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Università degli Studi di Milano-Bicocca

Esame di CULTURE E SOCIETÀ DEL MONDO ISLAMICO, A.A. 2019-20

Paola Rizzo

matricola 79768

ISLAM IN SENEGAL:
il caso della confraternita muride tra passato coloniale e presente diasporico.

Questo lavoro che vuole focalizzarsi su una delle molte varietà di Islam Africani – la confraternita muride
del Senegal – è anche un tentativo di decostruzione degli stereotipi frutto dell’eurocentrismo con cui si è
cercato (e si cerca tutt’ora) di scrivere la storia dell’umanità. Non si può infatti parlare di muridyya nel
contesto migratorio contemporaneo senza tener conto della storia del Senegal, del ruolo centrale a livello
politico, economico e sociale delle confraternite musulmane e soprattutto dell’unicità di questa tariqa sufi.
Le sue peculiarità sono quindi esse stesse esemplificazioni che contrastano la visione riduzionista
dell’Occidente. Come Jean -Loup Amselle ci consiglia, bisogna parlare di Islam al plurale (2018): lungi
dall’essere una dottrina rigida e a-constestuale, l’Islam è diffuso in diversi contesti culturali e si adatta alle
mutevoli esigenze socio-economiche del periodo storico. Questo risulta evidente nel caso della
confraternita muride: nata alla fine del XIX secolo per far fronte all’occupazione francese, ha permesso la
coesione interna tra gli individui e la creazione di una coscienza nazionale in contrasto a quella dei
colonizzatori. Anche oggi, in risposta alle crescenti migrazioni dei senegalesi verso altri stati del mondo la
tariqa muride, grazie alla sua peculiare plasticità, offre risposte coerenti alle nuove esigenze degli adepti.

Come Amselle ben sintetizza nell’introduzione al suo libro Islam Africani (2018), la visione colonialista con
le sue categorizzazioni e i suoi pre-giudizi nei confronti dell’Islam e dei popoli ovest-africani fatica ad essere
sradicata dai lavori recenti di antropologi e specialisti, più o meno inconsapevolmente eredi di quella
tradizione. Il feticismo degli antropologi nei confronti delle pratiche magiche e animiste dell’Africa – che
vorrebbero “salvare dall’Islam”- sembra proprio un’estensione della visione degli amministratori coloniali
francesi. La stessa confraternita muride è riuscita a legittimare la sua esistenza nella società coloniale
francese, grazie all’approccio pacifico e di collaborazione del suo fondatore Serigne Touba. Agli occhi dei
francesi, insomma, la muridyya era apparsa come Islam tollerante. È proprio durante il colonialismo che
viene costruita l’immagine dell’Africa e dei musulmani africani. Si parla di Islam nero come di una categoria
omogenea e univoca, in cui spariscono le varietà date dall’eterogeneità culturale del continente africano.
Questa categoria intesa come “Islam moderato” è per esempio quella dei muridi, visti come “portatori sani
di Islam”. Le peculiarità dei musulmani senegalesi, che si differenziano dai popoli del Golfo, vengono
elogiate in linea con la concezione paternalista del “mito del buon selvaggio”. Da una parte l’islamofobia e
dall’altra il mito del continente africano come luogo primitivo ed “innocente”, sono le due principali visioni
che strutturano i lavori di molti ricercatori del settore (Amselle, 2018:37). Vorrei tentare di restituire al
contrario la complessità del mondo islamico, la sua eterogeneità e farlo attraverso la storia della
confraternita muride del Senegal.
PREMESSA

