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Francesco Lorenzoni - Storia Della Filosofia (4 Volumi, 2012)
Francesco Lorenzoni - Storia Della Filosofia (4 Volumi, 2012)
VOLUME PRIMO
INTRODUZIONE.
Sono convinto che la chiarezza espositiva è il sistema migliore per attirare gli studenti
allo studio della filosofia, come anche coloro che, ormai adulti, intendano accostarsi
ad essa per la prima volta ovvero rispolverare le conoscenze filosofiche apprese a
scuola.
Dalla comprensibilità espositiva può nascere inoltre il piacere e il gusto stesso per la
filosofia ed il desiderio di personali ulteriori approfondimenti. Ciò sarebbe il risultato
più lusinghiero derivante da questa mia fatica, dedicata a tutti coloro che abbiano
occasione e voglia di approfittarne, essendomi preoccupato di inserire il presente
corso nella rete Web.
Dell'importanza di una chiara narrazione ho fatto personale esperienza per via di
lezioni di filosofia che ho avuto modo di impartire a giovani studenti, con risultati, mi
sia consentito dire, più che soddisfacenti.
Francesco Lorenzoni
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Secondo la tradizione, sembra che il creatore del termine "filosofia" ( che alla lettera
significa “amore per il sapere”) sia stato Pitagora. Per la concezione dell'epoca il
possesso della sapienza, cioè del vero certo e totale, era supposto possibile solo agli
dei, mentre per l'uomo era possibile solamente una tendenza alla sapienza. La
filosofia è sorta intorno al sesto secolo avanti Cristo nelle antiche colonie greche e
poi si è sviluppata nella Grecia classica, presentandosi come modalità di pensiero
assolutamente nuovo ed originario e plasmando la visione del mondo dell'intera
civiltà occidentale, che ha preso una direzione completamente differente da quella
orientale.
Non sono in verità mancati tentativi di far derivare la filosofia dall'oriente, ma i
popoli orientali, con i quali i greci erano entrati in contatto, possedevano una forma di
“sapienza” fatta soprattutto di convinzioni religiose e di miti e non di una scienza
filosofica basata sulla pura ragione (sul “logos”). Possedevano cioè un tipo di
sapienza analoga a quella che possedevano i Greci prima di creare la filosofia.
Maggiori contributi sono stati arrecati dagli orientali nell'ambito di alcune
conoscenze scientifiche: la matematica e geometria dagli egiziani, l'astronomia dai
babilonesi, l'alfabeto dai fenici, ma tali conoscenze avevano scopi soprattutto pratici,
mentre i Greci hanno saputo trasformarle in teorie razionali organiche e sistematiche.
Quindi, mentre la sapienza orientale era essenzialmente religiosa e fondata sulla
tradizione, la filosofia greca è invece essenzialmente ricerca e, come tale, nasce da un
atto di libertà di fronte alle tradizione e alle credenze tramandate ed accettate o
imposte. Mentre in oriente il sapere era patrimonio di una casta privilegiata (quella
sacerdotale), in Grecia la filosofia era a portata di ogni uomo, perché ogni uomo è
"animale razionale" (Aristotele).
Per capire il sorgere e lo sviluppo della filosofia di popolo e di una civiltà è utile fare
riferimento all'arte, alla religione e alle condizioni socio-politiche di quel popolo e di
quella civiltà. Anteriormente alla nascita della filosofia i poeti ebbero, presso i Greci,
grande importanza nell'educazione e nella formazione spirituale dell'uomo,
specialmente i poemi di Omero e di Esiodo. In essi, pur così ricchi di immaginazione
e di eventi fantastici, si trova altresì un senso dell'armonia, della proporzione, del
limite e della misura. Di rilievo è anche l'arte della motivazione, costante nei poemi
omerici. Omero non si limita a narrare una serie di fatti ma ne ricerca anche le cause,
le ragioni, i perché (sia pure a livello mitico-fantastico). Un altro carattere della
poesia omerica è quello di presentare la realtà nella sua interezza: dei e uomini, cielo
e terra, guerra e pace, bene e male, gioia e dolore, valori e disvalori. È la stessa
mentalità che ispirerà il pensiero filosofico alla ricerca di una spiegazione della
totalità delle cose mediante l'individuazione del comune principio, fondamento ed
origine. Esiodo, con la "Teogonia" narra la nascita e la natura di tutti gli dei. E poiché
molti dei coincidono con parti dell'universo e con fenomeni del cosmo, la teogonia
diventa anche cosmogonia, ossia spiegazione mitico-poetica e fantastica della genesi
dell'universo. Questo poema aprì la strada alla successiva cosmologia filosofica, che
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cercherà con la ragione, e non più con la fantasia, il "principio primo" da cui tutto si è
generato. Altrettanto, la poesia ha impresso nella mentalità greca fondamentali idee
etiche ed estetiche, quali l'idea di giustizia, di giusta misura e di limite, che la
filosofia assumerà e svilupperà come concetti basilari.
Circa la religione, è utile distinguere tra "religione pubblica" e "religioni dei misteri".
Per Omero e per Esiodo, secondo le credenze proprie della religione pubblica, tutto
quanto è divino, poiché tutto ciò che accade viene spiegato in funzione dell'intervento
degli dei: i fenomeni naturali come la vita associata, la pace e la guerra. Gli dei sono
forze naturali personificate, sono uomini idealizzati, differenti solo per quantità ma
non per qualità. La religione pubblica greca è, in sostanza, una forma di "
naturalismo". Come naturalistica fu la religione pubblica greca, così "naturalistica" fu
la prima filosofia greca. Inoltre, i Greci non ebbero libri sacri o comandamenti
religiosi frutto di una rivelazione divina. Di conseguenza la loro religione non fu di
tipo assolutistico-dogmatico né vi fu una casta sacerdotale potente e autoritaria. Tutto
ciò lasciò ampia libertà al pensiero filosofico, che non trovò nella religione ostacoli
insuperabili.
Ma la religione pubblica non fu sentita da tutti i Greci come soddisfacente. Per tale
motivo si svilupparono, presso cerchie e sette ristrette, i culti dei "misteri",
specialmente i misteri orfici, dal poeta tracio Orfeo. L'orfismo introduce nella civiltà
greca un nuovo sistema di credenze ed una nuova interpretazione dell'esistenza
umana. Mentre la religione pubblica riteneva l'uomo mortale, l'orfismo proclamava
l'immortalità dell'anima, preesistente all'uomo come principio divino e caduta in un
corpo a causa di una colpa originaria. Attraverso la metempsicosi l'anima si reincarna
di volta in volta di una serie di corpi, fino a che, grazie al comportamento virtuoso
dell'uomo nel quale da ultimo si è incarnata, l'anima ne esce purificata e ritorna
presso gli dei. In base all'idea della colpa, del castigo, dell'espiazione e del premio,
l'orfismo viene a concepire l'uomo secondo uno schema dualistico che contrappone il
corpo all'anima. L'uomo vede per la prima volta la contrapposizione in sé di due
principi in lotta fra di essi: l'anima (il principio divino) e il corpo (tomba ed
espiazione dell'anima). Si incrina così, anche sul piano della credenza religiosa, la
visione naturalistica: l'uomo comprende che alcune tendenze legate al corpo sono da
reprimere e la purificazione diviene lo scopo del vivere. L'orfismo anticipa dunque,
rispetto all'originario naturalismo, una serie di importanti sviluppi della filosofia
greca, influenzando il pensiero di Pitagora, di Eraclito, di Empedocle e soprattutto di
Platone.
Per quanto concerne le condizioni socio-politiche ed economiche che favorirono il
sorgere della filosofia, va posto l'accento sulla libertà politica di cui beneficiarono i
greci rispetto ai popoli orientali. Nei secoli settimo e sesto a.C. la Grecia subì una
trasformazione socio-economica notevole: da paese prevalentemente agricolo
divenne centro di fiorente sviluppo dell'artigianato e del commercio, con conseguente
fondazione di molte colonie. Sorse un nuovo ceto di commercianti e di artigiani che
si contrappose vittoriosamente alla nobiltà terriera; le vecchie forme aristocratiche di
governo si trasformarono così nelle nuove forme repubblicane che caratterizzarono il
nascere e il diffondersi delle “polis” (le città greche). Nel clima di libertà individuale
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e collettiva delle polis greche fiorirono i confronti fra le idee e quindi la cultura, le
arti e, appunto, la filosofia. Anzi, la filosofia nacque prima nelle colonie, in quelle
dell'Asia minore e poi dell'Italia meridionale, poiché le colonie, con la loro operosità
e i loro commerci, raggiunsero per prime il benessere e, a causa della lontananza
dalla madrepatria, poterono per prime darsi libere istituzioni. In seguito la filosofia si
diffuse nella stessa Grecia, soprattutto ad Atene.
Fin dal suo primo nascere la filosofia presentò tre connotati principali
relativamente al contenuto, al metodo, allo scopo.
Per quanto riguarda il contenuto, il sapere cui il filosofo si rivolge non è un sapere
settoriale (come per le scienze particolari) né la conoscenza di una parte della realtà,
ma vuole indagare e spiegare la totalità delle cose, ossia tutta la realtà nella sua
interezza e compiutezza. L'oggetto di tale sapere è definito con il termine greco di
“aleteia” (il non essere nascosto), che traduciamo col termine "verità". La verità è il
tutto, la totalità, cioè, come verrà definito, è l'essere, la realtà in generale, ossia tutto
ciò che è, l’insieme di tutte le cose e di ciò che esse hanno in comune e da cui hanno
avuto origine. L’"ontologia" è quel particolare campo della filosofia che, appunto,
indaga l'essere, cioè la realtà in generale. La domanda dei primi filosofi è infatti:
"quale è il principio di tutte le cose"? Rispondendo al bisogno di conoscenza insito
nell'uomo, la filosofia, specie quella delle origini, si propone di spiegare globalmente
la realtà, ricercandone i principi generali e non accontentandosi di osservare come
stanno le cose ma cercando di capire il "perché" delle cose stesse. In particolare, la
filosofia sorge quando la spiegazione della realtà non viene più basata sul mito o
sugli dei, ma quando si distacca dal mito. La filosofia degli inizi cerca il principio di
tutte le cose all'interno della natura, ossia del mondo, dell'universo nel suo
complesso.
Per quanto concerne il metodo, la filosofia mira ad essere spiegazione puramente
razionale di quella totalità che essa ha come oggetto. Ciò che vale in filosofia non è il
discorso narrativo, il raccontare, ma il discorso argomentativo secondo ragione, la
motivazione logica, il "logos"(=la razionalità, il ragionamento). Non basta alla
filosofia raccogliere esperienze, ma deve andare oltre le esperienze per trovarne la
causa o le cause con la ragione. Altrettanto, rispetto alla condotta pratica la filosofia
sostituisce l'accettazione acritica dei valori e delle credenze con la ricerca razionale
intorno a ciò che è bene per il singolo e per la comunità. Le dottrine filosofiche sono
dunque un prodotto della ragione e, lungi dalla pretesa di essere verità dogmatiche,
indiscutibili, si sottopongono alla discussione, alla critica e alla confutazione, per
essere sostituite con altre dottrine che la ragione mostri più convincenti. In tal modo
la filosofia si distingue sia dal mito sia dalla religione, poiché mito e religione non
sono il frutto della pura ragione, bensì costituiscono elementi di ispirazione o
rivelazione, in quanto tali non sottoposti a dibattito o critica. Aristotele chiamò
"teologi" i narratori di miti come Omero ed Esiodo, mentre chiamò “fisici” i primi
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filosofi, cioè studiosi della natura (in greco “physis”), anche se quei primi filosofi per
physis intendevano non soltanto una parte o un aspetto dell'essere, cioè la natura
fisica del mondo, ma la totalità dell'essere stesso, cioè la totalità della realtà, anche
quella non fisica.
Infine, lo scopo della filosofia sta nel puro desiderio di conoscere e di contemplare la
verità. La filosofia è disinteressato amore di verità, senza proporsi di conseguire
qualche utilità pratica. La filosofia infatti nasce solo dopo che gli uomini hanno
risolto i problemi fondamentali della sussistenza e si sono liberati delle più urgente di
necessità materiali. Dice Aristotele: "noi non ricerchiamo la filosofia per un qualche
vantaggio estraneo ad essa. Essa è da sola fine a se stessa e perciò essa sola, fra tutte
le altre scienze, diciamo libera. Tutte le altre scienze saranno più necessarie, ma
nessuna sarà superiore". Contemplando la totalità dell'essere cambiano
necessariamente tutte le prospettive usuali, muta la visione del significato della vita e
si impone una nuova gerarchia di valori. La verità contemplata infonde un’enorme
energia morale ed una viva coscienza sociale.
"Tutti gli uomini -scrive Aristotele- aspirano per natura al sapere". Tendono al sapere
perché, come avvertono Platone ed Aristotele, si sentono pieni di "stupore" e di
"meraviglia" dinnanzi alla grandezza e al mistero del tutto, della realtà, della quale ci
si domanda quale sia l'origine e il fondamento e quale posto l'uomo stesso occupi in
questo universo. Perché c'è l'essere e non il nulla? È questa la domanda di fondo della
filosofia, che Leibniz verrà successivamente a trattare. Perché c'è il mondo? Da che
cosa è sorto? Quale è la sua ragione di essere? Quale il suo senso e significato?
Perché c’è l'uomo? Perché io esisto? Si tratta di problemi che l'uomo non può evitare
di porsi e che mantengono la loro attualità anche dopo il trionfo delle scienze
specialistiche moderne. Le scienze rispondono a domande su di una parte ma non sul
senso del tutto.
Dapprima la totalità della reale fu vista come "physis" (natura) e come cosmo; quindi
l’originario problema filosofico fu quello cosmologico, col sorgere perciò della
filosofia della natura. Come nasce il cosmo? Quali sono le forze che agiscono in
esso? Questi furono i problemi che si posero i primi filosofi, detti appunto "fisici" o
naturalisti o cosmologi. Poi, con i sofisti, il quadro muta. Diviene inattuale il
problema del cosmo e l'attenzione si concentra sull'uomo e sulla sua specifica natura
e virtù. Nascerà così la problematica e la filosofia morale. Le grandi costruzioni
sistematiche del quarto secolo a.C., cioè i grandi sistemi filosofici di Platone e di
Aristotele, arricchiranno ulteriormente la tematica filosofica. Platone scoprirà e
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cercherà di dimostrare che la realtà, o l'essere, non è di un unico genere e che oltre al
mondo sensibile esiste anche una realtà trascendente il sensibile, scoprendo quindi
quella che più tardi sarà chiamata "metafisica" (che indaga cioè quelle realtà che
trascendono le realtà fisiche e che si colgono solo con la ragione e non anche
attraverso i sensi). Anche i problemi morali verranno a specificarsi con la distinzione
tra il momento della vita individuale e quello della vita sociale: nasceranno così,
rispettivamente, la filosofia etica o morale e la filosofia politica. Con Platone ed
Aristotele saranno inoltre sviluppati i problemi della genesi e della natura della
conoscenza umana, col sorgere quindi della filosofia della conoscenza o
“gnoseologia”, nonché i problemi logici e metodologici, col sorgere quindi della
logica. La domanda che viene posta è: quale è la via che l'uomo deve seguire per
giungere alla verità? Problema quest'ultimo essenzialmente introdotto da Parmenide.
E poi: quale è l'apporto dei sensi e quello della ragione nella ricerca della verità?
Quale è la caratteristica del vero e del falso? Quali sono i principi e le forme logiche
mediante cui l'uomo pensa, ragiona e giudica? Quali sono le regole del retto pensare e
quali le condizioni perché un ragionamento possa qualificarsi scientifico? In
connessione con i problemi gnoseologici e logici nascono anche i problemi estetici
(cosa è il bello e l'arte?), col sorgere quindi della filosofia estetica.
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Come già indicato, la filosofia greca antica nasce dapprima nelle colonie e solo dopo
nella madrepatria. Precisamente sorge a Mileto, attiva colonia commerciale sulle
coste dell'Asia minore. I continui scambi commerciali e contatti con tradizioni e usi
differenti sono causa di una grande apertura culturale e, probabilmente, anche di un
certo senso di disorientamento rispetto al mondo di provenienza ed alla propria
identità. E’ derivato l’intento di trovare una visione unitaria della realtà, a partire da
quella della natura, andando alla ricerca di un principio in base al quale spiegare
complessivamente l'origine del mondo e delle cose nonché il loro divenire, ossia il
continuo cambiamento e mutamento d’aspetto delle varie cose ed altresì il loro
destino una volta uscite dal mondo.
Per l’iniziale interesse nei confronti della natura, in greco “physis”, i primi
filosofi sono stati definiti “fisici”, ovvero “filosofi naturalisti”, tutti contraddistinti
dall’intendimento di ricondurre il principio primo della realtà, concepito come causa
generale di tutte le cose particolari, ad un comune elemento naturale. Il termine greco
"physis" viene abitualmente tradotto con "natura", ma essa non va intesa soltanto
come complesso dei fenomeni che formano il mondo naturale bensì anche come
fondamento ed essenza della natura medesima, come sua intima organizzazione di
fondo.
Principio primo in greco si dice "arché". Il termine arché possiede tre significati:
1. ciò da cui tutte le cose derivano: l’origine e la causa di tutte le cose;
2. ciò che permane identico anche quando nelle cose si verificano modificazioni:
è l'elemento basilare che tutte le cose hanno in comune, la loro comune
sostanza, il fondamento del tutto;
3. ciò che continua a rimanere immutato: l'unità da cui tutto viene e a cui tutto
ritorna.
La ricerca della spiegazione della realtà attraverso i concetti di physis e di arché è
assolutamente innovativa poiché basata su di un nuovo tipo di razionalità
dimostrativa che abbandona la spiegazione mitica.
Rispetto alla figura arcaica del sapiente, il nuovo sapiente, cioè il filosofo, non si
limita all’enunciazione di massime morali di vita, ma coltiva anche capacità tecnico-
scientifiche e abilità pratiche. Il grande merito della filosofia milesiana (e della
filosofia presocratica in generale) è quello di aver creato una nuova immagine di
universo, ordinato e razionale, dove gli accadimenti non dipendono più
dall'intervento, spesso capriccioso, degli dei, ma sono collegati fra loro secondo
principi regolari e costanti che divengono oggetto di indagine.
Talete.
Visse a Mileto tra il settimo e sesto secolo avanti Cristo. Oltre che filosofo fu
scienziato e uomo politico; studiò le proprietà della calamita; calcolò l'altezza delle
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Anassimandro.
Discepolo e successore di Talete, visse a Mileto dal 610 al 545 a.C. Fu attivo nella
vita politica con incarichi anche di governo. Compose un trattato "Sulla natura",
scritto per la prima volta in prosa per la necessità di liberare il ragionamento dal
vincolo della metrica e della rima poetica.
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Anassimene
Eraclito.
Visse ad Efeso anch'essa, come Mileto, colonia greca nell'Asia minore sulla costa
ionica, all’incirca fra il 550 ed il 476 avanti Cristo. Di famiglia aristocratica, fu di
carattere schivo e scontroso. Scrisse un libro intitolato "Sulla natura", di cui ci sono
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Pitagora nasce a Samo nel 570 a.C., isola del Mar Egeo, dove viene a conoscenza
della filosofia della scuola di Mileto. Fugge da Samo a seguito di una rivolta. Compie
numerosi viaggi in oriente e quindi si stabilisce a Crotone in Italia meridionale, nella
Magna Grecia, dove nel 530 a.C. fonda la sua scuola. Muore a Metaponto intorno al
490 avanti Cristo.
È difficile distinguere le dottrine di Pitagora da quelle dei suoi discepoli poiché i suoi
insegnamenti erano segreti. Si preferisce perciò parlare, in generale, di Scuola
pitagorica. Tale scuola era costituita come comunità mistica e ascetica, riservata solo
agli iniziati, similmente alla Scuola orfica. Tuttavia, mentre per l'orfismo la
purificazione avviene attraverso l'ascesi mistica, mediante riti iniziatici e misterici;
per il pitagorismo invece la purificazione è frutto del sapere e si consegue attraverso
lo studio della matematica, della musica e dell'astronomia.
Oltre che filosofo, Pitagora fu anche politico e grande matematico. Fu venerato dai
seguaci quasi come un dio e la sua parola aveva quasi valore di oracolo.
I filosofi di Mileto avevano cercato il principio della natura e delle cose in una
sostanza particolare, in un elemento naturale. Con Pitagora la ricerca filosofica si
affina notevolmente. Infatti i pitagorici, più che rivolgersi a sostanze materiali, come
l'acqua, l'aria, il fuoco, per cercarvi la radice da cui tutte le cose provengono e di cui
tutte sono fatte, si rivolgono piuttosto alla forma delle cose ed indicano nel
"numero" il principio primo della realtà.
A prima vista questa teoria può stupire. In realtà deriva dall’osservazione che in tutte
le cose esiste una regolarità matematica, ossia numerica.
Infatti il numero esprime:
1. il rapporto di proporzione esistente fra le cose;
2. l'elemento comune di tutte le cose, poiché tutte sono misurabili.
Dire che dai numeri derivano tutte le cose significa dire che tutte le cose e tutte le
relazioni fra di esse sono esprimibili attraverso determinazioni numeriche, attraverso
numeri. Il numero assume pertanto la funzione di principio primo, di arché. È il
numero che rende intelligibile (comprensibile) la realtà delle cose in quanto ne
rivela la struttura quantitativa e geometrica. Definire il numero come principio
significa ritenere che la natura dell'universo è, appunto, ordinabile e misurabile
attraverso il numero. Per noi il numero è una astrazione mentale, un concetto; per i
presocratici invece il numero è una cosa reale, concreta. È una grandezza spaziale
avente forma ed estensione, è un punto geometrico solido. I numeri erano infatti
rappresentati come successione ordinata di punti solidi, similmente al pallottoliere. Si
pensi all'uso arcaico di utilizzare dei sassolini per indicare il numero, da cui è derivata
l'espressione "fare i calcoli", nonché il termine "calcolare", dal latino "calcolus" che
pure vuol dire "sassolino". Così, il punto rappresentava l'unità, il due raffigurava la
linea, il tre il triangolo, il quattro il tetraedro e così via.
Se la sostanza della realtà è il numero, le opposizioni tra le cose equivalgono allora
ad opposizioni tra i numeri. Il numero si divide in pari e dispari e quindi anche la
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realtà si divide in due parti, l'una corrispondente al pari e l'altra al dispari. I numeri
pari, essendo illimitati, cioè divisibili per due all'infinito, senza limite, sono imperfetti
perché incompiuti (per gli antichi Greci l’infinito illimitato è imperfetto in quanto
indefinito, indeterminato). I numeri dispari invece, essendo limitati, cioè delimitati da
un resto quando vengono divisi in due parti, sono perfetti. L'uno è "parimpari", in
quanto se sommato ad un numero pari lo fa diventare dispari e se sommato ad un
numero dispari lo fa diventare pari. Il dieci è considerato il numero perfetto, formato
dai primi quattro numeri (1+2+3+4) e raffigurato come un triangolo perfetto avente il
numero quattro per ogni lato: racchiude infatti sia i quattro numeri pari (2,4,6,8) sia i
quattro numeri dispari 3,5,7,9). Da ciò è nata la teorizzazione del "sistema decimale"
e la tavola pitagorica. Lo zero era invece sconosciuto alla matematica antica.
I numeri pari e i numeri dispari sono i contrari da cui scaturisce l'armonia del cosmo:
i numeri pari rappresentano tutte le determinazioni negative (i casi negativi), poiché
imperfetti e i numeri dispari quelle positive, poiché perfetti.
Così come i numeri si dividono tra i illimitati e limitati, anche la realtà è raffigurata
come contrapposizione fra illimitato e limitato. L'illimitato è il vuoto che circonda il
tutto ed il mondo, il quale nasce mediante una sorta di "inspirazione", di parziale
riempimento di questo vuoto da parte di "Uno", il primo numero.
L'universo non viene più concepito come caos e disordine, ma come sistema ordinato.
Se il numero è ordine (accordo di elementi illimitati e limitati) e se tutto è
determinato dal numero, tutto è ordine. E poiché in greco ordine si dice "cosmos", i
pitagorici chiamano l'universo "cosmo" ossia "ordine". Con i pitagorici l'uomo ha
imparato a vedere il mondo non più dominato da oscure potenze, ma come razionalità
e verità, come ordine perfettamente concepibile dalla ragione.
La scienza pitagorica era coltivata come mezzo per raggiungere un ulteriore fine,
consistente nella pratica di un tipo di vita virtuosa atta a purificare e liberare l'anima
dal corpo. Pitagora sembra essere stato il primo dei filosofi a sostenere la dottrina
della metempsicosi, tuttavia modificata rispetto all'orfismo: mezzo di purificazione
non sono più le pratiche religiose e i misteri, ma la pratica della scienza. I pitagorici
hanno introdotto il concetto del retto agire umano inteso come un farsi "seguace di
Dio", come un vivere in comune con la divinità. Sono stati in tal modo gli iniziatori
della vita contemplativa, spesa nella ricerca della verità e del bene tramite la
conoscenza, che è la più alta purificazione.
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Senofane.
Nato nella colonia ionica di Colofone intorno al 570 a.C., emigra nelle colonie
italiche della Magna Grecia, in Sicilia e nell'Italia meridionale, avendo avuto qualche
contatto anche con Elea. Non è stato tuttavia il fondatore della scuola eleatica, ma
piuttosto un pensatore solitario e indipendente, presentando affinità solo generiche
con gli Eleati. Per primo, comunque, ha affermato l'unità dell'essere supremo, cioè di
Dio, contro il politeismo e l’antropomorfismo della tradizione religiosa dell'epoca.
Mentre gli Eleati fondarono la problematica ontologica, la problematica di Senofane
è soprattutto di carattere teologico e cosmologico. Il tema centrale è la critica della
concezione antropomorfica degli dei. L'errore di fondo, per Senofane, è stato quello
di attribuire agli dei forme esteriori nonché caratteristiche psicologiche e passioni
uguali o del tutto analoghe a quelle degli uomini, solo quantitativamente maggiori,
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Parmenide.
Nasce ad Elea (l'attuale Velia, in Campania, a sud di Paestum) intorno al 540 a.C. Ha
dato ottime leggi alla sua città ed è stato uomo onorato dai suoi concittadini. È stato il
fondatore della cosiddetta "Scuola eleatica", di cui Zenone e Melisso sono stati i più
noti allievi. È morto verso la metà del quinto secolo avanti Cristo.
Si deve a Parmenide l’inizio di una nuova fase della filosofia, non più interessata allo
studio della natura, del cosmo e della sua origine (come per la scuola di Mileto), ma
interessata invece al problema di quale sia la realtà vera e profonda. Con Parmenide,
al posto della cosmologia o filosofia della natura, sorge l'ontologia, che significa
filosofia della realtà in generale, ossia filosofia dell'essere, poiché la realtà in generale
può anche essere chiamata "l'essere": tutto ciò che è.
Nell'uomo, dice Parmenide, vi sono due forme di conoscenza: la conoscenza
sensibile, attraverso i sensi, e la conoscenza razionale, attraverso la ragione, il
pensiero. Ma solo il pensiero, il ragionamento, è in grado di conoscere la realtà vera e
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profonda, mentre i sensi si fermano alla superficie, all'apparenza delle cose. Dunque,
quella sensibile non è vera conoscenza ma solo semplice opinione. Quello di
Parmenide è il problema della realtà autentica, dell'essere autentico della realtà,
ma anche, contemporaneamente, il problema della ragione e del linguaggio che
l'uomo adopera per parlare delle cose e della realtà in generale. Per Parmenide vi è
identità fra realtà, ragione e linguaggio. Infatti, si può pensare e parlare solo di ciò
che è, ossia della realtà vera, mentre ciò che non è non può essere né pensato né se ne
può parlare. Realtà, pensiero e parola sono i tre aspetti fondamentali dell'essere e
tutti obbediscono ad una medesima legge, che è contemporaneamente legge logica e
legge della realtà: l'essere coincide con la logica (il pensiero) e con il linguaggio che
descrive l'essere, cioè la realtà; la logica e il linguaggio coincidono a loro volta con
la realtà; l'ordine del mondo coincide con l'ordine del pensiero che lo pensa e del
linguaggio che lo descrive.
Parmenide parte dall'osservazione che è vero ciò che è ed è falso ciò che non è e la
esprime dicendo che "l'essere è mentre il non essere non è". Collega cioè l'essere e
il non essere con la verità e la falsità.
Espone la sua dottrina attraverso un poema, di cui ci restano 154 versi. Protagonista
del poema è una dea, che simboleggia la verità, la quale rivela che ci sono due modi,
due vie lungo le quali l'uomo procede nella conoscenza. La prima via è quella
della verità, certa e sicura, mentre la seconda è quella dell'opinione (in greco
"doxa"), fallace e sbagliata: è la via dell’apparenza. Solo la prima via conduce alla
verità, quella che parte e si basa sul principio che l'essere è e non può non essere,
mentre il non essere non è e non può in alcun modo essere. L'essere è qui inteso da
Parmenide come l'essere puro, assoluto, l'essere in generale, per cui il non essere che
gli si contrappone è il nulla assoluto, l’assolutamente niente, ed il niente, ossia il non
essere, non solo non esiste, ma neppure può essere pensato né descritto.
L'essere è la proprietà generale, la proprietà prima e comune di tutte le cose. Infatti
qualsiasi cosa, prima di essere qualcosa di specifico (per esempio un tavolo, un
tramonto, una persona, un'idea), deve innanzitutto essere, cioè esistere, esserci. Ogni
cosa è quindi dapprima un essere, cioè un ente (ente, dal latino “ens”, significa che
c'è, che esiste). E poiché il contrario dell’ essere, ossia il non essere, è il nulla, il
niente, allora tutte le cose che sono, che esistono, non possono prima o poi diventare
anche non essere, cioè diventare niente: o ci sono oppure non ci sono; non possono
esserci e, prima o dopo, anche non esserci. Questa di Parmenide è la prima
grandiosa formulazione del principio di non contraddizione, il quale afferma
l'impossibilità che i contrari sussistano nel medesimo tempo: o c'è l'essere o c'è il non
essere. L'essere non può pervenire dal non essere o diventare non essere.
Eppure la realtà sensibile ci mostra continuamente il divenire delle cose, cioè il
continuo trasformarsi e mutare di tutte le cose, che prima sono una certa cosa, cioè un
certo modo di essere, e poi diventano un'altra cosa, diventano cioè un "non essere"
più la cose di prima. Ma per Parmenide la vera realtà non è quella del divenire delle
cose perché in contrasto col principio di non contraddizione. La realtà sensibile,
conclude Parmenide, non è né autentica né vera ma è realtà illusoria, solo
apparenza, solo opinione. La verità non è la realtà sensibile, che si coglie con i
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sensi, bensì quella che si coglie soltanto con la ragione, col ragionamento, e che non
riguarda le cose sensibili ma i principi, i concetti. In sostanza, ciò che vale per
Parmenide non è l'esperienza sensibile, perché i sensi rimangono alla superficie delle
cose e/o possono ingannare, ma è la logica, basata su principi, su concetti e regole,
che rimangono sempre fissi e immutabili, per cui l'essere, il loro essere, rimane tale
costantemente e non può divenire anche non essere.
Avendolo concepito in termini assoluti (come essere assoluto), cioè in maniera logica
e non sensibile, fisica, Parmenide definisce di conseguenza gli attributi, ossia le
proprietà, le caratteristiche, dell'essere.
Innanzitutto l'essere è unico e non possono esistere esseri molteplici, perché se
l'essere è uno e l'altro o gli altri non sono il primo, allora essi sono "non essere"
rispetto al primo, cioè sono niente, nulla. Pertanto non vi è una pluralità di esseri e
neppure l'essere diviene, cioè cambia, si trasforma, perché se si trasforma diventa un
"non essere" più quello di prima, mentre il non essere non esiste, è niente.
In secondo luogo, l'essere è eterno immutabile, immobile. L'essere è eterno, ossia
ingenerato ed incorruttibile, perché se fosse stato generato, se avesse cioè avuto un
inizio, sarebbe dovuto derivare da un non essere, il che è assurdo poiché il non essere
non è, è niente; oppure sarebbe dovuto derivare da un altro essere, il che è
impossibile essendo l'essere unico. Neppure è corruttibile, ossia destinato a perire,
perché non può andare nel non essere.
In terzo luogo, l'essere è compiuto perché non manca di nulla e quindi è perfetto.
Infine, se l'essere è perfetto e compiuto allora è limitato e finito, simile a una sfera
perfetta. Nell'antichità infatti, come già premesso, l'idea di perfetto coincideva ed era
collegata ad entità complete e finite, mentre l'idea di infinito coincideva ed era
collegata all'idea di indefinito, cioè di indeterminato e di incompiuto, e perciò
imperfetto.
Qui va detto, peraltro, che Parmenide usa il verbo essere esclusivamente nel senso
sostantivato di "esistere". Ignora, cosa tipica a qull’epoca, il significato e la funzione
anche copulativa del verbo essere, che non significa soltanto esistere, ciò che esiste,
ma che serve altresì ad unire un sostantivo ad un predicato; in questo senso allora vi
sono numerosi modi di essere (è bello; è brutto; è giusto; è sbagliato; ecc.).
Parmenide conserva invece l'abitudine di sostantivare il verbo essere, che diventa
l'essere, cioè la reificazione (trasformare in cosa) di un concetto, che avviene quando
si scambia e si trasforma un concetto astratto in oggetto concreto, dimenticando che,
come dice il filosofo Fuerbach, "gli oggetti sono dati ma i concetti sono posti". La
copula si applica ad un sostantivo e non ha senso applicarla ad un verbo, nel caso al
verbo essere, quantunque sostantivizzato. Dire che l'ente è ha senso, ma dire che
l'essere è non ha alcun senso, è vuota tautologia (ripetizione del medesimo
significato). In effetti, interrogandosi sul non essere, cioè ponendo la domanda "che
cos'è il nulla?", Parmenide si imbatte nel "paradosso del non essere". Da un lato
infatti il non essere è niente per sua stessa definizione; dall'altro esso però è anche
20
Nella seconda parte del suo poema, di cui però è rimasto molto poco, Parmenide
parla anche di una terza via della conoscenza, quella della apparenza plausibile o
della opinione possibile, riconoscendo la validità di un certo tipo di discorso con il
quale cercare di spiegare anche la realtà sensibile, ossia i fenomeni e l'apparenza
delle cose, purché non in contrasto col fondamentale principio di non contraddizione,
ammettendo insieme sia l'essere che il non essere. Questa terza via consisterebbe
nello scartare le opinioni meno convincenti per mantenere invece quelle più
plausibili. È però evidente che si tratta di un tentativo destinato ad urtare contro
insuperabili contraddizioni, dal momento che è difficile ammettere la contemporanea
sussistenza dell'essere e del non essere.
Zenone.
Nato ad Elea nel 490 a.C., fu discepolo di Parmenide. Morì nel 430 avanti Cristo.
Zenone è stato tenace difensore delle tesi del suo maestro. Egli tenta di dimostrare,
con ben 40 paradossi, utilizzando la forma della dimostrazione per assurdo, che
assai più contraddittorie sarebbero le conseguenze derivanti dalle tesi contrarie
a quelle di Parmenide.
Zenone è stato definito l'inventore della dialettica intesa come arte della confutazione.
I suoi argomenti più noti sono quelli contro il divenire delle cose, volti a ribadire
l'immutabilità e immobilità dell'essere, e quelli contro la molteplicità e pluralità delle
cose stesse, volti a ribadire l'unità ed indivisibilità dell'essere.
21
Melisso
È nato e vissuto a Samo, fra il sesto e il quinto secolo avanti Cristo. È stato
comandante della flotta che sconfisse la flotta ateniese di Pericle.
Sviluppa e in parte modifica la dottrina di Parmenide. In particolare dice che l'essere
deve essere infinito, e non finito come diceva Parmenide, perché non può avere
limiti né di tempo né di spazio; infatti, se fosse finito dovrebbe confinare con un
vuoto e quindi con un "non essere" più se stesso, il che è impossibile posto che il non
22
essere non esiste. In quanto infinito, l'essere è necessariamente anche unico: infatti,
se fossero due o più, questi non potrebbero essere infiniti, perché si limiterebbero
reciprocamente. L'essere come unico ed infinito è anche incorporeo, non nel senso
di immateriale ma nel senso di essere privo di qualsiasi figura e spessore, perché se
avesse corpo e spessore sarebbe composto di parti e perciò non sarebbe più unico.
L'essere quindi non può nemmeno avere la perfetta forma della sfera, come
voleva Parmenide. L'essere è quell’uno infinito che non lascia nulla fuori di sé:
dunque è il tutto. Di conseguenza, l'essere è anche inalterabile perché se mutasse
diverrebbe altro da sé, il che è impossibile perché l'essere già contiene in sé la totalità.
Anche Melisso ribadisce, contro l'opinione comune, l'impossibilità del divenire e
della pluralità delle cose. Le cose molteplici che i sensi parrebbero attestare, dice
Melisso, esisterebbero alla sola condizione che ciascuna di tali cose permanesse
sempre identica ed immutabile quale è l'essere-unico. Invece l'esperienza ci mostra
che le cose mutano continuamente, il che contraddice la logica della ragione. Perciò
le cose molteplici e mutevoli sono solo apparenza: occorre negare la validità dei
sensi. Ritenere fondato il mutamento e la molteplicità delle cose significherebbe,
contro la logica, ammettere che anche il "non essere" esiste.
Con Melisso l’eleatismo (la filosofia della scuola eleatica) si conclude con la più
radicale negazione della molteplicità e mutamento delle cose, benché attestati
dall'esperienza e dall'evidenza quotidiana, giungendo, come dirà Aristotele, ad una
esaltazione folle della ragione fino a disprezzare completamente la conoscenza
sensibile. La filosofia successiva cercherà invece di riconoscere anche la funzione
dell'esperienza, nel tentativo di salvare il principio di Parmenide ma di salvare pure
l'esperienza sensoriale.
23
Dopo Parmenide i filosofi successivi non potevano ignorare il rigore e la forza logica
del suo pensiero, per cui l'essere è o non è, e quindi la struttura profonda della realtà,
ossia "l’essere", è unica e immutabile, essendo assurdo pensare che una cosa che è
diventi un "non essere" più quella cosa, giacché il non essere è il nulla, è niente, ed il
niente non esiste.
Tuttavia non poteva nemmeno essere negata l'evidenza del divenire e la molteplicità
dei fenomeni, delle cose, come illustrato da Eraclito. Si trattava allora di conciliare il
principio parmenideo dell'eternità e immutabilità dell'essere con quello eracliteo
del continuo divenire delle cose e della loro pluralità. Il processo stesso della
conoscenza (il modo di conoscere), venne ritenuto, non poteva essere attribuito
esclusivamente alla ragione, al ragionamento logico-astratto, ma bisognava tener
conto anche della conoscenza sensibile.
Nel cercare una sintesi fu concepita quindi l'esistenza di una pluralità di esseri, o
enti, ciascuno eterno e immutabile come l'essere di Parmenide, e costituenti la
base e la sostanza immodificabile di tutte le cose, ma tali però che essi,
combinandosi variamente fra loro, potessero spiegare altresì l'origine, il
divenire, la varietà e molteplicità delle diverse cose del mondo.
Pertanto, al fondo delle cose viene pensata la sussistenza di elementi, di enti od
esseri, eterni e immutabili come in Parmenide, ma tali da originare, variamente
unendosi o separandosi, le cose sensibili quali noi vediamo, molteplici e in continuo
cambiamento. In tal senso, non vi è né nascita né morte delle cose ma solo varie
combinazioni di elementi in se stessi immutabili. Viene così formulato il principio
per cui in natura nulla si crea e nulla si distrugge veramente, ma tutto invece si
trasforma.
I filosofi che elaborarono questa teoria, ritenendo molteplici, cioè plurimi, gli
elementi di base costitutivi della natura furono perciò chiamati "filosofi o fisici
pluralisti".
come continuo divenire e trasformarsi delle cose, deriva dal mescolarsi e dal
dissolversi degli elementi fondamentali che compongono le cose stesse e che
permangono eternamente uguali e indistruttibili. Tali elementi, che Empedocle
chiama "radici di tutte le cose", sono l'acqua, l'aria, la terra e il fuoco.
I filosofi della scuola di Mileto ed Eraclito avevano scelto chi solo uno o chi solo un
altro di questi elementi. La novità di Empedocle è di aver affermato che tutti e quattro
insieme danno origine al mondo e alle cose e che ognuno di essi è immutabile e non
trasformabile. Nasce così il concetto di "elemento", concepito come qualcosa di
originario e qualitativamente immodificabile, ma in grado di unirsi o separarsi
meccanicamente nello spazio con un altro elemento. Sorge cioè la concezione
pluralistica, che supera il monismo (il sussistere di un unico e solo principio) dei
filosofi ionici delle colonie dell'Asia minore oltre che degli Eleati.
Vi sono dunque quattro elementi, quattro radici, che unendosi danno origine alle cose
e separandosi danno origine al loro scomparire e trasformarsi. Ma che cosa spinge
questi elementi ad unirsi o separarsi? Empedocle spiega che i quattro elementi
sono mossi e animati da due forze cosmiche, chiamate rispettivamente Amore o
Amicizia e Odio o Discordia: la prima è causa dell'unione e la seconda è causa della
separazione degli elementi (attrazione e repulsione). Queste forze si alternano a
vicenda, prevalendo ciclicamente una sull'altra e dando luogo a continui cicli cosmici.
Quando predomina l'amore tutti gli elementi si raccolgono in unità; non vi sono cose
distinte ma c'è un Tutto uniforme, una compatta unità che Empedocle chiama Uno o
“Sfero” (ricorda la sfera di Parmenide). Quando predomina l'odio gli elementi si
separano del tutto; si ha il caos e neppure in questa fase del ciclo cosmico esistono le
singole cose e il mondo. Le cose ed il mondo nascono invece nelle due fasi
intermedie del ciclo cosmico, quando l'amore comincia a riemergere dal caos e
riunifica gli elementi oppure quando comincia ad agire l'odio, che separa gli elementi
traendoli fuori dalla compatta unità dello Sfero.
In base ai quattro elementi ed alle due forze che li muovono Empedocle spiega anche
come avviene la conoscenza. Per Empedocle il principio fondamentale della
conoscenza è che il simile si conosce col simile. Dalle cose si sprigionano degli
effluvi (emanazioni di particelle invisibili) che colpiscono gli organi di senso. La
conoscenza avviene dall'incontro tra l'elemento che è nei sensi dell'uomo e l'elemento
simile, corrispondente, che è nelle cose esterne: la terra si conosce attraverso il
corrispondente elemento che è negli organi di senso, e così l'acqua con l' acqua, l'aria
con l'aria e il fuoco col fuoco.
Nel poema "Le purificazioni" Empedocle sviluppa concezione orfiche. L'anima
dell'uomo è un démone, bandita dall’Olimpo per una colpa originaria e gettata nel
mondo per espiare. Empedocle si preoccupa quindi di indicare le regole di vita atte a
purificare l'anima e a liberarla dai cicli delle reincarnazioni per ritornare tra gli dei.
Divine sono per Empedocle le quattro radici e le due forze cosmiche, amore e odio, e
démoni sono le anime, poiché tutte sono partecipi del divino.
25
Nato a Clazomene, nella Ionia, nel 499 a.C., si trasferì ad Atene dove introdusse lo
studio della filosofia e vi operò per un trentennio. Fu amico di Pericle. Perseguitato
perché aveva negato il carattere divino dei corpi celesti, si rifugiò a Lampsaco, nella
Misia, dove morì nel 428 a.C. Scrisse un trattato "Sulla natura".
Anche Anassagora è d'accordo sull'impossibilità che il non essere sia e quindi che
nessuna cosa nasca o muoia veramente: invece tutte le cose si trasformano
attraverso processi di unificazione e di divisione dei loro elementi costitutivi, in
quanto tali immutabili. Per Anassagora gli elementi costitutivi delle cose non
possono tuttavia essere soltanto le quattro radici di Empedocle, perché da sole non
bastano a spiegare l'innumerevole varietà delle cose stesse. Gli elementi infatti
devono essere infiniti, cioè infinitamente vari come le cose. Le cose derivano da una
infinità di “semi”, intesi come particelle piccolissime e invisibili di materia, di
qualità diverse: vi sono semi di oro, di pietra, di carne, di ossa, ecc. Poiché i semi
rimangono intrinsecamente sempre uguali a se stessi, furono chiamati da Aristotele
"omeomerie", cioè parti simili, uguali.
Ogni cosa deriva dal tipo di semi dai quali è in prevalenza costituita, però in essa ci
sono pure, in minor quantità, i semi di tutte le altre cose. Perciò -dice Anassagora-
"Tutto è in tutto. In ogni cosa c'è parte di ogni cosa". I semi sono infinitamente
divisibili e infinitamente aggregabili, ma ognuno rimane sempre uguale a se stesso:
ha le caratteristiche dell'eternità e della immutabilità dell'essere di Parmenide. Ogni
cosa, pertanto, è una ben ordinata mescolanza in cui esistono, in diversa proporzione,
i semi di tutte le cose. Infatti, in ogni cosa vi deve essere anche parte di ogni altra
cosa, perché se, per esempio, l'erba (mangiata dagli animali) diventa carne, vi devono
essere particelle di carne anche nell'erba, poiché la carne non può provenire da ciò
che non è carne.
All'inizio i semi costituivano una massa indistinta in cui tutto era mescolato insieme.
Sui semi agisce però una intelligenza ordinatrice divina, chiamata da Anassagora
"Nous" (=intelligenza in greco), che muove ed anima i semi originariamente
mescolati, li separa e li seleziona in ben ordinate combinazioni, formando così il
mondo e le cose del mondo. Ogni cosa contiene parti di tutte le altre cose, ma
l'intelligenza che le muove è illimitata, indipendente e non mescolata ad alcuna cosa.
L'intelligenza imprime alla massa indistinta e originaria dei semi un moto di
rotazione, che divide e separa i semi per contrapposizione tra caldo e freddo, tra
luce ed oscurità, tra rarefatto e denso, tra umido ed asciutto. Il movimento rotatorio
ha provocato il distacco dalla terra di masse che si sono infiammate ed hanno formato
il sole e gli astri. Gli animali e l'uomo si sono formati dai semi provenienti dall'aria.
Mentre per Empedocle la separazione dei quattro elementi dall'unità dello Sfero, e
quindi la formazione e trasformazione delle cose, è ciclica, per Anassagora la
separazione dei semi dalla massa originaria è definitiva: ciò comporta una
concezione rettilinea del tempo e della storia, che Anassagora anticipa per la prima
volta.
26
soggettive, che sono invece di tipo qualitativo e, appunto, soggettivo (suoni, colori,
sapori). È compito della scienza ignorare e ridurre le qualità secondarie a quelle
primarie.
Poiché gli atomi sono infiniti, infinite sono le loro possibili combinazioni. Democrito
suppone che vi siano infiniti mondi che perpetuamente nascono e muoiono
ciclicamente.
Nel movimento degli atomi non vi è alcun finalismo, alcuno scopo predeterminato.
Pur ammettendo in qualche modo gli dei, Democrito ritiene che nel mondo non vi sia
alcuna intelligenza rivolta a un determinato fine. Ciò non significa un caos
assolutamente disordinato, inteso come assenza di causalità, poiché il cosmo è il
prodotto di un sistema ben preciso di cause, tuttavia si tratta di cause meccaniche e
non finali.
Ritenendo che le uniche realtà del mondo siano la materia, il movimento e le loro
leggi, gli atomisti e Democrito sono stati i primi ad interpretare la natura
secondo una concezione esclusivamente materialista e meccanicistica della
realtà: i fenomeni naturali e le cose sono il prodotto di cause solamente meccaniche
per cui, data una determinata causa, deriva necessariamente un certo e preciso effetto.
Ciò non toglie, tuttavia, che gli atomisti si siano preoccupati di indagare anche gli
elementi costitutivi dell'anima e dell'intelligenza, individuati in atomi "privilegiati",
lisci, sferiformi, di natura ignea e quasi divina. In ogni caso, anche gli atomi
dell'anima e dell'intelligenza sono di natura materiale, regolati da cause solo
meccaniche, escludendo nell'anima e nel mondo interventi di carattere teleologico
(finalistico) e divino. L'atomismo è in sostanza una dottrina atea, che nega la
presenza di progetti divini regolatori della realtà e del divenire.
Coerentemente, Democrito applica il modello materialistico anche all'uomo e al
processo conoscitivo. L'anima, come detto, è anch'essa corporea e materiale,
seppur costituita da atomi particolari e mobilissimi, ed è diffusa in tutto il corpo.
Alla morte del corpo si disgrega anche l'anima. Non c'è dunque immortalità
dell'anima, ma solo dei singoli atomi che, essendo eterni, andranno poi a formare
altri aggregati. Le sensazioni sono prodotte nell'anima da effluvi (emanazioni) degli
atomi che compongono gli oggetti esterni, i quali, entrando in contatto con gli atomi
dell'anima, impressionano (stimolano) gli atomi corrispondenti che stanno nell'anima
stessa, sicché, analogamente ad Empedocle, il simile si conosce col simile. Tuttavia,
poiché non si entra in contatto diretto con le cose ma solo con gli effluvi dei loro
atomi, la sensazione non è in grado di superare l'apparenza sensibile giacché
solamente l'intelletto sa elaborare i concetti e concepisce l'esistenza degli atomi. È
perciò importante, per Democrito, distinguere fra conoscenza sensoriale, che è
oscura, e conoscenza intellegibile (intellettiva), che è autentica. Non tutte le
proprietà che noi attribuiamo agli oggetti esistono veramente nelle cose, perché le
proprietà qualitative degli oggetti sono percepite in modo soggettivo e quindi diverso
da persona a persona. La distinzione tra proprietà oggettive e soggettive, ripresa
poi da Galilei e da Locke, è di grande importanza storica; infatti anticipa
l'orientamento della fisica moderna, volto a ricercare esclusivamente gli aspetti
quantitativi della natura in quanto essi solo sono misurabili. Mentre la conoscenza
29
Col termine "sofisti" vennero indicati, nel quinto secolo avanti Cristo, quegli
intellettuali, dotati di vasta cultura generale, che facevano professione di sapienza e la
insegnavano dietro compenso, fatto che appariva scandaloso alla mentalità
aristocratica greca, secondo cui il sapiente doveva essere disinteressato. Tant'è che
Senofonte chiamò i sofisti "prostituti della cultura". Ma furono soprattutto Socrate,
Platone ed Aristotele a criticarli. Ancora oggi il termine "sofista" è sinonimo di
maestro di ragionamenti capziosi (ingannevoli), falsi e artificiosi.
La critica odierna, invece, pur confermando determinati aspetti negativi, ha
riabilitato l'importanza storica e filosofica del movimento sofistico. In effetti, i
sofisti hanno operato una vera e propria "rivoluzione filosofica", spostando
l'interesse della filosofia dalla riflessione sulla natura e sul cosmo alla riflessione
sull'uomo e sulla vita sociale. I temi dominanti divennero pertanto l'etica, la
politica, la retorica, la lingua, le leggi, la religione e l'educazione, cioè i temi
concernenti, in generale, la cultura dell'uomo, che diedero l’avvio ad una nuova
concezione umanistica nell'ambito della filosofia antica.
Questo nuovo centro di interessi trova origine in un duplice ordine di cause. Da una
parte, la filosofia della natura si era via via esaurita, avendo svolto tutte le
riflessioni all'epoca possibili sul tema della ricerca naturalistica. Dall'altra parte, lo
sviluppo della sofistica fu favorito da ampi mutamenti sociali, economici e culturali
che caratterizzarono l'evoluzione della storia greca e consistenti, in particolare, nella
crisi della aristocrazia per l'avvento di istituzioni più democratiche, nella
accresciuta potenza della borghesia cittadina (artigiani e commercianti) contro
l'aristocrazia nobiliare terriera, nell'allargarsi dei traffici e dei commerci che favorì il
confronto con la cultura degli altri paesi.
La crisi dell’aristocrazia comportò anche la crisi dell'antica virtù ("aretè") e dei valori
tradizionali, facendo crollare sia la convinzione che virtuosi si nascesse e non si
diventasse, sia la concezione di un sapere riservato ai soli ceti nobiliari. L'avvento
della democrazia, praticata attraverso la partecipazione alle assemblee nella polis,
rese particolarmente sentita l'esigenza di imparare l'arte dell'eloquenza e della
retorica e di servirsi dell'abilità discorsiva per esporre efficacemente e far prevalere la
propria opinione. In tal modo venne altresì rivalutata l'importanza dell'educazione e
della formazione culturale e civica. La conoscenza ed il confronto con i diversi usi,
costumi e leggi degli altri popoli, con cui grazie ai commerci si venne sempre più a
contatto, contribuì a sfatare il pregiudizio della assoluta superiorità della civiltà greca,
che fino ad allora aveva indotto a considerare le altre popolazioni alla stregua di
barbari. Si sviluppò di conseguenza una mentalità più aperta e cosmopolita ed una
nuova consapevolezza del relativismo culturale (=non c'è una cultura superiore, ma
varie culture, differenti e relative secondo lo sviluppo storico e sociale dei vari
popoli).
È vero che i sofisti esigevano compensi per i loro insegnamenti, cosa ritenuta
scandalosa a causa dell’aristocratica concezione di un sapere disinteressato. Ma è
anche vero che tale atteggiamento era basato sulla considerazione di un sapere
31
riservato solo a pochi privilegiati, cioè agli aristocratici e a ricchi, che non avevano
problemi economici e che traevano da altre fonti le loro risorse. Un compenso era
invece necessario per consentire ai sofisti di vivere e viaggiare per diffondere i loro
insegnamenti anche a favore di altri ceti sociali.
Per la libertà di spirito e di critica contro i miti, le credenze e i dogmi della tradizione
nonché per la fiducia posta nella ragione umana e nella diffusione del sapere, la
sofistica è stata definita come una sorta di "illuminismo greco", che concorse allo
svecchiamento ed alla democratizzazione della cultura, pur non mancando tra i sofisti
profittatori e mestieranti disonesti.
È bene distinguere fra due categorie di sofisti: da un lato, i sofisti della prima
generazione, rappresentata da grandi e celebri maestri (Protagora, Gorgia, Ippia,
Antifonte), che perseguirono anche nobili ideali; dall'altro lato, i sofisti della seconda
generazione, chiamati "eristi" (dal greco "eristica", che è l'arte di impostare
ragionamenti al solo scopo di far prevalere la propria opinione anche se falsa o in
malafede), i quali condussero alla crisi e alla degenerazione della sofistica.
Protagora.
Nasce ad Abdera intorno al 490 avanti Cristo. Soggiorna più volte ad Atene, da cui è
costretto ad allontanarsi perché accusato di empietà. È stato uomo di grande fascino
intellettuale e di straordinaria eloquenza.
Opere: Le Antilogie (=contrapposizione di differenti ragionamenti sul medesimo
argomento); Ragionamenti demolitori.
La tesi fondamentale e divenuta famosa di Protagora risiede nel principio: "l'uomo è
la misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono, delle cose che non
sono in quanto non sono". Il termine misura è da intendersi come criterio di giudizio
e l'espressione vuol dire che il significato delle cose non sta nelle cose stesse ma
dipende dall'uomo, dal soggetto che le valuta. Le cose cioè appaiono diversamente a
seconda degli individui e del loro modo di pensare e di sentire. Ognuno valuta le cose
secondo la mentalità individuale e del gruppo sociale cui appartiene. Se è così, allora
è assurdo chiedersi chi di noi ha ragione perché, se le opinioni sono soggettive e
variano, nessuno è nel falso ma tutti sono nel (loro) vero.
Tre sono le principali caratteristiche della filosofia di Protagora:
1. rappresenta una forma di umanismo, in quanto il centro di giudizio sulla realtà è
sempre l'uomo;
2. è una forma di fenomenismo, in quanto non conosciamo le cose come sono in se
stesse, ma solo come appaiono a noi ("fenomeno" significa infatti ciò che ci appare);
3. è una forma di relativismo conoscitivo e morale, in quanto non esiste una verità
assoluta ed assoluti valori morali, ma ci sono diversi punti di vista ed ogni verità o
principio morale è relativo a chi giudica.
32
Gorgia.
Nasce a Lentini (Sicilia) nel 485 a.C. Muore a Larissa (in Tessaglia), sembra ultra
centenario.
33
volta la situazione in cui ci si trova per tentare di capire meglio, sia pur in termini
relativi, ciò che si deve o non si deve fare. In tal senso l'uomo può essere aiutato dal
progresso delle tecniche, dall'agricoltura, dall'urbanistica, ecc., ma anche dalle
tecniche della politica, ossia le tecniche della convivenza sociale, mediante le quali
trasformare a proprio vantaggio il mondo circostante. Sorge così un nuovo modo di
considerare la storia umana. Anticamente la storia era vista come un regresso da
una iniziale e mitica età dell'oro, quale ad esempio narrata da Esiodo. Gorgia
concepisce invece la storia come progresso, cioè come faticoso, lento, ma costante
sviluppo della società mediante la tecnica e le leggi.
Altrettanto nuova è la posizione di Gorgia nei confronti della retorica. Se non esiste
una verità assoluta e tutto è falso non resta allora che la potenza del linguaggio, la
forza della parola, che permette il dominio degli stati d'animo. La parola può essere
portatrice di persuasione, di credenza e di suggestione. Da ciò, la celebrazione della
retorica, che è l'arte della parola, l'arte del persuadere. Le tesi di Gorgia sulla retorica
hanno stimolato la riflessione filosofica sul problema del linguaggio, cioè sul
problema se l'origine e la natura del linguaggio siano convenzionali o naturali, ossia
se vi sia connessione diretta oppure no fra la parola e la cosa indicata; è derivato
pertanto un vivo interesse per lo studio dell'etimologia delle parole.
Gorgia fu il primo filosofo che cercò di teorizzare il valore anche estetico della
parola e l'essenza della poesia. L'arte, per Gorgia, è come la retorica, perché sa
suscitare sentimenti ed emozioni ma, a differenza della retorica, l'arte non mira ad
interessi pratici (persuadere e far prevalere la propria opinione), bensì alla finzione
poetica, ad evocare suggestive illusioni. Sia Platone che Aristotele si richiameranno a
questi pensieri, il primo per negare la validità dell'arte, il secondo per scoprire la
potenza catartica (purificatrice) del sentimento poetico.
Mentre i due maggiori sofisti, Protagora e Gorgia, hanno saputo elaborare concezioni
significative su un'ampia varietà di temi filosofico-culturali, gli altri sofisti si sono
interessati per lo più a temi settoriali, in particolare quelli della religione, della natura
delle leggi e della politica.
Sulla religione.
Già abbiamo visto che Protagora ha sostenuto una posizione agnostica, affermando
l'impossibilità umana di dimostrare sia l'esistenza che l'inesistenza di Dio.
Per Prodico di Cleo (nato intorno al 470-460 a.C.) gli dei sono la personificazione
dell'utile e del vantaggioso: "Gli antichi consideravano dei, in virtù dell'utilità che ne
derivava, il sole, la luna, i fiumi, le fonti e in generale tutte le cose che giovano alla
nostra vita".
Per Crizia (460-403 a.C.), uno dei Trenta tiranni, gli dei sono un'invenzione dei
governanti per sottomettere e ottenere più obbedienza da parte dei sudditi attraverso i
precetti religiosi ed il timore degli dei (concezione della religione come
"instrumentum regni").
35
La crisi della sofistica coincide con la crisi della polis, e di Atene in particolare,
nonché con l'estremizzazione dei principi originariamente innovativi introdotti dai
36
Socrate in un primo periodo della sua vita ha seguito con interesse il pensiero dei
filosofi naturalisti, ritenendo anch'egli importante "conoscere le cause di ciascuna
cosa e perché ogni cosa si genera e perisce ed è". Ma in seguito ne rimane deluso
perché si rende conto che i naturalisti, nel cercare di risolvere i problema del
"principio" e della "natura", si sono contraddetti al punto di sostenere tutto e il
contrario di tutto (l'essere è uno; l'essere è molti; niente si muove; tutto si muove;
nulla si genera né si distrugge; tutto si genera e si distrugge). Conclude quindi che
questi problemi, riguardanti la causa prima e il fine ultimo delle cose, sono insolubili
per l'uomo: "unicamente sapiente è il Dio". Di conseguenza, come i sofisti, si occupa
dei problemi dell'uomo, ma in maniera più approfondita, nell'obiettivo di giungere
quanto meno a verità comuni, senza la pretesa di cogliere l'assoluto. I naturalisti
hanno cercato di rispondere al problema: "che cosa è la natura e la realtà ultima delle
cose?". Socrate cerca invece di rispondere al problema: "qual è la natura e l'essenza
dell'uomo?". Compito della filosofia, per Socrate, è quindi di indagare "quale debba
essere l'uomo e cosa l'uomo debba fare". Socrate risponde che l'essenza dell'uomo è
la sua anima, cioè la coscienza e la ragione umana, che lo distingue da tutte le altre
cose e creature e ne regola sia il pensiero (la conoscenza), sia il comportamento
(l'etica o morale). Allora, se l'essenza dell'uomo è la sua coscienza, curare se stessi
significa aver cura non del proprio corpo ma della coscienza, dell'anima. Insegnare
agli uomini la cura della propria coscienza è appunto il compito del filosofo, che in
tal senso è soprattutto educatore (valore educativo della filosofia).
Socrate fa proprio il celebre motto dell'oracolo di Delfi: "Conosci te stesso". Il vero
sapere è conoscere se stessi. Se l'uomo si impegna in questa ricerca, da un lato
acquista consapevolezza dei propri limiti e della propria ignoranza, dall'altro viene
stimolato a procedere nel cammino della vera conoscenza, che trascende (supera) la
sensazione.
La prima condizione della ricerca filosofica è la coscienza della propria
ignoranza. Quando Socrate viene a sapere che l'oracolo di Delfi aveva proclamato
che lui era il più sapiente fra gli uomini, così come Platone ci racconta nell’"Apologia
di Socrate", Socrate interpreta questo responso come se l'oracolo avesse voluto
significare che sapiente è soltanto chi sa di non sapere. Non si tratta tuttavia di una
39
Secondo Socrate, l'uomo è veramente tale solo in rapporto con gli altri uomini,
vivendo e parlando con gli altri. Pertanto, le indagini sulle varie questioni e problemi
dell'uomo sono sempre condotte in forma di dialogo, mediante il quale aiutare e
condurre l'interlocutore a riflettere su ciò che ritiene di conoscere, liberandolo
dalle sue presunzioni, dai suoi pregiudizi, dalle sue false conoscenze. Il fine del
metodo socratico è fondamentalmente di natura etica ed educativa e solo
indirettamente di natura logica e gnoseologica (conoscitiva).
Il metodo socratico, come si è visto, si basa sul dialogo, cioè sull’interrogare le
persone, e si articola in due parti:
1. una parte distruttiva, in cui Socrate si avvale dell'ironia e della tecnica della
confutazione (fare obiezioni, critiche), insinuando il dubbio nell'interlocutore
circa le proprie convinzioni;
2. una parte costruttiva, chiamata "maieutica" (l'arte della levatrice), mediante
cui Socrate, così come la levatrice aiuta le donne a partorire, aiuta gli
interrogati a far emergere essi stessi la verità, traendola dal loro interno, dalla
loro coscienza e ragione.
Nelle interrogare gli altri, la prima preoccupazione di Socrate è di renderli
consapevoli della loro ignoranza e della loro presunzione di sapere. Si serve a tale
scopo dell'ironia. Facendo ironicamente finta di non sapere, Socrate chiede al suo
interlocutore di spiegargli le cose. All'inizio comincia ad adularlo e lodarlo, ma poi
lo incalza con domande martellanti, inducendo l'interlocutore a dubitare delle sue
opinioni e giungendo a mostrarne l'inconsistenza attraverso la tecnica della
confutazione. In tal modo Socrate raggiunge il suo scopo, che è quello di condurre
l'interrogato a scoprire da solo dove sta la verità. Socrate non propone e non impone
mai la propria verità, il suo punto di vista. Egli non vuole insegnare la verità, ma
aiutare gli interrogati a trovare loro stessi la risposta giusta ai problemi all'interno
della loro coscienza. La verità non va imposta dall'esterno, ma deve essere
conquista personale. Da me, dice Socrate, gli altri non imparano nulla ma solo da se
stessi, riflettendo all'interno del loro animo. Il mio solo merito sta nell'aiutarli nella
loro personale ricerca del vero.
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Nei suoi dialoghi Socrate continuava a domandare ai suoi interlocutori "che cosa
è questo?", "che cosa è quello?" (ad esempio, cos'è la santità, l'empietà, la bellezza,
la giustizia, ecc.), per aiutarli a giungere a nozioni generali, ossia ai "concetti". Per
tale motivo Aristotele ed altri studiosi attribuirono a Socrate il merito di aver scoperto
i principi logici del "concetto" e della "definizione". È stata pure attribuita Socrate la
scoperta dell'induzione, del metodo induttivo (=risalire, attraverso l'osservazione e il
ragionamento, dai casi particolari alle nozioni generali, ai concetti). In verità Socrate,
se ha aperto la via alla formulazione di questi principi, tuttavia non è giunto ad
approfondirli e ad elaborare una teoria logica e sistematica al riguardo. Il suo scopo
era soltanto quello di far emergere la verità che è in ognuno. Quando ad esempio
Socrate domandava che cos'è la virtù, di solito l'interlocutore rispondeva facendo un
elenco di casi virtuosi. Ma Socrate non si accontentava di questa elencazione, voleva
invece trarre dall'interlocutore una definizione generale di virtù, però Socrate non ha
mai inteso formulare una scienza logica del concetto, della definizione e
dell'induzione. Contro il relativismo sofistico intendeva più semplicemente
pervenire a verità condivise tra gli uomini, anche se provvisorie, poiché, come
abbiamo visto, non credeva nella possibilità della mente umana di pervenire a verità
assolute ed eterne, cioè metafisiche, come invece pensarono Platone e Aristotele. Ciò
che più conta è che Socrate si rende conto che, mentre i casi particolari (di giustizia,
di coraggio, ecc.) vengono conosciuti mediante la percezione sensibile, il carattere
universale (generale) che li accomuna, che li contraddistingue tutti, può essere colto
solo con la mente, cioè con la ragione, l'intelletto. Perciò, si può dire piuttosto che
Socrate ha scoperto la necessità di salire dalla conoscenza sensibile alla
conoscenza razionale o, meglio, che la scienza, il sapere autentico, non è una
conoscenza sensibile ma razionale. Socrate distingue quindi con precisione questi due
diversi tipi di conoscenza.
La morale di Socrate.
Per Socrate la morale consiste nella virtù, intesa come ricerca e come scienza (come
sapienza). In greco virtù si dice "areté" e significa il modo migliore, ottimale, di
essere qualcosa. Riferita all'uomo, la virtù è allora la maniera migliore di essere
uomo, cioè il modo migliore di comportarsi nella vita.
Tradizionalmente la virtù era considerata come un dono degli dei concesso agli
uomini di nobile nascita. Invece già i sofisti avevano proclamato che la virtù non è un
dono divino riservato solo a pochi e che virtuosi non si nasce ma si diventa; tutti
possono diventarlo attraverso l'educazione e l'impegno. La virtù quindi si impara, si
può imparare. In tal senso per Socrate la virtù è sempre una forma di sapere, è una
scienza, una sapienza, ossia un prodotto della mente e consiste nel sottoporre la vita e
la condotta al controllo della ragione. In particolare, la virtù è sapere ciò che è bene
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e ciò che è male. Non già conoscere cos'è il bene e il male in assoluto, perché l'uomo,
per Socrate, non può cogliere verità assolute, ma sapere di volta in volta, secondo le
diverse circostanze, che cosa è bene fare o non fare.
In quanto scienza la virtù può essere insegnata; deve essere conosciuta da ogni
uomo. Non basta infatti che ciascuno sappia il proprio mestiere, poiché bisogna che
ciascuno impari bene anche il mestiere di vivere, cioè sapere cosa è bene e cosa è
male fare. Se è così, allora la virtù è unica, perché le virtù particolari (giustizia,
coraggio, prudenza, ecc.) sono tutte ricomprese nel più generale concetto di virtù
intesa come conoscenza di ciò che è bene.
Dal concetto socratico di virtù come conoscenza, sapienza, deriva una rivoluzione
del tradizionale sistema di valori: i valori veri non sono quelli legati alle cose
esteriori, come la ricchezza, il potere, la fama, e nemmeno quelli legati al corpo,
come la bellezza, la salute fisica, la forza, ma solamente i valori dell'anima, perché in
essa, nella nostra interiorità, sta la conoscenza. Ciò non significa, come farà
Nietzsche, considerare Socrate come un noioso moralista, che disprezza gli istinti, i
piaceri e la gioia di vivere. Per Socrate la morale non consiste nella mortificazione,
ma nel capire invece che cosa può per davvero rendere la vita più felice. Solo il
virtuoso è felice, mentre il non virtuoso si abbandona ad istinti (quali la violenza e
l'intemperanza) che alla lunga lo rendono infelice. Socrate non vuole negare gli
istinti, ma semplicemente sottoporli al controllo della ragione perché siano coltivati
in maniera equilibrata, senza eccessi. L'anima è felice quando è ordinata, equilibrata,
ossia virtuosa. Invece l'ingiusto e il malvagio sono infelici perché l'ingiustizia e la
malvagità provocano disordine nell'anima.
La virtù è la salute dell'anima e la sua malattia è invece il vizio, l'ingiustizia.
Perciò, conclude Socrate, è meglio subire l'ingiustizia che commetterla (così infatti
farà Socrate, accettando serenamente la sua ingiusta condanna a morte). La virtù
comporta la felicità e non vi è contrasto fra utile e bene, nel senso che coincidono.
Se ciò che è utile non fosse anche virtuoso sarebbe un danno per l'anima; pertanto
non sarebbe nemmeno qualcosa di utile.
La tesi di Socrate della virtù come conoscenza, come scienza, implica due
conseguenze che possono sembrare paradossi (assurde):
1. se la virtù è conoscenza, il vizio allora non è “colpa” ma piuttosto ignoranza;
2. nessuno pecca volontariamente e chi fa il male lo fa per ignoranza.
Socrate cioè non ritiene possibile conoscere il bene e non farlo. Quando un uomo
fa il male, in realtà non lo fa perché è male, ma perché, sbagliandosi e per ignoranza,
si aspetta di ricavarne un bene: quindi chi fa il male è vittima della sua ignoranza. In
verità Socrate ha ragione quando dice che conoscere ciò che è bene è condizione
necessaria per farlo, ma essa da sola non basta. Socrate cade di un eccesso di
razionalismo, di ottimismo nella forza della ragione, poiché per fare il bene ci vuole
anche il concorso della volontà: non basta conoscere il bene, ma bisogna anche
volerlo. Ma sulla volontà i filosofi greci non hanno sufficientemente riflettuto; a tale
riguardo bisognerà attendere l'avvento della morale cristiana.
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La religione di Socrate.
Socrate tende ad attribuire alla sua opera un carattere religioso. Considera il fare
filosofia come una missione che gli è stata affidata dalla divinità. Parla infatti di un
dèmone (uno spirito) che lo consiglia e lo stimola, una voce che sente dentro e che, in
particolare, gli suggerisce ciò che non deve fare più che ciò che deve fare, rendendolo
consapevole di ciò che è vietato.
Nello specifico, la concezione di Dio che Socrate insegna non è certo antropomorfica,
che anche Senofane aveva criticato. Per Socrate Dio è l'intelligenza che opera nel
mondo. Il mondo appare ordinato e non dominato dal caos e ciò che non è semplice
opera del caso, ma rivela ordine e armonia, è tale in vista di un fine, di uno scopo.
Significa allora che vi è una Intelligenza nel mondo: tale Intelligenza è Dio. Agli dei
della religione popolare Socrate presta invece un ossequio solo formale, poiché
ciò rientra negli obblighi del buon cittadino. Contro coloro che obiettano che
l'Intelligenza divina operante nel mondo non si vede, Socrate risponde che nemmeno
la nostra anima, cioè la nostra intelligenza, si vede, eppure nessuno nega che ci sia.
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Il Dio di Socrate è dunque Intelligenza che conosce ogni cosa e regola ogni cosa
secondo un fine. Dio quindi è anche Provvidenza, ma una Provvidenza immanente
(dentro) al mondo, che si occupa del mondo e degli uomini in generale, poiché l'idea
di una Provvidenza che si occupi del singolo in quanto tale si presenterà solo nel
pensiero cristiano.
Conclusioni.
se l'anima si serve del corpo e lo controlla, essa allora è distinta dal corpo o no?
Quale è il suo essere e la sua differenza rispetto al corpo?
Analogamente rispetto a Dio: Socrate dice che egli è l'Intelligenza che governa il
mondo e le coscienze. Ma cos'è questa divina Intelligenza? In che cosa si distingue
dagli elementi fisici?
La maieutica socratica, inoltre, non è in grado di condurre al vero tutte le anime, le
coscienze, ma, dice Socrate, solo quelle "gravide", che sono cioè già predisposte.
Allora chi o che cosa rende l'anima gravida e predisposta al vero?
Con questi problemi, cui non giunge a dare risposta, Socrate apre peraltro la via
alla metafisica. Sarà la filosofia metafisica di Platone e poi di Aristotele, e quindi di
tutta la storia della filosofia occidentale, che si confronterà con queste che sono le
questioni più alte e profonde che il pensiero umano si è posto. Anche perciò del
messaggio di Socrate è debitore l'intero Occidente.
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Di Platone ci sono rimasti tutti gli scritti, quasi tutti autentici: l'Apologia di Socrate,
34 dialoghi e 13 lettere. Dai suoi allievi abbiamo appreso che Platone ha elaborato
anche importanti dottrine non scritte, riservate agli allievi dell'Accademia. Secondo la
successione degli scritti, sono stati classificati tre periodi dell'attività filosofica di
Platone, cui corrispondono altrettante fasi di sviluppo del suo pensiero:
-Primo periodo: scritti giovanili o socratici (Apologia, Critone, Eutidemo, Ippia,
Gorgia, Protagora, Cratilo). La tematica è prevalentemente etica ed etico-politica, ad
approfondimento delle posizioni cui era pervenuto Socrate.
-Secondo periodo: scritti della maturità (Menone, Fedone, Convivio, Repubblica,
Fedro). Contro il relativismo sofistico, Platone elabora la teoria delle idee e della
conoscenza nonché il modello ideale di comunità politica (di Città o Stato).
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-Terzo periodo: scritti della vecchiaia (Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo,
Timeo, Crizia, Leggi, le Lettere). Platone opera una revisione della propria teoria
delle idee ed elabora una nuova concezione dell'essere e del non essere, sviluppando
e correggendo il pensiero di Parmenide.
Platone non volle produrre opere di carattere sistematico, ma riprodurre invece
lo spirito del dialogo socratico: l'interrogare senza posa, insinuando il dubbio per
arrivare maieuticamente alla verità. Nei dialoghi platonici i protagonisti sono Socrate
(dietro cui sta Platone stesso), che discute con uno o più interlocutori, nonché il
lettore medesimo, che viene espressamente coinvolto nel dibattito ed al quale viene
lasciato spesso il compito di trarre da se stesso le conclusioni e la soluzione dei
problemi discussi.
Nei suoi dialoghi Platone fa sovente ricorso all'uso dei miti, mentre la filosofia sorge
proprio come liberazione del pensiero dal mito e dalla fantasia. Come spiegare questo
ritorno al mito? È un atto di sfiducia nella ragione o vi sono altre motivazioni?
Platone si avvale del mito per due fondamentali motivi:
1.il mito è uno strumento per comunicare in maniera più accessibile ed immediata le
dottrine esposte;
2.il mito è il mezzo (come nelle dottrine orfiche) per cogliere intuitivamente
concezioni e verità profonde, che stanno oltre i limiti cui l'indagine razionale può
giungere e che vengono quindi accolte per fede, ma in forma di fede ragionata, non
dimostrabile razionalmente tuttavia comprensibile con l'intuizione.
Come abbiamo visto, lo scopo principale della filosofia di Platone è di tipo politico:
la filosofia è concepita come scienza del bene e del giusto, la cui conoscenza è
necessaria per poter governare bene. Per Platone i governanti devono essere filosofi.
Lo scopo della filosofia, in aggiunta, oltre che politico è anche pedagogico-educativo:
la filosofia serve per la formazione dei governanti.
Cosa sia poi quel"bene" la cui conoscenza è indispensabile per governare viene
illustrato da Platone con la "dottrina delle idee", la più celebre fra sue le dottrine.
I filosofi, spiega Platone, sono coloro che possiedono la vera scienza, la vera
conoscenza. Ritenendo possibile acquisire una conoscenza vera, certa e universale
(valida per tutti in ogni tempo e luogo), Platone respinge con forza il relativismo
conoscitivo dei sofisti. La conoscenza vera è quella che si ottiene solo attraverso
la ragione, mediante il ragionamento, e non attraverso la conoscenza sensibile,
come nel caso dei filosofi naturalisti, i quali spiegavano le cose sensibili per mezzo di
elementi anch'essi di tipo sensibile, materiale. Tutto ciò che è sensibile, osserva
Platone, è mutevole, cambia continuamente ed è opinabile e relativo, cambia cioè da
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Come prima accennato, si potrebbe dire che le idee sono ciò che noi chiamiamo
concetti. Ma per Platone le idee sono qualcosa di più dei concetti. Infatti il concetto
è una costruzione della nostra mente e deriva dalla conoscenza sensibile. Ad esempio,
se osserviamo gli alberi mediante i sensi, vediamo che sono tutti diversi l'uno
dall'altro ma vediamo anche che tutti hanno delle caratteristiche comuni: tutti hanno
una radice, un tronco, dei rami e delle foglie. Il nostro intelletto astrae, seleziona
queste caratteristiche comuni osservate con i sensi e costruisce il concetto di albero:
l'albero è una cosa che ha radici, tronco, rami e foglie. Perciò, anche quando
scorgiamo un albero mai visto prima, riconosciamo che esso è un albero in base al
concetto costruito dal nostro intelletto. Per Platone invece le idee non sono
costruzione dell'intelletto, non sono semplici nostri pensieri, ma sono vere e proprie
entità, realtà, che esistono per loro conto indipendentemente dalla nostra mente;
esistono anche se non le pensiamo, così come le entità, gli enti matematici, ad
esempio il triangolo, il quadrato, ecc., esistono comunque sia che li pensiamo o no.
Dunque le idee (dal greco "eidos" che significa forma, essenza) non sono semplici
concetti anche se vi assomigliano, ma sono le essenze delle cose, ossia ciò che di
comune hanno fra loro tutte le cose di una certa categoria, di un certo genere, e che le
distingue da ogni altro genere di cose. Però queste caratteristiche comuni e distintive
(le idee) vanno oltre le apparenze sensibili delle cose, sono profonde ed invisibili ai
sensi; invece sono intellegibili (comprensibili) solo con la ragione ed inoltre sono
stabili, immutabili e universali: i singoli alberi concreti o le singole cose belle non
solo sono diversi gli uni dagli altri, ma ognuno di essi cambia col tempo, mentre
l'idea di albero o l'idea di bellezza non cambia mai ed è valida per tutti. Le idee
dunque hanno un valore assoluto e non relativo: sono immutabili e universali.
Infatti, ad uno può sembrare bene e buona una certa cosa e ad un altro invece un'altra
cosa, ma l'idea del bene è valida e uguale per tutti.
Platone scopre dunque che esistono due specie di realtà, due piani dell'essere, due
mondi:
1. c'è un mondo sensibile, che è quello dei fenomeni, delle cose sensibili,
visibili, che si conoscono con i sensi;
2. c'è un mondo sovrasensibile, che è quello del idee, che sono invisibili ai sensi
perché esse sono enti metafisici, vanno cioè al di là della conoscenza fisica e
sensibile, e sono conoscibili solo con la ragione, col ragionamento (vedo le
cose belle ma non vedo il bello; però posso conoscere l'idea del bello con la
ragione, con l'intelletto).
Con la scoperta del mondo sovrasensibile Platone inaugura la filosofia metafisica
vera e propria, che influenzerà tutta la successiva filosofia occidentale, sia che si
accetti o non si accetti l'esistenza di una realtà metafisica, sovrasensibile, superiore e
separata dalla realtà fisica e sensibile, poiché anche chi non intenderà accettarla sarà
comunque costretto a considerarla per motivare il suo rifiuto. Solo dopo Platone si
può parlare di distinzione fra realtà fisica e metafisica, fra realtà sensibile e
sovrasensibile, fra realtà materiale e realtà immateriale, spirituale.
Di conseguenza, per Platone, e per i filosofi metafisici dopo Platone stesso, la natura
e il cosmo (l'universo fisico) non costituiscono più la totalità di tutte le cose, ma
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solo delle cose sensibili, ossia dei "fenomeni", che appaiono e sono visibili.
Appartiene invece alla totalità anche e soprattutto la metafisica, il mondo
sovrasensibile puramente intellegibile, non visibile ma conoscibile solo con
l'intelletto.
Proseguendo nello sviluppo della dottrina del idee, Platone si pone poi la domanda:
se le idee appartengono al mondo sovrasensibile, in che modo esse entrano in
rapporto con le cose sensibili, consentendo una loro conoscenza certa e non
mutevole? Platone risponde che il rapporto tra idee e cose sensibili è di due tipi:
1. le idee sono il modello delle cose sensibili ad esse corrispondenti e le cose
sensibili sono copie o imitazioni imperfette delle idee. Ad esempio, nel mondo
sensibile esiste una pluralità di cose più o meno belle o più o meno giuste, ecc,
ma nel mondo sovrasensibile esiste una sola ed unica idea di bellezza o di
giustizia, che sono il modello perfetto (o forma) delle cose belle o giuste del
mondo sensibile;
2. le idee sono la causa della conoscenza delle cose sensibili poiché conosciamo
le cose in base alle corrispondenti idee. Ad esempio diciamo che due cose sono
uguali in base all'idea di uguaglianza oppure diciamo che due azioni sono
giuste in base all'idea di giustizia, ecc.
Essendo le cose sensibili copie o imitazioni delle idee, significa che le cose
partecipano delle idee anche se in modo imperfetto e incompleto. Partecipare qui
vuol dire essere in parte simile e in parte diverso. Ad esempio, gli uomini concreti
partecipano dell'idea di uomo poiché sono imitazione di tale idea, ma si tratta di
un’imitazione imperfetta ed incompleta perché gli uomini concreti, in quanto
imitazione, non sono l'originale ed inoltre mutano continuamente (nascono, crescono
e muoiono), mentre l'idea di uomo non cambia mai, è stabile, immutabile e completa.
La dottrina delle idee di Platone costituisce una sintesi fra quella di Eraclito e
quella di Parmenide. Il mondo sensibile è caratterizzato dal continuo divenire, ossia
dal continuo mutamento e trasformazione delle cose, come diceva Eraclito. Invece il
mondo sovrasensibile è costituito da idee che sono immutabili ed eterne come l'essere
di Parmenide. Però, a differenza di Parmenide, per il quale l'essere è unico, unitario e
distinto dal mondo sensibile giudicato solo apparenza ed illusione, per Platone invece
l'essere non è unico ma molteplice, poiché è formato da una pluralità di idee ed
inoltre non è separato dal mondo sensibile, ma esiste un preciso rapporto tra mondo
sovrasensibile (l'essere) e mondo sensibile, perché le idee del mondo sovrasensibile
sono il modello e la causa della conoscenza delle cose del mondo sensibile. Il mondo
sensibile per Platone non è pertanto solo illusione, ma grazie alle idee è invece
conoscibile ed anch'esso possiede una sua realtà seppur imperfetta giacché la
perfezione appartiene solo al mondo delle idee.
Ma, si domanda ancora Platone, se le idee non sono semplici concetti costruiti dalla
nostra mente e presenti solo in essa, bensì sono enti reali che esistono
indipendentemente e al di fuori della nostra mente e delle cose sensibili, allora dove
stanno le idee? Platone risponde che le idee esistono e stanno in ciò che lui chiama
"Iperuranio", ossia in un luogo superiore e celeste, simile all'empireo greco o al
paradiso cristiano anche se, in verità, Platone non spiega più di tanto cosa sia e dove
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Nota critica.
Le idee sono molteplici e fra di loro diverse per tipo e per grado. Vi è un'idea per
ogni genere di cose sensibili. Pur essendo diverse e molteplici, le idee non
costituiscono affatto un mondo disordinato e disorganizzato, ma compongono invece
un sistema gerarchico-piramidale ordinato, in cui vi sono idee di grado inferiore e di
grado superiore.
Dal basso verso l'alto, Platone distingue quattro tipi o gradi di idee:
1. le idee delle cose corporee, sensibili: ad esempio l'idea di albero, di pietra, di
cavallo, di uomo;
2. le idee degli enti matematici: ad esempio l'idea di triangolo, di cerchio, di
numero;
3. le idee dei valori (=ideali) estetici, come ad esempio l'idea di bellezza, di
meraviglia, e le idee dei valori etici o morali, come ad esempio l'idea di
coraggio, di giustizia, di carità;
4. l'idea suprema del Bene, che sta in cima a tutte le idee.
Il Bene è la perfezione massima e rende partecipi tutte le altre idee della sua
perfezione. Perciò l'idea del Bene è l'idea suprema. Platone dice che non si può
conoscere alcuna idea né alcuna cosa se prima non si conosce il bene in sé. Infatti,
ogni idea e ogni cosa per il semplice fatto di esistere è già un bene. Per tale motivo
dunque tutte le idee partecipano (rientrano) dell'idea suprema del Bene.
Ne deriva che, per Platone, l'idea del Bene ha un significato non solo morale ma
anche ontologico (=concernente l'essere, la realtà): l'essere, l’esistere, riveste
comunque un valore positivo rispetto al caos e al disordine ed originario. Inoltre,
anche l'esistenza di cose o di idee determinate e ordinate, ed in quanto tali
conoscibili, è di per sé un bene. Così il Bene, oltre che avere un valore morale e
ontologico, ha pure un valore gnoseologico (conoscitivo).
Con la dottrina dell'idea del Bene anche Platone, si può dire, va alla ricerca del
principio primo della realtà, come i primi filosofi naturalisti. Però, a differenza di
questi, che consideravano tale principio immanente (=dentro) in tutte le cose, Platone
concepisce il principio primo del Bene come trascendente (=separato, al di fuori e al
di sopra delle cose sensibili).
Il carattere trascendente del Bene ed il fatto di essere causa di tutte le cose (l'idea del
bene è causa di tutte le altre idee e di tutte le cose perché le rende intellegibili, cioè
comprensibili, conoscibili) potrebbe far assomigliare la stessa idea del Bene di
Platone al Dio della religione. Però il Bene di Platone e il Dio della religione, pur
avendo in comune la trascendenza e la causalità (l'essere causa) nei confronti di ogni
cosa, sono in realtà diversi, perché il Bene di Platone non è inteso come persona
suprema che intende tutto e può tutto, quale è il Dio della religione, ma soltanto come
condizione e causa prima che consente la conoscenza della realtà. Inoltre, il Bene non
è causa delle cose nel senso che le ha create ma nel senso che le cose, esistendo di per
sé, partecipano e rientrano in quanto tali nell'idea del Bene.
Per Platone essere filosofi significa allora, soprattutto, conoscere l'idea del Bene,
che è l'idea suprema. Questo è il motivo per cui i governanti devono essere filosofi,
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perché solo sapendo che cos'è il Bene essi potranno governare con saggezza e con
giustizia, distinguendo ciò che è buono e giusto da ciò che non lo è, e guidare quindi
gli uomini alla virtù e alla felicità.
Così come vi è una gerarchia nel mondo delle idee, c'è anche una corrispondente
gerarchia nei gradi della conoscenza. Alla distinzione tra mondo sensibile delle
cose e mondo sovrasensibile delle idee e corrisponde, secondo Platone, la distinzione
fra due tipi fondamentali di conoscenza (dualismo gnoseologico;
dualismo=contrapposizione): l'opinione da una parte, che riguarda la realtà delle cose
sensibili, e la scienza dall'altra, che riguarda la realtà delle idee sovrasensibili.
L'opinione, che è conoscenza delle cose, è una conoscenza imperfetta perché le cose
sensibili mutano e cambiano continuamente e perciò non possono essere conosciute
in modo stabile. La scienza, che è conoscenza delle idee, è invece una conoscenza
perfetta, stabile e duratura, perché stabili, durature perfette sono le idee che essa
indaga. A loro volta, l'opinione e la scienza si dividono ciascuna in due ulteriori gradi
di conoscenza. Perciò quattro sono i gradi della conoscenza nel complesso:
cose possono essere misurati e calcolati (più grande, più piccolo, più lungo, più corto,
il doppio, la metà, più denso, meno denso, ecc.).
Si è visto che le cose del mondo sensibile sono copie o imitazioni delle idee, le quali
sono il modello perfetto delle cose stesse. Il mondo fisico deriva cioè dal mondo
sovrasensibile delle idee. Ma come può il mondo sensibile delle cose derivare dal
mondo sovrasensibile delle idee che sono separate dalle cose? Platone risponde
che il mondo sensibile deriva da quello sovrasensibile grazie all'opera di un dio,
chiamato Demiurgo, che è l'artefice (non il creatore) del mondo. Demiurgo in greco
significa appunto artefice.
All'inizio il mondo era solo un caos informe, era solo materia priva di vita costituita
in modo disordinato dai quattro fondamentali elementi naturali: fuoco, acqua, aria e
terra. Il Demiurgo, per bontà e amor di bene, ha utilizzato la materia originaria e l’ha
plasmata, separando e combinando in modo ordinato i quattro elementi e formando
così un cosmo ordinato nonché le singole cose (i corpi) del mondo, che poi ha
animato e rese vive, dotandole di movimento, di capacità di crescita e di
trasformazione. Nel plasmare le cose il Demiurgo ha preso per modello le
corrispondenti idee del mondo sovrasensibile che, in quanto Dio, egli conosceva.
Dunque, lo schema cosmologico (=dell'universo) di Platone è chiaro: le idee sono il
modello in base al quale il Demiurgo ha plasmato le cose sensibili, le quali sono
copia ed imitazione delle idee. Il mondo delle idee è eterno, eterna è anche la
materia originaria informe utilizzata dal Demiurgo ed eterno è il Demiurgo stesso,
paragonabile ad una mente divina intelligente che ha dato forma al mondo ed alle
cose del mondo. Il mondo sensibile delle cose, invece, non è eterno, essendovi
all'inizio solo la materia informe ed inerte, inanimata; però, in quanto opera di una
divinità, esso non è destinato a corrompersi e perire.
Il mondo sensibile, pur essendo stato costruito ordinatamente dal Demiurgo, non è
tuttavia perfetto poiché è stato costruito ad imitazione del mondo del idee, il quale
soltanto è perfetto. Infatti nel mondo sensibile c'è imperfezione e c'è anche il male,
causati dai residui di materia informe e di caos primordiale (originario) che sono
inevitabilmente rimasti al termine dell'opera del Demiurgo.
Il Demiurgo, divinità dotata di intelligenza e di volontà, assomiglia al Dio-persona
della religione ma se ne distingue per due motivi: 1) perché non è il creatore del
mondo in quanto si è limitato a plasmare la materia informe originaria già esistente;
2) perché è gerarchicamente una divinità inferiore al mondo del idee, in quanto non
solo non le ha create dipendendo anzi da esse, giacché le idee sono il modello a cui il
Demiurgo si è ispirato nel plasmare le cose. La visione della divinità rimane in
Platone ancora politeistica, secondo la mentalità greca. Non si ispira tuttavia agli dei
della tradizione poiché è sì molteplice ma è impersonale; esprime piuttosto la
perfezione e l'ordine del mondo delle idee. Peraltro non ha i caratteri del Dio delle
religioni monoteistiche.
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Con la costruzione del mondo il Demiurgo ha dato inizio anche al tempo, che Platone
definisce "immagine mobile dell'eternità", perché con il suo succedersi ordinato di
giorni e notti, di mesi e anni, il tempo rispecchia l'ordine eterno del mondo delle idee.
Il tempo delle cose sensibili non è eterno, avendo avuto un inizio, ma anch'esso, come
il mondo, è destinato a perdurare per sempre.
Abbiamo visto che le idee sono sia il modello sia la causa della conoscenza delle
cose: si conoscono le cose mediante la conoscenza delle idee corrispondenti. Solo
così la conoscenza sarà stabile e universale, ossia sarà scienza. Se le cose venissero
conosciute attraverso i sensi non vi sarebbe scienza ma soltanto opinione, poiché le
cose cambiano continuamente e i nostri sensi colgono le cose nei loro continui
mutamenti, quindi mai in modo stabile ma in maniera diversa nel tempo e da
individuo a individuo.
Però se le idee appartengono al mondo sovrasensibile e sono separate dalle cose e
indipendenti dalla nostra mente in quale modo l'uomo può conoscere le idee?
Platone risponde elaborando al riguardo una teoria della conoscenza assolutamente
nuova, con la quale confuta (=smentisce) il relativismo conoscitivo dei sofisti. La
filosofia della conoscenza di Platone, o gnoseologia (termine che significa, appunto,
filosofia della conoscenza) ci offre la prima e più completa teoria della conoscenza
della storia della filosofia.
Platone afferma che la conoscenza è essenzialmente "reminiscenza"
(reminiscenza=ricordo): conoscere significa ricordare. Poiché, secondo Platone, le
cose si conoscono mediante la conoscenza delle idee corrispondenti e poiché le idee
sono forme immateriali, contenute nel nostro pensiero o anima, esse non possono
essere conosciute che dall'anima stessa, ma non nella vita terrena, dove l'anima è
unita ad un corpo, perché nessuna cosa che incontriamo in questa vita e che
conosciamo con i sensi è universale, immutabile e perfetta come sono le idee.
Dunque bisogna concludere che l'anima abbia conosciuto le idee prima di unirsi al
corpo, prima della nascita del corpo.
La nostra anima appunto, dice Platone, prima di calarsi nel corpo umano è
vissuta nel mondo delle idee in cui ha potuto conoscere direttamente tutte le idee
medesime. Una volta discesa nel nostro corpo, l'anima conserva un ricordo oscuro e
sfuocato delle idee conosciute nel mondo sovrasensibile. Quando, unita al corpo,
l'anima fa esperienza delle cose attraverso i sensi, essa è stimolata dalle cose stesse a
ricordare in modo vivo e chiaro le corrispondenti idee viste nell'Iperuranio. Ecco
perché Platone afferma che conoscere è ricordare.
Questa teoria di Platone, come quelle successive di tipo simile, è stata chiamata
"innatismo", in quanto ritiene che la conoscenza vera non derivi dai sensi, dalle cose
esterne di cui si fa esperienza, bensì dalle idee, che sono innate e presenti in noi, nella
nostra anima (innato= presente fin dalla nascita).
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L'immortalità dell'anima. Il mito di Er, sul destino delle anime, e il mito del
cavallo alato, sulla caduta delle anime nei corpi.
Per Socrate era sufficiente comprendere che l'essenza dell'uomo, ciò che lo
contraddistingue, è la sua anima. Non era quindi necessario per lui stabilire se l'anima
sia o no immortale. Per Platone invece il problema dell'immortalità dell'anima
diventa fondamentale, perché altrimenti, se l'anima non fosse immortale e non
fosse vissuto nel mondo delle idee prima di incarnarsi in un corpo umano, la sua
teoria della conoscenza come reminiscenza crollerebbe.
Platone fornisce tre prove dell'immortalità dell'anima:
1. la prova per somiglianza: se l'anima è capace di ricordare e conoscere le idee
che sono eterne, allora deve essere anch'essa eterna e, a maggior ragione,
immortale;
2. la prova dei contrari: così come in natura ogni cosa sorge dal suo contrario (il
freddo dal caldo, il sonno dalla veglia, ecc.), altrettanto la vita sorge dalla
morte nel senso che l'anima rivive dopo la morte del corpo;
3. la prova della vitalità dell'anima: l'anima in quanto è soffio vitale che dà la vita,
è perciò principio di vita e partecipa all'idea della vita; dunque non può essere
contemporaneamente anche il suo opposto, che è la morte; quindi l'anima non
può morire.
Abbiamo visto che il rapporto fra le idee e le cose non è dualistico, cioè contrapposto,
giacché le idee sono la vera causa della conoscenza delle cose. Invece secondo
Platone è dualistico, ossia contrapposto, il rapporto tra anima e corpo: la prima è
sovrasensibile mentre il secondo è sensibile. Perciò il corpo non è inteso, come per
Socrate, in senso positivo, quale involucro al servizio dell'anima. Platone ha una
concezione negativa del corpo, che definisce tomba e carcere dell'anima; il corpo è
cioè il luogo dell'espiazione dell'anima a causa delle colpe dalla stessa commesse. Il
corpo è per Platone la radice dei mali, delle insane passioni, delle inimicizie,
dell'ignoranza e della follia. Pertanto la morte non deve essere temuta perché
consente all'anima di liberarsi dalla prigionia del corpo e dai mali del mondo e di
ritornare nel mondo delle idee. Il destino e la virtù dell'anima si realizzano mediante
la sua fuga dal corpo e la sua fuga dal mondo.
Socrate indicava nella cura dell'anima, ossia nell'ascoltare la propria coscienza, il
supremo compito morale dell'uomo. Anche Platone conferma questo comandamento
socratico ma precisa che cura dell'anima significa purificazione dell'anima, poiché
l'incarnazione dell'anima in un corpo ed il suo allontanamento dal mondo delle idee
dipendono dalle colpe da essa medesima commesse, che devono pertanto essere
purificate nella vita terrena. Tale purificazione avviene, secondo Platone, elevandosi
ai gradi più alti della conoscenza, fino a giungere alla conoscenza delle idee e
dell'idea suprema del Bene, la quale coincide col Vero. La conoscenza dunque non
ha solo valore razionale ma anche morale, non è solo comprensione della verità ma
è anche impegno di purificazione volto a salire all'idea del Bene, cioè alla virtù. In
questa ascesa progressiva consiste quello che è stato definito il "misticismo
platonico".
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Il mito di Er.
Ma quale è il destino delle anime dopo la morte del corpo cui erano unite? Platone ce
lo descrive attraverso il mito di Er, un eroe morto in battaglia e resuscitato dopo
dodici giorni, il quale ha potuto così raccontare la sorte dell'anima dopo la morte del
corpo. Attraverso il racconto di Er, Platone spiega che le anime che hanno vissuto,
quando erano unite ad un corpo, una vita troppo legata ai piaceri e alle passioni
terrene non riescono a separarsi interamente dal corpo dopo la morte e vagano come
fantasmi attorno ai sepolcri fino a che, attratte dal desiderio del corporeo, si uniscono
nuovamente ad altri corpi di uomini squallidi od anche di animali repellenti. Dunque,
per punizione della loro colpa, non tornano nel mondo delle idee e si riuniscono a
corpi indegni. Anche le anime che sono vissute secondo una virtù non filosofica ma
semplicemente comune non tornano nel mondo del idee ma sia riuniscono ad altri
corpi, però di uomini retti o di animali mansueti. Solo le anime che sono vissute
secondo virtù filosofica ritornano nel mondo delle idee. Tuttavia, prosegue Platone
nella Repubblica, poiché le anime sono in numero limitato rispetto al numero dei
corpi sulla terra, esse non possono rimanere per sempre nel mondo delle idee, ma
dopo un periodo massimo di mille anni sono destinate a reincarnarsi in un altro corpo.
Trascorso il loro periodo di permanenza nel mondo delle idee, le anime si radunano
in una pianura per decidere in quale tipo di corpo tornare a reincarnarsi. A tale
proposito Platone opera una rivoluzione della credenza tradizionale, secondo cui
sarebbero gli dei o il destino a stabilire a quali corpi le anime vadano ad unirsi.
Invece sono le anime stesse, dice Platone, che decidono liberamente, secondo le loro
inclinazioni, in quale corpo incarnarsi e quale tipo di vita terrena vivere, se secondo
virtù o secondo il vizio. Il significato di questa innovazione è chiaro: la
responsabilità del tipo di vita prescelta e la colpa dei vizi è sempre individuale e non
può essere attribuita ad un destino crudele o agli dei; non ci sono scusanti. Platone
anticipa in tal modo il concetto di "libero arbitrio".
Platone sa benissimo che questa sua spiegazione, fornita attraverso il mito, non è
dimostrabile però, egli afferma, è buona cosa crederlo.
Perché le anime non possono rimanere eternamente nel mondo delle idee e sono
invece periodicamente costrette a cadere sulla terra ed incarnarsi in un corpo umano?
Oltre alla spiegazione, troppo semplice, data nel mito di Er concernente il numero
limitato delle anime rispetto a quello dei corpi sulla terra, Platone ci dà una
spiegazione più profonda col mito del carro alato. Le anime cadono in un corpo
sulla terra per loro colpa. L'anima infatti, dice Platone, è come un carro tirato da
due cavalli alati, guidati da un auriga. Dei due cavalli uno è buono, simboleggia
l'anima irascibile (cioè coraggiosa, volitiva) e spinge verso l'alto, verso il luogo che
Platone chiama la "Pianura della verità", da cui si può contemplare il mondo
sovrasensibile delle idee e la suprema idea del Bene. Il secondo cavallo è cattivo,
simboleggia l'anima concupiscibile (passionale) e spinge verso il basso, verso la terra,
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Platone non collega la bellezza all'arte. Anzi egli, nella Repubblica, condanna
l'arte e non la considera degna di entrare nel percorso educativo del filosofo per due
motivi.
Il primo motivo è di tipo metafisico-gnoseologico; l'arte, dice Platone, non è vera
conoscenza perché si limita a riprodurre l'immagine delle cose naturali che sono a
loro volta imitazione delle idee. L'arte è dunque l'imitazione di una imitazione; è una
realtà inferiore e lontana dalla conoscenza ed anziché spingere le anime verso le idee
le tiene legate alle cose sensibili riprodotte.
Il secondo motivo è di tipo pedagogico-politico: l'arte in generale, ed in particolare la
commedia, corrompe gli uomini perché rimangono negativamente influenzati e
suggestionati dalle passioni che essa rappresenta. Pertanto l'arte è diseducativa e non
può rientrare nelle discipline da insegnare nella formazione dei filosofi.
La bellezza è invece collegata da Platone all'amore, in greco "eros". La
conoscenza, dice Platone, non è una qualità esclusivamente intellettuale perché
implica anche la volontà e non solo l'intelletto (per conoscere bisogna prima voler
conoscere). E la volontà è guidata dalla forza dell'amore, dell'eros, a salire lungo i
diversi gradi della bellezza fino all'idea del Bello in sé. E poiché per gli antichi greci
il Bello coincide col Vero e col Bene, allora l'eros è la forza che conduce alla
conoscenza e alla virtù. In tal senso, il Vero e il Bene si raggiungono sia per via
gnoseologica (conoscitiva) sia per via estetica (intesa come disciplina che tratta
della bellezza), salendo nei vari gradi della bellezza.
Alla teoria dell'amore Platone dedica due dialoghi:
1) il "Fedro", che considera cos'è l'amore, inteso come aspirazione dell'anima verso la
bellezza e come sua progressiva elevazione al mondo delle idee al quale appartiene
l'idea del Bello: amore è sete e desiderio di bellezza e di bene. In tal senso l'amore è
filosofia, cioè amore della sapienza;
2) il "Simposio", che considera soprattutto l'oggetto dell'amore, cioè la bellezza ed
illustra i vari gradi della bellezza stessa.
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La filosofia politica.
Platone nella "Repubblica", il suo capolavoro, oltre che esporre in parte la dottrina
delle idee, espone in particolare il proprio modello di società, di Stato ideale. Scopo
fondamentale dello Stato è quello di realizzare il bene, che sostanzialmente consiste
nella giustizia. La giustizia è una virtù essenzialmente sociale: nessuna società
umana può sussistere senza giustizia, afferma Platone, respingendo quindi la teoria
sofista dello Stato basato sulla legge del più forte.
Uno Stato, dice Platone, nasce perché ciascuno di noi non è autosufficiente ma ha
bisogno dei servizi e della collaborazione di molti altri uomini; in primo luogo sono
necessari i servizi di coloro che provvedono ai bisogni materiali (il cibo, i vestiti, le
abitazioni); in secondo luogo sono necessari i servizi di coloro che hanno il compito
di custodire e difendere lo Stato; in terzo luogo è necessaria l'opera di coloro che, in
pochi, sappiano ben governare.
Lo Stato quindi deve essere costituito da tre classi o categorie sociali.
1) La classe dei contadini, degli artigiani e dei mercanti, composto da uomini in
cui prevale l'anima (il carattere) concupiscibile, cioè quella in cui dominano gli
istinti materiali e le passioni e che è la più diffusa. Perciò la prima classe è anche la
più numerosa. Questa classe è buona quando in essa predomina la virtù della
temperanza, che è sia la capacità di controllare i piaceri e i desideri sia la
disponibilità a sottomettersi alle classi superiori. Solo questa classe sociale può
possedere ricchezze e beni materiali, che non devono essere né troppi né troppo
pochi.
2) La classe dei guerrieri o custodi, nei quali prevale l'anima irascibile (=
coraggiosa, volitiva). La virtù di questa classe deve essere il coraggio o fortezza.
Compito dei guerrieri è di difendere lo Stato dai nemici interni ed esterni nonché di
evitare che i cittadini della prima classe sociale diventino troppo ricchi, perché ciò
genera ozio, lusso ed incontinenza, oppure che diventino troppo poveri, perché ciò fa
sorgere i vizi opposti. Spetta pure ai custodi di vigilare affinché ogni cittadino svolga
correttamente i propri doveri sociali.
3) La classe dei governanti, che è costituita da uomini nei quali prevale l'anima
razionale e la loro virtù è la sapienza. I governanti devono essere filosofi, ossia
devono conoscere il mondo delle idee e soprattutto la suprema idea del Bene per
poter ben governare lo Stato.
Dunque lo Stato perfetto è quello in cui predomina la temperanza nella prima classe
sociale, la fortezza o coraggio nella seconda e la sapienza o saggezza nella terza. Ma
la virtù centrale, che ricomprende tutte e tre queste virtù, è la giustizia, fare ciò che
è giusto: l'accordo fra le tre virtù si realizza quando ciascun cittadino fa ciò che è
giusto, ossia quando svolge bene il proprio compito ed ha ciò che gli spetta. Ognuno
deve dedicarsi al compito per cui è più adatto e che più corrisponde al personale
carattere o tipo di anima.
L'appartenenza degli individui ad una o l'altra classe sociale dipende dalle loro
inclinazioni, dal loro carattere, ossia dal loro tipo di anima: o concupiscibile o
irascibile o razionale. La divisione degli individui in classi sociali non deriva
quindi, per Platone, da un fattore ereditario ma psicologico, a seconda del tipo
d'animo di ciascuno. Lo Stato platonico dunque non è un sistema di classi chiuse,
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come caste, per cui nessuno può passare ad una classe sociale superiore poiché
costretto a rimanere per sempre nella classe sociale di nascita. Però è anche vero,
riconosce Platone, che solitamente i figli somigliano ai padri e quindi, di regola,
rimangono nella classe di provenienza, nella quale sono nati.
Dopo aver definito cos'è la giustizia nello Stato, che si ha quando ogni cittadino ed
ogni classe sociale svolge bene il proprio compito, Platone indica quali sono, secondo
lui, le condizioni che garantiscono il miglior funzionamento dello Stato e la
realizzazione della giustizia. A tal fine Platone propone l'eliminazione della
proprietà privata, l'abolizione della famiglia e la comunione dei beni (=mettere a
disposizione di tutti ciò che è necessario per vivere) per le due classi superiori (i
guerrieri e governanti), affinché non siano distratte nello svolgimento dei loro
compiti da interessi economici e familiari individuali. Solo la classe inferiore può
possedere proprietà privata e ricchezze, però suo compito è quello di mantenere le
due classi superiori. È questo il cosiddetto "comunismo platonico".
Per le classi dei guerrieri e dei governanti l'intento di Platone è di creare come
un’unica grande famiglia in cui tutti vivano in comune, ritenendo in tal modo di
eliminare gli egoismi individuali. Non devono esserci coppie fisse di uomo e donna
(abolizione del matrimonio) entro le quali educare i figli, ma tutti gli uomini e le
donne devono vivere insieme, svolgere identiche mansioni (parità delle donne) e tutti
i figli non appena diventano fanciulli devono essere sottratti ai genitori ed essere
allevati ed educati in comune da parte dello Stato. Le nozze tra uomini e donne
devono essere provvisorie e la scelta dell'uomo e della donna da unire
provvisoriamente in matrimonio deve spettare ai governanti ed essere compiuta al
fine di ottenere la prole migliore possibile. Platone aveva in mente, in proposito, il
modello di Sparta, ove gli Spartiati (i guerrieri) vivevano in comune.
Il comunismo platonico dunque, oltre che all'eliminazione degli egoismi individuali,
è finalizzato anche all'educazione dei giovani. Uno Stato perfetto deve avere
un'educazione perfetta, tranne che per la prima classe sociale, che non ha bisogno di
una speciale educazione perché i mestieri si imparano più facilmente con la pratica.
Per le classi dei custodi e dei governanti Platone propone inizialmente un'educazione
ginnico-musicale allo scopo di irrobustire il carattere e l'animo. Successivamente
Platone prevede lo studio delle cosiddette discipline propedeutiche (=preparatorie)
alla filosofia, cioè l'aritmetica, la geometria, l'astronomia. Fra i trenta e i trentacinque
anni i migliori sono avviati allo studio della filosofia o dialettica. Fra i trentacinque e
i cinquanta anni coloro che sono stati in grado di seguire con profitto gli studi di
filosofia sono inviati a compiere il tirocinio pratico nelle cariche militari e civili. Solo
dopo i cinquanta anni gli "ottimi", che abbiano superato tutte le prove, potranno
diventare governanti dello Stato.
Platone è consapevole che il suo è uno Stato ideale che non esiste in alcun luogo
della terra. Tuttavia è persuaso che rappresenti un modello in base al quale
confrontare e migliorare gli Stati reali. Negli scritti della vecchiaia (specie nel
"Politico" e nelle "Leggi") Platone torna ad occuparsi della filosofia politica in
maniera più realistica e meno idealistica, tenendo conto cioè delle concrete
situazioni ed effettive possibilità storico-sociali, abbandonando la rigida distinzione
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in tre classi sociali ed il comunismo dei beni e delle famiglie. Il governante non deve
essere necessariamente un filosofo completo ma deve conoscere "la scienza del
governare", che consiste soprattutto nell'arte della misura: in ogni cosa bisogna
evitare gli eccessi e i difetti per trovare il giusto mezzo. Inoltre, se nello Stato ideale
non c'è bisogno di leggi, poiché il governante-filosofo, che conosce il bene e il giusto,
è sempre in grado di adattare le sue decisioni alle varie situazioni, nello Stato reale
invece, a causa dell'imperfezione umana, la legge è necessaria e deve essere sovrana;
ad essa si devono sottomettere anche i governanti. La funzione della legge non deve
essere solo punitiva ma anche educativa, deve cioè convincere cittadini che è buona e
necessaria.
L'educazione civica ha come base la religione. Platone considera infatti la religione
un incentivo, uno stimolo, al rispetto delle leggi e della virtù. L'ateismo è giudicato
un male sociale. Peraltro quella che Platone propone è una religione di Stato, assai
diversa dalla religione tradizionale. La divinità è vista negli astri e nell'ordine
cosmico (da ciò l'importanza attribuita all'astronomia) piuttosto che negli dei della
tradizione. Solo in un universo ordinato e retto da leggi divine lo Stato degli uomini
può essere concepito come riflesso e imitazione di tale ordine.
Poiché nello Stato reale le leggi sono necessarie, allora occorre elaborare una
costituzione (=una forma di Stato) scritta. Platone individua tre principali tipi di
costituzione realizzate nella storia:
1. la monarchia o governo di uno solo, il re, che deve possedere il senso
dell'onore;
2. l'aristocrazia o governo di pochi, intesi come i migliori per sapienza e per
saggezza e non come nobili per nascita;
3. la democrazia o governo dei molti, fondata sulla libertà e sul rispetto delle
leggi.
Nel corso della storia tuttavia queste costituzioni sono spesso degenerate o sono
destinate a degenerare a causa degli egoismi umani. Tre sono le forme degeneri di
costituzione, ossia di Stato, in contrapposizione a quelle positive:
1. la timocrazia (dal greco "timè"=onore), quando il re, il monarca, concepisce
l'onore non più come coraggio e saggezza ma come desiderio di potere e di
fama personale;
2. l'oligarchia, quando gli aristocratici non si fanno più guidare dalla sapienza e
saggezza, ma ricercano la ricchezza e il potere personale;
3. la demagogia, quando la libertà che c'è nella democrazia non è più basata sul
rispetto di leggi giuste ma ognuno vuol prevalere sugli altri, senza rispettare i
diritti e le libertà altrui.
Quando con la demagogia non c'è più nessun minimo rispetto della libertà degli altri,
ma prevale solo la legge del più forte, sorge allora la tirannide, la peggior forma di
Stato, che è il potere dispotico preso con la forza da uno solo: il tiranno.
Personalmente, Platone preferisce l'aristocrazia, perché la monarchia può degenerare
più facilmente in timocrazia o in tirannide, dal momento che il re ha troppo potere,
mentre più facilmente la democrazia può degenerare in demagogia oppure anch'essa
in tirannide se c'è troppa libertà. Platone si ispira ancora, quindi, al concetto del
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giusto mezzo, diffidando sia del regime monarchico sia di quello democratico. Egli
non ritiene che la politica possa essere esercitata da tutti, secondo il moderno
principio di democrazia, ma soltanto dai migliori esponenti della città. La concezione
politica di Platone coincide quindi con quella di uno statalismo aristocratico
élitario (dal francese "élite"=pochi privilegiati, i migliori).
Non sono mancate al riguardo successive critiche alla dottrina politica di Platone,
sia da destra che da sinistra, nonché strumentalizzazioni del pensiero platonico. Si è
parlato di utopia, condannata da alcuni ed esaltata da altri. In riferimento al
comunismo platonico vi è chi ha visto in esso l'anticipazione degli ideali del
socialismo e chi vi ha visto una concezione antiliberale, totalitaria, della società. Altri
ancora, in riferimento alla visione aristocratica della politica, hanno criticato come
antidemocratica la concezione platonica di una società divisa in rigide classi sociali e
di un potere destinato a pochi privilegiati. Non sono mancati neppure coloro che
hanno scorto nel modello platonico l'anticipazione di ideologie vicine al
nazifascismo, per un ravvisato eccesso di statalismo e di gerarchia nella struttura
sociale, nonché per il culto dei capi e della purezza della razza derivanti da
un’educazione riservata ai soli guerrieri e governanti.
Al centro della "Repubblica" si trova il celebre mito della caverna. Esso esemplifica
non solo la teoria della conoscenza e dell'educazione ma anche, in generale, la
metafisica, la dialettica, come pure l'etica, la politica e la mistica di Platone. Insomma
ne simboleggia il complessivo pensiero.
Il mito immagina che vi sia una caverna sotterranea in cui si trovano schiavi
incatenati e costretti a guardare solo davanti a sé, nel fondo della caverna dove,
illuminate da un fuoco, si riflettono immagine di statuette che sporgono al di sopra di
un muro alle spalle degli schiavi e che raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il
muro vi sono, senza essere visti, degli uomini che muovono in qua e in là le statuette.
Dietro questi uomini brilla un fuoco che riflette le ombre delle statuette sul fondo
della caverna. Gli schiavi scambiano quelle ombre per la sola realtà esistente. Ma se
uno schiavo riuscisse a liberarsi, egli voltandosi si accorgerebbe delle statuette e
capirebbe che esse, e non le ombre, sono la realtà. Se poi riuscisse ad uscire dalla
caverna vedrebbe le cose della natura e scoprirebbe che nemmeno le statuette sono la
vera realtà perché esse sono soltanto, a loro volta, imitazione delle cose della natura.
Dopo essersi abituato alla luce riuscirebbe infine a fissare il sole, comprendendo che
il sole, illuminandole, è la causa di tutte le cose visibili. Naturalmente lo schiavo
liberatosi vorrebbe rimanere per sempre nella luce del sole. Supponiamo tuttavia che,
per far partecipi i suoi compagni di schiavitù della sua straordinaria scoperta, egli
rientri nella caverna. Spiegando agli altri schiavi che la vera realtà è quella esterna
alla caverna questi lo deriderebbero, non sarebbe creduto e preso per pazzo.
Insistendo nel voler rivelare loro la verità rischierebbe perfino di essere ucciso, come
è successo a Socrate.
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La dialettica.
Abbiamo visto che per Platone le idee costituiscono nel loro insieme una struttura
gerarchica (vi sono idee inferiori e idee superiori) formata da quattro gradi di idee,
così come, per Platone, quattro sono anche i gradi della conoscenza.
Per Platone inoltre vi è un netto dualismo (contrapposizione) sia ontologico (che
riguarda l'essere, la realtà) tra mondo sovrasensibile e mondo sensibile, ossia tra
anima e corpo, sia un dualismo gnoseologico (che riguarda la conoscenza) tra
opinione e scienza, ossia tra conoscenza sensibile e conoscenza razionale.
Gli uomini comuni si fermano alla conoscenza sensibile, cioè ai primi due gradi
dell'opinione; i matematici arrivano al primo grado della scienza, o conoscenza
razionale, e solo i filosofi giungono al secondo grado della scienza, ossia alla
conoscenza delle idee-valori.
La dialettica è la stessa filosofia o, meglio, il metodo applicato nel fare filosofia.
Platone definisce di due tipi di dialettica:
1. la dialettica come confutazione, quando si dimostra falsa qualcosa;
2. la dialettica come unificazione e divisione delle idee, che mostra le relazioni
esistenti fra le idee; questo secondo tipo di dialettica è dichiarato il più
importante.
Nel "Menone" Platone precisa che la dialettica si serve di ipotesi su ciò che si vuol
sapere e ne deduce le conseguenze per giudicare in base ad esse quale è l'ipotesi vera
e quale è l'ipotesi falsa. In particolare, dice Platone nel "Fedone", la dialettica
consiste nel formulare un'ipotesi circa ciò che si vuol sapere, ad esempio l'ipotesi
circa la causa di una determinata realtà, e nell'esaminare quali conseguenze ne
derivano: se esse sono in contraddizione fra di loro, l'ipotesi può essere
considerata falsa; se invece le conseguenze non sono in contraddizione ma in
accordo, allora l'ipotesi può essere confermata. Però, aggiunge Platone nel
"Parmenide", non basta formulare una sola ipotesi, bisogna invece risalire ad
ipotesi più generali finché non si giunga ad un principio, ad una causa, la cui
verità possa essere accertata e verificata con sicurezza, e soprattutto bisogna
assumere anche l'ipotesi opposta alla prima e dedurne ugualmente le conseguenze.
Infatti, solo la confutazione dell'ipotesi opposta ci può assicurare che quella non
confutata è vera.
La dialettica come confutazione mostra, secondo Platone, la differenza esistente
fra matematica e filosofia e la superiorità della filosofia. La matematica infatti
parte da ipotesi, nello specifico da postulati, e ricava le conseguenze che
necessariamente derivano, cioè i teoremi. Ma la verità dei postulati non è dimostrata
dalla matematica, perciò, conclude Platone, essa non è vera scienza. La filosofia
invece parte anch'essa da ipotesi, ma non le considera vere già in partenza come fa la
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Il filosofo è per Platone colui che conosce il mondo delle idee ed inoltre colui che,
mediante l'intelletto (il ragionamento), è in grado di cogliere (comprendere) le
relazioni esistenti tra le idee, le quali sono di implicazione, cioè di unificazione,
quando un'idea implica un'altra idea, nonché di esclusione, cioè di divisione, quando
un'idea ne esclude un'altra, potendo risalire in questo modo da idea a idea fino a
cogliere l'idea del Bene, che è l'idea somma e assoluta perché non dipende da
nessuna altra idea.
Il procedimento o il metodo col quale si colgono le relazioni fra le idee passando da
un'idea all'altra è appunto la dialettica come unificazione e divisione delle idee,
che si può quindi definire come la scienza che stabilisce le relazioni fra le idee per
ognuna delle quali, in tal modo, si può dare la relativa definizione.
Le idee possono implicarsi una con l'altra od escludersi una dall'altra. L'implicazione,
ossia l'unificazione di un'idea ad un'altra, e l'esclusione, ossia la divisione (qui=
separazione) di un'idea da un'altra, sono appunto i due modi in cui procede la
dialettica come unificazione e divisione:
1. procede per unificazione delle idee quando parte da idee particolari e risale
gradualmente, per implicazione (unendo un'idea ad un'altra e così via), alle
idee più generali fino a giungere all'idea somma del Bene;
2. procede per divisione del idee quando parte dall'idea somma del Bene, o
comunque da idee generali, e scende gradualmente, per esclusione (dividendo e
separando un'idea da un'altra e così via), fino a idee particolari.
In questa maniera la dialettica come unificazione e divisione riesce ad
individuare, entro la complessiva struttura del mondo delle idee, il posto che ogni
idea occupa in relazione alle altre, cosicché, definendo il posto che ogni idea
occupa, tale dialettica è in grado di dare anche una più precisa definizione per
ogni determinate idea.
Esempio: definizione del posto occupato dall'idea di filosofia rispetto alle altre idee e
quindi definizione della stessa filosofia:
-la filosofia implica attività ed esclude l'inerzia (l'inattività);
-l'attività implicata è quella intellettuale ed esclude perciò quella manuale;
-l'attività intellettuale implicata è quella che si occupa della conoscenza delle idee ed
esclude perciò quella delle cose sensibili.
Risulta ricavata in tal modo la definizione di filosofia: la filosofia è attività
intellettuale che si occupa della conoscenza delle idee ed esclude quella delle cose
sensibili.
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Gli scritti di Aristotele si dividono in due grandi gruppi: 1) gli scritti "essoterici"
(esterni), composti per lo più in forma di dialogo e destinati al grosso pubblico,
esterno alla scuola, nei quali Aristotele fa uso di miti e di altri elementi di attrattiva e
di cui sono rimasti solo pochi frammenti; gli scritti "esoterici " (interni, riservati),
destinati ai discepoli e quindi riservati, segreti. Ci sono pervenuti quasi tutti, ma solo
quasi trecento anni dopo, nella metà del primo secolo avanti Cristo quando furono
pubblicati da Andronico di Rodi.
Gli scritti esoterici appaiono impostati in maniera sistematica e compiuta, a
differenza di Platone, pur se il pensiero di Aristotele ha subito mutamenti, passando
da una iniziale adesione alla filosofia di Platone ad un successivo distacco, nonché da
interessi prevalentemente filosofici ad interessi scientifici particolari.
Gli scritti esoterici trattano di vari argomenti. Innanzitutto gli scritti di logica (noti
complessivamente col nome di "Organon", che in greco significa strumento
metodologico di ricerca) e precisamente: Categorie, Sull'interpretazione, Analitici
primi, Analitici secondi, Topici, Elenchi (= confutazioni) sofistici.
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Segue poi l'opera più famosa, la Metafisica, in 14 libri, scritta tuttavia in periodi
diversi.
Quindi gli scritti di filosofia naturale, di cui i principali sono la Fisica, in otto libri,
e il trattato Sull'anima, in tre libri.
Infine gli scritti di etica, politica, poetica e retorica: l'Etica nicomachea, edita dal
figlio Nicomaco; la Politica, in otto libri; la Retorica, in tre libri, e la Poetica, di cui
ci è giunta solo la parte riguardante l'origine e la natura della tragedia.
Numerose sono anche le opere di scienza naturale, specialmente di studio degli
animali.
Dalla varietà degli argomenti trattati emerge il carattere sistematico-enciclopedico
della filosofia di Aristotele.
La logica o "analitica".
genere degli animali ma non si identifica con questo perché non ogni animale
è un uomo.
3. La proprietà, che è un predicato il quale, pur non esprimendo l'essenza
specifica, la definizione precisa del soggetto, può tuttavia appartenere soltanto
ad esso. Per esempio, se il soggetto è "uomo", una sua proprietà è "colto" o
"incolto".
4. L'accidente, che è un predicato che può o non può appartenere ad un certo
soggetto; esprime ciò che accade e capita o no in modo accidentale (casuale)
al soggetto. Per esempio se il soggetto è "uomo", un suo accidente è "alto" o
"basso".
La logica di Aristotele, composta da sei trattati, svolge argomenti che vanno da
quelli più semplici a quelli più complessi: indaga e analizza dapprima i concetti e
le categorie, poi le proposizioni e quindi il ragionamento.
I concetti e le categorie.
La logica di Platone, che egli chiamava dialettica, era scienza delle idee (cioè di
realtà universali e separate dal mondo sensibile) nonché delle relazioni fra le idee
medesime. Aristotele respinge la teoria di Platone concernente l'esistenza di un
mondo delle idee (quali modelli delle cose e cause di conoscenza delle cose stesse)
separato e distinto dal mondo sensibile. Una volta eliminato da parte di Aristotele il
mondo sovrasensibile delle idee, la logica rimane scienza di concetti non più
separati dalle cose sensibili ma che esprimono gli aspetti universali, ossia le
caratteristiche generali, universali e comuni, di realtà (cose) sensibili appartenenti ad
una medesima specie, genere o categoria. In effetti Aristotele non usa il termine
"concetti", introdotto successivamente, ma quello di "universali".
I concetti sono il primo elemento della logica: sono le parole, i termini del
linguaggio, intendendosi per termini del linguaggio gli elementi della proposizione.
Sono i singoli nomi delle cose, sia individuali che collettive, e che in grammatica
costituiscono la prima parte del discorso ( il nome).
Aristotele rileva che i concetti, ossia i termini o parole o nomi, sono distribuiti
secondo una scala che va dai concetti più estesi, generali ed universali, a quelli meno
estesi e più particolari. I concetti più generali sono i concetti di genere delle cose
(ossia il genere a cui un gruppo di cose appartiene). Meno ampi e più circoscritti sono
i concetti di specie. Ad esempio il quadrato appartiene al genere dei poligoni ed alla
specie dei quadrilateri. Al gradino più basso della scala dei concetti vi sono i concetti
elementari, quelli più specifici e particolarissimi che sotto di loro non hanno nessun
altro concetto, nessuna ulteriore e possibile specificazione. I concetti elementari
sono quelli che indicano le singole cose concrete, i singoli individui. Col termine
"individuo" Aristotele non indica solo le singole persone (ad esempio Socrate,
Mario, Giorgio) ma anche le singole e specifiche cose concrete (ad esempio questa
matita qui, questo albero qui). Individuo significa infatti ciò che è "indivisibile",
ossia che non è ulteriormente divisibile in più specifici casi particolari, in altre
possibili sottocategorie. Ad esempio "Socrate" o "questo albero qui" non possono
73
"l'uomo" devo stabilire quale è il genere prossimo in cui rientra, che non è quello di
"vivente", perché lo sono anche le piante, ma è quello di "animale" e poi devo
individuare la differenza specifica che contraddistingue il soggetto che vogliamo
definire, cioè l'uomo, da ogni altra specie che rientra nel genere "animale". Nel nostro
esempio, la differenza specifica è "razionale" perché nessun altro animale è razionale.
Dunque l'uomo è definito come animale razionale.
Le proposizioni o giudizi.
Dopo aver distinto i giudizi per qualità e per quantità, Aristotele li distingue anche
per modalità, ossia secondo il modo in cui il predicato è collegato al soggetto,
distinguendo ulteriormente, in tal senso, tra giudizi di asserzione o di affermazione
(Socrate è un uomo); giudizi di necessità (è necessario che 2+2 sia uguale a
quattro); giudizi di possibilità (è possibile che il tempo diventi brutto); di
contingenza o casualità (è contingente, casuale, che il tempo sia bello); di
impossibilità (è impossibile che il cerchio sia quadrato). Lo sviluppo dello studio dei
giudizi modali ha condotto alla contemporanea "logica modale".
Esempio:
Il sillogismo dialettico.
delle idee, o meglio delle relazioni tra le idee, e quindi come la scienza più alta, per
Aristotele invece la dialettica non è scienza (non è sillogismo scientifico) ma è una
forma di ragionamento, una forma di sillogismo, più debole perché parte da premesse
non verificate come vere ma solo probabili. Tuttavia il sillogismo dialettico ha per
Aristotele un utile valore pratico. In mancanza di principi o premesse vere, il
sillogismo dialettico assume come premesse opinioni di particolare valore poiché
condivise da tutti o da coloro che sono i più autorevoli.
Dalla distinzione tra sillogismo dimostrativo e sillogismo dialettico deriva una
distinzione della logica, o meglio dell'analitica di Aristotele, in analitica apodittica
(dimostrativa), o scienza del ragionamento dimostrativo e vero, e in analitica
dialettica, o scienza del ragionamento (sillogismo) discorsivo e probabile.
La metafisica.
Che cos'è l'essere per Aristotele? In polemica con Parmenide, Aristotele afferma
che con il termine essere noi non indichiamo una sola realtà: l'essere non ha
un'unica forma e un unico significato, ma una molteplicità di aspetti e di
significati. L'essere si presenta in molti modi. Anche Platone, introducendo il
concetto di non-essere relativo inteso come "diverso", aveva ammesso la pluralità
degli esseri, ma si era fermato a riconoscere come veri esseri solo le idee, ossia gli
esseri intellegibili (che si possono cogliere con l'intelletto e non con i sensi).
Aristotele invece fa rientrare nel concetto di essere anche le cose sensibili e
divenienti, che divengono trasformandosi continuamente e che, quindi, non sono
immutabili come le idee o i concetti.
Fra i diversi aspetti e significati dell'essere, Aristotele ne individua quattro
fondamentali, che raccoglie in un'apposita tavola:
1. l'essere come categorie o essere per sè (categorie= modi generali di essere);
2. l'essere come atto e potenza;
3. l'essere come accidente (l'opinione);
4. l'essere come vero, come verità (la logica).
L'essere come vero e l'essere come accidente cadono al di fuori dell’indagine
metafisica giacché l'essere come vero è studiato dalla logica; a sua volta l'essere
come accidente, essendo l'essere fortuito o casuale, non è oggetto di scienza perché
la scienza si occupa solo di ciò che è necessario, cioè di ciò che non può essere
diversamente da come è. La metafisica si occupa invece dei due restanti significati
dell'essere, cioè l'essere come categorie e l'essere come potenza e atto.
Abbiamo visto che Aristotele, nella logica, definisce le categorie come i modi con cui
noi pensiamo e parliamo delle cose. Ma in metafisica le categorie sono anche i modi
secondo i quali le cose sono costituite e sussistono effettivamente (valore sia
logico che ontologico delle categorie). Il termine categorie deriva dal verbo greco
"categorein" che significa giudicare, attribuire significati. In particolare, per categorie
82
La sostanza.
Di tutte le categorie, la più importante è la sostanza. Solo questi infatti ha una
sussistenza autonoma, mentre tutte le altre presuppongono una sostanza e si
fondano su di essa (la qualità e la quantità sono sempre di una sostanza -un cigno
bianco e grande -; le relazioni sono sempre fra sostanze -un cigno femmina con i
cuccioli- e così via). In questo senso la sostanza è definita anche come "sostrato"
(=la base che sta al di sotto) di ogni altra categoria o modo di essere.
Dichiarando Aristotele che vi sono diversi tipi di essere (cioè di realtà), e in
particolare quattro tipi fondamentali, potrebbe sorgere il pericolo che l'essere risulti
pertanto privo di una qualsiasi unità, per cui non sarebbe più possibile una scienza
complessiva di esso, cioè la stessa "filosofia prima". Tale pericolo è però evitato,
secondo Aristotele, dal fatto che comunque una certa unità dell'essere esiste ed è
precisamente costituita, appunto, dalla dipendenza di tutte le altre categorie dalla
sostanza.
La sostanza è quindi la categoria fondamentale, ma in pratica un essere non esiste
solo come sostanza pura poiché possiede anche altre proprietà corrispondenti ad
una o più delle altre categorie: un cigno non esiste se non con un colore
determinato, con determinate dimensioni, da solo o in compagnia, in un certo luogo e
in un certo tempo, ecc. Quindi la sostanza "cigno" si precisa e si definisce
ulteriormente in base alle altre categorie, che però presuppongono e rimandano tutte
al fatto che, in sostanza, si tratta di un cigno. Senza la sostanza, senza il riferimento
a una sostanza, le altre categorie non hanno in sé esistenza autonoma e
indipendente. Un essere, una cosa, si definisce essenzialmente specificandone la
sostanza.
Questa teoria implica due importanti conseguenze:
1) l'essere si presenta in diversi modi perché diverse e molteplici sono le categorie
dell'essere; quindi l'essere non è univoco ma non è neppure equivoco (cioè senza
riferimenti) in quanto i diversi modi e significati dell'essere (di ogni singola cosa)
hanno tutti un comune riferimento alla propria specifica sostanza;
2) se l'essere si identifica con le categorie, cioè si conosce attraverso le categorie, e
le categorie si basano tutte sulla sostanza, allora la domanda iniziale "che cos'è
l'essere?" coincide con la domanda "che cos'è la sostanza?".
In altri termini, l'essere si definisce sì come categorie ma soprattutto come
sostanza. Quindi, se la metafisica è scienza dell'essere, vuol dire che essa è
83
scienza della sostanza. E la sostanza, a sua volta, è basata sul principio di non
contraddizione: una certa sostanza non può essere contemporaneamente anche
un'altra sostanza diversa.
Aristotele perviene anche attraverso un altro procedimento a stabilire che l'oggetto
più specifico della metafisica è la sostanza. Egli afferma che la metafisica deve
costituirsi in analogia alle altre scienze. Ogni scienza stabilisce i propri principi
primi, assiomi o postulati, che riguardano l'oggetto specifico di ciascuna. Allo stesso
modo la filosofia deve ridurre tutti i molteplici significati della parola "essere" ad un
significato unico e fondamentale, poiché deve considerare l'essere non come
quantità, qualità, movimento, ecc., ma proprio e solo in quanto essere. A tal fine ha
bisogno di un principio o assioma fondamentale che è il principio di non
contraddizione (è impossibile che una cosa, un essere, sia contemporaneamente e
nello stesso luogo uguale a se stesso e diverso da se stesso, oppure uguale e diverso
da un altro essere). Tale principio mostra cioè che ogni essere ha una sua propria
natura determinata che è impossibile negare e che, in questo senso, è necessaria non
potendo essere diversa da così come è. La natura necessaria di un qualsiasi essere è
appunto la (sua) sostanza: la sostanza è l'essere dell'essere, ossia il suo significato
fondamentale.
Sostanza è, per Aristotele, ogni singolo ente (cosa, individuo) che ha una
sussistenza autonoma, che cioè non è proprietà o attributo di un altro ente.
Sostanza è, per esempio, "questo uomo concreto qui", "questo cavallo qui", "questa
mela qui", ecc. Aristotele infatti chiama la sostanza anche come "il questo qui".
Più in particolare, per sostanza Aristotele intende una cosa, un ente, che:
1. è sostrato, base, di tutti gli altri modi di essere (le categorie);
2. che è sussistente di per sé, indipendentemente da altre cose;
3. che è determinato, che cioè non è una qualità generale o universale come le
specie o i generi; perciò è chiamata "sostanza prima" (ad esempio "Socrate"),
distinta dalle "sostanze seconde" relative alla specie (uomo) e al genere
(animale);
4. che è intrinsecamente unitario e non un aggregato di parti.
Ogni sostanza concreta è unione, chiamata da Aristotele, in greco, "sinolo", di due
elementi: la forma e la materia. Per forma Aristotele non intende l'aspetto esteriore
di una cosa, ma la sua intima natura, la sua essenza. L'essenza di una cosa è ciò che la
fa essere ciò che è e che la distingue da ciò che non è, ossia da ogni altra cosa o ente.
Per esempio la forma o essenza dell'uomo è l'anima razionale, la ragione, mentre la
materia dell'uomo è il corpo. La forma è l'elemento attivo che, appunto, dà una
forma specifica alla materia, mentre la materia è l'elemento passivo, che viene
determinato, modellato e strutturato dalla forma. Di conseguenza ciò che caratterizza
una sostanza è allora proprio la sua forma anziché la sua materia. Perciò Aristotele
chiama la sostanza non solo sinolo, ossia unione di forme materia, ma anche, più
brevemente e semplicemente, soltanto forma. Insomma, l'essere come categorie è
soprattutto sostanza e la sostanza è soprattutto forma, per cui vale l'equivalenza:
essere= sostanza= forma, nel senso che tali termini, nella metafisica di Aristotele,
possono essere usati come sinonimi. In effetti, se da un punto di vista empirico
84
sembra che il sinolo (unione di materia e forma) sia ciò che costituisce la sostanza, da
un punto di vista speculativo (logico, conoscitivo) la sostanza per eccellenza è la
forma, poiché è la forma che struttura e qualifica una sostanza. D’altro canto
Aristotele riconosce che vi sono anche sostanze che non sono sinolo, che non sono
cioè unione di materia e forma, ma soltanto forma, prive cioè dell'elemento materiale.
Infatti, come vedremo, Aristotele afferma l'esistenza anche di sostanze soprasensibili
nonché di Dio, che è sostanza sovrasensibile massima. Il sinolo infatti riguarda
esclusivamente le sostanze di cose concrete, sensibili.
Rispetto all'accidente, la sostanza è ente determinato e stabile in quanto essenza
necessaria di una cosa; pertanto è direttamente contrapposta all'accidente stesso, il
quale indica non già l'essenza di una cosa ma ciò che quella cosa può o non può
avere. Ad esempio Socrate come sostanza permane necessariamente un uomo, mentre
può accidentalmente essere, nei vari momenti, allegro o triste, pallido o abbronzato,
ecc. La sostanza dunque è un modo di essere necessariamente in sé e per sé, mentre
l'accidente è un modo di essere fortuito, casuale, della sostanza cui l'accidente si
riferisce.
Connessa alla teoria della sostanza è la dottrina, o teoria, delle quattro cause. Già si è
visto che una delle definizione di metafisica è per Aristotele quella di indagine sulle
cause e principi primi. Aristotele afferma che la conoscenza e la scienza nascono
dalla meraviglia di fronte all'essere ( di fronte alla realtà del mondo) e consistono nel
rendersi conto della causa delle cose. Ricercare e conoscere la causa di una cosa
significa chiedersi il perché di quella cosa. Ma sono diversi i tipi di perché che
possiamo formulare, per cui sono allora diversi anche i tipi di causa.
Aristotele elenca quattro tipi di cause:
1. la causa materiale, che è la materia di cui una cosa è fatta e che rimane nella
cosa (ad esempio il marmo è causa materiale della statua);
2. la causa formale, che è la forma, il modello, cioè l'essenza necessaria di una
cosa (ad esempio la statua del dio Apollo, la cui causa formale è di
rappresentare e celebrare tale dio; oppure l'anima razionale dell'uomo, che è
l'essenza, o forma, che lo distingue dalle altre specie o generi);
3. la causa efficiente, che è ciò che origina o produce qualcosa ed è ciò che dà
inizio al mutamento delle cose (ad esempio l'artista che scolpisce la statua, o il
padre che è causa efficiente del figlio, o la volontà che è causa efficiente delle
azioni dell'uomo);
4. la causa finale, che è lo scopo, il fine a cui le cose o le azioni tendono (ad
esempio il fine di celebrare con una statua il dio Apollo, o il diventare adulto
che è il fine del bambino).
Aristotele non ha scoperto queste cause, ma ne ha dato una definizione organica.
La dottrina delle quattro cause costituisce il più importante distacco di
Aristotele dalla teoria delle idee di Platone. Per Platone infatti la causa vera sta
85
solo nella forma, cioè nelle idee, che sono le vere cause del mondo e delle cose. Ma,
dice Aristotele, se le idee sono fuori dalle cose e separate da esse, come possono
allora essere causa delle stesse? Per Aristotele il principio o la causa delle cose
non può che risiedere nelle cose stesse, ossia nella loro forma interiore, intrinseca,
nella loro sostanza. Ad esempio "l'umanità" non è un'idea esistente nell’ Iperuranio,
ma indica semplicemente la specie biologica umana, immanente negli uomini e non
separata da essi. Le idee di Platone, dice Aristotele, sono altrettante realtà che si
aggiungono alle realtà sensibili e quindi le idee sono inutili doppioni, che
complicano anziché semplificare la spiegazione. Inoltre le idee, essendo
immutabili, immobili, non sono in grado di spiegare il movimento e il divenire delle
cose sensibili, non possono essere causa efficiente del divenire, ossia delle
trasformazioni e mutamenti che si producono nelle cose.
In sintesi, le prime due cause, quella materiale e quella formale, sono il sinolo, ossia
la materia e la forma che costituiscono le cose sensibili, ed esse sono sufficienti e a
spiegare le cose staticamente. Ma se noi vogliamo studiare le cose
dinamicamente, cioè nel loro svolgimento, nel loro divenire e mutamento, le prime
due cause non bastano. Se considero staticamente un individuo, appare chiaro che
egli è la sua materia e la sua forma e ciò basta a spiegarlo. Ma se mi chiedo "chi lo ha
generato?" e "perché è nato?", allora bisogna fare ricorso alla causa efficiente e
alla causa finale.
che avvengono in natura vanno da una materia ad una forma, d’altro canto ciò che è
forma, ossia punto di arrivo di un divenire, diventa sovente materia, ossia punto
di partenza di un divenire ulteriore. Perciò una medesima cosa può essere
considerata materia (=potenza) o forma (=atto) secondo il punto di vista da cui si
guarda il relativo movimento-mutamento (ad esempio il pulcino è potenza rispetto
alla gallina ma è atto rispetto all'uovo). Si produce cioè una catena di innumerevoli
movimenti-mutamenti che vanno da una potenza ad un atto, da una materia ad una
forma. Ma questa catena non può continuare all'infinito e presuppone quindi,
secondo Aristotele, due termini estremi: un punto di partenza primo e un punto di
arrivo ultimo. Da un lato, presuppone una materia pura ovvero, come dice
Aristotele, una materia prima che sia pura potenza, cioè senza alcuna minima
forma, assolutamente priva di determinazioni, mentre, dall'altro lato, il divenire
dell'universo presuppone, all'estremo opposto della catena dei movimenti-mutamenti
degli esseri, una forma pura o atto puro, cioè una perfezione completamente
realizzata e tale perciò che non abbisogna più di alcun altro movimento o fine a
cui tendere. Questa forma pura, come vedremo, costituisce per Aristotele la sostanza
immobile divina, ossia la sostanza più alta dell'universo, oggetto della teologia.
La materia prima di cui parla Aristotele non deve essere intesa come ciò che noi
comunemente chiamiamo materia, per esempio l'acqua, il fuoco, il bronzo, il
marmo, ecc., che non sono pura materia perché già hanno in sè, in atto, una qualche
forma, una qualche determinazione, tant'è che noi li distinguiamo uno dall'altro. La
materia prima è piuttosto qualcosa di assolutamente informe, che non è né acqua,
né fuoco, né bronzo, né marmo, ecc., ma che può diventare questo o quello.
(Corrisponde alla materia-madre di cui aveva già parlato Platone nel Timeo.) Essa è
un concetto-limite, una nozione astratta, che noi ammettiamo come base o sostrato
di ogni divenire ma che di per sé non possiamo osservare e conoscere perché ciò
che esiste al mondo è sempre materia più o meno formata, avente comunque, cioè,
una qualche forma.
sempre più perfetta. Perciò nell'universo di Aristotele non è Dio che ordina e da
forma al mondo, ma piuttosto è il mondo che, aspirando all'ordine e alla perfezione
di Dio, si auto-ordina assumendo le varie forme delle cose.
Come entità perfettissima e totalmente compiuta a Dio non manca nulla e non ha
bisogno di nulla poiché in Lui non vi è alcun scopo irrealizzato. La vita di Dio è la
più eccellente, è la vita del puro pensiero, quella della pura intelligenza, alla quale
l'uomo si solleva solo per brevi periodi, mentre Dio ne gode continuamente. Come
puro pensiero l’attività di Dio è assolutamente contemplativa ed oggetto dell'attività
contemplativa di Dio è Dio stesso; è assoluta auto contemplazione di sé. Essendo
perfetto Dio non può che pensare la perfezione stessa, ossia se medesimo: Dio non
può che pensare se stesso. Perciò è definito da Aristotele "Pensiero di Pensiero".
Come assoluta auto contemplazione di sé Dio non pensa e non contempla il mondo,
anche se certamente conosce il mondo e ne conosce i principi universali. Altrettanto,
Dio è per Aristotele soltanto oggetto d'amore, ma egli non ama il mondo o, al più,
ama solo se stesso. Il Dio di Aristotele pertanto non è Provvidenza, non si prende
cura degli uomini, ma sono gli uomini e tutte le cose che tendono verso Dio in quanto
perfezione massima. Il fatto che Dio non ami nulla al di fuori di sé si spiega con la
concezione platonica e aristotelica dell'amore, inteso come tendenza a cercare ciò di
cui si è privi. In tal senso qui l'amore si rivela sempre come una mancanza d’essere,
una mancanza di qualche cosa, per cui Dio, non mancando di niente, non può amare.
In effetti è estraneo alla mentalità greca il concetto di amore inteso come solidarietà,
come trasporto verso gli altri e come dono gratuito di sè.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la sostanza soprasensibile di Dio
come primo motore immobile non è tuttavia concepita da Aristotele come unica.
Aristotele infatti ritiene che Dio non basti da solo a muovere tutte le sfere celesti
delle quali il cielo è costituito. Dio muove direttamente il primo mobile, ossia il cielo
delle stelle fisse; ma fra questo e la Terra, secondo l'antica concezione astronomica
tolemaica, vi sono molte altre sfere concentriche, quelle dei pianeti e dei satelliti:
Aristotele ne conta 56, degradanti e rinchiuse l'una nell'altra. Che muove queste
sfere? Aristotele, come vedremo nella fisica, non ritiene che esse siano mosse
meccanicamente per moto derivante dal Primo motore immobile (Dio), ma che siano
invece mosse da altre subordinate sostanze soprasensibili, immobili ed eterne, che
suscitano il movimento in modo analogo al Primo motore.
Per Aristotele, così come per Platone e per i Greci in genere, il Divino non è Persona,
ma è sostanza soprasensibile diffusa e distribuita in molti enti ed entità: divino è il
Primo motore immobile ma anche le altre sostanze soprasensibile motrici delle sfere
celesti al di sotto della sfera delle stelle fisse; divina è anche l'anima intellettiva degli
uomini; divino è tutto ciò che è eterno ed incorruttibile. Quindi, nonostante
l'innegabile primato posseduto da Dio Primo motore immobile, anche il pensiero di
Aristotele, secondo la mentalità greca, è di tendenziale politeismo. Vicini alla
concezione delle grandi religioni monoteistiche sono invece la superiorità e
l'indipendenza assoluta di Dio Primo motore immobile rispetto all'universo, potendosi
intravedere in tal senso una forma di trascendenza. Ma dal Dio delle religioni
monoteistiche quello di Aristotele rimane tuttavia diverso per il fatto che non è
90
La fisica.
Nelle sue opere di fisica Aristotele prende dapprima in esame il fenomeno che più di
ogni altro caratterizza la natura, vale a dire il continuo mutamento-movimento
delle cose sensibili, ossia il loro continuo divenire, trasformarsi e mutare.
Aristotele definisce il mutamento-movimento come acquisizione in atto (=
attuazione) di una forma (=caratteristica essenziale) che si possiede solo in potenza (=
come possibilità di sviluppo).
Oggetto della fisica aristotelica sono, appunto, le sostanze sensibili in movimento. La
fisica di Aristotele è quindi anzitutto teoria del movimento delle sostanze
sensibili.
Per altri versi, la fisica di Aristotele è anche scienza delle forme, delle essenze, cioè
delle finalità del movimento delle cose sensibili per cui, paragonata alla fisica
moderna, quella di Aristotele è soprattutto una fisica qualitativa piuttosto che
quantitativa: è più che altro descrittiva, quasi una metafisica. In effetti, nei libri di
fisica sono abbondanti le considerazioni di carattere metafisico poiché, ritenendo
Aristotele che il soprasensibile sia causa e ragione del sensibile, il metodo di studio
applicato nella fisica è affine a quello applicato nella metafisica.
Abbiamo visto che potenza e atto riguardano le varie categorie e non solo la prima
delle categorie, cioè la sostanza. Anche il movimento, che è passaggio dalla
potenza all'atto, riguarda le diverse categorie. Le sostanze fisiche sono infatti
distinte secondo la natura del loro movimento, in particolare con riferimento
alle categorie della sostanza, della qualità, della quantità e del luogo.
Aristotele considera quattro tipi fondamentali di movimento:
1. il movimento (o mutamento) sostanziale, cioè secondo la sostanza, il quale
consiste nella generazione e corruzione delle cose;
2. il movimento qualitativo, che è mutamento o alterazione;
3. il movimento quantitativo, che è aumento o diminuzione;
4. il movimento locale, secondo la categoria del luogo, che è la traslazione da un
luogo ad un altro, cioè il movimento propriamente detto, giacché a
quest'ultimo, secondo Aristotele, si riducono tutti gli altri movimenti.
Infatti la generazione e la corruzione, così come l’alterazione, suppongono il riunirsi
in un determinato luogo o il separarsi di determinati elementi; altrettanto, l'aumento e
la diminuzione sono dovuti all'afflusso o all'allontanamento di una certa materia.
Pertanto, il movimento locale, cioè il cambiamento di luogo, è quello
fondamentale che consente di distinguere e di classificare le varie sostanze fisiche.
91
Dopo aver spiegato i principi, le cause e i tipi del movimento, Aristotele descrive
quindi la struttura dell'universo, diviso in mondo celeste, costituito dall'etere e dai
corpi celesti al di sopra della Terra, tutti caratterizzati da un moto circolare, perfetto
ed eterno, e in mondo terrestre o sublunare, costituito dai quattro elementi naturali
e caratterizzato dal moto rettilineo, che è di due specie, naturale o violento. Non solo
il mondo celeste ma anche quello terrestre è per Aristotele perfetto, unico, finito
ed eterno. La perfezione anche del mondo terrestre è sostenuta mediante il ricorso ad
argomenti di derivazione orfica e pitagorica. Secondo il concetto pitagorico che
considera il numero tre come perfetto, anche l'universo, dice Aristotele, il quale
possiede tutte e tre le dimensioni possibili (altezza, lunghezza e profondità) è
perfetto perché non manca di nulla. E se è perfetto, allora esso è anche finito, nel
senso originario di compiuto, contrapposto al concetto di infinito originariamente
inteso dalla filosofia greca come incompiuto, ossia mancante di qualcosa che può
sempre essere aggiunto. Aristotele (così come gli antichi Greci) non pensa che
92
La fisica aristotelica studia non solo l'universo fisico e la sua struttura ma anche gli
esseri che sono nell'universo, distinguendo tra quelli inanimati, privi di anima, e gli
esseri animati, dotati di anima, cui Aristotele dedica il celebre trattato "Sull'anima".
L'anima, per Aristotele, è studiata dalla psicologia, che considera una parte
della fisica in quanto l'anima è definita "forma del corpo" e quindi incorporata
nella materia fisica. Gli esseri animati, ossia i corpi viventi, sono come il sostrato
94
La conoscenza.
La sensibilità.
Costituisce il primo grado della conoscenza e la prima funzione dell'anima sensitiva.
Le nostre facoltà sensitive non sono in atto ma in potenza, sono cioè soltanto
capacità di ricevere sensazioni. A contatto con l'oggetto sensibile mediante
l'esperienza, la facoltà sensitiva, da semplice capacità di sentire, diventa sentire in
atto. Nella sensazione viene assimilata solo la forma e non anche la materia. I sensi
sono capacità di ricevere le forme (le sostanze) sensibili senza la materia, così come
la cera che riceve l'impronta dell'anello ma non la materia (ad esempio l’oro) di cui è
composto.
Aristotele passa quindi in esame i cinque sensi, ognuno dei quali consente specifiche
sensazioni (colori, suoni, sapori, ecc.). Quando un senso coglie la sostanza (la cosa)
sensibile ad esso corrispondente, allora la relativa sensazione è infallibile. Ma, oltre ai
cinque sensi specifici, Aristotele afferma che c'è un senso comune, il "sesto senso",
che svolge una duplice funzione: a) costituisce la coscienza della sensazione, cioè il
sentire di sentire, che non può appartenere a nessun senso particolare; b) percepisce
gli stimoli, le caratteristiche sensibili comuni a più sensi, come il movimento, la
quiete, la figura, la grandezza, il numero, l'unità.
L'immaginazione.
L'immaginazione è la facoltà di conservare, riprodurre o combinare le immagini di
oggetti percepiti anche indipendentemente dal permanere della loro presenza ai nostri
sensi. Sull'immaginazione si basa quindi la memoria, la fantasia e il desiderio.
Oltre a queste funzioni, l'immaginazione è capace di riunire insieme le singole
immagini di oggetti simili (ad esempio le diverse varietà di alberi visti), traendone
una rappresentazione schematica (per esempio lo schema delle caratteristiche più
frequenti riscontrate negli alberi percepiti), cioè un’immagine complessiva che
costituisce una sorta di anticipazione del concetto, ma che non è ancora tale perché
varia da persona a persona mentre il concetto ha valore universale (valido per tutti).
Perciò i concetti sono definiti anche come "gli universali".
L'intelletto.
L'intelletto elabora i dati sensibili ricevuti nonché le nostre immaginazioni
producendo i concetti veri e propri, ossia gli universali, cioè le varie forme, le
essenze, dei vari generi o specie di cose. L'intelletto è una funzione capace di cogliere
nell'immagine offerta dai sensi un'essenza intellegibile (=comprensibile), immutabile
e universale. Mediante un processo di astrazione, esso riesce ad enucleare la
forma o sostanza intellegibile delle cose (che può essere colta non dai sensi ma solo
dall'intelletto medesimo), ossia a costruire i concetti universali su cui si basa tutta la
nostra conoscenza. Per esempio, la rappresentazione schematica di albero varia da
persona a persona, secondo le specie di albero da ognuno viste. Ma l'intelletto avverte
che in quella rappresentazione schematica è potenzialmente (in potenza) contenuto il
concetto di albero, ossia ciò che vi è di essenziale in tutti gli alberi possibili, anche se
non visti.
D'altra parte anche l'intelletto, così come i sensi, è soltanto capacità di intendere e
formare l’intellegibile, ossia il concetto; anch'esso è cioè soltanto potenziale, in
potenza; non possiede in sé i concetti belli e fatti; è tabula rasa.
