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INTRODUZIONE

Introduzione al linguaggio cinematografico di Marco Bellocchio:


immagine, testo e musica

Diverse e stratificate sono le varie forme d’interazione tra


musica e cinema, nate da un rapporto lungo decenni che si radica
nella tradizione classica della musica a “programma”. Il termine,
nato all’inizio dell’ottocento, indica quelle forme musicali che ben si
adattano all’illustrazione di un “tema”, tratto generalmente da
un’opera teatrale o poetica, nelle quali il testo assume una funzione
preponderante e quasi strutturale rispetto alla musica, che non
Rispetto al ruolo ormai ornamentale assunto dalla musica nel teatro
del primo ‘900 sarebbe invece diverso e più rilevante l’apporto
musicale nella pellicola, influenzato da un’origine incapace di fare a
meno del supporto auditivo, che agli albori della storia del cinema
copriva rumori di fondo e descriveva ciò che l’assenza del suono
fonico era incapace di rendere, travalicando molto spesso per potenza
evocatrice ciò che le parole stesse avrebbero potuto. La musica, da
un’angolazione strutturale e specifica della materia si è spogliata
della propria essenza di “arte per sé” per adattarsi alle esigenze
narrative estetiche di qualcosa che non comprendeva, di una “storia”
o di una strofa poetica, soffrendo a lungo per la propria
subordinazione anche attraverso le testimonianze di quei musicisti,
“arrangiati” o di professione, che hanno consapevolmente affrontato
quel ruolo inconsueto e difficile mettendo alla prova i lati più
malleabili e nascosti della propria creatività. I primi anni risentono
fortemente di tutte quelle forme d’accompagnamento “live”, ereditate

4
dal cabaret o dal music hall o semplicemente dall’esigenza di
ottenere una proiezione in sala perfettamente bilanciata nelle sue
componenti, e quindi non condizionata da probabili rumori esterni.
Più tardi la visione di film viene accompagnata più frequentemente
da un nastro sonoro che viene fatto partire in sincronia con il primo
fotogramma, e gli stessi temi musicali, che conferiscono una
continuità ininterrotta allo svolgimento del film, cominciano a
distinguersi in base alle diversi funzioni che permetteranno la nascita
delle prime raccolte di musiche da repertorio, utilizzabili ed adattabili
a diverse situazioni filmiche. Nell’epoca del muto la tendenza
generale dei compositori ingaggiati per la musica da film è quella di
rielaborare e riadattare brani celebri del passato a seconda delle
esigenze specifiche della pellicola, tant’è che le prime composizioni
originali per il cinema risalgono all’anno della collaborazione tra il
celebre musicista Camille Saint-Saëns e il regista francese Le Bargy
per L’assassinio del Duca di Guisa1 per il quale Saint-Saens si ispira
al modello del poema sinfonico tedesco e alla preponderanza assoluta
del leit motiv2, che inaugura una lunga tradizione di originali
combinazioni tra visione e suono, che forse raggiungono l’apice nel
Ballèt Mecànique di Fernand Leger, musicato da Gorge Antheil3.
Con l’epoca del sonoro la musica si libera da quelle istanze
denotative del passato, trovando più congeniali campi d’espressione e
mutando completamente la propria collocazione nella pellicola. Il

1
Calumettes Le Bargy, L’assassinio del Duca di Guisa, 1908
2
leit motiv: dal tedesco, “motivo ricorrente”
3
Fernande Legere, Ballet Mecànique, 1927.- Nell’anno dell’avvento del sonoro Legere produce
quest’ambiziosa e peculiare opera, caratterizzata dal rapporto strettissimo tra ritmo delle
immagini e musica. Strutturato in sette unità temporali, che danno l’idea dell’accrescimento
costante del ritmo ottenuto attraverso immagini di oggetti d’uso comune impiegati in singolari
“danze”, il film presenta nelle sue “parti” anche degli inserti che sembrano interrompere e
distendere la tensione del movimento, costituiti da volti, segnali intermittenti e oggetti vari.
L’organico utilizzato da Antheil nella versione definitiva del film è molto vasto, seppur ridotto
rispetto all’inizio, e comprende numerose tastiere, fiati e macchinari atti a delineare una