L’Islam è una dottrina monoteista di origine abramitica, insieme al cristianesimo e all’ebraismo fa capo alla
tradizione biblica. Per quanto la sua diffusione lo renda un insegnamento spirituale noto all’interno
dell’immaginario globale, molti sono i pre-giudizi e gli stereotipi riduzionisti con cui viene pensato. Dagli
specialisti dell’Islam votati al “classico” studio del contesto mediorientale (Copertino, 2017), agli islamisti
dell’Africa nera (Piga, 2003), agli africanisti e ricercatori delle società africane meno incentrati sugli aspetti
religiosi se non come necessarie considerazioni per cogliere le dinamiche socio-politiche del contesto
culturale (Amselle 2018, Schimidt di Friederberg 1993, Riccio 2007), ci giunge un chiaro invito a decostruire
le nostre categorie eurocentriche. L’Islam è una dottrina complessa, che assume eterogenee forme ed è per
questo che Amselle parla di Islam al plurale (2018). Il sistema di pensiero e categorizzazione di “tradizione
occidentale” è sempre propenso ad operare una riduzione della complessità del mondo, restituendo visioni
semplicistiche e sterili di fenomeni complessi come nel caso dell’Islam. Inoltre l’ignoranza che ci porta ad
associare in maniera univoca “musulmano” ad “arabo” - nell’immaginario collettivo globale- non ci
permette di cogliere più in profondità gli insegnamenti del Corano. La maggior parte degli studi recenti
sono eredità della tradizione colonialista dell’Occidente propensa a de-storicizzare, oltre che de-islamizzare,
i popoli africani. Questa riflessione sulla storia della muridyya e sul suo contemporaneo ruolo di mediatore
socio-politico all’interno dei contesti diasporici si muove nella direzione opposta, tentando di de-mistificare
e de-costruire alcuni degli stereotipi con cui pensiamo l’Islam da una parte e le comunità africane dall’altra.

GENESI DELLA MURIDYYA: Sufismo senegalese come risposta alla colonizzazione

Per parlare dei musulmani in Senegal bisogna premettere una distinzione interna all’Islam tra i due ordini
religiosi di Sunniti e Sufi. La confraternita muride fa parte dell’ordine Sufi, ovvero di quell’approccio alla
spiritualità come continua ricerca interiore e di miglioramento della persona. Il termine sufismo viene fatto
risalire alle parole s ú f (lana) e safá (purezza) che si riferiscono al tessuto di cui erano fatti gli abiti dei primi
asceti sufi e alla ricerca di purezza come possibilità di perseguire un tale grado di virtù e bellezza che possa
permettere di comunicare con Dio e contemplare il suo volto. Al contrario dell’ordine Sunnita in cui la
distanza tra Dio e l’uomo è incolmabile, la visione sufista indica la preghiera e la meditazione come via per
la ricerca interiore e il raggiungimento di quei valori che protendono l’uomo verso Dio, creando la
possibilità di costruire un ponte. Una delle sue peculiarità è il recupero di elementi delle tradizioni culturali
locali che vengono integrati con gli elementi e gli insegnamenti del Corano, per questo il Sufismo è
considerato come corrente mistica dell’Islam. L’altra principale caratteristica è il culto dei santi: ogni tariqa
(vie, metodi) sufi sorge attorno alla figura di un leader carismatico che rappresenta la guida spirituale della
comunità. Ogni adepto della confraternita (talibe) è asservito a un maestro spirituale (serigne), questo
determina una strutturazione gerarchica tra i membri della comunità. Come spiega Schmidt di Friederberg
(1994), le confraternite sufi sono spesso guardate con sospetto e scoraggiate da una parte per la
convivenza di credenze e pratiche mistiche locali con la liturgia formalmente riconosciuta come
musulmana, dall’altra per il ruolo centrale dei capi spirituali. La muridyya è una delle tariqa più consolidate
in Senegal. Di origini più recenti rispetto alle altre due grandi confraternite sufi , la quaridiyya e la tijaniyya,
è l’unica di origine senegalese. La parola murid significa in arabo “colui che vuole” e le sue origini risalgono
al periodo di occupazione francese, circa la fine del XIX secolo. La sua esistenza è legata alla storia del
mistico Ahmadou Bamba Mbacke, anche chiamato Serigne Touba, il quale ha avuto un ruolo fondamentale
nella diffusione dell’Islam all’interno dell’etnia locale wolof e nel processo di costruzione della nazione
Senegal. In risposta alla colonizzazione francese, egli professò la resistenza pacifica e la collaborazione con
gli occupanti al fine di migliorare le condizioni di vita della popolazione locale. La ricerca di santità per
Ahmadou Bamba si può riassumere nel khidma (servizio): la distinzione di compiti tra il talibe (discepolo) e
il suo marabutto (serigne). Mentre il marabutto si occupa della preghiera e della meditazione per indicare la
via agli adepti, il talibe provvede alla prosperità materiale della comunità attraverso il suo lavoro. È proprio
con l’introduzione del lavoro come forma di preghiera e di redenzione che Serigne Tuba riesce ad avere
consensi, coinvolgendo individui appartenenti a etnie e astrazioni sociali differenti. Per la prima volta viene
messo in discussione il principio di immutabilità della gerarchia sociale locale; chiunque può trovare la via
spirituale e migliorare la propria condizione. Questo punto risulta cruciale ai fini di questa riflessione per
due motivi: il primo è che ci permette di cogliere l’importanza del lavoro per la comunità muride (più avanti
si vedrà come questo sia ancora attuale nelle diaspore senegalesi in Italia) e il secondo, connesso al primo,
è la plasticità di questo approccio spirituale. Fin dalla sua nascita, come già accennato, l’insegnamento del
Serigne Tuba è stato in grado di rispondere alle necessità spirituali ma anche socio-politico-economiche
della popolazione, adattandosi continuamente ai cambiamenti della società fino ai nostri giorni. Come ha
scritto Schmidt di Friederberg:

Di fronte ad un mondo che si sfaldava, in cui i valori tradizionali perdevano significato, i marabutti –
che traggono la propria legittimità dal carisma religioso – si presentarono come portatori di nuovi
valori e come guide per la direzione della società civile (1994:15).

Serigne Touba è stato un attore sociale fondamentale per la creazione di uno stato indipendente dalla
Francia, come riporta Piga: “senza avere egli stesso una vera coscienza nazionalista, Ahmadou Bamba si
trovò di fatto a rappresentare per la sua gente il simbolo di una identità nazionale” (2003:262). La sua
visione mistica e il suo invito alla ricerca interiore “senza distinzione di quartiere”, oltre che il suo non
manifesto disprezzo per i francesi, ha permesso il costituirsi di un senso di appartenenza ad una medesima
popolazione tra gruppi etnici che si erano sempre contrapposti gli uni contro gli altri. Nonostante
l’atteggiamento pacifista e di collaborazione con i francesi, i quali gli diedero anche un riconoscimento
ufficiale, Bamba è ricordato come eroe della resistenza wolof al colonialismo. Il suo concetto di jihad –
nell’immaginario collettivo globale questo termine è spesso abusato ed associato al terrorismo
internazionale- “viene esclusivamente riferito al jihad an-nafs, cioè alla lotta senza quartiere contro le
proprie impurità e i propri vizi in una tensione costante verso la purificazione dell’anima” (Piga, 2003:261).
Serigne Touba in quanto mistico era più interessato alla vita interiore che alle bassezze della vita politica,
ma anche consapevole delle dinamiche di assoggettamento e della necessità di una pacifica convivenza con
gli occupanti, i quali potevano essere d’intralcio per la diffusione del Corano. Cheick Ahmadou Bamba è
riuscito a legittimare anche a livello istituzionale e politico la figura del marabutto, ricevendo il consenso da
parte delle forze francesi che vedevano in questa confraternita un Islam tollerabile e tollerante. Dai primi
anni del XX secolo i marabutti - specialmente muridi- godono di una grande influenza anche a livello
politico. Dal 1945, mentre il Senegal si prepara all’indipendenza dalla Francia che avverrà nel 1960,
cominciano delle massicce migrazioni dalle zone rurali verso la città ed aumentano i finanziamenti da parte
dei politici alle confraternite. In tempi più recenti, verso gli anni 70 e 80 del 1900, i movimenti musulmani
riformisti provenienti dalle zone del Golfo guadagnano terreno nell’Africa Occidentale (Senegal compreso).
Questi gruppi sono di stampo wahhabita, si ispirano al progetto di Muhammad b. Abd al-Wahhab (1703-
1793) di restaurare l’Islam nella sua originaria forma, depurandolo da tutte le contaminazioni portate
dall’innovazione e dalle politiche di espansionismo. Per i moderni wahhabiti insomma bisogna tentare di
costruire uno Stato musulmano, le cui strategie politiche devono basarsi sui principi ed i valori del Corano,
eliminando le tracce della superstizione e dei santi tipiche del muridismo. Questo movimento politico-
religioso wahhabita mette in discussione anche la figura del marabutto muride, accusato di essere
collaboratore dello straniero ed ancorato a tradizioni esoteriche da eliminare. Nonostante nelle università e
nei contesti urbani come Dakar vi è una discreta adesione al movimento riformista, rimane una critica
intellettuale di nicchia che non riesce a penetrare le masse. Adriana Piga (2003) ci dice che i rapporti e le
tensioni tra gruppi riformisti e confraternite in Senegal sono oggi più distesi e tra esse prevale la
collaborazione. In ogni caso il ruolo socio-politico del marabutto e l’asservimento a lui del talibe rimane
tutt’oggi una delle peculiarità della società senegalese, tanto all’interno dei confini nazionali quanto nelle
diaspore. Come a breve si vedrà, questo principio di gerarchizzazione degli adepti continua a strutturare le
comunità senegalesi.
GLI INSEGNAMENTI DI SERIGNE TOUBA NELLA CONTEMPORANEITÀ DIASPORICA

