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antimicrobici
Per
antimicrobico
si
intende
una
sostanza
di
sintesi
o
naturale
che
e’
attiva
contro
i
microrganismi;
sono
un
ampio
gruppo
di
molecole
con
strutture
diverse
e
miriadi
di
meccanismi
d’azione
contro
i
batteri,
i
funghi,
i
parassiti
e
i
virus.
La
prima
ampia
classificazione
degli
antimicrobici
riguarda
per
l’appunto
il
microrganismo
sul
quale
agiscono
pertanto
vi
sono
1)
gli
antibatterici
(e
gli
antibiotici),
2)
gli
antivirali,
3)
gli
antifungini
e
4)
gli
antiparassitari.
Per
antibatterico
si
intende
una
sostanza
di
sintesi,
mentre
per
antibiotico
si
intende
una
sostanza
di
origine
naturale.
A
seconda
dell’effetto
esercitato
sui
batteri
vengono
definiti
battericidi
se
agiscono
uccidendo
i
batteri
oppure
batteriostatici
se
agiscono
arrestando
la
crescita
batterica
(non
uccidendo
i
batteri).
Nel
caso
si
utilizzino
antimicrobici
batteriostatici
sara’
compito
del
sistema
immunitario
del
paziente
andare
ad
eliminare
completamente
l’agente
microbico;
e’
quindi
necessario
che
il
sistema
immunitario
sia
funzionante
ed
efficiente
percio’
sono
poco
usati
nell’anziano,
nei
bambini
e
nei
pazienti
affetti
da
HIV.
In
base
al
meccanismo
d’azione
gli
antibatterici
e
gli
antibiotici
vengono
classificati
come
segue:
1)
farmaci
che
inibiscono
la
sintesi
della
parete
batterica;
2)
farmaci
che
interferiscono
con
la
biosintesi
dell’acido
folico;
3)
farmaci
che
interferiscono
con
la
sintesi
proteica
ribosomiale
(azione
sulla
subunita’
30S,
50S
o
entrambe
le
subunita’
ribosomiali);
4)
farmaci
che
interferiscono
con
la
replicazione
del
DNA
o
la
trascrizione
ad
RNA;
5)
farmaci
che
agiscono
sulla
membrana
cellulare.
a)
Fattori
che
determinano
la
suscettibilita’
e
la
resistenza
dei
microrganismi
ai
farmaci
antimicrobici
Il
successo
della
terapia
antimicrobica
di
un’infezione
dipende
essenzialmente
dalla
concentrazione
del
farmaco
nel
sito
di
infezione,
la
quale
deve
essere
sufficiente
a
inibire
la
crescita
del
microrganismo
infettante.
Se
le
difese
dell’ospite
sono
intatte,
puo’
essere
sufficiente
l’impiego
di
composti
che
interferiscono
con
la
crescita
o
la
replicazione
dei
microrganismi,
ma
non
li
uccidono
(batteriostatici).
Se
invece
le
difese
dell’ospite
sono
compromesse,
puo’
essere
necessario
l’impiego
di
farmaci
che
uccidono
i
batteri
(battericidi).
La
concentrazione
del
farmaco
nel
sito
di
infezione
non
deve
solo
inibire
il
microrganismo,
ma
anche
rimanere
al
di
sotto
del
livello
di
tossicita’
per
le
cellule
dell’ospite.
Se
si
possono
ottenere
entrambe
queste
condizioni,
il
microrganismo
e’
considerato
sensibile
al
farmaco,
mentre,
in
caso
contrario,
e’
considerato
resistente
al
farmaco.
La
concentrazione
plasmatica
ottenibile
per
un
antimicrobico
guida
generalmente
la
scelta
della
soglia-‐limite
per
designare
un
microrganismo
come
sensibile
o
resistente;
tuttavia
la
concentrazione
al
sito
d’infezione
puo’
essere
notevolmente
piu’
bassa
di
quella
plasmatica.
Inoltre,
fattori
locali
come
per
esempio
un
basso
valore
di
pH,
una
concentrazione
proteica
elevata
e/o
un
ambiente
anaerobico
possono
alterare
l’attivita’
del
farmaco.
Per
essere
efficace,
l’antimicrobico
deve
raggiungere
in
forma
attiva
il
proprio
bersaglio,
legarsi
a
quest’ultimo
ed
interferire
con
la
sua
funzionalita’.
La
resistenza
batterica
ad
un
antimicrobico
si
attua
attraverso
tre
meccanismi
generali:
1)
il
farmaco
non
raggiunge
il
bersaglio;
2)
il
farmaco
non
e’
attivo;
3)
il
bersaglio
e’
modificato.
La
resistenza
e’
un
carattere
genetico
che
viene
acquisito
dal
microrganismo
e
non
e’
innato
(altrimenti
si
parlerebbe
di
insensibilita’
al
farmaco
e
non
di
resistenza).
Il
gene
per
la
resistenza
puo’
essere
presente
a
livello
cromosomiale
oppure
a
livello
plasmidico;
la
resistenza
puo’
essere
acquisita
1)
per
mutazione
e
selezione,
con
trasmissione
verticale
del
tratto
alle
cellule
figlie
(resistenza
cromosomiale)
oppure
2)
attraverso
il
trasferimento
orizzontale
di
determinanti
di
resistenza
(resistenza
plasmidica).
Affinche’
la
mutazione
e
la
selezione
possano
generare
resistenza,
la
mutazione
non
deve
essere
letale
e
non
deve
alterare
in
modo
significativo
la
virulenza;
inoltre
e’
necessario
che
le
cellule
portatrici
della
mutazione
si
diffondano
e
si
moltiplichino.
Le
mutazioni
non
sono
dovute
all’esposizione
al
farmaco
per
se’,
ma
rappresentano
eventi
casuali
che
conferiscono
un
vantaggio
per
la
sopravvivenza
in
presenza
del
farmaco.
La
trasmissione
orizzontale
di
geni
responsabili
della
resistenza
e’
facilitata
ed
e’
in
gran
parte
dipendente
da
elementi
genetici
mobili;
tra
questi
il
ruolo
principale
e’
svolto
dai
gia’
citati
plasmidi,
mentre
sono
meno
importanti
gli
elementi
trasferibili,
gli
integroni
e
le
cassette
geniche.
La
resistenza
acquisita
per
trasmissione
orizzontale
si
puo’
diffondere
in
modo
rapido
sia
per
propagazione
dei
cloni
del
ceppo
resistente
sia
per
successivo
trasferimento
ad
altri
ceppi
sensibili.
Questo
tipo
di
trasmissione
presenta
molti
vantaggi
rispetto
alla
mutazione-‐selezione:
non
vi
sono
mutazioni
letali
in
geni
essenziali;
il
grado
di
resistenza
e’
spesso
piu’
elevato
di
quello
generato
da
una
mutazione;
il
gene
puo’
diffondersi
ed
amplificarsi
rapidamente
all’interno
di
una
popolazione
per
trasferimento
a
cellule
sensibili;
il
gene
responsabile
della
resistenza
puo’
essere
eliminato
quando
non
e’
piu’
necessario.
I
possibili
meccanismi
mediante
i
quali
viene
trasmessa
la
resistenza
plasmidica
sono
tre:
1)
coniugazione,
2)
trasformazione
e
3)
trasduzione.
Il
processo
di
coniugazione
consiste
nella
formazione
di
piccole
estroflessioni,
dette
pili,
che
permettono
il
contatto
e
il
successivo
passaggio
del
materiale
genetico
tra
due
microrganismi.
Nella
trasformazione
il
microrganismo
acquisisce
il
materiale
plasmidico
proveniente
da
cellule
lisate
direttamente
dall’ambiente
extracellulare.
Il
processo
di
trasduzione,
infine,
prevede
il
passaggio
del
materiale
genetico
da
un
microrganismo
ad
un
altro
tramite
l’intervento
dei
batteriofagi,
ossia
di
virus
che
infettano
i
batteri:
il
virus,
penetrando
nella
cellula
batterica,
si
replica
portando
alla
formazione
di
nuovi
virioni
che
conterranno
non
solo
il
materiale
genetico
virale
ma
anche
porzioni
del
genoma
batterico;
in
seguito
alla
lisi
cellulare
del
batterio
infettato,
i
virioni
vengono
rilasciati
e
sono
in
grado
di
infettare
nuove
cellule
trasferendovi
il
proprio
genoma
che
puo’
quindi
contenere
anche
geni
di
resistenza
provenienti
dal
microrganismo
infettato
in
precedenza.
b)
Selezione
di
un
antibiotico
La
scelta
ottimale
dei
farmaci
antimicrobici
dipende
innanzitutto
dal
tipo
di
impiego;
vi
sono
tre
impieghi
generali:
la
terapia
empirica,
la
terapia
definitiva
e
la
profilassi.
La
prima
domanda
da
porsi
e’
se
pero’
il
farmaco
e’
realmente
necessario:
l’associazione
automatica
di
febbre
ed
infezione
e
la
conseguente
prescrizione
di
antimicrobici
senza
valutazioni
approfondite
e’
irrazionale
e
potenzialmente
dannosa
dato
che
l’uso
di
questi
farmaci
puo’
causare
effetti
tossici
e
promuovere
la
selezione
di
ceppi
resistenti.
Naturalmente
spesso
non
e’
possibile
identificare
in
modo
definitivo
un’infezione
batterica
prima
dell’inizio
del
trattamento.
Gli
antimicrobici
utilizzati
nella
terapia
empirica
dovrebbero
essere
efficaci
su
tutti
i
patogeni
possibili,
non
essendo
ancora
stato
identificato
il
microrganismo
responsabile
dell’infezione.
E’
possibile
utilizzare
un’associazione
di
farmaci
o,
meglio,
un
antimicrobico
ad
ampio
spettro.
La
scelta
della
terapia
antimicrobica
empirica
ottimale
richiede
una
conoscenza
dei
piu’
comuni
microrganismi
infettanti
e
della
loro
suscettibilita’
agli
antimicrobici.
La
scelta
deve
basarsi
sui
sintomi
clinici,
che
possono
suggerire
la
presenza
di
un
particolare
microrganismo,
e
sulla
conoscenza
dei
microrganismi
che
sono
piu’
probabilmente
causa
di
infezione
in
un
dato
ospite.
Inoltre
tecniche
di
laboratorio
rapide
e
semplici
possono
fornire
indizi
importanti
sui
possibili
microrganismi
infettanti,
consentendo
una
selezione
piu’
razionale
della
terapia
antimicrobica
iniziale.
Una
volta
che
il
microrganismo
infettante
e’
stato
individuato
e
isolato
si
passa
alla
terapia
definitiva:
lo
schema
terapeutico
dovrebbe
essere
modificato
utilizzando
un
antimicrobico
piu’
specifico
e
a
spettro
ristretto.
Oltre
all’individuazione
del
microrganismo
infettante,
nella
scelta
del
farmaco
sono
altrettanto
importanti
i
risultati
ottenuti
nei
test
di
sensibilita’
ai
vari
antimicrobici:
ceppi
batterici
appartenenti
alla
stessa
specie
possono
infatti
avere
una
sensibilita’
molto
diversa
ai
vari
farmaci.
L’attivita’
in
vitro,
benche’
significativa,
rappresenta
soltanto
un’indicazione
sulla
probabile
efficacia
di
un
antimicrobico:
l’esito
positivo
della
terapia
dipende
anche
dal
raggiungimento
al
sito
di
infezione
di
concentrazioni
del
farmaco
sufficienti
a
inibire
o
uccidere
i
batteri
senza
nuocere
all’ospite.
Per
raggiungere
questo
obiettivo
si
devono
quindi
valutare
numerosi
fattori
farmacocinetici
e
relativi
all’ospite.
La
concentrazione
minima
di
farmaco
nella
sede
di
infezione
deve
essere
circa
uguale
alla
concentrazione
minima
inibente
(MIC)
o
alla
concentrazione
minima
battericida
(MBC)
per
il
microrganismo
infettante,
anche
se
nella
maggior
parte
dei
casi
e’
consigliabile
ottenere,
se
possibile,
concentrazione
pari
a
multipli
del
valore
della
MIC
o
della
MBC.
La
MIC
riguarda
i
farmaci
batteriostatici
mentre
la
MBC
quelli
battericidi.
In
certi
casi
anche
concentrazioni
minori
della
MIC
o
della
MBC
possono
essere
efficaci,
probabilmente
potenziando
la
fagocitosi.
La
localizzazione
dell’infezione
puo’
determinare
la
scelta
del
farmaco
e
della
via
di
somministrazione.
L’accesso
degli
antibiotici
alle
sedi
di
infezione
dipende
da
numerosi
fattori.
Un
esempio
pratico
e’
il
caso
di
un
infezione
a
livello
del
SNC
nella
quale
il
farmaco
deve
essere
in
grado
di
superare
la
barriera
emato-‐encefalica
quindi
generalmente
non
deve
essere
polare
a
pH
fisiologico
perche’
penetra
poco.
Un
altro
fattore
da
tenere
in
considerazione
e’
se
il
farmaco
si
lega
alle
proteine
plasmatiche
e,
nel
caso
vi
si
leghi,
la
%
di
farmaco
in
forma
libera
disponibile.
L’attivita’
antimicrobica
puo’
risultare
notevolmente
ridotta
nel
pus,
che
contiene
fagociti,
detriti
cellulari
e
proteine
che
possono
legare
il
farmaco
o
creare
condizioni
sfavorevoli
alla
sua
azione;
anche
la
presenza
di
un
pH
basso,
caratteristico
degli
ascessi
e
di
altri
siti
di
infezione,
puo’
ridurre
di
molto
l’attivita’
di
un
farmaco.
Un
altro
fattore
importante
e’
la
presenza
di
un
corpo
estraneo
(per
esempio
il
materiale
usato
nelle
protesi)
nel
sito
di
infezione
che
riduce
marcatamente
le
possibilita’
di
successo
della
terapia
antimicrobica;
spesso
e’
necessario
rimuovere
il
materiale
estraneo
affinche’
la
terapia
abbia
successo.
Tra
i
fattori
riguardanti
il
paziente
che
influenzano
l’efficacia
terapeutica
degli
antimicrobici
e’
senz’altro
fondamentale
lo
stato
dei
meccanismi
di
difesa
umorali
e
cellulari
del
paziente
stesso.
Nei
soggetti
immunocompetenti
per
curare
un’infezione
e’
spesso
sufficiente
la
sola
inibizione
della
moltiplicazione
dei
microrganismi
con
un
farmaco
batteriostatico.
Se
tuttavia
le
difese
sono
compromesse,
come
per
esempio
nei
pazienti
con
infezione
da
HIV-‐1
e
sindrome
da
immunodeficienza
acquisita
(AIDS),
risulta
necessario
un
farmaco
battericida.
L’eta’
del
paziente
e’
un
altro
fattore
molto
importante
da
tenere
in
considerazione:
i
neonati
e
gli
anziani
sono
spesso
piu’
suscettibili
agli
effetti
tossici
degli
antimicrobici
in
quanto
i
meccanismi
di
eliminazione
sono
spesso
compromessi
o
non
ancora
pienamente
sviluppati.
