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40 anni dopo: il Sessantotto in Italia fra storia, società e cultura

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Roberto Pertici

L’altro Sessantotto italiano:


percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta

I lavori di storia, quando procedono in


modo pensato e critico, debbono […]
presupporre quel che già si ha nei libri
sul soggetto trattato e dare solo quel
che di nuovo si crede di poter fornire in
proposito per la migliore e più completa
intelligenza dei fatti. […] Dal canto mio,
offrendo ai parecchi […] questo volume,
che so bene non essere ciò che essi chie-
devano, dico loro: Questa è per me la
storia di Napoli, cioè il modo in cui credo
che si debba, nel generale o in alcune par-
ti, più esattamente pensare quella storia.
B. Croce

1. Una galassia culturale


A quarant’anni di distanza, ciò che resta di quel complesso movimento
politico, culturale e sociale che chiamiamo, per brevità, il Sessantotto è
soprattutto una sorta di “pensiero socializzato” largamente operante nella
mentalità corrente e nei comportamenti diffusi in ampi settori della nostra

B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari 1972, pp. ix-x, nell’Avvertenza
(maggio 1924).
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società. Che questo fosse l’aspetto più rilevante di quanto stava accadendo,
che insomma si stesse verificando una complessa mutazione culturale e,
quasi, si potrebbe dire, “antropologica”, fu avvertito per tempo da una serie di
testimoni, che cercarono fin da subito di sottoporre a un’analisi critica le idee
e i comportamenti che si stavano affermando e di collocarli nel quadro più
ampio della cultura occidentale e dei suoi problemi. A proposito di costoro, si
può parlare di un “altro Sessantotto”: si tratta, cioè, di una cultura alternativa
(liberale, cattolica, tradizionalistica) che emerge durante gli anni Sessanta,
parallelamente a quella (maggioritaria) a cui si contrappone. Possiamo fare
alcuni nomi: si pensi ad Augusto Del Noce, Alfredo Cattabiani, Elémire
Zolla, Nicola Matteucci, Vittorio Mathieu, Sergio Cotta, Gabrio Lombardi,
Cristina Campo, Tito Casini, Quirino Principe, Romano Amerio, Emanuele
Samek Ludovici, Rodolfo Quadrelli, Cornelio Fabro, Giovannino Guareschi,
Giuseppe Prezzolini, Sergio Quinzio, Luigi Giussani, ma anche Pier Paolo
Pasolini e Giovanni Sartori, Sergio Ricossa, Gianfranco Miglio, Rosario
Romeo, Renzo De Felice e pochi altri.
Non è, ovviamente, possibile farne qui una rassegna complessiva: mi
propongo, piuttosto, di seguire al suo interno una serie di percorsi, che disegnino
una trama ideale fra alcuni dei suoi principali esponenti. Si tratterà – come
risulterà subito evidente – di storici, filosofi e organizzatori di cultura: per
questo è preliminarmente necessario isolare, nella “cultura” del Sessantotto,
quegli elementi e quei temi che maggiormente attrassero la loro attenzione
critica.

2. Il ritorno della rivoluzione


Innanzitutto il prepotente riemergere della “passione rivoluzionaria”,
dell’idea, cioè, che l’unico tipo veramente risolutivo di mutamento politico-
sociale sia quello che rompe radicalmente con la tradizione: la Rivoluzione

Altri itinerari si potrebbero seguire, nella cultura religiosa come in quella letteraria,
politologica o economica e ci si imbatterebbe sicuramente in figure e opere altrettanto
significative. È tuttavia necessario operare delle scelte, per far ruotare il discorso attorno
a una serie di problemi ed evitare un approccio meramente antologico o bibliografico.

Adotto l’espressione di F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX
secolo, a cura di M. Valensise, Mondadori, Milano 1995, pp. 9-43.
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(con l’iniziale maiuscola) diventa così la soluzione del problema della storia.
Questa “cultura della Rivoluzione” ha attraversato tutta la storia europea
degli ultimi due secoli: matura nel tardo Settecento, nella negazione di
uno dei temi centrali della tradizione cristiana (lo status naturae lapsae, il
peccato originale) e nella sua riduzione a problema politico e sociologico,
per trovare poi un suo primo momento di coagulo nella fase giacobina della
Rivoluzione francese. Nel secolo e mezzo successivo, essa ha proceduto quasi
come un fiume carsico, in alcuni momenti scorrendo sotterranea (come nei
decenni della Restaurazione o nel secondo Ottocento, l’epoca del “progresso
moderato” dei liberali europei e del “riformismo” della II Internazionale), in
altri riemergendo prepotentemente come nel 1848 e poi dopo la Rivoluzione
d’Ottobre. Così anche alle spalle del forte e pervasivo processo di “re-
ideologizzazione”, che la riporta prepotentemente alla ribalta dopo il 1960,
sta un quindicennio in cui si era andato diffondendo un clima culturale che
sembrava averla esorcizzata: le nuove scienze sociali, l’esperimento laburista
in Inghilterra, le prime esperienze di Welfare State, l’inizio della golden age
avevano fatto parlare dell’avvento ormai definitivo di una “società opulenta”,
in cui le ideologie palingenetiche sembravano ormai “finite”.
Di questa nuova fase del “pensiero rivoluzionario” sono noti i temi più
caratteristici: il ritorno in grande stile del marxismo, declinato in varie forme,
dal marxismo-leninismo di staliniana memoria, ai diffusi sincretismi con
la psicanalisi (il ritorno di Wilhelm Reich) e l’antropologia; una rinnovata
critica della democrazia “formale” e il mito della democrazia diretta (da
qui una spinta febbrile alla democratizzazione integrale di tutti i settori
della società); il rifiuto delle deleghe e delle specializzazioni funzionali (dei
cosiddetti mandarini); la messa in discussione dei valori stessi che sono alla

P. Pombeni, La cultura politica e il tornante del 1945 in Europa, in «Ricerche di
storia politica», VIII, 2005, pp. 5-18, 12-13 in particolare. Alludo evidentemente a
J. K. Galbraith, The Affluent Society, Houghton Mifflin Company, Boston 1958 (in
italiano: Economia e benessere, Comunità, Milano 1959, poi col titolo La società
opulenta, ivi, 1963); D. Bell, The End of Ideology: On the Exhaustion of Political
Ideas in the Fifties, The free press of Glencoe, Glencoe (Illinois) 1960 (in italiano:
La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi,
Sugarco, Milano 1988) e a R. Aron, L`opium des intellectuels, Calmann-Levy, Paris
1955 (in italiano: L’oppio degli intellettuali, Cappelli, Bologna 1958).

W. Reich, Die Sexualität im Kulturkampf (1936), in italiano: La rivoluzione sessua-
le, Feltrinelli, Milano 1963, ma anche a Id., Die Massenpsychologie des Faschismus
(1933), in italiano: Psicologia di massa del fascismo, Sugar, Milano 1971.
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base della democrazia “borghese” (la tolleranza, l’equilibrio degli interessi


sociali), di cui si insisteva nel sottolineare il carattere puramente ideologico;
la sostanziale sottovalutazione delle differenze fra democrazia e dittatura,
pluralismo e totalitarismo (ogni Stato, di qualsiasi tipo, è in fondo – si ripeteva
– una dittatura); un assoluto disprezzo del riformismo, giudicato uno strumento
del “capitale” per l’integrazione della classe antagonistica; l’individuazione
della violenza come il mezzo principale per costruire una società più giusta
(sottolineando la “violenza strutturale” presente in tutte le istituzioni sociali
e politiche, si considerava resistenza legittima qualsiasi azione diretta contro
di esse); un approccio “dietrologico” alla realtà, per cui tutta la società
veniva concepita come un enorme congegno gestito da centri occulti, in cui
ogni posizione ideologica e politica svolge un ruolo preciso (“fa il gioco” di
qualcuno); una concezione della storia come un eterno complotto gestito da
“forze dominanti”, che deve essere costantemente scoperto e demistificato.

3. L’esplosione della soggettività


Un altro elemento della cultura del Sessantotto che colpisce i contemporanei
e costituisce un problema centrale per i suoi critici è quella che potremmo
chiamare l’“esplosione della soggettività”, la superiorità assoluta attribuita al
soggetto rispetto a ogni vincolo sociale di qualsiasi natura (familiare, nazionale,
di classe). Parlo di “soggetto”: non di “persona” (concetto in cui è insito un
elemento relazionale, con la trascendenza come con altri “tu”, e quindi una
corrispondenza fra diritti e doveri), né di “individuo” (in cui la titolarità di diritti
convive con la soggezione a una legge morale, autonoma ma non per questo
meno esigente). La “soggettività” sessantottina rinvia piuttosto a pulsioni,
a “istinti”, a “bisogni”, il soddisfacimento dei quali diventa un “diritto”. Il
prologo di questa nuova sensibilità “permissiva” si snoda dal libertinismo
settecentesco (Sade) al pensiero di Fourier, dalla volgarizzazione del freudismo
al futurismo, dall’erotismo di alcune correnti letterarie novecentesche (il
surrealismo francese) alla critica della scuola di Francoforte al “sistema” che
riduce a una sola dimensione l’uomo contemporaneo. Ma tutti questi spunti

K. D. Bracher, Il Novecento. Secolo delle ideologie, a cura di E. Grillo, Laterza,
Roma-Bari 1999, pp. 283-305.
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“illustri” vengono, nel contesto degli anni Sessanta, mercificati dalla nascente
industria culturale, massificati e trasformati in senso comune.
Da questi atteggiamenti scaturisce una nuova etica diffusa, che si
contrappone radicalmente a quella classica e cristiana, che – pur con tutti gli
appesantimenti e irrigidimenti ben noti – era prevalsa fino a pochi decenni
prima. La possiamo condensare nel celebre aforisma manzoniano per cui
la vita è destinata a essere “per tutti un impiego del quale ognuno renderà
conto” (Promessi sposi, cap. XXII). È questa concezione dell’esistenza come
un mezzo, in vista di fini più ampi e impegnativi, che allora tramonta: tale era
stata non solo per il cristiano, ma anche per il comunista e il fascista, per gli
idealisti Croce e Gentile e per i loro avversari positivisti. Anche per il vecchio
Sorel, per fare la Rivoluzione era necessario un atteggiamento “ascetico”, la
rinunzia, cioè, alle comodità della vita, all’“integrazione”, come si sarebbe
detto poi. Si trattava di una prospettiva che imponeva il superamento e talora
la negazione della propria vita individuale in nome dell’“universale” (la
patria, la famiglia, la classe, il partito, la fede religiosa, la Chiesa): negli anni
Sessanta si diffuse la certezza che questi valori tradizionali altro non fossero
che enormi mistificazioni, e quindi si cominciò a negare loro ogni diritto di
richiedere al soggetto un impegno totale, che lo spingesse a frenare (fino a
soffocare) la sua naturale propensione al piacere, al soddisfacimento dei propri
istinti e delle proprie più profonde tendenze. Si condannò conseguentemente
ogni pedagogia, ogni educazione che spingesse in tal senso (le pedagogie
“repressive”) e se ne ammise solo una “permissiva”, che insegnasse che
“l’obbedienza non è più una virtù”, lottasse contro ogni “condizionamento”
e inducesse il soggetto a essere solo e totalmente se stesso: in tal modo anche
la società – si assicurava – sarebbe stata migliore.

4. L’affermarsi del “progressismo”


Se questi sono i due poli della svolta culturale degli anni Sessanta, che
precipita nelle convulsioni di fine decennio, bisogna subito aggiungere che
essi seguono logiche non del tutto coincidenti: tende, cioè, a discenderne una
serie di corollari che non si sovrappongono completamente. La logica della
“Rivoluzione”, se portata alle sue estreme conseguenze, nega l’individualità
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e le sue esigenze, o, tutt’al più, le rinvia a un mondo finalmente liberato


dall’oppressione di classe (si pensi all’antropologia del terrorista degli anni
Settanta). Quella della “soggettività”, spinta ai suoi esiti ultimi, può portare
alla chiusura nel “privato” (di cui magari si esalta la “politicità”), ma anche
al rifugio nei paradisi artificiali delle droghe o al viaggio in India sulle orme
di Siddharta.
Ma, al di là di queste potenziali divaricazioni, entrambi questi atteggiamenti
hanno in fondo una radice comune. Essi scaturiscono da quella che appare come
la vera svolta culturale degli anni Sessanta (e, al tempo stesso, contribuiscono
ad approfondirla): l’affermarsi vittorioso e per molti aspetti inarrestabile
(almeno fino a oggi) della “mentalità progressista”, come presupposto tacito
della pratica culturale in Italia come in Europa occidentale. Intendo riferirmi
a quella forma mentis che avverte il passato e la tradizione essenzialmente
come un condizionamento oppressivo da cui liberarsi e, in tale emancipazione,
assegna un ruolo centrale al lavoro culturale e all’impegno politico (vissuti
come due momenti correlati). In quegli anni si parlò continuamente di
filosofia militante, politica della cultura, rinnovamento radicale attraverso la
scienza, liberazione dai pregiudizi, demitizzazione, secolarizzazione: tutte
articolazioni di un medesimo atteggiamento mentale. Comune a esse era un
sottinteso fondamentalmente relativistico: i criteri del vero e del falso, del bene
e del male venivano, di fatto, sostituiti dai loro equivalenti moderni, quelli di
“progressivo” e di “reazionario”, di “innovativo” e di “tradizionale”.
Politicamente tale mentalità “progressista” sarebbe stata a favore di
un’incisiva politica di riforme e di un ampliamento degli spazi di partecipazione
politica: ma, per lo più, rimase politicamente e culturalmente afona di
fronte al riemergere dell’utopia rivoluzionaria, quasi l’avvertisse in fondo
più coerente e consequenziale rispetto ai propri presupposti. Così anche in
campo etico, la sua ostilità verso una morale “repressiva” non comportava,
almeno in teoria, il totale superamento di una qualche etica del dovere: ma,
anche qui, il tentativo di conciliare uomo e natura attraverso la psicologia,
le scienze umane, la pratica pedagogica, relativizzava ogni “limite” morale
fino a renderlo puramente aleatorio.

La coesistenza di queste due logiche contribuisce a spiegare, fra l’altro, la difficoltà
di dare una visione unitaria del Sessantotto: così, a volta a volta, se ne fanno derivare
(secondo i diversi approcci) lo sbocco terroristico e la politica dei diritti, la violenza po-
litica e l’emancipazione femminile, la riscossa operaia e la droga di massa, il fanatismo
ideologico e la modernizzazione del Paese.
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Quelli che più fortemente risentirono di questa impetuosa mutazione


culturale furono, come non poteva non essere, i valori tradizionali: basti pensare
al dissolversi dell’“amor di patria” come asse centrale del progetto educativo
(e più in generale del “discorso nazionale” come riferimento esistenziale);
alla crisi ideologica (prima che sociale) della famiglia, considerata come
l’archetipo di ogni istituzione autoritaria; alla messa in discussione di ogni
principio d’autorità, non solo in senso repressivo, ma anche organizzativo e
funzionale; infine all’“eclissi del sacro” in una società che stava completando
la sua industrializzazione e soprattutto alla crisi della sua dimensione
gerarchico-ecclesiastica.

5. Il giudizio sulla storia contemporanea


Si sono individuate diverse cause di questa svolta culturale, tutte, a loro
modo, significative. Si trattò – si è sostenuto – di un fenomeno da “società
opulenta”, che ha alle spalle un profondo mutamento generazionale: fu allora
che l’aumento delle nascite nel periodo del dopoguerra avrebbe cominciato
a far sentire i suoi effetti in termini di pressione sociale. La scomparsa della
guerra e dei totalitarismi dall’orizzonte giovanile provocò – si aggiunge
– una smisurata dilatazione delle aspettative, una messa in discussione delle
gerarchie sociali e dei valori diffusi. La rapida comunicazione di massa e la
diffusione globale della televisione vennero poi creando nuove icone politiche
(Lumumba, Guevara, Ho Chi Min) e vere e proprie star ideologiche (durante
il Sessantotto, Rudi Dutschke a Francoforte, Cohn-Bendit a Parigi): da qui
un fenomeno di mimetismo mediatico, che fu comune a tutto il mondo
occidentale. Non devono essere sottovalutate le suggestioni del mondo: il
processo rivoluzionario, che sembrava impossibile o bloccato in Europa e
negli Stati Uniti, si veniva sviluppando invece nelle periferie del mondo, dalla
Cina all’Indocina, dall’America latina all’Africa, e ora sembrava stringere da
ogni parte il mondo sviluppato.
Tuttavia, se vogliamo restare su un terreno più propriamente culturale, la
“mentalità progressista” venne emergendo dal prevalere, non tanto di determinate
opzioni ideologiche, quanto soprattutto di un giudizio sulla storia contemporanea,
che divenne egemonico, fino a trasformarsi in senso comune.
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Qual era stata la natura dei fascismi e il loro ruolo nella storia europea
del Novecento? Su questo problema, nel quindicennio seguito alla guerra,
si era combattuta una battaglia culturale di grande rilievo, che, intorno
al 1960, si stava ormai avviando a conclusione. A soccombere fu la
spiegazione “parentetica” (in Italia, era stata di Croce come di De Gasperi),
che non implicava (come si ripete sempre nelle banalizzazioni correnti) che
il fascismo fosse senza radici nella precedente storia italiana e/o tedesca,
ma che esso non ne racchiudeva l’essenza e non ne costituiva l’inevitabile
sbocco. Andò prevalendo, invece, la visione del fascismo/nazismo come
“rivelazione”, cioè come un fenomeno in cui confluivano i temi portanti
della politica, della cultura e della religione precedenti, tutte le tare della
civiltà “borghese”: il fascismo non aveva infranto un quadro istituzionale
o culturale preesistente (non era stato, cioè, una “rivoluzione”), ma l’ultima
risorsa a cui quell’establishment era ricorso per mantenere il suo potere
minacciato dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalle sue conseguenze, cioè dal
progresso della storia (era, dunque, un fenomeno “reazionario”). In questo
quadro fra il conservatorismo europeo (i notabili liberali italiani, le Chiese,
la destra nazionale tedesca, il mondo finanziario e industriale) e i fascismi
esisteva un rapporto di complicità e di continuità, in cui Hitler e Mussolini
avevano fatto sostanzialmente il “lavoro sporco”, che il mondo conservatore
non aveva avuto il coraggio o la forza di fare.
Gli effetti di questa svolta culturale non tardarono a manifestarsi. Scriveva
Giacomo Noventa nel 1955: “Come credere che una nazione abbia sopportato
per venti anni quella specie di fascismo che le ideologie antifasciste descrivono,
senza credere che in quella nazione tutto sia da distruggere, e tutto da
rinnovare?”. Se allarghiamo questa osservazione all’intera civiltà europea,
alla cultura occidentale nel suo complesso, che – come si cominciava a dire
– aveva portato ad Auschwitz, ne cominciamo a cogliere le implicazioni: ne
emergeva una condanna senza appello della sua storia e la richiesta di un
ricominciamento totale. Per i Paesi toccati solo marginalmente dal fascismo
e dal nazismo, una funzione analoga fu svolta dal passato coloniale e dai suoi
“misfatti”: per la Francia, per esempio, giocarono un ruolo decisivo i postumi

Riprendo l’analisi coeva di Augusto Del Noce, di cui tratterò ampiamente più avanti,
perché mostra, a mio parere, un’indubbia vitalità ermeneutica e merita di essere appro-
fondita e maggiormente articolata.

G. Noventa, Comunismo-Antifascismo-Resistenza. Pagine di un diario 1955, in Id.,
Tre parole sulla Resistenza e altri scritti, Vallecchi, Firenze 1973, p. 106.
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della vicenda indocinese e soprattutto di quella algerina. Per gli Stati Uniti, è
appena il caso di ricordarlo, la perdita dell’innocenza provocata dalla guerra
del Vietnam.
La storia europea recente cominciò dunque a essere letta secondo il
cleavage fascismo/antifascismo, che poi veniva fatto corrispondere a quello
conservazione/ progresso, reazione /rivoluzione: non è un caso che in tutta
l’Europa occidentale ci sia – dopo il 1960 – una forte ripresa della cultura
antifascista e proprio nei giovani, in una generazione, cioè, che non aveva
vissuto la tragedia della guerra. Accenneremo a quello che significò in Italia
la lotta contro il governo Tambroni: ma si pensi all’impatto che ebbe in
Germania il processo Eichmann, il dramma di Hochhuth Il Vicario e – nella
cultura accademica – il grande dibattito fra Fritz Fischer e Gerhard Ritter sul
senso della storia tedesca dopo l’unità del 187110. In Italia fu la cultura neo-
illuministica e progressista (post azionista, post gobettiana) dei primi anni
Sessanta a elaborare questi schemi e, anche in questo caso, essi furono poi
ripresi ed estremizzati da quella del Sessantotto: così avvenne nel giudizio
sul fascismo e sulla storia dell’Italia repubblicana dopo il 1947, nel discorso
sulla Resistenza tradita, nell’operaismo, nella tematica dei diritti, sul tema
della memoria resistenziale, ecc.

6. Il progressismo cattolico
Un ruolo fondamentale nel Sessantotto italiano fu svolto dal mondo
cattolico, che si rivelò, anche allora, un corpo meno “separato” di quello
che talora si continua a pensare. Al suo interno, negli stessi anni, si svolse
una serie di processi culturali in qualche modo paralleli a quelli che
avevano luogo nella cultura “laica”, e con esiti non dissimili. Anche per il
progressismo cattolico italiano, che aveva la sua punta di diamante nella
cultura dossettiana, il problema fondamentale era costituito dal favore che
la Chiesa aveva accordato ai movimenti fascisti: esso non poteva essere

10
I due volumi furono subito pubblicati anche in italiano: F. Fischer, Assalto al potere
mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, a cura di E. Collotti, Einaudi, Torino
1965; G. Ritter, I militari e la politica nella Germania moderna, I. Da Federico il Grande
alla prima guerra mondiale, Einaudi, Torino 1967.
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considerato – si sosteneva – come un fatto accidentale, che non avesse


ragioni lontane. Da qui una visione critica della storia della Chiesa in età
moderna, nella quale si cominciava a vedere essenzialmente un limite:
l’istituzione ecclesiastica si sarebbe posta generalmente dalla parte della
“reazione”, per cui le sue illusioni rispetto al fascismo altro non erano che
la conclusione di un lungo processo. Questo errore corrispondeva, nelle
sue radici ultime, a un difetto teologico che risaliva alla Controriforma
e al concilio di Trento: da qui la necessità di una complessiva riforma
della Chiesa (teologica, pastorale, strutturale) e le speranze nel Concilio
Vaticano II.
Ma, per una parte di questo mondo, al di là delle sue pur rilevantissime
decisioni, il Concilio divenne una sorta di mito collettivo, carico di “ottimismo”
(contro i “profeti di sventura” che avevano sempre condannato il mondo
moderno), di contestazione “dal basso” della gerarchia e di aspirazioni a un
diffuso rinnovamento. Da questo punto di vista, esso si inserì perfettamente
nel clima degli anni Sessanta, aprendo una spirale vorticosa fra il nuovo
progressismo cattolico e il rivoluzionarismo emergente nella cultura laica e
marxista. Come, in quegli anni, le chiese si liberarono di altari, balaustre,
crocifissi, statue di Santi, arredi sacri, quadri (finiti nei magazzini di rivenduglioli
e antiquari), così si riteneva che tutta la tradizione della Chiesa del secondo
millennio (dall’età gregoriana, in cui più nettamente era emerso il primato
petrino ed era cominciata la sua contaminazione-scontro col potere politico,
fino a Pio XII) andasse messa in discussione e in qualche modo liquidata.
Sono noti gli atteggiamenti diffusi che scaturivano da questi presupposti: un
confronto ravvicinato con la “modernità” e un pieno inserimento nel secolo,
che ne accettasse le forme mentali e i risultati; l’insofferenza crescente per
il moderatismo politico, la scelta degli ultimi (socialmente parlando) e il
confronto ravvicinato col marxismo, nel quale si individuava lo sbocco della
cultura “moderna”11.

