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Tutto questo lo conduce ad avere scarne relazioni sociali , poiché qualsiasi situazione
esterna che lo faccia sentire al centro dell'attenzione, viene evitata
A tutto ciò il timido può adottare due stili comportamentali opposti: sottomissione o
aggressività. Il timido è il più delle volte una persona che arrossisce sempre e chiede
in continuazione scusa, ma può essere una persona timida anche chi è
deliberatamente provocatore o fa la parte del simpaticone, amico di tutti. In questi
ultimi due casi tali comportamenti servono per reagire al proprio senso di
inadeguatezza e insicurezza, mascherandoli con spavalderia e spacconeria.
Nel timido si hanno anche modalità di pensiero abituali, conseguenza dei
comportamenti sopraccitati. Egli ha la ferma convinzione che qualsiasi cosa faccia,
gli occhi di tutti sono puntati su di lui e pronti a giudicarlo negativamente. Questa
convinzione, talvolta, può diventare una vera e propria ossessione di non riuscire in
prestazioni eccezionali e conseguentemente fare pessime figure e sentirsi giudicato
inadeguato.
Il timido può anche trasformarsi in casa. Adottando un comportamento
compensatorio della sua timidezza esterna, egli può assumere dei comportamenti
autoritari, a volte prepotenti, contribuendo, così, anche in casa, ad impoverire le
proprie relazioni sociali.
Molti autori attribuiscono l’ origine della timidezza ad un blocco psicologico che si
stabilisce in seguito a dei condizionamenti ambientali.
Se per esempio un bambino viene continuamente rimproverato per dei
comportamenti ritenuti dai suoi genitori sbagliati, tali comportamenti tenderanno
ad essere repressi in seguito, anche da adulto. Nello stesso modo anche l'aver
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ricevuto poco amore e poche attenzioni, se non rifiuto e indifferenza, può causare,
paura di non piacere agli altri e senso di inadeguatezza e insicurezza. Al contrario
invece, chi ha potuto sperimentare da piccolo, protezione, sicurezza e calore
affettivo, ha potuto costruire una personalità forte e stabile. Queste cause della
timidezza, però, non valgono sempre. Può capitare che anche chi ha ricevuto affetto
e attenzioni potrebbe diventare timido. I genitori eccessivamente protettivi che
cercano di evitare la minima sofferenza ed eliminare ogni più piccolo ostacolo dalla
strada del loro figlio, rischiano di applicare un modello diseducativo, che non
permette al giovane di sviluppare quelle difese personali alle quali farà ricorso nel
procedere della sua vita. Senza l'apporto dei suoi genitori si sentirà fragile,
impotente e senza risorse.
La timidezza si presenta in particolar modo nel periodo adolescenziale, quando si
verifica un totale cambiamento a livello fisico e un disorientamento della propria
identità a livello psicologico. L'adolescente si sente spesso insicuro perché non si
riconosce nel suo nuovo corpo che si sta formando. Questa insicurezza viene
generalizzata a tutti i campi e spesso si fa fatica a trovare un proprio posto dove
poter star bene. Per molti è solo una fase di passaggio, per altri può diventare un
carattere permanente.
Utile si rivela mettere in ordine di "gravità" le situazioni che sono più difficili per la
proprio timidezza. Si partirà dalle meno "gravi" fino alle più "gravi". Poi si inizieranno
ad affrontarle nello stesso ordine. Man mano che si sarà superata una si passerà alla
successiva. Occorrerà pazienza, impegno e determinazione. Gli insuccessi all'inizio
saranno probabili, ma non debbono essere di scoraggiamento, ma di stimolo ad
aumentare pazienza, impegno e determinazione.
La timidezza può essere anche patologica: in questo caso diventa Fobia Sociale
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3. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole.
Nota: Nei bambini questa caratteristica può essere assente.
4. Le situazioni sociali o prestazionali temute sono evitate o sopportate con
intensa ansia o disagio.
5. L'evitamento, l'ansia anticipatoria o il disagio nella/e situazione/i sociale/i o
prestazionale/i interferiscono significativamente con le abitudini normali della
persona, con il funzionamento lavorativo (scolastico) o con le attività o
relazioni sociali, oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere la
fobia.
6. Negli individui al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno 6 mesi.
7. La paura o l'evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una
sostanza (per es., una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica
generale, e non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale (per es.,
Disturbo di Panico Con Agorafobia o Senza Agorafobia , Disturbo d'Ansia di
Separazione , Disturbo da Dismorfismo Corporeo , un Disturbo Pervasivo dello
Sviluppo o il Disturbo Schizoide di Personalità ).
8. Se sono presenti una condizione medica generale o un altro disturbo mentale,
la paura di cui al Criterio A non è ad essi correlabile, per es., la paura non
riguarda la Balbuzie , il tremore nella malattia di Parkinson o il mostrare un
comportamento alimentare abnorme nell' Anoressia Nervosa o nella Bulimia
Nervosa .
Specificare se:
Fobia Scolare
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Quando si parla di rifiuto scolare si fa riferimento ad un disturbo in cui il livello di
ansia e di paura ad andare e restare a scuola sono tali da compromettere in modo
significativo una regolare frequenza scolastica e causare sequele a breve e lungo
termine.
Le conseguenze possono riguardare lo sviluppo emotivo, sociale, le acquisizioni
scolastiche, difficoltà nei rapporti con la famiglia. In seguito si possono avere
difficoltà lavorative e può aumentare il rischio di un’importante compromissione
della salute mentale della persona.
Durante le ore scolastiche il bambino resta a casa, un ambiente fidato e sicuro, può
dedicarsi in modo sereno ad altre attività tra cui svolgere i compiti.
Tale disturbo riguarda l’1-5% dei ragazzi in età scolare senza differenze di genere,
dai dati presenti in letteratura sembra più frequente in alcuni delicati cambiamenti
evolutivi quali l’inserimento nella scuola elementare (5-6 anni) e il passaggio alle
scuole medie (10-11 anni).