Anche
la
gravidanza
aumenta
il
rischio
di
reazioni
indesiderate
agli
antimicrobici
sia
per
la
madre
sia
per
il
feto;
dopo
il
concepimento
e’
da
tenere
anche
in
considerazione
il
fatto
che
tramite
l’allattamento
e’
possibile
la
trasmissione
dei
farmaci
assunti
dalla
madre
al
neonato
con
possibili
effetti
avversi.
Tradizionalmente
la
dose
e
la
frequenza
di
somministrazione
di
un
antimicrobico
sono
selezionate
per
ottenere
un’azione
antibatterica
al
sito
di
infezione
che
permanga
per
la
maggior
parte
del
tempo
che
intercorre
tra
una
somministrazione
e
l’altra.
Cio’
non
e’
sempre
necessario,
in
certi
casi
e’
infatti
possibile
che
migliori
risultati
possano
essere
ottenuti
con
elevate
concentrazioni
di
picco,
seguite
da
periodi
di
attivita’
subinibitoria.
E’
fondamentale
conoscere
lo
stato
della
funzionalita’
epatica
e
renale
del
singolo
paziente
poiche’,
al
fine
di
evitare
effetti
tossici,
e’
necessario
aggiustare
la
dose
di
alcuni
farmaci
quando
la
loro
eliminazione
e’
compromessa.
c)
Terapia
con
farmaci
antimicrobici
in
associazione
In
alcune
situazioni
specifiche
si
consiglia
l’impiego
simultaneo
di
due
o
piu’
antimicrobici:
1)
per
la
terapia
empirica
di
un’infezione
la
cui
causa
non
sia
nota;
2)
per
il
trattamento
di
infezioni
polimicrobiche;
3)
per
aumentare
l’attivita’
antimicrobica
(sinergismo)
contro
una
specifica
infezione;
4)
per
prevenire
la
comparsa
di
resistenza.
Per
determinare
l’attivita’
antimicrobica
di
un’associazione
farmacologica,
i
batteri
vengono
incubati
in
un
brodo
di
coltura
con
diluizioni
seriate
dei
farmaci,
sia
da
soli
sia
in
combinazione.
Si
parla
di
sinergismo
quando
i
due
farmaci
combinati
determinano
l’inibizione
della
crescita
o
l’uccisione
dell’agente
infettivo
a
concentrazioni
uguali
o
inferiori
al
25%
della
MIC
(o
MBC)
di
ciascun
farmaco
da
solo.
Cio’
implica
che
un
farmaco
vada
a
colpire
il
microrganismo
in
modo
tale
da
renderlo
piu’
sensibile
all’effetto
inibitorio
del
secondo
farmaco.
Se
la
meta’
della
MIC
(o
MBC)
e’
sufficiente
ad
inibire
o
uccidere
il
microrganismo,
l’effetto
viene
detto
additivo,
suggerendo
che
i
due
farmaci
agiscano
in
maniera
indipendente.
Se
per
ottenere
l’effetto
inibitorio
o
battericida
e’
necessaria
piu’
della
meta’
della
MIC
(o
MBC)
di
ciascun
farmaco,
i
due
farmaci
sono
definiti
antagonisti.
E’
importante
sottolineare
che
queste
sensibilita’
sono
valutate
in
vitro
e
la
rilevanza
clinica
di
sinergismo
ed
antagonismo
e’
in
genere
poco
chiara.
In
generale
comunque
gli
antimicrobici
batteriostatici
antagonizzano
l’azione
di
quelli
battericidi;
probabilmente
cio’
si
verifica
perche’
i
batteriostatici
inibiscono
la
divisione
cellulare
e
la
sintesi
proteica,
che
sono
invece
necessarie
per
l’azione
della
maggioranza
dei
battericidi.
Di
contro
associazioni
di
farmaci
con
lo
stesso
effetto,
battericida
o
batteriostatico,
mostrano
in
genere
un
effetto
additivo
o
sinergico:
un
esempio
e’
l’associazione
di
un
inibitore
della
sintesi
della
parete
con
un
amminoglicoside
oppure
l’associazione
di
un
sulfamidico
con
un
inibitore
della
diidrofolato
riduttasi
come
il
trimetoprim.
d)
Profilassi
delle
infezioni
con
antimicrobici
Come
accennato
all’inizio
del
paragrafo
b,
e’
possibile
utilizzare
gli
antimicrobici
nella
profilassi,
al
fine
quindi
di
proteggere
individui
sani
dall’acquisizione
o
dall’invasione
di
microrganismi
specifici
a
cui
sono
stati
esposti.
In
generale,
se
si
impiega
un
farmaco
singolo,
efficace
e
non
tossico
per
prevenire
un’infezione
da
uno
specifico
microrganismo,
o
per
eradicare
un’infezione
allo
stadio
iniziale,
allora
la
chemioprofilassi
e’
spesso
coronata
da
un
successo.
D’altro
canto,
se
l’obiettivo
della
profilassi
e’
prevenire
la
colonizzazione
o
l’infezione
di
un
paziente
da
parte
di
uno
qualsiasi
o
di
tutti
i
microrganismi
presenti
nell’ambiente,
allora
la
profilassi
spesso
fallisce.
Due
esempi
coronati
da
successo
di
questa
pratica
clinica
sono
la
somministrazione
di
rifampicina
nella
prevenzione
della
meningite
in
soggetti
a
stretto
contatto
con
una
persona
infetta
e
l’uso
degli
antimicrobici
nella
prevenzione
di
infezioni
delle
ferite
dopo
vari
interventi
chirurgici
(alcuni
esempi
sono
l’inserimento
di
protesi,
gli
interventi
chirurgici
cardiaci
e
gli
interventi
neurochirurgici).
e)
Superinfezioni
Tutti
i
pazienti
che
ricevono
dosi
terapeutiche
di
antimicrobici
vanno
incontro
ad
alterazioni
della
normale
popolazione
batterica
del
tratto
gastrointestinale
(GI),
delle
vie
respiratorie
superiori
e
del
tratto
genitourinario.
Come
risultato
alcuni
individui
sviluppano
una
superinfezione,
cioe’
la
comparsa
di
segni
batteriologici
e
clinici
di
una
nuova
infezione
durante
la
chemioterapia
dell’infezione
primaria.
Questa
superinfezione
e’
dovuta
alla
rimozione
della
normale
flora
batterica,
che
produce
sostanze
antibatteriche
e
compete
per
gli
elementi
nutritivi.
I
microrganismi
responsabili
della
nuova
infezione,
peraltro,
possono
essere
batteri
o
funghi
appartenenti
a
ceppi
farmaco-‐resistenti.
Piu’
ampio
e’
lo
spettro
antibatterico
e
lungo
il
periodo
di
trattamento,
maggiore
e’
il
rischio
di
superinfezione.
Quando
possibile,
quindi,
le
infezioni
dovrebbero
esser
trattate
con
il
farmaco
piu’
specifico
e
con
lo
spettro
antibatterico
piu’
ristretto.
1)
Farmaci
che
inibiscono
la
sintesi
della
parete
batterica
Con
il
termine
di
parete
batterica
si
indica
una
struttura
di
rivestimento
cellulare
posta
all’esterno
rispetto
alla
membrana
e
piu’
internamente
rispetto
alla
capsula
(qualora
sia
presente),
con
funzione
essenzialmente
di
supporto
strutturale
dovuto
alla
sua
rigidita’.
In
base
al
tipo
di
parete
che
un
batterio
presenta,
si
identificano
due
classi
di
batteri:
i
Gram-‐positivi
e
i
Gram-‐negativi.
Questi
batteri
differiscono
molto
dal
punto
di
vista
della
struttura
parietale
e,
infatti,
la
differente
risposta
alla
colorazione
di
Gram
e’
proprio
una
conseguenza
diretta
delle
differenze
dal
punto
di
vista
della
parete.
Nei
batteri
Gram-‐positivi
(figura
b)
quasi
la
totalita’
della
parete
(90-‐95%)
e’
costituita
da
peptidoglicano.
Questo
polimero
e’
responsabile
della
rigidita’
della
parete
e,
essendo
una
struttura
pluristratificata
e
molto
voluminosa,
e’
responsabile
del
trattenimento
del
colorante
durante
la
colorazione
di
Gram.
Al
peptidoglicano
sono
legati
altri
polimeri
come
acidi
teicoici
(sono
polimeri
di
alcoli,
glicerolo
e
ribitolo,
esterificati
con
acido
fosforico)
ed
alcune
proteine.
Un
esempio
di
acido
teicoico
e’
l’acido
lipoteicoico
che
attraversa
l’intera
parete
e
tramite
un
acido
grasso
si
ancora
alla
membrana
cellulare.
Nei
batteri
Gram-‐negativi
(figura
a)
il
peptidoglicano
costituisce
solo
il
15-‐20%
della
totalita’
della
parete
ed
e’
presente
in
forma
monostratificata;
e’
connesso
alla
membrana
cellulare
tramite
lipoproteine
e
tra
la
parete
e
la
membrana
vi
e’
uno
spazio
detto
spazio
periplasmico.
Strutturalmente
il
peptidoglicano
e’
abbastanza
simile
a
quello
che
costituisce
la
parete
dei
batteri
Gram-‐positivi
sebbene
vi
siano
differenze
importanti
per
quanto
riguarda
i
legami
crociati
che
si
formano
tra
le
catene
di
peptidoglicano
adiacenti
(vedi
in
seguito).
La
componente
quantitativamente
maggiore
e’
rappresentata
dalla
membrana
esterna:
si
tratta
di
una
membrana,
ancorata
stabilmente
al
peptidoglicano,
che
ha
una
struttura
biochimica
simile
a
quella
citoplasmatica,
costituita
quindi
da
due
foglietti
lipoproteici,
e
che
presenta
alcune
strutture
peculiari
quali
la
lipoproteina,
le
porine
e
il
lipopolisaccaride
(l’LPS
si
trova
solo
sulla
faccia
esterna
della
membrana
e
mai
su
quella
interna).
Il
peptidoglicano
e’
costituito
da
due
tipi
di
catene
che
si
intrecciano
fra
loro,
le
catene
glicaniche
e
le
catene
peptidiche.
Le
catene
glicaniche
sono
costituite
da
monomeri
di
N-‐acetilglucosamina
(NAG)
e
acido
N-‐acetilmuramico
(NAM)
uniti
fra
loro
da
legami
glicosidici
β(1-‐4).
Questi
monomeri
sono
sempre
alternati
a
formare
dei
dimeri
che
sono
il
costituente
di
base
delle
catene
glicaniche.
Al
gruppo
carbossilico
sul
NAM
e’
legata
una
corta
catena
peptidica
costituita
da
5
aa:
L-‐alanina
//
acido
D
glutammico
//
L-‐lisina
(o
acido
diaminopimelico,
DAP)
//
D-‐alanina
//
D-‐
alanina.
Queste
catene
peptidiche
sono
fondamentali
per
la
formazione
dei
legami
crociati:
ogni
catena
glicanica,
infatti,
e’
legata
ad
altre
catene
glicaniche
parallele
tramite
i
legami
che
si
instaurano
fra
le
rispettive
catene
peptidiche.
I
batteri
Gram-‐positivi
e
i
Gram-‐negativi
si
differenziano
innanzitutto
per
l’aa
in
posizione
3:
nei
Gram-‐positivi
e’
presente
una
lisina,
mentre
nei
Gram-‐negativi
e’
presente
il
DAP.
L’altra
differenza
consiste
nel
tipo
di
legame
crociato
che
si
forma:
entrambe
le
classi
di
batteri
perdono
il
quinto
aa
ed
il
quarto
aa,
che
possiede
quindi
il
–COOH
libero,
reagisce
1)
nel
caso
dei
Gram-‐negativi
con
l’-‐NH2
libero
presente
sul
terzo
aa
della
catena
peptidica
adiacente
formando
un
legame
peptidico,
mentre
2)
nel
caso
dei
Gram-‐positivi
tra
il
quarto
e
il
terzo
aa
di
due
catene
adiacenti
e’
frapposta
un’altra
corta
catena
peptidica
costituita
da
5
glicine
(cio’
aumenta
la
rigidita’
della
parete
dei
Gram-‐positivi).
La
biosintesi
del
peptidoglicano
comincia
nel
citoplasma:
la
N-‐acetilglucosamina-‐1-‐fosfato
(NAG)
si
unisce
all'uridintrifosfato
(UTP)
con
perdita
di
un
legame
fosforico
e
conseguente
formazione
di
NAG-‐UDP.
Al
complesso
NAG-‐UDP
viene
aggiunta
una
molecola
di
piruvato
proveniente
dal
fosfoenolpiruvato
(PEP)
tramite
la
piruvato
transferasi,
andando
cosi’
a
formare
l’acido
N-‐
acetilmuramico
(NAM-‐UDP).
Al
gruppo
carbossilico
del
NAM
vengono
aggiunti
gli
amminoacidi
L-‐alanina,
acido
D-‐glutammico
e
L-‐lisina
(nei
Gram-‐negativi
la
L-‐lisina
è
sostituita
dall'acido
diaminopimelico,
o
DAP).
Al
tripeptide
sono
poi
legate
due
D-‐alanine,
formate
a
partire
dalla
L-‐
alanina
tramite
la
D-‐alanin-‐racemasi
ed
unite
fra
loro
da
una
sintetasi.
Questo
complesso,
che
prende
il
nome
di
NAM-‐pentapeptide
(NAMPP),
viene
trasportato
dal
trasportatore
lipidico
bactoprenolo
(noto
anche
come
acido
undecaprenilfosfato
o
UP)
a
livello
della
membrana
citoplasmatica,
dove
verrà
eliminato
l'UDP
e
aggiunta
un'altra
molecola
di
NAG
attraverso
un
legame
β,1-‐4
glucosidico,
con
la
conseguente
formazione
del
pentapeptide
disaccaride
NAG-‐NAM-‐PP,
l'unità
strutturale
del
PEP.
Caratteristica
peculiare
dei
batteri
Gram-‐
positivi
e’
che,
sempre
a
livello
della
membrana
citoplasmatica,
vengono
aggiunte
le
corte
catene
peptidiche
(come
la
pentaglicina)
al
terzo
amminoacido,
cioe’
alla
L-‐lisina.
Il
NAG-‐NAM-‐PP
andrà
ad
aggiungersi
alle
altre
unità
strutturali,
al
di
fuori
della
membrana,
attraverso
l'enzima
transglicosilasi
che
porterà
alla
formazione
di
legami
β,1-‐4
glucosidici
NAM-‐
NAG-‐NAM-‐NAG.
L'enzima
transpeptidasi
è
invece
responsabile
dei
legami
crociati
tra
la
quarta
D-‐
alanina
e
il
terzo
amminoacido
adiacente.
Poiché
al
di
fuori
del
citoplasma
non
vi
è
ATP,
la
reazione
dovrà
trarre
energia
dal
distacco
della
quinta
D-‐alanina
dal
pentapeptide
e
cio’
avviene
per
azione
dell’enzima
carbossipeptidasi.