96
a quello della volontà. Tuttavia per Aristotele le scelte umane riguardano solo i
mezzi e non i fini: volendo raggiungere determinati fini, noi possiamo stabilire quali
sono i mezzi migliori. I fini non sono oggetto di scelta perché, secondo Aristotele, la
volontà di per sé vuole sempre il bene o ciò che appare bene. Si tratta tuttavia di una
concezione ottimistica non troppo dissimile da quella socratica, secondo cui chi
conosce il bene non può non volerlo. Ciò che Aristotele non riesce ancora ad
individuare è "il libero arbitrio", che è libertà-responsabilità di scelta degli stessi fini
e non soltanto dei mezzi. Ma i concetti di volontà e di libero arbitrio sorgeranno solo
col pensiero cristiano.
La dottrina dell'amicizia.
La politica.
Per Aristotele l'origine della vita sociale è da ricercarsi nel fatto che l'individuo non
basta se stesso, e non soltanto perché non può provvedere da solo ai suoi bisogni ma
anche perché da solo, al di fuori di una comunità, l'individuo non può giungere alla
virtù.
L'uomo per Aristotele è un "animale naturalmente politico": la vita al di fuori
della società è solo quella degli esseri inferiori (le bestie) o superiori (gli dei). Per sua
propria natura l'uomo è spinto ad aggregarsi in associazioni sempre più ampie: la
famiglia, il villaggio, la polis o Stato. Lo Stato è la forma più compiuta di società
umana, ma Aristotele non sottovaluta il ruolo dell'individuo e della famiglia. La
famiglia e il villaggio soddisfano i bisogni primari dell'uomo: la sopravvivenza
100
La retorica.
Come per Platone, anche per Aristotele la retorica non ha il compito di insegnare la
verità; essa è invece una tecnica che ha lo scopo di persuadere gli interlocutori e il
pubblico. Pertanto, deve possedere una coerenza simile a quella della logica, in
particolare a quella parte della logica che Aristotele chiama "dialettica", che si basa
sull'opinione comune anziché su elementi scientificamente fondati. Inoltre, la retorica
deve possedere anche forza di suggestione.
La poetica.
Anche per Aristotele, come per Platone, l'arte è imitazione della realtà. Tuttavia,
contrariamente a Platone, Aristotele riconosce all'arte un valore conoscitivo: è
rappresentazione dell'essenza delle cose ed aiuta a comprendere meglio l'uomo.
Oggetto dell'arte è di rappresentare, più che il vero, il verosimile, ossia non ciò che
è accaduto, come fa la storia, ma ciò che può accadere e che potrebbe o dovrebbe
essere. Quindi l'arte e la poesia hanno, come la scienza, un carattere di maggior
universalità rispetto alla storia, che invece tratta solo di fatti particolari. I contenuti
dell'arte hanno un valore universale, che non è logico ma simbolico e fantastico.
"La poesia è più filosofica ed elevata della storia": sta a metà strada.
La poetica di Aristotele, nella parte che ci è giunta, riguarda quasi esclusivamente la
teoria della tragedia: essa illustra personaggi tragici esemplari di valore universale,
positivo o negativo. Aristotele sottolinea in particolare il requisito dell'unità di
azione che la tragedia deve possedere: la rappresentazione di una tragedia deve
svolgersi con continuità, dal principio alla fine senza salti in avanti o indietro, e tutti
gli avvenimenti rappresentati devono essere collegati in modo tale che non sia
possibile sopprimerli o mutarli senza sconvolgere l'ordine complessivo della
narrazione tragica.
All'arte e alla poetica in generale ed alla tragedia in particolare Aristotele riconosce
una importante funzione di purificazione delle passioni: la "funzione catartica" (da
catarsi che in greco significa purificazione), riconoscendone dunque anche un
valore morale oltre che conoscitivo. Il poeta e il drammaturgo suscitano nello
spettatore pietà o terrore. Di fronte agli eventi pietosi o terribili rappresentati, lo
spettatore si riconosce e si identifica con essi, riflette sui propri sentimenti e si
purifica delle proprie passioni.
102
Per "ellenismo" s'intende quel periodo storico-culturale che sorge dopo la morte di
Alessandro magno (323 a.C.) e che si conclude nel 500 d.C., caratterizzato dalla
diffusione e dallo sviluppo della cultura e della filosofia greca dapprima in tutto
l'oriente (epoca alessandrina: 323-143 a.C.) e poi, dopo la conquista della Grecia da
parte di Roma, anche all'interno della stessa civiltà romana (epoca ellenistico-
romana: 146 a.C.-529 d.C.). Termina nel 529 d.C. con la chiusura dell'Accademia di
Atene ordinata dall'imperatore Giustiniano.
Con l'avvento dell'ellenismo si conclude l’epoca della cultura e filosofia greca
classica (quella di Socrate, di Platone e di Aristotele) e sorge una nuova cultura e
un nuovo modo di fare filosofia.
Dopo la morte di Alessandro Magno il suo impero viene suddiviso in tre regni
principali: quello della Macedonia, quello dell'Egitto e quello dell'Asia. In questi tre
regni si diffonde la cultura greca o ellenistica (da ciò il nome di "ellenismo"), la quale
si mescola con la cultura orientale, perdendo quindi la sua originaria specificità.
L'ellenismo diventa così cosmopolita: la civiltà e la cultura greca rimangono quelle
più diffuse, ma anche alle altre sono riconosciuti importanti elementi.
Nel primo periodo dell'età ellenistica la città di Alessandria d'Egitto, sotto la dinastia
dei Tolomei, si eleva a centro culturale-scientifico di primo ordine. Celebre è stata la
grande biblioteca creata intorno al 297 a.C. propri ad Alessandria, che ha raccolto
tutto il materiale bibliografico reperibile in Grecia e in Asia.
Nell'ellenismo la Grecia, assoggettata dai Macedoni, perde la sua indipendenza.
Quindi l'interesse culturale-filosofico che prevale non riguarda più la politica e le
virtù civili e neppure la metafisica perché cambia il concetto di sapienza. Con la
caduta delle polis greche e della loro indipendenza la filosofia non si interessa più
dei problemi politici e sociali ma dei problemi individuali e diventa quindi
individualistica. Il suo scopo principale non è più di tipo teoretico (conoscitivo) ma
pratico e morale, nel senso che la ricerca filosofica si rivolge soprattutto a soddisfare
il bisogno di felicità dell'individuo. I temi filosofici prevalenti si chiedono cioè:
Cos'è la felicità? È raggiungibile? Perché esiste il dolore? Qual è il vero piacere?
Come fare per ottenerlo? Cos'è la virtù? Come giudicare la morte? Gli dei esistono
davvero? La filosofia diventa in tal modo una sorta di medicina per curare i dubbi,
le ansie, le preoccupazioni e le paure dei singoli individui.
Tre sono le principali scuole filosofiche (indirizzi di pensiero) dell'età ellenistica:
1. lo scetticismo (=dubitare della validità della conoscenza), che vuole salvare gli
uomini dalle illusioni e ambizioni della filosofia metafisica classica, la quale
pretendeva di trovare le cause prime i fini ultimi di tutta la realtà;
2. l'epicureismo, che vuole salvare gli uomini dalle superstizioni e dalle paure di
fronte alle cose e alla morte;
3. lo stoicismo, o filosofia stoica, che vuole salvare gli uomini dalle sciocche
credenze.
103
Simile per tematiche a queste scuole è anche il cinismo, fondato da Antistene dopo la
morte di Socrate, che si propone di salvare gli uomini dalle convenzioni e falsità del
vivere insieme.
Benché differenti e contrapposte per quanto concerne i modelli di vita proposti,
comune è tuttavia il fine di queste scuole: garantire all'uomo la tranquillità dello
spirito. Il fine dell'uomo è la felicità ed essa consiste nell'assenza di turbamenti e
nel controllo delle passioni. Tutte queste scuole propongono un ideale di saggezza
indifferente alle vicissitudini della vita quotidiana e dell'esistenza.
Questa comunanza di obiettivi ha favorito l’individuazione di un terreno di incontro
su cui le diverse scuole potessero conciliarsi e fondersi. Questa tendenza fu
rappresentata dall'eclettismo (dal greco ek-lego=scegliere), consistente nel scegliere
tra le diverse concezioni filosofiche quelle migliori o ritenute più convincenti,
anziché elaborare concezioni proprie ed originali.
L'eclettismo si diffonde particolarmente nella cultura romana. Dopo la conquista
della Grecia, la cultura di Roma rimane nondimeno influenzata dalla filosofia greca
ed ellenistica, seppur adattate alla mentalità romana poco incline alle teorie astratte e
più attenta ai problemi pratici. Cosicché la civiltà romana si indirizzò a scegliere e ad
unificare in una complessiva sintesi (eclettismo) gli elementi comuni delle diverse
scuole. Come criterio di unificazione viene assunto quello del "consensus gentium",
ossia del comune accordo degli uomini su certe verità fondamentali, ammesse come
presenti nell'animo umano ed avvertite indipendentemente e prima di ogni ricerca.
L'indirizzo eclettico appare dapprima nella scuola stoica e poi è accolto altresì dalla
scuola peripatetica (quella fondata a suo tempo da Aristotele). Solo gli epicurei si
mantengono estranei all’eclettismo, rimanendo fedeli alla dottrina del maestro.
Nell'ellenismo le numerosi parti in cui era suddivisa la filosofia greca classica
sono ridotte essenzialmente a tre: 1) la logica, intesa come studio della conoscenza;
2) la fisica, intesa come descrizione complessiva della realtà; 3) l'etica, intesa come
ricerca della felicità individuale. Soltanto per quanto riguarda l'etica, tuttavia, le
filosofie ellenistiche sviluppano concezioni originali, mentre nella logica e nella
fisica riprendono in genere le concezioni elaborate in precedenza, addirittura anche
dai filosofi presocratici. Anzi, la logica e la fisica sono per lo più considerate in
funzione dell'etica, senza attribuire ad esse, più di tanto, un valore autonomo.
Scetticismo è parola che deriva dal greco e significa dubitare. Lo scetticismo infatti
dubita e nega che l'uomo possa mai conoscere la verità assoluta e definitiva delle
cose, come invece pretendeva la filosofia metafisica classica di Platone e di
Aristotele, la quale è perciò criticata come filosofia dogmatica (che pretende di essere
indiscutibile e indubitabile), come dogmatismo.
Lo scetticismo è stato fondato da Pirrone, nato a Elide (città greca) nel 365 e morto
nel 275 a.C. Egli prese parte alla spedizione di Alessandro Magno in Oriente e si recò
in India, dove rimase colpito dal modo in cui i sapienti indiani riuscivano a non farsi
impressionare dalle disgrazie nonché dal modo in cui riuscivano a sopportare dolori,
105
rimanendo altresì indifferenti davanti alle ricchezze, alla fama e alla gloria come gli
asceti.
Pertanto Pirrone si convinse che la realtà e i fatti sono relativi: che cioè non ci sono
cose vere o false, belle o brutte, buone o cattive, piacevoli o dolorose in se stesse, per
loro natura, ma che esse dipendono invece dal modo in cui noi le consideriamo; sono
le nostre abitudini, i nostri costumi e le nostre credenze che stabiliscono il valore e il
significato delle cose (per alcuni sono validi certi fatti e certe cose, per altri sono
validi fatti e cose diversi).
Quindi la conoscenza ed anche la morale sono relative. Il medesimo concetto di
"relativismo conoscitivo e morale" era pure stato espresso dai sofisti (Protagora e
Gorgia). Anche per gli scettici le cose e i fatti in se stessi sono tutti uguali, sono tutti
"indifferenti", poiché il giudizio su di essi varia da persona a persona: siamo noi che
diamo alle cose maggiore o minore importanza ma la maggiore o minore importanza
non è nelle cose.
Questo concetto di "realtà indifferenziata" è ricavato da Pirrone in parte dalla
cultura e dalla filosofia indiana, per la quale il mondo empirico, il mondo dei
fenomeni, è solo apparenza ed illusione, giacché la vera realtà sta nel principio
originario chiamato, come vedremo anche in Plotino, l'Uno-Tutto, da cui derivano
tutte le cose, ed è ricavato, dall'altra parte, dal concetto dell'Essere unico di
Parmenide, perché se tutte le cose sono tra loro indifferenti allora sono identiche, si
equivalgono, costituendo un unico Essere, un'unica e identica realtà.
Se tutte le cose sono fra di essi identiche e indifferenti, nel senso che una cosa vale
l'altra, allora anche le nostre sensazioni e le nostre opinioni non sono né vere né
false perché dipendono dal modo in cui ognuno considera le cose ed ognuno può
considerarle in modo diverso. Non è pertanto possibile conoscere una realtà e una
verità valida per tutti. La verità è invece relativa perché ad ogni opinione è sempre
possibile opporre un'opinione contraria. Non rimane allora che sospendere ogni
giudizio, non rimane cioè che rinunciare alla pretesa di giungere ad una
conoscenza infallibile.
Ciò non impedisce tuttavia di giungere alla felicità e alla tranquillità dell'animo.
Come tutte le scuole ellenistiche, anche lo scetticismo ha come scopo principale
quello di conoscere quale deve essere il tipo di vita che permette di raggiungere la
felicità. Per Pirrone e per lo scetticismo si può giungere alla felicità con il
"distacco", cioè con la rinuncia ad ogni desiderio e passione per le cose del mondo,
per i piaceri terreni, per la ricchezza, per la gloria. La felicità giunge quando le cose
del mondo diventano per noi indifferenti, senza più alcuna importanza. Se i nostri
desideri e le nostre passioni non hanno più valore, allora l'uomo riuscirà ad essere
felice anche nel dolore se ad esso non diamo importanza. Il saggio, che sa
comprendere come tutte le cose siano indifferenti, senza importanza, giunge alla
felicità attraverso "l'afasia" (la rinuncia a parlare delle cose e a giudicarle) nonché
attraverso "l’atarassia" (la mancanza di turbamenti e di ansie), cioè attraverso
l'imperturbabilità dell'anima. L'ideale di felicità per Pirrone è quindi quello
dell'ascetismo indiano, della vita ascetica, del distacco e della rinuncia nei confronti
106
delle cose del mondo, per trovare conforto solo nell'interiorità, nella quiete e
tranquillità della nostra anima.
Dopo Pirrone lo scetticismo continua per altri cinque secoli, sviluppando e
approfondendo le idee di Pirrone stesso, in parte confermandole e in parte
modificandole, ma non in modo sostanziale.
L'epicureismo.
Epicuro nasce a Samo nel 342 a.C. Da giovane si reca ad Atene per prestare servizio
militare, ma ad Atene si interessa della filosofia ed anzi fonda proprio in Atene una
sua scuola filosofica, in una casa alla periferia della città e dotata di giardino. Perciò
la sua scuola è stata chiamata il "Giardino" e i suoi discepoli sono stati chiamati "i
filosofi del giardino". Muore nel 271 a.C.
Alla scuola epicurea erano ammessi tutti coloro che volevano parteciparvi, anche se
non avevano una specifica preparazione filosofica perché tutti, secondo Epicuro, ne
hanno diritto se sono interessati alla conoscenza filosofica. La scuola era
organizzata come una comunità: il maestro e gli allievi vivevano insieme. Tuttavia
non esisteva la regola di mettere in comune le ricchezze individuali. I più ricchi però
aiutavano quelli più poveri. Nella scuola vigeva una rigorosa disciplina: Epicuro ne
era il maestro e il capo e gli allievi potevano approfondire i suoi insegnamenti ma non
criticarli.
Le caratteristiche principali dell'epicureismo sono le seguenti:
1. la realtà è tutta materiale (non vi sono sostanze spirituali) ed è perfettamente
conoscibile dall'intelligenza dell'uomo;
2. in tale realtà è possibile la felicità dell'uomo;
3. la felicità è soprattutto mancanza di dolore (aponia) e assenza di turbamenti ed
ansie (atarassia);
4. per raggiungere la felicità l'uomo non ha bisogno dello Stato e della società, ma
deve imparare solamente a bastare a se stesso (autarchia);
5. non servono quindi le città, la vita sociale, la gloria, le ricchezze e nemmeno
gli dei: la tranquillità dell'animo si trova vivendo appartati.
Per Epicuro la filosofia è la via per raggiungere la felicità, che si ottiene quando ci si
libera dalle passioni. Lo scopo principale della filosofia non è dunque conoscitivo
bensì pratico e strumentale: essa è il mezzo per giungere alla felicità. Mediante la
filosofia l'uomo si libera dalle opinioni sbagliate sul mondo e sulle cose e si libera
dalle sue paure. Anche le scienze naturali, aiutate dalla filosofia, hanno un valore
strumentale: servono a comprendere i fenomeni naturali ed altresì a comprendere gli
dei in modo da non avere più paura di essi.
107
La filosofia è quindi come una medicina contro i mali dell'ignoranza e delle false
opinioni. Essa è un tetrafarmaco, cioè un quadruplice farmaco, una quadruplice
medicina (“tetra” in greco=quattro) capace di guarire le paure e le ansie degli uomini.
In particolare la filosofia ci fa capire:
1. che non si deve aver paura degli dei, perché gli dei non si occupano delle
vicende umane; essi vivono beati nel loro mondo e non si curano degli uomini:
non si preoccupano di farci del bene ma non ci fanno nemmeno del male; non
vi è quindi alcuna provvidenza divina (provvidenza =prendersi cura);
2. che non si deve aver paura della morte, perché con la morte non sentiamo
più niente, non abbiamo più paure e dolori giacché dopo la morte non c'è
niente: o c'è la vita, e quindi la morte non c'è ed allora non dobbiamo
preoccuparcene, oppure c'è la morte, ma allora non sentiamo e non proviamo
più niente e del niente non si può aver paura;
3. che il bene può essere procurato facilmente, perché la vera felicità sta nei
piaceri semplici che tutti possono soddisfare;
4. che il male si sopporta facilmente, perché se è acuto è di breve durata oppure
se è di lunga durata allora è lieve e quindi si sopporta con facilità.
sono sempre vere e corrispondono alle cose percepite poiché sono emanate e
provengono direttamente dalle cose stesse.
La fisica.
Alla logica sensistica (basata sulle sensazioni) corrisponde in Epicuro una fisica di
tipo materialistico: non esistono realtà e sostanze spirituali nel mondo, neppure
l'anima e i sentimenti, concepiti come affezioni originate anch’esse dalle sensazioni.
Come per Democrito, anche per Epicuro gli elementi di base che costituiscono il
mondo fisico, ossia i corpi e i fenomeni naturali, sono gli atomi, i quali non si
possono percepire con i sensi (non si vedono e non si toccano) ma si giunge a
comprendere la loro esistenza col ragionamento. In effetti, dicono Democrito ed
Epicuro, i corpi materiali, le cose concrete, non si possono suddividere all'infinito,
cioè rimpicciolire all'infinito, perché allora diverrebbero non più materia,
diverrebbero un niente, ma questa è una contraddizione. Perciò vi deve essere per
forza un punto oltre il quale la materia e i corpi materiali non possono più essere
ulteriormente divisibili, rimpiccioliti. Gli elementi indivisibili della materia sono
appunto gli atomi (atomi =indivisibili).
Epicuro non basa quindi la scienza e la filosofia solo sulle sensazioni e sull'esperienza
ma anche sul ragionamento. In questo senso si dice che la filosofia epicurea non
consiste in un empirismo radicale, cioè esclusivo, perché anche il ragionamento è
importante.
109
Gli atomi si muovono nello spazio, ma allora, dice Epicuro, se è così bisogna
concludere che esiste anche il vuoto, perché se tutto lo spazio fosse occupato dai
corpi, dagli oggetti, gli atomi non potrebbero muoversi. Però, mentre per Democrito
il movimento degli atomi è vorticoso ed in tutte le direzioni, per Epicuro è invece
verticale, dall'alto verso il basso, ed è causato dal diverso peso posseduto da ogni
atomo. Si può rilevare in proposito una certa somiglianza con la teoria aristotelica dei
luoghi naturali dei quattro elementi terrestri. Muovendosi, gli atomi si incontrano e si
uniscono, cioè si aggregano, e allora nascono le cose dell'universo (le stelle, i pianeti,
le pietre, le piante, gli animali, gli uomini) oppure gli atomi si scontrano, si separano,
cioè si disgregano, ed allora le cose periscono, muoiono. Ma come fanno gli atomi
ad incontrarsi ed aggregarsi o scontrarsi e disaggregarsi se il loro movimento è
rettilineo e verticale? Epicuro risponde che ad un certo punto, non si sa quando e
non si sa dove, gli atomi deviano dalla loro traiettoria perpendicolare. La loro
traiettoria diviene obliqua e così si possono incontrare ed aggregare o scontrare e
disaggregare. Questa è la teoria della deviazione detta anche declinazione degli
atomi (in latino "clinamen"). Mentre per Democrito l'aggregazione o disaggregazione
degli atomi avviene in base a precise e necessarie leggi meccaniche, per Epicuro le
deviazione degli atomi dalla loro traiettoria perpendicolare avvengono assolutamente
per caso. Di conseguenza, la nascita e il perire delle stelle, dei pianeti, delle cose e
degli uomini è del tutto casuale. Tutto è frutto del caso. Con la teoria della
deviazione casuale degli atomi Epicuro vuole appunto far intendere che ogni cosa,
ogni realtà, non deriva da leggi necessarie, secondo predeterminati rapporti di causa
ed effetto, ma che invece ogni realtà nasce solo per caso e non per necessità.
Se non c'è necessità allora c'è libertà. Ciò significa che il mondo non è regolato da
leggi meccaniche rigorose e insuperabili, che non è regolato da un fato o da un
destino necessario, che il mondo non è diretto verso un fine, verso uno scopo
prestabilito a cui gli uomini sono sottomessi: nella concezione di Epicuro non c’è
finalismo predeterminato. Gli uomini possono rompere e vincere le leggi del
destino ed agire liberamente. Mentre per gli stoici, come vedremo, l'uomo è
inevitabilmente sottoposto ad un destino necessario, per Epicuro invece l'uomo è
artefice del proprio destino, può decidere liberamente del suo destino.
Essendo lo spazio vuoto ed infiniti gli atomi, infinite sono anche le loro possibili
aggregazioni, capaci di dare origine, perciò, ad infiniti mondi, alcuni simili al nostro,
altri diversi.
L'etica e la politica.
Mentre per Platone, ed anche per gli stoici come vedremo, la felicità dell'uomo deriva
dalla virtù, per Epicuro invece la felicità dell'uomo deriva dal piacere, dalla
possibilità di vivere sensazioni piacevoli. Ma non tutti i piaceri conducono alla
felicità: bisogna saper scegliere quali piaceri ricercare e quali invece respingere. I
piaceri smodati ed eccessivi (il troppo mangiare e bere, fare sempre festa e voler
sempre divertirsi, il ricercare sempre le ricchezze, la gloria mondana, il potere) sono
come un movimento violento, che al momento possono anche dare un gran
godimento ma che poi portano con sé turbamenti ed ansia. I veri piaceri che
conducono alla felicità sono invece quelli semplici (accontentarsi di poco) che tutti
possono provare. Essi sono come un movimento (una passione) lento, che dà quiete e
tranquillità. Il vero piacere consiste nella mancanza di dolore nel corpo (aponia) e
nella mancanza di turbamenti e di ansie nell'anima (atarassia). Il vero piacere quindi
non consiste nel fare qualcosa ma nella mancanza di dolore e di preoccupazioni.
Pertanto Epicuro non è un edonista, come molti credono; cioè non vuole vivere solo
per il piacere e provare tutti i piaceri. Il saggio è invece colui che si fa guidare dalla
ragione e ricerca solo i piaceri semplici e naturali, respingendo tutti gli altri.
La ricerca dell'imperturbabilità dell'animo, cioè della atarassia, porta il saggio a
rifuggire dalla vita politica, considerata dai Epicuro come innaturale perché
comporta continuamente dispiaceri ed ansie. L'uomo saggio è colui che vive
appartato, che non cerca il successo politico e sociale, ma se ne sta per conto suo
111
insieme ai suoi veri amici. È saggio colui che vive in modo da bastare a se stesso
(autarchia).
Questo disinteresse per la politica corrisponde allo stato d'animo degli uomini,
soprattutto dei Greci, dell'età ellenistica, i quali vivono in società governate da
monarchie assolute, in cui le polis greche hanno perso la loro libertà ed indipendenza.
Perciò, contrariamente al pensiero di Platone e di Aristotele, la legge, il diritto e lo
Stato non rappresentano più un ideale, ma valgono soltanto perché sono utili al fine
di regolare la vita sociale e per impedire che prevalga la prepotenza. L'individuo è
più importante della società e dello Stato (individualismo).
Ma l'individualismo e l'autarchia cui parla Epicuro non sono misantropia
(=avversione, fastidio nei confronti dell'umanità), perché Epicuro non ci invita a
vivere esclusivamente in maniera solitaria, come degli eremiti. Per lui è invece
importante vivere con gli amici. L'amicizia può inizialmente nascere anche allo
scopo di ottenere qualche vantaggio, ma poi diventa un piacere in se stessa, un
piacere disinteressato. I veri amici non pretendono e non chiedono nulla ma sono
contenti soltanto di stare insieme e di vivere, di pensare e di sentire nella stessa
maniera.
La logica stoica.
Come per gli epicurei, anche per gli stoici la logica è lo studio delle condizioni e dei
modi in base a cui distinguere i discorsi veri da quelli falsi e quindi del modo in cui
avviene la conoscenza.
Anche gli stoici, come gli epicurei, ritengono che il primo gradino della conoscenza
è quello che deriva dai sensi, dalle sensazioni. La mente, l'intelletto, è di per sé una
"tabula rasa", un foglio bianco che ancora non conosce niente, non possiede idee
innate; le idee della mente derivano invece dalle sensazioni. La sensazione è
un'impressione provocata dagli oggetti sui nostri sensi. I nostri sensi rimangono
impressi dagli oggetti con i quali vengono a contatto e trasmettono queste impressioni
alla mente, all'intelletto, per cui la mente riceve l'immagine, la rappresentazione
mentale dell'oggetto. Fino a questo momento la funzione conoscitiva della mente è
solo passiva: essa si limita a ricevere le immagini, le rappresentazione degli oggetti.
Ma in una seconda fase, nel secondo gradino della conoscenza, la mente diviene
attiva, perché essa valuta, giudica le impressioni e le immagini e dà il proprio
assenso, cioè riconosce come vere solo quelle immagini e rappresentazioni che
risultino evidenti e non contraddittorie, mentre non dà il proprio assenso, cioè
riconosce come false le immagine confuse, non chiare, che non corrispondono a
come stanno le cose, cioè alle sensazioni ricevute. Il criterio di verità è dunque
l'evidenza delle sensazioni.
La rappresentazione, o immagine chiara ed evidente, derivante dalla sensazione e che
riceve l'assenso della mente, è chiamata dagli stoici "rappresentazione catalettica" (=
che comprende). Le sensazioni sono sempre vere perché sono una specie di
impronta delle cose nell'anima, nella mente. In tal modo gli stoici spiegano anche
come sorge l'errore (che non deriva dai sensi i quali non ci ingannano diversamente
da come pensava Platone), che nasce quando la nostra mente dà il suo assenso ad
immagini che non corrispondono alla realtà delle cose, degli oggetti. L'errore può
stare dunque nella conoscenza attiva e mai nella conoscenza passiva.
113
La fisica.
La fisica stoica è:
1. materialistica: la realtà è costituita solo da materia animata (in movimento) e,
analogamente al pensiero epicureo, non vi sono sostanze spirituali;
2. monistica (=il contrario di dualistica o pluralistica; monismo=esistenza di un
solo ed unico tipo di realtà, dal greco monos che significa unico): esistono solo
corpi materiali e non ci sono esseri spirituali, quindi vi è un solo tipo di realtà,
perché l'essere è solo ciò che ha la capacità di agire o di partire, cioè di
compiere o di subire un'azione, proprietà queste che appartengono soltanto ai
corpi materiali; di conseguenza anche le virtù, i vizi, l'anima, il bene e il male
sono corporei;
3. panteistica (Dio è in tutta la natura, distribuito entro di essa): tutti i corpi
materiali, tutte le cose, derivano da una materia originaria indistinta, che esiste
da sempre, costituita dal fuoco o, meglio, da un soffio infuocato detto
"pneuma" (termine greco che significa, appunto, soffio, vento); le cose sono
ricavate e plasmate da questa materia originaria non da una divinità
trascendente ma dal Logos che, come abbiamo visto, è l'intelligenza che sta
dentro il mondo (immanente).
Il logos è la ragione che c'è nel mondo, che forma e anima le cose del mondo
ricavandole dalla materia originaria; anche il logos è corporeo, è forza materiale dato
che, secondo gli stoici, esistono solo corpi costituiti da materia; tuttavia l'agire,
l'operare del logos ha i caratteri del divino. Perciò la divinità, appunto, non è
trascendente (distinta e al di sopra del mondo) ma è immanente (dentro il mondo)
ed è panteisticamente diffusa in tutte le cose del mondo: Dio è in tutte le cose e
tutte le cose sono in Dio.
Il logos divino dà forma e ordine a tutte le cose del mondo perché contiene in sé i
semi di tutte le cose, dai quali tutte si generano. Per tale motivo il logos è chiamato
anche "la ragione seminale del mondo". Quello del logos è un operare necessario e
razionale: è la legge necessaria che dal di dentro anima del mondo.
Se il logos forma e dà ordine razionale al mondo, significa allora che il mondo non è
frutto del caso, come sostengono di epicurei, ma è invece il prodotto di un
progetto razionale, quello del logos stesso. Perciò tutte le cose del mondo sono
perfette e derivano necessariamente da quel progetto razionale e tutte sono rivolte ad
uno scopo, ad un fine preciso. Dunque, contrariamente agli epicurei, nel mondo non
opera un meccanicismo casuale ma un finalismo necessario: tutte le cose sono dirette
dal logos verso un fine di armonia e di ordine sempre più grande.
Se tutte le cose del mondo sono perfette, poiché derivano dal progetto razionale del
logos, ciò vuol dire anche che nel mondo non c'è veramente il male. Le sofferenze,
le ingiustizie e la morte non sono veri mali, sono solo mali apparenti e provvisori,
destinati a trasformarsi in un bene superiore. Del resto, se non vi fosse il male non ci
sarebbe nemmeno il bene, perché anche gli stoici, come Eraclito, affermano che una
cosa non può esistere se non esiste anche il suo contrario.
115
Se nel mondo vi è finalismo, allora vuol dire che c'è anche una provvidenza. Ma
tale provvidenza non è quella del Dio cristiano o comunque di un Dio trascendente
che si prende cura del mondo e degli uomini. Essa non è niente altro che l'ordine e
l'armonia universale che opera nel mondo. È il destino, il fato, che governa
necessariamente tutte le cose e a cui non ci si può sottrarre.
Poiché il mondo è costituito solamente da corpi materiali, essi prima o poi sono
pertanto destinati a perire e a ritornare nel fuoco originario. Il mondo tutto è destinato
a morire, ma poi rinasce nuovamente ogni volta esattamente come prima, con le
stesse cose, con gli stessi uomini e con le medesime vicende. È questa la dottrina
della palingenesi (della continua e nuova nascita del mondo), ovvero la teoria
dell'eterno ritorno, che nel 1800 sarà ripresa da Nietzsche.
L'etica.
L'etica è la parte più importante della filosofia stoica. Per gli stoici l'uomo è l'essere
più privilegiato dell'universo e la struttura dell'uomo corrisponde alla struttura
dell'universo: a livello di microcosmo (nel suo piccolo) l'uomo riproduce (è simile)
la struttura del macrocosmo, cioè dell'intero universo. Infatti, così come l'universo è
un grande corpo che dentro di sé tiene insieme in modo ordinato tutte le parti di cui è
costituito, anche il corpo dell'uomo tiene insieme dentro di sé ordinatamente tutte le
sue parti. Altrettanto, così come il logos, la ragione, la razionalità, dà forma e ordine
a tutte le parti dell'universo animandole, anche l'anima dell'uomo è una parte del
logos universale che anima il corpo umano. L'anima ha sede nel cuore ed è la guida,
il centro direttivo (in greco si dice che è l'egemonico=la guida) del corpo e di tutte le
sue parti. Ma, come abbiamo visto, l'anima non è una sostanza spirituale; è come
un soffio caldo diffuso in tutto il corpo, che fa muovere il corpo e ne è anche
influenzata: se il corpo è dolorante anche l'anima soffre e se il corpo sta bene anche
l'anima prova gioia. Tale influenza è per gli stoici una prova ulteriore che anche
l'anima è materiale come il corpo.
Come gli epicurei, anche per gli stoici il fine dell'uomo è raggiungere la felicità.
Tuttavia mentre per gli epicurei la felicità si ottiene attraverso il piacere, sia pur
quello semplice e naturale, per gli stoici la felicità si raggiunge invece con la virtù.
Vivere secondo virtù significa vivere secondo ragione, secondo il logos, cioè vivere
in armonia e in accordo con le leggi naturali stabilite dal logos che regola tutto
l'universo. L'animale raggiunge l'accordo con la natura attraverso l'istinto. L'uomo vi
giunge mediante l'uso della ragione.
Se la virtù è vivere secondo razionalità, allora il vizio è irrazionalità. Se la virtù è il
vero bene perché incrementa la razionalità (il logos), il vero male allora è il vizio
perché danneggia la razionalità. Di conseguenza, tutto ciò che non è virtù o vizio è
moralmente indifferente: sono perciò indifferenti, cioè né bene né male, la vita, la
morte, la ricchezza, la malattia, la povertà, ecc., insomma tutte quelle realtà che non
derivano dalla nostra coscienza ma dall'esterno e che allora la nostra coscienza, la
nostra anima o logos o ragione, non può controllare. Con ciò gli stoici vogliono
116
Il cosmopolitismo stoico.
Poiché, come si è visto, l'anima dell'uomo deriva dal logos, dalla ragione universale
che è dentro il mondo e che lo governa e gli dà ordine, allora tutti gli uomini,
avendo la loro anima una medesima origine, sono uguali fra loro, anzi tutti fratelli.
Quindi non vi è differenza fra Greci e barbari, fra liberi e schiavi, né tra le polis o fra
gli Stati. Tutti gli uomini costituiscono un'unica e generale comunità-società: tutti
sono ugualmente "cittadini del mondo". Tale è la concezione cosmopolita degli
stoici. Cosmopolitismo alla lettera significa che il mondo (il cosmo) costituisce
un'unica città (polis). Per tutti gli uomini vale la medesima legge di natura e tutti
devono essere amici tra loro (filantropia).
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LA FILOSOFIA A ROMA.
L'eclettismo e Cicerone.
La cultura e le filosofie ellenistiche, per la lunga durata nel corso dei secoli, si
estendono e gradatamente si trasferiscono dai centri della Grecia e dell'Oriente
(Atene, Alessandria, Pergamo, Rodi) alla civiltà romana e particolarmente a Roma.
La cultura romana non elabora una propria ed originale filosofia ma assorbe piuttosto
le filosofie greco-ellenistiche adattandole, come si è visto, in senso eclettico. La
tendenza all'eclettismo (scegliere tra le diverse concezioni filosofiche quelle ritenute
migliori e più persuasive) sorge fin dal secondo secolo avanti Cristo e si sviluppa
specialmente in ambiente romano, in quanto più consona allo spirito pratico e alla
valorizzazione del senso comune tipici degli antichi Romani.
Maggior esponente dell'indirizzo eclettico romano è Marco Tullio Cicerone (106-43
a.C.). Il pensiero filosofico dei Romani, in conformità con la loro indole pratica,
mostra interesse soprattutto per i problemi etici e politici nonché una nuova
sensibilità per i problemi giuridici, il che costituisce una specialità della civiltà
romana.
Cicerone considera criterio di verità il consenso (accordo) comune dei filosofi e
spiega tale consenso con la presenza in tutti gli uomini di idee innate, simili alle
anticipazioni dello stoicismo.
In fisica respinge la concezione meccanicistica degli epicurei ed il casualismo (=il
mondo e ogni evento è frutto del caso), ritenendo peraltro impossibile risolvere i
problemi della fisica a causa della loro complessità ed esprimendo perciò su questo
punto un atteggiamento scettico.
Nell'etica afferma il valore della virtù per se stessa, ma oscilla tra stoicismo ed
aristotelismo.
Afferma l'esistenza di Dio, la libertà e l'immortalità dell'anima, ma non approfondisce
questi temi metafisici.
Nel suo eclettismo Cicerone non elabora sostanziali novità, tuttavia è stato colui
che più di tutti, ed in ciò sta il suo maggior merito, ha contribuito alla diffusione e
divulgazione della cultura e della filosofia greco-ellenistica in ambiente romano.
I suoi più originali contributi stanno nell'intuizione politica secondo cui la
costituzione romana ha realizzato l'ideale platonico della costituzione mista, mettendo
insieme un elemento monarchico (i Consoli), un elemento aristocratico (il Senato) ed
un elemento democratico (i Tribuni della plebe), il che, secondo Cicerone, rende la
costituzione romana la più stabile e migliore.
Abbastanza originale è anche il suo approfondimento della dottrina stoica della
legge naturale, secondo cui tale legge è stabilita dagli dei per tutti gli uomini, è
conoscibile dalla ragione e deve costituire il punto di riferimento delle leggi positive.
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Lucrezio e l'epicureismo.
Tito Lucrezio Caro (primo secolo a.C.) è stato colui che, con il suo poema "De
rerum natura", ha maggiormente contribuito alla diffusione dell’epicureismo nella
cultura romana.
Lucrezio esprime un amaro pessimismo nei confronti della società umana, tormentata
da passioni irrazionali e da idee superstiziose. Una via di salvezza sta nella filosofia
epicurea, che insegna l'arte di appartarsi dalla vita attiva e dalle passioni, rendendo
così possibile l'eliminazione dei turbamenti e delle inquietudini degli uomini.
Lo stoicismo romano.
Seneca.
Lucio Anneo Seneca nasce a Cordova verso l'inizio dell'era cristiana e muore nel 65
d.C. per ordine di Nerone, di cui era stato per lungo tempo consigliere.
Insiste sul carattere pratico della filosofia, la quale insegna a fare più che a dire. Il
saggio è per lui l’"educatore" del genere umano. Perciò trascura la logica mentre
si occupa della fisica solo da un punto di vista morale e religioso. Per Seneca,
infatti, l'ignoranza dei fenomeni fisici è la causa fondamentale dei timori dell'uomo e
la fisica può eliminarli. Inoltre la grandezza del mondo e della divinità ci insegna a
riconoscere la nostra piccolezza. In un certo senso la fisica è superiore alla stessa
etica, perché questa ha a che fare con l'uomo e quella, invece, con la divinità che si
rivela nei cieli e nel mondo. Tuttavia né la fisica né la metafisica di Seneca
contengono elementi davvero originali.
Circa la concezione dell'anima Seneca si ispira alla dottrina platonica, distinguendo
una parte razionale e una parte irrazionale; quest'ultima è suddivisa in anima
irascibile (le passioni) e anima concupiscibile, che insegue il piacere e i desideri.
Anche per Seneca il corpo, come in Platone, è prigione dell'anima, la quale ritorna
nell'eterno con la morte del corpo.
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Epitteto.
Epitteto (50-60 a.C.; 138 d.C.) nasce schiavo e diviene liberto di Nerone. Vive a
Roma fino al 92-93 d.C., quando l'editto di Domiziano bandisce da Roma numerosi
filosofi. Si ritira a Nicopoli in Epiro, dove fonda una scuola. Non scrive nulla. Un suo
discepolo pubblica il suo pensiero col titolo le "Diatribe".
Epitteto ripartisce le cose in due classi:
1) quelle che sono in nostro potere (opinioni, desideri, impulsi, sentimenti, ossia atti
spirituali);
2) quelle che non sono in nostro potere (il corpo, gli averi, la reputazione, ossia
tutte quelle cose che non sono nostre attività spirituali).
L'uomo può giungere alla virtù mediante la ragione. La virtù è libera, ma l'uomo
può essere libero solo rendendosi indipendente dalle cose esterne che non sono in
suo potere. Egli può invece agire sulle cose che sono in suo potere e su di esse
fondare la sua libertà, modificandole e dominandole. Il suo motto è: "Sopporta e
astieniti". Il male e il bene abitano solo nelle cose che sono in nostro potere, perché
esse dipendono dalla nostra volontà. In questo senso non c'è posto per gli
"indifferenti" e per le "cose intermedie". La scelta è quindi netta e radicale. Non si
può scegliere un po' di questo è un po' di quello. Chi sceglie il corpo, i piaceri, gli
averi non solo va incontro a delusioni e contrarietà, ma perde addirittura la sua libertà
e diventa schiavo di quelle cose. La scelta morale di fondo dunque non dipende da
un astratto criterio di verità, ma da una precisa decisione individuale.
Una volta operata la scelta di fondo, le scelte particolari scaturiscono di
conseguenza. La scelta di fondo può sembrare un atto della volontà, però quella di
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IL NEOPLATONISMO E PLOTINO.
L'Uno.
principio primo, da Dio, ma senza che egli si sminuisca sdoppiandosi nella materia e
contrapponendola a sé.
Plotino prende atto della molteplicità delle cose, ma stabilisce immediatamente
come loro condizione l'unità: la molteplicità sarebbe impensabile senza l'unità, cioè
senza una comune ed unitaria origine. Persino il due presuppone l'uno. Anzi, dice
Plotino, ogni cosa, ogni ente, è tale in virtù della sua unità, al punto che, "tolta l'unità,
è tolto l'ente". In altri termini Plotino osserva che le cose del mondo sono molteplici e
differenti, però ognuna è quello che è e si distingue da ogni altra perché, pur
mutando, ciascuna conserva dentro di sé la propria unità, ossia la propria sostanza,
vale a dire la propria identità e specificità. A maggior ragione, allora, unitario deve
essere altresì il principio primo o supremo da cui tutte le cose derivano e che perciò
Plotino chiama l'Uno o l’Uno-Tutto, assimilato in quanto tale al divino. Per poter
essere principio di tutto, l’Uno deve essere anche infinito e indeterminato,
informe, perché se fosse determinato sarebbe una qualche cosa specifica, ossia, per
l’appunto, determinata, e non potrebbe essere quindi il principio, l'origine di tutte le
diverse cose. Se l’Uno è indeterminato, allora di esso non si può dire niente di
determinato, cioè non si può dire che cosa esso è ma solo che cosa esso non è. In tal
modo Plotino dà inizio a quella che in seguito sarà chiamata la "teologia negativa": è
impossibile definire Dio (l'Uno) secondo ciò che è perché questa conoscenza è
irraggiungibile per l'uomo; si può definirlo solo in base a ciò che egli non è.
Ovviamente, vi sono diversi livelli di unità: gli esseri minori hanno meno unità
(ricomprendono unitariamente in se stessi un numero minore di parti), mentre gli
esseri maggiori ne hanno di più, finché di grado in grado si giunge all'unità massima
che tutto comprende, si giunge appunto all'Uno-Tutto, da cui tutto deriva: il mondo e
la molteplicità delle cose.
Non potendosi definire l'Uno per ciò che esso è, si può tutt'al più paragonarlo all'idea
platonica del Bene. Già Platone, infatti, aveva posto l'idea del Bene al vertice del
mondo delle idee, tuttavia, secondo la mentalità greca per cui l'infinito è
l'indeterminato mentre il finito è il compiuto, il perfetto, Platone aveva di
conseguenza concepito l'idea del Bene (l'Uno secondo Plotino) come finita, come
limitata dalla sua forma ed, in questo senso, perfetta. Plotino afferma invece che
l'Uno, poiché principio di tutte le cose, è radicalmente diverso da esse. In quanto
principio del tutto e centro permanente di generazione di ogni cosa, l'Uno non può
essere limitato, finito, cioè delimitato secondo una qualche determinazione
(specificità) come vale per le cose finite; esso perciò non può essere che infinito.
Solo i filosofi naturalisti presocratici avevano parlato, prima di Plotino, di un
principio infinito (l'apeiron di Anassimandro), ma tuttavia lo avevano concepito come
realtà fisica, materiale. Plotino concepisce per contro l'Uno come infinito e
immateriale, come illimitata potenza ed energia produttrice, giungendo in tal
modo al concetto metafisico di infinito inteso come infinita ed illimitata potenza. Di
conseguenza, poiché gli esseri (le varie cose nonché l'intelligenza, il pensiero) erano
stati concepiti nella filosofia classica come finiti, Plotino pone l'Uno al di sopra
dell'essere (della realtà) e dell'intelligenza (del pensiero). In quanto infinito, l'Uno
è privo di forma e di figura (da cui sarebbe altrimenti delimitato). E poiché dove non
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c'è forma non c'è neppure essere o essenza, per tale motivo l'Uno è al di là dell'essere
e della sostanza, è cioè trascendente. Proprio perché infinito, al di fuori di ogni
delimitazione quantitativa e spazio-temporale, l'Uno, come si è visto, non può venire
definito mediante attributi finiti. Poiché l'essenza dell'Uno è quella di generare
tutte le cose, esso non è nessuna di quelle cose; non è pertanto "qualcosa": non è né
qualità, né quantità, né spirito, né anima. È il principio originario, tutto chiuso in se
stesso. È l'informe che esiste prima di ogni idea, di ogni pensiero, prima del moto e
della quiete delle cose sensibili materiali. L'Uno è l'assolutamente diverso da
qualsiasi altra cosa, per cui è l'ineffabile (=inesprimibile), al punto che, come si è
detto, di esso si può dire solo ciò che non è.
Come infinita potenza, l'Uno non è causato da niente ma si autocrea liberamente; egli
è causa di se stesso. Questo concetto dell'Uno causa di se stesso, attività auto
produttrice che crea se stesso, è assolutamente nuovo nella metafisica antica e del
tutto elevato. Platone e Aristotele non si erano mai posta la domanda del come e del
perché dell'esistenza dell'idea del Bene e del Pensiero di Pensiero (Dio), limitandosi
semplicemente a concepirli come già dati, già presenti fin dall'eternità.
Perché dall’Uno derivano le altre cose e il mondo? Perché l'Uno, che è pienamente
appagato di sè, non è rimasto in se stesso? L'Uno, dice Plotino, nella sua perfezione
non ha certo bisogno del mondo. Ma in quanto potenza ed energia illimitata egli è
sovrabbondanza di essere che trabocca automaticamente da se stesso. Da questo
traboccare derivano tutte le altre cose, quelle sensibili e quelle intellegibili (=le
idee, i pensieri, che si colgono solo con l'intelletto e non si vedono né si toccano con i
sensi). La derivazione del mondo dall'Uno (Dio) è come l'irradiarsi, il diffondersi
della luce a partire dal Sole. Discende dall'Uno un processo di emanazione (in
termini tecnici si dice di "processione") involontario e necessario. In tal senso la
generazione del mondo da parte dell'Uno, anche se in parte assimilabile al Dio
cristiano o comunque al Dio-persona, rimane atto ben diverso da quello creativo,
sempre libero e volontario, del Dio delle religioni monoteistiche. L'Uno è sì libertà
perché crea se stesso liberamente, ma il suo trasbordare è necessario ed involontario.
Il processo di emanazione dall'Uno procede in forma di cerchi successivi,
attraverso una serie di gradi di essere (di realtà) sempre meno perfetti man mano che
ci si allontana dal principio iniziale. Questa successione di gradi diversi ha però un
carattere solamente logico e non cronologico. Infatti, come il calore procede dal
fuoco ma non è posteriore ad esso, così i diversi gradi del processo di emanazione
non sono posteriori all'Uno, al principio iniziale da cui sono emanati; l'emanazione
cioè non si compie nel tempo ma è simultanea e coeterna all'Uno medesimo.
La potenza, la forza generatrice che emana dall'Uno è la prima forma di sostanza.
Però, essendo l'Uno diverso da tutte le altre cose, tale potenza non può essere la
sostanza costitutiva anche delle altre cose stesse. Ed infatti Plotino pensa ad altri due
tipi di sostanza che svolgano una funzione di collegamento, di mediazione, tra l'Uno e
la molteplicità degli enti nel mondo: 1) l'Intelletto o Spirito; 2) l'Anima del mondo o
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mentre nel mondo delle idee, dello spirito, tutto è eterno e simultaneo ed il tempo non
esiste.
Va sottolineata l'originalità della teoria plotiniana dell'emanazione, ispirata ad un
monismo razionalistico-spiritualista che si differenzia nettamente sia dalla
concezione dualistica del mondo (da una parte Dio che dà ordine al mondo e
dall'altra la materia informe, anch'essa eterna e che coesiste indipendentemente da
Dio), sia dalla concezione creazionistica (Dio crea volontariamente dal nulla il
mondo e la materia), sia dalla concezione panteistica (Dio è in tutte le cose, in tutta
la natura). La metafisica di Plotino si presenta come la prima forma di metafisica
trascendente della storia della filosofia: l'Uno (Dio) è l'unico principio della realtà
(monismo), è incorporeo ed è al di sopra e distinto dal mondo, è cioè trascendente.
Il ritorno all'Uno.
Il cosmo è concepito da Plotino come un circolo che, per emanazione, inizia con la
discesa dell'Uno nelle cose molteplici del mondo ed in particolare nelle singole anime
degli uomini. Ma l'uomo è come un pellegrino pieno di nostalgia che desidera
ritornare e ricongiungersi all'Uno, in cui si trovava la sua anima prima di cadere
nel corpo. Per Plotino infatti l'anima degli uomini preesiste ai corpi nei quali,
cadendo, si incarna. Anche in Plotino si ritrova la concezione platonica dell’anima
come carcere e tomba dell'anima.
Le anime cadono nei corpi per una duplice colpa:
1. la caduta delle anime è una necessità ineluttabile ed involontaria a causa del
processo di emanazione; ma discendendo nel corpo l'anima è presa dal
desiderio colpevole di attaccarsi al corpo in cui si incarna, distaccandosi dal
mondo intellegibile, quello dello spirito;
2. la seconda colpa, che è quella più grave, consiste nel fatto che l’anima, una
volta incarnata, si prende eccessiva cura del corpo e si mette al servizio delle
cose esteriori, terrene, dimenticando la propria origine.
Collocate fra l'Uno e la materia (i corpi) le anime, se da un lato sono attratte dalle
seduzioni del corpo, dall'altro non possono fare a meno di avvertire il richiamo
dell'Essere, dell'Uno da cui sono nate. Plotino riprende la concezione platonica della
purificazione delle anime mediante il ritorno al mondo delle idee, sostenendo però
che già su questa terra è possibile realizzare il distacco da ciò che è corporeo e
ricongiungersi all'Uno.
Anche i filosofi dell'età ellenistica insistevano sul fatto che la felicità può essere
goduta su questa terra, perfino fra i tormenti fisici, guadagnando l'atarassia, cioè
l'imperturbabilità dalle passioni. Plotino ribadisce questo concetto, ma rileva che
essere felici anche su questa terra, sia pur fra i tormenti, è possibile solo perché c'è
in noi una componente trascendente che può unirci al divino pur nella sofferenza del
corpo. Mentre per i filosofi ellenisti la felicità può essere raggiunta, mediante
l'atarassia, dentro il mondo terreno, per Plotino essa è invece possibile solo con un
saldo aggancio alla trascendenza.
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CRISTIANESIMO E FILOSOFIA.
che avverrà col Giudizio universale e col trionfo del Regno di Dio (concezione
ottimistica della storia; la storia come progresso).
Il rapporto tra fede e ragione. Abbiamo visto che per il cristianesimo la verità del
mondo e della vita non è conseguita dalla ragione ma è direttamente rivelata da Dio.
Il cristianesimo perciò è una religione che non richiede di essere compresa mediante
la ragione ma chiede di aver fede nella verità rivelata. Da ciò deriva il principale
problema che caratterizzerà tutta la filosofia cristiana-medievale: la fede è
qualcosa di irrazionale o è invece compatibile con la ragione? La ragione può essere
o no di aiuto per comprendere meglio i precetti della fede, oppure fede e ragione sono
totalmente opposte? Quale è quindi il rapporto tra fede e ragione? Alcuni filosofi
cristiani-medievali considereranno la ragione sempre distinta e subordinata alla fede,
per cui, diranno, la ragione è ancella della fede, cioè deve essere sempre al servizio
della fede. Ma per lo più i filosofi cristiani-medievali non considereranno fede e
ragione come fra di esse contrapposte. Certo, essi dicono, la fede è superiore alla
ragione per cui, se con il ragionamento si arriva a conclusioni che siano in contrasto
con la fede, non è la fede in errore bensì sono sbagliati i ragionamenti. In ogni caso la
fede non è irrazionale, anzi la ragione ci aiuta a capire meglio i precetti e le verità di
fede. Non solo, ma i filosofi cristiani-medievali trovano che molti precetti e
concezioni del cristianesimo sono stati anticipati proprio da alcuni importanti concetti
e teorie della filosofia greca ed ellenistica. Lo studio della fede attraverso la ragione,
per comprenderla meglio, fa nascere la filosofia cristiana medioevale, che durerà fino
al 1300 (XIV secolo).
LA FILOSOFIA PATRISTICA.
La Patristica è stata così denominata con riferimento ai primi "Padri della Chiesa",
cioè i primi filosofi cristiani, e dura fino al 750 d.C. circa.
Tre sono state le principali fasi e finalità della patristica:
1. difendere il cristianesimo dalle accuse e dalle persecuzioni esterne (perdura
fino al 200 d.C. circa); in ciò si sono distinti Giustino e Tertulliano;
2. chiarire e spiegare la dottrina cristiana per renderla meglio comprensibile a
tutti gli uomini e ai popoli (perdura fino al 450 d.C. circa); in tal senso già si
era distinto San Paolo ed in seguito Origene e Gregorio di Nissa;
3. approfondire e sistemare le dottrine già formulate nonché difendere il
cristianesimo dalle minacce e dalle eresie interne (perdura fino al 750 d.C.
circa). Il maggior esponente di tale fase, come anche della patristica in
generale, è stato Sant'Agostino.
In particolare la patristica ha curato:
1. l'indicazione dei testi sacri da considerare fondanti, distinguendo soprattutto tra
Vangeli autentici e Vangeli apocrifi (non autentici);
2. il consolidamento dell'organizzazione della Chiesa, individuando nel vescovo il
successore degli apostoli e la figura principale delle diverse comunità (diocesi)
cristiane;
3. la demarcazione tra dottrine ortodosse (dal greco "orthè doxa"=retta dottrina) e
dottrine eretiche, operata attraverso numerose e vivaci controversie interne e loro
conseguente soluzione mediante la ripetuta convocazione di sinodi e concili. Il più
importante fu il Concilio di Nicea, che sancì il dogma della Trinità e proclamò
eretico l’arianesimo (poiché considerava Gesù più un profeta anziché il figlio di
Dio).
Già le lettere di San Paolo costituiscono la prima chiara espressione dei capisaldi
della nuova religione: la conoscibilità naturale di Dio attraverso le sue opere; la
dottrina del peccato originale e del riscatto mediante la fede; il concetto della
grazia; il contrasto tra la vita secondo la carne e la vita secondo lo spirito.
Giustino.
Nasce in Palestina, vive nel secondo secolo, si trasferisce a Roma dove fonda una
scuola. Muore martire intorno al 165.
Giustino è considerato il primo importante esponente ed anzi il fondatore della
Patristica. Sostiene che il cristianesimo è la sola filosofia sicura ed utile e che esso è
il risultato ultimo a cui la ragione deve giungere nella sua ricerca. Considera i
filosofi prima di Cristo vissuti secondo ragione come precursori del cristianesimo.
Tuttavia, aggiunge, costoro non conobbero l'intera verità: in loro c'erano solo semi
di verità. Con tale concetto Giustino si collega alla dottrina stoica delle ragioni
seminali, su cui fonda il suo giudizio di continuità tra filosofia greca e cristianesimo
nell'obiettivo di identificare la verità cristiana con la verità filosofica.
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La Gnosi.
Nel secondo secolo sorgono numerose sette e diverse e contrastanti interpretazioni
della dottrina cristiana. Una delle più importanti è la Gnosi. Gnosi vuol dire, alla
lettera, "conoscenza", ma con tale termine si indica una forma di conoscenza mistica
riservata a pochi eletti a cui Dio si manifesta. Gli gnostici partono dalla fede nella
rivelazione, ma la fede è considerata come una scelta provvisoria, preparatoria alla
conoscenza intellettiva, anche se il raggiungimento della verità ultima è ritenuto
acquisibile più per intuizione ed illuminazione diretta anziché per via logico-
razionale.
Secondo la gnosi, tutta la realtà intellegibile (il mondo dello spirito e del pensiero) e
tutto l'universo derivano da un principio divino attraverso una serie di entità astratte,
eterne, chiamate eoni. Cristo sarebbe l'ultimo eone della serie e quindi Gesù non
sarebbe il figlio diretto di Dio bensì un'entità divina, rivestita di un corpo solo
apparente: pertanto Gesù non è nemmeno vero uomo.
Inoltre, per la gnosi coesistono dall'eternità due principi primi contrapposti: un Dio
benigno e un Demiurgo malvagio, identificato nella materia e creatore del male nel
mondo.
Per la gnosi può aspirare alla salvezza solo un'elite privilegiata di iniziati (i
discepoli) e non la totalità degli uomini anche se di buona volontà. Contro la gnosi
presero posizione i Padri della Chiesa.
Tertulliano.
Nasce a Cartagine intorno al 160. Esercita la professione di avvocato a Roma.
Convertito al cristianesimo polemizza poi contro la Chiesa cattolica e fonda una
setta propria: i "Tertullianisti".
È esponente della patristica occidentale. Mentre la patristica orientale e greca, come
nel caso di Giustino, sostiene la continuità del cristianesimo con la filosofia,
presentando la dottrina cristiana come il vero ed ultimo sviluppo della filosofia
stessa grazie alla rivelazione di Cristo, la patristica occidentale e latina, come nel
caso di Tertulliano, sottolinea l’originalità e quindi la distinzione della rivelazione
cristiana nei confronti della sapienza pagana. La rivelazione, afferma Tertulliano, si
fonda soprattutto sulla fede anziché sulla ricerca filosofica, che deve essere perciò
condannata in quanto da essa nascono soltanto eresie. Cercare dopo che si è giunti
alla fede significa precipitare nell'errore.
Origene.
Nasce nel 185 ad Alessandria; si rifugia a Cesarea per le persecuzioni di Caracalla.
Muore martire nel 254 a causa della persecuzione di Decio.
Ha elaborato il primo grande sistema di filosofia cristiana. Gli apostoli, secondo
Origene, ci hanno tramandato le dottrine fondamentali del cristianesimo ma non
anche quelle accessorie. Interpreta i passi della Bibbia in modo prevalentemente
allegorico e simbolico. In tal maniera riesce a superare le letture puramente letterali
ed antropomorfiche del Vecchio Testamento, giungendo ad un concetto
assolutamente spirituale e trascendente di Dio. Dio è superiore all'essere (a tutta la
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realtà in quanto da lui creata), alla sostanza e alle idee, poiché è assoluta Unità. Egli
è il Bene sommo in senso platonico; è bontà assoluta.
La formazione del mondo è dovuta alla caduta e alla degenerazione delle sostanze
(delle intelligenze) del mondo intellegibile create da Dio, tutte uguali fra loro ma
anche libere. Riprendendo la dottrina del Fedro di Platone, Origene prosegue nel
dire che mentre alcune di queste sostanze spirituali sono rimaste angeli, altre invece,
per loro colpa o pigrizia, ma in ogni caso per una libera scelta imputabile a loro
soltanto e non a Dio, si sono rivolte al male allontanandosi da Dio; così è cominciata
la loro caduta nel mondo. Da intelligenze angeliche quali erano diventano anime
destinate a rivestire un corpo più o meno luminoso a seconda della gravità della
colpa originaria: alcune divengono anime di corpi celesti, altre divengono anime di
uomini ed altre ancora, le più perverse, divengono demoni, diavoli.
Le anime sono tuttavia destinate a ritornare alla loro condizione di intelligenze
spirituali e a rientrare nel mondo intellegibile (sovrasensibile). Ma questo ritorno
avviene attraverso una lunga espiazione e purificazione, aiutati e illuminati
progressivamente da Cristo in cui si è incarnato il Logos, la ragione. L'uomo
rinascerà in tanti altri mondi finché non avrà espiata la sua colpa. Il tempo
dell'espiazione dipende dalla libera scelta dell'uomo, se virtuosa od ancora viziosa.
Origene ha esaltato al massimo il libero arbitrio delle creature a tutti i livelli delle
loro esistenze. Ma alla fine tutti gli esseri saranno purificati e ritorneranno a Dio. È
questa la celebre dottrina della "apocatàstasi", ossia del ritorno di tutti gli esseri allo
stato originario. Nello stadio finale sarà lo stesso libero arbitrio di ogni creatura
che, vinta dall'amore di Dio, vorrà rimanere presso di lui senza più ricadute. Si ha in
ciò una spiritualizzazione dei corpi che diventano immortali. In tal modo Origene
interpreta il mistero della resurrezione della carne.
Gli avversari di Origene gli hanno soprattutto rimproverato il posto subordinato che
egli assegna al Figlio (Gesù) rispetto al Padre. Infatti Origene, pur ammettendo che
il Figlio di Dio, che è Logos, "Sapienza di Dio", è stato generato ab aeterno dal
Padre e non creato come le altre cose, considera tuttavia una certa subordinazione
del Figlio al Padre medesimo, di cui è ministro, del quale realizza cioè la volontà.
Gregorio di Nissa.
Vissuto nel quarto secolo, è stato il maggior luminare del Concilio di Nicea, che ha
proclamato il dogma della Trinità contro l'eresia di Ario (arianesimo).
Secondo Gregorio, la Trinità di Dio deriva dalla stessa perfezione divina. Nell'uomo
la ragione è limitata e mutevole, quindi non ha sostanza e forza propria. In Dio
invece la ragione è immutabile ed eterna e sussiste come persona, ossia come Logos
o Figlio di Dio. Persona è anche lo Spirito Santo, che è amore e fa da mediatore fra
Dio e l'uomo. Il Figlio e lo Spirito Santo sono persone che procedono da Dio, che
sono con Lui coeterne e sono della medesima sostanza.
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SANT’AGOSTINO
Nasce nel 354 d.C. a Tagaste, cittadina della Numidia, in Africa, da padre pagano e
da madre cristiana. La sua formazione culturale è in lingua latina. Studia grammatica
e diventa rétore, insegnando retorica prima a Tagaste e poi a Cartagine. Da giovane
conduce una vita disordinata. In seguito cresce in lui il desiderio di conoscenza e si
convince che in essa sta la vera felicità e non nelle ricchezze e negli onori. Compie
letture di vario tipo: astronomia, musica, matematica, filosofia.
Negli anni giovanili aderisce al "manicheismo". Il manicheismo è una religione,
condannata dalla Chiesa come eretica, formulata dal principe persiano Mani (da cui il
nome di manicheismo) nel terzo secolo dopo Cristo, secondo cui nel mondo
sussistono due principi, due divinità, ossia il Bene e il Male, la luce e le tenebre, in
eterna lotta fra di essi, per cui a periodi di bene seguono sempre periodi di male e
viceversa. L’adesione al manicheismo dura ben nove anni.
Nel 383 Agostino si trasferisce a Roma per insegnare retorica. L'anno successivo si
trasferisce a Milano. Studia in particolare le opere di Platone che suscitano in lui
grande interesse. In effetti la filosofia di Agostino risulta fortemente influenzata
da quella platonica, anche se adattata alla concezione cristiana.
A Milano conosce il vescovo Ambrogio e si converte al cristianesimo,
abbandonando il manicheismo. Agostino infatti si persuade che il manicheismo non
può essere giustificabile da un punto di vista filosofico perché esso metteva in dubbio
il concetto della incorruttibilità di Dio, cioè della sua perfezione e della sua
onnipotenza, dal momento che, secondo il manicheismo, non sempre vince il
principio del bene (cioè Dio) ma periodicamente vince anche il principio del male.
Nel 387 ritorna a Tagaste dove nel 391 è ordinato sacerdote. Nel 395 viene eletto
vescovo di Ippona. Muore a Ippona nel 430, mentre i vandali assediavano la città.
L'attività filosofica e teologica di Agostino è rivolta non solo a difendere e a chiarire i
precetti della fede cristiana, ma anche a combattere le eresie e i nemici della Chiesa.
In particolare combatte contro le eresie del "donatismo" e del "pelagianesimo", oltre a
quella del manicheismo dopo averla abbandonata.
Secondo il vescovo Donato (da cui il nome donatismo), i sacerdoti e i vescovi che
durante il tempo della persecuzione di Diocleziano non erano rimasti fedeli, per
paura, alla religione cristiana non potevano poi riprendere il loro compito e ministero.
Agostino combatte contro questo punto di vista perché, egli dice, se uno ha ricevuto il
sacramento del sacerdozio le funzioni che egli celebra e i sacramenti che dispensa
rimangono sempre validi, anche se si è allontanato e separato dalla Chiesa, in quanto
il sacerdote è solo lo strumento in terra di Dio e quindi la pratica sacerdotale conserva
il suo valore anche se individualmente è divenuto indegno. Del resto, prosegue
Agostino, la Chiesa è fatta da uomini che sono anch'essi creature deboli e imperfette
come tutti.
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Mentre per Socrate e Platone la conoscenza del bene è di per sé sufficiente per non
commettere il male, per la filosofia cristiana (ed anche per le filosofie successive)
non basta conoscere il bene per farlo, ma bisogna anche volerlo fare. Dunque la
conoscenza non è sufficiente ma ci vuole anche la volontà.
Senonché, per il cristianesimo, dopo il peccato originale la volontà dell'uomo si è
indebolita. Da solo l'uomo non è più capace di fare il bene ma ha bisogno dell'aiuto di
Dio e dell'intervento della grazia divina. Invece il monaco irlandese Pelagio (da cui
il nome pelagianesimo) non credeva che il peccato originale avesse indebolito
completamente la capacità dell'uomo di fare da solo il bene anche senza la grazia
divina, pur se il compierlo è divenuto più difficile. Contro questa eresia combatte
anche Agostino. Infatti il pelagianesimo finiva col far ritenere inutile
l'incarnazione di Dio in terra per donare agli uomini la grazia e la salvezza. Per
Agostino e per la Chiesa, invece, tutti gli uomini sono condizionati dal peccato
originale, per cui nessuno è in grado di salvarsi se non interviene la grazia divina.
In merito al necessario intervento della grazia divina affinché l'uomo possa salvarsi,
la Chiesa si trova ben presto di fronte a due grosse questioni:
1. Dio concede la grazia tutti gli uomini o solo ad alcuni "eletti", da lui prescelti
in modo misterioso (predestinazione)?
2. Per salvarsi, la grazia è determinante oppure è concorrente? Cioè, per
salvarsi basta soltanto aver ricevuto da Dio il dono della grazia oppure, oltre
alla grazia, l'uomo deve diventare meritevole lui stesso della salvezza mediante
il compimento di opere buone?
Su tali questioni si esprime anche Agostino, che però non dà risposte precise perché
talvolta ritiene che Dio conceda la grazia tutti gli uomini, i quali tuttavia, per salvarsi,
devono anche dedicarsi alle buone opere (tale è la posizione prevalente della
Chiesa cattolica), mentre qualche altra volta Agostino ritiene che Dio conceda la
grazia solo a pochi eletti e che il dono della grazia sia sufficiente da solo per salvarsi
(tale è stata, in particolare, la posizione della Chiesa protestante).
Ragione e fede.
Per Agostino ragione e fede non sono in contrasto fra di esse perché derivano
entrambe da Dio, il quale non può donare agli uomini, sue creature, due facoltà
contrapposte. Ragione e fede sono strettamente unite e si rafforzano a vicenda.
Sono fra di esse complementari (si completano vicendevolmente) nel senso che
dapprima è necessaria la fede nella verità rivelata da Dio ma poi, per avere una
fede più salda, è indispensabile comprenderne al meglio i precetti, il significato e il
senso, attraverso l'uso della ragione. La fede è necessaria per credere in quei misteri
della religione che la ragione non può dimostrare, ma per tutto il resto la ragione ci
136
aiuta a spiegare e capire meglio la verità religiosa, cioè il senso del mondo e il destino
ultraterreno dell'uomo. Da ciò il celebre motto di Agostino "credo ut intelligam,
intelligo ut credam" (credo per capire e capisco per credere).
Ad Agostino non interessa conoscere il cosmo, l'essere del mondo, come invece si
preoccupava di ricercare la filosofia greca, che era soprattutto ontologia (=filosofia
dell'essere che intende indagare cosa è nel profondo la realtà). Ad Agostino interessa
soprattutto conoscere l'interiorità dell'uomo, la sua coscienza, la sua anima e il
rapporto che lega l'uomo (la creatura) a Dio (il creatore). Perciò la filosofia di
Agostino non è oggettiva, non riguarda gli oggetti esterni, ma è soggettiva, riguarda
il soggetto, cioè il problema dell'uomo, della sua coscienza o anima e della relazione
esistente tra l’anima e Dio.
Come per tutti i Padri della Chiesa (gli esponenti della Patristica) anche per Agostino
l'uomo è composto di anima e di corpo. E non solo l'anima ma anche il corpo è una
realtà positiva, perché sia l'anima che il corpo derivano entrambi da Dio e da Lui
sono stati creati. Agostino quindi non accetta la concezione negativa del corpo,
considerato carcere e tomba dell'anima, quale aveva Platone.
L'anima è legata al corpo perché essa dà vita e sensibilità al corpo stesso: funzione
vegetativa e sensitiva dell'anima. Ma l'anima umana, pur svolgendo tali funzioni
corporee, non è materiale, possiede invece un'essenza, una natura, spirituale.
L'anima vegetativa è posseduta anche dalle piante e quella sensitiva è posseduta
anche dagli animali. Ma Dio ha donato agli uomini anche l'anima spirituale, fatta a
sua immagine e somiglianza. L'elemento spirituale è quello più elevato. L'anima
umana è semplice, cioè non è composta da parti, non possiede né lunghezza né
larghezza né solidità, tutte proprietà queste che sono invece caratteristiche dei corpi
materiali. È proprio grazie ad essa che l'uomo sa pensare e ha coscienza ed
autocoscienza di sé. Ed il pensiero, la coscienza e l'autocoscienza, non sono materia
ma spirito.
Come spirito l'anima umana è immortale. Infatti:
1. l'anima per pensare e riflettere su se stessa (autocoscienza) non ha bisogno del
corpo e quindi, anche se il corpo muore, la funzione spirituale dell'anima non è
danneggiata ma si conserva;
2. l'anima è capace di conoscere la verità, sa intuire i principi primi e le leggi
universali (ad esempio l'idea di Dio, l'idea del bene, l'idea di giustizia, ecc.)
perché Dio li ha infusi ed impressi in essa. Ma poiché la verità è eterna e non
cambia mai, allora anche l'anima, che sa intuire e vedere in se stessa questa
verità e questi principi eterni, deve essere essa stessa immortale.
Circa il modo in cui le singole anime si generino, la soluzione di Agostino rimane
peraltro incerta: se cioè Dio crei ciascuna anima direttamente, ovvero se le abbia
create tutte in Adamo e da Adamo via via vengano trasmesse agli altri uomini tramite
i genitori (traducianismo). Agostino sembra preferire questa seconda soluzione in
quanto spiegherebbe meglio la trasmissione del peccato originale.
137
Se l'anima umana sa intuire e vedere entro se stessa principi e verità eterne, allora lo
scetticismo, che dubita della possibilità di raggiungere verità certe e sicure, è una
concezione filosofica sbagliata.
Infatti, dice Agostino, non è possibile dubitare e ingannarsi su tutto, perché se dubito
vuol dire allora che è certo ed indubitabile che io esisto almeno come essere che
dubita. Questa è una verità sicura e quindi non è vero che non esiste alcuna verità
certa come pretende lo scetticismo. Dice Agostino: "si fallor, sum" (se dubito, allora è
certo che esisto). Inoltre, per dubitare della verità bisogna avere già una qualche idea
della verità, poiché non si può dubitare di una cosa se non si sa nemmeno un po' cosa
possa essere. Però la verità che l'uomo può raggiungere non è creata dall'anima e
dalla mente dell'uomo, perché la verità è eterna ed immutabile mentre l'uomo è
invece imperfetto e limitato. La mente dell'uomo ha la capacità di scoprire la
verità ma non di crearla. Essa infatti esiste indipendentemente dalla mente
dell'uomo (come per Platone, anche per Agostino la bellezza, il bene, il triangolo,
ecc. (cioè le idee) esistono anche se non sono pensati, anche se non si conoscono).
Ma allora da dove ci arriva questa verità eterna ed immutabile, mentre noi siamo
invece essere finiti e mutevoli? Non certo da noi stessi, risponde Agostino, bensì da
un essere supremo, eterno ed immutabile come la verità stessa, il quale non può
essere che Dio. Questa è per Agostino la dimostrazione più convincente
dell'esistenza di Dio. Un'altra prova dell'esistenza di Dio si ricava per Agostino
dalla constatazione dell'armonia e dell'ordine dell'universo, i quali non possono che
essere stati creati da una mente superiore divina, cioè da Dio.
Ma in quale modo allora l'uomo scopre e conosce la verità se non è stata creata da
lui ma da Dio? Agostino risponde a questa domanda con la sua teoria della
conoscenza come illuminazione.
Il primo gradino della conoscenza, dice Agostino, è la sensazione: i nostri sensi
percepiscono gli oggetti e la nostra anima, cioè la nostra mente, si costruisce una
rappresentazione, cioè un'immagine mentale, degli oggetti percepiti.
Il secondo gradino della conoscenza avviene sempre ad opera dell'anima, che
trasforma in concetti (o idee) immutabili e perfetti le sensazioni, le quali sono
invece mutevoli e imperfette perché sono legate agli oggetti percepiti, i quali pure
sono mutevoli e imperfetti (i singoli alberi che vediamo sono tutti diversi l'uno
dall'altro, mentre il concetto di albero è sempre uguale a se stesso, è immutabile).
I concetti sono dunque superiori alle cose percepite mutevoli e imperfette. Ma i
concetti sono anche superiori all'anima umana perché essa, pur essendo a sua volta
superiore agli oggetti percepiti, è comunque mutevole, può commettere errori.
Quindi non può essere la stessa anima a produrre i concetti. Come fa allora
l'anima a trasformare le sensazioni in concetti se non li produce?
In proposito Agostino non può accettare la teoria platonica della conoscenza come
reminiscenza (ricordo), perché essa presuppone l'eternità dell'anima eternamente
preesistente nel mondo delle idee prima dell'incarnazione in un corpo umano. Per
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Per Agostino e per il cristianesimo non solo è possibile credere in Dio attraverso la
fede ma, come abbiamo visto, è altresì possibile dimostrarne l'esistenza attraverso la
ragione. Però dimostrare che Dio esiste non significa comprenderne anche la
natura, comprendere come egli è. Spesso abbiamo una concezione antropomorfica di
Dio, cioè immaginiamo la forma di Dio simile a quella dell'uomo. Ma Dio è
talmente superiore all'uomo che non può essere simile a lui e la mente umana è così
limitata e inadeguata che non può illudersi di comprendere quale sia veramente la
natura di Dio e dei suoi attributi, delle sue qualità. Ci è più facile sapere ciò che Dio
non è anziché ciò che egli è (si tratta di quella concezione definita come "teologia
negativa" che già abbiamo visto in Plotino).
Se la natura di Dio è spirituale, si potrà dire che la sua natura non è composta ma
semplice, ossia che Dio non è composto anche da parte di materiali ma, altresì, che
neppure è composto da altre ed ulteriori parti spirituali, perché esse allora,
mescolandosi, potrebbero modificare la natura divina, mentre Dio è invece
eternamente immutabili perché già perfettissimo e quindi non ha bisogno di alcun
cambiamento.
Però Dio si è anche incarnato, si è fatto uomo ed è disceso sulla terra; inoltre,
attraverso i profeti e la predicazione di Gesù, ci ha rivelato la verità e ci ha svelato
quindi qualcosa di sé. È perciò possibile parlare di Dio ed attribuirgli le qualità di
Essere supremo (Dio padre e creatore), di Verità (il Figlio di Dio) e di Amore
infinito (lo Spirito Santo), qualità che sono espresse nel mistero della Trinità. Ma
questa conoscenza della natura di Dio sarà sempre parziale e incompleta. Essa
semmai può essere limitatamente intuita meditando nell'interiorità della nostra anima.
La trinità di Dio.
caratteristiche di Dio, perché gli attributi sono accidentali, cioè mutevoli (si possono
o non si possono avere, oppure un certo momento si hanno e poi non si possiedono
più). Il mistero della Trinità dice invece che Essere, Verità e Amore non sono
attributi ma tre distinte persone, che tuttavia coincidono ed hanno la medesima
sostanza divina. Sono tre persone che coesistono in Dio e sono coeterne con Lui.
Per spiegare in qualche modo il mistero della Trinità Agostino fa un paragone con
l'anima umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio. L'anima è anzitutto mente
o memoria ed in ciò consiste il suo "essere"; poi essa è conoscenza di sè o
autocoscienza ed in ciò consiste il suo conoscere, la sua " verità"; infine l'anima è
amore di sè ed in ciò consiste la sua volontà di "amore". Altrettanto, Dio è anzitutto
Essere, cioè il Padre; poi è Pensiero, cioè Verità, Verbo, ossia il Figlio di Dio che
contiene in sé le idee eterne di tutte le cose; infine Dio è Amore, cioè Spirito Santo,
Provvidenza che si prende cura del mondo e degli uomini. Così come l'essere
dell'anima, la sua verità e la sua volontà di amore non sono suoi attributi ma sono
tutt'uno con essa, allo stesso modo, in Dio, il Padre in quanto Essere, il Figlio in
quanto Verità e lo Spirito Santo in quanto Amore sono persone distinte che tuttavia
compongono un tutt'uno in Dio stesso.
Il problema metafisico che aveva maggiormente tormentato gli antichi era stato
quello della derivazione del molteplice (delle plurime e diverse cose) dall'Uno (cioè
dall'Essere assoluto, dal principio primo). In che modo dall'essere, che non può non
essere, è nato anche il divenire, che implica il passaggio dall’essere al non essere e
viceversa? Nessuno degli antichi filosofi nel risolvere questo problema è giunto al
concetto di creazione, che è di origine biblica. Platone introduce il Demiurgo, che
agisce liberamente e nella volontà del bene, ma non crea bensì plasma il mondo,
utilizzando la materia a lui coeterna e ponendo come modello le idee del mondo
soprasensibile, rispetto alle quali lo stesso Demiurgo è in posizione subordinata. Per
Aristotele la materia e il mondo fisico non sono né creati né plasmati ma sono eterni,
come pure i generi e le specie delle varie cose, le quali divengono e gradatamente si
perfezionano attratte dal Primo Motore Immobile (Dio), alla cui perfezione aspirano
ad avvicinarsi. Plotino, dal canto suo, deduce le idee, il mondo spirituale delle
intelligenze, dal processo, necessario e non libero, di emanazione dall’Uno, senza
attribuire, inoltre, consistenza propria alla materia, concepita come mero esaurirsi
della traboccante potenza-energia dell’Uno.
Mentre per i filosofi antichi dal nulla non può derivare alcunché, ossia dal niente non
può nascere l’essere, la realtà, per il cristianesimo e per Agostino Dio ha creato il
mondo e le cose dal nulla mediante un libero atto di volontà e di amore: creazione
dal nulla, cioè non proveniente dalla medesima sostanza divina, come nel caso
dell’emanazione secondo Plotino, e nemmeno plasmata da qualcosa di preesistente,
come la materia originaria ed eterna secondo Platone ed Aristotele.
Infatti, spiega Agostino, una realtà può derivare da un'altra in tre modi:
140
1. per generazione, ed in questo caso deriva dalla sostanza stessa del generante,
come il figlio deriva dal padre, ed è composta della medesima sostanza;
2. per produzione o per fabbricazione, ed in tal caso la cosa prodotta deriva da
una materia preesistente;
3. per creazione dal nulla assoluto, ossia non dalla propria sostanza e nemmeno
da una sostanza esterna.
Rilevante è quindi la differenza tra generazione e creazione.
In quanto Essere primo e fondamento di tutto ciò che è, Dio è dunque il creatore del
tutto. La stessa mutevolezza del mondo dimostra che egli è l'Essere creatore,
immutabile ed eterno. Dio ha creato il mondo attraverso la Parola, il Verbo, ossia il
Logos, il Figlio di Dio. Il Logos o Figlio ha in sé le idee, cioè le forme o ragioni (i
modelli) delle cose. In conformità a tali forme o ragioni sono formate tutte le cose
che nascono e muoiono. Tali forme non costituiscono dunque, come in Platone, un
mondo intellegibile in sé, ma sono i pensieri di Dio e in Dio; costituiscono l'eterna
ed immutabile ragione (razionalità) attraverso cui Dio ha creato il mondo. Separare il
mondo intellegibile da Dio significherebbe ammettere, il che è assurdo, che Dio è
privo di razionalità nella creazione del mondo. Se le singole forme o ragioni (ossia i
modelli delle varie cose create) sono nella mente divina, significa che anch'esse sono
eterne ed immutabili.
Nello spiegare la creazione Agostino utilizza non solo la teoria delle idee ma anche
la teoria stoica delle "ragioni seminali". Dio non crea la totalità delle cose possibili
come già attuate, ma immette nel creato i "segni" o i "germi" di tutte le cose possibili,
le quali poi, nel corso del tempo, si sviluppano via via in vario modo. Questa teoria è
stata da qualcuno considerata un'anticipazione dell'evoluzionismo darwiniano, ma in
realtà è l'esatta antitesi perché le ragioni seminali hanno un carattere di pre-
determinazione della realtà che è invece del tutto estraneo alla teoria evoluzionistica,
ove il caso e le circostanze ambientali giocano un ruolo molto forte.
Alcuni Padri della Chiesa, per esempio Origene, ritenevano che la creazione del
mondo fosse eterna, non potendo essa implicare un mutamento nella volontà divina,
nel senso che solo in un certo e successivo momento temporale giunge a decidere di
creare il mondo. Il problema si presenta anche ad Agostino: "Che cosa faceva Dio
prima di creare il cielo la terra?". Ma, risponde Agostino, questa è una domanda
insensata perché prima della creazione non c'era nemmeno il tempo; esso è stato
creato col mondo. Il tempo è collegato al movimento, ma non vi è movimento prima
del mondo bensì solo col mondo. In Dio vi è invece solo eternità, che è come un
infinito presente atemporale dove non c'è né un prima né un poi. In Dio nulla è
passato e nulla è futuro perché il suo essere è immutabile, è un eterno presente.
Ma allora che cos'è il tempo? Il tempo implica passato, presente e futuro. Ma il
passato non è più, il futuro non è ancora e il presente trascorre continuamente, è un
continuo cessare di essere. E tuttavia, se il tempo non ha realtà ontologica (concreta),
come mai noi, nonostante la sua fuggevolezza, riusciamo a misurarlo? Parliamo
infatti di un tempo breve o lungo, del passato e del futuro. Come e dove effettuiamo
la misura del tempo? Agostino risponde: nell'anima. Il tempo è la misura del
movimento, ma chi misura il movimento è l'anima, la coscienza. Infatti non si può
141
certo misurare il passato in sé che non è più o il futuro che non è ancora. Ma noi
conserviamo la memoria del passato e serbiamo un'attesa per il futuro. Allora il
tempo, in realtà, esiste solo nello spirito, nell'anima dell'uomo, perché solo in essa
si mantiene la sensazione del tempo. In tal senso, dice Agostino, il tempo è
distensione dell'anima (l'anima si distende nel passato, nel presente, nel futuro), è
cioè estensione dell'anima articolata in tre stati d'animo: il passato è l'estensione
dell'anima verso la memoria delle cose passate; il presente è privo di durata ed in un
istante trapassa, ma perdura nell'anima l'attenzione alle cose presenti, per cui il
presente è estensione dell'anima verso l'attenzione; pure il futuro è estensione
dell'anima verso l'attesa delle cose a venire. Partito alla ricerca della realtà oggettiva
del tempo, Agostino giunge invece a chiarire che esso esiste invece solo nella nostra
coscienza soggettiva: fa quindi propria una concezione soggettiva e non oggettiva
del tempo.
Al problema della creazione è connesso il grande problema del male nel mondo. Se
tutto proviene da Dio, che è Bene, da dove proviene allora il male? Agostino è
uno dei filosofi occidentali che ha vissuto con maggior tormento questo problema ed
è stato il primo ad affrontarlo in modo sistematico, offrendo il più celebre tentativo di
soluzione in senso cristiano.
Riluttante a far coesistere la credenza in un Dio buono con la realtà del male,
Agostino, come si è visto, aveva in un primo tempo abbracciato il manicheismo che
in seguito abbandona.
Nell'affrontare il problema del male Agostino non poteva certo riproporre la dottrina
platonica (esposta nel Timeo), secondo cui il male dipende dalla materia primordiale
di cui è costituito il mondo, giacché tale materia è anch'essa creatura di Dio.
Agostino si richiama piuttosto allo schema neoplatonico e plotiniano, secondo cui
il male non è un essere, cioè non esiste in sé ma è invece una privazione, una
mancanza di essere. Se il mondo è stato creato da Dio, che è Bene, allora non ci può
essere il Male metafisico, ossia il Male assoluto (quello con la M maiuscola). Infatti
nel creato non ci sono cose che si possano definire come male. E’ vero che tutte le
cose del mondo sono corruttibili, cioè si guastano e periscono. Ma per corrompersi
devono essere in qualche modo un bene poiché, altrimenti, se fossero un male (il
male in assoluto) sarebbero già totalmente corrotte e non corruttibili. Solo il
positivo, e non anche il negativo, il niente, è suscettibile di corruzione. Quindi il male
metafisico, il male assoluto, non esiste perché sarebbe un non essere assoluto, ossia
un nulla, un niente. Dio, dunque, non ha creato il Male metafisico, il Male in sé, e
le cose create sono comunque un bene.
Però Agostino riconosce che nel mondo, se non c'è il Male metafisico creato in
quanto tale da Dio, esistono sia mali fisici sia mali morali, i quali tuttavia sono
mali accidentali, ossia sono sempre un male di qualcosa, sono cioè l'accidente (ciò
che può succedere) di una cosa, di una sostanza, che di per sé è bene.
I mali fisici sono di due tipi:
142
Nel 410 i Goti di Alarico compiono il saccheggio di Roma. Questo evento ridà forza
alla vecchia tesi secondo cui il cristianesimo, con la sua dottrina dell'amore per tutti,
anche verso i nemici, è stato concausa di debolezza e di dissolvimento dell'impero.
Contro questa tesi Agostino scrive il suo capolavoro "La città di Dio".
La città di Dio esprime la vita ultraterrena, ma non in modo esclusivo perché
corrisponde altresì ad un atteggiamento di vita assumibile già nell'esistenza terrena.
Agostino afferma che la vita di ogni uomo si caratterizza in base alla scelta
fondamentale che egli può compiere: scegliere di vivere secondo la carne, cioè
attaccato alle cose di questo mondo ed agli egoismi terreni, oppure scegliere di
vivere secondo lo spirito, cioè vivere per Dio e nell’amore verso di Lui.
Così è anche nella storia umana e in ogni società, a seconda che si scelga il potere,
la gloria e la potenza terrena. oppure che si scelga la carità e la solidarietà fra gli
143
uomini. Nel primo caso si genera la città terrena, quando prevale l'amore di sé
rispetto all'amore di Dio; nel secondo caso si genera la città celeste, quando la nostra
vita è uniformata all'amore di Dio. Queste due città, questi due modi di vivere la
vita individuale e sociale, sono in questa terra continuamente intrecciati. Non
vale quindi l'affermazione di chi attribuisce ad Agostino l'identificazione della città
terrena con lo Stato e della città celeste con la Chiesa.
In base alla teoria delle due città e contro coloro che imputavano al cristianesimo
la crisi dell'impero romano, Agostino mostra che i mali fisici e morali hanno
indebolito Roma già da quando il paganesimo era ancora trionfante ed il
cristianesimo non era ancora sorto.
Sulla terra le due città sono sorte con Caino ed Abele e sono da loro simboleggiate.
Altrettanto, Roma è sorta con il fratricidio di Romolo da parte di Remo. Le stesse
virtù dei romani sono solo apparenti, poiché non è possibile la vera virtù senza Cristo
e l'amore di Dio. Su questa terra il cittadino della città terrena sembra essere il
dominatore; il cittadino della città celeste, invece, è come un pellegrino. Ma il
primo è destinato all'eterna dannazione, il secondo all'eterna salvezza.
Guardando alla storia di Israele, Agostino distingue tre periodi nel corso della storia
umana secondo il grado del processo spirituale:
1. nel primo periodo gli uomini vivono senza leggi e non vi è ancora rinuncia ai
beni materiali del mondo, che distolgono da Dio;
2. nel secondo periodo gli uomini vivono sotto la legge, combattono contro i vizi
del mondo ma sono vinti, perché ancora non ispirati dalla rivelazione e dalla
grazia divina: è il periodo in cui emerge il valore dei grandi filosofi pagani,
come Socrate, Platone, Plotino, ma che non sono ancora illuminati da Dio;
3. il terzo periodo è quello dell'avvento della rivelazione e della grazia divina, in
cui gli uomini possono combattere il mondo e vincerlo, facendo prevalere
anche su questa terra il modello della città celeste.
Si manifesta in Agostino il nuovo senso della storia tipico del cristianesimo in
contrapposizione alla concezione ciclica della storia tipica della mentalità greca
antica, secondo cui lo svolgimento della storia è sostanzialmente concepito come
decorso circolare, destinato a ripetersi ciclicamente.
Presso i Greci non troviamo ancora una filosofia della storia. Per loro il mutamento
storico si presenta come una deviazione accidentale dall'essenza e dalla forma
permanente della realtà e dell'essere, cui è soprattutto rivolto il loro interesse.
Agostino e il cristianesimo perseguono invece una visione lineare e progressiva
della storia: ogni avvenimento storico è in sé unico ed irripetibile e il corso della
storia non ritorna ciclicamente indietro, ma ha un inizio, una direzione ed un fine, uno
scopo finale: il Giudizio universale e la resurrezione.
La concezione lineare della storia sta alla base di tutte le successive filosofie della
storia, secondo cui nella storia umana, nonostante la diversità degli avvenimenti, è
comunque possibile individuare un senso, un ordine o un disegno complessivo,
alternativamente concepito come immanente o trascendente: nella storia opera cioè
una provvidenza, un progetto universale. Secondo alcuni esso è insito ed immanente
nelle leggi interne stesse dello sviluppo storico, mosso dalla ragione, dallo spirito, o
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dalla lotta di classe; secondo altri tale progetto è invece stabilito da un essere
trascendente, cioè da Dio, che agisce nella storia attraverso la Provvidenza divina.
La filosofia della storia, che ha avuto un forte sviluppo specie nell'Ottocento, è stata
poi messa in discussione dalla filosofia del Novecento.
Secondo la visione cristiana e agostiniana, l'andamento lineare e progressivo della
storia è affermato sostenendo che:
1. una sola volta Cristo è nato, ha patito ed è morto sulla croce;
2. una sola volta a ciascuno di noi è dato di nascere, di vivere e di morire (non
c'è metempsicosi);
3. dopo il martirio di Cristo, che ha riscattato l'umanità dal peccato originale, si
è aperto nel mondo un futuro di speranza e di salvezza (ottimismo teologico e
storico: la storia è progresso).
Dopo Agostino la Patristica proseguirà fino al 750 circa, tuttavia senza più formulare
teorie nuove ed originali. In Oriente si riduce a dispute teologiche di politica
ecclesiastica, che perdono quindi ogni valore filosofico. In Occidente crolla la civiltà
romana e la cultura sotto i colpi dei barbari che hanno invaso ormai tutte le province
dell'Impero. La cultura vive a spese del passato e non ci sono più nuove elaborazioni
culturali e filosofiche.
In Occidente vale la pena di ricordare l'opera di Severino Boezio (480-525), filosofo
romano, che contribuì a far sopravvivere nel Medioevo una parte della filosofia
antica. Egli infatti tradusse in latino tutte le opere di logica di Aristotele, compose
numerosi opuscoli teologici nonché uno scritto filosofico intitolato "De consolazione
philosophiae". In questo scritto Boezio si ispira a concetti neoplatonici e stoici.
Afferma che la felicità dell'uomo non consiste nel bene del mondo ma in Dio. Discute
del problema della provvidenza e del fato e della loro conciliazione con la libertà
umana, se cioè siano da considerare in contrasto oppure compatibili con la libertà
dell'uomo.
Quello di Boezio è un platonismo eclettico: da Platone ricava il concetto di Dio come
sommo Bene; da Aristotele il concetto di Dio come primo motore immobile; dagli
stoici il concetto della provvidenza e del fato. Sebbene cristiano, la sua filosofia è per
lo più di impostazione neoplatonica. Boezio rappresenta, nella sua persona, il
passaggio dalla filosofia antica a quella medievale: è l'ultimo dei filosofi romani e il
primo dei filosofi scolastici.
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LA FILOSOFIA SCOLASTICA.
A partire dal 13º secolo sorgono le prime Università degli Studi, a Parigi e a
Bologna.
Nel corso dei sette secoli di durata, si suole suddividere la Scolastica in quattro
fasi:
1. La prima scolastica, detta anche pre-scolastica, che va dall'ottavo al nono
secolo: sorge dapprima in un ambiente di decadenza culturale ma poi, con la
rinascita carolingia e l'instaurazione del Sacro Romano Impero, prende avvio la
restaurazione delle scuole e quindi della cultura. È affermata l'identità di
ragione e fede nei termini di un'assimilazione della prima alla seconda. Il
principale esponente di questa prima fase è Giovanni Scoto Eriugena.
2. La seconda fase, detta anche alta scolastica, va dal 10° al 12º secolo. È l'età
della riforma monastica, del rinnovamento politico della Chiesa con la lotta per
le investiture, delle crociate e dell'incipiente civiltà comunale. Il problema del
rapporto tra ragione e fede comincia ad essere approfondito sulla base della
potenziale antitesi dei due ambiti. I maggiori esponenti sono Anselmo
d'Aosta, Pietro Abelardo, nonché le cosiddette Scuola di Chartres e la
Scuola di San Vittore. Appartiene a questo periodo la famosa disputa sugli
"universali".
3. La terza fase è quella della fioritura della scolastica, dell'età aurea, che si
svolge nel 13º secolo. Sono elaborati i grandi sistemi scolastici. La ragione e la
fede, pur distinte fra di esse, vengono concepite come armonicamente
conducenti a medesimi risultati. Le figure di rilievo sono quelle di
Bonaventura da Bagnoregio, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino,
Giovanni Duns Scoto.
4. La quarta fase, che copre il 14º secolo, è segnata dal dissolvimento della
scolastica e dal divorzio tra ragione e fede, considerati ambiti eterogenei e non
conciliabili. Si dubita che vi sia corrispondenza tra ragione e fede,
distinguendo la fede da una parte, con una propria autonomia ed indipendenza,
e la ragione dall'altra, con una sua propria e differente autonomia e
indipendenza. Figura di rilievo è Guglielmo di Ockham.
Con Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone viene altresì elaborata, intorno al 13º
secolo, una filosofia medievale della natura ad indirizzo sperimentale,
anticipatrice della filosofia della natura rinascimentale e della successiva rivoluzione
scientifica.
147
Giovanni Scoto Eriugena (810-880) è chiamato verso l'847 presso la corte di Carlo
il Calvo ed è posto a capo della scuola palatina. Influenzato dal neoplatonismo, tenta
un'interpretazione del dogma cristiano in termini neoplatonici.
La sua opera principale è intitolata "De divisione naturae". Col termine natura egli
intende la totalità del reale, sia sovrannaturale che naturale, suddivisa in quattro
specie secondo un processo, appunto, di divisione, destinato poi ad unificarsi in un
unico tutto mediante un processo chiamato, a sua volta, di risoluzione. L'insieme dei
due processi è concepito e denominato come dialettica.
Le quattro specie in cui la natura (la totalità del reale) si divide sono:
1. natura che non è creata e che crea: è Dio. Poiché perfettissimo e
assolutamente trascendente, Dio non è conoscibile (teologia negativa). Egli è al
di sopra di ogni attributo (proprietà, caratterizzazione), per quanto grande, che
possa essere concepito dalla mente umana, limitata e finita: Dio è
superessenza, superverità, superpotenza, superbontà.
2. Natura che è creata e che crea: è il Logos o Figlio di Dio; è la sapienza di
Dio, coeterno e coessenziale al Padre. Dio non sarebbe tale se non fosse
dall'eternità generatore del proprio Logos o sapienza. Nel Logos sono
contenute le idee, le essenze, i modelli di tutte le cose, chiamati anche
predestinazioni o divine volontà, ad imitazione delle quali le cose saranno
formate. Queste essenze sono eterne ed immutabili. A differenza delle idee
platoniche non costituiscono soltanto un modello ma sono anche cause
efficienti delle cose e degli individui. Chi trasforma questi modelli in cause
efficienti è lo Spirito Santo, che è quindi causa della divisione, moltiplicazione
e distribuzione nel mondo, secondo i diversi generi e specie di cose, delle
essenze o idee unitariamente contenute nel Logos. Quella dello Spirito Santo
non è propriamente la creazione materiale delle cose quanto invece la
trasmissione ad esse della loro sostanza ed essenza, ossia del loro invisibile
sostrato che va a costituirne la specificità.
3. Natura che è creata e non crea: è il mondo, creato dal nulla nello spazio e
nel tempo da Dio. Esso è perciò manifestazione di Dio (in greco “teofania”).
4. Natura che non è creata e non crea: è Dio come termine finale cui tutte le
cose sono destinate a ritornare. L'aspetto sensibile, molteplice e caduco delle
cose, cioè la materia, è espressione del peccato originale. Ma il senso ultimo
del mondo è nell'uomo (nell'uomo è rappresentato in sintesi il cosmo intero), la
cui sostanza è nell'anima di cui il corpo è lo strumento. Ad imitazione del
Figlio di Dio, incarnatosi e risorto, l'uomo è chiamato, con tutte le cose e con la
resurrezione anche dei corpi, a ritornare a Dio con la fine del mondo. Allora
Dio sarà tutto in ogni cosa, nel senso che ogni cosa sarà presso Dio. Dopo il
processo di divisione ad opera dello Spirito Santo, si compie qui il processo di
risoluzione.
La dottrina di Scoto, che identifica natura e Dio, può sembrare panteismo. In realtà,
se è vero che il mondo è assimilabile a Dio, poiché le essenze delle cose sono
148
impresse in esse dallo spirito Santo, ed in quanto tali sono partecipi della sostanza
divina, tuttavia Dio non è assolutamente identico al mondo: Dio trascende il mondo;
è creatore e persona distinto dalle creature.
Scoto proclama una stretta corrispondenza fra pensiero e realtà (i pensieri delle cose
rispecchiano fedelmente le cose stesse) poiché entrambi derivano dalla medesima
sapienza divina. Con ciò egli contribuisce in modo rilevante alla rivalutazione della
ricerca logico-filosofica e sottolinea la necessità di appellarsi alla ragione per
spiegare e chiarire controversi e tesi contrapposte della dottrina religiosa.
Con la sua concezione dialettica del processo di divisione-risoluzione della natura,
Scoto va oltre al concetto di logica concepita come semplice tecnica del linguaggio.
La dialettica viene intesa non solo in senso logico ma ontologico, come la struttura
stessa della realtà nel suo farsi. La dialettica è innanzitutto un'arte divina. Per questo
gli uomini scoprono (ma non creano) la dialettica quale strumento di comprensione
del reale e di ascesa a Dio. In tal modo Scoto supera la distinzione tra religione e
filosofia: la vera filosofia non è altro che la religione e viceversa.
Molti dei motivi del pensiero di Scoto vengono ripresi dalla scolastica successiva e
soprattutto dal Rinascimento: il concetto della deificazione dell'uomo, cioè del suo
congiungersi con Dio nell'estasi, sarà ripreso dalla mistica medievale, mentre il
concetto della superiorità dell'uomo su tutte le creature (l'uomo riassume in sé il
cosmo) sarà ripreso dal Rinascimento, specie da Pico della Mirandola.
Infine, con riguardo alla filosofia della natura, Scoto nega che i cieli siano composti
di una sostanza ingenerabile e incorruttibile, ossia l’etere, come voleva Aristotele.
Tale negazione si troverà poi di nuovo solo in Nicolò Cusano nel 15º secolo.
149
Dialettici e antidialettici.
Fede e ragione.
Anche per Anselmo, come per Agostino, vi è accordo tra fede e ragione. Pur
ritenendo che la fede sia superiore, è tuttavia convinto che fede e ragione non siano in
150
contrasto. Il suo motto è infatti "credo ut intelligam" (credo per capire meglio). Non
si può capire perché c'è il mondo e la vita se non si ha fede, ma occorre dimostrare e
spiegare meglio la fede con argomenti razionali (con il ragionamento). Certo, precisa
Anselmo, qualora su di una questione dovesse sorgere un contrasto tra fede e ragione,
bisognerebbe allora far prevalere la fede, ma Anselmo è persuaso che un tale
contrasto non vi sia perché anche la ragione, come la fede, deriva dalla medesima
illuminazione divina. La stessa esistenza di Dio è infatti, per Anselmo, una pura
verità di ragione, che la ragione può cioè dimostrare da sola, con le sue sole forze,
senza bisogno di rivelazione, la quale ci svela invece gli attributi e i precetti divini.
Nel Monologion, come detto, dà dimostrazioni dell'esistenza di Dio a posteriori
(partendo cioè dalle cose, dal creato, che è posteriore a Dio), per risalire quindi a Dio
con l'argomento dei gradi: vi sono molte cose buone nel mondo ma tutte hanno un
grado maggiore o minore di bontà. Vi deve essere allora, sopra le cose, una bontà
assoluta, cioè un bene assoluto da cui deriva la maggiore o minore bontà delle cose
del mondo. Questo bene assoluto è Dio. Lo stesso ragionamento si può fare per ogni
altro valore o perfezione esistenti nel mondo (per i diversi gradi di grandezza, di
perfezione, di causa efficiente): tutti rimandano al Valore e alla Perfezione assoluta
che è Dio.
Tuttavia, rispetto alle prove a posteriori dell'esistenza di Dio, quella più famosa
fornita da Anselmo, espressa nel Proslogion, è la cosiddetta prova a priori o prova
ontologica.
È a priori ed ontologica perché non parte dall'osservazione e dall'esperienza
sensibile delle cose ma invece, in modo a priori, ossia prima dell'esperienza, parte dal
concetto, dall'idea di Dio, cioè dall'analisi dell’essenza ontologica di Dio (ontologia=
filosofia dell'essere, dell'essenza delle cose) per giungere a dimostrarne l'esistenza. E
quale è il concetto, l'idea che noi abbiamo di Dio? È certamente quella di un Essere
perfettissimo, che possiede tutte le perfezioni, che possiede tutto. Allora, se l'idea di
Dio è quella di un Essere che possiede ogni perfezione, al quale non manca nulla,
Egli deve possedere per forza anche l'esistenza, deve per forza esistere, altrimenti
non potremmo pensare a Dio come Essere perfettissimo.
Questa prova ontologica e a priori dell'esistenza di Dio è in particolare rivolta nei
confronti degli atei, che Anselmo chiama insipienti. Gli atei, dice Anselmo,
affermano che Dio non c'è, però anche per gli atei la parola "Dio" significa Essere
perfettissimo. Anche l'ateo ha questa idea di Dio pur non credendo che esista. Ma in
questo modo, dice Anselmo, l'ateo si contraddice, perché non può avere l'idea di un
essere perfettissimo, al quale non manca nulla, e contemporaneamente dichiarare che
gli manca all'esistenza, che non esiste. Quindi l'ateo si sbaglia.
Tale prova ontologica dell'esistenza di Dio non ha trovato però d'accordo tutti i
filosofi, sia contemporanea ad Anselmo sia successivi. Hanno accettato questa prova
Alberto Magno e Bonaventura di Bagnoregio nel Medioevo ed in età moderna
Cartesio, Spinoza, Leibniz ed Hegel. Ma già un filosofo-teologo contemporaneo di
151
Anselmo, il monaco Gaunilone, l’ha criticata affermando che, pur avendo l'idea di
Dio come essere perfettissimo, non si può per questo concludere che egli debba
allora, necessariamente, anche esistere, così come dall'idea di un'isola perfettissima o
di un cavallo alato non deriva per forza anche l'esistenza di tale isola o di tale cavallo.
In effetti, non si può passare direttamente ed automaticamente dal piano delle idee al
piano della realtà, sostenendo che le idee che passano nella mente, anche le migliori e
più logiche, esistono necessariamente anche nella realtà. Per dire con sicurezza che
ad una mia idea corrisponde una realtà concreta devo prima verificarla
sperimentalmente, ossia posso dire che un'idea esiste anche nella realtà solo se vedo e
tocco concretamente una cosa corrispondente a tale idea, ma Dio non si vede e non si
tocca (questo ad esempio sarà l'argomento usato da Kant nell'affermare che la prova
ontologica di Anselmo non ha valore).
Con la sua critica il monaco Gaunilone non vuole negare l'esistenza di Dio, vuole
semplicemente affermare che l'esistenza di Dio è questione di fede e non di
dimostrazione e che sono comunque preferibili le prove a posteriori dell'esistenza di
Dio (risalendo cioè dalle cose del mondo, ossia dagli effetti, alla loro causa prima che
è Dio).
Anche lo stesso Tommaso d'Aquino, come vedremo, non accetta la prova ontologica
a priori di Anselmo, ma fornisce invece prove a posteriori, simili a quelle fornite da
Aristotele.
Il pensiero teologico.
perdere tale rettitudine diventando schiava dei vizi. Ma anche in questo caso la
volontà conserva la sua libertà, cioè quell'istinto di rettitudine, di giustizia, in cui la
libertà consiste e che, mediante l'aiuto e la grazia di Dio, consente di liberarsi dal
peccato e riprendere la strada del bene. Col peccato si allontana dall'uomo l'istinto
della giustizia e l'uomo non può riacquistarlo se non con la grazia divina, la quale
soltanto restituisce all'uomo l'esercizio attivo della sua libertà. Ma questa libertà non
può essere tolta l'uomo, rimane conservata in lui. Non la toglie neppure la prescienza
divina. Dio prevede certamente tutte le azioni umane, buone o cattive. Ma per sua
volontà lascia all'uomo libera scelta circa le proprie azioni. Quindi, nel predestinare
gli eletti alla vita eterna e i malvagi alla dannazione, Dio non compia alcun atto
ingiusto; non predestina nessuno contro la sua volontà, salvando solo coloro di cui
prevede il retto volere. Il peccare o non peccare rimane un atto umano di libera
volontà giacché tale libertà è prevista da Dio stesso. Dio non predestina alla
salvezza facendo violenza alla volontà dell'uomo poiché, in tal caso, Dio verrebbe
meno alla ragione per cui ha creato l'uomo libero e quindi responsabile delle sue
azioni, responsabilità in cui consiste, in ultima analisi, la sua superiorità rispetto alle
altre creature. La salvezza rimane in potere del predestinato, dell'uomo; pertanto la
predestinazione non toglie o diminuisce la libertà umana. Ciò non significa sostenere
che l'uomo sia autosufficiente e che non abbia bisogno, quindi, dell'aiuto di Dio e
della grazia divina per raggiungere la salvezza. La grazia rimane un dono. Ma
l'accoglimento di tale dono dipende da una libera adesione.
Anselmo tratta anche dell'essenza di Dio, cioè della sua natura, affermando che Dio
è la somma essenza, cioè il puro essere esistente di per sé e creatore di tutte le cose
dal nulla. Dio, pensando se stesso ed esprimendo tale pensiero in parola, genera il
Verbo (il Figlio), nel quale risiedono le idee eterne, i modelli perfetti delle cose.
Dall'amore intercorrente tra Dio e il suo Verbo, cioè tra il Padre e il Figlio, procede
poi lo Spirito Santo, custode della Chiesa e consolatore degli uomini. In tal modo
Anselmo ritiene di aver dimostrato razionalmente il mistero della Trinità. Altrettanto,
per quanto concerne il mistero dell'incarnazione Anselmo afferma che Dio si è fatto
uomo perché solo un uomo poteva espiare la colpa (il peccato originale) commessa
da un uomo (Adamo) e solo Dio poteva espiare una colpa commessa contro Dio.
153
non già il loro aspetto esteriore, visibile, bensì la forma o essenza che caratterizza e
distingue ogni genere ed ogni specie dagli altri generi e specie; ad esempio, l'essenza
che caratterizza l'uomo non è il suo aspetto esteriore, variabile da individuo a
individuo, ma la sua anima razionale, la sua razionalità; è tale forma od essenza che
distingue infatti l'uomo, che pure appartiene al genere animale, da ogni altra specie di
animali; tale essenza razionale è comune e identica in tutti gli uomini ed esiste
realmente dentro e al di sotto dell'aspetto esteriore di ciascuno, che è puramente
accidentale, casuale; il realismo moderato insomma, a differenza di quello estremo,
riconosce pienamente, e non come grado inferiore, la realtà degli individui (delle
singole cose e persone), che perciò, pur scorgendo in ciascun individuo la presenza di
un'essenza (sostrato) universale, non sono copia di enti soprasensibili; la tesi del
realismo moderato è stata accolta, tra gli altri, da Tommaso d'Aquino.
La soluzione nominalista afferma invece che gli universali non esistono in realtà,
ma esistono solo nella nostra mente, sono un prodotto della nostra mente, sono pure
rappresentazioni mentali. Ad esempio, nella realtà esistono solo i singoli e diversi
alberi ma non esiste "l'albero", così come esistono solo i singoli e diversi uomini ma
non esiste "l'uomo". In particolare:
secondo il nominalismo estremo, il cui maggior esponente è stato Roscellino (1050-
1120), esistono soltanto le singole cose e individui concreti, mentre i cosiddetti
universali sono solo "flatus vocis", ossia puri suoni, puri nomi astratti collettivi, senza
alcuna corrispondenza con la realtà;
secondo il nominalismo moderato, che ha avuto in Ockham uno dei maggiori
esponenti, gli universali non esistono nella realtà ma solo nella nostra mente come
concetti creati da noi, tuttavia non sono puri nomi di comodo perché hanno
comunque una loro validità logica e gnoseologica (conoscitiva), nel senso che sono
utili per raccogliere in una medesima classe, o categoria, una serie di individui, di
cose, aventi tra di essi caratteristiche affini.
Il problema degli universali ha avuto implicazioni non solo sulla logica e sulla
filosofia, ossia sulle capacità della ragione e sulla validità dei suoi strumenti, ma
anche sulla teologia.
Lo sviluppo di tale questione è stato un segno del nuovo spirito che ha cominciato a
contraddistinguere la Scolastica a partire dagli ultimi decenni dell'11º secolo.
Prima di allora nessun pensatore metteva in dubbio i concetti di genere e di specie
quali idee reali, presenti nella mente divina o in un mondo sovrasensibile, oppure
quali forme od essenze eterne capaci di imprimere e caratterizzare le cose. Porre la
questione, ossia concependo gli universali non più come strumenti dell'azione
creativa di Dio o del Demiurgo, ovvero come sostanze eterne insite negli individui,
ma pensandoli invece come semplici strumenti e condizioni della conoscenza umana,
ha significato ammettere che la questione stessa possa essere risolta in modo
differente rispetto sia alla metafisica tradizionale che alla Patristica e alla prima
Scolastica. La soluzione dominante nel pensiero greco era quella di tipo realistico,
cioè di corrispondenza fra pensiero e realtà: il pensiero rispecchia e riproduce
l'essere. Solo l'indirizzo sofistico-scettico aveva dubitato di tale postulato. Anche la
filosofia cristiana aveva continuato a pensare, per secoli, secondo una concezione
155
realista, idonea in quanto tale a favorire lo sviluppo della filosofia metafisica e della
teologia. Ma con la soluzione nominalista si comincia a dubitare che i concetti siano
davvero essenze metafisiche esistenti sopra o dentro le cose. Se infatti per il
nominalismo i concetti non sono entità realmente sussistenti bensì semplici nomi
astratti collettivi, aventi esclusivo valore logico-gnoseologico, consegue che la
filosofia e la teologia si riducono di fatto a logica analitica (ad analisi logica).
Mentre il realismo, grazie ai concetti di idea, di sostanza, di genere e di specie, si
presta a giustificare filosoficamente un'interpretazione metafisica e/o teologica della
realtà, il realismo viene invece a compromettere tale interpretazione. Questa portata
antimetafisica ed antiteologica del nominalismo diverrà esplicita soprattutto nella
tarda Scolastica, in particolare con Ockham, che riduce il pensiero astratto-
metafisico a pura generalizzazione e classificazione dell'esperienza (i concetti altro
non sono che generalizzazioni di casi particolari osservati) ed antepone alla ragione
la conoscenza sensibile (empirismo). Mentre le correnti realistiche della Scolastica
continueranno a difendere la tradizionale concezione metafisica e teologica del
mondo, quelle nominalistiche finiranno per schierarsi contro la metafisica e la
teologia, pervenendo a concezioni anticipatrici della cultura rinascimentale e
moderna e concorrendo quindi all'esaurirsi della Scolastica medesima. Dal
nominalismo, specialmente quello estremo, con la sua negazione di un fondamento
ontologico (di consistenza reale) degli universali( negando cioè che una pluralità di
singoli enti o individui, anche se affini e appartenenti alla medesima specie o genere,
possano condividere la medesima sostanza) deriverà sul piano teologico
l'impossibilità di comprendere la Trinità divina, ossia la presenza in Dio di tre
persone distinte e tuttavia della medesima sostanza. Da qui il "triteismo" (=credere
all'esistenza di tre Dei) di cui fu imputato Roscellino, accusato di eresia.
Insomma, la soluzione realistica, che ritiene gli universali realmente esistenti come
essenze e sostanze sovrasensibili, è compatibile con la filosofia metafisica e la
teologia, che studiano appunto le essenze e le sostanze come cause prime e fini ultimi
di spiegazione della realtà: vale a dire l'essenza e il fine dell'uomo; l'essenza del
mondo, cioè il fine, il senso e il destino del mondo; l'essenza di Dio; ecc. Invece la
soluzione nominalista, che ritiene gli universali semplici nomi astratti prodotti dalla
mente dell'uomo, mal si concilia con la metafisica e la teologia: essa dà invece
maggiore importanza alla libertà umana ed alla conoscenza empirica e scientifica
anziché alla conoscenza metafisica e teologica.
Nella disputa fra realisti e nominalisti non sono mancati nel Medioevo tentativi
di conciliazione fra le due posizioni, in particolare, come vedremo, da parte di
Pietro Abelardo, con la sua teoria del "concettualismo", da parte di Tommaso
d'Aquino e anche da parte di Duns Scoto. Tuttavia la contrapposizione di fondo
rimane.
Da una parte vi sono i realisti che, anche in presenza di una realtà composta da
singoli individui concreti, sostengono l'esistenza o quantomeno la partecipazione
delle singole individualità ad una qualche comune essenza, considerata
indispensabile per comprendere ciò che vi è identico nel sostrato degli individui del
medesimo genere e specie. Dall'altra parte vi sono i nominalisti, per i quali gli
156
Il valore che Abelardo assegna alla ricerca e alla ragione lo induce ad attribuire la
massima considerazione verso gli stessi filosofi pagani: anch'essi hanno cercato e
trovato la verità. Perciò Abelardo è convinto che tra loro e l'insegnamento del
cristianesimo ci sia un accordo fondamentale. In particolare, secondo Abelardo, i
filosofi pagani hanno conosciuto la trinità: Platone riconobbe che l'intelligenza divina
è nata da Dio ed è coeterna con lui e considerò l'Anima del mondo come una terza
persona, che procede da Dio ed è la vita e la salvezza del mondo.
Abelardo prende posizione anche sul problema degli universali, tentando di
conciliare le contrapposte tesi fra realisti e nominalisti attraverso la sua caratteristica
teoria del "concettualismo". Il concetto, l'universale, dice Abelardo, non può
essere una realtà dal momento che una realtà, una sostanza, non può essere il
predicato di un'altra sostanza (Socrate non può essere predicato, cioè attributo, di
Platone, come il cavallo non può essere predicato del cane) e poiché, invece,
l'universale è ciò che è predicabile di più enti (cose), ossia è un modo sintetico per
classificare e denominare con un unico concetto enti affini, proprio per questo esso
non può essere sostanza singola e specifica: infatti, come ha affermato Aristotele,
ogni sostanza è diversa ed è soltanto individuale. Ma, prosegue Abelardo, l'universale
non può essere neppure un puro nome (flatus vocis) come voleva Roscellino,
perché anche il nome è una realtà particolare e non può essere il predicato di un'altra,
non può essere riferito ad un'altra (il nome "albero" non può essere riferito al nome
"fiume"). Gli universali sono invece "sermones", cioè discorsi mentali, concetti,
che scaturiscono da un processo di astrazione ed hanno la funzione di significare la
caratteristica comune di una pluralità di oggetti affini. Gli universali sono
"sermones", discorsi, che implicano sempre il riferimento alla cosa significata. La
Scolastica posteriore chiamerà "intenzionalità" questo riferimento del concetto alla
cosa significata. Tale proprietà del concetto gli conferisce anche una sua propria
oggettività, poiché un concetto non può riferirsi indifferentemente a qualsiasi gruppo
di cose: il concetto di uomo indica gli uomini e non gli asini. Il concetto dunque, pur
non denotando una realtà sostanziale, denota comunque le caratteristiche comuni che
si trovano in tutti gli enti individuali designati con quel preciso concetto. In
conclusione, non si può dire che i concetti siano veri o falsi, in quanto non hanno
corrispondenti nella realtà, ma possiedono comunque una loro validità logico-
linguistica: sono categorie che collegano il mondo del pensiero con quello
dell'essere, delle cose concrete (nominalismo moderato): nel riferirsi
intenzionalmente (espressamente) alle cose, i concetti acquistano una loro oggettività.
È vero che i concetti non sono reali, ma la loro intenzione, chiamata in gergo
filosofico "intenzionalità", cioè il loro scopo, è di riferirsi a un genere o a una
specie di cose concrete per riassumerne ed esprimerne le comuni caratteristiche.
Sono "post rem", cioè solo nella nostra mente ma si riferiscono a cose concrete.
La teoria del concettualismo induce Abelardo a ritenere che nella Trinità le
persone divine non sarebbero veramente tali bensì solo aspetti o modi di
un'unica divinità: da ciò il nome di "modalismo" assegnato a questa concezione:
col nome di Padre ritiene che si indichi la potenza e l'onnipotenza della maestà
divina; col nome di Figlio, o Verbo, che si indichi la sapienza e l'onniscienza di Dio;
158
col nome di Spirito Santo che si indichi la carità o benevolenza divina. Tali
denominazioni rappresenterebbero cioè un’individuazione soltanto di tre qualità
anziché di tre effettive persone distinte sia pur di una medesima sostanza. Tale
posizione modalistica di Abelardo è stata aspramente combattuta dal mistico
Bernardo di Chiaravalle perché non rispettosa della realtà delle tre persone divine. A
causa di essa Abelardo subirà una condanna ecclesiastica.
L'azione di Dio nel mondo, secondo Abelardo, è necessaria, ha il carattere della
necessità, perché essa è sempre quale deve essere in quanto Dio non può volere che il
bene. Ammettere che Dio avrebbe potuto agire diversamente, o desiderarlo, significa
negare all'azione di Dio ogni fondamento e ritenere la volontà divina un arbitrio
cieco, un capriccio. Da tale concezione Abelardo ricava il suo ottimismo metafisico:
tutto ciò che accade è bene ed è necessariamente così e non può essere diversamente
perché accade per volontà di Dio che non può volere altro che il bene. Tutto rientra
nell'ordine provvidenziale, anche il tradimento di Giuda, perché senza di esso non
sarebbe stata possibile la crocifissione di Cristo, la sua morte e resurrezione e quindi
la redenzione dell'umanità. Alla stessa maniera, anche tutti i mali del mondo hanno
la loro ragione e una loro finalità positiva seppur rimangono nascoste all'uomo.
L'uomo porta in sé l'immagine della Trinità divina: la sostanza dell'anima umana è
immagine della persona di Dio padre; la virtù e la sapienza che sono nell'anima sono
immagine del Figlio; la capacità dell'anima di vivificare il corpo è immagine dello
Spirito Santo.
La vera libertà dell'uomo non consiste nel seguire gli istinti e le passioni ma nella sua
capacità di agire razionalmente e virtuosamente. In tale libertà consiste l'azione
morale. La condotta etica dipende dall'intenzione interiore (l'intenzione di fare il
bene). Dunque non il rigido ascetismo né la conformità passiva ed esteriore alla
norma etica sono di per sé morali: le azioni non sono buone o cattive in sé,
indipendentemente dall'intenzione di chi le compie. Abelardo concepisce la vita
morale dell'uomo come una continua lotta della volontà razionale contro
l'inclinazione naturale al vizio. Così come la buona intenzione è indispensabile
perché un'azione sia virtuosa, altrettanto è sufficiente solo l'intenzione (cattiva) a
determinare il peccato (peccato di intenzione).
volta in gradi ulteriori: il primo è l'ammirazione della maestà divina; l'ultimo grado
è l'estasi, in cui l'anima umana si perde e si confonde in Dio, per cui l'uomo
dimentica completamente il corpo e la propria umanità terrena.
È stato il principale centro culturale del XII secolo. Si caratterizza per una cultura
più retorico-letteraria che logica e per un orientamento prevalentemente platonico.
Si distingue anche per la lettura diretta dei classici, in particolare del Timeo di
Platone che viene interpretato in termini creazionisti, ossia come anticipazione
dell'atto della creazione del mondo da parte di Dio. Attribuisce notevole importanza
alle "humanae litterae".
La filosofia islamico-araba.
Avicenna formula nel modo più chiaro il principio che caratterizza la filosofia araba
nel suo insieme: il principio della necessità dell'essere, secondo cui tutto ciò che è,
o accade, è o accade necessariamente e non potrebbe essere o accadere in modo
diverso. L'essere è la proprietà comune a tutte le cose: qualsiasi cosa, prima di
essere ciò che specificatamente è, deve innanzitutto essere, cioè esistere. L'essere
inteso in generale è dunque un'essenza, una proprietà unica e indeterminata comune a
tutti gli enti, che successivamente si determina negli enti singoli. Avicenna distingue
ulteriormente tra essere possibile ed essere necessario: tutti gli enti che incontriamo
nell'esperienza sono enti possibili (poiché avrebbero anche potuto non essere, non
esistere), i quali pertanto non hanno in sé la causa della propria esistenza. Ma dato
che esistono, devono allora aver ricevuto l'esistenza da un altro ente, il quale pure, a
sua volta, può essere possibile o necessario; se quest'altro ente è pure esso possibile,
deve aver ricevuto anch'esso l'esistenza da un altro, e così via finché non si giunge ad
un essere necessario che ha in sé la causa della propria esistenza: questi è Dio. È
una prova dell'esistenza di Dio che, come vedremo, sarà ripresa da Tommaso
d'Aquino. La distinzione tra essere possibile ed essere necessario è fondamentale
perché separa il mondo da Dio. L'essere necessario è soltanto uno (monoteismo) ed
esso assume il grado di primo principio e di causa prima.
Ma quale è il rapporto tra il mondo (la natura) e Dio? Si tratta di un rapporto di
necessaria ed automatica emanazione (Plotino) o di un rapporto di libera creazione?
Avicenna risponde fondendo insieme Aristotele e il neoplatonismo. A suo avviso il
162
Queste tesi erano in contrasto anche con la religione islamica e perciò Averroè subì
l'esilio.
Per Averroè la filosofia non solo è indipendente dalla teologia e dalla religione
ma è mezzo privilegiato per giungere alla verità. In caso di contrasto tra filosofi e
teologi, il testo religioso va interpretato in base alla ragione, poiché le verità religiose
esposte nel Corano sono simboli imperfetti, e come tali da interpretare, in quanto
formulate in un linguaggio adatto a persone semplici ed ignoranti. Le divergenze tra
filosofia e teologia sono cioè, più che altro, differenze di interpretazione anziché
effettiva diversità di principi essenziali: non vi è contrasto di fondo tra fede e
ragione, però la ragione ha un ruolo di guida per la comprensione della rivelazione
divina.
Tra i filosofi arabi, Averroè è stato il principale commentatore delle opere di
Aristotele. Per lui la dottrina di Aristotele è la verità stessa. È inoltre convinto che la
filosofia aristotelica sia in fondamentale accordo con la religione musulmana, che sa
anzi esprimere meglio, in forma scientifica e dimostrativa.
Primo concetto fondamentale di Averroè è la necessità di tutto ciò che esiste: la
necessità dell'essere. Il mondo è necessario perché necessariamente creato da Dio.
Dio è perfetto per cui ciò che egli fa deve necessariamente rispecchiare questa sua
perfezione: se non avesse creato il mondo Dio sarebbe imperfetto. Oltre che
necessario, il mondo è anche ordinato in virtù della perfezione divina e tale ordine
dirige la stessa azione degli uomini, i quali pertanto non hanno né capacità né
libertà d'iniziativa. Il principio dell'ordine del mondo ha da sempre favorito e
stimolato la ricerca scientifica, per la sottintesa fiducia di poter scoprire e
comprendere scientificamente quest’ordine medesimo in tutti i fatti naturali.
Derivante dalla dottrina della necessità dell'essere e del mondo è la dottrina
dell'eternità del mondo. Averroè ammette, come Avicenna, che il mondo è stato
creato, poiché l'essere del mondo è un essere possibile che non verrebbe alla realtà
senza l'azione creatrice di Dio. Ma egli vede nella creazione non già un atto libero
di Dio bensì una manifestazione necessaria di Dio stesso, per cui il mondo non ha
avuto inizio nel tempo, ma è coeterno a Dio derivando dalla stessa natura di Dio:
tutti i motori immobili sono eterni, e a maggior ragione il primo motore che è Dio, e
tutti muovono eternamente i rispettivi cieli; pertanto è eterno anche l'universo nel
suo complesso. In quanto perfetto, abbiamo visto, Dio non può non creare il
mondo e Dio, in quanto eterno, ha creato il mondo fin dall'eternità.
La terza dottrina peculiare di Averroè è quella dell'unicità dell'intelletto: non esiste
un intelletto passivo (o potenziale) individuale separato dall'intelletto attivo
universale, per la ragione che, se l'intelletto passivo può trasformarsi in intelletto
attivo allorquando passa in atto formando i concetti, deve avere allora la stessa
natura dell'intelletto attivo. L'intelletto è quindi unico per tutti gli uomini; è un
intelletto universale, potenziale e attivo al tempo stesso, e non è individuale: è
separato dall'anima vegetativa e sensitiva umana. L'anima umana è quindi
ridotta a materia (con esclusive funzioni vegetative sensitive) e proprio per questo
l'intelletto, in quanto capace di conoscenza universale, non può mescolarsi con
l'anima umana individuale. Se l'anima dell'uomo dunque è solo quella vegetativa-
164
sensitiva legata al corpo, essa allora non è immortale. Invece l'intelletto passivo,
diventando attivo nel passare in atto, non è parte dell'anima ma solo
temporaneamente legato ad essa. Immortale è solo l'intelletto attivo universale, che
può essere concepito come patrimonio dell'intera umanità. Con questa tesi Averroè
intende anche salvare il sapere, che non perisce con l'individuo: l'intelletto universale
può essere infatti inteso, altresì, come quello della specie umana, superiore al singolo
individuo, nel quale si conservano tutte le conoscenze via via acquisite dagli uomini.
È ovvio come la tesi di Averroè che nega l'immortalità dell'anima abbia
preoccupato non poco i filosofi scolastici. Infatti, se l'individuo e la sua anima si
dissolvono con la morte, permanendo soltanto l’intelletto universale, allora l'uomo
non è conclusivamente responsabile della sua attività spirituale, essendo essa super
individuale, ed allora la predicazione sulla vanità del mondo e sulla resurrezione
perde vigore. Si ritrovano qui i germi di una concezione materialistica o quantomeno
naturalistica della vita e dell'uomo.
L'anima per Bonaventura è il motore del corpo. Essa non è pura forma (come
volevano gli aristotelici) ma ha una sua materia e quindi è sostanza nel senso pieno
del termine (è sinolo: unione di forma e materia) giacché è capace di sussistere di
per sé, di agire e di patire: pertanto, come sostanza in sé, è separabile e sopravvive
alla morte del corpo; è incorruttibile e immortale perché così creata da Dio.
Bonaventura riconosce all'uomo la libertà nel campo dell'azione e capacità di
iniziativa nella conoscenza. Così come la conoscenza è guidata dalla luce divina,
dalla medesima luce è guidata la condotta dell'uomo. Chiama questa luce
"sinderesi", o scintilla della coscienza (conoscenza innata di ciò che è bene e male).
All'origine degli errori di Aristotele vi è per Bonaventura il rifiuto della teoria
platonica delle idee, reinterpretate come idee attraverso cui Dio ha creato il mondo.
Negare le idee nella mente di Dio, ossia gli esemplari in base a cui ha creato e crea
le cose, vuol dire che Dio è solo causa finale e non anche efficiente delle cose.
Significa ammettere che tutto ciò che avviene o è casuale o dipende da un
destino, da un fato necessario e predeterminato. Ma ciò significa allora negare la
libertà e la responsabilità umane e, quindi, l'esistenza di premi o pene oltre questa
vita.
L'opera "L'itinerario della mente verso Dio" esprime soprattutto il misticismo di
Bonaventura, ispirato a quello della Scuola di San Vittore e derivante dalla
tradizione agostiniana.
Bonaventura distingue tre facoltà della mente umana, tre tappe per salire a Dio:
1. la sensibilità, rivolta le cose esterne;
2. lo spirito, rivolto a se stesso (l'introspezione interiore);
3. la mente, rivolta al di sopra di sé, verso le idee od esemplari universali che
sono nella mente di Dio.
Attraverso queste tre facoltà l'uomo è capace di cogliere i segni di Dio che sono
nel mondo, risalendo gradualmente a Lui.
Sei sono i gradi di ascesa verso Dio:
1. la considerazione dell'ordine e della bellezza delle cose;
2. la considerazione delle cose quali sono nell'anima umana, cioè le sue facoltà
spirituali, separate dai vincoli delle cose sensibili;
3. la contemplazione dell'anima come immagine di Dio (autocoscienza), in
quanto le tre facoltà dell'anima, memoria, intelletto e volontà (amore), sono
immagine della Trinità divina;
4. la contemplazione di Dio nell'anima illuminata e perfezionata dalla fede,
dalla speranza e dalla carità;
5. la contemplazione di Dio direttamente nel suo primo attributo, che è l'essere
primo, creatore dell'essere del mondo (della realtà);
6. la contemplazione di Dio nella sua massima potenza, che è il Bene.
come uno stato di "ignoranza dotta", nella quale si comprende l'oscurità e la vanità
dei poteri umani e si scorge il vero potere della luce divina.
È il maggior esponente della fase aurea della scolastica. Nasce nel 1225 a
Roccasecca, tra Lazio e Campania, da famiglia nobile. Frequenta l'università di
Napoli iniziando anche gli studi di filosofia. In particolare comincia a leggere le
opere di Aristotele, riscoperte diffuse per merito dei filosofi arabi, soprattutto
Avicenna e Averroè.
Se la filosofia di Agostino e la filosofia patristica in generale sono influenzate dalla
filosofia di Platone, la filosofia di Tommaso e la tarda Scolastica sono invece
influenzate dalla filosofia di Aristotele, adattando comunque sia la filosofia platonica
sia la filosofia aristotelica alla filosofia cristiana.
A Napoli Tommaso decide di farsi frate domenicano. Si reca poi a studiare a
Colonia, in Germania. Dal 1252 fino al 1259 è docente di teologia all'università di
Parigi. Nel 1259 fino al 1269 si trasferisce in Italia e diventa consigliere teologico
presso la Corte pontificia.
Nel 1269 torna ad insegnare all'università di Parigi, chiamato colà per risolvere
questioni teologiche che rischiavano di diventare eretiche a causa del modo in
cui il teologo Sigieri di Brabante (1240-1284), influenzato da Averroè, insegnava
la filosofia aristotelica. Sigieri di Brabante infatti sosteneva tesi ed argomenti che
contrastavano gravemente con la fede: diceva che l'anima umana non è
immortale; che non esiste il libero arbitrio; che la provvidenza divina non è
rivolta a tutti ma solo ad alcuni eletti; che il mondo non è stato creato da Dio ma
è eterno. Sigieri di Brabante affermava che tutti questi argomenti discendevano da
rigorosi ragionamenti filosofici, anche se, in base alla fede, era possibile credere il
contrario.
Insomma, Sigieri di Brabante affermava che non esiste un'unica verità ma che
esiste invece una doppia verità; è la teoria denominata appunto della doppia verità:
da una parte ci sono le verità di ragione (a cui si arriva ragionando) e dall'altra vi
sono le verità di fede (cioè quelle rivelate dalla Bibbia e da Gesù); queste due verità
possono benissimo essere in contrasto tra di esse, e ciò contrariamente al prevalente
orientamento della Scolastica che sosteneva l'accordo tra fede e ragione.
Tommaso combatte energicamente l'insegnamento di Sigieri di Brabante, al punto
che tale insegnamento viene ufficialmente condannato dall'arcivescovo di Parigi nel
1270.
Nel 1272 Tommaso lascia Parigi e ritorna presso la Corte papale. Muore nel 1274.
Opere principali: De ente et essentia (L'ente e l'essenza); Summa contra gentiles
(Summa contro i pagani); Summa theologiae (Summa teologica). Summa significa
esposizione sistematica, completa e ordinata, di un argomento o di una dottrina.
Fede e ragione.
Ai tempi di Tommaso sul rapporto tra fede e ragione vi erano due punti di vista
contrapposti:
169
Fino al XIII secolo la teologia non è mai stata considerata come una scienza, perché
basata soprattutto sulla fede e sulla rivelazione divina e non sulla conoscenza
razionale.
Tommaso invece afferma che anche la teologia può essere considerata una vera
scienza.
Le altre scienze partono da principi primi i quali o sono assolutamente evidenti per la
ragione, come i principi della logica o i postulati della matematica, oppure sono
derivati da altre scienze, come i principi della fisica che sono derivati dall'aritmetica
e dalla geometria. Quindi le altre scienze, partendo da questi principi primi,
170
procedono per conseguenti dimostrazioni delle loro teorie. Ma è così anche per la
teologia. Essa, come la fisica, ricava i suoi principi primi da un'altra scienza, ossia
dalla rivelazione che è la scienza di Dio, e poi, partendo da tali principi primi, anche
la teologia procede attraverso ragionamenti e dimostrazioni, utilizzando i medesimi
strumenti e metodi di tutte le altre scienze.
soltanto possibilità di essere), all'esistenza effettiva delle cose non può che essere
opera della libera e volontaria creazione di Dio.
Concependo la creazione del mondo come atto libero e volontario di Dio, Tommaso
respinge con ciò la concezione secondo cui la creazione del mondo è atto necessario
di Dio, nel senso che Dio non poteva fare meno di creare il mondo poiché in qualche
modo costretto a farlo per realizzare in pieno la sua perfezione, derivandosi in tal
senso che il mondo è allora coeterno a Dio. Respinge altresì la concezione secondo
cui l'origine del mondo è conseguenza dell'emanazione divina, come sosteneva
Plotino. Infatti, poiché l'emanazione è un processo meccanico, automatico ed
involontario da parte di Dio, finisce anch'essa per coincidere col precedente
concetto di creazione necessaria, nel senso che Dio non può fare a meno del mondo,
perdendo altrimenti la propria onnipotenza o, meglio, la sua sovrabbondanza. Che il
mondo sia stato liberamente creato da Dio non significa però che, come riteneva
Bonaventura, esso abbia necessariamente avuto inizio nel tempo. Non è
inconcepibile secondo Tommaso che la creazione sia stata compiuta fin dall'eternità,
che sia coeterna a Dio. Infatti, se la creazione del mondo è opera non solo della
libera volontà ma anche della bontà di Dio, pure essa eterna in Dio, può essere
benissimo, allora, che il mondo sia coeterno a Dio stesso. Per Tommaso insomma la
questione dell'eternità o meno del mondo non può essere risolta mediante
dimostrazione razionale ma può trovare invece risposta nella Bibbia, la quale
afferma che la creazione non esiste da sempre. Su tale punto la fede integra quindi
la semplice ragione naturale umana, incapace di decidere per l'una o l'altra tesi.
Dire che gli esseri (le cose) finiti sono stati creati da Dio significa dire che Dio ha
trasmesso e partecipato ad essi l'esistenza. Gli essere finiti hanno cioè la loro
esistenza per partecipazione (=ricevere in parte qualcosa –ossia l'esistenza- che
appartiene globalmente, nella sua interezza, ad un altro, cioè a Dio). Dio solo è
l'Essere per essenza, l'Essere pieno. Anche le cose finite sono esseri, ma non sono
esseri pieni, sono soltanto esseri per partecipazione, nel senso che possiedono solo
una parte dell'essere, che Dio invece possiede totalmente.
Gli esseri creati da Dio, in quanto esistenti, sono simili a Dio poiché anch'essi
possiedono l'esistenza come Dio. Ma Dio non è simile ad essi. Il rapporto fra Dio
e le sue creature non è cioè un rapporto di uguaglianza bensì di analogia.
Analogia significa essere in parte simili ed in parte diversi. Infatti le creature
hanno l'esistenza similmente a Dio, ma la loro esistenza è di grado enormemente
inferiore poiché è un esistenza finita e non infinita.
Con il principio della partecipazione e della analogia degli esseri finiti Tommaso
vuole affermare l'assoluta trascendenza di Dio (trascendente=che è distinto e al di
sopra) rispetto al mondo e agli uomini, contro ogni forma di panteismo,
concezione quest'ultima secondo cui Dio non è distinto e al di sopra del mondo e
degli uomini ma è diffuso dentro il mondo per cui tutte le cose sono divine.
173
una proposizione, non si può dire se è vero o falso, però ogni ente deve essere in sé
comunque comprensibile, in grado di essere compreso dalla ragione. In ciò sta il
vero di ogni ente, che è il secondo trascendentale dell'essere. Ogni ente, inoltre, è
più o meno vero secondo il grado di essere che possiede. La verità di ogni ente,
prima che essere scientifica o logica come per Aristotele, deve anzitutto essere, per
Tommaso, metafisica e teologica. In questo senso Dio è la somma verità perché è il
sommo essere. Gli esseri finiti sono più o meno veri a seconda se partecipano di più
o di meno all'essere divino, a Dio. Sono più veri gli enti che corrispondono al
progetto e alla finalità di Dio che li ha creati. Sono meno veri, falsi e infedeli, quegli
enti che, come certi uomini, non osservano e tradiscono il volere di Dio. Insomma
per Tommaso la verità dell'ente non è quella logico-scientifica, ma consiste nel
rispettare i fini divini.
Il Bene. Ogni ente è stato creato da Dio per amore, quindi ogni ente è bene e buono.
Per il solo fatto di esistere ogni cosa è un bene perché già è un bene l'esistenza in sé
donata da Dio. In quanto buono, ogni ente va amato e rispettato, secondo il
comandamento divino che dice di amare il prossimo e tutte le creature di Dio (non
solo gli uomini ma anche gli animali, le piante, la terra, l'ambiente: oggi si direbbe
l'ecologia).
Il primo trascendentale, l'essere, prevale comunque sugli altri due: l'uno prevale
rispetto al vero e al bene. Tant'è che la verità e la bontà di un ente dipendono dal
grado di essere che esso possiede. Ciò non significa tuttavia che il vero il bene siano
separabili dall'essere: sono anch'essi insisti nell'essere stesso. Per Tommaso non c'è
nulla nell'essere che non sia anche vero e buono.
Da questa teoria dei trascendentali, secondo cui ogni ente è unico, con un suo
proprio grado di perfezione, ed è inoltre sia vero che buono, deriva una delle più
radicali forme di ottimismo metafisico della storia, da Tommaso espressa.
Abbiamo visto che per Tommaso l'essenza divina, che implica anche l'esistenza, non
ci è nota a priori perché la conoscenza umana comincia dai sensi. Perciò egli non
accoglie la prova ontologica a priori dell'esistenza di Dio di Anselmo d'Aosta. Per
Tommaso la dimostrazione dell'esistenza di Dio non può essere che a posteriori,
partendo cioè dei sensi, dall'esperienza del mondo e delle cose del mondo, che sono
appunto posteriori a Dio, e risalendo quindi a Dio stesso come loro causa, vale a dire
partendo dagli effetti per conoscerne la causa. Solo dopo aver dimostrato a posteriori
l'esistenza di Dio diventa allora possibile conoscere anche la sua essenza. Tommaso
condivide come Anselmo d'Aosta il concetto di Dio come "colui del quale non si può
pensare nulla di maggiore", però, dichiara Tommaso, non consegue necessariamente
che un concetto presente nell'intelletto sussista anche nella realtà. Ecco perché la
dimostrazione dell'esistenza di Dio deve essere a posteriori.
Tommaso fornisce cinque prove a posteriori dell'esistenza di Dio, chiamate
cinque "vie", tutte tratte in modo vario dalla cosmologia (=filosofia sul cosmo,
sull'universo) di Aristotele.
175
1. La prova del movimento (ex motu). Parte dalla constatazione empirica che
tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa d'altro. Ma nell'individuare la
catena (la serie) delle cause del movimento delle cose non si può procedere
all'infinito. Ci deve essere una causa prima del movimento che fa muovere le
cose senza essere mossa a sua volta: ci deve essere cioè un primo motore
immobile e questo è Dio. Infatti non è possibile che le cose sensibili siano al
tempo stesso in atto e in potenza, che siano cioè sia l’effetto che,
contemporaneamente, la causa del loro movimento.
2. La prova causale (ex causa). Nella serie delle cause efficienti dei vari
fenomeni non si può risalire all'infinito. Nessuna cosa può essere effetto di se
stessa, perché ciò che produce un effetto deve esistere prima di questo. Perciò
deve esistere una causa prima di tutte le cose che non sia a sua volta effetto di
un'altra causa e questa causa prima è Dio.
3. La prova della contingenza (ex possibili et necessario), cioè del rapporto tra
ciò che è contingente (=possibile) e ciò che è necessario. Le cose possibili
esistono perché sono l'effetto di una cosa necessaria che le fa necessariamente
esistere. Ma anche qui non è possibile procedere all'infinito, bisogna per forza
che ci sia una cosa necessaria in sé, quale causa dell'esistenza delle cose
contingenti, senza che essa sia stata fatta esistere da un'altra cosa pure
necessaria. Questa prima cosa necessaria, che spiega l’esistenza delle altre
cose contingenti, è Dio.
4. La prova dei gradi di perfezione (ex gradu). Fra le cose ve ne sono di più o
meno vere, buone e perfette. Vi deve essere allora un ente assolutamente
perfetto rispetto al quale misurare e distinguere i diversi gradi di perfezione
delle altre cose. Questo ente assolutamente perfetto è Dio.
5. La prova del finalismo (ex fine). Nel mondo vi sono cose che, pur essendo
sprovviste di intelligenza, appaiono tuttavia dirette ad un fine, ad uno scopo, e
ciò non potrebbe essere se non fossero guidate da un essere dotato di
un'intelligenza suprema: questo essere è Dio.
Gli attributi (=le proprietà) di Dio e il rapporto di analogia fra le creature e Dio.
2. per via positiva, attribuendo a Dio in grado massimo le diverse qualità delle
creature: Dio è sommamente giusto, sommamente buono, sommamente
sapiente, infinito, eterno, ecc.
Poiché tali qualità sono attribuite a Dio in grado massimo, allora fra gli attributi o
qualità delle creature e quelli di Dio non c'è univocità, ossia non sono attributi di
ugual grado, e dunque non c'è panteismo, ma neppure c'è equivocità, cioè gli
attributi di Dio non sono diversi in assoluto da quelli delle creature, semmai sono di
grado massimo e quindi non c'è sfiducia e scetticismo nei confronti delle creature
(non si può dire che non valgono niente). Fra gli attributi di Dio e quelli delle
creature non c'è univocità né equivocità ma c'è analogia, ossia sono in parte simili
ed in parte dissimili.
Con la teoria dell'analogia fra le creature e Dio Tommaso intende valorizzare
anche il creato e le creature contro chi pensa che il mondo e la vita terrena non
valgano niente, ma che valga solo la vita ultraterrena.
differenzia da Aristotele, è anche "ante rem" (prima delle cose). Preesiste nella
mente divina come principio, modello o idea, delle cose create, mentre per Aristotele
l'universale è forma eterna di per sé e, come tale, è sempre "in re" e mai anche "ante
rem".
L'intelletto umano è in sé un intelletto finito, che non conosce in atto, in un colpo
solo, tutti gli intellegibili, cioè tutti i concetti. Esso è un intelletto solo in potenza,
che possiede solo la possibilità di conoscere gli intelligibili: è soltanto un intelletto
passivo. Ma poiché, come anche per Aristotele, "nulla passa dalla potenza all'atto se
non per opera di ciò che è già in atto", la possibilità di conoscere che è propria
dell'intelletto passivo umano avviene grazie all'azione e all'intervento di un intelletto
attivo, o agente, il quale, agendo come la luce che rende visibili i colori, fa passare
all'atto gli intellegibili (i concetti), astraendoli dalle cose materiali. Però,
differenziandosi ulteriormente da Aristotele e soprattutto da Averroè, per
Tommaso l'intelletto attivo non è separato ma unito all'intelletto passivo
dell'anima umana. Infatti, argomenta Tommaso, se l'intelletto attivo fosse separato
dall'uomo, dalla sua anima, non sarebbe l'uomo ad intendere e a trasformare in
concetti le sensazioni ricevute, bensì il preteso intelletto attivo. L'intelletto attivo
dunque non è unico e generale, uno solo per tutti gli uomini e separato dalle singole
anime umane, come affermava la filosofia aristotelica e averroistica. Tommaso
respinge la tesi dell'unicità dell'intelletto attivo e sostiene che vi sono tanti intelletti
attivi quante sono le anime umane. In tal modo Tommaso salva la concezione
cristiana dell'immortalità dell'anima individuale poiché, altrimenti, se l'anima
possedesse solo l'intelletto passivo, che è potenza, cioè materia, essa sarebbe
solamente anima vegetativa e sensitiva e morirebbe con la morte del corpo.
L'intelletto attivo, unito a quello passivo e alla singola anima individuale, coglie per
astrazione le forme, le essenze, che sono nelle singole cose. Perciò vi è
corrispondenza tra l'intelletto e la cosa. La verità infatti, dice Tommaso, è
l'adeguazione (la corrispondenza) reciproca dell'intelletto e della cosa (adaequatio
intellectus et rei). L'intelletto passivo di per sé non contiene forme innate ma come
intelletto attivo è capace di intenderle. L'intelletto è di per sé vuoto ma esso è, per
sua natura ed intenzionalmente, sempre rivolto a qualche cosa di cui cogliere la
forma per intendere la cosa stessa. Anche Tommaso, dunque, riprende la teoria
della "intenzionalità dell'intelletto o coscienza".
Vi è peraltro una radicale differenza fra l'intelletto divino e quello umano. Dio
comprende ogni cosa mediante un atto di intuizione diretta e globale; in un solo atto
egli comprende e, volendo, crea contemporaneamente l'essenza di tutte le cose. Si
comprende una cosa quando se ne comprende l'essenza, cioè la forma, il concetto.
L'intelletto umano invece non raggiunge con un solo ed unico atto la comprensione
perfetta e completa delle cose. Di una cosa esso intende dapprima qualche elemento,
per esempio l'essenza, o forma o sostanza, di quella cosa, che è l'oggetto
fondamentale e primo dell'intelletto, e poi passa a comprendere le proprietà
secondarie e gli accidenti di tale cosa (grande o piccola, colorata o no, piacevole o
sgradevole, ecc.). A differenza della conoscenza divina che ha carattere
immediatamente e globalmente intuitivo, che cioè si compie tutta in un colpo solo,
178
la conoscenza umana ha invece carattere discorsivo, ossia si svolge per atti, per
momenti graduali e successivi di divisione, vale a dire di analisi, scomponendo gli
elementi che costituiscono una certa cosa, e poi di composizione, vale a dire di
sintesi, riunificando gli elementi scomposti (e perciò conosciuti in modo migliore
nelle loro singole parti) per giungere ad una conoscenza complessiva più idonea di
quella cosa). La divisione e composizione, ossia l’analisi e la sintesi dei fenomeni,
delle cose che si vogliono conoscere, viene espressa mediante proposizioni
affermative o negative. Questo procedere per gradi (momenti) successivi
dell'intelletto è il ragionamento, per cui la conoscenza e la scienza che ne deriva
è conoscenza e scienza discorsiva (=che procede gradualmente per analisi e sintesi).
L'anima.
ogni anima, nel giorno della resurrezione dei corpi, di reincarnarsi nel corpo a cui era
unita.
L'etica.
Nel campo dell’etica Tommaso tratta del fine dell’uomo, del libero arbitrio, del
male nel mondo e della virtù.
Per Tommaso l'agire segue l'essere (agere seqitur esse) poiché vi è correlazione fra
la natura di un ente e il suo modo di agire (quale il modo di essere, tale il modo di
operare). Ora, poiché l'essere dell'uomo è quello di creatura di Dio, egli non potrà
fare a meno di tendere al Creatore, causa prima e fine ultimo di tutte le cose. Infatti
molti filosofi hanno affermato che il fine cui tende l'uomo è la felicità, ma questa
non può consistere in qualche bene finito (ricchezze, fama, potere) né soltanto nel
sapere, come per Aristotele; essa consiste invece nella contemplazione di Dio, che è
il fine dell'uomo benché raggiungibile dopo la morte. In Tommaso abbiamo quindi un
fondamento onto-teologico dell'etica, ossia un sistema morale per cui l'essere (la
naturale tendenza umana) è la norma dell'agire e Dio, l'Essere per eccellenza, è il fine
ultimo del nostro operare.
Abbiamo visto, anche in relazione alle prove dell'esistenza di Dio, che ogni cosa e
l'uomo stesso, per Tommaso, sono soggetti alla Provvidenza e al governo divino.
Ma ciò per Tommaso non esclude la libertà dell'uomo, il libero arbitrio, perché la
libertà umana è voluta dalla stessa provvidenza divina e la predestinazione alla
beatitudine eterna non priva l'uomo di tale libertà. E’ vero che l'uomo non può
giungere alla beatitudine con le sue sole forze naturali e quindi deve essere
indirizzato da Dio tramite la grazia. Ma con ciò Dio non necessita, non obbliga
l'uomo, perché fa parte della predestinazione che l'uomo liberamente si indirizzi o
meno alla beatitudine. Nemmeno la prescienza divina impedisce l'esercizio del libero
arbitrio. Ovviamente Dio vede e prevede tutte le azioni che saranno compiute dagli
uomini, ma col vederle non toglie ad esse la libertà: Dio vede tutte le azioni future
degli uomini lasciandole tuttavia alla libera scelta umana, sia essa rivolta verso il
bene o verso il male. In quanto creatura privilegiata, fatta ad immagine e somiglianza
di Dio, Dio intende preservare la dignità e la responsabilità dell'uomo donandogli il
libero arbitrio, anche se esso può esprimersi contro il Creatore. Del resto, se non vi
fosse libera scelta non vi sarebbe nemmeno merito alcuno nell'agire umano. Certo, se
l'intelletto umano fosse in grado di pervenire alla visione beatifica di Dio, la volontà
umana non potrebbe non volere il raggiungimento di tale fine. Ma ciò non è possibile
quaggiù. Nella vita terrena l'intelletto conosce solo il bene e il male di cose e di azioni
che non sono Dio e pertanto la volontà è libera di volerle o non volerle.
Proprio nel libero arbitrio Tommaso vede la radice, la causa del male nel
mondo. Anche Tommaso condivide la dottrina platonico-agostiniana secondo cui
il Male in sé, il Male metafisico, non esiste, essendo esso, piuttosto, mancanza del
bene. Dio non può essere creatore anche del Male, inteso come forza maligna
immessa nel mondo, poiché ciò sarebbe in contraddizione con l'attributo della bontà
180
divina. La presenza di spiriti demoniaci non è opera di Dio bensì di una libera scelta
contraria a Dio operata dai démoni medesimi, pure ai quali Dio ha concesso il libero
arbitrio. Invece tutte le cose che esistono, già per il solo fatto di esistere, sono un bene
secondo il grado di essere di ogni cosa. Ma poiché l'ordine del mondo richiede la
sussistenza anche dei gradi inferiori dell'essere e del bene, derivano allora da
esso due specie di mali: la pena e la colpa.
La pena è il male fisico, che discende dalla natura delle cose del mondo, che sono
finite e imperfette e quindi non possiedono quella perfezione somma che è solo di
Dio. Del resto il creato non può essere costituito da una perfezione pari a quella
divina perché, in tal caso, sarebbe un doppione di Dio, il che è assurdo, un
controsenso.
La colpa è il male morale, è il peccato commesso dagli uomini, che consiste nel
contravvenire l'ordine della ragione e della legge divina. Mentre la pena, dunque, è la
condizione naturale delle cose, del mondo e degli uomini in quanto esseri finiti, il
vero male è la colpa, che la Provvidenza cerca di eliminare o correggere con la pena.
L'uomo non è privo della capacità di scorgere il bene e di tendere al bene, essendo
l'idea del bene impressa nella sua anima. Così come nell'uomo c'è una disposizione
naturale a cogliere i principi della conoscenza, vi è in lui anche una naturale
disposizione a comprendere i principi pratici dell'azione morale. Tale disposizione
che ci dirige al bene è la "sinderesi", già vista in Bonaventura da Bagnoregio, da
intendersi come conoscenza innata di ciò che è bene e di ciò che è male. Ma
comprendere non significa ancora agire. L'uomo, proprio perché è libero, pecca
quando deliberatamente infrange quelle leggi universali che la ragione gli fa
conoscere e che la legge di Dio gli rivela.
Su questa disposizione naturale dell'intelletto pratico (morale) sono fondate le virtù.
Gli esseri naturali (gli animali) sono determinati dall’istinto ad agire in un unico
modo; non hanno libertà di scelta. Gli esseri razionali invece, ossia gli uomini, non
sono determinati in un unico senso: possono agire in più sensi secondo la loro libera
scelta. Quando la scelta che l'uomo assume è quella di vivere rettamente e di
rifuggire dal male, egli pratica allora la virtù.
