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Guido A. Morina

LA SOFFERENZA PSICOLOGICA
UNA PANORAMICA STORICO-CRITICA

Caratteristiche e significato della sofferenza e del disagio psicologico

Ebook Morina Editore


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Prima edizione: maggio 2008


Seconda edizione: febbraio 2009
Terza edizione: settembre 2009
“Le mie argomentazioni sono generali e non si basano su fatti particolari della vita come noi la conosciamo. Come tali
sono state criticate da scienziati abbastanza privi di fantasia da pensare che lavorare come schiavi con provette
bollenti (o con gelidi stivali fangosi) sia l’unico modo di fare delle scoperte scientifiche. Un critico si lamentava che le
mie argomentazioni erano “filosofiche” come se fosse una condanna sufficiente”.

Richard Dawkins, Il gene egoista, p. 325


Indice

Introduzione.! 1
Capitolo 1°! 7
Il ruolo del dolore nella visione medica.! 7
1 .1 . Definizioni! 11

1 . 2 . Che cosʼè il dolore secondo la scienza medica! 11

1 . 3 . I meccanismi del dolore! 13

1 . 4 . Dolore acuto, cronico, globale! 15

1 . 5 . Un approfondimento sul concetto di dolore globale! 18

1 . 6 . Che cosʼè il dolore secondo la psichiatria : il disturbo algico o dolore


psicogeno! 20

1 . 7 . La misurazione del dolore! 24

1 . 8 . Lo stress come causa di dolore psicologico! 25

1 . 9 . Cura del dolore! 29

1 . 10 . Analogie e differenze tra sofferenza psicologica e dolore fisico! 31

1 . 11 . Sintesi e conclusioni relative alla definizione della sofferenza psicologica in


medicina.! 35

Capitolo 2°! 37
La sofferenza psicologica secondo le scienze umane.!37
2 . 1 . Amore e sofferenza! 41

2 . 2 . La cura psicologica della sofferenza psicologica! 43


2 . 3 . La dimensione diacronica della sofferenza psicologica.! 46

2 . 4 . La sofferenza psicologica come consapevolezza di un conflitto interiore.! 48

2 . 5 . Stress, fatica e sofferenza non sono sinonimi.! 50

2 . 6 . Cause di sofferenza psicologica: la perdita di autostima! 52

2 . 7 . Il dolore come condizione esistenziale, ovvero, il male di vivere.! 57

2 . 8 . La sofferenza individuale nella cultura occidentale! 58

2 . 9 . La sofferenza psicologica come “quale”.! 61

2 . 10 . Il dolore secondo la morale cattolica e secondo il buddismo.! 67

2 . 11 . Il dolore simpatetico.! 70

Capitolo 3°! 75
Emozioni, evoluzione e dolore sociale! 75
3 . 1 . Il dolore sociale! 79

3 . 2 . Emozioni e sofferenza psichica! 83

3 . 3 . Emozioni legate alla sofferenza fisica e psicologica! 85

3 . 4 . La concezione psicosomatica del dolore! 88

3 . 5 . Esiste una evoluzione delle emozioni?! 89

3 . 6 . Distinzione tra emozioni e sofferenza psicologica! 91

3 . 7 . Il “sentimento di fondo” come substrato della sofferenza psicologica! 93

3 . 8 . Schema del processo di nascita e sviluppo della sofferenza psicologica! 96

3 . 9 . Effetti collaterali e indesiderati della sofferenza psicologica! 100

Capitolo 4°! 104


La sofferenza psicologica nella ricerca clinica e
scientifica.! 104
4 . 1 . Conseguenze organiche e patologiche della sofferenza psicologica! 104

4 . 2 . Sovrapposizione clinica tra meccanismi di trasmissione del dolore psicologico


e di quello fisico.! 112

4 . 3 . Dolore psicologico, placebo e nocebo.! 120


4 . 4 . Dolore fisico e dolore psichico: sovrapposizione dei loro effetti sul nostro
benessere e sulla salute mentale! 121

Conclusioni! 124
BIBLIOGRAFIA! 130
Introduzione.

Si consideri il breve passo seguente:


[...] “ Mi morde! Mi morde !” mormorò Roderick. Con questa esclamazione, la più frequente sulla
sua bocca, il disgraziato si strinse le mani contorte sul petto come se una trafittura insopportabile o
un tormento lo spingesse a lacerarlo per espellere quel vivente malanno anche se esso fosse stato
attorcigliato strettamente alla sua stessa vita [...]. Cosa poteva essere a morder il petto di Roderick
Elliston? Era il dolore? Era soltanto lo spasimo di una malattia del suo corpo? O nel suo modo
avventato di vivere, che spesso rasentava la dissolutezza, se non vi si era addirittura sprofondato,
egli si era reso colpevole di qualche misfatto che condannava il suo petto alla stretta delle zanne
mortali del rimorso? Esistevano motivi plausibili per ciascuna di queste congetture; ma non si può
nascondere che più di un anziano gentiluomo, vittima della buona tavola e di neghittose abitudini,
aveva solennemente dichiarato che il segreto di tutta quella storia era soltanto la
dispepsia!” (Hatworne, 1982, p. 127).
In questo breve frammento tratto dal racconto di Hawthorne: “Egotismo; o il serpente nel seno”,
sono riassunti i temi principali che riguardano la presente indagine conoscitiva sulla sofferenza
psichica. Si noti, innanzitutto, come l’autore descriva la difficoltà, sia per la vittima del dolore, sia
per coloro che ne hanno conoscenza indiretta, di dare un nome a questa sofferenza. La quale è
indubbiamente tale, e situata nel petto, dove tradizionalmente, in tutte le culture e in ogni epoca, gli
uomini hanno localizzato la sede dell’anima, dei sentimenti, delle emozioni (persino della nostra
mente, almeno secondo Aristotele). Non manca, in prima battuta, chi cerca di ricondurre tale
sofferenza alla causa più facilmente identificabile, quella della malattia organica; eppure, pur
trattandosi di un tormento, esso viene più facilmente attribuito a una causa psichica e
comportamentale, legata magari allo stile di vita del protagonista, dando cioè per scontato ciò che
tutti noi abbiamo sperimentato, e cioè l’esistenza di una condizione di dolore che non trova la sua
origine in un disturbo del corpo, ma in un profondo conflitto psichico.
C’è quindi, se non nel mondo scientifico, almeno in quello della letteratura e dell’arte in genere, la
piena consapevolezza che, forse, lo stile di vita (il “suo modo avventato di vivere”) e, nel caso in
esame, il rimorso - che racchiude in sé innumerevoli emozioni complesse e diversi stati d’animo -
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possano essere di per sé causa di dolore, a livello psicologico, ma paragonabile per intensità a
quello fisico.

Gli scrittori, e tutti coloro che hanno descritto il dolore psicologico, hanno da sempre notato come
la maggior parte delle esperienze dolorose (cioè definite tali da chi le ha vissute) sono quelle che
riguardano la perdita di importanti legami sociali. In moltissime culture diverse il linguaggio
prevede l’uso degli stessi termini per descrivere esperienze di dolore fisico come quelle di dolore
conseguente a grave distacco o esclusione sociale.
Ci si può chiedere se questa sovrapposizione di terminologia rispecchi una sostanziale coincidenza
di sentimenti e di percezione tra dolore fisico e psicologico, oppure se nel secondo caso si debba
parlare soltanto di licenza poetica. In altri termini, una volta indagata la possibilità che si possa
parlare propriamente e scientificamente di “dolore” e “sofferenza” anche in assenza delle
caratteristiche tipiche del dolore fisico, sarà possibile allora formulare una serie di ipotesi derivate e
conseguenti, in modo da creare le basi e i presupposti ontologici ed epistemologici per ulteriori
ricerche sul tema della sofferenza psicologica. Se infatti di dolore si tratta, è possibile che le sue
conseguenze siano in qualche modo sovrapponibili a quelle che si producono nel caso di dolore
fisico, sia esso acuto o cronico, e che quindi la mancata elaborazione del dolore sociale possa essere
finalmente considerata a pieno titolo una delle componenti di disturbi o patologie, fino ad oggi
ritenute estranee all’influenza della sofferenza psicologica.
Una consultazione approfondita, infatti, relativa alla panoramica della letteratura internazionale
nell’ambito dell’analisi del dolore, mette in evidenza un dato universale e assoluto: il dolore è
sempre concepito, innanzitutto e principalmente, come dolore fisico. È altresì interessante notare
come, quando si cerca qualche definizione o una qualsiasi pubblicazione o ricerca su di esso nella
sua accezione di sofferenza psicologica, si è costretti inevitabilmente a ritornare sul dolore fisico,
come se il primo fosse sempre dipendente dall’altro e non fosse quindi meritevole di una sua
ontologia, una eziologia e neppure una teleologia propria.

La sofferenza psicologica, infatti, e specialmente quella “sociale”, è stata, per ragioni culturali,
confinata all’ambito della “semplice” condizione mentale, cioè immateriale e quindi, in pratica, non
rilevante né significativa se non per il suo significato spirituale assegnatole da tutte le religioni.
La medicina, che opera solo su evidenze organiche o su manifestazioni e anomalie di
comportamento gravi (le cosiddette malattie mentali), rifiuta per principio di prendere in
considerazione lo stato d’animo del paziente, se non quando esso ha già condotto all’emersione di

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una patologia. Neppure la psicologia, dalle origini ad oggi, ha mai ritenuto la sofferenza psicologica
degna di osservazione e di studio, preferendo dedicarsi all’analisi dei processi mentali che fossero
ricollegabili a precise attivazioni di aree neurali, o legate a patologie e disturbi mentali. Solo la
psicoanalisi e molte delle sue infinite derivazioni e correnti, tra cui la fondamentale teoria
dell’attaccamento di Bowlby (2000), si sono occupate della sofferenza psicologica, ma, anche in
questo caso, cercando di ricondurla a schemi e classificazioni psicodiagnostiche, piuttosto che
considerarla degna di attenzione e di cura in sé, mostrando una certa resistenza a considerare la
sofferenza psicologica come segno di squilibrio conflittuale tra la persona e il suo ambiente, in
senso olistico, e non semplicemente tra i disturbi psichici e comportamentali dell’individuo e il suo
trauma.
Di conseguenza, la sofferenza psicologica è stata, e ancora oggi è considerata, una forma di
turbativa dell’anima o della mente, la cui cura, gerarchicamente meno importante di quella che ha
per oggetto il dolore fisico, doveva essere affidata alla Chiesa, nel primo caso, oppure a psichiatri e
carcerieri nel secondo caso. Ancora oggi, spesso, la sofferenza psichica evoca sentimenti di vario
tipo: sospetto, disprezzo, compatimento, allarme, ma quasi mai quelli di cura e di empatia
terapeutica. Essa resta ancora oggi una condizione da vivere quasi come un “peccato” o comunque
una condizione spregevole di debolezza, da patire in solitudine, da non mostrare in pubblico (“Un
vero uomo non piange”).
Questa ingombrante zavorra culturale trovava la sua giustificazione nel fatto che, come si diceva,
appartenendo all’anima, e non al corpo, essa non era di competenza della scienza medica, (la quale,
del resto, non sapeva neppure come curarla) e quindi poteva benissimo essere delegata alla cura da
parte dei sacerdoti, tutt’al più di guaritori, o, nei casi più gravi, relegata e confinata all’interno degli
ospedali psichiatrici. Scopo del presente lavoro, invece, è quello di arrivare a mostrare come la
sofferenza psicologica, oltre a costituire uno dei fattori fondamentali in grado di condizionare la
nostra visione dell’esistenza, costituisca sempre una forma di minaccia concreta per la salute
dell’uomo, e quindi capace di produrre conseguenze di non lieve entità nella genesi e nello sviluppo
di patologie organiche o funzionali. Forse, quando la sua importanza sotto questo punto di vista sarà
riconosciuta anche dalla classe medica, si potrà cominciare a prendersi cura delle persone senza
separare gli aspetti biochimici da quelli mentali, e persino a considerare questi ultimi meritevoli di
particolare attenzione ai fini della guarigione.
Non si può nascondere il fatto che uno dei principali obiettivi di questo lavoro è anche, in un
periodo storico in cui la “terapia del dolore” sta finalmente recuperando la sua importanza in ambito
medico, quello di restituire dignità alla sofferenza psicologica e richiamare l’attenzione delle

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scienze mediche, umane e sociali su una condizione a torto trascurata e misconosciuta per il solo
fatto che essa, a differenza del corrispondente dolore fisico, non è visibilmente, immediatamente e
direttamente associata a nessuna patologia.
A questo scopo, sarà necessario innanzitutto definire esattamente il campo di indagine,
distinguendo il più precisamente possibile tra le varie accezioni del termine dolore, in modo da
giungere a una definizione inequivocabile di quello che si intende per dolore psicologico. Sarà
questa attività definitoria quella che occuperà il primo capitolo, nel quale verranno riassunte
brevemente, sotto il profilo fisiologico, le caratteristiche del dolore e delle sue conseguenze e
ripercussioni sia sul piano organico, sia su quello psicologico e comportamentale. Si osserverà
quindi come, analizzando il dolore sotto il profilo clinico, la letteratura scientifica esistente in tema
di sofferenza psicologica riporti quasi esclusivamente studi e ricerche relative a patologie organiche
o psicosomatiche, nelle quali la sofferenza psicologica non ha mai un ruolo e un’ esistenza a sé
stante, ma è sempre conseguenza di una sofferenza a livello fisico, di solito di una malattia già
diagnosticata (De Gucht, Fischler, 2002).
Non è superfluo ricordare che il dolore fisico appartiene alla categoria delle sensazioni (per quanto
si accompagni sempre ad emozioni e stati affettivi) e che questo dolore, se pur valutato attraverso la
sua percezione assolutamente soggettiva, trova riscontro nell’alterazione di una serie di parametri
fisiologici e biochimici, primo tra tutti, per esempio, l’infiammazione dei tessuti interessati e
l’alterazione dei livelli di ormoni e neurotrasmettitori circolanti.
La sofferenza psicologica, invece, quella di cui ci si occuperà nel presente lavoro, sarà da intendere
piuttosto come quella causata dalla consapevolezza di un evento spiacevole e non da una
modificazione organica, ma di tale intensità da non poter essere descritta adeguatamente nei
termini riduttivi di disagio, dispiacere, profonda tristezza.
Quando ci si riferisce alla sofferenza psichica, quindi, occorre preliminarmente escludere
dall’ambito d’indagine quella che, pur talvolta definita come tale, è in realtà uno stato di
prostrazione e di sconforto che segue a una malattia, ma non necessariamente coincide con la
sofferenza psicologica. Al tempo stesso, bisogna precisare che non è oggetto della presente
dissertazione l’analisi del dolore che si accompagna alle cosiddette malattie funzionali, e quindi a
quei disturbi, spesso dolorosi secondo chi li sopporta e riferisce, che non trovano riscontro nella
diagnosi medica, e che spesso sono fatti rientrare nell’ampia e non ben definita categoria di
“disturbi psicosomatici” o di disturbi “somatoformi” (De Gucht, Fischler, 2002).

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Nel capitolo successivo, quindi, abbandonata la sua definizione secondo la visione della scienza
medica, si procederà all’analisi della sofferenza secondo la prospettiva delle scienze umane, e si
cercherà di evidenziare sotto quali profili la sofferenza psicologica si distingue da stati dell’umore
o emozionali. È evidente che anch’essa, come il dolore fisico, si accompagna ad essi, ma si cercherà
di dare una risposta al quesito se sia possibile identificare e isolare dal contesto una condizione
definibile come sofferenza, e che presenti caratteri peculiari, autonomi e distinti da quelli delle
emozioni negative. A questo scopo, si renderà opportuno allargare il concetto di dolore a
comprendere le sue diverse accezioni, sia sotto il profilo filosofico, e cioè come quale, sia sotto
quello antropologico e sociale, e cioè come “male di vivere”, il tutto alla luce delle evidenze della
psicologia evoluzionistica. Un paragrafo conclusivo sarà infine dedicato all’evoluzione della
sofferenza, da individuale a collettiva, e ai suoi risvolti psicologico-sociali.

Un ulteriore approfondimento dell’indagine sul significato e le caratteristiche autonome della


sofferenza psicologica sarà svolto nel terzo capitolo, nel quale, una volta fatti emergere i legami
strettissimi tra questo tipo di dolore e la nostra sfera emozionale, si cercherà di evidenziare gli
elementi costitutivi di tale connessione, mettendo in evidenza come non tutte le emozioni negative
sono suscettibili di causare un dolore psicologico, ma solo quelle cosiddette sociali; si prenderanno
quindi in considerazione le idee espresse in proposito dagli autori che si sono occupati dei risvolti
neurofisiologici delle emozioni, a cominciare da MacLean (1984) e Damasio (1985) per finire a
Price (2000), Cunningham (2003), ed Eisenberger e Lieberman (2004).
Si renderà necessario, a questo punto, approfondire il tema delle emozioni, per mettere in luce una
volta per tutte la possibilità che la sofferenza psicologica debba essere considerata un tipo
particolare, nuovo, rispetto alla definizione classica di emozione, oppure se essa vada più
propriamente intesa come un sentimento; o ancora se essa possa meritare una sua classificazione
ontologica autonoma.
La sofferenza psichica, infatti, secondo una sintesi della letteratura internazionale, presenta
caratteri distintivi sia rispetto alla sua controparte fisica, sia rispetto a emozioni, sentimenti e stati
d’animo. Perché si possa parlare precisamente di sofferenza psicologica, infatti, è necessario che
essa si configuri come uno stato di prostrazione spiacevole, vissuto con frustrazione e impotenza,
che spinge a evitarla con tutti i mezzi, a sfuggirle chiudendosi in sé stessi. A differenza della
semplice emozione, essa non è di breve durata, e a differenza del dolore fisico essa può essere
riattivata, in tutta la sua potenza, attraverso il ricordo della situazione specifica cui è legata.

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Ma, a differenza del dolore fisico, essa non è localizzata necessariamente in una parte definita del
corpo. Eppure, se, come il dolore fisico (un banale mal di denti, per esempio), essa è in grado di
impedirci di dormire, perché non dovremmo definire come sofferenza, se pur psicologica, quella
che procura insonnia, pur in mancanza di un evidente collegamento con la sofferenza di una parte
del corpo? E se la sofferenza psicologica si accompagna o determina l’insorgenza di alterazioni
dello stato di salute, come sbalzi di pressione, cefalee, debilitazione fisica, depressione ecc., perché
non dovremmo cercare di intervenire su di essa, anziché limitarci ad assumere ricostituenti o a
“spegnere il dolore” che essa procura con semplici analgesici? La riduttiva risposta che la scienza
medica ci offre (e nei confronti della quale si opporranno precise argomentazioni), è che queste
situazioni possono essere fatte rientrare tra le situazioni di stress, e come tali vanno trattate,
riportando in questo modo l’attenzione clinica alle sole ripercussioni organiche derivanti dalla
sofferenza psichica, anziché affrontare i ben più difficili risvolti psicologici.
Nel quarto capitolo ci si occuperà dei risvolti più strettamente clinici del dolore, ricercando le
possibili sovrapposizioni e individuando le conseguenze del dolore psicologico a livello nervoso,
ormonale e immunitario, nonché di quello più tipicamente psicologico e comportamentale.
Sarà così interessante scoprire che se da un lato è ipotizzabile una certa sovrapposizione nei canali
di trasmissione del dolore fisico e della sofferenza psicologica, le informazioni che per questo
tramite sono veicolate hanno diversa natura e funzione, e non possono essere ricondotte
semplicisticamente alla nozione di stressors. Infatti, se pur volessimo far rientrare a tutti i costi
nell’amplissima categoria dello stress anche i casi che ci procurano sofferenza psicologica, resta il
fatto che quest’ultima è percepibile mentalmente come condizione ben distinta dai processi attivati
sull’asse ipotalamo ipofisi-surrene, o dall’attivazione del sistema simpatico. Ed è proprio questa
percezione introspettiva, assolutamente inesplorabile con gli strumenti scientifici, che rende la
sofferenza psicologica un fenomeno che merita una indagine approfondita tramite gli strumenti
della ricerca psicologica. Del resto, se il dolore ha una sua ragione di esistere come campanello
d’allarme, richiamando la nostra attenzione in maniera prepotente su quella che l’organismo
percepisce come una minaccia alla nostra sopravvivenza fisica, non si vede perché le stesse ragioni
evoluzionistiche non possano aver sviluppato, insieme alle emozioni e alla coscienza, un
campanello d’allarme che richiami la nostra attenzione anche su situazioni di minaccia per la nostra
incolumità psichica.

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Capitolo 1°

Il ruolo del dolore nella visione medica.

Si pensi a come gli esseri umani siano disponibili a riconoscere i loro limiti quando si tratta della
loro capacità di conoscere e dominare il mondo esterno. Esso, in quanto esterno, sembra
chiaramente non appartenerci e infatti dimostra attraverso manifestazioni per noi imprevedibili e
incontrollabili la sua autonoma vitalità e potenza. Per questo motivo nessuno pretende di vendere o
offrire sistemi per manipolare la realtà che non siano stati oggetto di sperimentazione (per esempio
un sistema per volare senza apparecchiature, ma attivando solo energie levitanti nascoste nella
nostra psiche), perché sa che ciò si scontrerebbe con l’oggettività della realtà esterna e l’evidenza
dell’insuccesso.
Pochi, però, sono disposti ad accettare i limiti umani quando si tratta del nostro mondo interno e in
particolare quando l’essere umano soffre (Wall, 2000). La differenza fondamentale sta nel fatto che
in questo secondo caso il limite col quale ci si può scontrare non è più semplice frustrazione per il
mancato raggiungimento di un obiettivo gratificante, che conduce a un miglioramento della nostra
vita, ma che comunque, se non raggiunto, lascia le cose in stallo, senza peggiorarle. Nel caso della
salute quella che è in gioco è la nostra condizione, egoisticamente e soggettivamente percepita, di
benessere o malessere, di serenità o di dolore. Ed è l’evitamento del dolore la nostra prima
indifferibile esigenza, come dimostra la nostra storia evolutiva e il fatto che probabilmente tutti
sarebbero disposti a barattare l’attuale progresso tecnologico per una vita più lunga e costantemente
in buona salute (Dawkins, 1995, 2006).
Per questo motivo, probabilmente, ci si aspetta molto di più dalla medicina che da tutte le altre
discipline messe insieme. Perché, come si osservava poc’anzi, l’uomo non è spinto verso il
progresso e la conoscenza da motivazioni e fini nobili e positivi, o come obiettivo fine a sé stesso:

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l’uomo è spinto a sfuggire il dolore dall’istinto di sopravvivenza, e la conoscenza è semplicemente
funzionale a questo unico scopo. Tant’è vero che lo stesso Dante, quando fa riferimento allo scopo
dell’esistenza umana, fa precedere i famosi versi: “fatti non foste a viver come bruti”, dalle parole,
di solito trascurate: “considerate la vostra semenza”, riferendosi, si potrebbe dire, alla nostra banale
storia evolutiva, fatta di fuga dal dolore, e non a un’idealizzata aspirazione al bene e all’amore. In
altre parole, l’uomo non va verso, ma fugge da (Capra, 2002; Dennet, 2000, Nunn, 2006, Wall,
1999).
Siamo costretti ad arrenderci di fronte alla forza della natura e ai suoi segreti, accettiamo di vivere
una vita diversa da quella che vorremmo, siamo disposti alla rinuncia a beni materiali e persino agli
immateriali (come l’amore e la sessualità per i ministri di alcune religioni), ma non possiamo
accettare il dolore e siamo disposti a qualunque cosa per alleviarlo. Se la scienza non offre risposte,
è naturale cercarle altrove, e cioè nella fede nel sovrannaturale.
Ma la salute dell’uomo non è qualcosa di visibile e misurabile: essa è una condizione
fondamentalmente soggettiva. Come nell’esempio proposto da Marchesi (2000), si immagini il caso
di una persona che entra in una sauna all’interno di un centro benessere. Egli sopporterà il calore e
al termine del trattamento, dopo una doccia gelata, si sentirà più in forma e rilassato. Ma si metta
nella stessa condizione un prigioniero o un qualunque malcapitato, e si immagini che questo venga
brutalmente gettato nella stessa sauna, presentata come strumento di tortura, e dopo alcuni minuti
venga sottoposto alla stessa doccia gelata: a parità di condizioni (e di temperatura e umidità) con chi
si sottopone di sua iniziativa al trattamento, egli probabilmente vivrà un’esperienza drammatica e
orribile, percependo una sofferenza fortissima, (resa cioè tale dall’intervento della componente
psicologica), laddove l’altro invece chiacchiererà amabilmente e serenamente con gli altri clienti del
centro benessere.
Con ciò non si vuole affermare che la sofferenza sia un fatto puramente soggettivo, e che non abbia
riflessi e non produca conseguenze misurabili sul piano fisico, tutt’altro. Ma certamente esistono
meccanismi psichici e fisiologici che rendono molto differente la percezione dello stato di salute e
del dolore. Si veda, per esempio, l’ampia letteratura in proposito (Damasio, 1995; Pert, 2000;
Schmidt, 1985; Wall,1999), che testimonia come in situazioni particolari l’essere umano riesca a
condurre un’ esistenza praticamente normale pur in presenza di dolori altrimenti insopportabili,
grazie all’immissione in circolo di endorfine, oppiodi endogeni, cannabinoidi e tutte le altre
sostanze che hanno lo scopo di ridurre la percezione del dolore.
A parte il caso celeberrimo di Phineas Gage, il quale sembrò non soffrire particolare dolore neppure
con una sbarra di ferro che gli aveva trapassato la testa e asportato, tra, l’altro, una consistente

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porzione di cervello (Damasio, 1995), Wall (1999) cita, per esempio, il caso di quell’ufficiale
dell’esercito svizzero che durante un pattugliamento era scivolato in un burrone, procurandosi la
lussazione della spalla sinistra, la rottura della clavicola e brutte contusioni sulla zona pelvica e
sulla parte superiore delle gambe. Nonostante ciò, fu solo 45 minuti dopo la caduta che sentì un
improvviso dolore lancinante, e cioè solo dopo essersi assicurato di essere effettivamente stato
portato in salvo. Come osserva Wall, questa storia ha due fasi chiaramente distinte. Nel primo
periodo di emergenza, quei 45 minuti in cui la priorità andava alla sopravvivenza e al salvataggio,
c’era la ferita ma non il dolore. L’ufficiale era ancora perfettamente cosciente e controllava
l’operazione di recupero. Nel secondo periodo, con l’insorgere del dolore, la guarigione delle ferite
acquistava priorità. “Al di là della sofferenza che provava, il suo carattere era cambiato: persona
molto attiva, era oppresso dalla sonnolenza e dalla stanchezza. Buona forchetta, non aveva per
nulla appetito. Di natura socievole, ora detestava la compagnia anche se, a parole, riusciva a
imitare molto bene la sua precedente personalità. Dentro di sé metteva in atto tutto il
comportamento sintomatico delle migliori tattiche di guarigione proprie di umani e animali: non
muoversi e non permettere che nessuno ti muova, dormire. Esternamente metteva in scena il
contrario, a beneficio delle altre persone e della sua immagine: “Sto bene”, “Tra poco uscirò”,
“Non preoccupatevi”, “Mi fa male solo quando rido” (Wall, 1999, p.3 e segg).
È plausibile ipotizzare che questo meccanismo fisiologico frutto della nostra lenta evoluzione non
sia limitato alla percezione del dolore, cioè a livello sintomatico, ma possa essere esteso alla
riparazione dei processi patologici in atto e al mantenimento di una condizione ottimale di salute. Il
fatto che questi meccanismi siano operativi o meno dipenderebbe allora dalle istruzioni ricevute a
partire dalla nostra mente, la quale, entro certi valori di soglia,1 naturalmente, sarebbe in grado di
accelerare processi rallentati, di attivarne altri inattivi, di reclutare nuovi sistemi di rinforzo e di
sostegno, di liberare l’organismo da sostanze tossiche, ecc. Si consideri, tra parentesi, che quando
nel corso di questo lavoro ci si riferisce al concetto di salute non si intende limitare l’espressione
alla salute del corpo, ma comprendere anche quella psichica. Traumi, rallentamenti, difetti o
anomalie di funzionamento metabolico, intossicazioni, carenze o eccessi sono caratteristici allo
stesso identico modo del cattivo funzionamento della nostra sfera psichica, come si avrà modo di
chiarire nel 4° capitolo.
Fermo restando il fatto che la complessità del sistema che caratterizza l’organismo umano è tale da
rendere assolutamente impossibile la conoscenza e il controllo, in tempi utili, di tutti gli

1 Esiste ovviamente una soglia di “disfunzione” superata la quale i processi omeostatici di autoguarigione non possono
più agire efficacemente: lesioni o carenze gravi, principalmente, che rendono irrecuperabile la salute o senza rimedio,
oppure in certi casi solo con interventi chirurgici e farmacologici .
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impedimenti alla nostra salute, cioè di tutti i difetti strutturali o funzionali che possono minarla,
esiste però la possibilità che il funzionamento del nostro organismo dipenda essenzialmente dal
nostro stile di vita e che questo, a sua volta, dipenda da come la nostra mente ha ideato e messo in
atto le strategie migliori per condurre un’ esistenza in armonia con le esigenze del singolo
individuo. La salute dipenderebbe allora non solo da fattori genetici, costituzionali, di
predisposizione familiare e di situazioni legate all’ambiente, ma anche e soprattutto dalla nostra
capacità di adattamento legata all’abilità nel contemperare le nostre esigenze, comprese quelle
spirituali, tra di loro e rispetto a quelle degli altri; di soddisfare le nostre aspettative, bisogni e
desideri; di esprimere, specialmente, le nostre attitudini e capacità ricevendone in cambio
gratificazioni e nuovi stimoli per accrescere la conoscenza (Liotti, 2007; Maslow, 1971; Mauri,
Tinti, 2006).

La nostra epoca è ormai caratterizzata dalla tendenza verso il rispetto assoluto per i principi e le
regole della scienza. Queste regole si applicano ovunque, in qualsiasi attività: nel campo lavorativo
regole e procedure vanno assolutamente rispettate, qualunque tipo di lavoro (compresa la stesura di
questa dissertazione) richiede che si rispettino protocolli e procedure, e queste vanno seguite nel
rispetto assoluto di altre regole dettate dall’esperienza e codificate da leggi dello Stato o da semplici
norme o regolamenti interni alle diverse organizzazioni. Tutto ciò si rivela lo strumento e il modo
migliore per gestire le nostre attività quotidiane, ma anche e specialmente i grandi progetti che
riguardano il progresso umano. C’è un solo campo in cui queste regole non sono sufficienti: quello
del dolore e della malattia. Qui la medicina, nonostante il rispetto per le sue regole, fondate sulla
conoscenza faticosamente acquisita e continuamente perfezionata, si è dimostrata incapace di
risolvere i nostri problemi di salute piccoli e grandi in una infinità di casi. Quando poi questi ultimi
sono rappresentati o enfatizzati dal dolore, è più facile rendersi conto di quanto la scienza abbia
trascurato questo aspetto fondamentale della nostra vita. Questa semplice constatazione ne
nasconde un’altra, e cioè quella secondo la quale la sofferenza psicologica, condizione dell’anima
che tutti abbiamo sperimentato o sperimentiamo abitualmente, fa talmente parte della nostra vita
quotidiana da essere considerata un naturale corollario dell’esistenza, rispetto al quale non ci sia
nessun motivo di attivare le nostre risorse per cercare di attenuarla.

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1 .1 . Definizioni

Secondo il dizionario Garzanti della lingua italiana, il primo significato del termine dolore è quello
di una “sensazione di molestia, di pena, causata da un male fisico”. Solo in seconda battuta esso
viene descritto come “sofferenza morale”. È interessante notare come suoi sinonimi siano
considerati i termini di afflizione o di pena, mentre il suo contrario è la gioia. Quindi, sotto il profilo
semantico-lessicale, si osservi come il dolore sia contrapposto alla gioia proprio come la tristezza,
con la quale, però, se di solito si accompagna, non coincide nella maniera più assoluta.
Spostandoci in un’ ottica più rigorosamente scientifica, secondo la definizione della IASP
(International Association for the Study of Pain, 1986) “Il dolore è un’esperienza sensoriale ed
emotiva spiacevole associata a un danno tissutale effettivo o potenziale, descritta nei termini di
questo danno [...]. Il dolore è sempre soggettivo[...]. La stessa Associazione riconosce però anche
l’esistenza di un dolore che non può essere ricondotto a danno tissutale, quando riporta il dato
secondo cui “[...] molte persone riferiscono dolore in assenza di danno tissutale o qualsiasi altra
causa patofisiologica; di solito questo avviene per ragioni psicologiche. Non c’è modo di
distinguere la loro esperienza da quella dovuta a danno tissutale se ci basiamo sul resoconto
soggettivo. Se essi valutano la loro esperienza come dolorosa e se la riferiscono nello stesso modo
di quella dovuta a danno tissutale, essa dovrebbe essere accettata come esperienza di dolore.
Questa definizione rinuncia a collegare il dolore allo stimolo”. (http://www.iasp-pain.org,
27-06-09, ore 12,16).
Wall elenca persino quelle che considera le cause del dolore conosciute, riferendosi, naturalmente,
al solo dolore fisico: graffio, distorsione della caviglia, mal di denti, attacco cardiaco, artrosi, parto,
cancro, amputazione. Inoltre, tra i dolori privi di causa evidente, descrive la cefalea, la nevralgia del
trigemino, il mal di schiena, la lesione da movimento ripetuto, sindromi dolorose da fibromi, algia
reumatica e miofasciali, dolore mio fasciale, dolori orfani (Wall, 1999, p.115 e segg.)

1 . 2 . Che cosʼè il dolore secondo la scienza medica

Come tutti gli stimoli, anche quelli "dolorifici" passano prima il midollo spinale o l'equivalente
nucleo discendente del V° paio di nervi cranici per il capo, quindi il talamo, dove vengono integrati
e smistati. Una parte, la principale, trasporta le informazioni dai nuclei ventro postero laterali
talamici alla corteccia somestesica primaria (area presilviana), dove si integrano con le informazioni
relative alla sensibilità generale. Un'altra parte si porta nel sistema limbico, dove la sensazione,
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confrontata con i ricordi, influisce sul comportamento e sull'umore. Infine questa via si interfaccia
con la corteccia prefrontale, e la sensazione dolorifica assume sfumature comportamentali legate
alla personalità. (Bear, Connors, Paradiso, 2007; Wall, 1999, p.37 e segg.).
È importante sottolineare il ruolo della elaborazione parallela ad opera delle strutture abitualmente
denominate “sistema limbico”, perché il loro sviluppo e il ruolo significativo che esse svolgono,
praticamente nei soli mammiferi, e in particolare negli esseri umani, potrebbe giustificare
l’esistenza di una forma di sensazione ignota alle forme di vita meno evolute sotto il profilo della
complessità del sistema nervoso. Infatti, si osservi come il sistema limbico influenzi anche la
percezione cosciente del dolore (per cui chi è euforico o sotto choc non sente dolore) e viceversa
(chi è ipocondriaco o ansioso sente in modo accentuato anche minimi dolori) (Kandel, Schwartz,
Jessel, 1994). Ciò sembra dimostrare, una volta di più, come di dolore si possa parlare
indipendentemente dall’attivazione delle vie di comunicazione tra nocicettori e corteccia
somestesica, o perlomeno si possa affermare che il dolore fisico può essere soppresso dalla nostra
percezione attraverso un’ attivazione puramente psicologica (uno stato di euforia ed eccitazione
positiva), così come esso possa essere generato o amplificato per il solo effetto della valutazione
cognitiva (che segue e si integra con quella emozionale) relativa a situazioni vissute
soggettivamente come algogene.
Wall descrive la teoria classica, secondo la quale la prima azione del cervello è identificare la natura
degli eventi che hanno generato l’input sensoriale. Questo dovrebbe produrre la prima sensazione
della lesione come dolore puro. Il passo successivo sostiene che le varie parti del cervello
percepiscono la sensazione e producono una valutazione emotiva che ne consente una
classificazione.
Invece, secondo Wall, noi non passiamo attraverso la fase della percezione del dolore puro, ma lo
registriamo sempre come un insieme di sensazioni: “Non ho mai sentito un paziente parlare di un
dolore isolato dall’emozione che lo accompagna”. Ora, poiché la teoria classica riserva a diverse
parti del cervello il compito dell’analisi della sensazione primaria e ad altre quello di darne una
valutazione emotiva, ci si aspetterebbe che in qualche malattia il dolore sia separato, per esempio,
dal fastidio. Non si conosce nessuna malattia del genere. Inoltre, ci sono parti del cervello, come la
corteccia sensoriale, a cui la teoria classica ha assegnato il ruolo dell’analisi primaria, ma negli studi
di imaging queste aree spesso appaiono inattive mentre il soggetto denuncia dolore (si veda in
proposito il capitolo 4°). Anche per il dolore simpatetico, per esempio, quando si ha notizia della
morte di un amico, la sensazione è inseparabile da tristezza e malinconia.

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1 . 3 . I meccanismi del dolore

I meccanismi attraverso cui insorge il dolore, ovvero la fisiopatologia del dolore, sono complessi e
variabili. Essi si riferiscono sempre al dolore fisico, o perlomeno a quello che come tale viene
percepito dal paziente.
Diverse sono le cause (malattia, terapia), i tessuti (spesso più di uno e in modo dinamico e
progressivo nel tempo), i meccanismi, le vie, i neurotrasmettitori ed i recettori coinvolti.
Il dolore cronico (specie se oncologico) è misto in quanto vengono stimolati tutti e tre i maggiori
meccanismi fisiopatogenetici del dolore: nocicettivo, neuropatico ed idiopatico. Essi possono essere
brevemente definiti nel modo seguente:

• nocicettivo: è il dolore "fisiologico". I nocicettori, terminazioni nervose periferiche appositamente


e finalisticamente dedicate alla rilevazione di lesioni e di danni tissutali, presenti in strutture
somatiche o viscerali, vengono attivati e trasmettono l'impulso alle strutture centrali.
L'integrazione, a vari livelli, della nocicezione e la percezione finale da parte del Sistema Nervoso
Centrale costituiscono il dolore accusato dal paziente. In genere esso è correlato con l'entità del
danno tissutale; il dolore nocicettivo somatico è spesso localizzato e può essere descritto come
penetrante, urente, lancinante o gravativo; quello viscerale è più spesso poco localizzato e può
essere identificato come sordo o crampiforme, se provocato dal coinvolgimento di un viscere
cavo, o lancinante o penetrante, se dovuto al danno di membrane periviscerali o mesenteri. Il
dolore nocicettivo, in genere, è sensibile a tutti i farmaci più comunemente utilizzati e non
costituisce quasi mai un problema clinico rilevante.
• neuropatico: è caratterizzato da danno o disfunzione del tessuto nervoso periferico o centrale, che
provoca stimolazioni nervose, croniche ed automantenentisi, che conducono ad alterazioni della
risposta dei neuroni del sistema somatosensoriale centrale o periferico.
• idiopatico: il dolore idiopatico è un dolore la cui origine non sia conosciuta. Per estensione, si
può considerare un dolore il cui livello di intensità riportata dal paziente non abbia una
corrispondente immediata motivazione organica.
A parte casi specifici di somatizzazione, da identificare e diagnosticare con accuratezza, il Ministero
della Salute riconosce che in tutti i dolori cronici è presente una componente di sofferenza
psicologica di cui tenere conto nell'approccio terapeutico globale. Resta però esclusa la
considerazione della natura e degli effetti sull’organismo e sulla qualità di vita della persona, legati
esclusivamente a un dolore psicologico.

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Se i mammiferi, e gli esseri umani in particolare, sono il risultato di una evoluzione che ha portato
ad aggiungere complessità all’elaborazione dei dati dell’ambiente interno ed esterno dell’individuo,
è allora plausibile ipotizzare che la rete di informazioni complesse provenienti da aree neurali
assenti in forme di vita meno evolute, unitamente a una corteccia frontale enormemente sviluppata
rispetto a qualsiasi altro essere vivente, abbiano permesso lo sviluppo di una percezione più
sofisticata di quella degli altri animali, vissuta come esperienza non solo spiacevole, ma dolorosa, e
legata a situazioni sociali.
Se quindi la sensazione “pura” di dolore è elaborata solo a livello della corteccia somestesica
primaria, la percezione cosciente del dolore ha luogo invece unicamente nella corteccia prefrontale,
la quale gestisce gli eventi coscienti, e cioè i processi cognitivi, le attività pianificate e i movimenti
intenzionali. È possibile, a questo punto, ipotizzare la possibilità di percezione cosciente del dolore
a livello della corteccia prefrontale, senza che tale informazione contenga quella elaborata dalla
corteccia somestesica, ma solo quella proveniente dall’area limbica, e che quindi si possa
propriamente parlare di dolore psicologico, in quanto l’informazione utilizzerebbe le stesse vie di
quello fisico? Per fornire una risposta affermativa e accettabile sotto il profilo scientifico sarebbe
necessario che, pur dal solo punto di vista soggettivo di chi sperimenta la sensazione, questa possa
essere paragonata a quella del dolore fisico. Un ultimo tassello che manca alla conferma dell’
ipotesi avanzata nel presente lavoro richiede poi anche che il dolore psicologico produca la stessa
classe di conseguenze sul piano comportamentale di quello fisico, nonché il fatto scientificamente
osservabile che, perlomeno nel caso di dolore cronico, la condizione di disagio e sofferenza
prolungata conduca anche a evidenti conseguenze sul piano patologico, con insorgenza di malattie,
scatenamento dei sintomi di quelle che erano latenti o silenti, aggravamento di quelle già in atto, e,
in generale, a un peggioramento delle condizioni di salute.
Date queste premesse, ci si propone di individuare, se possibile, una ontologia e una epistemologia
della sofferenza psicologica, e cioè se si possa correttamente fare riferimento, sotto il profilo
semantico - lessicale e quello neuroscientifico e psicologico, a una sofferenza psicologica distinta,
autonoma ma universalmente riconoscibile come tale.
In prima approssimazione sarebbe scientificamente corretto (e configurerebbe un uso proprio del
termine), parlare di sofferenza anche a livello esclusivamente psicologico, quando, pur mancando la
caratteristica della percezione nocicettiva, siano osservabili le seguenti condizioni:
1. profondo malessere, con riduzione, se pur temporanea, dell’iniziativa e della volontà di
guardare al futuro con determinazione e volontà, non necessariamente legato a una
condizione patologica a livello psichico.

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2. Intensa sensazione di dispiacere, di tale coinvolgente profondità da creare una condizione
di profondo disagio e sofferenza psicologica legata a un conflitto interiore, e di tale
ampiezza da coinvolgere il significato stesso dell’esistenza di chi soffre.
3. I meccanismi fisiologici che si attivano seguono le stesse vie, almeno dal livello centrale al
periferico.
4. Le conseguenze sul piano organico, se pur in parte diverse, meno evidenti e meno
immediate, per quanto riguarda il dolore psicologico, esistono e possono condurre a un
peggioramento delle condizioni di salute.
A questo punto, e per chiarire meglio le implicazioni che derivano dall’analisi delle condizioni
sopra elencate, si rende necessario illustrare brevemente le differenze, sul piano della fisiologia, tra
le diverse forme che il dolore può assumere.

1 . 4 . Dolore acuto, cronico, globale

Il dolore acuto è il sintomo di una ferita, di una lesione o di una degenerazione organica. Esso ha
una evidente funzione difensiva (se pur alquanto rozza e in parte inaffidabile), in quanto evita nuovi
stimoli su una parte lesa. L’acuzia si caratterizza non per l’intensità o la forma che il dolore assume,
quanto più semplicemente per il fatto che il dolore acuto ha normalmente una rapida insorgenza e
altrettanto rapida remissione (in termini di ore o giorni). Quando però esso perdura a lungo,
cronicizzandosi, esso si trasforma da sintomo in vera e propria patologia in sé.
È importante tenere presente che le componenti strutturali e funzionali del dolore sono le stesse in
entrambi i tipi di dolore, acuto e cronico. Infatti, l’elaborazione a livello somatico dello stimolo
nocicettivo presuppone il coinvolgimento dei nocicettori, la cui sollecitazione andrà ad attivare i
riflessi spinali, i quali convergeranno al talamo per la necessaria integrazione delle informazioni
relative alla sensibilità generale e alla loro elaborazione a livello della corteccia prefrontale insieme
a quelle legate a ricordi ed emozioni provenienti dal sistema limbico. L'esperienza del dolore è
quindi sempre modulata dalla dimensione affettiva e cognitiva, dalle esperienze passate, dalla

struttura psichica e da fattori socio-culturali. In altri termini, il dolore prodotto da uno stimolo

sensoriale viene percepito perché le terminazioni nervose sulla parte del corpo su cui si applica lo
stimolo lo trasmettono al cervello, ma esso è anche il prodotto dell’interazione tra questi segnali e
l’informazione cognitiva che è diversa da persona a persona.

