Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
183
Roberto Pertici
società. Che questo fosse l’aspetto più rilevante di quanto stava accadendo,
che insomma si stesse verificando una complessa mutazione culturale e,
quasi, si potrebbe dire, “antropologica”, fu avvertito per tempo da una serie di
testimoni, che cercarono fin da subito di sottoporre a un’analisi critica le idee
e i comportamenti che si stavano affermando e di collocarli nel quadro più
ampio della cultura occidentale e dei suoi problemi. A proposito di costoro, si
può parlare di un “altro Sessantotto”: si tratta, cioè, di una cultura alternativa
(liberale, cattolica, tradizionalistica) che emerge durante gli anni Sessanta,
parallelamente a quella (maggioritaria) a cui si contrappone. Possiamo fare
alcuni nomi: si pensi ad Augusto Del Noce, Alfredo Cattabiani, Elémire
Zolla, Nicola Matteucci, Vittorio Mathieu, Sergio Cotta, Gabrio Lombardi,
Cristina Campo, Tito Casini, Quirino Principe, Romano Amerio, Emanuele
Samek Ludovici, Rodolfo Quadrelli, Cornelio Fabro, Giovannino Guareschi,
Giuseppe Prezzolini, Sergio Quinzio, Luigi Giussani, ma anche Pier Paolo
Pasolini e Giovanni Sartori, Sergio Ricossa, Gianfranco Miglio, Rosario
Romeo, Renzo De Felice e pochi altri.
Non è, ovviamente, possibile farne qui una rassegna complessiva: mi
propongo, piuttosto, di seguire al suo interno una serie di percorsi, che disegnino
una trama ideale fra alcuni dei suoi principali esponenti. Si tratterà – come
risulterà subito evidente – di storici, filosofi e organizzatori di cultura: per
questo è preliminarmente necessario isolare, nella “cultura” del Sessantotto,
quegli elementi e quei temi che maggiormente attrassero la loro attenzione
critica.
(con l’iniziale maiuscola) diventa così la soluzione del problema della storia.
Questa “cultura della Rivoluzione” ha attraversato tutta la storia europea
degli ultimi due secoli: matura nel tardo Settecento, nella negazione di
uno dei temi centrali della tradizione cristiana (lo status naturae lapsae, il
peccato originale) e nella sua riduzione a problema politico e sociologico,
per trovare poi un suo primo momento di coagulo nella fase giacobina della
Rivoluzione francese. Nel secolo e mezzo successivo, essa ha proceduto quasi
come un fiume carsico, in alcuni momenti scorrendo sotterranea (come nei
decenni della Restaurazione o nel secondo Ottocento, l’epoca del “progresso
moderato” dei liberali europei e del “riformismo” della II Internazionale), in
altri riemergendo prepotentemente come nel 1848 e poi dopo la Rivoluzione
d’Ottobre. Così anche alle spalle del forte e pervasivo processo di “re-
ideologizzazione”, che la riporta prepotentemente alla ribalta dopo il 1960,
sta un quindicennio in cui si era andato diffondendo un clima culturale che
sembrava averla esorcizzata: le nuove scienze sociali, l’esperimento laburista
in Inghilterra, le prime esperienze di Welfare State, l’inizio della golden age
avevano fatto parlare dell’avvento ormai definitivo di una “società opulenta”,
in cui le ideologie palingenetiche sembravano ormai “finite”.
Di questa nuova fase del “pensiero rivoluzionario” sono noti i temi più
caratteristici: il ritorno in grande stile del marxismo, declinato in varie forme,
dal marxismo-leninismo di staliniana memoria, ai diffusi sincretismi con
la psicanalisi (il ritorno di Wilhelm Reich) e l’antropologia; una rinnovata
critica della democrazia “formale” e il mito della democrazia diretta (da
qui una spinta febbrile alla democratizzazione integrale di tutti i settori
della società); il rifiuto delle deleghe e delle specializzazioni funzionali (dei
cosiddetti mandarini); la messa in discussione dei valori stessi che sono alla
P. Pombeni, La cultura politica e il tornante del 1945 in Europa, in «Ricerche di
storia politica», VIII, 2005, pp. 5-18, 12-13 in particolare. Alludo evidentemente a
J. K. Galbraith, The Affluent Society, Houghton Mifflin Company, Boston 1958 (in
italiano: Economia e benessere, Comunità, Milano 1959, poi col titolo La società
opulenta, ivi, 1963); D. Bell, The End of Ideology: On the Exhaustion of Political
Ideas in the Fifties, The free press of Glencoe, Glencoe (Illinois) 1960 (in italiano:
La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi,
Sugarco, Milano 1988) e a R. Aron, L`opium des intellectuels, Calmann-Levy, Paris
1955 (in italiano: L’oppio degli intellettuali, Cappelli, Bologna 1958).
W. Reich, Die Sexualität im Kulturkampf (1936), in italiano: La rivoluzione sessua-
le, Feltrinelli, Milano 1963, ma anche a Id., Die Massenpsychologie des Faschismus
(1933), in italiano: Psicologia di massa del fascismo, Sugar, Milano 1971.
186 Roberto Pertici
“illustri” vengono, nel contesto degli anni Sessanta, mercificati dalla nascente
industria culturale, massificati e trasformati in senso comune.
Da questi atteggiamenti scaturisce una nuova etica diffusa, che si
contrappone radicalmente a quella classica e cristiana, che – pur con tutti gli
appesantimenti e irrigidimenti ben noti – era prevalsa fino a pochi decenni
prima. La possiamo condensare nel celebre aforisma manzoniano per cui
la vita è destinata a essere “per tutti un impiego del quale ognuno renderà
conto” (Promessi sposi, cap. XXII). È questa concezione dell’esistenza come
un mezzo, in vista di fini più ampi e impegnativi, che allora tramonta: tale era
stata non solo per il cristiano, ma anche per il comunista e il fascista, per gli
idealisti Croce e Gentile e per i loro avversari positivisti. Anche per il vecchio
Sorel, per fare la Rivoluzione era necessario un atteggiamento “ascetico”, la
rinunzia, cioè, alle comodità della vita, all’“integrazione”, come si sarebbe
detto poi. Si trattava di una prospettiva che imponeva il superamento e talora
la negazione della propria vita individuale in nome dell’“universale” (la
patria, la famiglia, la classe, il partito, la fede religiosa, la Chiesa): negli anni
Sessanta si diffuse la certezza che questi valori tradizionali altro non fossero
che enormi mistificazioni, e quindi si cominciò a negare loro ogni diritto di
richiedere al soggetto un impegno totale, che lo spingesse a frenare (fino a
soffocare) la sua naturale propensione al piacere, al soddisfacimento dei propri
istinti e delle proprie più profonde tendenze. Si condannò conseguentemente
ogni pedagogia, ogni educazione che spingesse in tal senso (le pedagogie
“repressive”) e se ne ammise solo una “permissiva”, che insegnasse che
“l’obbedienza non è più una virtù”, lottasse contro ogni “condizionamento”
e inducesse il soggetto a essere solo e totalmente se stesso: in tal modo anche
la società – si assicurava – sarebbe stata migliore.