Come Aristotele, Tommaso distingue tra virtù intellettuali e virtù morali. Le
principali virtù morali, chiamate anche virtù cardinali, sono la giustizia, la
temperanza, la prudenza, la fortezza. Le virtù intellettuali e morali sono virtù
umane: esse conducono alla felicità che l'uomo può conseguire in questa vita con
le sue sole forze naturali. Ma per conseguire la beatitudine eterna queste virtù non
bastano; sono necessarie le virtù teologiche, direttamente infuse da Dio nell'uomo, e
cioè la fede, la speranza e la carità.
Diritto e politica.
Tommaso pone a fondamento della sua concezione politica la teoria del diritto
naturale, una delle maggiori eredità dello stoicismo ed assunta a base dello stesso
diritto canonico.
181
Nel pensiero tomistico (di San Tommaso) Dio è fonte e creatore dell'essere, ossia di
tutte le cose. Nel pensiero greco Dio è colui che dà forma e ordine al mondo, al
cosmo, attraendolo verso di sé in virtù della sua perfezione. Il Dio dei filosofi greci
non dà l'essere, ma è solo un certo modo di essere: non è l'essere totale bensì
parziale perché anche la materia esiste sin dall'eternità ed è da lui indipendente.
Le prove cosmologiche dell'esistenza di Dio, che appaiono prese di peso da
Aristotele, mutano di segno in Tommaso, nel senso che Dio, più che primo motore
182
immobile, è atto puro: per Tommaso tali prove conducono soprattutto al primo
essere anziché al primo motore. Secondo Tommaso Dio, prima di essere motore, è
creatore: le prove di Tommaso non sono quindi fisiche ma fisico-metafisiche.
La preoccupazione cosmo-ontologica di Tommaso è di spiegare come da Dio, essere
supremo, possono derivare creature fuori di lui. A questa domanda Tommaso
risponde, come abbiamo visto, con la dottrina dell’analogia e della partecipazione.
Le creature sono esseri che derivano dall'essere divino per partecipazione: tale
concetto implica amore, libertà e consapevolezza, mediante cui Dio trasmette e dona
l'essere alle creature al di fuori di sé. Il Dio di Aristotele attira a sé le cose come
causa finale, richiamate a lui dalla sua perfezione. Il Dio di Tommaso attira a sé le
creature per amore, avendo le create per amore, completando così il ciclo dell'amore
aperto con la creazione.
Dio non crea per la sua gloria, poiché questa è inalterabile e non può né crescere né
diminuire. Dio crea invece gli altri esseri non per sé ma perché godano della sua
gloria. In tal senso Dio è Provvidenza, non chiuso in se stesso, nei suoi pensieri,
come per Aristotele.
Nel nuovo contesto cosmo-ontologico tomistico anche il problema del male assume
altri significati. Per la filosofia antica il male è il non essere inteso come la materia
che si ribella all'azione plasmatrice del Demiurgo platonico o delle Intelligenze
aristoteliche dei cieli che danno ordine al mondo sublunare. Il principio del male sta
nella materia, anch'essa eterna ma distinta dal principio eterno del bene. Tommaso
invece, per il quale tutto viene da Dio, pone il problema del male fisico (pena) e del
male morale (colpa) in un diverso quadro. La causa del male fisico sta nella natura
necessariamente finita ed imperfetta del creato. La causa del male morale sta nella
libertà della creatura razionale, cioè dell'uomo, che può non riconoscere la sua
dipendenza da Dio. Il male morale non è un venir meno alla razionalità, non è
identificabile con l'errore, come per i filosofi greci, ma è disobbedienza a Dio.
Anche il problema della materia assume in Tommaso un senso diverso. Viene dissolta
la visione dualistica e pessimistica del mondo greco: la materia non è più fondo e
residuo tenebroso. Platone ha ridotto il corpo, che è materia, a prigione e tomba
dell'anima, mentre Aristotele non riconosce l'immortalità dell'anima-intelletto
passivo individuale per via delle sue funzioni materiali, vegetative e sensitive, nonché
per il carattere esclusivamente potenziale dell'intelletto dei singoli individui umani,
tant'è che finisce col tornare a tesi platoniche, attribuendo immortalità e divinità ad
un intelletto attivo generale ed astratto, immateriale, separato e al di sopra delle
anime-intelletti passivi, similmente al mondo delle idee di Platone. Per Tommaso
invece il corpo è sacro come lo è l'anima. Egli intende salvaguardare l'inscindibile
unità corpo-anima individuale: è l'uomo individuale che pensa, non l'intelletto attivo-
anima generale; è l'uomo che sente, che prova sentimenti, e non il corpo. Pur
essendo spirituale, l'anima è forma del corpo in senso pieno: vi è stretta unione tra
anima e corpo, anzi la sostanza dell'anima è fondata proprio sulla sua capacità di
animare e di infondere razionalità al corpo in cui è incarnata. Da ciò il primato
della persona, dell'individuo, sulla specie, che Tommaso sostiene. Non la specie
183
umana ma la persona occupa il primo posto; essa è destinata alla visione beatifica di
Dio e non già la specie.
Secondo il pensiero greco Dio è concepito come perfezione e ordine dell'essere, della
realtà, e non già come creatore dell'essere. Il finalismo divino è altresì concepito
come del tutto immanente: il dio greco è dentro il mondo; è l'ordine, l'intelligenza ed
il fine interni al mondo e non al di fuori e al di sopra di esso. Nel pensiero cristiano
Dio è invece assolutamente trascendente; è Creatore, ossia è causa degli enti a cui
partecipa l'esistenza, ed è Provvidenza.
184
Il periodo finale della terza fase della Scolastica: gli inizi della crisi
Nel medioevo la logica viene insegnata nelle facoltà delle arti quale preparazione
all'ingresso nelle superiori facoltà di teologia, di diritto e di medicina; in particolare
viene insegnata nelle discipline del "trivium", dopo la grammatica e la retorica,
precedendo quindi le discipline del "quadrivium" (aritmetica, geometria, astronomia,
musica). Peraltro la logica medievale si configura prevalentemente come
sistemazione didattica della logica antica e ad essa viene per lo più attribuito un
valore essenzialmente strumentale (in greco: "organon") ad altri fini, filosofici o
teologici. Questo indirizzo tradizionale è stato chiamato la "via antiqua" della logica.
Tuttavia, verso la metà del Duecento gli studi logici cominciano ad assumere una
più specifica autonomia ed un valore non più meramente strumentale. Questo nuovo
indirizzo è stato designato col nome di "via moderna" della logica. Tale innovazione
si ha in particolare col sorgere della dottrina dei termini, cioè delle parole e del loro
significato, allorché la logica viene considerata in rapporto stretto con la
grammatica e vengono studiati i termini logico-grammaticali, cioè il significato e le
proprietà delle parole, considerate come segni convenzionali delle cose. Si opera una
distinzione fra termini che hanno significato di per sé, come i nomi o i verbi, chiamati
termini categorematici, e termini che non hanno significato di per sé ma svolgono
funzioni di collegamento tra altri termini, modificando o determinando i nomi o i
verbi in certi modi precisi mediante negazioni, congiunzioni, qualificazioni, ecc.
Questi vengono chiamati termini sincategorematici, quali ad esempio: ogni, nessuno,
qualche, non, e, o, non, salvo, soltanto, ecc.
185
Il sistematore della nuova logica è stato Pietro Ispano, nato a Lisbona e vissuto nel
XIII secolo, divenuto Papa Giovanni XXI. Egli sviluppa in particolare la dottrina
della supposizione , cioè del rapporto tra la parola, il termine, e l'oggetto che viene
significato. Tale dottrina afferma che la funzione del sostantivo soggetto di una
proposizione (ad esempio "l'uomo è mortale") è semplicemente quella di
rappresentare gli oggetti che esso appunto "suppone", ossia indica, e non si riferisce
invece a forme universali di tipo aristotelico (il termine "uomo", cioè, non si riferisce
alla forma o essenza dell'uomo ma ha invece per suoi "supposti", suoi riferimenti, i
vari uomini concreti: Pietro, Paolo, Giovanni, ecc.). In altri termini, la logica della
supposizione è nominalistica e non ammette forme o realtà universali ma soltanto
cose o esseri individuali, quali sono conosciuti nell'esperienza. A tale logica si rifarà
l'empirismo del secolo successivo a partire da Ockham.
Nella storia della logica medievale occupa un posto a parte Raimondo Lullo, nato a
Palma di Maiorca intorno al 1235 e morto nel 1315. Contro la filosofia araba, specie
di Averroè, egli ritiene che tutte le credenze della fede possano essere dimostrate con
ragionamenti logici. Mentre la "via moderna" della logica tentava di liberarsi dai
vincoli della metafisica e della teologia, la logica di Lullo intende porsi al servizio
della religione come importante strumento di persuasione e conversione degli
infedeli.
Originale è la sua concezione di una logica intesa come scienza universale,
fondamento di tutte le scienze, esposta nella sua opera maggiore intitolata "Ars
magna". Poiché ciascuna scienza ha principi propri e diversi, vi deve essere allora,
afferma Lullo, una scienza generale dei principi primi e comuni di tutte le scienze
particolari. Però questa scienza generale non può essere la metafisica, come voleva
Aristotele che parlava di "filosofia prima", perché la metafisica ha per oggetto
l'essere mentre la scienza generale che sta a fondamento delle scienze particolari,
cioè la logica, deve considerare soltanto i termini di base, dalla cui combinazione e
composizione possono risultare i principi di tutte le scienze. Sono in tal senso termini
di significato generale quelli come bontà, grandezza, differenza, concordanza, Dio,
uomo; oppure si tratta di regole cui corrispondono domande molto generali: che,
perché, quale, quando, dove, ecc. Da tali termini o regole dovrebbero risultare,
mediante composizione, tutte le verità naturali cui l'intelletto umano può giungere.
Viene introdotto in tal modo il concetto di logica intesa come "arte combinatoria",
che procede mediante la scomposizione dei concetti composti in nozioni del tutto
semplici, nonché mediante l'uso di lettere e simboli per indicare queste nozioni
(linguaggio simbolico), nell'intento di scoprire le regole per operare tutte le
combinazioni possibili dei termini. Il progetto di arte combinatoria avrà grande
fortuna nei secoli successivi, soprattutto nel Rinascimento (ne fu entusiasta seguace
Giordano Bruno). È questo uno sviluppo della logica ancora lontano dall'attuale
logica simbolico-combinatoria, ma nell'arte combinatoria di Lullo si trovano
significative anticipazioni, riprese da Leibniz, quali le idee di calcolo logico-
combinatorio e di simbolismo espressivo, indispensabili per sviluppare il calcolo
delle espressioni logiche.
186
Pur nel prevalente interesse per i temi filosofico-teologici, sono sopravvissute nel
medioevo anche indagini di filosofia della natura, riservate dapprima ad alchimisti,
maghi e simili. Ma col XIII secolo, grazie anche alla diffusione dell'aristotelismo e
della fisica aristotelica, che individua nel mondo fisico un campo autonomo di
indagini della ragione, si assiste ad una sensibile fioritura delle ricerche
naturalistiche, che cessano di essere lavoro segreto, riservato agli iniziati,
diventando una componente significativa dell'attività filosofica.
Già Alberto Magno, abbiamo visto, aveva insistito sull'importanza della ricerca
sperimentale, affermando al riguardo: "unicamente l'esperienza dà certezza in questi
argomenti, perché su fenomeni così particolari il sillogismo non ha valore".
La ricerca naturalistico-sperimentale viene coltivata in particolare dai
francescani inglesi, tra cui Roberto Grossatesta che ne fu il principale iniziatore, e
Ruggero Bacone, suo allievo, che ne fu il massimo rappresentante. Infatti, mentre
nell'università di Parigi rimane preponderante l'attenzione per la filosofia e la teologia
nonché per le arti del Trivio (grammatica, retorica, e dialettica o logica), ad Oxford
invece l'interesse di più di un maestro si dirige soprattutto alle arti del Quadrivio
(aritmetica, geometria, musica e astronomia) e proprio ad Oxford si hanno le prime
manifestazioni più significative di una filosofia empirica della natura connessa ad
iniziali forme di indagini sperimentali.
Ad Oxford Roberto Grossatesta, francescano, nato nel 1175, compie studi di
specifica natura scientifica ed empirica sulle proprietà degli specchi e sulle lenti,
benché all'interno di una "cosmologia della luce" (la prima realtà creata è la luce e le
nove sfere celesti, mentre i quattro elementi terrestri si formano attraverso processi di
diffusione, aggregazione e disgregazione della luce). Ma soprattutto egli esprime un
principio che sarà a fondamento del pensiero di Galileo e della fisica moderna, vale a
dire il principio dell'utilità dello studio delle linee, degli angoli e delle figure
geometriche, poiché senza di esso non si può conoscere niente della filosofia
naturale.
Ruggero Bacone (1214-1292) studia ad Oxford e poi a Parigi, dove diventa maestro
di teologia. Le sue teorie sono state condannate dal Padre generale dell'ordine
francescano e Bacone è stato costretto ad una severa clausura. Nella sua opera
principale, intitolata "Opus maius", Bacone considera Aristotele il filosofo più grande
tuttavia, egli precisa, ciò non significa che la ricerca della verità termini con
Aristotele perché la scienza è continuo progresso. Due sono per Bacone i modi della
conoscenza: la ragione e l'esperienza. Ma solo l'esperienza dà certezze mentre la
ragione non arriva mai ad eliminare il dubbio. A sua volta l’esperienza è di due
specie: quella esterna, che facciamo attraverso i sensi, e quella interna, che non è
l'autocoscienza ma che proviene dall'illuminazione divina agostiniana. In tal modo
Bacone concilia il suo sperimentalismo con la teoria dell'illuminazione.
Dall'esperienza esterna derivano le verità naturali, da quella interna le verità
soprannaturali. Però anche alcune verità naturali, che l'uomo possiede sin
dall'origine (innatismo), non derivano dall'esperienza ma da una illuminazione
187
Nasce nella cittadina di Duns, in Scozia, da cui il nome di Scoto. Diventa francescano
e compie la sua formazione ad Oxford e a Parigi, dove sarà anche insegnante. È stato
chiamato "Doctor subtilis" per la sottigliezza e l'acutezza del suo pensiero.
La sua opera principale è intitolata "Opus Oxoniense".
Dopo quello di Tommaso, Duns Scoto è autore del secondo e fondamentale nuovo
corso della Scolastica, lungo il quale, per la rigorosa differenziazione operata tra
filosofia e teologia, la Scolastica stessa si avvia verso l'esaurimento del suo ciclo.
Duns Scoto infatti, rispetto alle frequenti dispute fra tomisti, averroisti ed agostiniani,
sente il bisogno di andar oltre tali contrasti, puntando da una parte sull'autonomia e
sui limiti della filosofia e, dall'altra, sullo specifico ambito e ricchezza di problemi
della teologia, superando così il fondamentale intento, proprio della Scolastica
tradizionale, di conciliare e trovare un accordo fra i due ambiti.
Abbiamo visto che per gli agostiniani la filosofia deve intendersi assorbita dalla
teologia, nel senso che la sua funzione essenziale è di chiarire ed interpretare
razionalmente la verità religiosa senza metterla mai in discussione; per gli averroisti,
al contrario, la filosofia è fonte prevalente di verità rispetto alla teologia; per i
tomisti, dal canto loro, filosofia e teologia devono intendersi in reciproco accordo.
Per Duns Scoto va invece riconosciuta una netta distinzione dei due ambiti.
Infatti:
1. la filosofia si occupa dell'ente (dell'essere e della realtà); segue il procedimento
dimostrativo; si basa sulla logica naturale; si occupa di nozioni generali o
universali in quanto è indotta, per sua natura, a seguire un processo conoscitivo
basato sull'astrazione; ha infine un carattere essenzialmente teoretico
(conoscitivo) e mira al conoscere per il conoscere;
2. la teologia tratta invece gli "articula fidei", cioè gli oggetti di fede; segue un
procedimento persuasivo; si basa sulla logica del soprannaturale;
approfondisce quanto Dio si è degnato di rivelare circa la Sua natura e il nostro
destino; ha un carattere essenzialmente pratico (morale) poiché volta ad indurci
ad agire più correttamente.
La filosofia non migliora se viene subordinata alla teologia, né quest’ultima diventa
più rigorosa e persuasiva se utilizza gli strumenti della filosofia. Da Duns Scoto le
polemiche tra ragione e fede sono ritenute derivare proprio dall’imprecisa e confusa
considerazione dei rispettivi ambiti di ricerca. Pur nei suoi limiti, la sola
conoscenza e scienza possibile nell'uomo è quella della ragione. La fede non ha
nulla a che fare con la scienza ma ha invece un valore squisitamente pratico-
morale. Il campo delle conoscenze scientifiche e filosofiche è contraddistinto dal
carattere necessario e razionale delle dimostrazioni, mentre il campo della fede è
quello della libertà (di adesione) e quindi dell'impossibilità di ogni dimostrazione
189
È questa una parte piuttosto originale della filosofia di Duns Scoto. Con l'intento di
evitare equivoci tra elementi filosofici e teologici, Duns Scoto sottopone ad analisi
critica tutti i concetti complessi (composti di essenza, la forma o concetto in sé, ed
esistenza, la reale sussistenza) al fine di ottenere concetti semplici. Un concetto è
semplice quando non è identificabile o commisto con nessun altro, quando è cioè
assolutamente univoco (indicante una sola realtà od ente), tale per cui è solo possibile
affermarlo o negarlo e non l'uno e l'altro insieme: ossia non può essere in parte
affermato ed in parte negato, come nel caso dei concetti analogici, che sono sempre
composti (ad esempio una certa specie di animali può esistere ma pure no od
estinguersi) .
Fra tutti i concetti semplici ed univoci, il primo e fondamentale concetto è quello
di ente, o sostanza comune o sostanza prima, privo di qualsiasi determinazione (tale
cioè da non essere ancora un particolare modo di essere, un particolare ente) ma
invece assolutamente generico ed astratto. È chiamato anche sostanza comune poiché
190
ciò che è comune in ogni ente, sia esso una cosa concreta o un concetto, è l'essere,
cioè l'esistenza, ed è chiamato anche sostanza prima perché è la prima nozione
(concetto) posseduta dall'intelletto. L’ente concepito come sostanza comune o
sostanza prima è il primo concetto intuitivamente colto dall'intelletto umano: è
ancora del tutto indifferenziato e quindi, in questo senso, del tutto univoco, dotato
cioè di un unico indistinto significato. È questa la dottrina dell'univocità dell'ente,
che Duns Scoto formula in contrapposizione alla dottrina della molteplicità
dell'essere di Aristotele. Quando noi percepiamo un ente, in un primo momento non
sappiamo ancora se esso sia sostanza o accidente, se sia divino o creato: dapprima
esso è percepito come sostanza comune indeterminata, che ancora non è né
individuale né universale. Solo successivamente, mediante un processo di
individualizzazione o di astrazione e generalizzazione, giungiamo a cogliere la realtà
individuale concreta propria dell'ente oppure ne concepiamo il concetto, cioè la sua
universalità, il suo valore universale.
Duns Scoto parte dalla fondamentale distinzione tra conoscenza intuitiva e
conoscenza astrattiva. La conoscenza intuitiva è quella dell'ente indifferenziato, della
sostanza prima e comune. Sulla conoscenza intuitiva è fondata la metafisica, intesa
come scienza del significato originario e primo (generico e indifferenziato)
dell'essere. La conoscenza astrattiva invece astrae, cioè prescinde dall'esistenza reale
dell'ente, dell'oggetto, poiché, mediante un procedimento di generalizzazione, mira a
determinare il concetto, l'universale; ad esempio, mira a determinare il concetto
universale di albero, valido per tutti, prescindendo dai singoli alberi concreti, ognuno
diverso dall'altro.
In altri termini, posto che nella realtà non esistono che cose individuali e che i
concetti universali esistono solo nell'intelletto, Duns Scoto si preoccupa di
trovare il fondamento comune sia del carattere individuale delle singole cose
concrete sia del carattere universale dei concetti. Questo comune fondamento è
appunto l'ente indifferenziato o sostanza comune e prima, che viene per primo
intuitivamente colta riguardo ad ogni ente, ad ogni essere. Esempio ulteriore: la
sostanza (sostanza qui=realtà che può essere sia concettuale sia concreta) "uomo" è la
natura comune di tutti gli uomini. È questa la sostanza comune che da un lato sta
fondamento degli uomini singoli concreti, che sono molteplici, e che dall'altro lato sta
a fondamento del concetto di "uomo", in quanto tale unico ed universale, col quale
noi pensiamo gli uomini stessi.
Abbiamo visto che la sostanza prima o comune è quella dell'ente univoco, generico e
indifferenziato, poiché può essere indifferentemente una cosa concreta individuale,
oppure un concetto universale, sostanza che tuttavia è il fondamento di entrambi:
infatti dalla sostanza comune l'intelletto astrattivo coglie successivamente l'universale
(il concetto), mentre i sensi, sempre successivamente, colgono la realtà individuale
esterna, cioè l'oggetto specifico.
191
fenomeni naturali, così come ritenevano altresì immutabili le essenze sia della realtà
che dell'uomo, per cui tutto avverrebbe secondo necessità. Da ciò il nome di
"necessitarismo" attribuito a questa concezione greco-araba. Invece Dio, creando
liberamente gli enti, li ha voluti caratterizzati nella loro singolarità ed individualità e
non irrigiditi in necessarie essenze formali. Il mondo e gli uomini hanno quindi il
carattere della contingenza (=che possono o non possono esistere). Questa
contingenza per Duns Scoto non riguarda solo il mondo ma anche le leggi morali.
L'accordo dei pensatori medievali era unanime circa la contingenza del mondo, non
altrettanto per quanto riguarda le norme morali.
Per Duns Scoto l'idea di bene, sul piano morale, non è deducibile dall'idea dell'essere,
cioè della realtà, se buona o no, ma solo dal Dio infinito. Il bene è ciò che Dio
prescrive e vuole; e può volere tutto o il contrario di tutto. La sola legge cui anche
Dio è vincolato è rappresentata dal principio di non contraddizione. Di conseguenza
la teoria del diritto naturale (quelle norme morali che si ritengono insite nella
natura umana: il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà, ecc.) non ha valore
assoluto ed incontestabile. Afferma infatti Duns Scoto che parecchie cose proibite
potrebbero diventare lecite se il legislatore (Dio) le comandasse o le permettesse:
addirittura anche il furto, l'adulterio, l'omicidio. Esse infatti non implicano una
insuperabile contrapposizione rispetto al fine ultimo della salvezza. I precetti morali
veramente necessari e non contingenti sono esclusivamente i primi due
comandamenti stabiliti da Dio e trasmessi a Mosé, cioè l'unicità di Dio e l'obbligo di
adorare lui soltanto. Tutti gli altri precetti non sono assoluti di per sé: la loro
obbligatorietà deriva solo dalla volontà di Dio, che così li ha prescritti ma che
avrebbe potuto prescrivere anche diversamente.
Le norme morali derivano dunque unicamente dalla volontà divina e non dalla
circostanza che esse sono morali in sé, perché se così fosse si avrebbe solamente
un'etica razionale, la cui trasgressione sarebbe irrazionale, non però
peccaminosa. Pertanto il male è peccato e non errore (ignoranza o mancanza di
conoscenza del bene) come ritenevano invece Socrate e i filosofi greci in genere. Il
necessitarismo pagano è ampiamente superato: "Come Dio poteva agire
diversamente, così poteva stabilire altre leggi morali".
Se il male è nel peccato e non nell'errore, ciò significa allora che non è l'intelletto
ma la volontà umana che determina la condotta morale. La volontà umana è
libera: in quanto tale è l'unica vera espressione della superiorità dell'uomo sul
mondo delle cose, governato dalla necessità (secondo rapporti necessari di causa-
effetto) e non dalla libertà. Tale concezione della libera volontà umana è definita col
termine di "volontarismo". Duns Scoto però non cade nell'arbitrarismo, cioè non
giustifica una volontà umana assolutamente arbitraria, sregolata. Di fronte alla
domanda del come possa la volontà amare ciò che ignora, ossia Dio, dal momento
che ciò che caratterizza la morale è la volontà stessa e non l'intelletto, ossia la
conoscenza del bene e del male, Duns Scoto risponde che la luce dell'intelletto
divino è necessaria però non è determinante. Non è l'intelletto che sceglie il bene
ma è la volontà che liberamente si indirizza verso questa o quella cosa. L'unica guida,
l'unica legge della volontà umana, se vuole essere buona, non è l'intelletto ma
193
soltanto la volontà divina. Fare il bene per l'uomo significa fare ciò che la volontà
(i comandamenti) divina gli prescrive. Tutta la vita morale dell'uomo si riduce
perciò all'obbedienza ai comandamenti di Dio. È tale obbedienza che caratterizza
l'azione umana veramente buona, così come, per contro, è l'odio verso Dio il solo atto
veramente cattivo. Ogni altro atto è buono o cattivo secondo le circostanze: può
esserlo in alcuni casi e non in altri.
Potente in Duns Scoto è l'esaltazione della morale religiosa, derivante dai precetti
divini; debole è la considerazione della morale razionale, ispirata dalla sola ragione
umana.
L'esistenza di Dio.
delle cose, quando invece la possibilità della loro esistenza, anzi la loro esistenza
effettiva, è dimostrata dall'esperienza.
L'ente primo di cui in tal modo Duns Scoto mostra l'esistenza non è causa motrice,
motore immobile, ma in quanto ente, cioè essere, è causa efficiente di tutte le cose,
ossia il loro creatore e, in quanto essere primo o supremo, è anche causa formale,
esemplare, cioè il modello di ogni ente creato, ed è anche il fine ultimo di tutti gli
enti.
La contemplazione dell'infinità e perfezione di Dio è anche, in particolare, il fine
ultimo dell'uomo ed è un fine che, a causa della distinzione e diversità tra filosofia e
fede, non già i filosofi ma solo la fede è in grado di indicare, il che giustifica
l'insostituibile valore pratico-morale della teologia quale disciplina distinta dalla
filosofia.
195
Nella prima metà del XIV secolo, oltre a quello metafisico-teologico, diventa più
vivace anche il dibattito giuridico-politico, particolarmente in merito alla teoria del
diritto naturale ed al problema dei rapporti tra potere ecclesiastico (Papato) e potere
civile (Impero).
196
stessa definizione delle dottrine di fede l'autorità legittima non è quella del Papa, ma
quella del Concilio dei vescovi e dei teologi.
Va rilevata la modernità delle tesi di Marsilio: secondo il principio che più tardi sarà
ripreso da Hobbes, il compito dello Stato viene limitato alla difesa della pace tra i
cittadini, cioè all'eliminazione dei conflitti e, conseguentemente, il potere della legge
viene circoscritto agli atti esterni dei cittadini, cui va garantita la libertà di pensiero
e di coscienza, non potendo la legge imporsi anche sulle coscienze degli uomini.
La sovranità popolare e lo Stato di diritto sono dunque i due innovativi pilastri
dell'originale teoria giuridico-politica di Marsilio. Vi è in ciò il preannuncio,
impressionante in uno scrittore del Trecento, di dottrine che matureranno ben più
tardi, nel 17º e 18º secolo, con il cosiddetto "contrattualismo".
198
Le stesse prove dell'esistenza di Dio non hanno per Ockham valore dimostrativo.
Infatti, l'esistenza di una qualsiasi realtà è rivelata all'uomo solo dall'esperienza.
Ma di Dio l'uomo non ha esperienza. Anche l'essenza di una realtà è conoscibile
solo se dapprima ne è conoscibile l'esistenza. Pertanto l'uomo non conosce né
l'esistenza né l'essenza di Dio. Non valgono quindi le prove a posteriori
dell'esistenza di Dio né vale la prova ontologica a priori poiché la proposizione "Dio
esiste" non è evidente in quanto l'esistenza, anche quella di Dio, non è
necessariamente implicata dall'essenza, ancorché concepita come quella di essere
perfettissimo.
In particolare, con riguardo alle prove a posteriori, Ockam critica anche la prova
cosmologica, di derivazione aristotelica, formulata da Tommaso e da Duns Scoto, in
quanto nega il valore dei due principi su cui la prova cosmologica si fonda:
1. non è vero in senso assoluto che tutto ciò che si muova sia mosso da altro;
infatti l'anima e gli angeli si muovono da sé e così il peso che tende al basso;
2. non è vero in senso assoluto che è impossibile risalire all'infinito nella serie
dei movimenti; infatti nelle grandezze continue (ad esempio i numeri
matematici) il movimento si trasmette necessariamente e incessantemente
dall'una all'altra delle infinite parti che le compongono (ad un numero si può
sempre aggiungerne un altro, cosi come ciascun numero o serie di numeri è
sempre divisibile all’infinito).
Quanto alla prova desunta dal principio causale (Dio come causa del creato),
Ockam non ritiene dimostrabile che Dio sia causa efficiente, totale o parziale, dei
fenomeni e che neppure le sole cause naturali bastino a spiegare fenomeni. Infatti
Ockham nega che il rapporto di causalità sia dimostrabile perché noi abbiamo
un'intuizione ed esperienza separate della causa e dell'effetto.
La conclusione è che tutte le prove fornite dell'esistenza di Dio possono avere tutt'al
più un valore di plausibilità ma non dimostrativo. L'esistenza di Dio può essere solo
creduta, non dimostrata.
A maggior ragione, allora, non si possono conoscere e dimostrare gli attributi di
Dio.
Non si può dimostrare con certezza che vi sia un unico Dio, perché nessuna
contraddizione deriverebbe dall'ammettere una pluralità di cause prime. Neppure si
può dimostrare l'immutabilità di Dio, poiché sembra anzi negata dall'incarnazione di
Dio in Cristo, ovvero in una natura inferiore. Non può essere dimostrata neppure
l'onnipotenza e l'infinità di Dio, confutando rispetto a quest'ultima gli argomenti di
Duns Scoto. Di Dio, dice Ockham, non si può avere che un concetto parziale, desunto
per astrazione dalle cose naturali di cui soltanto possiamo avere esperienza. In
merito poi al dogma della Trinità, Ockam afferma che esso supera ogni senso, ogni
intelletto umano ed ogni capacità di comprensione, per cui può essere accettato solo
per fede. Anche nel concetto di creazione Ockam rinviene contraddizioni. Poiché
nell'eternità, come Agostino aveva insegnato, non c'è né un prima né un dopo, allora
non è necessario ammettere che Dio esisteva prima della creazione e che esisterà
200
dopo. Può sembrare infatti contraddittorio concepire una durata di Dio al di là dei
limiti temporali del mondo poiché, se Egli è eterno, il concetto di durata è estraneo
alla sua natura divina.
Criticando le dimostrazioni tradizionali, Ockam non intende negare l'esistenza di Dio
bensì sottolineare soltanto che la ragione umana deve abbandonare la smania di
dimostrare e di esplicitare. Oltretutto, se si restringe l'ambito della ragione umana per
quanto concerne Dio, diviene per contro più ampio l'ambito della fede.
L'universale quindi esiste solo nell'intelletto; non è un'entità reale bensì solo un
modo di funzionare dell'intelletto medesimo. Riprendendo la dottrina stoica, per
Ockham l'universale è solo un segno, un nome, che indica e sta al posto di una classe
di cose individuali fra loro simili. Poiché sta al posto di qualche cosa d'altro, la
funzione dell'universale, cioè del concetto, è di supposizione.
Per Ockham la supposizione, come per tutta la logica nominalistica del 13º e 14º
secolo, è il riferirsi dei concetti ad oggetti diversi dei concetti stessi. Gli oggetti cui la
supposizione si riferisce sono sempre enti individuali; non esistono entità metafisiche
ed universali come l’"umanità" o la "bianchezza", ecc. La supposizione si riferisce
sempre ad oggetti che hanno un modo di esistenza determinato: o come realtà
empiriche (cose o persone) o come concetti mentali (pensieri) o come segni scritti
(termini, parole). Vi sono quindi tre tipi di supposizione:
1. la supposizione personale, quando il termine indica le cose significate;
2. la supposizione semplice, quando il termine si riferisce ad un concetto della
mente, cioè ad un termine che ha funzione universale ma non per quanto
riguarda le cose significate: ad esempio, "l'uomo è una specie";
3. la supposizione materiale, quando il termine impiegato indica la sua propria
funzione terminologica: ad esempio, "l'uomo è un nome".
Lo stesso termine può dunque avere un significato diverso a seconda della funzione
con cui è impiegato. E la funzione dei termini (gli elementi della proposizione) è
comunque sempre quella di indicare qualcosa di diverso da se stessi. Ockam separa
quindi rigorosamente la logica dalla realtà, distingue fra termini e cose,
rivendicando l'autonomia della logica come scienza. Ciò consente ad Ockham di
occuparsi dei termini come puri simboli e correlarli fra loro ("ars combinatoria") a
prescindere e senza preoccuparsi della realtà designata. In tal modo Ockham offre
una teoria della dimostrazione logica e rigorosa in se stessa, intuendo gli sviluppi
della moderna logica simbolica. Peraltro Ockham invita a non farsi prendere la
202
Ockham opera una sostanziale critica della metafisica tradizionale. Basandosi sul
carattere individuale di ogni realtà, nonché sull'empirismo e sul principio di
economia, ossia su quel procedimento metodologico che i discepoli chiameranno il
"rasoio di Ockham", egli afferma che è assolutamente dannoso ed inutile
moltiplicare gli enti (i generi di cose e i concetti) se non è necessario, creando
realtà intermedie in soprannumero rispetto a quelle da spiegare (come quando,
per volere intendere l'uomo, si ricorre all'idea platonica di umanità). In tal senso
Ockham rifiuta gran parte dei concetti metafisici poiché considerati inverificabili o
inutili.
203
Circa il concetto di sostanza, Ockham anticipa la critica che farà Locke nel XVII
secolo: delle cose noi conosciamo solo le qualità (primarie e secondarie) o gli
accidenti, secondo ciò che ci mostra l'esperienza sensibile. Ma dalle qualità non
possiamo risalire alla conoscenza della sostanza, o sostrato, di per sé invisibile, sulla
quale ritenere appoggiate tali qualità; essa rimane inconoscibile e può essere indicata
solo negativamente come "ciò che non è qualità". Nessun motivo depone a favore
dell'esistenza della sostanza e la sua ammissione viola il principio dell'economia della
ragione.
Ancora più importante è la critica del concetto di causa (causa efficiente), che
precorre Hume. Ockham insiste sulla diversità tra causa ed effetto, per cui dalla
conoscenza dell'effetto non si può in nessun modo certo risalire alla conoscenza della
causa. Neppure si può discendere dalla conoscenza della causa a quella dei possibili
effetti se questi effetti non sono stati dapprima conosciuti attraverso l'esperienza:
l'unico fondamento possibile di un legame tra causa ed effetto è l'esperienza, la quale
però ci mostra soltanto il legame e non la dipendenza di uno dall’altro fra due fatti:
due fatti sono legati l'uno all'altro quando, semplicemente, al verificarsi del primo
anche il secondo tende a verificarsi. Ciò che è empiricamente conoscibile è solo la
diversità tra causa ed effetto, pur nel costante susseguirsi di questo a quella. È
comunque possibile enunciare le leggi che regolano il succedersi dei fenomeni ma
senza la pretesa di un vincolo metafisico necessario tra causa ed effetto, non
essendovi alcuna necessaria certezza che da una determinata causa seguirà sempre,
incontestabilmente, quel determinato effetto.
Il distacco di Ockham dalla metafisica aristotelica risulta evidente anche dalla sua
critica al concetto di causa finale, secondo cui il fine muove all'azione perché amato
e desiderato. Ma questo, per Ockham, è solo un parlare metaforico perché il desiderio
e l'amore non implicano un'effettiva azione. Non è possibile dimostrare, né mediante
proposizioni logicamente evidenti né empiricamente, che un certo effetto sia stato
prodotto da una causa finale, soprattutto con riguardo ai fenomeni naturali, i quali si
svolgono invece in modo uniforme e costante e perciò escludono ogni elemento
contingente e mutevole, come appunto sarebbe l'amore o il desiderio verso un fine.
Non è neppure dimostrabile la causalità finalistica di Dio (il finalismo divino)
nell'universo poiché le cose naturali, prive come sono di conoscenza, producono i
loro effetti indipendentemente dalla conoscenza di Dio. Non ha senso dire che il
fuoco brucia in vista di un fine dal momento che non è necessario postulare un fine
perché si abbia tale effetto (principio di economia). Tale critica prelude a quella
famosa di Spinoza, il quale affermerà: "è comune la convinzione che gli avvenimenti
naturali si verificano in base a leggi costanti, che ne garantiscono l'uniformità ed
escludono ogni arbitrio o contingenza".
Per quanto concerne la gnoseologia (la filosofia della conoscenza), circa il
dibattuto argomento se è necessario distinguere l'intelletto attivo da quello
passivo Ockham risponde che questo è un problema ozioso, inutile. Egli non solo
nega come superflua tale distinzione ma afferma l'unità nell'intelletto dell'atto
conoscitivo. Se il complesso delle conoscenze è unico (ossia è medesimo e unitario
sia nell'individuo sia nella società), unico deve essere l'intelletto che le compie. La
204
conoscenza deriva dal contatto immediato con il mondo empirico ed ogni ricorso ad
entità più complicate va respinto come inutile. Così è in riferimento alle "specie" e ai
"generi" aristotelici, intesi come forme eterne delle cose e come immagini intermedie
tra noi e gli oggetti singoli. I generi e le specie sono inutili per spiegare la percezione
degli oggetti; il valore conoscitivo dei generi e delle specie è nullo perché, se
l'oggetto non fosse immediatamente colto, il genere o la specie non potrebbero
comunque farlo conoscere.
La critica alla metafisica tradizionale è condotta da Ockham anche in base ad un altro
principio, quello del cosiddetto "volontarismo teologico", mediante cui Ockham
esprime la convinzione che il mondo derivi dalla volontà misteriosa e sopra-razionale
di Dio, il quale crea l'universo a suo arbitrio, senza sottostare, come invece preteso
dalla metafisica, a nessuna regola logica che si imponga anche a Dio stesso, quale ad
esempio il principio di non contraddizione. Tant'è vero, secondo Ockham che Dio
avrebbe potuto creare il cosmo in modo totalmente diverso e con leggi
completamente dissimili da quelli vigenti nel nostro mondo. Egli stesso avrebbe
potuto decidere di incarnarsi in un asino o in una pietra senza il sorgere di
contraddizioni.
Le conseguenze filosofiche di tale volontarismo teologico sono evidenti: poiché il
mondo non è stato costruito secondo dei perché logici, necessari e immutabili, ai
filosofi non resta che prendere atto della realtà così com'è senza pretendere di
spiegarne le ragioni metafisiche. In tal modo si rivelano vani tutti i millenari sforzi
della filosofia, quella greca prima e quella cristiana poi, di scoprire le cause ultime
del mondo. L'unica cosa che rimane da fare è di abbandonare la pretesa di capire
l'essenza o il fine dei fenomeni, sforzandosi invece di descrivere come essi
avvengono.
Il rifiuto occamista della metafisica o, meglio, di una certa metafisica apre le
porte alla fisica nel senso moderno del termine.
La critica alla fisica tradizionale e l'avvio di una nuova concezione del cosmo.
celesti (l’etere) è distinta da quella dei corpi terrestri non aggiunge spiegazioni più
precise ed ulteriori. Neppure i seguaci di Ockham seguiranno il maestro su questo
punto. Bisognerà giungere a Nicolò Cusano per trovarlo riaffermato.
Contro Aristotele, Ockham ammette e difende la possibilità di più mondi.
Aristotele argomentava che, se ci fosse un mondo diverso dal nostro, la terra di
quest’ultimo si muoverebbe naturalmente (per la teoria dei luoghi naturali) verso il
centro e si congiungerebbe con la nostra (data la concezione che pone la Terra al
centro dell'universo). Lo stesso accadrebbe per tutti gli altri elementi (acqua, aria,
fuoco), giungendo comunque, così, al formarsi di un mondo unico. Ockham
controbatte negando che lo spazio abbia un unico centro. Un mondo diverso dal
nostro avrebbe un altro centro e un alto e un basso diversi. Tale relatività delle
determinazioni spaziali dell'universo sarà uno dei capisaldi della fisica del
Rinascimento. Induce ad ammettere la pluralità dei mondi, secondo Ockham, anche
l'onnipotenza divina: Dio può produrre infinita materia ed infiniti individui; nulla
vieta che formi con essi un mondo diverso o più mondi diversi dal nostro.
La pluralità dei mondi implica altresì, per Ockham, la possibilità (non la necessità)
dell'infinito reale contro la tesi secondo cui l'infinito è solo potenziale. Infatti
nell'infinito, come si dirà nel Rinascimento, il centro può essere dappertutto. Così
come Dio può sempre creare ulteriore materia, può anche infinitamente estendere la
grandezza del mondo. All'obiezione di Ruggero Bacone che l'infinito non può essere
reale poiché in esso la parte sarebbe identica al tutto, Ockham risponde che il
principio per il quale il tutto è maggiore della parte vale solo per un tutto finito e non
per un tutto infinito, come nel caso delle grandezze continue, quali la serie dei
numeri, il tempo, la velocità, la massa, l'area, la lunghezza. Le grandezze continue,
oltre che infinite, sono altresì infinitamente divisibili e non esistono in esse entità
indivisibili.
Infine, Ockham ammette e difende la possibilità che il mondo sia stato prodotto
ab aeterno. Non lo afferma esplicitamente ma si limita a mostrare che questa
possibilità non è contraddittoria. All'obiezione che se il mondo fosse eterno si sarebbe
già verificato un numero infinito di rivoluzioni celesti, il che è impossibile perché un
numero reale non può essere infinito, Ockham risponde che ciascuna rivoluzione
celeste aggiunta alle altre forma sempre un numero finito, sebbene il succedersi delle
rivoluzioni celesti possa essere indefinito. Ockham è consapevole che l'eternità del
mondo implica la sua necessità, giacché ciò che è eterno non può non essere,
rimanendo esclusa così la creazione come libero atto volontario di Dio. Ma ciò
nonostante ritiene che tale eternità sia probabile, data anche la difficoltà di concepire
l'inizio del mondo nel tempo. Infatti, se Dio è eterno e l'eternità è un infinito presente,
come può esserci stato un passato in cui Dio ha deciso di creare il mondo? Questa
ipotesi, presentata da Ockham come probabile, diverrà certezza nel Rinascimento.
Nel campo della psicologia Ockham critica il concetto di anima come forma o
essenza immateriale ed incorruttibile e pertanto immortale. Noi conosciamo,
206
Il pensiero politico.
Ockham è, con Marsilio da Padova, il maggior avversario, nella sua epoca, della
supremazia politica del Papato. Però, mentre Marsilio si basa su motivazioni
giuridiche, Ockham, contro l'assolutismo papale, si basa sulla concezione del primato
della libertà di coscienza religiosa e della ricerca filosofica. Al Papato non
appartiene il potere assoluto, non solo in materia politica ma anche in materia
spirituale. Il potere papale è stato istituito per il vantaggio dei sudditi, ma non perché
sia tolta ad essi la libertà. Non solo il Papa ma anche il Concilio non hanno il potere
di stabilire le verità che tutti i fedeli hanno l'obbligo di accettare. L'infallibilità in
materia religiosa appartiene soltanto alla Chiesa intesa come comunità e
moltitudine di tutti i fedeli. Per questo suo ideale Ockham combatte il Papato
avignonese in quanto ricco, autoritario e dispotico. Il Papa, come anche il Concilio,
può errare e cadere in eresia, ma non può cadere in eresia la Chiesa intesa come
207
comunità universale di tutti i fedeli la quale, secondo la parola di Cristo, durerà fino
alla fine dei secoli.
Ockham mostra che è infondata la tesi del Papato secondo cui l'autorità imperiale
ha origine da Dio solo attraverso il Papa, il quale soltanto possiede quindi l'autorità
assoluta sia nelle cose spirituali che in quelle temporali. Infatti Ockham osserva che
l'Impero non è stato istituito dal Papa, giacché esisteva prima ancora dell'avvento di
Cristo. L'Impero fu fondato dei Romani e da essi fu trasferito a Carlo Magno ed in
seguito fu trasmesso dai Franchi alla nazione tedesca. I Romani, dunque, e i popoli ai
quali hanno trasferito il potere hanno il diritto di eleggere l'Imperatore, in particolare,
nell'epoca di Ockham, i principi di Germania e non il Papato.
Circa il rapporto tra Impero e Papato Ockham sostiene non solo la teoria
dell'indipendenza dei due poteri, ma riconosce anche un certo potere dell'Impero
sul Papato soprattutto per ciò che riguarda l'elezione del Papa, cosa che, in qualche
caso, può essere nello stesso interesse della Chiesa.
Come francescano persegue altresì l'ideale di un ritorno della Chiesa alla povertà
evangelica ed alla sua missione esclusivamente spirituale e non temporale.
208
sappia concepire: è una "quiete deserta", nella quale non c'è molteplicità né
mutamento, ma solo l'unità; è un'essenza superessenziale ed un nulla superessente.
210
INDICE
Introduzione. 1
La nascita della filosofia. 2
I filosofi naturalisti. La scuola di Mileto: Talete,
Anassimandro, Anassimene, Eraclito di Efeso. 8
Gli Eleati: Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso. 16
I filosofi pluralisti: Empedocle, Anassagora, Democrito. 23
I sofisti: Protagora e Gorgia. 30
Socrate. 37
Platone. 45
Aristotele. 68
L'Ellenismo. 102
Il cinismo. 103
Lo scetticismo. 104
L'epicureismo. 106
Lo stoicismo. 111
La filosofia a Roma. 118
Il neoplatonismo e Plotino. 122
Cristianesimo e filosofia. 129
La filosofia patristica. 131
Sant'Agostino. 134
La filosofia scolastica. 145
Prima fase della scolastica. Scoto Eriugena. 147
Seconda fase della scolastica. Anselmo d'Aosta. 149
Il problema degli universali. 153
Pietro Abelardo. 156
Bernardo di Chiaravalle. 158
Terza fase della scolastica. 160
La filosofia islamico-araba. Avicenna e Averroè. 161
Bonaventura da Bagnoregio. 164
Alberto Magno. 167
Tommaso d'Aquino. 168
Periodo finale della terza fase della scolastica.
Gli inizi della crisi. 184
Giovanni Duns Scoto. 188
Quarta fase della scolastica e suo dissolvimento. 195
Guglielmo di Ockham. 198
1
VOLUME SECONDO
DALL’UMANESIMO ALL’ILLUMINISMO
INTRODUZIONE.
Francesco Lorenzoni
3
UMANESIMO E RINASCIMENTO.
che non è più considerato, come nel Medioevo, un pellegrino nella vita terrena in
attesa di quella ultraterrena. L'uomo vale anche per se stesso: è concettualmente
collocato al centro dell'universo. Il suo fine non è più soltanto la salvezza
ultraterrena ma anche il saper vivere la vita terrena con senso di responsabilità, con
soddisfazione ed impegno civile. Si passa dal teocentrismo (Dio sta al centro)
medievale all'antropocentrismo (l'uomo sta al centro). La vita attiva diventa più
importante della vita contemplativa esaltata nel Medioevo, secondo cui ogni
interesse doveva essere anzitutto rivolto alla conoscenza filosofico-teologica. Viene
invece attribuito valore anche alla conoscenza e alla pratica delle cose umane e
terrene.
L'uomo e Dio.
L'uomo dell'Umanesimo e del Rinascimento ha riconquistato fiducia nelle proprie
individuali capacità e nel proprio valore. Anche nei confronti di Dio aspira ad un
rapporto più diretto: sente come un peso eccessivo l’autoritarismo della Chiesa e
la sua tendenza a regolare i comportamenti individuali fin nel dettaglio. L'individuo
vuole essere più autonomo nel praticare la propria fede e nell'interpretare le Sacre
scritture, ruolo questo che la Chiesa considerava esclusivamente suo. Saranno questi
nuovi atteggiamenti e questi nuovi modi di sentire che porteranno alla contestazione
della struttura gerarchica della Chiesa e quindi alla Riforma protestante cui seguirà la
Controriforma cattolica.
L'atteggiamento verso il tempo.
Con la nuova mentalità cambia anche il modo di concepire il tempo:
1. il tempo della vita terrena non è più considerato solo come attesa e cammino
verso l'aldilà, ma assume importanza e valore in se stesso; la brevità della vita
comporta che il tempo e la vita terrena siano vissuti intensamente;
2. il tempo della società e dell'economia agricola medievale era regolato dalla
natura, quello della nuova società ed economia umanistica e rinascimentale è
un tempo che l'uomo vuole controllare e misurare poiché inteso ormai
coincidere col denaro (il tempo è denaro); meno tempo si impiega nella
produzione economica maggiore è il guadagno; il tempo non va sprecato.
Rivalutazione del lavoro e della ricchezza.
Collegata alla superiorità della vita attiva su quella contemplativa è l'importanza
attribuita al lavoro umano: il fine dell'uomo non è più la fuga dal mondo per
l'aldilà, secondo l'ideale dell'eremita e dell'ascetismo medievali, ma anche la vita
terrena ha un suo valore. Il lavoro non è più considerato una maledizione che ha
colpito l'uomo a causa del peccato originale, ma come una sorta di collaborazione
dell'uomo nell'opera creatrice di Dio. Ed anche il frutto del lavoro, ossia la
ricchezza, viene guardato positivamente. Essere ricchi non è una colpa se è il risultato
di un onesto lavoro ed impegno personale.
Nuova concezione della natura.
L'economia agraria medievale dipendeva strettamente dagli eventi meteorologici
naturali (col bel tempo c'erano buoni raccolti e col cattivo tempo c'erano scarsi
raccolti): la natura veniva perciò considerata come qualcosa di non controllabile
dall'uomo. La nuova economia mercantile ed artigianale è invece largamente
5
Nasce a Genova da una famiglia fiorentina di mercanti colà emigrata. Studia lettere e
giurisprudenza. È stato non solo letterato e filosofo, ma anche architetto, scultore e
pittore.
Tra le opere scritte si possono ricordare i dialoghi intitolati "Della famiglia". In essi
vengono presentati esempi, indicazioni pratiche e modelli di vita tipici della
borghesia del tempo e soprattutto della classe dei mercanti. Gli argomenti non sono
specificatamente filosofici, ma rendono bene la nuova mentalità e i nuovi ideali
dell'Umanesimo.
Il mercante, protagonista dei dialoghi, è il diligente padre di famiglia che organizza
complesse attività economiche; la moglie è colei che custodisce i beni da lui
accumulati e i figli sono visti come i continuatori della sua attività.
L'opera è scritta in volgare. In essa si coglie bene la "filosofia pratica", che esalta la
vita attiva caratterizzante i nuovi ideali umanistici e la nuova visione dei compiti e
del ruolo sociale dell'uomo dell'età dell'Umanesimo.
Il personaggio principale dei dialoghi si chiama Giannozzo. Dichiara che l'uomo può
dare vera definizione su tre sue cose: l’animo, il corpo e il tempo.
Il buon uso dell'animo è la virtù, intesa non più come virtù cristiana ma come
capacità di stabilire buoni rapporti umani, di mantenere l'animo sereno e di non fare
mai cose malvagie. Il buon uso del corpo consiste nel preservare la salute attraverso
l'esercizio fisico e la dieta. Il buon uso del tempo esprime concetti che hanno
maggior valore filosofico. Il tempo non è più quello che dipende dal fato, dal destino
o dalla esclusiva volontà di Dio, ma il suo buon uso consiste nel saper organizzare la
propria esistenza e le proprie attività. Il peccato maggiore è sprecare il tempo, non
9
adoperarlo, perché è come gettare via la propria vita. Usando bene il proprio tempo,
in maniera attiva e laboriosa, l'uomo è anche in grado di controllare la fortuna, ossia
di evitare la cattiva sorte.
L'attività dell'uomo va finalizzata non solo all'utilità individuale ma anche a
quella degli altri uomini e della città. È da condannare chi si dà alla politica solo
per ambizione di potere, ma spetta ai buoni cittadini di prestare la loro opera anche al
servizio dello Stato.
La dotta ignoranza.
Quando si cerca di conoscere le varie cose, in genere si paragona ciò che per noi è
certo e noto con ciò che è incerto e ignoto. La conoscenza è quindi proporzione
(rapporto, confronto, paragone) tra il noto e l'ignoto. Dati ad esempio tre termini
noti, di cui i primi due stiano fra loro in un certo rapporto, è possibile scoprire un
quarto termine ignoto che stia col terzo nello stesso rapporto in cui il secondo sta col
primo (è il modello delle proporzioni matematiche). Pertanto, quando si studiano le
cose finite è sempre possibile fare un paragone, una proporzione fra ciò che ci è
10
più noto, che ha un maggior grado di certezza, e ciò che ci è meno noto, che ha un
minor grado di certezza. Ma questa proporzione non è più possibile quando
vogliamo conoscere l'infinito e Dio, essendo entità lontanissime da ciò che già ci è
noto, mentre la conoscenza umana funziona solo partendo da cose note in base a cui
comprenderne altre ancora non note, ma comunque vicine a quelle già conosciute.
Invece Dio e l'infinito sono così lontani dalle cose finite più vicine a noi che sfuggono
ad ogni proporzione, ad ogni paragone, e quindi rimangono ignoti: la conoscenza
umana, che è finita, non potrà mai conoscere pienamente Dio, che è infinito. Perciò
bisogna riconoscere la nostra ignoranza su Dio. Però l'uomo ha consapevolezza
di questa sua ignoranza, di questa assoluta sproporzione fra la mente umana finita e
Dio infinito; pertanto, essendo consapevoli di questa nostra ignoranza, essa può
essere definita una "dotta" ignoranza.
Se l'uomo non potrà mai conoscere pienamente Dio, tuttavia può avvicinarsi
indefinitamente ad una conoscenza sempre più completa di Dio, così come un
poligono inscritto in un cerchio può progressivamente avvicinarsi sempre di più alla
circonferenza del cerchio pur senza mai coincidere con essa.
Non ci può essere dunque conoscenza positiva (completa) di Dio. Di lui possiamo
dire meglio ciò che non è anziché ciò che è: Cusano riprende la cosiddetta "teologia
negativa". Di Dio possiamo soltanto dire che è al di là dei limiti e delle possibilità
della conoscenza umana, che è il massimo. La teologia negativa è la necessaria
premessa di ogni teologia positiva che intenda conoscere qualcosa di Dio.
Dio è l'infinito, la totalità dell'essere, ossia comprende in sé ogni realtà, tutto
l'universo, pur non identificandosi e non coincidendo con esso, poiché Dio è
trascendente e non immanente. L'universo non può avere in sé nulla che non sia già in
Dio, che è tutto. Tutto ciò che è nell'universo deriva da Dio ed è stato da lui creato.
Per Cusano nell'infinito, e quindi in Dio, gli opposti coincidono: nell'infinito non
valgono più le leggi della conoscenza umana e il principio di non contraddizione. Vi
è coincidenza dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo. L'infinito è al
di sopra di ogni distinzione tra le cose, di ogni cosa determinata, ed è al di sopra di
ogni opposizione tra le cose, al di sopra di tutte le cose fra di esse contrarie, ma tutte
le contiene. L'infinito è totalità, cioè unità, non è composto da cose o parti
determinate perché è al di sopra di esse. Quindi l'infinito è totalità
indeterminata: perciò l'infinito, che è il tutto, coincide col nulla, col nulla di
determinato. Questa è appunto la coincidenza degli opposti, proprio come un
triangolo con un lato infinito finisce col coincidere con una linea retta, cioè col suo
opposto.
In Dio tutte le cose tornano all'unità, senza più distinzioni ed opposizioni: in questo
senso Dio è "complicatio" (=inclusione, riunificazione) dell'universo. Ma per
converso Dio si spazializza, si distende e si distribuisce nell'universo, che è creato e
deriva da lui: in questo senso Dio è "explicatio" (=esplicarsi, distendersi, specificarsi
e differenziarsi) dell'universo. Riappare quindi la coincidenza degli opposti: Dio è
11
Il rapporto fra Dio e l'universo. Il principio del "tutto in tutto". L'uomo come
microcosmo.
Dio come infinito e totalità contiene in sé, include (complicatio) tutte le cose che si
esplicano nel mondo. Tutto l'universo è in potenza contratto (concentrato) in Dio,
ma poiché gli opposti coincidono ciò significa altresì che Dio è contratto
nell'universo, ossia l'universo è manifestazione di Dio nel senso che nell'universo è
reso manifesto, esplicito e attuale ciò che in Dio è implicito e incluso. Dio come unità
si manifesta nella pluralità degli elementi dell'universo; ogni cosa reca in sé una
scintilla divina.
Allora anche ogni essere, ogni ente è contrazione, è un concentrato dell'universo,
essendo ogni essere contrazione (manifestazione) di Dio. Ciascun ente pertanto, si
può dire, riassume l'universo intero e riassume Dio. L'universo è tutto in tutto, è in
ogni cosa, secondo l'antica massima di Anassagora. Qualunque cosa è in qualunque
altra perché tutte le cose sono fra loro collegate ed il finito è collegato con l'infinito
(coincidenza degli opposti). Ogni cosa è dunque un microcosmo, perché contrae in
sé tutte le cose. Ogni cosa è un'unità ma, per la coincidenza degli opposti, e anche
pluralità contratta.
Anche l'uomo è microcosmo, anzi è microcosmo privilegiato in quanto, essendo
dotato di mente e di conoscenza, egli, a differenza degli altri enti, ha consapevolezza
di contrarre, di concentrare in se stesso tutte le cose. In tal senso sussiste contratta
nell'uomo l'unità di tutti, dell’intera umanità. L'umanità contiene, in potenza,
(potenzialmente) Dio e l'universo. L'uomo è un piccolo mondo che è parte di quello
grande. In tutte le parti si riflette il tutto, perché la parte è parte del tutto. Il concetto
di uomo come microcosmo diviene un proclama ideale di tutto l'Umanesimo.
infatti è composta da materia ma, dice Cusano, nulla di materiale può rimanere fisso
ed immobile perciò, ad ulteriore motivazione, la Terra non può essere il centro fisso
dell'universo. Altrettanto, poiché illimitato, non c'è alcun limite dell'universo
costituito dalla sfera delle stelle fisse come sosteneva Aristotele.
In aggiunta, sostiene Cusano, la materia che compone la Terra (acqua, aria, fuoco,
terra) non è diversa da quella che compone gli altri pianeti e le altre stelle,
smentendo con ciò la teoria aristotelica dell'etere quale materia dei corpi celesti.
Solo Dio, che è il principio dell'universo, è il suo centro e il suo limite.
2. il concetto di anima come copula del mondo (copula nel senso grammaticale di
congiunzione: l'anima congiunge le essenze spirituali, le idee, con le sostanze
materiali, con i corpi);
3. un ripensamento in senso cristiano dell'amor platonico.
Ficino afferma la comune origine e quindi l’unità di religione e di filosofia (anche
delle filosofie precristiane) . Ogni filosofia nasce, per Ficino, da una illuminazione
della mente, da una ispirazione divina, la stessa che ha ispirato la religione
rivelata. Gli antichi teologi, maghi e fondatori delle religioni, come Ermete
Trismegisto, Orfeo, Zoroastro, sono tutti profeti illuminati dalla luce della divina
rivelazione, derivante dall'unica e originaria fonte universale del sacro e del vero che
è il Logos, ossia il Verbo divino, che è uguale per tutti. A questa comune fonte
ispiratrice hanno attinto anche Pitagora, Platone e gli altri filosofi. La venuta del
Cristo, il farsi carne del Verbo, del Logos, segna il completamento di questa
rivelazione del sacro e del vero. Perciò non c'è nessuna contraddizione ma anzi
perfetto accordo tra religione e filosofia, tra cristianesimo e platonismo ed anche tra
l'antica magia e la teologia, in quanto derivanti dalla medesima sorgente.
In quest'ottica Ficino definisce l’ispirazione religiosa dei profeti e dei filosofi
come"docta religio", per sottolineare il valore di saggezza insito nella loro missione.
Per altro verso, Ficino non ha avuto esitazioni a proclamarsi anche mago, seguace
della magia naturale, ma non di quella spiritistica e di quella profana, che si
dedicano a venefici, a malefici o al culto dei démoni. Quella di Ficino è una magia
naturale che sfrutta i benefici delle cose della natura per la buona salute dei corpi. È
una magia virtuosa che Ficino ricollega a quella dei Re Magi. La magia di Ficino si
basa sul concetto dell'universale animazione di tutte le cose grazie allo "spirito",
sostanza materiale sottilissima, soffio, che pervade tutti i corpi. Ficino non considera
la magia contraria al cristianesimo: Cristo stesso infatti, egli afferma, è stato in molti
casi un guaritore. Il fascino per la magia risulta comune a molti degli uomini
dell'Umanesimo e Rinascimento e costituisce un elemento caratterizzante di
quell'epoca.
L'unità di religione e filosofia ha per Ficino lo scopo di rinnovare l'uomo e il suo
mondo, proclamando l'uomo centro dell'universo. Infatti, secondo lo schema
neoplatonico, Ficino distingue la struttura metafisica della realtà in cinque gradi
(o essenze) decrescenti di perfezione: Dio, angelo, anima, qualità (forma, essenza)
e corpo (materia). In questa scala l'anima sta nel mezzo, è l'elemento mediano e
di congiunzione tra il mondo intellegibile (dello spirito e delle idee) ed il mondo
fisico. Perciò l'anima è definita da Ficino "copula mundi" (elemento di
congiunzione, di collegamento) e l'uomo, portatore dell'anima, è collocato al centro
dell'universo. Così come l’infinito, lo spirito, è indistruttibile, lo è anche l'anima che
ad esso si collega e congiunge.
La funzione mediatrice e di collegamento dell'anima si esplica attraverso
l'amore, che è la forza che unisce le diverse parti della creazione, l'intero
universo. È per amore che l'universo tende a Dio ed esce così dal caos, si organizza e
raggiunge l'ordine e la perfezione. Ed è sempre per amore che Dio si prende cura
dell'universo e gli dà la vita. La reciprocità del sentimento d'amore è la novità
14
Famoso anche per la sua eccezionale memoria, Pico della Mirandola si pone lo scopo
di allargare il campo della conoscenza, anche cercando di conciliare fedi e filosofie
diverse; sostiene ad esempio che fra la filosofia di Platone e quella di Aristotele,
ritenute molto diverse tra di esse, vi siano invece molti punti concordi.
La sua opera principale è il "Discorso sulla dignità dell'uomo". Ciò che distingue
l'uomo dagli altri esseri, egli dice, è la sua natura non definita, non
predeterminata. Infatti, mentre la natura degli angeli è razionale, e dunque il loro
comportamento è sempre determinato dalla ragione, e mentre la natura degli
animali è istintuale, e dunque il loro comportamento è sempre determinato
dall'istinto, l'uomo invece è libero e dipende da lui scegliere la strada che vuol
seguire (il bene e il giusto o il male e l'ingiusto). La scelta del tipo di vita comporta la
responsabilità dell'individuo, ma in questa libertà di scelta, non concessa agli altri
esseri, consiste la specifica dignità dell'uomo. L'uomo è artefice del suo destino.
L'elevazione dell'uomo verso gli esseri superiori comincia con il dominio delle
passioni e poi con la conoscenza, dapprima la conoscenza delle cose naturali
(filosofia naturale) e poi la conoscenza delle cose divine (teologia). L'uomo, nel suo
piccolo, è composto delle medesime parti, delle medesime sostanze di cui è composto
il cosmo intero, l'intero universo: nell'uomo come nel cosmo vi sono sia sostanze
materiali ed istintuali sia sostanze razionali e spirituali. Per tale ragione Pico afferma
che l'uomo è un microcosmo, corrispondente nel suo piccolo al macrocosmo, cioè al
cosmo intero. È il concetto di uomo come microcosmo che ritroviamo anche in molti
altri umanisti e filosofi rinascimentali.
Per Pico della Mirandola, come per numerosi pensatori dell'Umanesimo e del
Rinascimento, nella scienza rientra anche la magia: non la magia nera, che è opera
15
del demonio, ma la magia bianca che, con i suoi riti, le sue formule e le sue pratiche,
cerca di scoprire gli aspetti più misteriosi e nascosti della natura. Per l'Umanesimo e
per il Rinascimento infatti la natura e l'universo non sono concepiti come un insieme
meccanico di fenomeni materiali, ma come un organismo, come un essere vivente,
dotato quindi anche di sensibilità e spiritualità: gli elementi della natura sono capaci
di sentire, hanno sensazioni e gioiscono o patiscono come gli uomini. E la magia,
allora si pensava, mira proprio a ricercare questi elementi sensibili della natura per
utilizzarne l'energia e i benefici. La magia bianca, si diceva, non allontana da Dio;
anzi spinge l'uomo ad ammirare ancora di più Dio, perché proprio lui ha creato una
natura così misteriosa ed affascinante, piena di segreti nascosti.
In questo senso Pico è anche uno studioso della "Cabala", cercando di conciliarla col
cristianesimo. La Cabala è un insieme di dottrine di origine ebraica, basate su molti
elementi mistici e magici, che si propone di approfondire i rapporti tra Dio e il mondo
(la natura), considerando Dio misticamente e magicamente presente e nascosto nella
natura, per cui la natura non è solo materiale ma soprattutto spirituale.
verità, Pomponazzi ammette che rispetto a queste simili conclusioni della ragione
naturale si possano per contro accettare e scegliere le credenze della fede quali sono
state rivelate.
Comunque, in sostanza, il pensiero di Pomponazzi conduce alla completa
naturalizzazione dell'uomo, inteso come sostanzialmente appartenente al mondo
naturale più che al mondo sovrannaturale. Ma il naturalismo di Pomponazzi
(l'uomo è natura materiale più che spirituale) non riduce, semplificandola, la dignità
dell'essere umano, il quale invece, attraverso un umanissimo processo, viene
faticosamente facendosi da bestia a uomo, innalzandosi dal vegetare e dal sentire
all'intendere e al comprendere. Pomponazzi conclude col dire che nell'intendere
l'anima è "nobilissima tra le cose materiali, ha, al confine delle cose immateriali, un
profumo di immortalità".
18
Nel Rinascimento il tema della rinascita non riguarda solo l'uomo, la religione o la
politica ma altresì i rapporti dell'uomo con la natura, concepita come il regno del
dominio dell'uomo in virtù della sua posizione privilegiata. L'interesse per la natura
esprime la convinzione di disporre di un potere di controllo e di utilizzazione delle
forze naturali simile a quello di Dio nell'universo.
L'indagine sulla natura è infatti la prevalente forma di filosofia espressa nel
Rinascimento e trova in Telesio, Bruno e Campanella i principali esponenti.
L'indagine naturalistica viene svolta secondo due modalità:
1. attraverso la magia, particolarmente coltivata nel Cinquecento sulla base di
due convinzioni: a) quella dell'universale animazione della natura, anche quella
inorganica, tutta pervasa da un medesimo spirito, da un'unica anima del mondo
simile a quella che agisce nell'uomo (la natura è organismo vivente e vi è
identità essenziale tra uomo e natura); b) quella della possibilità di cogliere e
servirsi delle forze recondite della natura mediante incantesimi od altre formule
per instaurare sulla natura un potere illimitato;
2. attraverso la filosofia della natura, che si afferma per la prima volta con
Telesio e viene quindi ripresa da Bruno e Campanella, caratterizzata
dall'abbandono della magia e dall'adozione di metodi di ricerca legati
all'osservazione e alle sensazioni empiriche. Rimane unicamente condivisa con
l'approccio magico la convinzione dell'animazione universale della natura,
considerata una totalità vivente, ma per il resto si ritiene che la natura sia retta
da propri principi e che le sue forze si rivelino principalmente nell'esperienza,
per cui occorre soltanto riconoscerle ed assecondarle anziché pensare di
evocarle con la magia; la filosofia naturalistica ritiene le forze naturali non
misteriose bensì comprensibili e suscettibili di indagine e di ricerca. Il
naturalismo rinascimentale adotta un metodo contrapposto a quello della
filosofia naturale aristotelica: intende cioè interpretare la natura con la natura,
ossia attraverso l'osservazione dei fenomeni, senza ricorrere ad ipotesi o
dottrine fittizie e metafisiche; si apre così la via all'indagine scientifica sulla
natura, anche se nel naturalismo rinascimentale non è ancora presente quella
sistematica metodologia di indagine che distinguerà la scienza moderna sorta
con la rivoluzione scientifica.
Uno dei maghi più famosi dell'epoca fu Teofrasto Paracelso, nato in Svizzera nel
1493 e morto a Salisburgo nel 1541. È stato anche medico e chirurgo, anzi il
riformatore della medicina, sia pure in senso magico, e l’anticipatore del metodo
scientifico. Per lui la ricerca deve collegarsi con l'esperienza e la teoria procedere
parallelamente con la pratica. Il principio che deve guidare la ricerca è la
corrispondenza tra il macrocosmo e il microcosmo. Per conoscere l'uomo (cioè il
microcosmo) dobbiamo rivolgerci al macrocosmo (cioè al mondo ,alla natura). La
medicina deve fondarsi su tutte le scienze che studiano la natura e su quattro
discipline fondamentali: la teologia per utilizzare l'influsso divino; l'astronomia-
astrologia per utilizzare gli influssi astrali; l'alchimia per utilizzare la quintessenza
delle cose, cioè l'elemento chimico dominante di una cosa; ed infine la filosofia.
Paracelso è stato definito il "Lutero della medicina", da lui riformata contro le due
massime autorità della medicina tradizionale, Galeno e Avicenna. Partendo dal
presupposto magico che la materia originale, ancor prima dei quattro elementi
(acqua, aria, terra, fuoco), e quindi ancor prima del corpo umano, sia un composto
chimico soprattutto di zolfo, mercurio e sale, ha dato inizio di fatto alla farmacologia
e alla iatrochimica (medicina chimica), anche se la relativa giustificazione è tratta
dal mondo magico, ritenendo che la salute si ristabilisca soprattutto non già con
l'assunzione di sostanze organiche (bile, sangue, creste di pollo o pidocchi), bensì di
sostanze minerali e vegetali (ad esempio il ferro o particolari erbe) che si trovano nel
mondo naturale, ravvisando nei minerali e nei vegetali la presenza di forze arcane (=
vivificanti, dal nome greco "archeus" che significa spirito animatore).
Fondatore della moderna epidemiologia è stato il medico-mago italiano Gerolamo
Fracastoro (1478-1533), sostenendo che molte malattie non devono essere imputate
all'influenza degli astri, ma alla trasmissione, per contatto, di germi invisibili. Sul
20
fronte più propriamente magico sottolinea il tema della simpatia universale delle
cose (del loro reciproco e armonico sentirsi) , che è il fondamento della magia.
21
Come realtà naturale l'uomo è spiegabile allo stesso modo di tutte le altre realtà e
cose naturali. Gli organismi animali erano spiegati da Aristotele in base all'anima
sensitiva. Telesio, ovviamente, non può accogliere tale tesi ritenendo che anche le
cose inanimate possiedano sensibilità. Ciò che invece distingue l'animale dalle altre
cose è, così come chiamato da Telesio, lo "spirito prodotto dal seme", terminologia
di origine stoica, intendendo lo spirito come sostanza corporea sottilissima inclusa
nel corpo (quindi una sostanza materiale), svolgente le funzioni da Aristotele
attribuite all'anima sensitiva. Tale è definita anche l'anima dell'uomo, cioè come
spirito o sostanza naturale uguale a quella degli altri animali. L'anima dunque non è
"forma" del corpo in senso aristotelico, ma è spirito vitale, materia sottile presente
in ogni parte del corpo.
In base a tale spirito è spiegata la conoscenza nelle sue varie forme, la cui origine
è individuata nella sensazione (la conoscenza nasce dai sensi). L'anima umana
oltre a quella sensitiva possiede anche la facoltà intellettuale, ma essa ha
comunque natura materiale (l’anima è ridotta ad elemento fisico-naturalistico) e
conosce unicamente attraverso i sensi (sensismo conoscitivo). Si vedrà in seguito
che Telesio ammette altresì l'esistenza di un altro tipo di anima, immateriale e del
tutto spirituale e pertanto immortale.
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alla natura, in quanto trattasi di aspirazione ad un bene che non è conosciuto dai
sensi e si rivolge ad un mondo diverso da quello sensibile. Per Telesio, oltre allo
"spirito" materiale dell'anima naturale, c'è dunque qualcosa di più: "un genere
di anima divina e immortale", che però non serve a spiegare gli aspetti naturali
dell'uomo bensì quelli che trascendono la sua naturalità. Quest'anima è
direttamente infusa da Dio nell'uomo ed è da Telesio chiamata "mens superaddita"
(mente, anima, aggiunta dall'alto). Con lo "spirito" dell'anima naturale l'uomo
conosce e tende alle cose che si riferiscono alla sua conservazione naturale; con la
"mens superaddita" egli conosce e tende alle cose divine, che riguardano non la sua
salute naturale ma quella eterna, la quale è oggetto di volontà, di una libera scelta, in
quanto non basta conoscere il bene eterno ma bisogna anche volerlo ed in ciò consiste
il libero arbitrio.
Deriva così una netta distinzione, ma non un contrasto, fra vita intellettuale e
morale e vita religiosa. Il naturalismo di Telesio non si contrappone alla religiosità,
che rimane da esso distinta ma non esclusa. Anticipando la concezione di Galilei, ne
esce riaffermata la distinzione tra scienza e fede. Telesio ammette un Dio creatore e
Provvidenza al di sopra della natura, ma semplicemente nega che si debba fare
ricorso a lui nell'indagine fisico-naturalistica. In questo senso Telesio critica
Aristotele poiché troppo metafisico in fisica e troppo fisico nel concetto metafisico di
Dio. La concezione aristotelica di Dio ridotto a motore immobile, a funzione
motrice del mondo, appare a Telesio del tutto inadeguata. È inconcepibile ricorrere
a Dio per spiegare i movimenti naturali che possono trovare invece nella natura stessa
il loro principio e la loro spiegazione, così come è inconcepibile che Aristotele neghi
a Dio la Provvidenza. Dio è piuttosto il principio dell'ordine delle cose naturali e della
conservazione di tutti gli esseri della natura, che altrimenti si distruggerebbero a
vicenda. Per Telesio, come sarà per Cartesio, Dio è il garante dell'ordine della natura.
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È tra i maggiori esponenti del Rinascimento italiano. Nasce a Nola, presso Napoli.
Da giovane diventa frate domenicano. È tuttavia di carattere irrequieto e ribelle. Non
si limita a studiare i testi sacri e la filosofia scolastica, ma anche quella di Platone, di
Pitagora e la filosofia araba. In particolare trova interessanti la filosofia di Nicola
Cusano e le concezioni di Copernico. Le sue idee finiscono col non corrispondere più
a quelle del cristianesimo ed esce dall'ordine dei domenicani. Accusato di eresia, per
sfuggire all'Inquisizione e al processo si rifugia all'estero, in molte città. Giunto a
Ginevra aderisce alla religione calvinista ma ben presto si stacca anche da essa. Va a
Parigi, dove il re Enrico III gli dà l'incarico di insegnare la mnemotecnica (l'arte per
aumentare la memoria), nella quale giordano Bruno è esperto. A Parigi entra però in
contrasto con gli esponenti culturali di quella città, influenzati dalla filosofia di
Aristotele, mentre Bruno preferisce la filosofia di Platone. Si reca allora in Germania.
Rientrato in Italia viene arrestato dall'Inquisizione e viene processato, prima a
Venezia poi a Roma dove viene condannato a morte e, nel 1600, bruciato vivo come
eretico in Campo dei Fiori, un quartiere di Roma.
Scrive le sue opere soprattutto in forma di dialogo tra diversi personaggi, anche allo
scopo di difendersi dalle accuse di eresia, pensando, inutilmente, di poter dichiarare
in tal modo che le frasi eretiche erano da attribuirsi soltanto ad uno dei personaggi del
dialogo e non a lui direttamente. Tra le sue opere si distinguono:
1. i "Dialoghi metafisici": La cena delle Ceneri (sulla rivoluzione copernicana);
La causa, il principio e l'uno; L'infinito universo e i mondi;
2. i "Dialoghi morali": Lo spaccio (=l'imbroglio) della bestia trionfante; Gli eroici
furori.
Tutte le opere di Bruno presentano una fondamentale nota comune: l'amore per la
vita nella sua potenza dionisiaca (ebbra, furiosa) e nella sua infinita espansione.
Questo amore passionale gli rende insopportabile il convento, tant'è che getta la
tonaca, e gli fa nutrire un odio inestinguibile per tutti quei pedanti accademici e
aristotelici che riducono la vita e la natura a fredda teoria, senza comprenderne la
forza viva, vitalistica. La vita non va compresa, ma vissuta con passione, con
ebbrezza dionisiaca.
Dall'amore passionale per la vita sorge l'interesse di Bruno per la natura, che non è
oggetto di ordinata analisi come per Telesio, ma è sentita come organismo e realtà
26
impetuosa, tutta viva e tutta animata. Da qui anche la sua predilezione per la magia,
che si fonda su questo panpsichismo (vitalismo) universale, in quanto la magia
intende appunto cogliere, attraverso le pratiche magiche, l'animismo della natura
saltando la paziente e laboriosa indagine naturalistica indicata da Telesio.
Da qui, ancora, la predilezione di Bruno per la mnemotecnica, l'arte della memoria
derivata da Raimondo Lullo, che ha la pretesa, attraverso l’ars combinatoria, non
solo di ricostruire e comprendere in un colpo solo l'ordine e le forze che operano nel
mondo, ma anche di conoscere, attraverso la magia, la struttura, la realtà profonda
delle cose per dominarle.
Tale è l'impeto passionale con cui Bruno sente e concepisce la natura che il suo
naturalismo è più una religione della natura: è sentimento di esaltazione, è eroico
furore piuttosto che rigorosa ricerca. Perciò l'opera di Bruno segna una battuta
d'arresto dello sviluppo del naturalismo scientifico, ma esprime nella forma più
appassionata e potente quel sentimento vivo per la natura che è stato uno degli
aspetti fondamentali del Rinascimento.
Tutto è vivo in Bruno, in un senso ben diverso rispetto a Telesio, il quale restringeva
la sua visione vitalistica al solo ambito del sensismo (tutte le cose sono dotate di
sensazione). Per Bruno tutta la natura, quella delle cose come quella dell'anima e
della mente, l'intera vita del cosmo, è infinita espansione della stessa vita di Dio: il
divino è ovunque, in una concezione prevalentemente monistica (=esiste un solo
principio di spiegazione e di origine della realtà) e panteistica del mondo.
La religione positiva, come sistema di credenze, appare per contro in Bruno
ripugnante ed assurda. Egli ne riconosce l'utilità sociale ai fini del governo di popoli
rozzi, ma le rifiuta qualsiasi valore. E’ giudicata un insieme di superstizioni
contrarie alla ragione e alla natura, poiché considera vile e scellerato ciò che invece
alla ragione appare eccellente; vuol far credere che la legge naturale è una
mascalzonata e che la natura e la divinità non hanno lo stesso fine; che la giustizia
naturale e quella divina sono contrapposte; che la filosofia e la magia sono pazze;
che ogni atto eroico è vigliaccheria e che l'ignoranza è la più bella scienza del
mondo.
Feroce in Bruno è la satira anticristiana, non solo nei confronti del cattolicesimo ma
anche del protestantesimo, che gli appare anzi peggiore, sia perché nega la libertà
dell'uomo ed il valore delle buone opere sia perché ha causato lo scisma e la
discordia fra i popoli. Bruno non poteva andar d'accordo né con i cattolici né con i
protestanti né con qualche setta, giacché il suo scopo era di fondare lui stesso una
nuova religione, quella dell'infinito della natura, di carattere neo-pagano: una
religiosità coincidente con lo stesso filosofare.
Bruno fa sua l'idea dominante nel Rinascimento, già espressa nella forma più
compiuta da Pico della Mirandola, di una comune religiosità-sapienza originaria
che, tramandata da Mosé, è stata svolta, accresciuta e chiarita da filosofi, maghi e
profeti del mondo orientale, classico e cristiano, tutti divinamente ispirati.
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L'infinità dell'universo.
Bruno accoglie la teoria eliocentrica di Copernico, della quale tratta nella sua
opera "La cena delle Ceneri". Però la cosmologia di Bruno, ossia la sua concezione
dell'universo, accetta solo in parte la teoria di Copernico, mentre la modifica in
molte altre parti. Per Copernico, come sappiamo, non la Terra ma il Sole è al
centro dell'universo, un universo che rimane però finito poiché delimitato dalla
sfera delle stelle fisse.
La cosmologia di Bruno peraltro è di tipo filosofico, basata cioè su ragionamenti
filosofici e non di tipo scientifico, ricavata, come in Copernico, sull'osservazione
scientifica e sul calcolo matematico.
Accettando l’eliocentrismo di Copernico, Bruno poi se ne discosta ed assume
invece una concezione più simile a quella di Nicolò Cusano: l'universo, che è
l'effetto di una causa infinita (cioè Dio) non può non essere esso stesso infinito. Se
l'universo è infinito, allora non ha senso parlare di un centro dell'universo
(essendo infinito, l'universo non è chiuso dal cerchio delle stelle fisse e, se l'universo
non è un cerchio, allora non ha neppure un centro). È sbagliato quindi dire che la
Terra è al centro dell'universo (come sosteneva il sistema geocentrico di Tolomeo e
di Aristotele), ma è anche sbagliato dire che il Sole è al centro, come sosteneva
Copernico.
Bruno apprezza e loda comunque la teoria di Copernico perché ha avuto il merito
di far cadere il vecchio sistema geocentrico, durato per secoli poiché basato sulle idee
di Tolomeo e di Aristotele che erano considerati indiscutibili ed assolutamente
autorevoli. Per Bruno, il merito di Copernico è stato proprio quello di aver
finalmente spezzato il "principio di autorità", ossia l'accettazione acritica (= non
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critica, ma passiva) del pensiero del passato solo perché espresso da filosofi giudicati
così autorevoli da non poter essere criticati e messi in dubbio. Questo è stato per
Bruno il grande valore culturale e morale della rivoluzione copernicana (chiamata
"rivoluzione" perché "rivolta", capovolge, l'universo, mettendo al centro il Sole e non
più la Terra).
L'adesione alla teoria copernicana suscita tuttavia grande scandalo nella Chiesa,
che all'epoca giudicava l’eliocentrismo in contrasto con la Bibbia (si ricordi il
celebre episodio di Giosuè quando, rivolgendosi a Dio, gli chiede di "fermare" il
Sole, argomentando la Chiesa, da ciò, che allora è il Sole a muoversi e non la Terra
che rimane fissa al centro dell'universo). Bruno viene pertanto accusato di eresia e
dunque da condannare.
In proposito e a sua difesa Bruno sostiene che bisogna distinguere nettamente la
filosofia naturale dalla religione e dalla fede, quando per contro già nel Medioevo,
ed in particolare nella filosofia scolastica, si affermava che non c'era distinzione ma
accordo tra ragione filosofica e fede. Bruno però insiste nel dichiarare che la fede,
basata sulla rivelazione e sulla Bibbia, si occupa della morale e della salvezza
dell'anima, perciò non spetta alla fede dare insegnamenti anche sulla natura e
sull'universo, giacché tale compito spetta solo alla filosofia naturale e alla scienza.
Dio e la natura.
Dopo "La cena delle Ceneri", Bruno pubblica un'altra opera appartenente ai Dialoghi
metafisici, cioè "La causa, il principio e l’uno". L'argomento centrale di quest'opera è
il rapporto, il collegamento, tra Dio e il mondo (o la natura). Noi, argomenta Bruno,
non possiamo conoscere Dio per se stesso perché è infinito mentre noi siamo
esseri finiti e le cose finite non possono avere l'idea di cosa sia veramente l'infinito.
Noi possiamo conoscere Dio solo nel suo rapporto col mondo, con la natura.
Rispetto al mondo e alla natura di Dio è contemporaneamente causa e principio.
La causa rimane sempre distinta e separata dall'effetto che determina (così come il
lampo è distinto dal tuono che provoca). Ed allora Dio come causa del mondo e della
natura, in quanto da lui creati, rimane da essi distinto e separato: in tal senso è il
Dio trascendente della religione (trascendente=distinto, separato, al di sopra del
mondo e delle cose della natura). Ma Dio come principio del mondo e della natura
permane dentro il mondo e la natura per renderli vivi, per animarli. Di
conseguenza, tutta la natura è animata; la vita è in tutte le cose perché dentro ogni
cosa c'è Dio, c'è il suo soffio vitale che anima e dà vita. Significa che ogni cosa del
mondo e della natura è partecipe (è parte) dell'infinito che è Dio.
La concezione di tutta la natura come di un unico organismo vivente, per cui le
cose naturali non sono inerti e insensibili, ma hanno invece ognuna un grado
maggiore o minore di sensibilità, cioè sono in grado di sentire, di gioire di soffrire
(tutte le cose, non solo gli uomini ma anche gli animali, le piante e addirittura anche i
minerali) è tipica, come abbiamo visto, di molta filosofia del Rinascimento. Ma
Bruno si spinge oltre: tutta la natura è animata non per una sua forza interna,
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naturale, ma perché dentro il mondo, dentro ogni cosa della natura, c'è Dio, c'è il
suo soffio vitale, c'è, dice Bruno, "il respiro di Dio".
Se dentro tutte le cose c'è il soffio vitale di Dio, vuol dire allora che le cose non
periscono, sono eterne, non muoiono mai veramente ma semplicemente si
trasformano. Al di sotto di tutte le varie e differenti cose del mondo e della natura
c'è il loro collegamento, la loro unità con Dio, poiché per Bruno Dio coincide con la
natura. Da ciò discende il significato del titolo dato all'opera "La causa, il principio e
l'uno": l’uno è l'unità di tutte le cose con Dio e in Dio. È questa una concezione
antiaristotelica: la sostanza delle varie cose non è sinolo (unione) di materia e forma;
non c'è alcuna materia che sia pura passività poiché anche la materia è viva e animata
e le cose sono partecipi dell'eternità che è in loro grazie al soffio vitale di Dio; non ci
sono sostanze corruttibili.
In particolare, Bruno parla di Dio in due modi:
1. come "Mens super omnia" (Mente al di sopra di ogni cosa), che è il Dio
trascendente, soprannaturale, però inconoscibile alla ragione umana ed
oggetto solo di fede;
2. come "Mensa insita omnibus" (Mente insita in tutte le cose), che è il Dio
immanente nella natura, considerata come luogo della rivelazione e
manifestazione divina, anzi essa è lo stesso "respiro di Dio": In quanto Mente
presente in tutte le cose, ossia come elemento costitutivo delle cose, Dio risulta
allora accessibile alla ragione umana (conoscibile) e costituisce l'oggetto
privilegiato della filosofia; in tal senso Bruno definisce Dio come "fabbro del
mondo", che opera come forza seminale intrinseca nella materia, giacché
infonde nella materia i semi del suo conseguente sviluppo e dà forma alla
materia stessa configurandola nelle varie cose del mondo (si può notare
l'analogia con il concetto di "spirito prodotto dal seme" di Telesio).
Senonché, dire che Dio è immanente, cioè dentro il mondo e la natura, è panteismo
(=ogni cosa è Dio perché Dio è in ognuna) ed il panteismo è in contrasto con il
cristianesimo, per il quale Dio invece è esclusivamente trascendente, separato e al
di sopra del mondo e delle cose della natura e non anche presente e mescolato in esse.
Anche per questi suoi pensieri Bruno è stato condannato per eresia, oltre che a
causa del rifiuto del sistema geocentrico..
Nell'opera "Lo spaccio della bestia trionfante", Giove (cioè Dio) raduna gli altri dei
per cancellare i nomi di animale (la bestia trionfante) dati alle costellazioni (Toro,
Ariete, Pesci, Cancro, ecc.), ossia per eliminare l'astrologia poiché falsa. L'astrologia
non è una virtù; la virtù principale, dice Giove, è la verità. La verità si divide a
sua volta in due ulteriori virtù:
1. la Provvidenza, che è l'attività di Dio (Dio vede e provvede);
2. la Prudenza, che è l'attività dell'uomo industrioso, che è attivo e si dà da fare.
30
Nell'antica età dell'oro gli uomini se ne stavano tranquilli senza far niente, erano
oziosi. Ma l'ozio, prosegue Giove, non è cosa dignitosa per l'uomo. La virtù
dell'uomo sta nella vita attiva e laboriosa: in ciò consiste la Prudenza umana. È qui
manifestata, secondo la mentalità umanistica e rinascimentale, l'esaltazione della vita
attiva, l'ideale dell'uomo "faber", industrioso. E quando l'uomo esercita la virtù
della Prudenza, dandosi da fare ed operando con l'intelletto e con le mani (ossia
ampliando le sue conoscenze e producendo cose) egli diventa allora simile a Dio
che crea le idee e le cose: la Prudenza umana è simile a quella divina. Il
cristianesimo medievale, invece, aveva trasformato l'uomo in un essere inattivo e
rassegnato poiché non considerava importante la vita e l'attività terrene, ma solo
quelle ultraterrene. Bisogna perciò distruggere i vizi della rassegnazione e
dell’inattività (cioè la bestia trionfante), nonché il suo imbroglio (lo spaccio), per
liberare ciò che di veramente divino è nell'uomo, ossia la sua capacità di conoscere
di produrre le cose in quanto, nel suo piccolo, l'uomo sa conoscere e creare le cose
come Dio che conosce e crea il mondo.
La nuova filosofia di Bruno non poteva non esprimere anche una nuova etica,
espressa particolarmente nei Dialoghi morali. Il fine è non solo la comprensione ma
altresì la fusione dell'uomo nell'infinità della natura.
Ne "Lo spaccio della bestia trionfante" Bruno descrive la crisi dei valori cristiani e
l'urgenza della loro distruzione definitiva per poterne creare di nuovi. Sdegnando
ogni morale ascetica e mistica, Bruno si dichiara a favore di una morale attivistica,
che esalti i valori del lavoro e dell'ingegno umano, secondo il tema rinascimentale
dell'uomo-fabbro. La contemplazione di Dio non è fine a se stessa poiché deve
rappresentare per l'uomo un incentivo a fare come Dio, producendo cose, "altre
nature, altri corsi, altri ordini".
Nella sua altra opera morale "Gli eroici furori" (eroico qui deriva dalla parola greca
"eros" che significa amore e desiderio di avvicinarsi al divino superando i limiti della
condizione finita ed imperfetta dell'uomo), Bruno celebra l'ideale platonico di
purificazione dell'uomo dalle sue passioni e dai suoi istinti, per elevarsi e
raggiungere l'infinito attraverso la conoscenza e l'amore. L'eroico furore è, appunto,
impeto, brama, fortissimo desiderio di ricongiungersi all'infinito, la qual cosa diventa
possibile per l'uomo quando comprende che Dio è nella natura e quindi anche
nell'uomo, per cui l'uomo stesso è parte di Dio, cioè dell'infinito.
La verità va ricercata in noi stessi e quando lo scopriamo diventiamo animati da
eroici furori, presi dalla brama dei nostri stessi pensieri. Per Bruno il grado più alto
della riflessione filosofica non è dunque l'estasi mistica, cioè un congiungimento con
Dio attraverso l'oblio e il distacco dal mondo, ma è la visione magica dell'unità della
natura e della sua vita inesauribile. Il filosofo è il "furioso", l'assetato di infinito e
l'ebbro di Dio che, andando al di là di ogni limite, con uno sforzo eroico ed
appassionato raggiunge una sorta di sovrumana immedesimazione ("indiamento")
con il cosmo, con l'universalità della natura. L'eroico furore è la versione
naturalistica del concetto platonico di amore: l'uomo, "arso d'amore", va in cerca
dell'infinito (dell'infinità della natura con cui Dio coincide) poiché esso soltanto può
appagare le sue brame, innalzandolo al di sopra dei "bassi furori" che lo tenevano
31
incatenato alle cose finite e generando in tal modo l'unione tra uomo e natura. In
questo identificarsi con la natura, in questo farsi natura, l'uomo, pur non annullando
il suo libero volere, sperimenta anche il grado più alto di libertà che gli sia
concesso: l'accettazione della necessità delle cose e del destino del Tutto. Questo è
l'uomo nuovo. Peraltro, come sia possibile conciliare il libero volere con la tesi della
divina necessità dell'infinito svolgimento della natura è questione che, dai testi di
Bruno, non risulta concettualmente chiara.
Conclusioni.
Il pensiero di Bruno, nonostante la sua apertura alle virtù "civili" e al mondo del
lavoro, reca tuttavia un'impronta aristocratica: solo a pochi è dato di congiungersi
con la natura attraverso i vari gradi di amore, nonostante il desiderio di Bruno di
coinvolgere masse più numerosi di individui. In effetti è dipinta un'umanità spaccata
in due schiere: i pochi, cui è dato di saper filosofare e di guidarsi secondo ragione, e
il gregge dei "rozzi popoli", che devono essere diretti dai preti delle varie Chiese.
Pur all'interno di questi limiti, Bruno manifesta intuizioni geniali ed anticipatrici.
Non è possibile farlo precursore della rivoluzione del pensiero moderno, perché i
suoi interessi sono di tutt'altra natura: magico-religiosi e metafisici. La sua difesa
della rivoluzione copernicana e dell’eliocentrismo si fonda infatti su basi e su finalità
del tutto diverse. Né è possibile dare rilievo alla forma matematica di molti suoi
scritti, dato che la sua matematica è di impostazione pitagorica e quindi metafisica.
Ma Bruno anticipa in modo sorprendente certe posizioni di Spinoza e soprattutto dei
romantici, specialmente di Schelling, per l'affinità della concezione della natura e del
divino nell'infinità del cosmo universale.
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In che modo l'anima conosce, cioè sente se stessa? Campanella affronta questo
problema riproducendo all'inizio della sua "Metafisica" la confutazione dello
scetticismo già operata da Agostino: anche lo scettico, che afferma di non sapere
nulla, conosce almeno questa verità e così presuppone che vi sia un sapere originario,
autentico di cui non si può dubitare. L'anima ha una conoscenza innata di se
stessa: è questo il sapere originario, condizione di ogni altra conoscenza.
In tal modo Campanella va oltre a Telesio, valorizzando il sentire dell'animo
umano, ossia il soggetto senziente, rispetto agli oggetti sentiti. Lo spirito senziente,
dice Campanella, non sente il colore, ma in primo luogo sente se stesso: sente il
colore attraverso se stesso in quanto è modificato (nei sensi) dal colore. Le cose
esterne producono nell'anima (nella coscienza) modificazioni che rimarrebbero
sconosciute se essa non avesse originariamente (in modo innato) coscienza delle
proprie modificazioni. Non potremmo percepire gli oggetti se prima non
percepissimo noi stessi percepienti gli oggetti. La conoscenza di se è più certa di
quella delle cose che anzi, a differenza di quanto sosteneva Telesio, si rivelano
parzialmente e confusamente. Questa conoscenza prima e originaria, questa
autocoscienza non è propria soltanto dell'anima umana bensì appartiene a tutte le
cose naturali in quanto tutte sono dotate di sensibilità. Sicché ogni cosa sente se
stessa di per sé ed in modo essenziale, mentre sente le altre cose in modo accidentale,
cioè solo in quanto ha coscienza delle modificazioni che esse le procurano.
Proprio negli stessi anni Cartesio, come vedremo, giunge all’intuizioni immediata
dell'autocoscienza (il "cogito") come fondamento di ogni sapere scientifico. Vi è
indubbia analogia ma altresì differenza di presupposto e di prospettive.
L'autocoscienza di Campanella non è pensiero, come in Cartesio, ma sensibilità,
propria non solo dell'uomo ma di tutti gli esseri della natura. Di conseguenza è
assente in Campanella il problema posto da Cartesio sull'effettiva esistenza di una
corrispondente realtà esterna al pensiero. L'autocoscienza di Campanella rappresenta
l'ultima e più complessa formulazione della visione animistica e vitalistica del
naturalismo rinascimentale.
È l'autocoscienza che per Campanella rivela i principi e la struttura fondamentale
della realtà naturale. Tre sono questi fondamentali principi, chiamati le tre
"primalità": il potere, il sapere e l'amore. Noi siamo cioè consapevoli di sapere, di
potere e di amare e dobbiamo ammettere che l'essenza di tutte le cose è costituita
appunto da queste tre primalità.
1. Ogni cosa, in quanto esiste, è in primo luogo un "poter" essere, che è la
condizione preliminare dell'essere di ogni ente (ogni cosa prima di essere deve
poter essere; si può notare l'analogia con la necessità della possibilità
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La "Città del sole" è una grande utopia magica in cui Campanella esplicita le
sue aspirazioni di rinnovamento politico-religioso.
La fisica e la metafisica di Campanella non sono infatti fini a se stesse, ma vogliono
costituire il presupposto per una riforma sociale e religiosa che dovrebbe riunire
l'intero genere umano in una sola comunità ideale costituita da uno Stato teologico
universale.
Dopo la liberazione dal carcere, Campanella indica nella monarchia spagnola
l'istituzione che avrebbe dovuto realizzare tale ideale. Successivamente deluso, si
rivolge poi, in tal senso, alla Francia.
35
Campanella immagine la sua Città del sole collocata su di un colle sovrastante una
vasta campagna e divisa in sette gironi che portano i nomi dei pianeti. In cima al colle
si erge un tempio rotondo. La città è retta da un principe-sacerdote, chiamato Sole
o Metafisico, il quale governa gli abitanti (i Solari) assistito da tre principi
collaboratori, Pon, Sin e Mor, che rappresentano le tre primalità della metafisica:
potenza, sapienza e amore.
Come in altri modelli utopici analoghi (la Repubblica di Platone, l'Utopia di
Tommaso Moro), i beni e le donne sono in comune ed è soppressa la proprietà
privata. Anche il lavoro è distribuito fra tutti i cittadini e ciò fa sì che esso non sia
faticoso, ma limitato a sole quattro ore al giorno. L'educazione dei solari non è
libresca, ma imparano perlopiù giocando. In tutte le mura dei gironi della città sono
istoriate immagini che illustrano tutte le scienze. È una città magica, costruita in
modo da attirare tutto l'influsso benefico degli astri.
La religione dei Solari è quella naturale che, rispetto alle altre religioni positive,
Campanella ritiene più fedelmente interpretata dal cristianesimo, però riformato e
restituito alla semplicità e povertà evangelica delle origini. Per Campanella la
religione naturale è innata ("religio indita") in tutti gli uomini ed è il fondamento di
tutte le religioni positive (quelle istituite dalle varie Chiese), che sono religioni
acquisite o sopraggiunte ("religio addita") e possono essere imperfette o anche false,
mentre quella innata è sempre vera. Tuttavia la religione innata non può stare da sola
senza quella acquisita. La religiosità innata è propria di tutti gli esseri naturali
che, avendo origine da Dio, tendono a ritornarvi; la religione acquisita è propria
soltanto degli uomini ed è la sola che implica merito e valore morale quando sia
liberamente scelta e praticata.
A differenza di Bruno, Campanella non ha mai assunto atteggiamenti anticristiani,
ritenendo il cattolicesimo la religione più vicina a quella naturale, una volta però
che esso sia stato riformato nei costumi e nella pratica, mantenendo immutati i
dogmi e la gerarchia della Chiesa ma ritornando all'ordine e alla semplicità del
periodo patristico. Tale atteggiamento, anche se motivato da prevalenti e difformi
ragioni filosofico-naturalistiche, si inserisce nel programma della controriforma
cattolica, venendo a giustificare e a difendere la rinnovata forza di espansione della
Chiesa romana. Campanella fa appello infatti a tutti i popoli della terra perché si
decidano a ritornare al cattolicesimo, secondo il fondamentale motto del
Rinascimento: "tutte le cose ritorneranno al loro principio". Si rivolge dunque ai
cristiani e ai non cristiani, anche indicando loro i segni astrologici e le profezie che
segnalano l'imminente rinascita della Chiesa cattolica.
Ma Campanella è egli stesso ormai un superstite: l'ultima delle grandi figure
rinascimentali. Al tramonto del Rinascimento egli si sforza di tenere unite le ragioni
della fede con quelle della natura, quando invece il cammino del pensiero moderno
andava a divergere, individuando nella natura il regno della conoscenza scientifica e
della necessità matematica e meccanica dei fenomeni naturali e, per contro,
individuando nella religione il regno della libertà e della fede.
36
RINASCIMENTO E POLITICA.
Altrettanto, così come esiste un diritto naturale fondato sulla razionalità dell'uomo,
allo stesso modo esiste una religione naturale, antecedente alle religioni positive,
anch'essa fondata e derivante dalla ragione umana è perciò più vera. Essa si basa su
pochi principi naturalmente avvertiti e, si può dire, infusi da Dio in modo innato
nell'animo umano: Dio esiste ed è uno solo; è trascendente; è creatore e provvidenza.
In quanto antecedenti alle religioni positive, i principi della religione naturale sono
presenti in tutte le fedi religiose, conseguendo da ciò il principio della tolleranza
religiosa. Principio questo particolarmente sentito da Grozio in un'Europa
insanguinata dalle guerre di religione.
41
IL RINASCIMENTO EUROPEO.
Francese, è autore tra l'altro de "I saggi", che narrano esperienze di vita ed è un
capolavoro di introspezione sulla natura e sui limiti dell'uomo.
Mentre nel Quattrocento le concezioni dominanti si rifanno al platonismo e
all'aristotelismo, Montaigne recupera invece elementi di filosofia stoica e scettica, in
particolare lo scetticismo di Sesto Empirico, al fine di dimostrare l'insufficienza
delle teorie filosofiche, e quindi della sola ragione, per raggiungere la libertà
spirituale.
Nei "Saggi" Montaigne in mette a confronto con le sue le esperienze di vita narrate da
autori antichi e moderni per giungere ad una concreta conoscenza della natura umana,
nell'obiettivo del ritorno dell'uomo a se stesso, alla propria umanità. Filosofare per
Montaigne significa infatti conoscere se stessi, secondo l'antico motto socratico,
riflettendo sui limiti dell'uomo e del suo sapere nonché sulla sua mediocrità.
L'ottimismo degli umanisti sul valore dell'uomo e sulla sua capacità di essere artefice
del proprio destino lascia il posto a un'idea di uomo quale "creatura miserabile e
infelice", contro la pretesa della superiorità umana sulle altre creature. Ecco allora
l'esigenza del ritorno dell'uomo a se stesso, del recupero della sua libertà spirituale
mediante il riconoscimento della sua finitezza ed imperfezione. Ecco perché,
altresì, Montaigne si richiama allo stoicismo, che ci rende indipendenti dalle cose
facendoci indifferenti nei loro confronti, nonché allo scetticismo, che ci rende liberi
dalla presunzione di sapere e ci dispone alla ricerca e alla riflessione con senso di
umiltà.
Montaigne non è convinto che gli uomini abbiano una comune natura poiché
notevolmente diversi tra loro. Bisogna pertanto che ciascuno si costruisca una
saggezza a propria misura.
Ma come può una visione scettica sulla verità e sul sapere raggiungere questo
obiettivo? Proprio mediante la rinuncia alla pretesa di conoscere la verità ed
42
accettando la vita quale è in qualunque circostanza, nel bene e nel male. La vita
ci è data come qualcosa che non dipende da noi. Soffermarsi sugli aspetti negativi (i
dolori, le malattie, la morte) non può che deprimere e portare alla negazione della
vita. Il saggio è colui che accetta la vita e tutto ciò di cui la vita è fatta: dolore,
malattie, morte. Morire non è altro che l'ultimo atto del vivere e quindi saper morire
fa parte del saper vivere. E saper vivere vuol dire, per essere felici, non aver
bisogno di niente altro se non del momento presente. Il saggio vive nel presente,
che per lui è la totalità del tempo. È inutile immaginare una natura, una vita più
perfetta di quella dell'uomo e lamentarsi di non possederla. Bisogna che l'uomo
accetti la sua condizione e la sua sorte.
Per Calvino il ritorno alle fonti del cristianesimo è essenzialmente il ritorno alla
religiosità del Vecchio Testamento più che del Nuovo. Dal Vecchio Testamento
ricava il concetto di Dio inteso, anziché come amore, soprattutto come onnipotenza
ed imperscrutabilità, di fronte a cui l'uomo è nulla. Dalla volontà di Dio dipende il
corso delle cose e il destino degli uomini.
Anche per Calvino vale la tesi della predestinazione divina. Ma, rispetto alle altre
forme di protestantesimo, Calvino sa meglio esprimere i segni in base a cui l'uomo
può essere maggiormente fiducioso circa la propria salvezza. Per Calvino infatti la
predestinazione, più che implicare la totale inerzia e l’abbandonarsi speranzoso
dell'uomo a Dio, è per contro di stimolo all'azione. Il lavoro è per Calvino un dovere
sacro ed il successo nel lavoro e negli affari è uno dei principali segni, secondo i testi
biblici, della grazia di Dio e quindi della salvezza. Il successo economico rimane
comunque un dono di Dio, il che comporta che il cristiano non possa disporre
egoisticamente dei beni prodotti e consumarli, ma debba invece valorizzarli a
beneficio della comunità e farli fruttare, per esempio reinvestendoli accumulando il
capitale. Su tale etica calvinista viene in gran parte a formarsi lo spirito attivo e
produttivo della nascente borghesia capitalistica. Da questa etica calvinista, infatti, il
sociologo Max Weber farà derivare le origini del capitalismo.
A Ginevra Calvino realizza, sia pur mediante un sistema di periodiche elezioni, una
sorta di regime teocratico molto rigido, ai limiti del fanatismo, nei confronti della vita
religiosa e morale dei cittadini, sottoposti ad un severo controllo e, se dissidenti,
perseguitati e mandati anche a morte. Con Calvino si accentua ulteriormente la
Chiesa di Stato.
attraverso le buone opere e le buone azioni. Le buone opere non sono meno
importanti della grazia.
2. Sono confermati tutti i sette sacramenti, perché ognuno di essi è strumento e
mezzo che rafforza la fede e la salvezza dell'uomo.
3. Non è vero che i sacerdoti siano inutili e che il sacerdozio vada abolito. Anzi, i
sacerdoti e la Chiesa cattolica sono le uniche autorità ufficiali in grado di
spiegare ed insegnare le Sacre scritture e il Vangelo. Questo compito non può
essere svolto dal singolo fedele, interpretando direttamente la Bibbia, perché
non è preparato.
4. Viene confermata l'organizzazione della Chiesa basata sull'autorità del Papa e
dei vescovi, ai quali però viene impartito l'obbligo di risiedere nella loro
diocesi, di prendersi direttamente cura delle anime dei fedeli e di non curarsi
più in modo esclusivo del governo e del potere politico. È fatto inoltre divieto
ai vescovi di assumere anche altre cariche.
5. Per preparare i sacerdoti alla loro missione vengono istituiti i Seminari
diocesani e viene confermato l'obbligo del celibato dei preti.
6. Contro il pericolo di nuove eresie viene istituito il Tribunale dell'Inquisizione e
l'Indice dei libri proibiti. Se la riforma cattolica dà nuovo impulso alla Chiesa,
la ferita provocata dal protestantesimo è tuttavia tale da non poter essere
facilmente sanata. Ciò porta il cattolicesimo a rinchiudersi in sé, nella difesa
talvolta esasperata del dogma, di cui appunto sono manifestazione il Tribunale
dell'Inquisizione e l'Indice dei libri proibiti.
In generale, la Chiesa cattolica vuole che il sentimento religioso si diffonda in tutti gli
aspetti della vita individuale e della società: nella famiglia, nel lavoro, nella vita
sociale ed anche nell'organizzazione del tempo libero, per cui le feste popolari
diventano feste religiose. Analogamente, vengono abbellite le chiese, moltiplicate le
processioni, incoraggiato il culto della Madonna e dei santi per attrarre un numero
maggiore di fedeli.
La principale organizzazione che ha contribuito a recuperare la supremazia culturale
della Chiesa di Roma è stato l'"Ordine dei Gesuiti", fondato da Ignazio di Loyola
(1491-1556), chiamato anche "Compagnia di Gesù". I gesuiti si mettono subito al
servizio del Papa, sia per evangelizzare i "selvaggi" dei paesi lontani, sia anche per
riconvertire al cattolicesimo il maggior numero possibile di protestanti. Ulteriore
importante compito svolto dai gesuiti è stato quello dell'educazione e della
formazione culturale e spirituale dei giovani. Ben presto in tutti i paesi cattolici
sorgono collegi di gesuiti che diventano famosi e prestigiosi accogliendo i figli delle
famiglie più importanti.
Viceversa, così come rigorosa era la formazione dei gesuiti, era invece a volte troppo
tollerante il loro atteggiamento nei confronti del cristiano comune, a cui venivano
perdonati facilmente peccati anche gravi, purché egli, confessandosi, promettesse di
non peccare più, ma spesso più a parole che nei fatti, essendo con una certa frequenza
considerata più importante la pratica religiosa esteriore e l’obbedienza alla Chiesa
piuttosto che la coerenza morale.
50
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA.
Per rivoluzione scientifica si intende quel lungo processo nel corso del quale, nel
16º e 17º secolo, ha avuto origine e si è quindi sviluppata la scienza moderna. Si è
soliti considerare la durata di tale processo (150 anni) a partire dalla pubblicazione
dell'opera di Copernico "Le rivoluzioni dei corpi celesti", nel 1543, fino all'opera di
Newton "I principi matematici di filosofia naturale" del 1687.
Sotto il profilo storico-culturale, la nascita della scienza moderna ha comportato il
sorgere di una serie di interrogativi sui fattori che ne hanno favorito l’avvento, su
quelli che per tanto tempo ne hanno ostacolato la nascita, sulle ragioni del suo
finale trionfo, sui rapporti tra il nuovo sapere e la vecchia cultura.
Con la rivoluzione scientifica cade non solo la cosmologia tolemaica-aristotelica, ma
cadono altresì idee da lungo tempo consolidate, riguardanti l'immagine
dell'uomo, il lavoro dello scienziato, le relazioni tra scienza e tecnica, tra scienza
e filosofia, tra scienza e religione.
Da quando Copernico, con la sua teoria eliocentrica, mette al centro dell'universo il
Sole al posto della Terra, entra in crisi anche l'immagine dell'uomo basata sull'antico
modello geocentrico, che voleva invece al centro la Terra. Anche l'uomo infatti
comincia a perdere la sua centralità nell'universo e deve trovare nuove risposte
sulla sua collocazione nel mondo. Inoltre, sorge pure l'inquietante interrogativo: se
la Terra è un corpo celeste come gli altri e non è più il centro dell'universo, creata da
Dio in funzione dell'uomo concepito come il punto più alto della creazione, potrebbe
essere allora che esistono anche altri uomini su altri pianeti? Ed allora come
potrebbero esistere la verità dell'incarnazione e della discesa di Dio su questa Terra
per la redenzione degli uomini in confronto ai possibili abitanti di altri pianeti? In che
modo Dio potrebbe aver redento questi altri eventuali uomini?
Prima di tentare una risposta a questi interrogativi è utile illustrare le nuove
caratteristiche assunte dalla scienza moderna, che trova soprattutto in Galilei la sua
definizione metodologica, in Francesco Bacone la sua filosofia e, successivamente,
in Newton una più compiuta sistemazione metodologico-scientifica.
La rivoluzione scientifica è preceduta dalla rivoluzione astronomica. Entrambe
hanno comportato un cambiamento così ampio dei metodi e delle concezioni
astronomiche e scientifiche tali da essere considerate, appunto, "rivoluzionarie", un
vero e proprio capovolgimento dei metodi e delle teorie precedenti. Ecco perché si
parla di "rivoluzione".
La rivoluzione astronomica.
Essa è stata resa possibile dall'affermarsi dell'idea secondo cui l'universo ha una
struttura (=composizione) razionale, e perciò conoscibile, e che una spiegazione
semplice e unitaria al riguardo è da preferire ad una spiegazione complicata e
macchinosa quale era quella che stava alla base del vecchio sistema astronomico
tolemaico-aristotelico geocentrico, che poneva la Terra al centro dell'universo.
52
Tedesco di origine, Keplero è convinto della validità del sistema eliocentrico che
sviluppa e perfeziona. In particolare, egli abbandona l'idea del movimento
circolare degli astri solo perché perfetto e scopre invece che gli astri si muovono
secondo orbite ellittiche, con velocità variabile a seconda della posizione di volta in
volta occupata nell'ellisse.
Keplero si preoccupa anche di capire che cosa provoca il movimento dei pianeti
attorno al Sole ed ipotizza che esso dipenda da una forza motrice che viene dal Sole
medesimo e che raggiunge i pianeti facendoli muovere con maggiore o minore
velocità a seconda della loro distanza (più veloci i pianeti più vicini al Sole meno
veloci quelli più lontani). In seguito, con la scoperta del magnetismo, si ipotizza che
il Sole sia come un grande magnete, una grande calamita, che ruotando su se stesso
trascina e fa muovere attorno a sé i pianeti. Bisognerà attendere la scoperta della
legge di gravitazione universale di Newton per avere al riguardo una valida
spiegazione scientifica.
La rivoluzione scientifica.
1) L'oggettività.
La ricerca scientifica deve essere oggettiva, limitandosi ad osservare in se stessi gli
oggetti della natura ed abbandonando ogni concezione magica, finalistica, spirituale e
soggettiva della natura stessa (soggettiva =considerare la natura secondo i personali
bisogni e desideri anziché osservarla come oggettivamente è).
2) La causalità.
Nella natura ogni fenomeno è il risultato (l'effetto) di cause meccaniche ben precise e
niente avviene per caso. Perciò si conosce veramente un fenomeno quando se ne
scopre la causa.
3) La relazionalità.
La natura non è più concepito come un insieme di "essenze", di sostanze occulte, ma
come un insieme di relazioni tra i fenomeni. Il compito della scienza moderna non
può essere quello di ricercare tali essenze o sostanze occulte che starebbero sotto le
cose sensibili (sostrato), poiché esse non si possono osservare e verificare; alla
scienza moderna spetta invece di analizzare e scoprire quali sono le relazioni esistenti
tra i diversi fenomeni, ossia quali rapporti di causa-effetto sussistono fra di essi.
4) La legge.
Il vero scopo dello studio della natura è di trovare le regole uniformi, necessarie ed
universali, ossia le leggi scientifiche, attraverso cui la natura opera ed agisce.
55
bisogni sociali: allestire eserciti sempre più potenti e meglio armati; ampliare le
città; migliorare le vie di comunicazione; solcare gli oceani con navi sempre più
resistenti e veloci; arginare e bonificare le acque; estrarre metalli; lavorare i vetri e
le stoffe; stampare libri. Tutto ciò presuppone una sequela di cognizioni di balistica,
metallurgia, architettura, carpenteria, cartografia, arte mineraria, idraulica,
tipografia, eccetera. A loro volta queste ultime implicano più approfondite
conoscenze di matematica, fisica, astronomia, geografia, eccetera, ossia ulteriori e
più ampie nozioni scientifiche, vale a dire, appunto, la creazione di un sapere
scientifico oggettivo, capace di permettere all'uomo un’efficace utilizzazione a
proprio vantaggio delle risorse naturali.
Rapporti tra scienza e tecnica.
Le maggiori richieste di abilità ed interventi tecnici richiedono da un lato la
formazione di artigiani superiori (ingegneri, idraulici, architetti, artisti) e dall'altro
un reciproco collegamento tra scienza e tecnica, fra teoria e prassi, fra scienziati e
tecnici, essendo gli stessi scienziati stimolati dal contatto e dai problemi posti dai
tecnici. Questa congiunzione di teoria e pratica, di scienza e tecnica è una delle
caratteristiche fondamentali della scienza moderna, diversamente dal sapere
medievale che manteneva ben separate le arti liberali dalle arti meccaniche, ritenute
indegne di un uomo libero nonché "bassi" e "vili" poiché implicanti il lavoro
manuale ed il contatto con la materia. Sorge così un nuovo tipo di " dotto ", che non
è più il filosofo medievale, l'umanista, il mago e l'astrologo, ma lo scienziato
sperimentale moderno, stimolato anche dalla tecnica e che ha bisogno della tecnica
per ricavare la strumentazione necessaria per le sue ricerche scientifiche e per
procedere alla sperimentazione e verifica empirica delle sue teorie.
I fattori culturali.
Ancora recentemente si era soliti ritenere che la rivoluzione scientifica fosse da
attribuire, secondo una vecchia interpretazione risalente all'Illuminismo, al
progressivo emanciparsi della ragione dalle superstizioni del pensiero e dalla
astratta metafisica delle "essenze", considerate di ostacolo allo sviluppo della
razionalità scientifica. Oggi si è consapevoli che il processo della rivoluzione
scientifica è il risultato, lungo e tortuoso, di un intreccio di concezioni, ivi comprese
quelle magico-ermetiche-metafisiche-neoplatoniche da cui la scienza solo lentamente
e in tempi successivi andrà a differenziarsi.
Già con Ockham si è assistito alla diffusione di una mentalità empiristica favorevole
alle ricerche naturalistiche.
Il Rinascimento poi, in primo luogo per effetto della laicizzazione del sapere e della
proclamazione della libertà della ricerca intellettuale nei confronti della tradizione
culturale e religiosa, ha aperto la via e le condizioni per lo sviluppo della scienza. In
secondo luogo il Rinascimento, grazie al principio del "ritorno all'antico", ha
prodotto la riscoperta di dottrine e di pensatori trascurati per secoli, quali la
filosofia di Democrito e degli atomisti, le teorie eliocentriche dei pitagorici, gli studi
di Archimede, le ricerche dei geografi, degli astronomi e dei medici dell'età
ellenistica, i quali a loro volta hanno fornito lo spunto per nuove scoperte
scientifiche. In terzo luogo il Rinascimento, in virtù dei suoi interessi per la filosofia
57
A prima vista si può essere portati a ritenere che le scoperte scientifiche nascano
sempre in ambiente scientifico. Oggi invece, grazie agli sviluppi della storia della
scienza, sappiamo che alla base di molte teorie scientifiche, soprattutto degli inizi,
stanno spesso idee extra scientifiche che si rivelano feconde per la scienza, vale a
dire concezioni metafisiche, credenze religiose di vario tipo, persuasioni fantasiose e
irrazionali, che tuttavia ispirano ipotesi di carattere scientifico. Le idee scientifiche
possono sorgere in effetti dalle fonti più disparate; non solo dalle osservazioni
sperimentali o da ragionamenti logico-matematici, ma anche dalla fantasia,
dall'intuizione, dalla metafisica o dal caso. L'importante è che esse siano sottoposte a
verifica e a prova sperimentale per poter essere confermate. E ciò lega ancor più la
storia della scienza alla storia generale della cultura, facendoci meglio capire, con
maggior consapevolezza, che la scienza è pur sempre, fondamentalmente, una
creazione umana.
Dal punto di vista teorico la scienza moderna, fin dal suo nascere, appare agli occhi
delle persone più aperte e progressiste come l'esempio di un sapere rigoroso e
universale, tant'è che qualche filosofo fin da subito ha tentato di estenderne il metodo
anche agli altri e più svariati campi dell'attività umana, come all'etica e alla politica.
Dalla nuova scienza è derivata, da parte di Cartesio o dagli empiristi come si vedrà,
anche la formulazione di nuove teorie della conoscenza, oppure di nuovi punti di
vista e visioni del mondo quali il meccanicismo.
Sul piano pratico, per la sua utilità sociale e la capacità di migliorare le condizioni
dell'uomo nel mondo, la scienza andrà ad ottenere l'appoggio sempre più consistente
della borghesia europea, secondo la concezione di Bacone che "sapere è potere" e
sulla base di una nuova utopia della scienza, vista come generatrice di una sorta di
paradiso in terra.
L'idea della scienza come sapere vero ed utile al tempo stesso sarà uno dei grandi
temi della battaglia illuministica contro l'ignoranza, la superstizione, il sapere
ozioso e le ingiustizie sociali. La scienza occuperà pure un posto centrale nella
filosofia di Kant, vertente sui fondamenti, sulla validità e sui limiti del sapere.
Nell'Ottocento, dopo la parentesi rappresentata dalla filosofia idealistica, si
svilupperà il positivismo, che tornerà a celebrare la scienza come fonte di
conoscenza autentica e di inarrestabile progresso.
Nel Novecento, cadute le illusioni del positivismo, si è assunto verso la scienza un
atteggiamento più critico e cauto, essendo maturata la convinzione che la scienza
non è in grado di spiegare tutto e che non è sempre progresso, dal momento che essa,
tramite la tecnica, mette nelle mani dell'uomo un potere gigantesco che, se male
usato, rischia di distruggere o compromettere la vita sul nostro pianeta. Di
conseguenza, in taluni settori della cultura contemporanea si è instaurato un vero e
proprio processo contro la scienza, accompagnato dal rifiuto della civiltà scientifico-
tecnologica. Rimane comunque maggioritaria la convinzione secondo cui la
scienza e la tecnica, se ben dirette, possono aiutare individui e popoli a raggiungere
sempre migliori condizioni di vita. Del resto, la scienza e la tecnologia fanno ormai
parte integrante della nostra condizione, al punto che il destino umano, nel bene e
nel male, appare indissolubilmente legato ad esse.
60
Nasce a Pisa. A Firenze compie iniziali studi di letteratura e di logica. Poi a Pisa si
iscrive alla facoltà di medicina che però non termina per dedicarsi invece allo studio
della matematica. Per diciotto anni insegna matematica all'Università di Padova.
Dopo Padova, Galilei è chiamato a Firenze e a Pisa per ricoprire la carica di primo
matematico.
Grazie all'uso del cannocchiale-telescopio, la cui scoperta è attribuita ad un olandese
ma che Galilei per primo utilizza come strumento scientifico, egli realizza prime ed
importanti verifiche sperimentali della teoria eliocentrica copernicana.
Accusato di eresia dalla Chiesa, è mandato in esilio nella sua villa privata di Arcetri
dove trascorre in solitudine gli ultimi anni di vita.
psicologia dei personaggi del Dialogo: da una parte c'è il copernicano Salviati,
rappresentato come un uomo intelligente ed anticonformista, e dall'altra c'è
l'aristotelico e tradizionalista Simplicio, rappresentato come un uomo pedante, di
mentalità conservatrice ed attaccato all’"autorità" di Aristotele che non poteva essere
messa in discussione. Arbitro e moderatore del dialogo fra i due è Sagredo, un nobile
veneziano amico di Galilei, colto, aperto, senza pregiudizi e tendenzialmente
simpatizzante anch'egli per le nuove teorie.
Il "Dialogo" è diviso in quattro giornate. Nella prima si pone sotto accusa la
distinzione aristotelica fra mondo celeste e terrestre, per mostrare invece che i due
mondi non sono composte di materia diversa.
La seconda giornata è dedicata a smentire le obiezioni dei tradizionalisti contro
il moto della Terra attorno al Sole. I tradizionalisti obiettano che se davvero la
Terra si muovesse solleverebbe un vento tale da spazzare via tutti gli oggetti dalla
superficie terrestre oppure che, se davvero la Terra si spostasse da ovest ad est, i gravi
(i pesi, gli oggetti) dopo essere stati lanciati in alto dovrebbero allora ricadere giù
obliquamente, più verso ovest, e non perpendicolarmente come invece si nota.
Galilei, attraverso Salviati, risponde che sia l'aria, sia il vento, sia i gravi partecipano
allo stesso movimento della Terra e quindi, muovendosi insieme ad essa, noi non
notiamo il loro movimento perché anche noi ci muoviamo insieme alla Terra e con la
stessa velocità. Sulla base di queste argomentazioni Galilei formula il suo cosiddetto
"principio della relatività galileiana", che anticipa il principio della relatività
ristretta di Einstein: cioè all'interno di un sistema (di un ambiente) chiuso, ossia senza
la possibilità di avere punti di riferimento esterni, è impossibile stabilire se tale
sistema sia in quiete (immobile) o in movimento.
Nella terza giornata viene dimostrato il moto di rotazione della Terra su se
stessa e nella quarta giornata Galilei espone la sua teoria sulle maree.
A causa di quest'opera, che riconferma la validità del sistema eliocentrico
copernicano, Galilei viene nuovamente accusato dalla Chiesa, subisce un secondo
processo da parte del Sant'Uffizio (il Tribunale dell'Inquisizione), è costretto a
rinnegare le sue teorie e, come si è detto, viene esiliato.
Come abbiamo visto, la scienza moderna (come tale non si intende la scienza
contemporanea ma quella che va dal 1600 al 1800), è il risultato della rivoluzione
astronomica e della rivoluzione scientifica. La prima definizione del metodo della
nuova scienza, ed in particolare del metodo della fisica, è merito di Galilei, anche
se egli non lo espone in modo sistematico, come farà Francesco Bacone; le parti ed
elementi del metodo si trovano tuttavia distribuiti nelle varie opere di Galilei.
Galilei suddivide il metodo della scienza da un lato in un momento risolutivo, o
analitico, e in un momento complessivo, o compositivo o sintetico, nonché,
dall’altro lato, in "sensate esperienze" e in "necessarie dimostrazioni".
Metodo scientifico galileiano:
1) momento risolutivo o analitico;
62
Ogni metodo scientifico non nasce soltanto in base alle scoperte ed alle
conoscenze scientifiche, ma anche da idee generali sul mondo (visioni del mondo)
che sono idee di tipo filosofico, quali le idee, già viste in precedenza, di oggettività
della natura, di causalità, di razionalità, di legge scientifica. Così è anche per il
metodo della scienza moderna definito da Galilei.
Dal punto di vista filosofico rileva il fatto che il modo di vedere e di pensare la realtà
da parte della scienza moderna esclude ogni considerazione finalistica della
natura, come pure ogni considerazione soggettiva: non è compito della scienza
cercare il "perché", ossia per quale fine la natura agisca un certo modo (causa
finale) ma solo "come" la natura agisce ed opera (solo la causa efficiente).
Altrettanto, non possiamo giudicare ed interpretare i fenomeni in modo
soggettivo, cioè secondo i nostri desideri e sentimenti, ma soltanto in modo
oggettivo, cioè come essi sono in realtà, indipendentemente da ciò che vorremmo noi.
In particolare, il metodo scientifico moderno definito da Galilei si basa sulle
seguenti idee filosofiche:
1. La concezione della struttura (composizione) matematica del cosmo. Il
mondo, la natura, dice Galilei è un libro scritto in caratteri matematici. La
forma delle cose che sono nell'universo è simile a quella dei cerchi, dei
quadrati, dei triangoli e delle altre figure geometriche, per cui le cose possono
essere studiate e misurate applicando il calcolo matematico e la geometria.
Perciò solo chi conosce la matematica è in grado di comprendere il cosmo. A
tale proposito Galilei rimprovera i filosofi aristotelici perché non hanno
riconosciuto e capito l'importanza della matematica nello studio della natura.
La matematica non è una scienza astratta, ma riguarda la realtà fisica.
2. L'idea della maggior importanza degli aspetti quantitativi della realtà
rispetto a quelli qualitativi, ossia delle proprietà oggettive (o primarie) dei
corpi (delle cose) rispetto alle proprietà soggettive (o secondarie). Le proprietà
oggettive caratterizzano i corpi in se stessi: sono la figura, la grandezza, la
quantità, il luogo, il tempo, il movimento, eccetera. Le proprietà soggettive non
sono vere proprietà dei corpi, ma soprattutto nostri modi di percepirli, perché
dipendono in gran parte dai nostri sensi: sono i sapori, i colori, gli odori, i
suoni, eccetera, che noi attribuiamo alle cose, ma che invece sono influenzati
dalle sensazioni individuali di ciascuno. La fisica aristotelica, viceversa, è più
di tipo qualitativo-descrittivo anziché di tipo quantitativo-misurabile.
3. L'idea che i fenomeni naturali accadono e si svolgono sempre in maniera
uniforme, costante, immutabile e quindi necessaria come una verità
geometrica, un teorema geometrico: ogni cosa, cioè, è sempre il prodotto,
l'effetto di una determinata causa, la quale produrrà sempre in modo uniforme
quell'effetto o quegli effetti e non altri. La natura perciò può essere studiata
secondo il principio di causalità (il principio di causa-effetto): conosco una
cosa quando ne conosco una causa. La conoscenza della causa o delle cause dei
64
Sulla base di queste idee Galilei definisce quindi la sua teoria della conoscenza, ossia
definisce il modo in cui, a suo avviso, procede la conoscenza umana e quali sono le
sue caratteristiche.
La teoria della conoscenza di Galilei è profondamente influenzata dalla sua fiducia
nella capacità della scienza di giungere a conoscenze vere. Egli paragona la
conoscenza umana a quella divina. La conoscenza umana, dice Galilei, differisce
dalla conoscenza divina per il modo di apprendere e per la minor estensione
delle conoscenze, ma per quanto riguarda l’intensità delle conoscenze, cioè per il
grado di certezza, la conoscenza umana per Galilei è simile a quella divina, tanta è la
sua fiducia nella scienza umana. E ciò grazie soprattutto alla matematica la quale,
pur essendo un prodotto umano (e non divino), è in grado di condurre ad un sapere
certo e indubitabile che non ha nulla da invidiare per profondità, cioè per intensità, a
quello divino. Il modo di apprendere di Dio è intuitivo: Dio conosce
intuitivamente, in modo immediato e in un colpo solo, tutta la verità. Invece, il modo
di apprendere dell'uomo è graduale, procede un passo alla volta attraverso il
ragionamento e l'esperienza, ed inoltre la conoscenza umana non sarà mai totale.
Tuttavia ciò che l'uomo conosce è uguale a ciò che, per quella determinata cosa,
conosce Dio stesso: che 2 + 2 = 4 è vero sia per noi ed altrettanto per Dio.
Rapporto tra scienza e filosofia e tra scienza e fede. L'autonomia della scienza ed
il rifiuto del principio di autorità.
disposto lui per primo a cambiare le proprie idee in base alle nuove scoperte. Invece
gli aristotelici seguitano nel loro atteggiamento dogmatico (=che non accetta di essere
messo in dubbio) ed antiscientifico, che ostacola il progresso della scienza e del
sapere.
La lotta contro la Chiesa e i teologi.
La Chiesa e i teologi avevano stabilito che ogni forma di sapere dovesse essere
conforme non solo allo spirito ma anche alla lettera della Bibbia e delle Sacre
scritture. Galilei invece, che era uno scienziato ma anche un uomo di fede, sostiene
che tale modo di pensare è non solo di ostacolo al libero sviluppo del sapere e della
scienza, ma che danneggia la stessa Chiesa.
Perciò, nell'opera intitolata "Lettere copernicane" Galilei affronta il rapporto
tra scienza e fede. Per Galilei la natura, che è l'oggetto della scienza, e la Bibbia, che
è la base della religione, non possono essere in contrasto fra di loro perché
derivano entrambe da Dio. Eventuali differenze e contrasti tra verità scientifica e
verità religiosa sono quindi soltanto apparenti e vanno risolti non cambiando le
verità scientifiche e neppure cambiando quelle religiose, bensì mediante
l'interpretazione della Bibbia, cioè attraverso il modo di leggere la Bibbia ed il
significato da attribuire alle sue parole e ciò, prosegue Galilei, è cosa certamente
lecita perché: a) la Bibbia ha usato, per farsi comprendere anche dagli uomini non
istruiti del tempo, un linguaggio popolare, semplice e metaforico, volutamente non
complicato e pertanto inadeguato a spiegare i fenomeni anche dal punto di vista
scientifico; b) la Bibbia non intende insegnare verità e leggi scientifiche, ma verità
religiose, che riguardano la salvezza e il destino ultraterreno dell'uomo, essendo suo
scopo insegnarci, scrive Galilei, "come si vadia al cielo e non come vadia il cielo".
In quanto autonome e distinte tra di esse, scienza e fede non possono essere
paragonate fra loro, ma ciascuna rimane valida suo ambito e nei suoi scopi. Così
come non è compito della scienza di intervenire sulla fede e sulla religione,
altrettanto non è compito della fede di intervenire su questioni riguardanti i fatti
scientifici naturali. La Bibbia non è un trattato scientifico: l'errore dei teologi è
quello di credere che la Bibbia debba essere valida anche per quanto riguarda le
conoscenze della scienza.
Per questa posizione Galilei è stato condannato dalla Chiesa, ma il suo pensiero ha
finito nel tempo per prevalere e convincere non solo la cultura filosofica e la cultura
in generale ma anche la stessa Chiesa, che infine è giunta a riconoscere l'autonomia
della scienza nel campo delle conoscenze naturali, dimostrandosi disposta
eventualmente a cambiare l'interpretazione letterale dei testi biblici in conformità alle
nuove scoperte scientifiche.
66
"Il Nuovo Organo" è la nuova logica che, secondo Bacone, deve caratterizzare e
guidare il moderno sapere tecnico-scientifico.
Bacone critica il sapere magico, che aveva caratterizzato parte della filosofia
rinascimentale, perché cerca cause occulte anziché basarsi sulla sperimentazione;
perché è un sapere riservato solo a pochi iniziati anziché essere un sapere pubblico,
controllabile attraverso la verifica empirica; e perché il suo scopo è il dominio sugli
altri anziché l'utilità pratica per tutti.
67
Sgomberata la mente dai pregiudizi (gli "idola"), ci si può rivolger allo studio dei
fenomeni naturali. Due sono gli scopi:
1. generare e introdurre in un corpo, per utilizzarlo, una nuova natura
(proprietà, caratteristica) o più nature diverse: ad esempio fare leghe di
metalli, rendere il vetro più trasparente o infrangibile, conservare i cibi quando
è caldo, far maturare più rapidamente frutta e ortaggi;
2. scoprire la forma di una certa natura, di una certa cosa o fenomeno
naturale, ossia scoprire i caratteri e le proprietà specifiche di ogni cosa che si
intenda studiare ed esaminare. Va precisato che per Bacone la forma di una
cosa è la sua natura, cioè il principio interno che la anima, la fa nascere,
muovere e sviluppare, in senso diverso quindi dal concetto aristotelico di
forma, per cui la forma è intesa come la proprietà che distingue una cosa da
ogni altra (ad esempio, la forma dell'uomo è la sua razionalità).
Peraltro, Bacone è d'accordo con Aristotele, secondo cui il vero sapere è sapere per
cause (scire per causas): si conosce un fenomeno quando se ne comprende la causa. Il
vero sapere pertanto non consiste per Bacone nella misurazione e quantificazione dei
fenomeni come invece affermava Galilei. Quello di Bacone è quindi un sapere
ancora di tipo prevalentemente descrittivo e qualitativo anziché di tipo
matematico-quantitativo, tipico della scienza moderna.
Per Aristotele quattro sono le cause necessarie per la comprensione di un qualsiasi
fenomeno: la causa materiale, la causa efficiente, la causa formale e la causa finale.
Per Bacone invece non ha senso ricercare nello studio dei fenomeni naturali la loro
causa finale; essa può valere semmai nello studio delle azioni della storia umana. La
causa efficiente poi è estrinseca, esterna al fenomeno studiato, perché è quel qualcosa
d'altro che ha prodotto il fenomeno che si intende studiare. La causa materiale, infine,
ha un valore soltanto secondario, superficiale. Resta quindi solo la causa formale. È
questa che per Bacone dobbiamo conoscere, cioè conoscere la forma, o natura, delle
cose nel senso sopra illustrato.
Per far comprendere l'idea di forma Bacone introduce due nuovi concetti: lo
schematismo latente e il processo latente (latente=nascosto, sottostante, che non si
può vedere attraverso la semplice osservazione empirica).
Lo schematismo latente di una natura (o cosa o fenomeno) è la sua struttura, ossia
come quella certa cosa è fatta, da quali e quanti elementi è composta e in quale
relazione essi stanno tra loro. È evidente che la struttura interna di un fenomeno non è
in quanto tale visibile.
Il processo latente di una natura (o cosa o fenomeno) è la legge, cioè il modo in
base a cui quella certa cosa sorge e si sviluppa; è il movimento interno dei vari corpi,
delle varie cose, che li conduce alla realizzazione della loro forma specifica. Ma si
tratta di un movimento, di un processo, latente, nascosto e sottostante che i sensi non
colgono (ad esempio, non si vede il processo interno per cui il seme diventa fiore o il
fiore diventa frutto). Quindi non è un processo misurabile ma solo descrivibile: come
già indicato, Bacone non condivide il metodo quantitativo nello studio dei fenomeni.
69
Il metodo induttivo per eliminazione dei casi particolari che si rivelano falsi.
Bacone ha esercitato una scarsa influenza sugli sviluppi della scienza, ove ha
prevalso il metodo di Leonardo, di Keplero e soprattutto di Galilei, di tipo
matematico-quantitativo, in base al quale la conoscenza dei fenomeni consiste nella
loro misurazione e nel calcolo dei loro rapporti o relazioni. Bacone in effetti non
riconosce alla matematica una funzione efficace nella ricerca scientifica.
Rimangono in Bacone residui della fisica aristotelica, del sapere magico e del
vitalismo rinascimentale. Il suo metodo è di tipo descrittivo e qualitativo, come in
Aristotele, e non di tipo quantitativo, come quello della scienza moderna inaugurata
da Galilei, pur avendo egli indicato un diverso procedimento induttivo ed un diverso
concetto di forma. Tuttavia per Bacone il sapere, benché strettamente legato
all'esperienza, rimane pur sempre basato sulla conoscenza delle forme dei fenomeni,
cioè delle sostanze, e non basato invece sulla ricerca delle funzioni e delle leggi
quantitative. Similmente alla concezione rinascimentale, attribuisce inoltre a tutti i
corpi capacità di percezione: tutta la natura è pensata come organismo vivente.
L'importanza di Bacone consiste piuttosto nell'aver riconosciuto lo stretto legame tra
scienza e tecnica e potere umano di controllo ed utilizzazione della natura, secondo il
suo motto "sapere è potere".
71
La gravitazione universale.
Voltaire ha diffuso la leggenda secondo cui l'idea della gravitazione sarebbe venuta
in mente a Newton osservando la caduta di una mela da un albero, al che egli si
sarebbe allora domandato che cosa sarebbe accaduto se la mela fosse caduta da un
albero alto quanto la luna. In realtà la scoperta di Newton (come in genere per
qualsiasi altra scoperta) non nasce da un'idea improvvisa ma dall'approfondimento
di precedenti e parziali tentativi di spiegazione: Copernico aveva riconosciuto la
gravità come una forza che attrae fra loro i corpi celesti, ma non era giunto a
misurarla; Huygens (fisico olandese) aveva determinato la formula della forza
centrifuga; l'italiano Alfonso Borelli aveva concepito la forza centripeta o attrattiva.
Il grande e geniale merito di Newton è stato quello di unificare tutte queste
spiegazioni parziali in un'unica teoria, in un unico principio, spiegando con una sola
formula, e misurandole, sia la forza che mantiene i pianeti nelle loro orbite sia la
forza che fa cadere i gravi sulla terra; forze queste due che, a prima vista, appaiono
contrapposte ma che Newton ha unificato in termini di risultanti di opposte
componenti. Riconosciuto quindi che il moto dei pianeti e la caduta dei gravi
derivano dalla medesima causa, Newton formula la sua legge sulla gravitazione
universale: i corpi si attraggono in maniera direttamente proporzionale al prodotto
della loro massa ed inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.
Newton per primo distingue la massa dal peso. La massa è la quantità di materia di
un determinato oggetto che non muta, mentre il peso è una forza che varia a seconda
del luogo e dell'elemento in cui il corpo si trova (nel vuoto, sulla Luna, sulla Terra,
nell'acqua).
Le leggi della dinamica, ossia del movimento, come pure di quel generale movimento
che è la gravitazione universale, implicano a loro volta il concetto di moto assoluto,
riferito cioè allo spazio vuoto, il quale moto assoluto suppone a sua volta un tempo
ed uno spazio pure assoluti. Infatti, gli stati di quiete e di moto rettilineo uniforme
possono venir determinati solo relativamente ad altri corpi che siano in quiete o in
moto. Ma siccome il rinvio ad ulteriori punti di osservazione o sistemi di riferimento
non può andare all'infinito, Newton introduce quindi il concetto di tempo assoluto e
di spazio assoluto, concetti che saranno oggetto di grandi dibattiti e contestazioni ma
che saranno superati solo due secoli dopo con la teoria della relatività di Einstein.
Scrive Newton: " il tempo assoluto, vero e matematico, in sé e per sua natura fluisce
uniformemente senza relazione a qualcosa di esterno". Con altri terminei è definibile
come durata, per cui il tempo comunemente inteso, l’ora, il giorno, il mese, l'anno, è
la misura della durata. Altrettanto, lo spazio assoluto è per sua natura privo di
relazione a qualcosa di esterno e rimane sempre simile a se stesso ed immobile.
L'ottica.
In contrapposizione alla teoria ondulatoria della luce, sostenuta dal fisico olandese
Huygens, secondo cui la luce è considerata una vibrazione dell'etere che si propaga
per onde, Newton formula la teoria corpuscolare della luce, secondo cui l'agitazione
dell'etere produce l'emissione di particelle luminescenti (corpuscoli) di differente
grandezza: le più piccole danno origine al viola dello spettro luminoso e le più
grosse al rosso.
Il Seicento è un secolo importantissimo nella storia della filosofia perché con esso
nasce la cosiddetta "filosofia moderna", che si protrarrà fino all'Ottocento, mentre col
Novecento entriamo nella filosofia contemporanea.
La filosofia moderna si distingue da quella precedente (quella greca, quella
ellenistica e romana, quella medievale e quella umanistico-rinascimentale) perché
cambiano profondamente gli interessi filosofici prevalenti. Infatti, mentre per le
filosofie precedenti gli interessi prevalenti riguardavano l'"ontologia" (= quella
parte della filosofia che studia i fondamenti dell'essere, o della realtà, cioè i principi e
le caratteristiche essenziali, le essenze, i fini, del mondo e delle cose del mondo) per
la filosofia moderna gli interessi prevalenti riguardano la "gnoseologia" (= quella
parte della filosofia che studia la conoscenza umana, i suoi fondamenti, le sue
caratteristiche principali, il suo valore e i suoi limiti). Occupandosi del mondo, della
realtà e delle cose del mondo, cioè degli "oggetti" del mondo, le filosofie precedenti
avevano carattere oggettivo; occupandosi della conoscenza e del "soggetto"
conoscente, cioè del modo in cui il soggetto (l'uomo) conosce, la filosofia moderna
ha carattere soggettivo.
Il Seicento è dominato da due principali correnti filosofiche: 1) il razionalismo;
2) l'empirismo.
Il razionalismo è una forma moderna di filosofia metafisica rispetto a quella antica.
Con tale termine si intendono tutte quelle filosofie (filosofie razionalistiche) per le
quali il fondamento primo, la base di partenza della conoscenza, è la ragione e
non le sensazioni. I filosofi razionalisti ritengono che la ragione, la mente umana,
possieda entro di sé, fin dalla nascita, idee e principi generali chiamati "idee innate"
(innate=non nate ad un certo momento nella mente individuale ma presenti in essa fin
dalla nascita). Essendo innate, queste idee non derivano dall'esperienza ma sono
indipendenti da essa: si dice che sono idee "a priori" (= che vengono prima e a
prescindere dall'esperienza sensibile). Le idee innate quindi non sono sensazioni ma
sono "intuizioni" che la ragione, la mente, coglie in quanto presenti entro di sé e che
comprende immediatamente senza bisogno di dimostrazioni perché sono
assolutamente evidenti. Sono come i postulati della geometria (il punto non ha
dimensioni; la retta è la distanza più breve tra due punti; la retta è infinita; due rette
parallele non si incontrano mai; ecc.), i quali non sono dimostrabili ma sono accettati
da tutti perché del tutto evidenti. Quindi, partendo dalle idee innate, che sono di
tipo generale, o dai postulati nel caso della matematica, e procedendo per
deduzione, applicando cioè il metodo deduttivo (passando dal generale al
particolare), si giunge man mano, mediante la logica ed il ragionamento, alla
dimostrazione di realtà particolari, di singole cose o fatti o gruppi di cose o di fatti
(nel caso della geometria, partendo dai postulati si giunge, mediante quei particolari
ragionamenti che sono i teoremi, alla dimostrazione delle proprietà delle figure
geometriche particolari).
77
Idee innate sono, ad esempio: l'idea della coscienza (o anima o "io"), l'idea di
perfezione, l'idea di infinito, l'idea di sostanza, l'idea di spirito, l'idea di materia,
eccetera. Partendo da tali idee innate, di tipo generale, intuitive ed evidenti, che non
hanno quindi bisogno di essere dimostrate, si arriva poi, attraverso il metodo
deduttivo ed il ragionamento, a dimostrare, ad esempio, cos'è l'essenza e quali sono le
proprietà della coscienza, quali sono le proprietà dello spirito, cioè del pensiero, quali
sono le proprietà di fondo della materia nonché le proprietà, il senso ed il fine del
mondo fisico, della natura, dell'essere umano. Infine, poiché secondo i razionalisti le
idee innate da cui parte la conoscenza sono principi primi e idee generalissime
evidenti di per sé, allora le conoscenze che da esse derivano sono non soltanto
certe ma anche complete, esaustive.
Per empirismo si intendono tutte quelle filosofie (le filosofie empiriste) per le quali il
fondamento primo, la base di partenza della conoscenza non è la ragione, la
mente, ma è invece l'esperienza sensibile, cioè le sensazioni. Per gli empiristi le
idee innate non esistono: la mente, quando nasce, non possiede dentro di sé alcuna
idea; le idee verranno dopo, con l’esperienze e con la conoscenza. Poiché parte
dall'esperienza, allora per gli empiristi la conoscenza non è a priori ma è "a
posteriori" (=che viene dopo l'esperienza, dopo le sensazioni). Ciò non significa che
la ragione non sia necessaria per giungere a conoscere, anzi è determinante. Infatti,
se la conoscenza comincia dall'esperienza, essa però, per diventare tale, ha bisogno
dell'intervento della ragione, la quale elabora ed organizza le sensazioni, le
esperienze, trasformandole in concetti ed in spiegazioni.
Inoltre per gli empiristi la conoscenza non procede per deduzione ma per
induzione (=partire dai casi particolari, dalle singole esperienze e sensazioni, per
giungere a spiegazioni più generali). Tuttavia, diversamente dai razionalisti, gli
empiristi non ritengono possibile giungere a conoscenze complete ed esaustive.
Secondo il metodo induttivo è possibile giungere gradualmente a spiegazioni sempre
più ampie, giungere a scoprire cause sempre più generali, ma le spiegazioni e le
teorie saranno sempre parziali, mai complete, non essendo possibile spiegare le cause
prime e i fini ultimi della realtà, cioè l'essenza del mondo e delle cose del mondo,
l'essenza dello spirito, l'essenza della materia, eccetera, in quanto per gli empiristi
l'intelletto umano è limitato. Il metodo induttivo dell’empirismo, al contrario del
razionalismo, non parte da cause prime (le idee innate) per spiegarne gli effetti, ma
parte dagli effetti, dai singoli fenomeni, per spiegarne le cause, ritenendo però
che la mente umana, poiché limitata, non sarà mai in grado di scoprire le cause
prime della realtà (Perché c'è il mondo? Qual è il suo destino? ecc. A tali cause
prime e fini ultimi è impossibile per gli empiristi trovare una risposta).
-Per entrambi noi non conosciamo direttamente le cose, gli oggetti, ma solo i
fenomeni, ossia ciò che ci appare delle cose, ciò che percepiamo, ossia le immagini,
l'aspetto esteriore delle cose così come la nostra mente ce le rappresenta
(rappresentazioni mentali), però non conosciamo le cose in se stesse. La nostra è
solo conoscenza dei fenomeni (fenomeno in greco significa "ciò che ci appare": ciò
vuol dire che non sappiamo con certezza se le cose in se stesse sono davvero
come ci appaiono).
-Per entrambi i fenomeni naturali avvengono sempre in maniera meccanica,
accadono secondo rapporti meccanici e necessari di causa-effetto, per cui, data
una certa causa, essa produce meccanicamente e necessariamente un certo
determinato effetto e, viceversa, dato un certo effetto, esso deriva meccanicamente e
necessariamente da una determinata causa. Così, è in generale ritenuto che tutti i
fenomeni accadano secondo leggi naturali necessarie. È questa una concezione
meccanicistica della natura che si contrappone alla concezione spiritualistica
della natura (la natura è governata da un Essere superiore divino e trascendente); si
contrappone altresì alla concezione panteistica della natura (dentro la natura,
dentro ogni cosa naturale, vi è uno spirito divino immanente che la anima) e si
contrappone pure alla concezione organicistica della natura che si aveva ad
esempio nel Rinascimento (la natura è come un immenso corpo vivente, composto
non solo di materia meccanica ma anche di spirito libero, che sceglie liberamente da
sé il modo in cui svilupparsi). In base alla concezione meccanicistica della natura, il
meccanismo secondo cui accade ogni fenomeno naturale è pertanto misurabile
ed è conoscibile mediante il calcolo ed il metodo matematico (come diceva
Galilei). Non ha senso dunque cercare un finalismo nella natura (essa non agisce
in vista di qualche fine o qualche scopo, ma agisce meccanicamente) e non ha senso
ricercare una libertà della natura, suo svilupparsi liberamente (la natura agisce
sempre in base a leggi naturali necessarie, costante ed uniformi). Finalismo e libertà
possono semmai essere cercati e trovati nello spirito, cioè nel pensiero umano,
nei comportamenti e nelle idee degli uomini e nella storia umana.
Nasce a La Haye in Francia. Oltre alla filosofia, si è dedicato allo studio della fisica
ed è stato altresì un grande matematico. Inventa il sistema cartesiano col quale unifica
geometria e algebra. Partecipa in parte alla "Guerra dei trent'anni". Dopo aver
soggiornato a Parigi, nel 1628 si stabilisce in Olanda per godere della libertà
filosofica e religiosa propria di quel paese. Compie viaggi in tutta Europa. Nel 1649,
su invito della regina Cristina di Svezia, si stabilisce presso la sua corte a Stoccolma,
dove muore nel 1650.
Opere principali: Discorso sul metodo; Principi della filosofia; Le passioni
dell'anima.
Vivendo gran parte della sua vita durante la Guerra dei trent'anni, che fu guerra di
conquista ma anche guerra di religione, pubblica solo l'opera "Discorso sul metodo"
mentre, per evitare accuse di eresia, non pubblica le altre sue opere, che escono
postume.
Galileo fonda il metodo scientifico; Bacone celebra il potere della scienza e della
tecnica; Cartesio è il fondatore del nuovo metodo filosofico e del razionalismo.
Due sono i principali e fondamentali meriti filosofici di Cartesio:
1. egli per primo sposta l'interesse prevalente della filosofia dall'ontologia alla
gnoseologia, inaugurando così la filosofia moderna;
2. definisce il nuovo metodo della filosofia moderna, il quale non si fonda più sul
principio d'autorità, cioè sul pensiero dei più autorevoli filosofi antichi, che
anzi nella sua opera non sono nemmeno citati, ma si basa invece sulle idee
della nuova società derivanti dalla rivoluzione scientifica.
Al termine dei suoi studi Cartesio critica il sapere tradizionale perché si accorge
che esso non si basa su criteri sicuri per distinguere il vero dal falso. Solo la
matematica gli appare degna di fiducia e pertanto si propone di costruire un nuovo
metodo filosofico prendendo per modello il metodo deduttivo della matematica,
ed in particolare della geometria. Il nuovo metodo filosofico proposto intende partire
da postulati o idee generali evidenti, immediate ed intuitive, che non abbiano bisogno
di dimostrazione ma dalle quali, per deduzione, si possano poi spiegare e dimostrare i
casi, i fenomeni e le realtà particolari. Le dimostrazioni sono però valide solo se le
idee generali di partenza sono così evidenti da essere sicuramente certe. Il nuovo
metodo filosofico, deduttivo, deve cioè partire e basarsi almeno su un'idea
generale che per sua propria evidenza sia così intuitiva, chiara e distinta da
essere senz'altro vera. In proposito, Cartesio definisce l'intuizione come la capacità
di cogliere le idee in modo così chiaro e distinto da non lasciare a nessun dubbio.
A tal fine, e senza basarsi in nessun modo sull'autorità della cultura tradizionale e sui
pensatori del passato, Cartesio dà avvio al suo metodo secondo le quattro
principali regole seguenti:
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1. La regola dell'evidenza: non accettare mai per vera nessuna cosa che non si
presenti alla mente con assoluta evidenza, cioè in maniera chiara e distinta.
Tale regola comporta l'esclusione pertanto di ogni pensiero su cui sia possibile
il dubbio.
2. La regola dell'analisi: scomporre un problema complesso nelle sue parti
semplici, da considerare separatamente.
3. La regola della sintesi: passare gradatamente da conoscenze più semplici alla
loro unificazione (sintesi) in conoscenze più complesse.
4. La regola della enumerazione e della revisione: enumerare tutti i casi in cui
un problema, un fenomeno può manifestarsi (ad esempio il fenomeno del
calore) per essere sicuri di non aver dimenticato nulla e quindi controllare di
nuovo (revisione) tutte le procedure di analisi e di sintesi che sono state
seguite. L'applicazione dell'analisi e della sintesi è il metodo della matematica,
che parte da postulati considerati come evidenti, metodo che Cartesio ritiene di
estendere a tutte le scienze sulla base di una concezione della realtà strutturata
matematicamente, cioè secondo una serie necessaria di cause ed effetti
quantificabili e misurabili.
Come passo successivo, Cartesio applica le regole del suo metodo ai vari tipi di
conoscenza quali definiti dal sapere tradizionale: la conoscenza sensibile, la
conoscenza logico-razionale, la conoscenza matematica.
Per quanto riguarda la conoscenza sensibile, sembra che i sensi, l'esperienza
sensibile, ci diano una conoscenza indubitabile; ma Cartesio osserva che i sensi ci
possono ingannare. Infatti ci fanno vedere il Sole molto più piccolo e molto meno
caldo di quanto è in realtà. I sensi ci fanno conoscere solo l'apparenza (i fenomeni)
delle cose, non la loro realtà.
Per quanto riguarda la conoscenza logico-razionale, essa non deriva dai sensi, ma
si fonda sui principi della ragione e della logica (principio di identità; principio di non
contraddizione, ecc.) che risultano certi. Però, osserva Cartesio, c'è anche chi sbaglia
nel ragionare oppure potrei stare sognando e la distinzione tra veglia e sonno non è
sempre chiara. Quindi anche la conoscenza logico-razionale non è indubitabile.
Per quanto riguarda la conoscenza matematica, Cartesio osserva che, si sia svegli
o si dorma e si sogni, le regole della matematica non cambiano (2 + 3 = sempre 5).
