità moderna avesse
essenzialmente il carattere di autocoscienza, diventerebbe impossibile allora
un'analisi critica della modernità poiché l'autocoscienza, in quanto tale, non può
uscire da se stessa per osservare criticamente gli aspetti distintivi della modernità
medesima.
Anche i posthegeliani di sinistra e di destra non hanno saputo per Habermas fare di
meglio. I primi propongono una filosofia della prassi volta alla trasformazione
della società in termini più giusti e razionali; i secondi interpretano il sistema
sociale nell'intento di ridare forza e valore alla religione tradizionale. Ma entrambi
non riescono anch'essi ad andare oltre alla filosofia del soggetto: in entrambi
rimane l'idea che il soggetto conosce gli oggetti, l'altro da sé, solo nella misura in
cui li riporta e li subordina alla propria autocoscienza e ai propri punti di vista.
A questo punto appare sulla scena Nietzsche, che si guarda bene dal riconsiderare
in termini nuovi il concetto di ragione e che, anzi, critica la razionalità moderna
derivante dall'Illuminismo. Nietzsche cerca delle alternative alla razionalità
illuministica nel mito (Dioniso e lo spirito dionisiaco), nell'arte, nella volontà di
potenza, nel nichilismo. Ma alla fine oscilla fra due soluzioni contrastanti:
1. da un lato, in contrapposizione alla metafisica tradizionale ed altresì al
Romanticismo che aspirava a cogliere il senso metafisico dell'infinito,
propone una considerazione non razionale del mondo, vale a dire irrazionale
o comunque basata sulle passioni, guardando al mondo da un punto di vista
artistico ed estetico, tuttavia secondo una concezione in ogni caso scettica e
pessimistica della realtà;

142
143

2. dall'altro lato propone l'idea del superuomo e della volontà di potenza,


presentate però, proprio lui che aveva demolito la validità del pensiero
metafisico, come verità metafisiche, dogmatiche.
I limiti e le ambiguità delle concezioni ed interpretazioni formulate intorno alla
storia della modernità sono all'origine dei due aspetti contrapposti che, per
Habermas, caratterizzano la filosofia del postmoderno:
1. quello dello scienziato scettico, che utilizza la ragione per demolirla
(Bataille, Lacan, Foucoult);
2. quello del filosofo dal sapere iniziatico, esoterico, riservato a pochi
privilegiati in possesso di una mente superiore (Heidegger e Derrida), che si
ispirano ai misteri e alla concezione presocratica dell'essere.
Questi fallimenti nell'analizzare ed interpretare la razionalità moderna inducono
Habermas a reagire, proclamando che la modernità e la razionalità, pena il ritorno ad
una "nuova oscurità" devono essere salvate. Ma la riabilitazione della razionalità
e della modernità sono possibili solo oltrepassando la filosofia del soggetto
(ossia del primato della coscienza, che seguita a conservare un carattere soggettivo
pur nei suoi riferimenti ad una "coscienza collettiva", di cui sono manifestazioni sia
lo Spirito assoluto di Hegel sia la Volontà di potenza di Nietzsche) e sviluppando
invece una nuova filosofia critica dell'intersoggettività razionalmente fondata,
sviluppando cioè un'etica del discorso di tipo universale-pragmatico, diretta a
realizzare il consenso e l'intesa tra soggetti capaci di parlare e di agire da eguali. Nel
dialogo intersoggettivo trova unificazione l'amore e il mondo della vita con la
ragione stessa, capace di riflettere filosoficamente e criticamente sull'amore e sulla
vita medesimi invece che idealizzarli o disprezzarli nichilisticamente (intendendosi
per amore e mondo della vita i sentimenti e gli ideali etici di concordia, giustizia,
bellezza, impegno sociale). La teoria dell'agire comunicativo aiuta ad affrontare i
problemi della modernità senza abbandonare ma completando il prezioso processo
di razionalizzazione iniziato con l'Illuminismo. Parlare di ragione comunicativa
infatti vuol dire, sempre e ancora, parlare di ragione, di razionalità, contro la critica
radicale nei confronti della ragione da parte dei teorici del postmoderno. La ragione
comunicativa sfocia e si realizza in compiti pratici: si compie come volontà di
comune impegno pratico nel risolvere non soggettivamente, cioè non
individualisticamente, i problemi della nostra modernità.

L'ultimo Habermas: la morale nell'epoca del pluralismo e del disincanto


postmetafisico.

Nell'opera "Il pensiero postmetafisico" Habermas giudica la metafisica una forma di


platonismo e di idealismo, ossia una concezione basata sulla riduzione dell'essere al
pensiero (la realtà deriva dal pensiero, dall'idea, e non viceversa) e sul primato della
teoria rispetto alla prassi. Definisce invece la propria filosofia come postmetafisica,
ossia come sviluppo di un pensiero dialogico e comunicativo (basato sul dialogo),
143
144

capace di riunire in sintesi e di accordare le opposte concezioni del contestualismo


da un lato (= non c'è niente di assoluto e universale ma ogni verità e conoscenza
sono relative poiché dipendono dai diversi contesti storico-culturali in cui si
formano) e dell'universalismo dall'altro (= essere persuasi dell'esistenza di principi e
verità universali, validi per tutti in ogni epoca storica).
Habermas sostiene che la contrapposizione tra fattualità (i fatti che accadono) e
validità (il loro riconoscimento e accettazione sociale) trova la propria sintesi nella
capacità di mediazione del diritto, della legge. La funzione mediatrice del diritto
tiene insieme la validità generale che possiedono le norme giuridiche adottate con il
pluralismo degli interessi. La tesi di fondo è che fra Stato di diritto e democrazia
non esista soltanto un collegamento storico, cioè contingente o esterno (= lo Stato
di diritto e la democrazia ed il loro collegamento sono un prodotto contingente della
storia, che sarebbe potuto anche non avvenire), ma anche in un nesso di tipo
strutturale, cioè concettuale o interno (la democrazia implica necessariamente lo
Stato di diritto e viceversa).
Considerando le contemporanee società pluralistiche, in cui si inaspriscono i
contrasti multiculturali, e gli Stati-nazione, che si uniscono in entità di carattere
sovranazionale cosmopolitico, Habermas propone e difende un progetto di
universalismo sociale (di società multirazziali), tuttavia rispettoso delle
differenze e delle particolarità locali, non condividendo la diffidenza post-
moderna nei confronti di un temuto universalismo teso ad assimilare e livellare ogni
cosa in maniera irrispettosa. Sostiene una società inclusiva, intendendo per
inclusione il fatto che i confini della comunità siano aperti a tutti, anche a coloro che
sono reciprocamente estranei e tali vogliono rimanere, nell'osservanza comunque di
principi costituzionali universali e transculturali (al di sopra e comuni rispetto alle
varie culture).
Per quanto concerne l'etica, Habermas insiste che, nell'epoca del pluralismo e del
disincanto postmetafisico (=i principi della metafisica non incantano e non
illudono più), risulta improponibile qualsiasi indirizzo finalistico, metafisico o
religioso delle scelte etiche. Piuttosto, è compito della filosofia morale chiarire
quali sono i tipi di razionalità su cui fondare la morale stessa, che siano cioè in
grado di garantire una sufficiente forza di convincimento. Tale tipo di razionalità è
quella, come abbiamo visto, che si basa sull'impostazione cognitivistica,
deontologica, formale, universale e postkantiana dell'etica del discorso.
Al tempo stesso Habermas ribadisce il carattere autonomo della morale, che non
deve dipendere da nessuna forma di autorità metafisica, religiosa, sociale ma basarsi
unicamente in se stessa e nei propri principi. Dopo il crollo delle concezioni
metafisiche sul mondo nonché di quelle religiose, l'unico fondamento e principio
che rimane è quello della ragione comunicativa e delle sue argomentazioni
discorsive, espressa da quel principio universale secondo cui una legge è valida
quando, dal punto di vista di chiunque, potrebbe essere accettata da tutti.
L'ultimo Habermas ha continuato a polemizzare anche contro il relativismo
culturale e lo scetticismo.

144
145

Contro il relativismo culturale (per cui ogni cultura è totalmente chiusa in se


stessa e pertanto non può essere valutata secondo un comune giudizio morale
esterno alle varie culture, ma solo in termini relativi, cioè sulla base dei criteri
morali e di razionalità interni alla cultura stessa cui appartiene il soggetto)
Habermas contrappone la tesi secondo cui, entrando in rapporto tra loro
uomini di culture diverse, essi non possono fare a meno di trovarsi coinvolti
nella logica aggregante del dialogo intersoggettivo, ossia in quelle regole
universali e comuni a qualsiasi cultura che possiede ogni dialogo che voglia essere
razionale e sensato. L'argomentazione intersoggettiva si basa su regole che mostrano
la presenza di un fondo di razionalità unitaria e comune a tutti i soggetti che
partecipano al dialogo anche se di culture differenti: ha quindi una validità trans-
culturale. Proprio l'odierna moltiplicazione e prolificazione dei linguaggi postula la
ricerca di un minimo comune denominatore razionalmente fondato, in grado di
consentire un dialogo tra le diverse culture.
A sua volta, lo scetticismo può contestare l'etica del discorso solo a patto di far
proprie le regole dell'argomentazione, ossia di presupporre la validità della teoria
contro cui combatte (carattere autocontradditorio dello scetticismo, per il quale
niente può dirsi vero ma tuttavia presenta se stesso come verità). Contro gli scettici
che affermano che i giudizi etici hanno natura extra razionale poiché dipendono da
elementi di ordine emotivo, da preferenze individuali e da contingenti disposizioni
sentimentali, Habermas sostiene invece che le questioni pratico-morali possono
venire decisi in base a ragione dato che i giudizi etici non sono soggettivi ma hanno
un contenuto cognitivo, in quanto sono volti ad un interesse emancipativo e puntano
all'autoriflessione come metodo di liberazione dai condizionamenti sociali e
culturali.
Circa il destino della filosofia nel mondo odierno, Habermas è convinto che oggi
giorno non vi sia troppa, bensì troppo poca ragione (razionalità). Pertanto deve
esserne valorizzato il ruolo poiché la ragione, pur non potendo più essere
considerata come detentrice ultima del sapere, riveste pur sempre l'insostituibile
funzione di custode della razionalità.

145
146

KARL OTTO APEL (nato a Dusseldorf nel 1922).

La ricerca di un punto archimedico (un punto di partenza, un fondamento) del


sapere.

Inizialmente vicino anch’egli alla scuola di Francoforte, Apel si schiera


successivamente con Habermas nella critica dell'ideologia a favore dell'etica del
discorso, diventando esponente del postkantismo. L'ideologia è definita strumento di
mistificazione (di inganno) delle situazioni di dominio economico-politico. Assume
un atteggiamento di moderata simpatia nei confronti della contestazione studentesca
del ‘68, non disgiunta da critiche e riserve. Da un lato scorge nel movimento
studentesco "il tempo del risveglio politico-emancipativo"; dall'altro gli rimprovera
l'intolleranza e lo scarso spirito liberal-democratico.
Insiste sul tema della intersoggettività del linguaggio e della comunicazione nei
rapporti sociali e ricerca in tale direzione un fondamento, un "punto
archimedico" per la filosofia. L'interesse per la filosofia analitica lo spinge a
coltivare l'ideale di una trasformazione della filosofia mediante un'integrazione tra la
filosofia analitica anglosassone e la filosofia fenomenologica, esistenzialistica ed
ermeneutica continentale.
Ispirandosi alle riflessioni sul linguaggio di Heidegger, all'antropologia filosofica,
alla semiotica (scienza dei segni), alla teoria degli atti linguistici e al secondo
Wittgenstein, persegue l'obiettivo di passare da un'impostazione filosofica
soggettivistica, coscienzalistica e solipsistica ad una impostazione linguistica e
comunicativa, nella convinzione della validità universale dello strumento linguistico.
L'intento è quello di una fondazione "ultima" del sapere capace di contrastare le
tendenze antifondative (scettiche sulla possibilità di individuare un fondamento, un
principio di base) della filosofia contemporanea.
Celebre in proposito è la polemica sostenuta con Hans Albert (allievo di Popper),
per il quale la ricerca di un fondamento, ovvero di un punto di appoggio archi-
medico della conoscenza, porterebbe ad una situazione contraddittoria. Infatti, dice
Albert, ogni tentativo di fondazione porta tre dilemmi:
1. un regresso all'infinito, per la necessità di dover risalire sempre più indietro
nella ricerca dei fondamenti ma che in pratica è irrealizzabile e non offre
nessuna base sicura;
2. un circolo logico vizioso nella deduzione, per il fatto che nel processo di
fondazione ci si rifà ad enunciati (assiomi, postulati) a loro volta non fondati
ma da fondare;
3. l'interruzione del procedimento ad un certo punto, allorché si arriva ad un
principio fondante presentato come autoevidente ma che invece implica una
sospensione arbitraria del principio di ragion sufficiente; una simile auto-
fondazione è propriamente un "dogma", poiché secondo il razionalismo critico
nessuna convinzione risulta in linea di principio indubitabile.

146
147

Invece per Apple vi sono evidenze ultime, certe ed indubitabili, testimoniate dal
fatto che anche chi le nega finisce per presupporle. Tali sono le evidenze connesse
alla situazione argomentativa, ossia al fatto stesso di dialogare, di argomentare, e non
possono venir negate senza cadere in autocontraddizione. Se riflettiamo, ci
accorgiamo che la prassi della comunicazione è governata da regole che
esprimono un carattere di validità universale. Chi dicesse, ad esempio, che noi
dobbiamo necessariamente ammettere che noi non possiamo giungere a verità
indubitabili cadrebbe in contraddizione perché nel primo "noi" affermerebbe ciò che
nega nel secondo. Il ragionamento ricalca quello di Aristotele circa il carattere
autoconfutativo (che si nega da sé) dello scetticismo. La stessa cosa accadrebbe a chi
negasse la propria esistenza o quella del linguaggio: infatti per negare la mia
esistenza devo esistere e per negare l'esistenza del linguaggio devo adoperare il
linguaggio, ecc. In questi casi Apel parla non già di contraddizione logica, in quanto
non si afferma e non si nega nello stesso tempo un predicato di un medesimo
soggetto, ma parla invece di autocontraddizione performativa (da performance) o
pratica, ossia di contraddizione fra quel che si fa o si è e quel che si dice. In breve, le
condizioni dell'argomentare (del dialogo) sono come tali non aggirabili (non evitabili)
e perciò incontestabili e valide per chiunque argomenti. Tant'è che se uno rifiutasse
per principio dette condizioni egli non potrebbe affatto argomentare il suo stesso
rifiuto. In quanto uomini, ossia esseri che pensano, parlano e comunicano, siamo
da sempre e necessariamente collocati all'interno della ragione comunicativa (del
dialogo intersoggettivo) e delle sue ineludibili regole argomentative (condizioni
del dialogo).
Se esistono dunque evidenze inaggirabili (ineludibili), al punto che lo stesso
falsificazionismo (di Popper) risulta costretto a presupporre qualche norma o verità
non falsificabile se non vuole ridursi all'anarchismo metodologico di Feyerabend,
appare legittima allora la pretesa filosofica di pervenire a un fondamento ultimo
della conoscenza, a patto che per fondamento non si intenda la deduzione da un
sistema di assiomi o postulati (come per Habermas), bensì una base e un metodo di
tipo trascendentale (al di sopra ed indipendente dall'esperienza che in quanto tale è
sempre limitata). Grazie al metodo trascendentale siamo in grado di pervenire al
"sapere del sapere", certo non inteso hegelianamente come "sapere assoluto", ma solo
nel senso di un "punto archimedico" al quale il filosofo può tornare in ogni momento
come al punto di partenza non oltrepassabile (assolutamente primo) del suo pensiero.
In particolare, contro il falsificazionismo Apel sostiene che deve essere stabilita una
differenza di principio tra le ipotesi che risultano soggette a falsificazione e i criteri,
non falsificabili, che stanno alla base della falsificazione medesima. Infatti se i criteri
con cui si esaminano e si valutano le teorie avessero anch'essi un carattere di ipotesi
fallibili, allora bisognerebbe concludere che non esiste alcun criterio per una scienza
razionale. In tal modo si perderebbe la stessa distinzione concettuale della scienza
dall'arte, ossia delle teorie scientifiche dai miti e dalle favole.
Oltre che contro il falsificazionismo, Apel difende la legittimità di un fondamento
filosofico della conoscenza anche contro le varie forme novecentesche di relativismo,
scetticismo e pensiero debole.
147
148

La trasformazione semiotica del kantismo.

Le prime ricerche di Apel sono incentrate sul tema kantiano e neokantiano delle
condizioni universali del conoscere alla luce delle novità introdotte dalla filosofia
esistenzialistica e dalla linguistica strutturale. Nell'obiettivo, come si diceva, di
conciliare la filosofia analitica angloamericana con quella esistenzialistico-
ermeneutica europea continentale, Apel formula, nell'ambito della filosofia del
linguaggio, l'idea-programma di una trasformazione semiotica del kantismo. Tra
filosofia analitica e filosofia continentale, osserva Apel, esistono sostanziali punti
d'accordo: il comune rifiuto del primato della coscienza soggettiva e il comune
privilegiamento del linguaggio. Ma dall'altro lato esistono divergenze strutturali:
all'impostazione trascendentale della filosofia continentale si contrappone
l'impostazione pragmatica della filosofia analitica per quanto riguarda la
connessione (il rapporto) tra il linguaggio e le concrete forme di vita storiche, sociali
e culturali. Da ciò l'esigenza di accordare le due impostazioni mediante una sorta di
terza via, quale appunto la trasformazione semiotica del kantismo. Con tale
trasformazione si intende che, se resta vero, con Kant, che la conoscenza degli
oggetti è consentita dalle forme a priori dell'intuizione e dell'intelletto del soggetto,
inteso peraltro come astratto io-penso, come astratta coscienza, tale conoscenza
avviene tuttavia, e per contro, attraverso la semiotica, ossia attraverso l'uso dei segni
e cioè mediante il linguaggio. Apel propone quindi il passaggio, la trasformazione e
la sostituzione dell'astratto io-penso con la comunità concreta dei parlanti e relativa
comunicazione intersoggettiva storicamente e socialmente determinata. Infatti il
pensiero non esiste se non in quanto espresso con segni e così pure la realtà non
esiste se non in quanto simbolicamente (linguisticamente) interpretata. Parimenti,
non esiste il soggetto trascendentale (l'io-penso) se non sotto forma di un dialogo
pubblico interpersonale, poiché "non si può giocare un gioco linguistico da soli"
(non ha senso e non si può parlare da soli). Pertanto Apel polemizza contro il
solipsismo metodico, che va da Cartesio ad Husserl, e rifiuta l'ipotesi di un io isolato.
In tal modo la coscienza astratta acquista quella specifica corposità e storicità che in
Kant manca e che ad Apple è suggerita dalla lezione dell'esistenzialismo, della
fenomenologia, dell'ermeneutica, nonché del marxismo, individuando in tal senso
una mediazione (un collegamento) dell'idealismo trascendentale di Kant con il
realismo e il materialismo storico della società e con la concezione dialettica della
realtà.
In altri termini, la trasformazione semiotica del kantismo consiste nell'attribuire al
linguaggio, visto come sistema di segni (semiotica= teoria dei segni), quella funzione
legislatrice e strutturante della realtà (quindi trascendentale) che Kant attribuiva
alle forme a priori, collocando al posto dell'astratto io-penso la comunità concreta
dei parlanti. In particolare la trasformazione consiste:
1. nell'identificare l'a priori di Kant con il linguaggio, inteso come sistema di
segni e come condizione preliminare e universale di ogni approccio alla
realtà;

148
149

2. nel porre al posto dell'astratto io-penso il concreto dialogo e comunicazione


intersoggettiva tra gli uomini.
Ne risulta sottolineata un'ottica pragmatica che insiste sul rapporto tra linguaggio e
forme concrete di vita, ossia sul rapporto dei segni con chi li usa. Apel osserva che
nello sviluppo della filosofia analitica del linguaggio il centro di gravità si è spostato
progressivamente dalla sintattica (la relazione dei segni tra di loro) alla semantica
(la relazione tra i segni e le cose indicate) e quindi alla pragmatica (la relazione dei
segni con il loro interprete ed utilizzatore). La stessa cosa sarebbe avvenuta in sede
epistemologica, nella quale si sarebbe verificata una progressiva accentuazione dei
presupposti pratico-sociali della scienza.
Questa svolta pragmatica della filosofia analitica è tuttavia caratterizzata, secondo
Apel, da una radicale ambiguità, poiché dall'interesse per l'uomo in quanto
"soggetto" della scienza si è passati, con le nuove scienze umane e sociali, ad una
riduzione dell'uomo a "oggetto" del sapere (ad oggetto delle scienze umane), che
implica una paradossale eliminazione del soggetto della scienza (l’uomo da soggetto
conoscente diventa oggetto del conoscere). Lo stesso Wittgenstein, abbandonando la
sua precedente teoria del linguaggio come raffigurazione per la teoria dei giochi
linguistici e del significato d'uso del linguaggio, ha dovuto concludere che, poiché
ogni gioco linguistico possiede nel suo ambito la propria legittimità, il compito della
filosofia non è allora quello di valutare o trasformare i giochi ma solo di descriverli,
correggendo gli eventuali equivoci. Ma in tal modo, replica Apel, si giunge a una
pratica metodologica che riduce i giochi linguistici a semplice oggetto della scienza
empirico-analitica, rinunciando a qualsiasi individuazione di norme a priori
universali e necessarie, capaci di fungere da fondamento e di garantire le condizioni
di effettiva possibilità e validità di ogni comunicazione intersoggettiva al di là dei
singoli giochi linguistici e loro usi settoriali. Apel controbatte che sono invece
sussistenti norme a priori universali e necessarie a fondamento di ogni e qualsiasi
sensata comunicazione intersoggettiva. Sono norme identificate con le quattro
pretese (regole) universali di verità che Habermas ha per primo formulato,
coincidenti con le condizioni stesse dell'argomentazione, ossia del dialogo
intersoggettivo, e che Apel ha così riformulato:
1. una pretesa di senso o comprensibilità: ogni argomentante risulta obbligato a
dare un significato intersoggettivamente comprensibile a ciò che sostiene;
2. una pretesa di verità: chiunque argomenta non può fare a meno di
presupporre la verità intersoggettivamente valida delle proposizioni che usa;
3. una pretesa di veridicità o sincerità: chiunque argomenta in modo serio
accetta, per ciò stesso, di essere persuaso di ciò che dice;
4. una pretesa di giustezza o correttezza normativa: ogni argomentante è tenuto
a rispettare le norme che governano l'interazione comunicativa.
Queste regole implicano a loro volta una serie di postulati trascendentali della
comunicazione (indipendenti dall'esperienza) quali:
1. l'esistenza di un gioco linguistico (di un linguaggio) pubblico, e quindi
l'esistenza di altri soggetti argomentanti e di un mondo reale che sta di fronte
al linguaggio, mondo conoscibile grazie al linguaggio medesimo;
149
150

2. la possibilità di pervenire ad un accordo sul senso e sulla validità degli


enunciati nell'ambito di una comunità illimitata della comunicazione
idealmente aperta a tutti i parlanti;
3. la pariteticità (l'uguaglianza) dei soggetti argomentanti, che devono essere
considerati come aventi uguali diritti e doveri; da ciò la portata
strutturalmente etico-politica e democratica della teoria dell'argomentazione.
Sulla sia di Peirce, Apel afferma quindi che al di là della comunità reale dei
parlanti, o comunità di fatto, esiste una comunità trascendentale, cioè ideale, in
grado di fungere da modello o norma della prima. Comunità che Apel chiama
"comunità illimitata della comunicazione" per sottolineare come essa sia
idealmente aperta a tutti i parlanti. È una comunità ideale, inesistente di fatto, ma
che funziona da principio regolativo delle comunicazioni reali.

La macroetica planetaria.

Apel afferma che mai come oggi si avverte la necessità di una macroetica
planetaria (di un'etica estesa e valida per l'intero pianeta). Infatti, se si distingue tra
un microambito (famiglia, matrimonio, vicinato), un mesoambito (la politica
nazionale) e un macroambito (l'umanità nel suo complesso) si può facilmente
rilevare come le norme morali siano ancora concentrate nel microabito, mentre il
macroambito appare preoccupazione solo di pochi. Inoltre, le morali tradizionali
appaiono connesse a particolari visioni metafisico-religiose del mondo e risultano
ancorate a specifici contesti geografico-culturali, al punto da configurarsi come
altrettante "morali di gruppo" prive di universalità e in conflitto fra di esse. Ma
come non avvertire, nell'età della scienza, la necessità di un'etica razionale e
universale?
Eppure, se da un lato la mentalità scientifica sembra stimolare, per effetto della
generale diffusione delle tecnologie, l'avvento di una tale etica, dall'altro sembra
comprometterla. Infatti, rifacendosi al principio della avalutatività di Weber e alla
legge di Hume (secondo cui non possiamo ricavare norme e valori dai fatti), i filosofi
di tendenza neopositivistica e analitica hanno escluso la possibilità di un'etica
universale razionalmente fondata, riducendo la morale a una serie di operazioni
soggettive, a reazioni irrazionali ed emotive o a decisioni arbitrarie parimenti
irrazionali. Di conseguenza, razionalmente fondabili appaiono non le norme etiche
ma soltanto le loro descrizioni avalutative. All'etica filosofica tradizionale di tipo
prescrittivo è subentrata un’etica analitica avalutativa e puramente descrittiva
delle regole logiche del cosiddetto "discorso morale". Altrettanto, le scienze umane
sembrano pervenire alla conclusione che le norme morali sono in ampia misura
relative alla cultura o alle epoche e quindi, ancora una volta, soggettive. Con queste
premesse, in Occidente si è prodotta una sorta di divisione del lavoro tra filosofia
analitica (cui spetta il campo della conoscenza oggettivo-scientifica) ed
esistenzialismo (cui spetta l'ambito delle scelte etico-religiose).

150
151

Tale situazione ha finito col favorire il diffondersi di forme generalizzate di


relativismo e nichilismo, di cui sono espressione altresì i fautori delle teorie del
postmoderno. L'argomento in apparenza più forte della filosofia contemporanea
contro la possibilità di un principio razionale ultimo, osserva Apel, risiede nella tesi
secondo cui, non potendosi fondare razionalmente la ragione (vale a dire
l'impossibilità di dimostrare che la razionalità è l'essenza fondamentale della natura
umana), in quanto ciò implicherebbe un circolo logico vizioso, si dovrebbe allora
ricorrere ad una scelta pre-razionale di fede, e quindi irrazionale, a favore della
ragione posta come principio di fondo (vedasi Popper e la sua decisione di scegliere
e riporre la propria fiducia nel realismo, ovverosia in una concezione realistica del
mondo di per sé tuttavia indimostrabile). In realtà, incalza Apel, noi non ci troviamo
a decidere pre-razionalmente fra ragione e non ragione, fra argomentazione e non
argomentazione, perché ci troviamo fin dall'inizio nell'ambito del logos (della
razionalità). È questa una condizione di base dell'uomo che di per sé consente la
fondazione razionale della ragione (cioè la legittimità del ritenere la razionalità
quale principio di fondo dell'essere umano). Chiunque argomenti, chiunque dica
qualcosa di sensato, questi ha già necessariamente accettato il punto di vista
della ragione, ovvero le norme della ragione argomentativa (le regole universali del
dialogo intersoggettivo). Certo, ognuno ha il potere di rinunciare alla propria
ragione, ma così finiamo con l'autoannullarci come uomini riducendoci alla stregua
di piante. La scelta della razionalità non si compie al di fuori della razionalità, come
se ci trovassimo in un limbo pre-razionale rispetto a cui far seguire, solo
successivamente, la scelta di una visione di vita, ma si compie invece all'interno
della razionalità stessa, nei termini di una convalida dello stato (della condizione) in
cui, in quanto esseri pensanti, parlanti e comunicanti, siamo da sempre.
La possibilità di una fondazione razionale della ragione implica altresì, per
Apel, la possibilità di una fondazione razionale dell'etica. Infatti le regole a
priori (indipendenti dall'esperienza) dell'argomentazione (del dialogo) non hanno
soltanto valore logico-linguistico e cognitivo ma altresì un potenziale valore etico-
normativo (si pensi alle regole della veridicità e della giustezza del dialogo). In
particolare, la norma che prescrive la necessità di risolvere mediante le regole del
dialogo tutti i possibili conflitti di interesse tra gli esseri umani assume il valore di
principio etico fondamentale. Tale norma presuppone evidentemente che tutti gli
individui abbiano gli stessi diritti nella discussione. Ma poiché a livello concreto
questo non accade, o accade in modo insoddisfacente, il principio della comunità
illimitata della comunicazione (della natura razionale fondante del dialogo
intersoggettivo) assume il valore di un principio regolativo in senso kantiano. Da
ciò la tendenza democratica ed emancipativa dell'etica del discorso, che si
integra con la critica dell'ideologia, ossia con lo smascheramento degli interessi
materiali che si oppongono al perfetto intendersi tra gli individui.
Quindi, contro lo scetticismo neopositivista ed analitico, Apel ritiene invece che le
regole a priori dell'argomentazione (verità, veridicità, giustizia, ecc.) e i relativi
postulati trascendentali (accordo sul senso, pariteticità, ecc.), unitamente alla sopra
citata norma etica fondamentale (risoluzione dei conflitti attraverso il dialogo
151
152

argomentativo), permettano di edificare un'etica della comunicazione di portata


razionale e universale. Tale etica coincide con l'etica del discorso di cui ha parlato
Habermas, ossia con una morale di natura cognitiva, deontologica, formale,
universale e postkantiana (formale= che non stabilisce regole materiali ma solo il
principio procedurale del discorso paritetico e della conciliazione razionale degli
interessi).
L'appello e l'invocazione della comunità ideale tende ad ispirarsi, in una prima fase
del pensiero di Apel, ad un marxismo non dogmatico e non materialisticamente
deterministico bensì umanistico-emancipativo. Infatti, il compito di realizzare la
comunità ideale della comunicazione implica anche il superamento della società
divisa in classi e l'eliminazione delle barriere socialmente condizionanti il dialogo
interpersonale.
Negli scritti successivi sviluppa l'etica della comunicazione nella direzione di
un'etica della responsabilità che, pur fondandosi kantianamente e
deontologicamente sui principi dell'agire argomentativo (di un comportamento
razionale), risulti sensibile altresì alle conseguenze delle decisioni adottate. L'etica
del discorso non può limitarsi all'etica dell'intenzione, della pura volontà buona come
in Kant, ma deve configurarsi anche (secondo la distinzione di Weber) come un'etica
della responsabilità rispetto alle conseguenze delle azioni intraprese. Tale etica
assume come criterio o modello regolativo la comunità illimitata (cioè paritetica e
democratica) della comunicazione. Per dare concretezza a tale modello comunitario
Apel difende pertanto la necessità di un'opinione pubblica mondiale critica, in
grado di pronunciarsi con senso di responsabilità planetaria sui grandi temi
politici, economici, ecologici del mondo.
Kant, osserva Apel, si muove ancora nell'ambito di un'impostazione soggettiva e
conoscienzalista e quindi affida al singolo il compito di "dedurre", tramite il
principio universale dell'imperativo categorico, le norme morali materiali e concrete
relative alle varie situazioni. Apel invece, che si muove secondo un'impostazione
semiotico-comunicativa, ritiene che la fissazione di norme etiche concrete non sia
questione che il singolo possa risolvere da solo, nell'ambito della propria riflessione
interiore, bensì questione che esige di essere affrontata all'interno di discorsi pratici
(morali) intersoggettivi, vale a dire in maniera democratica e consensuale.
In tal senso, Apel distingue due livelli di fondazione (di costituzione) delle norme
morali: quello di primo grado, costituito dal principio formale-procedurale che
postula la possibilità di un dialogo paritario e di una composizione (intesa)
discorsiva-argomentativa rispetto ai diversi interessi, e quello di secondo grado, che
si realizza concretamente tra i soggetti coinvolti nell'argomentazione. All'interno del
secondo livello di fondazione Apel recupera anche la tesi del fallibilismo,
affermando che le norme proposte nell'ambito dei discorsi pratici concreti sono
sempre fallibili e falsificabili, a differenza del principio formale su cui si fonda il
primo livello che, in quanto a priori ed universale, non può essere esso stesso
fallibile e falsificabile.
In concomitanza con l'elaborazione dell'etica della responsabilità, Apel si mostra
sempre più sensibile al problema dei rapporti tra l'agire strategico-strumentale
152
153

proprio del mondo della vita (della società storica, reale e concreta), tendente a far
prevalere il diritto del più forte o del più furbo, e l'agire comunicativo morale.
Problema questo che egli ha cercato di risolvere con il principio di integrazione, il
quale stabilisce il dovere di individuare un possibile punto di incontro tra agire
strategico e agire morale. Conseguentemente Apel, pur continuando ad essere
fautore di un pensiero progressista e riformatore, finisce sia col prendere le
distanze dalle posizioni utopiste e neomarxiste degli anni ‘60 e ‘70, sia per
accentuare il proprio interesse verso la democrazia politica e le sue norme
procedurali. L'etica del discorso non può e non vuole, come invece in Platone e in
tutti gli utopisti dopo di lui, prescrivere agli uomini una forma unica e totalitaria
di vita, oppure concepirla, come in Hegel, quale necessaria conseguenza dell'eticità
dello Spirito assoluto. L'etica del discorso non ha il compito di stabilire un'utopia
rigida di società futura, ma soltanto di stabilire un quadro formale di principi, di
regole e di procedure, nel cui ambito le diverse teorie circa la "vita buona" e la
"vita felice" abbiano modo di confrontarsi in maniera pluralistica e dialogante.
Un quadro che coincide, in definitiva, con le istituzioni dello Stato democratico di
diritto, il quale, pur con tutte le sue imperfezioni, costituisce la miglior
approssimazione ai requisiti normativi della comunità illimitata della comunicazione.

Differenze con Habermas.

Il pensiero di Apel presenta notevoli affinità rispetto a quello di Habermas. Ciò


non toglie tuttavia che tra i due filosofi esistano anche notevoli differenze.
Pur insistendo entrambi sul rapporto tra linguaggio (dialogo intersoggettivo) e
morale, i due filosofi si diversificano fra loro a proposito della giustificazione
filosofica di tale rapporto. Apel lo interpreta come una "fondazione ultima" di tipo
trascendentale-metafisico. Habermas invece, diffidente nei confronti delle pretese
metafisico-fondative della filosofia, lo interpreta come ipotesi scientifica ad alto
livello di generalizzazione (valida pressoché nella totalità dei casi). Da ciò la
differente denominazione delle rispettive dottrine: pragmatica trascendentale,
ossia a priori e indipendente dall'esperienza, in Apel e pragmatica universale,
ossia maggiormente basata su constatazioni-riflessioni scientifico-empiriche ed
epistemologiche, in Habermas. In proposito Apel non ho potuto fare a meno di
osservare come il tentativo di Habermas di basare l'etica del discorso sul terreno
mobile delle generalizzazioni (teorie) scientifico-empiriche, anziché su quello solido
delle certezze filosofiche a priori, rischia di far crollare tutta la costruzione o,
perlomeno, di renderla estremamente vulnerabile agli assalti di quel relativismo
culturale e morale contro cui essa ha pur tuttavia voluto erigersi. Scrive infatti Apel:
"Trovo nel mio amico Habermas una "falsa" modestia, che di fronte allo scetticismo
e al relativismo predominanti è sì comprensibile, ma inutile e non opportuna".

153
154

IL POSTMODERNO E LE FILOSOFIE DELLA POSTMODERNITA’.