Come
gia’
detto
in
precedenza,
nei
batteri
Gram-‐
negativi
la
D-‐alanina
si
lega
direttamente
al
DAP
mentre
nei
Gram-‐positivi
il
legame
con
la
L-‐
lisina
avviene
con
l'interposizione
degli
amminoacidi
specifici
(es.
pentaglicina).
1a)
Fosfomicina
E’
un
analogo
strutturale
del
fosfoenolpiruvato
(PEP)
in
grado
di
legarsi
ed
inattivare
la
piruvato
transferasi;
nonostante
agisca
inibendo
la
sintesi
del
peptidoglicano
(quindi
agendo
come
un
teorico
batteriostatico)
ha
un’azione
battericida
(vedi
in
seguito).
1b)
Cicloserina
E’
un
analogo
della
D-‐alanina
che
interferisce
con
l’enzima
racemasi,
impedendo
la
reazione
di
isomerizzazione
da
L-‐alanina
a
D-‐alanina
e
quindi
la
formazione
del
dimero
D-‐alanina/D-‐alanina
del
peptidoglicano
in
costruzione.
1c)
Bacitracina
E’
un
gruppo
di
polipeptidi
ciclici
elaborati
dallo
stesso
stipite
che
interferisce
con
la
defosforilazione
del
bactoprenolo
impedendo
cosi’
l’attivazione
di
questa
molecola
adibita
al
trasporto
dei
precursori
del
peptidoglicano
dall’ambiente
intracellulare
a
quello
extracellulare;
l’effetto
finale
e’
il
blocco
della
sintesi
della
parete
batterica.
1d)
Glicopeptidi
(vancomicina,
teicoplanina)
Sono
due
farmaci
ad
attivita’
battericida
che
agiscono
impedendo
la
reazione
di
transglicosilazione
(inibizione
dell’enzima
transglicolasi),
bloccando
quindi
l’incorporazione
di
nuove
subunita’
nel
peptidoglicano
in
costruzione.
1e)
β-‐lattamici
(penicilline,
cefalosporine,
monobattami,
carbapenemi)
Sono
un
ampio
gruppo
di
farmaci
che
presenta
come
nucleo
fondamentale
l’anello
tetratomico
azetidinico
β-‐lattamico;
possiedono
tutti
una
struttura
biciclica,
ad
eccezione
dei
monobattami
che
possiedono
una
struttura
monociclica.
I
composti
biciclici
sono
formati
dall’anello
β-‐
lattamico
e
da
un
altro
anello
a
5
o
6
atomi
che
puo’
presentare
nella
stessa
posizione
un
atomo
di
C,
di
O
o
di
S;
possono
inoltre
esserci
anche
legami
insaturi
oltre
che
saturi.
Facendo
un
SDS-‐PAGE
(separazione
delle
proteine
in
base
al
PM)
delle
proteine
contenute
nei
microrganismi
sensibili
ai
β-‐lattamici
si
osserva
che
sono
diverse
le
proteine
in
grado
di
legare
questi
farmaci.
Queste
proteine
sono
definite
PBPs
(penicillin
binding
proteins)
e
sono
disseminate
sulla
superficie
in
modo
da
ricoprire
l’intera
superficie
esterna
della
membrana
citoplasmatica
del
batterio,
svolgendo
un
ruolo
importante
dal
punto
di
vista
fisiologico.
Le
PBPs
sono
suddivise
in
varie
classi
e
producono
una
serie
di
enzimi
che
hanno
il
compito
di
polimerizzare
le
catene
nascenti
di
peptidoglicano
(transglicolasi)
e
catalizzare
il
processo
di
formazione
dei
legami
crociati
tra
i
vari
amminoacidi
(transpeptidasi
e
carbossipeptidasi).
L’anello
β-‐lattamico
ha
una
disposizione
spaziale
simile
a
quella
del
dipeptide
D-‐ala/D-‐ala
e
le
PBPs,
avendo
un
residuo
di
serina
in
grado
di
attaccare
il
legame
amidico
presente
nell’anello,
vi
si
legano
irreversibilmente;
i
β-‐lattamici
alterano
quindi
la
normale
funzione
fisiologica
delle
PBPs,
interferendo
con
il
processo
di
sintesi
del
peptidoglicano.
Sebbene
siano
teoricamente
dei
batteriostatici,
i
β-‐lattamici
mostrano
un’azione
battericida:
inibendo
la
sintesi
della
parete
batterica,
infatti,
l’acido
teicoico
risulta
maggiormente
esposto
rispetto
alla
normale
situazione
fisiologica
e
cio’
determina
un
aumento
dell’attivita’
del
sistema
delle
autolisine,
un
insieme
di
enzimi
in
grado
di
mediare
l’idrolisi
del
peptidoglicano.
La
distruzione
della
parete
conduce
quindi
alla
lisi
ed
alla
morte
cellulare.
L’effetto
battericida
e’
quindi
determinato
in
primis
dalla
capacita’
dei
β-‐lattamici
di
agire
inserendosi
nel
sito
attivo
degli
enzimi
coinvolti
nella
formazione
dei
legami
crociati
(in
particolare
agiscono
sulla
transpeptidasi)
tra
le
catene
glicaniche
del
peptidoglicano,
bloccandone
irreversibilmente
l’attivita’
catalitica.
L’azione
di
questi
farmaci
pero’
coinvolge
anche
altre
PBPs
necessarie
per
la
divisione
cellulare,
il
mantenimento
della
forma
del
batterio
e
altri
processi
essenziali
quindi
l’effetto
battericida
coinvolge
meccanismi
litici
e
non
litici.
i)
Resistenza
ai
β-‐lattamici
Le
resistenze
ai
β-‐lattamici
si
realizzano
con
tre
modalita’.
1)
Prevenzione
dell’interazione
fra
farmaco
e
PBPs
bersaglio.
Questo
meccanismo
di
resistenza
riguarda
i
batteri
Gram-‐negativi,
poiche’
solo
questi
possiedono
una
membrana
esterna
che
copre
lo
strato
di
peptidoglicano.
La
penetrazione
dei
β-‐lattamici
richiede
quindi
il
passaggio
attraverso
questa
membrana
e
cio’
puo’
avvenire
grazie
alla
presenza
di
particolari
canali,
detti
porine;
questi
pori
proteici
possono
alterare
la
dimensione
e
la
carica
consentendo
un
maggiore
o
minore
accesso
dei
β-‐lattamici
al
sito
d’azione.
Pompe
di
efflusso
attivo,
inoltre,
possono
rimuovere
il
farmaco
dal
suo
sito
d’azione
prima
che
esso
possa
agire.
2)
Impossibilita’
del
farmaco
di
legarsi
alle
PBPs.
Questo
tipo
di
resistenza
e’
dovuto
alla
presenza
di
PBPs
modificate:
cio’
e’
conseguente
o
ad
una
mutazione
del
gene
delle
PBPs
o
all’acquisizione
di
una
nuova
PBP
(es.
la
meticillina-‐resistenza
dello
S.
areus
e’
dovuta
all’acquisizione,
per
trasferimento,
di
un
gene
che
codifica
per
una
PBP
normalmente
non
prodotta
e
altamente
resistente
a
tutti
i
β-‐lattamici).
3)
Idrolisi
del
farmaco
da
parte
delle
β-‐lattamasi.
Le
β-‐lattamasi
sono
degli
enzimi
in
grado
di
idrolizzare
l’anello
β-‐lattamico,
inattivando
quindi
le
proprieta’
antibatteriche
della
molecola.
Anche
le
β-‐lattamasi,
come
le
PBPs,
possiedono
infatti
un
residuo
di
serina
(o
uno
ione
zinco)
reattivo
verso
l’anello
β-‐lattamico:
la
differenza
con
le
PBPs
(le
β-‐lattamasi
derivano
per
evoluzione
dalle
PBPs)
sta’
nel
fatto
che
il
legame
e’
reversibile
quindi
un
singolo
enzima
e’
in
grado
di
inattivare
un
numero
n
di
molecole
di
farmaco.
Questi
enzimi
possono
essere
codificati
sia
da
DNA
genomico
sia
da
DNA
plasmidico;
nel
caso
dei
plasmidi,
la
resistenza
si
diffonde
piu’
velocemente
(vedi
paragrafi
introduttivi).
In
generale
i
batteri
Gram-‐positivi
producono
una
grande
quantita’
di
β-‐lattamasi
che
e’
escreta
a
livello
extracellulare
(eso-‐β-‐lattamasi
inducibili);
nei
batteri
Gram-‐negativi,
invece,
le
β-‐lattamasi
si
ritrovano
in
quantita’
relativamente
piccole
e
sono
localizzate
nello
spazio
periplasmatico
(endo-‐β-‐lattamasi
costitutive).
Per
ovviare
al
problema
di
questo
tipo
di
resistenza
sono
stati
sviluppati
dei
β-‐lattamici
con
l’anello
β-‐lattamico
ingombrato
in
modo
da
non
poter
essere
inattivati
dalle
β-‐lattamasi
(es.
meticillina);
un’altra
strategia
prevede
invece
l’utilizzo
di
inibitori
suicidi
delle
β-‐lattamasi
(es.
acido
clavulanico)
in
associazione
ad
un
farmaco
β-‐lattamico.
ii)
Penicilline
e
cefalosporine
Il
nucleo
fondamentale
delle
penicilline
e’
l’acido
6-‐amino-‐penicillanico.
Le
varie
penicilline
differiscono
per
il
radicale
acilico
condensato
con
il
gruppo
amminico
e
conseguentemente
per
la
biodisponibilita’
orale,
per
le
resistenze
e
per
lo
spettro
d’azione.
Le
penicilline
sono
classificabili
in
base
al
loro
spettro
d’azione
antimicrobica:
-‐
penicillina
G
e
penicillina
V:
sono
molto
attive
nei
confronti
dei
ceppi
sensibili
di
batteri
Gram-‐
positivi,
ma
sono
rapidamente
inattivate
dalle
β-‐lattamasi
(penicillinasi);
-‐
meticillina,
oxacillina,
cloxacillina
e
dicloxacillina:
sono
penicilline
resistenti
alle
β-‐lattamasi
che
mostrano
uno
spettro
d’azione
inferiore
rispetto
alla
classe
precedente,
ma
sono
i
farmaci
di
elezione
per
il
trattamento
degli
Stafilococchi
(come
S.
areus)
produttori
di
β-‐lattamasi
e
non
resistenti
alla
meticillina;
-‐
ampicillina
e
amoxicillina:
mostrano
uno
spettro
d’azione
piu’
ampio
che
comprende
anche
alcuni
microrganismi
Gram-‐negativi;
vengono
spesso
somministrati
con
un
inibitore
delle
β-‐
lattamasi
(es.
acido
clavulanico;
amoxicillina
+
ac.
clavulanico
=
“augmentin”)
per
prevenire
l’idrolisi
mediata
dalle
β-‐lattamasi;
-‐
carbenicillina
e
ticarcillina:
come
la
classe
precedente
sono
attive
non
solo
verso
i
microrganismi
Gram-‐positivi,
ma
anche
verso
i
Gram-‐negativi
(sono
pero’
meno
efficaci
verso
alcuni
microrganismi
rispetto
alla
ampicillina
o
alla
piperacillina);
-‐
mezlocillina
e
piperacillina:
presentano
un’eccellente
attivita’
antibatterica
verso
molti
microrganismi
Gram-‐negativi
pur
mantenendo
l’attivita’
dell’ampicillina
verso
i
batteri
Gram-‐
positivi.
Il
nucleo
fondamentale
delle
cefalosporine
e’
l’acido
7-‐amino-‐cefalosporanico.
Hanno
avuto
un
grande
sviluppo
in
quanto
sul
nucleo
di
base
si
possono
attivare
sostituzioni
a
tre
livelli:
1)
R
sul
legame
ammidico
del
C7
(responsabile
dell’aumento
dell’attivita’
antibatterica
e
della
resistenza
alle
β-‐lattamasi);
2)
X
sul
C3
(responsabile
delle
variazioni
farmacocinetiche);
3)
sostituzione
sul
C7
del
nucleo
β-‐lattamico
(responsabile
della
resistenza
all’idrolisi
enzimatica
e
della
diminuzione
dell’attivita’
sui
batteri
Gram-‐positivi).
Le
cefalosporine
possono
essere
suddivise
secondo
vari
criteri,
ma
normalmente
vengono
suddivise
in
generazioni:
-‐
I
generazione
(es.
cefazolina):
mostrano
una
buona
attivita’
nei
confronti
dei
batteri
Gram-‐
positivi,
un’attivita’
relativamente
modesta
nei
confronti
dei
Gram-‐negativi
e
sono
sensibili
alle
β-‐
lattamasi;
sono
somministrabili
per
via
orale
e
hanno
un’emivita
breve.
-‐
II
generazione
(es.
cefoxitina):
hanno
una
maggiore
attivita’
contro
i
microrganismi
Gram-‐
negativi,
benche’
inferiore
rispetto
alle
cefalosporine
di
III
generazione;
sono
anch’esse
sensibili
alle
β-‐lattamasi
(seppur
in
misura
minore
rispetto
a
quelle
di
I
generazione),
l’emivita
e’
variabile
ed
in
gran
parte
sono
somministrabili
per
via
orale.
-‐
III
generazione
(es.
cefotaxima):
le
cefalosporine
di
questa
generazione
sono
generalmente
meno
attive
nei
confronti
dei
batteri
Gram-‐positivi,
ma
molto
piu’
attive
verso
i
Gram-‐negativi;
sono
resistenti
alle
β-‐lattamasi,
hanno
un’emivita
piu’
lunga
rispetto
alle
cefalosporine
delle
generazioni
precedenti
e
molte
possono
essere
somministrate
per
via
orale.
-‐
IV
generazione
(es.
cefepima):
hanno
uno
spettro
d’azione
piu’
ampio
rispetto
alle
cefalosporine
di
III
generazione
e
sono
resistenti
alle
β-‐lattamasi;
la
somministrazione
e’
per
via
parenterale.
Le
penicilline
e
le
cefalosporine
sono
antibiotici
(naturali
o
di
semisintesi)
che
agiscono
da
battericidi
in
quanto
si
legano
irreversibilmente
alle
PBPs
inibendole;
in
particolar
modo,
inibiscono
la
formazione
dei
legami
crociati
del
peptidoglicano
in
costruzione.
La
resistenza
si
manifesta
principalmente
per
inattivazione
enzimatica
(mediata
dalle
β-‐
lattamasi)
o
per
mutazioni
a
livello
delle
PBPs.
In
generale
la
biodisponibilita’
orale
e’
variabile:
sebbene
vi
siano
molti
farmaci
somministrabili
per
via
orale,
ve
ne
sono
altri
che
necessitano
di
una
somministrazione
per
via
parenterale
o
endovenosa.
Cosi’
come
la
biodisponibilita’
orale,
anche
la
penetrazione
nel
SNC
e’
variabile.
