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PARTE PRIMA

CAPITOLO I
L’IMPERO E LA CHIESA DOPO COSTANTINO

L’Impero e la nuova maiestas e la tendenza verso l’absolutio legibus.


Non si può negare che quando Diocleziano e Costantino gettarono basi della nuova monarchia, da
tempo spirava su tutta la romanità un gran vento dall’Oriente.
Si dice che già Aureliano nel 270 esigesse il bacio dell’anello, la genuflessione e l’adorazione
orientale (proschinesi). Non per questo, è vero, egli intendeva impersonare l’imperator-deus, ma
certo si sentiva investito di una nuova maiestas che non era quella intesa dagli antichi in chiave di
semplice maior dignitas, ma andava assumendo altissimi contenuti ideali e di sacralità.
Oltre a ciò si assiste a un dilatamento dei poteri imperiali che oramai si avvicinava all’assolutismo,
ossia quell’istituto che prevede la legittimazione di qualsiasi comportamento del governante
seppure tenuto in violazione delle leggi.
Inizialmente l’idea dell’absolutio legibus alludeva solo al privilegio del princeps di sfuggire a
qualche requisito formale riservato dal diritto civile specie in tema di successioni. Si è sottolineato
che gli stessi imperatori avevano tenuto a ridimensionarne il potenziale: Severo e Caracalla
avevano ripetutamente dichiarato che, sebbene legibus soluti, volevano vivere secondo le leggi
rifiutandosi di avvalersi di testamenti illegittimi in loro favore. Anche Teodosio II aveva dichiarato
ch'era bene che il regnante si professasse vincolato dalle leggi.
La chiesa usava fare eco al coro di buone intenzioni e non aveva mancato di ribadire, per bocca di
S. Amborgio, ch'era precetto morale di tutta evidenza che i sovrani si sentissero legati dalle leggi
che emanavano.
Questa atmosfera rassicurante degenera dopo che Giustiniano, diventato sempre più tiranno a
seguito della fallita rivolta di Nika del 532, dichiara che Dio aveva assoggettato a tal punto le leggi
dell’imperatore da fare di quest’ultimo la legge animata in terra.

La tradizione occidentale degli iura. La trasformazione della figura del principe si rispecchia
necessariamente nel sistema delle fonti del diritto.
Il binomio leges-iura continuò a caratterizzare la dinamica interna dell’ordinamento almeno finchè
Giustiniano, promulgando il Digesto, ebbe trasformato gli iura in leges unificando formalmente i
due tipi normativi.
Gli Iura erano non leggi ma principi provenienti dagli Editti pretori e opere dei giureconsulti idonei
all'applicazione nella prassi. I pareri dei giureconsulti, quando il principe li autorizzava, (ius
respondendi) e tra loro fossero concordi riguardo una questione avevano per Gaio forza di legge.
Questo potere che dal tempo di Augusto era usato elargire a giuristi scelti e fedeli, metteva nelle

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loro mani un potere tanto forte da poter dar fastidio all’imperatore stesso, come Nerone che
vagheggiava l'idea di un proprio monopolio normativo.
Anche principi moderati come Adriano quindi preferirono confinare i giuristi in un consilium del
principe poi divenuto concistoro con Costantino.
Da Costantino in poi, malgrado la presenza sempre più ingombrante del monarca nella produzione
del diritto, nessuno si sognò di interrompere la tradizione degli iura.
La loro importanza è visibile dal fatto che Valentiniano III nel 426 indirizzò da Ravenna al senato di
Roma la legge delle citazioni approvata da Teodosio II che la inserì nel codex theodosianus: le
opinioni dei giuristi Papiniano, Paolo, Gaio, Upiano e Modestino godevano di efficacia vincolante
qualora fossero concordi, vinceva la maggioranza quando erano discordi e in caso di parità
numerica prevaleva quello di Papiniano.

La loro volgarizzazione. Gli iura continuarono nel basso impero ad avanzare faticosamente per la
loro strada. I grandi nomi del passato non smetterono di riecheggiare nei tribunali. Cosi circolarono
per secoli sotto il nome del grande Paolo quelle Pauli receptae sentetiae che furono considerate la
gemma degli iura antichi. 100 anni dopo Costantino la legge delle citazioni le nominò testualmente
sostenendo che dovevano valere sempre. La prima stesura sembra del 300 il successo fu tale che nel
506 Alarico la introdusse nella Lex romana Visigothorum e Giustiniano la mise nel Digesto.
Tuttavia il giurista contemporaneo Levy conta 7 revisioni successive: il testo era quindi
probabilmente sconvolto.
Tra gli iura che traversarono tutto il basso impero dimostrando una vitalità straordinaria, pur
subendo interventi di volgarizzazione, vanno annoverate anche le Istituzioni di Gaio.
Create nel II sec passarono indenni l’età del principato cadendo poi nei sec IV e V nella rozza
interpretazione dei c.d. Fragmenta Augustodunensia finendo infine nella Epitome Gai.
Vita lunga ebbero anche i Tituli ex corpore Ulpiani. Venuti alla luce nella prima metà del VI secolo.
Essi rappresentano una volgarizzazione intesa ad adattare un testo celebre a un pubblico sempre
meno raffinato.
È probabile che l’ultimo frutto di tale letteratura romana volgare sia l’operetta che il suo editore
Cuiacio, gran giurista e erudito francese intitolò Consultatio veteris cuiusdam iuriconsulti e
pubblicò nel 1557. Questo appare l’ultimo iura e contiene pareri di un giurista, forse un avvocato, e
rappresenta l’ancora esistente attività scientifica in zone barbarizzate come la Gallia e oltre ciò si
avverte il perdurante uso forense della consulenza tecnico giuridica.
Assai più importante per via dell’uso prolungato negli ambienti ecclesiastici è la cosiddetta Collatio
legum Mosaicarum ed Romanorum. Certa tradizione le dà il titolo più suggestivo di Lex Dei: un
manualetto di comparazione tra legge biblica e quella di Roma che, mostrando concordanze, sembra
voler tranquillizzare la coscienza dei fedeli e indurli a obbedire all’ordinamento dell’Impero.

Le prime codificazioni: i codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano. Gli iura, nell'era del
dominato erano comunque ormai al tramonto.

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Rappresentavano la vecchia tradizione occidentale, nata e cresciuta nella Roma antica. Dacchè il
centro dell'Impero, dal 330, aveva traslocato a Costantinopoli, le idee d'oriente avevano fatto presto
a spostare l'asse del dritto sui comandi del monarca onnipotente. Si ricollega alla storia tardo-antica
anche la nascita di un certo gusto per la codificazione.
I codici nel basso impero apparivano come collezioni di norme vecchie e nuove, come se fossero
grosse antologie di pezzi ripescati dalla propria storia da quella più antica a quella più recente.
I primi codici arrivano con Diocleziano (284- 305): erano raccolte di rescritti: da ciò sembra non
emergere una nuova figura di monarca legislatore quanto la conferma della vecchia figura del
principe sommo magistrato nell’esercizio di poteri giurisdizionali e amministrativi.
Il codice Gregoriano, redatto intorno al 292-293 in Oriente esibiva escritti dell'età di Adriano in poi;
il Codice Ermogeniano, quasi a costituirne un supplemento, raccoglieva quelli dioclezianei
all'incirca degli anni 293-294.
Nel 429 si ha la svolta per iniziativa di Teodosio II d'Oriente: fu lanciato il progetto di una raccolta
normativa da intendere come seguito di quella gregoriana ed ermogeniana. Inizialmente il
programma era grandioso e prevedeva un volume di costituzioni imperiali, completo di quelle
vigenti e non vigenti, a uso della scuola, e un altro destinato alla prassi forense comprendenti le sole
leggi vigenti e un po’ di iura. Il progetto non giunse in porto. Già nel 435 l'ambizioso programma
venne ridimensionato a un codice delle sole costituzioni vigenti, da valere al contempo per i
tribunali e per le scuole. Gli iura furono tralasciati: l'occhio di Costantinopoli, abbastanza
indifferente nei loro confronti, si volgeva principalmente alle leges.
Sebbene frutto di soluzione di ripiego, il Codice Teodosiano, promulgato nel 438 e entrato in
vigore nel 439, non fu però opera di scarso impegno. Consisteva in 16 libri fitti di costituzioni
generali. Voleva esser la continuazione dell’ermogeniano e del gregoriano, fu di fatto l’attestato di
un mondo completamente trasformato.

Diocleziano e il Cristianesimo. L’immagine di Diocleziano è giunta a noi a tinte oscure per l’astio
della chiesa. Questo perché egli si prefigurava come un conservatore del passato e difensore della
gloriosità romana pagana contro ogni forma di culto moderno. Era stato nemico dei manichei
d’Egitto. Poi se l’era presa con i cristiani e aveva scatenato contro di loro persecuzioni. Dai cristiani
non poteva dunque mietere che odio.
Per i persiani l’impero era un mondo cristiano e si sorprendevano di come un pagano potesse
governarlo. Ciò non voleva dire che i cristiani erano pacifici: già nel II secolo ad Edessa era nato
uno stato cristiano che si era dedicato anima e corpo alla persecuzione dei pagani.
Diocleziano tra 303 e 304 pubblicò i 4 editti dell’ultima persecuzione contro i cristiani sebbene egli
non fosse pervaso da ire particolari contro i cristiani; attorno a lui altri centri di potere erano ben
altrimenti infiammati. Come Galerio, per esempio. Questi era uno dei due Cesari nominati inseguito
alla grande riforma istituzionale imperniata sulla tetrarchia – due 2 Augusti e 2 Cesari ch'erano
partecipi al potere e futuri successori degli Augusti.

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Galerio era nemico dichiarato dei cristiani e si dice che ciò porto il Dio dei perseguitati a fargli
venire una malattia letale. Piombato nel terrore, sul letto di morte giocò l’ultima carta per placare la
divinità nemica. Emanò a Sardica un editto di tolleranza che anticipa di 2 anni quello di Costantino.
Non gli servì a nulla. Morì comunque.

La politica religiosa di Costantino. Tanto è fosca l’immagine che la tradizione cattolica ci ha


tramandato di Diocleziano tanto invece è luminosa quella che ci ha consegnato di Costantino. È
comprensibile se si pensa che è da lui che è cominciata la storia del millenario impero cristiano
bizantino.
La critica recente ha però appannato la sua aureola. Le opere del Gibbon hanno disegnato
l'immagine di un Costantino nient'affatto acceso di fanatica fede cristiana, ma politico accorto
capace di sfruttare i culti religiosi a seconda del tornaconto del momento.
Egli promulgò nel 313 insieme a Licinio l’editto di tolleranza di Milano di cui però non si ha
traccia. Ne tengono conto Eusebio di Cesarea e Lattanzio: essi in più sostengono che l'editto
varrebbe per ogni culto non solo per i cristiani. La maligna critica moderna più restia
nell’esaltazione di Costantino ha sostenuto addirittura che questo editto non sarebbe mai esistito.
L’imperatore sempre nella primavera di quell’anno restituì ai cristiani i beni confiscati in Africa e
Calabria e concesse ai chierici l’esenzione dai munera personali.
I 3 provvedimenti famosi furono poi:
1) possibilità per le Chiese di ricever donazioni e legati
2) istituzione della Episcopalis Audentia che fece la sua apparizione nel 318, in una norma in cui
Costantino dispose che i giudici ordinari lasciassero le cause al giudizio vescovile qualora le parti
l'avessero richiesto. Si è pensato che qui stesse l'origine del foro ecclesiastico. In realtà non è sicuro
che Costantino avesse voluto creare una giurisdizione speciale per la chiesa. Un secolo dopo
Valentiniano III escluderà da essa le cause penali riconoscendo la Audentia come una forma di
arbitrato che Roma lasciava ai vari culti. Solo per Giustiniano invece ciò appare come una vera e
propria forma di giurisdizione speciale.
3) altro istituto famoso è la Manomissione in ecclesia. È possibile che l’imperatore, più che creare
una forma totalmente nuova di affrancazione dei servi, non avesse fatto che adattare al mondo
cristiano la manumissio inter amicos celebrata dai pagani nel corso di banchetti o feste private: la
casa del Signore che è quella di tutti, la messa come simbolico banchetto, la presenza dei fedeli,
fratelli ancor più che amici, suggeriscono infatti facili analogie. Ma vi sono diversità che hanno
alimentato in proposito un forte scetticismo: si è rilevato che le due forme avevano efficacia
diversa, alla nuova manomissione in chiesa Costantino avrebbe infatti assegnato l’efficacia piena
dell’affrancazione solenne, presumibilmente capace di estendersi alla cittadinanza romana, mentre
l’affrancazione fra amici non conferiva che la latinità. E la latinità concedeva la piena capacità nei
confronti degli altri latini ma escludeva una serie fondamentale di rapporti con i romani, dal
connubium al diritto di ricevere eredità sia di disporre liberamente del proprio patrimonio mortis
causa.

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Costantino e il paganesimo. Non fu invece ai cristiani che venne destinata, il 3 luglio del 321, la
benefica istituzione della festività del Dies soli. Essa si trasformò nella dies dominicia solo più
tardi; essa fu più che altro un tributo reso da Costantino al culto solare. Il culto del sole era diffuso
anche ad occidente ma evidentemente ma chiaramente era anche molto orientale. A Costantino
doveva piacere molto se arrivò a farsi rappresentare con fattezze di una divinità solare prescrivendo
l’adorazione per questa figura. Ed è inoltre molto strano che il monarca non abbia tenuto a mente
che i cristiani di buona memoria dovevano certo guardare al simbolo del sole con ostile ripugnanza,
dato che ai tempi delle persecuzioni alcuni imperatori, nel chiedere l'abiura di Cristo avevano
preteso l'adorazione del sole. D'altronde anche quando nacque Costantinopoli ebbe il marchio di
una città pagana. Si seguirono i culti e le culture pagane, rimaste nonostante la cristianizzazione
dell'ordinamento. Infatti Costantino conservò il titolo di pontifex maximus.
C'è da chiedersi se persino la partecipazione di Costantino al grande Concilio di Nicea del 325 non
sia stata dettata più dal consueto interessamento dello stato a tutti i fatti dell'impero, che non
dall'entusiasmo cristiano.

Il Concilio di Nicea. In questo concilio la Chiesa cominciò ad innalzare il grande edificio del suo
dogma autoaffermandosi di fronte all’eresia.
La chiesa gettò anche le prime basi di un’organizzazione gerarchica proclamando la preminenza
delle sedi di Roma e Antiochia. Fu condannata l’eresia di Ario (che sosteneva che solo il padre
aveva natura divina mentre il figlio pur voluto dal Padre era creato) in quanto i padri della chiesa
enunciarono il dogma della identità della sostanza divina di padre e figlio.
50 anni dopo Nicea, nel concilio di Costantinopoli del 381 anche lo Spirito Santo fu assunto nella
consustanzia divina e la verità di fede venne completata con la figura della Trinità.
La presenza di Costantino a Nicea con un banco più alto rispetto ai vescovi solleva i primi quesiti
sul rapporto non tanto dell'imperatore con l'organizzazione ecclesiastica, quanto con il dogma. Fu
probabilmente allora che dovette affacciarsi l’idea di cesaropapismo con cui l’imperatore poteva
entrare nelle verità della fede.

Cesaropapismo e Arianesimo. Ad alimentare e sostenere il cesaropapismo contribuì di sicuro


l'arianesimo. Costantino diventò ariano: si fece battezzare in fin di vita dal vescovo Eusebio di
Nocomedia quindi egli morì da eretico. Anche suo figlio Costanzo II fu eretico e questi si adoperò
non riuscendovi però a dare all’arianesimo la qualifica di religione cattolica.
Il collegamento tra cesaropapismo e arianesimo si ritrova nel confronto tra la curiosa intitolazione
assunta in chiave cattolica da Costantino e quella di cui gli ariani gratificarono Costanzo II. La
qualifica costantiniana è di “vescovo esteriore” con cui si alludeva all'imperatore come sorvegliante
dei laici; ben diverso è l'appellativo che gli ariani diedero a Costanzo II che li proteggeva, quello di
“vescovo dei vescovi”(titolo che sarà dato anche a Carlo Magno).

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L’editto di Tessalonica. Importante da ricordare è la Vittoria del cattolicesimo romano.
Essa fu sanzionata nel 380 quando Teodosio I il Grande emanò l’editto di Tessalonica con cui si
imponeva che il cattolicesimo niceo-apostolico dovesse esser seguito da ogni cittadino dell’impero
divenendo religione di stato. Inoltre fu chiarita che questa religione era quella insegnata
dall’apostolo Pietro professata dal pontefice di Roma e dal vescovo di Alessandria: queste due città
appaiono quindi come la coppia di autorità garanti del magistero ortodosso.
Ma il vero problema dell’editto di Tassalonica è quello dell’unità del comando che Roma tradurrà
nella rivendicazione di quel primato papale cui Bisanzio si opporrà e finirà col negare.
Il concilio di Costantinopoli del 381 sancì il riconoscimento ufficiale del primato papale. Il concilio,
nello stabilire una gerarchia delle sedi maggiori, collocò Roma al primo posto e al secondo
Costantinopoli. Trascorsero 70 anni e Costantinopoli non accettò più di passare dopo Roma: il
Concilio di Calcedonia mise Roma sullo stesso piano di Costantinopoli quindi il papa perse il suo
primato.

Soprassalti pagani: la questione dell’altare della Vittoria. Roma aveva e dava problemi anche
sul fronte dell'ultimo paganesimo. Proprio nel suo Senato si annidavano i rappresentanti di un
estremo conservatorismo pagano.
Nell'aula in cui si tenevano le sedute del senato troneggiava l'altare con la statua della Vittoria,
venerata in quanto simbolo degli immortali destini di Roma. Era simbolo glorioso ma strideva con
la legge teodosiana che imponeva come religione di stato il cattolicesimo. Quando Graziano
provvide a rimuovere l'altare, dietro le pressioni di Ambrogio vescovo di Milano, non mancarono
resistenze senatorie.
Dietro l'episodio si nasconde l'ultimo tentativo di restaurazione pagana compiuta per ispirazione del
Senato. Esso culminò in un fatto d'armi e fu soltanto la vittoria di Teodosio a spegnere
definitivamente i ritorni di fiamma del paganesimo.

Impero entro la Chiesa o Chiesa entro l’Impero? La dura personalità di S. Ambrogio sta dietro
tutte le vicende nel rapporto chiesa/impero:
– egli costringe Graziano e Valentiniano II a interrompere le relazioni amichevoli con
l'aristocrazia senatoria paganeggiante;
– ottenne che Graziano rinunciasse al titolo di pontifex maximus;
– che Teodosio facesse penitenza pubblica per il massacro da lui ordinato a seguito del
tumulto di Tessalonica: Ambrogio per assolvere l'imperatore e riammetterlo all'eucarestia
nell'occasione del Natale, volle ottenere che si pentisse pubblicamente e chiedesse perdono. per la
prima volta il più grande dei sovrani si sottomise alla chiesa. Alla quale, l'esaltato Vescovo non
avrebbe avuto remore a subordinare l'impero.
Il motto di Ambrogio era ”imperator enim intra ecclesiam nn supra ecclesiam est”.
Ciò vuol dire che l’imperatore (e non l’impero) è nella chiesa. Quindi l’imperatore nella sua qualità
di cristiano e fedele deve obbedire a papa e vescovi.

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Il pricnipio gelasiano. Papa Gelasio
ebbe un pontificato brevissimo (492-496) ma tuttavia è riuscito a imprimere un orma importante
nella storia della chiesa. Nato probabilmente a Roma da famiglia africana, Gelasio fu appassionato
difensore dei diritti della chiesa sui due punti più pericolanti:
– sul primato del papa
– e l'invadenza imperiale nelle verità di fede, ossia il cesaropapismo.
Quanto al primo punto, egli fece propria la interpretazione romana per cui nonostante la pari dignità
e privilegi fra Roma e Costantinopoli, cosi come stabilito nel concilio di Calcedonia, il papa aveva il
primato perché Cristo lo aveva inequivocabilmente attribuito a Pietro. Tale principio traspare dal
cosiddetto Decretum Gelasianum.
Quanto al secondo punto, il famoso proclama gelasiano del dualismo delle dignità e della divisione
delle competenze tra i poteri spirituale e temporale ha costituito il fondamento della dottrina della
Chiesa. Il papa l'ha formulata sia nel trattatello De anathematis vinculo, sia in una famosissima
lettera scritta all'imperatore.
Erano i tempi in cui le manie teologiche dei sovrani sconfinavano del cesaropapismo. Di fronte alla
fiammata violenta del cesarismo bizantino, il papa si decise ad ammonire Anastasio che sedeva sul
trono di Costantinopoli. La sua lettera inizia con introduzione umile, poi rafforza i toni sostenendo
che il mondo è retto da due dignità:una chiamata da Cristo a guidare le anime (auctoritas), l’altra a
governare i negozi temporali (potestas); nel secondo è il sacerdote a seguire le leggi dell'imperatore,
ma nelle cose della religione è l'imperatore a dover obbedire al sacerdote. Le due dignità non
devono interferire l’una con l’altra.
I termini auctoritas e potestas non pongono particolari gerarchie, come qualcuno interpretò: la
prima si pone in senso di un potere astratto garante di legittimità tipica del sacerdote, la seconda
fonte di obbligatorietà verso comportamenti esterni chiaramente del governo secolare.

Il primato papale e le collezioni canoniche occidentali. La rivendicazione del primato papale e la


coraggiosa enunciazione del principio regolatore con l'Impero rivelano una chiesa ansiosa di fissare
il proprio status e la propria fisionomia.
Essa godeva di un’autonomia che si esprimeva dalle origini dei concili: ma questi di solito
producevano più dogmi che norme giuridiche, in quanto erano creati per combattere le eresie.
Tuttavia il fatto che a Oriente non si riconosceva il primato del papa causò lo spezzamento della
chiesa tra i tronconi di Roma e Costantinopoli. Il potere normativo del papa aveva cominciato a
manifestarsi a partire dal IV secolo; si esprimeva in lettere in cui comparvero sempre più spesso
decisione di fattispecie concrete nell'esercizio di un potere giurisprudenziale e amministrativo.
Divennero insomma la controfigura canonica dei rescritti imperiali, furono chiamate Decreta, poi
Epistole Decretales e alla fine solo Decretales.
A partire dal V secolo vi fu un’esplosione di iniziative compilatorie a Roma tra cui giganteggia la
Collezione Dionisiana: ne fu autore il monaco Dionigi che si definì “il piccolo” per umiltà.

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Proveniente dalla Scizia, era giunto a Roma all'indomani della morte dei Gelasio. Era assai dotto.
All'inizio del VI secolo il sapiente monaco si trovò fra le mani una versione latina di canoni
orientali che lo disgustò per il disordine. Egli si diede da fare per compilarne una migliore. Vi inserì
38 decretali che andavano dall'epoca di papa Sirico sino a quella di Anastasio II, successore di
Gelasio. La vecchia collezione venne sostituita dalla nuova ed incontrò tale fortuna da diventare il
“codice” ufficioso della chiesa di Roma.
La sua forza v'era ancora nel 774 quando Carlo magno la ricevette da papa Adriano I col compito di
farla rispettare nei suoi regni. Al tempo di Carlo Magno, per la verità, il testo non era più quello di
una volta; erano passati circa 250 anni e l'uso continuato aveva prodotto tante aggiunte e
aggiornamenti che persino il nome di Dionysiana è parso non convenirgli più: oggi si preferisce
parlare di Collezione Dionysio-Hadriana.

L’Hispana o Isidoriana. Nella mente di papa Adriano la raccolta normativa consegnata a Carlo
Magno avrebbe dovuto probabilmente costituire uno strumento unificante dell'ordinamento
canonico in Europa. Ma nella realtà la Dionysio-Hadriana aveva da tempo una concorrente temibile
oltre’alpe ove circolava la collezione Hispana o Isidoriana : i due nomi le sono stati assegnati dalla
storiografia. Il primo deriva ovviamente dal luogo di nascita, il secondo dalla credenza che fosse
stato Isidoro di Siviglia a crearla, data la somiglianza con le Etimologie di quest'ultimo.
Il contenuto è in gran parte identico a quello di Roma, della Dionysiana con l’aggiunta però di
canoni dei recenti concili gallici e iberici: concili notevoli che affrontavano problemi
dell’organizzazione ecclesiastica contemporanea e si interessavano a questioni giuridiche concrete.
Concili che rispecchiano la qualità culturale del brillante regno visigoto che li ospita. Popolo che da
poco si era convertito al cattolicesimo.

CAPITOLO II
REGNI E LEGGI ROMANO-BARBARICHE:
LA VOLGARIZZAZIONE DEL DIRITTO

I Barbari. Le invasioni barbariche che si dicono corresponsabili della crisi dell'impero, furono solo
eccezionalmente campagne militari ordinate alla conquista di territori da strappare alla sovranità
romana. Apparvero più che altro come scorrerie di tribù che varcavano le frontiere per fare
saccheggi e prender bottino. Ciò iniziò in particolare dopo che Roma a fronte della penuria di
legioni cominciò ad assoldare i barbari per la loro passione alla guerra e per evitare loro razzie.
Essi tuttavia a volte si ribellarono. Questi erano mercenari, milites foederati che avevano
combattuto cioè sotto le bandiere di Roma ma che si erano ribellati perché gli imperatori spesso non
mantenevano le promesse fatte, o non li pagavano, o avevano dimostrato ingratitudine.

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La militia foederata. Alarico I e i Visgoti. Alarico, re dei Visigoti, era dapprima un dux sotto
bandiere romane della guarnigione della Pannonia e della Mesia, nei Balcani.
Poi, dopo eventi burrascosi fu nominato magister militum dell’Illirico dall’imperatore d’Oriente
Arcadio ed era infine sceso in Italia guerreggiando con Onorio imperatore d’Occidente.
Onorio e Alarico si incontrarono: Onorio propose all’altro un conveniente stanziamento in Spagna
se i Goti fossero riusciti ad allontanare i Vandali.
Alarico accettò ma sotto le Alpi, incamminatosi alla volta dell'Iberia, fu preso alle spalle dalle
truppe romane che la storia ha falsamente tramandato fossero comandate da Stilicone.
Il risultato fu il sacco di Roma dei Visigoti del 410, sebbene non la incendiò tutta, come si usava e si
curò che i luoghi sacri non venissero molestati.
Che l'orribile evento fosse stato determinato più da spirito di vendetta nei confronti di Onorio che
odio per l'istituzione imperiale è suggerito dalla cornice politica dei fatti. Infatti qualche tempo
prima del saccheggio Alarico aveva avuto cura di legittimare al senato di Roma la nomina del
nuovo imperatore Attalo che si era adoperato, nel 408 affinché Goti e romani si riappacificassero.
Dopo il misfatto Alarico andò verso l’Africa ma giunto in Calabria morì: il successore Atatulfo
arrivò in Gallia e ricomincio a combattere per l’occidente come milite federato. Egli era un filo
romano: sposò addirittura la sorella di Onorio nonché figlia di Teodosio il grande, Galla Placida. Di
certo il matrimonio e la sua condotta filoromana furono cause del suo assassinio nel 415.
Ma la parzialità filoromana degli ultimi anni della sua vita non basta a cancellare un episodio che
fece molto chiasso. Sembra che Ataulfo confessò di aver pensato a lungo sè sostituire o meno
l’impero romano con un impero goto. Ma avrebbe liquidato il progetto perché i Goti, per le sfrenate
barbarie, erano incapaci di fare e di osservare le leggi scritte, senza le quali lo Stato non è Stato.
Meglio dunque raccogliere allori operando nel nome di Roma.

Il nome Flavius e il titolo di patritius. Fu un mito che mantenne vivo a lungo, nei regni romano-
germanici, l’ideale dell’Impero. Ogni re visigoto fino a Reccesvindo assunse il prenome Flavius.
Era un nome che evocava inevitabilmente l’appartenenza fittizia alla “famiglia” imperiale, in cui
tutti i regnanti usavano chiamarsi appunto Flavii: lo facevano in omaggio a Costantino.
Sembra lecito supporre che il nome Flavius assunto dai re barbari, almeno nelle origini, fosse in
qualche modo collegato al loro titolo di patrizi, e fosse quindi conseguenza coerente
dell'immaginaria parentela che il patriziato istituiva con il monarca.

La Lex Romana Wisigothorum. Alarico I I e il codice di Eurico. Nel 506 Alarico II fece
comporre la Lex Romana Wisigothorum detta anche Breviarum Alaricum: era una raccolta di fonti
normative romane vigenti riprodotte in testo originale.
Si divideva in una prima sezione di leges in cui era racchiuso un ottavo del codice Teodosiano, con
l'aggiunta di poche novelle di Teodosio stesso, Valentiniano III e di qualche successore e di una
seconda sezione di iura dominata dalla presenza integrale delle Pauli sententiae e del Liber Gai.
Stupisce come questi ultimi, dopo che Teodosio li aveva trattati come leges, fossero qui

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correttamente considerati iura. Si dice che il re avesse preso questa iniziativa per ingraziarsi i
vescovi e la popolazione cattolica desiderosi di una semplificazione dell'ordinamento, tanto più che
aveva bisogno di ravvivare il consenso e la fedeltà dei sudditi alla vigilia del fatale scontro con i
Franchi. La battaglia vide Alarico cadere sul campo e costringere i Visigoti varcare i Pirenei
rifugiandosi in Iberia, perdendo la loro capitale Tolosa.
Questa Lex tuttavia seguiva un’altra già esistente, promulgata circa 30 anni prima:la Lex
Visigothorum. La presenza di queste due leggi almeno fino al re Chindasvindo dal 642 è quindi
plausibile; soggetti di un medesimo ordinamento politico potevano usare sistemi normativi diversi a
seconda dell'etnia di appartenenza. Sicché la Lex Wisigothorum sarebbe stata adoperata solo dai
romani, la Lex Visigothorum solo dai Goti.
Qualcosa stride però in questa soluzione apparentemente lineare. Il principio della personalità del
diritto risponderà alla pretesa dei vari popoli assoggettati di conservare le loro abitudini, dei quali
erano gelosi. Ma nella legge Visogothorum , la legge visigota, non erano raccolte tradizioni
germaniche: essa conteneva al contrario solo regole tratte dalla prassi volgare romana.
Inoltre,per quanto riguarda la Lex romana Wisighotorum, essa appare idonea a risolver ogni
contestazione, non vi compare alcun indizio di una destinazione esclusiva ai Romani.
Nella sua Storia dei Goti Isidoro di Siviglia scrive che solo sotto Eurico i Goti cominciarono ad
avere due leggi scritte. È facile immaginare il disagio che questa trasformazione ha comportato nel
popolo germanico. Per introdurlo nella società civile, per garantire la gestione dei rapporti tra Goti e
Romani, non vi era altro mezzo che imporre ai primi, che non avevano leggi, di seguire la legge per
antonomasia, ossia quella dell'Impero. Ma il codice ufficiale era troppo vasto e difficile per menti
ancora rozze: ecco allora che una sintesi delle prassi volgari diventa l'unico mezzo per raggiungere
lo scopo.
Per concludere si può pensare che la Lex Visigothorum fosse fatta principalmente per i Goti e solo
di riflesso per i Romani, la Lex Wisigothorum principalmente per i Romani e solo di riflesso per i
Goti.

La prima come legge romana comune, il secondo come legge romana volgare per l’incontro di
barbari e romani. Soprattutto nei riguardi della Lex romana Wisigothorum l'ipotesi dell'efficacia
territoriale – quindi l'efficacia nei confronti di tutte le etnie – urta però contro la constatazione che,
proprio per via dell'incapacità dei barbari a osservare il diritto ufficiale dell'impero, si era dovuto
congegnare per loro un adattamento ridotto. D'altronde gli stessi romani, se potevano romanizzare
la legge visigota, che bisogno avevano del Breviario alariciano? Il D'Ors ha finito col proporre che
il Breviario fosse destinato al solo uso dei giuristi.
Importante ricordare anche la Lex mundialis. Questa è la legge secolare che i padri del Concilio di
Siviglia del 619 avevano invocato identificandola con il Breviarum. Ricomparrà nel 775 in una
lettera indirizzata a Carlo Magno: ma si presenterà con la qualifica mutata in quella di Lex totius
mundi. Come sia significativo il cambiamento del valore semantico della mundialitas del diritto
romano è infatti evidente.

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Siamo forse alla nascita del diritto comune tipico del medioevo.

Gundobaldo, la Lex Romana Burgundionum e la Lex Burgundionum. In tono minore e più


confuso anche l'ordinamento dei burgundi ebbe vicissitudini simili. Essi entrarono in Gallia da
nemici dei romani. Ezio generale romano li sconfisse con l’aiuto degli Unni collocando i burgundi
nell’attuale Savoia facendoli milites foederati.
Essi si romanizzarono ruotando intorno alla figura di re Gundobado che salì al trono nel 472
ereditando dal predecessore il titolo di magister militum e patritius. Egli si era rifugiato in Italia
perché momentaneamente privato della corona dai fratelli burgundi: creò l’imperatore Glicerio che
era persona di sua fiducia ma poi tornò a fare il re del suo popolo. Il suo regno fu molto, fino alla
sua morte professò devozione nei confronti dell’impero. E la trasmise anche ai suoi successori. Il
penultimo re burgundo Sigsmondo, ne darà attestazione in una lettera mandata ad Anastasio
monarca costantinopolitano.
È in questa atmosfera cosi romanizzante che vide la luce la legislazione dei burgundi, anch'essa
duplice come quella dei visigoti e dovuta tutta a Gundobado. Di qualità più modesta e grossolana di
quella visigota, la Lex Burgundionum dovette essere emanata negli ultimi anni del V secolo.
Gundobada la intitolò pomposamente Liber costitutionem, ma essa finì con l'essere chiamata
semplicemente Lex Gundobada.
La Lex Gundobada, rispetto al caso visigoto ha disposizioni che appaiono chiaramente rivolte a
entrambi i gruppi etnici. Gundobado nella prefazione scrive un qualcosa che non si trova nella legge
visigota: i giudici dovranno usare questo codice per risolver le controversie tra Burgundi e Romani.
Il suo testo è sufficientemente semplice per mitigare nei barbari il trauma dell'ingresso in un regime
di norme scritte, ma esibisce al contempo un contenuto abbastanza romano-volgare per consentirne
l'uso nei rapporti con la popolazione autoctona.
È difficile dire quando sia apparso l'altro ordinamento, la Lex Romana Burgundionum. Ne pochi
meno di 180 capitoletti confluisce comunque materiale tratto dalle stesse fonti – dal codice
Teodosiano, qualcosa di Gregoriano e dell'Ermogeniano, e, quanto agli iura, dalle sententiae del
Paolo e del Liber Gai - ma tutto esposto in forma parafrasata e non, come nel Breviario, riprodotto
nel testo originale.
È possibile che l'impresa, di gran lunga più succinta ed elementare di quella di Alarico, sia risultata
al fin dei conti insufficiente, tanto da richiedere che se ne integrasse la consultazione ricorrendo alla
Lex Romana Wisigothorum.

Il pactus legis Salicae. Il destino di avere una doppia legislazione di stampo romano, l'una
disegnata sul modello del diritto ufficiale, l'altra su quella volgare, non toccò ai Franchi, che gli
albori del VI secolo cominciavano a essere i padroni della Gallia. Essi non furono toccati dal
fenomeno della doppia legislazione. Sebbene anch'essi romanizzati e cattolici dal tempo del vero
iniziatore del regno Clodoveo, sembra che proprio all'epoca di questo entrasse in vigore il nucleo
originario dei loro Pactus Salicae, un piccolo complesso normativo di marca germanica. Esso

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consisteva in una serie di capitoli quasi tutti diretti a stabilire pene pecuniarie per i reati. Il Pactus si
presenta a noi come il più antico esempio di quei tariffari penali stabiliti per legge.
Sullo sfondo di questo mondo transalpino, diviso nelle aree visigota, borgognona e franca, si staglia
la storia drammatica dell'Italia.

La cosiddetta caduta dell’Impero d’Occidente. E' uso individuare il momento cruciale nel
fatidico 476, che vede la scomparsa del trono occidentale dell'Impero.
L'anno prima, i palazzi del potere erano stati sconvolti da una valanga di avvenimenti. Zenone,
salito al trono di Costantinopoli da pochi mesi era stato momentaneamente spodestato dal cognato
Basilisco. Giulio Nepote, creato imperatore d'Occidente nel 474, nel 475 era stato destituito dal
patrizio Oreste, potente generale già stato segretario di Attila in Pannonia, che aveva messo al suo
posto il proprio figlioletto Romolo, da allora chiamato per la giovane età Augustolo.
Venne il 476 e i colpi di scena proseguirono. Fu l'anno in cui la parte di primo attore fu impersonata
da Odoacre.
Questi, figlio di un autorevole personaggio della corte di Attila, cresciuto quindi sotto l’impero unno
era entrato a far parte presto nei ranghi romani con il grado di comandante delle guardie imperiali.
Fu eletto re da un’accozzaglia di barbari e fu chiamato dall’imperatore d’occidente Oreste ad andare
a guerreggiare contro i Visigoti e chiese in cambio uno stanziamento in Italia con relativa
concessione al suo popolo di un terzo delle terre conquistate. Oreste si oppose alla sua richiesta
perciò venne ucciso. Romolo Augustolo, il figlio, venne risparmiato e relegato a Napoli.
Per la prima volta deposto un imperatore non se ne fece un altro: era la fine dell’impero
d’occidente.
Tuttavia ci si accorse solo a distanza di anni che quello che era successo chiudeva una fase della
storia: lì per lì neppure i cronisti ne parlarono molto.
Ennodio vescovo di Pavia liquida il drammatico episodio spiegando ce, una volta ucciso Oreste –
che era patrizio dei Romani – Odoacre gli successe nel regno.
Il conte Marcellino d’Illiria, meno di 50 anni dopo il fatto, osservò che l’Impero instaurato da un
Augusto con un Augustolo era morto; Evagrio, forse perché in oriente un Augusto c’era ancora,
preferì osservare che un Romolo era stato il primo re di Roma e un altro Romolo l’ultimo.

Odoacre. Odoacre conquistò quindi l’Italia: gli mancava però il riconoscimento bizantino che
avveniva con l’attribuzione del patriziato. Grazie all’intercessione del risparmiato Romolo
Augustolo il senato mandò un’ambasceria a Zenone imperatore d’oriente per assicurarlo che ormai
bastava un solo Augusto nel cui nome Odoacre avrebbe governato. Zenone rifiutò ciò sostenendo
che quel titolo doveva esser dato da Giulio Nepote, destituito da Oreste nel 475, che quindi a
Costantinopoli appariva ancora come il titolare del potere a occidente. Non si sa se Odoacre
ricevette mai il titolo di Patrizio, ma comunque egli governò rispettando pienamente Roma e le
istituzioni preesistenti collocandosi all’interno dell’impero.

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Il regno goto d’Italia. Teoderico e il suo editto. Lo storico Giordane racconta che questi chiese e
ottenne dall’imperatore Zenone di poter andare in Italia alla testa del suo popolo per prender il posto
di Odoacre. Procopio afferma invece che l'idea sia stata di Zenone. Fatto sta che ciò avvenne e nel
483 Teoderico chiuse Odoacre nelle mura di Ravenna e chiese a quest’ultimo un patto per spartirsi
l’Italia. Non rispettò l'accordo ed ad un banchetto lo assassinò facendo in seguito strage della sua
famiglia.
Secondo notizie, Teodorico avrebbe avuto da Zenone la delega di regnare finché l'imperatore non
fosse venuto a prendere possesso dei territori riconquistati.
Il regno di Teoderico sarebbe stato un regno rispettoso dell’ordinamento e dell’amministrazione
romana, ai romani avrebbe affidato sempre le alte cariche dello stato, pur essendo ariano avrebbe
rispettato sempre le chiese cattoliche. Un regno ad “imitatio vestra”, ad imitazione di quello di
Costantinopoli.
In particolare egli diceva di non aver fatto alcuna legge, ma in realtà sembra che esista un suo Editto
e un altro del nipote Atalarico. La scoperta di quello teodericano si deve a Pithou che ne ha
pubblicato il testo nel 1579.

Dibattiti sulla paternità dell’Editto. Pietro Rasi tuttavia nel 1953 si chiese come fosse possibile
che le cronache del tempo non dessero notizia di un qualcosa di tale importanza e perché nella
Pragmatica Sanctio del 554 ci fossero disposizioni dei successori di Teoderico e non di lui. Quindi
contestò la paternità e avanzò fantasiose ipotesi su quale soggetto potesse esser il titolare dell’editto:
la più importante è che l’autore fosse Teoderico II visigoto fratello e predecessore di Eurico non
Teoderico re d’Italia. Risaputo che Eurico uccise il fratello, poteva anche averne relegate le norme
nel dimenticatoio, ma sorprende come questo Editto non sia poi riemerso, come sia possibile che un
editto di tale importanza non abbia trovato un qualche accenno nella Lex Visigothorum che è
successiva.

L’Editto di Teoderico come legge romana volgare per i barbari. Tuttavia si rimane nel campo
dei dubbi, ma Cortese sostiene che sia meglio astenersi dal ripudiare la vecchia attribuzione al
Teodorico “italiano”, salvando cosi l'omogeneità della politica normativa dei due rami fratelli del
popolo goto e l'armonia del quadro legislativo dei regni romano-barbarici.
Anche a Ravenna dunque, ci si dovette preoccupare di convertire una formazione di milites
foederati in una società civile. Le difficoltà non dovettero mancare e per risolverle Teoderico emano
l'Editto. Letto così quindi l’editto di Teodorico (ad efficacia territoriale e valido sia per goti che
romani) fu emanato per tentare di risolvere le cause tra questi.
L’editto non portava fondamentali novità al sistema normativo, unica eccezione sono alcune
modifiche quantitative di sanzioni e pene. Inoltre l’editto non è da intendere come quello degli
imperatori che era legge bensì come quelli dei magistrati provinciali adoperati in passato per
pubblicare nel luogo le costituzioni dei monarchi. Bisognava comunque obbedire all’editto perché
ciò voleva dire obbedire al diritto dell’impero.

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Quanto al contenuto dell’editto; Il diritto penale è certamente una parte consistente, ma non tale da
far presumere una situazione di disordine incompatibile con quanto si sa del tempo. Anche la parte
privatistica non è trascurabile: regole circa la sorte della prole nei matrimoni fra liberi e
servi,divieto della chiamata in giudizio di mogli al posto dei mariti, elenchi tassativi delle cause di
divorzio, conferma del diritto degli ebrei di ricorrere all'arbitrato dei propri sacerdoti, richiamo del
dies solis tra le feste cristiane, e in particolar modo, il divieto di trasferire azioni giudiziarie a
potenti (sia barbari che romani) pratica che si faceva abitualmente per far pesare l’autorità di cui
questi godevano. Gli imperatori si erano affannati per condannare quest'uso. Esso purtroppo
rientrava in un più ampio istituto consuetudinario che si era affermato contra legem, rappresentando
una forza eversiva.
Quando farà il suo ingresso nel Medioevo, molte delle peculiarità del tempo si rifaranno a lui.
Si tratta del patrocinium.

Il patrocinum. Di un gruppo di ben otto costituzioni che lanciano condanne sui patrocinium, la
prima è di Costanzo II. Vi si descrive la sorte infelice di moltitudine di persone che cercano
protezione da parte di grandi personaggi.
Di questo strumento i potenti si servivano per spogliare i miseri e renderli ancora più miseri
obbligandoli in cambio di favori a cedere ogni bene defraudando quindi i figli delle giuste eredità
dei padri. Questo fenomeno interessò molto la società agricola del tardo impero e portò alla
diffusione del colonato. Nel progredire della crisi economica e del calo demografico, la grande
proprietà fondiaria si era vista obbligata a limitare a una parte del terreno la tradizionale
coltivazione diretta, per mano di servi, e sulla porzione restante aveva dovuto ricorrere a coltivatori
liberi, obbligati per contratto a versare un censo e a prestare opere. Quest divisione della proprietà
in pars dominicia e pars colonaria sopravvisse nel medioevo, e fu fenomeno rilevante nell'agraria.
Altrettanto rilevante fu l'instaurazione di un vincolo inscindibile tra contadino e la terra, sancito
dall'Impero soprattutto perché nessun fondo diventasse improduttivo e sfuggisse alla fiscalità.
Non meno importante fu la trasformazione dell'obbligo a prestare opere in una intensa soggezione
personale, che caricò inevitabilmente il rapporto con il proprietario, inizialmente privatistico, di
forti tinte pubblicistiche. Sebbene fosse proibito al proprietario di tenere carceri private, egli lo fece
ugualmente. Costantino concesse al padrone di mettere in catene il contadino che avesse tentato la
fuga e il religiosissimo Teodosio II gli consentì di flagellarlo qualora fosse caduto in eresia.
La particolare forma servile che si diffuse nel basso Impero viene spesso definita oggi come servitù
della gleba.
Per completare il quadro delle tristi condizioni del lavoro nella tarda antichità, è il caso di ricordare
che anche la società cittadina era stata oppressa da catene. I collegia (le corporazioni di mestiere)
appaiono come carceri: i collegiati e i loro discendenti sono vincolati dal collegium senza speranza
di allontanarsene mai.

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Annunci feudali tardo antichi: i buccellarii. Infine il discorso può concludersi con i buccellari.
Esse son le milizie private dei signori facoltosi.
Fulmini vengono scagliati da Costantinopoli e Ravenna contro tale abitudine insolente, ma la prassi
è cosi radicata ovunque che nel codice di Euricio, la legittima. I buccellari vanno riforniti di armi
dal signore e gratificati di doni. Questi doni consistono spesso in terre, sono però solo temporanei,
perché il buccellario ne gode il tempo in cui presta obsequium al patrono ma deve restituirli quando
si dimette, cosa che da uomo libero può fare. Se rimane a servizio i figli potranno ereditare le terre;
solo se anch'essi prestino obsequium. Quanto alle figlie, il signore dovrà maritarle con persone di
ugual livello sociale.
Il nome buccellarius dovette col tempo passare di moda. Nell'ultima revisione della legge visigota il
termine appare infatti sostituito dall'espressione << qui est in patrocinio>>.