11
C. Falconi, La contestazione nella Chiesa. Storia e documenti del movimento cattolico
antiautoritario in Italia e nel mondo, Feltrinelli, Milano 1969. Per una cronaca attenta
del Sessantotto cattolico, cfr. R. Beretta, Il lungo autunno. Controstoria del Sessantotto
cattolico, Rizzoli, Milano 1998.
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7. 1957: due editoriali del Mulino


Questi (il problema della Rivoluzione, il “permissivismo” di massa, il nuovo
antifascismo ideologico, il cattolicesimo progressista, la società opulenta)
sono, dunque, i temi sui quali si sviluppò la riflessione critica di quella linea
culturale che cercherò qui, sommariamente, di ricostruire. Il suo punto d’avvio
lo possiamo rinvenire in due editoriali della rivista bolognese Il Mulino dei
primi mesi del 1957, che sono fra i frutti più originali della cultura politica
italiana di quegli anni12. Gli autori erano due trentenni, che da qualche
tempo si occupavano del mensile, Nicola Matteucci e Luigi Pedrazzi: ma fu
soprattutto il primo che ne avrebbe rivendicato, fino ai suoi ultimi anni, le
idee e le posizioni.
I due intellettuali bolognesi ribadivano, prima di tutto, la loro fiducia
nel liberalismo, come l’atteggiamento politico-ideologico più rispondente ai
problemi della società contemporanea, anche se – precisavano – il loro non
era un liberalismo di tipo ottocentesco, ma discendeva “da una più matura
esperienza democratica e dalla scoperta dei valori popolari” (laburismo
inglese e democrazia americana). Sottolineavano, poi, le durature ragioni
dell’anticomunismo democratico: il conflitto fra la democrazia – sostenuta
in Italia e in Europa da liberali, cattolici e socialisti – e il comunismo non era
un’“invenzione delle opposte propagande, anche se talvolta il livello di certe
argomentazioni [poteva] suggerire l’irrealtà delle contrapposizioni e delle
parti”, ma si profilava “come una lotta da sostenersi con la coscienza della sua
decisività”. Infine, cercando di sintetizzare il cammino e il ruolo della propria
generazione, quella che si era formata nell’immediato dopoguerra, Matteucci
le assegnava il compito di superare il cleavage fascismo/antifascismo, per
aprire finalmente una fase nuova, quella del “postfascismo”:
Questa, in fondo, era una delle matrici che ci differenziava da quanti, pur
12
Mi è capitato spesso negli ultimi anni di richiamare l’attenzione su questi interventi,
che sono alle origini di una linea di pensiero liberale alternativa a quella laico-pro-
gressista affermatasi nei decenni successivi: cfr. R. Pertici, Il vario anticomunismo
italiano (1936-1960): lineamenti di una storia, in L. Di Nucci ed E. Galli della Loggia
(a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia
contemporanea, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 263-334, 330-332; Id., La crisi della
cultura liberale in Italia nel primo ventennio repubblicano, in «Ventunesimo seco-
lo», IV, ottobre 2005, pp. 121-157, 132-135; Id., Un liberale di fronte al Sessantotto,
in T. Bonazzi e S. Testoni Binetti (a cura di), Il liberalismo di Nicola Matteucci, Il
Mulino, Bologna 2007, pp. 77-98, 79-85.
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così nobilmente, facevano dell’antifascismo una religione che, in uomini


come Calamandrei e in riviste come Il Ponte, trovava i suoi sacerdoti e
le sue celebrazioni. [La loro testimonianza] rappresentava non altro che
la confessione di uomini sconfitti per tutta la vita: sconfitti dal fascismo,
che per vent’anni aveva fatto contro di loro la storia d’Italia, sconfitti nel-
la resistenza e nella liberazione, quando la storia d’Italia finì ancora per
esser fatta senza di loro, dagli uomini che si trovavano inseriti nei grandi
schieramenti popolari. Noi non abbiamo avuto il tempo di essere degli
autentici azionisti [...]; tuttavia non siamo caduti nella nostalgia dell’azio-
nismo, comune a tanti uomini che hanno appena qualche anno più di noi.
Per questa ragione, forse, oggi non siamo radicali13.
Matteucci prendeva per tempo le distanze da tutta una serie di temi, che
proprio in quegli anni – lo accenneremo – stavano maturando nel discorso
pubblico italiano: la concezione del fascismo come minaccia immanente della
vita politica italiana e, di conseguenza, l’assunzione dell’antifascismo a fonte
esclusiva di legittimazione politica, in luogo della lotta su due fronti (antifascista
e anticomunista) propria del periodo degasperiano14. Nella rinnovata
prospettiva “antifascista”, che si sarebbe affermata dopo il 1960, proprio il
periodo centrista sarebbe stato identificato come l’inizio di un’involuzione
della democrazia italiana, dovuta alla rottura del patto resistenziale, e la
successiva storia dell’Italia repubblicana sarebbe stata letta all’insegna del
“fallimento” delle speranze del 1945.
L’Italia – controbatteva Matteucci – non ha perduto l’occasione che le
si presentava il 25 aprile, [...] che il Paese nel suo complesso, ha saputo
sfruttare, dimostrando una vitalità, nella ricostruzione economica e nella
rinascita morale, non inferiore a quella delle altre democrazie europee.
[...] In Italia la democrazia c’è, se per democrazia s’intende non un ideale
assoluto, ma un insieme di norme che garantiscano a tutti e a ciascuno
la libertà di concorrere per dirigere la cosa pubblica; c’è la libertà, se per
libertà s’intende il diritto di aver delle idee e di professarle liberamente.
Chi, riferendosi all’Italia di questo dopoguerra, parla di Stato di polizia

13
[N. Matteucci, L. Pedrazzi], Editoriale, in «Il Mulino», VI, 1957, pp. 3-13, 4-5.
14
Per questi atteggiamenti, specialmente dopo il 1960, cfr. E. Galli della Loggia, La
perpetuazione del fascismo e della sua minaccia come elemento strutturale della lotta
politica nell’Italia repubblicana, in L. Di Nucci ed E. Galli della Loggia (a cura di), Due
nazioni, cit., pp. 227-262, specie pp. 248-253.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 195

e di affossamento della libertà non ha il senso delle proporzioni e della


realtà: per lungo che possa esser l’elenco dei soprusi arbitrari e delle an-
gherie illegittime, si deve riconoscere che, per buona parte, un’ignoranza
antica e una diffusa mancanza di fede nei propri diritti spiega i vizi, le
distorsioni, gli angoli bui del sistema, assai più e meglio di un complotto
preordinato da conventicole astute e onnipotenti15.
Si sarebbe trattato dell’ennesimo fallimento, perché gli stessi ambienti
culturali, in cui si stavano elaborando queste categorie interpretative, erano
soliti leggere tutta la storia d’Italia come una serie ininterrotta di occasioni
mancate e di fallimenti storici. Ancora una volta la polemica di Matteucci
era diretta contro “quella parte del mondo laico e antifascista […] che ha la
sua fonte in Gobetti”. La cultura gobettiana scorgeva nella storia d’Italia
una permanente negatività, in cui si salvava solo “la solitaria e aristocratica
protesta degli eretici” e ne ricavava un decisivo corollario politico: poiché “il
male è troppo grande, troppo antico, troppo radicato nel tessuto della nostra
società”, le forze liberali non avrebbero potuto liberarsene “senza il demiurgico
intervento della classe operaia”16.
Per i nuovi “radicali” la causa fondamentale di questa invalicabile
arretratezza era costituita dal sostrato cattolico della società italiana: ancora
una volta – più o meno consapevolmente – era il tema gobettiano della
mancata riforma religiosa a dare la spiegazione ultima del ritardo italiano.
Per Matteucci restava, invece, centrale il problema del rapporto politico-
culturale fra liberalismo e cattolicesimo politico: un tale rapporto, però,
presupponeva il superamento del laicismo da parte liberale e dell’integralismo
da parte cattolica. Nel fallimento della politica centrista, basata proprio sulla
collaborazione fra le forze laiche e il partito cattolico, lo studioso bolognese
sottolineava così le responsabilità politiche della DC, ma non taceva neanche
quelle dei “laici”, “i quali, mai stanchi di dire e di ripetere di essere gli eredi
e gli interpreti del pensiero moderno, non hanno poi fatto il minimo sforzo
per approfondire la realtà così complessa ed eterogenea del mondo cattolico
in una sua genuina dimensione politica e religiosa insieme […]. Si è rimasti
così fermi a un certo anticlericalismo gustoso, raffinato e composto, un po’

15
[N. Matteucci, L. Pedrazzi], La misura del nostro compito: il postfascismo, in «Il
Mulino», VI, 1957, pp. 311-321, 319-320, datato: Bologna, 25 aprile 1957.
16
N. Matteucci, Interpretazioni del Risorgimento: un nuovo revisionismo cattolico,
ivi, X, 1961, pp. 151-157, 151-152.
196 Roberto Pertici

longanesiano, del Mondo”, tanto – aveva aggiunto altrove – “il Sillabo era
sempre il comodo pretesto per rinchiudersi nelle proprie ragioni”17.
Dunque liberalismo, anticomunismo, superamento dell’antifascismo
ideologico, valore strategico del nesso liberalismo-cattolicesimo, polemica
(su tutti questi temi) con la cultura “neo-illuminista” e post-gobettiana: si
può dire che le posizioni espresse da Matteucci in questi editoriali del 1957
contraddicevano puntualmente quelli che sarebbero stati i principali trends
della cultura (politica e non) italiana del decennio successivo. La situazione,
all’interno della quale cadevano, si stava, infatti, muovendo in direzioni tutto
diverse: dopo il fallimento della legge maggioritaria nelle elezioni politiche del
1953, importanti settori dei partiti di governo spingevano ormai alla ricerca di
nuovi equilibri politici. Si apriva la fase dell’“apertura a sinistra”, che avrebbe
comportato dei cambiamenti decisivi nella “logica profonda” della politica
italiana: il passaggio da una legittimazione politica a base centrista, basata sulla
parallela contrapposizione a fascismo e a comunismo (antitotalitarismo), a un
ricupero deciso dell’antifascismo come base ideologica della futura alleanza18.
L’avversario principale dei fautori della nuova prospettiva politica non era più
ormai il comunismo (negli anni successivi, anche in Italia, l’anticomunismo
ideologico sarebbe diventato un’“esecrabile eresia”19), ma quei settori della
DC e della Chiesa italiana che si opponevano all’apertura ai socialisti. Da qui
un’esasperazione del loro laicismo, che diede vita nella seconda metà degli
anni Cinquanta a una serie di grandi campagne anticlericali, e il ricupero
deciso dell’antifascismo: bisognava opporsi a una possibile alternativa sulla
destra al progettato centro-sinistra e quindi accentuare l’antagonismo fra i
partiti dell’arco costituzionale e la destra monarchica e missina.

17
[N. Matteucci], Laicismo aperto e laicismo dogmatico, in «Il Mulino», V, 1956, pp.
212-217.
18
Su questi aspetti ha insistito recentemente G. Orsina, Quando l’Antifascismo
sconfisse l’antifascismo. Interpretazioni della Resistenza nell’alta cultura antifascista
italiana, 1955-1965, in P. Craveri e G. Quagliariello (a cura di), La seconda guerra
mondiale e la sua memoria, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp. 237-288; Id.,
Il sistema politico italiano. Lineamenti di un’interpretazione revisionistica, in P.
Ballini, S. Guerrieri, A. Varsori (a cura di), Dal centrismo al centrosinistra, Carocci,
Roma 2006, pp. 309-333.
19
F. Furet, Il passato di un’illusione, cit., p. 549, ma tutte le pp. 542-553 sono impor-
tanti per delineare l’immagine del comunismo nell’opinione pubblica occidentale dopo
il 1956.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 197

8. 1957-1960: la collaborazione di Del Noce al Mulino


Era dunque inevitabile che quegli editoriali suscitassero vivaci discussioni
fra gli stessi collaboratori della rivista: in mezzo a loro, tuttavia, trovarono anche
un interlocutore consenziente, che negli anni successivi ne avrebbe sviluppato
in modo originale molti temi. Mi riferisco ad Augusto Del Noce, allora già
quasi cinquantenne ma ancora docente nella scuola secondaria (insegnava storia
e filosofia all’Istituto magistrale Regina Margherita di Torino), da qualche
tempo “comandato” presso l’Istituto di studi filosofici diretto dall’amico Enrico
Castelli. Nel 1957, Del Noce fu coinvolto da Giuseppe Dossetti nell’attività del
Centro di documentazione per le scienze religiose di Bologna20 e fu allora che
entrò in contatto con i giovani del Mulino: nei due editoriali di Matteucci e di
Pedrazzi rinvenne alcune sue idee dell’immediato dopoguerra, quando aveva
sostenuto l’esistenza di “un movimento di convergenza oggi di cristianesimo
e di liberalismo”21 e la necessità di un’effettiva comprensione storica del
fascismo come premessa per un suo superamento pratico22. Fu così che, fra
il 1957 e il 1960 (gli anni della prima direzione di Matteucci), egli prese a
collaborare alla rivista, pubblicandovi una serie di scritti, che costituiscono un
tassello importante di quella cultura “alternativa” al progressismo dominante
nel decennio successivo, di cui stiamo discorrendo23.
20
[A. Del Noce], Notizia sulla vita e sull’operosità scientifica di Augusto Del Noce, in
Id., Scritti politici 1930-1950, a cura di T. Dell’Era, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001,
pp. 541-545, 541. Sulla fondazione del Centro dossettiano, cfr. D. Menozzi, Le origini
del Centro di documentazione (1952-1956), in A. e G. Alberigo (a cura di),“Con tutte
le tue forze”. I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti, Marietti,
Genova 1993, pp. 333-369.
21
A giudizio del filosofo cattolico, tuttavia, “la funzione liberale spetta oggi al cristia-
nesimo”, purché “i cristiani abbandonino il presupposto che l’affermazione dell’uomo
cristiano coincida con quella del ritorno all’uomo medioevale” e ai liberali si richiedeva
la “consapevolezza del nucleo cristiano delle loro idee” (A. Del Noce, Politicità del
Cristianesimo, oggi, in «Costume», II, n. 1, gennaio-febbraio 1946, pp. 59-68, ora in Id.,
Scritti politici 1930-1950, cit., pp. 252-260, 260).
22
Nel saggio del 1945 Analisi del linguaggio. Senso del fascismo, ivi, pp. 72-75. Per
un’analisi degli scritti degli anni Quaranta si veda di T. Dell’Era, Augusto Del Noce.
Filosofo della politica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000; Id., L’interpretazione del
fascismo di Augusto Del Noce, in AA.VV., Scritti in onore di Armando Saitta, Franco
Angeli, Milano 2002, pp. 472-514.
23
Id., Totalitarismo e filosofia della storia, in «Il Mulino», VI, 1957, pp. 91-98; Fine o
crisi del degasperismo?, ivi, pp. 479-485; Pensiero cristiano e comunismo: “inveramento”
o “risposta a sfida”?, ivi, VII (1958), pp. 307-318; Agostino e Tommaso, ivi, VIII (1959),
pp. 509-521; Fanfani: il politico dell’Università Cattolica, ivi, IX (1960), pp. 81-89. Si
198 Roberto Pertici

Del Noce si dichiarava completamente d’accordo con gli amici del Mulino
nel ritenere che “il fascismo sia definitivamente morto, […] nell’aprile 1945;
che non si possa a stretto rigore, parlare di sue radici; che non ha lasciato
sopravvivenze”. Tale recisa affermazione si basava su “una ragione a priori,
ricavata dalla fenomenologia dei movimenti totalitari”:
Ogni totalitarismo attinge la sua potenza persuasiva unicamente da ciò che
appare esprimere “il senso della storia” […]. La sua forza di penetrazione
è perciò rigorosamente identica all’apparenza della sua invincibilità. Una
sconfitta decisiva (quella che si accompagna, per es., con la morte violenta
del Capo), per ciò che rappresenta la forma necessaria della confutazione
logica della sua pretesa, porta alla sua definitiva scomparsa.
Per Del Noce “la forma di vita di ogni totalitarismo è ciclica; esso si affaccia
nella vita di una nazione come un fatto nuovo, non assimilabile allo sviluppo
di forze politiche o sociali o culturali preesistenti, […]; prende consistenza
attraverso compromessi con alcune di queste forze, senza che però mai si
identifichi con esse o divenga completamente loro strumento; la sua crisi ha
inizio col venir meno di taluni di questi compromessi”.
Lo studioso cattolico sottolineava, dunque, il carattere di novità del
fascismo, piuttosto che insistere sulle sue radici nella precedente storia italiana
e concepirlo come un rigurgito di tare secolari (la Controriforma, lo scarso
sviluppo borghese, il nazionalismo, la cultura idealistica, il “cancro romano-
imperiale”, ecc.). Nella sua prospettiva, il vero problema storico riguardava non
tanto le sue radici, “ma l’insufficiente resistenza (o le illusioni di dominarlo)”
da parte delle forze non fasciste. L’indagine storica pertanto avrebbe dovuto
concentrarsi soprattutto sul medio periodo e considerare alcune situazioni
politiche del dopoguerra, come la mancata collaborazione tra cattolici, liberali
e socialisti, senza tirare in ballo la Controriforma o l’orgoglio della tradizione
romana.
Ma, se del fascismo, si doveva cominciare a parlare, “in sede di giudizio
storico, con quel distacco che importa tenere rispetto a processi ormai
irrevocabilmente compiuti”, a maggior ragione – affermava Del Noce – si
imponeva ormai “la necessità di rinunciare a pensare politicamente in termini
di antifascismo”, anche se è “del tutto superfluo avvertire che ciò non significa
tratta di testi estremamente complessi e scritti in quella prosa densa e allusiva che i
lettori del filosofo torinese conoscono bene. Nel testo, mi limito a indicarne per sommi
capi i temi fondamentali.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 199

affatto rinuncia all’antifascismo come posizione morale: significa soltanto


situarlo storicamente come momento positivo ma oltrepassato per scomparsa
dell’avversario, di una più generale lotta contro il totalitarismo”.
Il filosofo prendeva dunque di petto quell’“antifascismo perenne” che
stava emergendo quale nuova religione civile del progressismo italiano e ne
avvertiva nitidamente le implicazioni politiche: una sua eventuale affermazione
avrebbe comportato un corollario “praticamente pericolosissimo […], per cui
la lotta di oggi non si svolgerebbe tra liberali e totalitari, ma, in continuazione
di quella ottocentesca, tra progressivi (tutte le forze orientate verso il futuro,
inclusi naturalmente i comunisti) e reazionari […] caratterizzati [questi]
dall’immobilizzazione del presente o dalla nostalgia dell’antico, [quelli] dalla
direzione verso l’avvenire”. All’interno di questa visione, era evidente che il
comunismo risultava in qualche maniera “meno” totalitario e perciò “meno”
antiliberale o “meno” anticristiano del fascismo: così, non a caso, esso era
giudicato dalla cultura post gobettiana e azionista.
Ma tale impostazione finiva per smarrire il tratto caratteristico del
totalitarismo: esso, infatti, non è assimilabile al pensiero reazionario e
controrivoluzionario, perché non si presenta come difesa di un ordine
storico, pensato come l’unica incarnazione possibile di un ordine ideale. Il
totalitarismo novecentesco, anche quando realizza i tratti della reazione più
estrema, pretende di “esprimere il senso della storia in movimento”. Ecco
perché tende a presentarsi “in termini rivoluzionari” e tale presentazione “non
si riduce – come invece allora puntualmente si ripeteva – a semplice frasario
neppure per i totalitarismi di destra”.
Insomma, Del Noce scorgeva chiaramente come la linea di Matteucci
entrasse in collisione con la cultura “azionista” in alcuni dei suoi temi
fondamentali e nei corollari politici che ne discendevano: fra questi il
laicismo, per cui tornava a ribadire l’assoluta necessità di giungere a un nuovo
incontro fra cattolici e liberali. E come il giovane direttore del Mulino aveva
polemizzato con quanti, nel suo mondo (quello laico), lo ritenevano ormai un
problema superato, così il filosofo torinese dirigeva la sua attenzione critica
verso la galassia cattolica, perché anche al suo interno quella prospettiva era
ormai assolutamente minoritaria: “È rimasta ferma – scriveva – nella grande
maggioranza dei cattolici colti l’idea che liberalismo significhi naturalismo
(non-impedimento alle capacità naturali di esplicarsi) e individualismo, questo
termine essendo inteso per opposizione a personalismo; e che esso sia quindi
200 Roberto Pertici

da riguardare, in linea di principio, come un avversario inconvertibile”.


Di estremo interesse è la delineazione da parte sua delle tre posizioni tipiche
che – nei confronti del liberalismo – erano emerse nel cattolicesimo degli ultimi
decenni. Innanzitutto “quella integralistica rigida, che ha creduto di vedere nella
storia ultima la conferma di una massiccia condanna di tutte le posizioni ideali
del mondo moderno, sino a farsi disposta a un accordo con le destre eversive”:
si trattava degli umori politico-culturali che si possono genericamente indicare
come “clerico-fascisti”. Poi quella che Del Noce chiamava “integralistica
tragica”, in cui era trasparente il riferimento alla recente parabola di Giuseppe
Dossetti: “Dalla considerazione di un’irrimediabile inadeguatezza di tutte le
forze non solo politiche ma morali e culturali attuali, [essa] ha concluso in un
abbandono della politica per la religione e in una speranza nella sola Chiesa,
vista non come organismo storico o culturale, ma come realtà mistica”.
La terza posizione era quella del progressismo cattolico, di cui Del Noce
ricostruiva acutamente le dinamiche politico-culturali: esso certamente si
stava impegnando nel ricupero dei valori positivi del mondo moderno, ma
– della modernità – finiva per accettare la lettura marxista; così il liberalismo
veniva ridotto a mera ideologia della classe borghese (si trattava della
trascrizione in termini marxisti della tradizionale condanna cattolica). Per
il cattolico progressista, la modernità culminava nel socialismo ed era con
esso che bisognava fare i conti, “identificando poi, sempre in conseguenza
della negazione del liberalismo, tale socialismo col comunismo russo, a cui
soltanto chiede di diventare ‘aperto’, disposto, senza negare le antecedenti, a
nuove fasi di realizzazione e a nuovi accordi”24.