Il termine di postmoderno non è originariamente filosofico: sorge dapprima in


campo letterario, storico, economico ed architettonico. Alla fine degli anni ‘70 del
Novecento, grazie a Lyotard, inizia ad essere adoperato anche in ambito filosofico.
Postmoderni sono classificati quei filosofi secondo cui la modernità (l'epoca
moderna iniziata a partire da Cartesio nel XVII secolo), almeno in alcuni dei suoi
tratti essenziali, sarebbe finita. Iniziatore del postmoderno filosofico è Jean
Francois Lyotard e tra i più originali e convinti interpreti si annoverano Gianni
Vattimo nonché, per certi aspetti, Rorty e Derrida. In Italia simpatizzanti del
postmoderno sono o sono stati Massimo Cacciari, Pier Aldo Rovatti, Umberto Eco.
Su posizioni critiche si è posto invece Paolo Rossi.
Per comprendere il postmoderno filosofico è opportuno elencare le
caratteristiche fondamentali della filosofia della modernità contro le quali,
appunto, i postmoderni si collocano. Possono essere così riassunte:
1. la tendenza a credere in visioni e sistemi onnicomprensivi del mondo
(idealismo, marxismo, ecc.) capaci di fornire legittimità e fondamento
filosofico al conoscere (gnoseologia) e all'agire (prassi);
2. la tendenza a concepire la storia in termini di progresso lineare e di
emancipazione, ossia come percorso progressivo di cui gli intellettuali
conoscono i fini (la libertà, l'uguaglianza, il benessere, ecc.) e i mezzi idonei a
realizzarli (la diffusione dei lumi della ragione, cioè della razionalità, la
rivoluzione proletaria, le conquiste della scienza e della tecnica);
3. la tendenza a pensare il divenire (lo sviluppo della realtà) in termini di novità
e superamento, ossia la propensione a identificare ciò che è nuovo con ciò che
è migliore e ciò che è trascorso con ciò che è superato;
4. la tendenza a concepire l'uomo come dominatore della natura, con la
concomitante esaltazione della scienza e la conseguente riduzione della realtà
ad oggetto manipolabile e sfruttabile, conoscibile secondo criteri di tipo
ipotetico-sperimentale, con contestuale identificazione della ragione con la
ragione scientifica;
5. la tendenza a pensare secondo concetti di unità e totalità della realtà, cui
subordinare l'eterogenea varietà degli eventi, costituendo sapere forti e
gerarchici, basati su di un unico e fondamentale principio esplicativo
(monismo) di tipo ontologico o storico o gnoseologico o etico o estetico.
Tendenza questa che si accompagna ad una sottovalutazione ed appiattimento
delle particolarità e delle diversità presenti nella realtà, facendo tutt'uno
invece, secondo Lyotard, con la volontà di dominio dell'Occidente nonché,
secondo Vattimo, con la sua vocazione "terroristica e violenta".
Rispetto a queste tendenze di fondo della modernità i postmoderni
contrappongono un insieme di idee alternative, ovvero:
1. la sfiducia nei "macro-saperi", nei grandi sistemi filosofico-culturali
onnicomprensivi e la proposta invece di forme "deboli" (Vattimo) o
"instabili" (Lyotard) di razionalità (di riflessione filosofico-razionale), basate
154
155

sulla convinzione dell'inesistenza di fondamenti ultimi e unitari del sapere


(teoria) e dell'agire (prassi);
2. la rinuncia a concepire la storia come un processo universale e necessario
volto al progresso e all'emancipazione dell'umanità, cui è contrapposta
l'elaborazione di un "pensiero senza redenzione ", vale a dire una sfiducia
programmatica nei confronti di ogni terapia politica, esistenziale, artistica,
ecc. finalizzata al raggiungimento di migliori condizioni;
3. il rifiuto del culto del nuovo e del concetto di superamento, tant'è che il
postmoderno, più che come ultimo indirizzo filosofico e sistematico, intende
essere la fine di ogni indirizzo;
4. il rifiuto di identificare la razionalità con la razionalità tecnico-scientifica e di
concepire l'uomo come "padrone" incontrastato della natura e dell'ambiente;
rifiuto che riflette la sensibilità postmoderna verso l'ecologismo, inteso come
movimento di reazione sia contro gli effetti distruttivi causati dal dominio
tecnologico sulla natura sia come ricerca di una nuova cultura dell'abitare;
5. la prevalenza dell'idea di pluralità e di differenza rispetto a quella di unità e
totalità della realtà, ossia la considerazione che "il mondo non è uno, ma
molti" (Vattimo); da ciò la concezione di una realtà frammentata,
settorializzata, dissociata, rivolta a far valere gli aspetti della molteplicità, del
particolare, del locale, del diverso, nella convinzione della irriducibilità degli
enti e dei significati ad uniformità e quindi nella persuasione della loro
incommensurabilità. La Torre di Babele, emblema della proliferazione dei
linguaggi e di un mondo irrimediabilmente diversificato e sconnesso, è
assunta come simbolo di questa realtà a frammenti, guardata tuttavia in modo
positivo, senza nostalgie per le visioni totali del mondo ormai perdute ma
prendendone realisticamente atto.

Origini storiche, sociali e culturali del postmoderno.

La filosofia post-moderna risulta strettamente connessa ad una serie di


trasformazioni storiche e sociali. Alle sue origini troviamo un insieme variegato di
avvenimenti storici, quali le guerre mondiali, gli orrori dei campi di
concentramento, i fallimenti del socialismo reale, le ingiustizie del capitalismo, i
pericoli di un conflitto nucleare, la minaccia di una catastrofe ecologica, ecc., che
hanno compromesso alla base i principali "miti" e ideali di razionalità e di eticità
degli ultimi secoli, a cominciare dall'idea di un progresso necessario e senza fine. Il
postmoderno si configura quindi come post-storico, nel senso che intende
collocarsi oltre la storia considerata come progresso dalla modernità. Il carattere
post-storico del postmoderno non significa ritenere che esso è qualcosa che
"supera" la modernità in direzione di un nuovo e più sicuro traguardo. Se fosse così,
argomenta Vattimo, il postmoderno si collocherebbe esso stesso sulla linea della
modernità e sulla sua idea di progresso. Il postmoderno invece va visto soprattutto
come dissoluzione dell'idea stessa del nuovo e del perfettibile, vale a dire come
155
156

esperienza di "fine della storia" quale pensata dalla modernità; una storia non
più progressiva ed emancipativa.
Il concetto di post-storico è stato utilizzato per primo da Arnold Gehlen per
definire le società attuali in base alla tesi della "plasticità" costitutiva dell'uomo,
ossia in base alla considerazione che la natura umana non è fissa e costante. Le
società attuali, egli afferma, sarebbero caratterizzate da una "seconda
secolarizzazione" (secolarizzazione=venir meno del primato del sacro e
dell'assoluto), ovvero da una secolarizzazione che ha secolarizzato se stessa, che
ha cioè abbandonato i miti rassicurativi (trascendenti o immanenti) incentrati
sull'idea di principi e fondamenti assoluti della realtà. In questo senso il
postmoderno si presenta, appunto, come il compimento o la realizzazione estrema
del processo di secolarizzazione del mondo che ha caratterizzato il pensiero della
civiltà occidentale degli ultimi secoli. La seconda secolarizzazione, dopo la prima
che ha investito la fede nel divino, è pervenuta ad investire altresì la fede laica nel
progresso, ormai ridotto nelle odierne società complesse ad un processo di
innovazione puramente quantitativo di routine, secondo una logica di quantità
piuttosto che di qualità e di autentica innovazione ed emancipazione. In tal modo la
storia ha cessato di essere propulsiva e l'aspirazione verso il nuovo, svuotato di
ogni significato concretamente emancipativo, viene confinata nel territorio
estetizzante e formalistico delle arti, al punto da poter parlare ormai di "fine" della
storia e del progresso.
Particolarmente stretti risultano anche i rapporti tra postmoderno e società
complessa di tipo industriale, contraddistinta da assetti pluralistici (da
un'estrema varietà di forme, di culture, di razze) di cui il postmoderno vuole essere
chiave (modalità) interpretativa. Da ciò il progetto di una "umanità al plurale",
capace di lasciarsi definitivamente alle spalle il sogno medievale di un'unica verità,
di un'unica fede, di un unico sistema di valori.
La valorizzazione del carattere pluriculturale e plurirazziale della società complessa
ha condotto i postmoderni a giudicare positivamente le tecnologie informatiche e
multimediali, simboleggiate nella nuova figura dell'uomo come rice-trasmettitore di
messaggi. A differenza dei filosofi della Scuola di Francoforte, che nei mezzi di
comunicazione di massa scorgevano strumenti negativi di inganno e di dominio, i
postmoderni considerano i mass-media come elementi positivi di una società
democratica moderna, basata su di una molteplicità, non conformistica e non a
senso unico, di informazioni e messaggi, che rendono i fruitori più consapevoli e
quindi più critici. Rifacendosi all'ermeneutica, i postmoderni affermano che la
realtà ambientale e umana, nelle odierne società tecnologiche, tende ormai a
consistere nella molteplicità delle informazioni e delle interpretazioni che i media
(giornali, libri, televisione, internet, ecc.) diffondono senza che nessuna di queste
interpretazioni, in "un mondo divenuto favola" (Nietzsche) poiché ormai privo di
un'univoca verità assoluta e oggettiva, abbia il diritto di soffocare od azzerare le
altre.
Sul piano etico, pertanto, la concezione pluralistica post-moderna si ispira al
principio della tolleranza contro ogni uniformità e rigidità di dogmatismo teorico
156
157

e di dispotismo pratico. "Abbiamo pagata cara l'ideologia del tutto e dell'uno" (ossia
di una concezione monistica, basata sull'idea di un unico ed esclusivo principio
della realtà).
Sul piano politico il postmoderno si ispira ad un pensiero postmarxista e
postliberale, che va oltre i concetti di destra-sinistra, di conservazione-progresso.
Infatti, pur respingendo il mito marxista della rivoluzione, i postmoderni sono ben
lontani dal concepire un recupero del pre-moderno o di qualche ideologia
antimoderna. Contro l'immagine diffusa da autori come Habermas (che reputa il
postmoderno affetto da neoconservatorismo e dalla mancanza di punti di
riferimento orientativi) e Fredrich Jameson (il quale considera il postmoderno come
l'ideologia dominante del tardo capitalismo multinazionale che riduce ogni cosa a
feticcio, a prodotto posto in vendita), il postmoderno, da una iniziale assenza di
progettualità politica, di rassegnazione suo malgrado al consumismo, alla
spettacolarizzazione, al trionfo tecnologico, è passato via via a posizioni politiche
incentrate sull'ecologismo, sul pluralismo, sul multiculturalismo, sulla difesa
delle minoranze e sul rispetto verso ogni forma di diversità.
Per quanto concerne le origini intellettuali del postmoderno, esse vanno ricercate
anzitutto in Nietzsche e Heidegger, che hanno messo sotto accusa la modernità e
la tradizione occidentale: in Nietzsche con l'annuncio della morte di Dio ed il
conseguente avvento del nichilismo; in Heidegger con l'idea di un costante declino
della metafisica a causa di un suo proprio ed inconsapevole "oblio dell'essere", il
quale ha portato all'imporsi del mondo tecnico-scientifico. Si tratta di due tesi che
rovesciano decisamente la concezione ottimistica di progresso propria della
modernità. Tant'è che Vattimo fa espressamente iniziare il postmoderno con
Nietzsche.
Un'altra fonte intellettuale del postmoderno è costituita dal poststrutturalismo
francese, col suo rifiuto del primato del soggetto (del valore prioritario della
coscienza e di un modo uniforme e universale di pensare) e con la sua concezione
secondo cui non c'è alcun centro del mondo, bensì una varietà talmente diversificata
di enti e di significati tale da non poter essere ricondotta ad una qualsiasi identità e
unità. Il carattere costitutivo della realtà è quello della differenza (tra le varie
cose e tra i vari significati ad esse attribuiti), il che porta ad un concetto di verità
intesa come decostruzione (ossia come rifiuto di costruzioni ontologiche e
gnoseologiche unitarie e stabili della realtà e del sapere), come alterità (diversità) e
come continua novità, senza alcunché di permanente. Dal poststrutturalismo i
postmoderni hanno derivato una mentalità antiunitaria e antigerarchica nonché
l'idea di una realtà frammentata e decostruita (Derrida) in cui è rotta l'unità e la
totalità.
Ulteriore matrice intellettuale del postmoderno è costituita dall'ermeneutica,
da cui postmoderni, soprattutto Vattimo, hanno tratto un'immagine del mondo come
rete aggrovigliata di interpretazioni diversificate secondo il contesto sociale,
ambientale e storico in cui ci si trova.
Fonte intellettuale, ancora, del postmoderno è rappresentata
dall'epistemologia postpositivistica o postpopperiana (Kuhn, Feyreband), con la
157
158

quale i postmoderni condividono la tesi della natura "non fondata", "instabile" e


"anarchica" del sapere.
Infine, una certa influenza (soprattutto su Lyotard) è stata esercitata da quei
pensatori, come Kant e Wittgenstein, che hanno insistito sulla eterogeneità delle
facoltà umane (intelletto, ragione, morale, sentimento) e sulla molteplicità dei
giochi linguistici.

La questione del "post".

Il termine postmoderno, al di là del successo conseguito, è apparso problematico


fin dall'inizio. In particolare, come va inteso il "post" di cui parlano i postmoderni?
In primo luogo, il post non allude ad un "superamento" del moderno perché in tal
senso si cadrebbe in una concezione storico-temporale progressiva da cui invece il
postmoderno intende divergere.
In secondo luogo, il post non allude ad una contrapposizione radicale con la
modernità: non è un "anti". Il postmoderno non è interpretato come qualcosa di
completamente estraneo od opposto al moderno ma come qualcosa che, pur avendo
"digerito" ( vissuto) il moderno e pur perseguendo obiettivi diversi, risente
comunque dei suoi condizionamenti. Vattimo, come si vedrà, è convinto che la
metafisica non sia una sorta di abito smesso: sia pure in modo indebolito, il
postmoderno non può far altro che usare le stesse categorie (concetti) della
metafisica (verità, essere, storia,) anche se ridotte entro storie regionali e
settoriali. Più in generale i postmoderni reputano che il passato non possa venir
annullato ma solo "rivisitato". Da ciò quel "nomadismo teorico" (quel passare e
vagabondare da una teoria all'altra) che porta a viaggiare nella storia e nelle
storie come in una banca dati, allo stesso modo in cui si naviga su Internet. Il
nomadismo teorico è quello di un pensiero che si muove liberamente e
trasversalmente su un territorio di conoscenze che si intrecciano e si contaminano
(il villaggio globale), divenuto accessibile per la riduzione delle distanze in seguito
allo sviluppo delle tecnologie comunicative.
Una terza questione riguarda la natura cronologica o ideale del post. Il
postmoderno va cioè pensato in termini storici, ossia come un nuovo corso della
storia (Vattimo) oppure in termini ideali, cioè come modello e modalità, possibile
ed alternativa, del sentire e del pensare (Lyotard)? In quest'ultimo senso si esprime
anche Umberto Eco, secondo cui il postmoderno, più che individuare un'epoca,
serve ad identificare uno stato dello spirito, un modo alternativo di vedere la
realtà. Queste due maniere di interpretare il postmoderno non sono
necessariamente in antitesi, perché anche coloro che lo interpretano come
condizione storica dominante dell'uomo del XX secolo, non escludono che esso
rappresenti anche un "modello della sensibilità" che può trovare manifestazioni o
corrispondenze nel passato.

158
159

JEAN FRANCOIS LYOTARD (nato in Francia nel 1924).

Il postmoderno come fine dei grandi racconti.

Lyotard collega il postmoderno all'avvento delle società industriali avanzate e


informatizzate: è proprio in queste società che si sviluppa un tipo di cultura
alternativa rispetto a quella moderna. La modernità risulta caratterizzata da una
serie di grandi sistemi, di ampie sintesi filosofico-politiche, che Lyotard chiama
"grandi racconti" o "grandi narrazioni". La loro peculiarità è quella di voler
fornire un fondamento unitario del pensare e dell'agire in termini di progresso e di
emancipazione, sulla base di una teoria della storia intesa come percorso diretto
verso una meta prestabilita di natura positiva (la libertà, l'uguaglianza, ecc.). Sono
grandi racconti che hanno un carattere universale, tale cioè da porsi oltre le
narrazioni particolari, per cui sono chiamati da Lyotard anche "metaracconti" o
"metanarrazioni".
I principali "grandi racconti" della modernità sono l'Illuminismo e
l'Idealismo. Per l'Illuminismo il sapere appare legittimo nella misura in cui
favorisce l'emancipazione e la libertà dei popoli. Per l'idealismo il sapere appare
fondato nella misura in cui non persegue finalità specifiche ma si configura come
conoscenza disinteressata e autoriflessiva che lo Spirito ha di se stesso. Oscillante
fra questi due grandi racconti è il marxismo, che da un lato tende ad assumere la
forma "stalinista" di un materialismo dialettico che riduce il sapere ad esaltazione di
se stesso e che, dall'altro lato, tende ad assumere la forma "critica" di un sapere
multidisciplinare (ad esempio la scuola di Francoforte), che non esalta
esclusivamente il proletariato o lo Stato ma considera altresì le coscienze
soggettive, nonché l'importanza delle scienze come insieme di mezzi offerti al
proletariato in vista della sua emancipazione. Ai grandi racconti Lyotard
aggiunge anche quello cristiano, della salvezza delle creature attraverso l'amore
del figlio di Dio, e quello capitalista, dell'emancipazione dalla povertà attraverso
lo sviluppo tecnico-industriale.
Per Lyotard il sapere non si riduce alla scienza e nemmeno alla conoscenza,
perché in esso confluiscono anche le idee del saper fare e del saper vivere (la
prassi e l'etica). Il sapere non si risolve solo in enunciati denotativi ma anche
prescrittivi e valutativi.
Nelle società tradizionali, antiche, il sapere si esprimeva in forma narrativa, ossia
in una serie di racconti composti da una pluralità di giochi linguistici (di forme
di linguaggio). Invece, con la nascita della scienza viene ritenuta valida una
forma di sapere composto da un solo e unico tipo linguistico, quello denotativo
(che procede solo per definizioni), programmaticamente isolato da tutti gli altri. Si
tratta di un linguaggio e di un sapere che non fonda la propria validità sulla
semplice narrazione ma che richiede, per essere accettato, una serie di
argomenti o prove. Tant'è che agli occhi della scienza le narrazioni tradizionali si
configurano come prodotti di una mentalità selvaggia o primitiva, basata
159
160

sull'opinione, sull'autorità e sui pregiudizi. Ma anche la scienza, per non cadere


essa stessa nel dogmatismo, risulta a sua volta obbligata ad escogitare una
qualche propria giustificazione extrascientifica, sociale. Ed infatti, da Platone in
poi, essa si è costruita quella tipica forma di giustificazione ragionata che è la
filosofia. Il sapere scientifico non può presentarsi come vero sapere senza riflettere
su se stesso, cioè senza ricorrere ad un altro tipo di sapere, senza ricorrere anch'esso
al racconto. Quindi anche nel mondo moderno della scienza avviene questa sorta di
ritorno della narrazione, vale a dire il ritorno a quell'insieme dei grandi racconti
della modernità aventi per obiettivo la giustificazione teorico-filosofica ed etico-
pratica del sapere e in particolare della conoscenza e della scienza.
Però con l'avvento del postmoderno, e della sfiducia nei confronti delle
legittimazioni e giustificazioni onnicomprensive della realtà e del sapere,
assistiamo al tramonto dei grandi racconti. Due sono le principali ragioni di
tale tramonto.
Una prima ragione è di ordine interno e risiede nella autodelegittimazione (in
un autosconfessarsi) dei racconti stessi, i quali applicando a se stessi l'esigenza
della legittimazione si scoprono illegittimi. Tale causa non deriva in primo luogo
dallo sviluppo accelerato della tecnologia, che ha posto l'accento sui mezzi
piuttosto che sui fini dell'azione, ma dal fatto che i germi della delegittimazione
(della sfiducia) e del nichilismo erano già immanenti nei grandi racconti. Lo
stesso Nietzsche mostra che il nichilismo europeo discende dall'autoapplicazione
dell'esigenza scientifico-dimostrativa della verità ai grandi racconti della modernità.
L'Idealismo infatti riteneva di poter giustificare il valore delle scienze nell'ambito di
una trattazione enciclopedica della dialettica dello Spirito. Ma non appena le regole
del metodo scientifico ne mostrano l'impraticabilità (la metafisica non è né vera né
falsa perché non verificabile: è semplicemente senza senso), la scienza come
pensata dall'Idealismo si trova priva di giustificazioni. L'Illuminismo si basava sulla
possibilità di stabilire un nesso tra teoria "illuminata" e prassi. Ma ben presto ci si
rende conto che tra enunciati denotativi ed enunciati prescrittivi non esiste alcun
legame necessario: infatti essendo ogni gioco linguistico (ogni tipo di linguaggio)
dotato di regole proprie, il gioco linguistico della scienza risulta privo degli
strumenti atti a regolamentare giochi diversi, quali ad esempio il linguaggio pratico
o quello estetico. Anche il marxismo partecipa a questo doppio fallimento
dell'idealismo e dell'illuminismo.
Una seconda ragione risiede nei tragici ultimi avvenimenti della storia, che
hanno invalidato ognuno dei grandi racconti (ottimistici) della tradizione e
della modernità. Auschwitz ha confutato la dottrina idealistica che fa coincidere
tutto ciò che è reale con tutto ciò che è razionale. L'insorgere dei lavoratori contro il
partito comunista al potere a Berlino nel 1953, a Budapest nel 1956, in
Cecoslovacchia nel 1968, in Polonia nel 1980 (e la serie non è completa) confutano
il motto "tutto ciò che è proletario è comunista e tutto ciò che è comunista è
proletario), smentendo altresì la dottrina del materialismo storico. La contestazione
del 1968 confuta il motto "tutto ciò che è democratico viene dal popolo e va verso il
popolo e viceversa", smentendo altresì la dottrina del liberalismo parlamentare. La
160
161

tesi "tutto ciò che è libero gioco della domanda e dell'offerta favorisce
l'arricchimento generale e viceversa" è smentita dalle crisi economiche del 1911 e
del 1929, che confutano la dottrina del liberismo economico, nonché dalle crisi
degli anni 1974-1979, che confutano la versione postkeynesiana di essa.
Venuta meno dunque la possibilità di collegare, tramite un unico principio e
fondamento legittimante, i vari settori della conoscenza e dell'azione, ormai
frantumati in una molteplicità di giochi linguistici (di forme) differenti, Lyotard si
pone l'interrogativo "dove può risiedere allora la legittimità dopo la fine dei
grandi racconti? Si parla in proposito anche di "fine delle ideologie".
Lyotard non condivide il preteso valore universale dell'etica del discorso di
Habermas. In polemica con quest'ultimo, Lyotard sostiene che la dottrina di
Habermas di un consenso universale ottenuto attraverso il dialogo argomentativo si
fonda su due presupposti inaccettabili: 1) non esiste affatto un metalinguaggio
generale (un superlinguaggio) entro cui tutti possano trovare un accordo su regole
universalmente valide; 2) la finalità del dialogo non è il consenso; il consenso è un
momento possibile della discussione ma non il suo fine o la sua anima motrice. Il
senso del dialogo sta piuttosto nella libera o anarchica espressione come pure nel
dissenso. Nei confronti della scienza poi, Lyotard non ne scorge affatto la
corrispondente legittimità nel criterio tecnico-strumentale dell'efficienza delle
prestazioni poiché esso non è affatto idoneo a giudicare del vero e del giusto.
Per enucleare il nuovo criterio di legittimazione della conoscenza e delle azioni
Lyotard ricorre all’epistemologia e formula alcune ipotesi teoriche, ispirate alla
lezione di Kuhn e Feyerabend, circa le caratteristiche della scienza post-moderna,
che egli sintetizza nell'abbandono del determinismo, nel prevalere dei "piccoli
discorsi" (delle ricerche circoscritte e settoriali) e nella legittimazione "per
paralogia" (=libertà di ragionamento e di linguaggio), intesa come libera o
anarchica invenzione, al di là di ogni modello precostituito, di nuove regole del
sapere e di nuove modalità linguistiche. Il sapere moderno, prosegue Lyotard, si
fonda su legittimazioni (principi, regole) fluide, parziali e reversibili, che
presuppongono un consenso locale e temporaneo, ottenuto dagli interlocutori
momento per momento e suscettibile di revisione. Tale orientamento corrisponde
altresì all'evoluzione delle interazioni sociali, dove alle istituzioni e organizzazioni
permanenti si sostituiscono contatti limitati nel tempo, privi di regole permanenti e
diversificati secondo gli ambiti: professionale o affettivo o sessuale o culturale o
familiare, ecc.
Ma se il consenso è ormai ritenuto un valore obsoleto e fuori moda, ottenuto solo
temporaneamente, lo stesso non si può dire per la giustizia. Da ciò la necessità,
secondo Lyotard, di pervenire ad un'idea e a una pratica di giustizia che non
siano legate a quelle del consenso. Un primo passo in tal senso si ha col
riconoscimento della incommensurabile varietà dei giochi (dei tipi) linguistici e
quindi con la rinuncia a voler realizzare ad ogni costo l'uniformità dei discorsi. Il
secondo passo sta nella riconoscimento che il consenso semmai è possibile solo
all'interno dei diversi ambiti e tipi di linguaggio, per cui il consenso possibile è solo
quello locale e modificabile, stante la libertà "paralogica" di introdurre nuove
161
162

regole e nuove "mosse" nel gioco linguistico. Può essere di aiuto al valore della
giustizia quella condizione del sapere postmoderno caratterizzata dalla massima
varietà ed immediatezza delle informazioni e delle comunicazioni, consentita dalle
memorie e dalle banche dati della tecnologia informatica e considerata strumento di
democratizzazione. In questo modo infatti il sapere informatizzato delle società
avanzate può trovare, per Lyotard, una forma di legittimazione ed evitare il rischio,
grazie al libero accesso ai dati, di un suo utilizzo distorto e antidemocratico.
L'insistenza sulla pluralità e incommensurabilità delle diverse forme di linguaggio,
dei differenti punti di vista, della varietà delle teorie filosofico-scientifiche, etiche
ed estetiche, ha indotto Lyotard a indicare in Kant, piuttosto che in Nietzsche o
Heidegger, il maestro delle sue idee e del suo pensiero, vedendo in Kant il filosofo
della eterogeneità delle facoltà (l'intelletto distinto dalla ragione, dalla volontà e dal
sentimento) nonché il teorico del sublime, ossia dell'impossibilità di rappresentare
la totalità; in Kant Lyotard vede il rappresentante del suo stesso modello di
razionalità pluralistica e antitotalizzante.

162
163

GIANNI VATTIMO (nato a Torino nel 1936).

È il maggior teorico odierno del postmoderno. Allievo di Luigi Pareyson, ha studiato


ad Heidelberg con Gadamer, interessandosi in particolare di Nietzsche e Heidegger.
Vattimo intende il postmoderno come "pensiero debole". È convinto che la
modernità abbia ormai fatto il suo tempo e che il postmoderno si sia ormai
affermato come esperienza della "fine della storia", ossia come tramonto di quella
concezione della storia, tipica della modernità, intesa come corso unitario e
progressivo di eventi in base all'equivalenza nuovo=migliore. Abbraccia quindi il
concetto di post-istorico introdotto da Arnold Gehlen. Nella società dei consumi il
continuo rinnovamento (degli abiti, degli utensili, degli edifici) è fisiologicamente
richiesto perché il sistema possa sopravvivere. Pertanto la novità perde il suo aspetto
genuino e il mondo tecnico finisce per manifestare una sorta di immobilità di fondo,
una vera e propria dissoluzione (discioglimento) della storia, nel senso che in sede
storiografica ci si è resi conto che la storia degli eventi politici e militari nonché dei
grandi movimenti di idee è solo una fra le altre, cui si può contrapporre, per esempio,
la storia dei modi di vita. Si è compreso cioè che non esiste una storia universale
ma vi sono storie del passato proponibili da punti di vista diversi, per cui è
illusorio pensare che ci sia un punto di vista superiore, capace di unificare tutti gli
altri: non c'è una storia generale che inglobi entro di sé la storia politica, militare,
dell'arte, della letteratura, delle idee, ecc. Non c'è un senso globale della storia e
comunque, se vi fosse, non possiamo saperne nulla poiché per cogliere la totalità
della storia l'uomo dovrebbe collocarsi da un punto di vista assoluto, al di sopra della
storia, il che gli è precluso. La stessa idea di progresso, frutto di una secolarizzazione
dell'idea teologica di salvezza, è venuta meno. Vattimo rileva come Walter Benjamin
abbia al riguardo insistito sulla natura "ideologica" della visione progressiva della
storia, attribuendola ad una invenzione delle classi dominanti, cioè al fatto che chi
scrive la storia sono sempre i vincitori, che eliminano dalla memoria collettiva i
lamenti dei vinti, fornendo del passato un'immagine consona ai loro interessi. È
questa la condizione post-istorica e postmoderna: se la storia ha un senso esso
consiste nella dissoluzione del senso, ossia nella negazione di un senso unico e
assoluto a favore di sensi molteplici e relativi.
Le ragioni della post-istoria della postmodernità a cui Vattimo fa riferimento non
sono soltanto di tipo intellettuale o filosofico ma anche di tipo storico-sociale e
vanno dal tramonto del colonialismo e dell'imperialismo sino all'avvento della società
avanzata complessa. Da un lato, il riscatto dei popoli sottomessi ha reso problematica
l'idea di una storia centralizzata secondo la mentalità e l'ideale europeo-occidentale di
umanità; dall'altro lato, l'avvento delle società complesse, del pluralismo e della
molteplicità dei mezzi di comunicazione di massa ha compromesso alla base la
possibilità stessa di una storia unitaria. Mentre col mondo moderno, cioè con
l'invenzione della stampa, si sono create le condizioni per costruire e trasmettere
un'immagine unitaria e globale della storia umana, con la diffusione delle tecnologie
multimediali si è avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione
degli avvenimenti: la storia non è più un filo conduttore unitario.
163
164

Anche Vattimo, come Lyotard, è persuaso che i "grandi racconti" della


modernità, con la loro pretesa di individuare i principi primi e fondamentali della
realtà, facciano parte di una forma mentis (di una concezione) metafisica ormai
superata. Ritiene che il passaggio dal moderno al postmoderno si configuri come
passaggio da un pensiero "forte" ad un pensiero "debole". Per pensiero forte, o
metafisico, Vattimo intende un pensiero illusoriamente proteso a fornire fondamenti
(principi) assoluti del conoscere e dell'agire. Per pensiero debole, o postmetafisico,
intende un tipo di pensiero che rifiuta l'idea di un principio, di un fondamento unico,
ultimo e normativo della realtà. All'abbandono dei principi forti della metafisica
tradizionale consegue l'avvento di una visione "debole" dell'essere, che si ispira a
Nietzsche e Heidegger.
Il pensiero debole si presenta esplicitamente come una forma di nichilismo, cioè
come "una sorta di destino del quale non possiamo liberarci". Vattimo non
attribuisce al nichilismo un valore spregiativo bensì positivo e propositivo. Viene
infatti inteso come quella circostanza in cui, come profetizzato da Nietzsche, "l'uomo
rotola via dal centro verso la x" (verso l’ignoto), ossia quale condizione di assenza di
fondamenti in cui è venuto a trovarsi l'uomo postmoderno in seguito alla caduta delle
certezze ultime e delle verità stabili. Di conseguenza Vattimo ritiene che il nichilismo
non vada combattuto come un nemico bensì "assunto come nostra unica chance"
(opportunità). Agli uomini del XX secolo non rimane che abituarsi a convivere
con il niente, ovvero ad esistere, senza nostalgie e rimpianti, in una situazione
dove non ci sono garanzie e certezze ma solo "mezze verità". Da ciò la tesi
programmatica secondo cui "oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti ma
piuttosto perché siamo ancora troppo poco nichilisti, perché non sappiamo vivere
sino in fondo l'esperienza della dissoluzione dell'essere". Il nichilismo di cui parla
Vattimo non è un nichilismo nostalgico o "tragico", ossessionato dal crollo dei
principi assoluti e dall'avvento del non senso. Non è neppure un nichilismo "forte",
proteso ad edificare sulle macerie della metafisica dei nuovi assoluti, come la volontà
di potenza di Nietzsche. Nemmeno è un nichilismo che al posto della volontà
creatrice di Dio colloca la volontà creatrice dell'uomo. Quello di Vattimo è piuttosto
un nichilismo debole, o della leggerezza, ovvero un tipo di nichilismo che, avendo
vissuto fino in fondo l'esperienza della dissoluzione dell'essere (della dissoluzione
di principi e fondamenti certi ed universali della realtà), non ha rimpianti per le
antiche certezze né smanie per nuove totalità (per nuove spiegazioni globali della
realtà).
Come anticipato, per Vattimo gli ispiratori del postmoderno sono Nietzsche e
Heidegger. L'accettazione senza rimpianti del nichilismo e delle mezze verità è
possibile solo se si prende sul serio la distruzione dell'ontologia operata da Nietzsche
e poi da Heidegger. Finché l'uomo e l'essere sono pensati, metafisicamente, in
termini di strutture stabili, non sarà possibile vivere positivamente la postmodernità.
Da Nietzsche Vattimo deriva innanzitutto l'annuncio della "morte di Dio", cioè la tesi
del venir meno dei valori assoluti della metafisica, ivi compresa l'idea di "soggetto"
al centro del mondo che organizza la propria visione del mondo. Da Heidegger
deriva la concezione epocale dell'essere, cioè la tesi secondo cui l'essere non è ma
164
165

accade e secondo cui l'accadere dell'essere non è altro che l'aprirsi all'ascolto
dell'essere, l'aprirsi alle varie epoche storico-destinali (generate dal destino) in cui
l'essere si manifesta, variamente illuminando e rendendo visibili gli enti in relazione
al succedersi dei diversi periodi storici suscitati dal casuale destino (dai modi
casuali e non predeterminati) dell'apparire dell'essere. Ne segue che il senso
dell'essere consiste ermeneuticamente nella trasmissione di messaggi linguistici tra
le varie generazioni: ciò che possiamo dire dell'essere è che esso è trasmissione,
invio. Il mondo si esprime attraverso una serie di echi, di risonanze di linguaggi, di
messaggi provenienti dal passato. Questa ontologia epocale (l'essere si manifesta e si
fa ascoltare mediante differenti linguaggi nelle diverse epoche storiche)) comporta
quindi una radicale temporalizzazione dell'essere, ovvero un suo strutturale
indebolimento. Infatti, il messaggio ultimo di Heidegger è che bisogna lasciar
perdere l'essere come fondamento così come l'attesa di una nuova e splendente
rivelazione dell'essere. Heidegger suggerisce invece una ontologia del declino
dell'essere. Il suo pensiero, alla fine, sembra potersi riassumere nel fatto di aver
sostituito all'idea di essere come eternità, stabilità e forza quella di essere come vita,
maturazione, nascita e morte: l'essere non è ciò che permane ma è, in modo
eminente, ciò che diviene, che nasce, si trasforma e muore. L'oltrepassamento della
metafisica (quella dell'Occidente) di cui parla Heidegger non consiste per Vattimo
nel rovesciamento dell'oblio metafisico dell'essere, cioè nel suo ritorno, ma è questo
stesso oblio portato alle sue estreme conseguenze. Pertanto, secondo Vattimo,
dell'essere come tale non ne è più nulla: al metafisico essere "forte" della tradizione
subentra un postmetafisico essere "debole".
Il processo di indebolimento dell'essere, vale a dire la fine della metafisica e il
trionfo del nichilismo, sono dunque fenomeni interconnessi. Tuttavia Vattimo è
convinto che la metafisica (come il passato in generale) non sia un "abito smesso"
con cui noi non abbiamo più alcun rapporto. Tant'è che per illustrare l'atteggiamento
del pensiero postmetafisico egli si rifà alla nozione heideggeriana di "Verwindung"
(che significa guarigione, accettazione, rassegnazione, distorsione) alludendo al
rimettersi, al guarire da una malattia (in questo caso la metafisica o il passato) nella
rassegnata consapevolezza che di essa siamo comunque "destinati" a portare le
tracce, le quali consistono nel fatto che non possiamo esimerci dall'usare i concetti
della metafisica del passato (verità, essere, totalità, principio, fondamento), sia pur
distorcendoli in senso debole e postmetafisico, ossia nichilistico. Ne è un caso
emblematico la vicenda della secolarizzazione. Essa testimonia come la moderna
civiltà europea sia legata al proprio passato religioso non solo da un rapporto di
superamento ed emancipazione ma anche, e nello stesso tempo, da un rapporto di
conservazione-distorsione-svuotamento. Esempio ulteriore è quello del capitalismo
moderno che, come ci ha insegnato Weber, non nasce da un abbandono della
tradizione cristiana-medievale, ma da una sua applicazione "trasformata", distorta.
Ed ancora, il pensiero debole rappresenta, secondo Vattimo, l'estremo processo di
conservazione-distorsione del messaggio cristiano: " è grazie a Dio che siamo, nella
misura in cui lo siamo, atei". È solo nel proseguimento della tradizione ebraico-
cristiana, tramandataci insieme alla verità del pensiero greco, che noi abbiamo
165
166