Qual era stata la natura dei fascismi e il loro ruolo nella storia europea
del Novecento? Su questo problema, nel quindicennio seguito alla guerra,
si era combattuta una battaglia culturale di grande rilievo, che, intorno
al 1960, si stava ormai avviando a conclusione. A soccombere fu la
spiegazione “parentetica” (in Italia, era stata di Croce come di De Gasperi),
che non implicava (come si ripete sempre nelle banalizzazioni correnti) che
il fascismo fosse senza radici nella precedente storia italiana e/o tedesca,
ma che esso non ne racchiudeva l’essenza e non ne costituiva l’inevitabile
sbocco. Andò prevalendo, invece, la visione del fascismo/nazismo come
“rivelazione”, cioè come un fenomeno in cui confluivano i temi portanti
della politica, della cultura e della religione precedenti, tutte le tare della
civiltà “borghese”: il fascismo non aveva infranto un quadro istituzionale
o culturale preesistente (non era stato, cioè, una “rivoluzione”), ma l’ultima
risorsa a cui quell’establishment era ricorso per mantenere il suo potere
minacciato dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalle sue conseguenze, cioè dal
progresso della storia (era, dunque, un fenomeno “reazionario”). In questo
quadro fra il conservatorismo europeo (i notabili liberali italiani, le Chiese,
la destra nazionale tedesca, il mondo finanziario e industriale) e i fascismi
esisteva un rapporto di complicità e di continuità, in cui Hitler e Mussolini
avevano fatto sostanzialmente il “lavoro sporco”, che il mondo conservatore
non aveva avuto il coraggio o la forza di fare.
Gli effetti di questa svolta culturale non tardarono a manifestarsi. Scriveva
Giacomo Noventa nel 1955: “Come credere che una nazione abbia sopportato
per venti anni quella specie di fascismo che le ideologie antifasciste descrivono,
senza credere che in quella nazione tutto sia da distruggere, e tutto da
rinnovare?”. Se allarghiamo questa osservazione all’intera civiltà europea,
alla cultura occidentale nel suo complesso, che – come si cominciava a dire
– aveva portato ad Auschwitz, ne cominciamo a cogliere le implicazioni: ne
emergeva una condanna senza appello della sua storia e la richiesta di un
ricominciamento totale. Per i Paesi toccati solo marginalmente dal fascismo
e dal nazismo, una funzione analoga fu svolta dal passato coloniale e dai suoi
“misfatti”: per la Francia, per esempio, giocarono un ruolo decisivo i postumi
Riprendo l’analisi coeva di Augusto Del Noce, di cui tratterò ampiamente più avanti,
perché mostra, a mio parere, un’indubbia vitalità ermeneutica e merita di essere appro-
fondita e maggiormente articolata.
G. Noventa, Comunismo-Antifascismo-Resistenza. Pagine di un diario 1955, in Id.,
Tre parole sulla Resistenza e altri scritti, Vallecchi, Firenze 1973, p. 106.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 191
della vicenda indocinese e soprattutto di quella algerina. Per gli Stati Uniti, è
appena il caso di ricordarlo, la perdita dell’innocenza provocata dalla guerra
del Vietnam.
La storia europea recente cominciò dunque a essere letta secondo il
cleavage fascismo/antifascismo, che poi veniva fatto corrispondere a quello
conservazione/ progresso, reazione /rivoluzione: non è un caso che in tutta
l’Europa occidentale ci sia – dopo il 1960 – una forte ripresa della cultura
antifascista e proprio nei giovani, in una generazione, cioè, che non aveva
vissuto la tragedia della guerra. Accenneremo a quello che significò in Italia
la lotta contro il governo Tambroni: ma si pensi all’impatto che ebbe in
Germania il processo Eichmann, il dramma di Hochhuth Il Vicario e – nella
cultura accademica – il grande dibattito fra Fritz Fischer e Gerhard Ritter sul
senso della storia tedesca dopo l’unità del 187110. In Italia fu la cultura neo-
illuministica e progressista (post azionista, post gobettiana) dei primi anni
Sessanta a elaborare questi schemi e, anche in questo caso, essi furono poi
ripresi ed estremizzati da quella del Sessantotto: così avvenne nel giudizio
sul fascismo e sulla storia dell’Italia repubblicana dopo il 1947, nel discorso
sulla Resistenza tradita, nell’operaismo, nella tematica dei diritti, sul tema
della memoria resistenziale, ecc.
6. Il progressismo cattolico
Un ruolo fondamentale nel Sessantotto italiano fu svolto dal mondo
cattolico, che si rivelò, anche allora, un corpo meno “separato” di quello
che talora si continua a pensare. Al suo interno, negli stessi anni, si svolse
una serie di processi culturali in qualche modo paralleli a quelli che
avevano luogo nella cultura “laica”, e con esiti non dissimili. Anche per il
progressismo cattolico italiano, che aveva la sua punta di diamante nella
cultura dossettiana, il problema fondamentale era costituito dal favore che
la Chiesa aveva accordato ai movimenti fascisti: esso non poteva essere
10
I due volumi furono subito pubblicati anche in italiano: F. Fischer, Assalto al potere
mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, a cura di E. Collotti, Einaudi, Torino
1965; G. Ritter, I militari e la politica nella Germania moderna, I. Da Federico il Grande
alla prima guerra mondiale, Einaudi, Torino 1967.
192 Roberto Pertici
11
C. Falconi, La contestazione nella Chiesa. Storia e documenti del movimento cattolico
antiautoritario in Italia e nel mondo, Feltrinelli, Milano 1969. Per una cronaca attenta
del Sessantotto cattolico, cfr. R. Beretta, Il lungo autunno. Controstoria del Sessantotto
cattolico, Rizzoli, Milano 1998.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 193
13
[N. Matteucci, L. Pedrazzi], Editoriale, in «Il Mulino», VI, 1957, pp. 3-13, 4-5.
14
Per questi atteggiamenti, specialmente dopo il 1960, cfr. E. Galli della Loggia, La
perpetuazione del fascismo e della sua minaccia come elemento strutturale della lotta
politica nell’Italia repubblicana, in L. Di Nucci ed E. Galli della Loggia (a cura di), Due
nazioni, cit., pp. 227-262, specie pp. 248-253.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 195
15
[N. Matteucci, L. Pedrazzi], La misura del nostro compito: il postfascismo, in «Il
Mulino», VI, 1957, pp. 311-321, 319-320, datato: Bologna, 25 aprile 1957.
16
N. Matteucci, Interpretazioni del Risorgimento: un nuovo revisionismo cattolico,
ivi, X, 1961, pp. 151-157, 151-152.
196 Roberto Pertici
longanesiano, del Mondo”, tanto – aveva aggiunto altrove – “il Sillabo era
sempre il comodo pretesto per rinchiudersi nelle proprie ragioni”17.