Nel mondo cattolico italiano era esistita anche una quarta posizione, che
tuttavia – sul finire degli anni Cinquanta – sembrava in via di estinzione:
quella rappresentata da De Gasperi e dalla tradizione politica che Del Noce
chiamava “degasperismo”. Essa aveva avvertito l’incontro e la collaborazione
fra cattolici, socialisti democratici e liberali come derivante da una civiltà
comune, non dettato semplicemente dalle contingenze politiche:
De Gasperi, cioè, sentì, e fu l’unico, il quadripartito in una forma sostan-
zialmente simile a quella in cui l’azionismo aveva visto il CLN: come
un’unità ideale, non come una semplice unità di fatto che raggruppasse
forze eterogenee in opposizione a un determinato avversario. Esso gli
24
Id., Totalitarismo e filosofia della storia, cit., p. 92 e passim.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 201

appariva come una specie di CLN ristretto, in cui meglio si ritrovava il


senso originario della lotta della libertà contro i totalitarismi, dopo aver
denunciata l’alleanza, che si era accettata per ragioni belliche, con uno
di questi.
Lo statista trentino aveva incarnato la prospettiva sviluppata da Del Noce
nei suoi scritti politici del dopoguerra: che cioè la “funzione liberale” spettasse
ormai al cattolicesimo politico, liberato che si fosse da ogni integralismo. Il
suo era stato un “liberalismo non laicistico”, che certamente non aveva niente
a che spartire con quello di Croce od Omodeo, completamente identificato
nell’immanentismo storicistico, “ma non [era] perciò meno liberalismo”. Il
suo principale punto di forza era stata una corretta intuizione del fenomeno
totalitario: De Gasperi aveva capito che l’esperienza del totalitarismo poteva
costituire la “forza d’urto” necessaria per distaccare il cattolicesimo politico
dal clericalismo e, quasi, costringerlo a riscoprire “l’originario nucleo cristiano
del concetto di libertà”. Operato questo passaggio, i cattolici non avrebbero
avuto più ragione di contrapporsi al liberalismo e sarebbero stati in grado di
incontrarsi anche col socialismo democratico, perché il loro era “un partito
di popolo”, che metteva all’ordine del giorno “quel passaggio alla democrazia
[…] in cui consiste in sostanza la più vera realtà del socialismo”.
L’operazione tentata da De Gasperi aveva però trovato sulla propria strada
l’ostacolo costituito dal mancato sostegno della cultura. Quella laica (si pensi
al gruppo del Mondo) lo aveva lealmente sostenuto, ma il centrismo era stato
dai più considerato come una situazione di emergenza: il risentito laicismo
di questi ambienti aveva impedito loro di avvertire un qualche comune
denominatore col vario cattolicesimo italiano. Analogamente la più vivace
cultura democristiana (come quella dossettiana) aveva vissuto con disagio
la collaborazione con liberali e repubblicani, identificati con quella “civiltà
occidentale” a cui guardava con grande diffidenza. Questa situazione aveva
così indotto De Gasperi a non insistere nell’elaborazione teorica e a diffidare
degli ideologi pronti a “sfasciare l’opera storica” intrapresa. Di qui, secondo
Del Noce, il suo insuccesso e il suo “sostanziale isolamento, anche nei tempi
di maggiore fortuna, nel suo stesso partito”.
Tuttavia il ridursi del centrismo a una formula politica, la sua incapacità
di presentarsi come “una soluzione di principio” non comportava – a giudizio
del filosofo piemontese – la fine del degasperismo: si trattava piuttosto di una
sua crisi, “necessaria per un ulteriore e auspicabile sviluppo”. La politica
202 Roberto Pertici

di De Gasperi era potuta sembrare mero pragmatismo a una cultura che


non era riuscita a comprenderla, ma a essa sottostavano motivazioni ideali
e culturali che il filosofo Del Noce cercava di enucleare a modo suo: che,
cioè, il marxismo fosse “un’impresa filosofica di serietà estrema” e che i
suoi avversari, se restavano all’interno di determinati paradigmi, erano
destinati alla sconfitta, perché la sua critica si mostrava superiore a loro.
Così il liberalismo doveva liberarsi dal dogmatismo laicista, “perché nella
linea del laicismo (del razionalismo) il marxismo ha ragione” e, presto o
tardi, si finisce per accettare il suo discorso; così anche il socialismo deve
dissociarsi dal marxismo, “perché, nel suo giro, è il leninismo ad avere
ragione”. In altri termini, può resistere al comunismo – e sta qui il valore
dell’intuizione di De Gasperi – “soltanto una posizione che realizzi i valori
del liberalismo, a cui, in pari tempo, i cattolici possano aderire senza
restrizioni ideali” 25.

Alla fine degli anni Cinquanta, mentre febbrilmente si lavorava per l’apertura
a sinistra, l’avversario vero del “degasperismo” (inteso come liberalismo di
ispirazione cristiana) appariva a Del Noce colui che era stato per un lustro il
nuovo padrone della DC, Amintore Fanfani. Come sua abitudine, il filosofo
torinese non s’accontentava di rilevare atteggiamenti e prese di posizione, ma
cercava di rinvenirne le radici culturali e (in senso lato) “filosofiche”. Così
l’ostilità di Fanfani al mondo liberale chiamava in causa – a suo giudizio – la
linea culturale dell’Università Cattolica (dove il politico aretino si era formato)
fra le due guerre. Anzi ci si poteva chiedere se “il fanfanismo non fosse altro
che la forma necessaria in cui la linea culturale promossa dall’Università
Cattolica ha raggiunto la realtà politica italiana”.
Il padre Gemelli e i suoi collaboratori avevano individuato il loro
avversario fondamentale nell’idealismo, soprattutto nella forma gentiliana,
ma, di frequente, in questi rapporti simbiotico-conflittuali accade che
si finisca per “mutuare qualcosa dall’avversario pur nell’opposizione”.
L’idealismo italiano si presentava come la più alta consapevolezza filosofica
del liberalismo? Ebbene Gemelli e i suoi avevano fatto propria questa
identificazione e la loro lotta contro l’idealismo si era convertita, sul piano
politico, in polemica anti-liberale. Per un uomo come Fanfani che si era
nutrito di quella cultura, il mondo liberale restava qualcosa di completamente
25
Id., Fine o crisi del degasperismo?, cit.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 203

superato sul piano della cultura politica e delle prospettive storiche. Da qui
anche la sua estraneità rispetto alla tradizione del “popolarismo” prefascista
di Sturzo e De Gasperi, da far risalire, anche in questo caso, alla cultura
dell’Università Cattolica:
Questa aveva in comune con la cultura vociana e poi attualistica e col fa-
scismo (che la derivò da esse) la svalutazione dell’Italia [18]70-[19]15. Giu-
dizio che nel caso dell’Università Cattolica si esprimeva nella svalutazione
anche del cattolicesimo liberale: come di quello che riduceva la religione a
fatto di coscienza personale e privato e che in conseguenza di ciò doveva
portare a una politica priva di afflato religioso, puramente clientelistica,
voluta dunque da quelli che oggi si usano chiamare i notabili.
La polemica anti-liberale aveva dettato e dettava anche ora i possibili
alleati politici; dopo il 1929 un fascismo “dissociato così dalle ricomprensioni
laicistiche (Gentile e gentiliani) come dall’involuzione nel neopaganesimo
nazista”, e poi, fallita la speranza nel fascismo, un socialismo dissociato dal
marxismo: “Dopo questa dissociazione, tale socialismo non potrebbe non
diventare l’alleato naturale di una posizione politica non più legata a una parte
conservatrice, oggi fatalmente ridotta a essere conservatrice di un mondo
liberale e borghese che si è formato in antitesi col cattolicesimo”26. Negli anni
Trenta Fanfani era passato attraverso il primo momento, ora si stava avviando
a inaugurare il secondo.

Come abbiamo visto, il Del Noce collaboratore del Mulino riteneva ancora
– come già nell’immediato dopoguerra27 – che quello del marxismo fosse
il problema centrale della cultura contemporanea, in particolare per quella
cattolica. Rispetto a esso si potevano assumere due atteggiamenti, assai
diversi nei presupposti e nelle conseguenze: accettarne alcuni elementi,
“inverandoli” in un quadro teoretico diverso o considerarlo come una totalità
non scomponibile in parti sane e in parti viziate e quindi una “sfida” a cui
si dovesse una “risposta” complessiva. Il primo era stato l’atteggiamento del
progressismo cattolico degli anni Trenta e Quaranta, che stava riemergendo
26
Id., Fanfani: il politico dell’Università Cattolica, cit., pp. 83, 88 e passim.
27
Id., La “non-filosofia” di Marx e il comunismo come realtà politica (1946), in
Id., Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1990, IV edizione, pp. 213-266;
Id., Marxismo e salto qualitativo (1948), ivi, pp. 267-292; Id., Filosofia e politica nel
Comunismo in «Quaderni di azione sociale», 1957, n. 1, pp. 12-45.
204 Roberto Pertici

impetuosamente allo scadere dei Cinquanta, il secondo quello del cattolico


che potremmo chiamare “degasperiano”:
Il cristiano di sinistra pensa che il marxismo abbia una sua parziale verità
che si tratta di inverare in un’integrale ripresa da parte del pensiero cristiano
di verità che gli appartengono, ma che sono state dimenticate; finché que-
sta ripresa di possesso non sarà avvenuta la stessa persecuzione contro il
cristianesimo storico è giustificata, è una lezione necessaria nell’economia
della Provvidenza. Con ciò il cristiano di sinistra si oppone non soltanto
a coloro che nei riguardi del comunismo, assumono un atteggiamento di
pura difesa, rifiutando ogni sua considerazione che non sia in termini di
forze politiche, cioè ogni revisione culturale di cui esso sia occasione (il
punto di vista dell’anticomunismo democratico consueto); ma si oppone
anche a chi [lo stesso Del Noce, N.d.A.], pur valutando l’ampiezza anzitutto
filosofica dei problemi suscitati dal comunismo, pensa che la posizione dei
cattolici nel suo riguardo non possa essere che “di risposta a una sfida”,
nel senso in cui questo concetto si distingue dall’inveramento28 .
Il cattolico progressista ritiene sostanzialmente giustificata la condanna che
il comunismo pronuncia della società capitalistica come “ingiusta, disordinata e
sfrenata” strutturalmente, non in singoli (per quanto rilevanti) aspetti. Egli, quindi,
abbandona l’ipotesi riformista, facendo propri, più o meno consapevolmente,
tutta una serie di atteggiamenti tipici del pensiero rivoluzionario: la svalutazione
del principio di libertà a favore di quello di uguaglianza, l’adesione a quello
che Rosmini chiamava il “perfettismo” (“quel sistema – scriveva il filosofo
roveretano – che crede possibile il perfetto delle cose umane e che sacrifica il
bene presente all’immaginata futura perfezione”), la soppressione della libertà,
perché altrimenti (era sempre Rosmini che parlava) “l’ideale raggiunto sarebbe
uno stato di perfezione instabile esposto a tutti gli attentati degli individui alieni,
per una ragione o per l’altra, da quell’ideale di perfezione”); la svalutazione della
storia passata (quindi l’abbandono di ogni attaccamento alla tradizione) e la
divinizzazione di quella futura; la necessità di considerare il peccato originale come
un residuo eliminabile; la riduzione dell’individuo alle sue relazioni sociali.
La critica delnociana del progressismo cattolico comportava dunque anche
quella del concetto di rivoluzione, di cui svelava lucidamente le ricadute
28
Id., Pensiero cristiano e comunismo, cit., p. 309. Questo saggio fu scritto in replica
a F. Balbo, La sfida storica del comunismo al Cristianesimo e le sue conseguenze
filosofico-sociali, in «Il Mulino», VII, 1958, pp. 151-158.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 205

“antropologiche” (si potrebbe dire) e morali. A quel concetto, Del Noce


contrapponeva quello di “ri-forma”, o meglio ancora di “ri-sorgimento”, che
implicavano un atteggiamento verso la realtà completamente diverso: mentre la
Rivoluzione imponeva una perenne trasmutazione di valori e un azzeramento
della tradizione, il “ri-sorgimento” partiva dalla persuasione che esistessero
“princìpi permanenti”, che, di fronte a nuovi problemi e a nuovi avversari,
andassero ritrovati e sviluppati adeguatamente29. Il ri-sorgimento era perciò un
approfondimento della tradizione, non una sua negazione: un esempio tipico
ne era stata l’impostazione che Gioberti e Rosmini avevano proposto per il
problema nazionale italiano a metà dell’Ottocento. Anche per i due filosofi non
era possibile (né auspicabile), in Italia, un qualsiasi progresso, se il nuovo non
veniva conciliato con la tradizione, nel loro caso quella cattolico-italiana.
Ma la critica al cattolico progressista spingeva Del Noce a chiedersi se fra
il rifiuto della modernità (tipico dell’integralismo cattolico fra le due guerre)
e la sua completa accettazione (che, come nei cattolici progressisti, di fatto,
portava a una completa subalternità all’immanentismo nella sua forma più
radicale, cioè al marxismo) vi fosse un’alternativa secca, oppure esistesse una
terza prospettiva: in questo saggio accennava già alla necessità di abbandonare
l’idea della modernità come processo unitario e di fare emergere (al suo interno)
una linea di pensiero (da Cartesio a Rosmini e oltre) alternativa a quella
immanentista, ma pur sempre “moderna”. Essa avrebbe potuto sconfiggere
l’ateismo libertino che stava riemergendo, non chiudendosi alle ragioni del
moderno, ma reinterpretandolo in continuità con la tradizione.

9. 1960: L’Ordine civile e il problema del fascismo


Nei saggi che andò pubblicando sul Mulino dal 1957 al 1960, come in altri
suoi interventi degli stessi anni30, il filosofo torinese componeva organicamente
29
Per Del Noce la risposta alla sfida del comunismo comportava la necessità di
“riscoprire il senso originario di termini come ri-forma e come ri-sorgimento (ritro-
vamento e sviluppo nuovo di princìpi permanenti, in relazione a nuovi problemi e
a nuovi avversari) in quel che si oppongono all’idea di Rivoluzione, e a pensare che
l’Europa debba formarsi per Risorgimento, come già l’Italia, e non per Rivoluzione”
(A. Del Noce, Pensiero cristiano e comunismo, cit., p. 309).
30
Filosofia e politica nel comunismo, cit.; L’incidenza della cultura sulla politica
206 Roberto Pertici

un’originale visione della modernità con una lettura della storia novecentesca e
in particolare del fenomeno totalitario; una valutazione del marxismo e del suo
significato nell’ambito del pensiero moderno con una serie di indicazioni culturali
e politiche per il mondo cattolico e, più in generale, per la politica italiana. Non
si può che ripetere quanto abbiamo già osservato a proposito degli editoriali
di Matteucci: Del Noce, ma in modo ancor più radicale dell’amico bolognese,
si mostrava in aperta controtendenza rispetto alle componenti fondamentali
della “nuova” cultura degli anni Sessanta: all’apertura a sinistra contrapponeva
una più organica collaborazione fra cattolicesimo politico e liberalismo, alla
“religione dell’antifascismo” la scelta dell’antitotalitarismo, al “fanfanismo” il
“degasperismo”, all’apertura cattolica al marxismo la consapevolezza che esso
conteneva in sé un’alterità irrecuperabile e che quindi costituiva una sfida a cui
rispondere; alla cultura della rivoluzione l’esigenza di un approfondimento della
tradizione, ecc. Tutto questo cadeva in un quadro politico fluido, in cui le spinte
verso il centro-sinistra si scontravano con ipotesi diverse, di tipo neo-centrista o
anche disposte ad accettare tatticamente l’appoggio parlamentare della destra.
Sul problema dell’apertura a sinistra, Del Noce non aveva le stesse posizioni
del gruppo del Mulino: nutriva perplessità e incertezze. La prospettiva
degasperiana – a suo modo di vedere – si distingueva da quella fanfaniana
non solo per la diversa attenzione che prestava al mondo liberale, ma anche
perché il socialismo con cui aveva intessuto un rapporto di governo era ormai
radicato nel mondo occidentale: ma il “nennismo”? Dopo essersi liberato della
zavorra del leninismo e avere avviato anche una revisione del marxismo, esso
appariva a Del Noce come un “nulla ideale, un populismo indeterminato”. In
questo quadro, il futuro governo di centro-sinistra rischiava di avere gli stessi
limiti di quelli centristi: sarebbe stato una formula di governo senza una vera
e propria coesione ideale o un progetto comune (“un accordo ottenuto sul
fondamento del massimo depotenziamento ideale della DC e del socialismo”),
in cui sarebbe prevalsa una politica di spesa pubblica e di cedimento alle
pressioni corporative (“una politica di iniziativa non fondata sulla chiarezza
ideologica non può avere che un esito demagogistico”31).

nella presente situazione italiana, in AA.VV., Cultura e libertà, atti del Convegno
tenuto a S. Margherita Ligure, Cinque Lune, Roma 1959, pp. 159-188; Classi sociali
e dottrina marxista, in AA.VV., Le classi e l’evoluzione sociale, Atti della XXXI
Settimana Sociale dei Cattolici d’Italia tenutasi a Bari il 21-28 settembre 1958, Edi-
zioni Settimane Sociali, Roma 1959, pp. 57-83.
31
Fine o crisi del degasperismo?, cit., p. 485.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 207

L’unica funzione ideale che il socialismo “nenniano” poteva assolvere


era quella di innestare un processo di ulteriore scivolamento a sinistra (Del
Noce lo chiamava “procomunismo”): al di là delle stesse intenzioni dei suoi
promotori e del loro proclamato “autonomismo”, il socialismo italiano rischiava,
infatti, continuamente di essere risucchiato in una prospettiva frontista, anche
se di tipo nuovo. L’antifascismo ideologico, tipico frutto dei fronti popolari
degli anni Trenta, continuava a essere un collante dei due partiti e l’ingresso
dei socialisti al governo non poteva che segnare la messa in mora definitiva
dell’anticomunismo, “non in quanto dà luogo a manifestazioni fascistiche, ma
nelle sue radici religiose, nazionali e liberali”: insomma avrebbe provocato,
presto o tardi, la definitiva uscita dall’angolo dei comunisti.
Ma c’era anche una ragione più complessiva che preoccupava Del Noce:
il socialismo italiano, perduto l’aggancio classista e l’ispirazione marxista,
si sarebbe mosso in base a una prospettiva ideologica da lui definita come
“positivistica” o meglio “neopositivistica”. Che intendeva dire? Già in altri casi,
abbiamo riscontrato questo suo caratteristico approccio, che tende a rinvenire,
nelle varie posizioni politiche, logiche profonde, che non possono non essere
che “filosofiche”32. In questo caso si impegnava lui stesso a tradurre “in termini
pratici le conseguenze di questo nesso” fra socialismo e neopositivismo:
La politica di riforme sociali proposta dal socialismo dovrà presentarsi
come inscindibilmente collegata con una generale politica della cultura
e del costume, che verrà detta, secondo la parola d’uso, anticonformista,
ma che in realtà sarà diretta contro la cultura e il costume tradizionali, in
quanto hanno fondamenti religiosi e metafisici.
Lo sfondo culturale che accompagnerà l’apertura a sinistra non sarà,
quindi, “cristiano”, ma radicalmente laico: ne scaturirà, con ogni probabilità,
una modernizzazione impetuosa del costume e della cultura, che rischierà
di mettere in crisi i valori tradizionali, fra cui quelli religiosi. Per la cultura
neopositivistica, infatti,
tutte le proposizioni che oltrepassano la verificabilità empirica (le reli-
giose, le metafisiche, le morali nel senso normativo classico, ecc.) sono
32
Del Noce era convinto che per comprendere un fenomeno storico che incorpora
una filosofia che si fa pratica, occorra prima di tutto comprendere tale filosofia e
ricondurre a essa le categorie di cui fa uso il soggetto in esame: su questo aspetto,
cfr. R. Buttiglione, Augusto Del Noce. Biografia di un pensiero, Piemme, Casale
Monferrato 1991, p. 163.
208 Roberto Pertici

del tutto prive di senso e manifestano soltanto disposizioni soggettive:


trovano quindi la loro spiegazione nella psicologia e nella sociologia. […]
Dell’al di là dell’esperienza non si può in ogni caso dire nulla, o meglio si
può esorcizzare, spiegandolo nella sua illusorietà logica e illustrandone i
condizionamenti psicologici e sociali, il pensiero che vi si rivolge.
Tali assiomi si diffonderanno largamente, anche perché – aggiungeva
il filosofo – essi mostrano in genere un’estrema capacità di diventare
“senso comune”, magari senza un cosciente riferimento al “principio
originario”33.
Non fu però Il Mulino a ospitare questi rilievi critici verso la prospettata
apertura a sinistra, ma un nuovo quindicinale fondato a Roma nel giugno del
1959 da Gianni Baget Bozzo: L’Ordine civile, per l’anno e mezzo che durò,
fu forse l’espressione culturalmente più vivace di un tradizionalismo ostile
alla progettata svolta politica, critico del riaffiorante progressismo cattolico e
del ritorno in grande stile dell’antifascismo, attento all’esperienza gollista in
Francia34. Proprio perché culturalmente e politicamente ormai all’opposizione,
la rivista mostrava antenne molto sensibili nel registrare i mutamenti di cultura
e di costume che si stavano profilando nella società italiana.
Il più notevole dei tre saggi che Del Noce vi pubblicò, è senz’altro quello
che condensa le idee da lui gradualmente elaborate nell’ultimo quindicennio a
proposito del fascismo. Abbiamo già sottolineato come questo tema (e quello
connesso dell’antifascismo) avesse attraversato i suoi interventi sul Mulino:
esso non costituiva una questione puramente storiografica, ma era strettamente
connesso a decisive opzioni politico-culturali. Ciò era ancor più vero nella
primavera del 1960, nei torbidi mesi successivi alla crisi del secondo governo
Segni sboccata, dopo varie vicende, nell’incarico a Tambroni: significativi
sono, a questo riguardo, i due articoli che spinsero Del Noce a dire la sua.
Il primo fu un Taccuino del Mondo, in cui in termini drammatici si agitava
il tema di un nuovo fascismo prossimo venturo: era il sintomo che anche in

33
A. Del Noce, Ideologia socialista e fronte popolare, in «L’Ordine civile», I, 3,
25 luglio 1959, pp. 1-3.
34
Sull’esperienza dell’Ordine civile, cfr. G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura
a sinistra. La DC di Fanfani e di Moro 1954-1962, Vallecchi, Firenze 1977, pp. 193-198.
Fra le polemiche che allora suscitò, indicativa è quella di due giovani storici discepoli di
Ettore Passerin d’Entrèves, G. Sofri e F. Traniello, Fra Gedda e Machiavelli: l’«Ordine
civile», in «Il Mulino», VIII, 1959, vol. II, pp. 205-214, a cui rispose lo stesso Baget
Bozzo, in «L’Ordine civile», I, 12, 15 dicembre 1959, pp. 17-18.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 209

ambienti “liberali”, a lungo fermi in una posizione “antitotalitaria”, si era ormai


affermata la “religione dell’antifascismo”. Scriveva Mario Pannunzio:
Siamo o meno alla vigilia di un nuovo ’22? Non si tratta di un problema
accademico. […] Insomma il fascismo degli anni sessanta non può esse-
re il fascismo degli anni venti: ma non per questo il fenomeno del ’60 è
qualcosa di profondamente diverso da quello del ’20. È finito il fascismo
delle squadre d’azione, della violenza combattentistica, del nazionalismo
esasperato: è rimasto – e in qualche misura – lo spirito antidemocratico,
la tendenza all’autoritarismo, la pressione degli interessi economici; e c’è,
inoltre, essenziale novità in una situazione dominata dalle forze cattoliche,
la volontà di potenza di un corpo, come la gerarchia ecclesiastica, con i
suoi organismi e i suoi laici, estraneo alla società organizzata a Stato, e
proprio perché estraneo intrinsecamente sopraffattore. I caratteri formali
del movimento che rovesciò il regime democratico quarant’anni fa sono
mutati; il colpo di Stato è un obiettivo che oggi non ha più senso. Ma che
l’attacco esterno del fascismo allo Stato sia divenuto l’interna degenerazione
clerico-fascista dello Stato, nulla toglie all’essenziale, se non in questo:
che ha reso più difficile riconoscere un pericolo che è identico. [...] C’è
obiettivamente una coalizione clerico-fascista nel Paese35.
L’altro fu uno scambio fra il neo-fascista Primo Siena, direttore della
rivista Carattere, e lo stesso Baget Bozzo in cui i due interlocutori erano stati
concordi nel criticare l’unità del fenomeno fascista e quindi l’assimilazione
completa fra fascismo e nazismo, ma poi avevano discordato sull’opportunità
o meno di restare all’interno di una prospettiva neo o post fascista. Se il
fascismo è ormai un fenomeno “storico”, affermava Baget Bozzo, “bisogna
aver la forza non di rinnegare, ma di abbandonare il proprio passato” e quindi
di uscire dal ghetto, rientrando nel gioco politico e nel dibattito culturale. Il
direttore dell’Ordine civile aveva poi indicato, come compito fondamentale
della cultura italiana, quello di pervenire a “una valutazione oggettiva, non
fascista né antifascista, del fascismo”36.