Conclusioni su diritto volgare e volgarismo. Il patrocinium, oltre a esibire il miglior esempio di


un medioevo tardo antico, fa riflettere sul diritto romano volgare di cui rappresenta una delle figure
di maggiore spicco.
Troppo spesso, malgrado l’impegno degli storici più accorti a tenere distinti i due fenomeni, il
diritto volgare e il volgarismo vengono trattati insieme e talvolta confusi.
Il processo di volgarizzazione del diritto è una grande ondata che investe e sommerge tutta la tiva
giuridica tardo antica.
Il volgarismo presuppone un angolo visuale diverso sui mutamenti della storia, è un gusto, uno stile
tardo antico che sostituisce quello classico nello scorrere dl tempo, un po’ come un millennio più
tardi il gotico sostituirà il romantico o in seguito il barocco prenderà il posto del Rinascimento.

CAPITOLO III
GIUSTINIANO

Giustiniano. Giustiniano nacque nel 482 vicino all’attuale macedonia in un luogo dove si parlava
lingua latina.
Viene spontaneo di pensare che sia stata la prima formazione di marca latina ad alimentare
l'attaccamento dell'età matura alle tradizioni occidentali, la voglia di rimettere piede in Africa e in
Italia, soprattutto a Roma, di rilanciare i vecchi iura, insomma restaurare il e rinnovare l'antico.
Fu chiamato a Costantinopoli ancora giovane dall’imperatore Giustino (fratello della madre) che gli
impartì un insegnamento superiore che lo apri alla cultura ellenistica orientandolo verso la teologia.
Fu associato al trono dello zio nel 527 e nello stesso anno di ritrovò da solo a governare fino al 565.
Il suo lungo regno fu caratterizzato da 3 linee politiche:
- Impegno per una codificazione attenta al nuovo e fedele all’antico per assicurare certezza
del diritto
Programma di restaurazione con le armi dell’effettivo potere di Costantinopoli

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Iniziative per unificare la Chiesa cristiana lacerata dall’arianesimo dei regni goti (solo ciò
fallì, in quanto diventò cesaropapista).

Il primo Codice. PRIMA LINEA POLITICA. Cominciò dal diritto. Fece subito una commissione
presieduta da Triboniano per rielaborare codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano per
ammodernarli e preparare un nuovo codice snello e aggiornato. Nel 529 il lavoro era già pronto e fu
chiamato Novus Iustinianus Codex: 5 anni dopo però la nuova edizione lo soppiantò
definitivamente.
Giustiniano nel ’29 non aveva ancora maturato il disegno di selezionare egli stesso gli iura, ossia di
redigere il Digesto. Ma questa idea gli venne ben presto. Il via al nuovo lavoro fu dato nel 530 ed
egli ordinò che degli iura si facesse un templum iustitiae per far si che potessero costituire una
sezione autonoma dell’ordinamento. Ci vollero solo 3 anni perché questo venisse alla luce, il
Digesto fu promulgato il 16 dicembre 533: ciò è incredibile. Si era trattato di scegliere quasi
diecimila pezzi di una quarantina di giuristi e di risistemarli in ben 50 libri.

La rivolta di Nika e la compilazione del Digesto. Nel 532 durante lo spettacolo delle corse
scoppiò una rivolta che nel giro di una settimana assunse grandi proporzioni e condusse l'imperatore
a un passo dalla perdita del trono. La si chiamò Insurrezione di Nika dal grido che lanciavano gli
insorti. Protagonisti di questa rivolta furono i demi dei Verdi (Che rappresentavano la borghesia
cittadina e commerciale ed erano invisi a Giustiniano perché rivendicavano i diritti dinastici dei
nipoti del vecchio imperatore Anastasio) e degli Azzurri (portavoce dei latifondisti e dell’economia
terriera, cattolici ortodossi e appoggiati dall’imperatore).
I verdi fecero scoppiare la rivolta durante una corsa all’ippodromo. La pesante repressione ebbe il
risultato che angli gli Azzurri si unirono alla rivolta che diventò protesta contro le nuove leggi
fiscali. Dilagò l'odio verso il praefectus urbi Giovanni di Cappadocia e di Triboniano e di questi si
chiese e ottenne la destituzione.
Fu poi destituito Giustiniano e incoronato al suo posto Ipazio nipote di Anastasio, contro la sua
volontà. Trovò infatti successivamente la morte.
Vedendo i palazzi di Costantinopoli in fiamme e i ricchi fuggire anche l'imperatore decise di
mettersi in salvo.
A salvare il trono e Giustiniano ci pensò la discussa imperatrice Teodora che affidò al capitano degli
Illiri e a Belisario il compito di espugnare l’ippodromo e sedare l’insurrezione, Giustiniano poi,
vendicativo, ordinò un massacro e rafforzò duramente il suo potere indirizzandolo in senso
assolutistico. Subito dopo Triboniano fu reintegrato ed il Digesto concluso.

Le istituzioni, il secondo Codice e le Novelle. Poco prima che lo si completasse Giustiniano pensò
anche a un manuale di diritto per la scuola; della scuola egli si preoccupava infatti molto. Una
riforma dell'ordinamento come quella che stava realizzando andava accompagnata a un'adeguata

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preparazione dei giuristi. Con la Cost Omnem provvide a una riforma anche didattica: previde uno
studio quinquennale del diritto.
Dopo un primo anno dedicato a una sintesi manualistica, dal secondo al quarto gli scolari avrebbero
dovuto cimentarsi con i difficili Digesti, per far culminare la preparazione nel quinto anno con il
Codice. Si noti come l'ordine degli studi rilevi la concezione imperiale del sistema normativo:
questo era costruito come una piramide, il Digesto rappresentava l'ossatura portante, ma era il
codice, posto al vertice, a illuminare e legittimare l'intero ordinamento.
Le nozioni elementari del primo anno furono raggruppate nelle Istitutiones che divennero il primo
manuale scolastico con forza di legge. A redigerle furono chiamati Doroteo e Teofilo, scrissero
ciascuno due dei quattro libri che le compongono. La trama di fondo e quasi la falsariga era offerta
dalle Istituzioni di Gaio. Nel 533 le Istitutiones vennero promulgate e nello stesso anno vennero
promulgati anche i Digesti. Ma proprio la promulgazione di questi ultimi mise in evidenzia qualche
disarmonia con il codice, il quale cominciava ad essere incompleto dato che non teneva conto delle
norme apparse negli ultimi quattro anni e in particolare delle celebri Quinquaginta decisiones.
Si fece quindi una nuova edizione l’anno dopo: il Codex repetitae praelectionis nel 534.
Giustiniano avvertì che la sua vena legislativa era tutt'altro che esaurita e altre leggi sarebbero
seguite. Ne emanò un buon numero fra il 535 e il 540, continuò a ritmi decrescenti e con livelli
qualitativi sempre più bassi.
Se ebbe il progetto di curare lui stesso le sue Novelle, non ne fece nulla. Vi provvidero altri che ci
hanno lasciato almeno tre collezioni: quella greca che si diffuse in Oriente, e due che invece si
alternarono in occidente l'Epitome Iuliani e l'Authenticum.
La più ricca è quella greca che conta 168 novelle di cui però solo 158 sono di Giustiniano.
L'Epitome Iuliani fu forse composta da un Giuliano professore a Costantinopoli e riassume
traducendole in latino 124 novelle greche. Sembra che la traduzione fosse stata fatta per volere della
Chiesa di Roma che infatti se ne servì molto. L'Authenticum è invece una collezione di 134
novelle rese tutte in latino. Una collezione letterale e affidabile per Cortese. Esso fu usato fino al
643 quando sparì e venne recuperato verso la fine del XI sec da Anselmo.

La guerra gotica per la riconquista dell’Italia. SECONDA LINEA POLITICA. Non erano
ancora completati i Digesti e già si avviava la seconda fase del programma politico, la riconquista
dell'Occidente.
Nel medesimo 532 che si era aperto con l'insurrezione di Nika, un armistizio con il nemico Cosroe,
consentendo di sguarnire il fronte persiano, aprii l'avventura mediterranea.
Un'avventura ardita che fece inorridire gli ambienti politici e militari di Costantinopoli consapevoli
dell'insufficienza delle risorse finanziarie e militari. Cercarono invano di dissuadere Giustiniano.
Invano. Nel 533 Belisario fu inviato in Africa, sconfisse i Vandali catturando Gelimero il loro re. La
resistenza continuò a lungo, con l'aiuto dei Mauri alleati. Ma Belisario tornò da trionfatore e pronto
per la nuova impresa contro i Goti in Italia.

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Il pretesto fu l’assassinio di Amalasunta reggente del governo goto durante la minore età del figlio
Alarico, filo romana e protetta da Giustiniano. L'assassinio era stato ordinato in ambienti goti
antiromani. Belisario nel dicembre 535 conquistò la Sicilia, arrivò in Calabria e marciava verso
Ravenna. Nel 540 stava per ottenere la vittoria definitiva quando gli Unni piombarono a minacciare
la Tracia e la Macedonia. Inoltre il nemico persiano Cosroe ruppe la tregua. Belisario torna in
patria, i Goti riprendono pian piano l’Italia, poi però un nuovo armistizio con Cosroe permise al
nuovo comandante Narsete di attraversare la Dalmazia e il Friuli riuscendo nel 553 ad aver in mano
la penisola italiana.
Giustiniano impose subito una riforma normativa a un paese distrutto dalla guerra e dalla carestia.
Dove gli apparati giudiziari che avrebbero dovuto praticarla e le condizioni necessarie per recepirla,
erano allo stremo.

La Pragmatica sanctio. Quando Giustiniano sanzionò formalmente la vigenza della sua


compilazione per partes Italia era il 554; la norma fu compresa in una sorta di testo unico composto
da 27 disposizioni intese a restituire l’assetto della proprietà fondiaria sconvolto dai soprusi dei re
goti negli anni della guerra.
La Chiesa, grande proprietaria terriera, ne fu molto contenta. Questa costituzione appare esser una
pragmatica sanctio, cioè un genere normativo che sembra aver tra i suoi requisiti quello di far
inoltrare al sovrano una esplicita richiesta e degli episodi concreti a giustificarla. L’Italia divenne
terra di diritto giustinianeo mentre nel resto di Europa valevano leggi romano barbariche quindi
diritto teodosiano. Tutto ciò nella forma. Non si può fare a meno di domandarsi, in sostanza, che
sorte poteva avere, in Italia, una riforma che piombava a ciel sereno in un paese devastato, dove
urgevano forze conservatrici, e che non ebbe nemmeno il tempo di assimilare i cambiamenti perché
già nel 569 i Longobardi piombarono nella penisola. Nonostante il divulgarsi del diritto
giustinianeo, il diritto volgare ha continuato a scorrere nella prassi.

Le cosiddette sopravvivenze Teodosiane. Ci furono delle figure e degli assetti normativi


teodosiani che avrebbero ignorato l’abrogazione e avrebbero continuato a presentarsi nell’età
longobarda.
Si tratta talvolta solo di nomi. È il caso del termine fiducia. Indicava un vecchio tipo di garanzia
reale delle obbligazioni che era già in disuso all’epoca di Giustiniano il quale l’aveva espressamente
sostituita con il pegno e ipoteca. La ricomparsa del termine nel diritto longobardo è quella di una
semplice parola, portata ai barbari dalle prassi volgari.
Altre volte si incappa in veri e propri errori della storiografia.
Un errore riguarda l’ipotesi di una inverosimile, occulta longevità delle forme originarie della
stipulatio. La celebre riforma di Leone I nel 472, rilanciata poi da Giustiniano, aveva abolito il
requisito della rigida congruenza della domanda e della risposta che aveva caratterizzato il rito della
stipulatio antica. Nell’alto medioevo l’istituto era addirittura scomparso dalla prassi. Aveva

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conservato memoria di sè solo presso i notai che, nella conclusione di certi contratti obbligatori, ne
utilizzavano il nomen solo per rafforzare l’efficacia vincolante del negozio.
In un’atmosfera rarefatta di ricordi assistere all’improvvisa ricomparsa di quel rigido rito, secondo
esplicita attestazione di talune carte aretine, non poteva che destare meraviglia.
Si assiste all’apparizione del rito scomparso quando un notaio aretino, leggendo accuratamente le
Istituzioni, si era accorta che il meccanismo della primordiale congruenza tra interrogazione e
risposa delle parti era ricordato un in passo delle Istituzioni in tema di acceptilatio e stipulatio
aquiliana, ossia di estinzione delle obbligazioni, un passo di certo sfuggito, nella fretta, all’opera di
aggiornamento delle Istituzioni di Gaio. Siccome il notaio doveva appunto documentare la chiusura
di un rapporto obbligatorio aveva pensato bene di fare sfoggio di cultura adottando la complicata
liturgia che vedeva prevista dal libro giustinianeo.
Più sottile è il problema del fantasma della mancipatio. Come modo di trasferimento della proprietà
la mancipatio era stata già abolita da Giustiniano (probabilmente eliminando la distinzione tra res
mancipi e nec mancipi); tuttavia essa ricomparve in una serie di compravendite all’interno del
territorio piacentino negli ultimi anni dell’VIII: cortese riconduce ciò al fatto che i notai erano
attaccati a formulari vecchi e superati. Per quando riguarda i documenti piacentini, fu questa la
conclusione che si accolse.
Ma non per questo si deve pensare che sin dall’età di Giustiniano la mancipatio, non più praticata,
fosse anche dimenticata.

La mancipatio e la sua volgarizzazione. Tuttavia essa conservava ancora una vitalità: es. un
notaio aveva affermato di aver eseguito un trasferimento di beni ricorrendo a mancipatio per alcuni
e traditio per altri.
Un’altra forma di vitalità è dettata dalla emancipazione del filius familias, ancora verso la fine del
V secolo descritta dal Liber Gai; un rito antichissimo.
Questa cerimonia doveva esser praticata nei Balcani; l’editto di Rotari al cap. 224 descrive 3
cerimonie di emancipazione:
1°) per dar semilibertà ai singoli aldi che rimangono sottoposti a mundio bastava redigere un
documento scritto senza altra formalità
2°) per dare libertà piena bisognerà portare il servo in un quadrivio e dirgli “hai facoltà di
scegliere la strada che vorrai”
3°) per sciogliere il servo anche da vincoli parentali: cerimonia quadrivio congiuntamente al
gairethinx triplice nelle mani di successivi fiduciari, con testimoni e un gisel (quindi questa
è come se fosse una di testamentum per aes et libram fatta con mancipatio).
Il Thinx ritorna, nelle leggi longobarde a designare l’ato che Rotari chiama “donazione”; ma in
realtà si configura come l’atto dispositivo del patrimonio mortis causa in favore di estranei.

CAPITOLO IV

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I LONGOBARDI

L’onvasione Longobarda. Giustiniano morì nel 565 appena in tempo per non avere il dolore di
assistere alla caduta in mano longobarda di quell'Italia che aveva faticosamente riconquistato ai
Goti: 4 anni dopo, nella primavera del 569, i longobardi si affacciarono capeggiati da Alboino dai
passi del Friuli sulla pianura padana. Era un popolo forse originario della Scandinava, raffigiurato
come ferocissimo, a volte esagerando.
Essi erano stati milites foederati sotto Giustiniano ottenendo in dono Norico e le fortezze della
Pannonia.
Vi è da ricordare la tradizione – una leggenda – che a chiamare i Longobardi in Italia fosse stato il
loro vecchio comandante, destituito, amareggiato e furioso contro il palazzo di costantinopoli.
Sembra, inoltre, che il nuovo imperatore Giustino II li vedesse di buon occhio in quanto pensava
che il loro avvento avrebbe potuto sedare le bramosie dei franchi sulla pianura padana; infatti
Alboino nei primi 3 anni di spedizione non ebbe resistenze.
Non mancano ovviamente episiodi di crudeltà contro i romani. La strage di Clefi (successore di
Alboino) vide massacrare molti dei potenti cittadini romani, e altri ne esiliò.
Secondo la versione ufficiale, Clefi agì per vendicare il padre Alboino assassinato in una congiura
di palazzo. per Paolo Diacono invece, la strage fu fatta per cupidigia. Dietro ciò si vede forse il vero
obiettivo della crudeltà longobarda; cioè una serie di sistematiche confische coadiuvate da un
tributo imposto solo ai romani: comincia a nascere la curtis regia che da Autari in poi sarà la base
del potere centrale.

I Longobardi e la civiltà romana. La strategia adottata nel corso dell'occupazione militare del
terriorio aveva finito col disperdere i conquistatori in tanti distretti fortemente autonomi, disposti a
riconoscere l'unità del comando regio in guerra, ma non a sottomettervisi in pace.
Sin dall'inizio della campagna con Alboino, questi aveva staccato gruppi di farae, ossia corpi di
spedizione affidati a un dux. Ne erano scaturiti 36 ducati autonomi tanto poco disposti
al'obbedienza che dopo l'assassinio di Clefi si rifiutarono di eleggere un successore e protrassero per
dieci anni il caos dell'anarichia. Della quale ovviamente, approfittarono i bizantin. riuscirono
mediante doni a far ritornare a combattere sotto la bandiera imperiale la maggior parte dei ducati
longobardi.
Quando Autari fu finalmente eletto re, nel 584, fece un programma serio di restaurazione della
potenza germanica: rottura definitiva con il ceto romano, ritorno all'arianesiamo e soprattutto,
creazione di una struttura politica che tenesse insieme i Longobardi. Ottenne il tutto ricorrendo ad
un mezzo curioso: riuscì a farsi dare l'amministrazione della metà dei beni ducali. Finì con il
contrapporre alla curtis ducalis una curtis regia, affidata a un suo gastaldo e adatta a costituire una
spina nel fianco per i duchi, un posto di osservazione e controllo.

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Ma ciò che diede il colpo finale fu l'assunzione del nome Flavius. Glielo assegnarono i duchi a
titolo onorifico, ma viene spontaneo di vederci rispecchiata l'intenzione del re di costruire il regno
avendo a modello l'unico vero stato, quello bizantino. Fu un nome che assunsero poi tutti i
successori: da governanti che si chiamavano Flavii ci si poteva aspettare atti di ostilità contro gli
oppositori romani, ma non contro la loro tradizione ideale e contro il loro diritto.

La guerra di Liguria e l’emanazione dell’Editto nel 643. Correva l'anno 643, da sei anni era re
Rotari e da circa 40 anni i Longobardi erano in pace.
Li aveva fermati dal tentare avventure guerresche la debolezza nei confronti della potenza dei
vicini. Ma ora, con la morte del grande Eraclio erano finite le vittore di Bisanzio; l'islam dilagava; i
rapporti con l'occidente si erano deteriorati a seguito della moda del monoismo che il papa
condannava. Quanto ai Franchi, essi erano stati per i Longobardi dei vicini temutissimi ma dopo la
scomparsa del grande re Dagoberto e la spartizione del regno fra i suoi figli, i Franchi avevano
cessato di essere uno spauracchio.
Rotari cercò invece di impadronirsi degli ultimi territori dell’Italia centro-superiore.
Rotari conquistò quindi Liguria e Lunigiana, ritornò a Pavia (la capitale) e promulgò il suo editto.

Editto di Rotari. Il Gairethinx. Egli scrive, nel passo che la tradizione testuale ha posto in fondo
all’Editto a mò di conclusione, di aver fatto il codice con il consiglio e il consenso dei maggiorenti
(i primati iudices) e di tutto l’esercito vittorioso e di averne ordinata la redazione scritta,
proclamando inoltre di aver eseguito secondo l’antico rito del suo popolo un solenne gairethinx per
render inattaccabile e inviolabile la legge.
È l’unica volta, nel mondo germanico, che tutto l’esecto appare coinvolto in un atto legislativo; ma
la storiografia ha subito pensato che il raduno fosse servito a dare una formale approvazione alla
legge, in ossequio a quel tanto che restava dell’antica sovranità popolare dei Germani.
Quest’approvazione sarebbe stata manifestata attraverso il gairethinx.
Gairethinx. Esso si è già stato visto come testamento dispositivo del patrimonio e emancipazione
dai vincoli familiari negli editti longobardi. E il suo uso per indicare l’approvazione popolare
appare anomalo. È vero però che una delle tradizionai delle parole nei linguaggi germanici, le da
effettivamente il significato di assemblea (thinx=assemblea). In base a ciò questo filone tedesco,
che si rifà a Tacito che nella sua vita aveva visitato i popoli germanici e aveva visto le loro usanze,
ha concluso sostenendo che esso riproduceva la rumorosa cerimonia antica con cui il re proponeva e
l’assemblea approvava battendo lancia (gaire potrebbe derivare da gere che in certi idiomi vuol dire
lancia: quindi assemblea in armi) o spada sugli scudi.
A ciò si può far critica però sostenendo che Rotari usa formule come “ita previdemus” che ricalcano
decisioni prese con autorità senza alcuna approvazione popolare.
Quindi sembra più corretto leggere la parola thinx nel senso di “donazione”, ossia la legge
consegnata (donata) al popolo. L’idea dell’approvazione popolare poi viene anche meno guardando
al fatto che il pactus non era corso tra re e popolo ma tra re e maggiorenti.

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Novità del codice: composizioni pecuniarie per i reati. Il motivo che indusse tali novità era
evitare faide e risse fra i potenti e la massa degli umili. A tal proposito venne imposto un tariffario
per la composizione dei reati, che doveva valere per ogni strato sociale: ricchi e poveri.
Questa innovazione era stata richiesta a Rotari dagli uomini d’arme prima della campagna di
Liguria e poi, esaudendo la loro richiesta, venne introdotta stabilmente nell’editto.
Si tratta di un tariffario molto minuzioso, tanto da apparire talvolta ridicolo.
Es. per un pugno 3 soldi. Per uno schiaffo 6. Tuttavia per i poveri queste composizioni pecuniarie
erano comunque pesantissime e per questo si utilizzava l’espediente di consegnare il colpevole in
schiavitù al creditore. È da pensare che questo espediente fosse praticato da vecchia data, ancor
prima che Liutprando, quasi cent'anni dopo Rotari, lo imponesse per legge.

Il Guidrigilo. Il diritto penale longobardo ripudia il gusto bizantino per le mutilazioni, tagli mano,
lingua.
Rotari ammette il taglio della mano solo per i reati di falso, riprendendo il diritto volgare romano.
La pena capitale è per la congiura contro il re, la diserzione, collusione col nemico, abbandono
posto di battaglia, servo che uccide padrone, moglie assassina del marito.
Ma sono eccezioni: per lo più all'omicido dell'uomo libero conseguiva il pagamento alla famiglia
del prezzo dell'ucciso, chiamato wirgild Il guidrigildo che toccava la cifra ingente di 900 soldi.

L’istituto del Guidrigildo, nel primo Duecento, fu considerato come “il prezzo del corpo”, e un tale
istituto non poteva che apparire scandaloso: l'eastimatio corporis, era esclusa dal diritto romano e da
qualsiasi ordinamento civile.
In realtà, il guidrigildo longobardo rappresentava non il valore economico del corpo ma dello status
sociale dell’arimanno (l’uomo d’arme era una società d’armi). Lo si doveva anche per fattisepecie
gravissime diverse dall'omicidio. E poi le donne, non avendo stautus autuonomo e partecipando
solo di riflesso a quello del padre o fratello erano prive di guidrigildo, ma non per questo il loro
omicidio era svalutato o addirittura esente dal prezzario il quale, anzi, prevedeva una somma pari a
quella maschile o a volte addirittura superiore.
Infine entra in gioco il fisco: non era raro che le composizioni per metà andavano ai privati e per
metà al fisco (alla curtis regia).

Le donne e il mundio. La donna si è detto non aveva guidrigildo perchè era priva di uno status
sociale autonomo essendo assoggettata al mundio.
Esso era esercitato dai maschi della famiglia (se mancavano dalla curtis regia) verso la donna la
quale per questo motivo non poteva alienare o donare beni propri senza il consenso del mundoaldo
(non aveva capacità d’agire quindi solo giuridica).
Verrebbe spontaneo pensare che l'intervento del mundoaldo nei negozi della donna fosse una sorte
di auctoritas tutoris, sicchè il mundio fosse in qualche modo assimilabile alla tutela.

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E a cosa parve più verosimile in quanto anche il mondo romano aveva conosciuto la tutela
mulierum, fino all'abrogazione di Costantino. Le prassi volgari potevano averne conservate tacce di
cui i barbari, come al solito, sarebbero stati in grado di far tesoro.
Ma il mundio, se è anche una tutela, non è soltanto quella.
Contiene aspetti protettivi, ma accanto mette in mostra aspetti potestativi e patrimoniali più marcati.
Rotari stesso lo qualifica potestas. Si vede infatti il mundoaldo non solo autorizzare i contratti della
donna, ma compiere la sua desponsatio e la consegna al marito all’atto del matrimonio, oppure
permetterne la monacazione ed esercitare comunque su di lei un modico potere disciplinare.
La potestas del mundo non corrisponde alla potestas del paterfamilias romano. Molti hanno pensato
che il mundio derivasse da un'antica Munt che avrebbe in origine designato il potere
omnicomprensivo del capofamiglia su beni e persone, col tempo, la Munt avrebbe circostritto
l'oggetto dell'efficacia alle sole donne seguendo il medesim percorso storico della manus romana.
La corrispondenza di mundio e manus è stata tenacemente sostenuta e alcuni storici hanno proprio
trovato la trasfigurazione volgare dell’istituto latino in quello germanico.
Il mundio non s'identificava però con il potere del capofamiglia: la donna era soggetta a due potestà
quella familiare in senso largo e quella specifica del mundio. Due potestà che non necessarimente
stavanonelle stesse mani perchè il matrimonio poteva ad esempio non trasmettere al marito il
mundio: lo sposo per acquistarlo doveva pagarlo. Il prezzo successivamente era solo simbolico, ma
poco importa. Resta comunque segno ben chiaro che l’istituto è quindi anche patrimoniale oltre che
potestativo.
Il mundio entra nell'asse ereditario e può quindi capitare che figli minorenni acquistino mortis causa
il mundio sulla propria madre. Dal X secolo lo si vede addirittura circolare in documenti al
portatore: un espediente escogitato dai mariti gentili per consentire alle future vedove di scegliersi
un mundoaldo gradito, sottraendosi, al mundio dei parenti eredi.

Le nozze, il pagament del mundio, la meta e il morgincap. La cerimonia del pagamento del
mundio da parte dello sposo al momento delle nozze ha indotto qualcuno a dire che il matrimonio
longobardo consisteva in una compravendita della donna, in cui questa appariva quindi un oggetto e
non un soggetto.
Che nella preisotria il matrimonio germanico si contraesse per compravendita, secondo abitudini
correnti nelle società primitive è ben possibile, ma nel mondo longobardo dei tempi della legge si
vede ch'esso, lungi dall'identificarsi con la compravendita della donna, si limita ad accompagnarsi
con la coprevendita del mundio sulla donna, che è cosa diversa.
Certo, l’atto conclusivo che perfezionava le nozze era la traditio della sposa nelle mani del marito
che potrebbe ricordare l'omonimo mdo romano di trasferire la proprietà e il possesso di beni
materiali. Ma la donna non era più considerata un mero oggetto, un essere incapace di volere: il
consenso della donna, al contrario, era richiesto e il mundoado che l'avesse obbligata a prendere
marito contro la sua volontà era punito con la perdita del mundio (tranne padre e fratello a forza del
vincolo familaire).

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Alla donna andavano poi dei doni dello sposo come il morgincap o pretium virginitatis: esso era una
parte del patrimonio del marito destinato a lei nel caso in cui fosse diventata vedova.
Oltre a ciò la donna godeva della meta La meffio cioè di una donazione nuziale che veniva
contrattata dagli sponsali e fissata in un patto solenne, a volte scritto da notaio.
Dopo la fase preliminare degli sponsali, il matrimonio si perfezionava con la traditio La consegna
della donna. La cerimonia in cui avveniva la traditio era ecclesiastica: chiamata subarrhatio anulo. Il
nome evocava la consegna di cuna caparra e sembrava anch'esso dare un'impronta patrimoniale. Ma
la scelta dell'anello, che con la sua forma circolare in cui l'alfa e l'omega si fondono aveva un forte
contenuto simbolico. Tra l'altro la circolarità dell’anello evocava inoltre perpetuo affectio e fedeltà
sicchè l’anello si chiamò anulus fidei (e ancora oggi fede).
È difficile accertare se la subarrhatio venisse sempre compiuta all'atto del matrimonio o non fosse
anticipata al momento degli sponsali. Il suo oscillare tra le due tappe del procedimento nuziale era
agevolato dal fatto ch'erano due fasi congiunte dalla comunanza dell'elemento soggettivo, il
consenso degli sposi.

La sposa longobarda portava dalla casa paterna un corredo di vesti e utensili (faderfio), oppure
poteva ricever una parte della sostanza paterna e in questo caso era esclusa dalla successione mortis
causa ai genitori.
Questa regola non aveva nulla di germanico, er apiuttosto un altro prestito nei confronti delle
consuetudini bizantine volgari che avevano l'uso di eslcudere la figlia dotata e maritata dalle eredità.
Anche il conferimento di una parte della sostanza paterne alla novella sposa era un'evidente
imitazione della prassi romana della dote.

Eredità. Per i figli era solo legittima, si poteva fare il gairethinx (equivalente al testamento) solo
verso estranei e in mancanza di parole. La legge prevedeva che solo i figli maschi naturali, seppure
con quote ereditarie minori, potevano concorrere con i figli maschi legittimi. Le femmine non erano
chiamate alla successione solo se non avevano fratelli legittimi. Parentela fino a settimo grado,
diseredazione dei figli possibile ma era considerato un evento terribile e drammatico prevedibile
solo in alcuni casi: figlio che attentava alla vita del padre, le percosse infertegli, l'adulterio con la
matrigna.

La famiglia longobarda. Essa sembrava ruotare intorno al patrimonio ereditario: esso stentava ad
esser alienato in quanto componente economica stabile della famiglia e in modo di assicurare ad
essa sopravvivenza e coesione. Rotari sostiene che nel caso in cui muoia il padre, i fratelli che non
si separano devono rimanere nella dimora avita e mantenere indiviso il patrimonio. Rotai spiega
che ciascuno dei fratelli rimasti nella casa comune avrà individualmente la disponibilità dei soli
beni acquistati nel servizio pubblico civile: un'imitazione del peculium quasi castrense. Curioso che
debbano mettere in comune gli acquisti fatti con il servizio militare, al contrario di quanto avveniva

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a roma con il peculium castrense: pesava la veccia abitudine germanica di assegnare il bottino di
guerra non ai singoli ma all'intera unità militare.
Il patrimonio ereditario trasmesso in generazione in generazione si poteva alienare solo per
necessità e con il consenso di tutti, mentre gli acquisti restavano nella piena disponibilità
individuale.
Anche quando i beni aviti uscivano dalla famiglia, essi conservavano peraltro una tendenza a
ritornarvi; cosi se la donna maritata moriva senza figli, i beni che dalla casa del padre aveva portato
alla casa del padre ritornavano.
Ciò per Cortese porta ad un’idea di proprietà “comunitaria” dei beni disegnata dal costume più che
da leggi, in un mondo dove la proprietà privata comunque esisteva. Questo concetto è facilmente
conciliabile con l’idea medievale di stringere comunità. Ve ne erano di mille tipi. Presso i
longobardi basta ricordare quella che usava in campagna fra vicini. Rotari testimonia il caso dei
vicini proprietari terrieri che facevano una fabula (patto) che sembrava esser un vero e proprio
statuto; un preannuncio dei futuri comuni rurali.

Obbligazioni tra i longobardi. Essi non avevano loro contratti veri e propri e utilizzavano quelli
che la prassi romana gli presentava: compravendita, locazione, mutuo enfiteusi ecc.
Oltre a ciò avevano riti che producevano effetti obbligatori come la gairethinx archetipo della
mancipatio (buono per ogni dimissio di beni e di persone in potestate). Esso è stato definito
contratto ereditario perchè principalmente utilizzato per trasmettere il patrimonio mortis causa.
Oltre alla thinx c’era il launegild: essa appariva come la controprestazione simbolica atta a dare
firmitas definitiva alla donazione rendendola irrevocabile. Ciò era fatto per eliminare i ripensamenti
dei donanti e quindi il flagello di atti alienativi di beni già donati in precedenza oppure la doppia
donazione.

Un altro contratto per la storiografia formale obbligatorio è la datio wadiae o wadatio.


L’analogia con vades e vadimonium sembra evidente quindi probabilmente all’inizio sembra che
presso i longobardi fosse utilizzato come a Roma per garantire la comparsa in giudizio e
l'esecuzione di atti processuali. Quanto ai riti da compiere non si sono rinvenute somiglianze.
Si può dire con sicurezza che il soggetto debitore consegnava al creditore un wadia a mo di pegno.
In epoca avanzata esso sarà un bastoncello o festuca che avrebbe dovuto riscattare o liberare. Il che
avveniva mediante la consegna della wadio a un intermediario-garante, detto fideiussor da nominare
entro tre giorni.
Questo soggetto rappresenta il maggior rompicapo. Fonti meridionali lo chiamano anche mediator;
lo si vede talvolta incaricato di pignerare il debitore insolventerante personale solidalmente
obbligato con il debitore, ossia investito di fideiussione in senso tecnico. È possibile che il doppio
compito del Fideiussor derivasse dall'affidamento della primitiva natura di garante-ostaggio
destinato a cadere in servitù nel caso di insolvenza del debitore o a riscattarsi pagando.

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Quanto alla pigneratio si può ricordare che si trattava di un procedimento di esecuzione privata
sottoposto a regole precise. Dapprima ebbe ad oggetto soltanto beni mobili, in particolare servi e
bestiame, poi anche su quelli immobili.

Se la culla della wadia fu il pocesso, essa ne straripò presto fuori per accordarsi ai negozi più vari.
Costituì una una garanzia della loro e servì ad attribuire a questi la firmitas che era la vera efficacia
del contratto.
Fu anche un marchio formale impresso sui negozi. Era di per sé una sovrastruttura astratta. Per cui
poteva darsi che vi fosse incertezza sulla causa per cui la wadia era stata prestata: se un creditore
sosteneva di aver ricevuto wadio per una certa obbligazione, e il debiotre affermava invece che la
promessa wadiata era stata un'altra, occorreva andare in giudizio e affidare la soluzione alla
procedura germanica oppure si procedeva col giuramento del debiotre, accompagnato dal duello.
Liutprando, che nel duello credeva poco, cercherà di agganciare meglio wadia e causa sottostante
sfruttando l'istituto romano della testimonianza: se la promessa e la datio wadiae saranno compiute
alla presenza di due o tre testimoni, il giudice dovrà deciedere attenendosi a quanto essi riferiranno.
Ques'affiorare della testimonianza è un'innovazione che costituisce uno dei primi passi verso una
parziale romanizzazione del processo germanico.

Il processo longobardo nelle sue linee genuine era animato da tutt'altro spirito del processo
romano. Nella sua forma pura non costitutiva nemmeno un giudizio perchè il giudice longobardo
non era chiamato a decidere nel merito. Per i germani antichi scopo essenziale del processo era di
allontanare la solita minaccia delle faide. Il primo rimedio cui corserso per addomesticare i conflitti
cruenti tra famiglie fu di sostituirli con una controfigura in scala ridotta della guerra, di breve durata
e meno sanguinosa: il duello tra campioni, da combattere con armi vere o con randelli.
Se ne erano avvalsi anchei romani arcaici, quando avevano affidato agli Orazi e Curiazi di risolvere
le controversie di Roma con Alba Longa. Chi vinceva aveva soddisfazione.
Un altro tipo di gioco era di far giurar con solennità il convenuto La imputatio non da solo ma
insieme con una schiera più La meno nutrita, a seconda del valore della cuasa, di soggetti che
giuravano con lui. Erano detti aidos La coniuratores, e non agivano da testimoni, perchè giuravano
sull'affidabilità della persona e non sui fatti. Ai fatti potevano benissimo non aver assistitio.
Avevano insomma il compito di dare la misura del seguito di cui godeva il convenuto nel contesto
sociale.
Il processo, identico nella causa civili e penali, si riduceva quindi a una sorta di gara ludica, e
l'ufficio del giudice era di dirigerla secondo le regole stabilite dal diritto e poi di proclamare chi
aveva vinto e chi aveva perso. Non doveva accertare la verità, nè stabilire chi avesse ragione e chi
avesse torto. Il principio era che il conventuto, se superava la prova, si riteneva liberato dalle
pretese dell'attore nelle cause civili e purificato dalla colpa in quelle penali. Se invece soccombeva
era obbligato a soddisfare la controparte.

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Si può anche supporre che all'inizio, si ricorresse soprattutto al duello. Ma in epoca storica i re
longobardi mostrarono di avere poca simpatia per questo rito.
L'inaffidabilità del duello era dolorosamente vissuta da chi, al contatto con il mondo romano e con i
principi cristiani, rfiutava di accettare che l'uso della violenza premiasse cosi spesso i malvagi. E
tanto più la cosa urtava dacchè il duello aveva da tempo mascherato la propria natura di semplice
prova di forza e si era gabellato per portatore di veirtà, trasformandosi in “giudizio di dio”.
Tale metamorfosi rendeva ibrido e ambiguo il procedimento germanico, che conservava la sua
struttura di gara ludica e al contempo assumeva una parvenza di giudizio etico-giuridico.
Inoltre l’idea che gli dei intervenissero nei duelli per dare la vittoria a chi aveva ragione, e far
soccombere chi aveva torno, era pagana non cristiana.
L’istituto fu quindi criticato, specie da Gundobado re dei Burgundi e dai vescovi ovviamente. Fu
riportato in auge in epoca carolingia.
Successivamente nel processo cominciò ad entrare anche la prova scritta: tracce se ne trovano già
in Rotari nella norma che consente di presentare in giudizio il documento di compravendita di una
terra o di una casa per smentire il venditore che pretenda di non aver venduto il bene.

CAPITOLO V

La Chiesa, Bisanzio e i carolingi

Fu la chiesa a far cadere l’impero longobardo. Riuscì a colpirlo proprio quando questo sembrava
aver raggiunto l'apogeo della potenza.
Tutto comincio quando i longobardi decisero di prendere l’ultima enclave bizantina in Italia che
interrompeva la continuità territoriale dei loro domini: Ravenna, che occupò.
Ciò venne deciso dal grande legislatore e principe Liutprando. Appariva chiaro però che la
spedizione non poteva fermarsi ai confini del ducato di Roma e sarebbe andata avanti fino ad essa.
Tuttavia Liutprando appariva come un principe cristiano e non sembrava aver alcun desiderio di
prendere Roma e rischiare una guerra di religione: per questo restitutì il castrum di Sutri, uno dei
punti fortificati della cintura difensiva del ducato romano. La chiesa però non si lasciò commuovere
e continuò a vivere nel timore.

Intanto a Costantinopoli si stava sviluppando l’iconoclastia: l’imperatore Leone III aveva


cominciato la campagna contro il culto delle immagini. A tutta prima non vi furono reazioni da
parte romana, la dottrina iconoclastica non mostrava segni di eresia. Ma quando con un decreto,
l'imperatore volle imporre questa dottrina ed ordinò l'asportazione di tutte le immagini sacre nelle
chiese, il patriarca di Costantinopoli si diede alla fuga e l'Occidente insorse e con un sinodo romano
condannò l'iconoclastia.

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La ritorsione del monarca fu severa e colpì la chiesa di Roma nelle sue prerogative e nella borsa:
diocesi dell'italia meridionale vennero sottratte al papa e sottoposte alla giurisdizione del patriarca
di costantinopoli, i grandi possedimenti eccleisastici del mezzogiorno soffrirono dei forti aumenti
fiscali. Scopparono sommosse popolari che a Ravenna culminarono con l'assassionio dell’esarca
Paolo (Bisanzio aveva riconquistato Ravenna). Il monarca inviò allora in Italia un nuovo esarca con
il compito di imporre l’iconoclastia riducendo Romanall’obbedienza anche eliminando fisicamente
il pontefice. Gregorio II papa, tuttavia, pronunciò parole distensive invocando fedeltà al monarca,
come il successore.

La goccia che fece traboccare il vaso fu: la destituzione del mite Rachi, che andò a morire nel
convento di Montecassino, l'assunzione al trono Longobardo del bellicoso Alfonso e l'ennesima
invasione dell'Esarcato con relativa conquista di Ravenna tra il 750 e il 751.
le fonti mettono in luce oltre che i timori della chiesa anche l'indignazione dell'imperatore
Costantino V che mandò al nuovo pontedice Stefano II un messo – il silentiarius Giovanni-
portatore della iusso al papa di recarsi da Astolfo per chiedergli la restituzione di Ravenna.
Il papa partì per Pavia e giunto in presenza del re longobardo lo implorò senza alcun risultato.

L’entrata in scena dei Franchi.Allora il papa si rivolse ai Franchi.


Pipino il breve, succeduto al padre Carlo Martello incontrò Stafano II nel 754 a Ponthion. Il novello
re prese l’impegno di riconquistare tutto l’esarcato (il ravennate) restituendolo poi allo Stato
bizantino.
Papa Stefano prolungò il proprio soggiorno e rafforzando il legame con i Franchi: impartì
un’unzione regia a Pipino, Carlo e Carlomanno. Furono unti tutti e tre come “re e patrizi” nella
cerimonia di Saint Denis. Questa cerimonia configurava un bizzarro e misterioso conferimento di
regalità e patriziato insieme. Oltretutto il patriziato non si poteva dare con una unctio. Era un titolo
che da secoli erogava l'Impero e l'Impero soltanto e il papa non poteva non saperlo.
Taluno immaginò che il papa avesse inventato un nuovo ufficio.
Il titolo di patritii romanorum in occidente designava gli esarchi e quindi si presume che Stefano
volesse fare di Pipino e figli i nuovi esarchi.
Tuttavia Pipino già era stato fatto re 3 anni prima: questo si spiega nell’idea papale di elevare
l’Esarcato a regno.
È naturale che il pontefice cogliesse in quel fatale 754 il momento propizio per inziare l'attuazione
del progetto, formato già da Gregorio IX e dalla curia romana, di sostituire la stirpe di Carlo
Martello, potentissima e fedele, quelle autorità bizantina che si erano rilevate incapaci sul piano
militare e ostinatamente inaffidabili sul piano religioso.
Certo è, in ogni modo, che dopo il 754 i re dei Franchi mostrarono di aver preso il posto degli
esarchi agli occhi della curia romana. Lo rivela qualche episodio formale. Quando fu eletto papa,
nel 757, per esempio, Paolo I si affrettò ad annunciare la propria elezione a Pipino, ed era appunto
regola che Roma ne desse notizia tempestiva oltre che all'imperatore anche all'esarca.

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Torniamo all'estate del 754.
Pipino e il papa si trovavano nel Carisiacum, un villaggio dove il re aveva un suo palazzo. Qui il
pontefice si vide fare la promessa di una grandiosa donazione destinata tutta non all'impero ma alla
chiesa: l'Esarcato, l'Emilia, la Tuscia, la Corsica e i ducati di Spoleto e Benevento. Dal nome del
luogo in cui venne fatta, venne chiamata Promissio Carisiaca.
Oltre alla disinvoltura con cui l'accordo omette di ricordare che almeno alcuni di quei territori
sarebbero dovuti andare all'impero, colpisce la straordinaria ampiezza della donazione. Non è
possibile spiegarla se non ipotizzando che tra il papa e il re fosse maturato il progetto di eliminare il
regno longobardo, che tendeva a unificae l'Italia, e di spartirne il territorio: la pianura padana da
lasciare ai Franchi, il resto, alla Chiesa.
È ovvio che agli occhi del papa cominciò il miraggio di un dominio peculiare su S. Pietro.
La donazione immensa non fu mai eseguita integralmente, ma dopo la vittoria franca su Astolfo,
ebbe una prima attuazione quando alcune zone dell'Emilia, dell'Esarcato e della Pentapoli sottratte
con forza ai longobardi, vennero consegante alla sede apostolica.
Anni dopo quando il re era Carlo Magno, papa Adriano I si spinse a configurare la promissio
carisiaca come istitutiva di un patriziato della Chiesa parallelo a quello conferito al re dei franchi
(concetto di un doppio regno sullo stesso territorio).
Ci sarebbe da chiedersi che cosa ne pensasse Bisanzio in tutto ciò. Si dovette di sicuro preoccupare.
Il solito silentiarius Giovanni, accompaganto da Giorgio, s'imabrcò alla volta della Gallia. Forse la
chiesa si impensierì e aggregò anch'essa un ecclesiastico alla delegazione: si trattava di impedire il
ritorno di Costantinopoli a Roma, ma al contempo di evitare rotture con l'impero. Il risultato fu che
si continuò nell'ambiguità. Da una parte papa adriano I fece mostra di agire da fedele suddito
dell'imperatore affrettandosi a consegnargli Paolo Afiarta, il capo del partito filolongobardo di roma
perchè potesse punirlo. Dall'altra si atteggiò con fermezza a titolare della giurisdizione sui suoi
territori e cosa grave cominciò a coniare monete con la propria effige.
La chiesa da tanti secoli istituzione dell'Impero, adesso per la prima volta, lo stava tradendo.

Constitutum Costantini (donazione di Costantino).


Esso rappresenta il più celebre falso medievale che all’inizio del duecento servirà a corroborare le
pretese ierocratiche della Chiesa. Esso fu introdotto nei Decretali pseudo-Isidoriane. Nel documento
si avverte la forte atmosfera romana intravedendosi anche la Promissio Carisiaca alla quale la
Chiesa nell’VIII secolo ancora credeva. Addirittura Adriano I per farsi dare i territori della promessa
scrisse a Carlo Magno della possibilità di poter esser insignito del titolo di novello Costantino. Ad
ogni modo il contenuto del Constitutum Costantini appariva molto più grande della Promissio
carisiaca: comprendeva il Palazzo Lateranense, la città di Roma, genericamente le provincie d’Italia
(ossia esarcato e pentapoli che la Chiesa non aveva restituito a Costantino V imperatore), tutte le
regioni occidentali, la corona e le vesti imperiali al papa, diritto di creare consoli e patrizi, e infine

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che la capitale era a Costantinopoli perchè l’imperatore non voleva dare fastidio al papa a Roma. Il
falsario non era però un visionario: alla base c’era il tentativo di legittimare il dominium peculiare
Petri che la promissio aveva alimentato e che portava al tradimento dell’Impero.