5
nuovo “suono” per il film, inteso come suono non fonico ma a volte
anche strettamente orchestrato con esso, è capace, nelle sue migliori
soluzioni, di permeare il senso della scena e della pellicola senza
annullarne il nucleo visivo. Gli studiosi sembrano aver individuato, a
partire da questo periodo, il delinearsi di diversi tipi di rapporto tra
suono e immagine in categorie che definite più specificamente
“funzioni”4. Tra queste ricordiamo per esempio la valenza descrittiva
delle musiche, atte a definire l’ambiente o a collocare le vicende in
una determinata epoca; la presenza di canzoni o di inserti di brani
famosi eseguiti all’interno dello svolgimento avrebbe spesso una
funzione evocativo-allusiva; anche attraverso il testo, degli stati
d’animo dei vari personaggi; la narratività è spesso garantita dalla
presenza del leit-motiv, che aiuta la reiterazione di un’atmosfera e
che conferisce un’impronta al film o al personaggio cui viene
associato, oppure seguire, sovrapporsi o contrapporsi alla dinamica
intrinseca alla pellicola data dal montaggio (funzione ritmica).
Ancora più complessa è quell’accezione della musica che permette
un incontro-scontro tra musiche e immagini, con un uso del suono
fortemente dialettico e creativo, tale da rinviare quasi ad un fertile
territorio di scambio tra i due livelli: in questo caso si parla di
funzione produttiva, perseguita con risultati importanti da Ejzenstejn
nei primi anni della sua applicazione e scoperta. Altre funzioni
rintracciabili sono quella emotiva, utilizzata per suscitare effetti
diretti sulla sfera “sensoriale” dello spettatore, la marca musicale di
genere, che identifica l’uso di determinati timbri o giri armonici a
seconda dei generi cinematografici di riferimento (funzione peraltro

configurazione ritmico-rumoristica del suono. (S.Lawder, Il cinema cubista, Genova, Costa e


Nolan, 1983)
4
Giancarlo Zappoli, La musica nel cinema: le ragioni di una selezione, in Arrivano i film,
Lombardia Cinema Ragazzi 2001-2002 (catalogo)

6
limitata al periodo “classico” del cinema o almeno fortemente
snaturata ed ibridata già a partire dagli anni ’40, con le varie fusioni e
commistioni di genere), e la funzione metalinguistica, che consiste
nel riutilizzo all’interno di un film di brani tratti da film precedenti
per “ricordare” momenti e rintracciare connessioni tra due o più
opere. Infine, rilevante sarebbe il ricorso al silenzio, sempre più
intenso e significativo man mano che ci si distacca dal consueto
“tappeto sonoro” delle origini, spesso intercalato nella narrazione
come una cesura temporale importante, una sorta di dissonanza che
costringe lo spettatore a mutare la propria percezione e a concentrarsi
maggiormente sul flusso delle immagini davanti ai suoi occhi. La
musica può dunque generare le immagini, come nel caso dei musical
americani degli anni ’30-’40, accompagnare uno stato d’animo o
connotare un personaggio, seguendo la legge del “leit motiv”, o
addirittura opporsi alle immagini, contraddicendole e straniandole5
(in questo senso rilevanti appaiono le teorie dei cineasti russi
sull’asincronismo6, e i singolari effetti distorcenti delle partiture di
Prokofiev per film come Aleksander Nevskij, di Sergeij Eizenšteijn,
del 1940).7

