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Essenza: focalizza l’attenzione sulla natura dei processi politici, sulle peculiarità dei comportamenti politici
che si differenziano , dai comportamenti sociali, economici o religiosi.
Il concetto di politica non si presta ad essere contraddistinto con nettezza, sebbene sia possibile trovare una
sfera di attività propria ed esclusiva della politica.
1.2 autonomia
Sul piano storico, l’affrancamento della politica alle altre sfere è il risultato di un processo che può essere
riassunto in quattro tappe:
La politica assume una capienza maggiore rispetto all’economia, alla società e al diritto perché è questa
che determina i margini di manovra delle sfere non politiche.
A partire dal secondo dopoguerra negli stati uniti, la diffusione del comportamentismo contribuisce a
risollevare e a gettare le basi della futura affermazione della scienza politica in Europa
La politica esprime una valenza sopraindividuale che si esplica nel vivere comune, e tale concetto ha
una connotazione rigorosamente verticale, commessa con il concetto di potere.
Il rapporto di tipo politico è sempre inter-soggettivo, chiuso, comprende gli amici, che fanno parte di
una certa comunità, ma esclude chi ne è fuori, il nemico pubblico, il riconoscimento in gruppi, ha il suo
corrispettivo nell’esclusione di quanti non appartengono.
L’ambivalenza della politica insita nella diade amico/nemico di Schmitt rappresenta l’essenza autentica,
esclusiva e ineliminabile della politica. Nella sua visione la contrapposizione politica è la più intensa ed
estrema di tutte. Ogni contrasto religioso, morale, economico ed etnico si trasforma in un contrasto
politico se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici. Il politico non
indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una
dissociazione di uomini. I concetti di amico, nemico e lotta assumono per Schmitt un significato reale,
prevedono in modo esplicito la possibilità concreta dell’uccisione fisica. La guerra è la prosecuzione
della politica con altri mezzi, è l’extrema ratio della contrapposizione amico nemico, utile per la
straordinaria amministrazione. Nel momento in cui si assume la presenza del nemico, va logicamente
compresa la presenza di un amico, la solidarietà precede l’idea del conflitto
In un contesto caratterizzato dalla scarsità dei mezzi a disposizione, il potere si basa essenzialmente sul
fatto che alcuni gruppi riescono ad assicurare la propria superiorità sugli altri attraverso il controllo
delle risorse, di tre tipi:
1- Economiche (potere economico) fondate sul possesso di beni materiali, per indurre ad una
determinata condotta coloro che non riescono ad accedervi
2- Ideologiche: derivate dall’influenza esercitata sulle preferenze altrui da individui investiti di una
certa autorità
3- Politiche: caratterizzate dal possesso degli strumenti mediante i quali si esercita la forza fisica, come
le armi
Il potere politico per Parsons è la capacità generalizzata di assicurare l’adempimento delle obbligazioni
vincolanti in un sistema di organizzazione collettiva, in cui le obbligazioni sono legittimate dalla loro co-
essenzialità ai fini collettivi, e che pertanto possono essere imposte con sanzioni negative, quale che sia
l’agente che di fatto le applica. Lo stato per sua natura, tende a collocarsi nella sfera del potere politico. La
capacità del primo soggetto di esercitare una forma di potere sull’altro prevede un’azione conforme al
comando da parte di quest’ultimo, il soggetto che emette comandi ha interesse a ridurre il margine di
incertezza di chi obbedisce. Per Poggi, un rapporto di potere politico, ceteris paribus è tanto più solido e
l’esercizio di esso tanto più efficace e tanto meno faticoso, quanto più può fare credibile appello a principi
su cui si fondano quell’autorizzazione e quell’obbligo. Se si verifica, chiameremo il potere legittimo.
L’ingiustificazione della violenza privata riposa in ultima istanza sul fatto che è accettata e giustificata quella
collettiva.
La conformità, può essere tanto il risultato di uno scambio bilaterale quanto di un dominio unilaterale. Nel
primo caso, la determinazione dei contenuti delle decisioni politiche è il risultato di uno scambio politico tra
società civile e classe politica, ove la prima cerca di ottenere diritti e spettanze, la seconda il sostegno per il
potere. Nel secondo caso la conformità è il risultato di un’azione coercitiva.
Anche i regimi non democratici hanno bisogno di legittimarsi, riducendo i costi relativi alla gestione del
potere e agevola il mantenimento dell’ordine e della pace interna. Il concetto di politica non può essere
separato da quello di potere
Il rapporto politico si caratterizza per la rilevanza che in esso assume l’elemento coattivo. Fisichella pensa
che il rapporto di tipo politico non può esistere indipendentemente dal momento coattivo, non può non
prevedere costitutivamente la coazione a pena di diventare qualcos’altro. Nei rapporti di tipo non-politico,
la coazione è una contingenza, essenza nel rapporto politico
Sul piano interno, l’istituzionalizzazione di un meccanismo di risoluzione pacifica dei conflitti, ovvero le
regole del gioco, consente a tutti i regimi politici, tranne i totalitari di tutelare la comunità che risiede
all’interno del proprio territorio. Nelle democrazie, il principio maggioritario temperato dalle garanzie per le
minoranze attribuisce al partito o alla coalizione che vince le elezioni il diritto a gestire direttamente il
potere. L’efficacia di questi meccanismi è data dalla loro legittimità.
Sul piano internazionale la mancanza di un’unica autorità dotata del monopolio legittimo della forza
impedisce l’applicazione di un principio imparziale a tutela della sicurezza dei singoli stati, costringendoli
all’auto-difesa. L’anarchia internazionale, ognuno di essi si sente potenzialmente minacciato dall’altro.
Proprio perché la sovranità rappresenta il potere supremo, nessuno stato è disposto a cedere le proprie
prerogative e a riconoscere un’autorità posta al di sopra di esso. Il monopolio legittimo della forza, al di
fuori dei confini legittima l’uso della violenza da parte delle singole unità del sistema, in virtù del principio di
autodifesa. Waltz ha affermato che formalmente ciascuna unità è uguale a tutte le altre: nessuno ha il
diritto di comandare e nessuno di obbedire. La caratteristica più importante della politica internazionale
sembra essere la mancanza di ordine. Solo alcuni stati sono in grado di utilizzare in modo efficace lo
strumento militare, obbligando i più deboli a subire gli effetti. Waltz evidenzia i diversi principi che ordinano
le parti sui due livelli, nel primo caso gerarchico, nel secondo seguendo il principio anarchico, è il discrimine
fra i due il modo di gestire la violenza, un sistema nazionale non si fonda sull’autodifesa come un sistema
internazionale.
Il nesso politica-potere risulta duplice: costituisce il denominatore comune nella competizione per
accaparrarsi le risorse salienti, dall’altro traccia una cesura tra politica interna e internazionale nella
gestione dei conflitti che ne determinano l’essenza. Ad una sfera nella quale la conformità è il risultato
dell’applicazione della legge,(politica interna) si contrappone una sferra nella quale l’ordine è spesso
imposto dall’attore più forte.
La presenza di vincoli strutturali, non può impedire ad un attore di ottenere un vantaggio maggiore rispetto
ad un altro, ma può limitare la sua condotta, salvaguardando il diritto dell’attore più debole a non essere
completamente sottomesso. Questo rapporto di forza si manifesta come scambio, il margine d’azione che
individui e gruppi possono esercitare sugli altri è direttamente proporzionale all’ampiezza della zona di
incertezza controllata. Gli attori agiscono in modo tale da rendere imprevedibile il proprio comportamento,
riducendo l’imprevedibilità del comportamento altrui, per rafforzare la propria posizione. Quando le regole
sono rigide e il soggetto politico che gestisce il potere dispone di un ampio grado di legittimità, la capacità
di ottenere conformità è generalizzata a tutti gli attori del sistema e stabilizzata nel lungo periodo. A livello
internazionale una eventuale configurazione bipolare o multipolare del sistema ostacola fortemente
l’individuazione di un potere legittimo. In politica, in un contesto anarchico, i suoi esiti sono rappresentati
da decisioni prese da uno o più attori in posizione di egemonia, che vincolano le altre unità del sistema
internazionale nella misura in cui il loro potere è considerato legittimo.
Le differenze tra politica interna e politica internazionale comportano l’obbligo di individuare una serie di
fenomeni che si collocano lungo le transazioni di confine, Per Hintze questa simbiosi fra dimensione interna
ed internazionale, influenzava sistematicamente la formazione e il consolidamento degli assetti statali. Le
istituzioni per superare le sfide ambientali, dovevano rispondere alla duplice esigenza di adattarsi alle
caratteristiche delle società che governavano e di organizzarsi per poter agire militarmente nell’arena
internazionale. Hintze individua una relazione inversamente proporzionale tra la quantità di libertà negli
stati e la pressione politico-militare esercitata sui suoi confini. Ne deriva la classificazione di stati centrali e
periferici. I primi erano caratterizzati da strutture amministrative fortemente centralizzate e burocrazie
plasmate sul modello militare; costituzioni assolutistiche, sistemi politico-amministrativi fondati sul
principio della sicurezza. I secondi, non subivano pressioni esterne e disponevano di strutture
amministrative decentrate imperniate sull’autogoverno, costituzioni liberali, sistemi politico amministrativi
tesi a migliorare il benessere dei cittadini.
Deutsch definisce l’intreccio causale esterno/interno in termini di linee di confine. Il concetto focalizza
l’attenzione sulla presenza di una marcata discontinuità nella frequenza delle transazioni e delle reazioni
provocate dagli stimoli esterni. Ciò che si verifica in un determinato paese può assumere rilevanza tale
sull’opinione pubblica di un altro stato, al punto da far venire meno una effettiva linea di confine tra la
reazione dell’opinione pubblica e gli avvenimenti del paese straniero, o viceversa con una reazione di netta
chiusura, denotando la presenza di una netta linea di confine tra politica interna e internazionale. La
mobilità della linea di confine è determinata dal livello di autonomia dei singoli stati dall’ambiente
internazionale, espresso come sistema autonomo quel sistema le cui risposte, una volta fissate le
caratteristiche dell’ambiente internazionale, non siano empiricamente prevedibili. Rosenau introduce il
concetto di Linkage, per spiegare qualsiasi sequenza di comportamenti ricorrenti che nascono in un sistema
e provocano reazioni in un altro. Il linkage tra interno ed esterno costituisce una realtà multi-dimensionale
che si esplica a vari livelli e tende a rendere sempre più labile il confine che separa sistema e ambiente. La
regolarità delle interazioni fra sistema e ambiente fissa la ripetizione di un processo di scambio, tale che i
comportamenti sono così interconnessi da non poter essere analizzati separatamente. Per Rosenau si
realizza lo spazio politico della frontiera, lungo essa l’autore colloca le contraddizioni del mondo globale:
racchiude uno spazio disorganizzato, privo di basi di legittimità, che può prendere la forma del mercato,
dell’assemblea legislativa,. Nella realtà la maggior parte dei fenomeni politici è il risultato di una
concatenazione di eventi, originati da fattori interni e non, che non sempre è possibile trattare
separatamente. Inoltre bisogna chiarire a quali e quanti fatti sia possibile uscire da una dimensione per
intervenire anche nell’altra e se esso sia possibile per tutti gli stati, e se i rapporti fra i due ambiti sia di
reciprocità per le influenze. Ciascun ambito è capace di esercitare il suo peso su alcuni aspetti della vita
dell’altro senza che per questo si sia costretti a ritrovare delle corrispondenze costanti.
La scuola neorealista, nella versione fornita da Waltz afferma che la condizione di anarchia costituisce la
variabile indipendente per spiegare il comportamento degli stati nell’arena internazionale, sistemi
democratici e non, subiscono le conseguenze prodotte dal clima di insicurezza dovuto all’assenza di
un’autorità centrale. Questo significa che il comportamento più o meno aggressivo delle democrazie, è
finalizzato a conservare o accrescere il proprio potere per tutelarsi dagli attacchi e ad estendere il proprio
modello.
- Regimi politici: la teoria dei regimi politici si fonda sul presupposto che il comportamento degli stati
nell’arena internazionale dipenda dalle modalità organizzative interne. La distinzione tra stati democratici e
non democratici è basilare: le democrazie sarebbero meno propense alla guerra, in virtù del ruolo svolto
dall’opinione pubblica, dall’istituzionalizzazione del dibattito parlamentare. Le democrazie sul piano
concreto non sono affatto pacifiche, ma non si sono mai fatte guerre fra di loro, le democrazie
intervengono militarmente nei confronti di stati non democratici allo scopo di destabilizzarne i regimi ed
estendere il modello democratico. La condizione di pace democratica potrebbe garantire relazioni più
pacifiche tra gli stati se il sistema internazionale fosse composto di sole democrazie.
- configurazione della coalizione dominante: sebbene le democrazie condividano una serie di valori, principi
e norme universali, si differenziano tra loro in merito a specifiche procedure istituzionali, quali la forma di
governo o il modello di democrazia. Tali meccanismi possono fare la differenza nella gestione della politica
estera. Friedrich ha ipotizzato l’esistenza di una correlazione inversa tra i rischi politici emersi dalle
contestazioni interne alla maggioranza di governo, e i rischi di policy derivanti da un fallimento
internazionale dovuto ad una politica estera inadeguata. Si verifica sempre un problema di trade off tra i
rischi politici e rischi di policy. La disponibilità dei governi a correre determinati rischi a scapito di altri
dipende in linea di massima dalle caratteristiche della coalizione dominante. Si presuppone che in presenza
di coalizioni ampie i governi siano generalmente portati a ridurre i rischi politici anche al costo di innalzare i
rischi di policy. La tendenza dei governi a correre rischi politici per perseguire con successo la policy cresce
proporzionalmente al controllo che questi esercitano sul processo decisionale
- transizioni di regime: il passaggio da un regime non democratico alla sua controparte può incidere
sull’allineamento internazionale del paese in questione, può contagiare gli stati confinanti, provocare una
ridefinizione dei confini territoriali. Il collasso dell’unione sovietica è un caso emblematico. C’è inoltre una
connessione sfavorevole tra stati parzialmente democratici e guerra.
- consolidamento dello stato: il problema della debolezza istituzionale di determinati regimi politici per
Buzan è l’esito del processo di state building determina le caratteristiche del contesto internazionale nel
quale gli attori operano. In un sistema caratterizzato da stati forti, dove il processo di state building si è
concluso positivamente, gli attori sono in grado di monopolizzare la violenza legittima. La diffusione di stati
forti potrebbe consentire l’ampliamento delle zone di anarchia matura, fondate sulla progressiva
attenuazione della natura prettamente anarchica del sistema. Gli stati perché hanno concluso con successo
il processo di accentramento del potere, non hanno interesse ad utilizzare la forza per risolvere i conflitti
con altri stati e sono consapevoli tanto che le sicurezze nazionali siano interdipendenti, quanto che una
politica estera auto-referenziale rischi di condurre al fallimento. Nei sistemi caratterizzati da stati deboli
dove alla scarsa coesione tra società e istituzioni si aggiunge l’incapacità dei governi di monopolizzare la
forza, la presenza di confini contestati e il ricorso alla violenza anche sul piano interno minano la sicurezza
dello stato e alimentano la frequenza di conflitti tra vicini bellicosi. Gli stati falliti rappresentano una
minaccia per le relazioni interstatali. Il basso grado di maturità del processo di state building esaspera la
condizione anarchica del sistema e rende più probabile il ricorso alla violenza, sia sul piano interno che sul
piano internazionale.
- scontro di civiltà: Huntington ha sovrapposto una nuova interpretazione dello scenario politico mondiale,
successivo alla fine della guerra fredda, che si fonda sul fattore culturale. La sua ipotesi individua nello
scontro di civiltà la chiave di lettura degli sviluppi attuali della politica internazionale. Le identità culturali,
che corrispondono alle civiltà, sarebbero alla base dei processi di coesione e disintegrazione che
caratterizzano il panorama mondiale dopo il 1989. Nel sistema attuale, rispetto alle civiltà, Huntigton li
qualifica come stati guida, stati membri, stati isolati, stati divisi, stati in bilico. Gli allineamenti si formano in
relazione alla posizione che ciascuno stato occupa rispetto al grado di identificazione culturale. Se durante
la guerra fredda un paese decideva di non allinearsi oggi nessuno può rinunciare alla propria identità. La
frequenza e l’intensità dei conflitti sono espressione del grado di identificazione verso il proprio
raggruppamento e di incompatibilità verso l’esterno.
La svolta comportamentista, rappresenta una rivolta di ispirazione positivista contro il formalismo giuridico
e la subordinazione delle scienze sociali alla filosofia politica e agli studi storici. Sempre più oggetto di
indagine saranno i partiti, i gruppi di interesse e di pressione, le amministrazioni locali, ecc. ecc.
Nel quadro epistemologico comportamentista sono presenti vari elementi che marcano la differenza col
passato: il ruolo delle regolarità e delle uniformità dei comportamenti politici, con la possibilità di costruire
generalizzazioni empiriche e teorie esplicative; l’importanza dell’osservazione anche come metodo di
controllo delle ipotesi generali, il ruolo della quantificazione.
Questa evoluzione della politica è anche frutto di: 1 crescente massificazione, le masse si affacciano sulla
scena politica attraverso i processi di democratizzazione del XIX secolo, con la nascita di costituzioni, partiti
di massa che portano ai regimi di massa nel novecento, in ogni loro forma, 2 la politica diviene sempre più
ampia e invasiva, si passa dallo stato minimo allo stato liberale e sociale. 3 crescita del numero degli stati.
L’etnocentrismo occidentale è anche meno presente grazie ad Almond e Pye, cessando di essere l’esclusivo
oggetto di studio delle scienze sociali. Molti studiosi hanno preferito orientarsi verso visioni meno
ambiziose, dopo il comportamentismo, privilegiando la ricerca di meccanismi causali e la formulazione di
spiegazioni locali spazio-temporalmente limitate, con una sostanziale riscoperta della storia. Con il declino
del comportamentismo si affermano poi due nuovi paradigmi: il primo origina dall’analisi economica, il
secondo dalla sociologia. Il paradigma neo istituzionalista implica la riscoperta della rilevanza delle
istituzioni nella politica, muovendo dal punto di vista che azioni, scelte, decisioni e comportamenti sono
fortemente condizionati da norme, regole, procedure, aspettative di ruolo, costrizioni. Si suggerisce che
l’analisi della politica debba concentrarsi sulle istituzioni e sul modo in cui sono interrelate. Le istituzioni
tornano ad essere concepite come variabili indipendenti dei processi sociali, si recupera l’importanza dello
stato. Il neoistituzionalismo si presenta poi nelle varianti razionale, storica e sociologica. Nella razionale si
assume che la politica è un gioco fra attori individuali e che sono le istituzioni a rendere possibile tale gioco,
riducendo i costi di transizione, rendendo prevedibili i comportamenti individuali e favorendo l’interazione
virtuosa e cooperativa. Una volta individuati gli incentivi e disincentivi del contesto istituzionale, si possono
dedurre generalizzazioni e previsioni sul comportamento individuale. La variante storica pone l’attenzione
sulle strutture istituzionali e sulla loro evoluzione. Gli attori sono costretti ad agire entro i vincoli ereditati
dai precedenti assetti istituzionali e la path dependency implica che le scelte fatte nel tempo x condizionano
quelle che si faranno nel tempo x+1. La variante sociologica sposta l’interesse sulla dimensione culturale,
muovendo dal punto di vista che sono le istituzioni (variabile indipendente) ad influire sulla cultura
(variabile dipendente).
Secondo il comportamentismo c’è l’idea che le teorie debbano essere sempre empiricamente controllabili,
con più serie e rigorose tecniche di ricerca, un linguaggio e un apparato concettuale più appropriati, termini
e concetti capaci di viaggiare.
Marradi ha definito la comparazione come il confronto degli stati di due o più oggetti su una
proprietà. La comparazione è dunque un metodo di controllo delle relazioni empiriche ipotizzate
tra variabili in casi diversi, controllo empirico più spiegazione.
L’impostazione corretta di un progetto di ricerca:
- Manifestazione di un problema, incidenza dell’eredità del regime non democratico sul nuovo
regime democratico
- Se ne argomenta la rilevanza, la rilevanza sta nel tentativo di capire meglio gli esiti dei processi di
democratizzazione, perché successo, perché falliscono
- Si formula una domanda di ricerca, precisandone la collocazione spazio-temporale, Quale è
l’impatto delle eredità sul nuovo regime democratico e in che modo esse ne spiegano gli esiti?
- Si impostano delle ipotesi di ricerca, in modo da stabilire una precisa relazione tra le variabili
indipendenti e dipendenti, impatto delle eredità che costituisce la variabile indipendente, dall’altro
gli esiti del processo di democratizzazione (variabile dipendente)
- Si scelgono casi da comparare e concentrare l’indagine, avendo cura di spiegare perché,
- Si procede alla ricerca dei dati e delle fonti empiriche
La sperimentazione è raramente applicabile alle scienze sociali, studiando le azioni umane, non si
adattano a forme di riproduzione artificiale dei fenomeni a fini di studio. La forza della sperimentazione
consiste nella possibilità di mutare una variabile tenendo ferme tutte le altre, ossia a parità di tutte le
condizioni. Il metodo al quale si ricorre più spesso è quello comparato, la comparabilità non è un dato
oggettivo, bensì il frutto del metodo classificatorio, solo inserendo due oggetti in una stessa
classificazione riusciamo a dimostrarne l’appartenenza ad uno stesso genere. In relazione al numero dei
casi possiamo avere:
La difficoltà di parametrizzare le variabili impone una forte semplificazione della ricerca e suggerisce
l’uso di tecniche quantitative. Aumentando i casi si incontrano maggiori diversità e aumenteranno le
modalità con cui lo stesso fenomeno si presenta rispetto alla stessa proprietà. Confrontando fra loro
casi simili con la strategia della concordanza, o casi dissimili, strategia della differenza. Per quanto
miranti a obiettivi diversi è consigliabile combinare le due strategie. Skocpol nella sua ricerca comparata
sulle rivoluzioni sociali, mette a confronto tre casi positivi di rivoluzioni vittoriose, rilevandone i modelli
causali analoghi, malgrado le numerose differenze, con casi negativi, nei quali le rivoluzioni sono fallite.
L’approccio comparato non esclude l’analisi del caso singolo come studio in profondità di un fenomeno
senza accostamenti espliciti e sistematici ad altri fenomeni.
Nel caso di most different systems design si studiano le relazioni causali tra i fenomeni associati in
sistemi diversi, senza tener conto delle differenze specifiche di ogni sistema: se sistemi diversi
condividono lo stesso fenomeno, è facile concludere che le altre differenze sono irrilevanti. Nel caso di
most similar Systems design, invece, si mettono sotto controllo e si parametrizzano i fattori di
somiglianza, cercando di determinare le relazioni causali, mediante lo studio di quei caratteri in cui i
sistemi differiscono.
Il dilemma molte variabili, numero limitato di casi per Lijphart: ridurre il numero delle variabili
combinando due o più variabili che esprimono una caratteristica sostanzialmente simile. Orientare
l’analisi sulle variabili chiave. Dal punto di vista della strategia dei casi dobbiamo poi aumentare per
quanto possibile il numero dei casi, orientare l’analisi ai casi comparabili, simili rispetto ad un largo
numero di caratteri importanti da tenere. Una relazione empirica individuata in certe società può
costruire un legame causale ma può anche essere il frutto dell’apprendimento storico
Fra le strategie comparate la distinzione più efficace è quella tra comparazione statistica e storica: Nel
primo caso quanto più il parallelismo è confermato con riferimento a molti casi, tanto più aumentano le
probabilità di relazioni causali tra le variabili. La comparazione statistica ha l’obiettivo principale di
accertare le cause permanenti, immaginate come attributi delle unità. Strategia variable based
C’è una distinzione netta tra l’oggetto principale della ricerca e i soggetti inclusi nella ricerca stessa.