potuto cominciare a non pensare più all'essere in termini di principio, di autorità e di


fondamento, per cominciare a ritenere che il senso stesso della tradizione cristiana
sia invece proprio la secolarizzazione e che l'incarnazione di Dio in Gesù Cristo sia
il punto decisivo della trasformazione dell'essere da forte a debole.
All'idea di Verwindung è connessa la nozione di "rimemorazione", ritorno alla
memoria (Audeken), pure desunta da Heidegger. L'atteggiamento rimemorante nei
confronti della metafisica non scaturisce da un sentimento nostalgico o di reazione,
ma dalla "pietas" nei confronti del passato, pietas nel senso di attenzione devota per
ciò che ha solo un valore limitato (la vecchia metafisica) e che tuttavia merita
attenzione perché è l'unico che conosciamo. Pietas è l'amore per il vivente e le sue
tracce; noi siamo legati al passato da una sorta di cordone ombelicale ermeneutico,
cordone che possiamo attenuare o distorcere ma non annullare.
Quello del postmoderno è pertanto un individuo "debole", che però è in grado di
accettare la condizione instabile e pluralistica che è propria del nostro essere,
destinato a vivere nella differenza, nella transitorietà e nella molteplicità. Solo un
post-soggetto di questo tipo risulta in grado di assumere la pratica attiva della non
violenza, della tolleranza e del dialogo.
Specie negli ultimi anni, Vattimo è andato sempre più accentuando il valore anche
etico del pensiero debole, in un percorso di oltrepassamento della filosofia nell'etica,
contrapponendo alla natura assolutistica e violenta del pensiero e dell'individuo
"forte" i caratteri tolleranti e non violenti del pensiero e dell'individuo "debole".
Caratteri che ne fanno una sorta di secolarizzazione dell'etica cristiana della carità e
che evidenziano la stretta connessione tra eredità cristiana, ontologia debole ed etica
della non violenza secondo un percorso circolare: dall'ontologia debole deriva
un'etica della non violenza, ma all'ontologia debole siamo condotti perché agisce in
noi l'eredità cristiana del rifiuto della violenza.
A differenza di Lyotard, Vattimo è più sensibile al problema della legittimazione
(della ricerca di una giustificazione, di un principio fondante) della postmodernità e
delle sue conseguenze etico-pratiche. Per Lyotard il postmoderno, come da lui
concepito, non equivale ancora ad una legittimazione: al massimo si possono
mostrarne le motivazioni storiche, per esempio il fatto che la gente non creda più alle
grandi narrazioni, che vi è un certo diffuso cinismo e una nostalgia per il fondamento
che tuttavia è definitivamente perduto. Pure inaccettabile è per Lyotard
l'identificazione della postmodernità con una ontologia debole. Infatti, più che al tema
dell'indebolimento dell'essere, l'ultimo Lyotard si mostra interessato ad una tematica
dell'Altro, ossia alla consapevolezza della radicale finitezza dell'esistenza e del suo
radicale dipendere da un qualcosa d'altro di superiore ma indefinito, che si sottrae alla
nostra volontà di legittimazione, che è poi uno sforzo per impadronircene, per
dominarlo concettualmente. Vattimo rileva come, in effetti, Lyotard non sia giunto
a comprendere i motivi di fondo della fine dei "grandi racconti", limitandosi a
constatarla come un dato di fatto cui ci dobbiamo adeguare. Rileva altresì che
Lyotard, per non cadere nella tentazione della ricerca di un fondamento, abbia finito
col rinunciare al progetto dell'emancipazione e come sia stato anche troppo
catastrofico, sia nel presentare la modernità come ormai tutta alle nostre spalle,
166
167

del tutto superata, sia nell'escludere la storia come radice di legittimazione. Per
Vattimo, invece, prendere atto della fine dei grandi racconti non significa rimanere
senza alcun criterio direttivo e senza alcun filo conduttore, poiché il racconto (la
riflessione) della fine dei grandi racconti dà luogo a una sorta di metaracconto
(racconto del racconto) indebolito, in grado di originare una nuova, sia pur
paradossale, filosofia della storia, vale a dire "la fine della filosofia della storia".
Infatti, solo in virtù di questa filosofia della storia di tipo debole risulta possibile
mettere in salvo sia la legittimità del postmoderno, sia il rapporto di continuità-
distorsione con il passato, sia la possibilità di operare ancora delle scelte. Nonostante
che l'idea di una storia globale (universale) sia criticabile, in realtà dell'idea di un
certo senso globale non possiamo fare a meno e tale idea di senso globale può
essere soltanto, paradossalmente, l'idea di una dissoluzione del senso globale
della storia. Il postmoderno non significa per Vattimo che si debba abbracciare una
forma di operare irrazionalistico o uno stile esistenziale puramente estetizzante (di
ricerca del bello e del piacere). L'abbandono dei valori forti della modernità
sembra non escludere affatto la possibilità di cogliere una serie di valori
"minuscoli", capaci di garantire ai postmoderni, orfani dell'ideologia globale,
delle forme concrete (e non retoriche) di responsabilità e di impegno.
Il nichilismo rappresenta per Vattimo la vicenda (la storia) dell'ontologia
occidentale, caratterizzata dal progressivo indebolimento della nozione platonico-
aristotelica di essere, fino a che, come ha detto Heidegger, dell'essere non ne è più
nulla (oblio dell'essere). Ma quale atteggiamento assumere di fronte a tale processo?
Contrastarlo o accettarlo con entusiasmo ai fini del più completo trionfo della
tecnica, tanto più garantito quanto l'essere è ridotto ad enti e gli enti ad oggetti
manipolabili? Oppure -soluzione da Vattimo prescelta- assecondare questo processo
ed accoglierlo come un destino che caratterizza la nostra storia? Accogliendo la
concezione ermeneutica, Vattimo sostiene la tesi che l'essere è tempo-linguaggio, nel
senso che ogni descrizione dell'essere è transitoria e relativa alle situazioni storico-
linguistiche. Ne consegue la fine della filosofia fondazionale (volta all'individuazione
di fondamenti-principi assoluti) caratterizzata dalla pretesa: a) di descrivere l'essere
nelle sue strutture immutabili e universali (al modo dell'ontologia aristotelica); b) di
descrivere le forme a priori della conoscenza, anch'esse dotate di intemporalità e
universalità (al modo della critica kantiana e del neotrascendentalismo da Cassirer
ad Apel).
Ma questa descrizione della storia dell'essere e del suo indebolimento non presenta
anch'essa pretese di universalità e necessità come la filosofia fondazionale? Non
propriamente, risponde Vattimo, perché accettare l'impostazione nichilistica e quella
ermeneutica dell'essere significa essere pronti ad accettare anche il carattere
autoconfutativo di una tesi di questo tipo, ossia ammettere che la tesi della storicità
del conoscere (di una conoscenza storicamente condizionata e non universale) possa
essere essa stessa storico-linguistica, cioè contingente e appartenente ad un certo
linguaggio, ad un certo modo di vedere che può essere esso stesso mutevole nel
tempo, non escludendo l'avvento di un tempo, pur esso transitorio, di universalità
della conoscenza. È questa per Vattimo la differenza essenziale tra una descrizione
167
168

dell'essere e un'interpretazione (della storia) dell'essere. Interpretare significa infatti


muoversi all'interno di una tradizione, innovandola in alcuni punti ma senza pretesa
di rompere e di trovare soluzioni definitive.
Il nichilismo moderno appare con Nietzsche ma, dice Vattimo, il percorso è iniziato
molto prima. Se ne può vedere un annuncio cruciale alle origini del cristianesimo. La
nascita di Cristo è l'evento che inizia il percorso di svuotamento (annullamento)
nichilistico dell'Essere-Dio. La nascita del Verbo fatto uomo, in quanto tale mortale
e finito, è infatti la secolarizzazione dell'essere divenuto ormai linguaggio, divenuto
tempo, ossia evento, testo, opera, scrittura.
Per avvalorare la sua interpretazione della storia dell'essere, Vattimo si è servito di
argomentazioni eterogenee: la postmodernità di Lyotard; la teoria weberiana della
secolarizzazione, che ha portato all'indebolimento del logos (della metafisica)
filosofico e alla riduzione dei valori religiosi da trascendenti ad immanenti; il
pluralismo e il relativismo della teoria dei giochi linguistici (Wittgenstein); il post-
strutturalismo francese; la Scuola di Francoforte, la cui critica sconfessa l'illusoria
ed eccessiva fiducia nel linguaggio presente in Gadamer; la nozione di post-istorico
di Gehlen.
Peraltro il nichilismo ermeneutico di Vattimo non è distruttivo bensì edificante,
costruttivo. Esso consente di risolvere alcuni nodi cruciali della filosofia
contemporanea:
1. la visione del processo di indebolimento progressivo dell'essere consente di
conservare il senso tradizionale del fare filosofia, senza oltrepassare nella
post-filosofia o nella fine della filosofia, pur escludendone il carattere
fondativo;
2. la relativizzazione ermeneutico-nichilistica della verità ed il conseguente
pluralismo culturale appaiono un presupposto essenziale per ristabilire le
condizioni dell'etica: tolleranza e accettazione della molteplicità,
accompagnata dall'emergere del valore evangelico della carità ("pietas");
3. posto che non si dà descrizione ma solo interpretazione, per Vattimo non c'è
contrasto tra ermeneutica e scienza a causa della comune radice nichilistica di
entrambe; entrambe infatti sorgono dalla storia dell'essere ed entrambe per
loro natura accompagnano il processo di indebolimento-svuotamento
dell'essere; compito dell'ermeneutica non è dunque avversare la scienza ma
ricordare ad essa le sue radici nichilistiche, impedendo un'eccessiva fiducia
scientifica sulla definitività dei propri risultati.

168
169

CONCLUSIONI SUL POSTMODERNO.

La novità del postmoderno sta nel fatto che esso non si esprime come sentimento
di nostalgia per le spiegazioni ed interpretazioni globali della realtà sulla base di
fondamenti e principi primi unitari, nostalgia presente invece nelle filosofie sulla
crisi della razionalità e dei valori della prima metà del Novecento (Nietzsche,
Husserl, Adorno, Horkheimer). Il postmoderno interpreta invece come positivo il
carattere molteplice delle forme del sapere, delle azione e dei bisogni esistenziali,
dichiarando la necessità di far prevalere un modello di razionalità non unitario ma
pluralistico, non monistico e gerarchico, sottolineando il valore della
frammentazione, della varietà e persino dell'incommensurabilità tra i diversi ambiti
della teoria e della prassi. Si tratta di prendere atto che la pluralità e l'instabilità
costituiscono aspetti intrinsecamente propri della realtà, senza pretendere di
ricondurla a principi generali unici e a gerarchie forti. Se questa frantumazione
della realtà intende meglio corrispondere al suo carattere molteplice e alle
differenti visioni di senso, il rischio conseguente è però quello di perdere ogni
possibilità di comprendere e spiegare le ragioni stesse della pluralità nonché di
compromettere il mantenimento di spazi aperti e di ponti di intercomunicazione
tra i diversi ambiti del sapere e delle pratiche di vita, pregiudicando il
funzionamento della pluralità medesima allorché essa venga ad assumere la
forma della contrapposizione e della conflittualità anziché della varietà.

169
170

TRA POSTSTRUTTURALISMO, POSTMODERNO E POSTFILOSOFIA.

Per poststrutturalismo si intende quella corrente che negli anni ‘60 e ‘70 del
Novecento si presenta come sviluppo dello strutturalismo, attenuando tuttavia il
valore determinante, ontologico e quasi metafisico, attribuito alla struttura, per
esaltare invece in misura maggiore, contro la "staticità" del pensiero strutturale, gli
aspetti vitalistici della "forza", della "energia", della "produzione", della "creatività".
Per lo strutturalismo il linguaggio, gli enti e le cose si conoscono in base alle loro
costanti relazioni e legami simbolici che li collegano nella struttura. Il post-
strutturalismo valorizza maggiormente, al posto delle "costanti", le "differenze",
valutate come principi dinamici: l'attività simbolica (il ricorrere a simboli) appare
come un'attività produttrice di differenze, non in termini soggettivi ma per effetto di
una forza impersonale, come l'energia degli istinti in Freud, la volontà di potenza in
Nietzsche, le forze produttive o il lavoro per Marx. Viene dunque condannato tutto
ciò che limita, impedisce, imprigiona le energie produttive e tutto ciò che "canalizza"
(che costringe ad un percorso obbligato) o "centralizza" la produzione artistica,
culturale, economica. Forme tipiche di questa canalizzazione, contro cui si pone il
poststrutturalismo, sono la nozione di soggettività (coscienza) costituente l'esperienza
(Cartesio, Kant, l'idealismo, la fenomenologia); la nozione di dialettica, che riduce il
molteplice degli istinti alla contrapposizione, che trova però il proprio accordo nella
sintesi; la stessa nozione di struttura, che vincola il linguaggio e la realtà a una forma
determinata e li rende calcolabili. Contro tutto ciò il post-strutturalismo pone l'idea di
un universo desoggettivizzato (in cui il soggetto perde il proprio primato) e animato
da differenze libere, non vincolate a nessuna forma o immagine del pensiero
(Deleuze) oppure l'idea del soggetto come "enunciato", evento linguistico escogitato
in una certa epoca (l'età cartesiana) per dare un ordine alla ragione ed escludere la
non-ragione (Foucault). Maggiori esponenti del post- strutturalismo sono Deleuze,
Derida e, a loro modo e in parte, anche Foucault, Rorty e lo stesso Lyotard, il
che testimonia le analogie, pur tra le relative differenze, sussistenti tra
poststrutturalismo, postmoderno e postfilosofia, intendendo per "postfilosofia" o
"fine della filosofia" il tramonto dei grandi sistemi filosofici onnicomprensivi e
fondazionali, volti cioè a individuare il fondamento e principio primo della
realtà.

Richard Rorty: la filosofia della conversazione (nato a New York nel 1930).

Non è un postmoderno in senso stretto, ma è piuttosto esponente di un'ermeneutica


combinata col pragmatismo americano. Tuttavia riprende il concetto di postmoderno
di Lyotard e lo assimila al proprio concetto di postfilosofia. Pur operando negli Stati
Uniti, in un periodo in cui la filosofia analitica occupava una posizione egemone, la
sua formazione se ne tiene lontano, avvicinandosi invece alla tradizione del
pragmatismo americano (Dewey e James), ma anche alla filosofia europea, specie
170
171

Nietzsche, Heidegger, Gadamer e l'ermeneutica, oltre che all'atmosfera culturale del


postmoderno.
Si occupa inizialmente del problema del rapporto mente-corpo, schierandosi su
posizioni antidualistiche (che non concepiscono cioè dualismo e contrasto tra mente e
corpo) e sulla linea di un monismo (concezione secondo cui alla base della realtà vi è
un unico fondamento principio, dal greco "monos"=uno, unico) non esclusivamente
materialistico. L'impegno di Rorty non è quello di escogitare nuove concezioni circa i
tradizionali oggetti della filosofia (Dio, l'essere, l'uomo, ecc.), bensì quello di
sbarazzarsi da un bimillenario modo di filosofare. Egli polemizza contro la filosofia
ufficiale e la sua pretesa di costituire un sapere fondazionale, che vuole porsi come
giudice e arbitro sulla validità di tutte le altre aree della cultura (scienza, matematica,
religione, poesia, arte), assegnando a ciascuna di esse un posto specifico.
Per Rorty filosofia, conoscenza e mente sono intrecciate. Nella sua opera più
celebre, "La filosofia è lo specchio della natura", Rorty accusa la tradizione filosofica
perché aveva concepito la mente come specchio che riflette in modo adeguato o
inadeguato la realtà. Ritiene invece che siano le immagini e le metafore, anziché le
proposizioni e le affermazioni, a determinare per lo più le nostre convinzioni
filosofiche. Fa presente che esiste in particolare un'immagine che continua a
tener prigioniera la filosofia, cioè l'immagine della mente come grande specchio
che contiene rappresentazioni diverse, alcune accurate ed altre no, e che può
essere studiata attraverso metodi puri, non empirici. Tale immagine è consona all'idea
cartesiana e kantiana di conoscenza, intesa come rappresentazione accurata,
attraverso un'opera di pulitura, delle varie rappresentazioni rispecchiate dalla mente.
Questa dottrina "speculare" o "spettatoriale" della conoscenza affonda le sue radici in
Platone e nel mondo greco, ovvero in una tradizione di pensiero che ha concepito la
conoscenza in termini di metafore (immagini) visive e che ha concepito la mente
come una sorta di occhio immateriale che coglie immediatamente le immagini visive
senza la mediazione e l'intervento del linguaggio. Principali esponenti di questa
filosofia "speculare" (i cui caratteri sono l'apriorismo, il rappresentazionismo,
l'oggettivismo, il dualismo) e che sfocia nella filosofia analitica, nell'epistemologia e
nella fenomenologia per la sua impostazione descrittiva, sono individuati in Locke, in
Cartesio e soprattutto in Kant, che tengono separati mente e corpo.
Ma la dottrina "speculare" della conoscenza risulta oggi in crisi. Infatti, la
pretesa di uscire dalle nostre rappresentazioni per attingere ad un punto di vista
esterno o neutrale, da cui potersi interrogare circa la validità delle rappresentazioni
stesse, si è rivelata un mito di derivazione lockiana, cartesiana e kantiana. La mente
non è fonte di autoevidenza del soggetto da un lato, come nel cogito cartesiano, e
specchio della natura dall'altro. Invece la nostra mente, con il linguaggio e i
concetti di cui si serve, è semplicemente paragonabile ad un organo, ad una
"rete" che noi gettiamo sulla realtà catturandone determinati aspetti. Si ha
verità quando si conviene che la cattura sia riuscita, mentre la falsità corrisponde
al fallimento di tale cattura. Ma questa convenzione e consenso avviene pur
sempre all'interno del linguaggio, e non immediatamente ed esternamente da esso,
linguaggio che è a sua volta condizionato dalla fisiologia (corporea) dei processi
171
172

mentali nonché dai diversi punti di vista secondo i diversi momenti storici: da ciò
appunto l'intreccio tra corpo, mente e conoscenza.
La proposta alternativa di Rorty è quella di una postfilosofia, cioè di un pensiero
antifondazionista (che non pretende di giungere a fondamenti assoluti della realtà).
Se Cartesio, Locke e Kant sono stati i fondatori della moderna filosofia fondazionista,
Rorty individua in Wittgenstein, Heidegger e Dewey coloro che ne sono stati i
distruttori. Il loro contributo è stato terapeutico (antifondazionale) piuttosto che
costruttivo (fondazionale) e hanno lasciato da parte la metafisica occidentale
giungendo ad affermare la possibilità di una cultura postkantiana, postepistemologica
e postfilosofica. Anche lo scopo di Rorty intende essere terapeutico anziché
costruttivo, cioè indirizzato a "guarire" le menti dalla filosofia fondazionale e
promuovere la transizione alla postfilosofia, puntualizzando che essa non significa
la fine della filosofia: dopo la filosofia vi sarà ancora la filosofia, in quanto ad essere
finita non è la filosofia in sé ma la filosofia protesa a una fondazione sistematica
dell'essere e della conoscenza.
Da ciò la celebre distinzione di Rorty tra filosofia normale, ufficiale,
professionalizzata, accademica e sistematica, e filosofia rivoluzionaria, edificante e
terapeutica, la quale rifiuta l'idea che il pensiero filosofico possa essere
istituzionalizzato, irrigidito in sistemi fissi e assoluti. I filosofi sistematici sono
costruttivi e offrono argomentazioni. I filosofi edificanti (Kierkegaard, Nietzsche,
l'ultimo Wittgenstein e l'ultimo Heidegger) sono reattivi e offrono satire, parodie,
aforismi. Rorty parla di filosofia terapeutica ed edificante in termini di ricerca e
edificazione di nuovi dizionari (concetti) e di nuove maniere di vivere e di
pensare, guarendo da quelle vecchie. In quanto edificante alla filosofia è
attribuito il ruolo di formare gli uomini piuttosto che di conoscere
oggettivamente il mondo. In tale veste va sottolineato il valore soprattutto etico-
formativo assegnato alla filosofia.
La filosofia non si pone più come espressione privilegiata del sapere ma come una
delle tante voci all'interno della "conversazione" complessiva dell'umanità. La
crisi del pensiero speculare e del pensiero analitico si presenta come passaggio
dall'epistemologia (teoria della scienza e della conoscenza) all'ermeneutica, che
porta a ridefinire la filosofia come "grande conversazione" che gli spiriti liberi
intrattengono nel corso della storia.
Se il neopositivismo condanna la metafisica perché intollerante e dogmatica, mentre
giudica la scienza come più vera conoscenza possibile, Rorty inverte i termini del
discorso: è il filosofo-scienziato che appare intollerante, con la sua idea del rigore e
della scientificità dell'analisi, mentre aperto e pluralista è diventato il filosofo ironico,
persuaso della parzialità e precarietà delle proprie scelte. Quindi anche la filosofia
analitica del linguaggio anglosassone, ispirata ad una logica rigorosa, non è poi così
lontana dalla filosofia continentale come invece essa pretende di essere. Anzi, può
essere considerata come un'ultima sofisticata fase del modo di pensare metafisico,
fondazionista, proprio della filosofia europea, da Platone a Cartesio a Kant
all'idealismo e alla fenomenologia, la cui caratteristica è di voler dare alla conoscenza
fondamenti ultimi e possibilmente indubitabili, incontrovertibili.
172
173

Nell'opera "Contingenza, ironia e solidarietà", Rorty è andato accentuando la


propria impostazione storicistica e pragmatistica, insieme ad un orientamento
politico liberal-democratico. All'idea metafisica di una descrizione della realtà di
valore assoluto contrappone l'idea postmetafisica della pluralità, storicamente
mutevole, di comprensione dell'esistente (della realtà). La nuova prospettiva di Rorty
ruota intorno a tre parole chiave: contingenza, ironia, solidarietà. Con il termine
contingenza Rorty intende la tesi secondo cui non esistono essenze universali e
sovratemporali, poiché "tutto è socializzazione e quindi circostanza storica". Col
termine ironia intende la posizione di chi riconosce il carattere storico, cioè fugace e
contingente, delle proprie convinzioni, da osservare dunque con appropriato e ironico
"distacco", senza prenderle troppo sul serio. Col termine solidarietà intende
l'atteggiamento di chi si batte per diminuire la sofferenza e l'umiliazione degli esseri
umani.
I principali temi affrontati sono quelli etico-politici, in particolare il rapporto tra
la sfera del privato, quella della coscienza e delle propensioni personali, e quella del
pubblico, ossia della giustizia sociale. Rorty riscontra nella storia del pensiero una
divaricazione radicale rispetto a queste due sfere: da un lato i sostenitori della
perfezione privata, come Kierkegaard, Nietzsche, Baudelaire, Proust, Heidegger,
Nabokov, dall'altro i fautori della giustizia sociale, come Mill, Marx, Dewey,
Habermas e Rawls. Invece per Rorty non deve esserci divaricazione tra le due
sfere, piuttosto dobbiamo dare a ciascuna un peso uguale e quindi usarle per scopi
differenti.
Quando la filosofia assume un'impostazione assolutistica e unilaterale, essa diventa
antidemocratica e incivile. Perciò Rorty ritiene che debba esserci un primato della
democrazia sulla filosofia. In tal senso presenta la sua utopia pragmatistica, che
definisce utopia "liberal-ironista", cioè quell'atteggiamento, inizialmente
praticabile da una minoranza, che riesce a tenere assieme ironia e solidarietà, tenendo
conto che non ci sono grandi principi che governano la storia, la società e il sapere,
da guardare quindi con ironia, ma che ci troviamo in una situazione di contingenza
(precaria). L'utopia liberale non è qualcosa da teorizzare ma da vivere. Nasce dalla
pratica sociale e dalla lezione della storia. La narrazione storica (i racconti storici di
vario tipo), e non le teorie, costituisce il momento principale dell'educazione ironista-
liberale: non teorie ma "generi" più leggeri, quali l'etnografia, il resoconto
giornalistico, i fumetti, i documentari e soprattutto il romanzo, il cinema e la
televisione, che hanno sostituito gradualmente il sermone, il trattato teorico, e sono
divenuti i veicoli principali, se correttamente usati, del cambiamento e del progresso
morale. Rorty indica un traguardo di comunità democratica in cui ci sia equilibrio tra
sfera pubblica e privata. In un atteggiamento di "etnocentrismo moderato", Rorty
vede questi valori meglio garantiti nelle società democratiche avanzate. In esse è
meglio praticabile anche la solidarietà.

173
174

Jacques Derrida e il decostruzionismo (nato nel 1930).

Nato vicino ad Algeri in una famiglia ebrea e di cultura e nazionalità francese, si


forma in una tradizione filosofica dominata dall'influsso delle cosiddette "tre H":
Hegel, Husserl, Heidegger. Subisci inizialmente l'influsso di Sartre, da cui però si
distacca ben presto per studiare Husserl, Rousseau, Hegel, Nietzsche, Heidegger,
Freud, Foucault, Lévi-Strauss, lo strutturalismo, giungendo a concezioni
poststrutturaliste. Con Foucault, Lyotard, Habermas e Rorty ha in comune
problematiche cruciali, quali i temi del moderno e postmoderno e della necessità
di andare oltre la tradizione filosofica. È fra i teorici di spicco del postmoderno e
quindi tra i più criticati da Habermas che, in quanto fautore della conservazione dello
spirito della modernità, li qualifica tutti come neo-nietzschiani. Al di là dei caratteri
comuni con i filosofi sopracitati, si caratterizza tuttavia per le proposte
radicalmente innovative e postfilosofiche del suo pensiero. Per tale motivo solo
Rorty ha accolto, negli ultimi anni, alcune delle sue tesi di fondo. Per la sua
ascendenza legata anche al pensiero filosofico ebreo, si sente vicino per taluni aspetti
a Lévinas.
Derrida porta un originale contributo all'ontologia ermeneutica e, anzitutto, al
problema heideggeriano dell'oltrepassamento (superamento) della metafisica.
Elabora una specifica prassi dell'interpretazione come "decostruzione", aspetto
soprattutto per il quale il suo pensiero è stato considerato con interesse.
La metafisica per Derrida si caratterizza per un suo speciale permanere pur
nell'esigenza del suo superamento: la metafisica è finita ma non è possibile "dire"
(spiegare) questa fine, perché dicendola la si smentisce. Infatti per dirla e spiegarla
occorre usare il linguaggio della metafisica e quindi praticare una filosofia ancora di
tipo metafisico. Non c'è dunque un vero oltrepassamento, non c'è un "altrove", un
"altro pensiero", come asserito da Heidegger, ma invece un congedo infinito, un
"lungo addio".
Quanto al concetto ermeneutico di essere-linguaggio e al "panlinguismo"
ermeneutico, l'originalità di Derrida consiste nell'intrecciare l'insegnamento di
Heidegger con quello strutturalista, in particolare di De Saussure. L'autosufficienza
del linguaggio, presagita da Heidegger (il linguaggio come "casa dell'essere") e
portata ad effetto da Gadamer, è altresì una tesi strutturalista. Ossia il primato del
linguaggio rispetto al soggetto, alla coscienza individuale, (il linguaggio è ereditato e
si impone all'individuo) è un tema tipico dell'ontologia di Heidegger e, altrettanto, è
una delle tesi più caratteristiche dello strutturalismo. Derrida unifica le due
concezioni sul linguaggio di Heidegger e dello strutturalismo e, inoltre, inserisce
nello strutturalismo la tematica ermeneutica della storicità e temporalità del
linguaggio (il linguaggio muta col mutare dei tempi storici). Da qui emergono le
due principali tesi di Derrida: la nozione di " differance", tradotta in italiano col
termine di "differanza" per distinguerla da quello comune di differenza, e la
nozione di "scrittura" ("ecriture").
La differanza corrisponde sostanzialmente a quella che Gadamer chiama la
differenza temporale che ci separa dalle opere e documenti del passato e che
174
175

dobbiamo ricordare e rispettare nel lavoro ermeneutico-interpretativo. Tuttavia per


Derrida la differanza è destituita dei caratteri "umanistici" ancora presenti in
Gadamer. La differanza si diversifica dalla semplice differenza perché include la
temporalità storica, mentre le differenze si riscontrano solo nel presente. Ciò consente
a Derrida, seguendo ma anche oltrepassando la lezione di Heidegger, di tenersi
lontano dalla "metafisica del presente" caratterizzata dalla sola presenza e dalla sola
considerazione degli enti in cui, per contro, è assente l'essere (l'oblio dell'essere). La
differanza infatti significa sia l'essere (gli esseri) nello spazio, ognuno differente, sia
il differire cioè il rinviare nel tempo: ha quindi carattere spazio-temporale.
Da qui, secondo Derrida, il primato della scrittura, del documento, sulla parola,
sulla voce (il testo una volta scritto o l'evento una volta documentato hanno una loro
autonomia e significato anche indipendentemente dai propositi dell'autore). Contro la
metafisica tradizionale, accusata di logocentrismo e fonocentrismo (=mettere al
centro la parola), Derrida rovescia il rapporto causale tra pensiero e linguaggio e
tra linguaggio parlato (la voce, la parola) e linguaggio scritto. Al primato
assegnato alla scrittura sulla parola corrisponde quello dei relativi saperi, ossia il
primato della “grammatologia” sulla fonologia.
Già abbiamo visto in Gadamer il primato del linguaggio sul pensiero e il suo carattere
onnicomprensivo (non c'è niente al di fuori del linguaggio). Questa posizione in
Derrida risulta più radicale: non solo non esiste un pensiero "preverbale", che
preceda cioè il linguaggio il quale è invece sempre anteriore ad esso, ma non esiste
neppure un linguaggio "prescritturale", ossia la parola non precede, non
anticipa e non fonda la scrittura ma anzi deriva da essa. In ciò Derrida risente
della tematica della "scritturalità" sacra (la Bibbia) tipica del pensiero ebraico,
espressa in particolare da Rosenzweig. La metafisica tradizionale, chiamata
"metafisica della presenza" (la parola è presenza, vive nel presente in cui è
pronunciata), afferma, al contrario, il primato della parola, ma proprio qui per
Derrida sta l'inganno fondamentale di tale metafisica, che Nietzsche chiamava
l'inganno moral-metafisico. L'inganno consiste nell'aver subordinato la scrittura a
mero segno sostitutivo, residuale, della parola, della voce, del discorso parlato.
Invece per Derrida è proprio nella scrittura che c'è quell'esperienza dell'essere-
linguaggio cercato dall'ontologia heideggeriana, poiché la scrittura supera e si
impone allo stesso voler dire (agli stessi intendimenti) del proprio autore: l'essere
si manifesta eminentemente nella scrittura (similmente ma non in modo uguale ad
Heidegger, per il quale l'essere si manifesta nella parola, nel linguaggio e in
particolare nella poesia) proprio per la sua valenza e indipendenza rispetto al
soggetto, all'autore. Inoltre la scrittura è traccia, ossia indicazione visibile,
empiricamente riscontrabile, che documenta un'assenza (l’assenza della parola nel
momento in cui si pronuncia, che in quanto tale è sempre mobile, non è mai fissa e
statica, e l'assenza dell'autore, in quanto la scrittura vi sopravvive e vale di per sé),
proprio come un'orma, una traccia, documenta il passaggio di qualcosa che a tutti gli
effetti non c'è (non c'è più). È in tal modo che la scrittura testimonia la differanza
spazio-temporale: la parola vive solo nel presente, nell’atto in cui si pronuncia e poi
svanisce; la scrittura permane nel tempo e si diffonde nello spazio.
175
176

La scrittura è quindi effettivamente una modalità non "presenziale" bensì


"differenziale" dell'essere (che nelle tracce della scrittura si rivela), poiché dell'essere
ha l'ubiquità (lo stare in ogni luogo e in ogni tempo in forme sempre differenti) e
l'originarietà (prima c'è l'essere e poi ci sono gli enti). Se noi cerchiamo il senso
autentico di un testo, troviamo altri testi (che interpretano e spiegano il primo) e poi
altri ancora, in una catena infinita di rinvii, fino ad arrivare, "al limite" (potenziale
piuttosto che reale), cioè alla “scrittura originaria”, alla sorgente della scrittura, che
probabilmente possiamo chiamare natura, ma che solo in quanto "testo" di Dio (ossia
principio primo) ha potuto inaugurare la catena dei rimandi e dei rinvii a tutti gli altri
testi successivi. Da qui la formula tipica della "decostruzione" pronunciata da
Derrida: "Non c'è nessun fuori-testo" ( Il n'ya a pas de hors-texte).
È singolare l'inversione del rapporto parola-scrittura di Derrida per quel che concerne
la storia dell'ermeneutica. In Dilthey l'interpretazione non riguarda più soltanto il
testo scritto ma tutte le "opere" dello spirito; in Gadamer si ha un allargamento
ulteriore: ogni dato dell'esperienza è oggetto di interpretazione perché ogni dato è di
natura linguistica (ogni esperienza si può esprimere solo attraverso il linguaggio e
relativa interpretazione); Derrida ritorna al testo ma per affermare che, in ogni caso,
tutto quello che "si dà", che si offre all'interpretazione, è solo testo e scrittura.
La scrittura non è l'effetto risultante dalla parola (o dall'evento storico) ma è ciò che
anticipa la parola (o l'evento storico) e la costituisce. Gli strutturalisti e gli
ermeneutici affermano che il nostro pensiero è anticipato dal linguaggio (il nostro
linguaggio condiziona il nostro modo di pensare). Ma per Derrida il linguaggio è a
sua volta anticipato dalla scrittura: parliamo riferendoci sempre a scritture, a "testi" di
vario tipo (che esprimono la varietà dei punti di vista interpretativi, delle concezioni
storicamente ereditate e mutevoli nel tempo), rinviando di volta in volta ad un testo
precedente ulteriore fino a giungere, ma solo come limite potenziale, al testo
originario, al principio primo.
Le questioni ontologiche finora rappresentate (la critica alla metafisica della
presenza; la differanza; il primato della scrittura non solo sul pensiero e sul
linguaggio ma anche sulla parola) costituiscono la parte costruttiva della filosofia
di Derrida, il cui convincimento finale è peraltro quello di una filosofia ironica
(che non si prenda troppo sul serio) e distruttiva. Si è però visto che per Derrida
non c'è oltrepassamento e decostruzione definitivi della metafisica, ma semmai
un congedo infinito, un "lungo addio". Come facciamo allora a congedarci dalla
metafisica e come si esercita la sua decostruzione? Per Derrida non c'è altro da
fare che "ripetere" la metafisica mostrandone la fine tramite un
ripercorrimento distruttivo, decostruttivo. Quel che ci resta non è soltanto
l'interpretazione dei testi che costituiscono la nostra storia, ed anche la storia del
pensiero, ma un'interpretazione decostruttiva, che ne faccia emergere gli intimi
aspetti paradossali. La decostruzione è il procedimento per cui, a partire da
frammenti di testo, di parole, di frasi, si deducono in essi certe contrapposizioni, o
dualità, e quindi si procede a mostrare le contraddizioni a cui queste dualità danno
luogo. In un certo senso è come faceva Hegel nella Fenomenologia dello spirito,
tuttavia senza alcuna prospettiva, per Derrida, di conciliazione delle opposizioni nella
176
177

sintesi. La decostruzione va compiuta senza nessuna forzatura in vista di una


attribuzione di significati. Nella decostruzione si tratta di individuare la coppia di
concetti che dà luogo alla contraddizione e quindi di "decostruirla", ossia mostrare
che c'è sempre di mezzo il privilegiamento storico di uno dei due opposti (per
esempio l'ingannevole primato della parola sulla scrittura) e poi, allora, di rovesciare
la gerarchia, cioè di affermare le ragioni del concetto più debole. Secondo Derrida, le
contrapposizioni individuate nelle dualità che stanno alla base di ogni
argomentazione non sono mai pacifiche e complementari, ma gerarchiche e violente,
in cui uno degli opposti prevale sull'altro. Tuttavia anche nel rovesciare la
gerarchia per favorire l'opposto (il concetto) più debole, lo scopo non è di giungere
ad una nuova, sia pur rovesciata, determinazione-definizione, perché ciò
significherebbe rimanere ancora all'interno del regime metafisico che si vuol
decostruire. È invece necessaria l'instaurazione di quella ragione (razionalità)
"ironica", di quella scrittura doppia e ambivalente, che essenzialmente smentisce,
alleggerisce e mette in dubbio i propri stessi contenuti. Nel rovesciare la gerarchia si
tratta di far emergere un nuovo concetto, tuttavia non compiutamente definito ma
vago, non determinato, anch'esso impigliato in una rete di contraddizioni e di
paradossi senza sbocco. Si tratta in ogni caso di una distruzione-decostruzione
"edificante" poiché, nel processo decostruttivo, il linguaggio della metafisica rivela
la sua natura più intima, ossia l'autocontraddizione (Il mondo è finito o infinito? Dio
è conoscibile o inconoscibile? L'Io (la coscienza) e libero o determinato? Vale di più
la teoria o la prassi? La verità o l'opinione? La libertà o la giustizia? Il senso o il non
senso?, ecc.).
Oltre che su posizioni postfilosofiche, ossia di oltrepassamento, peraltro mai
compiuto, della metafisica, Derrida si pone altresì su posizioni
poststrutturalistiche. Egli avversa la centralità della struttura nel senso che vede nel
primato della struttura semplicemente la proiezione del primato del soggetto
caraterizzante la metafisica classica. Tuttavia, mentre gli altri poststrutturalisti
procedono contro la struttura esaltandone non già la costituzione, l'assetto formale,
bensì la forza, l'energia, il dinamismo che anticipa il costituirsi della struttura stessa,
Derrida si muove in senso opposto, ossia verso una maggior formalizzazione
strutturale (una maggiore analisi della forma della struttura) per poi decostruirla fino
al punto in cui la forma, destrutturata, perde ogni qualità (capacità) strutturante e
diventa funzione generatrice di differenze (svela le differenze e le contraddizioni
presenti nella struttura stessa). Derrida mette in luce l'aporia (la contraddizione)
politica in cui incappa il pensiero poststrutturalista: è un'aporia tipica della
teoria dialettica e quindi, altresì, della tradizione marxista, risultata evidente anche
ad Adorno, e cioè: poiché la dialettica ricomprende il negativo (l'opposto) per
neutralizzarlo, conciliarlo e assorbirlo nella sintesi, ogni progetto di contrastare il
negativo stesso è destinato a fallire, in quanto il negativo viene ad essere
necessariamente dissolto e ricompreso nella totalità non già in forza di interventi
umani e storici volti a sconfiggerlo e abbatterlo, ma in forza della sola logica
dialettica (a causa dell’automatismo con cui è concepito il processo dialettico). Di
conseguenza ogni tesi "critica" di tipo storico-sociale che si basi sulla dialettica
177
178