La propensione ad associare Islam ad arabo non ci permette di cogliere la complessità ed eterogeneità delle
manifestazioni di questa religione. “Contro una tendenza a etnicizzare il musulmani con l’arabo medio-
orientale, l’etnografia ci ricorda l’eterogeneità degli islamismi anche in migrazione” (Bonfanti, 2017:125),
come nel caso della confraternita muride qui presa in esame. Spesso l’impossibilità di rintracciare le
caratteristiche stereotipiche che siamo abituati a scorgere nei musulmani arabi – che abbiamo quasi
naturalizzato nella definizione stessa di “arabo” – fa passare in secondo piano l’appartenenza religiosa di
molti individui. Apparentemente privi di un credo religioso al nostro sguardo occidentale, molte popolazioni
del mondo ci appaiono sospese nel tempo e nello spazio. Il continente africano viene immaginato e
studiato come se fosse un unico luogo, privo di variabili storiche e culturali. Quasi come se la storia
dell’Africa sia iniziata dall’epoca dei crescenti contatti con l’Occidente, le nostre categorie di pensiero sono
il prodotto di un continuo processo di semplificazione e sterilizzazione. Una questione di rilievo è infatti la
propensione a de-storicizzare e de-politicizzare quella volgarmente chiamata “Africa nera”. Questo punto di
vista è sicuramente eredità dell’eurocentrismo con cui sono stati redatti i primi incontri con le popolazioni
non appartenenti al “west world”. L’operazione di riduzionismo non è infatti solo relegata alle società
dell’Africa, ma a tante altre come i popoli del Pacifico, delle Americhe e dell’Asia. Nel caso della “Africa
nera” è però caratteristico l’atteggiamento ambivalente: da una parte la denigrazione delle tradizioni locali
considerate come primitive e superstiziose – in coerenza con la cosmologia demonizzante cristiana su cui si
è costruito l’Occidente - e dall’altra il fascino e il paternalismo. Questo atteggiamento non è qualcosa di
relegabile al passato, ma un modo di relazionarsi e pensare a quelle società tutt’ora in uso. Neanche gli
studi umanistici e di settore passati e presenti riescono a sottrarsi da questa morsa. Vi è tutta una tradizione
di studi umanistici che ha collaborato attivamente in questo processo di riduzionismo della complessità
delle società africane, come nel caso degli studi di M. Griaule sui Dogon e i Bambara (Amselle, 2018:56). Nel
caso delle società musulmane dell’Africa nera è ancora più evidente nell’occultamento della religione
coranica1, poiché “a causa della visione dell’Africa come continente della magia e stregoneria per
antonomasia, questo aspetto plurale è stato costantemente occultato dal pensiero europeo e soprattutto
dagli autori coloniali” (Amselle, 2018: 32). La storia dell’attuale Senegal mostra al contrario quanto non solo
l’Islam fosse presente già all’arrivo dei francesi, ma anche l’importanza che ha rivestito nella vita degli
individui e nello stesso processo di costruzione dello Stato-Nazione. Per quanto il Senegal sia uno stato di
stampo francese e professi una visione positivista di nazione laica è evidente la centralità della dottrina
Islamica all’interno della società. Spesso è infatti ignorato (ed anche io fino a poco tempo fa ignoravo) che
la maggioranza della popolazione senegalese è musulmana. La peculiare forma che assume l’Islam in
Senegal, che per molti versi si distingue dall’Islam arabo, costituisce una sorta di velo di Maya che non ci
permette di scorgere la pervasività del Corano nella vita delle persone. Gli studi più recenti sulle comunità
diasporiche senegalesi dislocate nel mondo squarciano quel velo e rendono esplicita la necessità di ri-
pensare i nostri modelli e ciò che intendiamo quando parliamo di musulmani. In diversi studi sulle comunità
senegalesi in Italia (Schmidt di Firedberg 1994, Riccio 2007) emerge innanzitutto che la maggioranza degli
individui è musulmana e appartenente alla confraternita muride, secondariamente che la relazione talibe-
marabutto anche nelle connessioni transnazionali ha un ruolo centrale per l’organizzazione della vita delle
persone. Le reti sociali di reciproca solidarietà che spesso si intessono tra migranti provenienti dallo stesso
luogo si rafforzano tra gli appartenenti alla confraternita e mostrano il rinnovato ruolo dei valori
tradizionali. Il lavoro e la solidarietà (teranga) in accordo con la visione islamica - e soprattutto con le attuali
necessità di coloro che vivono fuori dal Senegal- vengono de-codificati e ri-codificati rendendo gli
insegnamenti su cui si basa la muridyya attuali. Il caso della confraternita muride è un buon esempio per
1
Amselle parla addirittura di islamofobia (2018:41)
mostrare che la religione è qualcosa che non trascende la dimensione sociale, politica ed economica della
vita degli individui. Fin dai giorni in cui è stata fondata da Cheik Ahmadou Bamba come forma di pacifica
resistenza al colonialismo francese, la muridyya ha permesso un miglioramento delle condizioni sociali ed
economiche dei suoi adepti. Nel contesto contemporaneo delle diaspore senegalesi in Italia, ciò rimane
invariato. Ottavia Schmidt di Friederberg nella sua etnografia risalente agli inizi degli anni Novanta del
Novecento documenta pareri discordanti riguardo ad un possibile coinvolgimento economico diretto dei
marabutti nel finanziare le partenze dei propri talibe, ma ribadisce anche che “non bisogna sottovalutare
[…] il peso della cultura muride, con il suo accento sull’etica del lavoro e della solidarietà, che stimola un
atteggiamento mentale disponibile alla migrazione” (1994:110).