Al contrario di Durkheim, Weber concepisce le scienze sociali come scienze della realtà storica. Usano
gli idealtipi per costruire limitate generalizzazioni circa le divergenze storiche. Gli idealtipi occupano un
livello intermedio fra l’unicità e irripetibilità degli eventi storici e la generalità delle teorie. Il confronto
fra idealtipi e casi empirici aiuta nella ricerca delle cause e fa capire gli sviluppi storici divergenti. Gli
idealtipi sono modelli selettivamente sviluppanti, che aiutano a formulare spiegazioni genetiche e
rappresentano un quadro concettuale, in riferimento al quale la realtà deve essere confrontata al fine
di illustrare determinati elementi significativi del suo contenuto empirico. Le proprietà strutturali degli
idealtipi sono spesso legate a questioni genetiche specifiche: il capitalismo come modello e la
razionalizzazione sono inseparabili. Le spiegazioni genetiche mostrano perché un oggetto di studio ha
certe caratteristiche descrivendone l’evoluzione dalle forme precedenti, l’uso degli idealtipi per
formulare spiegazioni genetiche delle diversità storiche focalizza la nostra attenzione sui casi concreti.
Per Weber la spiegazione causale è spazio-temporalmente limitata. La strategia comparata utilizza
tecniche storico-qualitative, ma di natura logica e non statistica, della somiglianza e differenza. Moore
utilizza il metodo storico, con tre idealtipi nella forma dei tracciati percorsi da un gruppo di sette
nazioni. Ogni tracciato costituisce una fase storica che influisce sui tracciati successivi: quello percorso
dalle democrazie liberali, che ha influenzato il tracciato di Germania e Giappone con le rivoluzioni
dall’alto e quello di Urss e Cina. Ogni itinerario storico comprende una varietà di fattori che
combinandosi in modo diverso formano le differenti configurazioni che caratterizzano i vari tracciati.
Le due strategie non sono inconciliabili e possono essere complementari, la comparazione statistica
può fornire basi più solide all’analisi aiutando nella formazione degli idealtipi.
Sartori ha evidenziato come vada rivisto il linguaggio e la troppa fiducia nelle tecniche quantitative,
risolvendoli attraverso il trattamento verticale e orizzontale dei concetti. Il primo implica l’uso dello
strumento classificatorio, il secondo della scala di astrazione. È attraverso la classificazione che si attua il
processo di dispiegamento e spacchettamento dei concetti per genus et differentiam.
- Stiramento dei concetti: consiste nello slargamento di un concetto per fargli ricomprendere più
esperienze
- Parrocchialismo: concentrarsi solo su un caso ignorando le categorie di analisi poste da teorie
generali
- Il mal classificare: mischiare casi apparentemente simili
- Gradismo: tendenza a ridurre tutte le differenze di grado col risultato di sostituire ogni differenza
dicotomica con differenze continue: non ci sono più democrazie e non democrazie, ma paesi più
democratici e meno democratici
La scala di astrazione riguarda i concetti empirici: dobbiamo sempre decidere a quale livello di
astrazione intendiamo collocarli, Per non incappare nello stiramento dei concetti occorre sempre
rispettare le regole di ascesa e discesa lungo la scala di astrazione. I concetti utilizzabili nell’attività
scientifica devono essere sempre concetti empirici. È consigliabile fare uso di indicatori.
I valori hanno spesso influito sulle stesse tradizioni di ricerca. La soluzione weberiana del problema è
quella della avalutatività e della separazione fra i giudizi di fatto e di valore. Bisogna distinguere in
modo chiaro e leggibile tra fatti e giudizi di valore, quello dell’avalutatività è più un principio regolativo
che un principio costitutivo per Sartori.
Il lavoro scientifico ha come obiettivo la produzione di teorie. Per lungo tempo, l’ambizione della
riflessione sociale e politica è stata quella dell’enunciazione di teorie sotto forma di leggi,
dell’individuazione di regolarità empiriche relative al funzionamento e alla fisionomia delle istituzioni
politiche, al comportamento degli attori, ai rapporti fra governanti e governati. Alle vecchie teorie della
riflessione politologica classica, molte leggi e teorie generali sono state messe in dubbio e spesso
confutate o ridimensionate dal controllo empirico. Le generalizzazioni parziali tuttavia, per Lijphart,
possono costruire un primo passo per riproduzioni successive in contesti diversi.
Una teoria scientifica contiene una descrizione, una prescrizione e una previsione. Il dilemma che Gilpin
ha posto, affrontare con precisione questioni secondarie o approssimativamente questioni importanti
evoca il tema di livelli di analisi e si ricollega alla scala di astrazione. La scelta del livello di generalità
rappresenta un’opzione cruciale per permettere di stabilire cosa è rilevante, e una volta delimitato
l’ambito di applicazione del concetto consente di individuare la strategia di ricerca e di impostare il
rapporto tra variabili. Sul piano metodologico La prima conseguenza che si può trarre dall’estensione o
contrazione di un concetto è la presenza di trade off tra il grado di approssimazione alla realtà e
l’efficacia della teoria. Il dilemma delle scienze sociali è capire quando una distorsione della visuale è
marginale e quando la massima accuratezza è essenziale. Waltz individua le cause della guerra e le
suddivide in tre immagini: lo stato, l’individuo e il sistema internazionale. L’individuo comprende le
teorie fondate sul pessimismo antropologico. Lo stato, dove colloca le teorie che spiegano la guerra in
riferimento alle caratteristiche interne degli stati, come forma di governo e sistema economico. Il
sistema internazionale, si riferisce al contesto anarchico. Per Waltz, neo-realista, le prime due immagini
sono riduzioniste, la terza sistemica, veramente utile per interpretare la politica estera degli stati.
Per Waltz il compito della teoria è isolare una specifica area di ricerca rispetto alle altre per
occuparsene in astratto e spiegarne i fenomeni interni, operando delle semplificazioni radicali della
realtà per cogliere le relazioni di causa ed effetto fondamentali.
Singer ammette che ambedue i livelli di analisi sono fondamentali, sistemico e statale, il primo offre una
rappresentazione più esaustiva e totalizzante, collocando le unità nel contesto ambientale,
determinandone il posizionamento nello spazio, contiene inoltre maggiori dettagli e l’approfondimento
dei singoli casi.
Se si muove dal presupposto che un fenomeno rilevante possa avere una duplice spiegazione, è
possibile comprendere meccanismi come la pace democratica (statale e sistemico) assuma un
significato diverso a seconda della prospettiva.
La sovranità implica il controllo su un territorio, una popolazione e determinate risorse. Rispetto al passato
vi sono infatti caratteri di maggiore rigidità dovuti al fatto che il territorio dello stato è precisamente
delineato con confini. Il legame fra stato e territorio si fa sempre più stretto. Le frontiere acquistano
maggiore visibilità e significato, tendono a diventare stabili, incidono sulla vita delle popolazioni, il loro
controllo da parte dello stato finisce per essere un indicatore significativo della sua forza e stabilità.
La centralizzazione del potere è l’esito di un processo che conduce alla riduzione dei poteri alternativi allo
stato e all’unitarietà statale, sono resi possibili dalla crescita delle amministrazioni pubbliche, che
assicurano l’espansione e la penetrazione interne del potere. La burocrazia nel senso weberiano (regole
universali, competenza, gerarchia e regole di reclutamento) costituisce lo strumento indispensabile della
crescita e sopravvivenza degli stati. Le burocrazie sono indispensabili nei processi di centralizzazione,
contribuiscono a formare l’immagine dello stato nelle aree periferiche. Il vero salto di qualità è introdotto
da Napoleone con i prefetti, dotati di pieni poteri. Processi rilevanti sono anche la secolarizzazione e la
separazione fra stato e società civile. Il primo si pone come distinzione fra morale e politica e come
scissione delle responsabilità del nuovo statale dal compito di presiedere alle coscienze e alle questioni
morali e religiose. Il secondo processo riconosce alla società civile anche una dimensione non politica
preclusa allo stato. La crescita dello stato porta all’evoluzione del concetto di cittadinanza con un criterio
collettivistico di esclusione, legata alla stanzialità e al sangue. I sudditi-cittadini sono tenuti a identificarsi
anche con la storia, le tradizioni, la cultura, la lingua, l’etnia, il territorio, i confini dello stato. Gli stati
tendono a identificarsi con la nazione e a trasformarsi in stati nazione.
State building
Ci sono condizioni favoriscono la crescita e lo sviluppo delle aggregazioni statali come lo sviluppo di poteri
concentrati e centralizzati, né troppo esigui né troppo elevati. Nei nuovi stati occidentali, la crescita del
potere centrale trova un limite in una serie di fattori:
- Nei caratteri propri del feudalesimo ( pluralismo dei ceti, delle corporazioni)
- Nella contrapposizione re-nobiltà, che porta alla costituzione delle diete
- Nella contrapposizione fra potere politico e potere spirituale
- Nello sviluppo del mercantilismo, del commercio e di poteri economici
In secondo luogo lo sviluppo statale fu favorito dalla maggiore specializzazione ed efficacia delle nuove
forme di organizzazione amministrativa. Anche il grado di sviluppo delle forze armate, il successo
militare, garantì l’eliminazione dei nemici interni, favorì il consolidamento territoriale, la
centralizzazione, l’acquisizione e consolidamento del monopolio della forza. La sostanziale
invulnerabilità dei territori europei, rese più facile che territori non immensi potessero consolidarsi. Lo
sviluppo di città, commerci e del primo capitalismo favorì solo indirettamente lo stato nazionale. Fu
proprio l’intensa attività commerciale in Europa prima dello stato nazionale a svolgere un ruolo di
primaria importanza nel permettere la disponibilità di certe risorse, nel rendere praticabili la tassazione
e le correlate forme di esazione governativa, e nel motivare le vecchie autorità a sviluppare nuove
forme di controllo sulla popolazione. Laddove lo sviluppo economico portò alla formazione di centri
urbani più rilevanti e potenti, questi (quinta condizione) assunsero la fisionomia di vere e proprie
capitali, capaci di imporsi come il punto forte e visibile del centro aggregatore, con un ruolo anche
culturale. Anche l’esistenza di una regione più forte in grado di assumersi il compito della
centralizzazione, come Parigi in Francia, l’Inghilterra in Gran Bretagna avviano la spinta unificante, sono
entità regionali in grado di esprimere un’elité dominante e disporre delle necessarie risorse. Infine
l’omogeneità dei sudditi è un’ulteriore fattore il cui sorgere interferisce con lo sviluppo degli stati,
alcuni erano già unitari, altri stati-mosaico, si impegnarono a creare omogeneità. Quanto più sono
presenti strutture decentrate ereditate dal regime non democratico, tanto più si rende necessaria una
democratizzazione parallela e concomitante nelle entità federate, alla quale si accompagni un
negoziato che reimposti le relazioni intrastatali.
Le differenze che caratterizzano la fisionomia statale sono quelle che riguardano lo state-building e
quelle che fanno riferimento alla sua fisionomia strutturale. Per lo state building, Rokkan e Urwin
propongono:
- Lo stato unitario, costruito attorno ad un centro che tiene saldamente il potere, e presenta
standardizzazione amministrativa (Francia)
- Lo stato di unione, in cui l’incorporazione dei territori avviene attraverso l’unione dinastica
personale, come In Spagna e Uk. L’integrazione è tutt’altro che perfetta, malgrado i processi di
standardizzazione amministrativa, la persistenza di diritti e istituzioni locali può spiegare la
sopravvivenza di forme di autonomia.
- Il federalismo meccanico, creato dall’alto, con strutture territorialmente differenziate, accettate e
anche introdotte da un centro, più forte delle singole parti, unificazione tedesca e italiana
- Il federalismo organico, risultato di un’azione dal basso con associazione volontaria di entità che
conservano ampia autonomia (svizzera)
Il vero spartiacque è tra i modelli di stato unitario e del federalismo meccanico, da una parte e quelli di
stato di unione e federalismo organico dall’altra. Nel primo caso il percorso è sostanzialmente imposto
dall’alto, nel secondo, l’esito ha maggiori probabilità di prevedere il mantenimento e il rispetto di culture e
strutture peculiari. Un’altra classe ancora potrebbe essere lo stato che si forma in seguito a processi
disgregativi di polities precedenti, come per Urss, cecoslovacchia e Jugoslavia.
Per le differenze di ordine strutturale, le istituzioni politiche europee vedono predominare uno stato
caratterizzato da sovranità forte e indivisibile, con organizzazione del potere su base territoriale,
concentrato e unica vera fonte di autorità, approfondita dal concetto di stato nazionale: il potere è più
facilmente gestibile se si è conseguita una ragionevole omogeneità culturale dei cittadini, obiettivo
raramente raggiunto. Le radici dello stato nazionale stanno nell’assolutismo, opposti alla realtà
frammentata della società tardo-feudale, in primis in Francia, che con i principi del centralismo, fatti propri
dall’assolutismo, vengono rilanciati in versione popolare dai giacobini, uno stato-nazione omogeneo,
compatto e mono-nazionale. Ci sono però delle esperienze devianti in Europa, La Svizzera, confederazione
di repubbliche a scopo difensivo, e I Paesi Bassi nelle loro prime leghe libere nelle regioni settentrionali.
Entrambi poi caduti. Le cause di questa diversa evoluzione possono essere ricondotte alle differenze di
ordine genetico. Stati frutto di mire espansionistiche saranno centralizzati, a differenza di quelli costruiti su
base volontaristica. Un secondo gruppo di ragioni derivano dall’evoluzione dei rapporti interni fra le
componenti dello Stato, magari in seguito a spinte nazionalistiche. I nuovi sviluppi interni e le domande di
autonomia amministrativa finiscono per avere ragione anche delle tradizioni storiche e istituzionali più
centraliste.
In conclusione, fra due modelli polari di stato, si trovano dei modelli misti, come Germania e Austria sono
sistemi federali impiantati su società mononazionali e monolingui, Mentre la Gran Bretagna è stata fino a
poco tempo fa un sistema centralistico ma multietnico, si potrebbe quindi pensare che negli ultimi
quaranta anni, ci si stia avvicinando ad un modello di stato meno centralista. Questo modello è stato
preminente anche a causa delle guerre, che diventano totali in seguito alla sua massificazione, al ricorso di
armi frutto di sviluppo tecnologico ed industriale che consentono di colpire centri civili ed urbani, che
hanno costretto gli stati del XX secolo a sovraccaricarsi di compiti difensivi, incoraggiare e farsi carico dello
sviluppo industriale, costruire processi decisionali coinvolgendo rappresentanti di varie categorie produttive
assumendo un ruolo di mediazione, ivi compresa per la popolazione, investire sempre più risorse in campo
bellico. Finita la guerra il ruolo dello stato tendeva a restare dilatato. Il lungo periodo senza guerre ha
contribuito a ridare fiato ai localismi.
L’idea di nazione nasce dalla rivoluzione francese, in seguito ad un’evoluzione culturale precedente che
aveva visto il rafforzamento di legami comunitari intorno ad alcuni caratteri condivisi e simboli comuni. Lo
stato ha una dimensione strutturale ed organizzativa, le nazioni hanno una dimensione naturale, una
culturale e una politica e l’unione fra stato e nazione è un matrimonio di convenienza: le nazioni hanno
bisogno dello stato per rafforzarsi e ottenere autonomia, gli stati si servono dell’identità nazionale per
consolidare la legittimità interna.
La distinzione fra centro e periferia illustra e si riferisce ai livelli di distanza e di differenza fra territori e
gruppi sociali all’interno di una determinata area geografica. La multidimensionalità delle nozioni va
analizzata poi sotto altri due punti di vista: una distanza e una differenza spiegabili con riferimento a precise
condizioni oggettive; oppure spiegabili tramite percezioni soggettive. Questo suggerisce l’identificazione di
quattro dimensioni, che concorrono a formare centri e periferie.
1- Dislocazione geografica del territorio di produzione, lontano dai centri di produzione e di scambio
2- Dimensione economica: vicinanza o lontananza dalle risorse economiche e dai centri di scambio
commerciale, che la rivoluzione industriale ha approfondito
3- Culturale: specificità etniche, linguistiche e religiose
4- Dimensione politico-organizzativa, sul ruolo delle istituzioni politiche, amministrative e militari nel
promuovere l’integrazione o nell’indisponibilità delle periferie a perdere autonomia
I centri possono essere di varia natura, economici, culturali, militari-amministrativi. Per identificarli
scrive Rokkan, bisogna osservare se le arene sono concentrate tutte in un medesimo territorio, avremo
un centro monocefalo, altrimenti se sono distribuite, policefalo. La condizione di periferia ha come
caratteri chiave la distanza, la differenza e la dipendenza. Le periferie sono dipendenti dai centri e
hanno identità separata.
In Europa talune nazionalità raggiunsero presto i loro obiettivi, altre verso la metà o la fine
dell’ottocento, (Italia, Germania) all’inizio del novecento (Albania, Serbia) altri con la fine del XX secolo
dalla disgregazione di Jugoslavia e Urss, e altre ancora oggi non hanno uno stato (baschi, catalani,
corsi). Un tentativo convincente di classificare le relazioni fra stato e nazione è quello che distingue fra
stato-nazione e nazione-stato, i primi culturalmente omogenei, con i confini della nazione che
coincidono con quelli dello stato e le minoranze sono poco influenti politicamente. I secondi
multiculturali o multinazionali, dove accanto a singole identità locali, convivono un’identificazione e una
lealtà comuni verso lo stato. La lealtà verso il proprio gruppo nazionale non è considerata incompatibile
con quella verso lo stato. Esistono stati nazione con una struttura unitaria o con una struttura federale.
Anche le nazioni stato presentano forme di federalismo, la Spagna e il Belgio sono passati dalla
condizione di stati-nazione e quella di nazioni-stato.
Il nazionalismo implica un forte attaccamento alla nazione come collettività umana; scaturisce
dall’intreccio dei processi di nation-building e di state-building. Con il primo processo si formano le
nazioni, fra gli individui che fanno parte della stessa comunità nasce un idem sentire che accelera
l’omogeneizzazione. I processi di standardizzazione culturale assumono conformazioni diverse e sono
promossi da attori diversi, e le sue dimensioni cambiano, possono essere storiche, culturali, linguistiche
e religiose. La lingua costituisce una forte espressione di identità, tuttavia può essere anche superata,
ed ognuna delle dimensioni singolarmente è inutile, bisogna pertanto vedere:
- A: il ruolo simbolico attribuito alla lingua nel repertorio dei simboli del nazionalismo
- B: quale lingua standard si afferma e il grado di politicizzazione che essa assume: se viene usata
dalle elité politiche e culturali, viene valorizzata nella vita pubblica
- C: le gradazioni di distanza all’interno di uno stesso territorio
Il ruolo della lingua nella formazione delle nazioni diviene insostituibile quando si afferma il principio che
una nazione deve possedere una propria lingua. In questo caso assume un significato unificante ed
egualitario.
Nel nord Europa la riforma protestante ha rafforzato la specificità delle culture locali grazie alla rottura con
la chiesa. L’identificazione della religione con la nazione si verificò anche in Inghilterra. La chiesa per
esigenze di amministrazione dovette riconoscere in più occasioni suddivisioni territoriali e regionali, e in
alcune sue appendici locali ha svolto importanti ruoli nella promozione delle nazioni, che si formano anche
per lo sviluppo di una coscienza nazionale di massa. La condivisione di un cammino storico genera
solidarietà, crea ideali e obiettivi da perseguire insieme, permette di disegnare un destino comune. A ciò si
arriva grazie ad un processo storico, che ha portato allo sviluppo di una coscienza nazionale. La storia
dunque fa delle nazioni entità in costante evoluzione soggette a continua ridefinizione. Si va da un’identità
nazionale concepita in chiave naturalistica. È sempre la storia, a spiegare le differenze fra un nazionalismo
essenzialmente difensivo e uno visto come un ideale da perseguire che renda giustizia a popoli non liberi.
La seconda componente dell’identità nazionale si riferisce a quell’insieme di organizzazioni e agenzie che
trasmettono e stabilizzano in ogni parte del territorio le caratteristiche culturali dell’identità nazionale. È
evidente il ruolo della dimensione istituzionale, che condizionerà identità, comportamenti e strategie degli
attori politici. Monarchie, governi, burocrazie, eserciti. Ed è a questo punto che si propongono i processi
emulativi nella diffusione del modello statale. Una volta formato, lo stato nazione vede sempre più come
prioritario il conseguimento dell’omogeneità nazionale e si trasforma quasi sempre in stato
nazionalizzatore. Mette in atto comportamenti politici destinati a completare lo state-building.
L’assimilazione delle minoranze, il rafforzamento dell’economia e dell’egemonia politica della nazione.
Tutto ciò scaturisce anche dalla crescente incorporazione delle masse nei processi politici.
Molti autori mettono in evidenza il ruolo del sistema internazionale nella nascita, morte e trasformazione
degli stati. Sono le pressioni esterne, oltre quelle interne, a portare verso lo sviluppo degli stati. Vi sono
state varie ondate di trasformazione statale che modificano l’assetto sviluppatosi dopo Westfalia come:
conflitti su larga scala, conclusi con trattati che sanciscono la fine di imperi europei e risorgimenti nazionali,
il disfacimento di imperi coloniali, la fine dell’impero ideologico Urss, che portano anche al suffragio
universale, nuove politiche di welfare, globalizzazione dei processi economici
Parentesi box federalismo, cazzo la metti qua che spezza tutto ma vabbe ( una costituzione è federale se
uno stesso territorio e una stessa popolazione sono soggetti ad almeno due livelli di governo, ogni livello
dispone di almeno un’area di competenza e di azione nella quale gode di autonomia, tale sfera di
autonomia è garantita a livello costituzionale. Già gli imperi si avvicinavano ad assetti federativi. Le
definizioni di federalismo fanno riferimento all’esistenza di un patto di convivenza a base della comunità
politica. L’esistenza di un patto implica la presenza di attori che si considerano uguali e che si uniscono
volontariamente, conservando un grado di autonomia. Esistono quattro modi per classificare il federalismo,
il primo in base al tipo di percorso che ha portato alla formazione degli stati federali, nati per aggregazione
volontaria (Svizzera), progressiva decentralizzazione dello stato (Belgio), per imposizione. Un secondo
modo di differenziare tra sistemi federali è in base al fatto se alle sottounità federate sono attribuite le
medesime funzioni o differenziate. Il terzo criterio è il grado di rappresentatività delle sottounità federate
nella camera territoriale, una testa un voto, oppure un’unità federata un voto, come nel sistema elettorale
americano per camera e senato. Ultimo criterio è il peso esercitato dalla fisionomia del sistema partitico
sulla struttura federale dello stato, Lo stesso partito può controllare sia il governo centrale, sia federale, in
questo caso aumentano le probabilità di una organicità delle politiche, ma la maggior parte delle volte ci si
trova in un caso intermedio)
Le dimensioni che minano la stabilità degli stati sono: territoriali, potestative, funzionali e culturali. La
dimensione territoriale richiama le incertezze sui confini, e le minacce secessioniste ed esterne. Quella
potestativa i limiti all’esercizio della sovranità interna. La dimensione funzionale si riferisce alle carenze
nell’apparato statale e al malfunzionamento dell’amministrazione. La dimensione culturale fa riferimento al
fatto che non solo lo stato non riesce ad alimentare una comune e condivisa legittimità e identità statali
attraverso processi di standardizzazione culturale, ma di fatto non sa fermare la crescente disgregazione
delle identità culturali. Se queste si politicizzano possono nascere sfide e rivendicazioni, quando uno stato
non è capace di esercitare compiutamente il controllo su porzioni importanti del territorio e sulle frontiere,
la situazione di crisi è certificata e la sua persistenza e integrità sono minacciate. Quando uno stato supera
certi livelli di debolezza siamo di fronte ad uno stato fallito. Rotberg distingue fra weak, failed e collapsed
states. Sono deboli quegli stati che presentano all’interno situazioni conflittuali evidenti, anche se ancora
solo latenti e non ancora esplose. Negli stati falliti vi è invece una situazione durevole ed estesa di guerra
civile, con assenza di controllo su porzioni di territorio. Una volta crollato lo stato è ridotto nel migliore dei
casi ad una espressione geografica e basta, senza istituzioni funzionanti e con forti vuoti di potere
L’unione europea nata come organismo intergovernativo, voluta dai singoli stati membri con lo scopo di
perseguire determinati obiettivi di cooperazione economica. Le difficoltà funzionali e strutturali emerse nel
coordinamento delle politiche europee hanno obbligato i governi a delegare sempre più poteri alla
commissione. L’europa è un ordinamento post-nazionale e a più livelli la cui autorità ultima è da ricercare
negli stati che lo costituiscono. Si parla di Ue come sistema politico all’interno del quale la collettività dei
membri nel suo insieme si va ad aggiungere all’apparato centrale dell’unione e diventa parte
dell’interazione strategica tra gli stati. Il sistema politico europeo differisce da quello nazionale: la
commissione si configura come un organo con competenze diverse da quello di un esecutivo classico, il
consiglio dei ministri riveste funzioni legislative e non solo esecutive, il parlamento non esercita
autonomamente poteri legislativi, ma solo in collegamento con la commissione e il consiglio. La corte di
giustizia europea, limita le proprie competenze alla regolazione di contenziosi sull’interpretazione dei
trattati e la costituzionalità delle norme.