Il disturbo si caratterizza per i seguenti comportamenti problematici e sintomi
somatici:
elevata reazione di ansia nel momento in cui esce da casa o giunge davanti
alla scuola, al punto da presentare sintomi da panico;
manifestazione di un ampia serie di sintomi somatici (vertigini, mal di testa,
tremori, palpitazioni, dolori al torace, dolori addominali, nausea, vomito,
diarrea, dolori alle spalle, dolori agli arti);
il livello di angoscia può essere elevato fin dalla sera prima e il bambino può
riposare male, il sonno può essere disturbato da incubi o risvegli notturni
Altri disturbi che possono associarsi al rifiuto scolastico sono l’ansia da separazione,
l’ansia generalizzata, la fobia sociale, la fobia specifica, gli attacchi di panico, il
disturbo post traumatico da stress, la depressione, il disturbo della condotta, il
disturbo oppositivo-provocatorio, il disturbo da deficit di attenzione-iperattività, i
disturbi specifici dell’apprendimento.
I dati disponibili in letteratura rispetto a fattori biologici, derivati dagli studi sulla
famiglia e i gemelli, suggeriscono che ci potrebbe essere una vulnerabilità biologica
per lo sviluppo di problemi emotivi, tra cui il rifiuto scolastico. I fattori scatenanti
possono essere molteplici ma ciò che maggiormente interessa dal punto di vista
terapeutico è correggere i fattori di mantenimento del disturbo.
E’ chiaro che attraverso i comportamenti di evitamento o di fuga da eventi spiacevoli
si ottiene una riduzione dell’ansia, a questo si aggiunge il rinforzo positivo che il
bambino riceve nello stare a casa. In letteratura molta attenzione viene data al
profilo di funzionamento del bambino per le implicazioni cliniche e terapeutiche che
hanno le variabili di mantenimento.
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In età evolutiva il disturbo d’ansia generalizzata (DAG) si manifesta con
preoccupazioni eccessive e incontrollabili rispetto a una grande quantità di eventi o
attività quotidiane.
Anche se bambini più piccoli possano mostrare segni di eccessiva ansia, il disturbo
d’ansia generalizzata si sviluppa all’incirca all’età di 12 anni.
Nonostante possa esserci consapevolezza dell’eccessività delle loro preoccupazioni
rispetto alle diverse situazioni, bambini e ragazzi, sentono di non essere in grado di
avere un controllo su esse.
Il disturbo d’ansia generalizzata può comparire spesso assieme ad altri disturbi tra
cui ansia sociale, ansia da separazione, depressione e disturbo da deficit di
attenzione e iperattività.
A differenza delle normali preoccupazioni, o paure vissute durante l'infanzia, il
disturbo persiste per almeno sei mesi e causa una compromissione del
funzionamento in ambito sociale, scolastico e familiare.
IL DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATA NEI BAMBINI E NEGLI ADOLESCENTI: COME
SI MANIFESTA?
Le preoccupazioni più frequenti nei bambini e adolescenti riguardano le prestazioni
scolastiche presenti e future, prestazioni sportive, relazioni sociali, aggressioni
fisiche e disastri naturali.
Spesso i giovani s’impongono alti standard nel raggiungimento dei loro risultati e
sono eccessivamente critici nei propri confronti nel caso in cui questi non siano
raggiunti. A volte i bambini con disturbo d’ansia generalizzata non sono nemmeno
disposti a provare nuove attività se non possiedono la certezza di esserne all’altezza
o ancora sono portati ad abbandonarle in corso d’opera se ritengono che le loro
prestazioni non siano adeguate.
I ragazzi con questo disturbo sono spesso descritti come "piccoli adulti", data la loro
propensione ad angosciarsi per questioni non adatte alla loro età (ad esempio, il
bilancio familiare, lo stato di salute della nonna o del fratellino).
Le loro preoccupazioni si associano molte volte alla tendenza al perfezionismo e a
una stretta aderenza alle regole, che li porta a ripetere delle attività al fine di
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assicurarsi che siano perfette (come ad esempio, riscrivere i compiti per aver
commesso un solo piccolo errore).
Per cercare di alleviare le loro ansie sono spinti a ricercare costantemente
rassicurazioni (come ad esempio chiedere a un genitore di rivedere compiti a casa
diverse volte, per assicurarsi che sia perfetto) o assumono atteggiamenti
controllanti sugli altri (ad esempio chiamando i genitori più volte al giorno, per
assicurare che stiano bene). Si preoccupano in maniera eccessiva per le loro capacità
o prestazioni e per questo sono alla continua ricerca di approvazione.
Bambini e ragazzi con disturbo d’ansia generalizzata presentano inoltre grosse
difficoltà nel prendere delle decisioni, tendono all’isolamento sociale e assumono
un atteggiamento di procrastinazione, tendono cioè a rimandare costantemente.
Un crescente numero di studi suggerisce l’esistenza, anche nei bambini, di una
vulnerabilità cognitiva al disturbo d’ansia generalizzata: l’intolleranza
dell’incertezza. Questo vuol dire che i bambini e i ragazzi vulnerabili all'ansia non
riescono a tollerare l'incertezza e l'impossibilità di controllare tutte le possibili
conseguenze degli eventi futuri, e cercano quindi di prevedere ogni possibile
scenario ponendo una moltitudine di domande all’adulto. Sono alla continua ricerca
di dettagli perché hanno bisogno di sapere che cosa potrebbe accadere loro in una
determinata situazione.
Cosa s’intende per preoccupazioni?
Le preoccupazioni non sono altro che pensieri riguardanti il possibile verificarsi di
eventi futuri negativi. Solitamente si manifestano sotto forma di domande che
iniziano con la formula "E se….”:
IL DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATA A CASA: COME SI MANIFESTA?