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In risposta alla stimolazione, sia in caso di dolore acuto che cronico, si avranno riflessi o risposte
intenzionali corticali, con il coinvolgimento dei sistemi a proiezione diffusa e comportamentali, e
quindi reazioni ormonali, immunitarie e vegetative (Bear, Connors, Paradiso, 2007; Kandel,
Schwartz, Jessel, 1994).
La differenza fondamentale sta nel fatto che nel dolore cronico gli stessi elementi funzionano in
maniera "diversa", in quanto il perdurare dello stimolo dolorifico produce alterazioni sia a livello
organico, strutturale e funzionale, sia specialmente a livello psicologico e comportamentale
(producendo una condizione di abbattimento dell’umore, di tristezza e irrequietezza).
Caratteristici del dolore cronico saranno quindi, in aggiunta alla percezione soggettiva del dolore
con le sue conseguenze sui vari distretti dell’organismo, i fenomeni di sensitizzazione, lo sprouting
neuronale (la neoformazione di sinapsi), i riarrangiamenti dell'anatomia e della fisiologia
recettoriale (modificazione del numero e della localizzazione dei recettori) (Bear, Connors,
Paradiso, 2007).
L'inutilità, la differenza, la ridondanza ed il potenziamento delle risposte caratterizzano l'alterazione
della trasmissione e dell’ integrazione dell'informazione dolorifica, creando una condizione
percettiva anomala, tale che alcuni lievi stimoli algici vengono interpretati come dolorosi
(iperalgesia), oppure stimoli normalmente non dolorosi vengono interpretati come dolorosi
(allodinia)
Il dolore è quindi fisiologico, un sintomo di allarme all’interno di un complesso meccanismo di
difesa essenziale per evitare un danno, ma diventa patologico quando si automantiene, perdendo il
significato iniziale e diventando a sua volta una malattia, così da essere qualificato in maniera
specifica, se pur molto varia, come “sindrome dolorosa”, “disturbo da dolore somatoforme”,
“disturbo da dolore psicogeno”, “disturbo da dolore idiopatico”, “disturbo da dolore atipico”,
oppure “disturbo algico” (De Gucht, Fischler, 2002).
È al dolore cronico che si fa abitualmente riferimento quando si ricercano le cause psicologiche del
dolore, proprio perché il perdurare del dolore permette una elaborazione del suo significato e quindi
la sua identificazione o collegamento con esperienze intense e profonde sul piano emozionale. In
questo caso, la letteratura medico-scientifica preferisce parlare di “persistent somatoform pain
disorder” ricollegandone le cause allo stress, a conflitti di natura emozionale inespressi, problemi
di carattere psicosociale, ma anche varie forme di disordine mentale (Sarno, Mann, Rashbaum,
2007).
Alcuni autori preferiscono parlare di dolore psicogenico cronico solo con riferimento al
meccanismo protettivo inconscio tramite il quale emozioni represse, potenzialmente distruttive

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come la rabbia, sono tenute sotto controllo. Ma resta controverso, in ambito medico-psichiatrico, se
possa esistere un dolore cronico originato esclusivamente da cause emozionali (Tyrer, 2006).
In ogni caso, l’attenzione per il dolore cronico e le sue componenti emozionali e psicologiche è un
dato che è emerso solo recentemente, in considerazione della presa d’atto delle sue caratteristiche
specifiche, che ne fanno una forma qualitativamente diversa di dolore (e non semplicemente una
estensione temporale del dolore acuto), richiedendo un approccio mentale, culturale e professionale
opposto. Ciò detto, rimane il problema per cui la scienza medica non riesce a concepire la
possibilità di studiare e di agire su una condizione di fatto innegabile, come quella della sofferenza
psicologica, in mancanza di riferimento a una causa patologica nota. Poiché tale non può essere
classificato il riferimento tutto introspettivo e soggettivo legato alla condizione psicologica di
profonda sofferenza conseguente a separazione, esclusione sociale, ecc., si è costretti a riconoscere
come, anche in questo caso, il dolore psicologico diventa oggetto meritevole di attenzione clinica
solo se associato a una causa organica. Infatti, secondo le linee guida del Ministero della Salute,
• se la condizione patologica che provoca il dolore è nota e in buona parte non aggredibile,
• se il dolore è persistente nel tempo,
• se la sua presenza continua instaura un circolo vizioso di depressione, ansia e altri disturbi
emotivi, e il dolore diviene sindrome autonoma con pesante impatto sulla vita di relazione e sugli
aspetti psicologici e sociali caratteristici della persona,
• allora e solo allora il dolore diviene un sintomo inutile e va trattato nel modo più tempestivo e
completo possibile.
Se quindi da un lato si afferma con forza il principio secondo cui “un corretto approccio alla
terapia del dolore cronico non può essere rappresentato soltanto dalla applicazione di protocolli e
linee guida di terapia antalgica, insufficiente se isolata dal contesto più ampio di sofferenza della
persona”, a conferma della necessità di ricondurre il dolore a una precisa causa organica, il
Ministero della Salute, infatti, dichiara espressamente di riferirsi, in particolare, al “dolore cronico
presente nelle malattie degenerative, neurologiche, oncologiche, specie nelle fasi avanzate e
terminali di malattia,” il quale “assume caratteristiche di dolore globale, legato a motivazioni
fisiche, psicologiche e sociali, come evidenziato nei documenti dell'Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS)” e riportato sul sito del Ministero della Salute2 .

2Disponibile in : http://www.ministerosalute.it/dettaglio/pdPrimoPiano.jsp?sub=6&id=44&area=ministero
%09%09&colore=2&lang=it
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1 . 5 . Un approfondimento sul concetto di dolore globale

Nella breve analisi condotta relativamente alle diverse accezioni del termine “dolore”, il
riconoscimento dell’esistenza di un dolore definito “globale” sta a significare che la nozione di
dolore non è più limitata alla sensazione dolorifica, ma può legittimamente estendersi a fattori
squisitamente psicologici. L’ ipotesi che si intende qui sottoporre a verifica (e che prevede invece
anche l’esistenza di una forma di dolore percepito solo a livello mentale, ma suscettibile di causare,
specialmente a lungo termine, effetti patologici sul piano organico), trova una parziale conferma nel
fatto che, perlomeno, è ormai universalmente accettata l’idea che il dolore psicologico entri a pieno
titolo tra le componenti che causano dolore fisico, se pur solo in situazioni patologiche di
particolare gravità.

Fig. 1. Schema delle componenti del dolore globale (disponibile in: www.salute.gov.it/resources/static/primopiano/
sollievo/opuscolo.doc)

Ancora una volta, si consideri quali e quanti fattori (riportati nella figura 1), contribuiscono a
causare la sensazione di dolore, rendendo evidente il fatto che essa non possa più essere considerata
tale, ma una condizione molto complessa, nella quale i fattori psicologici giocano un ruolo
fondamentale.
Dall’analisi della letteratura disponibile sul tema, si ricava la considerazione che dell’esistenza di
una sofferenza psicologica si cominci solo adesso a prendere coscienza grazie ai progressi delle
neuroscienze e della psicologia, specialmente quella umanistica e sociale. Il fatto cioè che l’essere
umano possa soffrire anche in assenza di infiammazione, di lesione o degenerazione organica, è
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un’ acquisizione che si deve allo sviluppo della psicologia, la quale ha permesso anche di superare
la concezione imperante fino a pochi decenni fa, secondo la quale, per esempio, i bambini non
potevano provare dolore perché la corteccia, non ancora sviluppata, impediva l’elaborazione dello
stimolo nocicettivo; oppure la convinzione diffusa anche a livello scientifico che gli animali non
provassero dolore (per analoghi motivi di insufficiente sviluppo del sistema nervoso).
In secondo luogo, la difficoltà a riconoscere l’esistenza di una sofferenza psicologica è legata a un
motivo squisitamente evoluzionistico, e cioè al fatto che il dolore è associato, da quando esistono
forme di vita dotate di un sistema nervoso sufficientemente sviluppato, a una minaccia alla
sopravvivenza fisica, ed è quindi visto come un campanello d’allarme utile solo con riferimento
all’integrità e alla funzionalità della nostra struttura fisica, senza alcun interesse per la sfera
mentale. Il che è oggi solo il retaggio di una concezione dell’uomo che non ha più alcuna ragione di
esistere, dal momento che la nostra vita è ormai tendente ad essere condizionata da fattori cognitivi,
relazionali, sociali, affettivi, e non è più legata solo alla sopravvivenza del corpo e al
soddisfacimento di bisogni primari.
In terzo luogo, il dolore fisico è normalmente associato a stimoli aventi una causa precisa, e che
spesso mostrano in maniera evidente la perturbazione che hanno portato ai tessuti (tagli, ferite,
abrasioni, amputazioni ecc). Anche quando il dolore è interno, come nel banale mal di denti o in
una colica renale, esso è comunque localizzabile, per cui lascia intuire, anche in assenza di
conoscenze mediche, una qualche modificazione dell’equilibrio degli organi interni. Ancora,
quando si tratti di algia vertebrale, o dolore articolare, se pur non causato da un trauma o ferita, esso
è comunque riconoscibile, intuitivamente e ingenuamente, come dovuto a disfunzione meccanica di
qualche tessuto interno.
Quello psicologico, invece, è un fenomeno che appartiene esclusivamente alla sfera privata della
persona che ne soffre, e nei suoi aspetti qualitativi e quantitativi non può essere né rilevato, né
tantomeno misurato, non potendolo ridurre a un fenomeno analizzabile con gli strumenti della fisica
classica ma solo di quelli imprecisi e inaffidabili della introspezione e della valutazione psicologica.

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1 . 6 . Che cosʼè il dolore secondo la psichiatria : il disturbo algico o dolore
psicogeno

Per completezza di esposizione, ma anche per chiarire le possibili differenze tra quello che viene
definito dolore algico e quello che nell’ambito del presente lavoro viene definito come sofferenza
psicologica, i criteri diagnostici per il Disturbo Algico secondo il DSM-IV-TR3 sono i seguenti:
• Il dolore in uno o più distretti anatomici rappresenta l’elemento principale del quadro clinico, ed è
di gravità sufficiente per giustificare attenzione clinica.
• Il dolore causa malessere clinicamente significativo oppure menomazione nel funzionamento
sociale, lavorativo o in altre importanti aree.
• Si valuta che qualche fattore psicologico abbia un ruolo importante nell’esordio, gravità,
esacerbazione o mantenimento del dolore.
• Il sintomo o deficit non viene intenzionalmente prodotto o simulato
• Il dolore non è meglio attribuibile ad un Disturbo dell’Umore, d’Ansia, o Psicotico e non incontra
i criteri per la Dispareunia.
I pazienti con disturbo algico possono avere un quadro clinico complicato da un disturbo correlato
ad abuso di sostanze, poiché tentano di ridurre il dolore attraverso l'uso di alcool e di altre sostanze.
Esso è classificato come cronico solo se la sua durata è superiore ai sei mesi.
Come si può osservare, ci si trova di fronte alla descrizione di un disturbo per il quale viene
espressamente riconosciuta una importante componente eziologica psicologica, tant’è vero che il
DSM prosegue distinguendo tra:
1. Disturbo algico Associato con fattori psicologici: si giudica che qualche fattore psicologico
abbia il ruolo principale nell’esordio, gravità, esacerbazione o mantenimento del dolore (se
è presente una condizione medica generale, essa non ha un ruolo predominante nell’esordio,
gravità, esacerbazione o mantenimento del dolore).
2. Disturbo Algico Associato con fattori psicologici e con una condizione medica generale: si
valuta che sia i fattori psicologici, sia una condizione medica generale, abbiano ruoli
importanti nell’esordio, gravità, esacerbazione o mantenimento del dolore.

Quando però si vuole definire più esattamente quali siano i fattori psicologici che possono causare
tale disturbo, i criteri cominciano a sfumare, e si è costretti a ricorrere a categorie e descrizioni

3 American Psychiatric Association (2000). DSM-IV-TR. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders ,
Fourth Edition, Text Revision. Milano: Masson.

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soggettive identificabili solo a seguito di un’attenta analisi psicologica. Si scopre così che quello
che viene definito disturbo algico e che, in alcune sue forme, apparentemente configura proprio
quel tipo di dolore psicologico cui si fa riferimento in questo lavoro, altro non è che la percezione
di dolori di natura diversa, localizzabili in precise parti del corpo, e non una forma diversa di
sofferenza, percepita a livello psicologico, mentale, o, se si vuole, spirituale. Il che è già un passo
avanti nel riconoscimento dell’esistenza di forme di dolore che possano avere un’ origine
psicologica, ma ciò solo nei limiti ristretti di un dolore riferibile al corpo, o somatoforme, e non,
come invece in questa sede si ricerca, all’”anima”.
Si osservi, infatti, come da un lato si riconosce che il dolore può servire come mezzo per ottenere
amore o punizione per un'azione sbagliata, oppure rappresentare un mezzo per espiare una colpa. In
ambito psicodinamico si riconosce che i pazienti che avvertono nevralgie e dolori riferiti al proprio
corpo senza un'adeguata causa fisica identificabile potrebbero simbolicamente esprimere un
conflitto intrapsichico attraverso il corpo. Alcuni sono affetti da alessitimia, condizione in cui sono
incapaci di articolare in parole il proprio stato emotivo, cosicché il corpo esprime i sentimenti in
loro vece. Altri possono inconsciamente considerare il dolore psicologico come espressione di
debolezza e qualcosa che manca di legittimità. Spostando il problema al corpo, essi possono
ritenere di avere una legittima rivendicazione per il soddisfacimento dei loro bisogni di dipendenza
e per la loro implicita richiesta di attenzione, di cura e di affetto.
Dall’altro lato, però, si osservi come, nella pratica clinica, i pazienti con disturbo algico hanno
spesso una lunga storia di cure mediche e chirurgiche, con consulti presso molti medici e richiesta
di numerose terapie, comprese quelle alternative o persino magiche. Possono essere particolarmente
insistenti nella ricerca di interventi chirurgici e completamente coinvolti dalla preoccupazione per il
dolore, riferendosi ad esso come fonte di tutte le loro sofferenze; spesso negano la possibilità che la
loro disforia emotiva possa essere dovuta ad altre cause e sostengono che la loro vita è felice, tranne
che per il dolore.
Questi ultimi dati mettono in luce la sostanziale differenza tra disturbo algico e dolore psicologico:
nel primo caso, infatti, il dolore è utilizzato, se pur inconsciamente, come mezzo per ottenere un
vantaggio in termini di cure, di affetto e di protezione, ed è sul dolore fisico, reale o solo percepito
che sia, che questi pazienti riservano tutte le loro attenzioni, tant’è vero che essi negano di patire
una qualche sofferenza psicologica.
Nel dolore psicologico, invece, il dolore che viene descritto (se pur eccezionalmente, in situazioni
acute, può essere localizzato a livello del petto, come stretta al cuore, e condurre poi,
cronicizzandosi, a disturbi tipici della condizione di stress), è un dolore che viene vissuto nella

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mente, chi ne soffre è perfettamente consapevole trattarsi di dolore psicologico, e infatti non ha
particolare interesse al fatto che la medicina ricerchi e individui una qualche patologia. La sua
preoccupazione, semmai, è il sospetto che il dolore psicologico, quando perdura con intensità, possa
condurre all’aggravamento di patologie già in atto, o persino a un logorio del sistema nervoso, ma
anche di quello circolatorio, respiratorio e in particolare dell’ apparato cardiaco, tale da causare una
patologia potenzialmente mortale.
Uno dei tanti problemi che rendono difficile una descrizione del dolore psicologico come disturbo
autonomo sta nel fatto che esso, come si è visto, è costituito di una serie di elementi che
complessivamente ne permettono l’espressione, ciascuno dei quali è riconducibile ad altra patologia
o disturbo. Per esempio, è evidente che, come per il dolore algico, il dolore psicologico cronico
rende la persona particolarmente suscettibile a cadere in forme depressive più o meno gravi. E
poiché il disturbo depressivo maggiore è presente nel 25-50% circa di tutti i pazienti con disturbo
algico, e sintomi di disturbo distimico o di disturbo depressivo vengono riportati nel 60% dei casi, è
facile che la condizione di sofferenza cronica di tipo psicologico possa essere confusa, e trattata con
parziale successo, come se si trattasse di disturbo dell’umore o depressivo (Chiechanowski, 2003).
Alcuni ricercatori ritengono che il dolore cronico sia quasi sempre una variante di un disturbo
depressivo, suggerendo che si tratti di una forma mascherata o somatizzata di depressione. In effetti
i sintomi depressivi più evidenti nei pazienti con disturbo algico sono l'anergia, l'anedonia, la
diminuzione della libido, l'insonnia e l'irritabilità; le variazioni diurne, la perdita di peso e il
rallentamento psicomotorio sembrano essere meno comuni degli altri sintomi. Invece, la sofferenza
psicologica (che può assumere anch’essa diverse gradazioni di intensità ed essere acuta o cronica),
permette di condurre una vita apparentemente “normale”. Se è vero, infatti, che la sofferenza
psicologica può condurre a forme gravi di disturbi mentali o di depressione, è altrettanto vero che l’
esperienza di ognuno ci dice che con essa si riesce a convivere, pur sopportando un “sentimento di
fondo” che può risvegliarsi tramite il ricordo dell’esperienza che l’ha causato inizialmente.
In conclusione, si osservi come la resistenza a concepire l’esistenza e la percezione di una
sofferenza dichiarata, ma che tuttavia non trova riscontro nell’indagine clinica, conduce la
psichiatria e ricercare una motivazione, sotto il profilo psicopatologico, alle apparenti
manifestazioni di dolore dei pazienti affetti da tale disturbo.
In altre parole, piuttosto che ammettere la possibilità che un profondo e persistente disagio possa
utilizzare gli stessi canali di trasmissione del dolore (a livello centrale corticale) per produrre una
sensazione o una condizione generale di sofferenza simile ma non equiparabile al dolore fisico, la
psichiatria preferisce riportare le sue osservazioni e valutazioni in territori più gestibili.

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Si enfatizza, quindi, il ruolo di fattori legati al bisogno di alcuni pazienti di attirare l’attenzione di
medici o di familiari sulla propria condizione di salute, amplificando o addirittura simulando (se pur
a livello inconscio) una sofferenza in realtà inesistente. Anziché indagare sulle cause che
conducono il paziente (spesso anziano ed effettivamente malato) a richiedere una maggiore
attenzione e accudimento, la psichiatria preferisce considerare questo dolore come l’effetto di una
autosuggestione indotta, riducendo la persona bisognosa di cure e di affetto a un simulatore. Infatti,
nel primo caso l’intervento terapeutico comporterebbe la necessità di predisposizione di un piano
terapeutico che coinvolga sinergicamente diverse figure professionali (psicologi, psicoterapeuti,
assistenti sociali), il quale preveda una serie di attività di consulenza ai familiari e ai “caregiver” su
come gestire al meglio il disagio del paziente, e la messa in atto di iniziative che lo coinvolgano, per
quanto possibile, nella vita relazionale e sociale. Tutto ciò è assolutamente impensabile (al di là
della concezione riduzionistica portata avanti dalla medicina) a causa della cronica carenza di
risorse finanziarie destinate alla cura tramite persone e non tramite farmaci, i quali presentano sotto
questo aspetto il non secondario vantaggio di costare molto meno dell’assistenza di personale
qualificato.
Queste considerazioni mettono in piena luce quello che è il problema centrale nella cura e nel
trattamento medico o psicologico del dolore, e cioè l’abitudine culturale e il “falso ideologico” di
considerarlo come condizione legata esclusivamente a fattori fondamentalmente organici e
meccanici, ignorando sia l’esistenza, sia di conseguenza l’influenza della sofferenza psicologica
sulla salute del corpo. Si è già osservato come la stessa psichiatria sembra orientata a prendere in
considerazione il dolore solo nella sua limitata accezione di dolore fisico, anche se si vede costretta
dall’evidenza clinica a fare i conti con la sofferenza psicologica, tant’è vero che il DSM-IV dedica a
quello che definisce il “disturbo algico” un’attenzione che fino a pochi decenni fa non esisteva.
Resta il fatto che il dolore, ancora una volta, è oggetto di attenzione solo quando si manifesta con le
stesse caratteristiche di quello fisico, costringendo il medico ad una indagine spesso infruttuosa per
chiarirne l’origine organica. Si tende a non prendere in considerazione il caso inverso, e cioè quello
in cui una intensa ma perdurante condizione di sofferenza psichica possa alterare il quadro
omeostatico del paziente al punto da determinare l’insorgenza di una patologia, o l’aggravamento di
altra esistente o silente, e conseguentemente la manifestazione del dolore.

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1 . 7 . La misurazione del dolore

Pur non essendo sempre deducibile in maniera diretta da un’affezione o da un disturbo, variando da
individuo a individuo e potendo sfuggire all’investigazione medica, sono stati condotti dei tentativi
per valutare in maniera rigorosa l’intensità e la natura del dolore provato. Da un lato, si utilizzano
scale di valutazione unidimensionali, come la Vas (Scala visuale analogica), costituita da una linea
orizzontale di 100 millimetri, nella quale l’estremità sinistra rappresenta l’assenza di dolore e quella
destra il dolore massimo. Il paziente traccia quindi un segno che indica l’intensità attuale di ciò che
prova, esprimendo analogicamente il suo dolore sotto forma di lunghezza espressa in millimetri.
Oppure si utilizza una semplice scala numerica, con intensità graduata tra 0 (assenza di dolore) e 10
o 100 come apice di intensità. Il sistema è alquanto rozzo, misura solo l’intensità e non può fornire
alcun confronto valido e affidabile né tra pazienti diversi né tra dolori diversi provati in tempi
diversi dallo stesso paziente (Wall, 1999).
Niente impedisce che tale sistema di valutazione possa essere applicato anche al dolore psichico,
ma solo in teoria. In pratica, mentre quello fisico può essere facilmente provocato, e persino
misurato almeno nell’intensità dello stimolo prodotto, quello psichico sfugge ad ogni tentativo
serio di classificazione e incasellamento universale.
Ci si trova di fronte, in questo caso, all’ennesimo esempio di come la psicologia, nel suo tentativo
di affermarsi come scienza esatta, e di confrontarsi con il rigore di quella medica, abbia
abbandonato direttamente l’indagine sul dolore psichico solo per il fatto che esso non poteva essere
misurato in maniera scientificamente corretta. (Armezzani, 2002; Luccio, 2000). Naturalmente, la
conseguenza di questa rinuncia è stata che, a tutt’oggi, poco o nulla si sa delle conseguenze sulla
salute che possono derivare dalla sofferenza, acuta o cronica, avente una origine psichica, e quindi
la sofferenza psichica è stata interpretata, stravolgendone il significato e trasformandolo in modo da
permetterne una categorizzazione di tipo nosografico, in disagio esistenziale, malattia mentale,
disturbo dell’umore o depressivo, oppure il deus ex machina della “condizione di stress”.
In questo lavoro si vuole invece sostenere l’idea che il dolore psichico meriti una sua classificazione
autonoma, e che esso vada alleviato allo stesso modo in cui la moderna terapia del dolore agisce su
quello fisico, agendo cioè sui meccanismi che ne permettono la manifestazione percettiva. Tutto ciò
rinunciando alla necessità di dimostrare sperimentalmente la sua esistenza e la possibilità di
misurazione in termini meccanici e oggettivi, ma basandosi soltanto (fino a che il progresso
scientifico non ci consentirà una indagine più rigorosa) sulla sua percezione soggettiva da parte di
chi ne soffre.

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Naturalmente, mentre la soppressione del dolore fisico può essere indotta meccanicamente e
chimicamente, interrompendo le comunicazioni tra recettori e corteccia somestesica, nel caso della
sofferenza psicologica la sua soppressione sarà possibile solo attraverso una terapia psicologica, né
rapida, né facile, la quale possa favorire la modificazione del modo in cui l’evento scatenante viene
vissuto dal singolo individuo. L’analisi psicologica e la nuova consapevolezza della situazione
possono allora modificare l’attività dei circuiti neurali che attribuiscono al ricordo di un evento
spiacevole le sue connotazioni dolorose, permettendone la contestualizzazione all’interno di un
nuovo modello di rappresentazione della realtà, il quale collochi cioè il significato dell’evento
scatenante all’interno di una visione della vita non più conflittuale.
La necessità di una cura della salute che si faccia carico anche degli aspetti psicologici del dolore è
data dal fatto che, come è stato argomentato nelle pagine precedenti, il dolore non è solo un
sintomo, o un campanello d’allarme: è esso stesso un agente patogeno, perché il suo perdurare, il
suo manifestarsi anche se occasionalmente in diverse forme, non sempre distinguibili le une dalle
altre, non è solo causa di disagio, ma rappresenta un serio ostacolo al mantenimento di una qualità
della vita accettabile, e può condurre a conseguenze anche gravi e irreparabili sulla salute del
corpo.

1 . 8 . Lo stress come causa di dolore psicologico

L’unico modo che la scienza medica ha trovato per descrivere in qualche modo il dolore psichico è
stato quello di trasformarlo in una serie di processi ormonali e neuro fisiologici e di identificarne la
causa in agenti esterni, gli stressors, una sorta di moderni virus o batteri esistenti in innumerevoli
forme e modalità di azione, i quali sembrano fungere mirabilmente da capro espiatorio. Secondo
questo approccio clinico, infatti, si allontana l’indagine sulla causa della sofferenza psichica dalla
soggettività e dalla capacità di adattamento all’ambiente del singolo individuo (scomoda sotto il
profilo scientifico perché non suscettibile di misurazione oggettiva), dirottandola verso l’oggettività
dell’influenza di stimoli esterni sui nostri processi neurovegetativi, e si riconduce il problema a un
insondabile insieme di innumerevoli circostanze ambientali sulle quali non è necessario indagare,
essendo sufficiente individuarne le conseguenze sul piano organico e comportamentale.
Che la sollecitazione prodotta sull’organismo, a livello sistemico, da stimoli provenienti
dall’ambiente esterno che causino fastidio, noia, irrequietezza e ansia, sia in grado di produrre una
serie di reazioni a cascata, potenzialmente, su tutti i distretti e in tutte le funzioni dell’organismo

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stesso, è un dato che non richiede particolari conferme, talmente sconfinata è la letteratura
scientifica sull’argomento.
Gli agenti stressanti sono stati riconosciuti, fin dai primi pionieristici studi di Cannon e Selye (si
veda in proposito, tra gli altri, Sapolsky, 2006), come potenziali cause di disturbi e malattie
somatiche, per il fatto che essi presentano due caratteristiche che ne consentono la sottoposizione
alla sperimentazione e all’analisi scientifica: essi sono materialmente identificabili e misurabili, e,
specialmente, sono esterni all’individuo. Per la mentalità rigorosamente scientifica della moderna
medicina ipertecnologica, infatti, la presenza di fattori osservabili legati alla condizione di malattia
è di per sé sufficiente a giustificarne la loro identificazione come possibile causa di essa, mentre
resta ininfluente il modo soggettivo con cui ciascuno reagisce, a livello emozionale e cognitivo, a
tali agenti stressanti. Quello che manca, infatti, nella descrizione del meccanismo di azione degli
eventi stressanti sulla salute delle persone secondo la visione medica attuale, è, ancora una volta, la
reazione psicologica ad essi. L’interesse limitato alla sola azione dello stress sull’organismo, in altre
parole, trascura l’analisi di ciò che accade nella “scatola nera” della persona che lo subisce,
riducendo l’attenzione clinica alle sole manifestazioni patologiche e comportamentali più evidenti.
La conseguenza è che la terapia consisterà nel cercare di sopprimere chimicamente queste reazioni,
trascurando le conseguenze che l’elaborazione individuale del significato dell’evento stressante
può produrre a medio e a lungo termine.
Se la ricostruzione del modello di azione dello stress che è stata fin qui condotta è corretta, ne
consegue la considerazione secondo la quale l’intervento medico ed eventualmente psicologico è
oggi limitato a riparare, a posteriori, i danni prodotti all’organismo da fattori esterni, mantenendo
questi ultimi pienamente liberi di produrre i loro effetti dannosi e potenzialmente pericolosi per la
salute.
Il fatto che non si consideri di pertinenza e competenza medico-psicologica l’analisi della reazione
soggettiva ai fattori che causano sofferenza, sia essa fisica o psichica, è particolarmente deprimente
e frustrante, perché significa che non è considerato compito delle scienze che si occupano della
salute e del benessere dell’uomo quello di individuare e promuovere la rimozione dei relativi
ostacoli. Ma questa considerazione ne porta con sé un’altra, di più ampia portata, e cioè che la cura
e l’alleviamento della sofferenza dovrebbero logicamente essere compito da svolgere in piena
sinergia tra le scienze che si occupano di gestire al meglio l’organizzazione della società, e quelle
che dovrebbero indicare ad essa quali direzioni dare alle politiche sociali ed economiche sulla base
dei bisogni dell’uomo, in vista dell’obiettivo comune di migliorare la qualità della vita di tutti.
Infatti, o si rimuovono i fattori cha causano stress e malattie, oppure, se ciò non è possibile,

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occorrerebbe offrire a chi ne soffre le conseguenze una forma di cura che renda accettabile, sotto il
profilo psichico, la loro presenza, anziché limitarsi a sopprimerne la percezione tramite farmaci.
Invece, come si osserva dall’analisi delle modalità in cui la nostra società, la più avanzata nel
mondo, si occupa del problema della sofferenza, le cause di essa sembrano appartenere a un
universo autonomo, estraneo, in qualche modo, alla cura dei bisogni fondamentali dell’uomo,
rispetto alle quali ogni attività gestionale e direzionale è dipendente, in maniera passiva, dalla
potenza del flusso dei bisogni economici della minoranza più ricca della popolazione, o dalla
adesione cieca e incondizionata a un modello di sviluppo legato esclusivamente al progresso
tecnologico e all’incremento della produzione di beni materiali.
Dall’altro lato, la sofferenza che deriva dalla disarmonia creata da questo sistema insensibile ai
bisogni primari dell’uomo è considerata inevitabile conseguenza del progresso economico stesso, e
quindi suscettibile soltanto di intervento, su richiesta dell’interessato, per alleviare il dolore e la
sofferenza quando questi si facciano insopportabili.
Riconoscere l’esistenza dello stress della vita quotidiana, o quello conseguente a una perdita, e
valutare le conseguenze di esso sul piano organico, è un modo molto elegante e scientificamente
accettabile per ammettere implicitamente l’importanza del dolore psichico senza dover fare
riferimento alla condizione soggettiva, non misurabile e insondabile, del paziente stesso. Ma se,
appunto, ridurre il tema della sofferenza psicologica allo stress permette da un lato di effettuare
sperimentazioni rigorosamente controllate tramite la somministrazione di stimoli stressanti, e la
conseguente rilevazione delle modificazioni a livello neuro-ormonale e comportamentale che ed
esse fanno seguito, dall’altro lato costituisce una rinuncia all’indagine su ciò che costituisce il
compito principale della psicologia, cioè quello di indagare sulla risposta soggettiva agli stimoli
stessi, così come si manifesta nell’organizzazione della vita psichica del singolo individuo, e
conseguentemente in quella della sua vita quotidiana.
Infatti, si consideri la seguente argomentazione che potrebbe escludere la pretesa riduzione della
cause della sofferenza a semplici fattori stressanti, o stressors. Questi ultimi, infatti, (Dozier, 1999),
sono tali se possono essere identificati in stimoli materiali, o in eventi osservabili e misurabili,
esterni all’individuo, i quali sono causa di sofferenza psicologica per effetto del loro manifestarsi
nella realtà esterna e osservabile con una frequenza e una intensità superiori alle capacità di
sopportazione psicologica dell’individuo.
Al contrario, causa della sofferenza psicologica, almeno nella sua forma più grave e pericolosa, cioè
quella cronica, è solo eccezionalmente il ripetersi dello stimolo originario, in quanto essa consiste,

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(o è sufficiente che consista, per produrre sofferenza) nel ricordo dell’evento scatenante, fattore,
questo, tutto interno, intimo e privato dell’individuo.
Quindi, non soltanto la sofferenza psicologica è una condizione che sfugge per la sua intrinseca
soggettività all’indagine scientifica tradizionale, ma persino la causa di essa, nel caso di sofferenza
cronica, è normalmente identificabile in un fattore non indagabile oggettivamente nella
sperimentazione scientifica, quale è il ricordo.
Oggi sappiamo perfettamente, grazie a decine di migliaia di studi, cosa accade nell’attivazione
dell’asse ipotalamo-ipofisi surrene, in cosa consistono, a livello ormonale, la “sindrome generale di
adattamento” e gli effetti del rilascio di cortisolo e catecolamine, e a livello nervoso l’attivazione
dei sistemi a proiezione diffusa e la depressione del sistema immunitario conseguente alle diverse
situazioni di stress. Ma non sappiamo dare ancora un nome alla sofferenza psichica, né identificarla,
né tantomeno predisporre strategie per alleviarla e controllarla. Anzi, ciò che è più grave,
sembriamo disinteressati a rimuoverne le cause, persino là dove sarebbe immediatamente possibile.
Sotto questo aspetto, il compito della psicologia di indagare sul fenomeno si scontra con la tendenza
di questa scienza tipicamente umana di preferire lo studio dei fenomeni generali, comuni ad ogni
essere umano, che possono essere riprodotti in laboratorio, rispetto a quello, più “etologico”, se si
vuole, degli stati d’animo, delle emozioni e dei sentimenti che sono legati alla storia di vita di
ciascun individuo. Eppure, nonostante la letteratura scientifica abbia trascurato questo secondo
approccio al problema della sofferenza psichica, la filosofia e la letteratura che si sono occupate
dell’uomo da quando esistono il linguaggio e la coscienza, sono concordi nell’individuare le cause
di tale sofferenza in quegli stessi conflitti psichici di cui si occupa la psicologia.
Infatti, queste discipline riconoscono che il dolore psichico è soggettivamente percepito come una
condizione di sofferenza diversa da quella della tristezza, del disagio, della stanchezza,
dell’irritabilità, dello stato d’animo tendente alla depressione o all’ansia. Tutti sappiamo che ciò che
si prova in circostanze come un abbandono, una separazione, una perdita, un rifiuto, comporta una
condizione di sofferenza che possiamo cercare di descrivere analogicamente e per similitudine con
una serie di termini che si riferiscono a stati d’animo ed emozioni, ma che non esprimono le
caratteristiche originali della sofferenza psichica. Per uno studente, per esempio, l’essere respinti
all’esame di maturità non può essere semplicisticamente descritto come la somma di molti
sentimenti diversi: se l’evento era soggettivamente inaspettato, il dolore sarà ancora più intenso, e la
persona vivrà come una vera e propria fitta, non identificabile probabilmente in nessuna parte del
corpo, sia il momento in cui è venuto a conoscenza del verdetto, sia il momento in cui, da allora in
poi, egli rievocherà quell’evento. Rabbia, tristezza, risentimento, rimorso, senso di colpa, vergogna,

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umiliazione, mortificazione, delusione, perdita di fiducia in sé stessi, paura di perdere la stima degli
altri, rimpianto, frustrazione, impotenza, e mille altri termini possono essere utilizzati per descrivere
la condizione psichica dello studente in questione, e probabilmente essi saranno tutti,
contemporaneamente presenti, ma ad essi si aggiunge quell’indefinibile senso di malessere
dell’anima che caratterizza la sofferenza psichica.

1 . 9 . Cura del dolore

La seconda parte del diciannovesimo secolo, diffondendo l’anestesia, ha alleviato in larga misura i
mali degli uomini. Lo stesso accade oggi, con la banalizzazione dell’uso degli antidolorifici nella
vita quotidiana. Eppure, da un lato, il dolore cronico è parallelamente diventato uno dei problemi
cruciali della medicina moderna, mentre poco o nulla si fa persino per riconoscere l’esistenza del
dolore psicologico, relegato a inevitabile conseguenza di quello fisico, oppure stravolto nel suo
significato per essere assimilato al disagio delle malattie mentali, degli stati d’ansia o depressivi,
che con esso non hanno nulla a che fare. Così, mentre l’aumento della longevità legata a condizioni
d’esistenza più favorevoli, nella società occidentale, favorisce l’accrescimento di dolori che
afferiscono a malattie croniche o a conseguenze dell’invecchiamento, il miglioramento della qualità
della vita e delle condizioni socioculturali sposta sempre più l’attenzione verso il senso della vita
quotidiana, oggi ricchissima di stimoli, di opportunità e di oggetti del desiderio, diffondendo una
sofferenza legata all’impossibilità del soddisfacimento di bisogni per lo più artificiali.
Si tenga presente, inoltre, che coloro che soffrono di questo tipo di dolore sono spesso vittime
dell’ignoranza e della mentalità spesso chiusa e dogmatica del medico, e quindi non hanno neppure
il conforto di essere creduti quando affermano che quello che percepiscono, pur in mancanza di
evidenze cliniche, è una forma particolare di dolore, che non può essere né confuso, né ridotto a
semplice malessere generale, a disagio, tristezza o prostrazione. In altre parole, sia a livello di
opinione pubblica, sia a livello di professionisti medici, spesso tale forma di sofferenza viene
vissuta come “immaginaria”. Proprio in contrasto con questa opinione diffusa, la IASP sottolinea il
fatto che è legittimo parlare di terapia del dolore anche in presenza di dolore riferito dal paziente
senza che esista la minima prova di alterazione o sofferenza tissutale, anche se, come si è già
osservato, il dolore cui ci si riferisce, per quanto di origine idiopatica, è sempre considerato e
trattato come dolore fisico.
Al di fuori delle cure analgesiche di tipo farmacologico, il dolore può essere alleviato sfruttando la
conoscenza che abbiamo del limite molto preciso nel funzionamento dei suoi meccanismi di

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trasmissione, e cioè l’ incapacità del sistema nervoso di elaborare e trasmettere più di uno stimolo
alla volta.
Secondo Wall (1999), esistono due regole relative all’attenzione selettiva. Non è possibile avere
consapevolezza di qualcosa, infatti, se prima questo non cattura la nostra attenzione, per cui il
sistema nervoso centrale riceve regolari rapporti, giorno e notte, da svegli e nel sonno, su tutti gli
eventi che gli organi di senso sono in grado di cogliere. In realtà, per gran parte del tempo ne
ignoriamo la maggioranza; ma ogni frazione di questo flusso di informazioni è in grado di attirare
l’attenzione. Perché questo avvenga deve esistere un meccanismo selettivo, dotato di regole, e
queste regole non sono arbitrarie; ciascuna specie ha le proprie, con le quali opera una selezione
degli eventi importanti per la sopravvivenza e il benessere. Alcune di queste regole sembrano
universali: gli eventi improvvisi e di vasta portata hanno la precedenza nel catturare l’attenzione;
per esempio, la ricezione da parte del sistema nervoso di messaggi che segnalano lesioni ai tessuti è
uno di questi eventi ad alta priorità.
Ma l’attenzione selettiva, oltre a richiedere la predisposizione di una gerarchia in gran parte innata
di stimoli in grado di attivarla, presenta anche la peculiare caratteristica secondo la quale essa si può
concentrare su un unico obiettivo alla volta, anche se è possibile spostarla abbastanza rapidamente
da uno all’altro. Però, in ciascun istante, solo un’unica informazione sensoriale è disponibile
all’analisi sensoriale cosciente: se lo scopo dell’attenzione è quello di reagire in modo appropriato,
ne consegue che un’ esigenza fondamentale della natura è quella di permettere solo un’azione per
volta.
Alla luce di queste considerazioni, Wall ritiene che la terapia basata sul controllo dell’attenzione sia
efficace. Egli la definisce “distrazione”, e consiste nel distrarre il sistema nervoso sostituendo al
compito su cui sta lavorando, e che procura dolore, un altro compito almeno altrettanto stimolante,
il quale, richiamando l’attenzione su di sé, impedisce al processo che è all’origine della
stimolazione dolorosa di continuare ad agire (Wall, 1999, p.166).
Questa “contro stimolazione” è tanto più efficace quanto più saremo in grado di distrarre il sistema
nervoso a lungo con un compito che ne assorba totalmente l’attenzione. Se entro certi limiti il
dolore fisico può essere alleviato da un compito distraente, ci si può chiedere se il principio sia
applicabile anche a quello psicologico. La risposta, alla luce dell’osservazione dei fatti, è
affermativa. Da sempre, di fronte alla sofferenza da separazione, da lutto, o persino da stress, la
soluzione che viene prospettata alla persona sofferente è quella di distrarsi, di fare un viaggio, di
prendersi una vacanza. Questa soluzione non è molto praticabile quando la sofferenza si
accompagni a un condizione di depressione o di forte stato di prostrazione fisica, ma specialmente

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non è elegantissima da proporre quando le condizioni economiche del paziente non gli permettono
questa dispendiosa distrazione, o la possibilità di assentarsi dal lavoro.
Resta il fatto che muoversi, l’agire, il fare qualunque cosa è sempre meglio della stasi. Quando poi
l’attivazione è finalizzata a un obiettivo che la persona considera importante per sé o per gli altri,
allora tutto diventa più facile, e spesso il compito distraente è in grado di ridurre notevolmente il
dolore psicologico, in quanto impedisce il continuo rimuginamento e la ruminazione.
Nei confronti del dolore cronico, l’obiettivo è quello di mettere a tacere un naturale meccanismo di
difesa che ha un ruolo protettivo nell’emergenza, ma diventa nocivo se prolungato. In questo caso,
quindi, la terapia consiste nel mantenere attiva l’attenzione su compiti distraenti, anche diversi tra
loro, fino a che la presenza, prima incombente e intrusiva, del ricordo dell’evento spiacevole, causa
della sofferenza psicologica, riduca fisiologicamente la sua forza distruttiva. Naturalmente, quella a
cui Wall si riferisce è una soluzione piuttosto rozza e superficiale che mira esclusivamente a
rimuovere i sintomi del dolore, secondo il collaudato approccio medico. Manca l’aspetto più
importante della cura, e cioè quello che mira a ricercare, insieme col paziente, le ragioni profonde
della sofferenza, avviando un processo di integrazione del dolore all’interno dei modelli operativi
interni e cognitivi della persona stessa, a scopo adattivo. È piuttosto evidente che questo processo
sarà tanto più rapido ed efficace quanto più questa forma di terapia sia accompagnata da un
supporto psicoterapeutico volto a dare un senso e un significato al dolore stesso.

1 . 10 . Analogie e differenze tra sofferenza psicologica e dolore fisico

Il dolore fisico viola e forza la nostra identità, cancella la nostra volontà, la possibilità di utilizzare
le nostre facoltà cognitive di ordine superiore, e ci riporta a una condizione di debolezza e
insicurezza in forza di una vera e propria regressione infantile. Esso chiude l’uomo in sé lasciando
sospettare che la sua pena abbia carattere duraturo; al contrario il piacere è normalmente percepito e
vissuto con un senso di effimero e contingente.
Il dolore fisico è un momento dell’esistenza in cui nell’individuo viene a fissarsi l’impressione che
il suo corpo sia altro da lui: esso viene vissuto come qualcosa di estraneo al nostro corpo, ma che si
è inserito in esso, e il nostro corpo viene vissuto, in quei momenti, come separato da noi,
rendendoci consapevoli di quanto la nostra vita coincida con la nostra coscienza, e come questa, che
anima e dà vita e movimento al corpo, possa essere condizionata dal dolore.
Quando invece il nostro dolore è psicologico, solo allora percepiamo chiaramente che ad essere
colpita è la parte più importante di noi, quella da cui non possiamo mai sentirci staccati, e questa

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constatazione aggrava ulteriormente l’intensità del dolore, perché ad esserne colpito non è il corpo,
cioè il supporto materiale dei nostri pensieri, sentimenti ed emozioni, ma è proprio ciò che abbiamo
di più intimo e profondo, cioè la nostra coscienza (Dennet, 2000; Dozier, 1999; Edelman, Tononi,
2000).
Anche la sofferenza psicologica, come è esperienza comune, può manifestarsi in maniera acuta o
cronica, proprio come quella fisica. Essa è acuta quando si manifesta nel presente, tramite cioè
l’acquisizione di consapevolezza di una situazione spiacevole: in questo caso la sofferenza si può
persino manifestare come una sensazione fisica di contrazione a livello del petto.
È cronica quando la rievocazione dell’evento, spontanea o intrusiva, permane a lungo, per anni, o
per l’intera vita dell’individuo con tutta la sua originale carica di dolore. Sia quella fisica sia quella
psicologica possono agire ed essere percepite senza che la persona sia consapevole della causa.
Anzi, non è infrequente che l’acquisizione della conoscenza o la consapevolezza dell’origine della
sofferenza costituiscano già, di per sé, motivo di attenuazione del dolore.
La differenza fondamentale tra essa e quella fisica sta nel fatto che la sofferenza psicologica è una
condizione esclusivamente umana perché presuppone il legame con ricordi, esperienze ed emozioni,
e la loro elaborazione complessiva all’interno dello schema nel quale ognuno di noi rappresenta la
conduzione razionalmente organizzata della propria vita.
Tutti noi abbiamo sperimentato più di una volta una condizione che non possiamo non definire
come dolore o sofferenza, senza che essa fosse collegata all’effettiva percezione di un qualche
dolore fisico, e quasi come se questo dolore fosse situato nella nostra mente. Siamo certi che non si
tratti di dolore fisico, ma neppure di una semplice emozione spiacevole, come la tristezza, il
disagio, la frustrazione, la rabbia. Forse il termine che più si avvicina alla descrizione di ciò che
proviamo è quello di dispiacere: ma il prefisso dis si limita a darci una definizione di esso come di
una trasformazione del piacere in senso negativo, mentre noi percepiamo qualcosa di molto simile
al dolore fisico, ma non a livello somatico, e cioè un fenomeno attivo, una presenza e non certo una
mancanza.
Il dolore fisico si manifesta solo in presenza dello stimolo in grado di produrlo e cessa quando tale
stimolo scompare o non è più in grado di insistere negativamente sui nostri tessuti. Esso non può
quindi essere rievocato dalla memoria, se non come vaga emozione o impressione cognitiva, ma
non come sensazione fisica. In ogni caso, una sensazione fisica non può essere prodotta a comando,
e cioè rievocando nella mente l’esperienza nel corso della quale essa era già stata sperimentata,
mentre la sofferenza psicologica si riproduce ogni volta che, volontariamente o meno, la nostra
mente si focalizza sull’esperienza dolorosa.