L’incoronazione di Carlo Magno. Papa Leone III, quando lo nominò imperatore nella notte di
Natale dell’800, aveva senza dubbio il progetto di trasferirlo a Roma, profittando del fatto che il
trono bizantino era considerato vacante perchè illegittimamente occupato dall’usurpatrice Irene.
La decisione del papa di volere quindi ricreare un impero romano d’Occidente non venne li per li,
ma era un’idea che balenava da tempo e ne aveva già discusso in concilio giorni prima ed in più
aveva tutto l'interesse di compiere quell'impresa clamorosa per uscire alla grande da un periodo di
umiliazioni. Egli aveva subito accuse di adulterio e spergiuro.
Il rito per l’incoronazione dell’imperatore in S. Pietro fu quello praticato da secoli in Oriente, in cui
il papa si prostrava nella proscrinesi, in quell'atteggiamento adorante che doveva urtare un po' alla
fierezza della chiesa. Che il rito fosse stato inteso a nominare l'imperaotre dei Romani non venne
messo in discussione né in Occidente né in Oriente. Qui, se ne parlò con ironico disprezzo: il papa
incompetente, anziche usare nella dovuta maniera il crisma sacro, avrebbe imbrattato d'olio il
povero Carlo da capo a piedi: ma nessun dubbio che la sua intenzione fosse di incoronarlo. E di
strappare cosi a Costantinopoli il suo trono.

Secondo il biografo di Carlo, questi si sarebbe detto pentito di aver assunto il titolo imperiale. Se
avesse saputo cosa l'aspettava si sarebbe astenuto da entrare in chiesa malgrado la festività.
Si è molto discusso sul significato da attribuire a queste parole. Per Cortese, forse, gli diede fastidio
che aver ricevuto consacrato dal Papa lo avrebbe messo nelle sue mani. Tuttavia giudicando i
successivi rapporti sembra che avvenne esattamente il contrario. È sempre stata la chiesa a subire
Carlo, e mai Carlo a subire la chiesa.
A ogni modo sembra che Carlo si comportò da buon successore di Costantino e Giustiniano: un
placito tenuto da Carlo a Bologna fu verbalizzando chiamando l’imperatore Romanum gubernans
Imperium, formula cara a Giustiniano che divenne l’intitolazione ufficiale di tutti i suoi placiti e
scritti privati, servendosi di ciò anche dopo (almeno 4 anni dopo) la pax di Aquisgrana con cui
Carlo restituiva a Bisanzio il titolo di imperatore dei romani.
Per la Chiesa era probabilmente un successo: non si era tratttato solo di mettere un germano sul
trono di Costantinopoli, ma di trasferire questo trono a Roma; il che rappresentava la renovatio di
un favoloso mondo che rievocava antichità: Roma caput mundi.

Rapporti con Bisanzio. Per indorare la pillola ai bizantini si pensò perfino di unire i due imperi
comninando un matrimonio tra Carlo e l’usurpatrice Irene, la quale aveva anche mandato segnali
distensivi. Ciò tuttavia non avvenne, Irene fu deposta ed il successore Niceforo alternò buoni e
cattivi rapporti con Carlo fino all’812 quando si giunse ad un compromesso: Carlo avrebbe
amntenuto la qualifica imperiale ma non il nome di imperatore romano dei romani, ch'era titolo di

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cui si riconosceva l'esclusività al monarca d'Oriente. Ad Aquisgrana, dove la pace fu sancita gli
emissari di Costantinopoli lo chiamarono Basileus (dei Franchi).
Carlo di ciò probabilmente fu anche molto contento in quanto a una monarchia romana poco amata
ne preferiva una barbarica più adatta a lui. Questo cambiamento generò il fatto che nell’813 il figlio
Ludovico il Pio fu incoronato da Carlo e non dal papa, questo perchè l’intervento del papa non era
necessario per creare un imperatore germanico e non più romano.
In punto di morte inoltre Carlo fece sostituire la scritta sul suo simbolo. Da Renovatio Romani
Imperi la nuova scritta sarà Renovatio Regni Francorum.

La Chiesa dopo la pace di Aquisgrana. Ufficialmente rinnegata da parte franca, la romanità


dell'impero carolingio continuò a essere propugnata invece dalla chiesa. Essa continuò a pensare
che dal 25 dicembre 800 l’Impero romano fosse stato trasferito definitivamente nelle mani di
monarchi occidentali e non orientali. Riuscì a far accettare ciò a tutto l’occidente.
La Chiesa naturalmente sapeva che quest'impero oltre che romano era anche sacro. La sacertà era
impressa come un marchio; l'unctio con il sacro crisma. L'unctio era un marchio non peculiare
dell'imperatore perchè esso caratterizzava nello stesso modo re e imperaotri. Li presentava tutti agli
occhi del medioevo come sospesi tra cielo e terra. Quel che distingueva l'impero dairegni e lo
mettev in rapporto con la chiesa era l'universalità. Vi era la volontà (in opposizione a Gelasio) di
ridurre a unità il multiforme universo romano, integrando il potere temporale e quello religioso.

CAPITOLO VI

L’impero carolingio

1. la riforma della chiesa

I sovrani carolingi ebbero una produzione normativa che può dirsi abbastanza rilevante. Si da alle
loro norme il nome di Capitolari in quanto non erano mai comandi singoli bensì norme più o meno
lunghe e non sempre omogenee fatte di brevi capitoli. In questo modo scompaiono le parole
edictum, decretum, decretio, praeceptio che venivano dall’antichità romana.
Specialmente dopo la morte di Carlo Magno i capitularia vennero specificandosi in categorie
diversificate a seconda della funzione:
– capitularia ecclesiastica (provvedimenti relativi al clero, chiese e monasteri)
– capitularia mundana (del mondo laico)
– capitolaria missorum (istruzioni per i missii dominici, i funzionari spediti in periferia a
rappresentare il sovrano)
– capitularia legibus addita (per modificare La aggiornare le leggi ancestrali).

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Capitularia ecclesiastica. Essi riflettono uno dei temi più importanti del mondo carolingio, quello
del rapporto tra Chiesa e regno. L'abbondanza della loro produzione ai tempi di Carlo Magno e di
Ludovico il Pio dà la misura dell'impegno di questi sovrani ad assicurare la vita ordinata della
chiesa; l'abate Ansegiso raccolse i capitolari di Carlo e Ludovico, ne riempì 4 libri, e ben due
dovette dedicarne ai capitolari ecclesiastici. Segno che gli occhi di quei due monarchi guardavano
equamente cielo e terra. I sovrani avevano molto a cuore l’idea di assicurare alla Chiesa una vita
ordinata. La Chiesa poi era in una profonda fase di decadenza: la gerarchia andava in pezzi, clero
ignorante, corruzione.
I Carolingi si erano accorti dei problemi e la Chiesa accoglieva le interferenze spesso chiedendole
anche dentro i concili. Queste leggi quindi erano importanti per riparare usurpazioni, iniquità ed
erano il miglior mezzo per attuare i desideri dei sinodi regionali.
Ma poi venne il momento in cui la dinastia perse potere e ne acquistò in proporzione l'aristocrazia, e
questa, tutte le volte che vide i propri interessi lesi dalla protezione regia degli interessi della chiesa,
riuscì ad impedire l'emanzione dei capitolari ecclesiastici.
Un episodio storico fu quello della dieta di Compiègne del 823, quando i signori laici riuscirono a
impedire la promulagzione di un editto che prevedeva la restituzione da chiese di beni detenuto da
nobili.
La prima conseguenza dell'infiaccamento della monarchia, di cui si avvertono i primi segni già
durante il regno di Ludovico, è che cambia la genesi e quindi la natura dei capitolari. In seguito
all'accrescersi del potere politico dei nobili, le diete cessano dal costituire il luogo di semplice
pubblicazione di norme espressione della volontà del re e diventano luogo di discussione di tali
norme.
I capitolari si feudalizzano come si sono ormai feudalizzati i centri del potere. Il fatto che a essere
colpiti gravamente da questo cambiamento siano anzitutto i capitolari ecclesiastici ferisce a morte la
politica di rapporti privilegiati con la chiesa ch'era stata la caretteristica del regno di Carlo Magno.

Fenomeno delle falsificazioni. Questo fenomeno dilagò misteriosamente intorno alla metà del IX
secolo, in oscuri ambienti ecclesiastici francesi e gettò sul mercato un numero non trascurabile di
capitolari più o meno alterati.
Furono contraffatti capitolari regi. Ne fece una grossa raccolta un certo Benedetto che si chiamò
biblicamente Levita e si fece passare per diacono della chiesa di Magonza. Gabellò la propria
raccolta come una continuazione di quella di Ansegiso, abate di Fontanelle, che poco più di
vent'anni prima, aveva curato la collezione dei 4 libri dei capitolari genuini di Carlo Magno e di
Ludovico Pio. In realtà Benedetto prese a prestito da Ansegiso parecchio materiale, altro ne trasse
da fonti varie e finì con il mettere insieme ben 1721 pezzi, distribuiti in 3 libri e 4 appendici.

Sicuramente la più riuscita, celebre e fortuntata di tutte le falsificazioni fu quella delle Decretali
Pseudo- Isidoriane. Il nome di Isidoro compare nella prefazione: egli si definisce peccator e

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mercator e rivolge al lettore la sua ansia per la verità e dicendo che 80 vescovi lo hanno sollecitato
ala compilazione.
Naturalmente in nome di Isidoro evocava a quei tempi subito Isidoro di Siviglia, da oltre due seoli il
massimo dispensatore di dottrina, sicchè non ouò stupire che sia lui, vescovo sapeinte e santo, a
essere indicato nell'intitolazione come l'autore dell'opera.
L'intervento falsificatorio non consistette tanto in arbitrarie invenzioni di testi inesistenti quanto
un'abile mosaico di pezzi carpiti da tradizioni ecclesiastiche e laiche, ritoccati e riforniti di nuove
autoreveoli paternità. Siccome l'autorevolezza si misura in termini di anticihtà, più si retrocede e più
ci si avvicina all'età dell'oro, alla mitica chiesa delle origini. Sicchè il falsificatore indietreggia fino
agli anni di Anacleto I e Clemente I.
La ratio della raccolta è desumibile dalla sua insistenza sul tema dell’autonomia dei vescovi e della
loro pari dignità. La chiesa francese si andava organizzando in una piramide gerarchica, in una
catena decrescente di ceri e propri vassallaggi in cui, scendnedo dal vertice rappresentato dal primae
si traversavano i liveli subordinati via via sempre più bassi degli arcivescovi, dei vescovi, fino ai
semplici ausiliari. Ed è appunto contro la feudalizzazione in atto della chiesa transalpina che
sembrano rivolti i maggiori sforzi del falsificatore.
Vi è un punto in cui lo Pseudo- Isidoro offre un contributo stroaridnario anche alle mire gregoriane
di affrancare la chiesa all'impero: salva infatti e consegna ai posteri la falsa Donazione di
Costantino.

2. le leggi popolari e la personalità del diritto

Ma torniamo alla legisalzione carolingia. Le la produzione capitolaria venne sicuramente


intensificandosi dopo la consacrazione imperiale di Carlo Magno, nemmeno le leggi popolari, in
gran parte fondate sulle vecchie consuetudini dei vari gruppi etnici germanici, vennero trascurate
dal monarca. Anzi, un cronista dice che Carlo le ebbe a cuore e ne curò redazioni: è netta
l'impressione che l'ordinamento europeo dell'età carolingia abia riattivato il vecchio circuito
bipolare, la dinamica tra i due poli dallo ius vetus (le tradizioni popolari) e dello ius novum (i
capitolari).
Gli annali di Lorsch raccontano che nell'802 quando la corona imperiale di fresco acquisto spledeva
ancora di romanità e invogliava Carlo a seguire l'esempio dei legislatori antichi, egli profittò di una
tregua nelle guerre e radunò un concilio generale. Nelle grandi assemblee di ecclesiastici e laici le
due sezioni potevano riunirsi anche separatamente, i prelati per primi: l'imperatore fece rileggere
canoni e decreti perchè tutti li osservassero, poi fece dare lettura della regola di S. Benedetto
comandando ai monaci di obbedirle.
Venne poi la volta dei laici: davanti a duchi, conti e giudici fu affrontato il problema delle
ondeggianti leges popolari, Carlo le fece leggere pubblicamente, emendare e metere per iscritto al
fine di assicurare ai ricchi e poveri un'eguale giustizia. L'iniziativa parrebbe essere stata

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grandiosamente diretta alla redazione ufficiale di tutti i complessi consuetudinari dei popoli
germanici. Ma Eginard smentisce che l'impresa abbia avuto tanta ampiezza.
Se gli Annali Di Lorsch hanno un po' gonfiato l'iniziativa imperiale, Eginardo ha probabilmente
esagerato nel gioco del ribasso. Vi sono ragioni di credere che tra l'802 e l'803 Carlo abbia curato
due revisioni dei complessi normativi del suo popolo salico, la Lex Salica emendata, che
modificava un testo curato da suo padre Pipino, e la Karolina.

Capitularia legibus addenda. Essi si configurano come la forza di attrazione nella sfera legislativa
del sovrano anche delle antiche leggi popolari, sottolineando l’unità di quell’ordinamento generale
dell’Impero in parte decentrato ma sempre tenuto sotto il controllo dell'unico potere centrale
Era per la verità, un controllo difficile. Se si tiene conto che l'unificazione di quasi tutta l'europa
sotto un solo scettro aveva facilitato emigrazioni e intensificato i contatti tra le molte etnie, si può
comprendere come i numerosi ordinamenti giuridici che si intersecavano entro l'unico ordinamento
politico creassero confusione. E ponessero quindi il problema dell'applicazione del principio della
personalità della legge.
Era perciò un’epoca difficile per uniformare tutti i diritti vigenti a quello salico.
Che la pluralità dei complessi normativi desse fastidio, e in particolare attentasse al principio di
unità evocato dalla chiesa, si ricava da una celebrelettera scritta da Agobardo, arcivescovo di Lione
all'imperatore Ludovico Pio. Accade spesso, si lamenta, che 5 persone si trovino insieme e invece di
regolarsi in modo uniforme, seguando 5 leggi diverse, il che finisce coll'incrinare quell'unità che la
Chiesa, retta dall'unicità di Cristo, esige. Il rimedio che Agobardo propone è che il sovrano imponga
a tutti la legge dei dominatori franchi; questo appare illusorio e ingenuo.
In realrà Agobardo non faceva altro che invocare il ripristino della politica legislativa di Carlo
Magno, che aveva agevolato l'espandersi della legge salica dei conquistatori nei territori conquistati.
Comunque, i tentativi di uniformare su qualche punto i vari ordinamenti alla luce di quello salico
restano episodi, e la prassi dovette cimentarsi con le difficoltà prospettate dall'uso personale delle
varie leggi. Il primo espediente che i notai adottarono per evitare confusioni fu di indicare in ogni
carta la legge secondo la quale si sarebbe dovuto regolare e giudicare il rapporto documentato.
Nacque cosi la consuetudine di inserire negli strumenti notarili le professionnes iuris: la parte forte
di un contratto – il venditore nel caso di vendita, il marito nel matrimonio, il donante nelle
donazioni - dichiaravano di vivere secondo una determinata legge per via della loro ratio, ossia
nascita che li aveva radicati all'interno di un determinato gruppo etnico.
Sono le profession iuris a dare il segno che in Italia, si era entrati nell'era della personalità della
legge.
Ai tempi dei longobardi, quando non si usavano profession iuris l'applicazione del principio della
personalità era più apparente che effettivo. Che i longobardi non fossero propensi a riconoscere
come principio generale che l'individuo avesse il diritto di seguire la legge della propria etnia è
dmostrato dal fatto che imponesse al mercante forestiero, varcati i confini, di mettersi sotto lo scudo
della potestà regia.

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La personalità della legge, dunque, nell'età longobarda si vede e non si vede. Anche una famosa
norma regia, che per molti avrebbe costituito una tappa decisiva nell'iter storico di quel pricnipio, in
realtà non lo riguarda. È stato infati frainteso il cap 91 del de scribis di Liutprando che, secondo
autorevole storiografia, avrebbe dato il primo colpo all'esatta applicazione del principio,
autorizzando le parti di unnegozio, purchè fossero d'accordo, a scegliere la legge con cui
disciplinarlo e quindi a << subdescendere de lege sua>>. L'espressione usata dal legislatore non
siginifica che al soggetto fosse permesso di sottrarsi all'auorità dell'ordinameno cui per nascita
doveva sottostare. Il termine lex come al giorno d'oggi la parola diritto, aveva una gamma di
significati diversi, e in particolare designava sia il diritto oggettivo sia quello soggettivo: e
Liutprando non faceva che ricordare ai notai che i contraenti potevano rinunciare ai propri diritti
soggettivi a patto di non ledere gli interessi della controparte.
Si può dire allora, che solo al tempo di Carlo Magno il pricnipio della personalità del diritto sia
stato introdotto in Italia; anzi, che la sua stessa genesi in Europa sia da collocare presso i Franchi.

Capitolare italicum. Esso è un capitolarium legibus addenda con cui Carlo cercò di dare una patina
salica all’ordinamento longobardo radicato in Italia. In esso si distinguono le materie in cui si
sarebbe usata la personalità del diritto e quindi romani e longobardi adottavano le loro diverse leggi
nazionali (nelle successioni, nei giuramenti, nella documentazione, nelle composizioni pecuniarie
dei reati ) e le materie <strong> in cui si sarebbe usata la legge comune aggiunta da Carlo negli
editti. La raccolta fu usata forse fino all’anno 1000.

3. Le collezioni di diritto romano (di età carolingia e postcarlingia)

Nei due secoli della dominazione longobarda le fonti giustinianee originali subirono duri colpi.
I testi giustinianei, troppo difficili per risultati utili, dovevano esser diventati in gran parte
irreperibili e l’ultima effettiva applicazione del Digesto è databile nel 603 a soli 50 anni dalla
Pragmatica sanctio che l'aveva promulgato in l’Italia.
Riguardo invece al codice, esso era certo libro meno impervio, ma conteneva pur sempre troppo per
le esigenze di una prassi che chiedeva poco. Si è supposto che sin dal primo medioevo si fosse
provveduto a scorciarlo in misura cospicua mettendo in circolazione un'Epitome Codicis dalla quale
sarebbero stati estromessi gli ultimi 3 libri e utte le disposizioni in greco e un numero rilevante di
costituzioni, così che l'opera sarebbe stata ridotta a un quarto dell'originale.
Neanche le Istituzioni hanno lasciato ricordi altomedievali conistenti; e quanto alle novelle
l’Authenticum è forse capitato nelle mani di Rotari ma poi scomparve, come il Digesto fino alla
fine del IX secolo. Restò mentre in vita l’Epitome Iuliani molto cara alla Chiesa.

Rilancio delle fonti giustinianee originali. Un rilancio delle fonti giustinianee originali fu certo
stimolato dalla riapparizione dell'Impero romano nell'CEuropa occidentale. Se Carlo Magno si sentì

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successore di Giustiniano solo per una dozzina d'anni, la chiesa continuò a pretendere che il
traferimento del trono a Roma fosse stato irreversibile. L'atmosfera di esaltazione e quella renovatio
Imperii generò una fervente compilazione in ambito ecclesiale di antologie di testi in forma
originale in un clima di restaurazione dell’antico.
La più importante è la Lex Romana Canonice Compta il cui autore ignoto (forse Mor monaco del
monastero di Bobbio) utilizzò molto l’Epitome Iuliani, poco il codice e le istituzioni.
Una parte dei capitoli di quest’opera ricomparve anni dopo nella collezione canonica Collectio
Anselmo dedicata ad Anselmo vescovo di Milano nell’883. Quei capitoli compaiono in mezzo a
decretali e canoni. Il Fournier ha sostenuto che queste due opere avessero una fonte comune e
quindi un’ipotesi possibile è che nell’epoca della rinnovazione dell’impero fosse stata fatta una
grande antologia di diritto romano, ora perduta, che avrebbe avuto il titolo di Lex Romana.

A suggerire l'esistenza di un Lex Romana risalente ai tempi della rifondazione dell'impero sta poi
una strana citazione che sembra fare Carlo Magno stesso. In un anno non molto successivo alla sua
incoronazione, a un missus che gli chiedev notizie su certe tasse da esigere in giudizio il monarca
rispose seccamente di consulare la legge romana e di comportarsi di conseguenza.

Un testo del codice non solo incompleto, ma soprattutto trasformato in un seguito di rozzi sommari
delle costituzioni, comparve per qualche tempo nell'Italia centrale. Essendosene ritrovato l'unico
manoscritto nella biblioteca capitolare di Perugia l'opera è stata battezzata Summa Perusina. Si sa
che i giudici del territorio romano tra il 999 e il 1014 lo applicarono al posto delle costituzioni
genuine del Codice. Della Summa Perusina si sono sempre rilevati la rozzezza e i fraintendimenti,
che giungono talvolta a capoolgere il senso del dettato giustinianeo. Per lo più gli errori sono il
frutto dell'ignoranza, ma non sempre. Talvolta essi derivano dal tentativo di adattare alla realtà
coeva i riferimeni a istituti scomparsi: così la sostituzione di scriptum al posto di stipulatio ci fa
pensare che l’antica forma obbligatoria romana si fosse tramutata in un contratto scritto.

Si sa che le sorti del diritto romano in Europa durante il medioevo si sono scisse in due tronconi. La
tradizione fondata sulla compilazone giustinianea ha coinvolto solo l'Italia, mentre le regioni
transalpine hanno conservato il ricordo del diritto teodosiano anche perchè la Chiesa ha continuato a
usare la lex romana wisigothorum.
Sin dal 600 ci si è chiesti se il Breviario Alariciano avesse sconfinato in Italia, e si è andati a
ricercare se ne avesse lasciato traccia. Una se ne è ritrovata in un manoscritto udinese ove compare
una di quelle numerose epitomi che rappresentano le fomre in cui il Breviario era ormai conosciuto.
La si chiama Lex Romana Utinensis, ma siccome è presente in manoscitti svizzeri e si è stabilita in
quel di Coirs, nel cantone dei grigioni che rientra nell'antica Rezia, il nome che oggi si preferisce
darle di Lex Romana Raetica Curiensis. Non si crede dunque più alla composizione dell'Opera in
Italia. La sua scomparsa da noi viene ora fatta risalire a semlici scambi di libri che si ebbero tra i
monaster e personaggi dei due versanti delle Alpi.

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D'altronde, apparizioni sporadiche e misteriose di materiale normativo visigoto si debbao registare
persino in Italia meridionale, ed è logico supporre che siano anche esse il risultato dell'uso di libri
importanti. Importantissima è la c.d. Collezione Gaudenziana, il cui contenuto apparte attribuito a
Giustiniano il quale però si sarebbe avvalso in base all’inscriptio di sacerdoti e vescovi romani
imitando l’assenso di sacerdoti/vescovi celebrato da Alarico II per comporre il suo breviario. La
seconda parte di quest’opera raccoglie 159 capitoli della legge visigotica, la prima parte è romana.

CAPITOLO VII

Alle origini del feudo

nell'Italia meridionale sin dai tempi di Andrea d'Iserina, agli inizi del 300, si era cominciato a
discutere se il feudo fosse un istituto nuovo – un nomen novum. La avesse radici romane; Andrea
stesso si era dicharato propenso a credere che si trattasse di un nomen novum.
Ma fu nel 500, dopo che l’umanesimo ebbe attizzato il suo gusto per la storia, che venne di moda
mettere in discussione con argomenti eruditi il problema delle origini del feudo.
Per esempio il tedesco Ulrico Zasio vide una chiara prefigurazione dell'istituto nella pratica romana
di dare ai suoi vetersni terre nelle regioni della Gallia e della Germania.
A qualche decennio di distanza i punti di vista cambiarono del tutto. Fu il francese Carlo Molineo a
dare l'avvio ad una teoria che nella sostanza è stata adottata dalla storiografia moderna e ha
dominato fino ad oggi: il feduo sarebbe stato un’invenzione dei primi Merovingi, all'inizio del V
secolo; i Longobardi, poi, l'avrebbero conosciuto dai Franchi e importato, oltre che nell'Italia
padana, anche nel mezzogiorno.
La rivendicazione delle origini barbariche del feudo avendo avuto successo; gli storici hanno
preferito pensare più che specificatamente ai Franchi, ai Germani in generale.
Poi si affidò la costruzione del feudo a Carlo Magno che aveva il vantaggio di fare da cerniera tra le
tradizioni dei vari popoli barbarici e tra le oscure età antiche e i tempi più moderni. Insomma, si
attinta l'idea che il feudo sia un prodotto dei tempi carolingi: un'idea che, pur ncora oggi diffusa,
comincia a rilevarsi non del tutto convincente. Certo, tra il VIII e il IX secolo, abbondano le fonti
che mostrano in preararsi della socità feudale e annunciano l'istituto giuridico del feudo: ma non
solo il nome non comparve mai, ma non si fa mai avanti l'istituto completo, in cui l'integrazione dei
vari elementi in un'unica figura appaia compiuta.
Si è infatti sempre insegnato che il feudo constava dell'unione di tre elementi dalle radici ben
diverse:

- Un rapporto personale detto vassallaggio che correva tra signore e un suo subordinato e
avrebbe avuto lontane ascendenze germaniche. (elemento germanista personale).
Una concessione patrimoniale ispirata da benevolenza ma di fatto una remunerazione di servizi
(beneficium) che si ricava da prassi ecclesiastiche (elemento ecclesiastico reale).

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L’immunitas ossia un privilegio formale proprio delle terre fiscali e dei latifondi imperiali (elemento
della romanità pubblicistico).

Così delineati, questi tre elementi avevano in pregio di rappresentare vividamente, in una fiura
medievle di eccezionale rilievo, l'incontro delle forze storiche dalle quali si vedeva costruito il
Medioevo, il germanesimo, la chiesa e la romanità.
Si è fiito con il pensare che i 3 elementi si mescolassero insieme troppo meccanicamente. Parve
assurdo agli storici idealisti di concepire il formarsi di una realtà umana un po' come il prodursi di
una reazione chimica, che trasforma elementi preesistenti messi in contatto fra di loro, in una
sostanza nuova. Il che non toglie che i tre elementi tradizionali del feudo – il vassallaggio, il
beneficium e l'immunitas- sono effettivamente prodotti abbondanti sul mercato carolingio: salvo
che, sebbene mostrino una netta tendenza a convergere, restano figure separate. Ancora non
riescono, in quest'epoca, a integrarsi in una figura unitaria, appunto il feudo.

Rapporto personale. Il suo primo contenuto era nella fidelitas che il vassallo doveva prestare al
suo signore. Ma la fidelis non era affatto esclusiva del rapporto vassallatico. Era una forza etica già
attiva ovunque; era persino entrata nel gioco del masimo potere, che oggi chiamiamo “la sovranità”.
A prendere per buone certe fonti bizantine i monarchi cotantinopolitani avrebbero preteso
giuramento di fedeltà da tutti i funzionari; un giuramento prestavano ai re visigoti i concili. E della
fidelis Carlo Magno fa grande uso, mandò i prorpi missi a riscuoterlo dal popolo.
Va notato che il rapporto del cittadino con la cosa pubblica s'immedesima a tal punto con la fidelitas
giurata al sovrano che il conetto di reato si trasforma per identificarsi con la violazione di quella
fedeltà: sicchè il delinquente viene puntito non per essere incorso in una fattispecie delittuosa
prevista dalla legge ma per essersi reso infidelis al re.
Il rapporto di sovranità-sudditanza perde cosi il carattere astratto per divenire un legame concreto
tendente ad assumere natura bilaterale. Il caso limite sarà rappresentato, al tempo del declino della
monarchia, dall'occasionale scambio di giuramenti di fedeltà tra il re e i suoi dignitari, ma si può
dire in via generale che all'obbligo di fedeltà del suddito corrisponde quello di protezione da parte
del superiore. La sovranità si tinge di colori protettivi.

Alla fidelis prestata da tutti al re si contrappongono forme di fidelis specifica. Una di queste è il
vassallaggio.
La parola vassus, forse variante del celtico gwas che significava “uomo”, fa la sua comparsa in
Gallia nell’VIII secolo; il re tiene alcuni vassi a palazzo altri ne invia qua e là ad amministarre beni
fiscali. Si tratta di servitori ma quando sono servitori di re e di potenti, la loro mansione acquista un
che di onorifico.
Il vassallo, legato da questo rapporto forte e quasi indissolubile col signore, se ne può comunque
liberare per via di uno dei 5 casi previsti da un capitolare:
– quando il signore abbia preteso ingiustamente servizi non previsti,

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– quando abbia congiurato contro la sua vita
– se si sia precipitato su di lui a spada snudata
– abbia comesso adulterio con la moglie
– abbia tralasciato di difenderlo (quest’ultimo caso solo quando il rapporto è stato instaurato
con commendatio).
La Commendatio era praticata già da secoli. Già evocata dalla Lex Visigothorum a proposito
dell'assunzione dei buccellari nel patrocinium dei potenti, i Longobardi l’avevano attinta dagli usi
volgari e ne avevano tratto la condizione semi-servile di una categoria di lavoratori delle terra detti,
appunto, commendati.
Ma la prima descrizione di una commendatio eseguita, riguarda non servi o semiliberi ma un
personaggio di grandissimo rilievo, il potente duca di Tassilone di Baviera il quale, facendo atto di
sottomissione, si commenda al re dei Franchi Pipino e ai suoi figli. È il più antico vassallo che si
affacci nella storia.

Scalate gerarchiche dei primi vassalli. I vassalli che ne 792-793 erano chiamati servi essendo
costantemente onorati di beneficia e ministeria progredirono nella scala delle gerarchie.
Il beneficio, che era un tipo di salario era chiaramente connesso con un servizio e per il vassallo
svolgerlo per il Signore equivaleva a legarsi ad un ambiente prestigioso. Il beneficio inizialmente
più remunerato fu quello militare.
Si favoleggiava che il feudo e il beneficio militare si fossero diffusi quando i mussulmani ai
affacciarono sui Pirenei minacciando l'islamizzazione della Gallia e dell'Europa, solecitanto i
franchi a ricorrere alla cavalleria pesante. i beneficia avrebbe consentito di formare un esercito di
vassalli di cavalleria pesante per sconfiggere gli arabi nella storia battaglia di Poitiers. Si tratta
ovviamente di una ricostruzione immaginaria: si è poi accertato che fu la fanteria a vincere a
Poitiers e che l'Islam non centra affatto con la nascita della cavalleria feudale.
Va comunque riconosciuto che furono pur sempre le incessanti guerre a propagare i beneficia
militari ai tempi della dinastia carolingia.
Successivamente l’esercito carolingio in questo modo diventerà il più potente d’Europa.
Si usò all’inizio dare terre ai combattenti sotto forma di precaria cioè la forma di concessione
agraria usata dalla Chiesa.

Beneficium (elemento reale). La nascita di questo elemento è imputabile ai costi che deve
sostenere un cavaliere: armature, cavalli, collaboratori ecc.
Quindi il cavaliere andava pagato e i carolingi pensarono di legare alla funzione militare
l’assegnazione di alcune terre fino a che c’era fidelitas (unione elemento personale e reale).
Il termine usato nel significato di atto benevolo ha comunque contenuti vari: si pensi al sovrano
desideroso di premiare coloro che gli prestano fedeltà e obsequium che elargisce loro terre regie
non in concessione ma in proprietà. Quanto poi alle concessioni qualche volta è indicato il termine

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della loro durata, qualche volta no, il sovrano può persino dare una terra a un beneficiario per tutta
la vita ma può anche far incombere sul rapporto lo spettro della revocabilità.
È in effetti il carattere aleatorio a pesare sul beneficium è esso reponsabile della nostra imperfetta
conoscenza dei suoi svolgimenti storici. Le notizie che abbiamo vengono solo da poche leggi o da
fonti indirette, perchè l'alea della revocabilità escludeva che si redigesse ogni volta un documento
notarile di concessione.
Privo del supporto della documentazione, il beneficio era spesso in disordine. In casi limi arditi
truffatori riuscivano a trasfmare il godimento temporaneo e aleatorio in proprietà piena alienando
illeggitimamente il beneficio a terzi, per poi ricomprarlo e ottenere cosi una carta notarile che
comprovasse la falsa appartenenza del bene. Di fronte a simili malefatte il re si indigna. Non perchè
il comportamento configurava un'ipotesi di reato ma perchè l'azione subdola violava la fidelis
giurata al sovrano. Il malfattore aveva compiuto una truffa, ma perchè si era macchiato di
infidelitas.
Per ovviare alla confusione i sovrani dovettero inviare missi dominici in varie città ad accertare lo
stato dei vecchi benefici laici ed ecclesiastici: taluni potevano essere scaduti, altri usurpati;
occorreva verificare e aggiornare gli inventari.
Va infine rilevata, nell'età carolingi la tendenza della fidelis e del beneficuim a convergere. Lotario
proclama ch'è cosa degna della maestà imperiale di esaltare con benefici coloro che si sottomettano
al sovrano in fedeltà totale.

Immunitas (elemento pubblcistico). Scoprire il gioco di questo elemento appare molto più
difficile. Anche se non è documentata la concessione a laici, si può anche presupporre che i
beneficia conservassero lo status delle terre fiscali e della Chiesa sulle quali venivano costituiti,
ch'erano terre quasi sempre immuni. Il contenuto dell’immunitas appare quello del formulario
redatto dal monaco Marcolfo: il divieto per gli ufficiali pubblici di esercitare giurisdizione,
compiere atti preliminari o conseguenti a un giudizio e riscuotere ammende o tributi (autopragia:
l’immune decideva quanto pagare di tasse).
V'è chi ha affermato che l'immunità aveva raggio ristretto e si riduceva in realtà all'esenzione
fiscale; chi invece ha sottolineato ch'essa aveva lo scopo specifico di vietare al conte di penetrare
nel territorio immune. In realtà esenzioni e divieti avevano come presupposto l'attrazione dell'ente
ecclesiastico nella protezione del sovrano il che stabiliva un rapporto diretto con il re e consentiva
di scavalcare giurisdizioni e poteri locali. Anche le immunità dovettero essere fonte di confusione
perchè il loro regime, tutt'altro che uniforme, ne soffriva. Quella poca luce che la documentazione
irragia sulle immunità tocca i beni delle chiese. Ciò avveniva spesso per attrarre l’ente ecclesiastico
nella protezione del sovrano.
In questo modo nasce la signoria sulla cosa territorio e sulle persone che vi abitavano.

Concessione della “ereditarietà dei feudi maggiori” Carlo il Calvo, penultimo imperatore della
dinasia, viveva momenti difficili di lotte familiari quando radunò una dieta a Quierzy. Era forse

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provato nel fisico, dato che poco dopo morì, e quindi più pronto a compromessi; era sul punto di
difendere il trono con le armi e con in necessaio aiuto della nobilità che doveva accattivarsi a tutti i
costi. Le accordò la famosa ereditarietà dei feudi maggiori: assicurò all'aristocrazia sul punto di
partire in guerra che alla morte dei conti avrebbero dato i loro benefici ai figli.
Per essere precisi, il re prometteva di adoperarsi a conservare ciascuno nella dignità e nel rango che
gli spettava; nel caso un conte fosse morto quando il figlio si trovava al seguito sel sovrano
l'amministrazione della contea sarebbe stata affidata a un consiglio di reggenza finchè di quegli
“onori” potesse essere “onorato” il figlio. Occorreva quindi ogni volta una reinvestitura che
escludeva quell'automatica successione al padre che il concetto di ereditarietà prevede oggi.
Più che di ereditarietà deo benefici parrebbe trattarsi di un impegno del sovrano a reinvestire i figli.
La norma si badi si rivolge non a tutte le categorie di nobili ma solo ai conti.

I conti, pur prestando giuramento di fedeltà come gli altri, non sono vassalli qualunque perchè i
publici poteri che ricevono sono indipendenti, concettualmente, dal vassallaggio; le contee ch'essi
governano non sono beneficia, ma territori che essi governano in quanto ufficiali del re. Si vede
dunque quanto sia erroneo far ruotare il fenomeno dei lassallaggi e dei beneficia dell'età carolingia
intorno ai conti e a quella che usa chiamare la “feudalità maggiore”. La nascita del feudo si coglie
meglio guardando lo svolgersi della cosiddetta “feudalità minore”.

Per quasi tutto il IX secolo il nome “feudo” non compare. Se la parola fa capolino in qualche
documento carolingio si può essere sicuri che il documento è falso. Le prime volte che il temrine si
affaccia nella documentazione, nel X secolo, si è pensato ch'esso indicasse il bene dato in
concessione a titolto remuneratorio, quindi grosso modo il beneficio.
Ma l'Ourliac ha precisato che in quel tempo nella zona di Tolosa le chese adoperavano il termine
volgare feo per designare i beni avuti in donazione e restituiti in godimento. A ben vedere anche in
Italia il primo uso del vocabolo dovrebbe riguardare situazioni simili.
Forse non è un caso che la culla della parola feudo sia stata rinvenuta in Italia e Francia meridionale
in territori a influenza gotica, perchè feudo potrebbe derivare dal gotico thiuth che significa bonum
(bene). Si può vedere in una carta fiorentina del 941 una traccia della modifica di thiuth, in thr, che
prelude a feo.
È theo_feo a costituire il nucleo individuante. Ed è quello che ci permette di pensare che il termine
feudo sia destinato a designare, tra X e XI secolo, il beneficio – si noti, non il vassallaggio – venne
dalla lingua gotica e fu trasmesso dal volgare giuridico della chiesa. Fede la sua comparsa all'inizio
del X secolo nel campo dei contratti agrari e designò la retrocessione ai donatori in forma precaria
dei beni da loro donati: magari con l'occasionale aggiunta di altri beni per meglio segnare di
gratitudine e l'intento remuneratorio del negozio.

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Ulteriore storia del termine feudo. Per seguire l'ulteriore storia del termine feudo occorre
premettere due parole sui milites cittadini e sui benefici assegnati loro in remunerazione del servizio
armato.
Proprio in quel X secolo in cui si è visto comparire il feo nei patrimoni vescovili, le città
cominciarono il lento sviluppo che uterà in impetuosa crescita intorno all'anno 1000.
Fu un secolo in cui non mancarono i terrori. Se nel IX secollo a devastare mezza europa erano stati i
normanni, nel X imperversarono gli Ungari.
I Magiari, chiamati Ungari da tutti i popoli, provedivano dal caucaso; progredendo nelle pianure
della Russia avevano finito coll'insediarsi in quella Pannonia che da loro prese poi il nome di attuale
Ungheria. Da questa base scatenarono una serie ininterrotta di sanguinose incursioni tra l'898 e il
955 che afflissero il centro-Europa ma penetrarono anche in Italia, giungendo fino in Puglia.
Finchè Ottone re di Germania e di Italia, inflisse loro una memorabile sconfitta nel 955 sulle rive
del Lech, in Baviera, e li respinse in Ungheria; qui si convertirono al cattolicesimo. Tanto merito
valse a Ottone la corona imperiale: salutato come nuovo Carlo Magno, si ebbe la seconda renovatio
imperii dopo il periodo di buio a seguito della morte dell’ultimo re franco Carlo il Grosso, passando
l’impero in mano tedesca.
La paura per gli ungari portò al rafforzamento delle città e quindi delle milizie cittadine. Perchè se
questo popolo era inarrestabile in campi aperti, le mura riusciavano a fermarli. E le città con le loro
milizie cominciarono a diventare la vera salvezza contro i loro attacchi.
Furono formate le prime formazioni di armati cittadini che nel X e XI secolo diveranno valvassori
maggiori o capitanei o milites primi ordinis; vescovi/conti daranno loro beneficia.
Benefici di minor valore saranno distribuiti a mò di stipendio alla truppa, ai milites secòundi
ordinis, ai valvassori minori.
Ai fini della storia del feudo italiano fu decisivo che la milita si organizzasse come forza in qualche
modo professionale, perchè ciò evidenziò un rapporto tra prestazione del servizio armato e
conferimento del beneficio. Il binomio servizio-beneficio prevalse su quello vassallaggio-beneficio.
Fungendo da stipendio, il beneficio potà consistere in qualunque cespite capace di dare un reddito:
non fu raro, ad esempio, che si concedessero cespiti fiscali, ponti, strade da cui ricavae dazi e
pedaggi. Se si vennero configurando numerosi tipi di feudi, il beneficuim costituito su terre restò
comunque il modello prevalente. Ed è in questo tipo di beneficio che si verificò il fatto cruciale
nella storia del feudo, ossia la trasformazione del godimento tempornaneo della terra in un diritto
reale del vassallo.

Si sa che la leggenda dell'anno Mille intende rappresentare in un giorno fatale una sorta di
spartiacque tra due epoche: convinti che la fine del mondo fosse stata programmata per lo scadere
del vecchio millennio, l'alba del nuovo, che mostrò il cielo e la terra nel loro aspetto consueto,
avrebbe scatenato un'ondata di ottimismo e una ripresa delle attività. Una favola che evocò l'avvio
ci un grande sviluppo economico che appunto fra il X e XI secolo comincia a cambiare la faccia
della società europea. L'agricoltura subisce una trasformazione radicale quando sostituisce la

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coltura intensiva all'estensiva. La crescita demografica stimola lo sfruttamento dei terreni, la loro
irrigazione e bonifica. I lavori di bonifica comportavano dei costi molto elevati e richiedevano
investimenti a lunga scadenza; conveniva quindi affrontarli solo se si aveva una disponibilità
prolungata del bene e la possibilità di trasmetterlo agli eredi.
I benefici invece, per loro natura temporanei e revocabili, non invogliavano a fare spese
straordinarie, e cosi rischiavano di rimanere indietro con i tempi. Urgeva pertanto un'esigenza
economica di renderli stabili; a renderla più pungente contribuiva il fatto che la nobilità cittadina, in
gran parte composta da militi, vedeva la propria diginità diminuita dalla mancanza dell'ereditarietà
dei beni che ne costituiva il sostrato: nobiltà era sinonimo di appartenenza stabile a un ceto,
necessitava insomma la salvaguardia perenne di uno status che solo l'ereditarietà del patrimonio
poteva garantire.
Corrado II, che venne a Milano a combattere il suo potente arcivescovo Ariberto, ebbe bisogno
dell'appoggio dei molti milites del suo regno. Li vide in rivolta contro i loro seniores che li
opprimevano e usavano arbitrariamente i loro benefici. Non potè non ascoltarli e nel 1037 emanò in
loro favore il famoso Edictum de beneficiis.

Fu una norma di grande rilievo che aprì la strada verso la costruzine del feudo lomabrdo. Nessun
milites maggiore di vescovi, di abati, di conti, marchesi e nessun milites minore investito di benefici
su terre fiscali o della chiesa poteva esserne privato se non per propria colpa. I figli succedevano nei
benefici e in loro mancanza, i figli dei figli.
Il rapporto personale considerato solo alla luce delle colpe da evitare per non perdere il feudo
arretrerà di fronte al carattere spiccatamente patrimoniale dell'istituto. Il quale si esalterà fino alla
trasformazione del beneficio in un diritto reale assimilato a una quasi-proprietà.
Sarebbe appunto questa patrimonialità, il tratto peculiare del feudo italiano. Quello d'oltr'alpe
invece, avrebbe continuato a privilegiare il rapporto personale conservando al vassallaggio un ruolo
attivo, costituito cioè da servizi da prestare.

CAPITOLO VIII

Il diritto e il mezzogiorno

Bisanzio, nonostante la presenza dei germani che dominano il quadro europeo, fu comunque
presente sulla scena normativa mondiale specie con l’imperatore Leone III l’Esaurico. Egli sebbene
a quanto sembra fosse siriaco, tanto diffamato dai cattolici perch eretico e scismatico, ebbe tuttavia
grandi meriti militari e amministrativi; sconfisse gli arabi nel 719 che avevano mire su
Costantinopoli. Poi come la regola della grandezza dei monarchi vuole, legiferarò. Il complesso
normativo che attira l'attenzione è l'Ecloga.

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Ecloghè ton nòmon. Essa è la sua raccolta normativa che consta di un complesso di norme tratte da
Istituzioni, Digesti, Codice e Novelle giustinianee intessute però di consuetudini bizantine. L’epoca
di pubblicazione è incerta ma la storiografia moderna la fa oscillare tra il 726 e il 741; proprio nel
726 Leone proclama l'iconoclastia. Esplode la lotta iconoclastica in tutta la sua virulenza, e certo la
legislazione del grande eretico dovette trovare nell'ostilità della curia di Roma un grosso ostacolo
alla sua diffusione. in pieno scontro Roma-Costantinopoli.

Il codice è breve (150 capitoletti ordinati in 18 titoli ) e la parte del leone la fa il diritto penale che
occupa un terzo dell'intera opera. Si trovano una gamma di crudeltà ispirate al culto orientale per le
mutilazioni. Se 'espandersi del diritto penale è caratteristica delle legislazioni primitive, è un
sollievo constatare che comunque il diritto privato occupa qui il maggiore spazio, segno che il
livello di civilitas della romanità bizantina non si era del tutto degradata. Non è dubbio che alla
famiglia spettasse un posto preminente nella società, e quindi l'istituto centrale fosse il matrimonio.
L'Ecloga prevede due modi di concluderlo:
– o con una scrittura notarile alla presenza di 3 testimoni e destinata alla definzione degli
aspetti patrimoniali;
– oppure con una celebrazione tenuta in Chiesa o dinnanzi agli amici e quest’ultima era
specialmente per i meno abbienti.
Il matrimonio inter amicos tipico della romanità, piaceva alla Chiesa per la facilità con cui poteva
trasformarsi in rito religioso.
Qualche cosa viene detta anche sullo scioglimento del matrimonio ma c’è confusione tra un’idea di
scioglimento del vincolo e separazione dei coniugi.