Per
quanto
riguarda
il
metabolismo,
si
osserva
un
discreto
metabolismo
epatico
a
livello
delle
catene
laterali;
l’eliminazione
e’
a
carico
dei
reni
ed
avviene
sia
per
filtrazione
glomerulare
sia
per
secrezione
tubulare.
L’effetto
collaterale
principale
e’
l’insorgenza
di
reazioni
di
ipersensibilita’
nei
pazienti
in
trattamento
con
questi
farmaci,
in
una
percentuale
che
varia
tra
l’1%
e
il
10%:
le
manifestazioni
allergiche
comprendono
eruzioni
cutanee,
orticaria,
febbre,
broncospasmo,
vasculite
e,
nei
casi
piu’
gravi,
shock
anafilattico.
Il
motivo
per
cui
si
possono
scatenare
questi
fenomeni
allergici
e’
che
questi
farmaci
possono
essere
metabolizzati
in
specie
reattive
in
grado
di
legarsi
covalentemente
alle
proteine
e
agire
quindi
da
apteni
(un
aptene
e’
una
molecola
a
basso
PM
che
di
per
se’
non
induce
una
risposta
anticorpale,
ma
se
legata
ad
un
carrier
e’
in
grado
di
stimolare
la
formazione
di
anticorpi
specifici
e
di
reagire
con
essi).
E’
importante
sottolineare
che
i
soggetti
allergici,
per
esempio,
alle
penicilline
e’
molto
probabile
che
lo
siano
anche
alle
cefalosporine
e
ai
β-‐lattamici
diversi
da
penicilline
e
cefalosporine,
e
viceversa.
Un
altro
possibile
effetto
collaterale
e’
la
flebite,
ossia
un’infiammazione
delle
vene,
qualora
il
farmaco
venga
somministrato
per
via
endovenosa.
Infine
e’
importante
ricordare
che
questi
farmaci,
essendo
eliminati
per
via
renale,
possono
avere
un
effetto
nefrotossico,
pertanto
bisogna
prestare
attenzione
specialmente
nei
soggetti
con
insufficienza
renale.
2)
Farmaci
che
interferiscono
con
la
biosintesi
dell’acido
folico
L’acido
folico
e’
una
vitamina
idrosolubile
del
gruppo
B;
strutturalmente
e’
il
risultato
dell’unione
di
tre
molecole
ossia
della
pteridina,
dell’acido
p-‐aminobenzoico
(PABA)
e
dell’acido
glutammico.
La
biosintesi
dell’acido
folico
parte
dal
precursore
pteridinico
che,
per
intervento
dell’enzima
diidropteroato
sintetasi,
reagisce
con
il
PABA
formando
l’acido
diidropteroico.
Quest’ultimo
reagisce
con
l’acido
glutammico
per
mezzo
dell’enzima
diidrofolato
sintetasi
a
dare
l’acido
diidrofolico
(detto
spesso
acido
folico
o
FH2).
Infine,
tramite
la
diidrofolato
reduttasi,
l’acido
folico
viene
convertito
nella
sua
forma
attiva,
cioe’
nell’acido
tetraidrofolico
(FH4).
Quest’ultimo
e’
indispensabile
per
la
sintesi
delle
purine
e
delle
pirimidine,
quindi
per
la
sintesi
degli
acidi
nucleici,
e
per
il
metabolismo
degli
amminoacidi.
I
sulfamidici
e
il
trimetoprim
sono
chemioterapici
(cioe’
molecole
di
sintesi)
in
grado,
inibendo
due
diversi
enzimi
nel
processo
biosintetico
sopra
descritto,
di
bloccare
la
sintesi
di
acido
folico
e
acido
tetraidrofolico
e,
di
conseguenza,
di
bloccare
la
sintesi
degli
acidi
nucleici
e
interferire
con
il
metabolismo
degli
amminoacidi.
Per
via
del
loro
meccanismo
d’azione,
sia
i
sulfamidici
sia
il
trimetoprim
sono
farmaci
batteriostatici
ad
ampio
spettro.
I
sulfamidici
sono
derivati
della
sulfanilamide;
le
sostituzioni
effettuate
a
livello
del
gruppo
amidico
(-‐SONH2)
determinano
differenti
effetti
sull’azione
antimicrobica
della
molecola.
Questi
farmaci
si
comportano
da
antimetaboliti,
inibendo
in
maniera
competitiva
la
diidropteroato
sintetasi;
i
microrganismi
sensibili
ai
sulfamidici
sono
quelli
che
devono
sintetizzare
autonomamente
l’acido
folico,
mentre
i
batteri
in
grado
di
utilizzare
l’acido
folico
gia’
sintetizzato
non
sono
sensibili
all’azione
di
questi
farmaci.
E’
da
sottolineare
il
fatto
che
i
sulfamidici
non
agiscono
sugli
organismi
eucarioti
dato
che
non
possiedono
l’enzima
diidropteroato
sintetasi
(infatti
non
sono
in
grado
di
sintetizzare
l’acido
folico).
Il
trimetoprim
ha
una
struttura
simile
alle
pirimidine
e,
a
differenza
dei
sulfamidici,
agisce
inibendo
la
diidrofolato
reduttasi,
impedendo
cosi’
la
riduzione
dell’acido
diidrofolico
ad
acido
tetraidrofolico.
La
reduttasi
e’
presente
anche
negli
organismi
eucarioti,
compreso
l’uomo,
tuttavia
questo
farmaco
e’
un
inibitore
altamente
selettivo
della
diidrofolato
reduttasi
dei
batteri
in
quanto
il
trimetoprim
ha
un’affinita’
molto
maggiore
nei
confronti
dell’enzima
presente
in
questi
organismi
inferiori.
Molto
frequentemente
il
trimetoprim
e’
utilizzato
in
associazione
ad
un
sulfamidico,
in
particolare
al
sulfametoxazolo:
si
osserva
infatti
un’azione
sinergica
tra
i
due
farmaci
e
cio’
e’
dovuto
al
blocco
sequenziale
dei
due
diversi
enzimi
nel
processo
di
biosintesi
dell’acido
tetraidrofolico.
La
resistenza,
sempre
piu’
diffusa,
puo’
avere
origine
da
mutazioni
casuali
e
successiva
selezione
o
mediante
trasferimento
della
resistenza
per
mezzo
di
plasmidi;
per
quanto
riguarda
i
meccanismi
mediante
i
quali
la
resistenza
si
manifesta,
si
puo’
osservare
la
riduzione
dell’affinita’
degli
enzimi
target
nei
confronti
dei
farmaci,
l’aumento
della
produzione
di
PABA
e/o
la
sintesi
di
acidi
nucleici
mediante
altre
vie
(by-‐pass
metabolico).
I
sulfamidici
e
il
trimetoprim
sono
ben
assorbiti
quando
somministrati
per
via
orale
e
sono
caratterizzati
da
una
buona
penetrazione
nei
tessuti;
passano
inoltre
la
barriera
emato-‐encefalica
e
la
placenta.
Il
metabolismo
avviene
a
livello
epatico
e
l’escrezione
e’
renale
(tramite
filtrazione
glomerulare
e
secrezione
tubulare;
possono
inoltre
anche
esser
riassorbiti
a
livello
dei
tubuli).
Gli
effetti
collaterali
principali
di
questi
farmaci
sono:
nefrotossicita’
(cristalluria);
reazioni
di
ipersensibilita’
(come
la
sindrome
di
Stevens-‐Johnson
caratterizzata
da
eruzioni
allergiche
esfoliative).
Quando
vengono
utilizzati
i
sulfamidici
bisogna
prestare
particolare
attenzione
alle
possibili
interazioni
con
altri
farmaci
che
possono
avvenire
sia
per
spiazzamento
dovuto
a
legami
farmaco-‐proteina
sia
a
livello
epatico
per
quanto
concerne
il
metabolismo.
3)
Farmaci
che
interferiscono
con
la
sintesi
proteica
ribosomiale
Il
bersaglio
di
questi
farmaci
e’
rappresentato
dai
ribosomi,
in
particolare
dalla
subunita’
30S
e/o
dalla
subunita’
50S.
A
seconda
del
tipo
di
farmaco
si
puo’
ottenere
la
formazione
di
proteine
non
funzionali
(azione
battericida)
o
la
non
formazione
di
proteine
con
conseguente
accumulo
di
RNA
nel
citoplasma
(azione
batteriostatica).
La
sintesi
proteica,
detta
anche
traduzione,
e’
il
processo
biochimico
attraverso
il
quale
l’informazione
genetica
contenuta
nel
mRNA
viene
convertita
in
proteine.
L’RNA
messaggero
e’
prodotto
a
partire
da
un
gene
sul
DNA
attraverso
il
processo
di
trascrizione
e
viene
usato
come
stampo
per
la
produzione
di
una
specifica
proteina.
Una
tripletta
di
basi
nucleotidiche,
chiamata
codone,
codifica
per
uno
specifico
amminoacido;
oltre
ai
codoni
specifici
per
i
20
amminoacidi,
vi
sono
i
codoni
che
danno
il
segnale
di
inizio
della
traduzione,
altri
che
danno
il
segnale
di
fine
della
sintesi
proteica
e
non
codificano
per
nessun
amminoacido
ed
altri
ancora,
correlati
tra
di
loro,
che
codificano
per
lo
stesso
amminoacido.
Oltre
all’mRNA,
anche
l’rRNA
e
il
tRNA
sono
coinvolti
nel
processo
di
traduzione:
l’rRNA,
insieme
ad
altre
proteine,
costituisce
i
ribosomi,
strutture
complesse
formate
da
una
subunita’
maggiore
di
50S
ed
una
minore
di
30S,
dove
avviene
il
processo
sintetico;
il
tRNA
(RNA
transfer)
e’
invece
adibito
al
trasporto
degli
amminoacidi
sui
ribosomi.
Il
tRNA
strutturalmente
ha
una
forma
simile
ad
un
quadrifoglio
ed
in
essa
sono
presenti
regioni
costanti,
comuni
a
tutti
i
tRNA,
e
regioni
variabili.
Una
delle
regioni
variabili
e’
quella
che
contiene
l’anticodone,
cioe’
il
sito
adibito
al
riconoscimento
specifico
e
al
successivo
appaiamento
con
il
codone
dell’mRNA;
il
sito
di
legame
per
l’amminoacido
si
trova
invece
nella
parte
terminale
3’
o
estremita’
accettrice.
L’inizio
della
sintesi
proteica
prevede
il
legame
dell’aminoacil
tRNA
e
dell’mRNA
alla
subunita’
minore
del
ribosoma;
tramite
vari
fattori
a
questo
complesso
si
associa
la
subunita’
maggiore
con
la
formazione
di
un
ribosoma
completo.
Il
ribosoma
completo
ed
attivo
contiene
tre
siti
di
interazione
denominati
sito
P,
sito
A
e
sito
E.
L’aa-‐tRNA
(il
primo
aa
e’
sempre
una
metionina)
si
lega
al
sito
P
ed
il
secondo
aa-‐tRNA
entra
nel
sito
A:
la
subunita’
minore
riconosce
il
giusto
appaiamento
tra
codone
dell’mRNA
e
anticodone
del
tRNA
e
si
ha
quindi
la
formazione
del
legame
peptidico
tra
i
due
amminoacidi.
A
questo
punto
avviene
la
traslocazione,
ossia
il
ribosoma
si
sposta
di
tre
nucleotidi
lungo
l’mRNA
cosi’
che
il
primo
tRNA
passi
al
sito
E
ed
il
secondo
al
sito
P;
il
legame
di
un
terzo
aa-‐tRNA
al
sito
A
provoca
poi
il
rilascio
del
primo
tRNA
dal
sito
E.
L’allungamento
procede
fino
a
quando
un
codone
di
stop
viene
traslocato
nel
sito
A:
a
questo
punto
la
sintesi
della
proteina
e’
completa
e
questa
viene
rilasciata;
il
ribosoma
si
dissocia
e
le
subunita’
libere
sono
eventualmente
disponibili
per
formare
nuovi
complessi
per
successive
sintesi.
3a)
Farmaci
che
agiscono
sulla
subunita’
30S
i)
Tetracicline
Le
tetracicline
sono
antibiotici
(naturali
o
semisintetici)
che
strutturalmente
sono
costituite
da
4
strutture
cicliche
esatomiche
condensate
fra
loro;
a
seconda
dei
sostituenti
presenti
sugli
anelli,
le
molecole
acquisiscono
miglioramenti
in
termini
farmacocinetici.
Tra
le
tetracicline
disponibili
sono
da
ricordare:
clortetraciclina,
oxitetraciclina,
demeclociclina,
metaciclina,
doxiciclina,
minociclina.
Le
tetracicline
agiscono
legandosi
alla
subunita’
30S
del
ribosoma,
bloccando
il
legame
dell’aa-‐
tRNA
al
sito
A
del
ribosoma
e
bloccando
conseguentemente
la
sintesi
proteica;
per
via
del
loro
meccanismo
d’azione
questi
farmaci
agiscono
da
batteriostatici
ad
ampio
spettro.
La
resistenza
verso
le
tetracicline
si
manifesta
principalmente
a
causa
dell’espressione
di
un
trasportatore
denominato
TeT
(tetracycline
transport)
che
agisce
da
pompa
di
efflusso
nei
confronti
del
farmaco.
Tutti
i
microrganismi
possiedono
il
gene
che
codifica
per
TeT,
tuttavia
vi
e’
un
repressore
che
blocca
l’espressione
del
gene;
quando
la
concentrazione
di
tetraciclina
aumenta,
questa
interagisce
con
il
repressore
e
lo
inibisce
determinando
l’espressione
del
gene
che
codifica
per
TeT.
Questo
tipo
di
resistenza
costituisce,
quindi,
un
esempio
di
resistenza
cromosomiale
inducibile.
Chimicamente
sono
molecole
anfipatiche
poiche’
la
struttura
di
base
tetraciclica
e’
lipofila
mentre
i
sostituenti
sono
idrofili;
cio’
permette
a
queste
molecole
di
superare
le
membrane
per
diffusione
passiva
e
di
essere
solubili
in
acqua.
Grazie
a
queste
caratteristiche
e’
possibile
la
somministrazione
per
via
orale
oltre
che
per
via
parenterale
ed
e’
quindi
possibile
cominciare
la
terapia
con
una
somministrazione
in
bolo
continuando
in
seguito
con
la
somministrazione
orale.
La
somministrazione
di
tetracicline
deve
essere
eseguita
lontano
dai
pasti
e,
in
particolare,
in
assenza
di
latticini:
le
tetracicline
infatti
sono
in
grado
di
chelare
i
cationi
bivalenti
formando
strutture
che
non
possono
piu’
essere
assorbite.
In
definitiva
la
biodisponibilita’
orale
e’
variabile
e
dipende
dalla
presenza
o
meno
di
cibo
(soprattutto
latticini);
una
volta
assorbite,
le
tetracicline
si
distribuiscono
ampiamente
nei
tessuti,
ma
mostrano
una
scarsa
penetrazione
a
livello
del
SNC.