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Il dolore fisico, in quanto tale, è sempre localizzabile nel nostro corpo, e anche quando si manifesta
in maniera troppo lieve, vaga e quasi indistinta, si affaccia alla consapevolezza come un’ entità
spiacevole che risiede nel corpo e da esso è nutrito. Esso si affaccia alla nostra coscienza,
risvegliandoci, nel caso, anche dal sonno, richiamando la nostra attenzione e monopolizzandola, in
relazione a un valore di soglia assolutamente individuale, ma che comunque attira la nostra
attenzione in maniera proporzionale alla sua intensità, fino a giungere, al di là della soglia massima
di sopportazione, a indurre come estrema difesa la perdita di coscienza e di sensibilità. Se non
tenuto sotto controllo con farmaci o con tecniche più o meno efficaci, esso si manifesta fino a che lo
stimolo da cui deriva non cessi di agire per ragioni puramente fisiologiche, indipendentemente dalla
nostra volontà.
A differenza della semplice inquietudine, degli stati d’ansia o depressivi, della tristezza o della
malinconia, il “vero” dolore psicologico implica sempre e necessariamente coscienza e richiamo
dell’attenzione sulla situazione che l’ha determinato, ma non presuppone necessariamente la
presenza dello stimolo: esso può essere indotto dal ricordo. La rievocazione dell’evento che ha
causato originariamente la sofferenza psicologica può però avvenire anche durante il sonno,
attraverso l’elaborazione onirica, come dimostra l’esperienza comune di essersi risvegliati di
soprassalto per effetto del sogno realistico che rappresentava un trauma effettivamente vissuto in
passato e che causa sofferenza ad ogni rievocazione.
L’elaborazione inconscia della causa della sofferenza, successiva alla presa di coscienza dell’evento
che l’ha causata, può quindi determinare una condizione e uno stato d’animo cronico, o perlomeno
persistente, il quale non può essere definito come vera e propria sofferenza psicologica, per il fatto
che essa, come si è ipotizzato, richiede la nostra consapevolezza dell’evento che la provoca. Quello
che si percepisce, in queste situazioni, è piuttosto una condizione di turbamento, di disagio, di
malessere non meglio identificati e non riconducibili a una specifica causa. Il sistema nervoso, in
questa situazione, elabora l’esperienza dolorosa e conflittuale senza che, almeno inizialmente, tale
complessa elaborazione abbia accesso alla nostra consapevolezza, testimoniando il fatto che la
causa della nostra sofferenza produce una attivazione e un potenziale logorio del sistema nervoso
che può teoricamente non avere mai fine, fino a che il problema non venga alla luce e non sia
affrontato positivamente.
Quando è particolarmente intenso, inatteso o improvviso, il dolore psicologico può manifestarsi
nell’impressione di una stretta al cuore, e può produrre conseguenze patologiche a livello organico,
ma è sempre vissuto come una condizione dolorosa che interessa la nostra coscienza individuale,
favorendo la consapevolezza della nostra identità e unicità. Mentre il dolore fisico “normale” quello

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che tutti noi abbiamo sperimentato spesso, quando ci abbandona, non lascia tracce di sé, salvo nei
casi più gravi di menomazioni, amputazioni, paralisi, quello psicologico non ci lascia mai, se
sufficientemente intenso, perché basta la sua rievocazione per rivivere la stessa condizione
psicologica di malessere. Quando si riesce a superare in maniera adattiva la sofferenza psicologica,
essa resta all’interno della nostra coscienza come un’ esperienza che consideriamo “formativa” per
la nostra vita, mentre non attribuiamo mai lo stesso significato al dolore fisico (quanto, semmai, alle
conseguenze di esso, le quali, di nuovo, conducono all’elaborazione di una sofferenza psicologica).
Esistono, come si è accennato in precedenza, molti elementi in comune tra i due tipi di dolore,
naturalmente, a cominciare dal dato più evidente, e cioè quello delle manifestazioni
comportamentali del dolore: anche se le reazioni ad esso possono essere molto differenti sul piano
della loro espressione in pubblico e dell’intensità, il dolore fisico e quello psicologico, nella forma
acuta, presentano segni e sintomi molto simili, quali contrazioni dei muscoli del viso, pianto, urla,
estrema agitazione, fino alla perdita di coscienza in casi estremi.
Se il dolore cronicizza, esso diventa in qualche modo parte della vita della persona, la quale convive
con esso cercando in tutti i modi di ridurne al minimo le manifestazioni. Se pur sopportabile, però,
in entrambi i casi il dolore cronico diventa patologico e produce alterazioni, magari lente e
impercettibili, nello stato di salute della persona. Il dolore, in entrambe le sue forme, non è sempre
associato a una sua manifestazione visibile. Quello psicologico, poi, è sempre nascosto nella
percezione e nell’elaborazione che ognuno di noi fa di esso, al punto che spesso l’uomo vive il
dramma di non vedere riconosciuto il proprio dolore e di vederne messa in dubbio l’acutezza. Se
pure esprime l’intensità del suo dolore, egli sa in anticipo che nessuno lo sente al posto suo e
nessuno lo divide con lui. Scrive Wittgenstein (1967, p. 139): “Se posso rappresentarmi il mio
dolore, se anche altri lo possono fare, o se diciamo di poterlo fare, come verificare che ci siamo
correttamente rappresentati questo dolore, e con quale grado di incertezza? Certo, posso sapere
che N. soffre, ma non saprò mai a quale livello. Ecco qualcosa che egli sa, ma di cui le
informazioni esterne del dolore non mi informano, qualcosa di puramente privato”.
Eisenberg e Lieberman, convinti sostenitori dell’esistenza di un dolore “sociale” che meriterebbe la
stessa attenzione terapeutica di quello fisico, si sono spinti più in là, alla ricerca di possibili
elementi di sovrapposizione sotto il profilo fisiologico, tra le due forme di dolore (Eisenberg,
Lieberman, 2004). Gli strumenti utilizzati sono stati la sperimentazione su animali e gli studi di
neuroimaging, e le conclusioni sembrano autorizzare l’affermazione che dolore fisico e sociale
condividono parte dei circuiti neurali e dei processi sottostanti. Ma poiché in questo caso ci si sta

34
addentrando nel campo delle indagini cliniche, sarà utile rinviare tali approfondimenti al quarto
capitolo, appositamente dedicato alla loro analisi.
A questo punto, però, occorre ancora completare il quadro descrittivo della sofferenza psicologica
esponendo le sue caratteristiche secondo la prospettiva della psicologia, e abbandonando quindi
l’approccio tipicamente medico. Ma prima, sarà utile riassumere brevemente, nel paragrafo
successivo, quanto fin qui esposto sul tema della sofferenza psicologica secondo la visione medica.

1 . 11 . Sintesi e conclusioni relative alla definizione della sofferenza psicologica in


medicina.

Allo scopo di evitare confusioni e fraintendimenti, si propone di qualificare, nel prosieguo di questa
trattazione (quando non altrimenti specificato), come “dolore” la sofferenza fisica e “sofferenza”
quella psicologica. C’è sempre sofferenza là dove c’è dolore, mentre quest’ultimo non è un
requisito indispensabile perché si percepisca una sofferenza psicologica. Quest’ultima, oggetto della
presente indagine, può a questo punto essere definita meglio almeno per esclusione, evidenziando
nei punti seguenti le caratteristiche che la distinguono dal dolore fisico. La sofferenza psicologica
che è oggetto del presente studio esplorativo, infatti, non è:

1. dolore fisico conseguente a stato di eccitazione, stress, nervosismo (la cefalea muscolo
tensiva è il caso più frequente, ma anche dispepsia, o dolori gastroduodenali, ecc.) altrimenti
definito “dolore psicogenico” (psychogenic pain), il quale altro non è se non dolore fisico
causato, aggravato o prolungato da fattori emozionali, mentali o comportamentali. Merskey
e Spear (1967) definiscono il dolore psicogenico come ogni dolore indipendente da una
stimolazione periferica o da danni al sistema nervoso, e dovuto a fattori emotivi, oppure
qualsiasi dolore in cui ogni modificazione a livello periferico (come appunto nella cefalea
muscolo tensiva) è la conseguenza di fattori emozionali (Merskey, Spear, 1967). Come si può
notare, siamo pur sempre nel campo del dolore percepito a livello fisico, se pur causato da fattori
puramente psichici.

2. Non è la sofferenza psicologica (estrema tristezza e prostrazione, mista ad impotenza) che


segue alla persistenza di dolore fisico cronico (la modificazione dell’umore in senso
negativo a causa di dolori articolari o artrosici, per esempio).
3. Non è neppure il dolore psicologico così come viene inteso nel linguaggio comune come
“dolore emozionale” cioè una condizione di estremo disagio, simile alla sofferenza,
immediatamente collegata a una forte emozione, perché essa, appunto, è semplicemente la
35
percezione di un malessere conseguente a un’ emozione negativa, e quindi cessa di produrre
effetto col venir meno dell’emozione. Il dolore psicologico, invece, presenta la caratteristica
di essere persistente e di esprimersi anche in assenza dello stimolo, collegato a un’emozione,
che l’ha prodotto inizialmente.

In positivo, è ormai universalmente condivisa l’accezione del dolore come fenomeno complesso,
non esclusivamente sensoriale, ma che può essere compreso e analizzato solo come la risultante di
due componenti:
• una parte percettiva (la nocicezione) che costituisce la modalità sensoriale che permette la
ricezione ed il trasporto al sistema nervoso centrale di stimoli potenzialmente lesivi per
l’organismo;
• una parte esperienziale (quindi del tutto privata, la vera e propria esperienza del dolore) che
è lo stato psichico collegato alla percezione di una sensazione spiacevole.
Quando, anche nel linguaggio comune, parliamo di dolore o di sofferenza psichica, ci riferiamo alla
percezione di questa sola seconda componente, mancando nel dolore psicologico, per definizione, la
componente nocicettiva. In realtà, come alcuni autori hanno osservato (Eisenberger, 2003), una
intensa sofferenza psicologica, causata da una perdita o una sofferenza affettiva o comunque legata
a una importante attivazione emozionale, sembra essere la principale responsabile di quel dolore
fisico che, nel linguaggio comune, viene definito “stretta al cuore”, “colpo al cuore”, “cuore
spezzato”, “pugno nello stomaco”, il quale viene percepito, nel resoconto di chi ne ha fatto
esperienza, come qualcosa di indistinguibile dal corrispondente dolore fisico, anche se
qualitativamente diverso.
Sia essa fisica o psicologica, l'esperienza del dolore è comunque determinata o condizionata dalla
dimensione affettiva e cognitiva, dalle esperienze passate, dalla struttura psichica e da fattori socio-
culturali. L’indagine relativa a questi aspetti del dolore richiede a questo punto di allargare l’ambito
di osservazione a includere la visione che psicologia e filosofia ci offrono sull’argomento.

36
Capitolo 2°

La sofferenza psicologica secondo le scienze umane.

Psicoanalisi e psicoterapia sono nate appositamente per curare gli squilibri psichici che fossero
riconducibili a psicopatologie. Naturale che si occupassero di sofferenza psicologica, quella che
lamentano i depressi, per esempio. Eppure, sotto un certo punto di vista, la psicologia non si è mai
occupata della sofferenza psicologica dell’uomo: al massimo, essa ha effettuato sperimentazioni ed
elaborato ipotesi scientifiche relative ai meccanismi e ai processi psicologici, isolati dal contesto
umano. Quando ha dedicato la sua attenzione alla sofferenza, la psicologia lo ha fatto con
particolare riguardo ai suoi risvolti sul piano organico, più che comportamentale, della
sottoposizione a situazioni di stress, quasi sempre nei topi o nei primati. Quando la sua attenzione si
è spostata sull’uomo, è stato solo, anche qui, per verificare l’esistenza e la misura della soglia del
dolore fisico.
Sorprendentemente, lo studio scientificamente condotto della sofferenza psicologica è nato soltanto
negli anni cinquanta dello scorso secolo, quando l’etologo inglese Harry Harlow rese pubbliche le
proprie osservazioni sugli effetti della deprivazione della madre nelle scimmie nel suo articolo “The
nature of love”. L’anno era il 1958, lo stesso in cui John Bowlby pubblicò “The nature of child’s tie
to his mother” ponendo le basi di quella che sarà la fondamentale “Teoria dell’attaccamento”, frutto
delle osservazioni, sue e di Mary Ainsworth, sulla sofferenza conseguente a lutti e separazioni nei
bambini (Bowlby, 2000).
Se però si osserva la notevolissima mole di studi nati e sviluppatisi in seguito alla diffusione della
teoria dell’attaccamento, si noterà come l’interesse degli psicologi e degli psicoterapeuti non è mai
stato attirato dalla condizione soggettiva di sofferenza del bambino, quanto dalle ripercussioni della
medesima sul suo successivo sviluppo psicologico e comportamentale.
Le innumerevoli ricerche condotte per approfondire la teoria dell’attaccamento sono state rivolte a
classificare, secondo l’impostazione nosologica delle patologie tipica della medicina, i differenti

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pattern di attaccamento. Alcuni studi si sono occupati di individuare strategie e rimedi per prevenire
scompensi o alterazioni psicologiche o danni sociali nei bambini che avessero vissuto situazioni di
sofferenza da separazione, ma nessuno studio ci risulta che sia stato condotto per comprendere
meglio in che cosa consiste la sofferenza psicologica del bambino dal punto di vista strettamente
soggettivo, cioè come valore, o disvalore in sé.
Tantomeno ci risulta che questi studi si siano mai occupati di individuare le possibili ripercussioni
sulla personalità dell’adulto una volta inserito nel suo contesto affettivo e sociale, riguardanti non
tanto il suo modo di concepire la relazione affettiva, quanto il suo modo di concepire e di dare un
senso alla sua vita. Men che meno gli studi nati sull’onda euristica della teoria dell’attaccamento
hanno mai preso neppure in considerazione il fatto che il disagio, gli scompensi e la sofferenza
derivanti dal distacco materno potessero essere considerati di per sé sintomi patologici, e che
anziché limitarsi a descrivere gli effetti di lutti e separazioni, la psicologia dovesse interrogarsi circa
il significato patologico dell’attaccamento, e proporre soluzioni per superare la sofferenza del
bambino attraverso la riduzione del bisogno stesso di attaccamento, chiaramente morboso.
Si potrebbe obiettare facilmente all’ affermazione esposta che quello dell’attaccamento e del suo
contraltare, l’accudimento, è un bisogno biologico, legato alla necessità propria dei mammiferi di
essere soggetti a cure amorevoli fino a che il piccolo non sia in grado di sopravvivere da solo. Se
questo è vero, tuttavia sorge spontaneo chiedersi perché alcuni bisogni strettamente inscritti nel
nostro patrimonio genetico debbano essere considerati “buoni” e degni di essere assecondati e anzi
sviluppati per tutta la vita (nel caso, per esempio, dell’attaccamento e della formazione dei legami
affettivi familiari), mentre altri bisogni, altrettanto biologicamente determinati, come quello di
aggredire con la violenza chiunque ci ostacoli nel loro soddisfacimento, siano invece da reprimere
fin dalla più tenera età.
In altre parole, non si vuole sostenere la necessità di privare gli esseri umani, a cominciare dall’età
infantile, dell’affetto e delle cure materne, ma quella di cominciare a prendere in considerazione il
fatto che questo rapporto esclusivo e completamente assorbente, al limite della dipendenza
morbosa, possa essere gradualmente superato, in un’ottica evolutiva più che terapeutica.
Si consideri, infatti, che la teoria dell’attaccamento e tutte le ipotesi psicologiche che si rifanno alla
necessità di adesione acritica alla nostra storia evolutiva, si riferiscono agli esseri umani come
mammiferi quando si tratta di giustificare i loro istinti e comportamenti di ordine inferiore, mentre
si ribellano alla riduzione dell’essere umano al rango di mammifero o di primate, quando si tratta di
valutarne la vita sociale e intellettuale.

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In altre parole, se è vero che parte del nostro patrimonio genetico è comune a quello dei mammiferi,
un’altra parte, se pur quantitativamente minuscola, è propria solo degli esseri umani, ed è quella che
fa la differenza tra le elaborazioni matematiche di Newton o di Einstein e lo sbucciamento di
banane da parte degli scimpanzé. Se la nostra evoluzione, a partire da una base comune coi
mammiferi, ci ha portati ad essere quello che siamo oggi, non è certo per salvaguardare a tutti i
costi la nostra ereditarietà genetica, ma, anzi, per selezionare quei comportamenti, che se pur
innati, non sono più necessari alla conduzione di una vita di livello superiore, sotto tutti gli aspetti, e
poterli eliminare dalla nostra vita. Il dolore fisico, per esempio, è un ingombrante residuo della
nostra storia evolutiva che si dimostra spesso inadeguato, inutile e dannoso, nella sua funzione di
salvaguardia della nostra sopravvivenza fisica. Oggi che il nostro progresso ci ha consentito di
sopprimerlo o ridurlo, non si vede perché non si debba compiere ogni sforzo possibile per fare lo
stesso con quello psicologico.
Quello che invece questi studi ci hanno lasciato è l’ osservazione universalmente condivisa che la
sofferenza da separazione è un portato biologico della nostra evoluzione, e come tale non è
eliminabile, perlomeno in tempi evolutivamente brevi e non nei bambini con pochi mesi o pochi
anni di vita. Nulla risulta però che sia stato indagato circa la possibilità di modificare, utilizzando le
capacità cognitive di ordine superiore, questa caratteristica biologica negli adulti. In fondo, anche
specialmente grazie agli studi condotti dalla psicologia, abbiamo imparato a gestire la sofferenza
che nasce dall’impossibilità di dare libero sfogo ai nostri impulsi, aggressivi e sessuali, mentre
siamo completamente impreparati, come bambini, di fronte a situazioni di separazione, di rifiuto, di
distacco individuale o sociale.
La psicoanalisi e le infinite correnti della psicoterapia che ne sono derivate, più che ai processi
generali, si sono indirizzate allo studio e al trattamento di manifestazioni patologiche che
coinvolgessero la psiche nel singolo individuo. Ma anche qui, fin dai primi studi sull’isteria, la
sofferenza è stata considerata nient’altro che un processo emergente, la fastidiosa e inevitabile
conseguenza di una situazione di alterazione psichica, l’unico tema, quest’ultimo, sul quale la
psicoterapia ha ritenuto di portare la sua attenzione scientifica.
In altri termini, l’interesse degli psicoterapeuti non è tanto rivolto in primo luogo ad alleviare la
sofferenza del paziente, quanto piuttosto al trattamento del disturbo psichico ad essa collegato, ma
non coincidente con essa. Essi si sono occupati esclusivamente della classificazione e del
trattamento di tali disturbi, isolandoli dal contesto della sofferenza soggettiva e non misurabile del
cliente; hanno preso in considerazione la sofferenza psicologica più come indice per classificare il
disturbo psichico in termini di gravità, ponendo al primo posto del loro intervento terapeutico la

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remissione del disturbo piuttosto che l’alleviamento della sofferenza; hanno trattato casi e
situazioni, più che persone, e nell’ottica della visione biomedica del disturbo mentale, hanno
cercato il più delle volte di individuare le radici dei comportamenti e degli schemi mentali che
conducono alla depressione, all’ansia, alle patologie psichiche, analizzandoli e classificandoli come
casi da manuale o da ricerca scientifica, allo stesso modo in cui un ingegnere poteva descrivere e
intervenire meccanicamente su un’ apparecchiatura difettosa. L’adesione a schemi, modelli
interpretativi diagnostici e a protocolli terapeutici, in altri termini, tendeva a prevalere sulla cura
della sofferenza psichica. Si dovette aspettare gli anni cinquanta perché la teoria dell’attaccamento,
come si è accennato, sollevasse il problema fino a quel momento sconosciuto, che consiste nella
consapevolezza che dietro un disturbo psichico c’è una persona che soffre, e che scopo della
psicologia non è solo quello di descrivere o correggere dei fenomeni scientificamente osservabili,
ma anche, e specialmente, quello di alleviare la sofferenza e migliorare la qualità della vita e la
salute dell’uomo.
Sempre intorno alla stessa epoca, negli Stati Uniti, iniziò a diffondersi una corrente nuova e
originale, che darà vita a quella branca della psicologia definita umanistica, e che, per il suo
interesse tutto centrato sulla persona umana, sarà fin dall’inizio (come è ancora oggi)
completamente ignorata dalla psicologia dominante. Ancora oggi le grandi correnti della psicologia
restano sostanzialmente due, il comportamentismo e il cognitivismo, e nei libri di storia della
psicologia (si veda, per esempio, Luccio, 2000), non è possibile trovare il minimo accenno al
contributo portato alle scienze psicologiche dalla psicologia umanistica. La colpa di cui questa
corrente si è macchiata consiste fondamentalmente nel fatto di aver voluto a tutti i costi riportare la
psicologia alla ricerca applicata all’uomo, anziché ai topi oppure ai processi psichici isolabili e
misurabili tramite apposite apparecchiature.
Si consideri che uno dei testi base che illustrano i fondamenti teorici di questa corrente si intitola,
forse provocatoriamente, “La terapia centrata sul cliente”, di Carl Rogers, a sottolineare
l’importanza di concentrare l’attenzione della psicologia sulle caratteristiche uniche, soggettive,
legate alle risorse e alle caratteristiche tipicamente umane (e non quelle in comune con topi o
gasteropodi). L’enfasi viene portata sulla relazione di tipo empatico, termine che suona come una
bestemmia per qualunque scienziato che voglia dare alle sue ricerche carattere di obiettività e
scientificità, dimenticandosi del fatto che l’essere umano non può essere studiato e trattato solo
come insieme di processi mentali.
Secondo la psicologia applicata allo studio e alla terapia della sofferenza umana, quest’ultima,
quando è di natura psicologica, non è altro che un epifenomeno, il fischio della vaporiera che

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secondo T. H Huxley rappresentava l’effetto collaterale dell’esistenza della coscienza, ma che non è
di nessuna utilità ai fini del funzionamento della medesima4 . La sofferenza psichica sarebbe
semplicemente il risultato inevitabile, o il segnale di avvertimento, che deriva dall’attivazione di
una situazione conflittuale tra le esigenze dell’uomo e le fredde e insensibili circostanze ambientali.
Ma se alla base del dolore psicologico c’è un conflitto, ci si chiede come mai, in oltre un secolo, la
psicologia non sia riuscita a fornire una risposta alle due sole alternative possibili: o si elimina il
conflitto, o si elimina la sofferenza che ad esso consegue.

2 . 1 . Amore e sofferenza

Il problema conduce molto lontano, ed è possibile qui solo accennarne i termini generali. Si può
pensare che, nella prima alternativa, e cioè quella che riguarda l’analisi dell’influenza della cultura
e dell’ambiente sulla sofferenza dell’individuo, il problema si concentra esclusivamente sulla
struttura e la funzione della società, cioè del contesto da cui si generano i nostri conflitti psichici,
imponendo una vera e propria rivoluzione dello stile di vita della comunità umana, tale da
minimizzare gli effetti di tali conflitti.
L’analisi approfondita dei bisogni e delle motivazioni diventa quindi il presupposto per una
riqualificazione del ruolo della società in termini di sempre maggiore rispondenza alle esigenze
umane.
La seconda alternativa (che, tra parentesi, si dovrebbe accompagnare alla prima) porta la sua
attenzione sull’uomo, e in particolare sulla struttura e sul funzionamento della sua organizzazione
psicobiologica. Essa implica che ci si attivi per produrre un vero e proprio salto evolutivo, passando
da una struttura tutto sommato primitiva della nostra personalità (quella che ci accomuna ai
mammiferi sotto il profilo dell’attaccamento istintivo e innato), per passare alla realizzazione di una
rete di legami (o meglio, di contatti) nei quali sia definitivamente abbandonato il concetto di
esclusività dell’attaccamento alla sola figura materna (o di chi la sostituisce), insieme a quello della
costruzione di una scala gerarchica di disponibilità affettiva la quale discrimina tra i pochi che
meritano il nostro amore e la parte restante dell’umanità (verso la quale si prova indifferenza),
passando a un ben più maturo (evolutivamente) concetto di “rete affettiva” costituita da tutti coloro
che ci circondano ed entrano in contatto con noi.
Si tratterebbe di un bel banco di prova delle teorie che hanno sempre posto l’amore (nel senso più
spiritualmente alto del termine e non in quello biologico) come motore della vita e del progresso

4 Citato in Nunn, (2006) p. 60.


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dell’uomo: seguendo questa alternativa, l’amore dovrebbe dimostrare in maniera definitiva la sua
capacità di sostituire un legame che noi definiamo tale, quello materno, ma che in realtà corrisponde
(quasi) esclusivamente a un insieme di antichissimi meccanismi inconsci di protezione, e che da un
certo punto di vista possono essere considerati più patologici che fisiologici (Fisher, 2005).
L’opinione che qui si vuole provocatoriamente argomentare è che, in una prospettiva
evoluzionistica a lungo termine, il legame di attaccamento e lo stesso modo in cui attualmente
concepiamo l’amore sentimentale e sessuale debbano essere superati e curati come stati
potenzialmente e tendenzialmente patologici. In una società dove il proprio benessere coincide con
quello degli altri (pur nell’assoluto rispetto dell’individualità), il concetto stesso di “legame”
diventa patologico, espressione di un limite alla possibilità di realizzazione del sé all’interno di un
contesto di relazioni che abbracci tutte le forme di vita, e non solo quelle appartenenti alla nostra
ristretta cerchia di conoscenze. La nostalgia per i propri cari, l’amore privilegiato per chi è unito da
vincoli di parentela rispetto ai cosiddetti estranei, non sono altro che meccanismi biologici che
erano utili in un’ epoca in cui la sopravvivenza fisica poteva essere assicurata solo dalla solidità
della rete di relazioni tribali, più facilmente cementabili se nate dal prendersi cura l’uno dell’altro
all’interno di una cerchia ristretta (i genitori e i nonni nei confronti dei bambini, e poi di questi
ultimi, una volta adulti, nei confronti dei vecchi).
Ma la sensazione di attaccamento che tutti, specialmente in situazioni difficili, di paura o di
solitudine, percepiamo a causa della mancanza delle persone a noi care, non è amore, quanto, più
prosaicamente, paura. Si tratta di un campanello di allarme, lo stesso che ci fa stare all’erta in
situazioni di potenziale pericolo, che ci avvisa di non commettere più la leggerezza di separarci da
quelle che sono state le fonti di affetto e di attaccamento primarie, perché è da esse che può venire
la migliore, più completa, “disinteressata” protezione.
In una situazione, per ora puramente teorica, in cui l’amore che si provi per il prossimo sia
veramente e universalmente tale, non ci sarebbe motivo di subire un patologico attaccamento a certe
figure che rappresentano sicurezza e protezione, perché tutti coloro che ci circondano, se pur a
diverso titolo e in forme diverse, sono in grado e vogliono donarsi reciprocamente amore, affetto,
protezione. Quello che oggi chiamiamo amore e che è invece semplice bisogno di sicurezza,
potrebbe essere sostituito dalla preferenza che ognuno di noi potrà avere per coloro che
condividono i nostri valori e coi quali è possibile un fruttuoso scambio di affetto, di idee, di
sentimenti, di conoscenze. La differenza sta nel fatto che mentre oggi la rottura del legame, in
quanto patologico, causa sofferenza, in una situazione in cui i legami sono liberamente e
consapevolmente scelti e costruiti, la loro rottura non sarà neppure qualificabile come tale, ma come

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fisiologica fine di un ciclo di conoscenza e affetto, perfettamente sostituibile in ogni istante, perché
non richiederà l’instaurarsi di un complesso sistema di rituali fondati su meccanismi primitivi
inconsci, anziché su scelte consapevoli.

2 . 2 . La cura psicologica della sofferenza psicologica

La necessità, da parte della componente maggioritaria della psicologia, di superare il proprio


complesso di inferiorità nei confronti della scienza medica, ha quindi condotto la psicologia a
estromettere dal suo campo di studi e di interesse tutti i fenomeni che non fossero riconducibili a
precisi collegamenti deterministici e oggettivamente misurabili; questa delimitazione del campo di
indagine non poteva che estromettere, in primo luogo, quei processi psichici e quelle esperienze che
per loro natura sfuggono alla possibilità di classificazione in quanto fenomeni che nascono, si
manifestano e producono effetti solo ed esclusivamente nel mondo inesplorabile della coscienza
individuale e della sfera affettiva.
Ancora oggi la terapia psicologica, per quanto sempre più centrata sul cliente, incontra molte
difficoltà teoriche e metodologiche nell’ occuparsi della cura della sofferenza del paziente come
degna di autonoma considerazione. Si preferisce cioè individuare con la massima precisione
possibile gli eventi che hanno condotto al disturbo lamentato dal cliente per agire sulla loro
rimozione o accettazione, senza però contemporaneamente aiutare il cliente a dare un senso a questa
inevitabilità della sua sofferenza. Quest’ultima continua infatti ad essere considerata come un
accessorio ingombrante del disturbo psichico, destinata a scomparire per incanto nel momento in
cui la terapia avrà fatto emergere ed elaborato i conflitti interiori, o, se non si è in grado di aspettare,
tramite la somministrazione di farmaci appositi.
Manca cioè la consapevolezza del fatto che la sofferenza psicologica è un fenomeno molto, molto
più complesso e profondo di come sia abitualmente concepita, cioè come epifenomeno del disturbo.
La sofferenza psicologica è, invece, una delle poche caratteristiche che distinguono l’uomo dagli
altri animali, insieme al linguaggio, alle capacità cognitive di ordine superiore e alla coscienza.
Essa, come del resto il suo opposto, cioè il piacere psicologico, è parte integrante della nostra vita,
sulla quale esercita un’influenza che si ripercuote sulla salute del corpo, oltre che della mente.
Questo è il motivo per cui essa non è oggetto di interesse nella pratica clinica psicologica: a
differenza delle cause del trauma o del conflitto psichico, la sofferenza non è un evento, un
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fenomeno, una situazione circoscritta o circoscrivibile, isolabile dal contesto della nostra coscienza.
Essa, proprio come la nostra coscienza, è un fenomeno intrinsecamente e inestricabilmente
connesso con l’esistenza di ognuno di noi e ci accompagna, in forme diverse, per tutta la vita,
esattamente come i nostri processi mentali, lungo un continuum variabile per intensità e
consapevolezza. La cura della sofferenza psicologica è quindi una attività ben più articolata e
complessa di quella del singolo disturbo psichico, perché coinvolge la visione stessa che della
propria vita e della relazione con l’ambiente ognuno di noi si è costruito. Ma, specialmente, in
quest’ottica, la sofferenza psicologica cessa di essere tale, cioè dotata di una forte connotazione di
negatività e spiacevolezza, per diventare quel sentimento di fondo della nostra vita che ci segnala,
senza che ciò comporti vera e propria sofferenza, la necessità di un cambiamento nella nostra
visione della vita e nella sua conduzione pratica.
Alla luce delle evidenze scientifiche in proposito, la sofferenza psicologica è quindi essenziale per
l’evoluzione e lo sviluppo dell’uomo, non perché sia un valore di per sé, ma perché essa costituisce
forse l’ultimo ostacolo, e al tempo stesso il più importante stimolo, ad una evoluzione della vita in
cui sia possibile perseguire e realizzare gli scopi per cui la vita esiste, e cioè, al livello attuale di
evoluzione, la cura e il piacere del corpo e dello spirito attraverso l’arte, la scienza, la filosofia, la
conoscenza di sé, del prossimo e dell’ambiente che ci circonda.
Nel riconoscere e giustificare l’importanza della sofferenza umana intesa come stimolo allo
sviluppo e al benessere collettivo, non solo individuale, May ricorda come Jung ha affermato per
primo, in ambito psicologico, che ogni creatività nell’ambito dello spirito, così come ogni progresso
psichico dell’uomo, nasce da uno stato di sofferenza mentale (May, 1991, p. 99).
Non è azzardato affermare che la personalità individuale si forma in relazione al modo in cui
ognuno di noi elabora la propria sofferenza psicologica. “ L’ Io umano è recalcitrante e testardo,
scaccia quanto lo disturba e teme la profonda insicurezza che lo invade quando il suo stile di vita
viene scosso. In realtà, i nevrotici preferiscono sopportare l’infelicità della loro situazione attuale
piuttosto che rischiare l’incertezza che deriverebbe loro da un cambiamento. Per quanto possa
essere chiaro che la nevrosi si fonda su una pura e semplice falsità, il paziente non vi rinuncerà fino
a che la sofferenza non diventi insopportabile. [...]. Per quanto si dica e si faccia, un essere umano
non modificherà mai il proprio modello di personalità fino a che non ne sia costretto dalla
sofferenza. “ (May, 1991, p.98).
La vita umana nasce con la sofferenza psicologica legata al trauma della nascita (trauma
prevalentemente psicologico, eccezionalmente ricollegabile anche a dolore fisico, ma quasi
esclusivamente causato dall’estremo disagio di doversi adattare troppo in fretta a un nuovo

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ambiente), e ci accompagna guidando le nostre azioni e costruendo i nostri schemi e modelli
mentali e di comportamento. Ogni atteggiamento sbagliato porta con sé la sua sofferenza
psicologica, ma purtroppo la maggior parte di noi non la utilizza in maniera costruttiva.
A differenza del dolore fisico, il quale, quando è presente, di solito permette la localizzazione
piuttosto precisa della zona del corpo affetta dalla patologia o dalla lesione, la sofferenza
psicologica è un fenomeno globale che investe tutte le componenti psicofisiche: ci rende debilitati,
deboli, prostrati, incapaci di affrontare le minime difficoltà, e così via. Mentre il dolore fisico ci
permette di solito di essere localizzato e quindi trattato, la sofferenza psicologica presenta la
caratteristica opposta di nascondersi, di mimetizzarsi, di sfuggire all’analisi della nostra coscienza
individuale. Se essa infatti nasce da un conflitto irrisolto, è chiaro che la sofferenza sarà allora il
risultato di una strategia inconscia di difesa dal dolore che porterà la nostra psiche a rimuovere la
fonte della sofferenza o a trasferirla altrove, attribuendole un’altra forma che la rende spesso
irriconoscibile. Così, la sofferenza che segue a un taglio netto e inaspettato in un rapporto di
amicizia o sentimentale non è altrettanto riparabile come il taglio netto che ognuno di noi si è
procurato almeno una volta nella vita maneggiando maldestramente un oggetto affilato.
Neppure rispetto ad essa sono attivi i processi omeostatici di autoriparazione tramite la
coagulazione e la cicatrizzazione fisiologiche. Si tende quindi, rispetto ad essa, a comportarci come
siamo abituati a fare con ciò che non riusciamo a comprendere: lo mettiamo da parte e cerchiamo
di ignorarlo, oppure lo eleviamo al rango di manifestazione soprannaturale. Ma poiché l’azione
della sofferenza psichica prosegue nel profondo dei nostri processi psichici, fino a che non
dedichiamo ad essa l’attenzione che merita, alcuni aspetti di essa riemergono, tramite il ricordo
(spesso intrusivo), oppure tramite i disturbi cosiddetti psicosomatici.
In ogni caso, la sofferenza psichica determina sempre una qualche modificazione della nostra
personalità, non fosse altro per il fatto che essa ci obbliga a modificare il nostro atteggiamento e i
nostri comportamenti per evitare che essa si ripresenti. Questa strategia viene attuata per lo più a
livello inconscio, perché il problema che ci affligge e ci causa sofferenza, e specialmente la sua
soluzione, sfugge alla nostra comprensione razionale, in quanto legato a ricordi, emozioni e
modelli mentali che fanno spesso parte del nostro più lontano passato. Purtroppo, finché tale
conflitto resta parzialmente nascosto alla nostra coscienza, sarà impossibile intervenire
efficacemente su di esso, perché senza la piena comprensione del problema non è possibile produrre
un reale cambiamento dei nostri modelli operativi interni (Adler, 1912; Liotti, 2007). La sofferenza,
quindi, sarà libera di lavorare sui nostri processi psichici più profondi, e noi continueremo a cercare

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giustificazioni ad essa illudendoci e ingannandoci sulle sue origini e sulle sue cause, rifiutando cioè
di aggiungere il dolore della consapevolezza del problema alla sofferenza che esso già comporta.
A differenza del dolore fisico, che nella maggior parte dei casi scompare da solo, la sofferenza
psicologica richiede sempre un intervento e un aiuto esterno, il quale ha lo scopo di costringerci a
osservare il problema da un punto di vista che noi ci rifiutiamo inconsciamente di prendere persino
in considerazione. Ma questo aiuto non può venire dall’azione biochimica del farmaco analgesico,
dell’ansiolitico o dell’antidepressivo, e neppure dalla semplice riemersione alla coscienza
dell’episodio o della causa che ha prodotto la sofferenza. Essa richiede la capacità di dare un senso
alla sofferenza psicologica, la quale non si limita alla banale funzione di campanello d’allarme
abitualmente attribuita al dolore fisico. L’alleviamento della sofferenza psicologica richiede la
comprensione profonda e l’accettazione incondizionata del suo significato, e quest’ultimo si lega
indissolubilmente al significato stesso della vita per quella specifica persona. Solo la comprensione
del problema opera di per sé una certa trasformazione della personalità, presupposto indispensabile
per l’elaborazione e la gestione della sofferenza psicologica. Si tratta dell’assunto fondamentale
della terapia adleriana, secondo cui, se il paziente comprende veramente, agirà correttamente,
liberandosi di quella quota di sofferenza che è inutile (Adler, 1912).

2 . 3 . La dimensione diacronica della sofferenza psicologica.

Christofer Buney ha descritto in questo modo il suo interrogatorio in una prigione tedesca: “Il
maggiore si girò di scatto e attraversò a grandi passi la stanza, e mi colpì in viso con la mano
aperta. Ora sapevo cosa stava per accadere, ma il primo impatto mi aveva colto di sorpresa. Dopo
uno schiaffo cui non si può rispondere si prova un senso di vergogna che non ha in sé nulla della
paura, ma è più demoralizzante di qualsiasi dolore.”5
Si osservi in questa breve descrizione come il dolore psichico entri in gioco in maniera indipendente
da quello fisico, il quale ultimo passa addirittura in secondo piano. Si noti inoltre come il
protagonista descriva la sua esperienza dolorosa come la somma di una serie di emozioni, e non
come sensazione fisica: egli parla di sorpresa, infatti, e non di dolore fisico per essere stato colpito.
E si noti come la sua prima considerazione è legata alla previsione di quello che sarebbe accaduto,
cioè l’ansia, un tipo di paura tipicamente umano e che crea una sofferenza puramente mentale. Di
seguito, egli fa riferimento alla vergogna, e sottolinea come essa non abbia nulla a che fare con la
paura, configurandosi, semmai, come emozione negativa legata a frustrazione e impotenza.

5 Citato in Wall, (1999), p.17.


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Questo senso di vergogna è “più demoralizzante di qualsiasi dolore”. Questa considerazione ci
riporta alla definizione di dolore psicologico come una entità complessa, non isolabile nella sua
componente nocicettiva, e sempre modulabile in base all’esperienza personale, rapportata alla
organizzazione mentale e al modo di gestire la propria sfera emozionale.
Nel caso specifico il protagonista dell’episodio viveva una sofferenza che derivava dal fatto di
essere disprezzato e annullato nella sua dignità di individuo e di persona, ma la vergogna che
provava era l’elaborazione successiva alla presa d’atto consapevole del fatto di vivere
quell’esperienza, per cui a tale valutazione è seguita poi la sofferenza psicologica. Quest’ultima,
quindi, si manifesta soltanto a seguito di un raffronto tra la considerazione che pensiamo di
meritarci dagli altri, e la situazione reale che ci troviamo a vivere. Essa richiede sempre, quindi, una
valutazione che coinvolge la nostra soggettiva visione del nostro sé, elaborata a partire dal momento
stesso in cui siamo venuti alla luce, via via trasformata dalle esperienze vissute e arricchita dalla
previsione delle conseguenze future. Invece, il dolore fisico, di per sé, cioè isolato dalla sua
componente psicologica, beneficia di una sua esistenza autonoma ed esiste solo nel momento
presente, cioè nel momento in cui il soggetto lo percepisce, momento che coincide con quello in cui
il dolore fisico produce alterazioni misurabili sul piano organico.
In questo episodio, citato da Wall come esempio di complessità del fenomeno del dolore, ci
troviamo di fronte a una condizione di sofferenza nella quale dolore fisico e psicologico sono
strettamente connessi e amalgamati. La differenza tra essi è che la sofferenza psicologica è destinata
ad essere conservata nella memoria, e a riattivarsi come in una flashbulb memory, potendo sia
essere richiamata consapevolmente, sia a causa di un innesco o stimolo attivante (Schacter, 1996).
La dimensione temporale in cui si inserisce la sofferenza psicologica, quindi, implica un’
elaborazione dell’evento scatenante come pericolo e minaccia per la sopravvivenza del sé nel
passato, nel presente e nel futuro. Per questo motivo essa non può essere considerata come
sinonimo di disturbo d’ansia o depressivo, e in genere non può essere ridotta solo a una condizione
psichica legata al disturbo mentale. Infatti, per quanto ogni disturbo psichico abbia una causa nel
passato dell’individuo, esso si caratterizza per il fatto che manca, in chi ne soffre, la piena
consapevolezza del ruolo dell’evento scatenante nella genesi e nello sviluppo del disturbo stesso,
per cui viene anche a mancare il collegamento tra passato, presente e futuro che invece caratterizza
la sofferenza psicologica.
Tutti i disturbi psichici portano con sé una certa dose di sofferenza psicologica, altrimenti non
sarebbero neppure definiti tali. Quella cui ci si riferisce nella presente dissertazione, però, come non
è legata a malattie organiche, non è neppure una sofferenza che si accompagna al disagio causato da

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una condizione di ansia o depressione, o da fobie o attacchi di panico, e in genere da tutte le
alterazioni patologiche dello stato dell’umore o della personalità. In tutti questi casi, infatti, quella
che può essere definita come sofferenza psicologica è in realtà una condizione di tensione legata al
rapporto tra sé e l’ambiente esterno o interno, e che si manifesta nel presente, ma specialmente nel
futuro. In tutte queste situazioni di disagio psichico, infatti, la sofferenza non esiste se non mettendo
in relazione i propri ricordi, le proprie esperienze e i propri schemi mentali con le aspettative o le
prospettive future: il vuoto e l’inutilità dell’esistenza nella depressione, la paura di un attacco di
panico o di un evento minaccioso, l’incapacità di affrontare situazioni che ci si prospettano come
probabili o certe come nel disturbo ossessivo e compulsivo, il timore di affrontare ogni giorno il
proprio rapporto col cibo, nei casi di disturbi del comportamento alimentare.
Quando invece analizziamo la sofferenza psicologica, ci accorgiamo che essa, come il dolore fisico,
esiste solo nel presente (e cioè quando si verifica l’evento conflittuale o quando esso viene
rievocato) nel collegamento con un episodio specifico, circoscritto, che si manifesta
improvvisamente e inaspettatamente, e poi, da quel momento, tende ad essere rievocato e a
riaffacciarsi continuamente a partire da quella precisa circostanza del passato. La sua qualità è
qualcosa di ben diverso da una semplice somma di ricordi o emozioni: quando si percepisce un
dolore a livello psichico, esso risulta sempre associato alla sorpresa, e causa l’emozione della
tristezza, la quale a sua volta può unirsi a rabbia, a paura, a disprezzo, e a tutte le altre emozioni
sociali. La sofferenza psicologica, però, se può dar luogo, in caso di cronicizzazione, a forme di
ansia e di depressione, resta di per sé un fenomeno legato all’elaborazione di un evento passato e
alle sue ripercussioni sul presente e sul futuro, attraversando cioè tutto l’arco di vita della persona.

2 . 4 . La sofferenza psicologica come consapevolezza di un conflitto interiore.

In un’ottica più specificamente psicodinamica, il dolore è sempre manifestazione di un conflitto.