35
Fascismo ’60, in «Il Mondo», 16 febbraio 1960, p. 2, nella rubrica Taccuino. Cre-
do che Del Noce si riferisse a questo articolo quando, nel suo intervento, scriveva
polemicamente: “Dato che oggi saremmo di nuovo, è stato detto, nel 1923” (A. Del
Noce, Idee per l’interpretazione del fascismo, in «L’Ordine civile», II, 8, 15 aprile
1960, pp. 15-18, 15): ma erano iperboli allora comunissime.
36
P. Siena-G. B.[aget] B.[ozzo], Lettera dall’“altra sponda”, in «L’Ordine civile», II,
210 Roberto Pertici

L’esigenza espressa da Baget Bozzo riscuoteva il pieno consenso di Del


Noce. A suo giudizio, il problema della “valutazione oggettiva” del fascismo
occupava un “posto assolutamente primo […] nell’ordine di importanza,
sotto il profilo della cultura che interessa la decisione politica”: anche per lui,
come per Pannunzio, non si trattava insomma di una questione accademica.
La “controversia politica” che stava divampando fra “coloro che sono
insieme non comunisti e non fascisti” verteva, in ultima istanza, proprio
sulla valutazione del fenomeno fascista e della sua collocazione nella storia
d’Italia. Si fronteggiavano due interpretazioni: quella “parentetica” e quella
“rivelativa”. Per spiegare la prima, Del Noce ricorreva al suo primo saggio
pubblicato sul Mulino e ripeteva il discorso sul carattere ciclico dei fenomeni
totalitari, i quali, quando si dissolvono, non hanno possibilità di rinascita. Per
illustrare la seconda, si rifaceva, invece, a un passo di Nino Valeri, in cui il
fascismo veniva tratteggiato come una “malattia morale-politica, i cui germi
risalgono […] a una costituzionale debolezza della nazione, vissuta per lunghi
secoli chiusa in una pratica conservatrice reazionaria, separata dal generale
progresso della civiltà”37. La prima interpretazione, quella “parentetica”,
tendeva a sottolineare il “carattere nuovo e unico del fascismo”, per la seconda
esso era la manifestazione di una costante nella storia d’Italia e in quanto
tale “una manifestazione, ripetibile o anzi aggravabile”: esso rappresentava
ancora il principale avversario di una politica democratica.
Chi pensa che le radici del fascismo siano ancora presenti, in genere è
portato – sosteneva Del Noce – anche a ritenere che “fascismo e nazismo
siano due specie dello stesso genere” (il genere comune della “reazione contro
il progresso storico”) e che il comunismo, conservando invece “alcune delle
aspirazioni morali tradizionali, (alla giustizia, all’uguaglianza)”, mantenga,
nonostante aberrazioni ed errori, una valenza in qualche modo progressiva.
Questo tipo di interpretazione ha una ricaduta evidente sul piano politico:
la necessità di mantenere permanente la solidarietà fra le forze antifasciste.
Ma anche sul piano delle maggioranze di governo: in certe situazioni può
spingere a un’apertura a sinistra, come quella che si stava profilando nella
politica italiana, che avrebbe “il compito di scartare dal potere, insieme, i
superstiti del fascismo e del prefascismo” (non solo la destra post-fascista e
monarchica, ma anche i liberali di Malagodi e la destra democristiana collusa
6, 15 marzo 1960, pp. 16-18.
37
N. Valeri, Origini del fascismo, in E. Rota (a cura di), Questioni di storia contempo-
ranea, vol. III, Marzorati, Milano 1953, pp. 734-740.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 211

con quei settori della Chiesa che si erano compromessi col regime, insomma
tutte le forze politiche che rappresentavano il passato), in altre – come era
avvenuto negli anni Trenta – una politica di fronte popolare.
L’interpretazione “rivelativa” era stata tipica della cultura azionista:
non a caso era un uomo come La Malfa a presentarsi quale “mediatore tra
i socialisti e una DC dominata dalla sua corrente di sinistra” e a giocare un
ruolo centrale nella formazione della nuova maggioranza. Ma essa, forse non
del tutto consapevolmente, costituiva lo sfondo delle scelte politiche anche
della sinistra democristiana, tanto che – aggiungeva Del Noce – si potrebbe
dire che “i democristiani di sinistra sono quei cattolici che hanno assunto i
moduli della storiografia azionista, senza rendersi conto delle loro implicazioni
filosofiche e religiose”.
Guardando alla cultura dell’Italia 1960, il filosofo torinese non si nascondeva
che la partita aveva ormai un vincitore:
Se si guarda al successo nel mondo della cultura, l’interpretazione rivelativa
sembra aver oggi ottenuto la netta prevalenza; battuto sul piano strettamente
politico, l’azionismo si è rifatto su quello della politica della cultura. Ogni
orecchiante sa ripetere che il discorso sulla “parentesi” fascista copre, nei
vecchi e negli onesti, la nostalgia di un “mondo di ieri” (anteprimaguerra)
irrevocabilmente trascorso, nostalgia che impedisce anche ai più acuti di
scorgervi i germi del periodo successivo; e negli altri il risentimento contro
l’antifascismo, mascherato dietro un’onorevole facciata.
Quali erano le ragioni di questa sconfitta? Il fatto che i sostenitori dell’ipotesi
“parentetica” non ammettevano nessun nesso, nessun rapporto fra l’“alta
cultura laica” e il fascismo: il fascismo era stato per loro un fenomeno senza
veri riferimenti culturali, espressione di una “pura crisi morale”, quasi il frutto
dell’“attività di una semplice banda di avventurieri, senza radici nel passato”
e ciò non era davvero “una spiegazione sufficiente”.
Qui Del Noce si inoltrava in un discorso “tuttora inedito”, che sarebbe
diventato un leit-motiv di molti suoi interventi degli anni successivi. Ancora
una volta credeva necessario rintracciare le logiche profonde, “filosofiche”, dei
movimenti politici e, ancora una volta, ricorreva alla già elaborata distinzione
fra le due risposte possibili di fronte al marxismo e al socialismo: “risposta
a sfida” o “inveramento”. Il fascismo era stato certamente una reazione al
socialismo, ma del secondo tipo: aveva, in qualche modo, assunto e fatto
212 Roberto Pertici

propri una serie di elementi del socialismo stesso, “inverandoli” in un quadro


concettuale diverso. Da questo punto di vista si poteva cogliere un parallelismo
fra il percorso del suo massimo teorico, Giovanni Gentile, e quello del suo
fondatore, Benito Mussolini. Il primo, fin dal suo celebre studio su Marx del
1897, aveva preso sul serio l’indicazione che la filosofia non poteva restare
un’attività puramente accademica, ma doveva cambiare il mondo. Ma questa
volontà trasformatrice, che nel marxismo era pur sempre limitata dalla rugosa
realtà economico-sociale, nell’idealismo attuale era diventata completamente
libera, sfrenata si potrebbe dire. Analogamente Mussolini, risentendo le
influenze della cultura anti-positivistica del primo Novecento, specie del
sindacalismo rivoluzionario, aveva dato vita a un marxismo fortemente
volontaristico, in cui il momento rivoluzionario era svincolato da qualsiasi
condizionamento storico:
Tra attualismo e fascismo vi è una serie di coincidenze che, se non altro
per la loro somma, non possono essere casuali. Le accuse principali mosse
all’uno e all’altro sono le stesse: attivismo e solipsismo […]. All’irraziona-
lizzazione dello hegelismo compiuta da Gentile corrisponde l’irraziona-
lizzazione del socialismo rivoluzionario compiuta da Mussolini.
Per cui anche l’incontro Gentile-Mussolini non era stato casuale: “Nel
’22 Gentile aveva […] bisogno del fascismo perché assumesse parvenza di
verità la sua formula sull’identità del pensiero e dell’azione; reciprocamente,
il fascismo aveva bisogno di una sua legittimazione culturale, e non poteva
cercarla che nell’attualismo anche se questo non fosse entrato per nulla nella
sua genesi”.
Questa analisi, che Del Noce abbozzava nel suo stile intricato, denso di
rimandi e di apparenti anacoluti culturali (li potremmo chiamarli così), lo
portava però a tutta una serie di conseguenze analitiche di grande momento.
Se il fascismo era, per alcuni aspetti, espressione della migliore cultura
nazionale, o almeno era concresciuto con essa, non poteva essere giudicato
solo una commedia grottesca finita male, ma una scommessa su cui aveva
puntato una parte cospicua della società italiana: insomma qualcosa di
terribilmente serio. Inoltre il suo capo, per quanto orecchiante e dilettante di
cose culturali, aveva a suo modo partecipato ai principali movimenti della
cultura dell’anteguerra: non era, insomma, solo “un avventuriero disposto
ad abbracciare qualsiasi causa purché questa servisse alla sua ambizione di
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 213

potere”. “La sua biografia – aggiungeva Del Noce – è il miglior documento per
lo studio dell’idea di rivoluzione – intesa come sostituzione della politica alla
religione nella liberazione umana – sganciata dal materialismo e dall’utopismo
(…) e connessa invece con le suggestioni vitalistiche del pensiero del primo
Novecento”.
Inoltre se questo tratto “rivoluzionario” era congenito nel fenomeno
fascista, esso non poteva essere ridotto a puro tradizionalismo reazionario:
anzi – aggiungeva il filosofo – era perfettamente vano appellarsi al fascismo
per difendere la tradizione (come faceva quel Primo Siena che aveva scritto a
Baget), perché esso aveva un’anima rivoluzionaria. Per cui fra i due totalitarismi
di destra intercorrevano differenze qualitative che li rendevano inassimilabili:
mentre il momento anticomunista reazionario era stato prevalente nel
movimento tedesco, Del Noce giungeva a dire che il fascismo italiano era stato
quasi un movimento concorrente del comunismo, “una sorta di alternativa
nazionale a questo”. I suoi veri nemici, “data l’identificazione mussoliniana
tra prima guerra mondiale e rivoluzione, furono le forze neutraliste”, cioè i
liberali “giolittiani”, i politici cattolici e il socialismo massimalista.
Il rapporto fra fascismo e attualismo si allentò dopo la Conciliazione del
1929. Mentre Gentile “restò solo nella sua devozione al Duce continuata
fino alla morte”, i suoi discepoli si andarono progressivamente distaccando
dal regime e, poiché per loro attualismo e fascismo erano stati sinonimi,
mettendo in discussione il secondo, di fatto si allontanarono anche dalle
posizioni teoretiche gentiliane. “Una parte degli attualisti confluì in quel
fascismo di sinistra che poi, almeno in notevole misura, offrì i suoi quadri al
partito comunista”; un’altra fu alla base delle nuove correnti antifasciste che
si sviluppano nei tardi anni Trenta (e qui Del Noce pensa evidentemente a
Calogero e al liberalsocialismo):
L’opposizione dei giovani ai vecchi che nel decennio tra il ’20 e il ’30 ave-
va giocato a favore del fascismo, cominciò a rovesciarsi con un processo
lento sino a dar luogo alla maggioranza antifascista degli anni di guerra
e al movimento popolare di quelli della resistenza. Rispetto al termine
antifascismo sono necessarie alcune precisazioni. In un senso generico sono
antifasciste tutte le posizioni precedenti o, per il loro sorgere, contempo-
ranee al fascismo, che lo rifiutano totalmente (liberalismo, cattolicesimo
politico, socialdemocrazia, comunismo, ecc.). In senso più ristretto, è un
fenomeno successivo al fascismo che non riconosce un rapporto di diretta
214 Roberto Pertici

continuità con le forme che questo aveva avversato, e che vuole distinguersi
dal comunismo, pur combattendo l’anticomunismo. Che esso sia un capitolo
successivo della posizione dell’inveramento del marxismo non c’è davvero
bisogno di dimostrarlo dato che le sue dichiarazioni sono esplicite (libe-
ralsocialismo, sinistra cattolica, eccetera). Quel che piuttosto deve essere
messo in luce è come esso sia condizionato dalle stesse condanne che il
fascismo aveva pronunziato e che subisca sempre, in varie forme, talvolta
aperte, talvolta invece dissimulate e tortuose o inconsapevoli, l’influenza
dell’attualismo. Di ciò si può trovare una prova nella rottura con Croce,
a cui l’antifascismo laico si trova costretto, o per l’antifascismo cattolico
nella rottura con Sturzo.
Insomma, l’antifascismo giovanile degli anni Trenta è, per molti aspetti, un
“fratello nemico” del fascismo, nel senso che ne condivide la base culturale
(l’eredità attualistica) e molti atteggiamenti mentali e politici (l’ostilità
all’Italia prefascista, l’avversione al liberalismo giudicato una cultura politica
esaurita, ecc.). La rottura fra Croce e gli azionisti e la distanza fra Sturzo e
De Gasperi dai “professorini” dell’Università Cattolica ne restano un sintomo
evidente38.
Molte delle analisi esposte da Del Noce in questo saggio possono risultare
oggi poco circostanziate, altre confuse, altre anche infondate. Ma, al di là delle
esigenze politiche e polemiche da cui prendeva le mosse, si deve ammettere
che questo suo tentativo di fondare una nuova analisi del fascismo, estranea a
quello che, molti anni dopo, sarebbe stato chiamato il “paradigma antifascista”,
era di assoluto valore. Come si poteva facilmente prevedere, per il momento
egli trovò pochissimi (anche se acuti) interlocutori39. Il suo articolo comparve
38
A. De Noce, Idee per l’interpretazione del fascismo, cit. Il saggio è ristampato in
appendice ad A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano 1978, pp.
343-356.
39
Soprattutto C. Casucci, Fascismo e storia, in «Il Mulino», IX, 1960, vol. I, pp.
213-242. Proprio a Casucci si deve buona parte della fortuna successiva del saggio
di Del Noce: egli infatti lo ristampò nella sua fortunata antologia Il Fascismo, a cura
di C. Casucci, Il Mulino, Bologna 1961, pp. 370-383, insieme al precedente Totalita-
rismo e filosofia della storia (pp. 359-369). In questa antologia lo lesse anche Ernst
Nolte, che chiese e ottenne dal filosofo il permesso di tradurlo in tedesco: Ideen zur
Interpretation des Faschismus, in E. Nolte (herausgegeben von), Theorien über den
Faschismus, Kiepenheuer & Witsch, Köln-Berlin 1967, pp. 416-425 (cfr. F. Perfetti,
La concezione transpolitica della storia nel carteggio Nolte-Del Noce, in «Storia
contemporanea», XXIV, 1993, pp. 725-783, 747).
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 215

nel fascicolo del 15 aprile 1960: l’esperienza del governo Tambroni e le


vicende del luglio di quell’anno produssero, infatti, conseguenze decisive
sulla politica italiana, che, se contraddicevano le aspettative del filosofo
torinese, realizzarono anche molte linee di tendenza che aveva intraviste.
Nella classe politica e nella cultura diffusa segnarono la delegittimazione
dell’anticomunismo “ideologico” e il riconoscimento dell’antifascismo come
solo valore fondante della Costituzione. I partiti della sinistra, anche il PCI,
cominciarono a essere non solo annoverati fra i “padri fondatori” dello Stato
repubblicano, ma sempre più percepiti come “numi tutelari” della democrazia:
riemergeva il nesso fra unità antifascista e democrazia e il tema dell’illegittimità
(e della pericolosità) di una discriminante a sinistra, che avranno una lunga
storia nei decenni successivi40.
A mutare fu soprattutto il clima culturale del Paese: si ebbe una ripresa
su larga scala della “cultura dell’antifascismo”, ma in un tono crescente di
recriminazione e di polemica, che vedeva nel “degasperismo” un tradimento
delle speranze resistenziali41: diventava, infatti, egemonica una lettura della
storia repubblicana post-1947 come una serie di fallimenti e di distorsioni,
scaturite dalla volontà di tenere ai margini le forze che veramente erano state
il nerbo dell’antifascismo. Sia sul piano storiografico che su quello politico
venne prevalendo un altro principio di “legittimazione”, quello di cui si
faceva portatrice la sinistra comunista o paracomunista (gli indipendenti
di sinistra), “che non si limitava a escludere, com’era logico, gli apporti
dell’estrema destra, ma […] considerava antidemocratica e in qualche
modo illegittima, anche la maggioranza centrista, e, per estensione, ogni
maggioranza chiusa a priori al PCI”42. Nel nuovo clima restò assolutamente
minoritaria la cultura che proseguiva la riflessione sul “totalitarismo” lungo
le linee tracciate dall’anticomunismo liberaldemocratico e cattolico nei primi
anni del dopoguerra: insomma, tutta la storia del Novecento si irrigidì in
una versione canonica, presto ampiamente divulgata, fino a diventare senso
comune.
40
P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Utet, Torino 1995, pp. 71-72 (Storia
d’Italia, XXIV) e Id., Introduzione a G. Donno, La Gladio rossa del PCI (1945-1967),
Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, pp. 41-43.
41
Per tutto ciò, cfr. P. Battista, Cultura e ideologie, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a
cura di), Storia d’Italia, 6. L’Italia contemporanea dal 1963 a oggi, Laterza, Roma-
Bari 1999, pp. 439-539, 514.
42
G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia
unita, Laterza, Bari-Roma 2003, p. 89.
216 Roberto Pertici

Così, il saggio di Del Noce fu una specie di messaggio in bottiglia, che,


tuttavia, col tempo, sarebbe giunto a destinazione: lo vedremo.

10. 1962: una tesi di laurea su Maistre


L’episodio è noto ed è stato più volte raccontato: nella prima estate del 1962,
all’Università di Torino, si discuteva una tesi di laurea sul pensiero politico
di Joseph de Maistre. Relatore era Luigi Firpo, controrelatore (come allora si
diceva) Norberto Bobbio. Al culmine della discussione, il mite Bobbio gettò
per terra quella tesi, chiedendo se fosse il caso di continuare a “discutere su
un teorico della schiavitù”. Al che, Alessandro Passerin d’Entrèves, grande
filosofo liberale, intervenne rilevando che non si stava discutendo di Maistre,
ma di una tesi di laurea su Maistre: bisognava solo dire se era scientificamente
buona o no.
Il candidato (che alla fine ebbe il massimo dei voti) era il venticinquenne
Alfredo Cattabiani, cresciuto nella Torino del dopoguerra, la città di casa
Einaudi e della FIAT, dove era più viva che mai l’eredità politico-culturale
dell’“ordinovismo” gramsciano e della tradizione gobettiana e azionista43.
Era anche la città in cui viveva, completamente isolato rispetto a quel contesto
culturale, Augusto Del Noce: Cattabiani, che aveva percorso tutto il suo
curriculum di studi pre-universitario all’Istituto Sociale dei Padri Gesuiti, lo
conobbe sul finire degli anni Cinquanta e cominciò a frequentarne la casa,
insieme a un gruppo di coetanei. Il filosofo – lo avrebbe più volte ricordato – lo
aiutò a comprendere la situazione storico-politica dell’epoca. Da quel momento
arrivarono gli incontri culturali che contarono di più nella sua vita: Pound,
Eliade, Eliot, Maistre... Un giorno il padrone di casa diede un’indicazione a

43
Su Cattabiani non esiste ancora una biografia documentata: per le notizie fondamen-
tali si deve ricorrere ad alcuni suoi scritti e interviste autobiografiche o ai necrologi:
fra i primi cfr. soprattutto A. Cattabiani, Io dissidente nella Torino di Bobbio & Co.,
in «Il Giornale» (Milano), 30 gennaio 2001 e il dettagliato auto-necrologio L’ultimo
simbolo è un addio, ivi, 19 maggio 2003; ma anche l’intervista a cura di Gabriele
Marconi, In nome del mito, presente in http://www.centrostudilaruna.it/cattabiani.
html. Fra i necrologi, cfr. almeno F. Gianfranceschi, Addio al re dell’immaginazione,
in «Il Tempo» (Roma), 19 maggio 2003; G. de Turris, Alfredo Cattabiani, il non-
conformista, in «Ideazione», X, 2003, pp. 194-198.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 217

ciascuno dei suoi giovani amici: “Dobbiamo rivisitare – disse – le culture di


ogni Paese cercando di mettere in luce quei filoni che sono stati dimenticati
in Italia. E fonderemo una casa editrice”.
Cattabiani scelse la cultura francese, con cui aveva da tempo grande
dimestichezza: fu così che si inoltrò – ancora su suggerimento di Del Noce – nello
studio del pensiero cattolico controrivoluzionario della Francia ottocentesca,
giungendo appunto a Maistre. Del Noce non era – lo abbiamo accennato – un
tradizionalista44: fin dall’immediato dopoguerra, aveva affermato la necessità
che “i cristiani abbandonassero il presupposto che l’affermazione dell’uomo
cristiano coincida con quella del ritorno all’uomo medievale” e, quindi, si teneva
fuori dal tradizionale concetto di “cristianità”. Tuttavia metteva in guardia il
pensiero cattolico anche dal recepire in toto e acriticamente il concetto laico
e immanentistico di “modernità”, magari – come stava accadendo sempre
più spesso – solo per subalternità culturale, senza rendersi conto delle sue
implicazioni filosofico-religiose. E disegnava – anche questo lo abbiamo
accennato – un’altra modernità, una linea di pensiero alternativa, che non
sboccasse nell’immanentismo assoluto e quindi nel marxismo (traguardo
inevitabile, a suo modo di vedere, se si accettavano quei presupposti), ma in
un pensiero che riconoscesse il ruolo della soggettività, senza ridurre a essa
tutta la realtà (ponesse, insomma, l’esistenza di un Essere altro dal soggetto).
Quindi la proposta di studiare il pensiero controrivoluzionario dell’Ottocento
non era fatta per assumerlo acriticamente, senza le dovute riserve e distinzioni,
ma perché credeva che se ne potessero trarne spunti utili per una critica del
pensiero che chiamava “strumentalista” (neo-illuminismo, neopositivismo,
marxismo, ecc.).
Così l’insegnamento fondamentale che Cattabiani ricavò da Maistre (un
po’ il “cardine del suo pensiero, come di quello di ogni filosofo di ispirazione
cristiana”) era analogo a quello che Del Noce aveva appreso da Rosmini: la
critica del “perfettismo”. Essa scaturiva dalla nozione di peccato originale,
cioè “di una colpa risalente alle origini dell’umanità e talmente grave da
aver fatto decadere l’uomo da uno stato di edenica purezza e di superiori
conoscenze a uno stato di debolezza intellettuale e morale”: Maistre aveva
compreso che “l’origine di ogni errore consiste nell’idea della perfezione
44
Impropria è quindi la definizione che più volte ne diede Bobbio come di un “de Maistre
redivivo”: anche nel necrologio N. Bobbio, Così il “de Maistre redivivo” rifletteva sulle
colpe degli italiani, in «La Stampa» (Torino), 2 gennaio 1990: definizione che – anche
alla luce dell’episodio narrato nel testo – risulta tutt’altro che benevola.
218 Roberto Pertici

originaria dell’uomo”45. Dalla negazione della caduta originale erano nate,


infatti, quelle “eresie laiche” moderne, che stavano affermandosi negli anni
Sessanta, come lo scientismo, la “fede patetica nella bontà degli istinti non
repressi dall’organizzazione sociale, l’ottimismo anarchico nelle sue molteplici
variazioni e, infine, la possibilità di tradurre l’escatologia cristiana in una
dimensione puramente terrena”: insomma il permissivismo etico, il culto
dello spontaneismo, il cattolicesimo progressista. Invece, la sua riaffermazione
permette di non evadere dalla realtà, di “osservarla con sguardo lucido nei suoi
aspetti contraddittori, nella sua dialettica fra bene e male, santità e demonicità,
eroismi e viltà”, e soprattutto vaccinava il giovane torinese da un altro elemento
dello Zeitgeist di quel decennio: la mentalità progressista, la “convinzione che
la storia dell’umanità sia una crescita ontologica dall’inferiore al superiore,
dall’irrazionale al razionale, dall’imperfetto al perfetto”46.
Ma Cattabiani era pur sempre un giovane degli anni Sessanta, carico – a
suo modo – di inquietudini, di ansie di rinnovamento, di disprezzo per il
conformismo culturale che lo circondava. Solo che i suoi punti di riferimento
non erano quelli che affascinavano allora la maggioranza dei suoi coetanei: si
trattava, piuttosto, di scrittori irregolari, appartenenti a quella varia galassia del
“socialismo nazionale”, che non si era mai del tutto identificato con i regimi
totalitari degli anni Trenta, ma che era stato travolto (spesso tragicamente)
con essi. Anche da questo punto di vista, riproporre come canone unico di
giudizio lo spartiacque fascismo/antifascismo non serviva più: rischiava
anzi di spegnere definitivamente una serie di voci che, invece, potevano dire
ancora qualcosa ai contemporanei. Da qui il suo ricupero, a metà degli anni
Sessanta, di Drieu La Rochelle:
Molti intellettuali stanno scoprendo oggi questa alienazione spirituale
della civiltà moderna, di cui aveva parlato lo scrittore francese; i giovani
più avvertiti vivono in uno stato di insoddisfazione spesso inconsapevole,
rifiutano l’inserimento, oppure si perdono in ribellioni velleitarie incapaci