Di seguito un elenco dei sintomi cognitivi, comportamentali e fisici più comuni,
manifestati dai bambini con Disturbo d’ansia generalizzata a casa:
IL DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATA A SCUOLA: COME SI MANIFESTA?
A scuola, un bambino con disturbo d'ansia generalizzata può manifestare una
combinazione di sintomi tra quelli elencati di seguito.
I SETTE CONSIGLI UTILI ALLA FAMIGLIA PER GESTIRE IL DISTURBO D’ANSIA
GENERALIZZATA DEL PROPRIO FIGLIO.
Di seguito sono elencati alcuni suggerimenti generali per aiutare il vostro bambino a
far fronte al suo disturbo d’ansia generalizzata:
1.Spiegate al bambino che cos’è l’ansia. Dare un nome a tutto quello che provano li
tranquillizza. Diciamo a nostro figlio che l’ansia è un normale meccanismo utilizzato
dal nostro corpo per segnalarci un pericolo. Non è pericolosa e nonostante sia
qualcosa di eccessivamente "fastidioso”, ha una durata limitata nel tempo. Questo
sistema è talmente efficiente che si attiva anche quando non esiste un pericolo
reale, così finisce per fornirci un falso allarme. Non deve essere per forza presente
qualcosa per farlo scattare, basta solo un pensiero! Quando la nostra mente
continua a produrre pensieri, facendoci credere costantemente di essere in pericolo
il sistema di allarme si attiva in molte situazioni fino a diventare un problema.
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2.Ascoltate e cercate di comprendere i suoi sentimenti. Provate a immedesimarvi
in vostro figlio. Cercate di capire quali emozioni e che comportamenti mettereste in
atto se viveste costantemente nella paura che qualcosa di terribile potrebbe
succedere da un momento all’altro.
3.Mantenete la calma. I bambini percepiscono le emozioni dei genitori e le
utilizzano per valutare la pericolosità delle situazioni. Stare calmi li aiuterà a fare
altrettanto.
4.Incoraggia il bambino a non richiedere rassicurazioni. Un buon modo di
combattere l’ansia consiste nel far acquisire al bambino maggior confidenza con
l’incertezza. In fondo non potete assicurare a vostro figlio che ciò che teme non si
verificherà, che i compagni non lo prenderanno in giro per qualcosa o che la verifica
andrà bene. Non possiamo saperlo neanche noi! Possiamo però comunicargli la
nostra fiducia sul fatto che potrà affrontare e gestire la situazione con successo. Non
potendosi basare sulle vostre rassicurazioni, i bambini e i ragazzi avranno così la
possibilità di imparare nuove strategie per gestire l’ansia. Questo aumenterà il loro
senso d’indipendenza e di competenza.
5.Sviluppare un pensiero realistico. Aiutate il bambino o l’adolescente a trovare un
modo per esaminare il contenuto dei suoi pensieri e per decidere in merito
all’oggettiva pericolosità della situazione temuta. Insegnategli a considerare delle
spiegazioni e degli scenari alternativi.
6.Favorire la partecipazione del bambino nelle attività. Evitare situazioni temute
può essere molto efficace per ridurre l’ansia nel breve periodo, ma a lungo termine
ci impedisce di sperimentare la nostra capacità di farvi fronte. Il vostro bambino
potrebbe voler evitare attività divertenti, come partecipare a una festa di
compleanno o giocare in una squadra sportiva. Incoraggiatelo ad affrontare le sue
paure, a partecipare a giochi, sport e nel fare nuove amicizie. Questo gli permetterà
di accrescere il suo senso di competenza.
7.Premiate gli sforzi. Premiate i piccoli risultati. Utilizzate, ad esempio, le occasioni
in cui consegna un compito all’insegnante, chiedendovi solo una volta di
controllarlo, per lodarlo e premiarlo.
LA GESTIONE SCOLASTICA DELL’ALUNNO CON DISTURBO D’ANSIA
GENERALIZZATA.
Sono diversi i modi in cui la scuola e gli insegnanti possono aiutare un bambino o un
adolescente con disturbo d’ansia generalizzata. La flessibilità e un adeguato
ambiente di sostegno sono essenziali per permettere allo studente con DAG di
raggiungere il successo scolastico.
Di seguito sono riportati alcuni consigli utili per le insegnanti:
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Instaurare una buona collaborazione e comunicazione con la famiglia. E’
fondamentale condividere gli obiettivi e le strategie utilizzate nella gestione del
bambino con la famiglia. Questo vi permetterà di lavorare in un’unica direzione
e verso un unico obiettivo.
Accogliere le preoccupazioni. Non svalutare le paure e le ansie dei bambini e
degli adolescenti li aiuterà a sentirsi compresi e a non giudicarsi negativamente.
Esprimere fiducia. È importante riporre fiducia nelle capacità dei giovani di
gestire e affrontare le loro paure. Questo li aiuterà a sviluppare un maggior
senso di padronanza e una positiva immagine di sé.
Ridurre le richieste. Potrebbe essere necessario ridurre le richieste poste ai
ragazzi, ridimensionando il carico dei compiti a casa, l’assetto delle
interrogazioni e le impostazioni delle verifiche. Ad esempio sarebbe utile
prediligere domande a risposta multipla, piuttosto che aperta e predisporre
interrogazioni programmate, fornendo indicazioni chiare sulla parte di
programma da approfondire.
Facilitare la partecipazione. La paura di fornire una risposta sbagliata o dire
qualcosa d’imbarazzante o semplicemente il sentirsi al centro dell’attenzione,
porta i giovani a non partecipare alle attività e alle discussioni di classe. Per
aiutarli proviamo a porgli delle domande chiuse, in cui devono scegliere tra due
alternative o ancora diamogli la possibilità di parlare di argomenti su cui si
sentono sicuri.