(come nel caso della teoria critica della società della Scuola di Francoforte) è
destinata all'autoconfutazione.
Rispetto alla natura logico-contraddittoria della dialettica Derrida propone la
sua strategia della decostruzione. La decostruzione, come si è visto, non perviene
mai ad una nuova sintesi, ma rimane aperta giungendo ad approdi (esiti) mai
conclusivi bensì indefiniti. Procede con un rovesciamento della dualità (della coppia
degli opposti) attribuiendo il primato all'opposto (al concetto) più debole, ma senza
riproporre e definire un "nuovo ordine" rovesciato, il che farebbe ricadere la strategia
decostruttiva nelle trappole della metafisica. Il nuovo opposto o concetto che emerge
dopo il rovesciamento della dualità non viene a sua volta a rivestire un carattere
egemone, gerarchico e violento, tale da ribaltare il precedente ed originario rapporto
di forza, perché il gioco delle opposizioni è senza fine, senza esiti di riconciliazione
in una sintesi superiore. Ad esempio, nella dualità-contrasto capitalisti e proletari la
decostruzione assegna il primato all'opposto più debole, cioè al proletariato, senza
però giungere ad una supremazia definitiva di quest'ultimo nella sintesi di una società
comunista o senza classi, in quanto il rapporto tra i due opposti può sempre,
successivamente, ribaltarsi o dar luogo a differenti ulteriori coppie di opposti (a
differenti assetti sociali). La decostruzione derridiana è un superamento della
dialettica poiché non perviene a sintesi ma esprime l'idea di scritture, di "testi", cioè
di situazioni, in cui le opposizioni duali sono permanenti e, al tempo stesso, variabili.
Il progetto di Derida, dunque, è quello di una decostruzione della "metafisica
della presenza " propria della tradizione occidentale ed accusata, come si diceva, di
"logocentrismo" e "fonocentrismo", ossia di porre al centro la parola, la voce,
nell'illusione di poter cogliere e rendere presente, attraverso la parola e la voce,
l'essere (la totalità della realtà e il suo principio primo) nella sua identità e
originarietà. Ma condividendo e riprendendo a suo modo l'idea heideggeriana della
"differenza ontologica", cioè dell'irriducibilità dell'essere agli enti (l'essere non va
confuso ma è diverso dagli enti di cui anzi è la fonte), Derrida ritiene invece che
l'essere non possa mai essere colto come tale poiché si sottrae a ogni
identificazione (l'uomo non sarà mai in grado di cogliere l'essere, la totalità della
realtà ed il principio primo e originario). In tal senso l'essere è essenzialmente
differenza che sfugge a qualsiasi linguaggio che pretenda di recuperarlo ed
individuarlo nella sua piena identità originaria. L'essere nella sua identità ed origine
non è mai presente come tale, rimanendo sempre nascosto in un gioco di presenza e
assenza. Della totalità originaria dell'essere si hanno soltanto "tracce".
Foucault critica le tesi di Derrida, osservando che nella riduzione a scrittura di ogni
discorso si attua di fatto una specie di metafisica chiusa e dogmatica ben peggiore di
quella che si pretende di oltrepassare. Riducendo tutto a testo si viene ad ignorare,
secondo Foucault, la dimensione vitale e pratica del testo medesimo, trattando, ad
esempio, un testo di "meditazioni" come un testo di tipo "logico-geometrico", il cui
autore è presupposto distante e autonomo (ciò secondo la teoria ermeneutica in base
a cui il testo, una volta prodotto, ha una sua vita propria ed è suscettibile di
interpretazioni indipendenti dalle intenzioni dell'autore). Ma invece la meditazione

178
179

implica un soggetto (un'autore) mobile, coinvolto e modificabile dall'effetto stesso


delle pratiche meditative che si compiono.
Derrida controbatte. Nelle opere "La scrittura e la differenza" e "Della
grammatologia " accusa tutta la tradizione filosofica occidentale, da Platone in poi,
di essersi resa colpevole dell'errore e dell'inganno della " metafisica della presenza",
secondo cui la parola è presenza mentre la scrittura è assenza, negazione della
presenza. La metafisica della presenza pensa cioè che nel discorso parlato l'anima
abbia presente in maniera immediata la verità, mentre nel testo scritto questa
immediatezza non c'è più, concependo piuttosto il testo scritto come un "orfano"
separato da chi ne ha dato origine (dall'autore): ne deriva l'umiliazione della
scrittura e il privilegiamento della parola secondo un rapporto che Derrida conferma
di voler invece rovesciare.
Derrida riconosce che i più avanzati tentativi di uscire dalla metafisica della
presenza sono stati, prima del suo: 1) quello di Nietzsche, per la sua critica della
metafisica, specie riguardo ai concetti di essere e verità, che vengono sostituiti con i
concetti di gioco (attività che consente di sceglierne e modificarne le regole secondo
le circostanze) e di interpretazione ai quali, sulla scia di Nietzsche, è giunta
l'ermeneutica e la linguistica; 2) quello di Freud, per la critica della presenza a sé,
cioè della presenza della coscienza soggettiva, in apparenza padrona di sé ma in
realtà condizionata dall'inconscio; 3) quello di Heidegger, per la sua distruzione
della metafisica come ontologia degli enti, che ha finito per definire l'essere come
presenza quando invece esso è sfondo, orizzonte, evento che si autorivela secondo
sue proprie e misteriose decisioni. Derrida guarda con simpatia anche alla filosofia
della assoluta "alterità" (dell'incontro con l’"Altro", incarnato dal prossimo) di
Levinas, quale ulteriore tentativo di uscire dalla metafisica soggettiva della presenza,
ossia dalla metafisica del primato del soggetto. Ma tutti questi tentativi, per Derrida,
sono destinati al fallimento perché, al di là delle intenzioni di chi li compie, si
collocano e rimangono pur sempre all'interno di quelle medesime categorie
(concetti) della metafisica che vorrebbero invece criticare e distruggere. Anche
Foucault, quando nell'opera "Storia della follia" cerca di uscire dalla metafisica
razionalistica occidentale, non fa altro in realtà che rivestire la follia con i panni
della medesima categoria di razionalità (razionale è la follia e non la ragione perché
rigida, arrogante e conformistica): sono semplicemente invertiti i termini ragione-
follia, ma permane la medesima impostazione razionalistica.
Derrida si convince che non è possibile mettere da parte questa eredità
razionalistica: la rivoluzione contro la metafisica della presenza non può essere
compiuta se non seguitando ad utilizzare il linguaggio della metafisica. Da qui allora
l'idea di un oltrepassamento della metafisica mai definitivo e l'idea di differanza e
decostruzione, nell'intento di giungere a nuovi modi di lettura dei testi (delle idee, dei
pensieri) più che a teorizzazioni di superamento conclusivo delle filosofie del
passato. Le condizioni preliminari della decostruzione della metafisica della
presenza e del logocentrismo sono indicate da Derrida nella necessità di partire,
appunto, dai testi, dalla scrittura, abbandonando l'idea del primato della parola: i
testi sono anonimi, neutri, artificiali, mentre la parola è espressione diretta e
179
180

naturale ma circoscritta di chi la pronuncia. Non privilegiare la parola ma la


scrittura, i testi, significa non accettare la logica tradizionale della metafisica della
presenza: la parola infatti è presenza poiché vive nel presente in cui è pronunciata,
mentre la scrittura indica un'assenza, l'assenza della parola quale rigidamente
determinata nell'atto in cui si pronuncia, e proprio in tale assenza di
predeterminazioni la scrittura, aprendosi alle più varie e libere interpretazioni,
esprime al meglio la sua energia dirompente, aforistica e simbolica (testualismo
estremo).
La dialettica di Hegel ha avuto il merito di concepire la differenza e il contrasto
estremi delle opposizioni (tesi e antitesi) ed avrebbe potuto divenire lui stesso il
primo pensatore della scrittura e della decostruzione se non si fosse fatto sedurre
dalla tentazione della sintesi conciliatrice tra gli opposti che, attraverso la serie di
processi dialettici, si ripropone come presenza conclusiva, come totalità elevata a
presenza assoluta.
Dopo Hegel, è Rousseau ad occupare una posizione singolare nella storia della
moderna metafisica della presenza. Infatti, mentre dapprima il soggetto era presente
a sé soprattutto come logos, come razionalità, Rousseau propone un nuovo modello
di presenza, cioè la presenza a sé del soggetto soprattutto come sentimento, come
vita effettivamente sentita. Ma anche in Rousseau si ritrova la vecchia teoria del
primato della parola sulla scrittura: lo stato di natura di cui parla Rousseau, quello
in cui gli esseri umani sono buoni, è lo stato in cui si parla e non si scrive, mentre per
Rousseau la società civile è quella in cui si scrive ma in cui gli esseri umani sono
corrotti e sono schiavi. Però nei testi di Rousseau Derrida individua un concetto,
quello di "supplemento", utilizzabile per una lettura decostruttiva e testualistica della
sua opera. Rousseau adopera il termine "supplemento" in varie circostanze, tutte
accomunate però dal venir meno della "presenza" di qualcosa di naturale, che viene
supplito cioè sostituito con qualcosa di artificiale, così come artificiale è il testo della
scrittura. In questa particolare lettura di Rousseau Derrida ricorre anche alla
psicoanalisi e alla linguistica. Così, nelle "Confessioni" di Rousseau di
"supplemento" è la signora Warens, che supplisce alla mancanza della madre
dell'autore. Il supplemento costituisce l'artificiale che sostituisce il naturale: è il male
necessario, ma anche pericoloso, che sostituisce il bene che non c'è. Il supplemento
ha a che fare quindi con l'assenza della presenza. Altrettanto, il linguaggio scritto
supplisce la spontaneità del linguaggio parlato, che nell’intento di risalire a
originario è però irraggiungibile perché è solo nella "testa di Dio" (la prima parola,
cioè il principio primo, la totalità dell'essere, non possono essere colti dall'uomo).
Quindi non c'è parola, c'è solo testo, solo scrittura, che rinvia ad una scrittura
precedente in una serie infinita di rimandi poiché la parola originaria è
inaccessibile. La serie infinita di rinvii da una scrittura all'altra supplisce la parola
originaria che non c'è, che è inarrivabile.
Questo supplemento non è, per Derrida, che la differanza, cioè il criterio che egli
applica nella lettura decostruttiva dei testi. Non è né un concetto né una parola. La
differanza, come osservato, significa sia l'essere differente nello spazio (gli esseri che
stanno in luoghi differenti) sia l'essere (la realtà) che si differisce e si rinvia (che si
180
181

distribuisce e si manifesta) nel tempo. Quando non possiamo mostrare qualcosa, cioè
l'essere presente, allora "significhiamo", cioè facciamo ricorso al "segno", alla
scrittura, che è quindi "presenza differita". Il segno dunque è differente in senso
spaziale da ciò di cui prende il posto e lo differisce (lo pospone) in senso temporale.
Mette per così dire una certa distanza tra noi e la cosa, ossia tra noi e la parola,
assente, della cosa stessa. La differanza pertanto sta alla base di ogni differenza, è
l'origine delle differenze: costituisce e mantiene vive le differenze, che rimangono tali
senza sintesi conciliatrici, determinate e conclusive, volte ad eliminare ogni
differenza.
Derrida mostra come in numerosi autori sia inconsapevolmente presente il
procedimento della differanza: in Nietzsche, quando considera il soggetto non come
qualcosa di originario, cioè come coscienza innanzitutto presente a se stessa, ma
come l'effetto di forze che non sono "presenti" alla coscienza (la volontà di potenza);
in Freud, quando considera la coscienza, il soggetto, come risultato di forze, di
istinti, di traumi (l'inconscio), che evidenziano la differanza nel doppio senso sia
temporale (il trauma subito nel passato ed al presente assente nella coscienza) sia
spaziale (la distanza tra la coscienza e il subconscio); in Heidegger, nel quale la
differenza ontologica tra l'essere e l'ente appare come un risultato della differanza
(l'ente è differente spazialmente dall'essere come pure ne differisce temporalmente);
in Levinas, nel cui pensiero opera ugualmente la differanza come costitutiva delle
differenze che danno luogo all’"alterità", all'incontro con gli altri, differenti da noi.

Gilles Deleuze (1925-1995) e Felix Guattari (1930-1992).

Deleuze, di nazionalità francese, si contraddistingue in particolare per aver elaborato


i concetti di pensiero nomade e di schizoanalisi nonché di differenza e
ripetizione.
La filosofia di Deleuze si presenta come una forma di costruzionismo: compito
della filosofia è "costruire concetti". Deriva da tale impostazione una certa affinità
con i teorici della filosofia analitica del linguaggio ideale, ma tuttavia sulla base di
temi del tutto peculiari: infatti il costruzionismo di Deleuze si collega a una forma
di animismo, secondo cui i concetti creati non sono entità inerti ma, al contrario,
sono capaci di autoformazione e dunque sono dotati di una loro vita e di una loro
storia. Di conseguenza, nel dichiarare come proprio programma quello
dell'emancipazione degli esseri umani, tale programma si estende fino ad
includere anche i concetti e gli oggetti. È un programma che vuole liberare il
pensiero da quelle costrizioni logico-linguistiche che impediscono la libera creazione
dei concetti e la libera analisi e valutazione degli oggetti.
Mediante il suo programma e attraverso una sua originale lettura e
interpretazione di Nietzsche, Deleuze elabora i concetti chiave di "differenza" e
di "ripetizione", illustrati nell'opera "Differenza e ripetizione". Egli si propone di
continuare il programma nietzschiano di un "rovesciamento del platonismo",
181
182

ossia delle forme tradizionali del pensiero e, più specificatamente, di un


rovesciamento del concetto di "rappresentazione" la quale, intesa come coscienza
che ordinatamente rappresenta a se stessa il mondo, costituisce il centro della
metafisica, della teoria della conoscenza, della logica e della morale tradizionali. La
differenza e la ripetizione, osserva Deleuze, o meglio un certo modo di concepire la
differenza, la ripetizione e il rapporto tra l'una e l'altra, sono le maniere in cui si è
affermata la visione occidentale dell'essere concepito appunto come rappresentazione.
Infatti, secondo la visione occidentale della realtà (dell'essere), i fenomeni possono
essere colti, compresi e rappresentati quando viene individuato il loro ripetersi al
variare delle circostanze, ossia quando ne viene individuato il ripetersi con differenze,
nel senso che la ripetizione è assoggettata alla differenza e la differenza è legata alla
ripetizione (i fenomeni si conoscono a causa del loro continuo ripetersi ma in ogni
ripetizione vi è sempre qualcosa di differente). Attraverso la generalizzazione di
queste operazioni ripetute si giunge poi al concetto, all'universale: tutti i diversi
cavalli che ripetutamente vedo sono collegati, grazie al gioco (al collegamento) di
differenza e ripetizione, nella forma unica del concetto di "cavallo".
Poste queste premesse, Deleuze si propone di ricercare il significato della
differenza in sé e della ripetizione pura, intese non come modalità per la
costruzione dei concetti ma come concetti in se stessi di differenza e ripetizione.
Attraverso questa via Deleuze constata allora che molte acquisizioni del pensiero
tradizionale vanno riviste. Anzitutto la dialettica, che sembra un rovesciamento della
rappresentazione ma che in realtà ne è solo la versione "in movimento", e si tratta di
un movimento negativo, regressivo, che tende a creare zone di realtà privilegiate ed
egemoniche (che pretendono di essere superiori). La dialettica infatti è un caso
esemplare di assoggettamento della differenza al negativo: nella sintesi idealistica
hegeliana ogni differente (l'opposto, l'antitesi) è pensato come il negativo ed è perciò
annullato ed assorbito nella sintesi stessa, proprio nello stesso modo in cui procedeva
la ragione (la filosofia) metafisica classica, che annullava le differenze creando leggi
e principi unici universali.
Contro la metafisica classica e contro la dialettica Deleuze vede in Nietzsche il
pensatore antidialettico e antihegeliano per eccellenza, che ha portato a
compimento la critica espressa da Kant. Egli ha infatti messo in luce che siamo noi,
gli esseri umani, i responsabili di quanto facciamo sul piano conoscitivo, etico,
estetico, ma non ha esteso la sua analisi e la sua critica nei confronti dei valori,
indiscussi, di verità, di bene e di bello e ciò a differenza di Nietzsche, il quale si pone
la domanda radicale: ma che senso hanno i valori? La filosofia dei valori di
Nietzsche è il vero compimento della critica kantiana, una critica totale, ossia un fare
filosofia a "colpi di martello". Da una parte i valori sembrano principi sulla cui base
valutare i fenomeni, dall'altra parte però, se si va più a fondo, sono i valori a
presupporre valutazioni e punti di vista da cui proviene il loro stesso valore. Il
problema critico sta nel "valore dei valori"; è il problema della loro creazione, della
"genealogia dei valori" che Nietzsche affronta. Kant considerava i valori come
principi indiscutibili, Nietzsche compie un passo avanti e li considera come creazioni
della volontà di potenza.
182
183

Quelli che tradizionalmente si considerano valori o principi indiscutibili, primari,


originari, non sono effettivamente tali, afferma Deleuze sulla scia di Nietzsche,
ma rappresentano l'elemento differenziale, il sentimento di differenza o di
distanza da cui deriva il valore dei valori presi in considerazione. Quando si
parla, come in Nietzsche, di genealogia dei valori, per genealogia si intende sia valore
dell'origine e sia, al tempo stesso, origine dei valori, significati questi che si
contrappongono da un lato al carattere assoluto che taluni attribuiscono ai valori
oppure, dall'altro lato, al carattere relativo o pratico, cioè utilitaristico, ad essi
assegnato. Quindi genealogia dei valori significa origine e nascita dei valori, ma
anche differenza o distanza dei valori quali percepita al presente rispetto al loro
senso originario.
Deleuze fa propria e approfondisce la genealogia dei valori ricostruita da
Nietzsche. Non vi sono valori assoluti e da sempre identici a se stessi. I valori
sono creati di volta in volta dalla volontà di potenza (dagli interessi dominanti) che
opera con forze molteplici e in maniera pluralistica, producendo quindi una
pluralità di valori che si presentano "mascherati" nella storia delle civiltà e che
devono quindi essere "smascherati" e riportati, con il metodo genealogico, alla
loro origine, al loro senso originario. È questa una filosofia della volontà (di
potenza) che pone la differenza al posto della dialettica. Mentre la dialettica pensa
il differente (tutto ciò che è differente) come il negativo (l'antitesi), la filosofia della
volontà pone invece il differente, la differenza, come valore, ossia attribuisce valore
all'anticonformismo, al distinguersi e contrapporsi ai comportamenti meschini della
massa dei "deboli", rassegnati o addirittura compiacenti nei confronti del sistema e
della mentalità dominanti. La gioia e il godimento del diverso si contrappongono al
loro assorbimento dialettico in una sintesi che toglie di mezzo il differente concepito
come antitesi, come l'opposto negativo: "la bella irresponsabilità si oppone alle
responsabilità dialettiche".
Deleuze sottolinea come la filosofia della volontà di Nietzsche trovi il suo
compimento nella tesi dell'eterno ritorno, interpretata non come ripetizione
dell'identico (un riandare in maniera sempre identica agli eventi trascorsi) bensì come
ripetizione della differenza che, al di là del principio di uniformità, rivendica il valore
dell'assolutamente differente, ossia il valore insito nel rivivere i medesimi eventi con
spirito e con sguardo sempre differenti. La filosofia della volontà è dunque aperta al
movimento ininterrotto delle differenze, senza nessun piano teso ad ingabbiarle e a
neutralizzarle in un sistema; è l'affermazione della differenza rispecchiata nella
caotica molteplicità del divenire del mondo.
In tal senso l'arte contemporanea si presenta come innegabile rottura contro la
metafisica e la dialettica della rappresentazione, volte ad annullare la differenza in
principi universali o nella sintesi. L'arte contemporanea presenta infatti ripetizioni
pure (non annullate e assorbite in principi o in sintesi superiore), rappresenta cioè
oggetti spaesati e spezzati, realtà eterogenee che si scompongono e si sconnettono,
diventando qualsiasi altra cosa e sconvolgendo in infiniti modi la logica della
rappresentazione. Quel che l'arte ha fatto della propria "logica" andrebbe fatto
anche in filosofia: occorre una nuova logica, una nuova immagine del pensiero, ma
183
184

anzitutto occorre sconfessare ogni immagine formalistica e predeterminata del


pensiero, perseguendo l'obiettivo di una emancipazione dalla logica tradizionale
basata sulla contrapposizione tra positivo e negativo e sulla condanna delle
differenze. Per rivalutare le differenze occorre anzitutto eliminare la contrapposizione
fondamentale della logica tradizionale tra materia e spirito, tra l'essere di Dio e
l'essere delle creature, tra realtà ed apparenza, tra essere e non essere. Occorre
teorizzare (riprendendo Duns Scoto) l'univocità dell'essere (un'unica e comune
matrice della realtà) come condizione per pensare l'infinita pluralità delle differenze.
L'univocità dell'essere assegna una medesima dignità ontologica ai modi dell'ente (ai
vari enti) e non li colloca in ordini gerarchici sulla base del negativo e dell'esclusione.
Diviene allora possibile cogliere la pluralità degli enti senza subordinarli gli uni agli
altri, senza postulare il primato della ragione sulla follia, o del soggetto sull'oggetto, o
la dipendenza dell’"altro" rispetto al "sé".
Nel 1969 Deleuze incontra Felix Guattari, di formazione psicoanalitica e militante
nella sinistra dissidente. Dalla loro collaborazione esce il volume "Anti-Edipo" cui
seguirà una seconda parte, meno famosa, vale a dire i "Mille piani".
Alla base della produzione dei due autori stanno Nietzsche, Marx e Freud, definiti da
Paul Ricoeur "i tre maestri del sospetto" poiché, non credendo al significato palese,
esteriore e pubblico delle idee e delle filosofie, "sospettano" che dietro di esse ci sia
invece qualcosa di nascosto che le determina e che bisogna scovare e smascherare,
vale a dire la volontà di potenza per Nietzsche, i rapporti di produzione per Marx,
l'inconscio per Freud.
Guattari è alla ricerca di una teoria che gli consenta di unificare i due filoni di
pensiero e di attività sui quali si è formato: il marxismo e la psicoanalisi. Trova
questa soluzione grazie a Deleuze, mediante il ricorso al concetto di volontà di
potenza di Nietzsche e quindi in una sorta di miscela tra Nietzsche, Marx e
Freud.
Infatti, per un marxista le valutazioni umane non sono mai quelle prevalenti: devono
essere collocate nei rapporti di produzione (rapporto tra struttura e sovrastruttura) per
individuarne la "posizione di classe". Per un freudiano, a sua volta, i giudizi della
coscienza non sono mai degni di fede perché sono condizionati dall'inconscio.
Pertanto nel marxismo l'opposizione decisiva è fra produzione e ideologia, mentre nel
freudismo è tra coscienza e desiderio (inconscio). In Nietzsche, per parte sua,
troviamo da una parte la volontà di potenza e dall'altra la rappresentazione (il modo
di pensare e di rappresentare la realtà, condizionato dalla mentalità prevalente
imposta dalla classe al potere come anche dalla logica della metafisica classica e della
dialettica) che maschera i prodotti della volontà di potenza.
Mettendo insieme i concetti di Nietzsche, Marx e Freud troviamo quindi, da un
lato, la volontà di potenza, la produzione economica e il desiderio inconscio
chiamati da Deleuze e Guattari "macchina desiderante"; dall'altro lato troviamo
la rappresentazione, l'ideologia e la coscienza, cioè quell'insieme di impedimenti
che ostacolano la macchina desiderante. Secondo i due autori la macchina
desiderante è costituita da istinti che trovano origine non nella famiglia, come
voleva Freud (da qui il titolo "Anti-Edipo"), bensì nella società. È quindi nella
184
185

società che bisogna cercare il fondamento della macchina desiderante, non


nell'ego cosciente o nevrotico (nel conscio o nell'inconscio individuale) ma
nell'inconscio collettivo schizofrenico. Pertanto alla psicanalisi, che privilegia la
sfera dell'ego e delle nevrosi individuali, va sostituita la "schizoanalisi", in quanto
la schizofrenia è ritenuta la caratteristica essenziale della macchina desiderante, vale
a dire di quell'insieme di istinti complessivamente originati sia dalla volontà di
potenza, sia dalla frenesia della produzione economica, che dall'inconscio. Al
concetto di schizofrenico e di inconscio collettivo i due autori associano il
concetto di "corpo senza organi" e di "pensiero nomade", che stanno ad indicare
il carattere impersonale della macchina desiderante, la quale opera in un mondo che
appare come un caos in incessante movimento (come i nomadi). Viene rilevata la
contrapposizione tra pensiero sistematico e pensiero libero, tra pensiero dogmatico e
pensiero nomade, tra Occidente ed Oriente, per valorizzare il pensiero nomade,
errabondo e libero, che si contrappone alla storia, al pensiero sistematico e
dogmatico, per il suo carattere aperto, circolare, caotico, senza inizio né fine
(viene ripreso, ancora, l'eterno ritorno e la danza dionisiaca di Nietzsche).
In seguito, nel libro "Che cos'è la filosofia?", Deleuze e Guattari rivedono la loro
tematica del caos e del pensiero nomade senza inizio e senza fine. Non esaltano
più il caos ma guardano a quelle attività umane che cercano di realizzare un
poco di ordine per difenderci dal caos. Sono le attività tramite cui ci formiamo
delle opinioni, che funzionano come una sorta di ombrello che ci protegge dal caos.
Tra queste si distinguono l'arte, la scienza e la filosofia, le quali tracciano dei piani
intersecanti sul caos, lo attraversano per cercare di vincerlo (da cui il titolo del libro
"Mille piani"). L'arte, per esempio, ritrae un pezzo di caos in un quadro per formare
un caos composto, che cioè diviene sensibile e di cui si può cogliere una qualche
varietà. La scienza racchiude un pezzo di caos in un sistema di coordinate e forma un
caos riferito (dotato di riferimenti scientifici), da cui ricava una funzione, sia pur
aleatoria, e delle variabili. La filosofia produce invece variazioni concettuali, nel
senso che lotta contro il caos quale abisso indifferenziato di dissomiglianze e produce
concetti. Il concetto rinvia infatti ad un caos reso consistente, divenuto pensiero.
Il pensiero rimane nomade, ma gli "accampamenti" volta a volta stabiliti tramite la
filosofia, la scienza e l'arte sembrano permettere una più lunga permanenza nel
territorio scelto (attenuano il nomadismo).

185
186

IL PENSIERO EBRAICO DEL NOVECENTO: IL PRIMATO DELL’ETICA E LA


“FILOSOFIA DEL DIALOGO”.

Nel Novecento avviene una particolare forma di incontro tra ebraismo e


filosofia, tant'è che si parla di pensiero ebraico, o neoebraico, che trae ispirazione
dalla relativa tradizione. Principali esponenti sono Rosenzweig, Buber, Levinas e,
a suo modo, Jonas. Un posto a parte occupa Anna Arendt.
Al di là delle differenze individuali e di interesse, i comuni tratti di fondo della
filosofia ebraica novecentesca sono riassumibili:
1. nell'affermazione dell'assoluta unità e trascendenza di Dio;
2. nell'idea della contingenza e relativa autonomia del mondo;
3. nell'immagine dell'uomo come partner di Dio e nella concezione della storia
come intreccio di volontà divina e libertà umana.
Il primo punto rispecchia il credo monoteistico; il secondo rispecchia il motivo
biblico della creazione del mondo dal nulla; il terzo rispecchia il tema dell'alleanza
tra Dio e l'uomo.
La filosofia ebraica ha messo in luce soprattutto i temi del dialogo e del primato
dell'etica (sull'ontologia, sulla gnoseologia, ecc.), richiamando l'attenzione sullo
stretto legame fra etica e religione, cioè sul fatto che l'autentico luogo di incontro fra
l'uomo e l'assoluto è costituito dal prossimo, dove l'assoluto è la faccia velata
(nascosta, indivisibile) di Dio cui ci si può avvicinare tramite l'altruismo della
condotta umana. Ulteriore tema comune è la polemica contro le pretese
onnicomprensive della filosofia tradizionale e l'accento sulla concretezza del
rapporto "io-tu".

Franz Rosenzweig -di nazionalità ebreo tedesca- (1886-1929).

Alla base del suo pensiero sta il rifiuto delle pretese idealistiche e
onnicomprensive della filosofia, ossia la critica del concetto, idealistico-
panteistico, di totalità (la realtà concepita come un'unica totalità animata da uno
spirito o principio in essa immnente), che ignora il molteplice, l'altro, l'individuale.
Tali pretese, benché di fronte alla natura finita e mortale del singolo, finiscono per
negare la realtà della morte e del tempo. Pur nascendo dal timore della morte, la
filosofia tenta di circuire (ingannare) l'uomo mediante l'idea del Tutto poiché, certo,
il Tutto non muore ma solo il singolo. Ciò ha spinto la filosofia verso l'idealismo,
trascurando la realtà concreta dell'individuo. Sulle orme di Kierkegaard,
Schopenhauer e Nietzsche, e particolarmente influenzato da Heidegger, Rosenzweig
pone invece in rilievo la concretezza dell’"essere così" dell'uomo e la sua realtà
"indigesta". Però, a differenza di Heidegger, Rosenzweig non considera l'uomo senza
Dio, ma l'uomo immerso in una serie di rapporti al cui vertice stanno la comunità, il
mondo e Dio, nella ricerca di un nuovo pensiero, alternativo a quello della tradizione
filosofica.

186
187

L'intento basilare del pensiero alternativo proposto da Rosenzweig, dopo aver


distrutto la nozione di totalità della filosofia del passato, mira all'edificazione di
una nuova totalità, rispettosa delle esigenze del singolo nella fedeltà
all'esperienza, cioè alla concretezza del reale, e nell'unione di filosofia e teologia.
Se il punto di partenza del pensiero di Rosenzweig coincide con quello esistenzialista
nel concepire l'individuo solo, sofferente e cosciente della sua mortalità, egli libera
poi il singolo da questo suo isolamento e gli insegna a prendere parte al dialogo con
gli altri elementi che costituiscono la realtà. Sente il bisogno di procedere oltre i
limiti del concetto empiristico e positivistico di esperienza per cogliere la realtà
nella molteplicità dei suoi aspetti, compresi Dio e il mondo nel suo complesso.
Da qui l'unione di filosofia e teologia tesa a formare un terzo genere di scienza,
capace di includere le due discipline in un piano più alto, al fine di tradurre in umani
i problemi teologici e di estendere quelli umani fino al teologico.
Per sottolineare la sua contrapposizione al vecchio pensiero astratto, Rosenzweig
parla altresì di una filosofia che intenda il filosofo come pensatore della parola
(più che delle idee), che sappia nutrirsi del colloquio reale con l'altro (col
prossimo) e prendere sul serio la condizione finita e mortale nel tempo sia degli
uomini come della natura intera. Mentre il pensiero vuole essere senza tempo, vuole
stabilire mille collegamenti in un colpo solo, il parlare invece è legato al tempo, non
sa in anticipo dove andrà a parare e lascia che siano gli altri a dargli lo spunto. Vive
soprattutto della vita degli altri, mentre il pensare è sempre solitario.
Il rifiuto della concezione idealistica di totalità consente al pensiero di individuare i
tre elementi di base che da sempre costituiscono l'esperienza dell'essere (della
realtà): Dio, il mondo, l'uomo. Sono elementi che hanno una natura pre-metafisica
poiché l'esperienza dell'essere è spontanea ed immediata e precede il pensare
mediante concetti determinati (precede la metafisica). Inoltre, nell'esperienza
concreta questi tre elementi non sono colti isolatamente ma reciprocamente
connessi. Il legame che unisce Dio e il mondo è la creazione; il legame che unisce
Dio e l'uomo è la rivelazione; il legame che unisce l'uomo e il mondo è la
redenzione.
La creazione si concretizza in un dire: "Egli (Dio) disse e la cosa fu" (fu creata),
facendo sì che lo sviluppo della realtà venga a consistere nell'intreccio delle parole
che l'hanno creata e seguitano ad animarla. Particolare importanza viene allora ad
assumere il linguaggio, inteso come la forma stessa della relazione fra Dio, il mondo
e l'uomo. Alla base di ogni relazione, anche quelle fra i tre elementi di fondo
dell'esperienza dell'essere, vi è il dialogo. I concetti teologici fondamentali
(creazione, rivelazione, redenzione) sono concepiti da Rosenzweig come vere e
proprie categorie (entità) ontologiche, col risultato di fare della religione
(da"religere"= unire in relazione) la struttura e la verità profonda della realtà. La
religione non è una confessione di fede ma in primo luogo è l'articolazione
dell'essere (della realtà). Dio non ha creato la religione ma il mondo, tuttavia la
religione rappresenta il modo stesso in cui l'essere è, in cui consiste. Prima di
divenire fede, la religione coincide con la struttura cosmico-razionale che connette
Dio, il mondo e l'uomo.
187
188

Le tre fondamentali entità ontologiche hanno una valenza intrinsecamente temporale.