Specificazione del “matrimonio scritto”. Esso era inteso più a determinare conferimenti
patrimoniali che instaurare il vincolo personale. In questo modo i patrimoni delle due famiglie di
origine erano equilibrati e convolati in un “patrimonio familiare” del nuovo gruppo domestico. Gli
apporti dei coniugi erano comunque diseguali in quanto la dote doveva esser superiore al
contributo del marito (l’ipobolo).
La prassi però voleva una parificazione delle donazioni. Ma cosi come incontrò la resistenza del
diritto ufficiale, inconrò anche quella di Leone. L'Ecloga vieta esplicitamente che il conributo dello
sposo raggiunga la misura della dote della sposa.
Come detto sopra, il nome dell'apporto materiale dello sposo era ipobolo. La parola greca indicava
che si trattava appunt di una aggiunta alla massa dotale; viene spontaneo d'immaginare che questo
legame ideale con la dota sottointendesse l'assunzione di analoghi compiti. Più tardi, nella prima
metà del X secolo a questo si aggiungerà il theoretron che appare un po’ come la controfigura
maschile del pretium virginitatis ossia il dono del mattino germanico.

Per i poco abbienti, che non potevano permettersi doti La assegni maritali e quindi non andavano
dal notaio quando si sposavano, era naturale che i rapporti patrimoniali si regolassero secondo il

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regime della comunione dei beni, che ovviamente non poteva che riguardare i futuri acquisti.
Successivamente questo regime fu comunque adottato anche dai più ricchi, magari anche il
presenza della dote,e poterono per convenzione estenderla anche a tutto il patrimonio familiare,
anziché limitarla, come di regola, agli acquisti.

Equilibrio uomo-donna sul piano dei rapporti personali. La vecchia patria potestas oramai
esercitata solo fu minorenni solo per intenti protettivi non sembra più esclusiva del marito.
Se uno dei due coniugi muore il superstite (uomo o donna che sia) acquista l’amministrazione di
tutto il patrimonio fino alla maggiore età dei figli.
Riguardo alle successioni mortis causa in quelle ab intestato (legittima) se mancano i figli i genitori
del de cuius son preferiti ai fratelli; il testamento scritto oppure orale, ha come unico requisito la
presenza di testimoni; la diseredazione può esser fatta solo per giusta causa, ogni volta accertata dal
giudice.
L’ecloga non lo prevede direttamente ma tuttavia è abbastanza palese che accettasse l’idea che le
figlie maritate e dotate non concorressero alla successione del dotante; cosi come previsto nelle
consuetudini bizantine.

L’ecogla sui contratti. Essa prende in considerazione tutti i contratti più usuali (donazione, vendita,
deposito, enfiteusi, locazione, transazione) mentre non cita la stipulatio, il che sembra confermare la
scomparsa di quel rito orale della prassi.
La scomparsa della forma orale non si accompagna, però, con l'esaltazione di quella forma scritta
che avrebbe reso l'efficacia del documento oltre che probatoria addirittura costitutiva di diritti. Anzi,
in talune fattispecie delicate come le donazioni, la scrittura viene presentata come facoltativa e
l’accento è posto sui testimoni richiesti nel numero di 5, ridotto a 3 nelle località isolate.

Tra le raccoltine di norme speciali che dovevano circoalre ai tempi dell'Ecloga è uso ricordarne
tre. La prima è una legge agraria la Nòmos gheorghikòs la quale esibisce condanne contro i furti,
negligenze dei pastori, incendi, danni causati dal bestiame.
La seconda è invece il Nòmos Rhodìon nautikòs ,un codicetto sulla navigazione. Il titolo riprende
in nome antico e prestigioso della Lex Rhodia e si apre in effetti con i decreti di Tiberio e altri
imperatori che avevano appunto approvato le leggi marittime di Rodi. Contiene una cinquantina di
capitoli tolti dal Digesto e dal Codice, ma che in realtà ne divergono.
Una terza legge è il Nòmos stratiotikòs che raccoglie norme di diritto penale militare. Contempla
una serie di reati - sedizione, ammutinamento, tumulto, disobbedienza, fuga -tra i quali si può
ricordare lo stupro di donne, perchè la pena è quella del taglio del naso che coincide con quella
prevista dall'Ecogla di Leone l'Isaurico per lo stupro.
Dall'Ecloga e dai cosidetti codicetti che le vengono collegati yraspare l'immagine di un ordinamento
attento alle consuetudini.

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150 anni dopo, la dinastia macedone reagirà a questa infiltrazione del volgare nel diritto ufficiale.
La sua politica sarà orientata alla restaurazione dell'mpero e alla restaurazione del diritto stesso, si
prospetta un autentico ritorno a Giustiniano.

Storia: vicende nell’Italia meridionale. Nell’846 i saraceni sbaracrono alle foci del tevere,
giunsero alle porte di Roma saccheggiando S.Paolo. Fu dichiarata guerra agli infedeli e Ludovico II
figlio dell’imperatore Lotario si mise a capo di un esercito scendendo nel Mezzogiorno con lo scopo
di riconquistare Bari ai mussulmani e di tentare al contempo un'unificazione dell'intera penisola
sotto lo scettro del re d'Italia carolingio. Era tuttavia impossibile prendere Bari e Taranto senza
blocchi navali e i Franchi non avevano una flotta capace di attuarli; per questo fu necessario cercare
un’alleanza con la potenza marittima bizantina. L'accordo fu trovato con l’imperatore d’oriente
Basilio I, il capostipite della dinastia macedone, e Bari fu presa. Ciò però non generò un vantaggio a
Lodovico in quanto i principi longobardi del Sud giurarono fedeltà a Bisanzio e non ai carolingi.

Novità normative di Basilio. Al solito, i successi politici sollecitarono propositi normativi e questi,
s'ispirarono al sempre più incombente mito di Giustiniano. Al vero Giustiniano, dichiarò Basilio, nn
a quello falso che Leone l'Isaurico pretendeva di aver seguito nell'Ecloga.
Egli progettava di fare una grandiosa raccolta di materiale giustinianeo in 40 libri, una
“Purificazione delle leggi antiche” (Anacàtharsis).
L’impresa fu portata avanti ma mai compiuta.
Egli pubblicò al suo posto,2 sillogi: la prima di esse fu la “Legge manuale” che si colloca fra l'870 e
l'879;un’opera divisa in 40 titoli che intendeva dare un prontuario di norme nelle materie più
frequenti. Basilio dichiarava di rifarsi a Giustiniano (specie quando rimette in luce la patria potestà)
ignorando però ad esempio il testo originale delle Istituzioni e utilizzando la Parafrasi attribuita a
Teofilo, attingendo poi all’ecogla isaurica anche se in realtà diceva di disprezzarla.
La seconda opera,comparve qualche anno dopo sotto il nome di Basilio e dei figli; fu la
“Ripetizione delle leggi” divisa anche essa in 40 titoli in cui si avvertiva un riferimento alla prima
opera con qualche accrescimento e qualche ulteriore debito verso l’Ecogla. All’interno si trova una
descrizione degli status dell’imperatore, del patriarca di Costantinopoli e dei rispettivi dignitari, in
una visione unitaria della comunità ecclesiale.

“Basilici”. Quando Basilio morì in un incidente di caccia nell'886,l 'Anacatarsi non aveva ancora
visto la luce. È probabile che il materiale raccolto non sia andato perduto e sia confluito nella
grandiosa compilazione del figlio e successore Leone VI, detto il Saggio La il Filosofo in omaggio
alla sua cultura. A lui si deve la maggior opera legislativa medievale, quei Basilici che condusse a
termine molto velocemente, prima dell'anno 900.
Questa collezione conteneva 60 libri, e non 40; quindi 20 in più dell’Anacatarsi. In quest’opera il
ritorno a Giustiniano compì un balzo in avanti, in quanto ci furono richiami a codice, digesto,
novelle, poco dalle istituzioni. Non si curò di ricorrere agli originali e preferì versioni greche e a

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commenti, tagliò qua e là, omise i nomi dei legislatori e dei giurisiti. Riorganizzò infine tutto il
materiale per dargli organicità. La versione greca dei testi che l'originale latino avrebbe reso impervi
ai lettori agevolò la diffusione dei Basilici, e contribuì da una parte a far accantonare i testi
giustinianei autentici, dall'altra a rilanciarne il contenuto.
Quest’opera fu oggetto di importante interpretazione scientifica in quanto si compilarono scholia
(note di commento) già prima dell’anno mille. Tuttavia la legge isaurica e quelle di Basilio I
continuavano a vivere quindi i Basilici si mettevano accanto a loro per integrarle, senza per nulla
sostituirle. Vi è un ritorno ai due piani romanistici: uno per le norme volgari essenziali alla pratica
corrente, l’altro per configurare un più ristretto “diritto comune” sussidiario, grande inciclopedia di
regole e di principi distillati dalla tradizione.

Tutte le vicende legislative ch'ebbero come teatro l'Oriente toccarono l'Italia. A dimostrare l'ingresso
della normazione bizantina nella penisola sta un certo numero di manoscritti copiati in Puglia e
ancor più in Calabria che dovevano servire ai tribunali.
Due di queste collezioni furono non solo trascritte ma con tutta probabilità, addirittura composte
nell'Italia meridionale. Esse mettono insieme un materiale ricco e variegato che rappresenta bene il
patrimonio di leggi e di strumenti giuridici ch'erano per le man di giudici e avvocati fra il X e il XIII
secolo nel nostro mezzogiorno: si tratta della cosiddetta Epitome Marciana – cosi chiamata perchè il
manoscritto si trova nella bibilioteca marciana di Venezia – e della raccolts vaticana intitolata
dall'editore Francesco Bandileone Prochiron legum, ossia Manuale di leggi. Quest'ultima stata
qualificata il vero e proprio manuale giuridico dell'Italia meridionale.

CAPITOLO IX

Aspetti della prassi

Accanto ai legislatori e ai complessi normativi sta il mondo della prassi, i cui protagonisti sono i
giuridi e i notai. Oltre che interpretare le leggi che venivano dall'alto, essi dovevano accertare i
principi non scritti posti dai costumi e caricarli di auctoritas: dell'autorità del giudice che decide in
giudizio o dell'autorevolezza dell'esperto che disegna assetti giuridici nel documento notarile.
Gli uni e gli altri trasformavano i costumi in norme consuetudinarie.

I notai. Il notaio dell'alto medioevo non era quel pubblico ufficiale che conosciamo oggi, investito
dallo stato di un potere certificativo che assicura ai suoi documenti la publica fides.
Un che di pubblico, è vero, glielo si riconosceva. Già ai tempi dei Longobardi egli comparve come
scrivane publicus. E nel IX secolo più di una volta come notarius publicus, e non si sa se quel
publicus indicasse un dipendente del palazzo capace di dare ai suo scritti un certo grado di
credibilità, oppure se designasse soltanto un privato che usava esplicare la propria attività

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pubblicamente. Di nomina e controllo parlano invece i carolingi, sicchè è possibile che, almeno ai
loro tempi, allo status e alle mansioni notarili fosse attribuito un carattere semi ufficiale.

La firmitas. Il medioevo aveva imperniato il problema dell'atto giuridico e del negozio sulla
firmitas, problema che deriva dalla romanità.
Tra i tanti significati che la firmitas assumeva, quelli dell'irrevocabilità e dell'inattacabilità dell'atto
e del suo contenuto costituiscono i valori di fondo. Valori che si presentano nelle tappe lungo le
quali si svolge la dinamica dell'atto. La prima tappa coglie il momento in cui la volontà dell'agente I
dei contraenti, superati gli ondeggiamenti della fase di gestazione, appunto si “ferma” su un
risultato che non potrà più subire mutamenti. Noi inividueremo in questo momento la nascita
dell'obbligazione, gli antichi dicevano che qui l'obbligazione diventava firma.
La funzione di erogare firmitas sarà assunta anche dal documento notarile; il documento si chiamerà
esso stesso firmitas, assumendo il nome dell'effetto che conseguiva. A fargli meglio assolvere il suo
compito valeva anzitutto la sottoscrizione delle parti – che noi chiamiamo ancora oggi firma – che
poteva essere accompagnata da simboli formali: si poteva disporre la carta sull'altare o davantial
corpo di un santo.
L'ultima fase dell'efficacia della firmitas atava nel suo assicurare l'inattccabilità sa degli assetti
dìinteressi che il documento conteneva sia del documento stesso; quest'inattaccabilità si esprimeva
in giudizio, ove a difendere la carta e il suo contenuto provvedevano i testimoni: essi erano sempre
presenti all'atto e sottoscrivevano sempre la carta. Funzione da testimone la svolgeva anche il notaio
stesso.
Il documento, quindi, era in grado di erogare firmitas dal momento in cui arrestava l'ondeggiante
formarsi della volontà delle parti fino a quello in cui difendeva la stabilità delle cose volute
provandole in giudizio.

Istituti significativi della prassi:


Problema del concreto possesso della terra. Le visioni ottocentesche hanno avuto il merito di
mettere in luce la Gewere germanica, istituto che avrebbe designato il mero legame materiale
dell’uomo con la terra fuori da qualificazioni giuridiche. Non avrebbe preso in considerazione la
buona La mala fede nel possesso, avrebbe consentito la coesistenza di più Gewere sullo stesso bene
- del proprietario, dell’usufruttuario, del concessionario o del beneficiario – e tutte avrebbero uguale
tutela.
L’equivalente latino di questo termine è “investitura”. Questo è il solo che appare in Italia a detta di
Anselmino dall'Orto. L'investitura, egli avverte, nella sostanza è molto simile all'enfiteusi, al livello
e alla precaria ma se ne discosta nell'atto simbolico cui la si segue: la consegna di una bacchetta o di
un altro oggetto che si tenga in mano. È questo è un requisito indispensabile, la cui omissione
comporta nullità del contratto.

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Sistema agrario. Se la Gewere-investitura faceva dei diritti reali un “abito” della persona, ossia uno
status, dietro ai contratti agrari propriamente detti stavano gli assetti economico-sociali
dell'organizzazione rurale. Il sistema agrario si configura come un “sistema curtense” termine che la
storiografia usa in modo improprio: la struttura tipica era esemplata su quella del latifondo romano
tardo-antico e prevedeva un comprensorio centrale (sala, casa dominica) sfruttato direttamente dal
padrone con mano d’opera servile e una costellazione di fondi detti mansi dati in concessione con la
contropartita di censi in moneta o in natura e di una serie di prestazioni di lavoro.
La caratteristica del comprensorio sarebbe stata l’organizzazione autarchica, un circuito chiuso tra
produzione e consumo che doveva comprendere, oltre la coltivazione, le necessarie infrastutture
artigianali (falegnami, fabbri, costruttori di utensili). Il sovrappiù del prodotto veniva smerciato
fuori dal circuito e contribuiva ad animare i traffici.

I livelli. Chi ha preteso di distinguere in categorie tipiche differenziate livelli ed enfiteusi è


incappato in ostacoli gravissimi, talvolta nemmeno lo stesso notaio antico sembra fare confusione.
Si è pensato che livello e precaria si concedessero su domanda e l'enfiteusi no, ma poi è risultato
che fino al XII secolo formule dell'enfiteusi, quando metteva le parole in bocca al postulane
cominciava con un significativo Petimus a vobis; la previa richiesta era dunque esplicitamente
ricordata.
Si è suposto che la concessione di livelli fosse riservata a contadini per farne homines dipendenti e
fedlei, ma poi si è visto che questa si è la regola, ma vi sono anche vistose eccezioni: nel 681 un
livello è stato dato a un prefetto e a un magister militum.
Quando si è tentato di trovare nel livello caratteri costanti, se ne è additato specialmente uno, la
durata ventinovennale che in realtà costante non è.
Si è voluto farne un contratto formale la cui forma – due scritture redatte con identico tenore e
scambiate fra le parti – si è rilevata poi comune anche ad altri contratti. Tutto ondeggiante e incerto.
Il livello era istituto proveniente dal basso Impero; Liutprando lo evocò nel 727 in una legge al
curioso scopo di obbligare i proprietari terrieri ad un'azione di polizia: dovevano inseguire e
acciuffare i liberi homines titolari di appezzamenti libellario nomine, quando fossero stati imputati
di omicidio, per consegnarli alla parte lesa, ossai alla persona legittimata a riscuotere la compositio.

È perfettamente coerente con il quadro dei rapporti agrari il fatto che la prassi feudale abbia
accostato il beneficuim al livello e all'enfiteusi; abbia persino trasferito regole e principi. Sicchè si
venne pian piano stendendo sui contratti agrari lo stesso velo di fidelitas che avvolgeva il beneficio;
nel nuovo millennio non sarà raro il caso che il signore fondiario chiami fedeli o vassalli i propri
contadini anche in assenza di un'investitura feudale. La fidelitas interveniva subito, ovunque vedeva
casi di subordinazione personale, e nulla come il rapporto con la terra qualificava lo status
dell'uomo: per usare un'icastica espressione <<chi da la terra vuole l'uomo, e l'uomo si da per avere
la terra>>. Bastava che il proprietario esigesse la residenza stabile sul fondo, perchè scattasse la

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regola che l'uomo libero residente su terra altrui s'intendesse sottoposto, per consuetudine ma
talvolta persino per contratto, a una giurisdizione padronale.

Convenientiae. Si incontrano talvolta accordi che, rientrando La non tra i contratti agrari, usano la
forma del livello e vengono chiamati onventiae. Lo si trova non solo nei documenti, ma anche nelle
leggi longobarde. La storiografia ha paragonato convenientia con stantia che appare come un atto
dotato di efficacia obbligatoria. Essa deve esser compiuta davanti a uomini liberi quindi alla
presenza di testimoni i quali son necessari perché l’accordo divenga contratto formale.
Il farne una figura contrattuale germanica dava però pensiero. Convenientia non è che la forma
romana di conventio, obiettò il Brandileone, e la prassi medievale viene per la gran parte dai
romani; per di più la storia del loro contratto formale tipico, la stipulatio, basta a spiegare la forza
obbligatoria della convenientia, che in virtù della sua filiazione con la stipulatio conservava la
natura di contratto formale. Ma nemmeno questa ipotesi soddisfece.
L'elemento comune di tante e cosi varie tesi stava nella pretesa di fare della convenientia un tipo di
contratto. Proprio questo fu il punto che sembrò al Calasso dolente; egli tentò allora di restituire
questa figura alla sua dimensione storica: la convenientia non avrebbe mai avuto veste di contratto,
il ricorrere del suo nome in leggi e documenti sarebbe soltanto il segno dell'attenzione crescente
accordata dalla società al momento consensuale all'interno del contratto.
L'Astuti ha compiuto un ulteriore passo: convenientia e stantia sono soltanto parole del linguaggio
corrente medievale che hanno la stessa indeterminatezza delle attuali convenzione La accordo.
Indicano ogni sorta di assetti consensuali d'interessi.

CAPITOLO X
Dopo l’anno mille

Quando Ottone I, sassone, diventò imperatore nel 962 chiudendo il periodo di vacanza succeduto
alla morte dell'ultimo carolingio, un vento di germanizzazione sembrò abbattersi sull’Italia ma ciò
durò poco. Lo stesso Ottone preparò nuove aperture alla romanità quando decise di unire il figlio,
Ottone II, in matrimonio a una principessa bizantina. Il nipote di Ottone I poi, Ottone III, grazie agli
insegnamenti greci della madre, soggiornò a Roma, se ne dichiarò affascinato e passò alla storia
come restauratore della tradizione imperiale, anche se in realtà non riavviò il rilancio del diritto
romano.
Dopo la sua morte tuttavia ci fu un restauro di tutti quei diritti sovrani che nello sfacelo
postcarolingio l’Impero aveva perduto: diritti esclusivi su ogni bene della corona e demaniale, su
feudi maggiori, su nomina degli alti magistrati, sul conio della moneta. Tutta questa restaurazione
non poteva però non scontrarsi con la Chiesa che non sembrava accettare la costante superiorità
imperiale. E con le città, ora rafforzate economicamente e demograficamente, desiderose di
autonomia.

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Guerra tra Impero e Chiesa scoppiò violenta. Certo. L'abitudine dei monarchi di nominare papa e
vescovi appariva sempre più insoportabile a una chiesa che aveva visto esaltato nel XI secolo,
prestigio e autorità.
Una riscossa per la Chiesa fu data dalla diffusione capillare dell’ordine benedettino, che riformò i
conventi: in Francia, nella Borgogna, ciò si diffuse mediante l’ordine monastico di Cluny che
rispondeva alla regola benedettina. Il potenziamento della disciplina all'interno e l'e obbedienza
diretta al pontefice romano all'esterno, furono due delle direttive del movimento che maggiormente
stimolarono la ristrutturazione della chiesa.
Si crearono sempre nuovi conventi. Ne nacquero di prestigiosi anche in Italia, e il loro appello a una
spiritualità inensa fu accolto con entusiasmo, tanto che monaci ansiosi di perfezionarsi si ritirarono
nella solitudine degli eremi: un caso celebre è quello del futuro cardinale Pier Damiani, noto per la
sua conocenza del diritto romano, a cui il futuro Gregorio VII chiese di redigere una raccolta
normativa canonica con l’unico tema dei poteri del pontefice: il Dictatus papae.

Decreto di Burcardo. Esso fu composto dal vescovo di Worms Burcardo che molto vicino
all’imperatore Enrico II compose quella che appare la vera e propria nuova collezione canonica del
nuovo millennio. In esso si presenta la Chiesa secondo la concezione “imperiale” di stampo
Costantiniano, ma con qualche venatura nuova: sorvolò sul modello dei vecchi concili che
consetivano al re d'intervenire nelle elezioni vescovili, rifiutò le pretese dei poteri secolari di
disporre liberamente dei beni delle chiese, sottolineò l'autonomia dei vescovi.

Nuovi obiettivi della Chiesa. Posto a cerniera tra due millenni e due tipi di chiese, il Decreto di
Bucardo chiuse un'epoca e ne aprì un'altra i cui nuovi obiettivi emersero con chiarezza a metà
secolo: l'esaltazione del primato del pontefice romano, dei suoi pieni poteri sulle gerarchie
ecclesiastiche e addirittura della preminenza su quella temporale, la conferma del celibato per i
preti, lotta contro la simonia (vendita dei beni sacri), rivendicazione di giurisdizione ecclesiastica,
processo senza più ordalie e duelli e disegno preciso dei sacramenti, in opposizione concubinato
(prete che fa figli con la concubina).

Collezione in 74 titoli. Il Fournier imputa questa collezione al monaco benedettino Umberto, creato
da Leone IX nel 11050 cardinale e vescovo di Silva candida. Oggi si dubita sia della paternità che
della datazione. Quest’opera appare molto moderata il che poco si lega con l’intransigenza della
Chiesa di quel periodo.

Dictatus papae. Parliamo più approfonditamente di quest’opera: essa è un lapidario complesso di


27 brevi proposizioni rivolte ad esaltare la dignità e i poteri del papa, che sfiora l'arrognza.

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All’interno si trovano proposizioni secche e lapidarie: ogni norma canonica deve esser approvata
dal papa, a lui compete la giurisdizione delle cause maggiori, nessuno ha il diritto di giudicarlo,
egli solo può convocare un concilio e a lui spetta la ratifica dei lavori.
Nei rapporti con l’Impero ci sono clamorose e spaventose novità: tutti i principi della terra devono
baciare il piede del papa, nessun contatto si deve aver con gli scomunicati del pontefice e questi può
sciogliere i sudditi dal giuramento del re e deporre i re stessi.
Questo è senza dubbio il chiaro segnale di una riforma ecclesiale che ha come manifesto il
Dicatatus Papape; si assiste ad un mutamento della chiesa in un organismo fortemente centralizzato.

Collezione del vescovo Anselmo di Lucca. La collezione più legata all'inseganemento di Gregorio
VII fu quella del vescvo di Lucca, suo amico e seguace fedelissimo. L'opera deve molto alla
precedente in 74 titoli, dalla quale prende a prestito i due terzi del materiale; è più accesa nel
sottolineare il primato del pontefice su tutta la gerarchia ecclesiastica e sui concili; insiste nel
fondare il primato dell’evangelico “Tu es Petrus” di Cristo per inalzare il papa sopra qualsiasi
contestazione terrena.

Ivo di Chartes. Egli appare sulla scena dopo la morte di Gregorio VII nel 1085 e si presenta come
autore del Decretum, la Panormia e la Tripartita. Per la verità solo la Panormia è sicuramente uscita
dalla sua penna, ma i rapporti che corrono tra le opere, e il ricorrere di tutti i temi cari a Chartres
autorizzano a ritenere i tre libri, se non sempre scritti, almeno sempre ispirati dal grande vescovo, e
comnque composti nel suo ambiente.
Se confrontete con le collezioni precedenti, quelle di Ivo paiono meno accese, più pacate, danno un
posto liù liitato alle Decretali di Gregorio VII e uno spazio maggiore al vecchio Burcardo di Worms
e il diritto romano fa comparse più consistenti, tendono a ridimensionare quella figura del legato
papale che nei precedenti sillogismi appariva costruito come uno strumento troppo arrognate
dell'assolutismo pontificio.
A fronte delle numerosissime collezioni che hanno fatto del periodo gregoriano l'epoca della
frenetica ricostruzione dell'ordinamento giuridico della chiesa, ne vanno anche annoverate alcune
che restano sorde i richiai riformistici. La più nota è la collezione di Frafa, nata nella grande abbazia
che godeva della protezione imperiale.

Britannica. Questa collezione è chiamata così perchè si trova al British Museum di Londra,
nonostante è certo che sia stata composta a Roma. Lo fu con tutta probabilità durante il pontificato
di Umberto II, attivo esponente della riforma. La Britannica contiene 93 frammenti del Digesto
indicando di ciascuno il libro e il titolo in cui è contenuto. Questo ci fa pensare che il redattore
avesse dinanzi agli occhi un testo La del Digesto intero La di una sua parte.
Cosa impressionante è che offre redazioni divergenti rispetto a quella della lettera Pisano/fiorentina
o della tradizione vulgata che sembravano le tradizioni attestate in occidente. La cosa contrasta con

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la vecchia credenza che tutte le tradizioni testuali del Digesto circolanti in occidente derivassero
dalla nota Littera Pisana/Florentina, manoscritto di età giustininea.

Caso di applicazione del Digesto. La riforma gregoriana è dunque sicuramente una delle forze
storiche che hanno contribuito al ritorno in onore dei testi di Giustiniano e del Digesto. Ma non è
stata la sola: anzi, la prima riapparizione del libro avvenne fra gli strepiti di un processo civile.
Siamo nel 1076 a Marturi, oggi saremo a Poggibonsi nel senese. Il monastero di S. Michele
rivendica alcuni beni che gli erano stati donati un'ottantina di anni prima dal marchese Ugo di
Toscana, ma che si trovavano nelle mani di fideles dei canossiani dal tempo di quel malvagio
marchese Bonifacio che amava spogliare le chiese a vataggio proprio.
Invano il monastero aveva sollecitato la restituzione, la prescrizione intanto era scattata. Ma ecco
che, rimasta finalmente vedova Beatrice, madre della gran contessa Matlde, vedendola sola al
potere e molto più propensa dei suoi predecessori a favorire i conventi, il monastero ritenta la sorte.
La corte con grande abilità aggira l'ostacolo del'avvenuta prescrizione invocando un testo
inconsueto del Digesto, un passo di Ulpiano che riportava l'editto pretorio con cui si concedeva la
restitutio in integrum, prevista per i miorenni, ma anche per i maggiorenni solo in due casi:
l'assenza prolungata nell'esercizio di un ufficio pubblico e la mancanza di giudici a cui ricorrere. La
denegata giustizia che avava patito il monastero rientrava proprio in questa ultima fattispecie.

Defensio Henrici IV Regis. Essa è una raccolta databile intorno al 1084 attribuita a un certo Pietro
Crasso uno scrittore cesarista mfidelis di un sovrano assolutamente incerto.
L’autore ha sicuramente una cultura teologico-canonista ma anche una discreta conoscenza del
diritto romano citando molto del Codice, poco delle istituzioni e una volta richiama Digesto e
Epitome Iuliani.
L’opera è da collocare in quell’ambiente ravennate dipinto come di stretta obbedienza imperiale
dominato dall’arcivescovo Ghiberto ch'era tanto fedele di Enrico IV da essere fatto da lui antipapa.
Un vero covo, dunque, di partigiani del monarca che poteva trasformarsi in una officina operosa di
scritti cesaristi. Persino di ardite falsificazioni. [cesarismo: sistema politico autoritario basato sul
potere personale di un sovrano, investito della sua sovranità dal popolo].
Tre sono celebri.

Grandi falsificazioni della cerchia ravennate. La prima è l’Hadrianum cioè la narrazione del
soggiorno di Carlo Magno a Roma nel 774, dove egli insieme al papa Adriano avrebbe riunito un
sinodo nel patriarchio lateranense con partecipazione di vescovi ma anche di giudici, clero e popolo
romano. Tutti questi partecipanti avrebbero conferito a Carlo Magno il patriziato e il diritto di
eleggere il pontefice e ordinare la Chiesa.
Ma il fatidico 774 dovette sembrare troppo lontano e fu opportuna qualche riforma più vicina. Ecco
allora una coppia di falsificaioni, detti il Privilegium maius e il Privilegium minus, attribuiti
entrambi all'antiapapa Leone VIII, intervenire a favore di Ottone I ripetendo le disposizioni
dell'Hadrianum.
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Conclusioni. Le iniziative culturali che muovono da ambienti riformisti gregoriani e da quelli
conservatori cesaristi son soffusi da quelle aspirazioni religiose accese nel fervore delle lotte tra
papi e principi di vero fanatismo che costituiscono la caratteristica saliente dell’intera società del
secolo XI.
Nella zona di Gaeta il Calsasso fu molto colpito da documenti in cui notai redigono donazioni e
testamenti assicurandone la legittimità invocando l’auctoritas ecclesiastica e la lex romana. È
un'invocazione che nessuna citazione di norme contiene. Probabilmente i notai sapevano soltanto
che la legittimità degli atti derivare dalla legge divina come da quella umana.
L'uso di tale formula non è affatto occasionale a circoscritto al territorio di Gaeta. Già nel X secolo
in Provenza i lombardi si dichiaravano proprietari “et canonico ordine et legibus”.
La già vista Defensio Henrici IV Regis arriva a dare una descrizione teorica delle professioni di
fede dell’alto Medioevo quando sostiene che il Creatore ha dato all’uomo 2 leggi, una per il tramite
degli apostoli che ha indirizzato agli ecclesiastici, l’altra per mezzo degli imperatori e re data ai
laici. Ma la bontà divina ha voluto che l’una e l’altra legge profittasse sia al clero che al popolo in
modo che nessun negozio osasse violarla, creando quindi un’unione tra leggi canoniche ed imperiali
e un’unione indissolubile tra spirituale e temporale.

PARTE SECONDA

L’ETA DEL DIRITTO COMUNE

I: SCUOLE E SCIENZA

Capitolo I: SCUOLE PREIRNERIANE DI DIRITTO

La cultura allo sbocciare del nuovo millennio appariva in grande crescita. Le vecchie arti liberali,
alle quali si affidava da secoli la formazione dell'uomo di lettere e di scienza, erano in grande
espansione e le loro scuole trovavano successo.
Si attribuisce la prima descrizione delle 7arti liberali a Marziano Capella, un autore latino che aveva
scritto una favola mitologica in cui comparivano 7 ancelle di Apollo in cui ognuna appunto
rappresentava un’arte. La caratteristica comune di queste arti era la loro rilevanza pratica.
Capella le divideva in 2 gruppi:
– il Trivium comprendeva le 3 arti chiamate sermocinales in quanto riguardanti i metodi della
corretta e ornata espressione del pensiero nel discorso:
la grammatica (si insegnava leggendo i classici latini);
la dialettica (offriva elementi essenziali della logica aristotelica);

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la retorica (essa in quanto arte del persuadere era cara agli oratori e ai giuristi. Il punto di forza del
suo insegnamento era naturalmente i testi del Cicerone, l'oratore per eccellenza).
– Il secondo gruppo era il Quadrivium che comprendeva le 4 arti qualificate reales in quanto
riguardavano fenomeni obiettivi fondati sul numero e sulla quantità e non sul funzionamento
dell’intelletto: l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astrologia.

Questo era lo schema dell’istruzione superiore anche nell’alto Medioevo ed era un’istruzione che si
impartiva però superficialmente: anche Carlo Magno ne era preoccupato pur essendo personalmente
ignorante, subiva il fascino del sapere, e lo riteneva un valido instrumentum regni e un mezzo
necessario alla chiesa per lo svolgimento delle sue funzioni spirituali, sicché egli stesso si circondò
di dotti. Gli storici parlano di “Rinascenza”carolingia alla sua corte sbocciando un Rinascimento
“ante litteram” sospinto da una fiammata di entusiasmo per la latinità.
Ci fu una fervente produzione libraria e furono copiati molti testi antichi che vennero così salvati.

L’imperatore Lotario nell’825 vedendo che la dottrina italiana era in condizioni disastrose la definì
estinta e promulgò un capitolare ecclesiastico olonese per avviare una riforma della istruzione
superiore. Non si sa se istituisse una rete scolastica nuova, La come è più probabile, si limitò a
organizzare l'afflusso degli studenti distribuendoli a seconda della loro provenienza tra le sedi
vescovili del regno d'Italia: Pavia anzitutto, la capitale, poi Torino, Cremona, Firenze ecc.
fu forse il provvedimento carolingio più significativo in tema di istruzione. La sua emanazione sotto
forma di capitolare ecclesiastico conferma che l'insegnamento era interamente affidato al clero nelle
cui mani stava il monopolio della cultura.
Pavia diventò poi probabilmente un centro culturale agli inizi dell’XI secolo, grazie all'ottima fama
di cui godeva e attirava studenti da lontano. È possibile che vi si studiasse anche il diritto e la cosa
non sorprende dato che nel sistema Trivio il diritto era un'appendice naturale della retorica.
Accanto alla scuola delle arti si affacciò a Pavia, sin dagli inizio del XI secolo, una scuola
professionale di diritto longobardo-franco (l’ordinamento del Regno d’Italia) rivolta alla formazione
dei giudici.
Studi della scuola di Pavia. Essa studiò gli editti Longobardi e il Capitolare italicum in una
raccolta che il giurista Merkel chiamò Liber Papiensis la cui forma definitiva non fu raggiunta
quando i maestri cominciarono a insegnarlo. La forma definitiva non fu raggiunta prima della fine
del XI secolo. In seguito, il medesimo materiale legislativo fu disposto in forma sistematica ad
imitazione del codice giustinianeo, lo si distribuì cioè per materia in titoli e i titoli in 3 libri; fu
un'operazione compiuta con tutta probabilità in ambiente scolastico. Il nuovo testo fu denominato
Lex Longobarda o Lombarda che entrò in vigore dal XII secolo.
Con l’evoluzione cambiò anche il modo di approccio dei maestri pavesi ai testi: il primo approccio
fu di natura esclusivamente pratica corredando i testi con formule, ancora molto primitive, per
facilitare l’attuazione delle norme nella pratica dei tribunali.

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Un’altra forma di evoluzione si coglie nella citazione di leggi longobardo-franche e nella loro
illustrazione con rade glosse di natura teorica in cui si leggono addirittura due citazioni
romanistiche del Codice e dell’Epitome Iuliani.
Il Cartolarium rappresenta uno dei precoci scritti della scuola pavese relativo ai notai e alla
redazione degli atti privati e, sebbene alcuni lo datino nel IX sec, fornisce comunque un quadro
aggrovigliato di leggi germaniche, mettendo in rilievo la legge salica contrapponendola alla romana
e ignorando quella longobarda.
Echi scolastici si odono ancora meglio nell'operetta cui Ludovico Antonio Muraotri diete il titolo,
un po' ottimistico, di Quaestiones ac monita. È composta di una serie di quesiti, con relativa
elementare risposta, su materie disparate, ed è appunto nel senso di quesiti che il termine
quaestiones del titolo si adatta alla scrittarello.
Quanto all'altra termine, si può ben parlare di monita – rivolto ai lettore, eventualmente studenti –
dato che molti pezzi cominciano con un recordare, tieni a mente, in cui risuonano appunto, accenti
chiaramente ammonitori.

Expositio ad Librum Papiensem. E' il capolavoro della scuola di Pavia databile intorno alla fine
del XI. Esso si tratta di un analitico commento tecnico alla raccolta fino a quelle leggi di Enrico I
con cui si chiude il Liber Papiensis usato nella didattica. Questo documento rileva che la scuola era
in funzione da più generazioni in quanto vengono citati dall’autore docenti antiquissimi, antiqui
(generazione precedente) e moderni (contemporanei all’autore).
Se i maestri pavesi studiavano e insegnavano il diritto longobardo-franco, essi però citavano
abbondantemente anche il romano; lo usavano come diritto sussidiario per trarne criteri
d'interpretazione delle leggi germaniche e per riempirne le lacune. La legge romana viene definita la
legge generale di tutti. Una tale affermazione era destinata a suonare come il primo squillo di
tromba annunciatore dell'avvento dell'era del diritto comune.

Il diritto romano si cominciava a ristudiare? Questa domanda sorge pensando al fatto che nella
scuola pavese il diritto romano sembrava esser utilizzato con molta disinvoltura.
Qualche indizio a favore di una risposta positiva c'è: circola l'ipotesi che in un gruppetto di apparati
di glosse preirneriane alle Istituzioni almeno uno provenga proprio da quell'ambiente di
longobardisti. L'autore sembrerebbe essere individuato nel dotto maestro pavese Walcausa.
Conosciamo quell'apparato alle Istituzioni come Glossa Coloniensis , chiamato così perché ritrovato
a Colonia ma in realtà è imputabile alla Lombardia. l'esistenza del gruppetto di apparati alle
Istituzioni del quale fa parte la Glossa Coloniense denuncia il risveglio di un interesse dei giuristi
per quel manuale. Probabilmente nell'atmosfera di curiosità per il Giustiniano risorto era nata
l'esigenza di un approccio al diritto romano per eccellenza; le Istituzioni che nell' Alto medioevo
avevano goduto di una popolarità assolutamente modesta, avevano cominciato ad essere ristudiate e
corredate di glosse seppure elementari. La Glossa Torinese esibisce strati che risalgono addirittura

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all'età giustinianea. Evidentemente libri antichi erano stati estratti dalla polvere di qualche
biblioteca ed erano capitati sui tavoli dei nuovi giuristi.
Un altro famoso apparato sembra esser la Glossa di Casamari: essa proviene dal territorio romano
ma potrebbe nasconder qualche legame con gli ambienti settentrionali almeno giudicando la stessa
definizione che ha del concetto di summa con la glossa di Colonia.
Tutti questi apparati alle Istituzioni mostrano alcuni richiami, radi e generici, alla prima parte del
Digesto.

Altre scuole preirneriane? A rendere la domanda ineludibile è il racconto di un maestro bolognese


di metà duecento che amava dare ai suoi studenti notizie di vita contemporanea. Odofredo passa per
inaffidabile narratore di favole, ma era in realtà un frequentatore di archivi e antichi documenti. Egli
racconta che i libri giustinianei e l’antica scuola di Roma sarebbero stati costretti ad emigrare a
Ravenna per le guerre che si stavano tenendo nelle Marche. Da Ravenna i libri sarebbero arrivati a
scaglioni successivi a Bologna dove Irnerio li avrebbe poi studiati e avrebbe costruito su di essi il
proprio insegnamento, gettando le basi del gloriosissimo Studium bolognese.
Ecco quindi una tradizione antica pronta ad affacciare l'ipotesi di una scuola di diritto attiva prima
che a Bologna a Ravenna, la capitale bizantina in Occidente.
Al dire di Offredo il viaggio dei libri legales e dell'intera scuola verso Bologna, previa tappa a
Ravenna, era partito da Roma. Sull'epoca tutto tace, ma chi come Fitting congetturava fosse
avvenuto intorno al 1084 poneva automaticamente il problema dell'esistenza di una scuola
preirneriana di diritto anche nella sede del papato. Anzi, si sarebbe potuto immaginare che lo stesso
Irnerio insegnasse da una cattedra romana prima di trasferirsi a Bologna, se si teneva conto di una
notizia che si legge nella biografia d'Irnerio scritta dal giurista Caccialupi. Si tratta però di una
notizia falsa, scaturita da un errore di stampa della prima edizione dell'opera del Caccialupi poi
subito corretta. Ma su questa svista il Fitting ha costruito un castello di fantasie, i c.d. Sogni
Fittinghiani: Irnerio a Roma avrebbe addirittura avuto un maestro, vi avrebbe scritto varie opere tra
cui le Questiones de iuris subtilitatibus.
Fu proprio l'erronea attribuzione delle Questiones e la polemica che ne derivò a seppellire via via
tutti i sogni del Fitting. Compreso quello dell'esistenza di una scuola prebolognese a Roma.

Lo stesso Odofredo sostiene che il primo ad insegnare diritto romano non fu Irnerio ma Pepo di cui
però non si ha alcuna fama. Pur liquidato in modo brusco dal luminare bolognese, il povero Pepo
non fu una nullità che meritasse di scomparire senza tracce.
Un celebre brano di Niger parla di Pepo in termini laudativi. Lo dipinge come il protagonista di una
nuova aurora del diritto romano declassando Irnerio al ruolo di subalterno, di semplice propagatore
dell'iniziativa del suo predecessore.
Si è ritenuto e per Cortese non a torto che Pepo andasse identificato come il doctor legis comparso
nel placito di Marturi.

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Pepo è poi citato da un altro passo di Niger in cui si narra che il giurista sarebbe intervenuto durante
un placito di Enrico V il quale, applicando il diritto germanico per risolvere una controversia, fu
attaccato da Pepo che chiese e ottenne l’applicazione del diritto romano per il caso concreto
(l’omicidio di un servo a cui per Enrico corrispondeva una “sanzione” compositio pecuniaria)
adducendo come motivazioni: che il diritto naturale non consente di fare distinzioni tra servi e
liberi, quindi non si possono applicare pene differenti a seconda dello stuatus personale delle
vittime; che la legge di natura prevede che chiunque uccida, venga ugualmente ucciso.
Ugualmente, pariter, dice Pepo: l'uso dell'avverbio rivela ch'egli aveva in mente la legge del
taglione. Ma il taglione aveva lasciato pochi echi nel diritto romano, ciò ci rivela come Pepo, più
che a specifiche leggi giustinianee, pensava alla legge di natura.
Quanto poi al fatto che i servi non fossero da distinguere dai liberi, si trattava ovviamente di un
richiamo al principio della originaria naturale libertà di tutti gli uomini, ossia di quella libertà
prevista dal mitico diritto naturale primaevum.

Idee della Chiesa sul diritto naturale. L'idea che il diritto naturale dovesse prevalere su quello
civile era esclusiva della Chiesa: per lei la natura essendo Dio stesso, il diritto naturale s'identificava
con il divino cui, ovviamente nessuna legge umana avrebbe potuto derogare.
Diventa chiaro che il discorso di Pepo poggiava senza dubbio su presupposti ecclesiastici e di un
conseguenza questo primo grande maestro di diritto romano aveva mente e cuore di canonista.
Un paio di decenni fa Piero Fiorelli ha proposto una congettura ardita e suggestiva che ha avuto
molto seguito. Un vescovo Gualfredo di Siena avrebbe scritto il racconto in versi di un immaginario
convegno tenuto per discutere di papa e antipapa. Al convegno parteciparono vescovi e maestri e
personalità di spicco; tra esse un Pepone. Purtroppo i versi originali non ci sono pervenuto, li hanno
tramandati le Historiae Senensesun tardo storico umanista della cui precisione c'è poco da fidarsi.
Fu probabilmente lui e non l'arcivescovo Gualfredo a chiamare Pepone “luce dei bolognesi”. E fu
lui ad aggiungere che quel Pepone era vescovo di Bologna.
In città di vescovi ve ne erano due. Uno si chiamava Sigifredo e obbediva al papa Urbano II, l'altro
era scismatico, quindi fedele sia all'antipapa Clemente III sia a Enrico IV. Ora, questo vescovo
scismatico che coprì la cattedra dal 1085 al 1096, si chiamava Pietro, e il nome Pietro aveva come
diminutivo di marca germanica Pepo. Che il nostro maestro di diritto dopo aver partecipato al
seguito dell'imperatore fosse stato nominato da questi vescovo?
La congettura consente una serie di incastri favorevoli, ma tutto compreso essa non riesce a vincere
la perplessità. È lecito dare tanto affidamento al Ticci? Si ha da pensare che la damnatio memoriae
dello scismatico sia responsabile dell'oscurità caduta su Pepo, ma è mai possibile che la sua dignità
vescovile sia stata cosi integralmente cancellata?
Se, dunque, dipingerlo con mitra e pastorale sembra impresa possibile, ma ardita, resta che l'abito
ecclesiastico gli conviene benissimo. Il docente del Codice e delle Istituzioni più che bazzicare
Giustiniano predica idee correnti nella Chiesa.

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Exceptiones legum Romanorum Petri. Il metodo e il pensiero di Pepo fecero presa sulle scuole
canonistiche. Lo scritto in cui il pensiero di Pepo appare più evidente, sono le Exceptiones legum
Romanorum Petri. Qui con parole dure si esplica il principio canonistico, caro a Pepo, della
prevalenza del diritto naturale sul civile, e per conseguenza dell'equità sulla legge scritta. La retta
sentenza del giudice deve perciò tener conto di entrambi i diritti, il naturale e il civile, il che
significa che deve far prevalere il primo sul secondo.
Alcuni sostengono che quest’opera , che tradotta significa “estratti dalle leggi romane compilati da
Pietro” sia preirneriana, dato il suo aspetto grossolano ed elementare e realizzata in Italia per le
citazioni del Digesto impensabili altrove; altri la vogliono realizzata in Francia (oggi questa è la
tesi prevalente).
Le Exceptiones sono dette scomponibili, si è accertato che si sono formate dalla confluenza di opere
che hanno goduto ciascuna di vita indipendente e circolazione propria. Le maggiori componenti
sono 3 raccolte: Il Libro di Tubinga, il Libro di Ashburnham e il Libro di Graz.
Il prologo del primo dei tre libri, è uguale a quello che ritroviamo nelle Exceptiones. Per questo il
Libro di Tubinga potrebbe essere infatti considerato la prima redazione delle Exceptiones, poi
ingrossate con l'incorporazione delle altre opere.