Incoraggiare l’interazione all’interno della classe. Bambini e ragazzi ansiosi
sono facilmente in imbarazzo nelle situazioni sociali e tendono a rimanere in
disparte per non attirare l’attenzione degli altri. Cerchiamo di evitare che il
disturbo li porti ad allontanarsi dagli amici e li spinga all’isolamento, prevediamo
attività da svolgere in piccoli gruppi.
Enfatizzare i successi piuttosto che i fallimenti.
Evitare critiche o battute sarcastiche relative alle performance.
Premiare gli sforzi. Rinforzate ogni sforzo messo in atto dal bambino o
dall’adolescente che si avvicina agli obiettivi concordati in precedenza con la
famiglia e i professionisti coinvolti nel trattamento.
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La terapia con i bambini si avvale di diversi strumenti che una volta appresi e
utilizzati con regolarità favoriscono il superamento del disturbo d’ansia generalizzata
ed evitano che si ripresenti in futuro. I più comuni sono:
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Disturbo post-traumatico da stress in età infantile
2) deve essere percepito dalla persona come minaccioso (il carattere soverchiante
dell'evento è legato a caratteristiche individuali ed al livello evolutivo).
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Nella versione per l'infanzia e per l'adolescenza del DSM IV, la definizione sottolinea
“la reazione di paura nei bambini ad un'esperienza specifica di stress estremo ed al
trauma psicologico che comporta pericolo concreto o minaccia di morte o serie
lesioni. Inoltre i sintomi devono causare disagio clinicamente significativo o
interferire con le aree importanti del funzionamento”.
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prenderlo per andare a casa a giocare insieme. Il bambino viene preso dall'uomo,
e non sappiamo se si tratta proprio di uno dei bambini uccisi...
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e tu e papà che litigate spesso sul futuro
e io che sempre chiedo "ma il futuro che vuol dire?"
e l'uomo nero gioca e questo gioco quanto dura
forse dopo questo gioco avrò meno paura
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2. Sogni spiacevoli ricorrenti dell'evento.
Nota: nei bambini possono essere presenti sogni spaventosi senza contenuto
riconoscibile.
2. Sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del
trauma.
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D. Sintomi persistenti di aumentato arousal (non presenti prima del trauma),
come indicato da almeno due dei seguenti elementi:
3. Difficoltà a concentrarsi.
4. Ipervigilanza.
Purtroppo per i soggetti protagonisti dei casi citati non sono rintracciabili molti
dati sulle conseguenze emotive e comportamentali rispetto alla tragedia che li ha
coinvolti, quindi non si può sapere come stiano a livello psicologico e se abbiano
sviluppato - come conseguenza al trauma vissuto - un Disturbo Post Traumatico
da Stress.
Tuttavia alcune manifestazioni, come i continui risvegli, gli incubi, l'iper-
attivazione a determinati stimoli, l'agire come se la situazione si stesse
ripresentando, la ripetizione nel gioco - caratteristiche presentate dalle piccole
vittime dei casi sopra illustrati - sono aspetti che richiamano i sintomi descritti nel
DSM-IV.
Il DSM-IV specifica delle caratteristiche proprie delle reazioni del bambino
differenti rispetto a quelle dell'adulto: i sentimenti di paura intensa e orrore
possono esprimersi nei bambini con un comportamento disorganizzato o agitato.
Il bambino può manifestare il ripresentarsi di ricordi spiacevoli ricorrenti e
intrusivi con giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il
trauma. Infine, a differenza dell'adulto, nel bambino i sogni possono essere
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spaventosi senza un contenuto riconoscibile e possono manifestarsi
rappresentazioni ripetitive specifiche del trauma.
Chi di voi non ha notato alcuni bambini, presenti quali in tutte le classi che dopo
l’avvento delle decapitazioni dell’ISIS, ha iniziato in classe a proporregiochi che
richiamano direttamene o indirettamente le terribili immagini viste nei tg?
A livello neurologico i ricordi dell'evento traumatico si imprimono nell'amigdala
che, operando in maniera iperattivante, riporta frequentemente questi ricordi alla
memoria.
Un individuo che si sente impotente davanti a un evento incontrollabile, in
quanto non può fare niente per salvarsi, ha alte probabilità di manifestare
successivamente un Disturbo Post Traumatico da Stress.
I principali sintomi del PTSD si possono spiegare considerando le alterazioni che
hanno luogo nei circuiti del sistema limbico, concentrati in maniera particolare
nell'amigdala.
Il sistema limbico è una porzione del Sistema Nervoso Centrale, che interviene
nell'elaborazione di tutto l'insieme dei comportamenti correlati con la
sopravvivenza della specie, elabora le emozioni e le manifestazioni vegetative ed
è coinvolto nei processi di memorizzazione.
DEPRESSIONE INFANTILE
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Solo negli ultimi anni si è assistito ad un incremento delle ricerche sulla depressione
infantile che oggi è riconosciuta come un disturbo che può severamente
compromettere il funzionamento di bambini e adolescenti in molti ambiti di vita,
come la scuola e le relazioni sociali.
Fino al 1970 era opinione comune che i disturbi depressivi fossero più frequenti
negli adulti e abbastanza rari nei bambini. Inoltre, oscillazioni nell'umore, umore
basso e irritabilità erano considerati come aspetti "naturali" dell'adolescenza,
conseguenze dello sviluppo e del cambiamento di ruolo sociale e familiare.
Nella pratica clinica, il termine "depressione" è utilizzato per descrivere un gruppo di
sintomi che portano a significativi cambiamenti nel tono dell'umore, nel pensiero e
nel comportamento.
Questi sintomi persistono e portano a cambiamenti nelle attività personali e sociali
per un periodo di oltre o almeno 2 settimane.
Segni e sintomi
L'umore depresso include tristezza, pianto, irritabilità, con perdita di
piacere/interesse per le attività quotidiane.
I bambini depressi appaiono infelici, si sentono sfiduciati, senza valore e impotenti.