Esso non si manifesta semplicemente per effetto dei processi degenerativi legati al semplice
trascorrere del tempo, come la comparsa delle rughe o la perdita dei capelli. Il dolore psicologico è
sempre generato da uno stimolo, nuovo, inaspettato e non desiderato nei confronti del quale siamo
chiamati a rispondere in termini adattivi. Se il problema è fisico, meccanico o biochimico, il
conflitto si configura come un’ anomalia di funzionamento dell’organismo, e il dolore è appunto il
campanello d’allarme che ci avvisa del fatto che la disarmonia è ancora presente. In questa
situazione di dolore fisico, però, il processo di riparazione è normalmente legato alle cure mediche,

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chirurgiche o farmacologiche, essendo di scarsa utilità qualsiasi modificazione del nostro stile di
vita o atteggiamento mentale, una volta che il danno si è già prodotto.
Nel caso di dolore psicologico, invece, il termine conflitto è certamente più appropriato perché ben
rappresenta la contrapposizione tra due istanze cognitive contrapposte: da un lato la consapevolezza
di una perdita o esclusione traumatica da un legame affettivo o relazionale che ci assicurava
protezione, rispetto, affetto, sicurezza; dall’altro la consapevolezza del fatto che tale situazione è la
fonte principale del disagio, del malessere o del dolore che percepiamo. Fino a qui, la descrizione
che si è proposta potrebbe riferirsi anche alla serie di processi che si mettono in atto a seguito di una
forte emozione. In realtà, il dolore psicologico non è un dolore semplicemente emozionale. Si
ricordi che l’emozione, tra le sue caratteristiche peculiari, presenta quella per cui necessita di uno
stimolo preciso in grado di scatenarla, e che è di breve durata (Ekman, 1999). Nel dolore
psicologico, la sensazione che proviamo è complessa, coinvolgente e non è certo di breve durata.
Inoltre, può essere riattivata nella sua pienezza di intensità dalla semplice rievocazione.
Ma per configurare la fattispecie del dolore psicologico manca ancora un elemento: il conflitto tra
due situazioni di cui abbiamo consapevolezza coinvolge talmente in profondità la nostra storia
esistenziale, da rendere difficile trovare una soluzione in tempi brevi. Per questo il dolore sta a
rappresentare con la sua scomoda presenza il fatto che non ci siamo attivati a sufficienza per
ricostruire una relazione armonica con noi stessi e l’ambiente circostante.
Qui sta la differenza, da questo punto di vista, col dolore fisico, nel quale l’armonia che deve essere
ripristinata riguarda meccanismi interni e inconsci di tipo fisiologico e non, come nel dolore
psicologico, meccanismi cognitivi che richiedono la nostra consapevolezza e la volontà di agire per
modificare la situazione. Quindi non è esatto affermare che il dolore psicologico coincide con una
separazione o esclusione sociale, perché queste situazioni possono essere persino ricercate dalla
persona stessa, in determinate circostanze, oppure trovare una immediata soluzione, oppure ancora
non costituire una particolare condizione di sofferenza. Perché si abbia anche quest’ultima, è
necessario che l’evento, che ha scatenato una complessa reazione emozionale, sia stato elaborato
cognitivamente in termini di ripercussioni sulla percezione di fiducia e sicurezza nella vita della
persona, e poi dare luogo necessariamente a un conflitto di non immediata risoluzione, richiedendo
tale situazione una revisione profonda degli schemi di organizzazione mentale e di stile di vita della
persona.

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2 . 5 . Stress, fatica e sofferenza non sono sinonimi.

Si è osservato, nel capitolo precedente, come la medicina tenda a ricondurre il concetto di


sofferenza psicologica all’insieme dei disturbi che seguono ad una sollecitazione ad opera di agenti
stressanti. In effetti, la caratteristica di cronicità del dolore psicologico lo rende facilmente
assimilabile, in termini semantici, alla condizione percepita a seguito di distress perdurante
(Trabucchi, 2009). Si è già osservato come spesso, nel linguaggio clinico come in quello popolare,
quella che in questa sede si intende come sofferenza psicologica sia più facilmente interpretata e
descritta in termini più riduttivi, e cioè come una condizione di stress. Si sono quindi messe in
evidenza le differenze di tipo eziologico tra cause di stress e cause di dolore (lo stress è una forma
di sollecitazione impostaci e che ci costringe a una reazione dispendiosa, percepita come
spiacevole, mentre il dolore psicologico nasce da un conflitto tra la nostra ricerca di sicurezza
all’interno di una relazione affettiva o relazionale, e la separazione o l’esclusione che ci viene
imposta).
Ora ci si propone di analizzare brevemente una condizione molto particolare, e cioè quella della
sofferenza che nasce a sua volta da una condizione di stress fisico. Si pensi a quello che avviene
all’interno dell’organismo di un atleta che corre una gara di resistenza della durata di parecchie ore:
dopo alcune ore di corsa ininterrotta, l’apparato muscolo scheletrico manda segnali sempre più
insistenti al sistema nervoso, segnalando la propria condizione di stress. Per esperienza diretta di
chiunque abbia provato a vivere questa situazione, quello che viene percepito non è mai dolore nel
senso usuale del termine (anche se si percepiscono perfettamente i muscoli sempre più contratti e le
cosiddette “ossa rotte”). Quello che si percepisce è piuttosto un senso di fatica, che si fa via via
sempre più insopportabile. Anche l’affaticamento è, come si vedrà nel capitolo successivo, un
sentimento di fondo simile al dolore psicologico, ma è a sua volta il presupposto del vero dolore
psicologico che si prova in queste circostanze. Via via che aumentano le ore di corsa e quindi la
fatica, i segnali che richiedono di interrompere lo sforzo si fanno sempre più pressanti, e il desiderio
di fermarsi, anche solo per pochi secondi, è talmente struggente da essere quasi doloroso. Il dolore
psicologico, che chiunque abbia provato a vivere in una prova di alta resistenza fisica dichiara di
aver provato, nasce appunto da un conflitto cognitivo, che richiede cioè la nostra partecipazione
consapevole e la nostra decisione di ignorare determinati segnali provenienti dal corpo e di imporre
quindi ad esso di continuare lo sforzo. In qualche modo, cioè, è la persona stessa che si infligge una
sofferenza, perché essa è un processo emergente, inevitabile ma sopportabile, che si accompagna al

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perseguimento di un obiettivo. Il conseguimento del quale, secondo la persona che lo vive, è
considerato di tale importanza da porre in secondo piano la sofferenza che ad esso si accompagna.
Si entra quindi in un tale stato di concentrazione che gli stimoli corporei cessano di disturbare.
Trova qui applicazione la strategia terapeutica della “distrazione” di cui si è parlato a proposito
della cura del dolore (si veda in proposito il paragrafo 1 . 9 .). In questa situazione il sistema del
dolore che si è descritto adotta una strategia diversa, e cerca di imporre l’interruzione dello sforzo,
che percepisce come dannoso per l’organismo, chiamando a raccolta risorse cognitive che sfruttano
i ricordi e le emozioni negative, e cioè attivando, in particolare, i circuiti della sfera emozionale, in
primo luogo amigdala, ippocampo e altre aree del sistema limbico. Senza poterlo impedire, la
mente riesce a portare insistentemente alla coscienza ricordi e stati d’animo negativi, di debolezza,
di difficoltà, perché come è noto, i ricordi tendono a riaffiorare alla mente quanto più sono legati a
uno stato d’animo analogo a quello che si sta vivendo nel presente (Schacter, 1996).
Occorre quindi una forte motivazione per vincere questo complesso di informazioni e di stimoli che
ci assalgono: da un lato lo sforzo e la fatica fisica, dall’altro il pensiero che tale sforzo è nocivo,
pericoloso e in fondo inutile, creano un mix che chiunque l’abbia vissuto paragona a un vero e
proprio dolore che non ha nulla di fisico, anche se la quasi insopportabile fatica fisica è sempre
presente di sottofondo. Fare violenza a sé stessi, per ore, quando tutto congiura per imporci di
smettere, e voler continuare invece a infliggerci questa sofferenza, significa che il dolore, anche in
questo caso, costituisce non solo e non tanto un campanello d’allarme, quanto l’elemento negativo
del conflitto al quale dobbiamo contrapporre un elemento ancora più forte, dato dalla nostra volontà
e motivazione a raggiungere un obiettivo. Questa capacità, che si acquisisce e si sviluppa come ogni
altra, di resistere allo stress, di superare gli ostacoli e di rimanere motivati nel perseguire i propri
obiettivi, si definisce “resilienza” (Trabucchi, 2009). Naturalmente, qualcuno potrebbe essere
tentato di descrivere in termini riduzionistici questo fenomeno, parlando di fatica, sforzo,
motivazioni, ed escludendo la nozione di sofferenza. Ma, e questo è il punto, mentre fatica, sforzo e
motivazioni, sono evidenti e dimostrabili scientificamente (o almeno, nel caso delle motivazioni,
esse possono essere riferite e raccolte secondo il metodo scientifico), la sofferenza rappresenta
quella componente soggettiva che la scienza non è in grado di indagare se non attraverso l’attività
introspettiva di chi la vive. Infatti, chiunque abbia vissuto un’intensa esperienza di sofferenza
psicologica è perfettamente in grado di discriminare tra lo stress legato alla situazione e la
sofferenza, perché il primo è un fattore oggettivo, il secondo è assolutamente soggettivo.

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Anche al di fuori dell’ambito dello sforzo, della fatica e del dolore fisici, si può parlare di
sofferenza in altre situazioni che coinvolgono esclusivamente la sfera puramente intellettuale e
mentale, come, per esempio, lo studio inteso come processo di apprendimento: la sofferenza nasce
anche qui da un conflitto che si rinnova tutte le volte che la volontà di raggiungere l’ obiettivo di
concentrarsi sullo studio si scontra con la necessità di costringersi a ignorare i segnali di distrazione,
di sconforto, di resa che vengono dalla nostra mente e che vorrebbero farci smettere di studiare e di
memorizzare, con fatica (e oltre certi limiti anche con sofferenza), nozioni o dati.
Mentre il nostro apparato muscolo scheletrico, quello respiratorio e circolatorio, mandano precisi
segnali di sofferenza in caso di eccessiva sollecitazione, ciò non avviene sul piano mentale. È noto,
infatti, che se muscoli e strutture articolari possono produrre dolore fisico a seguito di eccessiva
sollecitazione, il nostro cervello, se pur sollecitato intensamente e a lungo, non produce mai dolore
negli stessi termini, perché il sistema nervoso centrale, di per sé, è privo di recettori del dolore
(Bear, Connors, Paradiso, 2007; Sapolsky, 2006). Quando la sollecitazione mentale è
semplicemente legata alle circostanze normali di studio o di lavoro intellettuale, le conseguenze
possono essere stanchezza, perdita di concentrazione o irritabilità, ma mai vero e proprio dolore.
Quest’ultimo, percepito come dolore psicologico, nasce dal conflitto tra una sollecitazione che ha
origine nel sistema nervoso centrale stesso, a sua volta originata dalla constatazione di una
situazione di minaccia per la sopravvivenza mentale psicologica. Quando la sollecitazione del
sistema nervoso si riferisce sempre allo stesso tipo di informazioni, e queste sono di pericolo, allora
la plasticità neuronale tende a rinforzare strutturalmente e funzionalmente proprio i circuiti deputati
ad allertare l’organismo. La situazione di all’erta, però, per sua stessa natura, è tale se trova a breve
una soluzione, altrimenti diventa una condizione patologica di iperattivazione dei sistemi deputati
alla difesa dalle minacce esterne. Non percepiamo dolore fisico perché questo presuppone il
contatto con uno stimolo fisico esterno. Quando questo, pur essendo procurato da un’altra persona
(separazione, rifiuto) comporta solo una elaborazione mentale, è chiaro che i circuiti di elaborazione
saranno sovraccarichi se continueremo a sollecitarli. Non potendo produrre un dolore fisico acuto,
per mancanza di attivazione delle vie tradizionali del dolore, a partire dai nocicettori, una
sensazione simile sarà prodotta a livello mentale.

2 . 6 . Cause di sofferenza psicologica: la perdita di autostima

Il contesto socio culturale attuale, come osserva acutamente Minois (2003, p. 288 e segg.), sembra
costituire il terreno di coltura ideale per la diffusione e lo sviluppo della sofferenza psicologica:
esso produce persone tendenti alla depressione e all’infelicità e, al contempo, le esclude. Questa
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contraddizione rappresenta sia la radice del disagio sociale che la spiegazione della trasformazione
della sofferenza psicologica da individuale a sociale. Infatti, siamo passati da una società di tipo
autoritario, ispirata all’idealismo hegeliano, in cui gli individui dovevano conformarsi a un modello
e mostrarsi all’altezza dei valori imposti dall’esterno dalla religione e dalla morale, a una società
dell’autonomia, in cui l’individuo deve elaborare il proprio “progetto personale” (è questo, in
fondo, il compito che si assume lo psicoterapeuta moderno, colui che dovrebbe occuparsi di aiutare
a rendere sopportabile la sofferenza psicologica: aiutare la persona a riconoscere i propri valori, a
fissare da solo i propri ideali e a imporseli dall’interno). Nel primo caso, coloro che non riuscivano
a seguire il modello imposto venivano considerati oppositori del sistema. Nel secondo caso, coloro
che falliscono nel raggiungere il modello prefissato perdono autostima e diventano soggetti
angosciati.
Il riconoscimento di una individualità della salute e del benessere psicologico ha portato alcuni
autori a ritenere che l’autostima possa avere un ruolo fondamentale ai fini del loro mantenimento
(Baumeister, Leary, 1995; Brown, Taylor, 1988).
Coerentemente con quanto fin qui affermato, la salute psicologica dipenderebbe da una condizione
di equilibrio tra le esigenze individuali e quelle dell’ambiente sociale in cui si è inseriti (Leary,
1995; Maslow, 1973; Rogers, 1994). L’autostima diventa quindi un elemento fondamentale per
garantire il miglior adattamento nei diversi ruoli che assumiamo nel corso della nostra esistenza di
individui sociali, come figli, fratelli, genitori, amici o nel modo in cui ricopriamo i nostri ruoli in
ambito lavorativo e in genere nelle relazioni sociali. L’autostima è evidentemente alimentata dal
successo sociale, e depressa dai fallimenti, dai rifiuti, dalle separazioni. Il dolore sociale, da questo
punto di vista, fungerebbe da substrato psicologico di riferimento, per ricordarci, attraverso la
sofferenza percepita a livello psicologico, la necessità di modificare la situazione per attenuare il
dolore stesso.
A differenza del sentimento di dispiacere, di abbattimento, di delusione, o di emozioni come rabbia
e tristezza, il dolore psicologico, che si caratterizza per essere più intenso e comprendere gli altri in
sé, si manifesta solo quando venga percepita emozionalmente e riconosciuta cognitivamente una
situazione che viene valutata non come disagio transitorio, ma come vera e propria minaccia alla
sopravvivenza del sé, cioè quella sociale.
La nostra esigenza di appartenenza sociale, infatti, va da quella più basica di sentirsi parte di un
gruppo che condivide un interesse o una passione, per quanto stupida e banale (per esempio, tifare
per la stessa squadra di calcio), a quella che pretende il riconoscimento delle nostre capacità
all’interno del contesto professionale di appartenenza (Fiske, Taylor, 2009).

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Solo le esperienze che ognuno di noi ricollega alla minaccia della perdita di un legame ritenuto
essenziale per la sopravvivenza psicologica sono vissute come vero e proprio dolore. Per esempio,
tra coloro che vanno in pensione al termine della loro attività lavorativa, ci sono coloro che iniziano
una seconda vita, che recuperano interessi, affetti e occupazioni in grado di soddisfarli pienamente,
ma anche quelli che, pur senza averne precisa consapevolezza, vivono questa fase della loro vita
sentendosi esclusi ed emarginati dalla comunità di appartenenza, e subiscono quindi tutte le relative
emozioni negative senza riuscire ad elaborare un piano d’azione per cambiare la loro situazione di
disagio. La sfera emozionale è quella più duramente messa alla prova, almeno inizialmente: nel
caso specifico, osserviamo la sorpresa nel riconoscere un cambiamento di abitudini, l’assenza di
contatti un tempo abituali coi colleghi, la novità di essere liberi di gestire il proprio tempo, e così
via, sorpresa che si attiva continuamente, tutte le volte in cui l’attenzione cade sul confronto tra lo
stile di vita attuale e quello precedente. C’è la percezione di un possibile disprezzo manifestato
implicitamente da colleghi, datori di lavoro o dalla società in generale, che non ci considera più
individui degni di produrre, e c’è la tristezza, la rabbia, il senso di frustrazione, di impotenza cui si
unisce la paura per la propria capacità di far fronte alle difficoltà della vita, unita alla
consapevolezza di diventare giorno per giorno più deboli e vulnerabili.
Quando la somma di tutte queste emozioni non si trasforma in forme di depressione (la quale, sotto
questo punto di vista, non è altro che una estrema strategia di difesa contro un ambiente vissuto
come troppo difficile da affrontare), essa viene a costituire il substrato psicologico della nostra vita,
ricordandoci, con la sofferenza che l’accompagna, che la nostra condizione non è in armonia con le
esigenze di adattamento che la vita richiede.
L’autostima appare quindi un fattore da coltivare e tenere sottocontrollo per impedire la comparsa di
questi meccanismi dolorosi(Williams, Cheung, Choi, 2000). Essa dipende dalla capacità di
integrarci nell’ambiente sociale, restituendoci risorse energetiche di tipo cognitivo tali da
consentirci di affrontare con migliori probabilità di successo le sfide che la vita ci impone. Per
questo motivo alcuni autori hanno proposto la teoria sociometrica attraverso la quale spiegare
perché il calo dell’autostima sia così importante per la salute psicologica (Leary, 1995) e
paragonando quindi il sistema di monitoraggio del grado di autostima a quello di controllo del
livello di carburante sul cruscotto delle autovetture. In realtà, anche l’autostima, secondo l’ipotesi
che si sta avanzando (secondo la quale il dolore psicologico nasce dall’insieme delle emozioni e dei
processi mentali che elaborano l’informazione relativa all’esclusione sociale e alle sue
conseguenze) costituisce soltanto una delle cause che permettono l’espressione del dolore

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psicologico e il suo mantenimento, confermando però l’eziologia multicomponenziale di questo
tipo di dolore.
Non deve però passare inosservato un altro dato che emerge in proposito da recenti studi
sull’autostima e realizzati con l’aiuto della fMRI. In particolare, come già esposto nel capitolo
precedente, uno studio avente per oggetto l’individuazione delle aree che si attiverebbero in
situazioni di “esclusione sociale” (nello specifico, visionando un gioco di simulazione al computer
in cui i soggetti erano stati esclusi dagli sperimentatori con la giustificazione che esso era ritenuto
troppo difficile per loro) mostrò come l’attività dell’area dorsale del cingolato anteriore era
indistinguibile sia nel caso di esclusione sociale implicita, sia esplicita, e cioè sia quando le persone
si ritrovavano inaspettatamente ad essere escluse dal gioco, sia quando vi assistevano avendo piena
consapevolezza di essere state escluse (Eisenberger, 2003). La conclusione degli autori è che la
capacità che l’esclusione sociale ha di causare dolore sociale e riduzione dell’autostima è talmente
potente che persino la conoscenza consapevole del fatto di non essere stato effettivamente escluso
dalla partecipazione sociale, ma solo di partecipare a una simulazione, non impedisce che il nostro
sistema nervoso si attivi come in una situazione di pericolo.
È già stato più volte osservato, però, che il dolore cui ci si riferisce nel presente lavoro non è il
semplice disagio, o lo stato di tensione generale legato a stressors di qualunque tipo, ma è un tipo
particolare di agente stressante, cioè quello che si manifesta a seguito dell’apprendimento di una
situazione che ci tocca da vicino, e che causa un’ elaborazione cognitiva a seguito dell’emersione di
emozioni negative. Per cui ci si chiede se, specialmente a livello nervoso, la sofferenza psicologica
possa avere effetti non tanto e non solo sul piano organico e strettamente patologico, materia di
competenza medica, quanto su quello del nostro equilibrio e della salute psicologica.
È possibile, in altre parole, valutare anche solo grossolanamente l’esistenza di un impatto del dolore
psicologico sulla conduzione della nostra vita quotidiana, accertandone gli effetti negativi?
È possibile che tali effetti siano quelli che, nei depressi o nei disturbi dell’umore o della personalità,
siano in tutto o in parte all’origine del disturbo stesso. Al di là, cioè, del ruolo spesso preponderante
di componenti genetiche o carenze organiche o funzionali, sulle quali la medicina ha ancora molto
da indagare, è ipotizzabile anche il ruolo di eventi spiacevoli, o vissuti come tali, che non hanno
potuto, per varie cause, essere elaborati e metabolizzati, creando una situazione di sovraccarico del
sistema nervoso. Se questa condizione di ipersollecitazione si ripercuote su una struttura già di per
sé debole e deficitaria, potrà causare una condizione di incapacità ad adattarsi e ad affrontare
situazioni spiacevoli. Il fatto che l’efficienza del sistema nervoso di tali persone sia stata rinforzata
solo a vantaggio dei circuiti che si occupano di monitorare le situazioni spiacevoli come quella

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vissuta, e di mantenere all’erta il sistema cercando inutilmente una via d’uscita al dolore, può essere
verosimilmente una delle cause di quella debolezza psicologica che si riscontra in tali pazienti,
incapaci di reggere l’impatto delle circostanze spiacevoli e stressanti della vita quotidiana, e che si
rifugiano quindi o in costruzioni mentali fittizie, ma “confortevoli” e protettive, o chiudendosi in sé
stessi e rifiutando contatti col mondo, che vivono come spiacevole (Antonovsky, 1987; Richardson,
2004).
Il dolore che tutti noi sperimentiamo, legato, come si è esposto nelle pagine precedenti, a un
complesso insieme di emozioni negative, è causa di disturbi a livello sistemico e comportamentale
che fino ad oggi sono stati completamente ignorati o sottovalutati. La nostra ancestrale tendenza a
considerare come pericoloso, negativo e dannoso solo ciò che è visibile, osservabile e misurabile, ci
ha condotti a non considerare il fatto che l’uomo non è solo un organismo i cui organi e tessuti
possono ammalarsi, ma è anche, forse soprattutto, una mente, che non si vede perché debba essere
immune da ogni evento negativo, dal momento che è nata e si è sviluppata proprio per permettere la
nostra sopravvivenza attraverso il riconoscimento, l’elaborazione, la classificazione degli eventi
negativi stessi e la predisposizione di strategie per proteggersi da essi.
Come già accennato, nel fondamentale passaggio da una vita umana legata alla pura ricerca della
sopravvivenza a quella relativamente recente in cui l’uomo ricerca consapevolmente e attivamente
anche la felicità, la difesa e la realizzazione del sé, la preoccupazione per le conseguenze negative a
carico del nostro ruolo sociale o della nostra sfera affettiva, lavorativa, relazionale in genere, ha
assunto un’importanza sempre maggiore (Diamond, 2007).
Come ricorda Minois, oggi le persone si tolgono la vita non più per sfuggire a una vita fatta di
privazioni materiali, di dolore e di fatica insopportabili, ma per il fatto di essere rifiutati dagli altri,
di non riuscire a trovare un proprio spazio nell’ambiente in cui vivono, nel quale essere riconosciuti,
stimati, ricercati (Minois, 2003).
Al di là delle caratteristiche individuali e soggettive della sofferenza psichica, se volessimo
individuare delle oggettive conseguenze alla sua manifestazione, non potremmo identificarle
prioritariamente in malattie mentali o disturbi depressivi, per i quali altre componenti sono forse più
determinanti, ma piuttosto nella maggior parte dei suicidi o dei comportamenti autolesionistici
attuali (uso smodato di alcool o sostanze stupefacenti, comportamenti di ricerca del rischio, ecc).

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2 . 7 . Il dolore come condizione esistenziale, ovvero, il male di vivere.

Spesso il male di vivere ho incontrato:


era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi; fuori del prodigio


che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

E. Montale

Più vicina alla nozione di dolore psicologico cui si fa riferimento in questa dissertazione è quella
del dolore legato indissolubilmente all’esistenza stessa. Al di là della paura per il dolore fisico, da
sempre l’uomo ha cercato di alleviare o esorcizzare in tutti i modi l’intrinseca spiacevolezza
dell’esistenza. La letteratura, ma in genere ogni forma d’arte, ha da sempre rappresentato la
sofferenza psicologica come la “vera” sofferenza, non ponendosi mai neppure il dubbio che essa
non fosse qualificabile come tale, ma limitandosi, perlopiù, a descriverla nelle sue diverse
manifestazioni. Non è questa la sede, naturalmente, per una disamina della rappresentazione del
dolore nel campo dell’arte, ma si consideri soltanto, a mò di esempio, il fatto che l’Inferno
dantesco, luogo di “infinito dolore”, mostri fondamentalmente la sofferenza psicologica in tutte le
sue forme, più che quella solo spettacolare ma non altrettanto coinvolgente del corpo. Paolo e
Francesca, o il Conte Ugolino, sono esempi universali di infinito dolore che nasce da perdita di
affetti, da separazione, ma, in fondo, tutti gli episodi del canto dell’Inferno si riferiscono a
situazioni di sofferenza “sociale” e solo secondariamente di quella fisica. La sofferenza è quella che
leggiamo nel volto della madre nella pietà di Michelangelo, o nel volto dell’uomo del”L’urlo” di
Munch, o ancora nelle opere di Dostoevskij, di Dickens, dei nostri Leopardi e Montale.
Ma c’è sofferenza psicologica evidente anche in innumerevoli composizioni musicali, a partire dai
canti di dolore legati a situazioni di lutto e di separazione comuni a tutte le civiltà, fino
all’espressione più sofisticata di grandi autori che sono stati capaci di trasferire sul pentagramma la

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loro esperienza di sofferenza psicologica, come Beethoven nell’”arietta” della sua ultima sonata per
pianoforte, oppure Bruckner e Mahler nei loro “Adagi”, o ancora Richard Strauss nella sua
“Metamorphosen”.
La manifestazione artistica della sofferenza, così ricca e variegata, è la dimostrazione di quanto fin
qui sostenuto a proposito della difficoltà di dare una espressione razionale, una etichetta e una
nozione condivisa del dolore psichico, le quali rispettino la logica e i criteri del metodo scientifico.

2 . 8 . La sofferenza individuale nella cultura occidentale

Al di là della rappresentazione della sofferenza in campo artistico e letterario, il riconoscimento che


la condizione umana è fatta di sofferenza e di dolore è un tema antichissimo, praticamente
connaturato alla natura dell’uomo e allo sviluppo del pensiero filosofico. Proprio alla sofferenza
psicologica fa riferimento la cultura greca, che non trascura mai di sottolineare l’intrinseca
condizione di dolore, al limite della sopportazione, che accompagna il breve svolgersi della vita
dell’epoca. L’argomento può essere solo accennato in questa sede, ma vale la pena ricordare, a
titolo di esempio, l’illuminante frammento di uno dei più famosi lirici greci, quel Teognide che
scriveva, nel quinto secolo avanti Cristo, che “per coloro che vivono sulla terra, la cosa migliore è
non essere mai nati, mai del sole ardente avere scorto i raggi, o se nati, poi, morire al più presto, e
giacere, coperti da un gran manto di terra”. È evidente il riferimento all’impotenza dell’uomo di
fronte alle avversità della vita, tanto più difficili da sopportare proprio per il fatto che gli esseri
umani sono dotati di ragione e di sentimenti che li obbligano a vivere con maggiore intensità delle
altre forme di vita la sofferenza dell’esistenza.
La stessa filosofia, sotto un certo punto di vista, nasce per cercare di dare una risposta al mistero
del dolore dell’esistenza attraverso l’adozione di schemi mentali, di atteggiamenti, di modi di
concepire la vita tali da renderla più sopportabile, come nella filosofia scettica, cinica, epicurea o
stoica, o persino nel pensiero filosofico espresso così magistralmente in uno degli ultimi libri della
Bibbia, l’Ecclesiaste, con le seguenti parole: “sapienza che si accresce è crescere in tormento (1,
18), oppure: “il cuore dei sapienti sta in una casa piena di lacrime” (7, 4).
La riflessione sul dolore è persino all’origine di una delle più importanti forme di filosofia (o di
religione, a seconda dei punti di vista) e cioè il buddismo, secondo la quale scopo della vita è
fondamentalmente quello di ridurre ai minimi termini l’influenza del dolore. Più recentemente, la
riflessione sul dolore come condizione umana, vista nel continuo oscillare tra dolore e noia,
angoscia e disperazione, e l'analisi delle possibili vie di liberazione da tale situazione di sofferenza,
concentra la propria attenzione su due autori fondamentali della filosofia contemporanea:
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Schopenhauer e Kierkegaard. L’idea che qui auget dolorem auget et scientiam percorre tutta la
storia del pensiero filosofico in oriente come in Occidente, come ci ricorda Schopenhauer in
Parerga e paralipomena (1981, p. 562): “Quanto più ristretta è la sfera della nostra visuale, della
nostra azione e dei nostri contatti, tanto più felici noi siamo; quanto più ampia, tanto più sovente ci
sentiamo tormentati e angustiati.”
È interessante notare come tale riflessione filosofica sia maturata nella prima metà dell’ottocento, in
un contesto di profonda trasformazione economica e di crisi di valori per certi versi simile
all’attuale, se pur ribaltata: là la sofferenza veniva evidenziata dal naturale conflitto tra le esigenze
e i bisogni individuali e la necessità di annullamento dei medesimi a favore dell’interesse della
società propugnata dal nascente idealismo hegeliano, mentre oggi il bisogno di auto affermazione,
di successo, di incremento del benessere individuale si scontra con la necessità di contemperare le
esigenze della parte più ricca della popolazione del pianeta con quella più povera e con lo
sfruttamento delle risorse ambientali.

Questa quasi completa sovrapposizione tra la dimensione dell’esistenza e quella del dolore resterà
appannaggio della filosofia e del pensiero religioso fino all’inizio del secolo scorso, quando le
concezioni psicoanalitiche mostreranno come la frustrazione e il dolore mentale siano sì
connaturate alla vita, ma possano anche avere un significato che va al di là della mera
sopportazione, mitigata dall’ atteggiamento saggio del filosofo o da quello sottomesso e umile del
credente. L’attenzione della psicoanalisi, così come quella della medicina, è attratta però dalle
conseguenze del dolore più che dal suo significato per l’individuo. È più importante, in altre parole,
ricondurre la sofferenza del paziente a uno schema classificatorio diagnostico già predisposto,
piuttosto che occuparsi della cura della sua sofferenza personale.
Il pensiero filosofico ruota intorno al significato della condizione umana individuando la sofferenza
psichica come conseguenza, di volta in volta, nel pessimismo nichilista, cui Nietzsche oppone la
volontà di potenza del suo “Super uomo”, nella noia e nell’angoscia di vivere, come
nell’esistenzialismo di Sartre e di Camus, nell’ostentato disinteresse di parte del pensiero filosofico
scientifico secondo il quale la sofferenza psicologica è in fondo un semplice effetto collaterale della
necessità biologica dell’uomo di conoscere la realtà che lo circonda.
Solo in questi ultimi anni, in realtà, l’interesse delle scienze psicologiche e delle “scienze della
mente” inizia timidamente ad analizzare la sofferenza mentale non più come semplice epifenomeno
di una malattia fisica o mentale, ma come condizione di salute generale alterata, e tale da condurre a

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notevoli ripercussioni sulla salute del corpo stesso (si veda in proposito la panoramica offerta in
Mauri, Tinti, 2006).
Quello che ci preme sottolineare in proposito è la constatazione che la filosofia affronta da sempre il
tema del dolore più sotto il profilo psicologico che di quello fisico. Lasciando quest’ultimo alle cure
mediche, è invece del “male di vivere” che la filosofia preferisce occuparsi, considerandolo una
condizione tipicamente umana e legata all’elaborazione cognitiva ed emozionale, di cui appunto la
medicina non si occupa.
Come osserva Minois nel suo saggio avente per oggetto proprio il male di vivere (Minois, 2003), la
sofferenza psicologica ha da sempre obbligato l’uomo a fare i conti con il significato della propria
esistenza individuale, non di rado portandolo alla drammatica conclusione che essa non fosse degna
di essere vissuta. Si configura, così, una duplice condizione di sofferenza psicologica, che, a partire
dal dato comune di richiedere, per la sua manifestazione, una coscienza critica in ordine al proprio
rapporto con l’ambiente di vita, può essere ricondotta sia a una forma di sofferenza tutta centrata
sull’individuo che la patisce direttamente, sia a quella che non colpisce direttamente la persona che
soffre, ma che nasce dalla constatazione della sofferenza altrui.
Nel primo caso, il male di vivere è legato a condizioni di vita oggettivamente precarie, dolorose, tali
da rendere ardua ed eccessivamente faticosa la lotta per la sopravvivenza, per cui, in queste
situazioni, l’individuo non è neppure in grado di occuparsi della sofferenza altrui, impegnato com’è
a fare i conti con la propria.
Il secondo caso, invece, è quello cui si adatta la considerazione sopra esposta secondo cui qui auget
dolorem auget et scientiam: la sofferenza non è quella che ci riguarda personalmente, ma quella che
ricaviamo, impotenti a respingerla o ignorarla, dall’osservazione e dalla consapevolezza della
sofferenza altrui. L’esistenza di questo tipo di sofferenza è la più evidente dimostrazione che la
sofferenza umana, più ancora di quella degli altri mammiferi, si manifesta con intensità anche
quando ad esserne colpito è un altro individuo, specialmente se legato da vincoli affettivi.
Le neuroscienze, e in particolare quella parte di esse impegnata nello studio dei “neuroni mirror”
mostrano in maniera scientificamente inequivocabile come la semplice visione del dolore patito da
altri provochi l’attivazione delle stesse aree cerebrali che si attivano quando il dolore è
effettivamente percepito sul proprio corpo. Non solo: l’intensità di questa attivazione è direttamente
proporzionale all’intensità del legame affettivo o relazionale che unisce i due protagonisti del
processo (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006).
Il legame affettivo, relazionale e sociale si configura quindi come la componente essenziale perché
la sofferenza si “trasferisca empaticamente” da un individuo all’altro. Quanto più la coscienza

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individuale sarà evoluta, tanto maggiore sarà la disposizione d’animo positiva verso il prossimo e
tanto maggiore sarà la sofferenza “simpatetica”. Il filosofo, il saggio, ogni individuo che abbia
raggiunto il livello di conoscenza e di consapevolezza che gli consente di concepire il prossimo
come parte di una comunità cui anch’egli appartiene, è naturalmente portato a soffrire anche per la
sofferenza altrui, proprio perché ha abbandonato la visione egocentrica ed egoistica della propria
vita, per abbracciare una visione in cui il ruolo di ognuno, la sua felicità o la sua sofferenza, sono
tutte condizioni legate a quelle di tutti gli altri.

2 . 9 . La sofferenza psicologica come “quale”.

È giunto il momento di prendere in considerazione il punto di vista secondo cui la sofferenza


psicologica possa configurarsi come una delle tante manifestazioni dei qualia, cioè di quelle
qualità delle cose che, nella filosofia della mente, costituiscono gli aspetti qualitativi delle
esperienze coscienti. Ogni esperienza cosciente ha una sensazione qualitativa diversa da un’altra.
Come fin qui ampiamente argomentato, il dolore, sia esso fisico o psichico, si manifesta in tutte le
sue sfumature soltanto nell’esperienza soggettiva della singola esperienza cosciente, e non può
quindi essere oggetto di sperimentazione scientifica, essendo privo delle caratteristiche di
ripetibilità, di oggettività e di misurabilità che il metodo scientifico pretende di rispettare.
John Searle ha recentemente sostenuto che “ogni stato cosciente è caratterizzato da una sensazione
qualitativa”. Pertanto qualsiasi esperienza cosciente comporterebbe una sensazione qualitativa
particolare, a cominciare da quella più intensa e più temuta, cioè l’esperienza del dolore (Searle,
2005).
Il filosofo e psicologo cognitivo Daniel Dennett ha definito i qualia «i modi in cui le cose ci
sembrano» e ne ha tracciato quattro proprietà fondamentali:
1.Ineffabili, perché sono relativi solamente al soggetto che li esperisce, il quale quindi non può dire
agli altri come sta vedendo, gustando, odorando, etc.
2.Intrinseci, perché sono elementi semplici ed atomici, cioè non riducibili a null’altro.
3.Privati, poiché relativi al soggetto che li esperisce e pertanto non paragonabili con quelli esperiti
da altri soggetti.
4.Apprendibili direttamente o immediatamente nella coscienza, ovvero esperienze immediate e non
inferenziali della coscienza (Dennett, 2004, p. 189 e segg).

61
In realtà, il dibattito sull’esistenza e le caratteristiche dei qualia risale alle origini della speculazione
filosofica, per cui in questa sede ci si limiterà a coglierne solo gli aspetti che più efficacemente
possono spiegare il dolore nelle sue diverse componenti.
Per Galilei, Locke e Newton i qualia o, come erano definiti, “le qualità secondarie”, non esistevano
nel mondo reale, ma erano sostanzialmente il prodotto dell’interazione tra l’apparato sensoriale del
soggetto e l’oggetto. I qualia, come i suoni, gli odori o i colori, o le altre sensazioni, compreso il
dolore, erano quindi una costruzione del corpo umano e non godevano dello stesso status ontologico
delle qualità primarie, come il moto, il peso, la grandezza, etc.
Ancora una volta si ritrova conferma del fatto che il pensiero scientifico scopre i suoi limiti nella
capacità di indagare la realtà, quando si trova di fronte a qualità delle cose, come il dolore, le quali
non siano riconducibili in termini di analisi strettamente matematica e quantitativa.
Come per gli antichi atomisti, anche per questi pensatori moderni la distinzione tra un mondo
interiore ed un mondo esteriore, tra soggettivo ed oggettivo, aveva il suo prezzo in termini
gnoseologici. L’unica conoscenza vera era quella che aveva a che fare con le proprietà oggettive dei
corpi, perché erano queste le uniche ad essere reali.
Sia per Cartesio, sia per Leibnitz, questa divisione tra il processo fisico che provoca la sensazione e
la sensazione stessa non può essere superata se non a discapito della stessa sensazione, cioè
eliminando la sua esistenza e riducendola al mero moto delle particelle. Allo stesso tempo non si
può negare che il processo fisico concorra necessariamente a far emergere nell’esperienza cosciente
una determinata sensazione. Cartesio pertanto si trovava nella situazione di non poter negare
l’esistenza né delle sensazioni né tanto meno dei processi fisici che soggiacciono ad esse. Per
questo motivo postula l’esistenza di due realtà ben distinte: res cogitans e res extensa.
Queste due sostanze hanno praticamente qualità opposte: la res cogitans è libera, sensibile,
immateriale, indeterminata, indivisibile, la res extensa è materiale, insensibile, determinata,
divisibile, ed è vincolata alle leggi della fisica. I qualia, in fin dei conti, non erano altro che il
risultato dell’interazione tra queste due realtà così distinte. Se, da un lato, il dolore poteva essere
spiegato fisicamente come processo che coinvolgeva alcune particelle, dall’altro era anche una
sensazione reale provocata dallo stesso processo fisico che agiva sulla res cogitans. Così, per
Cartesio, la descrizione fisica degli eventi mentali (come i qualia) in terza persona, non potrà mai
coincidere con la descrizione soggettiva in prima persona poiché appartenenti a domini
assolutamente diversi.
Il dualismo di Cartesio, definito anche interazionismo, lasciava aperta ancora una questione di
fondamentale importanza: com’è possibile l’interazione tra una sostanza materiale ed una

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immateriale? Com’è possibile che determinate configurazioni di particelle materiali provochino
determinate sensazioni immateriali? E, all’opposto, è possibile che sensazioni immateriali quali il
dolore possano produrre modificazioni a livello della fisiologia, al punto da generare o aggravare un
processo patologico?
Come si può notare, si tratta esattamente dello stesso tema oggetto della presente dissertazione,
nella quale si è cercato di isolare due manifestazioni della realtà aventi caratteristiche simili, per
quanto riguarda gli effetti sulla cognizione umana, ma che appartengono a due piani distinti di
esistenza, l’uno materiale e fisico, l’altro immateriale e mentale.
Il fraintendimento filosofico di base, secondo Wittgenstein, sta nel considerare la sensazione una
specie di oggetto interiore privato.
“Se dico di me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza io so che cosa significa la parola
«dolore», - non debbo dire la stessa cosa anche agli altri? [...]
Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo «coleottero».
Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere che cos’è un coleottero
soltanto guardando il suo coleottero. – Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola
una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. –
Ma supponiamo che la parola «coleottero» avesse tuttavia un uso per questo persone. – Allora non
sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non fa parte in
nessun caso del giuoco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche
essere vuota. [...]. Questo vuol dire: Se si costruisce la grammatica dell’espressione di una
sensazione secondo il modello "oggetto e designazione", allora l’oggetto viene escluso dalla
considerazione, come qualcosa di irrilevante.» (Wittgenstein, 1999).
Il problema che queste riflessioni psicologiche e filosofiche pongono è quello della necessità di
ricondurre qualsiasi esperienza personale alla sfera privata, senza pretendere di poterla esaminare e
misurare oggettivamente.
È da qui, infatti, che il comportamentismo era partito per stravolgere il tema oggetto dell’ analisi
psicologica, e cioè trascurare i processi mentali, emozionali o sensoriali interni, e cercare di
descrivere e studiare solo le loro manifestazioni osservabili, sulla base della petizione di principio
secondo cui tutto ciò che ha a che fare con la mente non può essere osservato e controllato mediante
sperimentazione, per cui deve essere escluso dall’indagine scientifica. La conclusione fu che gli
stati mentali, come le sensazioni, non rientravano nel campo della scienza perché non controllabili
sperimentalmente e non osservabili direttamente: la mente era una black box.

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La psicologia ha fatto passi avanti, rispetto a questa impostazione volutamente riduttiva e
riduzionistica, ma ci sono voluti alcuni decenni perché si riconoscesse la necessità dello studio delle
emozioni. Quanto al dolore, invece, rientrando esso nel campo delle sensazioni, esso è stato ben
classificato nelle sue diverse modalità di espressione e nella sua eziopatologia, mentre quello
psicologico resta ancora oggi trascurato. Del resto bisogna considerare che non esiste nulla che
appartenga alla sfera intima e privata quanto il dolore psicologico. L’emozione, infatti, è il risultato
di un processo evolutivo che richiedeva la sua manifestazione esteriore, e ciò vale, naturalmente,
anche per la somma di emozioni che si aggregano a formare la sofferenza psicologica nel caso di
dolore sociale. Ma mentre la manifestazione esteriore dell’emozione, e anche, se si vuole, del
dolore fisico, cessa con il cessare dello stimolo, il dolore psicologico resta, come sentimento di
fondo o come stato mentale. Ora, se ogni stato mentale non è altro che uno stato o processo
cerebrale, allora sarebbe possibile ridurre il vocabolario delle sensazioni ai processi cerebrali che le
determinano. Ad esempio il dolore potrebbe essere semplicemente l’eccitazione delle fibre-C,
localizzabili all’interno del midollo spinale. La scienza esclude però che si possa fare tale
affermazione solo sulla base del resoconto verbale del soggetto, perché l’ impiego
dell’introspezione soggettiva è estraneo al metodo rigorosamente scientifico. Per questo motivo,
nonostante le evidenze empiriche contrarie, la scienza medica si trova in difficoltà nel riconoscere
l’esistenza di un dolore psicologico, cioè privo di riscontri clinici. Di conseguenza, l’esistenza del
dolore può essere definita, se ci si pone in un’ ottica rigorosamente scientifica, soltanto in due
modi: attraverso la descrizione dei processi biochimici che si attivano quando “si avverte dolore” e
attraverso la descrizione del comportamento nel contesto del “dolore”.
In realtà, se ci si limita alla descrizione dei processi biochimici, non solo non si trova nulla che
dimostri che quelle manifestazioni osservabili sono il dolore, ma, essendo coinvolti molti e diversi
processi, l’identificazione di uno di questi con un singolo stato mentale pare impossibile: infatti
quale dei tanti processi coinvolti nell’esperienza conscia del dolore può essere identificato con lo
stato mentale del dolore? Si tratta di processi certamente correlati tra di loro ma che non lasciano
affatto trasparire un’esperienza omogenea com’è quella del dolore. La stimolazione delle fibre-C è
infatti solamente un microprocesso di un insieme di processi che si attivano in una data situazione.
Il neuroscienziato Patrick Wall, in proposito, ha scritto:
“ [...] il dolore, quando è un evento conscio, è accompagnato da una nuova attività in ciascuna
parte del corpo e in molte aree del cervello. Si presentano segni di allarme, orientamento,
attenzione ed esplorazione. I muscoli si contraggono per evitare lo stimolo e, in seguito, per
proteggere la ferita e favorire la guarigione eliminando il movimento. I tessuti del corpo vengono

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alterati dai cambiamenti del flusso sanguigno e degli ormoni. Separare il dolore cosciente da tutte
queste attività sarebbe una conclusione prematura. È probabile che il dolore sia costituito
dall’azione combinata di molti gruppi di cellule nervose” (Wall, 1999, p.68 e segg.)
Anche la descrizione del comportamento sembrerebbe non essere sufficiente per stabilire quando un
determinato stato è lo stato del dolore. Secondo il comportamentismo, infatti, il dolore è la
disposizione a reagire o a comportarsi in un determinato modo in presenza di determinati stimoli.
Ma non è affatto vero che se c’è lo stato del dolore, allora ci sarà la disposizione a seguire
determinati comportamenti. In proposito, per esempio, il filosofo americano Hilary Putnam
ipotizzò che se un bambino fosse stato allevato in un cultura che abitua a reprimere ogni
manifestazione di dolore o di sofferenza, allora questa persona quando avvertirà dolore non
assumerà quei comportamenti che sono comunemente associati al dolore (Putnam, 2004). Con ciò
Putnam vuole affermare che le risposte a determinati stimoli dipendono anche dal contesto,
personale e culturale, in base al quale viene elaborato lo stimolo e per questo non è possibile parlare
di disposizione ad un comportamento prestabilito. Questa ipotesi è stata corroborata dai dati di
Wall, il quale ha osservato che le manifestazioni del dolore possono variare considerevolmente a
seconda della cultura, di differenze individuali nonché delle aspettative cognitive e sociali (Wall,
1999).
La conclusione di Putnam è che lo stato del dolore non è identificabile con uno stato cerebrale o con
una disposizione comportamentale perché è uno stato funzionale, cioè svolge una determinata
funzione che è quella di evitare un danno all’organismo,: “Lo stato funzionale cui alludiamo
consiste nel ricevere ingressi sensoriali che svolgono un certo ruolo nell’organizzazione funzionale
dell’organismo. Questo ruolo è caratterizzato, almeno in parte, dal fatto che gli organi di senso
responsabili degli ingressi in questione hanno la funzione di rilevare danni al corpo, o temperature,
pressioni talmente elevate da risultare pericolose, e dal fatto che gli ‘ingressi’, qualunque sia la
loro realizzazione fisica, rappresentano una condizione alla quale l’organismo assegna un
disvalore elevato” (Putnam, 2004, p.34).
Si è di fronte a sottili analisi filosofiche che prendono in considerazione la qualità del dolore con
riferimento a quello fisico, quasi come se la stessa speculazione filosofica ritenesse troppo arduo
cercare di dimostrare la connessione tra uno stimolo e una reazione entrambe immateriali (come
nel caso della sofferenza psicologica) e preferisse o fosse costretta a limitare la propria indagine
alla possibilità di qualificare in maniera inequivocabile un fenomeno qualitativo come il dolore, ma
a condizione che esso abbia un collegamento con una entità materiale come il corpo.