5
Simeon Ennio, Per un pugno di note: storia, teoria, estetica della musica per il cinema, la
televisione e il video; Rugginenti, Milano 1995
6
Nel 1928, Sergej Ejzenštejn – il primo grande "cineasta" della Federazione delle Repubbliche
Socialiste– progettò l’introduzione in Urss del cinema sonoro. Il 20 luglio di quell’anno il regista
e due suoi colleghi, Grigorij Aleksandrov e Vsevolod Pudovkin, pubblicarono un documento che
passerà alla storia del cinema come il manifesto dell’asincronismo, i cui presupposti teorici
sono: dare priorità assoluta, in termini di importanza, al montaggio quale "mezzo fondamentale e
unico, in virtù del quale il cinema ha raggiunto un alto livello espressivo"; evitare di dare vita a
una "produzione pseudo-letteraria con rinnovati tentativi d’invasione teatrale"; orientare la
realizzazione di pellicole sonore a una "non coincidenza tra immagine visiva e immagine sonora:
questo sistema", sostenevano i registi, "porterà alla creazione di un nuovo contrappunto
orchestrale".
.
7
Sergeij Eizenšteijn, Aleksander Nevskij, 1940- Il film, ambientato nel XIII secolo, si ripropone
di riutilizzare sonorità evocative dell’epoca riadattate all’orecchio moderno. La collaborazione
tra Ejzenstein e Prokofiev è volta a creare una partitura che elabori una forma di sincretismo
audiovisivo, che raggiunge il suo risultato più completo nella scena della battaglia sul
ghiacciosergo, in cui la costruzione dello spazio è autonoma e allo stesso tempo legata alla

7
Queste teorie, assimilate ed evolutesi nel corso dei successivi decenni
confluiscono nell’opera di Marco Bellocchio in modo
apparentemente inconscio. Da sempre legato alla musica e alla
concezione del suono da un rapporto contraddittorio, antitetico
rispetto alla percezione idilliaca maturata da alcuni registi e
compositori, il regista piacentino matura un’attenzione alla materia
musicale partendo da sé stesso. La voce scarnificata da complicazioni
mediche, come ostacolo alla carriera d’attore e l’immersione nei
vincoli emotivi e sociologici che connettono strettamente la musica
classica (il melodramma in particolare) e l’ambiente piccolo-
borghese delle origini gli consentono di sviluppare una sensibilità
contrastata, un’attitudine critica alle possibili commistioni tra
immagine e suono. Tre le prime partiture sperimentali (Morricone per
I pugni in tasca) alla scoperta del suono come simbolo, come
immagine a sé stante ricomponibile e estraibile dal contesto filmico,
possibile grazie a musicisti fortemente influenzati dalle avanguardie
come Carlo Crivelli e Riccardo Giagni, troviamo anche
l’applicazione straniata alle forme orchestrali classiche operata da
Nicola Piovani, con il quale il regista costruisce anche un interessante
percorso di riadattamento delle musiche di repertorio, specialmente
di stralci di canzone che si pongono in modo asincronico, stridente,
talvolta indagatore nella propria accezione destrutturate rispetto alla
narrazione. Ed è proprio l’idea di “stralcio”, di suoni fatti a pezzi che
ricorre nella cinematografia di Bellocchio, in cui spesso troviamo
frasi musicali ossessivamente riprodotte o violentemente interrotte,
quasi a voler sottolineare un’urgenza di dissezione, percepibile

costruzione musicale. (Sergio Miceli, Aleksander Nevsky. Rinascita e trasfigurazione di un


capolavoro, in Musica e cinema nella cultura del Novecento, Milano, Sansoni, 2000)