Il
metabolismo
e’
per
lo
piu’
epatico
e
varia
a
seconda
della
tetraciclina
somministrata;
l’escrezione
puo’
essere
biliare
e/o
renale
(per
filtrazione
glomerulare).
Gli
effetti
collaterali
principali
sono:
tossicita’
a
livello
dei
denti
e
delle
ossa
(agiscono
da
chelanti
del
Ca2+),
reazioni
di
fotosensibilita’,
disturbi
GI
(per
alterazione
della
flora
batterica;
possibilita’
di
superinfezioni),
tossicita’
epatica
(rara),
dolore
all’iniezione
e
flebite.
ii)
Aminoglicosidi
Gli
aminoglicosidi
sono
una
classe
di
antibiotici
naturali
o
semisintetici
che
strutturalmente
consiste
di
due
o
piu’
aminozuccheri
uniti
da
un
legame
glicosidico
ad
un
nucleo
esoso.
I
vari
aminoglicosidi
si
distinguono
in
funzione
degli
aminozuccheri
legati
all’aminociclitolo;
da
ricordare
vi
sono
streptomicina,
neomicina,
gentamicina,
netilmicina
e
amikacina.
Gli
aminoglicosidi
agiscono
principalmente
sulla
subunita’
30S
dei
ribosomi
bloccando
l’inizio
della
sintesi
proteica
e
portando
ad
un
accumulo
di
complessi
di
iniziazione
anomali.
Inoltre
questi
farmaci,
sempre
a
livello
della
subunita’
minore,
sono
in
grado
di
legare
diverse
proteine,
classificabili
in
due
famiglie:
le
fidelity
protein
(controllano
che
la
sequenza
degli
aa
aggiunti
nel
corso
della
sintesi
sia
corretta)
e
le
misreading
protein
(introducono
modificazioni
post-‐traduzionali
per
far
fronte
ai
cambiamenti
ambientali
e
quindi
alle
condizioni
avverse).
Gli
aminoglicosidi
sono
quindi
in
grado
sia
di
bloccare
la
formazione
del
complesso
iniziale
ribosomiale
(la
streptomicina
agisce
solo
a
questo
livello)
sia
di
indurre
un’errata
lettura
dello
stampo
di
mRNA
portando
all’incorporazione
di
aa
errati
nelle
catene
polipeptidiche
in
formazione
(si
possono
ottenere
proteine
non
funzionali
e/o
proteine
tronche).
Essendo
composti
molto
polari,
affinche’
raggiungano
il
sito
bersaglio
costituito
dal
complesso
ribosomiale
presente
nel
citoplasma
e’
necessario
l’intervento
di
trasportatori
che
richiedono
energia
ed
ossigeno;
l’efficienza
di
questi
sistemi
di
trasporto
dipende
da
vari
fattori
come
la
tensione
d’ossigeno
o
il
valore
di
pH
in
cui
i
farmaci
devono
agire
e
spiega
la
ridotta
attivita’
di
questi
farmaci
in
ambiente
anaerobio
(es.
negli
ascessi).
La
resistenza
verso
gli
aminoglicosidi
puo’
essere
di
tipo
cromosomico
o
di
tipo
plasmidico.
La
resisitenza
cromosomica
insorge
in
seguito
ad
una
mutazione
e
ad
una
diminuita
permeabilita’,
per
una
ritardata
penetrazione
attraverso
le
porine
della
membrana
esterna
o
per
assenza
di
meccanismi
di
trasporto
di
membrana;
la
mutazione
puo’
anche
coinvolgere
il
sito
bersaglio,
con
modificazione
della
subunita’
30S,
impedendo
di
fatto
al
farmaco
di
agire.
La
resistenza
plasmidica,
invece,
si
manifesta
con
la
produzione
di
enzimi
che
inattivano
gli
aminoglicosidi
mediante
varie
reazioni,
dipendenti
dal
tipo
di
farmaco
utilizzato,
per
esempio
tramite
acetilazione,
adenilazione
e/o
fosforilazione;
per
superare
questo
problema
e’
possibile
somministrare
specifici
inibitori
di
questi
enzimi
o
modificare
chimicamente
le
molecole
in
modo
che
risultino
meno
reattive.
Gli
aminoglicosidi
mostrano
una
rapida
azione
battericida
selettiva
verso
i
batteri
aerobi
Gram-‐
negativi;
quest’azione
e’
concentrazione-‐dipendente,
ma
si
osserva
una
persistente
attivita’
antibatterica
residua
anche
dopo
che
la
concentrazione
plasmatica
e’
scesa
al
di
sotto
della
MBC
e
cio’
spiega
l’efficacia
di
regimi
che
prevedono
la
somministrazione
di
una
singola
dose
giornaliera.
Sono
molecole
molto
idrofile
quindi
non
possono
essere
somministrata
per
via
orale
un
quanto
non
verrebbero
assorbite
(somministrazione
orale
solo
in
caso
di
infezioni
nel
tratto
GI);
anche
la
penetrazione
nei
tessuti
e’
scarsa.
L’eliminazione
e’
esclusivamente
renale
ed
avviene
per
filtrazione
glomerulare.
Gli
effetti
collaterali
principali
di
questa
classe
di
farmaci
sono:
nefrotossicita’,
ototossicita’
e
blocco
neuromuscolare
(bloccano
la
liberazione
di
acetilcolina).
Nello
specifico,
si
osserva
tossicita’
a
livello
dei
reni
poiche’
gli
aminoglicosidi
tendono
ad
accumularsi
nelle
cellule
epiteliali
del
tubulo,
provocando
la
necrosi
di
queste
cellule;
il
fenomeno
necrotico
puo’
poi
espandersi
a
tutto
il
rene,
quindi
e’
molto
importante
il
controllo
periodico
delle
urine
qualora
vengano
somministrati
gli
aminoglicosidi.
L’ototossicita’
e’
anch’essa
causata
dall’accumulo
di
aminoglicosidi
nelle
cellule
epiteliali
dell’orecchio
interno
che
ne
provoca
la
necrosi;
si
manifestano,
di
conseguenza,
vertigini
e
una
progressiva
sordita’.
3b)
Farmaci
che
agiscono
sulla
subunita’
50S
i)
Macrolidi
I
macrolidi
sono
antibiotici
naturali
o
semisintetici
costituiti
da
un
anello
macrociclico
lattonico
a
14-‐15-‐16
atomi
di
C,
unito
a
differenti
zuccheri.
Fanno
parte
di
questa
classe
numerosi
farmaci,
tra
cui
da
ricordare
l’eritromicina
e
la
claritromicina.
I
macrolidi
sono
farmaci
batteriostatici
ad
ampio
spettro
che
inibiscono
la
sintesi
proteica
legandosi
reversibilmente
alla
subunita’
ribosomiale
50S
degli
organismi
sensibili.
L’esatto
meccanismo
d’azione
non
e’
chiaro:
l’ipotesi
piu’
plausibile
e’
che
questi
farmaci
inibiscono
lo
stadio
di
traslocazione,
impedendo
alla
catena
polipeptidica
nascente,
temporaneamente
nel
sito
A
di
muoversi
nel
sito
P.
La
resistenza
e’
piuttosto
limitata,
puo’
essere
di
origine
plasmidica
e
si
manifesta
con
l’estrusione
del
farmaco
tramite
pompe
di
efflusso
o
per
la
metilazione
delle
proteine
ribosomiali
che
impedisce
il
legame
del
farmaco.
Sono
caratterizzati
da
una
buona
biodisponibilita’
orale
e
da
un’ampia
distribuzione
nei
tessuti;
vengono
metabolizzati
dal
fegato
in
composti
inattivi
e
l’escrezione
e’
prevalentemente
biliare
(quindi
possono
essere
usati
nei
pazienti
con
insufficienza
renale).
Sono
farmaci
poco
tossici
(disturbi
GI
e
rara
epatotossicita’)
e
maneggevoli,
quindi
sono
spesso
usati
nei
bambini.
ii)
Amfenicoli
Appartengono
a
questa
classe
di
antibiotici
il
cloramfenicolo
e
il
suo
derivato
tiamfenicolo;
chimicamente
sono
farmaci
strutturalmente
semplici,
formati
da
un
nucleo
nitrobenzenico.
Questa
a
fianco
e’
la
formula
di
struttura
del
cloramfenicolo;
il
tiamfenicolo
si
ottiene
per
sostituzione
del
nitrogruppo
con
un
gruppo
metilsolfonile
(-‐SO2CH3).
Gli
amfenicoli
sono
batteriostatici
ad
ampio
spettro
che
agiscono
sulla
subunita’
ribosomiale
50S
bloccando
l’azione
della
peptidil-‐transferasi
adibita
alla
formazione
del
legame
peptidico
tra
aa
e
catena
peptidica
nascente.
La
resistenza
e’
dovuta
ad
un
enzima
plasmidico
in
grado
di
inattivare
il
farmaco.
Questi
farmaci
sono
ben
assorbiti
per
via
orale
e
attraversano
la
placenta
e
la
barriera
ematoencefalica;
il
metabolismo
e’
epatico
(il
92%
del
farmaco
subisce
reazioni
di
glucuronazione,
deacilazione,
dealogenazione)
e
l’escrezione
e’
per
via
renale
(il
farmaco
non
modificato
per
filtrazione
glomerulare,
mentre
il
farmaco
modificato
a
livello
epatico
per
secrezione
tubulare).
A
causa
dei
suoi
effetti
collaterali
questi
farmaci
hanno
un
uso
limitato,
in
particolare
sono
usati
per
il
trattamento
delle
infezioni
da
Haemophilus
(meningite;
superano
la
barriera
ematoencefalica)
e
da
Salmonella
(tifo).
Gli
effetti
collaterali
principali
sono
la
soppressione
dell’ematopoiesi
e
la
sindrome
grigia
nei
neonati;
inoltre
bisogna
prestare
attenzione
alla
cosomministrazione
con
altri
farmaci
poiche’
gli
amfenicoli
sono
inibitori
del
CYP450,
responsabile
del
metabolismo
di
numerosi
farmaci.
L’anemia
aplastica
e’
una
condizione
rara
in
cui
il
midollo
non
e’
piu’
in
grado
di
produrre
le
cellule
circolanti
del
sangue:
si
osserva
quindi
la
soppressione
dell’ematopoiesi
e
l’unica
alternativa
e’
il
trapianto
di
midollo.
Solitamente
la
tossicita’
e’
dose-‐dipendente
e
si
risolve
quando
la
terapia
e’
terminata,
tuttavia
la
risposta
aplastica
dell’organismo
non
lo
e’
e,
quindi,
e’
fatale
nella
maggior
parte
dei
casi.
La
sindrome
grigia
nei
neonati
e’
una
sindrome
letale
(per
blocco
respiratorio)
associata
al
fatto
che
il
neonato
non
e’
in
grado
di
glucuronare
questi
farmaci
che
sono
quindi
metabolizzati
attraverso
altre
vie
a
dare
intermedi
reattivi.
3c)
Farmaci
che
agiscono
sia
sulla
subunita’
30S
sia
sulla
subunita’
50S
Gli
ossazolidinoni
(da
ricordare
il
linezolid)
sono
antimicrobici
sintetici
ad
azione
batteriostatica
attivi
verso
i
batteri
Gram-‐positivi
(anche
verso
quelli
multiresistenti).
Solitamente
nel
trattamento
delle
infezioni
da
Gram-‐positivi
si
utilizzano
le
penicilline,
quindi
gli
ossazolidinoni
sono
usati
nei
pazienti
allergici
ai
β-‐lattamici
o
verso
i
microrganismi
insensibili
o
resistenti
alle
penicilline
stesse.
Bloccano
la
sintesi
proteica
interferendo
con
la
subunita’
30S,
inibendo
la
formazione
del
complesso
di
inizio,
e
con
la
subunita’
50S,
inibendo
la
peptidil-‐transferasi.
La
resistenza
e’
di
tipo
cromosomico
ed
e’
associata
alla
mutazione
dei
target
di
questa
classe
di
farmaci.
Mostrano
una
biodisponibilita’
orale
eccellente
e
vengono
metabolizzati
a
livello
epatico
dal
CYP450;
l’escrezione
e’
per
via
renale.
Gli
effetti
collaterali
sono:
disturbi
GI,
neuropatia
(a
livello
oculare),
acidosi
lattica,
trombocitopenia,
dolore
all’iniezione
e
flebite.
4)
Farmaci
che
interferiscono
con
la
replicazione
del
DNA
o
la
trascrizione
ad
RNA
4a)
Farmaci
che
agiscono
sulla
DNA
girasi
e
sulla
topoisomerasi
IV
I
chinoloni
sono
un’ampia
famiglia
di
chemioterapici,
cioe’
di
farmaci
antimicrobici
di
sintesi,
suddivisibili
in
generazioni
sulla
base
delle
diverse
attivita’
dello
spettro
d’azione.
La
I
generazione
e’
costituita
dai
chinoloni
propriamente
detti
e
comprende
varie
molecole
tra
cui,
da
ricordare,
l’acido
nalidixico;
sono
attivi
sui
Gram-‐negativi
e
sono
utilizzati
nelle
infezioni
urinarie
(il
volume
di
distribuzione
di
questi
farmaci
e’
basso
quindi
la
maggior
parte
del
farmaco
viene
escreta
tramite
le
urine).
La
II
generazione
e’
costituita
dai
fluorochinoloni,
tra
cui
norfloxacina
e
ciprofloxacina,
che
si
differenziano
dai
farmaci
precedenti
per
l’aggiunta
di
un
atomo
di
fluoro
sull’anello
chinolinico:
cio’
ha
permesso
di
aumentare
l’attivita’
antibatterica
e
lo
spettro
d’azione;
sono
infatti
antimicrobici
ad
ampio
spettro,
attivi
sia
sui
Gram-‐positivi
sia
sui
Gram-‐negativi.
La
DNA
girasi
e
la
topoisomerasi
IV
batteriche
sono
il
bersaglio
di
questi
antimicrobici;
teoricamente
dovrebbero
essere
batteriostatici,
ma
la
loro
azione
finale
e’
battericida.
La
DNA
girasi
contribuisce
a
determinare
la
configurazione
spaziale
del
DNA,
condizionando
il
superavvolgimento
della
molecola
di
DNA:
i
chinoloni
si
inseriscono
su
un
intermedio
della
reazione
tra
DNA
e
girasi
formando
un
complesso
chinolone-‐girasi-‐DNA
inattivo.
La
topoisomerasi
IV,
l’altro
bersaglio
dei
chinoloni,
agisce
nel
rimuovere
il
superavvolgimento
e
per
separare,
dopo
la
replicazione
del
DNA,
le
catene
appena
formate.
In
generale
la
topoisomerasi
IV
rappresenta
il
bersaglio
principale
nei
batteri
Gram-‐positivi,
mentre
per
molti
di
quelli
Gram-‐negativi
il
bersaglio
principale
e’
la
DNA
girasi.
La
tossicita’
selettiva
e’
legata
al
fatto
che
questi
enzimi
coinvolti,
pur
essendo
presenti
anche
nelle
cellule
eucariotiche,
sono
diversi
dal
punto
di
vista
fisiologico.