Gli insegnamenti di Ahmadou Bamba risalenti ad un secolo fa sono tutt’oggi attuali: la fede religiosa come
qualcosa di non intellettuale e di radicato nella concretezza dell’esperienza umana, così come la necessità
di lavorare duramente assumono una rilevante importanza nei contesti diasporici. L’etica del lavoro come
dovere verso la società e ponte verso Dio è una credenza importante al fine di sostenere un migrante che
lascia la propria famiglia per andare a lavorare altrove. La capacità di adattamento della muridyya ai
cambiamenti storici e politici del sistema economico-culturale la rendono un oggetto di studio degno di
nota e perciò la sua specificità è da cercare non tanto nel contenuto in sé degli insegnamenti ma nel vissuto
sociologico entro cui vengono applicati (Schimidt di Fiederberg, 1993:19). Dall’etnografia di Schmidt di
Friederberg emerge che le confraternite muridi, nei contesti migratori di approdo, hanno il ruolo di anello
di congiunzione tra la comunità senegalese e la società di accoglienza italiana (1993: 76). Vi sono infatti
persone che hanno il compito di mediare tra il proprio gruppo e l’autorità istituzionale locale. L’abitudine
della famiglia allargata di tradizione senegalese viene riprodotta in Italia tra gli adepti del culto, così che la
dahira (di cui si tratterà più avanti) contribuisce a mantenere lo spirito di appartenenza e di solidarietà. Allo
stesso modo lo spazio domestico dei migranti diviene un’estensione dello spazio della dahira, e quindi della
comunità, il quale è messo a disposizione di chiunque abbia bisogno; Friederberg scrive: “la casa di un
senegalese è dunque la casa di tutti i senegalesi” (1993:81). Anche nello studio di Riccio (2007) emerge la
questione della condivisione dello spazio domestico, che rappresenta un importante obbligo e forma di
solidarietà riservata ai membri della comunità tanto che alcuni operatori sociali italiani che lavorano nei
processi di inserimento dei migranti, descrivono la comunità senegalese come “etnia” incline al
sovraffollamento degli spazi. In realtà non è altro che la manifestazione dei valori tradizionali senegalesi che
nel caso dei muridi si rafforza. Anche nella mia esperienza, un mio informatore cresciuto a Brescia, di
origine senegalese e musulmano muride, mi ha raccontato diversi episodi della sua vita e del modo in cui
vengono strutturate le relazioni all’interno della comunità in cui aprire le porte della propria casa ai nuovi
arrivati dal Senegal, diviene obbligo. Ciò che la confraternita muride offre agli adepti nel contesto
migratorio è un capitale simbolico-valoriale. La possibilità di mantenere un contatto con la cultura di origine
attraverso i valori e gli insegnamenti che vengono impartiti dalla dottrina. La tradizionale solidarietà
senegalese (teranga) si rinforza all’interno della confraternita in diaspora. Si assiste alla costruzione di
legami di reciproca solidarietà tra adepti muridi e al mantenimento della relazione (verticale) di sostegno
tra marabutto e talibe (Bonfanti, 2014:125). La solidarietà interna alla confraternita nel contesto migratorio
emerge anche nel lavoro etnografico di Cheikh Anta Babou (2015) sui muridi emigrati in Gabon, mostrando