8
attraverso l’economia dello spazio dell’ultimo Buongiorno, notte ma
anche nei riferimenti testuali e verbali di titoli come Gli occhi, la
bocca, in cui il particolare diventa segno accentuato, punto di
partenza di un discorso e talvolta presagio profetico.
Si potrebbe in qualche modo accostare il lavoro su sé stesso che
Bellocchio compie negli anni ’80 attraverso la psicoanalisi e
l’assistenza dello specialista Massimo Fagioli alla disamina di quei
frammenti di tempo scanditi dall’ascolto (o dalla visione),
significativi indizi di quell’accumulo di gesti e di pensieri che
costruiscono la nevrosi e le danno forza. Un approccio al suono come
materia rivelatrice, ma in senso psicoanalitico e razionalistico,
sembrerebbe palesarsi emarginando la tensione alla fuga emotiva, il
“rischio” dell’abbandono lirico che solo a volte sembra insinuarsi tra
i fotogrammi con un fulgore inatteso, che rafforza e giustifica il
rigore e la scientificità della ricerca. Una ricerca che nasce
dall’individuo ma che non può fare a meno di trovare punti di
contatto con il pensiero collettivo, e quindi una sorta di specularità
nella dimensione politica, spazio aggregante che nell’esperienza
personale e nella cristallizzazione storica diventa sinonimo di
disgregazione che preme per essere rivelata, denunciata e rivissuta.
Come in un coacervo di forze tensive e oasi riflessive Bellocchio
ritorna a parlare di sé e della propria provenienza, geografica e
musicale, non tanto con i film di finzione che di quella sua
convivenza con la musica svelano istanti e angoli quanto con un
documentario che si colloca tra L’ora di religione e Buongiorno,
notte. Addio al passato, del 2002, opera una sorta di transfert lirico
tra il regista e la protagonista della Traviata, Violetta, soffermandosi
su quei luoghi dove nasce e matura l’immaginario dello stesso
Bellocchio e che, incidentalmente, diedero i natali a Giuseppe Verdi.

9
Non si tratta però di una riappacificazione incondizionata della
ribellione spogliata dal ribellismo che struttura la cinematografia di
Bellocchio, ma di uno sguardo partecipe sulla lirica e sul
melodramma, amati dal regista per formazione e considerati come
una forma di cultura importante e “di appartenenza” ma anche
rivelati nel sostanziale congelamento della “forma” nel tempo. E
soprattutto, nella musica di Verdi, che le immagini del documentario
fanno riecheggiare in tutti i luoghi della città delle radici, Piacenza,
nel teatro come nelle strade, dalle bocche di donne ed uomini che
impersonano rispettivamente Violetta e Alfredo, risuona ancora
quell’”eccesso” mai pacificato e proprio della linea artistica di
Bellocchio. Il documentario-finzione si avvale di una vera e propria
sceneggiatura, con la poesia di Valente Fastini e la voce recitante di
Castellini, e ricalca la lavorazione e la resa di una Traviata riletta in
chiave moderna e realmente commissionata al regista dal Comune di
Piacenza.
L’eccesso che permane è quello della storia, quella di un amore che
travalica i collanti sociali e che per questo sfalda la borghesia,
dimensione minacciosa per le eroine della lirica e per Violetta in
particolare, che prende voce e corpo grazie alla rievocazione di
celebri cantanti del passato tra cui “la divina” Callas, con quella voce
che è sintomo di malattia sovvertitrice e denuncia del malessere per
l’impossibilità dell’amore-anelito. La voce spiegata, sfumata e
stremata dall’espressione di sé si ritrova ad essere esternazione di un
corpo che le strutture della normalità fragilizzano e consumano, di
quella fragilità confinata e perturbante che si reincarna nelle stesse
figure femminili tratteggiate da Bellocchio ma anche in quell’Ale
epilettico che associa le note della Traviata ai rantoli della sua fine.
Dopo questa parentesi di raccoglimento soltanto parziale Bellocchio

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continua a nutrire le immagini di quella follia tonante e imprendibile,
di quell’eccentricità che consente uno sguardo disarticolato e vivido
sulle cose seguendo una necessità imprescindibile di coerenza.8
Se dovessimo trovare una semplice espressione che riassuma per
quanto possibile la posizione del regista piacentino riguardo alla
musica e al suo rapporto con le immagini e con la creazione
potremmo ricorrere alla citazione di un verso tratto da una sua poesia
giovanile: “Della melodia ascolto il contrappunto”9. Un verso che
appare come la testimonianza quasi “confessata” di un metodo di
lavoro rigoroso, fondato sulla continua stimolazione dei propri
collaboratori, dai quali Bellocchio cerca di ottenere il massimo
attraverso un rapporto dialettico continuo, volto a individuare la
soluzione più completa per un’integrazione della musica nel testo che
non abbia intenzioni minimamente “consolatorie” ma che emerga
come segno di forte contraddizione con il comportamento visibile,
rivelando all’interno dell’azione e dell’immagine fissa una verità
ulteriore, fino ad allora rimasta celata9.