Dunque liberalismo, anticomunismo, superamento dell’antifascismo
ideologico, valore strategico del nesso liberalismo-cattolicesimo, polemica
(su tutti questi temi) con la cultura “neo-illuminista” e post-gobettiana: si
può dire che le posizioni espresse da Matteucci in questi editoriali del 1957
contraddicevano puntualmente quelli che sarebbero stati i principali trends
della cultura (politica e non) italiana del decennio successivo. La situazione,
all’interno della quale cadevano, si stava, infatti, muovendo in direzioni tutto
diverse: dopo il fallimento della legge maggioritaria nelle elezioni politiche del
1953, importanti settori dei partiti di governo spingevano ormai alla ricerca di
nuovi equilibri politici. Si apriva la fase dell’“apertura a sinistra”, che avrebbe
comportato dei cambiamenti decisivi nella “logica profonda” della politica
italiana: il passaggio da una legittimazione politica a base centrista, basata sulla
parallela contrapposizione a fascismo e a comunismo (antitotalitarismo), a un
ricupero deciso dell’antifascismo come base ideologica della futura alleanza18.
L’avversario principale dei fautori della nuova prospettiva politica non era più
ormai il comunismo (negli anni successivi, anche in Italia, l’anticomunismo
ideologico sarebbe diventato un’“esecrabile eresia”19), ma quei settori della
DC e della Chiesa italiana che si opponevano all’apertura ai socialisti. Da qui
un’esasperazione del loro laicismo, che diede vita nella seconda metà degli
anni Cinquanta a una serie di grandi campagne anticlericali, e il ricupero
deciso dell’antifascismo: bisognava opporsi a una possibile alternativa sulla
destra al progettato centro-sinistra e quindi accentuare l’antagonismo fra i
partiti dell’arco costituzionale e la destra monarchica e missina.
17
[N. Matteucci], Laicismo aperto e laicismo dogmatico, in «Il Mulino», V, 1956, pp.
212-217.
18
Su questi aspetti ha insistito recentemente G. Orsina, Quando l’Antifascismo
sconfisse l’antifascismo. Interpretazioni della Resistenza nell’alta cultura antifascista
italiana, 1955-1965, in P. Craveri e G. Quagliariello (a cura di), La seconda guerra
mondiale e la sua memoria, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp. 237-288; Id.,
Il sistema politico italiano. Lineamenti di un’interpretazione revisionistica, in P.
Ballini, S. Guerrieri, A. Varsori (a cura di), Dal centrismo al centrosinistra, Carocci,
Roma 2006, pp. 309-333.
19
F. Furet, Il passato di un’illusione, cit., p. 549, ma tutte le pp. 542-553 sono impor-
tanti per delineare l’immagine del comunismo nell’opinione pubblica occidentale dopo
il 1956.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 197
Del Noce si dichiarava completamente d’accordo con gli amici del Mulino
nel ritenere che “il fascismo sia definitivamente morto, […] nell’aprile 1945;
che non si possa a stretto rigore, parlare di sue radici; che non ha lasciato
sopravvivenze”. Tale recisa affermazione si basava su “una ragione a priori,
ricavata dalla fenomenologia dei movimenti totalitari”:
Ogni totalitarismo attinge la sua potenza persuasiva unicamente da ciò che
appare esprimere “il senso della storia” […]. La sua forza di penetrazione
è perciò rigorosamente identica all’apparenza della sua invincibilità. Una
sconfitta decisiva (quella che si accompagna, per es., con la morte violenta
del Capo), per ciò che rappresenta la forma necessaria della confutazione
logica della sua pretesa, porta alla sua definitiva scomparsa.
Per Del Noce “la forma di vita di ogni totalitarismo è ciclica; esso si affaccia
nella vita di una nazione come un fatto nuovo, non assimilabile allo sviluppo
di forze politiche o sociali o culturali preesistenti, […]; prende consistenza
attraverso compromessi con alcune di queste forze, senza che però mai si
identifichi con esse o divenga completamente loro strumento; la sua crisi ha
inizio col venir meno di taluni di questi compromessi”.
Lo studioso cattolico sottolineava, dunque, il carattere di novità del
fascismo, piuttosto che insistere sulle sue radici nella precedente storia italiana
e concepirlo come un rigurgito di tare secolari (la Controriforma, lo scarso
sviluppo borghese, il nazionalismo, la cultura idealistica, il “cancro romano-
imperiale”, ecc.). Nella sua prospettiva, il vero problema storico riguardava non
tanto le sue radici, “ma l’insufficiente resistenza (o le illusioni di dominarlo)”
da parte delle forze non fasciste. L’indagine storica pertanto avrebbe dovuto
concentrarsi soprattutto sul medio periodo e considerare alcune situazioni
politiche del dopoguerra, come la mancata collaborazione tra cattolici, liberali
e socialisti, senza tirare in ballo la Controriforma o l’orgoglio della tradizione
romana.
Ma, se del fascismo, si doveva cominciare a parlare, “in sede di giudizio
storico, con quel distacco che importa tenere rispetto a processi ormai
irrevocabilmente compiuti”, a maggior ragione – affermava Del Noce – si
imponeva ormai “la necessità di rinunciare a pensare politicamente in termini
di antifascismo”, anche se è “del tutto superfluo avvertire che ciò non significa
tratta di testi estremamente complessi e scritti in quella prosa densa e allusiva che i
lettori del filosofo torinese conoscono bene. Nel testo, mi limito a indicarne per sommi
capi i temi fondamentali.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 199
Nel mondo cattolico italiano era esistita anche una quarta posizione, che
tuttavia – sul finire degli anni Cinquanta – sembrava in via di estinzione:
quella rappresentata da De Gasperi e dalla tradizione politica che Del Noce
chiamava “degasperismo”. Essa aveva avvertito l’incontro e la collaborazione
fra cattolici, socialisti democratici e liberali come derivante da una civiltà
comune, non dettato semplicemente dalle contingenze politiche:
De Gasperi, cioè, sentì, e fu l’unico, il quadripartito in una forma sostan-
zialmente simile a quella in cui l’azionismo aveva visto il CLN: come
un’unità ideale, non come una semplice unità di fatto che raggruppasse
forze eterogenee in opposizione a un determinato avversario. Esso gli
24
Id., Totalitarismo e filosofia della storia, cit., p. 92 e passim.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 201
Alla fine degli anni Cinquanta, mentre febbrilmente si lavorava per l’apertura
a sinistra, l’avversario vero del “degasperismo” (inteso come liberalismo di
ispirazione cristiana) appariva a Del Noce colui che era stato per un lustro il
nuovo padrone della DC, Amintore Fanfani. Come sua abitudine, il filosofo
torinese non s’accontentava di rilevare atteggiamenti e prese di posizione, ma
cercava di rinvenirne le radici culturali e (in senso lato) “filosofiche”. Così
l’ostilità di Fanfani al mondo liberale chiamava in causa – a suo giudizio – la
linea culturale dell’Università Cattolica (dove il politico aretino si era formato)
fra le due guerre. Anzi ci si poteva chiedere se “il fanfanismo non fosse altro
che la forma necessaria in cui la linea culturale promossa dall’Università
Cattolica ha raggiunto la realtà politica italiana”.