come “in the urban context, the dahira helped develop, preserve, and reproduce the values that shaped
Murid identity. It fostered links of solidarity and provided new emigrants a familiar and supportive
environment”. Anche in Italia più che le moschee musulmane i muridi si incontrano per rinnovare
l’appartenenza religiosa nelle dahira (Schmidt di Fiederberg 1994). La dahira o dara è la scuola in cui
vengono impartiti gli insegnamenti del Corano che nel caso dei muridi “assume piuttosto la connotazione di
«scuola di vita», dove viene dato più peso allo zelo nel lavoro che all’apprendimento coranico” (Schmidt di
Friederberg, 1993:20). Nel contesto diasporico divengono fondamentali al fine creare non solo reti di
solidarietà reciproca ma anche per rinforzare l’identità etnica. Il sentimento etnico di appartenenza
necessita anche del mantenimento di contatto con la cultura di origine: attraverso la connessione
transnazionale serigne- talibe emigrato, l’adepto rinnova la sua fede ed i valori tradizionali e morali su cui si
basa. La questione identitaria si esprime anche nel tentativo di mantenimento dei valori tradizionali:
nonostante sembra esserci una relazione dialettica tra la cultura dei migranti senegalesi e quella italiana,
non mancano le perplessità e il timore dei muridi di perdere i valori tradizionali e diventare schiavi del
materialismo come i “bianchi” toubab (Riccio, 2007). Date le nuove esigenze degli individui, sempre più
dislocati nei diversi paesi del mondo, i serigne mantengono il loro impegno di guide spirituali utilizzando gli
strumenti a loro disposizione. Sembra una pratica consolidata quella di mantenere i contatti telefonici con il
proprio marabutto residente in Senegal, il quale è sempre disponibile per dare consigli e sostegno al
proprio adepto. A volte i marabutti che godono di maggior status socio-economico e numero di discepoli
organizzano dei tour in Europa per visitare i talibe che sono migrati (Ottavia Schmidt di Friederberg 1994,
Bruno Riccio 2007). Durante quei momenti le guide spirituali invitano all’apertura e alla collaborazione con
il paese ospitante – in linea con la filosofia di collaborazione di Ahmadou Bamba- ma hanno anche il
compito di rinforzare l’identità etnica ribadendo i valori tradizionali senegalesi e muridi. Riccio raccoglie
molte testimonianze e alcune strofe di canzoni di cantanti locali che narrano della diffusa intenzione degli
individui di tornare nel proprio luogo di origine, a testimonianza del profondo sentimento di attaccamento
col luogo di provenienza (2007:118). Come all’inizio di questa riflessione ho spiegato la tariqa muride,
essendo una confraternita sufi, integra al suo interno gli insegnamenti del Corano con i valori tradizionali
senegalesi. Kalidou (27 anni) il mio amico di origini senegalesi cresciuto a Brescia, musulmano ed
appartenente alla confraternita muride, mi ha spiegato che teranga è un concetto tradizionale molto
importante. Questo termine in lingua wolof (una delle varietà linguistiche che prende il nome medesimo
del gruppo etnico) viene spesso tradotto come “ospitalità”, ma implica degli obblighi reciproci di solidarietà
e generosità su cui si basa il senso di appartenenza al gruppo. Teranga racchiude in sé