È in virtù della creazione che il tempo assume il carattere del passato ed è in virtù
della rivelazione e della redenzione che assume il carattere del presente e del futuro.
L'amore di Dio per l'uomo implica l'amore verso il prossimo il quale coincide con la
redenzione, ossia col regno di Dio, vale a dire con una nuova unità e totalità non più
idealistico-panenteistica. Ciò significa che l'unità è un diventare un'unità. L'Assoluto
(Dio) necessita del tempo in cui manifestarsi ed esprimersi come creatore, come
rivelatore e come redentore-redento. Dio non è soltanto colui che redime ma anche
colui che è redento: solo nella redenzione Dio diviene ciò che ancora non era, ossia il
Tutto e l'Uno, che assorbe nell'eternità la totalità del mondo dapprima situato nel
tempo.
Affinché la redenzione si compia e si attui l'unione fra il tempo e l'eternità risulta
indispensabile che l'individuo si collochi in una collettività religiosa: è proprio
all'interno della comunità dei fedeli, ossia nell'ambito di una struttura sovra-
personale, che la verità si fa strada nella storia. Le due religioni per eccellenza, che
esprimono in forma più alta le verità religiose, sono l'ebraismo e il cristianesimo,
considerate da Rosenzweig non alternative ma complementari fra di esse. L'ebraismo
incarna la vita eterna e la vicinanza della comunità a Dio; il cristianesimo incarna la
via eterna, ovvero la missione eterna che è il destino dell'umanità.
Partito dalla constatazione della morte, il "libro" (la narrazione filosofica) di
Rosenzweig, giunge al "non più libro" della vita, ossia all'impegno etico-religioso
nei confronti dell'esistente e del prossimo: il vero non è possesso razionale affidato ai
libri ma è conquista etica.

Martin Buber (Vienna 1878-Gerusalemme 1965).

Il pensiero di Buber è incentrato sui temi del dialogo e della relazione. Parte
dall'idea secondo cui l'uomo non è sostanza, cioè non esiste mai da solo ma è una
trama (un intreccio) di rapporti, di relazioni. Giunge così ad una forma di
relazionismo personalista o di personalismo razionalista (ciò che caratterizza la
"persona" rispetto all'individuo è il fatto di essere in relazione con gli altri). Secondo
tale prospettiva, Buber intende conciliare da un lato, sulla scia di Feuerbach, la
relazione dell’"io" con gli altri ma chiusa al rapporto io-Dio e, dall'altro lato, sulla
scia di Kierkegaard, la relazione tra il singolo e l'Assoluto (Dio) ma chiusa al
rapporto con gli altri. Da ciò il suo programma di una nuova antropologia dell'uomo
totale all'interno di una valorizzazione religiosa del tema della comunità.
Buber afferma che il mondo è duplice poiché l'uomo può porsi dinanzi ad esso in
due maniere distinte: nel modo dell'Io-Esso e nel modo dell'Io-Tu. L'Io-Esso
non comprende solo le cose ma anche gli individui: coincide con l'esperienza intesa
come l'ambito dei rapporti impersonali, strumentali e superficiali con le altre cose e
con gli altri individui. L'Io-Tu coincide invece con la relazione intesa come l'ambito
dei rapporti personali, disinteressati e profondi con le cose e con gli altri uomini.
188
189

Questo schema dualistico (che corrisponde in parte a quello di Marcel tra essere e
avere) presuppone che l'Io dell'Io-Esso sia l'individuo, mentre l'Io dell'Io-Tu sia la
persona, qualificata appunto dalla relazione, con la precisazione tuttavia che "Nessun
uomo è pura persona e nessuno è pura individualità. Ognuno vive l'Io dal duplice
volto” (l'uomo non può vivere senza rapporto col prossimo ma neppure può vivere
senza un rapporto strumentale col mondo e con gli individui). L'Io autentico (la
persona) si costituisce unicamente entrando in rapporto con altre persone, in
quanto l'Io "si fa Io ho solo nel Tu": l'Io viene dopo la coppia Io-Tu la quale precede
la coppia Io-Esso; prima c'è il rapporto soggetto-soggetto e dopo viene il rapporto
soggetto-oggetto.
Se la realtà autentica è relazione Io-Tu, personale e disinteressata, allora dove
non c'è relazione ma c'è egoismo non c'è nemmeno realtà. Dire che la realtà
umana è costitutivamente relazione significa dire che essa è costitutivamente
dialogo; la dimensione dell'Io-Esso è quella superficiale del possesso e dell'avere; la
dimensione Io-Tu è quella profonda del dialogo e dell'essere. Il dialogo trova la sua
manifestazione più alta nel rapporto fra l'Io e Dio. Dio è un Tu eterno che non
può essere ridotto all'Esso, cioè ad oggetto di conoscenza e di possesso, come
invece tanta filosofia ha voluto pretendere. Quindi il Dio oggetto di conoscenza
della teologia è un falso Dio. Il Dio vero è quello vivente della Bibbia, da lui
ispirata e rivelata; il Dio vero è un Tu con cui si parla, non un Tu di cui si parla.
Un Dio a cui l'uomo rende testimonianza non con la scienza ma con il suo
impegno a favore del prossimo (a differenza di Kierkegaard per il quale il rapporto
con Dio è solo individuale).
Nella nostra civiltà il Tu divino è stato ridotto ad un impersonale Esso, ovvero
ad un oggetto che la mente dell'uomo pretende di osservare, di conoscere e, in
definitiva, di possedere; gli uomini hanno smesso di considerare il Dio come "Altro",
come l'assolutamente diverso. Questo processo riduttivo di Dio si è accompagnato
allo sviluppo soggettivistico della filosofia moderna che, da Cartesio in poi, è andata
progressivamente dissolvendo l'oggetto nel soggetto: il soggetto, dapprima annesso
all'essere (a Dio) per prestargli il proprio servizio, ha poi superbamente dichiarato di
essere lui stesso a generare l'essere, la realtà (idealismo). Niente da stupirsi quindi
che l'ateismo abbia finito per configurarsi come il tipico prodotto della cultura
moderna. Contro l'ateismo moderno e contro l'idea nietzschiana della morte di
Dio, Buber propone l'originale concetto dell’"eclissi di Dio": Dio non è
(definitivamente) morto ma si è solo (temporaneamente) eclissato, in quanto fra Lui
e noi si è frapposta la massa opaca dell'Esso, ovvero il nostro ego e la sua pretesa di
onnipotenza. Tuttavia Buber è fiducioso nel ritorno di Dio: al di là del nostro
contingente accecamento, Dio continua a brillare come sempre. Non è detto che non
riappaia presto ed ancora più rinvigorito. L'eclissi della luce di Dio non è il suo
estinguersi e già domani ciò che si è frapposto potrebbe ritirarsi.
Il rifiuto dell'individualismo, dell'Io-Esso, non implica tuttavia, in Buber,
l'accettazione del collettivismo. "Se l'individualismo considera solo una parte
dell'uomo, il collettivismo considera l'uomo solo come parte". Buber vi
contropropone il proprio relazionismo personalista che, insistendo sul rapporto
189
190

dell'uomo con l'uomo, riesce a salvare sia la persona che il rapporto sociale. Sul
piano politico il modello è quello del comunitarismo, una forma di socialismo
utopistico contrario al materialismo e al centralismo marxista, sull'esempio dei
villaggi collettivi di Israele.

Emanuel Levinas (1905-1995).

Filosofo francese di origini lituane, Levinas rivolge i suoi principali interessi ai temi
dell'alterità (degli altri rispetto a noi) e del prossimo. La sua formazione filosofica
è significativamente influenzata da Husserl e Heidegger, apprezzati per taluni aspetti
e criticati per altri.
Della fenomenologia di Husserl apprezza la tensione verso il concreto, la
concretezza, mentre critica invece la rilevanza attribuita, specie dall'ultimo Husserl,
alle essenze e alla trascendentalità. Di Heidegger apprezza soprattutto le analisi di
"Essere e tempo", che testimoniano ciò che può dare la fenomenologia allorché si
applica allo studio dell'esistenza concreta dell'uomo e di quei suoi modi di essere
che sono l'angoscia, la cura e l'essere per la morte. Apprezza pure la distinzione
heideggeriana tra essere ed ente, che definisce come la cosa più profonda grazie
alla tesi secondo cui l'essere non è una statica presenza bensì un dinamico apparire
e accadere. Di Heidegger, per contro, critica la sua compromissione politica col
nazismo ma anche gli esiti della sua ontologia che, allontanandosi dalla
fenomenologia, finiscono per assorbire e subordinare l'esserci (l'uomo) ai giochi
(alle manifestazioni) anonimi dell'essere.
Levinas avverte la necessità di uscire da una concezione astratta e impersonale
dell'essere e distingue perciò tra esistenza ed esistente. Per esistenza intende
quella in generale, l'essere in generale a prescindere dagli esistenti concreti, che è
quindi un indeterminato e opaco "c'è"(in francese "il ya"), c'è un qualcosa.
L'esistente coincide invece con il concretizzarsi dell'esistenza in un ente (l'io)
capace di disporre del proprio essere, definendolo e determinandolo mediante
un'operazione chiamata ipostasi (= trasformazione di un concetto generale in ente
reale), che collega al concetto di istante. Attraverso l’ipostasi l'essere impersonale
perde il suo carattere anonimo e si definisce concretamente in un ente.
Ma l'esistente, secondo Levinas, è destinato a trovare il proprio senso solo con
l'Altro e di fronte all'Altro, ossia nel rapporto interumano e intersoggettivo che, al
posto del dialogo silenzioso del soggetto con se stesso, preveda l'esperienza della
"alterità", dell'incontro col prossimo. Levinas presenta quindi un percorso che va
dall'esistenza all'esistente e dall'esistente all'Altro attraverso tre livelli della
realtà.
Ognuno di questi livelli sottintende uno specifico rapporto col tempo:
1. l'esistenza, l'essere in generale, è propriamente l'assenza del tempo, ossia
l'eternità intesa come ciclico ritorno dell'uguale (nell'eternità passato presente
e futuro vengono a coincidere presentandosi uguali a se stessi);

190
191

2. l'esistente, ossia l'accadere e l'apparire dell'ente in un dato momento, è invece


il presente;
3. l'incontro con l'Altro è apertura e disponibilità verso il passato e il futuro,
ovverossia costituisce l'effettivo divenire del tempo, poiché in un soggetto
solo, che è definitivamente sempre se stesso e quindi immutabile, il tempo
autentico non può generarsi.
Dall'aver posto al centro i problemi dell'alterità e del prossimo deriva l'impostazione
etica del pensiero di Levinas, anche per la tragedia da lui subita nei campi di
concentramento nazisti.
Levinas accusa la filosofia tradizionale di "imperialismo del Medesimo" e di
violenza ontologica, per aver racchiuso la molteplicità e il diverso in una visione
totalizzante ed onnicomprensiva della realtà, fondata su di un unico e medesimo
principio di fondo (monismo) che soffoca ogni forma di alterità e trascendenza
(di distinzione).
La filosofia occidentale è giudicata per lo più un'ontologia che riduce l'Altro al
Medesimo. I filosofi hanno praticato la filosofia in termini di riduzione di ogni cosa
a se stessi, ossia a loro possesso, al loro punto di vista. Il concetto di essere inteso
come totalità che tutto ricomprende, e in cui ogni cosa è ricompresa ed appiattita in
modo indistinguibile, riduce alla fin fine l'essere stesso ad un essere generale-
generico del tutto neutro e opaco (il Medesimo), al servizio del soggetto e della sua
pretesa di definirlo e limitarlo nei concetti. Manifestazione emblematica di questo
tentativo di non riconoscere altra realtà o verità al di fuori di sé sono l'ontologia
parmenidea dell'Uno e la dottrina socratica del "conosci te stesso". Ulteriori
manifestazioni sono la filosofia di Hegel, teorico di una totalità che "inghiotte" gli
uomini, gli Stati, le civiltà e i pensatori all'interno di un medesimo Spirito assoluto,
nonché la filosofia di Heidegger poiché subordina l'ente alla struttura impersonale
dell'essere. La filosofia occidentale si presenta come una prevaricazione dell'essere
nei confronti degli enti, cioè come una filosofia di potenza: io penso equivale a io
posso. Ciò conduce al dominio e alla sopraffazione del prossimo (intolleranza verso
il diverso), tant'è che fin da Eraclito l'essere si rivela al pensiero filosofico come
guerra (la guerra degli opposti).
Allora, seguendo Rosenzweig, si tratta di uscire da questa funesta concezione
totalizzante che appiattisce la varietà della realtà, contestando la filosofia di
potenza e l'ontologia della guerra che da essa scaturiscono. Tale uscita per Levinas
non avviene, come in Rosenzweig, a livello teorico o conoscitivo, bensì etico e
pratico, ossia tramite quel basilare evento che è l'incontro con l'Altro, incarnato
dal prossimo. Infatti è proprio l'Altro a catapultarci oltre i confini della nostra
egoistica soggettività. Ma come può il Medesimo (la coscienza soggettiva) accostarsi
alla trascendenza (cioè uscire da se stesso) senza ridurla immediatamente ad
immanenza (cioè ridurla a se stesso)?
Per Levinas il superamento della totalità, dell’"imperialismo del Medesimo",
non è un'operazione di pensiero, il risultato di un'elaborazione teorica, perché in tal
caso ci troveremmo ancora all'interno dell'egoismo soggettivo che considera la
conoscenza un proprio possesso, che riporta entro di sé ciò che è diverso e si oppone
191
192

a sé; essa è invece un'esperienza esistenziale che si realizza nell'incontro con


l'Altro. Il modo in cui si presenta l'altro è il volto. Sua caratteristica fondamentale
è l'autosignificanza: il volto non è un segno (una parola) che rinvia ad altro (alla
cosa indicata), ma è una presenza viva che si autopresenta e autoimpone di per
sé, indipendentemente da ogni soggettiva attribuzione di senso e dal contesto
ambientale e sociale (trascendenza dell'Altro, nel senso di indipendenza e distinzione
da sé). Il volto appare come l'assolutamente trascendentale in quanto "straniero",
distinto ed estraneo a noi; esiste prima di ogni nostra iniziativa o potere. L'altro non è
posto dell'io (non deriva dalla coscienza soggettiva), anzi è tale da mettere in
discussione il nostro stesso potere sul mondo. Il volto dell'altro non accetta di
essere rinchiuso nella coscienza soggettiva, di essere imprigionato entro l'io
soggettivo; non accetta limiti e quindi è infinito. È la nuova idea di infinito, come
infinitamente altro (distinto) dal soggetto, che Levinas contrappone all'idea di
essere come totalità onnicomprensiva e impersonale ed alla sua pretesa di
eliminare, assorbendole in sé, la molteplicità e varietà del reale e
l’intersoggettività.
La trascendenza del volto, per il suo porsi al di là di ogni totalità (principio)
immanente, richiama l'infinito o, meglio, è la modalità con cui l'infinito si manifesta
all'uomo. Levinas distingue quindi fra totalità da un lato, che corrisponde all'essere
immanente (interno al soggetto e al pensiero) e inglobante (che tutto ingloba e
assorbe) della tradizione ontologica, ed infinito dall’altro, che coincide con quella
realtà trascendentale che è l'Altro in quanto volto irriducibile ad unica e medesima
totalità, che non è totalizzabile. La filosofia pertanto non è una "egologia", che
riduce cioè l'esistente all'ego, ad un unico Medesimo, ma è invece una "eterologia",
una disciplina rivolta all'altro da se, che vede nel rapporto con l'altro la struttura
stessa della realtà.
L'essere (la realtà) si produce come molteplicità mediante separazione tra il
Medesimo (l'ego soggettivo) e l'Altro (l’ego si separa dall’Altro distinguendolo da
sé, non lo considera più cosa propria ma si rende disponibile a riconoscerlo e
rispettarlo). Diviene così società e quindi tempo lungo il quale la società si evolve.
In tal modo si esce dalla filosofia dell'essere immobile parmenideo.
Il volto si manifesta originariamente come linguaggio e discorso e possiede una
esplicita valenza etica poiché, manifestandosi biblicamente nel povero e nello
straniero, nella vedova e nell'orfano, reca in sé il comandamento "non uccidere e
ama il prossimo tuo". Per queste sue caratteristiche il volto ci coinvolge,
rendendoci responsabili nei suoi riguardi (nei riguardi del prossimo).
La mia responsabilità per l'altro, verso qualsiasi uomo, implica che mi debba
sentire responsabile anche delle sue responsabilità verso gli altri,
indipendentemente dal fatto che egli lo sia nei miei riguardi. Nel momento in cui,
essendo in contatto con la persona B, sopraggiunge un terzo, ossia la persona C, non
posso fare a meno di chiedermi, pur amando incondizionatamente sia B che C, quale
sia in realtà il loro rapporto reciproco. Forse B ha derubato C? Forse lo ho offeso o
minacciato mortalmente? Quando l'iniziale rapporto duale diventa trio il problema si
complica. Il mondo in effetti non si riduce ad un unico faccia a faccia, ma esiste
192
193

sempre un terzo che è sia il mio prossimo sia il prossimo dell'altro che mi è venuto
incontro. Ciò significa che dietro la singolarità di due individui sta la società nel suo
complesso, la quale implica una correzione della asimmetria, dello squilibrio, (A
ama incondizionatamente B anche se non ricambiato) a favore della reciprocità. A
partire dal momento in cui siamo in tre, o di più, occorre paragonare e
giudicare, non basta più il solo amare incondizionatamente. Occorre cioè la
giustizia, uno Stato che imponga limiti rigorosi al privilegio che abbiamo
accordato al primo venuto. Solo a questo prezzo si può restare fedeli al senso di
responsabilità totale. Ma la giustizia, essendo esercitata dalle istituzioni sociali, deve
sempre venire controllata.
Dunque l'amore e la carità (su cui insiste il cristianesimo) debbono sempre
accompagnarsi alla giustizia (su cui insiste l'ebraismo). Giustizia che presuppone
lo Stato e le sue leggi, che a loro volta vanno mitigate dalla misericordia e
controllate dall'etica.
L'importanza attribuita alla relazione etica con l'Altro, che supera la dimensione
impersonale ed egocentrica dell'essere in generale per procedere, al di là dell'essere,
verso l'altruismo, spiega l'innovativa tesi di Levinas secondo cui la morale non è
un ramo della filosofia ma è filosofia prima, cioè la metafisica stessa. Da ciò
l'equivalenza etica= metafisica= religione. L'etica infatti implica non soltanto un
riferimento al prossimo ma anche a quell'Altro per eccellenza che è Dio, l'Altro
a cui rinvia il volto altrui. In questo senso la religione (da "re-ligo"= legare, unire
insieme) esprime il legame tra il Medesimo e l'Altro, quindi è metafisica e anche
etica.
Alla distinzione operata fra totalità e infinito, Levinas fa corrispondere la distinzione
fra ontologia e metafisica. La metafisica allude all'incontro con l'Altro, ovvero a
quell'evento per cui il Medesimo (l'io egocentrico) esce da sé. La metafisica si
accompagna con l'idea dell'infinito, cioè con l'unica idea che, secondo
l'insegnamento di Cartesio, implica un'eccedenza del contenuto (l'infinito) rispetto al
contenente (la coscienza) e che dunque non può essere generata dal nostro spirito.
L'idea dell'infinito infatti non proviene dal fondo del nostro io ma è ricevuta in
concomitanza con l'esperienza dell'altro e rappresenta un "prodigio" tale da
provocare uno sconvolgimento all'interno dell'io, sconvolgimento che si identifica
col desiderio.
Levinas distingue tra bisogno e desiderio. Il bisogno esprime una mancanza o
privazione di qualcosa da parte del soggetto, mancanza che una volta soddisfatta
estingue il bisogno. Il desiderio è invece slancio altruistico, continua tensione mai
soddisfatta verso l'Altro, verso ciò che è più dell'essere. Per Levinas gli altri non
sono né il mio nemico (come in Hobbes e Hegel), né il mio complemento (come in
Platone) che si costituisce solo perché manca qualcosa alla sussistenza materiale di
ciascun individuo. Il desiderio degli altri -la socialità- nasce in un essere che non
manca di nulla o, meglio, nasce al di là di ogni bisogno da appagare: il desiderio si
rivela come bontà.
Dall'identità tra metafisica e rapporto con l'Altro consegue, come abbiamo visto,
l'identità tra metafisica ed etica, la quale è vista come lo spazio concreto in cui la
193
194

metafisica si costituisce e vive. È soltanto in funzione della morale che acquistano


senso e significato i concetti fondamentali della filosofia. Questa supremazia
dell'etica non significa che Levinas si ponga come scopo primario di delineare una
nuova etica, ma soltanto di cercarne il senso autentico, i principi primi. In quanto
metafisica ed infinità, l'etica si identifica allora con Dio e con la religione che
unisce il Medesimo all'Altro. E ciò proprio in virtù della trans-ascendenza umana,
cioè del fatto che l'io non è un semplice essere nel mondo (Heidegger) ma anche un
essere per l'altro, per cui si ha allora l'avvento di Dio nell'essere o l'esplosione
dell'essere verso Dio. L'Altro non è infatti solo l'altro uomo ma anche e soprattutto
Dio, cioè l'infinito nella sua assolutezza, l'infinitamente altro.
Levinas parla di Dio con grande cautela e misura, non solo in ottemperanza
all'antico comandamento che impedisce di nominare la divinità invano, ma poiché
ritiene che il filosofo debba avvicinarsi al Supremo evitando di ridurlo ad un sapere,
ad un possesso cognitivo che lo assimili o inglobi. Dio è, biblicamente, l'indivisibile,
che non può essere ridotto ad oggetto e che non può esser afferrato. L'unico luogo di
incontro tra l'uomo e l'Assoluto (Dio) è costituito dal prossimo. Il movimento che
conduce verso Dio passa attraverso il movimento che conduce verso gli altri. Dio mi
guarda tramite il volto e gli occhi dell'altro. Tuttavia, pur essendo supremamente
presente, Dio risulta anche supremamente assente, in quanto la traccia che egli
lascia sul volto altrui non svela tuttavia il suo mistero, anzi mette fuori gioco ogni
presunto sapere, sia pur soltanto analogico (costituito da semplici analogie). Solo
l'esperienza della separazione (dell'infinita differenza) tra uomo e Dio è capace di
salvaguardare l'infinita distanza del creatore e la libertà della creatura: la creatura
non può essere libera se non è distinta dal creatore. Da ciò la polemica contro le
religioni positive per la loro concezione inadeguato di Dio stante la pretesa di
accostarlo e di conoscerlo concettualmente. Per contro, Levinas valorizza l'ateismo
inteso come momento di passaggio per una fede autentica, per una religione senza
miti: Dio non è accessibile a chi non ha mai nutrito il dubbio.
L'apertura e la disponibilità verso l'Altro è tensione e spinta inarrestabile, anteriore
rispetto allo stesso io (alla coscienza soggettiva), che ci sospinge verso quell’"Altro"
che è trascendenza assoluta, cioè Dio, l'infinito nella sua assolutezza, irriducibile in
quanto tale a sapere, a conoscenza. Dio lascia traccia di sé solo nello slancio verso il
prossimo ed il prossimo è l'unico modo per incontrare Dio.

Hans Jonas (1903-1993).

Ebreo di nascita, vive in Germania; studia con Husserl e Heidegger e ha come


compagna di studio Hannah Arendt. Dopo l'avvento del nazismo emigra in
Inghilterra, poi in Polonia ed infine in Canada e a New York. Di impostazione
prevalentemente laica, nutre interessi poliedrici: si interessa di filosofia, teologia,
storia delle religioni, biologia, medicina, tecnologia, ecologia e bioetica.
194
195

Opera principale: Il principio di responsabilità. Ricerca di un'etica per la civiltà


tecnologica.
Il suo percorso intellettuale può essere diviso in tre tappe:
1. lo studio della gnosi tardo antica, o gnosticismo, secondo un'analisi esistenziale (la
gnosi -II e III secolo d.C.- è una concezione dualistica del mondo divino in cui
convivono e si contrappongono spirito e materia, anima e corpo, un Dio buono e
potenze malvagie; è una forma di conoscenza intesa come illuminazione e
riservata a pochi iniziati, in cui la fede e le opere non hanno importanza,
prevalendo l'aspetto teoretico-conoscitivo);
2. l'interesse per le scienze naturali nella prospettiva di una filosofia dell'organismo;
3. l'interesse per i problemi di filosofia pratica posti dall'odierna civiltà tecnologica.
Nello studio dello gnosticismo è divenuto uno dei massimi esperti mondiali offrendo
un originale visione d'insieme. Prima di lui lo gnosticismo si presentava come un
agglomerato di teorie prive di un principio esplicativo unificatore. L'originalità di
Jonas, ispirandosi alla nozione heideggeriana di "situazione esistenziale” e
sviluppando quindi una interpretazione esistenzialistica, consiste nel tentativo di
rintracciare l'essenza stessa dello gnosticismo. Si accorge che molti punti di vista
heideggeriani gli permettevano di vedere aspetti del pensiero gnostico dapprima non
avvertiti. Per Jonas l'essenza di fondo dello gnosticismo è quella della "vita
straniera", cioè del trovarsi gettati a vivere in un mondo nel quale ci si sente
estraniati, "non a casa", sia perché costretti a vivere in un mondo pieno di mali sia
perché lontani dalla trascendenza, cioè dalla vera origine. Nella letteratura gnostica
questi temi ricorrono di continuo: la vita è stata gettata nel mondo; la luce gettata
nelle tenebre; l'anima nel corpo. Essi esprimono la violenza originaria recata nel
farci essere quelli che siamo e dove siamo senza possibilità di scelta. Inizialmente
Jonas pensava di aver trovato nell'analisi esistenziale di Heidegger
un'interpretazione ermeneutica universale, capaci di fungere da modello esplicativo
di ogni esistenza umana. Poi si ricrede e vede nell'esistenzialismo non già la
spiegazione dei fondamenti universali dell'esistenza ma invece la filosofia di
un'epoca particolare dell'esistenza umana storicamente determinatasi, valendo in
altre epoche storiche interpretazioni diverse: ad esempio il creazionismo ed il
finalismo teologico medievale; la gnoseologia razionalistica da Cartesio a Kant o
l'idealismo. Giunge comunque alla conclusione che gnosticismo ed esistenzialismo,
pur lontani nel tempo e molto diversi, partono da un'analoga esperienza del mondo:
entrambi sono caratterizzati da un comune fondamento metafisico di tipo nichilistico,
anche se rispettivamente differenti. Il nichilismo gnostico è quello dell'uomo che si
sente gettato in una natura antidivina, antagonista e perciò antiumana (contrasto tra
il principio del bene e quello del male); il nichilismo moderno è quello dell'uomo che
si sente gettato in una natura indifferente ma proprio per questo esso è assai più
radicale e disperato, rappresenta il vuoto assoluto, l'abisso senza fondo.
Riflettendo sul nichilismo che ha caratterizzato sia lo gnosticismo antico come il
pensiero moderno (nichilismo=concezione secondo cui niente è certo, non vi sono
conoscenze e valori certi e stabili), Jonas si persuade che il suo fondamento
metafisico nasca in ogni caso dal dualismo, cioè dalla separatezza e contrasto tra
195
196

uomo e mondo, tra natura e spirito, tra uomo e Dio. Quindi il superamento del
nichilismo implica il superamento del dualismo.
Da ciò il passaggio alla seconda tappa del suo pensiero, caratterizzata
dall'interesse per la natura, ignorata invece dagli interessi teoretici (conoscitivi) e
storici della filosofia. La linea dominante della filosofia tedesca dell'epoca,
rappresentata da un lato dal neokantismo (Habermas e Apel) e dall'altro dalla
fenomenologia e dall'esistenzialismo, lasciava sommersa l'ampia base organica e
fisiologica su cui poggia il "miracolo" della mente. Heidegger ad esempio parlava
dell’"esserci" (dell'uomo) come cura per sé e per gli altri, ma non diceva nulla del
primo fondamento fisico che impone la cura, ossia la nostra corporeità, tant'è che
riduce la natura semplicemente a ciò che è a disposizione, senza tener conto che
l'uomo deve anzitutto mangiare.
Jonas sviluppa quindi una filosofia della realtà organica, una sorta di biologia
filosofica, avente come tema centrale l'organismo. Nell'organismo infatti si
ricompone in unità il dualismo di interno ed esterno, di soggettività ed oggettività,
di coscienza e corporeità, di materia e spirito, superando altresì il tradizionale
dualismo cartesiano. Il rifiuto del dualismo non comporta tuttavia l'adesione ad un
monismo (=esiste un unico principio della realtà) classico, materialistico o idealistico,
giudicati entrambi unilaterali poiché il materialismo assoggetta lo spirito alle leggi
della materia e l'idealismo risolve la materia nelle leggi dello spirito. Da ciò appunto
la sua teoria dell'organismo tesa a salvaguardare sia l'unità materia-spirito della realtà,
sia l'autonomia delle forme, materiali o spirituali, in cui essa si manifesta.
In seguito, con l'evoluzione animale in gradi fisici e psichici sempre più elevati sino
a giungere con l'uomo al proprio vertice, cresce anche la libertà e con la libertà
compare la dimensione etica, terza tappa dello sviluppo del pensiero di Jonas.
L'etica è intimamente legata alla libertà (col determinismo infatti non ci sarebbe né
etica né dover essere: se non vi fosse libertà di scelta tra bene e male non vi sarebbe
merito o demerito e conseguente responsabilità morale) tuttavia, osserva Jonas, il
dover essere (l'etica), pur oltrepassando la condizione dell'essere, si fonda pur
sempre su quest'ultimo. Diviene quindi preoccupazione di Jonas di fondare
l'etica nell'ontologia (l'etica non è autonoma ma è in ogni caso situata nella realtà),
secondo l'idea che il dover essere trascende la teoria dell'essere (della realtà) ma vi
resta comunque sempre radicato. Conformemente all'ispirazione fondamentalmente
teologica del suo pensiero, per Jonas solo un'etica che non spezzi i suoi legami con
la totalità dell'essere, e dunque anche con Dio, può aver rilevanza. Un'etica non
più ancorata all'autorità divina diviene prima o poi vittima del soggettivismo e del
relativismo.
L'ideale di una fondazione ontologica dell'etica ispira altresì la teoria del
“principio di responsabilità”, che caratterizza la filosofia pratica cui infine
approda Jonas, non solo in conseguenza della filosofia dell'organismo ma anche
a causa dello shock provocato dalle potenzialità distruttive della tecnica.
La paura di un'imminente catastrofe tecnologica nasce dalla constatazione che il
sogno di un dominio-sfruttamento illimitato del mondo ha prodotto una situazione in
cui l'uomo è diventato per la natura più pericoloso di quanto quest'ultima sia mai stata
196
197

per lui. È una minaccia che non proviene dal pericolo, evitabile, di un improvviso
olocausto atomico, quanto piuttosto dall'effetto cumulativo di tutta la nostra
tecnologia praticata ogni giorno anche nella sua forma più pacifica.
Jonas non critica la tecnica in quanto tale, divenuta indispensabile alla nostra
sopravvivenza, ma l'uso che ne viene fatto. È quindi necessario elaborare una
nuova etica della responsabilità, profondamente diversa dalle morali tradizionali.
Mentre queste ultime si soffermavano esclusivamente sull'uomo, ossia erano di tipo
antropocentrico e riguardavano soltanto "il qui e ora", cioè la contemporaneità, la
nuova etica deve porsi il problema degli effetti anche a medio e lungo termine
delle nostre azioni e tener conto altresì delle generazioni future e della
salvaguardia della natura. Non possiamo più richiamarci alle consuete etiche della
coscienza o dell'intenzione, ignorando e trascurando le possibili conseguenze dei
nostri atti. Non basta più essere a posto con la propria coscienza od accontentarsi di
regole formali di tipo evangelico o kantiano (il dovere per il dovere). L'attuale civiltà
tecnologica impone l'esigenza di passare da un'etica antropocentrica ad un'etica
planetaria e da un'etica della prossimità (rivolta alla contemporaneità) ad un'etica
dei posteri (attenta alle condizioni di sopravvivenza per le generazioni future). Al
posto del vecchio imperativo categorico kantiano subentra il nuovo imperativo
dell'età tecnologica: "Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano
compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra". Oppure: "Non
mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell'umanità sulla
terra".
Ma perché, si chiede Jonas, dobbiamo sacrificarci per le generazioni future che
siamo destinati a non conoscere mai? Su quale principio filosofico si basa
l'incondizionato dovere di far sì che la vita continui indefinitamente? Quale diritto
possono esercitare coloro che non sono ancora su coloro che ci sono già? A
proposito dei non ancora nati Jonas osserva che non si può, a rigore, parlare di
diritti: il diritto dell'essere inizia soltanto con l'essere. Perché dunque la vita e
l'essere sono un bene da salvaguardare e da preferire al non essere? Si può
rispondere a questi interrogativi facendo riferimento ai fondamenti metafisici
dell'etica, fa presente Jonas. Si è visto che per Jonas l'etica è ancorata (e non
indipendente) alla metafisica. Qual è dunque il fondamento metafisico della
morale?
Al riguardo Jonas è in disaccordo con quasi tutte le correnti dominanti della filosofia
del ventesimo secolo: la filosofia analitica, il positivismo logico, la filosofia del
linguaggio. Queste, in conformità alla legge di Hume per cui non si può passare
dall'essere al dover essere, cioè dalla constatazione dei fatti alla prescrizione dei
valori, sono tutte posizioni che dichiarano filosoficamente accettabili solo quei
problemi per i quali ci si può aspettare una risposta empiricamente verificabile. Ma
Jonas si rifiuta di piegarsi a questa concezione. In alternativa, egli prosegue, una base
all'etica può essere fornita anche da una fede religiosa. Ma poiché la fede non è
"disponibile su ordinazione" (non può essere un comando), siamo ancora una volta
rimandati alla metafisica la quale, essendo una faccenda non di fede ma di ragione, si
presta al nostro argomentare.
197
198

Jonas affronta dunque dal punto di vista metafisico il tema di un possibile


"dover essere dell'essere", tale da consentire l'oggettivazione dei valori
(l'individuazione di valori oggettivi e non soggettivi, variabili da individuo a
individuo nonché nel tempo). Egli mostra che in natura vi sono degli scopi in sé e
che la presenza di scopi nell'essere (nella realtà) è infinitamente superiore
all'assenza di scopi. Nella capacità di avere scopi possiamo scorgere un bene in sé,
la cui superiorità rispetto ad ogni assenza di scopo è intuitivamente certa: siamo di
fronte ad una autoevidenza. L'essere, tendendo verso uno scopo, si autoafferma in
modo sostanziale, si pone come migliore rispetto al non essere. In ogni scopo
l'essere si dichiara a favore di se stesso e contro il nulla. L'uomo deve far sua questa
riflessione e imporre a se stesso la negazione del non essere. Alla base delle
argomentazioni di Jonas sta quindi la persuasione, più aristotelica che moderna,
secondo cui nel mondo scopi e valori sono ontologicamente fondati, ossia non
riducibili alle nostre soggettive attribuzione di senso. La natura custodisce dei valori
in quanto custodisce degli scopi ed è pertanto tutt'altro che "avalutativa". Due sono in
merito le premesse della tesi di Jonas: 1) il riconoscimento della struttura
teleologica (finalistica) dell'essere, della realtà; 2) l'assioma (il postulato) ontologico
della superiorità dello scopo rispetto all'assenza di scopo. Da tali premesse
discende per l'uomo il dovere di far suo il dovere di salvaguardare il finalismo
dell'essere e, in primis, nei confronti della conservazione della vita.
Aristotelicamente Jonas afferma che vi è un dovere intrinseco all'essere, ossia un
finalismo interno all'ordine delle cose, il quale fa sì che la vita esiga la propria
salvaguardia. Se il bene (o il valore) è concettualmente definibile come quella cosa la
cui possibilità include l'esigenza della sua attuazione, diventando così un dover
essere, deriva che il dover essere dell'umanità risulta deducibile dall'idea di uomo.
Perciò, prima di essere responsabili verso gli uomini, noi siamo assolutamente
responsabile verso l'idea di uomo, la quale in quanto bene esige la sua
realizzazione e in quanto idea riguarda non solo i contemporanei ma anche i
posteri. Ne consegue che il principio primo della preservazione dell'umanità non sta
nell'etica intesa come legge di condotta e di azione, bensì sulla superiore idea di
uomo che, in quanto idea, poggia sulla metafisica in quanto dottrina dell'essere di cui
l'idea di uomo costituisce una parte.
La cura a salvaguardare, mediante l'azione, il diritto alla vita anche delle generazioni
future costituisce il (nuovo) principio di responsabilità umana. Essa trova il suo
archetipo (prototipo) genetico, ma anche gnoseologico in virtù della sua evidenza
immediata, nella responsabilità e nella cura dei genitori per il figlio. La presenza di
tale archetipo confuta, secondo Jonas, uno dei dogmi imperanti della nostra cultura,
ossia l'idea di un presunto divario tra essere e dover essere colmabile soltanto da un
intervento divino o umano (entrambi poco affidabili, l'uno a causa della problematica
l'esistenza di Dio, l'altro a causa della mancanza di indiscussa autorità degli atti
umani). La responsabilità dei genitori rappresenta inoltre il prototipo originario di
ogni cura per gli altri e trova la sua generalizzazione nella responsabilità e nella cura
dell'uomo di Stato verso la cosa pubblica.