8
Marzia Gandolfi, Addio del passato, in Le forme della ribellione: il cinema di Marco
Bellocchio, pp.168-172

9
Comuzio Ermanno, “Della melodia ascolto il contrappunto”. Le colonne sonore di
Bellocchio; da Rossi Maria Giovanna, Marco Bellocchio – La passione della ricerca, Comune di
Fiesole, 2000, (p.gg 39-44)

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CAPITOLO I – I PRIMI ANNI: DAI RIFERIMENTI AL
MELODRAMMA ALLE PARTITURE DI ENNIO
MORRICONE

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I-1: Biografia di un “visionario del suono”

Marco Bellocchio nasce a Piacenza nel novembre del 1939,


per sua stessa ammissione in un tipico contesto piccolo-borghese,
quello dell’ambiente ristretto e rigoroso della provincia padana.
Educato per molti anni in un collegio religioso come il Liceo dei
Padri Barnabiti, e cresciuto in un ambiente familiare piuttosto
raccolto, ultimo di otto fratelli, racconta la sua vita domestica come
una sorta di campo fertile per ogni tipo di nevrosi, inquietudine ed
infelicità. I suoi legami con le figure parentali soffrono della
contraddittorietà insita nel connubio tra l’insofferenza e
l’attaccamento, e in questa sorta di campo di forza vincolante il
regista sviluppa il suo percorso binario di normalità e “pazzia”, intesa
sia nel senso più quotidiano ed innocuo del termine che nel senso
della cronicità clinica, rivelando nella sua stessa casa dinamiche
simili a quelle di un ospedale psichiatrico. Quest’immagine lo
perseguiterà a lungo, per poi proiettarsi all’interno della sua
cinematografia sia come simbolo, che come tematica (in particolare
nei film del decennio ’80).
Parallelamente ad un’attrazione per le arti visive, Bellocchio
sviluppa fin dalla prima infanzia una fascinazione per tutte le arti che
consentano una diretta espressione, come il canto e la recitazione.
Grazie al padre, uomo burbero e attaccato ossessivamente alle
piccolezze, si forma musicalmente su di un repertorio
melodrammatico squisitamente classico e tendente al naturalismo,
con un amore particolare per le opere verdiane. Durante
l’adolescenza tiene in esercizio la sua voce tenorile, profonda, su
quelle arie celebri che timidamente, di tanto in tanto, consente di
ascoltare ai parenti riuniti al di là della parete divisoria della sua
stanza. Solo dopo la morte del padre e grazie all’incoraggiamento del
fratello maggiore Piergiorgio, intellettuale impegnato politicamente