CAPITOLO II : IRNERIO E BOLOGNA

Wernerius è la forma originale del nome del grande caposcuola bolognese che cosi si firma in
qualche documento notarile. Una forma germanica; e viene alla mente che era di marca germanica
anche il soprannome del suo predecessore Pepo. Sebbene non sia raro incontrare Wernerius nella
documentazione centro settentrionale tra XI e XII secolo, cosi da far pensare che si trattasse di un
nome ormai entrato nell'abituale nomenclatura italiana, non si può dimenticare che una tradizione
tramandata da qualche manoscritto lo qualifica Theutonicus, nonostante egli però si dichiari sempre
bolognese.
Tuttavia l’ipotesi di sue ascendenze germaniche è possibile e ciò avvalorerebbe l’idea che
l’imperatore Enrico V l’avesse preso in quanto amava scegliere persone di fiducia tra i
connazionali, nominandolo nel 116 giudice imperiale dandogli importanti missioni politiche.
Irnerio non debutta sulla scena nella cerchia dell'imperatore; egli al contrario si affaccia le prime
volte proprio nel campo avverso, nel giro di quella grande antagonista degli Enrici ch'era la
Contessa Matilde di Canossa: seppure in un periodo di tregua tra le due potenze, dopo la
riconciliazione del 1111. Egli era a quell'epoca un semplice causidicus , un avvocato.
Almeno una volta incontro personalmente Matilde, quando entrambi parteciparono ad un placito
tenuto a Baviana.
Forse già in quella data Matilde gli avrebbe chiesto di “rinnovare i libri delle leggi”. Nel 1113
tuttavia la sua fama di conoscitore e studioso di Giustiniano già era famosa.

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L'invito a rinnovare i libri delle leggi parve poca cosa a prenderlo alla lettera, e qualcuno preferì
intenderlo come una metafora che avrebbe indicato il rinnovamento della scienza del diritto
romano, l'avvio di un insegnamento specialistico, insomma, la creazione della scuola di Bologna.

In realtà Burcardo di Ursperg spiega con chiarezza il contenuto della petitio di Matilde: era un
invito a restituire il testo giustinianeo nella forma originaria, quella in cui l'imperatore l'aveva
compilata, dopo le corruzioni altomedievali, producendo nei limiti del possibile un’edizione critica.
Ce ne era senza dubbio bisogno in quanto non si sapeva,usando il Codice, quali parti fossero
originarie e quante corrotte: Matilde dimostra allora di esser attenta ai problemi filologici del diritto
romano rinascente e Irnerio appare come un filologo (quindi mirava a una genuinità del testo)
esperto del testo giustinianeo che non voleva ricostruire solo meccanismi giuridici e istituti: egli
diventa un teorico entusiasta dei problemi testuali e soprattutto non forza l’interpretazione di un
testo per adeguarlo a qualcos’altro come faceva Pepo con le Sacre Scritture.
I suoi studi portarono a vedere ad esempio che l’Authenticum non era autentico in quanto lo stile di
detto testo era diverso da quello che Giustiniano manifestava nel suo Codice. Tuttavia allo stesso
tempo consapevole che il problema dell'autenticità del testo non coincideva con quello della validità
delle Novelle, non volle privare dalla sua raccolta le innovazioni portate dall’ultimo Giustiniano; e
tolse brevi estratti delle Novelle dell’Authenticum per sistemarli in calce alle costituzioni del
Codice che ne venivano modificate. Si chiamarono authenticae.
Irnerio curò che le authenticae avessero l'aspetto di note editoriali ben distinte dalle costituzioni del
Codice cui si riferivano. Con le quali nessuno avrebbe potuto confonderle.

Scopo del lavoro irneniano. Il suo obiettivo era sempre quello di destinare tutto il lavoro alla
pratica. Odofredo sostiene un interessamento alla prassi notarile, tanto che Inerio avrebbe composto
il primo formulario per notai.
Va notato che si occupò nel 1116 di arte dei notai, fu un anno significativo per Irnerio, perché nel
marzo di quell’anno comparve a Padova in un placito ,per la prima volta con il titolo di giudice,
accanto a Enrico V imperatore.
Azioni di Irnerio. I documenti che lo riguardano coprono pochi anni della sua vita ma per quei
pochi anni son ben 14. Spaziano tra il 1112 e il 1125, sono tutti accuratamente annotati dallo
Spagnesi, e disegnano un Irnerio affaccendato tra arbitrati e giudici.
Nel 1118 Enrico V spedì Irnerio a Roma a perorare l’elezione di Maurizio Burdino come
Antipapa,eletto con il nome molto provocatorio di Gregorio VIII: le sue arringhe furono molto
efficaci,ma lo esposero all’ira di papa Callisto II che nel concilio di Reims, dell'anno dopo,
scomunicò Enrico V e la sua corte, compreso Irnerio.
È possibile che proprio la scomunica sia una delle ragioni della scomparsa del giurista dalla
documentazione fino al 1125. Coinvolto in uno scisma sfortunato egli potrebbe essersi allontanato
dall'Italia al seguito dell'imperatore; se poi fosse rimasto a Bologna, avrebbe comunque dovuto
ritirarsi nell'ombra, l'insegnamento tacere e la sua scuola correre il rischio di estinguersi per sempre.

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La sua morte, si pensa, dovette sopravvenire non molto tempo dopo l'ultima notizia, quella del
dicembre 1125.

Vi è forse il ricordo, in una glossa del momento più drammatico della sua vita, quella perorazione
romana dell'elezione di Maurizio Burdino che chiamava in gioco i grandi temi della politica, i poteri
dell'imperatore sulla chiesa e le pretese gregoriane di una totale indipendenza.
Nella causa di Burdino probabilmente Irnerio usò il falsificatore cesarista di 40 anni prima parlando
della Lex Regia, la famosa decisione con la quale il popolo romano aveva conferito al principe tutti
i suoi poteri, dell'Hadrianum e del Privilegium maius. Queste ultime avevano inventato infatti, che
il popolo e il clero della Roma medievale, avevano deciso di trasmettere a Carlo Magno il proprio
potere di eleggere il pontefice. Ed è questa la traccia del falsificatore che Irnerio probabilmente
utilizzò.
La lex regia rimarrà il caposaldo teorico delle sue visioni del potere imperiale considerandola
un’alienazione totale e irrevocabile: questo è un argomento giuridico in favore del recupero dei
poteri dell’Impero ed è un qualcosa che sostenevano anche i cesaristi.

Evoluzione della scuola. Bologna era stata per caso la culla del più grande degli Studia; Irnerio nel
1112/ 1113, al tempo dei contatti con Matilda, si trovava, insegnava e magari studiava a Ravenna
ma poi si era trasferito a Bologna e fece di quella città sede del suo insegnamento perché li vi si
sentiva a casa.
Egli ebbe 4 importanti allievi: Bulgaro, Martino, Jacopo ed Ugo che passarono alla storia come i 4
dottori per antonomasia che proseguirono il suo magistero e consentirono alla scuola di non ridursi
ad un episodio temporaneo legato alla morte del maestro.
L'ambiente dei 4 dottori non fu mai statico e opaco; La scuola post Irnerio vide molte polemiche tra
questi e nacquero due importanti filoni di pensiero: uno riconducibile a Bulgaro che voleva
l’interpretazione rigorosa della legge scritta, l’altro riconducibile a Martino Gosia detta “gosiana”
più elastica e intesa a preferire le maglie larghe dell’equità a quelle più strette della legge. L’ equità
era stata vista fino a quel momento come un’eccezione alla norma. Martino subì critiche da
Giovanni Bassiano e Azzone, il primo discepolo di Bulgaro e il secondo discepolo del discepolo,
che gli imputavano il fatto di inventare l’equità ex genio suo con l’unico obiettivo di farla
comunque prevalere sulla legge. Cortese però sostiene che spesso Martino addirittura in certe glosse
appare più fedele di Bulgaro alla legge, quindi questa offesa per l’autore appare eccessiva.

Martino, Spiritualis homo. Enrico da Susa, grande cardinale e canonista del 1200, descrive
Martino come un uomo spirituale disposto a seguire la legge di Dio anche sacrificando Giustiniano.
Preferire l’equità alla legge tuttavia in certi momenti non voleva dire altro che applicare utrumque
ius cioè l’integrazione di diritto civile e canonico già visto come idea del Diritto comune che era
rifiutato dai civilisti postirneriani.

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Dietro le polemiche stavano due mondi: quello di Bulgaro è il mondo nuovo la cui missione è solo
quella di interpretare scientificamente i libri giustianei, affascinato dal miraggio di un ritorno al
diritto romano; Martino invece non aveva tagliato i ponti con il mondo vecchio, quello delle due
leggi ecclesiastica e romana che dovevano procedere unite nella sintesi dellUntraque lex. Ma non
credeva certo più all'untraque di Pepo che voleva sostituire il diritto divino al dettato delle norme
romane: le sue aperture al canonico furono comunque sempre caute, attente a non provocare
scandali o a offendere Giustiniano. Questi è un giurista sensibile alla prassi; per questo vicino alle
vecchie tradizioni , alle esigenze concrete e quindi all’equità.
Campo di battaglia è stato il computo dei gradi di parentela, essendo diverso per il diritto canonico e
civile. Pier Damiani polemizzò a Ravenna con una schiera di giudici che volevano applicare a tutti i
costi il compunto romano. Più o meno 100 anni dopo, vediamo Martino mettere gli occhi su una
compilazione canonica gregoriana e scovarvi tre lettere papali in cui era presentata la ragionevole
soluzione di compromesso proposto dalla chiesa: ossia che il computo dei legisti si applicasse nelle
successioni mortis causa ch'erano di materia temporale, e quello canonico fosse preferito nel campo
dei divieti matrimoniali, ch'erano invece di competenza ecclesiastica. La soluzione parve
conveniente. Martino teneva a dirlo, adottare la tesi canonica in caso di lacune non comportava
alcun tradimento a Giustiniano.

Caso celebre di divisione tra i due. Un rescritto di Alessandro Severo, contenuto nel codice,
poneva il problema dell’efficacia da assegnare al giuramento conformatorio di contratti annullabili;
un problema condizionato da istanze religiose e di coscienza.
Narra la leggenda che Bulgaro e Martino si erano trovati in disaccordo sull'interpretazione della
norma: il caso era quello di un minore di 25 anni che aveva alienato un bene giurando di non
contravvenire mai al contratto salvo poi decidere d’invalidarlo chiedendo la restitutio in integrum
che, come minorenne, gli spettava. Ma l'imperatore non gliela concesse in quanto non voleva esser
coinvolto in un caso di spergiuro.
Per i glossatori il punto dolente era che il rescritto non specificava se il minorenne avesse fatto il
contratto con le forme dovute cioè autorizzato dal giudice perché altrimenti l’atto sarebbe stato
nullo per vizio di forma e il conflitto che ne sarebbe scaturito tra la situazione giuridica e quella
etico-religiosa, si sarebbe fatto fittissimo: si sarebbe trattato di decidere se un giuramento che
impegnava solo la coscienza avesse convalidato La non un contratto nullo.
Sempre secondo la leggenda Bulgaro avrebbe tenuto conto della nullità formale, Martino
dell'impegno morale; Si dice che Martino per dirimere a suo favore la controversia avrebbe
approfittato del soggiorno bolognese del Barbarossa per fargli emanare una costituzione che
mettesse fine alla contesa, la Sacramenta Puberum , che piaceva anche alla Chiesa preoccupata di
evitare spergiuri che dannassero le anime.

Conflitto tra leggi giustiniano e Sacre Scritture. Il vero banco di prova dei conflitti tra legge e
coscienza stava però nell'ipotesi di contrasti tra passi delle scritture sacre e norme di Giustiniano.

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Qui il principio della inviolabilità assoluta del precetto divino era convalidato dalla regola giuridica
che autorità di pari livello non potevano comandare l’una all’altra, regola che precludeva che un
inferiore (legge) non poteva imporre qualcosa a un superiore (Dio=Sacre Scritture).
Il caso dolente di scontro erano le usure: Giustiniano le ammetteva in un’entità ristretta, Cristo nel
Vangelo di Luca voleva che si prestassero soldi al bisogno senza pretendere indietro nulla,
nemmeno la restituzione del capitale.
Il concilio di Nicea ne aveva di ciò fatto una norma canonica che entrò poi nel Decreto di Graziano
e quindi in dottrina canonista.
La polemica tra le due parti si acquietò quando Giustiniano si dichiarò nelle Novelle disposto a
seguire i sacri canoni, e di conseguenza le usure non erano più esigibili.

Un altro problema fastidioso per i glossatori è quello per cui Cristo nel Vangelo di Matteo sollecita i
fedeli a convertire i fratelli peccatori portandosi dietro 2 o 3 persone perché una sola voce appare
insufficiente, mentre nelle fonti giustinianee servono più testimoni, come ad es. 7 nei testamenti.
Martino in questo senso mostra davvero equità, e non si comporta da spiritualis homo disposto a
sacrificare le leggi temporali a quelle spirituali come lo descrive l'Ostiense: per il testamento sono
necessari 7 testimoni, se invece i dubbi non vanno oltre i requisiti formali del testamento bastano 2
o 3 testimoni di cui parla Cristo.
Bulgaro avrebbe invece accolto incondizionatamente la voce del Vangelo, proprio lui,
l'intransigente portatore della legge.

Il problema del detto evangelico restò vivo.


Uno statuto del 1261 aveva stabilito che occorrevano 7 testimoni per provare l'esistenza di un
vincolo matrimoniale, e aveva fissato la pena di 50 lire per i contravventori.
Un bel giorno un tizio si presentò al vicario del vescovo per chiedere che gli fosse riportata la
moglie fuggitiva, ma quando si trattò di provare che avevano contratto matrimonio con lei se la
cavò con due testimoni. La moglie, anziché presentasi al vescovo adì la potestà e ai sensi dello
statuto chiese l'annullamento della prova e in più l'irrogazione della pena alla controparte.
Le fu data ragione:ma a questo punto il vicario del vescovo non solo rivendicò al foro ecclesiastico
la materia matrimoniale, ma dichiarò illegittimo lo statuto che aveva violato la parola di Dio.
La guerra tra podestà e vescovo gonfiò a tal punto la faccenda che si arrivò addirittura a chiedere un
parere del consilium dei dottori bolognesi i quali sentenziarono che il precetto umano, privo del
potere di contraddire in toto la legge divina, poteva ben interpretarla e distinguere in casibus. La
leggo o lo statuto, insomma, pur incapaci di abrogare il precetto divino potevano derogarvi qualora
in fattispecie singole, vi fosse una giusta causa.

Sistema del diritto. Il diritto divino entrava comunque solo di straforo nel quadro del sistema
normativo disegnato dalle fonti romane. Esse prospettavano un sistema di sfere concentriche che
partivano si, dal diritto naturale dalla cui formazione Dio era in gran parte responsabile, ma che, pur

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avendo punti in comune con il diritto divino, per i civilisti non coincideva con l'antico e il nuovo
testamento come sostenevano Graziano e i canonisti.
Al di sotto del naturale vi era lo Ius Gentium, comune a tutta l'umanità, cui andava il merito e il
demerito di avere introdotto guerre e pace tra i popoli, nonché istituti come la proprietà privata, la
schiavitù e i contratti consensuali.
Infine lo Ius Civile aveva aggiunto alle figure giuridiche comuni a tutta l'umanità forme positive
proprie di ciascun popolo.
Quanto al diritto naturale, ch'era il primo, il più antico e il più alto dei sistemi, esso per i legisti
funzionava soprattutto come ricettacolo e come dispensatore di quell'equità di cui il giurista
medievale era perennemente alla ricerca.
Anche il ius Gentium,per la verità, ispirato, com'era dalla naturalis ratio si rivelava sovente
portatore di equità naturali; un caso era quello dei contratti consensuali e della loro causa naturalis;
vi erano poi istituti di ius gentium che si realizzavano mediante “fatti naturali”, come l'acquisto
della proprietà per occupazione, e per ciò stesso richiamavano il diritto naturale. In questi casi, i
due diritti delle genti e di natura si sovrapponevano.

Equità animatrice del diritto naturale. L'equità animatrice del diritto naturale non era quella
soggettiva di cui Azzone faceva carico a Martino, ma era una forza obiettiva insita nei rapporti e nei
fatti.
L'equità è una figura carissima al medioevo, era presentata nel Digesto e anche dalla tradizione
retorica sotto la specie di un paio di definizioni. La prima, viene da Cicerone, ed è notissima, la
dipinge come il principio di uguaglianza che richiede parità di trattamento giuridico in presenza di
pari fattispecie concrete. Una seconda definizione compare nei manuali più antichi e nelle celebri
Questiones, descrive l'equità come corrispondenza dell’atto giuridico con la sua causa. (Es se il
venditore consegna la cosa l'equità vuole che il compratore dia il prezzo, e viceversa). Questa causa
naturale non è una creazione della legge ma risiede sin dalle origini dal mondo dei fatti stessi, nella
natura dei rapporti, è espressione, insomma, del diritto naturale. I primi dottori medievali,
ammaestrati da Cicerone, chiamavano questa equità rudis, grezza. Essa dirà Cino da Pistoia, è come
il metallo prezioso nascosto nella terra, sta all'uomo di aprire miniere. Così è al legislatore che
spetta il compito di enucleare l'equità grezza dal mondo dei fatti umani, di darle forma, infine, di
caricarla di autorità e di racchiuderla in quell'atto volitivo che è la legge. Cosi facendo muta
l'aequitas rudis in aequitas constituta e trasforma il diritto naturale in diritto civile.

Diritto naturale e civile rimangono comunque due sfere distinte sulla vita del diritto. Ad
esempio nel campo delle obbligazioni vi erano quelle naturali e quelle civili. Quindi se il soggetto
compiva un atto o un negozio conformemente all’equità doveva rispettare la causa tipica di diritto
naturale per far nascer l’obbligazione natura,se tale causa era prevista dal diritto civile (ossia
l'aequitas rudis era già diventata aequitas constituta) la causa naturale era al contempo causa civile e
generava obbligazione civile.

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Se invece il diritto positivo ancora non la prevedeva, per far nascere un'obbligazione civile accanto
a quella naturale il soggetto poteva rivolgersi a quelle forme cui la legge annetteva efficacia
obbligatoria, per es. alla stipulatio.
Ecco allora la prima scienza giuridica imperniare tutto il sistema delle obbligazioni private sul gioco
delle due cause, naturale e civile, ciascuna all'origine di uno dei due tipi di obbligazione in forza dei
rispettivi ordinamenti. Quando entrambe le cause son poste in essere ed entrambi i diritti agiscono i
soggetti son pienamente tutelati: consegno una somma (causa naturale) e compio una stipulatio per
farmela restituiren (causa civile).
Se però manca quella naturale ma c’è quella civile si creano problemi: cioè la patologia
dell’indebito in quanto la stipulatio obbliga il debitore a restituire una somma non dovuta e si dovrà
ricorrere quindi ai ripari con un’exceptio doli o una condictio. Se manca invece la causa civile ci
sarà solo quella naturale che consente di trattenere quanto spontaneamente versato (soluti retentio:
debiti di gioco) non esercitando azione petitoria per ottenere quanto dovuto.

Equità e giustizia. È il diritto naturale a generare in massa aequitates, ed erano le cause naturales a
rappresentare il momento equitativo di tutti i fenomeni giuridici. Ogni rapporto presupponeva
tacitamente lo schema della conversione dell'equità grezza nell'equità constituita che altro non era
se non ius civile. Agganciati come dovevano essere sia allo statico ordinamento naturale sia al
dinamico ordinamento civile, atti, negozi, leggi e consuetudini dovevano ruotare intorno a due
principi, l'uno obiettivo, l'altro soggettivo, che sono poi da sempre i poli necessari del circuito vitale
del diritto.
I glossatori furono ben consapevoli di questo quadro: misero come polo obiettivo l'equità, e
identificarono il polo soggettivo nella giustizia. Già Irnerio descrive la cosa in una delle sue glosse
più eleganti: la dinamica della vita giuridica sta tutta nell'assunzione di aequitas entro formali
dichiarazioni di volontà, e queste ultime costituiscono la giustizia.
D'altronde la Chiesa insegnava che la giustizia era una delle virtù cardinali, le arti liberali, sempre
ispirandosi a Cicerone, dicevano della virtù ch'era una predisposizione soggettiva.
Le fonti giuridiche precisavano che la giustizia è quella volontà che ha per oggetto specifico di dare
a ciascuno il suo. Se ne deduceva che l'identica carica soggettiva doveva muovere tutto il ius, dato
ch'esso discende dalla iustitia.
Completamente impostata sulla trama dei rapporti tra diritto naturale e civile, racchiusa nel circuito
che corre tra equità e giustizia, tra principi obiettivi e soggettivi, la teoria generale del diritto dei
tempi postirneriani appare strutturata in un'architettura logica e coerente.
Va detto che non tutta questa pregevole farina viene dal sacco bolognese. Anzi, la maggiore
produzione anziché dalla grande città del sapere giuridico esce da laboratori minori, spesso
transalpini.
Le scuole e le dottrine extrabolognesi hanno una parte importante nel'età dei glossari.

CAPITOLO III: LE SCUOLE MINORI

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fino a poco più di una cinquantina di anni fa tutte le luci della storiografia continuavano a essere
puntate su Bologna, e delle altre scuole si parlava appena. Da qualche decennio si è cominciato a
indagare seriamente le tante scuole che nel XII secolo sono cominciate a fiorire ovunque.
Non inganni la qualifica minori: è una qualifica dettata solo da formale reverenza nei confronti della
scuola primogenita.
Dopo Pepo, non stupisce che le molte strade del dilagare del diritto romano in Europa furono
appunto canoniste. A Oxford, sempre in ambiente canonistico, si sviluppò un insegnamento del
diritto romano tradizionalmente ricondotto al maestro lombardo Vacario. La sua agile e poco
costosa antologia di estratti dal Digesto e dal Codice fu un manuale didattico costruito secondo le
tecniche epitomatrici tipiche della chiesa e dedicato alla gioventù. Per cui ebbe il titolo di Liber
pauperum.

Alle scuola logistiche provenzali si è dedicato negli ultimi 30 anni Andrè Gouron, che ha finito col
tracciare un affresco di grande ampiezza della cultura postirneriana del Mezzogiorno francese. Fino
a non molto tempo fa questa cultura ruotava intorno a Montepellier la cui celebre scuola logistica si
diceva fondata da un giurista italiano, il Piacentino.

Le opere che si collegano alle “scuole minori” mostrano alcune peculiarità: la prima è quella
grammaticale, che le circonda ed evoca legami degli autori con le arti liberali.
Vedremo per esempio il Piacentino scrivere sermoni sulle leggi metà in versi e metà in prosa,
avventurarsi in tentativi poetici, vantarsi di essere conterraneo di Virgilio. Vengono poi da centri
extrabolognesi molte opere che curano l'eleganza della lingua latina, danno ai discorsi tecnici una
forma dialogica, impostano elaborati proemi su incontri straordinari con personaggi allegorici nel
templum iustitiae caro a Giustiniano.

Operette. Le prime operette eleganti sono le Enodationes quaestionum super Codice e le


Quaestiones super Instituitis di Rogerio allievo di Bulgaro, in cui si trovano annotazioni sul
Digesto, Codice e Authenticum. Queste appaiono conosciute dai bolognesi come Libri Rogerii.
Ma del soggiorno a Bologna non vi è nessuna traccia nei documenti. In effetti tutta la sua vita è
avvolta nel buio. Azzone narra l'unico episodio che lo riguardi. Rogerio avrebbe difeso a Torino
dinanzi al Barbarossa i diritti sulla Provenza accampati dai potenti conti di Baux contro le pretese
degli altrettanti potenti conti di Bacellona, il cui avvocato sarebbe stato Bulgaro. Vinse Rogerio e la
cosa apparve ad Azzone degna di ricordo perché Bulgaro era stato maestro di Rogerio.
Si sa anche che egli insegnò in Francia, prima che vi arrivasse il Piacentino.

L’opera forse più importante è però la Questiones de iuris subtilitatibus (autore ignoto), il cui
proemio è un’allegoria del templum iustitiae apparendo retoricamente sontuoso. Il tempio è
costruito in vetta a un monte e ha nei pressi un ameno boschetto; l'atmosfera è pura, non inquinata

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dalle meschinità del mondo. Una volta varcata la porta di ingresso lo sguardo incontra una parete
vitrea sulla quale è trascritto in lettere d'oro l'intero testo dei libri legales; su quella parete si riflette
come in uno specchio l'immagine della Giustizia che tiene in grembo l’equità benevola ed è
circondata da tutte le sue figlie: religio, pietas, gratia, vindicatio, observantia, veritas.
Un gruppetto di persone dall'aspetto onorevole si preoccupa di cancellare dal testo scritto sulla
parete vitrea le parole dissonanti dall'equità. In un'apposita sede esterna appoggiata alla parete un
vulnerabile personaggio risponde alle domande di una piccola folla seduta dinanzi a lui.
Le prime questioni riguardano il misterioso interferire tra loro del diritto naturale, delle genti e
civile. Si narra: sovrani transalpini hanno invaso le nostre terre nei secoli passati e hanno imposto
precetti per diritto di conquista; sebbene il ius gentium consenta di resistere agli occupanti, i vinti
hanno finito col subire la legge del vincente; ma il regno dei conquistatori si è poi estinto e i
dominati si sono fusi con i dominanti; pretendere di tenere in vita il nome dei lontani invasori e la
vigenza dei loro statuti obsoleti non aveva senso. Siccome poi anche altri discendenti di immigrati
fanno passare per legge i loro futili statuti si è finito coll'avere nel paese tante leggi quante sono le
case. Permettere quest'ignomia è una colpa.
Perché i monarchi che si proclamano imperatori non si avvedono che da tale qualifica discende
l'obbligo di difendere l'ordinamento giuridico imperiale?Quando si pretende di essere i successori
degli Augusti si sappia almeno seguire il loro esempio; e poi la logica pone un'alternativa: o
l'impero è uno, e allora deve essere retto da una sola legge, o si ammette l'esistenza di più leggi e
allora è necessario riconoscere la pluralità dei regni.
Non vi è dubbio che i re transalpini bersaglio del disprezzo dell'autore siano i re di'Italia e i
Longobardi. Questi non avrebbero avuto il diritto di derogare alle leggi romane, in quanto ignoranti
rispetto alla grande romanità.
Questa è una tra le poche prese di posizione politica che si può trovare nella scienza giuridica
dell'età dei glossatori.

Trattatelli pratici sulle azioni. Quel Rodolfo Niger che insegnava a Parigi arti liberali nella
seconda metà del secolo, e che ci ha fornito le importanti notizie su Pepo, dice che la rinascita del
diritto romano e della sua scienza era ispirata in senso antigermanico ma non per le ragioni cesariste
propugnate dalle Questiones de iuris subtilitatibus bensì perché la Chiesa era contraria al pravus
ritus iudiciorum germanico quindi al duello, al giuramento oltre che alle composizioni pecuniarie.
Si sa infatti che la prassi giudiziaria italiana, sopratutto nelle zone più influenzate dalla chiesa,
tendeva a riqualificare il processo applicando regole giustinianee. Uno dei punti che creava maggior
ansie era il maneggio del complicato sistema romano delle azioni, ed è normale che alla domanda di
aiuto di avvocati e giudici, risposero le scuole minori, che avevano gli occhi rivolti alla pratica.
Piacentino cita che durante le sue meditazioni si era trovato accanto la donna Giurisprudenza, una
donna bellissima e dotata di grande intelligenza. E le sei era avvicinato vedendo che ella possedeva
un libretto: de actionum varietatibus; che gli servì per i suoi studi processualistici. Fu talmente
ispirato da tale libretto che diete alla sua opera mantovana lo stesso titolo.

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Mantova. Tra la produzione più vasta e significativa in materia processuale spicca quella di
Giovanni Bassiano che a Bologna studiò con Bulgaro e poi insegnò, giusto il tempo di avere come
scolare Azzone. Ebbe cattedre più lunghe a Cremona, forse a Piacenza, certamente a Mantova.
Ed è da supporre che proprio a Mantova egli si desse a curare l'intensa produzione processualistica
che lo contraddistingue. Qui scrisse l’Ordo iudiciorum e l’ Arbor actionum ma soprattutto la
Summa Quicumque vult opera preziosa per la redazione dei Libelli.
Se è probabile sia stata Mantova a fare da culla sull'intera trilogia del Bassano sulle azioni, com'era
stata Mantova a tenere poco prima a battesimo la summa sulle azioni del Piacentino, è proprio in
questa città che deve essere scattata tra i due la polemica che li ha opposti: se l’actio s'identifichi o
meno con la causa petendi essendone nient’altro che l’aspetto processuale,
Il Piacentino sosteneva questa identificazione, le cui implicazioni piacevano ai gosiani, ma da
Bassiano ad Azzone e Accusorio, la scuola avversa, non manco di strapazzarlo.
Vi fu dunque un periodo, intorno agli anni 1160, in cui Mantova brillò come il maggiore centro di
dibattiti teorici sul problema delle azioni.

Ordines iudiciorum. La materia delle azioni si sviluppò con naturalezza in una produzione
illustrativa dei Libelli introduttivi della lite - prima della fine del secolo apparve la Cum essem
Mutine di Pillo, all'inizio del duecento l'opera del provenzale Bernardo Dorna -, la pratica forense
cominciò a chiedere insistentemente più che monografie particolari prontuari dell'intero rito. La
risposta fu la formazione di un vero fiume di ordines iudicorum.
Molta di questa produzione, che si attribuiva in altri tempi largamente all'Italia, ha visto le proprie
origini trasferirsi oltr'Alpe.
Persino il noto ordo Olim, sa sempre attribuito a Ottone di Pavia, rischia di essere travolto da questa
ondata migratoria.
Dopo il momento di gloria vissuto da Mantova si fa avanti come fucina di prodotti per giudici e
avvocati, la Modena di Pillo da Medicina. Una grande sede: nella quale, comunque, gli interessi
molteplici e le considerevoli novità scientifiche adottate relegano in secondo piano le
preoccupazioni processuali.
Seppure contesa da Ottone di Pavia, tende alla paternità proprio di Pillo, l'agile summa Cum essem
Mutine. Articolata come una raccolta ordinata di quaestiones – si parla in questo caso di summae
quaestiones – essa rientra però nel filone di ricerche sui problemi della fase preparatoria della lite e
della redazione dei libelli, richiamando per l'oggetto e per il metodo Bassiano .

Le summae. In Provenza insegnò anche Rogerio e lì cominciò a scrivere la sua Summa Codicis.
Non riuscì però a terminarla; quando morì lasciandola interrotta, si completò la parte mancante con
quella della Trecensis. In qualche scuola della regione si giunse a redigere una summa codicis in
lingua provenzale conosciuta sotto il titolo di Lo Codi. Fu subito portata in Italia e un Riccardo
Pisano ne curò la traduzione latina: il che mostra non solo come la letteratura sul Mezzogiorno

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francese fosse lesta a passare le Alpi, ma anche come fossero sodi i legami culturali tra la Provenza
e la Toscana.

La summe era certamente il genere preferito dai panorami dogmatici delle scuole minori: furono
adottate molto in Italia da canonisti e longobardisti e anche molto nelle scuole civilistiche francesi.
Esse ebbero ad oggetto specialmente Codice e Istituzioni, poco sul Digesto.
In particolare sul Codice si concentrarono quelle provenzali: famosa è l’incompleta Summa Codicis
di Rogerio, della quale abbiamo detto sopra.
Il Piacentino contribuì all’impulso dello studio della Francia meridionale. Trovandosi come
manuale accreditato nella zona la Summa Codicis di Rogerio, l’adottò per i propri corsi a
Montpellier e, siccome era monca, pensò di completarla. Ma poi decise di farne una tutta sua e di
mandare quella di Rogerio in desuetudine. Qualche tempo dopo compose anche la Summa
Institutionum.
Egli era un giurista sui generis e spesso usava nei suoi comportamenti modi da artista. Una volta,
tornando a insegnare a Bologna, fu sfidato dagli invidiosi colleghi a fare un sermone sulle leggi.
Egli costituì il proemio retorico inventando l’incontro tra due donne una giovane e bella
(l’Ignoranza) l’altra vecchia e brutta (la Scienza legale) dove la prima predicava che lo studio delle
leggi imbruttisce, l’altra che non studiando si butta via il tempo. Il dialogo si svolgeva anche con
punti che portavano poeticità.

CAPITOLO IV: DALLA MODENA DI PILLIO ALLA BOLOGNA DI ACCURSIO

Alla fine dell’XI secolo ci fu un’improvvisa fiammata d’interesse per i Tres libri del Codice
giustinianeo. Ciò appare una contraddizione storica: proprio ai tempi della pace di Costanza,
quando l'Impero era uscito sconfitto dalla battaglia per il recupero delle regalie e i Comuni
trionfavano, i Tres Libri che esibivano la normazione imperiale sul fisco e sul demanio, sulle
concessioni di beni pubblici avrebbero dovuto perdere di attualità e sembrare superati. Invece
proprio allora ne cominciò la divulgazione.
Dopo il biennio a Bologna, il Piacentino aveva lasciato la città per spostarsi a Piacenza, qui aveva
insegnato 4 anni e poi finalmente rientrò a Montpellier. Per poco perché la morte lo sorprese presto.
È la sua morte che segnò la brusca interruzione dell'ultima coraggiosa impresa del maestro: aveva
intrapreso da poco la redazione della summa , appunto dei Tres Libri, ma non poté andare oltre
l'inizio del titolo de municipibus.
Ai tempi dell'imperatore Enrico VI un giudice lucchese affrontò un'analoga impresa dichiarandosi
convinto di essere il primo a tentarla. Stupisce come a dieci anni di distanza non fosse trapelata la
notizia dell'iniziativa del Piacentino e nemmeno che Pillo l'avesse poi continuata.
Pillo, anziché incontrare templi della giustizi e signore affascinanti, preferiva sognare. In uno dei
suoi sogni, egli narra gli apparve il Piacentino e lo sollecitò a continuare la sua opera sui Tres libri
che aveva lasciata mutilata, e Pillio si mise a lavoro.

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Comunque siccome neppure Pillio riuscì a completare l'opera, quella di Rolando da Lucca tornò
buona: quando gli editori vollero fornire al mercato una silloge di summae di tutte le parti del
Corpus Iuris, quella dei Tres Libri fu raffazzonata con l'inizio del Piacentino, il grosso del Pillo e
una manciata finali di titoli di Rolando la Lucca.

Pillio. Egli prima di cominciare la summae Trium Liborum, aveva redatto il suo Libellus
disputatorius; un originale e lungo elenco di principi teorici tratti dalla compilazione giustinianea
corredati dalle fonti normative sia favorevoli che contrarie.
L'opera era stata concepita per l'uso dei pratici ma, accortosi di quanto riuscisse vantaggiosa anche
alla formazione degli studenti, fece una seconda redazione ampliata che usò, essendo il Libellus una
vasta raccolta di brocardi, come strumento di una riforma didattica tesa appunto ad introdurre il
metodo brocaridco.
Si trattava di un metodo di studio incentrato sul ragionamento anziché sulla memoria che avrebbe
abituato rapidamente gli studenti al dibattito.
Il termine brocardo è curioso: la ridicola leggenda che derivasse dal nome di Burcardo di Worms –
l'autore della raccolta delle norme canoniche – è stata liquidata dal Savigny; l'idea del Kantorowicz
che fa discendere questa parola dalle parole pro-contra è stata anch'essa respinta. Ma resta
suggestiva perchè rappresenta bene la funzione del brocardo: che consiste nell' enucleare dalle leggi
principi detti generalia a cui vengono affiancate le fonti che li suffragano e quelle che li contrastano
(cioè gli argomenti pro e contro).
Questo genere letterario, che i brocardi costituiscono, non è di natale bolognese in quanto nascono
in ambiente canonistico e anche longobardistico, ma ebbero una diffusione rapidissima anche
presso Bologna dopo che Azzone si impadronì della raccolta di Ottone di Pavia (scuole minori)
aggiungendovi le solutiones che mancavano consacrandone quindi il successo.

Generalia. I Generalia portavano talvolta il nome di argumenta, ch'è per noi evocativo dell'uso che
si faceva dei brocardi ai fini del dibattito e dell'argomentazione. Dal metodo brocardo nacque una
tecnica argomentativa esclusivamente giuridica; essa tra due e trecento sfocerà nella specialità
nuova della catalogazione dei modi arguendi. Li si chiama anche loci perché avevano “luogo” nel
Corpus iuris.

Metodo brocardico (incentivo all’utrumque ius…). Il presupposto di esso è quell’approccio


critico a Giustiniano che imponeva di passare dalla mera comprensione del testo assicurata dalle
glosse alla discussione degli interrogativi che le fattispecie normative presentavano.
La figura didattica che più servì per far progredire la scienza è senza dubbio la questio: partendo
dall'interrogativo posto da un casus dubbio,essa oppone due gruppi di argomenti contrari da cui
bisognava estrarre una solutio.

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A fare ciò si era cominciato già dai tempi di Bulgaro col discutere testi giustinianei discordanti per
metterli d’accordo: era una questio semplice detta legitima perché aveva finalità sistematiche delle
leges.
Successivamente si preferì svolgere la discussione, a scopo didattico, su qualche fattispecie
inventata dal maestro come di consueto mettendo a fronte 2 gruppi di fonti normative prese come
argumenta contrari; fu detta quaestio de facto. Spesso queste questioni erano disputate tra
studenti;il maestro proponeva un caso controverso incaricando a una parte di scolari di difendere
una tesi e a un’altra parte di argomentare quella opposta. L'esito di questa esercitazione fu trionfale;
le quaestions disputatae ricalcavano il processo: il maestro in questo caso faceva da giudice.
In seguito nacquero le quaestiones ex facto emergentes: con esse i casi non erano più di fantasia ma
estratti dalla prassi giudiziaria, alle sentenze di maggior rilevanza. Attingere alla prassi significava
confrontarsi con leggi di Giustiniano ma anche con statuti, consuetudini, capitoli barbarici e
costituzioni di re e imperatori, canoni ecclesiastici, ossia con tutte le norme vigenti ch'erano
richiamate nei processi. Furono le c.d. Quaestions ex facto emergentes a costituire il più solido
ponte tra scuole e tribunali.

Le quaestions piacevano anche a Giovanni Bassiano. Oltre a farle disputare tra studenti in sede di
esercitazioni, fu tra i primi a utilizzarle anche nel corso della lezione, che risultò certo più viva. Non
è dubbio che quando Giovanni giunse a Bologna dopo una lunga esperienza nelle scuole minori,
portò con se una ventata d'aria fresca che diede inizio al rinnovamento dei metodi della scienza
bolognese.

Libri feudorum. Questi libri furono assunti da Pillio e dalla scuola di Modena come materie di
insegnamento della scuola romanista.
Scrivendo per primo sia un apparato di glosse ai Libri feudorum sia una loro summa, Pillo strappò
in questo modo una materia di indubbio rilievo storico e sociale dalle strettoie di una scienza
longobardistica rozza e in declino.
I Libri feudorum raccoglievano essenzialmente consuetudini feudali lombarde.
Il nucleo di questa opera era costituito da due lunghe lettere che il giudice e console milanese
Oberto dall’Orto dice di aver mandato verso la metà del secolo al figlio Anselmo, studente a
Bologna. Il giovane si sarebbe lamentato che nell’alma mater (la scuola di Bologna) un diritto
importante come quello feudale fosse passato sotto silenzio e il padre, che per lunga pratica di
giudice conosceva a puntino le consuetudini milanesi, gli descrisse egregiamente quelle che si
applicavano nei feudi.
Dopo la dieta di Roncaglia, alcune costituzioni di Federico Barbarossa che vi erano state
promulgate si aggiunsero al nucleo e questo mutò la bassa condizione dell'opera, meramente
consuetudinaria; gli fece salire qualche gradino nella scuola dei valori normativi. Trasfigurata
dall'aggiunta delle norme federiciane, apparve la seconda redazione dei Libri feudorum; fu detta

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ardizzoniana perchè erroneamente si penso che Iacopo di Ardizzone fosse stato il primo a leggerla e
studiarla.
La terza e definitiva recensione, con poche aggiunte finali, è detta accursiana o vulgata ed ebbe
l’onore di esser inserita nel Corpus iuris civili, e la glossa di cui fu corredata passò anch'essa, al
pari dell'apparato dell'intera compilazione, comeopera di Accursio.

L'inserimento nel Corpus iuris fu un grande colpo di fortuna. La giustificazione di tale audace
ingresso nel tempio giustinianeo poteva trovarsi proprio nella presenza di costituzioni imperiali
nelle due ultime redazioni del testo. I monarchi pretendevano che le loro leggi fossero equiparate
alle Novelle di Giustiniano: quando Federico II emanò talune norme ordinategli da papa, comandò
ai dottori bolognesi di trascriverle nei libri legales e di farne oggetto di insegnamento.

Figura tecnico-giuridica del feudo lombardo. Pillio prese spunto proprio dai suoi studi sui Liber
feudorum per dare un contributo essenziale alla figura tecnico-giuridica del feudo lombardo.
È nella summa di quei Libri che vediamo definita come actio in rem l'azione spettante al vassallo, e
dominium utile il suo diritto al beneficio.
Faceva la comparsa per la prima volta la teoria del “dominio diviso”. Una nuova teoria che
spaccava la proprietà in due fattispecie, il dominum diretto spettava a chi aveva la titolarità astratta
del bene,ossia al nudo proprietario, e il dominium utile a chi ne aveva il godimento concreto tale da
configurare un diritto reale su cosa altrui.
Fondamentalmente si crea un’immagine del vassallo quasi-proprietario e ciò è il risultato che
scaturisce dalla costituzione di Corrado II del 1037. Nella sua costituzione,fondamentale per la
storia del feudo italiano, egli aveva assicurato la stabilità del beneficio e la trasmissibilità ereditaria
ai discendenti diretti creando un diritto reale molto intenso pari almeno a quello spettante agli
enfiteuti che una costituzione di Teodosio e Valentiniano definiva fundorum domini.
Nella prassi lombarda accadde che l’investitura che era tecnicamente l’atto di assegnazione dei
benefici era diventata anche un contratto agrario gemello dell’enfiteusi, del livello e della precaria:
Anselmo dell’Orto lo testimonia.
Quando Pillio compì l'opera di assimilazione del feudo a una sorta si proprietà, era dunque
circondato da un'atmosfera consuetudinaria congeniale. Tuttavia le spiegazioni andavano date
sempre in base al diritto giustinianeo, del quale i romanisti non potevano fare a meno.
Per questo Pillo prese spunto dalle fonti giustinianee che attribuivano un’ actio in rem al
superficiario, al conduttore a lungo termine, all'enfiteuta per spiegare come fosse naturale
assegnarla per analogia anche al feudatario.
Inoltre dato che queste azioni erano definite utiles dalle fonti gli venne spontaneo saltare dal piano
formale delle azioni a quello sostanziale dei corrispondenti diritti soggettivi – due piani d'altronde
saldati insieme dalla tradizione romanistica – e parlare quindi di dominium utile.

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L’idea di azione utile nel diritto romano era ricavabile per i glossatori dall’ actio legis Aquiliae che
spettava per i danni inferti fisicamente a beni altrui, ma il pretore stimò che chi avesse procurato il
perimento di un bene anche senza toccarlo – lasciando morire di fame il bestiame altrui chiuso in
una stalla – meritasse analogo trattamento: e concesse al proprietario danneggiato un actio Aquiliae
utilis. Non v'era alcuna possibilità di ricavare ipotesi di dominio utile, dal caso del danno aquiliano.
Neppure l’actio publiciana (fondata sulla finzione che fosse trascorso il tempo per acquisire il bene
in usucapione) aveva un qualche presupposto utile perché le fonti non la definivano utilis.
Bulgaro sosteneva che la prescrizione ventennale o trentennale (praescriptio longi temporis) non
facesse acquisire la proprietà ma il solo effectus domini; Giovanni Bassiano sostenne che questo
effectus domini non era altro che il dominium utile e sarebbe stata questa la strada per la teoria del
dominio diviso. Ma non fu dalla prescrizione che l'immagine del dominio diviso si svolse, ma nel
campo dei feudi e delle concessioni di terre, dei contrati agrari, dei diritti di superficie: li dove
appunto ne aveva individuate le radici Pillio di Medicina.
Fu una teoria fondamentale. Vi furono resistenze diffuse ad accettarla da parte dei giuristi del due e
trecento, che proclamarono il dominio utile una chimera. Occorrerà il cinquecento per vedere
qualche giurista francese delineare la moderna figura dei diritti reali su cose altrui; poi aspettare il
seicento perché quest'istituto soppianti definitivamente il dominio utile.

Le autonomie locali e la teoria della consuetudine. Un altro punto molto importante, da non
trascurare è il progressivo aprirsi dell'interessamento dei giuristi alle consuetudini locali e degli
statuti cioè gli iura propria che si affermavano nel fenomeno comunale. Si cominciava a creare
quindi un coordinamento tra normative particolari vigenti e diritto romano insegnato, forzando
quest’ultimo a smettere la pretesa di far da diritto unico per assumere il compito di semplice diritto
consuetudinario, (tutto tranne Istituzioni riscoperte nel 1816), aprirà l’epoca del “Diritto comune”.
L’ingresso nelle aule accademiche di codesti iura propria aveva come presupposto che si
smantellasse l’idea irneriana di matrice costantiniana che le consuetudini,dopo la lex regia,non
potessero più vincere la legge. Si è visto come la tesi del caposcuola era stata abbandonata, dopo
largo consenso, solo ai tempi di Azzone e di Ugolino ai primi del duecento, quando ormai le
autonomie cittadine, garantite dalla pace di Costanza, avevano preso a derogare alle leggi a
piacimento. Da Milano ad Amalfi riecheggiava la pretesa che se la legge era una norma santa, la
consuetudine lo era ancora di più, e dove questa parlava, la legge era azzittita.
Taluni glossatori avevano cercato una soluzione di compromesso del contrasto tra autonomia locale
e legge imperiale. C’era chi ammetteva che una consuetudine generale di tutto l’impero potesse
abrogare le leggi, ma era un’ipotesi astratta. Piuttosto, la consuetudine locale poteva atteggiarsi
come species di fronte al genus legge potendo quindi derogarvi localmente in virtù della regola che
species deroga il genus, a condizione che la consuetudine fosse espressione di una volontà del
popolo non viziata da ignoranza o errore: quindi il popolo doveva conoscere la legge contraria alla
consuetudine.