198
199

L'emergere di questa nuova etica della responsabilità esige che al posto di un


ambizioso programma verso un paradiso terrestre venga piuttosto sostenuto un
minimalismo programmatico che, contro ogni utopia di perfezione umana,
individui nella sopravvivenza dell'umanità l'obiettivo primario. L'utopismo che
ha incarnato i sogni più antichi dell'umanità sembra ora trovare nella tecnica anche i
"mezzi" per tradurli in pratica. Ma nella situazione presente esso non costituisce più
una innocua evasione dall'esistente bensì un potenziale alleato della catastrofe
tecnologica. L'utopismo prometeico dell'Occidente ha storicamente assunto, per
Jonas, due forme principali: 1) quella baconiana (sapere è potere); 2) quella marxista,
che unifica finalismo e tecnica, prassi rivoluzionaria e assoggettamento della natura,
ideale utopico e idea di progresso. In particolare, prosegue Jonas, il programma
marxista integra l'originario modello baconiano del dominio della natura con quello
della trasformazione della società.
Allo stato attuale tre sono i limiti e i pericoli individuabili nell'utopismo:
1. l'ideale di una ricostruzione del pianeta Terra mediante la tecnologia,
dimenticando che l'aggressione tecnica della natura ha dei limiti quantitativi
ben precisi;
2. le tentazioni più estreme, quali l'illusorio sogno di Bloch di un "paradiso del
tempo libero", che si fonda sulla falsa ipotesi di un regno della libertà al di
fuori di quello della necessità (che non tiene conto delle condizioni limitate che
accompagnano necessariamente la natura umana);
3. la dottrina secondo cui la storia finora svoltasi non avrebbe ancora realizzato
l'uomo autentico.
Contro questa ideologia del pretendere sempre di più, che riduce l'uomo del passato a
semplice concime di quello futuro, Jonas afferma che l'uomo autentico, pur
nell'ambiguità della sua natura finita, della sua grandezza e della sua miseria, della
sua felicità e tormento, della sua innocenza e colpa, "è già da sempre esistito". Ogni
situazione presente dell'umanità costituisce un fine in se stesso e nulla è semplice pre-
figurazione dell'autenticità che deve ancora venire.
Non meno pericolosa dell'utopia marxista è quella del capitalismo tecnologico che
insegue un sempre crescente profitto.
Jonas non prende posizione né a favore del sistema capitalistico né di quello
marxista, auspicando piuttosto uno sforzo collaborativo di tutti nella convinzione che,
essendo tutti sulla medesima barca, si dovrà pur far qualcosa insieme.
Jonas oppone l'elogio della cautela contro ogni euforia utopistica, affermando che
la responsabilità si nutre sì della speranza ma anche della paura, ossia della
considerazione dei rischi che possono derivare da azioni irresponsabili o
semplicemente indifferenti ed ignare delle possibili conseguenze. Questa
valorizzazione della paura conduce Jonas a parlare di una euristica (di una nuova
scienza e ricerca) della paura, per scoprire i nuovi ed ancora sconosciuti principi etici
che devono definire i nuovi doveri concreti dell'uomo tecnologico al fine di tutelare
l'umanità e la natura da scelte irresponsabili. Ma l'individuazione di questi principi e
di questi doveri non può scaturire solo dalla testa dei filosofi. Implica un lavoro
interdisciplinare tra biologi, agronomi, fisici, chimici, geologi, climatologi, ingegneri,
199
200

urbanisti, ecc. e deve essere sostenuto da una serie di interventi politici ed economici
a livello internazionale. Dalla sola filosofia non ci si può attendere la salvezza del
mondo. In questa fase di emergenza la filosofia funge piuttosto da stimolo per
l'acquisizione di una coscienza ecologica mondiale e per la responsabilizzazione
etica dell'umanità.
Il timore di una possibile catastrofe ecologica non conduce tuttavia Jonas verso
esiti pessimistici, conservando una moderata fiducia nella ragione dell'uomo perché
anche il dubitare di essa sarebbe irresponsabile e ci condurrebbe ad una rassegnata o
cinica inazione. Pur nella paura della catastrofe tecnologica non dobbiamo
dimenticare che la tecnica è un'opera della libertà umana e che il sapere non deve mai
rinunciare al proprio sviluppo. Insomma, il principio di responsabilità di Jonas
intende mantenersi nel solco del razionalismo occidentale e fungere da sorta di terza
via fra l'eccesso di speranza e l'eccesso di disperazione.
Da ultimo Jonas si è sempre più occupato di tecnologia genetica e di conseguenti
questioni bioetiche. Sull'eutanasia ha espresso la convinzione che il diritto
(individuale) di vivere include in determinate circostanze anche il diritto (individuale)
di morire (malati gravi terminali). Invece, per quanto riguarda la clonazione e
manipolazione genetica dell'uomo volta a rimodellare la specie secondo un modello
scelto da noi stessi, sostiene che noi non siamo autorizzati ad arrogarci un tale ruolo.
Non abbiamo il diritto di intrometterci in quel profondo segreto che è l'uomo. Non
siamo i soggetti che possono ri-creare l'uomo perché siamo stati già creati. L'essere
(la realtà), come coesistenza pacificata e riunificazione dell'uomo e della natura, è in
sé bene. L'uomo è, in particolare, il custode dell'essere e, come tale, è obbligato a
porre dei limiti alla propria azione in nome della struttura ontologica (costitutiva) del
creato.
Poco tradizionale e singolare è peraltro la maniera di concepire i rapporti Dio-
mondo e Dio-uomo, specie di fronte all'olocausto subito paradossalmente proprio dal
popolo eletto di Dio. Noi attribuiamo a Dio il carattere della assoluta e illimitata
onnipotenza. Ma di fronte al male del mondo, di fronte ad Auschwitz, tale attributo
deve venir abbandonato, per quanto scandaloso possa apparire tale abbandono. Dio
non è intervenuto ad impedire a Auschwitz non perché non lo volle ma perché non fu
in condizione di farlo. Infatti, concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla
sua potenza. Se c'è qualcosa di vero nel fatto che l'uomo è stato creato ad immagine
di Dio, e quindi parzialmente partecipe altresì della ragione e della libertà divina, la
creazione fu l'atto di assoluta sovranità con cui la divinità ha accettato di non essere
più assoluta ed onnipotente: un'opzione radicale, un atto di autoalienazione divina, a
tutto vantaggio dell'esistenza di un essere finito, posto in grado tuttavia di
autodeterminare se stesso. Un pensiero di questo tipo contrasta con la visione biblica
di un Dio-Provvidenza e Jonas ne è programmaticamente consapevole, anche se lo
ritiene l'unico possibile per mettere d'accordo la bontà e la comprensibilità
dell'Assoluto. Tuttavia Jonas riconosce pure che ogni teodicea (giustificazione-
spiegazione del male nel mondo), ivi compresa la sua, è soltanto un "balbettio".

200
201

Hannah Arendt (1906-1975).

Nasce a Koenigsberg da famiglia ebrea. Tra i suoi maestri vi sono stati Heidegger,
Husserl e Jaspers. Con l'avvento del nazismo è costretta a fuggire dalla Germania e si
rifugia prima in Francia e poi negli Stati Uniti.
Come ebrea assume una posizione assolutamente autonoma: non partecipa al
movimento ebraico per la costituzione dello Stato di Israele, ma neppure sta dalla
parte degli ebrei integrati nel mondo borghese o comunista.
Opere principali: Le origini del totalitarismo; La vita attiva; La banalità del male.

Le origini del totalitarismo.

"Le origini del totalitarismo", pubblicata nel 1951, è l'opera che rende famosa
Hannah Arendt in tutto il mondo.
La Arendt individua le cause del totalitarismo nell'antisemitismo da una parte e
nell'imperialismo dall'altra (imperialismo=l'ambizione degli Stati più potenti a
formare vasti imperi, sia attraverso la conquista di territori confinanti sia attraverso la
conquista di colonie, da cui il termine "colonialismo"). Dalla combinazione di
antisemitismo e di imperialismo, dice la Arendt, è nato il totalitarismo con caratteri
comuni sia nella Germania nazista sia nell'Unione Sovietica. Totalitario (da cui il
termine di "totalitarismo") è quello Stato che vuole governare e regolare "tutto", non
solo la vita pubblica ma anche la stessa vita privata dei cittadini, regolare cioè anche
il loro modo di pensare e i loro comportamenti; di conseguenza lo Stato totalitario è
quello che abolisce la libertà di parola, di associazione e la libera iniziativa ed azione
dei cittadini.
Il totalitarismo, prosegue la Arendt, è un fatto nuovo del XX secolo, diverso dai
tradizionali regimi dispotici, tirannici o dittatoriali. In esso le diverse classi sociali
che compongono la società sono trasformate in una massa indifferenziata di
individui; sono aboliti i diversi partiti politici e vengono sostituiti con la dittatura di
un partito unico e con la costituzione di un potere politico centrale che non lascia
spazi all'esistenza di governi locali (Regioni, Province, Comuni) dotati di una certa
autonomia. Tutte le decisioni sono prese da un unico centro e gli enti locali hanno
solo il compito di attuarle ed eseguirle. Gli strumenti con cui si impone lo Stato
totalitario sono quelli di una burocrazia statale onnipotente, della polizia segreta e dei
campi di concentramento, nei quali si rinchiudono ed anche si eliminano gli
oppositori.
I totalitarismi sorgono quando prevalgono ideologie (modi di pensare) autoritarie
e, appunto, totalitarie, come il nazismo, il fascismo, il comunismo, che credono loro
soltanto di sapere quale debba essere la forma giusta della società e quale sia il senso
e il cammino della storia. Sono ideologie che pretendono di imporre a tutti, anche con
la forza e con il terrore, il loro modo di considerare la società e l'andamento della
storia, perché loro soltanto si ritengono in possesso della verità.

201
202

Ma quali sono, si chiede la Arendt, le condizioni sociali che permettono


l'affermarsi delle ideologie totalitarie e dei totalitarismi? Esse consistono
nell'avvento della società di massa. La società di massa è quella in cui non ci sono
più gruppi e associazioni sociali fra di loro uniti e quindi forti (ad esempio le
associazioni di contadini, di operai, di professionisti), capaci cioè di impedire che si
formi un governo centrale totalitario, in grado di sopprimere l'autonomia e la libertà
di queste associazioni. Nella società di massa i singoli individui sono tra loro isolati,
non sono riuniti in gruppi ma anzi, spesso, non si interessano dei problemi politici e
sociali. La Arendt parla in proposito di "estraniazione" dei singoli individui dalle più
importanti questioni sociali. Gli individui non si occupano più, come si deve, di
politica e così favoriscono l'avvento dei totalitarismi.

La vita attiva.

Nell'opera "La vita attiva" (il titolo esatto è "La vita activa"), pubblicata nel 1958, la
Arendt si propone di spiegare quali siano state le cause culturali e sociali che hanno
portato all'estraniazione, cioè al disinteresse degli individui della società di massa per
i problemi sociali e politici, favorendo l'avvento dei totalitarismi: se i singoli
individui non si occupano più di politica saranno allora i regimi totalitari ad occuparsi
di loro.
La vita attiva riguarda l'attività umana, "ciò che gli uomini fanno", e si distingue
dalla vita contemplativa, che riguarda ciò che gli uomini pensano, vogliono e
giudicano.
Tre sono per la Arendt le principali attività umane in cui si può suddividere la
vita attiva:
1. l'attività lavorativa (animal laborans), riguardante quelle attività umane,
simili a quelle degli animali, che l'uomo svolge per garantire la sua
sopravvivenza naturale e biologica (mangiare, vestirsi, avere una casa);
2. l'attività produttiva (homo faber), che riguarda tutti i prodotti artificiali che
l'uomo costruisce per migliorare la propria vita e che vanno oltre le naturali
necessità del mangiare, del vestirsi ed avere un rifugio (ad esempio i
divertimenti, le macchine, ecc.);
3. l'attività politica (animal publicum), che riguarda le regole sociali, del vivere
in società, che l'uomo si dà.
La Arendt osserva che è stata attribuita una maggiore importanza alla vita politica
soprattutto nell'antica Roma, mentre, col tramonto dell'impero romano e con
l'affermarsi della società cristiano-medioevale, rileva che la vita attiva si è
indebolita ed ha acquistato maggior importanza la vita contemplativa, dal
momento che la vita ultraterrena veniva considerata superiore a quella terrena e a
quella politica e sociale. Ma già fin da Platone ed Aristotele la vita contemplativa,
del pensiero e della conoscenza pura, venne considerata più importante della vita
attiva: la teoria fu ritenuta superiore alla prassi. Il cristianesimo non fece che
confermare questa tendenza.
202
203

Con l'avvento dell'età moderna, a seguito della rivoluzione scientifica del 1600, la
vita attiva torna a divenire superiore rispetto alla vita contemplativa, ma non per
quanto concerne l'attività politica bensì solo per l'attività lavorativa e
produttiva. Il vero iniziatore dell'età moderna è stato Cartesio, che con il suo dubbio
(dubbio cartesiano) ha invitato ad accettare per vero solo ciò che appare chiaro e
distinto all'intelletto, assolutamente evidente, e ha quindi favorito lo sviluppo di
filosofie propense a dubitare di ogni tentativo di comprendere le essenze (il senso
profondo) del mondo nonché di conoscere le cose non prodotte dall'uomo. Il dubbio
si è successivamente esteso anche al senso del sacro e del divino, dando avvio al
processo di secolarizzazione (desacralizzazione) della società contemporanea.
La maggior importanza attribuita alla vita attiva, fermatasi all'attività
lavorativa e produttiva materiale ed al venir meno dell'interesse per la politica, è
un fenomeno che si è diffuso soprattutto con l'avvento della società industriale e
della società di massa e dei consumi. L'individuo della società di massa è divenuto
più egoista, maggiormente preoccupato del proprio benessere materiale, trascurando
sempre di più l'impegno politico e sociale. Tale disinteresse crescente nei confronti
dei problemi politici e sociali ha agevolato l'affermarsi dei totalitarismi, poiché
quando gli individui non si preoccupano di difendere la loro libertà e non partecipano
più alla vita politica, o sempre di meno, i regimi totalitari ne approfittano per imporsi.
Duplice è stato per la Arendt lo sviluppo culturale e sociale negativo che ha
caratterizzato l'odierna società di massa:
1. l'aver attribuito minor importanza all'attività politica rispetto a quella lavorativa
e produttiva;
2. l'aver attribuito maggior importanza alla vita attiva rispetto a quella
contemplativa, poiché se è sbagliato considerare la vita contemplativa più
importante di quella attiva è pure sbagliato considerare più importante la vita
attiva. Entrambe devono avere invece pari ed uguale valore. La vita
contemplativa infatti, riguardando il pensare, il volere e il giudicare, riguarda
l'esigenza di dare un senso, un significato ed uno scopo a quello che si fa, cioè
alla vita attiva. Non basta fare tanto per fare o per riempirsi di prodotti
materiali. Occorre anche comprendere il valore conoscitivo e morale di ciò che
si produce, se è cioè utile e vantaggioso non solo per il benessere materiale ma
anche per lo sviluppo culturale, sociale e spirituale dell'umanità.

La banalità del male.

La Arendt partecipa come osservatrice, a Gerusalemme, al processo contro Adolf


Eichmann, il funzionario-burocrate nazista che aveva mandato al forno crematorio
centinaia di migliaia di ebrei. Rimane colpita dal comportamento di Eichmann che, in
buona fede, non si sente per niente responsabile e colpevole, convinto di essersi
limitato a compiere il proprio dovere nell'eseguire gli ordini ricevuti dai suoi
superiori e dichiarandosi perciò una persona perbene, un buon padre di famiglia. La
Arendt allora scrive nel 1963 il volume "La banalità del male. Eichmann a
203
204

Gerusalemme", nel quale amaramente osserva che possono fare il male, come
Eichmann, anche persone che non si sentono e non intendono essere malvagie.
Eichmann infatti era davvero, per il resto, un buon padre di famiglia, un burocrate
ordinato e meticoloso, una persona normale o, si può dire, un uomo "banale".
Tuttavia anche il più normale degli uomini può commettere il male senza rendersene
veramente conto, il che non cancella la colpa, se sta dentro ad un meccanismo
politico-sociale e ad un regime totalitario poliziesco che lo spingono ad agire e a fare
il male senza pensare e pensarci.
Da ciò l'importanza di una vita attiva che non si limiti passivamente e
meccanicamente all'attività lavorativa e produttiva, ma che partecipi invece
consapevolmente anche all'attività politica. Da ciò, altrettanto, l'importanza
della vita contemplativa accanto a quella attiva, per la necessità di non agire
meccanicamente e passivamente, bensì di capire e rendersi conto del senso e del
significato di ciò che si fa, rifiutandosi quindi, anche se imposte, di compiere azioni
malvagie contrarie alla coscienza morale.

204
205

IL RINNOVAMENTO DELLA TEOLOGIA NEL NOVECENTO.

Gli sviluppi della società e della cultura contemporanea non hanno mancato di
produrre profonde ripercussioni anche in campo religioso. La teologia è stata
indotta a confrontarsi con nuovi problemi politici, economici, sociali e di costume
(secolarizzazione, società del benessere e dei consumi) nonché con la realtà sempre
più diffusa dell'ateismo.
Sebbene affondi le sue radici nel razionalismo e nell'illuminismo, l'ateismo filosofico
si è sviluppato soprattutto nell'Ottocento, con i cosiddetti "i maestri del sospetto",
vale a dire Feuerbach (Dio è una proiezione illusoria dei desideri umani), Marx (la
religione è la falsa coscienza di un mondo alienato), Nietzsche (Dio è morto e il
mondo ultraterreno è una menzogna), ed altresì con i movimenti filosofici del
positivismo (la religione è una forma di conoscenza pre-scientifica),
dell'esistenzialismo, del neoempirismo, del neomarxismo e della psicoanalisi
freudiana (la religione è una forma di nevrosi infantile). Mentre nell'Ottocento
l'ateismo era ancora un fatto intellettuale e di élite, nel Novecento si estende a fasce
sempre più vaste di persone.
I problemi sociali, politici ed economici pongono alle Chiese l'esigenza di
confrontarsi sulla questione sociale, sulle lotte di emancipazione dei popoli del Terzo
mondo, sulla "sfida marxista". L'incontro con questo insieme di fenomeni ha
stimolato da parte dei teologi, soprattutto dell'area protestante ed americana, un
ampio dibattito sul problema della secolarizzazione, della società del benessere e
del comunismo materialista, nella persuasione di un possibile e necessario
rinnovamento della teologia contro l'ateismo e contro l'umanesimo immanentistico
(che nega la trascendenza divina).
Entro la fondamentale distinzione fra teologia protestante e teologia cattolica,
emergono cosiddette "nuove teologie" distinguibili in sei principali indirizzi:
1. le teologie legate alla problematica della secolarizzazione, tra cui la teologia
della morte di Dio;
2. le teologie legate alle problematiche del concilio Vaticano Secondo (1962-
1965) e del rinnovamento del pensiero cattolico (K. Rahner);
3. le teologie legate alla problematica della speranza (Moltmann, Pannemberg);
4. le teologie legate alle problematiche della liberazione e della prassi (teologia
della liberazione, teologia politica, teologia nera, teologia femminista, ecc.);
5. le teologie legate alle problematiche ermeneutiche ed epistemologiche;
6. le teologie legate alle problematiche dell'identità e della specificità cristiana
(H. V. Balthasar).
Mentre i primi cinque indirizzi presentano punti di vista in comune e tutti mirano ad
un confronto con la modernizzazione, il sesto indirizzo è invece caratterizzato
dall'intento di recuperare la tradizione cristiana ponendosi, al limite, in una
prospettiva antimoderna in reazione a certo "modernismo" degli indirizzi precedenti.

205
206

La teologia protestante nella prima metà del Novecento.

Karl Barth (1886-1968): la "teologia dialettica" contro la "teologia liberale".

La teologia protestante tedesca dell'Ottocento e del primo Novecento è stato


dominata dalla "teologia liberale", che tendeva a mostrare un sostanziale accordo
tra cristianesimo e cultura, tra fede e ragione. Ma gli sconvolgimenti politici del
primo ventennio del XX secolo e l'apparizione di nuovi indirizzi filosofici come
l'esistenzialismo contribuiscono alla nascita e allo sviluppo della "teologia
dialettica", che ha in Barth il più eminente rappresentante.
Rifacendosi a Kierkegaard, per il quale esiste "un'infinita differenza qualitativa" tra
Dio e l'uomo, Barth denuncia tutti i tentativi di spiegare la parola di Dio con l'umana
ragione, ribadendo che tra uomo e Dio vi è non solo infinita distanza ma
addirittura opposizione sostanziale (teologia dialettica). Ogni tentativo di
comprendere Dio razionalmente è un'ingiuria alla trascendenza assoluta di Dio, che è
"il totalmente Altro". La fede non si appoggia sulla forza della ragione; essa è
piuttosto il miracolo dell'intervento verticale di Dio nella vita dell'uomo; è
l'inserzione dell'eternità nel tempo, la rivelazione e la grazia salvifica e, quindi,
l’"irragionevole" sottomissione e abbandono dell'uomo a Dio.
Contro la teoria cattolica dell’"analogia entis" (fra l'ente uomo e Dio vi sono parziali
somiglianze), cioè contro l'idea che sia possibile spiegare razionalmente qualcosa di
Dio, della sua esistenza e dei suoi attributi partendo dall'essere delle creature, Barth
oppone la teoria dell’"analogia fidei", secondo cui la nostra conoscenza di Dio è
dovuta tutta ed ed esclusivamente alla rivelazione di Dio, allorquando la grazia della
rivelazione divina ci raggiunge.
Rispetto a tale concezione il teologo Emil Brunner cerca peraltro di conciliare
l'analogia entis e l'analogia fidei, altrimenti la rivelazione sarebbe qualcosa del tutto
incomprensibile alla ragione.

Rudolf Bultmann (1884-1976) e la "demitizzazione".

Nel contesto del pensiero contemporaneo, Bultmann sente l'esigenza di demitizzare e


aggiornare l'interpretazione del Vangelo, ossia di aggiornare l'immagine che la
comunità cristiana primitiva si era fatta di Gesù, basata principalmente sul mito,
intendendo per mito la descrizione della trascendenza sotto veste mondana, ossia la
narrazione delle cose divine come se si trattasse di cose umane.
Per Bultmann la raffigurazione dell'universo da parte del cristianesimo primitivo
è mitica: la Terra è al centro, sopra di essa vi è il cielo e sotto gli inferi. Sulla Terra si
combattono le potenze sovrannaturali di Dio e dei suoi angeli e dei demoni.
Bultmann, distinguendo tra contenuto essenziale del Vangelo e forma espressiva
assunta, afferma che la predicazione cristiana non può pretendere dall'uomo
moderno che riconosca come valida un'immagine mitica del mondo. Perciò
206
207

occorre demitizzare, cioè scoprire il significato più profondo del Vangelo e del
cristianesimo celato sotto le concezioni mitologiche. Nel mito l'uomo viene posto di
fronte all'esperienza della sua incapacità di dominare il mondo e di comprendere la
vita, così come viene indotto a riconoscere che il mondo e la vita hanno il loro il
fondamento ultimo in una entità trascendente. Ma il pensiero moderno, ed in
particolare l'esistenzialismo, considera l'esistenza dell'uomo come un modo di essere
completamente diverso dalle altre cose e riconosce la storicità dell'esistenza in quanto
essa si realizza nel tempo attraverso scelte o decisioni responsabili. Allora per
Bultmann si tratta di essere preparati a scegliere e a ricevere la parola di Dio e la sua
grazia. La parola della salvezza divina può raggiungere l'uomo perché egli ha una
pre-comprensione della propria esistenza che lo apre alla fede e lo predispone a
decidere per essa, a decidere cioè per il suo abbandonarsi a Dio e per l'inserzione
dell'eternità nel tempo.

La teologia cattolica nella prima metà del Novecento.

In verità non ha prodotto opere originali o di rottura similmente all'area


protestante. Le maggiori novità provengono dalla filosofia, con il neotomismo, o
neoscolastica, e col personalismo, di cui si tratterà in seguito.
Al confine tra scienza, filosofia e teologia si colloca Teilhard de Chardin (1881-
1955). Egli vive un contrasto interiore: come scienziato è persuaso della validità
dell'evoluzione; come credente è convinto dell'esistenza di Dio e della finalità
trascendente del cosmo. Di conseguenza il suo sforzo è stato quello di armonizzare
scienza e fede.
Per Teilhard l'evoluzione non riguarda solo la biologia ma l'intera struttura
dell'universo, dalla materia allo spirito, dai cieli all'uomo. L'evoluzione si è sviluppata
secondo momenti successivi:
1. da una materia primitiva omogenea (definita "la stoffa dell'universo") si sono
formati gli astri, il Sistema solare e la Terra;
2. la Terra, attraverso un processo ascensivo dagli atomi alle molecole, alle
proteine, ai virus, ai batteri, alle cellule e alle prime forme viventi, è pervenuta
alla "biosfera";
3. la biosfera si è sviluppata in infinite direzioni, producendo forme di
organizzazione sempre più articolate e complesse: le piante, gli animali e poi
l'uomo, cioè la "ominizzazione";
4. con l'avvento dell'uomo sulla Terra appare una nuova sfera, la "noosfera" (la
sfera della coscienza) e l'evoluzione si è configurata come ascesa verso la
coscienza.
L'evoluzione tuttavia non è terminata e nei momenti che verranno l'umanità
progredirà verso una super-umanità futura, costituita da individui-persone mossi dalla
solidarietà e dall'amore e si avrà la "planetizzazione umana". L'evoluzione sfocerà
verso il proprio scopo e troverà la sua méta nel "punto Omega", costituente un
traguardo di completa spiritualizzazione che si identifica con Cristo e con
207
208

l'incorporazione dell'umanità in lui. È un processo inevitabile perché la persona finita,


l'uomo, tende ad andare oltre da sé, verso un qualcuno che lo completi. L'umanità è
destinata a fondersi in Cristo, concepito come coscienza e persone infinita che
include e dà senso a tutte le persone e coscienze finite (evoluzionismo integrale).

La teologia protestante nella seconda metà del Novecento.

Paul Tillich: il principio di correlazione (1886-1965).

È persuaso, al pari di Barth, che la teologia naturale, fondata sulla sola ragione che
caratterizza la natura umana, non è valida. Nelle prove dell'esistenza di Dio si vuole
derivare Dio dal mondo, ma se Dio è derivato dal mondo non può essere colui che lo
trascende infinitamente.
Influenzato dall'esistenzialismo, il progetto di Tillich è quello di una teologia in grado
di rispondere agli inquietanti interrogativi dell'uomo contemporaneo. L'uomo, in
quanto essere ed esistenza finita, è in preda ad una strutturale angoscia che solo la
fede riesce a trasformare in "coraggio di esistere", di affrontare la precarietà
dell'esistenza. Anche per Tillich la fede è un dono di Dio ma, diversamente da
Barth, non pensa che essa sia opera esclusiva di Dio. La fede è una scelta
esistenziale dell'uomo alla ricerca di un significato autentico dell'esistenza ed è, in
corrispondenza, la risposta di Dio alla domanda di una vita non ambigua. Quindi tra
l'uomo (ontologicamente misero e disperato) che chiede e Dio che dona c'è
correlazione e non quell'abisso voluto da Barth.

Dietrich Bonhoeffer: il mondo uscito dalla "tutela di Dio" (1906-1945).

Si propone di conciliare un atteggiamento di "fedeltà al mondo" con la fede in Dio. Il


problema di fondo è sapere cosa sia oggi veramente per noi Cristo e il cristianesimo.
La tradizionale interpretazione cristiana rappresenta Dio soprattutto come un tutore o
un "tappabuchi", che interviene a turare le falle dell'uomo e che viene messo da parte
quando non serve più. Ma oggi noi viviamo ormai in un mondo adulto, che non ha
più bisogno di ricorrere continuamente all'ipotesi di Dio. L'uomo, divenuto
maggiorenne, si è sottratto alla tutela di un Dio Padre onnipotente ed ha
imparato a fare da sé. Dobbiamo imparare a vivere nel mondo come se Dio non
ci fosse. L'uomo deve abituarsi a vivere senza la falsa immagine di Dio lasciataci in
eredità dalla tradizione. Dio, con la morte del Figlio sulla croce, ha consentito di
essere scacciato dal mondo. Dio è impotente e debole nel mondo, ma Cristo non
aiuta in virtù della sua onnipotenza bensì in virtù della sua debolezza e
sofferenza: qui sta la differenza determinante rispetto ad ogni altra religione. Il
cristiano incontra il vero Dio partecipando alle sue sofferenze nella vita del mondo.
L'autonomia dell'uomo nel mondo deve accompagnarsi nel cristiano all'impegno nel
208
209

mondo, per alleviarne le sofferenze che Cristo ha condiviso. Il mondo è assunto come
luogo decisivo della fede: la Chiesa deve prendere parte alla vita sociale degli uomini
non per dominarli ma per aiutarli e servirli.

La teologia della secolarizzazione.

Intende mostrare come talune esigenze tipiche della secolarizzazione, quali


l'autonomia e la libertà dell'uomo, l'impegno nel mondo, la lotta per una società
migliore, non siano affatto inconciliabile con il cristianesimo ma anzi trovino in
esso un possibile fondamento. Fra i precursori di tale teologia, oltre a Bonhoeffer, vi
è Friederich Gogarten (1887-1967), che ha visto nella secolarizzazione un effetto del
cristianesimo stesso, il quale, insistendo antipanteisticamente sulla assoluta
trascendenza di Dio, avrebbe concesso al mondo una sua autonomia, rendendo gli
individui liberi di fronte alle cose.
Maggior rappresentante è stato l'americano Harvey Cox (nato nel 1929). La
secolarizzazione, egli dice, è la caratteristica propria di una nuova specie di comunità
umana, la "Tecnopoli", che è succeduta alla tribù politeista e alla città, in cui Dio
appariva come una parte della struttura cosmica. Nella Tecnopoli l'impegno politico
sostituisce la metafisica come linguaggio privilegiato della teologia. La Chiesa,
nell'età secolare, deve assumere uno stile e un linguaggio secolare e farsi alleata delle
azioni di Dio nel mondo.

La teologia della "morte di Dio".

È una tendenza teologico-filosofica sorta negli Stati Uniti negli anni Sessanta del
Novecento la quale, accettando l'avvenuta secolarizzazione dell'età presente, è giunta
proclamare la "morte di Dio", intendendo con questa espressione concetti diversi:
che è venuta meno l'idea tradizionale di Dio; che il nostro è il tempo dell'assenza o
del silenzio di Dio; che al posto di Dio Padre subentra Cristo quale modello di
impegno morale e sociale nel mondo; che Dio non esiste realmente ma idealmente;
ecc.
Sono brevemente richiamati di seguito alcuni esponenti.

William Hamilton (nato nel 1924).

L'umanità odierna, soprattutto in relazione al terribile e teologicamente irrisolvibile


problema del male, non può fare a meno di sperimentare l'abbandono o l'assenza di
Dio. Non resta che un umanesimo secolare che fa di Cristo un semplice richiamo
all'impegno nel mondo a favore del prossimo. La teologia non deve lasciarsi sedurre
dai miraggi dell'al di là e il suo compito è di mostrare come il discorso religioso non
sia un discorso che riguardi Dio bensì l'uomo e la sua vita quaggiù sulla terra
(ateismo umanistico).
209
210

Thomas J. J. Altizer (nato nel 1927).

Rifiuta l'immagine greca di un Dio immutabile e impassibile. Dio è un processo che


va interpretato in modo dialettico: il Dio Padre del Vecchio Testamento è la tesi ed è
visto come un lontano signore; il momento dell'antitesi è rappresentato
dall'incarnazione, intesa come evento in cui Dio si fa uomo, il sacro si fa profano, la
trascendenza si fa immanenza; nella sintesi, sacro e profano, Dio e mondo saranno
una cosa sola: esito apocalittico panteistico.

Paul Van Buren (nato nel 1924).

Allievo di Barth, fa ricorso alle categorie (ai concetti) della filosofia empirica ed
analitica anglo-americana. La filosofia della nostra epoca secolarizzata è quella
analitica e l'analisi linguistica. La filosofia analitica ha tracciato una linea di confine
tra le proposizioni verificabili delle scienze naturali e quelle non verificabili della
metafisica e della religione. Queste ultime proposizioni non sono conoscitive ma
esprimono solo emozioni. Sono non-sensi dal punto di vista cognitivo che
riacquistano un senso solo interpretandoli in un'ottica etico-umanistica. Il linguaggio
cristiano, pertanto, è semplicemente un linguaggio emotivo od esortativo, che deve
illuminare gli uomini circa gli atteggiamenti da prendere. La fede cristiana non
consiste in affermazioni teologiche sulla natura ultima delle cose, ma è un certo modo
di considerare la situazione umana (ateismo semantico).
Successivamente, adoperando "il principio d’uso" secondo i diversi contesti
linguistici del secondo Wittgenstein, Van Buren offre una più aggiornata
interpretazione dell'esperienza e del linguaggio religiosi. Costruisce un modello del
linguaggio umano collocato come su di una piattaforma. Al centro della piattaforma
c'è il linguaggio in cui noi ci muoviamo bene, c'è il linguaggio "regolato" della
scienza e della vita quotidiana. Le regole d'uso (del linguaggio) valide al centro
vengono poi estese in periferia ed abbiamo le metafore, le analogie, ecc. Possiamo
anche tentare di allontanarci ulteriormente dalla periferia e allora rischiamo di cadere
nel non senso: ci è possibile dire che "un calcolatore pensa", ma possiamo dire che "il
calcolatore ci ama"? Altrettanto, se è possibile dire che "la città cresce", ha senso dire
che "una pietra cresce"? Tuttavia, oltre agli uomini che hanno deciso di vivere al
centro della piattaforma, ve ne sono altri per cui tale vita è insopportabile e si sentono
invece attratti dalle "frontiere" del linguaggio, persuasi che più ampio è lo spettro del
linguaggio che si adotta più ricco è il mondo in cui ci si trova. Di conseguenza amano
i paradossi e rompono con gli schemi usuali del linguaggio. Ebbene, proprio alle
frontiera del linguaggio vive e palpita il discorso religioso, che in esse ha un senso
e non al centro. Quando diciamo che "Gesù morì sotto Ponzio Pilato" ci muoviamo al
centro della piattaforma; quando diciamo che "Gesù è morto per la nostra salvezza"
siamo alla periferia; ma allorché gli evangelisti ci dicono che "Gesù è risorto dalla
morte" allora siamo all'ultima frontiera. Qui inciampiamo nel non-senso e a questo
punto il cristiano deve abbandonarsi alla fede, deve rischiare il non-senso se
210
211

vuole che la vita sappia di qualcosa. La fede spezza il grigiore di un mondo di


"fatti" tutti uguali e custodisce il senso del mistero.
Noi vediamo che il cosmo è diventato un caos in cui la Terra non sopporterà più
una vita vissuta tanto stupidamente come insistiamo a fare oggi. L'umanità non è
entità assoluta: può scomparire tutta. È in questa situazione che la teologia deve
dire parole di liberazione di speranza che, pur solidarizzando con la liberazione
della donna, con quella dei negri o quella degli oppressi, diano alla vita un senso
ancora più profondo. In questo modo la teo-logia sarà "servizio della parola di Dio".
Ma poiché il teologo è incapace di parlare di ciò che è totalmente trascendente, allora
il suo sforzo si trasformerà in "cristologia": si porrà al servizio della parola di Cristo.
Chi ci libererà da questo corpo mortale? Chi potrà dare un senso autentico
all'esistenza umana? Certo non gli uomini, non i movimenti di liberazione, anche se è
impossibile non essere solidali con essi. Ma solo ciò che è impossibile ed incoerente,
che è empiricamente insignificante ed irrilevante ci può liberare: solo il Dio che è
grazia.

La teologia cattolica nella seconda metà del Novecento.