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nella redazione dei Quaderni piacentini10, Marco riesce a decidere di
concretizzare le sue ambizioni artistiche studiando per diventare
attore, e in particolare iscrivendosi all’Accademia dei Filodrammatici
di Milano. Per circa un anno si dedica con costanza al suo obiettivo,
con una serie di trasferte dal luogo natio al capoluogo lombardo, fino
a che non sopraggiunge un impedimento che rappresenta il primo
vero e proprio rifiuto per lui, ovvero la perdita della voce. Per una
serie di complicanze fisiologiche Bellocchio si ritrova privo del suo
principale dono espressivo, e l’estro attoriale non basta a salvarlo
dall’espulsione dall’Accademia.
L’anno dopo si convince ad affrontare il suo conflitto e il
timore della separazione dall’ambiente natale e dalla madre tentando
di recuperare la sua carriera di interprete: la scelta più ovvia è quella
del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma; per
l’ammissione deve preparare diverse prove d’esame tra cui un saggio
critico ed un soggetto originale. Riesce ad entrare, ma è sempre
perseguitato dalla “mutilazione” fonica ulteriormente avanzata che lo
costringe, dopo poco tempo, a deviare obbligatoriamente il suo
percorso verso il corso di Regia. Il trauma della “negazione” lo
sposta verso un ambito del tutto differente da quello che aveva
progettato per sé, con il mutamento dalla condizione di “attante” a
quella di occhio-orecchio che osserva e registra i gesti e le forme
10
I Quaderni Piacentini rivista politico-culturale di sinistra, nacque nel 1962, e sul suo indirizzo
politico influirono le idee dei gruppi marxisti di tendenza operista. Inventata da Piergiorgio
Bellocchio e Grazia Cherchi, due giovani intellettuali piacentini. I primi numeri si occupavano in
parte anche dei problemi cittadini, ma l’impronta di novità era data dal tono anticonformista dei
commenti sociali e di costume e dalle recensioni. Nei primi tre anni la rivista registrò una crescita
costante: fra i collaboratori comparvero Franco Fortini, Sergio Bologna, Giovanni Giudici,
Goffredo Fofi, Giancarlo Majorino, Luciano Amodio, Edoarda Masi, Roberto Roversi, Mario
Isnenghi, Alberto Asor Rosa. Un salto di qualità e di diffusione avvenne nel 1965. Il numero 28
(settembre 1966) pubblicò le Considerazioni sul materialismo di Sebastiano Timpanaro mentre i
quattro fascicoli pubblicati nel 1968 consacrarono il successo politico e commerciale della rivista
I numeri successivi, e tutti quelli usciti nel 1969-70, ebbero una tiratura di 13.000 e una
circolazione reale di oltre 10.000 copie. La rivista, che aveva nel frattempo arricchito la parte più
propriamente letteraria e culturale, offriva una vasta documentazione sui grandi eventi di politica
internazionale, ma soprattutto materiali e analisi sulle lotte operaie e studentesche in Europa e in
Italia, talora dissonanti e spesso critiche nei confronti della tendenza del movimento a frazionarsi
e rinchiudersi in gruppi. Nonostante un’inversione di tendenza nelle vendite Quaderni piacentini
continuò ad essere per tutti gli anni Settanta un punto di riferimento per militanti e quadri della
sinistra. Nel 1980, con il numero 74 – pubblicato, come i due precedenti, dalle edizioni Gulliver
di Milano si chiuse la prima serie della rivista. Una nuova serie di Quaderni piacentini fu
pubblicata dall’editore milanese Franco Angeli fra il 1981 e il 1984
(http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~zucchi/scheda.html)

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dietro la macchina da presa. Si tratta dunque di una crescita imposta
bruscamente dalle circostanze e dalla natura, lontanissima da
qualsiasi cambiamento effimero e velleitario. L’incontro con la
dolcezza del suono costituisce un ricordo, infranto ora da un secondo
e decisivo impatto con il proprio mondo sonoro, che influenza anche
la percezione del futuro regista.
Il Centro Sperimentale è ai suoi occhi un ambiente tutto
sommato provinciale, anch’esso una realtà conchiusa dalla quale
Bellocchio non riesce inizialmente ad emergere né ad astrarsi,
limitando la vita sociale e l’integrazione nella città anche in rapporto
alla sua volontà di mantenimento di un contatto con quella che sente
ancora come la sua realtà di provenienza, da cui è impossibile
staccarsi. Il suo stesso atteggiamento all’interno del Centro, con
l’autoimposto isolamento dal gruppo dei compagni e l’esercizio
difensivo di un’insicura tecnica di altolocatezza intellettuale,
costituisce una sorta di autosabotaggio delle sue stesse attività. Lo
stesso Bellocchio ricorda di aver proposto al centro soggetti “assurdi”
e di aver utilizzato poco l’opportunità di girare datagli dal centro,
facendo partire per ultimo le riprese e ritrovandosi a ingaggiare gli
attori peggiori. Del primo anno è il racconto in forma di
cortometraggio La colpa e la pena, in cui troviamo tra i protagonisti
Stefano Satta Flores, mentre alla fine del secondo anno gira
l’autobiografico Ginepro Fatto uomo, alla cui proiezione assiste un
regista esordiente più volte paragonatogli con il passare degli anni,
Bernardo Bertolucci. Dopo il diploma di regia, conseguito nel 1962,
Bellocchio parte per Londra, portando sempre dentro di sé l’eterna
scissione tra avventuriero e “figlio di mamma”, e non godendo a
pieno delle opportunità mondane conferitagli dalla capitale
britannica. Qui si iscrive alla Slade School of Fine Arts, una sorta di
equivalente alla nostra Accademia di Belle Arti, dove approfondisce
l’abbandonata passione per le attività pittoriche e dove segue le
lezioni del corso di cinema tenuto da Thorold Dickinson. Qui
conosce anche Enzo Doria, attore ed ex allievo del CSC, intenzionato
ad intraprendere una carriera da produttore, che ricontatta al ritorno
in Italia con l’intenzione di lavorare ad un suo soggetto. Bellocchio