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Bologna risente delle scuole minori. Quando scoccò il duecento, molte delle novità che venivano
dalle scuole minori avevano conquistato o stavano conquistando Bologna che, subendo, cambiava.
In particolare Azzone, sentito il fascino del maestro Giovanni Bassiano, personaggio da un passato
in scuole minore, fu colpito dal genere della summa.
Sicuramente, il segno più vistoso della penetrazione dei metodi dalla periferia sta proprio
nell’improvvisa comparsa, delle sue summae. Esse brillano come novità a Bologna, da sempre
dedita a produrre glosse; è fenomeno singolare che le due summae Codicis e Institutionum più
ricche e approfondite che si abbiamo escano dalla penna di un maestro bolognese come Azzone, in
cattedra a Bologna ininterrottamente per 30 o 40 anni. Tanto gli piacque il genere della summa, che
tentò di redigerne una persino dell’impervio Digesto. Una grande impresa che nessuno avrebbe mai
avuto l’audacia di tentare (o forse solo il Piacentino, se è vero quello che il suo fantasma riferì in
sogno a Pillio).
L’opera riuscì ad Azzone a metà, fu proseguita da Ugolino e il risultato finale restò comunque
incompleto.
Il genere della summa venne di moda a Bologna. Essendo le Novelle l’ultima parte della
compilazione giustinianea che ne restava priva, Accursio scrisse la summa Authenticorum poi
pubblicata anch’essa nella raccolta azzoniana. Anzi, preso dall’entusiasmo, aveva compilato anche
una summa dei Libri feudorum.

La magna glossa. La scuola bolognese conservò tuttavia nella prima metà del Duecento anche la
propria tradizione della glossa e ne celebrò il rito con le grandi imprese di Azzone e di Accursio.
La glossa a Bologna era vista come opera continuativa legata al succedersi degli insegnamenti, un
unico grande albero al quale ciascun maestro poteva aggiungere o toglier rami ma il cui tronco
attraversava le generazioni.
All’inizio del duecento affioravano motivi di scontento nei confronti di quel genere, non solo i
manoscritti che passavano di mano riempiendosi di glosse ne erano ormai zeppi, al punto da creare
disordine e difficoltà di consultazione, ma Azzone cominciava ad avvertire i pericoli insiti nello
stesso modo di chiosare le parole. Per questo, si era dedicato alle summae, ch’erano il genere
sistematico per eccellenza. Tuttavia, la vecchia tradizione didattica pesava troppo su di lui perché
egli non si piegasse e non si desse a riordinare e a comporre apparati di glosse. Con risultati egregi,
ma la loro popolarità non giunse fino alla stampa, perché a schiacciarli provvide la magna glossa
del suo allievo Accursio.
Accursio si accinse subito in età ancora giovanile a proseguire da buon discepolo il lavoro del
maestro. Dapprima i legami delle glosse di Azzone e d Accursio apparvero ai contemporanei tanto
intimi da far pensare che rappresentassero fasi successive di un’operazione unica, ma presto il nome
di Accursio resterà solo a indicare la paternità dell’opera. E a lui andò la gloria di aver messo
insieme quasi 97mila glosse,di aver corredato l’intero Corpus iuris dell’apparato definito celebrato
come la magna glossa o “glossa ordinaria” che cominciò dal 200 ad accompagnare stabilmente il

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testo giustinianeo nei manoscritti. Nessun giurista potè da allora farne a meno né a scuola né in
giudizio.
Se era uso che il discepolo proseguisse il lavoro del suo precettore, stona che Accursio abbia ripreso
in mano e rifinito la glossa di Libri feudorum di Pillio, che non solo non era suo maestro, ma
doveva esercitare su di lui poche attrattive in quanto seguace dell’avversa scuola piacentina.

Il concetto di causa finalis o ratio delle leggi. La ratio viene definita a partire da Azzone, ma fu
Giovanni Bassiano a gettare le fondamenta della sua costruzione.
Il discorso prese piede da un tema apparentemente lontano, quello della causa dell’obbligazione.
Partendo dal presupposto che l’ufficio principale della causa è di agganciare gli atti umani
all’ordinamento, le causae civilis e naturalis dei più antichi glossatori si erano limitate a mettere in
rilievo che gli ordinamenti dispensatori di quell’efficacia erano due, appunto il civile e il naturale.
Passati pochi decenni, di cause civiles e naturales non si sentì più parlare.
Giovanni avviò un’impostazione nuova. In una breve glossa evocò la causa finalis come la molla
che faceva scattare la volontà negoziale e quindi stava all’origine del rapporto, essa non solo
presupponeva che volontà e causa – i due elementi, soggettivo e oggettivo, essenziali del negozio –
interagissero e s’integrassero perfettamente, ma attirava l’attenzione sullo scopo da cui il soggetto
era determinato ad agire: scopo alla cui presenza era vincolata l’efficacia del negozio e la vitalità
del rapporto, tanto che se lo scopo-causa cadeva di invalidava il negozio e si estingueva il rapporto:
ai sensi della regola logica che cessante causa cessat effectus.
A regalare questa nuova figura causale al mondo del diritto era stato il vecchio Aristotele. La sua
nota teoria della 4 cause, le due statiche ( materiale e formale) e le due dinamiche (efficiente e
finale) era illustrata del libro della sua Fisica ma poteva anche essere attinta dai commenti di
personaggi noti alle scuole di arti liberali e Giovanni Bassiano era espero nelle arti.
Il merito che ebbe Giovanni fu quello di aver introdotto per primo la causa finale all’interno di
istituti tecnico-giuridici e di averne fatto un congegno essenziale al loro funzionamento.
La causa finalis aveva però la caratteristica di esser la previsione mentale di un evento a venire
(causa de futuro) il che contrastava con l’idea che la causa deve sempre seguire al causato; e
seconda peculiarità che dava ancora più fastidio: trattandosi di una previsione soggettiva ogni
individuo poteva proporsi cause finali a piacimento a seconda dei propri desideri. E l’interprete
poteva avere difficoltà a distinguerla. I glossatori si videro allora obbligati a staccare la causa finale
dal mondo psicologico individuale per farne uno scopo previsto in astratto dal diritto e dal diritto
offerto al soggetto agente perché se ne servisse. Per intenderci: nella compravendita le cause finali
dell’obbligazione dovevano essere due, l’acquisto del bene per il compratore , il pagamento del
prezzo per il venditore.
Distinta la causa finale dai moventi psicologici individuali, questi ultimi finivano coll’atteggiarsi a
causae de praeterito, individuando la situazione di fatto da cui muoveva il soggetto agente, o il
desiderio personale che voleva soddisfare. Si salvava cosi la regola che almeno una causa dovesse
precedere il causato; oggi si parla piuttosto di “motivi”, i glossatori preferirono invece inventare la

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qualifica di causa impulsiva ispirandosi al altra tradizione retorica ove la causa era definita
“impulso dell’animo ad agire”.

Causa legis o ratio legis. Nel mondo medievale che non vedeva il diritto privato e il diritto
pubblico retti da regole diverse, gli atti normativi del principe apparvero mossi dagli stessi congegni
che muovevano l’autonomia privata. Leggi e negozi erano entrambi dichiarazioni di volontà,
siccome quest’affinità esigeva regimi omogenei, anche per le leggi sembrò naturale richiedere una
legittima causa che le inserisse nell’ordinamento, il quale a sua volta desse loro efficacia vincolante.
Nacque cosi la singolare figura della causa legis. La maggiore bizzarria stava nel fatto che anche la
causa legis dovette essere sottoposta alla regola generale “cessante causa cessant effectus”, per cui
se fosse venuta a mancare la causa per la quale la legge era stata emanata questa sarebbe dovuta
decadere automaticamente, senza bisogno di un’abrogazione.
È ovvio che tutte le causae legum non potevano essere previste in modo specifico dall’ordinamento
come quelle dei negozi dei privati. I giuristi, traendo qua e là spunto dalle fonti, dissero che le leggi
dovevano avere genericamente come causa o una “necessità urgente” o una “utilità pubblica”.
La causa della legge visse le medesime vicende teoriche della causa del negozio, e in particolare
contrappose causa finale e causa impulsiva.
Trovò anche una fonte per legittimare e spiegare la loro coesistenza: nel commento all’editto
pretorio che proibiva alle donne di rappresentare altri in giudizio, Ulpiano si soffermava sul caso di
Calpurnia, femmina improbissima che aveva dato causa all’editto comportandosi in modo
inverecondo.
La glossa pose il quesito: se la causa dell’editto era stata l’impudicizia di una donna, la norma non
sarebbe dovuta cadere in presenza di donne oneste e pudiche, dato che cosi vuole la regola
“cessante causa cessant effectus”? la risposta fu naturalmente negativa.
La deplorevole vicenda di Calpurina era stata soltanto la causa impulsiva dell’intervento del pretore,
e non aveva quindi rilevanza ai fini della vigenza della norma. La causa finale era invece la tutela
della pudicizia del sesso, e questa resta obiettivo di utilità pubblica generale e perenne che non bada
a casi singoli di donne oneste o disoneste.
Codeste cause di utilità pubblica, dunque, erano viste operare in prima battuta come forze
soggettive, dato che come tali determinano il legislatore a legiferare, ma proprio per la loro valenza
generale e perenne rimanevano impigliate nelle norme trasformandosi in dato obiettivo. La causa
finalis legislatoris diventava insomma cau
sa legis e questa finiva con il rappresentare la ratio legis. Causa e ratio convergevano all’interno
della speculazione retorica e nel Corpus iuris i giuristi le vedevano accostate.

CAPITOLO V: GRAZIANO E LA DECRETISTICA (1140 -1234) strada canonistica.

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Sempre a Bologna contemporaneamente alla scuola civilista irneriana si aprì quella canonistica di
Graziano. Singolare la quasi contemporaneità della nascita, nella medesima città di Bologna, delle
due scienze giuridiche che il destino unirà più tardi, nel matrimonio dell’utrumque ius.
Il diritto canonico dopo la riforma gregoriana dell’XI secolo era in fermento e le collezioni
canoniche erano fiorite l’una dopo l’altra.
Il problema era però l’unificazione normativa: essa non arriverà ufficialmente prima di Innocenzo
III nel 1200 con la Compilatio III , ma comunque il Decreto di Graziano costituì già un passo in
avanti verso l’unificazione.
La riscoperta teologia in quel periodo avanzava: nella Francia meridionale Abelardo aveva
composto un’opera, la “Sic et non” con cui egli portava un atteggiamento critico davanti alle sacre
pagine per trasformare la arrendevole conoscenza medievale dei testi sacri in vera e propria scienza
teologica preda della dialettica.
È difficile affermare con sicurezza che Graziano abbia subito l’influenza della Sit et non di
Abelardo in cui il filosofo rileva coraggiosamente che la Sacra Scrittura conteneva contraddizioni e
le metteva a fuoco. Il punto di partenza di Graziano fu, effettivamente, il notare la serie di
contraddizioni del diritto canonico, cercando però di appianarle e cercando di evitare lo scandalo
che Abelardo comunque aveva portato nel suo campo per assicurare una tranquillità al diritto
canonico.
Il suo testo si chiamava Concordia discordantium canonum chiamato poi dai seguaci Decreto di
Graziano e così giungendo a noi.

Graziano. Le fonti su Graziano sono rade e per di più ricostruite da fonti indirette non sempre
attendibili. Egli sarebbe nato intorno alla fine dell’ XI secolo tra Orvieto e Chiusi è già intorno al
1130 doveva esser attivo a Bologna nel monastero dei SS. Flice e Naborre, che qui avrebbe
composto la sua opera intorno al 1140 e avrebbe fatto scuola diventando magister (quindi docente di
arti liberali).
Un solo episodio della sua vita è testimoniato dal un documento notarile. Nell’agosto del 1143, in
S.Marco a Venezia, il cardinal legato di papa Innocenzo II, all’atto di emanare una sentenza in tema
di decime ecclesiastiche, volle sentire il parere di alcuni alti prelati e di autorevoli esperti del diritto:
la scelta cadde sui nomi del magister Gualfredo, di Graziano e del dotto Mosè.
Il quesito era importante: a chi toccavano i beni di un convento abbandonato? Al patrono o al fisco
pontificio? Bassiano riferisce che si aprì una disputa tra Gualfredo (che riteneva che dovesse
subentrare il fisco: Giovanni condivide ciò, anche Azzone e Accursio) e Mosè (sosteneva l’ardita
tesi che proprietà e possesso spettassero alle mura stesse del convento per far si che nel caso in cui i
monaci fossero tornati essi potessero aver assicurata la vita).
Mosè, che non doveva essere digiuno delle fonti romane, vi poteva trovare ottimi argomenti data la
frequenza con cui il termine ecclesia aveva in esse l’accezione di luogo materiale titolare di diritti e
privilegi. Lo Shupfer con molta fantasia ha visto in Mosè il lontano precursore della odierna teoria

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della fondazione (ente formato di beni contrapposto all’associazione di persone) oggi dotata di
personalità giuridica.
Se inizialmente questa dottrina fu pessimamente accolta, poi ebbe accoglienza successivamente. Fu
opposta ai feudatari che spogliavano dei loro demani i villaggi quando venivano abbandonati e che
poi non volevano restituire demani e usi civici (diritti di pascolo, legnatico e comunque tutto ciò che
riguardi lo sfruttamento del suolo) ai nuovi abitanti che si fossero decisi, a distanza magari di
decenni, a ripopolare quei villaggi. E gli usi civici erano necessari per la loro sopravvivenza.

La concordia discordantium canonum. Insiema a Gualfredo e a Mosè, il Graziano del consulto


veneziano appare l’esponente di un giro di giuristi bolognesi alternativo, negli anni postirneriani, a
quello dei fanatici del testo giustinianeo.
Quando decise di tentare la conciliazione delle “verità” canoniche, non ebbe grandi difficoltà a
reperire tutto il materiale dato l’enorme mole di collezioni creatasi nel periodo gregoriano. Egli
attinse da Ivo di Chartes nella Panormia, dal Policarpo e da opere minori.
Il grande merito che la storiografia gli riconosce è di avere separato il diritto canonico dalla
teologia, quanto dire di aver costruito alla Chiesa un ordinamento genuinamente giuridico. Ma se
questo fu il risultato che la storia diede effettivamente in sorte alla sua impresa, occorre riconoscere
che la Concordia discordantium canonum rimase, sempre in bilico tra teologia e diritto. La
storiografia mette infine in risalto, quale contributo personale di Graziano, i dicta inseriti da lui tra i
pezzi della collezione per spiegare problemi, fornire principi di teoria generale e sanare
contraddizioni. Per quanto chiari e pregevoli, non si può dire ch’essi riescano a salvare Graziano dal
giudizio dato su di lui da un maestro della storia del diritto canonico come Marcel Le Bras che
l’antico caposcuola fosse un compilatore di <<mediocre ingegno che ha spesso ingarbugliato i suoi
modelli>>.
Allora cosa consentì alla Concordia di fermare la vorticosa produzione di sillogismi normativi e di
restare l’unica in campo? Cosa le permise di diventare il monumento del ius vetus ecclesiastico e la
prima pietra su cui si eresse il Corpus iuris canonici?

L’opera e le aggiunte degli allievi. Non è difficile scorgere che a favorire le sorti dell’opera fu la
circostanza ch’essa dominò il giro delle scuole canonistiche e quindi conquistò la scienza.
L’opera stessa fu probabilmente concepita dall’autore come un manuale per la didattica e infatti
venne usata nella sua scuola bolognese. Nell’uso pluriennale che ne fece della cattedra, lo stesso
Graziano ebbe modo di apportarvi modifiche, poi furono gli allievi e i successori a rifinire il testo
del maestro. Ne curarono la sistemazione dell’opera in 3 parti, la prima e la terza divise in
distinctiones e la parte centrale in cause e le cause in questioni. Il luogo de poenitentia nella
seconda parte, e tutta la terze e ultima, costituiscono integrazioni successive a Graziano.
Inoltre gli allievi aggiunsero almeno 166 fonti dette paleae. Alcune danno al decreto qualche tocco
in più di tecnica giuridica: sono le paleae che contengono fonti romanistiche.

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Graziano e le fonti romane. Adam Vetulani in un articolo del 1947 sostiene che Graziano avesse
scarso entusiasmo per le fonti legislative romane e quelle che si leggono nell’opera
rappresenterebbero integrazioni dei discepoli. Si è trattato di uno degli aspetti del grandioso
fenomeno d’importazione di leges e di dottrina civilistica che fece diventare il diritto canonico
sempre più diritto e sempre meno teologia.
La cerchia degli allievi di Graziano è immersa nell’ombra ancor più di quella dei discepoli di
Irnerio. Quel Paucapalea al quale si attribuiscono interventi nella sistemazione e nell’aggiornamento
del Decreto ne redasse anche una summa dell’opera. Ma della sua vita non si sa nulla.
Un certo Rolando poi ne fece un’altra summa; detta Stroma. Ma quella più ampia e soddisfacente fu
fatta intorno al 1157 dal francese Rufino futuro vescovi di Assisi; il suo allievo Stefano ne redasse
poi un’altra che divenne il maggior veicolo della diffusione del Decreto in Francia ed ebbe
un’importanza storica notevolissima.

Uguccione da Pisa e l’irrompere del diritto romano nella canonistica (con la summa
decretorum). Fu tutto italiano l’avvio di quel rinnovamento del pensiero canonistico che si ebbe,
quando Uguccione da Pisa aprì le dighe dell’irruzione del diritto romano in quello canonico. E il
diritto romano, miniera di tecnica giuridica, cambiò lo spirito dell’ordinamento della chiesa, lo
allontanò dalla teologia e mutò l’aspetto ambiguo del canonista-teologo nel volto deciso dal
giurista.
Uguccione, pisano di nascita, compì certo a Bologna i suoi studi canonistici ma nulla si sa dei suoi
maestri; è molto probabile che completasse la propria formazione con studi civilistici.
Tra il 1188 e il 1190 compose la preziosa Summa Decretorum. Nel 1190 nominato vescovo di
Ferrara, dignità che tenne fino alla morte nel 12010, lasciò gli studi di diritto, per appassionarsi ala
grammatica. A lui sarebbe dovuto quel Liber derivationum che rappresenta una vera pietra miliare
nella storia del genere lessicografico - enciclopedico tanto caro alle arti liberali: ma oggi non si è
più sicuro che l’Uguccione canonista e vescovo vada identificato con l’Uguccione grammatico.
La sua figura è decisiva nella storia del diritto della chiesa; la circostanza che dopo di lui di esiga la
formazione civilista dei canonisti sarà rivoluzione non da poco, i canonisti si metteranno alla pari
dei civilisti in fatto di tecnica giuridica e ciò aprirà la strada all’idea della fusione delle due scienze
nel sistema dell’ utrumque ius.

L’intensa produzione di decretali. La trasformazione fu rapida. Colpisce che, non molti anni
prima di Uguccione, un grande decretista come Simone da Bisignano potesse ancora lasciarsi
sfuggire in una glossa che nelle cause canoniche il diritto romano non si applicasse affatto. Eppure
Simone si rileva tutt’altro che sordo alla voce dei nuovi tempi; è in particolare il primo a sentire che
la crescita prorompente della normazione papale premeva per un aggiornamento del diritto
canonico. Quando la Summa di Simone manifestò il bisogno d’integrare e aggiornare il Decreto alla
luce delle nuove decretali pontificie, essa diede il segnale della svolta verso il ius novum di
produzione pontificia, che divenne in breve la nuova frontiera della canonistica.

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Il torrente di decretali che usciva dai palazzi pontifici stava facendo invecchiare con estrema
rapidità il Decreto di Graziano.
Non che la crescita della figura del papa – legislatore significasse il declino dell’altra fonte
normativa della chiesa, i concili; essi non furono trascurati ma assunsero la funzione nuova di far da
palcoscenico alla divulgazione dell’attività normativa dei grandi pontefici.
Il concilio Lateranense III convocato da Alessandro III emanò norme di grande importanza come
l’affido definitivo dell’elezione del pontefice all’intero collegio cardinalizio vietando i tradizionali
interventi del popolo e dell’imperatore; assicurò ai poveri una formazione scolastica gratuita presso
le chiede cattedrali, prese drastici provvedimenti contro le eresie. Inoltre, Alessandro III e
successivamente Innocenzo III pesarono sulle sorti del diritto canonico anche per l’uso di
mantenere una corrispondenza vivacissima con vescovi e abati, chiese e monasteri, principi e
signorie in tutta Europa, distribuendo regole e ammaestramenti che costituirono un’enorme massa
di decretali.
Gradualmente il Decreto divenne un mero deposito di ius vetus , apparve sempre più come diritto
vecchio: una galleria delle tradizioni da conservare come segni rappresentativi della vita e funzione
della chiesa ma che dovevano essere completate e aggiornate. Dapprima serie di decretali vennero
alluvionalmente aggiunte ai manoscritti del Decreto, magari con materiale antico che Graziano
aveva omesse e ritenuto invece utile, successivamente si decise di formare collezioni autonome e le
norme furono chiamate extravagantes perchè extra Decretum vagabantur; le raccolte furono
numerosissime, tra cui le famose Quinque Compilationes Antiquae.

Quinque Compilationes Antiquae. La prima di esse è opera di Bernardo Balbi di Pavia. Studente e
poi professore di diritto canonico a Bologna, completò l’opera intorno al 1191, poco prima di
diventare quell’anno vescovo di Faenza. Legato ancora ai metodi della decreti stia, non si
accontentò di aggiornare Graziano con un nuovo materiale pontificio, ma si preoccupò di
completarlo con vecchio materiale, canoni di concili, leggi germaniche e romane. Da buon
professore curò l’ordine sistematico della propria opera distribuendola in 5 libri secondo lo schema
rappresentato nel verso iudex, iudicium, clerus, connubia, crimen schema poi adottato in tutte le
collezioni successive. Non contento dedicò alla propria opera una summa.
La terza compilatio (cronologicamente la seconda) fu fatta pubblicare da Innocenzo III nel 1210 il
quale vi accluse proprie norme a cui impresse per la prima volta nella storia carattere ufficiale.
Si diede a quella che era in realtà la successiva il numero precedente, chiamandola seconda solo
perché conteneva materiale anteriore a Innocenzo III. La redasse da Giovanni di Galles , professore
inglese che aveva cattedra a Bologna intorno al 1215 e rimase probabilmente collezione privata.
A breve distanza di tempo il grande evento del IV Concilio Lateranense del 1215 sollecitò la
Compilatio Quarta. La compose Giovanni Teutonico già glossatore del Decreto e fu presentata a
Innocenzo III prima della sua morte per averne l’approvazione. Approvazione che non ebbe e
quindi quest’opera vide la luce solo nel 1217 come opera privata.

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Dopo la morte di Innocenzo III la produzione di decretali rallentò un po’ ma non tanto da impedire
che dieci anni dopo il successore Onorio III promulgasse, nel 1226, la quinta e ultima delle
Compilationes antiques: della sua redazione aveva incaricato Tancredi, maestro di diritto canonico e
proprio da quel 1226 arcidiacono della cattedrale di Bologna.

Prime voci ierocratiche. Esse apparvero quando i canonisti si misero a glossare le compilazioni di
decretali: Cristo si udì dire da qualche parte, ha trasmesso a Pietro le due potestà spirituale e
temporale, sicché il pontefice vicario di Pietro è il vero titolare del potere secolare che solo per sua
delega esercitano imperatori e principi. Si gettano le basi per i sogni di potenza che Gregorio VII
aveva solo aperto. Fino a quel momento il pensiero dei seguaci di Graziano era rimasto
impermeabile alle pretese ierocratiche perché il Decreto era stato valida roccaforte a difesa
dell’antico dualismo gelasiano.
Si sono cercate invano chiare dichiarazioni ierocratiche nei decretasti. Magari c’è qualche punto
ambiguo, ma troppo poco per scorgere presupposti politici che Uguccione peraltro smentisce con
espliciti atti di fede gelasiana.
Gelasio non poté mai essere apertamente sconfessato nemmeno dai decretasti. Il suo principio era
entrato a far parte delle verità antiche irrinunciabili. Fu forzato, questo si, quando gli ierocratici
ridussero il dualismo delle due dignità al solo piano dell’esercizio del potere, unificando la titolarità
di entrambe nelle mani del papa: la società cristiana essendo unica le deve essere riconosciuto un
solo capo, appunto il papa; al papa, infatti Cristo ha consegnato per il tramite di Pietro entrambi i
gladi, e dal papa imperatori e re ricevono per delega quello temporale.
Dalla metà del duecento le tesi ierocratiche si diffonderanno per toccare il culmine al tempo di
Bonifacio VIII. Dopo la caduta dell’impero svevo e la vittoria del guelfismo saranno condivise
persino da qualche civilista. Qui basti rilevare con quanta puntualità il cammino trionfale delle
decretali pontificie nel diritto canonico si sia svolto in consonanza con il progresso altrettanto
trionfale dell’immagine del papa.

CAPITOLO VI: DA GREGORIO IX IN POI: I LIBRI DI DECRETALI E LA DECRETALISTICA

Il Liber Extra di Gregorio IX. La Compilationes Antiquae erano state un assaggio delle possibilità
che offriva la massa delle decretali in vista della costruzione di un ordinamento organico e
moderno, ma non erano che un assaggio, appunto, un lavoro preparatorio per sua natura incompleto.
Gregorio VII non aveva nascosto sin dall’inizio del suo pontificato di voler fare una nuova e
grande collezione di decretali. Era certamente un papa forte che aveva aperto il suo pontificato
scomunicando Federico II e prendendo le retini della lotta verso l’impero.
L’incaricato all’impresa giuridica fu il domenicano spagnolo Raimondo di Pènafort, canonista e
moralista di alte virtù futuro santo.
Dato che le fonti erano tante e disordinate, il primo passo fu quello di fare una cernita accurata del
materiale delle Compilazioni Antiquae recependo ciò che si poteva organizzare in un’architettura

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armoniosa potendo anche apportare modifiche ai testi, cosi come autorizzato dal papa. A ciò poi si
aggiunsero i decretali di Gregorio IX (pochi in realtà) e anche un modesto apporto di materiale
antico: Canoni degli apostoli, concili d’Oriente e Occidente, fonti germaniche e poche leggi romane
di tradizione teodosiana. Questa risurrezione di Teodosio servì a dare all’opera qualche tonalità
diversa da quelle usuali nella dottrina giuridica nostrana, che non concepiva romanità fuori da
Giustiniano.
Il nome della collezione fu Decretales Gregorii IX più conosciuto come Liber Extravagantium
(extravagantes, si ricordi venivano chiamate le decretali che extra Decretum vagabantur) titolo
abbreviato in Liber Extra. La bolla papale di promulgazione del 1234 proibiva la consultazione di
altre raccolte salvo previa autorizzazione della Santa Sede; quindi il Liber Extra diviene il pilastro
fondamentale dell’ordinamento ecclesiale.

Goffredo da Trani. Sinibaldo Fieschi papa Innocenzo IV e la sua teoria della persona
giuridica. La comparsa del Liber Extra diede nuovo impulso alla scienza. L’opera ebbe più di un
apparato, quello di Bernardo da Parma, pur non essendo il migliore, divenne la glossa ordinaria.
Tralasciando i tanti personaggi anche di rilievo, ci si soffermerà solo sulle maggiori stelle del
firmamento decretalistico, su una celebre triade di alti prelati: Goffredo di Trani cardinale diacono
di S. Adriano, Sinibaldo Fieschi papa Innocenzo IV ed Enrico cardinale a Ostiense.
Goffredo da Trani fu cosi buon conoscitore di diritto romano da consentire l’ipotesi di un suo
insegnamento delle leges nell’università di Napoli. Di certo si sa di un suo insegnamento a Bologna.
Se il suo apparato alle Decretali di Gregorio IX ebbe poca e temporanea diffusione, senza avere
comunque mai l’onore della stampa, una certa fortuna arrise invece alla summa che scrisse a
Bologna, agile e succinta, utile per studenti e pratici più volte editata.
Di maggiore levatura il genovese Sinibaldo Fieschi, papa Innocenzo IV, il cui commentario alle
Decretali è ben noto per la sua particolarità più che rara di essere stato composto durante il
pontificato, intorno al 1251. Innocenzo fu anche legislatore. Coinvolto nell’ultima fase della lotta
della chiesa con l’impero, Sinibaldo passa per essere stato, dopo Alano e Tancredi, uno dei teorici
delle ierocrazia, ma se la cosa è possibile occorre dire che gli spunti offerti dal commentario
innocenziano non sono sufficientemente chiari. Piuttosto è un altro il tema ad aver compito la
storiografia che usa celebrare il papa-giurista per il contributo fondamentale ch’egli avrebbe offerto
alla teoria generale del diritto privato, configurando per la prima volta l’ente collettivo astratto
come persona ficta, ossia delineando, sulla scorta di una fictio iuris, l’immagine della persona
giuridica.
È probabile che non fu una novità inventata da Sinibaldo li per li, ma che serpeggiasse già da
qualche parte, forse oltr’alpe. In effetti qualche anno più tardi ne daranno un’esposizione assai più
organica i civilisti della scuola di Orleans, e lo faranno senza ispirarsi da Innocenzo IV, come
dimostra l’adozione di una terminologia diversa: sceglieranno infatti parlare di persona
repraesentata anziché ficta.

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Enrico da Susa. Il terzo della triade dei grandi decretalisti duecenteschi è il piemontese de Susa
detto l’Ostiense perché nel 1262 aveva avuto la nomina a cardinale di Ostia.
Era arcivescovo di Embrun quando redasse la seconda e definitiva redazione della sua summa del
Liber Extra. L’opera ebbe un successo enorme diventando il vade-mecum dei canonisti come le
summae azzoniane erano lo erano state per i legisti: anzi, fu in qualche modo destinata anche a
questi ultimi dato che l’Ostiense fu uno dei primi e più autorevoli apostoli della convergenza dei
due diritti. Sin dal proemio colpisce l’insistenza con cui invoca l’utrumque ius, dichiara di rivolgersi
agli studiosi in utroque iure. Non è quindi azzardato porlo tra le personalità che più hanno
contribuito a riconoscere il grande fenomeno dell’unione dei due diritti in un unico sistema, e delle
due dottrine in un’unica scienza, che dal tardo trecento caratterizzerà il mondo giuridico europeo.
L’Ostiense si meritò epitemi come pater canonum, stella, lumen lucidissimum e Dante ne fece il
simbolo del diritto canonico.
Ancora più grandiosa della summa appare però la Lectura delle medesime decretali gregoriane,
iniziata nel periodo parigino e apparsa in ultima stesura poco prima della sua morte.
È stato specialmente il pensiero politico-giuridico a interessare gli studiosi. Si è sempre rilevato
come anche egli, sulla scia di Innocenzo IV, avesse proseguito il cammino delle dottrina
ierocratiche. Ma come spesso accade la sua interpretazione varia col variare delle fonti interpretate.
Sicchè è difficile costringere il pensiero dell’Ostiense entro schemi rigidi e coerenti. Per esempio:
da una parte comprende nella Donazione di Costantino gli argomenti in favore di una titolarità
pontificia di un potere anche temporale,che gli sembra logico propugnare perché non vede come
l’umanità possa essere retta da due capi, dall’altra parte afferma senza problemi che le due
giurisdizioni nascono distinte e derivano da Dio, secondo la forma del pensiero gelasiano.
Un’incoerenza ai nostri occhi. Ma forse non a quelli dei canonisti medievali: persino Alano, il più
puro degli ierocratici, rendendo obbligatoria per il pontefice la delega del potere secolare
all’imperatore e ai principi laici finiva col rendere il papa un mero tramite nel passaggio della
potestà effettuale da Dio al monarca, e comunque salvaguardava il dualismo sul piano dell’esercizio
concreto dell’impero. Tanto che il giurista considerato
da molti il più ierocratico dei primi ierocratici, ad altri è sembrato rientrare nella schiera dei
dualisti.

Guido da Suzzarra. Per l’Ostiense il tropo il trono papale si erge più in alto di qualsiasi altro trono.
In questo modo si trova la conferma che le tendenze ierocratiche sono state potente stimolo
dell’affermarsi dell’ utrumque ius che non rappresenta altro se non il prevalere di fattispecie
canoniche su quelle civili evocando quindi un prevalere della Chiesa sullo Stato. Il sistema maturo
di diritto comune vedrà in seguito il coordinamento dei due diritti in un sistema giuridico unitario
alla luce di criteri di ragione ed equità.
Un coordinamento che avrà poi effetto immediato sui metodi della scienza: principi e concetti
saranno comuni, i civilisti potranno usare quelli canonistici e i canonistici potranno attingere a
rationes civilistiche. L’interazine delle norme produrrà quella delle culture.

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Fu però un risultato conseguito pienamente solo nel 300. Uno dei legislatori coevi all’Ostiense tra i
più sensibili al mutare dei tempi, Guido da Suzzarra, ci dice della perdurante incertezza sui criteri
regolatori dei conflitti tra canoni e leggi nella seconda metà del duecento; vi è chi richiede che la
prevalenza degli uni o delle altre sia determinata dalla natura spirituale o temporale della fattispecie,
altri che sostengono che i canoni si sviluppino nel foro ecclesiastico e le leges in quello civile:
Guido insegna che occorre preferire sempre la norma equitativa a quella rigorosa, sia che a questo
modo il diritto canonico prevalga sul civile sia viceversa.
La massima che nell’interpretazione l’equità vada preferita al rigore, è romana. La novità della sua
applicazione nei conflitti tra canoni e leggi sta nel presupposto ch’essi facessero parte di un unico
sistema.

Agitazione nella Chiesa. Bonifacio VIII. Decapitato a Napoli Corradino, l’ultimo discendente
della casa imperiale sveva, dissolta nel nulla la restaurazione dei poteri antichi dell’impero, in
rapido progresso le tesi ierocratiche, la chiesa del tardo duecento sembra essere ovunque vittoriosa.
Ma all’improvviso scoppia al suo interno la tempesta. Celestino V, il papa angelico, sale al trono
pontificio nel 1294 e dopo 4 mesi si dimette sopraffatto dagli intrighi della curia.
Benedetto Caetani accusato dai detrattori di esser al centro di questi intrighi diventa papa col nome
di Bonifacio VIII. Ma 3 anni dopo la potente famiglia dei Colonna gli si rivolge contro: i cardinali
Giacomo e Pietro Colonna divulgano 3 manifesti in cui attaccano il papa, proclamando nel primo
che la rinuncia di Celestino era stata illegittima e quindi nulla l’elezione di Bonifacio e negli altri
due che si erano sovvertiti gli status generali della Chiesa e che la venalità degli uffici era legata al
peccato di simonia che la plenitudo potestas papale non poteva giustificare.
Per Bonifacio si rivelò molto pericolosa l’accusa di eresia con l’auspicio di un deferimento al
concilio per giudicare il papa che ora sembrava essere idea accettata, contrariamente al passato,
dalla scuola teologica di Parigi. Esercitava pressioni il grande avversario dei Caetani Filippo il
Bello re di Francia: fra loro ci furono alti e bassi. al celebre “schiaffo di Anagni” inferto da Nogaret
inviato da re Filippo seguì poco dopo la morte del papa.
Per Filippo le tesi ierocratiche di Bonifacio apparivano pericolose e insopportabili manifestazioni di
mania e potenza. Il caso della celebre bolla Unam sanctam non poteva di certo non infastidire un re
che vi leggeva non solo di essere subordinato alla Sede apostolica, ma che questa non poteva essere
giudicata da alcuno e aveva il diritto di giudicare tutti.
Dalla lotta fra Filippo e Bonifacio scaturirono conseguenze di gran peso nella storia della chiesa. La
frattura creatasi influì indirettamente sul trasferimento della Sede apostolica da Roma ad Avignone
pochi anni dopo la scomparsa del papa.

Il Liber Sextus. Esso rappresenta la collezione di decretali che Bonifacio VIII promulgò con la
bolla Sacrosantae nel 1298. Questo titolo curioso è derivato dal fatto che il Libro in realtà doveva
aggiungersi ai 5 che comprendevano il Liber Extra. Tuttavia quest’opera non era un’appendice
bensì un’opera perfettamente autonoma. Anche il Sextus ebbe ormai la consueta ripartizione in

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cinque libri (iudex, iudicium, clerus, connubia, crimen), inaugurata dalla Compilatio antiqua nel
lontano 1191. In fondo a quest’opera compare per la prima volta in una compilazione canonica un
titolo de regulis iuris che imita quello con cui termina il Digesto. La tradizione vuole che a
comporlo sia stato uno dei maggiori civilisti del tempo, Dino del Mugello. Pochi decenni dopo il
canonista Giovanni d’Andrea farà passare Dino per ignorante del diritto della chiesa; d’altronde il
de regulis iuris del Liber Sextus appare come un opera sostanzialmente civilistica, al punto da
sembrare un corpo estraneo inserito nella legislazione pontificia.

La Santa Sede ad Avignone. La guerra del re di Francia vs Bonifacio VIII contribuì dopo la morte
di quest’ultimo alla crescita dell’influenza francese sulla curia e finalmente, nel 1309, al
trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone. Lo decise il francese Clemente V che
diede inizio alla c.d. cattività avignonese di 70 anni di durata.
La corte di Avignone era imbevuta di cultura di Francia e Italia e fu a tratti splendida: vi risiedette
Petrarca, Simone Martini de affrescò i palazzi. In questo periodo cambiarono la mentalità e la
politica della chiesa; se non si sconfessò mai l’ideologia ierocratica e l’esaltazione della sede
apostolica, si preferì seguire strade realistiche e moderate.
Clemente V raccolse una serie di decretali proprie che nel 1312 fece leggere nel concilio di Vienna
secondo la prassi di procedere a una prima promulgazione-pubblicazione all’interno dei concili. Poi
sottopose il complesso al concistoro, in ossequio all’autorità nuova assunta dai cardinali, ma venne
a morte proprio quando stava per dare vita alla fase finale della pubblicazione con il sistema
dell’invio ai grandi Studia. Vi provvide il successore Giovanni XXII; alle decretali conservò il
nome di Clementine.
Malgrado la modesta mole, questa prima compilazione avignonese ha lasciato il segno. Contiene un
intervento del papa nella questione dibattutissima della povertà francescana e un paio di norme non
meno importanti sul diritto processuale.
La clem. Dispendiosam e, ancor più, la celebre clem. Saepe fissarono infatti definitivamente le
regole, seguite nei tribunali civili oltre che nei giudizi ecclesiastici, di quel processo “sommario” di
cui la summaria cognito giustiniane era antenata lontana. La clem. Saepe prevedeva un forte
snellimento della procedura: cadeva il requisito del libellus introduttivo, cadeva la litis contestatio,
si limitavano drasticamente eccezioni e appelli incidentali per sventare manovra dilatorie, si
riducevano all’essenziale il contradditorio tra le parti e l’escussione dei testimoni.
Con Clemente si chiuse la stagione delle raccolte ufficiali di norme pontificie. L’appendice di un
paio di raccolte di norme private successive ebbe modeste dimensioni.

L’istituzione del tribunale della sacra rota. La prima riunì una ventina di pezzi del successore di
Clemente, Giovanni XXII fatta durante il suo pontificato. Probabilmente la stessa raccolta
normativa era stata fatta, come ai vecchi tempo, nella scuola per la scuola. Entrerà anch’essa nel
corpus iuris canonici. Tuttavia la bolla della Ratio iuris , una delle norme più importanti di quel

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papa con cui inizia nella storia la Sacra Rota, non entrò in quella raccolta perché successiva a
questa.
La Sacra Rota fu eretta a organo istituzionale autonomo con propria sede nel palazzo apostolico;
riguardo alla procedura, fu scritto che il relatore raccogliesse i pareri scritti dei colleghi investiti
della causa così che la sentenza apparisse come il risultato dell’incontro di opinioni scientifiche: un
ottimo metodo per garantire un’alta qualità. Non passerà molto tempo e uno degli uditori prenderà
nota del confronto dei pareri filtrandone le rationes. Da questo seme germoglieranno le grandi
raccolte delle decisiones, un genere letterario nuovo che vedrà crescere rapidamente la propria
autorità. Esse entreranno nel circuito accademico, nel trecento le decisiones della Rota saranno già
usate dalla scuola canonistica bolognese.
Le decisiones della Rota non sono dispositivi di sentenza da usare soltanto come precedenti
giudiziali; esse raccolgono pareri scientificamente motivati sulla trama di rationes teoriche, sono
vicine quindi ai consilia rilasciati da professori ed esperti a giudici e parti. Insieme con i consilia
vanno a rafforzare il ponte che, era stato gettato tra scienza e prassi con le questione ex facto
emergentes. Anzi, consilia e decisiones avranno in sorte di soppiantare proprio il vecchio genere
delle quaestiones.

Le decisiones della Rota. Le raccolte delle decisiones della Rota rappresentarono un modello
irresistibile per i grandi tribunali laici.
Sin dalla fine del trecento il parlamento di Parigi e vari parlamenti provinciali espressero sillogi
(raccolte) più o meno organiche di sentenze. Ma fu il parlamento di Grenoble a trovare in Gui Pape
il paziente raccoglitore di una folta collezione di decisiones destinata a straordinario successo: le
stampe invasero il mercato francese e italiano a testimoniare che le decisiones, pur legate a
ordinamenti particolari, fondate su elaborazioni di rationes costituivano opere di scienza e in quanto
tali non conoscevano frontiere.
A seguire per prima l’esempio da noi fu la Napoli aragonese. Qui, Matteo d’Afflitto, chiamato al
Sacro Regio Consiglio (organo con funzioni giudiziarie) pubblicò nel 1509 una folta raccolta di
decisiones che acquisto subito grande celebrità.

Ma torniamo al diritto canonico. Quando nell’anno 1500 Jean Chappuis pubblicò l’insieme delle
collezioni pontificie che si sono ricordate nacque il Corpus iuris canonici. Così lo si denominerà
infatti a imitazione del Corpus iuris civilis; esso risultò formato dal Decreto di Graziano, del Liber
Extra di Gregorio IX, delle Extravagantes di Giovanni XXIII e di un’aggiunta curato dallo
Chappuis stesso, una raccoltina di decretali eterogenee che andavano dal tardo duecento al tardo
quattrocento cui fu assegnato il titolo di Extravagantes communes. Così completo il Corpus non
mutò più, le nuove norme che dal cinquecento in poi ovviamente non mancarono ne rimasero fuori,
e vennero conservate nel Bullarium pontificio aggiornato periodicamente fino ai giorni nostri.

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Giovanni d’Andrea. Quanto all’esegesi, Giovanni d’Andrea, la personalità forse più
rappresentativa della Bologna del primo trecento, cominciò col corredare di un apparato ordinario il
Liber Sextus di Bonifacio VIII.
All’inizio di quel secolo lo Studium bolognese usciva da traversie che avevano rischiato di
comprometterne le fortune. Lo scompiglio era cominciato quando, nei disordini seguiti alla cacciata
dei ghibellini Lambertazzi da parte dei guelfi Geremei, la fazione vincente che si era impadronita
del comune ebbe paura dello Studio, e temette che l’autonomia di cui aveva goduto potesse
consentire la chiamata di maestri della fazione bandita. Aveva allora cominciato a nominare i
professori e a pagare loro gli stipendi in modo da farne dei funzionari ed esercitare su di loro pieno
potere. Avevano anche osato nominare i rettori, da sempre eletti dagli studenti. Si attentò
pesantemente alle libertà dello Studio. Questo era sul punto di svuotarsi.
Quando Giovanni d’Andrea, immigrato a Bologna, primo canonista laico, ebbe la cattedra di
Decretali nel 1302 entrò nella scuola un agente catalizzatore di stabilità, a giudicare dal fatto che il
suo insegnamento durò quasi 50 anni e che la sua autorità fu enorme. Aveva studiato a Bologna
teologia, diritto civile e diritto canonico.
Giovanni d’Andrea aggiunse all’apparato del Sextus quello alle Clementine. Il suo opus magnum,
però, non furono gli apparati ma le grandi lecture delle Decretali di Gregorio IX e del Sextus, alle
quali diete il nome di Novella, in onore della madre e della figlia.
Oltre la produzione di opere giuridiche, colpisce in Giovanni l’ampiezza degli orizzonti culturali.
Attorno a lui, amico del Petrarca, aleggia un’aria vagamente preumanistica che annuncia un’epoca
nuova.

CAPITOLO VII: L’ETA’ DEI COMMENTATORI CIVILISTI

La creazione della causa legis e la sua accertata identità con la ratio legis apriva la strada alla
possibilità di creare nuovi istituti. Oltre a ciò era sulla base della rationes legum che si sarebbe
potuto costruire l’edificio medievale del “Diritto comune”.
Le novità più evidenti furono in Francia: nel 1235 Gregorio IX autorizzò ad Orleans
l’insegnamento del diritto romano che il suo predecessore Onorio III aveva invece proibito a Parigi,
forse per evitare che questa somma sede degli studi teologici fosse contaminata dal diritto.
Non sorprende che compaiono a Orleans maestri francesi e italiani ex allievi di Bologna perché si
sa che nel fenomeno della nascita di scuole era l’alma mater la più prolifera di figlie. Di uno di
questi primi maestri, un lombardo, vale la pena di raccontare il gustoso episodio della sua laurea.
Guido de Cumis narra di essere stato allievo a Bologna di Iacopo Balduini; come tale potrebbe
essere stato compagno di Odofredo. Ora, Iacopo e Odofredo sono i rappresentanti di una corrente
scolastica alternativa all’indirizzo dominante degli Azzone-Accursio, e tra le due linee didattiche
non corse sempre buon sangue. Guido de Cumis, dunque, al momento di sostenere l’esame finale si
trovò innanzi tra gli esaminatori Accursio, e con buona dose di temerarietà osò criticarne una sua

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glossa. Accursio rimproverò il ragazzo senza però riuscire a farlo ritrattare; decise allora che
l’esame del candidato andava respinto e Iacopo Balduini dovette adoperarsi per salvarlo.
Questa vicenda si può inquadrare come emblema dello spirito di indipendenza che nutrì Orleans
verso Accursio che invece in Italia la faceva da padrone, e del favore che riscosse la lectura di
Odofredo occasionalmente scelta anche come testo di riferimento per la didattica.