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Alcuni autori hanno dimostrato che nei bambini con diagnosi di disturbo depressivo
prevale la tendenza a manifestare un "locus of control” di tipo esterno. Essi cioè non
si ritengono capaci di poter influenzare il verificarsi o meno di certi eventi attraverso
il proprio comportamento.
Un diverso sintomo del disturbo dell’umore che può sostituire la tristezza è la
rabbia, che molto spesso è presente nei bambini depressi.
Le modificazioni cognitive causate dalla depressione includono scarsa capacità di
concentrarsi e ridotte prestazioni nelle attività scolastiche. Sono presenti anche
sentimenti di inutilità, colpa, mancanza di fiducia in sè stessi.
Nella depressione grave, il bambino può avere sentimenti profondi di colpa e sentirsi
responsabile per eventi occorsi in passato. Possono esserci anche pensieri di morte
e suicidio.
La depressione può produrre modificazioni nel sonno, con ipersonnia (sonnolenza
diurna) o insonnia, nell'alimentazione, con inappetenza o iperalimentazione;
modificazioni nel livello di energia (facile stancabilità) o nella motivazione (difficoltà
ad iniziare attività).
In generale i bambini tendono ad avere la depressione assieme ad altri disturbi e, in
generale, più sintomi sono presenti, più la depressione è grave.
Per i casi "sotto soglia” è importante comprendere che il bambino, pur non
soddisfacendo tutti i criteri per porre diagnosi, è vulnerabile a sviluppare in futuro
una depressione in piena regola.
Come nell'adulto, anche nel bambino le cause sono diverse e di tipo biologico,
psicologico e sociale. Nella maggioranza degli adolescenti si riscontrano difficoltà di
lunga data di natura sociale e familiare e un generale malfunzionamento familiare.
In alcuni casi vi è uno specifico fattore precipitante, un evento o una circostanza che
è possibile individuare all'esordio del disturbo. In altri casi vi è un lento
deterioramento delle competenze sociali e di coping (il fronteggiamento delle
situazioni della vita) senza eventi scatenanti.
La depressione infantile può persistere fino all'età adulta.
Studi epidemiologici recenti hanno evidenziato che tra i ragazzi della fascia d'età
compresa tra i 9 ed i 17 anni, una percentuale consistente (oltre il 7%), soffre di
disturbi depressivi (depressione maggiore e distimia), e che l'età di esordio di questi
disturbi sembra essere, oggi, più precoce che nei decenni passati.
Tra i bambini, la diffusione è minore (circa il 2%), che tra gli adolescenti (4-8%).
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A queste età, la depressione spesso si accompagna ad altri disturbi mentali come
l'ansia, i disturbi da comportamento dirompente o l'abuso di sostanze stupefacenti,
ed a malattie come il diabete; inoltre, accresce il rischio di suicidio.
Descrizione
La diagnosi di Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) si applica a bambini che
esibiscono livelli di rabbia persistente ed evolutivamente inappropriata, irritabilità,
comportamenti provocatori e oppositività, che causano menomazioni
nell’adattamento e nella funzionalità sociale. Un bambino al quale viene posta
questa diagnosi, deve mostrare tali sintomi in maniera persistente per almeno 6
mesi e i sintomi devono causare menomazione nel funzionamento personale e
sociale. Una storia precoce di DOP è spesso presente in bambini che vengono
successivamente diagnosticati come Disturbo della Condotta (DC). Il DOP emerge
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solitamente in maniera più precoce (di solito intorno ai 6 anni) rispetto al DC (età di
esordio intorno ai 9 anni). Ad ogni modo, molti bambini vengono diagnosticati come
DOP in età preadolescenziale.
spesso va in collera;
spesso litiga con gli adulti;
spesso sfida attivamente o si rifiuta di rispettare le richieste o regole degli
adulti;
spesso irrita deliberatamente le persone;
spesso accusa gli altri per i propri errori o il proprio cattivo comportamento;
è spesso suscettibile o facilmente irritato dagli altri;
è spesso arrabbiato e rancoroso;
è spesso dispettoso e vendicativo.
Fattori di rischio
I fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza del DOP:
Terapia
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L’intervento cognitivo-comportamentale per i bambini e gli adolescenti con
problemi di condotta e di aggressività è basato su un modello socio-cognitivo
scientificamente fondato, relativo alle modalità di elicitazione della rabbia nei
bambini con PAC e ai processi attraverso i quali questa sfocia in risposte aggressive.
Nel modello in questione si opera una distinzione tra ideficit cognitivi, che si
riferiscono a inabilità in specifiche attività cognitive, e le distorsioni cognitive, che si
riferiscono, invece, alle percezioni erronee e/o disfunzionali dei soggetti con
problemi di aggressività.
Tale modello socio-cognitivo rende evidente il fatto che, quando il bambino incontra
uno stimolo potenzialmente attivante la rabbia, sono soprattutto i processi di
percezione e di valutazione che questi compie ad influenzare le sue reazioni
emozionali e fisiologiche, piuttosto che l’evento in quanto tale.
Queste percezioni e valutazioni possono essere accurate o inaccurate e, in larga
parte, sono influenzate dalle iniziali aspettative del soggetto, che filtrano la
percezione della situazione e orientano l’attenzione selettiva a specifici aspetti, o
stimoli, dell’evento attivante. Se il bambino ha interpretato l’evento come
minaccioso, provocatorio o frustrante, egli sperimenterà un’attivazione
neurovegetativa intensa e successivamente ingaggerà in un set di attività cognitive,
dirette a decidere circa un opportuno corso di azione per rispondere all’evento
stesso, altamente influenzate dalla valutazione iniziale e dal relativo arousal.
L’arousal interno, infatti, ha un’interazione reciproca con i processi di valutazione
del bambino, dal momento che egli deve interpretare ed etichettare le connotazioni
emotive di tale attivazione neurovegetativa e, inoltre, a causa del fatto che
l’accresciuta attivazione emotiva focalizza l’attenzione del bambino soprattutto sugli
stimoli associati con possibili minacce, egli tenderà molto frequentemente a sentirsi
arrabbiato.