La
resistenza
e’
di
tipo
cromosomico
e,
principalmente,
si
manifesta
in
seguito
a
mutazioni
che
alterano
gli
enzimi
bersaglio,
impedendo
di
fatto
il
legame
con
il
farmaco.
Questa
famiglia
di
farmaci
e’
caratterizzata
da
un
buon
assorbimento
orale
sebbene
debbano
essere
somministrati
lontano
dai
pasti
in
quanto
chelano
gli
ioni
Mg2+;
la
distribuzione
tissutale,
minore
nei
chinoloni
di
I
generazione,
e’
aumentata
in
quelli
di
II
generazione.
L’escrezione
avviene
per
via
renale,
nello
specifico
per
secrezione
tubulare.
Per
quanto
riguarda
gli
effetti
collaterali,
in
generale
questi
farmaci
mostrano
una
scarsa
tossicita’;
e’
tuttavia
possibile
che
si
verifichino
artropatie
(in
quanto
possono
accumularsi
a
livello
di
tendini
e
cartilagini
danneggiandole),
neuropatie
periferiche,
disturbi
GI
e
fluttuazioni
della
glicemia.
4b)
Farmaci
che
agiscono
sulla
RNA
polimerasi
DNA-‐dipendente
Le
rifamicine
sono
un
gruppo
di
antimicrobici
macrociclici
semisintetici
derivanti
dalla
rifamicina
B;
a
questo
gruppo
appartiene,
tra
gli
altri,
la
rifampicina.
Questi
farmaci
formano
un
complesso
stabile
con
l’RNA
polimerasi
DNA-‐dipendente
inibendo
cosi’
la
trascrizione
ad
mRNA
e
la
conseguente
traduzione
in
proteine;
e’
da
sottolineare
il
fatto
che
il
blocco
avviene
all’inizio
del
processo
di
formazione
della
catena,
ma
non
blocca
l’allungamento
una
volta
che
e’
iniziato
il
legame
con
il
filamento
senso
di
DNA.
La
tossicita’
selettiva
si
realizza
poiche’
la
polimerasi
batterica
risulta
maggiormente
affine
al
farmaco
rispetto
a
quella
delle
cellule
umane.
Questi
farmaci
mostrano
una
buona
attivita’
battericida
verso
i
batteri
Gram-‐positivi
e
Gram-‐
negativi,
ma
il
loro
successo
terapeutico
e’
legato
alla
spiccata
attivita’
verso
i
micobatteri.
Le
resistenze
sono
di
tipo
cromosomico
e
si
manifestano
tramite
mutazioni
che
inducono
alterazioni
nella
RNA
polimerasi,
abbassandone
l’affinita’,
o
tramite
la
riduzione
della
permeabilita’
di
membrana.
La
biodisponibilita’
orale
e’
buona
cosi’
come
la
distribuzione
nei
tessuti;
sono
metabolizzati
dal
fegato
ed
escreti
principalmente
per
via
biliare.
In
caso
di
cosomministrazione
con
altri
farmaci
bisogna
prestare
attenzione
al
fatto
che
la
rifampicina
e’
un
potente
induttore
dei
CYP
epatici.
I
principali
effetti
collaterali
sono:
eruzioni
cutanee,
disturbi
GI,
nefrite
e
ridotta
funzionalita’
epatica
(rare),
trombocitopenia
(rara).
NB
I
micobatteri
sono
un
genere
di
batteri
Gram-‐positivi
responsabile
di
varie
patologie
nell’uomo,
come
la
tubercolosi.
Sono
caratterizzati
dalla
presenza
di
una
parete
cellulare
particolarmente
spessa
che
e’
costituita
da
uno
strato
relativamente
sottile
di
peptidoglicano
al
quale
sono
legate
varie
molecole
che
rendono
la
parete
particolarmente
complessa
ed
impermeabile
ad
alcune
delle
sostanze
piu’
utilizzate
nella
terapia
medica
(questi
batteri
sono
sensibili
alla
rifampicina
e
a
pochi
altri
composti).
5)
Farmaci
che
danneggiano
la
membrana
cellulare
Questo
gruppo
comprende
farmaci
che
presentano
una
bassa
tossicita’
selettiva,
poiche’
le
membrane
cellulari
batteriche
possiedono
caratteristiche
comuni
alle
cellule
eucariotiche;
vi
sono
tuttavia
molecole
selettivamente
tossiche,
seppur
in
numero
limitato,
tra
cui
i
polieni
(usati
come
antifungini)
e
i
polipeptidi
ciclici.
I
polipeptidi
ciclici
sono
battericidi
di
origine
batterica,
costituiti
da
10
aa
di
cui
7
in
forma
ciclica;
a
questo
gruppo
appartengono
le
polimixine,
attive
sui
batteri
Gram-‐negativi.
Agiscono
sulle
membrane
esterne
e
sulla
membrana
citoplasmatica,
fissandosi
ai
fosfolipidi
ed
alterando
la
permeabilita’
selettiva
con
conseguente
fuoriuscita
di
metaboliti
citoplasmatici.
Un
altro
farmaco
che
agisce
sulla
membrana
cellulare
e’
la
daptomicina,
un
antibiotico
lipopeptidico
ciclico
ad
azione
battericida
nei
confronti
dei
batteri
Gram-‐positivi.
La
daptomicina
agisce
legandosi
alla
membrana
cellulare
e
provocando
la
depolarizzazione
della
stessa:
la
perdita
del
potenziale
di
membrana
determina
la
morte
della
cellula.
Grazie
al
suo
particolare
meccanismo
d’azione
non
sono
noti
meccanismi
di
resistenza.
La
somministrazione
e’
esclusivamente
per
via
endovenosa;
e’
scarsamente
metabolizzata
e
l’escrezione
e’
principalmente
per
via
renale.
Il
principale
effetto
collaterale
e’
il
possibile
sviluppo
di
miopatie.
Farmaci
antivirali
I
virus
sono
parassiti
obbligati
intracellulari
che
contengono
DNA
o
RNA
a
singolo
o
a
doppio
filamento
racchiuso
in
un
rivestimento
proteico,
chiamato
capside.
Alcuni
virus
hanno
anche
un
involucro
lipidico
che,
in
modo
analogo
al
capside,
puo’
contenere
glicoproteine
antigeniche.
La
maggior
parte
dei
virus
puo’
anche
contenere
enzimi
essenziali
per
iniziare
il
processo
di
replicazione
virale
all’interno
della
cellula
ospite
dai
cui
meccanismi
metabolici
trae
beneficio.
I
virus
a
DNA
comprendono,
tra
gli
altri,
herpesvirus
(varicella,
herpes
zoster,
herpes
orale
e
genitale,
mononucleosi,
retinite,
cancro,
meningoencefalite)
ed
hepadnavirus
(epatiti,
cancro
al
fegato).
Tipicamente
i
virus
a
DNA
penetrano
nel
nucleo
della
cellula
ospite,
dove
il
DNA
virale
viene
trascritto
in
mRNA
dalla
polimerasi
della
cellula
ospite;
l’mRNA
viene
poi
tradotto
in
proteine
virali
dai
sistemi
metabolici
della
cellula
ospite.
I
virus
a
RNA
comprendono,
tra
gli
altri,
influenzavirus
(influenza)
e
retrovirus
(sindrome
da
immunodeficienza
acquisita,
AIDS).
Nel
caso
dei
virus
a
RNA,
il
processo
di
replicazione
nella
cellula
ospite
si
basa
sulla
sintesi
dell’mRNA
virale
catalizzata
dagli
enzimi
presenti
nel
virione
(l’intera
particella
virale
infettiva)
oppure
sulla
capacita’
dell’RNA
virale
di
agire
come
mRNA.
L’mRNA
viene
tradotto
in
diverse
proteine
virali,
inclusa
la
RNA
polimerasi,
che
dirige
la
sintesi
di
altre
molecole
di
mRNA
virale
e
mRNA
genomici.
La
maggior
parte
dei
virus
a
RNA
completano
la
loro
replicazione
nel
citoplasma,
ma
alcuni,
come
quello
dell’influenza,
vengono
trascritti
nel
nucleo
della
cellula
ospite.
Un
discorso
a
parte
lo
meritano
i
retrovirus:
sono
virus
a
RNA
che
contengono
l’enzima
trascrittasi
inversa,
che
e’
in
grado
di
sintetizzare
una
molecola
di
DNA
sullo
stampo
di
RNA
virale.
Il
DNA
si
integra
quindi
nel
genoma
della
cellula
ospite,
con
formazione
del
cosiddetto
provirus,
e
da
esso
vengono
prodotti
mRNA
dai
quali
vengono
sintetizzate
le
proteine
virali
e
lo
stesso
genoma
virale.
Il
tempo
di
replicazione
di
un
virus
negli
eucarioti
e’
di
12/24
ore;
le
fasi
del
ciclo
replicativo
virale
verso
cui
una
sostanza
antivirale
puo’
o
potrebbe
interferire
sono
8.
1)
Adsorbimento,
cioe’
l’interazione
tra
virus
e
cellula
mediata
dal
riconoscimento
tra
recettori
cellulari
e
antirecettori
virali;
la
specificita’
del
legame
determina
il
tropismo
virale,
ossia
la
capacita’
del
virus
di
attaccare
specificatamente
determinate
specie
o
solo
determinate
cellule.
2)
Penetrazione:
puo’
avvenire
per
fusione
o
per
endocitosi
e,
a
differenza
del
processo
precedente,
la
penetrazione
richiede
energia
dunque
la
cellula
deve
essere
metabolicamente
attiva
in
modo
da
fornire
al
virus
l’energia
sufficiente
per
la
penetrazione;
la
fusione
e’
tipica
dei
virus
rivestiti
(l’involucro
del
virus
si
fonde
con
la
membrana
e
il
nucleocapside
entra
nel
citoplasma),
mentre
l’endocitosi
e’
tipica
dei
virus
nudi
(si
forma
un’invaginazione
della
membrana
che
si
richiude
formando
l’endosoma).
3)
Uncoating
o
denudamento
del
virus:
avviene
la
rimozione
parziale
o
completa
del
capside
in
modo
da
liberare
l’informazione
genetica
virale
che
si
muove
verso
il
sito
di
replicazione
(citoplasma
o
nucleo,
dipende
dal
virus).
4)
Trascrizione
del
genoma
con
produzione
di
nuovo
RNA
o
DNA;
il
target
e’
rappresentato
generalmente
da
enzimi
virali
come
le
polimerasi
per
l’acido
nucleico
virale.
5)
Trascrizione
e
maturazione
dell’mRNA.
6)
Traduzione
degli
mRNA
virali
e
modificazioni
post-‐traduzionali
delle
proteine.
7)
Assemblaggio
(e
maturazione):
vengono
riuniti
tutti
i
componenti
preformati
per
la
sintesi
del
capside
che
andra’
a
contenere
il
genoma;
avviene
la
maturazione
del
virione.
8)
Rilascio:
e’
la
fase
in
cui
avviene
il
rilascio
dei
virioni
dalle
cellule;
cio’
puo’
avvenire
per
lisi
cellulare,
gemmazione
(si
forma
una
vescicola
costituita
dal
virus
e
da
parte
della
membrana
plasmatica
della
cellula
ospite)
o
esocitosi.
Gli
antivirali
sono
virustatici
e
non
virulitici,
ossia
sono
in
grado
di
inibire
la
formazione
di
nuovi
virus
ma
non
di
uccidere
il
virus
(compito
che
spetta
al
sistema
immunitario;
pertanto
la
terapia
antivirale
richiede
un
sistema
immunitario
efficiente,
il
che
e’
un
problema
in
anziani
e
bambini
o
in
soggetti
affetti
dal
virus
dell’HIV).
Gli
antivirali
possono
agire
bloccando
l’assorbimento
del
virus,
bloccando
l’uncoating
del
virus,
inibendo
la
replicazione
dell’acido
nucleico
(DNA
o
RNA)
o
inibendo
la
sintesi
delle
proteine
virali.
Un
problema
insito
nella
terapia
antivirale
e’
il
fenomeno
della
resistenza:
i
virus
infatti
sono
caratterizzati
da
un
periodo
di
latenza,
ossia
un
periodo
in
cui
e’
silente;
il
virus
puo’
poi
uscire
da
questa
fase
e
riattivarsi.
Durante
il
periodo
di
latenza
il
virus
puo’
incorrere
in
mutazioni
a
livello
del
genoma
e
cio’
determina
la
possibile
alterazione
dei
target
farmacologici
rendendo
inefficace
la
terapia.
Terapia
delle
infezioni
da
herpesvirus
L’herpes
simplex
virus
di
tipo
1
(HSV-‐1)
e’
causa
di
infezioni
della
bocca,
della
faccia,
della
cute,
dell’esofago
e
del
cervello.
L’herpes
simplex
virus
di
tipo
2
(HSV-‐2)
di
solito
causa
infezioni
dei
genitali,
del
retto,
della
cute,
delle
mani
e
delle
meningi.
Per
la
terapia
delle
infezioni
da
herpesvirus
vengono
utilizzati
i
nucleosidi
antivirali
(idoxuridina,
vidarabina,
acyclovir);
alla
classe
dei
nucleosidi
antivirali
appartiene
anche
la
ribavirina,
utilizzata
nelle
infezioni
da
hepadnavirus
(epatite
C).
I
nucleosidi
antivirali
sono
profarmaci
che
vengono
attivati
dalla
cellula
in
seguito
a
triplice
fosforilazione
che
converte
il
nucleoside
di
partenza
in
nucleotide.
I
nucleotidi
cosi’
ottenuti
possono
essere
utilizzati
nella
replicazione
del
genoma
e
fungere
da
intercalatori
o
da
chain-‐terminator.
Gli
intercalatori
si
posizionano
all’interno
della
catena
nascente
e
portano
alla
sintesi
di
una
catena
alterata
e
non
funzionale;
i
chain-‐terminator,
invece,
si
posizionano
all’interno
della
catena
nascente
e,
non
essendoci
l’OH
in
posizione
3’
sul
ribosio,
la
sintesi
del
filamento
viene
bloccata.
I
chain-‐terminator
sono
piu’
efficaci
dato
che
gli
intercalatori
non
bloccano
la
replicazione
quindi
possono
avvenire
processi
di
riparo
che
rimuovono
il
nucleotide
non
naturale.
Acyclovir
e
derivati
Farmaco:
acyclovir
(e’
un
analogo
nucleosidico
aciclico
della
guanina
privo
del
gruppo
ossidrilico
in
posizione
3’
della
catena
laterale).
Farmacodinamica:
si
comporta
da
falso
substrato
della
DNA
polimerasi
e
si
comporta
da
chain-‐
terminator
impedendo
quindi
la
replicazione
del
DNA
e
quindi
la
replicazione
virale.
Farmacocinetica:
somministrazione
per
via
topica,
orale
o
EV;
nel
caso
di
somministrazione
orale
la
biodisponibilita’
e’
bassa
(<10%).