Il padre Gemelli e i suoi collaboratori avevano individuato il loro
avversario fondamentale nell’idealismo, soprattutto nella forma gentiliana,
ma, di frequente, in questi rapporti simbiotico-conflittuali accade che
si finisca per “mutuare qualcosa dall’avversario pur nell’opposizione”.
L’idealismo italiano si presentava come la più alta consapevolezza filosofica
del liberalismo? Ebbene Gemelli e i suoi avevano fatto propria questa
identificazione e la loro lotta contro l’idealismo si era convertita, sul piano
politico, in polemica anti-liberale. Per un uomo come Fanfani che si era
nutrito di quella cultura, il mondo liberale restava qualcosa di completamente
25
Id., Fine o crisi del degasperismo?, cit.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 203
superato sul piano della cultura politica e delle prospettive storiche. Da qui
anche la sua estraneità rispetto alla tradizione del “popolarismo” prefascista
di Sturzo e De Gasperi, da far risalire, anche in questo caso, alla cultura
dell’Università Cattolica:
Questa aveva in comune con la cultura vociana e poi attualistica e col fa-
scismo (che la derivò da esse) la svalutazione dell’Italia [18]70-[19]15. Giu-
dizio che nel caso dell’Università Cattolica si esprimeva nella svalutazione
anche del cattolicesimo liberale: come di quello che riduceva la religione a
fatto di coscienza personale e privato e che in conseguenza di ciò doveva
portare a una politica priva di afflato religioso, puramente clientelistica,
voluta dunque da quelli che oggi si usano chiamare i notabili.
La polemica anti-liberale aveva dettato e dettava anche ora i possibili
alleati politici; dopo il 1929 un fascismo “dissociato così dalle ricomprensioni
laicistiche (Gentile e gentiliani) come dall’involuzione nel neopaganesimo
nazista”, e poi, fallita la speranza nel fascismo, un socialismo dissociato dal
marxismo: “Dopo questa dissociazione, tale socialismo non potrebbe non
diventare l’alleato naturale di una posizione politica non più legata a una parte
conservatrice, oggi fatalmente ridotta a essere conservatrice di un mondo
liberale e borghese che si è formato in antitesi col cattolicesimo”26. Negli anni
Trenta Fanfani era passato attraverso il primo momento, ora si stava avviando
a inaugurare il secondo.
Come abbiamo visto, il Del Noce collaboratore del Mulino riteneva ancora
– come già nell’immediato dopoguerra27 – che quello del marxismo fosse
il problema centrale della cultura contemporanea, in particolare per quella
cattolica. Rispetto a esso si potevano assumere due atteggiamenti, assai
diversi nei presupposti e nelle conseguenze: accettarne alcuni elementi,
“inverandoli” in un quadro teoretico diverso o considerarlo come una totalità
non scomponibile in parti sane e in parti viziate e quindi una “sfida” a cui
si dovesse una “risposta” complessiva. Il primo era stato l’atteggiamento del
progressismo cattolico degli anni Trenta e Quaranta, che stava riemergendo
26
Id., Fanfani: il politico dell’Università Cattolica, cit., pp. 83, 88 e passim.
27
Id., La “non-filosofia” di Marx e il comunismo come realtà politica (1946), in
Id., Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1990, IV edizione, pp. 213-266;
Id., Marxismo e salto qualitativo (1948), ivi, pp. 267-292; Id., Filosofia e politica nel
Comunismo in «Quaderni di azione sociale», 1957, n. 1, pp. 12-45.
204 Roberto Pertici
un’originale visione della modernità con una lettura della storia novecentesca e
in particolare del fenomeno totalitario; una valutazione del marxismo e del suo
significato nell’ambito del pensiero moderno con una serie di indicazioni culturali
e politiche per il mondo cattolico e, più in generale, per la politica italiana. Non
si può che ripetere quanto abbiamo già osservato a proposito degli editoriali
di Matteucci: Del Noce, ma in modo ancor più radicale dell’amico bolognese,
si mostrava in aperta controtendenza rispetto alle componenti fondamentali
della “nuova” cultura degli anni Sessanta: all’apertura a sinistra contrapponeva
una più organica collaborazione fra cattolicesimo politico e liberalismo, alla
“religione dell’antifascismo” la scelta dell’antitotalitarismo, al “fanfanismo” il
“degasperismo”, all’apertura cattolica al marxismo la consapevolezza che esso
conteneva in sé un’alterità irrecuperabile e che quindi costituiva una sfida a cui
rispondere; alla cultura della rivoluzione l’esigenza di un approfondimento della
tradizione, ecc. Tutto questo cadeva in un quadro politico fluido, in cui le spinte
verso il centro-sinistra si scontravano con ipotesi diverse, di tipo neo-centrista o
anche disposte ad accettare tatticamente l’appoggio parlamentare della destra.
Sul problema dell’apertura a sinistra, Del Noce non aveva le stesse posizioni
del gruppo del Mulino: nutriva perplessità e incertezze. La prospettiva
degasperiana – a suo modo di vedere – si distingueva da quella fanfaniana
non solo per la diversa attenzione che prestava al mondo liberale, ma anche
perché il socialismo con cui aveva intessuto un rapporto di governo era ormai
radicato nel mondo occidentale: ma il “nennismo”? Dopo essersi liberato della
zavorra del leninismo e avere avviato anche una revisione del marxismo, esso
appariva a Del Noce come un “nulla ideale, un populismo indeterminato”. In
questo quadro, il futuro governo di centro-sinistra rischiava di avere gli stessi
limiti di quelli centristi: sarebbe stato una formula di governo senza una vera
e propria coesione ideale o un progetto comune (“un accordo ottenuto sul
fondamento del massimo depotenziamento ideale della DC e del socialismo”),
in cui sarebbe prevalsa una politica di spesa pubblica e di cedimento alle
pressioni corporative (“una politica di iniziativa non fondata sulla chiarezza
ideologica non può avere che un esito demagogistico”31).
nella presente situazione italiana, in AA.VV., Cultura e libertà, atti del Convegno
tenuto a S. Margherita Ligure, Cinque Lune, Roma 1959, pp. 159-188; Classi sociali
e dottrina marxista, in AA.VV., Le classi e l’evoluzione sociale, Atti della XXXI
Settimana Sociale dei Cattolici d’Italia tenutasi a Bari il 21-28 settembre 1958, Edi-
zioni Settimane Sociali, Roma 1959, pp. 57-83.
31
Fine o crisi del degasperismo?, cit., p. 485.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 207
33
A. Del Noce, Ideologia socialista e fronte popolare, in «L’Ordine civile», I, 3,
25 luglio 1959, pp. 1-3.
34
Sull’esperienza dell’Ordine civile, cfr. G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura
a sinistra. La DC di Fanfani e di Moro 1954-1962, Vallecchi, Firenze 1977, pp. 193-198.