45
La citazione di Maistre è indiretta: Cattabiani la ricavava da G. Noventa, Niente
di nuovo, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 299, ma più probabilmente da A. Del Noce, Il
ripensamento della storia italiana in Giacomo Noventa, in G. Noventa, Tre parole sulla
Resistenza, cit., p. xxxv.
46
A. Cattabiani, Introduzione a J. de Maistre, Breviario della tradizione, a cura di A.
Cattabiani, Il Cerchio, Rimini 2000, pp. 5-12, 6-7. La sua maggiore fatica maistriana, fu
– com’è noto – l’edizione italiana delle Soirées: J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo,
Rusconi, Milano 1971.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 219

di liberarli. Drieu parla a tutti costoro; la sua interrogazione appassionata,


colma di dolore e di speranza, di generosità e di virilità, risuona estrema-
mente attuale. È un grido simile a quelli di Bernanos, di Saint-Exupéry,
di Céline, uomini provenienti da schieramenti politici diversi ma acco-
munati da una sola e fondamentale preoccupazione: rendere all’uomo una
dimensione umana. Il fascismo degli uni e l’antifascismo degli altri non ci
interessa in questa sede, non ci tocca: si tratta di una scelta contingente,
passionale, legata a un dato periodo. Ciò che interessa a noi è la concezione
della vita che ha diretto questi uomini, i quali hanno combattuto da una
parte e dall’altra della barricata 47.
Tuttavia il vero autore del giovane Cattabiani fu Georges Bernanos. Come
Drieu La Rochelle era stato “fascista”, così Bernanos era stato “antifascista”:
ma erano sufficienti queste etichette a spiegare la personalità dell’uno e
dell’altro? Il notevole saggio che dedicò nel 1965 al suo pensiero politico si
sforzava di dimostrare proprio questo: che tale pensiero non era incasellabile
né nei canoni dell’Action française, da cui pure proveniva e alle cui idee, per
alcuni aspetti, era rimasto fedele, né in quelli dell’antifascismo democratico.
Bernanos era rimasto per tutta la vita un uomo fuori degli schemi: forse perché
non era un dottrinario, ma un cristiano.
Come i suoi coetanei di sinistra, Cattabiani si sentiva assediato dalla società
dei suoi tempi e sognava un cambiamento radicale. Anche i temi spesso erano
i medesimi: il potere pervasivo dei media, il carattere inautentico della cultura
delle università, i limiti della democrazia rappresentativa, il problema della
tecnocrazia e dello svuotamento delle garanzie democratiche, l’oppressione del
capitalismo. Ma la soluzione che intravedeva a questa decadenza era diversa:
non ipotizzava uno sviluppo ulteriore (e “liberatorio”) della modernità, ma
l’inversione della sua logica.
Bernanos – scrive – chiede insomma il ritorno ai veri principi del diritto
naturale cristiano e alle tradizioni più autentiche della Francia non per
restaurare un passato ormai morto, ma per ricostruire una società giusta
sulle rovine di quella democratica-liberale. […] È una posizione chiara-
mente controrivoluzionaria, l’unica possibile per chi non voglia scivolare
47
A. Cattabiani, Prefazione a P. Drieu La Rochelle, Socialismo, Fascismo, Europa.
Scritti politici scelti e presentati da Jean Mabire, Volpe, Roma 1964, pp. 15-19; ma
anche A. Cattabiani, Presentazione di P. Vandromme, Pierre Drieu La Rochelle,
Borla, Torino 1965, pp. 7-10.
220 Roberto Pertici

nel totalitarismo di destra o di sinistra o nell’accettazione passiva della


tecnocrazia. La rivoluzione che Bernanos ci propone è una rivoluzione
per la vita, “per la gioia”, contro l’alienazione del mondo moderno. Dovrà
essere compiuta, secondo lui, da chi è rimasto “enfant”, da chi ha conser-
vato nel cuore lo spirito dell’infanzia, cioè l’autenticità dei sentimenti, la
capacità di amare disinteressatamente, di compiere un’azione “non utile”,
di compierla per fede e per convinzione. Questa rivoluzione non dovrebbe
però essere un semplice mutamento di istituzioni […] ma soprattutto una
rivoluzione spirituale. “Rispiritualizzare l’uomo” è la frase che Bernanos
ripete instancabilmente. Ridare il senso dell’eternità, del tempo, di Dio,
della vita terrena come prova. Restituire il significato profondo delle
cose, dell’amore, del lavoro, della famiglia, delle gerarchie, dell’onore, del
servizio. Solo così sarebbe possibile frenare la corsa del mondo tecnocra-
tico verso il suicidio, radunare le forze sane, dare una misura umana alla
rivoluzione industriale.
Il senso acuto, e quasi disperato della decadenza della società contemporanea
dava a Cattabiani la percezione che un qualche deciso mutamento fosse
nell’aria. Per esprimerlo ricorreva ancora a Bernanos, a una sua dichiarazione
del 1935:
Non sono democratico né repubblicano, né uomo di sinistra né uomo di
destra; ma allora – direte voi – chi sei? Sono un cristiano. Se non lo fossi
di nascita […] lo diventerei di corsa, oggi stesso. Perché? Mio Dio, per
una ragione molto semplice, alla portata di chiunque, che questo mondo
sta per saltare in aria. Nessuno può essere certo dopo l’esplosione, sem-
pre che sopravviva, di avere ancora uno stato civile, una famiglia o una
patria. Io avrò invece un nome: quello di cristiano. Perché quando il fumo
dell’esplosione si sarà diradato, noi potremo raccogliere a una a una nelle
ceneri tutte le verità, e non sarà una cosa complicata, ne sono sicuro. Con
queste ricostruiremo il mondo48.
L’esplosione sarebbe avvenuta, ma ancora una volta i suoi effetti sarebbero
stati ben diversi da quelli sperati.

“E fonderemo una casa editrice”: questa era l’altra consegna che Del
Noce aveva dato a Cattabiani e ai suoi amici. Fu così che il giovane studioso
48
A. Cattabiani, Georges Bernanos, Volpe, Roma 1965, pp. 26-27, 45-46.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 221

di Maistre si avviò al lavoro editoriale, a cui si sarebbe dedicato fino al


1979, diventando gradualmente il più importante e coerente organizzatore
di cultura nella galassia politico-religiosa a cui apparteneva. Si trattava
evidentemente di promuovere una cultura alternativa, rispetto a quella
che stava allora dilagando. Gli inizi furono necessariamente modesti: nel
1962, subito dopo la laurea, Cattabiani (assieme a Piero Femore e Piero
Capello) fondava a Torino le Edizioni dell’Albero, che avrebbe diretto fino
al 1965. Non molti i titoli memorabili: un volume di Gianni Baget Bozzo,
Il Cristianesimo nell’età postmoderna (dedicato ai “martiri cristiani del
Cristo Re”), un pamphlet del già ricordato Primo Siena contro Emmanuel
Mounier e il cattolicesimo progressista49, la prima edizione italiana nel
1964 di un libro che sarebbe diventato “di culto” in alcuni ambienti
del tradizionalismo nostrano come Rivoluzione e controrivoluzione del
brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira.
Va segnalata soprattutto la traduzione di La grande peur des bien-pensants,
il libro “scandaloso” del 1931 in cui Bernanos aveva ricostruito la vicenda di
Édouard Drumont, lo scrittore anticapitalista, antisemita e antiprogressista,
vissuto fra Ottocento e Novecento, ma narrato altresì le vicende della III
Repubblica, da Sedan alla grande guerra: una vera summa del suo pensiero
politico50. Forse per mitigare lo scandalo o trovare uno spazio sul mercato, la
prefazione era stata affidata a Carlo Bo, che passava per un cattolico aperto
e ben inserito: ma non sembra che questa malleveria sia stata sufficiente.
Queste e le successive iniziative editoriali di Cattabiani (almeno fino al 1970,
quando invece cominciò il fuoco di sbarramento) furono circondate da un
assordante silenzio: neanche il quotidiano cittadino, La Stampa ne pubblicò
una qualche segnalazione. Forse è solo un pettegolezzo malevolo, ma sembra
che Carlo Casalegno non aprisse nemmeno i pacchi che puntualmente gli
venivano inviati. Li cestinava, dicendo: “Si tratta di sottocultura clerico-
reazionaria”51.

49
P. Siena, Il profeta della Chiesa proletaria: Emmanuel Mounier, Edizioni del-
l’Albero, Torino 1965. Sulle Edizioni dell’Albero, notizie in L. Lanna e F. Rossi,
Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra, Vallecchi, Firenze
2003, pp. 465 e 467 (sotto la voce Tradizione).
50
G. Bernanos, La grande paura dei benpensanti, Edizioni dell’Albero, Torino 1965:
la Prefazione di Bo è alle pp. v-xv.
51
A. Cattabiani, Io dissidente nella Torino di Bobbio & Co., cit.
222 Roberto Pertici

11. 1963: di fronte alla società opulenta


Del Noce aveva sempre insistito – lo abbiamo visto – sulla potenza
filosofica del marxismo e sulla correlazione strettissima esistente tra essa e
la sua potenza pratica: se si accetta la logica immanentistica della filosofia
moderna, sia che si parta da posizioni illuministiche (o neo-illuministiche),
o che ci si muova all’interno del pensiero hegeliano (o neo-hegeliano), è
difficile sottrarsi al suo fascino e resistere alle sue critiche. Ma la situazione
dei primi anni Sessanta sembrava mostrare, invece, un depotenziamento del
marxismo: la granitica compattezza dell’ortodossia dei decenni precedenti
si era incrinata e soprattutto era la sua realizzazione pratica, il “socialismo
reale”, a mostrare segni di sfaldamento nella lunga crisi connessa al processo
di destalinizzazione e ora all’emergere del conflitto russo-cinese. Il marxismo
era una filosofia che voleva “farsi mondo”: il suo criterio di verità era posto
nel risultato storico e se questo cominciava ad appannarsi, era tutto il suo
impianto teorico che rischiava di vacillare. Apparivano, quindi, sempre più
numerosi, in Occidente, i marxisti e i comunisti “ragionevoli”: di fronte a loro,
era opportuno mantenere quel cleavage liberalismo (cristiano)/totalitarismo
che il filosofo torinese aveva difeso negli anni precedenti? O si poteva aprire
con loro un “dialogo” (come si cominciava a dire)? E, magari, sperare,
cristianamente, in una loro “conversione”? Questo dibattito si innestava
nello sviluppo della politica italiana: ormai l’esperienza di centro-sinistra si
era aperta e anzi, all’indomani delle elezioni del 28 aprile 1963, ci si avviava
faticosamente alla formazione del primo governo “organico” (nacque – com’è
noto – alla fine di quell’anno).
Il filosofo avvertì che la nuova situazione sfidava il suo impianto categoriale
e cercò, al solito, una risposta attraverso un approfondimento delle proprie
posizioni: con estrema schematicità, si può dire che, invece della coppia
liberalismo/totalitarismo, cominciò a usare, come criterio ermeneutico della
politica e della cultura contemporanea, quella teismo/ateismo politici52. Era un
approfondimento – s’è detto – non una svolta, perché Del Noce aveva sempre
insistito sulla compatibilità fra cattolicesimo non integralista, socialismo non
marxista e liberalismo non laicista: essi appartenevano a una comune civiltà
“cristiana”. E d’altra parte aveva da anni sottolineato il carattere essenzialmente
ateo di ogni forma di totalitarismo, del comunismo in particolare, che non
52
A. Del Noce, Teismo e ateismo politici (1962), in Id., Il problema dell’ateismo, cit.,
pp. 513-547.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 223

era eliminabile attraverso un processo di revisione interna, ma solo con un


salto logico, cioè abbandonando l’orizzonte immanentistico ed entrando
in una filosofia della trascendenza: processo che avrebbe dissolto la stessa
prospettiva comunista. Un atteggiamento cristiano doveva affrettare questo
“oltrepassamento”, non smussando gli irriducibili contrasti, ma proprio con
la forza della logica e dell’esperienza storica: l’anticomunismo, perciò, era
ancora una scelta obbligata, certamente non un anticomunismo negativo
(quello puramente repressivo o quello “bloccardo”, che punti a un blocco con
le destre in funzione anticomunista), ma dialettico (si trattava ancora della
“risposta a sfida”, di cui aveva parlato negli anni precedenti)53.
Ma la coppia teismo/ateismo politici consentiva a Del Noce anche un
ampliamento del suo discorso e l’individuazione di nuovi avversari. La
crisi del comunismo era frutto di una vittoriosa guerra di valori condotta
dall’Occidente o di altri fattori? Egli accennò per la prima volta organicamente
a questi problemi nella relazione al III Convegno di studio della DC, che si
tenne nel settembre del 1963 a San Pellegrino Terme, individuando nella
“società opulenta” la vera risposta che l’Occidente aveva dato al comunismo,
quella che lo stava mettendo in difficoltà. Ma era una risposta sufficiente?
Il filosofo ne elencava i caratteri in base a una letteratura che allora si stava
facendo, anno dopo anno, sempre più ricca e – al solito – cercando di coglierne
la filosofia di fondo:
I suoi caratteri essenziali sono questi: abolizione della miseria, e con ciò
della possibilità dell’avvento del comunismo per via rivoluzionaria; ma
coincidenza di questa abolizione con l’estensione massima dell’alienazione,
intendendosi per alienazione la disumanizzazione reciproca del rapporto
di alterità; da ognuno dei soggetti l’altro è sentito come alienus, estraneo,
separato, cioè come non unificato nella devozione a un comune valore,
e perciò come obiectum, sia poi questo “posto avanti” valutato come
strumento utile o come ostacolo: per cui a rigore, si dovrebbe dire che la
società non è più tale, perché la molteplicità non è unificata.

53
Id., [La potenza ideologica del marxismo e la possibilità del successo del comu-
nismo in Italia], in Partiti e democrazia, atti del terzo convegno nazionale di studio
della Democrazia Cristiana, S. Pellegrino Terme, 13-16 settembre 1963, Edizioni
Cinque Lune, Roma 1964, pp. 506-549: 509, 517-523, 529-533. Questa relazione è
stata ristampata in A. Del Noce, I cattolici e il progressismo, a cura di B. Casadei,
Leonardo, Milano 1994, pp. 45-91, ma qui continuo a citare dalla prima edizione.
224 Roberto Pertici

La società opulenta aveva risolto il problema della miseria, ma non quello


della vita sociale, che era più che mai alienante. Ne derivavano inquietudini
diffuse, ribellismi, insoddisfazioni che Del Noce percepiva intorno a sé e a
cui – scriveva – una “letteratura dell’alienazione” tende a dare uno sbocco
rivoluzionario, mostrando la società “come invivibile e tale da dover essere
trasformata” e quindi “svolgendo, di fatto, una funzione procomunista”.
Il comunismo – lo sappiamo – era per Del Noce essenzialmente una
“religione atea”: la società opulenta lo stava sgretolando non sul piano dei
valori che esprimeva (mostrando, cioè, che le sue aberrazioni scaturivano da
una concezione materialistica della realtà e della vita), ma in quanto religione.
Essa è, infatti, estranea a ogni atteggiamento religioso, che metta in gioco
l’esistenza per qualcosa che la trascenda: non ammette valori assoluti, ma solo
saperi strumentali54. Così piega alla sua logica relativistica e individualistica (in
senso deteriore) tutti i valori, basti pensare alla “volontà di pace”, che diventa
“disarmo morale”, cioè indifferenza alle violenze e alle tragedie del mondo,
per il rischio di veder turbato il quieto godimento della propria vita:
L’uomo della società opulenta anticomunista di un determinato Paese
vede la conquista da parte del comunismo di un altro Paese o anche le
eventuali persecuzioni con indifferenza, perché si trova ridotto alla pura
dimensione economicistica ed egoistica.
“Nella società opulenta – concludeva Del Noce – abbiamo la massima
corruzione di un concetto di per sé sano, quello di individuo”55: la sua
prospettiva non era, dunque, una società organica, che negasse l’individualismo
liberale, ma un individualismo “sano”, non ridotto a puro edonismo o egoismo,
insomma, un liberalismo cristiano.
Nel cleavage teismo/ateismo politici, la società opulenta dove si collocava?
È evidente che – per il filosofo – essa fosse da porre nel secondo corno
del dilemma, paradossalmente a fianco del comunismo. Nel passaggio dal
54
“Per la sua definizione dobbiamo riferirci al carattere di religione atea del comuni-
smo. La società opulenta combatte il comunismo nel suo aspetto di religione anziché
in quello di ateismo. Ed è l’unica società nella storia del mondo che non abbia origine
da una religione, ma dalla contrapposizione a una religione, anche se per paradosso
questa religione è quella marxista e se, in ragione del comune avversario, si avvale
del concorso di forze religiose o concede il governo di stati ai rappresentanti politici
di queste forze” (A. Del Noce, [La potenza ideologica del marxismo e la possibilità
del successo del comunismo in Italia], cit., p. 515).
55
Ivi, pp. 514-515.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 225

comunista vecchio stampo, chiuso nella sua fede, al revisionista approdato


al neopositivismo e alla tecnocrazia, Del Noce non scorgeva un progresso
effettivo. Anzi da un punto di vista cristiano, forse, era preferibile il primo:
perché “la possibilità di conversione è assai maggiore per un comunista
rivoluzionario, quando l’esperienza storica lo convinca del fallimento del suo
ideale”, mentre nel comunista occidentale ormai disilluso o nel tecnocrate
revisionista, “abbiamo semplicemente il passaggio del marxismo da fede a
strumento di potere”56.