Sembra quindi che la matematica possa essere ritenuta il fondamento, la base certa
del sapere e della conoscenza umana. Tuttavia, bisogna dubitare anche della
matematica perché potrebbe esistere un "genio maligno" che vuole sempre
ingannarci, facendoci ritenere vera la matematica mentre invece è un suo imbroglio.
Come si può notare, lo scopo di Cartesio è quello di trovare un principio, un
fondamento, una base del sapere e della conoscenza così evidente ed intuitiva,
così chiara e distinta, da escludere ogni e qualsiasi dubbio ci si possa immaginare,
anche il dubbio più fantasioso come quello che possa esistere un genio maligno.
81
Il "cogito, ergo sum": penso, quindi sono, cioè esisto come essere pensante.
Proprio quando il dubbio sembra non finire mai, Cartesio trova l'ispirazione e
scopre quella verità, quel principio assolutamente indubitabile che diventerà la base,
il fondamento del nuovo sapere. E gli osserva, infatti, che mentre si pensa di poter
dubitare di tutto, non si può tuttavia dubitare del fatto che si stia pensando,
ossia che vi è, che esiste un qualche cosa, un soggetto che pensa. Da qui la celebre
affermazione "cogito, ergo sum" (penso, quindi sono, esisto). Questa verità non può
essere messa in dubbio neppure dal genio maligno. Magari io come uomo, come
corpo, non esisto, perché posso essere un'illusione provocata proprio dal genio
maligno; altrettanto possono non essere reali le cose pensate e sentite, ma
nessuno, neppure il genio maligno, può farmi dubitare che, se come corpo, come
persona. posso anche non esistere, esisto almeno come soggetto pensante, come
"cosa che pensa", cioè, in latino, come "res cogitans", potendosi concludere così
che essa è indipendente dal corpo e dal mondo, che saranno chiamati "res extensa".
La scoperta che quantomeno il soggetto pensante esiste, cioè che esiste la
coscienza, l’"io", ossia il pensiero, anche se i contenuti del pensiero potrebbero essere
irreali, un'illusione, non è il risultato di una dimostrazione, cioè di un
ragionamento graduale e complesso, ma è il frutto proprio di quella intuizione
immediata, del tutto evidente, chiara e distinta, che Cartesio cercava come
fondamento e base di partenza certa del nuovo sapere.
La scoperta del "cogito", della "res extensa", ha un significato epocale, perché
segna lo spartiacque, la separazione-distinzione tra la filosofia antica, impostata
sulla metafisica dell'oggetto o dell'essere, cioè sull'ontologia, e la filosofia moderna,
fondata da Cartesio, la quale è impostata sulla metafisica del soggetto conoscente,
cioè sulla gnoseologia. La filosofia moderna non è più scienza dell'essere
(ontologia), rivolta a cercare l'essere, l'essenza delle cose e della realtà, ma diventa
soprattutto dottrina della conoscenza (gnoseologia). La metafisica antica trascurava il
ruolo del pensiero, cioè del soggetto pensante, per concentrare l'indagine intorno
all'essere, alla realtà. La nuova metafisica invece, quella moderna, riconosce che la
realtà si costituisce in primo luogo nel pensiero: la realtà è quella pensata. Il pensiero
non coincide con la realtà esterna ma solo nel pensiero essa può essere rappresentata
e conosciuta. Il primato passa dall'oggetto conosciuto al soggetto conoscente.
Viene affermata l'autonomia della coscienza rispetto all'essere (alla realtà esterna) e a
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La scoperta del cogito ha comportato il sorgere di ampie dispute ed obiezioni già fin
dai contemporanei di Cartesio.
Taluni affermano che la dottrina del cogito è un circolo vizioso: Cartesio accetta il
principio del cogito perché evidente, ma fonda a sua volta il principio dell'evidenza
sul cogito. Cartesio risponde che non è vero che il cogito risulta evidente perché
conforme alla regola dell'evidenza, in quanto il cogito è la prima autocoscienza
intuitiva, la prima consapevolezza che il soggetto ha di se stesso, pertanto il criterio
dell'evidenza non è affatto anteriore al cogito.
83
Allora, proseguo Cartesio, se Dio esiste ed è perfetto, deve essere per forza anche
buono e quindi non può ingannarci, come potrebbe fare invece un genio maligno. E
poiché Dio ci ha dato la ragione, di conseguenza tutto ciò che alla nostra ragione
si presenta in modo chiaro e distinto è senz'altro vero. Perciò sono vere le nostre
idee innate e vera è anche la realtà esterna, ossia vi è corrispondenza fra le nostre
idee avventizie circa le cose esterne e le cose medesime, così come vera è anche
l'esistenza del nostro corpo, allorquando tali idee si presentino in modo chiaro e
distinto alla nostra mente.
Dio è quindi il garante della verità delle nostre conoscenze. Come si può notare,
Cartesio ha una concezione di Dio essenzialmente strumentale e funzionale ai fini
della conoscenza che, in quanto tale, ha ben poco di religioso. Dio è semplicemente
lo strumento che assicura la verità delle conoscenze umane. Dunque Dio non è
Provvidenza, non si prende cura degli uomini: sarà semmai la religione a rivelarlo
anche come tale e a porlo come oggetto di fede.
Il problema dell'errore.
Ma se Dio è colui che garantisce la verità delle nostre conoscenze (purché siano
chiare e distinte) sorge allora un problema: come mai allora noi talvolta
sbagliamo? come mai è possibile l'errore? Per Cartesio l'errore non è imputabile
a Dio, che è essere perfetto, né è imputabile alla nostra ragione, che ci è stata
donata da Dio. L'errore è piuttosto imputabile alla nostra volontà, che ci può
rendere impazienti e frettolosi e quindi indurci a ritenere chiare e distinte idee che
sono invece ancora confuse ed oscure. L'intelletto umano è limitato, ma la volontà
umana è libera. Essa consiste nella possibilità di fare o non fare, di affermare o
negare, e quindi di affermare come vero anche ciò che all'intelletto risulta confuso ed
oscuro.
Dio, abbiamo visto, garantisce la verità delle idee avventizie. Possiamo pertanto
essere certi dell'esistenza non solo dei nostri pensieri ma altresì della realtà esterna
fisico-naturale e delle cose corporee, materiali. Le cose corporee sono tutte diverse
fra di esse e si trasformano continuamente. Vi è però un aspetto comune a tutti i
corpi materiali che è immutabile: l'estensione, termine con cui si vuole significare
che, per quanto diverso da qualsiasi altro, ogni corpo materiale occupa spazio.
L'estensione, l'occupare spazio, proprietà comune di tutti i corpi, è chiamata da
Cartesio "res extensa", che vuol dire appunto cosa, sostanza, estesa. Oltre che
dall'estensione, i corpi materiali sono caratterizzati anche dal movimento, ossia
dal loro continuo divenire e trasformarsi. Causa prima del movimento è Dio, che ha
impresso al mondo fisico il moto iniziale e ha quindi stabilito le leggi naturali del
movimento dei corpi, che sono cause seconde.
Poiché per Cartesio vale dunque l'equivalenza: cose corporee=materia, materia=
estensione, estensione=spazio (tutto lo spazio), ciò significa allora che il vuoto non
esiste perché l'intero spazio, consistendo nell'estensione, è quindi integralmente
86
occupato dalla materia, anche là dove i corpi ci appaiono spazialmente separati. Per
Cartesio non esiste alcun vuoto tra un corpo e l'altro in quanto ogni intervallo di
spazio sussistente fra i corpi è composto anch'esso di corpuscoli materiali, ossia di
frammenti piccolissimi ed invisibili di materia estesa. Tali corpuscoli, costituiti di
materia sottile o etere, riempiono totalmente ciò che viene impropriamente
chiamato il vuoto.
Lo spazio inoltre, secondo la concezione euclidea, è infinito; dunque anche
l'estensione, che è materia estesa in tutto lo spazio, è infinita e, in quanto infinita,
l'estensione (cioè la materia, i corpi) è infinitamente divisibile, come lo spazio
geometrico. Per Cartesio non vi sono quindi atomi, ovverosia particelle indivisibili
di materia, come sosteneva Democrito: tutto lo spazio è concepito come spazio
matematico continuo.
Le cose del mondo fisico ed il loro trasformarsi traggono origine dall'urto
meccanico, fra di essi, dei corpi o dei corpuscoli, cioè di quelle particelle
piccolissime di materia che, muovendosi continuamente, si scontrano aggregandosi o
disaggregandosi, costituendo in tal modo i corpi come anche la loro dissoluzione.
Ne deriva una concezione del mondo fisico di tipo meccanicistico. Il mondo fisico-
naturale non è un sistema di forme o di essenze come nell'antica metafisica; non è
neppure un organismo vivente, animistico-magico, come pensato dalla filosofia
naturalistica rinascimentale. Il mondo è invece una macchina, regolato da due
leggi fondamentali di carattere dinamico e meccanico:
1. il principio di inerzia, che Cartesio formula per primo in maniera adeguata;
2. il principio di conservazione della quantità di moto o di energia, principio
posto da Dio quale causa prima del movimento dei corpi, secondo cui, pur nel
variare dei movimenti e della loro intensità, si conserva costantemente e
complessivamente nell'universo la medesima quantità di movimento.
Viene dunque negata da Cartesio ogni forza, attrattiva o repulsiva, capace di agire a
distanza, come la gravitazione o le forze elettriche o magnetiche. Il movimento, e
con esso il sorgere o il perire delle cose, deriva solo dagli urti meccanici, dai contatti
diretti tra le cose corporee o tra i corpuscoli, concepiti tuttavia, come abbiamo visto,
infinitamente divisibili e non già indivisibili come gli atomi.
Deriva altresì una concezione antifinalistica del mondo: i corpi non si muovono,
non nascono, non si trasformano e non periscono in vista di un fine, di uno scopo,
ma soltanto in base a pure leggi meccaniche e necessarie, ossia sempre costanti ed
uniformi, per cui ad una certa causa consegue necessariamente un preciso e
determinato effetto.
Non solo le cose inanimate ma anche il corpo sia degli animali che degli uomini
è una macchina. L'anima non è negata ma per Cartesio essa è solo pensiero, è solo
res cogitans inestesa, separato dal mondo fisico. Non esistono invece né l'anima
vegetativa né quella sensitiva. Pertanto il movimento dei corpi, che sono res
extensa, materia, non dipende dall'anima ma da cause meccaniche o fisiologiche.
Anche la morte è provocata da cause fisiche, materiali, e non dalla separazione
dell'anima dal corpo. Lo stesso corpo dell'uomo è una macchina di cui l'anima, la res
87
cogitans, si serve come proprio strumento e che con la morte del corpo è
abbandonato.
Conformemente alla filosofia razionalistica, non solo la metafisica ma anche la
fisica di Cartesio è di tipo deduttivo, poiché pretende di spiegare l'infinita
varietà dei fenomeni partendo da due soli principi, o idee generali, quello
dell'estensione e del movimento. Entrambi hanno origine da Dio. Dio ha creato
non solo la res extensa, cioè il mondo fisico, ma ha altresì impresso al mondo fisico
il movimento iniziale secondo una determinata quantità di moto che si conserva
costantemente. Ma dopo aver ricevuto da Dio il moto iniziale, il mondo fisico
procede in base alle sue proprie leggi naturali del movimento, che sono, come
anzidetto, cause seconde. Sicché è comprensibile il commento espresso in proposito
dal filosofo Pascal, secondo cui "al Dio di Cartesio basta aver dato il primo
calcio al mondo, perché il resto va da sé". Da Cartesio infatti, oltre all'atto della
creazione del mondo e del conferimento del primo iniziale movimento, non è
richiesto a Dio nessun altro intervento, né finalistico né provvidenziale.
La concezione meccanicistica ed anifinalistica del mondo è conforme alla
mentalità fisico-matematica risultante dalla rivoluzione scientifica: se tutti i
movimenti delle cose corporee che compongono il mondo fisico sono di tipo
meccanico, allora essi possono essere calcolati, previsti e studiati col metodo
matematico.
Nel razionalismo di Cartesio peraltro, come pure negli altri filosofi razionalisti,
prevale un'eccessiva fiducia nella deduzione logico-matematica di tutta la realtà da
pochi principi (intuizioni) metafisici innati, che induce a saltare, spesso in modo
indebito, dall'ordine logico e delle idee a quello ontologico della realtà, a prescindere
dalla verifica sperimentale. Dall'altro lato, la concezione razionalistico-meccanica
cartesiana del mondo fisico agevola l'affermazione della tecnica ed il collegamento
tra scienza teorica ed applicazione pratica.
La morale e le passioni.
Nell'opera "I principi della filosofia" Cartesio presenta le sue idee sulla funzione
della filosofia e sul modo in cui organizzare il sapere e la conoscenza. Indica le parti
della filosofia paragonandola ad un albero, di cui la metafisica costituisce le radici,
la fisica il tronco e le altre scienze (medicina, meccanica e morale) costituiscono i
rami. Due sono le principali funzioni della filosofia da Cartesio evidenziate:
1. farci progredire nella conoscenza e nella morale;
2. consentire la conoscenza dei principi fondamentali, individuati nella res
cogitans e nella res extensa, a partire dai quali sia possibile dedurre la
spiegazione dell'intera realtà, sia spirituale (il pensiero) sia fisica (la natura).
Quindi Cartesio procede a definire il concetto di sostanza: essa è ciò che per
esistere non ha bisogno che di se stessa, ossia la sostanza non deriva da
89
nessun'altra cosa. In questo senso assoluto la sostanza non può essere che Dio.
Solo Dio infatti non deriva la propria esistenza da alcunché; non è creato o prodotto
da nessun'altra cosa se non da se stesso. Ma Dio appartiene al mondo dell'infinito,
distinto e trascendente da quello finito in cui viviamo. Perciò, nell'universo e nel
mondo finito Cartesio ammette l'esistenza di due sostanze per così dire
secondarie, le quali tuttavia non derivano da nessun'altra cosa finita, essendo esse
invece il principio e la causa generale di tutte le cose finite: sono per l'appunto la
res cogitans e la res extensa.
Si tratta però di due sostanze tra di esse assolutamente diverse e contrapposte,
che non hanno niente in comune perché ciascuna è regolata e funziona in base a
modi e a leggi del tutto differenti: la res cogitans (il pensiero, lo spirito) agisce
secondo le leggi della libertà e della volontà (libertà di pensare e libertà di volere);
invece la res extensa (la materia, i corpi fisici) opera in base a leggi naturali
meccaniche e necessarie, non libere di mutare ma necessariamente sempre costanti,
sempre uguali. Il pensiero è il regno della libertà, la materia è quello della
necessità.
La concezione della realtà di Cartesio è dunque caratterizzata da un dualismo
(contrapposizione) radicale, estremo (dualismo cartesiano). Le due sostanze
costitutive della realtà sono del tutto contrapposte fra di esse: il pensiero non può
essere esteso (non occupa spazio) e la materia non può pensare (non ha in sé
niente di spirituale). Circa l’anima (res cogitans), sembra che essa, in quanto
considerata indipendente dal corpo (res extensa), sia immortale, ma Cartesio
dimostra solo l’immaterialità dell'anima e non l'immortalità.
Queste due sostanze non hanno dunque niente in comune. Eppure l'esperienza ci
mostra che tra res cogitans e res extensa vi sono invece continui collegamenti ed
interscambi: ricevendo una sensazione da un oggetto materiale io reagisco con un
corrispondente pensiero od emozione e, d'altra parte, quando penso e decido di
alzare un braccio od una gamba (che sono corpi, parti del mio corpo), il braccio e la
gamba si alzano; insomma vedo ogni giorno che i miei pensieri influenzano il mio
corpo e che il mio corpo influenza i miei pensieri.
Sorge allora la grossa domanda: come possono comunicare ed influenzarsi a
vicenda queste due sostanze che sono tra di esse distinte, separate, ognuna
regolata da leggi del tutto diverse? Come si spiega il rapporto fra pensiero e
corpo? Cartesio cerca di risolvere il problema individuando nella "ghiandola
pineale" (oggi chiamata ipofisi), che sta nel cervello, l'unica parte del corpo che
mette in comunicazione e collega le due sostanze. Ma questa spiegazione rimane il
punto debole della teoria filosofica di Cartesio e farà sorgere molte discussioni tra
i filosofi contemporanei e successivi. Appare infatti contraddittorio affermare
dapprima che le due sostanze non hanno niente in comune e asserire poi che nella
ghiandola pineale hanno qualche cosa in comune o, meglio, un luogo di
interscambio.
90
Conclusioni.
Con Cartesio prende avvio la filosofia moderna, la quale proclama il primato del
soggetto sull'oggetto spostando il centro degli interessi dall'ontologia alla
gnoseologia. Viene meno la convinzione di poter direttamente conoscere la realtà e
gli oggetti esterni all'intelletto, alla coscienza soggettiva, come invece riteneva
l’ontologia antica, e subentra la persuasione che il mondo è ciò che appare al
soggetto: è l’insieme dei fenomeni quali rappresenti dal soggetto ed interpretati
dalla sua ragione. Come il mondo sia realmente in sé diventa questione secondaria
e ciò che prevale è la visione soggettiva del mondo. Tale visione, al posto della
ragione e gnoseologia concepite come oggettive dalla precedente tradizione
filosofica, subordina l'essere (ossia la realtà ontologica) alla ragione e alla
gnoseologia soggettive. Diventa centrale il soggetto conoscente anziché l'oggetto
conosciuto. Smarrita l'idea di poter direttamente conoscere la realtà, essa viene
giudicata, per contro, interpretabile soltanto sulla base di principi metafisici
intellegibili (=sostanze, concetti) che si possono cogliere con la ragione e non con i
sensi.
Ma la filosofia moderna, trascurando l'oggetto, cioè gli enti esterni, ed
incentrandosi invece sul soggetto conoscente, favorirà il sorgere del "nichilismo",
concezione secondo cui l'ente esterno all'intelletto è sottovalutato fino ad essere
ridotto a niente: da ciò appunto il termine di nichilismo, dal latino nihil=niente.
L'essere degli enti, la loro realtà, non è più un fatto oggettivo, diventando piuttosto
interpretazione del soggetto conoscente, che riduce a se stesso tutta la realtà, per
cui ne esce esaltata la volontà soggettiva come la sola in grado di controllare e
dominare tutto l'esistente. È questo un processo che comincia con il "cogito"
cartesiano e termina con la dottrina della "volontà di potenza" di Nietzsche, in cui
l'essere, la realtà oggettiva degli enti, è nullificata. Dirà Nietzsche "non esistono i
fatti (non prevale la considerazione dei fatti oggettivi esterni) ma solo
interpretazioni (prevale la valutazione soggettiva circa gli eventi e la consistenza
degli enti). Dalla nullificazione dell'essere emerge il trionfo della tecnica, come
volontà di potenza e strumento del progetto umano di dominio sulla natura. La
natura è costretta e sottomessa all'opera della ragione pianificatrice e calcolatrice.
La volontà di dominio e la tecnica, da mezzo per raggiungere gli ideali inseguiti,
diventa fine a se stessa, rivolgendosi al continuo autopotenziamento di sé che si
impone sui valori e sulle ideologie.
91
La seconda metà del Seicento è quasi interamente dominata dal dibattito fra
sostenitori e critici della filosofia cartesiana, quali Hobbes, Gassendi e Pascal, che
peraltro risentano essi stessi dell'influenza di Cartesio.
Il principale problema lasciato irrisolto da Cartesio, a giudizio dei suoi stessi
sostenitori, era quello del rapporto tra anima e corpo, tra res cogitans e res
extensa. Pur rimarcando l'assoluta differenza e distinzione tra di esse, Cartesio
ammette tuttavia un contatto tra anima e corpo nella ghiandola pineale. Tale
soluzione è stata considerata insufficiente dagli stessi seguaci di Cartesio, non
ritenendo possibile che l'anima, essendo immateriale, abbia un contatto con una
realtà materiale quale è il corpo.
È stata pertanto elaborata una soluzione diversa, nota col nome di
"occasionalismo". Secondo l'occasionalismo le modificazioni ed influenze
reciproche tra anima e corpo non sono causate né dalle idee né dalle sensazioni
corporee né, tanto meno, sono rese possibili da un comune punto di contatto
costituito dalla ghiandola pineale, data l'insormontabile separatezza delle due
sostanze. La causa della rispettiva influenza tra anima e corpo è invece rinvenuta in
Dio stesso, il quale interviene direttamente ogni volta in occasione di ciascuna
sensazione, producendo nell'anima la corrispondente idea, nonché in occasione di
ciascuna volizione dell'anima, cioè di una decisione della volontà, producendo il
corrispondente movimento corporeo. In altri termini, la volontà e il pensiero umano
non agiscono direttamente sui corpi, sugli oggetti materiali, ma sono l'occasione
perché Dio intervenga a produrre i corrispondenti effetti corporei; altrettanto, i
contatti e i movimenti dei corpi sono pure l'occasione perché Dio intervenga a
produrre le corrispondenti idee. Del resto, pure Cartesio era ricorso a Dio per
garantire la verità delle idee innate. In tal modo si ipotizzano però continui ed
innumerevoli interventi divini nella vita dell'uomo, che finiscono da un lato con lo
svalutare qualsiasi libera iniziativa umana e che, dall'altro lato, finiscono col
considerare Dio una specie di "valletto" al servizio dell'uomo, che invece, per fede
religiosa, è sua creatura.
In tal senso l'occasionalismo appare una specie di filosofia scolastica cartesiana,
che utilizza la filosofia di Cartesio allo scopo di difendere non la ragione ma la fede
religiosa, analogamente alla Scolastica medioevale che, per il medesimo scopo,
aveva utilizzato la filosofia platonica e neoplatonica (Agostino) e quella aristotelica
(Tommaso).
Maggiori esponenti dell'occasionalismo sono al Arnold Geulincx (olandese) e
Nicolas Malebranche (francese).
direttamente le idee in Dio, poiché essa ha con Dio un'unione diretta ed immediata.
Le idee che l'anima vede in Dio sono le stesse idee che Dio ha delle cose, sono i
modelli eterni che Dio usa per creare le realtà materiali. La mente di Dio è pertanto
il "luogo delle idee", similmente al mondo delle idee di Platone.
Spiegata così la conoscenza, in modo da rendere del tutto superfluo il corpo (le
sensazioni corporee), resta da spiegare come il corpo possa muoversi secondo le
decisioni dell'anima, cioè quale sia la causa dei movimenti corporei. È a questo
punto che anche Malebranche ricorre all'occasionalismo: la vera causa di tutti i
movimenti è Dio, il cui intervento si manifesta in occasione dei nostri atti di
volontà. Anzi, Malebranche va oltre: non solo la nostra volontà è occasione
dell'intervento divino, ma gli stessi urti tra i corpi, in cui la nostra volontà non
c'entra per nulla, sono altrettante occasioni di interventi divini e le azioni che noi
crediamo esercitate dai corpi sui nostri sensi altro non sono che impressioni, cioè
idee che noi vediamo in Dio ogni qualvolta Dio determina il movimento di tali
corpi.
A questo proposito Malebranche sviluppa un'interessante dottrina che sarà ripresa
da Hume: noi non vediamo mai che una causa produce un certo effetto; noi
vediamo solo i movimenti (dapprima vediamo il lampo e poi vediamo il tuono, ma
non vediamo il lampo causare l'effetto del tuono), i quali a loro volta sono prodotti
direttamente da Dio anche se, una volta ammesso ciò, tali movimenti possono
essere poi spiegati perfettamente secondo il più rigoroso meccanicismo. Partendo
dall'idea chiara e distinta dell'estensione, l’unica da Malebranche ammessa, è
possibile dedurre matematicamente, secondo Malebranche, tutte le proprietà dei
corpi.
Malebranche, analogamente a Spinoza, tenta anche di costruire un'etica come
scienza rigorosamente matematica: l'uomo, vedendo tutte le idee in Dio, vede in Lui
anche e particolarmente i principi generali della verità e della perfezione, perciò
sarebbe in grado, seguendo la pura ragione, di comportarsi nel modo più retto.
Tuttavia la natura umana è stata corrotta dal peccato originale e di conseguenza la
ragione è diventata schiava delle passioni. Da qui la necessità dell'intervento
divino, cioè della grazia, sola condizione efficace di salvezza, la quale è però da
Dio concessa anch'essa in occasione di un atto volontario umano, quello per cui
l'uomo si sforza di agire bene, cioè la virtù.
Un contemporaneo di Malebranche, Dortous de Mairon, obiettò che la sua dottrina
della diretta visione di tutto in Dio conduceva alla visione panteistica di Spinoza,
per il quale tutte le cose sono modi, manifestazioni della sostanza divina,
immanente nel mondo. Malebranche rispose che noi non vediamo in Dio le cose,
che restano da Dio distinte, bensì le idee delle cose, cioè i loro modelli, rimanendo
con ciò la sostanza divina separata e trascendente rispetto alle cose e al mondo.
94
Spinoza non è l'essere attratti dalle cose terrene (ricchezze, onori, piaceri), che sono
finite, provvisorie e spesso deludenti, bensì l'essere attratti da ciò che è infinito ed
eterno. L'infinito e l’eterno si identificano con il cosmo e con il suo ordine divino e
la felicità suprema per l'uomo è l'unione della mente con la divina natura del cosmo
(misticismo).
Senza preamboli, l'opera si apre con una serie di definizioni sull'essere, cioè sulla
realtà in generale, vale a dire sulla sostanza di fondo della realtà. Proprio la
definizione di sostanza è il punto di partenza.
Per la filosofia greca classica esiste una molteplicità di sostanze gerarchicamente
ordinate: il mondo sovrasensibile delle idee e quello sensibile delle cose in Platone,
oppure le forme, cioè il sostrato invisibile che sta al di sotto delle qualità apparenti
(visibili) delle cose, sul quale le cose poggiano ed in base al quale ogni cosa è
contraddistinta rispetto alle altre. Per Cartesio le sostanze sono realtà autonome, nel
senso che non derivano da qualcosa d'altro e, in questo senso, per Cartesio le
sostanze sono tre: Dio come sostanza prima ed il pensiero (res cogitans) e
l'estensione (res extensa) come sostanze seconde.
Spinoza è assai più rigoroso e radicale: non accetta la triplicità cartesiana delle
sostanze ed il derivante dualismo tra res extensa e res cogitans, ma afferma che la
sostanza è solamente ciò che è esclusivamente causa di sé (“causa sui”) e che non
deriva da niente altro. La sostanza è essa stessa la causa della propria esistenza,
dei suoi attributi e delle sue proprietà e per esistere non ha bisogno di altri esseri. La
sostanza gode pertanto di una completa autonomia ontologica e concettuale.
Dalla definizione di sostanza Spinoza ricava una serie di proprietà fondamentali
che la contraddistinguono:
1. la sostanza è increata: poiché essa esclusivamente è l'unica causa di se
medesima, allora la sua essenza (cioè il suo essere e significato profondo)
96
Tutto ciò che non è sostanza, dice Spinoza, è attributo o modo della sostanza.
Dio, in quanto sostanza infinita, si manifesta nella natura secondo infiniti attributi.
Gli attributi sono le qualità, gli aspetti o proprietà essenziali (le essenze) della
sostanza. Degli infiniti attributi di Dio-Natura, ossia della sostanza, la mente
umana ne conosce però soltanto due: il pensiero e l'estensione. Il perché Spinoza
non lo dice: si limita ad affermare che essi sono riconosciuti dalla mente umana in
base all'esperienza, la quale mostra che il mondo non è tutto spirito, ossia pensiero,
ma anche estensione, ossia materia, e che, viceversa, esso non è solo estensione ma
anche pensiero.
Pensiero ed estensione (res cogitans e res extensa) dunque, diversamente da
Cartesio, non sono considerati come sostanza ma come attributi (cioè qualità ed
aspetti) della sostanza. Qui per pensiero si intende pensiero divino, ossia l'insieme
delle leggi universali che regolano il mondo, e per estensione non si intendono le
singole cose, i singoli corpi, ma lo spazio, l'ordine geometrico del mondo.
Oltre agli attributi, vi sono poi i modi della sostanza, ossia i suoi modi di essere, le
determinazioni ed aspetti particolari che gli attributi assumono nei singoli corpi e
nelle singole idee che noi percepiamo e pensiamo.Vi sono modi infiniti e finiti
della sostanza.
I modi infiniti derivano direttamente dagli attributi, modi che, appunto, sono infiniti
come lo sono gli attributi. Dall'attributo infinito del pensiero derivano i modi
infiniti dell'intelletto e della volontà concepiti in termini generali, quindi non il
pensiero e la volontà individuali che sono finiti, bensì il pensiero e la volontà in
generale dell'umanità. Altrettanto, dall'attributo infinito dell'estensione derivano i
modi infiniti del movimento o della quiete di tutte le cose corporee.
I modi finiti sono gli esseri particolari: questa idea qui, questo corpo o cosa qui, e
derivano dai modi infiniti. Pure qui Spinoza non spiega come ad un certo punto
l'infinito si finitizza, diventa finito, come mai cioè l'estensione infinita si concretizza
in una serie (seppur infinita) di corpi finiti e come mai il pensiero infinito si
concretizza in una serie (seppur infinita) di pensieri finiti. Anche in questo caso
98
Abbiamo visto che pensiero ed estensione sono due attributi della sostanza però
fra di essi distinti, completamente differenti: infatti la causa di un'idea è sempre
un'altra idea, come la causa di un corpo è sempre un altro corpo. Non si
influenzano a vicenda. Ma allora come spiega Spinoza il reciproco collegamento
tra pensiero ed estensione, tra mente e corpo, quale invece appare in base
all'esperienza?
Spinoza non ricorre alle idee platoniche concepite come causa delle cose né al
rapporto di causa-effetto fra idee e cose. Non è platonico perché il concetto
spinoziano di uomo, inteso come unione di anima e corpo, è antiplatonico. Per
Spinoza l'anima umana non è altro che un'idea avente per oggetto il proprio corpo;
l'anima è cioè "l'idea del corpo". L'uomo non è sostanza né attributo; egli è
costituito da "modi del pensare", specialmente quel modo che è l'idea, e da "modi
dell'estensione", ossia dal corpo che costituisce l'oggetto della mente. Attraverso
l'idea si perviene alla conoscenza del corpo. Spinoza non è neppure aristotelico,
perché rifiuta la supremazia dell'anima come "forma" (essenza) del corpo. La sua
preoccupazione semmai è di segno opposto: vuole evitare conclusioni
spiritualistiche poiché per Spinoza l'anima è sempre incarnata, insita, nella natura
e non è un'entità superiore.
100
La conoscenza.
Poiché dunque ogni idea ha il proprio corrispettivo nell'ordine delle cose, poiché ad
ogni idea corrisponde una cosa e viceversa, non vi sono allora idee false, come
invece ammetteva Cartesio; vi sono piuttosto idee e conoscenze più o meno
101
adeguate, cioè chiare e distinte. Le idee sono più o meno adeguate rispetto agli
oggetti corrispondenti non in base all'esperienza, bensì solo qualora vengano
correttamente dedotte e ricavate dall'ordine geometrico e necessario del mondo, che
è la Sostanza, il Dio-Natura.
Dopo averla definita come visto sopra, Spinoza distingue tre gradi o generi di
conoscenza, a ciascuno dei quali corrisponde anche una diversa maniera di
concepire la realtà ed un diverso tipo di vita morale, collegando pertanto la
conoscenza con la morale: il progresso nella conoscenza, il passaggio da un grado
inferiore a quello superiore, comporta anche un corrispondente progresso morale.
I tre gradi della conoscenza sono i seguenti:
1) L'immaginazione (=facoltà di produrre immagini) o conoscenza sensibile. È
una forma primitiva, non scientifica, di conoscenza, la quale non si rende conto che
le varie realtà, le varie idee da un lato e le varie cose dall’altro, sono fra di esse
rispettivamente collegate secondo un ordine, un sistema complessivo rigoroso di
rapporti di causa-effetto. Questa forma di conoscenza si limita a percepire le cose
isolatamente, unificandole tutt'al più in nomi collettivi (in concetti, i cosiddetti
"universali": uomo, cavallo, ecc.). Non essendo collegati in un ordine generale, le
varie realtà sono percepite come contingenti (=non necessarie, ossia che ci sono ma
che potrebbero anche non esserci) e provvisorie. Si tratta dunque di una conoscenza
di grado confuso e vago, fatta di idee inadeguate, che colloca in un tempo limitato e
provvisorio l'esistenza delle varie realtà e non comprende l'eternità, la Sostanza
eterna, il Dio-Natura, da cui tutto eternamente e necessariamente deriva. È un modo
di vedere la realtà, dice Spinoza, dal punto di vista limitato del tempo (sub specie
temporis) e non dal punto di vista dell'eternità (sub specie aeternitatis). Perciò è una
conoscenza costituita da semplici opinioni, credenze e immaginazioni del tutto
soggettive, relative e mutevoli. Nel campo morale corrisponde a questo grado di
conoscenza una vita basata sulla schiavitù delle passioni: l'uomo si lascia dominare
da esse.
2) La conoscenza razionale. Si basa sui concetti, ricavati dalla capacità della mente
di compiere ragionamenti attraverso cui riesce gradualmente a comprendere il
rapporto di causa-effetto che collega, secondo leggi generali, le varie realtà, che non
vengono più considerate quindi isolatamente in se stesse. È una forma di conoscenza
che sa produrre idee adeguate, cioè chiare e distinte, e che consente la conoscenza
scientifica del mondo. Nel campo morale corrisponde a questo grado di conoscenza
la vita secondo ragione o virtù: l'uomo regola in modo intelligente il proprio
comportamento.
3) La conoscenza intuitiva. Mentre la conoscenza razionale procede gradualmente,
di causa in causa, senza mai giungere tuttavia alla causa prima ed alla totale
comprensione della serie delle cause ed effetti, la conoscenza intuitiva è quella
dell'intelletto che riesce a cogliere immediatamente ed intuitivamente, in un colpo
solo, come tutte le cose derivino necessariamente dal Dio-Natura, dall'ordine
geometrico del cosmo che collega la totalità delle cose, comprendendo altresì la
legge universale che governa tale ordine. Nella mente umana, pur essendo essa un
modo finito, si manifesta tuttavia la mente divina ed è perciò in grado di conoscere
102
direttamente l'idea e l'essenza del Dio-natura. Anzi, questa è per Spinoza l'idea più
chiara e distinta, perfettamente adeguata, che sta alla base di tutte le altre
conoscenze. È un modo di vedere la realtà dal punto di vista dell'eternità e che
riconosce la totalità infinita e necessaria della realtà stessa. La conoscenza intuitiva
è il campo della filosofia. Dal punto di vista morale ad essa corrisponde il
raggiungimento del bene supremo, la beatitudine, che per Spinoza è l'unione della
mente col Dio-Natura (ascesi; misticismo). È questo un traguardo che conferma il
prevalente fine etico della filosofia di Spinoza.
mezzo della ragione, giungendo così ad una qualche forma di libertà: qui sta
l'originalità della sua etica.
Spinoza definisce come schiavitù delle passioni l'incapacità di controllarle e
moderarle in qualche maniera. L'uomo però non è fatto solo di passioni, ma
anche di ragione, cioè di conoscenza, ed usando la ragione egli, anziché limitarsi a
subire passivamente l'istinto di conservazione, può anche manovrarlo e dirigerlo. È
vero che l'uomo, spinto dall'istinto di conservazione, agisce sempre in vista della
propria utilità, del proprio vantaggio, ed in questo senso l'uomo non è libero ma è
determinato, condizionato. Tuttavia l'uomo ha un'alternativa, una possibilità di
scelta fra l'agire per la propria utilità in modo istintivo ed emozionale, subendo la
schiavitù delle passioni, oppure l'agire per la propria utilità in modo intelligente e
lungimirante, previdente, conquistando così una certa libertà dalle passioni. Questa è
per Spinoza l'unica forma possibile di libertà per l'uomo: non la pretesa di
sopprimere la propria tendenza all'autoconservazione e alla ricerca dell'utile, bensì
di guidare mediante la ragione il proprio istinto di conservazione e le proprie
passioni, per conseguire non vantaggi immediati tuttavia di poco valore ed illusori,
bensì vantaggi più duraturi e profondi. In tal modo l'uomo che vive secondo ragione
non risponde all'odio con l'odio perché sa che, al contrario, l'odio può essere vinto
solo con l'amore. Quando la nostra conoscenza riesce ad innalzarsi e diventare
adeguata, cioè chiara e distinta, intelligente e lungimirante, allora il saggio sa
scegliere tra le passioni (non eliminarle perché è impossibile) e riesce a respingere
quelle passioni egoistiche che a prima vista possono attrarre ma che invece gli
impediscono la migliore e più solida autoconservazione ed il miglior
perfezionamento di se stesso.
Si ritrova ancora la dottrina socratica secondo cui la virtù si raggiunge con la
conoscenza, in quanto, come visto nella teoria spinoziana della conoscenza, vi è
corrispondenza fra i gradi del progresso conoscitivo e i gradi del progresso morale:
chi veramente conosce sa allora anche comportarsi virtuosamente. Però, come
Socrate, anche Spinoza trascura la pari importanza della volontà, essendo la
sola ragione insufficiente ai fini della virtù: per fare il bene non basta conoscerlo,
bisogna anche volerlo.
Contrariamente al carattere individualistico di certa etica greca, soprattutto
ellenistica, per Spinoza inoltre la più vera virtù e la ricerca dell'utile non è quella
che vale solo per il singolo individuo ma anche per la società, seppur concepita
non già in termini di amore per il prossimo bensì di maggiore utilità. L'uomo morale
ha cura non solo di se stesso ma anche della società, poiché la ragione spinge l'uomo
ad unirsi ai suoi simili per conseguire un utile ulteriore, che in tal modo diventa un
utile collettivo.
La capacità di scegliere tra le passioni e controllarle per vivere una vita
intelligente moderata non è ancora, però, l'ultimo e più alto gradino della
conoscenza e della morale. Esso si raggiunge, come si è visto, con l’amore
intellettuale di Dio, che attraverso la conoscenza intuitiva ci consente di
contemplare e comprendere, nell'unione mistica, il Dio-Natura, innalzandoci alla
vera beatitudine.
105
Nell'amore intellettuale di Dio si raggiunge anche la vera libertà per l'uomo, che
consiste nel comprendere e nell'accettare serenamente tutto ciò che accade
poiché accade necessariamente secondo un rigoroso ordine geometrico. Ciò rende
l'animo tranquillo, perché comprendiamo che la fortuna e il caso non esistono.
Ai sensi e all'immaginazione (il primo grado della conoscenza) il mondo appare
molteplice, diviso, contingente e provvisorio; con la conoscenza intuitiva (il terzo e
più alto grado della conoscenza) il mondo appare invece unitario, necessario ed
eterno e ci sentiamo parte di quell'eternità. Il mondo non è più guardato dal punto di
vista del tempo ma dal punto di vista dell'eternità. Quando tutte le cose si pensano
come necessarie si soffre di meno: ogni cosa non appare più isolata, provvisoria
precaria, ma come elemento di una serie infinita di cause che derivano
necessariamente dall'ordine geometrico divino dell'universo. Superando ogni
dipendenza dalle cose e dagli eventi, il saggio conquista la piena libertà e si
immedesima in Dio, in una dimensione in qualche modo mistica.
Spinoza analizza criticamente l'intero contenuto della Bibbia ed osserva che ciò che
essa insegna riguarda la vita pratica (morale) e l'esercizio della virtù, ma non
l'insegnamento della verità. Dà quindi una definizione della fede secondo cui il suo
scopo non è affatto l'insegnamento del vero e del falso, bensì l'insegnamento della
virtù dell'obbedienza.
La religione appartiene per Spinoza al primo grado della conoscenza, quello
dell'immaginazione: i contenuti religiosi non sono concetti razionali, ma solo
immagini suggestive. La religione non tende alla verità ma invece ad ottenere
l'obbedienza. Per tale motivo essa è utilizzata dai governanti. In effetti è più
conveniente e realistico ridurre la fede a pochi comandamenti riguardanti
l'obbedienza a Dio attraverso l'amore per il prossimo, poiché si elimina tal
modo ogni pericolo di lotta e di conflitto religioso. Infatti, in quanto tutte
tendono ad ottenere obbedienza allora, pur nelle loro differenze storiche, tutte le
religioni sono simili. Per Spinoza la religione è una specie di sentimento naturale,
quindi la religione originaria è quella naturale, fondata sulla sola ragione nonché
su modi di sentire validi per tutti gli uomini e dimostrabili razionalmente, mentre le
religioni positive, quelle rivelate, non sono originarie ma derivate. Tale concezione,
che si ritroverà ampiamente diffusa nell’Illuminismo, è definita deismo(=non
credere nelle religioni rivelate e in un Dio-persona trascendente, ma in una specie di
“religione naturale”, per cui ogni uomo sente istintivamente e ritiene ragionevole
pensare che esista un'entità superiore che non è pero il Dio creatore bensì
l’intelligenza, l’ordine e l’armonia che governa il mondo naturale ed orienta la
morale).
106
Lo Stato e la politica.
Quella di Spinoza è una filosofia dell'ordine geometrico e necessario del mondo. Per
Leibniz invece l'ordine del mondo non è geometricamente determinato, e quindi
necessario, ma è un ordine che si è organizzato in modo spontaneo e libero. È un
ordine contingente (=non necessario) che, rispetto alle infinite possibilità di
costituzione, è frutto di una libera scelta non solo divina ma anche umana.
L'intento di Leibniz, pur riconoscendo l'importanza della nuova scienza filosofica e
scientifica, è di evitare sia il dualismo cartesiano (la contrapposizione tra pensiero e
corpo, tra spirito e materia), sia il materialismo di Hobbes (per il quale anche il
pensiero è cosa corporea, materiale, cioè fisiologica), sia il determinismo di Spinoza
(per il quale tutto accade per predeterminata necessità). Scopo di Leibniz è di
sostenere invece una concezione metafisica e finalistica del mondo (il mondo si
sviluppa secondo un fine ultimo cui tende) per evitare il rischio del materialismo e
dell'ateismo. Leibniz, grande scienziato oltre che filosofo, non rifiuta una concezione
anche meccanicistica della realtà, regolata da rapporti meccanici e necessari di causa-
effetto, tuttavia il suo proposito è quello di conciliare meccanicismo e finalismo,
materialismo e spiritualismo, scienza e filosofia metafisica moderna con la
metafisica antica. La metafisica, afferma Leibniz, serve per conoscere i principi
primi della realtà; la spiegazione meccanicistica serve per chiarire i particolari
fenomeni fisici e il modo di operare dei corpi.
Tale intendimento di Leibniz è presente in tutte le sue varie opere, di filosofia ma
altresì di logica, di scienza e di politica. Si trova ad esempio nella sua opera di logica
intitolata "Arte combinatoria", nella quale si propone la creazione di una scienza
universale attraverso la riduzione di tutte le proposizioni vere, dette “verità”, ad
alcune proposizioni elementari o primitive, dette "verità prime", da combinare poi in
tutti i modi non implicanti contraddizione così da ottenere tutte le verità possibili. E si
trova anche nei suoi ideali di pace politica e di conciliazione, fallita, tra cattolicesimo
e protestantesimo nonché di organizzazione di una Repubblica delle scienze.
Con la rivoluzione scientifica e l'avvento della nuova scienza i concetti di sostanza e
di finalismo della vecchia metafisica sembravano superati. Leibniz cerca di
riaffermare la loro verità, distinguendo il campo della filosofia da quello della
108
scienza. Intorno alla natura, dice Leibniz, vi sono due distinti tipi di sapere,
entrambi validi:
1. quello filosofico e finalistico, che indaga i principi primi, più universali, e la
morale;
2. quello scientifico, meccanicistico, che indaga i fenomeni naturali particolari.
La logica.
Nel campo della logica i maggiori contributi di Leibniz riguardano la distinzione tra
verità di ragione e verità di fatto e la definizione del principio di ragion sufficiente.
Per Leibniz ordine del mondo non significa esclusivamente necessità di tutto ciò che
accade. La necessità si trova solo nella logica e nella matematica, ma non nel
mondo naturale. Si tratta allora di distinguere ciò che è necessario da ciò che è
contingente, ossia possibile, anche al fine di salvare la libertà umana.
Vi sono infatti, afferma Leibniz, due tipi di verità: le verità di ragione e le verità di
fatto.
1) Le verità di ragione sono verità necessarie ma non riguardano la realtà naturale.
Sono quelle il cui opposto è impossibile. Si riferiscono a tutto ciò che può essere
pensato senza contraddizione, cioè a tutti gli eventi possibili. Le possibilità sono
infinite ma il determinarsi di una possibilità esclude le altre perché non tutto ciò che è
possibile si realizza concretamente. Sono verità innate, a priori, che non derivano cioè
dall'esperienza. Coincidono per lo più con i principi della logica (quello di identità, di
non contraddizione, del terzo escluso). Le verità di ragione riguardano il mondo delle
pure possibilità, che è assai più vasto di quello della realtà. Per esempio tanti mondi
diversi da quello attuale sarebbero in teoria possibili, ma uno solo è il mondo reale.
Le verità di ragione sono tautologiche, cioè il predicato è implicito nel soggetto: sono
identici.
2) Le verità di fatto sono invece verità contingenti (=che ci sono ma potrebbero
anche non esserci) e riguardano la realtà effettiva, il mondo concreto, ossia ciò che
effettivamente esiste e si è realizzato fra le tante diverse possibilità. Sono quelle
verità il cui opposto non è impossibile (ci potrebbe anche essere un mondo diverso da
quello che c'è) e sono verità a posteriori, che derivano cioè dall'esperienza (ad
esempio Cesare che attraversò il Rubicone).
Le verità di fatto non sono fondate dunque sui principi logici di identità e di non
contraddizione, tant'è che il loro contrario è possibile. Ma se un avvenimento
contingente, cioè una verità di fatto, accade, deve pur esserci un motivo, una
plausibile e sufficiente ragione di tale accadere (ad esempio, Cesare attraversò il
109
La sostanza individuale.
Come si è visto, una verità di ragione è quella in cui il predicato è implicito nel
soggetto: identità totale (ad esempio, il triangolo ha tre angoli). Invece nelle verità di
fatto il predicato non è implicito e non è identico al soggetto, tant’è che può essere
anche negato, cioè potrebbe anche non riguardare il soggetto (ad esempio, nel caso
di Cesare che attraversò il Rubicone, Cesare e il Rubicone non sono identici bensì
diversi e Cesare avrebbe potuto anche non attraversarlo). Il predicato di una verità
di fatto non è cioè necessario, non è necessariamente deducibile dal soggetto. Però,
se effettivamente si riferisce al soggetto, esso deve essere almeno contenuto nella sua
essenza (identità parziale), ossia deve esserci una ragione sufficiente, attestata
dall'esperienza e spiegabile attraverso uno specifico motivo, affinché un certo
predicato possa essere davvero attribuito ad un certo soggetto.
Il soggetto di una verità di fatto è sempre reale o esistente, è cioè una sostanza (=
che sussiste) ed è sempre una cosa specifica, uno specifico individuo ( o ente): da ciò
appunto il nome di "sostanza individuale".
La sostanza individuale, insomma, è ciò che caratterizza e fa comprendere la
specificità di una cosa, di un individuo, di un singolo fatto o evento reale in base alla
conoscenza della ragion sufficiente, cioè del motivo in grado di spiegare il perché di
ciò che gli è accaduto e gli accadrà. Ad esempio, Alessandro Magno è una sostanza
individuale specificatamente conoscibile in base a ciò che ha fatto e gli è accaduto e
in base a quanto farà e gli capiterà. Tuttavia non è possibile per gli uomini giungere
ad una conoscenza piena e completa di una sostanza individuale, non essendo in
grado di conoscere la totalità delle ragioni sufficienti (di tutti i fatti e i motivi), anche
quelle più intime e particolari, attribuibili ad una determinata sostanza individuale.
Infatti noi non sappiamo se Alessandro Magno morì di morte naturale o perché
avvelenato. Ciò è possibile solo a Dio. Solo Dio infatti ha una conoscenza completa
dell'essenza di una sostanza individuale; soltanto Lui ne conosce tutti i predicati
(tutto ciò che gli è accaduto e tutto ciò che gli capiterà), per cui è in grado di dedurre
tutte le proprietà e tutti comportamenti, passati futuri, di ciascuna sostanza
individuale.
Ciò non significa che la sostanza individuale sia necessitata ad agire in un certo
modo. Per esempio, Alessandro avrebbe anche non potuto vincere l'imperatore Dario
e conquistare la Persia, in quanto il non farlo non implica contraddizione. Ma in
realtà era certissimo che lo avrebbe fatto perché quello era il suo destino,
corrispondente all'ordine generale dell'universo voluto liberamente da Dio.
In effetti, anche le verità di fatto, cioè tutti i fatti e gli avvenimenti di una sostanza
individuale, sarebbero già contenute ed implicite nel soggetto (nel suo fine, nel suo
destino) come per le verità di ragione, e sarebbero da esso derivabili a priori
qualora si potesse conoscerlo pienamente, cosa invece possibile solo per Dio ma non
per gli uomini. In tal senso e a tali condizioni le verità di fatto sarebbero riducibili a
quelle di ragione, e quindi integralmente prevedibili in modo infallibile e necessario,
per cui il risultante concetto di sostanza verrebbe ad avvicinarsi proprio a quello di
Cartesio e di Spinoza, da cui Leibniz voleva invece differenziarsi.
Di fatto la sostanza, anche quella individuale, comprende in sé già dall'inizio, nel suo
destino, tutti i propri predicati, ossia tutto ciò che le accadrà e la caratterizzerà. Il
111
Come premesso, non solo il pensiero ma anche la natura rientra per Leibniz nel
carattere non necessario dell'ordine universale: i fenomeni naturali e i loro movimenti
avvengono meccanicamente, ma le leggi della meccanica e del movimento nascono a
loro volta, per Leibniz, da qualcosa di superiore, da principi di natura metafisica
anziché fisica e geometrico-meccanica.
In un primo tempo Leibniz condivide la dottrina di Cartesio che considera
l'estensione (res extensa) e il movimento quali elementi originari, di base, del
mondo fisico-naturale. Giunge però ad una conclusione opposta dopo essersi
convinto che il principio affermato da Cartesio circa l'immutabilità della quantità di
movimento era sbagliato. Infatti Leibniz osserva che ciò che rimane costante nei
corpi che si trovano in un sistema chiuso non è la quantità di movimento ma la
quantità di azione motrice o "forza viva", ossia, come oggi è chiamata, l'energia
cinetica presente nell'universo. Ciò che si conserva non è il movimento ma la forza,
che è uguale al prodotto della massa per il quadrato della velocità diviso due e non
già al semplice prodotto della massa per la velocità come per Cartesio. È la forza viva
cioè che ha la capacità di produrre un determinato effetto (per esempio il
sollevamento di un peso) ed essa non va confuso col movimento, che è il semplice
spostamento di un corpo nello spazio. La vera e profonda realtà dei corpi che
costituiscono la natura, il mondo fisico, non è dunque la res extensa e il
movimento ma è la forza, l'energia cinetica, che spiega la quiete o il movimento
dei corpi.
La materia pertanto non è solo estensione come affermato da Cartesio, perché
l'estensione che caratterizza i corpi presuppone dapprima l'esistenza di una
forza che ne attui il movimento. È questa forza perciò la vera sostanza, la quale
ha in sé la propria interiore finalità. L'estensione e il movimento sono soltanto
fenomeni, sono ciò che noi esteriormente vediamo, ma non sorgono da soli bensì
dall'azione di una forza che sta sotto a ciò che ci appare e che ha in se stessa il
principio e il fine del proprio agire. Per tale motivo Leibniz paragona questa forza
alla"entelechia" (grado di perfezione di un ente) aristotelica.
Al di sotto dei vari corpi materiali quali noi vediamo si trova dunque una forza,
un'energia (l'energia cinetica), che è la vera sostanza invisibile costitutiva dei
corpi stessi e del loro movimento, corpi che sono mossi da tale energia secondo
112
Le monadi.
Poiché le monadi sono l'elemento di fondo costitutivo di tutta la realtà, allora anche
la stessa materia e i corpi (le cose concrete) sono costituiti da monadi. Infatti si è
visto che per Leibniz i corpi (la materia) non sono sostanza estesa (res extensa) come
per Cartesio, ma sono invece un aggregato di monadi, ossia di sostanze
immateriali, di forze e di energia pura. Proprio per questo, secondo Leibniz, la
materia e i corpi sono infinitamente divisibili, giacché il loro elemento costitutivo di
fondo non ha nulla di materiale e corporeo. Pertanto la materia e i corpi sono
soltanto apparenza, sono cioè fenomeni, ma tuttavia, dice Leibniz, sono
"fenomeni ben fondati", nel senso che non sono pure illusioni, bensì i modi della
nostra percezione (il modo in cui noi percepiamo le cose).
L'attività della monade è piena e perfetta solo in Dio, mentre in tutte le altre è
limitata ed imperfetta, il che determina la materialità.
Leibniz distingue tra:
1. materia prima, ossia la materia in generale intesa come energia passiva
(forza di inerzia o di resistenza), le cui monadi costitutive occupano il grado
più basso e confuso di percezione;
2. materia seconda, che costituisce i corpi fisici sia degli animali sia degli
uomini, intesa come aggregato di monadi.
Al fondo della materia, tuttavia, ci sono pur sempre le monadi che sono sostanze
immateriali, pura energia. È una concezione, questa di Leibniz, anticipatrice della
contemporanea teoria della materia considerata come risultato del decadimento (del
venir meno e del consolidarsi) dell'energia. Anche per Einstein vi è un rapporto tra
energia e massa (quantità di materia), espresso dalla sua celebre formula: e=mv al
quadrato.
La materia dunque, conclude Leibniz, non ha consistenza ontologica, non è vera
realtà. Anche i corpi non hanno consistenza ontologica, non sono sostanza, non
sono vera realtà. Essi sono invece, come abbiamo visto, aggregati di monadi,
organizzati e coordinati da una monade superiore che è l'anima (vegetativa,
sensitiva o umana), chiamata da Leibniz monade dominante. L'anima funge da
principio di vita (anima i corpi) che organizza finalisticamente le altre monadi del
corpo verso gradi di maggior perfezione (entelechia).
Questa di Leibniz è una concezione vitalistica ed organicistica dei corpi (i corpi
sono organismi viventi e non macchine), per cui non si può parlare di nascita e di
morte assolute ma solo di accrescimento e di involuzione (regresso) perché le
monadi, che sono la sostanza, l'elemento ultimo di tutti i corpi, una volta create da
Dio sono immortali, non possono perire se non per annichilazione (=annullamento)
divina. Essendo immateriali, le monadi non sono soggette né a generazione né a
corruzione. A maggior ragione quindi, dichiara Leibniz, è innanzitutto immortale
l'anima.
Se le monadi sono inestese (non hanno dimensione) e sono immortali, esse allora
non sono limitate né dallo spazio né dal tempo. Anche lo spazio e il tempo, come
la materia dei corpi, non hanno consistenza ontologica, non sono qualcosa di reale,
115
ma sono modi in cui la realtà ci appare, sono fenomeni. Tuttavia essi pure sono
"fenomeni bene fondati": lo spazio è un fenomeno che nasce dalla coesistenza delle
cose (dal fatto che vediamo le cose una accanto all'altra, per cui ricaviamo
l'impressione dello spazio); il tempo è un fenomeno che nasce dalla successione
delle cose (dal fatto che vediamo le cose una dopo l'altra, per cui ricaviamo
l'impressione del tempo). Spazio e tempo, insomma, non esistono in sé, ma sono
semplici relazioni di coesistenza e successione tra i corpi.
Tra il corpo, che è aggregato di monadi, e l'anima, che è la monade dominante, non
c'è diversità di sostanza: è la medesima. Vi è invece diversità nei gradi di distinzione
delle rispettive percezioni, che per l'anima (la mente) sono assai più chiare.
Anche Leibniz ammette, come in generale la nuova scienza del Seicento, che il
corpo e l'anima (o mente) seguono leggi indipendenti, si comportano secondo
regole diverse. I corpi agiscono fra loro secondo leggi meccaniche, mentre le anime
agiscono secondo principi finalistici, cioè in vista di uno scopo. In nessun modo
comunque l'anima può agire sul corpo o viceversa, perché non si può spiegare in
nessuna maniera come le modificazioni del corpo, che sono processi meccanici,
facciano sorgere una percezione, che è un processo mentale, oppure come dalle
percezioni possa derivare un cambiamento meccanico di velocità o di direzione dei
corpi. Inoltre, come abbiamo visto, le monadi, di cui anche l'anima e il corpo sono
costituiti, non comunicano fra di loro, non hanno finestre attraverso le quali qualcosa
possa entrare od uscire: nessuna monade, essendo immateriale, può agire
fisicamente su di un'altra.
Eppure un qualche rapporto tra le monadi sussiste, perché ogni monade è una
rappresentazione (un punto di vista) più o meno chiara dell'intero e medesimo
universo, cioè di tutte le altre monadi in ognuna delle quali l'universo si rispecchia.
Ma allora come si spiega la relazione tra le monadi e soprattutto il collegamento, la
reciproca influenza tra anima e corpo mostrata dall'esperienza?
Leibniz prospetta al riguardo tre possibili ipotesi di soluzione:
1) Esiste un'influenza reciproca tra le monadi, cioè tra le monadi del corpo e
quelle dell'anima. Ma questa è un'ipotesi rifiutata perché in contraddizione con
l'incomunicabilità delle monadi.
2) Vi è un continuo intervento divino che, in occasione di ciascuna percezione o
decisione dell'anima, assicura il verificarsi del corrispondente movimento del corpo e
viceversa. È questa la soluzione "occasionalistica", tuttavia scartata anch'essa perché
dispendiosa e presuntuosa: Dio non può essere il valletto al servizio degli uomini.
3) Esiste un'armonia prestabilita da Dio tra le monadi dell'anima e quelle del
corpo. Dio, creando tanto l'anima quanto il corpo, si è preoccupato di sincronizzarli
una volta per sempre fin dall'inizio della creazione e di far sì che ad ogni decisione
presa dall'anima, dalla mente, corrisponda sempre il rispettivo movimento del corpo
e che ad ogni modificazione o movimento del corpo corrisponda sempre la rispettiva
116
La conoscenza.
Leibniz critica Locke che nega l'esistenza di idee innate. Per Leibniz invece
nell'anima sono certamente presenti idee che non derivano dall'esperienza,
come le idee matematiche, i principi della logica, nonché la stessa idea di Dio.
Piuttosto tali idee innate sono presenti nella mente solo in forma virtuale, in
forma di inclinazioni e tendenze e non in modo pieno e concreto come per Cartesio.
Vale a dire che le idee innate, per Leibniz, non sono chiare e distinte, pienamente
consapevoli, bensì confuse ed inconsce. Però l'intelletto, quando fa esperienza
delle cose, ha in sé la capacità di rendere più chiari e logici i dati sensibili (ciò
che è visto, toccato e sentito con i sensi) grazie alla riflessione e mediante un
graduale e continuo processo di astrazione, che consente di pervenire alla
formazione dei concetti. Quando, a causa dell'esperienza, l'intelletto ha l'occasione di
pensare e di riflettere, porta le idee innate presenti in lui dallo stato virtuale,
inconscio, a quello reale, concreto. Come ogni altra monade infatti l'intelletto, cioè
l'anima, ed anzi in misura maggiore in quanto monade dominante, ha già presente in
sé, in modo tendenziale ed inconscio, l'idea di tutte le essenze ed esistenze dell'intero
universo, idee che vengono risvegliate e rese più chiare a seguito dell'esperienza
sensibile.
Comunque mai, in ogni caso, le idee innate potrebbero derivare dall'esperienza
perché possiedono una verità assoluta, similmente alle verità di ragione, che le
conoscenze empiriche non hanno. La monade infatti è tutta innata a se stessa giacché
nulla può ricevere dall'esterno (non ha finestre). Si tratta di un innatismo totale: la
monade, e quindi anche l’anima, monade dominante, è creata da Dio già
completamente determinata e completa nella sua natura, nella sua essenza, sebbene
non in tutti i suoi singoli e specifici pensieri ed azioni, che sono allo stato inconscio e
si risvegliano a seguito delle esperienze sensibili. La teoria della conoscenza di
Leibniz si colloca dunque in una via di mezzo tra quella di Cartesio e quella di
Spinoza.
gradualmente il passaggio da percezioni più confuse a percezioni più chiare, per cui
"la natura non fa mai salti". Il principio di continuità è complementare (collegato) a
quello della identità degli indiscernibili ed afferma, in sostanza, che per passare dal
piccolo al grande e viceversa bisogna passare attraverso infiniti gradi intermedi. Di
conseguenza il processo di divisione della materia procede all'infinito e non può
fermarsi ad elementi materiali indivisibili quali gli atomi di Democrito che Leibniz,
si è visto, respinge. Proprio tale concezione dell'infinita divisibilità dei corpi è stata
alla base della scoperta del calcolo infinitesimale da parte di Leibniz stesso.
Con la dottrina dell'armonia prestabilita la filosofia di Leibniz passa alla riflessione
sui temi tradizionali della teologia, a cominciare dalle prove dell'esistenza di Dio
ed affrontando quindi il problema della libertà e della predestinazione e quello del
male.
Dio è la monade originaria, la monade delle monadi. Tutte le altre sono
fulgurazioni (creazioni) continue della divinità.
Leibniz riformula in particolare due delle tradizionali prove dell'esistenza di
Dio.
1) La prima, corrispondente alla terza delle prove di Tommaso d'Aquino
concernente il rapporto tra il possibile e il necessario, è riformulata da Leibniz
sulla base del suo principio di ragion sufficiente. Dio, dice Leibniz, è la prima
ragione, la prima causa delle cose, giacché tutte le cose che vediamo e
sperimentiamo (e quindi il mondo intero) sono contingenti, limitate, e non hanno
nulla in sé che renda necessaria la loro esistenza. Ogni cosa è l'effetto, la ragion
sufficiente di altre cose che pure, a loro volta, sono contingenti: ci sono ma
potrebbero anche non esserci. Dunque, non potendosi risalire all'infinito nella ricerca
delle ragioni sufficienti, del perché quelle cose ci sono, bisogna cercare la ragione, la
spiegazione dell'esistenza del mondo e delle cose del mondo in una realtà che non
può essere a sua volta contingente ma deve essere necessaria, cioè implicare
necessariamente la propria esistenza, ed essere eterna. Questa realtà necessaria ed
eterna, che è ragione sufficiente dell'esistenza del mondo e di tutte le cose del
mondo, è Dio.
A questo punto Leibniz formula la sua celebre domanda: "Perché esiste
qualcosa (l'essere, cioè la realtà, il mondo) anziché il nulla?" Gli antichi si
limitavano a chiedersi che cosa è l'essere, ma dopo il creazionismo, ossia dopo la
teoria della creazione del mondo da parte di Dio, la domanda, che anche Leibniz si
pone, diventa "Perché c'è l'essere (il mondo) e non piuttosto il nulla? Perché il
mondo è stato creato? Risponde Leibniz: se c'è il mondo e la realtà delle cose così
come li vediamo, tutto ciò non può che trovare la propria ragione sufficiente (la
propria spiegazione) in Dio, che ha voluto creare il mondo e le cose proprio così
come sono. Dio avrebbe anche potuto creare infiniti mondi diversi dal nostro tra
quelli possibili. Se ha scelto questo mondo, ci deve essere una ragione sufficiente, un
preciso motivo, un perché (finalismo). Dio è bontà infinita, agisce in vista del bene,
perciò se ha scelto questo mondo significa che lo ha scelto perché è il miglior mondo
possibile rispetto ad ogni altro. Tale spiegazione rivela l'ottimismo di fondo della
filosofia di Leibniz.
118
Dio è la fonte di ogni realtà, sia del mondo e delle cose create sia degli altri mondi e
delle cose possibili, non creati ma presenti essi pure nell'intelletto divino e di cui
Dio ha conoscenza. Nell'intelletto divino sono cioè presenti tutte le essenze e verità
eterne possibili e alternative, ancorché non create. Queste ultime tuttavia non
dipendono dalla volontà divina, come per Cartesio, ma invece dall'intelletto divino
perché note ad esso, che Dio non ha però voluto attuare. Dalla volontà divina
dipendono invece le verità di fatto, che riguardano le esistenze reali volute da Dio.
2) La seconda prova dell'esistenza di Dio consiste in una riformulazione della
prova ontologica di Anselmo d'Aosta, che Leibniz presenta sulla base del suo
concetto di possibilità. Leibniz afferma che dal concetto di un essere che possegga
tutte le perfezioni è possibile dedurre anche la stessa esistenza dell'entità concepita
solo dopo che si è dimostrato che il concetto di tale essere è effettivamente possibile,
cioè privo di contraddizioni interne. Poiché il concetto di Dio è quello di essere
illimitato, allora non ci sono limiti né contraddizioni che impediscano di dichiararlo
possibile. E se il concetto di un essere che possiede tutte le perfezioni è possibile ciò
significa altresì, allora, che tale essere esiste perché altrimenti mancherebbe di una
perfezione, quella dell'esistenza. In Dio dunque possibilità e reale esistenza
coincidono.
Leibniz presenta anche una terza prova dell'esistenza di Dio, riformulata sulla base
della prova agostiniana fondata sull'esistenza della verità eterna e assoluta.
Esistono, dice Leibniz, delle essenze, delle verità eterne, espresse dalle verità di
ragione, le quali sono soltanto possibili, cioè pensabili ma che non esistono in realtà
(ad esempio i postulati della matematica, i principi della logica). Però proprio per
questo esigono l'esistenza di un intelletto eterno che le pensi, il quale non può essere
che l'intelletto divino.
Dalla concezione ottimistica del miglior mondo possibile, quale è quello creato da
Dio, Leibniz ricava anche la sua soluzione del problema del male, ossia di come sia
possibile il male nel mondo se esso è stato creato da Dio che è somma bontà. Al
riguardo Leibniz dedica l'opera intitolata "Teodicea", che alla lettera, dal greco,
significa "giustizia di Dio", ossia "giustificazione di Dio", nel senso che Dio è
giusto e quindi non colpevole della presenza del male nel mondo.
Rifacendosi in parte al ragionamento agostiniano, Leibniz distingue tra:
1. male metafisico (il Male in assoluto, quello con la M maiuscola) che però in
realtà non esiste perché esso esprime soltanto la condizione di limitatezza e di
imperfezione del mondo e delle sue creature che, in quanto tali, non possono
essere illimitati e perfetti come Dio, altrimenti sarebbero un doppione di Dio
stesso il che è assurdo; questo non è perciò un vero male, ma è solo una forma
di non-essere illimitato, eterno e perfetto perché sennò le creature si
confonderebbero con Dio;
2. male morale, che consiste nel peccato ed è colpa non di Dio ma dell'uomo e
della libertà umana quando sceglie di non osservare la legge di Dio e i suoi
comandamenti morali;
3. male fisico (dolore, morte, catastrofi naturali), il quale altro non è che una
conseguenza del male morale: è la pena per una colpa commessa oppure un
119
Come di consueto nella filosofia ellenistica, anche Hobbes, prima di esporre la sua
filosofia, espone le sue concezioni sulla logica in quanto preliminare alla filosofia
poiché studia le regole del corretto modo di pensare.
Dapprima Hobbes intende definire che cos'è il nome dal punto di vista logico. I
nomi (le parole), egli afferma, sono segni convenzionali prodotti dall'uomo allo
scopo di indicare le cose o i concetti delle cose. Diversamente dalla logica
aristotelica ma anche da quella dei filosofi razionalisti, che si propongono di definire
l'essenza o sostanza della realtà e delle cose, per Hobbes definire una cosa vuol
dire soltanto spiegare il significato del vocabolo usato per indicare quella cosa
stessa.
Trattando dei concetti, Hobbes dichiara che essi sono soltanto "nomi di nomi",
cioè solamente nomi collettivi, soltanto nostri modi di pensare che tuttavia non
esistono nella realtà, perché in essa vi sono solo le singole cose concrete e
individuali (non c'è "l'albero" ma solo i singoli alberi concreti). È una evidente
concezione nominalistica. I concetti peraltro sono utili poiché consentono le
generalizzazioni, ossia consentono, con una sola parola di carattere generale (il
concetto), di indicare tutte le cose particolari che appartengono alla medesima
specie o genere indicati dal concetto. In altri termini, il concetto permette
l’economicità del linguaggio (mediante il solo concetto di triangolo sono indicati
tutti i triangoli particolari).
Infine, l'insieme dei segni, cioè di nomi, forma il linguaggio. Ed è il linguaggio, più
che la ragione, che differenzia l'uomo dagli animali perché anch'essi possiedono un
certo grado di ragione e sanno imparare dall'esperienza passata. Però l'uomo,
diversamente dagli animali, può prevedere e progettare a lunga scadenza i suoi
comportamenti nonché i mezzi più idonei per raggiungere i propri fini grazie
proprio al linguaggio, che invece gli animali non possiedono.
Due sono le principali funzioni del linguaggio:
1. permette di comunicare;
2. ma soprattutto permette il ragionamento in virtù di quelle generalizzazioni
che sono i concetti.
Il ragionamento è per Hobbes "un calcolare", ossia un sommare o sottrarre tra
loro più nomi o concetti. Ad esempio: uomo=corpo+animato+razionale; animale=
corpo+animato-(meno) razionale.
È possibile sommare un nome o un concetto ad un altro per induzione (dal
particolare al generale; dall'effetto alla causa) oppure sottrarlo per deduzione (dal
generale al particolare; dalla causa l'effetto).
La forma generale del ragionamento per Hobbes è il sillogismo ipotetico. Ad
esempio: se qualcosa è uomo è anche animale; se qualcosa è animale è anche corpo;
allora se qualcosa è uomo è anche corpo.
Il ragionamento (o sillogismo ipotetico) deduttivo consente una dimostrazione
scientifica, ossia certa, perché è un ragionamento a priori, che parte dalla causa
per spiegarne gli effetti. È però applicabile solo quando la causa o le cause siano
122
note. Le cause sono davvero note solo quando esse sono prodotte direttamente
dall'uomo: noi possiamo veramente conoscere solo ciò che produciamo
direttamente (un simile concetto, come si vedrà, si ritrova anche in Vico), ma
l'uomo produce direttamente soltanto la matematica oppure la propria storia politica
e sociale ed il proprio comportamento morale. Perciò le dimostrazioni scientifiche
certe sono possibile unicamente nelle scienze matematiche, nelle scienze
storiche e politiche e nelle scienze morali.
Le cose naturali invece sono prodotte da Dio e non dagli uomini; perciò gli
uomini non ne conoscono le cause, cioè il modo in cui esse sono generate o
prodotte. Per le cose naturali dunque non è possibile una dimostrazione scientifica
deduttiva a priori, ma soltanto una spiegazione induttiva a posteriori, che parte
cioè dall'effetto per scoprirne la causa, vale a dire che parte dai fenomeni naturali
osservati per cercarne l'origine. Tuttavia la dimostrazione induttiva a posteriori
non è certa ma solo probabile, perché uno stesso effetto può essere prodotto da
cause diverse.
Anche Hobbes quindi, pur differenziandosi in molti punti da Cartesio, conviene con
lui nel ritenere più importante e certo il ragionamento e il metodo deduttivo.
Il materialismo meccanicistico.
Il materialismo etico.
l'unico principio di spiegazione dei corpi, anche la nostra volontà allora non è libera
ma determinata e causata dal movimento di un altro corpo su di essa. Ad esempio,
se mi viene voglia di mangiare non è per una mia libera scelta, ma perché il
movimento dello stomaco produce in me lo stimolo della fame. La nostra volontà, i
nostri desideri non nascono liberamente da noi ma sono sempre determinati
meccanicamente dai fatti esterni che ci capitano. Quindi non c'è libera volontà, non
c'è libertà di volere, semmai vi può essere una certa libertà di fare, ossia una
certa libertà di azione, perché quando una causa esterna determina in me una
volontà (la voglia di fare qualcosa) ho la possibilità di decidere se soddisfare o no la
mia volontà (se fare o non fare quella determinata cosa). Non ci accorgiamo
dell’inesistenza della libera volontà solo perché, di solito, si ignora tutta la
concatenazione delle cause esterne che finisce col predeterminare necessariamente
la volontà stessa.
Se per Hobbes le valutazioni morali su ciò che è bene e male sono soggettive e
relative e non vi sono regole morali e sociali assolute, come è possibile allora
realizzare una società civile, uno Stato pacifico e ordinato in cui ognuno senta il
dovere morale di rispettare gli altri?
Hobbes risponde che le regole morali e sociali non derivano da leggi o principi
morali oggettivi esterni, insiti nella natura umana, bensì da un calcolo di
convenienza puramente artificioso, in base al quale gli uomini sono indotti a
stipulare fra di essi un patto o contratto sociale per salvaguardare il loro
primo bene che è quello della vita e della sua conservazione. Non è la natura
umana (come è fatto l'uomo) ma la ragione umana che convince gli uomini a
mettersi d'accordo per costituire uno Stato che, con le sue leggi, garantisca
un'esistenza pacifica. Quindi non c'è, come diceva Aristotele, una legge naturale,
ossia un istinto naturale degli uomini a stare e a vivere pacificamente insieme.
L'uomo non è, per Hobbes, un animale sociale per sua propria natura, per suo
istinto.
Hobbes, si è già osservato, ha voluto costruire la sua filosofia politica come
scienza analoga alla geometria, fondata anch'essa su pochi principi, pochi
postulati, dai quali dedurre necessariamente l'intero sistema politico, ossia il tipo di
organizzazione politica. Abbiamo visto che per Hobbes la volontà umana non è
libera ma predeterminata dal movimento dei corpi che agiscono su di essa (dai
fatti esterni che ci accadono). Altrettanto predeterminata è perciò la volontà
politica, per cui si possono allora scoprire i principi generali (i postulati) che
stanno alla base dell'agire politico, dai quali dedurre con certezza tutta la scienza
politica.
Due sono per Hobbes i principi e le condizioni che predeterminano la volontà
politica:
1. la bramosia (la prepotenza) naturale, per la quale ogni uomo pretende tutto
per sé a discapito degli altri;
125
Però non può costituirsi uno Stato e perdurare solo in virtù di un patto sociale se
non viene creato anche un "potere" che costringa ogni uomo a rispettare le
regole del patto stesso. Con il patto sociale gli uomini di una comunità
rinunciano ai loro diritti (alla loro pretesa su tutto), tranne il diritto della difesa
della vita, e li cedono ad un sovrano: un re o una Assemblea come il Parlamento.
In tal modo, osserva Hobbes, il patto sociale è stipulato fra i sudditi tra loro e
non tra i sudditi ed il sovrano, il quale dunque è al di sopra delle regole del
patto sociale, è al di sopra delle leggi dello Stato. Il sovrano è l'unico a mantenere
gli originari diritti dello stato di natura, il diritto su tutto, eccetto il diritto sulla
vita altrui. Pertanto lo Stato sorto dal contratto sociale riunisce su di sé un
potere enorme. Solo nel caso in cui lo Stato non difenda e non rispetti la vita dei
sudditi essi hanno, allora, il diritto di ribellarsi.
Hobbes è quindi il massimo teorico dello Stato assoluto, da lui definito "per
metà uomo e per metà Dio mortale", per il suo mostruoso potere e perché è subito
al di sotto del Dio immortale e quasi altrettanto potente. Lo Stato assoluto, così
mostruosamente potente, è paragonato da Hobbes al Leviatano, cioè al mostro
invincibile di cui narra la Bibbia.
Lo Stato assoluto possiede un potere veramente smisurato poiché:
1. il patto sociale è irreversibile (non si può tornare indietro) ed unilaterale,
perché è stipulato tra i sudditi e non tra i sudditi e il sovrano, che è quindi al
di sopra del patto medesimo, al di sopra della legge;
2. il potere del sovrano è indivisibile (non ammette la separazione fra potere
legislativo, esecutivo e giudiziario: tutti i poteri rimangono nelle mani del
sovrano) perché, altrimenti, lo Stato verrebbe indebolito e i sudditi avrebbero
una minor difesa della vita;
3. il bene e il male, il giusto e l'ingiusto sono stabiliti dalla legge emanata
dal sovrano: con ciò Hobbes riconferma che per lui non esiste una morale
naturale, non c'è il bene e il male in sé, ma bene o male è solo ciò che è
stabilito dalla legge dello Stato;
4. la sovranità dello Stato deve pretendere l'obbedienza assoluta dei propri
sudditi, anche per gli ordini ritenuti ingiusti, tranne il caso in cui ne sia messa
in pericolo la vita; la stessa Chiesa è sottomessa allo Stato, che ha il diritto
di intervenire anche in materia religiosa: la religione diventa religione di
Stato e la Chiesa è al servizio dello Stato.
Anch'egli di nazionalità inglese, come Hobbes, studia pure lui ad Oxford e ne diviene
in seguito docente. Si occupa di politica attiva e diventa segretario del Cancelliere
d'Inghilterra. Vive per un certo periodo in Francia e per qualche anno si ritira in
volontario esilio in Olanda, dopodiché ritorna a Londra, diventando il maggior
filosofo inglese del suo tempo. Muore ad Essex, vicino a Londra.
Opere principali: "Saggio sull'intelletto umano"; i "Due trattati sul governo";
l’"Epistola sulla tolleranza".
È considerato il maggior esponente della filosofia empirista ed il maggior teorico
dello Stato costituzionale.
prima di affrontare i problemi che magari ci stanno più a cuore, come la morale, la
politica e la religione.
Le idee e la mente.
Anche per Locke, come per Cartesio e per la filosofia moderna in genere, noi non
conosciamo direttamente le cose, gli oggetti, ma le idee delle cose, le loro
rappresentazioni mentali, ossia come le cose appaiono ai nostri sensi, vale a dire che
conosciamo solo i fenomeni.
Le idee, precisa Locke, derivano esclusivamente dall'esperienza (empirismo); non
sono create dall'intelletto umano, il quale anzi, nel ricevere le idee dall'esperienza,
è passivo. L'empirismo di Locke non va confuso con la dottrina aristotelica secondo
cui, anche per Aristotele, tutte le conoscenze derivano dall'esperienza, perché Locke
concepisce l'esperienza solo come conoscenza di qualità particolari, come si vedrà
subito di seguito, e non di sostanze o forme od essenze come per Aristotele.
Poiché per l'uomo la realtà o è esterna (le cose naturali) o è interna (la sua coscienza),
allora vi è già una prima distinzione tra:
1. le idee di sensazione, che derivano dalle nostre esperienze, dalle sensazioni, e
che riguardano gli oggetti esterni, le cose naturali (ad esempio il giallo, il
caldo, il duro, l'amaro);
2. le idee di riflessione, quando attraverso la riflessione avvertiamo i nostri stati
d'animo, i nostri pensieri e sentimenti (ad esempio il dubbio, il ragionamento,
la gioia, la tristezza, ecc.).
Derivando tutte le idee della mente (dell'intelletto) dall'esperienza esterna o interna,
non esistono allora idee innate. Se ci fossero dovrebbero esistere in tutti gli uomini,
quindi anche nei bambini, negli idioti e nei selvaggi. Ma possiamo invece constatare
che costoro non pensano e non possiedono idee innate: si può quindi concludere che
non esistono per nessuno. Inoltre le idee esistono solo se sono pensate, mentre le idee
innate dovrebbero sussistere anche indipendentemente dal loro essere pensate, il che
non è concepibile. Privo di idee innate, l'intelletto è allora simile ad un foglio
bianco (tabula rasa) e tutto il suo materiale è ricevuto dall'esperienza.
Le idee che l'intelletto riceve dall'esperienza sono chiamate da Locke idee semplici,
tali cioè che non sono ulteriormente scomponibili e divisibili in parti più piccole.
Sono le idee di sensazione e di riflessione che già abbiamo visto.
D'altra parte, poiché le idee derivano dall'esperienza, ciò significa allora che al di
fuori della nostra mente c'è una realtà esterna (le cose, gli oggetti) che ha il
potere di produrre in noi queste idee. Tale potere delle cose esterne di produrre
idee nella nostra mente è chiamato "qualità".
Come anticipato da Democrito e ripreso da Galilei e Cartesio, Locke distingue tra:
1. qualità primarie, che sono oggettive, sono proprie delle cose esterne, dei
corpi, e vengono percepite in modo uguale da tutti (sono, ad esempio, le idee
semplici di solidità, estensione, figura, movimento, quiete, numero);
2. qualità secondarie, che sono soggettive, non appartengono alle cose esterne
pur derivando da esse, e possono essere percepite in maniera diversa da
130
L'etica e la politica.
Dopo le indagini sull'intelletto, Locke si dedica ai problemi che più gli stanno a
cuore, cioè quelli etici e politici, esposti nell'opera "Due trattati sul governo".
L'etica di Locke ha un carattere utilitaristico. Non si ispira cioè all'idea del bene
in sé, del bene in assoluto, poiché è un'idea astratta e quindi non conoscibile nella
sua essenza, ma si ispira al criterio, al concetto, di utilità: la morale consiste in
comportamenti che siano utili a noi e alla società. Ed è la ragione che stabilisce e
giudica quali sono i comportamenti e le azioni utili. La morale si basa pertanto
sulla ragione e non deriva dalla religione, da cui è giudicata autonoma.
Nel contesto della morale la libertà non è più concepito da Locke come "libero
arbitrio", poiché trattasi di un concetto che implica considerazioni metafisiche sul
bene e sul male in se stessi, estranee al suo empirismo. Di conseguenza, la libertà
non sta nel "volere", ma nel poter agire o astenersi dall'azione o anche nel
tenerla in sospeso. Il bene e il male in assoluto sono inconoscibili; per la morale di
Locke il bene è piuttosto ciò che procura piacere ed il male è ciò che procura
dolore.
In politica Locke respinge, in primo luogo, la teoria medievale dell'origine
divina della sovranità, concessa da Dio ad Adamo e da questi ai patriarchi e ai re.
La sovranità invece è di origine umana e deriva dal popolo.
In merito all'origine dello Stato, rifiuta la concezione di Hobbes, secondo cui la
condizione originaria (primitiva) di natura degli uomini è quella dell'egoismo, della
prepotenza e della guerra di tutti contro tutti. Nello stato originario di natura, per
Locke, gli uomini si sentono invece tutti uguali, riconoscendo che ciascuno
possiede irrinunciabili diritti naturali, derivanti dalla stessa natura umana ed
impressi in essa da Dio, diritti che ognuno ha il diritto di godere e che sono quelli
alla vita, alla libertà, alla proprietà dei frutti del proprio lavoro nonché il diritto alla
difesa di tutti questi diritti.
Tuttavia, poiché vi può essere sempre qualche prepotente che non rispetta tali
diritti naturali, gli uomini allora si mettono d'accordo e stipulano un patto sociale
per creare uno Stato, ma non per cedere ad esso, rinunciandovi, ogni diritto fatta
solo eccezione per il diritto alla vita, ma invece per affidare allo Stato la difesa di
tutti i loro diritti naturali, che individualmente ognuno seguita a conservare.
Formando uno Stato, gli uomini rinunciano solo al diritto di farsi giustizia da sé,
ma soltanto per difendere e garantire meglio tutti gli altri diritti.
In questo senso, diversamente da Hobbes, il patto o contratto sociale da cui nasce lo
Stato non è fra i sudditi tra loro bensì tra i cittadini e il sovrano (il re o
un'assemblea quale il Parlamento), che allora non è più al di sopra della legge e
delle regole del patto ma è tenuto anch'egli a rispettarle. Il sovrano rimane
sottoposto al giudizio dei cittadini, i quali hanno il diritto di ribellarsi se il sovrano
non rispetta i loro diritti naturali.
Lo Stato di Locke dunque non è più uno Stato assoluto: egli è invece il teorico
dello Stato costituzionale e del liberalismo politico. I limiti del potere dello
Stato sono stabiliti dalla costituzione e dal principio della divisione dei poteri
135
Tolleranza e religione.
L'opera di Locke "Epistola sulla tolleranza" è uno degli scritti più celebri sulla
libertà di coscienza religiosa, valido ancora oggi.
Locke giunge al concetto di tolleranza religiosa confrontando tra di essi lo Stato
e la Chiesa. Lo Stato, afferma Locke, è stato costituito dagli uomini per garantire
i beni civili, ossia i diritti naturali di ogni uomo, che diventano beni civili quando
la loro difesa è affidata allo Stato. È questo il compito dello Stato e non altro; la
salvezza dell'anima è chiaramente al di fuori di tale compito. Infatti, l'unico
strumento che lo Stato possiede per difendere i diritti civili-naturali dei
cittadini è la costrizione, in base alla forza della legge e della condanna penale nei
confronti di coloro che non rispettano le norme stabilite. Ma la costrizione,
l'imposizione con la forza, non può condurre alla salvezza dell'anima perché
nessuno può essere salvato per forza se non lo vuole e non ne è persuaso. La
salvezza dell'anima dipende dalla fede e la fede non può essere imposta: nessuna
costrizione, nessuna minaccia, sarà mai in grado di imporre la fede a qualcuno se
non ce l’ha e non è personalmente convinto. La Chiesa o anche i cittadini non
possono chiedere l'intervento e la forza della legge per costringere a credere in una
religione. La Chiesa, dice Locke, è una libera associazione (comunità) di uomini che
si riuniscono spontaneamente per venerare Dio e ottenere la salvezza dell'anima.
Come associazione libera e volontaria, la Chiesa non può usare la forza della legge e
delle pene perché esse sono riservate allo Stato. Del resto, anche se la Chiesa usasse
la forza per costringere a credere, gli esiti sarebbero inutili e dannosi perché nessuno
può essere convinto ad aver fede per forza. Certo, la Chiesa ha il diritto di
scomunicare coloro che non osservano più i suoi precetti. Ma in ogni caso gli stessi
scomunicati non possono perdere i loro diritti civili e la loro cittadinanza.
Svolgendo compiti diversi, che però non entrano in contrasto fra di essi, Stato e
Chiesa sono autonomi: lo Stato non deve intervenire nelle questioni religiose e di
fede e la Chiesa non deve intervenire nelle questioni politiche e civili. E ciò vale
per qualsiasi Chiesa e per qualsiasi religione. Perciò deve esserci tolleranza per
qualunque religione. La religione però non deve essere dogmatica e fanatica;
essa si basa sulla rivelazione divina e non sulla ragione (Dio non può essere
dimostrato), ma non deve essere irragionevole, ossia assurda e in contrasto con la
ragione. In tal senso, Locke ritiene il cristianesimo protestante la più ragionevole tra
le varie religioni, mentre critica invece il cattolicesimo e il papato perché, a causa
del potere temporale della Chiesa cattolica, essa non si occupa solamente della cura
delle anime, in contrasto col principio dell’autonomia tra religione e politica.
In due casi Locke nega il principio della tolleranza religiosa, ritenendo anzi
necessaria l'intolleranza:
136
1. nei confronti dei cattolici, perché sono sudditi di un altro sovrano, cioè il
Papa, e pertanto sono potenziali traditori dello Stato;
2. anche nei confronti degli atei poiché, non riconoscendo Dio, non riconoscono
neppure la legge naturale da Dio istituita e perciò non possono pretendere
nessun diritto in base ad essa.
Conclusioni.
Le idee.
Come Cartesio e Locke, anche Berkeley ritiene che tutta la nostra conoscenza
abbia come oggetto le idee, ossia i fenomeni, le immagini, le rappresentazioni
mentali delle cose e non le cose stesse. E le idee provengono dai sensi, dal nostro
modo di percepire, e non dalle cose. Esse sono cioè sensazioni e percezioni che
stanno solo nella nostra mente e non al di fuori. Dire che conosciamo solo le idee
delle cose significa dire dunque che noi non conosciamo direttamente le cose in se
stesse, ma la loro immagine, ossia i fenomeni e le qualità delle cose quali ci appaiono
(fenomeno=ciò che ci appare), ma non sappiamo se le cose sono davvero come ci
appaiono.
Locke, come abbiamo visto, distingue le qualità primarie delle cose, considerate
come appartenenti alle cose stesse, cioè oggettive, per cui ammette l'esistenza delle
cose al di fuori della nostra mente, dalle qualità secondarie delle cose, considerate
dipendenti dalle nostre sensazioni e quindi del tutto soggettive, non esistenti nelle
cose e variabili da individuo a individuo. Berkeley va oltre e dichiara che non c'è
alcuna distinzione e differenza tra qualità primarie e secondarie, perché le prime
non possono esistere senza le seconde. Infatti, non ci sono grandezze, posizioni,
movimento, consistenza delle cose (qualità primarie) che non siano anche colorate,
138
saporite o meno, che emettano o no certi suoni, ecc. (qualità secondarie). Anche le
qualità primarie sono per Berkeley solo sensazioni e percezioni che stanno soltanto
nella nostra mente e non dimostrano affatto l'esistenza di sostanze al di fuori di essa.
L'esistenza di oggetti esterni alla mente è una nostra illusione e deriva dalla
nostra abitudine, nel senso che quando percepiamo idee, ossia qualità delle cose
costantemente combinate, unite, tra di esse, siamo portati ad attribuirle e riferirle ad
una sostanza materiale esterna o sostrato, peraltro invisibile, che regge tutte queste
qualità, sulle quali cioè queste qualità si appoggiano. Ad esempio di una mela noi
vediamo solo le sue qualità, cioè la grandezza, la posizione, se è solida o no, il colore,
il sapore, ma non vediamo alcuna sostanza materiale sottostante alle qualità che
percepiamo.
Berkeley giunge così al punto centrale della sua filosofia, secondo cui non c'è nulla
che dimostri l'esistenza di corpi materiali, ossia delle cose, al di fuori della nostra
mente, al di fuori delle nostre percezioni che dalla mente dipendono e non sono
esterne ad essa.
Tutta la nostra conoscenza consiste in sensazioni, in percezioni. Quindi per noi una
cosa esiste ed è conoscibile solo se viene percepita. Da ciò il celebre detto di
Berkeley "esse est percipi": l'essere, la realtà, consiste soltanto in ciò che è
percepito; l'essere è l'essere percepito. Le cose non possono esistere che in una mente
che le percepisca.
Con questa concezione Berkeley non nega l'esistenza del mondo esterno, come
gli rimproveravano i suoi critici, alcuni dei quali lo consideravano addirittura pazzo.
Egli nega solo l'esistenza della materia inerte, ossia di quella supposta sostanza
metafisica, o sostrato delle cose, diversa dalle loro qualità ed esistente al di fuori della
mente. Berkeley nega l'esistenza della materia ma non nega la percezione della
materia, dei corpi materiali. Anzi, egli dichiara, non è tolto nulla al mondo; il
mondo non cambia, non ne risulta impoverito, tutto resta come prima; ciò che
cambia è solo il nostro modo di considerare il mondo, la realtà. Insomma, anche
per Berkeley esistono i tavoli, le case, le piazze, i fiumi e le montagne, ecc. Ciò che
invece non esiste, a suo avviso, è quella che i filosofi chiamano materia o sostanza
corporea.
Per Berkeley infatti l'unica vera realtà, considerata come condizione
indispensabile per la nostra percezione, è l'esistenza della mente, cioè della
sostanza spirituale costituita dalle percezioni e dai pensieri, mentre la sostanza
materiale (la res extensa di Cartesio) non esiste affatto. Questa di Berkeley è una
concezione ancor più radicale rispetto a Locke, il quale si limita a dichiarare
l’inconoscibilità della sostanza dei corpi, delle cose, non escludendola peraltro come
ipotesi.
In tal modo Berkeley è persuaso di aver definitivamente sconfitto il meccanicismo e
il materialismo nonché il conseguente ateismo.
139
La fisica e la logica.
Se al di fuori della mente non c'è nulla, ossia se non vi sono cose qualora non siano
percepite, se non c'è alcuna sostanza materiale ma soltanto una sostanza
spirituale, immateriale, cioè il pensiero e le percezioni della mente, allora, per
Berkeley , di conseguenza:
1. il tempo in sé non esiste: è solo una nostra sensazione e quindi è soggettivo
(quando siamo felici passa in fretta e quando soffriamo non passa mai);
2. anche lo spazio, l'estensione, e il moto sono sensazioni, percezioni: noi non
abbiamo alcuna percezione dello spazio o del movimento in se stessi, ma solo e
sempre di corpi estesi (= con certe dimensioni) in quiete o in movimento.
Berkeley critica dunque la concezione di Newton circa l'esistenza del tempo e
dello spazio assoluti, ossia del tempo e dello spazio in se stessi.
Dal punto di vista della logica non esistono per Berkeley le idee astratte e generali
di cui parla Locke, cioè i concetti, poiché le percezioni sono sempre e solo particolari
e, per contro, non percepiamo nulla di universale, di generale. Infatti non percepiamo
l'uomo in generale ma solo "quest'uomo". Quando pensiamo “l’uomo” non riusciamo
in effetti a formularne un’idea davvero astratta, ma abbiamo sempre in mente
l’immagine di uomini particolari. I concetti pertanto non esistono neppure come
astratte generalizzazioni, come idee generali: sono solo nomi di comodo che, per
brevità di linguaggio, usiamo per indicare con un solo termine un'intera categoria di
cose o, meglio, un insieme di percezioni che si assomigliano (nominalismo
estremo).
La mente umana, precisa Berkeley, nella maggior parte dei casi è solo la
condizione e non la causa delle nostre percezioni, poiché gran parte delle
percezioni non sono prodotte da noi ma sono da noi soltanto ricevute. Poiché tali
percezioni, o idee, non ci possono pervenire da una materia esterna, ossia dalle cose
esterne che non esistono allorché non siano percepite, ed in tal caso non sono esterne
ma dentro la mente, si deve allora necessariamente concludere che esse ci
provengono direttamente da Dio, ci sono date da Dio a completamento
dell'uomo, sua creatura, e della sua capacità di conoscere e di sentire.
Infatti la materia non può produrre un qualcosa di immateriale quali sono le
percezioni; né sono prodotte la mente umana poiché essa produce soltanto quelle
idee che sono le nostre immaginazioni e i nostri sogni. Le idee o percezioni delle
cose, quindi, non possono che essere ricevute da Dio, dalla mente divina, che tutte le
contiene. Dio produce in noi le idee delle cose secondo regole fisse ed ordinate,
che costituiscono quelle che noi chiamiamo le leggi di natura, in base alle quali
possiamo conoscere e prevedere i fenomeni fisici e regolarci nella vita. In tal senso
Berkeley ammette dunque la validità delle scienze fisiche e naturali.
Sorgono allora due problemi:
140
1. come possiamo distinguere le idee delle cose dalle nostre immaginazioni e dai
nostri sogni?
2. quando noi non percepiamo più una certa cosa perché ci siamo allontanati,
come possiamo essere sicuri che quella cosa continui ad esistere anziché
scomparire, dal momento che esiste solo ciò che è percepito?
È del tutto naturale, risponde Berkeley, poter distinguere le nostre fantasie e i
nostri sogni dalle idee delle cose percepite dai nostri sensi. Infatti siamo benissimo
in grado di accorgerci che le idee percepite dai sensi non dipendono dalle fantasie e
dai sogni della nostra mente. Quando la mattina mi sveglio e apro gli occhi non
possono scegliere di vedere o non vedere, ma vedo necessariamente,
indipendentemente dalla mia mente e dalla mia volontà, tutti gli oggetti che si
presentano alla mia vista. Inoltre, le idee percepite dai sensi sono sempre più forti e
marcate di quelle della fantasia e dei sogni: hanno maggior stabilità ed un ordine
preciso.
Altrettanto, le cose (o, meglio, le idee delle cose, i fenomeni) continuano ad
esistere anche quando non le percepiamo in quanto sono tutte e sempre
percepite da Dio. Gli oggetti infatti non hanno una vita a sprazzi, che cessa quando
non li percepiamo e ritorna quando li percepiamo di nuovo, perché c'è un essere
eterno, cioè Dio, che li vede e li percepisce continuativamente. Le idee percepite dai
sensi, spiega Berkeley, non dipendono dalla nostra volontà e dal nostro arbitrio come
le idee di immaginazione; esse ci sono date, ma non dalla materia che, come lo
spazio o il movimento, è solo una incomprensibile finzione, un'idea astratta, bensì
sono ricevute e garantite da Dio stesso. Similmente a Cartesio, secondo cui Dio è il
garante della conoscibilità degli oggetti esterni e dei fenomeni fisici, per Berkeley
Dio ci garantisce la sussistenza delle cose anche quando non sono percepite dai
sensi.
Le conclusioni cui Berkeley perviene, nell'intento di combattere il meccanicismo, il
materialismo e l'ateismo, possono sembrare, secondo i punti di vista, forzate o
ingenue. Peraltro Berkeley, secondo lo stesso parere di numerosi scienziati, nella sua
critica dello spazio e del tempo assoluti di Newton come anche del moto assoluto è
significativo anticipatore della contemporanea fisica relativistica.
141
Il principio di associazione.
conoscenza sia certa poiché non si può fare esperienza di tutto ed in futuro,
inoltre, le cose potrebbero andare diversamente da come la passata esperienza
le ha mostrate.
La distinzione tra relazioni fra idee e dati di fatto, le prime basate sul principio di non
contraddizione e i secondi su quello di causalità dedotto dall'esperienza di una
ripetuta associazione di idee, è analoga a quella di Leibniz tra verità di ragione verità
di fatto, tuttavia, come vedremo, è diversa rispetto a Leibniz la valutazione che
Hume dà della legge di causalità la quale, a suo avviso, non è affatto un principio
evidente e valido in assoluto come invece ritenuto da Leibniz con riguardo al
principio di ragion sufficiente.
Da coerente empirista, Hume procede quindi a criticare come inconsistenti, in
maniera ancora più estrema degli altri filosofi empiristi, le varie idee metafisiche di
spazio, di tempo, di causalità, di mondo, di sostanza materiale e di sostanza spirituale
quali sostenute invece dalla filosofia razionalistica.
Come si è visto, per Hume le idee di spazio e di tempo sono soltanto idee complesse,
cioè associazioni fra due o più idee. Vuol dire allora che, contrariamente a quanto
pensava Newton, lo spazio e il tempo non esistono nella realtà, ma sono
semplicemente nostre percezioni, soltanto nostri modi di pensare e di vedere, frutto
della nostra immaginazione: quando abbiamo l'impressione di due o più idee l'una
accanto all'altra, siamo portati a pensare che esse stiano in un certo spazio; quando
abbiamo l'impressione di due o più idee l'una dopo l'altra, pensiamo che si succedano
tra di esse in un certo tempo: spazio e tempo dunque sono unicamente
immaginazioni mentali.
di ragion sufficiente di Leibniz. Hume si riferisce infatti alla connessione tra due
determinati eventi entrambi oggetto di esperienza, mentre il principio di Leibniz
sostiene la necessità che ogni evento abbia una causa o, meglio, una ragion
sufficiente qualunque essa sia, anche se al momento può non essere nota ovvero non
ne sia stata fatta esperienza. L'eventuale scoperta di tale causa spetta alla fisica ma,
precisa Leibniz, l'affermazione dell'esistenza di un principio di ragion sufficiente
universale spetta alla metafisica. Hume però non condivide il principio metafisico di
ragion sufficiente, da lui invece considerato una semplice generalizzazione per
induzione, escludendo pertanto che esso abbia un valore universale, così come
esclude altresì l'esistenza di qualsiasi idea universale.
Hume si pone allora la domanda: da dove deriva questa nostra immaginazione di
una connessione sempre costante e necessaria fra una certa causa un certo
effetto? Non deriva certo dalle impressioni, ossia dai dati di fatto di cui si faccia
esperienza, risponde che Hume, poiché non è logicamente contraddittorio che un
certo fenomeno di causa-effetto possa nel corso del tempo non verificarsi; non è
affatto certo infatti che le esperienze passate possano valere ed essere sempre
confermate anche per il futuro. Il fatto di aver sempre constatato, per esperienza, che
il Sole illumina la Terra, considerandolo in tal senso causa dell'illuminazione, non
autorizza a concludere con assoluta certezza logica che sarà sempre così anche in
futuro: non vi è contraddizione qualora si pensi che, magari in un tempo lontano, ciò
potrebbe non più accadere.
L'immaginazione di un rapporto necessario di causa-effetto non deriva dunque
dall'esperienza ma, conclude Hume, deriva invece dall'abitudine. Poiché mi sono
abituato a vedere sempre che col sorgere del Sole la Terra si illumina, sono allora
portato a supporre che il Sole sia e sarà costantemente la causa necessaria della luce
sulla Terra e che, viceversa, la luce sulla Terra sia e sarà costantemente l'effetto
necessario del sorgere del Sole. Ma questa non è una verità logica, universale e
necessaria (come il principio di identità o di non contraddizione); è semplicemente
una nostra credenza, una semplice aspettativa derivante da una abitudine acquisita.
Insomma non vi è alcuna dimostrazione scientifica della verità del principio di
causalità. Tale principio, su cui finora si è sempre fondata la conoscenza e la scienza
(secondo la convinzione che conoscere una cosa vuol dire scoprirne la causa) non ha
pertanto valore scientifico. Tuttavia, ammette Hume, l'abitudine non va
disprezzata perché è comunque una guida valida per la vita pratica, anche se non
è un principio certo di spiegazione razionale.
Non soltanto Hume critica e mette in dubbio l'idea dell'esistenza delle sostanze
materiali, cioè delle cose, al di fuori della nostra mente, ma egli critica e mette in
dubbio la stessa idea di esistenza di quella sostanza spirituale che noi chiamiamo
coscienza o "io" o anima, intesa come base unitaria, cioè come sostrato o sostanza, su
cui poggiano tutte le nostre impressioni, le nostre idee, i nostri pensieri. Infatti, dice
Hume, neppure del nostro "io", della nostra coscienza, abbiamo una conoscenza
ed un'esperienza diretta. Perciò non è possibile dimostrare scientificamente
l'esistenza della nostra coscienza, di questa sostanza spirituale, dal momento che
abbiamo esperienza soltanto dei nostri singoli e successivi stati d'animo o idee o
sensazioni (gioia, dolore, piacere, tristezza, specifiche riflessioni, eccetera), ma non
già della nostra intera coscienza. Anche l'idea di coscienza è dunque una semplice
credenza e frutto dell'abitudine: poiché siamo abituati a riferire certe impressioni a
noi stessi anziché ad un corpo esterno, finiamo col credere di essere un soggetto
distinto dalle nostre impressioni. In realtà, la nostra coscienza non è pensabile come
sostanza, in quanto tale immutabile e sempre identica a se stessa, perché siamo invece
un "fascio di impressioni" variabili e mutevoli.
A questo punto Hume, dopo aver negato l'esistenza reale dello spazio e del tempo,
nonché il valore scientifico del principio di causa, la conoscibilità stessa delle cose
materiali al di fuori di noi, la cui esistenza è addirittura messa in dubbio insieme con
l'intero mondo fisico, ed altresì dopo aver negato altresì la possibilità di conoscere la
coscienza come sostanza spirituale, giunge col dubitare non solo dei concetti
fondamentali della filosofia metafisica ma anche della stessa scienza. Il suo
pensiero perviene quindi a conclusioni di esplicito scetticismo conoscitivo (è posta in
dubbio la complessiva capacità conoscitiva dell'uomo). Meno scettico Hume è
146
La morale e l’estetica.
La religione.
Hume critica le prove variamente fornite dalla filosofia circa l'esistenza di Dio poiché
per affermare l'esistenza di qualcosa è necessario farne esperienza e non bastano
ragionamenti puramente logici. Ma di Dio non si può avere esperienza, perciò la
religione non ha un fondamento razionale. Essa non ha neppure un fondamento
morale, perché, come abbiamo visto, per Hume la morale non si basa sull'idea di Dio
ma sul sentimento del piacere, della simpatia e dell'utilità sociale.
Esclusa pertanto la possibilità di spiegare la religione su base razionale o morale,
essa può essere piuttosto utilmente studiata come storia delle religioni per
comprendere quanto e come abbia influenzato la vita degli uomini.
Le idee religiose non sorgono secondo Hume dalla contemplazione delle meraviglie
della natura, ma dal sentimento istintivo di paura della morte e dalla speranza in una
vita ultraterrena. Anticamente i timori e le speranze della vita, gli eventi lieti o tragici,
erano attribuiti a molteplici divinità, a volte benigne, a volte maligne. Inizialmente la
religione era dunque politeistica e basata sull'idolatria (sull'adorazione di molti
idoli). In seguito la religione è diventata monoteista, recando il pregio di aver
superato l'idolatria ma comportando il grave difetto dell'intolleranza verso le altre
religioni.
La politica.
Hume esamina le due tesi opposte, quella dell'origine divina del potere politico e
quella del contratto sociale, affermando che sono entrambe giuste ma ognuna solo
in un senso particolare e non generale.
La teoria secondo cui il re è tale per diritto divino, cioè perché prescelto da Dio, è
giusta nel senso che tutto ciò che accade nel mondo, e quindi anche l'incoronazione
dei re, è frutto della provvidenza e dei progetti divini. Però questa teoria finisce col
giustificare al tempo stesso ogni sorta di autorità politica, legittima o anche
illegittima, come quella dell’usurpatore.
La teoria del contratto sociale è anch'essa giusta, poiché afferma che il popolo è
l'origine di ogni potere e del patto che lo istituisce. Però questa teoria non si trova
verificata dappertutto perché i governi e gli Stati nascono spesso da rivoluzioni, da
conquiste e congiure e non dalla volontà popolare.
Hume distingue quindi i doveri umani in due classi: quelli derivanti dall'istinto
naturale, come l'amore per i figli, la gratitudine per i benefattori, la pietà per gli
sfortunati, e quelli derivanti dagli obblighi e dalle leggi sociali, come il rispetto
della vita e della proprietà altrui, il mantenere le promesse e gli impegni presi,
l'obbedienza civile e politica. Al riguardo conclude affermando che il dovere
dell'obbedienza civile, ossia il dovere di rispettare le leggi, non deriva
principalmente dall'obbligo di rimanere fedeli al contratto sociale originario col quale
è stato fondato lo Stato, ma deriva soprattutto dalla necessità di mantenere
costantemente in vita la società stessa, poiché senza obbedienza civile non vi
potrebbe essere società alcuna.
148
Restringendo la conoscenza umana nei limiti dell'esperienza, Locke non aveva inteso
diminuirne il valore; le aveva anzi riconosciuto, in quei limiti, una piena validità.
Dopo aver ammesso che l'unico oggetto della conoscenza umana è l'idea, Locke
aveva riconosciuto, al di là dell'idea, la realtà dell'io, di Dio e delle cose. Berkeley,
pur negando la materia, aveva ammesso le realtà degli spiriti finiti e dello spirito
infinito di Dio, entrambi irriducibili alle idee ma distinti ed autonomi da esse.
Hume conduce l'empirismo ad una conclusione scettica: l'esperienza non è in grado
di fondare la piena validità della conoscenza la quale, ricondotta nei suoi limiti, non
è certa ma soltanto probabile. Hume si tiene rigidamente fedele al principio secondo
cui ogni idea deriva dalla corrispondente impressione e non esistono idee o pensieri
di cui precedentemente non si sia avuta sensazione. Egli risolve totalmente l'intera
realtà nella molteplicità delle impressioni per cui nulla ammette al di là di esse. Per
spiegare la realtà del mondo e dell'io Hume non ha a disposizione se non le
impressioni, le idee e i loro rapporti. È un orientamento che, per propria
impostazione, non individua fondamenti alle realtà prese in esame, limitandosi
invece ad analizzarle nei loro elementi costitutivi.
Il primato che la filosofia moderna, inaugurata da Cartesio, ha all’inizio
legittimamente attribuito alla gnoseologia (invero dapprima trascurata) al posto
dell'ontologia, ovverosia al soggetto conoscente piuttosto che all'oggetto conosciuto,
finisce però, nelle concezioni più estreme, col porre in dubbio la sussistenza stessa
delle cose e della realtà esterna e finanche del mondo intero. Il soggetto diventa
l'unico centro di riferimento; la vera realtà è solo quella che si trova e viene
percepita dentro la mente soggettiva, nelle percezioni ed impressioni, posta
l'inconoscibilità se non addirittura l’esistenza della realtà esteriore: la soggettività
diventa soggettivismo e scetticismo nei confronti del mondo e delle possibilità
conoscitive. Bisognerà attendere Kant perché, sia pur nell'ambito di una visione pur
sempre soggettiva, venga restituito spessore alla realtà fisica oggettiva.
Con Hume l'empirismo giunge ai suoi limiti estremi oltre i quali non è più possibile
spingersi. Spogliatosi degli elementi ontologici, corporei e materialisti presenti in
Hobbes, nonché della componente razionalistico-cartesiana presente in Locke, degli
interessi spiritualisti e religiosi presenti in Berkeley e di ogni residuo di pensiero
proveniente dalla tradizione metafisica, l'empirismo finisce col svuotare la filosofia
stessa dei suoi contenuti specifici e col dare partita vinta al dubbio scettico. Sulla
ragione ha la meglio la natura umana, quella biologico-animale. Questo è il nuovo
"colpo di scena" del pensiero: la natura umana, costretta negli ambiti circoscritti del
metodo sperimentale, viene a perdere gran parte della sua specificità razionale e
spirituale a tutto vantaggio dell'istinto, dell'emozione e del sentimento, fin quasi a
ridursi a sola "natura animale".
149
Nel corso del Seicento e Settecento va annoverata la rilevanza anche di due altri
filosofi, Blaise Pascal e Giambattista Vico, i quali però, differenziandosi dal
prevalente indirizzo razionalistico od empiristico dell'epoca, incentrano i loro
interessi su temi affatto diversi.
Per Pascal il problema centrale non è quello gnoseologico come nel razionalismo o
nell'empirismo, bensì quello del senso e del mistero della vita umana: "l'enigma
dell'uomo, dice Pascal, non ha possibili soluzioni al di fuori della fede". Pascal aveva
letto i "Discorsi" dello stoico Epitteto e i "Saggi" di Montaigne. Epitteto glorifica la
grandezza dell'uomo, ma ne trascura la natura corruttibile e imperfetta. Montaigne, al
contrario, vede soltanto la miseria dell'uomo.
Invece, afferma Pascal, la nostra natura ha carattere mediano (sta nel mezzo fra
grandezza e miseria) e perciò ambiguo perché siamo collocati fra il grande e il
piccolo, tra il tutto e il nulla, tra il conoscere qualcosa ma non il tutto. Sono divenute
celebri le massime con cui Pascal, nelle sue opere, esprime questo concetto, per
cui vale la pena citarne direttamente alcune delle più significative: "L'uomo non è
che una canna, ma è una canna che pensa. L'universo è assai più potente, ma non sa
pensare. È pericoloso mostrare troppo all'uomo sia la sua grandezza sia la sua
bassezza. Di fronte a un uomo, se si vanta l’abbasso se si abbassa lo vanto".
Quello di Pascal è un realismo fatto di buon senso. Lo sbaglio dei filosofi, egli
afferma, è quello di oscillare fra dogmatismo (enunciazione di teorie presentate come
dogmatiche, indiscutibili) e scetticismo (sfiducia nelle possibilità conoscitive e morali
dell'uomo). La filosofia non ha saputo trovare nemmeno un'etica universale.
La scienza dunque non copre tutte le verità. Ad essa sfuggono le verità dell'esistenza
e quelle etiche e religiose, da cui dipende il senso della nostra vita. Nell'opera "I
pensieri" Pascal esplicita che di fronte ai problemi dell'esistenza, della sua
condizione di essere finito e limitato, l'uomo assume due atteggiamenti:
1. l'atteggiamento del "divertissement", ossia della distrazione, dello
stordimento, della fuga da sé e dell'indifferenza verso gli altri uomini: non
avendo potuto guarire l'infelicità, la morte, la miseria e l'ignoranza, l'uomo ha
creduto meglio, per essere felice, di non pensarci per dedicarsi alle cose e ai
piaceri del mondo; ma si tratta di una felicità superficiale e inconsistente, che si
traduce in noia se non in disperazione;
2. l'altro atteggiamento è quello della fede, che parte dall'accettazione della
nostra condizione e dei nostri limiti e che nella fede trova la vera risposta.
Senza la fede lo scetticismo è inevitabile. L'unica vera filosofia è quella
consapevole dei suoi limiti e tale consapevolezza spinge alla fede nella
rivelazione divina e a ricercare nella religione le risposte fondamentali. Solo il
cristianesimo, con la dottrina del peccato originale, risulta in grado di spiegare
simultaneamente le miserie e la grandezza dell'uomo, che avverte i suoi limiti
ma anche la propria aspirazione alla verità, alla felicità e al bene.
La scommessa su Dio.
Quello della scommessa è il celebre argomento di cui Pascal si avvale contro gli
atei, i miscredenti, i libertini, i liberi pensatori, sostenendo che, anche qualora si
ignori o si dubiti di Dio, conviene pensare e comportarsi "come se Dio ci fosse".
La ragione è impotente a dimostrare Dio, però può mostrarci che non è
irragionevole né irrazionale credervi. Noi non conosciamo né l'esistenza né la natura
di Dio giacché è privo sia di estensione sia di limiti. Pur tuttavia ci troviamo di
fronte ad una scelta (credere o non credere in Dio) cui non possiamo sottrarci.
Tanto vale considerare allora quale sia la scelta più conveniente: se scommettiamo
sull'esistenza di Dio e vinciamo, allora vinciamo tutto; se invece perdiamo, non
perdiamo nulla, solo i beni mondani che sono esteriori e passeggeri. Scommettere su
Dio è quindi una scelta ragionevole, niente affatto contraria alla ragione.
Nonostante il carattere utilitaristico e di mera convenienza di questa scommessa, che
anche per Pascal è insufficiente ai fini della vera fede, è stata comunque recepita dalla
filosofia moderna la tesi di fondo sull'obbligo di scommettere, cioè di "decidersi" per
il sì o per il no perché anche il non scegliere è già una scelta.
153
2. della matematica abbiamo scienza perché da noi stessi sono stati prodotti i
concetti matematici, che però sono astratti, vuoti di contenuti e non
riguardano oggetti reali o fatti;
3. soltanto della storia umana abbiamo una vera scienza perché i fatti storici
sono prodotti dagli uomini; solo nella storia il vero coincide col fatto.
Dunque solo la storia può essere vera scienza, che invece è stata trascurata da
Cartesio e dai razionalisti, i quali erroneamente ritenevano, secondo Vico, essere
scienza solamente quella basata sulla matematica e sulla quantificazione
(misurazione) anziché su elementi ed eventi qualitativi. Per Vico, al contrario, si ha
scienza quando si capisce il perché e il senso delle cose, cioè le loro qualità e non le
loro quantità.
La scienza nuova.
Vico intende quindi sviluppare la scienza della storia che chiama "la scienza
nuova"; in seguito sarà denominata "filosofia della storia".
Affinché tale scienza si costituisca è necessario anzitutto conoscere i concreti fatti
storici di cui si vogliono cercare le cause: questo è il compito della filologia, che
per Vico non è solo lo studio delle parole e del linguaggio ma lo studio, attraverso il
linguaggio, della vita dei vari popoli e delle nazioni, cioè dei loro costumi, delle
loro tradizioni e delle loro istituzioni (organizzazioni sociali), che devono essere
conosciuti in modo certo attraverso l'esperienza diretta o attraverso l’esame dei
documenti e delle testimonianze. Però i fatti devono essere anche interpretati; è
necessario spiegarli indicandone le cause e il perché. Questo è il compito della
filosofia, cioè della riflessione razionale, alla quale spetta di individuare le leggi
generali che regolano lo svolgimento dei fatti.
La scienza nuova, la storia, deve dunque basarsi sia sulla filologia che sulla
filosofia. Vico precisa che bisogna "inverare" (far diventare vero) il certo, ossia
ricondurre i fatti particolari alle leggi generali che li spiegano, e bisogna
"accertare" (far diventare certo) il vero, cioè conoscere esattamente i fatti
particolari cui tali leggi si applicano.
L'unione di filologia e filosofia è collocata da Vico in quelle che lui chiama
"degnità" della scienza nuova; "degnità" significa principi guida cui ispirarsi,
degni di essere accettati da tutti poiché evidenti per se stessi come i postulati della
matematica. Altre degnità assunte sono, come già visto, l'attenzione alle tradizioni,
al linguaggio, ai modi di pensare e ai documenti scritti e non scritti dei vari popoli
di cui studiare la storia.
Per Vico la storia, come espressa nel suo tempo, non è ancora scienza ma può
diventarlo. Occorre però liberarsi:
1. della boria (superbia) delle nazioni, che è il pregiudizio che consiste
nell'immaginare origini illustri per ogni Stato e nazione;
2. della boria dei dotti, che è il pregiudizio che consiste nel ritenere mitici i fatti
storici e i modi di pensare delle epoche lontane, giudicando pertanto la storia
antica più illustre di quella attuale.
155
Vico insomma critica il modo di fare storia da parte degli storici del suo tempo.
Prende invece a modello quattro autori:
1. Platone, che descrive l'uomo come deve essere;
2. Tacito, che descrive l'uomo quale è, con crudo realismo;
3. Bacone, che persegue il progetto di una unificazione enciclopedica del
sapere, ossia l'ideale di una conoscenza e di un sapere generale sopra quelli
particolari, individuando le leggi e gli aspetti culturali comuni ai vari popoli;
4. Grozio, filologo attento alla meticolosa analisi dei fatti.
Vico ritiene che la storia ideale eterna si sviluppi lungo tre "età" (epoche,
periodi), analogamente allo sviluppo della mente umana che passa dalla
fanciullezza, dominata dal senso, alla giovinezza, dominata dalla fantasia, e alla
maturità, dominata dalla ragione. Un'altra sua celebre "degnità" recita infatti:
"Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo
perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura".
Le tre età della storia descritte da Vico sono:
1) L'età degli dei, dominata dalla sensibilità. È l'età degli uomini primitivi, ancora
rozzi e ignoranti, che si fanno guidare solo dai sensi, da sensazioni primordiali e
istintive. Non esistono ancora istituzioni sociali e nemmeno la famiglia. È chiamata
"età degli dei" perché gli uomini di tale epoca, temendo le forze della natura, le
trasformavano in divinità da adorare e supplicare nella speranza di placarne
l’impeto.In tale età il potere è esercitato dai sacerdoti, dagli stregoni, e la vita
umana è regolata dagli oracoli (teocrazia). Il linguaggio è pertanto oracolare,
156
espressione della potenza divina. L'avvento della religione consente, secondo Vico,
il costituirsi delle prime forme di civiltà. Si passa così alla seconda età della storia.
2) L'età degli eroi, dominata dalla fantasia. Nascono le prime forme di società e
sorgono le città, governate da personalità eccezionali, da eroi ritenuti superiori agli
altri, che costituiscono una classe aristocratica la cui origine è fatta derivare dagli
dei. È il mondo eroico, religioso e poetico, animato da forti passioni e robusta
fantasia, cantato ad esempio da Omero. Nell'età degli eroi i miti, le leggende e i
canti poetici propri dei popoli primitivi sono ulteriormente sviluppati; si sviluppa
quella che Vico chiama la "sapienza poetica". La scoperta del valore creativo della
fantasia, del mito e della poesia è una delle più grandi intuizioni di Vico, che
anticipa il Romanticismo. La poesia per Vico non è solo un linguaggio utile a
procurare piacere o per abbellire un discorso, ma contiene invece una propria verità,
è espressione di una visione del mondo (del modo di considerare il mondo e la vita)
sia pure per mezzo di immagini. Il linguaggio poetico è spontaneo, intuitivo,
fantastico; predominano la metafora e la similitudine ed è nato prima del linguaggio
in prosa. In tal senso Vico afferma l'autonomia della poesia rispetto al
ragionamento, tesi che è stata ripresa e sostenuta dall'estetica moderna. Medesimo
valore hanno i miti, che non sono stravaganze ma espressione dei costumi e della
sensibilità dei popoli antichi: Achille, ad esempio, è il mito e il simbolo del
coraggio.
Dall'interesse per il linguaggio poetico Vico passa quindi ad interessarsi del
linguaggio in generale, che non considera un'invenzione arbitraria, convenzionale,
poiché esso nasce naturalmente dall'esigenza degli uomini di intendersi. Come mai,
si domanda Vico, lo studio del linguaggio, così importante per gli uomini e per
capire il loro modo di pensare, è stato invece trascurato? Proprio perché, egli
risponde, ci è troppo familiare, talmente quotidiano e praticato che, di conseguenza,
solo poche volte ci soffermiamo a rifletterci.
La sapienza poetica è un modo attraverso cui comprendere l'ordine e la direzione
di fondo della storia ideale eterna, tuttavia si tratta di una comprensione per lo più
vaga e fantastica. La comprensione più piena, piuttosto, è possibile attraverso la
ragione e la riflessione filosofica, che caratterizzano la terza età della storia.
3) L'età degli uomini, caratterizzata dal pieno sviluppo della ragione. Gli uomini si
rendono conto di essere uguali e al posto dei governi aristocratici sorgono quelli
democratici, in cui il potere è distribuito secondo il merito e il censo. Sorgono le
leggi scritte e la prosa sostituisce il linguaggio poetico. Nascono la filosofia e le
scienze. Esempi dell'età degli eroi sono la Grecia omerica, la Roma più antica ed
altresì, secondo Vico, il Medioevo; sono invece esempi dell'età degli uomini la
Grecia del periodo classico (quello dell'egemonia ateniese), la Roma repubblicana e
la civiltà moderna.
Tuttavia, quando le scoperte ed invenzioni della scienza e della tecnica
producono eccessive comodità, raffinatezze e lusso, oppure quando la ragione
diventa troppo astratta e si allontana dalla tradizione e dai buoni costumi, accade
allora, secondo Vico, che i costumi degli uomini si corrompano e che la civiltà si
avvii verso la decadenza. Ciò può determinare la fine dell'età degli uomini e un
157
Vico rifiuta la tesi della storia come risultato della necessità o del destino,
similmente agli stoici (determinismo storico), così come rifiuta una concezione
della storia come risultato del caso, similmente agli epicurei. Per Vico la storia
si fonda sulla libera opera e produzione dell'uomo.
Però capita con una certa frequenza che gli uomini, quando nelle loro vicende
storiche perseguono certi fini, ne raggiungano invece altri e diversi dalle loro
intenzioni, che tuttavia, a loro insaputa, possono spesso portare ad un progresso: ad
esempio, dall'impulso sessuale è nata la famiglia; dal desiderio di potere sono sorte
le città; dallo sfrenato desiderio di libertà sono nate le leggi. È questa, così come
chiamata da Vico, "l'eterogenesi dei fini", ossia il conseguimento di obiettivi e di
fini diversi da quelli proposti, la quale dimostra che la storia è fatta sì dagli
uomini ma anche da un'intelligenza superiore, che persegue fini più elevati,
indirizzando la storia stessa verso un maggior progresso.
Questa intelligenza superiore non può essere che la Provvidenza divina (cioè
un'influenza esercitata da Dio sulla storia per amore verso gli uomini), la quale
orienta la storia, anche al di là delle intenzioni umane, nella direzione che per gli
uomini è la migliore.
Sorge allora il problema: se nella storia agisce ed interviene la Provvidenza
divina, allora la libertà degli uomini come produttori di storia rimane salva oppure
no?
In generale tre sono le principali interpretazioni sulla provvidenza:
1. quella teologica tradizionale, che sottolinea il carattere trascendente ed in
nessun modo immanente e secolarizzato della provvidenza;
2. quella idealistica di Hegel e ripresa da Croce, che accentua l'immanenza
della provvidenza, la quale viene perciò a coincidere col corso razionale
della storia: la provvidenza cioè non è un intervento divino ma è il pensiero
in generale, la complessiva intelligenza che è dentro il mondo; è
l'intelligenza dello spirito dell'umanità che governa la realtà;
158
L’ILLUMINISMO.
È terrena perché l'uomo non si sente più un pellegrino in esilio sulla terra,
considerata una "valle di lacrime", un luogo di passaggio in attesa della vita
ultraterrena. Anzi, è orgoglioso della sua condizione di essere terreno, unico luogo
in cui gli è concesso di vivere. Pertanto, pur essendo consapevole dei limiti delle
capacità umane, l'illuminista si impegna per il benessere e la felicità sua e della
società. Il male non è più concepito come conseguenza del peccato originale e
soltanto come debolezza e colpa individuale, ma soprattutto come conseguenza
dell'ignoranza, per cui diventa importante l'istruzione e l'educazione.
È pubblica perché il sapere e la conoscenza non devono essere il privilegio solo di
pochi fortunati ma essere diffusi ed estesi al più ampio numero possibile di
persone. Sorgono nuovi luoghi e occasioni di cultura, quali le Accademie, la
Massoneria (ispirata ad ideali di pace e tolleranza, di carattere filantropico, che
peraltro sviluppa altresì motivi anticlericali e antidogmatici), i salotti letterari,
nuove forme letterarie quali l'epistolario nonché i saggi, spesso nella forma del
pamphlet. Ai fini della diffusione del sapere è stato particolarmente rilevante il
progetto dell’"Enciclopedia" perseguito dagli illuministi francesi Diderot e
D’Alembert, ossia la creazione di un'opera che, come le enciclopedie
contemporanee, contenga e descriva, in maniera comprensibile per il pubblico
mediamente istruito, i concetti, le teorie, le conoscenze raggiunte dalle varie
scienze, perché tutti possano apprendere ed aumentare il loro sapere.
È progressista perché gli illuministi hanno fiducia nella ragione umana e nella
diffusione del sapere per far progredire la libertà e la società. L'idea di progresso
è un'idea fondamentale dell'Illuminismo. Per gli illuministi la storia e la
conoscenza umana, come pure le condizioni sociali ed economiche degli uomini e
dei popoli, anche se potranno avere momenti di arresto o di regresso sono tuttavia
tendenzialmente destinate a progredire e migliorare sempre di più.
È critica perché la cultura illuminista non dà niente per scontato: nessuna
spiegazione deve essere accettata solo perché fornita da pensatori antichi ritenuti
autorevoli e indiscutibili. Anche l'Illuminismo combatte il "principio di autorità".
Ogni spiegazione può essere invece accettata solo dopo essere stata analizzata e
"criticata" dalla ragione nonché, ogni qualvolta possibile, verificata sulla base
dell'esperienza.
Nel complesso dunque la cultura e la filosofia dell'Illuminismo sono ottimiste.
Nel corso dell'Illuminismo si afferma un nuovo tipo di intellettuale, che non è più
il pensatore solitario e astratto del passato, ma è impegnato sia cambiare in meglio
la società sia a diffondere il sapere, facendo uso di un linguaggio divulgativo
(comprensibile) perché anche i non specialisti possano aumentare le loro
conoscenze.
L'uso della ragione, oltre che critico, deve essere assolutamente libero: viene
difesa la libertà di parola, di scrivere e di pensare senza vincoli e pregiudizi
imposti dagli altri.
Scrive Kant, il maggiore dei filosofi illuministi, che l'Illuminismo è quel
movimento culturale e di pensiero il quale crede che ciascun uomo possa
conoscere e agire avendo fiducia nelle capacità della propria ragione, del proprio
161
intelletto. Pur rispettando le leggi dello Stato, deve essere possibile la pubblica e
libera discussione delle idee e delle opinioni di ciascun cittadino: ciò permetterà di
superare errori ed ostacoli e di migliorare la vita della collettività. Il motto di Kant
è "sapere aude" cioè "osa sapere", abbi il coraggio di servirti della tua propria
intelligenza, senza subire per forza la guida di un altro, senza farti intimidire
dall'autorità degli antichi maestri.
L'Illuminismo e la storia.
fondata sui sentimenti e sulla ragione umana, per cui ogni uomo sente
istintivamente e ritiene ragionevole pensare che esista una realtà, una
ragione, un'intelligenza superiore immanente, coincidente con l'ordine e
l'armonia che governa il mondo della natura e il mondo morale degli uomini;
3. ateismo: non credere in nessun Dio soprannaturale né in nessuna religione
naturale; è questo, in particolare, l'atteggiamento dei pensatori materialisti
(come Hobbes), i quali sostengono che solo la materia e i movimenti dei
corpi materiali sono l'unica causa della realtà.
Anche se taluni filosofi illuministi si sono proclamati atei, ritenendo la religione
un fenomeno irrazionale, nato dalla paura e dall'astuzia della politica, la maggior
parte peraltro aderisce al deismo, tant'è che gli illuministi si appellano alla "Dea
ragione".
In sostanza, i filosofi deisti affermano che se noi eliminiamo da ogni religione
positiva tutti i dogmi, i misteri, le superstizioni, i miracoli, quel che resta è una
base comune a tutte le religioni, che esprime principi e precetti non di carattere
soprannaturale bensì naturale (terreno) e razionale, come l'amore per il prossimo, il
rispetto degli altri, la libertà di ognuno, l'uguaglianza tra gli uomini (religione
naturale e morale naturale).
Il deismo favorisce l'affermazione del principio di tolleranza, sia religiosa che
civile, anticipato da Locke. Non solo contro le sciagure delle guerre di religione,
ma anche per avvantaggiare lo sviluppo dei commerci e l'ascesa della borghesia,
gli illuministi comprendono come sia importante la tolleranza nei confronti di tutte
le religioni e dei vari sistemi politici purché non siano fanatici. L'intolleranza
religiosa e civile, infatti, oltre a provocare continue guerre, impedisce altresì il
libero svolgimento dei traffici commerciali, mentre i commercianti vogliono
invece essere liberi di fare affari anche con chi ha una fede e idee politiche diverse
dalle loro.
Compie i suoi studi in un collegio di gesuiti e quindi a Parigi. Il padre voleva che
diventasse un avvocato, ma Voltaire preferisce dedicarsi alla letteratura, alla
filosofia e soprattutto alla critica sociale contro i pregiudizi, l'intolleranza, la
vecchia cultura e la vecchia filosofia. Conduce una vita irrequieta, svolgendo il
ruolo dell'intellettuale nei centri culturali parigini ma anche in qualità di
consigliere di principi e di re, tra cui Luigi XV di Francia e Federico II di Prussia.
Per le sue idee anticonformiste ed antitradizionali viene pure incarcerato e trascorre
periodi di esilio, prima in Inghilterra di cui apprezza la mentalità più libera e
moderna, e poi in Svizzera.
Opere principali: in qualità di intellettuale con molteplici ed enciclopedici interessi
scrive poemi, tragedie, opere di storia, romanzi, saggi di fisica e di filosofia tra cui,
in particolare, "Lettere filosofiche"; "Elementi della filosofia di Newton"; il
"Dizionario filosofico" nonché, in forma di romanzo, il "Candido".
Il suo intento è di diffondere e divulgare la nuova mentalità e le idee illuministe,
usando anche un linguaggio ironico, satirico e sarcastico per prendere in giro e
provocare i superstiziosi, i conformisti e gli ignoranti. Più che per l'originalità, la
filosofia di Voltaire si contraddistingue proprio per lo spirito polemico e
critico, in particolare contro Leibniz, contro Pascal, contro il fanatismo, contro il
167
dispotismo ed anche, a modo suo, contro l'ateismo. In questo senso è tra i maggiori
esponenti dell'Illuminismo francese, contribuendo notevolmente alla sua
affermazione.
Nella sua opera il "Candido" ridicolizza la concezione ottimistica di Leibniz
sul mondo quale il migliore dei mondi possibili, rispetto a cui il terribile terremoto
accaduto a Lisbona nel 1755 gli appare la più recente smentita storica. Candido,
spirito semplice, è vittima di una serie interminabile di disgrazie. Si domanda
allora ironicamente Voltaire: come potrebbe ciascuna di tali disgrazie avere la
propria ragion sufficiente e giustificazione in quello che Leibniz rappresenta come
il migliore dei mondi? Deride pure la credenza della vecchia metafisica secondo
cui l'uomo è il centro e il fine dell'universo. Il bene, come il male, è una realtà del
mondo inspiegabile con i lumi della ragione. Il potere dell'uomo, ribadisce
Voltaire, è relativo e ha ragione Pierre Bayle (filosofo francese illuminista
contemporaneo di Voltaire) nell'affermare l'impossibilità di risolvere problema del
male, come invece preteso da Leibniz.
Nei confronti di Pascal giudica il suo pessimismo, quale espresso nel
"divertissement", un'ingiuria contro l'umanità, da Pascal dipinta come enigma e
sopraffatta dalla paura di vivere. Per Voltaire è invece nell'azione, nonché nella
accettazione delle proprie condizioni e passioni, che l'uomo è in grado di
riconoscere le sue capacità nel bandire le superstizioni, le intolleranze e "le
crudeltà delle religioni dei preti".
Voltaire attacca il fanatismo delle religioni, e in particolare del cristianesimo, che
"ci ha fatti persecutori, carnefici e assassini dei nostri fratelli". Alle religioni
positive contrappone la religione razionale e naturale del deismo, a cui Voltaire
aderisce. Tutte le religioni positive e i loro dogmi sono per Voltaire frutto
dell'ignoranza e dell'inganno, in quanto sono religioni fanatiche ed intolleranti.
Esclude che si possano accogliere per fede verità che appaiono assurde alla
ragione. “Dio vuole che noi siamo virtuosi ma non che siamo assurdi”.
Come deista Voltaire crede in una Intelligenza superiore da cui deriva l'ordine
razionale dell'universo: è un Dio più filosofico che religioso. Dalla ragione deriva
il principio di tolleranza sia religiosa che politica: poiché noi tutti siamo soggetti
all'errore, proprio qui sta il fondamento della tolleranza reciproca.
Peraltro, sempre in base alla ragione e alla fiducia in una religione naturale,
Voltaire proclama insostenibile l'ateismo: "se Dio non esistesse bisognerebbe
inventarlo", afferma Voltaire. L'esistenza di Dio non è materia di fede ma il
risultato della ragione, in forza del principio che dal nulla non può venire nulla.
Tuttavia il Dio di Voltaire non è il Dio persona concepito antropomorficamente
bensì un Dio inteso come principio ordinatore del mondo.
Voltaire dubita invece dell'esistenza di un Dio che premi i buoni e punisca i
malvagi dopo la morte, perché ciò comporta l'immortalità dell'anima, la qual cosa
non è affatto certa e dimostrabile. Ritiene tuttavia opportuna e conveniente per le
persone semplici una religione popolare che faccia credere nell'esistenza di un Dio
che punisca, perché così il popolo sarà più rispettoso ed onesto.
168
condizionato dalle leggi fisiche di causa ed effetto. La libertà umana è una pura
illusione. L'uomo è necessitato a desiderare esclusivamente ciò che è o sembra
utile al suo benessere. I principi tradizionali della religione, come l'esistenza di
Dio, l'immaterialità dell'anima, la vita ultraterrena, sono perciò soltanto
superstizioni.
Peraltro, mentre il materialismo di La Mettrie è di tipo individualistico (la ricerca
individuale del piacere), il materialismo di d'Holbach, come anche in Helvètius, è
ispirato ad una morale etico-politica. Anche per d'Holbach vale la legge della
ricerca del piacere, ma il piacere è ragionevole quando non nuoce agli altri ed è
indirizzato alla pacifica, e perciò gratificante, convivenza sociale.
Nasce a Ginevra in Svizzera. È stato calvinista e, per breve tempo, cattolico. Vive
un'esistenza travagliata ed errabonda, a Londra, a Parigi e poi soprattutto a
Montmorency in Lussemburgo. Di carattere timido e scontroso, si è sempre sentito un
diverso.
Opere principali: Discorso sull'ineguaglianza; Il contratto sociale; L'Emilio.
È definito un illuminista atipico: è illuminista nella critica alla tradizione e alla
società, ma è già romantico o preromantico nell'esaltazione della spontaneità del
sentimento. In effetti, il rapporto tra Rousseau e l'Illuminismo costituisce un
autentico problema storiografico rispetto al quale sussistono interpretazioni
divergenti. Per alcuni studiosi Rousseau non appartiene all'Illuminismo ma piuttosto
precorre il Romanticismo. Per altri, che oggi sono la maggioranza, Rousseau, pur
nella sua diversità, esprime comunque temi di fondo che rientrano nello spirito
dell'Illuminismo: l'atteggiamento critico e riformatore nei confronti della società e dei
suoi pregiudizi; la difesa della religione naturale ed il rifiuto delle religioni storiche
rivelate, l'importanza attribuita all'educazione e alla perfettibilità dell'uomo. Rousseau
infatti, pur rivendicando il valore dell'istinto, della natura e del sentimento, finisce
anch'egli per affidare alla ragione il compito della trasformazione del mondo.
Rousseau è contro gli illuministi ma non contro l'Illuminismo. La sua polemica non è
contro la ragione, ma contro quella ragione astratta e artificiale che pretende di
annullare gli istinti e le passioni. La ragione non deve sopprimerli, ma guidarli ed
armonizzarli. Il suo ideale è quello di riconciliare l'uomo con la natura, ossia di
rendere più naturale, spontanea e solidale la società moderna, divenuta troppo
artificiosa e calcolatrice.
Lo stato di natura.
prima grande divisione tra gli uomini, quella fra ricchi e poveri, che ha condotto ad
una guerra permanente all'insegna della rapina e della violenza: la sopraffazione dei
ricchi e il brigantaggio dei poveri. Quindi non nello stato di natura, come per
Hobbes, ma col processo di civilizzazione, col sorgere delle società civili, si
giunge per Rousseau ad una condizione di guerra di tutti contro tutti.
In questa situazione erano i ricchi a rischiare di più perché avevano di più da
perdere e proprio loro hanno imposto, afferma Rousseau, quella specie di patto
sociale, da lui definito iniquo, che ha condotto alla costituzione dello Stato,
concepito come strumento dei ricchi per sottomettere i poveri. La nascita dello Stato
moderno così come si è sviluppato, descrive Rousseau, ha accelerato il processo di
decadimento civile attraverso tre tappe:
1. la fondazione delle leggi e del diritto di proprietà, che sanciscono la distinzione
tra ricchi e poveri;
2. l'istituzione della magistratura, che sancisce la distinzione tra potenti e deboli;
3. l'avvento dello Stato assoluto, che sancisce il dispotismo.
Si afferma una disuguaglianza civile autorizzata dalla legge imposta, assolutamente
contraria al diritto naturale.
Il contratto sociale.
base alla concezione secondo cui la sovranità risiede nel popolo formato da cittadini
tra di loro uguali, mentre, dall'altra parte, subordinando alla collettività e alla
volontà generale sia le libertà individuali, sia la morale che la cultura e la religione,
appare per contro il precursore dello Stato etico e totalitario (quali, ad esempio, il
regime nazista o il comunismo sovietico), di quello Stato cioè che non si limita a
regolare la vita pubblica ma che pretende di imporsi anche nella vita privata dei
cittadini, nel loro modo di pensare e nella loro condotta morale individuale.
Vi è insomma in Rousseau un'ambiguità di fondo. Di per sé il concetto di volontà
generale, di bene comune, è un concetto nobile, ma in concreto la volontà generale
non può che essere di volta in volta incarnata da qualcuno che ritiene o pretende di
rappresentarla, magari in buona fede. Però questo qualcuno è sempre una persona
particolare, tutt'al più è l'esponente di un gruppo, di un partito e di una ideologia. Non
vi è pertanto garanzia che, facendoli passare come interessi generali, non imponga
invece interessi di parte. Secondo Rousseau, quando il volere del singolo si trovi in
conflitto con la volontà prevalente, egli deve essere allora obbligato a riconoscere di
essersi "sbagliato".
Non era certo nelle intenzioni di Rousseau giungere a questi esiti ambigui in quanto
animato da un sincero ideale. Ma è un fatto che il suo pensiero ha influenzato le
correnti radicali della politica e della filosofia moderna, dall'estremismo dei
Giacobini e di Robespierre ai regimi politici totalitari del Novecento (fascismo,
nazismo, comunismo sovietico).
Peraltro, va precisato che Rousseau insiste soprattutto sull'uguaglianza dei
diritti piuttosto che su forme di comunismo o di regimi estremisti ed utopistici.
Anche la sua condanna della proprietà privata non è radicale. Poiché
"distruggere completamente la proprietà è impossibile", scrive Rousseau, egli
riconosce il diritto di proprietà ma ritiene che essa debba essere subordinata al bene
pubblico e contenuta in limiti ristretti, nelle mani di piccoli proprietari, poiché "lo
Stato sociale è vantaggioso agli uomini solo in quanto essi abbiano tutti qualcosa e
nessuno di loro abbia troppo".
L'educazione.
Rousseau parte dalla fondamentale convinzione secondo cui l'uomo è per natura
buono, o per lo meno innocente, e perciò l'educazione non deve limitare la libera e
spontanea espressione della natura umana. Il bambino quindi non deve essere trattato
come un adulto, ma deve essere rispettata la sua personalità e particolarità. I maestri
devono solo limitarsi ad aiutarlo a sviluppare naturalmente e spontaneamente il suo
carattere.
Fino a 12 anni va coltivato lo sviluppo della naturale sensibilità del bambino. Fino a
15 anni va curata l'educazione intellettuale, fondata sul contatto diretto con le cose e
sull'attività manuale, in modo da stimolare l'invenzione e la creatività. A 15 anni, età
che coincide col nascere delle passioni, inizia l'educazione morale e religiosa.
L'amore di sé deve diventare amore verso il prossimo e verso la comunità. L'obiettivo
educativo consiste nel raggiungimento di un armonioso equilibrio tra istinto e
ragione, che deve assumere una funzione di guida della condotta. Ciò spiega come
Kant si sia ispirato a Rousseau nella sua dottrina morale ed abbia riconosciuto in lui il
"Newton" del mondo morale.
La religione naturale.
Conclusioni.
Il pensiero di Rousseau si è imposto per motivi contrastanti. Per alcuni è il teorico del
sentimento interiore come unica guida della vita, per altri è il difensore della
sottomissione totale dell'individuo alla collettività; per alcuni è un democratico, per
altri è il primo teorico del socialismo; per alcuni è un illuminista, per altri è un
antiilluminista; per tutti è il primo teorico della pedagogia moderna. In effetti, se
Rousseau esprime temi profondi dell'Illuminismo, preannuncia altresì i germi del
Romanticismo. È promotore, al tempo stesso, di esigenze innovatrici e di reazioni
conservatrici: è mosso dal desiderio ma insieme dal timore di una rivoluzione
radicale, dalla nostalgia della vita primitiva e dalla paura che, a causa di lotte
insensate, si possa cadere nella barbarie. Rousseau affascina per la complessità dei
sentimenti che descrive, per il tormento delle sue oscillazioni tra divergenti punti di
vista, ma soprattutto per la chiara denuncia, in pieno Settecento, il secolo dei lumi
della ragione, dei pericoli che possono derivare, per contro, da un razionalismo
esasperato. È infatti persuaso che la ragione, senza gli istinti e le passioni, diventi
sterile, accademica e innaturale e che le passioni e gli istinti, senza la disciplina della
ragione, portino al caos individuale e all'anarchia sociale.
179
Illuminismo inglese.
Nel Settecento l'Inghilterra si trova già in epoca post-rivoluzionaria. Due sono i temi
principali: il primato della religione naturale su quella rivelata e l'autonomia della
morale dalla religione, che si può fondare esclusivamente sulla coscienza umana: non
la religione, ma basta la coscienza a distinguere fra bene e male.
Illuminismo italiano.
Illuminismo tedesco.
Opere principali: Critica della ragion pura; Critica della ragion pratica; Critica del
giudizio.
ma non il bene, che semmai può essere colto da quell'altra facoltà che è la volontà.
Vero e bene non coincidono.
3) il terzo periodo è quello più propriamente critico. Si parla in proposito di filosofia
critica o criticismo perché contrapposta sia al dogmatismo metafisico (che
presenta le sue concezioni come dogmi indiscutibili) sia allo scetticismo in cui ha
finito col cadere l'empirismo di Hume (il quale dubita della possibilità di giungere
a conoscenze universali e necessarie).
La critica deve essere lo strumento della filosofia e criticare vuol dire giudicare
sulla validità ma anche sui limiti dell'esperienza e della conoscenza umana.
Con le sue tre celebri "Critiche", della ragione pura, della ragione pratica e del
giudizio, Kant opera una sintesi formidabile tra razionalismo ed empirismo,
collocando illuministicamente la ragione a fondamento di ogni indagine, insieme
tuttavia alla consapevolezza dei limiti della ragione umana medesima.
Per giudizi si intendono qui le proposizioni dichiarative, cioè quelle che affermano o
negano qualcosa. In particolare il termine "giudizio" significa attribuire un
predicato (una proprietà) al soggetto della proposizione.
Per essere autentica, dice Kant, la conoscenza scientifica deve consistere di
proposizioni, cioè di giudizi, universali e necessarie ma collegate anche
all'esperienza, perché solo la possibilità di fare sempre nuove esperienze può
incrementare la conoscenza.
182
esperienze. Ad esempio giudizi sintetici a priori del tipo "tutto ciò che accade ha una
causa", il quale, in tal senso, attribuisce al principio di causa il valore di strumento
certo di conoscenza scientifica.
Ma, si chiede Kant, sono possibili giudizi sintetici a priori? Quale è il loro
fondamento, la loro validità? Abbiamo visto che i giudizi analitici a priori si fondano
sul principio di identità e di non contraddizione e che i giudizi sintetici a posteriori si
fondano sull'esperienza. Ma quale è il fondamento dei giudizi sintetici a priori?
Vedremo che Kant risponde positivamente a questa domanda attraverso quella che è
stata definita e celebrata come "la rivoluzione copernicana di Kant nel campo della
gnoseologia".
L'estetica trascendentale.
è il primo modo (la prima forma) con cui percepiamo e facciamo esperienza degli
oggetti in quanto fenomeni. Spazio e tempo dunque non sono sostanze, non sono idee
innate, bensì sono modi di funzionare della nostra sensibilità, universalmente presenti
e uguali in tutti gli uomini perché hanno per tutti la medesima struttura.
Peraltro, è opportuno precisare che, dopo Darwin, lo spazio e il tempo rimangono a
priori per l'individuo ma sono invece a posteriori per la specie. Vale a dire che le
condizioni che rendono possibile l'esperienza individuale sono un prodotto
dell'evoluzione umana e fanno parte delle caratteristiche della specie cui noi
apparteniamo. Di conseguenza un essere extraterrestre che abbia una natura diversa
dalla nostra percepirebbe il mondo in maniera diversa, con altre nozioni di spazio e
di tempo e con forme a priori alternative.
In particolare, dice Kant, lo spazio è la forma (il modo di funzionare) del nostro senso
esterno (la sensazione): noi abbiamo sensazione delle cose una accanto all'altra. Il
tempo è la forma del nostro senso interno (la percezione, la coscienza): noi
percepiamo le cose e abbiamo coscienza dei nostri stati d'animo l' uno dopo l'altro.
E poiché, conclude Kant, la geometria si fonda sull'intuizione pura dello spazio
(gli enti geometrici hanno dimensioni spaziali) e l'aritmetica si fonda
sull'intuizione pura del tempo (sommare, moltiplicare, sottrarre, dividere sono
operazioni che si distribuiscono sempre nel tempo: ad esempio prima c’è 5, poi c'è +2
e poi c'è=7) e poiché come intuizioni "pure" spazio e tempo sono forme a priori,
universali e necessarie, allora significa che geometria e aritmetica (cioè la
matematica) sono senz'altro valide come scienze.
La logica trascendentale.
L'analitica trascendentale.
rotondo, ma non vi è ancora niente che colleghi fra di esse queste sensazioni
formando il concetto di tavolo. La funzione di collegare fra di esse le diverse
sensazioni formando i concetti, che ci permettono una conoscenza più completa
delle cose, è svolta dal secondo tipo di conoscenza, cioè dalla conoscenza
intellettiva, dall'intelletto, il quale organizza le sensazioni, le collega e le unifica fra
di esse trasformandole in concetti. Le sensazioni sono cioè trasformate dall'intelletto
in pensieri. Per Kant pensare equivale appunto a connettere tra loro le sensazioni, i
dati sensibili e intuitivi dell'esperienza. Le sensazioni in se stesse non possono infatti
essere pensate, essere oggetto di pensieri, perché esse, per loro natura, sono intuitive
e immediate, mentre i pensieri sorgono solo quando le sensazioni vengono tra loro
collegate.
L'intelletto, a differenza dell'intuizione, è una facoltà discorsiva, vuol dire cioè che
procede gradualmente, per connessioni e collegamenti successivi, da una conoscenza
parziale ad un'altra meno parziale però mai completa, percorrendo incessantemente
la catena dei rapporti di causa-effetto ma non sino all'infinito. L'intelletto non è in
grado di cogliere l'intera serie causale nella sua infinità, né il punto di partenza
primo né il punto di arrivo ultimo. Arriverà sempre ad un punto che considererà
come punto di arrivo o di partenza momentaneo e provvisorio. L'intelletto infatti, in
quanto facoltà finita e limitata, è condizionato a procedere sempre da un certo effetto
alla relativa causa e così via, tuttavia senza mai cogliere l'elemento primo e quello
ultimo di una serie causale infinita, ossia senza mai coglierne la totalità. In altre
parole, l'intelletto opera solo nell'ambito delle cose finite e limitate ma non riesce a
cogliere l'infinito. In tal senso l'Idealismo, ossia quella corrente filosofica che si
manifesterà nel corso del Romanticismo, criticherà Kant sostenendo che la sua è solo
una "filosofia del finito", che rinuncia all'aspirazione e alla possibilità di cogliere
"l'infinito", la "totalità" della realtà.
Ma anche la conoscenza intellettiva per essere valida deve essere trascendentale,
cioè a priori, applicata all'esperienza, alle sensazioni, per quanto riguarda il suo
contenuto ma indipendente da essa per quanto riguarda la forma, cioè il modo di
funzionare dell'intelletto che, in quanto tale, non dipende dall'esperienza bensì, come
abbiamo visto, dipende dal soggetto. Insomma anche la conoscenza intellettiva
deve assumere il valore di conoscenza trascendentale, universale e necessaria,
basata su giudizi sintetici a priori. Ciò è possibile proprio per il modo di
funzionare dell'intelletto.
Infatti, così come il modo di funzionare della conoscenza sensibile è quello di
organizzare e collocare le sensazioni nello spazio e nel tempo attraverso le relative
forme a priori, o intuizioni pure, della sensibilità, alla stessa maniera il modo di
funzionare della conoscenza intellettiva, dell'intelletto, è quello di organizzare,
collegare e trasformare in concetti i molteplici dati empirici, ossia le sensazioni,
attraverso le forme a priori, i modi, in base a cui l'intelletto stesso funziona.
In verità, precisa Kant, l'intelletto per essere veramente trascendentale non può
limitarsi a collegare tra di esse le sensazioni trasformandole in normali concetti,
perché i concetti sono astrazioni ricavate dall'esperienza e quindi non sono
indipendenti da essa. L'intelletto infatti fa di più: collega le sensazioni e le
188
soggetto conoscente non proviene dagli oggetti ma è opera del soggetto, dell'io-
penso, il che conferma al più alto grado la rivoluzione copernicana di Kant.
Quindi il complessivo ordine universale e necessario che ognuno vede nel mondo
e nella natura non deriva dall'esperienza ma dall'io-penso; è il modo supremo in
cui l'io-penso classifica, organizza e collega fra di esse le varie conoscenze
fenomeniche.
Perciò Kant definisce l’io-penso come il legislatore della natura, cioè come quella
attività, quella funzione suprema dell'intelletto che ci consente di attribuire
precise leggi e regole circa il modo in cui accadono i diversi fenomeni naturali ed
altresì i fatti umani e della storia umana.
In tal senso l’io-penso non è costituito dalla sola autocoscienza individuale ma
anche da quella collettiva: costituisce il sapere in generale. Poiché è il fondamento
dei modi di pensare la natura, l’io-penso è anche il fondamento della scienza che la
studia. Infatti i principi fondamentali della fisica poggiano su giudizi sintetici a priori
della mente, che a loro volta derivano dalle intuizioni pure di spazio e di tempo e
dalle dodici categorie. Con ciò Kant supera lo scetticismo di Hume. Questi riteneva
che l'esperienza potesse prima o poi smentire la verità su cui si regge la scienza. Kant
sostiene invece che tale possibilità non sussiste poiché l'esperienza, divenendo
oggetto di conoscenza attraverso la costante e stabile struttura formata dalle categorie
dell'intelletto e dall'io-penso, non può mai smentire i principi scientifici che ne
derivano. In tal modo le leggi della natura risultano giustificate nella loro validità.
Lo schematismo trascendentale.
ogni cosa è appunto ciò che permane pur nel divenire del suo stesso aspetto
esteriore); altrettanto la causalità è immaginata come successione nel tempo; la
realtà come esistenza in un determinato tempo; la necessità come esistenza in ogni
tempo; la quantità come numero che si distribuisce nel tempo; la qualità come
presenza o assenza o intensità dei fenomeni nel tempo.
Abbiamo visto che Kant definisce il tempo come la forma del senso interno (della
coscienza). Ma poiché tutti i dati del senso esterno ci giungono attraverso il senso
interno, il tempo si configura quindi, indirettamente, anche come la forma del senso
esterno, cioè come la maniera universale attraverso la quale percepiamo tutti gli
oggetti: il tempo è forma universale dell'esperienza. Consegue che, se non ogni cosa
è nello spazio, come ad esempio i sentimenti, ogni cosa è però nel tempo in quanto è
nel tempo che accade. L'intelletto, non potendo agire direttamente sugli oggetti della
sensibilità poiché in se stessi inconoscibili, agisce indirettamente su di essi tramite il
tempo, collocandoli cioè nel tempo.
Si spiega così la denominazione di “schematismo trascendentale”assunta da Kant.
Rispetto ad ogni categoria, o concetto puro, l'immaginazione produttiva produce,
ponendolo nel tempo, il relativo schema trascendentale (la relativa immagine in
generale). Per esempio lo schema del cane non coincide con l'immagine sensibile e
particolare di questo o quel cane, ma consiste in una regola, per l’appunto uno
schema generale, in base a cui la mia immaginazione è in grado di delineare e
concettualizzare, secondo diverse modalità e collocazioni temporali, la figura del
quadrupede cane al di fuori delle singole esperienze concrete. Per tale motivo lo
schema è definito "trascendentale" (indipendente dall’esperienza): gli schemi
trascendentali sono le categorie calate nel tempo.
tutte le sensazioni sono date come tali solo a posteriori, tuttavia è lecito
assumere a priori (anticipare) il postulato secondo cui una loro qualità
peculiare è di avere comunque un certo grado di intensità, pur non sapendo di
quale grado specifico si tratti poiché può essere individuato solo con
l'esperienza;
3. le analogie dell'esperienza, corrispondenti alla categoria della relazione, le
quali affermano a priori che l'esperienza costituisce un intreccio necessario di
rapporti basato sui principi della persistenza della sostanza, della causalità e
dell'azione reciproca; qui analogia significa che tali principi non si riferiscono
ai singoli oggetti, ma alle regole generali e formali ( le forme dell'intelletto)
secondo cui organizziamo e definiamo il contesto dell’accadere dei fenomeni
(ad esempio, in presenza di un evento noi sappiamo a priori, grazie al
principio di causalità, che esso deve avere una causa pur non conoscendo
ancora la causa specifica, che va cercata nell'esperienza);
4. i postulati del pensiero empirico in generale, corrispondenti alla categoria
della modalità, i quali stabiliscono che ciò che è in accordo e connesso con le
condizioni formali e materiali dell'esperienza è, rispettivamente, possibile e
reale.