Jacques de Revigny (scuola di Orleans). Nel 1260 la futura stella dello Studio d’Orleans era
ancora baccelliere e non doctor quando avrebbe avuto la ventura di mettere in difficoltà, secondo la
leggenda, Francesco figlio di Accursio, autorevole professore bolognese che, di passaggio a
Orleans, secondo la tipica usanza era stato invitato a tenere una lezione solenne.
Jacques de Revigny dovette iniziare un insegnamento che si prolungò fino alla fine degli anni 70.
Fu poi arcidiacono di Toul e vescovo di Verdun, morì a Ferentino nel 1296 nel corso di un viaggio
verso Roma.
Di lui si ricordano le maestose lecturae (commenti fatti a scopo scolastico) alcune anche finite in
stampe cinquecentesche come quella sulle Istituzioni e sul Codice. In queste opere spesso si trovano
repetitiones cioè lezioni o conferenze tenute fuori dall’orario didattico e destinate a un’esegesi di
leggi o paragrafi.
Un’altra opera che gli appartiene è il De significazione verborum o Alphabetum ossia un’opera di
lessico giuridico: un dizionario. Con la peculiarità di non esser un’enciclopedia generale di tutto il
sapere, come erano state quelle di Isidoro di Siviglia, di Uguccione di Pisa, ma di essere circoscritto
a voci giuridiche. Il fatto che poi il dizionario di Jacques fosse libro d’uso nella scuola di Orleans ne
ispirò aggiornamenti successivi da parte dei maestri sicché, di revisione in revisione capitò nelle
mani di Alberico da Rosciate e confluì nel suo grande e celeberrimo Dizionario.

Pierre de Bellaperche. Taluni allievi del Revigny ebbero una certa fama. Non fu suo discepolo,
come talvolta erroneamente si dice, ma fu il più celebre dei suoi successori quel Pierre de
Belleperche che sarà molto amato da Cino da Pistoia e sarà quindi uno dei tramiti più importanti
della diffusione in Italia del commento francese.
Insegnò a lungo, fino alla metà degli anni ’90 del duecento, entrò poi al servizio di Filippo il Bello
di cui divenne consigliere, fu vescovo di Auxerre e cancelliere di Francia.
Anche egli autore di grosse lecturae e di repetitiones compose una raccolta di quaestiones. Chi
credesse trovarvi vivaci quaestiones de facto emergentes specchio della vita d’oltr’Alpe, come
quelle nostrane rispecchiavano i casi discussi nei nostri tribunali, rimarrebbe deluso. Di quel tipo di
quaestiones l’italiano Guido de Cumis aveva fatto un certo uso scolastico, ma il genere non aveva
attecchito a Orleans. Il realtà la raccolta di Pellaperche contiene soltanto distinctiones.
Famosa per la produzione civilistica, la scuola di Orleans tenne anche insegnamenti canonistici, e
sembra che i contatti tra maestri di leggi e di canoni fossero frequenti. Se si aggiungono i contatti

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con gli artisti e con i teologi scolastici, si comprende come il civilista orleanese fosse aperto a tutte
le novità culturali maturate fuori dall’ager Iustiniani.

La teoria orleanese della persona repraesentata. L’impero persona giuridica. Molte delle
invenzioni orleanesi lasciarono il segno. Per fare un esempio: se la nascita della persona giuridica
ficta è ricondotta al commento di Innocenzo IV scritto intorno al 1251, pochi anni più tardi la
scienza orleanese mostra di padroneggiare l’analogo concetto di persona reprasentata che rivela di
aver conseguito percorrendo strade sue proprie, del tutto indipendenti da Innocenzo.
Anche l’impero, sostiene Revigny, è una persona rapraesentata titolare di beni e poteri. Essa si
distingue dagli altri enti collettivi astratti quali l’eredità giacente perché l’eredità essa perde la sua
personificazione quando viene adita dall’erede, mentre l’Impero è eterno e la sua personificazione
non svanisce quando l’imperatore sale al trono: questo si limita a gestirne gli affari alla stregua di
un semplice amministratore. I poteri straordinari che discendono dall’absolutio legibus sono in
realtà riferibili all’ente Impero, alla persona rapreaesentata, mentre la persona fisica del singolo
monarca potrà accedere alla potesta absoluta solo momentaneamente.
Lo Stato diventa allora persona giuridica centro d’imputazione del potere, finora ogni potestà era
stata concentrata nella persona del principe.

Cino da Pistoia e gli orleanesi. Impatto dei giuristi in Italia alla notizia di Orleans. Un vero
entusiasmo per la scuola orelanese è palesato da Cino Sighibuldi da Pistoia.
La sua ammirazione per Jacques de Revegny e soprattutto per i il Bellaperche è indubbia, in molti
punti ne saccheggiò le opere e attinse largamente alle loro idee; venerato maestro di Bartolo da
Sassoferrato è da sempre collocato alle origini del commento trecentesco italiano.
Di famigli magnatizia,gli fu un ghibellino seguace di Arrigo VII e del suo programma di
ristrutturazione dell’impero. Successivamente mutò radicalmente le sue idee politiche e si fece
fedele della Chiesa anche per incarichi pubblici che ebbe in città guelfe.
Si dedicò poi all’insegnamento avendo cattedre tra 1321 e 1333 a Siena, Napoli e Perugia.
Amico di Dante e Petrarca (compose anche sonetti e canzoni che lo portano nella cerchia del dolce
stil novo) conobbe anche Giovanni d’Andrea . Compose dei veri e propri Commentari sul Codice e
sull’inizio del Digesto. La sua successiva attività didattica si concentrò in un’idea di aggiunta alla
glossa accursiona: il genere nuovo delle additiones rappresentava solo in apparenza una
continuazione della glossa, in realtà esse erano pezzi spesso di considerevole mole in cui venivano
trattati casi o problemi complessi con le singole leggi.
Oltre ciò compose quaestiones “all’italiana” e consilia che la vita forense richiedeva ormai ai
professori in numero crescente.

Le grandi scuole italiane del 1300. Gli Studia italiani: Padova.


Si apre con Cinoo anche il Italia, dunque, l’epoca dei commentatori.

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Una delle scuole destinate ad avere grande gloria è quella di Padova che già era famosa ai tempi di
Accursio. Essa era nata nel 1222 a seguito di una migrazione studentesca da Bologna: da 20 anni la
vita bolognese doveva convenire proprio poco agli studenti e professori bolognesi a giudicare dagli
esodi: nel 1204 era stata la comitiva di Cacciavillano a trasferirsi a Vicenza, nel 1215 ad Arezzo
quella di Roffredo, altri emigrarono appunto a Padova. Era un inteso memento di nomadismo
studentesco.
E fu proprio a Padova che si formò, ai primi del trecento, quel giurista singolare che è Alberico da
Rosciate, amante della letteratura e sensibile ai primi richiami umanistici, autore di un’imponente
esegesi del Corpus iuris pur non avendo mai salito la cattedra, compilatore sulle orme del Revigny
di un gorosso dizionario giuridico e commentatore degli statuti di Bergamo.
Il modello di scuole che cominciò a venir fuori già dalla metà del Duecento è quello della scuola
istituzionalizzata in cui vari insegnamenti svolti da professori diversi vengono opportunamente
coordinati e alla quale viene attribuita la prestigiosa etichetta di “Studio generale”. Ciò rappresenta
un marchio di qualità che le città richiedono in via di privilegio specie a papi e imperatori. Si è
discusso sulla qualificazione “generale”: negli ultimi anni essa sarebbe vista come un’idea di
universalità della Chiesa e dell’Impero cioè le due fonti dei diplomi istitutivi e uniche entità in gradi
di dare ai gradi conseguiti efficacia sovranazionale.
Questa spiegazione non sembra convincere pienamente e allora ci si deve anche basare su un’idea
di istituzione organizzata in 5 anni che porti a vedere lo Studium generale con quello che oggi noi
chiamiamo “Università degli studi”.

Gli Studia toscani: Pisa, Firenze e Siena. Lo Studio di Pavia. Iniziamo dalla toscana sulla quale
fiocca il maggior numero di diplomi di Studia Generalia.
Per primo si presenta il caso di Pisa. La città vantava tradizioni scolastiche antiche. Bonifacio della
Gherardesca conte di Donoratico lanciò l’idea di creare u no Studio capace di tenere il passo con i
maggiori d’Italia. Il programma fu subito attuato con la chiamata quell’anno stesso di Raniero
Arsendi da Forlì, professore bolognese di buona fama. Passarono solo 5 anni e il papa avignonese
Clemente VI diede a Pisa l’agognata patente di Studium generale: ma questa, almeno nel breve
periodo, non portò fortuna all’istituzione; solo dopo un paio di secoli di vita grama, Cosimo allora
duca di Firenze la rifondò e le aprì, una stagione di splendore.
Lo studio di Siena aveva cominciato a formarsi negli anni 40 del duecento e aveva già buon nome
quando, l’imperatore Carlo IV lo fece Studium generale; ebbe professori prestigiosi nel trecento ma
la sua storia più fulgida si svolse nel quattrocento. Firenze, invece, decise di istituire una scuola di
diritto e di medicina e ebbe due diplomi di Studium generale, uno dal papa e l’altro dall’imperatore.
Vide sfilare nelle sue aule professori di prima grandezza ma nessuno si fermò abbastanza da dare
continuità al proprio insegnamento.
Lasciando la Toscana per la Lombardia, Galeazzo II Visconti fece la scelta significativa di collocare
a Pavia e non a Milano il centro scolastico dello Stato; fu per venire incontro al suo desiderio, oltre
che alla richiesta della città, che Carlo IV imperatore concesse a Pavia, nel 1361 il privilegio di

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erigere uno Studium generale. Ma le cose andarono a rilento. Toccò al figlio, Gian Galeazzo dare
l’impulso definitivo per realizzare il progetto; nel 1389 Bonifacio IX concesse una sua bolla
istitutiva di Studio generale.

La scuola di Perugia passerella di luminari: Cino e Bartolo di Sassoferrato. La grande storia


ufficiale del grane magistero perugino era cominciata con Clemente V che prima di trasferire la
sede apostolica ad Avignone aveva mandato alla città la patente di Studium generale.
Perugia volle subito accaparrare maestri di prestigio. Il suo principale maestro per il civile fu Iacopo
di Belvis; un giurista che spiccava per logica stringata e uso rigoroso della quaestio e per la
padronanza del metodo brocardico, ch’era però ormai vecchio.
Proiettato verso il futuro è invece, l’insegnamento di Cino. Fu chiamato a Perugia nel 1326 e due
anni dopo accolse un quattordicenne molto precoce, Bartolo di Sassoferrato.
Cino “fabbricò l’ingegno” dell’allievo, come lo stesso Bartolo confermò successivamente.
Tuttavia Bartolo non fu addottorato a Perugia bensì a Bologna dove questo ebbe il titolo di
baccelliere discutendo una quaestio con Iacopo Bottrigari. Nel settembre 1334 presentato dallo
stesso Bottrigari, sostenne l’esame di dottorato.
Assessore a Todi, avvocato a Macerata, poi assessore a Pisa nel 1339 e nello stesso anno chiamato
nel nuovo Studium pisano a ricoprire una cattedra che tenne fino al 1342, Bartolo si trasferì
finalmente a Perugia dove vi insegnò fino alla morte. Che lo colpì molto presto, a soli 43 anni.
A guardare i nove volumi in folio dei suoi opera omnia si sarebbe sa restare strabiliati di fronte alla
capacità produttiva di un uomo dalla vita tanto breve, se non si sapesse ora che in realtà molte cose
pubblicate come sue in realtà erano di altri.
Carlo IV scendendo in Italia per farsi incoronare imperatore lo elevò a proprio consigliere con il
potere di legittimare gli scolari di natali illegittimi. Nel 1400 venne insignito come Irnerio del titolo
di lucerna iuris e specchio del diritto, accostandolo a Omero Virgilio e Cicerone.
Caccialipi lo esaltò nelle vitae doctorum e vennero istituiti anche dei corsi sulla sua persona.
All’estero poi, si giunse a sancire legislativamente che i giudici, nel caso di disparità di opinioni,
dovessero scegliere quella di Bartolo. E così il metodo dei commentatori finì col prendere il nome
del suo maggior esponente e per secoli fu chiamato “bartolismo”.

Bartolo e la crisi del mondo comunale. Al Bartolo acuto e rigoroso di Giustiniano, al quale
andranno prima l’apprezzamento di mezze Europa e poi le critiche umanistiche, si contrappone il
Bartolo esponente appassionato del suo piccolo mondo comunale in declino, oramai dominato
dall’arroganza delle signorie.
È certo che la predisposizione al diritto pubblico che la storiografia gli riconosce gli viene
principalmente dalla curiosità per le anomale della vita comunale italiana del suo tempo.
Una spiccata curiosità che alimentò con i trattatelli sulle costituzioni Ad reprimendum e Qui sint
rebelles di Arrigo VII sui problemi della società comunale.

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Baldo degli Ubaldi. Bartolo ebbe allievo a Perugia Baldo degli ubaldi. Non v’è altra scuola che
per tutto il trecento si sia fatta palcoscenico di tanti luminari.
La famiglia degli Ubaldi era ragguardevole a Perugia, il padre Francescl era docente di medicina e
ben tre dei suoi figli non solo si dedicarono al diritto, ma furono tutti professori eccellenti: Baldo e
Angelo principalmente civilisti, Pietro canonista. Baldo, in particolare, conseguì subito una
celebrità che quasi ha eguagliato quella di Bartolo, il che non però evitato ch rimanessero oscuri
elementi biografici importanti. Oscura è la data di nascita, oggi si fissa al 2 Ottobre 1327; non è
controversa invece la data della morte che avvenne il 28 aprile 1400nella città di Pavia. Svolse a
Perugia la maggior parte del suo insegnamento, ma ebbe temporaneamente cattedre a Pisa, a
Firenze, a Padova. A Pavia trascorse gli ultimi anni contribuì al lancio del nuovo studio generale.
Egli compose diverse opere, tra cui l’esegesi dei tre digesti Vetus, Infortiatum e Novum ma è
l’esegesi del Codice che appare la più estesa. Quanto alla lettura delle Istituzioni, che compare nei
suoi opera omnia,in un primo tempo attribuitagli, studi recenti hanno affermato che essa va ascritta
a Bartolomeo di Novara, un personaggio marginale nella storia del pensiero giuridico. Baldo fu un
fervente autore di consilia un genere che cominciava a interessare la scienza dei tribunali più dei
commentari. Ne scrisse a migliaia e si arricchì fortemente. Dato che era meno legato di Bartolo al
rigore stridente della logica interpretativa ma più di altri dotato di disinvolta fantasia, egli trovò
nell’attività consiliare l’occasione per fabbricare diritto nuovo intorno alle fattispecie presentate
dalla prassi, con una libertà ardita.
Durante l’insegnamento pavese si concentrò anche molto sul feudo: si ricordino i Libri Feudorum.
Egli fece anche un inconsueto commento alla Pace di Costanza (il privilegio che il Barbarossa
sconfitto dalla lega lombarda aveva dovuto rilasciare alle città vittoriose).
Questa pace però non aveva più un’idea di bandiera delle autonomie locali come ai tempi di
Odofredo, il quale aveva già dedicato alla Pace una glossa, in quanto oramai nel tardo 1300 le
signorie avevano spazzato via le libertà cittadine e stavano lasciando a loro volta, spazio ai
principati.
Un ultimo dato fondamentale: egli è il primo tra i maestri a dedicarsi sostanziosamente al diritto
canonico e trasformarsi da civilista e giurista in utroque. Il giurista dopo di lui si apre finalmente al
fenomeno dell’utrumque ius smettendo di resistergli e il sistema del diritto comune quindi si
completa. Pubblicò un Commentario delle Decretali di Gregorio IX e questo commento ebbe
l’onore di stampe reiterate.

Nel Quattrocento Perugia non ebbe lo splendore del secolo precedente. Ciò è anche giustificabile
dal fatto che divenne abitudine dei maestri non iniziare e finire la carriera in uno Studio bensì
passare dall’uno all’altro secondo la convenienza di offerte fatte in regime di concorrenza.
Ci saranno comunque professori di buon livello, tuttavia la scienza giuridica nel nuovo secolo
comincia a declinare in quanto comincia a soffrire la concorrenza della cultura umanistica, le facoltà
di arti sostituiscono quelle di giurisprudenza. Gli umanisti accuseranno i giuristi di ripetitività della
prolissa esegesi, mancanza di originalità, cecità di fronte a nuove mode culturali.

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CAPITOLI VIII: QUESTIONI DI METODO E SVOLTE CULTURALI. L’UMANESIMO
GIURIDICO

Il desiderio da parte dei commentatori di trovare la ratio delle leggi liberava l’inventiva dei
commentatori allentando le catene sull’attenzione ai verba, lasciava insomma che alla lettera della
norma si guardasse poco o nulla. Il pericolo che ne conseguiva era che ratio e verba sganciati
innaturalmente l’un dell’altro potessero dar luogo a interpretazioni variabili e arbitrarie.
Si doveva allora trovare un nuovo ormeggio che, sostituendo i legami con il dettato letterali,
incanalassero l’interpretazione entro argini stabiliti. Si pensò di radicare il valore e l’efficacia delle
teorie nel prestigio dei maestri che le avevano enunciate e difese. Sebbene certo meno efficace
dell’autorità sovrana che si esprimeva coattivamente nelle parole della legge , il peso
dell’autorevolezza di giudici e dottori poteva essere la forza sufficiente a frenare la libertà
interpretativa, in modo da garantire una qualche certezza al diritto.
L’ argumentum ab auctoritate – la parola auctoritas vale, nella lingua latina, a significare sia
autorità sia argomentazione – venne diffondendosi come metodo di argomentazione, e stimolò
sempre di più il diritto comune a diventare un diritto giurisprudenziale.
All’origine della storia dell’argumentum ab auctoritate si può forse collocare anche la teoria
romana dell’exemplum. L’exemplum era la precedente soluzione di un caso a cui giudici e giuristi
potevano adeguare la propria soluzione di altra fattispecie simile (quello che oggi chiameremmo
“precedente”). Giustiniano, è vero, aveva ricordato che i giudici dovevano giudicare non exemplis
sed legibus, ossia applicare le leggi e non i precedenti. Ma con ciò non aveva inteso vietare che
dell’exemplum si facesse uso: si era limitato a negare che fosse vincolante.
Era lecito ignorarlo persino quando la sua provenienza da un’alta autorità di altissimo livello avesse
ispirato timore reverenziale: con eccezione ovviamente della sentenza del principe, la quale è da
seguire sempre.
La scienza tardo-medievale si dimostrò propensa a dilatare l’efficacia dell’exemplum sia dall’epoca
di Giovanni da Bastiano. Questi fece tra l’altro un ragionamento suggestivo: il carattere non
vincolante si può ben ammettere quando l’exemplum è costituito da una sentenza singola, ma
quando è rappresentato da una pluralità di sentenze esso introduce una consuetudine, ossia diventa
automaticamente norma obbligatoria.
L’efficacia dell’exemplum andò dilatandosi anche per altra strada. Non diceva Giustiniano che lo si
doveva disattendere quando appariva inadeguato al caso in esame? Ciò non implicava forse che
tutte le volte ch’esso al contrario, esprimeva rationes adegaute andava osservato? Nasceva, in
fondo, il dovere morale di attenervisi non perché le sentenze dei predecessori fossero costrittive di
quelle dei successori, ma solo perché ogni ratio buona ed equa ha in se una forza vincolante,
almeno sul piano etico, di valore universale.

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Accanto al giudice cacciatore di rationes per le sue sentenza v’era il sapiente, generalmente
professore, che di questo tipo di caccia era il massimo esperto. È ovvio che, se per la forza
espansiva della ratio funzionavano da exempla le decisioni dei giudici investiti di una potestà
pubblica, in forza della ratio potevano servire da exempla anche le opinioni dei dottori per via del
peso della loro dottrina. Almeno nei casi dubbi si convenne che i pareri di dotti di sicura fama
andassero seguiti, e da ciò nacque l’argumentum ab auctoritate vero e proprio.
Esso non fu comunque mai considerato vincolante perché l’unica autorità che poneva regole
necessariae al contempo generales, ossia obbligatorie per tutti in astratto, era il principe.
Il giudice dava invece una sostanza necessaria ma non generales, dato che era obbligatoria solo per
il caso esaminato, e il professore dava pareri generales, perché enunciava rationes di per sé astratte,
ma non necessarii, dato che non era investito di alcuna autorità. Si poteva pertanto essere stimolati a
seguire le sue opinioni solo dal fascino intellettuale che esercitavano, e dalla fiducia nella scienza
del proponente.
L’argomentum ab auctoritate allargava dunque dal campo giudiziale a quello dottrinale la teoria
dell’exemplum. Fu proprio l’uso prolungato e costante dell’argoumentum a restituire una sorta di
patina obiettiva a quella ratio legis che una volta disancorata dalla lettera, poteva apparire
un’ondivaga invenzione soggettiva del giurista.
Ma a forza di seguire un principio in ossequio al prestigio di coloro che l’avevano formulato, e poi
continuamente adottato, questo principio finiva coll’oggettivarsi assumendo sembianze di un’opinio
communis.
Per consentire a tutti di conoscere le opinioni comune e averle agevolmente sotto mano, se ne
fecero grosse raccolte, veri e propri prontuari di diritto giurisprudenziale.
È ovvio che i ricorsi all’argumetuam ab auctoritate e all’opinio communis interessavano soprattutto
i pratici. Questo progressivo affondare del pensiero giuridico nella pratica forense allentava i legami
con la grande cultura.

Umanesimo e diritto. L’entusiasmo, coll’entusiasmo che aveva generato per la filologia, costituiva
in fondo un grande ritorno alla grammatica delle arti liberali. Era un movimento opposto a quei
giochi con le rationes, cari ai giuristi che avevano prodotto un distacco dallo studio del testo di
Giustiniano. Gli umanisti criticavano pesantemente i commentatori, rei secondo i primi di usare una
dialettica che tradiva quella originale aristotelica.
Per entrare negli atenei, in cui i giuristi continuavano a primeggiare e a intascare, cosa che suscitava
invidia, stipendi più elevati, gli umanisti dovettero impiantarsi nelle corti dei principi e attraverso
meccanismi cortigiani impetrare cattedre nei grandi studia, nelle facoltà, ovviamente della arti.
I primi incontri e sconti tra umanesimo e diritto risalgono a tempi antichi, ai primi anni del trecento.
Vi erano stati contatti amichevoli, come dimostrano i casi dei tanti giuristi toccati dal fascino delle
humanitates. Ma a risentire di quel fascino erano i giuristi e non il diritto, il cui metodo restò
impermeabile alle suggestioni della filologia: continuò infatti a prospettare il solito gioco della
rationes rifiutando il ritorno alla littera del testo.

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Vi erano poi stati scontri, tutti causati da frecciate di letterati. Il Petrarca aveva centrato il difetto
della giurisprudenza nella pretesa di studiare il diritto giustinianeo senza la storia. E questo era stato
ammonimento nuovo, che additava per la prima volta una delle strade maestre in direzione
dell’umanesimo.
Soltanto un secolo dopo l’umanesimo aprì una seria breccia nella giurisprudenza. La cose avvenne
quando i giuristi appresero dagli umanisti che il testo del Digesto vulgato, corrente nella scuola e
nella prassi, era irto di errori, e ch’era bene correggerli ricorrendo al manoscritto più antico, la
famosa littera Pisana nel frattempo diventata Florentina.
Si aprì a questo punto il problema del testo normativo e della sua ricostruzione: e questo implicò un
affiorare di preoccupazioni per la littera, un risorgere della mentalità grammaticale, un aderire
insomma, ai metodi umanistici.
Il progetto di un’edizione critica del Digesto fu accolto da Ludovico Bolognini, un giurista
bolognese di non eccelsa levatura. Il fatto è che l’iniziatica conteneva pericoli. Mettere in
discussione il testo del Digesto usato da secoli nelle scuole e nel foro poteva infatti comportare che
si mettesse in discussione il patrimonio dottrinale accumulato da generazioni che avevano preso per
buono quel testo, e si minasse una ricchezza ormai consolidata. Il rischio era, non solo di cambiare
interpretazione teoriche, ma di colpire persino prassi giudiziarie, e quindi di sconvolgere un intero
sistema ormai affermato.

Nascita dell’”umanesimo giuridico”. Andrea Alciato. Finché erano stati uomini di lettere a dare
consigli e a fare progetti sulle fonti giuridiche le iniziative sfiorarono solo tangenzialmente il diritto
non toccando la dottrina. Ma quando giuristi dediti anche alla pratica forense divennero umanisti la
grande ventata culturale nuova penetrò all’interno, e poté influire su dottrina tecniche e istituti.
Solo a questo punto si può parlare di “umanesimo giuridico” in senso pieno.
I semi germogliarono in tutte l’Europa; si usa infatti cogliere le prime grandi manifestazioni del
fenomeno in una triade che comprende un francese, un tedesco e un italiano, il Budeo, lo Zasio e l’
Alciato. Sin dal cinquecento è uso collocare questi tre nomi alle origini della nuova giurisprudenza
cui più tardi verrà apposta l’etichetta di “scuola culta”.
Due parole si debbono all’Alciato, se non altro perché egli appare come il più dotato nella filologia
e insieme nel diritto, e fu forse, nel triumvirato, colui che più contribuì alla diffusione del nuovo
metodo in Europa.
La sua prima formazione nella grammatica alla scuola di umanisti di vaglia fornì al giovanissimo
Alciato conoscenze sui classici e conoscenze filologiche.
Si laureò in diritto civile e canonico a Ferrara e successivamente venne chiamato su una cattedra
avignonese dove propose ancora uno studio sul modello dei commentatori, mentre il successivo
magistero nello Studio di Bourges mostrò un connubio tra filologia e tecnica giuridica che gli
procurò una singolare affluenza di uditori dotti ed ebbe vasto eco negli ambienti umanistici.

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L’insegnamento alciateo a Bourges. Tra gli uditori di spicco che ebbe a Bourges ci furono
Giovanni Calvino e Francesco Connan. Quest’ultimo fu professore e giurista nella stessa cittadina.
La storiografia ha messo in rilievo una sua teoria del sinallagma che può essere qui presa come
esempio dei procedimenti mentali della scuola culta, della metodologia giuridico - umanistica.
La dottrina del Connan si fonda sulla sottile analisi del valore semantico della parola greca
“siunalagma” e finisce con il negare che l’efficacia vincolante dei contratti consensuali iuris
gentium derivi dal consenso. In effetti, spiega, il consenso non è fonte di forza obbligatoria, lo
dimostra il fatto che è incapace di fornirne ai patti nudi. Ricorrendo all’etimologia della parola
sinallagma che vuol dire “scambio”, si vede che è la struttura bilaterale del contratto a esigere che a
una prestazione ne sia agganciata un’altra, al fine di assicurare un equilibro fra le parti.
La prima conseguenza è che non importa che le singole figure di negozi sinallagmatici siano
previste dall’ordinamento e ne ricevano un nomen (compravendita, locazione..); la vecchia teoria
che il nomen dia il vestimentum al patto nudo, ossia lo rende obbligatorio trasformandolo in
contratto, non ha senso, tanto è vero che i contratti detti innominati perché privi di nomen, avendo la
stessa struttura dei contratti consensuali nominati, hanno efficacia pienamente obbligatoria.
Ciò deriva dalla concezione aristotelica del diritto per cui la funzione del diritto è quella di
“correggere” i rapporti sproporzionati e di bilanciarli coattivamente e ciò si fa appunto rendendo le
prestazioni contrapposte entrambi obbligatorie. Poco importa che la teoria del Connan abbia avuto
scarsa fortuna, e che il principio consensuale, fondato sul dogma della volontà che obbliga, abbia
avuto storicamente la meglio: l’analisi del vocabolo greco e la sua interpretazione alla luce della
filosofia aristotelica resta un bell’esempio del procedere dei culti.

Mos gallicus iura docendi. La ventata umanistica non fu limitata a Bourges e il “cultismo” apparve
ben radicato nella cultura giuridica di Francia che il relativo insegnamento fu detto mos gallicus
iura docendi. Per contro la didattica ancorata al vecchio metodo didattico - scolastico dei
commentatori che, malgrado occasionali sussulti umanistici, continuò ad esser generalmente
seguita in Italia e fu chiamata mos italicus iura docendi. Il primo diritto criticava quello italiano per
la scarsa conoscenza della storia, della lingua greca e latina.
L’Italia, che aveva dato l’avvio all’ondata umanistica, vide nel cinquecento solo radi bagliori della
lezione alciatea; che questa invece fosse dilagata in Francia è cosa che ha colpito la storiografia.
Se ne sono cercate le ragioni: è venuto spontaneo pensare che solo nella Provenza e nella
Linguadoca, nel paese di “diritto scritto”, potesse agire la forza d’inerzia di quei tribunali che
prediligevano ovunque il mos italicus, mentre nel paese del “diritto consuetudinario” nessuna prassi
forense romanistica ostacolasse il diffondersi del mos gallicus. Un ragionamento che, se a tutta
prima sembra non fare una grinza, alla fin dei conti non persuade, perché si sa che i giuristi culti
francesi, pur privilegiando strade teorico-culturali, non erano insensibili alle esigenze dell’uso
pratico del diritto romano.

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Francesco Hotman e l’antitribonianismo. Il cultismo francese con la sua critica filologica e la
storicizzazione delle leges scalzarono quanto restava dell’antica venerazione per Giustiniano.
Nessuno pretese più che le sue leggi fossero ispirate da Dio, come dicevano glossatori e
commentatori. Esse erano prodotti umani confezionati da uomini fallibili e ne notarono e
lamentarono difetti; qualcuno attaccò la compilazione denunciando manchevolezze, alcuni se la
presero con Giustiniano, altri con l’esecutore materiale Triboniano.
Il caso più vistoso di antitribonianismo fu quello di Francesco Hotman, un calvinista, critico a tal
punto del potere monarchico oppressore specie sul piano religioso, da doversi catalogare tra i più
accessi monarcomarchi. Fu sostenitore anche della tesi che i poteri pubblici e lo stato non venivano
da Dio bensì da un originario “patto sociale” stretto idealmente tra le genti quando decidevano di
vivere insieme associandosi in un consorzio umano.
Nella grande fucina della scienza francese cinquecentesca echeggia anche la voce che esprime
l’auspicio della codificazione del diritto nazionale. Non sorprende che sia quella di Francesco
Hotman, uomo nuovo e per tanti versi rivoluzionario, monarcomaco e al contempo nazionalista. I
suoi programmi codificatori sono tutti rivolti a valorizzare le tradizioni autoctone; il diritto romano,
ripudiato, è assente. Ciò appare antistorico: perché il diritto romano e la scienza romanista
costituiranno ingredienti fondamentali dei codici sette e ottocenteschi. Ma l’auspicio della
codificazione formulata da Hotman resta un’idea profetica.
Comincia nel cinquecento a profilarsi l’epoca moderna del diritto. Il medioevo si trasforma in
un’eredità del passato. Un’eredità per certi versi pregevoli, per altri polverosa. Ma con la quale si
dovrà continuare a fare i conti per secoli.

L’ETA DEL DIRITTO COMUNE.


II: GLI ORDINAMENTI GIURIDICO-POLITICI

CAPITOLO IX: COMUNI E ALTRE AUTONOMIE TRA DUE E QUATTROCENTO

Le origini del comune. La nascita e la crescita delle scuole di diritto romano sono andate di pari
passo con la maturazione degli ordinamenti cittadini. La città appare il miglior palcoscenico dei
mutamenti che la vita spirituale e materiale sperimenta dopo il Mille.
Lo straordinario fiorire di comuni e comunelli nell’Italia centro-settentrionale e il loro atteggiarsi
come capitali di statarelli, fervide di attività economiche, culturali e artistiche ha colpito tanto la
storiografia ch’essa non ha esitato ad assegnare al tardo Medioevo la qualifica di età comunale. È
un etichetta che conviene a zone circoscritte d’Italia.
Il Comune ha lasciato un segno profondo, nel bene e nel male, su gran parte dei territori e delle
popolazioni; da una parte ha costellato di opere d’arte un’infinità di centri storici grandi e piccoli
tutti impegnati a farsi appariscenti; dall’altra ha chiamato i cittadini alla politica innestando quelle
faziosità feroci di partiti che hanno fatto le pagine buie della nostra storia.

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Sono state fatte alcune teorie sulla nascita del Comune: la prima è che il Comune nacque dalla lotta
vs il vecchio feudo ma ciò in realtà non è pienamente esatto perché il Comune ha investito anche
territori romanici scarsamente feudalizzati come l’Istria.
Un’altra tesi poi sosteneva che gli ordinamenti comunali fossero scaturiti da quelli municipali
dell’antichità romana per cui vi sarebbe stata una continuità storica dell’istituzione cittadina
tentando di provare che brandelli della vecchia amministrazione romana,sopravvissuta nell’altro
medioevo, si erano perpetuati in quella nuova. Questa ipotesi sarebbe parzialmente condivisibile
ma non risponderebbe però al quesito più importante, ossia come la città sia diventata fonte di
poteri normativi, giurisdizionali e di autogoverno, abbia creato uffici, nominato magistrati, fatto
guerre, esercitato insomma, un’autonomia che neppure Barbarossa è riuscito a soffocare.
Altre teorie hanno cercato l’origine del Comune nel governo vescovile ma ciò è negato dal fatto che
molti luoghi non conobbero il governo vescovile come es. Bologna, Padova

La teoria del Calasso e lo spirito associativo medievale. Un’ultima teoria, fatta dal Calasso vede
il fenomeno culturale come un portato di quella vasta ondata di spirito associativo che pervase la
vita sociale dopo il Mille.
Queste associazioni avevano valenza tecnico-giuridica assicurata da quegli statuti associativi che
nascevano da patti ed erano sanzionati da un solenne giuramento collettivo o coniuratio. Uno dei
casi più famosi di questo giuramento è quello della Compagna genovese. Citata dal 1099 e
prontamente imitata da altre città liguri esse rientra tra quelle forme di autonmia che suscitarono le
apprensioni del Barbarossa, consapevole dell’ostacolo che rappresentavano alla restaurazione
dell’autorità imperiale. Barbarossa nella dieta di Roncaglia del 1158 condannò i coniuratio in
quanto da ciò scaturivano autonomie che spesso si sottraevano al suo controllo.
Dopo le istituzioni comunali vi erano altre associazioni che spiccano per la loro importanza,come le
societates di arti e mestieri o corporazioni che, da una parte organizzavano e protrassero le varier
attività economiche, dall’altra ne fecero ghetti d’interesse particolaristici.
Il fenomeno associativo creò poi la cosiddetta consorteria cioè un tipo di associazione gentilizia.
Esse avevano vari nomi a seconda dei luoghi e vi si accedeva per nascita o per matrimonio e
l’ordinamento interno era assicurato da patti spesso giurati dai capi dei vari ceppi patrizi; ed erano
questi patti a trasformarsi nello statuto del consorzio; spesso erano governate da rector o consul
assistiti da un gruppo di sapientes o consiliarii.
In astratto le fraterne compagnie potrebbero apparire come controfigure in piccolo delle consorterie
nobiliari, ma in concreto esse avevano scopi molto più modesti, si limitavano a prevedere che
gruppi familiari mettessero insieme le scarse risorse a scopi di sopravvivenza, costituendo un
patrimonio comune e consentendo ai componenti di vivere, come si diceva, ad unum panem et
unum vinum.
V’erano poi le compagnie delle armi, qualificate per via dei loro scopo prevalentemente militare;
spesso volti a contrastare le prepotenze delle consorterie.

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Tutto questo spirito associativo genera quindi la frammentazione dei gruppi in circoli più o meno
chiusi e gelosi di un’autonomia che li trasforma in istituzioni, dà loro assetti normativi e
giurisdizionali facendone quindi veri e propri ordinamenti giuridici.

Università degli scolari. L’Auth. Habita. in questo gioco di multiformi autonomie si fa avanti
anche una forma corporativa peculiare che ci interessa molto da vicino perché condiziona il mondo
degli studi, ed è l’università degli scolari. Questa è una forma corporativa molto particolare che
rappresentava l’esito di un moto associativo compiuto dalla massa studentesca verso la fine del XII
secolo; gli scolari che venivano spesso da fuori si sentivano stranieri e isolati dal Comune e dalla
popolazione di Bologna si erano riuniti in una universitas scholarium (non università degli studi
come oggi,in quanto racchiudeva solo studenti e non si identificava con la scuola dato che fino al
duecento non fu neppure un’istituzione) in cui si davano regole, eleggevano un rettore e propri
rappresentanti per fronteggiare meglio le difficoltà della vita quotidiana e per regolare
soddisfacentemente i rapporti con i propri maestri.
Questo moto associativo interruppe il formarsi di una corporazione scolastica modellata su quella di
mestiere e quindi retta dai professori: tuttavia un qualche conato in tal senso esiste, come ad
esempio la qualifica di socii che i maestri continuarono per secoli a dare ai propri alunni che
scaturisce dall’imitazione del rapporto scolastico con quello delle corporazioni di mestiere che
venivano chiamate societates; oltre a ciò il fatto del titolo di dominus assegnato dai ragazzi ai
docenti è lo stesso che gli apprendisti attribuivano al padrone di bottega.
Giovanni Bassiano poi arriverà a dire che le università degli scolari non potevano eleggere i propri
rettori e troverà logico che le nomine venissero fatte dai professori e Azzone dirà che sia per le
professioni che per la scuola il modello applicabile è lo stesso: quello delle associazioni di mestiere.
A risaldare il vincolo tra professori e discepoli ,e ad assegnare alla scuola una spiccata autonomia,
era intervenuto un privilegio elargito agli studenti bolognesi nel 1155, che aveva poi assunto forma
legislativa nella dieta di Roncaglia trasformandosi nella celebre costituzione Habita. Una norma
famosissima con cui si comminavano sanzioni a chi molestava maestri e allievi nei viaggi intrapresi
per arrivare alla città degli studi e concedeva agli studenti di esser giudicati a scelta o dal maestro o
dal vescovo e da essi si potevano aspettare sicuramente più benevolenza che dai giudici comunali
(ciò contribuì a fare della scuola un ordinamento  giuridico a sè stante).

Reazione imperiale al fenomeno comunale. Torniamo al comune cittadino. È ovvio che la rapida
crescita delle sue strutture, che significava crescita dei suoi poteri autonomi, doveva scontrarsi con
la politica centralizzatrice degli imperatori e urtare contro la rivendicazione delle regalie che i
monarchi andavano perseguendo. Nel tentativo di riassumere quel controllo delle città che gli
sfuggiva, Barbarossa subito dopo le prime esperienze di lotta con i Comuni nominò a governarli
suoi uomini di fiducia ( i podestà) che furono guardati in Italia come intollerabili strumenti di
oppressione. Non passarono molti anni che i Comuni nel 1164 cacciarono i podestà quasi ovunque;
Nel 1167 fu stretta la Lega lombarda che sconfisse nella battaglia di Legnano del 1176 le forze

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imperiali e finalmente nel 1183 ci fu la pace di Costanza che sancì la sottomissione formale dei
Comuni all’Impero ma sancì anche il riconoscimento imperiale delle consuetudini ossia le ampie
autonomie che le città avevano usurpate: nasceva il fenomeno delle autonomie locali.
L’impero ritenne però che il testo della pace fosse una legge speciale che vigesse solo per le città
espressamente nominate e inoltre pretendeva l’efficacia della pace condizionata dal rispetto della
fedeltà al re; per cui ogni atto d’infedeltà avrebbe reso “ribelle” la città con la conseguenza del
decadimento dei privilegi imperiali (anche la stessa pace di Costanza, essendo un privilegio, era
revocabile, lo fu infatti nel 1226, quando Federico II la revocò). I Comuni diedero poco peso a
questa interpretazione riduttiva e sbandierarono Costanza come la Magna Charta delle proprie
libertà dandole una valenza generale in quanto la inserirono nel Corpus iuris.

I Comuni dopo Costanza: Podestà e Capitani del popolo. Le legislazioni antimagnatizie.


Subito dopo Costanza i Comuni cominciarono ad affidarsi a podestà scelti non tra i cittadini ma tra i
forestieri. L’assunzione di podestà da altri comuni è ricondotto all’esigenza di salvaguardare
l’imparzialità del governo assicurandone l’estraneità alle beghe locali.
Tuttavia ciò non bastò a fermare i pericolosi fermenti che andavano divampando all’interno delle
città: gli odi tra le consorterie nobiliari e fazioni dette “popolari” e l’incapacità di questi ultimi di
raggiungere accordi con il ceto dominante che li aveva esclusi dalle corporazioni maggiori e dal
potere, li stimolarono a darsi proprie strutture e statuti, al cui vertice posero un Capitano del popolo
(prendendo in prestito il nome capitaneus che Federico II aveva affiancato al podestà dopo la
vittoria riportata vs la seconda lega lombarda). All’atto pratico tutto questo creò una spaccatura del
Comune. Le convivenza delle due cariche, che non esprimeva più il dualismo tra comune e impero ,
espresse quello innaturale tra due strutture cittadine antagoniste, il capitano affiancato da
un’assemblea di anziani e rappresentando “i popolari”, il podestà con il consiglio restando
espressione del vecchio ceto dirigente dei “magnati”.
Per consentire la coabitazione si puntò in genere a una spartizione delle competenze, le attività
diplomatiche furono distribuite, con esiti disastrosi.
Quanto poi, poco dopo la metà del duecento, scomparve la dinastia sveva e al trionfo della chiesa si
contrappose la crisi dell’impero, i guelfi (per il papa) trionfarono sui ghibellini e ogni equilibrio
cittadino esplose: il ceto popolare, che quasi sempre agitava bandiere guelfe, si scagliò verso il
vecchio ceto patrizio ghibellino e ci furono una vera fioritura di leggi antimagnatizie (gli
Ordinamenti sacrati e sacratissimi) che condussero al bando di intere casate dalle città e a un
periodo oscuro di vendette e disordine. La libertà comunale fu a questo punto consegnata nelle mani
delle Signorie.

La procedura penale e Alberto Gandino. Il clima bellicoso instaurato degli ultimi decenni del
duecento non poté fare a meno di stingere sul mondo dei tribunali e dei giuristi. Non dovette essere
un caso che proprio in quel periodo il processo inquisitorio trionfò sull’accusatorio e vedessero la
luce importanti trattazioni di diritto e procedura penale .

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Il primo monumento di tale genere letterario nuovo che emerge dai torbidi anni della crisi del
Comune è dovuto ad Alberto Gandino, un giudice di buona levatura che non fu mai docente, seguì
la carriera di assessore di podestà passando da una sede all’altra per finire nel 1305 podetà egli
stesso di Fermo. Era assessore a Perugia quando, nel 1286-87, fece la prima stesura del suo De
Maleficifis che poi aggiornò e ampliò in un paio di nuove edizioni; salvo la prima parte introduttiva
che è tutta di mano del Gandino, l’opera consiste in una collana di quaestiones non sue ma attinte
da quelle dibattute nelle scuole di Odofredo e Guido di Suzzara.
Nello stesso periodo venne alla luce anche uno scritto di un altro giudice mantovano, Bonifacio
Antelmi.

La tortura. Quanto balza all’occhio leggendo il Gandino e l’Antelmi è che le gravi turbolenze
politico-sociali dovevano aver dato impulso alla modifica del processo penali in senso inquisitorio.
Nell’alto medioevo il rito accusatorio aveva trionfato, logica conseguenza dell’idea barbarica che il
reato generasse un rapporto di tipo privatistico tra offeso e offensore (per cui il primo aveva l’onere
della prova e dall’accusa); il processo inquisitorio invece presupponeva un interesse pubblico alla
repressione in quanto il giudice informato di un delitto – o in seguito a denuncia o per notizia -
aveva il diritto/dovere di indagare, conseguire la prova e processare/condannare l’accusato.
Specialmente il fatto che il giudice inquirente e il giudice giudicante potevano essere la stessa
persona, con evidente diminuzione delle garanzia per l’imputato, e soprattutto la circostanza che,
rimbalzando l’onere della prova dalla mani del privato che non poteva ricorrere a metodi coercitivi
in quelle di un’autorità pubblica che aveva invece il potere di avvalersene, la confessione estorta
divenne il metodo più spiccio di raggiungere la prova, e di conseguenza la tortura diventò una tappa
consueta del procedimento.
La tortura, originariamente riservata dai Romani agli schiavi ma già all’epoca del principato inflitta
anche agli uomini liberi, era lecita solo in presenza di indizi chiari di colpevolezza; la sfera di
applicazione era assai larga, non era limitata ai giudizi penali ma si estendeva anche ai civili, oltre
all’imputato colpiva con particolare frequenza i testimoni reticenti.
V’era una gamma di esenzioni: hanno scarso interesse quelle concesse da antica data ratione
personae ,che favorivano ad esempio fanciulli, vecchi, malati, feriti e donne incinte. Maggiore
interesse suscitano le esenzioni ratione dignitatis perché sono indicative di privilegi cetuali e di
gerarchie: oltre agli uomini di Stato e gli alri gradi militari sottratti da sempre alla tortura, il diritto
comune medievale privilegia nobili, gli ecclesiastici e di doctores. Colpisce che gli uomini di toga
siano messi accanto ai nobili, ed è un fenomeno non trascurabile che la società abbia collocato fin
quasi ai giorni nostri, la nobiltà di toga al vertici della società, a un grado immediatamente seguente
l’aristocrazia.