12. 1964: la natura rivoluzionaria del fascismo


Nella relazione di S. Pellegrino, Del Noce era tornato anche sul problema
del fascismo, che aveva trattato distesamente – come si ricorderà – nel suo
articolo sull’Ordine civile del 1960. Come allora, ribadiva ora la convinzione
che si trattasse di un fenomeno “irrevocabilmente finito” (da qui la possibilità
di “passare dalla polemica al giudizio storico”) e che “fosse stato […] assai più
serio di quel che abitualmente si dice”, tanto che con esso aveva intrattenuto un
rapporto non superficiale una parte cospicua della migliore cultura italiana. Nel
saggio del 1960, nell’intento di separare il fascismo dal nazismo, il filosofo aveva
negato che fossero entrambi espressione di “una stessa matrice: l’integralismo
nazionalista”: del fascismo aveva così ridimensionato il carattere “reazionario”,
sottolineandone invece le origini e la natura rivoluzionaria. Un rivoluzionarismo
– aveva scritto – non più limitato da quei condizionamenti economico-sociali
che il socialismo marxista prevede o dal preciso ancoraggio di classe a cui
esso costringe, e quindi senza un progetto definito da realizzare: si potrebbe
dire, volontà rivoluzionaria allo stato puro. Perciò non era stato casuale il suo
incontro con l’attualismo gentiliano, in cui il Soggetto era parimenti privo di
ogni condizionamento e irresistibilmente tendente alla prassi.
A S. Pellegrino Del Noce riequilibrava la sua analisi, riconsiderando il
problema del nazionalismo. Dall’esperienza della guerra, – affermava ora
– Mussolini aveva ricavato “un’intuizione estremamente notevole”: che “al

Ivi, pp. 519. Sul dibattito fra Franco Rodano e Del Noce su questi problemi, cfr. M.
56

Mustè, Fra Del Noce e Rodano: il dibattito sulla società opulenta, in «La Cultura»,
XXVII, 1999, pp. 95-121, molto severo verso le posizioni delnociane.
226 Roberto Pertici

di sotto della realtà delle classi, c’è una realtà più profonda, ignorata dal
comunismo, la realtà delle nazioni”. Ma egli aveva affrontato questa realtà,
per lui nuova, “secondo le categorie del socialismo rivoluzionario in cui era
cresciuto”: così “l’affermazione della realtà della nazione” aveva assunto
subito un tratto agonistico, diventando cioè “quella della lotta delle nazioni”,
e non per la libertà (come accadeva nell’interventismo democratico), ma “per
la potenza”. Nel Mussolini del periodo 1914-1919, insomma, “all’ideale della
rivoluzione” si era sostituito gradualmente “quello di guerra”.
Il fascismo era dunque nato da “questa mescolanza di nazionalismo e di
socialismo”, tanto che ora Del Noce lo definiva un “nazionalismo che raggiunge
le masse”, al contrario di quello francese e anche di quello italiano che erano
rimasti fenomeni essenzialmente minoritari e aristocratici. Ne risultava
l’immagine di un movimento con “due anime”: quella “tradizionalista” (che
avrebbe portato alla Conciliazione con la Santa Sede) e quella “socialista ed
eversiva”. Da qui anche la sua instabilità ideologica, nel senso che dal fascismo
poterono nascere “viaggi” molto diversi, verso il tradizionalismo, ma anche
verso il comunismo: la sua fu, insomma, una “coscienza viaggiante” (qui Del
Noce faceva riferimento al noto libro di Zangrandi)57.
Nello stesso contesto il filosofo lamentava ancora che “l’immensa letteratura
che si ha sul fascismo” non avesse ancora maturato un vero giudizio storico:
essa aveva “un carattere esclusivamente polemico o al massimo documentario;
si salva, al più, qualche articolo”. In quel 1963, tuttavia, in Germania doveva
uscire un libro che attirò subito la sua attenzione, Der Faschismus in seiner
Epoche di Ernst Nolte58: con l’opera di questo “storico-filosofo” – scriveva
l’anno successivo – il “passaggio al giudizio storico era cominciato ad
avvenire”59.
Essa rispondeva, in effetti, a molte delle esigenze ripetutamente espresse dal
filosofo italiano: anche Nolte proponeva le grandi linee di un’interpretazione
storico-filosofica del XX secolo, anche la sua non era un’analisi strutturale

57
A. Del Noce, [La potenza ideologica del marxismo e la possibilità del successo del
comunismo in Italia], cit., pp. 511-512.
58
E. Nolte, Der Faschismus in seiner Epoche, Piper, München 1963. Il volume fu
presto tradotto in italiano col titolo I tre volti del fascismo, Sugar, Milano 1966, poi
Mondadori, Milano 1971. Nel testo semplifico brutalmente (per motivi di brevità)
le tesi di Nolte: per una più distesa esposizione, cfr. F. Perfetti, La concezione tran-
spolitica della storia nel carteggio Nolte-Del Noce, cit., pp. 725-746.
59
Id., Il problema dell’ateismo, cit., p. 147 e nota 96.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 227

del fascismo, unicamente attenta cioè ai risvolti economico-sociali o politici,


ma assegnava un ruolo centrale all’elemento culturale. Inoltre anch’egli
vedeva nel fascismo il tratto caratterizzante di un’epoca storica, che veniva
letta alla luce del suo sfondo culturale. Tuttavia Der Faschismus in seiner
Epoche gli poneva anche questioni non secondarie: il fascismo italiano vi
veniva, infatti, associato al nazionalismo francese dell’Action française e al
nazionalsocialismo tedesco come tre aspetti (certamente differenziati) di un
medesimo atteggiamento, quello che veniva chiamata la “resistenza contro
la trascendenza”, cioè contro il superamento dei limiti della natura e della
tradizione inaugurato dal liberalismo ed estremizzato dal marxismo. In parole
povere, le tre forme di fascismo intendevano rassicurare gli uomini di fronte
all’angoscia di essere liberi e senza determinazioni.
L’interpretazione di Nolte tornava così ad associare fascismo e
nazionalsocialismo e scorgeva nel fascismo uno sviluppo di enunciati dottrinari
elaborati dal movimento di Maurras. Non significava tornare a ribadirne il
carattere eminentemente “reazionario”? e non si rischiava, in questo modo,
di ridar vigore a una lettura progressista della storia novecentesca?
Una prima puntualizzazione su questi problemi venne da parte del filosofo
torinese nel 1964 nella vastissima introduzione scritta per la raccolta dei
suoi saggi marxisti in cantiere presso Il Mulino. Anche questa è storia nota:
Matteucci e gli altri amici bolognesi lo avevano invitato a comporre in un
volume alcuni dei suoi scritti sul marxismo con altri dedicati alla filosofia
del Seicento francese. Del Noce aveva resistito a questa proposta, puntando
a due volumi distinti, che, in effetti, videro la luce fra il 1964 e il 1965. Per il
primo, quello sul marxismo, l’autore promise una breve introduzione: quando
la consegnò, un anno dopo, praticamente si trattava di un altro libro (risultò
lunga 212 pagine a stampa!)60.
La parte che in essa viene dedicata al fascismo è costituita, in gran parte,
dalla rifusione di intere pagine del saggio del 1960 e di quello del 1963, nello
sforzo di dare al tutto una forma più coerente e completa. Riproponendo
il capoverso della relazione di S. Pellegrino, in cui – come abbiamo visto
– aveva definito il fascismo come “nazionalismo che raggiunge le masse” e
60
Per tutta questa vicenda, cfr. N. Matteucci, Introduzione ad A. Del Noce, Il problema
dell’ateismo, cit., pp. xv-xvi. Il saggio introduttivo, col titolo Il concetto di ateismo e
la storia della filosofia come problema, è alle pp. 9-211 dell’edizione del 1990 che qui
uso. Il volume dedicato al Seicento francese è Riforma cattolica e filosofia moderna, I,
Cartesio, Il Mulino, Bologna 1965.
228 Roberto Pertici

sottolineato come ciò lo differenziasse dal nazionalismo francese e da quello


italiano, Del Noce ora inseriva questa aggiunta, in cui prendeva le distanze
dalle tesi di Nolte:
La priorità va quindi data, nel fascismo, al momento di origine socialista
rivoluzionaria; non c’è, in altri termini, una specie di continuità ideale tra
nazionalismo e fascismo; non è l’ideologia dell’Action Française a prepa-
rare il fascismo; ma è invece il fascismo ad assorbire il nazionalismo. E
il problema storico del fascismo è quello del modo in cui la connessione
poté avvenire, senza indulgere ai discorsi facili sui “tradimenti”61.
E in nota aggiungeva:
Parlo dell’“Action française”, in relazione alla successione delle tre forme
reazionarie del ’900. Il rapporto tra “Action française” e fascismo si ripete
mutatis in quello tra fascismo e nazismo.
Quindi, fra i due momenti, quello nazionalistico reazionario e l’altro, il
socialista rivoluzionario, nel fascismo era questo a imprimere l’impronta
più profonda. Per cui non c’era una continuità fra nazionalismo (francese e
italiano) e fascismo, come non ve n’era una analoga fra fascismo italiano e
nazionalsocialismo tedesco. Del Noce, dunque, continuava a sottolineare il
“rivoluzionarismo” come essenziale al fenomeno fascista e lo separava, per
questo, dalle ideologie reazionarie della prima metà del secolo.

13. 1965: Mussolini il rivoluzionario


Secondo il suo biografo, Renzo De Felice “apparve come folgorato sulla
via di Damasco” dalla lettura del saggio delnociano del 1960 sul fascismo62.
Lo storico, allora trentunenne, si trovava in un momento particolarmente
delicato del proprio percorso intellettuale: laureatosi a Roma con Chabod, aveva
tuttavia stretto un rapporto particolarmente profondo con Delio Cantimori,
per la comune militanza politica (entrambi furono iscritti al PCI fino al 1956)
61
A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, cit., pp. 150-151: le pagine dedicate al fascismo
sono le pp. 147-158.
62
P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Le Lettere, Firenze
2001, p. 209.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 229

e per i suoi interessi per la storia del giacobinismo italiano e della giacobina
Repubblica romana. Proprio per le ricerche condotte sulla storia dell’ebraismo
a Roma nel 1798-99, gli era stato proposto dal gruppo della Rassegna mensile
di Israel di scrivere un libro sugli ebrei italiani durante il fascismo, con la
possibilità di accedere agli archivi delle Comunità e ai fondi, allora inesplorati,
degli archivi di Stato: per il futuro biografo di Mussolini si trattò di un passo
decisivo, il passaggio alla storia del Novecento. Nell’estate del 1959 si accinse
al nuovo lavoro e fu, dunque, in questo frangente che avvenne l’incontro con
l’articolo di Del Noce, che aprì orizzonti nuovi alle sue riflessioni sul fascismo:
lo dichiarava esplicitamente nella recensione che gli dedicava nel novembre
del 1960. De Felice doveva provare la stessa insoddisfazione del più anziano
filosofo per la situazione degli studi: ecco perché salutava alcune recenti
“indagini particolari” in cui “il problema era stato riproposto in termini nuovi
e – finalmente – veramente critici, interpretativi, in una parola, storici. Termini
nuovi dai quali non si potrà – crediamo – più prescindere”. Riconosceva che
“il la alla discussione era stato dato da un breve ma penetrante articolo di
Augusto Del Noce”:
Partendo da un’affermazione di Baget Bozzo sulla stessa rivista secondo
la quale è ormai necessario passare a una valutazione oggettiva, non
fascista né antifascista, del fascismo, il Del Noce, dopo aver brevemente
dimostrato l’inadeguatezza a tale fine delle correnti “internazionali” del
fascismo, ha chiaramente e convincentemente affermato la necessità di
muovere, per effettuare questa valutazione oggettiva, dall’indagine del
“momento culturale” del fascismo stesso.
De Felice trovava “veramente convincenti” la critica delnociana all’ipotesi
“rivelativa”, il suo rilievo sui rapporti fra fascismo e alta cultura, la breve
“storia parallela” che tracciava fra sviluppo dell’attualismo e quello del
rivoluzionarismo mussoliniano e altri snodi del saggio, che, tra l’altro veniva
ampiamente ripreso e citato. Solo gli imputava “alcune legnosità” e “alcune
sue troppo marcate interpretazioni” che lo portavano “a ricadere in una
visione unitaria del fascismo”, cioè non attenta alle sue componenti interne
e ai diversi momenti della sua storia63. Non sappiamo se Del Noce venne a
63
[R. De Felice], Fascismo, in «II Nuovo Osservatore», 16 novembre 1960, pp. 39-40,
ora ivi, pp. 439-441 (Appendice 6). La breve recensione non era firmata. Gli altri saggi
a che De Felice segnalava erano quello già cit. di Casucci (cfr. supra, nota 39) e quello
di V. Stella, Fascismo e cultura, in «Il Mulino», IX, 1960, vol. II, pp. 9-25.
230 Roberto Pertici

conoscenza di questa recensione, ma il suo intervento a S. Pellegrino del 1963


(con la sua riconsiderazione del ruolo del nazionalismo e con l’indicazione
delle “due anime” che convivevano e confliggevano all’interno del fascismo)
sembra venire incontro all’analisi differenziata proposta da De Felice.
Intanto, nel gennaio del 1962, lo storico aveva firmato un contratto con
l’editore Einaudi per una biografia in quattro volumi di Mussolini e si era
messo subito al lavoro: non c’è dubbio che egli ricevette nei tre anni successivi
un costante “appoggio pratico” e una più significativa assistenza morale da
parte di Cantimori, che assunse “progressivamente i contorni della memoria,
della confessione, dell’autocoscienza”64: basti pensare al celebre intervento,
fra l’autobiografico, il metodologico e lo storico, che Cantimori scrisse nella
primavera del 1962 a proposito del suo fascismo giovanile e contro (ancora
una volta) “un fascismo preso in blocco” senza il senso delle sue interne
differenziazioni65. Ma De Felice seguiva da lontano anche lo snodarsi della
riflessione di Del Noce, che si ripropose – lo abbiamo appena visto – nel 1964,
nelle pagine dell’introduzione al Problema dell’ateismo.
È probabilmente più “delnociano” di quanto talora non si sia pensato
il mutamento di titolo che il volume, ormai quasi finito, conobbe fra il
giugno del 1964 e il marzo del 1965: in precedenza l’autore aveva sempre
pensato a Mussolini il socialista, che, invece, ora diventava Mussolini il
rivoluzionario: “La biografia di Mussolini – aveva scritto Del Noce già nel
1960 e ora ripeteva ad litteram nel 1964 – è il miglior documento per lo studio
dell’idea di rivoluzione totale sganciata dal materialismo marxista e connessa
invece con le suggestioni vitalistiche del pensiero del primo novecento.
[…] Quando… l’idea rivoluzionaria, nel senso di rivoluzione totale, venga
separata dal materialismo dialettico, essa si irrazionalizza; la sua forma di
irrazionalizzazione esprimendosi come attivismo […]”66. Si trattava di una
vera e propria traccia interpretativa, che De Felice faceva propria: l’idea di
rivoluzione era il vero leit-motiv della giovinezza di Mussolini, il cui socialismo
era sempre stato scarsamente materialista e percorso, invece, da elementi
volontaristici e, quasi, “superomistici”67.

64
P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, cit., p. 385, ma cfr. più
in generale pp. 379-416.
65
D. Cantimori, Conversando di storia, Laterza, Bari 1967, pp. 132-144: si tratta della
lettera al “caro Rossi” apparsa su «Itinerarî» del giugno 1962.
66
A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, cit., pp. 151-152.
67
Sul problema del titolo, cfr. P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellet-
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 231

Questo debito De Felice volle manifestarlo nell’Introduzione approntata per


il suo volume, in cui dedicava un ampio spazio alla lettura delnociana della
parabola di Mussolini e del fascismo. Ma – ora conosciamo nei particolari
tutta questa vicenda – un intervento deciso di Cantimori gli impose di tagliare
tutta quella parte, minacciando dure critiche nella Prefazione che si apprestava
a scrivere. Sia pure a malincuore, De Felice accettò di “ridurre soprattutto la
parte ‘Del Noce’. Così, a prima vista, non mi sento molto d’accordo con la
tua negativa a oltranza al suo proposito. Ma ci dovrei pensare su con calma
e se ne dovrebbe poter parlare distesamente. Meglio, per ora, tagliare quasi
completamente il riferimento”68.
Così lo storico, dopo aver ricordato che il giovane Mussolini era stato
l’homme qui cerche (per usare il suo pseudonimo giovanile), che “aveva
trovato la sua via giorno per giorno, senza avere un’idea di dove sarebbe
arrivato” (Del Noce avrebbe parlato di “coscienza viaggiante”), negava però
che lo si potesse definire semplicemente un avventuriero (altra osservazione
delnociana), perché al suo periplo ideologico e politico una qualche logica
era pur sottesa. Si trattava di rinvenirla,
senza accettare onesti ma erronei perché ingenui moralismi, senza ricercare
coerenze astratte al disopra della realtà che, se possono essere utili a capire
l’atteggiamento di singoli uomini e gruppi, non possono essere assunti a
canoni d’interpretazione storiografica e conducono a quello che si può
chiamare, con un po’ di anacronismo, un “qualunquismo sublime”. Nella
convinzione che una biografia di Mussolini possa oggi concepirsi solo in
questa prospettiva ci ha ulteriormente confermati quanto su Mussolini e
il fascismo ha recentemente scritto il Del Noce nell’introduzione al suo
Il problema dell’ateismo, in particolare là dove egli parla del rapporto
fascismo-cultura e alla priorità che – giustamente – egli dice si debba
dare nel fascismo “al momento di origine socialista rivoluzionaria”. Che
il fascismo sia stato un fenomeno con precise caratteristiche di classe non
vi è dubbio; in esso vi furono però anche una serie di istanze moralistiche
e culturali che preesistevano a esso (soprattutto nel sindacalismo rivolu-
tuale, cit., pp. 396-397, a giudizio del quale, invece, De Felice avrebbe scelto Mussolini
il rivoluzionario per “attenuare storiograficamente un’epigrafia che poteva sembrare a
Cantimori troppo delnociana”. Ho l’impressione che si tratti proprio del contrario.
68
De Felice a Cantimori, Roma, 3 marzo 1965 (ivi, p. 397). Rinvio a questo prezioso
vol. di Simoncelli (pp. 397-412) per un’attenta e documentata narrazione di tutta questa
vicenda.
232 Roberto Pertici

zionario), che si giustapposero ad altre (di tipo soprattutto nazionalistico)


in un equilibrio estremamente instabile che fu una delle maggiori cause
di debolezza del fascismo stesso. Di queste istanze di origine sindacalista
rivoluzionaria Mussolini fu in realtà un tipico rappresentante durante tutta
la sua vita69.
Come si vede la lezione delnociana era stata bene appresa. Ci si può
chiedere come mai Cantimori abbia percepito solo in extremis la forte
presenza di Del Noce nelle impostazioni del discepolo: a parte il fatto che la
documentazione che possediamo dimostra anche altri dissensi (per esempio
nella valutazione dell’interventismo rivoluzionario, che Cantimori assimila tout
court al nazionalismo, almeno dopo l’entrata dell’Italia in guerra, al contrario
di De Felice che continua a ritenerlo una “costola” della sinistra, almeno per
tutto il corso della guerra), credo che si possa dare una risposta pensando al
tradizionale modo di lavorare dello storico reatino. Nella sua pagina il momento
interpretativo non balza in primo piano, emerge (talora faticosamente) dal fitto
intreccio delle citazioni, dalla somma dei documenti, dalla narrazione stessa
dei fatti. Da qui il bisogno, che avvertì, di prendere periodicamente fiato, cioè
di fermarsi a riflettere sulle interpretazioni complessive che potevano far da
cornice al suo lavoro: e in ciò si giovò del dialogo con filosofi (Del Noce),
sociologi (Germani) o storici dotati di notevoli capacità concettualizzanti
(Furet, Nolte, Sternhell), quale egli non era. Così nella prima versione della sua
Introduzione (il cui testo non ci è noto), si doveva essere largamente avvalso
degli schemi delnociani proprio per dare un’interpretazione complessiva
all’itinerario di Mussolini, che meticolosamente aveva narrato nel volume:
era la manifestazione di un debito reale, tanto che, sia pure in poche righe,
volle ribadirlo anche dopo il diktat di Cantimori.
Nei modi criptici che gli erano consueti, anche Cantimori ribadì il dissenso
verso lo sfondo delnociano del volume:
Già i titoli dei quattro volumi (Il rivoluzionario, Il fascista, Il duce, L’al-
leato) indicano a chi sia attento e avvertito dal punto di vista dell’uso delle
69
R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, Torino 1965, pp. xxiii-xxv, nell’In-
troduzione. L’altro autore contemporaneo ricordato (e ampiamente citato) da De Felice
è Casucci nel suo art. del 1960: ulteriore conferma che lo scambio Del Noce-Casucci
di quell’anno è alle origini della riflessione defeliciana sul fascismo. Per un’articolata
valutazione cfr. anche R. De Felice, Antologia sul fascismo. Il giudizio storico, Laterza,
Roma-Bari 1976, II edizione, pp. 243, 247-252 (si ricordi che la prima edizione risale
al 1970).
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 233

parole, la tendenza a una determinata terminologia politico-sociologica


e psicosociologica, che si è tentati di definire mediante accostamenti a
tendenze di riflessione filosofica e politica che si riconnettono in qualche
modo al gruppo di Felice Balbo: ma non siamo sicuri, e non vorremmo
opporre, a discorsi un po’ generici (almeno per noi), discorsi un po’ trop-
po rozzi (almeno secondo le concezioni modernissime). Fra l’altro, tale
linguaggio sociologico comporta una gran quantità di quelle che a noi
sembrano perifrasi e circonlocuzioni, e invece pare vengano considerate
oggi particolarmente ampie e insieme esatte, entro l’insieme di un certo
dato sistema (del quale ci sfuggono ora i presupposti, il preciso e concreto
significato e la portata reale). Lo stile complicato che ne segue offre certo
un grande vantaggio a chi debba affrontare la navigazione in una biografia
di questo tipo: esso permette, infatti, di includere nel discorso biografico
giudizi storici che, se fossero presentati nella semplice e diretta maniera
tradizionale, apparirebbero contraddittori e anche opposti, cioè del tutto
incompatibili fra di loro70.
Del Noce non era indicato esplicitamente, ma l’allusione a “tendenze
di riflessione filosofica e politica che si riconnettono in qualche modo al
gruppo di Felice Balbo” (il gruppo della sinistra cristiana in cui il filosofo
aveva a suo tempo militato, per poi staccarsene, ma continuando a discutere
con esso) era trasparente: quindi “discorsi un po’ generici”, che usano
spesso “perifrasi e circonlocuzioni”, “stile complicato”, “giudizi storici…
contraddittori”, ecc.
Che Cantimori fosse, come figura intellettuale, l’anti-Del Noce, credo
che possa dirsi tranquillamente. L’ossessione per il rigore terminologico,
per la critica testuale, per la completezza bibliografica; l’idiosincrasia per le
idee generali, per i concetti storiografici, per le categorie interpretative non
meditate, insomma quel “metodo” che gli derivava dalla “scuola storica” di
fine Ottocento (e che egli rivendicava pienamente) lo rendevano assolutamente
ostile al metodo di lavoro di Del Noce e alla “storia filosofica” dell’età
moderna, e del Novecento in particolare, da lui elaborata. Da trent’anni ormai
la sua storiografia sboccava in una specie di tautologismo storico: gli era
diventato impossibile definire avvenimenti e fenomeni, perché tale definizione
non poteva che rinviare in qualche modo a categorie, a concetti, a visioni
d’insieme, che egli invece sottoponeva a critica implacabile (mostrandone
70
Ivi, p. xviii, nella Prefazione di Cantimori.
234 Roberto Pertici

i risvolti ideologici, lo sfondo morale-religioso, gli interessi materiali che


celavano, ecc.) e, sostanzialmente, disintegrava. Per cui il fascismo era per
lui un fenomeno composito, estremamente complesso, un’enorme balena
nel cui ventre c’era di tutto, ma poi cosa fosse stato in realtà, da dove fosse
venuto, in quale storia più complessiva si inserisse aveva difficoltà a dire:
era, insomma, il fascismo…
Come Carlo Antoni vent’anni prima, anche Del Noce avrebbe potuto
ironicamente esortarlo a farsi coraggio e a discutere di idee, anche perché
proprio la sua “storia filosofica” del Novecento riusciva invece a spiegare
la logica interna dell’itinerario di Cantimori e di tanti altri come lui:
come si era potuti diventare fascisti partendo da posizioni sovversive, che
ruolo aveva avuto in questo passaggio l’attualismo gentiliano, che nesso
esisteva fra una visione immanentistica della modernità e un impegno
politico “totalitario”, in che modo si potesse essere fascisti e, nel contempo,
fieramente anti-reazionari e in polemica con nazionalisti e cattolici; perché
si poteva avvertire il comunismo sovietico come un regime concorrente del
fascismo mussoliniano, ma non a esso opposto, mentre invece si avvertiva
nel nazismo un fondo “reazionario” che si negava al regime italiano. Come
anche, da fascisti, alla fine si potesse diventare comunisti, cominciando a
ritenere che ora fosse il comunismo, non più il fascismo, lo stadio ultimo,
il compimento della “civiltà moderna”: costante restava l’avversione al
cattolicesimo, concepito come una zavorra da cui, prima o poi, l’uomo
emancipato si doveva liberare71.
Per cui paradossalmente (ma non troppo) alla coupure epistemologica
che la storiografia di De Felice ha introdotto negli studi sul fascismo (con
tutte le ricadute etico-politiche ben note), le magmatiche idee del “filosofo
tambroniano” (come lo chiamava Cantimori) hanno contribuito almeno
quanto il “corpo a corpo” ideologico-politico con lo storico romagnolo.