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Ancora una volta, la speculazione filosofica e psicologica, arricchita dei contributi delle
neuroscienze, si arresta di fronte alla necessità di descrivere solo oggetti materiali o processi
organici. Il dolore, in particolare, resta meritevole di ricerca solo in quanto esso possa essere causa
di danno per l’organismo. Partendo di qui, si è però osservato, nel primo capitolo, come il dolore
fisico causato da un evento meccanico possa non essere avvertito in determinate situazioni, come
quella delle ferite inferte durante un combattimento, per esempio. In questi casi, come osserva
Wall, la mancata percezione del dolore non dipende dal fatto che i combattenti feriti ignorano tout
court il dolore o perché i loro sistemi nervosi non hanno avviato i processi di difesa contro la
lesione, ma perché la loro attenzione è spostata verso il combattimento (ed infatti solo
successivamente avvertono il dolore).
In queste situazioni, i processi neurali che determinano i qualia avvengono in modo inconscio e
solo alcuni, a seconda della loro importanza, emergono alla coscienza. Ma queste situazioni si
riferiscono a casi in cui il dolore trasmesso attraverso strutture materiali, dai recettori alle fibre
algiche fino alla corteccia, viene soppresso da processi inconsci che prendono il sopravvento.
Quindi è piuttosto evidente il fatto che, almeno empiricamente, processi di elaborazione cognitiva
possono sopprimere altri processi fisiologici la cui fisiologia è ben nota, come la trasmissione del
dolore. Non si vede perché questi stessi processi non possano agire sugli stessi circuiti neurali,
attivandoli o incrementandone l’attività, quando la condizione percepita è di dolore psicologico.
Esistono però alcune differenze tra le due situazioni: nel caso di dolore fisico è possibile che di esso
la persona non abbia neppure consapevolezza, come avviene appunto nel caso di una ferita a
seguito di caduta, incidente o combattimento, cioè in situazioni nelle quali la nostra attenzione è
tutta concentrata su altri compiti, la cura dei quali fa sì che i circuiti che dovrebbero segnalare il
danno tissutale siano bloccati da altri circuiti, impegnati a gestire situazioni ritenute inconsciamente
più importanti.
Nel caso di dolore psicologico, invece, il suo presupposto ineliminabile è, al contrario, la piena
consapevolezza dell’evento che lo produce, sia esso la notizia di un lutto, di una separazione o di
una situazione conflittuale. La differenza fondamentale, sembra evidente, sta nel fatto che mentre
nel caso di dolore fisico la soppressione della sensazione dolorifica avviene ad opera di processi
inconsci, e quindi senza consapevolezza, nel caso di dolore psicologico la partecipazione
consapevole alla cura del dolore è requisito indispensabile per la sua eliminazione. Quindi, mentre
il dolore fisico cessa fisiologicamente per ripristino dell’omeostasi e per l’intervento di cure esterne,
meccaniche o biochimiche, a seguito di cessazione dello stimolo che lo ha attivato, il dolore
psicologico, essendosi trasferito dallo stimolo esterno alla nostra consapevolezza, non può

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estinguersi altrettanto fisiologicamente. È possibile che esso si attenui e che compiti distraenti
possano renderlo meno intenso e persino assente dalla nostra vita per periodi relativamente lunghi.
È altresì possibile che meccanismi di difesa inconsci ne consentano la parziale rimozione o
attenuazione, ma, trattandosi di sofferenza psicologica, essa potrà essere eliminata solo attraverso
una altrettanto psicologica attivazione rivolta alla comprensione del suo significato.
La filosofia e la psicologia, dunque, sembrano svolgere un ruolo insostituibile nella cura del dolore
psicologico, proprio per il fatto che è solo sul piano semantico, e non certo quello biochimico e
meccanico, che la sofferenza psicologica agisce. In altre parole, per rimuovere il dolore fisico non è
assolutamente necessario che il paziente comprenda il significato della sua malattia, (sempre che
questa ce l’abbia), e, teoricamente, non è neppure necessario che di essa sia a conoscenza.
Diversamente, la sofferenza psicologica esiste solo in presenza di coscienza e consapevolezza, e
può essere rimossa solo attraverso la partecipazione attiva e consapevole al processo di guarigione.

2 . 10 . Il dolore secondo la morale cattolica e secondo il buddismo.

Tutti noi siamo consapevoli del fatto che il dolore fisico, nella stragrande maggioranza dei casi, è
fortunatamente un fatto occasionale e minoritario nella nostra vita. Quanto a quello cronico, oggi la
scienza medica è in grado di fornire terapie del dolore sufficientemente sopportabili sul versante
degli effetti indesiderati e collaterali, per cui, se non si può certo affermare che il dolore fisico è
stato debellato dalla nostra vita quotidiana, è però altrettanto vero che esso è stato ridimensionato e
reso più accettabile. Quello che stupisce è invece la scarsa attenzione per il dolore psicologico:
forse, il fatto che esso sia prodotto da fattori intimi e privati, che non si manifesti con i tipici segni e
sintomi dei tessuti infiammati o danneggiati, e non sia riconducibile a null’altro se non alla
esperienza tutta interiore della persona stessa, contribuisce a renderlo meno evidente.
Condizionamenti culturali, religiosi, esigenze relazionali e sociali ci hanno abituato, da sempre, a
cercare di dominare e non mostrare la nostra sofferenza interna, sia per non apparire deboli, sia per
non turbare il prossimo. Il dolore resta così materia di competenza per due sole categorie
professionali: i medici e i sacerdoti, le quali mostrano entrambe, anche se in misura e in modi
diversi, una aderenza a petizioni di principio e a concezioni primitive della vita mentale, tali da
relegare il dolore a fattore più che secondario della nostra esistenza.
Che la classe medica non sia insensibile ai dogmi delle fede cattolica, almeno in Italia, è
testimoniato quotidianamente dal comportamento di quei medici che rifiutano l’uso di trattamenti
considerati contrari alla vita, in forza della prevalenza che essi ritengono di assegnare al rispetto di

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un principio piuttosto che a quello della dignità della vita umana. Se ancora oggi il dolore fisico è
visto da molti medici come un male necessario e che non sarebbe eticamente corretto eliminare, o
se persino alcuni di essi considerano la sua sopportazione come manifestazione di devozione e di
estrema dignità umana, gran parte della responsabilità si deve alla persistenza e alla diffusione di
una mentalità dogmatica che cerca di frenare il progresso dell’uomo tutte le volte che esso sembra
insidiare il prestigio e il potere assoluto della fede.
Che la fede religiosa sia tutt’ora legata a posizioni dogmatiche prive di ogni aderenza e coerenza
con la realtà della vita dell’uomo moderno, è un dato ben visibile nell’entusiasmo con cui si
mobilitano i mezzi di informazione e si organizzano manifestazioni di piazza contro l’eutanasia
(estrema e disperata difesa contro la sofferenza psicologica), nelle quali molti medici sono in prima
fila “ a difesa della vita”, ma non se ne organizzano mai per impedire le esecuzioni capitali persino
in Paesi con cui esistono stretti rapporti di amicizia come gli U.S.A.; o quando si accetta che
quotidianamente migliaia di persone muoiano di stenti e di malattie solo per il fatto di avere avuto
la sfortuna di nascere in un Paese tremendamente povero e sfortunato.
È al dolore fisico, più che a quello psicologico, che la morale cattolica sembra far riferimento, per
esempio, nelle parole di Giovanni Paolo II: “ Ciò che intendiamo con la parola sofferenza sembra
essere particolarmente essenziale alla natura dell’uomo. Condividere le sofferenze di Cristo è al
tempo stesso soffrire per il Regno di Dio. [...]. Il soffrire contiene un appello alla grandezza morale
e alla maturità spirituale dell’Uomo”.6 Questa visione della sofferenza, se letta per il suo meta
significato, e non certo per quello strettamente letterale, ci riporta a una concezione della vita
talmente attuale da essere condivisibile da chiunque, se solo si sostituisce al termine Cristo quello di
ogni essere umano, e a Regno di Dio quello di insieme delle vite dell’intera umanità. La sofferenza
di cui parla la Chiesa cattolica, come ogni religione, del resto, se letta in un’ottica “laica”, diventa la
semplice consapevolezza del fatto che la sofferenza di qualunque uomo è anche la sofferenza di
qualunque altro, secondo la visione olistica e sistemica dell’unità del tutto, della necessità di
considerare la vita del singolo individuo come una delle infinite manifestazioni, tutte dotate di pari
dignità, della vita stessa. La maturità spirituale dell’uomo, allora, non consiste banalmente nella
sopportazione cieca e inconsapevole del dolore, magari in vista di un premio futuro, ma, al
contrario, essa si configura come la condizione di piena consapevolezza di un disagio o di un dolore
comune che deve essere alleviato o risolto indipendentemente dalla persona che ne è colpita,
superando l’egoismo e l’egocentrismo in favore di una visione della vita e del suo significato che
coinvolga l’umanità e ogni singolo individuo sullo stesso piano.

6 Citato in Wall, (1999), p. 74.


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Intesa invece nel suo significato più terreno e letterale, questa visione della vita e del dolore
presenta importanti risvolti sul piano clinico, in particolare sulla terapia del dolore nei malati di
cancro terminale, evidenti nelle situazioni in cui alcuni medici, alla luce delle considerazioni di cui
sopra, esitano ad alleviare il dolore e la sofferenza perché la cura avrebbe potuto entrare in conflitto
con la redenzione dei pazienti.
Nulla si dice in ordine al senso della sofferenza psicologica, al male e al disagio di vivere, perché è
proprio questo il motivo per cui le persone si rifugiano nella illusoria certezza della religione. La
sofferenza psicologica diventa quindi una condizione che non ha senso né scopo sul piano
razionale, e l’unico modo che la morale cattolica suggerisce per cercare di sopportarla è quello di
avere fede e di pregare.
Come si è avuto modo di accennare nel paragrafo 2 . 8 ., di tutt’altro tenore sono le affermazioni
decise e perentorie del Buddismo, sorta di filosofia o di religione a sfondo psicologico, che del
dolore dell’esistenza (in senso fisico e psichico) ha fatto il centro della propria speculazione e
dottrina. Il dolore di vivere nasce fondamentalmente da una sorta di conflitto o confusione di base
relativa all’insicurezza che nasce dal fatto di non sapere chi o che cosa siamo, per cui fondiamo le
nostre percezioni su un’idea di noi stessi come entità permanenti. Di solito, ci creiamo degli
obiettivi da raggiungere e questo ci inchioda a uno stato di continua preoccupazione. Quella che
pensiamo sia un risposta si trasforma invece in una fonte di ulteriore sofferenza, cosicché siamo
spinti a cercare una nuova soluzione, creando un circolo vizioso di dolore senza fine, il samsara
(Capra,1976).
Il Buddismo, a differenza della maggior parte delle religioni, e sicuramente di quelle monoteiste,
offre una soluzione praticabile già su questo piano di esistenza, e che consiste, fondamentalmente,
nell’ attribuire una importanza relativa a tutto ciò che ci circonda, cercando di vivere il presente,
unica realtà conoscibile e sperimentabile. Il legame privilegiato e morboso con le figure di
attaccamento è visto, in particolare nel Buddismo Zen, come fonte di inutile dolore, conseguente
alla inevitabile rottura di tali legami, per cui la soluzione proposta per alleviare la sofferenza
psicologica consiste nel dirottare l’intensità di tali legami esclusivi a una consapevole forma di
amore per tutte le manifestazioni della realtà. Anche questa visione della vita ci riporta al concetto
di sofferenza come strumento di consapevolezza dell’esistenza della sofferenza altrui, più che della
propria, e alla nozione moderna di dolore simpatetico, di cui si tratterà nel paragrafo seguente.

69
2 . 11 . Il dolore simpatetico.

La storia dell’evoluzione umana è la storia dello sviluppo della conoscenza. Impariamo a conoscere
noi stessi tramite sensazioni ed emozioni, prima in rapporto a una sola altra persona (la mamma),
poi a due, poi ad altre fino ad allargare, con l’età adulta, la conoscenza diretta a centinaia o migliaia
di persone e indirettamente a tutti gli individui esistenti.
All’inizio noi conosciamo il nostro dolore, poi impariamo, con lo sviluppo della teoria della mente,
a riconoscere quello di chi ci circonda, allargando questa conoscenza sempre di più, fino a
coinvolgere l’umanità e le sue sorti. Questa consapevolezza crea dolore, perché se anche si cerca di
eliminare la propria sofferenza, la conoscenza ci costringe a prendere atto della sofferenza altrui.
Minois osserva come “l’uomo semplice soffre perché tale è la natura umana, ma l’uomo che pensa
soffre doppiamente poiché uomo è, in quanto tale, consapevole dell’umanità sofferente” (Minois,
2003, p.153) C’è sempre qualcuno che soffre, che lo si veda o no: si tratta di una informazione che
è presente nella nostra mente da quando si acquisisce una coscienza “estesa” o di livello superiore, e
non può essere cancellata dalla nostra consapevolezza, se non per brevi momenti (Damasio, 1995,
2005; Edelman, 1995).
Noi viviamo quindi questa lacerante contraddizione: una parte di noi cerca di evitare la sofferenza
di sé, ma essa è data anche dalla consapevolezza della sofferenza degli altri. Cerchiamo sollievo alla
nostra sofferenza individuale ricercando, tramite la conoscenza, strumenti per alleviare il dolore
individuale, ma nel fare ciò acquisiamo inevitabilmente una sempre maggiore conoscenza della
sofferenza altrui; e quanto più la nostra sensibilità ci conduce ad indagare sulle ragioni di questa
sofferenza (che a questo punto non è più solo individuale), tanto più ci rendiamo conto del fatto che
essa è comune a tutti gli esseri umani, perché la sofferenza psicologica, a differenza di quella fisica,
richiede una contestualizzazione del dolore che solo gli esseri umani possono compiere.
I nostri sentimenti, da egoistici, diventano sempre più allargati, per cui pensiamo di trovare serenità
e conforto non solo quando noi non soffriamo, ma anche quando non soffrono gli altri.
I più deboli si limitano a preoccuparsi per la propria cerchia familiare, i più forti per l’umanità
intera, o perlomeno per quella parte di umanità in cui essi si identificano (Gesù Cristo, Gandhi,
Martin Luther King). Per millenni abbiamo cercato di nascondere a noi stessi la sofferenza altrui
(schiavi, bambini, donne, “razze inferiori”, ancora oggi gli animali), negandola per proteggerci dal
dolore. Ma poiché l’essere umano vive attraverso gli altri (Guidano, 2007), non possiamo fare a
meno di lottare tra il bisogno di stare in pace con noi stessi, curando i nostri interessi, e la

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consapevolezza che però, così facendo, trascuriamo gli altri; e gli altri, per il fatto di esistere, ci
danno dolore perché ci portano il loro dolore.
In questa prospettiva lo scopo della vita è quello di eliminare il dolore dovunque esso sia. Ciò
significa non negarlo, ma cercarlo, conoscerlo per eliminarlo, nella consapevolezza che fino a che ci
sarà un solo bambino che piange, come sosteneva Dostoevskij, non ci sarà pace per l’umanità.
“Anche se fosse un solo uomo a soffrire, sarebbe ancora troppo perché tale sofferenza apparirebbe
comunque come ingiustificata” (Minois, p.230). La conoscenza è quindi lo strumento che ci
consente di eliminare il dolore, ma solo dopo averlo sperimentato personalmente o empaticamente.
Quando conosciamo il dolore altrui, possiamo cercare di sopprimerlo ignorandolo (con la
conseguenza quasi inevitabile di sviluppare disturbi fisici e mentali) oppure impegnarci a
eliminarlo.
Alcuni autori sostengono l’impossibilità della sua eliminazione, se non con metodi piuttosto
drastici. Hartmann, per esempio, discepolo di Schopenhauer, affermava nella sua opera
l’Autodistruzione del Cristianesimo e la religione dell’avvenire che i progressi tecnologici
avrebbero permesso un giorno a tutti gli uomini di entrare simultaneamente in contatto, prendendo
così coscienza della loro infelicità comune; di conseguenza, egli riteneva che essi avrebbero messo
fine alla loro volontà di vivere arrivando alla decisione di una morte collettiva. Come osserva
Minois (2003, p.233), Hartmann ha visto giusto per quanto riguarda il lato tecnologico, perché
Internet ha infatti realizzato la sua prima previsione; ma la società consumistica, fino ad ora, ha
frustrato il secondo.
Resta il fatto che la consapevolezza della diffusione sempre maggiore di una sofferenza psicologica
che si aggiunge a quella fisica sta producendo, se pur in maniera quasi impercettibile, un nuovo
interesse, anche da parte della scienza medica e delle neuroscienze, per un fenomeno che fino a ieri
sembrava di secondaria importanza. Infatti, grazie al contributo delle scienze dell’uomo, sembra
oggi plausibile l’affermazione che se il dolore fisico è uno strumento di allarme che segnala una
anomalia sul piano organico, la sofferenza psicologica può essere altrettanto utile se concepita come
strumento utilizzato dal nostro sistema nervoso per segnalarci la necessità di una modificazione del
nostro stile di vita in senso adattivo. Come rileva in maniera decisa e polemica Julia Kristeva, “E
come mai voi siete così fermamente, così solennemente convinti che soltanto ciò che è normale e
positivo, in una parola solo ciò che apporta prosperità, è vantaggioso per l’uomo? Non potrebbe
darsi che la ragione sbagli nel valutare i vantaggi? Non potrebbe darsi che gli piaccia altrettanto
la sofferenza? Non può darsi che per lui la sofferenza sia vantaggiosa esattamente nella stessa
misura del benessere?” (Kristeva, 1989, p.154)

71
Ma quali possono essere questi vantaggi, secondo la visione evoluzionistica fin qui seguita?
Tutti gli esseri viventi, in prima istanza, sembrano mossi, ai fini della sopravvivenza, dalla paura. Si
pensi ai parameci, organismi semplicissimi che vivono la loro vita fuggendo tutti gli stimoli che non
riconoscono o che conoscono come fonti di minaccia. Anche noi fuggiamo, ma questo non sarebbe
stato sufficiente per combattere l’entropia e per costruire il nostro peculiare cammino evolutivo, che
ci ha permesso di fruire dei benefici di una coscienza e di una attività cognitiva di ordine superiore.
Secondo von Bertalanffy, l’ameba è la creatura meglio adattata di questo mondo da milioni di anni
(Bertalanffy von, 2003, p. 293), perché l’estrema semplicità della sua struttura e dei suoi processi
fisiologici le ha permesso di sopravvivere immutata a tutte le avversità. L’attività esplorativa e
creativa che ci contraddistingue sarebbe invece la caratteristica evolutasi nell’uomo, il quale è
condizionato da un lato da bisogni, il cui soddisfacimento spinge verso la fuga (dal dolore, dalle
minacce, dalle avverse condizioni ambientali) e non necessariamente stimolano la creatività; e
dall’altra da una tensione attiva che lo spinge, a differenza delle amebe, a risolvere i problemi,
prima di sé stesso, poi degli altri (Davies, 2001; Dennet, 2000).
“Eccezion fatta per il soddisfacimento immediato dei bisogni biologici, l’uomo non vive in un
mondo di oggetti, ma in un mondo di simboli” (Bertalanffy von, 2003, p.327).
Si tratta, quindi, di due componenti che devono essere in equilibrio: spinte biologiche e sistema
simbolico di valori. In questo percorso che ci ha condotti alla fase attuale di evoluzione, la nostra
preoccupazione è stata quella di soddisfare i nostri bisogni primari e la spinta biologica alla
sopravvivenza, nostra e di coloro che potessero trasmettere almeno una parte dei nostri geni alle
future generazioni (Dawkins, 1995).
Oggi si affaccia per la prima volta la consapevolezza che, superati i problemi legati al
soddisfacimento dei bisogni primari, sia necessario ampliare i nostri orizzonti cognitivi, includendo
nel sistema di valori individuale anche il soddisfacimento dei bisogni altrui, in un’ ottica non
banalmente altruistica, ma di mutua collaborazione per il perseguimento di obiettivi più ambiziosi
di quelli realizzabili singolarmente. Sotto questo profilo, il mondo di simboli cui accennava von
Bertalanffy è un mondo composto di elementi che richiamano la nostra attenzione verso il
soddisfacimento di bisogni sempre più collettivi e sociali, sul presupposto che la sofferenza fisica e
mentale sia il vero ostacolo al progresso umano, e che solo la sua cura rivolta a tutti senza
gerarchie, precedenze o privilegi, possa rendere la vita dell’uomo moderno degna di essere vissuta.
Essa, infatti, “è tollerabile soltanto se se vi si scorge qualche ragione di essere, se ha uno scopo che
valga la pena. Ora, l’individuo, preso a sé, non è un fine sufficiente alla sua attività. È troppo poca
cosa.” Il senso della vita non può che essere collettivo e collettivamente percepito. Se l’individuo

72
non fa parte di un gruppo, religioso, politico o familiare, “il dolore diventa per lui un mistero ed egli
non può allora sfuggire all’irritante e angosciosa domanda: a che serve? [...]. Così, si formano
delle correnti di depressione e di delusione che non emanano da alcun individuo in particolare, ma
che esprimono lo stato di disgregazione in cui si trova la società “. (Durkheim, 1997, p. 240 e segg)

Richiamandoci alla distinzione di Damasio tra coscienza nucleare ed estesa, la sofferenza moderna
è certamente estesa perché non si limita alla sofferenza di sé e dei nostri cari, ma estende la sua
consapevolezza alla sofferenza altrui (Damasio, 1995). Oggi lo sviluppo tecnologico degli
onnipresenti mezzi di comunicazione e di informazione non solo permette, ma ci costringe a
conoscere la sofferenza di tutti gli esseri umani, al di là dei limiti spaziali, per cui tale conoscenza
genera angoscia, frustrazione, dolore. Per alleviarli, dobbiamo spendere energie per cancellarli dai
nostri pensieri quotidianamente e spenderne altre per possedere beni, simboli, status e oggetti che ci
confortino nell’idea che noi non rischiamo di soffrire come gli altri. Ma questo pensiero è
palesemente egoistico e contrasta con la tendenza moderna (o meglio i proclami) alla solidarietà,
alla cooperazione, alla comprensione reciproca. Se non diamo agli altri, ci sentiamo egoisti. Se
diamo, ci rendiamo conto che stiamo dando il superfluo, e che quello che facciamo è un alibi che
non modifica positivamente la situazione. Inoltre, l’arricchimento globale della società genera nuovi
desideri e nuovi bisogni, e se un abbassamento repentino del livello di vita rende impossibile la loro
soddisfazione, allora prende piede lo sconforto. (Minois, 2003, p. 259). Ci troviamo di fronte
all’ultima tappa di un percorso, in fondo semplice e lineare nel suo svolgimento, segnato dalla
progressiva conquista di una sempre maggiore conoscenza e consapevolezza dell’ambiente che ci
circonda. Questo percorso vede lo sviluppo, per sovrapposizioni graduali, di un sistema nervoso
sempre più complesso, reso indispensabile dalla necessità di soddisfacimento di bisogni e
aspettative sempre più evolute: la sicurezza, prima di tutto, e poi la necessità di soddisfacenti e
gratificanti relazioni sociali, fino all’ultima tappa, quella della ricerca del senso e del significato
della vita (Diamond, 2007; Guidano, 2007; Liotti, 2007).
In quest’ottica, la celeberrima concezione del “cervello uno e trino “ di MacLean (1984), in gran
parte superata sotto il profilo strettamente neuro scientifico, assume un nuovo e universale
significato, nel quale lo sviluppo del sistema nervoso, a partire dal cervello “rettiliano”, andrebbe di
pari passo con la necessità di fornire un supporto neurale alle attività cognitive via via di livello
superiore, necessarie per il soddisfacimento di bisogni sempre più sociali e universali.
Dapprima l’evoluzione produce un semplice cervello rettiliano organizzato per rispondere in
maniera istintiva a determinati stimoli basici (alimentazione, esplorazione dell’ambiente fisico

73
circostante, territorialità, predazione). Successivamente, si instaurano le motivazioni sociali
limbiche: attaccamento, accoppiamento sessuale durevole, competizione per il rango, cooperazione
paritetica, le quali costituiscono il ponte di passaggio verso la fase successiva, quella delle
motivazioni neocorticali. In questo lento processo si osserva come la natura non abbandona i
vantaggi acquisiti, ma li integra con le innovazioni evolutive: la neocorteccia corrisponde al
bisogno biologico di dare un senso alla vita, ma annidata nel cervello rettile e mammifero
(Damasio, 1995, 2005; MacLean, 1984).
In questo senso, i tre cervelli corrispondono ad altrettante fasi di ricerca del senso della vita,
confermando l’ipotesi che la nostra evoluzione vada appunto nel senso della ricerca del significato
della vita. Non è azzardato ipotizzare il fatto che il benessere dipenda dalla integrazione tra i tre
cervelli, cioè tra le motivazioni che spingono a ricercare il piacere e a sfuggire il dolore, ma anche
ad agire nell’interesse sociale in forza di una elaborazione cognitiva e non di semplici riflessi o
istinti (Guidano, 2007; Liotti, 2007). Il tema della sofferenza psicologica si inserisce perfettamente
in questa ricostruzione del nostro processo evolutivo, in quanto essa viene a costituire lo stimolo
complesso ed elaborato che funge da motivazione per l’adozione di comportamenti pro sociali.

74
Capitolo 3°

Emozioni, evoluzione e dolore sociale

È già stato chiarito, anche sotto il profilo squisitamente terminologico, come si sia preferito
adottare il termine di sofferenza con riferimento a quella psicologica (la quale non ha nulla a che
fare con quella dei tessuti organici né è legata alla sopravvivenza del corpo), per distinguerla dal
dolore propriamente detto, rispetto al quale tutta la letteratura scientifica fa riferimento in un’
accezione che lo riconduce a una sofferenza somatica o viscerale, e comunque su base organica.
Quella cui ci si riferisce nel presente lavoro è quindi una sofferenza che presuppone l’esistenza e il
funzionamento di un sistema nervoso sufficientemente complesso da valutare come negativo,
spiacevole e doloroso, uno stimolo o un’ esperienza che di per sé non è in grado di produrre un
dolore fisico. Ma perché dovremmo percepire come una sofferenza qualcosa che non produce
dolore a livello organico? Dato per scontato il fatto che tale sofferenza esiste nell’ esperienza di
ognuno, è chiaro che essa è un quale più complesso di quello del dolore fisico, perché implica la
valutazione di un’ esperienza in funzione non più e non solo della sopravvivenza del corpo, ma di
quella che attiene alla nostra individualità cosciente.
Poiché il processo evolutivo della vita procede per modificazioni solo se esse si rendono necessarie
per affrontare le sfide proposte dall’ambiente alla nostra sopravvivenza, il fatto che gli esseri umani
abbiano acquisito la capacità di percepire una sofferenza che non ha la funzione di proteggerli da
una minaccia fisica, significa che, comunque, questa capacità ha una indubbia importanza
evolutiva. La direzione verso cui sembra spingere la sofferenza psichica non è più quella
quantitativa dell’evitamento di lesioni o offese alla nostra integrità e funzionalità organica, ma solo
quella qualitativa di favorire scelte cognitive che vadano verso il miglioramento della qualità della
vita.

75
In altri termini, mentre il dolore fisico ha uno scopo difensivo, cioè quello di evitare una perdita,
una carenza o una limitazione, la sofferenza psicologica, all’opposto, ha uno scopo propositivo.
Essa non segnala una minaccia da evitare con la fuga (che conduce a un ritiro a scopo
conservativo), ma piuttosto la presenza attiva di un conflitto interiore, tutto psicologico, che
richiede un atteggiamento opposto, e cioè un’ attivazione volta alla modificazione e all’innovazione,
e non certo alla conservazione.
Queste considerazioni, naturalmente, presuppongono che preliminarmente si sia data risposta
affermativa alle seguenti domande: “Si può parlare scientificamente di sofferenza pur in mancanza
di riscontri oggettivi circa la modificazione dell’equilibrio preesistente? Come è possibile parlare di
sofferenza psichica in mancanza di qualsiasi indicatore oggettivo di una qualche variazione
intervenuta nell’organismo?
Il problema non è per nulla squisitamente e meramente teorico, perché la sofferenza psicologica,
come e più del dolore fisico, è una condizione che non solo tutti gli esseri umani hanno provato e
provano frequentemente, ma li accompagna, spesso, nel corso di tutta la vita (con intensità e per
motivi diversi), condizionandone il corso e la qualità, senza che su di essa venga mai rivolta
l’attenzione terapeutica di nessun professionista della salute.
Si acconsenta a sottoporsi a questa semplice prova: si cerchi di ricordare l’ultima volta che si è
provato un dolore fisico. Nella maggior parte dei casi l’esecuzione del compito non sarà per niente
facile, e si risolverà nella ricerca nella memoria di pochi episodi traumatici. A questo punto si vada
alla ricerca dell’ultimo dolore psicologico provato: molto probabilmente, usando un minimo di
attenzione e concentrazione, lo si troverà in moltissimi eventi, magari non traumatici ma solo
spiacevoli, probabilmente occorsi persino poche ore o giorni prima. In altre parole, la sofferenza
psicologica ci accompagna quotidianamente, se pur occasionalmente, in maniera non continuativa e
fortunatamente solo raramente con intensità tale da impedire o interrompere lo svolgimento della
nostra normale vita di relazione. La sofferenza fisica, invece, è un evento statisticamente molto più
raro.
Fino ad oggi, anche nelle situazioni che, come si è osservato nel capitolo precedente, sono
qualificabili come produttrici di sofferenza psichica, la scienza, staccandosi dall’interpretazione del
linguaggio comune, ha sempre preferito utilizzare i termini di disagio, malessere, dispiacere,
riconducendo ogni esperienza negativa, sia essa dovuta a malattia e dolore fisico, sia essa legata alle
difficoltà della vita quotidiana, a disturbi e patologie, dalla depressione alle malattie mentali.
Come ampiamente argomentato nel capitolo precedente, il metodo scientifico di indagine, in altri
termini, è costretto, in mancanza della possibilità di classificazione in base all’eziopatologia

76
tradizionale, a descrivere la sofferenza psicologica in termini di sintomi e di reazioni
comportamentali, non potendo riferirsi al suo contenuto, di per sé non suscettibile di misurazione.
Se però, al di là delle etichette classificatorie, fossimo in grado di qualificare la sofferenza
psicologica come tale, cioè una forma di dolore che non nasce e non è percepita nel corpo, ma
tuttavia gode di una ontologia e fisiologia autonome, allora la conseguenza logicamente necessaria
sarebbe quella di riconoscere a questo tipo di dolore la capacità di influire negativamente sulla
nostra salute psicofisica. A sua volta, tale riconoscimento dovrebbe implicare la consapevolezza
della necessità di predisporre e somministrare cure specifiche per rimuovere tale dolore, il quale,
secondo l’ ipotesi fin qui discussa, produce di per sé danni anche gravi alla salute dell’organismo e a
quella della nostra sfera psichica, affettiva e relazionale, anche in tutte quelle situazioni che le cure
mediche o psicoterapeutiche non possono diagnosticare come vere e proprie patologie.
A tal proposito, si osservi come nel 1903 Pierre Janet parlava di psicastenia, definita come uno
“spossamento del tono psicologico”, e Dutil osservava che la nevrastenia è molto più frequente in
Europa a causa delle esigenze della vita moderna in un’ economia industrializzata, nella quale la
lotta per l’esistenza impone un’attività intensa alle funzioni del sistema nervoso. Dalla lipemia e le
monomanie dell’inizio del secolo, passando per l’ipocondria, per arrivare alla nevrastenia e alla
psicastenia e in attesa della depressione, la proliferazione dei termini illumina soprattutto
l’imbarazzo degli ambienti scientifici di fronte a questo fenomeno misterioso che è l’indebolimento
del desiderio di vivere legato alla sofferenza psicologica (Minois, 2003, p. 248).
In realtà, almeno dal punto di vista di queste ultime manifestazioni patologiche, la sofferenza
psicologica, almeno nella sua fase acuta iniziale, presenta evidenti affinità con quella fisica: in
entrambi i casi l’individuo, se pur non necessariamente, piange, urla, si lamenta, mostra sorpresa,
disagio o afflizione, mette in atto ogni strategia possibile di evitamento.
Come questa evidente analogia dimostra, si cercherà, quindi, in mancanza di prove concrete e
misurabili dell’esistenza della sofferenza psichica (le quali permettano di indagare su di essa
utilizzando gli stessi metodi e strumenti scientifici che la medicina utilizza nella cura del dolore
fisico), di dimostrarne l’esistenza e la funzione per via indiretta, secondo i principi del
ragionamento sillogistico ipotetico deduttivo, in modo da fornire un supporto teorico logicamente
plausibile alla ricerche scientifiche che, in questi ultimi anni, stanno cercando di provare una certa
coincidenza e sovrapposizione tra i due sistemi di trasmissione del dolore.
Nel precedente capitolo si è esposto il punto di vista della filosofia e della psicologia, le quali non
solo riconoscono l’esistenza di una sofferenza psicologica, ma la pongono persino al centro della
loro speculazione e ricerca. In questo capitolo si cercherà di giustificarne l’esistenza sotto il profilo

77
evoluzionistico, valutando la possibilità di inserirla nell’ampia e complessa categoria delle
emozioni.
Nel capitolo successivo si esporranno le risultanze degli studi più recenti, condotti in ambito neuro
scientifico, i quali sembrano adombrare la possibilità dell’esistenza di una sostanziale
sovrapposizione nei canali di trasmissione del dolore, fornendo così un supporto strutturale e
fisiologico all’idea di una forma di sofferenza assimilabile anche sotto il profilo fisiologico al
dolore fisico, tranne che per la componente recettoriale nocicettiva.
A quel punto, si avrà forse un quadro più chiaro dell’esistenza di una forma di dolore che nasce
dall’interno della nostra psiche, senza bisogno di essere attivato da stimoli fisici. O meglio, si
chiarirà come in entrambi i casi, in realtà, gli stimoli che producono dolore, sia esso fisico o
psichico, provengono dall’ambiente esterno, o meglio dalla nostra interazione con esso, ma con una
fondamentale differenza: in condizioni naturali ed ecologiche, lo stimolo che provoca un dolore
fisico agisce direttamente e inevitabilmente sulle regioni del sistema nervoso deputate a raccoglierlo
e modularlo nella sua manifestazione interiormente percepita. Quello che provoca una sofferenza
psicologica, invece, non è di per sé in grado di produrre né dolore fisico, né psichico, in quanto la
sofferenza, in questo caso, nasce solo a seguito della elaborazione che il nostro sistema nervoso
compie di una esperienza, e produce una sofferenza che, per intensità e qualità, è sempre unica e
irripetibile in quanto legata al significato che quell’esperienza assume nel quadro complessivo della
vita psichica di quell’individuo.
Anzi, bisogna ricordare quanto si è già osservato in precedenza, e cioè che mentre il dolore fisico è
percepito da chiunque, uno stesso stimolo che in un individuo attiva una risposta di intensa
sofferenza psichica può risultare del tutto indifferente a un altro.
Il dolore fisico, quindi, è inevitabile e universale, salvo che non si agisca su di esso attraverso
interventi meccanici o biochimici di blocco della sua trasmissione. Non esistono, infatti, prove
scientifiche convincenti che dimostrino la possibilità, per individui particolarmente dotati e allenati,
di sopprimere questa sensazione semplicemente con la propria forza psichica. Ciò significa che,
finché l’umanità sarà costretta a convivere con il pesante fardello di un corpo individuale, il dolore
fisico potrà essere evitato solo tramite interventi invasivi sui suoi meccanismi di produzione e
trasmissione.
La sofferenza psicologica, invece, se pur non può prescindere, come ogni manifestazione umana,
dall’esistenza e dalla funzionalità del corpo, pretende, per essere almeno alleviata, un intervento
psicologico e non certo medico, e cioè una forma di cura che agisca sulla consapevolezza piena e
responsabile del problema che ne è all’origine, e non certo la soppressione di esso tramite interventi

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chirurgici o farmacologici, imponendo anzi una rielaborazione, faticosa e complessa, dell’intero
sistema psichico organizzativo della vita di ogni persona. Essa agisce ponendoci di fronte a quella
che è stata fino a quel momento la nostra visione della vita, costringendoci a rivedere e rielaborare
schemi ormai diventati obsoleti e inutili.

3 . 1 . Il dolore sociale

Sotto il profilo evoluzionistico, la sofferenza psicologica sembra coincidere con il cosiddetto


“dolore sociale”, il quale sembra sia legato sia ad esigenze biologiche primarie (il bisogno biologico
dell’attaccamento) sia ad esigenze sociali emerse invece in tempi recentissimi, centinaia di migliaia
di anni dopo le prime.
Da un lato, cioè, questo dolore tenderebbe ad attirare l’attenzione sulla necessità di mantenere una
rete di relazioni sociali, a cominciare, naturalmente, da quella più stretta del bambino rispetto ai
genitori, e allargandosi via via a tutte quelle intrattenibili nel corso della vita.
Dall’altro lato, il dolore sociale è identificabile in tutte le situazioni in cui la persona vive un
conflitto tra la direzione che i propri valori, le credenze, gli ideali, le motivazioni gli imporrebbero
di seguire, e l’ostacolo che si frappone alla loro realizzazione. Quest’ultimo può essere banalmente
materiale, come la mancanza di disponibilità economica per realizzare i propri progetti, ma anche
strettamente psicologico, come può essere qualsiasi sofferenza che deriva dal mancato
riconoscimento del ruolo che si ritiene di dover ricoprire all’interno del proprio contesto sociale, del
disprezzo o della scarsa attenzione verso quella che ognuno di noi ritiene la propria “dignità
personale”, della scarsa considerazione del prossimo nei nostri confronti, e così via.
Non è azzardato sostenere che dolore sociale e sofferenza psicologica possano essere considerati
sinonimi, con l’avvertenza e la precisazione che nel significato dell’aggettivo sociale si intende
ricomprendere anche, e specialmente, la sfera affettiva, e quindi tutto ciò che riguarda la complessa
vita di relazione dell’essere umano, dal rapporto di amicizia a quello sentimentale o sessuale, fino al
suo inserimento all’interno di organizzazioni così vaste da giungere a ricomprendere l’intera
umanità.
Restando nell’ottica evoluzionistica, bisogna ricordare quanto esposto nelle pagine precedenti, e
cioè che a partire dal dolore sociale si è venuto a delineare, proprio in questi ultimi decenni, una
nuova forma di dolore, talmente intensa e diffusa da assurgere a categoria a sé stante, e che si può
definire come “dolore simpatetico”, cioè quello per la sofferenza altrui. È solo in questi ultimi
decenni, infatti, che le distanze si sono enormemente accorciate, gli scambi di informazioni tra le
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diverse parti del mondo avvengono in tempo reale, e il fenomeno del “villaggio globale” secondo
Mc Luhan, e quello del “piccolo mondo” hanno diffuso universalmente la reciproca conoscenza e
la condivisione della sofferenza (Capra, 1984, 1997, 2002; Strogatz, 2006).
Come si nota da queste prime considerazioni, la sofferenza psicologica si configura come un
fenomeno molto complesso e articolato in diverse modalità espressive e determinato da cause molto
diverse tra loro. Ci si propone, nel corso di questa dissertazione, di giungere alla definizione dei
suoi elementi costitutivi, in modo da chiarire quali caratteristiche la rendano differente da altre
forme di dolore (quello fisico), ma anche da più semplici stati d’animo, emozioni o sentimenti.
Fino a questo punto si è volutamente delimitato il campo di indagine a quella forma di sofferenza
che, in linea generale, si rende manifesta alla nostra attenzione senza alcun collegamento con
dolore fisico o malattia, ma sia causato da un evento o stimolo non materiale che coinvolge la sfera
emotiva, affettiva, relazionale. Ci si riferisce, in concreto, a quella condizione psichica in cui
acquisiamo consapevolezza del nostro mutamento di stato d’animo nel momento in cui viviamo o
rievochiamo un evento traumatico, spiacevole, come una separazione o abbandono improvviso,
inaspettato e inevitabile, oppure una grande delusione, ecc. Si potrebbe affermare, in prima
approssimazione, che questa sofferenza si configura sempre come la frustrazione di un bisogno
fondamentale, se pur di ordine superiore, e cioè di uno di quei bisogni, secondo la classificazione di
Maslow (1971), che senza essere legati alla sopravvivenza del corpo, sono tuttavia connessi alla
sopravvivenza della nostra sfera psichica, e cioè quelli che conducono verso la realizzazione del sé.
Questa distinzione mette in luce un aspetto fondamentale che caratterizza la sofferenza psicologica:
essa è percepita, a parità di stimolo, con una intensità e una portata molto più ampia di quella che
produce il dolore fisico, investendo cioè il significato stesso della nostra esistenza, e la possibilità
di percepirla nelle sue diverse articolazioni dipende solo in minima parte dallo stimolo, quanto
piuttosto dalle caratteristiche di personalità del destinatario del medesimo.
Nel caso di dolore fisico, la possibilità di percepirlo nelle sue diverse intensità e nelle sue differenti
forme dipende quasi esclusivamente dalle caratteristiche dello stimolo stesso, e solo relativamente
da quelle della persona. Infatti, l’esistenza di una soglia del dolore sta ad indicare che uno stesso
stimolo dolorifico può essere percepito con intensità diversa a seconda degli individui e delle
circostanze, ma pur sempre all’interno di un range misurabile e in qualche modo ristretto. Tant’è
vero che, oltre l’intensità minima, il dolore fisico viene percepito da chiunque e più o meno allo
stesso modo.
Invece, la sofferenza psicologica si declina in forme diverse, le quali sono percepibili solo se il
destinatario dello stimolo è in grado di coglierlo, nel senso di essere suscettibile a quel particolare

80
bisogno. Poiché la piramide dei bisogni, in perfetta sintonia con le risultanze degli studi in campo
evoluzionistico, prevede l’esistenza di una gerarchia in forza della quale i bisogni di grado più
elevato, pur presupponendo il soddisfacimento di quelli di grado inferiore, si strutturano come veri
e propri imperativi biologici, fonte di sofferenza nel caso di loro mancato soddisfacimento (anche se
soltanto per chi ha raggiunto un livello di consapevolezza e di conoscenza via via crescente), è
evidente che coloro i quali non si trovino nelle condizioni di vivere all’interno di un contesto i cui
valori sono di ordine superiore (come la competitività, la rigorosa delimitazione di ruoli e
competenze, il conseguimento di obiettivi sempre più ambiziosi), non avranno neppure la
possibilità di vivere la sofferenza che deriva dalla frustrazione dei bisogni legati a quei valori o stili
di vita.
Questa considerazione rende ancora più evidenti le difficoltà che si incontrano nel voler descrivere
e spiegare la sofferenza psicologica secondo l’approccio del metodo scientifico classico, in quanto,
per la sua dipendenza dalle caratteristiche di personalità individuali, essa non può essere conosciuta
pienamente, e in tutte le sue sfaccettature e implicazioni, neppure attraverso l’attività introspettiva
di chi la vive. Per questo motivo, se la medicina, da sempre, ha rappresentato per l’uomo l’unico
strumento in grado di difenderlo dal dolore e dalla sofferenza, alleviandone l’intensità o
eliminandone le cause, il tema della sofferenza psicologica è sempre rimasto appannaggio della
filosofia, dell’etica religiosa, della letteratura e dell’arte in genere.
Solo da alcuni decenni, grazie alla diffusione della psicologia nelle sue svariate componenti, e
specialmente delle neuroscienze, la sofferenza psichica, cioè quella che ha origine nella nostra
mente e non è causata da uno stimolo fisico, ha cominciato timidamente ad essere oggetto di studio.
La necessità di riconoscere definitivamente l’autonomia ontologica ed epistemologica della
sofferenza psicologica nasce dal fatto che solo dando alla sofferenza psichica la dignità di
condizione autonoma e separata, nell’eziologia e nelle sue manifestazioni organiche e
comportamentali, è possibile agire efficacemente su di essa. Altrimenti, si rischia, come in effetti
avviene ancora oggi, di dare alla sofferenza psicologica la dignità di condizione meritevole di cure
solo se associata a patologie organiche o mentali, e solo se essa produce alterazioni dello stile di
vita tali da rendere difficile la gestione della propria attività lavorativa e relazionale.
Se la sofferenza produce manifestazioni esterne, e queste siano considerate di tale gravità da
produrre turbativa sociale o essere segno o sintomo di malattia, allora la medicina acconsente ad
intervenire, ma solo sugli ultimi anelli della catena che ha condotto alla manifestazione patologica.
Se però la sofferenza è vissuta dalla persona nel suo ambito privato, senza che vada a influire in
maniera negativa sulla sua vita sociale, la risposta che offrono le scienze che dovrebbero occuparsi

81
della cura della salute dell’uomo è che tale condizione è connaturata alla natura umana, fa parte del
peso che la vita ci costringe a portare, e quindi non merita particolare attenzione. In altre parole,
non è la qualità della vita, ma la sua quantità, cioè la somma delle funzioni vitali che non sono
compromesse dalla malattia, ad essere l’unico parametro di riferimento perché la medicina
intervenga per attenuare o rimuovere il dolore. In tutti gli altri casi, che sono quelli che tutti
sperimentiamo, spesso quotidianamente, la condizione di sofferenza psicologica, proprio perché
non direttamente collegata in maniera evidente a una patologia, continua ad agire in maniera
nascosta perché abbandonata a sé stessa, producendo alterazioni nel nostro equilibrio omeostatico, e
specialmente psicologico, che potranno ridurre la qualità della nostra vita rendendola un inutile
flusso di sofferenza. Eppure, pur essendo la sofferenza psicologica, più che quella fisica, il motivo
conduttore, in negativo, della nostra vita, essa continua ad essere ignorata o sottovalutata per le
conseguenze che può produrre, anche da parte della psicologia e della psicoterapia.
Come si è esposto nelle pagine precedenti, e riassumendo dunque le considerazioni fin qui avanzate
al riguardo, la letteratura scientifica, ancora oggi, si riferisce alla sofferenza psicologica come a una
semplice conseguenza degli effetti del dolore cronico (organico), che si esprimerebbe a livello
comportamentale e nella modificazione dello stato d’animo. È evidente la difficoltà di confrontarsi,
per la scienza, con una condizione dell’anima che è per definizione interiore, soggettiva, non
misurabile e neppure facilmente descrivibile da chi la sta vivendo. Eppure, manca all’interno del
lessico scientifico la descrizione della condizione di sofferenza che l’individuo vive a seguito
dell’intrusione di una informazione (valutata come spiacevole), al di là della semplice attivazione
emozionale.
La conseguenza di ciò è che sul piano teorico, ma anche su quello strettamente clinico, la sofferenza
psicologica viene presa in considerazione solo se ridotta al rango di semplice sfondo di una
patologia o di un disturbo oggettivamente definibile in maniera standard. Eppure, c’è una bella
differenza tra essere depressi, ansiosi, turbati, impauriti (tanto per citare alcuni parametri utilizzati
per definire lo stato psicologico della persona), ed essere sofferenti o addolorati psicologicamente.
Chiunque abbia vissuto tali situazioni sa perfettamente che, per esempio, la profonda e prolungata
condizione di tristezza e prostrazione che caratterizzano la depressione non sono la nostra
sofferenza, ma sono la conseguenza di essa. Chiunque abbia vissuto un’esperienza forte e
traumatica di disprezzo, rifiuto, abbandono, indifferenza, per fare altri esempi, è perfettamente in
grado di distinguere le caratteristiche di questi stati d’animo, rispetto alla sofferenza sottostante, e
sa che le prime sono manifestazioni ed elaborazioni del suo malessere, ma non coincidono con esso.
Tant’è vero che, cessato l’effetto dell’attivazione emozionale, per quanto si cerchi di dare una

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spiegazione, a livello razionale, dell’ esperienza negativa che abbiamo vissuto, e per quanto tale
elaborazione soddisfi pienamente i requisiti di una perfetta elaborazione cognitiva, la sofferenza,
come sentimento di fondo, resta, come se essa continuasse a sopravvivere all’interno di qualche
recesso della nostra coscienza, inaccessibile alla ragione.
Quindi, si vuole qui sostenere l’ipotesi che esista una condizione di sofferenza che precede e
accompagna ogni manifestazione di disagio e ogni emozione o stato d’animo negativo, e che è
descrivibile in termini qualitativi come una modificazione globale dell’equilibrio omeostatico della
sfera psichica, intesa questa come l’insieme delle componenti affettive, emozionali, relazionali della
nostra vita.
Il ruolo di questa sofferenza è quello di renderci la vita difficile e meno piacevole di quella che
potrebbe essere, cioè di costituire costantemente una pietra di paragone o un livello di soglia, in
negativo, che ci rende consapevoli di un qualche squilibrio nella nostra vita rispetto ai valori, ai
bisogni, ai desideri che ci appartengono, e il cui perseguimento costituisce il senso della vita di
ognuno. E poiché l’essere umano non può essere concepito se non come un’unità di corpo e mente,
è ipotizzabile che tra queste due componenti fondamentali possa esistere una possibilità di
comunicazione assoluta e biunivoca, per cui non soltanto il dolore fisico abbia ripercussioni sulla
nostra sfera psichica, ma valga anche l’inverso, e cioè che il modo in cui ognuno di noi concepisce
la visione, gli scopi e il significato della propria vita condizioni pesantemente anche la salute del
corpo. Se questa ipotesi è corretta, dovrebbe esistere la possibilità di individuare le ripercussioni a
livello organico di questa sofferenza. Ed è quello che ci si appresta a fare.
Ma per cominciare, si rende necessario partire dall’analisi del ruolo delle emozioni nella sofferenza
psicologica.