L’esito di questa mancata separazione dei poteri ha prodotto un processo decisionale fondato sull’accordo
di tre organi, soggetto a continui compromessi, l’ue rappresenta un sistema di governance e non di
government, perché tende a seguire relazioni orizontali di deliberazione, il concetto di governance
individua nel caso Ue un sistema di autorità che si sovrappongono le une alle altre, di politiche dai confini
mobili, di processi decisionali frammentati in una molteplicità di arene. L’Ue prende decisioni senza un
governo, escludendola da una classificazione entro un sistema federale, il grado di sovranazionalità delle
politiche europee va da un massimo di autonomia ad un minimo in politica estera. Con l’introduzione
dell’euro il rapporto fra l’Ue e i governi nazionali si è fortemente sbilanciato in favore della prima per il
tasso di cambio fra moneta nazionale e non, privazione della sovranità sulle politiche monetarie, anche per
le politiche macroeconomiche allineate al patto di stabilità, anche i paesi in zona non euro devono
coordinare le politiche economiche con gli altri membri. Molto diverso si profila il rapporto tra stati membri
in merito alla Pesc. Il consiglio dei ministri oltre a conservare competenze specifiche in caso di interventi Ue
in materia di sicurezza, delibera all’unanimità, su decisioni in ambito militare, con i paesi che ragionano in
termini di soft power. La politica comune di difesa riposa sulla relazione di interdipendenza e
complementarietà dell’Ue la Nato.
Istituzioni Ue
La commissione, 28 membri, mandato di 5 anni, presidente eletto dal PE su proposta del consiglio. Ogni
commissario ha un settore di competenza, il presidente propone un indirizzo politico, coordina l’azione dei
commissari supervisiona l’attività amministrativa. Le proposte di legge della commissione seguono un iter
prestabilito, il progetto viene inizialmente redatto nella DG pertinente e inizia un percorso ascendente
attraverso le gerarchie superiori fino ad arrivare al collegio, che ha la possibilità di accettarlo, respingerlo o
rinviarlo. Ha il potere di iniziativa, le funzioni esecutive riguardano la gestione ed esecuzione delle politiche
Ue, emette strumenti legislativi comprendenti, regolamenti, decisioni, direttive, vigila sulle entrate e sulle
uscite Ue.
Il consiglio è formato dai ministri dei paesi membri, rappresenta gli interessi dei singoli stati. Le riunioni dei
ministri che costituiscono il vertice dell’organo vengono effettuate per settore di competenza. Lisbona ha
istituito la figura dell’alto rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza, coordina la politica estera e
rappresenta le posizioni Ue a livello internazionale. I trattati prevedono tre procedure di voto per il
consiglio: unanimità per affari fiscali e di difesa. Mag. Qualificata per la maggior parte delle decisioni,
Lisbona ha introdotto il principio della doppia maggioranza, il 55% del consiglio che rappresenta il 65% della
popolazione deve approvare le proposte.
Il parlamento viene eletto a suffragio universale dal 1979, è co-legislatore dispone di poteri di bilancio,
condivide il potere legislativo con il consiglio e adotta leggi comunitarie. Dispone di iniziativa politica
chiedendo alla commissione di presentare nuovi testi legislativi al consiglio. La commissione vota su tale
relazione, apportando modifiche e votando il testo, una o più volte a seconda degli accordi e della
procedura. Per l’adozione di atti legislativi, si distinguono i processi di codecisione e quelli in cui il ruolo del
parlamento è consultivo. I due terzi delle leggi comunitarie sono adottati congiuntamente da parlamento e
consiglio. La commissione trasmette la sua proposta al parlamento e al consiglio, discutendone due volte,
se non approvata passa ad un comitato di conciliazione egualmente partecipato, una volta trovato
l’accordo il testo ripassa al consiglio e al parlamento affinché sia adottato
Una proposta che cerca di combinare semplicità e rigore è quella che seleziona tre criteri fondamentali
di distinzione fra gli attori protagonisti, attraverso quali strumenti e in base a quali strumenti di
legittimazione
4.3 Totalitarismi
La Russia comunista pone le basi del totalitarismo già alla metà degli anni venti e ne sviluppa tutti gli
aspetti con il consolidamento del potere di Stalin e la persecuzione dei kulaki. Friedrich e Brzezinski
mettono a punto i caratteri della sindrome totalitaria:
Neumann richiamava gli aspetti della concentrazione del potere, del controllo dell’apparato statale e
della società da parte del partito unico e dell’esperienza di politicizzazione integrale della società.
Una definizione minima di totalitarismo ha integrato i quattro caratteri appena elencati con due
ulteriori condizioni, l’ostilità nei confronti dello stato, considerato un residuo, ha avuto come effetto il
concreto dualismo stato-partito, la duplicazione e la moltiplicazione degli uffici amministrativi e dei
centri di decisione del potere. Questo tipo di organizzazione sancì una superiorità del partito sullo
stato, lo stato come cinghia di trasmissione del potere partitico, solo quando il partito è superiore allo
stato possiamo effettivamente parlare di totalitarismi, la difficoltà per il cittadino a livello locale
soprattutto di individuare la vera fonte dell’autorità. La seconda condizione è la pulsione radicalmente
innovativa dei regimi totalitari. Il cambiamento viene imposto dall’alto attraverso il terrore e l’universo
concentrazionario, i campi di concentramento sulla logica del nemico oggettivo denunciato e
perseguito come tale sulla base di una proiezione futura di ostilità, per la Arendt il terrore è l’essenza
del regime totalitario, esso permette al regime l’istituzionalizzazione della rivoluzione
Per Fisichella il regime fascista non presenta una sindrome politica tale da farlo iscrivere nel
totalitarismo per:
Inoltre la corona è tutt’altro che fascistizzata e le forze armate le rimangono fedeli, il re continua ad
essere il capo di stato.
Linz considera il fascismo italiano totalitarismo interrotto o protototalitarismo, egli rileva come le
discordanze nella classificazione del fascismo regime autoritario o totalitario sia dovuto anche alle
diversità dell’oggetto di analisi dello studioso, una cosa è analizzare le piattaforme ideologiche, i
documenti politici, le norme, i programmi di partito e i proclami dei leaders; altra cosa è privilegiare
l’esame della prassi politica, dal comportamento degli attori, delle istituzioni di governo e delle
strutture politiche. Ma il punto di tutto ciò è quanto trova una puntuale realizzazione nella realtà
effettiva. È sbagliato definire un regime politico dando eccessivo spazio all’intenzionalità degli attori.
Dopo la morte di Stalin nel 1953, in Unione Sovietica e nella sua zona d’influenza si apre il processo di
destalinizzazione, iniziando una revisione del regime totalitario. Fainsod scriveva che sotto Chrushev
persistono molte caratteristiche del sistema totalitario, egli ha conferito un nuovo contenuto
all’ideologia del regime. Altri studiosi parlano di Totalitarismo illuminato, totalitarismo senza terrore.
Linz propose la categoria del post totalitarismo come sottocategoria dei regimi autoritari: restano
numerose strutture tipiche della fase totalitaria, ma anche memorie relative ai suoi caratteri peggiori
come il terrore e le purghe, che condizionano le risposte di coloro che partecipano al processo politico
e quindi, anche l’evoluzione di quei sistemi. Il regime non è più totalitario nelle politiche, ma nelle
strutture e nei comportamenti degli attori politici il peso del passato totalitario rimane forte. Negli anni
novanta Linz ne fa una categoria a parte. Il post-totalitarismo è caratterizzato dalla quasi totale assenza
di pluralismo politico e dalla presenza di forme variabili di pluralismo sociale, economico e istituzionale.
Le differenze con il regime totalitario in tema di pluralismo stanno nell’azione non ufficiale di un
pluralismo di cui sono partecipi gli attori istituzionali, che vanno sempre di più ad agire come gruppi di
pressione e lobbies in difesa dei propri interessi. L’ideologia ufficiale è sempre più debole e ritualizzata,
la mobilitazione politica uniforme, i leader raramente dotati di carisma. Un caso emblematico di questo
passaggio è l’Ungheria tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta, dopo la reinsaturazione del comunismo
dopo la fallita rivoluzione del 1956, esaurita la fase repressiva, Kadar si preoccupa di evitare scelte
politiche impopolari e mira a trasformare l’ostilità diffusa in apatia se non passiva compiacenza. La
nuova leadership si orienta verso un regime pragmatico e paternalista, che concede margini di
benessere materiale e di libertà sconosciuti ad altri regimi comunisti, arrivando nel ’68 ad inserire
elementi dell’economia di mercato, allargando il settore privato. Inoltre l’elité politica si rinnova e
deideologizza, c’è ricambio all’interno del partito, con membri che non nascondono l’intenzione di
trasformare il sistema in una democrazia competitiva.
L’esito post-totalitario può essere frutto di una scelta delle elité (Urss e Ungheria), una conquista della
società civile (cecoslovacchia), decadenza del regime (Urss, Bulgaria).
Weber definisce sultanistico un regime in cui un potere patrimoniale si muove principalmente nella
sfera dell’arbitrio svincolato dalla tradizione, quindi al di fuori da ogni forma di autorità tradizionale e di
potere legale-razionale. L’istituzionalizzazione, la rule of law e la prevedibilità dell’esercizio del potere
sono minori rispetto ai regimi autoritari personalistici, l’ideologia e la penetrazione del regime nella
società civile sono basse, l’autorità del leader è alimentata da forme personali di patronage, nel sistema
politico prevalgono forme di lealtà e dipendenza, i leader occupano cariche per incrementare le proprie
ricchezze, esempi sono i Palhevi in iran, i Kim o i Duvalier ad haiti.
L’ideologia è soggetta alle continue rielaborazioni del leader, che esercita il potere senza nessun
vincolo, con collaboratori ed ereditieri familiari
Tra i regimi democratici e non democratici le differenze non sono sempre così nette, esiste in mezzo
una zona grigia, con regimi con elementi di entrambe le categorie. Certi fallimenti delle
democratizzazioni non riportano al regime di partenza, ma ad ibridi. Degli 86 stati che tra il 1974 e il
2004 avviano una democratizzazione nella terza ondata solo 41 si consolidano. Negli altri casi hanno
due esiti: una regressione verso un regime non democratico che nel breve intermezzo conteneva segni
di un cambio di direzione, come Russia, Congo, Egitto. Un secondo esito è l’instaurazione di regimi
ibridi. La varietà di questi esiti crea una nuova categoria eterogenea, con una definizione molto
generale, con regimi con istituzioni e procedure democratiche e non che convivono, con la forma di
democrazia elettorale solitamente rispettata a differenza della sostanza della democrazia liberale.
Bisogna considerarli regimi in transizione, o dai connotati stabilmente ibridi? Dahl li classifica come
regimi con profilo misto, favorevoli alla poliarchia per certi aspetti e per altri no. C’è chi parla anche di
democrazia illiberale, democrazia elettorale. Il termine democrazia elettorale viene utilizzato da
Freedom House per riferirsi ai regimi biridi con elezioni libere ma carenza di libertà civili.
Golder fa notare la crescita del numero di elzioni in tutti i paesi del mondo dalle 144 negli anni ’50 alle
395 dei ’90, la metà si siano tenute in regimi che non sono democratici. Occorre valutare se e quanto le
elezioni rappresentino un’effettiva opportunità di libertà e di scelta, si distinguono:
I secondi rientrano nel gruppo di regimi ibridi se col passare del tempo il controllo elettorale sfugge
dalle mani del regime, assumendo connotazioni democratiche.
Le carenze dei regimi ibridi riguardano elezioni non del tutto corrette, controllo dei mass media,
competizione ostacolata fra partiti, corruzione elevata, neutralità dei poteri dello stato, libertà civili
La libertà degli antichi non contemplava la libertà individuale: l’individuo era libero in quanto membro
del corpo collettivo e non aveva margini di azione autonoma come singolo. Nelle democrazie antiche
l’individuo era totalmente sottomesso al corpo sociale e la dimensione privata subordinata a quella
pubblica. La democrazia moderna matura in un contesto economico-sociale diverso, caratterizzato dal
ruolo assunto dall’economia nel perseguimento della felicità individuale e dal rispetto della proprietà.
Questo spiega come il rapporto fra democrazia ed economia capitalistica e di mercato divenga
inscindibile. Il capitalismo è stato uno dei fattori che più efficacemente hanno impedito che lo stato
divenisse l’unico controllore dei mezzi di produzione, ha favorito la crescita economica, che ha favorito
la democrazia. Ciò suggerisce che l’economia capitalistica possa essere vista come una condizione
necessaria, della democrazia. Una delle principali difficoltà nella definizione riguarda le forti potenzialità
normative in essa implicite. Si adottano spesso definizioni che dicono più di quello che noi vorremmo
fosse la democrazia che quello che effettivamente è. Gli attori politici si assumono continuamente
questo genere di impegni, col risultato di accrescere le aspettative sulla democrazia e di creare
delusione e frustrazione se questi impegni non sono mantenuti. Quando affermiamo che la democrazia
è la continua capacità di risposta del governo alle preferenze dei suoi cittadini, ritenute tutte
politicamente uguali, sfociamo nella prescrizione, come deve essere.
Lipset e Lakin respingono l’equivalenza fra democrazia ed eguaglianza economica, sostenendo che la
maggiore o minore eguaglianza economica è il frutto di decisioni democratiche che optano per politiche
redistributive. Bisogna sempre partire da una definizione empirica, Schumpeter – il metodo
democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli
individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto
popolare. Definizione procedurale, troviamo la vera giustificazione della democrazia, perché sono le
procedure che garantiscono la maggiore approssimazione possibile all’espressione della volontà
popolare. In una prospettiva di definizione minima, anche l’assenza di uno solo dei seguenti caratteri
significa che siamo al di sotto della soglia accettabile di democrazia: elezioni libere, competitive,
ricorrenti e corrette, suffragio universale, inclusione delle cariche politiche nel processo democratico,
autonomia delle istituzioni democratiche e dei processi decisionali da processi non elettivi, diritto di
partecipazione per tutti i membri della comunità politica, pluralismo partitico, libertà di espressione, di
associazione e di stampa.
La democratizzazione inizia quasi sempre con l’attenuazione dei rigori repressivi e con aperture
pluralistiche (liberalizzazione). Trattandosi di processi le democratizzazioni si compiono attraverso fasi
temporali, che vanno dalla crisi e/o dal crollo del vecchio regime, all’instaurazione, fino al
consolidamento della democrazia, possono essere concomitanti ad altre forme di transizione, del
sistema economico, statale e collocamento internazionale dello stato. Possono avere diversi gradi di
successo e dare vita a diversi tipi di democrazia. Huntington fissa tre grandi ondate, cambiano i contesti
culturali, sociali e internazionali e con essi anche le condizioni favorevoli.
Le prime democrazie non avevano modelli da imitare, il che in parte può spiegarne la maggiore durata
e gradualità Rustow ricorda che la democratizzazione Uk dura dal 1640 e non si conclude prima del
1918. La prima ondata (1828-1926) che si conclude poco dopo la prima guerra mondiale, solleva le
questioni relative all’affermazione della democrazia di massa sugli assetti politici tradizionali, fece
seguito all’industrializzazione e fu fortemente connessa all’esigenza di incorporare nei sistemi politici
nuovi ceti (operai e contadini). Una prima ricostruzione è offerta tramite la scatola di Dahl, la
trasformazione dalla politica oligarchica a quella di massa è caratterizzata da due processi
fondamentali:
La diversa sequenza di acquisizione e affermazione di questi due processi produce tre diverse strade
alla poliarchia, nel quale è stata riconosciuta la legittimità della partecipazione del popolo al governo,
per Dahl. Tre tracciati: la liberalizzazione procede l’inclusività, l’inclusività precede la liberalizzazione,
sono ottenuti insieme.
Per Rustow la genesi della democrazia deve possedere: la formazione dell’unità nazionale, un conflitto
solitamente scaturito dalla nascita di una nuova elité che si fa portatrice di nuove istanze, l’adozione
consapevole di norme democratiche, una fase in cui i leader politici ed elettorato si adattano alle nuove
regole.
La prima ondata subì un arretramento durante il ventennio fra il 1922 e 1942 in Italia, Germania,
Polonia e Spagna.
La seconda ondata, post 2Gm sollecita un’analisi sulle condizioni che hanno determinato la crisi delle
democrazie. La fine dei fascismi, i processi di decolonizzazione e di formazione degli stati del terzo
mondo ne costituiscono il contesto storico. Un’ondata di assestamento si ha nel corso degli anni’70 ,
dove le democrazie nate dal processo di decolonizzazione si mostrano fragili e non sempre capaci di
governare con successo i conflitti interni, emerge in molte aree una certa difficoltà a integrare nella
democrazia le istituzioni militari, come In europa del sud e in America latina. Le democratizzazioni della
terza ondata, iniziate nel 1974 con la rivoluzione dei garofani, finiscono i regimi autoritari in sud
europa, in America latina, e centrale. Il crollo dei regimi comunisti cambia la fisionomia dell’europa
centro-orientale, si passa da un sistema a nove stati, a uno a 27, si compiono anche passi in Africa, più
impermeabili alle democratizzazioni rimane il medio-oriente, sembra anche allontanarsi la prospettiva
di una quarta ondata, segnano il passo democratizzazioni avviate come quella Ucraina, e quelle date
per imminenti e mai raggiunte come Cuba, si intensificano inoltre i segnali di una ulteriore fase di
regressione. In alcuni casi il mutamento di regime ha portato al collasso dello stato, come In Libia,
Afghanistan e Somalia, o nel caso delle primavere arabe.
La crisi del regime può manifestarsi con la crescita della violenza, incapacità del regime di governare le
emergenze, abbassamento del rendimento politico, divisioni interne all’elité. Queste condizioni interne
possono essere aggravate dall’isolamento internazionale e da minacce all’unità dello stato provenienti
da gruppi etnici interni. È probabile che il vecchio regime tenti di uscire dalla crisi, tramite repressione,
tentativi di riformare e legittimare il regime o l’avventura militare esterna come diversivo. Un secondo
ordine di reazioni può includere sforzi di introdurre dei cambiamenti per andare incontro alle richieste
dei gruppi di opposizione, in questi casi si ammette la crisi e ne consegue lo sforzo di effettuare un
ricambio parziale di élite e di favorire il coinvolgimento della parte più moderata dell’opposizione.
Spesso gli sforzi di governare il cambiamento sono accompagnati da politiche destinate a rafforzare la
legittimazione delle èlite, in Grecia il regime dei colonnelli varò una costituzione approvata con
referendum popolare che aboliva la monarchia e conciliava una repubblica con il mantenimento delle
prerogative militari. L’ultima opzione è l’avventura militare, per trasferire le tensioni interne sul
versante internazionale, recuperando consenso e coesione, facendo dimenticare al pubblico i problemi
interni, stringendosi intorno alla bandiera.
Se questi tentativi di fronteggiare la crisi hanno successo il regime si consolida, altrimenti si accentuano
le divisioni nell’élite, esauriti i tentativi di impedire la fine del regime, si avvia la transizione vera e
propria, che fa seguire a dichiarazioni d’intenti scelte come la fine del ruolo guida del partito unico, il
rientro dei militari nelle caserme, l’apertura ad opposizione ed elezioni. La direzione democratica si
rafforza quando fra i vari attori vecchi e nuovi, si apre un dialogo e si afferma un ragionevole grado di
consenso sulle procedure necessarie per dare vita ad un parlamento eletto dal popolo, qui la
transizione diventa effettivamente democratica, con clima sempre più tollerante e pluralistico, può
essere la stessa élite autoritaria ad avviare la transizione e ve ne sono due varietà: continua e
discontinua. Nella transizione continua il cambiamento è graduale, l’élite avvia il processo e non ci sono
drammatiche rotture con le vecchie istituzioni. Può anche essere anticipata da riforme messe in atto già
nel precedente regime, in altri casi, il passaggio viene pianificato dalla vecchia élite, come in Spagna.
La continuità della transizione è in genere suggellata da patti tramite i quali si cerca di coinvolgere nel
processo decisionale anche i nuovi attori collettivi. Una transizione discontinua si riconosce dalla
presenza di eventi traumatici, come colpi di stato e rivoluzioni. Gli attori protagonisti del vecchio regime
vengono sostituiti da una nuova élite emergente, cambiando regole e norme fondamentali, talvolta
cambiando anche la fisionomia dello stato. Quando la discontinuità assume la forma di una
mobilitazione dal basso in cui prevalgono atteggiamenti estremisti, l’esito democratico stabile diviene
più difficile da ottenere, suscettibile di provocare reazioni negative delle vecchie élite. Accade in Italia,
Germania, Francia.
Terza fase è l’instaurazione, attraverso i quali nasce un regime politico e prendono forma il potere,
l’influenza e l’autorità che lo caratterizzano e legittimano, questa fase vede l’edificazione delle principali
istituzioni del nuovo regime, si sovrappone in parte alla transizione. Centrale in questa fase è il
constitution-building, anche le modalità con cui si legittimano i processi costituenti variano. Le nuove
costituzioni possono essere approvate da assemblee costituenti, dai parlamenti ordinari , attraverso
processi in un’unica fase o invece processi incrementali, con referendum. Un aspetto importante
riguarda poi il modello di democrazia e di rapporti interistituzionali prescelto con la costituzione. Si
possono imitare modelli istituzionali esterni o ci si ispira a modelli istituzionali del passato.
L’instaurazione si chiude dopo le prime elezioni libere, il disegno costituzionale trova una sua prima
attuazione con la formazione di un parlamento, un governo, una corte costituzionale e un eventuale
capo di stato. In questa fase troviamo ancora gruppi antisistema che vanno gestiti, se il rischio è
scongiurato, la struttura essenziale del sistema politico è eretta. Va però risolto il grado di
coinvolgimento delle vecchie classi dirigenti nel sistema, discontinuità come in argentina o continuità
come nei vecchi regimi comunisti ad eccezione dei top leader? Un ulteriore dilemma è in che misura la
democratizzazione debba contemplare anche un’epurazione del personale della pubblica
amministrazione e delle forze armate e di polizia, in linea di massima se il personale è dotato di carenza
di professionalizzazione, l’epurazione conviene. L’ultima fase è il consolidamento, momento centrale
dell’affermazione della democrazia, il suo conseguimento riduce la probabilità di regressione, se le
istituzioni dimostrano adeguatezza garantendo stabilità, se le élite si ricostruiscono intorno a valori
democratici e la società civile anche, quest’ultima è la condizione principale, nessun gruppo politico
significativo cerca di rovesciare il regime, e anche in fasi critiche, si ritiene che il mutamento debba
avvenire entro parametri democratici. Morlino definisce il consolidamento democratico come processo
di definizione e fissazione nei loro caratteri essenziali e di adattamento in quelli secondari delle diverse
strutture e norme proprie del regime democratico, indotto dal passare del tempo. Devono poi seguire il
progressivo ampliamento dell’accettazione di strutture e norme per la risoluzione pacifica dei conflitti e
un incremento della legittimazione del regime. Fattori internazionali come la membership di
un’organizzazione internazionale o l’aspirazione a entrarvi, aiutano il consolidamento. Il fattore tempo
è importante, molte delle crisi regressive avvengono nei primi 5-6 anni. Una democrazia ha maggiori
possibilità di consolidarsi se il regime viene incontro alle esigenze della popolazione, che si convince
dell’insostituibilità della democrazia. Riuscire a difendere la democrazia senza ricorrere alla
sospensione delle procedure democratiche costituisce un indubbio sintomo di consolidamento
democratico. La versione negativa del consolidamento ha la funzione di impedire l’erosione lenta della
nuova democrazia o la sua regressione. La versione positiva guarda alle possibilità della trasformazione
verso una democrazia liberale. Non è possibile conseguire il consolidamento democratico finché
restano poteri tutelari e domini riservati, ovvero rispettivamente strutture ereditate dal vecchio regime
prive di legittimità che mantengono il potere di controllare gli organi politici elettivi e i domini riservati,
aree decisionali sottratte alla sovranità dei governi, spesso intervengono in transizioni da regimi militari.