71
Per tutto questo rinvio a R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo:
l’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), Jaca Book, Milano 1997
[«Storia della storiografia», n. 31]. Esula dal presente studio la considerazione
dell’ulteriore sviluppo dell’analisi delnociana del fascismo, che trova nel saggio
del 1969 Appunti per una definizione storica del fascismo (in A. Del Noce,
L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1970, pp. 111-136) uno snodo
fondamentale, sbocco delle sue riflessioni degli anni Sessanta e prologo delle
successive.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 235

14. 1966-1969: una nuova avventura editoriale


Agli inizi del 1966 Alfredo Cattabiani lasciò le Edizioni dell’Albero da
lui fondate tre anni prima e assunse la direzione della Borla di Torino, una
casa editrice cattolico-progressista già piuttosto affermata. La sua presenza
le impresse una svolta e soprattutto una caratterizzazione culturale alquanto
diversa. In quegli anni gli fu di grande aiuto il padre Jean Daniélou, eminente
studioso delle interazioni fra il pensiero pagano e quello cristiano, che, di
lì a poco, sarebbe stato creato cardinale da Paolo VI. Cattabiani lo sentiva
particolarmente vicino, perché egli era convinto – sulla linea di Nicola Cusano
e di Maistre – che il cristianesimo fosse il compimento della sapienza antica e
avesse restaurato quella tradizione che appartiene a tutta l’umanità: fu allora
che Borla presentò organicamente (in precedenza si conoscevano in italiano
solo un paio di opere) Mircea Eliade, guardato con diffidenza dagli storici
delle religioni progressisti e marxisti anche per i suoi trascorsi politici (sul
significato della sua opera si erano scontrati vent’anni prima Cesare Pavese
ed Ernesto De Martino72).
Cattabiani decise di inaugurare una nuova collana e si rivolse, ovviamente,
a Del Noce, che tuttavia rispose di non poter fare da solo (dal 1963 insegnava
filosofia moderna e contemporanea a Trieste, prima come incaricato, poi
come ordinario): avrebbe accettato solo se fosse stato affiancato da un altro
“torinese eterodosso” come Elémire Zolla73. Nacquero così i “Documenti di
cultura moderna”, che, sotto un titolo anodino, riunì autori “tradizionali” delle
più diverse tendenze, da Étienne Gilson74 a Jean Servier, da Frithjof Schuon
72
Mi riferisco alle polemiche interne alla casa editrice Einaudi sulla Collezione di
studi religiosi, etnologici e psicologici (la celebre “collana viola”) e su Eliade: le notizie
essenziali sono in G. Turi, Casa Einaudi. Libri uomini idee oltre il fascismo, Il Mulino,
Bologna 1990, pp. 232-253.
73
In questo nostro “percorso”, la figura di Zolla (come quella della sua compagna Cri-
stina Campo) resta inevitabilmente marginale, ma in altri itinerari essa sarebbe centrale:
si ricordi almeno, tuttavia, che la sua risposta al Sessantotto fu l’importante E. Zolla,
Che cos’è la tradizione, Bompiani, Milano 1971.
74
Gilson si era incontrato a Venezia nel settembre del 1964 con Del Noce: entrambi
partecipavano a un incontro della Fondazione Cini. Aveva scoperto di avere in comune
con lui alcune idee di fondo sulla storia della filosofia moderna: “Fatto straordinario,
– scriveva il 21 settembre 1964 ad Armand Maurer – ho trovato che a Venezia il pro-
fessor Del Noce era giunto alle mie stesse conclusioni: c’è una ‘filosofia della Savoia’,
con Torino al centro e che si estende fino a Milano, una linea italo-francese di filosofi
cristiani generati sulla scia di Malebranche” (L. K. Shook, Étienne Gilson, introduzione
di I. Biffi, Jaca Book, Milano 1991, p. 445). Si trattava della linea dell’ontologismo che
236 Roberto Pertici

a Marcel de Corte, da Titus Burckhardt al grande storico e filosofo dell’arte


tedesco Hans Sedlmayr: quasi tutti autori allora tenuti ai margini del mercato
editoriale, ma destinati spesso a diventare celebri dopo la caduta dei muri
ideologici. Di particolare rilievo fu il ricupero di Simone Weil, che in Italia
era stata presentata dopo la guerra (nei libri più “militanti”) dalle edizioni di
Comunità, ma ora veniva riproposta da Cattabiani come scrittrice religiosa:
nel 1967 Borla pubblicò La Grecia e le intuizioni precristiane nella traduzione
di Cristina Campo75, l’anno seguente i Pensées sans ordre concernant l’amour
de Dieu, nella traduzione dello stesso Cattabiani, preceduta da un’impegnativa
introduzione di Del Noce, per il quale la Weil sarebbe diventata un’autrice di
riferimento per il resto della vita76.
Nella stessa collana usciva anche quella che può dirsi la risposta più
significativa che lo staff della Borla fornì al Sessantotto, alla ripresa su larga
scala del mito rivoluzionario: l’edizione italiana della Nuova scienza politica
di Eric Voegelin, un classico della cultura politica del Novecento, comparso in
America nel 1951, ma che – anche dopo questa traduzione – doveva attendere
ancora diversi decenni per imporsi all’attenzione del “pubblico colto” di casa
nostra. Anche questo volume era introdotto da un saggio di Del Noce, in cui
il filosofo cercava di coniugare una lettura critica del testo con un’analisi dei
fenomeni di quell’anno turbinoso77.
La filosofia complessiva dell’attività editoriale di Cattabiani, la logica
profonda delle sue scelte è esposta in un suo singolare intervento del 1968,
il saggio introduttivo a un volume di Antonio Rosmini, Frammenti di una
storia dell’empietà78: in quell’annus mirabilis, l’editore torinese riproponeva,

arrivava fino a Rosmini.


75
S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, trad. di M. Harwell Pieracci e C.
Campo, Borla, Torino 1967 («Documenti di cultura moderna», 2) La Campo lavorava a
questa traduzione già nel 1962 (M. Pieracci Harwell, Cristina Campo e Simone Weil, in
«Humanitas», LVI, 2001, pp. 381-412, 405-406).
76
S. Weil, L’amore di Dio, trad. di G. Bisacca e di A. Cattabiani, saggio introduttivo
di A. Del Noce su Simone Weil, interprete del mondo di oggi, Borla, Torino 1968 («Do-
cumenti di cultura moderna», 9).
77
A. Del Noce, Eric Voegelin e la critica dell’idea di modernità, in E. Voegelin, La
nuova scienza politica, Borla, Torino 1968, pp. 9-34 («Documenti di cultura moderna»,
10). Il libro ha avuto una seconda edizione nel 1999, da cui cito.
78
A. Cattabiani, Il sansimonismo, sistema culturale della civiltà tecnologica, saggio
introduttivo ad A. Rosmini, Frammenti di una storia dell’empietà, a cura di A. Catta-
biani, Borla, Torino 1968, pp. 9-45 («Documenti di cultura moderna», 11). Il volume
comprendeva due discorsi rosminiani, uno del 1829 sul pensiero religioso di Benjamin
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 237

dunque, la figura del filosofo roveretano, così decisivo nella visione di Del
Noce, e molto “delnociana” è, in effetti, tutta quella sua introduzione. La
società tecnologica, che ormai si è affermata in Occidente, ma insidia anche
le società di “socialismo reale”, è una forma di “totalitarismo raffinato”: di
questo Cattabiani è convinto, anche se precisa che esso “è diverso dai precedenti
perché si impone non più con la violenza diretta, con mezzi esplicitamente
coercitivi, ma con una violenza psicologica, con la censura ideologica attuata
imponendo sul mercato una certa produzione editoriale, determinati spettacoli,
mostrando che al di fuori di certi modelli di comportamento di massa non vi
può essere che l’isolamento psicologico, la condanna morale degli altri”.
Di tale modello di società i veri profeti sono stati i sansimoniani dei
primi decenni dell’Ottocento, che, per la prima volta, hanno fissato una serie
di assiomi, poi puntualmente realizzatisi nel secolo successivo: il primato
dell’“azione” sulla “contemplazione”, di un sapere strumentale su qualsiasi
altro che affermi l’esistenza di una verità oggettiva trascendente; il carattere
convenzionale della conoscenza e la sua finalizzazione al benessere fisico e
psicologico degli individui; la convinzione che unico collante della società
sia appunto la ricerca del benessere individuale; un sostanziale relativismo
per cui si soggettivizza ogni conoscenza e si riduce anche la religione a un
“fenomeno che si svolge da se stesso nell’uomo” (sono parole di Rosmini);
il “perfettismo sociale”, in quanto l’uomo è convinto di poter fondare la
società perfetta su questa terra; lo scientismo, che non considera lo sviluppo
tecnologico “un bene da perseguirsi, ma sempre subordinato al bene comune”,
piuttosto “lo eleva a scopo primario dell’umanità in un sogno faustiano, che ha
avuto in Francis Bacon il suo primo rappresentante”79; il dogma secondo cui

Constant, l’altro del 1840 sul sansimonismo.


79
Irresistibile è il brano di Bacone, in cui egli indica quale deve essere lo scopo della
nuova filosofia “strumentale”. Cattabiani lo ricavava (ivi, p. 20) da J. de Maistre,
Examen de la philosophie de Bacon, vol. I, Bruxelles 1838, pp. 205-206: “Far vivere
un uomo tre o quattro secoli; ricondurre un ottuagenario all’età di quaranta o cin-
quant’anni; fare in modo che un uomo abbia vent’anni per un periodo di sessant’anni;
guarire l’apoplessia, la gotta, la paralisi, in una parola tutte le malattie considerate
incurabili; inventare purganti che abbiano il gusto della pesca o dell’arancia; fare un
uomo capace di portare un peso di trentasei uomini; fare che si possa attanagliarlo
o frantumargli le ossa senza che perda il controllo di se stesso; ingrassare un uomo
magro, dimagrire un grasso, o cambiare i suoi lineamenti; cambiare un gigante in
un uomo, e viceversa; oppure anche, che è la stessa cosa, uno sciocco in un uomo di
spirito; cambiare del fango in brodo di galline, e un rospo in un usignolo; creare una
238 Roberto Pertici

“l’unica realtà conoscibile con la ragione umana sarebbe quella quantificabile


(riduzione della filosofia a ‘fisica’, per usare il linguaggio dell’epoca)”; il mito
tecnocratico, per il quale “la nuova autorità spirituale non deve più essere
detenuta dalla vecchia Chiesa cristiana, come istituzione, ma dalla ‘nuova
chiesa’ degli scienziati che possono ‘predire il più gran numero di cose’” (sono
ancora parole di Rosmini); il disfrenamento della sessualità, dal momento che
un surrogato della libertà l’uomo del benessere lo trova nella reciprocità del
processo erotico: “la voluptas diventa in qualche modo il surrogato degradato
della contemplazione” (Del Noce)80.
Cattabiani negava che il suo fosse un reazionarismo romantico privo
di qualsiasi prospettiva storica: egli non rifiutava il progresso tecnico, ma
l’involucro ideologico che l’accompagnava. Era necessario – a suo modo di
vedere – condurre una battaglia culturale (e a questo doveva servire anche la
produzione editoriale) per ribadire il “primato della contemplazione”, cioè
“dell’immutabile sul transeunte”: quel principio metafisico essenziale a ogni
religione (il suo tema della tradizione universale!), secondo cui “tutto ciò che
è partecipa necessariamente a principi universali contenuti nella permanente
attualità dell’intelletto divino”81.
Ma la battaglia era difficile: la visione strumentalistica e sociologistica della
vita stava diventando egemonica e corrodeva, ormai, evidentemente anche
il pensiero marxista e il mondo comunista, in Occidente come nell’impero
sovietico. E questo perché nella corsa verso l’immanenza, il marxismo era
logicamente superato dallo “strumentalismo” neopositivistico: nel primo
c’è ancora un fondo religioso, un elemento ascetico, un ideale assoluto a cui
sacrificare l’esistenza individuale; nel secondo c’è solo la ricerca del benessere
in un orizzonte sostanzialmente scettico82.
Allo stesso attacco era sottoposto anche il pensiero cattolico. Nell’analisi
di questo neo-modernismo, Cattabiani riprendeva le intuizioni rosminiane
presenti nel discorso su Constant: stava emergendo un nuovo modo di
specie di animali, trapiantare la specie dei lupi in quella dei montoni; inventare nuovi
strumenti di morte e nuovi veleni; trasportare il proprio corpo o quello di un altro con
la sola forza dell’immaginazione; far maturare delle nespole in ventiquattr’ore; trarre
da un tino in fermentazione un vino perfettamente chiaro; far putrefare un elefante
in dieci minuti; produrre una bella messe di frumento nel mese di marzo...”.
80
A. Cattabiani, Il sansimonismo, sistema culturale della civiltà tecnologica, cit., pp.
13-23.
81
Ivi, pp. 23-24.
82
Ivi, pp. 26-28.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 239

concepire la religione in chiave puramente umana, senza più alcun riferimento


a una Rivelazione che trascenda l’individuo, ma basata su un indeterminato
sentimento religioso comune a tutti gli uomini; tale sentimento, non la ragione,
è l’unica via per trovare Iddio; esso è calato nella storia, per cui le forme in
cui si esprime mutano continuamente e non possono adagiarsi in credenze
e istituzioni tradizionali; nessuna Chiesa, perciò, può essere fonte di verità.
Svalutazione della ragione e agnosticismo, umanizzazione della religione,
evoluzionismo religioso: questi erano i “simboli” della condizione religiosa
del tardo Novecento, in qualche modo presentiti da Rosmini più di un secolo
prima. Cattabiani leggeva con queste coordinate alcune delle tendenze allora
più dirompenti della riflessione teologica, la teologia della secolarizzazione,
quella della morte di Dio, l’evoluzionismo cristiano di Teilhard de Chardin,
ma soprattutto il “progressismo” generico, non legato a una precisa opzione
teologica, ma appunto per questo ancora più pervasivo:
Mario Gozzini l’ha riassunto perfettamente quando, a proposito del
dialogo con il marxismo, ha scritto parafrasando Croce: “Non possiamo
non dirci marxisti”. Il progressista, ripetendo le affermazioni dei teologi
secolarizzatori e di Teilhard de Chardin, sostiene che il cattolicesimo deve
liberarsi dalla sovrastruttura culturale della “metafisica greca e medievale”
e ritornare al Dio “biblico”. Questa riforma è fondamentale perché, mentre
il Dio “greco” sarebbe un Dio dell’ordine e conservatore, quello biblico
sarebbe invece principio di evoluzione e di progresso. In questa prospettiva
il “nuovo cristiano” capisce che è suo dovere collaborare alla crescita e alla
liberazione del mondo, di cui il marxismo sarebbe la punta più avanzata.
È pure evidente che questa collaborazione comporta una totale revisione
dei dogmi cattolici, troppo legati all’universo fissista greco, e in primo
luogo di quello del peccato originale. Grazie a Teilhard de Chardin e ad
Harvey Cox oggi il peccato originale deve essere inteso semplicemente
come “il non fare quel che dovrebbe essere fatto”. Naturalmente, come
ha scritto Roger Garaudy, che è uno dei rappresentanti più “aperti” di
quel marxismo in dialogo con i cattolici, “questo fare consiste dapprima
nell’applicare la forza della fede alla trasformazione reale del mondo per
realizzare pienamente l’uomo, e poi nel non dimenticare mai di ordinare
questo rinnovamento della vita terrestre a una finalità più alta. In questa
prospettiva la fede non è un oppio, ma fermento della creazione continua
del mondo grazie all’uomo e apertura della storia umana verso un orizzonte
240 Roberto Pertici

senza fine”. […]. A questo punto le divisioni ideologiche sono virtualmente


superate: la fede cristiana riguarderebbe puramente un atteggiamento
interiore, che il marxista può tollerare tranquillamente; il cristiano a sua
volta assumerebbe il marxismo, “demitizzato” dall’aspetto ateistico, come
strumento di azione nella storia e nella società83.
Questa non era la prospettiva di Urs von Balthasar, di cui Cattabiani
citava il recente (e straordinario) Cordula; non quella di Gilson (proprio Borla
aveva tradotto i suoi saggi contro Teilhard); non, infine, quella di Paolo VI. Il
saggista cattolico citava lungamente alcuni decisivi interventi paolini dell’estate
1968 (l’estate dell’Humanae vitae!), nei quali il pontefice aveva criticato il
“fenomeno della religione antropocentrica” e l’orizzontalismo religioso,
l’approccio “filantropico e sociale” ai problemi religiosi e la “prevalenza data
all’interesse sociologico su quello teologico”84.
Un altro doveva essere – a giudizio di Cattabiani – il compito del cristiano:
certamente, “di abbandonare […] quelle incrostazioni che possono avere
applicato imperfettamente il messaggio evangelico; di rimeditare sul dato
rivelato; di cercare di eliminare quei mali sociali che sono tipici del nostro
tempo sulla base della dottrina sociale della Chiesa”.
Ma soprattutto ed essenzialmente – aggiungeva – deve rammentarsi che
il suo dovere è di orientare ogni atto dell’esistenza verso l’Essere sus-
sistente e di essere consapevole dell’opposizione irriducibile fra la sua
concezione della vita e quella della società in cui vive, società avviata
verso una struttura (forse ancora correggibile) integralmente areligiosa,
oltre che acristiana. Se così non fosse, il sale cristiano diventerebbe scipito
e si trasformerebbe, per usare un’immagine, nel fiore, presto appassito, di
una civiltà planetaria più illiberale e totalitaria del più dispotico regime
del passato, come ebbe a scrivere Georges Bernanos85.
In questa “opposizione” era la cifra della sua attività di editore e di
organizzatore di cultura e libri di “opposizione” allo Zeitgeist dilagante furono
quelli pubblicati dalle case editrici che diresse.

83
Ivi, pp. 40-41.
84
Ivi, pp. 43-44: si trattava delle esortazioni nelle udienze generali del 10 e del 24
luglio 1968.
85
Ivi, pp. 44-45.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 241

15. 1968: la filosofia dei giovani


Uno dei fili conduttori della riflessione di Del Noce e dei suoi amici
durante tutti gli anni Sessanta è – lo abbiamo ripetuto anche ora – la critica
della società opulenta o del benessere o tecnologica (per loro si trattava,
sostanzialmente, di sinonimi):
All’indomani della guerra – scriveva nel 1968 – la società borghese si
trovava a dover respingere due avversari: uno era il comunismo, ma non
meno temibile era il pericolo di un risveglio religioso. Si deve dire che
con l’invenzione della società tecnologica si è mostrata adeguata alla so-
luzione del problema, respingendo insieme il comunismo in nome della
democrazia e il pensiero religioso in nome della modernità, e costruendo
un’unità illuministica del pensiero laico tra liberalismo e socialismo e
un’altra parallela nella forma di modernismo religioso. È riuscita così a
costruire una società che regge sull’equilibrio delle contraddizioni86.
Era sua ferma convinzione – anche questo lo abbiamo verificato – che
il marxismo fosse stato sostanzialmente svuotato, corroso dalla realtà della
società del benessere: essa ne aveva accettato tutte le negazioni nei riguardi
del pensiero contemplativo, della religione e della metafisica, rifiutandone
tuttavia gli aspetti rivoluzionario-messianici, quindi quel che di religioso
restava nell’idea rivoluzionaria. La società tecnologica segnava dunque il
trionfo dello “spirito borghese” allo stato puro, che ormai aveva trionfato dei
suoi due avversari, la religione trascendente e il pensiero rivoluzionario.
È evidente come, su queste basi, l’esplosione della contestazione giovanile
attirasse l’attenzione di Del Noce (“quest’anno 1968 – scrisse – fu il più ricco
di filosofia implicita dal 1945 a oggi”87) e non lo trovasse chiuso in un rifiuto
pregiudiziale. Avvertiva che essa non era un “episodio da carnevale”, ma
espressione di un “genuino, anche se confuso, disagio morale” che andava in
qualche modo compreso88. La gioventù, contestando i risultati morali degli
ultimi vent’anni e disprezzando gli intellettuali della generazione ormai matura,
criticava la società del benessere e i suoi caratteri: lo scientismo dominante,
la mercificazione del sapere, una scuola asservita al potere economico, la
86
A. Del Noce, Appunti per una filosofia dei giovani (1968), in Id., L’epoca della se-
colarizzazione, cit., pp. 23-39, 15-16.
87
Id., Contestazione e valori (1968), ivi, pp. 11-20, 13, ma anche pp. 14-15, per le osser-
vazioni sulla società tecnologica.
88
Id., Appunti per una filosofia dei giovani, cit., p. 39.
242 Roberto Pertici

malafede della maggior parte degli intellettuali, il nuovo totalitarismo soft


che dominava le coscienze, la dissacrazione di tutti i valori, ecc.
Ma con quali strumenti culturali si era sviluppata questa “contestazione”?
Questo era il vero problema: Del Noce era convinto che l’unico modo per
oltrepassare veramente la società del benessere fosse quello della “restaurazione
della dimensione religiosa e dell’autorità morale dei valori”89. Non – si badi
bene – una “svolta reazionaria”, ma una “riforma” o un “risorgimento”, cioè
un approfondimento della tradizione che la rendesse capace di dare una
risposta ai tempi nuovi90. Ma la gioventù sessantottina era cresciuta in un
ventennio in cui la cultura che avrebbe potuto fornire queste basi era stata
completamente emarginata e aveva trionfato, invece, un’interpretazione neo-
illuministica della storia. Ne conosciamo le ragioni, perché il filosofo le aveva
più volte ribadite e tornava a ripeterle ora: il fattore che aveva determinato
quella svolta era stato “un fatto, la seconda guerra mondiale, come epilogo
tragico dei fascismi”.
L’interpretazione del fascismo, inteso come movimento “reazionario”,
porta a una riaffermazione dell’impostazione illuminista, come l’unica che
possa difendere l’uomo dal “totalitarismo”. La più semplice osservazione
mostra, infatti, come, in generale, il moralista dei nostri giorni pensi le sue
categorie avendo sempre sottocchio quale modello del male, il “fascismo”:
un fascismo elevato a essenza generale sotto cui egli sussume tutti gli
atteggiamenti cosiddetti reazionari.
I fascismi novecenteschi sarebbero nati dalla paura del “nuovo”, della
“libertà”, del “rischio”, della “responsabilità” e avrebbero le loro radici in
culture e atteggiamenti mentali premoderni, caratterizzati da un “attaccamento
romantico al passato, da un tradizionalismo che fa scambiare come eterne e
sacre delle strutture e delle norme che hanno soltanto un significato storico”.
La lotta contro il fascismo aveva quindi indotto all’abbandono sistematico
di tutti questi atteggiamenti: “Così – concludeva Del Noce – il progressista
ritrova a partire dall’antifascismo l’illuminismo. Dunque, unico peccato
89
Ivi, p. 36.
90
Nello stesso anno 1968, Del Noce approfondiva proprio questo concetto in Id.,
L’idea di Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in «Giornale
critico della filosofia italiana», XLVII, 1968, pp. 163-215, poi in Id., Giovanni Gentile.
Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Il Mulino, Bologna
1990, pp. 123-194.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 243