3 . 2 . Emozioni e sofferenza psichica

Si è accennato al fatto che l’arte, prima della scienza, ha descritto da sempre la sofferenza umana. Si
pensi a questo proposito al già citato “L’urlo” di Munsch: quello che il celebre dipinto esprime non
è una patologia mentale, non è la richiesta di aiuto, non è neppure paura, ma piuttosto sofferenza. Se
scopo delle emozioni è quello di attivare una nostra reazione di adattamento (Damasio, 1985;
Ekman, 1999; Galati, 2004), e se le modificazioni del nostro umore o stato d’animo modificano il
nostro comportamento sociale e il nostro atteggiamento verso la vita, al punto da essere il vero
motore della nostra esistenza, sarebbe davvero incredibile che queste condizioni, se pur nascoste nel
profondo dell’anima di ciascuno, non avessero un correlato a livello neurofisiologico. In effetti,
esse sono riconducibili a tutte quelle modificazioni neurologiche, ormonali, immunitarie, che la
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scienza descrive a proposito dello stress, del dolore fisico, della depressione o degli stati d’ansia.
(Trabucchi, 2009, p.24)
È plausibile sostenere che, alla base, ci sia un substrato che sfugge alla elaborazione cognitiva, ma
che la alimenta, ed anzi ne è la causa. Senza la percezione di una sofferenza, se pur non a livello
fisico, non avremmo lo stimolo e l’occasione per elaborare le nostre esperienze, qualificandole
come emozioni o stati d’animo distinti e mutevoli. Ci limiteremmo a osservare la nostra tristezza, la
paura, l’ansia, e a comportarci di conseguenza, senza consapevolezza del significato della nostra
condizione psichica, se non quella che essa è negativa e spiacevole, e che va evitata in qualche
modo. Ma verrebbe a mancare lo stimolo e la motivazione a modificare la nostra vita in senso
adattivo: cessato lo stimolo e la relativa attivazione, si estinguerebbe anche il ricordo di ciò che ha
causato il dolore e noi non trarremmo alcun beneficio dall’esperienza negativa subita. Se non
costituisse la base di una elaborazione cognitiva tendente alla modificazione dello stile di vita, la
sofferenza psicologica non avrebbe significato e sarebbe del tutto inutile.
In questo senso, la sofferenza fisica si configura come un segnale di allarme che ha lo scopo,
limitato nel tempo, di richiamare la nostra attenzione su una condizione di lesione fisica pericolosa,
la cui reazione non richiede una elaborazione approfondita dello stimolo a livello cognitivo, ma solo
l’adozione automatica di un comportamento atto a ridurne la portata negativa. La sofferenza
psicologica, invece, non ha come destinatario preferenziale il nostro sistema di attivazione
neurovegetativo, ma costituisce un campanello d’allarme rivolto alla nostra coscienza. È
quest’ultima che permette di dare senso e continuità alla nostra vita, dandoci consapevolezza delle
nostre risorse e della nostra capacità di affrontare le diverse situazioni che la vita ci impone. Come
afferma Damasio, “ « sentire » sentimenti estende la portata delle emozioni favorendo la
pianificazione di nuove forme di risposte adattive, tagliate su misura” (Damasio, 2005, p.342).
La sofferenza psichica potrebbe avere lo scopo di segnalare, tramite il malessere e il dolore, le aree
cognitive, affettive, emozionali, relazionali sulle quali dobbiamo intervenire. Su di essa i farmaci
analgesici non hanno effetto, e infatti l’unico strumento disponibile alla medicina per alleviare gli
stati di sofferenza psicologica è il farmaco sedativo, calmante, ansiolitico, il quale ha appunto lo
scopo di mettere a tacere temporaneamente la nostra coscienza.
Quindi, se si ipotizza il fatto che la sofferenza psichica si esprima nell’organismo attraverso gli
stessi canali di quella fisica, attivando cioè i circuiti di allarme e di difesa del dolore, ad eccezione
delle fibre nocicettive, potremmo agire cognitivamente sulla conoscenza della sofferenza e le sue
conseguenze sulla salute. La nostra azione, però presuppone la consapevolezza del sentire, il quale
si manifesta in maniere diverse, valutabili come positive o negative.

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L’emozione presenta, tra le caratteristiche elencate da Ekman (1999), quella fondamentale per cui la
consapevolezza del sentire la specifica emozione ci permette di identificarla per una qualità, e una
soltanto. Riconosciamo la paura, o la rabbia, per esempio, qualunque ne sia l’oggetto o la nostra
reazione, per una sola particolare qualità, se pur con diversa intensità. Ogni emozione di base,
quindi, presenta una sola qualità ma differente intensità. È pur vero che le teorie dell’appraisal
sostengono che essa si “costruisce” tramite una serie di controlli, o di valutazioni successive
(Lazarus, 1991; Scherer, 1984), ma queste possono solo “trasformare” un’emozione in un’altra (per
esempio, la sorpresa in paura, oppure in gioia), oppure “abbinare” emozioni diverse a formare
un’emozione secondaria. In altri termini, che l’emozione di base si formi come pattern già
completo e distinto, o si costruisca per tappe successive, essa resta sempre una entità elementare,
non ulteriormente scomponibile. Il dolore, invece (e qui il riferimento è a quello fisico), è
descrivibile per mille qualità o sfaccettature molto diverse le une dalle altre (si pensi solo alla
differenza tra il dolore lancinante e quello sordo). Lo stesso dicasi per quello psicologico. La notizia
di un rifiuto sociale che ci riguarda genera sorpresa, tristezza, rabbia, paura, le quali si declinano
nelle loro diverse sfumature sociali e possono poi creare quella condizione di sofferenza che è stata
definita come “sentimento di fondo”. Ma al primo impatto, il dolore è lancinante, e ci colpisce al
petto o allo stomaco, anche se siamo perfettamente in grado di riconoscerlo come qualcosa di
diverso da un dolore del corpo. Quindi la sofferenza psicologica, alla luce di queste prime
considerazioni, non coincide con un’ emozione specifica, ma neppure con una somma di esse.

3 . 3 . Emozioni legate alla sofferenza fisica e psicologica

Il dolore fisico viene vissuto attraverso una percezione complessa, nella quale la sensazione fisica si
accompagna sempre all’elaborazione immediata del significato dello specifico dolore che ci ha
colpiti: la sua causa, le circostanze, l’atmosfera psicologica in cui si è verificato l’evento, l’ansia per
le sue possibili ripercussioni, sono alcune delle elaborazioni cognitive che inevitabilmente mettiamo
in atto per contestualizzare il dolore. Il significato di esso che ne deriva è frutto anche
dell’emersione spontanea di una serie di emozioni: la paura, per esempio, legata al fatto che il
dolore non passi più, o che si intensifichi, o che nasconda qualcosa di più grave, o che possa avere
conseguenze irrimediabili, ecc.; la rabbia, per la responsabilità che attribuiamo ad altri o a noi stessi
per aver provocato il dolore stesso, oppure, se il dolore è cronico e non ci abbandona mai, come una
maledizione o un’offesa che non sentiamo di meritarci; la sorpresa, che ci assale quando il dolore è
acuto, o quella di ritrovarlo sempre lì, quando monitoriamo il corpo per cercarlo; ma anche il
85
sollievo, variante della sorpresa, che percepiamo quando ci rendiamo conto che il dolore è legato a
una lesione meno grave di quanto ci saremmo aspettati; la tristezza, perché esso rende la nostra vita
insopportabile e priva di futuro; il disgusto, se lo intendiamo come repulsione o disprezzo, perché è
qualcosa che rifiutiamo visceralmente e vorremmo espellere dal nostro corpo, come si fa per una
sostanza disgustosa. Manca la gioia, che è l’unica vera emozione positiva, e che è sempre assente,
salvo nei casi limite e probabilmente patologici dei martiri che lodavano il Signore in piena
esaltazione mistica di gioia mentre venivano atrocemente torturati.
La sofferenza psicologica è una forma più evoluta di dolore, non più legata alla sopravvivenza del
corpo, ma a quella della nostra sfera psichica e quindi a tutto ciò che questo comporta in termini di
possibilità di conoscenza, di accesso a informazioni, tecniche e procedure che consentano un
miglioramento della qualità della vita, propria e altrui; la possibilità di collaborare per un progetto
comune, altrimenti irrealizzabile; la possibilità di trasmettere la propria conoscenza, i risultati della
propria esperienza e permettere quindi un progresso generale molto più rapido grazie al fatto che le
nuove generazioni non sono costrette a ricominciare daccapo, ma possono beneficiare
dell’esperienza di chi li ha preceduti.
Il piano fisico, infatti, è quello che garantisce la possibilità di trasmissione dei caratteri strutturali
dell’uomo, ma è quello psichico quello che consente il progresso attraverso l’implementazione,
sulla struttura fisica, di una serie di programmi utili non solo alla sopravvivenza, ma al
miglioramento della qualità della vita.
Anche la sofferenza mentale, quindi, si accompagna alle stesse emozioni primarie cui si è fatto
riferimento descrivendo il dolore fisico, salvo che queste sono attive non per avvisarci di un
pericolo incombente o una minaccia alla nostra integrità fisica, quanto piuttosto del pericolo di
essere estromessi dal gruppo, di essere isolati e abbandonati, di non poter soddisfare quella che è
una caratteristica distintiva di tutti gli esseri viventi di ordine superiore, a cominciare dai
mammiferi, e cioè il bisogno di una gratificante vita sociale.
In tutti questi casi si tratta di condizioni compatibili con la vita individuale, ma non con quella
sociale, l’unica che permette sviluppo e progresso (Liotti, 2007). E poiché questo pericolo non si
riferisce, come nelle emozioni che ci proteggono sul piano fisico, a un qualche fattore esterno (un’
aggressione di uomini o animali, il rischio di cadere, l’incognita del buio, la paura del fuoco, ecc), il
quale può essere sempre diverso e di breve durata, ma ad un fattore fondamentalmente interno, e
cioè il nostro comportamento, ecco che la sofferenza psicologica adempie la funzione di permetterci
di elaborare l’informazione, riaffacciandosi quindi insistentemente e intrusivamente fino alla
soluzione del problema.

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Questa elaborazione è quindi molto più complessa, profonda e persistente di quella relativa al
dolore fisico: in quest’ultimo, infatti, la nostra sfera emozionale è attivata solo al fine di produrre
una reazione immediata e funzionale all’evento contingente, per cui le emozioni che entrano in
campo sono, fondamentalmente, solo quelle primarie che sono state descritte. Esse sono istintive e
non coinvolgono necessariamente il livello più alto di elaborazione cognitiva, non creano problemi
di coerenza e integrità della nostra coscienza e neppure il bisogno di rivedere la propria visione
della vita.
Nella sofferenza psicologica, invece, fin da subito le emozioni primarie si articolano
differenziandosi nelle diverse emozioni secondarie, cioè quelle che seguono alla consapevolezza dei
risvolti che l’evento che ci ha procurato sofferenza determinano sulla nostra vita sociale, minandone
potenzialmente o praticamente le garanzie di sicurezza e protezione che essa ci offriva.
Riassumendo le argomentazioni esposte, relative ai rapporti tra dolore ed emozioni, si può quindi
cominciare col mettere in evidenza come la causa della sofferenza psicologica è da identificare nel
comportamento di chi la riceve, e non di chi la procura, perché, mentre nel caso di dolore fisico lo
stimolo è di per sé sufficiente a causare dolore, indipendentemente dal nostro comportamento (e
quasi indipendentemente dal nostro atteggiamento verso di esso), nella sofferenza psicologica lo
stimolo non è in grado, di per sé, di procurarci dolore7 . Quest’ultimo si genera solo a partire dalla
nostra reazione cognitiva ad esso.
In altre parole, mentre una coltellata è causa di dolore per chiunque, uomini o animali, ed esso può
essere alleviato solo da controstimoli esterni come i farmaci analgesici, una separazione, un rifiuto,
un insuccesso sono causa di sofferenza solo a seguito della valutazione cognitiva delle circostanze e
delle conseguenze che quell’evento può avere sulla qualità della nostra vita. Gli effetti del dolore
fisico sono generalmente immediati, cioè agiscono immediatamente dopo la somministrazione dello
stimolo, e si riferiscono ad esso. Invece, la sofferenza psicologica non è prodotta dallo stimolo in sé,
ma dall’idea che quello stimolo, o meglio la circostanza che l’accompagna, possa produrre
conseguenze spiacevoli sulla nostra vita. La sofferenza psicologica, quindi, è tale solo se la
consapevolezza di una perdita si accompagna a quella di una prospettiva negativa per il futuro.
Quindi, la sofferenza psicologica è legata all’elaborazione individuale di una minaccia alla
sicurezza della nostra vita sociale e cognitiva.
Inoltre, l’emozione associata al dolore fisico è di - relativamente - breve durata perché deve solo
proteggerci da una lesione del nostro organismo; quella psicologica è perdurante (o meglio,
rinnovabile) perché, al di là della minaccia immediata, deve permetterci di salvaguardare il nostro

7 L’unica eccezione a questo principio è rappresentata dagli effetti placebo e nocebo (Moerman, 2004).
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ruolo all’interno del gruppo sociale, e ciò è possibile non semplicemente attraverso una reazione
rapida come quella che segue allo stimolo emotigeno, ma solo tramite una elaborazione e
modificazione del nostro comportamento in senso adattivo.

3 . 4 . La concezione psicosomatica del dolore

È vero, si potrebbe osservare a questo punto, che anche il dolore fisico adempie alla funzione di
mettere in moto una elaborazione approfondita del nostro stile di vita, e può avere quindi una
funzione adattiva che va al di là della pura sopravvivenza fisica, coinvolgendo la nostra visione
della modalità di organizzazione della nostra esistenza. Qui si entra nel campo della visione
psicosomatica del dolore fisico, secondo la quale (Dahlke, 2001; Groddeck, 2005; Lowen, 2000),
esso rappresenta l’ultima arma a disposizione del nostro sistema mente-corpo per avvisarci di un
pericolo derivante da una scorretta conduzione della nostra vita quotidiana e per indurci a una
modificazione del nostro comportamento (non certo ad assumere semplicemente un analgesico).
In questo senso, per esempio, l’indolenzimento cervicale di chi vive e lavora sotto tensione, i
disturbi gastroenterici di chi è vittima di situazioni stressanti prolungate, l’infarto o le coliche renali
che seguono a una certa trascuratezza della propria salute, non sarebbero semplicemente segnali di
allarme che richiamano l’attenzione verso il corpo, quanto estremi tentativi di risvegliare la
consapevolezza della persona verso una maggiore presa di coscienza della sua situazione e di cura
della propria salute. In altre parole, se la persona non arriva da sola a tale consapevolezza, con gli
ordinari strumenti della elaborazione cognitiva a sua disposizione, il suo stesso organismo difende
la propria sopravvivenza procurandogli un dolore fisico che essa non può più ignorare.
Questo approccio al tema della sofferenza ha come necessario presupposto una visione dei rapporti
tra mente e corpo come di due entità che, se pur separate fisicamente, condividono la stessa
preoccupazione per la salute del sistema, sono consapevoli di costituire due elementi di una unità
funzionale, e comunicano le stesse esigenze reciprocamente utilizzando gli strumenti che per
ciascuna delle due componenti risultano evolutivamente più appropriati: la mente produce
sofferenza psicologica per costringere la persona a modificare il suo comportamento, in modo da
garantire una migliore qualità della vita e della salute del corpo nel quale essa è ospitata e dal quale
è alimentata; il corpo, a sua volta, consapevole del fatto che la cura di esso può venire solo da un
comportamento equilibrato e dalla capacità della persona di adattarsi alle circostanze della vita,
invia segnali che costringano la persona a fermarsi a riflettere sulla correttezza del proprio stile di
vita. Sotto questo punto di vista, allora, il dolore fisico si allea alla sofferenza psicologica mettendo

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in atto una strategia complessa in due fasi: la prima è quella che consiste nel procurare una
sensazione negativa nel corpo, consapevole per via evolutiva del fatto che nulla richiama
immediatamente la nostra attenzione come una sollecitazione il più possibile simile a quella
nocicettiva.
La seconda fase, partendo dall’analisi della causa del dolore, dovrebbe condurre alla
consapevolezza di uno squilibrio, di una carenza, che richiede una soluzione in termini adattivi, e
quindi il contributo dell’elaborazione cognitiva. A questo punto interviene la sofferenza psicologica,
che nasce dall’emersione di una serie complessa di emozioni che si manifestano alla nostra
coscienza in sequenza temporale: prima le emozioni primarie, naturalmente, e poi a ventaglio le
secondarie, che si articoleranno nelle loro innumerevoli sfumature, fino a creare quel sentimento di
fondo fatto di disagio e malessere non meglio identificati, sul quale si innesta, richiamato da uno
stimolo che a sua volta genera il ricordo spiacevole, la sofferenza psicologica.
Per esempio, riferendoci al dolore cervicale cui si è testé accennato, esso è evidentemente il frutto
di una postura scorretta che mantiene i muscoli del collo e delle spalle in tensione, cronicizzando un
atteggiamento posturale che dovrebbe fisiologicamente essere limitato alla breve reazione difensiva
o offensiva a una minaccia esterna. La cronicizzazione del dolore indica invece che la causa di esso
non è in un fenomeno esterno e contingente, ma è identificabile con l’atteggiamento della persona
la quale non riesce a dare forma e significato al problema che sta alla base e che crea tensione.
Il dolore fisico, in altre parole, è evidentemente solo un segnale di un disagio o di una sofferenza
psicologica che si cerca di ignorare. A questo punto, se la sfera cognitiva non riesce ad affrontare il
problema, quello che fino a un certo momento era solo un malessere o un disagio diventa un vero e
proprio dolore, richiamando l’attenzione della persona, la quale sarà portata a condividere la sua
sofferenza con un medico o almeno con i suoi conoscenti. Ecco che un disagio psicologico, su base
sociale, si trasforma in un dolore fisico il quale a sua volta determina una sofferenza psicologica, in
un circolo vizioso che può essere interrotto solo dalla volontà di affrontare e risolvere il problema
sottostante.

3 . 5 . Esiste una evoluzione delle emozioni?

Come gli scienziati evoluzionisti avevano osservato, l’emozione è uno degli strumenti che il lungo
percorso evolutivo dell’uomo ha sviluppato a scopo adattivo (Damasio, 1995; Dawkins, 1995,
2006; Ekman, 1999; Galati, 2002). Ma a differenza dell’epoca di Darwin, epoca in cui, per la
maggior parte dell’umanità (a parte la classe dei nobili o dei benestanti inglesi cui egli

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apparteneva), il problema principale era quello di trovare qualcosa da mangiare nello spazio di
tempo tra l’alba e il tramonto, nell’attuale ipertecnologico e ricco mondo occidentale non è più
sufficiente scampare un pericolo, ma occorre pianificare e organizzare la propria vita intorno a uno
scopo. Altrimenti, senza cioè una corretta organizzazione della propria vita sociale, ci sono buone
probabilità che la sopravvivenza sia comunque garantita dalla società, ma che si sia estromessi dalla
possibilità di fruire delle sue conquiste, che si traducono in benessere e qualità della vita.
Secondo la concezione evoluzionistica che ruota intorno ai concetti di selezione e di adattamento,
la sofferenza psicologica potrebbe nascere dalla valutazione cognitiva relativa alla discrepanza tra il
nostro nuovo ambiente e determinate capacità cerebrali che non si sono evolute abbastanza in fretta
per affrontare le nuove sfide ambientali. Il contesto tecnologico e socioeconomico evolve infatti in
maniera infinitamente più veloce del cervello, che si trova quindi a dover affrontare nuovi pericoli
che colgono impreparati i suoi sistemi di difesa (Diamond, 2007; Minois, 2003, p.303; Sapolskj,
2006).
E poiché l’avvento dell’era delle telecomunicazioni in tempo reale consente a chiunque nel mondo
di essere al corrente di ciò che accade là dove la qualità della vita è più alta, la naturale tendenza di
ogni essere vivente a ricercare il piacere e sfuggire il dolore porta inevitabilmente ad effettuare
continui confronti tra la propria condizione di vita e quella - migliore - di cui godono altri, e a
cercare quindi di ottenere ciò che non si ha ancora. Da questo conflitto nasce quella spirale di
continua insoddisfazione che è causa della nostra sofferenza psicologica, che il buddismo definisce
con una sola parola, samsara, a cui si aggiunge, di solito, quella legata alla frustrazione dei nostri
bisogni affettivi e relazionali.
Ricondurre la sofferenza psicologica a una semplice emozione, o somma di emozioni, le quali
presentino la caratteristica di produrre i loro effetti anche dopo l’estinzione dello stimolo che le ha
causate, è a questo punto evidentemente riduttivo.
L’impressione che si ricava dall’esperienza e dall’osservazione della realtà, avvalorata dalla scarsità
di ricerche sul tema della sofferenza psicologica e delle emozioni ad essa correlate, è che l’idea
diffusa di emozione sia fondamentalmente rimasta, sia a livello della sua accezione comune e
popolare, sia anche da parte di coloro che con le emozioni hanno a che fare per motivi di studio e di
ricerca scientifica, la stessa che è stata oggetto delle prime osservazioni condotte un secolo e mezzo
fa da Darwin, nate, oltretutto, con particolare riferimento a quelle primarie degli animali.
Bisogna però considerare che mentre le sensazioni corporee e le percezioni sensoriali sono le stesse
da milioni di anni per tutti i mammiferi, essendo legate a una serie di processi relativamente
semplici e legati alla sollecitazione di strutture nervose di base, tutti gli elementi strutturali e

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funzionali che su di esse si innestano, integrando sulla prima elaborazione sensoriale quella delle
aree più evolute della neocorteccia (in particolare le aree prefrontali), subiscono una modificazione
tanto più significativa quanto più gli stimoli elaborati si fanno complessi.
In particolare, è plausibile affermare che emozioni e sentimenti dell’uomo moderno abbiano subito
le stesse modificazioni che la nostra mentalità, il sistema di organizzazione della società, la visione
sistemica e più complessa del significato della vita hanno subito per effetto dello straordinario
sviluppo delle conoscenze di questo ultimo secolo.

3 . 6 . Distinzione tra emozioni e sofferenza psicologica

Se si considerano le emozioni come disposte su diversi livelli gerarchici, possiamo porre alla base
le emozioni primarie, le quali sono comuni ad altre forme di vita superiori, e si manifestano in essi
nella forma di tutto o niente, senza modulazioni e senza combinazioni tra esse, ma una alla volta.
Negli esseri umani, però, le emozioni primarie non si manifestano mai come tali, ma sempre
elaborate sotto forma di secondarie o sociali: questo perché negli esseri umani l’emozione si
accompagna sempre ad una sua elaborazione cognitiva, se pur successiva, che la colloca nel suo
contesto e all’interno dei ricordi e dell’esperienza di chi la vive (Ekman, 1984; Damasio, 2005;
Lazarus, 1991; Schachter, Singer, 1962; Scherer, 1984). Così, nessun essere umano prova
semplicemente rabbia come un animale che venga stuzzicato: essa può declinarsi in frustrazione,
irritabilità, nervosismo, insonnia, può scaricarsi in modi diversi, con un’ aggressione fisica o
verbale, con l’intentare una causa legale ecc. Questo perché ogni emozione è legata al contesto
ambientale e alla storia personale.
Ma ritorniamo brevemente alle emozioni primarie. Escludendo la gioia, che appare incompatibile,
per definizione, con il dolore, cerchiamo di analizzare sinteticamente analogie o differenze con le
emozioni primarie restanti:
Tristezza: ogni forma di sofferenza psichica, comunque la si intenda, si accompagna molto
strettamente a una profonda tristezza. Quest’ultima è un’ emozione che raccoglie in sé tutti quegli
stati cognitivi ed emozionali riconducibili ad una valutazione, in senso negativo, di una certa
situazione che ci coinvolge da vicino (Galati, 2002). La tristezza, però, anche nelle sue forme più
profonde, non comporta un coinvolgimento viscerale e globale del corpo e della mente come quello
che chi lo vive descrive come sofferenza vera e propria. La tristezza può produrre uno stato
d’animo, un modo di essere che si può declinare nella forma di melanconia, tendenza all’isolamento
e alla solitudine o al pessimismo, rassegnazione, senso di impotenza o frustrazione, ma non

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coincide con la sofferenza psicologica, la quale è una “sensazione mentale” percepibile come
separata dall’evento che l’ha prodotta. In realtà, tra le emozioni primarie, abitualmente poste sullo
stesso piano classificatorio e descrittivo, la tristezza è quella che più si avvicina alla nozione di
dolore psicologico che è stata fin qui descritta. Essa, a differenza della sorpresa, del disgusto, della
gioia, della rabbia e della paura (che hanno una durata normalmente misurabile in termini di
secondi o minuti), può assumere una durata diversa dalle altre perché può essere facilmente
rievocabile e mantenersi presente quasi costantemente alla nostra attenzione per tempi molto più
lunghi. È vero che è possibile descrivere una persona come rabbiosa o irritabile, e infatti queste due
emozioni sono quelle che, insieme alle altre negative e alla sorpresa, neutra, costituiscono il
substrato del dolore psicologico. Ma occorre ricordare che le emozioni si presentano separatamente,
nel senso che richiedono un’attenzione e un’ attivazione selettiva (anche se diverse di esse possono
susseguirsi nello spazio di pochi secondi), mentre il dolore psicologico è una condizione che deriva
dall’elaborazione di tutte le emozioni negative, e si riferisce quindi solo a situazioni che
coinvolgano in maniera sistemica la nostra sopravvivenza sociale. Anche le emozioni (la radice
etimologica è la stessa del latino motere), si sono sviluppate per attivare una reazione. Ma nel caso
delle emozioni, questa attivazione è immediata, innata, in parte - e inizialmente - automatica, e
cessa con la scomparsa dello stimolo. Il dolore psicologico, invece, si innesta in un secondo tempo
su questo substrato, permette un’ analisi ponderata e articolata della situazione e delle emozioni ad
essa correlate e si manifesta quando, superato un certo valore di soglia (dato, tra l’altro, dalla
contemporanea presenza di tutte le emozioni negative, declinate diversamente nelle loro derivate
secondarie), si sostituisce all’emozione configurandosi come substrato e innesco di una
elaborazione cognitiva ed emozionale potenzialmente molto complessa, che richiede la
predisposizione di un piano d’azione destinato a rimuovere la causa del dolore.
Rabbia: la rabbia è una emozione che attiva le nostre energie verso una reazione precisa, e non è
mai, anche nel linguaggio comune, associata alla sofferenza. Essa può seguire a una situazione di
sofferenza, o può essere rivolta a lenire o risolvere una situazione di sofferenza, ma non coincide
con essa.
Sorpresa: la sofferenza psicologica presuppone l’intervento di uno stimolo o il verificarsi di un
evento che può essere anche atteso, ma che è sempre temuto e vissuto come spiacevole. Chi soffre
psicologicamente vive con sorpresa il rievocare la situazione dolorosa, e anche quando questa
occupa quasi costantemente i nostri pensieri, essa è vissuta con la sorpresa di trovarla lì, dentro di
noi.

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Paura: come accennato, la sofferenza psicologica è legata sempre a una situazione spiacevole, che,
in quanto tale, non può non essere temuta, e la paura può far parte delle componenti che causano la
percezione della sofferenza psicologica. Non è la paura, però, a produrre tale sofferenza, né essa
produce necessariamente paura per il futuro, cioè ansia. Come si diceva poc’anzi, la sofferenza è
un’ entità a sé stante, autonoma, che vive una vita propria.
Disgusto: in senso lato, e cioè fino a ricomprendere il disprezzo o la repulsione per sé o per gli altri,
questa emozione non ha evidentemente particolari legami con la sofferenza psichica, salvo che la si
intenda come forma di avversione verso chi riteniamo responsabile del nostro dolore, quando non si
caratterizza come rabbia. Se però intendiamo il disprezzo come quello che gli altri ci rivolgono, per
ciò che siamo o per qualche nostro comportamento, allora anche questa emozione primaria assurge
a base per la formazione della sofferenza psicologica, costituendo anzi uno dei fattori fondamentali
per la produzione del “dolore sociale”.
Quanto agli altri stati d’animo o alle emozioni complesse o secondarie, è chiaro che vergogna,
senso di colpa, rimorso, impotenza e tutte le altre condizioni negative dell’esistenza possono ben
accompagnarsi ad essa, ma non coincidono. Ognuna di esse, semmai, fornisce una coloritura
diversa alla sofferenza.

3 . 7 . Il “sentimento di fondo” come substrato della sofferenza psicologica

Antonio Damasio sostiene l’esistenza di sentimenti “emotivi”, e cioè la rappresentazione mentale


cosciente di un’ emozione, la quale rappresenta quindi un livello di elaborazione superiore a quello
del semplice manifestarsi nel nostro corpo di quest’ultima, sia essa primaria o sia essa secondaria o
sociale. Egli sostiene che il più delle volte non sono queste le emozioni che avvertiamo, ma altre
emozioni, più o meno intense, che si accompagnano al “sentimento” del tono fisico generale
dell’organismo. “Ho denominato “sentimenti di fondo” [...] la lettura cosciente di tale
perturbazione di fondo, perché questi sentimenti non sono in primo piano nella nostra
mente” (Damasio, 2005, p. 343).
In altri termini, i “sentimenti di fondo” contribuiscono a definire il nostro stato d’animo e colorano
la nostra vita. Damasio è in grado di descrivere con precisione quali siano questi stati della mente,
anche se si limita a elencare l’affaticamento, l’energia, l’eccitazione, il benessere, il malessere, la
tensione, il rilassamento, l’agitazione, il trascinarsi, la stabilità, l’instabilità, l’equilibrio, la
mancanza di equilibrio, l’armonia, la discordia. Ma l’aspetto più interessante per il nostro tema è
che secondo Damasio “quella che intercorre tra sentimenti di fondo e pulsioni e motivazioni è una

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relazione intima: le pulsioni si esprimono direttamente nelle emozioni di fondo e noi ne diventiamo
consapevoli per mezzo dei sentimenti di fondo”. (Damasio, 2005, p. 344).
Quando si parla di sofferenza psicologica ci si riferisce alla manifestazione ultima di un processo
che nasce da un evento scatenante legato a una separazione e che subisce poi una serie di
elaborazioni complesse emozionali e cognitive. Essa si manifesterà immediatamente in maniera
acuta, ma a seguito di una elaborazione che coinvolge le esperienze uniche di ognuno la sofferenza
psicologica può trasformarsi in condizione cronica. In questo caso essa agisce surrettiziamente
alterando impercettibilmente le condizioni di salute, con gli stessi effetti che producono le emozioni
sull’organismo, nella forma di un complesso di emozioni di fondo perduranti, le quali
contribuiscono, come afferma Damasio, a definire il nostro stato d’animo senza bisogno che di esse
si abbia consapevolezza.
La nostra salute, il nostro benessere e la nostra stessa vita sono quindi condizionate dalla presenza
di queste emozioni di fondo legate a un conflitto profondo che non abbiamo la forza di affrontare,
ma che può riemergere alla coscienza in maniera immediata nel momento in cui un qualsiasi
stimolo esterno o interno ci riporta alla memoria l’esperienza negativa che ha dato origine all’intero
processo. Se a questo spostamento o risveglio dell’attenzione, che crea il sentimento di fondo della
sofferenza, si accompagna una elaborazione profonda dell’intero processo, la sofferenza psicologica
emerge come fenomeno a sé stante, in quanto, a differenza del sentimento, essa viene vissuta con la
stessa intensità di una sensazione fisica.
Sia le emozioni di fondo, sia il loro sentimento, sia il risveglio della sofferenza legata ad esse sono
tutti fattori negativi per la nostra salute e il nostro equilibrio psichico, i quali ne risentiranno in
misura sempre maggiore, man mano che il processo che produce sofferenza perdura. Come ogni
processo neurale, anche quello che produce la sofferenza psicologica trova riscontro materiale nel
rinforzo di circuiti neurali di attivazione legati alla necessità di mantenere in stato di all’erta il
sistema nervoso (e di conseguenza l’intero organismo) allo scopo di essere pronti a fronteggiare la
minaccia che produce questo stato d’animo negativo (Edelman, 1995).
Il problema è che sia lo stato d’animo sia la sua manifestazione più intensa, cioè la sofferenza
psicologica, sono solo il sintomo di un malessere interiore e di un conflitto che richiede una precisa
conoscenza dei termini del problema stesso e quindi una trasformazione in senso adattivo della vita
della persona. Fino a che non nasca tale consapevolezza, accompagnata dalla volontà di
cambiamento e dall’elaborazione cognitiva di un piano d’azione, la sofferenza continuerà ad agire
indisturbata. Il passo successivo sarà quindi il consolidamento e lo sviluppo ulteriore, ad ogni
risveglio della sofferenza, di quei circuiti neurali che si sono attivati o sono stati rinforzati per

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effetto della valutazione emozionale e cognitiva della negatività dell’evento scatenante, e
specialmente della sua potenziale pericolosità in termini di sopravvivenza, di limitazione o di
menomazione del nostro sé “ sociale”, affettivo o relazionale.
La condizione di sofferenza psicologica cronica produrrà quindi un incremento nell’attività del
sistema deputato alla difesa del sé (per certi versi sovrapponibile alla Sindrome Generale di
Adattamento di Selye), ma con ripercussioni, con il perdurare della condizione di alterazione,
sempre più gravi sull’intero sistema, sia a livello organico che psicologico e comportamentale
(Sapolsky, 2006; Selye, 1946).
La conclusione di questo processo sarà inevitabilmente una graduale trasformazione del sistema dei
circuiti neurali deputati ad assicurare la capacità adattiva, in un sistema sbilanciato pesantemente
verso la gestione di una situazione vissuta come minacciosa e dolorosa, senza che ad essa si sia
stati in grado di elaborare una soluzione in senso adattivo. Inoltre, il rinforzo di parte dei circuiti
neurali comporta sempre un certo dispendio di energia metabolica che deve essere attinta a scapito
della funzionalità e dello sviluppo di altri circuiti. È plausibile ipotizzare che i più penalizzati tra
essi, in una situazione di sofferenza psicologica cronica, siano quelli che sarebbero destinati alla
cura e allo sviluppo del benessere psicofisico, che devono cedere il passo alle necessità biologiche
di difesa nei confronti della sofferenza. Tutto questo conduce, sul piano fisico, a un indebolimento,
a un lento logorio dell’organismo, il quale sarà sempre più suscettibile a contrarre malattie o ad
accelerare processi patologici o degenerativi già in atto; ma anche a un indebolimento sul piano
psicologico, con tutte le conseguenze, in un circuito a feedback positivo, che possono essere
prodotte da una condizione perdurante di sofferenza psicologica, e cioè di insicurezza, confusione,
riduzione dell’autostima, perdita di entusiasmo e di voglia di vivere, e così via.
La sofferenza psicologica si fonda, quindi, sulla consapevolezza dell’esistenza di una condizione
particolarmente dannosa e contrastante con il nostro equilibrio psichico, inteso questo non nel
senso psicopatologico del termine, ma come armonia tra pulsioni, bisogni, desideri e loro
soddisfacimento. Si tratterebbe, in pratica, di uno stato della mente che mantiene fortissimi legami
con le emozioni, primarie e secondarie, ma sviluppandosi solo come ulteriore elaborazione
emozionale e cognitiva del relativo sentimento di fondo.
Nel caso della sofferenza psichica, il “dolore” nasce dalla constatazione e dalla elaborazione di
questo sentimento di fondo, il quale non è legato alla percezione sul piano sensoriale di dolore
fisico, ma alla percezione di una condizione emozionale e cognitiva che ci prospetta come
potenzialmente imminente la minaccia alla conservazione e all’integrità funzionale del nostro sé,
non del nostro corpo. Il problema è quello di “salvare la faccia” o di recuperare la stima perduta o la

95
persona che ci ha lasciati, e non si tratta di un problema da poco, perché investe la sopravvivenza
dell’individuo come essere sociale.

3 . 8 . Schema del processo di nascita e sviluppo della sofferenza psicologica

Perché questa sofferenza è così rapida a riemergere, spesso in maniera intrusiva, dal momento che
si colloca come sentimento di fondo e non di superficie? La risposta che qui si vuole proporre è che
essa è un insieme di emozioni negative, ed è proprio la sinergia di questo insieme, unita alla
valutazione cognitiva, che la rende un’esperienza dolorosa.
Schematizzando la dinamica del processo che ruota intorno alla sofferenza psicologica, si può
ipotizzare che essa si manifesti inizialmente a partire da uno stimolo esterno, caratterizzato da una
rottura improvvisa e violenta di un legame sociale o affettivo, il quale produce, in progressione
temporale, emozioni primarie, poi secondarie, e poi una elaborazione cognitiva più o meno
profonda dell’intero processo realizzatosi fino a quel momento. Spento o attenuato
temporaneamente l’effetto delle emozioni grazie all’intervento di compiti “distraenti”, il risultato di
questo processo di elaborazione di emozioni diverse, semplici e complesse, resta come sentimento
di fondo. Esso è responsabile di una condizione di irrequietezza, malessere, insonnia o malumore,
sul cui terreno può riemergere di nuovo la sofferenza psicologica in forma acuta (reiterando il
processo), quando uno stimolo innesca il ricordo che attiva le emozioni primarie, poi le secondarie,
dando luogo a una nuova elaborazione cognitiva (la quale questa volta può beneficiare della
elaborazione precedente).
Quindi, la sofferenza psicologica è un processo che comprende elaborazione di emozioni primarie e
secondarie, il loro “sentimento complessivo” ed elaborazione cognitiva, e si articola in due fasi:
- la prima è quella del fattore scatenante esterno,
- la seconda, invece, può essere stimolata dal ricordo e non più necessariamente da
quello stesso fattore, e può riattivare il processo seriale più volte, fino a che non si
sia prodotta una modificazione dell’atteggiamento e dello stile di vita della persona,
il quale risulti utile a risolvere il problema in senso adattivo.

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SOFFERENZA PSICOLOGICA
Stimolo Emozioni Emozioni Sentimento Elaborazione
primarie secondarie complessivo cognitiva

Rimozione, distrazione o
evitamento del problema

Sofferenza come
sentimento di fondo

Modificazione
Ricordo dell’atteggiamento e
dell’esperienza dello stile di vita
scatenante

Riduzione a livelli
fisiologici della
sofferenza, adattamento
e accomodamento

Fig. 2: Schema del processo di produzione e riduzione della sofferenza psicologica, proposto dall’autore.