Fama - infamia. I ceti, strafilati l’uno sull’altro, erano ordini chiusi, governati da codici etico-
giuridici per lo più non scritti. L’Appartenenza a un ceto sociale doveva esser riconoscibile
all’esterno, e a farla palese provvedevano non solo sfoggi di stemmi e carrozze, ma persino il tipo di

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abiti indossati: un’umanità in uniforme, che fondava le proprie pretese alla considerazione sociale in
larga misura sulle apparenze. Teneva molto alla propria buona fama, quindi, temeva terribilmente
l’infamia.
È dunque naturale che il binomio fama-infamia, così connesso con il ceto della società, agisse
sull’istituto della tortura: chi era di buona fama aveva qualche possibilità quando cadeva nelle mani
dei giudici di sfuggire alle torture, cosa impossibile per chi godeva di cattiva fama. I latrones,
diventavano famosi quando erano desinanti come tali dalla voce pubblica e, una volta catturati,
rischiavano di venire subito sottoposti a supplizi prescindendo dal riscontro degli indizi, perché la
cattiva fama di per sé era già potente indizio di colpevolezza.
D’altronde contro i latrones famosi usava concedere agli ufficiali e ai giudici che li perseguivano
l’arbitrum, che dava loro il potere di derogare alle norme garantistiche della procedura: torturare al
momento della cattura i ladroni famosi per estorcere subito una confessione e procedere
immediatamente all’impiccagione, negando loro il diritto di difendersi.
Questo tipo di giudizio sommario, che aboliva tutte le garanzie procedurali, nel regno di Sicilia era
legittimato dalla concessione agli ufficiali di lettere regie, che assegnando loro l’arbitrum, erano
dette arbitrarie.
Nel clima tempestoso dei comuni, la repressione della dissidenza politica diede luce anche a istituti
nuovi: al esempio al bando. La parola bannum designava nell’alto medioevo, le prescrizione sovrani
in tema di ordine pubblico e di chiamata alle armi, di protezioni di chiese, di strade. Indicava anche
la pena pecuniaria per la violazione degli ordine regi. Nel mondo comunale, invece, significava
l’espulsione dalla città con eventuale confisca dei beni in genere per ragioni politiche. L’istituto non
coincideva però con l’esilio romano, questo prevedeva infatti la relegazione coatta in un
determinato luogo dal quale l’esiliato non poteva allontanarsi, mentre il bando scacciava il bandito
dalla città ma lo lasciava comunque libero di andare dove voleva.

La fine del Comune. L’avvento delle signorie-tirannidi. La riscossa dei guelfi tra le macerie
dell’Impero svevo e l’intensificarsi delle lotte cittadine diedero il colpo di grazia al Comune nato
dalla pace di Costanza, e spalancarono le porte alle signorie.
A ben vedere, però, il malessere era vecchio e, quasi come oscuro presagio aveva consentito oscure
esperienze signorili sin dalla metà del duecento. Nobili avventurieri ghibellini – facendo valere la
propria ricchezza o il terrore che incutevano – si erano impadroniti dei massimi uffici comunali di
città venete e lombarde e li avevano gestiti fuori dalle regole statutarie e dai limiti temporali
normativamente stabiliti. Sono precoci le signorie lombarde di metà secolo, ma precocissime quelle
venete dei Da Romano che, ai tempi del massimo splendore comunale, furono la prima nube densa
di presentimenti oscuri.
La signoria di Ezzelino Da Romano su Verona nacque nel 1226; nello stesso modo il fratello
Alberico Da Romano tenne per oltre un ventennio la signoria su Treviso; Odofredo, per primo,
commentando la pace di Costanza, additerà i due fratelli come prototipi di pessima tirannia.

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Tra la fine del duecento e gli inizi del trecento il regime signorile pare essere diventato l’aspirazione
corrente dei Comuni esausti; anzi, molto presto compaiono anche i germi della futura
trasformazione della signoria nel principato. Questo avviene quando vicari imperiali o pontifici, e
talvolta re nominati signori di città libere sfoggiarono dignità e autorità quasi sovrane. La dignità
vicariale o addirittura regia consentiva ricorsi alla plenitudo potestatis (o absolutio legibus).
In teoria, la plenitudo potestatis era riconosciuta dal diritto romano solo all’imperatore, ma era
tendenza espanderne l’uso. Se una famosa formula della dottrina medievale la estendeva ai re
purché non riconoscessero superiori, questo requisito dell’indipendenza non sembrò preoccupare la
prassi, che tollerò l’usurpazione di poteri sovrani anche da ci indipendente non era. I principati
italiani, pur essendo costituiti con infeudazioni che li rendevano subordinati al papa o all’imperatore
almeno dalla fine del 1300 o dal 1400 usavano la plenitudo potestas senza che nessuno dicesse
nulla.
Dell’accostamento poi tra signoria e tirannia parla Bartolo nella sua analisi, contenuta in suo
celebre trattatello. Egli sostiene che tiranni erano i signori che si impadronivano del comando senza
aver nessun titolo per esercitarlo; oppure anche se lo avevano, esorbitavano dalle competenze
connesse con la carica o dai limiti imposti dalle leggi.

Le repubbliche marinare. Le città dogali: Genova e Venezia. La scienza giuridica aveva sempre
staccato dalle esperienze delle degenerazioni signorili dei Comuni le vicende delle due grandi
repubbliche marinare, Genova e Venezia. Bartolo non le aveva prese in considerazione nel suo
trattato sulla tirannia, ma pochi anni dopo la sua morte se ne occupò l’allievo Baldo degli Ubaldi, in
un commento a quella costituzione dell’Imperatore Zenone ch’era diventata la sedes materiae delle
discussioni sulla tirannide. Egli si chiese se un popolo in assenza dell’imperatore potesse nominare
autonomamente duces come usavano fare da gran tempo i veneziani e poi i genovesi: in linea di
diritto neppure i dogi erano da considerare insediati de iure senza la conferma del monarca ma
tuttavia era possibile desumere per consuetudine il suo tacito consenso. Per la verità Baldo aveva
anche una giustificazione storica concreta dell’intervento necessario del monarca, la trovava in un
giuramento di fedeltà col quale le due repubbliche si sarebbero obbligate a consultarlo al momento
di eleggere i propri magistrati. L’ipotesi del giuramento, quanto ai genovesi, potrebbe anche avere
un riscontro storico nella concessione feudale dell’intera costa ligure che Federico Barbarossa aveva
loro elargito, ma sarebbe difficile trovare qualcosa di simile per i veneziani.
Non solo Venezia non voleva sentir parlare di soggezione all’impero, ma lo stesso Baldo era a
conoscenza della curiosa giustificazione che si usava dare di tale indipendenza: Venezia è costruita
sul mare, il mare è res nullis e quello che si edifica su una res nullis diventa proprietà esclusiva del
costruttore in forza del ius gentium.

Una città fuori dall’impero e dal sistema del diritto comune: Venezia. Parlare della repubblica
di Venezia in un discorso principalmente dedicato al mondo comunale potrebbe sembrare fuori

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luogo, perché l’istituzione evocava analogie forse più con assetti monarchici che con le cosiddette
democrazie cittadine.
Basti pensare alla figura del doge, organo si elettivo ma a vita. Ma anche Venezia si era ristrutturata
in senso comunale: la ristrutturazione limitò molto i poteri del doge, venne rimescolata la classe
dirigente e alla vecchia aristocrazia fu aggiunta l’aristocrazia nuova arricchitesi con il commercio
d’oltre mare; gli interessi mercantili dell’oligarchia si identificarono però a tal punto con quelli
dello Stato che Venezia divenne una repubblica aristocratica in cui sia il governo che il commercio
divennero riservati a un ristretto gruppo di famiglie. Furono queste famiglie a formare il Maggior
Consiglio, e il Maggior Consiglio conservò saldamente in mano tutti i poteri legislativi ed esecutivi
e la nomina del doge. Esso era un organo chiuso e nel 1297 fu pubblicata una legge con cui ci fu un
impedimento drastico all’entrata di nuove famiglie consacrando quindi la nascita di un corpo
sovrano ereditario. Il doge Tiepolo nel 1242 fece redigere il corpo degli statuti veneziani che si
arricchì presto di glosse, pratiche e riti dei tribunali veneti (come ad esempio l’opera Splendor
consuetidinum civitatis Venetorum di Bertaldo, che fra l’altro ci informa che i giudici veneziani
dovevano attenersi agli statuti generali considerati leggi e in loro mancanza alle consuetudini
eventualmente da provare come fatti mediante testimoni degni di fede. Della funzione sussidiaria
del diritto romano, che si trovava ovunque in altri statuti, nemmeno una parola).

Genova, le sue colonie, i suoi statuti. Genova, invece, non solo non rinnegò la dipendenza
dell’Impero ma, fino al 1300 svolse la propria organizzazione in senso comunale alla pari delle altre
città del centro nord. La particolarità era che la Compagna, associazione giurata, si pose come
organismo dominante della città al punto di identificarsi col Comune.
Genova ebbe un podestà dal 1190 che si alternò con i consoli. Fu chiamato alla carica podestarile
Iacopo Balduini, scolaro di Azzone e grande maestro bolognese al quale si attribuisce il merito di
aver emendato gli statuti genovesi. Ma andarono persi. L’ordinamento genovese si ricava oggi
principalmente da qualche frammento del primo Trecento specie dal Magnum volumen Peyre che
passa per la formazione data alla colonia di Pera, un sobborgo di Costantinopoli in mano dei
genovesi, ma che in realtà contiene un complesso per la maggior parte destinato alla madrepatria.
Anche Genova fu investita dalle rivolte popolari che sfociarono nella nomina di un Capitano del
popolo nel 1257; nel 1339 la normale svolta signorile in funzione antinobiliare assunse forma
atipica e la plebe elesse primo doge a vita Simone Boccanegra affiancato da un ristretto consiglio
(caso di signoria elettiva).
Questa specie di signoria elettiva e a vita fu transitoria e non serve a far accostare Genova e
Venezia, in realtà quel che più accomuna le due repubbliche nella storia è la vocazione imperiale di
entrambe, ordinate com’erano al commercio d’oltremare e forti di una rete di stabilimenti lungo le
coste da Costantinopoli al mar Nero. V’era anche il dominio diretto di territori conquistati o
acquistati, come fu il caso di Creta e di altre isole veneziane.
Gli imperi delle repubbliche marinare compresero anche la Sardegna e la Corsica, oggetto
dell’espansione di Genova e, ancor prima di Pisa.

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Anche Pisa fu infatti grande protagonista della politica commerciale transmarina italiana.

Pisa e i suoi Constituta legis e usus. Dal punto di vista istituzionale Pisa seguì le tappe consuete
della storia dei comuni, ma fu precocissima. Era già grande quando diede l’avvio alla costruzione
dello splendido Duomo a simbolo della propria potenza: a quei tempi chiese madri e santi protettori
rappresentavano l’istituzione cittadina. Non molto dopo dovettero comparire i primi consoli e
intorno al 1150 il primo podestà; scoppiarono poi le antimagnatizie duecentesche che introdussero
capitani del popolo; si passò poi ai signori per chiudere nel 1406 l’autonomia con l’assoggettamento
a Firenze.
Non si parlò mai di duchi o dogi forse perché a Pisa, se fu più precoce di Genova nello sviluppo,lo
fu anche nella decadenza; quando Genova si diede un doge Pisa aveva già ricevuto, e proprio da
Genova, il colpo fatale della Meloria (1284). L’affondamento dell’intera flotta fu il segno della fine
d’una grande marinara.
La legislazione statutaria pisana non solo fu la prima a essere emanata ufficialmente, ma va
annoverata tra le codificazioni cittadine più considerevoli; entrò in vigore nel 1160 e i manoscritti
ce la tramandano diviso in 2 tronconi: Constitutum legis (formato dalle deliberazioni assembleari) e
Constitutum usus (formato dalle consuetudini) e ciò corrispondeva allo sdoppiamento dei tribunali
nella Curia legis e nella Curia usus.

L’ordo e la curia maris di Pisa. Tutte le città marinare ebbero particolare cura delle proprie
consuetudini commerciali marittime.
Quanto a quelle pisane dovevano essere assai antiche, si riteneva in altri tempi di trovarne la prima
notizia nell’impegno strappato all’imperatore Enrico IV di osservare le consuetudini del mare della
città, ma è più prudente pensare ch’esse abbiano cominciato a prendere forma un’ottantina d’anni
dopo, nel Constitutum usus. Il controllo del commercio marittimo, la grande fonte di ricchezza alle
cui esigenze era ordinata la politica cittadina, doveva essere originariamente nelle mani dell’ordo
mercatorum, un’organizzazione che alla prima comparsa non aveva natura corporativa vera e
propria perché era nata alle dipendenze del comune, era il comune che inizialmente nominava i
consules mercatorum ed era il comune a impartire le direttive: chiaro segno della fusione delle
istituzioni politiche ed economiche tipica delle repubbliche marinare. L’autonomia era stata però
conseguita dall’ordo mercatorum alla fine del XIII secolo, in seguito a una scorta di rivolta
antinobiliare che aveva segnato la fine del dominio dell’oligarchia patrizia sul commercio. Ma solo
sul commercio terrestre e non su quello d’oltremare, il più proficuo: il patriziato riuscì a
organizzarlo in un ordo maris che mantenne, fino alla vigilia della Meloria, saldamente in mano.
L’ordo maris ebbe i suoi consoli, che si diedero un Breve giurato, ossia un codice di regole, ed uno
speciale organo giudiziario, la Curia maris. Questa giudicava, nell’ordine, secondo il Breve, il
Costituto dell’uso e in ultima battuta secondo i boni usus civitatis non scritti.

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Amalfi e la sua Tabula. Essa fu ancora più precoce di Pisa ed aveva già intensi scambi
commerciali con Bisanzio e l’Oriente che risalivano almeno al X secolo. Amalfi fu una repubblica
marinara fiorente fino all’incorporazione nei domini normanni nel 1073 ma anche dopo conservò
privilegi commerciali. Notissima è la sua Tabula Amalphae o Tabula Prothontina cioè la sua
legislazione marittima. Ritrovata nel 1843, essa consiste in realtà non di statuti ma di massime
giurisprudenziali; 66 capitoletti in tutto di cui 21 più antichi scritti in latino e gli altri in volgare, una
raccolta messa alluvionalmente insieme nell’ambiente amalfitano tra il XII e il XIC secolo e usata
fino al seicento. Il pregio maggiore sta nel descrivere alcuni contratti singolari: quello di colonna
adoperato per il traffico costiero instaurava rapporto tra il capitalista, l’armatore e i marinai; l’
accomanda generalmente oggi nota come commenda fu usatissima in tutto il Mediterraneo e altro
non era che un prestito di capitali da impiegare in operazioni di commercio e da restituire alla
scadenza con l’aggiunta di una parte dei lucri.

Trani e Ancona. Se Amalfi viene catalogata tra le repubbliche marinare del Mezzogiorno, in realtà
la dominazione normanna e la struttura del Regno non consentiranno alle città costiere di
conservare quella stabile, ampia autonomia che è necessaria per fare imperi commerciali come
quelli dell’Italia superiore.
Eppure la vocazione al commercio trans marino era nata in più di una città costiera meridionale.
Sull’Adriatico,oltre la grande Venezia, è notissimo il caso di Trani, i cui Ordinamenta et consuetudo
maris portano la data straordinariamente precoce del 1063. Tanto precoce che la storiografia l’ha
messa in dubbio ed è giunta a immaginare che l’amanuense avesse commesso un errore.
Poi c’è Ancona. Attiva da tem,po come centro mercantile, ess passa per essere stata nel
cinquencetno la culla della scienza del diritto commerciale per merito dell’anconerano Bnevenuto
Stracca, celebratissimo autore del primo trattato De mercatura sue de mercatore.

Il Consolato del mare di Barcellona. Le consuetudini e gli statuti marittimi italiani dovettero
cedere, specialmente nel bacino del Tirreno, all’espansione della potenza aragonese tra tre e
quattrocento. Le coste catalana e valenzana erano anch’esse ricche di questo tipo di formazioni,
peraltro non scevre di analogie con quelle delle nostre città marinare. Valenza e Maiorca furono a
lungo centri d’irradiazione di pratiche commerciali; finì col prevalere l’autorità di quel tribunale dei
Consoli del mare della capitale catalana, Barcellona, i cui usi furono redatti nel famoso Libro del
Consolato del mare.
Divenne il codice del diritto comune marittimo del mediterraneo, relegando le consuetudini e gli
statuti locali al ragno di iura propria. I fenomeni giuridici hanno sempre alle spalle fenomeni
politici: tra il tardo duecento e la metà del quattrocento la bandiera d’Aragona era stata piantata
nelle Balneari, in Sicilia, in Sardegna e a Napoli; all’ombra di quella bandiera avevano viaggiato
merci e mercanti, quindi anche libri e diritto. Il Consolato del mare di Barcellona aveva incorporato

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consuetudini di città costiere fiorentissime e presentava quando di meglio aveva prodotto la prassi
mediterranea aragonese.

CAPITOLO X: ORDINAMENTI MONARCHICI ITALIANI

Accanto al fenomeno dello sviluppo cittadino che in certe zone sfociò nell’evento delle autonomie
locali l’Europa del nuovo millennio vide il progredire di quei regni territoriali che formavano la
nuova realtà politica su cui si sarebbe fondato il mondo moderno; il progredire delle monarchie
europee era inversamente proporzionale al regredire dell’antico impero e ciò significava che la
concezione universale dell’ordinamento politico-giuridico che l’antica Roma aveva lasciato in
eredità al Medioevo stava, gradualmente svanendo. Al suo posto si andava invece affermando la
convinzione più autonoma che l’unità di una monarchia ideale senza frontiere fosse da frammentare
in tante istituzioni monarchiche concrete, quindi circoscritti entro confini territoriali. Il pensiero
della Chiesa era restio ad abbandonare il dogma dell’Unus imperator in orbe che nel temporale
rispecchiava molto bene l’ufficio svolto dall’ unus Papa nello spirituale eppure era stata proprio la
riforma gregoriana a dare il colpo più grave alla vecchia immagine imperiale in quanto il nuovo ius
gentium che il papa approvava ha introdotto la divisione dei regni.
La frammentazione dell’impero portò al grande problema dell’applicazione universale del diritto
romano che continuava a esser ritenuto l’ordinamento imperiale. Il Diritto comune poteva
tranquillamente sussistere quando c’era interazione tra autonomie locali (urbes) e sovranità generale
(orbis) ma strideva al contatto con due sovranità, l’una imperiale più ampia e una più limitata dei
vari regni, ma in realtà entrambe piene esclusive e gelose del controllo del proprio sistema
giuridico.
La scienza ierocratica con Uguccione da Pisa, aveva proposto la mediazione della Chiesa per
impedire fratture e salvare la contestata universalità di Giustiniano: se i regni di Francia e
Inghilterra non si riconoscevano dipendenti dell’Impero, non per questo possono rifiutare l’uso del
diritto romano, perché le leggi giustinianee sono volute dalla Chiesa, alla quale tutti, comunque,
devono obbedire. Sebbene Uguccione non fosse ierocratico, un qualche sapore ierocratica non si
può non ravvisare in una simile proposta. Essa comunque ebbe poco seguito nella dottrina.
Intorno alla metà del XIII secolo Bernardo da Parma che era il glossatore ordinario delle decretali
gregoriane enunciò un principio di salvaguardia della vigenza del diritto romano in tutta Europa.
Una sua famosa glossa diceva che solo de iure tutti fossero sottoposti alle norme di Roma, ma che
de facto taluni popoli non le applicavano. Un ragionamento un po’ curioso: de iure significava
“secondo le leggi romane” per cui nel pensiero di Bernardo esse legittimavano se stesse.

Restaurazione dei domini della Chiesa nel tardo trecento e il card. Egidio di Albornoz. Anche
in Italia, dove da sempre la legge romana si applicava ovunque, esistevano ordinamenti monarchici
che ponevano problemi particolari circa la sua legittimazione.

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Nei domini della Chiesa, per esempio, era escluso che il diritto romano vigesse ratione Imperii ,
dato che hai tempi di Gregorio VII era stata negata qualsiasi dipendenza dal supremo monarca
temporale; era tuttavia agevole ricorrere alla ratio pontificis per giustificarne l’uso: non solo il papa
aveva il mano le redini dei due poteri spirituali e secolare sulle sue terre e non era ipotesi peregrina
che avesse tacitamente recepito il corpus giustinianeo, ma anche perché bastava astenersi alla
tradizione del diritto canonico che da sempre aveva affidato alle leggi giustinianee una funzione
sussidiaria.
La cattività avignonese, ovvero il trasferimento del seggio ad Avignone, permise che le autonomie
locali cittadine si gonfiassero e diventassero Comuni, che podestà e capitani del popolo si
spartissero il potere e che questo finisse col cadere nelle mani della tirannia. In mano di tiranni
trovò gran parte dei domini della chiesa il cardinal Egidio di Albornoz, quando il papa avignonese
Innocenzo VI lo incaricò di restaurare l’autorità pontificia. Egidio svolse 2 legazie tra il 1358 e la
sua morte nel 1367, vestì l’armatura, combatté e trattò. Sui colli sovrastanti le città sottomesse
costruì minacciose fortezze a monito di tutti, quelle rocche albornoziane che ancora oggi costellano
l’Italia centrale di belle architetture. Da abile statista che era talvolta estromise i tiranni e altre volte
li sottomise e in altri casi ancora riuscì a far nominare signori se stesso o il papa ponendosi come
scopo non di ricostruire uno Stato unitario mai esistito (ogni distretto aveva il suo diritto locale
infatti) bensì di ristabilire un’autorità del pontefice su città e provincie.

Le Costituzioni Egidiane. Nel 1357, in un parlamento tenuto a Fano, l’Albornoz pubblicò le


Costituzioni Egidiane. Un complesso normativo considerevole, ma la sua importanza è stata
gonfiata dalla storiografia che ne ha fatto addirittura nientemeno che il codice dello statuto
pontificio, dando per dimostrato che questo stato già esistesse.
Le Costituzioni Egidiane, si sarebbero poste accanto al diritto canonico a rappresentare lo
sdoppiamento della Chiesa nei due ordinamenti temporale e spirituale. In realtà non v’era alcuno
stato unitario del pontefice e ciascun distretto aveva il suo diritto locale. Per ricordare solo alcuni
complessi che l’Albornoz tenne presenti, basta richiamare ad esempio, quello che 24 anni prima di
lui il ducato di Spoleto si era dato per mano del vicario pontificio Pietro di Castagneto al quale
seguirono altri corpi normativi. Il parlamento tenuto a Fano da Egidio era stato dello stesso tipo di
quelli dei predecessori e aveva avuto carattere solo regionale; d’altronde lo confermano fonti locali
successive e la mancanza di tracce dell’uso delle sue costituzioni fuori dalle Marche.

La comparsa dei Normanni nell’Italia meridionale bizantina. Un vero codice ufficiale di legge
dello Stato venne invece promulgato sin dal 1231 da Federico II nel Regno di Sicilia. Era, questo
regno, l’entità politica più forte dell’Italia e aveva già una storia splendida, una straordinaria
dominazione normanna alle spalle creatrice del nuovo ordine, e una ricca eredità di secoli bizantini
e longobardi.
Narra la leggenda che verso l’anno mille quaranta cavalieri normanni di ritorno da un
pellegrinaggio ai Luoghi Santi si fermarono a Salerno assediata dai Saraceni e vennero in aiuto di

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Guimario principe longobardo. Avendo dato un contributo fondamentale non solo Guimario li coprì
di doni ma mandò anche un’ambasceria in Normandia per arruolare un corpo di ausiliari. Altre
leggende raccontano che qualche anno dopo un gruppo di normanni accusati di assassinio lascò la
patria per sfuggire alla collera del duca Riccardo e gli esuli vennero dapprima a Capua e poi si
trasferirono in Puglia al servizio del pugliese Melo nella rivolta contro i Bizantini.
Vi fu poi la casata di Altavilla; Roberto detto il Guiscardo, ossia l’Astto, dopo essersi fatto eleggere
dai cuoi conte di Puglia riusci’ a mutare questa qualifica in titolo feudale facendosi reinvestire nel
1059 da papa Niccolò II Dei gratia et sancti Petri dux Apulie et Calabrie. Fu mossa abile: nessuna
autorità che avesse goduto dell’avallo di uno dei due poteri universali poteva essere contestata in
Occidente. Ma da quella investitura feudale ebbe inizio anche la subordinazione vassallistica che
gravò per secoli sul nostro mezzogiorno.
Mentre Roberto il Guiscardo si impadroniva dei territori del continente, il fratello minore Ruggero I
conquistò la Sicilia araba entrando a Palermo nel 1072; fu suo figlio nel 1128 a riunire nelle proprie
mani, oltre la contea di Sicilia, anche il ducato di Puglia e di Calabria, il principato di Salerno;
quindi tutto il mezzogiorno. A tanta potenza non mancava che il titolo regio. Glielo concesse
l’antipapa Anacleto II, e l’arcivescovo di Palermo incoronò solennemente Ruggero II il giorno di
Natale del 1130. Compariva così sulla scena europea un nuovo regno.

La Legazia Apostolica di Sicilia e l’incoronazione regia di Ruggero II. Un incoronazione tenuta


il giorno di Natale parrebbe intenzionata a limitare la mitica cerimonia dell’anno 800. Se ma a
Ruggero passò per la mente l’idea di emulare Carlo Magno, ancora di più pensò di impersonare
quel modello imperiale bizantino che non per nulla è tratto a rappresentare le incoronazioni
normanne nei mosaici palermitani di Monreale.
Tuttavia la concezione bizantina della dignità e dei poteri monarchici si accompagnava all’idea di
una Chiesa istituzione dello Stato e quindi sottoposta al governante; su questo punto i Normanni
erano stati irremovibili; la Sede Apostolica, dal canto suo, non poteva tollerare dipendenze dal
potere laico che la riforma gregoriana rifiutava.
Ferma sul principio, la Chiesa però fu duttile nell’applicarlo: ricorse all’espediente di mascherare di
una legittimità canonica l’esercizio dei poteri che i re normanni si erano arrogati sulla vita e
l’organizzazione delle chiese. E concesse loro la Legazia Apostolica.
Erano tempi, quelli immediatamente postgregoriani, in cui, la riforma aveva rinforzato fin troppo la
figura del legato, portavoce della pienezza del potere pontificio; nell’Italia meridionale la difficile
applicazione dei nuovi principi fu affidata, dopo la morte di Gregorio VIII, appunto a un legato che
si arrogò il pieno controllo delle chiese e urtò necessariamente la suscettibilità dei normanni. Per
evitare temibili conflitti con Urbano II si risolse ad adottare il discutibile espediente di concedere
proprio a Ruggero I conte di Sicilia e al figlio una Legazia a latere.
[La nomina di un laico anziché di un ecclesiastico era cosa strana ma contribuiva a giustificarla la
benemerenza acquistata dal Gran Conte per la fede cristiana e per aver tolto all’Islam la Sicilia.] Per

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il papa era una legazia temporanea e revocabile, ma i re videro le cose diversamente e col tempo la
stabilizzarono nelle proprie mani.

Strutture amministrative dello stato normanno. Le strutture amministrative dello Stato


normanno apparivano ondeggianti, confuse come un intreccio di tradizioni bizantine, franche e
mussulmane. Riguardo al governo centrale si è parlato di 7 uffici principali (Logoteta,Protonotario,
Grande ammiraglio, gran giustiziere, gran cameraio, gran connestabile, gran siniscalco e gran
cancelliere) ma spesso non erano tutti contemporaneamente presenti e le competenze non erano
fissate ma lasciavano ampio spazio all’arbitrio del sovrano.
A livello provinciale poi si nota la comparsa di giustizieri investiti della giurisdizione penale in
ampie circoscrizioni e di camerarii di rango inferiore investiti della giurisdizione nelle cause del
fisco.
Nelle città si vedono i baiuli cioè giudici scelti dai cittadini ma di nomina regia che svolgono la
giurisdizione civile.
Per quanto riguarda i feudi, se nell’alto medioevo si erano conosciuti solo taluni rapporti personali
di fidelitas, si dice che il feudo vero e proprio sia stato introdotto nel Mezzogiorno dai normanni. I
quali però non ne fecero una struttura portante dello stato come in Inghilterra (che loro avevano
trasformato in regno feudale) bensì li considerarono “circoscrizioni territoriali entro le quali dei
burocrati esercitavano i poteri regi in qualità di delegati del sovrano”. I feudi erano saldamente
nelle mani del re; i territori dei feudatari appartenevano al demanio e quindi non potevano essere
alienati o sminuiti.

Assise e altri fonti normative. L’incontro di spezzoni di diritto mussulmano, giustinianeo,


bizantino, longobardo facevano dell’ordinamento originario del regno, per usare il linguaggio del
Calasso, un “caleidoscopio giuridico”. A fornire la forza unificante, senza rinnegare mai nessuna
tradizione, fu il ius novum normanno.
Già anteriormente all’incoronazione regia di Ruggero II nel 1130 è possibile congetturare
l’emanazione di provvedimenti ducali e comitali andati perduti; lo stesso Ruggero II potrebbe
averne pubblicati in una dieta del 1129. I normanni chiamarono le loro diete, molto frequenti e
soprattutto giudiziali, assise un nome che finì con l’adattarsi con quanto nell’assisa si promulgava.
Questa pratica terminologica non è documentata prima del 1884, ma un primo gruppo di 43
costituzioni, una sorta di rudimentale codicetto, sarebbe stato emanato da Ruggero II nella assisa di
Ariano del 1140.
È difficile immaginare quale circolazione abbiano avuto le assise. Nel 1230 erano disperse e
Federico II incaricò di ritrovarle e introdurne un certo numero l’anno successivo nel suo Liber
Augustalis, dove accolse 37 costituzioni ruggeriane e circa una trentina di Guglielmo II.
Colpisce che in un sistema in cui il diritto comune è ancora lontano le leggi romane siano messe in
un unico calderone di ius vetus insieme con le consuetudini. Se ne può dedurre che all’epoca
normanna il diritto romano era rappresentato dal complesso giustinianeo solo nelle zone in cui da

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secoli di era conservato nella prassi, ma nella maggior parte del territorio era da individuare nelle
leggi bizantine.
Se è vero che il concetto di diritto comune non era chiamato in causa, vi è tuttavia da rilevare che
nella graduazione delle fonti ricavabile dal testo ruggeriano bene o male le due leggi longobarda e
romana, seppure insieme con le consuetudini, comparivano con funzione sussidiaria nei confronti
delle assise, e questa funzione sussidiaria sarà appunto quella tipica del più tardi diritto comune.

Gli svevi. Da Enrico VI a Federico II.

Dopo la morte di Guglielmo II nel 1189 Enrico VI imperatore figlio del Barbarossa vide profilarsi la
prospettiva di prendere il regno di Sicilia giocando sui diritti ereditari di sua moglie Costanza
d’Altavilla, figlia di Ruggero II. Erano diritti da far valere con le armi perchè il conte di Lecce
Tancredi era stato nominato re dalla nobiltà normanna alla morte dello zio sovvertendo le regole; di
solito era il predecessore a designare il successore e Guglielmo II aveva designato Costanza, ma
siccome Tancredi non volle mettersi da parte si venne alle mani.
Il destino volle che Tancredi morisse; Enrico potè allora impadronirsi di Palermo e del trono ma
morì poco dopo anch’esso e la vedova Costanza riuscì prima di morire anche lei a far incoronare il
figlio Federico di 4 anni nel 1198. Federico venne posto per 10 anni sotto la tutela di papa
Innocenzo III ma all’età di 14 anni Federico si proclamò maggiorenne e nel 1212 fu fatto re di
Germania e nel 1220 a Roma si fece incoronare imperatore da Onorio III; scese cosi a prender
possesso del Regno di Sicilia. Si aprì cosi l’era di Federico II di Svevia.
Nel mezzogiorno il monarca fu al contempo continuatore e riformatore della politica dei suoi avi
normanni, ma va a suo merito di aver razionalizzato e portato a maturazione le strutture del regno
assicurando quel tanto di unità che si poteva dare a un paese frazionato da etnie, culture e diritti.
Tornato nel 1229 da una discussa crociata, conclusa nel ’30 una tregue con papa Gregorio IX, nella
dieta di Melfi del 1231 pubblicò il Liber constitutionum Regni Siciliae (Liber Augustialis),il miglior
codice dell’Europa medievale.

La costituzione Puritatem del Liber Augustialis. Le antiche leggi di cui dovette tener conto nel
suo codice erano la longobarda (diffusa a Benevento e Salerno ) e la romana (oramai solo quella
giustinianea a discapito della tradizione bizantina).
Tarde versioni della celebre costituzione federiciana Puritatem dichiarano quelle due leggi “diritti
comuni” del regno.
A chi intendeva prenderla alla lettera, e costruire su questa duplicità di diritto comune il sistema
vigente nel Mezzogiorno, il Calasso replicò che non si poteva, perché la logica vuole che in ogni
ordinamento possano essere molti i diritti speciali ma solo uno il comune, e, nel caso specifico, che
era inconcepibile affidare al grossolano complesso longobardo funzioni sussidiarie di per sé

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delicatissime e che richiedono di essere svolte da un sistema ricco e articolato. Come se non
bastasse, la costituzione Puritatem voleva che la scelta dell’uno o della’altro diritto comune
avvenisse ai sensi del principio della personalità della legge, principio decrepito che a detta del
Calasso nel 1200 era già acqua passata. A suo avviso solo il corpus giustinianeo poteva fungere da
diritto comune nel Mezzogiorno come ovunque altrove; l’appellativo di diritto comune dato al
longobardo da Federico II sarebbe stato usata atecnicamente , e avrebbe alluso al semplice dato di
fatto della sua applicazione generale in vasti territori.

Carlo di Tocco e la nascita di una scuola longobardistica in Campania. Nel duecento il diritto
longobardo ebbe anzi un momento di splendore in Campania. Fu sul testo di editti e capitolari, e
non su quelle delle leggi romane, che prese l’avvio la scienza giuridica meridionale agli albori del
secolo, proprio come era avvenuto a Pavia. E proprio come nella scuola di Pavia la prima dottrina
longobardistica si mostrò esperta di diritto romano.
Mentre intorno al 1200 i longobardisti settentrionali cominciavano a scendere la china della
decadenza, Carlo di Tocco confezionava in qualche città della Campania un eccellente apparato alla
Lombarda. Originario di Tocco, presso Benevento, era andato a studiare e poi a insegnare le leges
giustinianee a Piacenza. Tornato in patria, entro i l1215 scrisse la sua glossa densa di richiami
romanistici e la destinò ai tribunali e alla scuola, probabilmente una scuola professionale di giudici
del tipo di quella antica di Pavia. La si vorrebbe situare a Benevento, capitale della Longobardia del
Sud, ma potrebbe collocarsi altrettanto bene a Capua, o a Salerno.
Fu una scuola che ebbe seguito. Un allievo anonimo di Carlo scritte altre glosse alla Lombarda.

Lo studio di Napoli. Al tempo in cui Carlo di Tocco insegnava il diritto longobardo, la dottrina
romanistica che ormai dilagava nel settentrione cominciava a premere anche sul mezzogiorno.
Federico la impiantò ufficialmente nel regno istituendo lo Studio di Napoli; fu il primo Studio di
Stato nell’occidente e intese far concorrenza a Bologna e privilegiò il diritto. Va precisato che la
didattica verteva sulle leges giustinianee com’era regola generale. La scuola però funzionò poco e
male ai tempi di Federico e, se una ripresa si verificò in epoca angioina, è tuttora difficile valutare
quanto sia stata ricca e consistente.
L’opera forse più significativa è la nota lectura dei Tres Libri di Andrea Bonello.
Il fatto è che la produzione scientifica di gran lunga pià importatne vedeva la luce fuori dallo
Studium ufficiale, talvolta a opera di professori, ed è un fenomeno che sembra quasi spaccare la
cultura giuridica napoletana in due tronconi.

L’isola di Sicilia. L’isola di Sicilia che aveva dato ai normanni e svevi, oltre che il nome allo statao,
anche la città di Palermo come caput Regni, subì, con l’avvento angioino nel 1266 lo schiaffo del
trasferimento della capitale a Napoli.
Napoli si avvantaggiò dei contatti che la casa d’Angiò manteneva con la Provenza e con Avignone,
divenne un salotto della cultura europea, ospitò a lungo Boccaccio, Petrarca; giuristi della

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prestigiosa scuola di Orleans furono chiamati a ricoprire cariche pubbliche e aprirono gli orizzonti
del diritto locale alla dottrina francese. L’isola fu invece trascurata e ridotta a un ruolo provinciale,
s’inacerbì e reagì, nelle giornate dei Vespri del 1282 rinnegò l’autorità angioina e si diete a Pietro III
d’Aragona. Dal 1296 fu regno autonomo sotto la bandiera aragonese, e autonomo resto anche
quando i Borboni, congiunsero le “due sicilie”.
L’isola non rinnegò certamente il suo glorioso passato normanno-svevo e conservò il Liber
Augustalis come base dell’ordinamento, ma mentre a Napoli il codice venne via via aggiornato con
capitoletti angioini, nell’isola fu agganciata una legislazione aragonese. Alcune peculiarità di
questa legislazione sono famose: essa si occupò del feudo, che stava diventando in tutto il
mezzogiorno il vero protagonista sulla scena giuridico - sociale, e lo fece accentuando il contenuto
patrimoniale dell’istituto: il celebre cap. Volentes emanato da Federico III per l’isola, concesse la
libera alienabilità dei feudi comitali affrancandola dal requisito dell’assenso regio. L’inalienabilità
era stata il segno dell’antica funzione pubblica del feudo, considerato organo al servizio del sovrano
e quindi da controllare e controllato; ora si lasciavano le briglie dell’uso dei feudi nelle mani dei
baroni e se ne abbandonava il destino al loro tornaconto.

La Sardegna. Passiamo da un isola ad un’altra.


La Sardegna ha avuto una storia tutta sua, originale e, come sempre drammatica. Le tradizioni locali
avevano radici lontane interamente bizantine; il praeses o iudex, che da sempre aveva avuto sede a
Cagliari, già nel 985 mostra di aver scisso il suo ufficio in quattro parti: allorché comincia a
diradarsi l’oscurità del medioevo, la Sardegna ci compare infatti divisa in 4 Giudicati, Cagliari a
sud, Arborea a ovest, Torres a nord, Gallura e est. Le famiglie regnanti derivavano tutte da un
ceppo comune.
I Saraceni rappresentavano il pericolo incombente. Nel 1015 si erano fatti padroni di gran parte del
territorio cagliaritano. Con mossa che si rilevò poi imprudente, i sardi chiamarono al soccorso
pisane e genovesi; respinto l’Islam l’anno seguente, fu ovvio che le due città marinare avrebbero
approfittato della vittoria per instaurare con i sardi proficue (per loro) relazioni commerciali.
Seguirono associazioni commerciali, matrimoni, interventi militari. Sul finire del secolo il pisano
Oberto di Massa occuperà il trono di Cagliari, i giudicati saranno subordinati alle due repubbliche
marinare mediante rapporti vassallatici.
La vita giuridica ai tempi della Sardegna giudicale si lascia scoprire, oltre che dai consueti
documenti cancellereschi e notarili, anche da taluni registri di chiese e monasteri, i condaghes, in
cui trascrivevano atti pubblici e privati. Compaiono immagini di vita semplice, fondati su un
elementare economia agricolo - pastorale.
Colpisce, soprattutto la comunione dei beni tra coniugi, che va fatta risalire a quel matrimonio fra
poveri concluso inter amico o in chiesa di cui parla l’Isaurico. Il regime autoctono dei rapporti
matrimoniali fra marito e moglie viene chiamato assa sardisca.

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Gli Aragonesi, la casa di Arborea, Eleonora e la Carta de Logu. Sin dallo scorcio del secolo XI i
pontefici avevano enunciato la curiosa teoria che le isole, essendo “di diritto regio” (regulis iuris),
erano state comprese nella Donazione di Costantino e pertanto spettavano al papa. Innocenzo III,
cent’anni più tardi, aveva rilanciato questa tesi e affermato categoricamente l’appartenenza della
Sardegna alla Sede Apostolica, nel 1297 Bonifacio VIII poté tranquillamente disporre dell’isola
infeudandola a Giacomo d’Aragona.
Non fu facile, per gli Aragonesi, prenderne possesso; la ebbero totalmente in mano solo nel 1410.
Cominciarono sin dalla metà del trecento a introdurre usi che dietero all’isola una cert’aria iberica,
come quello di convocare parlamenti per discutere questioni varie.
L’estremo sprazzo della libertà sarda è segnato dall’emanazione tra il 1390 e il 1391 della Carta de
Logu de Arborea, celebre complesso normativo in lingua sarda promulgato dalla grande Eleonora,
giudicessa di fatto, passata alla storia come simbolo dell’eroismo in guerra e della saggezza in pace,
trasfigurata in un mito dell’opinione popolare.
La sua legge era in realtà un aggiornamento di quelle emendata dal padre Mariano IV sedici anni
innanzi, d’altronde di cartae de Logu, nome corrente dei codicetti locali, se ne trova più d’una
prima di Eleonora.
A Mariano IV va il merito di avere composto anche il c.d. “codice agrario” di Arborea; introdotto
senz’altro nelle tarde edizioni della Carta di Eleonora, esso rispecchia da una parte la vita
elementare dei pastori dall’altra esprime il solito timore degli agricoltori per i danneggiamenti
arrecati dal bestiame alle colture.
Ma quanto alla ben più ampia Carta de Logu, essa non è soltanto espressione di costumi isolani, vi
scorge al contrario una miscela di ingredienti in parte locali, in parte provenienti dal mondo
statutario soprattutto pisano, e in parte dovuti a innovazioni di Eleonora. La storiografia vede
pregevoli interventi della giudicessa nel diritto penale, che viene sempre lodato per equilibrio e
saggezza.
A far della Carta de Logu il simbolo delle tradizioni isolane, oltre la sua estensione a tutta la
Sardegna voluta dall’aragonese Alfonso nel 1421, quasi a riconoscimento della “sardità” del
contenuto, sta l’apparente opposizione dialettica alle legislazioni statutarie che si diedero talune
città erettesi a Comuni sotto l’egida pisana o genovese.
Tra tutti spiccano gli statuti sassaresi: pur aperti a consuetudini autoctone, essi rappresentano in
effetti un solido ponte gettato tra la vita giuridica isolana e quella del variegato mondo comunale.
Ma se vi è molto che separa, v’è anche qualcosa che collega questi statuti con la Carta. Anch’essa
mostra agganci con il continente. La cosa che più colpisce solo le citazioni del diritto canonico e i
richiami al diritto romano: un diritto romano individuabile ormai nella compilazione giustinianea e
non più nelle consuetudini bizantine.

La casa dei Savoia. Non si può concludere senza fare cenno di quel modello anomalo di
monarchia, di quella forma equivoca di “stato” regionale che è il dominio sabaudo. “stato” per la
verità, è difficile chiamarlo per ragioni assai assimilabili a quelle di cui si è parlato per i domini

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della chiesa. Si trattava di territori che si espandevano e si ritraevano con elasticità, legati alla casa
di Savoia da vincoli separati e di diversa natura, per lo più feudale, retti da strutture amministrative
varie, per un certo periodo persino nelle mani di rami differenti della casata.
Non vi fu dapprima nemmeno un’unica capitale; Chambery, in quanto sede del conte, lo fu degli
uffici per la Savoia, per il Vaud e per la valle d’Aosta; Pinerolo fu scelta dai Savoia Acaia come loro
residenza e centro dei domini del Piemonte; Torino sostituì poi Pinerolo nel 1418 quando i Savoia
Acaia si estinsero e Amedeo VIII ebbe tutti i territorio sui due versanti delle Alpi.
Ma all’atto pratico Chambery era rimasta la capitale delle zone oggi francese e svizzera e aveva
conservato il Consilium Chamberiaci residens come suo massimo organo giurisdizionale e politco-
amministrativo, mentre un Consilium Thautini residens fu destinato alla zona italiana e un terzo
Consiulim cum domino residens ebbe a seguire il principe e fu quindi originariamente itinerante.
È naturale, dunque, che ci sia imbarazzo a parlare di un ordinamento giuridico sabaudo, spezzettato
com’esso era in carte feudali, diritti locali, consuetudini, statuti. Tutto compreso la principale forza
unificante erano i soliti due diritti canonico e civile.
Quanto Amedeo VIII, diventato principe duca di tutte le terre della sua casata, si decise a emanare la
prima grossa legislazione unitaria che promulgò nel giungo del 1430, egli affrontò esplicitamente il
problema dei rapporti delle sue consuetudini con i diritti comuni. La storiografia ha constato con
sorpresa che il proemio escludeva la deroga di canoni e di leges da parte delle disposizioni ducali. Il
che sarebbe stato contro la logica, perché i diritti speciali sono sempre derogatori del comune, e
sarebbe andato contro le abitudini, perché nessun legislatore sovrano avrebbe mai pensato di
posporre le proprie norme ad altre. Si aveva un bel dire che Amedeo VIII pensava più al cielo che
alla terra, che di li a pochi anni , nel 1439 sarebbe stato eletto papa dal concilio di Basilea con il
nome di Felice V.

Considerazioni sulla sovranità del medioevo. Sin dal duecento i conti e poi i duchi di Savoia non
sembrano aver nutrito dubbi sulla pienezza dei propri poteri. Non solo evocano quella derivazione
dell’autorità da Dio che fa parte della tradizione imperiale bizantina e del patrimonio della regalità
medievale, ma invocano altresì la certa scientia nella promulgazione delle leggi, richiamando
implicitamente niente meno che l’absolutio legibus. Si arrogavano insomma quelle potestà che,
come è noto, il diritto romano poneva in capo al solo imperatore.
Una volta di più colpisce che a esercitare tale autorità fossero dei vassalli dell’Impero che almeno
formalmente non si potevano certo dire superiorem non recognoscentes. Avevano ottenuto privilegi
dai quali la loro dignità era stata gonfiata, erano i principi dell’Impero: ma lo stesso vicariato poteva
legittimare l’esercizio dei poteri pieni solo in nome del monarca, e ribadiva in fondo, la soggezione
a lui. Insomma, in capo ai Savoia si vede ripetersi il fenomeno che si è registrato a proposito delle
signorie tiranniche, quand’erano sul punto di trasformarsi in principati. Si osserva cioè il formarsi
della sovranità piena fuori dagli schemi della dottrina giuridica, e in particolare fuori dalla formula
famosa che equiparava all’imperatore soltanto il re che non riconoscesse superiori.

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