Questa dottrina dei principi coincide con la teoria dell'io-penso come "legislatore
della natura", intendendo per natura, qui concepita in senso formale, la conformità
dei fenomeni alle leggi fisiche generali (cioè ai principi della fisica, o postulati o
assiomi) nonché il loro ordine necessario ed universale. Tale ordine infatti non
deriva dall'esperienza bensì dall'io-penso e dalle sue forme a priori. Invece le leggi
particolari nelle quali questo ordine si esprime non possono essere desunte dalle
categorie, pur sottostando ad esse, ma soltanto dall'esperienza.
Pur non disconoscendo i meriti della gnoseologia kantiana, può essere peraltro
interessante, prendendo in esame un altro punto di vista, considerare le critiche ad
essa rivolte dai filosofi sostenitori di una impostazione realista. Per realismo si
intende quella visione del mondo, quella concezione di base, secondo cui vi è
corrispondenza tra le rappresentazioni mentali o immagini o idee delle cose (cioè i
fenomeni) e le cose medesime in sé. Vale a dire che il realismo si regge quantomeno
sul postulato che le nostre sensazioni e idee siano conformi alla realtà delle cose che
ci troviamo di fronte, per cui la nostra conoscenza non è allora puramente
fenomenica, limitata all'apparenza esteriore delle cose, nel dubbio che esse, in
concreto, possano essere diverse da come ci appaiono. Il realismo rivaluta in tal
modo l'ontologia dell’oggetto che era stata soppiantata dal primato che la filosofia
moderna, a partire da Cartesio, aveva per contro conferito alla gnoseologia del
soggetto.
I filosofi realisti osservano che nella gnoseologia kantiana, come del resto nella
gnoseologia della filosofia moderna e specialmente nel razionalismo, sussiste un
193
quando una lampadina sarà accesa o spenta per stabilire se, nel momento in cui la
guardo, è accesa o spenta. Il contingente quando si realizza diventa necessario e
fonda giudizi analitici (necessari) a posteriori, smentendo in tal senso la supposta ed
esclusiva esistenza di giudizi analitici a priori. Per esempio, il concetto di causa è
per Kant un giudizio sintetico a priori, il quale afferma che ogni cambiamento ha una
causa secondo l'assunto che A determina B, un assunto logico-formale che precede
l'esperienza anziché derivarne e pertanto giudicato necessario e sintetico a priori.
Ma, obiettano i realisti, sta di fatto che la parte materiale dell'assunto, ossia il farne
concreta esperienza, non è per Kant e per i razionalisti dotata di necessità, solo
quella concettuale lo è.
Se Kant, per i realisti, non riesce a distinguere l'ontologia dalla gnoseologia, sono
dai realisti parimenti criticati, dall'altro verso, i filosofi del linguaggio, cioè gli
esponenti di quella che sarà chiamata la "filosofia analitica", i quali , posto che la
realtà è esclusivamente espressa attraverso il linguaggio, finiscono col far coincidere
ed assorbire la realtà entro il linguaggio medesimo, non riuscendo in tal modo a
differenziare, a loro volta, la logica e il linguaggio dall'ontologia. È vero che anche i
concetti, i pensieri, sono oggetti, ma se gli oggetti fisici sono così appariscenti, solidi
e incisivi alla nostra intuizione ciò non appare casuale. Quando mi riferisco ai
pensieri mi riferisco certo a qualcosa, ma se mi riferisco ad un uomo vivo o morto la
realtà cambia molto e linguaggio da solo non è in grado di definire questa differenza.
Il che rappresenta una difficoltà insormontabile per chi vuole identificare linguaggio
e ontologia, concezione, questa, invece diffusa nella filosofia del Novecento e che,
non a caso, ha spesso coinciso con un progetto di eliminazione dell'ontologia
medesima.
Ma si può fare logica senza ontologia? Aristotele sostiene che il principio di non
contraddizione non è solo logico ma anche ontologico, ossia riguarda non soltanto il
ragionamento o il linguaggio bensì il modo in cui è fatto il mondo. Io non penso mai
il principio di non contraddizione in astratto, afferma Aristotele, ma lo penso sempre
in casi singoli e sulla base di immagini e rappresentazioni che, in ultima istanza,
rinviano a cose esistenti nel mondo.
Nell'avviarsi a concludere la sua "Critica della ragion pura", Kant mostra dunque
che, grazie alle forme a priori della sensibilità (le intuizioni pure di spazio di tempo) e
a quelle dell'intelletto (le categorie o concetti puri), la conoscenza scientifica è
valida, universale e necessaria. Però, ci avverte Kant, è una conoscenza solo
fenomenica: non conosciamo direttamente le cose in se stesse ma solo i loro
fenomeni, ossia come le cose appaiono, senza sapere se esse in realtà sono proprio
come appaiono a noi o sono diverse. Ma proprio perché è fenomenica la
conoscenza scientifica è universale e necessaria, in quanto l'universalità e la
necessità non possono derivare dalle cose, che ci sono e non ci sono, derivando
invece solo dal soggetto, cioè dai modi di funzionare della sensibilità (conoscenza
195
della conoscenza umana, verso l'infinito e verso i noumeni (le cose in sé), riconosce
Kant, è irresistibile ed insopprimibile, è un preciso bisogno dello spirito umano;
però questa tendenza è un illusione ed un errore perché i noumeni sono
inconoscibili. Perciò Kant chiama questa tendenza "illusione trascendentale" in
quanto vuole superare i limiti dell'esperienza.
La dialettica trascendentale è per l'appunto la critica degli errori e delle illusioni
della ragione. Tali errori sono chiamati da Kant "paralogismi", termine che significa
ragionamenti difettosi, idee sbagliate della ragione.
Tre sono le principali idee sbagliate della ragione, che essa pretende di saper
cogliere e comprendere come cose in sé nella loro essenza di fondo:
1. l'idea dell'anima, ossia la pretesa della ragione di conoscere direttamente la
natura dell'anima, idea sulla quale è basata la psicologia razionale;
2. l'idea del mondo, ossia la pretesa di conoscere la totalità del mondo, la sua
essenza, il fine e il senso del mondo, idea su cui è basata la cosmologia
razionale;
3. l'idea di Dio, ossia la pretesa di dimostrare e di conoscere direttamente la
realtà e la natura di Dio, idea su cui è basata la teologia razionale.
Queste tre idee, che riguardano l'anima, Dio, il mondo (cioè il cosmo),
corrispondono alle tre parti in cui è suddivisa la metafisica tradizionale, per cui
la critica delle idee errate della ragione costituisce nel complesso la critica della
metafisica in sé. Di seguito si passa quindi ad esaminarle una per una.
L'idea dell'anima.
L'errore della ragione metafisica sta nel concepire l'anima (cioè la coscienza, l'io-
penso) non già come attività, come modo di funzionare dell'intelletto e come "io-
penso", quale funzione unificatrice e di collegamento delle sensazioni e delle
categorie, bensì come "sostanza" realmente esistente, spirituale ed immortale,
ossia come "cosa in sé". Ma per Kant, come abbiamo visto, la sostanza non è una
realtà esistente, non è una cosa in sé, bensì è una categoria, ossia un modo di
funzionare dell'intelletto per organizzare e ordinare i dati dell'esperienza: la sostanza
come categoria non è una cosa in sé ma uno strumento di conoscenza. È vero,
riconosce Kant similmente a Cartesio, che noi siamo coscienti di noi stessi come
esseri pensanti ma, diversamente da Cartesio, noi non conosciamo la sostanza,
l'essenza della nostra coscienza o anima, la quale come noumeno o cosa in sé è
inconoscibile. Noi ci conosciamo solo come fenomeni, ossia soltanto come ci
vediamo e ci sentiamo, ma non conosciamo la sostanza dell'anima: potrebbe anche
esserci però non è conoscibile. Per Kant il "cogito" di Cartesio è soltanto coscienza di
noi stessi ma non è conoscenza dell'anima. Di conseguenza né lo spiritualismo
(l'anima è sostanza spirituale) né il materialismo (l'anima è sostanza materiale) hanno
valore di scienza: sono soltanto concezioni metafisiche, posta l'impossibilità di
conoscere se e quale possa essere l'essenza dell'anima.
197
Anche qui, l'errore della ragione sta nel concepire il mondo non già come un
semplice insieme di fenomeni e di fatti quali ci appaiono, ma invece come sostanza
nella sua totalità. È sbagliata la pretesa della ragione di non limitarsi a conoscere
soltanto i fenomeni, ritenendo invece di poter conoscere il Mondo con la M
maiuscola, ossia la sua totalità intesa come entità metafisica, come cosa in sé, di cui
saper cogliere il fine fondamentale, i principi primi e le cause ultime. Invece non
solo è impossibile fare esperienza della totalità dei fenomeni del mondo ma inoltre,
quando si pretende di passare dalla conoscenza fenomenica del mondo alla
conoscenza della totalità delle cose in sé del mondo, nella ricerca del fondamento e
del senso dell’universo, si incorre, fa presente Kant, in una serie di antinomie, cioè
di contraddizioni insanabili, le cui opposte affermazioni od opinioni, poiché non
conoscibili, possono essere ugualmente vere od ugualmente false, possono essere
ugualmente affermate o negate.
Le principali antinomie (contrapposizione insolubili) sono del tipo:
Il mondo è finito o infinito?
Il mondo e le parti che lo costituiscono sono divisibili all'infinito, cioè
scomponibili e riducibili infinitamente in parti sempre più semplici, oppure
non sono divisibili all'infinito in quanto si finisce col giungere a parti semplici
(ad esempio gli atomi) che non possono essere ulteriormente divisibili, cioè
rimpicciolite?
Nel mondo vi è finalismo e libertà (c'è un fine, uno scopo generale
liberamente perseguito e perseguibile) oppure vi è solo meccanicismo e
necessità (solo determinismo)?
Nel mondo c'è o non c'è un essere assolutamente necessario, Dio, quale causa
esterna di esso (trascendenza divina) o come sostanza e principio interno
animatore del mondo (panteismo e immanentismo)?
Poiché queste domande riguardano sostanze, essenze, cioè noumeni o cose in sé
che non possiamo conoscere, ad ognuna di esse si può rispondere sia
positivamente che negativamente. Quindi non ci può essere risposta certa; sono
domande metafisiche ma non scientifiche.
L'idea di Dio.
Più che un'idea, dice Kant, questo è un ideale, anzi è l'ideale per eccellenza,
mediante il quale viene concepito l'Essere (il Noumeno) supremo, che ha
completamente in se stesso la propria causa e la propria determinazione (coincidenza
di essenza ed esistenza). Ma anche l'idea di Dio che formiamo con la ragione ci
lascia nella totale ignoranza circa l'esistenza di tale Essere supremo.
Per Kant le prove dell'esistenza di Dio elaborata dalla metafisica classica sono
principalmente tre:
198
Dunque le idee della ragione, quella di anima, di mondo e di Dio, producono solo
illusioni e non hanno un valore conoscitivo scientifico. Eppure sono strutture,
modi di essere della ragione, sono bisogni naturali e insopprimibili della ragione.
In quanto tali, ammette Kant, anch’esse debbono avere un qualche senso, un
qualche valore. Kant risponde che esse non hanno un valore conoscitivo, ma hanno
invece un preciso valore e uso regolativo: diventano regole non della nostra
conoscenza ma dei nostri comportamenti, della nostra condotta morale nonché
diventano criteri della nostra visione del mondo.
Da una parte, infatti, la continua ricerca e aspirazione all'infinito, benché
inconoscibile, cui tende lo spirito umano ci spinge ad estendere sempre di più il
campo delle nostre conoscenze possibili. Dall'altra parte, sulla base delle idee della
ragione è possibile regolare la vita pratica e morale dell'uomo, conformando su
queste idee la volontà umana. Sarà questo l'oggetto e l'argomento della seconda
grande opera di Kant: "La Critica della ragione pratica".
L'intelletto ha funzione unificante: connette e collega le intuizioni e sensazioni alle
categorie e le categorie all'io-penso; la ragione ha invece funzione normativa:
sollecita il continuo avanzamento della conoscenza ed orienta le posizioni soggettive
dei singoli, suggerendo le individuali visioni del mondo e la ricerca del nostro senso
nel mondo.
Dopo aver smantellato la metafisica nella "Critica della ragione pura", Kant
viene a recuperarla nella "Critica della ragione pratica", tuttavia non su basi
razionali, teoretiche, bensì pratiche, cioè morali.
200
L'uomo, dice Kant, non è fatto solo di ragione pura (intelletto), ma anche di
volontà (ragione pratica). L'intelletto dirige la conoscenza, mentre la ragione
pratica, proprio in base alle tre idee della ragione (anima, mondo e Dio), ancorché
sbagliate dal punto di vista conoscitivo, è in grado di regolare la volontà dell'uomo,
cioè la vita pratica e la morale. Di tale facoltà della ragione pratica di orientare il
comportamento e la morale dell'uomo si occupa la seconda grande opera di Kant,
"La Critica della ragion pratica", che significa analisi, esame, di come la ragione,
dal punto di vista pratico, può regolare la condotta e la morale dell'uomo. La morale,
o etica, è la scienza che studia il comportamento pratico dell'uomo al fine di
indirizzarlo verso ciò che è giusto, per cui ragione pratica=la volontà regolata
dalla ragione.
L'opera è divisa in due parti fondamentali:
1. l'analitica della ragione pratica, che tratta dei principi della ragione pratica
(le massime e gli imperativi morali), che della ragione pratica sono l'oggetto, e
che esamina inoltre i moventi, le motivazioni, della ragione pratica medesima;
2. la dialettica della ragione pratica, che tratta dell'antinomia
(contrapposizione) che esiste tra virtù e felicità nonché del suo superamento
attraverso tre postulati che vedremo essere posti a fondamento della ragione
pratica stessa.
Kant chiama principi pratici (norme pratiche) quelli che influenzano e regolano la
volontà. Essi si dividono in massime e imperativi.
Le massime (=prescrizioni, suggerimenti, consigli) sono principi pratici che valgono
solo per i singoli soggetti, per i singoli individui, che se le propongono: quindi sono
soggettive (cambiano da soggetto a soggetto, da persona a persona); sono massime,
ad esempio, quelle del tipo: "reagisci alle offese"; "non tollerare l'ignoranza altrui".
Gli imperativi (=comandi) sono invece principi pratici oggettivi; sono comandi o
doveri che valgono per tutti. Ciò non significa che necessariamente, di fatto, tutti si
comportino secondo questi comandi, perché possono non essere rispettati se non si
segue la ragione ma ci si fa dominare dalle passioni; significa piuttosto che tali
comandi si imporrebbero a tutti se tutti obbedissero alla ragione pratica, che è in
grado di regolare e determinare la volontà.
Gli imperativi si distinguono, a loro volta, in imperativi ipotetici ed imperativi
categorici.
Gli imperativi ipotetici esprimono un comando subordinatamente al perseguimento
di uno scopo particolare, in vista di fini particolari, ed hanno la forma del "se…
devi"; ad esempio: "se vuoi essere promosso (ipotesi) devi studiare". Quindi hanno sì
un valore oggettivo (che vale per tutti), ma valido solo per tutti coloro che vogliono
conseguire quel medesimo scopo predeterminato.
201
Diversamente dalla definizione data nella "Critica della ragion pura", nella "Critica
del giudizio" Kant definisce il giudizio come la facoltà o propensione ad attribuire
una proprietà particolare ad una specie o genere di cose o di eventi più generali. In tal
senso distingue due tipi di giudizio: il giudizio determinante; il giudizio
riflettente.
Si ha un giudizio determinante quando sono dati, o noti, sia il caso particolare sia la
regola o la legge generale. Il giudizio determinante è quello che, disponendo di tutti i
dati necessari, generali e particolari, determina conoscitivamente (sa spiegare)
l'oggetto, il fenomeno, al quale è rivolto. Tutti i giudizi della "Critica della ragion
pura" sono determinanti perché sono dati sia il particolare (i dati sensibili) sia
l'universale (le forme a priori).
Si ha un giudizio riflettente quando è dato o è noto solo il particolare, mentre
l'aspetto universale è da ricercare. Si chiama riflettente perché l'universale che si deve
cercare non è una legge, una forma a priori dell'intelletto, ma deriva da una
riflessione sugli oggetti considerati (“riflessione” è qui intesa nel senso comparare,
mettere in relazione), pur in assenza di una legge esplicativa, di una forma a priori. In
altri termini, il giudizio riflettente è quello che riflette sugli oggetti, sui fenomeni
presi in considerazione, non per conoscerli scientificamente, secondo le forme a
priori dell'intelletto, ma per cercare e trovare in essi l'accordo, la corrispondenza, con
i sentimenti di finalismo e di armonia che sono nel soggetto, negli uomini.
Dunque, l'uomo pensa il mondo non solo attraverso l'intelletto (giudizio
determinante), ma anche attraverso il sentimento (giudizio riflettente). Per poter
risalire dal particolare all'universale che è da trovare, ossia per trovare un
208
Il giudizio estetico.
1. per qualità: il bello è ciò che piace in modo disinteressato; non è legato al
piacere dei sensi e nemmeno al bene morale o all'utile economico, ma è solo
contemplazione e ammirazione;
2. per quantità: il bello è ciò che piace universalmente, che vale per tutti gli
uomini; ognuno può trovare belle cose diverse ma il sentimento di piacere che
si prova è comune e uguale in tutti;
3. per relazione: la bellezza vale in se stessa e non in rapporto, in relazione a
scopi particolari;
4. per modalità: il bello è un piacere necessario, nel senso che si impone nello
stesso modo, nella stessa modalità, a tutti gli uomini.
Anche nel campo dell'estetica (oltreché della conoscenza e della morale) Kant
compie una rivoluzione copernicana, un capovolgimento dei punti di vista: il
bello non è nelle cose, negli oggetti, ma è in noi, non è oggettivo ma soggettivo, è
un nostro sentimento. E se è in noi, se è un modo di funzionare, un modo di essere
dei nostri sentimenti, vuol dire allora che anche il sentimento del bello (come le
forme dell'intelletto e come l'imperativo categorico) è a priori, cioè universale e
necessario: il piacere del bello non deriva dalle cose contemplate, cioè
dall'esperienza, perché ognuno può trovare belle cose fra di esse diverse, ma quando
una cosa suscita in noi un sentimento di bellezza, quel sentimento è identico e
universale per tutti, è uno schema universale.
Anche nel campo estetico Kant prende le distanze e si differenzia dalle estetiche di
tipo empiristico o razionalistico (qui il termine estetico, a differenza della "estetica
trascendentale" è usato nel significato ordinario di "concernente l'arte, la bellezza").
Contro gli empiristi e i sensisti, che avevano ricondotto la percezione del bello ai
sensi, Kant rivendica l'esistenza e l'universalità di giudizi estetici a priori. Contro il
razionalismo estetico tradizionale, che considerava la bellezza come una conoscenza
"confusa" della perfezione degli oggetti, Kant sostiene invece che l'esperienza
estetica è fondata sul sentimento di armonia e sulla spontaneità e non già sulla
conoscenza o sui concetti. Si intende che anche per Kant non ogni piacere che
un'immagine può provocare in noi ha un valore estetico, ma solo quel piacere che
non è legato a pure attrattive fisiche né ad interessi pratici né a valutazioni morali e
conoscitive degli oggetti e che, quindi, è disinteressato, comunicabile a tutti e non
dipendente dai mutevoli stati d'animo dell'individuo. Kant costituisce un momento
basilare di quel processo di autonomizzazione dell'estetica che si approfondirà
ulteriormente col Romanticismo e che troverà una delle sue maggiori espressioni in
Benedetto Croce.
Affine al sentimento del bello è il sentimento del sublime, rientrante anch'esso
nell'ambito del giudizio estetico. Mentre il sentimento del bello sorge dall'armonia
che viene sentita tra soggetto ed oggetto contemplato, quello del sublime scaturisce
da una sproporzione straordinaria avvertita tra l'oggetto contemplato e l'animo
del soggetto: è il sentimento dell'illimitato, dell'infinito, che allo stesso tempo
inquieta e meraviglia. Anche il sentimento del sublime non è nelle cose, negli oggetti,
ma nell'animo dell'uomo.
Il sentimento del sublime è di due specie:
210
Il giudizio teleologico.
Nell'opera "La religione nei limiti della semplice ragione" Kant affronta il
problema della natura dell'uomo e del suo destino ultimo. Kant si guarda bene
dal considerare la natura umana in termini di semplice istinto naturale che, in
quanto tale, escluderebbe la libertà. Se la natura dell'uomo fosse determinata
dall'istinto, egli non potrebbe essere né buono né cattivo, poiché buona o cattiva è
soltanto la volontà libera nella misura in cui si conforma alla legge morale o la
contravviene. La natura dell'uomo consiste invece, per Kant, nella libertà, nella
libertà di scelta tra bene e male, tra razionale e irrazionale, e rispetto a questa
libertà deve essere spiegata l'inclinazione al male.
Il male radicale consiste per Kant nell'allontanarsi deliberatamente dell'uomo dalla
legge morale pur avendone coscienza. Il male radicale non consiste nella sensibilità e
nelle inclinazioni naturali dell'uomo poiché di esse non è responsabile; non è neppure
un pervertimento della ragione ma piuttosto della volontà umana, allorché l'uomo
deliberatamente si sottrae alle massime morali; in ciò sta il male radicale: è, per
l'appunto, un’inclinazione deliberata di cui l'uomo, di conseguenza, si rende
responsabile.
Dal rapporto tra male e libertà sorge il diritto, cioè la legge, di cui la società si
serve per regolare i contrasti tra libertà e cattivo uso di essa. La legge deve trovare il
proprio fondamento nei diritti naturali e nella religione naturale, la quale
consiste essenzialmente nel culto della vita morale. La religione rivelata adotta
invece come culto divino un insieme di riti che in sé non hanno valore morale:
Dio non può essere pregato se non con l'azione morale; ogni altra forma di preghiera
o attività religiosa è superstizione.
Per ciò che riguarda la storia, Kant condivide il punto di vista illuministico sulla
civiltà come sforzo e cammino verso una società umana cosmopolita. Tre sono le
tappe per giungere a questo traguardo di pace e convivenza civile fra tutti gli
uomini:
1. l'adozione di una costituzione repubblicana in ogni singolo Stato;
2. la federazione (alleanza) degli Stati fra di loro;
3. l'avvento del diritto cosmopolitico, cioè del diritto di uno straniero a non essere
trattato da nemico nel territorio di un altro Stato.
Soprattutto, Kant vede la massima garanzia di pace nell'accordo tra politica e
morale.
L'idea razionale di una comunità pacifica di tutti i popoli della terra è, secondo
Kant, lo scopo che deve orientare gli uomini nelle vicende della loro storia.
Tuttavia Kant non ritiene che la storia si sviluppi necessariamente sempre secondo un
piano preordinato e infallibile. Non c'è nella storia un ordine armonico e
progressivo che si sviluppi naturalmente: il progresso della storia sta nella
volontà e nell'impegno degli uomini. La società pacifica e cosmopolita non è
(ancora e chissà quando mai) una realtà, ma piuttosto un ideale orientativo al quale
gli uomini devono ispirare le loro azioni, vincendo le tendenze antisociali. In tutti gli
uomini vi è un contrasto tra la loro tendenza alla socievolezza e la tendenza
212
Conclusioni.
INDICE
Introduzione. 1
Umanesimo e Rinascimento. 3
Leon Battista Alberti 8
Nicolò Cusano. 9
Marsilio Ficino. 12
Pico della Mirandola. 14
Pietro Pomponazzi. 15
La filosofia della natura rinascimentale. 18
Bernardino Telesio. 21
Giordano Bruno. 25
Tommaso Campanella. 32
Rinascimento e politica: Machiavelli, Guicciardini, Botero,
Tommaso Moro, Jean Bodin, Ugo Grozio. 36
Il Rinascimento europeo: Montaigne, Erasmo da Rotterdam. 41
La riforma protestante e la controriforma cattolica: Lutero, Calvino. 44
La rivoluzione scientifica. 51
Copernico e Keplero. 52
Galileo Galilei. 60
Francesco Bacone. 66
Isaac Newton. 71
Razionalismo ed empirismo. 76
Cartesio. 79
L'occasionalismo. 91
Spinoza. 94
Leibniz. 107
Hobbes. 120
Locke. 128
Berkeley. 137
Hume. 141
Pascal. 149
Vico. 153
L'Illuminismo. 159
Montesquieu. 164
Voltaire. 166
Rousseau. 172
Kant. 180
1
VOLUME TERZO
INTRODUZIONE.
argomenti filosofici di volta in volta illustrati. Peraltro, e con valore facoltativo per il
lettore, ho trascritto in corsivo una serie di argomentazioni integrative, se qualcuno
avesse eventualmente intenzione di prendere conoscenza anche di esse.
Sono convinto che la chiarezza espositiva è il sistema migliore per attirare gli studenti
allo studio della filosofia, come anche coloro che, ormai adulti, intendano accostarsi
ad essa per la prima volta ovvero rispolverare le conoscenze filosofiche apprese a
scuola.
Dalla comprensibilità espositiva può nascere inoltre il piacere e il gusto stesso per la
filosofia ed il desiderio di personali ulteriori approfondimenti. Ciò sarebbe il risultato
più lusinghiero derivante da questa mia fatica, dedicata a tutti coloro che abbiano
occasione e voglia di approfittarne, essendomi preoccupato di inserire il presente
corso nella rete Web.
Dell'importanza di una chiara narrazione ho fatto personale esperienza per via di
lezioni di filosofia che ho avuto modo di impartire a giovani studenti, con risultati, mi
sia consentito dire, più che soddisfacenti.
Francesco Lorenzoni
3
IL ROMANTICISMO.
Il dualismo lasciato in eredità da Kant tra fenomeno, quale unico contenuto valido
della conoscenza scientifica, e noumeno, o cosa in sé, solamente pensabile ma non
conoscibile, scontenta numerosi seguaci di Kant stesso, in particolare Reinold,
Schulze, Maimon e Beck, e dà luogo ad un intenso dibattito volto al superamento
della contrapposizione.
Al di là delle specifiche ed individuali considerazioni, il loro comune ragionamento
è che non vi può essere distinzione tra pensabilità e conoscibilità della cosa in sé, in
quanto pensare è già conoscere: ogni realtà concepita sussiste immediatamente e
necessariamente nella coscienza come rappresentazione ed immagine mentale, per
cui non ha senso distinguere tra fenomeno interno alla coscienza e noumeno
esterno ad essa, dal momento che ciò che eventualmente fosse al di fuori della
nostra coscienza non è nemmeno pensabile. In tal senso il noumeno è solo un
concetto vuoto ed astratto che, in quanto tale, non è parte costitutiva del processo
conoscitivo e dunque non vi è alcun motivo neppure per pensarlo. Inoltre, obiettano
ancora, Kant si sarebbe contraddetto asserendo l'esistenza della cosa in sé come causa
delle nostre sensazioni poiché, in tal modo, il concetto di causa-effetto risulterebbe
applicato al noumeno stesso mentre, secondo Kant medesimo, può essere
validamente applicato soltanto ai fenomeni.
In realtà tali critiche a Kant intendono il fenomeno già come rappresentazione, come
immediato fatto di coscienza. Invece Kant non identifica il fenomeno con la
rappresentazione ma con l’"oggetto" della rappresentazione per cui, in quanto
tale, non è ancora una rappresentazione o un'idea che giace dentro la coscienza bensì
è un oggetto reale (cioè dietro ad esso vi è un oggetto concreto), anche se appreso
attraverso le forme a priori della sensibilità e dell'intelletto. Vale a dire che il
fenomeno come oggetto della rappresentazione non è per Kant direttamente
riducibile alla coscienza del soggetto.
Il suo intento è di trovare una mediazione fra criticismo kantiano (la filosofia di Kant)
e idealismo, mediazione che individua nella rappresentazione, cioè nell'atto
conoscitivo. La rappresentazione in quanto tale è distinta dal rappresentante e dal
rappresentato ed è riferita ad entrambi. Il rappresentante è il soggetto e quindi è la
forma, l’a priori; il rappresentato è l'oggetto e quindi è la materia, le sensazioni; la
rappresentazione è la loro unificazione. In tal senso, prosegue Reinold, la coscienza
nell'atto della rappresentazione supera il dualismo kantiano tra fenomeno e noumeno:
la forma (il soggetto) coincide con l'attività e spontaneità della coscienza, mentre la
materia coincide con la recettività sensoriale. Se il soggetto subisce la sensazione ciò
significa che essa non deriva dal soggetto ma dalla cosa in sé. Però la cosa in sé è per
8
sua natura non rappresentabile. Ad essa si può fare riferimento solo negativamente
(rimane cioè indeterminata), affermando solo ciò che di essa non si può predicare,
non si può dire. Il noumeno è quindi ridotto ad un negativo indeterminato, tuttavia in
Reinold la cosa in sé non è ancora totalmente eliminata.
La cosa in sé non può essere considerata fuori della conoscenza perché allora sarebbe
una non-cosa. Infatti, l'oggetto è tale solo nel momento in cui è conosciuto (ciò che
non si pensa e quindi non si consce è come non esistesse), così come il soggetto è
soggetto conoscente solo nel momento in cui conosce. Al di fuori dell'atto del
conoscere, della rappresentazione, non esiste né una coscienza in sé ne una cosa in
sé. Al di fuori della coscienza non possiamo pensare nulla. La cosa in sé, tutt'al più,
potrebbe costituire un valore limite, cui ci si approssima all'infinito ma senza
raggiungere. La nostra attività mentale è limitata, non riusciamo mai ad esaurire tutta
la realtà. Esisteranno sempre dei residui, dei dati empirici che non potranno essere del
tutto inglobati nella conoscenza. A questi residui si riduce di fatto la cosa in sé: è un
limite intrinseco alla conoscenza, senza alcun valore oggettivo; è una frontiera che il
nostro conoscere sposta sempre più avanti.
Caratteri generali.
Dogmatismo e idealismo.
Poiché la scelta a favore dell'idealismo avviene sulla base di ideali morali e di libertà,
intesa come forza d'animo rivolta a superare i limiti che via via si incontrano, quello
di Fichte è definito anche idealismo etico, in quanto più che alla conoscenza dà
importanza all'azione, all'attività pratica, cioè allo sforzo di continuo superamento
degli ostacoli. "La vera gioia, scrive Fichte, è nell'attività".
Abbiamo visto che per l'idealismo è la coscienza che produce la realtà. Fichte
chiama la coscienza, cioè il soggetto, "Io puro" o semplicemente "Io".
L'Io di Fichte e dell'idealismo in genere non va confuso con l'Io-penso di Kant.
L'Io-penso di Kant non è la realtà, la quale è costituita dai fenomeni e dai noumeni,
ma è il modo più elevato di funzionare dell'intelletto, che organizza e collega
unitariamente nel soggetto i dati sensibili percepiti (le intuizioni pure di spazio e di
tempo) e le categorie. L'Io-penso di Kant dunque non produce la realtà, bensì la
regola, l'organizza e ne consente la conoscenza scoprendone le leggi: per tale motivo
è definito "il legislatore della natura". L'Io di Fichte, e per l'idealismo in genere, è
invece il principio "creatore" della realtà, prodotta dall'Io nel momento in cui è da
esso pensata.
Inoltre, l'Io non è la coscienza empirico-individuale, che in quanto tale è finita
(nasce e muore) ma è la coscienza universale, è lo "spirito dell'umanità", è
l'intelligenza che c'è nel mondo e lo guida verso un fine, uno scopo liberamente
prescelto.
Ed ancora, mentre l'Io-penso di Kant è limitato dalle cose in sé che l'intelletto non
può conoscere, l'Io di Fichte è invece infinito perché tutta la realtà, sia finita che
infinita, deriva da lui, è da lui stesso prodotta. Per Kant la principale facoltà
conoscitiva è l'intelletto, il quale consente però una conoscenza solo fenomenica,
invece per Fichte e per l'Idealismo la principale facoltà conoscitiva è la ragione,
che è in grado di cogliere l'infinito, cioè la Totalità della realtà per deduzione da un
principio primo che non è dimostrabile, ma è intuitivo, autoevidente. Infatti un
principio, se è principio primo, non può essere dimostrato perché se lo fosse sarebbe
allora deducibile da qualcosa d'altro come sua causa e quindi non sarebbe più
"primo".
Se tutta la realtà proviene ed è prodotta dall'Io, consegue che esso è allora il
principio primo della realtà, in quanto non causato da qualcosa d'altro essendo
invece lui medesimo causa di se stesso.
L'Io, il principio primo, non è concepito come sostanza, ossia come entità statica
alla maniera di Spinoza, è concepito invece come attività, come continuo processo e
forza produttrice della realtà all'infinito. Producendo all'infinito nuove realtà e
nuove conoscenze, l'Io è pertanto infinito, è attività infinita e, nel momento in cui
pensa la realtà prodotta, l'Io la conosce. Poiché l'Io è pensiero, ciò significa allora
che al primato dell'essere, al quale dapprima si era creduto, si sostituisce il primato
del pensiero: prima c'è l'Io (il pensiero) che produce la realtà, la quale solo
14
successivamente è conosciuta dall’Io medesimo che l’ha prodotta. Ciò vuol dire
anche che l'Io non soltanto precede la realtà, cioè l'essere, ma precede anche la
conoscenza della realtà: prima c'è il conoscente (l'Io) poi c'è il conosciuto (la realtà).
Dunque l'Io di Fichte non solo supera il dualismo kantiano tra fenomeno e
noumeno, o cosa in sé (poiché nessuna cosa esiste in sé al di fuori e
indipendentemente dalla coscienza, nel senso che quando una cosa è pensata è con
ciò stesso immediatamente già conosciuta e presente nella mente e non esterna ad
essa) ma, in quanto è attività che precede la conoscenza, supera anche l'altra
distinzione kantiana tra ragione pura o teoretica, conoscitiva, e ragione pratica
(la morale): l'Io di Fichte supera cioè la distinzione tra conoscere e fare, poiché nel
fare, nel produrre la realtà, l'Io viene in tal modo anche a conoscerla.
L'io pone se stesso come fondamento di tutta la realtà conoscitiva e pratica; pone
se stesso nel senso che si presenta e si riconosce come costitutivo di tale
fondamento. Questa è la tesi, ossia il momento positivo del processo dialettico di
produzione della realtà; è, si può dire, il punto di partenza. L'Io, cioè il pensiero, la
coscienza, non può pronunciare nessuna valutazione, nessun giudizio, se dapprima
non riconosce se stesso come capacità di pensare (autocoscienza). Quindi l'Io,
pensando la realtà, la produce. La realtà viene ad esistere solo nel momento in cui è
pensata: è frutto dell'attività produttrice dell'Io.
L'Io e il non-Io sono due principi, due concetti astratti, utili a spiegare la dinamica
di fondo della realtà: sono il pensiero in generale e la natura in generale, ma in quanto
tali non costituiscono la realtà concreta (non si vedono né si toccano). Nel mondo
concreto e sensibile, in cui vivono i singoli individui, non c'è l'Io-puro, assoluto e
infinito, da una parte, e il non-Io, cioè la natura, il mondo, anch'esso illimitato,
dall'altra parte. Nella realtà concreta vi sono invece molteplici io-finiti (ossia
molteplici coscienze individuali), delimitati e quindi divisibili, che trovano di fronte
ed opposti ad essi stessi una molteplicità di non-io finiti (gli oggetti della natura),
anch'essi finiti e divisibili. Sono divisibili nel senso che sono divisi, distinti uno
dall'altro.
In Fichte l'Io risulta finito e infinito al tempo stesso: finito perché è limitato dal non-
Io; infinito perché, tuttavia, l'Io-puro non perde il suo carattere di infinità. Mentre i
singoli io-finiti nascono e muoiono, l'Io-puro, come principio primo da cui deriva
tutta la realtà, perdura nel tempo; è totalità infinita e nel tutto infinito sono
concettualmente ricompresi e assorbiti tutti gli io-finiti.
Il singolo io-finito, la singola coscienza individuale, supera progressivamente i
vari non-io finiti, costituiti dagli oggetti della natura che si oppongono e stanno
dinanzi ad esso. In tal modo l'io-finito estende sempre di più la sua conoscenza
sugli oggetti (attività teoretica, conoscitiva) ed estende altresì sempre di più la sua
16
I tre principi fichtiani dello sviluppo della realtà non vanno interpretati in modo
cronologico bensì logico. Fichte non intende dire che prima esiste l'Io infinito, poi
che l'Io oppone a sé il non-Io e che infine oppone l'io finito, ma semplicemente che
esiste un Io che, per poter essere tale, implica e deve presupporre di fronte a sé il
non-Io, trovandosi in tal modo ad esistere concretamente sotto forma di io finito.
Questa non è una novità. Ciò che Fichte vuole mettere in luce è che la natura non è
una realtà autonoma che procede indipendentemente dallo spirito, ma che esiste solo
in relazione allo spirito e quindi per l’Io e nell'Io, il quale soltanto è in grado di dare
senso alla vita e alla natura stessa, superando il limitante determinismo delle sue
leggi.
Dei due motivi, visti sopra, della produzione inconsapevole del non-Io, il più
importante per Fichte non è quello teoretico (conoscitivo) ma quello pratico-
morale: noi esistiamo soprattutto per agire nel mondo insieme agli altri uomini (cioè
per agire sul non-Io) al fine di far trionfare la libertà dello spirito sulla necessità della
materia e dei corpi materiali (regolati da leggi meccaniche e necessarie di causa-
effetto), superando progressivamente gli ostacoli che ci troviamo di fronte posti dal
non-Io. Fichte incarna in tal modo gli ideali romantici in virtù della sua filosofia
dell'infinito, dell'azione e della libertà. "Essere liberi -dice Fichte- è niente,
diventarlo è il cielo". Proprio per tale motivo, a proposito della filosofia di Fichte, si
parla di primato della ragione pratica (la morale) sulla ragione teoretica (la
conoscenza) e di idealismo etico.
Nel superare continuamente gli ostacoli che si trova davanti (gli oggetti della
natura cioè il non-Io), l'io-finito (il singolo uomo), tende sempre più verso
l'infinito, ossia verso l'Io-puro, e tanto più diventa libero, cioè indipendente dalle
tentazioni delle cose materiali e dagli egoismi nei confronti degli altri uomini,
realizzando in tal maniera se stesso. Senza ostacoli e limiti non c'è libertà, essa
consiste nel superarli.
L'Io-puro infinito, piuttosto che sostanza metafisica degli io finiti, è la méta ideale
alla quale essi tendono. L'infinito cioè, anziché consistere in una "essenza" già data e
statica è in fondo un dover essere, una missione. L'Io infinito è infatti per Fichte un
Io libero, ossia uno spirito vittorioso sui propri ostacoli e quindi privo (puro) di
limiti. È una situazione che per l'uomo rappresenta un ideale: la missione dell'io
finito, dell'uomo, è uno sforzo infinito verso la libertà, ovvero una lotta inesauribile
contro i limiti esterni della natura (gli ostacoli costituiti dalle cose che gli si
presentano davanti) e contro i limiti interni (gli istinti irrazionali e l'egoismo). È
questo il messaggio tipico della modernità: l'umanizzazione del mondo e di noi stessi.
Ovviamente questo è un compito, una missione mai conclusa, poiché se l'io-finito
(l’uomo) riuscisse d'un balzo a superare tutti gli ostacoli, non gli rimarrebbe alcun
18
compito morale da compiere e al posto della vita, che è lotta e sforzo di continuo
miglioramento, subentrerebbe la morte morale.
Nelle opere successive alla "Dottrina della scienza" Fichte tratta della morale, del
diritto e dello Stato, sviluppando il tema della libertà e dell'agire umano.
L'etica (la morale) e il diritto sorgono quando il singolo riconosce di avere di
fronte a se altri soggetti con i quali interagire per diventare egli stesso
pienamente uomo: per diventare tale ciascuno ha bisogno degli altri. Scrive Fichte
"un essere razionale non lo diventa nell'isolamento"; nell'isolamento non può elevarsi
alla libertà.
La morale, ossia il dover confrontarci con gli altri, e la libertà, consistente nel
superare gli ostacoli costituiti dagli altri e che essi ci pongono, sono un perenne
invito all'azione, al non accontentarci mai di ciò che si è e si ha. L'inattività è il
male, da cui derivano i vizi peggiori come la viltà e la falsità. In questo senso l'agire
è più importante del conoscere: la sola conoscenza non è morale. Il bene si fa, non
basta conoscerlo. È con ciò ribadito l'idealismo etico della filosofia di Fichte ed il
19
primato dell'agire sul conoscere, della ragione pratica su quella pura, teoretica.
Proprio nel progressivo superamento degli ostacoli costituiti dagli io-finiti e dai non-
io finiti consiste l'autentica libertà, poiché è in tal modo che l'uomo migliora e si
perfeziona.
La prima missione dell'uomo, e del dotto in particolare, è appunto il continuo
superamento dei limiti e degli ostacoli che la coscienza, l'Io si trova di fronte, non
solo per conoscerli e far progredire la conoscenza, ma soprattutto per estendere
sempre più la libertà della coscienza stessa sul mondo della natura e nella società. Il
dotto non devi isolarsi in una torre d'avorio e disinteressarsi di ciò che accade agli
altri e nel mondo.
Tuttavia la libertà del singolo presuppone il riconoscimento anche della libertà
degli altri, chiamati anch'essi al medesimo dovere morale che vale per il singolo.
Nasce così il diritto (le leggi) allo scopo di regolare la società e per garantire ad
ognuno la libertà nel rispetto di quella altrui e la proprietà privata. Scrive Fichte:
"Così come non posso pensarmi individuo senza contrapporre a me stesso un altro
individuo, allo stesso modo non posso pensare nulla come mia proprietà senza
contemporaneamente pensare qualcosa come proprietà di un altro"; anche il mio
diritto di proprietà, cioè, vale solo nel rispetto della proprietà altrui.
Il diritto alla libertà e alla proprietà sono per Fichte diritti naturali dell'uomo,
insiti nella stessa natura umana, che precedono in quanto tali la legge e lo Stato e che
la legge e lo Stato non possono violare.
Lo Stato è, appunto, la forza che controlla il rispetto dei diritti e dei doveri
individuali. In tal senso lo Stato non è il fine ma è il mezzo per dar vita ad una società
libera, formata da individui responsabili, e per aiutare gli uomini a socializzare, fino
al punto in cui lo Stato stesso potrebbe scomparire qualora tutti agissero moralmente.
Prioritaria è la società civile, non lo Stato.
Come si può notare, si tratta di una concezione liberale dello Stato (lo Stato come
garante della libertà dei cittadini), ispirata anche ai principi della rivoluzione
francese. Fichte condivide altresì la teoria dell'origine contrattualistica dello
Stato: lo Stato sorge in base ad un accordo, ad un contratto dei cittadini ed il suo
scopo è di educarli alla libertà.
Però, dopo la battaglia di Jena e l'occupazione napoleonica della Prussia, la
concezione dello Stato di Fichte diventa nazionalistica e autarchica (autarchia=
raggiungimento dell'autosufficienza non solo politica ma anche economica dello
Stato).
È in questa circostanza che Fichte proclama il primato della nazione tedesca, in
quanto la sua cultura e la sua lingua sono rimaste incontaminate, non mescolate con
altre culture e altre lingue.
Per salvaguardare l’autarchia dello Stato, qualora esso fosse privo di materie prime
fondamentali, allora diventa compito dello Stato medesimo svolgere direttamente il
commercio estero e non lasciarlo in mano ai singoli cittadini privati, al fine di evitare
contaminazioni dei cittadini con altri popoli e razze e di evitare anche scontri e guerre
tra gli Stati, che nascono quasi sempre a causa di contrasti tra i commercianti privati.
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Conclusioni.
La "Dottrina della scienza" di Fichte ebbe largo successo presso i romantici perché in
quell'opera ritrovavano molte delle loro aspirazioni: l'incessante tendere all'infinito; la
riduzione del non-Io a una produzione dell'Io e quindi il predominio del soggetto; la
proclamazione della libertà come significato ultimo dell'uomo e delle cose;
l'assimilazione al divino dell'agire umano (il primato del fare sul conoscere).
L'idealismo fichtiano è idealismo etico o morale non solo perché la legge morale e la
libertà sono al fondamento del suo sistema, ma anche perché sono l'elemento che
spiega la scelta che ogni uomo singolo fa delle cose e della stessa filosofia: sceglie
l'idealismo chi è libero, sceglie il dogmatismo chi dà la preminenza alle cose rispetto
al soggetto e quindi non è spiritualmente libero.
Fichte ha compiuto una svolta epocale: contro la vecchia metafisica dell'essere o
dell'oggetto ha proposto una nuova metafisica del soggetto e dello spirito libero,
capace di trovare in se stesso, assecondando le proprie migliori inclinazioni, il
significato dell'esistenza e la propria missione nel mondo: la missione del dotto vuole
essere esemplare per ogni uomo.
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Studia teologia Tubinga, dove diventa amico Hoelderlin e di Hegel, col quale in
seguito entrerà però in polemica. Si reca a Jena per seguire le lezioni di Fichte. Entra
in rapporto con Goethe. Nel 1814 occupa a Berlino la cattedra che era stata di Hegel
per guidare l'opposizione alla filosofia hegeliana. Muore in Svizzera dove si era
trasferito per motivi di salute.
Opere principali: Idee per una filosofia della natura; Sistema dell'idealismo
trascendentale; Bruno o il principio divino e naturale delle cose.
Lo sviluppo del pensiero di Schelling può essere suddiviso in sei fasi:
1. l'iniziale momento fichtiano;
2. la fase della "filosofia della natura";
3. periodo dell’"idealismo trascendentale";
4. lo stadio della "filosofia dell'identità";
5. il periodo "teosofico" e della "filosofia della libertà";
6. la fase della "filosofia positiva" e della "filosofia della religione".
scorgere a prima vista nella natura, nella materia, una essenza spirituale, ma se si
riflette in profondità ci rendiamo conto che anche la natura possiede una propria
autonomia, razionalità e creatività; ci rendiamo conto che la natura è un
organismo vivente dotato di spiritualità.
Dunque il principio primo non può essere l'Io di Fichte, che riduce la natura
soltanto a proprio prodotto passivo.
Fichte delimita il principio primo esclusivamente all'Io soggettivo, ma tale
soggettivismo non può essere assoluto perché bisogna che vi sia anche un oggetto.
Anche per Schelling il principio primo è spirito, tuttavia non può manifestarsi
esclusivamente nel soggetto poiché permea, riveste di sé anche l'oggetto prodotto.
D'altro canto, neppure la sostanza oggettiva di Spinoza può spiegare da sola
l'origine dell'intelligenza e dell'Io. Per Spinoza la sostanza è l'infinito, il Tutto che
contiene e rende comprensibile ogni realtà individuale. Ma la sostanza infinita di
Spinoza è realtà oggettiva, è cioè cosa in sé, è principio ed entità esterna al
pensiero, non è il pensiero il quale, come res cogitans, è solo un attributo della
sostanza che comprende anche, quale ulteriore attributo, la res extensa, ossia la
materia. Quella spinoziana è una concezione che l'idealismo non può accettare in
quanto, per esso, la sostanza non può essere statica, bensì infinita attività creatrice e
spirituale, senza attributi di carattere materiale nonché interna alla coscienza e non
già cosa in sé esterna, dall'idealismo superata.
Né l'Io come spirito puramente soggettivo né la natura possono essere il
principio primo: esso deve essere piuttosto individuato in una realtà, che
Schelling chiama l’"Assoluto" (dal latino ab-solutus, che significa sciolto da
legami e da condizionamenti, che è cioè al di sopra di qualsiasi limite e quindi è
principio e causa prima). Dall'Assoluto derivano sia lo spirito sia la natura, sia il
soggetto (il pensiero) sia l'oggetto (la natura). Essendo costituiti della medesima
essenza, spirito e natura hanno pari dignità, pari valore: anche la natura è essa
stessa intelligente, pur se in modo inconsapevole ed inconscio. Essendo sia lo
spirito che la natura, entrambi, sua manifestazione, l'Assoluto è perciò definito come
"identità indifferenziata di spirito e natura", di soggetto e oggetto, di ideale e di
reale, di conscio e di inconscio. Di per sé dunque l'Assoluto non è né ideale né reale
(materiale), ma spirito e natura, idealità e realtà, sono aspetti particolari della totalità
indifferenziata dell'Assoluto. Esso è il principio primo che spiega sia i fenomeni
dello spirito sia quelli della natura e della materia. Contrariamente a Cartesio e
secondo l'impostazione idealistica, la materia (la natura) non è definita in
contrapposizione allo spirito (res extensa contro res cogitans), in quanto è essa
stessa, inconsapevolmente, intelligente. Quale principio primo l'Assoluto è
intuibile ma non dimostrabile, poiché, come più volte già rilevato, se fosse
dimostrabile deriverebbe da una causa preesistente ed allora non sarebbe più causa
prima e principio primo.
Il riconoscimento del valore autonomo della natura e la tesi dell'Assoluto come
unità-identità indifferenziata di natura e spirito, conducono Schelling a individuare
due ambiti di ricerca filosofica:
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contraddizione sarà superata da Hegel, il quale afferma che l'Io e il non-Io, cioè lo
spirito e la natura sono reali, ossia si realizzano ed esistono, solo nelle loro sintesi
specifiche, nelle loro determinazione finite, vale a dire nei singoli pensieri e nelle
singole cose. Al di fuori delle loro sintesi specifiche e determinazioni finite, l'Io e il
non-Io, lo spirito e la natura hanno valore puramente ideale, astratto e logico-
concettuale, conservando quindi in tal modo, in opposizione al finito, la dimensione
dell'infinito, in quanto tale distinto e perciò senza contraddizioni rispetto ai singoli
pensieri e cose reali, che dell'infinito sono manifestazioni ma non differenziazioni.
Anche la natura, come l'Io di Fichte, è attività continua e spontanea (libera), che
realizza se stessa producendo una serie infinita di creature. Così come l’Io di Fichte si
realizza opponendo il non-Io a se stesso, anche la natura realizza e sviluppa se stessa
in base a due forze contrapposte: la forza di attrazione e la forza di repulsione.
I fenomeni naturali avvengono per attrazione, cioè per combinazione fra di essi di
elementi diversi: nella fisica l'attrazione tra elementi diversi è la forza o legge di
gravitazione universale; nella chimica l'attrazione tra elementi diversi è l'affinità (la
somiglianza) fra elementi.
Per converso, i fenomeni naturali cessano a causa della forza di repulsione che
separa gli elementi che prima erano uniti.
Considerando la lotta tra le opposte forze di attrazione e di repulsione dal punto di
vista del rispettivo prodotto, sono possibili tre casi: che le forze siano in equilibrio e
si hanno allora i corpi non viventi; che l'equilibrio venga rotto e sia ristabilito e si ha
allora il fenomeno chimico; che l'equilibrio non venga ristabilito e che la lotta delle
forze sia permanente e si ha allora la vita (in natura la vita e la morte si succedono
ciclicamente).
Schelling descrive lo sviluppo della storia della natura secondo tre livelli
chiamati "potenze":
1. il livello del mondo inorganico, costituito dalla materia primitiva ancora
oscura;
2. il livello della luce, in cui la natura si rende visibile a se stessa;
3. il livello del mondo organico, in cui si trovano le piante e gli animali, che sono
dotati di sensibilità che è già una prima forma di spiritualità e di autocoscienza,
ed in cui si trovano anche gli uomini, nei quali la spiritualità e l'autocoscienza
raggiunge il grado più alto.
I tre livelli o potenze non vanno considerati in senso cronologico come successivi uno
all'altro, bensì in senso logico-ideale come coesistenti e simultanei nella complessiva
organizzazione della natura.
Complessivamente, la natura si configura quindi come uno spirito inconscio,
pietrificato, in moto verso la coscienza, cioè come un processo in cui si ha una
progressiva smaterializzazione della materia e un progressivo emergere dello
spirito. Lungo il percorso che va dai minerali all'uomo la natura appare, dice
Schelling, come la "preistoria dello spirito".
Schelling definisce la propria filosofia della natura come "fisica speculativa" o
"a priori". Intende dire che, mentre i singoli fenomeni naturali si conoscono solo a
posteriori, cioè in base all'esperienza, invece la spiritualità e il finalismo immanenti
nella natura non si conoscono a posteriori bensì a priori, indipendentemente
dall'esperienza, mediante la speculazione (il ragionamento) filosofica e la deduzione,
che fanno derivare la natura dal medesimo Assoluto da cui deriva anche lo spirito.
Fichte fa sorgere la natura immediatamente dall'Io, dall'immaginazione produttiva,
vale a dire dalla forza inconscia dell'Io. Schelling condivide questo operare privo di
coscienza ma lo trasferisce nella realtà oggettiva: il principio che opera nella natura
non è l'Io ma viene a trovarsi fuori di esso, è esterno alla coscienza derivando
direttamente dall'Assoluto. Si tratta tuttavia di un principio pur sempre spirituale e, in
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Nella filosofia della natura Schelling ha mostrato come la natura diventa spirito, cioè
come l'intelligenza inconsapevole che agisce dentro la natura stessa, attraverso livelli
o "potenze" sempre più elevati (mondo inorganico, mondo della luce e mondo
organico), diventa gradualmente nell'uomo intelligenza consapevole, ossia spirito
cosciente o coscienza (natura come spirito visibile).
L'idealismo trascendentale è il reciproco della filosofia della natura; è l'altra
faccia della stessa medaglia. In esso Schelling mostra come lo spirito diventa
natura, ovviamente non in senso materiale ed effettivo bensì figurato, ossia nel
senso che lo spirito cosciente giungere a scoprire come la propria essenza
spirituale sia la medesima di quella della natura (spirito come natura invisibile).
Punto di partenza dell'idealismo trascendentale o filosofia trascendentale è
l'autocoscienza dell'Io, ossia la coscienza che l'Io ha di se stesso; è il proprio sentirsi
e riconoscersi da parte dell'Io che, in quanto tale, è atto di intuizione immediata e
non di dimostrazione; è un sentire e non comprendere dimostrativo.
Nell'idealismo trascendentale Schelling traccia una specie di storia dell'Io, cioè del
soggetto, per mostrare come esso, attraverso tre fasi o "epoche" di sviluppo,
diventa gradualmente consapevole (la coscienza dell'Io diventa autocoscienza) che
esso è anche natura, cioè che la propria spiritualità ha la medesima essenza della
spiritualità della natura.
Le tre fasi o "epoche" di sviluppo dell'Io (della coscienza) sono:
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1. la sensazione, in cui l'Io considera la natura come una realtà che appare ancora
distinta, separata e indipendente dall'Io stesso;
2. la riflessione, in cui l'Io giunge a capire, riflettendo, che la realtà e le cose
della natura diventano comprensibili e conoscibili in quanto diventano
l'oggetto della sua propria coscienza; mentre nella sensazione l'Io sta da una
parte e le cose sono dall'altra, con la riflessione si stabilisce un rapporto fra la
coscienza dell'Io e le cose della natura che, come in Kant, vengono conosciute
attraverso le forme a priori della sensibilità (tempo e spazio) e dell'intelletto (le
dodici categorie);
3. la volontà, in cui l'Io diventa autocoscienza, ossia si rende conto che tutta la
natura è il prodotto della volontà di un'intelligenza, di uno spirito
inconsapevole che è dentro la natura stessa e la cui essenza spirituale è pari alla
sua, per cui si può dire allora che lo spirito diventa natura.
Si può notare che le tre fasi o "epoche" di sviluppo dell'Io (della coscienza)
corrispondono ai tre livelli o "potenze" dello sviluppo della natura:
1. la sensazione corrisponde al livello del mondo inorganico;
2. la riflessione corrisponde al livello del mondo della luce;
3. la volontà corrisponde al livello del mondo organico ed in particolare a quello
dell'autocoscienza dell'essere più elevato della natura che è l'uomo.
Si è già precisato che nella denominazione di "idealismo trascendentale" il termine
trascendentale significa che l'Io (la coscienza) si trova davanti gli oggetti della
natura, inconsciamente prodotti dall'Io stesso, i quali sono inizialmente avvertiti come
distinti e separati da esso e costituiscono quindi un limite, un ostacolo, che però l'Io
poi trascende, ossia supera, sia dal punto di vista teoretico (conoscitivo) nel senso che
giunge a conoscerli, sia dal punto di vista pratico nel senso che li utilizza e li
modifica a proprio vantaggio (le cose della natura sono oggetti di cui l'uomo si
serve); in tal modo l'Io realizza sempre più pienamente se stesso.
Nell'epoca della "volontà" l'Io si riconosce come a priori in quanto giunge a
comprendere che le cose della natura sono prodotte indipendentemente
dall'esperienza, sia pur in maniera inconscia, dal proprio spirito medesimo la cui
essenza è la stessa dello spirito della natura. Ma nulla in noi, quali io finiti, è a
priori, bensì solo a posteriori poiché siamo inconsapevoli dell'attività produttiva
dello spirito. Solo con l'astrazione trascendentale, cioè con la filosofia, diveniamo
consapevoli della a priorità dell’Io e prendiamo coscienza dell'idealità del limite,
ossia che il limite (la natura) quale l'Io cosciente trova davanti a sé è un prodotto
dello spirito, dell'Io medesimo.
Dunque, nell'Io esistono due attività: una reale e una ideale. L'attività reale è
inconscia e consiste nel fatto che l'Io, quale infinita attività produttrice, si realizza
producendo la natura, ossia opponendo a sé il non-Io, vale a dire che oppone a se
stesso gli oggetti della natura i quali rappresentano per esso altrettanti limiti e
ostacoli: in tal senso l'attività reale dell'Io, definisce Schelling, è "limitabile"
(limitata dagli oggetti). L'attività ideale è invece consapevole e consiste nella
conoscenza e nella pratica, cioè nel conoscere e nel modificare ed utilizzare
indefinitamente sempre di più gli oggetti della natura che l'Io si trova di fronte: in tal
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Se la composizione del contrasto tra libertà e necessità che si determina nello spirito
o coscienza collettiva avviene nella storia, la storia non è però in grado di
comporre (risolvere) l'opposizione fondamentale tra spirito e natura. Tale facoltà
è invece individuata da Schelling nell'arte, la quale indica come al fondo dello
spirito e della natura operi un medesimo principio, quello della bellezza. La bellezza
rappresenta la conciliazione tra spirito e natura, tra infinito e finito, tra conscio e
inconscio. L'intuizione estetica propria dell'arte porta a compimento la speculazione
filosofica.
Si è visto che l'Assoluto è per Schelling unita indifferenziata di natura inconscia e di
spirito conscio e consapevole. Non è perciò possibile cogliere l'Assoluto né mediante
l'inconscio (l'istinto), il mistico o l'irrazionale, né attraverso la pura razionalità (la
filosofia). Per cogliere l'Assoluto occorre un'attività in cui i due aspetti dell'Assoluto
stesso, natura e spirito, siano presenti e al tempo stesso superati, cioè ricondotti a
sintesi: tale attività è l'arte.
La natura è prodotta in modo inconscio dallo spirito; lo spirito, o coscienza, conosce
attraverso il sapere (la scienza e la filosofia) ciò che lo spirito ha inconsciamente
prodotto come natura: l'arte supera la stessa filosofia nel cogliere l'Assoluto e la
sua essenza profonda di unione indifferenziata di spirito e natura.
Infatti, fa presente Schelling: l'artista opera consapevolmente, ma
contemporaneamente l'ispirazione artistica sorge dall'inconscio, sembra
provenire dall'esterno, dalla natura stessa. Perciò l'opera d'arte è effettivamente
sintesi di conscio e inconscio, cioè di spirito e natura. In essa, assai più che nella
natura o nell'attività dello spirito (cioè nel sapere e nella conoscenza), si rivela ed è
presente l'Assoluto infinito.
In tal modo è anche superato il residuo noumenico che permaneva in Fichte, in
quanto rappresentava l'Io-puro infinito come un limite al quale, mediante il
superamento degli ostacoli costituiti dal non-Io-natura, ci si avvicina sempre di più
ma non si raggiunge mai. L'arte coglie invece completamente l'Assoluto e il suo
carattere infinito.
L'arte è un produrre naturale in modo spirituale o un produrre spirituale in modo
naturale. È funzione conoscitiva superiore a quella della stessa filosofia poiché
coglie ed esprime anche il lato inconscio, mentre il filosofo non può che esprimere
quello cosciente, per cui Schelling auspica che sia la filosofia e sia le scienze, una
volta raggiunta la loro pienezza, possano ritornare alla poesia da cui erano uscite,
facendosi di nuovo mito come erano nell'antichità.
Per la prima volta l'arte, in conformità al sentimento romantico, viene così ad
assumere un significato centrale nella storia della filosofia: l'arte è posta al
vertice della conoscenza e l'idealismo di Schelling si configura anche come
idealismo estetico.
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Mentre in precedenza Schelling era partito dalla natura e dallo spirito presenti nel
mondo in modo finito e relativo per giungere poi, mediante la speculazione (il
ragionamento) filosofica a risalire all'Assoluto concepito come infinito e quale
origine stessa della natura come dello spirito, nell'ultimo periodo della sua
produzione filosofica parte invece dall'Assoluto per poi ridiscendere e cercare di
spiegare come dall'unità infinita e indifferenziata dell'Assoluto derivino gli enti
spirituali del mondo (cioè il sapere e le conoscenze umane) e le cose della natura
che, al contrario, sono entrambi finiti e fra di essi differenziati.
La vera difficoltà per Schelling non è comprendere l'infinito e la totalità unitaria
dell'Assoluto (se l'Assoluto è il Tutto da cui deriva ogni cosa, allora in esso tutto è
unitariamente ed infinitamente presente in potenza: il passato, il presente e il futuro
ed ogni cosa). La vera difficoltà è quella di capire e di spiegare come mai
dall'Assoluto, che è uno, indifferenziato e infinito, ossia, si può dire, è Dio
(peraltro un Dio filosofico immanente e non trascendente e non già il Dio delle
religioni positive), possano nascere derivare le cose e il sapere del mondo, che
sono invece molteplici, diversi e finiti, e come mai dall'Assoluto, che è eterno,
possa sorgere il tempo in cui è collocato il mondo e che, in quanto tale, non è eterno
avendo avuto un inizio ed essendo destinato ad avere una fine. In altri termini,
Schelling affronta il problema, che da sempre ha interessato la filosofia, di come
mai da Dio, che è tradizionalmente pensato come perfezione assolutamente completa
in sé, che non abbisogna di nulla, e che è concepito altresì come assoluto bene, derivi
il mondo ed anche il male che c’è nel mondo.
A questo problema cerca di rispondere nell'opera "Bruno (il filosofo del
Rinascimento) o il principio divino e naturale delle cose". In quest'opera Schelling
tratta della "filosofia dell'identità" perché il punto di partenza, come già detto, è
l'identità indifferenziata di spirito e natura che caratterizza l'Assoluto. Con tale
opera inoltre inizia la cosiddetta fase "teosofica" o della "filosofia della libertà"
di Schelling. Teosofia significa la filosofia su Dio considerato come immanente che
si distingue perciò dalla teologia che è la filosofia su Dio considerato come
trascendente.
Per spiegare come il mondo derivi da Dio-l'Assoluto Schelling, data la sua
concezione di Assoluto, non può accettare le spiegazioni tradizionali quali il
creazionismo cristiano, l' emanazionismo neoplatonico, il panteismo tradizionale.
Non accetta il creazionismo cristiano, ossia la tesi di un Dio-persona creatore del
mondo, perché il creazionismo, pensando Dio come entità da sempre perfetta, non
riesce a spiegare come e per quale motivo il Dio-Assoluto e perfetto possa sentire il
bisogno di creare il mondo e le cose del mondo imperfette e finite. Il creazionismo
inoltre non può attribuire il male del mondo a Dio in quanto perfetto e perfettamente
buono, perciò considera il male nel mondo come non-essere, come semplice
mancanza di essere, cioè come mancanza di qualcosa, vale a dire come mancanza di
perfezione .Ma considerare il male come semplice mancanza di essere non
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costituisce per Schelling una spiegazione sufficiente dell'esistenza del male nel
mondo e della possibilità-libertà dell'uomo di scegliere tra il male e il bene.
Non accetta l'emanazionismo neoplatonico (ad esempio quello di Plotino), ossia la
tesi di un Dio che è così sovrabbondante e pieno di essere al punto tale che non può
essere contenuto, per cui il mondo sorge a causa dell'eccesso di essere che sfugge dal
centro divino, in quanto anche l' emanazionismo non riesce a spiegare, per Schelling,
come dal Dio perfetto possa derivare il mondo imperfetto.
Non può accettare neppure il panteismo tradizionale, come quello di Spinoza, ossia
la tesi dell'identità Dio-mondo (Dio è dentro il mondo e lo anima dal di dentro, per
cui tutto il mondo è, nel fondo, Dio stesso) perché il panteismo classico è basato su di
un concetto di Dio inteso come sostanza statica, come entità da sempre perfetta e
quindi immutabile, e non invece come attività e slancio creativo, per cui nemmeno il
panteismo tradizionale riesce a spiegare il passaggio dal Dio infinito al mondo finito,
né spiega l'esistenza del male, che infatti riduce ad apparenza.
Il passaggio dall'infinito al finito, cioè del perché e del modo in cui da Dio infinito e
perfetto possa derivare il mondo finito, imperfetto ed in cui vi è anche il male, è
spiegato da Schelling secondo una tesi nuova e originale, in base a cui l’origine
del mondo finito e del male non sono il risultato di un passaggio bensì (come per
altro verso inteso nell’antica concezione gnostico- mistica) di una “caduta”, di una
rottura e di un salto dall’Assoluto infinito, o Dio, nel mondo della finitezza.
Ogni essere, rammenta Schelling, può rivelarsi e distinguersi dagli altri esseri
solo per mezzo del suo contrario: l'amore solo per mezzo dell'odio, la giustizia per
mezzo dell'ingiustizia, ecc.
Quindi anche l'infinito, cioè l'Assoluto-Dio, può rivelarsi e distinguersi solo per
mezzo del suo contrario, per mezzo del finito, cioè il mondo, precisando peraltro che
dall'infinito al finito non vi è passaggio se non a patto di ammettere che il finito, in
qualche modo, è già in Dio. Ma il finito può essere nell'Assoluto, in Dio, solo a
patto di esservi in modo infinito ed eterno, ossia al di fuori dello spazio e del
tempo. Di conseguenza anche in Dio, ossia nell'Assoluto, convivono eternamente
e da sempre, i contrari; anche l'essenza di Dio è costituita dall’opposizione di
infinito e finito, positivo e negativo.Il positivo è razionalità, libertà, amore; il
negativo è irrazionalità, necessità, egoismo.Il negativo e il finito costituiscono una
sorta di fondo oscuro ed inconscio presente in Dio.
Altrettanto Dio, che è sommo bene, può rivelarsi e distinguersi solo per mezzo
del male. Perciò in Dio coesiste anche il male.
Schelling respinge le concezioni astratte di Dio, come quelle di "essere purissimo" o
come quella moralistica kantiana e fichtiana, che vede in lui solamente l'ordinamento
morale del mondo. Per Schelling Dio è ben di più: è persona e vita. Pertanto deve
avere in sé anche i caratteri contraddittori della vita e della personalità, essendo la
vita contrasto di istinto egoistico e volontà razionale ed implicando la personalità
un'origine e un divenire, ossia uno sviluppo. In quanto vita, cioè essere vivente, Dio
non è solo bene e razionalità ma anche volontà oscura, anche male; ed in quanto
personalità, Dio non è solo spirito statico da sempre perfetto, ma è un Dio dinamico,
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che si perfeziona nel divenire, che ha una sua storia e un suo sviluppo insieme con lo
sviluppo del mondo.
In questo quadro Dio non è dunque un'entità statica e perfetta da sempre ma è
una realtà in divenire, in progressivo sviluppo, in origine anche imperfetta, che
si perfeziona e si realizza gradualmente. Lottando contro il suo lato oscuro,
contro il suo fondo maligno (cioè contro l'irrazionalità, l'egoismo e il male
coesistenti in lui), Dio si oppone ad esso, lo fa cadere (il tema della “caduta”) e lo
respinge “inconsciamente” nel mondo creando il mondo stesso, ossia il finito. Il
finito, cioè il mondo, è il mezzo della purificazione divina. Dio si realizza, si
purifica del fondo oscuro e si perfeziona man mano che si sviluppa la natura, il
mondo e la storia del mondo. In particolare, Dio si purifica purificando il
mondo, agendo sulla materia che costituisce il mondo per organizzarla e
purificarla sempre di più e condurla alla coscienza (abbiamo infatti visto come il
mondo, ossia la natura, giunga attraverso i suoi tre livelli di sviluppo dalla materia
inorganica a quello organica e quindi, con l'uomo, giunga infine alla coscienza e
all'autocoscienza), creando così le condizioni per la progressiva affermazione,
anche nel finito e nel mondo, della libertà sulla necessità, della razionalità
sull'irrazionalità, dell'amore sull'egoismo, del bene sul male.
Secondo Schelling, solo questa concezione dinamica di Dio può spiegare l'origine
del mondo e del finito dall'infinito. Infatti la produzione del finito e del mondo
sgorga dall'inconscia volontà di Dio di purificarsi del suo fondo oscuro e rappresenta
un momento necessario della vita di Dio medesimo (dell’Assoluto), che non può
perfezionare se stesso se non attraverso la derivazione e la “caduta” del finito e del
mondo dall'infinito divino. Dio, purificandosi, getta continuativamente ed
inconsciamente nel finito e nel mondo il suo fondo oscuro e maligno (giacché, si è
visto sopra, esso è eternamente coesistente in lui), predisponendo peraltro anche le
condizioni per la progressiva purificazione del mondo e del finito medesimi
(rappresentando il finito l'imperfezione e il male che c'è nel mondo).
Pertanto Dio è al tempo stesso origine del bene e radice del male. Il male radicale,
che Kant aveva dichiarato inesplicabile, è da Schelling ancorato metafisicamente alla
stessa essenza di Dio: strettamente connesso al bene, ne diviene la condizione di
possibilità, in quanto il bene può realizzarsi solo nella vittoria sul male e tale lotta
si sviluppa già nella vita stessa di Dio.
Il male viene eternamente superato e vinto da Dio, viene cacciato fuori da lui nel
mondo in un processo senza fine. L'imperfezione, il male non è dunque qualcosa
di assolutamente negativo e insuperabile: nel combatterlo e nel superarlo, il
male diventa strumento di purificazione e di redenzione. Così è in Dio e così può
essere anche per l'uomo:dipende dalla sua libertà e volontà di scelta.
Anche l'uomo è fatto contemporaneamente di attività conscia e inconscia. Anche
nell'uomo vi è un fondo oscuro e maligno, anche la sua vita è lotta per raggiungere
un grado sempre più elevato di coscienza.
Tuttavia, mentre la volontà di purificazione è elemento costititivo ed imprescindibile
dell'essenza di Dio, nell'uomo invece la compresenza di perfettibilità ed imperfezione,
di bene e male non sono fattori di imprescindibile volontà di purificazione. In Dio
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bene e male sono strettamente uniti poiché la lotta contro il male e la vittoria su di
esso compongono la stessa essenza divina; nell'uomo invece perfettibilità ed
imperfezione, bene e male sono separabili, in quanto la libertà umana è altresì
capacità di opporsi alla scienza e alla conoscenza così come alla perfezione e al
bene.
Anche per l'uomo il male, se viene combattuto e superato, diventa strumento ed
occasione di redenzione e purificazione. Se invece non viene contrastato o
addirittura viene prescelto, il male è allora responsabilità dell'uomo e diventa
sua colpa.
La filosofia positiva.
parte di Dio, l'idea che il mondo ha un ordine, ecc., ossia tutte idee cui la ragione può
giungere naturalmente senza bisogno di una rivelazione divina.
Poi Dio non si manifesta più nella natura ma in se stesso, nella sua libertà creatrice e
specifica personalità, costituita da bontà, onnipotenza, onniscienza, ecc. Sorge allora
la religione rivelata: Dio rivela gli uomini, attraverso i profeti, chi egli sia, quali
siano i suoi attributi e quale sia il destino degli uomini.
Schelling pertanto distingue tra una "filosofia della mitologia" e una "filosofia
della rivelazione". Quando Dio si manifesta nella natura (filosofia della mitologia) si
manifesta come necessità: la necessità delle leggi della natura. Quando si manifesta e
si rivela in se stesso (filosofia della rivelazione) si manifesta come libertà, come
essere che produce liberamente il mondo e lo indirizza verso un fine.
In tal modo Schelling vuole conciliare la libertà e la necessità che sussistono nel
mondo.
Quest'ultimo intento di Schelling non è tuttavia interpretabile come recupero del
teismo e della trascendenza del Dio-persona delle religioni positive, bensì come
sforzo di conciliare l'umano e tradizionale sentimento religioso-finalistico della
trascendenza divina con l'atteggiamento idealistico della derivazione del mondo
dall'Assoluto e dell'immanenza della divinità nel mondo. Il suo sforzo è quello di
mediare ragione e libertà, necessità e finalità, però non in termini dualistici (come in
Kant) ma come due aspetti di una medesima realtà che è articolata sull'alternarsi di
momenti liberi e momenti necessari. Non uno o l'altro, ma lo sforzo di integrazione
tra filosofia negativa, costruita per intero sulla ragione e sulla necessità delle sue
leggi logiche, e filosofia positiva, costruita, oltre che sulla ragione, sul mito, sulla
religione e sulla rivelazione, quali dall'Assoluto stesso fatti presentire.
Conclusioni.
Un giudizio sulla filosofia di Schelling non è facile a causa dei frequenti mutamenti
di indirizzo e di interessi. La sua filosofia della natura fu prontamente e largamente
recepita dai romantici, come pure fu accolta con favore la sua filosofia estetica.
Minor considerazione ebbe invece il suo pensiero più maturo e tardivo. La fortuna di
Schelling andò via via declinando mentre saliva l'astro di Hegel. Forse Schelling è
stato il pensatore che meglio di tutti ha dato voce alle inquietudini romantiche, a quel
tendere senza posa, a quel continuo "sorpassarsi", a quella incessante mutevolezza di
temi, tralasciando i prodotti delle concezioni via via elaborate per cercarne sempre di
nuove.
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Le opere giovanili.
Chiese hanno invece costruito una religione positiva dominata da dogmi rigidamente
fissati e da precetti del tutto esteriori, facendo sparire così il sentimento religioso
profondo del divino, che non può essere vissuto se non soggettivamente
nell'interiorità di ciascuno.
Alle origini dello spirito del cristianesimo gli Ebrei hanno pensato Dio
contrapponendolo alla natura: Dio è tutto, l'uomo e la natura sono niente. Per tale
motivo gli Ebrei hanno scelto di vivere in inimicizia con la natura e in ostilità con gli
altri popoli. Il loro Dio è "geloso": ogni rapporto di amicizia con gli altri uomini è
giudicato in contrasto con il rapporto di fedeltà esclusiva dovuta al loro Dio,
implicando inoltre un'indebita commistione con gli dei di altri popoli. Il popolo
eletto è solo quello ebreo.
Gesù ha rifiutato, col suo avvento, la scelta esclusivista del suo popolo e ha
predicato la legge dell'amore universale. La figura di Gesù appare a Hegel
vicina al mondo greco, che ha fatto una scelta diametralmente opposta a quella
ebraica. I Greci hanno vissuto il loro rapporto con la natura in spirito di bellezza,
in sereno accordo con essa.
Tuttavia tanti i Greci quanto Gesù sono stati storicamente sconfitti. Le Chiese
moderne, anche quelle nate dalla riforma protestante, sono condannate perché
pensano di Dio come lo pensavano gli Ebrei. Occorre quindi una nuova religione e
un nuovo messaggio d'amore.
In seguito, peraltro, Hegel non si attende più che il rinnovamento dello spirito e dei
popoli nasca dalla religione, ma dall'evoluzione storica e dalla filosofia, in quanto
capace di pensare razionalmente il corso del mondo.
Tre sono i presupposti, ossia le concezioni fondamentali, che stanno alla base della
filosofia di Hegel:
1. il carattere globale della realtà e la risoluzione (l'assorbimento) del finito
nell'infinito;
2. la dialettica, che è sia il metodo, la legge con cui spiegare la realtà, ma è
anche la struttura stessa della realtà, il modo in cui la realtà è costituita;
3. il principio dell'identità tra razionale e reale.
La realtà, afferma Hegel, non è fatta di sostanze (enti, cose) tra di esse distinte e
separate, ma è costituita dalla totalità degli enti, i quali tutti insieme costituiscono
un organismo ed un sistema globale unitario. Nessuna cosa è definibile e
conoscibile solo in se stessa bensì in relazione con tutte le altre cose e soprattutto
con il loro opposto. Ad esempio, il bene si definisce in contrapposizione al male; il
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moto lo supera producendo una nuova determinazione, una nuova entità. Ogni ente è
così solo un momento, una tappa della totalità della realtà e del suo sviluppo. Per ciò
stesso, appunto, l'ente finito di per sé non esiste, è provvisorio, instabile, giacché è
continuamente trasformato nel corso dell'ininterrotto processo di produzione della
realtà nella quale lo Spirito assoluto progressivamente si manifesta.
Anche per Hegel, come per i filosofi dell'idealismo tedesco in generale, lo Spirito
assoluto infinito non è trascendente bensì immanente nel mondo: è, si può dire, lo
Spirito dell'umanità, il suo sapere ed il suo fare complessivi; è l'Intelligenza
complessiva che sta dentro il mondo e ne guida lo sviluppo per realizzare in tal modo
anche se stessa.
Se la realtà vera è l'intero, la totalità, l'unione di finito e infinito, allora la filosofia
non deve occuparsi di aspetti particolari ma deve essere un sistema globale,
capace di ricomprendere ogni aspetto, finito e infinito, della realtà. Quindi i
fenomeni contingenti (che possono o non possono sussistere o accadere) e
accidentali (secondari) non possono essere oggetto della filosofia, essendo solo
illusione e apparenza, fugace caducità. La filosofia deve invece giungere a
comprendere ciò che è essenziale, fondamentale; deve saper cogliere l'assoluto,
ciò che è sostanziale, immutabile ed eterno quale viene a manifestarsi, attraverso una
serie infinita di forme e di gradi, in ciò che è temporale e transitorio. Ossia deve
comprendere che il fondamento e il principio della realtà è lo Spirito assoluto,
che è attività incessante che si realizza e si manifesta producendo, trasformando ed
assorbendo continuamente in sé gli enti finiti, tutti collegati fra di essi e tutti
partecipi dello Spirito assoluto medesimo.
Per Hegel quindi l'infinito (lo Spirito assoluto) non è inconoscibile come per Kant,
ma anzi è l'unica autentica realtà che la ragione, cioè la filosofia, è in grado di
cogliere. Sappiamo che per Kant, invece, la facoltà che presiede la conoscenza è
l'intelletto e non la ragione perché essa pretende di andare oltre la conoscenza
fenomenica per cogliere le realtà assolute e l'infinito. La logica kantiana
dell'intelletto, ovvero il suo modo di procedere, consiste nell'applicazione delle
categorie ai dati sensibili per giungere discorsivamente, cioè in modo graduale ma
progressivo, mai comunque totale e definitivo, ad allargare sempre di più le
conoscenze fenomeniche e i concetti appresi, singolarmente e separatamente
considerati. Tale logica, secondo Hegel, ha valore negativo a causa del carattere
rigido, isolato e separato dei concetti, inadeguati in quanto tali ad esprimere la
totalità e l'essenza infinita della realtà. Convinto, contrariamente a Kant, che la
ragione sia in grado di conoscere scientificamente l'Assoluto, cioè la totalità del
reale, per Hegel allora la filosofia non può che avere la forma del sistema, ossia di
una trattazione globale in tutte le sue articolazioni.
In tal senso Hegel critica le filosofie precedenti.
Critica l'Illuminismo e il razionalismo di Kant, perché basano la conoscenza non
sulla ragione ma sull'intelletto, il quale però non coglie, non riesce a comprendere la
totalità infinita della realtà, la coincidenza e l'unità del finito con l'infinito, in quanto
l'intelletto procede per concetti rigidi, che distinguono e separano gli enti finiti, i
fenomeni, e non si accorge che essi sono invece tutti collegati fra loro e sono infine
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collegati con l'infinito. Solo quella dell’Assoluto, della Totalità, è per Hegel la
realtà autentica (e non la semplice realtà fenomenica come per Kant): niente vi è al
di fuori di essa e della coscienza assoluta. La filosofia illuministica e kantiana è
valutata come filosofia del finito mentre quella di Hegel vuole essere filosofia
dell'infinito.
Critica anche i romantici, i quali hanno sì avvertito l'esigenza di pensare la realtà
come assoluta, come totalità e quindi come infinita, ma però hanno ingenuamente
ritenuto di poter cogliere l'infinito per intuizione immediata, in un colpo solo, e non
gradualmente, seguendo passo per passo tutte le tappe attraverso cui l'infinito, lo
Spirito assoluto, si manifesta e si realizza.
Accusa Fichte perché concepisce l'infinito come méta ideale, come limite al quale
progressivamente ci si avvicina sempre di più però senza mai raggiungerlo e
coglierlo pienamente. In particolare, dice Hegel, Fichte non ha capito l'unità che
sussiste tra finito e infinito; non ha capito che l'infinito non è al di là, oltre il finito,
ma che invece è quella totalità nella quale stanno anche gli enti finiti, i quali sono
continuamente in essa assorbiti. Perciò, commenta Hegel, quello di Fichte è un
"cattivo infinito".
Critica altresì Schelling, perché ha concepito l'infinito (l'Assoluto) come unità
indifferenziata di spirito e natura, di ideale e reale, di soggetto e oggetto, per cui non
si capisce come da questa unità indifferenziata possano derivare gli enti finiti, cioè le
cose del mondo che sono invece molteplici e fra di esse differenziate. L'Assoluto
indifferenziato di Schelling, dice Hegel, è un concetto oscuro, buio come la notte,
nella quale "tutte le vacche sono nere" e non cosente, perciò, di cogliere le
differenze. Anche Schelling non ha capito che l'unità di fondo della realtà non è tra
spirito e natura ma tra finito e infinito e che questa unità va individuata nei singoli
enti finiti in cui l'infinito si manifesta e si realizza e che continuamente riassorbe in
sé. Per Hegel il vero, cioè la realtà autentica, il fondamento, non è l'Assoluto in
sé, tantomeno quello indifferenziato di Schelling, ma è l'Assoluto nel suo divenire,
nel suo sviluppo. Affermare che il vero è l'intero, che cioè la realtà va considerata nel
suo sviluppo, significa allora che l'Assoluto è il risultato e non il principio di tale
sviluppo. In tal senso l'Assoluto non è unità indifferenziata, al contrario contiene in
sé tutto le differenze, cioè tutte le serie dei singoli eventi e delle singole cose
concrete e particolari attraverso cui l'intera realtà si è sviluppata e viene a
svilupparsi. L'assoluto indifferente di Schelling invece, obietta Hegel, annulla le
determinazioni (le specifiche differenze) e la ricchezza della realtà. Per conoscere lo
Spirito assoluto è dunque necessario procedere per gradi, seguendo i successivi
passaggi e momenti in cui lo Spirito, l'infinito, si realizza sempre di più producendo
gli enti finiti e riassorbendoli in sé: a tale scopo è necessario un metodo conoscitivo
e questo metodo è la dialettica.
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È il terzo presupposto della filosofia di Hegel che egli esprime con la celebre frase:
"Tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale".
Questa espressione non significa semplicemente che la realtà può essere spiegata
con la ragione ma significa molto di più: ossia che la ragione non è solo una
facoltà conoscitiva con la quale si cerca di comprendere la realtà, ma che è altresì
l'essenza della realtà, cioè la forma stessa della realtà, la struttura della realtà.
Ciò vuol dire che la realtà, quale essa è, è proprio come dovrebbe essere: non vi
è differenza fra essere e dover essere della realtà. Perciò, conclude Hegel, la
realtà va compresa così come è e non servono né le arti né i sentimenti né le morali
che ci dicano come invece la realtà dovrebbe essere.
Pertanto il compito della filosofia non è di cambiare e trasformare la realtà, il
mondo, bensì di comprenderlo nella sua razionalità di fondo. Anzi, afferma Hegel,
la filosofia arriva sempre troppo tardi, quando ormai la realtà è già compiuta,
per cui non resta che prenderne atto. Dice Hegel con un paragone famoso, "La
filosofia è come la nottola (la civetta) di Minerva che si alza in volo la sera,
quando la giornata è ormai finita".
Affermando che il reale è sempre razionale, la filosofia di Hegel può apparire
come una giustificazione di fatto, programmatica, della realtà, anche negli
aspetti più crudeli, dolorosi e ingiusti. In tal senso è stato anche criticato ed
accusato di essere un conservatore, giustificando ogni aspetto della realtà.
Bisogna tuttavia precisare che per Hegel non tutti gli aspetti della realtà sono da
accettare e da giustificare. I fatti accidentali e contingenti non rientrano nel
principio dell'identità tra razionale e reale, non rientrano nella razionalità perché
tali fatti non modificano la struttura di fondo della realtà. La struttura di fondo della
realtà è invece costituita dalla sua essenza di fondo, dal suo processo dialettico di
sviluppo nonché dai suoi aspetti logici e sostanziali costitutivi: sono questi gli
elementi che Hegel identifica come sempre razionali (ad esempio le istituzioni
sociali, lo Stato, ecc.), mentre i fatti accidentali e contingenti possono benissimo
essere anche irrazionali.
Hegel è consapevole che la conoscenza non può partire dall'Assoluto, dalla causa e
principio primo, in quanto non è immediatamente conoscibile; alla conoscenza
dell'Assoluto si deve giungere invece gradatamente, partendo dalle conoscenze più
immediate, finite e particolari.
44
I fondamentali aspetti della realtà, vale a dire quelli della globalità del reale,
dell'unità e coincidenza tra finito e infinito, della struttura e dello sviluppo dialettico
della realtà, dell'identità di razionale e reale, sono descritti da Hegel in due modi:
1. Come storia romanzata dello sviluppo (del cammino) della coscienza e
della conoscenza umana, che attraverso tappe successive, chiamate anche
"figure", da coscienza individuale primitiva ed empirica giunge a diventare
autocoscienza e poi ragione, cioè coscienza assoluta, la quale arriva a
comprendere che la realtà non è fatta di enti fra di essi separati ed esterni alla
coscienza, ma che sono invece tutti collegati in un'unica totalità, non estranea
ma interna alla coscienza stessa, nel senso che la realtà e gli enti della realtà
non sono veramente qualcosa d'altro (antitesi) rispetto alla coscienza bensì
(nella sintesi) sono sue manifestazioni e realizzazioni, sono un suo prodotto
(non esiste alcuna realtà al di fuori della coscienza; ogni cosa esiste solo se è
pensata e presente nella coscienza); questo primo modo di descrivere la
realtà è quello che Hegel ha seguito nell'opera "La fenomenologia dello
spirito".
2. Come descrizione e rappresentazione sistematica, articolata in tutte le sue
parti, della complessiva struttura della realtà, costituita da successivi
schemi triadici (viene cioè descritta la struttura della realtà secondo le
fondamentali e principali successioni di tesi, antitesi e sintesi conseguenti una
all'altra); questo secondo modo di descrivere la realtà è quello che Hegel ha
seguito nell'opera "L'enciclopedia delle scienze filosofiche".
Il primo modo è di tipo storico: Hegel descrive la storia, lo sviluppo storico della
coscienza e della conoscenza umana; il secondo modo è di tipo sistematico: Hegel
descrive il sistema complessivo, cioè la complessiva struttura secondo cui la realtà è
costituita.
45
3. ragione in sé e per sé, sintesi: scopre l'armonia e l'unità fra uomo e natura e
scopre le leggi dialettiche della realtà; scopre che la coscienza è artefice,
contenitore e contenuto di tutta la realtà, in quanto niente esiste al di fuori
della coscienza stessa; realizza in tal modo l'unità tra finito e infinito e diventa
coscienza assoluta assumendo in sé ogni realtà; rimane tuttavia una coscienza
individuale e perciò inadeguata, che non riesce ad uscire da se stessa e
diventare oggettiva, cioè coscienza sociale, collettiva.
Nella prima parte della Fenomenologia la coscienza, ancorché divenuta
ragione, seguita ad esprimere punti di vista sulla realtà che rimangono
prevalentemente individuali, quindi relativi e non ancora universali, oggettivi.
Se ci si pone dal punto di vista dell'individuo si è inevitabilmente condannati a non
raggiungere mai l'universale; esso si trova solo nella fase dello "spirito", cioè in
quella che, nella Enciclopedia delle scienze filosofiche, Hegel e nominerà "Spirito
oggettivo", intendendo che la ragione si realizza concretamente nelle istituzioni
storico-politiche di un popolo e soprattutto nello Stato. La ragione autentica non è
per Hegel quella dell'individuo, ma quella dello spirito oggettivo, in particolare
dello Stato, che dello spirito oggettivo è la più alta manifestazione storica.
L'oggettivazione della coscienza, ossia il passaggio da coscienza individuale a
coscienza collettiva, viene descritto nella seconda parte della Fenomenologia
dello spirito, in base alla triade fondamentale: 1) spirito, tesi (coscienza sociale,
collettiva, che si identifica quindi con la storia dell'umanità); 2) religione, antitesi; 3)
sapere assoluto. L'oggettivazione della coscienza ed il suo successivo divenire
coscienza e conoscenza dell'Assoluto è peraltro meglio descritto nella
Enciclopedia delle scienze filosofiche, alla cui relativa esposizione si fa pertanto
rinvio.
Per una configurazione schematica generale delle fasi o figure in cui si svolgono le
principali serie triadiche di tesi, antitesi e sintesi, attraverso le quali procede la storia
della coscienza e della conoscenza umana, si può ricorrere ad un qualsiasi manuale
scolastico.
Le più importanti e famose figure della Fenomenologia dello spirito sono, come
preannunciato, quelle del "rapporto servo-padrone" e della "coscienza infelice".
Entrambe sono tappe dello sviluppo dell'autocoscienza.
La coscienza infelice.
Quando nel prosieguo del suo cammino storico la coscienza giunge a concepire
l'infinito, che identifica in Dio, si rende conto che essa è invece finita, mortale e
imperfetta. Aspira all'infinito ma sente che ciò è impossibile. La coscienza avverte
che c'è un insuperabile contrasto tra Dio, infinito, ed essa stessa, finita ed imperfetta.
È questa la figura della "coscienza infelice": è infelice perché si sente limitata,
inadeguata, imperfetta. Questa figura caratterizza in particolare il mondo
medievale, in cui l'uomo è considerato un peccatore che deve espiare i propri peccati
nella fatica e nella sofferenza in questa terra, concepita come una "valle di lacrime".
Ma, si può dire, la coscienza infelice simboleggia e riassume il senso di tutta la
Fenomenologia dello spirito: è infelice perché nella maggior parte dei casi, ed
ancor oggi, la coscienza non è capace di diventare ragione; si sente limitata e non
sa ancora comprendere di essere tutta la realtà e di coincidere quindi con Dio e con
l'infinito. Solo la coscienza di chi sa pensare filosoficamente può diventare
ragione e comprendere di essere stessa, come Spirito dell'umanità, la vera realtà
infinita.
Mentre la figura del servo-padrone ha particolarmente ispirato la filosofia di Marx e
dei marxisti, la figura della coscienza infelice ha soprattutto ispirato gli esistenzialisti
e la loro filosofia (l'esistenzialismo), volta a riflettere sulla condizione finita e limitata
dell'esistenza umana.
49
mondo, per cui tutti i momenti della logica sono anche elementi della metafisica
dell'ontologia.
2) Ma l'Idea in sé, cioè la pura capacità di pensare, essendo attività deve poter agire,
deve cioè pensare qualcosa, ossia opporre a se stessa qualcosa di diverso da sé per
farne oggetto del proprio pensiero. Si ha così la fondamentale antitesi che è l'Idea
fuori di sé, la quale produce e si manifesta nella natura, fatta oggetto del suo
pensiero. L'Idea produce il mondo acquisendone coscienza. Il mondo dunque sta
sempre dentro la coscienza, quindi non è realtà autentica ma apparenza, è ciò che
appare alla coscienza ed è da essa prodotto ("prodotto", si rammenta, da intendersi in
senso figurato più che materiale).
3) Quando infine l'Idea si accorge che la natura non è veramente qualcosa di diverso e
di distinto da se stessa, ma costituisce invece insieme con essa una totalità infinita, si
giunge alla sintesi suprema che è l'Idea che ritorna a sé: l'idea, dopo essere uscita
fuori di sé nella natura, negli enti finiti, ritorna a se stessa come coscienza e spirito
dell'umanità: dapprima nello Spirito soggettivo, cioè la coscienza individuale; poi
nello Spirito oggettivo, cioè la coscienza collettiva, che si realizza nella società e
nella storia umana e soprattutto nello Stato; infine diventa Spirito assoluto, che
contiene in sé tutta la realtà, scoprendo che tutti gli enti finiti, quelli della natura ma
anche della storia, del pensiero e della conoscenza umana, sono collegati tra loro e
con l'infinito stesso di cui fanno parte. A questo punto il processo dialettico termina
per ricominciare da capo ad un livello superiore.
L'idea in sé, l'idea fuori di sé e l'idea che ritorna a sé sono, rispettivamente, la
tesi, l'antitesi e la sintesi fondamentali, quelle di base, ma ognuna si suddivide a
sua volta in innumerevoli tesi, antitesi e sintesi particolari.
uno svolgimento più profondo dell'empirismo, rimprovera che, dopo aver fatto
dell'Io-penso (la coscienza) il legislatore della natura, lascia tuttavia sussistere sullo
sfondo il mistero della cosa in sé, ritenuta inconoscibile. La logica inoltre non ha per
Hegel una funzione critica, cioè di analisi, come in Kant, ossia non è un metodo
bensì è scienza e conoscenza dell'Assoluto.
Il terzo tipo di logica criticata è quella della filosofia della fede (il fideismo
romantico) che ha il merito, contro ogni scetticismo, di "saltare dal pensiero
all'essere", cioè di voler cogliere e comprendere l'essenza infinita di fondo della
realtà, ma ha il demerito di ritenere che ciò sia possibile per intuizioni immediata, in
un colpo solo, mediante il sentimento o la fede. Per Hegel invece, come si è visto,
l'infinito è colto dalla ragione non per intuizioni immediata ma solo gradualmente,
ripercorrendo tutti i passaggi, ogni singola manifestazione con cui lo Spirito si
realizza nel mondo e nella storia umana. Inoltre, per Hegel il pensiero non è distinto
dalle cose ma si identifica con la struttura stessa della realtà (identità di razionale e
reale), la quale non può essere oggetto di fede o sentimento ma di conoscenza
razionale, filosofica.
Per Hegel la logica non può limitarsi solo allo studio delle leggi del pensiero: non è
soltanto metodo. Invece, posta l'identità di razionale e di reale, cioè di pensiero ed
essere, la logica è sia la legge del pensiero ma sia anche il contenuto del pensiero. I
concetti non sono soltanto regole del pensiero o suoi modi di funzionare (come le
forme a priori di Kant), ma hanno carattere di realtà, sono entità, essenze, sostanze
reali costitutive di tutti gli enti. Quindi la logica è anche metafisica, o meglio
ontologia (scienza dell'essere, cioè della realtà). Possedendo identica struttura,
pensare ed essere coincidono ed altrettanto vi è coincidenza tra metafisica-ontologia
e logica: il pensiero, cioè la coscienza, è in tal senso il luogo, l'orizzonte in cui
l'essere (lo Spirito) si rivela e si manifesta. Il pensiero, realizzando se stesso, realizza
per ciò stesso il proprio contenuto, per gradi e livelli sempre più elevati lungo i
movimenti dialettici triadici, fino all'unità con l'infinito, con l'Assoluto.
Per Kant la struttura dell'oggetto della conoscenza (il fenomeno) dipende dal
soggetto, ossia dai modi di funzionare dell'intelletto che sono costanti in ogni
soggetto. Hegel ritorna alla metafisica-ontologia classica, alla corrispondenza, anzi
all'identità tra pensiero e realtà. Ma, tenendo conto degli sviluppi kantiani, si rifiuta
di fondare la corrispondenza di pensiero ed essere (realtà) sul primato dell'essere
(per cui, come diceva Tommaso, sarebbe il pensiero ad adeguarsi alla realtà:
"veritas est adaequatio rei ad intellectus"). Altrettanto si rifiuta di fondare la
corrispondenza di pensiero ed essere sulla priorità del pensiero: riconosce piuttosto
tra pensiero ed essere un'identità perfetta.
È stato già sottolineato che per Hegel, posta l'identità di reale e razionale, la logica
non è solo un metodo per studiar la realtà ma è anche il modo in cui, nella
propria essenza di fondo, la realtà è fatta, è strutturata, perciò coincide con la
metafisica sia come ontologia (scienza dell'essere) sia come teologia, tuttavia non
trascendente bensì immanente.
52
(nuove sintesi) dall'incessante attività dello Spirito. Proprio perché sono finiti,
contingenti e provvisori, cioè sono fenomeni, tali enti finiti, benché necessari nel
processo dialettico come indispensabile antitesi, non costituiscono la realtà
autentica e non possono essere l'oggetto autentico della filosofia: sono soltanto
illusione e apparenza, anche se, sia pur come apparenza, la natura è comunque
anch'essa una realtà. La natura, il finito, è un insieme di puri accidenti (aspetti
secondari) passeggeri, mentre la realtà autentica è lo Spirito assoluto, la Totalità, che
di volta in volta assorbe e ricomprende in sé tutti gli enti finiti (la vera realtà è l'unità
di finito e infinito).
La caratteristica fondamentale della natura è l'esteriorità, l'apparenza esteriore,
l'essere "altra cosa" rispetto all'Idea. La natura è la realtà più lontana dal pensiero, di
cui è negazione-contrapposizione (antitesi). La natura come materia è in qualche
misura una sorta di decadenza dell'Idea, ciò in analogia altresì con l'attuale teoria
della materia come decadimento dell'energia che all'Idea può per taluni aspetti essere
assimilata. Hegel (e l'idealismo in genere) non nega l'esistenza della materia (la
natura è realtà apparente ma è comunque una realtà), nega però l'autonomia della
materia, della natura, che è esteriorità, un derivato dello Spirito. Hegel non dimostra
un particolare interesse per la natura, come invece Schelling e la gran parte dei
romantici. Proprio perché è il regno dell'accidentale e del contingente, la natura non
è da divinizzare e nemmeno da considerare una via privilegiata per la conoscenza
della realtà più autentica. Per Hegel è assurdo voler conoscere Dio dalle opere
naturali, in quanto le più basse manifestazione dello Spirito servono meglio allo
scopo. Anche i fenomeni più grandiosi della natura sono frutto di una necessità
inconsapevole, di cui la natura non ha coscienza. Rispetto ad essi anche le più misere
azioni degli uomini sono superiori, perché derivano da atti coscienti e liberi. Persino
il male degli uomini è superiore agli eventi naturali perché è un atto di libertà, di
libera scelta, anche se sbagliata e colpevole.
Hegel non pone la natura allo stesso livello dello Spirito ma la considera nettamente
inferiore. Essa infatti, per Hegel, è una manifestazione puramente esteriore
dell'Idea, caratterizzata dalla dispersione e dall'accidentalità. Tant'è vero che i suoi
momenti dialettici non trapassano uno nell'altro ma permangono uno accanto
all'altro, pur disponendosi in una gerarchia di gradi di perfezione sempre maggiore.
Nella natura dunque, secondo Hegel, non c'è evoluzione, cioè passaggio
dall'inferiore al superiore, ma solo gradualità come in Aristotele. Tra i diversi gradi
della natura non esiste evoluzione sul piano dell'essere (passaggio al grado
superiore): ogni specie è in sé fissa e immodificabile come tutto ciò che è nella
spazialità, e la natura è lo spazializzarsi dell'Idea.
Similmente ad Aristotele, Hegel nella sua filosofia della natura non si limita a tener
conto dei risultati delle scienze naturali, ma va oltre perché pretende di giungere a
conoscere l'essenza, il significato, il senso intimo delle realtà naturali, non
accontentandosi della concezione galileiana, cartesiana e newtoniana della natura,
matematico-quantitativa e meccanicistica. Anziché quantitativa, la fisica di Hegel,
come appunto in Aristotele, è soprattutto qualitativa e teleologico-finalistica.
55
soggettivo, poi nell'unità con gli altri, nelle istituzioni sociali e nello Stato, come
Spirito oggettivo, infine, quale sintesi di questi due momenti, come Spirito assoluto,
che è la consapevolezza complessiva dell’umanatà, l'insieme della conoscenza
umana; è l'Idea che si riconosce come tale e conosce tutto l'esistente (tutta la realtà)
nel suo svolgimento e nel suo percorso (nel suo divenire) avendone consapevolezza.
Secondo le espressione variamente usate da Hegel, Spirito oggettivo e umanità
sembrano coincidere, però in termini solo esemplificativo-figurativi: in effetti, se lo
Spirito si manifesta nelle istituzioni sociali e nella storia e si rivela nell'umanità,
tuttavia non coincide con essa.
Lo Spirito soggettivo ed oggettivo costituiscono lo Spirito finito; lo Spirito
assoluto costituisce lo Spirito infinito, che scopre l'unità, la coincidenza di finito e
infinito.
Di seguito sono brevemente illustrati, uno per uno, lo Spirito soggettivo, lo Spirito
oggettivo e lo Spirito assoluto.
La famiglia è l'istituzione in cui l'individuo vive una prima forma di eticità, ossia di
vita e di morale collettiva, annullando a favore della famiglia stessa e l'egoismo
personale. Valore fondamentale assume l'educazione dei figli, che garantiscono, nel
diventare adulti, la fondazione di nuove famiglie.
L'insieme delle famiglie degli individui costituisce la società civile. In essa si
attua però anche lo scontro, la contrapposizione di opposti interessi particolari,
che provocano conflitti economici e di classe sociale. Nella società la convivenza
non deriva da un sentire comune, da una socievolezza naturale, ma dalla
convenienza.
I conflitti economici di classe sociale trovano soluzione nello Stato, concepito
come una grande famiglia allargata.
Il passaggio dalla società civile allo Stato avviene attraverso un processo di
formazione dell'individuo che in un certo senso ne cambia la natura. Nonostante il
prevalere dei particolarismi, nella società civile il singolo avverte che tutti i settori
sociali sono comunque in rapporto reciproco e oggettivo. Questo sentire si presenta
in un primo tempo come semplice mezzo per il soddisfacimento di bisogni
individuali, ma in seguito questo sentimento si eleva e diventa un sentire comune.
Lo Stato è il regolatore della convivenza sociale, indirizza gli interessi particolari,
spesso contrapposti, verso il bene comune. Per Hegel lo Stato non nasce per
garantire i diritti, spesso egoistici, degli individui: quindi non è fondato sul
"contratto sociale", come per le teorie contrattualistiche; non è uno strumento al
servizio dei cittadini, ma al contrario sono i cittadini ad essere al servizio dello
Stato. Al di fuori dello Stato i cittadini sono soltanto una realtà caotica e disordinata.
Per Hegel dunque la sovranità dello Stato non deriva dal popolo (contratto sociale)
o dalla volontà generale di Rousseau, ma deriva dallo Stato medesimo, poiché,
secondo Hegel, lo Stato è la più alta manifestazione dello Spirito oggettivo nella
storia umana che, proprio attraverso lo Stato, persegue il bene universale. Come
manifestazione più elevata dello Spirito nella storia, lo Stato incarna lo spirito (la
cultura) di un popolo e della sua storia.
Coerentemente con la tesi dell'identità di reale e di razionale, Hegel definisce lo
Stato come "cosa razionale in sé ". La filosofia non deve porsi nella prospettiva di
delineare uno Stato ideale, bensì considerare lo Stato come effettivamente è per
coglierne la razionalità e la ragion d'essere. Solo lo Stato infatti, e non improbabili
utopie, rappresenta l'oggettivazione dello Spirito e la razionalità dell'Idea che si fa
storia.
Non ha senso chiedersi chi debba fare la costituzione (il contratto sociale). Una
costituzione non è mai stata fatta da nessuno, ma è solo il risultato dello
svolgimento dello Spirito; è il risultato storico di un popolo perché in essa si
manifesta lo spirito di quel popolo. Il contratto vale solo nell'ambito del diritto
privato. Se la costituzione fosse l'espressione di un contratto, di un patto tra
individui, avrebbe un carattere convenzionale, contingente. Essa deriva invece in
modo necessario dallo sviluppo storico del popolo. Non esprime un accordo bensì
una totalità etica ( Stato etico).
59
Non esistono per Hegel diritti naturali di cui i singoli individui siano portatori. Il
diritto si costituisce solo nell'ambito della società o, più precisamente, nell'ambito
dell'eticità. Si tratta chiaramente di una posizione antigiusnaturalista, contraria
cioè alla teoria dei diritti naturali. Peraltro, Hegel è molto più attento dei
giusnaturalisti al diritto consuetudinario, cioè non scritto ma derivante dai costumi.
I giusnaturalisti negavano che i costumi fossero una fonte del diritto in quanto a-
razionali, non razionali. Per Hegel invece anche il costume è espressione dello
spirito di un popolo nel quale, come pure nei relativi costumi, lo Spirito viene a
manifestarsi.
Diversa dai giusnaturalisti è anche la concezione hegeliana del rapporto tra
individuo e società. Nei primi prevale una concezione individual-liberale della
società, intesa come aggregato di individui che hanno in sé, indipendentemente
dalla sussistenza o meno di istituzioni sociali e di un diritto positivo, inviolabili
diritti naturali e valori morali individuali. In Hegel, vicino in ciò al concetto di
volontà generale di Rousseau, prevale invece una concezione organicistica: lo
Stato, in quanto totalità, è la vera realtà dell'eticità e i singoli individui ricevono
diritti e possiedono valori soltanto in quanto membri di esso. La dottrina dello Stato
di Hegel da un lato pone le basi per il riconoscimento della forza della "cultura"
sociale e popolare, dall'altro per interpretazioni totalitaristiche.
Come si può notare, il modello di stato presentato da Hegel non è un modello di
Stato liberale o democratico come oggi si intende poiché, in quanto manifestazione
dello Spirito, la sovranità dello Stato non può provenire dal popolo. Però, secondo
Hegel, lo Stato, pur ricevendo la propria sovranità non dal popolo ma direttamente
dallo Spirito, proprio per questo non è uno Stato dispotico perché agisce ed opera in
base alla legge (Stato di diritto), legge che, se non è l'espressione (il prodotto) della
volontà popolare, è assai di più espressione dello Spirito medesimo, da cui deriva
l'autentica "anima" del popolo.
Per Hegel la forma migliore di Stato è la monarchia costituzionale, che prevede la
divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) ma non una partecipazione
dei cittadini al potere se non indirettamente, attraverso le associazioni sociali e le
corporazioni.
Lo Stato è autonomo e non può esistere per Hegel un organismo sovranazionale
(come ad esempio, oggi, l'O.N.U.) che possa giudicare uno Stato e i conflitti fra
gli Stati. Infatti per Hegel lo Stato, essendo una diretta realizzazione dello Spirito,
che già di per sé è quindi razionale, non può essere sottoposto a giudizio da nessuno.
Solo la storia, in cui lo Spirito si realizza, seleziona i popoli e gli Stati attraverso
la guerra: lo Stato che prevale dimostra la propria superiorità su quello che perde;
le guerre sono perciò considerate il motore della storia perché la rendono dinamica,
ne consentono lo sviluppo.
I rapporti esterni tra gli Stati non possono dunque essere regolati, secondo Hegel, da
un diritto internazionale fondato sul diritto naturale, perché non esiste alcun diritto
se non quello interno dello Stato.
Il vero protagonista della storia è lo Spirito oggettivo, concepito come "Spirito
del mondo", che si incarna di volta in volta in un popolo il quale, anche
60
attraverso la guerra, prevale e domina sugli altri. Quando tale popolo avrà compiuto
la propria missione, ossia sarà giunto al suo declino, allora lo Spirito del mondo lo
abbandonerà e si incarnerà in un altro popolo e così via.
La teoria hegeliana dello Stato è la massima esaltazione dello Stato nazionale
(nazionalismo) ed è stata perciò anche criticata, specialmente quando Hegel
afferma sia l'indipendenza dello Stato dai principi della morale, sia l'inesistenza di
un diritto internazionale, sia la giustificazione della guerra come fattore di sviluppo
sociale e storico.
Inoltre lo Stato, come realizzazione dello Spirito nella storia dei popoli, che in
quanto tale esprime e rappresenta il carattere e la mentalità di un popolo, ha il
compito di regolare non solo la convivenza pubblica, la vita sociale, ma anche la
stessa vita individuale, anche i pensieri e le opinioni dei singoli individui. In tal
senso assume la forma di "Stato etico", che pretende di dirigere anche gli
atteggiamenti e comportamenti privati (come lo Stato ideale di Platone o come gli
Stati di tanti filosofi utopisti). Ma il rischio di uno Stato etico è quello di
diventare uno Stato totalitario, che vuole regolare tutto, sia la vita pubblica sia la
vita privata degli individui, limitando la stessa libertà individuale di pensiero e di
parola.
D'altronde Hegel non poteva concepire lo Stato in modo diverso poiché esso, quale
più elevata manifestazione dello Spirito razionale, non può avere limiti né l'obbligo
di rispettare le idee dei singoli individui o dei singoli gruppi sociali.
La storia umana, per Hegel, è sempre guidata dallo Spirito, anzi è il luogo e lo
strumento mediante cui lo Spirito oggettivo realizza se stesso. Hegel ha dunque una
concezione finalistica della storia: la storia non è uno svolgersi casuale di
avvenimenti ma ha uno scopo, un fine preciso, ossia quello della piena realizzazione
dello Spirito oggettivo nello Stato. La storia pertanto è un processo razionale
anche se non si tratta di un progresso lineare, come per gli illuministi, bensì di
un progresso dialettico, comprendente cioè momenti negativi (le antitesi). Questi
sono ciò che comunemente chiamiamo male, che però è solo apparente poiché è in
realtà finalizzato alla realizzazione di un bene maggiore.
Lo Spirito oggettivo, operando nella storia, si serve di individui eccezionali (ad
esempio Alessandro Magno, Cesare, Napoleone, ecc.) attraverso i quali realizza se
stesso. Tali individui credono con le loro azioni di realizzare i propri progetti, ma in
realtà sono strumenti di cui lo Spirito si serve per realizzare il suo proprio progetto:
in questo senso Hegel parla di "astuzia della ragione" (dello Spirito).
Il fine ultimo della storia, si è detto, è la piena realizzazione della libertà dello
Spirito, nel senso che sceglie liberamente i modi in cui realizzarsi nella storia, e tale
libertà si realizza essenzialmente nello Stato.
61
Lo Spirito assoluto.
Questi tre momenti dialettici non si differenziano per il loro contenuto, per il loro
oggetto, poiché tutti e tre hanno per oggetto l'Assoluto, cioè l'Infinito, ma si
differenziano per il modo in cui ognuno rappresenta l'Assoluto: l'arte lo
rappresenta come intuizione sensibile; la religione come rappresentazione; la
filosofia come puro concetto.
L'arte.
La religione.
La filosofia.
contemporanea sono quelli relativi alla dialettica (la realtà concepita come
continuo movimento, come continuo divenire e sviluppo triadico di tesi, antitesi e
sintesi), alla razionalità della realtà e della storia, alla conciliazione e unità
dell'uomo con la Totalità e l'Infinito attraverso i momenti e le forme di sviluppo
dell'eticità.
Oltre che sui discepoli (destra e sinistra hegeliana) l'influenza di Hegel è stata
profonda su Marx, sul neo-idealismo italiano (Croce e Gentile) sul neo-marxismo,
sulla cosiddetta "Scuola di Francoforte".
Per reazione, Hegel influenzò anche quanti ne contestarono il sistema e che,
rovesciandone i principi razionali e dialettici, hanno dato origine all'irrazionalismo,
come Schopenhauer e Kierkegaard.
65
Nel primo Ottocento la filosofia di Hegel diventa quella prevalente. Non mancano
tuttavia, seppur minoritari, filosofi contemporanei ad Hegel, in particolare
Schopenhauer e Kierkegaard, che reagiscono e si oppongono alla filosofia hegeliana.
A differenza di Hegel, tali filosofi sostengono che non è vero che lo sviluppo e il
divenire e della realtà sia sempre razionale, poiché spesso è invece irrazionale ed
ingiusto. Perciò la realtà non va sempre giustificata ma bisogna anche cambiarla e
migliorarla. L'ottimismo e la visione finalistica di Hegel circa la storia come continuo
progresso non corrisponde sovente alla realtà effettiva.
Affermano che la filosofia non deve occuparsi di concetti generali ed astratti, quali i
concetti hegeliani di Idea o Spirito, ma che deve occuparsi soprattutto delle
condizioni di vita dei singoli individui concreti, degli uomini reali e non della
generica umanità. L'Idealismo, con la sua concezione astratta di unità tra finito ed
infinito, non riuscirà mai a spiegare la vita, l'ansia e l'angoscia, l'insicurezza e la
sofferenza del singolo e concreto individuo finito esistente. Al contrario di Hegel, il
finito non è considerato connesso all'infinito: tra finito ed infinito permane una
differenza, un contrasto insuperabile.
66
Scopo della filosofia deve essere allora quello di rendere l'uomo consapevole
dell'infelicità dell'esistenza ed indicargli le vie, i modi della salvezza, cioè i modi in
70
cui potersi liberare dalla dipendenza dall'irrazionale e crudele volontà universale del
mondo.
Se l'essenza della realtà e dell'esistenza è tale volontà irrazionale e crudele, allora il
suicidio potrebbe sembrare il rimedio al male della vita. Però il suicidio, in questo
caso, non è la negazione della vita, non è il desiderio di non vivere più ma il desiderio
di vivere invece una vita diversa, senza noia e senza dolore: quindi il suicidio non
sconfigge l'irrazionale volontà di vivere.
La salvezza, cioè il rimedio, può avvenire in altri modi: ci si può liberare dal dolore
della vita causato dall’irrazionale e crudele volontà di vivere e di dominio solo
con la negazione della volontà di vivere, passando dalla volontà alla "nolontà"
(in latino "noluntas"), come chiamata da Schopenhauer, ossia al rifiuto di una vita
basata sull'impulso, sulla forza irrazionale e malvagia della volontà universale. Tale
salvezza è possibile per tre vie, per tre modi diversi: 1) attraverso l'arte; 2) attraverso
la pietà, che Schopenhauer chiama l'etica della compassione; 3) attraverso l'ascesi o,
appunto, la nolontà (non volontà).
L'arte.
2. attraverso la carità, intesa, ad un livello più alto, come volontà di fare il bene
degli altri, che è il contrario dell'egoismo che caratterizza la volontà di vivere.
Ma anche nella compassione, nella giustizia e nella carità rimane ancora un
attaccamento alla vita, se non alla nostra a quella altrui, attaccamento che va
eliminato per non offrire alcuna occasione di rivincita alla volontà di vivere. Il
traguardo vero non è solo quello della liberazione dall'egoismo e dall'ingiustizia
della vita, ma quello della totale liberazione e distacco dalla stessa volontà di
vivere. Si passa perciò alla terza via, al terzo modo di salvezza.
L'ascesi o nolontà.
Il vero distacco dalla volontà di vivere, cieca e prevaricatrice, si raggiunge solo
con l'ascesi (elevarsi al cielo), intesa come rinuncia ad ogni desiderio, ad ogni
egoismo, ad ogni volontà. L’asceta è colui che vive senza desiderare di vivere,
distaccato completamente dalla vita terrena. Secondo le filosofie orientali, che
hanno influenzato Schopenhauer, si giunge all'ascesi attraverso la meditazione, la
povertà, la castità ed attraverso il rifiuto di ogni piacere della vita. Ebbene, quando
l'uomo non vuole più niente, e giunge dunque alla nolontà, allora avrà sconfitto
la volontà di vivere. Quando l'asceta giunge a contemplare il mondo come un puro
nulla (il nirvana delle filosofie orientali), allora la volontà di vivere viene annullata.
Per Schopenhauer dunque l'ascesi non è immedesimarsi in Dio ma è totale negazione
del mondo; il suo è un misticismo ateo.
Se infatti la volontà di vivere si manifesta nel mondo, di cui essa è l'essenza, ad essa è
allora impedita ogni manifestazione qualora il mondo sia concepito come un nulla. Il
pessimismo di Schopenhauer giunge così a conclusioni di "nichilismo" (dal latino
"nihil" che significa nulla: il mondo non è niente, non è nulla, cioè non vale niente),
nichilismo che sarà poi ripreso, in forma diversa, dal suo discepolo Nietzsche.
In verità, la teoria orientalista dell'ascesi costituisce la parte più debole del pensiero
di Schopenhauer. Infatti, se la volontà di vivere si identifica con la struttura
metafisica (l'essenza) del reale, anzi con l'assoluto infinito stesso, come si può
ipotizzare il suo annullamento da parte dell'asceta? In che modo la volontà, la cui
essenza è appunto il volere, ad un certo momento può essere in grado di non volere e
di non far più prevalere se stessa? Inoltre, la fuga ascetica dalla vita è sempre un
atto individuale che contrasta con l'ideale etico della compassione verso il prossimo.
Conclusioni.
Il pessimismo e la filosofia di Schopenhauer non furono accettati ed ebbero poco
successo nella prima metà dell'Ottocento, allorquando prevaleva l'ottimismo della
filosofia idealistica. La sua influenza si fece sentire dopo, con la caduta delle illusioni
che avevano fatto sperare nelle rivoluzioni del 1848 e col diffondersi di un nuovo
clima culturale.
In campo filosofico l'influenza di Schopenhauer è presente in Kierkegaard ed ancor
più in Nietzsche per quanto riguarda la tematica del nichilismo. Influenzò anche
Bergson, Wittgenstein, Heidegger e Horkheimer. Ma la sua influenza si estese anche
alla letteratura e all'arte con Thomas Mann e Wagner.
72
Questi tre stadi dell'esistenza non sono consecutivi (non si succedono uno dopo
l'altro), ma sono invece del tutto alternativi (o se ne sceglie uno oppure un altro: aut
- aut e non et - et). Si può passare da uno stadio all'altro non in base ad una
progressione continuativa (prima uno, poi il secondo e quindi il terzo), ma solo
attraverso un salto, una rottura, cioè solo attraverso una scelta completamente
diversa ed opposta alla precedente. Oppure si può rimanere fermi in uno stadio
per sempre.
Lo stadio estetico rappresenta la scelta di vita di coloro che, come appunto l'esteta,
simboleggiato dal Don Giovanni, fanno del piacere lo scopo principale dell'esistenza
e sfuggono l'impegno della famiglia e del lavoro. Vivono nell'istante, senza fini e
progetti prestabiliti, e sono sempre alla ricerca di novità piacevoli. Ma alla fine la
continua ricerca del piacere diventa monotona, ripetitiva e si trasforma in noia.
Lo stadio religioso è quello in cui l'uomo sceglie un'esistenza rivolta verso Dio,
verso la trascendenza. Avverte che il male dell'umanità non può trovare rimedio se
non in una visione religiosa ed ultraterrena. Simbolo di questo stadio è Abramo, che
riceve da Dio l'ordine, contrario ad ogni legge morale, di uccidere il figlio Isacco.
Abramo si trova così di fronte ad un contrasto estremo tra il principio religioso
(l'obbedienza a Dio) ed il principio morale umano (l'amore per il figlio). Abramo
sceglie Dio, sceglie di obbedire a Dio e questa sua scelta lo salva, in quanto Dio invia
un angelo a fermare il sacrificio del figlio.
invece tra l'uomo e Dio vi è un rapporto diretto, immediato, privato: la Chiesa tutt'al
più può svolgere una funzione di solo orientamento nei confronti della divinità.
Il credere in Dio, peraltro, può apparire una scelta contraddittoria e
paradossale, assurda, perché la fede in Dio e nei comandamenti divini implica la
capacità di andare oltre e contro le regole della morale umana, come
esemplificato nella vicenda di Abramo. La fede impone un salto: non può derivare né
dai sentimenti né dalla ragione umana. A differenza di ciò che affermava la filosofia
medievale e di ciò che ancora oggi afferma la Chiesa cattolica, per Kierkegaard,
come per gran parte della Chiesa protestante, non ci può essere accordo tra ragione
e fede (la fede non può essere spiegata e dimostrata razionalmente) né ci può essere
accordo tra sentimenti umani e fede (non sempre la fede coincide con l'umano
sentire).
L'uomo si trova quindi solo e disperato di fronte alla fede e di fronte a Dio,
poiché comprende che aver fede significa che l'uomo non può contare in se stesso
per la propria salvezza, ma può soltanto sperare di essere scelto da Dio, secondo
la teoria protestante della predestinazione. È questo l'aspetto paradossale della
fede: finché l'uomo non crede, può pensare di essere lui stesso in grado di scegliere
liberamente; ma non appena sceglie di credere, l'uomo sente che non è stato
veramente lui ad aver scelto la fede ma che è stato Dio a concederla attraverso il dono
della grazia.
Di fronte a Dio l'uomo avverte che vi è un'enorme distanza tra l'infinità divina e la
finitezza umana; avverte che l'uomo non vale nulla e che solo Dio può tutto e può
dare all'uomo la fede e la salvezza. Il paradosso della fede consiste dunque anche
nell'affidarsi completamente e ciecamente a Dio benché la ragione umana non
sia capace di comprenderlo. La fede è un abbandonarsi completo a Dio correndo il
rischio di un tale abbandono incomprensibile per la ragione. È insensata, dichiara
Kierkegaard, ogni teologia "scientifica" che voglia spacciarsi per scienza e spiegare
razionalmente il mistero di Dio e della fede.
Tutto ciò è ulteriore fonte di angoscia, poiché l'assurdo della fede spinge l'uomo a
credere in un Essere del quale non si conosce assolutamente nulla ma solo nel quale
tuttavia l'uomo può trovare la salvezza e il senso della propria esistenza, che non sta
nella vita terrena ma in quella ultraterrena. La scelta della fede è, paradossalmente,
il rifiuto della razionalità.
Dio ha creato l'uomo libero e innocente. Innocente è colui che ignora la differenza
tra il bene e il male. L'uomo si mantiene nello stato dell'innocenza finché permane la
sua assoluta dipendenza da Dio. Adamo non conosce la differenza tra bene e male,
non deve lottare contro nulla ed è proprio il nulla che ha di fronte ad angosciarlo,
spingendolo verso qualcosa che non conosce. Nel momento in cui Adamo
trasgredisce il divieto divino e mangia la mela proibita, cioè nel momento in cui
l'uomo, esercitando la sua libertà, afferma se stesso di fronte a Dio e rivendica la sua
autonomia, egli perde l'innocenza. Ottiene la conoscenza ma diventa peccatore.
Questo è il dramma della vita umana: l'uomo non può esistere se non peccando e per
esistere non può non peccare. Ogni atto con cui l'uomo intenda affermare se stesso
implica la negazione di Dio, la trasgressione, il peccato. Da ciò deriva l'angoscia.
77
I discepoli di Hegel, specialmente dopo la sua morte, si separano in due gruppi, fra di
essi in contrasto, denominati rispettivamente "Destra hegeliana" e "Sinistra
hegeliana".
I due gruppi sono in disaccordo soprattutto nell'interpretazione di due ambiti
della filosofia di Hegel: la religione e la politica.
Circa la politica, la celebre frase di Hegel secondo cui "tutto ciò che è reale è
razionale e tutto ciò che è razionale è reale" è interpretata dalla Destra hegeliana nel
senso che la realtà sociale e politica esistente, essendo razionale, è da intendersi allora
sempre giustificata, considerata giusta. Si tratta di una visione conservatrice che,
giustificando lo "status quo" (la situazione socio-politica esistente), difende quindi
l'assolutismo dello Stato prussiano.
La Sinistra hegeliana interpreta invece la frase di Hegel sopracitata nel senso che
tutto ciò che nella realtà sociale e politica non è razionale, bensì ingiusto, è destinato
nel processo dialettico ad essere superato, ossia deve essere trasformato dalla politica
in razionalità e giustizia sociale. È una visione progressista, che non accetta la
situazione esistente e lo Stato assoluto prussiano nell'intento di pervenire a forme di
liberalismo radicale.
Circa la religione, Hegel aveva sostenuto che sia la religione sia la filosofia hanno il
medesimo contenuto, hanno entrambe per oggetto l'Infinito, lo Spirito assoluto, salvo
che la religione è espressione dell'Assoluto in forma di rivelazione e
rappresentazione, mentre la filosofia esprime l'Assoluto in forma di concetto, ossia di
spiegazione e comprensione razionale.
In tal senso, la Destra hegeliana sostiene che religione e filosofia, avendo entrambe
il medesimo contenuto, sono allora fra di esse compatibili, per cui la filosofia è
perfettamente conciliabile con la religione (accordo tra ragione e fede). La Sinistra
hegeliana invece afferma che, essendo la filosofia l'unica forma di spiegazione
razionale dell'Assoluto, essa di conseguenza supera la religione che, pertanto, non ha
più alcun motivo di sussistere, riducendosi la rivelazione religiosa divina ad
invenzione essenzialmente umana (ateismo).
La Destra hegeliana, denominata anche gruppo dei "vecchi hegeliani", più
moderata e conformista, era composta soprattutto da professori universitari e da
teologi protestanti che volevano mostrare l'accordo tra filosofia hegeliana e
religione cristiana da una parte e tra filosofia hegeliana e Stato prussiano dall'altra.
La Sinistra hegeliana, denominata anche gruppo dei "giovani hegeliani", rovescia
invece l'idealismo di Hegel in un ateismo materialistico che avrebbe avuto come
maggiori esponenti Feuerbach e Marx.
79
La critica a Hegel.
Hegel, dice Feuerbach, incomincia la sua filosofia con l'essere, cioè con il concetto
astratto di essere, di Idea, di Spirito, che non soltanto pone se stesso come causa di
sé, ma si illude e pretende altresì di essere all'origine, quale principio produttore,
della stessa natura (Idea fuori di se). La filosofia deve invece cominciare con
l'essere reale, per cui la filosofia hegeliana deve essere rovesciata: ciò che nel
sistema di Hegel è considerato soggetto (il pensiero, l'Idea, lo Spirito) in realtà è solo
il predicato (attributo); viceversa è il predicato (l'essere e la realtà sensibile) che deve
essere considerato come il vero soggetto: prima c'è il mondo, la natura, gli uomini
concreti e solo da questi deriva poi il pensiero. La filosofia di Hegel assume l'idea
di una cosa per la cosa stessa e da questa deduce poi la cosa realmente esistente.
Seguendo in tal senso una tendenza inaugurata da Cartesio (il primato del soggetto
incentrato sulla "res cogitans") e seguita poi da Spinoza, Leibniz, dallo stesso Kant ed
infine da Hegel, l'idea pone in primo piano se stessa, attribuendosi un carattere di
infinito, e riduce a predicato finito la realtà e gli eventi concreti, supposti come sue
manifestazioni e produzioni. Al contrario, Feuerbach ribadisce l'autonomia e la
centralità della realtà sensibile, della natura.
Hegel aveva eliminato il Dio trascendente della tradizione e ad esso aveva
sostituito lo Spirito immanente, concepito come Spirito dell'umanità, come
umanità astratta. A Feuerbach non interessa l'umanità in astratto ma invece
l'uomo reale, che è innanzitutto natura, corporeità, sensibilità. "Verità è l'uomo e
non la ragione astratta; verità è la vita e non il pensiero". Occorre quindi negare
l'Idealismo che nasconde l'uomo concreto. A maggior ragione bisogna negare la
religione, giacché, afferma Feuerbach, non è Dio che crea l'uomo, bensì è l'uomo
che crea Dio.
La teologia è antropologia.
prima c'è la realtà, ci sono le cose, e solo dopo c'è il pensiero (lo spirito) della realtà e
delle cose La filosofia di Hegel dunque è, alla fin fine, la più grande teologia.
Se la realtà dunque non è creazione del pensiero e la filosofia vuole essere davvero
scienza di questa realtà, occorre allora ristabilire la prevalenza e il primato del
finito sull'infinito. Feuerbach ammette l'unità dell'infinito col finito ma
capovolge i termini: l'infinito sta nel pensiero dell'uomo finito. Dapprima ci sono
gli enti finiti e solo dopo vi è il pensiero relativamente ad essi, pensiero che, per sua
natura, è illimitato, infinito, nel senso che ad ogni pensiero possono sopraggiungere
pensieri ulteriori (nonché sentimenti ed emozioni) indefinitamente. Gli enti finiti
sono in sé autosufficienti. È solo a causa dei nostri meccanismi psicologici che
sentiamo il bisogno di far derivare gli enti finiti, che sono provvisori e
contingenti, da un principio e da un'entità infinita (sia questa il Dio trascendente o
lo Spirito immanente). Va quindi respinta l'idea della filosofia come scienza
dell'infinito. Bisogna piuttosto riportare la filosofia ad essere scienza del finito.
Ciò significa ricondurre la filosofia ad essere scienza dell'uomo, fare cioè di essa
un'antropologia (antropologia significa appunto scienza dell'uomo). Altrettanto
vale e specialmente per la religione, ossia per la teologia: la teologia è in effetti
antropologia.
L'alienazione religiosa.
Se il mondo e l'uomo non sono creati da un'entità infinita, come sorge allora l'idea di
Dio onnipotente e creatore del mondo? Come nasce la religione? Per Feuerbach
essa è una forma di "alienazione" (alienazione=estraniazione, cioè l'uomo si
estrania, esce fuori da se stesso, perde la coscienza di se stesso e/o perde la fiducia in
se stesso). L'uomo, spiega Feuerbach, si rende conto che non sempre nella vita
terrena riesce a realizzare le sue più nobili aspirazioni di bene, di giustizia, di
libertà, di infinito. Allora l'uomo si aliena, esce fuori da se stesso e proietta le sue
aspirazioni in un essere supremo, Dio, infinito, onnipotente, trascendente e creatore
del mondo, che però è in realtà immaginato e creato dall'uomo stesso come colui
che garantisce che tali aspirazioni saranno alla fine realizzate quantomeno in
una vita ultraterrena. Ecco perché, conclude Feuerbach, non è Dio ad aver creato
l'uomo ma è l'uomo che ha creato Dio. Tutti gli attributi dell'essere divino sono in
effetti gli attributi e le qualità migliori dell'essere umano che l'uomo, alienato e privo
di fiducia in se stesso, proietta in Dio. La religione e la teologia sono fatti e creazioni
totalmente umani. Perciò, ribadisce Feuerbach, la teologia non è in verità scienza di
Dio ma è invece antropologia, ossia è scienza dell'uomo.
L'uomo trova una natura insensibile alle sue sofferenze, trova un mondo ostile e
perciò placa la sua inquietudine, il suo dolore, il suo smarrimento nella religione,
costruendosi una divinità che sia garanzia di salvezza. Ogni credente è certo
dell'esistenza di Dio perché Dio è un sua proiezione.
81
Solo dopo aver preso piena coscienza di sé, delle proprie capacità e delle sue
qualità migliori, cioè solo dopo essersi "disalienato", l'uomo può stabilire un
diverso rapporto, un diverso punto di vista nei confronti di se stesso e degli altri e
progettare una felicità che prima riteneva possibile solo come ultraterrena.
Uscendo dalla alienazione religiosa, l'uomo comprende che tutta le qualità ed attributi
dell'essere divino sono invece le qualità e gli attributi più nobili dell'uomo stesso.
Alla morale tradizionale, che raccomandava l'amore di Dio, Feuerbach
sostituisce una morale che raccomanda l'amore dell'uomo in nome dell'uomo. È
questo il nuovo umanesimo della filosofia di Feuerbach: trasformare gli uomini
da amici di Dio in amici degli uomini.
Feuerbach incita ad una nuova convivenza con gli altri, non più basata sulla
prepotenza. L'uomo è determinato dai bisogni, ma il vero e più grande bisogno è
l'amore dei suoi simili. L'essenza e il fine dell'uomo è quello di sviluppare il valore
fondamentale della solidarietà sociale nella vita di comunità. L'uomo non è fatto per
vivere da solo o in conflitto con gli altri.
Compito della filosofia è proprio quello di liberare l'uomo dall'alienazione
religiosa e fargli riacquistare coscienza di sé e fiducia nelle sue qualità migliori.
Dopo aver compreso l'origine puramente umana della religione, l'uomo può
impegnarsi a diventare lui stesso Dio per l'altro uomo. Al posto della religione e
delle superstizioni, l'uomo potrà dimostrare il proprio valore e la propria libertà
col lavoro, con l'arte e con la partecipazione alla vita sociale e politica
(socialismo umanistico). Compito della filosofia è di porre l'infinito nel finito, cioè
di risolvere Dio nell'uomo. Dall'amore per Dio all'amore per l'uomo, dalla fede in Dio
alla fede nell'uomo.
82
IL SOCIALISMO UTOPISTICO.
Nasce a Treviri e studia a Bonn e a Berlino, dove si laurea in filosofia. Tra il 1843 e il
1845 vive a Parigi dove conosce Engels. Dopo i moti del 1848 è costretto all'esilio e
si rifugia in Inghilterra, a Londra, diventando punto di riferimento del movimento
operaio europeo.
Opere principali: Il manifesto del partito comunista, scritto insieme ad Engels; Il
Capitale.
La sua opera non è strettamente filosofica, ma la sua analisi sulla società e sulla
storia, oltre che dal punto di vista sociologico ed economico, è per molti versi
importante anche da quello filosofico.
Marx sviluppa il suo pensiero in parte accogliendo ed in parte criticando la
filosofia di Hegel e della Sinistra hegeliana. Critica inoltre gli economisti classici,
i socialisti utopisti e Feuerbach.
La critica a Hegel.
L'errore di Hegel, commenta ancora Marx, nasce dalla separazione che egli opera
fra teoria e prassi (=l'azione concreta degli uomini). Ma la teoria separata dalla
prassi diventa vuota, diventa ideologia. La teoria invece deve essere sempre unita
alla prassi, il conoscere cioè non deve valere in se stesso ma deve valere per
guidare l'azione e l'attività umana. L'unione di teoria e prassi è il primo
importante principio della filosofia di Marx.
Marx riconosce che gli economisti classici borghesi, in particolare Adam Smith e
David Ricardo, hanno correttamente elaborato la teoria secondo cui il valore di
85
Il materialismo storico.
sono indipendenti e tanto meno sono prevalenti, anzi sono condizionate se non
determinate dalla base economica, dalla struttura economica materiale di base
esistente nella società, organizzata secondo gli interessi imposti dalla classe sociale
dominante. Non sono le idee che determinano le condizioni materiali di vita, ma è
l'attività pratica, la base economica sussistente e la classe dominante al potere
che condizionano o determinano le idee. Le idee dominanti di un'epoca sono
sempre state le idee della classe in quel momento dominante: queste idee sono,
appunto, "ideologia". Soltanto il cambiamento della struttura economica, anche
attraverso una rivoluzione sociale, può comportare il cambiamento della
sovrastruttura ideologica, e quindi delle idee, della società.
Il materialismo di cui si tratta è definito "storico" perché nei vari periodi storici la
sovrastruttura ideologica di una società è determinata dalla struttura economica
sussistente in ciascuno di tali periodi. Quando muta la struttura economica si ha un
corrispondente cambiamento del sistema di idee, cioè della sovrastruttura ideologica.
A grandi linee, le diverse epoche storiche che si sono succedute, caratterizzate
ciascuna da una propria struttura economica materiale che ha determinato una
corrispondente sovrastruttura ideologica, sono:
1. il modo di produzione asiatico, caratterizzato da una società di tipo tribale
(formata da un insieme di tribù) nella quale non esistevano ancora distinzioni
di classe sociale, ma soltanto un sistema di divisione del lavoro secondo il
sesso (alcuni lavori erano maschili ed altri femminili);
2. il modo di produzione antico, caratterizzato dalla distinzione e lotta di classe
fra uomini liberi e schiavi;
3. il modo di produzione feudale, caratterizzato dalla distinzione e lotta di classe
fra padroni (nobili) e servi della gleba (contadini);
4. il modo di produzione borghese-capitalistico, caratterizzato dalla distinzione e
lotta di classe tra borghesi-capitalisti e proletari (operai).
Il rapporto tra struttura economica e sovrastruttura ideologica o sociale è uno
dei punti più dibattuti e discussi della filosofia di Marx. Per alcuni questo
rapporto è assolutamente rigido, nel senso che la cultura e le idee della società
rimangono sempre meccanicamente ed esclusivamente determinate dal tipo di
struttura economica materiale che le ha prodotte. Per altri invece questo rapporto è
reciproco, nel senso che la sovrastruttura sociale o ideologica torna poi, a sua volta,
a incidere sulla struttura economica, per cui struttura e sovrastruttura si influenzano a
vicenda.
Il materialismo dialettico.
La lotta di classe.
La storia di ogni società è dunque storia di lotta di classe. Così è anche per la
società capitalistica, in cui si trovano in lotta, da una parte, la borghesia, cioè i
capitalisti proprietari dei mezzi di produzione, e, dall'altra, il proletariato, cioè i
lavoratori salariati, costretti a vendere la loro forza-lavoro per procurarsi i mezzi di
sussistenza.
La classe borghese sorge all'interno della società feudale, evolvendosi dalla
società delle gleba. Essa ha avuto il merito, che Marx riconosce, di abbattere e
superare la classe dei signori feudatari (i nobili) e di aver favorito lo sviluppo
della scienza e della tecnica. Tuttavia, proprio per la legge del materialismo
dialettico, così come la borghesia è stata l'antitesi dei signori feudali, altrettanto il
proletariato è l'antitesi della borghesia, cioè la borghesia si trova opposto a sé,
come antitesi, il proletariato.
Infatti, spiega Marx, dalla classe borghese sorgono i capitalisti. La loro avidità, la
continua ricerca del profitto, induce i capitalisti ad ingrandire sempre di più le
90
loro imprese e quindi ad aumentare sempre di più gli operai alle loro
dipendenze, cioè i proletari, e a sfruttarli sempre di più. Ma più diventano
numerosi e sono sfruttati, tanto più i proletari si organizzano e diventano forza
e classe sociale rivoluzionaria. La borghesia dunque produce dentro di sé la
propria contraddizione a causa dell'aumento della classe proletaria che ne causerà
la caduta.
Come la borghesia sia destinata a cadere ed il proletariato a vincere viene
spiegato da Marx nella sua celebre opera "Il capitale".
"Il Capitale".
I temi finora esaminati sono stati esposti da Marx nell'opera il "Manifesto del
partito comunista", ossia i temi concernenti la critica al socialismo utopistico,
l'analisi della funzione storica della borghesia, il concetto di storia come lotta di
classe, il rapporto e il conflitto tra borghesia e proletariato. Nell'opera "Il Capitale"
Marx critica in particolare l'economia borghese-capitalistica ed espone i
principi dell'economia comunista.
L'opera "Il Capitale" inizia con l'analisi della merce. Essa ha un duplice valore:
1. un valore d'uso, ossia l'utilità della merce, del prodotto, vale a dire quanto è
utile ed è richiesta;
2. un valore di scambio, ossia la capacità di ogni merce di essere scambiata con
un'altra merce, salvo che, per maggior comodità, lo scambio non è diretto, non
è in forma di baratto, ma è indiretto ed avviene tramite la moneta.
Il valore di scambio di una merce (quanto essa vale) dipende secondo Marx dalla
quantità di lavoro necessario per produrla, cioè dal tempo medio di lavoro
impiegato nella produzione della merce. Ebbene, critica Marx, il capitalismo
considera ogni merce come avente valore di per se stessa, ma si dimentica invece
che essa è il frutto del lavoro umano. Lo scambio delle merci, pertanto, non è un
semplice rapporto tra cose, ossia tra le merci (feticismo delle merci), ma è soprattutto
un rapporto tra uomini (i produttori e consumatori). Lo stesso lavoro del proletario
(operaio o contadino che sia), che Marx chiama forza-lavoro, è considerato
anch'esso una semplice merce dall'economia capitalista: il lavoro del proletario è
cioè considerato come una merce che egli vende al capitalista in cambio del salario.
Ma la forza-lavoro (il lavoro del proletario) è una merce particolare, dice Marx,
perché il suo valore è superiore al valore di scambio, cioè il lavoro del proletario
produce di più e vale di più di quanto riceve come salario, stabilito in quantità
appena sufficiente per il suo mantenimento. Ad esempio, se l'operaio è obbligato a
lavorare dieci ore al giorno e se il salario percepito vale invece sei ore di lavoro,
l'operaio produce nelle quattro ore rimanenti un prodotto aggiuntivo che il capitalista
non paga, ma di cui si appropria e che intasca. La produzione aggiuntiva non pagata
all'operaio e che il capitalista fa propria è chiamata da Marx plus-valore.
Il plus-valore che il capitalista si mette in tasca rende possibile l'accumulazione,
cioè l'accrescimento del capitale: infatti, caratteristica del capitalismo non è il
91
capitalisti è stata semplicemente sostituita dalla classe dei burocrati e dei capi e
capetti del Partito comunista, anche loro privilegiati, come i capitalisti, rispetto al
resto della popolazione.
Mentre per molti aspetti la teoria sociologica di Marx conserva ancor oggi una
sua validità ed ha fortemente influenzato le scienze sociali, la teoria economica di
Marx è invece considerata dalla maggior parte degli economisti sostanzialmente
non valida. Essa infatti non è in grado di spiegare ciò che è più importante, ossia
l'andamento dei prezzi delle merci (come si determinano e come variano). In
effetti, ciò che determina il valore delle merci non è tanto la quantità di lavoro
richiesto per produrrle, come riteneva Marx, quanto invece la loro rarità rispetto
alla domanda: più una merce è rara e quanto maggiore è la domanda, ossia la
richiesta di tale merce rispetto all'offerta, tanto più essa vale e viceversa.
Marx considerava inoltre i capitalisti altrettanti parassiti (che guadagnano senza
far nulla) ed il plus-valore da essi intascato era giudicato un furto. Ma,
obiettivamente, ciò può valere per quei capitalisti che si limitano a sprecare per i
loro capricci la ricchezza prodotta dalle loro imprese, peraltro andando spesso
incontro al fallimento, mentre non si può pensare che quei capitalisti che
inventano e progettano le merci e che organizzano e dirigono la produzione e
distribuzione (la vendita) delle merci stesse non facciano nulla e non rechino alcun
contributo nella determinazione del valore delle merci medesime.
Non vanno infine dimenticati i rischi di una organizzazione sociale e statale
autoritaria insiti nella teoria di Marx. Certamente, uno Stato autoritario che
concentri su di sé la proprietà di tutti i mezzi di produzione e distribuzione delle
merci può mantenere stabile il prezzo delle merci stesse. Se il prezzo non aumenta
può sembrare una buona cosa. Ma la conseguenza è che, in tal modo, non si è in
grado di tener conto del cambiamento delle preferenze dei consumatori, per cui
molte merci, che pure sarebbero gradite, non sono disponibili o lo sono in quantità
inferiore alla domanda. Se la produzione e i prezzi delle merci sono esclusivamente
determinati dallo Stato e dalla burocrazia statale che è al potere, i consumatori non
hanno alcuna possibilità di scelta o, perlomeno, di orientare diversamente la
produzione. Solo lo Stato decide che cosa e quanto i cittadini possono o non possono
comprare: si realizza così una dittatura burocratica contro la libertà individuale.
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Sacerdote, fonda l'Istituto dei Rosminiani. Frequenta gli ambienti liberali ed è amico
di Manzoni. Una sua opera è stata messa all'indice dalla Chiesa.
L'idea dell'essere.
Contro Kant, Rosmini afferma che la nostra conoscenza per essere veramente
oggettiva deve fondarsi su qualcosa che non sia semplicemente una forma a
priori, una funzione del soggetto, ma su qualcosa di innato, almeno su di un
principio innato che sia indipendente dal modo di funzionare dell'intelletto.
Rosmini chiama questo fondamento "l'idea dell'essere".
Anche per Rosmini, come per Kant, conoscere significa giudicare, cioè attribuire un
predicato al soggetto. Però, mentre per Kant la condizione di validità della
conoscenza è costituita dalle intuizioni pure di spazio e di tempo e dalle categorie
dell'intelletto, per Rosmini invece la condizione è l'idea dell'essere. Ogni individuo,
sostiene Rosmini, possiede un sentimento fondamentale attraverso il quale si
rende conto che prima di conoscere qualcosa ne avverte l'esistenza come ente
che è. È appunto l'idea dell'essere che precede ogni giudizio ed anzi ne è il
presupposto. L'idea dell'essere non è un giudizio ma un'intuizione originaria.
Il pensiero è sempre e innanzitutto pensiero dell'essere: qualunque cosa pensiamo, la
pensiamo dapprima come esistente, come ente. Non possiamo conoscere alcunché
se ad esso non attribuiamo dapprima l'essere, l'esistenza: l'idea dell'essere fonda
ogni nostro atto conoscitivo. Qualunque conoscenza noi abbiamo, dobbiamo sempre
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attribuire al suo oggetto una qualche esistenza, fosse anche soltanto mentale, il che
mostra che ogni nostra conoscenza presuppone in noi la nozione di esistenza, ovvero
di essere.
In sé l'idea dell'essere è indeterminata, non si riferisce e non specifica una cosa, un
ente nei suoi particolari concreti, ma è un'idea generale che esprime la pura
possibilità dell'esistenza di enti. Ha perciò carattere intuitivo e immediato. Non è
prodotta dal soggetto, dal suo intelletto, ma è un'idea innata. La sensazione da
sola non dà infatti conoscenza. Ogni nostra sensazione è preceduta e accompagnata
dall'idea, indeterminata e non derivanti dai sensi, che prima di conoscere qualsiasi
cosa nei suoi elementi specifici devo concepire quella cosa come essere possibile,
come ente che può sussistere. Solo dopo l'essere possibile viene determinato e
specificato nelle sue caratteristiche particolari in base ai dati sensibili (peso,
grandezza, colore, ecc.), i quali costituiscono la "materia" della conoscenza. Prima
ho l'idea innata di un essere, di un ente possibile; poi questo si determina e si
specifica nei suoi elementi caratteristici e particolari attraverso la sensazione.
Prima delle varie qualità primarie e secondarie di un ente vi è una qualità
indeterminata comune a tutti, cioè l'idea dell'essere, vale a dire l'idea che
quell'ente può esistere, che è possibile come ente. Prima di conoscerle nei loro
elementi particolari, tutte le qualità di una cosa ci sono sconosciute ad eccezione del
suo "essere". L'idea dell'essere precede dunque ogni sensazione: non è un'idea
derivata dall'esperienza; essa è il vero a-priori; è la capacità di cogliere l'essere
dovunque sia. È una capacità costitutiva della coscienza di tutti gli uomini ed è
condizione necessaria e presupposto della conoscenza: perciò l'idea dell'essere è
universale e necessaria.
In quanto universale e necessaria, Rosmini mostra per via di esclusione che l'idea
dell'essere è anche innata:
1. non può derivare dalle sensazioni e dall'esperienza, perché esse riguardano
cose contingenti e particolari;
2. non può derivare dall'idea dell'Io, della coscienza individuale, perché anch'essa
è l'idea di un essere particolare;
3. non può essere prodotta dalla riflessione o dal processo mentale dell'astrazione,
perché tali operazioni non fanno altro che analizzare e distinguere aspetti
particolari di cose che già sono;
4. non proviene dallo spirito di un soggetto finito, perché non può produrre un
oggetto, un’idea universale;
5. non è creata da Dio ogni qualvolta noi abbiamo percezioni e sensazioni perché
Dio non può essere ridotto a servitore degli uomini, ma è un'idea innata che
tutti gli uomini possiedono una volta per tutte per disposizione "ab aeterno"
di Dio.
Rosmini chiama l'idea dell'essere anche "essere ideale", cioè esistente come idea
nella nostra mente. In questo senso l'essere ideale non è Dio, che è invece l'essere
reale per eccellenza, però partecipa del divino perché ha i caratteri della necessità ed
universalità che solo Dio possiede in modo completo e che da lui derivano.
98
Anche nella morale l'uomo deve tendere alla realizzazione dell'idea dell'essere,
data la coincidenza, secondo la tradizione teologica cristiana, del bene con
l'essere e, in particolare, con Dio, l'essere reale supremo. Per il cristianesimo
ogni ente, ogni creatura, per il solo fatto di essere, cioè di esistere, è già un bene.
L'idea dell'essere, oltre a spiegare l'origine delle idee pure viste in precedenza,
chiamate anche idee universali, cioè oltre a garantire l'oggettività della conoscenza, è
in grado per Rosmini di garantire anche l'oggettività della morale contro ogni forma
di relativismo e di edonismo (= morale ridotta a pura ricerca del piacere). La morale
infatti non ha per oggetto la felicità, che è una realtà puramente soggettiva (e
quindi variabile da soggetto a soggetto), bensì il bene, che è una realtà oggettiva. E
il bene altro non è che l’essere, l’esistere; in quanto tale, non solo è oggetto di
100
L'essere reale.
Gioberti spiega l'origine e lo sviluppo della realtà secondo tre principi che egli
chiama "formule ideali":
1. La prima formula ideale è: "l'Ente (Dio) è necessariamente". Dio, l'Essere
reale e assoluto, si rivela intuitivamente alla mente umana. L'evidenza di Dio
è oggettiva e non soggettiva: l'uomo la riceve, non la produce; ne è
partecipe ma non autore. La filosofia cerca di tradurre in parole, mediante la
riflessione, questa originaria rivelazione di Dio alla nostra mente; vale a dire
che Dio rivela se stesso e dichiara la propria realtà al nostro pensiero. L'Ente
(Dio) è e non può non essere.
2. La seconda formula è: "l'Ente crea l'esistente". Intuendo l'essere (Dio),
l'uomo intuisce la realtà e le cose che da Esso derivano. Intuisce che Dio è
sostanza o causa prima e, in quanto tale, crea l'esistente o causa seconda, crea
cioè il mondo e gli uomini, scegliendolo tra infinite possibilità. Le realtà
esistenti trovano la loro ragione di essere nella causa prima che è Dio.
L'identificazione tra Dio e le cose, cioè il panteismo, è così evitata in quanto
l'intuizione coglie Dio come creatore delle cose, senza quindi identificarsi in
esse.
3. La terza formula è: "l'esistente ritorna all'Ente". L'uomo non è solo
spettatore passivo della creazione, ma attraverso la vita morale, con l'esercizio
della virtù, tende a realizzare il suo fine che è quello di tornare, dopo la vita
terrena, alla beatitudine divina, tornare a Dio. Anzi, tutta la storia degli uomini
è, secondo Gioberti, avvicinamento a Dio: la tensione al bene, alla verità, al
progresso non sono altro che dimostrazioni della tensione verso l'Ente
supremo. Gioberti riprende lo schema neoplatonico della circolarità dell'essere,
cioè dell'emanazione e del ritorno all'origine.
La dinamica della realtà si svolge in tal modo secondo un "ciclo dialettico".
Gioberti riprende la dialettica di Hegel ma la riserva unicamente al creato, cioè
al finito, e non al Creatore, cioè all'infinito. Il Creatore per Gioberti è immutabile
nella sua eterna perfezione, mentre per Hegel anche lo Spirito assoluto diviene, cioè
si sviluppa progressivamente secondo un andamento dialettico, manifestandosi
gradatamente nella realtà degli enti finiti e delle istituzioni, destinati peraltro a
103
La filosofia è impegno.
Il pensiero politico.
IL POSITIVISMO E L’EVOLUZIONISMO.
Illuminismo e Positivismo.
Romanticismo e positivismo.
Il positivismo si sviluppa nei vari paesi europei con ovvie differenze dovute
alle diverse tradizioni culturali. In Francia (Comte) si inserisce all'interno della
tradizione razionalistica iniziata da Cartesio. In Inghilterra (Stuart Mill) si
sviluppa sulla scia della tradizione empirista ed utilitaristica. In Germania
assume le caratteristiche di un rigido monismo (concezione secondo cui uno solo
è il principio della realtà) materialistico. In Italia (Ardigò) si ricollega al
naturalismo rinascimentale.
All'interno del positivismo si distinguono due grandi filoni:
1. un positivismo sociale (Comte e Mill), che pone il sapere scientifico a
fondamento anche dell'organizzazione sociale e politica;
2. un positivismo evoluzionistico (Darwin e Spencer), che afferma
l'esistenza di una legge universale dell'evoluzione valida sia in natura che
nella società, nella storia e nell'uomo.
109
Comte considera elemento centrale della sua ricerca la cosiddetta "legge dei tre
stadi", che è posta a spiegazione, contemporaneamente, dello sviluppo sia della
personalità di ogni singolo uomo sia della storia e della cultura dell'umanità (filosofia
della storia).
A livello individuale, osserva Comte, ogni singolo uomo passa nella sua vita
dall'infanzia, caratterizzata dalla fantasia, all'adolescenza, che sviluppa il pensiero
astratto (i concetti), fino alla maturità, in cui domina la ragione e l'interesse si
concentra per i fatti positivi e per la scienza.
Analogamente, la storia umana si è sviluppata secondo tre stadi consecutivi:
1. Lo stadio teologico: l'umanità è ancora in una fase prescientifica e ricerca le
cause misteriose dei fenomeni naturali attribuendole all'azione di esseri
soprannaturali, creando la divinità come causa della realtà. A livello di
atteggiamento mentale prevale la fantasia e in campo politico si formano
grandi monarchie in cui prevale la classe sacerdotale e militare (monarchie
teocratiche e militari).
2. Lo stadio metafisico o astratto: si passa dalla fantasia alla ragione, anche se
di tipo prevalentemente astratto. Rappresenta comunque una fase di progresso
perché gli uomini abbandonano l'idea di un principio primo magico e divino
come causa di tutti i fenomeni. Però sono ancora indotti alla ricerca di cause
metafisiche ultime ed assolute, che vengono identificate in astrazioni o
essenze. In campo politico corrispondono ordinamenti (organizzazioni sociali e
110
statuali) fondati sul principio della sovranità popolare e sul prevalere di una
mentalità giuridico-formale analitica, cioè logico-metafisica.