the generous and civic-minded intentions of individuals in regard to gift exchange and hospitality,
as well as in everyday calculated and improvi-sational social encounters. The discourse and practice
of teranga is intended to bestow the rights and obligations (Jenan Riley, 2019:111).

Potremmo così riassumere i punti principali in cui si realizza questa tradizionale forma di solidarietà
senegalese:

 Un marcato senso della gerarchia basato sull’anzianità;


 Organizzazione collettiva della vita del gruppo;
 Realizzarsi nel gruppo e per il gruppo.

Questa solidarietà interna è radicata nella storia culturale senegalese, per questo la teranga è un
atteggiamento e una modalità di interazione diffuso tra tutti i gruppi etnici e religiosi. Nella migrazione è un
precetto indispensabile per l’appartenenza etnica e nel caso dei musulmani assume ancora più importanza.
Tra i cinque arkhan al-Islam (“pilastri dell’Islam”) compare il principio di zakât, ovvero l’obbligo di
elemosina ai bisognosi (Cantoni, 2000). Questi cinque principi, tra cui la zakât, sono i cinque insegnamenti
del Corano ritenuti fondamentali per essere un buon musulmano. Anche se il primo pilastro - la shahâda
(professione di fede)- è l’unico principio indispensabile per essere riconosciuto come musulmano dalla
comunità di credenti, al pari della preghiera (salât) anche l’elemosina è una pratica molto importante per i
musulmani. Nonostante la preghiera coranica possa essere intesa come “motivo profondo di identità”
all’interno di un Islam tanto eterogeneo (Piga, 2003:79), bisogna ribadire la relatività e la plasticità di questa
dottrina che viene pensata e ri-pensata in accordo con le esperienze ed esigenze quotidiane degli individui.
Mi spiego meglio: nel caso dei musulmani muridi residenti in Italia più che la salat sembra essere il principio
di zakât - da intendere come solidarietà incondizionata verso l’altro, specialmente se appartenente alla
propria comunità etnica o confraternita - come principio fondante dell’identità etnico-religiosa.

Ancora una volta ribadisco la non riducibilità della religione ad una sfera trascendentale che al contrario
deve essere pensata (e studiata) in relazione al contesto storico-culturale entro cui è immersa. La pluralità
dell’Islam è proprio data dall’eterogeneità di contesti culturali entro cui viene professato, in cui il momento
storico-politico vissuto dalla comunità non può essere ignorato. Le necessità e le fratture quotidiane nella
vita delle persone producono “risposte religiose” differenti. Nel contesto migratorio attuale la muridyya
enfatizza alcuni precetti religiosi piuttosto che altri, continuando però a mantenere le sue peculiari
caratteristiche. Un’altra questione che vorrei porre all’attenzione è la natura dinamica della cultura e la sua
“ibrida natura”: ogni incontro tra i popoli del mondo lascia delle impronte (Remotti, 2011). Questi
mutamenti culturali non sono mai passivi: non è mai “assorbire” elementi di un altro sistema di pensiero
per soppiantare i propri, al contrario è sempre un processo di decodifica e ricodifica in coerenza col proprio
sistema culturale. Ciò che vorrei dire è che il caso della muridyya mostra proprio la complessità dei
fenomeni culturali: il principio di zakât (obbligo di elemosina per i musulmani) trova la sua coerenza nel
principio wolof di teranga. Così come la teranga è coerente col principio arabo di karam: “la nobiltà
d’animo che rende possibile la generosità 2”. L’incontro con i mercanti berberi, i quali hanno portato
l’insegnamento di Maometto nell’attuale Senegal, è stato possibile grazie alla presenza di un sistema
culturale e di credenze che presentava elementi endogeni coerenti con la loro visione di mondo. “ Fin dalle
sue manifestazioni più rudimentali e primitive la cultura si configura come un insieme di forme e processi
che si collocano tra gli organismi umani e il mondo esterno” (Remotti, 2011), e il mondo esterno è il
prodotto della costante interazione tra gli uomini e l’ambiente. Per onestà intellettuale bisogna ammettere
il carattere ibrido dei fenomeni culturali e religiosi, così come l’impossibilità per la specie umana di
sopravvivenza senza il contatto interculturale.