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comincia a scrivere quello che sarà il suo primo lungometraggio, una
storia cruda e iperrealistica ispirata lontanamente alla sua situazione
familiare, che incontra resistenze e rifiuto da parte di vari produttori
e che colpisce il fratello Piergiorgio. Nonostante il ricorso a diversi
elementi personali nella storia, quest’ultimo acconsente a finanziare
il film. Nel 1965 esce così I pugni in tasca, con Lou Castel11 che sarà
suo attore-feticcio per quella vitalità distruttiva che sente implosivi
ed inespressa dentro di sé, un film che sconvolge la coscienza
collettiva con la storia di un’adolescenza ribelle e assolutista, votata
ad un’utopia di perfezione e di annullamento totale che si esemplifica
nell’omicidio e nell’istinto di morte. I film, presentato al Festival di
Locarno, ottiene un successo insperato e vari riconoscimenti, oltre ad
anticipare i fermenti politici e gli stravolgimenti sociali e personali
che si manifesteranno di lì a poco con la contestazione giovanile ed
operaia. Un apporto decisivo è dato dalla colonna sonora di Ennio
Morricone, che proprio in quegli anni aveva cominciato la sua
collaborazione con il cinema (in particolare con i western di Sergio
Leone) e che firma anche le musiche originali del secondo film di
Bellocchio, La cina è vicina del 1967, un incursione farsesca e a tratti
desolata nelle contraddizioni e nelle meschinità della classe borghese
che si pretende interessata al rinnovamento sociale e fintamente
democratica. L’attivismo politico di Bellocchio e le tematiche
esposte quasi aggressivamente nei suoi film trovano uno sbocco
ancor più concreto ed esplicito dopo la sua iscrizione all’Unione dei
marxisti-leninisti, nei documentari come Paola e nell’estratto dal
film ad episodi Amore e rabbia, Discutiamo Discutiamo12, nel quale

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Nome: Ulv Quarzéll; Data e luogo di nascita: 28 Maggio 1943, Bogota, Colombia. Ha
lavorato in maggior parte con registi italiani, rivelandosi come interprete ribelle dell'opera prima
di Marco Bellocchio I pugni in tasca (1965). Ha poi lavorato in Francesco d'Assisi (1966) di
Liliana Cavani, Grazie zia (1968) di Salvatore Samperi, che inizia il filone della commedia
erotica all'italiana, Nel nome del padre (1971), Gli occhi, la bocca (1982) ancora di Marco
Bellocchio, Che ora è (1989) di Ettore Scola, Viaggiatori nella pianura (1989) di Rosaleva.
(www. cinematografo.it)

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Amore e Rabbia, 1968 –film ad episodi; regia di Carlo Lizzani, Jean-Luc Godard, Marco
Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini; In chiave moderna vengono rivisitate
cinque parabole del Vangelo. Nell' Indifferenza un uomo coinvolto in un incidente stradale