Vantaggi:
scarsa
tossicita’
in
quanto
la
prima
fosforilazione
del
nucleoside
avviene
ad
opera
di
una
chinasi
virale
e
non
cellulare
(le
chinasi
della
cellula
operano
la
seconda
e
terza
fosforilazione)
quindi
il
farmaco
risulta
attivo
solo
nelle
cellule
infettate
dal
virus
(questo
vantaggio
puo’
divenire
uno
svantaggio
qualora
la
chinasi
virale
vada
incontro
a
mutazioni
e
non
sia
piu’
in
grado
di
attivare
il
farmaco).
Farmaco:
valaciclovir
(derivato
dell’acyclovir
a
cui
e’
stata
aggiunta
una
valina
sulla
catena
laterale).
Farmacodinamica:
valaciclovir
viene
convertito
ad
acyclovir
a
livello
sistemico
quindi
medesimo
meccanismo
d’azione.
Farmacocinetica:
l’aggiunta
di
un
aa
neutro
consente
al
farmaco
di
essere
maggiormente
assorbito
per
via
orale
grazie
al
trasportatore
per
gli
aa
neutri
presente
a
livello
intestinale;
si
consiglia
la
somministrazione
lontana
dai
pasti
altrimenti
si
ha
competizione
a
livello
del
trasportatore
citato
poc’anzi.
Usi
terapeutici:
valaciclovir
e’
utile
per
le
infezioni
sistemiche;
per
uso
topico
va
benissimo
acyclovir.
Farmaco:
farmciclovir
(derivato
dell’acyclovir
a
cui
sono
stati
aggiunti
residui
idrofobici
in
modo
da
migliorare
l’assorbimento
ed
evitare
l’interferenza
con
aa
neutri).
Farmacodinamica:
il
farmciclovir
viene
convertito
in
penciclovir
(nucleoside
che
non
viene
assorbito
per
os)
che
risulta
piu’
potente
rispetto
all’acyclovir
e
con
durata
d’azione
maggiore.
Problemi:
oltre
al
problema
della
resistenza,
tutti
questi
nucleosidi
possono
mostrare
resistenza
crociata
(cross-‐resistenza).
Quest’ultimo
e’
un
fenomeno
caratterizzato
dallo
sviluppo
di
resistenza
da
parte
di
un
agente
infettivo
anche
nei
confronti
di
un
farmaco
diverso
da
quello
al
quale
il
microrganismo
è
stato
esposto.
Farmaco:
ganciclovir
(derivato
dell’acyclovir,
da
cui
differisce
per
la
presenza
di
un
gruppo
idrossimetile
nella
catena
laterale)
e
valganciclovir
(il
ganciclovir
e’
condensato
con
una
valina
per
aumentare
la
biodisponibilita’
orale).
Farmacodinamica:
l’attivazione
e’
ad
opera
di
fosfotransferasi
nel
caso
di
CMV,
mentre
ad
opera
di
chinasi
nel
caso
di
HPV
(Herpes
virus).
Usi
terapeutici:
utilizzati
principalmente
nelle
infezioni
da
cytomegalovirus
(CMV).
Effetti
collaterali:
la
tossicita’
e’
maggiore
rispetto
all’acyclovir,
infatti
mostrano
tossicita’
a
livello
del
SNC
e
causano
mielodepressione
(legata
alla
non
selettivita’
assoluta
per
le
cellule
infettare
da
virus).
Problemi:
la
resistenza
e’
associata
a
mutazioni
a
carico
delle
fosfotransferasi,
delle
chinasi
o
della
DNA
polimerasi.
Terapia
delle
infezioni
da
influenzavirus
I
farmaci
contro
influenzavirus
agiscono
come
inibitori
delle
neuraminidasi;
le
neuraminidasi
sono
proteine
virali
coinvolte
sia
nell’entrata
sia
nell’uscita
del
virus
dalla
cellula
ospite.
I
tre
componenti
che
sono
coinvolti
nel
rilascio
del
virus
sono:
neuraminidasi,
emagglutinina
(proteine
virali)
e
un
recettore
di
superficie
presente
sulla
cellula
bersaglio
e
contenente
acido
sialico.
L’emagglutinina,
tramite
interazioni
elettrostatiche,
lega
il
recettore
presente
sulla
cellula
bersaglio;
affinche’
il
virus
esca
dalla
cellula
e’
pero’
necessario
che
le
neuraminidasi
virali
vadano
a
idrolizzare
il
legame
tra
il
recettore
e
l’acido
sialico.
Inibendo
le
neuraminidasi
quindi
si
inibisce
l’idrolisi
e
percio’
si
inibisce
il
rilascio
delle
particelle
virali
neoformate.
Farmaco:
zanamivir
(somministrato
per
via
inalatoria)
e
oseltamivir
(profarmaco
somministrato
per
os).
Farmacodinamica:
sono
analoghi
dell’acido
sialico
ed
agiscono
come
inibitori
competitivi
reversibili
delle
neuraminidasi.
Usi
terapeutici:
affinche’
la
terapia
sia
efficace
devono
essere
somministrati
il
prima
possibile
in
modo
da
limitare
la
produzione
di
ulteriori
virus
che
vadano
ad
infettare
altre
cellule.
Effetti
collaterali:
solitamente
ben
tollerati
anche
se
entrambi
mostrano
una
serie
di
effetti
collaterali.
Problemi:
anche
per
questi
farmaci
possono
instaurarsi
fenomeni
di
resistenza
(es.
mutazioni
a
livello
delle
neuraminidasi).
Terapia
dell’infezione
da
HIV
I
virus
HIV
(human
immunodeficiency
virus)
sono
lentivirus,
retrovirus
evolutisi
in
modo
da
causare
un’infezione
cronico
con
esordio
graduale
dei
sintomi.
I
lentivirus
si
replicano
costantemente
dopo
l’infezione
e,
sebbene
alcune
cellule
infettate
possano
albergare
per
anni
virus
non
replicanti,
generalmente
non
vi
e’
un
vero
periodo
di
latenza
dopo
l’infezione.
L’uomo
e
lo
scimpanze’
sono
gli
unici
ospiti
per
questi
virus.
Vi
sono
due
famiglie
principali
di
HIV:
HIV-‐1,
causa
della
maggior
parte
delle
epidemie,
e
HIV-‐2,
strettamente
correlato
all’HIV-‐1
e
concentrato
nell’Africa
occidentale.
L’HIV-‐1
e’
geneticamente
eterogeneo
e
ne
esistono
almeno
5
sottofamiglie.
La
sensibilita’
dell’HIV-‐1
e
dell’HIV-‐2
alla
maggior
parte
dei
farmaci
e’
simile,
ma
gli
inibitori
non
nucleosidici
della
trascrittasi
inversa
non
sono
attivi
nei
confronti
dell’HIV-‐2.
L’HIV
presenta
un
piccolo
genoma
a
RNA
costituito
da
circa
9000
paia
di
basi.
Due
copie
del
genoma
sono
contenute
nel
nucleocapside,
avvolto
da
un
doppio
strato
lipidico
(envelope)
derivato
dalla
membrana
plasmatica
della
cellula
ospite.
Il
genoma
virale
contiene
tre
geni
principali:
1)
il
gene
gag
che
codifica
per
le
proteine
del
capside;
2)
il
gene
pol
che
codifica
per
gli
enzimi
virali
quindi
trascrittasi
inversa,
proteasi,
integrasi
(permette
l’integrazione
del
genoma
virale
in
quello
della
cellula
ospite)
e
ribonucleasi;
3)
il
gene
env
che
codifica
per
le
proteine
dell’envelope.
Questi
geni
codificano
tutti
per
macroproteine
che
vengono
poi
tagliate
ad
opera
delle
proteasi
virali
a
dare
le
molecole
che
andranno
a
costituire
capside,
envelope
ed
enzimi.
Diversi
piccoli
geni
codificano
per
proteine
di
regolazione
che
potenziano
la
produzione
di
virioni
e
che
interferiscono
con
le
difese
dell’ospite.
Il
ciclo
replicativo
dell’HIV
si
avvia
quando
la
glicoproteina
gp120,
presente
sulla
superficie
dell’envelope,
riconosce
il
recettore
omologo
sulla
superficie
delle
cellule
bersaglio,
ovvero
una
proteina
denominata
CD4.
Nell’organismo
umano
le
cellule
piu’
ricche
di
recettori
CD4
sono
i
linfociti
T
helper,
che
rappresentano
quindi
il
principale
bersaglio
dell’HIV;
e’
bene
sottolineare
che
vi
sono
comunque
anche
altre
cellule
che
possiedono,
seppur
in
quantita’
minore,
il
recettore
CD4
e
che
quindi
possono
essere
infettate
dal
virus,
come
per
esempio
i
macrofagi.
Il
legame
con
CD4
innesca
cambiamenti
conformazionali
che
danno
inizio
al
processo
di
fusione
della
membrana
virale
con
quella
della
cellula;
nel
processo
di
fusione
assume
un
ruolo
importante
un’altra
glicoproteina
presente
sulla
superficie
dell’envelope,
la
gp41.
Una
volta
che
la
penetrazione
e’
avvenuta,
viene
rilasciato
il
genoma
virale
(RNA)
che,
grazie
all’azione
della
trascrittasi
inversa
virale,
viene
convertito
in
DNA.
Il
DNA
cosi’
formato
si
integra
per
mezzo
dell’integrasi
nel
genoma
della
cellula
ospite.
Dopo
l’integrazione
il
virus
puo’
rimanere
quiescente,
senza
produrre
DNA
o
proteine,
ma
duplicandosi
quando
la
cellula
si
divide.
Quando
una
cellula
infettata
viene
attivata,
vengono
sintetizzate
l’RNA
e
le
proteine
virali,
tra
cui
le
proteine
strutturali
che
si
assemblano
attorno
all’RNA
genomico
virale
per
formare
un
nucleocapside.
I
nucleocapsidi
neoformati
si
dirigono
verso
la
membrana
cellulare
della
cellula
ospite
e
vengono
rilasciati
per
gemmazione:
i
nuovi
virioni
sono
rivestiti
dall’envelope
cosi’
come
il
virus
“originario”
e
contengono
due
genomi
completi
di
RNA
a
singolo
filamento.
Anche
la
trascrittasi
inversa
viene
incorporata
in
questa
particella
virale
permettendo
al
virus
di
potersi
replicare
non
appena
entra
in
una
nuova
cellula.
L’infezione
da
HIV
si
manifesta
in
tre
stadi:
infezione
acuta,
stadio
di
“latenza”
e
AIDS.
L’infezione
acuta
si
manifesta
non
appena
viene
contratto
il
virus
(per
trasmissione
ematica,
sessuale
o
verticale,
cioe’
da
madre
a
figlio);
si
osserva
un
aumento
esponenziale
della
viremia,
in
quanto
la
replicazione
virale
non
ha
ostacoli
in
questa
fase.
L’aumento
della
viremia
e’
associato
ad
una
riduzione
della
conta
delle
cellule
CD4+
ed
alla
comparsa
di
una
risposta
umorale
(formazione
di
anticorpi
anti-‐HIV)
e
cellulare
(linfociti
T
citotossici).
L’infezione
acuta
e’
seguita
da
un
periodo
di
“latenza”
nel
quale
la
viremia
e
la
conta
delle
cellule
CD4+
si
stabilizzano;
si
dice
che
il
paziente
e’
sieropositivo.
Ad
un
certo
punto
si
osserva
un
nuovo
aumento
della
viremia
e
una
nuova
riduzione
della
conta
delle
cellule
CD4+:
non
sono
ancora
noti
i
fattori
che
predispongono
a
questo
passaggio;
in
ogni
caso
il
paziente
non
e’
piu’
sieropositivo,
ma
ha
l’AIDS.
Il
paziente
affetto
da
AIDS
(sindrome
da
immunodeficienza
acquisita)
ha
un
sistema
immunitario
deficitario
e
pertanto
ha
una
maggiore
possibilita’
di
contrarre
infezioni
(soprattutto
quelle
opportunistiche)
o
di
sviluppare
tumori.
Farmaci
utilizzati
nella
terapia
dell’infezione
da
HIV
1)
Principi
della
chemioterapia
contro
l’HIV
Lo
scopo
della
terapia
e’
di
sopprimere
la
replicazione
del
virus
il
piu’
possibile
ed
il
piu’
a
lungo
possibile.
Il
momento
migliore
per
iniziare
la
terapia
e’
oggetto
di
dibattito:
le
attuali
linee
guida
raccomandano
di
iniziare
la
terapia
in
tutti
i
casi
in
cui
la
conta
di
linfociti
CD4+
risulta
inferiore
o
uguale
a
350
cellule/mm3.
Il
trattamento
e’
raccomandato,
indipendentemente
dalla
conta
dei
linfocit
CD4+,
anche
per
donne
in
stato
di
gravidanza
o
pazienti
di
eta’
superiore
ai
60
anni
con
infezione
da
HIV,
come
pure
per
pazienti
affetti
da
nefropatia
e
da
contemporanee
infezioni
da
virus
dell’epatite
B
e
C.
In
un
immediato
futuro
potrebbe
essere
consigliato
il
trattamento
per
tutti
i
pazienti
adulti
e
bambini
infettati,
non
solo
quando
il
paziente
e’
in
una
situazione
di
AIDS
conclamato,
ma
anche
nella
fase
iniziale
e/o
nella
fase
di
latenza
del
virus.
Una
cosa
certa
e’
che
l’interruzione
della
terapia
consente
al
virus
di
ricominciare
a
replicarsi
e
aumenta
il
rischio
di
resistenza
ai
farmaci
e
di
progressione
della
malattia
pertanto
la
terapia,
una
volta
cominciata,
e’
cronica.
La
resistenza
ai
farmaci
e’
un
problema
chiave
che
potrebbe
essere
prevenuto
ed
evitato
mediante
una
selezione
dei
regimi
terapeutici
e
un’adeguata
educazione
del
paziente.
Il
virus
dell’HIV
ha
un
alto
tasso
di
mutazione
pertanto,
a
causa
di
questo
e
a
causa
dell’elevato
numero
di
virioni
infettivi,
vi
e’
un’elevata
probabilita’
che
un
individuo
infettato
ospiti
virus
che
presentano
mutazioni
in
singoli
aa
che
conferiscono
un
certo
grado
di
resistenza
nei
confronti
di
un
qualsiasi
farmaco
antiretrovirale
conosciuto.
Le
resistenze
possono
manifestarsi
in
vari
modi:
la
resistenza
verso
gli
inibitori
della
RT
a
seguito
di
mutazioni
che
modificano
il
target
che
non
puo’
piu’
essere
riconosciuto
dal
farmaco
oppure
il
farmaco
si
lega
al
target
ma
viene
riconosciuto
e
quindi
rilasciato;
la
resistenza
verso
gli
inibitori
della
proteasi
invece
puo’
derivare
da
mutazioni
della
proteasi
stessa,
sia
a
livello
del
sito
attivo
sia
in
regioni
molto
distanti
dallo
stesso,
che
rendono
il
farmaco
inattivo.