Lipset pensa che la democrazia sia correlata allo stato dello sviluppo economico, più una nazione è
benestante, più aumentano le probabilità che sia democratica.
- Muller dice che la democrazia, nel lungo periodo, influisce su una migliore redistribuzione del
reddito e sull’attenuazione delle disuguaglianze, che a sua volta alimentano e rafforzano la
legittimità democratica, ed enfatizza il ruolo delle risorse chiave, come intellettuali, economiche e il
potere, che sono ampiamente distribuite
- Diamond, enfatizza la collocazione regionale degli autoritarismi, in Europa Orientale a suo tempo,
suggerisce una serie di conclusioni. Lo sviluppo socio-economico aiuta la promozione della
democrazia in due sensi: dove già esiste contribuisce alla sua stabilità e alla sua legittimità; dove
ancora non esiste lo sviluppo socio-economico porta prima o poi alla democratizzazione. In
secondo luogo non è lo sviluppo socio-economico in sé a causare lo sviluppo socio-democratico,
bensì quell’insieme di mutamenti sociali che ne sono l’effetto più o meno diretto( aumento
dell’istruzione, fruizione delle comunicazioni di massa, migliori cure mediche, crescita del reddito).
Lo sviluppo socio-economico favorisce la democrazia solo se incide favorevolmente su cultura
politica, struttura di classe, relazioni stato società, società civile. La relazione fra sviluppo socio-
economico e democrazia non è unilineare, ma una curva a N: le probabilità di democrazia
aumentano fra paesi poveri, diminuiscono a livelli intermedi, tornano a crescere tra gli alti livelli di
sviluppo. Lo sviluppo è un requisito, La democrazia promuove lo sviluppo, e non solo viceversa.
- Huntington ne evidenzia la natura spuria: molti paesi ricchi erano ricchi anche prima di diventare
democratici.
Altri rilevano come lo sviluppo socio-economico sia solo una delle condizioni. Si conferma come la
democrazia possa sorgere a qualsiasi grado di sviluppo socio-economico e non è per forza il prodotto
della modernizzazione. Fisichella solleva obiezioni. La prima è che lo sviluppo economico è portatore di
crisi e conflitti gravi anche, sempre destabilizzanti, che Lipset trascura eccezioni di stati della terza
democratizzazione, come la Mongolia, Il Botswana, il Sud Africa o L’india stessa, che con livelli di
sviluppo socio economici bassi, sono divenuti democrazie, dipende quindi dalla legittimità democratica
e semmai anche dallo sviluppo socio-economico (Lipset liberale del cazzo).
Lo sviluppo socio-economico alimenta i ceti medi e ciò che ne consegue, questa dimensione è
trascurabile in fase di transizione, ma diventa importante durante il consolidamento, aumentando la
legittimità. Ma comunque il parere è che nessuna delle ipotesi possa escludersi
Box India
Un paese povero, dove l’indipendenza si afferma grazie ad un élite post-coloniale scaturita da una
formazione democratica influenzata dalla dominazione britannica, che ha attirato consenso interno e
dato vita a partiti. Le grandi dimensioni dello stato hanno consentito di circoscrivere e localizzare i
conflitti interni, evitando che si generalizzassero, a causa anche dell’elevatissimo numero di etnie e di
caste e religioni diverse. Il mantenimento a causa di questioni di sovranità (Kashmir e Tibet) ha svolto
un ruolo di conservazione e di rafforzamento dello stato, frenando le minacce di frammentazione.
Lijphart attribuisce la longevità del paese al modello consociativo, unica possibilità in una società divisa.
Box Cina
Dagli anni ’70 la Cina ha sperimentato un’importante rivoluzione capitalista, dopo la repressione di
piazza Tienanmen, non è più stata attuata alcuna riforma democratica. In realtà la questione nazionale
si presenta in termini di compatibilità con le istanze di democratizzazione, l’affermarsi dei principi di
autogoverno, di libertà e di sovranità popolare coincide con i processi di formazione della nazione e
dello stato, o non li mette in pericolo se sono superati da tempo. Il caso della Cina oggi, vede sorgere
problemi di compatibilità tra questione nazionale e democratizzazione, riaprendo vecchie
contrapposizioni, mettendo a rischio l’unità dello stato, che teme per la sua tenuta e disgregazione, di
gruppi come tibetani, mongoli, Uiguri. La democratizzazione indebolirebbe uno stato già debole e poco
legittimato.
I paesi arabi pur avendo alti livelli di reddito non sono democratici. Si è ormai affermata la convinzione
che quanto più la crescita di reddito è determinata dalla produzione e dalla vendita di petrolio o
combustibili, tanto più si riducono le probabilità di democratizzazione, c’è una relazione positiva fra
petrolio e autoritarismo, uno stato che percepisce grandi rendite dallo sfruttamento del petrolio è uno
stato reinter e non ha bisogno di entrate fiscali, e quindi i cittadini sono meno pressati e meno inclini ad
interessarsi della politica, ciò unito al forte controllo delle istituzioni, delle innumerevoli risorse in
termini di sicurezza e repressione, inoltre la presenza di innumerevoli compagnie estere con i suoi
tecnici e funzionari ostacola la nascita di un ceto imprenditoriale interno, ceto operaio e una classe
media.
La diffusione della democrazia è sempre l’effetto di vari processi e dinamiche, con livelli diversi di
intenzionalità da parte degli esportatori e di consenso e volontà di accoglienza da parte degli
importatori.
Combinando i due criteri della intenzionalità degli attori internazionali coinvolti e del consenso da parte
dello stato bersaglio, la diffusione democratica può assumere prevalentemente tre forme: emulazione,
promozione, imposizione. L’emulazione non costituisce un’esportazione internazionale bensì
presuppone che l’esempio estero indebolisca il regime autoritario. L’intenzionalità è solo di chi decide
di imitare, quanto più maturano le conoscenze sulle altre democrazie e sulla collocazione del proprio
paese sulla scala del grado di democrazia, tanto più crescono la consapevolezza e l’insoddisfazione nel
regime. La promozione si ha quando attori esterni si adoperano volontariamente, per favorire le
condizioni di democrazia, tramite per esempio le sanzioni internazionali, che puntano ad indebolire un
regime. È inclusa anche la condizionalità politica per entrare in determinate organizzazioni, ci sono
progetti vari di promozione locale. L’imposizione avviene attraverso mezzi coercitivi, come In Germania,
italia, Giappone e Austria, con l’obiettivo di un reinsediamento democratico post colpo di stato,
l’eliminazione di regimi canaglia, l’interruzione di pulizia etnica, fine di una guerra civile. Possono
avvenire su invito interno o iniziativa propria, essere più passivi o attivi, va correlata agli interessi
specifici degli stati.
La democrazia implica la messa in opera di procedure che vedono una loro atteuazione almeno a tre
livelli: sub-statale, statale, sovrastatale. Ciò richiama l’attenzione sulla realizzazione della democrazia a
livello micro e macro, dalle situazioni quotidiane agli stati.
La democrazia cosmopolita
La microdemocrazia per Sartori non può costituire in alcun modo un modello da imitare per la
macrodemocrazia.
Permane tutt’oggi nella politica una tradizionale dimensione verticale, di potere, di rapporti
comando/obbedienza, di esercizio di quella funzione di direzione di un gruppo politico. Mosca, Pareto e
Weber sono indicati come i fondatori delle riflessioni sul tema e la terminologia usata per descrivere le
figure politiche.
- Classe politica, introdotta da Mosca, la preferisce a quello di élite politica perché non implica un
giudizio positivo sulla classe minoritaria governante, alterna il termine a classe politicamente
dirigente o minoranza governante, gli studiosi ritengono la sua terminologia poco rigorosa. Dorso
ha cercato di fare chiarezza fra classe dirigente e classe politica, il primo termine è da intendersi in
ambito sociale, il secondo in senso più strettamente politico. Il termine classe dirigente in senso
stretto da riferimento a coloro che pur non appartenendo alla classe governata, non costituiscono
la classe politica. L’espressione viene quindi riservata a quella parte della classe dirigente che ha
funzioni strettamente politiche, che costituisce una specie di comitato direttivo, si suddivide in due
frazioni: classe politica di governo e classe politica di opposizione. Aron attribuisce il termine élite a
tutti coloro che in differenti rami di attività occupano i posti più alti e le posizioni più importanti.
Classe politica viene riservata alla minoranza di coloro che esercitano funzioni di governo. La classe
dominante si colloca fra élite e classe politica e comprende quelle persone che senza esercitare
funzioni politiche hanno influenza su governati e governanti.
- Élite ed élite politiche, Pareto definisce l’élite come quella classe di persone che hanno gli indici di
prestazione nel ramo della loro attività più elevati. Oggi sono un qualunque strato di individui
costruenti una frazione numericamente ristretta della popolazione totale di un sistema sociale, i
quali posseggono in misura segnatamente più elevata del resto della popolazione, una o più
caratteristiche che questa valuta positivamente. Il termine può essere usato in senso apprezzativo,
Come Ortega, Le bon fanno, postulandone l’esistenza come una necessità normativa. L’élite come
gruppo di riferimento di valore, dotato di capacità ed eccellenza. Sartori ne fa uso per distinguere
fra fatto e merito, cioè fra chi è al potere, la classe politica, e le potenziali élite politiche, chi merita
il potere.
Adoperata in senso ampio la parola è sinonimo di posizione elevata e viene attribuita a tutti coloro
che hanno o contano di più. L’uso ristretto si riferisce all’ambito politico, chi detiene il potere.
Il termine élite viene utilizzato anche per indicare la teoria delle élite secondo la quale in ogni società è
sempre e soltanto una minoranza a detenere il potere, a una ristretta cerchia di persone va il potere
politico, cioè la capacità di prendere e imporre decisioni ricorrendo in ultima istanza alla forza, decisioni
valevoli per tutti i membri del gruppo. Viene collegata alla tradizione del realismo politico. Sotto
l’apparenza tutte le forme di governo sono riconducibili nella sostanza a delle oligarchie e che i principi, gli
ideali e i valori servono a celare o a mascherare la lotta per la conquista delle posizioni di dominio e a
manipolare il consenso dei governati. I fattori che condurrebbero a ciò differiscono in ciascuno dei tre
fondatori della scuola italiana di scienza politica. Per Mosca, va ricerca nell’organizzazione, la capacità
posseduta da pochi individui di darsi una struttura organizzativa porta necessariamente al dominio di una
minoranza sulla massa disorganizzata. I membri della minoranza devono, possedere qualità, delle quali le
masse generalmente non dispongono, alcune di esse si possono ritenere fisse nel tempo e nello spazio
(capacità di lavoro, costante volontà di innalzarsi e rimanere in alto), altre cambiano nel tempo, sono
espressione dei caratteri socialmente rilevanti in epoche diverse, il valore militare, la ricchezza. Ogni classe
politica giustifica il suo potere attraverso una formula politica, come l’investitura popolare o divina.
Per Pareto i fattori decisivi vanno ricercati nelle qualità individuali, in coloro che sono i più capaci, con
elevati successi, sono coloro che fanno parte dell’élite, si avrà quindi un élite di governo e una non di
governo, fattori quali l’ereditarietà, la ricchezza, le relazioni familiari consentono l’accesso alle posizioni
governative di vertice anche a individui non capaci, per Pareto sono eccezioni. La soluzione per la teoria
delle circolazione delle élite è legata al continuo ricambio delle élite e al passaggio di individui da una classe
all’altra. Le giustificazioni a cui i detentori del potere fanno ricorso, è che l’umanità agisce principalmente
tramite azioni non logiche, frutto dell’istinto, dei sentimenti che sono chiamati residui da Pareto. Le azioni
non logiche necessitano di giustificazioni che diano ad esse una vernice logica, le derivazioni, che in ambito
politico servono ad attribuire al dominio dei pochi una connotazione di oggettiva necessità sociale,
assimilabile quindi al concetto di formula politica di Mosca. Il dominio dei pochi su molti e la necessità di
attribuire ad esso una giustificazione è una costante (residui) e i principi di giustificazione (le derivazioni)
sono variabili.
Michels ha come oggetto della sua analisi i partiti politici di massa e i sindacati. Sviluppa la legge ferrea
dell’oligarchia, dove i partiti concentrano il potere in una cerchia ristretta di uomini, attribuisce una certa
importanza all’apatia delle masse e al loro bisogno di direzione, ma individua come cause determinanti gli
imperativi organizzativi propri di qualsiasi organizzazione. Il meccanismo dell’organizzazione crea una solida
struttura, provoca nella massa organizzata mutamenti notevoli quali il totale capovolgimento del rapporto
del dirigente con la massa: una minoranza che ha il compito di dirigere e una maggioranza diretta dalla
prima. Ogni organizzazione di partito rappresenta una potente oligarchia che poggia su piedi democratici.
La formazione di competenze specialistiche, l’esigenza di prendere rapidamente decisioni, finiscono per
rendere semplici rituali le pratiche democratiche che regolano la vita del partito. I leader sono sempre più
separati dalla base e l’ideologia tende man mano ad essere messa da parte
Neo-elitisti, politologi americani, una corrente sostiene che ci sia un’unica élite del potere, monolitica,
unitaria e compatta, e poi ci sono coloro che mettono in rilievo l’esistenza di una molteplicità di élite
eterogenee e concorrenti (pluralisti). Nei classici la constatazione dell’esistenza di una minoranza che
monopolizza il potere sembrava confutare i principi democratici. Bobbio però ricorda come la prima teoria
scientifica nel campo della politica sia nata da forze anti democratiche e anti socialiste. Mosca vede la
differenza tra regimi autocratici e democratici, sostanzialmente come nel fatto che nel primo gruppo le élite
sono chiuse, nel secondo aperte e allargate. Weber e Schumpeter ritennero l’elitismo compatibile con i
caratteri e le procedure di una democrazia. Oggi è improbabile che in democrazia le classi politiche riescano
a trasformarsi in élite del potere. Secondo Meisel la classe politica per divenire élite del potere deve avere
una solida consapevolezza dei rapporti che legano i suoi componenti; deve esprimere una forte
compattezza nelle sue dichiarazioni, nei suoi comportamenti, deve essere unità da una complicità
nell’operare. Aron afferma che uno dei tratti più caratteristici della struttura di ogni società è la struttura
dell’élite, la relazione fra i gruppi che esercitano il potere, il grado di unione, il sistema di reclutamento e la
facilità o difficoltà di entrare a farvi parte, individua due tipi di élite polari: unitaria, presente nella società
senza classi che hanno eliminato la proprietà privata e una divisa e frammentata dove esiste una
differenziazione di gruppi sociali, delle funzioni e delle forme di potere come in un regime costituzionale
pluralistico. La letteratura ha codificato l’esistenza di due tipi di élite contrapposte. La differenza fra
democrazia e autoritarismi viene ricondotta alla distinzione fra élite che si propongono ed élite che
‘impongono, eterogenee e concorrenziali ed unitarie e monopolistiche, rappresentative o separate dagli
altri gruppi sociali. L’approccio pluralista fa riferimento a due impostazioni, una mette in rilievo le
molteplicità di élites eterogenee in competizione fra loro, l’altra parla di gruppi di interesse e di pressione
ma non di élites, il processo politico è il risultato dell’interazione di una pluralità di associazioni e gruppi in
costante equilibrio fra loro. Il pluralismo descrive la politica sia come competizione tra un ampio numero di
forze eterogenee sia come mediazione tra i molteplici interessi presenti nella società. Nella concezione
pluralistica il potere non dà luogo ad una struttura gerarchica permanente. Ciò avviene perché tali forze,
tendono a modificare frequentemente la loro composizione interna e la natura degli obiettivi difesi. Per i
pluralisti elitistici i rapporti di potere non sono mai a somma zero bensì a somma variabile. In quanto il
potere di un soggetto può aumentare o diminuire senza che diminuisca o aumenti il potere degli altri
soggetti. Per questi studiosi il gruppo dominante di una società o di una comunità è sempre eterogeneo e
non strutturato, per cui a decisioni diverse corrispondono diverse coalizioni di potere. Gli élitisti partono da
una concezione sostanzialista del potere, secondo la quale la fondamentale risorsa su cui esso si fonda è la
ricchezza economica, che permetterebbe di cumulare il potere ideologico e politico. La distribuzione del
potere viene intesa come un gioco a somma zero. Il potere sarebbe concentrato nelle mani di pochi, di una
minoranza organizzata, coesa, e relativamente chiusa, la democrazia avrebbe una natura solo formale.
I pluralisti si propongono in due versioni: quella del pluralismo dei gruppi di interesse e di pressione e quella
del pluralismo delle élite. Entrambe propongono una concezione prevalentemente relazionale dei rapporti
di potere, determinati sia dalle risorse sia dalle abilità possedute dai singoli attori, si ha potere nella misura
in cui si riescono ad utilizzare al meglio le risorse disponibili nelle interazioni con gli altri. Per i pluralisti
elitisti l’ineguale distribuzione delle risorse non conduce necessariamente ad una concentrazione nelle
stesse mani dei diversi tipi di supremazia. E il modello policentrico, in cui il potere risulta suddiviso e
disperso in una molteplicità di attori e sedi.
Una delle prospettive con le quali sono state studiate élite e classi politiche è la professionalizzazione,
introdotta da Weber, che distingue: politici occasionali, tutti noi quando andiamo a votare, quando
manifestiamo la nostra volontà. Politici dilettanti, come professione secondaria. Politici di professione, si
vive per la politica oppure di politica. Nel parlare di professionalizzazione Weber guarda in primo luogo alle
associazioni politiche moderne, stati e partiti. Si rileva che nel passaggio dallo stato dei ceti allo stato
moderno, il funzionario politico si affianca al tradizionale funzionario e che i processi di democratizzazione
determinano una trasformazione e un rafforzamento delle funzioni dei partiti politici. Per Weber i politici di
professione sono emersi nel corso della lotta dei principi contro i ceti, ponendosi al servizio dei primi, la
vittoria dei quali si tramuta nella nascita del potere impersonale dello stato che viene esercitato da
funzionari remunerati che possono essere più tecnici o più politici. La professionalizzazione della politica e i
partiti sono figli dell’allargamento dei diritti politici e dell’entrata in scena delle forme moderne di
organizzazioni di partito. Nella fase oligarchico liberale chi desiderava occuparsi di politica doveva
procurarsi da solo i mezzi economici per farlo: per lo più già disponeva di quei mezzi. Possono far perno sul
loro status per acquisire quella quantità limitata di consensi che consente loro di conquistare cariche. La
stagione successiva è caratterizzata dall’allargamento del suffragio e più complessivamente dei diritti civili e
politici, un sempre maggiore ruolo del parlamento e del governo, porta al superamento della figura del
notabile, affermandosi così l’avvocato che fa politica e il funzionario di partito: il primo come professionista
che vive per la politica ed il secondo come professionista che vive della politica. Gli avvocati sono portatori
di particolari competenze, formazione giuridica, se la politica è rappresentanza ed esercizio di interessi, chi
meglio di un avvocato ci può riuscire si chiede Weber. Sottolinea anche i ruoli della direzione di una
democrazia non possono essere occupati solo da chi vive per la politica, se questa non vuole rischiare di
trasformarsi in plutocrazia. Schumpeter può osservare che normalmente il successo personale in politica
esige una concentrazione di tipo professionale che riduce le altre attività dell’individuo al rango
dell’accessorio o dello strettamente indispensabile. Se inoltre da un lato la figura del funzionario di partito
spesso di origine sociale medio-bassa, s’impone quando si tratta di far funzionare quotidianamente le
macchine partitiche. Dall’altro sotto la spinta dei partiti meno ricchi, come garanzia di equità per la
rappresentanza dei ceti meno abbienti, la remunerazione dei parlamentari e delle altre figure che svolgono
ruoli politici pubblici diviene la regola.
- Il funzionario di partito dopo essersi gonfiato a dismisura si restringe a partire dalla metà degli anni
’70, il fenomeno è dovuto ai costi, e al fatto che i partiti avessero accesso a meno finanziamenti
derivanti dalle quote di iscrizioni
- Il terreno del professionismo politico è stato visitato da politici-gentiluomini che giungono alla
politica dopo un’esperienza personale di successo, sapendo di godere di una rete di protezione se
decidessero di tornare in carriera
Le trasformazioni avvenute nell’ultimo secolo fanno sì che le categorie messe a disposizione da Weber non
appaiano più sufficienti. Weber analizzò il passaggio da partito dei notabili a burocratico di massa, il tipo di
professionalizzazione si è diversificata, la sempre maggiore incidenza degli eletti provenienti dal settore
pubblico, l’esperienza manageriale di professioni diverse, hanno completamente stravolto il panorama. Si è
giunti ad una tendenza alla personalizzazione e alla presidenzializzazione della politica europea. L’accesso
alle cariche ministeriali viene sempre più evidenziata la minore rilevanza del tradizionale cursus honorum
negli apparati partitici e la progressiva affermazione dell’esperienza nelle politiche locali, la presenza di
tecnocrati, collegati a forme di fidelizzazione dei componenti del governo legata alla persona del leader. I
media contribuiscono a ridimensionare il ruolo di mediazione dei partiti e ad accentuare caratteristiche
come l’appeal personale. Emergono anche nuove figure che non fanno politica in prima persona, ma vivono
di essa, commentatori, consulenti, esperti di marketing elettorale.
Per King il politico di carriera è quella persona che considera la politica come la propria vocazione, vede il
proprio futuro nella politica e cerca nella politica le proprie soddisfazioni. Mastropaolo introduce la nozione
di ceto politico mentre in termini comparativi individua una scomposizione del professionismo di weberiana
memoria in una moltitudine di figure come i politici di lungo corso i quali hanno intrapreso per qualche
ragione la carriera politica e hanno rinunciato ad altre attività. I tecnici della politica svincolati da troppo
stringenti affiliazioni ideologiche e preoccupati in primo luogo di acquisire potere per sé e per il partito che
rappresentano; gli esperti d’organizzazione, di comunicazione, di marketing. I politici senza qualità ovvero
di individui che in politica entrano sprovvisti di risorse extrapolitiche proprie e per i quali la politica è in
primo luogo un canale di ascesa sociale. I politici in carriera vivono non necessariamente di politica, ma
comunque per la politica, ma soprattutto per conseguire successo e potere. La complessità della politica
democratica non ha ridotto il novero degli aspiranti alla carriera politica. La carriera politica consta di una
trafila di posizioni coperte con continuità, di impegno politico a tempo pieno, attraverso le quali si tende a
raggiungere e per qualche tempo mantenere un’influenza pubblica sostanziale, coltivando la propria
autonomia finanziaria. Tale definizione di professionalizzazione multidimensionale consente:
Verzichelli individua alcuni tipi ideali: il politico amatoriale, ovvero il notabile ottocentesco; il politico
d’apparato, ovvero il già citato funzionario di partito; il politico in carriera, contemporaneo.
La variabile partitica e la sua evoluzione determinano la fonte del salario, risorse proprie o del partito.