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è anche interprete e in cui sperimenta la tecnica recitativa del
didattismo, di chiara matrice brechtiana, nello svelamento della
finzione atto a demistificare intenzionalmente la finta solennità di
un’assemblea-siparietto ambientata in una scuola toccata dalla
rivoluzione sessantottina. In questi anni, alla luce della rapidità delle
mutazioni sociali e politiche, Belloccchio avverte l’esigenza di un
contatto più diretto con la realtà politica che lo circonda, per il quale
evidentemente non basta la saltuaria attività critica all’interno della
rivista fondata dal fratello. Il gruppo dei marxisti-leninisti si fonda su
un senso di comunanza e un’identificazione molto forte con il
proletariato, nel nome del quale si deve agire modificando alla radice
le tendenze derivanti dalla propria estrazione borghese; lo stesso
impegno artistico deve rifarsi rigorosamente alla massima del
“servire il popolo”, perseguita con mezzi pratici e razionali, e questo
condiziona fortemente soprattutto il secondo film del regista
piacentino, dagli accenti meno impulsivi e più politicamente
programmatici, anche se mai totalemente sacrificati in nome della
militanza.
Dopo una breve esperienza teatrale Bellocchio torna al cinema
con una serie di film che segneranno gli Anni Settanta, e che tra
elementi di finzione e stralci di realismo documentaristico (come nel
caso del film-inchiesta Matti da slegare, realizzato con Rulli,
Petraglia e l’ex collega del Centro Sperimentale Silvano Agosti)
presentano un connubio tra addestramento nell’universo individuale
dei singoli personaggi e denuncia delle istituzioni, con l’anti-clericale
Nel nome del padre (1971), l’analisi della corruzione insita nel
sistema giudiziario di Sbatti il mostro in prima pagina (1972), e
infine con Marcia Trionfale, che esamina l’assurdità ripetitiva e il
sistema di regole posticcio ed ipocrita dell’ambiente militare. Dopo
aver avuto, secondo le sue stesse parole, un esordio segnato dal

chiede invano aiuto ai passanti. In Agonia un vescovo muore e s'accorge di aver vissuto invano,
senza aiutare nessuno. Pasolini fa vedere il solito Ninetto Davoli. Nell' Amore, Godard ripropone
in chiave politica la vicenda del figliol prodigo. Bellocchio mostra un gruppo di giovani
contestatori che viene prima aggredito dagli studenti di destra e poi dalla polizia.
(www.mymovies.it)

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“privilegio” del lavoro di Ennio Morricone, il suo rapporto
ambivalente e distratto ma indispensabile con il suono, la ricerca di
nuove sonorità musicali è affidata ora al giovane compositore
romano Nicola Piovani, che segue una linea di sostanziale continuità
con il Maestro Morricone nella prima fase del suo lavoro, e che
giunge poi a risultati sempre più originali, a tratti eccentrici, con i
film successivi, tra cui l’adattamento del testo di Cechov Il Gabbiano
(1977) e i film che inaugurano gli anni ’80 e il nuovo percorso
intrapreso dal regista, Salto nel vuoto (1980) e Gli occhi, la bocca
(1982).
Un episodio a parte è quello della singolare e malinconica
colonna sonora, curata attraverso il brani e le sonorità calde di Astor
Piazzola per Enrico IV (1984), riflessione sulla finzione e
sull’essenza del teatro mutuata da un testo di Luigi Pirandello, in cui
compare ancora una volta il tema della rabbia e della violenza
(inizialmente psichica, poi materiale) nei confronti della mediocrità.
Nel 1979 Bellocchio comincia a partecipare ai seminari di
analisi collettiva organizzati dallo psichiatra Massimo Fagioli, e trova
nel processo analitico personale una serie di risposte a dilemmi
irrisolti sulla propria identità e sulla propri ricerca artistica che
influenzano fortemente anche il suo fare cinema. Il disvelamento
delle nevrosi individuali e l’immersione nell’inconscio e nei suoi
contrasti secondo un tipo di psichiatria anti-freudiana improntano i
film successivi da Diavolo in corpo (1986), riadattamento del
romanzo di Raymond Radiguet a Il sogno della farfalla (1994), il cui
titolo è ispirato a un libro dello stesso Fagioli, che coopera alla
sceneggiatura, passando per La visione del Sabba (1987) e La
condanna (1991). La cinematografia di Bellocchio si distacca dal
crudo realismo che dominava le sue produzioni precedenti, adottando
spesso soluzioni visive e sonore simili a concentrazioni di simbologie
complesse e difficilmente districabili.

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