Questi tre insiemi di attività interne – (1) percezione e valutazione, (2) attivazione
neurovegetativa e (3) problem-solving interpersonale – contribuiscono alle risposte
comportamentali del bambino e alle successive conseguenze che egli elicita da parte
dei coetanei e degli adulti e che sperimenta internamente come auto-valutazioni. Le
reazioni da parte delle altre persone possono poi diventare degli eventi stimolo, che
danno vita ad un nuovo ciclo, attraverso circuiti di feedback, diventando ricorrenti
unità comportamentali, collegate tra loro.
Non di rado può essere utile concentrare l’attenzione sulle cognizioni dei genitori e
degli insegnanti piuttosto che su quelle dei bambini. In generale, i genitori possono
fare attribuzioni pessimistiche riguardo al locus of control del problema, la sua
stabilità e la sua possibile risoluzione. Per esempio, le madri di bambini con
problemi comportamentali tendono a credere che la causa (e di conseguenza la
soluzione) delle difficoltà del figlio riguardi il bambino e non il genitore o
l’interazione tra l’uno e l’altro. Le attribuzioni materne, infatti, tendono a focalizzarsi
su caratteristiche stabili e disposizionali del bambino, come spiegazione primaria
delle sue difficoltà. Le madri potrebbero pensare, per esempio, (a) che i loro bambini
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siano responsabili dei loro comportamenti; (b) che il bambino intenzionalmente si
comporti male manifestando rabbia o ripicche/dispetti nei confronti dei genitori e
(c) che i problemi del bambino siano relativamente non modificabili o incontrollabili.
In altre parole, i genitori dei bambini con tali problemi potrebbero non accettare
facilmente la premessa che le loro pratiche genitoriali abbiano giocato un ruolo
importante nello sviluppo dei problemi o che possano essere usate per modificare
l’attuale situazione. Inoltre, alcuni genitori non si sentono competenti o capaci di
fronteggiare il comportamento del bambino e sperano che il terapeuta si assuma la
piena responsabilità di aiutare il figlio. In altri casi, alcuni genitori ritengono che i
problemi del bambino siano totalmente causati da loro, perché non sono bravi
genitori.
Le attribuzioni genitoriali negative e pessimistiche sono da tenere in debito conto,
dal momento che, non solo generano stati emotivi negativi nei genitori (per esempio
rabbia e frustrazione), ma li inducono anche ad assumere delle pratiche disciplinari
fallimentari o peggiorative.
Dal punto di vista storico non si può fare a meno di rilevare che nel
passato alcuni comportamenti che oggi sarebbero considerati irregolari,
erano ritenuti normali in quanto i criteri per valutarne l’adeguatezza
erano assai diversi dai nostri.
2. QUADRO SINTOMATOLOGICO
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Questi bambini ripropongono comportamenti aggressivi e oppositivi ogni volta che
hanno il timore di essere abbandonati da qualcuno anche a causa della loro
“incapacità’.
Come nei meccanismi dei attivazione sopra descritti nel bambino scatta un
meccanismo automatico nel quale è sufficiente per sentire l’emozione di incapacità
davanti ad una situazione per attivare la reazione comportamentale.
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Per i genitori prendere consapevolezza del “problema” del proprio
bambino non è facile. Lo sviluppo sintomatico è lento e graduale, quindi
all’inizio è probabile che le manifestazioni oppositive vengano ignorate
o considerate semplici capricci. Quando esse assumono forme più gravi e
frequenti, i familiari, in genere, cercano informazioni da chi, dopo di
loro, è a più stretto contatto con il figlio, come gli insegnanti. Quello che
cercano di sapere è se qualcun altro si è accorto dei cambiamenti che
hanno subito le modalità relazionali del bambino. Non sempre questa
ricerca darà risultati, perché il disturbo, che si manifesta sempre
all’interno delle mura domestiche, può non manifestarsi al loro esterno o
di fronte ad altri adulti. Si tratta, ovviamente, di un grande impedimento
che può determinare forti ritardi nei tempi diagnostici (Fonzi, 2001).
Si comprende quindi, che dal momento dell’esordio, possono trascorrere
anche mesi o anni, prima che il disturbo venga riconosciuto e trattato con
appositi interventi terapeutici.
Il decorso è variabile e dipende da diversi fattori:
- la gravità del problema;
- la presenza di disturbi concomitanti;
- l’integrità della famiglia.
I disturbi concomitanti possono essere:
- Disturbo dell’Apprendimento e della Comunicazione;
- Disturbo dell’Umore;
- Disturbi da uso di sostanze illecite;
- Disturbo da deficit di Attenzione e Iperattività.
I dati statistici ci dicono che il 25% dei soggetti diagnosticati come
affetti da disturbo oppositivo-provocatorio, dopo alcuni anni non
possono più essere qualificati come tali in quanto non soddisfano più i
criteri del DSM-IV-TR (Kaplan et al., 1998). Non è chiaro, però, quanti
di questi soggetti, erano stati erroneamente diagnosticati e quanti, invece,
sono andati incontro ad una guarigione. È stato provato ad ogni modo,
che interventi terapeutici tempestivi e di sostegno familiare, sono
fondamentali per una prognosi positiva.
Nel 75% dei casi il disturbo persiste oltre l’età prescolare e questo è
dimostrato anche da uno studio condotto da Speltz et al. (1999), su di
una popolazione di bambini con disturbo oppositivo-provocatorio, tenuti
sotto osservazione per un intervallo di due anni. I ricercatori hanno
notato che alcuni sintomi, come l’essere permalosi, facilmente irritabili,
vendicativi, punitivi, e la compresenza del DDAI (ADHD), sono indici di un
disturbo maggiormente persistente. Nei bambini in cui la diagnosi
persiste, i comportamenti oppositivi, ostili e provocatori potranno restare
stabili nel tempo ma, nei casi più gravi, potranno anche evolversi,
portando il bambino alla violazione dei diritti altrui.