Il politico in carriera dei nostri giorni mostra grande adattabilità e notevole flessibilità di
comportamento nella fase di selezione, in quella di circolazione e anche nella fase in cui esibisce la
propria capacità di rendiconto. Relativamente alla selezione, le risorse proprie e l’inserimento in un
network personale di influenza possono fare la differenza, pur rimanendo i partiti politici i principali
attori che regolano il flusso di entrata nella sfera politica. La circolazione dei moderni politici in carriera
si lega alle personali capacità di adattamento all’establishment.
Panebianco ricorda quanto possano essere illusorie e/o fuorvianti le scorciatoie che propongono di fare
a meno della politica, l’essenza del sapere politico può essere coadiuvata, ma non del tutto surrogata
da altri saperi.
Il rinnovamento della classe politica e più complessivamente delle classi dirigenti è un tema che ha
sempre interessato le teorie politiche e la ricerca empirica, che parla di fattori come reclutamento,
tasso di ricambio, carriere, caratteri sociografici. Non si può dire che esista una vasta letteratura in
materia di definizione e misurazione delle qualità in questione e si rischia di scivolare nei giudizi di
valore.
Per Schumpeter non basta che in paese esista un numero sufficiente di uomini dotati di capacità
intellettuali e morali adeguate, occorre che almeno una parte di costoro sia disponibile a dedicarsi alla
politica come ad una professione svolta a tempo pieno, se è vero che in democrazia gli elettori scelgono
i loro governanti e che, dunque spetta loro scegliere i migliori, è anche vero che tale scelta è limitata a
coloro che si presentano, sovente sono quelli che da tempo hanno scelto la carriera politica. L’unica
garanzia reale è fornita dall’esistenza di uno strato al quale venga naturale di darsi alla politica. Weber
individua qualità come passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione come senso di
dedizione appassionata a una causa, di fronte alla quale si assume l’intera responsabilità. Vi sono due
peccati mortali in politica, la mancanza di una causa e di responsabilità. Bobbio individua principi come
l’esercizio del potere in conformità di leggi prestabilite e non secondo il proprio capriccio. Il perseguire
il bene comune e non quello proprio.
Linz riparte da Schumpeter e fa notare quanto sulla qualità della classe politica possano incidere le
istituzioni che strutturano il processo politico, le regole che presiedono alla selezione delle élite
politiche, la cultura politica delle élite stesse. Linz evidenzia come il populismo latino-americano non
possa essere spiegato senza tener conto dell’impatto di un assetto di governo di tipo presidenziale in
contesti caratterizzati dalla frammentazione e dalla irresponsabilità dei partiti rappresentati in
parlamento. Anche lo stile del discorso politico nella competizione per il potere conta, aggressività,
mancanza di rispetto ingiustificata per gli oppositori, dallo stimolo degli appetiti più bassi, che
distruggono la fiducia nei politici, nei partiti e nella politica, indebolendo la legittimità del processo
democratico .
Con l’avvento della modernità i conflitti, a differenza di quanto avveniva in passato, non vengono più
considerati distruttivi per la convivenza sociale, al contrario, dal confronto tra i diversi orientamenti
presenti all’interno della società inizia ad emergere una nuova forma di lotta politica, espressa dalla
competizione. Questa concezione inizia a legittimare una forma di pluralismo embrionale nell’ambito
delle istituzioni rappresentative.
La legittimazione dei partiti come attori fondamentali del sistema politico ha rappresentato la
condizione necessaria affinché l’opposizione uscisse dalla clandestinità. L’origine dei partiti moderni si
deve a due processi storici connessi: lo sviluppo di istituzioni rappresentative e l’espansione del
suffragio.
7.2 definizioni
Prima definizione di Edmund Burk nel 1770 ove ritiene i partiti fondamentali a differenza dei suoi
contemporanei come Rousseau. Un partito è un insieme organizzato di uomini uniti per operare in
comune nell’interesse nazionale, secondo il principio particolare sul quale si sono trovati d’accordo.
Weber ha definito i partiti come associazioni fondate su un’adesione libera, costituite al fine di
attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di un gruppo sociale e a ai propri militanti
attivi possibilità per il perseguimento di fini oggettivi e/o per il perseguimento di vantaggi personali.
Dopo la seconda guerra mondiale vengono delimitati i confini concettuali di un partito: Nel carattere
associativo; nella presenza di un’organizzazione stabile, nella partecipazione volontaria; nella
condivisione di determinati principi e valori; Nella finalità di conquistare cariche elettive. Downs dice
che un partito rappresenta una compagine di persone che tenta di ottenere il controllo dell’apparato
governativo a seguito di regolari elezioni.
La definizione principale è quella di Sartori, che vede il partito come qualsiasi gruppo politico
identificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni ed è capace di collocare attraverso le
elezioni candidati alle cariche pubbliche.
Duverger ha suddiviso i partiti in due grandi categorie: partiti a origine interna o partiti a origine esterna
a seconda del loro luogo di nascita: i primi nascono all’interno dei parlamenti in una situazione di
suffragio ristretto, sono i partiti conservatori, radicali e liberali. I secondi nascono fuori dal parlamento
nella società spesso su basi anti-parlamentari. L’elettorato al quale si rivolgono, infatti non ha ancora
riconosciuto a sé il diritto di voto, sono il prodotto di preesistenti istituzioni non partitiche: sindacati
(partiti socialisti), confessioni religiose (partiti confessionali), associazioni militari (fascisti) e gruppi
clandestini che non comprendono i molti partiti comunisti non nati dalla scissione da partiti socialisti.
Lo sviluppo dei partiti dall’1800 agli anni venti del’900 attraversa quattro fasi: nella prima nascono
liberali e conservatori con un suffragio censitario. Il secondo è caratterizzato è caratterizzato dal
rafforzamento delle strutture destinate a collegare i partiti con il proprio elettorato. In concomitanza
con le prime estensioni del suffragio, i partiti si nazionalizzano, nascono i radicali. La terza consente con
un’ulteriore allargamento del suffragio la nascita dei partiti di massa, come i socialisti o i confessionali.
Il quarto stadio con la fine della 1gm segna la nascita dei partiti più estremisti.
Duverger distingue fra partiti di massa e partiti di quadri, quest’ultimi intesi come formazioni prive di
una struttura stabile gestita da personale professionista e fondati su relazioni informali, che mirano a
riunire i membri per preparare la campagna elettorale e mantenere i contatti con i candidati.
Si deve a Rokkan la formulazione del concetto di Cleavage. Non si possono spiegare le differenze nella
struttura della politica di massa dei paesi europei senza far riferimento ad una serie di eventi storici, le
fratture. Tuttavia la mancata sistematizzazione del concetto ha prodotto una molteplicità di
interpretazioni della teoria. Ersson e Lane formulano che determinati cleavage possono trasformarsi in
un conflitto, ma un cleavage non è necessariamente il risultato di un conflitto. Allardt e Pesonen fanno
riferimento a una dimensione strutturale e attribuiscono rilevanza ai concetti di solidarietà e coesione
nella formazione dei gruppi originati dalla differenziazione sociale.
Bartolini e Mair gli attribuiscono una connotazione di conflitto organizzato, focalizzano l’attenzione
sulla dimensione sociale dei cleavage e mette in relazione tre aspetti: la presenza di linee di divisione
che separano gli individui in base a determinate categorie sociali, come l’etnia e la religione o lo status;
la presa di coscienza della propria identità collettiva da parte dei singoli gruppi sociali e la volontà di
mobilitare le proprie forze sulla base di un sentimento di appartenenza; l’espressione del cleavage in
termini organizzativi, inteso come il risultato di una serie di attività condotte da organizzazioni provviste
di una struttura formale come i sindacati, la chiesa.
I cleavages sono contrapposizioni che assurgono al livello di fratture se e quando diventano organizzati
e sono in grado di creare allineamenti politici contrapposti. Per Rokkan, il percorso di ciascun
movimento politico che scaturisce da un conflitto socio-culturale intenso e prolungato può favorire la
nascita di una opposizione fra partiti, se e quando tale movimento è in grado di rimuovere le barriere
che lo separano dal potere esecutivo. Le differenze nella strutturazione delle linee di frattura tra i vari
paesi europei sono dovute all’impatto di due grandi rivoluzioni: quella nazionale e quella industriale.
La prima è il risultato del conflitto tra un centro politico, culturale, ed economico, e le aree periferiche
che vengono progressivamente incorporate nelle strutture amministrative centrali. Esprime
l’opposizione all’accentramento territoriale dello stato, simbolizzato nell’affermazione di una lingua
nazionale. Si affermano i partiti etno-regionalisti. La seconda si verifica a seguito del conflitto con la
chiesa cattolica sulla formazione delle coscienze, nella gestione delle proprietà ad essa attribuite, come
l’istruzione, il matrimonio, ospedali. L’esito di questa frattura è lo sviluppo di partiti laici e confessionali.
La rivoluzione industriale genera un conflitto in merito alle modalità di produzione e alla proprietà dei
mezzi di produzione. La prima frattura rappresenta un conflitto fra settore primario e secondario
causato dall’abbassamento delle barriere doganali, forma i partiti contadini, conservatori. La seconda
segna l’esigenza di migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita, nascono i partiti socialisti.
L’equilibrio tra la libertà di manovra della leadership e l’autonomia dell’elettorato cambiano a seconda
del periodo storico e dei casi empirici considerati. Durante le fasi iniziali i leader sono in grado di
svolgere un ruolo cruciale, elaborano le finalità ideologiche, selezionano la base sociale e stabiliscono le
modalità di finanziamento. Successivamente, con la fase di istituzionalizzazione l’organizzazione si
trasforma e acquista valore in sé al punto che i suoi scopi divengono inseparabili da essa. Le dimensioni
che sono in grado di misurare il grado di istituzionalizzazione sono due per Panebianco, il grado di
autonomia del partito rispetto all’ambiente esterno e il grado di coerenza fra le parti
dell’organizzazione. Un’organizzazione è istituzionalizzata quando: è in grado di controllare
direttamente l’accesso alle risorse senza dipendere da oltre organizzazioni, è in grado di controllare a
livello centale l’accesso alle risorse delle sotto-unità locali. PcI fortemente istituzionalizzato, Partito
laburista no.
Il grado di istituzionalizzazione può incidere in modo determinante sugli equilibri che si stabilizzano tra
le componenti principali del partito, quali: l’apparato, il gruppo parlamentare, gli iscritti.
Il primo dilemma oppone il partito inteso come forza istituzionale, che sostiene le maggioranze
parlamentari, al partito degli iscritti, legato alle istanze della base sociale. La tensione apparato/gruppo
parlamentare può tradursi, in una continua oscillazione tra coesione e fazionalismo, come quella
apparato/iscritti sulla capacità del partito di penetrare il tessuto sociale e controllare la popolazione. In
presenza di una forte istituzionalizzazione, la leadership partitica trae legittimazione dalla base.
Michels ha introdotto la legge ferrea dell’oligarchia per sottolineare la trasformazione dei partiti
socialisti da strutture democratiche in organizzazioni dominate da un’oligarchia formata da pochi
dirigenti. Fondando il proprio potere sul possesso di competenze specifiche creando una divisione netta
fra minoranza dirigente e maggioranza diretta, che si traduce nel ridimensionamento delle finalità
ideologiche per l’ottenimento delle cariche dei dirigenti.
Ostrogoski aveva individuato nel 1903 una possibile degenerazione dei partiti burocratici un passaggio
da organizzazione stabile a dominata da anarchia interna. Nel lungo periodo la causa del
professionalismo burocratico, rischia di divenire fine a se stessa, degradando l’ideologia da elemento di
unità e di coesione a culto meccanico . L’esito è un processo di lotte interne, scissioni, accordi
clandestini che portano all’anarchia interna dei partiti. Eldersveld ha ventilato la possibilità che il partito
di massa si stesse trasformando in una complessa stratarchia, il partito diventerebbe un struttura di
deferenza reciproca, ove i vari strati di potere si rispettano vicendevolmente, sapendo di poter
conservare consistenti margini di manovra.
Kircheimer individua il Catch-all-party come in grado di soppiantare il vecchio partito di massa, grazie
alla destrutturazione ideologica, i massa media e cambiamenti socio-economici, che risultano in una
drastica riduzione del bagaglio ideologico, l’accentuazione del carattere inter-classista, il ruolo cruciale
assunto dai media nelle campagne elettorali, il successo elettorale come obiettivo primario, la perdita di
peso politico degli iscritti, il rafforzamento del potere organizzativo del gruppo dirigente, la maggiore
apertura all’influenza dei gruppi di interesse e delle organizzazioni collaterali .
Può ragionevolmente cercare di trovare più votanti in tutte quelle categorie che non hanno tra loro
evidenti conflitti di interessi. Il partito pigliatutto deve entrare in milioni di menti come un famoso spot
in televisione.
Partito Mediale: Forza Italia, presentano leggerezza organizzativa, perché privi di radicamento storico e
culturale, privilegia un’attività pubblicitaria per un elettorato inter-classista, gerarchia poco strutturata,
è un partito del presidente, si realizza grazie alla visibilità del candidato.
Cartel Party: serve per spiegare la collusione fra partiti che formano cartelli per ottenere risorse
pubbliche. Si accordano per aumentare il finanziamento pubblico, a causa della ridotta distanza
ideologica, così i partiti segnano una nuova evoluzione diventando struttura interna e non di
collegamento verso lo stato. L’allentamento del rapporto fra partiti e base sociale, il carattere
secondario dell’ideologia, il crescente astensionismo avrebbero portato ad una riduzione degli iscritti e
l’atomizzazione della base ha accentuato il potere della leadership.
Ignazi ha preso in considerazione cinque indicatori per valutare il grado di cambiamento dei partiti in
merito ad una loro possibile crisi: gli iscritti, le oscillazioni elettorali, la strutturazione del voto, la
selezione del personale politico e governativo, la scrittura dell’agenda politica. In merito ai primi tre
punti si sono rilevate variazioni abbastanza contenute. La selezione del personale, i dati confermano
che circa tre quarti dei detentori di cariche governative hanno una carriera partitica alle spalle e la
presenza di candidati indipendenti in parlamento è spesso guidata dai partiti. Sulla capacità di
controllare l’agenda politica le opinioni divergono. Tuttavia emerge una maggiore difficoltà di controllo
dovuta alla proliferazione di attori esterni come Ue e Gruppi di interesse. Importante è stata
l’introduzione delle primarie come innesto di democrazia diretta, ovvero con l’obiettivo di selezionare
candidati ad una o più cariche pubbliche e favorire il coinvolgimento di un ampio selectorate.
Può essere svolto da un partito o da una coalizione di partiti, possiamo avere primarie privatistiche
auto-organizzate e primarie pubblicistiche nella quale è lo stato a regolare per legge la
possibilità/obbligo di tenerle e le loro modalità di svolgimento. Si possono tenere primarie per la
selezione di candidati a cariche monocratiche o collegiali. La letteratura americana individua cinque tipi
di primarie:
Esiste anche la primaria invisibile che può durare anche oltre 24 mesi, dove un gran numero di
candidati punta ad acquisire visibilità, consensi nei sondaggi, sostegno economico da parte dei
finanziatori. Sostanzialmente svolgono la funzione di selezione, legittimazione, mobilitazione.
6 dimensioni, le prime tre si riferiscono alla relazione che si instaura fra partiti ed elettorato.
In ambito parlamentare il numero e la distanza ideologica dei partiti rappresentano due fattori
essenziali per comprendere il grado di autonomia delle strutture rappresentative rispetto alle
organizzazioni partitiche. Nella maggior parte dei parlamenti contemporanei il ruolo dei partiti è
significativo, soprattutto in relazione al processo di semplificazione delle posizioni politiche, che
raggiunge la massima efficacia nei sistemi bipartitici. Nei sistemi multipartitici, al contrario, l’estensione
dello spettro politico della coalizione può dare luogo a processi di accomodamento più complessi, che
superano la semplificazione governo/opposizione e creano maggioranze diverse a seconda della posta
in gioco. I vari casi empirici sembrano confermare la diffusione di un modello ibrido, nel quale l’autorità
del partito e della sua organizzazione esterna, devono acquisire negozialmente il consenso di una classe
parlamentare
Parlando dell’impatto dei partiti sulla modellistica costituzionale, sul rapporto fra stabilità governativa e
tipo di sistema partitico, postulando inizialmente una relazione positiva con il bipartitismo e una
relazione negativa con il multipartitismo, le ricerche hanno confermato la prima relazione ma non la
seconda. Per quanto riguarda la teoria delle coalizioni, partendo dal concetto coalizione minima
vincente necessaria per conseguire la maggioranza, Riker ipotizzava che il comportamento degli attori
politici fosse finalizzato a minimizzare le dimensioni della coalizione, per ridurre il coefficiente in base al
quale sarebbero state assegnate le cariche, la verifica empirica smentisce tali ipotesi, evidenziando
altre finalità come la realizzazione di determinate policies. Per quanto riguarda il ruolo che i partiti
possono svolgere nel processo di policy-making, una prima ipotesi attribuisce ai partiti un ruolo
predominante rispetto ai governi tramite il concetto di party government, evidenziando la dipendenza
degli esecutivi sia in termini di partitizzazione del personale ministeriale, sia di influenza diretta. Una
seconda ipotesi sottolinea come non tutte le politiche sulle quali il governo è chiamato a decidere
presentano un interesse effettivo per i partiti, consentendo un margine di autonomia ad altri attori,
inoltre non sempre i partiti non dispongono di strutture finalizzate all’elaborazione delle politiche
pubbliche. Ne consegue che i governi riescono a svincolarsi sempre più spesso dalle posizioni
programmatiche dei partiti, senza contare l’influenza di attori come banche centrali e organizzazioni
internazionali che effettuano pressing sul governo.
Easton definisce il sistema partitico come un complesso di interazioni tra le unità che lo compongono.
Presuppone una relazione orizzontale, competitiva, fra almeno due partiti e un’interdipendenza
verticale fra più elementi quali l’elettorato i parlamenti e i governi. Rae si è focalizzato sulle relazioni
competitive, introducendo il concetto di frazionalizzazione, inteso come il grado di dispersione della
forza competitiva fra i partiti, utilizzando due variabili, la quota elettorale ottenuta e la sua uguaglianza
o disuguaglianza. Un sistema non rilevante ha una sola quota (partito) rilevante. Un sistema poco
frazionalizzato ha al massimo due partiti con quote rilevanti. Un sistema altamente frazionalizzato ha
un numero elevato di partiti con quote che tendono ad essere identiche. I tre sistemi sono
fondamentalmente diversi sotto il profilo della dispersione della forza competitiva, ma la classificazione
non include nessun tipo di differenziazione in base a caratteristiche culturali. Dopo una serie di
evoluzioni il sistema più articolato è rappresentato dallo schema fornito da Sartori.
La sua teoria si fonda sull’assunto che solo mediante una differenziazione dei criteri necessari a stabilire
il numero dei partiti (formato), rispetto a quelli che determinano il funzionamento , ovvero il sistema di
interazione fra partiti a seconda della polarizzazione(meccanica), sia possibile formulare delle
generalizzazioni, inoltre bisogna contare solo i partiti che hanno rilevanza sistemica. Un partito deve
essere contato solo se possiede potere di coalizione o di ricatto (potere di allontanare i moderati dal
centro imprimendo una spinta centrifuga). La meccanica funzionale di un sistema partitico, può essere
determinata dal grado di polarizzazione, ovvero la distanza ideologica fra partiti. La voce
dell’atomizzazione indica uno stato che precede la formazione dei partiti e il loro radicamento, serve a
collocare stati non occidentali, prevede un’evoluzione del sistema, da una fase di atomizzazione
all’approdo ad una categoria successiva.
- Sistema a partito predominante: un partito conquista per diverse legislature consecutive in una
situazione competitiva la maggioranza assoluta e governa solo, la rotazione al governo è ostacolato
dallo scarto di voti, Svezia con i socialdemocratici.
- Sistema bipartitico: due partiti sono in grado di competere per la maggioranza assoluta dei seggi e
uno di essi la conquista governando da solo, l’alternanza al potere è realistica, Regno Unito.
- Sistema di pluripartitismo moderato: due coalizioni di destra e sinistra generalmente, si alternano
al potere, con una meccanica moderata e bipolare, la competizione è centripeta e la polarizzazione
bassa, Germania federale.
- Sistema di pluripartitismo polarizzato: meccanica tripolare con al centro il partito moderato di
maggioranza relativa. Agli estremi si collocano i partiti anti-sistema, il grado di polarizzazione
elimina la possibilità di alternanza. Il partito di maggioranza relativa rimane sempre al potere in una
situazione di dominio, con l’appoggio di partiti minori che ruotano, si svolge anche competizione
irresponsabile da parte di tutti i partiti consapevoli di non poter alterare gli equilibri.
Per le autocrazie troviamo sistemi a partito unico e a partito egemone, a partito unico di tipo
totalitario, autoritario ideologico e autoritario pragmatico, per quelli egemoni la distinzione è fra
partiti di stampo ideologico e pragmatico.
- sistema atomizzato
7.10 Una ricostruzione del dibattito successivo
Secondo Blondel la competizione espressa nell’800 tra Tories e Whigs pur essendo bipartitica non
può essere assimilata a quella fra Tories e laburisti, a causa della diversa intensità e natura della
contrapposizione, più significative nel primo confronto.
Mair ha ribadito che lo studio dei sistemi partitici non può prescindere dall’analisi delle strutture di
competizione che lo caratterizzano. Individua due variabili principali, la misura in cui il governo è
oggetto di competizione tra le varie forze politiche, la misura in cui tale competizione ha un
andamento prevedibile. L’analisi empirica confermerebbe l’ipotesi di un indebolimento delle
strutture competitive nella maggior parte dei paesi europei, i sistemi partitici stanno diventando
meno prevedibili. Le cause vanno ricercate nei cambiamenti socio-economici e istituzionali, o
l’alterazione delle precedenti linee di frattura. Dall’altro lato è il modo in cui i partiti competono che
può determinare una maggiore incertezza elettorale. La maggior parte degli studi ha rilevato una
diminuzione del grado di polarizzazione in occidente, dovuta a pressioni internazionali, vincoli
strutturali e istituzionali. L’area est-europea al contrario mantiene un grado di polarizzazione
elevato, le derive populistiche rendono il sistema completamente incerto.
Maggiore spazio deve essere riservato all’interno delle camere rappresentative a coloro che
indipendentemente dal partito di appartenenza risultano raccogliere maggiore consenso.
Proporzionale: si pone l’obiettivo di riflettere, il più esattamente possibile, i gruppi sociali e le forze
politiche della popolazione. Per ciascun partito, la quota di seggi e di voti dovrebbero
corrispondere approssimativamente l’una all’altra. In una circoscrizione che assegna un numero M
di seggi, quest’ultimi sono attribuiti tra i competitori in proporzione ai rispettivi voti.
Misti: i sistemi elettorali misti son quei sistemi che impiegano (almeno) due differenti formule, l’una
maggioritaria e l’altra proporzionale, simultaneamente in una stessa elezione, a patto che i
rappresentanti eletti, grazie a una delle due formule siano almeno il 5% di quelli eletti grazie
all’altra. La componente normativa, che è parte integrante di questa definizione, risiede
nell’assunzione che i sistemi elettorali misti impieghino due formule diverse per l’assegnazione dei
seggi nel tentativo di compendiare i principi maggioritario e proporzionale di rappresentanza,
ovverosia due logiche distinte di competizione tra i partiti e di selezione del personale politico-
parlamentare.
Anche i sistemi elettorali sono stati congelati, e la fine del secolo scorso segna la vera e propria
entrata in scena dei sistemi.
9.3 Democrazia e scelta delle cariche monocratiche
L’elezione diretta delle cariche monocratiche si sta sempre più diffondendo ai livelli più bassi o
intermedi dei sistemi politici. Il metodo riguarda essenzialmente l’elezione del presidente della
repubblica nei sistemi parlamentari, semi-presidenziali e presidenziali. La distinzione più semplice è
tra elezione diretta ed elezione indiretta. Per elezione diretta del presidente della repubblica
vengono utilizzate varie formule elettorali: a maggioranza relativa, relativa con soglia prefissata,
assoluta, a turno unico, quello maggiormente usato è il doppio turno con ballottaggio. Se la
maggioranza assoluta non viene ottenuta al primo turno, si passa al ballottaggio fra i due candidati
che hanno ottenuto maggiori voti, come in Francia. Lo stesso sistema è prevalentemente adottato
anche nei casi di elezione diretta del presidente della repubblica di una forma parlamentare di
governo. La soglia esatta di voti da superare per imporsi al primo turno può variare sensibilmente.