Fra le polemiche che allora suscitò, indicativa è quella di due giovani storici discepoli di
Ettore Passerin d’Entrèves, G. Sofri e F. Traniello, Fra Gedda e Machiavelli: l’«Ordine
civile», in «Il Mulino», VIII, 1959, vol. II, pp. 205-214, a cui rispose lo stesso Baget
Bozzo, in «L’Ordine civile», I, 12, 15 dicembre 1959, pp. 17-18.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 209
35
Fascismo ’60, in «Il Mondo», 16 febbraio 1960, p. 2, nella rubrica Taccuino. Cre-
do che Del Noce si riferisse a questo articolo quando, nel suo intervento, scriveva
polemicamente: “Dato che oggi saremmo di nuovo, è stato detto, nel 1923” (A. Del
Noce, Idee per l’interpretazione del fascismo, in «L’Ordine civile», II, 8, 15 aprile
1960, pp. 15-18, 15): ma erano iperboli allora comunissime.
36
P. Siena-G. B.[aget] B.[ozzo], Lettera dall’“altra sponda”, in «L’Ordine civile», II,
210 Roberto Pertici
con quei settori della Chiesa che si erano compromessi col regime, insomma
tutte le forze politiche che rappresentavano il passato), in altre – come era
avvenuto negli anni Trenta – una politica di fronte popolare.
L’interpretazione “rivelativa” era stata tipica della cultura azionista:
non a caso era un uomo come La Malfa a presentarsi quale “mediatore tra
i socialisti e una DC dominata dalla sua corrente di sinistra” e a giocare un
ruolo centrale nella formazione della nuova maggioranza. Ma essa, forse non
del tutto consapevolmente, costituiva lo sfondo delle scelte politiche anche
della sinistra democristiana, tanto che – aggiungeva Del Noce – si potrebbe
dire che “i democristiani di sinistra sono quei cattolici che hanno assunto i
moduli della storiografia azionista, senza rendersi conto delle loro implicazioni
filosofiche e religiose”.
Guardando alla cultura dell’Italia 1960, il filosofo torinese non si nascondeva
che la partita aveva ormai un vincitore:
Se si guarda al successo nel mondo della cultura, l’interpretazione rivelativa
sembra aver oggi ottenuto la netta prevalenza; battuto sul piano strettamente
politico, l’azionismo si è rifatto su quello della politica della cultura. Ogni
orecchiante sa ripetere che il discorso sulla “parentesi” fascista copre, nei
vecchi e negli onesti, la nostalgia di un “mondo di ieri” (anteprimaguerra)
irrevocabilmente trascorso, nostalgia che impedisce anche ai più acuti di
scorgervi i germi del periodo successivo; e negli altri il risentimento contro
l’antifascismo, mascherato dietro un’onorevole facciata.
Quali erano le ragioni di questa sconfitta? Il fatto che i sostenitori dell’ipotesi
“parentetica” non ammettevano nessun nesso, nessun rapporto fra l’“alta
cultura laica” e il fascismo: il fascismo era stato per loro un fenomeno senza
veri riferimenti culturali, espressione di una “pura crisi morale”, quasi il frutto
dell’“attività di una semplice banda di avventurieri, senza radici nel passato”
e ciò non era davvero “una spiegazione sufficiente”.
Qui Del Noce si inoltrava in un discorso “tuttora inedito”, che sarebbe
diventato un leit-motiv di molti suoi interventi degli anni successivi. Ancora
una volta credeva necessario rintracciare le logiche profonde, “filosofiche”, dei
movimenti politici e, ancora una volta, ricorreva alla già elaborata distinzione
fra le due risposte possibili di fronte al marxismo e al socialismo: “risposta
a sfida” o “inveramento”. Il fascismo era stato certamente una reazione al
socialismo, ma del secondo tipo: aveva, in qualche modo, assunto e fatto
212 Roberto Pertici
potere”. “La sua biografia – aggiungeva Del Noce – è il miglior documento per
lo studio dell’idea di rivoluzione – intesa come sostituzione della politica alla
religione nella liberazione umana – sganciata dal materialismo e dall’utopismo
(…) e connessa invece con le suggestioni vitalistiche del pensiero del primo
Novecento”.
Inoltre se questo tratto “rivoluzionario” era congenito nel fenomeno
fascista, esso non poteva essere ridotto a puro tradizionalismo reazionario:
anzi – aggiungeva il filosofo – era perfettamente vano appellarsi al fascismo
per difendere la tradizione (come faceva quel Primo Siena che aveva scritto a
Baget), perché esso aveva un’anima rivoluzionaria. Per cui fra i due totalitarismi
di destra intercorrevano differenze qualitative che li rendevano inassimilabili:
mentre il momento anticomunista reazionario era stato prevalente nel
movimento tedesco, Del Noce giungeva a dire che il fascismo italiano era stato
quasi un movimento concorrente del comunismo, “una sorta di alternativa
nazionale a questo”. I suoi veri nemici, “data l’identificazione mussoliniana
tra prima guerra mondiale e rivoluzione, furono le forze neutraliste”, cioè i
liberali “giolittiani”, i politici cattolici e il socialismo massimalista.
Il rapporto fra fascismo e attualismo si allentò dopo la Conciliazione del
1929. Mentre Gentile “restò solo nella sua devozione al Duce continuata
fino alla morte”, i suoi discepoli si andarono progressivamente distaccando
dal regime e, poiché per loro attualismo e fascismo erano stati sinonimi,
mettendo in discussione il secondo, di fatto si allontanarono anche dalle
posizioni teoretiche gentiliane. “Una parte degli attualisti confluì in quel
fascismo di sinistra che poi, almeno in notevole misura, offrì i suoi quadri al
partito comunista”; un’altra fu alla base delle nuove correnti antifasciste che
si sviluppano nei tardi anni Trenta (e qui Del Noce pensa evidentemente a
Calogero e al liberalsocialismo):
L’opposizione dei giovani ai vecchi che nel decennio tra il ’20 e il ’30 ave-
va giocato a favore del fascismo, cominciò a rovesciarsi con un processo
lento sino a dar luogo alla maggioranza antifascista degli anni di guerra
e al movimento popolare di quelli della resistenza. Rispetto al termine
antifascismo sono necessarie alcune precisazioni. In un senso generico sono
antifasciste tutte le posizioni precedenti o, per il loro sorgere, contempo-
ranee al fascismo, che lo rifiutano totalmente (liberalismo, cattolicesimo
politico, socialdemocrazia, comunismo, ecc.). In senso più ristretto, è un
fenomeno successivo al fascismo che non riconosce un rapporto di diretta
214 Roberto Pertici
continuità con le forme che questo aveva avversato, e che vuole distinguersi
dal comunismo, pur combattendo l’anticomunismo. Che esso sia un capitolo
successivo della posizione dell’inveramento del marxismo non c’è davvero
bisogno di dimostrarlo dato che le sue dichiarazioni sono esplicite (libe-
ralsocialismo, sinistra cattolica, eccetera). Quel che piuttosto deve essere
messo in luce è come esso sia condizionato dalle stesse condanne che il
fascismo aveva pronunziato e che subisca sempre, in varie forme, talvolta
aperte, talvolta invece dissimulate e tortuose o inconsapevoli, l’influenza
dell’attualismo. Di ciò si può trovare una prova nella rottura con Croce,
a cui l’antifascismo laico si trova costretto, o per l’antifascismo cattolico
nella rottura con Sturzo.