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3. INCIDENZA E PREVALENZA
Il disturbo oppositivo-provocatorio si riscontra con maggior prevalenza
tra i maschi sotto i 18 anni in percentuali che variano tra il 6% e il 16%
(nelle femmine tra il 2% e il 9%) (Speranza, 2001). Queste percentuali
variano molto a seconda del campione che si sceglie o con cui si lavora
(variazioni su base geografica, socioeconomica e razziale).
Farruggia et al. (2008) segnalano che la frequenza del disturbo nei paesi
occidentali varia tra il 5% e il 10% nei soggetti di età compresa tra gli 8
e i 16 anni.
La frequenza del disturbo è maggiore nelle famiglie in cui un genitore
presenta un disturbo antisociale ed è più comune nei figli di genitori
biologici con dipendenze da alcool, disturbi dell’umore, schizofrenia, o
di genitori con una storia di disturbo da deficit di attenzione e iperattività
o di disturbo della condotta. Inoltre questo disturbo è frequentemente
associato a condizioni ambientali e psicosociali sfavorevoli: povertà,
disoccupazione, sovraffollamento, frequente cambiamento di residenza,
frequente ricorso ai servizi sociali.
Una valutazione dell’ambiente domestico rileva che, i soggetti con
disturbo oppositivo-provocatorio, sono spesso figli unici nati da
gravidanze indesiderate e che il loro nucleo familiare è caratterizzato da
un’ostilità stereotipata impulsiva ed imprevedibile, sia a livello verbale
sia a livello fisico .
L’esordio può essere precoce, intorno ai 5-6 anni, ma più spesso si
verifica in età successive. L’esordio precoce tende ad essere predittivo di
una prognosi peggiore e di un aumentato rischio di disturbo antisociale e
di disturbi correlati ad abuso di sostanze in età adulta. Tali individui sono
anche a rischio di successivi disturbi dell’umore o d’ansia e di disturbi
somatoformi. Le ricerche indicano l’importanza di diagnosticare
precocemente i comportamenti aggressivi e il disturbo oppositivoprovocatorio,dal
momento che gli interventi precoci si sono dimostrati i
più efficaci in quest’ambito, mentre tali disturbi si sono rivelati
estremamente resistenti al trattamento soprattutto in adolescenza.
Molti studi longitudinali infine, hanno evidenziato che l’evoluzione
naturale più frequente del disturbo oppositivo-provocatorio è, nel 75%
dei maschi, verso comportamenti delinquenziali, antisociali e di abuso di
sostanze stupefacenti; nell’11% delle donne, verso una patologia di tipo
ansioso-depressivo .
4. DIAGNOSI DIFFERENZIALE
6. TEORIE EZIOPATOGENENTICHE
L’eziologia del disturbo può essere ricercata in diversi fattori:
- fattori neurobiologici: in alcuni bambini con disturbo oppositivoprovocatorio
è stato riscontrato un basso livello di beta-idrossilasi
plasmatica, un enzima che converte la dopamina in noradrenalina,
questo significa che l’aggressività potrebbe essere correlata ad una
ridotta funzione noradrenergica. Sono state riscontrate anche
anomalie nel Sistema Nervoso Centrale rispetto alla popolazione
generale (Giancola, 2005). In particolare risulterebbero compromessi
sia il Sistema di Inibizione del Comportamento (che impedisce
l’azione quando si intuisce che essa potrebbe condurre ad esperienze
spiacevoli) sia il Sistema di Attivazione del Comportamento (che
inizia un’azione quando se ne presenta l’opportunità). Inoltre, si
riscontrano alterazioni nelle funzioni esecutive e si registra una
scarsa attivazione fisiologica che si esprime con livelli più bassi di
sensibilità al pericolo (Giancola, 2000);
- fattori psicologici: bambini rifiutati e abbandonati dai genitori sono
arrabbiati con il mondo e non riescono a tollerare le situazioni
frustranti. Essendo stati privati nell’infanzia di un modello o di una
guida, non hanno imparato ad adattarsi alle regole della società.
Hanno un equilibrio interno molto instabile, non mostrano interesse
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per gli altri, non presentano alcun tipo di rimorso (Lovejoy et al.,
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2000);
- fattori parentali: condizioni familiari caotiche, liti frequenti tra i
genitori, norme educative contraddittorie (caratterizzate da una
disciplina molto rigida e da maltrattamenti fisici o sessuali), famiglia
numerosa, frequenti cambiamenti delle figure d’accudimento,
anamnesi d’uso di tabacco da parte della madre durante la
gravidanza, psicopatologie nel nucleo familiare (Sanders&Woolley,
2005);
- abuso e maltrattamento: soggetti che sono stati esposti a violenze e
maltrattamenti fisici possono, a loro volta, manifestare aggressività,
avere delle difficoltà ad esprimere verbalmente le loro emozioni ed i
loro sentimenti (Mammen, Kolko, &Pilkonis, 2002);
- fattori socioculturali: quali, lo svantaggio socio-economico,
l’esposizione a modelli aggressivi adulti, alcuni eventi stressanti che
possono colpire la famiglia, la mancanza di stimoli cognitivi, il
desiderio di voler raggiungere lo status sociale desiderato (Harnish,
Dodge, & Valente, 1995).
Diversi autori sostengono che alla base dello sviluppo di un disturbo
oppositivo-provocatorio vi sia una predisposizione ereditaria associata a
modelli familiari e/o sociali in contrasto con le necessità evolutive di un
bambino con determinate caratteristiche personali. Raine et al. (1990;
1994) ipotizzano una diminuita funzionalità del Sistema Nervoso
Autonomo e la maggiore attività di neurotrasmettitori implicati nei
meccanismi aggressivi e nel metabolismo della serotonina (Lahey et a.,
1993).