9.4 l’elezione dei parlamenti
Le non democrazie sono molto più inclini delle democrazie a usare sistemi elettorali maggioritari,
anche perché risultano più facilmente compatibili con regimi tendenzialmente monopartitici e con
le manipolazioni del voto.
I sistemi maggioritari sono di tre tipi: Plurality a turno unico, majority a doppio turno, il sistema del
voto alternativo. Si applicano in collegi uninominali. Per il primo sistema è sufficiente una
maggioranza semplice, per gli altri no.
Il plurality sistem
È il sistema elettorale maggioritario più comunemente utilizzato nel mondo. È impiegato
principalmente nel Regno Unito e in ex colonie britanniche. Il territorio nazionale viene suddiviso in
tanti collegi uninominali quanti sono i seggi parlamentari da assegnare. All’interno di ogni collegio
vince il candidato che ottiene il maggior numero di voti. Per conquistare un seggio occorre, una
forte concentrazione di voti a livello di singolo collegio, mentre per conquistare la maggioranza dei
seggi è necessaria una diffusione omogenea, maggioritaria, tende a dar vita, nei contesti
tendenzialmente bipartitici, ad una maggioranza monopartitica dotata di un numero di seggi più
elevato rispetto alle percentuali di voti ottenuti. I sostenitori sottolineano la semplicità e l’incisività
della scelta degli elettori, la formazione di governi responsabili e di legislatura. I detrattori li
accusano di produrre risultati poco rappresentativi, e di vincere senza ottenere la maggioranza
assoluta.
Il majority sistem
Per vincere il seggio al primo turno, richiedono la maggioranza assoluta. Se nessun candidato o
partito la ottiene, si tiene un secondo turno elettorale. Esistono due varianti di questo sistema, i
sistemi a maggioranza assoluta o di ballottaggio, e quelli a maggioranza semplice o relativa, che a
differenza dei primi, al secondo turno non richiedono la maggioranza assoluta. In linea generale,
quanto viene adottato per l’elezione delle assemblee rappresentative, il secondo turno è aperto ed
a maggioranza semplice. Col doppio turno a maggioranza semplice, il secondo turno funziona come
un plurality: vince chi arriva primo. I fattori che possono incidere sugli esiti del secondo turno,
anche fino a capovolgerne il risultato sono diversi, come il voto sincero al primo turno e il voto
strategico, ovvero per il candidato o partito meno sgradito al secondo. Un secondo fattore possono
essere gli accordi di desistenza fra partiti, per negoziare il ritiro dei partiti più deboli ed evitare la
dispersione di voti.
Il voto alternativo
L’utilizzo del voto ordinale consente agli elettori di classificare i candidati in ordine di preferenza,
tipico del voto alternativo. Se gli elettori devono classificare in ordine di preferenza tutti i candidati
ci troviamo di fronte a sistemi totalmente ordinali, quando devono classificare in ordine di
preferenza solo alcuni candidati, è parzialmente ordinale. A ogni turno viene eliminato il candidato
che ha ottenuto meno voti finché qualcuno non riceve la maggioranza assoluta con la prima
preferenza, il candidato con minori prime preferenze cede le sue seconde preferenze ai candidati
rimasti in corsa. Nel caso che questa prima cessione non risulti sufficiente, si procede alta
riallocazione delle seconde preferenze del penultimo e così via, sistema utilizzato dall’Australia.
Pro: maggiore stabilità degli esecutivi e maggiore governabilità, poiché inducono una tendenza al
bipartitismo. Maggiore responsabilità delle forze di opposizione in quanto favoriscono l’alternanza
e maggiore capacità dell’elettore di indirizzare l’azione di governo. Contro: mal si adattano a
comunità eterogenee socialmente, senza riuscire a rappresentare abilmente le minoranze. Può
portare al governo un partito da quello che ha ottenuto i maggiori consensi
I sistemi proporzionali
Ci sono due principali elementi che variano e si combinano nel sistema proporzionale: l’utilizzo di
circoscrizioni plurinominali e l’utilizzo di formule matematiche che consentono una ripartizione
proporzionale dei seggi. Nei sistemi proporzionali di lista è possibile individuare due principali
categorie: quella in cui sono inseriti i sistemi a rappresentanza proporzionale di lista, e quella del
voto singolo trasferibile. La prima è incentrata sui partiti che presentano una lista di candidati e la
ripartizione dei seggi avviene in base ai voti ottenuti dalle liste; La seconda è incentrata sui
candidati: a determinare la conquista dei seggi è la quantità di voti attribuiti a ciascuno di essi.
Sistemi proporzionali di lista
La distinzione è fra lista chiusa, aperta, libera. La lista chiusa è sinonimo di lista bloccata, che
consentono l’elezione di candidati come tecnici o membri di minoranze che potrebbero avere
difficoltà ad essere eletti in presenza di voti di preferenza. Rendono difficile l’occupazione dei partiti
da parte di lobby esterne, ma le elezioni si trasformano in nomina dall’oligarchia di partito. Una
lista è aperta quando si possono esprimere anche un voto di preferenza per uno o più candidati di
partito. L’ordine in cui i candidati di ciascun partito ricevono questi seggi è determinato dai numeri
individuali che si ottengono, ne consegue un minor controllo dei leader sugli eletti e la possibilità di
fazionismo interno. I sistemi a lista libera offrono agli elettori la possibilità di allocare le preferenze
a loro piacimento, all’interno di una singola lista di partito o su liste diverse, e qualche volta anche
di sostituire i candidati presenti con altri da loro preferiti.
Le formule che vengono utilizzate per tradurre i voti in seggio sono due: il metodo del quoziente
e/o dei resti più alti, il metodo del divisore e/o delle medie più alte. Nel metodo del quoziente il
passaggio cruciale è il calcolo del quoziente, ovvero il numero di suffragi necessari per ottenere
direttamente un seggio da parte delle varie liste. Nella formula di Hare è dato dal rapporto fra il
totale dei voti validamente espressi in una circoscrizione e il numero dei seggi messi in palio nella
stessa circoscrizione, si parla appunto di quoziente naturale o non corretto. Può essere abbassato
introducendo delle correzioni: che consistono nell’aumentare il denominatore di un’unità,
nell’aggiungere un voto al quoziente calcolato, nell’aumentare il denominatore di 2 o 3 (formula
imperiale) Quanto maggiore è la correzione tanto più diminuisce il quoziente e aumentano le
possibilità per i partiti medio-piccoli di conquistare il primo seggio. La formula più utilizzata è quella
dei resti più alti, quella di Hare è la più proporzionale. Quando si utilizza il metodo del divisore e/o
della media più alta, i seggi vengono attribuiti mediante la divisione dei voti ottenuti da ciascuna
lista per una serie di numeri successivi. I risultati ottenuti vengono poi ordinati in senso decrescente
e i seggi assegnati in base ai valori più alti. Il metodo del divisore non richiede ulteriori formule di
complemento in quanto consente l’assegnazione di tutti i seggi della circoscrizione senza la
necessità di far ricorso ai resti. Minore è l’intervallo tra i divisori, maggiore il vantaggio per i grandi
partiti. La formula che favorisce i partiti maggiori e meno proporzionali e la D’Hondt la cifra
elettorale di lista viene divisa successivamente per 1,2,3,4,5 chi ha più voti più voti in base al
quoziente prende i seggi.
Per dimensione della circoscrizione si intende il numero di seggi attribuiti a quella specifica
circoscrizione. A parità di altre condizioni, quanto più grande è la dimensione della circoscrizione
tanto più elevata sarà la proporzionalità del sistema elettorale e viceversa. La soglia di esclusione
rappresenta il livello minimo di consensi che deve ottenere un partito per ottenere la
rappresentanza parlamentare. Le soglie possono essere esplicite o implicite. Le prime sono le soglie
legali da ottenere, le soglie implicite indicano la percentuale minima di voti che permette ad un
partito, mediamente, di ottenere la rappresentanza parlamentare.
Il voto singolo trasferibile
È l’unico sistema proporzionale incentrato sul candidato. Sulla scheda elettorale gli elettori trovano
il nome di singoli candidati in competizione tra di loro anche se appartengono ad uno stesso
partito. Ciascuno di essi cerca di conquistare per sé le prime preferenze degli elettori. Il vst viene
generalmente utilizzato in circoscrizioni plurinominali di piccole dimensioni, viene calcolato con la
formula di Droop. Si procede con un criterio simile al voto alternativo, il candidato che riceve il
minor numero di voti come prima scelta viene eliminato ed i suoi voti, insieme a quelli in eccedenza
attribuiti ai candidati già eletti vengono riallocati ai candidati rimasti. Viene criticato perché i
candidati dello stesso partito possono farsi campagna contro, e che in presenza di grandi
circoscrizioni il sistema è difficile da gestire visto l’alto numero di candidati.
Complessivamente i sostenitori dei sistemi proporzionali ritengono che essi siano da preferire ai
sistemi maggioritari perché garantiscono maggiore tutela delle minoranze, maggiore capacità di
favorire il rinnovamento politico, ma anche che tendono a favorire il frazionismo e l’aumento dei
partiti e la formazione di governi instabili frutto di Coalizioni.
Sistemi misti
Si identificano due categorie: sistemi indipendenti e sistemi dipendenti. Nel primo caso ci troviamo
di fronte a sistemi in cui l’applicazione di una formula elettorale non dipende dal risultato dell’altra.
Relativamente alle opportunità che la struttura del voto offre all’elettore alcuni paesi offrono una
sola possibilità di scelta, valida per entrambe le componenti, alti offrono la possibilità di esprimere
due voti, uno per la componente maggioritaria, l’altro per la componente proporzionale.
Il risultato della consultazione elettorale è di norma più proporzionale nel sistema dipendente
misto che nel sistema dipendente. Quando si è in presenza di un sistema dipendente la
componente proporzionale viene utilizzata per compensare i risultati della componente
maggioritaria. I sistemi dipendenti misti comportano l’utilizzo di formule maggioritarie e
proporzionali in due livelli elettorali separati: il collegio uninominale ed una circoscrizione di livello
superiore per la componente proporzionale. Nella maggior parte dei casi gli elettori hanno a
disposizione due voti: uno per il collegio uninominale e uno per la lista presente della
circoscrizione. Nell’utilizzo concreto di questo tipo di sistema sono emersi due tipi di problemi. Il
primo è legato al fatto che i candidati che competono per un seggio di collegio sono spesso presenti
anche nella lista di partito. Il secondo problema è conseguenza del fatto che può accadere che uno
o più partiti ottengano nella competizione maggioritaria più seggi di quanti ne giustificherebbe la
competizione proporzionale. La soluzione a questo problema può essere quella dei seggi fluttuanti,
assegnando più seggi di quelli previsti in una circoscrizione.
9.5 effetti dei sistemi elettorali sui sistemi di partito
Sono molti gli studiosi dei fenomeni politici che ritengono che ci sia una relazione fra sistemi
elettorali e formato dei sistemi di partito, non tutti sono d’accordo sul nesso di causalità. Duverger
è stato il primo a ricorrere a possibili generalizzazioni affermando che i maggioritari ad un turno
tendano al dualismo politico, e il maggioritario a doppio e il proporzionale al multipartitismo. È
stato criticato ma mai del tutto smentito. Sartori specifica che in materia di effetti del sistema
elettorale sul numero dei partiti è opportuno parlare in primo luogo di effetto riduttivo poiché o il
loro numero viene ridotto oppure il sistema elettorale risulta inefficace, e in ogni caso non c’è alcun
effetto moltiplicativo. Sartori considera quelle di Duverger tendenze. Per introdurre maggiore
rigore Sartori accanto al sistema elettorale considera altre variabili indipendenti come la
distribuzione delle preferenze degli elettori e la strutturazione del sistema partitico, di peso
decisivo. Non si possono valutare allo stesso tempo le proprietà manipolative e canalizzatrici del
sistema partitico. A seconda di quanto sono condizionati nei confronti degli elettori e riduttivi nei
confronti dei partiti egli distingue sistemi elettorali forti e deboli, lo stesso per i sistemi partitici,
risultando in quattro combinazioni. 1 forte sistema elettorale e forte sistema partitico. 2 sistema
elettorale debole e sistema partitico forte. 3 sistema elettorale forte e sistema partitico debole. 4
debole sistema elettorale e debole sistema partitico. Nel primo caso l’effetto combinato è riduttivo
del numero di partiti, nel secondo caso bloccante e controbilanciante, nel terzo si produce
solamente a livello di collegio, nel quarto inesistente. Sartori rifiuta l’idea di un proporzionale
moltiplicativo, in quanto rimuove i precedenti ostacoli alla moltiplicazione dei partiti, effetti di
conseguenze collaterali dovute alla rimozione degli ostacoli precedenti. Pensa inoltre che il doppio
turno a determinate condizioni possa avere effetto riduttivo, penalizzando i partiti estremisti o
isolati e consentendo di trovare formulazioni efficaci per conseguire un effetto riduttivo in
alternativa al maggioritario, come nei sistemi molto polarizzati, favorendo la governabilità.
Nei parlamenti democratici la camera bassa è sempre eletta attraverso il suffragio universale
diretto e in gran parte dei casi è la camera politica, quella che ha più potere e conferisce
l’investitura ai governi parlamentari. Su composizione, modalità di elezione e poteri attribuiti, un
peso notevole hanno fattori come la forma di stato (unitario/federale), e le forme di governo.
Lijphart distingue fra bicameralismi congruenti e incongruenti, che dipendono da come vengono
eletti i rappresentanti e da chi o cosa sia rappresentano. Se si usano gli stessi metodi per eleggere
entrambe le camere e rappresentano lo stesso insieme di cittadini, la composizione politica si può
considerare congruente. Quanto alla distribuzione del potere, se le due camere hanno la stessa
quantità di potere allora il bicameralismo è simmetrico, mentre quando una prevale chiaramente il
bicameralismo è asimmetrico. Il bicameralismo congruente è relativamente raro, anche il
bicameralismo simmetrico, solitamente presente nelle democrazie consensuali.
Le funzioni dei parlamenti
Le principali funzioni dei parlamenti democratici sono: rappresentativa; legislativa; di controllo
sull’operato dei governi; Bagehot individua quella elettiva, in quanto da vita all’esecutivo,
responsabile di fronte ad esso. Espressiva, al suo interno trovavano espressione i grandi
orientamenti dell’elettorato. Educativa, assolta tramite i dibattiti che si svolgono nelle aule
parlamentari. Informativa visto che il parlamento rendeva pubblici sia i punti di vista delle
minoranze che quelli della maggioranza. La quinta e sesta funzione sono quella legislativa e
finanziaria. La seconda, terza e quarta sono riconducibili alla funzione rappresentativa, la quinta e la
sesta legislativa, la prima e la sesta di controllo sul governo. Merita maggior risalto la funzione
rappresentativa, tramite le procedure elettorali democratiche il legame tra cittadini e loro
rappresentanti diventa istituzionalizzato e consente al parlamento di riassumere in scala ridotta
una parte significativa della pluralità di interessi, opinioni e punti di vista presenti nella società,
divenendo esso il luogo privilegiato in cui i conflitti che dividono la società vengono canalizzati ed in
qualche modo addomesticati, o sottoposti a vincoli e procedure, depotenziandone i connotati
distruttivi. I parlamenti democratici sono considerati rappresentativi perché tramite il mandato
elettorale i loro componenti hanno ottenuto la delega a rappresentare al posto degli elettori di
fronte ai quali sono responsabili e ai quali devono rendere conto del loro operato. Per Sartori
almeno nei sistemi parlamentari, il fatto che ai parlamenti venga assegnata la funzione legislativa
non significa che sia di loro competenza assoluta ed esclusiva l’iniziativa legislativa. I parlamenti
sono in primo luogo destinatari del compito di esercitare il controllo politico sulle iniziative
legislative di origine governativa. Nel corso del tempo parlamenti e parlamentari hanno finito con il
produrre regole e prassi che li portano ad esercitare un potere legislativo nel senso più stretto,
introducendo loro iniziative e concludendone una parte fino all’approvazione. L’esercizio della
funzione legislativa secondo la prima o la seconda modalità appena descritte è diventata una
variabile rilevante nella caratterizzazione dei parlamenti. In particolare nelle democrazie
parlamentari e semipresidenziali, gli esecutivi hanno ricondotto la funzione alla prima modalità
(esercizio del controllo politico). Nei sistemi parlamentari, in genere l’iniziativa legislativa spetta in
primo luogo al governo, al parlamento spetta il compito di controllare, discutere, emendare. Nei
sistemi presidenziali il presidente formalmente non ha la possibilità di dare inizio al procedimento
legislativo. Nei regimi presidenziali la separazione dei poteri può essere ulteriormente rafforzata
dalla condizione di governo diviso, perché in tal caso il congresso sarà ancora meno propenso ad
approvare le iniziative legislative promosse dall’esecutivo. Le difficoltà incontrate dai presidenti in
materia di approvazione delle iniziative da loro proposte delineano un contrasto marcato con la
prassi dei regimi parlamentari.
Per quanto riguarda la formazione ed il controllo sull’operato del governo l’elenco di Bagehot deve
fare i conti con il fatto che il governo nasca dal parlamento nei sistemi parlamentari. Nei sistemi
presidenziali gli elettori scelgono direttamente il capo del governo e quest’ultimo nomina i suoi
ministri senza alcuna necessità di chiedere l’autorizzazione al parlamento. Le assemblee
parlamentari e congressuali svolgono in generale almeno tre tipi di controllo sull’attività di governo.
Il controllo legislativo nei sistemi parlamentari soprattutto ai rappresentanti della maggioranza,
spetta un secondo tipo di controllo: indirizzare il governo e controllare che esso si attenga agli
indirizzi forniti dal parlamento, l’indirizzo. Una terza forma di controllo è il controllo politico
esercitato dall’opposizione sul governo. L’attività ispettiva (interrogazioni ed interpellanze) i
dibattiti straordinari e il voto di sfiducia, le commissioni d’inchiesta. Nei sistemi parlamentari di
fronte ad una maggioranza forte e coesa è difficile per l’opposizione esercitare il controllo politico.
Al contrario nei sistemi presidenziali per la separazione dei poteri i parlamenti hanno maggiori
opportunità di esprimere critiche.
10.2 il governo
Rappresenta un elemento costante della politica. Governare significa essenzialmente assumersi le
responsabilità finali di fronte alla comunità politica e ai suoi problemi. Non è detto che governare
significhi risolvere questi problemi. Ma chi governa è investito del compito di tentare di fornire una
risposta, reale o elusiva che sia. Se si guarda al rapporto tra le istituzioni di governo e le altre
istituzioni del sistema politico si può andare da un polo estremo quello dello stato assoluto, al polo
opposto dei regimi liberal democratici, dove l’istituzione di governo è solo una fra le tante, forse la
più importante. A volte le attività degli esecutivi sconfinano in ambiti talvolta non derivati o solo
parzialmente derivati dalla legislazione, con il governo che dà l’input alla produzione legislativa.
10.3 le forme di governo
Si fa riferimento alle modalità secondo le quali fra gli organi di una comunità politica organizzata si
distribuisce il potere di indirizzo politico, cioè il potere di indirizzarla verso determinati fini generali,
gli organi referenti sono soprattutto il capo dello stato, il governo, le assemblee rappresentative e il
corpo elettorale. Si parla di democrazie parlamentari quando il parlamento è l’unica istituzione
direttamente eleggibile; democrazie presidenziali quando il parlamento con voto popolare convive
con un presidente eletto con voto popolare in una logica di check and balance, consistente in un
controllo reciproco che fa sì che il primo non possa sfiduciare il secondo e viceversa. Di democrazie
semipresidenziali quando al presidente vengono riconosciuti ampi poteri politici, sebbene egli
debba condividere la funzione esecutiva con un primo ministro da lui nominato e dal parlamento
fiduciato.
Il governo di partito
Uno o più partiti detengono il monopolio dell’accesso al personale, alle risorse e alle politiche di
governo, a patto di tre condizioni particolari, le principali decisioni sono prese da individui
selezionati in elezioni condotte lungo linee di partito, le politiche adottate sono decise all’interno; il
capo ed i membri dell’esecutivo sono di provenienza partitica. Tutti i governi delle democrazie
occidentali sono stati e sono governi di partito.
10.4 Il parlamentarismo
Il parlamentarismo propone il parlamento nelle vesti di sovrano, con dottrina ispiratrice il modello
Westminster e una grande eterogeneità dei casi. A seconda delle dimensioni su chi prevale nel
gestire il potere, esecutivo, parlamento, e la struttura entro la quale il capo di un esecutivo di un
governo ha il potere di agire si individuano quattro sottocategorie di parlamentarismo. Nei primi
due tipi si ha la prevalenza del governo, nei secondi due del parlamento.
- Il premierato: il capo dell’esecutivo si configura come un primo sopra ineguali, ha vinto le elezioni in
un sistema bipartitico e per questo difficilmente rovesciabile. Nomina e sostituisce con una certa
discrezione i ministri. È illustrato al meglio dal sistema inglese, presuppone un governo
monopartitico, un sistema maggioritario, una disciplina rigida di partito.
- Cancellierato: la premiership è espressa da un primo fra ineguali, resta in carica anche se cambiano
elementi del suo gabinetto, può dimettere i suoi ministri ma non può essere defenestrato da loro.
La sua leadership è più debole di quella del premier. Caso tedesco con pluralismo limitato, con
governi bipartitici, con cancelliere dotato di fiducia personalizzata, e con un meccanismo di sfiducia
costruttiva.
- Il parlamentarismo ordinario: il presidente del consiglio è un primo fra eguali, in un gabinetto
composto da ministri non scelti da lui, ma imposti per lo più dai partiti della coalizione su cui non ha
grande controllo. Può avere un alto rendimento a seconda delle qualità delle élite politiche e dal
sistema dei partiti.
- L’assemblearismo: partitismo integrale. La leadership governativa ha caratteristiche simili a quella
del parlamentarismo ordinario, ma è ulteriormente indebolita dal fatto che deve essere esercitata
in presenza di un parlamento atomizzato e di partiti deboli e/o scarsamente disciplinati, i cui singoli
parlamentari hanno interesse a far cadere continuamente il governo e a favorire il turn-over di
ministri e sottosegretari. Le caratteristiche principali prevedono che il gabinetto non guida la
legislatura, il potere non è unificato ma diffuso e atomizzato, la responsabilità si annebbia, poca
disciplina partitica, i governi parlano con più voci.
Sartori ritiene che un sistema con un primo ministro primus inter pares difficilmente potrà produrre un
esito di governabilità. Tale esito divine pressoché impossibile nel caso dell’assemblearismo, le formule di
condivisione del potere che promettono governabilità sono il primo sopra ineguali e il primo fra ineguali. Le
condizioni che hanno consentito la formazione ed il buon funzionamento del premierato inglese sono tre:
elezioni con maggioritario semplice, bipartitismo, partiti disciplinati.
Sulla stabilità degli esecutivi possono incidere due importanti fattori: la presenza o l’assenza di dispositivi
istituzionali che rafforzano la posizione del governo ed in particolare del primo ministro nei confronti del
parlamento; la presenza o l’assenza di convenzioni consolidate che disciplinano i rapporti tra i componenti
della maggioranza, come i programmi di governo accordati. Per quanto riguarda i primi si parla di
razionalizzazione, per i secondi di coalition governance. La razionalizzazione riguarda in primo luogo la
regolazione del rapporto fiduciario. Tra le espressioni più importanti vi è la sostituzione della fiducia
esplicita con quella implicita. La fiducia individuale anche, così come la sfiducia costruttiva. Quarto fattore la
semplificazione delle procedure di fiducia, riconoscendo in presenza di bicameralismo alla sola camera
bassa il potere di fornire e/o di ritirare la stessa. Infine l’incompatibilità tra cariche ministeriali e
parlamentari. Tipica delle forme di governo basate sulla separazione dei poteri, utile nei casi delle
democrazie consociative per frenare le ambizioni di singoli leader. Il ridimensionamento del ruolo del
parlamento a favore dei governi può anche riguardare l’arena legislativa, con meccanismi che favoriscono
la primazia del governo. Un ulteriore strumento di razionalizzazione è la disponibilità in mano al governo
del potere di scioglimento del parlamento.