CONCLUSIONE

Qualcuno teme la globalizzazione pensando che sia un fenomeno di contaminazione culturale (nel senso
negativo e popolarmente diffuso) che porterà alla scomparsa delle tradizioni dei popoli e di conseguenza
delle loro inestimabili peculiarità. Al contrario il fenomeno di McDonaldizzazione, Coca-Colizzazione o
semplicemente di Modernizzazione, mostra l’irriducibilità delle differenze culturali. Le culture del mondo
sono da sempre il prodotto di intense relazioni e scambi reciproci tra i popoli che abitano questo pianeta,
così come ci insegna la muridyya. Lungi dall’essere una docile dottrina islamica è un prodotto specifico,
unico, storicamente e culturalmente definito. A dispetto della visione de-storicizzante delle popolazioni
africane, il caso qui trattato ci ricorda quanto arida sia l’idea generalmente diffusa che abbiamo di queste
popolazioni e soprattutto la necessità di “osservare le forme contemporanee di interrelazione tra
sentimento religioso e prassi politica, superando le classiche descrizioni dell’Islam come una totalità
ideologico-normativa astorica nella quale sarebbero fuse sfere della vita (economica, politica, religiosa) che
la modernità occidentale ha separato” (Copertino, 2017:48). In ogni caso per comprendere la peculiarità
dell’ordine muride è necessario puntualizzare come la dimensione religiosa abbia un carattere fortemente
socio-politico. Lo stesso Fabietti ha comparato non a caso il linguaggio liturgico a quello politico spiegando
che l’adozione di un registro linguistico “tecnico” e ricco di vocaboli poco comprensibili alla maggioranza
della popolazione, conferisce un carattere trascendentale all’attore sociale che inscena la performance
religiosa. In poche parole è chiaro come la religione sia tra le altre cose un sistema di gerarchizzazione,
organizzazione della società ma soprattutto di distribuzione di potere politico. Proprio in questo senso
nasce la muridyya come risposta all’instabilità interna del nascente Senegal durante l’occupazione francese.
Le ricerche a noi contemporanee sulle comunità senegalesi in Italia hanno registrato il non marginale ruolo
della religione e della confraternita muride nei nuovi contesti di arrivo. La muridyya rafforza e si rafforza nei
valori tradizionali della teranga, la solidarietà incondizionata verso l’altro tipicamente senegalese. Gli
individui mossi dagli insegnamenti di Ahmadou Bamba creano reti di solidarietà per fornire assistenza nel
processo di inserimento in Italia ai nuovi arrivati. La dahira nel contesto della migrazione in Italia non
rappresenta più solo il luogo di culto, ma lo spazio entro cui si estende il Senegal a cui la maggioranza spera
2
Emily Jenan Riley (2019:110) riprendendo le parole di Shryok (2009:34)
di fare ritorno. Il mantenimento dei legami transnazionali con il luogo di origine e la cultura tradizionale
viene favorito quindi dall’appartenenza alla confraternita, di cui il rapporto talibe-serigne ne è un esempio.
Quello che la confraternita muride ci mostra è la necessaria ed urgente decostruzione dei paradigmi e della
visione eurocentrica che scrive e descrive il mondo. Non solo dobbiamo scalfire il nostro etnocentrismo
ammettendo che le comunità dell’Africa hanno sempre intrattenuto rapporti e scambi con altre culture
prima ancora che “l’Occidente” vi si stabilisse per qualche sorta di progetto di “modernizzazione”, ma
anche che il mondo islamico è molto più complesso ed eterogeneo di come vorremmo poterlo pensare.
Questo lavoro è solo il primo passo di scoperta della pluralità e della complessità degli Islam. Concludo
questa breve riflessione sulla confraternita muride del Senegal con le parole del suo fondatore Cheick
Ahmadou Bamba, che ben sintetizzano il suo insegnamento (ricordiamo, tutt’ora attuale ed osservato):
“lavora come se non dovessi mai lasciare questo mondo e prega come se dovessi morire domani” (Babou,
2015).
BIBLIOGRAFIA

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