Nonostante negli ultimi anni, nell’ambito del dibattito internazionale, si
sia riscontrato un grande interesse per il disturbo oppositivoprovocatorio,
gli esperti non sono ancora riusciti ad esprimersi concertezza riguardo ai meccanismi
patogenetici che lo determinano.
Tuttavia è possibile mettere in evidenza quei fattori di rischio che
possono influenzare la genesi, l’evoluzione e la prognosi della malattia.
Come affermato nei precedenti paragrafi infatti, la patologia si sviluppa
con maggiore frequenza in quelle famiglie in cui almeno un genitore ha
alle spalle una storia di disturbo dell’umore, di disturbo correlato all’uso
di sostanze illecite o di uno dei disturbi da comportamento dirompente
(disturbo oppositivo provocatorio, disturbo della condotta, disturbo da
deficit d’attenzione ed iperattività e disturbo antisociale di personalità),
ma non sappiamo se questa “familiarità” sia conseguenza di una
trasmissione genetica o di una sorta di adattamento ad un ambiente
problematico (AACAP Official Action, 1997).
Le teorie che fanno risalire l’origine della patologia a fattori fisiologici,
sostengono inoltre che il disturbo si manifesta in quei soggetti
predisposti allo sviluppo di condotte antisociali ed aggressive a causa di
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particolari caratteristiche genetiche o neurobiologiche.
Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento infatti, le ricerche
sull'aggressività sembravano aver trovato nella presenza di un
cromosoma Y in sovrannumero la base genetica di comportamenti
particolarmente violenti. Gli esseri umani solitamente, possiedono 46
cromosomi, disposti in 23 coppie, una delle quali ne determina il sesso.
Nelle donne questa coppia ha una configurazione XX, nei maschi XY.
Un uomo ogni 3000, però, a causa di una particolare anomalia genetica,
presenta un cromosoma Y soprannumerario che ne determina l’assetto
XYY, accusato dai ricercatori di essere la causa dell’aggressività (Beltz,
2005). Tale conclusione è nata in seguito ad alcune indagini dalle quali
risultava che, questi uomini, non solo erano autori di episodi aggressivi
più frequentemente dei soggetti XY, ma erano anche iper-rappresentati
all’interno della popolazione carceraria.
35
Si sviluppò, quindi, l’idea di un possibile legame tra le condotte
aggressive e questo gene. In realtà molti tra gli stessi sostenitori
dell'influenza sul comportamento di quest'anomalia cromosomica
sostennero poi che tale effetto sarebbe dovuto al fatto che i portatori
dell'anomalia sono di intelligenza inferiore alla norma, designati quindi
all'insuccesso scolastico e professionale, e quindi più portati a
comportarsi in modo antisociale. Questi dubbi hanno fatto sospendere
nel 1975, negli Stati Uniti, alcuni programmi di ricerca iniziati nel 1968,
tendenti a individuare alla nascita tutti i portatori dell'anomalia,
ritenendo che l'etichetta di criminali potenziali attribuita ai bambini fosse
più dannosa degli ipotetici benefici sociali che si potevano trarre dalla
ricerca.
Tuttavia però, da studi più approfonditi è emerso che i soggetti dotati di
un cromosoma Y sovrannumerario, tendono anche ad essere più grossi
rispetto ai coetanei e di conseguenza potrebbe essere la loro corporatura
robusta, e non il “gene dell’aggressività”, a favorire lo sviluppo dei
comportamenti prevaricatori (Geerts, Steyaert, &Fryns, 2003).
Ad una conclusione simile è giunto anche un gruppo di ricercatori
americani (Mustillo et al., 2003) a seguito di una indagine longitudinale
sugli effetti dell’obesità infantile. Lo studio, condotto su un campione di
1000 bambini di età compresa tra i 9 ed i 16 anni, ha mostrato i gravi
effetti che l’obesità può avere, non solo sull’organismo, ma anche sulla
psiche dei giovani. Dai dati raccolti è emerso, infatti, che l’obesità
infantile cronica raddoppia il rischio di sviluppare il disturbo
oppositivoprovocatorioe nei maschi, quadruplica le possibilità di manifestare
sindromi depressive.
I problemi comportamentali dei bambini obesi, infatti, possono essere
conseguenza dello stato di emarginazione sociale che, spesso, devono
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sopportare a causa della loro corporatura e delle annesse difficoltà di
movimento, che ne ostacolano anche le più semplici attività. Potrebbe
però essere anche vera l’ipotesi contraria, ossia che disordini psichici già
presenti nella prima infanzia, possano avere contribuito ad alterare il
normale rapporto di questi bambini con il cibo e aver favorito così lo
sviluppo dell’obesità.
Continuando a parlare delle ipotesi causali di tipo fisiologico, dobbiamo
rivolgere uno sguardo anche a quelle teorie che individuano l’origine del
disturbo oppositivo-provocatorio in un cattivo funzionamento dei
meccanismi psichici che regolano le emozioni.
Alcuni studiosi ritengono che le condotte tipiche di questo disturbo
possono essere conseguenza di una soglia di attivazione dell’arousal più
bassa del normale, che favorirebbe delle risposte irruenti anche in
situazioni apparentemente tranquille.
L’arousal è una sorta di interruttore biologico che di fronte a stimoli
avversi, attraverso una serie di attivazioni fisiologiche, prepara il nostro
organismo ad affrontare la situazione sfavorevole con la giusta dose
d’aggressività. Generalmente esso viene innescato da stimoli
incondizionati (dolore) o condizionati (appellativi offensivi) di una certa
intensità, ma con una soglia di attivazione più bassa, anche lievi
sollecitazioni potrebbero attivare la risposta aggressiva.
Un arousal molto sensibile potrebbe essere, quindi, la causa che induce il
soggetto oppositivo ad essere sempre irascibile e pronto a reagire in
maniera esagerata ad ogni piccola provocazione (Savron, 2004).
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