Il buon funzionamento del parlamentarismo razionalizzato dipende per Sartori dalle circostanze e dal
sistema di partiti
10.5 il presidenzialismo
Un sistema politico è presidenziale se e soltanto se il capo dello stato risulta da una elezione popolare, non
può essere sfiduciato e ha mandato prestabilito, dirige i governi da lui nominati. In secondo luogo una
separazione-divisione tra potere esecutivo e assemblea legislativa che ha diversi risvolti. Nella sostanza
l’assemblea legislativa non ha il potere di fornire fiducia o sfiducia al governo, che esiste come entità
autonoma. Allo stesso modo il presidente non ha il potere di sciogliere l’assemblea. Presidente ed
assemblea condividono il potere legislativo. Il presidente è sia capo del governo e dell’esecutivo, con il
potere di nominare e revocare con una certa discrezionalità gli altri membri del governo, esecutivo
monocratico e concentrazione del potere in una sola persona, primus solus.
Ai presidenzialismi è generalmente associata l’aspettativa che realizzino l’ideale della democrazia diretta su
larga scala e producano un governo responsabile verso gli elettori, oltre all’identificabilità dei possibili
governi alternativi prima delle elezioni.
Alcuni dispositivi di tipo costituzionale sono stati concepiti anche per favorire l’efficacia decisionale. I
presidenti sono stati costituzionalmente dotati di una serie di poteri legislativo-governativi, devono
scontare sempre il fatto che il presidenzialismo opera in un regime di separazione dei poteri. Negli Stati
Uniti il presidente non può presentare direttamente suoi progetti di legge al congresso e deve
promuoverne la presentazione da parte di congressisti del suo partito e contrattare prima con questi e poi
con l’intero congresso. In altri casi ai presidenti sono concessi poteri di emergenza: il potere di veto, il
potere di iniziativa legislativa di cui il presidente è dotato, con il quale può governare secondo decretismo. Il
ricorso al referendum, possibile in molti paesi sud-americani, dovrebbe avere il compito di superare
l’ostruzionismo parlamentare. Il potere di scioglimento del parlamento nel tentativo di rafforzare il potere
del presidente nei confronti di un parlamento non collaborativo.
Viene inoltre ritenuto un errore combinare il presidenzialismo e sistemi proporzionali. Una maggioranza
identica è più probabile con elezioni sincronizzate. Un paradosso dei parlamentarismi è la
presidenzializzazione degli esecutivi. Le critiche al presidenzialismo riguardano la rigidità temporale, la
durata fissa e prestabilita del mandato presidenziale, senza che il presidente possa essere rimosso. Gli
eccessi di tendenze maggioritarie, il presidenzialismo è distorcente in materia di rappresentatività e di
rappresentanza delle minoranze poiché si fonda su un gioco in cui il vincitore prende tutto. La doppia
legittimazione democratica, Quando le due istituzioni non sono disposte a compromessi, possono portare a
situazioni che vanno dallo stallo alla crisi di regime. In effetti, due circuiti distinti di elezione e di
legittimazione costituiscono un forte incentivo al voto disgiunto e creano i presupposti per il governo diviso.
Il conflitto fra potere esecutivo e legislativo sembra essere diventato un connotato fisiologico di molte
democrazie presidenziali. Il sistema ha comunque retto grazie all’equilibrio fra poteri dalle prassi e dalla
struttura federale dello stato per gli Usa. Le maggioranza sono indivise, il presidente gode di una
maggioranza a congressuale , il rischio è semmai di presidenze imperiali, più abbiamo una struttura di
poteri divisi più c’è bisogno di un governo unito. Il secondo fattore è l’esistenza di partiti capaci di
strutturare il voto e di essere disciplinati al momento delle votazioni, evitando un governo diviso. La quasi
non strutturazione dei partiti sudamericani incoraggia solo la personalizzazione della presidenza. Gli ultimi
due fattori riguardano la non frammentazione dei partiti e l’assenza di polarizzazione ideologica, queste
ultime due condizioni consentono al presidenzialismo di funzionare anche a bassi livelli di rendimento, uniti
a presidenti eletti in sistemi bipartitici.
10.6 il semipresidenzialismo
Forma di governo in cui il presidente della repubblica eletto con suffragio popolare condivide il potere
esecutivo con un primo ministro, nominato dal presidente stesso ma che deve ottenere la fiducia, del
parlamento. Il primo ministro è doppiamente responsabile, verso parlamento e verso il governo in un
meccanismo a doppio motore
A tale forma di governo viene riconosciuta da un lato la potenzialità di contemperare il potere e produrre
una leadership visibile e nello stesso tempo la capacità di far fronte alla eventualità di una maggioranza
presidenziale non coincidente con quella parlamentare. Ad essa viene attribuita una idoneità a fronteggiare
quelle degenerazioni assembleari dei parlamenti che talvolta affliggono sia i parlamentarismi che i
presidenzialismi. In questo sistema l’esecutivo ha sempre la maggioranza, o meglio se la procura sempre.
L’esecutivo è bicefalo, la prima testa muta al mutare delle combinazioni maggioritarie, con una
maggioranza unificata il presidente prevale sul primo ministro, altrimenti si è in coabitazione se il primo
ministro è espressione di una maggioranza diversa. Il presidente della repubblica deve essere eletto con la
maggioranza assoluta per assicurarsi stabilità, cosa che il doppio turno con ballottaggio consente,
incanalando la competizione verso il bipolarismo, riducendo la frammentazione del sistema, e attenua in
caso di coabitazione gli effetti negativi di un parlamento frammentato creando un contrappeso. Il
presidente ha la riserva di dissolvere e formare i governi. Alcuni poteri del presidente limitano quelli del
parlamento, come il potere di indire referendum, e il potere di veto in maniera legislativa, nonché di
sciogliere il parlamento, come nel caso francese, dopo un anno dalla sua elezione. Per funzionare bene il
potere del parlamento deve essere ridotto tramite fiducia implicita, voto in blocco . Una debolezza del
sistema è la coabitazione, ascrivibile ad elezioni asincrone nella maggior parte dei casi, ma può essere
risolta grazie al potere di scioglimento del parlamento per indire nuove elezioni e allineare le maggioranze.
Nonostante ciò la coabitazione è attenuata dal comportamento di primo ministro e presidente che per non
perdere consensi non forzano a proprio favore la coabitazione per non apparire troppo ambiziosi o
irrispettosi. Secondo è il sistema partitico, nello specifico una maggioranza su cui un primo ministro può
sempre contare in parlamento.
Per Weber ogni potere si manifesta e funziona come amministrazione; e ogni amministrazione richiede in
qualche modo il potere. In ciò rientra anche la legittimità in quanto ogni potere cerca di suscitare e
coltivare la fede nella propria legittimità. A partire da questi assunti, Weber distingue tre tipi di potere
legittimo:
- Potere carismatico: la legittimità deriva dal riconoscimento delle qualità eccezionali del capo.
L’apparato di riferimento è formato dalla cerchia di seguaci da lui scelti.
- Potere tradizionale: la legittimità deriva dalla credenza nel carattere sacro delle tradizioni valide da
sempre, può assumere forme tanto patrimoniali quanto feudali.
- Potere razionale-legale: la legittimità deriva dall’esistenza di norme legali, formali e astratte che
danno il diritto di comando a coloro che sono chiamati a esercitare il potere. (obbedienza
all’assetto impersonale-legale) L’apparato è una burocrazia.
La burocrazia può essere definita come l’insieme di organizzazioni che funzionano secondo il principio
delle competenze di autorità attribuite a uffici e specificate attraverso regole impersonali e universali,
deve avere le seguenti caratteristiche:
- Esistenza di regole astratte che vincolano chi detiene il potere, l’apparato amministrativo e i
governati. La legittimità dell’esercizio del potere deriva dal rispetto dell’ordinamento giuridico
senza che esso venga travalicato. L’obbedienza è dovuta solo entro i limiti fissati dall’ordinamento
stesso, che delimita precisamente anche i mezzi di coercizione eventualmente consentiti.
- Organizzazione gerarchica delle posizioni, che prevede l’esistenza di sfere di competenza
chiaramente definite, una elevata divisione del lavoro. I funzionari e gli impiegati non possiedono le
risorse amministrative a titolo personale ma ne devono rendere conto
- Il personale impiegato da una struttura burocratica è reclutato attraverso liberi concorsi pubblici,
assunto con contratto sulla base di specifiche qualificazioni tecniche, viene compensato con uno
stipendio fisso, ha la possibilità di avanzamento di carriera e considera il proprio lavoro come un
occupazione a tempo pieno.
È difficile che i tipi ideali si presentino in forma pura. Come è difficile affermare che tutti gli stati
abbiano configurato lo stesso modello di amministrazione pubblica perché lo sviluppo delle
amministrazioni pubbliche è fortemente legato alla particolare evoluzione di ciascuno stato. I principi
weberiani sono applicati con gradi diversi, nella maggior parte dei sistemi democratici. Un altro aspetto
del modello è la capacità di isolare caratteristiche che permettono di identificare le burocrazie quali
attori attivi del processo di produzione delle politiche pubbliche.
L’amministrazione può essere definita su due piani: uno funzionale e uno strutturale. Il primo rimanda
alle attività che conducono all’attuazione di norme generali. Il secondo fa riferimento agli apparati
organizzativi deputati allo svolgimento delle funzioni di attuazione
Spoil system: sistema che attribuisce uffici e funzioni dell’amministrazione centrale e di quella periferica
ai membri del partito al potere anziché a personale di carriera.
La fase implementativa del processo di produzione delle politiche pubbliche spetta ai burocrati.
Nonostante la loro subordinazione formale e la presunta imparzialità, i burocrati esercitano una
notevole influenza sul processo di policy, condizionando le politiche a monte e in fase di attuazione. La
burocrazia svolge un’essenziale funzione di consulenza nei confronti dei decisori politici; svolge il ruolo
di riscossione e redistribuzione, erogazione e regolazione. Nei contesti politici particolarmente instabili,
quali i paesi in via di sviluppo o anche in taluni contesti non democratici le burocrazie possono svolgere
funzioni di stabilizzazione e continuità nel primo caso, e di sostituzione della politica nel secondo.
Consulenza
Le burocrazie, svolgono una funzione fondamentale di informazione e consulenza nei confronti dei
decisori politici. Esse rappresentano il primo fornitore di informazioni in merito alle policy disponibili
per il governo
In tutti i sistemi politici è necessaria la presenza di un sistema di riscossione delle imposte che consenta
le attività di governo. Non serve soltanto a garantire il funzionamento delle attività di governo ma
anche a reindirizzare risorse a beneficiari individuali o collettivi, come il sistema pensionistico e i
programmi progettati per aiutare le persone in difficoltà.
Il governo eroga direttamente beni e servizi attraverso gli impiegati della pubblica amministrazione.
Questa funzione costituisce un macro settore estremamente rilevante nel generare la ricchezza
nazionale, i fondi sono per esempio erogati in ambito di difesa nazionale, pubblica. L’entità del
coinvolgimento pubblico, tuttavia varia considerevolmente tra i diversi sistemi politici: nei paesi europei
continentali, ed è maggiore che negli Usa.
Regolazione
La regolazione è un processo o attività con cui un governo richiede o prescrive una certa azione o un
comportamento all’individuo o alla collettività attraverso agenzie di regolazione finalizzate allo scopo,
viene utilizzata per la protezione ambientale, il mantenimento dell’equità della correttezza nel mercato.
La maggior parte dell’attività di regolazione è costituita da provvedimenti amministrativi, elaborati
all’interno delle burocrazie pubbliche, in ottemperanza a leggi generali prodotte dai governi e gestite da
ministeri e/o specifiche agenzie governative. Una forma di regolazione particolarmente estensiva si
configura quando imprese o attività economiche di altro tipo sono di proprietà pubblica. Il profitto può
non essere necessariamente l’obiettivo primario di queste imprese, le quali, possono essere inefficienti,
dato che non sono soggette al fallimenti.
Stabilizzazione e sostituzione
In diversi contesti autoritari, la burocrazia civile e quella militare, insieme o separatamente, oppure
congiuntamente ad altri attori o strutture, possono svolgere funzioni e ricoprire ruoli direttamente
politici, è il caso di regimi militari e burocratico-militari. Può rappresentare l’unica garanzia di
affidabilità e supplenza di fronte alla presenza di governi molto instabili. In questi casi viene vanificata
la nozione di neutralità.
Burocrazia e autoritarismo
Tipi di burocrazia nei regimi
- Le posizioni di vertice dei governi sono occupate da persone che ci arrivano dopo aver svolto
carriere di successo in organizzazioni burocratizzate.
- Esclusione politica mirante alla chiusura dei canali di accesso politico agli interessi del settore
popolare e ai suoi alleati al fine di disattivarli politicamente.
- Esclusione economica degli interessi del settore popolare, in quanto promuove un modello di
accumulazione del capitale fortemente sbilanciata in favore di grandi gruppi oligopolistici
- Chiusura dei canali per la rappresentanza degli interessi popolari e della classe operaia, L’accesso è
limitato a coloro che stanno al vertice delle organizzazioni di grandi dimensioni.
Lo svuotamento delle istituzioni democratiche porta al dominio dei militari insieme a élite burocratiche.
L’organizzazione è una costruzione collettiva, che cerca di unire i contributi di ciascun individuo che la
compone al fine di conseguire un obiettivo. L’incertezza è direttamente proporzionale alla dimensione
dell’organizzazione. Affinché un’organizzazione possa dirsi tale è necessario che presenti i caratteri
della formalità e della complessità: il primo riguarda il suo riconoscimento attraverso un criterio legale
che ne formalizzi la natura giuridica, gli scopi. Il secondo rimanda al criterio che ne definisce la
specializzazione. Formalità e complessità sono le caratteristiche che aiutano a ridurre l’incertezza. La
struttura organizzativa riguarda sia l’assetto dei rapporti fra gli individui e le rispettive unità di
assegnazione all’interno di un’organizzazione, sia i rapporti fra le diverse organizzazioni che
compongono un apparato amministrativo. La riduzione dell’incertezza nel passaggio dall’azione
individuale all’azione collettiva entro un’organizzazione passa attraverso la sua capacità di stabilire le
posizioni e relazioni degli individui che possono facilmente essere rimpiazzati. Questa impostazione
rimanda, ai rapporti di forza presenti nell’organizzazione e all’esercizio di potere al suo interno che ha
la caratteristica di non essere discrezionale ma razionale-legale. L’organizzazione delle burocrazie
influenza l’efficienza amministrativa dei governi e determina il grado in cui la responsabilità pubblica e il
controllo politico possono essere conseguiti. Guardando all’organizzazione del governo centrale si può
notare che i sistemi amministrativi presentano disegni organizzativi che seguono lo sviluppo storico che
i paesi hanno avuto. I due modelli principali sono quello unitario e quello a dispersione. Nel primo
l’amministrazione è un apparato servente del governo. L’altro modello è più flessibile, accanto o in
sostituzione all’assetto gerarchico, operano apparati autonomi denominati agenzie. Il disegno
organizzativo è influenzato dai rapporti fra centro e periferia e dall’importanza attribuita ai diversi livelli
di governo. Ogni paese avrà un’amministrazione centrale e delle amministrazioni locali. Il grado di
centralizzazione/decentramento è molto variabile da un paese all’altro. Gli apparati all’interno dei quali
si definiscono le politiche pubbliche di specifiche aree: difesa, educazione, finanze, sono i ministeri o
dipartimenti. Si possono avere suddivisioni ministeriali per direzioni generali, divisioni, sezioni,
dipartimenti. Queste entità organizzative rappresentano le unità operative in cui si trovano figure
altamente qualificate che contribuiscono alla formazione e all’attuazione delle politiche. L’ibridazione
fra i modelli ha portato all’importazione anche negli apparati unitari di corpi pubblici non ministeriali.
Organismi semi indipendenti o del tutto indipendenti, con compiti sia di gestione ed erogazione dei
servizi, in base a convenzioni con i dicasteri, sia con compiti veri e propri di policy making. È il frutto
della progressiva trasformazione degli assetti ministeriali e dei processi di riforma amministrativa
derivanti dall’esigenza di razionalizzazione e contenimento dei costi.
I ministeri sono il prototipo dell’organizzazione burocratica moderna. Gli apparati ministeriali nei paesi
in cui prevale il modello unitario sono caratterizzati dalla struttura gerarchico-funzionale, il modello
della dispersione, dove i ministeri sono basati su una logica divisionale riscontrabile tipicamente nelle
organizzazioni del settore privato. In taluni sistemi unitari di modelli più flessibili basati
sull’organizzazione, per dipartimenti e agenzie. Le agenzie nel sistema americano sono organizzazioni
che presentano un collegamento con le strutture ministeriali che delegano loro l’implementazione delle
politiche e la gestione dei servizi pubblici. In Italia alla tradizionale organizzazione gerarchico-
funzionale, è stata affiancata l’organizzazione dipartimentale che si fonda su una logica divisionale,
secondo il modello delle direzioni generali, un ministro coadiuvato da sottosegretari, il segretario
generale, che collega il vertice politico con l’apparato burocratico. Il ministro ha poi delle staff, gli uffici
di diretta collaborazione. La struttura organizzativa del modello si diparte per competenze specifiche.
Nel modello dipartimentale, il ministero è suddiviso per dipartimenti che raggruppano diverse direzioni
generali che svolgono funzioni omogenee, benché differenziate. In questo caso il segretario generale è
sostituito dai capi dipartimento, responsabili delle risorse umane e finanziarie.
In Europa si registra una tendenza verso un modello di dispersione, favorito dalla necessità di snellire gli
apparati ministeriali attraverso il trasferimento di diverse funzioni politico-amministrative verso un
organismo periferico dell’amministrazione centrale. A contribuire alla frammentazione ci sono i corpi
pubblici non ministeriali, quali le agenzie di prestazione dei servizi, le agenzie regolative o le imprese di
proprietà pubblica. Le motivazioni alla formazione di questo tipo di corpi pubblici vanno dalla necessità
di isolare la gestione dall’interferenza politica nelle attività quotidiane alla possibilità di maggiore
flessibilità alla riduzione dei costi rispetto alle strutture ministeriali.
11.5 il personale
Il modello burocratico di pubblico impiego risponde all’esigenza di eliminare l’incertezza derivante dalla
delega di autorità a personale non controllabile né dalla politica né dal corpo elettorale. Nell’Europa
continentale si parla di pubblico impiego a integrazione regolativa, nel caso dei paesi anglosassoni
pubblico impiego a integrazione professionale, dove per integrazione si intende la logica attraverso la
quale i dipendenti pubblici vengono regolati, organizzati e disciplinati per lo svolgimento della funzione
pubblica.
Il dipendente fa parte di una macchina impersonale e imparziale, è esecutore passivo la cui vita è
minuziosamente disciplinata da regole che intervengono su molteplici aspetti come:
Questa minuzia di regole determina una rigidità che riduce la discrezionalità sia dei lavoratori,
rendendoli intercambiabili sia nei dirigenti.
Permette di rispondere all’esigenza di responsabilizzare l’individuo rispetto alle funzioni svolte e alle
capacità di rispondere del proprio operato di fronte tanto agli organi politici quanto ai cittadini.
Consente di ridurre i costi attraverso uno snellimento degli apparati burocratici, con reclutamento sulle
proprie capacità, mansioni flessibili, compiti individuali eseguiti discrezionalmente, retribuzione basata
su contratti individuali, carriera fondata sul metodo, disciplina basata sulla responsabilizzazione.
Le figure professionali
Dirigente: connette la dimensione politica con l’apparato formato dalle figure intermedie dei funzionari,
garantiscono l’attuazione delle politiche. Possono formarsi in una scuola specifica, o venire da
prestigiose università o dai vertici di imprese private. I funzionari sono le fasce medio-alte. Svolgono
funzioni di raccordo fra l’alta dirigenza e i burocrati di base, i loro contratti sono essenzialmente
collettivi con retribuzioni fisse, coadiuvano i dirigenti nel prendere decisioni. I burocrati di base sono
operatori inquadrati in mansioni operative, con contatto diretto con il pubblico, esercitano grande
discrezionalità nella fase implementativa.
11.6 i processi
Un processo può essere definito come l’insieme dei modi mediante i quali un’amministrazione si
organizza per trasformare le intenzioni politiche a monte delle politiche pubbliche in risultati di policy
che producano un impatto trasformativo sulla realtà. Nel modello weberiano è sufficiente il rispetto
delle norme per giungere al risultato desiderato. La razionalità della legge è superiore perché è
impersonale, astratta e non influenzabile da interessi particolari. I processi generalmente sono
inquadrati in procedure, al fine di raggiungere lo scopo desiderato senza l’esercizio di razionalità
soggettive. Le procedure non richiedono una normazione specifica ma accordi o tecniche definite da
una figura dirigenziale. Tanto i processi decisionali quanto quelli attuativi non possono essere
individuati come un qualcosa di fisso nel tempo ma mutano in base alle trasformazioni che si realizzano
all’interno dei sistemi politici e della società. Questa evoluzione viene identificata come processo di
istituzionalizzazione, con le amministrazioni che si flessibilizzano, rischiando di perdere il loro ruolo
originale. Quanto più aumenta la discrezionalità decisionale tanto più diventano organismi decisionali a
sé stanti. Un particolare processo di istituzionalizzazione è l’isomorfismo istituzionale, identificabile
come il processo mediante il quale un’organizzazione, al fine di raggiungere gli obiettivi e assicurare ka
sua conservazione, si uniforma a un’altra assorbendone i valori al suo interno. Il concetto di
isomorfismo istituzionale è la prova di come sia cambiato col tempo il modello burocratico weberiano.
La concezione classica dei rapporti fra politica e amministrazione rimanda all’idea di separazione dei
ruoli politici rispetto ai ruoli amministrativi in base alla quale le decisioni di carattere politico vengono
prese discrezionalmente a differenza delle decisioni amministrative che sono esecutive. La burocrazia
riveste un ruolo dominante in tutte le fasi del processo di produzione delle politiche pubbliche. La
prospettiva economica della public choice ha evidenziato che i burocrati devono essere considerati
massimizzatori del potere.
Diverse sono le proposte di sistematizzazione dei rapporti fra politica e burocrazia, molto
sovrapponibili. Peters individua cinque modelli:
- Modello formale: si realizza la subordinazione gerarchica della burocrazia nei confronti della
politica secondo i dettami weberiani. Il politico ha un ruolo discrezionale, il burocrate ha un ruolo
esecutivo e procedurale in base a principi di imparzialità, modello tedesco.
- Modello village life: rimanda all’idea dell’integrazione di valori e obiettivi fra le élite politiche e
amministrative derivanti dalla socializzazione e dal reclutamento. Il mantenimento del governo e il
buon funzionamento del ramo esecutivo rappresentano probabilmente il valore più fortemente
condiviso. La dimensione decisionale è caratterizzata da un equilibrio fra potere politico e
burocratico. L’integrazione dei due deriva dalla condivisione e dal consenso. Fa sì che ci siano
frequenti scambi fra la carriera politica e amministrativa.
- Il modello funzionale: presenta similitudini col village life rispetto relativamente consenso e alla
condivisione delle decisioni fra le élite, con la differenza che mentre in quel caso si ha
un’integrazione orizzontale fra élite politiche e amministrative, il modello funzionale individua
un’integrazione verticale fra le élite lungo linee funzionali, nella quale insistono anche collegamenti
con altri attori quali gruppi di interesse e commissioni. I conflitti possono sorgere su attribuzione di
finanziamenti o personale, tempistiche legislative. I paesi in cui si attivano assetti neocorporativi o
lo sviluppo di triangoli di ferro negli Stati Uniti.