L'avvenimento più importante è stato il concilio Vaticano Secondo, aperto da


papa Giovanni XXIII nel 1962 e chiuso da papa Paolo VI nel 1965. Ha segnato una
svolta decisiva nel cattolicesimo internazionale e nel pensiero teologico, il quale ha
abbandonato il tradizionale atteggiamento difensivo tenuto nell'Ottocento e nel primo
Novecento, aprendosi ai più importanti problemi del mondo d'oggi ed elaborando
nuove prospettive teologiche: la giustizia sociale, l'oppressione dittatoriale sui popoli,
il progresso, la famiglia, la sessualità, l'educazione, ma anche il problema dei rapporti
tra fede e filosofia, fede e scienza, fede e politica, nonché il problema del rapporto tra
cattolici e cristiani non cattolici, tra cattolici ed altre religioni, tra cattolici ed atei.
In proposito, tra i principali teologi vanno menzionati Rahner e von Balthasar.

Paul Rahner (1904-1984).

Gesuita e allievo di Heidegger, è il maggior teologo della cosiddetta svolta


antropologica della teologia cattolica odierna, secondo cui la teologia
contemporanea deve tendere verso Dio partendo dall'uomo e non dal mondo.
Sviluppandolo in senso antropologico, si rifà al tomismo. È influenzato anche da
Kant, per quanto concerne la ricerca delle condizioni a priori della possibilità della
rivelazione, nonché da Heidegger per l’apertura umana verso l'essere e verso Dio, che
è l'essere per eccellenza.
Dopo lo scetticismo di Hume ed il criticismo di Kant, la teologia non può evitare di
porsi il problema: come può l'uomo udire Dio? Cogliere la rivelazione? Per Rahner
l'uomo è anzitutto spirito poiché è l'unico ente che si pone la domanda sul senso
dell'essere. Attraverso questa domanda l'uomo si apre all'essere e soprattutto ad
211
212

ascoltare la voce dell'essere supremo, ad udirne la rivelazione. L'esistenza umana


vive una continua tensione verso l'assoluto, verso l'apertura a Dio.
Così come Kant cercò le condizioni a priori che rendono possibile la scienza, Rahner
vuole esplorare le condizioni a priori che rendono possibile la teologia e la
rivelazione. Ponendosi la domanda sul senso assoluto della realtà, l'uomo scopre
di non conoscerlo e tende l'orecchio ad una possibile rivelazione divina di tale
senso attraverso la teologia. L'uomo è per sua essenza "uditore della parola". Nella
sua finitezza egli non può inventare la parola della sua salvezza ma può ascoltarla,
riceverla da Dio e farla propria: è questa la condizione esistenziale a priori che rende
possibile la rivelazione; possibile ma non necessitante, in quanto Dio parla tutti anche
se non tutti lo ascoltano poiché l'uomo è un "ascoltatore libero".

Hans Urs von Balthasar (1905-1986).

È stato fautore di una "teologia in cammino": la rivelazione è evento continuo ed


inesauribile e nessuna teologia può avere la pretesa di definirla una volta per tutte.
Ogni generazione ha il diritto e il dovere di ripensare la rivelazione per suo
conto, in relazione alle specifiche condizioni storiche in cui si trova. "La verità della
vita cristiana, dice Balthasar, è come la manna nel deserto: non la si può mettere da
parte e conservarla; oggi è fresca, domani è marcia".
Esorta la Chiesa ad uscire dalle mura che ha posto fra sé e il mondo, fra sé e la
cultura e la scienza, tra i cattolici e gli altri cristiani, per aprirsi invece alla cultura
contemporanea, alle altre religioni e ai non credenti.
Guardando la rivelazione, Balthasar si accorge che restano da esplorare campi
sterminati, assumendo un nuovo punto di vista. Il passato ci mostra che sono stati
usati svariati punti di vista: l'analogia entis, il principio di correlazione, il principio
antropologico (che Balthasar non condivide). Per lui invece è strumento migliore,
capace di rendere accessibile e credibile la rivelazione agli uomini dei nostri giorni, il
concetto trascendentale di bellezza. Il modo di rivelarsi di Dio presenta gli stessi
caratteri del modo autoevidente e disinteressato di rivelarsi della bellezza (estetica
teologica). Solo nell'esperienza estetica l'oggetto ci appare più da vicino. Dio viene
primariamente a noi non come maestro (come verità), non come redentore (come
bontà), ma per mostrare se stesso, il suo splendore e la sua gloria. È attraverso la
condivisione della sua bellezza che Dio ci comunica anche la sua bontà, il suo amore,
e ci fa partecipi della verità.

La teologia della speranza e la teologia politica.

Se la teologia della morte di Dio ricorre, con Van Buren, alle categorie tipiche della
filosofia empiristica ed analitica, la teologia della speranza ricorre alle categorie
della filosofia hegeliano-marxista. Intende cioè rispondere alla sfida marxista
nella prospettiva della speranza di Bloch. La forza di un futuro ancora aperto alla
212
213

speranza è ritenuta lo strumento ermeneutico (interpretativo) più adatto ad una lettura


della rivelazione adeguata e comprensibile agli uomini contemporanei.
Esponenti principali sono Moltmann (nato nel 1926), protestante; Pannemberg (nato
nel 1928), protestante; Schillebeeckx (nato nel 1914), cattolico.
Pur nelle specifiche differenze, sono accomunati nel sostenere che l'essenza più vera
del cristianesimo è quella di una dottrina di speranza nelle realtà ultime. Certamente,
nella vita cristiana la priorità spetta alla fede ma il primato va alla speranza. Senza la
fede la speranza diverrebbe un'utopia ma senza la speranza la fede morirebbe. La fede
riguarda il futuro; il senso del cristianesimo è l'attesa apocalittica (la fine del mondo
terreno). Dio non è visto come qualcosa di statico e di immobile bensì come "potenza
del futuro". Dio non è l'eterno presente ma la promessa e il futuro dell'umanità. Nel
cristianesimo tradizionale il motivo della speranza è stato proiettato in un futuro
celeste completamente slegato dal duro presente. Invece la tradizionale speranza
nell'aldilà deve essere integrata con la speranza nella trasformazione e nella
rinnovamento della terra, per cui all'atteggiamento di attesa passiva deve subentrare
la speranza creativa, che anticipi oggi ciò che sarà domani. Nell'Ottocento la speranza
degli uomini era in larga misura fede nel progresso. Con le catastrofi belliche e i
totalitarismi del Novecento questa fede è venuta meno ed ha lasciato il posto alla
sfiducia, al pessimismo e al nichilismo. Compito dei cristiani è pertanto diffondere
una speranza liberatrice, accompagnata da un impegno responsabile nel mondo: la
salvezza non si gioca solo nel futuro ma anche nel presente della storia. Pace con Dio
significa conflitto col mondo, combattere contro le ingiustizie, la sofferenza, il male
del mondo.
Queste affermazioni fanno comprendere perché la teologia della speranza, ad un certo
punto, tenda ad assumere le forme di una vera e propria teologia politica,
rappresentata soprattutto da Johannes Metz (nato nel 1928), cattolico, il quale
contesta il cristianesimo intimistico, individualistico e astratto della tradizione,
contrapponendogli la necessità di una religione politicamente efficace sul piano
pratico delle strutture sociali. Nel cristianesimo non si da una salvezza privata: Gesù
è vissuto in un conflitto mortale con i poteri pubblici del suo tempo. Le promesse
della tradizione biblica di libertà, pace e giustizia non sopportano una loro
considerazione privatistica ma ci mettono incessantemente di fronte alla nostra
responsabilità sociale. La Chiesa può e deve esercitare sul mondo una funzione critica
e lanciare proposte costruttive difendendo l'uomo sia contro il totalitarismo sia contro
l'individualismo.

La teologia della liberazione.

Si è particolarmente sviluppata nel mondo latino-americano. Deriva in parte dalle


teologie europee della speranza e teologia politica. Ritiene che il regno annunciato da
Gesù non sia soltanto una realtà riservata al cielo ma debba trovare un'anticipazione
in ogni uomo e nella società, man mano che la Terra si "umanizza". Peraltro la
teologia della liberazione rivela caratteristiche irriducibili, estremamente differenti
213
214

rispetto a quelle europee, poiché il campo specifico in cui essa opera è la situazione
peculiare dei popoli latino-americani oppressi e in miseria. Ancora più netta è la
distanza dalle teologie nord-americane. Le teologie europee ed americane sono
elaborati in contesti cristiani di ricchezza; loro fondamentali preoccupazioni sono la
secolarizzazione, il materialismo e il consumismo. Loro interlocutore è l'uomo
secolarizzato, il non-credente. La teologia latino-americana della liberazione è invece
elaborata in un contesto cristiano di miseria e di sfruttamento; sua fondamentale
preoccupazione è la giustizia e la liberazione degli oppressi. Suo interlocutore non è
il non-credente ma il "non-uomo".
Prima di essere una proposta teologica è una denuncia critica delle condizioni
politico-sociali del Sud America. Ha avuto il maggior sviluppo soprattutto tra il 1965
il 1968 e i suoi maggiori esponenti sono stati Segundo Galilea, padre Camillo
Torres (che parla di una teologia della rivoluzione antiimperialista) e G. Gutierrez.
Due sono le tesi centrali della teologia della liberazione:
1. l'idea di una teologia a posteriori, ossia costruita a partire dalla prassi: la
teologia è un "atto secondo", un riflettere che viene dopo l'azione. La retta
azione precede la retta opinione. Alle inevitabili accuse di politicizzazione
della fede e di riduzione della fede a prassi, controbatte che le liberazioni
storiche non sostituiscono la redenzione e che la fede è resa semmai più
autentica nella prassi;
2. l'assunzione della prospettiva (del punto di vista) del povero e la battaglia in
suo favore: i cristiani, rifacendosi al senso genuino del Vangelo, debbono
compiere una scelta a favore dei poveri e degli oppressi, ponendo la Chiesa di
fronte all'inequivocabile bivio di farsi complice del potere o patria dei poveri.
Sostiene l'esistenza di un "peccato sociale", che non riguarda solo i
comportamenti individuali ma anche le strutture sociali, economiche, politiche
e culturali ingiuste. La povertà costituisce un male, uno stato scandaloso,
insopportabile per ogni cristiano.

La teologia nera.

È nata verso la fine degli anni ‘60 del Novecento, in connessione con i movimenti di
Martin Luther King, di "Potere nero" e delle "Pantere nere", nell'ambito della società
plurirazziale statunitense. Prende le difese dei neri, oppressi dalla colonizzazione e
dalla schiavitù, e denuncia la "teologia bianca", dominata da egocentrismo.
James Cone è fautore di una linea dura. Prima si deve attuare l'emancipazione della
gente nera dall'oppressione bianca e solo dopo si potrà parlare di riconciliazione con i
bianchi: ora dobbiamo preoccuparci della giustizia, non dell'amore.
Maior Jones e Deotis Robert sono esponenti di una linea più moderata e sono
rappresentanti di una teologia nera della speranza. Il problema non è quello di
sostituire al segregazionismo bianco il separatismo nero, ma di mirare a una comunità
oltre il razzismo, che includa bianchi e neri.

214
215

William Jones occupa una posizione a sé. La teologia nera risulta logicamente
contraddittoria poiché, presentando Dio dalla parte dei neri, urterebbe contro la verità
della loro oppressione passata e presente. Pone quindi la questione della "teodicea
nera", cioè della giustizia di Dio in rapporto ai neri, che finora non si è manifestata.
Da ciò appunto la contraddizione fra la teoria cristiana di un Dio di amore e di
giustizia e l'esperienza storica dell'abbandono dei neri all'oppressione e all'ingiustizia.
Le difficoltà della teodicea nera possono essere sbloccate o attraverso un umanesimo
secolare, non teista, vedendo nell'uomo (e non anche in Dio) l'unico autore e
responsabile del male e del bene della storia; oppure tramite una revisione profonda
del teismo (fede in Dio) tradizionale, in grado di rinunciare a vedere in Dio "il Dio
della storia" (che interviene in essa) poiché, altrimenti, si finirebbe col vedere in Dio
un "razzista bianco".

La teologia femminista.

Si è sviluppata dapprima negli Stati Uniti, in Germania e nel Nord Europa,


soprattutto negli anni tra il 1968 e il 1975.
Rosemary Ruether afferma che la teologia degli oppressi (le donne) non può essere
la stessa teologia degli oppressori. Critica ogni tipo di teologia fatta dagli uomini e
nell'ottica dei maschi, che ha sempre ignorato il punto di vista dell’"altra metà"
dell'umanità. Questa critica coinvolge anche la Chiesa.
Letty Russel ed Elisabeth Schussler Fiorenza presentano la teologia femminista,
similmente alla teologia della liberazione, come l'atto secondo di un atto primo:
dapprima c'è l'azione, per sovvertire gli attuali rapporti di dominio, non solo
maschilisti ma anche classisti e razzisti; la teologia viene dopo. Il programma si
amplia quindi in una "teologia ecologica" della natura che, rifiutando lo schema
baconiano del "potere" dell'uomo sul mondo, tende invece a definire in termini di
reciprocità, anziché di gerarchia, il rapporto uomo-natura.
Inoltre, denunciando le interpretazioni maschiliste della Bibbia, viene posto
l'obiettivo di "restituire la Bibbia alle donne e le donne alla Bibbia".

La teologia ecumenica di Hans Kung (nato nel 1928).

Cattolico, è stato accusato di posizioni non ortodosse.


Nell'intento di proporre nuove forme di annuncio del messaggio evangelico, critica
certe impostazioni della dottrina cattolica: quella dell'infallibilità pontificia (il
primato del Papa è di tipo pastorale, cioè nel servizio e non nel potere); quella sul
problema cristologico; quella sul problema teologico; quella sul problema
escatologico (dei fini e del senso della religione). È convinto sostenitore del dialogo
ecumenico tra le religioni cristiane ed interreligioso.
Quella di Kung può definirsi una "teologia in cammino", impegnata a seguitare in
generale rinnovamento teologico, sia di carattere metodologico sia nel contenuto in
215
216

senso espressamente ecumenico. La coscienza ecumenica non si esaurisce all'interno


del cristianesimo; essa si dilata anche all'esterno, in una dimensione globale.
L'ecumenismo deve includere la comunione di tutte le grandi religioni. Non c'è
pace tra i popoli di questo mondo senza la pace tra le religioni universali. In questo
senso l'ecumenismo assume altresì un valore di politica mondiale.
Quattro sono le possibili strategie:
1. quella fondamentalista (solo la propria religione è quella vera);
2. quella secolarizzata (la verità non sta nella religione);
3. quella sincretistica (ogni religione ha la sua verità ed ognuna contribuisce a
costituire l'universo religioso complessivo);
4. quella ecumenica, abbracciata da Kung (ogni religione ha suoi propri e
specifici criteri di verità ma deve impegnarsi nella formulazione di criteri etici
universali).
L'ecumenismo va prescelto in quanto permette di evitare l'integralismo, il relativismo
e l'inclusivismo e consente ad ogni religione di esprimere la sua essenza, in modo da
contribuire alla convivenza umana e religiosa nella pace.
La teologia ecumenica deve ispirarsi a tre criteri di verità, se vuole essere
espressione di una religione vera e buona: deve essere umana, cioè non reprimere ma
difendere e promuovere l'umanità; deve essere coerente, cioè fedele alla sua propria
origine; deve essere cristiana, anche se professa un altro Dio, nel senso di lasciar
trasparire nella sua teoria e nella sua prassi lo spirito di Gesù Cristo. Vera per il
credente è solo la religione da lui professata: non si tratta di una verità universale ma
di una verità esistenziale. Dal momento che per ogni credente è impossibile
percorrere contemporaneamente tutte le vie religiose, la religione vera è quella che
ognuno cerca di percorrere, mentre le altre religioni sono vere "condizionatamente",
se cioè non contrastano, per il cristiano, sui punti fondamentali del cristianesimo, che
possono anzi essere integrati e arricchiti dal confronto con le altre religioni.

216
217

LA NEOSCOLASTICA.

Si intende per "neoscolastica" il ritorno ai temi della filosofia scolastica medievale,


ed in particolare al tomismo, riletti in una prospettiva aggiornata ma fedele ai
significati di fondo, sviluppatasi nell'ambito della filosofia cristiana nell'ultimo
ventennio dell'Ottocento e quindi nel Novecento.
Filosofia scolastica e filosofia cristiana non sono la stessa cosa. La filosofia
neoscolastica è sì una filosofia cristiana, ma fondata sul pensiero cristiano costruito
nel Medioevo e confrontato col pensiero contemporaneo, utilizzandone i concetti per
interpretare, nel contesto della modernità, le verità di fede o per stabilire i "preambula
fidei" (come le prove dell'esistenza di Dio) o per capire l'essenza dell'uomo o anche la
razionalità delle norme morali, tutte cose, ad avviso dei neoscolastici, che sono di per
sè scopribili dalla ragione umana e che non sono, in quanto tali, pure verità di fede
rivelate. Certo, la fede è essenziale, solo essa "salva", ma la ragione non è indifferente
ai fini della fede e la filosofia è il presupposto della teologia.
Molteplici sono le ragioni della rinascita del pensiero scolastico, individuabili
principalmente come reazione contro il razionalismo di derivazione illuministica;
contro l'immanentismo idealistico; contro il materialismo positivistico; contro il
laicismo e la secolarizzazione; contro l'eclissi del sacro. In opposizione a tutto ciò la
neoscolastica rivendica il concetto di equilibrio tra ragione e fede nonché il
concetto di autorità messo in crisi per tutta l'età moderna.
Due encicliche pontificie hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo della
neoscolastica: la "Aeterni Patris" di Leone XIII (1879) e la "Pascendi" di Pio X
(1907). L'enciclica di Leone XIII ha avuto la funzione di reagire alla passività dei
cattolici di fronte al vivace dinamismo laico (scientifico, culturale, industriale,
imperialista) dell'Europa del secondo Ottocento. Invece l'enciclica di Pio X è stata
una drastica condanna del movimento modernista, cioè di quell'indirizzo di riforme
volto a conciliare il cristianesimo col pensiero moderno (idealismo, neokantismo,
irrazionalismo) per creare una nuova teologia. In questo modo Pio X favorisce
indubbiamente il movimento neoscolastico, ma rende difficile il dialogo con la
cultura contemporanea. In tempi più recenti il concilio Vaticano Secondo (1962-
1965) si apre a concezioni pluralistiche, ma tuttavia il prevalente riferimento al
tomismo, pur attenuato, non viene meno. Da ultimo, Giovanni Paolo II ha confermato
la scelta del tomismo sia perché, come filosofia dell'essere, aperta quindi all'intera
realtà, è ben compatibile con la "giusta pluralità delle culture", sia per il dialogo che
Tommaso saputo instaurare col pensiero arabo ed ebreo del suo tempo.
Quattro sono i momenti in cui può essere articolato lo sviluppo della filosofia
neoscolastica, corrispondenti all'approfondimento di altrettante problematiche:
1. il problema critico, incentrato sulla teoria dell'astrazione (la conoscenza sorge
da concetti ricavati per astrazione dalle osservazioni empiriche), che porta ad
una gnoseologia alternativa sia all'innatismo e all'empirismo, sia all'apriorismo
e al sensismo;
2. il problema psicologico, basato sulla teoria dell'anima quale forma del corpo,
concezione che permette di sostenere una antropologia di carattere unitario, in
217
218

alternativa sia al monismo (idealismo e materialismo) sia al dualismo (antico e


moderno);
3. il problema fisico, collegato alla teoria dell'ilemorfismo, o ilomorfismo (ogni
corpo è unità di materia e forma), quale teoria indipendente dallo sviluppo
scientifico ed alternativa al positivismo e al materialismo, considerati come
riduttivi (incompleti, insufficienti);
4. il problema metafisico, volto ad approfondire la teoria dell'atto e della potenza
in termini di fondamento di una filosofia dell'essere che rinnovi la filosofia
antica della sostanza e si contrapponga alla filosofia moderna del pensiero.
I maggiori esponenti della neoscolastica si possono ripartire in tre gruppi:
1. quello formatosi nell'università di Lovanio, in Belgio (il cardinale Desiré
Mercier);
2. quello raccolto intorno all'università del Sacro Cuore di Milano (Sofia Vanni
Rovighi e G. Bontadini);
3. quello composto da pensatori autonomi (Gilson e Maritain, quest'ultimo
considerato il maggiore fra tutti gli esponenti).

Il cardinale Desiré Mercier (1851-1926).

Nucleo centrale del suo pensiero è la criteriologia, cioè l'individuazione del criterio
per distinguere la verità dall'errore nonché per distinguere la giusta relazione tra
gnoseologia e ontologia. La verità risiede nel giudizio, cioè nel rapporto fra il
soggetto ed il predicato ad esso attribuito. Chi ci garantisce che i termini del giudizio
siano in corrispondenza adeguata con le cose? Afferma al riguardo Mercier che
quando l'esperienza dei dati sensibili è ripetuta e controllata essa ci permette di
giungere alla forma intellegibile delle cose, ossia al concetto, alle categorie, e ci dà
sufficiente garanzia di oggettività. L'impostazione è quindi di realismo gnoseologico,
basato sulla teoria dell'astrazione e sul metodo dell'induzione. In tal senso è agli
antipodi di Cartesio e di gran parte del pensiero moderno, incentrato sul soggetto
conoscente. Si contrappone anche al positivismo, giudicato cattivo difensore della
scienza perché restringe ogni nostra conoscenza entro la sola esperienza sensibile e
quindi è in grado di garantire al massimo certezze singole ma non concetti universali
e teorie generali.
Oltre a queste proposizioni di ordine reale, Mercier analizza anche le proposizioni di
ordine ideale, mostrandosi allineato col pensiero contemporaneo più avanzato. Le
proposizioni di ordini ideale sono giudizi analitici. Tuttavia, contro Kant, Mercier
afferma che i giudizi matematici sono giudizi analitici capaci però di ampliare la
conoscenza. Afferma che anche le proposizioni metafisiche, come il principio di
causalità, sono giudizi analitici. Quando stabiliamo il principio per cui "l'esistenza di
ciò che è contingente esige una causa", noi siamo costretti all'assenso, giacché in tale
principio c'è identità tra soggetto ed oggetto: infatti "contingente" è ciò che esige una
causa, per cui il principio diventa: "ciò che esige una causa esige una causa".
218
219

Étienne Gilson (1884-1978).

Si è distinto come storico della filosofia medievale ed acuto interprete di San


Tommaso.
Secondo Gilson, San Tommaso scoprì la chiave metafisica decisiva, ignota ad
Aristotele, cioè la distinzione tra essenza ed esistenza. Aristotele distinse nel
divenire potenza ed atto e nell'essere materia e forma, ma non è giunto a distinguere
essenza ed esistenza. Vi giunse San Tommaso perché la rivelazione di un Dio
creatore gli permise di pensare la natura delle cose in attesa di diventare esistenti.
Mentre la filosofia greca vede in Dio colui che dà forma alla materia, San Tommaso
vede in Dio il creatore, che non è semplicemente essenza astratta ma essere concreto.
L'essenza è semplicemente la natura di ciascuna cosa, ma è come inerte e vuota se
non interviene l'esistenza, intesa come attuazione dell'essenza. L'essenza di una cosa
non include mai, tranne che in Dio, la sua esistenza. Perciò bisogna ammettere che
tutto ciò la cui esistenza è diversa dalla sua natura riceve da altro la sua esistenza. In
tal modo Gilson riconferma la validità della dimostrazione di Dio come causa prima
di tutte le cose che hanno l'essenza distinta dall'esistenza.

JACQUES MARITAIN (1882-1973).

Di nazionalità francese, è considerato il maggior esponente della neoscolastica.


Il motto del suo pensiero è "distinguere per unire", perché l'essere è comprensivo
dell'intera realtà ma è analogico e quindi permette l'unità del tutto insieme alla
distinzione delle parti. L'analogia è la legge della somiglianza tra i diversi esseri,
legge che permette di non naufragare di fronte alla sconfinata varietà presente
nell'universo e, d'altra parte, non pretende di unificare tutte le cose in una unità
indistinta e ingannevole: tutti gli esseri hanno somiglianze fra loro ma anche
dissomiglianze.
Conoscere per Maritain non è un restare imprigionato all'interno della propria
coscienza (secondo la linea inaugurata da Cartesio e che trova la sua massima
accentuazione nell'idealismo), ma è una presenza originaria dell'ente (un trovarsi
dapprima di fronte alle cose, fatte poi oggetto di conoscenza). Nella conoscenza la
cosa è immediatamente presente al soggetto conoscente, ma è presente non in
maniera assoluta bensì sempre sotto qualche aspetto: noi non conosciamo una
rappresentazione della cosa ma la cosa stessa, però colta sotto questo o quell'altro
aspetto.
Con riferimento alla sua opera filosofica fondamentale "Distinguere per unire o i
gradi del sapere", Maritain compie una prima distinzione tra sapere speculativo, che
mira a cogliere l'essere nella sua intellegibilità (nei concetti), e sapere pratico, che
concerne invece la prassi. Distingue poi tra scienza e filosofia come due modi diversi
di concettualizzare (comprendere) la realtà, non contrapposti ma complementari. La
scienza ha un duplice carattere: da un lato è empiria, dall'altro è formale, cioè
219
220

matematica; essa descrive dunque la realtà da un punto di vista "empiriologico-


matematico". La filosofia si distingue dalla scienza non per la diversità dell'oggetto
bensì per la diversa prospettiva in cui lo considera, in quanto mira a coglierlo sotto
l'aspetto della sua intellegibilità ontologica, ossia nella sua generalità e non nelle
sue particolarità.
Riprendendo la dottrina dell'essere aristotelico-tomistica, Maritain considera
l'essere costituito secondo potenza e atto, sostanza e accidente, essenza ed esistenza.
Distingue inoltre, secondo la tradizione tomistica, tra l'essere contingente, la cui
esistenza deriva da una causa esterna, e l'essere infinito, sussistente di per sé, "causa
sui", identità di essenza ed esistenza, identificato in Dio. La conoscenza dell'essere è
data da una intuizione metafisica (del pensiero) che coglie (comprende) l'essere sia
nella sua essenza sia nell'esistenza del singolo ente concreto. Un particolare valore
viene dato al principio dell'analogia, quale legge che governa la somiglianza ma
anche le differenze tra gli enti, dunque la loro molteplicità ma anche la loro unità
(distinguere per unire). La filosofia è concepita non già come un sapere descrittivo
neutro, ma come una forma di sapienza integrata dalla sapienza teologica, che è
riflessione razionale guidata dalla rivelazione, nonché dalla sapienza mistica, che è
un modo soprannaturale di partecipare, mediante la grazia, alla vita divina.
Per quanto riguarda il sapere pratico, Maritain sottolinea l'importanza assunta nel
mondo moderno dai problemi dell'etica e della politica. La filosofia morale è
concepita come scienza pratica, che ha validità scientifica e al tempo stesso
operativa. Essa infatti studia l'agire umano avendo come fine il bene dell'uomo ed in
ciò va distinta dalla tecnica, che è connessa al fare e che ha per fine la produzione di
oggetti. La scienza pratica è sì inizialmente autonoma, senza ricorso alla rivelazione
divina, ma una filosofia morale che si contenesse entro i limiti della sola ragione
naturale sarebbe insufficiente; deve invece servirsi di asserzioni sulla natura umana
derivanti dalla rivelazione.

Le fasi del pensiero. Il concetto di umanesimo integrale.

L'impostazione filosofica di Maritain è chiaramente di tipo ontologico-aristotelico-


tomista. Il suo pensiero può definirsi antimoderno o, meglio, ultramoderno, cioè
come una nuova filosofia per i tempi nuovi, nel senso che sviluppa una decisa critica
della modernità, di cui sa però apprezzare gli aspetti positivi, i "guadagni storici".
Questi ultimi si possono adeguatamente apprezzare a condizione di abbandonare
l'immanentismo antropocentrico (il principio della realtà è individuato nella coscienza
e nel pensiero umani interni alla realtà stessa con esclusione di ogni trascendenza)
caratterizzante la modernità e tale da impedire una più autentica liberazione
dell'uomo.
Sul piano sociale e politico la concezione di Maritain e quella di un "umanesimo
integrale", che vuole valorizzare tutto l'uomo, non solo la sua natura antropologica
ma altresì il sistema di valori che lo ispira. Tale umanesimo integrale è inteso come
cammino "ideale storico concreto", da percorrere attraverso una "pars destruens" (una
critica preliminare) contro l'antropocentrismo, che separa e contrappone natura e
220
221

grazia (Lutero), ragione e fede (Cartesio), natura e ragione (Rousseau), e una "pars
costruens" (la proposta di un nuovo umanesimo).
Nella sua pienezza integrale l'uomo non può essere considerato soltanto nel suo
essere naturale ma anche in quello soprannaturale. Il nuovo umanesimo proposto è un
approfondimento del tomismo finalizzato a rendere possibile una conciliazione di
premoderno e moderno in quello che l'uno e l'altro hanno di positivo, superando il
pregiudizio antropocentrico e naturalistico e facendo spazio anche alla trascendenza
che pure contraddistingue l'essere uomo. Questo nuovo umanesimo non ha niente in
comune con l'umanesimo borghese individualista ed è tanto più umano in quanto non
è circoscritto alla naturalità dell'uomo ma si estende altresì, operando nel campo del
sociale e della solidarietà comunitaria, alla spiritualità ed alla disponibilità umana
verso la trascendenza. L'essere umano non è né mera creatura naturale né mera
creatura spirituale. Egli è "persona", vale a dire centro di unificazione contro le
culture della separazione di Lutero, Cartesio e Rousseau. L'uomo è unità di natura e
spirito, di corpo e ragione; è un essere dotato di responsabilità, di intenzionalità, di
valori ed è, ancor più, un essere sociale. Solo la società assicura all'individuo le
precondizioni necessarie alla realizzazione di molte delle sue potenzialità. Ma la
società che permette la realizzazione della persona che, in quanto tale, si qualifica
non come individuo in sé bensì come relazione con gli altri, col mondo e con la
storia, non è la società totalitaria di destra o di sinistra bensì la società pluralistica, la
comunità solidale.
Tre sono le fasi del pensiero in cui Maritain sviluppa questa sua concezione: nella
prima rivolge la sua critica nei confronti del positivismo e dell'idealismo, proponendo
una rinascita del tomismo contro le culture della separazione; nella seconda la critica
riguarda per un verso l'individualismo borghese e per l'altro il collettivismo marxista,
proponendo una nuova cristianità; nella terza la critica concerne il relativismo e il
nichilismo, proponendo la liberazione di una nuova spiritualità.

La pedagogia, l'arte, la politica.

Ispirandosi alle sue concezioni di fondo, Maritain compie studi notevoli su tre temi
caratteristici della nostra cultura: sulla pedagogia, sull'arte e sulla politica.
Per Maritain l'educazione è un'arte, una saggezza pratica che deve servire la natura
umana ai fini della formazione della persona. La formazione della persona è al tempo
stesso personale e sociale; dunque è formazione alla vita democratica. I mezzi
dell'educazione non sono l'imposizione ma i valori umani e scientifici e soprattutto
l'azione morale dello stesso educatore che coopera con l'educando.
Per quel che concerne l'arte, Maritain si oppone alle estetiche romantiche. L'arte per
Maritain è radicata nell'intelletto, perciò è vano il tentativo dell'arte moderna di
liberarsi dalla ragione. Tuttavia la ragione che opera nell'arte non è quella logica e
discorsiva (dimostrativa), ma quella intuitiva, animata dall'immaginazione e dai
fattori inconsci e preconsci dell'anima: è una ragione creativa. Sono quindi respinti
sia l'intellettualismo che l'irrazionalismo estetici. L'arte è autonoma dalla morale in
221
222

quanto la prima riguarda l'opera e la seconda riguarda l'uomo, ma sono al tempo


stesso collegate perché l'uomo appartiene all'una e all'altra. Ancora una volta si tratta
di distinguere per unire. Ne deriva il richiamo della "responsabilità dell'artista" nei
confronti del bene comune. La libertà dell'arte non ha quindi carattere assoluto.
Peraltro, va rifiutata la concezione totalitaria dell'arte, secondo cui essa deve essere
controllata dallo Stato, ma va altresì respinta la concezione anarchica, secondo cui
non ha importanza il contenuto. Parimenti, è da respingere l'estetismo (l'arte per
l'arte) come anche il populismo (l'arte è per divertire e distrarre il popolo).
In politica Maritain distingue Chiesa e Stato come due istituzioni dai fini diversi e
autonomi. Nel Medioevo anche le istituzioni civili avevano il carattere del sacro.
Oggi questo non è più possibile ma vi è la necessità di pensare a una civiltà nuova, ad
un umanesimo integrale, in cui l'ispirazione cristiana sia il valore di base ma dove
però le istituzioni laiche mantengano tutta la loro autonomia: distinguere per unire.
Nella nuova civiltà dell'umanesimo integrale il problema principale è di rifondare
la democrazia. Due sono le concezioni che si scontrano al riguardo: quella tecnica o
antiumanistica e quella etica o umanistica che deve prevalere. La democrazia
configura la politica come razionalizzazione etica e non tecnica. Contro la
pseudodemocrazia individualistico-borghese e contro i totalitarismi, compreso il
totalitarismo tecnologico, deve essere valorizzato il carattere umanistico della
politica. La rifondazione indicata è nel senso di una democrazia personalistica,
pluralistica e comunitaria, cioè basata sul primato della persona come valore in sé;
sul rispetto del pluralismo come valorizzazione delle diversità individuali,
istituzionali e culturali; sul raggiungimento del bene comune, che non è la somma dei
beni individuali o della maggioranza, ma è il bene della società in quanto composta
da persone, nella consapevolezza che nulla di mondano può essere assolutizzato, per
cui riconoscere l'assoluto come trascendente può immunizzare dalle tentazioni del
perfettismo politico.

222
223

IL PERSONALISMO.

Nasce in Francia con Emmanuel Mounier e si sviluppa attorno alla rivista "Esprit",
fondata da Mounier nel 1932. Jean Lacroix, dopo Mounier, ne è un esponente di
rilievo; lo stesso Maritain si è largamente ispirato al personalismo.
L'idea centrale è quella di "persona", concepita non come "sostanza" ma come
"relazione" nella sua libertà, creatività e responsabilità, incarnata in un corpo, situata
nella storia e per sua natura comunitaria. Il Personalismo si presenta come un'analisi
del mondo moderno e come una protesta contro le sue degenerazioni, prospettando
una via di uscita dalla crisi attraverso una "rivoluzione personalistica
comunitaria", fondata sulla fede cristiana. Esso sorge dalla crisi del 1929, che ha
segnato la fine della prosperità europea, e rivolge le sue attenzioni alle rivoluzioni in
corso. Alle inquietudini e alle sventure che allora cominciavano alcuni davano una
spiegazione puramente tecnica, altri puramente morale. Il Personalismo invece
pensa che il male sia ad un tempo economico e morale, insito nelle strutture
sociali e nei cuori. Il rimedio quindi sta in una rivoluzione economica e spirituale
volte alla costruzione di una "comunità di persone" e di significative iniziative
politiche.
Principi del Personalismo sono:
1. una posizione di indipendenza rispetto ai partiti e ai raggruppamenti, che lasci
al singolo una sufficiente libertà di azione;
2. l'affermazione dei valori dello spirito accompagnata da una rigorosa
precisazione delle condizioni di attività e dei mezzi;
3. la stretta unione di "spirituale" e "materiale";
4. la liberazione da ogni dottrina a priori per essere pronti a tutto, anche a
cambiare direzione pur di restare fedeli alla realtà e al proprio spirito;
5. il senso della continuità storica, che ci impedisce di accettare il mito della
rivoluzione come "tabula rasa", ossia come rifondazione ex novo; una
rivoluzione non può aver successo se punta a una totale trasformazione sociale,
deve piuttosto mirare ad una profonda revisione dei valori, ad una
riorganizzazione della struttura e a un rinnovamento delle classi dirigenti.
Si rilevano temi personalistici in correnti differenti: in una certa tendenza
esistenzialistica (Ricoeur), in una certa tendenza marxista e in una tendenza più
classica, più vicina alla tradizione introspettiva della filosofia francese (Jean
Lacroix).

223
224

Emmanuel Mounier (1905-1950). Il personalismo contro il moralismo e


l'individualismo e contro il capitalismo e il marxismo.