3. Lo stadio positivo o scientifico: è caratterizzato dal prevalere della scienza e
dalla rinuncia a cercare le cause prime e assolute delle cose ed il destino
dell'universo. L'indagine è rivolta ai fenomeni e alle relazioni intercorrenti fra
di essi, con lo scopo di formulare leggi scientifiche che spieghino lo sviluppo
della realtà. In campo socio-politico si afferma la società industriale, favorita
anche dal progresso tecnico-scientifico (organizzazione scientifica della società
industriale).
Secondo Comte molte scienze sono ormai arrivate allo stadio positivo, cioè
scientifico, ma lo studio dell'uomo e della società è rimasto ancorato ad una
cultura teologica e metafisica.
Pertanto compito principale della filosofia è di attuare una riforma del sapere
mediante il passaggio anche delle scienze umane e sociali allo stadio positivo ed
estendendo anche ad esse il metodo delle scienze fisiche e naturali, basato
sull'osservazione empirica dei fatti e sulla scoperta delle leggi in grado di spiegarli.
Deve essere quindi impostato un programma di riforme sociali e politiche secondo lo
spirito e la cultura positivista.
Una volta che siano venute meno le false unificazioni e sintesi del sapere operate
dalla teologia e dalla metafisica, l'intento di Comte è di giungere ad una moderna
visione unitaria delle scienze sulla base di una nuova classificazione delle scienze
stesse per evitare il pericolo di una loro specializzazione troppo spinta e settoriale. La
classificazione delle scienze è condotta in base al criterio della loro generalità e
semplicità, dalle più semplici e generali si procede verso le più complesse e
particolari (specialistiche) secondo l'ordine seguente: matematica, astronomia,
fisica, chimica, biologia, sociologia. Questa classificazione esprime non solo l'ordine
con cui le varie discipline devono essere studiate, ma anche l'ordine con cui esse sono
giunte allo stadio positivo dopo quello teologico e metafisico. Dalla sua
classificazione Comte esclude la logica e la psicologia, perché la prima è la base di
tutte le scienze (la logica vale come metodo di fondo di ogni singola scienza ma non
è scienza in sé), mentre la psicologia, ossia la riflessione e l'osservazione interiore,
non è scientifica.
Poiché le scienze sociali, ossia la sociologia come da Comte denominate, sono ancora
legate a principi metafisici religiosi e astratti, si tratta di operare il passaggio della
sociologia allo stadio positivo-scientifico. Fondata su queste nuove basi la
sociologia diventa "fisica sociale", in quanto adotta nello studio dell'uomo e dei
rapporti sociali il metodo scientifico delle scienze fisiche (osservazione dei fatti,
metodo comparativo, sperimentazione ove possibile), nell'obiettivo di individuare le
leggi costanti e generali dell'agire umano.
111
La religione positiva.
Nelle sue ultime opere Comte elabora nuove concezioni che portano ad un
cambiamento del suo pensiero in senso religioso. Ritiene infatti che il sentimento
religioso sia ineliminabile dalla vita dell'uomo. Quindi nello stadio positivo
occorrerà educare l'uomo ad un nuovo tipo di religione che sostituisca il culto di
Dio e del divino creato dalla fantasia umana e che si fondi invece sulla venerazione
dell'Umanità elevata a "Grande Essere", inteso come l'insieme degli esseri passati,
presenti e futuri e della loro storia trascorsa e a venire: si tratta di una sorta di
"divinizzazione della storia". L'Umanità, il "Grande Essere", pone l'altruismo come
principio morale e si identifica con le più eccellenti opere realizzate dall'ingegno
umano, offrendo nuovi modelli di vita all'individuo ed esaudendo il desiderio di
immortalità dell'uomo che, grazie alle proprie opere, può sopravvivere nella memoria
degli altri. Sacerdoti di questa nuova religione saranno gli scienziati e i filosofi.
112
Per fondare una teoria etico-politica occorre partire dalla logica in quanto essa,
scrive Mill, è non solo una "dottrina della coerenza ma anche della verità", ossia è
metodo atto non solo ad evitare contraddizioni ma altresì a guidare la conoscenza.
Partendo dall'empirismo di Hume, Mill sostiene la teoria, come del resto Comte,
secondo cui tutte le nostre conoscenze derivano dall'esperienza. Tuttavia, mentre
il positivismo di Comte è realistico (gli oggetti di cui si fa esperienza esistono
realmente), quello di Mill è invece fenomenico (l'unica realtà di cui possiamo fare
conoscenza è la percezione che abbiamo delle cose; non conosciamo direttamente le
cose in sé ma solo i fenomeni, solo ciò che ci appare delle cose).
La conclusione è che la logica del sillogismo è falsa in quanto basata sulla
deduzione da idee e concetti universali. Ma, sottolinea Mill, noi non possiamo avere
conoscenza dell'universale, delle essenze, poiché la nostra conoscenza deriva solo
dall'esperienza di casi particolari e non è concepibile l'esperienza dell'universale,
della totalità delle cose. Anche lo stesso principio di non contraddizione deriva per
Mill dall'osservazione e viene formulato per generalizzazione a seguito di
osservazioni ripetute.
La vera logica deve invece basarsi sull'induzione, non però nel passaggio dal
particolare all'universale, poiché quest’ultimo in quanto tale non è mai
esperibile, bensì nel passaggio da particolare a particolare. Le proposizioni
generali, relative ad intere categorie, ad interi insiemi, sono solo espedienti, criteri
pratici di economicità del linguaggio, che adottiamo per analogia al fine di conservare
e sintetizzare nella memoria molti fatti particolari nonché di regolare i nostri
comportamenti anche per il futuro sulla base del carattere ripetitivo delle osservazioni
effettuate. Il concetto quindi ha soltanto un valore pratico ma non conoscitivo. Le
essenze in sé non esistono.
Ogni disciplina scientifica deve dunque fondarsi sul processo di induzione.
L'induzione è infatti il processo di generalizzazione con cui concludiamo che
quello che è vero per un numero sufficientemente ampio di fenomeni è vero
probabilmente per l'intero insieme di fenomeni a cui quelli osservati
113
Poiché le leggi logiche non sono costituite da concetti o idee realmente esistenti,
magari in un mondo ultrasensibile come per Platone, ma derivano invece da
processi di associazione e generalizzazione presenti nella nostra mente, consegue
che la logica stessa diventa una branca della psicologia. Nasce così con Mill
quella concezione psicologistica della logica che, nel Novecento, sarà combattuta da
Husserl e dalla fenomenologia. Anche l'idea di coscienza (l'Io) e l'idea del mondo
non sono realmente esistenti in sé, ma derivano anch'esse da un processo di
associazione e generalizzazione delle nostre percezioni. Per Mill infatti il processo di
associazione e generalizzazione spiega gli stessi problemi dell'esistenza dell'Io (che
deriva da un processo di associazione di tutte le percezioni interiori) e dell'esistenza
del mondo esterno (che deriva dalla costanza e regolarità con cui abbiamo constatato
essersi susseguite in passato le nostre percezioni). Se noi potessimo conoscere tutti i
moventi delle azioni di una persona e tutti i meccanismi della sua mente, si potrebbe
prevederne i comportamenti con la medesima certezza con cui prevediamo un
qualsiasi fatto fisico.
Per tali motivi Mill considera la psicologia la disciplina più importante delle
scienze morali ed umane. Essa ha per oggetto le uniformità e le leggi in base a cui
uno stato della mente segue ad un altro o è da esso causato. Tuttavia non si tratta di
una necessità logica necessaria e immutabile né di una fatalità poiché, se conosciamo
la causa di un'azione umana, possiamo agire su di essa e quindi modificare o orientare
la nostra condotta.
Non vi è quindi contrasto tra libertà dell'individuo e scienze della natura umana.
Dopo la psicologia Mill considera l'etologia, che studia invece la formazione del
carattere sulla base delle leggi generali della mente e dell'influenza dell'ambiente.
Più complessa è la sociologia, che studia il comportamento sociale dell'uomo. A
differenza di Comte, Mill non ritiene che la sociologia sia in grado di fare
previsioni esatte, ma piuttosto di individuare linee di tendenza nello sviluppo
della società. Perciò la sociologia non può di per sé permettere di migliorare la
società; questo è invece compito di una politica attenta e vigile.
Sempre in campo morale, Mill aderisce alla dottrina dell'utilitarismo e accetta il
principio di Jeremiah Bentham secondo cui l'utilità, o il principio della massima
felicità, è il fondamento della morale ed il piacere è la regola delle azioni umane. Ma,
a differenza di Bentham, afferma che si deve tener conto non solo della quantità
del piacere ma anche della qualità per cui, in una gerarchia dei piaceri, sono
migliori quelli che soddisfano facoltà e desideri più nobili. Scrive Mill: "È preferibile
essere un Socrate malato che un maiale soddisfatto". L'accrescimento della felicità
individuale, prosegue Mill, poggia sulla felicità collettiva: non è una tendenza
115
Darwin giunge alle sue più importanti scoperte non in seguito a riflessioni filosofiche
ma grazie ad una serie di ricerche scientifiche e osservazioni sul campo. Dall'esame
delle tecniche agricole e dell'allevamento ricava la tesi della selezione
dell'organismo più forte, cioè della selezione dei migliori, dei più adattabili; dalla
teoria della sovrapopolazione rispetto alle risorse disponibili di Robert Malthus ricava
la tesi della lotta per l'esistenza.
Ne consegue una teoria dell'evoluzione diversa da quella di Lamarck. Per
Lamarck l'evoluzione dipendeva dall'adattamento all'ambiente dell'intera specie. Per
Darwin essa risulta invece dalla selezione naturale dei soli individui più forti nei
confronti dell'ambiente, che per la scarsità delle risorse disponibili costringe ad una
continua lotta per la vita. Mentre per Lamarck è l'intera specie che si adatta
progressivamente all'ambiente secondo un processo finalistico naturale, per Darwin
soltanto i singoli individui più resistenti riescono ad adattarsi e a sopravvivere, con la
precisazione che il sorgere degli individui più forti e adattabili non è
predeterminato nella specie ma è dovuto solo al caso (antifinalismo).
In altri termini:
1. la specie è formata da individui con caratteristiche diverse e questa diversità è
casuale e non finalizzata;
2. la quantità di individui procreati è superiore alla quantità di individui che
riescono a sopravvivere;
3. la lotta per la vita contro l'ambiente e le scarse risorse ambientali determinano
la selezione la sopravvivenza solo degli individui più forti e più adattabili;
4. i caratteri acquisiti dagli individui più forti a seguito della selezione naturale
vengono trasmessi alle generazioni successive, ma soltanto a quelle di
derivazione diretta e non anche ai discendenti degli individui inadatti, destinati
a perire.
Quindi, diversamente da Lamarck, le trasformazioni delle specie sono solamente ad
opera degli individui più adattabili e non sono da attribuire direttamente all'ambiente
ma alla lotta per la sopravvivenza.
La teoria evoluzionistica delle specie vegetali e animali spiega anche l'origine
dell'uomo. La specie umana, precisa Darwin, è solo una delle varie specie di primati
(=le scimmie primitive): l'uomo deriva dagli stessi antenati che hanno dato
origine da una parte al ramo delle scimmie contemporanee e, dall'altra, al ramo
della razza umana. Gli uomini da un lato e le scimmie dall'altro derivano dai
medesimi antenati. Quindi tra l'uomo e gli animali esiste solo una differenza di
grado relativa al maggior sviluppo nell'uomo delle facoltà mentali.
118
Spencer entra nel merito del problema aperto da Darwin circa il rapporto tra
scienza e religione, cercando una conciliazione. Non considera infatti in contrasto
tra loro scienza e religione in quanto entrambe devono ammettere di non essere in
grado di pervenire alla conoscenza ultima della realtà: da un lato tutte le religioni
hanno a che fare e attestano il mistero circa la natura del creatore (il senso del
mistero, per Spencer, è insopprimibile nell'uomo ed è all'origine di ogni concezione
religiosa); dall'altro lato, anche la scienza si arresta di fronte alle verità fondamentali
che rimangono inaccessibili (nulla può essere conosciuto nella sua intima essenza;
rimarrà sempre una realtà ultima inspiegabile).
Perciò scienza e religione hanno in comune, nello sfondo, l’"inconoscibile". Le
religioni si trovano di fronte al mistero della natura divina, mentre le scienze non
sono altro che il successivo inserimento di verità speciali in verità più generali,
peraltro sempre relative poiché la verità generale, non potendo essere inclusa in
nessuna altra, non può essere spiegata. Per tali motivi religione e scienza sono
conciliabili: ambedue riconoscono l'assoluto e l'incondizionato (i principi primi e le
cause ultime) come verità irraggiungibili dalla nostra esperienza. Ma in ciò sta anche
la loro diversità, ciascuna nel proprio campo, senza che siano ammissibili
interferenze e senza confondere l'oggetto dell'una con l'oggetto dell'altra.
Con tali pensieri e col concetto dell’"inconoscibile" Spencer manifesta il valore
infinito, e quindi religioso, del progresso. Il suo positivismo filosofico evoluzionista
appare fondarsi sul presupposto romantico secondo cui il finito è la manifestazione
dell'infinito, in virtù del quale i singoli e frammentari processi evolutivi sono
ricondotti ad un processo unico, universale e progressivo: viene esteso al mondo della
natura il concetto della storia elaborato dall'idealismo romantico.
120
Mentre Darwin limita agli esseri viventi la sua teoria dell'evoluzione, Spencer
estende il principio dell'evoluzione a tutto l'universo, a tutta la realtà, non solo
biologica ma anche fisica, sociale, artistica e morale.
In linea generale, Spencer definisce l'evoluzione come passaggio dall'incoerente al
coerente (ad esempio il sistema solare sorto da una nebulosa), come passaggio
dall'omogeneo all'eterogeneo (le piante e gli animali si sviluppano differenziandosi
secondo organi e tessuti diversi) e come passaggio dall'indefinito al definito (dalla
tribù selvaggia ad un popolo civile con più definita specificazione dei compiti e delle
funzioni). In tal senso l'evoluzione, pur essendo un processo naturale, quindi
inevitabile e necessario, è interpretata in termini ottimistici di progressivo
perfezionamento, almeno come linea di tendenza, di tutta la realtà.
L'etica.
Il primo fatto da cui è lecito partire per interpretare la realtà è ciò che Ardigò
definisce sostanza o, meglio, “indistinto psicofisico”. L'indistinto psicofisico, che
ha come precedenti la "natura naturans" di Spinoza e l'Assoluto indifferenziato di
Schelling, consiste nel dato originario della sensazione. L'indistinto, precisa
Ardigò, è un qualcosa non ancora noto ma avvertito confusamente, che sollecita
il pensiero verso l'analisi e la conoscenza per giungere al distinto. Tuttavia il
distinto non esaurisce mai l'indistinto che permane al di sotto: il distinto è finito e
l'indistinto è infinito. L'indistinto psicofisico è una sostanza senziente, è il "sentire
organico". La sensazione è l'indistinto psicofisico originario: nella sensazione non
c'è antitesi e distinzione tra soggetto e oggetto, esterno ed interno, io e non-io. La
distinzione tra spirito e materia, io e non-io, soggetto e oggetto sono risultati che
derivano dall'associazione delle sensazioni, secondo un processo in cui la sostanza
senziente, il sentire, riflette su se stesso e prende coscienza di sé e quindi riconosce la
materia come altro da sé in base al principio di causalità (gli oggetti sono sentiti come
causa delle sensazioni), per cui ogni realtà deriva inevitabilmente da un'altra secondo
un rapporto che Ardigò spiega aristotelicamente come passaggio da potenza ad atto.
123
Morale e società.
Premessa.
Il pensiero di Nietzsche è del tutto particolare ed originale per cui non è facilmente
collocabile all'interno di una corrente filosofica: per alcuni aspetti è antipositivista e
per altri anticipa temi che saranno sviluppati dalla filosofia esistenzialista. In generale
persegue un'impostazione antidealistica, come Schopenhauer e Kierkegaard,
definita "irrazionalistica" in opposizione alla razionalità dell'idealismo.
L'irrazionalismo è una corrente di pensiero ancor oggi condivisa da taluni filosofi
che parlano di "crisi della ragione". In verità non sono concezioni contro la funzione
e l'importanza della ragione in sé, quanto piuttosto contro un certo tipo di
razionalismo che considera importante soltanto la ragione trascurando l'importanza
anche delle passioni, degli istinti, dell'inconscio.
Tutta l'opera di Nietzsche è un tentativo di comprendere e descrivere l'epoca
moderna, per giungere alla drammatica constatazione della scomparsa di tutti i
principi e valori morali, religiosi ed estetici tradizionali: si tratta di principi e di
valori, osserva Nietzsche, che non valgono niente. Da ciò il termine di "nichilismo"
(dal latino nihil= niente, nulla) attribuito a questo tipo di filosofia.
Di conseguenza, Nietzsche propone una nuova cultura "eroica" e un nuovo
modello di uomo: il superuomo. L'uomo, come descritto e pensato dalla metafisica
e dalla morale tradizionali, proclama Nietzsche, deve essere superato, deve acquistare
una nuova fede in se stesso ed essere liberato dalle vecchie norme metafisiche e
morali. L'uomo deve oltrepassare da sé e procedere verso il proprio destino: il
superuomo, l'oltre-uomo.
Già Schopenhauer aveva affermato che la vita è cieca irrazionalità, priva di senso e di
qualsiasi fine e che pertanto l'unica soluzione per l'uomo era il distacco dalle cose e
dalle passioni della vita, la rinuncia e la fuga dal mondo, cioè l'ascesi. Nietzsche
condivide questa concezione ma non la conclusione ascetica: la vita non deve essere
126
rifiutata ma amata e vissuta nella sua immediatezza, anche nei suoi aspetti irrazionali,
più tragici e crudeli, contro tutti i modelli imposti dalla morale borghese e cristiana.
Nietzsche è insoddisfatto della cultura del suo tempo, che giudica falsa ed illusoria.
Perciò compie un'analisi della storia della cultura, fin dalle sue origini, per
comprendere come è nata e come si è via via deformata e corrotta nel tempo.
Il punto di partenza è per Nietzsche l'analisi della cultura greca ed in particolare
l'analisi della nascita della tragedia greca antica, in quanto forma d'arte principale
di quell'epoca. La tragedia greca antica non nasce nel periodo classico della civiltà
greca, quello della civiltà ateniese e della filosofia socratica e platonica, ma sorge
prima, nel periodo presocratico del VI secolo a. C. A questo periodo Nietzsche
rivolge la sua iniziale analisi.
Nietzsche ammira l'atteggiamento che i greci dell'età presocratica avevano nei
confronti della vita. Essi sapevano che la vita è gioia ma anche dolore e
tormento. Soprattutto sapevano che la vita non ha alcun senso, alcuna
giustificazione razionale o teologico-religiosa, ma che è anzi un continuo divenire, un
incessante svolgimento di vicende, dominato da una volontà, da un destino cieco e
crudele (come affermato da Schopenhauer), che non ha altro scopo se non la
realizzazione e l'accrescimento della sua potenza.
Eppure, constata Nietzsche, i greci di quel tempo vivevano pienamente la loro
esistenza. Questo modo di concepire e di vivere la vita è espresso soprattutto dalla
tragedia greca antica. In essa sono rappresentate tutte e due le caratteristiche che
contraddistinguono la vita e la cultura. Nietzsche chiama queste due caratteristiche,
rispettivamente, "spirito dionisiaco" e "spirito apollineo".
Lo spirito dionisiaco (dal dio greco Dioniso, cioè Bacco) è quello che deriva dagli
istinti irrazionali, dalle passioni sfrenate, dalle forze oscure della vita, come espressi
nei riti orgiastici, nelle danze passionali, nei miti terribili che parlano di morte e
distruzione, di maledizione e persecuzione, e che ha la sua massima esaltazione nella
musica, ritenuta l'arte più capace di suscitare passioni.
Lo spirito apollineo (dal dio delle arti Apollo) deriva invece da un sentimento di
serenità, di armonia, di equilibrio provato nei confronti della vita ed ha nella scultura
e nella poesia le sue maggiori espressioni.
Ebbene, entrambi questi spiriti, fra di essi contrapposti, sono rappresentati nella
tragedia greca presocratica di Eschilo e Sofocle. Anzi, lo spirito dionisiaco
assume maggior rilievo, in quanto la tragedia antica ha come elemento
fondamentale il coro, composto dai seguaci di Dioniso mascherati da capri. Lo stesso
eroe tragico, il protagonista, è una maschera, una raffigurazione del dio Dioniso e del
derivante senso di accettazione ebbra della vita, di esaltazione degli istinti e di
coraggio di fronte a un fato, a un destino crudele.
127
Alla critica contro la cultura del suo tempo Nietzsche fa seguire una critica contro lo
storicismo, cioè contro quelle filosofie della storia le quali credono che la storia si
svolga in modo razionale e finalistico nel perseguimento di uno scopo superiore. Ma
la pretesa di poter comprendere razionalmente la profonda ed oscura realtà della
storia e del mondo è per Nietzsche un'illusione. Non che Nietzsche neghi
l'importanza della storia, piuttosto combatte sia contro l'idolatria, il culto
positivistico, dei soli fatti, compresi quelli storici, sia contro le interpretazioni
storicistiche finalistico-provvidenziali.
Innanzitutto, afferma Nietzsche, i fatti sono sempre stupidi perché devono essere
sempre interpretati. Inoltre, chi crede ciecamente nella potenza della storia e nella
razionalità del divenire storico si sottomette ad un eccessivo attaccamento al
passato, che spegne la volontà di agire nel presente e di progettare il futuro, perché
gli appare incerto e precario rispetto alla supposta grandezza del passato.
La saturazione di storia, l'eccessivo attaccamento al passato, sostiene Nietzsche, è
la malattia dell'Ottocento. Fa credere all'uomo di essere il risultato di un lungo
processo, di una lunga catena di eventi e quindi di dover ricercare nel passato il
proprio senso, distogliendolo dal presente ed indebolendo il suo interesse per il
futuro. A causa poi dell'identificazione hegeliana del reale col razionale, la cultura
moderna è arrivata a giustificare ogni evento storico e a collocarlo all'interno di uno
128
La critica alla filosofia e all'arte del passato e la successiva critica alla scienza.
Sono critiche espresse particolarmente nelle opere "Umano, troppo umano" e "La
Gaia scienza".
Due sono i tipi di pessimismo, dice Nietzsche. Il primo è il pessimismo romantico,
cioè il pessimismo dei rinunciatari, dei falliti e dei vinti, caratterizzato da un
nichilismo inteso come desiderio del nulla. Questo è ad esempio il pessimismo di
Schopenhauer, che è di rassegnazione, di paura e di fuga dalla vita. Ma c'è un
secondo e miglior tipo di pessimismo, di chi eroicamente accetta la vita pur nella
sua dolorosa tragicità e vuole viverla pienamente.
Se critica il pessimismo della filosofia romantica, Nietzsche critica anche
l'ottimismo della metafisica sia tradizionale sia della filosofia idealista le quali,
illudendosi, credono nell'esistenza di essenze e di entità supreme (trascendenti o
immanenti) in grado di garantire lo sviluppo razionale e finalistico della realtà.
Altrettanto criticabile è l'arte quando pretende di rappresentare ideali eterni ed
assoluti.
Inizialmente Nietzsche aveva ritenuto la metafisica e l'arte valori superiori, poi
scopre invece che esse sono debolezze irrimediabilmente "umane, troppo
umane", perché bisogna rendersi conto che il mondo non ha un senso, un fine, e che
è vano ogni intento di attribuirvi un significato nella pretesa di andare oltre la realtà
fenomenica, oltre i fenomeni, per comprendere essenze che invece non sussistono.
Occorre eliminare ogni atteggiamento metafisico ed estetico di tipo dogmatico
(=assoluto, cioè definitivo e indiscutibile) e riconoscere invece i limiti e la finitezza
umana.
Questa fase del pensiero di Nietzsche è stata definita "la fase illuministica", perché
Nietzsche ha avuto in comune con l'Illuminismo la critica della metafisica da una
129
parte e, dall'altra, il valore attribuito per contro alla scienza, definita "gaia" poiché
capace di liberare l'uomo sia dai dogmi e dalle illusorie certezze della metafisica sia
dalle false idealizzazioni dell'arte contemplativa.
Nietzsche critica altresì il positivismo, perché giudica ridicola e assurda la sua
pretesa di spiegare razionalmente l'enorme varietà della realtà e dei suoi misteri.
Critica anche il socialismo e il comunismo, giudicati pura utopia, poiché hanno
fiducia nelle masse che sono invece inaffidabili.
Ancora, critica l'evoluzionismo perché, secondo Nietzsche, le specie non si
sviluppano perfezionandosi sempre di più ed inoltre, nella realtà della vita e del
mondo, non è vero che l'evoluzione procede selezionando sempre i più forti, i
migliori, ma spesso invece, nella società, la massa dei deboli e dei mediocri prevale
sui più forti d'animo e di carattere.
In generale, Nietzsche critica ogni filosofia che pretenda di scoprire verità
oggettive, universali ed assolute, trascurando per contro i problemi concreti
dell'esistenza. La filosofia deve essere invece strettamente intrecciata con la vita.
Successivamente, la critica di Nietzsche si rivolge anche contro il culto e
l'esaltazione della scienza e della tecnica, che dapprima aveva invece ammirato. La
scienza e la tecnica, sostiene Nietzsche, propongono i falsi valori dell'uguaglianza di
tutti gli uomini e credono nell'ordine razionale del mondo, mentre ciò che caratterizza
l'esistenza dell'uomo è invece il caos, il disordine, il tragico e il contraddittorio. Così
come sono stupidi i fatti storici, lo sono anche quelli fisici studiati dalla scienza.
Ciò che noi chiamiamo verità scientifica è infatti solo un insieme di opinioni che in
un certo momento, per determinate circostanze storiche o di interessi, vengono
considerate verità assolute, indiscutibili. Anche per la scienza non vi sono fatti
oggettivi, certi, ma solo interpretazioni, punti di vista. Non esistono verità o falsità
definitivamente accertate. Conoscere significa sempre valutare (selezionare,
preferire) e pertanto sono le idee dominanti all'interno della società a stabilire ciò
che si ritiene vero. È interessante notare come alcuni filosofi della scienza
contemporanea, ad esempio Popper, siano stati influenzati da tale posizione.
Di conseguenza è messo in discussione anche il tradizionale concetto di soggetto
conoscente, che diventa un semplice modo di vedere, un punto di vista, un'opinione
rispetto alla certezza della conoscenza che la filosofia, da Cartesio a Kant, aveva
invece sempre attribuito all'io, al soggetto stesso. Nietzsche è peraltro estraneo, non
interessato, ad ogni indagine sulla conoscenza. Per lui il problema della conoscenza
(se sia possibile e valida e come avvenga) non coinvolge direttamente la vita
dell'individuo e quindi è un tema considerato secondario. Ciò che interessa Nietzsche
(come in Schopenhauer e Kierkegaard) è soprattutto l'esistenza concreta del singolo
individuo ed il senso di tale esistenza.
Insomma, la critica di Nietzsche è particolarmente rivolta contro l'idealismo ed il
positivismo della filosofia ottocentesca, i quali hanno finito col trascendere e
trascurare la materialità del mondo, sia perché, da un lato, si è creduto in uno Spirito
assoluto e razionale, lontano dalla condizione terrena e concreta dell'uomo, sia
perché, dall'altro lato, è stato attribuito un valore assoluto, quasi sacro, ai metodi e ai
risultati delle scienze (la scienza come nuova religione).
130
Si è visto che per Nietzsche la filosofia di Socrate e Platone, avendo criticato gli
istinti e le passioni umane in nome dell'armonia e dell'equilibrio, ha fatto prevalere,
quale guida di vita, lo spirito apollineo su quello dionisiaco rovesciando l'ordine delle
cose: la vita reale invece non è fatta solo di equilibrio e compostezza, ma anche di
passionalità e di sofferta tragedia.
Ebbene, afferma Nietzsche, il cristianesimo e la sua morale hanno accresciuto la
tendenza alla rinuncia degli istinti vitali e degli impulsi delle passioni avviata con
l'etica socratica e platonica. Cos'ha fatto il cristianesimo, si chiede Nietzsche, se
non difendere tutto ciò che è nocivo all'uomo? Esso ha considerato peccato tutti quelli
che sono i valori, i piaceri terreni, mettendosi dalla parte di tutto quanto è debole,
abbietto e mal riuscito. Il cristianesimo è la religione della compassione, ma si
perde forza quando si ha compassione, poiché ostacola il trionfo e la supremazia
degli uomini migliori e più forti in favore degli uomini mediocri. La morale
cristiana è, per Nietzsche, il prodotto del risentimento e dell'invidia degli uomini
deboli i quali, timorosi del dominio dei forti e considerandoli causa della loro
infelicità, hanno prodotto una cultura ed hanno sostenuto una morale ed una
religione che mortifica le forze vitali e passionali dell'esistenza, per esaltare
invece tutto ciò che avvilisce la vita, come la pietà, l'umiltà, la compassione, la
castità, ecc. Quella cristiana è per Nietzsche la morale degli schiavi, basata sulla
rinuncia delle passioni e dei piaceri terreni, che ha dominato la storia dell'umanità.
Nel nome di Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere. In
Dio è divinizzato il nulla (il nulla di ciò che è terreno e di ciò che è vita e passione
terrena). Si tratta dunque di una concezione decisamente nichilistica nei confronti
della morale e della cultura (che non valgono nulla, niente), quali sono state
imposte dalla massa dei mediocri e dei deboli. Quando si scopre che esse sono solo
illusione, allora ciò che resta è niente. Il nichilismo, come stato d'animo, subentra
necessariamente quando si vuole cercare un senso in tutto ciò che accade e ci si
accorge che invece non c'è. Così dicasi anche quando si crede che in tutto ciò che
accade vi sia un ordine e un principio fondamentale che tutto può spiegare. Ma non
c'è un fine nell'universo, né una provvidenza divina, né un ordine razionale delle
cose e neppure una verità assoluta ed immutabile. Il mondo non ha un senso, la sua
condizione, il suo modo di essere, è il caos.
Questa critica radicale di Nietzsche alla cultura e alla morale dominanti è stata
chiamata "filosofia del martello" perché distrugge, come se colpisse con tante
martellate, la tradizione culturale e morale dell'Occidente.
Tutto ciò non significa che per Nietzsche non esista alcun valore etico. Egli
condanna invece la cultura e la morale prevalenti del suo tempo quali si sono
storicamente formate.
Nell'opera "La genealogia della morale" Nietzsche analizza appunto l'origine
della morale e i modi in cui si è sviluppata nel corso della storia. I valori della
morale e della cultura non derivano da principi assoluti e trascendenti (come quelli
posti nel Dio delle religioni) e neppure da sentimenti innati ed immanenti nello spirito
131
umano (come sostiene la filosofia idealista). Essi invece derivano e sono imposti dal
dominio di alcuni uomini sugli altri.
In realtà, dice Nietzsche, vi sono due morali: la morale dei signori e la morale
degli schiavi.
La morale dei signori è quella basata sui valori e sulla forza delle passioni eroiche,
dell'intelligenza superiore, dell'individualismo.
La morale degli schiavi, che ha finito col prevalere, è la morale dei deboli, del loro
rancore e della loro invidia nei confronti degli uomini superiori. La massa dei deboli,
non possedendo la forza per emergere ed affermarsi come insieme di individui
superiori, ha imposto una morale che, anziché esaltare i meriti degli uomini migliori,
parla invece di sacrificio, di altruismo, di idealismo, per sottomettere in questo modo
i più forti. È questa per Nietzsche la morale del cristianesimo ma anche quella
della democrazia, del socialismo e del comunismo.
Perciò Nietzsche prende le difese e sostiene la morale dei signori, la quale implica
l'inversione, il rovesciamento di tutti i valori della vecchia morale a favore dei
valori della volontà e della forza d'animo individuali, della gioia degli istinti e delle
passioni, dell'orgoglio di sé. La nuova morale indicata è una morale aristocratica;
ma qui aristocrazia non è intesa come privilegio ereditario dei nobili, bensì come
supremazia degli uomini migliori per intelligenza, per carattere e forza d'animo.
Questa è per Nietzsche l'etica del futuro: alla rinuncia al mondo e agli istinti vitali
essa contrappone l'affermazione di tutto ciò che è terreno e corporeo.
La morte di Dio.
Spetta all'uomo divenire Dio lui stesso, cioè divenire superuomo perché, scrive
Nietzsche, "l'uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo". L'uomo è cioè
un essere transitorio, si trova a metà strada rispetto alla bestia (la scimmia) da cui
discende e al superuomo nel quale trasformarsi. Il valore dell'uomo non sta in ciò che
esso è, ma nella sua capacità di oltrepassare se stesso e divenire superuomo. Perciò
non deve rimpiangere il suo destino, che è quello di tramontare come uomo per
diventare superuomo.
Il superuomo è colui che non si aspetta più di trovare il proprio destino e la propria
felicità in una vita ultraterrena, sacrificando e disprezzando la sua vita terrena. Deve
anzi amare e rimanere fedele alla terra, al suo essere terreno, pur nei limiti e nella
tragicità della sua esistenza.
Scrive Nietzsche: "Il superuomo è il senso della terra (la consapevolezza di essere
creatura terrena e non una creatura destinata ad una vita ultraterrena). Un tempo il
sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio. Ma Dio è morto. Commettere
sacrilegio contro la terra (disprezzare la propria condizione di essere terreno), questa
è oggi la cosa più orribile. Chieda quindi l'uomo di essere e di diventare fino in fondo
ciò che è nella sua essenza (nella sua natura): una creatura che ama gioiosamente la
propria vita terrena anche quando è tragedia, che non si vergogna dei propri sensi e
133
L'eterno ritorno.
La teoria dell'eterno ritorno è, secondo lo stesso Nietzsche, il più abissale dei suoi
pensieri. Questa teoria dice che la storia, cioè il divenire, il tempo, non ha un
andamento lineare e progressivo, non è una linea diritta che si allunga sempre di più
attraverso il continuo susseguirsi dei fatti e delle vicende storiche, ma ha invece un
andamento circolare (come si pensava nell'antichità greca), per cui al compimento del
134
circolo le vicende del mondo sono destinate ogni volta ripetersi in eterno allo stesso
modo: eterno ritorno delle passate vicende storiche.
Si tratta di una teoria di difficile interpretazione.
Da alcuni è interpretata come una teoria scientifica cosmologica ed astronomica:
l'universo, per quanto grande, è finito, mentre il tempo è infinito; perciò prima o poi il
mondo arriverà nel tempo ad esaurire e a completare tutte le sue possibili
combinazioni, tutte le sue possibilità di mutamento e di sviluppo, e quindi non potrà
allora che ripetere il proprio ciclo.
Per altri invece questa teoria esprime uno stato d'animo, un sentimento dell'uomo
che sceglie di vivere "come se" tutto dovesse ripetersi. In questo senso due sono
le principali interpretazioni:
1. Nietzsche rifiuta la tesi di un andamento lineare della storia e del tempo
perché altrimenti ciascun momento, ciascun attimo, non verrebbe vissuto
pienamente in sé, ma solo in conseguenza ed in relazione all'attimo che lo ha
preceduto nonché nell'attesa dell'attimo successivo. Nessun momento
verrebbe cioè vissuto in sé, per quello che è, ma ognuno acquisterebbe
senso da quelli precedenti e da quelli successivi attesi. Il superuomo è
invece colui che sa amare e vivere intensamente l'attimo presente,
qualunque esso sia, anche tragico e drammatico, realizzando in tal modo la
sua piena libertà, liberandosi così dai vincoli e condizionamenti degli eventi
passati e dalle aspettative, spesso illusorie, del futuro. Ciò significa vivere
senza voler imporre alla vita un qualsiasi ordine e fine predeterminati.
2. Nietzsche respinge la tesi di un andamento lineare della storia e di un suo
continuo progresso verso un fine, uno scopo ultimo perché, secondo Nietzsche,
non c'è alcun finalismo o provvidenza nel mondo e nella storia. Accoglie
perciò la tesi della storia come eterno ritorno delle vicende storiche, che
ciclicamente si ripetono, poiché ciò significa escludere che la storia e la vita
abbiano una qualsiasi direzione, un qualsiasi fine e senso ultimi, come
invece predicato dalla metafisica, dalla morale e dalla religione tradizionali. Il
superuomo è colui che ha il coraggio di accettare e di volere questa
assoluta mancanza di senso della vita e della storia, poiché se la vita avesse
uno scopo determinato da una entità o da un essere superiore, ne
risulterebbe di conseguenza menomata e verrebbe meno la sua propria
libertà e volontà di potenza.
Vi è anche una terza e più sottile interpretazione. La dissoluzione della metafisica,
della morale e della religione ribadita da Nietzsche significa rendersi conto che non ci
sono più verità assolute ed immutabili al di sopra dell'uomo e tali da limitare la sua
libertà. Il superuomo infatti è colui che non è condizionato da entità superiori. Però,
se venisse accettata una concezione lineare della storia e del tempo rimarrebbe ancora
un'ultima condizione immutabile ed insuperabile, tale da limitare la libertà e la
volontà di potenza del superuomo, rimarrebbe cioè l'immutabilità ed immodificabilità
del passato, delle vicende trascorse. Nietzsche accoglie pertanto la tesi
dell'andamento circolare della storia poiché in tal modo il passato è destinato a
ritornare e, ritornando, allora non è più immutabile perché può essere rivissuto dal
135
superuomo in modo e con spirito diverso. In tale maniera il superuomo può trionfare
anche sul tempo passato.
A causa dei temi trattati sovente in modo oscuro, dello stile provocatorio e
paradossale, nonché del linguaggio usato, metaforico e pieno di simboli, sono
derivate disparate interpretazioni ed altresì strumentalizzazioni del pensiero di
Nietzsche.
Nietzsche è stato variamente considerato come esponente o dell'antipositivismo
oppure dell'irrazionalismo o, addirittura, come precursore delle ideologie
antidemocratiche e totalitarie del Novecento, del nazismo in particolare.
Anche sul piano letterario, Gabriele D'Annunzio ci ha dato un'interpretazione
superficiale e falsa del superuomo: si è fermato infatti ai soli aspetti esteriori e non
ha saputo comprendere il senso di eroica tragicità del superuomo di Nietzsche. Per
Nietzsche il superuomo è colui che accetta ed ama anche la condizione tragica
dell'esistenza, mentre il superuomo di D'Annunzio si illude di vincere la tragedia
della vita attraverso il piacere sensuale, il godimento della bellezza e la fama che
deriva da imprese eroiche. Per Nietzsche, ancora, il superuomo è il possibile destino
di tutta l'umanità, anche se soltanto i migliori sono in grado di realizzarlo; per
D'Annunzio invece è il privilegio di pochi raffinati. Più che altro, il superuomo
dannunziano è un esteta velleitario.
Il movimento nazista-hitleriano, a sua volta, non ha esitato ad usare
strumentalmente gli ideali nietzschiani di superuomo, di volontà di potenza e di una
nuova e "pura" razza umana a fini di propaganda e per dare giustificazione ideologica
e culturale al proprio programma di razzismo, di dominio e di statalismo autoritario.
A lungo è durata l'immagine di Nietzsche quale "profeta del nazismo". A questa
interpretazione ha contribuito per prima la sorella di Nietzsche, di sentimenti filo-
nazisti, che ha deformato i manoscritti postumi del fratello. Ma il superuomo di
Nietzsche non ha nulla a che fare con l'ideologia nazista: non è certo l' ariano puro,
perché il superuomo di Nietzsche non fa nessuna distinzione di razza, essendo invece
un traguardo ideale proposto a tutti gli uomini mentalmente superiori di qualunque
razza ed etnia. Il superuomo di Nietzsche non è neppure il nazista che celebra lo Stato
tedesco, il Reich, ma è il filosofo che annuncia una nuova umanità liberata dalle
antiche catene, ivi compresa l'idolatria dello Stato, che è invece centrale
nell'ideologia nazista. "Lo Stato, avverte Nietzsche, è il più freddo di tutti i mostri. È
un idolo che puzza".
In effetti, la filosofia di Nietzsche, pur nelle sue ambiguità, non può essere
strumentalizzata e messa al servizio di nessuna ideologia. Occorre piuttosto
considerare la rilevante influenza del pensiero di Nietzsche sulle principali correnti
filosofiche e culturali di tutto il Novecento, dall'esistenzialismo alla psicoanalisi,
dallo strutturalismo al pensiero critico-utopico.
136
Tutte le più importanti filosofie di fine Ottocento e Novecento sono critiche nei
confronti del Positivismo a causa dell'eccessivo entusiasmo manifestato per la
scienza, le cui verità sono ritenute assolute ed esclusive, quando invece anche la
scienza commette errori ed inoltre, se sa spiegare il come delle cose, dei fenomeni,
non sa però spiegrne il perché. Il Positivismo è accusato di aver trasformato il culto
della scienza in un culto dogmatico e di aver concepito la scienza come una nuova
metafisica costituita da certezze indubitabili.
Per reazione al Positivismo sorgono tra Ottocento e Novecento nuove filosofie e
nuovi indirizzi filosofici, volti ad indagare soprattutto gli aspetti della realtà non
ricompresi nel campo delle conoscenze scientifiche fisiche e naturali, sulle quali
invece il Positivismo era particolarmente incentrato.
Sorgono così:
1. La Psicoanalisi, che scopre la realtà e la forza dell'inconscio.
2. Il Neocriticismo, che invita ad un ritorno, seppur rinnovato, alla filosofia di
Kant, vale a dire all’analisi delle condizioni di validità delle scienze e degli
altri prodotti umani come l'arte, la morale o la religione.
3. Lo Spiritualismo, contro il materialismo ed il naturalismo meccanicistico.
4. Lo Storicismo tedesco, volto ad analizzare la natura e la validità del sapere
storico nonché gli elementi di distinzione rispetto alle scienze fisiche e naturali.
5. Il Neoidealismo, sui temi del soggetto conoscente e della storia.
6. La Fenomenologia, fondata sull'esigenza di cogliere l'essenza dei fenomeni
nell'obiettivo di individuarne il senso.
7. L'Esistenzialismo, che indaga i problemi e il senso dell'esistenza umana.
137
La psicologia.
La psicoanalisi.
La scoperta dell'inconscio.
dell'inconscio tra pulsioni sepolte nel profondo, avvertite come contrastanti con la
coscienza e per le quali a livello cosciente si prova vergogna.
Poiché l'inconscio agisce non solo sui soggetti malati ma è presente in tutti gli
uomini e ne influenza i comportamenti, dalla scoperta della forza condizionante
dell'inconscio deriva una nuova e rivoluzionaria visione della natura umana. Ne
risulta sconvolta la tradizionale concezione di coscienza, intesa come lucida
espressione della razionalità. La maggior parte della vita mentale si svolge
nell'inconscio, al di fuori della coscienza. Il conscio è solo la manifestazione
consapevole e visibile della vita mentale, della psiche, di cui anzi occupa solo la
superficie. La scoperta dell'inconscio ha rivoluzionato la tradizionale idea di
uomo, tant'è che la psicoanalisi ha potentemente influenzato tutte le discipline
umane, non solo la psicologia ma anche la letteratura, la filosofia, la sociologia,
l'antropologia, la pedagogia. Ha influenzato, in poche parole, tutta la cultura del
nostro secolo.
In una prima sistemazione teorica della sua dottrina chiamata la prima topica, che
significa i luoghi della psiche, Freud individua tre fattori, o sistemi, che operano
nella vita psichica dell'uomo:
1. il conscio, ovvero tutto ciò di cui siamo consapevoli;
2. il preconscio, ovvero tutto ciò che non è presente a livello cosciente in noi, ma
che può essere facilmente richiamato alla coscienza;
3. l'inconscio, ovvero tutto ciò che è nel profondo della psiche umana su cui nulla
può la coscienza.
Più importante è la sua seconda sistemazione teorica, la seconda topica, in cui
Freud distingue tre diverse componenti della psiche o struttura della
personalità:
1. l'Es, cioè l'inconscio, ossia il "calderone degli istinti ribollenti", cioè la forza
caotica dell'inconscio che costituisce la materia originaria della nostra psiche,
la quale non conosce né il bene né il male né la morale, ma ubbidisce
unicamente al principio del piacere ed ignora le leggi della logica, a cominciare
dal principio di non contraddizione: è perciò un calderone di impulsi
contraddittori;
2. il Super-io o Super-ego, che è ciò che comunemente è chiamato la "coscienza
morale", ossia l'insieme delle norme, dei valori, dei simboli, dei divieti e delle
proibizioni interiorizzati e appresi dall'individuo fin dai primi anni di vita
attraverso l'educazione ed il suo inserimento nella società; il Super-io è quindi
un censore severo che punisce, sviluppando un senso di colpa, ogni
trasgressione, ogni desiderio che sia in contrasto con i valori, i costumi e le
consuetudini della società;
3. l'Io, o l'Ego, che rappresenta il livello conscio, ma non coincide pienamente
con il conscio stesso perché è condizionato dalle sollecitazioni e tensioni che
142
provengono sia dal mondo esterno sia dal inconscio sia dal Super-io; l'Io si
trova in mezzo a queste spinte contrastanti, le tentazioni dell'Es da una
parte e i richiami del Super-io dall'altra, contrasti che si trova quindi a
dover mediare, ad equilibrare mediante opportuni compromessi.
Nell'individuo normale l'Io riesce abbastanza bene a controllare la situazione.
Agendo secondo il principio della realtà (il buon senso) concede parziali
soddisfazioni all'Es senza violare in forma vistosa i precetti del Super-io.
Ma se l'Es è troppo forte o il Super-io è troppo debole o troppo rigoroso, l'Io non
riesce ad equilibrare le spinte contrastanti e la sua impotenza produce angoscia.
Se l'Es ha il sopravvento e il Super-io è troppo debole, l'Io è allora condotto a
comportamenti asociali, delinquenziali o perversi.
Quando invece il Super-io è troppo rigido esso provoca la rimozione, cioè la
cancellazione e la soppressione forzata dal livello della coscienza, delle pulsioni
(istinti) e dei desideri dell'Es e possono allora derivare stati di nevrosi e di psicosi (le
psicosi sono disturbi mentali più gravi delle nevrosi: costituiscono ciò che è
comunemente chiamato pazzia). Essi possono guarire quando il malato prende
coscienza, mediante la psicoanalisi, del conflitto che subisce e lo supera anche
attraverso il delicatissimo rapporto detto "transfert", ossia il trasferimento sulla
persona del medico di stati d'animo ambivalenti e contrastanti di amore e odio,
provati dal paziente durante l'infanzia nei confronti dei genitori.
Oltre alla rimozione degli istinti, che più di talvolta può essere abbastanza dannosa,
un meccanismo più equilibrato di difesa nei confronti dell'Es è quello della
"sublimazione", mediante cui l'Io trasferisce gli istinti dell'Es verso méte ed obiettivi
socialmente accettabili, ad esempio l'impegno e la gratificazione del lavoro, dell'arte,
della religione.
sogni intende appunto svelare questo contenuto latente, farlo emergere a livello di
coscienza e guarire così dalle nevrosi o psicosi.
I travestimenti in cui nei sogni si presentano i desideri latenti si svolgono secondo
Freud nei modi seguenti:
1. la condensazione: ogni singolo elemento del sogno concentra su se stesso più
significati, quelli manifesti e quelli latenti;
2. lo spostamento: un certo significato è trasportato da un elemento ad un altro
del sogno, l'elemento latente è trasportato in quello manifesto;
3. la simbolizzazione: ogni elemento del sogno non rappresenta effettivamente se
stesso, quale è nell'inconscio a livello latente, ma assume a livello manifesto
una forma simbolica, individualmente e socialmente più accettabile.
Gli impulsi rimossi (respinti e cancellati a livello di coscienza) che stanno alla base
delle nevrosi e psicosi sono sempre o quasi sempre per Freud di natura sessuale,
legati ad istinti sessuali dell'infanzia che sono state dimenticati.
La teoria della sessualità costituisce un altro aspetto fino ad allora inconcepibile.
Si riteneva infatti la sessualità come sostanzialmente coincidente col rapporto
sessuale. Ma in tal modo non veniva spiegata né la sessualità infantile, né la
sublimazione (il trasferimento di un desiderio sessuale in passioni socialmente nobili
come il lavoro, l'arte, la scienza, ecc.), né la perversione (intesa come attività
sessuale insana).
Freud amplia il concetto di sessualità, concepita come energia istintiva chiamata
"libido", rivolta non solo al rapporto sessuale ma alla ricerca del piacere dei sensi più
in generale. Freud scopre che la libido domina l'inconscio fin dall'infanzia. La
scoperta della sessualità infantile provoca così un altro profondo sconvolgimento
rispetto alla cultura tradizionale, che da sempre aveva visto l'infanzia come stato di
innocenza e purezza, mentre la libido è invece presente anche nel bambino e lo
spinge a trarre piacere dal proprio corpo.
La sessualità infantile si sviluppa, per Freud, attraverso tre fasi, corrispondenti ad
altrettante zone erogene:
1. la fase orale, consistente nel piacere del poppare;
2. la fase anale, consistente nel piacere dell'evacuazione;
3. la fase fallica, consistente nella scoperta del pene come oggetto di attrazione
sia per il bambino che per la bambina, i quali soffrono entrambi di un
"complesso di castrazione": il bambino per la paura di una possibile
evirazione (il taglio del pene), la bambina perché si sente di fatto evirata e
prova "l'invidia del pene".
In connessione alla sessualità infantile Freud elabora la nota teoria del "complesso
di Edipo" (dal mito di Edipo, costretto dal destino a uccidere il padre e a sposare,
anche se inconsapevolmente, la madre). Nel caso della bambina si parla anche, in
corrispondenza, di "complesso di Elettra" (dal nome della madre
144
IL NEOCRITICISMO.
volta alla ricerca di puri concetti, ovverosia di contenuti logici dotati di una loro
validità specifica e autonoma.
Di Kant peraltro Cohen rifiuta due punti:
1. il riferimento alla cosa in sé a motivo del suo rifiuto di ogni realismo, cosa in sé
che egli reinterpreta piuttosto come un concetto-limite dell'esperienza e della
conoscenza che sempre si sposta in avanti;
2. la distinzione tra forme della sensibilità (spazio tempo) e forme dell'intelletto (le
categorie), che invece Cohen assimila: il tempo è la condizione della pluralità dei
fenomeni, cioè del loro succedersi, mentre lo spazio è la condizione della loro
esteriorità, cioè dei luoghi in cui si manifestano.
Come Cohen, Natorp afferma che la filosofia non è scienza delle cose, delle quali si
occupano le scienze, ma è teoria della conoscenza. La filosofia però non studia il
soggetto conoscente, non è cioè un'attività psichica, ma indaga sui contenuti logici,
assimilati ad una sorta di idee platoniche che però non sono considerate oggetti,
super-cose fisse, ma piuttosto un fine, un ideale regolativo. Mediante i contenuti (i
principi) logici si giunge a progressive determinazioni dell'oggetto (si giunge
progressivamente a comprendere gli oggetti negli aspetti e caratteristiche specifici).
La conoscenza è sintesi e l'analisi consiste nel continuo controllo e rielaborazione
delle sintesi già effettuate, in modo da perfezionare sempre di più le determinazioni
degli oggetti. L'oggetto perciò non è un punto di partenza ma un punto di arrivo che
si sposta sempre in là: l'oggetto è sempre in divenire, è un compito infinito. Ciò che
conta, dunque, è il processo della progressiva determinazioni degli oggetti: il
processo, il metodo è tutto.
A differenza di Cohen, Natorp non restringe la riflessione critica all'esperienza
fisico-naturale ma l'estende anche all'esperienza morale, estetica e religiosa. Tale
estensione di interessi sarà portato avanti soprattutto da Cassirer.
sostanze e, in una visione fenomenica e non sostanziale della realtà, si sono rivolte
alla ricerca delle relazioni funzionali tra gli oggetti. Le funzioni non si ricavano
dalle cose per astrazione ma sono costruite dall'intelletto, sono l'a-priori.
Abbandonando il concetto di sostanza viene abbandonata con ciò la nozione di
scienza come immagine o rispecchiamento delle sostanze naturali. Con la prevalenza
del concetto di funzione acquista importanza il valore del segno (dei modi di
denominazione o indicazione degli oggetti) ed appare decisiva la funzione
costitutiva del linguaggio rispetto agli oggetti di cui si occupa la scienza (il
linguaggio non è solo mezzo di comunicazione ma condiziona altresì la stessa visione
e comprensione del mondo e dei fenomeni, tant'è che in ogni linguaggio esistono
termini, cioè modi di pensare, sconosciuti in altri linguaggi).
Gli interessi di Cassirer non sono tuttavia rivolti al solo ambito scientifico ma, come
preannunciato, estende la sua analisi anche ad altri ambiti, vale a dire alle altre
forme fondamentali della "comprensione" del mondo, definite "forme simboliche".
Sono le forme mentali attraverso cui gli individui e i gruppi producono significati,
interpretazioni e schemi della loro esperienza della realtà. Sono tali forme
simboliche che danno "forma e senso" al modo di vedere il mondo, che
organizzano l'esperienza e la rivestono di significati. Inserito tra il sistema nervoso
ricettivo e quello reattivo, ritrovabili in tutte le specie animali, nell'uomo, afferma
Cassirer, vi è un terzo sistema che si può chiamare "sistema simbolico". L'uomo è un
animale culturale anzi, precisa Cassirer, l'uomo è animale simbolico e mediante esso
supera i limiti della sola vita organica. L'uomo non vive in un universo solamente
fisico bensì in un universo simbolico, il cui tessuto è costituito dal linguaggio, dai
miti, dall'arte, dalla religione, oltre che dalla stessa scienza e conoscenza. L'uomo
non si trova direttamente di fronte alla realtà, bensì vede e conosce la realtà
attraverso le proprie teorie concettuali ma anche attraverso le proprie forme
linguistiche, le immagini artistiche, i simboli mitici, i riti religiosi. Anche nel campo
pratico l'uomo non vive in un mondo di puri fatti; egli piuttosto "vive fra emozioni
suscitate dall'immaginazione, fra paure e speranze, fra illusioni e disillusioni, fra
fantasie e sogni".
In Cassirer i simboli rivestono la medesima funzione delle categorie kantiane, in
quanto rappresentano altrettante forme che organizzano l'esperienza e altrettanti
modi di "vedere la realtà". Tuttavia, a differenza delle categorie di Kant, i simboli
sono storicamente e culturalmente condizionati; non sono quindi stabili e costanti
bensì mutevoli secondo le diverse epoche storiche e ambienti culturali.
Cassirer è quindi dell'idea che si possa e si debba correggere la definizione
tradizionale di uomo. Certo, la definizione di uomo come animale razionale
mantiene il suo valore ma pretende di scambiare la parte con il tutto, perché oltre al
linguaggio concettuale esiste un linguaggio dei sentimenti e delle emozioni. È
limitante considerare la sola ragione se si vogliono abbracciare in tutta la loro
ricchezza e varietà le forme della vita culturale ed emozionale dell'uomo. È
soprattutto attraverso le proprie forme simboliche che l'uomo dimostra un nuovo
potere, il potere di costruirsi un proprio mondo ideale in un processo di progressiva
autoliberazione (libertà di costruirsi i propri significati e ideali).
149
Si ispira alla cosiddetta "filosofia dei valori". Windelband attribuisce certo alla
filosofia il compito di cercare i principi a-priori che garantiscono la validità della
conoscenza ma non si limita all'ambito scientifico. La filosofia non è solo ricerca se
ci sia una scienza, vale a dire un pensiero che possegga con validità universale e
necessaria il valore della verità, ma è anche ricerca se ci sia una morale, cioè un
volere e un agire che posseggano con validità universale e necessaria il valore di
bene; è pure ricerca se ci sia un'arte, vale a dire un intuire e un sentire che abbiano
con validità universale e necessaria il valore di bellezza. Gli a-priori kantiani non
organizzano solo la conoscenza ma anche l'etica e l'estetica. Non vi sono solo norme
teoretiche ma anche estetiche e morali.
La filosofia quindi non ha per oggetto giudizi di fatto ma giudizi valutativi del tipo:
questa cosa è vera; è buona; è bella. I giudizi valutativi della filosofia si riferiscono a
valori che hanno validità normativa e si distinguono pertanto dalle leggi naturali che
hanno invece validità empirica e necessariamente predeterminata, nel senso che non
possono essere altrimenti. La validità empirica è quella dell'essere, mentre la validità
normativa è quella del dover essere. Da qui la distinzione tra scienze nomotetiche (le
scienze fisiche e naturali, dal greco “nomos”=legge), che stabiliscono leggi
necessarie e meccaniche, e scienze ideografiche (dal greco=le scienze del
particolare, cioè le scienze storiche e dello spirito), che indagano ciò che di
individuale, di specifico ed irripetibile è in ogni evento.
Rickert riprende la concezione della filosofia come teoria dei valori, sulla scia di
Windelband, tuttavia nell'ambito di un'impostazione più organica e sistematica della
teoria della conoscenza e nell'obiettivo di fondare l'autonomia della conoscenza
storica. In tal senso il neocriticismo di Rickert si ricollega allo storicismo tedesco.
Rickert considera tre tipi di rapporto tra soggetto ed oggetto in campo gnoseologico:
1. il rapporto individuo-ambiente;
2. il rapporto coscienza e realtà esterna;
3. il rapporto coscienza e i suoi contenuti.
Per Rickert quello che conta è il terzo tipo di rapporto. Egli critica infatti la
gnoseologia di stampo realistico, nel senso che nega la conoscenza come rapporto
del soggetto con un oggetto da esso indipendente. Per Rickert invece la
rappresentazione (la percezione) e la cosa rappresentata (la cosa percepita) sono
ambedue oggetti e contenuti di coscienza e perciò il loro rapporto è quello tra due
oggetti di pensiero interni alla coscienza. Di conseguenza la garanzia della validità
della conoscenza non risiede nell'essere ma nel dover essere nel senso di
150
Windelband. Infatti conoscere vuol dire giudicare, cioè accettare o rifiutare e ciò
implica il riconoscimento di un valore, ossia di un dover essere ed è questo il
fondamento della conoscenza. Un giudizio non è vero perché esprime ciò che è;
piuttosto si può affermare che qualcosa è soltanto se il giudizio che la esprime è vero
in forza del suo dover essere.
Il dover essere (cioè i valori, le norme) è trascendente rispetto ad ogni singola
coscienza empirica. La coscienza per Rickert è appunto il soggetto trascendentale, al
di là di qualsiasi condizionamento di spazio e di tempo: è "la coscienza in
generale", la coscienza collettiva, che ha valore duraturo e permanente al di là della
soggettività individuale. Non è soltanto logica ma anche etica ed estetica.
Poiché i valori trascendono le coscienze singole, le indagini di Rickert, diversamente
da Max Weber (come si vedrà), fanno completa astrazione, esulano dalle condizioni
e dai problemi effettivi inerenti ai processi di ricerca. Compito della filosofia è di
stabilire in che modo le scienze generalizzanti (le scienze fisiche e naturali) e quelle
individualizzanti (le scienze storiche e psichiche) trovino, nel riferimento ai valori
che ne costituiscono i principi a-priori, il fondamento e la garanzia della loro
validità universale e necessaria.
Rickert distingue sei domìni (ambiti) del valore:
1. la logica, che è il dominio del valore di verità;
2. l'estetica, che è il dominio del valore di bellezza;
3. la mistica, che è il dominio del valore di santità impersonale;
4. l'etica, che è il dominio del valore della moralità;
5. l'erotica, che è il dominio del valore di felicità;
6. la filosofia religiosa, che è il dominio del valore di santità personale.
Diversamente da Cassirer, tutti i valori sono assoluti, universali ed eterni, non sono
cioè condizionati né storicamente né culturalmente.
La disputa sui valori si manifesta particolarmente nella seconda metà
dell'Ottocento. Nietzsche aveva negato i valori tradizionali proclamando nuovi
valori desunti dall'esaltazione della vita e della potenza. Altri filosofi, come Georg
Simmel e lo stesso Cassirer, a differenza di Rickert, insistono invece sulla relatività
dei valori, cioè sul fatto che mutano con i tempi e con le circostanze.
Rickert riprende dal Windelband la distinzione tra scienze nomotetiche e scienze
ideografiche, ma per lui la distinzione è solo di metodo, di punto di vista, e non di
contenuto, di oggetto. Coerentemente con l'obiettivo di dimostrare l'autonomia della
coscienza storica, le scienze nomotetiche si contraddistinguono perché il loro
orientamento, il loro punto di vista, è generalizzante (mirano a ricavare concetti e
leggi generali). Da questo punto di vista esse si applicano sia al mondo fisico ma
anche a quello psichico. Però, precisa Rickert, le scienze generalizzanti lasciano
fuori di sé l'intero mondo dell'individualità. Difatti ogni processo ed evento, fisico o
spirituale, è qualcosa di unico e di irripetibile, è un individuo. Se si vuole cogliere la
specificità degli eventi, e non le loro caratteristiche comuni di generalità, bisogna
ricorrere allora a una forma di conoscenza diversa da quella generalizzante. Questo
diverso tipo di conoscenza è la storia, che rappresenta la realtà non in riferimento al
generale ma solamente in riferimento al particolare.
151
LO SPIRITUALISMO FRANCESE.
"perché" e il senso. La religione infatti non vuole essere spiegazione dei fenomeni e
perciò non può sentirsi toccata dalle scoperte scientifiche concernenti la natura delle
cose. Per la religione i fenomeni valgono invece per il loro significato morale e per i
sentimenti che suggeriscono.
Il Modernismo.
È considerato il filosofo più importante del suo tempo. La sua filosofia accoglie
elementi provenienti dalla tradizione mistico-religioso di Agostino, di Malebranche e
di Pascal, rielaborati alla luce dello spiritualismo e della reazione antipositivistica.
Notevole è stato l'influsso del suo pensiero non solo sul pragmatismo americano
ma anche sulla scienza, sull'arte, sulla letteratura, sulla società e sulla religione.
La filosofia di Bergson è una sintesi ricca e originale tra evoluzionismo spenceriano e
critica al culto positivistico della scienza.
L'intento di fondo è la difesa della creatività e della irriducibilità della coscienza,
o spirito, al mondo della natura, indagato col metodo scientifico. La coscienza, o
spirito, è in fondo la vita e il senso della vita di ognuno. Ma l'originalità e peculiarità
di Bergson è che persegue il proprio intento proprio sulla base e facendo suoi i
risultati della scienza, senza minimizzare affatto i fenomeni fisici e l'universo
materiale, grosso errore, questo, che Bergson addebita alle dottrine spiritualiste alle
quali pur appartiene. Bergson intende essere fedele alla realtà, anche a quella fisica,
tuttavia non stravolta e ridotta al culto ingenuo dei "fatti" del positivismo, di cui
critica lo schematismo scientifico. Egli costruisce un nuovo modello di sapere che
però non si identifica con la metafisica tradizionale basata su "essenze immobili". La
nuova metafisica bergsoniana si basa piuttosto sul concetto di centralità della
coscienza.
Proprio per la sua fedeltà alla realtà, Bergson da giovane si entusiasma per la teoria
positivistico-evoluzionistica di Spencer. Ma si accorge che il positivismo non
mantiene affatto la sua promessa di fedeltà ai fatti, come nel caso della trattazione
del problema del tempo. Bergson procede così alla sua celebre distinzione tra
tempo della scienza e tempo della coscienza.
Osserva che il tempo della scienza e della meccanica è concepito come una serie di
istanti (di unità di misura) uno accanto all'altro ed ognuno uguale all'altro. È un
tempo spazializzato, espresso in termini di movimento di un oggetto in un certo
spazio (le lancette dell'orologio). È altresì un tempo reversibile, perché possiamo
tornare indietro e ripetere infinitamente la misurazione temporale. Ma queste
158
È vero che spesso i nostri atti sono abitudinari, per cui in questo senso sono
meccanici, analizzabili e prevedibili come i fenomeni esterni: in essi quindi non
siamo liberi. Ma quando l'atto di volontà deriva dallo sciolto fluire della
coscienza, esso si presenta come qualcosa di continuamente nuovo e creativo: in
questo senso è libero, di una libertà imprevedibile e indefinibile, perché dipende
di volta in volta da come in quel momento l'intera coscienza è venuta a svilupparsi.
La libertà è dunque indefinibile, perché il definirla significherebbe analizzarla e
irrigidirla, cioè cristallizzarne lo slancio per sottoporlo a criteri rigidi di misurazione e
a parametri di confronto. Ma la coscienza se è imprigionata cessa di essere vita per
diventare morte e il divenire si trasforma in divenuto, cioè muta natura non appena è
sottoposto ad indagine.
Dopo aver affrontato il problema del rapporto tra libertà e necessità nell'agire
dell'uomo, Bergson propone una soluzione anche per il problema del rapporto o,
meglio, del dualismo tra corpo (materia) e spirito, vale a dire il problema della
contrapposizione tra la realtà esterna o corporea, che è meccanica, mai nuova e
ripetitiva, e la realtà interna, quella della coscienza, dello spirito, che è sempre
creativamente nuova. In che termini sta, si chiede Bergson, il problema del rapporto e
anzi del passaggio tra le due realtà?
In proposito Bergson rifiuta sia il materialismo, secondo cui l'attività spirituale
deriva ed è spiegabile in base alla fisiologia del cervello, sia l'idealismo, secondo cui
la materia, i corpi, sono produzione del pensiero. Critica specialmente la riduzione
positivistica dello spirito a materia. Bergson ribadisce l'idea che il cervello non
spiega lo spirito e che "in una coscienza umana c'è infinitamente di più che nel
cervello" corrispondente. Il cervello è solo un mezzo che stabilisce un rapporto tra la
coscienza, cioè la realtà interna, e la materia, cioè la realtà esterna.
Per spiegare il rapporto tra corpo e spirito, o coscienza, Bergson distingue tra
memoria, ricordo e percezione.
La memoria coincide con la coscienza stessa, con la durata della coscienza, e
contiene tutto ciò che ci è accaduto e ci accade, anche ciò di cui al momento non
siamo consapevoli (l'inconscio).
Il ricordo è una funzione del cervello che, per effetto di una nostra percezione, estrae
dalla memoria quel dato o quei dati che ci sono utili in vista dell'azione cui la
percezione ci induce.
La percezione è il modo in cui noi entriamo in relazione col mondo esterno;
attraverso la percezione infatti noi entriamo in contatto con i corpi e la materia
esterna a noi.
La percezione, ossia il contatto con le cose esterne, spinge ad agire o reagire
contro di esse. A tal fine la percezione mette in funzione il cervello che estrapola
dalla memoria quei ricordi, quelle esperienze passate, che sono i più idonei per
160
agire. I ricordi di analoghe esperienze trascorse ci suggerisco infatti l'azione più utile
di fronte alla situazione che al presente è percepita.
La materia per Bergson si può considerare come quell'insieme di immagini (non di
immaginazioni) quali noi percepiamo: è ciò che noi percepiamo delle cose (la forma
degli oggetti, la consistenza, il suono, il colore, l'odore, ecc.).
La percezione quindi corrisponde alla materia, mentre la memoria, cioè la
coscienza, corrisponde allo spirito. La percezione che noi abbiamo della realtà
materiale ha carattere reattivo, nel senso che induce il cervello ad estrarre dalla
memoria i ricordi che ci sono utili in vista dell'azione. I ricordi fanno parte della
memoria, cioè dello spirito, ma, tramite il cervello, sono evocati dalla percezione,
cioè dal nostro entrare in contatto con la realtà materiale. Pertanto i ricordi sono il
collegamento, il passaggio dalla realtà spirituale a quella materiale. In tal modo
è superato il dualismo tra spirito e materia. Le percezioni infatti diventano poi a
loro volta memoria, nel senso che vengono successivamente assorbite nella
coscienza accrescendo il suo bagaglio. Dunque tra spirito e materia non c'è
dualismo ma un circolo di continuo scambio reciproco.
Bergson non vede l'universo alla maniera di Cartesio, diviso tra spirito (res cogitans)
e materia (res extensa). Per Bergson, come abbiamo visto, spirito e materia, anima e
corpo, sono due aspetti della medesima realtà. Materia e spirito non sono distinti
ma, prosegue Bergson, derivano entrambi dalla medesima evoluzione della
realtà. Nella sua opera "L'evoluzione creatrice" Bergson passa dall'analisi della
coscienza all'elaborazione di una concezione cosmologica della vita dell'universo,
proponendo l'idea di un evoluzionismo globale che coinvolge sia la materia sia lo
spirito (il pensiero, i sentimenti, le emozioni).
Le teorie dell'evoluzione si distinguono in due grandi classi:
1. le teorie meccanicistiche dell'evoluzione, come quella di Darwin, secondo cui
una mutazione del tutto casuale favorisce, nella lotta per la sopravvivenza, un
individuo piuttosto che altri, il quale poi trasmette per ereditarietà la propria
mutazione vantaggiosa ai discendenti diretti permettendo la sopravvivenza del
più adatti;
2. le teorie finalistiche dell'evoluzione, come quella di Spencer, secondo cui
l'evoluzione segue un piano determinato e funzionale al raggiungimento di un
fine.
Bergson respinge sia l'evoluzionismo meccanicistico sia quello finalistico perché
sono entrambi deterministici. Infatti il primo spiega l'evoluzione in base ad un
principio deterministico di causa-effetto, ma anche il secondo spiega la realtà come
determinata dalla causa finale, predeterminata cioè dal fine perseguito.
Proprio perché deterministici, l'evoluzionismo meccanicistico e quello finalistico si
lasciano sfuggire la realtà autentica e profonda dell'evoluzione, che per Bergson
non è né meccanicistica né finalistica bensì è "evoluzione creatrice".
161
Al pari della vita della coscienza, anche la vita biologica e quella dell'intero
universo non è una macchina che si ripete sempre identica a se stessa; non è neppure
integralmente e uniformemente diretta ad un fine, ma è anch'essa continua
evoluzione creatrice, sempre nuova, imprevedibile e libera: è, come Bergson
definisce l'evoluzione creatrice, "slancio vitale" che si espande incessantemente.
Come abbiamo visto, la durata è per Bergson l'essenza non solo della coscienza, dello
spirito, ma anche della materia, rigettando con ciò ogni dualismo che contrappone
l'anima al corpo. In base ai risultati delle scienze l'universo sembra invece senza
durata, caratterizzato cioè da una evoluzione meccanica ed inconsapevole, non libera.
Tuttavia, dice Bergson, le scienze si fermano alla superficie della realtà, che
scompongono e frazionano con l'analisi perdendone di vista il carattere di profonda
unitarietà, ma la verità è un'altra.
Anche l'universo è durata, ossia evoluzione libera e imprevedibile: libera e
imprevedibile perché l'evoluzione avrebbe potuto o potrà essere diversa: rimane
quindi escluso sia il determinismo meccanicistico sia il finalismo predeterminato.
Sia i corpi organici sia quelli inorganici derivano tutti da un unico e medesimo
principio, cioè dal medesimo slancio vitale e dalla medesima incessante evoluzione
creatrice. Ma come procede questa evoluzione creatrice libera, non
meccanicistica o finalistica?
L'evoluzione creatrice come sviluppo e creazione continua, come azione ed energia
che si espande continuamente, risponde Bergson, è una forza impressa una volta
per tutte all'origine dell'universo ed è forza dinamica, incessante, dal momento
che una forza statica non ha senso.
Pur non avendo un fine o un procedere meccanicistico, ma essendo invece azione
e movimento sempre nuovo ed imprevedibile, l'evoluzione creatrice o slancio vitale
ha comunque non solo la tendenza ad espandersi ma altresì di procedere dal
maggior disordine a stati di maggior ordine. Lo slancio vitale non procede
tuttavia uniformemente, ma secondo differenti linee evolutive. Si espande a
raggiera: è come un fascio di steli che partendo dalla medesima origine si protende
in tante direzioni diverse. Ebbene, solo una di queste linee evolutive è progredita
conservando sempre inalterato il flusso vitale e spirituale (cioè la coscienza) che
si è sviluppato fino a giungere all'uomo. Lungo le altre linee evolutive, invece, il
flusso dello slancio vitale, dello spirito, si è prima o poi arrestato ed arrestandosi
si è degradato, si è come solidificato, dando origine ai diversi livelli della materia
inorganica ed organica.
Appare in tale spiegazione il concetto moderno di materia come degradazione
dell'energia. Come attestato dal secondo principio della termodinamica, la materia è
energia che progressivamente si depotenzia e si degrada. Così, mentre lo spirito, lo
slancio vitale, è passaggio dal maggior disordine al maggior ordine, la materia
procede da un ordine relativo ad un disordine sempre maggiore (entropia).
Le altre linee evolutive, arrestandosi, danno origine una al regno minerale,
un'altra al regno vegetale ed un'altra ancora al regno animale. In questi regni
inferiori di livello materiale si esaurisce la libertà della durata, la libertà dello
162
La morale che deriva dallo slancio d'amore è quella della società aperta, ancora
da costruire, fondata sullo slancio creativo. È questa la morale che in nuce, anche
se non pienamente liberata, si trova nel cristianesimo, nei saggi dell'antica Grecia, nei
profeti d'Israele. È una morale e una società che sa esprimere esigenze spirituali e di
libertà, anche attraverso trasformazioni radicali degli ordinamenti sociali. Spinge
l'umanità a progredire, pertanto è dinamica e promuove l'iniziativa individuale e
la novità. È una morale assoluta, creatrice di valori universali, di eroi morali
(quali Socrate e Gesù) che vanno oltre i valori del gruppo o della società di
appartenenza per guardare all'intera umanità. È una morale e una società dinamica
che fa appello all'originalità e alla profondità della persona. È una morale che non si
insegna; è la morale dei grandi mistici e profeti. Vi corrisponde una religione
dinamica, che rifiuta i dogmi della religione statica e si fonda sul rapporto
personale e diretto con Dio. I dogmi sono cristallizzazioni, principi rigidi, che
vanno superati col misticismo. Tuttavia non un misticismo contemplativo, come
quello neo-platonico od orientale, ma attivo e dinamico, come in San Paolo, San
Francesco, Giovanna d'Arco. In effetti, solo l'esperienza mistica è in grado di fornire
la vera prova dell'esistenza di Dio. La rinascita del misticismo potrebbe porsi come
rimedio contro i grandi mali sociali e morali di cui soffre l'umanità nonché contro il
predominio tirannico della tecnica, che esige un "supplemento d'anima", vale a dire,
appunto, una mistica.
165
IL PRAGMATISMO AMERICANO.
4. la filosofia marxista della prassi, nella parte in cui assegna alla filosofia non
più il compito di interpretare il mondo ma di cambiarlo.
Caratteristiche generali del pragmatismo americano sono:
1. le idee, le conoscenze sono valide non tanto in sé, sotto il profilo teoretico
(conoscitivo) ma solo nella misura in cui producono "credenze", cioè regole di
azione rispetto alle evenienze future: carattere strumentale della conoscenza;
2. la validità della conoscenza sta nei risultati e nei successi pratici che ci
permette di conseguire;
3. non esistono dunque verità assolute, né filosofiche, né religiose, né
scientifiche; ogni tipo di conoscenza dipende dagli effetti positivi dell'azione
che essa ci suggerisce; le dottrine valgono quindi per la loro utilità e per la
loro influenza benefica sulla vita dell'uomo; in questo senso, se produce effetti
benefici, è riconosciuta validità anche alla fede in Dio.
È falsa peraltro l'interpretazione del pragmatismo come "filosofia del successo"
o "degli affari", perché il concetto di base di utilità è inteso in senso ampio, tale da
ricomprendere anche l'utilità sociale, morale, religiosa e scientifica.
Anche per il pragmatismo la conoscenza si basa sull'esperienza ma,
contrariamente all'empirismo classico, l'esperienza non è tanto la somma delle
conoscenze acquisite bensì anticipazione degli effetti delle azioni che le conoscenze
passate ci suggeriscono. L'esperienza, cioè la conoscenza, è capacità soprattutto di
previsione.
Principali esponenti del pragmatismo americano sono Peirce, James, e Dewey.
Pur nelle comuni caratteristiche di fondo, diverse sono le forme di pragmatismo
praticate: quello di Pierce è un pragmatismo logico e metodologico; quello di James
è un pragmatismo morale e religioso o metafisico, che ricomprende nell'esperienza
anche e particolarmente quegli elementi irrazionali che sono le fedi, i sentimenti, le
pulsioni (istinti); quello di Dewey è un pragmatismo biologico-organicistico ed
evoluzionistico. Il pragmatismo metodologico si fonda su un'impostazione
razionalistica, sperimentalistica, verificazionistica; quello metafisico sfocia in un
irrazionalismo a sfondo mistico-religioso e talora politico.
Accanto alle concezioni sulla conoscenza Pierce ha sviluppato una teoria dei segni.
In questo senso può essere considerato il fondatore della semiotica moderna, come è
appunto denominata la teoria generale dei segni. I segni sono i nomi attribuiti alle
cose, ma anche le immagini grafiche delle cose, le loro sensazioni tattili, olfattive,
ecc.
Pierce è convinto che non può esserci comunicazione e rapporto immediati tra il
mondo delle cose e la mente umana. Tra la mente umana e le cose si interpone il
segno, che attribuisce significato alle varie cose. La conoscenza è pertanto
interpretazioni di segni. Ogni pensiero è un segno; non è possibile pensare senza
segni e i segni si identificano soprattutto col linguaggio verbale o scritto ma anche
con il linguaggio mimico, visivo, eccetera. Il segno è qualcosa che sta al posto di
un'altra cosa e la rappresenta. La struttura (composizione) di ogni comunicazione è a
tre termini:
1. l'oggetto (la cosa);
2. il segno, che denomina e/o rappresenta l'oggetto;
3. il soggetto, che è l'interprete del segno.
Pierce concepisce la logica con lo stesso atteggiamento pragmatico manifestato nei
confronti della conoscenza. La logica è strumento di immediata utilizzazione pratica.
Si tratta di liberare il campo da tutti i concetti più oscuri e indefiniti e di fare della
logica un complesso di regole per il buon funzionamento del pensiero e quindi per
una efficace azione nella realtà.
Oltre alla dottrina dei segni, Pierce elabora anche una dottrina delle categorie sui
caratteri logici essenziali del fenomeno e dell'esperienza fenomenica. Rispetto alle
dodici categorie di Kant, egli ne individua tre di portata assai più ampia. Si tratta,
dice Pierce, di tre concetti "perpetuamente presenti in qualsiasi punto della teoria
della logica":
1. il concetto di essere o esistere indipendentemente da qualsiasi altra cosa; è la pura
presenza del fenomeno; è un sentire immediato;
2. il fatto bruto, cioè fare esperienza della presenza di un un universo di cose in cui
ogni esistente è in rapporto di reazione dinamica con le altre cose dell'universo; il
fatto lotta per venire all'esistenza combattendo contro le altre realtà;
3. l'aspetto intellegibile della realtà (ossia le condizioni per la sua comprensione), il
quale è il regno della legge che vince la moltitudine caotica della realtà; è
l'abitudine ad acquisire abitudini e credenze in un universo in continuo sviluppo.
169
La cosmologia.
Le conclusioni tratte dalla sua dottrina delle categorie inducono Pierce a giungere alla
cosmologia. Nell'universo egli vede la tendenza ad un graduale passaggio dal caos e
dal disordine verso stati ordinati e razionali e contesta ogni forma di meccanicismo e
di determinismo nell'evoluzione. Nel passato remoto dell'universo non c'era alcuna
legge ma solo indeterminatezza. Si può presagire nel lontano futuro uno stadio in cui
non sussisterà più alcuna indeterminatezza, non esisterà più il caos ma il regno della
legge e della spiegazione razionale.
Secondo Pierce tutte le cose tendono ad acquisire abitudini, cioè comportamenti
ordinati e più prevedibili, anche se in natura ci sarà sempre la discontinuità, cioè
l'irregolarità e l'imprevedibile. L'universo tuttavia avanza e si evolve. L'evoluzione
appare rivolta verso un fine grazie alla presenza di una forza, l'amore, per cui le cose,
interagendo le une sulle altre, progrediscono nell'ordine e nella razionalità (dottrina
dell'amore evolutivo). L'uomo fa parte di questo processo evolutivo e vi contribuisce
con la sua intelligenza.
Se con Pierce abbiamo la versione logica del pragmatismo, con James abbiamo quella
metafisico-spiritualistica, morale e religiosa. Il pragmatismo, dice James, è una
versione più moderna e meno criticabile dell'empirismo. Il pragmatismo rifugge
dall'astrazione, dalle cattive ragioni a-priori, dai principi fissi e assoluti, dai sistemi
chiusi. Si rivolge invece alla concretezza, ai fatti e all'azione. Né il pragmatismo
prende posizione per qualche risultato particolare: esso è soltanto un metodo di
ricerca; non guarda alle cause prime e ai fini ultimi ma ai risultati e alle
conseguenze dei fatti.
La filosofia è per James un bisogno dell'esistenza umana. L'uomo, a differenza degli
altri esseri, si fa domande sul futuro dal quale è attirato ma al tempo stesso intimorito.
Alla filosofia è demandato il compito di rendere l'uomo consapevole delle proprie
potenzialità e quindi della possibilità di essere artefice del proprio destino.
Per Pierce, come abbiamo visto, la verità o, meglio, le credenze, pur sempre
transitorie e verificabili, sono il risultato di un metodo di ricerca: il metodo della
scienza. Per James invece le idee e le credenze non sono l'elemento essenziale della
nostra esperienza, ma solo una parte poiché l'esperienza, la coscienza, è fatta anche
di componenti non logiche e razionali quali sono i sentimenti, le fedi, le emozioni.
170
Gli elementi logici dell'esperienza diventano veri nella misura in cui ci aiutano ad
ottenere una soddisfacente relazione con le altre parti non logiche e non razionali
della nostra esperienza, coordinandole per operare con sicurezza ed economizzare la
fatica. È questa per James la concezione strumentale della verità: la verità delle
nostre idee consiste nella loro capacità di operare, di fornire regole di azione, e nella
loro utilità ai fini del miglioramento delle condizioni di vita.
Alla critica secondo cui la soddisfazione immediata del soggetto non garantisce la
verità dell'idea, James risponde che un'idea è resa vera dagli eventi. La verità è per lui
un processo, il processo della sua verificazione. Le idee o teorie oggi ritenute vere
sono spiegazioni approssimative migliori delle idee precedenti, ma il possesso della
verità è ben lungi dall'essere un fine, è solo un mezzo per altre soddisfazioni
esistenziali, di vita. La verità dunque non è fine a se stessa: la verità, intesa come
credenza, convincimento, è un mezzo mediante cui l'individuo opera per adattarsi
all'ambiente non solo fisico-naturale ma anche sociale e relazionale. Questa
concezione, secondo cui la verità di un'idea sta nella sua capacità di adattarsi alla
realtà, è un'applicazione della teoria evoluzionistica alla psicologia.
James condivide la formula di Spencer secondo cui "l'essenza della vita mentale e
l'essenza della vita corporale sono identiche", condivide cioè la formula
"dell'adattamento delle relazioni interne alle esterne". Questa formula, dice James,
considera il fatto che le menti, ossia le coscienze, si trovano in ambienti che agiscono
su di esse e a cui reagiscono a loro volta. Concepire la coscienza nel contesto delle
sue relazioni è più fertile della vecchia psicologia razionale, che riteneva l'anima
entità separata e autosufficiente. La coscienza per James è una corrente che scorre
ininterrottamente in noi. Le idee non compaiono nella coscienza ad intervalli
intermittenti ma sono sempre presenti, almeno a livello potenziale.
Secondo James, le idee e sensazioni presenti alla coscienza non sono, come per la
psicologia cartesiana, rappresentazioni chiare e distinte. Sono sempre circondate da
un alone (uno sfondo) di indeterminato. I sensi non sono meramente passivi e
recettivi della realtà ma esercitano una funzione attiva sulla realtà stessa: accentuano
taluni aspetti e ne ignorano altri di una realtà brulicante, ossia, per intervento della
coscienza, non recepiscono la realtà così com'è ma operano un'azione selettiva
rispetto alle sensazioni complessive. Non esistono quindi sostanze (chiare e distinte)
in senso tradizionale. La realtà che ci circonda è un caotico e indeterminato magma di
qualità sensibili e la nostra coscienza individua e si sofferma su quelle che più
interessano dal punto di vista pratico ed estetico. La mente o coscienza è dunque
uno strumento dinamico e funzionale all'adattamento all'ambiente.
James non critica solo la vecchia nozione di anima, separata dall'ambiente e
autosufficiente, ma anche gli associazionisti, che riducono la vita psichica alla
combinazione di sensazioni elementari; critica altresì i materialisti per la pretesa di
171
James riconosce che esistono idee e valori che non possono essere verificati
secondo criteri scientifici ma che hanno comunque grande importanza per
l'uomo e per la sua vita pratica: sono le idee e i valori dell'etica e della religione.
Le questioni morali non possono trovare la loro soluzione mediante una prova
sensibile. Quella morale non è infatti una questione concernente ciò che esiste ma ciò
che è bene. Per le questioni morali dobbiamo consultare le "ragioni del cuore", i
sentimenti. Ci sono decisioni che ogni uomo non può non prendere: riguardano il
senso ultimo della vita, il problema della libertà umana o meno, della dipendenza o
meno del mondo da una intelligenza ordinatrice e creatrice, del senso e dell'essenza
del mondo. L'unica scelta possibile in merito è quella pragmatica, quella che
individualmente e socialmente convince di più, perché sono questioni teoreticamente
(conoscitivamente) irrisolvibili.
I fatti fisici come tali non sono né buoni né cattivi. Il bene e il male non sono fatti
fisici ma esistono in quanto soddisfano o deludono le esigenze degli individui.
Queste esigenze generano un insieme di valori spesso in contrasto tra loro. Ma
allora come unificare e ordinare gerarchicamente tale varietà di valori? In
quest'ambito l'uomo ha il diritto di scegliere le concezioni che gli consentono di
dare risposte ai suoi problemi, anche se non ha le prove della loro verità.
L'uomo deve osare credere, correndo il rischio della fede e deve agire come se
credesse. Fra i tanti valori e ideali contrastanti, James risponde che saranno da
preferire quelli che comporteranno, se realizzati, la distruzione del minor numero di
altri ideali e la conservazione di un universo ricco di possibilità.
James esalta l'energia, la libertà e la potenzialità dell'individuo contro ogni forma
di autoritarismo e di assolutismo ideologico. Anche contro Spencer, che parlava di
un'evoluzione progressiva e di un ordine morale indifferente alle iniziative
dell'individuo, James mette in luce, invece, l'iniziativa e l'originalità dell'individuo,
che l'ambiente può accettare o respingere. Ma senza l'impulso innovatore e creativo
degli individui le comunità avvizziscono, così come gli impulsi individuali muoiono
senza la simpatia delle comunità.
L'uomo dunque deve osare credere. La volontà di credere rende vere le credenze che
non sono fondate sui fatti e tuttavia esercitano una influenza positiva nella vita
sociale. In tal senso James apprezza ed attribuisce utilità anche sociale al rispetto
172
degli altri, alla tolleranza, all'amicizia, all'amore e alle occasioni che consentono ai
talenti migliori di affermarsi.
Utile in quanto soddisfi le esigenze individuali e sociali è pure l'esperienza
religiosa. L'esperienza religiosa è caratterizzata da un'ampia varietà e James ne
propone una ricca fenomenologia (esemplificazione). È contrario ai positivisti che
legavano la religione a fenomeni degenerativi. Invece per James anche la religione
può concorrere alla ricchezza delle esperienze umane. La vita religiosa mette gli
uomini in contatto con un ordine invisibile e ne muta l'esistenza. Lo stato mistico è,
secondo James, il momento più intenso della vita religiosa e apre possibilità
sconosciute al controllo razionale. Ma l'atteggiamento mistico non può diventare
garanzia e base di una particolare teologia: resta, tra i tanti, una libera scelta di valore
dell'individuo secondo le sue inclinazioni.
L'universo pluralistico.
qualcosa di assai più vasto della conoscenza dato che l'ignoranza è uno dei
principali aspetti dell'esperienza stessa. Certo, la conoscenza fa parte
dell'esperienza ma in quest’ultima confluiscono tutti gli aspetti dell'esistenza,
anche quelli oscuri e confusi, e comprende abitudini, desideri, errori, follia,
credenze, incertezze. Include altresì i sistemi filosofici, siano essi trascendentali o
empirici, nonché la scienza ma pure la magia e la superstizione. L'esperienza per
Dewey non è la coscienza individuale bensì la coscienza collettiva, nel senso che è
l'insieme delle memorie, delle valutazioni e dei giudizi che si sono accumulati nel
corso dell'evoluzione storica della specie umana e quindi è al di sopra del singolo
individuo. Essa comprende l'intero mondo dell'uomo e non è semplice recezione
passiva dell'oggetto, come per gli empiristi, ma azione scambievole o "interazione"
tra uomo e natura, tra spirito e materia, tra soggetto e oggetto, che si influenzano
reciprocamente.
In polemica con le concezioni deterministiche, Dewey sottolinea il carattere attivo
dell'esperienza in quanto l'uomo, pur inserito nella natura, è tuttavia teso a
modificarla. Critica altresì il razionalismo perché ha dell'esperienza una concezione
unilaterale: è vero che anch'esso concepisce l'esperienza come una forma di
conoscenza attiva, ma soltanto di quegli aspetti della realtà che sono razionali, che
possono essere inquadrati entro schemi logici, mentre tutto il resto è ignorato e
attribuito alla finitezza e inadeguatezza della natura umana. Ma soprattutto di questo
"resto", afferma Dewey, è fatta per lo più l'esperienza.
Più vasta della conoscenza e al di sopra della coscienza individuale, l'esperienza
è dunque storia, è storia dell'uomo, la quale altro non è che lo sforzo che egli compie
per modificare la situazione in cui si trova. La storia dell'uomo si svolge nella
natura, dentro l'ambiente che lo circonda, con il quale si stabilisce un processo di
interazione e interscambio in termini sia di azione reciproca che di adattamento.
La realtà è concepita come evoluzione lungo la quale, attraverso un processo
unitario, dal mondo fisico emerge quello spirituale, la coscienza.
Tre sono i principali livelli attraverso cui il mondo spirituale emerge da quello
fisico, livelli che non sono tra loro irriducibili (distinti e separati) ma coesistenti:
1. il livello della vita fisico-chimica, che ha le caratteristiche di un sistema
meccanico; tale sistema, pur interagendo con la natura, ancora non la modifica
in profondità ma tende ad adattarsi ad essa;
2. il livello della vita psico-fisica, che è quello degli organismi viventi; in esso
l'esperienza, pur non essendo ancora cosciente di se, è caratterizzata
dall'attitudine a ristabilire rapporti di equilibrio con l'ambiente qualora essi
vengano interrotti;
3. il livello della vita spirituale, che è quello più alto dell'evoluzione;
l'esperienza diventa consapevole di se stessa e del rapporto che la lega alla
natura; a questo livello l'esperienza coglie ed esprime in termini spirituali il
rapporto uomo-natura come libertà creativa.
Questo fluire continuo che è la realtà come evoluzione, così come non ha
carattere deterministico né razionalistico, non ha neppure carattere
175
Come si è visto, per Dewey l'esperienza è storia, una storia che, mediante
l'interazione uomo-ambiente, è rivolta al futuro a causa del carattere attivo
dell'esperienza stessa, tesa a modificare la natura e le situazioni dell'esistenza.
La non identificazione di conoscenza e di esperienza (che è più vasta) permette a
Dewey di avanzare un tentativo di soluzione del problema gnoseologico. Vi sono,
egli afferma, due aspetti, due modi di fare esperienza delle cose: 1) coglierle come
oggetto di generica esperienza; 2) conoscerle e assorbirle nell'esperienza in modo più
significativo e sicuro. In questo secondo aspetto sta il problema della conoscenza, il
problema gnoseologico, e in tale ambito può anche manifestarsi lo scetticismo
rispetto alle conclusioni formulate. Però lo scetticismo è impossibile rispetto al primo
modo di fare esperienza delle cose, ossia rispetto alle cose che sono oggetto solo di
esperienza generica e non di conoscenza poiché esse, appunto, non sono materia di
conoscenza ma soltanto di esistenza: posso dubitare dei concetti ma non di ciò che
empiricamente ho colto o sono.
L'esistenza peraltro, in tutte le sue forme, dalle più elementari alle più sviluppate,
presenta comuni tratti caratteristici che sono la precarietà, il rischio,
l'incertezza. A queste inquietudini l'uomo ha sempre cercato di porre rimedio:
inizialmente, riponendo fiducia nelle forze magiche o soprannaturali e nella
superstizione; successivamente, rifugiandosi nella religione e nella filosofia
metafisica, che lo spingono a credere nell'immutabilità dell'essere (cioè del
fondamento della realtà) nonché nell'uniformità della natura, nel progresso universale
e nella razionalità del reale. Ma sia le filosofie dell'essere (ad esempio Parmenide e
Spinoza) sia le filosofie del divenire (ad esempio Eraclito, Hegel, Bergson) sono per
Dewey concezioni e filosofie illusorie e fallaci, perché tendono a divinizzare la
staticità o il mutamento per farne un principio assoluto di garanzia e ordine
nell'esistenza umana. Sono per Dewey filosofie della paura, ipersemplificatorie e
deresponsabilizzanti. Trasformano un elemento della realtà, ossia la razionalità, nella
totalità della realtà, relegando in tal modo come apparenza erronea tutto ciò che non
risulta compatibile con lo schema razionale di immutabilità, di ordine, di armonia.
Occorre dunque avere il coraggio di denunciare la fallacia di queste filosofie
metafisiche, consolatorie ed illusorie, che trattano come semplice apparenza
l'irrazionalità, il disordine, l'errore, il male, che invece apparenza non sono ma sono
176
realtà che bisogna sperare di dominare e controllare, pur nella consapevolezza della
precarietà della vita, contando sull'impegno umano e non su infondati principi e
garanzie trascendenti.
Il compito dell'uomo e dell'autentica filosofia è quello di adoperarsi per far
prevalere la razionalità sull'irrazionalità, la stabilità sull'instabilità e l'ordine sul
disordine, seppur nei limiti dell'intelligenza umana, poiché non vi è alcuna
garanzia e principio superiore. Attraverso la scienza ci siamo assicurati un certo
grado di controllo, ma il carattere fondamentalmente rischioso del mondo non è
seriamente modificato.
piuttosto della loro efficacia o inefficacia. Qui sta il significato più genuino dello
strumentalismo di Dewey: la verità non è più l'adeguarsi del pensiero all'essere (alla
realtà) come nella vecchia metafisica, o l'adeguarsi dell'essere al pensiero, come in
Kant, ma consiste nell'efficacia delle idee come strumenti e regole di azione. La
verità non è di natura metafisico-ontologica, cioè non individua essenze immutabili
presenti nella realtà, ma è di natura operativo-pratica.
La verità secondo la maggior parte dei sistemi filosofici tradizionali è statica e
definitiva, assoluta ed eterna; per Dewey è invece un processo evolutivo consistente
in indagini metodologicamente impostate con rigore e controllabili scientificamente.
Ogni indagine consiste, in sostanza, in una forma di adattamento all'ambiente e di
ricostituzione dell'equilibrio uomo-natura e uomo-altri uomini (che pure sono natura).
Poiché, secondo Dewey, nella conoscenza non si può mai separare l'aspetto
teorico da quello pratico, egli fa consistere la conoscenza nell'indagine, che in
termini operativi (ossia di regole di azione) definisce come "trasformazione
controllata di una situazione indeterminata (caratterizzata cioè da esperienze
oscure o contrastanti) in una situazione determinata (cioè chiara e coerente) nelle
sue distinzioni e nelle relazioni tra le sue parti costitutive".
Metodologicamente, Dewey propone quindi una teoria dell'indagine articolata in
cinque fasi:
1. il problema: ogni indagine parte da un problema, cioè dal turbamento di un
equilibrio o da un disagio;
2. il ragionamento, in cui rispetto al problema sorto si sviluppa un'ipotesi guida,
un'ipotesi di lavoro per la ricerca;
3. l'osservazione e l'esperimento, in cui si sottopongono a verifica le ipotesi
teoriche precedentemente formulate;
4. la rielaborazione intellettuale, in cui si analizzano con criteri di sistematicità
tutte le ipotesi sottoposte a verifica per appurare se esse risolvono i fatti
problematici indagati; a tale proposito Dewey, diversamente dal vecchio
empirismo, fa presente che i fatti non esistono in se stessi ma solo in relazione
ad un'idea o programma operativo;
5. il giudizio finale, il quale conclude la ricerca con garanzia di scientificità,
anche se tale garanzia non è da considerare né assoluta né eterna.
inefficaci rispetto alla crescita civile della società. Dewey si contrappone pertanto ai
filosofi utopisti che non si preoccupano di dedicare un'indagine accurata circa i mezzi
necessari e possibili per la realizzazione della loro visione ideale. Anzi è dubitabile lo
stesso valore dell'utopia perché essa normalmente genera o lo scetticismo o il
fanatismo. In tal senso Dewey motiva la sua critica nei confronti della società
totalitaria e dello Stato etico in quanto, nella supposizione di servire un fine
superiore, troncano la discussione. Il suo favore va invece alla società democratica, in
quanto la democrazia è discussione del tutto libera, fatta di partecipazione e
collaborazione.
La filosofia di Dewey, così ancorata all'esperienza biologica dell'essere umano, fu
considerata nella prima metà del Novecento una valida alternativa sia allo
spiritualismo francese sia al neoidealismo italiano. Tuttavia il ridurre l'essere umano
al rapporto con l'ambiente rischia in ultima analisi di privare la vita spirituale della
sua autonomia. Cultura e civiltà si riducono in tal modo a semplici manifestazioni
della natura nel suo divenire.
La pedagogia.
Dewey applica le sue idee filosofiche anche alla pedagogia. Anzi, in campo
pedagogico ha dato una duratura impronta al sistema scolastico. Sostiene la
validità di un'educazione democratica non semplicemente informativa ma formativa,
in grado cioè di sviluppare e potenziare le capacità dell'alunno. Anche il suo
programma pedagogico ha un orientamento strumentalista, volto allo scopo di
adattare l'alunno alla società e quindi renderlo, per così dire, competitivo per quanto
riguarda il lavoro, l'iniziativa pratica, l’impegno per il successo.
Principi fondamentali della sua pedagogia sono:
1. il rispetto per la personalità dell'allievo, che non deve essere forzata;
2. il ruolo attivo e dinamico dell'apprendimento, da fondare sia sulla centralità
dell'allievo, che non deve essere soverchiato dall'insegnante, sia su di un sapere
da acquisire soprattutto affrontando problemi reali e pratici;
3. lo sviluppo della socialità dell'alunno grazie anche all'introduzione del lavoro
manuale.
Lo strumentalismo pedagogico di Dewey ha contribuito ad imprimere alle nuove
generazioni americane quel senso di concretezza e di volitività che le ha
contraddistinte. D'altra parte, la pedagogia di Dewey ha standardizzato il modo di
pensare americano, creando una cultura di massa dominata dagli "slogan".
180
LO STORICISMO TEDESCO.
L'Ottocento è stato il secolo dei grandi storici tedeschi della politica, dell'arte, della
filologia, della filosofia. In tale interesse per la storia si riscontra certamente l'influsso
del Romanticismo (il culto della tradizione, della coscienza collettiva dei popoli) e
della filosofia della storia di Hegel, concepita come manifestazione dello Spirito
assoluto nel mondo.
Lo Storicismo è un movimento culturale-filosofico sorto in Germania negli ultimi
due decenni dell'Ottocento e sviluppatosi sino alle soglie della seconda guerra
mondiale. È volto ad analizzare la natura, la validità e i limiti del sapere storico,
anche alla luce, in genere, di una teoria dei valori impostata come rapporto tra fini
ideali dell'umanità ed effettive realizzazioni storiche. Si propone di definire,
ovviamente secondo i diversi punti di vista degli studiosi, le caratteristiche di
scientificità della storia in quanto disciplina: quali sono le peculiarità dell'oggetto
di indagine? quali gli strumenti di indagine propri ? in che rapporto stanno metodi e
contenuti con i valori e gli interessi propri dello studioso?
Comune è la tendenza a rifiutare una filosofia della storia in senso hegeliano: per
gli storicisti la storia non è la realizzazione di un principio spirituale infinito (lo
Spirito assoluto di Hegel) ma è opera degli uomini ed è condizionata dal contesto
ambientale e temporale. La filosofia della storia diviene così scienza della storia. È
altresì rifiutata la pretesa del positivismo di ridurre le scienze storiche al
modello delle scienze naturali.
In analogia al neocriticismo riguardo alla conoscenza in generale, gli storicisti
assegnano alla filosofia il compito critico di determinare i fondamenti, vale a dire le
condizioni di possibilità e di validità, del conoscere storico. Si propongono cioè di
estendere il metodo dell'analisi critica kantiana sulle possibilità e validità della
conoscenza scientifica a tutto il complesso delle scienze storico-sociali che Kant non
aveva considerato. Tuttavia, soggetto e condizione della conoscenza storica non sono
per gli storicisti le forme a-priori trascendentali, indipendenti dall'esperienza, bensì
gli uomini concreti, condizionati dal contesto storico in cui si trovano a vivere nonché
dall'individuale sistema di valori.
Fondamentale è giudicata la distinzione tra storia e natura, tra scienze storico-
sociali e scienze fisico-naturali. L'oggetto della storia è solitamente individuato nel
carattere di individualità, specificità ed irripetibilità degli eventi storici e dei prodotti
dell'umana cultura in genere ( miti, costumi, leggi, valori, opere d'arte, filosofie, ecc.).
L'oggetto delle scienze fisico-naturali è individuato invece nel carattere di
uniformità e ripetibilità dei fenomeni indagati. Lo strumento di conoscenza dei
fenomeni fisico-naturali è la spiegazione causale, mentre quello della conoscenza
storica è la comprensione. Le azioni umane tendono a predeterminati fini; è quindi
importante capire a quali motivazioni e valori si siano ispirate le diverse vicende
storiche (capire e non giudicare, essendo i giudizi di valore demandati invece alla
morale e alla politica).
Tra gli iniziatori dello storicismo si annovera Dilthey, che sostiene posizioni di
relativismo storico tra le varie civiltà (ogni civiltà è caratterizzata da uno sviluppo
181
storico suo proprio distinto da quello di ogni altra civiltà), per cui le differenti civiltà
sono fra di esse irriducibili e non comparabili. Ulteriore esponente, che tratta lo
storicismo secondo gradi di maggior organicità e sistematicità (ciò non significa in
termini di maggior profondità) nonché di completezza metodologica, è ritenuto Max
Weber. Fra i due si situa una serie di pensatori che, o introducono peculiari novità
metodologiche, come Windelband e Rickert, oppure portano alle estreme
conseguenze il relativismo di Dilthey, come Simmel e Spengler, ovvero reagiscono a
tale relativismo proponendo valori assoluti, come Troeltsch e Meinecke.
Così come Kant si era posto l'obiettivo di una critica della ragione per individuare le
condizioni e i fondamenti di validità della conoscenza in generale e della conoscenza
scientifica in particolare, Dilthey si propone l'obiettivo di una "critica della ragione
storica" per accertare la validità delle scienze storico-sociali o, come da lui
definite, delle "scienze dello spirito". Contrario sia alla filosofia della storia di
Hegel sia al positivismo, è d'accordo con i neocriticisti sul "ritorno a Kant",
sostenendo tuttavia che il primato delle scienze naturali proposto da Kant e dal neo
kantismo è sbagliato, poiché le scienze dello spirito sono in accordo con la struttura
della ragione umana molto più del metodo matematico-sperimentale. Altresì, i modi
del conoscere storico non devono essere confusi con le forme a-priori kantiane
dell'intelletto, essendo invece incarnati nello spirito e nella mentalità delle varie
epoche storiche nonché condizionati dai diversi contesti ambientali e temporali.
Innanzitutto Dilthey si preoccupa di definire i criteri di distinzione tra scienze della
natura e scienze dello spirito, individuandone l'elemento di differenziazione
soprattutto nel rispettivo oggetto, il che comporta una differenza gnoseologica (cioè
nei modi del processo conoscitivo): i dati delle scienze naturali sono colti
dall'osservazione esterna, mentre quelli delle scienze dello spirito sono colti
dall'esperienza interna ossia, in tedesco, dall'“Erlebnis” (l’esperienza vissuta);
comprendiamo i fatti sociali dall'interno, intendendoli e rivivendoli, cercando di
immedesimarci nel contesto storico in cui si sono sviluppati. Inoltre, mentre oggetto
e scopo delle scienze naturali è di pervenire a una spiegazione dei fenomeni fondata
sulla causalità, sull'osservazione, sulla generalizzazione, ovvero sulla ricerca di
uniformità (modi uniformi di sviluppo di ogni singolo fenomeno) traducibili in leggi
e teorie scientifiche; le scienze dello spirito hanno invece come oggetto e scopo la
comprensione dei fenomeni storici che sono all'interno di uno sviluppo storico e che
perciò sono unici, irripetibili e collegabili a concetti e valori, quali il significato, lo
scopo, le finalità, i quali sono anch'essi frutto di uno sviluppo umano e storico e
quindi sono mutevoli e non già uniformi e costanti. Nell'ambito delle scienze dello
spirito (le scienze storico-sociali e umane) non c'è una distinzione netta tra
oggetto e soggetto come nelle scienze naturali, perché il soggetto, lo studioso, fa
182
parte egli stesso del mondo storico-sociale descritto. In aggiunta, non si può operare
con il concetto di causa in senso fisico-meccanico, bensì con quelli di motivo, scopo
e valore dei fatti storico-sociali considerati.
Dilthey distingue, nella storia del pensiero, tre forme tipiche di visione del mondo
(modi di concepire il mondo e l'umanità):
1. il naturalismo materialistico, che si fonda sul concetto di causa (Democrito,
Lucrezio, Epicuro, Hobbes, gli enciclopedisti dell'Illuminismo, Comte);
2. l'idealismo oggettivo, per il quale l'intera realtà deriva da un principio
immanente, interno alla realtà stessa (Eraclito, gli stoici, Spinoza, Leibniz,
Schelling, Hegel);
3. l'idealismo della libertà, che interpreta il mondo in termini di volontà e finalità
umana e che distingue lo spirito dalla natura (Platone, la filosofia ellenistico-
romana, Cicerone, la filosofia cristiana, Kant, Fichte).
Tuttavia, secondo Dilthey, la pretesa della metafisica di offrire una spiegazione
assoluta, unica e globale della realtà è illegittima. Egli sostiene invece una
concezione di "relativismo storico". Anche le metafisiche sono prodotti storici.
Non vi sono filosofie e valori che valgono in tutte le nazioni e in tutti i tempi, ma
ogni avvenimento storico, in quanto finito, ambientalmente e temporalmente
delimitato, è relativo e differente da qualsiasi altro. Tuttavia, aggiunge Dilthey, "la
coscienza storica della finitudine" di ogni fenomeno storico è l'ultimo passo verso la
liberazione dell'uomo dai vincoli di sistemi filosofici o religiosi totalizzanti e
integralisti. Di fronte alla relatività vale la continua forza creatrice del divenire della
storia. Il senso e il significato dei fatti storici sorgono soltanto nell'uomo, non
nell'uomo singolo bensì nell'uomo storico (nello svolgersi della storia umana). Nella
comprensione di ciò sta la funzione fondamentale della filosofia.
All'opposto dei sostenitori del relativismo storico nonché dei valori, difendono
invece l'assolutismo dei valori: affermano la sussistenza di valori perenni,
specialmente i valori eterni della religione.
Per Troeltsch il problema fondamentale è quello che scaturisce, per un verso, da una
coscienza storica che ci mostra il condizionamento, dipendente da fattori culturali e
ambientali, esercitato da ogni forma di religione e, per l'altro, dalla pretesa di
ciascuna religione di possedere una validità assoluta. Troeltsch respinge sia la
soluzione positivistica, che faceva della religione uno stadio primitivo dell'umanità,
sia quella romantico-idealistica, che vedeva nelle diverse religioni la realizzazione di
un'essenza, di uno spirito universale, per lo più immanente piuttosto che trascendente.
Per Troeltsch le religioni sono fatti storici e non soprannaturali e tale è anche il
cristianesimo. Ma il carattere storico del fenomeno religioso(=che muta col divenire
storico) non lo priva di validità. Certamente, la religione è storicamente condizionata
e tuttavia essa mostra, in fenomeni come il sorgere del cristianesimo e della riforma
protestante, una causalità autonoma, nel senso che certi fenomeni ed eventi religiosi
sono prodotti da fattori parimenti religiosi anch'essi. Troeltsch individua così
un'indipendenza della religione dalle cause naturali, che interpreta come presenza di
Dio nel mondo finito. Per tale motivo la relatività dei valori non vuol dire per
Troeltsch relativismo e anarchia perché scorge nel relativo qualcosa di assoluto:
l'impulso divino che dona agli spiriti finiti (agli uomini) volontà di creazione storica
secondo un fine.
Meinecke vede nella ragion di Stato come il ponte, il collegamento, che nella lotta
politica sta tra l'impulso della forza e della prepotenza, da un lato, e la responsabilità
morale, dall'altro. Contro il relativismo storico, egli afferma, esistono tre vie:
1. la fuga romantica nel passato, in epoche trascorse e idealizzate;
2. la fuga nel futuro, spinti da una concezione ottimistica nel progresso;
3. la via verticale, cioè il guardare la storia dall'alto, intesa come realizzazione di
valori assoluti riconducibili a Dio e da lui derivanti.
186
comuni) riscontrabili nell'agire sociale degli uomini che, in quanto tale, è un agire
determinato dal costante riferimento all'atteggiamento degli altri ed è quindi, in
questo senso, suscettibile di generalizzazioni, si presta cioè alla formulazione di leggi
o, per lo meno, di linee di tendenza generali di comportamento.
Weber distingue quattro tipi di agire sociale:
1. l'agire razionale rispetto allo scopo, definito anche "etica della
responsabilità", in cui è soprattutto rilevante la ricerca di mezzi adeguati al
raggiungimento dello scopo proposto;
2. l'agire razionale rispetto al valore, definito anche "etica delle intenzioni",
in cui è maggiormente rilevante operare in base alle proprie convinzioni, ideali
e valori, coerentemente con essi, anche a prescindere e al di là delle
conseguenze pratiche del proprio agire;
3. l'agire affettivo, in cui si opera in base ad impulsi, emozioni o sentimenti;
4. l'agire tradizionale, in cui si agisce in base a consuetudini, abitudini, costumi
e credenze del gruppo cui si appartiene.
Ovviamente, tale classificazione circa i tipi dell'agire sociale è uno schema teorico-
interpretativo ricavato dall'osservazione empirica, tipi e modi che nella realtà non si
troveranno mai allo stato puro bensì intrecciati fra di essi.
L'agire razionale rispetto allo scopo è per Weber quello prevalente nelle società
moderne, soprattutto nel mondo economico-capitalista.
L'agire sociale è dunque l'oggetto della sociologia, cui spetta il compito di
spiegarlo nelle sue cause e nelle sue regolarità o linee di tendenza.
A fondamento delle scienze storico-sociali, e contro una tentazione frequente negli
storicisti, non possiamo invece mettere l'intuizione, cioè la comprensione basata sulla
simpatia, vale a dire su atteggiamenti volti a rivivere le esperienze degli altri, poiché
l'intuizione appartiene all'ambito del sentimento e non a quello della scienza
controllata e verificata.
Per Weber si ha scienza, cioè oggettività del sapere, quando si produce un sistema
di spiegazioni causali, ossia quando si stabiliscono connessioni logiche tra cause ed
effetti ovvero, per quanto riguarda l'agire umano, tra mezzi e scopi. Ciò vale,
parimenti, sia per le scienze fisico-naturali sia per quelle storico-sociali. Peraltro
nelle scienze naturali, attraverso la spiegazione causale, i fenomeni vengono visti
nelle loro caratteristiche e leggi generali e comuni, mentre nelle scienze storico-
sociali gli eventi sono visti soprattutto nella loro particolarità, specificità e peculiare
motivazione. Lo sviluppo dei fenomeni storico sociali non può cioè essere
descritto mediante una spiegazione causale meccanica, bensì mediante una
spiegazione causale volta a comprendere i motivi e il senso dei comportamenti.
Perciò Weber definisce la propria sociologia come "sociologia comprendente".
188
Tuttavia ogni spiegazione causale è soltanto una visione parziale della realtà
poiché, essendo la realtà smisurata, è impossibile indagarla integralmente. Ci
dobbiamo quindi accontentare di studiare alcuni determinati fenomeni e non
tutti: operiamo cioè una selezione dei fenomeni da studiare secondo i personali
punti di vista e di interesse che ci inducono a presceglierli.
Ma come si attua e come funziona tale selezione? In analogia a Rickert, Weber
risponde che la selezione si opera in riferimento ai valori, ossia secondo gli ideali,
le motivazioni e i punti di vista del ricercatore. Il riferimento ai valori di cui parla
Weber non ha però nulla a che fare con un giudizio di valore, cioè con un
apprezzamento di natura morale; non equivale a giudicare un fenomeno come
positivo e giusto o negativo ed iniquo; né il riferimento ai valori implica il
riconoscimento di valori assoluti e indiscutibili. Non vi è un sistema universale di
valori gerarchicamente ordinati ma vi è una pluralità alternativa di valori, tutti
sullo stesso piano e quindi in conflitto tra loro. Anche Weber dunque aderisce alla
concezione del relativismo storico e spaziale dei valori. La pluralità di valori
contrapposti è per Weber una condizione ineliminabile della situazione umana
(ad esempio: è preferibile l'ordine o il cambiamento sociale? è più importante
l'individuo o la società? vale di più la ragione o il sentimento?, ecc.) Alla fine si
dovrà pur scegliere tra valori fra di essi opposti: si tratta di una scelta condizionata
per ciascuno dalle proprie inclinazioni e dalle esperienze vissute.
Nel passato tale situazione di contrapposizione tra i valori era nascosta perché non
era consentita una scelta libera: il peso della tradizione e delle norme imponevano un
unico sistema di valori, che si credeva garantito da Dio o da una qualche potenza
soprannaturale oppure da un supposto principio metafisico. Oggi, per effetto del
processo di razionalizzazione (cioè della progressiva azione critica svolta dalla
ragione) siamo in quella che è chiamata "fase di disincanto del mondo": gli
uomini cioè, per spiegare la realtà o per vincere la paura dell'ignoto, non ricorrono
più agli incanti, alla magia, ai miti, alle potenze divine o a principi metafisici; prevale
invece la fiducia, senza più incantamenti, di poter conoscere e dominare il mondo
attraverso la ragione, la scienza e la tecnica.
Ma allora, per tornare alla domanda iniziale, in che modo il ricercatore seleziona i
fenomeni da studiare? In base a quali valori opera la propria scelta? I campi di
ricerca sono sconfinati. Inevitabilmente quindi il ricercatore (il sociologo, lo storico)
finirà con lo scegliere quali oggetti della sua indagine i fenomeni che lui trova e
ritiene interessanti. I fenomeni sono quindi interessanti non per una loro qualità
intrinseca ma solo in riferimento ai valori del ricercatore, cioè alla sua visione del
mondo, ai suoi orientamenti, ai suoi punti di vista. E i punti di vista, i valori, non
sono dati una volta per tutte, ma variano lungo il divenire storico. Unico parziale
elemento di oggettività possibile nella scelta dei fenomeni da indagare in base ai
propri punti di vista e interessi può consistere nella circostanza che i medesimi
interessi siano condivisi da una pluralità di ricercatori, venendo così a coincidere con
un più vasto riconoscimento sociale della loro importanza. Ciò detto, precisa Weber,
è bene peraltro che il ricercatore espliciti per correttezza, fin dall'inizio, in base
189
a quali valori ha scelto e ritenuto interessanti i fenomeni fatti oggetto della propria
indagine, per non contrabbandare come oggettive scelte che sono invece soggettive.
Il fatto che la scelta dell'indagine storico-sociale sia condizionata dai valori del
ricercatore, non significa che l'intera ricerca diventi necessariamente soggettiva e
arbitraria. I risultati della ricerca devono avere invece una loro validità
oggettiva, possibile col rispetto di due condizioni: la avalutatività e la
spiegazione causale.
Una volta scelto l'oggetto della propria indagine, il ricercatore corretto dovrà seguire
scrupolosamente il criterio della avalutatività, dovrà cioè astenersi dal pronunciare
sui fenomeni indagati giudizi di valore, di lode o di condanna. Weber distingue
nettamente tra conoscere e valutare (=giudicare), tra giudizi di fatto e giudizi di
valore, tra "ciò che è" e "ciò che deve essere". Per lui la scienza sociale deve essere
avalutativa: la scienza spiega, non valuta. Formulare valutazioni e giudizi non è
compito dello scienziato ma del politico. Tale presa di posizione ha per Weber due
significati: uno epistemologico (scientifico), di difesa della libertà della scienza da
valutazioni etiche, politiche, religiose; l'altro di tipo etico-pedagogico, di difesa della
scienza da strumentalizzazioni demagogiche, contro quei maestri che si servono ed
abusano della cattedra per propagandare le proprie ideologie etico-politiche anziché
spiegare obiettivamente i concetti e le teorie.
La seconda condizione per mirare all'oggettività dei risultati della ricerca storico-
sociale è, come per le scienze fisico-naturali, quella della spiegazione causale.
Significa che per Weber non vi è contrasto tra scienze naturali e scienze storico-
sociali perché ambedue si fondano sul principio di causalità ed hanno come fine la
descrizione dei fenomeni e non il giudizio su di essi.
Nelle scienze sociali e storiche la spiegazione causale non mira a ricavare leggi
generali, ma si presta comunque a spiegare la causa di un fenomeno analogamente al
principio di ragion sufficiente di Leibniz, che spiega senza necessitare (ossia,
diversamente dalle scienze fisiche, senza che, data una certa causa, derivi
necessariamente un determinato effetto o viceversa).
Si pone allora la seguente domanda: come è possibile l'oggettività nelle scienze
storico-sociali che riguardano fenomeni specifici i quali possono essere effetto di una
pluralità di cause, alcune più importanti ed altre meno? A differenza delle scienze
naturali, non esiste nella storia una relazione necessaria di causa-effetto. Ad
esempio la prima guerra mondiale è scoppiata anche per le cause descritte nei libri di
storia, ma non necessariamente per quelle: poteva anche non scoppiare o scoppiare
per cause diverse.
È vero, dice peraltro Weber, che la ricerca storica riguarda fatti specifici, non
uniformi, non costanti e non ripetibili. Ma è anche vero che per spiegare questi fatti
c'è bisogno di concetti generali, occorre ricavare regole generali di spiegazione, cioè
leggi o tendenze esplicative. A tal fine, soggiunge Weber, nel soccorrere lo storico
190
Un altro strumento metodologico proposto da Weber per dare più rigore e oggettività
alle indagini storico-sociali è la cosiddetta teoria del "tipo ideale". Il tipo ideale è
un modello euristico (=di ricerca), uno strumento metodologico, che si ottiene
ricavando, astraendo ed accentuando da un insieme di fenomeni simili le
caratteristiche e i tratti comuni, più significativi e tipici, nonché le connessioni più
rilevanti ed espressive, giungendo quindi ad una descrizione e spiegazione tipica ed
ideale, cioè allo stato puro, di quella categoria di fenomeni. È definito ideale perché
a questo modello concettuale di riferimento, così ricavato, non corrispondono
effettive situazioni empiriche nella realtà, che non si trovano mai allo stato puro
essendo le situazioni reali sempre intrecciate e mescolate con altri tipi più o meno
analoghi di fenomeni. Però è un utile strumento metodologico in base al quale
confrontare i fenomeni studiati per verificare il grado di approssimazione o di
scostamento del fenomeno esaminato rispetto al tipo ideale (modello) preso a
riferimento e poter quindi stabilire se il fenomeno indagato appartiene maggiormente
ad un genere o ad un altro. Così, categorie (concetti) come il capitalismo, il
liberalismo, la Chiesa, lo Stato, il feudalesimo, il cristianesimo, ecc. sono tutte
riconducibili ad altrettanti tipi ideali in base a cui misurare e comparare poi i
fenomeni empirici effettivi.
191
Weber è stato tormentato a lungo da una domanda inquietante: "E se Marx avesse
ragione?". Se davvero, cioè, la struttura economica fosse causa determinante di tutte
le forme di cultura, delle idee, della morale, del diritto, che ne sarebbe allora del
valore autonomo della vita spirituale? È davvero possibile che la cultura e lo
spirito degli uomini e delle società siano assolutamente condizionati, anzi
dominati, dai fattori materiali economici, dai modi di produzione?
Per rispondere a questa assillante domanda Weber decide di fare una
controprova. Prende cioè in esame un fenomeno, non culturale ma economico vero
e proprio, anzi il fenomeno economico più rilevante per Marx, vale a dire il
capitalismo, e studia le origini del fenomeno capitalistico per verificare se esse
sono davvero di esclusiva causa economica oppure se abbiano concorso alla
nascita del capitalismo anche fattori culturali. Ebbene, a conclusione della sua
analisi, riportata nell'opera "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", Weber
scopre che le effettive origini di un fenomeno economico addirittura tra i più
192
rilevanti, ossia del capitalismo, sono rintracciabili in fattori non già strutturali-
economici ma culturali-religiosi.
Il capitalismo, dice Weber, consiste essenzialmente nello sviluppo di imprese
economiche che hanno come scopo il massimo profitto da raggiungere attraverso
l'organizzazione razionale del lavoro, resa possibile in Occidente dai progressi della
matematica, della scienza, della tecnica, delle istituzioni amministrative e
dell'organizzazione burocratica. Ciò premesso, Weber è convinto che l'origine e lo
sviluppo del capitalismo sia da attribuire soprattutto all'etica (religione)
protestante e specialmente allo spirito calvinista. Egli sviluppa infatti il seguente
ragionamento. Fondamentale nella religione protestante, e particolarmente nel
calvinismo, è la teoria della predestinazione: è Dio che sceglie, attraverso il dono
della grazia, quali uomini destinare alla salvezza e quali destinare alla dannazione.
Questa scelta di Dio è misteriosa. Tuttavia i calvinisti credevano che Dio desse segni
tangibili della sua scelta, nel senso che il successo nelle attività economiche e nelle
professioni era ritenuto indice della grazia divina. Ciò induceva allora al massimo
impegno nel lavoro e nelle attività economiche, in quanto il successo in tali attività
poteva essere la prova di una benevola predestinazione divina. L'etica protestante e il
calvinismo, inoltre, comandavano ai credenti di diffidare dei beni di questo mondo e
di praticare una condotta ascetica, sobria e austera. I credenti erano quindi spinti a
lavorare intensamente per trarne profitto, segno della grazia divina, tuttavia senza
spendere e sprecare il profitto ricavato ma invece reinvestirlo per un ulteriore
sviluppo dell'impresa economica. Da ciò è appunto derivata l'accumulazione dei
capitali che ha determinato la nascita e la diffusione del capitalismo.
Weber critica dunque il materialismo storico di Marx, vale a dire la tesi di una
esclusiva determinazione della sovrastruttura e della cultura sociale ad opera della
struttura economica e dei vigenti modi di produzione. Critica cioè il carattere
dogmatico di questa generale interpretazione marxista della storia.
Non che Weber trascuri l'importanza anche dei fattori economici nella spiegazione
dell'evolversi della storia ma, avverte, i fattori e le cause del divenire storico non
possono essere unilaterali bensì vari e molteplici, di natura economica ma altresì
culturale e spirituale.
Weber distingue due grandi modelli etici, già anticipati parlando dei tipi dell'agire
sociale:
1. l'etica dell'intenzione o della convinzione, che nel comportamento prescrive
l'ossequio e l'obbedienza incondizionata a determinati principi e ideologie
quali prescelti a prescindere dalle conseguenze (magari anche con effetti
collaterali negativi) che la loro attuazione comporti;
2. l'etica della responsabilità, che si preoccupa sia dei mezzi idonei ad ottenere
determinati scopi, ma sia anche degli effetti connessi al proprio agire.
193
Per idealismo, contrapposto al realismo, si intende ogni concezione secondo cui non
esiste alcuna realtà esterna e indipendente dal pensiero o idea (da cui il termine
"idealismo"), poiché per l'idealismo non c'è alcuna realtà, nessuna cosa, se essa non è
dapprima pensata e presente nella coscienza: le cose esistono solo quando se ne abbia
l'idea, cioè solo se sono percepite e pensate. Anche se vi fossero, ma non fossero
percepite e pensate, per noi comunque non esisterebbero. In questo senso generale
rientrano nell'idealismo varie e diverse concezioni della filosofia passata (in
particolare l’Idealismo Tedesco di Fichte, Schelling ed Hegel), ma anche di quella
contemporanea (Spiritualismo, Filosofia dell'azione, buona parte della
Fenomenologia e Neoidealismo italiano).
Il Neoidealismo Italiano sorge nel primo Novecento e ha in Benedetto Croce e
Giovanni Gentile i maggiori esponenti. Tale movimento è caratterizzato dalla
ripresa della filosofia hegeliana, peraltro riformulata, nonché da una critica radicale al
positivismo ed altresì da una critica ma anche da una riflessione sul marxismo, oltre
che da una concomitante svalutazione delle scienze.
Il neoidealismo Italiano giunge all'identità del finito e dell'infinito per via positiva,
mostrando cioè che la caratteristica essenziale del finito (le cose finite) è quella di
essere partecipe e ricompreso nella totalità dell'infinito.
Contemporaneamente si sviluppa un neoidealismo inglese (Green, Bradley, Royce)
che giunge all'identità del finito e dell'infinito per via negativa, mostrando cioè che il
finito, in quanto tale irrazionale, non è reale e che diventa reale solo in quanto
manifestazione dell'infinito, che è l'unica vera realtà.
195
Spirito, che avviene secondo i tre momenti (schema triadico) della tesi, dell’antitesi e,
sempre, della relatva sintesi. Secondo Croce, invece, l'errore di Hegel è di non aver
capito che la realtà non è fatta solo di opposti (che poi trovano la loro sintesi)
bensì è fatta anche di "distinti", cioè di ambiti fra di essi non contrapposti ma
distinti seppur collegati. Da tale spunto Croce sviluppa quindi la sua teoria definita,
appunto, “dialettica o nesso (collegamento) dei distinti”.
Croce sostiene dunque che la realtà non è fatta solo di opposti ma anche di distinti,
che Hegel invece non ha riconosciuto ed ha trattato come se fossero degli opposti. Per
Croce non è l'opposizione che bisogna principalmente scoprire nella vita dello Spirito
ma è piuttosto la distinzione. Infatti la vita e lo sviluppo dello spirito si svolge in
primo luogo secondo forme o categorie (generi) fra di esse distinte e autonome,
che non si contrappongono per giungere poi ad una sintesi. La contrapposizione
dialettica si sviluppa invece all'interno di ciascuna forma.
In particolare, la vita dello Spirito si compone per Croce di due attività
fondamentali, anch'esse distinte e non contrapposte:
1. l'attività conoscitiva o teoretica;
2. l'attività volitiva o pratica (basata sulla volontà di fare).
I quattro “distinti” di Croce.
Le due attività anzidette, a seconda che riguardino aspetti particolari o
universali, danno origine ai seguenti quattro distinti, chiamati anche categorie:
1. l'arte o estetica, che è intuizione del particolare;
2. la logica o filosofia, che è conoscenza dell'universale;
3. l'economia, che è volizione dell'utile particolare;
4. la morale o etica, che è volizione del bene universale.
Le contrapposizioni dialettiche, come si è detto, non si sviluppano tra i distinti
ma all'interno di ciascun distinto, ossia si hanno i seguenti opposti:
1. nell'arte o estetica valgono gli opposti bello o brutto;
2. nella logica o filosofia valgono gli opposti vero o falso;
3. nell'economia valgono gli opposti utile o dannoso;
4. nella morale o etica valgono gli opposti bene o male.
Le quattro forme o categorie dello Spirito sono tra loro distinte ma, pur nella
distinzione, sono anche connesse, collegate (nesso dei distinti), nel senso che
ognuna è il presupposto, la condizione, della forma successiva.
La vita dello Spirito è unitaria nel suo profondo, però si svolge passando, non
consecutivamente ma contestualmente, da una categoria all'altra. In tal senso
l'attività conoscitiva è presupposto di quella pratica: prima di agire bisogna
conoscere; l'arte, che è intuizione, è presupposto della filosofia: alla base di ogni
conoscenza c'è sempre un'intuizione; la filosofia è presupposto dell'attività
economica: l'attività conoscitiva guida infatti l'attività pratica a cui l'economia
198
dei sensi; l'intuizione artistica è invece facoltà non passiva bensì creatrice di
immagini;
3. in quanto attività teoretica (conoscitiva), l'arte non può essere confusa con le
forme dell'attività pratica (economia e morale); essa pertanto non ha scopi
morali o di ricerca del piacere o di interessi e vantaggi pratici; neppure può
essere confusa con la conoscenza concettuale che è propria della logica o
filosofia; l'arte cioè non ha il compito né di istruire né di educare, ma ha valore
autonomo in sé; è fine a se stessa.
L'arte è dunque autonoma sia dalla sensazione (dal piacere dei sensi), sia
dall'economia (dagli interessi materiali), sia dalla morale (dall'indirizzare verso il
bene) come anche dalla filosofia, la quale è conoscenza attraverso concetti
universali e non attraverso intuizioni particolari della realtà come nel caso dell'arte.
Proprio perché caratterizzata da questa assoluta autonomia e indipendenza l'arte è
definita intuizione pura.
Inoltre nell'arte non ha nessuna importanza che le immagini rappresentate siano
reali o irreali (fantastiche); nell'intuizione artistica contano le nostre impressioni ed
emozioni.
Originale è la concezione di Croce secondo cui ogni intuizione (ispirazione)
artistica è contemporaneamente anche espressione artistica: quando si ha
un'intuizione in qualche modo si è in grado anche di esprimerla. Per Croce tutti gli
uomini intuiscono, sono capaci di intuizioni e quindi sono capaci di esprimerle in
vario modo. Non bisogna confondere l'intuizione-espressione artistica con
l'estrinsecazione, cioè con la riproduzione o realizzazione tecnica dell'espressione
secondo i vari generi di opere d'arte (pittura, scultura, letteratura, ecc.), la cui
distinzione oltretutto è da Croce disconosciuta. Le tecniche artistiche sono attività
pratica, mentre l'intuizione-espressione artistica è attività conoscitiva e tutti
hanno momenti di intuizione e di ispirazione artistica anche se non tecnicamente
riprodotta in un'opera d'arte. La differenza tra l'uomo comune e l'artista non è
quindi di qualità ma solo di grado, in termini di maggior intensità e profondità
dell'intuizione e di maggior capacità tecnica riproduttiva. Si può essere anche grande
artista (avere cioè un'alta ispirazione) e cattivo tecnico (non essere cioè capaci di
riprodurla tecnicamente in modo adeguato).
Croce critica la teoria della "morte dell'arte" di Hegel, secondo cui la filosofia è un
modo più alto e superiore attraverso cui lo Spirito si rivela e si manifesta. Abbiamo
visto infatti che per Croce l'arte è una forma permanente dello Spirito con pari valore
rispetto alle altre.
Circa il rapporto tra forma e contenuto nell'arte, cioè il rapporto tra immagine o
riproduzione artistica ed intuizione-ispirazione artistica, Croce afferma che l'arte non
è un contenuto riprodotto in forma artistica ma che è sintesi a priori, di tipo kantiano,
di forma e contenuto. Ciò significa che l'immagine è la forma a priori che rende il
contenuto (cioè l'intuizione o ispirazione) comunicabile e fruibile da tutti gli uomini
di ogni tempo e di ogni paese. Ma la forma senza il contenuto è vuota. Ne deriva che
l'arte, se come intuizione-ispirazione esprime aspetti particolari, come sintesi a priori
di forma e contenuto ha invece un carattere di universalità.
200
Per Croce non esistono generi artistici distinti (pittura, scultura, musica,
letteratura, poesia, ecc.): l'arte è sempre unica in tutte le manifestazioni. Le
distinzioni per genere sono semplici schemi pratici e classificazioni di comodo. Il
bello cioè non è nelle cose, non esiste in natura, e non vi sono diversi generi di bello
(pittorico, musicale, letterario, ecc.); il bello sta invece nell'arte in sé, ossia nello
Spirito in quella sua forma che è quella estetica, ed è il medesimo per qualunque
genere.
Dall'identità crociana tra intuizione ed espressione artistica (ogni intuizione
artistica è contemporaneamente anche espressione -non riproduzione- artistica)
deriva altresì l'identità tra arte e linguaggio: l'arte, soprattutto quella poetica, e il
linguaggio sono identici. Il linguaggio è cioè, in se stesso, creazione continua di
significati, di visioni delle cose (è il modo di interpretare e di vedere le cose), proprio
come l'arte e la poesia in particolare. Invece le regole grammaticali e sintattiche del
linguaggio non sono linguaggio vivo, ma soltanto sistemazioni del linguaggio
introdotte dall'intelletto.
L'estetica di Croce ha influenzato notevolmente la critica letteraria e poetica.
L'economia.
L'etica o morale.
Nella logica o filosofia abbiamo visto che per Croce storia e filosofia coincidono.
Lo Spirito infatti non è entità statica ma è attività, processo che diviene e si realizza
storicamente. Quindi lo Spirito è la storia dello Spirito che si svolge attraverso la
storia del mondo e la storia degli uomini. E poiché la filosofia ha come suo oggetto
lo Spirito, che è storia, allora filosofia e storia coincidono.
Ogni fatto della realtà, scrive Croce nell'opera "Teoria e storia della storiografia", è
sempre un fatto storico, perché la realtà non è statica ma è continuo divenire e
sviluppo della storia dello Spirito. Non è possibile nessuna distinzione tra fatti
storici e non storici. Anche il sasso si trasforma nel tempo e quindi anch'esso è un
fatto storico. Di conseguenza ogni giudizio, ogni valutazione e conoscenza sulla
realtà, è sempre giudizio storico, conoscenza storica.
Ed ogni storia, prosegue Croce, è sempre storia contemporanea, poiché per
quanto remoti siano i fatti considerati essi sono sempre rivissuti con riferimento e per
rispondere ai bisogni ed alle domande della situazione presente. Noi operiamo il
giudizio storico sempre per un bisogno pratico: per capire meglio il presente. Da ciò
la distinzione tra storia e cronaca: la prima è studio e ricerca che fa rivivere i fatti
del passato per meglio comprendere la situazione presente, mentre la cronaca invece
non ha alcun interesse a far rivivere come attuali i fatti del passato, che tratta come
cose morte. La storia è la storia viva; la cronaca è la storia morta.
Dato che filosofia e storia coincidono, deve essere allora rifiutata ogni filosofia
che pretenda di occuparsi di problemi universali, eterni e non storici, quali i
problemi di Dio, dell'anima, dell'essere (cioè della realtà astratta). Ogni problema
filosofico si risolve unicamente quando sia trattato e considerato in rapporto e sulla
base dei fatti storici che lo hanno fatto sorgere.
In questo senso quindi la filosofia deve essere intesa come metodologia della
storia, cioè come elaborazione del metodo e dei concetti di base di cui si serve lo
storico. È proprio per tale concezione, come si diceva in premessa, che la filosofia di
Croce è definita anche come "storicismo assoluto", perché considera che la vita e la
204
L'attualismo.
cogliere come tale. La verità invece è quella che crea il pensiero nell'atto del
pensare, nel momento in cui pensa.
Insomma, per Gentile l'atto del pensare è l'unica realtà perché nessun oggetto
esiste se non nell'atto (nel momento) in cui viene pensato. Da ciò il nome di
"attualismo" dato alla filosofia di Gentile.
Perciò, pur dichiarandosi hegeliano, Gentile afferma la necessità di una riforma della
dialettica hegeliana che elimini, da un lato, la Logica perché essa è soltanto dialettica
del pensato e che, dall'altro lato, elimini anche la Filosofia della natura, la quale non
è affatto dialettica intesa come dialettica del pensare. Ciò che Gentile salva della
dialettica di Hegel è la sola Filosofia dello Spirito in quanto dialettica del pensare,
del pensiero pensante, quale è appunto lo Spirito inteso come atto puro del pensare o
pensiero in atto, l'unica e sola realtà.
Dunque ciò che autenticamente esiste nella realtà è solo l'atto del pensare, il
pensiero in generale nel momento in cui pensa, il quale è unico e indistinto: non
solo non ci sono oggetti esterni ma non ci sono nemmeno altri soggetti pensanti di
sorta, dato che questi possono essere riconosciuti come "altri" solo nell'atto in cui
sono pensati, ma subito, nel momento in cui sono pensati, sono posti anch'essi
all'interno dell'unico e indistinto atto del pensare (inteso come pensiero in generale
e non come pensiero del singolo soggetto empirico).
Non solo, come per Hegel, la realtà autentica e la verità esistono esclusivamente
nel pensiero, nella coscienza o Spirito, non essendoci nulla al di fuori di esso ma
inoltre, a differenza di Hegel, esse esistono per Gentile soltanto nell'atto del
pensare, nel momento in cui si pensa perché ciò che è già stato pensato è ormai
superato dato che la realtà cambia in ogni nuovo atto del pensare, ossia in ogni
nuovo momento in cui è pensata. Al di fuori dell'atto, del momento, in cui si pensa,
ossia dell'atto del pensare, non è colta e avvertita nessuna realtà; quindi non esiste
alcuna realtà esterna all'atto del pensare (si ribadisce, ancora una volta, che Gentile
intende l'atto del pensare non come quello del singolo soggetto empirico pensante
bensì come quello del pensiero in generale, il pensiero collettivo).
L'atto del pensare o pensiero in atto è chiamato da Gentile il "Soggetto
trascendentale" o l’"Io universale e assoluto": soggetto in quanto è la coscienza
generale dell'umanità nella sua complessiva facoltà di pensare e di conoscere;
trascendentale perché il pensiero in atto non è quello del singolo soggetto empirico
ma quello dello Spirito, della coscienza dell'umanità, che in quanto tale trascende, è
oltre a tutti i singoli soggetti empirici, ai singoli individui e alle singole coscienze
individuali, che sono essi stessi un prodotto del Soggetto trascendentale ovvero dello
Spirito assoluto. Non ci sono dapprima gli oggetti i quali solo dopo vengono
pensati dal soggetto ma anzi, al contrario, essi sono il prodotto dell'atto del
pensare o pensiero in atto, cioè del Soggetto trascendentale: gli oggetti esistono
solo nel momento in cui sono pensati. Per tale proprio carattere assoluto e a priori del
Soggetto trascendentale la filosofia di Gentile è chiamata altresì"soggettivismo
assoluto": l’unica autentica ed assoluta realtà è quella del Soggetto, o Io
trascendentale, che crea il proprio oggetto nell'atto in cui lo pensa e, nel
pensarlo, crea anche se stesso come atto del pensare (autocreazione).
207
astratta è quella che si presta a spiegare l'oggettività della natura, cioè gli oggetti
empirici che costituiscono il momento negativo, vale a dire l'antitesi del processo
dialettico. Poiché negatività, è un errore limitarsiad essa. Tale errore è risolvibile e
superabile solo nel terzo momento del processo dialettico, quello della sintesi fra
soggetto e oggetto, recuperando così la logica concreta.
Gentile stabilisce una corrispondenza fra i tre momenti del processo dialettico
dello Spirito con gli ambiti, i settori, della cultura:
1. al momento del soggetto (la tesi) corrisponde l'arte;
2. al momento dell'oggetto (l'antitesi) corrisponde la religione;
3. al momento dell'unità di soggetto ed oggetto (la sintesi) corrisponde la
filosofia.
Così come la tesi è il momento del soggetto pensante, anche l'arte è il momento e
l'ambito della pura soggettività, è l'ambito in cui prevale il soggetto poiché il
mondo dell'arte è un mondo fantastico che vale solo come stato d'animo
soggettivo e non possiede realtà oggettiva. Per Gentile, a differenza di Croce,
l'arte non è mai intuizione, ossia attività conoscitiva rivolta ad aspetti particolari
della realtà, ma è sentimento, il sentimento di quel soggetto che è l'artista e il
sentimento di quegli altri soggetti che sono le persone che fruiscono e ammirano le
opere d'arte. Anzi, precisa Gentile, l'arte non è un qualunque sentimento ma è quel
sentimento di infinito che è l'amore. Come l'amore, l'arte è tensione, slancio,
attrazione verso ogni forma di realtà ma soprattutto verso lo Spirito. Come
sentimento soggettivo, cioè come manifestazione individuale derivante dalla
creatività del pensiero dell'artista, l'arte è autonoma sia dalla morale sia da ogni
condizionamento storico-culturale.
La religione è l'antitesi dell'arte; come nell'antitesi del processo dialettico dello
Spirito, essa è l'ambito in cui prevale l'oggetto. Infatti nella religione il Pensiero, lo
Spirito, non è avvertito come forza e attività immanente nel soggetto, cioè nella
coscienza collettiva; il soggetto invece dimentica se stesso e si annulla in un oggetto
concepito come assoluto e trascendente ed adorato come Dio. La religione è pertanto
considerata negazione della libertà e della creatività del Pensiero ed è intesa come
misticismo, ossia come annullamento dell'uomo in un oggetto assoluto esterno. Nella
religione il soggetto, ossia il Pensiero, concepisce la creazione non come propria
autocreazione ma come opera di un entità esterna, ossia Dio. Altrettanto, concepisce
la conoscenza non come produzione-comprensione dell'oggetto da parte del soggetto
(del Pensiero, o Soggetto trascendentale, che giunge all'autocoscienza), ma come
rivelazione che l'oggetto, cioè Dio, fa di se stesso al soggetto, ossia al pensiero
umano, all'uomo. Parimenti, concepisce il bene non come realizzazione della volontà
del soggetto ma come grazia che l'oggetto-Dio dona al soggetto. Tuttavia la
religione, aggiunge Gentile, pur spingendo l'uomo ad annullarsi di fronte al suo Dio,
ha il merito di fargli sentire dentro di sé il senso dell'eterno. Si può notare l'analogia
210
con Feuerbach: per entrambi è l'uomo ad aver creato Dio e non viceversa; per
entrambi Dio va ricercato nell'uomo: per Gentile nella sfera teoretica (della
conoscenza umana), per Feuerbach in quella antropologica (della natura umana).
Così come nella sintesi del processo dialettico dello Spirito, anche la filosofia è
l'ambito della sintesi di soggetto e oggetto. La filosofia scopre che tutta la realtà è
creata dal pensiero in atto, che cioè scorre e si svolge nel pensiero nel momento in cui
viene pensata e che nulla vi è fuori di esso. Di conseguenza non ha senso parlare di
un soggetto (il pensiero) e di un oggetto (il pensato) separati, perché il soggetto è il
pensiero nell’atto in cui pensa e che, con ciò, crea l'oggetto. La filosofia pertanto
supera sia l'individualismo eccessivo dell'arte, cioè la prevalenza del soggetto, sia la
prevalenza e la separazione dell'oggetto (Dio) dal soggetto quale si ritrova nella
religione. La filosofia riconosce che la realtà autentica e assoluta è invece il solo
soggetto pensante, il Soggetto trascendentale, ossia lo spirito umano.
La scienza, a sua volta, è collocata da Gentile in una posizione intermedia tra
l'arte e la religione. Oscilla tra la soggettività dell'arte (prevalenza del soggetto),
poiché il punto di vista dello scienziato è sempre soggettivo (individuale), e
l'oggettività della religione (prevalenza dell'oggetto), poiché le teorie e le leggi della
scienza si ritiene possiedano un valore oggettivo. Insomma per Gentile la scienza non
ha neppure quella validità parziale attribuita all'arte e alla religione, perché di esse
possiede i limiti senza condividerne le qualità. La sottovalutazione della scienza da
parte di Gentile, come anche da parte di Croce, ha condizionato a lungo la cultura
italiana, che ha privilegiato le discipline umanistiche rispetto a quelle scientifiche.
Inattualità dell'arte e della religione significa che non sono pensiero in atto.
Abbiamo visto che per Gentile solo la filosofia scopre che tutta la realtà è sintesi di
soggetto e oggetto e che essa è creata dal pensiero in atto, cioè dal pensiero nel
momento in cui pensa la realtà stessa. Anzi la filosofia, soggiunge Gentile, ancor
prima di coincidere con la filosofia dei filosofi, coincide con la vita stessa, coincide
col pensiero concreto dell'uomo, con la sua intelligenza che pone e risolve problemi.
L'arte e la religione sono invece inattuali perché non sono pensiero in atto; sono
momenti astratti che diventano concreti solo quando diventano pensiero in atto, ossia
quanto diventano filosofia. "Ogni uomo, scrive Gentile, non può mai né poetare
(essere artista) né adorare (credere in Dio) senza pensare". Infatti l'arte nella sua
purezza (in se stessa) è inafferrabile, tant'è che nel momento in cui il sentimento
artistico si esprime cessa di essere arte per diventare pensiero e quindi filosofia.
Anche la religione nella sua purezza è inafferrabile perché il suo oggetto (Dio) esiste
solo se c'è il soggetto (l’uomo) che la pensa e quindi fa filosofia. Pertanto l'attualità
dell'arte e della religione coincide con la loro morte nella filosofia, ossia l'arte e la
religione diventano attuali solo morendo come tali e diventando filosofia.
211
Anche Croce similmente a Gentile considera come realtà autentica solo quella che
deriva dal processo dialettico dello Spirito, allorquando nella sintesi si realizza l'unità
di soggetto e oggetto. Tuttavia Croce, all'interno dello Spirito, distingue l'attività
teoretica (conoscitiva) da quella pratica, affermando inoltre la presenza nello Spirito
di quattro categorie o forme distinte, seppur collegate nel senso che ognuna è il
presupposto della seguente (l'arte, la logica o filosofia, l'economia e la morale).
Gentile, per contro, non accetta la teoria dei "distinti" di Croce. Su tale questione
sorge anzi un'accesa polemica fra i due filosofi che prima avevano collaborato a
lungo insieme.
Per Gentile invece lo Spirito è unico, è un'unità indistinta: non esistono in esso
attività e categorie distinte perché unico è lo Spirito che pensa (attività teoretica) e
che agisce (attività pratica); infatti quando pensa agisce e quando agisce pensa. Esiste
solo un'unica categoria che è l'atto del pensare, poiché non ci sono realtà
molteplici da comprendere ma una sola, cioè il pensiero in atto, il pensiero che pensa
e riflette su stesso e si autoriconosce come realtà unica e assoluta. Scrive Gentile: "Io
non sono mai io senza essere tutto quello che penso; e quello che penso è sempre
unico perché unico sono io". Le varie esperienze (conoscitiva e pratica, artistica e
filosofica, economica e morale) sono sempre assorbite nell'unità dell'io, cioè della
coscienza: la Coscienza, il Pensiero, come Spirito dell'umanità, è uno solo; non vi
sono Spiriti dell'umanità plurimi perché unica è l'umanità stessa.
Croce e Gentile, come pure Hegel, sono invece d'accordo sull'identità di storia e
filosofia e sull'identità della filosofia con la storia della filosofia.
Infatti, se tutta la storia della realtà è il prodotto della storia del pensiero, cioè dello
Spirito, e se la storia del pensiero è la filosofia, allora storia e filosofia coincidono,
sono identiche: lo Spirito si realizza nella storia e la storia è la realizzazione dello
Spirito.
Altrettanto, se la filosofia è lo studio della storia dello Spirito man mano che esso
diviene e si sviluppa, allora la filosofia coincide con la storia della filosofia. Non c'è
un filosofo che abbia prodotto una filosofia definitiva poiché la filosofia progredisce
continuamente lungo la sua storia.
Gentile divide la storia della filosofia in due grandi epoche:
1. quella antica, che è una filosofia dell'oggettività: la realtà è intesa come
insieme di oggetti esterni e indipendenti dallo Spirito e non come suo
prodotto;
2. quella moderna, che per Gentile inizia col Rinascimento italiano, la quale
comincia a divenire e poi diventa una filosofia della soggettività: dapprima,
fino a Kant compreso, la conoscenza della realtà viene fondata sulla capacità
del soggetto pensante di organizzare i dati fenomenici della realtà; poi si
212
Lo Stato etico.
Nelle opere "Fondamenti della filosofia del diritto" e "Genesi e struttura della
società", Gentile affronta i temi della morale, del diritto, della politica, della
società e dello Stato.
Spiega la morale e il diritto non già in termini di prodotti dell’attività pratica, come
in Croce, bensì attraverso la dialettica (contrapposizione) di volente e voluto, che
è perfettamente corrispondente a quella di pensante e pensato, avendo visto che per
Gentile nessuna distinzione è possibile tra pensiero e volontà, tra attività teoretica e
attività pratica: il pensiero come attività creatrice infinita è volontà infinita creatrice.
La moralità è il volente, è volontà del bene, cioè creazione del bene nell'atto di
volerlo; il diritto è il voluto, cioè non è più volontà del bene in atto (il volere il
bene) ma è volontà passata, è ciò che è divenuta la volontà del bene quando è
realizzata; il diritto infatti è l'insieme delle norme che regolano il bene sociale che si
è voluto. La moralità (il volere il bene) si basa sulla libertà; il diritto (le norme
volute) si basa sull'obbligo di rispettarlo, anche con l'uso della forza. Ma tale
contrasto è per Gentile più apparente che reale, perché il voluto, cioè il diritto, è
proprio ciò che vuole il volente, ossia la moralità, che non è quella individuale
egoistica ma quella sociale altruistica.
213
In conformità alla sua filosofia, che afferma la sintesi e l'unità di soggetto e oggetto
all'interno dello Spirito, nel pensiero in atto, anche per quanto riguarda la
pedagogia Gentile afferma, altrettanto, l'identità tra educatore ed educando,
similmente a Sant'Agostino. Ogni forma di insegnamento deve perciò comportare
una profonda e reciproca intesa tra insegnante e allievo. L'insegnante deve di volta in
volta adattarsi all'allievo e l'allievo all'insegnante. Non esiste dunque per Gentile un
metodo didattico generale, unico e predeterminato per ogni materia e per ogni
insegnante. Rifiuta il metodo d'insegnamento di origine anglo-americana, che
riduce il processo educativo a tecniche didattiche.
Sempre in conformità con la sua filosofia, che afferma l'identità della filosofia con la
storia della filosofia, mediante la sua riforma della scuola del 1923 Gentile
sostituisce lo studio della filosofia per problemi (per singoli temi omogenei) con
quello della storia della filosofia (ancora attuale). Altrettanto dicasi per le altre
discipline, che basa anch'esse sullo studio della relativa storia (storia della
letteratura, dell'arte, della lingua, ecc.).
Secondo la sua mentalità idealistica, che sottovaluta le scienze, considera il Liceo
classico come istituto scolastico riservato ai più intelligenti e superiore alle altre
scuole tecniche e scientifiche.
215
LA FENOMENOLOGIA.
Ai suoi esordi Husserl partecipa con interesse al vivace dibattito sviluppatosi tra
psicologisti e logicisti.
Gli psicologisti, e tra questi Brentano maestro di Husserl, sostengono che la logica
deriva dalla psicologia: i concetti logici e lo stesso concetto matematico di numero
derivano dai processi psichici e dalla struttura psicologica dell'uomo, che
istintivamente è indotto, davanti ai fenomeni, ad astrarre da essi generalizzazioni e
regole di organizzazione nonché a sviluppare la tendenza al contare.
I logicisti (Bolzano, Cantor, Frege) sostengono, per contro, che i concetti logici e
matematici non si possono ridurre a funzioni e processi psichici, poiché essi
possiedono una verità e validità in sé, universale e necessaria, indipendentemente
dalla coscienza soggettiva e dall'esperienza. Le proposizioni logiche e i concetti
matematici sussistono e sono validi sia che vengano o non vengano pensati. Così è,
ad esempio, per il principio di non contraddizione, per il concetto di triangolo, per
quello di numero. Non solo essi non derivano dai processi psichici, ma ne sono la
condizione. Bisogna distinguere tra giudizi di fatto, che procedono per via intuitiva e
che in quanto tali non sono affatto necessari, e i principi universali e necessarie della
logica e della matematica che, applicati all'osservazione, alla conoscenza e alla
scienza, garantiscono la correttezza delle deduzioni. Le leggi logiche e matematiche
non possono dipendere dai processi psicologici. La rappresentazione psicologica è
particolare, empirica e soggettiva, per cui non può darci altro che giudizi di fatto, non
universali né oggettivi. Siamo in tal senso di fronte all'idea di una logica pura.
Husserl inizialmente aderisce alle tesi dello psicologismo e, in particolare, a quelle
di Brentano. Successivamente, convinto dalle critiche di Frege, abbandona lo
psicologismo riconoscendo l'autonomia della logica e della matematica dai processi
psicologici. Tuttavia Husserl non assolutizza la logica (non la considera prioritaria,
assoluta ed esclusiva) e non la colloca in un mondo astratto senza alcun rapporto con
la vita psichica del soggetto. Per Husserl non deve essere, in ogni caso, ignorato il
ruolo della coscienza che è quello del conferimento di senso ai fenomeni, per cui
si preoccupa di stabilire una serie di connessioni tra la logica e l'esperienza
psichica.
218
Sulla base della distinzione tra proposizioni scientifiche, basate sui principi della
logica e della matematica, e proposizioni (o giudizi) ricavate induttivamente
dall'esperienza, Husserl distingue tra intuizione di un dato di fatto e intuizione di
un'essenza. Husserl è persuaso che la nostra conoscenza comincia con
l'esperienza: con l'esperienza di cose esistenti, cioè di fenomeni, di fatti.
L'esperienza ci offre di continuo dati di fatto con i quali siamo alle prese nella vita
quotidiana e dei quali si occupa pure la scienza. Un fatto è ciò che accade qui e ora
ed è contingente (potrebbe esserci o non esserci). Ma quando un fatto (ad esempio
questo suono di violino, questo colore) si presenta alla coscienza, insieme al fatto
noi cogliamo anche l'essenza di quel fatto, cioè la specie universale, il modo tipico
che caratterizza ogni dato o fatto particolare appartenente a quella data specie, ossia
ad una certa categoria, ad un certo gruppo omogeneo (ad esempio, non cogliamo
soltanto il suono di questo violino ma "il suono", cioè l'essenza del suono, l'idea
universale del suono; altrettanto, non cogliamo solo questo colore, ma anche "il
colore"). Nelle occasioni più disparate noi possiamo udire i suoni più diversi (violino,
clarino, pianoforte, ecc.) ma in essi noi riconosciamo qualcosa di comune, un'essenza
comune. In ogni fatto particolare si coglie sempre un'essenza o idea universale:
ogni esperienza particolare si presenta sempre come tale rispetto ad una idea generale
e universale. Quando la coscienza coglie un fatto qui ed ora, essa coglie anche
l'essenza di cui quel fatto specifico e contingente è un caso particolare: questo colore
è un caso particolare dell'essenza "colore"; questo suono è un caso particolare
dell'essenza "suono"; questo rumore è un caso particolare delle essenza "rumore", e
così via.