- Modello avversariale: i politici e i burocrati competono per il potere e il controllo sulle politiche
pubbliche. Il conflitto, riconosciuto come elemento costitutivo del modello dovuto a passività come
l’inerzia burocratica e l’abitudine a certe prassi portano a frenare l’intento trasformativo portato
dalla dirigenza politica. Il conflitto dovuto a divergenza di opinioni porta a ritardi
sull’implementazione e certe politiche per essere realizzate richiedono governi forti. Infine ci può
essere una forma di conflitto derivante dalla politicizzazione delle burocrazie in lotta con la classe
politica avversarie, sia a causa di un cambio di regime o come forma di respingimento di attacchi
alla loro esistenza.
- Modello dello stato amministrativo: riflette una percezione secondo cui il processo decisionale
sarebbe dominato dalla burocrazia. Politici non professionalizzati non sono in grado di gestire la
mole di lavoro e lo demandano alla burocrazia, svolgendo quindi la politica un ruolo di ratifica delle
decisioni burocratiche.
I modelli individuati sono ideal-tipi. Panebianco parla di politica burocratica per indicare la crescente
complessità dei processi decisionali dovuta a una contemporanea politicizzazione dei rapporti
burocratici e una burocratizzazione dei processi politici, in base alle quali si registra un aumento della
propensione della burocrazia a occupare ruoli e compiti prima specificatamente politici, e dall’altro lato
una politicizzazione dei ruoli burocratici.
La suddivisione in fasi del processo di policy è artificiale e realizzata per comodità analitica, nella realtà
la sovrapposizione tra fasi e attori è elevata. La burocrazia ha una conoscenza di lungo corso delle
questioni pubbliche e istituzionali, pertanto viene coinvolta direttamente già nelle prime fasi di
definizione dell’agenda decisionale. I burocrati controllano importanti risorse informative utili per il
processo decisionale e valutativo decidendo quali indicazioni diffondere e quali no. Le preferenze dei
burocrati possono dunque strutturare il dibattito di policy influenzando l’ambiente nel quale le
decisioni vengono prese. La burocrazia si trova continuamente a interagire con i gruppi di interesse
economici e sociali: La burocrazia è un’entità eterogenea con specifici interessi di policy, che spesso
coincidono con quelli di taluni gruppi di pressione.
- Relazioni legittime sono consentite o esplicitamente richieste. I gruppi sono ufficialmente inclusi nel
processo di produzione delle politiche pubbliche e vengono a contatto con le amministrazioni
all’interno dei policy network e delle policy communities. Le interazioni legittime possono avvenire
nella fase di formulazione delle leggi. Interazioni legittime sono riscontrabili nella fase attuativa,
dove i gruppi di interesse possono essere usati quali agenti di implementazione delle politiche
pubbliche.
- Relazioni di clientela sono state individuate, quando un gruppo diviene l’esclusivo rappresentante
di un settore e l’interesse pubblico si perde.
- Relazioni di parentela, definite come relazione di consaguneità fra un partito di governo e taluni
specifici gruppi che garantisce loro un accesso riservato alla burocrazia pubblica debole e
controllata dal partito stesso attraverso le nomine e le promozioni interne.
- Relazioni illegittime identificano la presenza di gruppi di interesse non riconosciuti dal governo o
esclusi. Questo stile può essere dovuto sia alla natura del sistema politico, sia alla natura dei gruppi
stessi
I burocrati di solito occupano i loro posti permanentemente, ciò consente di avere una visione di lungo
termine dei problemi pubblici. La possibilità di dedicare il tempo sufficiente a tutti gli aspetti delle
politiche che lo richiederebbero è ridotta. I burocrati possono godere di notevole rispetto per il loro
status.
- Controllo ministeriale, di natura gerarchica, previsto dal modello di separazione. Nelle democrazie
liberali parlamentari, il controllo politico viene esercitato attraverso la dottrina della responsabilità
ministeriale in base alla quale il ministro è responsabile dell’operato dei propri funzionari, ma il
controllo risulta difficile e raramente un ministro si assume le responsabilità dei funzionari
- Il controllo parlamentare si realizza in tutti quei casi in cui i burocrati sono chiamati a rendere conto
del loro operato di fronte a specifiche commissioni parlamentari, ma può essere realizzato solo in
presenza di sufficienti competenze e di volontà politica.
- Il controllo giudiziale. In Francia e Italia, paesi di diritto amministrativo, esiste il consiglio di stato, il
massimo organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia
nell’amministrazione pubblica.
- La politicizzazione della burocrazia. I governi possono mantenere un effettivo controllo sulla
burocrazia attraverso lo spoils system che risponde ad una logica in base alla quale al partito
vincitore delle elezioni spetta nominare i funzionari pubblici. Si stabilisce un rapporto fiduciario fra
la politica che nomina direttamente le alte cariche burocratiche. Una burocrazia politicizzata ha
sicuramente il vantaggio della lealtà, tuttavia ha il rischio di generare collusioni che possono creare
una disfunzionalità generale del sistema. Inoltre la fedeltà politica non sempre si sposa con le
capacità professionali
- Utilizzo di consulenti. Un meccanismo di controllo delle burocrazie ufficiali e di contrappeso a esse
è legato alla nomina di figure professionali altamente specializzate, di stretta collaborazione dei
vertici politici in grado di supportarli nelle decisioni. In paesi di diritto amministrativo è previsto
l’utilizzo di un gabinetto ministeriale, composto da 10-20 persone coordinate da un direttore scelto
personalmente dal ministro, responsabile del coordinamento dei consiglieri tecnici che aiutano a
formulare la politica. Altrove vengono usati consulenti esterni come think tanks, anche se il rischio
della costituzione di squadre ad hoc di consulenti possa portare a duplicazioni di strutture, con
conseguenti sprechi, ma anche conflitti fra di esse
- Forme esterne di controllo. Il ruolo dei mass media e dei gruppi di interesse nell’esercitare un
controllo sull’operato burocratico è andato crescendo progressivamente.
Permetterebbe agli alti burocrati di partecipare al policy making e non svolgere operazioni di mero
controllo e supervisione, e i servizi forniti da agenzie in competizione fra loro risulterebbero più
adeguati alle esigenze dei cittadini.
Le critiche sostengono che i benefici siano esagerati, perché le burocrazie tradizionali continuano a
dominare e molte funzioni non vengono assolutamente esternalizzate. I costi da sostenere per smantellare
il sistema e ricostruirlo sarebbero di più di quelli che il sistema otterrebbe. La creazione di diverse agenzie
frammenterebbe il governo, e un esempio storico del processo di deregolamentazione nel 2008 ha
determinato il crollo finanziario nel 2008 in Uk e Usa. (Aggiungerei liberali del cazzo)
Le politiche pubbliche non sono considerabili meri prodotti del sistema decisionale e dell’azione politica
perché in esse sono presenti elementi politici in grado di condizionare gli attori e i processi che le avrebbero
prodotte. In questo senso la politica diventa la variabile dipendente, mentre le politiche pubbliche vengono
considerate le variabili indipendenti: La distribuzione e l’esercizio del potere possono assumere
conformazioni diverse a seconda del tipo di politica pubblica da produrre e dell’arena all’interno della quale
vengono prese le decisioni. Ciò vuol dire anche che il contenuto della decisione pubblica è il fattore in grado
di prevedere gli attori che saranno più influenti nell’assunzione della scelta.
Per Heclo le politiche pubbliche più che fenomeni che si autodefiniscono sono categorie analitiche i cui
contenuti vengono stabiliti dall’analista più che dal policy maker. Attributi centrali della politica pubblica:
realizzata in risposta a un problema pubblico e orientata all’obiettivo, realizzata nell’interesse pubblico e da
attori pubblici, con aiuti anche esterni, stessa cosa per l’implementazione. È ovvio che il governo sia il
nucleo all’origine della produzione di politiche pubbliche. Anche quando la politica pubblica assume la
forma della legge, il processo decisionale non può dirsi terminato perché la policy continua a essere
realizzata a mano a mano che gli attori la implementano con vantaggi e svantaggi del caso.
Le politiche pubbliche si esauriscono in una serie di azioni che implicano l’attivazione di una rete decisionale
su un periodo temporale che può essere anche piuttosto lungo, hanno grande rilevanza anche le non-
decisioni. Le politiche pubbliche non possono essere viste come piani coerenti e lineari perché è possibile il
palesarsi di effetti non previsti. Le politiche pubbliche non sono solo atti formali: molte si basano non tanto
su quello che la legge prescrive ma quello che non vieta. Si può guardare alla politica pubblica come a un
modo di collegare tra loro eventi eterogenei che avvengono in differenti contesti istituzionali, estesi nel
tempo e nel numero di attori coinvolti. La politica pubblica collega le intenzioni, le azioni e i risultati.
Le categorie di attori che rivestono un ruolo determinante nel processo di policy making sono quelle
istituzionali e non istituzionali, i primi perché legalmente riconosciuti partecipano, i secondi anche se non
esplicitamente menzionati dalla legge prendono parte al processo di produzione. In alcune politiche
potranno prevalere alcuni attori sugli altri, in altre c’è maggiore consensualismo.
Governi
I governi sono certamente gli attori istituzionali più importanti, una volta entrato in agenda istituzionale i
governi sono i primi a dover trovare soluzioni, possono gestire una mole di informazioni indisponibile ad
altri, dispone della burocrazia per implementazione e pareri tecnici, controlla l’agenda stessa, ha maggiore
accesso ai media rispetto a qualsiasi altra entità.
Parlamenti
Le politiche pubbliche al loro interno prendono forma di legge, ed i problemi sociali e le soluzioni ad essi
vengono espressi in quest’arena. Se ci sono governi forti con maggioranza stabile i parlamenti avranno poca
influenza, il contrario di una situazione con un governo debole, il potere degli attori parlamentari è alto
visto il loro ruolo di negoziatori. Nei sistemi parlamentari solitamente i disegni di legge sono sostenuti dalla
maggioranza parlamentare che sostiene il governo. Nei sistemi presidenziali il presidente deve negoziare
con l’organo legislativo per evitare stalli. Anche le commissioni hanno un ruolo determinante nella
produzione di policies.
Burocrazie pubbliche
In quanto detentrice di importanti risorse, la pubblica amministrazione dispone di discrezionalità nella sua
azione: prendere decisioni senza l’esplicito assenso del governo. La burocrazia non è comunque un attore
unitario
Partiti politici
I partiti politici hanno un ruolo di influenza indiretta sul processo di produzione delle politiche pubbliche. I
momenti in cui sono più presenti sono la definizione dell’agenda, formulazione delle alternative di policy e
decisione vera e propria, nelle democrazie europee inoltre si assiste al fenomeno di party government.
Media
Giocano una parte importante soprattutto nella fase di definizione dell’agenda poiché ciò che da essi viene
presentato può essere un importante input per il processo di policy. I media aiutano a espandere talune
issues. I media possono essere utilizzati dai decisori pubblici a loro favore, i governi possono decidere quali
informazioni dare o meno ai media in maniera funzionale alla propria azione.
Laswell ha individuato le fasi del ciclo di policy secondo il seguente processo: Agenda setting, formulazione
delle alternative, decisione, implementazione, valutazione e apprendimento
Agenda setting
L’agenda è l’insieme dei problemi, conoscenze delle cause, soluzioni, simboli e altri elementi dei problemi
pubblici che vengono all’attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori politici. L’attore che meglio riesce a
descrivere il problema sarà con ogni probabilità anche quello che ne definirà le possibili soluzioni. Allo
stesso tempo possono esserci attori che lottano per il mantenimento di talune questioni fuori dall’agenda.
Attorno al problema si deve mobilitare un supporto tale da fargli raggiungere un livello piuttosto elevato
nell’agenda.
Ci sono tre tipi di agenda: sistemica, istituzionale e decisionale. L’agenda sistemica (pubblica), contiene tutti
i problemi in discussione che richiedono l’attenzione pubblica; l’agenda istituzionale (formale) è composta
da una piccola parte di problemi presenti nell’agenda sistemica, per i quali i decisori pubblici riconoscono la
necessità di intervenire; l’agenda decisionale, contiene tutti i problemi sui quali i decisori pubblici
effettivamente intervengono. Il processo di agenda setting segue una dinamica in cui si arriva a una
progressiva selezione dei problemi che saranno effettivamente trattati dai decisori politici. Il passaggio
dall’agenda sistemica all’agenda istituzionale e l’approdo all’agenda decisionale prevede quattro fasi, che si
sviluppano in maniera diversa all’interno dei tre modelli. La prima fase è la posizione delle issues, richiesta
di soluzione a un problema, la seconda è la specificazione delle soluzioni possibili al problema, la terza è
l’espansione del supporto alla issue, la quarta è l’ingresso della issue nell’agenda istituzionale. I modelli
individuati sono tre:
- Outside initiation model. Una determinata issue è sviluppata da un gruppo all’interno della società,
cerca di allargare l’interesse di altri gruppi verso la issue proposta, in modo da darle visibilità tale da
spostarla nell’agenda sistemica. L’abilità del gruppo nello stringere alleanze con altri gruppi
potenzialmente interessati alla issue e la disponibilità di vari tipi di risorse sono fattori che
concorrono a spingere la issue verso l’agenda istituzionale.
- Mobilization model. Gli attori pubblici che intendevano arrivare a una politica la collocano entro
l’agenda istituzionale, ma al fine di costruire il supporto necessario alla sua realizzazione, cercano di
suscitare l’interesse per la issue.
- Inside initiation model. In questo caso le proposte entrano in agenda direttamente per iniziativa
degli attori interni oppure provengono da gruppi di interesse che hanno un accesso privilegiato.
I problemi effettivamente iscritti nell’agenda decisionale provengono in buona parte da attori interni. Il
controllo dell’agenda politica può essere molto variabile nel corso del tempo.
Formulazione
Quando un problema riesce ad affermarsi nell’agenda decisionale, i governi devono stabilire quale
corso d’azione seguire per tentare di risolverlo. A tal fine devono prendere in analisi le alternative di
policy possibili avviando il processo di formulazione delle politiche pubbliche. Questa seconda fase
comprende la discussione, definizione, accettazione o rigetto delle opzioni disponibili. Il processo di
formulazione delle policies è sottoposto a vincoli politici sia sostanziali sia procedurali: i primi sono
vincoli insiti nella natura del problema, i secondi riguardano le procedure derivanti dall’adozione o dal
compimento di un’opzione. Tali vincoli possono inibire la scelta di talune opzioni di policy e favorirne
altre. Alla formulazione sono ammessi a partecipare soltanto gli attori che effettivamente possono dire
qualcosa in merito al problema in esame. Dal punto di vista formale, avviene nelle sedi istituzionali. Dal
punto di vista sostanziale avviene anche negli uffici dei gruppi di interesse e i think thanks. Parlando
dell’intreccio di relazioni fra attori istituzionali e non istituzionali nella fase di formulazione Griffith parla
di vortici che attraggono gruppi diversi. L’idea di rete di relazioni alla base del concetto di policy
networks trova le sue origini nell’idea di web of decisions e fa riferimento alle interazioni che uniscono
gli attori dello stato e della società nel processo di produzione delle politiche pubbliche. Lo sviluppo
dell’approccio delle reti politiche è stato favorito dalla frammentazione dello stato e dalla sua relativa
perdita di importanza a seguito delle crisi economiche e dei processi di globalizzazione. La
segmentazione statale ha avuto un effetto diretto sul processo di policy making, che a sua volta si è
frammentato in una serie di policy, a contare è la struttura settoriale del policy making di cui ne il
pluralismo ne il neo-corporativismo identifica in uno stato forte che incoraggia la cooperazione fra
pochi forti. L’approccio delle reti di policy ha la capacità di focalizzare l’attenzione su aspetti empirici
facilmente verificabili delle strutture relazionali che danno luogo alla formulazione delle politiche, La
nozione di policy network si riferisce a triangoli di ferro, dove in talune aree di policy, tendono a
svilupparsi relazioni di forte cooperazione fra specifici attori pubblici e privati che gestiscono la
formulazione isolate dall’influenza di altri settori.
Ma il sistema politico sarebbe rappresentato meglio nel processo di formulazione dallo sviluppo degli
issue network, formate sulla base di una spinta emotiva da attori estremamente differenziati, uniti da
un mutuo interesse. Se i diversi attori coinvolti nella rete riescono a trovare rapidamente il consenso
relativamente alla specifica issue portata al centro dell’agenda, possono essere in grado di esercitare
una notevole influenza nel processo di formulazione della policy. L’idea di comunità individuata nel
concetto di policy communities rimanda a una concezione di maggiore stabilità rispetto allo issue
network e a una maggiore effettività dell’azione dei membri che non solo condividono il medesimo
interesse per uno specifico settore di policy e un mutuo riconoscimento ma parlano anche lo stesso
linguaggio specialistico. L’approccio delle reti offre strumenti analitici migliori rispetto agli approcci
pluralista e neo-corporativista, permette di comprendere meglio il processo di formulazione delle
politiche pubbliche, anziché rappresentare un effettivo superamento della dicotomia pluralismo/neo-
corporativismo, tende a riprodurla in un’altra forma.
Decisione
Una volta predisposte le possibili alternative di policy volte a risolvere un problema, si apre la fase
decisionale nella quale le istituzioni di governo devono scegliere di adottare solo una o alcune delle
opzioni. Questo è lo stadio più specificamente politico del ciclo di policy, vengono prese decisioni
autoritative riservate unicamente ad attori istituzionali. La decisione può anche consistere nel non
intraprendere alcun corso d’azione. Non sono facilmente individuabili empiricamente: ciò pertanto
rende sfuggente l’individuazione della causa specifica che può aver portato alla mancata adozione di
decisioni specifiche. Tali attori pur mantenendo un alto grado di discrezionalità nell’operare la scelta,
sono sottoposti a loro volta al rispetto di regole. Le regole definiscono altresì le sedi entro le quali le
decisioni devono essere prese e le modalità decisionali. Un ulteriore elemento che incide notevolmente
sull’adozione di una specifica opzione di policy dipende dall’assetto istituzionale del sistema politico: in
sistemi presidenziali o parlamentari con assetti unitari o federali. L’autorità decisionale tenderà sempre
a concentrarsi nelle mani degli esecutivi con un mix variabile del ruolo dei parlamenti.
Modelli decisionali
Il modello razionale sinottico prevede attori razionali, condizioni cognitive di certezza, attività di ricerca
della soluzione con analisi completa di alternative e conseguenze, la modalità di scelta è il calcolo, con il
criterio decisionale dell’ottimizzazione. Il modello di razionalità limitata prevede un decisore unitario,
condizioni cognitive di incertezza, un analisi sequenziale con un confronto rispetto alle aspettative e un
criterio decisionale di soddisfazione. Il modello incrementale prevede decisori partigiani, condizioni
cognitive di parzialità, comparazioni limitate successive, sottoposte continuamente a revisione e
aggiustamento senza che siano stravolte, la modalità di scelta è un muto aggiustamento partigiano con
un criterio decisionale di accordo, tiene conto del fatto che la decisione è frutto di negoziato e
compromessohn. Il modello bidone dei rifiuti prevede decisori variabili, con condizioni cognitive di
ambiguità, nessuna attività di ricerca della soluzione in particolare, modalità di scelta come incontro di
problemi e soluzioni e un criterio decisionale lasciato al caso
Contenuto della decisione e tipologie
Quando vengono selezionate le opzioni di policy i decisori sono propensi a pensare a esse in termine di
strumenti a loro disposizione. Se il loro intento è la riduzione del consumo dei carburanti essi avranno
varie opzioni: potranno decidere di adottare un provvedimento di aumento della tassazione sui derivati
del petrolio. La comprensione degli effetti che le politiche pubbliche producono è essenziale a spiegare
e prevedere gli aspetti chiave della politica alla base di tali politiche. Questo intento è all’origine
dell’elaborazione delle tipologie di politiche pubbliche
Tipologia di Lewi
Politiche distributive (log roling): probabilità di coercizione remota e applicazione della coercizione
all’azione individuale, portando ad un conflitto basso, sussidi per l’agricoltura; politiche regolative
(negoziato) probabilità della coercizione immediata e applicazione della coercizione all’azione
individuale, altamente conflittuali, come politiche ambientali; Politiche redistributive (logica
maggioritaria): probabilità della coercizione immediata, applicazione della coercizione all’ambiente
dell’azione, politiche di welfare; politiche costituenti: probabilità di coercizione remota, applicazione
della coercizione all’ambiente dell’azione, organi anti-trust, politiche regolative, riforme istituzionali
Tipologia di Wilson
Wilson evidenzia come le politiche pubbliche comportino benefici e costi materiali e immateriali per
alcune sezioni della società che a seconda delle policies, possono essere concentrati e diffusi,
analogamente si avranno costi concentrati o diffusi, crea il modello perché Lowi analizza e individua
tipologie che si sovrappongono come per le politiche sanitarie.
Interest group politics: comporta una concentrazione di costi e benefici fra pochi individui,
determinando un conflitto fra i gruppi beneficiari e i gruppi svantaggiati. Taluni gruppi guadagnano
quanto altri gruppi perdono, come le politiche di sicurezza sul lavoro; Client politics: i benefici sono a
favore di gruppi molto ristretti con costi che cadono sull’intera società, tipo l’assegnazione delle
frequenze televisive; Entrepreneurial Politics, imponendo vincoli all’attività di taluni settori produttivi,
mirano a fornire un beneficio all’intera collettività. Di difficile realizzazione, i loro costi ricadono su
gruppi ristretti, sono le classiche politiche di liberalizzazione; Majoritarian politics costi e benefici si
trovano in equilibrio, e il caso delle leggi antitrust.
Implementazione
Quando una decisione politica viene formalizzata in un atto giuridico non inizia a produrre
immediatamente effetti. Affinché lo faccia è necessario che avvenga la conversione della legge. L’attore
preposto è la pubblica amministrazione, che va alla lettera quando la conversione è applicata alla
lettera, se gli obiettivi sono chiari, c’è obbedienza e tempo sufficiente. La burocrazia e i gruppi di
interesse possono rallentare il processo per propri interessi specifici, dimostrando come il processo non
sia top-down ma un mix con il modello bottom-up, legata anche alla forma di governo e di stato.
Valutazione
Stadio importante, si valutano efficacia ed efficienza della policy attuata, tramite valutazione
amministrativa, politica e giudiziaria
Holzinger e Knill hanno individuato la presenza di quattro fattori in cui l’internazionalizzazione incide sui
settori di policy.
Imposizioni delle politiche: basata sull’asimmetria di potere che può essere unilaterale o multilaterale
quando vengono imposte condizioni per entrare in un’organizzazione internazionale per ottenere
benefici. L’armonizzazione internazionale avviene quando le politiche interne vengono accordate ai
dettami di leggi emanate da istituzioni internazionali o sovranazionali di cui i paesi fanno parte. La
regolazione delle competenze fa riferimento ai processi di mutuo aggiustamento e omogeneizzazione
delle politiche dei singoli paesi da pressioni competitive generate dall’interdipendenza economica
globale, attuata attraverso istituzioni sovranazionali, con il compito di ottenere risorse e riconoscimenti,
ha valore anche per i paesi partner che ancora non si sono adattati. La comunicazione transnazionale,
l’insieme di processi di comunicazione fra i vari paesi che possono indurre un cambiamento delle
politiche nazionali; sono il lesson drawing, adozione di politiche simili dove adottate sono state
funzionali; transnational problem-solving, la risoluzione di problemi interni attraverso l’attivazione di
una rete di esperti transnazionale; emulazione; promozione transnazionale di modelli di policy, affidati
ad organizzazioni internazionali
I fattori indicati portano a una forma di convergenza cross-nazionale delle politiche, distinte in
trasferimento, diffusione e convergenza. Il policy transfer comprende, copia delle policy, emulazione,
combinazioni, ispirazione. La diffusione di policy avviene tramite mediazione della società.
Trasferimento e diffusione portano alla convergenza, ovvero l’aumento nelle similitudini tra una o più
caratteristiche di una certa policy che si verifica attraverso un insieme di giurisdizioni e in un dato
periodo di tempo