Un
trattamento
con
un
solo
composto
antiretrovirale
provoca
inevitabilmente
la
comparsa
di
virus
resistenti
al
farmaco,
in
alcuni
casi
entro
poche
settimane;
e’
necessario
quindi
una
combinazione
di
molecole
attive.
L’attuale
modello,
denominato
terapia
HAART
(highly
active
anti
retroviral
therapy),
si
basa
sull’utilizzo
di
almeno
tre
farmaci
contemporaneamente
per
l’intera
durata
del
trattamento.
Un
esempio
sono
le
compresse
disponibili
in
commercio
contenenti
dosi
fisse
di
indinavir,
zidovudina
e
lamivudina.
Piu’
comunemente
oggi
vengono
usati
4
farmaci,
uno
dei
quali
e’
un
inibitore
del
CYP450
(ritonavir);
le
opzioni
terapeutiche
sono
quindi:
1)
due
inibitori
nucleosidici
della
trascrittasi
inversa
(NRTI)
+
un
inibitore
non
nucleosidico
della
trascrittasi
inversa
(NNRTI);
2)
due
inibitori
nucleosidici
della
trascrittasi
inversa
(NRTI)
+
un
inibitore
della
proteasi
(PI);
3)
due
inibitori
nucleosidi
della
trascrittasi
inversa
(NRTI)
+
un
inibitore
dell’integrasi.
2)
Inibitori
della
trascrittasi
inversa
La
DNA
polimerasi
RNA-‐dipendente
codificata
dall’HIV,
chiamata
trascrittasi
inversa,
converte
l’RNA
virale
in
DNA
provirale,
che
viene
poi
incorporato
nel
genoma
della
cellula
ospite.
Gli
inibitori
di
questo
enzima
sono
analoghi
nucleosidici/nucleotidici
o
inibitori
non
nucleosidici.
Come
tutti
i
farmaci
antiretrovirali
disponibili,
gli
inibitori
della
trascrittasi
inversa
impediscono
l’infezione
delle
cellule
suscettibili,
ma
non
hanno
alcun
effetto
sulle
cellule
gia’
infettate
dall’HIV.
Per
misurare
l’efficacia
di
questi
e
degli
altri
farmaci
utilizzati
nel
trattamento
dell’AIDS
si
misura
la
viremia
e
la
conta
delle
cellule
CD4+.
Gli
inibitori
della
trascrittasi
inversa
possono
essere
utilizzati
in
monoterapia,
ma
vengono
preferibilmente
usati
in
associazione
in
modo
da
aumentarne
l’efficacia
e
ridurre
il
rischio
che
si
manifestino
resistenze.
a)
Inibitori
nucleosidici
e
nucleotidici
(NRTI)
Gli
analoghi
nucleosidici
e
nucleotidici
devono
penetrare
nella
cellula
ed
essere
fosforilati
affinche’
possano
agire
come
substrati
sintetici
dell’enzima;
i
farmaci
somministrati
sono
quindi
dei
profarmaci.
Gli
analoghi
fosforilati
bloccano
la
replicazione
del
genoma
virale
sia
inibendo
in
maniera
competitiva
l’incorporazione
dei
nucleotidi
presenti
nella
cellula,
sia
interrompendo
l’allungamento
della
catena
del
DNA
provirale
in
quanto
mancano
del
gruppo
ossidrilico
in
3’
(agiscono
quindi
da
chain
terminator).
Tutti
i
composti
di
questa
classe,
tranne
uno,
sono
costituiti
da
un
nucleoside
che
per
svolgere
la
propria
azione
deve
essere
trifosforilato
in
corrispondenza
del
gruppo
ossidrilico
in
5’;
l’eccezione
e’
il
tenofovir,
unico
analogo
nucleotidico
attualmente
disponibile
per
la
terapia
dell’infezione
da
HIV,
che,
possedendo
gia’
un
gruppo
fosfato,
richiede
solo
due
gruppi
fosfato
per
diventare
pienamente
attivo.
I
farmaci
piu’
usati,
appartenenti
a
questa
categoria,
sono:
-‐
abacavir:
attenzione
ai
fenomeni
allergici
(circa
5%
dei
pazienti
trattati);
-‐
lamivudina:
uno
dei
farmaci
piu’
usati
per
via
della
sua
comprovata
sicurezza
ed
efficacia;
-‐
zidovudina:
sviluppato
come
antitumorale,
si
e’
dimostrato
efficace
nel
trattamento
dell’AIDS;
puo’
causare
anemia
e
neutropenia,
in
particolare
nei
pazienti
in
una
fase
avanzata
della
malattia;
-‐
tenofovir:
e’
comunemente
il
farmaco
di
prima
scelta
per
via
della
sua
comprovata
tollerabilita’
ed
efficacia;
puo’
causare
disfunzioni
renali
quando
usato
in
combinazione
con
altri
farmaci
potenzialmente
nefrotossici
o
in
pazienti
con
fattori
di
rischio
per
patologie
renali.
b)
Inibitori
non-‐nucleosidici
(NNRTI)
I
farmaci
appartenenti
a
questo
gruppo
sono
inibitori
non
competitivi
che
si
legano
ad
uno
specifico
sito
della
trascrittasi
inversa
e
ne
riducono
notevolmente
l’attivita’
enzimatica.
A
differenza
dei
farmaci
della
classe
precedente
non
richiedono
l’attivazione
mediante
fosforilazione
intracellulare.
Il
piu’
frequente
effetto
avverso
causato
da
questi
farmaci
(comune
a
tutti
questi
farmaci)
e’
un’eruzione
cutanea
che
si
osserva
nel
15-‐25%
dei
pazienti;
il
piu’
grave
e’
invece
la
sindrome
di
Stevens-‐Johnson,
potenzialmente
fatale.
Alcuni
dei
farmaci
di
questa
classe
da
ricordare
sono:
-‐
nevirapina:
usata
solo
in
associazione
ad
altri
antiretrovirali;
puo’
causare
epatiti
fatali;
-‐
efavirenz:
usato
solo
in
associazione
ad
altri
antiretrovirali;
si
possono
osservare
effetti
collaterali
a
livello
del
SNC
che
tuttavia
si
riducono
o
si
risolvono
nelle
prime
settimane
di
terapia;
e’
inoltre
l’unico
antiretrovirale
inequivocabilmente
teratogeno;
-‐
delavirdina:
e’
il
farmaco
meno
usato
a
causa
della
sua
breve
emivita
che
ne
richiede
la
somministrazione
tre
volte
al
giorno.
Piu’
recentemente
sono
stati
introdotti
altri
due
farmaci
di
questa
classe,
l’etravirina
e
la
rilpivirina.
3)
Inibitori
della
proteasi
dell’HIV
Gli
inibitori
della
proteasi
dell’HIV
sono
composti
chimici
simil-‐peptidici
che
inibiscono
in
maniera
competitiva
l’attivita’
di
questo
enzima
virale.
La
proteasi
dell’HIV
e’
un
dimero
costituito
da
due
subunita’
identiche
che
si
appaiano
tra
loro,
ognuna
delle
quali
contiene
un
residuo
di
acido
aspartico
che
e’
essenziale
per
l’attivita’
catalitica.
Il
sito
di
taglio
preferito
dall’enzima
e’
sul
lato
N-‐terminale
dei
residui
di
prolina,
specialmente
tra
fenilalanina
e
prolina;
i
farmaci
di
questa
classe
sono
quindi
Phe-‐Pro
mimetici
e
fungono
da
falsi
substrati
per
l’enzima.
Legandosi
in
maniera
reversibile
al
sito
attivo
della
proteasi,
impediscono
la
scissione
proteolitica
delle
macroproteine
virali
(codificate
dai
geni
gag
e
pol)
a
formare
componenti
strutturali
ed
enzimatici
essenziali
per
il
virus;
cio’
blocca
la
maturazione
delle
particelle
di
HIV
verso
la
forma
infettiva
matura.
Le
proteasi
aspartiche
umane
sono
costituite
da
una
sola
catena
polipeptidica
e
tagliano
preferenzialmente
a
livello
dei
residui
di
serina;
non
sono
quindi
inibite
in
maniera
significativa
dagli
inibitori
della
proteasi
dell’HIV.
Molti
di
questi
farmaci
hanno
emivita
breve
e
necessitano
di
piu’
somministrazioni
nel
corso
della
giornata;
gli
effetti
collaterali
piu’
comuni
sono
disturbi
a
livello
GI,
mentre
quelli
piu’
gravi
sono
riconducibili
allo
sviluppo
di
un’insulino-‐resistenza
e
una
dislipidemia
difficilmente
trattabili
che
aumentano
quindi
il
rischio
di
CVD.
Sono
disponibili
numerosi
inibitori
della
proteasi
dell’HIV;
quelli
piu’
usati
e/o
da
ricordare
sono:
-‐
atazanavir:
e’
uno
dei
farmaci
comunemente
di
prima
scelta
in
quanto
puo’
essere
somministrato
solo
una
volta
al
giorno
e
mostra
scarsi
effetti
sui
livelli
lipidici;
-‐
darunavir:
molto
efficace
per
i
virus
HIV
resistenti
ai
farmaci
e
generalmente
ben
tollerato;
-‐
indinavir:
la
sua
biodisponibilita’
orale
e’
ridotta
dal
cibo
tuttavia
cio’
puo’
essere
minimizzato
dalla
cosomministrazione
di
ritonavir;
effetti
avversi
peculiari
sono
la
cristalluria
e
la
nefrolitiasi;
-‐
lopinavir:
e’
comunemente
il
farmaco
di
prima
scelta
grazie
ai
numerosi
dati
clinici
disponibili;
-‐
ritonavir:
raramente
usato
come
farmaco
anti-‐HIV
a
causa
dei
suoi
effetti
collaterali;
essendo
un
potente
inibitore
del
CYP3A4
viene
frequentemente
somministrato
in
associazione
con
la
maggior
parte
degli
altri
inibitori
della
proteasi
al
fine
di
potenziarne
i
profili
farmacocinetici,
consentendo
una
riduzione
sia
delle
dosi
sia
della
frequenza
di
somministrazione.
4)
Inibitori
dell’ingresso
dell’HIV
Come
spiegato
in
precedenza
la
proteina
che
media
l’interazione
virus-‐cellula
e
la
successiva
internalizzazione
e’
CD4,
pertanto
solo
le
cellule
che
esprimono
CD4
possono
essere
infettate
dal
virus.
CD4
rappresenta
quindi
un
potenziale
target
farmacologico,
ma
agire
su
questa
proteina
e’
improbabile
in
quanto
media
l’intera
risposta
immunitaria.
Affinche’
avvenga
l’interazione
virus-‐cellula
sono
necessarie
pero’
anche
altre
proteine
presenti
sia
sulla
superficie
virale
sia
sulla
superficie
della
cellula.
Sulla
superficie
dell’envelope
sono
infatti
localizzate
gp120
e
gp41,
due
glicoproteine
che
interagiscono
con
CD4
e
con
altri
corecettori,
come
CCR5
o
CXCR4:
tutte
queste
interazioni
sono
necessarie
per
consentire
l’avvicinamento
e
il
successivo
ingresso
del
virus
nella
cellula.
Per
quanto
riguarda
le
due
glicoproteine
virali,
non
e’
possibile
agire
sulla
gp120
in
quanto
questo
antigene
e’
gia’
riconosciuto
dal
sistema
immunitario
e
sono
gia’
presenti
in
circolo
anticorpi
anti-‐gp120.
Si
puo’
pero’
agire
sulla
gp41:
questa
glicoproteina
infatti
solitamente
e’
mascherata
e
quindi
non
vi
sono
anticorpi
specifici
contro
di
essa;
solo
l’interazione
CD4-‐gp120
determina
un
cambio
conformazionale
che
espone
gp41.
I
possibili
approcci
terapeutici
sono
quindi
l’utilizzo
di
mAb
contro
gp41
o
di
peptidi
complementari
che
impediscono
l’inserzione
delle
α-‐eliche
di
gp41
nella
membrana
cellulare.
L’enfuvirtide
e’
un
peptide
sintetico
di
32
amminoacidi
la
cui
sequenza
e’
derivata
da
una
parte
della
regione
gp41
dell’HIV;
il
peptide
impedisce
la
formazione
di
un
fascio
a
sei
eliche
che
e’
essenziale
per
la
fusione
delle
membrane
e
per
l’ingresso
del
virus
nella
cellula
ospite.
Grazie
al
suo
peculiare
meccanismo
d’azione,
l’enfurtivide
conserva
la
sua
attivita’
anche
nei
confronti
di
virus
divenuti
resistenti
a
farmaci
antiretrovirali
appartenenti
ad
altre
classi.
In
considerazione
del
costo
elevato,
della
via
di
somministrazione
non
agevole
(via
parenterale)
e
della
tossicita’
cutanea,
questo
farmaco
e’
riservato
ai
pazienti
in
cui
altri
regimi
antiretrovirali
abbiano
fallito.
Come
accennato
poc’anzi,
la
penetrazione
nelle
cellule
ospiti
richiede
il
legame
non
solo
con
CD4,
ma
anche
con
un
corecettore,
generalmente
CCR5
o
CXR4.
Questi
corecettori,
fisiologicamente,
sono
recettori
per
le
chemochine,
sostanze
endogene
prodotte
durante
le
risposte
infiammatorie.
E’
stato
sviluppato
un
antagonista
per
il
corecettore
CCR5,
chiamato
maraviroc,
che
agisce
interferendo
con
il
legame,
la
fusione
e
l’entrata
del
virione
di
HIV
nella
cellula.
5)
Inibitori
dell’integrasi
dell’HIV
L’integrasi
dell’HIV
e’
l’enzima
adibito
all’integrazione
del
genoma
virale
nel
genoma
della
cellula
ospite
e
rappresenta
quindi
un
enzima
fondamentale
nel
processo
patogenetico
dell’HIV.
L’integrasi
prima
rimodella
il
DNA
virale
a
livello
dell’estrimita’
3’,
poi
entra
nel
nucleo
insieme
al
materiale
genetico
e
qui
media
l’interazione
e
l’integrazione
del
DNA
virale
nel
DNA
cellulare.
Sono
stati
sviluppati
degli
inibitori
di
questo
enzima,
in
grado
di
interagire
sia
con
il
processo
di
rimodellamento
sia
con
il
processo
di
fusione:
raltegravir,
elvitegravir,
dolutegravir.
6)
Vaccino
anti-‐HIV
Si
ritiene
che
solo
un
vaccino
anti-‐HIV
potrebbe
arrestare
la
pandemia
causata
da
questo
virus;
questo
perche’
un
vaccino
costerebbe
meno
e
sarebbe
quindi
disponibile
anche
nei
paesi
in
via
di
sviluppo
e,
inoltre,
non
richiederebbe
una
somministrazione
giornaliera.
Nonostante
oltre
20
anni
di
ricerche,
il
virus
dell’HIV
rimane
un
difficile
target
per
un
vaccino
e
ad
oggi
non
vi
e’
nessun
vaccino
efficace
diretto
contro
questo
virus.