Le essenze sono quindi i modi tipici con cui i fenomeni si manifestano alla
coscienza; sono una specie generale ed universale cui appartiene un fatto particolare,
un dato di coscienza. Ma l'essenza non è un concetto: l'essenza cioè non scaturisce
219
dall'astrazione di ciò che è comune nei casi particolari o dalla comparazione tra cose
simili, come sostengono gli empiristi, poiché la somiglianza è già un'essenza. Non
astraiamo l'idea o essenza di triangolo dalla comparazione di più triangoli, ma
piuttosto riconosciamo che questo, quello e quell'altro sono tutti i triangoli perché
sono casi particolari dell'idea di triangolo. La conoscenza delle essenze non è cioè
una conoscenza mediata, ottenuta attraverso l'astrazione o la comparazione di più fatti
particolari: per comparare più fatti bisogna aver colto già un'essenza, ossia un aspetto
tipico per cui sono simili. Invece, la conoscenza delle essenze è un'intuizione
immediata, poiché in ogni singolo dato noi cogliamo intuitivamente la presenza di
un'idea, di un'essenza universale.
L'intuizione delle essenze è chiamata da Husserl "intuizione eidetica" (dal greco
"eidos" che significa idea, essenza). I fatti singoli sono casi particolari di essenze
eidetiche (ideali). È vero che sono reali solo i casi singoli mentre le essenze
eidetiche non lo sono, ma solo l'intuizione delle essenze eidetiche, delle essenze
ideali, ci permette di classificare, di riconoscere e distinguere i fatti particolari.
Si può notare l'analogia della dottrina delle essenze eidetiche con la teoria del
mondo delle idee di Platone (con la differenza però che le essenze non hanno una
loro collocazione indipendente nell'Iperuranio, ma sono il modo tipico dell'apparire
dei fenomeni alla coscienza) nonché con le forme a priori e le categorie
trascendentali della ragion pura di Kant (con la differenza però che le essenze non
regolano soltanto i fenomeni oggetto della conoscenza fisica e scientifica ma anche
quelli che riguardano l'attività pratica, il sentimento, i valori, le emozioni).
La fenomenologia ha quindi il compito di descrivere la tipologia (i vari tipi) delle
essenze e di individuare il metodo attraverso cui i fatti particolari possono essere
correttamente ridotti e ricondotti alle essenze, ovverossia come nei fatti particolari
si colgono le essenze. A tal fine occorre osservare due condizioni fondamentali:
1. la "riduzione eidetica", che sostituisce alla considerazione dei fatti particolari
o delle cose naturali l'intuizione delle essenze;
2. l’"epoché", che sospende il giudizio e le tesi che derivano da credenze
ingenue, dai preconcetti e dal senso comune.
Per riduzione eidetica Husserl intende il processo, il modo, attraverso cui, con
un'opera di depurazione (purificazione) o, appunto, di riduzione, si sostituisce alla
percezione dei fenomeni empirico-particolari l'intuizione delle essenze. In altri
termini, mediante la riduzione eidetica la fenomenologia, partendo dai fenomeni, si
propone di descrivere i modi tipici con cui questi si presentano alla coscienza,
rintracciando così le essenze dei fatti, ossia le idee universali che la coscienza
intuisce esserci all'interno dei dati individuali e particolari. L'obiettivo è di fondare la
fenomenologia come scienza rigorosa che guarda alle cose al fine di trovare, al di là
dei fenomeni particolari e contingenti, punti solidi e dati indubitabili, tali da non poter
venir messi in dubbio.
220
Abbiamo visto che scopo della fenomenologia è di descrivere i modi tipici, di specie,
con cui i fenomeni si presentano alla coscienza nel loro significato essenziale. Le
essenze sono i significati universali e invarianti cui, attraverso la riduzione eidetica,
sono ricondotti i fatti, i fenomeni particolari. La distinzione tra il fatto e l'essenza
consente di giustificare la validità della logica e della matematica: queste due
scienze sono universali e necessarie perché hanno come oggetto i rapporti fra le
essenze (quali sono i principi logici e le essenze geometriche e aritmetiche: triangolo,
numero, ecc.) e non ricorrono all'esperienza come fondamento della loro validità.
La proposizione "i corpi cadono con un moto uniformemente accelerato" è
un'asserzione di fatto e quindi ha bisogno di esperienze per confermarne la validità,
mentre la proposizione "la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180 gradi"
non ha bisogno dell'esperienza per la sua validità; essa esprime infatti un rapporto tra
essenze.
Ma il fatto che la coscienza si riferisca ad essenze ideali, universali e invarianti,
rende possibile alla fenomenologia altre indagini oltre al campo matematico e
223
Nelle ultime opere Husserl affronta il problema della crisi della scienza moderna,
di cui non mette in dubbio il valore scientifico ma sottopone invece a critica
l'esclusivo indirizzo naturalistico ed oggettivistico del sapere scientifico, che
pretende di essere l'unico modello valido di conoscenza a cui tutte le altre discipline
devono adeguarsi. Questa presunzione sorge fin da Galileo ed ha nel Positivismo la
sua più arrogante espressione. Ma tale modello di sapere scientifico non prende in
considerazione tutte le questioni più importanti per la vita dell'uomo, non
considera il mondo della vita umana e nulla dice sul senso e sul significato delle
cose, sulle possibilità dell'esistenza e della libertà di scelta nelle azioni umane. È un
modello estraneo al mondo della vita. Dietro questo modello fisico-matematico
esiste invece un mondo umano di bisogni, di sentimenti, di intenzioni che rimane
inesplorato dalle scienze, anche dalle scienze umane. Lo storico infatti si rinchiude
nell'esame tecnico dei suoi documenti, così come il giurista lavora scientificamente
sui codici, ma ignorano la dimensione umana delle esigenze e delle finalità. La
filosofia deve perciò rivolgersi a nuovi orizzonti e liberare il mondo dall'impostazione
esclusivamente fisico-matematica delle scienze e della tecnica, che considerano solo
le leggi quantitative e della necessità meccanica. La filosofia può mostrare che non
esistono leggi meccaniche e necessarie insuperabili e che la visione del mondo può
scorgere e aprirsi alla dimensione dell'umanità e della libertà: l'attività e la
creatività dell'uomo si muovono in un ambito di libertà e non possono essere
spiegate e rinchiuse nei rigidi schemi della scienza. Ai filosofi spetta il compito di
divenire "funzionari dell'umanità", cioè di rendere gli uomini consapevoli del
ruolo attivo che essi svolgono nel continuo sviluppo della storia.
224
(ispirate al criterio della felicità) delle norme etiche. Anche per Hartmann le norme
etiche sono a priori, tuttavia, a suo avviso, la concezione kantiana dell'apriori va
corretta e depurata dell'aspetto formale, come del resto si è visto nel caso della
teoria della conoscenza. Per Hartmann l'universalità dell'apriori non si identifica
con la forma: la norma morale può avere un contenuto, una "materia", senza perdere
l'apriorità. Vale a dire che i valori non sono creati dalla soggettività (la coscienza),
la quale ha invece soltanto la funzione di manifestarli giacché essi posseggono un
essere ideale in sé, come gli enti matematici e le essenze in generale, e come quelli
sono universali. Il compito dell'etica pertanto è di descrivere ed analizzare i valori
morali anziché prescriverli. Come per Scheler, anche per Hartmann la persona è già
di per sé portatrice di valori: la vita dello spirito inizia con la realizzazione morale
della persona (spirito personale), si svolge nella storia (spirito oggettivo) e si
consolida e si perpetua nelle istituzioni giuridiche e nelle opere concrete dell'arte,
della scienza e della cultura in genere (spirito oggettivato).
Per Hartmann l'essenza della realtà non sta nella necessità, per cui essa non può
non essere (come in Parmenide, o nel creazionismo cristiano, o nello Spirito
dell'idealismo), e neppure nella possibilità, intesa come possibilità di agire o di
subire un'azione (come in Ockham, negli stoici, negli empiristi o negli esistenzialisti),
ma consiste invece nell'effettualità, cioè nella realtà di fatto, nell'essere
semplicemente così e non altrimenti, ossia nell'esistere come pura attualità, come
puro fatto che accade. L'effettualità è il modo fondamentale dell'essere (della
realtà) anche in ambito morale. Hartmann definisce il "bene etico" come "un
insieme di valori che si rivelano tutti all'uomo con la pretesa di venir realizzati" e che,
dunque, non sono oggetto di conoscenza disinteressata ma implicano una relazione
emozionale con essi. Ne consegue che ogni morale positiva, in vigore in una data
società sarà sempre e necessariamente unilaterale, dato che non è possibile conoscere
una volta per tutte cosa sia il bene: il bene e i valori sono storicamente determinati e
quindi mutevoli lungo la storia.
Tuttavia, considerando i valori entità esterne oggettive, che si rivelano all'uomo
lungo la storia, anziché consistere in prodotti ideali dell'umana coscienza, non resta
allora ad Hartmann che proporre di fondare l'etica su di uno spiritualismo
oggettivo (il diritto, la moralità, l'eticità) di per sé impersonale, operante nella storia
similmente alla concezione hegeliana, con la differenza che, mentre per Hegel il
divenire della realtà e della morale nella storia è opera dell'intrinseca razionalità dello
Spirito, per Hartmann invece la realtà effettuale non si giustifica razionalmente ma si
pone e si presenta così come accade. Deriva allora, però, una contraddizione nell'etica
di Hartmann, giacché il determinismo (il presentarsi e porsi) rigoroso ed impersonale
dell'accadere della realtà effettuale non sembra compatibile con l'affermazione della
libertà dell'uomo, anch'essa sostenuta d'altro canto dallo stesso Hartmann. Sia l'essere
(la realtà) che la morale appaiono dunque rinviate ad un Assoluto del tutto casuale,
quindi in sé irrazionale ed altresì contingente, nel senso che effettualmente è ma
potrebbero anche non essere.
230
L’ESISTENZIALISMO.
Oltre che essere una corrente filosofica, l'esistenzialismo ha ispirato altresì le più
diverse forme di cultura nel periodo compreso fra le due guerre mondiali ed oltre
fino agli anni del dopoguerra. Come fenomeno culturale più ampio ha influenzato
la letteratura, l'arte, la psicologia, la stessa religione, sino a proporsi come
concezione e stile di vita.
In generale, l'esistenzialismo è contraddistinto da un'intensa sensibilità nei
confronti della finitudine umana e delle condizioni che la caratterizzano: la
nascita, la morte, la sofferenza, la lotta, il passare del tempo, tutti aspetti cioè che
limitano l'esistenza dell'uomo.
Storicamente, esso sorge dall'esperienza drammatica di orrore e distruzioni derivante
dai due terribili conflitti mondiali. Ha parimenti concorso a formare la sensibilità
esistenzialista la delusione nei confronti delle concezioni filosofico-culturali
ottimistiche dell'Ottocento, in particolare l'idealismo e il positivismo.
In ambito letterario, lo spirito esistenzialista è rinvenibile nei romanzi di
Dostojevskij, incentrati sul problema del peso e delle responsabilità dell'uomo
rispetto alle scelte di vita per quanto dolorose esse siano, nonché nelle opere di
Kafka, dove è narrato il tema dell'insicurezza della vita e il senso di sconfitta
dell'uomo di fronte ad una realtà che lo opprime oppure, come anche in Pirandello, è
trattato il problema della banalità quotidiana dell'esistenza, priva di senso e di
significati. Dopo la seconda guerra mondiale la letteratura esistenzialistica trova
espressione nell'opera di Simone de Beauvoir, sul tema dell'ambiguità del bene, e di
Albert Camus, sul tema dell'assurdità dell'esistenza umana tormentata dalla
contraddizione tra l'infinità delle aspirazioni e la finitezza delle possibilità.
Nella poesia si trovano espressi motivi esistenzialisti nell'ambito del decadentismo e
dell'ermetismo (Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, per citare autori italiani), con
riguardo ai temi della solitudine, dell'illusione del vivere, della precarietà
dell'esistenza umana, della sofferenza della vita, delle condizioni limitate dell'essere
umano.
La cultura esistenzialista si manifesta anche nel campo della moda, del costume,
del cinema e della canzone, in termini espressivi di inquieti o malinconici stati
sentimentali oppure di protesta contro il conformismo e le false sicurezze.
In ambito più strettamente filosofico, l'esistenzialismo si è espresso in varie
forme: esistenzialismo ontologico, religioso, umanistico, ateo, negativo-nichilistico
(la vanità e il nulla dell'esistenza). Comunque, al di la delle specifiche differenze di
forma, sono rintracciabili nella filosofia esistenzialistica determinati tratti comuni:
1. la concezione dell'esistenza come modo di essere proprio dell'uomo, segnata
da caratteristiche peculiari e differenti da tutti gli altri enti del mondo, definiti
semplice presenza (Heidegger);
2. la riflessione sul rapporto tra l'uomo e l'essere (il mondo e gli altri), essere che
per Sartre è la totalità dell'esperienza; per Heidegger è lo sfondo, l'orizzonte,
che lascia apparire gli enti illuminandoli; per Jaspers e Marcel è un assoluto
divino (la trascendenza, Dio, la verità);
231
Il mondo.
Il mondo è costituito dalla totalità degli oggetti e dei fenomeni che, in quanto tali,
sono particolarmente indagati dalle scienze. La conoscenza scientifica si estende
sempre di più ma non può mai superare il proprio limite, costituito dal fatto che
la scienza scopre soltanto un determinato aspetto del mondo, si rivolge sempre cioè
verso oggetti determinati ma non giunge mai ad una conoscenza complessiva e
definitiva della totalità del mondo. La conoscenza scientifica è chiamata da Jaspers
"orientamento nel mondo" perché ci aiuta ad orientarci nel mondo delle cose e
degli oggetti. Però non può dare nessuna risposta alla domanda sul senso del
mondo e sul perché delle cose e dei fatti che accadono. Inoltre non è in grado di
dare nessun orientamento per la vita, non stabilisce valori, ossia ideali e principi
guida.
233
La totalità del mondo e il senso complessivo del mondo e delle cose del mondo
rimane un orizzonte, un confine irraggiungibile e trascendente (insuperabile). Il
mondo come totalità rimane sempre al di là della nostra conoscenza. Tutt'al più
è possibile costruire una propria e personale immagine del mondo, che non è tuttavia
il mondo ma piuttosto un punto di vista singolo fra i tanti possibili. Il mondo come
totalità e nel suo senso complessivo è chiamato da Jaspers "orizzonte
conglobante", che tutto ingloba, tutto abbraccia e ricomprende, il quale si estende
con l'estendersi della nostra conoscenza ma si sposta continuamente in avanti e
rimane, per l’appunto, irraggiungibile, trascendente, insuperabile.
La pretesa di conoscere l'orizzonte conglobante (il mondo nella sua totalità e nel
suo significato complessivo) determina lo "scacco" (la sconfitta)
dell'orientamento scientifico nel mondo, cioè del sapere scientifico. Ciò che si
cerca è la comprensione del mondo come totalità assoluta e onnicomprensiva che
"tutto abbraccia"; quello che si raggiunge è invece un mondo legato ad un particolare
punto di vista. Il mondo si rompe nella molteplicità delle prospettive (dei punti di
vista), ognuna delle quali ha la pretesa di valere in assoluto, mentre sono invece tutte
relative. Lo scacco mostra la rottura del mondo come totalità e unità. La volontà di
afferrare l'Essere (del mondo) nella sua totalità infinita e illimitata è destinata al
"naufragio".
L'esistenza.
La trascendenza.
senso, il bisogno della metafisica, che è appunto ricerca di ciò che trascende, che
sta oltre il mondo fisico.
Siamo di fronte ad un'altra contraddizione dell'esistenza: l'esistenza umana, in quanto
destinata a finire, si rivela da ultimo come radicale impossibilità di esistere, mentre
l'Essere trascendente e infinito non è una possibilità dell'esistenza perché trascende le
cose del mondo e l'esistenza stessa. Alla fine dell'esistenza non c'è che il naufragio.
In quanto trascendente, al di là degli oggetti ma anche dei pensieri, la trascendenza
non è scientificamente conoscibile e razionalmente dimostrabile. Vi è tuttavia un
modo in cui può essere colta e intuita e cioè nei simboli, che Jaspers chiama
"cifre", nei quali essa si manifesta. Tali cifre sono di due tipi:
1. quelle di cui si può fare esperienza nel modo di guardare e interpretare le cose
della natura, i miti religiosi o i sistemi e teorie metafisiche appartenenti alla
sfera oggettiva, al di fuori della coscienza;
2. quelle che rientrano nel modo in cui noi sentiamo e avvertiamo l'essenza della
nostra esistenza, ossia come libertà ma anche scacco e naufragio dell'esistenza
stessa.
La trascendenza si rivela soprattutto in quelle che Jaspers chiama "situazioni
limite", quali la storicità dell'esistenza (il trovarci a vivere sempre in una
situazione storica e ambientale determinata che non si può mutare) ed anche la lotta,
il peccato, il dolore, la morte. Le situazioni limite sono quelle in cui il termine
"limite" indica qualcosa che appunto trascende l'esistenza e che hanno perciò il
carattere dell'immutabilità e dell'incomprensibilità. Noi non possiamo modificarle,
ogni ribellione contro di esse è insensata; possiamo solo constatarle, prenderne atto
ma non comprendere il perché non sia possibile vivere senza lotta, senza peccato,
senza dolore, in un altro ambiente e tempo storico o senza morire. Di fronte a tali
situazioni non resta che la rassegnazione.
Ma proprio l'impotenza di fronte alle situazioni limite induce l'uomo a credere
nella presenza di un Essere trascendente, ossia Dio, cui rivolgerle la propria fede.
Ci sentiamo impotenti ma proprio per questo siamo indotti a ritenere che il carattere
finito delle cose del mondo, della nostra esistenza, delle nostre conoscenze si regga
su di un Essere supremo, infinito, illimitato e trascendente oltre tutti i nostri limiti.
Anzi, per Jaspers la trascendenza è la condizione indispensabile dell'esistenza. È
vero che la trascendenza è il naufragio dell'ente e dell'esistenza perché è lo
sfondo, l'orizzonte conglobante irraggiungibile in cui tutte le cose finite e
contingenti si annullano. Ma è anche vero che la trascendenza è la condizione del
divenire della realtà: il divenire è possibile solo se l'orizzonte e i limiti del mondo
(cioè la trascendenza) non restano fermi ma si spostano continuamente in avanti.
L'ente (le cose) per divenire deve essere necessariamente in rapporto con la
trascendenza, con l'assolutamente altro e nascosto.
Di fronte al naufragio e allo scacco dell'esistenza, la via d'accesso all'Essere
trascendente (Dio) consiste allora nella fede. Jaspers parla di "fede filosofica", che
deve essere aperta, tollerante e non fanatica, nonché incessante ricerca della
trascendenza al di fuori dei dogmi rigidi di qualunque religione rivelata.
236
L'essere in sé, l'in sé, è l'insieme dei fenomeni, dei dati sensibili (delle cose che si
vedono, si toccano, si sentono) nudi e crudi che vengono percepiti, del tutto
contingenti, casuali e assurdi, nel senso che non si comprende il loro perché. L'essere
in sé è costituito da tutto ciò che non è coscienza; consiste cioè nel mondo e nelle
cose del mondo, con cui però la coscienza entra in rapporto. Esso è dappertutto
"intorno a me e contro di me", che la coscienza trova costantemente davanti a se e
contro di sé.
Nella filosofia esistenzialistica di Sartre, e anche di molta filosofia contemporanea, i
fenomeni non significano più ciò che ci appare delle cose in sè, come in Kant.
Piuttosto, ogni fenomeno rimanda semplicemente a se stesso, senza presupporre un
noumeno (una cosa in sè) ad esso sottostante. Pertanto il complesso dei fenomeni è
già il complesso della realtà: non ci sono sostanze, sostrati, sotto i fenomeni.
L'essere in sé è definito appunto da Sartre come l'insieme dei fenomeni in quanto il
suo esistere non è causato da nulla se non da se stesso (assoluta casualità). Si tratta
quindi di un esistente(di un insieme di fenomeni esistenti) constatabile ma di cui non
si dà ragione, quindi assurdo. Questo essere in sé è perciò una realtà compatta,
opaca e oscura, nonché impenetrabile poiché non si scorge se e cosa c'è al di sotto.
L'essere per sé, il per-sé, è invece la coscienza che, trovandosi di fronte alle cose,
ha la capacità, grazie all'immaginazione, di attribuire ad esse, liberamente, dei
significati e un senso. La coscienza non può chiudersi in se stessa in quanto è
costitutivamente in relazione con l'essere in sé, con le cose (intenzionalità della
coscienza). Essa intenziona, ossia si pone in relazione con la realtà fuori di sé
annullandola per attribuirvi un suo proprio senso e significato, annullando con ciò
anche se stessa. Per la sua proprietà di non essere un dato sensibile bensì di dare
ad esso dei significati allora, come visto sopra, l'essere per sé, la coscienza,
coincide col nulla: sia col nulla del mondo e delle cose, perché li annulla in se
stessa rivestendoli di propri significati, sia col nulla della coscienza stessa, poiché
la conoscenza non è un dato, una realtà, ma è attività che inventa continuamente
nuovi significati da conferire alle cose, negando quindi continuamente se stessa nel
senso che non è irrigidita in forme predeterminate, esprimendo contestualmente, in
tal modo, la libertà dell'uomo. Ad esempio, quando entra in contatto con una
persona, la mia coscienza attribuisce liberamente ad essa una pluralità di significati e
di valori: bella, brutta, simpatica, antipatica, divertente, noiosa, ecc. La libertà
costituisce la struttura, l'essenza stessa della coscienza, o del per-sé, e
dell'esistenza umana: l'esistenza infatti non è presenza, cioè non è oggetto ma è
possibilità e libertà. Per costituzione ontologica, ossia per sua natura, "l'uomo è
condannato ad essere libero": è una libertà a cui non può sottrarsi. L'essere in sé (le
cose) è ciò che è; è un oggetto, o un'insieme di oggetti determinati, ma in sé senza
senso; non ci dice il perché delle cose o dei fatti che accadono. La coscienza, ossia
l'esistenza e cioè l'uomo, non è invece un oggetto; essa è vuoto di essere ma è
possibilità di attribuire liberamente suoi propri significati all'essere in sé, ed in
quanto possibilità la coscienza non è una realtà precostituita ma è libertà.
Il corpo dell'uomo è essere in sé, cioè oggetto contingente (casuale) e assurdo (di
per sé senza senso, senza perché) in mezzo a tutti gli altri oggetti, altrettanto
240
contingenti e assurdi. Per contro, l'uomo come essere per sé è coscienza e libertà
che trascende il mondo e le cose del mondo ma che al, tempo stesso, è sempre
riferito ad esse. L'uomo come essere per sé non si riduce al suo passato, in quanto
esso è quella parte di sé che è già compiuta, e neppure si riduce al presente perché
continuamente lo trascende.
L'essere in sé (il mondo), ivi compreso il corpo dell'uomo, è pieno (è pieno di
oggetti concreti) ma opaco (in sé senza senso e significati), mentre l'essere per sé
(la coscienza) è vuoto (è assenza di essere in quanto la coscienza non è un essere, un
oggetto) e come tale è il nulla (nullifica la realtà), ma è possibilità, cioè libertà e
responsabilità di dare infiniti significati all'essere in sé, tuttavia infondati, cioè
di carattere soggettivo e non oggettivo: la libertà della coscienza si fonda infatti
proprio sul suo non essere realtà oggettiva (la coscienza non è un oggetto).
Vi è nella libertà della coscienza, cioè nell'uomo, un'intrinseca contraddizione:
io non sono libero di decidere della mia esistenza ma "sono condannato ad
esistere", nel senso che mi trovo "gettato" nel mondo non per mia libera scelta; ma
dopo essere divenuto esistenza, cioè dopo essere venuto al mondo, sono di
conseguenza condannato ad essere libero, perché come coscienza mi ritrovo
inevitabilmente a dare liberi significati e senso all'essere in sé, ossia alle cose del
mondo con cui vengo in contatto. Ciò implica allora che l'uomo, una volta gettato
nella vita, è responsabile di tutto ciò che fa, cioè del progetto della sua vita.
Nessuno può cercare scuse: se si fallisce è perché si è scelto di fare fallimento.
Qualunque evento mi accada è qualcosa a cui posso sempre sottrarmi, se necessario
anche in forma estrema, con la fuga o con la morte.
Non esiste però soltanto un unico essere per sé, un'unica coscienza individuale ma
esistono anche gli altri uomini e quindi esiste un "essere per gli altri" con i quali
si viene in contatto, di cui si fa esperienza, e che da coscienza individuale mi
trasformano in oggetto delle loro coscienze. Il rapporto con l'altro (gli altri
uomini) è costituito, per Sartre, da un duplice processo di reificazione (=di
trasformazione del soggetto ad oggetto, ossia a cosa, dal latino "res" che significa
appunto cosa). Infatti:
1. dal mio punto di vista l'altro, pur essendo in se stesso una coscienza e quindi
non un oggetto, diviene però oggetto per me e dunque uno strumento da
utilizzare a mio vantaggio;
2. dal punto di vista dell'altro, egli a sua volta fa di me una cosa veduta e quindi
un oggetto da usare a suo vantaggio.
Quando entro in contatto con l'altro nasce pertanto il conflitto. Il conflitto è per
Sartre la caratteristica fondamentale dell’"essere per gli altri". Gli uomini
tendono a sottomettere gli altri per non restare sottomessi. Il conflitto è un dato
strutturale della condizione umana.
241
Sartre scorge due modi, due vie per superare il conflitto con gli altri ma,
aggiunge, sono due vie apparenti:
1. la via dell'amore, che consiste nel rispettare e valorizzare la soggettività, la
personalità dell'altro; ma così facendo io mi riducono ad oggetto dell'altro e
mi accetto come tale nei suoi confronti;
2. la via del desiderio, che consiste nel fare dell'altro il proprio oggetto da usare
a proprio piacere.
Si tratta di una visione chiaramente pessimistica del rapporto con gli altri,
dell'essere per gli altri. Sartre sembra ignorare l'amore reciproco, che è reciproca
donazione di sé. Sartre invece dice "L'inferno sono gli altri".
Prigioniero della casualità della propria esistenza, l'uomo si accorge che il tentativo
di diventare "essere causa di se stesso"(si tratta della definizione di Dio della
scolastica medievale) è destinato a fallire.
Se Dio non esiste e se lo stesso tentativo dell'uomo di farsi Dio si rivela un
fallimento, allora anche i valori morali perdono qualsiasi senso o, meglio, non
esistono norme morali a priori, assolute e immutabili. Tutti i comportamenti
umani sono quindi sullo stesso piano, si equivalgono e sono tutti ugualmente
fallibili. Da ciò il relativismo etico di Sartre: non ci sono valori morali universali e
necessari, validi per tutti e per sempre. Gli uomini sono assolutamente liberi nella
scelta dei loro comportamenti ma proprio per questo, come abbiamo visto, sono
altresì, d’altro canto, assolutamente responsabili di ciò che fanno e non possono
cercare scuse se si comportano in modo errato.
Nel corso della sua vita Sartre tuttavia non rimane chiuso nei suoi pensieri
filosofici e produzioni letterarie ma ritiene doveroso anche un suo impegno
sociale e politico, specie nella resistenza francese contro l'occupazione nazista,
nonché nella ricostruzione post-bellica e nel socialismo. Perciò nella conferenza
"L'esistenzialismo è un umanismo" Sartre attenua il carattere pessimistico della
sua prima filosofia, sottolineando che la libertà dell'esistenza, ossia della scelta
di vita, non è da considerare assolutamente arbitraria perché comporta anche
una precisa responsabilità sociale: la libertà di ciascuno trova un limite nella
libertà degli altri. Elaborando una teoria della libertà e responsabilità individuale e
sociale dell'uomo, Sartre smorza le concezioni iniziali circa l'assurdo e il nulla
dell'esistenza e della coscienza, reinterpretando l'esistenzialismo nei termini di
una filosofia dell'impegno per l'uomo e per la sua emancipazione materiale, sociale
e spirituale. Il destino dell'uomo è nell'uomo stesso, nelle sue scelte responsabili. In
tal senso l'esistenzialismo si presenta come un umanismo, in quanto l'uomo viene
considerato responsabile del proprio progetto di vita, che si proietta costantemente
fuori di se stesso a favore degli altri e che è quindi trascendenza, ossia
oltrepassamento, un andare al di là da sé verso gli altri.
indiscutibile, che non può essere criticato), incapace di tener conto dei cambiamenti
sociali.
È allora necessario condannare questo marxismo ufficiale e dogmatico per
ritornare ad un marxismo umano, capace di concedere maggior libertà agli
individui e disponibile ad adeguarsi continuamente ai nuovi bisogni dei cittadini e ai
nuovi mutamenti della società, attribuendo pari importanza sia ai valori e fattori
sociali, proclamati dal marxismo, sia ai valori e fattori individuali, proclamati
dall'esistenzialismo.
245
Problema e mistero.
1. la socraticità, che è propria non dello scienziato ma del filosofo, il quale mira
non alla coscienza bensì alla saggezza;
2. il senso di appartenenza ad una realtà cosmica, ossia il riconoscersi
innanzitutto come entità psicosomatica che spinge a non rinchiudersi nel
proprio antropocentrismo, ma che anzi infonde la coscienza di far parte di un
universo in cui si è generati e da cui si è quindi creati;
3. il senso della trascendenza, dato che la riflessione secondaria induce l'uomo a
riconoscersi al tempo stesso sia come interiorità sia come alterità: l'uomo è in
sé nella sua intimità ma contemporaneamente è proiettato fuori di sé, verso
l'essere (il cosmo) che lo circonda.
Anche Marcel dunque, come Jaspers, Sartre, Heidegger, si pone il problema
dell'essere, ossia della modalità od essenza primaria e fondamentale dell'ente (delle
cose e degli uomini), da cui dipendono tutte le sue manifestazioni e i suoi significati
od insignificanze. Anzi, l'essere ha per Marcel un carattere ancor più universale in
quanto la domanda (l'interrogarsi) sull'essere è rivolta non solo alla realtà esteriore,
ma anche e soprattutto nei confronti di colui che tale domanda si pone (l'uomo). Così
concepito, per Marcel allora quello dell'essere non è un problema bensì un
mistero.
Secondo Marcel, il problema è qualcosa che si incontra e che si pone davanti a me.
Si presenta cioè come una difficoltà di ordine più teoretico (conoscitivo) che
esistenziale. È una difficoltà risolvibile sul piano oggettivo attraverso l'analisi o la
dimostrazione razionale, ma che non coinvolge l'uomo come persona.
Il mistero, al contrario, è qualcosa in cui io mi trovo implicato, la cui essenza è di
non essere un qualcosa d'altro davanti a me. L'unione di anima e corpo, ad esempio,
che è costitutiva dell'io, è un mistero perché rimane al di là dell'analisi. Essa non è un
dato predeterminato, ma un processo continuo di reciproca interazione mai
predeterminabile.
Il mistero dell'essere.
Il problema dell'essere non è quindi risolvibile sul piano oggettivo proprio perché
l'essere non è un ente, un oggetto. Quando ci poniamo il problema dell'essere, cioè
del senso della realtà e di noi stessi, non troviamo più davanti a noi dati oggettivi
analizzabili perché siamo noi che attribuiamo un senso alle cose, agli oggetti, ed
inoltre siamo noi stessi che ci interroghiamo sull'essere (il ricercatore si confonde con
ciò che è ricercato), non sapendo inizialmente se noi siamo né che cosa siamo. La
riflessione sul problema ontologico (il problema dell'essere) si apre sopra un abisso: il
problema si trasforma in mistero, cioè, come dice Marcel, in un "metaproblema":
al di là del problema che noi comprendiamo c'è il mistero che ci comprende. A questo
punto l'uomo è chiamato non più a domandare ma a rispondere, non più a chiedere
ma, attraverso una totale disponibilità e apertura, ad accogliere un essere che, in
quanto trascendente, non si manifesterà mai in modo totale. Questa apertura e
disponibilità si traduce in una invocazione (l'essere non può essere compreso ma
247
L'avere e l'essere.
La libertà condizionata.
Essere e tempo.
cui sono colti dalla coscienza. Mediante l'analitica esistenziale Heidegger intende,
appunto, evidenziare i modi possibili, fondamentali ed essenziali di essere
dell'uomo, modi chiamati da Heidegger "esistenziali". Mentre per esempio le
categorie di Aristotele e di Kant (sostanza, causa-effetto, quantità, qualità, relazione,
ecc.) indicano i modi più generale di essere degli enti, intesi come semplice
"presenza", gli "esistenziali" indicano le caratteristiche strutturali fondamentali
dell'esserci, inteso come esistenza e non come presenza.
Quale preliminare presupposto degli esistenziali, Heidegger individua nell’uomo
tre caratteristiche essenziali dell'esistenza, che lo differenziano dagli altri enti:
1. la capacità di porre il problema e di interrogarsi sull'essere e sul senso
dell'essere, cioè di mettersi in rapporto sia col singolo essere individuale che
con l'essere in generale;
2. l'esistenza (ossia l'esserci o l'uomo) è essenzialmente possibilità di essere,
cioè di progettare il proprio modo futuro di essere, a differenza degli altri enti
che sono semplici presenze predeterminate e fisse; sono oggetti che si pongono
davanti mentre l'esistenza non è fissa e predeterminata, ma è un insieme di
diverse possibilità di essere (di progettare la propria vita) tra cui l'uomo deve
scegliere. Anche etimologicamente la parola esistenza deriva dal latino ex-
stare, che significa stare in un posto, ossia in un certo modo di essere quale si è
prescelto, venendo "da" (ex), venendo cioè dal di fuori della realtà
momentanea in cui ci si trova. Dire che l'esistenza, cioè l'uomo, è "poter
essere", ossia possibilità di cambiare, vale a dire progetto (etimologicamente
"pro-getto"=gettarsi in avanti), significa dire che non c'è una natura od una
essenza di fondo immutabile nell'uomo;
3. come progetto l'esistenza (l'uomo) è dunque possibilità di portarsi e andare
oltre la realtà del momento per scegliere il tipo di vita futura; allora, poiché
l'esistenza trascende, ossia va oltre la realtà momentanea e presente, la terza
caratteristica fondamentale o modo di essere dell'uomo è la trascendenza,
concettualmente intesa in maniera nuova rispetto alla metafisica tradizionale.
Gli "esistenziali".
(conformismo) e finisce col non sapere neppure di che cosa si parla. L'uomo cade e
si abbassa al livello delle cose, diventando un semplice fatto tra gli altri fatti; non è
più un "progetto", ma rinuncia a perseguire ed attuare sempre nuovi progetti di vita.
Questa caduta dell'uomo al livello delle cose viene chiamata da Heidegger
"deiezione" (= decadere a cosa).
La vita inautentica, come si vedrà altresì per la vita autentica, è accompagnata da
specifiche "situazioni emotive" (stati d'animo, sentimenti). Due in particolare:
1. il sentirsi condannato ad essere ciò che si è di fatto, incapaci di fare nuovi
progetti di vita (le cose e gli altri sono visti come oggetti e non come progetti);
2. la paura di perdere le cose che si hanno e dalle quali l'uomo inautentico non
riesce a distaccarsi.
Peraltro, Heidegger non intende fare il moralista; non pronuncia condanne morali
della vita inautentica e ciò per due motivi: 1) perché compito dell'analisi esistenziale
è quello di osservare e descrivere e non di esprimere giudizi di valore; 2) soprattutto
perché Heidegger riconosce che l'esistenza inautentica e la deiezione fanno parte
della struttura esistenziale dell'uomo, fanno parte della vita di tutti gli uomini. Anche
gli uomini che progettano e scelgono la vita autentica hanno inevitabilmente momenti
di vita inautentica, giacché essa caratterizza buona parte dell'esistenza quotidiana di
ciascuno. L'essere dell'uomo è contraddistinto da questa struttura circolare che
oscilla tra esistenza autentica ed inautentica. L'esistenza è di per se "poter essere",
cioè un progettare in avanti (vita autentica). Ma essa tende sovente, nella vita
quotidiana, a ricadere indietro, a ciò che di fatto originariamente l'uomo è, ossia un
essere gettato nel mondo (vita inautentica).
La stessa conoscenza scientifica e addirittura le norme morali e i valori appartengono
per Heidegger all'esistenza quotidiana inautentica perché i loro oggetti sono trattati
sempre come cose, in maniera strumentale con lo scopo di venire utilizzati per un
qualche fine, magari anche nobile ed elevato, ma in realtà, proprio in quanto oggetti,
non sono mai vissuti come progetti, i quali soltanto caratterizzano la vita autentica.
Heidegger non accetta la concezione filosofica classica di conoscenza considerata
come effetto di una riflessione neutrale e distaccata dalla realtà esterna da parte di un
soggetto. Non considera l'uomo come spettatore obiettivo della realtà, emotivamente
non coinvolto; fra realtà e uomo vi è sempre tensione continua che produce inevitabili
situazioni emotive le quali rendono impuro, non obiettivo né distaccato, il nostro
rapporto con le cose.
Nella moderna società di massa, ove il conformismo e la spersonalizzazione
dilagano, più frequente è la caduta nella vita inautentica e nella deiezione. Il
singolo rinuncia alla propria personalità e si adegua al comportamento della
maggioranza o alle mode. In tal modo si sottrae alla propria responsabilità, ossia alla
realizzazione del suo poter essere in progetti sempre nuovi.
Senonché c'è la "voce della coscienza" che invita l'uomo ad una esistenza
autentica, la quale si realizza quando l'uomo non si abbassa al livello delle cose,
degli enti, ma quando cerca invece il senso dell'essere degli enti, cioè il senso
dell'esistere delle cose. La voce della coscienza richiama l'uomo alle sue
responsabilità e gli rammenta ciò che egli è nel suo profondo, ossia "poter essere",
258
Tuttavia tra i vari progetti, tra le varie possibilità di scelta ce n'è una diversa dalle
altre, alla quale l'uomo non può sfuggire: la morte.
Con riguardo alle fondamentali categorie di esistenziali (i fondamentali modi
possibili di essere dell'uomo), l’"essere per la morte" è la terza ed anzi la
maggiore presa in esame da Heidegger accanto a quelle dell’"essere nel mondo" e
dell’"essere fra gli altri". L'uomo è infatti poter essere: è caratterizzato cioè dalla
possibilità, da qualcosa che può essere e quindi da qualcosa che ancora manca. Ciò
che invece all'uomo (all'esserci) non può mancare è la sua fine, la sua morte.
Come mai Heidegger definisce la morte come possibilità di ogni singolo uomo e
non come fatto certo, sperimentato? Perché, egli risponde, il singolo uomo non può
mai fare esperienza della propria morte, bensì solo della morte degli altri. Dunque
per il singolo, fintanto che rimane in vita, la morte non è un fatto, ma è una
possibilità. Però è una possibilità certa ed insuperabile. La morte è la fine
dell'esserci (dell'uomo). Se l'uomo è poter essere, cioè possibilità di realizzare sempre
nuovi progetti, con l'avvento della morte all'uomo non resta più alcun progetto da
attuare; perciò, dice Heidegger, la morte è la possibilità (certa) dell'impossibilità di
ogni ulteriore progetto di vita. Quella della morte è la possibilità più propria e
specifica dell'uomo singolo e concreto, perché ogni uomo, in quanto "essere nel
mondo" ed "essere tra gli altri", progetta la sua esistenza sempre con riguardo al
mondo e con riguardo agli altri. Quando muore, invece, muore sempre da solo,
isolato dalle cose del mondo e dagli altri.
Ma che significato ha per l'esistenza la consapevolezza della possibilità certa e
ultima della morte? Essa non deve portare alla disperazione, dice Heidegger, ma
anzi, consentendo all'uomo di conoscere fino in fondo se stesso come essere finito
e mortale, lo sospinge a vivere un'esistenza più autentica. Infatti, mentre la vita
inautentica cerca di allontanare e di far dimenticare la morte, oppure considera la
morte con paura, l'esistenza autentica si attua pienamente proprio quando l'uomo si
rende conto che è un "essere per la morte", destinato alla morte.
La consapevolezza della morte non implica, nella vita autentica, la disperazione e il
suicidio o l'attesa della morte (il vivere aspettando solo di morire). Comprendendo
che l'esistenza umana è finita, è destinata a terminare, la consapevolezza della morte
ha il merito di farci capire l'inutilità di fissarci ed intestardirci in una specifica
situazione, in uno specifico ed esclusivo desiderio e progetto, perché con la morte
259
ogni nostra progetto diventa nulla, più niente. La consapevolezza della morte ci
consente di conseguenza un sufficiente distacco dalla vita, grazie a cui essere in
grado di non farci dominare dai nostri desideri e passioni.
Heidegger chiama tale consapevolezza dell'inevitabilità della morte "decisione
anticipatrice", perché ci fa capire in anticipo che è un'illusione e del tutto inutile
affannarci nella cura delle cose (nell'attaccamento alle cose), cadendo in tal modo in
una esistenza in autentica e perdendo così di vista la vita autentica.
Dunque la morte:
1. da un punto di vista negativo è l'annullamento totale, per cui secondo Heidegger è
del tutto falso il principio per il quale dal nulla non nasce nulla; al contrario, è
proprio dal nulla che nasce l'esistenza e nel nulla finisce;
2. da un punto di vista positivo il pensiero della morte richiama l'uomo dalla
disperazione della vita inautentica alla piena e serena consapevolezza della propria
autentica condizione.
La comprensione del nostro "essere per la morte" è accompagnata, come tutte le
comprensioni, da una situazione emotiva (da un sentimento). Mentre, come già
visto, la situazione emotiva fondamentale della vita inautentica è la paura (di perdere
le cose che si hanno), quella della vita autentica, che comporta la consapevolezza di
"essere per la morte", è invece l'angoscia: l'angoscia per l'ignoto e per il nulla totale,
anche dei nostri progetti, che la morte comporta. L'uomo giunge all'esperienza
dell'angoscia non mediante l'intelletto, attraverso un'analisi razionale, ma in base ad
un preciso sentimento che egli avverte.
L'esistenza autentica implica tuttavia il coraggio di accettare il proprio "essere
per la morte" e di accettare la propria condizione di essere finito, mortale. Essere per
la morte provoca angoscia, ma la consapevolezza coraggiosa della morte, propria
della vita autentica, ha non solo la funzione di ricordarci che nessuno dei nostri
progetti di vita sarà mai definitivo, perché con la morte diventa un niente, ma ha
altresì e soprattutto il compito di farci accettare con forza d'animo la nostra
condizione strutturale di esseri finiti e limitati.
L'uomo (l'esserci), commenta Heidegger, è caratterizzato da una duplice negatività
(situazione negativa):
1. l'uomo è il fondamento dei suoi progetti, e quindi del suo "poter essere", perché
è l'uomo che sceglie i propri progetti fra i tanti possibili; però l'uomo non è il
fondamento di se stesso perché si trova gettato nell'esistenza a sua insaputa e
non avendolo scelto lui stesso; Heidegger respinge quindi la metafisica classica
che nei concetti di "essenza" e/o di "sostanza" presume di aver individuato il
fondamento dell'uomo;
2. l'uomo in sé è dunque assoluta assenza di un suo qualsiasi fondamento: è
nullità di fondo dell'esistenza (destinata al nulla con la morte), nullità che
oltretutto non deriva da colpe o mancanze sostanziali dell'uomo, ma è una
condizione originaria dell'uomo; è nullità (mancanza di un senso di fondo)
esistenziale strutturale.
260
Il tempo e la storia.
Come dice lo stesso titolo dell'opera "Essere e tempo", Heidegger sviluppa quindi
l'analisi del rapporto tra l'esserci (l'uomo) e il tempo, ossia il rapporto tra l’uomo e
la storia, individuandone nella "cura" ( il prendersi cura delle cose e l’aver cura
degli altri) il termine di collegamento (la "cura" collega l'uomo col tempo e con la
storia). Infatti le caratteristiche fondamentali dell'esistenza quali già esaminate
(l'esistenza come poter essere, come progetto, come trascendenza, nonché l'essere
gettati nel mondo, la deiezione, l'angoscia) si manifestano nella "cura". Ma qual è il
senso della "cura"; che cosa la rende comprensibile? Heidegger risponde che il
senso della cura è la temporalità. Ogni aspetto dell'esistenza è in effetti inserito
nel tempo, rimanda ad una dimensione temporale: l'essere gettato nel mondo fissa
l'esserci (l'uomo) nel passato; la deiezione lega l'uomo al presente inautentico
delle cose; il progetto proietta l'esserci verso il futuro, che per Heidegger è la
dimensione fondamentale del tempo poiché consente il "poter essere", consente la
progettualità che costituisce una struttura invariante (stabile) dell'esserci.
Nell'esistenza inautentica il tempo è semplice somma, accostamento di passato,
presente e futuro; nell'esistenza autentica il tempo è in sé dimensione unitaria,
incentrato non sul presente ma sul futuro. Ciò che Heidegger vuole significare è che
il tempo non è qualcosa di esterno che si aggiunge all'esistenza ma che l'esserci ha in
sé costitutivamente carattere temporale; l'esserci (l'uomo) è tempo, nel senso che
l'uomo sussiste ed è comprensibile solo come essere situato nel tempo, cioè come
essere storico, calato nella storia. Non ha senso per Heidegger il concetto astratto e
astorico di uomo.
Dall'analisi del tempo Heidegger trae alcune importanti conseguenze:
1. i significati di "tempo" usati nel pensiero comune ma anche nella scienza
(la misura scientifica del tempo) sono entrambi di tipo inautentico perché
sono significati abbassati al livello delle cose (deiezione), viste come enti,
come semplice presenza e come semplici strumenti;
2. il tempo autentico è invece quello dell'esistenza autentica ed angosciata,
che vede nell'essere per la morte l'insignificanza finale di tutti i progetti
dell'esistenza, ma che consente all'uomo di accettare con coraggio il proprio
tempo limitato, in una specie di "amor fati" verso il proprio destino, vivendo la
vita con distacco dalle passioni e dalla cura ossessiva delle cose;
3. la natura temporale e storica (delimitata un determinato periodo storico)
dell'esserci (dell'uomo) è il fondamento che consente la storiografia (la
scienza storica) perché la vita autentica, pur nella consapevolezza della nullità
finale dell'esistenza, non elimina il mondo e le vicende naturali e storiche nelle
quali ci troviamo, ma anzi ci rende liberi di accettare l'esistenza e il mondo così
come sono, finiti ed imperfetti, e quindi di raccontarne la storia con distacco,
senza pregiudizi.
261
IL “SECONDO HEIDEGGER”.
che possieda la libertà ma è la libertà che possiede l'uomo. La libertà cioè non
deriva da una iniziativa (una scelta) umana, ma si configura, si presenta, come un
dono che l'essere fa all'uomo. Dono che permette all'uomo di avvertire la presenza
dell'essere e che permette agli enti di essere illuminati e resi visibili all'uomo
dall'essere medesimo. La verità è il disvelarsi (disvelare=togliere il velo che
nasconde) e manifestarsi dell'essere, essere paragonato da Heidegger ad una
"radura" in cui gli enti sono lasciati liberi di apparire, ossia di essere illuminati e
resi visibili.
Ma la verità intesa come disvelamento e illuminazione degli enti da parte
dell'essere è al tempo stesso disvelamento parziale degli enti e nascondimento
della totalità di tutti gli altri. L'essere non disvela, non illumina e non fa apparire
contemporaneamente tutti gli enti; mentre ne svela alcuni, tiene nascosti gli altri nella
loro totalità: in ciò consiste il mistero dell'essere (del principio e dell'essenza della
realtà). In tal senso Heidegger dice che la verità implica la non verità, proprio come la
luce (l'essere che illumina gli enti) implica l'oscurità.
mondo platonico delle idee o lo Spirito dell'idealismo) e solo dopo c'è il pensiero
dell'essere.
La metafisica classica, anziché concentrarsi sull'essere, si è concentrata sugli enti ed
allora è stata ontologia (scienza degli enti), oppure si è concentrata sull'ente
supremo, cioè Dio, ed allora è stata teologia (scienza di Dio). Anzi, dice Heidegger,
la metafisica tradizionale è sempre stata, a rigore,onto-teo-logia, cioè unità di
ontologia, teologia e logica. Ontologia perché considera gli enti come fondamento
della realtà (ad esempio le idee di Platone, le forme o essenze di Aristotele, la
sostanza di Cartesio o di Spinoza, ecc.); teologia perché considera che il fondamento
della realtà sia quell'ente supremo che è Dio; logica perché pensa all'ente come
subordinato al pensiero, cioè alla logica della ragione. Con l'idealismo ha
addirittura considerato il pensiero (l'Idea o lo Spirito) come produttore dell'essere
(della realtà). Il positivismo poi ha cancellato la metafisica dal campo della filosofia
e si è preoccupato unicamente del mondo naturale. Anche la scienza e la civiltà
tecnologica contemporanee hanno dimenticato l'essere e non sanno dare una
risposta al problema del senso dell'essere (del senso del mondo e dell'esistenza).
Essendo caratterizzata dall'oblio dell'essere, la metafisica si presenta come un tipo
di pensiero in cui dell'essere non vi è più nulla, non vi è più traccia. Da ciò
l’equazione tra metafisica e nichilismo (=nulla, dal latino "nihil"). Questo tipo di
metafisica ha condizionato la storia dell'intero Occidente (Occidente che alla
lettera, secondo il gusto per l'etimologia di Heidegger, deriva dal latino "occaso",
che significa tramonto, ossia il tramonto dell'essere); ha cioè condizionato il modo di
vedere il mondo, interpretato come rapporto tra uomo e enti che divengono e si
trasformano continuamente, manipolabili e sfruttabili dall'uomo, subordinati
all'uomo e quindi resi inconsistenti, senza fondamento e perciò nullificati (ridotti a
nulla): da ciò il nichilismo cui è giunta la metafisica, per la quale dell'essere non ne
è (non ne rimane) più niente.
La stessa filosofia di Nietzsche, che voleva essere la denuncia delle illusioni e della
nullità della metafisica, è invece per Heidegger l'ultima metafisica della storia,
l'ultimo estremo cui è giunta la storia della metafisica e la storia della civiltà
occidentale. Infatti, riducendo l'essere alla volontà di potenza, e quindi alla volontà
manipolatrice dell'uomo, Nietzsche non ha fatto altro che portare al massimo grado
l'oblio dell'essere che caratterizza l'Occidente, poiché egli considera come prevalente
e centrale l'uomo, anzi il superuomo e la sua volontà di potenza, e finisce con
l'ignorare completamente l'essere, che invece è oltre e di più dell'uomo. La volontà di
potenza non vuole che sé stessa; è volontà di volontà e non riconosce alcun essere,
niente altro oltre se stessa. La volontà di potenza rappresenta il definitivo trionfo del
soggetto sull'essere, ossia il predominio del pensiero sull'essere (mentre per
Heidegger è vero il contrario), nonché lo smarrimento completo della differenza che
invece esiste tra essere ed ente, giacché l'uomo è un ente e in quanto tale non può
predominare ma è subordinato all'essere. La volontà di potenza di Nietzsche trova la
sua concreta conclusione nella tecnica, intesa come volontà di dominio
incondizionato sul mondo. Quella di Nietzsche non è quindi una antimetafisica ma
l'estrema espressione della metafisica.
265
all'ente, ossia come ciò che è al di sopra degli enti e li illumina rendendoli visibili:
l'essere è appunto l'apparire degli enti, è il lasciar essere che gli enti si mostrino
in se stessi. Ciò significa che l'essere non costituisce il fondamento e il principio
immutabile degli enti, cioè della realtà; semplicemente li lascia essere, li lascia
apparire illuminandoli. Proprio perché non è il fondamento immutabile degli
enti l'essere consente il loro libero divenire ed è pertanto compatibile con la libertà
del divenire storico. La luce dell'essere infatti non solo è indipendente dagli enti che
illumina e rende visibili, ma essendo un evento è in quanto tale un puro fatto, un puro
accadere senza perché e senza fondamento, poiché ogni fondamento dovrebbe
innanzitutto "essere" ma allora, se già fosse essere, non può valere come fondamento
e causa dell'essere stesso. L'essere dunque è l'assolutamente casuale e non
predeterminato lasciar liberi gli enti di apparire. Il concetto di essere come evento
rafforza inoltre il rapporto tra essere e tempo, ossia rafforza il divenire storico, la
storia, poiché l'evento è appunto ciò che accade nel tempo: quindi l'essere è il farsi
della storia.
3) L'essere è un evento che si manifesta e si nasconde al tempo stesso. Infatti,
come abbiamo visto, illumina e rende visibili in volta in volta solo parte degli enti e
non la loro totalità che rimane nascosta.
4) L'essere come tempo non è la semplice somma e narrazione delle varie epoche
storiche ma, come da Heidegger definita, è "manifestazione epocale", nel senso che
l'essere non è semplicemente ciò che accade nella storia ma è anche il far accadere e
costituire le varie epoche, le varie culture storiche, tuttavia senza predeterminazione.
Rispetto agli enti ed agli avvenimenti storici che illumina e rende visibili, l'essere
infatti si ritira per far posto ad essi mentre permane e tiene nascosti quegli enti e
avvenimenti storici che di volta in volta non illumina e non rende visibili.
Per Heidegger il succedersi delle varie epoche nella storia del mondo non è opera
dell'uomo ma del manifestarsi o nascondersi dell'essere inteso come evento. Ai
diversi periodi di svolgimento di ciascuna epoca storica vi corrisponde una peculiare
interpretazione e determinazione di ciò che ne è ritenuto l'ente fondamentale. Con
riguardo a quella manifestazione epocale che è stata ed è la storia dell'Occidente,
l’ente fondamentale è stato di volta in volta determinato come idea (Platone), come
potenza e atto (Aristotele), come Dio creatore (cristianesimo), come soggetto
pensante (Cartesio), come monade (Leibniz), come Spirito (Hegel), come volontà di
potenza (Nietzsche), come tecnica nel periodo contemporaneo.
L'epoca che attualmente l'essere ha illuminato e ha reso visibile, ed ha fatto quindi
accadere, è quella della metafisica occidentale, di durata ormai bimillenaria,
caratterizzata dall'oblio dell'essere.
5) Uomo ed essere sono strettamente congiunti, sono coappartenenti, si
implicano a vicenda. Infatti, come abbiamo visto, solo quel particolare ente che è
l'uomo è capace di pensare l'essere e di comprendere che gli enti (le cose) visibili
sono tali perché, essendo illuminati dall'essere, esso li fa apparire. Ma d'altra parte
l'essere può svelarsi manifestarsi solo nel pensiero dell'uomo. Ecco perché essere e
uomo sono coappartenenti, si implicano a vicenda: ognuno ha bisogno dell'altro. Il
problema dell'essere esiste perché l'uomo se lo pone: significa che l'uomo deve
267
in forme diverse in relazione alle diverse epoche storiche in cui l'uomo si trova a
vivere. In tal modo Heidegger storicizza quelle strutture fondamentali dell'esserci
(dell'uomo) che dapprima considerava in maniera statica, invariante. L'esistenza
umana non è più "poter essere", ossia progetto frutto dell'iniziativa umana,
bensì è il frutto e il dono di una iniziativa dell'essere. Nel progettare, scrive
Heidegger, non è l'uomo il fondamentale autore del suo progetto di vita ma è
l'essere stesso che indica e suggerisce all'uomo il suo "destino", il progetto di vita.
Ma questo destino indicato all'uomo dall'essere non significa cancellazione
dell'autonomia umana, non va interpretato come fato inesorabile imposto
all'uomo, bensì come un dono o un invito cui l'uomo può anche non adeguarsi e
non accogliere, scegliendo con ciò di vivere un'esistenza inautentica. Invece
l'esistenza autentica è l’e-statico stare dentro la verità dell'essere; consiste
nell'accogliere l'invito e il destino donati dall'essere.
Anche la storia cessa di essere esclusiva opera umana e diventa invito e storia
dell'essere. Se si comprende il senso dell'essere allora la storia può essere pensata
come un incarico, un destino ricevuto dall'essere per progettare in modo autentico
non solo l'esistenza individuale ma anche lo sviluppo storico dell'umanità.
servendosi dei materiali offerti dalla natura ma nel rispetto della natura stessa. Anche
la tecnica moderna è un modo di disvelamento, che però non si svolge nella forma
della semplice produzione ma in quella della pro-vocazione, ossia del trarre fuori
dalla natura energia da accumulare e da impiegare. La tecnica moderna assume la
forma di una gigantesca macchina al servizio della volontà di potenza dell'uomo,
che tratta le cose e la natura come oggetto di dominio e di manipolazione. In tal
senso, nelle grandi dottrine politiche del Novecento (comunismo, fascismo,
democrazia) Heidegger scorge soltanto nomi diversi dell'universale volontà di
potenza e di dominio che manipola le cose e sfrutta la terra.
Nel mondo della tecnica Heidegger scorge un pericolo che peraltro non deriva
innanzitutto dagli effetti distruttivi che possono avere le macchine, ma dal fatto
che a causa della tecnica possono andare smarrite:
1. l'essenza dell'uomo perché, intrappolato nella manipolazione delle cose, non è
in grado di ascoltare l'essere (esistenza inautentica);
2. l'essenza della verità, quando l'uomo dà per scontata l'equivalenza essere=
tecnica e non si accorge che la tecnica è invece soltanto una modalità di
disvelamento dell'essere e precisamente la sua modalità nichilistica, in cui
dell'essere non è più nulla (oblio dell'essere).
Heidegger non affronta la questione della tecnica mediante la descrizione delle
cause e relativi effetti sul piano storico-sociale concreto. Egli mira piuttosto a
cogliere l'essenza filosofica, il significato profondo, della tecnica, considerata sia
come ultima manifestazione epocale dell'essere nell'ambito della storia della
metafisica occidentale, sia come storia della dimenticanza, dell'oblio dell'essere.
L'atteggiamento filosofico di Heidegger di fronte alla tecnica non è quindi la fuga ma
l'approfondimento, la comprensione.
Ebbene, l'essenza della tecnica non è una "macchinazione umana", il frutto
dell'iniziativa dell'uomo bensì, come già evidenziato, è la contemporanea modalità
di manifestazione epocale (storica) dell'essere; è l'inevitabile e necessaria
conclusione del destino derivante dall'oblio dell'essere che contrassegna la
metafisica occidentale. L'uomo provoca (sfrutta) la natura e la realtà attraverso la
tecnica perché, da un certo punto di vista, è lui stesso provocato, ossia perché si trova
ad esistere in quel dato modo di manifestazione epocale dell'essere costituito dalla
metafisica occidentale e dal relativo oblio dell'essere medesimo. Perciò Heidegger
non si pone contro la tecnica; non pensa all'utopia nostalgica di un paradiso terrestre
senza prodotti tecnici. Ma proprio dalla coscienza del pericolo insito nella tecnica
può conseguire un evento di salvezza, un nuovo modo di disvelamento
dell'essere. Nella tecnica sta la possibilità di un "altro inizio". Infatti, se con l'età
della tecnica la metafisica occidentale giunge al proprio compimento e quindi alla
propria fine, si apre allora la possibilità per il pensiero di ascoltare il richiamo
dell'essere e di corrispondervi: "Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più
chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva".
271
dei filosofi, inteso come ordine e razionalità, né il Dio delle religioni. L'essere non
crea il mondo in senso biblico né lo plasma in senso platonico. Certo, l'essere non è
Dio tuttavia, puntualizza Heidegger, il manifestarsi di Dio può avvenire solo nella
dimensione dell'essere. Se l'assenza di Dio si accompagna all'assenza dell'essere,
l'avvento dell'essere si accompagna ad un possibile avvento di Dio ma esso, nel caso,
non può comunque, per Heidegger, attuarsi nelle forme tradizionali della teologia
metafisica e neppure nelle forme consuete delle religioni positive, le quali pure
riducono Dio ad un ente, sia pur ad ente supremo.
Nella teoria di Heidegger concernente il superamento della metafisica vi è peraltro
una certa ambiguità: da un lato Heidegger sostiene che l'essere non è mai afferrabile
come tale, cioè conoscibile in forma di presenza oggettiva; dall'altro ipotizza
l'avvento di una nuova età in cui l'essere può tornare a parlarci e quindi disvelarsi in
sé. Da ciò due letture di fondo del pensiero di Heidegger. Una lettura di destra (cui lo
stesso Heidegger sembra più vicino), che interpreta il superamento della metafisica
come ritorno o disvelamento dell'essere, e dunque come ritrovata comprensibilità
dell'essere, non importa se in maniera diretta e positiva o indiretta e negativa (nel
senso di comprendere quantomeno che cosa l'essere non è). E una lettura di sinistra,
che insiste sulla intrinseca impossibilità di comprendere in modo oggettivo l'essere,
per cui esso rimane sempre qualcosa d'altro, un mistero irrisolvibile, pena la replica di
una metafisica della presenza che torni a identificare l'essere con l'ente.
273
INDICE
Introduzione. 1
Il Romanticismo. 3
Dal kantismo all'idealismo. 7
L'Idealismo tedesco. 9
Fichte. 12
Schelling. 21
Hegel. 36
Schopenhauer. 66
Kierkegaard. 72
Destra e Sinistra hegeliana. 78
Feuerbach. 79
Il socialismo utopistico. 82
Marx. 83
La filosofia italiana del primo Ottocento: Romagnosi,
Rosmini, Gioberti, Cattaneo, Mazzini. 94
Il Positivismo e l'Evoluzionismo. 106
Comte. 109
Stuart Mill. 112
Darwin. 117
Spencer. 119
Ardigò. 122
Nietzsche. 125
La filosofia tra fine Ottocento e Novecento. 136
Freud. 140
Il neocriticismo. 146
Lo spiritualismo francese: Boutroux, Blondel,
il Modernismo, Sorel. 151
Bergson. 157
Il Pragmatismo americano: Pierce, James, Dewey. 165
Lo storicismo tedesco: Dilthey, Simmel, Spengler. 180
Max Weber. 186
Il neoidealismo italiano: Croce, Gentile. 194
La fenomenologia: Husserl, Scheler, Hartmann. 215
L'Esistenzialismo: Jaspers, Sartre, Marcel,
Merleau-Ponty, Abbagnano. 230
Heidegger. 252
1
VOLUME QUARTO
LA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
INTRODUZIONE.
1
2
Francesco Lorenzoni
2
3
L’EPISTEMOLOGIA
Così come fino all'avvento della rivoluzione scientifica (XVII secolo) la scienza non
era nettamente distinta dalla filosofia, altrettanto fino al Novecento non vi era netta
distinzione tra filosofia della conoscenza, cioè la gnoseologia, e filosofia della
scienza. Solo a fine Ottocento-inizi Novecento, grazie a uno sviluppo notevolissimo
della scienza e soprattutto delle specializzazioni scientifiche, la filosofia della
scienza si rende progressivamente autonoma e si separa dalla gnoseologia,
assumendo la denominazione di "epistemologia" (dal greco epistéme= scienza e
logos= discorso, studio).
Oggetto dell'epistemologia, o filosofia della scienza, non è più allora lo studio delle
condizioni (dei modi) e dei metodi che possono garantire validità alla conoscenza in
generale, bensì è lo studio delle condizioni e dei metodi che possono garantire
validità alla scienza in particolare e alle diverse discipline scientifiche.
Vari sono gli indirizzi che si sono sviluppati in ambito epistemologico:
1. l'empiriocriticismo, che antepone alla sperimentazione scientifica il primato
dell'esperienza sensibile, naturale, posta alla base del sapere scientifico
medesimo;
2. il convenzionalismo, secondo cui le leggi e teorie scientifiche hanno carattere
essenzialmente convenzionale;
3. il neopositivismo del cosiddetto "Circolo di Vienna", che indaga
prevalentemente gli aspetti logici del procedimento scientifico;
4. l'operazionismo, che indaga prevalentemente gli aspetti operativi del
procedimento scientifico;
5. l'epistemologia di Bachelard, che tiene conto anche della dimensione storico-
sociale della scienza;
6. il cosiddetto razionalismo critico di Popper;
7. l'epistemologia post-popperiana o post-positivistica.
3
4
L’EMPIRIOCRITICISMO.
Avenarius vuole eliminare ogni metafisica dalla filosofia, la quale deve essere
invece scienza rigorosa e rifiutare i dualismi (contrapposizioni) metafisici come tra
soggetto e oggetto o tra pensiero e realtà.
Per Avenarius occorre ripensare il significato di esperienza su cui si basa la
conoscenza e la scienza. Reale è solo l'esperienza pura, ossia quella sensibile,
naturale, ordinaria, mentre tutto il resto è rielaborazione e concettualizzazione. Il
senso popolare chiama esperienze sia le percezioni di oggetti, sia il ricordo di questi
oggetti, sia le visioni immaginarie, sia le idee, i giudizi, le valutazioni. Se
l'esperienza è tutte queste cose, spetta allora alla critica filosofica dell'esperienza
pura analizzarle e distinguerle. Un'esperienza è analizzabile solo quando viene
asserita, comunicata, resa pubblica. L'esperienza per Avenarius è quindi tutto ciò che
viene asserito, a prescindere da chi formula l'asserzione, saggio o folle che sia.
Uno degli esiti più importanti dell'analisi dell'esperienza pura è il ritorno al
concetto naturale di mondo, cioè al concetto originario, popolare, prima delle
successive concezioni e ricostruzioni storiche, filosofiche e scientifiche circa il
4
5
5
6
contraddire le ipotesi stesse. Il ruolo delle ipotesi quindi è di ampliare il nostro settore
di esperienza per ripristinare, nei confronti del problema, l'adattamento al nuovo
ambiente. L'adattamento dei pensieri nei confronti di nuove esperienze è
l'osservazione; l'adattamento dei pensieri tra loro è la teoria.
Diversamente dal positivismo che riteneva la scienza capace di comprendere le
strutture ultime della realtà, per Mach ciò che la sperimentazione e la scienza
possono farci conoscere è solo l'interrelazione o l'indipendenza fra di loro dei
fenomeni osservati. Infatti, quando le scienze sono molto sviluppate sempre più
raramente esse impiegano i concetti di causa ed effetto, poiché sono provvisori,
incompleti ed imprecisi; ricorrono invece alla nozione di funzione che permette di
rappresentare assai meglio le relazioni degli elementi fenomenici tra di loro. Oltre al
concetto di causa, Mach critica anche il concetto di sostanza: ciò che noi chiamiamo
sostanza o materia non è nient'altro che la persistenza di un determinato complesso di
sensazioni.
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senso. Il senso di una proposizione, dirà Schlick, è il metodo della sua verifica; e
poiché le proposizioni metafisiche e teologiche non possono essere verificate esse
sono di conseguenza insensate. Per il neopositivismo la metafisica non ha dunque
valore conoscitivo; vale semmai come espressione di stati d'animo e di sentimenti di
fronte alla vita, sentimenti che trovano però, secondo i neopositivisti, più adeguata
espressione in un'opera d'arte anziché in una esposizione teorica.
Anche Kant aveva dimostrato che la pretesa della metafisica di trascendere (superare)
il mondo fenomenico è pura illusione. I neopositivisti si spingono oltre, affermando
che la metafisica non ha nemmeno senso alcuno, in quanto pretende di definire con
linguaggio che vorrebbe essere scientifico qualcosa che nulla ha in comune con la
scienza perché non verificabile.
Nel neopositivismo fondamentale è il principio di verificazione: un enunciato è
significativo (ha valore scientifico) solo se è possibile verificarlo, ossia se sono
conosciute o rese note quali osservazioni possono condurre, sotto certe condizioni
empiriche e logiche, ad accettare la proposizione enunciata come vera o a rifiutarla
come falsa. Si parla di significato e non di verità di un enunciato perché esso non è un
fatto ma è una proposizione linguistica.
La filosofia pertanto assume il ruolo di attività chiarificatrice basata sull'analisi
del linguaggio, come affermato altresì da Wittgenstein; la filosofia non è cioè una
disciplina produttrice di conoscenza (solo la scienza consente di conoscere), ma è uno
strumento in grado di individuare le proposizioni scientificamente sensate da quelle
che non lo sono.
Per i neopositivisti la realtà non ha nulla di profondo e misterioso: non ci sono
essenze e sostanze. Perciò non vi è necessità alcuna di una metafisica, di categorie a
priori, di una fenomenologia o altro. Il mondo reale può essere integralmente
conosciuto qualora venga concepito come insieme di fatti che siano direttamente
osservabili in modo empirico e verificabili secondo determinate procedure logiche,
oppure che siano comunque riconducibili a tali fatti attraverso rigorose connessioni
logiche anch'esse controllabili (concezione logico-fisica del mondo).
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13
Però, se i dati dell'esperienza sono modi del tutto soggettivi di vedere e sentire la
realtà, il rischio allora è quello dello solipsismo: ognuno, isolato dagli altri, sente e
vede una sua propria realtà in modi differenti e con accentuazioni diverse; ognuno
resta chiuso in se stesso nel suo contatto con la realtà. Per evitare questo pericolo
Neurath sviluppa la concezione cosiddetta "fisicalista". Per fisicalismo si intende
quell'indirizzo volto a ricondurre tutti i linguaggi al linguaggio della fisica, ritenuto
quello più valido perché pubblico, intersoggettivo, universale e pertanto
antisolipsistico. Il fisicalismo, appunto, ha come scopo sia di impedire nella scienza
affermazioni di tipo metafisico, ossia prive di senso, sia di superare il pericolo del
solipsismo e soggettivismo. Nella scienza sono accettabili solamente osservazioni
formulate in termini fisici o comunque ad essi riconducibili. Il sistema per
trasformare tutte le proposizioni nel linguaggio fisicalista consiste nel ridurle a
proposizioni protocollari, cioè a protocolli. I protocolli non sono le sensazioni in se
stesse ma le proposizioni con cui le sensazioni vengono espresse, tenuto conto che
esse sono espresse però in termini fisici, private cioè di ogni enunciato soggettivo,
riducendo ad esempio la proposizione del linguaggio ordinario "sento freddo" nella
proposizione protocollare "in un determinato punto spazio-temporale la temperatura è
di x gradi".
Le proposizioni protocollari di Neurath si contrappongono alle proposizioni
osservative, ostensive, sostenute invece da Schlick a motivo del suo realismo. Mentre
le proposizioni protocollari stanno per Neurath alla base del principio di
verificazione, per Schlick invece lo strumento del principio di verificazione è
costituito dalle proposizioni osservative. Queste infatti, a differenza delle
proposizioni protocollari, non sono passibili di ulteriore trascrizione o riduzione ma
sono pure e semplici constatazioni di dati elementari non ulteriormente riducibili;
sono cioè osservazioni immediate che verificano le ipotesi confermandole o
smentendole.
L'impossibilità di stabilire una corrispondenza tra linguaggio e realtà non
conduce tuttavia Neurath a negare la realtà concreta. Per Neurath l'uomo è
fondamentalmente un essere fisico concreto e reale, come altresì concreto e reale è
per Neurath anche il linguaggio. Il linguaggio, egli prosegue è un fatto fisico, anzi
linguaggio e realtà coincidono, essendo il linguaggio il modo in cui la realtà è
espressa e raffigurata. La realtà è la totalità delle proposizioni. In tale maniera tuttavia
Neurath valorizza soltanto la dimensione sintattica del linguaggio, concernente i
rapporti tra le proposizioni, a scapito della dimensione semantica, concernente il loro
significato. Da ciò la conseguente concezione della verità come coerenza (ossia come
non contraddizione) interna al discorso anziché come corrispondenza tra il discorso e
i fatti della realtà esterna.
Coerentemente con la teoria del fisicalismo, Neurath respinge la distinzione tra
scienze della natura e scienze dello spirito: sia le une che le altre possono e devono
essere formulate in termini fisici. Tant'è vero che abbraccia con entusiasmo il
comportamentismo psicologico, che riduce l'individuo a risultante di un sistema
fisico di interazione "stimolo-risposta".
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Sempre sulla base del fisicalismo Neurath persegue l'ambizioso obiettivo, comune al
Circolo di Vienna, di unificare tutte le scienze in un medesimo linguaggio, per
giungere così all'unità del sapere grazie alla riduzione di tutti i linguaggi, anche
delle scienze umane e sociali, a quello della fisica (sociologia fisicalista). Così la
sociologia è riducibile alla psicologia, la psicologia alla biologia, la biologia alla
chimica e la chimica alla fisica. Questo progetto è stato sviluppato da Carnap ma è
stato avviato proprio da Neurath, il quale talvolta dà l'impressione di concepire
l'unificazione della scienza in termini addirittura sostanziali, mentre altre volte, più
cautamente, in termini soltanto metodologici.
Conformemente al principio di unitarietà della scienza, Neurath nega l'esistenza
di diversi tipi di causalità (causa materiale, causa formale, causa efficiente, causa
finale, come in Aristotele). Kantianamente asserisce che in tutte le scienze il
procedimento è lo stesso, un procedimento che la fisica ha espresso e reso rigoroso al
massimo grado con un esclusivo ricorso alla causa efficiente.
non posso dire "A esiste" ma posso dire "esiste un A tale che possiede la proprietà P".
Quindi, l'essere in sé non esiste: è una proposizione insensata, una pseudo
proposizione.
L'analisi logica rivela non soltanto l'insensatezza delle teorie metafisiche, ma anche di
ogni teoria che pretenda di cogliere, attraverso la sola ragione, qualcosa che vada
oltre l'esperienza, come ad esempio nel caso dell'etica, poiché i valori etici (buono,
bello, giusto) non possono essere verificati o dedotti dall'esperienza. Per Carnap,
come in Wittgenstein, anche le espressioni etiche non hanno valore conoscitivo
poiché sono soltanto frutto di sentimenti: svolgono l'importante funzione di esprimere
il nostro atteggiamento verso la vita e di suscitare altri sentimenti e volizioni che
spingono all'azione, ma non possiedono validità teoretica.
Carnap ha creduto a lungo nel principio dell'unità del sapere, obiettivo
considerato realizzabile attraverso la procedura del riduzionismo, vale a dire
attraverso la possibilità di ridurre i concetti di tutte le scienze ad alcuni pochi e
fondamentali concetti comuni. Anche Carnap ritiene il linguaggio della fisica come
quello più valido e rigoroso dal punto di vista scientifico, perché privo di ambiguità e
di elementi qualitativi e perché intersoggettivo e universale. I linguaggi di tutte le
varie discipline si possono ricondurre al linguaggio della fisica poiché ogni
enunciato è traducibile in termini di fisicalismo. È questo un atteggiamento che
Carnap ha definito di "materialismo metodico".
In tal senso Carnap, utilizzando anche le sofisticate teorie logiche di Russell e
Whitehead, cerca di elaborare un sistema di pochi concetti fondamentali e unitari
in grado di spiegare scientificamente il mondo e, con ciò stesso, di fondarlo e
giustificarlo. Tali concetti non devono essere scollegati ma essere invece
gradualmente derivati dalle classi di oggetti più elevate fino alla classe degli oggetti
di base. Costruisce così un albero genealogico dei concetti, una piramide
epistemologica, in cui le classi di oggetti superiori sono presupposte da quelle
inferiori:
1. gli oggetti spirituali, cioè i valori quali l'arte, la religione, la morale;
2. gli oggetti psichici altrui, cioè le esperienze degli altri uomini, da essi
comunicate o indirettamente comprese per similitudine;
3. gli oggetti fisici, cioè i dati della scienza;
4. gli oggetti psichici propri, cioè le esperienze immediate del nostro vissuto
quotidiano.
La costruzione del sistema di unificazione del sapere conduce Carnap ad affrontare la
questione del rapporto e corrispondenza tra linguaggio e mondo, cioè tra
linguaggio e realtà, assumendo una posizione intermedia tra il realismo di Schlick
e il nominalismo di Neurath. Per Carnap i concetti/oggetti fondamentali della
scienza vengono ricavati da certi dati originali ed elementari, che egli chiama
"esperienze vissute elementari", che non sono direttamente di natura logica, come
per Neurath, né direttamente realistico-fattuali, come per Schlick e come le
sensazioni in Mach, ma che sono comunque extralinguistiche, extralogiche e che
hanno una base psicologica, per cui la realtà non è mai colta direttamente ma è
filtrata dalla psiche individuale. Per Carnap le sensazioni di Mach non sono
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direttamente dati o fatti oggettivi ma già in origine sono astrazioni da dati: perciò
parla di "esperienze vissute elementari". Le esperienze vissute elementari sono per
Carnap sufficientemente neutre (cioè né fisiche né psichiche o completamente
psicologiche), tali da consentire fra di esse relazioni fondamentali oggettive a partire
dalle quali, attraverso l'uso dei protocolli (cioè attraverso la riduzione delle
proposizioni che esprimono le esperienze vissute a proposizioni tradotte in termini
fisici) e tramite l'impiego delle regole logiche dell'inferenza e della coerente
connessione tra le proposizioni protocollari, diventa possibile la ricostruzione
scientifica della conoscenza. Quale relazione fondamentale tra le esperienze
elementari vissute Carnap considera soprattutto quella del "ricordo di somiglianza",
in base a cui due esperienze sono riconosciute parzialmente simili per mezzo del
confronto tra una di esse e il ricordo dell'altra. Quindi si possono ricavare delle
costanti sufficientemente oggettive, traducibili in protocolli intersoggettivi,
comprensibili cioè non solo dal soggetto senziente ma anche dagli altri. In tal modo è
possibile, secondo Carnap, ricostruire il mondo psichico e fisico indipendentemente
dai concetti di sostanza e di causa. Lo stesso concetto di essenza viene ritradotto e
semplicemente inteso come il significato della parola che indica l'oggetto. Cosicché
l'io non è un'essenza ma soltanto la classe (il luogo) delle esperienze elementari.
L'unificazione del sapere è intesa da Carnap anche come obiettivo da
contrapporre all'immagine di una realtà dispersa, caotica e incoerente quale
delineata dalle filosofie irrazionalistiche, dalla filosofia dell'azione e
dall'esistenzialismo. Raggiungendo l'unificazione del sapere "gli oggetti non si
frantumano in campi diversi e senza connessione, ma esiste soltanto un campo unico
di oggetti e pertanto solo un'unica scienza": la fisica e il fisicalismo. Peraltro, di lì a
non molto apparirà agli studiosi più attenti quanto complesso e in fondo
discutibile sia il progetto di unificazione del sapere. Infatti, essi osservano, dietro
tale convinzione si nasconde la concezione "monistica" (esiste un unico e solo
principio) di una natura fondamentalmente unitaria della realtà oppure, in alternativa,
si nasconde la concezione kantiana secondo cui, indipendentemente dalla natura della
realtà, la conoscenza che voglia essere scientifica deve seguire in qualsiasi campo
un'unica metodologia. Ma invece, ribattono i critici dell’unità del sapere, molti
aspetti dell'umano e del sociale restano inesplorati o addirittura ignorati nel
quadro di questo orientamento teorico tendente all'unificazione delle conoscenze.
Successivamente, anche allo stesso Carnap il fisicalismo comincia ad apparire
troppo chiuso e rigido, basato su di un principio di verificazione che per lo più
prescinde dai dati di fatto e si risolve nella verifica della coerenza soprattutto
logica (e non anche fattuale) delle proposizioni. Da un lato, infatti, il principio di
verificazione non garantisce che i protocolli siano assolutamente chiari, poiché
lasciano libera l'interpretazione della natura del mondo (che può essere cosa materiale
o processo psichico) e poiché possono essere redatti in modo difforme pur se riferiti
al medesimo fatto. Dall'altro lato, e soprattutto, risultava ormai evidente
l'impossibilità di sottoporre una teoria ad una verifica completa, considerandone
tutti gli innumerevoli casi possibili. Per di più lo stesso principio di verificazione
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Uno dei principali ostacoli incontrati dal neopositivismo è quello del solipsismo
linguistico. Infatti, negare l'esistenza di altri soggetti in grado di conoscere in modo
conforme a quello soggettivo proprio o negare l'esistenza di un mondo comune ad
altri soggetti equivale a mettere in questione la stessa oggettività scientifica.
Il neopositivismo eredita dall'empirismo di Hume la teoria in base alla quale, per
conservare la maggior oggettività possibile, occorre attenersi al dato costituito dalla
sensazione. In tal senso, il neopositivismo ricorre al linguaggio protocollare, che è
costituito dalle proposizioni che tali sensazioni esprimono. Il linguaggio protocollare
è collocato alla base di ogni altro linguaggio.
In proposito si può osservare che la sensazione in se stessa non è altro che oscura e
confusa impressione. Per darle un senso occorre interpretarla, cioè inserirla in una
struttura logica spazio-temporale, causale, relazionale, ecc. Anche dal punto di vista
fisiologico, la sensazione non è un dato ma un prodotto. Non proviene da
un'esperienza originale ma è il risultato di un complesso processo psico-fisico che
coinvolge, ad esempio, pupille, retina, sistema nervoso, strutture cerebrali. In
definitiva, la sensazione è ben lontana dall'essere quella realtà prima, assolutamente
incontestabile, sulla quale è possibile costruire un sistema scientifico del tutto
oggettivo.
Paradossalmente, la sensazione, o percezione, intesa come dato oggettivo primario,
nonché il solipsismo linguistico, che chiude il soggetto nell'ambito della propria
individuale esperienza, fanno sì che il neopositivismo rischi di trasformarsi in una
sorta di idealismo (o fenomenismo) sul tipo di quello sostenuto da Berkeley, il quale
affermava che "esse est percipi", ovvero che non esiste realtà se non quella colta dai
miei organi di senso, senza garanzia però che la realtà colta dai "miei" organi sia
conforme a quella colta dagli altri.
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L’OPERAZIONISMO DI BRIDGMAN.
risposta. Quando tali operazioni non possono essere trovate non resta che ritenere la
questione priva di senso. L'intento di Bridgman è quello di evitare spreco di tempo e
di energia per generalizzazioni e idealizzazioni insensate.
Oltre a privilegiare i procedimenti operativi ai fini della formulazione delle teorie,
anziché il criterio razionalistico-metafisico della deduzione/induzione pura,
Bridgman accentua anche l'aspetto costruttivo nella definizione dei concetti. I
concetti non si scoprono mediante la pura ragione induttiva/deduttiva ma si
costruiscono mediante un gruppo sperimentato di operazioni. La scienza è anzitutto
costruzione di concetti che servono come modelli di indagine. Tali concetti-
modelli per quanto riferiti a fatti reali non vi corrispondono realisticamente: essi
sono, appunto, costrutti teorici che hanno valore essenzialmente euristico (di
guida alla ricerca).
I concetti scientifici inoltre, ben lungi dall'essere un rigidi, mutano col mutare
delle operazioni compiute per costruirli. Ad esempio il concetto di lunghezza varia
a seconda che si riferisca alla misurazione di una particella subatomica, di un corpo
visivamente percepibile o di una distanza interstellare.
Infine Bridgman individua nell'operazionismo un criterio di controllo
epistemologico migliore e più valido dei criteri proposti dalla filosofia
neopositivista (principio di verificazione o confermabilità) o da quella, come
vedremo, di Popper (principio di falsificazione).
Molti sono i concetti analizzati operativamente da Bridgman quali: lunghezza, tempo,
energia, campo.
Nonostante il rilievo delle sue concezioni, numerose sono state anche le obiezioni
rivolte a Bridgman. Tra le principali, quella di "solipsismo": viene osservato che
riducendo la scienza alle operazioni compiute dallo scienziato, queste rimangono
chiuse nel soggetto (nello scienziato) e ne esce svalutato l'aspetto scientifico
oggettivo. Bridgman risponde che la scienza ha sempre una genesi "privata", ma che
poi la comunicazione pubblica delle scoperte e teorie scientifiche aggiunge ad esse
valore intersoggettivo.
Criticato è stato anche il "particolarismo" di Bridgman, per la sua avversione
contro i principi generali nonché per la sua enfasi sulla pluralità e mutevolezza dei
concetti scientifici a seconda delle operazioni adottate. A Bridgman viene
rimproverato di disconoscere la tendenza a spiegazioni sistematiche e unificanti dei
fenomeni (unificanti= unificare in una teoria o in una formula la spiegazione di molti
fenomeni diversi). La concezione di Bridgman è stata in effetti accusata di implicare
una proliferazione di concetti poco maneggevole e teoricamente senza termine.
Invece, spesso è proprio lo sviluppo delle teorie generali che introduce modifiche
anche dei criteri operativi originariamente adottati. Al riguardo, e tra gli altri, anche
Popper afferma che è ineliminabile il bisogno di termini universali.
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della stessa filosofia, che deve configurarsi come una "filosofia del non", risoluta
nel respingere la pretesa dei vecchi sistemi di presentarsi come concezioni assolute e
totalizzanti della realtà. Non c'è alcun principio assoluto al di sopra e al di fuori della
pratica scientifica e della storia della scienza. Questa storia è frutto di lavoro
collettivo (in équipe) e va riscritta sempre diversamente ogni qual volta è soggetta a
trasformazione.
Bachelard è sensibile anche ai temi dell'immaginario, della fantasticheria e del
sogno. L'immaginario costituisce una forma di conoscenza che a volte è più profonda
di quella tecnico-scientifica e, soprattutto, l'immaginario è il fondamento intuitivo
delle concezioni che, razionalizzate ed elaborate, diventano poi conoscenza
scientifica.
L'epistemologia di Bachelard è ripresa in vario modo da Foucault e Althusser, il
primo esponente dello strutturalismo storico e il secondo di uno strutturalismo
epistemologico marxiano contrario all'interpretazione "umanistica" di Marx.
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Popper critica il metodo induttivo nella scienza, su cui era invece basato il
neopositivismo, per concludere che "l'induzione non esiste", ovverosia negando che
essa costituisca il punto di partenza della ricerca scientifica.
Nel passato, sostiene Popper, il termine "induzione" (passaggio dal particolare,
ossia dal singolo fenomeno, al generale, ossia alla teoria) è stato usato soprattutto
in due sensi: 1) induzione per ripetizione o per enumerazione; 2) induzione per
eliminazione.
L'induzione per ripetizione consiste nell'accumulo di osservazioni ripetute su di un
medesimo fenomeno, in base a cui giungere a conclusioni teoriche generali, cioè ad
una teoria generale di spiegazione del fenomeno osservato. Ma poiché la frequenza
di un fenomeno (il numero di volte in cui accade) è smisurata, anche un miliardo
di osservazioni confermative non garantisce la validità di una teoria, mentre
basta una sola osservazione difforme, contraria, per smentirla. Ad esempio, anche
di fronte a numerosissime osservazioni di cigni bianchi non si può stabilire con
certezza che tutti siano bianchi, mentre basta l'osservazione di un solo cigno nero per
confutare definitivamente la teoria che tutti siano bianchi.
L'induzione per eliminazione si basa, appunto, sul metodo dell'eliminazione, o della
confutazione, di tutte le teorie false per far valere la teoria vera. Tale è stata per
esempio la posizione di Bacone e di Stuart Mill nonché del neopositivismo. Ma le
teorie rivali e alternative a quella vera sono sempre innumerevoli, per cui è
impossibile esaminarle tutte per eliminarle o confermarle. Per ogni problema
teorico infatti esiste sempre un'infinità di soluzioni logicamente possibili.
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dal mito, dal sogno, dalla metafisica, dall'entusiasmo o dal caso, ma ciò che importa
è che vengano provate e controllate mediante il metodo per congetture e
confutazioni, ossia per prove ed errori.
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trova un errore, tanto prima si potrà eliminarlo, formulando una teoria più corretta e
migliore.
Popper non parla quindi di teorie valide indefinitamente ma di teorie migliori
(rispetto ad altre) relativamente allo stato delle conoscenze dell'epoca in cui ci si
trova. Scopo della scienza è proprio la formulazione di teorie progressivamente
migliori, sempre più verosimili (vicine al vero). Una teoria T2 è migliore e più
verosimile di una teoria T1 quando possiede un maggior contenuto informativo,
ossia di conseguenze confermate (cioè quando spiega un maggior numero di
fenomeni controllati e confermati dall'esperienza), e quando invece T1 possiede un
maggior contenuto di falsità, cioè un minor contenuto informativo.
Secondo la concezione della maggior verosimiglianza di una teoria rispetto ad
un'altra, Popper conclude che però la teoria più verosimile è anche la teoria
meno probabile, perché quanto più è verosimile una teoria, ossia quanto più ampie
sono le informazioni e le spiegazioni che fornisce, maggiori diventano le possibilità
di sbagliare e, dunque, la teoria più verosimile è anche quella meno probabile. Ad
esempio, consideriamo le asserzioni: (a) "venerdì pioverà" e (b) "sabato sarà sereno"
e poi l'asserzione (a più b) "venerdì pioverà e sabato sarà sereno". È chiaro che
l'asserzione (a più b) ha maggior contenuto informativo sia di (a) che di (b), è cioè
più verosimile, ma è pure evidente che la probabilità che si verifichi (a più b) è
minore della probabilità di (a) o di (b). Di conseguenza, se ci proponiamo il
progresso della scienza e della conoscenza non dobbiamo essere superbi e
pretendere di formulare teorie che siano contemporaneamente altamente
verosimili e altamente probabili; dobbiamo accontentarci di procedere
gradualmente, un passo alla volta.
La tesi secondo cui una teoria è scientifica solo se è falsificabile, se è cioè formulata
in modo tale che risulti possibile sottoporre a controllo le conseguenze che ne
derivano al fine di confermare o falsificare la teoria stessa, conduce Popper a
respingere il modello classico fondazionalista e giustificazionista del sapere,
condiviso sia dai razionalisti che dagli empiristi come pure da Kant, il quale
modello concepisce la scienza come un insieme di verità dotate di un fondamento
certo (fondazionalismo) che la filosofia ha il compito di scoprire e di giustificare
(giustificazionismo).
Al contrario, Popper afferma che:
1. il nostro sapere è sostanzialmente problematico e incerto;
2. la scienza è per definizione fallibile e autocorreggibile;
3. non ha senso la pretesa di giustificare in via definitiva la nostra conoscenza;
4. l'uomo non può possedere la verità ma solo cercarla in una ricerca mai
conclusa.
Questa concezione della verità e della scienza avvicina Popper a Socrate, il quale,
dicendo che "io so di non sapere", affermava come Popper che tutte le conoscenze
umane sono incerte e che la ricerca della verità non ha mai fine.
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Per Popper, da un lato, la scienza non può pretendere di spiegare l'essenza certa,
ultima e definitiva della realtà (essenzialismo), ma neppure, dall'altro lato, è da
ritenersi un semplice e utile strumento di previsione, che ha valore pratico ma non
teorico, conoscitivo (strumentalismo).
Tra essenzialismo e strumentalismo Popper sceglie una terza via: quella del
"realismo oggettivo", basato sull'idea di una corrispondenza, all'interno di una
teoria, fra proposizioni (della teoria) e fatti (della realtà). La scienza non può mai
pervenire a spiegazioni essenziali (= del perché) dei fenomeni, ma le teorie
scientifiche non sono esclusivamente strumenti di previsione e di calcolo; sono
invece enunciati (affermazioni, spiegazioni) che ci informano, anche se in modo
incompleto, sulla realtà e che, rispetto ad essa, possono essere vere o false.
È vero, dice Popper, che le teorie scientifiche sono una costruzione della nostra
mente, ma non è vero che siano senza rapporto alcuno con la realtà, che siano
cioè del tutto convenzionali e relative, come vedremo sarà sostenuto dagli
epistemologi post-popperiani quali Khun, Lakatos e Feyerabend: le teorie
scientifiche, dichiara Popper, devono poter "cozzare" contro la realtà (confrontarsi
con la realtà). Solo in questo modo infatti le teorie possono essere dichiarate vere
o false, altrimenti tutto diventa relativo e inconsistente.
Certamente, ammette Popper, il realismo non è dimostrabile ( non si può
dimostrare che vi sia corrispondenza sicura fra teoria e realtà), però non è nemmeno
confutabile (non si può nemmeno dimostrare che è infondato). In ogni caso,
conclude Popper, a favore della realismo vi è una serie di argomenti che fanno di
esso l'ipotesi più credibile e ai quali non è stata contrapposta finora alcuna
alternativa valida.
Per corroborare (rafforzare) l'ipotesi realista, vale a dire che vi sia corrispondenza
fra teoria e realtà, Popper elabora la cosiddetta teoria dei tre mondi:
il mondo 1 è quello delle cose e dei fatti naturali; è il mondo fisico reale;
il mondo 2 è quello della coscienza individuale e delle esperienze soggettive,
ossia è il mondo dei pensieri, delle sensazioni e dei sentimenti individuali;
il mondo 3 è quello della conoscenza e delle teorie, non solo scientifiche ma
anche metafisiche, religiose, mitiche, ecc., le quali non dipendono dagli stati
d'animo soggettivi del mondo 2 ma hanno una loro oggettività poiché
trascendono (oltrepassano) gli individui: si tratta del carattere intersoggettivo e
storico delle idee e delle conoscenze che caratterizzano una società o un
gruppo sociale in ogni predeterminato periodo storico e che hanno quindi un
valore oggettivo.
L'ipotesi realista, ossia il realismo di Popper, si basa sul terzo mondo, poiché le
teorie del mondo 3, attraverso gli individui del mondo 2, possono agire sul mondo 1,
renderlo comprensibile, anche se non in modo completo e definitivo, ed anche
modificarlo, ossia utilizzarlo e sfruttarlo.
Il mondo 3, quello delle teorie, assomiglia al mondo delle idee di Platone perché sia
le teorie sia le idee platoniche sono indipendenti dal singolo individuo e dalla
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Abbiamo visto che per Popper la linea di demarcazione tra scienza e non
scienza non è costituita, come per i neopositivisti, dal principio di verificazione,
bensì dal criterio o principio di falsificabilità. Da questo punto di vista anche per
Popper la metafisica non è una scienza, in quanto le sue teorie non sono
falsificabili poiché derivano solo dal ragionamento e non possono essere controllate
sperimentalmente. Ma ciò non significa, precisa Popper, che le teorie metafisiche
siano insensate, come invece sostenevano i neopositivisti. Infatti noi
comprendiamo benissimo che cosa i metafisici vogliono dire, ossia quale è il senso
delle teorie metafisiche, anche se non siamo in grado di controllare attraverso
l'esperienza la loro validità. Molti grandi problemi filosofici, come quelli
cosmologici, etici, politici, ecc., sono problemi metafisici, ma non per questo si può
immaginare che si possano semplicemente scartare come privi di senso.
Oltretutto, prosegue Popper, non si può negare che, accanto alle idee metafisiche
che hanno ostacolato il cammino della scienza (come le idee di essenza, di
sostanza, ecc.) ve ne sono altre, come l'atomismo di Democrito, che hanno aiutato
il progresso scientifico e che addirittura si sono trasformate in teorie scientifiche.
Anzi, le grandi idee metafisiche del realismo (contro l'idealismo), dell'ordine e
quindi della conoscibilità e misurabilità dell'universo, nonché del principio di
causalità, hanno consentito quella visione razionale del mondo da cui è nata la stessa
scienza moderna. Le idee metafisiche possono contribuire tuttora a costruire le
ipotesi scientifiche che vengono formulate per risolvere i problemi che la scienza
incontra.
Certo, una teoria metafisica è più vaga e soprattutto incontrollabile di una teoria
scientifica, ma è pur sempre anch'essa criticabile razionalmente e discutibile al fine
di giudicare quanto efficacemente risolve i suoi problemi, se propone soluzioni più
nuove e migliori di una teoria rivale, ecc.
Nel libro "L'io e il suo cervello" Popper affronta il problema dei rapporti tra
mente e corpo, considerato il più difficile della filosofia. Tale problema, secondo
Popper, non può essere risolto né in modo esclusivamente spirituale o idealistico
né in modo esclusivamente materialistico perché, da un lato, non si può dubitare,
in quanto evidente, della coscienza e dell'autocoscienza (la mente) e, dall'altro lato,
non si può dubitare nemmeno della materia (corpo), in quanto altrettanto evidente.
Al riguardo Popper ha una concezione dualistica della realtà simile al dualismo di
Cartesio, che contrapponeva e faceva coesistere nella realtà sia lo spirito, il pensiero
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(res cogitans), sia la materia (res extensa). A differenza di Cartesio, però, Popper non
concepisce lo spirito e la materia come sostanze, cioè ognuna come realtà in se
stessa, bensì come due modi di presentarsi della medesima realtà, due punti di vista
tra di essi interagenti, ossia in rapporto di azione reciproca. Infatti, pur non
conoscendo "come", tuttavia constatiamo che mente e corpo interagiscono fra
di loro: la mente influenza il corpo e viceversa. In conclusione, il problema del
rapporto fra anima e corpo non si spiega facilmente ma si può constatare in modo
evidente ed è giudicato da Popper non già in termini di rapporto tra due sostanze,
come in Cartesio, bensì in termini di rapporto interattivo tra due modi di essere della
realtà.
Popper interviene poi nella disputa tra deterministi (i quali sostengono che tutto
ciò che accade avviene necessariamente e che ogni fatto è predeterminato) e
indeterministi (i quali invece sostengono che tutto ciò che accade avviene per caso).
Popper parla di "nuvole" con riferimento alla concezione indeterministica,
secondo cui i sistemi (i fenomeni) fisici sono in prevalenza irregolari, disordinati,
imprevedibili e indeterminabili come il gas (nuvole), e parla di "orologi" con
riferimento alla concezione deterministica, secondo cui i sistemi (i fenomeni)
fisici sono in prevalenza regolari, ordinati, prevedibili e determinabili, come i
pendoli e il sistema solare. Con Newton è prevalsa la tesi deterministica, secondo
cui i fenomeni non sono come nuvole ma come orologi. Con il crollo della fisica
classica e col sorgere della teoria della relatività e della teoria dei quanti è
prevalsa invece la tesi indeterministica, secondo cui i fenomeni non sono come
orologi ma come nuvole.
Inoltre il determinismo, avverte Popper, sostenendo che tutti i fatti e gli eventi del
mondo fisico sono predeterminati, distrugge ogni idea di creatività e di libertà.
L'indeterminismo invece rappresenta una condizione preliminare necessaria, anche
se in sé non sufficiente, per ritenere che l'azione umana possieda una sua libertà. È
condizione necessaria ma non sufficiente perché l'indeterminismo, che attribuisce
al caso gli eventi che accadono, non garantisce ancora la credenza nella libertà
dell'agire umano. La condizione per poter pensare che il comportamento
umano sia libero e razionale è piuttosto qualcosa di intermedio tra
determinismo e indeterminismo, fra orologi e nuvole. Ciò che distingue la libertà
dell'agire umano dall'indeterminazione casuale (dal prodotto del caso) e dalla
predeterminazione necessitata (i fatti e gli eventi come conseguenza necessaria di
rapporti meccanici e predeterminati di causa-effetto) sta nel controllo dei
comportamenti tramite la razionalità critica, che è possibile in quei sistemi
organici complessi costituenti gli esseri umani. È libero chi non agisce a casaccio,
ma secondo progetti di soluzione dei problemi che incontra, controllando i
risultati e imparando dai propri errori.
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Già nel saggio "Che cos'è la dialettica" Popper inizia ad interessarsi ai problemi di
filosofia sociale e, per primo, ai problemi della metodologia delle scienze sociali.
Dopo aver precisato che la contraddizione logica non deve essere confusa con la
contraddizione-opposizione dialettica, che è cosa ben diversa, Popper critica il
metodo dialettico applicato alle scienze sociali e allo studio della storia, dichiarando
che esso è un fraintendimento del metodo scientifico. Il metodo scientifico infatti
non è caratterizzato né dal compiersi necessario della sintesi fra tesi e antitesi né
dalla conservazione necessaria, nella sintesi, della tesi e dell'antitesi, come invece
pretendono i dialettici. La dialettica, conclude Popper, o è banale tautologia (non
dice niente di nuovo) oppure è teoria che permette di giustificare tutto ciò che accade
nella realtà, secondo il principio hegeliano dell'identità di reale e razionale, in quanto
non essendo falsificabile sfugge al controllo dell'esperienza.
Nell'opera "La miseria dello storicismo" Popper sviluppa ulteriormente
l'interesse per la filosofia sociale e politica. In tale opera Popper critica sia lo
storicismo sia l'olismo.
Lo storicismo è quella concezione e quel metodo, applicato alle scienze storiche e
sociali, che pretende di cogliere e individuare le leggi di fondo dello sviluppo della
storia umana in modo da prevederne gli accadimenti successivi. Invece, per Popper,
lo storicismo non si accorge che gli sviluppi della storia sono imprevedibili e
quindi è impossibile trovarne le leggi. Tutt'al più possono essere scorte talune
tendenze, che sono però cosa ben diversa da una legge. In realtà, dice Popper, la
storia umana non ha alcun senso eccetto quello che le diamo noi, ma ognuno lo dà
secondo i suoi punti di vista e la sua ideologia.
L'olismo (dall'inglese "all"= tutto) è quella concezione degli storicisti che pretende
di cogliere la totalità della realtà storica e sociale di una società o addirittura di tutta
l'umanità, sulla quale basare un corrispondente programma politico di
trasformazione o rivoluzione sociale. Ma è un grave errore, dice Popper, pensare di
poter cogliere la totalità non solo di tutto il mondo ma anche di un piccolo
insignificante pezzo di mondo, perché tutte le teorie possono cogliere soltanto aspetti
particolari della realtà e tutte sono, per principio, falsificabili (non sono definitive e
valide per sempre). In via di fatto poi l'olismo si trasforma quasi sempre
nell'utopismo (nell'elaborazione di utopie sociali) e nel totalitarismo (in un
programma di società autoritaria in cui lo Stato vuole controllare tutto, non solo la
vita pubblica ma anche quella privata e le idee dei cittadini). Ogni utopia diventa
prima o poi autoritaria e totalitaria: vuole cambiare completamente la società
perché crede di sapere quale sia la società perfetta e per far questo è disposta a
tutto, ad usare anche la forza e la costrizione, imprigionando o addirittura mandando
a morte chi la pensa diversamente. Ma niente ci assicura che la nuova società non
sia invece peggiore, perché non è possibile tenere sotto controllo "tutto" quando
si vuole cambiare "tutto" (totalitarismo). Per Popper invece il comportamento
politico razionale è quello del riformismo graduale, che permette di dosare gli
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Nell'opera "La società aperta e i suoi nemici" Popper passa dalla critica
metodologica (contro il metodo) a quella sostanziale (contro le concezioni) dello
storicismo, visto come filosofia reazionaria, conservatrice, perché difende la
"società chiusa" anziché favorire lo sviluppo della "società aperta".
La società chiusa è quella totalitaria, organizzata in modo autoritario e non
rispettosa dei diritti e delle libertà individuali.
La società aperta è invece la società democratica: una società è democratica quando
sono democratiche le sue istituzioni (Governo, Parlamento, Magistratura, ecc.). Essa
è basato sull'esercizio critico della ragione e favorisce la libertà dei singoli e dei vari
gruppi sociali allo scopo di risolvere i problemi mediante la graduale attuazione di
continue riforme.
Ciò che contraddistingue la democrazia non è tanto lo stabilire chi debba
comandare, se la maggioranza o una minoranza più o meno illuminata o una classe
sociale o una sola persona, quanto invece il modo in cui sono organizzate le
istituzioni politiche, che deve essere tale da consentire ai governati la possibilità
effettiva di criticare i governanti e di sostituire quelli incapaci e indegni senza
violenza e spargimento di sangue.
La maggioranza infatti, dice Popper, non è di per sé garanzia di democraticità
perché può anche decidere di governare dispoticamente, senza rispettare i
diritti della minoranza.
La società aperta, democratica, è una società tollerante, ma non è tenuta e non
deve essere tollerante fino all'eccesso, nel senso che è suo dovere difendere i
tolleranti ma combattere gli intolleranti per evitare che i primi siano distrutti.
Popper parla in proposito del "paradosso della tolleranza" quando è concepita
puramente fine a se stessa, senza se e senza ma. L'unico caso in cui è ammessa una
rivoluzione violenta è per abbattere un eventuale dittatura, rivoluzione che
comunque deve avere l'unico scopo di instaurare la democrazia. In tutti gli altri casi
la violenza genera sempre maggior violenza e le rivoluzioni violente uccidono i
rivoluzionari e corrompono i loro ideali.
In base alla sua concezione politica Popper distingue due soli tipi di governo: i
governi democratici e i governi non democratici. Egli è un sostenitore della
libertà individuale e collettiva contro lo strapotere dello Stato (contro lo
statalismo) e la prepotenza della burocrazia. Tuttavia riconosce che lo Stato è un
male necessario. Ciò che conta allora è la possibilità di risolvere razionalmente i
conflitti. Per Popper i più grandi ideali sociali e politici sono la giustizia e la
libertà, ma la libertà viene prima della giustizia, poiché in una società libera,
attraverso la critica ed il controllo dei governanti nonché attraverso riforme
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tempestive, si potrà giungere anche alla giustizia, mentre in una società chiusa,
totalitaria e dittatoriale, dove la critica non è possibile, nemmeno la giustizia sarà
raggiunta perché ci sarà sempre la classe privilegiata dei capi e capetti politici, dei
burocrati e dei "servi del tiranno".
Alla base di questa difesa razionale e appassionata delle istituzioni democratiche c'è
la "fede nella ragione", nel razionalismo. Esso attribuisce valore al ragionamento e
al controllo dei fatti mediante l'esperienza, però il razionalismo è una decisione di
vita che non può essere a sua volta dimostrato, perché non è di carattere
puramente logico-intellettuale ma è soprattutto una scelta di carattere morale.
Tuttavia, argomenta Popper, il razionalismo corrisponde agli ideali umanitari meglio
dell'irrazionalismo che rifiuta e non riconosce l'uguaglianza dei diritti.
Quindi, dopo aver illustrato i pregi della società aperta, democratica, e del
razionalismo, Popper passa in rassegna quelli che egli chiama i principali nemici
della società aperta, cioè i sostenitori della società chiusa e dello storicismo.
Già in Eraclito, a causa della sua idea di un destino spietato e ferreo che domina la
vita e la storia umana, Popper vede emergere lo storicismo e la concezione di una
società chiusa, che non permette all'uomo di progettare programmi di razionale
organizzazione sociale e nemmeno sogni utopistici. Ma, secondo Popper, il
principale esponente dello storicismo e della società chiusa nel pensiero antico è
Platone. Il modello di Stato di Platone, scrive Popper, è quello di uno Stato rigido,
basato su di una ferrea divisione di classe (i governanti, i guerrieri, i contadini e gli
artigiani) che esclude ogni mutamento e affida il comando non agli eletti ma ai
filosofi che diventano dei re. La Repubblica di Platone è lo stato del razzismo e del
privilegio; preferisce la sicurezza alla libertà. Non era così con Socrate, umile
ricercatore della verità e quindi democratico. Nel pensiero moderno Popper
individua poi il ripresentarsi dell'ideologia storicista e dei nemici della società
aperta in Hegel e Marx.
È vero, riconosce Popper, che Hegel ha avuto il merito di farci capire che le idee e la
mentalità degli uomini sono in larga misura il prodotto dell'evoluzione storica e
sociale, ma la sua colpa è quella di avere identificato il reale col razionale,
giustificando quindi tutto ciò che accade nella storia, anche i fatti più ingiusti e
disumani, e finendo col considerare lo Stato prussiano come quello superiore a tutti.
È da questa concezione dello Stato, considerato non come istituzione umana, quindi
modificabile e migliorabile, ma come manifestazione dello Spirito, e quindi
immodificabile e non criticabile, che nascono i totalitarismi (fascismo, nazismo,
comunismo) che hanno tormentato il ventesimo secolo.
Marx, a sua volta, viene accusato di aver attribuito un'importanza assoluta ed
esagerata alla struttura economica della società rispetto alla sovrastruttura, cioè
rispetto alle idee, agli ideali e alla cultura, facendo in tal modo non della scienza ma
della metafisica dogmatica (non discutibile e non criticabile). I marxisti poi hanno
usato tutta una serie di stratagemmi artificiosi per giustificare le teorie e le previsioni
di Marx anche quando risultavano sbagliate e smentite dalla storia, pur di non
mettere in crisi e far crollare l'intero sistema e ideologia marxista. Ma in questo
modo hanno infranto la legge più importante della ricerca scientifica, cioè il
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principio di falsificazione. Popper riconosce che Marx ci ha fatto capire molte cose e
molte ingiustizie della società del suo tempo nonché l'importanza, però non
determinante, della struttura economica nello sviluppo della storia sociale. Riconosce
anche gli ideali umanitari del marxismo e la sua critica agli eccessi del capitalismo.
Respinge però lo storicismo dialettico marxista (il materialismo storico e il
materialismo dialettico), che si è trasformato in determinismo economico (ciò che
conta ed è determinante è solo la struttura economica e non anche le idee e la
cultura) ed in utopia e, conseguentemente, in ideologia totalitaria (società chiusa).
Per tutto quanto sopra considerato, la filosofia di Popper è stata definita
"razionalismo critico": razionalismo per la fiducia nelle capacità della ragione
umana; critico perché esso deve sempre essere controllato in base all'esperienza e
perché, inoltre, non è possibile giustificare (spiegare) razionalmente la fiducia nella
ragione, la quale rimane un atto di fede per la mancanza di un concetto filosofico
univoco e generale di razionalità.
Riassumendo, i capisaldi del razionalismo critico di Popper possono essere
considerati quelli seguenti:
1. l'aver sostituito il principio della falsificazione a quello della verificazione;
2. l'aver elaborato il concetto della corroborazione delle teorie;
3. l'aver concepito la scienza come ricerca continua che però non giunge mai alla
fine, che non giunge mai a verità definitive ma sempre falsificabili;
4. l'aver lodato l'importanza dell'errore che, quando è compreso, ci consente di
correggere i nostri sbagli;
5. l'aver difeso la democrazia, il diritto individuale alla libertà e il riformismo
contro i totalitarismi.
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acquisizioni realizzate; ciò che conta è la fede che il nuovo paradigma riuscirà in
futuro a risolvere maggiori problemi. Il passaggio ad un nuovo paradigma non è
tanto una conversione di gruppo, quanto un progressivo spostamento di fiducia degli
specialisti. Il progresso scientifico dunque non è graduale ma discontinuo. Come
è misurabile allora il progresso nel passaggio da un paradigma all'altro? E il
progresso verso che cosa è? Verso una maggiore verità? Kuhn risponde che nella
storia c'è progresso non perché ci si avvicina sempre di più a una qualche verità, ma
perché ci si allontana sempre di più da stadi primitivi e da pratiche meno adeguate di
ricerca. In altri termini, nella scienza non c'è progresso verso qualcosa ma a partire
da qualcosa.
L'epistemologia di Kuhn è stata accusata da più parti di irrazionalismo e di
misticismo. Ad esempio, Lakatos scrive che per Kuhn la rivoluzione scientifica è di
tipo irrazionale, è una questione di psicologia di massa. E Popper, a proposito
dell'incommensurabilità dei paradigmi, sostiene che Kuhn "esagera una difficoltà
facendola diventare un'impossibilità". Certo, puntualizza Popper, visioni del mondo
differenti possono essere incommensurabili, ma "teorie che offrono soluzioni agli
stessi problemi o a problemi analoghi sono di regola confrontabili. Per esempio,
l'astronomia di Tolomeo è ben lungi dall'essere incommensurabile con quella di
Aristarco e di Copernico".
Da un lato si confronta con Kuhn e dall'altro con Popper. Vicino alle posizioni
razionalistiche di Popper, Lakatos contesta Kuhn per aver assimilato le rivoluzioni
scientifiche a delle "conversioni religiose" derivanti da un irrazionale (extra-
scientifico) cambiamento di fede. D'altro canto, corregge ed integra il principio di
falsificabilità di Popper . Lakatos distingue tra falsificazionismo dogmatico, che
considera infallibile il metodo falsificazionista senza tener conto che le proposizioni
empirico-osservative e le pratiche di falsificazione non sono in se stesse
assolutamente certe, per cui non si danno falsificazioni infallibili o incontrovertibili,
e falsificazionismo metodologico. Riconosce il carattere metodologico del
falsificazionismo di Popper, che considera tuttavia rimasto ad un livello ingenuo e
insoddisfacente, in quanto limitato ad esperimenti cruciali nonché al confronto fra
una teoria e le relative osservazioni empiriche. Per Lakatos invece lo sviluppo della
scienza non avviene attraverso successivi confronti tra una teoria e i fatti, poiché fra
teoria e fatti il confronto non è mai diretto ma indiretto. Non è a due ma avviene
sempre perlomeno fra tre termini di confronto: tra due teorie in competizione e i
fatti. Una teoria viene scartata non perché un'osservazione empirica la falsifica,
come dice Popper, ma solo quando alla comunità scientifica è presentata ed è
messa a disposizione una teoria migliore per maggior contenuto empirico ed
esplicativo. Per esempio, la meccanica di Newton venne respinta solo dopo essere
venuti in possesso della teoria di Einstein. Lakatos chiama questa sua integrazione
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delle teorie, Popper replica facendo rilevare che, mentre due differenti visioni
religiose o filosofiche del mondo possono effettivamente essere incommensurabili,
due teorie che tentano di risolvere un medesimo genere di problemi sono invece
sempre commensurabili come lo sono la teoria di Newton e di Einstein.
Il tratto e l'esito forse più caratteristico dell'epistemologia anarchica di
Feyerabend è che egli, oltre che alla distruzione del mito della ragione, della
razionalità (scrive Feyerabend: "La ragione si unisce alla sorte di tutti quegli altri
mostri astratti come l'obbligo, il dovere, la morale, la verità e i loro predecessori più
concreti, gli dei, che furono usati per incutere timore nell'uomo e limitarne il libero e
felice sviluppo), perviene altresì alla distruzione del mito della scienza.
Denunciando lo strapotere della scienza nel mondo d'oggi Feyerabend dichiara che
essa è solo uno dei molti strumenti inventati dall'uomo per far fronte al suo
ambiente e che, al di là della scienza, esistono i miti, esistono i dogmi della
teologia, esiste la metafisica e molti altri modi di costruire una concezione del
mondo. Uno scambio fecondo tra la scienza e tali concezioni "non scientifiche" del
mondo avrà bisogno dell'anarchismo ancor più di quanto ne ha bisogno la scienza.
L'anarchismo quindi è non soltanto possibile ma necessario tanto per il progresso
interno alla scienza quanto per lo sviluppo della nostra cultura nel suo complesso.
Il pluralismo antiautoritario e antidogmatico di Feyerabend si volge verso un
progetto di società non solo aperta, come in Popper, ma anche totalmente libera,
in cui vengono riconosciuti davvero uguali diritti e possibilità di accesso ai centri di
potere sia agli individui sia alle diverse tradizioni culturali. Sinora, anche nelle
società democratiche, il nero, l'indiano, l'uomo sessuale o la donna hanno potuto
partecipare alla vita sociale e alle decisioni collettive solo a patto di uniformarsi ai
modelli dominanti, accettando l'uomo di colore la tradizione dell'uomo bianco e la
donna di "maschilizzarsi". Il vero problema di una società libera, dichiara
Feyerabend, è quello di impedire che una o alcune tradizioni particolari seguitino ad
avere il sopravvento su tutte le altre.
A=B e B=C allora A=C), contesta tale assunto e tali credenze: non esiste un
linguaggio del tutto libero da riferimenti empirici e quindi in grado di consentire
enunciati e verità puri e assoluti. Ogni proposizione, anche quella apparentemente
più autoevidente e tautologica, è legata ad usi e regole condizionati dall'ambiente e
dai contesti storico-culturali. Gli analiticisti difendevano le loro posizioni citando
proposizioni del tipo "nessuno scapolo è sposato", che in apparenza sono del tutto
oggettive e autonome da qualsiasi controllo empirico. Quine confuta tale
interpretazione e afferma che la proposizione portata ad esempio non è assoluta,
ossia non è sciolta da legami e da condizionamenti. Essa non ha un significato
univoco, oggettivo e puro ma, distinguendo fra teoria del significato e teoria del
riferimento empirico, dipende invece da un'interpretazione extra-logica. Gli
analiticisti replicano che scapolo è sinonimo di non sposato e che la sinonimia
prova la verità analitica della proposizione. Ma, dice Quine, bisogna allora spiegare
che cosa sia la sinonimia. Ebbene, egli conclude, neppure il principio della
sinonimia può essere assunto in modo autonomo e assoluto. Infatti la sinonimia si
basa su una definizione: dico che "scapolo" è sinonimo di "non sposato" ma il
termine "non sposato" riguarda anche i bambini mentre ciò non vale per il termine
"scapolo". La sinonimia non è quindi assoluta; si tratta piuttosto di un circolo
vizioso che mette in crisi la presunta oggettività delle proposizioni analitiche non
formali, che hanno cioè un riferimento empirico. Dunque non sussistono
(contrariamente a Carnap) verità analitiche non formali che siano certe e oggettive.
In tutte le proposizioni riguardanti il mondo, ossia oggetti empirici, non vi sono
significati indipendenti e oggettivi (come nel caso delle idee platoniche), bensì "usi
correnti", convenzioni e comportamenti derivanti da abitudini e interessi di tipo
pragmatico, sociale e culturale: rifiuto del concetto di significato come entità a sé.
Circa il principio del riduzionismo (secondo cui tutte le proposizioni vere sono tali
in virtù della loro relazione all'esperienza, alla quale possono essere ridotte
scomponendole), Quine afferma che esso è fallito sul piano dei fatti ed è infondato
sul piano teorico-epistemologico. Precisa che ogni riduzione e riconduzione è nella
sostanza una traduzione dal linguaggio scientifico al linguaggio dei dati e delle
esperienze sensoriali (al linguaggio comune). Ma tale traduzione si rivela generica,
velleitaria e quindi impossibile. Lo stesso Carnap, massimo sostenitore del principio
del riduzionismo, "non ha offerto nessuna indicazione, dice Quine, di come una
proposizione formale, logico-matematica, possa venir tradotta nel linguaggio delle
esperienze empiriche". Inoltre, prosegue Quine, non si vede perché le esperienze
fisico-sensibili, o il linguaggio che le enuncia, dovrebbero avere quel ruolo
privilegiato ad esse attribuito dai neopositivisti. "Io credo, egli dice, negli oggetti
fisici e non nelle idee di Omero. Ma in quanto a fondamento ontologico essi
differiscono solo per grado e non per natura: il mito degli oggetti fisici è superiore
agli altri solo perché si è dimostrato più efficace degli altri miti". Respingendo sia la
soluzione platonica sia quella concettualistica e sia quella nominalistica (riproposte
peraltro anche nella contemporaneità con nomi diversi: il logicismo di Frege, Russel
e Carnap; l'intuizionismo di Poincaré; il formalismo di Hilbert), l'accettazione di
un'ontologia piuttosto che di un'altra, afferma Quine, è principalmente in funzione
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Antirealista è anche l'americana Nancy Cartwright (nata nel 1959). A suo avviso
tutte le leggi teoriche poste dalla scienza sono idealizzazioni che non corrispondono
alla realtà poiché si riferiscono ad oggetti e a situazioni ideali che non ritroviamo
mai nella nostra esperienza, quali ad esempio un punto inesteso, un corpo
perfettamente sferico, ecc. Vere sono soltanto le leggi fenomenologiche, cioè quelle
che offrono spiegazioni di fatti particolari ma che sono prive dell'universalità delle
leggi fondamentali. Le teorie scientifiche spiegano la realtà ma da ciò non si può
inferire la loro verità; però hanno un'utilità irrinunciabile poiché consentono di
sistemare in forma rigorosa, matematica, la molteplicità eterogenea delle
esperienze.
A metà strada tra realismo e antirealismo si colloca il filosofo canadese Jean
Hacking: le teorie scientifiche sono una elaborazione teorica, ossia una
rappresentazione che deve offrire delle connessioni interne di coerenza e che solo in
un secondo momento viene confrontata con la realtà. I fenomeni fisici non sono
quasi mai a disposizione del ricercatore in modo immediato, ma vengono costituiti
all'interno dell'esperimento, per cui non siamo di fronte alla realtà in sé ma soltanto
alla rappresentazione che ce ne facciamo. Noi siamo autorizzati ad ammettere
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l'esistenza solo delle entità che siamo in grado di manipolare. Tale realismo sulle
entità non implica tuttavia il realismo a proposito delle teorie, le quali più che vere
sono semmai efficaci. Della realtà noi riusciamo a conoscere solo quel tanto che ci
permettono i nostri esperimenti. Il realismo sulle entità sperimentabili vuol
significare che le proprietà di tali entità esistono prima e indipendentemente dalla
nostra coscienza e che non sono create dall'esperimento.
Più spinto è lo strumentalismo del filosofo statunitense Larry Laudan, per il quale
la scienza è uno strumento dimostratosi finora il più potente per risolvere problemi
empirici o concettuali. Questa posizione si distingue nettamente dal realismo di
Popper. Per Laudan infatti le teorie si possono misurare solo in termini di
adeguatezza relativamente ad altre teorie e non in termini di verità. Le teorie
vivono in un complesso unitario e non sono valutabili singolarmente, nel loro
isolamento.
Il progresso si muove all'interno delle tradizioni di ricerca (come ad esempio il
copernicanesimo, il darwinismo, la fisica quantistica). Esse sono concezioni globali
che forniscono due tipi di direttive:
1. metodologiche, che prescrivono gli strumenti concettuali con cui procedere
(ad esempio il metodo deduttivo per la tradizione aristotelica e newtoniana e
il comportamentismo per l'operazionismo);
2. ontologiche, che enunciano le entità ammesse all'interno della teoria (ad
esempio il cartesianesimo ammetteva solo la sostanza pensante e quella
estesa; il comportamentismo ammette solo gli atti fisici e fisiologici
empiricamente riscontrabili.
Tuttavia queste tradizioni non producono che risposte più o meno felici ai problemi
del loro tempo e non hanno nulla a che fare con la verità, obiettivo che, più che
irraggiungibile, è insensato.
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La logica.
maggiore del concetto stesso. Dunque, essendo quella del mentitore Epamenide (o la
classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elemento) proposizione di
livello superiore a quella asserita, allora essa è vera.
Due sono dunque le caratteristiche fondamentali della logica di Russell:
1. la riduzione della matematica alla logica, nel senso che per Russell la
matematica deriva dalla logica ed anzi consiste in quella parte della logica che
egli chiama la "logica delle relazioni": entrambe infatti hanno per oggetto la
teoria generale delle relazioni tra numeri o tra proposizioni;
2. l'impostazione realistica della logica, secondo cui i termini logici (i principi
e le regole della logica) e i numeri non sono una nostra creazione o intuizione,
ma esistono indipendentemente dalla nostra mente, sia che li pensiamo o no;
sono entità esistenti in se stesse, hanno cioè consistenza ontologica reale,
come le idee di Platone, con la differenza però che sono concepiti da Russell
non già come realtà soprasensibili ma come la struttura stessa (il modo
fondamentale di essere) del mondo. Anche la logica e la matematica, infatti, si
occupano del mondo reale, sia pure nei suoi aspetti più generali e astratti. La
matematica e la logica costituiscono in qualche modo la sostanza delle cose, in
quanto colgono e spiegano le relazioni tra le cose e si applicano agli oggetti
con cui siamo in contatto.
Russell non accetta pertanto la contemporanea logica formale, poiché slegata
dalla realtà, e neppure la logica antica, da Aristotele in poi, concepita solo come
"arte del pensare" riguardante soltanto il soggetto che pensa e non anche la realtà.
Respinge altresì la concezione secondo cui gli assiomi, ossia i postulati logici e
matematici, sono semplici convenzioni (anticonvenzionalismo).
Fondamentale per Russell, come abbiamo visto, è quella parte della logica chiamata
"la logica della relazione", sulla quale si fonda più direttamente la matematica e
che costituisce la principale differenza tra vecchia e nuova logica. Nella teoria
generale delle relazioni infatti, precisa Russell, oltre che la logica rientra in
particolare la matematica: contare significa stabilire una relazione tra la serie degli
oggetti contati e i numeri naturali, così come il ragionare logico significa stabilire
una relazione tra i termini logici e gli oggetti a cui sono applicati. La vecchia logica
considerava una sola forma di proposizione, cioè quella costituita dal soggetto e dal
predicato, fondata sul presupposto metafisico che nella realtà esistono solo le cose e i
loro predicati, cioè le loro qualità (ad esempio, Socrate è un uomo; l'arte è bella,
ecc.). Nella realtà, afferma Russell, esistono invece anche relazioni tra le cose e non
solo tra le cose in se stesse e i loro predicati. Le relazioni del tipo A è maggiore di B
oppure A è fratello di B sono il fondamento della nuova logica ed esse non si
possono ridurre alle qualità di una cosa, cioè al solo predicato. Vi sono relazioni
simmetriche (di corrispondenza), transitive o intransitive che possono anche
esprimere il possesso di qualità, ma le relazioni asimmetriche del tipo "prima, dopo,
più grande, più piccolo" non esprimono il possesso di alcuna qualità e quindi non
sono riducibili a qualità delle cose ma hanno invece una loro autonomia e sussistenza
ontologica reale, indipendentemente dall'esperienza.
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Allo scopo di realizzare anche nel linguaggio comune, ordinario, lo stesso rigore e
precisione della logica-matematica, Russell propone la cosiddetta "teoria delle
descrizioni". Essa afferma che solo i nomi propri di persona o di cosa (ad esempio
Francesco, il cavallo, la mela, ecc.) hanno una denotazione chiara, ossia si
riferiscono necessariamente ad un oggetto esistente e perciò possono fungere
(valere) da soggetti di proposizioni esistenziali (corrispondenti ad enti esistenti nella
realtà) vere o false. Ma le descrizioni usate nel linguaggio comune, fa presente
Russell, non si riferiscono sempre e necessariamente ad un oggetto esistente, come
nel caso delle espressioni "la montagna d'oro" o "il circolo quadrato", e perciò
finché tali espressioni restano formulate in questo modo impreciso esse non possono
valere come soggetto di proposizioni esistenziali vere o false. Per evitare tale
inconvenienti, prosegue Russell, simili descrizioni devono essere trasformate in
enunciati che indicano la relazione fra due predicati del tipo di quelli della logica
matematica. Per esempio, le espressioni "la montagna d'oro" o "il circolo quadrato"
non esistono, non sono proposizioni esistenziali, pertanto devono essere trasformate
nelle proposizioni corrette "nessuna entità è al tempo stesso una montagna ed è di
oro " o "nessuna cosa è al tempo stesso circolo e quadrato".
ma sono collegamenti logici fondati sulla correttezza o coerenza (ossia sulla non
contraddizione logica) anziché sulla verifica empirica del vero o falso. I collegamenti
logici sono quindi indipendenti dai fatti espressi dalle proposizioni atomiche ma
sono tuttavia ontologicamente fondati anch'essi sulla realtà.
Oltre alle proposizioni atomiche e molecolari, esistono proposizioni chiamate da
Russell "proposizioni generali", le quali si riferiscono invece alle classi, cioè agli
insiemi, come ad esempio: "tutti gli uomini (l'insieme degli uomini) sono mortali".
La verità delle proposizioni generali, diversamente da quella delle proposizioni
atomiche e in parte anche da quella delle proposizioni molecolari, è del tutto
indipendente dall'osservazione o esperienza sensibile, ma dipende invece
esclusivamente dalla correttezza-coerenza logica delle relazioni di implicazione o
di esclusione tra le classi o insiemi di cui sono costituite.
Esistono in tal modo due tipi di verità:
1. quella basata sui dati dei sensi, che riguarda le proposizioni atomiche e
molecolari, le quali sono sempre particolari e ci fanno conoscere il mondo
esterno; tali sono le proposizioni delle scienze empiriche;
2. quella basata sulla relazione tra le classi, che riguarda le proposizioni
generali (i principi della logica e i postulati della matematica-geometria), le
quali costituiscono l'oggetto della logica e della matematica, cioè di un mondo
ugualmente oggettivo, reale, nel senso di indipendente dalla nostra mente ma
tuttavia diverso dal mondo sensibile.
Allora compito della filosofia è, secondo Russell, di tradurre il linguaggio comune
in un linguaggio formalizzato, cioè rigoroso, non ambiguo, costituito o da
proposizioni particolari (atomiche o molecolari) o da proposizioni generali,
verificando la verità delle prime mediante il ricorso ai dati sensibili, all'osservazione
empirica, e verificando la verità delle seconde mediante l'analisi logica. In tal modo
si potrà eliminare una quantità di falsi problemi o di problemi insolubili, nati da un
uso scorretto del linguaggio, quali sono i problemi metafisici, e si potrà ricondurre
l'intero linguaggio comune al linguaggio scientifico, similmente a quello delle
scienze empiriche e matematiche.
Attribuendo valore di verità unicamente alla scienza, Russell non riconosce verità
alcuna all'etica, alla politica e alla religione, poiché non trattano di fatti o relazioni
logiche bensì del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, di Dio e del destino
dell'uomo. Questi sono valori che non possono essere oggetto di conoscenza in
quanto empiricamente non verificabili; di conseguenza non esistono valori assoluti e
universali.
L'etica perciò, afferma Russell, non si fonda sulla conoscenza del bene ma solo sul
desiderio, per cui è bene ciò che soddisfa il desiderio ed è male ciò che vi è di
contrario. I desideri tuttavia, benché in gran parte dipendano da inclinazioni naturali,
possono essere parzialmente modificati mediante l'educazione e la cultura sociale
accettata. Bisogna pertanto educare ciascuno a rispettare anche i desideri degli altri
in modo da ottenere la maggior felicità possibile per il maggior numero di persone.
Si tratta di una concezione etica di tipo utilitaristico. I desideri e le passioni umane
non vanno condannati in nome di principi morali dogmatici e repressivi, ma vanno
semmai moderati i desideri che possono creare conflitti con gli altri e/o conseguenti
infelicità, mentre vanno incoraggiati quelli che favoriscono la pacifica convivenza
sociale.
La concezione politica di Russell è di tipo liberal-democratico radicale, volta ad
assicurare a tutti la maggior libertà possibile, con l'unico limite di non impedire la
libertà altrui. Sostiene la libertà dell'individuo contro ogni dittatura e sopruso del
potere. Convinto pacifista, è stato avversario delle ingiustizie sociali, assai critico
contro le ingiustizie del capitalismo ed altrettanto duro contro i metodi dittatoriali del
comunismo sovietico.
Famose sono state le sue contestazioni alla guerra del Vietnam.
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Rifiuta tutte le religioni perché si basano sulla fede e non sulla conoscenza e perché
sono considerate disumane dal punto di vista etico, in quanto reprimono i desideri
umani al di là di quanto richiesto dal rispetto dei desideri e della libertà degli altri.
Per le sue idee radicali, anche nel campo dei costumi sociali, ha pagato di persona:
gli è stata tolta la cattedra di filosofia al City College di New York ed è stato
imprigionato più volte.
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dello stesso senso comune, per il quale l'esistenza di una realtà esterna è evidente, è
cioè una verità intuitiva.
Il senso comune è ciò che è espresso dal linguaggio ordinario. Perciò la filosofia
deve essere soprattutto analisi del linguaggio ordinario, ossia deve saper
distinguere che cosa effettivamente esso esprime nonché quali elementi insensati
siano stati in esso introdotti a causa di teorie filosofiche particolari e astratte,
eliminando quindi accuratamente tali teorie come origine di falsi problemi, di
equivoci e di fraintendimenti.
L'etica.
Per Moore l'analisi del linguaggio va applicata anche ai problemi morali. Egli
elabora così un'etica originale, diretta unicamente a chiarire che cosa noi intendiamo
dire quando affermiamo che una cosa è buona, che cioè è un bene. Il concetto di
bene per Moore è un concetto semplice, non composto da altri concetti, e perciò
non può essere definito, può essere solo intuito in virtù di un sentire immediato.
Rifiuta perciò tutte le dottrine che pretendono di definire il bene mediante
concezioni scientifiche o filosofico-metafisiche. Esse commettono tutte un unico
tipo di errore, definito "fallacia naturalistica", consistente nello scambiare il bene
per un oggetto appartenente alla natura, descrivibile dalla scienza o dalla filosofia.
Ma il bene non è un oggetto fisico, come può esserlo il piacere o l'utile secondo
l'utilitarismo, poiché non esiste nel tempo come invece tutti gli oggetti fisici. Esso
non è nemmeno un oggetto metafisico, inteso quale idea o valore trascendente come
nell'idealismo, poiché non è eterno come gli oggetti metafisici bensì è una nozione
umana che varia nel tempo.
L'etica insomma non può essere fondata né sulla conoscenza scientifica né
filosofica ma deriva da una semplice intuizione, cioè da una scelta. Ciò non
impedisce tuttavia a Moore di affermare che l'ideale da porre a guida delle nostre
azioni consiste negli affetti per le persone e nei piaceri di tipo estetico, ossia in
sentimenti entrambi disinteressati.
La concezione etica di Moore è stata definita "intuizionismo etico" ed ha esercitato
un vasta influenza su tutta la filosofia analitica anglo-americana. In particolare, è
stato commentato, la fallacia naturalistica denunciata da Moore costituisce una
violazione e un superamento della legge di Hume, secondo la quale è fatto divieto di
dedurre da proposizioni descrittive contenente il verbo "essere" proposizioni
prescrittive contenente il verbo "dovere". In effetti, contro Hume, Moore attribuisce
all'etica ideali regolativi.
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Il "Tractatus logico-philosophicus".
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dire se sono veri o falsi, mentre non si può dirlo dei singoli oggetti: sono solo ciò
che si vede e si tocca.
A questo punto Wittgenstein si pone il problema del rapporto tra i fatti (cioè il
mondo) il pensiero e il linguaggio, che è espressione del pensiero. Come avviene il
passaggio dai fatti alla loro descrizione e conoscenza? Al riguardo Wittgenstein ha
una concezione antimentalistica ed antisoggettivistica. Nega cioè che il pensiero
abbia una realtà propria e autonoma, distinta dal linguaggio. Non esiste il pensiero, o
il soggetto pensante, come elemento di mediazione e collegamento tra i fatti e il
linguaggio, ma il linguaggio coincide col pensiero poiché non esiste alcun pensiero
se non è contemporaneamente espresso dal linguaggio: si può parlare solo pensando,
a voce alta, per iscritto o in silenzio. Il pensiero è l'immagine logica dei fatti nel senso
che attribuisce significato ai fatti stessi, è cioè linguaggio.
Allora, se pensiero e linguaggio coincidono, il problema del rapporto fra il
mondo (cioè l'insieme dei fatti), il pensiero e il linguaggio diventa il problema del
rapporto fra il mondo e il linguaggio o del rapporto tra i fatti e il linguaggio.
Wittgenstein risolve questo problema con la sua "teoria raffigurativa del
linguaggio", di tipo empirico-realista, diversa sia dall'idealismo e dal neoidealismo,
sia dalla teoria delle forme o funzioni mentali a priori di Kant, che Wittgenstein
ritiene poco verificabile. Il rapporto tra fatti e linguaggio veniva sentito come un
problema poiché si trattava di spiegare come mai dei fatti ben precisi quali i segni,
ossia le parole del linguaggio stesso, potessero esprimere altri fatti del tutto diversi
quali i fenomeni della realtà.
Abbiamo visto che per Wittgenstein il pensiero è l'immagine logica dei fatti (ossia del
mondo, della realtà) e che il pensiero è a sua volta linguaggio; quindi, per la proprietà
transitiva, il linguaggio è l'immagine della realtà: le proposizioni del linguaggio
sono cioè immagini, modelli, raffigurazioni della realtà. Per comprendere meglio
questa affermazione si può considerare che cos'è la proiezione. Noi sappiamo che un
oggetto reale tridimensionale (ad esempio una casa) può essere riprodotto,
raffigurato, mediante una proiezione prospettica bidimensionale (la pianta della casa).
Non vi è coincidenza ma la proiezione è un modello, una raffigurazione i cui elementi
stanno tra loro in relazione in modo corrispondente agli elementi dell'oggetto reale.
Non vi è dunque coincidenza ma c'è corrispondenza (la pianta della casa
corrisponde alla casa reale). Lo stesso avviene nel linguaggio: il segno linguistico (ad
esempio una frase, una proposizione) è caratterizzato da connessioni (collegamenti)
interne tra gli elementi che lo compongono (tra le parole) che sono corrispondenti
a quelle relative al fatto, all'oggetto reale.
Con riguardo alle proposizioni del linguaggio, Wittgenstein distingue, come
Russell, fra proposizioni atomiche e proposizioni molecolari. Le proposizioni
atomiche, chiamate anche elementari, sono quelle che descrivono un fatto singolo e
sono costituite nella forma più elementare, cioè soltanto dal soggetto e dal predicato.
La proposizione è un segno linguistico (un elemento del linguaggio) composto da più
elementi semplici, ossia il soggetto e il predicato, che stanno in un certo rapporto tra
loro. Gli elementi più semplici sono i nomi ed essi, nella proposizione, stanno al
posto degli oggetti che rappresentano. Una proposizione atomica descrive un fatto,
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cioè uno stato di cose, quando i suoi elementi stanno nel medesimo rapporto in
cui stanno gli elementi del fatto reale che essa descrive. In questo caso la
proposizione è vera; in caso contrario è falsa. Ogni proposizione va quindi
verificata in termini di corrispondenza rispetto al fatto reale descritto. Infatti in sé e
per sé ogni proposizione, come immagine di un fatto, rappresenta soltanto un fatto
possibile ma non necessariamente reale e accaduto: per stabilirlo bisogna verificarlo.
Diverse dalle proposizioni vere o false sono le proposizioni sensate o insensate. Le
proposizioni sono sensate quando raffigurano un fatto, uno stato di cose,
effettivamente possibile. Nel caso contrario sono insensate. Ad esempio, la
proposizione "il quadrato è rotondo" non può essere verificata (non si potrà mai fare
esperienza di un quadrato rotondo), non si potrà mai stabilire cioè se è vera o falsa,
ma si potrà dire che è insensata poiché è incomprensibile e contraddittoria.
Le proposizioni molecolari (da molecola=aggregazione di più sostanze chimiche)
sono costituite dall'aggregazione di più proposizioni atomiche tra di esse connesse o
poste in connessione. La verità o falsità delle proposizioni molecolari dipende
dalla verità o falsità delle proposizioni atomiche che le costituiscono. Wittgenstein
dice che sono "funzioni di verità" (dipendono) delle proposizioni atomiche
costituenti.
Il pensiero o, meglio, il linguaggio in cui il pensiero si esprime è dunque
raffigurazione del mondo, cioè dei fatti, ed è costituito da proposizioni atomiche e
molecolari raffigurative dei fatti stessi. Vi sono inoltre, aggiunge Wittgenstein,
proposizioni generali che non raffigurano fatti ma fissano le condizioni della loro
possibilità, ossia della loro pensabilità; fissano cioè i principi, le regole, i modi in cui
noi pensiamo ed esprimiamo i fatti attraverso il linguaggio. Tali sono i principi,
della matematica e della logica a cui, anche per Wittgenstein come per Frege e
Russell, la matematica può essere ricondotta. Le proposizioni generali non ci dicono
nulla del mondo, ossia non ci informano su un particolare stato di cose ma
valgono per tutti i possibili stati di cose, poiché non fanno altro che esplicitare ciò
che è già contenuto nel soggetto: sono cioè proposizioni tautologiche, in cui il
predicato è implicito (ha il medesimo significato) nel soggetto. Sono i giudizi
analitici considerati da Kant. Le proposizioni generali sono necessariamente vere,
nel senso però che esprimono soltanto una condizione di possibilità, oppure, nel caso
delle contraddizioni, sono necessariamente false, nel senso che esprimono
un'impossibilità. In esse dunque la verità coincide con la loro sensatezza mentre la
falsità coincide con l'insensatezza.
Infine, la totalità delle proposizioni (atomiche, molecolari e generali) costituisce il
linguaggio, mentre la totalità delle proposizioni vere costituisce la scienza
naturale, la quale è, per Wittgenstein, l'unica forma di conoscenza autentica.
La logica.
essi potrà essere detto più vero di un altro. Vere possono essere solo quelle
proposizioni atomiche che all'interno della teoria risultino corrispondenti
all'esperienza. Come si può notare, si tratta di una concezione delle teorie
scientifiche affine a quella del neopositivismo.
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La teoria dell'arte.
Il circolo ermeneutico.
un incessante scambio, che non ha mai fine, fra l'interprete e il testo interpretato,
che Gadamer chiama "circolo ermeneutico", attraverso il quale, in rapporto al testo,
l'interprete verifica la validità delle sue pre-comprensioni (supposizioni),
sostituendole via via con concetti più adeguati.
Questi pre-giudizi o pre-comprensioni non costituiscono affatto un limite, ma sono la
naturale conseguenza del fatto che sia l'interprete sia l'interpretato partecipano e sono
accomunati dalla medesima tradizione culturale e storica, da una medesima cultura.
Sia le pre-comprensioni dell'interprete sia i contenuti del testo sono il frutto e l'eredità
di un medesimo sviluppo storico e culturale, dal quale deriva, da un lato, il punto di
vista e il senso che l'autore ha inteso attribuire al proprio testo e, dall'altro lato,
derivano le pre-comprensioni dell'interprete. Il circolo ermeneutico è quindi il modo
tipico in cui avviene l'interpretazione e la comprensione le quali, diversamente
dal metodo scientifico, si caratterizzano perché non c'è separazione tra soggetto
ed oggetto.
Gadamer sottolinea la descrizione che, in "Essere e tempo", Heidegger fa del circolo
ermeneutico, il quale "non deve essere degradato a circolo vizioso perché in esso si
nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario". Il problema non è
quello di sbarazzarsi del circolo ma di acquistarne coscienza, mettendo alla prova i
pre-giudizi degli interpreti che devono dimostrarsi disponibili, di fronte all’"urto"
(all'incontro) con i testi, ad adeguare le loro pre-supposizioni. L'interprete deve
lasciarsi mettere in discussione dal testo, deve essere disposto a lasciarsi dire
qualcosa, essere cioè sensibile alla "alterità" del testo.
Con la teoria del circolo ermeneutico Gadamer compie una vera e propria
riabilitazione dei pregiudizi, dell'autorità e delle tradizioni culturali.
Chiarisce innanzitutto come i pregiudizi non siano qualcosa di necessariamente
falso, secondo la concezione negativa dapprima di Bacone (contro gli "idola") e poi
dell'Illuminismo, che ha influenzato tutta la cultura moderna giungendo in sostanza
ad instaurare un "pregiudizio contro il pregiudizio". Accanto a pregiudizi falsi e
illegittimi, dice Gadamer, esistono pregiudizi veri e legittimi. Di per sé pregiudizio
significa solo un giudizio pronunciato prima di un esame completo di tutti gli
elementi rilevanti. Pertanto pregiudizio non significa affatto giudizio sbagliato bensì
giudizio preliminare, che può verificarsi falso ma anche vero.
In secondo luogo, Gadamer evidenzia come i pregiudizi facciano parte
integrante della nostra natura di esseri sociali e storici: essi sono, cioè, i modi di
pre-vedere e pre-interpretare il mondo, che ognuno eredita dalla propria cultura e
dalla sua storia, al punto che un'ipotetica eliminazione dei pregiudizi coinciderebbe di
fatto con l'annullamento della nostra concreta coscienza (modo di vedere e di
interpretare) storica e culturale.
Gli illuministi distinguevano fra pregiudizi derivanti dal rispetto dell'autorità e
pregiudizi dovuti alla precipitazione. Essi, contro il rispetto acritico dell'autorità,
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Si è visto che per Gadamer compito dell'ermeneutica non è solo quello di fornire
un insieme di tecniche e di metodi per interpretare un testo, ma altresì quello di
elaborare una teoria in grado di spiegare quali sono le condizioni e le
caratteristiche del comprendere, che rendono cioè possibile la comprensione.
Gadamer elenca le seguenti cinque condizioni:
1. Il rapporto di lontananza/vicinanza fra interprete e testo interpretato.
L'interpretazione ermeneutica implica un rapporto che è sempre di lontananza e
insieme di vicinanza fra interprete ed interpretato. La lontananza è data dalla
"alterità" del testo, cioè dal fatto che il testo è qualcosa d'altro rispetto
all'interprete, sia per collocazione nello spazio e nel tempo, sia per il
linguaggio, il modo di pensare, ecc. La vicinanza è dovuta al fatto che
comunque interprete e interpretato fanno parte entrambi della medesima
tradizione culturale, del medesimo sviluppo storico. La distanza temporale
che separa l'interprete dal periodo di creazione del testo non è un ostacolo da
superare per la comprensione del testo; non si tratta di spogliarsi della propria
visione culturale (del proprio e attuale modo di pensare) per calarsi in quella
dell'epoca storica di produzione del testo e in quella del suo autore, come
ritiene lo storicismo. Anzi, un testo relativamente lontano in termini
cronologici ci consente una maggior comprensione perché siamo in grado di
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e supposizione; l'analisi del testo ci fornisce risposte spesso diverse dalle nostre
aspettative e supposizioni e ci induce quindi a porre nuove domande, nuovi
interrogativi, secondo un processo infinito in cui ogni risposta si trasforma in
una nuova e contrapposta domanda.
Contro Hegel, Gadamer esclude, in una concezione ermeneutico-filosofica sull'uomo
e sull'essere, la possibilità di un sapere assoluto, per Hegel invece raggiungibile al
termine del processo dialettico (quantunque circolare) in forma di acquisizione
dell'assoluta autocoscienza espressa dallo Spirito assoluto. I concetti di "coscienza
della determinazione storica" e di "fusione degli orizzonti", a causa dei rispettivi
processi continuamente mutevoli, escludono programmaticamente l'assolutezza del
sapere. Gadamer è d'accordo con Hegel sul fatto che ogni esperienza ermeneutico-
interpretativa sorge costitutivamente dall'incontro tra soggetto ed oggetto, ossia
dalla "fusione degli orizzonti", vale a dire dalla storicità del nostro essere, ma è
invece d'accordo con Kant nel riconoscere la finitudine (i limiti) del nostro sapere.
L'uomo non può mai trascendere (superare) i propri limiti e la propria storicità in
direzione di un sapere totale e concluso, poiché il nostro sapere storico-ermeneutico
è e rimane strutturalmente parziale e costitutivamente aperto sempre a nuovi saperi e
a nuove esperienze.
L'esperienza ermeneutica e di vita, in quanto tale, non può mai essere scienza
(contrapposizione tra verità e metodo), tantomeno le esperienze compiute, ancorché
ripetute e temporalmente confermate, possono diventare generalizzazioni, cioè
concetti stabili e universali, poiché l'esperienza rimanda sempre a nuove esperienze.
L'esperienza ermeneutica e di vita è un elemento costitutivo dell'esistenza che
appartiene all'essenza storica, cioè mutevole, dell'uomo. In questo senso l'autentica
esperienza è quella in cui l'uomo diventa cosciente della propria finitezza. L'idea che
tutto si possa modificare, annullare o generalizzare e dare per immutabile è pura
apparenza. È pura illusione pensare che ogni momento sia quello giusto per
qualunque cosa, che tutto in qualche modo ritorni. Chi sta e agisce nella storia fa
invece continuamente l'esperienza del fatto che nulla ritorna e che nessuno è padrone
del tempo e del futuro.
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Studia ed insegna Torino. Tra i suoi allievi si annoverano Gianni Vattimo e Umberto
Eco. È stato tra i primi in Italia ad occuparsi dell'esistenzialismo. Successivamente
svolge ricerche di estetica, di storia della filosofia e di teoretica.
Il pensiero di Pareyson parte da un ben preciso giudizio sull'esistenzialismo,
concepito come esito della dissoluzione della filosofia hegeliana e come ripresa di
interesse, dopo il suo affievolirsi col neopositivismo, per i problemi dell'uomo, sul
solco dei temi già affrontati da Feuerbach e Kierkegaard nella loro polemica contro
Hegel.
Pareyson tuttavia ritiene che la dissoluzione dell'hegelismo nell'esistenzialismo sia
rimasta impigliata nelle medesime categorie (concetti) di quel razionalismo
metafisico hegeliano di cui ha voluto essere la denuncia e l'antitesi. Da ciò
l'ambiguità costitutiva dell'esistenzialismo, antihegeliano ed hegeliano ad un tempo,
ed incapace quindi di un superamento definitivo dell'idealismo. Infatti
l'esistenzialismo, da un lato, ha voluto porsi, contro Hegel, come una rigorosa
filosofia del finito ovvero del finito di fronte all'infinito, ossia del finito che non si
risolve nell'infinito ma sta di fronte ad esso e ad esso tende: una filosofia dell'uomo
senza Dio o una filosofia dell'uomo di fronte a Dio. Ma, dall'altro lato,
l'esistenzialismo ha continuato a pensare il finito in termini negativi alla maniera di
Hegel: vale a dire che il finito di fronte all'infinito, cioè l'uomo di fronte a Dio, è
considerato peccatore, ma d’altro canto il finito concepito sufficiente a se stesso,
cioè l'uomo senza Dio, è considerato come manchevole e bisognoso. Insomma
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Insegna nei licei e poi all'università della Sorbona di Parigi, a Chicago e a Nanterre.
Nella sua formazione intervengono la fenomenologia di Husserl e l'esistenzialismo di
Jaspers e Marcel.
Il suo programma è di recuperare all'ermeneutica quel buon rapporto con la
scienza che Heidegger e Gadamer avevano pregiudicato: occorre definire la
"logica" dell'ermeneutica e chiarirne il rapporto con altre forme di conoscenza o di
esperienza. Lungo questa linea Ricoeur intende evidenziare la derivazione
dell'ermeneutica dalla fenomenologia. Heidegger infatti aveva tentato di
oltrepassare l'impostazione prevalentemente gnoseologica della fenomenologia in
una direzione ontologica e aveva interpretato la critica husserliana dell'oggettivismo
scientifico come rifiuto della stessa problematica scientifica. In questa direzione si
era mosso anche Gadamer. Ricoeur invece si propone di recuperare all'interno
dell'ermeneutica le tematiche gnoseologiche ma anche epistemologiche.
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delle diverse discipline scientifiche, secondo il principio che tra verità e metodo non
vi è, come per Gadamer, un'opposizione ma una implicazione reciproca, in quanto
per Ricoeur la considerazione dell'oggettività scientifica è un passaggio obbligato
nella comprensione del senso.
Di conseguenza, Ricoeur prende posizione nei confronti della psicanalisi e dello
strutturalismo, i quali sono perfettamente legittimi quando operano nell'ambito
proprio (quello delle strutture inconsce), mentre diventano insostenibili quando
pretendono di invadere il settore dell'ermeneutica. Tra modello strutturale e modello
ermeneutico esistono infatti profonde differenze, in quanto la spiegazione strutturale
si basa su di un sistema inconscio indipendentemente dall'osservatore, mentre
l'interpretazione di senso si basa su di un processo attivo di presa di coscienza da
parte dell'interprete rispetto al fondo simbolico.
Un'analoga funzione di "arbitraggio" è pure indicata da Ricoeur nei confronti del
dibattito circa l'ermeneutica e la critica dell'ideologia, nell'intento di salvare quelli
che per lui sono gli irrinunciabili nuclei di verità presenti nelle rispettive istanze
(prospettive, modi di giudicare): da una parte, l'ineludibile appartenenza alla storia
e alla tradizione (Gadamer); dall'altra, l'impegno critico che presuppone un distacco
dalla situazione storica (Habermas).
A partire dagli anni Settanta Ricoeur si è concentrato sulle problematiche del testo,
delle metafore e del linguaggio. Si oppone alla dottrina strutturalista del linguaggio,
come insieme chiuso e formalizzato di segni, a favore di una concezione della
complessità del parlare umano, in grado di spiegare gli aspetti "creativi" del
linguaggio, come in particolare nella metafora, che apre nuove dimensioni e nuovi
orizzonti di significato, scoprendo e producendo al tempo stesso nuovi aspetti della
realtà. Alla metafora Ricoeur assegna una funzione conoscitiva importante, vale a
dire la produzione di "innovazioni semantiche" (di nuovi significati).
Per Ricoeur il linguaggio è anzitutto "discorso", cioè "un dire qualcosa su qualcosa
a qualcuno", formula che intende riassumere la triplice apertura (prospettiva) del
discorso: verso il soggetto parlante, verso il mondo, verso gli altri. Ricoeur obietta
tanto a Gadamer quanto allo strutturalismo che "il linguaggio non è in se stesso
mondo, ma è assoggettato a un mondo, rinvia ad un mondo". Viene quindi respinto il
"panlinguismo" di tanta cultura contemporanea. La vocazione (l'interesse)
ontologica di Ricoeur nasce proprio dal bisogno di procedere oltre il panlinguismo
per ritrovare il rapporto dell'uomo con l'essere e la trascendenza: il linguaggio non è
mai in se stesso ma sempre su qualche cosa (il linguaggio non è fine a se stesso, ma
trascende, supera se stesso per riferirsi a qualche cosa d'altro). Ricoeur propone una
nuova ontologia che dovrebbe innanzitutto attuare il passaggio da una "prima"
rivoluzione copernicana, fondata sul moderno primato della soggettività, ad una
"seconda" rivoluzione copernicana, in grado di riportare la soggettività all'essere,
senza ritornare per questo ad un mondo di oggetti ma collocando la soggettività nelle
debite proporzioni (in rapporto) con l'essere. Il permanente interesse di Ricoeur per
l'essere del soggetto (e per le sue opere) non esclude ma implica il permanente
interesse per l'essere, all'interno del quale (il mondo) o in dipendenza del quale (il
sacro e la trascendenza) il soggetto si trova concretamente ad esistere. Ricoeur
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sviluppo in tal senso una "ermeneutica del sé", ossia una riflessione sul problema
dell'identità personale e sul suo costituirsi attraverso l'azione. È soprattutto
attraverso l'analisi dell'agire umano, quindi sulla base di una filosofia pratica, che
Ricoeur arriva a configurare la possibilità di una determinazione della persona
umana, non solo come mero soggetto agente ma anche nella prospettiva di
un'ontologia (di una concreta essenza) della persona.
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LO STRUTTURALISMO.
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Lévi-Strauss (1908-1991).
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domanda di una presenza o di una assenza. È prima di tutto una domanda d'amore, è
un appello rivolto all’"Altro" (alle altre persone o alle circostanze in cui ci si trova).