Insomma, l’antifascismo giovanile degli anni Trenta è, per molti aspetti, un
“fratello nemico” del fascismo, nel senso che ne condivide la base culturale
(l’eredità attualistica) e molti atteggiamenti mentali e politici (l’ostilità
all’Italia prefascista, l’avversione al liberalismo giudicato una cultura politica
esaurita, ecc.). La rottura fra Croce e gli azionisti e la distanza fra Sturzo e
De Gasperi dai “professorini” dell’Università Cattolica ne restano un sintomo
evidente38.
Molte delle analisi esposte da Del Noce in questo saggio possono risultare
oggi poco circostanziate, altre confuse, altre anche infondate. Ma, al di là delle
esigenze politiche e polemiche da cui prendeva le mosse, si deve ammettere
che questo suo tentativo di fondare una nuova analisi del fascismo, estranea a
quello che, molti anni dopo, sarebbe stato chiamato il “paradigma antifascista”,
era di assoluto valore. Come si poteva facilmente prevedere, per il momento
egli trovò pochissimi (anche se acuti) interlocutori39. Il suo articolo comparve
38
A. De Noce, Idee per l’interpretazione del fascismo, cit. Il saggio è ristampato in
appendice ad A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano 1978, pp.
343-356.
39
Soprattutto C. Casucci, Fascismo e storia, in «Il Mulino», IX, 1960, vol. I, pp.
213-242. Proprio a Casucci si deve buona parte della fortuna successiva del saggio
di Del Noce: egli infatti lo ristampò nella sua fortunata antologia Il Fascismo, a cura
di C. Casucci, Il Mulino, Bologna 1961, pp. 370-383, insieme al precedente Totalita-
rismo e filosofia della storia (pp. 359-369). In questa antologia lo lesse anche Ernst
Nolte, che chiese e ottenne dal filosofo il permesso di tradurlo in tedesco: Ideen zur
Interpretation des Faschismus, in E. Nolte (herausgegeben von), Theorien über den
Faschismus, Kiepenheuer & Witsch, Köln-Berlin 1967, pp. 416-425 (cfr. F. Perfetti,
La concezione transpolitica della storia nel carteggio Nolte-Del Noce, in «Storia
contemporanea», XXIV, 1993, pp. 725-783, 747).
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 215
43
Su Cattabiani non esiste ancora una biografia documentata: per le notizie fondamen-
tali si deve ricorrere ad alcuni suoi scritti e interviste autobiografiche o ai necrologi:
fra i primi cfr. soprattutto A. Cattabiani, Io dissidente nella Torino di Bobbio & Co.,
in «Il Giornale» (Milano), 30 gennaio 2001 e il dettagliato auto-necrologio L’ultimo
simbolo è un addio, ivi, 19 maggio 2003; ma anche l’intervista a cura di Gabriele
Marconi, In nome del mito, presente in http://www.centrostudilaruna.it/cattabiani.
html. Fra i necrologi, cfr. almeno F. Gianfranceschi, Addio al re dell’immaginazione,
in «Il Tempo» (Roma), 19 maggio 2003; G. de Turris, Alfredo Cattabiani, il non-
conformista, in «Ideazione», X, 2003, pp. 194-198.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 217
45
La citazione di Maistre è indiretta: Cattabiani la ricavava da G. Noventa, Niente
di nuovo, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 299, ma più probabilmente da A. Del Noce, Il
ripensamento della storia italiana in Giacomo Noventa, in G. Noventa, Tre parole sulla
Resistenza, cit., p. xxxv.
46
A. Cattabiani, Introduzione a J. de Maistre, Breviario della tradizione, a cura di A.
Cattabiani, Il Cerchio, Rimini 2000, pp. 5-12, 6-7. La sua maggiore fatica maistriana, fu
– com’è noto – l’edizione italiana delle Soirées: J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo,
Rusconi, Milano 1971.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 219
“E fonderemo una casa editrice”: questa era l’altra consegna che Del
Noce aveva dato a Cattabiani e ai suoi amici. Fu così che il giovane studioso
48
A. Cattabiani, Georges Bernanos, Volpe, Roma 1965, pp. 26-27, 45-46.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 221
49
P. Siena, Il profeta della Chiesa proletaria: Emmanuel Mounier, Edizioni del-
l’Albero, Torino 1965. Sulle Edizioni dell’Albero, notizie in L. Lanna e F. Rossi,
Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra, Vallecchi, Firenze
2003, pp. 465 e 467 (sotto la voce Tradizione).
50
G. Bernanos, La grande paura dei benpensanti, Edizioni dell’Albero, Torino 1965:
la Prefazione di Bo è alle pp. v-xv.
51
A. Cattabiani, Io dissidente nella Torino di Bobbio & Co., cit.
222 Roberto Pertici
53
Id., [La potenza ideologica del marxismo e la possibilità del successo del comu-
nismo in Italia], in Partiti e democrazia, atti del terzo convegno nazionale di studio
della Democrazia Cristiana, S. Pellegrino Terme, 13-16 settembre 1963, Edizioni
Cinque Lune, Roma 1964, pp. 506-549: 509, 517-523, 529-533. Questa relazione è
stata ristampata in A. Del Noce, I cattolici e il progressismo, a cura di B. Casadei,
Leonardo, Milano 1994, pp. 45-91, ma qui continuo a citare dalla prima edizione.
224 Roberto Pertici
Ivi, pp. 519. Sul dibattito fra Franco Rodano e Del Noce su questi problemi, cfr. M.
56
Mustè, Fra Del Noce e Rodano: il dibattito sulla società opulenta, in «La Cultura»,
XXVII, 1999, pp. 95-121, molto severo verso le posizioni delnociane.
226 Roberto Pertici
di sotto della realtà delle classi, c’è una realtà più profonda, ignorata dal
comunismo, la realtà delle nazioni”. Ma egli aveva affrontato questa realtà,
per lui nuova, “secondo le categorie del socialismo rivoluzionario in cui era
cresciuto”: così “l’affermazione della realtà della nazione” aveva assunto
subito un tratto agonistico, diventando cioè “quella della lotta delle nazioni”,
e non per la libertà (come accadeva nell’interventismo democratico), ma “per
la potenza”. Nel Mussolini del periodo 1914-1919, insomma, “all’ideale della
rivoluzione” si era sostituito gradualmente “quello di guerra”.
Il fascismo era dunque nato da “questa mescolanza di nazionalismo e di
socialismo”, tanto che ora Del Noce lo definiva un “nazionalismo che raggiunge
le masse”, al contrario di quello francese e anche di quello italiano che erano
rimasti fenomeni essenzialmente minoritari e aristocratici. Ne risultava
l’immagine di un movimento con “due anime”: quella “tradizionalista” (che
avrebbe portato alla Conciliazione con la Santa Sede) e quella “socialista ed
eversiva”. Da qui anche la sua instabilità ideologica, nel senso che dal fascismo
poterono nascere “viaggi” molto diversi, verso il tradizionalismo, ma anche
verso il comunismo: la sua fu, insomma, una “coscienza viaggiante” (qui Del
Noce faceva riferimento al noto libro di Zangrandi)57.