La sofferenza psicologica si caratterizza come un insieme dapprima confuso, ma poi perfettamente


distinguibile nelle sue componenti (se riusciamo a porre ad esso sufficiente attenzione), costituite di
emozioni ed elaborazioni cognitive diverse. Con la sola esclusione della gioia, l’evento scatenante
attiva tutte le emozioni primarie. Superata la fase iniziale del manifestarsi dell’emozione (la quale è
sempre di breve durata) subentra la declinazione di ognuna di esse nelle sue diverse manifestazioni
secondarie o sociali, grazie all’interazione con i ricordi e i modelli e gli schemi cognitivi che
l’emozione stessa risveglia. Quasi contemporaneamente l’organismo reagirà a livello neurale,
ormonale, immunitario e psicologico, mettendo in atto tutte le sue strategie specifiche di difesa dal
pericolo. Per esempio, se si pensa al dolore di una separazione tra coniugi in cui uno di essi sia più
o meno inaspettatamente abbandonato dall’altro, quello che emerge, al di là del rapido divampare
delle emozioni primarie, è la valutazione delle emozioni secondarie.

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Dalla sorpresa si passerà alla recriminazione con sé stessi per non aver previsto il fatto, e quindi alla
prima ferita inferta alla propria autostima.
Dalla rabbia per il modo in cui l’evento si è consumato, si passa all’odio, verso il coniuge o verso la
persona di cui il coniuge si è innamorato, e poi all’impotenza e alla frustrazione.
Dal disgusto o disprezzo nasce anche qui odio verso gli altri, e perdita di autostima (a seconda che
tale disprezzo sia quello che noi rivolgiamo agli altri, o quello che gli altri rivolgono a noi).
Dalla tristezza emergono i rimorsi, i rimpianti, le recriminazioni, i sensi di colpa.
Dalla paura la vergogna per i commenti dei conoscenti e degli amici e per le loro reazioni
comportamentali.
Ecco che, allora, ognuna di queste emozioni attiverà i suoi specifici meccanismi: la rabbia
scatenerà una reazione neuro-ormonale che, non potendo scaricarsi come e quando si vorrebbe,
richiederà l’attivazione di altri processi di modulazione, che porteranno via energie al sistema,
causando scompensi in altre zone; la tristezza e la paura (per esempio della derisione o del
disprezzo altrui) condurranno a una chiusura in sé stessi e alla perdita del conforto dato dall’affetto
degli altri; la sorpresa e la conseguente valutazione negativa dell’evento rinforzeranno ulteriormente
i circuiti neurali deputati al monitoraggio degli stimoli negativi, rendendo la persona più timorosa e
circospetta nei confronti del prossimo. L’insieme di questi processi potrà condurre a una forma di
esaurimento che danneggia il sistema immunitario, causandoci predisposizione a malattie,
debolezza, astenia; condizioni che, a loro volta, influiranno negativamente sul tono dell’umore
facendoci entrare in un circolo vizioso.
In particolare l’emisfero destro, deputato a ricevere e compiere una prima elaborazione degli eventi
nuovi e di quelli negativi, andrà a rinforzare i propri circuiti perché sollecitato dal riemergere e dal
rimuginio del ricordo, per poi passare l’elaborazione all’emisfero sinistro (Dozier, 1999; Edelman,
1995; Goldberg, 2005).
Le aree perippocampali registreranno l’esperienza nella memoria a lungo termine, ma poiché essa
resta una ferita aperta, esse si rinforzeranno continuamente, rendendo più rapido ed efficace il
collegamento tra i diversi circuiti neurali legati alla gestione della sofferenza, a scapito di quelli
deputati alla ricerca di miglioramento del benessere (Bear, Connors, Paradiso, 2007; Schacter,
1996).
Il ricordo del dolore fisico è normalmente scialbo, e la sua rievocazione (ci si riferisce a quella del
dolore in sé, non delle circostanze ad esso collegate) non produce una particolare attivazione. Se si
tratta di sofferenza psicologica, invece, essa non sembra scemare col tempo e può essere rivissuta
con rapidità producendo un’ attivazione dolorosa molto simile per qualità e intensità a quella del

98
momento in cui essa è stata scatenata. La persona abbandonata dal coniuge ricorderà sempre con
dolore quel momento, perché esso, pur non producendo una sollecitazione nocicettiva, è in grado di
riattivare tutte le complesse emozioni di cui si è fin qui parlato.
La neocorteccia invierà segnali a tutto il corpo e alle sue funzioni difensive, in modo da mantenere
l’organismo nella condizione ideale per reagire prontamente ai pericoli impliciti nella percezione
della sofferenza psicologica, ma anche per garantirne la migliore efficienza possibile, pur nei limiti
concessi dall’indebolimento psicofisico conseguente alla percezione cronica della condizione di
sofferenza stessa. Questo dirottamento dell’attenzione del sistema nervoso verso l’elaborazione
emozionale e cognitiva di un evento passato si dimostra quindi, evidentemente, assolutamente
disfunzionale al ripristino dell’omeostasi e alla gestione degli eventi della vita in una equilibrata
ottica adattiva basata sulla fiducia in sé stessi e sull’autoefficacia.
La sofferenza psicologica impedisce una serena e razionale valutazione delle prospettive future
dell’esistenza, in quanto costringe il sistema nervoso, monopolizzandone l’attenzione, a mettere in
atto continui tentativi di sopprimere o almeno attenuare il dolore psicologico, senza l’elaborazione
cognitiva del quale le poche energie residue saranno spesso insufficienti e inadeguate ad affrontare
le sfide che la vita, indifferente al nostro dolore, ci sottopone. Questo è il motivo per cui è
importante insistere sulla necessità di intervenire prontamente per offrire un supporto terapeutico
alla elaborazione della sofferenza psicologica, anziché limitarsi a considerarla come un innocuo
effetto collaterale prodotto da una malattia o connaturato alla nostra esistenza. Che la felicità non ci
sia stata garantita, né possa esserlo, da nessuno, era ferma convinzione di Schopenhauer, secondo il
quale “C’è un unico errore innato: credere che esistiamo per essere felici. La salute sta così al di
sopra che è più felice un mendico sano di un re malato. In genere, i nove decimi della nostra felicità
si basano esclusivamente sulla salute. Con questa ogni cosa diventa fonte di
godimento”(Schopenhauer, 1851, trad. it. 1981, p.63).
Se è vero che la salute non ci può essere garantita e che la sofferenza psicologica fa parte
dell’eredità biologica della nostra specie, ciò non significa che essa sia sempre inevitabile o che
debba semplicemente essere fatalmente o religiosamente sopportata. Occorre imparare a
discriminare tra dolori utili, in quanto “sistemi di segnalazione di anomalie”, sia a livello fisico che
psichico, e sistemi i quali hanno perso, se mai l’hanno avuta, la loro originaria funzione di
segnalazione: si pensi in proposito al dolore fisico del malato terminale, assolutamente inutile sotto
tutti gli aspetti, ma anche a quello, altrettanto inutile, di chi permette a un lutto o a una separazione
di condizionare negativamente la propria esistenza. Non si sta qui sostenendo l’idea che la
sofferenza legata alla nostra sfera affettiva sia inutile, naturalmente, ma solo che essa diventa inutile

99
e patologica se non conduce ad una elaborazione del suo significato e impedisce la conduzione di
una normale vita sociale.
Alla luce di queste argomentazioni emerge sempre più impellente una maggiore attenzione
terapeutica rivolta all’eliminazione del dolore inutile, là dove ciò è tecnicamente possibile, e al
supporto nella gestione ed elaborazione cognitiva della sofferenza psicologica, per evitare che
anch’essa, cronicizzandosi, diventi non solo inutile, ma addirittura pericolosa e nociva anche per la
salute dell’organismo. Questo è appunto l’argomento che sarà affrontato nel prossimo capitolo.
Prima, però, sarà utile riassumere le conclusioni cui si è giunti a questo punto dell’esposizione delle
precedenti argomentazioni, avanzandone una nuova, che va a corroborare l’ ipotesi secondo cui la
sofferenza psicologica perdurante è assimilabile a quella fisica sul piano delle conseguenze sulla
salute, anche per la presenza di effetti collaterali e indesiderati ad essa legati.

3 . 9 . Effetti collaterali e indesiderati della sofferenza psicologica

È possibile ora riprendere con maggior cognizione di causa l’analisi delle somiglianze e delle
differenze, sul piano della eziologia e dei loro risvolti psicologici e filosofici, tra i diversi tipi di
dolore che si stanno analizzando, in modo da riassumere ancora una volta, alla luce delle ultime
argomentazioni proposte, le caratteristiche distintive della sofferenza psicologica.
È importante chiarire, infatti, che secondo l’ ipotesi qui avanzata la sofferenza psicologica è sempre
necessariamente legata a valutazioni di carattere sociale che riguardano la qualità della nostra
appartenenza al contesto sociale nel quale viviamo. Ciò non significa, tuttavia, che non esista una
sofferenza psicologica legata a una esperienza di dolore fisico, o che non sia possibile soffrire
psicologicamente anche se la causa di tale sofferenza non è ravvisabile nel comportamento
specifico di una persona o di un gruppo sociale. Quello che si sostiene è che perché si possa parlare
di sofferenza psicologica è sempre necessaria l’acquisizione della consapevolezza, da parte
dell’individuo che soffre, del fatto che un determinato evento sia suscettibile di causare una sua
esclusione o limitazione sociale, riducendo il livello di sicurezza che l’individuo stesso riconosceva
essergli dato dall’ambiente in cui era vissuto fino a quel momento.
Esempi pratici di sofferenza psichica sono, infatti, separazioni, abbandoni, rifiuti, e in genere tutte
quelle situazioni in cui la rottura di un legame (sia essa definitiva o temporanea, sia essa parziale o
totale, si riferisca a un legame personale e affettivo o professionale e sociale), mette a repentaglio il
nostro sé a livello sociale.

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Mentre il dolore fisico si consuma normalmente in privato e riguarda solo noi, essendo prodotto in
ultima analisi da una causa esterna o interna e non da una persona, la sofferenza psichica si
caratterizza per il fatto che essa implica una relazione umana. Quindi, a differenza del dolore fisico,
essa ha sempre una componente affettiva, o “disaffettiva” essendo causata da un evento o un
comportamento messo in atto da altri nell’ambito di una relazione con noi.
Al dolore fisico conseguente, come nella maggior parte dei casi, a un incidente, una malattia, un
trauma fisico, può accompagnarsi un’ emozione o uno stato d’animo legati all’elaborazione del
contesto nel quale il dolore è stato prodotto, quali il disappunto per la sbadataggine che ci ha fatto
inciampare, o la rabbia verso l’automobilista che ci ha tagliato la strada causandoci un incidente.
Ma queste emozioni non sono causa di sofferenza psicologica, perché non si evolvono in emozioni
sociali. Queste ultime possono nascere solo, in tali situazioni, se l’elaborazione dell’evento permette
di analizzare il comportamento altrui nei nostri confronti, e di giudicarlo offensivo, lesivo, dannoso,
pericoloso. In altre parole, causa effettiva o potenziale di rottura di un legame. In questi casi, da un
dolore fisico può nascere successivamente una sofferenza psicologica. Ma, come si nota, essa
prescinde dal dolore fisico, concentrandosi sulle conseguenze di esso (le ripercussioni negative sulla
nostra vita) oppure sulle motivazioni attribuite al responsabile della situazione che ha causato il
dolore. Il fatto è che noi siamo abituati, nel linguaggio comune ma anche a livello scientifico, a
riferirci al dolore come a un’ attivazione conseguente a una lesione, e questa non ha abitualmente
colpevoli, per cui non richiede e non comporta particolari elaborazioni o valutazioni, se non quelle
cliniche riservate al medico. In altre parole, di solito il dolore fisico resta un episodio che coinvolge
soltanto la relazione tra la persona che lo patisce e il suo organismo.
La sofferenza psichica, invece, compensa quello che le manca in termini di percezioni sensoriali
con una valutazione cognitiva ed emozionale di straordinaria complessità e profondità: l’essere
rifiutati dal gruppo di coetanei, dalla persona che si ama, l’essere bocciati a un esame, sono eventi
che producono sofferenza perché comportano una elaborazione cognitiva ed emozionale che viene
percepita come sofferenza, tanto più profonda e persistente quanto più essa vada a mettere in
pericolo l’ immagine di sé che spendiamo in ambito sociale, la nostra possibilità di appartenenza al
gruppo, e quindi la sicurezza e protezione che esso ci offre.
Quindi, acquisiamo la consapevolezza precisa di essere in pericolo. Ma il pericolo non è né
presente, né materialmente visibile, né suscettibile di causare un danno immediato a livello fisico,
per cui non si vengono ad attivare i noti meccanismi legati alla sopravvivenza. La nostra mente,
allora, mantiene viva l’attenzione sull’evento per costringerci a produrre una modificazione in senso
adattivo della situazione stessa, e lo può fare solo dandoci una sofferenza a livello psicologico e non

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certo fisico (altrimenti ci limiteremmo a risolvere il problema organico, senza indagare e cercare di
risolvere il problema psicologico).
Il dolore fisico è quindi uno strumento, peraltro spesso inaffidabile e controproducente, che si limita
a prendersi cura del nostro corpo. Quello psicologico si è evoluto per garantire la salute e l’armonia
del nostro atteggiamento mentale e della nostra relazione col mondo. In entrambi i casi,
l’evoluzione ha fatto in modo di suscitare una reazione: quella nota e ampiamente studiata, nel caso
del dolore fisico, che produce una sensazione spiacevole, e quella poco nota legata al dolore
psicologico che non può produrre, per evitare confusioni nella messa in atto del piano di reazione,
la stessa sensazione, e quindi trasferisce sul piano mentale ed emozionale quello che a livello fisico
si chiamerebbe dolore.
Il cervello, come è noto, è privo di fibre nocicettive, per cui il rozzo espediente dell’evoluzione è
consistito nel creare quella condizione mentale che più di ogni altra potesse essere vissuta come
dolore, pur in assenza di sollecitazione di fibre nervose. Ciò significa che, avendo a disposizione
solo le nostre emozioni, e non le percezioni sensoriali, la sofferenza psicologica poteva essere
prodotta solo amplificando, aggregando e rendendo perduranti gli effetti sul nostro sentire delle
emozioni negative, in modo da mettere sull’avviso le aree prefrontali del sistema nervoso centrale
circa la necessità di intervenire modificando il nostro comportamento (e non solo producendo una
reazione riflessa o istintiva).
Ci sembra molto importante sottolineare, tuttavia, che il problema con cui l’evoluzione deve fare i
conti, nella moderna società attuale, consiste nel fatto che al di là dell’attivazione delle facoltà
cognitive superiori, la sofferenza psicologica produce anche effetti collaterali indesiderati i quali
erano infinitamente meno nocivi quando i fenomeni di esclusione sociale si limitavano a rarissimi
episodi che potevano verificarsi in un periodo molto limitato (legato all’ aspettativa di vita dei nostri
antenati, non superiore ai trent’anni).
La quantità di stimoli potenzialmente in grado di produrre sofferenza psicologica è evidentemente
proporzionale alla complessità di organizzazione della vita sociale e della rete di relazioni che la
costituisce, oltre al fatto che sempre nuovi “valori” sociali emergono per effetto del progresso
tecnologico; sempre maggiori esigenze di adeguamento a tali valori obbligano l’uomo moderno a
confrontarsi quotidianamente con conflitti legati allo squilibrio tra aspettative, nuovi bisogni e
nuovi desideri; la qualità della nostra vita e della salute permette di essere attivi e combattivi
praticamente per tutta la lunga vita dell’uomo moderno, esponendolo con ciò a un vero e proprio
bombardamento di stimoli dolorosi.

102
Il fatto che si abbia, o si creda di avere, la forza di affrontarli non esclude che le cause di sofferenza
psicologica, così diffuse, frequenti e inevitabili nella società attuale, agiscano silenziosamente sul
nostro benessere psicofisico, fino a che non sfocino improvvisamente in manifestazioni patologiche
spesso gravi, e dolorose anche sul piano fisico. È auspicabile che, a questo punto dell’esposizione
delle nostre argomentazioni al riguardo, sia più chiaro l’originale intento di evidenziare
l’importanza della cura degli aspetti psicologici del dolore, imparando a considerarli causa di
disagio e sofferenza psicologica, ma anche di ripercussioni patologiche sul piano fisico.

103
Capitolo 4°

La sofferenza psicologica nella ricerca clinica e scientifica.

In questo capitolo verrà introdotto il tema delle ripercussioni che la sofferenza psicologica può
produrre a carico della salute psicofisica. Alcune evidenze cliniche dimostrerebbero come una acuta
sofferenza psichica possa produrre (e non essere prodotta da) una sofferenza oggettivamente
osservabile a livello organico, dovuta a spasmi e contrazioni muscolari talmente forti e improvvisi
da causare appunto dolore fisico per il blocco di fisiologici processi organici (Jhonson, 2003).
Mancano, invece (ma solo per l’ estrema difficoltà di ricollegare scientificamente una condizione
mentale di sofferenza a un deterioramento organico), le prove che tale sofferenza, protratta a lungo
e quindi in qualche modo definibile come cronica, possa condurre all’insorgenza di malattie o
all’aggravamento di quelle esistenti, fino alla morte.

4 . 1 . Conseguenze organiche e patologiche della sofferenza psicologica

Come ormai decenni di ricerche e studi scientifici dimostrano, se è relativamente plausibile


affermare l’esistenza di un nesso di causalità diretta tra una forte emozione, l’ evidente attivazione
neurovegetativa che ne consegue, e un possibile danno a livello organico, dovuto alla modificazione
improvvisa della condizione omeostatica dell’organismo, non è altrettanto facile dimostrare che
questo stesso nesso esista quando le conseguenze sul piano organico si manifestano dopo un
periodo di tempo di mesi o anni, durante il quale infiniti altri fattori possono aver prodotto, o
partecipato a produrre, il danno che vorremmo attribuire alla sofferenza psicologica (Pedon, Gnisci,
2004).
Nel primo caso, quello della sofferenza psicologica acuta, ci troviamo di fronte a patologie legate al
dolore psicologico, le quali si riferiscono a un dolore acuto e improvviso, il quale è normalmente
localizzato a livello del petto, e più precisamente del muscolo cardiaco. Come è d’uso in ambito
medico, quando una patologia assume contorni incerti sia nella eziologia che nelle sue
manifestazioni cliniche, si preferisce definirla “sindrome”. In questo caso la sindrome, che nel
linguaggio comune chiamiamo ”del cuore spezzato”, gode del ben più esotico appellativo di
104
“takotsubo cardiomiopatia” e si caratterizza per sintomi simili all'attacco cardiaco, compresi il
dolore toracico e la mancanza di respiro, scatenati da un potente fattore di stress emotivo.
L’archivio medico-scientifico di Pubmed riporta ben 653 articoli che riguardano tale sindrome, a
conferma dell’interesse per un disturbo che ha evidenti e inequivocabili collegamenti con la sfera
emozionale dei pazienti. Secondo gli studi in questione, in circa 2/3 dei casi i pazienti erano stati
esposti ad una sorta di pericolo fisico o emotivo, come le cattive notizie su un familiare, un
problema domestico, l'annuncio di una grave malattia o di un incidente stradale o un grave
problema sentimentale. Poco dopo avevano lamentato i problemi cardiaci.
La sindrome, descritta per la prima volta da ricercatori giapponesi nei primi anni '90, è dovuta
secondo gli scienziati a un aumento degli ormoni dello stress, a partire dall'adrenalina, che possono
temporaneamente danneggiare il cuore.
In ogni caso, sia che si tratti semplicemente di una forma di attacco di cuore che “abortisce”, cioè
inizia a dare sintomi ma poi non prosegue non lasciando alcun danno permanente al muscolo
cardiaco, sia che si ritenga che la sindrome non abbia nulla a che fare con le arterie coronariche e
sia semplicemente un problema del muscolo cardiaco, è innegabile che la causa della maggior parte
di questi disturbi sia da ricercare in una alterazione repentina, improvvisa e intensa del sistema
neurovegetativo, dovuta a fattori emozionali e non certo organici.
Si osserva anche qui una certa resistenza della comunità scientifica a riconoscere un inequivocabile
collegamento causale tra forte emozione negativa e patologia organica. Forse per formazione, o
deformazione professionale, i ricercatori di formazione medica preferiscono sempre fare riferimento
agli anelli della catena causale immediatamente precedenti lo scatenarsi dell’attacco (la scarica
adrenalinica, l’attivazione del sistema simpatico) quasi a voler passare sotto silenzio il fatto,
innegabile, che essi, a loro volta, hanno una causa attivante. Affermare con decisione che
quest’ultima sia da ricercare in una serie di processi psichici, intuibili, ma non descrivibili, pone i
ricercatori di fronte a un problema metodologico e ad un grave conflitto psicologico interno:
riconoscere espressamente una causa immateriale e non descrivibile, all’origine di una patologia
organica (aprendo così la porta alla piena accettazione di un’ origine - anche - psicosomatica in tutte
le patologie), oppure limitarsi a descrivere con precisione l’insieme dei processi organici
descrivibili, lasciando a “ulteriori ricerche” il compito di indagare e chiarire gli aspetti più
controversi della ricerca.
Ci sembra che questa sia stata la scelta operata dalla ricerca scientifica, almeno per quanto risulta
dall’analisi della letteratura scientifica relativa alla “sindrome del cuore spezzato”. Più in generale,
resta comunque da chiarire se la forza dell’attivazione emozionale, alla base del dolore psicologico,

105
sia tale da produrre ricadute sul piano fisiologico tali da innescare o aggravare patologie vere e
proprie.
Qui occorre aver ben chiara la distinzione tra emozione, la quale di per sé produce una attivazione
limitata nel tempo e di breve durata, dal dolore psicologico come è stato definita finora, il quale ha
una durata maggiore, non dipendente dalla presenza dello stimolo originario, ed è in grado di essere
rinnovato, con tutta la sua carica potenzialmente tossica per l’organismo, dalla rievocazione, spesso
involontaria e dovuta a stimoli analoghi a quello scatenante, o a ricordi intrusivi.
Seguendo il filone di indagine aperto da questa ipotesi, il dolore psicologico, specialmente quando
protratto a lungo, produrrebbe danni organici e non solo psicologici, tali da condurre persino alla
morte.
Che si possa morire per le ripercussioni a livello organico di un dolore psicologico ormai
cronicizzato, resta un’ ipotesi corroborata da numerose prove indiziarie, ma non ancora
scientificamente dimostrata attraverso la descrizione e la spiegazione del percorso che dal dolore
giunge alla patologia.
Infatti, poiché la patologia a livello organico è tale solo se essa può essere ricollegata a una causa
diretta che sia riconducibile allo schema classico del rapporto causa - effetto, è chiaro che
qualunque patologia che si manifesti in maniera osservabile sul piano organico dovrà avere come
causa uno o più fattori altrettanto osservabili. La sofferenza psicologica non è uno di questi.
L’evento scatenante il meccanismo della sofferenza psicologica che è stato descritto nei capitoli
precedenti è un dato il più delle volte verificabile, almeno a posteriori, trattandosi nella stragrande
maggioranza dei casi di una separazione, un rifiuto, un trauma affettivo o sociale, cioè un evento
specifico oggettivamente realizzatosi nella realtà. Il problema è che tutto il meccanismo descritto
prende l’avvio e si sviluppa solo in seguito alla elaborazione emozionale e cognitiva dell’evento
stesso, e questo è un processo insondabile e non verificabile se non attraverso alcune manifestazioni
fisiologiche o patologiche (aumento del tasso di determinati ormoni o neurotrasmettitori,
attivazione della risposta immunitaria e di tutti i processi legati all’azione del sistema simpatico,
riscontro dell’attivazione di determinate aree cerebrali con tecniche di neuroimaging), le quali sono
di breve durata, e, nella pratica della ricerca, dovrebbero essere osservate e misurate solo nel
momento successivo al verificarsi dell’evento. Quest’ultimo, a differenza di semplici emozioni
come il disgusto, o di sensazioni come il dolore, non può essere evocato a comando (sempre che ciò
sia eticamente e praticamente corretto e realizzabile), secondo la volontà dello sperimentatore,
perché la reazione che conduce alla sofferenza psicologica non è una reazione universale, standard,
conseguente a uno stimolo riproducibile in maniera artificiale, come quella emozionale, ma è frutto

106
di una elaborazione individuale sempre diversa, legata alla rottura di una relazione affettiva che non
si può riprodurre in laboratorio.
Alla luce di queste considerazioni, è ora possibile fare il punto della situazione: se resta plausibile il
fatto che la sofferenza psicologica possa di per sé produrre conseguenze sul piano organico, resta
difficilissimo dimostrare che essa possa aver agito da concausa o da fattore scatenante l’episodio
acuto di una malattia, e ancora più difficile ipotizzarne il contributo all’aggravamento di una
patologia preesistente o allo sviluppo di una nuova, quando il periodo di tempo tra l’evento
stressante e la diagnosi si misura in termini di mesi o addirittura anni.
La dimostrazione sperimentale è praticamente impossibile se solo si riflette sull’impossibilità di
ricollegare l’evento emotivamente dannoso a disturbi anche lievi, come una semplice e banale
malattia infiammatoria. Eppure, se è evidente che una qualunque patologia infettiva, per esempio,
possa essere stata causata, negli ultimi anelli della catena causale, da germi e agenti patogeni
identificabili ed effettivamente in grado di causare l’infiammazione, non si può escludere a priori
che, per esempio, la reazione immunitaria che avrebbe dovuto impedire l’instaurarsi della malattia è
stata insufficiente o assente a causa di un deficit della risposta stessa indotta da una debolezza, a
livello generale, causata dallo stato di prostrazione prodotto dal dolore psicologico.
Quella che in questa analisi viene avanzata potrebbe non configurarsi come una semplice illazione,
se solo si pensa a come, a partire dai pionieristici studi di Selye sulla “Sindrome Generale di
Adattamento”, la depressione del sistema immunitario è considerata una delle conseguenze più
evidenti della esposizione a una condizione di stress (Sapolsky, 2007; Selye, 1946).
Se infatti riconduciamo il dolore psicologico al concetto di stress, ecco che il quadro ci appare più
plausibile, e siamo pronti ad accettare che di stress ci si possa ammalare e forse anche morire. Ma
perché allora, questa resistenza, anche solo a concepire il fatto che il dolore psicologico, che pure
tutti abbiamo sperimentato, non possa essere assimilato allo stress sotto il profilo delle sue
conseguenze sull’organismo?
Una prima risposta viene dal fatto che, come si è osservato fin dalle prime pagine di questo lavoro,
il dolore e la sofferenza sono condizioni non misurabili perché, come direbbe un filosofo, sono
esperienze dell’anima, e non della nostra componente materiale. E poiché la scienza ha bisogno di
lavorare su dati misurabili, con esperimenti ripetibili, pubblici e caratterizzati dall’intersoggettività,
è chiaro che il dolore, come tutti i nostri sentimenti o stati d’animo, potrà essere oggetto di indagine
e ricerca scientifica solo indirettamente, cioè tramite i suoi correlati fisiologici o comportamentali
oggettivamente osservabili. Un vero peccato, visto che si tratta di esperienze che possono essere
colte appieno solo facendone esperienza diretta, e che questa è oltretutto unica e irripetibile.

107
Per questi motivi, la ricerca scientifica ha preferito, o è stata costretta, a dirottare l’interesse per la
sofferenza psicologica modificandola in una condizione di disagio, di frustrazione, di stato d’animo
negativo, che ha poco in comune con l’esperienza del dolore psicologico, il quale, a differenza dello
stress, si fonda sull’ elaborazione di emozioni negative legate a disagio sociale o affettivo,
comunque relazionale. Invece, sottoporre una persona a una serie di piccole o grandi frustrazioni
ripetute, come inaspettati suoni sgradevoli o piccole scosse elettriche, se può condurre la persona, in
casi estremi, anche a gravi manifestazioni patologiche e di sofferenza psicofisica, non può essere
considerato un sistema utile per riconoscere gli effetti del dolore psicologico. Quest’ultimo, infatti,
presenta l’ inopportuna caratteristica di non poter essere prodotto a comando, o su iniziativa dello
sperimentatore, perché essendo legato alla rottura di una relazione umana, implica una situazione
ecologica non riproducibile in laboratorio. Certo, è sempre possibile ipotizzare di realizzare un
crudele esperimento nel quale la persona che ha appena subito una grave perdita affettiva, per
esempio, o uno studente che sia stato respinto inaspettatamente a un esame molto importante per la
sua vita e le sue aspettative, venga sottoposto a un test nel quale, tra i vari stimoli, vengano
introdotti quelli che rievocano inequivocabilmente e inevitabilmente la sua esperienza negativa.
Monitorare e misurare le sue reazioni fisiologiche e visualizzare le aree del cervello che vengono
attivate in queste situazioni a confronto delle altre sarebbe una pratica persino banale, se pur
eticamente discutibile. Ma cosa misureremmo, in realtà? Probabilmente solo alcune delle
componenti del dolore psicologico, e non comunque sufficienti, qualitativamente e
quantitativamente, per poterlo oggettivamente “misurare”.
Questo perché, come più volte evidenziato, il dolore psicologico è una condizione mentale
multicomponenziale che è tale solo se nasce da una elaborazione o rielaborazione di tutti gli stati
emozionali collegati con l’esperienza “dolorosa” vissuta, e quindi si configura come una condizione
psicologica di livello molto più complesso di quello della semplice esperienza stressante. Lo
stressor, invece, agisce anche indipendentemente dal suo collegamento con le emozioni. Quando
nell’artificiosità di un esperimento di laboratorio si vuole far vivere una condizione di stress, il
problema è facilmente risolvibile, perché in questo caso ci interessa solo verificare l’esistenza di
una attivazione, più o meno intensa, ma sotto il profilo quantitativo. Il dolore psicologico, come
quale, è analizzabile invece solo sotto il profilo qualitativo (Gureje, Simon, 1999).
Ma allora, se il dolore psicologico è costituito di emozioni primarie negative (e non di una sola
come abitualmente avviene), e da quelle secondarie o sociali da esse derivate; se il dolore
psicologico è anche, ma non solo, causato dalla reazione agli stressors; se, come per lo stress, ma a
differenza delle emozioni, esso si amplifica a causa della percezione dei sintomi fisici (irritabilità,

108
spossatezza, confusione mentale); se tutto questo è plausibile, allora il dolore psicologico dovrebbe
essere in grado di produrre sulla nostra salute psicofisica gli stessi effetti negativi che producono le
forti emozioni negative e le situazioni di stress, con l’aggravante di riunirle in un'unica esperienza
complessa, e di essere rinnovabile per la sola nostra rievocazione, spesso involontaria (senza
dipendere, quindi, come nel caso dello stress, dalla sottoposizione agli agenti stressanti).
In altre parole, se la persona stressata per il ritmo del suo lavoro, che lo costringe, per esempio, a
vivere nel traffico e alla ricerca di un parcheggio per gran parte della giornata, riesce a distrarsi e
rilassarsi attraverso un periodo di vacanza in una località tranquilla, gli effetti dello stress cessano
quasi immediatamente. Purtroppo, non avviene lo stesso nel campo del dolore psicologico, che ci
portiamo dietro ovunque andiamo, in qualunque attività siamo impegnati, fino a che non riusciamo
a integrarne il significato all’interno della nostra esistenza.
La differenza fondamentale tra reazione da stress e sofferenza psicologica è data dal fatto che gli
stressors sono fattori o circostanze contingenti che non sono necessariamente legati al
comportamento umano e non possono quindi produrre un dolore sociale. Anche se nel linguaggio
comune si afferma che una persona è causa di stress per un’altra, in realtà ciò significa che il
problema è relazionale, perché non è prodotto da un agente impersonale come avviene nel caso di
stress. Il rumore, il tempo, le condizioni dell’ambiente di lavoro, addirittura la temperatura o
l’umidità dell’aria possono essere causa di stress e produrre malumore, disagio, persino sofferenza o
malattie fisiche, ma non sono causa di sofferenza psicologica fino a che la condizione negativa che
producono non possa essere ricondotta alla rottura di una relazione affettiva o sociale.
In conclusione, è chiaro che, una volta ricollegato il concetto di dolore psicologico a una attivazione
emozionale nei termini sopra specificati, una semplice e corretta inferenza basata sulla logica
deduttiva impone di accettare l’idea che se:
1. le emozioni costituiscono il substrato del dolore percepito come psicologico
2. le emozioni sono in grado di causare una serie di complessi processi fisiologici a livello
sistemico, dalla perdita di pigmentazione dei capelli fino alla perdita di coscienza,
3. allora il dolore psicologico basato, anche se non esclusivamente, su tali emozioni, produce
necessariamente una serie di scompensi e di modificazioni fisiologiche, molte delle quali,
probabilmente, sono state attribuite fino ad oggi ad altri fattori o semplicemente ignorate.
Se a ciò si aggiunge il fatto che la sofferenza psicologica si configura come uno stato della mente
più complesso, più profondo e di durata maggiore di quello conseguente all’attivazione emozionale,
in quanto coinvolge l’elaborazione emozionale e cognitiva del significato soggettivo dell’evento, si
può ragionevolmente ipotizzare come le ripercussioni sulla salute della persona, se pur minime,

109
conseguenti allo squilibrio omeostatico venutosi a creare e seguito dello stimolo, possano
manifestarsi in maniera qualitativamente e quantitativamente sufficiente a instaurare una condizione
patologica, o ad aggravare in maniera significativa quella esistente. Ciò si produrrebbe sia per un
fattore di ordine quantitativo, e cioè per la maggiore forza di attivazione dell’organismo prodotta
dalla combinazione di più stati emozionali, semplici e complessi, anziché di una sola emozione; sia
in forza di un fattore temporale, e cioè per la condizione di accumulo progressivo di stimoli
stressanti per l’organismo, legati alla rielaborazione continua dell’evento, e agli scompensi sul
piano psicologico che esso porta con sé.
La dimostrazione scientifica di questo collegamento presupporrebbe una ricerca da condurre su un
ampio campione di persone che abbiano subito uno stimolo negativo tale da creare, secondo quanto
fin qui esposto, una sofferenza di origine “sociale” o ”relazionale”, monitorandone, nei giorni e nei
mesi successivi, la condizione di salute legata alle conseguenze sull’organismo di quei fattori
specifici, comuni alle situazioni di stress, che sono già state analizzate in precedenza.
A nostro parere, la dimostrazione della possibile influenza della sofferenza psicologica
sull’insorgere o l’aggravarsi di malattie organiche, a medio e lungo termine, sarà possibile soltanto
quando saranno più chiare le conseguenze sul piano organico delle singole emozioni negative che,
insieme, contribuiscono a creare la condizione di sofferenza psicologica perdurante. Si tratterebbe,
cioè, di analizzare la variazione nella percentuale di ormoni e neurotrasmettitori, di cellule
immunitarie specifiche, di fattori pro infiammatori e di richiamo di altri tipi di difesa immunitaria,
che si verificano a seguito di ogni emozione vissuta ma anche quelle che si producono a medio e
lungo termine, quando lo stress emozionale si trasforma in vera e propria sofferenza psicologica.
Naturalmente sappiamo già perfettamente, a partire, come si accennava, dagli studi sul ripristino del
riequilibrio omeostatico di Cannon e di Selye, che, almeno per le emozioni primarie e specialmente
per la paura, tale attivazione esiste ed è una reazione universale che si accompagna a quella del
sistema nervoso autonomo, con tutte le ricadute ben note sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e, in
generale, sull’intero organismo.
Una sollecitazione del sistema psiconeuroimmunoendocrino che si protragga oltre i limiti
fisiologici della reazione a un evento stressante o spiacevole, come quella che configura la
condizione di sofferenza psicologica, può certamente causare una serie di ripercussioni a livello
sistemico, le quali possono potenzialmente riguardare la funzionalità di tutti gli apparati e di tutti gli
organi, vitali o meno.
Si è già accennato (Jhonson, 2003), alle conseguenze prodotte dalle emozioni negative sulla
circolazione arteriosa e la regolarità del ritmo cardiaco, alle infiammazioni dell’apparato digerente,

110
logorato dalla continua increzione di succhi gastrici (che può condurre ad ulcere e altre patologie
anche gravi), ai disturbi legati alla tensione muscolare, naturale conseguenza di una tensione
nervosa. Si potrebbe continuare elencando innumerevoli malattie e disturbi che, se non
integralmente causati, sono molto probabilmente resi più insidiosi per la salute da una condizione di
sofferenza psicologica; ma non è questa la sede per una analisi di questo tipo.
È importante osservare come a queste attivazioni patologiche del sistema neurovegetativo si
aggiungano, solo nel caso di sofferenza psicologica, quelle che seguono all’elaborazione cognitiva
della causa della sofferenza. Non si deve dimenticare, cioè, che la sofferenza di cui ci si sta
occupando aggrega in sé le manifestazioni patologiche che seguono all’esperienza di situazioni
stressanti, anche se emotivamente e affettivamente non coinvolgenti (le quali fanno da “terreno”
preparatorio per le esperienze che sono causa di dolore “sociale”), insieme a eventi emotivamente,
affettivamente e cognitivamente intensi (dai quali può scaturire la sofferenza sociale), ma anche, e
soprattutto, alle modificazioni delle nostre abitudini e comportamenti che seguono alla necessità di
adattarsi a una situazione spiacevole non voluta.
Agli stimoli stressanti e alle emozioni primarie e sociali vanno cioè ad aggiungersi tutte le cause di
sollecitazione patologica dell’organismo che fanno seguito alla necessità di revisione degli schemi
su cui si era fatto affidamento fino a quel momento. Rimuginio, ansia, esasperazione di fobie o
idiosincrasie, irritabilità, insonnia, tendenze depressive sono solo alcune delle manifestazioni che si
accompagnano alla sofferenza psicologica in misura proporzionalmente crescente in relazione alla
durata e al protrarsi della condizione di sofferenza stessa. Ancora una volta, ci si imbatte in un
ulteriore circolo vizioso, perché tale condizione di sofferenza comporta debilitazione, minore
attenzione per le ordinarie esigenze di cura della propria salute, disordini alimentari, perdita di
autostima, tutti fattori che vanno ulteriormente ad aggravare l’intensità della sofferenza psicologica.
Che tutto ciò, protratto nel tempo, non conduca quasi inevitabilmente a ripercussioni anche sulla
salute organica, ci sembra difficile da sostenere, anche se, come si è argomentato precedentemente,
resta estremamente difficile quantificare il ruolo autonomo di ogni fattore psicologico nella genesi o
nell’aggravamento di qualsiasi patologia.
Ci si trova di fronte, in conclusione, a un tipico caso in cui la ricerca scientifica e il suo metodo di
analisi sperimentale sono costrette ad arrendersi di fronte all’evidenza di un chiaro disturbo
psicologico il quale ha probabilmente una più o meno forte influenza sulla salute dell’organismo,
ma il cui ruolo e la sua precisa portata non possono essere quantificati.
Per la ricerca psicologica e l’impianto teorico, epistemologico e metodologico su cui essa si regge,
si tratta di una situazione del tutto sovrapponibile a quella che ha dato vita, un secolo fa, alla

111
nascita del comportamentismo: piuttosto che accettare di sottoporre i processi mentali a studi e
ricerche non conformi, per la natura stessa del fenomeno osservato, ai rigorosi criteri della ricerca
scientifica, si era preferito limitare l’oggetto della psicologia ai soli comportamenti oggettivamente
osservabili.
Oggi, senza voler togliere nulla all’importanza del metodo scientifico sperimentale, alla luce
dell’esigenza sempre più sentita, non solo in ambito psicologico, di sottoporre la realtà che ci
circonda a un tipo di analisi che ne riveli aspetti che il metodo sperimentale non è in grado, per
intrinseca incapacità, di svelare, ci si chiede se si possa continuare, come la scienza medica ha fatto
fino ad oggi, ad ignorare o a sottovalutare il fenomeno della sofferenza psicologica (e delle sue
ripercussioni sulla salute), solo per il fatto che gli strumenti diagnostici e di analisi a nostra
disposizione sono talmente imperfetti, rozzi e imprecisi, da impedirci un’ analisi rigorosa.
La crescita esponenziale dei disturbi psicosomatici, le allergie, le intolleranze, i disturbi psicologici
(tutti fenomeni che tendono ad essere sempre più trattati farmacologicamente e ad essere sottratti
alla terapia psicologica), sono la spia, a nostro parere, dell’emersione del fenomeno della sofferenza
psicologica, in quanto legato ai ritmi e allo stile di vita moderni, con le sue ripercussioni sul piano
della salute dell’organismo (Servan-Schreiber, 2003).
È evidente che compito della scienza è anche quello di non interrompere la propria indagine di
fronte all’ostacolo dell’impossibilità della misurazione oggettiva del fenomeno osservato, per cui è
altrettanto evidente che sia venuto il momento di prendere in considerazione l’ ipotesi proposta nel
presente lavoro, secondo la quale la sofferenza psicologica è causa di patologie o disturbi organici.
Nell’argomentarla, non si commetterà l’errore metodologico di sostenerla solo in base a una
posizione di principio, ma si cercherà di far osservare come tutti gli “indizi” raccolti nel presente
lavoro inducano a considerare ragionevolmente e persino scientificamente corretta l’ ipotesi
avanzata. A questo scopo, non rimane che analizzare le risultanze degli studi scientifici che
sembrano dimostrare una certa sovrapposizione nei canali di trasmissione tra i due tipi di dolore,
fisico e psichico.

4 . 2 . Sovrapposizione clinica tra meccanismi di trasmissione del dolore


psicologico e di quello fisico.

Comunque e da qualunque punto di vista si cerchi di definire il dolore, esso non è mai colto come
una sensazione isolata, ma è sempre accompagnato da emozioni e significati, tanto da essere unico e
irripetibile per ciascun individuo. In altri termini, non c’è dolore senza sofferenza, cioè senza un

112
significato a livello affettivo che traduce lo spostamento di un fenomeno fisiologico verso il centro
della coscienza morale dell’individuo (Le Breton, 2007, p.11).
Eisenberger e Lieberman (2004) ammettono l’esistenza di un dolore che non può essere definito
“fisico”, e lo definiscono molto semplicemente “dolore sociale”, considerandolo cioè prodotto
dall’attivazione di una forte emozione negativa. In particolare, essi definiscono il dolore sociale
come una esperienza di “distress” che nasce dalla percezione di una distanza, o separazione, attuale
o potenziale dai conspecifici più strettamente legati affettivamente o biologicamente o dal gruppo
sociale. Risulta evidente, in questa accezione, il significato del dolore psicologico come
strettamente legato, biologicamente ed evolutivamente, al bisogno di protezione ai fini della
sopravvivenza che caratterizza i primi anni di vita dei mammiferi.
Sotto il profilo psicologico, la teoria dell’attaccamento di Bowlby sembra fornire una ulteriore
conferma del carattere innato di questa forma di dolore, quella che ogni bambino sperimenta in
maniera diversa dalla separazione dalla madre (Bowlby, 1989, 2000). Con il prosieguo dello
sviluppo, l’esigenza biologicamente determinata di protezione e di sicurezza fornita dalla madre si
trasforma in quella molto più vasta di bisogno di appartenenza a un gruppo sociale, sia esso la
famiglia e i parenti, siano poi essi i diversi ambienti nei quali il bambino e l’adulto via via si
inseriscono: la scuola, gli amici, il lavoro e così via (Guidano, 2007; Liotti, 2007; Maslow, 1971).
Secondo questi autori, il termine dolore è quanto mai appropriato, pur in mancanza di percezione
nocicettiva e di danno tissutale, perché si tratta di una condizione spiacevole diversa e più intensa,
nella sua articolazione e complessità, di quella che può essere il semplice disagio, il distress o il
dispiacere.
Non resta allora che prendere in considerazione l’ipotesi che le vie di trasmissione
dell’informazione dolorifica, originariamente riservate al solo dolore fisico, siano state sfruttate per
veicolare quelle puramente emozionali e psicologiche, con un meccanismo, cioè, di risparmio di
strutture e di risorse energetiche talmente noto da non necessitare di ulteriori chiarimenti (Bear,
Connors, Paradiso, 2007; Damasio, 1995, 2005; Goldberg, 2005; MacLean, 1984). Basti pensare,
per esempio, a come la nostra mente codifica veri e propri modelli mentali e di comportamento da
utilizzare anche in situazioni del tutto nuove, in modo da non costringerci a creare ogni volta una
risposta adattiva ex novo (Johnson-Laird, 1988; Goldberg, 2005).
Infatti, nel momento in cui l’evoluzione filogenetica ha prodotto una modificazione delle abitudini
sociali per cui la sofferenza, che prima era legata solo al distacco dalla madre vissuto dal bambino,
si è estesa a una sofferenza legata ad ogni forma di separazione o esclusione sociale emotivamente
significativa, è stato naturale sfruttare le vie di trasmissione del dolore fisico, che già venivano

113
utilizzate per produrre reazioni di evidente disagio e sofferenza alla separazione da parte dei
cuccioli dei mammiferi, per portare alla consapevolezza della corteccia una forma di sofferenza
molto simile a quella fisica, non più legata immediatamente e direttamente alla minaccia per la
sopravvivenza del corpo, ma a quella (che può comunque preludere ad essa) della separazione da
legami ritenuti essenziali per la sopravvivenza.
Nel corso dell’evoluzione si è andata gradualmente affermando con sempre crescente intensità e
importanza, a livello personale e collettivo, la necessità della salvaguardia della nostra identità
individuale e sociale, al punto che gli esseri più evoluti hanno sviluppato una forma di sofferenza
nella quale convergono, declinandosi in mille sfumature, tutte quelle caratteristiche psichiche legate
all’ elaborazione della nostra relazione col mondo, fino a quelle più sofisticate che
contraddistinguono solo la specie umana.
Tutte le emozioni complesse, secondarie o sociali che dir si voglia, comportano gioia o dolore a
seconda del fatto che migliorino o peggiorino la nostra autostima o autoefficacia, la nostra capacità
relazionale e la stima degli altri. Vergogna, rimorso, frustrazione, impotenza, senso di colpa, sono
solo diverse manifestazioni del disagio legato al fatto che noi, come individui, stiamo subendo un
attacco, una menomazione, un’aggressione. Non ne va della nostra sopravvivenza fisica, ma di
quella psichica. Forme di vita evolute e che vivono all’interno di organizzazioni sociali complesse
hanno bisogno, biologicamente e psicologicamente, di essere parte dell’ambiente sociale, così come
di essere amate, accudite, protette (Leary, 1990). Se il dolore fisico, in altre parole, è un fatto
esclusivamente individuale, quello psicologico è un fenomeno sociale, nel senso che implica la
consapevolezza del proprio ruolo all’interno di un gruppo ed è infatti sempre legato alla perdita,
separazione, abbandono, oppure a manifestazioni di disprezzo, perdita di dignità e stima, esclusione
dal contesto relazionale. Ciò richiede una elaborazione cognitiva, fondata sulla sofferenza e
sull’emozione. Riassumendo, quindi, si può affermare che la sofferenza psichica:
• È sempre legata a uno o più eventi che causano emozioni intense e negative
• Queste ultime sono sempre oggetto di valutazione in termini di importanza soggettiva ai fini della
situazione, valutate come potenzialmente capaci di modificare negativamente la qualità della
nostra vita.
• È una condizione legata alla vita relazionale ed è quindi la manifestazione individuale di
sofferenza che segue a una perdita o un conflitto nell’ambito delle relazioni sociali.
• Segue tale valutazione (anche se inconscia: posso soffrire perché sono stato abbandonato anche se
non ho costantemente la consapevolezza del disagio esistenziale che questo comporta), perché
non c’è sofferenza psicologica senza rimorso, vergogna, tristezza ecc.