dell’uomo d’oggi: guardarsi indietro. O, secondo frasi correnti, contravvenire


al senso della storia in movimento, alla continua inventività di nuove forme,
all’umanizzazione progressiva della natura”91.
Una cultura di questo tipo poteva dare una sola risposta al disagio giovanile,
quella dell’andare ancora più avanti, di essere ancora più radicale nella lotta
contro il passato, insomma di percorrere con maggior decisione la via della
rivoluzione: essa non poteva che “ripercuotersi nei giovani se non nello
stato d’animo di un’attesa millenaristica […] dell’assolutamente nuovo, e nel
conseguente atteggiamento distruttivo rispetto a ogni tradizione”92. Da qui la
deriva estremistica che doveva emergere chiaramente durante il Sessantotto e
che si era espressa nel giovanilismo, nell’antintellettualismo come avversione
alla cultura libresca, nella violenza diffusa, nel mito del nuovo a ogni costo.
Era dunque prepotentemente riemerso lo spirito rivoluzionario93: ma per
fare che cosa?
Due ne erano i maestri, Mao e Marcuse. Del pensiero del primo si sapeva poco
e sembrava non separabile dalla realtà cinese. La critica di Marcuse alla società
tecnologica era, invece, rigorosa e paradossalmente sembrava la conferma
delle previsioni degli scrittori tradizionalisti e “reazionari” come Guénon:
ma egli restava all’interno di una filosofia post-hegeliana e post-marxista e
non poteva neanche lontanamente accettare la loro logica. Poiché, nella sua
visione, anche la classe antagonistica (quella operaia) era ormai integrata nel
sistema, l’unico modo per sfuggire all’assedio della società tecnologica era
quello della liberazione degli istinti, insomma, di una rivoluzione sessuale,
91
A. Del Noce, Eric Voegelin, cit., pp. 8-9; ma anche nei già cit. Contestazione
e valori, p. 12 e Appunti per una filosofia dei giovani, cit., p. 27 e 35. Sappiamo
– né giova qui ripeterlo – qual era da anni la risposta di Del Noce a queste analisi:
che il fascismo ha in sé un’anima “rivoluzionaria” e, quindi, chi vuol fare i conti
con esso, deve farli in realtà con l’idea di rivoluzione; e siccome tale idea proviene
dall’immanentizzazione del concetto cristiano di salvezza, il fascismo è figlio del-
l’immanentismo: il problema che pone è, in ultima istanza, quello della corsa verso
l’ateismo della cultura moderna.
92
Ivi, p. 35.
93
Sulla sua genesi storico-filosofica, Del Noce si fermava nella già cit. introduzione a
E. Voegelin, La nuova scienza politica, di cui sostanzialmente accettava (con qualche
correzione) le analisi: Voegelin – com’è noto – ricollegava lo spirito rivoluzionario
agli atteggiamenti escatologici del primo cristianesimo, al rifiuto del mondo proprio
dello gnosticismo e alla profezia gioachimita, per cui la storia sarebbe sboccata,
attraverso diversi passaggi, nel Regno dello Spirito. Insomma, il rivoluzionarismo
contemporaneo nascerebbe dall’immanentizzazione dell’eschaton cristiano.
244 Roberto Pertici

come aveva profetizzato Wilhelm Reich94. Se la rivoluzione prossima ventura


era tutta qui, la società del benessere poteva dormire sonni tranquilli: era
riuscita a svuotare anche questa prospettiva rivoluzionaria. Così una rivolta
che – per alcuni aspetti – si richiamava a valori “antimoderni”, rischiava
concretamente di accelerare la modernizzazione della società; essa che si
dichiarava “antiborghese”, seguendo questa logica, avrebbe contribuito al
trionfo definitivo dello “spirito borghese” nei costumi e nelle mentalità.
Quale sarebbe stato il futuro “politico” del movimento? Del Noce
prevedeva che i giovani, una volta percepito il vicolo cieco in cui l’idea di
“rivoluzione totale” li aveva cacciati, o sarebbero tornati in un privato vissuto
in modo alternativo (“cercare una forma di evasione dal reale, praticamente
confondendosi con le forze beat e hippy”) o si sarebbero dati alla politica
attiva, alleandosi “con forme già esistenti nel sistema che combatte, magari
presentandosi in posizione di avanguardia e di stimolo, e in realtà in funzione
di strumento”: insomma inserendosi nei partiti e nei gruppi dell’estrema sinistra
marxista95. Il filosofo, che pure in diversi passi delle sue analisi sottolinea la
violenza “rivoluzionaria” presente in molti ambienti della “contestazione”,
non poteva allora prevedere una terza via: quella dell’irrigidimento dell’idea
rivoluzionaria e del passaggio, in suo nome, alla lotta armata.
Dunque, Del Noce prevedeva il fallimento a breve scadenza della
contestazione, in quanto essa “accetta supinamente allo stato di poltiglia
frammentaria quei principi ideali che sono all’inizio del processo che ha
portato al sistema attuale; quel sistema che vorrebbe contestare”96: nel lungo
periodo, passata la sbornia ideologica e i suoi postumi, sarebbe entrato in
crisi il principio stesso che era alle sue spalle, l’idea di rivoluzione, di cui gli
avvenimenti si sarebbero incaricati di segnare la “catastrofe”. Ciò avrebbe
implicato – sosteneva – l’affievolirsi di una delle idee portanti della modernità
e anche nuove possibilità per il pensiero cristiano e, più in generale, per quello
anti-rivoluzionario.
Il filosofo torinese amava rinvenire le logiche profonde dei mutamenti
storici, ma non credeva al “senso della storia”, né in senso progressista, né in
senso reazionario97. Ammetteva quindi la possibilità di “ricominciamenti”:
94
Su Marcuse, cfr. A. del Noce, Contestazione e valori, cit., pp. 18-19 e Appunti per
una filosofia dei giovani, cit., pp. 31-33.
95
Ivi, pp. 19 e 37-38.
96
Ivi, p. 31.
97
Ivi, pp. 8-9, 10, 17-18, 26-27. A suo giudizio, il pensiero reazionario cattolico non aveva
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 245

dal libro di Voegelin, che presentava al pubblico italiano proprio nel 1968,
traeva “l’ammonimento a risalire la china, e l’avvertimento della possibilità
di farlo”:
Ma le chine non dono facili da risalire, e ciò non permette troppo ottimi-
smo. Se l’essenza ideale del nuovo gnosticismo si è ormai completamente
esplicata, infinite sono le abitudini teoriche e storiche che ha introdotto, e
che determinano, senza consapevolezza della loro origine, le valutazioni
correnti: il suo compimento ideale ha coinciso con una forza di carica
pratica, che è lontanissima dall’essersi esaurita98.
Rinascita dell’idea di permanenza dei valori, crisi di quella di rivoluzione,
ma persistenza quasi inconsapevole di una vastissima gamma di abitudini
teoriche e storiche, che da essa sono scaturite e che continuano a determinare
(magari inconsapevolmente) le valutazioni correnti: come si vede, Del Noce
coglieva alcune tendenze che si sarebbero affermate nei decenni successivi.

16. 1970: da un decennio all’altro


Alla fine del 1969, la casa editrice Borla cambiò gestione e Cattabiani
preferì lasciare il suo posto. Dopo una breve trasferta a Roma, dove sperava
(inutilmente) di trovare un lavoro alla radio, accettò l’offerta dell’editore
Edilio Rusconi di dirigere la neonata Rusconi Libri. Così si trasferì a Milano,
dove sarebbe vissuto per tutti gli anni Settanta: finalmente aveva i mezzi per
avviare un’impresa editoriale di ragguardevoli dimensioni. Con lui quella
fatto altro che assumere l’autorappresentazione che la modernità aveva data di se stessa
(il famoso stemma Riforma-Illuminismo-rivoluzione francese-socialismo-comunismo),
limitandosi a rovesciarne il segno, da positivo in negativo. Così non era stato difficile
vedere – da Lamennais in poi – dei cattolici passare dall’uno all’altro, da integralisti
diventare modernisti. La posizione di Del Noce rinviava a qualcosa d’altro: riprendeva
la posizione agostiniana per cui “le due città, la divina e la terrestre, sono compresenti e
in lotta sino alla fine dei tempi: saranno distinte soltanto col giudizio finale”, e la storia
non è il luogo dove possa avvenire la vittoria definitiva di quella divina. Uno dei pochi
pensatori cattolici degli ultimi secoli che ne avevano tenuto conto era appunto Rosmini, nel
suo rifiuto del reazionarismo, ma anche nella critica del “perfettismo” (Id., Eric Voegelin,
cit., pp. 27-28). Come si vede il pensatore di Rovereto continuava a intrigare il piccolo
gruppo di cattolici non progressisti che si ritrovava attorno alla casa editrice Borla.
98
Ivi, p. 28.
246 Roberto Pertici

casa editrice divenne il simbolo di una cultura anticonformista ed estranea


alle tendenze dominanti: s’impose sul mercato con opere letterarie di qualità,
come Il Signore degli anelli di Tolkien, Difesa della luna di Guido Ceronetti,
che segnò il debutto dello scrittore, Il flauto e il tappeto di Cristina Campo e
Il quinto evangelio di Mario Pomilio.
Ma fu soprattutto nelle collane saggistiche che la Rusconi di Cattabiani,
propose una “cultura di opposizione”, secondo il programma del suo direttore.
Basta fermarsi un attimo sulla collana economica Problemi attuali per
comprendere il valore di questo progetto: vengono riproposti gli “autori”
che Cattabiani si portava dietro fin dagli inizi della sua attività come
Bernanos, Daniélou, Eliade, Sedlmayr, Voegelin, Noventa e Simone Weil,
oltre ovviamente all’amico Del Noce; si fa spazio a teologi critici verso la
teologia post conciliare Urs von Balthasar e Cornelio Fabro, a uomini dal
passato religioso complicato come Carlo Falconi, filosofi che criticano gli
andazzi culturali dominanti come Ugo Spirito, Vittorio Mathieu, Emanuele
Severino, Gianfranco Morra e Sergio Cotta, critici dell’evoluzionismo come
il biologo Giuseppe Sermonti, giovani e combattivi autori tradizionalisti come
Rodolfo Quadrelli e Quirino Principe. Si riscopre (assai prima del ricupero
che poi ne avrebbe fatto Furet) l’opera storica di Augustin Cochin. Giuseppe
Prezzolini iniziava l’ultima sua intensa attività come scrittore pubblicando
(ancora in Problemi attuali) il suo Manifesto dei conservatori e, in un’altra
collana, un’importante antologia della Voce a cura di Emilio Gentile e Vanni
Scheiwiller. Nella collana Tradizione, Cattabiani riuscì poi a riproporre, in
accurate edizioni, alcuni classici del pensiero tradizionale, da Joseph de
Maistre a Pavel Florenskji, a José Donoso Cortes.
Una storia tutta da scrivere è quella della ricezione di questa importante
produzione e del vero e proprio fuoco di sbarramento di cui fu oggetto. Un
esempio fra i tanti è la noterella scritta per un’inchiesta dell’Espresso nel
settembre 1973 da Pier Paolo Pasolini, un autore che (almeno per alcuni
aspetti) era forse meno lontano da alcuni temi della Rusconi di quanto non
pensasse lui stesso. Dopo aver precisato che non intendeva condannare
nessun autore che accettasse di lavorare per quella casa editrice (“Non
solo perché penso, per esempio, che lavorare per la Televisione sia molto
peggio, ma perché, per partito preso, non intendo condannare nessuno per
ragioni formali. Lo facciano i giovani, il cui oltranzismo è semplicistico e
biologicamente crudele”), dava tuttavia dell’“operazione Rusconi” un giudizio
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 247

assai negativo, forse ancora più insidioso di quanti rinnovavano il consueto


richiamo all’antifascismo, ecc. Nonostante tutte le sue pose antimoderne,
infatti, essa altro non gli sembrava che una ruota dell’industria culturale, anzi
lo era in modo più cinico di altre, perché aveva deciso di far soldi occupando
una posizione di apparente contestazione del sistema e atteggiandosi a
casa editrice di destra: “Io penso che essa sia molto avanzata (dal punto di
vista dell’evoluzione capitalistica), e già tutta dentro il più totale cinismo
noetico (presupponente una filosofia neo-edonistica, che sostituisca tutto:
Chiesa, nazione, famiglia, morale); e che tuttavia combatta ancora come la
situazione oggettiva vuole (per l’Italia e per il Cile) delle battaglie ritardate
(che presuppongono forme di fascismo tradizionale)”. Stando così le cose,
“nella lotta contro Rusconi, Monti e la CIA – alleati nella fondazione di una
grande Destra culturale – sfoderare l’antifascismo classico”, gli sembrava
“anacronistico, misero e anche un po’ ridicolo”. Era giunto il momento
– concludeva – che le Sinistre tradizionali italiane e la classe operaia si
ponessero con urgenza “il problema di riuscire là dove il gauchismo è fallito:
e combattano il nemico là dove si trova e non nelle posizioni che esso ha
abbandonato avanzando per la sua strada” 99. Il nemico, cioè, era ormai oltre
il cleavage fascismo/antifascismo – sembra dire lo scrittore friulano – è ben
più pericoloso del vecchio fascismo.
Nel 1979 l’editore doveva separarsi da Cattabiani, che avrebbe allora iniziato
un’altra fase della sua vita: quella di giornalista e scrittore.

Nel 1970, Nicola Matteucci assumeva per la seconda volta la direzione del
Mulino e, come nel 1957, scriveva un editoriale programmatico: si trattava
di un’analisi del Sessantotto, dei suoi presupposti e delle conseguenze che
stava generando sulla cultura politica italiana100. La categoria interpretativa a
cui ricorreva era quella di “insorgenza populistica” e la sua analisi criticava
99
P. P. Pasolini, Per l’editore Rusconi, in Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, pp.
192-193. Sul “furioso clima di ostilità nei confronti dell’esperienza culturale rusconia-
na”, cfr. le osservazioni e i rinvii bibliografici (Nello Ajello, Umberto Eco) presenti in
P. Battista, Il partito degli intellettuali. Cultura e ideologie nell’Italia contemporanea,
Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 93-95.
100
N. Matteucci, La cultura politica italiana: fra l’insorgenza populistica e l’età delle
riforme, in «Il Mulino», XIX, 1970, pp. 5-23, poi in Id., Dal populismo al compromesso
storico, Edizioni della Voce, Roma 1976, pp. 47-74. Per le posizioni di Matteucci negli
anni della contestazione, cfr. ora R. Pertici, Un liberale di fronte al Sessantotto, cit.,
pp. 77-98.
248 Roberto Pertici

corrosivamente le posizioni ideali che ne erano emerse, prima fra tutte


il cattolicesimo progressista. Quel saggio suscitò una vasta eco, spesso
non positiva, negli ambienti della rivista: lo stesso direttore avrebbe poi
confessato che non si aspettava un così gran numero di critiche e di rilievi.
A tutte il filosofo bolognese volle rispondere in un intervento intitolato
significativamente Forse il liberalismo può dirci ancora qualche cosa, con
cui chiudeva il dibattito101.
Il fatto è che anche il milieu in cui era vissuto negli ultimi vent’anni stava
risentendo del più generale mutamento culturale e politico post Sessantotto
e se ne videro presto le conseguenze: scorrendo le annate del Mulino durante
la sua seconda direzione (1970-1973), si ricava l’impressione di un direttore
che non riesce più a dare alla rivista un tono unitario e, anzi, dalla fine del
1971, ne perde progressivamente il controllo. Il tutto poi risultò complicato
dalle dure polemiche di parte comunista (nelle quali si distinse il sindaco di
Bologna, Renato Zangheri) e dalla lacerazione da cui l’ambiente della rivista
e della casa editrice fu attraversato negli anni precedenti il referendum sul
divorzio del 1974: si trattò, per molti aspetti, di uno scontro fra le due anime
del cattolicesimo italiano, i leaders delle quali erano membri autorevoli
dell’Associazione, che si concluse con la fuoriuscita degli “abrogazionisti”
(Gabrio Lombardi, Sergio Cotta e Del Noce). Tale emorragia privò Matteucci
(che era, da parte sua, un divorzista) di alcuni degli interlocutori più costanti
degli ultimi decenni e giocò a suo sfavore, quando nel corso del 1973 si
dovette decidere sul rinnovo della direzione e sui futuri orientamenti della
rivista. Pur essendo riconfermato direttore nell’ottobre del 1973, Matteucci,
non riuscendo a far passare un proprio documento programmatico, preferì

101
N. Matteucci, Forse il liberalismo può dirci ancora qualche cosa, in «Il Mulino»,
XIX , 1970, pp. 230-238. Si risentono, anche nella polemica di Matteucci contro il
modernismo cattolico di quegli anni, echi evidenti delle posizioni di Del Noce, con
cui d’altronde confessava pubblicamente “una lunga consuetudine” e a cui riapriva
le pagine della rivista, ospitando un saggio – avvertiva – “che, con più competenza
di me, affronta […] un problema assai vicino a quello che stiamo discutendo” (p.
232). Si trattava di A. Del Noce, Insegnamenti di uno strano dialogo, in «Il Mulino»,
XIX, 1970, pp. 280-315, assai critico del sincretismo fra cattolicesimo e marxismo
tentato dal salesiano don Giulio Girardi, allora molto noto. Ma è sintomatica delle
difficoltà che la direzione Matteucci stava incontrando (ne accenno nel testo), la
durissima critica alle tesi di Del Noce contenuta in G. Dozzi, Dialogo: sincretismo
senza armonizzazioni e ancora ospitata dalla rivista bolognese (ivi, XX, 1971, pp.
269-289): Del Noce non avrebbe più scritto sul «Mulino».
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 249

dimettersi (15 dicembre): il 14 gennaio 1974 il comitato di direzione eleggeva


al suo posto Pietro Scoppola102.
Ma la radicalizzazione ideologico-politica di quel decennio produsse un
salto di qualità anche nell’impegno di molti di coloro che vi si opponevano e
che allora cercarono tribune meno accademiche per far sentire la loro voce:
dopo la perdita della direzione del Mulino, Matteucci divenne collaboratore
del Mondo (il settimanale che aveva ripreso nei primi anni Settanta la
testata di Pannunzio, ma con esiti non paragonabili) e poi per Il Giornale di
Montanelli. Ma fu soprattutto nella raccolta di saggi pubblicata nel 1972 Il
liberalismo in un mondo in trasformazione, che cercò di proporre una nuova
interpretazione del liberalismo sulla base dei problemi di libertà posti dalla
società tecnologica. Vi si confrontava direttamente con le due grandi ideologie
che dall’Ottocento dominavano la storia contemporanea, il marxismo e il
positivismo tecnocratico, e presentava il liberalismo come una teoria “critica”
della società post-industriale, capace di garantire nella libertà lo sviluppo
politico e la trasformazione sociale e soprattutto l’esistenza di uomini a più
dimensioni103: come si vede i problemi erano gli stessi su cui aveva meditato
Del Noce durante gli anni Sessanta, analoghe le esigenze critiche, diversa
(ma non incompatibile) la risposta.

Nel 1970, Augusto Del Noce lasciava l’Università di Trieste per quella di
Roma, dove dall’ottobre di quell’anno prese a insegnare Storia delle dottrine
politiche nella facoltà di Scienze politiche. Come Matteucci, sentì l’esigenza
di rivolgersi a un pubblico più vasto di lettori e fu così che cominciò a scrivere
per il quindicinale L’Europa e per quotidiani come Il Giornale d’Italia e Il
Tempo. Fu tra i promotori del referendum abrogativo della legge Fortuna-
102
Per le vicende accennate in questo paragrafo, cfr. N. Matteucci, Anticomunismo, addio.
Come gira la ruota del «Mulino», in «Nuova storia contemporanea», V, 2001, n. 2, pp.
129-132. Per le polemiche di parte comunista, cfr. A. N. [A. Natta], Il Mulino macina a
destra, in «Rinascita», XXVIII, 12, 19 marzo 1971, p. 8, e la replica di Matteucci in «Il
Mulino», XX, 1971, pp. 308-311; R. Zangheri, Risposta al Mulino. Capire l’Emilia, in
«L’Unità», 17 maggio 1972, a cui replicarono Matteucci e Pedrazzi («Il Mulino», XXI,
1972, pp. 571-576), donde un nuovo intervento di Zangheri, La nostra alternativa, in
«L’Unità», 1° agosto 1972, riportato anche in «Il Mulino», XXI, 1972, pp. 783-787, a cui
fecero seguito le repliche di Giorgio Galli e dello stesso Matteucci (ivi, pp. 787-791). Per
le dimissioni di Matteucci dalla direzione della rivista e l’elezione di Scoppola, cfr. la
rubrica Attività del Mulino, in «Il Mulino», XXII, 1973, pp. 1100-1103.
103
N. Matteucci, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Il Mulino, Bologna
1972.
250 Roberto Pertici

Baslini (quella che aveva introdotto il divorzio in Italia) e partecipò senza


risparmiarsi alla battaglia referendaria. Presso la nuova casa editrice diretta
dall’amico Cattabiani, pubblicò nel 1971 un importante libro-dibattito scritto
a quattro mani con Ugo Spirito sulle trasformazioni culturali in corso nella
società italiana104 e poi Il suicidio della rivoluzione e Il cattolico comunista,
due volumi in cui portava avanti la riflessione storico-filosofica intrapresa
molti anni prima. Nonostante contrasti e sconfitte, tuttavia cominciava a
emergere come un punto di riferimento di ambienti culturali e religiosi sempre
più vivaci, che in quegli anni stavano faticosamente riorganizzandosi nella
società italiana: il pontificato di Giovanni Paolo II, alla fine di quel decennio,
gli sembrò inaugurare quel “ricominciamento” vagheggiato più di dieci anni
prima.

Renzo De Felice continuò, con lena e impegno che hanno dell’incredibile,


la sua grande biografia di Mussolini. Quest’opera si venne progressivamente
ponendo al di là dello scontro fascismo-antifascismo, come avevano auspicato
già, nel 1960, Gianni Baget Bozzo e Augusto Del Noce: la sua opzione per i
valori dell’antifascismo liberale non fu mai in discussione, ma egli si mostrò
sempre più convinto che per dar conto compiutamente della tragedia italiana
del Novecento, il fenomeno fascista andasse analizzato dall’interno, compreso
nelle sue motivazioni culturali, nelle sue dinamiche sociali, non diversamente
da altri movimenti e regimi contemporanei. Non si trattava insomma di
confermare una condanna storica o di proseguire una polemica politica, ma di
applicare il metodo della ricerca storica: in questa prospettiva De Felice venne
via via cercando, accumulando e sfruttando un’enorme massa documentaria,
attraverso la quale dette voce a innumerevoli personaggi, riviste e ambienti
praticamente ignorati o rimossi, travolti dalla rovina del mondo a cui erano
appartenuti.
Nel 1975 lo storico reatino (che aveva il senso delle dimensioni di massa che
ormai il discorso culturale aveva assunto anche in Italia) condensò e divulgò i
risultati della prima fase del suo lavoro in un’Intervista sul fascismo concessa
allo storico americano Michael A. Ledeen105 e fu soprattutto da allora che
104
U. Spirito-A. Del Noce, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Rusconi, Milano
1971.
105
R. De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di M. A. Ledeen, Laterza, Roma-Bari
1975. Per le polemiche che l’accompagnarono, cfr. G. Belardelli, L’intervista peri-
colosa. De Felice e l’uso dell’antifascismo come arma impropria, in «Nuova storia
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 251

intorno alla sua opera divampò la polemica, non più meramente scientifica
e condotta anche con profondità, com’era accaduto per i primi volumi della
biografia mussoliniana. Di alcune delle tesi che vi discuteva (la confluenza nel
fascismo di una parte del precedente rivoluzionarismo italiano, la distinzione
quindi fra un fascismo-regime e un fascismo-movimento, al cui interno
sopravvive una componente populistica e antiborghese; la distinzione fra
fascismo e nazionalismo; la sottolineatura di precise differenze fra fascismo
italiano e nazismo tedesco; il tema del “consenso” di cui il regime godette
dopo il 1929, che contraddiceva la visione di un Paese oppresso solo con la
violenza) abbiamo seguito la genesi nei dibattiti dei primi anni Sessanta. Fatte
proprie oggi sostanzialmente da buona parte degli storici, contraddicevano
ancora quell’uso ideologico e politico dell’antifascismo, le cui conseguenze
Del Noce aveva da tempo lucidamente individuate: e non c’è dubbio che il
loro contrastato e progressivo affermarsi abbia avuto – come lo stesso filosofo
aveva previsto – conseguenze di grande importanza, non solo sul piano
storiografico, ma anche su quello etico-politico.

contemporanea», III, 1999, n. 2, pp. 25-36.

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