Nello stesso contesto il filosofo lamentava ancora che “l’immensa letteratura
che si ha sul fascismo” non avesse ancora maturato un vero giudizio storico:
essa aveva “un carattere esclusivamente polemico o al massimo documentario;
si salva, al più, qualche articolo”. In quel 1963, tuttavia, in Germania doveva
uscire un libro che attirò subito la sua attenzione, Der Faschismus in seiner
Epoche di Ernst Nolte58: con l’opera di questo “storico-filosofo” – scriveva
l’anno successivo – il “passaggio al giudizio storico era cominciato ad
avvenire”59.
Essa rispondeva, in effetti, a molte delle esigenze ripetutamente espresse dal
filosofo italiano: anche Nolte proponeva le grandi linee di un’interpretazione
storico-filosofica del XX secolo, anche la sua non era un’analisi strutturale
57
A. Del Noce, [La potenza ideologica del marxismo e la possibilità del successo del
comunismo in Italia], cit., pp. 511-512.
58
E. Nolte, Der Faschismus in seiner Epoche, Piper, München 1963. Il volume fu
presto tradotto in italiano col titolo I tre volti del fascismo, Sugar, Milano 1966, poi
Mondadori, Milano 1971. Nel testo semplifico brutalmente (per motivi di brevità)
le tesi di Nolte: per una più distesa esposizione, cfr. F. Perfetti, La concezione tran-
spolitica della storia nel carteggio Nolte-Del Noce, cit., pp. 725-746.
59
Id., Il problema dell’ateismo, cit., p. 147 e nota 96.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 227
e per i suoi interessi per la storia del giacobinismo italiano e della giacobina
Repubblica romana. Proprio per le ricerche condotte sulla storia dell’ebraismo
a Roma nel 1798-99, gli era stato proposto dal gruppo della Rassegna mensile
di Israel di scrivere un libro sugli ebrei italiani durante il fascismo, con la
possibilità di accedere agli archivi delle Comunità e ai fondi, allora inesplorati,
degli archivi di Stato: per il futuro biografo di Mussolini si trattò di un passo
decisivo, il passaggio alla storia del Novecento. Nell’estate del 1959 si accinse
al nuovo lavoro e fu, dunque, in questo frangente che avvenne l’incontro con
l’articolo di Del Noce, che aprì orizzonti nuovi alle sue riflessioni sul fascismo:
lo dichiarava esplicitamente nella recensione che gli dedicava nel novembre
del 1960. De Felice doveva provare la stessa insoddisfazione del più anziano
filosofo per la situazione degli studi: ecco perché salutava alcune recenti
“indagini particolari” in cui “il problema era stato riproposto in termini nuovi
e – finalmente – veramente critici, interpretativi, in una parola, storici. Termini
nuovi dai quali non si potrà – crediamo – più prescindere”. Riconosceva che
“il la alla discussione era stato dato da un breve ma penetrante articolo di
Augusto Del Noce”:
Partendo da un’affermazione di Baget Bozzo sulla stessa rivista secondo
la quale è ormai necessario passare a una valutazione oggettiva, non
fascista né antifascista, del fascismo, il Del Noce, dopo aver brevemente
dimostrato l’inadeguatezza a tale fine delle correnti “internazionali” del
fascismo, ha chiaramente e convincentemente affermato la necessità di
muovere, per effettuare questa valutazione oggettiva, dall’indagine del
“momento culturale” del fascismo stesso.
De Felice trovava “veramente convincenti” la critica delnociana all’ipotesi
“rivelativa”, il suo rilievo sui rapporti fra fascismo e alta cultura, la breve
“storia parallela” che tracciava fra sviluppo dell’attualismo e quello del
rivoluzionarismo mussoliniano e altri snodi del saggio, che, tra l’altro veniva
ampiamente ripreso e citato. Solo gli imputava “alcune legnosità” e “alcune
sue troppo marcate interpretazioni” che lo portavano “a ricadere in una
visione unitaria del fascismo”, cioè non attenta alle sue componenti interne
e ai diversi momenti della sua storia63. Non sappiamo se Del Noce venne a
63
[R. De Felice], Fascismo, in «II Nuovo Osservatore», 16 novembre 1960, pp. 39-40,
ora ivi, pp. 439-441 (Appendice 6). La breve recensione non era firmata. Gli altri saggi
a che De Felice segnalava erano quello già cit. di Casucci (cfr. supra, nota 39) e quello
di V. Stella, Fascismo e cultura, in «Il Mulino», IX, 1960, vol. II, pp. 9-25.
230 Roberto Pertici
64
P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, cit., p. 385, ma cfr. più
in generale pp. 379-416.
65
D. Cantimori, Conversando di storia, Laterza, Bari 1967, pp. 132-144: si tratta della
lettera al “caro Rossi” apparsa su «Itinerarî» del giugno 1962.
66
A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, cit., pp. 151-152.
67
Sul problema del titolo, cfr. P. Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellet-
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 231
71
Per tutto questo rinvio a R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo:
l’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), Jaca Book, Milano 1997
[«Storia della storiografia», n. 31]. Esula dal presente studio la considerazione
dell’ulteriore sviluppo dell’analisi delnociana del fascismo, che trova nel saggio
del 1969 Appunti per una definizione storica del fascismo (in A. Del Noce,
L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1970, pp. 111-136) uno snodo
fondamentale, sbocco delle sue riflessioni degli anni Sessanta e prologo delle
successive.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 235
dunque, la figura del filosofo roveretano, così decisivo nella visione di Del
Noce, e molto “delnociana” è, in effetti, tutta quella sua introduzione. La
società tecnologica, che ormai si è affermata in Occidente, ma insidia anche
le società di “socialismo reale”, è una forma di “totalitarismo raffinato”: di
questo Cattabiani è convinto, anche se precisa che esso “è diverso dai precedenti
perché si impone non più con la violenza diretta, con mezzi esplicitamente
coercitivi, ma con una violenza psicologica, con la censura ideologica attuata
imponendo sul mercato una certa produzione editoriale, determinati spettacoli,
mostrando che al di fuori di certi modelli di comportamento di massa non vi
può essere che l’isolamento psicologico, la condanna morale degli altri”.
Di tale modello di società i veri profeti sono stati i sansimoniani dei
primi decenni dell’Ottocento, che, per la prima volta, hanno fissato una serie
di assiomi, poi puntualmente realizzatisi nel secolo successivo: il primato
dell’“azione” sulla “contemplazione”, di un sapere strumentale su qualsiasi
altro che affermi l’esistenza di una verità oggettiva trascendente; il carattere
convenzionale della conoscenza e la sua finalizzazione al benessere fisico e
psicologico degli individui; la convinzione che unico collante della società
sia appunto la ricerca del benessere individuale; un sostanziale relativismo
per cui si soggettivizza ogni conoscenza e si riduce anche la religione a un
“fenomeno che si svolge da se stesso nell’uomo” (sono parole di Rosmini);
il “perfettismo sociale”, in quanto l’uomo è convinto di poter fondare la
società perfetta su questa terra; lo scientismo, che non considera lo sviluppo
tecnologico “un bene da perseguirsi, ma sempre subordinato al bene comune”,
piuttosto “lo eleva a scopo primario dell’umanità in un sogno faustiano, che ha
avuto in Francis Bacon il suo primo rappresentante”79; il dogma secondo cui
83
Ivi, pp. 40-41.