114
• Non coincide con la semplice emozione della tristezza o uno stato d’animo di disagio, perché si
basa su una condizione psichica di fondo, la quale può intensificarsi ad ogni rievocazione, oppure
restare sullo sfondo, al limite della coscienza, e produrre lentamente aggravamento di patologie, o
conseguenze tipiche dello stress.
Eisenberger e Lieberman (2004) sostengono con determinazione suffragata da sufficienti evidenze
sperimentali che i due tipi di dolore condividono gli stessi meccanismi neurali e di elaborazione
cognitiva.
Entrambi questi sistemi, infatti, sono deputati a monitorare stimoli che potrebbero rappresentare
pericoli o minacce per la sopravvivenza e poi a richiamare l’attenzione e le risorse vitali per
affrontare e respingere la minaccia. Si noti come gli autori in questione non fanno neppure
distinzione, dandola per acquisita, tra la minaccia alla sopravvivenza del corpo causata da una
lesione, per esempio, rispetto alla minaccia per la sopravvivenza sociale, causata da una
separazione. La psicologia sociale ha dedicato una particolare attenzione al fenomeno della “ricerca
di appartenenza a un gruppo sociale”, giungendo alla conclusione che le ripercussioni di una
esclusione dal gruppo, eventi traumatici di separazione, o persino la semplice difficoltà ad integrarsi
all’interno di qualsiasi gruppo sociale siano fonte di sofferenza psicologica e di conseguenti
ripercussioni patologiche sul piano organico (per una panoramica recentissima, si veda Fiske,
Taylor, 2009)
Evidenze sperimentali acquisite grazie alle tecniche di neuro immagine mostrano un’attivazione
dell’area dorsale della corteccia cingolata anteriore in presenza della manifestazione delle
componenti affettive in entrambi i tipi di dolore, fisico e sociale. È noto infatti come la
neurochirurgia abbia ottenuto importanti risultati nel trattamento del dolore cronico “intrattabile”
proprio grazie alla resezione di aree della corteccia cingolata (Foltz, White, 1968). È molto
interessante notare come in questi casi, i pazienti cingolotomizzati dichiarassero di essere in grado
di percepire il dolore, ma che esso non li disturbava più. Ciò significa che l’intervento chirurgico
aveva separato due componenti essenziali del dolore, quella fisica e sensoriale, rispetto a quella
della sua percezione come condizione di forte disagio o “distress”.
La caratteristica del dolore psicologico di cui ci si sta occupando, quindi, non è quella di essere una
delle componenti del dolore fisico, quanto quella di manifestarsi come un tipo di dolore autonomo
nella sua eziologia, e cioè che nasce da uno stimolo psicologico, e non fisico o meccanico, ma con
evidenti ripercussioni sul piano organico. Il fatto che il dolore psicologico sia anche
indissolubilmente legato ad ogni dolore fisico, non significa cioè che esso non possa essere presente
indipendentemente dal secondo, proprio perché i due canali, quello che conduce l’informazione

115
relativa al dolore fisico, e quella del dolore psicologico, sono evidentemente separati, come tali
esperimenti dimostrano.
Proprio questa constatazione ha fatto sì che recentemente ulteriori ricerche, supportate da numerosi
studi di neuro immagine, abbiano creato la necessità di distinguere l’esperienza del dolore in due
componenti psicologiche: i processi sensoriali e la percezione del dispiacere (Price, 2000).
Come già osservato, l’esperienza del dolore sociale sembra essere esclusiva dei mammiferi a causa
della loro differente esigenza di cure materne prolungate rispetto ai loro antenati rettili.
Parallelamente allo sviluppo di forme di comunicazione vocale per richiamare l’attenzione materna
e l’accudimento tipico dei mammiferi, il giro cingolato appare sul palcoscenico dell’evoluzione,
filogeneticamente, contribuendo all’espressione di questi comportamenti. Le vocalizzazioni emesse
dai cuccioli di diverse specie quando vengono separati da chi li accudisce richiedono un giro
cingolato intatto ai fini della loro produzione (Lorberbaum, 2002; MacLean, 1993), e l’ablazione
dell’area posteriore della corteccia cingolata in giovani scimmie impedisce tali vocalizzazioni
(Robinson, 1967).
A conferma del ruolo della corteccia cingolata anteriore nell’espressione del dolore sociale, la sua
ablazione riduce nei macachi il comportamento pro sociale (Hadland, 2003).
Il giro cingolato sembra svolgere la stessa funzione fondamentale anche nel comportamento di
accudimento dei ratti da parte della madre, rendendola meno sensibile ai richiami del figlio in caso
di ablazione (Stamm, 1955). Tutti questi dati trovano sostanziale conferma in studi di neuro
immagine su soggetti umani (Lorberbaum, 2002).
Secondo alcuni autori attivi nella ricerca nel campo della cognizione sociale, il nesso causale tra
bisogno di appartenenza, sofferenza psicologica e ripercussioni negative sul benessere e la salute
delle persone può considerarsi come un dato acquisito. Ansia sociale, solitudine e depressione
sembrano infatti legate a situazioni di sofferenza psicofisica conseguenti a episodi di esclusione
sociale (Leary, 1990); bassi livelli di autostima causati da sofferenza psicologica da separazione
sono all’origine di disturbi emozionali e di comportamento (Leary, 1995); il desiderio frustrato di
“attaccamento interpersonale” risulta influire sulla salute e il benessere dell’individuo (Baumeister,
Leary, 1995).
Ulteriori prove cliniche a sostegno dell’ipotesi secondo cui situazioni di sofferenza psicologica
comportano ricadute negative sulla salute vengono fornite dall’osservazione che il rischio di
mortalità (aggiustato in base all’età), dell’isolamento sociale è paragonabile a quello collegato al
fumo, e che la funzionalità cardiovascolare e immunitaria risultano entrambe danneggiate
dall’isolamento (House, Landis, Umberson, 1988); ancora, le persone reagiscono male

116
all’esclusione, sentendosi poco bene, mostrando un minore controllo e perdendo il senso di
appartenenza (Williams, Cheung, Choi, 2000).
A oggi, pochissimi studi si sono dedicati specificamente alla ricerca dei correlati neurali del dolore
sociale negli umani. Tra questi, merita una particolare attenzione quello che ha indagato in
particolare i correlati neurali dell’esclusione sociale, attraverso un intelligente esperimento che
poneva i soggetti sperimentali di fronte alle emozioni negative che derivavano da un rifiuto sociale;
nel caso specifico, invitandoli a partecipare a un videogioco e monitorando poi le diverse attivazioni
cerebrali a seguito di loro esclusione dal gioco con la scusa della loro incapacità (Eisenberger,
2003). Le conclusioni sembrano comunque andare nella direzione già emersa negli studi su
mammiferi, e cioè della attivazione dell’area posteriore della corteccia cingolata anteriore quando i
soggetti sperimentali venivano posti in una condizione di esclusione dal gioco a computer.
La stessa area cerebrale, la corteccia cingolata anteriore, si conferma essere particolarmente attiva
in generale di fronte a turbamenti, trauma e situazioni di incoerenza cognitiva (Botvinick, Cohen,
Carter 2004).
Ancora più interessante, da questo punto di vista, è il ruolo emerso dagli studi di neuro immagine
dell’area prefrontale ventrale destra della corteccia cingolata, la quale sembrerebbe attivarsi con
maggiore evidenza di altre aree quando il compito affidato al soggetto sperimentale consiste nel
pensare alla sofferenza legata a una separazione, piuttosto che vivere una situazione spiacevole. In
particolare, diversi studi riportano un incremento dell’attività di tale area della corteccia durante il
compito di pensare, definire e valutare stimoli affettivi caratterizzati da una evidente componente
negativa per il soggetto stesso (Cunningham, 2003; Liebermann, 2004).
L’utilizzo, da parte del sistema nervoso, di circuiti e processi neurali comuni nella elaborazione e
manifestazione dei due tipi di dolore risponde probabilmente a una precisa esigenza comprensibile
pienamente in termini evolutivi. Il collegamento neurale e i circuiti a feedback tra le diverse aree
della corteccia cingolata e la corteccia motoria e l’amigdala si spiegano, secondo gli autori della
ricerca, con la necessità di costruire un sistema di segnalazione di pericolo che dirotti
immediatamente l’attenzione verso la sua probabile fonte. A questo scopo, la percezione di una
condizione psicologica che richiami le caratteristiche di disagio, inquietudine, dispiacere,
prostrazione, tipiche del dolore fisico, si è dimostrata essere la strategia più efficace. La complessità
del sistema di segnalazione e le diverse strutture neurali coinvolte sembrano deputate a controllare
che tale attivazione sia limitata al tempo necessario per affrontare la minaccia, e siano in grado di
riportare la funzionalità del sistema in una condizione di equilibrio, una volta accertata la presa di

117
consapevolezza da parte delle aree a ciò deputate del sistema nervoso (Eisenberger, Lieberman,
2004).
Un’altra possibile conferma dell’utilizzo di sistemi di trasmissione del dolore comuni a quello fisico
e quello psicologico sembra ritrovarsi nel fatto che essi possano agire sinergicamente per rendere il
sistema nervoso maggiormente sensibile l’uno all’altro. La percezione del dolore fisico, in altre
parole, modificherebbe lo stato d’animo in modo da renderlo più attento e sensibile alle esigenze di
protezione e di modificazione adattiva del comportamento. Reciprocamente, una condizione di
sofferenza psicologica rende l’individuo più all’erta nei confronti dei pericoli che possono derivare
sul piano fisico da una sua intervenuta condizione di esclusione sociale.
Un preciso collegamento tra dolore fisico e psicologico emerge anche dalle osservazioni di Bowlby
che hanno evidenziato con chiarezza come i bambini che soffrivano per qualche dolore fisico
mostrassero con maggiore frequenza e facilità una maggiore sensibilità alla separazione dalla madre
(Bowlby, 2000). Più recentemente, persone affette da disturbi da dolore cronico si sono rivelate
tendenzialmente più ansiose nel loro stile di attaccamento rispetto ai relativi soggetti di controllo (in
buona salute), evidenziando una esagerata preoccupazione relativamente alla solidità della loro
relazione affettiva attuale. (Chiekanovsky, 2003). E ancora, a riprova del collegamento biunivoco
tra i due tipi di dolore, si è osservata una condizione di maggiore distress durante la visione di
persone che subivano un dolore fisico da parte di soggetti valutati come particolarmente sensibili al
rifiuto sociale rispetto a quelli meno sensibili (MacDonald, Shaw, 2004).
Altri studi mostrano in maniera piuttosto affidabile come il supporto sociale sia in grado di ridurre il
dolore sociale, ma al tempo stesso sembra agire positivamente nell’alleviare condizioni di dolore
cronico, o in situazioni molto diverse tra loro, come nei malati di cancro oppure nei pazienti che
abbiano appena subito un intervento cardochirurgico (Taylor, 2004).
Questa sovrapposizione tra i circuiti che regolano la nostra percezione del dolore fisico e quelli
della sofferenza psicologica trova ulteriore conferma dall’osservazione del fatto, altrimenti
difficilmente spiegabile, che gli oppioidi mostrano di essere efficaci nell’alleviare tanto il dolore
fisico quanto quello derivante da separazione in molte specie animali (Panksepp, 1998).
Per ultimo, si consideri come antidepressivi a base di fluoxetina, normalmente prescritti per
alleviare i sintomi di stati ansiosi o depressivi causati da fattori sociali, si sono rivelati altrettanto
utili per alleviare il dolore fisico, al punto da essere oggi abitualmente prescritti per alleviare il
dolore cronico (Nemoto, 2003).
L’osservazione delle peculiari caratteristiche di immaturità e incapacità di sopravvivenza autonoma
delle diverse specie di mammiferi, completamente dipendenti dalle cure materne per i primi mesi o

118
anni di vita, suggerisce che i meccanismi del dolore coinvolti nella ricerca e prevenzione di pericoli
per la sopravvivenza fisica (come tali, propri di qualunque forma di vita purché dotata di un sistema
nervoso, e quindi non solo dei mammiferi) sono stati rinforzati e affiancati da quelli sviluppati più
recentemente dal sistema dell’attaccamento (familiare e sociale), anch’essi destinati al monitoraggio
dell’ambiente per prevenire la minaccia di separazione sociale.
In particolare, Wall sostiene che la funzione del dolore è quella di mitigare la condizione di distress
conseguente alla separazione (e suscettibile di creare difficoltà per la sopravvivenza dell’individuo)
attraverso il richiamo dell’attenzione selettiva, l’interruzione del comportamento che si stava
tenendo e lo sviluppo e l’elaborazione di una forte motivazione all’azione volta ad assicurarsi di
nuovo quella condizione di sicurezza e protezione di cui tutti necessitiamo, e quindi di mitigare il
dolore.
Coerentemente con quanto fino a qui argomentato, in ordine alla funzione del dolore psicologico
secondo l’ottica della psicologia evoluzionistica, la descrizione testé riportata dell’ipotesi di Wall
circa l’espressione e la funzione del dolore sociale coincide esattamente con quella che è la
definizione di emozione, come risulta da una sintesi delle sue principali teorie, quelle
evoluzionistiche, quelle cognitive, ma anche di quelle costruzionistico-sociali (si veda in proposito
la panoramica offerta da Galati, 2003).
Infatti, l’emozione è descritta come una attivazione neurofisiologica che causa una serie di
ripercussioni sul metabolismo, la fisiologia e il comportamento dell’individuo, avente
fondamentalmente una funzione adattiva per far fronte agli ostacoli della vita, che richiede una
elaborazione dello stimolo in modo da riconoscerlo e preparare una reazione appropriata, e che si
manifesta sempre come interruzione rispetto al comportamento che si stava tenendo fino a quel
momento, richiedendo cioè una modifica del medesimo.
Allo scopo di evitare confusioni tra i due concetti di “attivazione emozionale” e “percezione del
dolore psicologico”, si consideri che l’emozione è necessariamente di breve durata e richiede per la
sua attivazione l’”innesco” prodotto da uno stimolo nuovo o inaspettato. Il dolore psicologico,
invece, può perdurare a lungo, o essere richiamato volontariamente dalla memoria in qualsiasi
momento con facilità. Ciò significa che la definizione di dolore come semplice campanello
d’allarme, secondo il modo in cui esso viene abitualmente e superficialmente descritto, deve essere
corretta e integrata alla luce delle evidenze delle neuroscienze e della psicologia evoluzionistica.
Infatti, occorre innanzitutto distinguere il dolore psicologico come categoria a sé stante, dotata di
caratteristiche peculiari, e attribuire ad esso un significato che va molto al di là della risposta
riflessa a uno stimolo: esso è piuttosto uno stimolo pressoché costante, evolutosi culturalmente,

119
oltre che biologicamente, allo scopo di permettere l’attivazione e la predisposizione di un
programma adattivo di cambiamento. Solo quando tale cambiamento viene messo in atto con
successo, il dolore psicologico cessa di causare sofferenza, e questa caratteristica lo distingue
chiaramente dall’emozione, la quale precede il dolore e cessa quasi immediatamente con
l’estinzione dello stimolo attivante.
Questo processo richiede una modificazione del comportamento e della personalità e l’adattamento
a una nuova situazione, ed è consentito dallo stimolo prodotto dalla sofferenza psicologica, la quale
nasce e perdura come processo emergente da tale elaborazione, ma con la funzione ben precisa di
mantenere viva l’attenzione su una situazione conflittuale che richiede una soluzione.
Il dolore, in altre parole, sarebbe il risultato e la manifestazione fenomenica di una condizione di
pericolo per la sopravvivenza sociale che non ha ancora trovato una soluzione, sotto forma di
stimolo alla predisposizione di un programma di cambiamento.

4 . 3 . Dolore psicologico, placebo e nocebo.

Si potrebbe affermare che la più evidente conferma, se pur indiretta, dell’esistenza e dell’attività del
dolore psicologico, come processo autonomo rispetto a quello che caratterizza il dolore fisico, viene
da un fenomeno incontestabile nei suoi effetti, quale è il placebo (Dobrilla, 2004; Moerman, 2004,
Zangrilli, 2001).
Se, infatti, quasi tutti i tipi di dolore, fino alle forme più intense di dolore fisico, hanno tratto
benefici fino alla totale remissione dei sintomi, in molti casi, dalla somministrazione di un semplice
placebo, ciò significa che :
• o il dolore che il paziente lamentava era un dolore psicologico, e allora siamo costretti ad
ammetterne l’esistenza,
• o il dolore che il paziente riferiva era un dolore fisico, e allora il placebo, attivando processi
esclusivamente psicologici, ha agito sui meccanismi del dolore fisico.
Se invece si interpreta negli unici due modi possibili la percezione di dolore conseguente a nocebo
(cioè alla somministrazione di una sostanza non in grado di produrre alcun effetto, ma che il
paziente è stato indotto a credere fosse un farmaco che poteva produrre, quale effetto collaterale, un
dolore significativo), si è costretti ad ammettere, nei casi in cui il paziente lamenti dolore a seguito
di somministrazione di nocebo, che:
• O il dolore che il paziente afferma di percepire a seguito dell’assunzione di nocebo è un dolore
psicologico, e allora anche in questo caso siamo costretti a riconoscerne l’esistenza, (ma anche

120
che il dolore fisico può essere indotto da un fattore squisitamente psicologico come la
suggestione).
• Oppure il dolore che il paziente riferisce è percepito come fisico, in maniera indistinguibile da
quello psicologico, e allora siamo costretti a riconoscere che un fattore psicologico è stato in
grado di attivare gli stessi canali di trasmissione del dolore di quello fisico.
Comunque si voglia osservare o interpretare tale situazione, sembra plausibile, tramite
l’osservazione degli effetti del placebo, l’ipotesi secondo la quale, nella esperienza soggettiva
(l’unica cui si può fare riferimento in queste situazioni) il dolore psicologico può essere percepito
nello stesso identico modo del dolore fisico. Questa prima considerazione conduce quindi a
ipotizzare il fatto che i canali di trasmissione del dolore fisico siano gli stessi che trasportano quello
psicologico, con la differenza che nel secondo caso la trasmissione dello stimolo dolorifico si
verifica solo in uscita, per la mancanza di effettiva sollecitazione dei recettori periferici.

4 . 4 . Dolore fisico e dolore psichico: sovrapposizione dei loro effetti sul nostro
benessere e sulla salute mentale

L’antropologo Le Breton, nel suo saggio “Antropologia del dolore” (2007), non ha dubbi
sull’importanza della cura del dolore psicologico, che ritiene sottostante, precedente, successivo e
concomitante all’eventuale dolore fisico. “La dissociazione tra medicina (scienza del corpo malato)
e psichiatria (scienza del resto?), questo dualismo, retaggio della storia medica, concepisce l’uomo
come un corpo cui si somma lo spirito. Frammentato, al malato è tolta la possibilità di vedere
riconosciuti i suoi mali, nessuno si prende il tempo di ascoltare e interrogare il significato della sua
espressione di dolore. I servizi medici o sociali se lo rimpallano, incapaci di venirgli in aiuto. [...]
Se , però, il medico smette di ricercare le cause organiche, che sembrerebbero mancare, e accetta
invece di mettersi in gioco nella relazione, se si presta alla ricerca di senso che muove il paziente,
riesce talora a toccare il cuore della sofferenza [...] (Le Breton, 2007, p. 48).
Secondo Paolo Fiorentino, in un recentissimo articolo pubblicato su “La Stampa” di mercoledì 24
giugno 2009, a firma di Riccardo Lattanzi, ”Il dolore potrebbe essere non solo la conseguenza, ma
anche la concausa di alcune malattie”. Riferendosi a uno studio pubblicato sulla rivista medica
“Arthritis & Rheumatism”(frutto di una ricerca su topi affetti da osteoartrosi condotta dalla facoltà
di Medicina della Università di Rochester (U.S.A.) e il Dipartimento di ortognatodonzia
dell’Università di Torino), l’equipe di ricercatori sostiene che i mediatori chimici che vengono
rilasciati a seguito di infiammazione dei tessuti si propagano nel sistema nervoso centrale. Qui essi
121
promuovono la diffusione di specifiche proteine, delle quali la principale sembra essere
l’interleuchina 1, le quali, ritornando alla sede dell’infiammazione tramite il circolo sanguigno,
causano un peggioramento della condizione infiammatoria e del dolore, creando cioè un circolo
vizioso.
Naturalmente, si tratta di uno studio che necessita di ulteriori approfondimenti, e specialmente di
sperimentazione clinica sul paziente umano. Esso può già oggi fornirci alcune indicazioni circa i
possibili sviluppi della terapia del dolore, che potrebbero essere utili per spiegare anche i
meccanismi legati al dolore psichico. Infatti, in primo luogo questo studio dimostra come, nel caso
specifico, la strategia più efficace e radicale per sopprimere il dolore non è tanto quella di
contrastare gli effetti dell’interleuchina quando questa è già in circolo, quanto interrompere la via di
comunicazione tra mediatori del dolore e sistema nervoso. In secondo luogo, i risultati di questa
ricerca permettono di ipotizzare la possibilità concreta che stimoli dolorosi che bersagliano
cronicamente il sistema nervoso possono a lungo andare produrre cambiamenti significativi nella
struttura biochimica e nella fisiologia dei neuroni interessati.
Fin qui, i dati più recenti in ordine alla fisiologia del dolore sul versante organico. Ferme restando le
difficoltà legate ad analoghi studi da effettuare su pazienti umani e su una condizione così
particolare e indefinibile come il dolore psichico, è però possibile avanzare legittimamente la
seguente ipotesi: sia il dolore psichico acuto (conseguente all’apprendimento di una notizia
inaspettata e altamente sgradita), sia specialmente quello cronico (quello che produce una
sofferenza pressoché continua, legata alla presenza nella nostra mente a seguito di rievocazione
involontaria e frequente di un evento spiacevole), potrebbero essere fenomeni in grado di agire
anche sotto il profilo biochimico sulla anatomia e la fisiologia dei nostri circuiti neurali, in
particolare quelli legati alla elaborazione e alla rievocazione degli eventi dolorosi. L’idea della
plasticità di tali circuiti, il loro rinforzo strutturale e funzionale legato alla loro sollecitazione più o
meno frequente è ormai universalmente accettata (Edelman, 1995). È ipotizzabile che, sulla base
della plasticità del cervello, una sofferenza psichica acuta abbia sui circuiti nervosi lo stesso impatto
che una forte emozione o dispiacere può produrre sul muscolo cardiaco, come si è già accennato a
proposito della “taketsubo cardiomiopatia”.
Le neuroscienze descrivono l’elaborazione degli stimoli come l’attivazione di un complesso di
circuiti diversi, situati in zone diverse, che contribuiscono ad adattare l’organismo, e in particolare il
sistema nervoso, all’impatto e al cambiamento che stimoli intensi e inattesi possono provocare. Lo
stesso dicasi per lo stillicidio di un dolore che ci accompagna costantemente e che non può essere
confuso con semplice tristezza o depressione.

122
In altri termini, il fatto che il nostro sistema nervoso sia sollecitato con forte intensità e frequenza da
stimoli che sono percepiti ed elaborati come spiacevoli (nel senso sopra delineato di dannoso per la
sopravvivenza del sé) produce un rinforzo dei circuiti deputati a tale elaborazione. Sia esso
strutturale o funzionale, il rinforzo implica sempre il dirottamento di risorse energetiche verso la
sede di richiamo, risorse che, non essendo inesauribili né infinite, sono sottratte alla loro fisiologica
funzione in altre zone dell’organismo. Questo rinforzo proseguirà, rafforzandosi via via sotto la
spinta delle sollecitazioni biochimiche, fino a che la causa della sofferenza non sarà stata
“metabolizzata” (Edelman, 1995; Edelman, Tononi, 2000).
Se il meccanismo di produzione e di mantenimento del dolore osservato nella ricerca di cui sopra
fosse riproducibile anche per qualsiasi situazione percepita come spiacevole psicologicamente, le
conseguenze del dolore psicologico sarebbero le seguenti:
1. mediatori chimici deputati alla trasmissione del segnale dolorifico potrebbero agire sul
sistema nervoso, anche senza produrre, per mancanza di recettori specifici, la sensazione
dolorosa a livello fisico.
2. tale continua sollecitazione potrebbe produrre, come reazione allo stimolo, non tanto (e non
soltanto) il rilascio di sostanze infiammatorie nel circolo sanguigno, le quali potrebbero
agire là dove esistono focolai di infiammazione aggravandone gli effetti, ma anche tutte
quelle attivazioni necessarie per proteggere organismo e sistema nervoso dagli effetti di uno
stimolo negativo, anche se tale solo a livello psicologico.
3. i circuiti nervosi deputati alla raccolta e alla elaborazione di tali segnali verrebbero rinforzati
a danno di altri circuiti, tra i quali, per esempio quelli destinati alla elaborazione di strategie
di adattamento e di progettazione, i quali ultimi non sarebbero chiamati in causa perché
verrebbe a mancare la consapevolezza della causa effettiva del dolore.
4. Tale rinforzo avrebbe come conseguenza il mantenimento sovra fisiologico di una
condizione di all’erta dello stesso sistema nervoso (che come noto, richiede un altissimo
dispendio di risorse energetiche metaboliche), ma anche, come in ogni situazione di stress,
del sistema ormonale legato all’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e ipotalamo-ipofisi-tiroide
(con evidenti conseguenze sul piano dell’equilibrio ormonale) e del sistema immunitario.

123
Conclusioni

In ambito medico ci si riferisce ancora al dolore come fattore fisiologico quando esso si presenta
come un sintomo all’interno di un sistema di difesa, e cioè quando rappresenta un segnale
d’allarme per una lesione tissutale, essenziale per evitare un danno. Se la sua funzione è quindi
quella di salvaguardare la nostra sopravvivenza, non si può certo affermare che si tratti di un
sistema particolarmente efficiente, dal momento che moltissime patologie, degenerative e mortali
sono asintomatiche fino a che non è troppo tardi. Esso diventa patologico quando si automantiene,
perdendo il significato iniziale e diventando a sua volta una malattia. In questo caso, quindi, ci si
trova di fronte a una vera e propria sindrome dolorosa, nei confronti della quale lo scopo del dolore
diventa francamente molto difficile da individuare, se non forse nella sola ottica spirituale delle
religioni che lo vedono come strumento di elevazione e di comunione mistica, o di espiazione.
Anche nella letteratura scientifica il dolore è ancora oggi abitualmente descritto, circa i suoi scopi,
come un campanello d’allarme o una bussola che indica la direzione della minaccia alla nostra
sopravvivenza. Strana bussola, e piuttosto inutile, per la verità, dal momento che manda impulsi nel
caso di un dito scottato o dell’arto fantasma di un mutilato, ma tace nello sviluppo di un cancro che
si rivela rapidamente fatale. In effetti, la maggior parte delle malattie più gravi (si pensi appunto al
cancro, alla tubercolosi, alle cardiopatie) si insedia senza avvisare, e il dolore non sembra avere
altro scopo se non quello di rendere più penosa e più triste una situazione già da lungo tempo
compromessa.
Si consideri, in proposito, il seguente passo tratto dal romanzo “Comma 22”di Joseph Heller:
“Quanta venerazione si può avere per un Essere Supremo che ritiene necessario includere fenomeni
come il catarro e la carie ai denti nel Suo sistema di creazione divino? Cosa diamine passava in
quella Sua mente distorta, perversa, scatologica quando ha defraudato le persone anziane del
potere di controllare i propri movimenti intestinali? Perché diamine ha creato il dolore?”

124
“Il dolore?”, la moglie del tenente Scheisskopf colse al volo quella parola vittoriosamente. “Il
dolore è un sintomo utile. Il dolore serve ad avvertirci dei pericoli fisici.”
“E i pericoli chi li ha creati?, domandò Yossarian. Rise sarcastico. “Oh, è stato davvero generoso
con noi quando ci ha dato il dolore! Non poteva invece usare un campanello per avvisarci, o uno
dei suoi cori celesti? O magari un sistema di tubi al neon rossi e blu in mezzo alla nostra fronte.
Qualsiasi produttore di juke-box che si rispetti avrebbe potuto farlo. Perché lui no?”
“La gente avrebbe proprio un’aria ridicola se se ne andasse in giro con dei neon rossi in mezzo
alla fronte”.
“Perché ora invece sono proprio belli mentre si contorcono per l’agonia o sono intontiti dalla
morfina, vero?” (Heller, 2000).
È piuttosto evidente che i meccanismi del dolore appena descritti non siano altro che il residuo
biologico di una serie di strumenti di difesa geneticamente trasmessi, e che operano al di fuori della
nostra consapevolezza, i quali erano idonei allo scopo quando l’unica vera esigenza dell’uomo era
quella di sopravvivere almeno fino alla procreazione. Oggi che la sopravvivenza pura
dell’organismo non è più sufficiente per qualificare la nostra vita come degna di essere vissuta,
comincia a far capolino l’idea che questi meccanismi siano non solo inadeguati allo scopo, ma
persino, spesso, controproducenti.
Il meccanismo di segnalazione del dolore fisico, innanzitutto, è evidentemente uno strumento
talmente rozzo e grossolano, che nessun ingegnere al mondo lo applicherebbe come segnalatore di
anomalie neppure alle apparecchiature più semplici. Persino i meccanismi di segnalazione acustica
che avvisano, all’apertura della portiera dell’autovettura, che le luci sono ancora accese, possono
essere spenti semplicemente ruotando una manopola. Il dolore, invece, non può essere spento a
comando. Da questo punto di vista gli ingegneri hanno mostrato una sensibilità verso le nostre
esigenze superiore persino a quella degli psicologi, dal momento che, a scanso di equivoci, essi
hanno dotato le autovetture moderne di un meccanismo di spegnimento automatico delle luci dopo
un certo periodo di tempo dopo che il motore è stato spento. In altre parole, essi hanno valutato le
conseguenze di un certo comportamento come potenzialmente negative, e hanno scelto la strada di
intervenire sul problema stesso, rimuovendolo automaticamente, piuttosto che sulla persona,
avvisandola, ma senza la garanzia che essa si adegui al nostro suggerimento.
Per quanto riguarda il dolore, invece, esso resta ancora oggi, assurdamente, oggetto di competenza
esclusiva di due sole categorie di persone: i medici e i sacerdoti, in perfetta continuità ideologica
con l’obsoleta visione dualistica cartesiana. Con la conseguenza che i primi si limitano a prenderlo
in considerazione, come epifenomeno fastidioso, solo se legato oggettivamente a una patologia

125
riconoscibile, mentre i secondi insistono nel convincerci che esso non abbia in fondo nulla di
patologico, e che debba essere sopportato a maggior gloria di Dio.
Il dolore continua ad essere superficialmente considerato uno strumento utile, senza mai riflettere
sul fatto che esso era ciò che di meglio l’evoluzione ha escogitato per proteggerci da danni o
minacce esterne, in un’ epoca in cui le nostre conoscenze sulla struttura e funzione dell’organismo
erano praticamente nulle, ma che oggi si rivela inefficace e inefficiente allo scopo.
La nostra società considera necessario, quasi obbligatorio, intervenire su anomalie genetiche o
costituzionali il più precocemente possibile, imponendo esami che possano individuare le possibili
cause di malformazione o di cattivo funzionamento dell’organismo. Il caso più tipico è, per
esempio, l’intervento chirurgico effettuato in tenera età per correggere il difetto della displasia
dell’anca. Per quale motivo si ritiene indispensabile un intervento invasivo come questo, e non
invece quello che potrebbe permettere di ridurre al minimo la percezione del dolore, e cioè
trasformare lo stimolo dolorifico in altro segnale, sufficiente per avvisarci del pericolo o
dell’anomalia, ma non così intenso da procurare dolore? Si tratterebbe di destinare una parte delle
risorse della ricerca medica allo studio del problema, che non ci pare di insormontabile difficoltà.
Allo stesso tempo, occorrerebbe analizzare più attentamente le possibili cause di dolore, e
predisporre un piano di prevenzione che obblighi ogni cittadino a controlli periodici. Non si capisce
perché questo obbligo, il cosiddetto tagliando, esiste per la revisione delle autovetture, e non per
coloro che le guidano.
Tutto questo è un programma potenzialmente realizzabile se ci si riferisce alla cura del dolore
fisico; se invece si volesse predisporre un piano di cure e di prevenzione per quanto riguarda il
dolore psicologico, ci si troverebbe di fronte un problema enormemente più complesso, perché la
sofferenza psicologica è legata a fattori troppo numerosi e biologicamente inscritti nei nostri geni,
da non poter essere alleviata con un semplice programma di prevenzione, di educazione o di cure
mediche di alcun tipo.
La cura del dolore psicologico richiede innanzitutto l’adozione di un diverso atteggiamento verso le
cause del dolore, e richiede di modificare prima di tutto un programma genetico che impone una
forma di sofferenza a seguito di eventi che comportino la perdita di protezione, di affetto, di
sicurezza.
Sotto il profilo della cura per gli aspetti psicologici della sofferenza, la nostra società umana è
tuttora organizzata in modo primitivo e confinato in un ambito spaziale e temporale ristretto, come
se ancora oggi la nostra intera esistenza si consumasse in pochissimi decenni, all’interno di un

126
ambiente circoscritto a pochi chilometri quadrati, con contatti sociali limitati a poche decine o
centinaia di persone, ed esclusivamente rivolta alla sola lotta per la sopravvivenza fisica.
È piuttosto evidente il fatto che sia prematuro anche solo ipotizzare una vera e propria inversione di
rotta rispetto alla mentalità corrente, ma è chiaro che comincia ad essere qualcosa di più di una
semplice idea bizzarra quella che la sofferenza psicologica possa essere ridotta, se non eliminata,
solo quando abbandoneremo la “concezione gerarchica dell’amore”, secondo la quale l’aiuto degli
altri alle nostre esigenze di sicurezza e protezione è concepibile soltanto all’interno di sottosistemi
nei quali, man mano che si riduce la dimensione del sistema, aumenta proporzionalmente la
possibilità di essere accuditi e aiutati. Come già la filosofia buddista e quella Zen dell’estremo
oriente sostenevano da millenni, noi saremo sempre vittime della sofferenza psicologica legata alla
separazione e al distacco fino a che non produrremo una rivoluzione culturale e cognitiva che ci
liberi dall’idea che si debba provare amore in proporzione alla vicinanza del legame familiare, e poi
via via in relazione alla comunanza di valori e costumi sociali. Si tratta, in altre parole, di sfruttare
le conquiste della nostra evoluzione biologica, che hanno prodotto, tra l’altro una evoluzione
culturale, per fare in modo che quest’ultima possa prevalere sulla prima (Cavalli Sforza, 2002).
Il problema, quindi, andrebbe affrontato prima di tutto sul piano filosofico, e la sua analisi dovrebbe
condurre a una revisione drastica e rivoluzionaria di quei valori e rapporti su cui l’umanità ha
costruito la propria storia fino ad oggi, e fondati su un sistema rozzo e grossolano di punizione e
dissuasione dall’adozione di comportamenti, ormai talmente connaturati ai principi della società
umana da essere considerati intoccabili.
Ci si riferisce, come già accennato, a un sistema di valori primitivo in cui la collaborazione, la
solidarietà, lo scambio affettivo e di informazioni sono organizzati gerarchicamente secondo criteri
esclusivamente biologici fondati su legami di discendenza o consanguineità, per cui il dolore
psicologico è stato evolutivamente collegato alla perdita di un legame che sarà tanto più dolorosa
quanto più sotto il profilo del patrimonio genetico ci si avvicina alle persone che ci hanno dato la
vita o ci hanno permesso materialmente di sopravvivere. L’amore, e tutto ciò che esso comporta, il
quale rappresenta lo strumento migliore a nostra disposizione per alleviare o addirittura eliminare la
sofferenza psicologica, non è concepito come un sentimento che deve condurre verso gli altri a
seconda delle loro esigenze di affetto, di aiuto, di protezione, di conforto, indipendentemente dal
loro legame genetico con noi. Noi accettiamo di lasciar morire migliaia di persone per amore di
una sola, purché legata da vincoli di parentela molto stretti di sangue o acquisiti. E accettiamo l’idea
di soffrire per la separazione di una persona sola, che ci priva del suo affetto, e non della
separazione da tutti gli altri esseri umani, potenzialmente disponibili a fornirci tutto l’affetto di cui

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abbiamo bisogno, non perché essi non meritino il nostro amore o non siano in grado di darcelo, ma
solo perché esterni alla nostra famiglia o alla piccola rete di relazioni sociali che ci siamo costruiti a
scopo protettivo.
Alla luce delle argomentazioni precedentemente esposte, si può affermare che solo il superamento
del luogo comune su base ideologica, secondo cui il dolore fisico è utile a prescindere dalle sue
conseguenze sulla qualità della nostra vita, o che è un dono di Dio, o che è strumento di crescita,
potrà permettere di eliminare il dolore dalla nostra vita attraverso sistemi di cura efficaci, così come
si dà per scontato per altre anomalie del nostro organismo. Occorre cioè uscire dalla mentalità
ristretta che lo vede come strumento positivo e benefico, e passare a una visione più realistica e
adeguata ai tempi, e cioè quella che lo concepisce come uno strumento di segnalazione obsoleto,
fondamentalmente inaffidabile e quindi inutile, e sostituibile con meccanismi più rispettosi per la
qualità della vita e per la dignità umana.
Per quanto riguarda la sofferenza psicologica, invece, essa può essere considerata come strumento
di crescita e di sviluppo, perché si tratta di un segnale di squilibrio tra il nostro comportamento e le
condizioni imposte dall’ambiente esterno che ci costringe ad una nostra attivazione di risorse a
scopo adattivo. Inutile, però soffrire troppo intensamente e troppo a lungo. È auspicabile infatti che
la ricerca che le scienze umane, in primo luogo, dovranno svolgere per conoscere meglio le
caratteristiche della sofferenza psicologica, dovrà in primo luogo avere l’obiettivo di migliorarne la
funzione di segnalazione, ma solo a condizione che essa sia riducibile da sofferenza a semplice
disagio, cioè alla consapevolezza della necessità di analizzare un problema e di attivarsi per
risolverlo.
Poiché la sofferenza psicologica nasce principalmente da situazioni di separazione, e la nostra vita
è costituita di separazioni continue, è evidente che la soluzione consiste nel rendere tali separazioni
accettabili nell’ottica dell’adattamento alla vita, fonte di crescita, di sviluppo e di evoluzione
culturale, allo scopo di produrre un miglioramento generale della qualità della vita, ma non più,
finalmente, in senso esclusivamente materiale.
La nostra base biologica non è modificabile così facilmente solo tramite strumenti cognitivi, per cui
occorreranno, oltre a tempi molto lunghi di graduale modificazione del nostro atteggiamento
culturale e sociale, anche i supporti forniti dalla terapia medica e psicologica. Ma a differenza di
quanto avviene oggi, tali forme di cura non avranno più il mero scopo di permetterci di sopportare
una sofferenza considerata come inevitabile (e anzi, secondo molti, addirittura nobile), quanto
quello di aiutarci a trovare la forza di affrontare con approccio positivo la nostra sofferenza,

128
trasformandola da puro dolore a semplice sentimento di inadeguatezza alle esigenze di adattamento,
e quindi fonte di crescita anziché di dolore fine a sé stesso.
Il futuro grande passo evolutivo dell’uomo permetterà di vincere la contraddizione attuale, secondo
la quale tutti noi accettiamo a livello razionale l’idea della morte (e cioè che la nostra vita sia
limitata nel tempo, pur proseguendo tramite coloro che ci succedono), mentre il nostro retaggio
genetico ci costringe alla sofferenza fino alla disperazione fine a sé stessa quando la vita finisce per
coloro che conosciamo o di cui abbiamo bisogno. L’uomo vive una sofferenza psicologica che in
gran parte è inutile, perché fondata sull’equivoco di considerare come amore quella che è solo la
sofferenza che segue a ogni evento che comporti perdita o distacco da ciò che consideriamo fonte
di sicurezza e conforto.
Tutta l’umanità condivide il valore dell’amore, in senso laico o religioso, definendolo come dono
disinteressato di sé stessi al prossimo, salvo interpretarlo come volontà di possesso, ricerca di
sicurezza, antidoto alla paura della solitudine, e non per quello che è, e cioè sentimento rivolto al
prossimo in una relazione di mutuo conforto e di collaborazione, senza più discriminazioni basate
su ordini gerarchici di precedenza, a loro volta fondati solo su banali vincoli di parentela o di
conoscenza diretta.
L’attuale situazione del progresso umano, non solo tecnologico, ci costringe a fare i conti con il
resto dell’umanità, fino a pochi decenni fa separata da ciascuno di noi da distanze incolmabili, per
cui l’alibi dell’ignoranza delle condizioni di vita, della sofferenza e delle esigenze altrui, nell’epoca
di Internet, diventa persino ridicolo, se usato per giustificare la preferenza accordata nei confronti
delle persone più vicine fisicamente e geneticamente a noi nella cura della sofferenza.
La stessa evoluzione tecnologica che sta creando il “villaggio globale” sarà quella che permetterà di
alleviare la sofferenza psicologica dell’umanità, tramite la consapevolezza sempre più diffusa
dell’esistenza di una sofferenza simpatetica, quella che deriva dalla comprensione empatica del
dolore altrui. Quando riconosceremo come una verità incontestabile il fatto che solo alleviando la
sofferenza altrui potremo davvero alleviare la nostra, la sofferenza psicologica diverrà una
condizione dell’anima accettabile e davvero utile, perché fondata sulla consapevolezza che la
qualità della nostra vita dipende da quella del nostro prossimo, in quanto, se pur fisicamente
separati e diversi come entità biologiche dotate di una nostra individualità, siamo comunque legati
dall’unità della vita stessa.

129
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La sofferenza psicologica

Nonostante i progressi scientifici e culturali, l’umanità stenta a riconoscere, ancora oggi, il ruolo, il
significato e persino l’esistenza del dolore psicologico, preferendo ricondurlo a una manifestazione
del dolore fisico, o, comunque, a una condizione dell’anima che non merita particolare attenzione.
Attraverso un’ampia panoramica che coglie il significato della sofferenza psicologica sotto diversi
angoli visuali - storico, filosofico, psicologico, sociale - l’autore propone di riconoscere ad esso il
suo profondo significato di stimolo al cambiamento, ma anche la necessità che esso sia sempre più
oggetto di specifiche cure di carattere psicologico, in modo che l’umanità possa avviarsi, dopo
averlo riconosciuto come dolore al pari di quello fisico, verso una cultura del benessere e della
qualità della vita, cui la psicologia, molto più che la medicina, può offrire il suo efficace contributo.

L’autore.

Guido A. Morina è laureato in Giurisprudenza, in Scienze e tecniche neuropsicologiche e in Psicobiologia


del comportamento umano presso l’Università di Torino. Ha fondato la Scuola Superiore di Counseling
Psicobiologico ed è Direttore dell’Istituto di Psicobiologia Individuale “Sintesi”, che si occupa della ricerca
e della diffusione dei principi della psicobiologia a della psicologia della salute all’interno dello stile di vita
quotidiano, e non soltanto della terapia psicologica. È autore di numerosi libri sul tema della salute e della
ricerca della qualità della vita.

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