Se il Rinascimento rappresenta l'uscita dalla crisi del Medioevo, la rivoluzione


personalistica e comunitaria risolverà, secondo Mounier, la crisi del XX secolo a
patto che si ponga al centro la persona.
L'idea di persona non è, per Mounier, la coscienza che io ho di essa né essa coincide
con la mia personalità, con l'insieme dei miei desideri, volontà e speranze. La persona
è al di là del tempo, è una "unità" data e non costruita, più vasta della visione che io
ne ho. Essa è una "presenza". La persona è inoggettivabile (non può essere ridotta ad
oggetto): non se ne può fare l'inventario, scrive Lacroix, perché in essa c'è sempre
qualcosa di più del dato, è continua ricerca e sviluppo nelle relazioni con gli altri,
con la storia, col mondo. La persona è in ogni uomo una tensione fra le sue tre
dimensioni spirituali: la vocazione, in ordine al proprio posto e ai propri doveri nella
comunità; l'incarnazione, poiché la persona è sempre incarnata in un corpo e situata
in precise condizioni storiche; la comunione, perché la persona non può compiersi se
non offrendosi alla comunità ed in relazione con gli altri. I tre esercizi essenziali per
arrivare alla formazione della persona sono allora la meditazione, l'impegno e la
rinuncia a se stessi.
L'esperienza personale originaria è quella del "tu": il rapporto e l'atto d'amore
verso gli altri. L'atto d'amore è la più forte certezza dell'uomo, l'autentico cogito
esistenziale: amo, dunque l'essere è, e la vita merita di essere vissuta. Ne deriva che
per ogni problema pratico bisogna anzitutto trovare la soluzione sul piano delle
infrastrutture biologiche ed economiche. Tuttavia la soluzione biologica ed
economica (cioè materiale) di un problema resta fragile ed incompleta se non tiene
conto delle più profonde dimensioni dell'uomo, cioè quelle spirituali. Una struttura
economica, per quanto razionale possa essere, è destinata al fallimento se è basata sul
disprezzo delle esigenze fondamentali della persona.
Perciò Mounier sottolinea la diversità del Personalismo sia dal moralismo sia dallo
spiritualismo: sono entrambi impotenti perché trascurano le componenti biologiche
ed economiche. Ma impotente è anche il materialismo per la ragione opposta, vale a
dire perché trascura le condizioni spirituali.
L'individualismo poi è il maggior nemico del personalismo. Esso organizza
l'individuo sulla base di un atteggiamento di isolamento e di difesa. È stato
l'individualismo a costruire l'ideologia e la struttura dominante della società borghese
occidentale tra il XVII e XIX secolo, concependo un uomo astratto, senza legami o
relazioni con la natura, che manifesta diffidenza, calcolo e rivendicazione verso gli
altri, che riduce le istituzioni alla funzione di assicurare la convenienza reciproca
degli egoismi. Nel Personalismo, all'opposto, la persona è una presenza volta al
mondo ed alle altre persone. Le altre persone non la limitano ma anzi le permettono
di svilupparsi. Io esisto in quanto esisto per gli altri e, in fondo, "essere significa
amare".
Nel capitalismo Mounier vede un sovvertimento totale dell'ordine economico. Il
capitalismo è la metafisica del primato del profitto, che vive di una duplice forma di
224
225

parassitismo: contro la natura, poiché basato sul denaro che si trasforma in tirannide;
contro l'uomo, poiché basato sullo sfruttamento del lavoro che non rispetta la dignità
della persona. Paradossalmente, il capitalismo è nemico anche della proprietà privata,
giacché priva il salariato del suo profitto legittimo. La dottrina di Mounier sulla
proprietà segue il pensiero cristiano medievale: il fondamento della proprietà è
inseparabile dalla considerazione del suo uso, cioè dalla sua finalità. Mounier auspica
la formazione di persone collettive, cioè organizzazioni di persone responsabili che
diano vita a distinte forme economiche secondo le diverse condizioni di produzione.
La concezione e quella di un'economia pluralista.
Ma Mounier non risparmia critiche anche al marxismo. Pur riconoscendo al
marxismo perspicacia in molte analisi, dedizione alla causa dei più deboli e anelito di
giustizia, tuttavia Mounier lo respinge per svariate ragioni: perché è figlio ribelle, ma
sempre figlio, del capitalismo in quanto anche il marxismo riafferma il primato della
materia (della struttura economica); perché sostituisce al capitalismo un altro
capitalismo, quello di Stato; perché professa un ottimismo della collettività che
implica un pessimismo radicale della persona; perché sul piano storico ha condotto a
regimi totalitari; perché mira a sostituire l'imperialismo capitalista con un
imperialismo socialista; infine, perché un cristiano non può dare completa adesione
ad una filosofia che neghi o misconosca la trascendenza. Il realismo cristiano
configura invece la storia umana attorno a due poli, quello materiale e quello
soprannaturale.

Verso la nuova società.

Alle critiche nei confronti delle concezioni filosofiche e delle strutture sociali
antipersonalistiche, Mounier fa seguire il suo programma di società personalistica
e comunitaria. Del tutto opposte a questa società sono la società di massa, con la sua
tirannia dell'anonimo; la società fascista, con il suo capo carismatico e la sua febbre
mistica; la società chiusa di tipo organicistico-biologico, ma anche la società
esclusivamente fondata sulla concezione contrattualistica e giusnaturalistica
illuministica, in cui il contratto sociale che sta alla sua base non è un rapporto
interpersonale ma è, invece, un compromesso di egoismi. Per contro, la società
personalistica comunitaria di Mounier si fonda sull'amore che si realizza nella
"comunione", allorché la persona "prenda su di sé ed assuma il destino, la sofferenza
e la gioia degli altri e il dovere verso gli altri. Questo tipo di società è un'idea-limite
di natura teologica (si pensi all'idea cristiana del corpo mistico), che non potrà mai
realizzarsi in termini politici ma che funziona da ideale regolativo.
Difensore, sempre in base all'idea di persona, dei diritti della donna, avversario di
ogni forma di razzismo e di xenofobia, difensore di una scuola e di un'educazione che
non sia appannaggio dello Stato, assertore delle autonomie locali, Mounier vede la
nuova società farsi lentamente strada attraverso la crisi della società capitalistica,
scorgendo i primi abbozzi di un mondo socialista (non marxista) che deve svilupparsi
mediante l'abolizione del proletariato e la sostituzione ad una economia anarchica,
225
226

basata sull'utile, di un'economia organizzata secondo la visione totale delle


prospettive della persona, nonché attraverso la socializzazione, e non la statizzazione,
dei settori alienanti della produzione, mediante l'attribuzione all'operaio della dignità
di persona contro il paternalismo, mediante il primato del lavoro sul capitale e
l'abolizione della divisione delle classi secondo il lavoro o il censo e, non ultimo,
mediante il primato della responsabilità personale.
La nuova società di Mounier è quella di un socialismo rinnovato, al tempo stesso
rigoroso e democratico, di una società dove lo Stato è per l'uomo e non l'uomo per lo
Stato, di un potere fondato esclusivamente sulle finalità della persona. La persona
pertanto deve essere protetta contro gli abusi del potere; il potere deve essere
assoggettato a controllo secondo criteri di limitazione costituzionale dei poteri dello
Stato, realizzando un equilibrio del potere centrale attraverso i poteri locali (Stato
pluralista).
L'atteggiamento del personalismo di Mounier nei confronti della storia è di
ottimismo tragico, per la persuasione che la verità sia comunque destinata al trionfo
e per l'accettazione realistica della situazione di crisi in cui si è chiamati ad operare.
La fede cristiana assume in tal senso il valore di "forza liberatrice". Il cristianesimo
contemporaneo deve spazzar via i compromessi, la vecchia tentazione teocratica
dell'intervento dello Stato sulle coscienze, il conservatorismo e l'ambizione per il
successo. Nel mondo sono nati, al di fuori del cristianesimo, altri valori, nuovi
eroismi e santità, mentre il cristianesimo non pare essere riuscito a conciliarsi
adeguatamente col mondo moderno, come invece gli era riuscito nel mondo
medievale. Ma questa crisi non segna la fine del cristianesimo bensì di una
cristianità. La prospettiva è quella di una nuova cristianità, quantunque non
definitiva perché ogni forma è calata nel divenire storico. L'importante è che il
cristianesimo non consolidi ed irrigidisca le situazioni di fatto (i regimi, i partiti, ecc.)
ed è ancor più essenziale che il mondo non perda i valori cristiani di fondo, giacché
ovunque quei valori scompaiono le forme religiose riappaiono sotto un altro aspetto:
divinizzazione del corpo, dell'individuo, del collettivismo, della specie o della razza,
o di un capo o di un partito. I tratti caratteristici della religione si ritrovano così in
queste forme degradate e dannose per l'uomo.

Jean Lacroix (1900-1986).

Mentre Mounier suole ripetere che è importante riconciliare Marx con Kierkegaard,
cioè con un cristianesimo esistenzialistico-sociale e talora con esiti mistici, Lacroix
pone l'attenzione, al contrario, proprio sulle differenze che caratterizzano il
personalismo nei confronti dell'esistenzialismo e del marxismo.
Il marxismo vuole non tanto fare della storia una scienza, quanto piuttosto dare
un'interpretazione storica di ogni scienza. Ma l'uomo non ha esclusivamente una
dimensione storica. Egli è un essere al tempo stesso duplice e contraddittorio, legato
al tempo e all'eternità (la tensione e l'apertura verso l'assoluto).

226
227

D'altro canto, l'esistenzialismo è una filosofia soggettiva inadeguata in quanto


trascura l'oggetto, concepito solo come "punto d'appoggio" della libertà creatrice
dell'individuo, sottovalutando o addirittura ignorando la relazione che il soggetto ha
con l'umanità e con la trascendenza.
Contro i limiti dell'esistenzialismo Lacroix sostiene che la persona, per realizzarsi,
deve passare attraverso la natura e la storia. Parimenti insufficiente è il marxismo che
annienta il soggetto nelle strutture economiche della storia. Lacroix prende le
distanze anche da Kierkegaard e dal tema della solitudine dell'individuo: questo è il
tema più pericoloso perché il "noi", la relazione con gli altri, ha invece valore
costitutivo dell'essere uomo.

227
228

FEMMINISMO E FILOSOFIA

Per femminismo si intende, in senso generale, l'insieme delle riflessioni teoriche e


delle pratiche politiche volte a promuovere la liberazione delle donne dalla
condizione di subordinazione in cui per secoli sono state tenute dal sistema
patriarcale (maschilista) di organizzazione della società e di produzione della cultura.
Una delle prime fondamentali opere del pensiero femminista è il "Secondo sesso",
della filosofa esistenzialista Simone de Beauvoir, incentrata sulla domanda di fondo
"che cos'è una donna?". De Beauvoir compie un'analisi dei concetti di "uomo", di
"soggetto" e di "donna" per mettere in luce il fatto che la donna e la sua differenza
specifica rispetto all'uomo sono state concepite dalla cultura e dalla mentalità
dominante in modo da garantire la supremazia assoluta dell'uomo. In termini più
filosofici, de Bovuar osserva che l'uomo si è collocato come Soggetto assoluto,
relegando la donna nella parte dell'Altro, ossia ad oggetto da assoggettare. In tali
condizioni compito primario delle donne, allora, è quello di conquistare la posizione
di soggetto autonomo, liberandosi dalla loro "oggettivazione" (riduzione ad oggetto),
nell'obiettivo di instaurare un'effettiva uguaglianza, senza discriminazioni sessuali, tra
gli esseri umani.
Rispetto alla critica del tradizionale concetto filosofico di soggetto, formalmente
neutro per intendere sia gli uomini che le donne ma sostanzialmente maschilista, il
pensiero femminista successivo ha poi ritenuto necessario condurre altresì una
riflessione sul valore intrinseco della soggettività femminile. In questo modo, dopo la
liberazione "dalla" differenza (subita rispetto all'uomo) si è affermata, ferma
restando la parità dei sessi sul piano civile, l'esigenza di una liberazione "della"
differenza, atta ad esaltare la specifica diversità dell'animo femminile anziché
limitarsi ad un piatto livellamento all'uomo. È questa la direzione intrapresa dal
"pensiero della differenza sessuale", inaugurato dalla pensatrice francese Luce
Irigaray e ripreso in Italia, tra le altre, da Adriana Cavarero e Luisa Muraro.
La considerazione del valore connesso alla specificità della donna ha quindi
naturalmente condotto la riflessione a soffermarsi sulla questione dell'etica
femminile, in particolare sull’"etica della cura", caraterizzante i sentimenti e le
attitudini del mondo femminile: la compassione e l'attenzione per gli altri.
Più recentemente, la liberazione della differenza si è sviluppata lungo la strada di
una più generale “liberazione delle differenze”, riconosciuta come condizione per
contestare un sistema che fonda il suo dominio proprio sulla soppressione
conformistica e alienante delle differenze stesse. In tal senso, osserva la pensatrice
italiana Rosi Braidotti, la soggettività femminile, e la connessa attenzione per l'altro,
si presta a configurarsi come "soggettività nomade", impegnata nel rispetto e nella
difesa delle diversità e particolarmente adatta a percorrere, in relazione ai diversi
punti di vista, differenti sentieri nello spazio e nel tempo secondo le molteplici
inclinazioni del pensare e del sentire.
Con la scienziata ed ecofemminista indiana Vandana Shiva la sensibilità femminile
non è venuta meno, inoltre, ad un impegno critico nei confronti del modello di
sviluppo in atto, caratterizzato dalla "globalizzazione" dell'economia di mercato
228
229

estesa a livello planetario e fondato sullo sfruttamento tecnico-scientifico delle risorse


naturali e umane.

Simone de Beauvoir (1908-1986).

Il ciclo di lotte del femminismo "storico", sorto nell'Ottocento in Inghilterra e negli


Stati Uniti per la conquista dei diritti politici e civili, era considerato concluso col
conseguimento, nei paesi a regime liberale o socialdemocratico, dei suoi principali
obiettivi, tra cui il diritto al voto e l'accesso alle libere professioni.
Grande scalpore ha pertanto suscitato "Il secondo sesso" pubblicato nel 1949 da
Simone de Beauvoir: in primo luogo per il carattere radicale e provocatorio
dell'opera, affermando l'autrice che, seppur acquisiti i diritti politici e civili,
l'emancipazione femminile era ancora assai lontana dalla sua realizzazione; in
secondo luogo perché, allora, era apparso isolato il richiamo alla necessità di una
presa di coscienza delle donne per la loro liberazione dalle condizioni di
subordinazione in una società pensata e organizzata dagli uomini.
Fin dall'introduzione a "Il secondo sesso" de Beauvoir formula la domanda
cruciale "che cos'è una donna?", mettendo in rilievo come essa non corrisponda
esattamente alla domanda "che cos'è un uomo?", giacché la differenza sessuale tra
uomo e donna è stata e continua ad essere principio di discriminazione e di
oppressione. Il concetto di uomo, prosegue de Beauvoir, è formalmente usato in
senso neutro, per significare l’"essere umano" generalmente inteso, comprendente
tanto gli uomini quanto le donne. Ma si tratta di una falsa neutralità, di un falso
uso neutrale del termine, denuncia de Beauvoir, in quanto nella definizione della
"donna", una volta che le si riconoscano tutte le caratteristiche dell'essere umano,
emerge che la diversità sessuale risulta determinante però in senso negativo, poiché
l'appartenenza al sesso femminile viene di fatto "naturalmente" intesa, nella società
umana, come posizione di dipendenza e di subordinazione rispetto all'universo
maschile. Così, dietro l'apparente uso neutrale del concetto di uomo, si nasconde
invece una distinzione gerarchica tra un "primo" sesso (quello maschile) e un
"secondo" sesso (quello femminile).
Utilizzando categorie (concetti) di fonte hegeliana, rielaborate originalmente secondo
la prospettiva della filosofia esistenzialista, de Beauvoir afferma che "La donna si
determina e si differenzia in relazione all'uomo, non l'uomo rispetto a lei; è
l'inessenziale di fronte all'essenziale. Egli è il Soggetto, l'Assoluto, lei è l'Altro". La
differenza della donna è quella che viene decisa dagli uomini e non da lei stessa.
Di fronte a tale evidenza occorre allora comprendere perché le donne abbiano
accettato per secoli la condizione di passività e di dipendenza, senza contestare la
sovranità maschile. A tal fine l'autrice effettua un profondo esame storico-culturale di
tutti i modi in cui nella società, nella mitologia, nelle scienze ed infine nella
formazione pedagogica delle donne è stata e continua a essere assimilata da ogni
229
230

donna la "realtà femminile" quale imposta dagli uomini. Da questo esame de


Beauvoir porta allo scoperto il fatto che, secondo una sua celebre frase, "donna non
si nasce, si diventa", stante il secolare condizionamento subito dalle donne nella
stessa loro autorappresentazione del proprio ruolo ed immagine di sé. Se le donne
vogliono conquistare quella posizione di soggetto libero e autonomo che spetta in
ugual misura ciascun essere umano, devono quindi cominciare il cammino della
propria emancipazione liberandosi in primo luogo da tale rappresentazione del
femminile e della differenza. Nell'ultima parte dell'opera l'autrice delinea in tal
senso alcune vie di liberazione "individuali", tra le quali ritiene decisiva quella
dell'indipendenza economica, concludendo però come solo una liberazione
collettiva, nell'ambito della più generale liberazione dalla divisione di classe, possa
davvero raggiungere l'obiettivo di un'autentica eguaglianza fra uomini e donne.

Liberazione "della" differenza.

A partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento si afferma l'esigenza di
un'elaborazione più strettamente teorica e filosofica capace di riflettere le esperienze,
i saperi e le pratiche maturati all'interno del movimento femminista. Da tale esigenza
muovono le pensatrici che, in Francia e in Italia, introducono "il pensiero della
differenza sessuale".

Luce Irigaray (nata nel 1930).

Studiosa belga e di formazione psicoanalitica e filosofica, può essere considerata


come la pensatrice che ha inaugurato, con l'opera "Speculum" del 1974, la filosofia
della differenza nell'ambito del pensiero femminista contemporaneo.
Nell'esprimere la sua gratitudine per Simone de Beauvoir, l'autrice sostiene tuttavia la
necessità di fare un passo avanti e di trasformare la liberazione della donna
"dalla" differenza dall'uomo, come da de Beauvoir invocato, nella liberazione
"della" differenza femminile, tesa a liberare, ossia a far emergere i pregi della
soggettività femminile rispetto alle inadeguatezze e responsabilità della mentalità e
soggettività maschile. L'obiettivo è il superamento, nei diversi campi del linguaggio,
del diritto e della cultura, non solo della differenziazione ma altresì della
"neutralizzazione" linguistico-culturale, patita a causa del maschilismo, per il falso
uso neutrale del termine "uomo", impiegato per denotare l'essere umano generale ed
entro il quale dal punto di vista formale si vorrebbero far intendere comprese anche le
donne. Contro la falsa neutralità ed eguaglianza uomo-donna, solamente formale,
l'intento è di portare cioè allo scoperto la maggior positività dei valori, delle pratiche
e delle forme di produzione culturale legati alla sessualità femminile rispetto a quelli
maschili. A tal fine, secondo la pensatrice, occorre però che le donne percorrano

230
231

"un itinerario doloroso e complesso, una vera e propria conversione, nel


linguaggio e nella cultura, dal genere maschile al genere femminile.
Finora e tuttora l'accesso al pensiero e al linguaggio comporta per la donna una sorta
di neutralizzazione e nascondimento della propria appartenenza sessuale, vale a dire
che, quando si pensa e si parla non ci si sente più donne (mentre si può rimanere
tranquillamente uomini) ma esseri sessualmente neutri. Prova ne sia il fatto che,
specialmente nel linguaggio francese, molti termini professionali, come quelli di
professore, dottore, scrittore, ecc., hanno una declinazione unicamente al maschile e
non anche al femminile. Col suo programma di "conversione" al genere femminile
Irigaray, dunque, non intende affatto indicare il ritorno ai valori femminili
tradizionalmente e socialmente concepiti, bensì l'invenzione di forme di scrittura e
di pensiero che più non costringano le donne a tale condizione di
neutralizzazione e autoestraniazione seguitata subire.
Secondo Irigaray, il compito preliminare di un pensiero della differenza sessuale è
quello di chiarire l'ordine (il criterio) che governa le produzioni culturali dominanti
nella nostra società, in primo luogo con riferimento al linguaggio, per smascherare la
finzione della "neutralizzazione sessuale" e svelarne invece l'effettiva natura
maschilista. Tale analisi mette in evidenza il fatto che la cultura patriarcale si
accompagna alla formulazione di valori che si pretendono universali e neutrali,
mentre sono espressione di un punto di vista unilaterale maschile. Basta osservare che
noi viviamo secondo genealogie maschili (si pensi ad esempio alla trasmissione del
cognome del padre che attesta il predominio della linea paterna), mentre manca un
riconoscimento di valore autenticamente paritario e la presenza altresì delle
genealogie femminili.

Adriana Cavarero (nata nel 1947).

Agli inizi degli anni Ottanta le riflessioni di Luce Irigaray vengono riprese e adattate
al contesto storico-culturale italiano in cui il movimento delle donne degli anni
Sessanta e Settanta si è maggiormente radicato. Tra i gruppi di studiose provenienti
dal movimento femminista emerge la comunità di filosofe, sorta presso l'università di
Verona, nota come "Circolo di Diotima". Una delle figure di spicco del gruppo (dal
quale peraltro in seguito si distaccherà) è Adriana Cavarero, pensatrice italiana della
differenza sessuale tra le più affermata sulla scena internazionale.
Cavarero applica il pensiero della differenza sessuale all'esame del discorso filosofico
dalle origini greche all'età contemporanea giungendo, a conclusione dell'analisi, a
diffidare della pretesa neutralità e falsa universalità del linguaggio e del pensiero
filosofico occidentale. La diffidenza matura a partire dalla constatazione del fatto
che, storicamente, il soggetto del discorso filosofico non è un soggetto sessualmente
neutro, come si vorrebbe far apparire, ma un soggetto sessuato maschile che si è
posto come soggetto universale, deputato a stabilire l'ordine linguistico e concettuale
culturalmente dominante. Spetta quindi alle donne di sottrarsi alla trappola del
linguaggio, benché ciò costi molta fatica e non poche difficoltà. Infatti, nel
231
232

tentativo di porsi come soggetto sessuato femminile a partire da sé e dalla propria


esperienza del mondo, la donna si trova costretta a parlare un linguaggio non suo,
a rappresentarsi nel linguaggio dell'altro (dell'uomo) vivendo la sensazione di una
costante estraniazione da se stessa. Parafrasando ironicamente una delle definizioni
dell'uomo che stanno a fondamento della filosofia occidentale, ossia "l'uomo è un
vivente che ha il linguaggio", la donna, osserva Cavarero, "è l'essere vivente che ha
il linguaggio nella forma dell'autoestraniazione". Per parlare e pensarsi le donne
devono utilizzare l'unica lingua disponibile, la lingua del "padre", lingua
straniera in cui le donne sono costrette a tradurre una lingua mancante: la lingua
"materna" che è come un'origine perduta.

Luisa Muraro (nata nel 1940).

Cofondatrice della comunità di Diotima, Luisa Muraro è un'altra figura fondamentale


del pensiero della differenza sessuale. A lei risale la messa a punto della nozione di
"affidamento ", con la quale intende rappresentare la pratica della relazione tra
donne in termini di scambio e di reciprocità in grado di rispettare le relative
differenze (concepite anche come differenza "verticale" tra una donna più anziana ed
una più giovane) che non vogliono trasformarsi, come nel modello maschile
patriarcale, in una forma di oppressione e di dominio. "Il nome affidamento, scrive la
Muraro, è bello, ha in sé la radice di parole come fede, fedeltà, affidarsi, confidare…
Noi lo abbiamo pensato primariamente come forma di rapporto tra donne". Eppure,
prosegue la Muraro, ad alcuni tale nome non piace perché con esso si suole designare
invece il rapporto di presa in cura di un bambino da parte di un adulto. Però "quel
tirarsi indietro davanti una parola in sé bella solo per l'uso che altri ne fanno è un
sintomo di impotenza… Spesso in molti campi avviene che la lingua si imponga a noi
come il dominio di esperienze e giudizi altrui. La lingua di suo non è il dominio di
un'esperienza ad esclusione di altre o di un pensiero sopra altri. Invece la lingua fa
corpo con la trama dei rapporti sociali (sussistenti e dominanti) e questi sono ben
poco favorevoli ad accogliere quello che una donna vive e vuole per sé nella sua
differenza dall'uomo. A nessuna di noi, molto probabilmente, è stata insegnata la
necessità di curare specialmente i rapporti con le altre donne e di considerarli una
risorsa insostituibile di forza personale, di originalità mentale, di sicurezza sociale."
Proprio la relazione tra donne nella forma dell'affidamento, che tiene conto della
disparità senza tuttavia cadere in rapporti conflittuali, costituisce invece per la
Muraro una delle possibili vie per ritrovare quelle "genealogie femminili"
invocate da Irigaray e dimenticate nel modello patriarcale. E così come questo
modello fa perno sul simbolo del padre, il simbolo delle donne dovrà incentrarsi sulla
figura della madre e sulla relazione madre-figlia, ripensata dalle donne al di fuori di
ogni rappresentazione autoritario-paternalistica.

232
233

L'etica femminile della cura.

La critica del patriarcato, ritenuto responsabile di quella divisione dei "generi" in base
a cui è stato secolarmente giustificato il dominio del "maschile" sul "femminile", è
stato il motore fondamentale del pensiero femminista. Nella lotta di liberazione
contro tale dominio è inoltre emersa l'esigenza etico-politica di libertà e dignità della
persona che ha caratterizzato il movimento femminile, quale si è espressa nel
pensiero della valorizzazione della differenza e nel concetto di affidamento.
La riflessione morale ha costituito in effetti uno dei contributi fondamentali
offerti dal pensiero femminista, e da quello statunitense per primo, al dibattito
filosofico contemporaneo. In tale contesto una delle proposte teorico-morali che ha
avuto maggior risonanza è individuabile in quella nota come "etica della cura",
tradizionalmente esercitata dalle donne e che si fonda sul valore dell'accudimento,
del farsi carico dei bisogni dell'altro, della condivisione affettiva.
Virginia Held, filosofa statunitense contemporanea, ha dedicato ai temi della morale
femminile un ampio volume intitolato "Etica femminista". Ella si chiede in
particolare quali contributi specifici alla risoluzione dei problemi morali del nostro
tempo possa portare la teoria morale femminista, domandandosi in tal senso se esiste
una soggettività morale specificatamente femminile, ovvero se è possibile
riscontrare una differenza tra uomini e donne nel modo di fronteggiare situazioni
moralmente conflittuali. La Held risponde positivamente richiamandosi agli studi
della psicologa Carol Gilligan, dai quali era emersa la tendenza delle donne a fondare
i giudizi morali, anziché sulla base di teorie astratte, soprattutto sui legami concreti e
sui sentimenti di simpatia e di compassione derivanti dall'esperienza del "prendersi
cura" a loro secolarmente relegata. Proprio tale attitudine morale, sostiene Virginia
Held, deve essere riscattata dal disprezzo in cui è stata tenuta dalla morale
tradizionale, in quanto proprio la valorizzazione dell'esperienza "femminile"
dell'amicizia tra donne e della cura materna consente di uscire dai limiti in cui incorre
l'etica contemporanea. In tale direzione, l'etica della cura conduce alla revisione
radicale degli ideali etici dominanti e, soprattutto, di quella concezione del soggetto
come individuo isolato, autoreferenziale, separato dal mondo e da tutti gli altri, che
ha contraddistinto e seguita a caratterizzare le contemporanee teorie morali tuttora
fondate sull'universalismo kantiano e sull'utilitarismo.

Liberazione delle differenze e soggettività nomade.

Dopo il superamento e la liberazione della donna "dalla" differenza nei confronti


dell'uomo (Simone de Beauvoir) e dopo la liberazione-valorizzazione "della"
differenza, ossia degli specifici pregi e sensibilità etica della soggettività femminile
rispetto a quella maschile (Irigaray Cavarero, Muraro, Virginia Held), è di strada,
per così dire, il passaggio alla liberazione-valorizzazione delle "differenze", cioè
del valore positivo, maggiormente avvertito dalla donna, insito nella varietà e
233
234

molteplicità dei pensieri, dei ruoli e delle situazioni, contro l'oppressivo appiattimento
conformistico della società contemporanea.
In effetti l'elaborazione teorica femminista degli ultimi anni assume sempre più il
carattere di pensiero critico radicale nei confronti della cultura dominante a
favore di un pluralismo culturale di stampo "postmoderno". L'avvento della
filosofia post-moderna (Lyotard, Vattimo) è positivamente accolto da gran parte del
movimento femminista, che scorge in essa, particolarmente, la crisi di quella
concezione (maschilista) del soggetto cartesiano, universale e sovrano, che si
costituisce nel cogito tagliando ogni legame col corpo, posta a fondamento della
filosofia moderna. Più gradita e pertinente, nel contesto della società contemporanea,
è per lo più considerata dalle studiose e militanti del femminismo la concezione post-
moderna di “soggetto”, visto come entità mobile, instabile, caratterizzata da
molteplici punti di vista ed identità di sesso, di razza, di sensibilità, concezione
ritenuta costituire, perciò, un passo avanti nella prospettiva femminista.
Negli anni Novanta il dibattito femminista si articola e si differenzia in una
varietà di posizioni: dal femminismo lesbico, che contesta un'impostazione
esclusivamente eterosessuale, al femminismo nero-americano, che critica le
complicità e la mancata denuncia del sessismo e razzismo, fino ad arrivare alle
cyberfemministe, impegnate nella promozione di un un'utopia di liberazione fondata
su un rapporto di familiarità con le nuove tecnologie dell'informazione.
Come osserva la pensatrice italiana Rosi Braidotti (nata nel 1954), ciò che emerge
da questi nuovi sviluppi della teoria femminista è il bisogno di una ridefinizione del
soggetto femminile, da intendersi non più come soggetto sovrano, gerarchico ed
esclusivo, contrapposto ed alternativo all'uomo, ma come entità multipla, aperta,
intersoggettiva e variamente intrecciata. Va superata in primo luogo ogni tentazione
"essenzialista", ossia rinunciare alla pretesa di definire, anche se per valorizzarla, una
sorta di "essenza femminile" (come ad esempio nel caso dell’etica della cura o
dell’ecofemminismo) complementare e parallela a una presunta "essenza maschile".
Occorre invece perseguire una concezione dell'io, dell'identità, come "luogo di
differenze", implicante il riconoscimento del fatto che, nella società post-moderna, il
soggetto occupa, in tempi diversi, differenti posizioni su cui influiscono molte
variabili come il sesso, la classe sociale, la razza, l'età, lo stile di vita, ecc. In tal
senso, contro le forme di potere che agiscono simultaneamente e trasversalmente per
inglobare i differenti soggetti e le differenze soggettive in un sistema di dominio
unico ancorché dalle molte facce (patriarcale, razzista, sessista, antiomosessuale,
capitalistico, guerrafondaio) Braidotti sceglie di raffigurare la soggettività
femminile-femminista come "soggettività nomade", in quanto impegnata in una
battaglia tanto politica quanto culturale per la liberazione delle differenze dalla logica
del dominio e dell'oppressione.
Scrive Rosi Braidotti: "Il nomade possiede un acuto senso del territorio senza che
questo sfoci nella possessività… E quindi il nomadismo non è la fluidità priva di
confini bensì la precisa consapevolezza della non fissità dei confini. È l'intenso
desiderio di continuare a sconfinare, a trasgredire. Uno dei suoi compiti storici
consiste nell'individuare il modo di ricostruire un senso di intersoggettività che
234
235

permetta di creare un nuovo tipo di legame non escludente il riconoscimento delle


differenze".

La difesa della Terra madre e la critica della scienza patriarcale.

Vandana Shiva (nata nel 1952), scienziata indiana e militante del movimento
ecofemminista, prende decisa posizione contro la contemporanea globalizzazione
economica e sfruttamento della natura.
Punto di partenza della riflessione della Shiva è la critica del modello di razionalità
scientifica europeo-occidentale e del connesso rapporto scienza-natura, quali si sono
affermati intorno al XVII secolo con la cosiddetta "rivoluzione scientifica", che ha
avuto in Bacone uno dei suoi più significativi rappresentanti. In nome di tale ideale di
scientificità, presunto come universale e assoluto, si è imposto il modello di sviluppo
occidentale, basato essenzialmente sullo sfruttamento delle risorse agricole e naturali
per fini produttivi e di mercato, colonizzando dapprima i territori e poi le menti in
tutto il pianeta.
Tesi fondamentale è che la scienza moderna e lo sviluppo siano progetti di
origine maschile, nati in Occidente, e che siano "l'ultima e più brutale espressione
di un'ideologia patriarcale che sta minacciando di annichilire la natura e la specie
umana". Alla base di tale perniciosa ideologia c'è una concezione della natura non
più intesa come "Terra madre", fonte e grembo della vita, ma come "macchina per
la fornitura di materie prime", come oggetto inerte e a disposizione del potere umano
legittimato ad agire con ogni mezzo, quindi essenzialmente con la violenza, per
sottometterla ai suoi fini.
L'analisi della Shiva mette poi in luce come violenza sulla natura e violenza sulla
donna siano inseparabili, sia a causa della tradizionale identificazione di donna e
natura, sia perché le donne sono naturalmente legate alla vita e alla sopravvivenza e
quindi predisposte ad una concezione della natura come fonte attiva e creativa di vita.
Per tale ragione la Shiva ritiene che la scoperta del "principio femminile" sia una
condizione necessaria per porre rimedio al progetto di distruzione ed espropriazione
in corso nell'attuale processo di sviluppo, definito ironicamente "malsviluppo".
"Il principio femminile, scrive la Shiva, diventa alternativo, una via non violenta di
interpretazione del mondo e di azione in esso per sostenere la vita intera, mantenendo
l'interconnessione e la varietà della natura". Il principio femminile è espressione della
creatività della natura e del sentimento della Terra madre. "Tale principio consente
una transizione ecologica dalla violenza alla non violenza, dalla distruzione alla
creatività, da processi antivitali ad altri favorevoli alla vita, dall'uniformità alla
diversità e da una frammentazione riduttiva a una complessità integrale". La natura è
unità originaria di creazione e distruzione, di coesione e disintegrazione, di maschile
e femminile. "Nell'attuale concezione occidentale della natura pesa invece la
dicotomia, il dualismo tra l'uomo e la donna e tra l'essere umano e la natura. Nella
cosmologia indiana la persona umana e la natura sono un binomio nell'unità… Il
235
236

mutamento ontologico (concernente la concezione del mondo, della realtà) per un


futuro ecologicamente sostenibile può trarre molto dalle interpretazioni del mondo
elaborate da antiche civiltà e culture che sono sopravvissute in modo sostenibile per
secoli e secoli. Esse si fondavano su un'ontologia del principio femminile come
principio vitale e sulla continuità ontologica tra la società e la natura: umanizzazione
della natura e naturalizzazione della società".

236
237

INDICE

Introduzione. 1
L'epistemologia. 3
L'empiriocriticismo: Avenarius, Mach, Poincaré. 4
Il neopositivismo e il Circolo di Vienna. 10
L'operazionismo di Bridgman. 20
Gaston Bachelard. 22
Karl Popper. 25
L'epistemologia post-popperiana: Kuhn, Lakatos, Feyerabend. 37
L'epistemologia fra realismo e antirealismo. 48
La filosofia del linguaggio o filosofia analitica. 51
Bertrand Russell. 54
Eduard Moore. 60
Ludwig Wittgenstein 64
L'ermeneutica e Hans Gadamer. 72
Sviluppi dell'ermeneutica: Pareyson e Ricoeur. 81
Lo strutturalismo: De Saussure, Lévi-Strauss, Foucault,
Lacan, Althusser, Chomsky. 90
Gli sviluppi della filosofia marxista nel Novecento: Rosa Luxemburg,
Lenin, Lukàcs, Korsch, Bloch, Labriola, Gramsci 103
La Scuola di Francoforte e la teoria critica della società: Horkheimer,
Adorno, Marcuse, Fromm, Benjamin. 118
Tra moderno e postmoderno. 130
Jurgen Habermas. 133
Karl Apel. 146
Il postmoderno: Lyotard, Vattimo. 154
Poststrutturalismo e postfilosofia: Rorty, Derrida, Deleuze, Guattari. 170
Il pensiero ebraico del Novecento: Rosenzweig, Buber, Levinas,
Jonas, Hannah Arendt. 186
Il rinnovamento della teologia nel Novecento. 206
La neoscolastica e Jacques Maritain. 217
Il personalismo e Mounier. 223
Femminismo e filosofia. 228

237
238

238

Potrebbero piacerti anche