Tuttavia la domanda si presenta spesso mascherata dal bisogno. Chi non sa
riconoscere questo mascheramento risponde al bisogno ma non alla domanda. Così,
per esempio, quando un bambino chiede un dolce sembra che esprima un bisogno ma
spesso si tratta di una domanda d'amore. Il desiderio invece non è né una domanda
d'amore né un bisogno: è desiderio dell'altro, è desiderio di un altro desiderio,
desiderio di fare a riconoscere dall'altro il proprio desiderio.
Lacan conclude il suo pensiero con un lucido pessimismo: non ci sono ricette per la
vita. L'uomo è lacerato nella sua condizione e non c'è speranza di raggiungere una
teoria che assegni un posto preciso e definitivo a ciascuno degli elementi entro cui
l'uomo è lacerato.
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Le teorie filosofiche del Novecento sulla politica e sulla società si sono sviluppate
lungo quattro principali filoni di pensiero:
1. Il primo filone è rappresentato dagli sviluppi della filosofia marxista nelle due
espressioni di base del marxismo sovietico e del marxismo occidentale. Il
marxismo sovietico si concretizza come interpretazione del mondo alla luce
soprattutto dei principi della dialettica, definendosi essenzialmente come
materialismo dialettico. Il marxismo occidentale (Lukàcs, Korsch, Bloch,
Gramsci) abbandona ogni dialettica della natura e si rivolge esclusivamente al
mondo storico-sociale.
2. Il secondo filone è rappresentato dal variegato gruppo di filosofi, economisti,
giuristi, politologi e psicologi raccolti presso l'Istituto per la ricerca sociale di
Francoforte, dagli anni ‘20 fino agli anni ‘70, denominato con l'appellativo di
"Scuola di Francoforte", che sul piano filosofico elabora una complessiva
"teoria critica della società", la quale, contro la civiltà illuministica
dell'Occidente, di cui è parte integrante la dittatura dei media e dell'industria
culturale, persegue l'ideale dialettico di un'umanità futura libera e disalienata.
In tale ideale si sono rispecchiate le generazione del ‘68. La Scuola ha in
Horkheimer, Adorno e Marcuse i maggiori esponenti.
3. Il terzo filone è rappresentato da autori come Schmitt, Anna Arendt e Weil i
quali, in un periodo segnato dalla crisi delle democrazie e dall'avvento dei
totalitarismi, tornano a riflettere sui concetti fondamentali della convivenza
sociale e approdano a una ridefinizione del concetto di politica di cui si cerca
di mettere in luce i tratti peculiari e, con la Arendt, i punti di connessione col
mondo classico, visto come modello alternativo alle degenerazioni della
modernità.
4. Il quarto filone è rappresentato dalla rinascita tardonovecentesca della filosofia
politica che, reagendo alla concezione puramente descrittiva della filosofia
politica seguita dalle correnti d'ispirazione scientista e neopositivista (filosofia
ridotta a semplice analisi di tipo linguistico-concettuale) torna a proporre un
modello normativo di filosofia politica in grado di prendere posizione, ossia di
indicare non solo i mezzi e i modi ma anche i valori e gli scopi che devono
guidare la vita associata, dando vita ad un intenso dibattito sui grandi temi
della libertà e della giustizia, considerata quest'ultima come il prerequisito di
ogni società bene ordinata. Esponenti di questo filone sono il filosofo
americano Rawls, fautore di un liberalismo egualitario e pluralista, von
Hayek e Nozick, sostenitori di un liberalismo individualistico ed antistatalista,
e Mac Intyre, teorico di un comunitarismo solidaristico.
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Un criterio utile per seguire gli sviluppi della filosofia marxista nel Novecento è
quello di esaminare la storia delle Tre Internazionali Socialiste (organizzazioni
internazionali dei partiti di ispirazione socialista-comunista) che si sono succedute
nel tempo.
La Prima Internazionale (1864-1876) è stata fondata da Marx, è stata segnata dal
contrasto fra marxisti e anarchici seguaci di Bakunin e si è conclusa col
riconoscimento del marxismo come dottrina ufficiale del movimento operaio.
La Seconda Internazionale (1889-1917) svolge funzioni di dibattito sui problemi di
interesse comune (lo sciopero generale, la legislazione sul lavoro, il colonialismo, la
lotta contro la guerra e il militarismo capitalistico). Al suo interno si sviluppa un
importante dibattito di carattere ideologico che vede contrapposti i marxisti
ortodossi, capeggiati da Kautsky, e i marxisti revisionisti, rappresentati soprattutto da
Bernstein. Si conclude con la condanna della revisionismo, denunciato come eretico.
Lo scoppio della prima guerra mondiale pone in crisi la Seconda Internazionale, ove
la solidarietà di classe e il pacifismo internazionale non riescono ad imporsi
sull'emergere di interessi nazionali e nazionalistici.
La Terza Internazionale (1919-1943) ha come partito guida quello bolscevico. Sul
piano politico si pone l'obiettivo di creare una rete di partiti sul modello di quello
sovietico, fedeli alle direttive della Russia sovietica, con il riconoscimento della
leadership prima di Lenin e dopo di Stalin. Sul piano dottrinale si porta in primo
piano la tematica della dialettica (primato della struttura economica sulla
sovrastruttura e sviluppo della storia mediante la lotta di classe) contro le
interpretazioni positivistiche ed evoluzionistiche del marxismo da una parte e
revisionistiche dall'altra.
dialettica, che ha proclamato l'avvento del comunismo e della società senza classi
come una necessità storica anziché come un valore ideale di giustizia e di
uguaglianza. Contro il primato della struttura economica sostiene l'imprescindibilità
dell'etica: l'analisi economica ci dice come stanno le cose, ma sono i nostri ideali
etici che ci indicano come creare la società del futuro. La morale è una potenza
capace di svolgere una funzione creatrice. Rifiuta anche la dittatura del proletariato a
favore della tesi di uno Stato sempre più democratico. Esso non è considerato solo
un organo di oppressione ma, sotto l'influenza della grande maggioranza del popolo
per mezzo del suffragio universale, lo Stato può essere trasformato in senso
democratico.
Ai revisionisti si contrappongono e prevalgono gli ortodossi, che hanno in Karl
Kautsky (1854-1938) il principale teorico. Influenzato dal clima di trionfo delle
scienze naturali del positivismo, Kautsky, che studia a Vienna e poi si trasferisce a
Zurigo, interpreta Marx mediante categorie (concetti, tesi) di tipo naturalistico,
economicistico ed evoluzionistico, abbandonando peraltro la dialettica come residuo
dell'hegelismo per abbracciare una concezione darwiniana di evoluzione naturale-
sociale. La primaria importanza attribuita al fattore economico ed evoluzionistico-
sociale comporta una visione fatalistica della storia, secondo cui il passaggio dal
capitalismo al comunismo è considerato uno sbocco automatico ed inevitabile
dell'evoluzione della società in conseguenza delle contraddizioni del sistema
capitalistico, ingenerante una miseria operaia sempre più vasta (determinismo
positivistico). Contro Bernstein, Kautsky ribadisce la teoria marxista. Non nega
l'analisi di Bernstein ma ne rifiuta le conclusioni, sostenendo invece che proprio lo
sviluppo del capitalismo attraverso la ricerca di nuovi mercati con il colonialismo
conferma, piuttosto che smentire, le previsioni di Marx, nel senso che la disperata
ricerca di nuovi mercati ribadisce la crisi del capitalismo stesso e mostra l'acuirsi
delle sue contraddizioni interne. Conferma quindi l'ineluttabilità della rivoluzione
contro ogni riformismo. Ma, compiendo tal operazione, Kautsky rivede a sua volta
alcuni punti fondamentali della teoria marxiana: a proposto del rapporto fra struttura
e sovrastruttura, più che di primato della prima sulla seconda parla piuttosto di
continua e reciproca interazione; a proposito del materialismo dialettico, più che di
sviluppo dialettico parla piuttosto di interazione tra organismo e ambiente. In ciò
consiste il naturalismo o social-darwinismo di Kautsky: la storia dell'umanità non è
che un caso particolare della storia degli esseri viventi, però con leggi specifiche
connesse alle leggi generali della natura umana. La revisione del marxismo, di fatto
operata anche dall'ortodosso Kautsky, non è dunque di poco conto e sul piano
operativo tende a coincidere con quella di Bernstein. Dopo la conquista del potere in
Russia, anche Kautsky si contrappone a Lenin e al bolscevismo, accusato di aver
buttato a mare, per conservare il potere, i principi socialisti originari. Al bolscevismo
viene rimproverato di aver soppresso l'Assemblea nazionale, di aver reintrodotto il
lavoro a cottimo, di aver istituito una nuova oligarchia burocratica, di aver dato vita a
una tirannia sanguinosa, con soppressione della libertà di stampa e di opinione. Alla
tirannia dello zar è stata sostituita la dittatura non del proletariato ma di un gruppo (i
capi del partito comunista).
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L'Austromarxismo.
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altro che il riflesso delle cose. Critica anche i cosiddetti "costruttori di Dio", che
pensavano di innestare il marxismo scientifico su di un misticismo religioso.
Nell'ultimo periodo di vita si distanzia dal partito giacobino e dittatoriale di Lenin e
rifiuta anche la "Rivoluzione di ottobre", che vede come un colpo di mano in una
situazione ancora non matura. Per tale motivo Plechanov viene accusato di
tradimento dalla maggioranza dei bolscevichi.
sociali ed è lo strumento del dominio di una classe sull'altra. Nel passaggio dal
capitalismo al comunismo, costituito dal periodo della dittatura del proletariato, lo
Stato si fa strumento della classe proletaria, nel senso che la maggioranza degli
oppressi reprime la minoranza degli oppressori. Instaurato il comunismo, lo Stato si
avvia a diventare inutile e tende a scomparire, giacché il comunismo elimina
l'occasione stessa dei delitti e i reati individuali che potrebbero residualmente
verificarsi verrebbero repressi dagli stessi cittadini. Ciò in teoria, perché in pratica è
accaduto che il regime dittatoriale non venisse mai superato e che pure la
socializzazione dei mezzi di produzione e la scomparsa delle classi sociali non
venisse realizzata in quanto non si è mai oltrepassata la fase della statalizzazione dei
mezzi di produzione; quindi non è mai stato superato il regime statuale ed al posto
della classe borghese dominante si è sostituito il dominio del ceto burocratico e
quello dei quadri e dei dirigenti del partito sul proletariato.
Peraltro, nella dialettica della storia e a proposito dell'inevitabile avvento del
comunismo Lenin introduce, contro la tesi di uno sviluppo spontaneo, un elemento
volontaristico portato dall'esterno dello stesso proletariato. Nel 1902 Lenin pubblica
l'opera "Che fare", che è l'atto di nascita del bolscevismo. Da una parte egli attacca il
revisionismo, definito nient'altro che opportunismo e, dall'altra, contesta i teorici
della spontaneità rivoluzionaria della classe operaia. Costoro, seguaci ortodossi
del materialismo storico di Marx, riducevano la politica a riflesso e a derivato
dell'economia e pertanto sostenevano che la coscienza di classe e la rivoluzione
sarebbero state un prodotto spontaneo e automatico dello sviluppo del capitalismo e
delle sue contraddizioni. Ma Lenin afferma che il proletariato non è in grado da
solo di maturare una seria coscienza rivoluzionaria; da solo giunge unicamente a
delle rivendicazioni, non alla rivoluzione. Di conseguenza, la coscienza politica può
essere portata all'operaio solo dall'esterno della lotta economica tra operai e padroni;
in particolare può essere portata dagli intellettuali borghesi progressisti, come Marx
ed Engels, consapevoli del fine supremo della società comunista a cui tende
l'umanità. In questa teoria Lenin rivede il marxismo classico di Marx ed Engels,
secondo cui, essendo ogni pensiero, e quindi ogni concezione politica, frutto di
precisi interessi di classe, dovrebbe essere impossibile che intellettuali borghesi si
mettano a capo della classe operaia. Per Lenin invece il proletariato deve avere
una guida per abbattere la borghesia e questa guida è il Partito comunista, ossia una
élite intellettuale la cui professione sia l'azione rivoluzionaria. Il partito è
l'avanguardia armata del proletariato ed esso non può essere messo in discussione. Il
marxismo è posto come ideologia ufficiale del partito comunista, di per sé sottratta ad
ogni forma di critica. Assume in tal senso la veste di dogmatismo ideologico, una
specie di teologia laica assolutamente vincolante.
Plechanov ebbe a dire che se tale centralismo fosse stato realizzato la conseguenza
sarebbe stata "un uomo che avrebbe concentrato in se tutti i poteri". Anche Trotskij
aveva affermato che "il Partito sarebbe stato sostituito dall'organizzazione,
l'organizzazione dal Comitato centrale e il Comitato centrale dal dittatore". Tali
profezie si sono in effetti avverate. Con l'avvento al potere di Stalin vengono
condannati tutti i "deviazionisti" che non accettano il marxismo-leninismo integrale.
Già comandante dell'armata Rossa, scrive nell'ultimo periodo della vita l'opera "La
rivoluzione tradita", pronunciandosi a favore di un maggior pluralismo nel partito e di
una minor burocratizzazione nello Stato. Su mandato di Stalin viene assassinato in
Messico dove si era rifugiato.
Trotskij, contro la giustificazione staliniana dell'instaurazione del comunismo in un
solo paese, sostiene l'esigenza di una rivoluzione permanente che non si esaurisca
nella costituzione di un singolo Stato comunista. Dichiara pertanto l'impossibilità di
accettare la trasformazione del comunismo in nazionalismo dello Stato comunista.
Si tratta di una forma di marxismo indipendente sia dalla socialdemocrazia che dal
comunismo sovietico. È opera di intellettuali al di fuori dei partiti.
Se il materialismo sovietico costituisce un'interpretazione del marxismo più vicina
alla concezione dialettica di Engels, il marxismo occidentale costituisce
un'interpretazione più vicina alla concezione dialettica di Hegel: è lasciata cadere
ogni dialettica della natura per rivolgersi esclusivamente al mondo storico-sociale.
Nasce in Ungheria, emigra nell'Unione Sovietica e nel 1949 torna in Ungheria. Dopo
la morte di Stalin è tra i promotori della destalinizzazione. Con l'invasione
dell'Ungheria nel 1956 viene deportato in Romania. È indotto ad una pubblica
autocritica. Rientrato in Ungheria, vive isolato fino alla morte.
Opere principali: Storia e coscienza di classe; La distruzione della ragione; L'estetica.
Lukàcs vuole recuperare il marxismo ortodosso che però, a suo avviso, non significa
accettazione acritica dei risultati teorici della ricerca marxiana, non significa un "atto
di fede". L'ortodossia che Lukàcs intende affermare si riferisce invece al metodo (il
marxismo è concepito essenzialmente come metodo dialettico), nella convinzione
che nel marxismo dialettico sia stato scoperto il corretto metodo di ricerca per
comprendere la storia umana. Il metodo dialettico ci proibisce di guardare a fatti
isolati e non connessi in una totalità, come invece è concepito dalla scienza
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Come Lukàcs, valorizza sia la categoria della totalità, sia la dialettica hegeliana come
metodo piuttosto che come teoria. Il marxismo costituisce un'analisi globale del
mondo borghese nella totalità delle sue manifestazioni, delle sue strutture
economiche, delle sue istituzioni politiche e delle sue forme di coscienza (economia,
filosofia, storia, dottrina del diritto e teoria dello Stato: nessuno di questi campi è da
considerare separatamente). Conseguentemente il marxismo si presenta come
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Il marxismo teorico italiano sorge solo negli ultimi anni dell'Ottocento per la
preesistente egemonia del neoidealismo di Croce e di Gentile da un lato e del
positivismo dall'altro. Inoltre il giovane Stato liberale italiano si è sempre mostrato
ostile alla diffusione delle teorie marxiste. Ciò nonostante la filosofia marxista riesce
ad introdursi negli ambienti universitari in seguito all'opera di Antonio Labriola,
allievo di Bertrando Spaventa e docente di filosofia presso l'università di Roma,
convertito al marxismo dopo una sua iniziale adesione all'hegelismo.
sostiene che la storia è fatta dagli uomini e che gli uomini non sono solo natura ma
producono cultura. Pertanto, pur accettando il metodo scientifico, il divenire storico
non è un automatismo naturalistico ma si sviluppa secondo proprie peculiarità in base
al tipo di relazioni sociali e culturali ed ai rapporti di lavoro. Del positivismo Labriola
rifiuta la visione materialistica dell'universo, affermando che lo stesso concetto di
materia è di tipo metafisico, intendendo per materia il sostrato ultimo (l’essenza) dei
fenomeni. La cultura non è natura ma è storia, anche se i due momenti si intrecciano
continuamente.
Contro l'idealismo Labriola, conformemente alla teoria marxista, afferma che "le
idee non cascano dal cielo" e che le cose non sono il mero derivato del pensiero. Le
idee invece sono connesse a determinate situazioni socio-politiche. Ma ciò non
significa considerare la sovrastruttura come dipendente dalla struttura
economica. È indiscusso il principio per cui non è la coscienza che determina la vita
ma sono le condizioni dell'esistenza che determinano la coscienza. Tuttavia le forme
della coscienza sono anch'esse storia. La sovrastruttura non deriva meccanicamente
dalla struttura ma vi è reciproca interazione. Il materialismo storico, in questo
senso, non pretende di essere verità assoluta ma piuttosto metodo di ricerca, in base al
quale ricercare in ogni fatto storico anche le fondamentali cause economiche.
È il maggior esponente del marxismo italiano. Nasce ad Ales (Cagliari). Nel 1919
fonda, insieme a Palmiro Togliatti, il giornale "Ordine nuovo". Nel 1921,
insoddisfatto del partito socialista, è tra i fondatori del Partito comunista italiano.
Inviato a Mosca, a partecipare ai lavori dell'Internazionale, conosce Lenin. Nel 1924
diventa direttore dell’"Unità". E’ condannato dal fascismo, nel 1928, a vent'anni di
carcere. Scarcerato nel 1937 per gravi motivi di salute, muore una settimana dopo.
Opere principali: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce; Quaderni
dal carcere.
Due sono gli scopi principali della sua attività: diffondere il marxismo in Italia
contro gli altri indirizzi filosofici prevalenti; analizzare i modi e le forme in cui può
avvenire la conquista del potere in Italia.
Ai fini della diffusione del marxismo polemizza contro il positivismo e il
naturalismo proclamando, come Labriola, che il marxismo è un sapere sociale non
riducibile a quello naturale. Ma polemizza soprattutto contro il neo-idealismo di
Croce, indirizzo filosofico allora prevalente. Riconosce a Croce il merito di aver
sottolineato il carattere storico, anziché astratto-concettuale, della realtà, e
specialmente del divenire sociale, nonché di aver combattuto contro le concezioni
metafisiche teologiche e trascendenti. Ma accusa Croce di non aver condotto sino in
fondo la lotta contro la religione e la metafisica poiché il suo concetto di "Spirito"
richiama ancora la vecchia figura di Dio e un'idea di trascendenza alla base dello
sviluppo della storia. Per Gramsci la storia è invece una vicenda assolutamente
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È una corrente di pensiero nata a partire dal 1922 presso il celebre Istituto per la
ricerca sociale di Francoforte e che ha come principali esponenti Horkheimer,
Adorno, Marcuse, Erich Fromm, Walter Benjamin e, in parte, Jurgen Habermas
quale erede più significativo della Scuola (che sarà trattato in un paragrafo
successivo). Con l'avvento del nazismo il gruppo è stato costretto ad emigrare, prima
a Ginevra, poi a Parigi e infine a New York. Con la caduta di Hitler parte degli
esponenti rientra in Germania.
Obiettivo programmatico è stata l'elaborazione di una teoria critica della società,
quella capitalistica ed industriale avanzata, secondo l'ideale rivoluzionario di
un'umanità futura libera e disalienata, sviluppando quindi una forma di pensiero
negativo (cioè critico), volto a smascherare le fondamentali contraddizioni sociali
sussistenti e proponendo un modello utopico in grado di fungere da pungolo
rivoluzionario per un mutamento radicale della società industriale, caratterizzata da
crescente autoritarismo, conformismo e alienazione. A questo modello si è ispirata la
contestazione giovanile del 1968.
Il pensiero della Scuola, oltre che da Nietzsche e Heidegger (nichilismo e
fenomenologia), è altresì influenzato da Hegel, Marx e Freud. Da Hegel e Marx
deriva l'impostazione assunta di un'analisi critica della società secondo un
principio dialettico e totalizzante: dialettico perché intesa ad evidenziare le
contraddizioni intrinseche della società industriale e totalizzante perché, nel
respingere un approccio di analisi sociale statistico-descrittivo, l'intento è di mettere
in discussione la società nella sua globalità e nella totalità non settoriale delle
interazioni, al fine di non limitarsi a descrivere come la società è ma pronunciarsi su
come dovrebbe essere. Da Freud assume (specialmente Marcuse) gli strumenti
analitici per lo studio della personalità e dei meccanismi di "introiezione"
dell'autorità (di condizionamento e subordinazione all'autorità) che
contraddistinguono l'individuo nella società di massa. Dalla psicoanalisi la Scuola
ricava anche i concetti di "ricerca del piacere" e di "libido", che interpreta come
istinti creativi che devono essere liberati dalle imposizioni autoritarie della società di
classe capitalistica. La famiglia è concepita (e criticata) come luogo privilegiato
per l'assimilazione (per l'accettazione) del principio di autorità e per la diffusione
di un consenso sociale conformistico.
I fattori storico-sociali che stanno alla base dell'origine e degli sviluppi della
Scuola di Francoforte sono individuabili nell'avvento del nazismo e del fascismo,
che stimolano analisi critiche sull'autoritarismo, nel trionfo della società tecnologica
opulenta, che favorisce originali riflessioni sul consumismo, sull'industria culturale e
sull'individuo etero-diretto (condizionato da pressioni esterne), nonché
nell'affermazione del comunismo sovietico, visto come esempio negativo di
"rivoluzione fallita" e di altra faccia del capitalismo sotto forma di capitalismo di
Stato.
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MAX HORKHEIMER(1895-1973).
La società autoritaria.
Horkheimer esamina il concetto di razionalità che sta alla base del mondo
moderno e della civiltà industriale. Egli distingue tra una ragione oggettiva e una
ragione soggettiva. La prima è quella dei grandi sistemi filosofici (Platone,
Aristotele, la Scolastica, l'Idealismo), volta all'elaborazione di principi, di fini, di
ideali posti a fondamento della realtà e che fungono da criteri del nostro conoscere e
del nostro agire. La seconda è quella che si rifiuta di riconoscere uno scopo ultimo
nella realtà nonché di valutare i fini dell'azione, limitandosi unicamente a determinare
gli strumenti e i mezzi più efficienti per raggiungere i più diversi e qualsiasi fini,
senza più riflettere sugli stessi.
Questa ragione soggettiva e strumentale si è sviluppata soprattutto nella società
moderna, col crescente distacco dell'uomo dalla natura, ed è diventata una
caratteristica non contingente, provvisoria e storicamente delimitata, bensì strutturale
e costante della civiltà moderna, non solo borghese ma anche sovietica. È nata dal
bisogno umano di dominare la natura e, per assoggettarla, ha richiesto l'impianto di
una organizzazione burocratica e impersonale che è giunta a ridurre l'uomo a
semplice strumento per una manipolazione della natura fine a se stessa. La scienza e
il progresso tecnologico mettono a disposizione di tutti oggetti e beni dapprima non
immaginabili, ma per contro è diminuita l'autonomia dell'individuo, la forza della sua
immaginazione e la sua indipendenza di giudizio. Ne consegue un processo di
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La dialettica dell'illuminismo.
I motivi che spiegano l'eclisse della ragione stanno alla base della celebre opera
"Dialettica dell'illuminismo". Qui per Illuminismo non viene inteso soltanto quel
movimento di pensiero che ha caratterizzato il Settecento. Viene inteso piuttosto
come linea di pensiero e percorso della ragione che, partendo già da Senofane e
poi soprattutto con Cartesio e Bacone, ha preteso di razionalizzare il mondo al
solo fine di renderlo manipolabile e sfruttabile, nell'obiettivo di togliere all'uomo
la paura e di renderlo padrone. Ma questo tipo di illuminismo va incontro
all'autodistruzione perché è rimasto paralizzato dalla paura della verità. In esso
è prevalsa l'idea che il sapere è tecnica anziché critica. Quel che importa non è la
verità delle teorie ma la loro funzionalità. La pretesa di accrescere sempre di più il
potere sulla natura e la separazione dell'uomo dalla natura hanno determinato il
prevalere dell'apparato tecnico e la perdita dell'autonomia del singolo individuo.
L'uomo è diventato un ingranaggio del sistema di cui sfruttare le capacità senza
nessuna gratificazione a livello personale. L'illuminismo prometteva libertà e
autonomia per l'uomo, liberato dai dogmi e dalle credenze della metafisica e della
religione, ma in realtà ha dato origine a nuove religioni, ai nuovi miti della scienza,
del progresso tecnologico, dell'efficienza, senza porsi il problema della felicità
umana. Da ciò il ribaltamento filosofico, ossia dialettico, dell'illuminismo: la
ragione produce ciò che inizialmente aveva negato, vale a dire il mito della tecnica,
l'accettazione passiva della realtà e infine la rinuncia alla razionalità stessa. La
volontà di un crescente dominio sulla natura si è rovesciata in un progressivo
dominio dell'uomo sull'uomo e in un generale asservimento dell'individuo
all'apparato tecnico e al sistema sociale. Di fronte alle potenze economiche il singolo
è ridotto a zero.
Simbolo della rovesciamento dialettico della ragione (da dominio sulla natura a
dominio sull'uomo) è Ulisse che, facendosi legare all'albero della nave e tappando le
orecchie con la cera, rifiuta di prestare ascolto e di accogliere i richiami al piacere e
alla felicità delle sirene. Prezzo del decadimento della razionalità è non solo la libertà
ma anche la felicità.
Il passaggio dalla ragione oggettiva alla ragione soggettiva non è avvenuto per caso,
commenta Horkheimer, e se ciò è accaduto significa che le filosofie della ragione
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oggettiva avevano fondamenta troppo deboli. Oggi sono ormai solo "filosofie di
servizio". Nemmeno l'arte e la letteratura riescono a cogliere e a dare significato alla
realtà. Un tempo l'arte, la letteratura e la filosofia si sforzavano di esprimere il
significato delle cose e della vita. Oggi alla natura è stata tolta la facoltà di parlare e
la cultura della società industriale tace sui fini e, con ciò, sulle questioni che per un
uomo sono le più importanti.
In questa situazione di perdita della libertà di pensiero e di azione individuale,
anche a causa dell'industria culturale, diventa di nuovo fondamentale il ruolo della
filosofia, non come "sistema" ma come denuncia di ciò che viene comunemente
chiamata ragione, per tornare ad una ragione intesa come attività critica che
smascheri le illusioni e gli inganni della società industriale.
La dialettica negativa.
la stessa dialettica, vale a dire la filosofia che deve perciò criticare anche se stessa e
divenire così autocritica.
L'industria culturale.
Poiché valente critico letterario e musicologo, Adorno si è distinto anche nel campo
dell'estetica. Egli ritiene che l'arte contemporanea possa svolgere un'importante
funzione culturale e sociale per un duplice motivo:
1. l'arte contemporanea, avendo rotto i canoni classici della bellezza intesa come
armonia e perfezione, per esaltare invece i contrasti nonché raffigurazioni
astratte ed espressionistiche, svolge un ruolo di testimonianza della
disarmonia, delle contraddizioni e della frammentarietà del nostro mondo e
della società moderna, a conferma della tesi della dialettica negativa
concernente l'inconciliabilità degli opposti in una sintesi risolutrice;
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diminuzione delle ore di lavoro e l'aumento del tempo libero e, pertanto, un recupero
della libertà, della creatività e della finale trasformazione del lavoro in gioco, in una
nuova esistenza ri-orientata verso la felicità dell'eros liberato.
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Per secoli, afferma Fromm, gli uomini al potere hanno proclamato l'obbedienza
una virtù e la disobbedienza un vizio. Ma la storia dell'uomo è cominciata con
un atto di disobbedienza ed è tutt'altro che probabile che si concluda con un atto di
obbedienza. Adamo ed Eva stavano dentro la natura. Il loro atto di disobbedienza ha
scisso il legame originario con la natura e li ha resi individui: il peccato originale,
lungi dal corrompere l'uomo, lo ha anzi reso libero; esso è stato l'inizio della sua
storia. L'uomo ha dovuto abbandonare il paradiso terrestre per imparare a dipendere
dalle proprie forze e diventare pienamente umano. E l'uomo ha continuato ad
evolversi mediante atti di disobbedienza contro i tentativi delle autorità volti a
reprimere nuove idee e ogni cambiamento. La capacità di disobbedire è pertanto la
condizione della libertà: "Se ho paura della libertà non posso avere il coraggio di
disobbedire". Quel che spaventa è il mondo contemporaneo, sia quello occidentale
ma anche quello sovietico, uniformemente coalizzato nel progetto di avversare la
capacità di disobbedire. "I leaders sovietici fanno un gran parlare di rivoluzione e
noi, nel "mondo libero", di libertà. Ma sia essi che noi scoraggiamo la
disobbedienza; nell'Unione Sovietica esplicitamente, con il ricorso alla forza, nel
mondo libero implicitamente, con i sottili metodi della persuasione".
Avere o essere?
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"virtù" e della "felicità" riposta nella saggezza, e Kant, il filosofo del dovere e
dell'imperativo categorico.
Il neoaristotelismo è caratterizzato dalla ripresa della nozione aristotelica di
saggezza, intesa come un sapere pratico che si identifica con l'agire morale. È un
sapere che non si riferisce solo al comportamento individuale ma anche a quello
collettivo. Da ciò l'intreccio fra etica e politica: l'etica è concepita come spazio di vita
che ricomprende non solo gli usi, i costumi e le consuetudini sviluppatisi nella storia,
ma altresì le istituzioni che li sorreggono: la famiglia, gli amici, la comunità, le
cerimonie, la polis, lo Stato. L'originalità di Aristotele sta appunto nell'aver concepito
la vita morale in modo storico e concreto, a differenza di Platone che fondava la sua
Repubblica su principi scollegati alle consuetudini della città, nonché a differenza dei
moderni che separano la morale dalle istituzioni concrete della società. Ad Aristotele
va riconosciuto il merito di ricordarci che la ragione pratica (la morale) vive solo
all'interno di un mondo di consuetudini già precostituite. La sua filosofia può quindi
funzionare come una sorta di salutare antidoto contro il ripiegamento moderno nella
soggettività. Esponenti più noti del neoaristotelismo sono Anna Arendt, che per
taluni versi l'ha anticipato, e poi Gadamer, Ritter, Hoffe, Bubner in Germania
nonché Mac Intyre e Jonas fuori Germania.
Il postkantismo consiste in una riabilitazione e nuova valorizzazione di Kant,
indirizzata a scorgere nel "criticismo" kantiano un modello di razionalità pratica
tuttora valido, sia in alternativa ad Aristotele che in combinazione con esso. Tuttavia
a differenza dei neoaristotelici, che insistono sul fondamento storico-concreto della
morale, e perciò evolventesi nel tempo, i postkantiani hanno elaborato un'etica ideale
del dovere che, nei suoi criteri e principi di fondo, pretende di valere per tutti gli
uomini e per tutte le circostanze.
Di conseguenza il dibattito tra neoaristotelici e postkantiani ha preso la forma di un
dibattito tra "contestualisti" e "universalisti", ossia fra coloro che, da un lato,
considerano l'etica storicamente determinata ed evolventesi nel tempo secondo
mutevoli forme di vita (siano esse quelle della polis, dello Stato, o di una particolare
comunità sociale o religiosa) e coloro che, dall'altro lato, difendono la necessità di
un'etica che non si limiti a rispecchiare le visioni e i valori di una determinata cultura
o epoca ma che valga universalmente. Esponenti principali del postkantismo sono,
con la loro etica del discorso-dialogo intersoggettivo, Apel e Habermas.
Prediligendo il modello kantiano, essi teorizzano un'etica della comunicazione che
scorge nelle regole del discorso praticato dagli interlocutori (giustezza, verità,
veridicità-sincerità, comprensibilità), cui è attribuita una valenza universale, le regole
stesse di una società ideale in grado di fungere da modello della società reale. Tale
etica della comunicazione viene identificata come presupposto di democratica
convivenza costituita da uomini liberi e uguali che discutono fra loro intorno a
questioni di interesse comune, nella prospettiva di una "macroetica planetaria" (Apel)
che, procedendo al di là delle differenze locali di religione e costumi, sappia unire i
popoli in una comunità mondiale ispirata agli ideali del dialogo e della pace. In tali
ideali Apel e Habermas scorgono una tipica eredità moderna da salvaguardare. Da ciò
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la polemica contro i postmoderni e l'idea secondo cui il progetto che sta alla base del
mondo moderno non sarebbe fallito ma soltanto incompiuto.
In senso filosofico, il concetto di postmoderno è entrato in circolazione alla fine
degli anni Settanta del Novecento ed è stato adoperato per indicare quella specifica
corrente filosofica (Lyotard e Vattimo) secondo cui la modernità, nei suoi tratti
essenziali, sarebbe finita. Alle idee-madri della modernità (vale a dire: credere in
visioni onnicomprensive del mondo, come l'idealismo, il marxismo, ecc.; pensare in
termini di innovazione e superamento, nella convinzione che ciò che è nuovo è
migliore di ciò che è vecchio e superato; concepire la storia come progresso ed
emancipazione; concepire l'uomo come dominatore della natura con la connessa
esaltazione della scienza e della tecnica) e al monismo filosofico che assorbe e
appiattisce le diversità (monismo=alla base della realtà vi è un unico complessivo
principio), i postmoderni contrappongono una costellazione di idee alternative,
ossia: la sfiducia nei "grandi racconti" (come quelli dell’idealismo, dell’illuminismo,
del marxismo); il rifiuto dell'enfasi (del culto) del nuovo; l'abbandono dell'idea di
progresso necessario e la condanna della mentalità scientista (di esclusiva esaltazione
della scienza); la predilizione della molteplicità e per una serie di pratiche incentrate
sulla differenza e sulla frammentazione (sulla variabilità e relatività delle situazioni).
Per quanto concerne la dimensione etica, i postmoderni, contro l'idea della modernità
concernente l'esistenza di valori universali, si sforzano di far valere invece i diritti
della pluralità e della differenza tra i valori e, quindi, della tolleranza.
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Insieme con Karl Otto Apel concorre alla cosiddetta "svolta pratica" della
filosofia, ossia ad un'impostazione filosofica non esclusivamente teoretico-
conoscitiva ma innanzitutto pratico-normativa, in grado cioè di fornire orientamenti,
criteri e regole di condotta nel campo dell'agire umano.
In una prima fase aderisce alla Scuola di Francoforte e al suo programma neo-
marxista di una teoria critica della società. Negli anni ‘70 del Novecento cambia
impostazione e si orienta verso la cosiddetta "etica del discorso", o della
comunicazione, ossia verso una filosofia pratica e normativa, fondata sull'idea della
validità razionale della comunicazione e del dialogo intersoggettivo.
In tale ambito studia il rapporto fra teoria o riflessione filosofica e prassi politica-
sociale. Contro l'illusione di una scienza neutrale e oggettiva, cioè avalutativa, ivi
comprese le scienze sociali e la sociologia empirica, Habermas sostiene invece che vi
è sempre una connessione tra conoscenza ed interesse, ossia che non esiste un
conoscere puro, la conoscenza per la conoscenza. L'idea di una conoscenza pura è
un atteggiamento "ideologico" in senso marxiano, in quanto nasconde il fatto che
il conoscere è sempre rivolto a ciò che ci sta più a cuore, che ci interessa di più.
Habermas distingue tre tipi di conoscenze-interessi:
1. le scienze empirico-analitiche, che hanno interessi conoscitivi teorici;
2. le scienze storico-ermeneutiche, che hanno interessi pratici, di tipo
interpretativo-comprendente;
3. le scienze ad orientamento critico, ove prevale un interesse emancipativo, di
liberazione individuale e sociale dai condizionamenti della società.
Si sviluppa di conseguenza una controversia tra la concezione razionalistico-critica di
Popper, più propenso a credere nell'oggettività della scienza, ed il razionalismo
pratico sostenuto da Habermas. Habermas in particolare critica l'impostazione
esclusivamente scientifico-empirica, e cioè teoretica, che taluni hanno voluto
dare anche alle scienze sociali come nelle scienze naturali. Ciò significa rifiutare
l'idea che le scienze sociali possono offrire anche orientamenti pratico-critico-
emancipativi e concepire invece un'idea di scienza sociale ridotta a scienza dei
mezzi per raggiungere predeterminati fini che le restano estranei, considerati come
opzioni extrarazionali.
Habermas distingue fra giudizi (proposizioni) scientifici, che costituiscono la
conoscenza, e giudizi valutativi, che si fondano sulla connessione fra teoria e prassi
in una visione di centralità della politica. La scienza, prosegue Habermas, non può
risolvere i problemi pratici, che si riferiscono invece a questioni di senso e di
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valore. Ma in ogni caso i problemi pratici non possono essere eliminati dalla
conoscenza e sottratti alla discussione razionale. Va superata la limitazione
positivistica imposta alle scienze sociali, da indirizzare invece anche a compiti di
guida normativa con l'aiuto di un'analisi storica globale. Pure i problemi pratici
richiedono una guida teoretica che indichi soluzioni, anche rivoluzionarie, di
cambiamento; essi richiedono però non solo prognosi (spiegazioni) ma anche
programmi. Fini e mezzi non sono separabili, a differenza di quanto ritengono i
pensatori analitici. Per il filosofo analitico, infatti, se mezzi e fini non sono separati
consegue una inderivabilità (indistinzione) logica delle prescrizioni dalle descrizioni.
Pure Habermas ritiene insuperabile tale inderivabilità sul piano logico-teoretico ma
non su quello della prassi, della decisione e della scelta politica.
Habermas insomma ritiene ancora valida la tesi di fondo sostenuta da Kant nella
sua "Critica della ragion pratica", la quale non va perciò abbandonata ma semmai
adeguata, secondo cui l'etica, ossia la condotta pratica, morale, non è relativa,
variabile da individuo a individuo e da epoca storica ad epoca storica, ma è invece
basata su di un principio (l'imperativo categorico del dovere per il dovere) che ha
valore universale, fondamentalmente valido per ogni individuo e in ogni epoca. In
effetti Habermas è uno dei maggiori esponenti della cosiddetta corrente
postkantiana, che vuole recuperare e salvare i valori dell'Illuminismo (il valore
della ragione, dell'analisi critica dei problemi e delle situazioni, la fiducia nel
progresso) contro il relativismo e il nichilismo del pensiero contemporaneo, per il
quale ogni verità è relativa o addirittura non vi è alcuna verità (nichilismo).
Ne deriva una polemica di fondo contro la concezione contemporanea del
sapere, che ha finito col prevalere, ossia contro quel modo di pensare che:
1. riduce la ragione, la razionalità, solo a quella di tipo scientifico e nega
l'esistenza di altre forme di razionalità, quale una razionalità pratica, capace di
indicare norme di condotta morale, individuali e sociali, razionalmente fondate
e condivisibili;
2. considera i valori e gli scopi dell'agire come scelte extrarazionali,
esclusivamente emotive o di interesse;
3. riduce la filosofia a semplice analisi descrittiva e avalutativa del linguaggio e
dei comportamenti etici, politici, giuridici, ecc., negando che essa possa
ancora insegnare e prescrivere valori ed orientamenti socialmente ed
individualmente validi;
4. tende a separare la sfera etica da quella politica, cosicché la politica degenera
in tecnica del potere per il potere anziché perseguire il bene comune.
Habermas per contro, e con lui i fautori della riabilitazione pratica della filosofia,
sostiene:
1. che l'ambito della ragione non si riduce a quello della scienza o della teoria (il
conoscere per il conoscere) ma ricomprende anche la prassi;
2. che gli scopi e i valori etico-politici non sono da considerare semplici
preferenze e scelte soggettive, ma possono venire razionalmente argomentati
(fatti oggetto di ragionamenti convincenti);
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Ragione ed emancipazione.
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ha saputo comprendere, per parte sua, le novità principali delle forme successive
di capitalismo, consistenti nell'intervento diretto dello Stato nell'economia e
nell'attività produttiva nonché nella compenetrazione di scienza e tecnica. Si è così
modificato il rapporto tra sistema economico e sistema di potere politico:
intervenendo direttamente nella produzione economica, lo Stato e la politica non
sono più elementi sovrastrutturali rispetto alla struttura economica, come invece
originariamente concepiti da Marx. Inoltre scienza e tecnica non sono più
separate, ma sono pervenute ad uno stretto collegamento e rappresentano il
principale elemento produttivo al posto del lavoro umano: la maggior parte
dell'attività produttiva è infatti svolta dalle macchine più che dagli uomini. Sono
venute meno quindi le condizioni che, al tempo di Marx, facevano del lavoro umano
l'elemento produttivo prevalente e facevano della lotta di classe il prevalente fattore
di mutamento e rivoluzione sociale. L'intervento dello Stato nell'economia
capitalistica blocca, secondo Habermas, il conflitto di classe, poiché ha
comportato una serie di leggi e di regole a difesa dei lavoratori e dei salari che
hanno reso più sopportabili e meno dure le loro condizioni di vita. Restano
emarginate in condizioni insopportabili non più la classe lavoratrice bensì le
cosiddette "sottoclassi", costituite dai sottoproletari disoccupati e dalle minoranze
razziali.
Quanto alla tematica della reificazione (il lavoro umano ridotto a cosa e
considerato come semplice merce che si vende e si compra anziché come creatività
e realizzazione umana), così cara al marxismo occidentale di Lukàcs fino ad
Adorno, non è espresso da Habermas un giudizio negativo sul capitalismo
relativamente alla maggiore ricchezza e maggior benessere prodotti. Certo, ha
comportato un enorme dissoluzione delle forme di vita tradizionali, ma il punto
centrale è un altro. Oggi la società come sistema (l'economia, la politica, l'apparato
dello Stato) interviene sempre di più in ambiti che non sono più soltanto quelli delle
attività economico-produttive bensì quelli della cultura, della mentalità, dei modi di
pensare. Invade sempre più la società come mondo della vita per assicurarsi un
maggior controllo sociale mediante la diffusione, grazie ai mezzi di comunicazione
di massa, di valori, di norme, di costumi e di mode funzionali al sistema politico-
economico dominante e comportando in tal modo risultati di maggior
massificazione, burocratizzazione, conformismo e consumismo nella società
civile, che diventa così sempre più colonizzata dalla società come sistema. Il
conflitto principale del nostro tempo, allora, non è più un conflitto di classe ma
quello derivante dal sempre maggior dominio e controllo sociale esercitato dal
sistema nei confronti del mondo della vita, cioè della cultura, della mentalità, dei
costumi sociali e comportamenti individuali.
Sono quindi inutilizzabili le teorie del vecchio marxismo ma, come si vedrà,
sono altresì inadeguate e criticabili per Habermas le recenti teorie sul
postmoderno e antimoderno, le quali negano che le idee di razionalità della
filosofia moderna (quella che inizia con Cartesio) e dell'Illuminismo abbiano ancora
valore, proponendo in alternativa un'immaginaria società del passato, la società dei
tempi antichi (neoconservatorismo), oppure utopistiche e irrealizzabili società senza
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Moderno e postmoderno.
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A suo avviso la modernità nasce con l'Illuminismo di cui parlava Kant, inteso cioè
come processo di emancipazione dell'intelletto dai condizionamenti della tradizione
e dell'autorità politica e religiosa.
Da questo punto di vista, afferma Habermas, il maggior teorico della modernità
risulta Hegel, il quale non solo ha compreso i caratteri della modernità ma anche il
problema di fondo della modernità medesima, consistente nel fatto che la
soggettività (la coscienza) moderna dell'uomo, essendosi finalmente liberata dalla
tradizione e dalla religione, non ha saputo tuttavia trovare valori e principi
razionali altrettanto centrali, universali e validi per tutti come dapprima erano
quelli della religione. La razionalità illuministica ed hegeliana non è riuscita a
superare la scissione, prodottasi con l'avvento della modernità, tra ragione da un
lato ed amore e vita (cioè sentimento) dall'altro, nonché la scissione tra sapere e
fede. Hegel stesso si è limitato ad individuare il superamento di tali scissione in ciò
che egli ha chiamato lo Spirito assoluto, lo spirito dell'umanità, concepito come
Intelligenza (immanente) che governa il mondo e come entità che ricomprende la
stessa nuova morale della modernità. Con il concetto di "Assoluto" Hegel pensava
di superare il soggettivismo filosofico ma rimane invece, secondo Habermas, nei
limiti della filosofia del soggetto, ossia di una concezione soggettiva (mutevole
secondo le diverse coscienze e punti di vista) e non oggettiva o intersoggettiva della
razionalità. Hegel concepisce infatti la ragione come autocoscienza capace, nella
sintesi, di conciliare gli opposti. Tuttavia, se davvero la razionalità moderna avesse
essenzialmente il carattere di autocoscienza, diventerebbe impossibile allora
un'analisi critica della modernità poiché l'autocoscienza, in quanto tale, non può
uscire da se stessa per osservare criticamente gli aspetti distintivi della modernità
medesima.
Anche i posthegeliani di sinistra e di destra non hanno saputo per Habermas fare di
meglio. I primi propongono una filosofia della prassi volta alla trasformazione
della società in termini più giusti e razionali; i secondi interpretano il sistema
sociale nell'intento di ridare forza e valore alla religione tradizionale. Ma entrambi
non riescono anch'essi ad andare oltre alla filosofia del soggetto: in entrambi
rimane l'idea che il soggetto conosce gli oggetti, l'altro da sé, solo nella misura in
cui li riporta e li subordina alla propria autocoscienza e ai propri punti di vista.
A questo punto appare sulla scena Nietzsche, che si guarda bene dal riconsiderare
in termini nuovi il concetto di ragione e che, anzi, critica la razionalità moderna
derivante dall'Illuminismo. Nietzsche cerca delle alternative alla razionalità
illuministica nel mito (Dioniso e lo spirito dionisiaco), nell'arte, nella volontà di
potenza, nel nichilismo. Ma alla fine oscilla fra due soluzioni contrastanti:
1. da un lato, in contrapposizione alla metafisica tradizionale ed altresì al
Romanticismo che aspirava a cogliere il senso metafisico dell'infinito,
propone una considerazione non razionale del mondo, vale a dire irrazionale
o comunque basata sulle passioni, guardando al mondo da un punto di vista
artistico ed estetico, tuttavia secondo una concezione in ogni caso scettica e
pessimistica della realtà;
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Invece per Apple vi sono evidenze ultime, certe ed indubitabili, testimoniate dal
fatto che anche chi le nega finisce per presupporle. Tali sono le evidenze connesse
alla situazione argomentativa, ossia al fatto stesso di dialogare, di argomentare, e non
possono venir negate senza cadere in autocontraddizione. Se riflettiamo, ci
accorgiamo che la prassi della comunicazione è governata da regole che
esprimono un carattere di validità universale. Chi dicesse, ad esempio, che noi
dobbiamo necessariamente ammettere che noi non possiamo giungere a verità
indubitabili cadrebbe in contraddizione perché nel primo "noi" affermerebbe ciò che
nega nel secondo. Il ragionamento ricalca quello di Aristotele circa il carattere
autoconfutativo (che si nega da sé) dello scetticismo. La stessa cosa accadrebbe a chi
negasse la propria esistenza o quella del linguaggio: infatti per negare la mia
esistenza devo esistere e per negare l'esistenza del linguaggio devo adoperare il
linguaggio, ecc. In questi casi Apel parla non già di contraddizione logica, in quanto
non si afferma e non si nega nello stesso tempo un predicato di un medesimo
soggetto, ma parla invece di autocontraddizione performativa (da performance) o
pratica, ossia di contraddizione fra quel che si fa o si è e quel che si dice. In breve, le
condizioni dell'argomentare (del dialogo) sono come tali non aggirabili (non evitabili)
e perciò incontestabili e valide per chiunque argomenti. Tant'è che se uno rifiutasse
per principio dette condizioni egli non potrebbe affatto argomentare il suo stesso
rifiuto. In quanto uomini, ossia esseri che pensano, parlano e comunicano, siamo
da sempre e necessariamente collocati all'interno della ragione comunicativa (del
dialogo intersoggettivo) e delle sue ineludibili regole argomentative (condizioni
del dialogo).
Se esistono dunque evidenze inaggirabili (ineludibili), al punto che lo stesso
falsificazionismo (di Popper) risulta costretto a presupporre qualche norma o verità
non falsificabile se non vuole ridursi all'anarchismo metodologico di Feyerabend,
appare legittima allora la pretesa filosofica di pervenire a un fondamento ultimo
della conoscenza, a patto che per fondamento non si intenda la deduzione da un
sistema di assiomi o postulati (come per Habermas), bensì una base e un metodo di
tipo trascendentale (al di sopra ed indipendente dall'esperienza che in quanto tale è
sempre limitata). Grazie al metodo trascendentale siamo in grado di pervenire al
"sapere del sapere", certo non inteso hegelianamente come "sapere assoluto", ma solo
nel senso di un "punto archimedico" al quale il filosofo può tornare in ogni momento
come al punto di partenza non oltrepassabile (assolutamente primo) del suo pensiero.
In particolare, contro il falsificazionismo Apel sostiene che deve essere stabilita una
differenza di principio tra le ipotesi che risultano soggette a falsificazione e i criteri,
non falsificabili, che stanno alla base della falsificazione medesima. Infatti se i criteri
con cui si esaminano e si valutano le teorie avessero anch'essi un carattere di ipotesi
fallibili, allora bisognerebbe concludere che non esiste alcun criterio per una scienza
razionale. In tal modo si perderebbe la stessa distinzione concettuale della scienza
dall'arte, ossia delle teorie scientifiche dai miti e dalle favole.
Oltre che contro il falsificazionismo, Apel difende la legittimità di un fondamento
filosofico della conoscenza anche contro le varie forme novecentesche di relativismo,
scetticismo e pensiero debole.
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Le prime ricerche di Apel sono incentrate sul tema kantiano e neokantiano delle
condizioni universali del conoscere alla luce delle novità introdotte dalla filosofia
esistenzialistica e dalla linguistica strutturale. Nell'obiettivo, come si diceva, di
conciliare la filosofia analitica angloamericana con quella esistenzialistico-
ermeneutica europea continentale, Apel formula, nell'ambito della filosofia del
linguaggio, l'idea-programma di una trasformazione semiotica del kantismo. Tra
filosofia analitica e filosofia continentale, osserva Apel, esistono sostanziali punti
d'accordo: il comune rifiuto del primato della coscienza soggettiva e il comune
privilegiamento del linguaggio. Ma dall'altro lato esistono divergenze strutturali:
all'impostazione trascendentale della filosofia continentale si contrappone
l'impostazione pragmatica della filosofia analitica per quanto riguarda la
connessione (il rapporto) tra il linguaggio e le concrete forme di vita storiche, sociali
e culturali. Da ciò l'esigenza di accordare le due impostazioni mediante una sorta di
terza via, quale appunto la trasformazione semiotica del kantismo. Con tale
trasformazione si intende che, se resta vero, con Kant, che la conoscenza degli
oggetti è consentita dalle forme a priori dell'intuizione e dell'intelletto del soggetto,
inteso peraltro come astratto io-penso, come astratta coscienza, tale conoscenza
avviene tuttavia, e per contro, attraverso la semiotica, ossia attraverso l'uso dei segni
e cioè mediante il linguaggio. Apel propone quindi il passaggio, la trasformazione e
la sostituzione dell'astratto io-penso con la comunità concreta dei parlanti e relativa
comunicazione intersoggettiva storicamente e socialmente determinata. Infatti il
pensiero non esiste se non in quanto espresso con segni e così pure la realtà non
esiste se non in quanto simbolicamente (linguisticamente) interpretata. Parimenti,
non esiste il soggetto trascendentale (l'io-penso) se non sotto forma di un dialogo
pubblico interpersonale, poiché "non si può giocare un gioco linguistico da soli"
(non ha senso e non si può parlare da soli). Pertanto Apel polemizza contro il
solipsismo metodico, che va da Cartesio ad Husserl, e rifiuta l'ipotesi di un io isolato.
In tal modo la coscienza astratta acquista quella specifica corposità e storicità che in
Kant manca e che ad Apple è suggerita dalla lezione dell'esistenzialismo, della
fenomenologia, dell'ermeneutica, nonché del marxismo, individuando in tal senso
una mediazione (un collegamento) dell'idealismo trascendentale di Kant con il
realismo e il materialismo storico della società e con la concezione dialettica della
realtà.
In altri termini, la trasformazione semiotica del kantismo consiste nell'attribuire al
linguaggio, visto come sistema di segni (semiotica= teoria dei segni), quella funzione
legislatrice e strutturante della realtà (quindi trascendentale) che Kant attribuiva
alle forme a priori, collocando al posto dell'astratto io-penso la comunità concreta
dei parlanti. In particolare la trasformazione consiste:
1. nell'identificare l'a priori di Kant con il linguaggio, inteso come sistema di
segni e come condizione preliminare e universale di ogni approccio alla
realtà;
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La macroetica planetaria.
Apel afferma che mai come oggi si avverte la necessità di una macroetica
planetaria (di un'etica estesa e valida per l'intero pianeta). Infatti, se si distingue tra
un microambito (famiglia, matrimonio, vicinato), un mesoambito (la politica
nazionale) e un macroambito (l'umanità nel suo complesso) si può facilmente
rilevare come le norme morali siano ancora concentrate nel microabito, mentre il
macroambito appare preoccupazione solo di pochi. Inoltre, le morali tradizionali
appaiono connesse a particolari visioni metafisico-religiose del mondo e risultano
ancorate a specifici contesti geografico-culturali, al punto da configurarsi come
altrettante "morali di gruppo" prive di universalità e in conflitto fra di esse. Ma
come non avvertire, nell'età della scienza, la necessità di un'etica razionale e
universale?
Eppure, se da un lato la mentalità scientifica sembra stimolare, per effetto della
generale diffusione delle tecnologie, l'avvento di una tale etica, dall'altro sembra
comprometterla. Infatti, rifacendosi al principio della avalutatività di Weber e alla
legge di Hume (secondo cui non possiamo ricavare norme e valori dai fatti), i filosofi
di tendenza neopositivistica e analitica hanno escluso la possibilità di un'etica
universale razionalmente fondata, riducendo la morale a una serie di operazioni
soggettive, a reazioni irrazionali ed emotive o a decisioni arbitrarie parimenti
irrazionali. Di conseguenza, razionalmente fondabili appaiono non le norme etiche
ma soltanto le loro descrizioni avalutative. All'etica filosofica tradizionale di tipo
prescrittivo è subentrata un’etica analitica avalutativa e puramente descrittiva
delle regole logiche del cosiddetto "discorso morale". Altrettanto, le scienze umane
sembrano pervenire alla conclusione che le norme morali sono in ampia misura
relative alla cultura o alle epoche e quindi, ancora una volta, soggettive. Con queste
premesse, in Occidente si è prodotta una sorta di divisione del lavoro tra filosofia
analitica (cui spetta il campo della conoscenza oggettivo-scientifica) ed
esistenzialismo (cui spetta l'ambito delle scelte etico-religiose).
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proprio del mondo della vita (della società storica, reale e concreta), tendente a far
prevalere il diritto del più forte o del più furbo, e l'agire comunicativo morale.
Problema questo che egli ha cercato di risolvere con il principio di integrazione, il
quale stabilisce il dovere di individuare un possibile punto di incontro tra agire
strategico e agire morale. Conseguentemente Apel, pur continuando ad essere
fautore di un pensiero progressista e riformatore, finisce sia col prendere le
distanze dalle posizioni utopiste e neomarxiste degli anni ‘60 e ‘70, sia per
accentuare il proprio interesse verso la democrazia politica e le sue norme
procedurali. L'etica del discorso non può e non vuole, come invece in Platone e in
tutti gli utopisti dopo di lui, prescrivere agli uomini una forma unica e totalitaria
di vita, oppure concepirla, come in Hegel, quale necessaria conseguenza dell'eticità
dello Spirito assoluto. L'etica del discorso non ha il compito di stabilire un'utopia
rigida di società futura, ma soltanto di stabilire un quadro formale di principi, di
regole e di procedure, nel cui ambito le diverse teorie circa la "vita buona" e la
"vita felice" abbiano modo di confrontarsi in maniera pluralistica e dialogante.
Un quadro che coincide, in definitiva, con le istituzioni dello Stato democratico di
diritto, il quale, pur con tutte le sue imperfezioni, costituisce la miglior
approssimazione ai requisiti normativi della comunità illimitata della comunicazione.
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esperienza di "fine della storia" quale pensata dalla modernità; una storia non
più progressiva ed emancipativa.
Il concetto di post-storico è stato utilizzato per primo da Arnold Gehlen per
definire le società attuali in base alla tesi della "plasticità" costitutiva dell'uomo,
ossia in base alla considerazione che la natura umana non è fissa e costante. Le
società attuali, egli afferma, sarebbero caratterizzate da una "seconda
secolarizzazione" (secolarizzazione=venir meno del primato del sacro e
dell'assoluto), ovvero da una secolarizzazione che ha secolarizzato se stessa, che
ha cioè abbandonato i miti rassicurativi (trascendenti o immanenti) incentrati
sull'idea di principi e fondamenti assoluti della realtà. In questo senso il
postmoderno si presenta, appunto, come il compimento o la realizzazione estrema
del processo di secolarizzazione del mondo che ha caratterizzato il pensiero della
civiltà occidentale degli ultimi secoli. La seconda secolarizzazione, dopo la prima
che ha investito la fede nel divino, è pervenuta ad investire altresì la fede laica nel
progresso, ormai ridotto nelle odierne società complesse ad un processo di
innovazione puramente quantitativo di routine, secondo una logica di quantità
piuttosto che di qualità e di autentica innovazione ed emancipazione. In tal modo la
storia ha cessato di essere propulsiva e l'aspirazione verso il nuovo, svuotato di
ogni significato concretamente emancipativo, viene confinata nel territorio
estetizzante e formalistico delle arti, al punto da poter parlare ormai di "fine" della
storia e del progresso.
Particolarmente stretti risultano anche i rapporti tra postmoderno e società
complessa di tipo industriale, contraddistinta da assetti pluralistici (da
un'estrema varietà di forme, di culture, di razze) di cui il postmoderno vuole essere
chiave (modalità) interpretativa. Da ciò il progetto di una "umanità al plurale",
capace di lasciarsi definitivamente alle spalle il sogno medievale di un'unica verità,
di un'unica fede, di un unico sistema di valori.
La valorizzazione del carattere pluriculturale e plurirazziale della società complessa
ha condotto i postmoderni a giudicare positivamente le tecnologie informatiche e
multimediali, simboleggiate nella nuova figura dell'uomo come rice-trasmettitore di
messaggi. A differenza dei filosofi della Scuola di Francoforte, che nei mezzi di
comunicazione di massa scorgevano strumenti negativi di inganno e di dominio, i
postmoderni considerano i mass-media come elementi positivi di una società
democratica moderna, basata su di una molteplicità, non conformistica e non a
senso unico, di informazioni e messaggi, che rendono i fruitori più consapevoli e
quindi più critici. Rifacendosi all'ermeneutica, i postmoderni affermano che la
realtà ambientale e umana, nelle odierne società tecnologiche, tende ormai a
consistere nella molteplicità delle informazioni e delle interpretazioni che i media
(giornali, libri, televisione, internet, ecc.) diffondono senza che nessuna di queste
interpretazioni, in "un mondo divenuto favola" (Nietzsche) poiché ormai privo di
un'univoca verità assoluta e oggettiva, abbia il diritto di soffocare od azzerare le
altre.
Sul piano etico, pertanto, la concezione pluralistica post-moderna si ispira al
principio della tolleranza contro ogni uniformità e rigidità di dogmatismo teorico
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e di dispotismo pratico. "Abbiamo pagata cara l'ideologia del tutto e dell'uno" (ossia
di una concezione monistica, basata sull'idea di un unico ed esclusivo principio
della realtà).
Sul piano politico il postmoderno si ispira ad un pensiero postmarxista e
postliberale, che va oltre i concetti di destra-sinistra, di conservazione-progresso.
Infatti, pur respingendo il mito marxista della rivoluzione, i postmoderni sono ben
lontani dal concepire un recupero del pre-moderno o di qualche ideologia
antimoderna. Contro l'immagine diffusa da autori come Habermas (che reputa il
postmoderno affetto da neoconservatorismo e dalla mancanza di punti di
riferimento orientativi) e Fredrich Jameson (il quale considera il postmoderno come
l'ideologia dominante del tardo capitalismo multinazionale che riduce ogni cosa a
feticcio, a prodotto posto in vendita), il postmoderno, da una iniziale assenza di
progettualità politica, di rassegnazione suo malgrado al consumismo, alla
spettacolarizzazione, al trionfo tecnologico, è passato via via a posizioni politiche
incentrate sull'ecologismo, sul pluralismo, sul multiculturalismo, sulla difesa
delle minoranze e sul rispetto verso ogni forma di diversità.
Per quanto concerne le origini intellettuali del postmoderno, esse vanno ricercate
anzitutto in Nietzsche e Heidegger, che hanno messo sotto accusa la modernità e
la tradizione occidentale: in Nietzsche con l'annuncio della morte di Dio ed il
conseguente avvento del nichilismo; in Heidegger con l'idea di un costante declino
della metafisica a causa di un suo proprio ed inconsapevole "oblio dell'essere", il
quale ha portato all'imporsi del mondo tecnico-scientifico. Si tratta di due tesi che
rovesciano decisamente la concezione ottimistica di progresso propria della
modernità. Tant'è che Vattimo fa espressamente iniziare il postmoderno con
Nietzsche.
Un'altra fonte intellettuale del postmoderno è costituita dal poststrutturalismo
francese, col suo rifiuto del primato del soggetto (del valore prioritario della
coscienza e di un modo uniforme e universale di pensare) e con la sua concezione
secondo cui non c'è alcun centro del mondo, bensì una varietà talmente diversificata
di enti e di significati tale da non poter essere ricondotta ad una qualsiasi identità e
unità. Il carattere costitutivo della realtà è quello della differenza (tra le varie
cose e tra i vari significati ad esse attribuiti), il che porta ad un concetto di verità
intesa come decostruzione (ossia come rifiuto di costruzioni ontologiche e
gnoseologiche unitarie e stabili della realtà e del sapere), come alterità (diversità) e
come continua novità, senza alcunché di permanente. Dal poststrutturalismo i
postmoderni hanno derivato una mentalità antiunitaria e antigerarchica nonché
l'idea di una realtà frammentata e decostruita (Derrida) in cui è rotta l'unità e la
totalità.
Ulteriore matrice intellettuale del postmoderno è costituita dall'ermeneutica,
da cui postmoderni, soprattutto Vattimo, hanno tratto un'immagine del mondo come
rete aggrovigliata di interpretazioni diversificate secondo il contesto sociale,
ambientale e storico in cui ci si trova.
Fonte intellettuale, ancora, del postmoderno è rappresentata
dall'epistemologia postpositivistica o postpopperiana (Kuhn, Feyreband), con la
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tesi "tutto ciò che è libero gioco della domanda e dell'offerta favorisce
l'arricchimento generale e viceversa" è smentita dalle crisi economiche del 1911 e
del 1929, che confutano la dottrina del liberismo economico, nonché dalle crisi
degli anni 1974-1979, che confutano la versione postkeynesiana di essa.
Venuta meno dunque la possibilità di collegare, tramite un unico principio e
fondamento legittimante, i vari settori della conoscenza e dell'azione, ormai
frantumati in una molteplicità di giochi linguistici (di forme) differenti, Lyotard si
pone l'interrogativo "dove può risiedere allora la legittimità dopo la fine dei
grandi racconti? Si parla in proposito anche di "fine delle ideologie".
Lyotard non condivide il preteso valore universale dell'etica del discorso di
Habermas. In polemica con quest'ultimo, Lyotard sostiene che la dottrina di
Habermas di un consenso universale ottenuto attraverso il dialogo argomentativo si
fonda su due presupposti inaccettabili: 1) non esiste affatto un metalinguaggio
generale (un superlinguaggio) entro cui tutti possano trovare un accordo su regole
universalmente valide; 2) la finalità del dialogo non è il consenso; il consenso è un
momento possibile della discussione ma non il suo fine o la sua anima motrice. Il
senso del dialogo sta piuttosto nella libera o anarchica espressione come pure nel
dissenso. Nei confronti della scienza poi, Lyotard non ne scorge affatto la
corrispondente legittimità nel criterio tecnico-strumentale dell'efficienza delle
prestazioni poiché esso non è affatto idoneo a giudicare del vero e del giusto.
Per enucleare il nuovo criterio di legittimazione della conoscenza e delle azioni
Lyotard ricorre all’epistemologia e formula alcune ipotesi teoriche, ispirate alla
lezione di Kuhn e Feyerabend, circa le caratteristiche della scienza post-moderna,
che egli sintetizza nell'abbandono del determinismo, nel prevalere dei "piccoli
discorsi" (delle ricerche circoscritte e settoriali) e nella legittimazione "per
paralogia" (=libertà di ragionamento e di linguaggio), intesa come libera o
anarchica invenzione, al di là di ogni modello precostituito, di nuove regole del
sapere e di nuove modalità linguistiche. Il sapere moderno, prosegue Lyotard, si
fonda su legittimazioni (principi, regole) fluide, parziali e reversibili, che
presuppongono un consenso locale e temporaneo, ottenuto dagli interlocutori
momento per momento e suscettibile di revisione. Tale orientamento corrisponde
altresì all'evoluzione delle interazioni sociali, dove alle istituzioni e organizzazioni
permanenti si sostituiscono contatti limitati nel tempo, privi di regole permanenti e
diversificati secondo gli ambiti: professionale o affettivo o sessuale o culturale o
familiare, ecc.
Ma se il consenso è ormai ritenuto un valore obsoleto e fuori moda, ottenuto solo
temporaneamente, lo stesso non si può dire per la giustizia. Da ciò la necessità,
secondo Lyotard, di pervenire ad un'idea e a una pratica di giustizia che non
siano legate a quelle del consenso. Un primo passo in tal senso si ha col
riconoscimento della incommensurabile varietà dei giochi (dei tipi) linguistici e
quindi con la rinuncia a voler realizzare ad ogni costo l'uniformità dei discorsi. Il
secondo passo sta nella riconoscimento che il consenso semmai è possibile solo
all'interno dei diversi ambiti e tipi di linguaggio, per cui il consenso possibile è solo
quello locale e modificabile, stante la libertà "paralogica" di introdurre nuove
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regole e nuove "mosse" nel gioco linguistico. Può essere di aiuto al valore della
giustizia quella condizione del sapere postmoderno caratterizzata dalla massima
varietà ed immediatezza delle informazioni e delle comunicazioni, consentita dalle
memorie e dalle banche dati della tecnologia informatica e considerata strumento di
democratizzazione. In questo modo infatti il sapere informatizzato delle società
avanzate può trovare, per Lyotard, una forma di legittimazione ed evitare il rischio,
grazie al libero accesso ai dati, di un suo utilizzo distorto e antidemocratico.
L'insistenza sulla pluralità e incommensurabilità delle diverse forme di linguaggio,
dei differenti punti di vista, della varietà delle teorie filosofico-scientifiche, etiche
ed estetiche, ha indotto Lyotard a indicare in Kant, piuttosto che in Nietzsche o
Heidegger, il maestro delle sue idee e del suo pensiero, vedendo in Kant il filosofo
della eterogeneità delle facoltà (l'intelletto distinto dalla ragione, dalla volontà e dal
sentimento) nonché il teorico del sublime, ossia dell'impossibilità di rappresentare
la totalità; in Kant Lyotard vede il rappresentante del suo stesso modello di
razionalità pluralistica e antitotalizzante.
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accade e secondo cui l'accadere dell'essere non è altro che l'aprirsi all'ascolto
dell'essere, l'aprirsi alle varie epoche storico-destinali (generate dal destino) in cui
l'essere si manifesta, variamente illuminando e rendendo visibili gli enti in relazione
al succedersi dei diversi periodi storici suscitati dal casuale destino (dai modi
casuali e non predeterminati) dell'apparire dell'essere. Ne segue che il senso
dell'essere consiste ermeneuticamente nella trasmissione di messaggi linguistici tra
le varie generazioni: ciò che possiamo dire dell'essere è che esso è trasmissione,
invio. Il mondo si esprime attraverso una serie di echi, di risonanze di linguaggi, di
messaggi provenienti dal passato. Questa ontologia epocale (l'essere si manifesta e si
fa ascoltare mediante differenti linguaggi nelle diverse epoche storiche)) comporta
quindi una radicale temporalizzazione dell'essere, ovvero un suo strutturale
indebolimento. Infatti, il messaggio ultimo di Heidegger è che bisogna lasciar
perdere l'essere come fondamento così come l'attesa di una nuova e splendente
rivelazione dell'essere. Heidegger suggerisce invece una ontologia del declino
dell'essere. Il suo pensiero, alla fine, sembra potersi riassumere nel fatto di aver
sostituito all'idea di essere come eternità, stabilità e forza quella di essere come vita,
maturazione, nascita e morte: l'essere non è ciò che permane ma è, in modo
eminente, ciò che diviene, che nasce, si trasforma e muore. L'oltrepassamento della
metafisica (quella dell'Occidente) di cui parla Heidegger non consiste per Vattimo
nel rovesciamento dell'oblio metafisico dell'essere, cioè nel suo ritorno, ma è questo
stesso oblio portato alle sue estreme conseguenze. Pertanto, secondo Vattimo,
dell'essere come tale non ne è più nulla: al metafisico essere "forte" della tradizione
subentra un postmetafisico essere "debole".
Il processo di indebolimento dell'essere, vale a dire la fine della metafisica e il
trionfo del nichilismo, sono dunque fenomeni interconnessi. Tuttavia Vattimo è
convinto che la metafisica (come il passato in generale) non sia un "abito smesso"
con cui noi non abbiamo più alcun rapporto. Tant'è che per illustrare l'atteggiamento
del pensiero postmetafisico egli si rifà alla nozione heideggeriana di "Verwindung"
(che significa guarigione, accettazione, rassegnazione, distorsione) alludendo al
rimettersi, al guarire da una malattia (in questo caso la metafisica o il passato) nella
rassegnata consapevolezza che di essa siamo comunque "destinati" a portare le
tracce, le quali consistono nel fatto che non possiamo esimerci dall'usare i concetti
della metafisica del passato (verità, essere, totalità, principio, fondamento), sia pur
distorcendoli in senso debole e postmetafisico, ossia nichilistico. Ne è un caso
emblematico la vicenda della secolarizzazione. Essa testimonia come la moderna
civiltà europea sia legata al proprio passato religioso non solo da un rapporto di
superamento ed emancipazione ma anche, e nello stesso tempo, da un rapporto di
conservazione-distorsione-svuotamento. Esempio ulteriore è quello del capitalismo
moderno che, come ci ha insegnato Weber, non nasce da un abbandono della
tradizione cristiana-medievale, ma da una sua applicazione "trasformata", distorta.
Ed ancora, il pensiero debole rappresenta, secondo Vattimo, l'estremo processo di
conservazione-distorsione del messaggio cristiano: " è grazie a Dio che siamo, nella
misura in cui lo siamo, atei". È solo nel proseguimento della tradizione ebraico-
cristiana, tramandataci insieme alla verità del pensiero greco, che noi abbiamo
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del tutto superata, sia nell'escludere la storia come radice di legittimazione. Per
Vattimo, invece, prendere atto della fine dei grandi racconti non significa rimanere
senza alcun criterio direttivo e senza alcun filo conduttore, poiché il racconto (la
riflessione) della fine dei grandi racconti dà luogo a una sorta di metaracconto
(racconto del racconto) indebolito, in grado di originare una nuova, sia pur
paradossale, filosofia della storia, vale a dire "la fine della filosofia della storia".
Infatti, solo in virtù di questa filosofia della storia di tipo debole risulta possibile
mettere in salvo sia la legittimità del postmoderno, sia il rapporto di continuità-
distorsione con il passato, sia la possibilità di operare ancora delle scelte. Nonostante
che l'idea di una storia globale (universale) sia criticabile, in realtà dell'idea di un
certo senso globale non possiamo fare a meno e tale idea di senso globale può
essere soltanto, paradossalmente, l'idea di una dissoluzione del senso globale
della storia. Il postmoderno non significa per Vattimo che si debba abbracciare una
forma di operare irrazionalistico o uno stile esistenziale puramente estetizzante (di
ricerca del bello e del piacere). L'abbandono dei valori forti della modernità
sembra non escludere affatto la possibilità di cogliere una serie di valori
"minuscoli", capaci di garantire ai postmoderni, orfani dell'ideologia globale,
delle forme concrete (e non retoriche) di responsabilità e di impegno.
Il nichilismo rappresenta per Vattimo la vicenda (la storia) dell'ontologia
occidentale, caratterizzata dal progressivo indebolimento della nozione platonico-
aristotelica di essere, fino a che, come ha detto Heidegger, dell'essere non ne è più
nulla (oblio dell'essere). Ma quale atteggiamento assumere di fronte a tale processo?
Contrastarlo o accettarlo con entusiasmo ai fini del più completo trionfo della
tecnica, tanto più garantito quanto l'essere è ridotto ad enti e gli enti ad oggetti
manipolabili? Oppure -soluzione da Vattimo prescelta- assecondare questo processo
ed accoglierlo come un destino che caratterizza la nostra storia? Accogliendo la
concezione ermeneutica, Vattimo sostiene la tesi che l'essere è tempo-linguaggio, nel
senso che ogni descrizione dell'essere è transitoria e relativa alle situazioni storico-
linguistiche. Ne consegue la fine della filosofia fondazionale (volta all'individuazione
di fondamenti-principi assoluti) caratterizzata dalla pretesa: a) di descrivere l'essere
nelle sue strutture immutabili e universali (al modo dell'ontologia aristotelica); b) di
descrivere le forme a priori della conoscenza, anch'esse dotate di intemporalità e
universalità (al modo della critica kantiana e del neotrascendentalismo da Cassirer
ad Apel).
Ma questa descrizione della storia dell'essere e del suo indebolimento non presenta
anch'essa pretese di universalità e necessità come la filosofia fondazionale? Non
propriamente, risponde Vattimo, perché accettare l'impostazione nichilistica e quella
ermeneutica dell'essere significa essere pronti ad accettare anche il carattere
autoconfutativo di una tesi di questo tipo, ossia ammettere che la tesi della storicità
del conoscere (di una conoscenza storicamente condizionata e non universale) possa
essere essa stessa storico-linguistica, cioè contingente e appartenente ad un certo
linguaggio, ad un certo modo di vedere che può essere esso stesso mutevole nel
tempo, non escludendo l'avvento di un tempo, pur esso transitorio, di universalità
della conoscenza. È questa per Vattimo la differenza essenziale tra una descrizione
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La novità del postmoderno sta nel fatto che esso non si esprime come sentimento
di nostalgia per le spiegazioni ed interpretazioni globali della realtà sulla base di
fondamenti e principi primi unitari, nostalgia presente invece nelle filosofie sulla
crisi della razionalità e dei valori della prima metà del Novecento (Nietzsche,
Husserl, Adorno, Horkheimer). Il postmoderno interpreta invece come positivo il
carattere molteplice delle forme del sapere, delle azione e dei bisogni esistenziali,
dichiarando la necessità di far prevalere un modello di razionalità non unitario ma
pluralistico, non monistico e gerarchico, sottolineando il valore della
frammentazione, della varietà e persino dell'incommensurabilità tra i diversi ambiti
della teoria e della prassi. Si tratta di prendere atto che la pluralità e l'instabilità
costituiscono aspetti intrinsecamente propri della realtà, senza pretendere di
ricondurla a principi generali unici e a gerarchie forti. Se questa frantumazione
della realtà intende meglio corrispondere al suo carattere molteplice e alle
differenti visioni di senso, il rischio conseguente è però quello di perdere ogni
possibilità di comprendere e spiegare le ragioni stesse della pluralità nonché di
compromettere il mantenimento di spazi aperti e di ponti di intercomunicazione
tra i diversi ambiti del sapere e delle pratiche di vita, pregiudicando il
funzionamento della pluralità medesima allorché essa venga ad assumere la
forma della contrapposizione e della conflittualità anziché della varietà.
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Per poststrutturalismo si intende quella corrente che negli anni ‘60 e ‘70 del
Novecento si presenta come sviluppo dello strutturalismo, attenuando tuttavia il
valore determinante, ontologico e quasi metafisico, attribuito alla struttura, per
esaltare invece in misura maggiore, contro la "staticità" del pensiero strutturale, gli
aspetti vitalistici della "forza", della "energia", della "produzione", della "creatività".
Per lo strutturalismo il linguaggio, gli enti e le cose si conoscono in base alle loro
costanti relazioni e legami simbolici che li collegano nella struttura. Il post-
strutturalismo valorizza maggiormente, al posto delle "costanti", le "differenze",
valutate come principi dinamici: l'attività simbolica (il ricorrere a simboli) appare
come un'attività produttrice di differenze, non in termini soggettivi ma per effetto di
una forza impersonale, come l'energia degli istinti in Freud, la volontà di potenza in
Nietzsche, le forze produttive o il lavoro per Marx. Viene dunque condannato tutto
ciò che limita, impedisce, imprigiona le energie produttive e tutto ciò che "canalizza"
(che costringe ad un percorso obbligato) o "centralizza" la produzione artistica,
culturale, economica. Forme tipiche di questa canalizzazione, contro cui si pone il
poststrutturalismo, sono la nozione di soggettività (coscienza) costituente l'esperienza
(Cartesio, Kant, l'idealismo, la fenomenologia); la nozione di dialettica, che riduce il
molteplice degli istinti alla contrapposizione, che trova però il proprio accordo nella
sintesi; la stessa nozione di struttura, che vincola il linguaggio e la realtà a una forma
determinata e li rende calcolabili. Contro tutto ciò il post-strutturalismo pone l'idea di
un universo desoggettivizzato (in cui il soggetto perde il proprio primato) e animato
da differenze libere, non vincolate a nessuna forma o immagine del pensiero
(Deleuze) oppure l'idea del soggetto come "enunciato", evento linguistico escogitato
in una certa epoca (l'età cartesiana) per dare un ordine alla ragione ed escludere la
non-ragione (Foucault). Maggiori esponenti del post- strutturalismo sono Deleuze,
Derida e, a loro modo e in parte, anche Foucault, Rorty e lo stesso Lyotard, il
che testimonia le analogie, pur tra le relative differenze, sussistenti tra
poststrutturalismo, postmoderno e postfilosofia, intendendo per "postfilosofia" o
"fine della filosofia" il tramonto dei grandi sistemi filosofici onnicomprensivi e
fondazionali, volti cioè a individuare il fondamento e principio primo della
realtà.
Richard Rorty: la filosofia della conversazione (nato a New York nel 1930).
mentali nonché dai diversi punti di vista secondo i diversi momenti storici: da ciò
appunto l'intreccio tra corpo, mente e conoscenza.
La proposta alternativa di Rorty è quella di una postfilosofia, cioè di un pensiero
antifondazionista (che non pretende di giungere a fondamenti assoluti della realtà).
Se Cartesio, Locke e Kant sono stati i fondatori della moderna filosofia fondazionista,
Rorty individua in Wittgenstein, Heidegger e Dewey coloro che ne sono stati i
distruttori. Il loro contributo è stato terapeutico (antifondazionale) piuttosto che
costruttivo (fondazionale) e hanno lasciato da parte la metafisica occidentale
giungendo ad affermare la possibilità di una cultura postkantiana, postepistemologica
e postfilosofica. Anche lo scopo di Rorty intende essere terapeutico anziché
costruttivo, cioè indirizzato a "guarire" le menti dalla filosofia fondazionale e
promuovere la transizione alla postfilosofia, puntualizzando che essa non significa
la fine della filosofia: dopo la filosofia vi sarà ancora la filosofia, in quanto ad essere
finita non è la filosofia in sé ma la filosofia protesa a una fondazione sistematica
dell'essere e della conoscenza.
Da ciò la celebre distinzione di Rorty tra filosofia normale, ufficiale,
professionalizzata, accademica e sistematica, e filosofia rivoluzionaria, edificante e
terapeutica, la quale rifiuta l'idea che il pensiero filosofico possa essere
istituzionalizzato, irrigidito in sistemi fissi e assoluti. I filosofi sistematici sono
costruttivi e offrono argomentazioni. I filosofi edificanti (Kierkegaard, Nietzsche,
l'ultimo Wittgenstein e l'ultimo Heidegger) sono reattivi e offrono satire, parodie,
aforismi. Rorty parla di filosofia terapeutica ed edificante in termini di ricerca e
edificazione di nuovi dizionari (concetti) e di nuove maniere di vivere e di
pensare, guarendo da quelle vecchie. In quanto edificante alla filosofia è
attribuito il ruolo di formare gli uomini piuttosto che di conoscere
oggettivamente il mondo. In tale veste va sottolineato il valore soprattutto etico-
formativo assegnato alla filosofia.
La filosofia non si pone più come espressione privilegiata del sapere ma come una
delle tante voci all'interno della "conversazione" complessiva dell'umanità. La
crisi del pensiero speculare e del pensiero analitico si presenta come passaggio
dall'epistemologia (teoria della scienza e della conoscenza) all'ermeneutica, che
porta a ridefinire la filosofia come "grande conversazione" che gli spiriti liberi
intrattengono nel corso della storia.
Se il neopositivismo condanna la metafisica perché intollerante e dogmatica, mentre
giudica la scienza come più vera conoscenza possibile, Rorty inverte i termini del
discorso: è il filosofo-scienziato che appare intollerante, con la sua idea del rigore e
della scientificità dell'analisi, mentre aperto e pluralista è diventato il filosofo ironico,
persuaso della parzialità e precarietà delle proprie scelte. Quindi anche la filosofia
analitica del linguaggio anglosassone, ispirata ad una logica rigorosa, non è poi così
lontana dalla filosofia continentale come invece essa pretende di essere. Anzi, può
essere considerata come un'ultima sofisticata fase del modo di pensare metafisico,
fondazionista, proprio della filosofia europea, da Platone a Cartesio a Kant
all'idealismo e alla fenomenologia, la cui caratteristica è di voler dare alla conoscenza
fondamenti ultimi e possibilmente indubitabili, incontrovertibili.
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(come nel caso della teoria critica della società della Scuola di Francoforte) è
destinata all'autoconfutazione.
Rispetto alla natura logico-contraddittoria della dialettica Derrida propone la
sua strategia della decostruzione. La decostruzione, come si è visto, non perviene
mai ad una nuova sintesi, ma rimane aperta giungendo ad approdi (esiti) mai
conclusivi bensì indefiniti. Procede con un rovesciamento della dualità (della coppia
degli opposti) attribuiendo il primato all'opposto (al concetto) più debole, ma senza
riproporre e definire un "nuovo ordine" rovesciato, il che farebbe ricadere la strategia
decostruttiva nelle trappole della metafisica. Il nuovo opposto o concetto che emerge
dopo il rovesciamento della dualità non viene a sua volta a rivestire un carattere
egemone, gerarchico e violento, tale da ribaltare il precedente ed originario rapporto
di forza, perché il gioco delle opposizioni è senza fine, senza esiti di riconciliazione
in una sintesi superiore. Ad esempio, nella dualità-contrasto capitalisti e proletari la
decostruzione assegna il primato all'opposto più debole, cioè al proletariato, senza
però giungere ad una supremazia definitiva di quest'ultimo nella sintesi di una società
comunista o senza classi, in quanto il rapporto tra i due opposti può sempre,
successivamente, ribaltarsi o dar luogo a differenti ulteriori coppie di opposti (a
differenti assetti sociali). La decostruzione derridiana è un superamento della
dialettica poiché non perviene a sintesi ma esprime l'idea di scritture, di "testi", cioè
di situazioni, in cui le opposizioni duali sono permanenti e, al tempo stesso, variabili.
Il progetto di Derida, dunque, è quello di una decostruzione della "metafisica
della presenza " propria della tradizione occidentale ed accusata, come si diceva, di
"logocentrismo" e "fonocentrismo", ossia di porre al centro la parola, la voce,
nell'illusione di poter cogliere e rendere presente, attraverso la parola e la voce,
l'essere (la totalità della realtà e il suo principio primo) nella sua identità e
originarietà. Ma condividendo e riprendendo a suo modo l'idea heideggeriana della
"differenza ontologica", cioè dell'irriducibilità dell'essere agli enti (l'essere non va
confuso ma è diverso dagli enti di cui anzi è la fonte), Derrida ritiene invece che
l'essere non possa mai essere colto come tale poiché si sottrae a ogni
identificazione (l'uomo non sarà mai in grado di cogliere l'essere, la totalità della
realtà ed il principio primo e originario). In tal senso l'essere è essenzialmente
differenza che sfugge a qualsiasi linguaggio che pretenda di recuperarlo ed
individuarlo nella sua piena identità originaria. L'essere nella sua identità ed origine
non è mai presente come tale, rimanendo sempre nascosto in un gioco di presenza e
assenza. Della totalità originaria dell'essere si hanno soltanto "tracce".
Foucault critica le tesi di Derrida, osservando che nella riduzione a scrittura di ogni
discorso si attua di fatto una specie di metafisica chiusa e dogmatica ben peggiore di
quella che si pretende di oltrepassare. Riducendo tutto a testo si viene ad ignorare,
secondo Foucault, la dimensione vitale e pratica del testo medesimo, trattando, ad
esempio, un testo di "meditazioni" come un testo di tipo "logico-geometrico", il cui
autore è presupposto distante e autonomo (ciò secondo la teoria ermeneutica in base
a cui il testo, una volta prodotto, ha una sua vita propria ed è suscettibile di
interpretazioni indipendenti dalle intenzioni dell'autore). Ma invece la meditazione
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distribuisce e si manifesta) nel tempo. Quando non possiamo mostrare qualcosa, cioè
l'essere presente, allora "significhiamo", cioè facciamo ricorso al "segno", alla
scrittura, che è quindi "presenza differita". Il segno dunque è differente in senso
spaziale da ciò di cui prende il posto e lo differisce (lo pospone) in senso temporale.
Mette per così dire una certa distanza tra noi e la cosa, ossia tra noi e la parola,
assente, della cosa stessa. La differanza pertanto sta alla base di ogni differenza, è
l'origine delle differenze: costituisce e mantiene vive le differenze, che rimangono tali
senza sintesi conciliatrici, determinate e conclusive, volte ad eliminare ogni
differenza.
Derrida mostra come in numerosi autori sia inconsapevolmente presente il
procedimento della differanza: in Nietzsche, quando considera il soggetto non come
qualcosa di originario, cioè come coscienza innanzitutto presente a se stessa, ma
come l'effetto di forze che non sono "presenti" alla coscienza (la volontà di potenza);
in Freud, quando considera la coscienza, il soggetto, come risultato di forze, di
istinti, di traumi (l'inconscio), che evidenziano la differanza nel doppio senso sia
temporale (il trauma subito nel passato ed al presente assente nella coscienza) sia
spaziale (la distanza tra la coscienza e il subconscio); in Heidegger, nel quale la
differenza ontologica tra l'essere e l'ente appare come un risultato della differanza
(l'ente è differente spazialmente dall'essere come pure ne differisce temporalmente);
in Levinas, nel cui pensiero opera ugualmente la differanza come costitutiva delle
differenze che danno luogo all’"alterità", all'incontro con gli altri, differenti da noi.
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Alla base del suo pensiero sta il rifiuto delle pretese idealistiche e
onnicomprensive della filosofia, ossia la critica del concetto, idealistico-
panteistico, di totalità (la realtà concepita come un'unica totalità animata da uno
spirito o principio in essa immnente), che ignora il molteplice, l'altro, l'individuale.
Tali pretese, benché di fronte alla natura finita e mortale del singolo, finiscono per
negare la realtà della morte e del tempo. Pur nascendo dal timore della morte, la
filosofia tenta di circuire (ingannare) l'uomo mediante l'idea del Tutto poiché, certo,
il Tutto non muore ma solo il singolo. Ciò ha spinto la filosofia verso l'idealismo,
trascurando la realtà concreta dell'individuo. Sulle orme di Kierkegaard,
Schopenhauer e Nietzsche, e particolarmente influenzato da Heidegger, Rosenzweig
pone invece in rilievo la concretezza dell’"essere così" dell'uomo e la sua realtà
"indigesta". Però, a differenza di Heidegger, Rosenzweig non considera l'uomo senza
Dio, ma l'uomo immerso in una serie di rapporti al cui vertice stanno la comunità, il
mondo e Dio, nella ricerca di un nuovo pensiero, alternativo a quello della tradizione
filosofica.
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Il pensiero di Buber è incentrato sui temi del dialogo e della relazione. Parte
dall'idea secondo cui l'uomo non è sostanza, cioè non esiste mai da solo ma è una
trama (un intreccio) di rapporti, di relazioni. Giunge così ad una forma di
relazionismo personalista o di personalismo razionalista (ciò che caratterizza la
"persona" rispetto all'individuo è il fatto di essere in relazione con gli altri). Secondo
tale prospettiva, Buber intende conciliare da un lato, sulla scia di Feuerbach, la
relazione dell’"io" con gli altri ma chiusa al rapporto io-Dio e, dall'altro lato, sulla
scia di Kierkegaard, la relazione tra il singolo e l'Assoluto (Dio) ma chiusa al
rapporto con gli altri. Da ciò il suo programma di una nuova antropologia dell'uomo
totale all'interno di una valorizzazione religiosa del tema della comunità.
Buber afferma che il mondo è duplice poiché l'uomo può porsi dinanzi ad esso in
due maniere distinte: nel modo dell'Io-Esso e nel modo dell'Io-Tu. L'Io-Esso
non comprende solo le cose ma anche gli individui: coincide con l'esperienza intesa
come l'ambito dei rapporti impersonali, strumentali e superficiali con le altre cose e
con gli altri individui. L'Io-Tu coincide invece con la relazione intesa come l'ambito
dei rapporti personali, disinteressati e profondi con le cose e con gli altri uomini.
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Questo schema dualistico (che corrisponde in parte a quello di Marcel tra essere e
avere) presuppone che l'Io dell'Io-Esso sia l'individuo, mentre l'Io dell'Io-Tu sia la
persona, qualificata appunto dalla relazione, con la precisazione tuttavia che "Nessun
uomo è pura persona e nessuno è pura individualità. Ognuno vive l'Io dal duplice
volto” (l'uomo non può vivere senza rapporto col prossimo ma neppure può vivere
senza un rapporto strumentale col mondo e con gli individui). L'Io autentico (la
persona) si costituisce unicamente entrando in rapporto con altre persone, in
quanto l'Io "si fa Io ho solo nel Tu": l'Io viene dopo la coppia Io-Tu la quale precede
la coppia Io-Esso; prima c'è il rapporto soggetto-soggetto e dopo viene il rapporto
soggetto-oggetto.
Se la realtà autentica è relazione Io-Tu, personale e disinteressata, allora dove
non c'è relazione ma c'è egoismo non c'è nemmeno realtà. Dire che la realtà
umana è costitutivamente relazione significa dire che essa è costitutivamente
dialogo; la dimensione dell'Io-Esso è quella superficiale del possesso e dell'avere; la
dimensione Io-Tu è quella profonda del dialogo e dell'essere. Il dialogo trova la sua
manifestazione più alta nel rapporto fra l'Io e Dio. Dio è un Tu eterno che non
può essere ridotto all'Esso, cioè ad oggetto di conoscenza e di possesso, come
invece tanta filosofia ha voluto pretendere. Quindi il Dio oggetto di conoscenza
della teologia è un falso Dio. Il Dio vero è quello vivente della Bibbia, da lui
ispirata e rivelata; il Dio vero è un Tu con cui si parla, non un Tu di cui si parla.
Un Dio a cui l'uomo rende testimonianza non con la scienza ma con il suo
impegno a favore del prossimo (a differenza di Kierkegaard per il quale il rapporto
con Dio è solo individuale).
Nella nostra civiltà il Tu divino è stato ridotto ad un impersonale Esso, ovvero
ad un oggetto che la mente dell'uomo pretende di osservare, di conoscere e, in
definitiva, di possedere; gli uomini hanno smesso di considerare il Dio come "Altro",
come l'assolutamente diverso. Questo processo riduttivo di Dio si è accompagnato
allo sviluppo soggettivistico della filosofia moderna che, da Cartesio in poi, è andata
progressivamente dissolvendo l'oggetto nel soggetto: il soggetto, dapprima annesso
all'essere (a Dio) per prestargli il proprio servizio, ha poi superbamente dichiarato di
essere lui stesso a generare l'essere, la realtà (idealismo). Niente da stupirsi quindi
che l'ateismo abbia finito per configurarsi come il tipico prodotto della cultura
moderna. Contro l'ateismo moderno e contro l'idea nietzschiana della morte di
Dio, Buber propone l'originale concetto dell’"eclissi di Dio": Dio non è
(definitivamente) morto ma si è solo (temporaneamente) eclissato, in quanto fra Lui
e noi si è frapposta la massa opaca dell'Esso, ovvero il nostro ego e la sua pretesa di
onnipotenza. Tuttavia Buber è fiducioso nel ritorno di Dio: al di là del nostro
contingente accecamento, Dio continua a brillare come sempre. Non è detto che non
riappaia presto ed ancora più rinvigorito. L'eclissi della luce di Dio non è il suo
estinguersi e già domani ciò che si è frapposto potrebbe ritirarsi.
Il rifiuto dell'individualismo, dell'Io-Esso, non implica tuttavia, in Buber,
l'accettazione del collettivismo. "Se l'individualismo considera solo una parte
dell'uomo, il collettivismo considera l'uomo solo come parte". Buber vi
contropropone il proprio relazionismo personalista che, insistendo sul rapporto
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dell'uomo con l'uomo, riesce a salvare sia la persona che il rapporto sociale. Sul
piano politico il modello è quello del comunitarismo, una forma di socialismo
utopistico contrario al materialismo e al centralismo marxista, sull'esempio dei
villaggi collettivi di Israele.
Filosofo francese di origini lituane, Levinas rivolge i suoi principali interessi ai temi
dell'alterità (degli altri rispetto a noi) e del prossimo. La sua formazione filosofica
è significativamente influenzata da Husserl e Heidegger, apprezzati per taluni aspetti
e criticati per altri.
Della fenomenologia di Husserl apprezza la tensione verso il concreto, la
concretezza, mentre critica invece la rilevanza attribuita, specie dall'ultimo Husserl,
alle essenze e alla trascendentalità. Di Heidegger apprezza soprattutto le analisi di
"Essere e tempo", che testimoniano ciò che può dare la fenomenologia allorché si
applica allo studio dell'esistenza concreta dell'uomo e di quei suoi modi di essere
che sono l'angoscia, la cura e l'essere per la morte. Apprezza pure la distinzione
heideggeriana tra essere ed ente, che definisce come la cosa più profonda grazie
alla tesi secondo cui l'essere non è una statica presenza bensì un dinamico apparire
e accadere. Di Heidegger, per contro, critica la sua compromissione politica col
nazismo ma anche gli esiti della sua ontologia che, allontanandosi dalla
fenomenologia, finiscono per assorbire e subordinare l'esserci (l'uomo) ai giochi
(alle manifestazioni) anonimi dell'essere.
Levinas avverte la necessità di uscire da una concezione astratta e impersonale
dell'essere e distingue perciò tra esistenza ed esistente. Per esistenza intende
quella in generale, l'essere in generale a prescindere dagli esistenti concreti, che è
quindi un indeterminato e opaco "c'è"(in francese "il ya"), c'è un qualcosa.
L'esistente coincide invece con il concretizzarsi dell'esistenza in un ente (l'io)
capace di disporre del proprio essere, definendolo e determinandolo mediante
un'operazione chiamata ipostasi (= trasformazione di un concetto generale in ente
reale), che collega al concetto di istante. Attraverso l’ipostasi l'essere impersonale
perde il suo carattere anonimo e si definisce concretamente in un ente.
Ma l'esistente, secondo Levinas, è destinato a trovare il proprio senso solo con
l'Altro e di fronte all'Altro, ossia nel rapporto interumano e intersoggettivo che, al
posto del dialogo silenzioso del soggetto con se stesso, preveda l'esperienza della
"alterità", dell'incontro col prossimo. Levinas presenta quindi un percorso che va
dall'esistenza all'esistente e dall'esistente all'Altro attraverso tre livelli della
realtà.
Ognuno di questi livelli sottintende uno specifico rapporto col tempo:
1. l'esistenza, l'essere in generale, è propriamente l'assenza del tempo, ossia
l'eternità intesa come ciclico ritorno dell'uguale (nell'eternità passato presente
e futuro vengono a coincidere presentandosi uguali a se stessi);
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sempre un terzo che è sia il mio prossimo sia il prossimo dell'altro che mi è venuto
incontro. Ciò significa che dietro la singolarità di due individui sta la società nel suo
complesso, la quale implica una correzione della asimmetria, dello squilibrio, (A
ama incondizionatamente B anche se non ricambiato) a favore della reciprocità. A
partire dal momento in cui siamo in tre, o di più, occorre paragonare e
giudicare, non basta più il solo amare incondizionatamente. Occorre cioè la
giustizia, uno Stato che imponga limiti rigorosi al privilegio che abbiamo
accordato al primo venuto. Solo a questo prezzo si può restare fedeli al senso di
responsabilità totale. Ma la giustizia, essendo esercitata dalle istituzioni sociali, deve
sempre venire controllata.
Dunque l'amore e la carità (su cui insiste il cristianesimo) debbono sempre
accompagnarsi alla giustizia (su cui insiste l'ebraismo). Giustizia che presuppone
lo Stato e le sue leggi, che a loro volta vanno mitigate dalla misericordia e
controllate dall'etica.
L'importanza attribuita alla relazione etica con l'Altro, che supera la dimensione
impersonale ed egocentrica dell'essere in generale per procedere, al di là dell'essere,
verso l'altruismo, spiega l'innovativa tesi di Levinas secondo cui la morale non è
un ramo della filosofia ma è filosofia prima, cioè la metafisica stessa. Da ciò
l'equivalenza etica= metafisica= religione. L'etica infatti implica non soltanto un
riferimento al prossimo ma anche a quell'Altro per eccellenza che è Dio, l'Altro
a cui rinvia il volto altrui. In questo senso la religione (da "re-ligo"= legare, unire
insieme) esprime il legame tra il Medesimo e l'Altro, quindi è metafisica e anche
etica.
Alla distinzione operata fra totalità e infinito, Levinas fa corrispondere la distinzione
fra ontologia e metafisica. La metafisica allude all'incontro con l'Altro, ovvero a
quell'evento per cui il Medesimo (l'io egocentrico) esce da sé. La metafisica si
accompagna con l'idea dell'infinito, cioè con l'unica idea che, secondo
l'insegnamento di Cartesio, implica un'eccedenza del contenuto (l'infinito) rispetto al
contenente (la coscienza) e che dunque non può essere generata dal nostro spirito.
L'idea dell'infinito infatti non proviene dal fondo del nostro io ma è ricevuta in
concomitanza con l'esperienza dell'altro e rappresenta un "prodigio" tale da
provocare uno sconvolgimento all'interno dell'io, sconvolgimento che si identifica
col desiderio.
Levinas distingue tra bisogno e desiderio. Il bisogno esprime una mancanza o
privazione di qualcosa da parte del soggetto, mancanza che una volta soddisfatta
estingue il bisogno. Il desiderio è invece slancio altruistico, continua tensione mai
soddisfatta verso l'Altro, verso ciò che è più dell'essere. Per Levinas gli altri non
sono né il mio nemico (come in Hobbes e Hegel), né il mio complemento (come in
Platone) che si costituisce solo perché manca qualcosa alla sussistenza materiale di
ciascun individuo. Il desiderio degli altri -la socialità- nasce in un essere che non
manca di nulla o, meglio, nasce al di là di ogni bisogno da appagare: il desiderio si
rivela come bontà.
Dall'identità tra metafisica e rapporto con l'Altro consegue, come abbiamo visto,
l'identità tra metafisica ed etica, la quale è vista come lo spazio concreto in cui la
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uomo e mondo, tra natura e spirito, tra uomo e Dio. Quindi il superamento del
nichilismo implica il superamento del dualismo.
Da ciò il passaggio alla seconda tappa del suo pensiero, caratterizzata
dall'interesse per la natura, ignorata invece dagli interessi teoretici (conoscitivi) e
storici della filosofia. La linea dominante della filosofia tedesca dell'epoca,
rappresentata da un lato dal neokantismo (Habermas e Apel) e dall'altro dalla
fenomenologia e dall'esistenzialismo, lasciava sommersa l'ampia base organica e
fisiologica su cui poggia il "miracolo" della mente. Heidegger ad esempio parlava
dell’"esserci" (dell'uomo) come cura per sé e per gli altri, ma non diceva nulla del
primo fondamento fisico che impone la cura, ossia la nostra corporeità, tant'è che
riduce la natura semplicemente a ciò che è a disposizione, senza tener conto che
l'uomo deve anzitutto mangiare.
Jonas sviluppa quindi una filosofia della realtà organica, una sorta di biologia
filosofica, avente come tema centrale l'organismo. Nell'organismo infatti si
ricompone in unità il dualismo di interno ed esterno, di soggettività ed oggettività,
di coscienza e corporeità, di materia e spirito, superando altresì il tradizionale
dualismo cartesiano. Il rifiuto del dualismo non comporta tuttavia l'adesione ad un
monismo (=esiste un unico principio della realtà) classico, materialistico o idealistico,
giudicati entrambi unilaterali poiché il materialismo assoggetta lo spirito alle leggi
della materia e l'idealismo risolve la materia nelle leggi dello spirito. Da ciò appunto
la sua teoria dell'organismo tesa a salvaguardare sia l'unità materia-spirito della realtà,
sia l'autonomia delle forme, materiali o spirituali, in cui essa si manifesta.
In seguito, con l'evoluzione animale in gradi fisici e psichici sempre più elevati sino
a giungere con l'uomo al proprio vertice, cresce anche la libertà e con la libertà
compare la dimensione etica, terza tappa dello sviluppo del pensiero di Jonas.
L'etica è intimamente legata alla libertà (col determinismo infatti non ci sarebbe né
etica né dover essere: se non vi fosse libertà di scelta tra bene e male non vi sarebbe
merito o demerito e conseguente responsabilità morale) tuttavia, osserva Jonas, il
dover essere (l'etica), pur oltrepassando la condizione dell'essere, si fonda pur
sempre su quest'ultimo. Diviene quindi preoccupazione di Jonas di fondare
l'etica nell'ontologia (l'etica non è autonoma ma è in ogni caso situata nella realtà),
secondo l'idea che il dover essere trascende la teoria dell'essere (della realtà) ma vi
resta comunque sempre radicato. Conformemente all'ispirazione fondamentalmente
teologica del suo pensiero, per Jonas solo un'etica che non spezzi i suoi legami con
la totalità dell'essere, e dunque anche con Dio, può aver rilevanza. Un'etica non
più ancorata all'autorità divina diviene prima o poi vittima del soggettivismo e del
relativismo.
L'ideale di una fondazione ontologica dell'etica ispira altresì la teoria del
“principio di responsabilità”, che caratterizza la filosofia pratica cui infine
approda Jonas, non solo in conseguenza della filosofia dell'organismo ma anche
a causa dello shock provocato dalle potenzialità distruttive della tecnica.
La paura di un'imminente catastrofe tecnologica nasce dalla constatazione che il
sogno di un dominio-sfruttamento illimitato del mondo ha prodotto una situazione in
cui l'uomo è diventato per la natura più pericoloso di quanto quest'ultima sia mai stata
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per lui. È una minaccia che non proviene dal pericolo, evitabile, di un improvviso
olocausto atomico, quanto piuttosto dall'effetto cumulativo di tutta la nostra
tecnologia praticata ogni giorno anche nella sua forma più pacifica.
Jonas non critica la tecnica in quanto tale, divenuta indispensabile alla nostra
sopravvivenza, ma l'uso che ne viene fatto. È quindi necessario elaborare una
nuova etica della responsabilità, profondamente diversa dalle morali tradizionali.
Mentre queste ultime si soffermavano esclusivamente sull'uomo, ossia erano di tipo
antropocentrico e riguardavano soltanto "il qui e ora", cioè la contemporaneità, la
nuova etica deve porsi il problema degli effetti anche a medio e lungo termine
delle nostre azioni e tener conto altresì delle generazioni future e della
salvaguardia della natura. Non possiamo più richiamarci alle consuete etiche della
coscienza o dell'intenzione, ignorando e trascurando le possibili conseguenze dei
nostri atti. Non basta più essere a posto con la propria coscienza od accontentarsi di
regole formali di tipo evangelico o kantiano (il dovere per il dovere). L'attuale civiltà
tecnologica impone l'esigenza di passare da un'etica antropocentrica ad un'etica
planetaria e da un'etica della prossimità (rivolta alla contemporaneità) ad un'etica
dei posteri (attenta alle condizioni di sopravvivenza per le generazioni future). Al
posto del vecchio imperativo categorico kantiano subentra il nuovo imperativo
dell'età tecnologica: "Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano
compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra". Oppure: "Non
mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell'umanità sulla
terra".
Ma perché, si chiede Jonas, dobbiamo sacrificarci per le generazioni future che
siamo destinati a non conoscere mai? Su quale principio filosofico si basa
l'incondizionato dovere di far sì che la vita continui indefinitamente? Quale diritto
possono esercitare coloro che non sono ancora su coloro che ci sono già? A
proposito dei non ancora nati Jonas osserva che non si può, a rigore, parlare di
diritti: il diritto dell'essere inizia soltanto con l'essere. Perché dunque la vita e
l'essere sono un bene da salvaguardare e da preferire al non essere? Si può
rispondere a questi interrogativi facendo riferimento ai fondamenti metafisici
dell'etica, fa presente Jonas. Si è visto che per Jonas l'etica è ancorata (e non
indipendente) alla metafisica. Qual è dunque il fondamento metafisico della
morale?
Al riguardo Jonas è in disaccordo con quasi tutte le correnti dominanti della filosofia
del ventesimo secolo: la filosofia analitica, il positivismo logico, la filosofia del
linguaggio. Queste, in conformità alla legge di Hume per cui non si può passare
dall'essere al dover essere, cioè dalla constatazione dei fatti alla prescrizione dei
valori, sono tutte posizioni che dichiarano filosoficamente accettabili solo quei
problemi per i quali ci si può aspettare una risposta empiricamente verificabile. Ma
Jonas si rifiuta di piegarsi a questa concezione. In alternativa, egli prosegue, una base
all'etica può essere fornita anche da una fede religiosa. Ma poiché la fede non è
"disponibile su ordinazione" (non può essere un comando), siamo ancora una volta
rimandati alla metafisica la quale, essendo una faccenda non di fede ma di ragione, si
presta al nostro argomentare.
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urbanisti, ecc. e deve essere sostenuto da una serie di interventi politici ed economici
a livello internazionale. Dalla sola filosofia non ci si può attendere la salvezza del
mondo. In questa fase di emergenza la filosofia funge piuttosto da stimolo per
l'acquisizione di una coscienza ecologica mondiale e per la responsabilizzazione
etica dell'umanità.
Il timore di una possibile catastrofe ecologica non conduce tuttavia Jonas verso
esiti pessimistici, conservando una moderata fiducia nella ragione dell'uomo perché
anche il dubitare di essa sarebbe irresponsabile e ci condurrebbe ad una rassegnata o
cinica inazione. Pur nella paura della catastrofe tecnologica non dobbiamo
dimenticare che la tecnica è un'opera della libertà umana e che il sapere non deve mai
rinunciare al proprio sviluppo. Insomma, il principio di responsabilità di Jonas
intende mantenersi nel solco del razionalismo occidentale e fungere da sorta di terza
via fra l'eccesso di speranza e l'eccesso di disperazione.
Da ultimo Jonas si è sempre più occupato di tecnologia genetica e di conseguenti
questioni bioetiche. Sull'eutanasia ha espresso la convinzione che il diritto
(individuale) di vivere include in determinate circostanze anche il diritto (individuale)
di morire (malati gravi terminali). Invece, per quanto riguarda la clonazione e
manipolazione genetica dell'uomo volta a rimodellare la specie secondo un modello
scelto da noi stessi, sostiene che noi non siamo autorizzati ad arrogarci un tale ruolo.
Non abbiamo il diritto di intrometterci in quel profondo segreto che è l'uomo. Non
siamo i soggetti che possono ri-creare l'uomo perché siamo stati già creati. L'essere
(la realtà), come coesistenza pacificata e riunificazione dell'uomo e della natura, è in
sé bene. L'uomo è, in particolare, il custode dell'essere e, come tale, è obbligato a
porre dei limiti alla propria azione in nome della struttura ontologica (costitutiva) del
creato.
Poco tradizionale e singolare è peraltro la maniera di concepire i rapporti Dio-
mondo e Dio-uomo, specie di fronte all'olocausto subito paradossalmente proprio dal
popolo eletto di Dio. Noi attribuiamo a Dio il carattere della assoluta e illimitata
onnipotenza. Ma di fronte al male del mondo, di fronte ad Auschwitz, tale attributo
deve venir abbandonato, per quanto scandaloso possa apparire tale abbandono. Dio
non è intervenuto ad impedire a Auschwitz non perché non lo volle ma perché non fu
in condizione di farlo. Infatti, concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla
sua potenza. Se c'è qualcosa di vero nel fatto che l'uomo è stato creato ad immagine
di Dio, e quindi parzialmente partecipe altresì della ragione e della libertà divina, la
creazione fu l'atto di assoluta sovranità con cui la divinità ha accettato di non essere
più assoluta ed onnipotente: un'opzione radicale, un atto di autoalienazione divina, a
tutto vantaggio dell'esistenza di un essere finito, posto in grado tuttavia di
autodeterminare se stesso. Un pensiero di questo tipo contrasta con la visione biblica
di un Dio-Provvidenza e Jonas ne è programmaticamente consapevole, anche se lo
ritiene l'unico possibile per mettere d'accordo la bontà e la comprensibilità
dell'Assoluto. Tuttavia Jonas riconosce pure che ogni teodicea (giustificazione-
spiegazione del male nel mondo), ivi compresa la sua, è soltanto un "balbettio".
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Nasce a Koenigsberg da famiglia ebrea. Tra i suoi maestri vi sono stati Heidegger,
Husserl e Jaspers. Con l'avvento del nazismo è costretta a fuggire dalla Germania e si
rifugia prima in Francia e poi negli Stati Uniti.
Come ebrea assume una posizione assolutamente autonoma: non partecipa al
movimento ebraico per la costituzione dello Stato di Israele, ma neppure sta dalla
parte degli ebrei integrati nel mondo borghese o comunista.
Opere principali: Le origini del totalitarismo; La vita attiva; La banalità del male.
"Le origini del totalitarismo", pubblicata nel 1951, è l'opera che rende famosa
Hannah Arendt in tutto il mondo.
La Arendt individua le cause del totalitarismo nell'antisemitismo da una parte e
nell'imperialismo dall'altra (imperialismo=l'ambizione degli Stati più potenti a
formare vasti imperi, sia attraverso la conquista di territori confinanti sia attraverso la
conquista di colonie, da cui il termine "colonialismo"). Dalla combinazione di
antisemitismo e di imperialismo, dice la Arendt, è nato il totalitarismo con caratteri
comuni sia nella Germania nazista sia nell'Unione Sovietica. Totalitario (da cui il
termine di "totalitarismo") è quello Stato che vuole governare e regolare "tutto", non
solo la vita pubblica ma anche la stessa vita privata dei cittadini, regolare cioè anche
il loro modo di pensare e i loro comportamenti; di conseguenza lo Stato totalitario è
quello che abolisce la libertà di parola, di associazione e la libera iniziativa ed azione
dei cittadini.
Il totalitarismo, prosegue la Arendt, è un fatto nuovo del XX secolo, diverso dai
tradizionali regimi dispotici, tirannici o dittatoriali. In esso le diverse classi sociali
che compongono la società sono trasformate in una massa indifferenziata di
individui; sono aboliti i diversi partiti politici e vengono sostituiti con la dittatura di
un partito unico e con la costituzione di un potere politico centrale che non lascia
spazi all'esistenza di governi locali (Regioni, Province, Comuni) dotati di una certa
autonomia. Tutte le decisioni sono prese da un unico centro e gli enti locali hanno
solo il compito di attuarle ed eseguirle. Gli strumenti con cui si impone lo Stato
totalitario sono quelli di una burocrazia statale onnipotente, della polizia segreta e dei
campi di concentramento, nei quali si rinchiudono ed anche si eliminano gli
oppositori.
I totalitarismi sorgono quando prevalgono ideologie (modi di pensare) autoritarie
e, appunto, totalitarie, come il nazismo, il fascismo, il comunismo, che credono loro
soltanto di sapere quale debba essere la forma giusta della società e quale sia il senso
e il cammino della storia. Sono ideologie che pretendono di imporre a tutti, anche con
la forza e con il terrore, il loro modo di considerare la società e l'andamento della
storia, perché loro soltanto si ritengono in possesso della verità.
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La vita attiva.
Nell'opera "La vita attiva" (il titolo esatto è "La vita activa"), pubblicata nel 1958, la
Arendt si propone di spiegare quali siano state le cause culturali e sociali che hanno
portato all'estraniazione, cioè al disinteresse degli individui della società di massa per
i problemi sociali e politici, favorendo l'avvento dei totalitarismi: se i singoli
individui non si occupano più di politica saranno allora i regimi totalitari ad occuparsi
di loro.
La vita attiva riguarda l'attività umana, "ciò che gli uomini fanno", e si distingue
dalla vita contemplativa, che riguarda ciò che gli uomini pensano, vogliono e
giudicano.
Tre sono per la Arendt le principali attività umane in cui si può suddividere la
vita attiva:
1. l'attività lavorativa (animal laborans), riguardante quelle attività umane,
simili a quelle degli animali, che l'uomo svolge per garantire la sua
sopravvivenza naturale e biologica (mangiare, vestirsi, avere una casa);
2. l'attività produttiva (homo faber), che riguarda tutti i prodotti artificiali che
l'uomo costruisce per migliorare la propria vita e che vanno oltre le naturali
necessità del mangiare, del vestirsi ed avere un rifugio (ad esempio i
divertimenti, le macchine, ecc.);
3. l'attività politica (animal publicum), che riguarda le regole sociali, del vivere
in società, che l'uomo si dà.
La Arendt osserva che è stata attribuita una maggiore importanza alla vita politica
soprattutto nell'antica Roma, mentre, col tramonto dell'impero romano e con
l'affermarsi della società cristiano-medioevale, rileva che la vita attiva si è
indebolita ed ha acquistato maggior importanza la vita contemplativa, dal
momento che la vita ultraterrena veniva considerata superiore a quella terrena e a
quella politica e sociale. Ma già fin da Platone ed Aristotele la vita contemplativa,
del pensiero e della conoscenza pura, venne considerata più importante della vita
attiva: la teoria fu ritenuta superiore alla prassi. Il cristianesimo non fece che
confermare questa tendenza.
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Con l'avvento dell'età moderna, a seguito della rivoluzione scientifica del 1600, la
vita attiva torna a divenire superiore rispetto alla vita contemplativa, ma non per
quanto concerne l'attività politica bensì solo per l'attività lavorativa e
produttiva. Il vero iniziatore dell'età moderna è stato Cartesio, che con il suo dubbio
(dubbio cartesiano) ha invitato ad accettare per vero solo ciò che appare chiaro e
distinto all'intelletto, assolutamente evidente, e ha quindi favorito lo sviluppo di
filosofie propense a dubitare di ogni tentativo di comprendere le essenze (il senso
profondo) del mondo nonché di conoscere le cose non prodotte dall'uomo. Il dubbio
si è successivamente esteso anche al senso del sacro e del divino, dando avvio al
processo di secolarizzazione (desacralizzazione) della società contemporanea.
La maggior importanza attribuita alla vita attiva, fermatasi all'attività
lavorativa e produttiva materiale ed al venir meno dell'interesse per la politica, è
un fenomeno che si è diffuso soprattutto con l'avvento della società industriale e
della società di massa e dei consumi. L'individuo della società di massa è divenuto
più egoista, maggiormente preoccupato del proprio benessere materiale, trascurando
sempre di più l'impegno politico e sociale. Tale disinteresse crescente nei confronti
dei problemi politici e sociali ha agevolato l'affermarsi dei totalitarismi, poiché
quando gli individui non si preoccupano di difendere la loro libertà e non partecipano
più alla vita politica, o sempre di meno, i regimi totalitari ne approfittano per imporsi.
Duplice è stato per la Arendt lo sviluppo culturale e sociale negativo che ha
caratterizzato l'odierna società di massa:
1. l'aver attribuito minor importanza all'attività politica rispetto a quella lavorativa
e produttiva;
2. l'aver attribuito maggior importanza alla vita attiva rispetto a quella
contemplativa, poiché se è sbagliato considerare la vita contemplativa più
importante di quella attiva è pure sbagliato considerare più importante la vita
attiva. Entrambe devono avere invece pari ed uguale valore. La vita
contemplativa infatti, riguardando il pensare, il volere e il giudicare, riguarda
l'esigenza di dare un senso, un significato ed uno scopo a quello che si fa, cioè
alla vita attiva. Non basta fare tanto per fare o per riempirsi di prodotti
materiali. Occorre anche comprendere il valore conoscitivo e morale di ciò che
si produce, se è cioè utile e vantaggioso non solo per il benessere materiale ma
anche per lo sviluppo culturale, sociale e spirituale dell'umanità.
Gerusalemme", nel quale amaramente osserva che possono fare il male, come
Eichmann, anche persone che non si sentono e non intendono essere malvagie.
Eichmann infatti era davvero, per il resto, un buon padre di famiglia, un burocrate
ordinato e meticoloso, una persona normale o, si può dire, un uomo "banale".
Tuttavia anche il più normale degli uomini può commettere il male senza rendersene
veramente conto, il che non cancella la colpa, se sta dentro ad un meccanismo
politico-sociale e ad un regime totalitario poliziesco che lo spingono ad agire e a fare
il male senza pensare e pensarci.
Da ciò l'importanza di una vita attiva che non si limiti passivamente e
meccanicamente all'attività lavorativa e produttiva, ma che partecipi invece
consapevolmente anche all'attività politica. Da ciò, altrettanto, l'importanza
della vita contemplativa accanto a quella attiva, per la necessità di non agire
meccanicamente e passivamente, bensì di capire e rendersi conto del senso e del
significato di ciò che si fa, rifiutandosi quindi, anche se imposte, di compiere azioni
malvagie contrarie alla coscienza morale.
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Gli sviluppi della società e della cultura contemporanea non hanno mancato di
produrre profonde ripercussioni anche in campo religioso. La teologia è stata
indotta a confrontarsi con nuovi problemi politici, economici, sociali e di costume
(secolarizzazione, società del benessere e dei consumi) nonché con la realtà sempre
più diffusa dell'ateismo.
Sebbene affondi le sue radici nel razionalismo e nell'illuminismo, l'ateismo filosofico
si è sviluppato soprattutto nell'Ottocento, con i cosiddetti "i maestri del sospetto",
vale a dire Feuerbach (Dio è una proiezione illusoria dei desideri umani), Marx (la
religione è la falsa coscienza di un mondo alienato), Nietzsche (Dio è morto e il
mondo ultraterreno è una menzogna), ed altresì con i movimenti filosofici del
positivismo (la religione è una forma di conoscenza pre-scientifica),
dell'esistenzialismo, del neoempirismo, del neomarxismo e della psicoanalisi
freudiana (la religione è una forma di nevrosi infantile). Mentre nell'Ottocento
l'ateismo era ancora un fatto intellettuale e di élite, nel Novecento si estende a fasce
sempre più vaste di persone.
I problemi sociali, politici ed economici pongono alle Chiese l'esigenza di
confrontarsi sulla questione sociale, sulle lotte di emancipazione dei popoli del Terzo
mondo, sulla "sfida marxista". L'incontro con questo insieme di fenomeni ha
stimolato da parte dei teologi, soprattutto dell'area protestante ed americana, un
ampio dibattito sul problema della secolarizzazione, della società del benessere e
del comunismo materialista, nella persuasione di un possibile e necessario
rinnovamento della teologia contro l'ateismo e contro l'umanesimo immanentistico
(che nega la trascendenza divina).
Entro la fondamentale distinzione fra teologia protestante e teologia cattolica,
emergono cosiddette "nuove teologie" distinguibili in sei principali indirizzi:
1. le teologie legate alla problematica della secolarizzazione, tra cui la teologia
della morte di Dio;
2. le teologie legate alle problematiche del concilio Vaticano Secondo (1962-
1965) e del rinnovamento del pensiero cattolico (K. Rahner);
3. le teologie legate alla problematica della speranza (Moltmann, Pannemberg);
4. le teologie legate alle problematiche della liberazione e della prassi (teologia
della liberazione, teologia politica, teologia nera, teologia femminista, ecc.);
5. le teologie legate alle problematiche ermeneutiche ed epistemologiche;
6. le teologie legate alle problematiche dell'identità e della specificità cristiana
(H. V. Balthasar).
Mentre i primi cinque indirizzi presentano punti di vista in comune e tutti mirano ad
un confronto con la modernizzazione, il sesto indirizzo è invece caratterizzato
dall'intento di recuperare la tradizione cristiana ponendosi, al limite, in una
prospettiva antimoderna in reazione a certo "modernismo" degli indirizzi precedenti.
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occorre demitizzare, cioè scoprire il significato più profondo del Vangelo e del
cristianesimo celato sotto le concezioni mitologiche. Nel mito l'uomo viene posto di
fronte all'esperienza della sua incapacità di dominare il mondo e di comprendere la
vita, così come viene indotto a riconoscere che il mondo e la vita hanno il loro il
fondamento ultimo in una entità trascendente. Ma il pensiero moderno, ed in
particolare l'esistenzialismo, considera l'esistenza dell'uomo come un modo di essere
completamente diverso dalle altre cose e riconosce la storicità dell'esistenza in quanto
essa si realizza nel tempo attraverso scelte o decisioni responsabili. Allora per
Bultmann si tratta di essere preparati a scegliere e a ricevere la parola di Dio e la sua
grazia. La parola della salvezza divina può raggiungere l'uomo perché egli ha una
pre-comprensione della propria esistenza che lo apre alla fede e lo predispone a
decidere per essa, a decidere cioè per il suo abbandonarsi a Dio e per l'inserzione
dell'eternità nel tempo.
È persuaso, al pari di Barth, che la teologia naturale, fondata sulla sola ragione che
caratterizza la natura umana, non è valida. Nelle prove dell'esistenza di Dio si vuole
derivare Dio dal mondo, ma se Dio è derivato dal mondo non può essere colui che lo
trascende infinitamente.
Influenzato dall'esistenzialismo, il progetto di Tillich è quello di una teologia in grado
di rispondere agli inquietanti interrogativi dell'uomo contemporaneo. L'uomo, in
quanto essere ed esistenza finita, è in preda ad una strutturale angoscia che solo la
fede riesce a trasformare in "coraggio di esistere", di affrontare la precarietà
dell'esistenza. Anche per Tillich la fede è un dono di Dio ma, diversamente da
Barth, non pensa che essa sia opera esclusiva di Dio. La fede è una scelta
esistenziale dell'uomo alla ricerca di un significato autentico dell'esistenza ed è, in
corrispondenza, la risposta di Dio alla domanda di una vita non ambigua. Quindi tra
l'uomo (ontologicamente misero e disperato) che chiede e Dio che dona c'è
correlazione e non quell'abisso voluto da Barth.
mondo, per alleviarne le sofferenze che Cristo ha condiviso. Il mondo è assunto come
luogo decisivo della fede: la Chiesa deve prendere parte alla vita sociale degli uomini
non per dominarli ma per aiutarli e servirli.
È una tendenza teologico-filosofica sorta negli Stati Uniti negli anni Sessanta del
Novecento la quale, accettando l'avvenuta secolarizzazione dell'età presente, è giunta
proclamare la "morte di Dio", intendendo con questa espressione concetti diversi:
che è venuta meno l'idea tradizionale di Dio; che il nostro è il tempo dell'assenza o
del silenzio di Dio; che al posto di Dio Padre subentra Cristo quale modello di
impegno morale e sociale nel mondo; che Dio non esiste realmente ma idealmente;
ecc.
Sono brevemente richiamati di seguito alcuni esponenti.
Allievo di Barth, fa ricorso alle categorie (ai concetti) della filosofia empirica ed
analitica anglo-americana. La filosofia della nostra epoca secolarizzata è quella
analitica e l'analisi linguistica. La filosofia analitica ha tracciato una linea di confine
tra le proposizioni verificabili delle scienze naturali e quelle non verificabili della
metafisica e della religione. Queste ultime proposizioni non sono conoscitive ma
esprimono solo emozioni. Sono non-sensi dal punto di vista cognitivo che
riacquistano un senso solo interpretandoli in un'ottica etico-umanistica. Il linguaggio
cristiano, pertanto, è semplicemente un linguaggio emotivo od esortativo, che deve
illuminare gli uomini circa gli atteggiamenti da prendere. La fede cristiana non
consiste in affermazioni teologiche sulla natura ultima delle cose, ma è un certo modo
di considerare la situazione umana (ateismo semantico).
Successivamente, adoperando "il principio d’uso" secondo i diversi contesti
linguistici del secondo Wittgenstein, Van Buren offre una più aggiornata
interpretazione dell'esperienza e del linguaggio religiosi. Costruisce un modello del
linguaggio umano collocato come su di una piattaforma. Al centro della piattaforma
c'è il linguaggio in cui noi ci muoviamo bene, c'è il linguaggio "regolato" della
scienza e della vita quotidiana. Le regole d'uso (del linguaggio) valide al centro
vengono poi estese in periferia ed abbiamo le metafore, le analogie, ecc. Possiamo
anche tentare di allontanarci ulteriormente dalla periferia e allora rischiamo di cadere
nel non senso: ci è possibile dire che "un calcolatore pensa", ma possiamo dire che "il
calcolatore ci ama"? Altrettanto, se è possibile dire che "la città cresce", ha senso dire
che "una pietra cresce"? Tuttavia, oltre agli uomini che hanno deciso di vivere al
centro della piattaforma, ve ne sono altri per cui tale vita è insopportabile e si sentono
invece attratti dalle "frontiere" del linguaggio, persuasi che più ampio è lo spettro del
linguaggio che si adotta più ricco è il mondo in cui ci si trova. Di conseguenza amano
i paradossi e rompono con gli schemi usuali del linguaggio. Ebbene, proprio alle
frontiera del linguaggio vive e palpita il discorso religioso, che in esse ha un senso
e non al centro. Quando diciamo che "Gesù morì sotto Ponzio Pilato" ci muoviamo al
centro della piattaforma; quando diciamo che "Gesù è morto per la nostra salvezza"
siamo alla periferia; ma allorché gli evangelisti ci dicono che "Gesù è risorto dalla
morte" allora siamo all'ultima frontiera. Qui inciampiamo nel non-senso e a questo
punto il cristiano deve abbandonarsi alla fede, deve rischiare il non-senso se
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Se la teologia della morte di Dio ricorre, con Van Buren, alle categorie tipiche della
filosofia empiristica ed analitica, la teologia della speranza ricorre alle categorie
della filosofia hegeliano-marxista. Intende cioè rispondere alla sfida marxista
nella prospettiva della speranza di Bloch. La forza di un futuro ancora aperto alla
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rispetto a quelle europee, poiché il campo specifico in cui essa opera è la situazione
peculiare dei popoli latino-americani oppressi e in miseria. Ancora più netta è la
distanza dalle teologie nord-americane. Le teologie europee ed americane sono
elaborati in contesti cristiani di ricchezza; loro fondamentali preoccupazioni sono la
secolarizzazione, il materialismo e il consumismo. Loro interlocutore è l'uomo
secolarizzato, il non-credente. La teologia latino-americana della liberazione è invece
elaborata in un contesto cristiano di miseria e di sfruttamento; sua fondamentale
preoccupazione è la giustizia e la liberazione degli oppressi. Suo interlocutore non è
il non-credente ma il "non-uomo".
Prima di essere una proposta teologica è una denuncia critica delle condizioni
politico-sociali del Sud America. Ha avuto il maggior sviluppo soprattutto tra il 1965
il 1968 e i suoi maggiori esponenti sono stati Segundo Galilea, padre Camillo
Torres (che parla di una teologia della rivoluzione antiimperialista) e G. Gutierrez.
Due sono le tesi centrali della teologia della liberazione:
1. l'idea di una teologia a posteriori, ossia costruita a partire dalla prassi: la
teologia è un "atto secondo", un riflettere che viene dopo l'azione. La retta
azione precede la retta opinione. Alle inevitabili accuse di politicizzazione
della fede e di riduzione della fede a prassi, controbatte che le liberazioni
storiche non sostituiscono la redenzione e che la fede è resa semmai più
autentica nella prassi;
2. l'assunzione della prospettiva (del punto di vista) del povero e la battaglia in
suo favore: i cristiani, rifacendosi al senso genuino del Vangelo, debbono
compiere una scelta a favore dei poveri e degli oppressi, ponendo la Chiesa di
fronte all'inequivocabile bivio di farsi complice del potere o patria dei poveri.
Sostiene l'esistenza di un "peccato sociale", che non riguarda solo i
comportamenti individuali ma anche le strutture sociali, economiche, politiche
e culturali ingiuste. La povertà costituisce un male, uno stato scandaloso,
insopportabile per ogni cristiano.
La teologia nera.
È nata verso la fine degli anni ‘60 del Novecento, in connessione con i movimenti di
Martin Luther King, di "Potere nero" e delle "Pantere nere", nell'ambito della società
plurirazziale statunitense. Prende le difese dei neri, oppressi dalla colonizzazione e
dalla schiavitù, e denuncia la "teologia bianca", dominata da egocentrismo.
James Cone è fautore di una linea dura. Prima si deve attuare l'emancipazione della
gente nera dall'oppressione bianca e solo dopo si potrà parlare di riconciliazione con i
bianchi: ora dobbiamo preoccuparci della giustizia, non dell'amore.
Maior Jones e Deotis Robert sono esponenti di una linea più moderata e sono
rappresentanti di una teologia nera della speranza. Il problema non è quello di
sostituire al segregazionismo bianco il separatismo nero, ma di mirare a una comunità
oltre il razzismo, che includa bianchi e neri.
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William Jones occupa una posizione a sé. La teologia nera risulta logicamente
contraddittoria poiché, presentando Dio dalla parte dei neri, urterebbe contro la verità
della loro oppressione passata e presente. Pone quindi la questione della "teodicea
nera", cioè della giustizia di Dio in rapporto ai neri, che finora non si è manifestata.
Da ciò appunto la contraddizione fra la teoria cristiana di un Dio di amore e di
giustizia e l'esperienza storica dell'abbandono dei neri all'oppressione e all'ingiustizia.
Le difficoltà della teodicea nera possono essere sbloccate o attraverso un umanesimo
secolare, non teista, vedendo nell'uomo (e non anche in Dio) l'unico autore e
responsabile del male e del bene della storia; oppure tramite una revisione profonda
del teismo (fede in Dio) tradizionale, in grado di rinunciare a vedere in Dio "il Dio
della storia" (che interviene in essa) poiché, altrimenti, si finirebbe col vedere in Dio
un "razzista bianco".
La teologia femminista.
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LA NEOSCOLASTICA.
Nucleo centrale del suo pensiero è la criteriologia, cioè l'individuazione del criterio
per distinguere la verità dall'errore nonché per distinguere la giusta relazione tra
gnoseologia e ontologia. La verità risiede nel giudizio, cioè nel rapporto fra il
soggetto ed il predicato ad esso attribuito. Chi ci garantisce che i termini del giudizio
siano in corrispondenza adeguata con le cose? Afferma al riguardo Mercier che
quando l'esperienza dei dati sensibili è ripetuta e controllata essa ci permette di
giungere alla forma intellegibile delle cose, ossia al concetto, alle categorie, e ci dà
sufficiente garanzia di oggettività. L'impostazione è quindi di realismo gnoseologico,
basato sulla teoria dell'astrazione e sul metodo dell'induzione. In tal senso è agli
antipodi di Cartesio e di gran parte del pensiero moderno, incentrato sul soggetto
conoscente. Si contrappone anche al positivismo, giudicato cattivo difensore della
scienza perché restringe ogni nostra conoscenza entro la sola esperienza sensibile e
quindi è in grado di garantire al massimo certezze singole ma non concetti universali
e teorie generali.
Oltre a queste proposizioni di ordine reale, Mercier analizza anche le proposizioni di
ordine ideale, mostrandosi allineato col pensiero contemporaneo più avanzato. Le
proposizioni di ordini ideale sono giudizi analitici. Tuttavia, contro Kant, Mercier
afferma che i giudizi matematici sono giudizi analitici capaci però di ampliare la
conoscenza. Afferma che anche le proposizioni metafisiche, come il principio di
causalità, sono giudizi analitici. Quando stabiliamo il principio per cui "l'esistenza di
ciò che è contingente esige una causa", noi siamo costretti all'assenso, giacché in tale
principio c'è identità tra soggetto ed oggetto: infatti "contingente" è ciò che esige una
causa, per cui il principio diventa: "ciò che esige una causa esige una causa".
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grazia (Lutero), ragione e fede (Cartesio), natura e ragione (Rousseau), e una "pars
costruens" (la proposta di un nuovo umanesimo).
Nella sua pienezza integrale l'uomo non può essere considerato soltanto nel suo
essere naturale ma anche in quello soprannaturale. Il nuovo umanesimo proposto è un
approfondimento del tomismo finalizzato a rendere possibile una conciliazione di
premoderno e moderno in quello che l'uno e l'altro hanno di positivo, superando il
pregiudizio antropocentrico e naturalistico e facendo spazio anche alla trascendenza
che pure contraddistingue l'essere uomo. Questo nuovo umanesimo non ha niente in
comune con l'umanesimo borghese individualista ed è tanto più umano in quanto non
è circoscritto alla naturalità dell'uomo ma si estende altresì, operando nel campo del
sociale e della solidarietà comunitaria, alla spiritualità ed alla disponibilità umana
verso la trascendenza. L'essere umano non è né mera creatura naturale né mera
creatura spirituale. Egli è "persona", vale a dire centro di unificazione contro le
culture della separazione di Lutero, Cartesio e Rousseau. L'uomo è unità di natura e
spirito, di corpo e ragione; è un essere dotato di responsabilità, di intenzionalità, di
valori ed è, ancor più, un essere sociale. Solo la società assicura all'individuo le
precondizioni necessarie alla realizzazione di molte delle sue potenzialità. Ma la
società che permette la realizzazione della persona che, in quanto tale, si qualifica
non come individuo in sé bensì come relazione con gli altri, col mondo e con la
storia, non è la società totalitaria di destra o di sinistra bensì la società pluralistica, la
comunità solidale.
Tre sono le fasi del pensiero in cui Maritain sviluppa questa sua concezione: nella
prima rivolge la sua critica nei confronti del positivismo e dell'idealismo, proponendo
una rinascita del tomismo contro le culture della separazione; nella seconda la critica
riguarda per un verso l'individualismo borghese e per l'altro il collettivismo marxista,
proponendo una nuova cristianità; nella terza la critica concerne il relativismo e il
nichilismo, proponendo la liberazione di una nuova spiritualità.
Ispirandosi alle sue concezioni di fondo, Maritain compie studi notevoli su tre temi
caratteristici della nostra cultura: sulla pedagogia, sull'arte e sulla politica.
Per Maritain l'educazione è un'arte, una saggezza pratica che deve servire la natura
umana ai fini della formazione della persona. La formazione della persona è al tempo
stesso personale e sociale; dunque è formazione alla vita democratica. I mezzi
dell'educazione non sono l'imposizione ma i valori umani e scientifici e soprattutto
l'azione morale dello stesso educatore che coopera con l'educando.
Per quel che concerne l'arte, Maritain si oppone alle estetiche romantiche. L'arte per
Maritain è radicata nell'intelletto, perciò è vano il tentativo dell'arte moderna di
liberarsi dalla ragione. Tuttavia la ragione che opera nell'arte non è quella logica e
discorsiva (dimostrativa), ma quella intuitiva, animata dall'immaginazione e dai
fattori inconsci e preconsci dell'anima: è una ragione creativa. Sono quindi respinti
sia l'intellettualismo che l'irrazionalismo estetici. L'arte è autonoma dalla morale in
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IL PERSONALISMO.
Nasce in Francia con Emmanuel Mounier e si sviluppa attorno alla rivista "Esprit",
fondata da Mounier nel 1932. Jean Lacroix, dopo Mounier, ne è un esponente di
rilievo; lo stesso Maritain si è largamente ispirato al personalismo.
L'idea centrale è quella di "persona", concepita non come "sostanza" ma come
"relazione" nella sua libertà, creatività e responsabilità, incarnata in un corpo, situata
nella storia e per sua natura comunitaria. Il Personalismo si presenta come un'analisi
del mondo moderno e come una protesta contro le sue degenerazioni, prospettando
una via di uscita dalla crisi attraverso una "rivoluzione personalistica
comunitaria", fondata sulla fede cristiana. Esso sorge dalla crisi del 1929, che ha
segnato la fine della prosperità europea, e rivolge le sue attenzioni alle rivoluzioni in
corso. Alle inquietudini e alle sventure che allora cominciavano alcuni davano una
spiegazione puramente tecnica, altri puramente morale. Il Personalismo invece
pensa che il male sia ad un tempo economico e morale, insito nelle strutture
sociali e nei cuori. Il rimedio quindi sta in una rivoluzione economica e spirituale
volte alla costruzione di una "comunità di persone" e di significative iniziative
politiche.
Principi del Personalismo sono:
1. una posizione di indipendenza rispetto ai partiti e ai raggruppamenti, che lasci
al singolo una sufficiente libertà di azione;
2. l'affermazione dei valori dello spirito accompagnata da una rigorosa
precisazione delle condizioni di attività e dei mezzi;
3. la stretta unione di "spirituale" e "materiale";
4. la liberazione da ogni dottrina a priori per essere pronti a tutto, anche a
cambiare direzione pur di restare fedeli alla realtà e al proprio spirito;
5. il senso della continuità storica, che ci impedisce di accettare il mito della
rivoluzione come "tabula rasa", ossia come rifondazione ex novo; una
rivoluzione non può aver successo se punta a una totale trasformazione sociale,
deve piuttosto mirare ad una profonda revisione dei valori, ad una
riorganizzazione della struttura e a un rinnovamento delle classi dirigenti.
Si rilevano temi personalistici in correnti differenti: in una certa tendenza
esistenzialistica (Ricoeur), in una certa tendenza marxista e in una tendenza più
classica, più vicina alla tradizione introspettiva della filosofia francese (Jean
Lacroix).
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parassitismo: contro la natura, poiché basato sul denaro che si trasforma in tirannide;
contro l'uomo, poiché basato sullo sfruttamento del lavoro che non rispetta la dignità
della persona. Paradossalmente, il capitalismo è nemico anche della proprietà privata,
giacché priva il salariato del suo profitto legittimo. La dottrina di Mounier sulla
proprietà segue il pensiero cristiano medievale: il fondamento della proprietà è
inseparabile dalla considerazione del suo uso, cioè dalla sua finalità. Mounier auspica
la formazione di persone collettive, cioè organizzazioni di persone responsabili che
diano vita a distinte forme economiche secondo le diverse condizioni di produzione.
La concezione e quella di un'economia pluralista.
Ma Mounier non risparmia critiche anche al marxismo. Pur riconoscendo al
marxismo perspicacia in molte analisi, dedizione alla causa dei più deboli e anelito di
giustizia, tuttavia Mounier lo respinge per svariate ragioni: perché è figlio ribelle, ma
sempre figlio, del capitalismo in quanto anche il marxismo riafferma il primato della
materia (della struttura economica); perché sostituisce al capitalismo un altro
capitalismo, quello di Stato; perché professa un ottimismo della collettività che
implica un pessimismo radicale della persona; perché sul piano storico ha condotto a
regimi totalitari; perché mira a sostituire l'imperialismo capitalista con un
imperialismo socialista; infine, perché un cristiano non può dare completa adesione
ad una filosofia che neghi o misconosca la trascendenza. Il realismo cristiano
configura invece la storia umana attorno a due poli, quello materiale e quello
soprannaturale.
Alle critiche nei confronti delle concezioni filosofiche e delle strutture sociali
antipersonalistiche, Mounier fa seguire il suo programma di società personalistica
e comunitaria. Del tutto opposte a questa società sono la società di massa, con la sua
tirannia dell'anonimo; la società fascista, con il suo capo carismatico e la sua febbre
mistica; la società chiusa di tipo organicistico-biologico, ma anche la società
esclusivamente fondata sulla concezione contrattualistica e giusnaturalistica
illuministica, in cui il contratto sociale che sta alla sua base non è un rapporto
interpersonale ma è, invece, un compromesso di egoismi. Per contro, la società
personalistica comunitaria di Mounier si fonda sull'amore che si realizza nella
"comunione", allorché la persona "prenda su di sé ed assuma il destino, la sofferenza
e la gioia degli altri e il dovere verso gli altri. Questo tipo di società è un'idea-limite
di natura teologica (si pensi all'idea cristiana del corpo mistico), che non potrà mai
realizzarsi in termini politici ma che funziona da ideale regolativo.
Difensore, sempre in base all'idea di persona, dei diritti della donna, avversario di
ogni forma di razzismo e di xenofobia, difensore di una scuola e di un'educazione che
non sia appannaggio dello Stato, assertore delle autonomie locali, Mounier vede la
nuova società farsi lentamente strada attraverso la crisi della società capitalistica,
scorgendo i primi abbozzi di un mondo socialista (non marxista) che deve svilupparsi
mediante l'abolizione del proletariato e la sostituzione ad una economia anarchica,
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Mentre Mounier suole ripetere che è importante riconciliare Marx con Kierkegaard,
cioè con un cristianesimo esistenzialistico-sociale e talora con esiti mistici, Lacroix
pone l'attenzione, al contrario, proprio sulle differenze che caratterizzano il
personalismo nei confronti dell'esistenzialismo e del marxismo.
Il marxismo vuole non tanto fare della storia una scienza, quanto piuttosto dare
un'interpretazione storica di ogni scienza. Ma l'uomo non ha esclusivamente una
dimensione storica. Egli è un essere al tempo stesso duplice e contraddittorio, legato
al tempo e all'eternità (la tensione e l'apertura verso l'assoluto).
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FEMMINISMO E FILOSOFIA
A partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento si afferma l'esigenza di
un'elaborazione più strettamente teorica e filosofica capace di riflettere le esperienze,
i saperi e le pratiche maturati all'interno del movimento femminista. Da tale esigenza
muovono le pensatrici che, in Francia e in Italia, introducono "il pensiero della
differenza sessuale".
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Agli inizi degli anni Ottanta le riflessioni di Luce Irigaray vengono riprese e adattate
al contesto storico-culturale italiano in cui il movimento delle donne degli anni
Sessanta e Settanta si è maggiormente radicato. Tra i gruppi di studiose provenienti
dal movimento femminista emerge la comunità di filosofe, sorta presso l'università di
Verona, nota come "Circolo di Diotima". Una delle figure di spicco del gruppo (dal
quale peraltro in seguito si distaccherà) è Adriana Cavarero, pensatrice italiana della
differenza sessuale tra le più affermata sulla scena internazionale.
Cavarero applica il pensiero della differenza sessuale all'esame del discorso filosofico
dalle origini greche all'età contemporanea giungendo, a conclusione dell'analisi, a
diffidare della pretesa neutralità e falsa universalità del linguaggio e del pensiero
filosofico occidentale. La diffidenza matura a partire dalla constatazione del fatto
che, storicamente, il soggetto del discorso filosofico non è un soggetto sessualmente
neutro, come si vorrebbe far apparire, ma un soggetto sessuato maschile che si è
posto come soggetto universale, deputato a stabilire l'ordine linguistico e concettuale
culturalmente dominante. Spetta quindi alle donne di sottrarsi alla trappola del
linguaggio, benché ciò costi molta fatica e non poche difficoltà. Infatti, nel
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La critica del patriarcato, ritenuto responsabile di quella divisione dei "generi" in base
a cui è stato secolarmente giustificato il dominio del "maschile" sul "femminile", è
stato il motore fondamentale del pensiero femminista. Nella lotta di liberazione
contro tale dominio è inoltre emersa l'esigenza etico-politica di libertà e dignità della
persona che ha caratterizzato il movimento femminile, quale si è espressa nel
pensiero della valorizzazione della differenza e nel concetto di affidamento.
La riflessione morale ha costituito in effetti uno dei contributi fondamentali
offerti dal pensiero femminista, e da quello statunitense per primo, al dibattito
filosofico contemporaneo. In tale contesto una delle proposte teorico-morali che ha
avuto maggior risonanza è individuabile in quella nota come "etica della cura",
tradizionalmente esercitata dalle donne e che si fonda sul valore dell'accudimento,
del farsi carico dei bisogni dell'altro, della condivisione affettiva.
Virginia Held, filosofa statunitense contemporanea, ha dedicato ai temi della morale
femminile un ampio volume intitolato "Etica femminista". Ella si chiede in
particolare quali contributi specifici alla risoluzione dei problemi morali del nostro
tempo possa portare la teoria morale femminista, domandandosi in tal senso se esiste
una soggettività morale specificatamente femminile, ovvero se è possibile
riscontrare una differenza tra uomini e donne nel modo di fronteggiare situazioni
moralmente conflittuali. La Held risponde positivamente richiamandosi agli studi
della psicologa Carol Gilligan, dai quali era emersa la tendenza delle donne a fondare
i giudizi morali, anziché sulla base di teorie astratte, soprattutto sui legami concreti e
sui sentimenti di simpatia e di compassione derivanti dall'esperienza del "prendersi
cura" a loro secolarmente relegata. Proprio tale attitudine morale, sostiene Virginia
Held, deve essere riscattata dal disprezzo in cui è stata tenuta dalla morale
tradizionale, in quanto proprio la valorizzazione dell'esperienza "femminile"
dell'amicizia tra donne e della cura materna consente di uscire dai limiti in cui incorre
l'etica contemporanea. In tale direzione, l'etica della cura conduce alla revisione
radicale degli ideali etici dominanti e, soprattutto, di quella concezione del soggetto
come individuo isolato, autoreferenziale, separato dal mondo e da tutti gli altri, che
ha contraddistinto e seguita a caratterizzare le contemporanee teorie morali tuttora
fondate sull'universalismo kantiano e sull'utilitarismo.
molteplicità dei pensieri, dei ruoli e delle situazioni, contro l'oppressivo appiattimento
conformistico della società contemporanea.
In effetti l'elaborazione teorica femminista degli ultimi anni assume sempre più il
carattere di pensiero critico radicale nei confronti della cultura dominante a
favore di un pluralismo culturale di stampo "postmoderno". L'avvento della
filosofia post-moderna (Lyotard, Vattimo) è positivamente accolto da gran parte del
movimento femminista, che scorge in essa, particolarmente, la crisi di quella
concezione (maschilista) del soggetto cartesiano, universale e sovrano, che si
costituisce nel cogito tagliando ogni legame col corpo, posta a fondamento della
filosofia moderna. Più gradita e pertinente, nel contesto della società contemporanea,
è per lo più considerata dalle studiose e militanti del femminismo la concezione post-
moderna di “soggetto”, visto come entità mobile, instabile, caratterizzata da
molteplici punti di vista ed identità di sesso, di razza, di sensibilità, concezione
ritenuta costituire, perciò, un passo avanti nella prospettiva femminista.
Negli anni Novanta il dibattito femminista si articola e si differenzia in una
varietà di posizioni: dal femminismo lesbico, che contesta un'impostazione
esclusivamente eterosessuale, al femminismo nero-americano, che critica le
complicità e la mancata denuncia del sessismo e razzismo, fino ad arrivare alle
cyberfemministe, impegnate nella promozione di un un'utopia di liberazione fondata
su un rapporto di familiarità con le nuove tecnologie dell'informazione.
Come osserva la pensatrice italiana Rosi Braidotti (nata nel 1954), ciò che emerge
da questi nuovi sviluppi della teoria femminista è il bisogno di una ridefinizione del
soggetto femminile, da intendersi non più come soggetto sovrano, gerarchico ed
esclusivo, contrapposto ed alternativo all'uomo, ma come entità multipla, aperta,
intersoggettiva e variamente intrecciata. Va superata in primo luogo ogni tentazione
"essenzialista", ossia rinunciare alla pretesa di definire, anche se per valorizzarla, una
sorta di "essenza femminile" (come ad esempio nel caso dell’etica della cura o
dell’ecofemminismo) complementare e parallela a una presunta "essenza maschile".
Occorre invece perseguire una concezione dell'io, dell'identità, come "luogo di
differenze", implicante il riconoscimento del fatto che, nella società post-moderna, il
soggetto occupa, in tempi diversi, differenti posizioni su cui influiscono molte
variabili come il sesso, la classe sociale, la razza, l'età, lo stile di vita, ecc. In tal
senso, contro le forme di potere che agiscono simultaneamente e trasversalmente per
inglobare i differenti soggetti e le differenze soggettive in un sistema di dominio
unico ancorché dalle molte facce (patriarcale, razzista, sessista, antiomosessuale,
capitalistico, guerrafondaio) Braidotti sceglie di raffigurare la soggettività
femminile-femminista come "soggettività nomade", in quanto impegnata in una
battaglia tanto politica quanto culturale per la liberazione delle differenze dalla logica
del dominio e dell'oppressione.
Scrive Rosi Braidotti: "Il nomade possiede un acuto senso del territorio senza che
questo sfoci nella possessività… E quindi il nomadismo non è la fluidità priva di
confini bensì la precisa consapevolezza della non fissità dei confini. È l'intenso
desiderio di continuare a sconfinare, a trasgredire. Uno dei suoi compiti storici
consiste nell'individuare il modo di ricostruire un senso di intersoggettività che
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Vandana Shiva (nata nel 1952), scienziata indiana e militante del movimento
ecofemminista, prende decisa posizione contro la contemporanea globalizzazione
economica e sfruttamento della natura.
Punto di partenza della riflessione della Shiva è la critica del modello di razionalità
scientifica europeo-occidentale e del connesso rapporto scienza-natura, quali si sono
affermati intorno al XVII secolo con la cosiddetta "rivoluzione scientifica", che ha
avuto in Bacone uno dei suoi più significativi rappresentanti. In nome di tale ideale di
scientificità, presunto come universale e assoluto, si è imposto il modello di sviluppo
occidentale, basato essenzialmente sullo sfruttamento delle risorse agricole e naturali
per fini produttivi e di mercato, colonizzando dapprima i territori e poi le menti in
tutto il pianeta.
Tesi fondamentale è che la scienza moderna e lo sviluppo siano progetti di
origine maschile, nati in Occidente, e che siano "l'ultima e più brutale espressione
di un'ideologia patriarcale che sta minacciando di annichilire la natura e la specie
umana". Alla base di tale perniciosa ideologia c'è una concezione della natura non
più intesa come "Terra madre", fonte e grembo della vita, ma come "macchina per
la fornitura di materie prime", come oggetto inerte e a disposizione del potere umano
legittimato ad agire con ogni mezzo, quindi essenzialmente con la violenza, per
sottometterla ai suoi fini.
L'analisi della Shiva mette poi in luce come violenza sulla natura e violenza sulla
donna siano inseparabili, sia a causa della tradizionale identificazione di donna e
natura, sia perché le donne sono naturalmente legate alla vita e alla sopravvivenza e
quindi predisposte ad una concezione della natura come fonte attiva e creativa di vita.
Per tale ragione la Shiva ritiene che la scoperta del "principio femminile" sia una
condizione necessaria per porre rimedio al progetto di distruzione ed espropriazione
in corso nell'attuale processo di sviluppo, definito ironicamente "malsviluppo".
"Il principio femminile, scrive la Shiva, diventa alternativo, una via non violenta di
interpretazione del mondo e di azione in esso per sostenere la vita intera, mantenendo
l'interconnessione e la varietà della natura". Il principio femminile è espressione della
creatività della natura e del sentimento della Terra madre. "Tale principio consente
una transizione ecologica dalla violenza alla non violenza, dalla distruzione alla
creatività, da processi antivitali ad altri favorevoli alla vita, dall'uniformità alla
diversità e da una frammentazione riduttiva a una complessità integrale". La natura è
unità originaria di creazione e distruzione, di coesione e disintegrazione, di maschile
e femminile. "Nell'attuale concezione occidentale della natura pesa invece la
dicotomia, il dualismo tra l'uomo e la donna e tra l'essere umano e la natura. Nella
cosmologia indiana la persona umana e la natura sono un binomio nell'unità… Il
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INDICE
Introduzione. 1
L'epistemologia. 3
L'empiriocriticismo: Avenarius, Mach, Poincaré. 4
Il neopositivismo e il Circolo di Vienna. 10
L'operazionismo di Bridgman. 20
Gaston Bachelard. 22
Karl Popper. 25
L'epistemologia post-popperiana: Kuhn, Lakatos, Feyerabend. 37
L'epistemologia fra realismo e antirealismo. 48
La filosofia del linguaggio o filosofia analitica. 51
Bertrand Russell. 54
Eduard Moore. 60
Ludwig Wittgenstein 64
L'ermeneutica e Hans Gadamer. 72
Sviluppi dell'ermeneutica: Pareyson e Ricoeur. 81
Lo strutturalismo: De Saussure, Lévi-Strauss, Foucault,
Lacan, Althusser, Chomsky. 90
Gli sviluppi della filosofia marxista nel Novecento: Rosa Luxemburg,
Lenin, Lukàcs, Korsch, Bloch, Labriola, Gramsci 103
La Scuola di Francoforte e la teoria critica della società: Horkheimer,
Adorno, Marcuse, Fromm, Benjamin. 118
Tra moderno e postmoderno. 130
Jurgen Habermas. 133
Karl Apel. 146
Il postmoderno: Lyotard, Vattimo. 154
Poststrutturalismo e postfilosofia: Rorty, Derrida, Deleuze, Guattari. 170
Il pensiero ebraico del Novecento: Rosenzweig, Buber, Levinas,
Jonas, Hannah Arendt. 186
Il rinnovamento della teologia nel Novecento. 206
La neoscolastica e Jacques Maritain. 217
Il personalismo e Mounier. 223
Femminismo e filosofia. 228
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