84
Ivi, pp. 43-44: si trattava delle esortazioni nelle udienze generali del 10 e del 24
luglio 1968.
85
Ivi, pp. 44-45.
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 241
dal libro di Voegelin, che presentava al pubblico italiano proprio nel 1968,
traeva “l’ammonimento a risalire la china, e l’avvertimento della possibilità
di farlo”:
Ma le chine non dono facili da risalire, e ciò non permette troppo ottimi-
smo. Se l’essenza ideale del nuovo gnosticismo si è ormai completamente
esplicata, infinite sono le abitudini teoriche e storiche che ha introdotto, e
che determinano, senza consapevolezza della loro origine, le valutazioni
correnti: il suo compimento ideale ha coinciso con una forza di carica
pratica, che è lontanissima dall’essersi esaurita98.
Rinascita dell’idea di permanenza dei valori, crisi di quella di rivoluzione,
ma persistenza quasi inconsapevole di una vastissima gamma di abitudini
teoriche e storiche, che da essa sono scaturite e che continuano a determinare
(magari inconsapevolmente) le valutazioni correnti: come si vede, Del Noce
coglieva alcune tendenze che si sarebbero affermate nei decenni successivi.
Nel 1970, Nicola Matteucci assumeva per la seconda volta la direzione del
Mulino e, come nel 1957, scriveva un editoriale programmatico: si trattava
di un’analisi del Sessantotto, dei suoi presupposti e delle conseguenze che
stava generando sulla cultura politica italiana100. La categoria interpretativa a
cui ricorreva era quella di “insorgenza populistica” e la sua analisi criticava
99
P. P. Pasolini, Per l’editore Rusconi, in Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, pp.
192-193. Sul “furioso clima di ostilità nei confronti dell’esperienza culturale rusconia-
na”, cfr. le osservazioni e i rinvii bibliografici (Nello Ajello, Umberto Eco) presenti in
P. Battista, Il partito degli intellettuali. Cultura e ideologie nell’Italia contemporanea,
Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 93-95.
100
N. Matteucci, La cultura politica italiana: fra l’insorgenza populistica e l’età delle
riforme, in «Il Mulino», XIX, 1970, pp. 5-23, poi in Id., Dal populismo al compromesso
storico, Edizioni della Voce, Roma 1976, pp. 47-74. Per le posizioni di Matteucci negli
anni della contestazione, cfr. ora R. Pertici, Un liberale di fronte al Sessantotto, cit.,
pp. 77-98.
248 Roberto Pertici
101
N. Matteucci, Forse il liberalismo può dirci ancora qualche cosa, in «Il Mulino»,
XIX , 1970, pp. 230-238. Si risentono, anche nella polemica di Matteucci contro il
modernismo cattolico di quegli anni, echi evidenti delle posizioni di Del Noce, con
cui d’altronde confessava pubblicamente “una lunga consuetudine” e a cui riapriva
le pagine della rivista, ospitando un saggio – avvertiva – “che, con più competenza
di me, affronta […] un problema assai vicino a quello che stiamo discutendo” (p.
232). Si trattava di A. Del Noce, Insegnamenti di uno strano dialogo, in «Il Mulino»,
XIX, 1970, pp. 280-315, assai critico del sincretismo fra cattolicesimo e marxismo
tentato dal salesiano don Giulio Girardi, allora molto noto. Ma è sintomatica delle
difficoltà che la direzione Matteucci stava incontrando (ne accenno nel testo), la
durissima critica alle tesi di Del Noce contenuta in G. Dozzi, Dialogo: sincretismo
senza armonizzazioni e ancora ospitata dalla rivista bolognese (ivi, XX, 1971, pp.
269-289): Del Noce non avrebbe più scritto sul «Mulino».
L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta 249
Nel 1970, Augusto Del Noce lasciava l’Università di Trieste per quella di
Roma, dove dall’ottobre di quell’anno prese a insegnare Storia delle dottrine
politiche nella facoltà di Scienze politiche. Come Matteucci, sentì l’esigenza
di rivolgersi a un pubblico più vasto di lettori e fu così che cominciò a scrivere
per il quindicinale L’Europa e per quotidiani come Il Giornale d’Italia e Il
Tempo. Fu tra i promotori del referendum abrogativo della legge Fortuna-
102
Per le vicende accennate in questo paragrafo, cfr. N. Matteucci, Anticomunismo, addio.
Come gira la ruota del «Mulino», in «Nuova storia contemporanea», V, 2001, n. 2, pp.
129-132. Per le polemiche di parte comunista, cfr. A. N. [A. Natta], Il Mulino macina a
destra, in «Rinascita», XXVIII, 12, 19 marzo 1971, p. 8, e la replica di Matteucci in «Il
Mulino», XX, 1971, pp. 308-311; R. Zangheri, Risposta al Mulino. Capire l’Emilia, in
«L’Unità», 17 maggio 1972, a cui replicarono Matteucci e Pedrazzi («Il Mulino», XXI,
1972, pp. 571-576), donde un nuovo intervento di Zangheri, La nostra alternativa, in
«L’Unità», 1° agosto 1972, riportato anche in «Il Mulino», XXI, 1972, pp. 783-787, a cui
fecero seguito le repliche di Giorgio Galli e dello stesso Matteucci (ivi, pp. 787-791). Per
le dimissioni di Matteucci dalla direzione della rivista e l’elezione di Scoppola, cfr. la
rubrica Attività del Mulino, in «Il Mulino», XXII, 1973, pp. 1100-1103.
103
N. Matteucci, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Il Mulino, Bologna
1972.
250 Roberto Pertici
intorno alla sua opera divampò la polemica, non più meramente scientifica
e condotta anche con profondità, com’era accaduto per i primi volumi della
biografia mussoliniana. Di alcune delle tesi che vi discuteva (la confluenza nel
fascismo di una parte del precedente rivoluzionarismo italiano, la distinzione
quindi fra un fascismo-regime e un fascismo-movimento, al cui interno
sopravvive una componente populistica e antiborghese; la distinzione fra
fascismo e nazionalismo; la sottolineatura di precise differenze fra fascismo
italiano e nazismo tedesco; il tema del “consenso” di cui il regime godette
dopo il 1929, che contraddiceva la visione di un Paese oppresso solo con la
violenza) abbiamo seguito la genesi nei dibattiti dei primi anni Sessanta. Fatte
proprie oggi sostanzialmente da buona parte degli storici, contraddicevano
ancora quell’uso ideologico e politico dell’antifascismo, le cui conseguenze
Del Noce aveva da tempo lucidamente individuate: e non c’è dubbio che il
loro contrastato e progressivo affermarsi abbia avuto – come lo stesso filosofo
aveva previsto – conseguenze di grande importanza, non solo sul piano
storiografico, ma anche su quello etico-politico.